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Full text of "Nuova antologia"

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NUOVA 


ANTOLOGIA 


DI 


SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 


SECONDA   SERTE 


VOLUME   DEOIMOQUARTO 
(Della.  Raccolta  —  Volitme  XLIV) 


ROMA 
TIPOGRAFIA    BARBÈRA 

1879. 


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Proprietà  letteraria. 


LE  ORIGINI  DELL'UOMO. 


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Il  problema  delle  nostre  origini  è  seducente  ed  arduo,  in  moda 
da  attirare  e  da  tormentare  i  piìi  noliili  ingegni.  Il  tentativo, 
troppo  positivo,  di  non  porlo  dinanzi  alla  scienza,  è  cosi  impo- 
tente come  irresistibile  è  quello  di  risolverlo.  E  la  scienza,  di- 
nanzi alla  cui  potenza  instancabile  par  che  tutto  pieghi,  va  squar- 
ciando il  velo  e  vedendo  i  suoi  sforzi  coronati  da  buoni  successi. 
Piaccia  0  non  piaccia  all'oscurantismo  pauroso  e  vanitoso,  egli  è 
certo  che  in  simile  questione  il  nome  del  Darwin  non  può  essere 
più  taciuto,  perchè  la  sua  teoria,  o  se  vuoisi  la  sua  ipotesi,  ha 
preso  nella  scienza  un  posto  eminente.  Il  trasformismo  del  Darwin 
ha  prodotto  nelle  scienze,  che  hanno  per  obbietto  il  mondo  or- 
ganico e  il  mondo  morale,  una  rivoluzione  pari  a  quella  prodotta 
neir  astronomia  dalla  legge  di  attrazione  universale  del  Newton. 

L'autore  di  questo  scritto  non  si  sente  1'  autorità  necessaria 
per  portare  un  giudizio  competente  sul  valore  della  dottrina  del 
Darwin.  Solo  egli  crede  potere  affermare  le  seguenti  cose.  In  pri- 
ma, che  il  numero  dei  fatti  arrecati  dal  Darwin  a  sostegno  della 
propria  dottrina  è  tale  da  darle  un  carattere  scientifico,  sebbene 
non  sia,  per  confessione  dello  stesso  Huxley,  ancora  tale  da  for- 
nirle un  pieno  valore  di  certezza.  Voglio  dire  che  se  la  idea  fon- 
damentale della  trasformazione  delle  specie  non  è  ancora  una 
verità  inconcussa,  è  almeno  sinora  l'ipotesi  più  razionale,  meglio 
confortata  di  prove,  e  più  di  ogni  altra  acconcia  a  spiegare  il 
mistero  della  nostra  origine.  In  secondo  luogo  dirò,  che  alcune 
esagerazioni  nell'applicazione  dell'idea  fondamentale  non  possono 


4  LE  ORIGINI  dell'  UOMO. 

infirmare  questa  idea,  come  i  vuoti  da  riempire  nella  scala  degli 
esseri  organici  non  possono  al  più    fare   altro   che   sospendere  il 
giudizio  definitivo  sulla  dottrina.  Il  Darwin  istesso,   con   la   mo- 
destia e  la  buona  fede  che  lo  distinguono,  ha  confessato  nella  re- 
cente opera  suW Origine  dell" nomo  che.  dopo  aver  letto   le   opere 
del  Nilgeli  e  del  Broca,  si  è  persuaso  di  avere,  nelle  prime  edizioni 
àeW Origine  delle  Specie,  esagerata  l'azione  della  scelta  naturale 
e  della  sopravvivenza  degli  individui  meglio  provveduti.  Potreb- 
bero anche  aver  ragione    coloro  i  quali  sostengono  essere  un'esa- 
gerazione il  far  discendere  ogni  maniera  di  organismi  per  li  rami 
di  unica  cellula,  ed  essere  più    verosimile    il    credere,    come  f;i 
il  Vogt,  se  la  mia  memoria  non  falla,  che  gli  organismi  discen- 
dano da  cellule  primitive  sì,  ma  di  fattura  diversa.  A  questo  modo 
il  trasformismo  rimarrebbe  vero,  p.  e.,  nel  campo  dei  vertebrati, 
ma  non  potrebbe  essere  esteso  sino  a  sostenere  l'unità  di  origine  del 
regno  vegetale  e  del  regno  animale  e  la  gra:luale  e  secolare  evolu- 
zione dalla  raonera  all'uomo,  come  fa  1'  Haeckel.  Che  che  sia  di 
quest'altra  ipotesi,  che  a  non  pochi  parrà  meno  scientifica  e  più 
incomprensibile,  rimarrà  sempre  una  giusta  indagine  quella  che, 
poggiando  sulle  variazioni  delle  così  dette  specie  e  sul  poco  ac- 
cordo dei  naturalisti  nel  classificare  alcuni  indivi  lui  in  questa  o 
in  quella  specie,  perviene  a  indurre  che  le  specie  non  sono  divise 
da  insormontabili  cancelli,  che  queste  separazioni  sono  astrazioni 
nostre,  e  che  mediante  l'azione  di  certe  leggi  una  varietà   devia 
cotanto  da  costituire  di  poi  una  nuova  e  distinta  specie. 

L'  ultima  osservazione  che  intendo  fare  riguarda  gli  effetti 
morali  della  nuova  dottrina.  Puerile  è  lo  spavento  dei  timidi, 
come  illusoria  è  la  speranza  che  si  possa  arrestare  il  cammino 
del  vero.  Gl'Inglesi,  che  non  hanno  la  smania  poco  virile  di  at- 
taccare senza  necessità  la  religione,  riconoscono  che  il  darwi- 
nismo non  è  punto  demolitore  della  parte  benefica  della  morale 
cristiana;  al  contrario.  Prima  di  tutto  il  Darwin  istesso  ha  ri- 
servato la  questione  della  causa  prima  dell'universo,  intorno  alla 
quale  come  intorno  a  quella  dell'  ultimo  fine  la  religione  e  la 
metafisica  possono  spaziare  a  posta  loro,  e  solo  ha  sottratto  alla 
divinità  la  piccola  cura  del  creare  ogni  specie  organica.  Elevando 
il  trono  della  divinità  sul  piedistallo  delle  leggi  naturali,  lo  ha 
reso  più  solido,  e  allontanandolo  dai  nostri  sguardi  lo  ha  circon- 
dato di  maggior  prestigio.  Il  Wallace,  il  quale  sostiene  che  l'uomo 
arriva  a  sottrarre  il  suo  corpo  all'azione  della  scelta  naturale, 
conclude  così:  «L'uomo  non  pure  è  sfuggito,  in  ciò  che  lo  con- 


LE  ORIGINI  dell'  UOMO.  5 

cerne,  alla  scelta  naturale,  ma  può  realmente  appropriarsi  una 
parte  di  questo  potere,  che,  prima  della  sua  comparsa,  la  natura 
esercitava  sull'universo  intero.  Si  può  prevedere  il  tempo  in  cui 
la  terra  non  produrrà  più  che  piante  coltivate  ed  animali  dome- 
stici, in  cui  la  scelta  umana  avrà  soppiantata  la  scelta  naturale, 
in  cui  r  Oceano  sarà  il  solo  dominio  sul  quale  possa  esercitarsi 
codesta  potenza,  che  da  innumerevoli  cicli  di  età  regnava  sulla 
terra  come  arbitra  suprema.  »  Ed  il  Lubbock,  dalla  cui  opera  sui 
Tempi  preistorici  ho  estratto  questo  brano  del  Wallace,  soggiunge  : 
«  A  questo  modo  il  grande  principio  della  scelta  naturale,  che  è 
alla  biologia  quel  che  la  legge  di  gravitazione  è  all'astronomia, 
non  solo  gitta  sul  passato  una  luce  inattesa,  ma  illumina  anche 
con  la  speranza  l'avvenire.  Ed  io  non  posso  non  essere  maravi- 
gliato che  una  teoria,  la  quale  c'insegna  l'umiltà  pel  passato,  la 
fede  pel  presente,  la  speranza  per  l'avvenire,  sia  stata  considerata 
come  contraria  a'principii  del  Cristianesimo  e  agli  interessi  della 
vera  religione.  » 

E  in  fatti  non  è.  Venga  pure  l'uomo  da  qualunque  più  bassa 
origine,  non  rimane  men  vero  che  esso  sollevasi  sino  a  produrre 
opere  come  il  Cristianesimo  di  Gesù,  la  Commedia  dell'Alighie- 
ri, la  Trasfigurazione  di  Kaffaello,  la  Scienza  di  Aristotile,  di 
Galilei,  di  Newton,  di  Vico,  di  Kant,  di  Hegel,  di  Darwin  ; 
non  è  men  vero  che  nobile  o  generoso  continueremo  a  reputare 
l'amore  all'umanità,  il  sacrifizio  di  sé  alla  patria,  l'abnegazione. 
L'esperienza  istorica  ha  comprovato  l'utilità  sociale  delle  virtù 
private,  civiche,  umanitarie;  e  cosi  le  ha  poste  su  di  un  fondamento 
indipendente  dalle  opinioni  che  l'uomo  si  forma  intorno  alla  sua 
origine.  La  società  umana,  discenda  dal  Paradiso  terrestre  o  dalla 
Lemuria,  non  può  conservarsi  se  non  mediante  la  sottomissione 
dell'arbitrio  alla  legge,  dell'egoismo  al  bene  sociale,  e  non  può 
progredire  se  non  mediante  la  successiva  emancipazione  del- 
l'uomo dalla  tirannia  della  natura  e  di  sé  stesso,  cioè  con  l'af- 
fermazione sempre  maggiore  del  sentimento  di  umanità.  Ogni  in- 
vestigazione, veramente  degna  della  scienza  e  della  libertà,  deve 
condurre  l'uomo  a  simile  conclusione.  E  infatti  noi  vediamo  la 
tendenza  a  spargere  l'istruzione  e  il  benessere  nelle  classi  povere, 
nel  che  sta  uno  dei  più  alti  indizi  di  vera  religione  e  di  profonda 
moralità,  essere  incomparabilmente  maggiore  a'nostri  tempi,  in 
cui  la  scienza  parla  della  bassa  origine  dell'uomo,  che  non  in 
quelli  in  cui  la  religione  proclamava  la  sua  divina  fattura.  Questo 
dogma  e  l'altro  della  fratellanza  in  Dio  non  hanno  potuto  impe- 


6  LE  ORIGINI   DELL'  UOMO. 

dire  la  vita  eslege  dell'individuo  medievale,  la  tirannide  dell'  uomo 
sull'uomo,  la  incommensurabile  disuguaglianza  fra  le  classi.  E  le 
frequenti  guerre  fra  le  nazioni  e  l'odio  fra  le  classi,  clie  tormentano 
la  nostra  società,  minacciano  di  sommergerla  ed  impediscono  il 
trionfo  delle  tendenze  umanitarie,  sono  appunto  una  conseguenza 
dello  stato  del  mondo  in  cui  regnavano  le  vecchie  credenze,  che 
si  vorrebbero  oggi  ravvivare  per  quotare  quelle  guerre  e  per 
sopire  quegli  odii.  Che  cosa  non  s'è  fatto  nel  santo  nome  di  Dio! 
Si  è  fatto  tanto  che,  per  distruggerlo  e  per  creare  un  ordine  mi- 
gliore di  cose,  siamo  ridotti  a  vedere  nella  società  più  civile  agi- 
tarsi le  passioni  più  selvagge,  e  le  dottrine  umanitarie  diffon- 
dersi mentre  risorge  la  guerra  di  tutti  contro  tutti.  Se  non  si 
vuole  ammettere  la  distinzione  fra  le  pure  credenze  e  i  loro  bassi 
falsificatori,  si  è  logicamente  costretti  a  riconoscere  che  il  teismo 
ha  sulla  coscienza  un  numero  di  delitti  incomparabilmente  mag- 
giore di  quelli  che  ora  si  rimproverano  all'ateismo.  Gli  episodi 
delle  Crociate,  i  fasti  dell'Inquisizione,  la  strage  degli  Albigesi, 
la  notte  di  San  Bartolomeo,  la  congiura  delle  polveri,  il  complotto 
della  macchina  infernale,  gli  attentati  del  domenicano  Clement, 
di  Kavaillac,  e  in  generale  tutti  i  fenomeni  patologici  del  fana- 
tismo religioso  non  sono  meno  orribili  dell'incendio  di  Parigi  e 
de' mostruosi  misfatti  di  uomini  da' cui  nomi  la  penna  rifugge.  La 
verità  è,  che  né  il  teismo  né  l'ateismo  sono  responsabili  di  si- 
mili orrori  :  la  terra  ha  sempre  albergato  uomini  malvagi,  ai 
quali  non  è  mai  mancato  un  complice  inconsapevole  dei  loro  de- 
litti. Se  credevano  in  Dio,  s'ispiravano  nel  sommo  Fattore  ;  e  se  non 
vi  credono,  s'inspirano  in  qualche  umano  feticcio  od  obbediscono 
alle  spiritiche  imposture  d'un  magnetizzatore.  Ma  almeno  la 
odierna  guerra,  implacabile  e  feroce,  che  si  fanno  le  classi  e  i 
popoli,  ha  per  obbiettivi  la  costituzione  delle  nazioni  e  l'ugua- 
glianza delle  classi,  la  quale  non  esclude  la  differenza  d  die  occupa- 
zioni, cioè  ha  per  obbiettivi  due  condizioni  imprescindibili  per  fare 
entrare  la  società  nel  periodo  storico  della  lunga  pace  internazio- 
nale e  nazionale.  Le  tendenze  umanitarie  e  pacifiche,  che  il  pensa- 
tore discopre  sotto  il  ribollire  delle  passioni  distruttive,  formano  il 
grande  conforto  delle  anime  nobili,  le  quali  dalle  presenti  sciagure 
potrebbero  essere  indotte  a  disperare  dell'avvenire  sociale.  Quelle 
tendenze  esistono,  non  mai  furono  più  forti  e  finiranno  per  trion- 
fare. Non  diremo  già,  per  ritornare  al  nostro  punto  di  partenza, 
che  la  dottrina  dell'  origine  naturale  dell'  uomo  contribuisca  di- 
rettamente  a   questo   trionfo,    ma   diremo   soltanto  che  la  teoria 


LE  ORIGINI  DELL  UOMO.  7 

deirevoluzione,  di  cui  quella  è  un'applicazione,  ò  la  sola  che  possa 
dominare  lo  spirito  battagliero  e  rivoluzionario,  e  che  essa  e  le  sane 
dottrine  democratiche  sono  forme  di  un  medesimo  fatto  :  l'eman- 
cipazione della  coscienza  umana  dall'oscurantismo  e  dall'arbitrio. 
L'emancipazione  nella  scienza  genera  la  dottrina  sull'origine  del- 
l'uomo ;  r  emancipazione  nella  vita  produce  la  fratellanza  fra  i 
popoli  e  fra  le  classi. 

Lasciamo  dunque  che  la  scienza  continui  liberamente  le  sue 
ricerche,  senza  preoccuparci  delle  vertigini  clie  essa  può  produrre 
in  chi  non  ha  organi  robusti  per  digerire  i  suoi  veri.  Volere  che 
la  scienza  arresti  il  suo  corso,  perchè  i  suoi  vapori  ubbriacano 
alcuni,  è  come  volere  che  si  proibiscano  le  ferrovie,  perchè  i  con- 
vogli s'incontrano.  Il  rimedio  a' mali  dei  nostri  tempi  non  istà 
nel  ritorno  all'ignoranza  e  all'assolutismo,  che  hanno  apparec- 
chiato il  combustibile,  ma  nell'aumento  del  sapere  riequilibrante 
e  nella  diminuzione  del  disagio  economico.  La  scienza  è  fatta  per 
gli  uomini  virili  come  la  democrazia  per  i  popoli  maturi  ;  il  che 
deve  spingerci  a  rendere  uomini  i  fanciulli,  e  non  già  a  far  rima- 
nere bambina  la  scienza.  Le  sue  conquiste  saranno  il  migliore 
strumento  pel  perfezionamento  sociale  e  per  la  vittoria  dell'uomo 
sulla  natura,  e  saranno  anche  il  fondamento  più  legittimo  della 
supremazia  dell'  uomo  sul  mondo  animale.  Coloro  i  quali  vorreb- 
bero frenare  la  libertà  della  scienza,  perchè  temono  che  le  sue 
scoperte  rechino  la  strage  nel  campo  della  morale  sociale,  non 
si  accorgono  di  fare  così  la  satira  più  amara  di  quello  che  chia- 
mano ordine  provvidenziale  del  mondo.  Codest' ordine  non  po- 
trebbe adunque  reggersi  che  sulle  illusioni  e  sulle  menzogne? 
Sarebbe  questo  il  più  gran  segno  eh'  esso  è  un  orribile  disordine. 
Tale  è  in  parte,  onde  affidiamoci  alla  mano  della  scienza,  che  a 
traverso  sentieri  malagevoli  ci  guida  ad  un  ordine  più  alto.  Guar- 
dando alla  meta,  gli  erramenti  e  le  cadute  ci  possono  addolorare, 
ma  non  ci  debbono  spaventare,  come  non  ci  debbono  scoraggiare 
le  fatiche. 

Non  si  può  abbastanza  insistere  sulla  necessità  di  distinguere 
il  radicalismo  pratico  da  quella  pienezza  di  libere  indagini  e  di 
razionali  deduzioni  che  alcuni  chiamano  radicalismo  scientifico. 
Questo  è  una  tranquilla  luce  che  rischiara  e  conforta,  quello  una 
face  che  incendia  e  rattrista.  L'uomo  di  Stato  è  indegno  del  suo 
nome  ed  è  la  rovina  della  società,  quando  è  privo  della  mode- 
razione ne'  desiderii,  quando  non  sa  comprendere  i  limiti  neces- 
sari nell'applicazione  della  libertà  e  la  misura   inseparabile   dal 


8  LE   ORIGINI  dell'  UOMO. 

in'ogresso  sociale,  quando  al  presentimento  dell'avvenire  non  sposa 
la  piena  conoscenza  del  presente.  Esso  trova  un  mondo  in  cui  la 
tradizione  s'è  abbarbicata,  un  mondo  che  non  può  trasformarsi 
se  non  lentamente  e  opportunamente.  Se  osa  fargli  violenza  ir- 
ragionevole, vede  subito  reagire  la  società  e  abortire  le  rifo  rme 
più  logiche.  L'  avvenire  viene  allora  compromesso  dal  progresso 
vorticoso,  dall'  attuazione  immatura  di  dottrine  troppo  ideali.  Ma 
la  scienza  non  sopporta  freni  :  è  sua  natura  e  sua  missione  di  ol- 
trepassare le  contingenze,  di  guardare  il  faro  ed  additarlo  alle 
classi  dirigenti,  di  non  ispaventarsi  che  dell'  errore.  Se  la  scienza 
obbedisse  alle  regole  della  prudenza  pratica,  e  si  circondasse  d'ipo- 
criti veli,  il  progresso  umano  ristagnerebbe,  esso  eh'  è  già  sì  lento, 
non  ostante  1'  ardire  degli  scienziati.  Nò  si  creda  che  siavi  con- 
traddizione fra  il  radicalismo  scientifico  e  la  moderazione  pratica. 
Havvi  per  contrario  una  perfetta  consonanza.  È  l' ignoranza  o  il 
mezzano  sapere,  ma  non  la  scienza,  quello  che  sconvolge  i  ter- 
mini della  serie  del  progresso  e  si  affatica  a  trasportare  il  domani 
nell'oggi.  La  teoria  dell' evoluzione,  che  è  poi  quella  dai  conser- 
vatori battezzata  come  radicale  e  demolitrice,  è,  come  dicevo,  la 
sola  che  possa  ispirare  il  rispetto  verso  lo  stato  ereditario  delle 
società,  è  la  sola  che  possa  distogliere  da  riforme  affrettate  e  con- 
venzionali, è  la  sola  che  si  affidi  al  cauto  progresso  e  sia  profon- 
damente nemica  dei  miracoli  e  nemica  dei  cataclismi,  i  quali  sono 
da  considerare  come  i  miracoli  della  natura.  Chi  presta  fede  al- 
l'una  e  all'altra  forma  di  miracoli,  anzi  che  alla  graduale  evo- 
luzione, deve  avere  lo  spirito  disposto  agli  sconvolgimenti  sociali, 
i  quali,  se  non  sono  lo  scoppio  subitaneo  di  cause  lungamente  ac- 
cumulate, tradiscono  la  illusione  del  miracolo  da  cui  derivano,  e 
falliscono  lo  scopo  a  cui  mirano. 

M'  è  parsa  indispensabile  questa  franca  dichiarazione,  prima 
di  toccare  questioni  che  urtano  antiche  credenze.  Poniamoci  ora 
ad  investigare  tranquillamente,  non  dominati  nò  dal  desiderio 
del  conservare  né  dalla  smania  del  demolire.  Le  religioni  conten- 
gono alcuni  2)resentimenti  del  vero,  e  però  vanno  rispettate;  la 
scienza,  che  ha  la  nobile  missione  di  scoprire  il  vero,  deve  sapersi 
conservare  calma  ed  imparziale. 


LE   ORIGINI   DELL    UOMO. 


1. 


Origine  dell'uomo.  —  Posto  dell'uomo  nella  natura, — 
Se  vi  sia  un  regno  umano. 

L'origine  dell'uoino  è  stata  spiegata  iti  due  modi:  o  mediante 
l'atto  creativo  di  una  potenza  soprannaturale  o  mediante  le  leggi 
naturali  di  trasformazione  delle  specie.  La  prima  spiegazione  ap- 
partiene alla  religione,  la  seconda  alla  scienza.  Una  terza,  assai 
poco  religiosa  e  molto  meno  scientifica,  potrebbe  riputarsi  quella 
di  chi  volesse  applicare  la  generazione  spontanea  all'origine  del- 
l'uomo. 

Quando  l'intelligenza  scientifica  non  è  ancora  sviluppata,  le 
religioni  rendono  all'uomo  l'eminente  servigio  di  risolvere,  come 
possono,  i  problemi  misteriosi  che  agitano  il  suo  petto.  Esse  non 
sono  solamente  figlie  della  paura,  come  disse  il  Feuerbach,  ma. 
anche  aell'ansia  di  conoscere  la  causa  dei  fenomeni,  la  quale  per- 
sonificano in  un  ente  soprannaturale,  quando  non  l'attribuiscono 
all'azione  malefica  dei  più  vili  animali.  Pullulanti  ne' tempi  prei- 
storici delle  società,  quando  l'immaginazione  tien  luogo  della  ra- 
gione, tutto  rapportano  ad  una  causa  soprannaturale  e  personale,, 
così  l'origine  dell'uomo  come  la  caduta  della  pioggia  o  i  boati 
dei  vulcani.  Ma,  a  quel  modo  che  oggidì  par  ridicolo  agli  uomini 
colti  r  appagarsi  della  volontà  di  Dio  come  spiegazione  della 
pioggia,  parimente  ad  essi  dovrebbe  parere  per  lo  meno  strana 
l'accogliere  un  miracoloso  atto  creativo  come  spiegazione  dell'o- 
rigine dell'uomo.  E  miracoloso  è  un  atto  il  quale  si  compie  senza 
la  mediazione,  anzi  con  la  violazione  delle  leggi  naturali.  Si  dice 
130C0  quando  affermasi  che  noi  non  possiamo  provare  la  esistenza- 
dell'atto  creativo,  ma  fa  mestieri  aggiungere  che  noi  ogni  giorno 
proviamo  la  non  esistenza  della  creazione  dal  nulla,  ogni  giorno 
sostituiamo  una  causa  naturale  ad  una  immaginaria  causa  sopran- 
naturale, e  siamo  perciò  condotti  ad  ammettere  che  la  dottrina 
della  creazione  non  è  già  il  compimento  teologico  della  limitata 
scienza  umana,  ma  l'assoluta  negazione  di  questa,  l'assoluta  nega- 
zione di  tutta  la  nostra  esperienza  e  di  tutto  il  nostro  sapere.  Or 
quello  che  nega  la  scienza  non  ha  diritto  di  pigliar  posto  in  essa, 
né  di  pigliarlo  sopra  di  essa,  cioè  in  un  inconoscibile  regno  di  là. 
Per  noi  codesto  inconoscibile,  che  è  agli  antipodi  della  nostra  espe- 
rienza e  del  nostro  sapere,  dovrebbe  essere  piuttosto  chiamato   non 


10  LE   ORIGINI   dell'  UOMO, 

razionale.  Noi  crediamo  di  mostrare  per  le  religioni  tntto  il  rispetto 
elle  si  meritano,  quando  affermiamo  che  esse  racchiudono  le  prime 
soluzioni  dell'ignoto  e  i  grandi  presentimenti  del  vero  ;  ma  allor- 
ché si  tenta  di  porre  la  soluzione  teologica  di  sopra  alla  soluzione 
scientifica,  siamo  costretti  a  dire  che  quelle  prime  soluzioni  sono 
immature  e  fantastiche,  quei'  presentimenti  non  sono  ancora  il 
vero,  e  che  le  religioni  precedono  ma  non  coronano  la  scienza. 
Di  là  dai  limiti  di  questa  noi  troviamo  la  sfera  dell'ignoto;  ma 
i  passi  che  instancabilmente  tacciamo  in  questo  dominio  ci  con- 
ducono a  nuove  forme,  a  nuove  leggi  naturali,  e  non  a'  castelli 
incantati  e  a'  celesti  spiriti.  Manco  male  se  la  teologia  si  re- 
stringesse ad  ammettere  una  causa  prima  della  materia.  Essa 
potrebbe  trovarsi  in  conflitto  con  le  credenze  metafisiche,  che  di 
questa  ammettono  la  eternità,  ma  non  con  le  scienze  positive 
che  di  siffatta  questione  non  si  occupano.  Che  se  anche  queste  non 
passone  non  inclinare  verso  quella  ipotesi,  che  è  più  conforme 
a'  processi  naturali  da  esse  studiate,  cioè  verso  la  evoluzione  del- 
l'eterna materia,  non  è  manco  vero  che  quello  è  un  campo  in  cui 
la  dimostrazione  non  può  raggiungere  l'evidenza  e  che  però  resta 
aperto  al  soggettivismo  delle  opinioni.  Ma  non  volendo  il  teo- 
logismo  smettere  dal  fare  intervenire  quella  causa  prima  nella 
spiegazione  dei  fenomeni,  che  ogni  giorno  noi  scopriamo  essere 
opera  delle  leggi  naturali,  rende  inevitabile  il  conflitto  con  la 
scienza.  Anche  il  domma  religioso  dell'origine  dell'uomo  dal 
nulla,  pur  depurato  della  creta  e  della  costola,  non  è  che  la  facile 
e  rudimentale  soluzione  delle  genti  primitive.  Forse  non  passerà 
molto  e  sarà  dimenticato  persino  da' credenti,  i  quali  non  s'acque- 
teranno più  nella  illusione  di  una  potenza  che  tutto  fa  da  sé  e 
dal  nulla,  ma  finiranno  per  pensare  essere  più  degno  del  sommo 
Artefice  il  farsi  servire  dagli  operai  della  natura,  e  l'aver  creato 
una  macchina  che  non  ha  mestieri  di  essere  da  lui  continuamente 
raggiustata. 

La  metafisica  più  elevata,  quella  egheliann,  non  fa  che  sosti- 
tuire la  parola  Idea  alla  parola  Iddio,  e  il  divenire  alla  creazione. 
Ma  alla  domanda  sull'origine  dell'uomo,  risponde:  L'Idea  fa 
l'uomo,  e  questo  altro  non  ò  che  una  determinazione  dell'Idea, 
la  quale,  dopo  di  essere  uscita  fuori  di  sé  nella  natura,  ritorna  a 
sé,  e,  personificandosi,  diviene  cosciente.  Non  credo  che  una  scienza 
positiva  possa  appagarsi  di  queste  formule.  La  scienza  intende 
appunto  comprendere  come,  sotto  l'azione  di  quali  leggi,  mediante 
(lìiali  fenomeni    1'  Idea    produca    1'  uomo.  Un  dotto  e  a  me  caro 


LE    OEIGINI    dell'  UOMO.  11 

amico,  non  ancora  libero  dalle  ubbie  egheliane,  mi  diceva  che 
altro  non  si  può  affermare  se  non  che  l'uomo  era  in  idea  in  un 
essere  a  sé  inferiore.  E  così  dicendo  sberteggiava  il  Darwin,  che 
si  arrovella  a  scoprire  come  avvenga  siffatta  apparizione  dell'  in 
sé.  In  verità  egli  faceva  già  un  immenso  passo  verso  il  Darwin. 
Eimane  solo  a  sapere  in  qual  modo,  secondo  l'idealismo,  ciò  che 
stava  in  idea,  cioè  in  potenza,  siasi  tramutato  in  fatto.  Ma  l'idea- 
lismo, abituato  a  saltare  i  fossi,  dispregia  così  piccole  questioni. 
Che  se  il  dommatismo  religioso  e  quel  o  metafisico,  conservando 
la  loro  fede  nella  personalità  di  Dio  e  nella  forza  plastica  dell'  Idea, 
arrivassero  sino  a  dire  esplicitamente  che  Dio  o  l'Idea  esercitano 
la  loro  potenza  mediante  le  leggi  e  i  fenomeni  dalla  scienza  ac- 
cettati, allora  noi  saremo  paghi,  poi  che  ci  separerebbe  una  que- 
stione secondaria,  e  la  scienza,  ben  lieta  di  aver  tutto  sottoposto 
al  suo  governo,  continuerebbe  nella  ricerca  delle  leggi  naturali, 
senza  essere  obbligata  ad  attaccare  per  difendersi. 

Immaginare  che  l'uomo  abbia  potuto  nascere  per  generazione 
spontanea  e  diretta  sarebbe  una  vera  aberrazione  mentale.  La 
venuta  al  mondo  d'un  organismo  umano,  senza  progenitori  o  me- 
diante gli  amplessi  della  terra  con  l'oceano,  può  essere  materia 
degna  della  mitologia  ma  non  della  scienza.  Il  miracolo  non  sa- 
rebbe distrutto,  ma  spostato.  E  quanto  alla  generazione  spontanea 
di  una  cellula  umana,  cioè  di  una  cellula  che  svolgendosi  diventi 
uomo  di  getto,  ogni  scienziato  serio  la  reputerà  un  sogno  da  di- 
lettanti. La  scienza,  che  pena  di  già  molto  ad  ammettere  la  gene- 
razione spontanea  di  un  organismo  rudimentale,  semplicissimo, 
amorfo,  qual'é  quello  delle  monere,  ammetterebbe  essa  la  gene- 
razione spontanea  di  una  cellula,  che  con  la  sua  moltiplicazione 
produrrebbe  rapidamente  l'essere  più  complesso  della  evoluzione  ? 
Per  coloro  i  quali  pensano  che  la  materia  organica  e  la  inorga- 
nica non  si  difi'erenziano  sostanzialmente  per  la  struttura,  la 
forma  e  la  forza,  come  ha  dimostrato  l'Haeckel,  la  teoria  della 
generazione  spontanea  non  ha  nulla  d'impossibile:  ma  essa  non 
può  oltrepassare,  e  in  verità  non  pretende  di  oltrepassare,  la  for- 
mazione dei  plastidi.  Colmato  l'abisso  fra  la  materia  inorganica 
e  quella  organica,  ristabilita  l'unità  della  natura,  essa  si  guarda 
bene  dal  fare  salti  mortali  e  cbiama  il  soccorso  della  teoria  evo- 
lutiva per  spiegarsi  le  trasformazioni  dell'organismo  ijrimordiale. 
Del  rimanente  l'embriogenià  è  là  per  distruggere  con  i  fatti,  cosi 
la  credenza  biblica  come  la  supposizione  de'  getti  spontanei  della 
natura,  e  per  comprovare  la  verità  della  lenta  trasformazione  delle 


12  LE  ORIGINI   dell'  UOMO. 

specie.  L'embrione  umano  attraversa  nel  suo  sviluppo,  com'è  noto, 
alcune  forme  che  riproducono  transitoriamente  quelle  in  cui  sonosi 
fissate  le  inferiori  specie  dei  vertebrati,  ed  è  fornito  delle  due 
ossa  frontali,  dell'osso  incisivo  e  delle  vertebre  cocci gee,  che  spa- 
riscono o  si  attenuano  con  un  maggiore  sviluppo,  dove  che  nei 
mammiferi  permangono.  Bisogna  proprio  chiudere  gli  occhi  al- 
l'evidenza per  non  riconoscere  lo  stampo  dell'antica  progenio,  per 
non  vedere  le  eredità  delle  forme  assunte  nel  passato  s  il  pre- 
dominio di  quella  raggiunta  nel  presente.  Ed  eccoci  in  pieno  tra- 
sformismo. 

Non  è  mia  intenzione  esporre  la  dottrina  deHa  trasformazione 
delle  specie,  mille  e  mille  volte  esposta;  ma  di  stabilire  soltanto 
il  mio  punto  di  vista.  Scopo  precipuo  di  questo  lavoro  è  di  stu- 
diare le  origini  preistoriche  della  società,  non  l'origine  naturale 
dell'uomo. 

Un  tipo  che  permane  trasmettendosi  ereditariamente  ed  un 
rapporto  che  varia  tra  questo  tipo  e  il  mondo  esterno,  o  in  altri 
termini  una  potenza  formatrice  interna,  che  si  riproduce  eredi- 
tariamente, ed  una  metamorfosi  continua,  che  proviene  dall'adat- 
tamento dell'organismo  al  mezzo  in  cui  vive,  sono  gli  istrumenti 
semplicissimi  con  i  quali  nella  natura  si  conserva  la  sostanza  e 
si  modificano  le  forme.  La  legge  della  scelta,  cioè  della  soprav- 
vivenza degli  organismi  più  capaci  di  adattarsi  all'ambiente,  meglio 
forniti  per  trionfare  nella  lotta  per  l'esistenza,  in  una  parola  degli 
organismi  più  perfetti,  assicura  alla  metamorfosi  il  carattere  del 
progresso.  Senza  questa  legge  avremmo  bensì  le  varietà,  ma  non 
la  serie  progressiva  delle  forme  successive;  e  la  natura  non  sa- 
rebbe che  il  caos.  Ammettiamo  adunque  che  con  le  leggi  di  ere- 
dità e  di  adaltameìdo  si  possa  costruire  la  serie  progressiva  delle 
forme  organiche,  a  condizione  che  col  dire  adattamento  s'implichi 
già  la  scelta,  cioè  che  gli  organismi  meglio  dotati  sien  quelli  che 
riescano  ad  adattarsi  ed  a  perpetuarsi.  Se  la  metamorfosi  pro- 
gressiva degli  organismi  sia  assicurata,  oltre  che  dalla  legge  della 
scelta,  da  una  forza  impulsiva  interna,  clie  operi  indipendente- 
mente dalle  condizioni  esterne,  è  cosa  che  si  può  affermare  ma 
non  dimostrare.  Scientificamente  noi  possiamo  ammettere  la  con- 
comitanza delle  due  forze,  cioè  della  tendenza  interna  dell'orga- 
nismo a  variare  secondo  una  data  direzione  e  dell'azione  esterna 
che  lo  sollecita  e  lo  determina  o  a  seconda  o  anche  contra.  Ogni 
cambiamento  di  stato,  così  nel  mondo  inorganico  come  nello  orga- 


LE   ORIGINI   dell'  UOMO.  13 

nico  e  nel  snperorganico,  è  conseguenza  del  concorso  fra  le  proprie 
forze  e  gli  agenti  esterni.  Siamo  così  ricondotti  a  quello  che  di- 
ceva il  Goethe,  del  quale  sarebbe  poco  dire  che  intravvide  la  teoria 
dell'evoluzione  :  «  La  struttura  dell'animale  determina  i  suoi  abiti, 
e  il  modo  di  vivere  reagisce  potentemente,  a  sua  volta,  su  di  tutte 
le  forme.  Così  rivelasi  la  regolarità  del  progresso,  che  tende  al 
cangiamento  sotto  la  pressione  del  mezzo  esterno.  »  Nel  dominio 
della  natura  per  tanto,  come  in  quello  sociale,  noi  troviamo  due 
forze  0  due  partiti,  il  conservatore  e  il  progressivo,  i  quali  con 
la  loro  reciproca  azione  impediscono  al  tipo  di  svanire  e  alle  sue 
forme  di  permanere.  Il  Goethe  le  chiamava  forza  centripeta  e 
forza  centrifuga,  e  diceva  che  la  prima  è  una  forza  d'inerzia  che 
fissa  le  specie  ed  impedisce  alla  seconda,  cioè  alla  metamorfosi, 
di  sperderle  in  una  infinita  varietà.  E  le  specie  in  fatti  si  fissano 
e  permangono;  ma  ciò  non  esclude  che  una  loro  varietà  più  pro- 
gressiva, posta  in  speciali  condizioni,  possa  cosiffattamente  allon- 
tanarsi dalle  forme  assunte  da  sembrare  e  divenire  altra.  Vi  sa- 
rebbe forse  anche  nella  natura  una  forza  che  fa  l'ufficio  di  partito 
radicale?  Quello  che  si  può  dire  gli  è,  che  la  natura  non  perde 
mai  il  senso  dell'opportuno  :  la  trasformazione  più  radicale  accade 
quando  le  circostanze  lo  richiedono  e  sempre  per  evoluzione 

E  quando  nella  evoluzione  della  natura  il  tempo  fu  maturo, 
il  più  alto  vertebrato  andò  lentamente  trasformandosi  in  un 
progenitore  dell'uomo.  Quale  fa  codesto  più  alto  vertebrato  ?  La 
soluzione  di  siffatta  questione  si  connette  con  l'altra  concernente 
il  posto  dell'uomo  nella  natura. 

11  lettore  rammenterà  che  nella  zoologia  il  regno  animale 
dividesi  in  sotto-regm  (animali  vertebrati,  articolati,  gastrozoi);  il 
sotto-regno  in  classi  (p.  e.  quello  degli  animali  vertebrati  con- 
tiene le  classi  dei  pesci,  de'  rettili,  degli  uccelli,  de'  mammiferi): 
le  classi  in  ordini  (p.  e.  la  classe  de'  mammiferi  comprende  gli 
ordini  de' bimani,  de' quadrumani  ec);  gli  ordini  in  famiglie, 
queste  in  generi,  i  generi  in  specie,  e  le  specie  in  varietà  o  razze. 
Si  procede  così  dagli  aggruppamenti  dei  caratteri  più  generali 
via  via  a  quelli  de'  caratteri  più  particolari,  e  però  dal  gruppo 
più  numeroso  a  quello  meno  numeroso.  Il  lettore  rammenterà 
pure  che  la  zoologia  dominante  nelle  scuole  colloca  nel  primo 
ordine,  quello  dei  bimani,  soltanto  l'uomo  {Homo  sapiens),  e  nel 
secondo,  quello  de' quadrumani,  le  scimmie.  Il  grande  anatomico 
inglese,  Huxley,  nel  suo  libro  sul  Posto  che  occupa  Vuomo  nflla 
natura,  ha  con  irrefragabili  prove  di  fatto  dimostrato  che,  anato- 


14  LE   ORIGINI   dell'  UOMO. 

raicamente,  è  più  lontano  il  gorilla  da  una  scimmia  inferiore  che  non 
l'uomo  dal  gorilla.  Partendo  da  ciò,  egli  non  poteva  collocare  l'uomo 
in  un  ordine  a  parte,  ed  ha  accettato  la  classificazione  di  Linneo,  se- 
condo il  quale  l'uomo  forma  una  famiglia  a  parte  nell'ordine  dei  pri- 
mati, che  comprende  altre  famiglie  costituite  dalle  scimmie  e  da'  le- 
muri. II  Broca,  che  ha  riordinato  la  medesima  classificazione  di 
Linneo,  divide  l'ordine  de'  primati  in  cinque  famiglie  :  1''  l'uomo  ; 
2''  gli  antropoidi  o  scimmie  antropomorfe;  3'^  le  scimmie  dell'antico 
continente  o  pitecoidi;  4"^  le  scimmie  del  nuovo  continente;  5"^  i 
lemuri.  L'  Huxley  medesimo,  xìqW Introduction  to  tlte  classi ficafion 
of  anhnals.  pone  l'uomo  nel  sottordine  degli  antropoidi  ;  un  altro 
sottordine  vien  costituito  dagli  scimmiadi,  o  scimmie  del  vecchio  e 
del  nuovo  continente,  un  terzo  da'  lemuridi. 

Neil'  opera  prima  citata  1'  Huxley  riconosce  il  valore  della 
dottrina  del  Darwin,  ma  la  ritiene  ancoi'a  una  ipotesi,  a  causa 
del  vuoto  che  trovasi  nel  passaggio  dagli  scimmiadi  agli  antro- 
poidi, dello  spezzamento  quasi  diremmo  nella  catena  degli  esseri, 
del  Kflut  o  crepaccio,  come  dice  ilprofessore  Seligmann  nello  scritto 
intitolato  Die  MenscJienracen  e  pubblicato  nel  Geographischcs 
Jahrhuch  di  E.  Behm,  1.  Band-1866.  La  scienza  si  occupaa  col  mare 
il  vuoto;  ma  se  anche  non  vi  riuscisse,  i  fatti  di  già  accumulati,  e 
dalla  ipotesi  darwiniana  spiegati  meglio  che  da  qualunque  altra, 
costituirebbero  sempre  una  grande  probabilità  in  suo  favore,  una 
probabilità  tale  da  controbilanciare  il  difetto  di  qualche  anello, 
che  assai  facilmente  è  potuto  sparire,  come  vediamo  sotto  i  nostri 
occhi  sparire  razze  di  uomini  selvaggi.  Quando,  come  ha  osser- 
vato lo  Schaffhausen,  le  scimmie  antropomorfe  saranno  distrutte 
e  quando  l'uomo  civile  si  sarà  dappertutto  sostituito  al  selvaggio, 
allora  quel  Kflut  diverrà  un  abisso,  perchè  invece  di  paragonare 
il  più  basso  selvaggio  alla  più  alta  scimmia,  paragoneremo  l'uomo 
più  elevato  alla  scimmia  inferiore.  E  adunque  presumibile  che 
il  futuro  abisso  un  tempo  non  sia  stato  nemmanco  un  crepaccio. 

L'archeologia  preistorica  si  occupa  della  ricerca  di  un  uomo 
fossile  intermedio  tra  la  scimmia  e  l'uomo.  Nella  caverna  di 
Engis  nella  valle  ^della  Mosa,  ed  in  quella  di  Neander  presso 
Dusseldorf,  furono  trovati  crani  che  servirono  e  servono  a  stu- 
diare tale  quistione.  Essi  erano  circondati  di  ossa  deW debili as 
priniigenms  o  mammuto,  del  rhinoccros  Uchoriniis  o  rinoceronte. 
Secondo  1'  Huxley,  è  difficile  il  sentenziare  con  sicurezza  su  di 
cosiffatti  crani,  perchè  non  furono  conservate  le  mascelle.  Egli 
pensa  che  il  cranio  di  Engis   somigli  a  quello  degli  Australesi, 


LE   ORIGINI   DELL*  UOMO.  15" 

ma  che  eziandio  se  ne  differenzi,  massime  per  l'arcata  sopracci- 
gliare. In  quello  del  Neanderthal  scopre  tutti  i  caratteri  del  piteco  ; 
ma  dice  pure  die  per  la  sua  capacità  potrebbe  paragonarsi  a 
quelli  degli  Ottentotti  e  degli  abitanti  della  Polinesia.  E  termina 
col  reputarlo  un  cranio  umano,  molto  vicino  al  tipo  pitecoide,  il 
più   basso  cranio  umano  sinora  conosciuto. 

11  Darwin,  nelle  questioni  dell'origine  e  della  classificazione 
dell'uomo,  è  stato  per  un  certo  rispetto  più  radicale  e  più  risoluto 
dell'Huxley.  Se  si  considerano,  egli  dice,  alcune  importanti  differenze 
di  struttura,  l'uomo  ha  diritto  ad  occupare  un  proprio  sotto- regno, 
e  se  si  guarda  alle  sue  facoltà  mentali,  anche  questo  è  troppo  poco: 
ma  se  si  osserva   da  un  punto    di  vista  genealogico,  sembra  che 
codesto  posto  sia  troppo  alto,  e  che  l'uomo   non  debba  formare 
che  una  famiglia  e  forse  anche  solo-  una    sotto-famiglia.  Badisi 
che  così  dicendo  si  corre  pericolo  d'  invertire  i  termini  della  que- 
stione, che  invece  di  far    dipendere   la   genealogia   dalle   affinità 
anatomiche,  dalla  classificazione  tassonomica,  si  potrebbe  riuscire 
a  far  dipendere  questa  da  quella,   cioè    da    una  presupposizione, 
da  un'  ipotesi  che  è  appunto  da  provare  e  che  non  altrimenti  si 
può  provare  se  non    con   l'esame    delle    affinità.  Non  pertanto  le 
affinità  tra  gli  scimmiadi  e  gli  antropidi  rimangono  sempre  tali 
che,  sebbene  questi    e    quelli   forniscano   due    gruppi    anatomici 
molto    distinti,   due    sotto-ordini    secondo  l' Huxley  e  due  ordini 
secondo  altri,  pure    basta  tendere  non  molto    l'arco    del  trasfor- 
mismo per  comprendere  che  l'un  gruppo  abbia  potuto,  mediante 
una  graduale  evoluzione,  e  qualche  forma  perduta,  divenire  l'altro. 
Naturalmente  per  effettuarsi  simile  trasformazione  fu  necessaria 
l'azione  di  un  tempo  secolare    e   di    condizioni,  che   oggidì  sono 
mutate. 

Ciò  posto,  dirò  elle  il  Darwin  divide  con  la  maggior  parte 
dei  naturalisti  la  famiglia  degli  scimmiadi  in  due  categorie;  quella 
delle  catarrine  o  scimmie  del  continente  antico,  e  quella  delle  pla- 
tirrine  o  scimmie  del  nuovo  continente.  Distinguonsi  per  la  varia 
struttura  delle  narici  e  per  avere,  le  prime  quattro  premolari  in 
ogni  mascella,  le  seconde  sei.  Or  siccome  l'uomo,  a  cagione  del 
suo  sistema  dentale,  delle  sue  narici,  e  di  altri  caratteri,  rassomi- 
glia alle  prime  e  punto  alle  seconde,  così  esso  deve  essere  consi- 
derato come  un  germoglio  dello  stipite  delle  prime,  e  però,  stando 
in  questo  punto  di  vista  genealogico,  deve  andar  collocato  nella  ca- 
tegoria delle  catarrine.  Il  processo  del  ragionamento  del  Darwin 
giustifica  la  verità  della  osservazione  che  io  facevo  di  sopra,  poiché 


16  LE   ORIGINI   dell'  UOMO, 

il  Darwin  istesso  è  costretto  a  trarre  la  genealogia  dalle  affinità. 
Cosi  essendo,  io,  senza  negare  la  possibilità  di  quella  genealogia, 
stimo  più  prudente  non  alterare  in  alcun  modo  il  posto  di  clas- 
sificazione all'  uomo  assegnato  dall'  Huxley,  giudice  competentis- 
simo  neir  esame  comparativo  dei  caratteri  anatomici. 

Il  Darwin,  dopo  di  aver  tratto  fuori  da  una  larva,  simile  alle 
nostreascidie,  tutti  i  vertebrati  (pesci,  anfibi,  rettili,  uccelli,  mam- 
miferi), mediante  doppia  ramificazione  divergente,  l' una  delle 
quali  arrestasi  nel  suo  sviluppo  e  1'  altra  continua  a  variare,  sdop- 
piandosi a  sua  volta  e  così  di  seguito,  giunge  alle  catarrine  dal 
cui  stipite  uscì  deviando  il  progenitore  dell'  uomo;  progenitore  che 
andò  perfezionandosi,  mentre  i  suoi  parenti  collaterali  non  potet- 
tero pareggiarlo;  progenitore  che  da' suoi  discendenti  venne  sop- 
piantato, annullato.  Poggiandosi  sopiva  una  quantità  considerevole 
di  fatti,  il  Darwin  descrive  con  quattro  tocchi,  nella  sua  opera 
sulla  Discendenza  delV uomo,  codesto  igno1)ile  nostro  avo.  Ecco 
il  suo  ritratto,  riprodotto  a  mo'di  scbizzo:  la  persona  tutta  coperta 
di  peli,  tanto  che  il  viso  de' maschi  come  quello  delle  femmine 
n'erano  sparsi;  aguzzi  e  mobili  gli  orecchi,  sporgente  la  coda,  il 
piede  prensile,  grossi  i  denti  canini  a  guisa  di  arme,  l'intestino 
cieco  più  grande  dell'  attuale,  i  costumi  arborei,  forestali.  Abitava 
calde  regioni,  ed  era  fornito  di  muscoli,  che  nei  quadrumani  sono 
normali  e  che  in  noi  ora  ricompaiono  per  accidente.  In  tempi  più 
remoti  1'  utero  era  doppio,  gli  escrementi  si  versavano  in  una 
cloaca,  l'occhio  era  protetto  da  una  terza  palpebra  o  membrana 
nittitante.  Procedendo  più  nella  notte  del  tempo  i  nostri  proge- 
nitori dovevano  avere  acquatici  costumi,  il  che  inducesi  da' nostri 
polmoni,  formati  dalla  trasformazione  di  una  vescica  natatoria, 
che  allora  faceva  1'  officio  di  organo  idrostatico:  le  branchie  sta- 
vano ove  ora  stanno  le  fessure  nel  collo  dell'embrione:  il  cuore 
non  era  da  più  di  un  vaso  pulsante,  e  la  colonna  vertebrale  di  una 
corda  dorsale.  Non  avevano  adunque  un  organismo  più  sviluppato 
di  quello  dell'  Amphioxus  lanceolatus,  e  probabilmente  anche  era 
meno  sviluppato.  Ma  con  queste  ultime  induzicmi,  il  Darwin  ha 
oltrepassato  la  sotto-famiglia  degl'immediati  progenitori  dell'uomo 
e  si  è  spinto  sino  alla  prima  classe  de'  vertebrati. 

Stando  adunque  alla  dottrina  darwiniana,  fra  le  catarrine  e 
V  uomo,  quale  noi  1'  abbiamo  sinora  conosciuto,  vi  sarebbe  stata 
una  forma  intermedia.  Tale  è  pure  l'opinione  dell' Haeckel,  per 
non  dire  di  altri,  il  quale  nella  sua  Storia  d'ila  creazione  degli 
esseri  organici,  ci  dà  pure  un  suo  ritratto  deW Homo  priììiigeìiius. 


LE   ORIGINI   dell'  UOMO.  17 

«  Havvi  tanta  analogia,  egli  dice,  fra  gli  ultimi  uomini  a  capelli 
lanosi  e  le  prime   scimmie   antropoidi,  che  non  fa  d'  uopo   d'  un 
grande  sforzo  d'immaginazione  per  figurarsi  un  tipo  intermedio, 
ritratto  approssimativo  e  probabile  dell'  uomo  primitivo  o  uomo 
scimiesco.  Era  esso  assai   dolicocefalo   ed   assai  prognato,  aveva 
capelli  lanosi,  pelle  nera  o  bruna.  Il  suo  corpo   era   rivestito  di 
peli  più  abbondantemente  che  in  qualsiasi  razza  umana  vivente  ; 
le  sue  braccia  erano  relativamente  piìi  lunghe  e  più  robuste  ;  le 
sue  gambe  al  contrario  più   corte  e  più  sottili,  senza  polpaccio; 
la  posizione  era  per  metà  verticale  e  le  ginocchia  erano  as^'ai  pie- 
ghevoli. Oltre  di  ciò  cosiffiitto   uomo   era  sfornito  di  linguaggio 
articolato,  era  mutolo   (Alalus),  perchè   il  linguaggio  è  apparso 
dopo  la  differenziazione  dell'  uomo  primitivo  in  ispecie  diverse.  » 
La  forma  intermedia,  immaginata  e  descritta  dal  Darwin  e  dal- 
l' Haeckel,  è  quella  che  a  rigor  di  termini  si  può  dire   apparte- 
nere anatomicamente  e  genealogicamente  alla  medesima  famiglia 
delle  catarrine;  ma  l'uomo,  quale  noi  lo  conosciamo,  non  vi  ap- 
partiene più.  Esso  ha  ben  potuto  uscire  con  quelle  da  uno  stipite 
comune:  ma  il  suo  ramo,  prossimo  all'altro  in  origine,  è  andato 
deviando  con  l'uomo  bruto,  divergendo  maggiormente  con  l'uomo 
selvaggio  e  barbaro  de'  tempi  preistorici,  e  allontanandosi  cosiffat- 
tamente con  r  uomo  civile  de'  tempi  istorici  da  dare  vita  per  lo 
meno  ad  altra  fxmiglia.  Tanto  se  voleste   costruire  1'  albero  ge- 
nealogico, quanto  se  quello   tassonomico,  voi  non  potreste  porre 
la  bella  Italiana  e  la  bionda  Grermana  dagli   occhi  cerulei  nella 
medesima  famiglia  delle   catarrine.  Una  o  più  forme  intermedie 
ci  allontanano  grandemente  da  queste,  e  ci  consentono  di  rista- 
bilire r  armonia  fra  la  classificazione  genealogica  e  quella  tasso- 
nomica. I  nostri   immediati   progenitori  furono   adunque  uomini 
che  più  di  noi  ritennero  dell'animalesco,  e  degli  antenati  di  questi 
ci  siamo  occupati  abbastanza  pel  nostro  scopo.  Nel  dominio  degli 
studi  sociali  i  nostri  progenitori  furono  gli  uomini  primitivi  o  prei- 
storici, de'  quali  ci  occuperemo  in  seguito. 

Se  ponendosi,  come  ha  fatto  il  Darwin,  nel  punto  di  vista  ge- 
nealogico si  corre  il  pericolo  di  togliere  all'  uomo  il  suo  vero  posto 
zoologico,  ponendosi  d'altra  parte  in  un  punto  di  vista  non  zoolo- 
gico si  corre  rischio  di  creare  per  1'  uomo  un  regno  senza  solido 
fondamento. 

La  questione  concernente  la  esistenza  di  un  quarto  regno,  cioè 
di  un  regno  umano,  merita  di  non  essere  trasandata.  La  sua  so- 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  I8ì9.  2 


18  LE   ORIGINI  DFLL'  UOMO. 

tuzione  discende  dalle  cose  dette  e  da  altre  che  or  diremo.  Ana- 
tomicamente non  v'  ha  posto  per  un  regno  umano,  oltre  quello 
animale,  del  che  non  disconvengono  neanche  quei  sostenitori  del- 
l' esistenza  di  un  regno  umano,  che  sono  all'  altezza  della  scienza 
moderna.  11  Quatrefages,  che  in  questa  parte  è  caposcuola,  am- 
mette che  l'uomo  anatomicamente  appartenga  al  regno  animale; 
ma  aggiunge  che  la  religiosità  e  la  moralità  sono  caratteri  distin- 
tivi e  propri  solo  dell'uomo,  così  da  renderlo  degno  di  costituire 
un  regno  a  parte.  Movendo  da  questa  idea  fissa,  egli  è  costretto 
a  fare  prodigi  per  trovarne  la  prova  nei  fatti,  prodigi  che  fini- 
scono con  r  alterazione  dei  fatti.  Basta  leggere  i  tre  capitoli  del 
libro  del  Lubbock,  /  tempi  preistorici,  relativi  ai  selvaggi  moderni, 
per  convincersi  che  vi  sono  molti  popoli,  i  quali  si  distinguono 
per  r  assenza  di  qualunque  idea  religiosa  e  per  una  moralità,  cioè 
per  un  amore  alla  famiglia  ed  alla  comunità,  inferiore  a  quello 
degli  animali.  Ma,  ammettendo  pure  che  ciò  non  sia,  è  innegabile 
che  di  quella  religiosità  e  di  quella  moralità,  piuttosto  istintuale 
e  grossolana,  che  s' incontrano  presso  altri  popoli  selvaggi,  gli 
animali  non  sono  privi,  e  per  tanto  esse  non  potrebbero  venir 
considerate  come  un  carattere  appartenente  all'  uomo  soltanto.  A 
conferma  di  ciò  leggansi  i  capitoli  II  o  III  della  recente  opera 
del  Darwin  sull'  origine  dell'  uomo,  capitoli  nei  quali  egli  ha  rac- 
colto una  grande  congerie  di  fatti,  a  fine  di  paragonare  le  facoltà 
mentali  e  morali  dell'  uomo  con  quelle  dei  sottostanti  animali.  Da 
tali  fìxtti  emerge  che  le  facoltà  umane  distinguonsi  da  quelle  degli 
animali  inferiori  solo  per  gradi,  cioè  per  un  maggiore  sviluppo. 
Oserò  esporre  la  mia  opinione  sulla  esistenza  del  regno 
umano.  Se  con  la  creazione  di  un  quarto  regno  si  è  creduto  di 
gittare  l'abisso,  di  porre  l'infinito  tra  l'animale  e  l'uomo,  il  tentativo 
è  fallito,  perchè  era  davvero  assurdo.  Anche  l'animale  si  com- 
move come  l'uomo,  e  prova  dinanzi  a'  fenomeni  della  natura  quel 
terrore  che  per  molti  uomini,  anche  non  selvaggi,  costituisce  l'es- 
senza del  loro  sentimento  religioso.  Coloro  i  quali  mostransi  tanto 
teneri  dell'umana  dignità  da  volere  per  sé  un  proprio  regno  non 
dovrebbero  rifiutarsi  ad  ammettere  che  l'adorazione  del  cane  pel 
padrone  vale  qualche  cosa  di  meglio  dell'  adorazione  dell'  uomo 
per  le  lucertole  e  gli  scorpioni.  Anche  gli  animali  amano  i  propri 
simili,  convivono  in  società  e  certo  non  si  fanno  guerra  piìi  spietata 
di  quella  che  gli  uomini  continuano  a  farsi  in  pieno  secolo  XIX, 
Anche  essi  hanno  il  loro  linguaggio,  fanno  i  loro  giudizi,  trag- 
gono partito  dall'esperienza  e    diffìcilmente   ricadono   nel  mede- 


LE   OEIGINI  dell'uomo.  19 

simo  agguato.  Gli  animali  progrediscono  adunque.  Ma  tutte  le 
loro  facoltà  sono  assai  limitate,  così  che  il  progresso  non  oltre- 
passa una  breve  cerchia,  toccata  la  quale  la  vita  diviene  ripeti- 
zione. Vi  sono  razze  umane  che,  sinora,  versano  in  una  condizione 
quasi  identica:  la  loro  cerchia  è  più  larga,  ma  ò  ancor  troppo 
ristretta.  Invece,  havvene  di  quelle,  come  a  dire  gì' Indo-Europei, 
che  distinguonsi  per  uno  sviluppo  progressivo  i  cui  limiti  sinora 
CI  sfuggono.  Le  une  e  le  altre  distinguonsi  però  nettamente  dal- 
l'animale per  la  posizione  verticale,  il  cervello  più  perfetto  e  la 
laringe  acconcia  al  linguaggio  articolato.  Di  questi  organi  è  pro- 
dotto la  intelligenza  più  progressiva.  Xon  è  già  che  l'uomo  abbia 
organi  che  addirittura  manchino  agli  altri  animali,  ma  esso  li  ha 
così  sviluppati  da  dare  origine  nientedimeno  che  alla  coscienza 
nel  senso  profondo  della  parola.  Il  selvaggio,  tale  qual  è,  è  più 
vicino  all'animale  che  non  l'uomo  civile  al  selvaggio  ;  ma  il  sel- 
vaggio può  diventare  civile,  dove  che  l'animale  non  diventa  al  più 
che  domestico.  Che  cosa  ha  potuto  infondere  tanta  potenza  ai  fortu- 
nati eredi  di  una  specie  inferiore?  L'Huxley  dice  benissimo  quando 
afferma  che  basta  un  capello  per  arrestare  il  moto  delle  ruote  di 
un  orologio.  Bisogna  allora  aggiungere  che  codesto  capello  ha  un 
immenso  valore  fisiologico  e  psicologico,  perchè  sottratto  dalle 
spire  del  cervello  e  dalla  laringe  permette  a  questi  organi  di 
muoversi  e  svilupparsi  a  segno  da  produrre  la  meccanica  celeste 
e  le  orazioni  di  Demostene.  L'assenza  di  cosiffatto  capello  e  la 
presenza  di  altre  differenze,  alcune  delle  quali  a  noi  sfuggono  o 
noi  valutiamo  solo  grossolanamente,  danno  all'uomo  il  diritto  di 
occupare  nel  regno  animale  un  posto  speciale  o  sia  un  ordine, 
come  vuole  anche  il  Canestrini  nel  suo  bel  manuale  di  antropo- 
logia, 0  sia  un  sotto-ordine  nell'ordine  de' primati,  o  sia  una  fa- 
miglia, in  somma  un  proprio  antro.  In  questo  antro  i  più  bassi 
uomini  ritengono  ancora  dei  più  alti  scimmiadi,  poi  che  le  ana- 
tomiche e  fisiologiche  differenze  sono  ancora  troppo  rudimentali  e 
in  potenza;  ma  a  poco  a  poco  l'uomo  esce  dall'antro  e  trasforma 
la  terra  nel  regno  della  civiltà.  Con  l'esercizio  si  andarono  per- 
fezionando le  facoltà  ideali  e  insieme  la  struttura  organica,  mas- 
sime del  cervello  e  della  laringe.  L'uomo  non  ha  cessato  di  avere 
funzioni  comuni  cogli  animali,  come  questi  le  hanno  col  regno 
vegetale,  ma  pel  suo  sviluppo  ideale,  per  la  invenzione  della  scrit- 
tura e  pel  suo  ordinarsi  in  società  retta  da  un  potere  politico  e 
governata  da  una  coscienza  progressiva,  le  quali  cose  non  sono 
potute  accadere  senza  un  correlativo  sviluppo  fisico,  l'uomo  è  di- 


20  LE   ORIGINI   dell'  UOMO. 

venuto  un  essere  che  ha  bene  il  diritto  di  esclamare  :  il  mio  regno 
è  quello  della  civiltà.  Non  l'uomo,  adunque,  ma  l'uomo  civile  è  cit- 
tadino di  un  nuovo  regno,  le  cui  grandezze  non  trovano  riscontro 
nel  regno  animale. 

La  buona  gente  cui  fa  ribrezzo  questa  dottrina  della  nostra 
origine,  invece  di  stemperarsi  in  vane  contumelie,  affermi  la  indi- 
vidualità umana  con  lo  studio  di  trasformare  il  proprio  corpo, 
il  proprio  spirito,  in  docili  istrumenti  del  consorzio  civile.  Padro- 
neggiando i  brutali  istinti  animali  e  selvaggi,  1'  uomo  civile  si 
distingue  essenzialmente  dall'  animale  e  dal  selvaggio,  e  solo 
allora  acquista  davvero  il  diritto  di  chiamarsi  uomo.  Col  senti- 
mento della  sua  modesta  origine,  esso  acquista  pure  la  virtù 
della  tolleranza,  ma  non  verso  le  belve  umane,  e  il  disprezzo  per 
le  esteriori  vanità.  Quell'orgoglio,  die  altri  trae  dal  vano  blasone 
degli  avi,  1'  uomo  sapiente  attinge  dalla  sua  intima  virtù,  il  più 
gran  tesoro  umano,  quello  che  nessuno  può  rapirgli,  la  vera  sor- 
gente delle' consolazioni  più  ineffabili  e  meno  prezzolate. 

Accennando  al  sentimento  di  tolleranza  ho  detto  fra  paren- 
tesi che  esso  non  si  deve  estendere  alle  belve  umane.  Colgo  il 
destro  per  aggiungere  che  un'  altra  e  benefica  deduzione  del  tra- 
sformismo applicato  all'  uomo  è  appunto  la  dottrina  di  quei  pena- 
listi che  vogliono  difendere  1'  umanità  civile  con  l'estirpare  gli  uo- 
mini ferini.  La  dottrina  degli  abolizionisti  della  pena  capitale, 
funestissima  nelle  presenti  condizioni  della  società  e  soprattutto 
delle  società  fiacche  e  corrotte,  è  una  conseguenza  dei  falsi  si- 
stemi teologici  e  ideologici  intorno  all'  uomo.  Posto  1'  abisso  fra 
r  uomo  e  il  regno  animale,  veggonsi  pullulare  tutti  quei  noti 
sofismi  sulla  personalità  umana  che  non  si  ha  dritto  a  distrug- 
gere, tutti  quei  sottilissimi  arzigogoli  che  farebbero  ridere  assai 
se  non  giovassero  molto  ai  l)ricconi.  Li  quella  vece  la  dottrina 
scientifica  e  positiva,  che  considera  1'  uomo  come  parte  del  regno 
animale,  guarisce  i  cervelli  da  un  morboso  concepimento  e  i  cuori 
da  un  falso  sentimentalismo.  I  ocntimenti  di  amore,  di  tolleranza, 
di  carità,  non  che  ristringersi,  si  allargano  a  tutto  il  regno  ani- 
male, ma  si  sottopongono  alla  ragione,  la  quale  sa  distinguere 
fra  le  nature  elevate,  le  nature  deboli,  le  nature  in  cui  il  mal 
seme  ha  vinto  ma  non  distrutto  il  buono,  e  le  belve  umane. 
La  società  ha  il  dovere  di  onorare  le  prime,  di  proteggere  le  se- 
conde, di  sequestrare  e  correggere  le'terze  ;  ma  ha  tanto  dritto 
di  annientare  le  ultimo  quanto  di  scaricare  il  fucile  contro  la 
tigre.  La   personalità   umana    è    rispettabile    quando   è    civile  o 


LE   ORIGINI  dell'  UOMO.  21 

quando  è  capace  di  diventare  tale.  Or  bisogna  essere  bene  inge- 
nui per  credere  che  la  stirpe  de' Troppman  sia  correggibile,  e 
bisogna  avere  il  senso  morale  assai  ottuso  e  il  sentimento  d'uma- 
nità oltremodo  fiacco  per  non  volere  l'esterminio  di  simili  mostri. 
Una  scienza  positiva  deve  volerlo,  sino  a  quando  è  necessario,  per 
assicurare  la  sanità  e  lo  sviluppo  civile  del  corpo  sociale.  Bisogna 
aumentare  nei  malvagi  la  paura  per  le  pene  di  qua,  quando  essi 
vanno  perdendo  le  fede  nelle  pene  di  là.  I  governi  scrii,  che 
preoccupandosi  oggidì  dell'azione  dissolvente  di  certi  elementi  che 
si  manifestano  ne'  tempi  liberi,  vogliono  tuttavia  rimanere  ferma- 
mente sul  terreno  della  libertà  —  senza  di  che  sarebbero  irrepara- 
bilmente perduti  —  debbono  attendere  ad  educare  amorevolmente 
i  cittadini,  a  spargere  il  benessere  fra  le  popolazioni  ed  a  punire 
inesorabilmente  i  perversi.  Solo  così  lo  Stato  acquista  un  carat- 
tere positivo,  e  può  pretendere  di  occupare  il  posto  di  quelle 
potenze,  che  oggi  si  debbono  considerare  come  i  principi  spode- 
stati del  regno  della  coscienza. 


II. 

Monogenismo  e  Poligenismo.  —  Luogo  di  nascita  dell'uomo. 

La  grande  questione  del  monogenismo  e  poligenismo,  cioè 
dell'unità  o  della  pluralità  di  origine  dell'umanità,  si  riattacca, 
anzi  discende  direttamente  da  quella  concernente  1'  origine  del- 
l'uomo. Questa  origine  essendo  apparsa  sinora  un'incognita  per  la 
scienza,  e  cognita  soltanto  alla  religione,  n'è  seguito  che  i  cre- 
denti nella  Bibbia  hanno  votato  pel  monogenismo  e  gl'increduli 
hanno  dimostrato  una  propensione  a  negare  con  tutto  il  paradiso 
anche  la  unica  e  primitiva  coppia  che  l'abitava.  Che  che  si  dica, 
e  per  sforzi  che  si  facciano,  difficilmente  gli  uomini  si  liberano 
dal  partito  preso  di  trovare  nei  fatti  argomenti  o  a  conferma  delle 
credenze  religiose  o  a  negazione  di  esse.  Solo  in  un  periodo  di  pieno 
e  assicurato  trionfo  della  scienza,  l'uomo  si  pone  a  studiare  con  im- 
parzialità le  questioni  che  hanno  attinenza  stretta  con  la  religione  ; 
e  solo  allora  egli  non  teme  di  accettare  una  deduzione,  la  quale 
confermi  pure  i  presentimenti  della  religione.  Noi  entriamo  feli- 
cemente in  questo  tempo  di  calma,  perchè  entriamo  in  un  tempo 
in  cui  il  razionalismo  scientifico  è  assiso  su  d'incrollabile  ròcca. 

Secondo  che  ci  avviciniamo  ai  nostri  tempi,  vediamo  gli  stessi 
monogenisti  biblici  non  osare  di  confessare  che  essi  parteggiano 


22  LE   ORIGINI   dell'uomo. 

per  l'unità  di  origine,  sol  perchè  sono  rimasti  fedeli  alle  credenze 
dell'infanzia;  ma  sforzarsi  di  camminare  sul  terreno  della  ricerca 
soientifica.  I  razionalisti  adunque  non  potendo  risolvere  la  que- 
stione deduttivamente,  col  riattaccarla  cioè  a  quella  dell'  origine 
dell'uomo,  perchè  la  scienza  non  lo  consentiva  e  credo  io  non  lo 
consenta  ancora  interamente,  ed  i  credenti  non  volendo  mostrare 
che  essi  innalzavano  un  edifizio  storico  su  di  un  semplice  articolo 
di  fede,  ne  seguì  clie  la  grande  questione  fu  da  tutti  studiata  in- 
duttivamente. E,  com'era  da  prevedersi,  ciascuna  parte  trovò,  non 
sempre  inconsapevolmente,  molti  argomenti  a  sostegno  della  tesi 
a  lei  prediletta;  il  che  se  non  riuscì  a  risolverla  positivamente, 
certo  ne  fece  avanzare  lo  studio,  insino  a  che  venne  il  darwi- 
nismo a  gittare  il  suo  peso  nella  bilancia,  la  quale,  non  volendo 
neanche  ora  risolversi  a  traboccare,  incomincia  col  suo  equilibrio 
ad  annoiare  gli  studiosi. 

Riassumiamo  il  dibattimento  ed  atteniamoci  agli  argomenti 
principalissimi  e  più  conformi  allo  stato  attuale  della  (|uestione 
e  della  scienza  antropologica. 

Eisolvere  a  posteriori  la  questione  significa  studiare  se  quello 
che  nel  linguaggio  comune  chiamansi  razze  umane  sieno  separate 
da  differenze  così  rilevanti  da  vietarci  di  considerarle  come  di- 
scendenti da  unica  coppia  o  almeno  da  coppie  situate  in  una  me- 
desima e  ristretta  regione,  o  se  non  sia  vero  il  contrario.  In  ter- 
mini più  generali,  sono  esse  specie  diverse  o  razze  di  una  sola 
specie?  I  poligenisti,  come  il  Bory  de  Saint- Vincent,  tendono  na- 
turalmente a  considerarle  come  specie  ;  i  monogenisti,  come  il  Qua- 
trefages,  a  reputarle  razze. 

Per  evitare  confusione  nella  mente  di  quei  lettori,  che  non 
sono  versati  nelle  scienze  naturali,  dobbiamo  i)reniettere  alcune 
definizioni. 

È  assai  malagevole,  per  non  dire  impossibile,  il  definire  la 
specie.  Intorno  a  questa  ])irola  si  danno  battaglia  oggidì  le  più 
opposte  scuole  de'naturalisti.  Il  Quatrefages  nel  suo  liapporlo  sui 
progressi  deW  antropologi  a  (1867)  riassume  così  le  definizioni  della 
specie, date  daCuvier,Blainville, Lamarck, Candolle,  Yogt, Chevreul  : 
«  La  specie  è  il  complesso  degl'individui,  più  o  meno  simili  fra 
loro,  che  sono  discesi  o  che  possono  esser  ritenuti  come  discesi 
da  unica  coppia,  mediante  non  interrotta  successione  di  famiglie.  * 
E  continuando,  aggiunge;  «  gl'individui  che  si  allontanano  dal 
tipo  generale  specifico  in  modo  sì  pronunziato  da  essere  facil- 
mente distinti  al  primo    colpo  d'occhio,  chiamansi  varietà.  Se  i 


LE   ORIGINI   dell'  UOMO.  23 

caratteri  costituenti  una  varietà  si  trasmettono  ereditariamente, 
compariscono  quei  gruppi  più  o  meno  numerosi,  che  addiman- 
dansi  razze.  »  Il  Knox  e  il  Gliddon  per  contrario  negano  reci- 
samente che  la  specie  possa  definirsi.  Il  Gliddon  vi  sostituisce  la 
parola  tipo.  In  questo  argomento  è  Jiecessario  ascoltare  soprattutto 
il  Darwin.  Questi  dice,  nell'opera  ^VlW  Origine  delle  specie,  che  non 
ancora  vi  è  una  soddisfacente  definizione  della  specie;  ma  che  ciò  non 
ostante  tutti  i  naturalisti  sanno  almeno  vagamente  quel  che  s'intenda 
con  questa  parola.  In  generale  questa  parola  sottointende  V elemento 
incognito  di  un  atto  distinto  di  creazione.  Infatti,  aggiungo,  coloro  che 
ammettono  che  la  specie  sia  costituita  da  caratteri  costanti,  eredi- 
tari, separati  con  insormontabili  cancelli  da  altri  caratteri  pari- 
mente costanti  ed  ereditari,  non  possono  non  ritenere  le  specie 
come  il  risultato  di  tanti  distinti  getti  creativi.  Ma  il  Darwin 
osserva  che  tra  gì'  individui  classificati  nella  medesima  specie  so- 
novi  differenze  rilevanti,  differenze  che,  al  contrario  di  quel  che 
certi  naturalisti  pensano,  riguardano  organi  importantissimi,  So- 
novi  eziandio  specie  dubbie,  a  classificare  le  quali  i  naturalisti 
non  vanno  d'accordo.  A  questo  proposito  il  Darwin  dimostra 
quanto  vi  sia  di  arbitrario  e  convenzionale  nel  classificare  un 
gruppo  come  specie  anzi  che  come  varietà,  e  dice  che  non  vi  ha 
una  linea  netta  di  separazione  tra  specie,  sotto-specie,  varietà  e 
differenze  individuali.  Siffatte  differenze  si  fondono  in  una  serie 
d'insensibili  gradazioni.  Or  la  serie  implica  transizione  graduale 
da  una  forma  all'altra;  epperò  il  Darwin  considera  le  varietà  più 
distinte  e  più  permanenti  come  gradi  che  menano  a  varietà  anche 
più  distinte  e  permanenti,  e  queste  come  termini  dì  passaggio 
alle  sotto-specie,  le  quali  conducono  a  nuove  specie.  La  varietà 
più  spiccata  è  adunque  una  specie  incipiente,  nascente,  e  la  tras- 
formazione si  effettua  soprattutto  mediante  la  scelta  naturale, 
cioè  mediante  la  legge  di  conservazione  delle  modificazioni  favo- 
revoli e  di  eliminazione  di  quelle  sfavorevoli. 

Adunque  v'  ha  naturalisti  che  definiscono  la  specie  e  credono 
nella  sua  fissità,  e  ve  n'  ha  di  ■  quelli  che  non  osano  definirla 
rigidamente,  perchè  non  la  reputano  limitabile  assolutamente  e 
la  credono  trasformabile.  Ma  poi  che  siamo  sul  dichiarare  i  ter- 
mini, non  abbandoniamo  ancora  il  terreno.  Ritorno  al  Quatrefages 
per  dire  del  significato  di  altre  parole,  e  del  valore  di  altri  fatti 
che  occorrono  nello  studio  delle  razze. 

Gli  antropologi  in  generale  chiamano  ibrido  il  prodotto  del- 
l'incrociamento   fra  specie  e  meticcio  quello  fra  razze.  Ma  nean- 


24  LB  ORIGINI   dell'uomo. 

che  su  di  ciò  1'  accordo  è  pieno.  11  geologo  d'  Omalius,  nel  suo 
libro  sulle  Uaces  huìuaines  chiama  ibrido  il  prodotto  dell'incro- 
ciamento  fra  razze;  meticcio  specialmente  quello  fra  la  razza 
bianca  e  la  rossa;  mulatto  tra  la  bianca  e  la  nera;  zambo  fra 
la  nera  e  la  rossa.  Il  Quatrefages,  che  riassume  sempre  egregia- 
mente le  idee  della  vecchia  scuola,  dice  che  presso  i  vegetali 
come  presso  gli  animali  l' incrociamento  tra  specie  è  molto  raro: 
operato  sotto  1'  influenza  dell'uomo,  è  infecondo  nella  gran  parte 
dei  casi,  e  se  è  fecondo,  la  fecondità  va  sempre  diminuendo.  Per 
contrario  l'incrociamento  fra  razze  è  fecondo,  e  qualche  volta  più 
che  non  tra  individui  della  medesima  razza.  Cosiffatta  legge  ha 
grande  importanza  nella  questione  del  monogenismo  e  del  polige- 
nismo,  perchè  soprattutto  da  essa  muovono  gli  antropologi  per 
chiamare  razze  o  specie  le  divisioni  dell'umanità,  e  per  reputarle 
discese  da  uno  o  da  più  stipiti. 

Il  Darwin  dedica  all'  ibridismo  un  intero  capitolo  della  sua 
opera  suU'  Origine  delle  specie.  Alla  legge  suU'  incrociamento, 
accennata  di  sopra,  egli  obbietta  prima  di  tutto  la  incertezza 
che  domina  la  questione,  perchè  i  naturalisti  sovente  tagliano 
anzi  che  sciogliere  i  nodi,  e  quando  trovano  incrociamenti  fecondi 
tra  gi'uppi  battezzati  come  specie  diverse,  tosto  cambiano  loro 
il  nome  e  le  ribattezzano  come  varietà.  In  una  nota  contenuta 
nella  Storia  naturale  deW  uomo  del  Prichard  ho  trovato  un  esem- 
pio calzante  di  ciò.  Knight  dice:  «  Se  queste  specie,  distinte  in 
appartnz:(i,  sono  feconde  e  il  loro  prodotto  non  è  un  individuo 
sterile,  io  non  esito  a  considerarle  come  appartenenti  alla  mede- 
sima specie,  così  come  ho  fatto  per  la  fragola  del  Chili,  la  fra- 
gola ananas,  la  fragola  scarlatta.  »  Non  sono  soltanto  le  scienze 
morali  quelle  che  abusano  dell'  a  priori/  Certo  è  che  il  fatto  della 
sterilità  dipende  da  cause  complesse,  come  ha  ripetuto  il  Darwin 
ueir  Origine  deW  uomo,  e  non  fornisce  un  solido  fondamento  per 
stabilire  differenze  specifiche,  massime  quando  si  pensa  che  la 
sterilità  predomina  nell'  accoppiamento  dei  più  prossimi  parenti. 
Quello  che  vi  ha  di  più  certo  si  è,  che  la  sterilità  ncgl' incrocia- 
menti fra  specie  diverse  varia  di  grado  e  insensibilmente  dispa- 
risce, mentre  d'  altra  parte  la  fecondità  delle  specie  dipende  pure 
da  svariate  condizioni;  di  guisa  che  è  difficile  determinare  ove 
finisce  la  perfetta  fecondità  ed  ove  comparisce  la  sterilità.  La 
legge  più  generale  è  che  la  fecondità  diminuisce  tra  specie  lon- 
tanissime e  tra  parenti  prossimissimi:  nel  mez/,o  vi  sono  casi 
svariati.  Il  famoso  orticultore  Herbert  sostiene  che  gl'ibridi  sono 


LE  ORIGINI  dell'  UOMO.  25 

fecondi,  come  le  specie  madri.  Su  gli  animali  sonosi  fatte  minori 
esperienze.  Senza  negare  per  tanto  la  relativa  sterilità  dei  primi 
incrociamenti  tra  specie  e  dei  loro  ibridi  prodotti,  si  può  benis- 
simo affermare  che  essa  non  è  assoluta  e  neanche  universale,  e 
che  essa  dipende  da  diversissime  condizioni  di  vita  e  da  modifi- 
cazioni^nel  sistema  riproduttore,  anzi  che  da  proprietà  iìiereuli 
alle  specie  diverse.  Le  medesime  osservazioni  si  possono  applicare 
alla  fecondità  tra  le  varietà.  Sovente  gl'incrociamenti  fra  le  razze 
fanuosi  allo  stato  domestico,  sotto  r  azione  d'identiche  condizioni, 
in  tal  caso  non  si  possono  produrre  quelle  modificazioni  nel  si- 
stema riproduttore  che  potrebbero  rendere  sterili  anche  le  varietà. 
Senza  negare  per  tanto  che  il  caso  più  generale  sia  la  fecondità 
neir  iucrociamento  fra  le  varietà,  è  pur  giusto  il  non  tacere  tutti 
i  casi  d' infecondità. 

Kiassumendo  la  questione,  dirò  che  la  varietà  di  una  specie 
nel  trasformarsi  può  originare  un'altra  specie,  cioè  differenze  si 
spiccate  da  rendere  necessario  un  altro  nome,  che  questo  nuovo  ■ 
gruppo  incrociandosi  col  primo  può  dare  benissimo  un  prodotto 
ibrido,  il  che  significa  che  fra,  loro  havvi,  non  abisso,  ma  soltanto 
lontananza. 

Con  la  maggiore  brevità  possibile  esponiamo  ora  alcuni  prin- 
cipalissimi  argomenti  che  i  monogenisti  e  i  poligenisti  recavano 
a  loro  sostegno,  prima  che  la  dottrina  dell'evoluzione  venisse  a 
preponderare. 

Secondo  i  monogenisti  l'umanità  si  divide  in  razze  e  non  in 
specie.  In  fatti  codesti  gruppi  umani  ci  appariscono  forniti  di 
quei  caratteri  variabili  che  sono  il  contrassegno  delle  razze,  dove 
che  le  specie  hanno  caratteri  più  costanti.  Tra  le  differenze 
umane  spicca  un  tipo  comune,  e  se  Bianchi  e  Negri  ci  paiono 
estremamente  diversi,  fa  mestieri  considerare  che  nel  regno  vegetale 
come  nel  regno  animale,  soglionsi  aggruppare,  sotto  la  medesima 
specie,  differenze  anche  maggiori, Questo  argomento,  che  è  delQuatre- 
fages,  anzi  che  una  difesa  dell'antropologia  monogenistica,  potrebbe 
contenere  un'accusa  contro  certe  classificazioni  della  botanica  e 
della  zoologia.  Andiamo  avanti.  Le  razze  si  possono  collocare  su 
di  una  scala  graduale,  senza  che  in  molti  casi  si  possa  dire  essere 
questo  un  effetto  degl'  incrociamenti.  L'essere  così  insensibili  e 
graduali  i  passaggi  dall'una  all'altra  razza,  anzi  che  nettamente 
scolpite  le  loro  distinzioni,  ha  fatto  sì  che  gli  antropologi  non 
si  accordino  sul  numero  delle  razze  in  cui  partire  l'umanità.  Ora 


26  r^E  ORIGINI  dell'uomo. 

i  naturalisti  sogliono  appunto  riunire  in  una  categoria  specifica 
le  forme  parimente  graduali.  Essendo  fecondi  gl'incrociamenti  tra  i 
gruppi  umani,  questi  sono  razze,  le  quali  non  hanno  potuto  non 
discendere  da  unica  e  ristretta  origine,  stando  anche  alla  legge 
del  Candolle,  che  è  la  seguente:  Varca  media  occupata  dalle  specie 
è  tanto  jnn  piccola,  quanto  piìi  complesso,  più  sviluppato,  piti 
perfetto  è  Vorganismo  della  classe  a  cui  appartengono  quelle  specie. 
Non  un  solo  genere  di  scimmie  è  comune  a'  due  continenti,  il 
vecchio  e  il  nuovo,  aggiunge  il  Quatrefages.  Se  bene  interpreto 
il  pensiero  del  monogenista,  parmi  si  debba  indurre  che  l'uomo, 
la  specie  più  alta,  non  ha  potuto  fare  eccezione  a  questa  re- 
gola come  sarebbe  accaduto  se  esso  avesse  avuto  origine  nei 
due  continenti,  ma  che  per  contrario  ha  dovuto  occupare  in  origine 
l'area  più  ristretta,  e  di  là  distendersi  gradatamente  sulle  altre, 
adattandosi  a  tutti  i  climi;  la  quale  facoltà  egli  solo  possiede. 
Giunti  a  questo  punto  i  monogenisti  trovansi  costretti  a  spiegare 
la  possil)ilità  d"  immigrare  dal  centro  dell'Asia  nella  Polinesia  e 
neir  America,  in  tempi  selvaggi  e  barbari,  e  per  tanto  la  genea- 
logia degli  abitanti  di  questi  continenti.  La  difficoltà  non  li  arre- 
sta, come  le  supposizioni  non  li  sgomentano.  11  Quatrefages  accetta 
l'opinione  che  gli  abitanti  della  Polinesia  sieno  venuti  dall'Arci- 
pelago indiano,  procedendo  da  ovest  ad  est.  La  razza  si  è  da 
prima  fissata  negli  arcipelaghi  di  Tonga  e  di  Samo,  donde  è  passata 
successivamente  negli  altri  arcipelaghi.  E  gli  abitanti  dell'America 
sono  venuti  dall'Asia,  anche  dall'Europa  e  dall'Africa,  dalie  isole 
del  grande  Oceano  occupate  da  popolazioni  più  o  meno  nere,  da 
tutte  le  parti  fuori  che  dall'America  istessa  !  Gli  argomenti  tratti 
dalla  classificazione  genealogica  dei  linguaggi  sono  pure  larga- 
mente usufruiti. 

Non  minori,  anzi  for;e  più  numerosi  e  apparentemente  più 
forti,  sono  gli  argomenti  di  coloro  che  sostengono  essere  specie 
e  non  razze  codesti  gruppi  umani.  Le  differenze  che  scorgonsi 
nella  struttura  e  nelle  facoltà  mentali,  fra  Negri,  Mongoli  e  Caucasici 
sono  alle  volte  sì  grandi  che  qualunque  naturalista,  osservandole 
nei  regni  vegetali  e  animali,  le  dichiara  di  natura  specifica,  e  lo 
fa  senza  porre  tempo  in  mezzo,  poi  che  non  è  rattenuto  da  nes- 
suna considerazione  estranea.  Tale  giudizio  è  ribadito  dal  fatto 
che  i  caratteri  di  quei  gruppi  sonosi  conservati  inalterabili  per 
migliaia  e  migliaia  di  anni,  sino  al  punto  da  poter  riconoscere 
il  tipo  attuale  americano  nei  crani  umani  trovati  nelle  caverne 
del  Brasile,  insieme  alle  ossa  dei  mammiferi  estinti.  Noi  adunque 


LE   ORIGINI    dell'  UOMO.  27 

vediamo  esistere  le  attuali  differenze  sin  dai  più  remoti  tempi, 
ai  quali  possiamo  riportare  l'esistenza  dell'uomo.  Nei  limiti  della 
nostra  esperienza  non  abbiamo  prove  concludenti  per  convincerci 
che  l'azione  della  natura  esterna  basti  a  produrre  mutazioni  tali 
da  rendere  spiegabili  le  differenze  fra  gli  uomini,  quando  si 
ammetta  l'unità  d'origine.  Lo  stesso  cattolico  d'Omalius  ò  convinto 
elle,  movendo  gli  uomini  da  unica  dimora,  non  basterebbe  l'at- 
tuale periodo  geologico  a  produrre  le  differenze  che  ora  esistono 
fra  le  razze,  e  però  è  costretto  a  ricorrere  all'  ipotesi  che  quelle 
differenze  siensi  prodotte  sin  dall'anteriore  periodo  geologico.  È 
difficile  concepire  com'egli  abbia  potuto  porre  la  sua  ipotesi  in 
armonia  con  la  credenza  all'origine  recente  dell'uomo,  e  col  rac- 
conto dell'arca  di  Noè,  in  cui  erano  i  tre  progenitori  dei  Semiti, 
dei  Camiti  e  dei  Giapeti.  Un  fatto  che  colpisce  è  quello  osservato 
dal  professore  Agassiz,  cioè  la  rispondenza  tra  le  diverse  razze 
e  le  diverse  regioni  zoologiche  abitate  da  spe3Ìe  e  generi  di  mam- 
miferi certamente  distinti.  I  Papuesi  ed  i  Malesi,  p.  e.,  sono  separati 
quasi  dalla  stessa  linea  che  separa  le  grandi  provincie  zoologiche 
malesi  ed  australi.  E  il  Maury  divide  l'umana  famiglia  quasi  in 
tante  razze  quante  sono  le  regioni  botaniche  e  zoologiche.  Il  che 
pensano  i  poligenisti  non  potersi  spiegare,  nei  limiti  della  nostra 
esperienza,  con  l'adattamento  dei  sopravvenuti.  Sa  vi  sono  razze 
feconde,  nell'incrociamento,  altre  se  ne  noverano  infeconde  (Broca); 
né  la  fecondità  e  la  sterilità  costituiscono  sani  criteri  per  negare  le 
specifiche  differenze.  Quanto  alla  legge  del  Candolle,  recata  dal 
Quatrefages  in  appoggio  del  monogenismo,  si  può  osservare  che 
da  essa  altro  non  è  lecito  indurre  se  non  che  gli  uomini  hanno 
dovuto  nascere  su  zone  piìi  ristrette,  ma  non  in  unica  sede  e 
molto  meno  da  unica  coppia.  Inoltre  se  non  vi  ha  un  solo  genere 
di  scimmie  comune  a'  due  emisferi,  vi  sono  ne'  due  continenti. 
,  l'africano  e  l'asiatico,  scimmie  come  il  gibbone  e  il  cimpanzé,  le 
quali  probabilmente  non  si  differenziano  più  di  un  bianco  da  un 
negro.  E  intanto  si  penerebbe  molto  ad  ammettere  che  tali  varietà 
scimmiesche  siano  emigrate  da  unica  sede. 

Abbiamo  detto  che  il  darwinismo  è  venuto  a  gittare  il  suo  peso 
nella  bilancia,  e,  a  dire  il  vero,  lo  ha  gittato  nella  coppa  del 
monogenismo,  con  grande  meraviglia  e  con  grande  gioia  degli 
antropologi  biblici,  i  quali  si  vanno  rimettendo  dallo  spavento  in 
loro  destato  dallo  spettro  darwiniano,  ne  accettano  ciò  che  a  loro 
fa  comodo,  ossia  l'efficacia  del  mezso  e  dell'  eredità,  per  spiegare 
la  produzione  delle  varie  razze;  ma  non  si  spingono  di  là,  ossia 


28  LE  ORIGINI  dell'  UOMO. 

sino  ad  ammettere  la  variabilità  delle  specie.  Grià  prima  che  il 
Darwin  pubblicasse  la  sua  recente  opera  suìV  Origine  deW  uomo, 
gli  antropologi  eransi  impossessati  della  legge  della  scelta  natii' 
rate  e  1'  avevano  applicata  alla  soluzione  della  famosa  questione 
dell'  origine  unica  o  multipla.  Citerò  soltanto  il  Wallace  ed  il 
Lubbock,  il  primo  dei  quali  scoprì  contemporaneamente  al  Darwin 
la  detta  legge,  ma  non  vi  ha  legato  il  suo  nome,  perchè  non  la 
dimostrò  con  quel  ricco  corredo  di  fatti  che  l'altro  raccolse  nel 
suo  libro.  11  Wallace  tiene  per  l'unità  specifica  dell'umanità, 
quantunque  riconosca  che  sinora,  in  apparenza,  i  migliori  argo- 
menti sieno  in  favore  dei  sostenitori  della  varietà  specifica  e  della 
diversità  d'origine.  Il  Lubbock  è  della  stessa  opinione  e  fa  un'af- 
fermazione che  ha  molto  valore:  a  spiegare  le  differenze  tra  le 
razze  non  basta  né  il  solo  temjìo  né  le  sole  circostanze  esteriori, 
ma  fa  mestieri  riunire  i  due  fattori.  À  proposito  dell'  osservazione 
di  Poole,  che  cioè  i  tipi  attuali  dei  Negri,  degli  Arabi  e  degli 
Egiziani  sono  identici  a  quelli  delle  figure  che  trovatisi  su'  mo- 
numenti egizi  che  rimontano  a  presso  che  3000  anni,  il  Lubbock 
dice  che  nessun  etnologo  vorrebbe  sostenere  che  il  tempo  solo, 
indipendentemente  dai  cambiamenti  nelle  condizioni  esterne,  possa 
produrre  le  alterazioni  del  tipo.  Rivolgendosi  poi  al  Crawford, 
che  reca  esempi  di  Negri  africani  trasportati  nelle  isole  dell'  Ame- 
rica, di  creoli  spagnuoli  stabiliti  nell'  America  tropicale,  di  coloni 
olandesi  viventi  da  due  secoli  in  mezzo  a  Cafri  e  ad  Ottentotti, 
e  che  tutti  non  hanno  mutato  colore,  il  Lubbock  dico  che  qui  ab- 
biamo grande  cambiamento  nelle  condizioni  esteriori,  ma  un  lasso 
di  tempo  assai  insufficiente.  Né  è  esatto  che  nulla  sia  mutato  nei 
caratteri  esterni  degli  abitanti  venuti  dall'  Europa  e  dall'  Africa 
in  America.  Inoltre  il  Lubbock  pensa,  e  con  ragione,  che  il  cam- 
biar cielo  produca  minori  effetti,  secondo  che  ci  alloataniamo  dai 
tempi  primitivi,  perchè  l'uomo  civile  trasporta  seco  i  metodi  per 
schermirsi  dalla  natura  e  per  conservare  parte  de'  suoi  usi. 

Il  Darwin,  ponendo  da  una  parte  gli  argomenti  recati  per 
elevare  le  razze  umane  all'  altezza  di  specie,  e  dall'  altra  le  dif- 
ficoltà per  defiuire  le  specie  e  per  riscontrarne  i  caratteri  nelle 
razze,  si  decide  ad  adottare  il  nome  dì  sotto-specie.  Nel  corso  dei 
miei  lavori  seguirò  l' uso  e  continuerò  a  chiamarle  razze.  Ma 
sieno  pure  specie,  la  dottrina  dell'  evoluzione,  che  trae  tutto  il 
mondo  organico  da  unica  cellula,  non  poteva  incontrare  difficoltà 
a  far  discendere  tutte  le  specie  umane  da  unica  origine,  sebbene 
non  da  unica  coppia.  E  il  Darwin  tiene  per  questa  opinione  mo- 


LE   ORIGINI    dell'  UOMO.  29 

nogenista.  Gli  è  vero,  egli  dice,  che  le  attuali  razze  umane  dif- 
feriscono fra  loro  per  molti  rispetti,  nel  colorito,  nei  capelli,  nella 
forma  del  cranio,  nelle  proporzioni  del  corpo,  ecc.;  ma  se  si 
considera  il  complesso  della  loro  organizzazione,  si  trovano  rasso- 
miglianze così  singolari  da  doversi  ritenere  come  poco  probabile 
che  le  a,bbiano  acquistate  in  modo  autoctono. 

Come  abbiamo  veduto,  il  Darwin  fa  uscire  1'  uomo  dallo  sti- 
pite delle  catarrine,  anzi  che  da  quello  delle  platirrine,  fondan- 
dosi sulle  rassomiglianze.  Nel  vecchio  continente  adunque  sarebbe 
accaduta  la  trasformazione;  ma  in  qual  parte  di  esso?  Il  Darwin 
inclina  a  credere  nell'  Africa,  fondandosi  sul  fatto  che  in  ogni 
(,  rande  regione  del  mondo,  i  mammiferi  esistenti  sono  intimamente 
nffi'ii  alle  specie  estinte  della,  stessa  regione.  L'Africa  per  tanto  ha 
dovuto  essere  probabilmente  abitata  da  scimmie  estinte  affini  al 
gorilla  ed  al  cimpanzé,  e  siccome  queste  sono  le  specie  più  pros- 
sime all'  uomo,  così  i  nostri  progenitori  hanno  do7uto  nascere  colA. 
Il  Darwin  pensa  che  se  non  ancora  si  è  trovato  un  avanzo  fossile 
che  colmi  la  lacuna  tra  1'  uomo  e  i  suoi  più  prossimi  parenti,  egli 
è  2>robabilmente  anche  perchè  la  regione  originaria  dell'  uomo  è 
quella  meno  esplorata.  Non  scordisi  però  che  in  Europa  esisteva, 
durante  il  periodo  miocenico  superiore  (il  più  recente  del  medio-evo 
dell'epoca  terziaria),  il  Dry o^jifhecus  delhavtet,\ìnsi  scimmia  grossa 
quasi  quanto  1'  uomo,  e  strettamente  affine  agi'  ilobati  antropo- 
morfi. L'  esistenza  di  questo  Dryopithecus  dimostra  puro  che  sino 
dal  periodo  miocenico  le  scimmie  più  alte  erano  venute  su,  stac- 
candosi dalla  primigenia  unità  con  le  più  basse.  E  non  è  impro- 
babile che  di  già  1'  uomo,  nel  periodo  eocenico  (quello  antico  Del- 
l' epoca  terziaria)  cominciasse  a  divergere  dalle  catarrine. 

Il  Link  è  pure  di.  credere  che  il  primo  uomo  fosse  un  Negro, 
perchè  la  natura  parte  dalla  imperfezione.  Schelwer  pensa  che  il 
centro  dell'Africa  sia  il  luogo  originario  del  genere  umano.  Haeckel 
ci  fa  venire,  nell'epoca  terziaria,  da  un  continente  sparito,  al  sud 
dell'  Lidia,  dall'  inglese  Sclater  chiamato  Lemuria. 

Quando  da  cosiffatte  supposizioni  passiamo  a  spiegarci  la  for- 
mazione delle  razze,  allora  ricompaiono  le  difficoltà.  La  dottrina 
dell'  evoluzione  non  è  giunta  a  trovare,  nei  limiti  della  nostra 
esperienza,  fatti  che  possano  spiegarci  con  chiarezza  e  con  cer- 
tezza la  genesi  delle  differenze  caratteristiche  che  corrono  fra  le 
razze.  Il  Darwin,  che  ha  tutta  l'onestà  del  vero  scienziato,  non 
dissimula  le  difficoltà.  E,  dopo  di  averle  esposte,  dice:  «Da  quello 
che  abbiamo  veduto  segue  che  le  differenze  fra  le  razze  non  pos- 


30  LE   ORIGINI  dell'uomo. 

sono  essere  attribuite,  in  modo  appagante,  all'azione  diretta  del 
clima,  e  alle  differenti  condizioni  di  vita,  anche  dopo  di  averle 
sopportate  per  un  tempo  enormemente  lungo  ;  non  agli  effetti 
ereditati  del  maggiore  o  minore  esercizio  delle  parti  ;  non  al  prin- 
cipio di  correlazione;  non  alla  conservazione  delle  variazioni  be- 
nefiche, operata  dalla  scelta  naturale.  »  Rimasto  deluso  nei  ten- 
tativi per  ispiegarsi  le  differenze  fra  le  razze,  egli  ricorre  al 
principio  della  scelta  sessuale,  la  cui  importanza  credo  che  esa- 
geri nell'opera  suWOric/lne  deWtiomo,  come  ha  confessato  di  avere 
esagerato  quella  della  scelta  naturale  nelY Origine  delle  specie.  11 
Darwin  stesso  dice  che  non  pretende  punto  d'indicare  con  pre- 
cisione gli  effetti  della  scelta  sessuale.  E  molte  o1)biezioni  già  la 
impugnano  in  parte. 

A  parer  mio,  la  difficoltà  di  spiegare  le  differenze  fra  le  razze 
si  fa  maggiore,  quando  si  ammette  l'unità  di  origine;  minore, 
quando  si  ammette  la  pluralità.  Egli  è  certamente  più  malagevole 
spiegarsi  la  struttura  dell'  Europeo  quando  lo  facciamo  discen- 
dere da  un  abitante  dell'Africa  centrale,  anzi  che  quando  lo  sup- 
poniamo nato  nell'Europa  medesima.  Secondo  la  dottrina  dell'evo- 
luzione, nulla  si  oppone  a  farci  considerare  le  razze  come  pro- 
venienti da  unico  stipite,  ma  è  difficile  provare  con  i  fatti  come 
le  differenze  abbiano  potuto  prodursi.  Ciò  posto,  e  ammettendo 
pure  la  verità  della  detta  dottrina,  sarebbe  egli  impossibile  conci- 
liare con  essa  il  poligenismo  ?  ISIon  mi  pare.  L'argomento  prin- 
cipale del  Darwin  in  sostegno  della  derivazione  dell'uomo  dallo 
stipite  delle  catarrine  gli  è  la  maggior  rassomiglianza  che  esso 
ha  con  queste,  anzi  che  con  le  platirrine  ;  ma  sarà  proprio  il  capo- 
scuola del  trasformismo  quegli  che  si  spaventerà  di  ammettere 
che  gì'  indigeni  americani  sieno  venuti  da  stipite  platirrino  e  che 
più  di  un  anello  intermedio  siasi  potuto  perdere  ?  In  una  dot- 
trina cosiffatta  il  più  o  il  meno  non  dovrebbe  far  sgomento.  L'esi- 
stenza in  Europa  del  Drì/opitheats  aiuta  a  far  credere  che  la  tra- 
sformazione di  una  specie  inferiore  nell'  uomo  abbia  potuto  ef- 
fettuarsi, mediante  la  scelta  naturale,  in  tutti  o  quasi  tutti  i 
continenti  abitati  dagli  affini  più  o  meno  prossimi  ad  esso.  Ed 
in  tal  caso  le  identità  che  scopronsi  tra  le  razze  altro  non  sarebbero 
che  identità  di  tipo,  proveniente  da  antenati  appartenenti  alla 
stessa  classe,  ma  non  occupanti  una  medesima  e  ristretta  regione. 
Verificatesi  alcune  determinate  condizioni  telluriche  presso  che 
identiche,  potè  accadere  la  prima  deviazione  nelle  regioni  occu- 
pate da  specie  simili.  Non  è  adunque  impossibile  l'unità  di  ori- 


LE    ORIGINI   dell'uomo.  31 

ginc  ;  ma  è  forse  più  probabile  la  pluralità  e  molte  questioni  ri- 
mangono certamente  semplificate  dalla  dottrina  del  poligenismo. 
Se  la  mente  umana  non  fosse  stata  preoccupata  dalle  tradizioni 
bibliche,  non  mai  sarebbe  corsa  al  pensiero  che  la  bianca  pelle 
dell'ariano  abbia  acquistato  il  colorito  dell'abitante  della  Nigri- 
zia,  mediante  la  semplice  azione  del  clima,  e  piuttosto  sarel)be 
stata  spontaneamente  inclinata  a  credere  che  le  due  razze  o  le 
due  specie  abbiano  avuto  origine  diversa.  Se  poi  i  monogenisti 
biblici  avessero  avuto  sentore  di  quello  che  l'Huxley  ha  dimostrato 
intorno  al  posto  dell'uomo  nella  natura,  si  sarebbero  spaventati 
al  pensare,  che,  procedendo  in  cosiffatta  via  di  unificazione,  si  do- 
veva finire  per  comprendere  in  un  medesimo  ordine  eziandio  le 
scimmie. 

Soprattutto  più  prudente  è  il  confessare  addirittura  che  sinora 
la  questione  non  è  risoluta.  Non  è  facile  prendere  un  partito,  quando 
si  veggono  due  eminenti  naturalisti,  l'Humboldt  e  il  Burmeister, 
il  primo  dei  quali  ha  lungamente  viaggiato  nell'  America,  ed  il 
secondo  vi  dimora,  sostenere  opinioni  diametralmente  opposte. 
l/Kurnholdt  (Vedute  delle  Cordigliere  e  monumenti  dei  popoli  in- 
digeni dclV America)  riattacca  gli  Americani  agli  Asiatici  e  crede 
all'unità  specifica  e  originaria  dell'  umanità  (Cosmo),  dove  che  il 
Burmeister  (Storia  della  creazione)  si  dichiara  poligenista  e  a  pro- 
posito della  provenienza  degli  Americani  dagli  Asiatici  dice;  «La 
profonda  differenza  clie,  non  ostante  alcuni  tratti  rassomiglianti, 
esiste  tra  Mongoli  ed  Americani,  basta  a  rovesciare  codesta  teo- 
ria, a  sostegno  della  quale  non  vi  sono  fatti  positivi.»  11  Merton 
con  ricca  copia  di  particolari  ha  dichiarata  inverosimile  la  detta 
filiazione,  e  possibile  soltanto  una  primitiva  immigrazione  di  Eschi- 
mesi. E  duopo  convenire  che  sinora  non  sono  state  positivamente 
studiate  le  cause  delle  differenze  che  distinguono  le  razze  o  le  spe- 
cie umane,  e  che  basterà  la  scoperta  di  un  viaggiatore  intelligente 
0  l'applicazione  di  una  legge  scientifica  per  gittare  subitamente 
la  luce  in  quest'oscuro  problema.  Il  Livingstone,  p.  e.,  ha  fatto 
un'  osservazione  che  spiega  in  qual  modo  lo  stato  del  clima  in- 
fluisca sul  colore  della  pelle.  L'ho  trovata  nel  primo  volume  della 
Sociologia  dello  Spencer  e  non  posso  tacere  che  ha  fermato  la  mia 
attenzione.  Parlando  delle  diverse  razze  de'  Negri,  il  Livingstone 
dice  :  «  Il  calore  solo  non  annerisce  la  pelle,  ma  il  calore  com- 
binato con  l'umidità  sembra  essere  la  causa  incontestabile  della 
tinta  più  oscura.»  Analoga  osservazione  fa  lo  Schweinfurth,  nel 
suo  libro  sul  Cuore  delV Africa.  E  lo  Spencer  aggiungo  che  tali 


32  LE  OEiGiNr  dell'  uomo. 

fatti  giustificano  induttivamente  una  deduzione  tratta  dalla  fìsio 
logia.  L'aria  calda  e  umida  oppone  un  impedimento  all'uscita 
dell'acqua  dalla  pelle  e  da'  polmoni,  e  per  conseguenza  al  movi- 
mento de'fluidi  attraverso  i  tessuti  e  a' mutamenti  molecolari;  il 
che  non  può  non  esercitare  un'azione  su  tutta  la  costituzione  di 
una  razza  e  non  distinguerla  da  quella  che  abita  paesi  caldi  e 
asciutti.  Questa  in  fatti  è  più  energica  e  di  colorito  più  chiaro. 
Senza  distenderci  maggiormente  su  di  ciò,  possiamo  concludere 
che  se  la  scienza  riesce  a  provare  che  tali  cause  locali  possono, 
sia  pure  in  un  tempo  lunghissimo,  mutare  la  costituzione  esterna 
ed  interna  di  una  razza,  così  da  firla  diventare  altra,  la  causa  del 
monogenismo  riceve  un  fondamento  che  ne  assicura  la  vittoria. 
Del  resto,  venga  l'umanità  da  unica  o  da  molteplice  origine,  da 
questa  o  da  quella  specie  inferiore,  dal  fango  per  opera  di  una 
potenza  soprannaturale  o  da  una  forma  affine  per  opera  di  leggi 
naturali,  prendiamola  qual'è,  amiamola  per  la  sua  nobile  missione, 
e  veneriamola  per  la  sua  alta  antichità,  di  cui  or  ora  tocclieremo. 
Gli  uomini  vennero  sulla  terra  per  effetto  di  cause  preesistenti: 
ma,  dopo  esservi  venuti,  non  possono  dare  alle  loro  azioni  un  fine 
più  alto  del  conoscere,  amare  e  servire  l'umanità. 


HI. 

Antichità  dell'Uomo.  '^ 

Il  monogenismo  biblico  si  è  creato  una  formidabile  nemica 
nella  cronologia  parimente  biblica.  Secondo  questa  e  propriamente 
secondo  il  calcolo  di  Usserio,  adottato  dalla  maggioranza  degli 
storici  cattolici,  Gesù  sarebbe  nato  4904  anni  dopo  la  creazione 
del  mondo.  Se  l'uomo  fosse  cosi  recente,  sarebbe  proprio  impos- 
sibile spiegare  la  diversità  delle  razze  secondo  l'ipotesi  monoge- 
netica. E  adunque  indispensabile  che  i  seguaci  delle  credenze 
bibliche  rinunzino  o  al  monogenismo  o  alla  recente  creazione 
dell'uomo.  Se  vi  hanno  ancora  forti  argomenti  a  sostegno  del 
monogenismo,  non  ve  ne  sono  più  a  sostegno  della  giovinezza 
dell'umanità;  tanto  che  gli  stessi  naturalisti  che  l'avevano  ammessa, 
come  il  Burmeister,  oggi  si  dichiarano  convinti  dell'alta  antichità 
dell'uomo.  Il  Quatrefages,  che  non  è  certo  un  liberissimo  pensa- 
tore, ammette  la  esistenza  deWiiOìno  fossile  nell'epoca  quaternaria 
e  non  è  alieno  dal  credere    che   nuove  scoperte,  già  iniziate  da 


LE  ORIGINI  dell'uomo.  33 

Denise,  Desnoyer,  dall'abate  Bourgeois,  possano  dimostrarlo  appar- 
tenente eziandio  all'epoca  terziaria. 

Prima  di  procedere  innanzi  mi  si  conceda  di  definire  alcuni 
termini,  che  spesso  ricorreranno.  I  gruppi    di  strati   che  appar- 
tengono all'epoca  terziaria  si  dividono,  secondo  il  Lyell,  in  eoce- 
nici, miocenici,  pliocenici.  Questi  nomi  vengono  determinati  dalla 
quantità  di  conchiglie  fossili,  dell  a  identica  specie  delle  attuali 
ritrovate  negli    strati  di  gruppi  terziari.  Nel  gruppo  eocenico  le 
conchiglie  fossili,  identiche  alle  attuali,   son  poche;  nel   gruppo 
miocenico  sono  più,  ma  in  minor  numero  di   quelle  del  gruppo 
pliocenico.    Il  periodo    eocenico    può   essere  considerato   dunque 
come  l'aurora  (eós)  della  fauna  de'  molluschi  del  periodo  recente 
{cainos),  tanto  pili   che  nessuna   specie    vivente  è  stata  scoperta 
nelle  rocce  anteriori  o  secondarie;  il  periodo  miocenico  è  meno 
{meion)  recente  {cainos)  e  meno  ricco  di  conchiglie  identiche  alle 
attuali,  del  pliocenico,  che  più  (pleion)  di  tutti  quelli  terziari  è 
recente  {cainos)  e  ricco  di  conchiglie  identiche  alle  attuali. 

Alle  formazioni  terziarie  seguono  le  post-terziarie.  11  Lyell 
le  divide  in  due  gruppi:  post-pliocenico  e  recente.  Nel  gruppo 
post-pliocenico,  al  quale  appartengono  propriamente  le  forma- 
zioni dette  quaternarie,  comprende  gli  strati  in  cui  incontransi 
bensì  conchiglie  e  mammiferi  recenti,  ma  associati  ad  un  consi- 
derevole numero  di  specie  estinte  di  mammiferi;  nel  gruppo 
recente  comprende  i  depositi  ne'  quali  così  le  conchiglie  come 
tutti  i  mammiferi  fossili  appartengono  a  specie  viventi. 

Non  rifarò  la  storia,  mille  volte  fatta,  delle  scoperte  di  Bou- 
cher  de  Perthes.  E  ornai  notissimo  eh'  egli  sin  dal  1841  trovò  a 
Menchecourt,  presso  Abbeville,  nelle  sabbie  contenenti  avanzi  di 
mammiferi  estinti,  una  selce  in  forma  d'istrumento  tagliente.  Le 
scoperte  d'indi  in  poi  moltiplicaronsi.  Accolte  da  prima  col  dub- 
bio, pareva  che  dovessero  venir  dimenticate,  al  pari  di  quelle  che 
l'indifferenza  e  la  scienza  avevano  da  prima  sepolte.  I  lettori 
rammenteranno  forse  che  sin  dal  1774  l'Esper  trovava  o  preten- 
deva avere  trovate  ossa  umane  fossili  nella  caverna  di  Gailen- 
reuth,  e  che  il  Cnvier  dimostrava  essere  una  salamandra  VEomo 
diluvii  testis  di  Scheuchzer.  Buckland,  de  Christol,  de  Serre, 
Schmerling,  tutti  dichiararono,  tra  il  1823  e  il  18.>3,  di  aver 
trovato  ossa  umane  fossili.  Ma  ogni  cosa  ha  il  suo  momento,  e 
il  momento  di  rivolgere  l'attenzione  degli  scienziati  e  del  pub- 
blico all'uomo  fossile  non  era  ancora  giunto.  Boucher  de  Perthes 
ebbe  la  fortuna   di    svegliare    questa    attenzione.    Kiguardo   alle 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  18ì9.  3 


34  LE  ORIGINI   dell'uomo. 

scoperte  di  Bouclier  de  Perthes  i  dubbi  furono  fecondi,  perchè 
riuscirono  a  moltiplicare  le  prove  e  le  scoperte  ed  a  corroborarne 
il  valore.  I.  più  scettici  visitatori  degli  scavi  di  Abbeville  e  di 
Amiens  si  convinsero  che  gì'  istrumenti  di  selce  erano  lavorati 
dalla  mano  dell'uomo,  che  essi  trovavansi  davvero  nei  terreni 
postpliocenici  e  non  vi  erano  stati  o  trasportati  o  trapiantati 
artificialmente,  e  che  vi  stavano  frammisti  ad  ossa  di  estinti 
animali.  L'uomo  adunque  è  stato  compagno  del  gruppo  dei  mam- 
miferi quaternari,  come  1'  orso  delle  caverne,  il  mammuto,  il 
rinoceronte  a  pelo  lanoso,  1'  ippopotamo  ec.  Se  ancora  qualche 
dubbio  fosse  rimasto,  io  credo  che  la  bella  monografia  del  Lubbock 
sull'antichità  dell'uomo,  contenuta  nell'opera  su  i  Tempi  preisto- 
rici, avrebbe  dovuto  bastare  a  distruggerlo.  Aggiungiamo  il  fatto, 
recato  dal  Burmeister,  della  scoperta  di  una  placca  d'avorio  sulla 
quale  è  incisa  chiaramente  la  figura  di  un  elefante  primigenio  o 
mammuto  diluviano,  oggidì  estinto. 

Non  ostante  ciò,  havvi  chi  dubita  persino  dell'autenticità  della 
mascella  di  Moulin-Quignou  e  della  esistenza  dell'uomo  fossile  in 
genere,  mosso  dalla  scarsità  delle  ossa  umane  trovate  nelle  for- 
mazioni postplioceniche,  e  dal  sospetto  che  queste  medesime  poche 
ossa  abbiano  potuto  essere  trasportate  colà  da  rimescolamenti 
prodotti  da  alluvioni  posteriori.  Toccheremo  nel  paragrafo  se- 
guente di  cosiffatti  avanzi  trovati  ne'terreni  postpliocenici.  Per 
ora  mi  restringerò  a  dire,  che  l'osservatore  geologo  è  giunto  a 
saper  distinguere  con  sufficiente  certezza  la  contemporaneità  o  no 
dei  fossili  e  delle  formazioni,  e  che  non  pure  la  scarsità  ma 
l'assenza  di  ossa  umane  verificasi  eziandio  quando  è  innegabile 
la  dimora  dell'uomo,  come  negli  avanzi  delle  cucine  danesi.  In 
questi  le  ossa  umane  sono  rarissime,  dove  che  gì'  istrumenti  di 
selce  sono  mille  volte  più  numerosi  che  non  nella  ghiaia  di  Saint- 
Acheul.  Codesto  difetto  di  ossa  umane  può  provenire  dal  ristretto 
numero  di  uomini  viventi  nel  periodo  antidiluviano  dell'epoca 
quaternaria,  e  dal  probabile  uso  di  bruciare  i  cadaveri.  Arroga 
che  se  all'azione  del  tempo  hanno  resistito  le  ossa  solide  dei 
mammiferi  più  grandi,  quelle  di  animali  più  piccoli,  come  l'uomo, 
è  probabilissimo  che  sieno  sparite.  Il  lupo,  il  cinghiale,  il  daino,  ec. 
esistevano  nel  periodo  diluviano,  e  pur  le  ossa  loro  non  si  trovano. 
Oltre  di  ciò  si  rifletta  che  appena  ora  noi  andiamo  qui  e  là 
sbucciando  la  terra. 

Stando  ai  fatti  sinora  bene  appurati,  non  abbiamo  prove  irre- 
fragabili per  affermare  che  l'uomo  sia  vissuto  in  un'epoca  anteriore 


LE  ORIGINI  dell'  UOMO.  35 

a  quella  quaternaria;  ma  le  analogie  paleontologiclie,  qualche 
istrumento  di  selce  e  qualche  incisione  sulle  ossa  di  animali  an- 
tidiluviani, ci  fanno  indurre  che  esso  abbia  potuto  vivere  nell'epoca 
terziaria.  Il  Lyell  {Antichità  ddViwmo)  crede  che  si  possano 
trovare  avanzi  dell'uomo  negli  strati  pliocenici;  il  Lubbock  non 
sa  comprendere  perchè  il  Lyell  siasi  fermato  lì,  e  pensa  non  essere 
impossibile,  anzi  essere  probabile  che  l'uomj  sia  vissuto  nel  pe- 
riodo miocenico;  il  Darwin,  come  abbiamo  veduto,  spingesi  insino 
all'eocenico.  Ciò  che  si  può  affermare  gli  è,  che  V  uomo  è  più 
antico  di  quello  che  non  si  credeva,  e  che  il  tempo  necessario 
alla  formazione  degli  strati,  che  coprono  quelli  nei  quali  sonvi 
umani  vestigi,  è  si  grande  da  spaventare  la  nostra  immagina- 
zione. 

Rigorosi  calcoli  intorno  all'antichità  dell'uomo  non  era  pos- 
sibile fare,  ma  calcoli  approssimativi  sono  stati  fatti  da  egregi 
geologi.  Il  Lubbock  ha  cercato  di  farsi  un  concetto  del  tempo 
necessario  alla  formazione  della  valle  della  Somma,  così  ricca, 
ad  Abbeville  e  nel  suo  strato  inferiore,  d'istrumenti  di  selce.  Di 
sopra  a  codesto  inferiore  strato  di  ghiaia,  nel  quale  si  trovano 
pure  pietre  focaie  terziarie,  sonvi  tre  strati  di  spessezza  diversa. 
<  Se  noi  possiamo  provare  che  il  fiume  attuale,  un  po'  ingrossato 
a  cagione  forse  della  maggiore  estensione  delle  foreste  nelle  epoche 
antiche,  e  di  un  clima  diverso,  ha  scavato  l'attuale  valle  e  pro- 
dotto i  menzionati  strati,  allora  il  pensiero  (di  qui  in  poi  la 
citazione  è  tratta  dal  BlacluvoocV s  Magasine^  ottobre  1860)  d'una 
antichità  dell'umana  famiglia  remota  in  proporzione  della  lun- 
ghezza del  tempo  necessario  ai  calmi  fiumi  della  Francia  orien- 
tale per  scavare  una  pianura  intera  sino  al  livello  in  cui  scorrono 
al  presente,  questo  pensiero  riveste  una  grandezza  affiiscinante  ; 
soprattutto  quando  l'analogia  geologica  ci  mena  a  dilatare  siffatta 
ipotesi  e  ad  applicarla  a  tutto  il  complesso  delle  frontiere  nord- 
ovest del  continente,  e  ci  conduce  a  pensare  che  dalla  valle  della 
Senna  sino  alle  coste  orientali  del  Mar  Baltico,  tutte  le  valli,  tutti 
i  burroni,  in  una  parola  tutti  i  rilievi  della  superficie  sono  stati 
modellati  dalle  acque  da  che  l'uomo  esiste  sulla  terra.  »  E  il 
Lubbock  si  dà  a  questo  esame  con  la  scorta  del  Prestwich,  e  se- 
guendo il  principio  dell'azione  lenta  delle  cause  attuali,  cioè  il 
principio  fondamentale  del  sistema  geologico  del  Lyell.  Egli  non 
giunge  ad  una  cifra,  ma  lascia  solo  indurre  la  immensità  del  tempo 
scorso  da  che  gli  uomini  assistettero  ai  primi  conati  della  Somma. 
Il  concetto  che  uno  si  fa  di  questo  tempo  è  ingrandito  dalla  con- 


36  LE  ORIGINI  dell'  UOMO. 

siderazione  dei  pochi  cambiamenti  che  in  1500  anni  sono  acca- 
duti nella  valle.  «  Nessun  geologo  può  ritornare  dalla  visita  fatta 
a  codesta  valle,  senza  sentirsi  schiacciato  dall'idea  dei  cambiamenti 
che  hanno  avuto  luogo,  e  del  tempo  enorme  scorso  da  che  l'uomo 
abita  l'Europa.  » 

11  Morlot  è  giunto  a  qualche  cifra  approssimativa,  nel  calcolo 
del  cono  di  ghiaia  o  d'alluvione  prodotto  dal  torrente  della  Ti- 
nière,  ove  questo  si  versa  nel  lago  di  Ginevra  presso  Villeneuve. 
Il  Morlot  comportasi  in  questi  calcoli  con  estrema  prudenza,  e 
fatte  tutte  le  deduzioni  possibili,  egli  attribuisce  al  cono  un'an- 
tichità di  8000  a  11,000  anni.  Ma  questi  numeri  non  debbono  ri- 
ferirsi all'antichità  dell'uomo,  sibbeue  a  semplici  e  recenti  forma- 
zioni alluvionali.  Essi,  facendoci  conoscere  l'antichità  di  un  cono, 
la  cui  altezza  alla  massima  sezione  è  di  32  piedi  e  6  pollici,  pos- 
sono al  più  servire  per  darci  un'approssimativa  unità  di  misura 
per  valutare  il  lungo  tempo,  che  la  natura  impiega  a  produrre 
le  sue  opere.  Questo  dato  può  gittar  luce  sulla  antichità  della 
valle  della  Somma.  Dopo  che  questo  fiume  si  ebbe  scavato  il  suo 
presente  letto,  andò  deponendo  negli  stagni  laterali  una  torba  la 
cui  massa  raggiunge  30  piedi  di  spessezza.  Migliaia  d'anni  furono 
dunque  necessari  per  produrre  un'elevazione  accaduta  dopo  la 
compiuta  formazione  della  valle.  Il  Gilliéron  ha  voluto  calcolare 
la  data  delle  abitazioni  lacustri  del  ponte  di  Thièle.  Questi  cal- 
coli insieme  a  quelli  d'Hisely,  relativi  al  lago  di  Bienne,  ci  prò  • 
vano  che  6000  in  7000  anni  sono  la  Svizzera  era  di  già  abitata 
da  uomini  che  facevano  uso  d'istrumenti  di  pietra  pulita.  L'Hor- 
cener,  calcolando  che  nella  valle  del  Nilo  e  propriamente  a  Memfi, 
ove  trovasi  la  colossale  statua,  ogni  secolo  formasi  un  deposito 
medio  di  3  pollici  e  mezzo,  ne  dedusse  che  un  pezzo  di  stoviglia, 
trovato  presso  la  statua  ed  a  39  piedi  di  profondità,  rimontava  a 
13,000  anni  sono. 

Di  sopra  al  cono  calcolato  dal  Morlot  havvene  un  altro,  che 
questi  attribuisce  al  periodo  diluviano.  È  dodici  volte  più  grande 
di  quello  sopra  menzionato  e  però  conta  non  meno  di  100,000  anni. 
Il  Lyell  calcolava  essere  stati  necessari  67,000  anni  per  formare 
il  delta  del  Mississipì  ;  ma  considerando  poi  che  una  grande  quan- 
tità di  fango  si  sottrae  al  computo,  perchè  il  fiume  la  trasporta 
nel  mare,  finisce  per  credere,  nel  libro  snìV Antichità  dclVuomo, 
che  100,009  anni  sien  pochi,  ed  aggiunge  che  Yalluvium  della 
Somma,  contenente  istrumenti  di  selce  ed  avanzi  di  mammuti  e 
di  iene,  non  è  meno  antico.  Infine  dirò  cho  il  Lyell,  rivolgendo  il 


LE  ORIGINI  dell'  UOMO,  -       37 

SUO  studio  a  calcolare  la  durata  dell'epoca  glaciale,  ch'egli  divide 
in  tre  periodi,  due  coutineiitali  ed  uno  intermedio  di  abbassamento 
della  terra,  giunge  alla  cifra  rotonda  di  224,000  anni,  sulla  base 
di  2  1/2  piedi  per  secolo.  Il  Lubbock  osserva  che  per  denudare 
la  valle  di  Wealden  ci  vollero  150  milioni  di  anni,  così  lenta  è 
l'azione  delle  cause  naturali.  «  Quando  si  esamina,  dice  Lyell,  la 
lunga  serie  di  avvenimenti  compiutisi  durante  il  periodo  glaciale 
e  postglaciale,  V  immaginazione  si  spaventa  all'idea  dell'immen- 
sità del  tempo  richiesto  per  spiegare  i  monumenti  di  codeste  epoche 
nelle  quali  vivevano  hUte  le  specie  attualmente  esistenti.  »  Ed  è 
vano  volere  spiegare  i  cangiamenti  con  la  teoria  dei  cataclismi, 
che  è  una  nuova  invenzione  gratuita  e  fantastica,  dalla  scienza 
moderna  combattuta  e  abbandonata. 

Noi  possiamo  benissimo  continuare  a  credere  che  siffatti 
calcoli  non  abbiano  raggiunto  l'esattezza  matematica;  ma  nes- 
sun uomo  abituato  allo  studio  dei  fenomeni  naturali  può  revocare 
in  dubbio  l'immensa  antichità  dell'uomo.  Che  cosa  dovremo  per- 
tanto dire  del  Cantù,  il  quale  dà  principio  al  capo  3"  della  Storia 
Universale  con  queste  parole:  «  Eesta  dunqiie  dai  progressi  delle 
scienze  confermata  la  sincerità  del  racconto  mosaico,  che  non  dà 
all'uomo  più  di  7  in  8000  anni»?  La  scienza  moderna  ci  ricon- 
duce piuttosto  alle  larghe  intuizioni  indiane,  che  non  alle  ri- 
strette idee  semitiche,  ed  essa,  mentre  avanza  nel  suo  viaggio  di 
scoperte,  ritorna  a  commuovere  la  nostra  fantasia,  ed  apparecchia 
nuovi  e  fecondi  sponsali  tra  il  vero  e  l'arte.  L'uomo,  che  gitta  uno 
sguardo  indietro  e  che  ha  insieme  il  presentimento  del  futuro,  acqui- 
sta non  pure  la  coscienza  del  tempo  sterminato  da  che  egli  regge 
la  terra,  ma  eziandio  il  presentimento  di  quello  in  cui  continuerà  a 
reggerla  ed  a  trasformarla.  Egli  sentesi  maturo  e  giovane  nel 
tempo  istesso,  e  con  l'orgoglio  del  suo  alto  passato  sposa  la  fede 
consolante  nel  suo  avvenire.  11  blasone  del  tempo  lo  compensa 
della  perdita  di  quello  del  lignaggio,  e  lo  compensa  ad  usura, 
poiché  la  coscienza  della  immensa  durata  del  suo  regno  gli  porge 
la  fede  che  esso  avrà  dinanzi  a  sé  un  tempo  indefinitamente 
lungo,  nel  quale  potrà  continuare  a  sottomettere  la  terra  e  ad 
emancipare  il  suo  simile.  Se  nei  soli  tempi  storici  l'umanità  è 
passata  dalla  servitù  di  tutti  alla  libertà  di  quasi  tutti,  dalla  as- 
soluta ignoranza  alla  potente  cultura  dei  nostri  giorni,  che  cosa 
non  farà  essa  nei  tempi  secolari  che  le  si  stendono  d'innanzi  ?  La- 
sciamo che  l'immaginazione  dei  lettori  lavori  liberamente  intorno 
all'avvenire  dell'umanità,  quale    si   può    dedurre   dalla    dottrina 


38  LE  ORIGINI  DELL   UOMO. 

dell'evoluzione.  Certo  è  clie  in  questo  campo  liavvi  materia  per 
l'arte  come  per  la  scienza,  ed  liavvi  pure  la  sorgente  di  nuovi 
sentimenti  religiosi.  Non  si  può  pensare  senza  sentirsi  atterrire 
a  questo  eterno  movimento  del  Tutto  clie  or  più  lentamente  ed  or 
I)iù  rapidamente,  ma  sempre  in  modo  graduale  e  instancabile,  si 
evolve  B  produce  le  svariate  forme  dell'esistenza  ;  non  si  può  con- 
cepire la  lunga  durata  dell'umanità  senza  provare  un  sentimento 
di  quasi  immortalità,  e  senza  attinger  conforto  nella  speranza  che 
il  nome  di  clii  la  servì  degnamente  potrà  continuare  a  vivere  o 
nella  storia  o  almeno  negli  affetti  domestici  dei  propri  eredi. 
Vuoisi  clie  il  principe  di  Bismarck  abbia  detto  che  egli  nulla  di 
grande  avrebbe  operato  al  mondo,  senza  le  credenze  cardinali 
della  sua  fede  cristiana.  Se  così  fosse,  sarebbe  questa  la  miglior  pro- 
va che  anche  gli  uomini  pii!i  forti  hanno  un  lato  assai  debole.  Noi 
preferiamo  credere  che  il  principe  non  conosca  a  pieno  se  stesso, 
perchè  siamo  convinti  che  l'amore  alla  sua  grande  patria,  l'or- 
goglio del  tedesco  e  la  fede  nell'immortalità  del  suo  nome  sa- 
rebbero state  cause  più  che  sufficienti  per  spingere  quell'uomo  di 
bronzo  nella  via  che  ha  percorso.  La  religiosità  che  scaturisce  da 
tutto  ciò  che  di  ideale  pur  racchiude  la  terra,  ha  nei  nostri  tempi 
una  efficacia  incomparabile  per  determinare  la  volontà  degli 
uomini  veramente  superiori. 
{Coììtunia) 

NiccoLA  Marselli. 


LORD  BYRON. 


III. 

IL  CHILDE  HAROLD  e  il  DON  JUAN.' 


Spiriti  siderei,  che  vivete  in  seno  all'armonia  ed  alla  luce, 
uno  degli  abitatori  delle  vostre  case  immortali  è  caduto.  Per  lui 
le  dita  dell' Aurorr.  piìi  non  tingono  di  bei  zaffiri  le  vie  del- 
l' Oriente,  né  le  sfere  celesti  roteando  portano  al  suo  orecchio 
gli  ineffabili  accenti  della  Divinità.  Egli  si  aggira  misero  sulla 
terra,  e  il  ricordo  della  perduta  felicità  della  patria  celeste,  è  per 
il  suo  pensiero  una  tortura  continua,  uno  spasimo  cocente  che  la 
vista  dei  mali  della  terra  rendono  anche  piìi  vivo  e  doloroso. 
Ahimè  !  tutta  la  natura  si  è  scolorata  e  gilasta,  e  l'armonia  delle 
cose  create  si  è  perduta  per  sempre  nell'abisso  del  suo  pensiero. 
Un  verme  immondo  è  entrato  nella  rosa,  ne  sugge  l'etere  vitale. 
la  scolora  e  la  uccide.  0  vergini  istinti  della  natura!  0  arcane 
dolcezze  godute  nell'innocenza  e  nel  pudore  come  nel  primo  giorno 
del  Creato,  un  alito  maligno  è  giunto  sulla  terra  ed  ha  corrotte 
le  vostre  fonti.  Più  nessun  conforto  per  lo  spirito  sulla  terra  che 
di  ri  volare  a  quelle  regioni  d'onde  gli  giungono  i  noti  indistinti 
accenti  di  una  lira  altre  volte  sentita.  Egli  si  prova  a  vivere 
ancora  una  volta  di  quelle  ebbrezze  celestiali  che  furono  un  giorno 
il  suo  stesso  elemento.  Fanciulle,  il  cui  petto  scaldò  un  primo  pal- 
pito d'amore;  giovinetti,  che  entrate  ora  nei  verdi  sentieri  della 
vita  avidi  di  sentimento  e  di  emozioni,  ascoltate  il  canto  del  nuovo 
Pellegrino  ;  le  sue  gioie  e  i  suoi  dolori  si  sono  insieme  uniti  a  for- 
mare un  grido  malinconico  che  sembra  un'eco  dolorosa  della  vita. 

'  Vedi  Nuova  Antologia,  fascicolo  del  1  maggio  e  1  settembre  1878, 


40  ■         LORD  BYRON. 


I. 


Aroldo  lascia  l'Inghilterra  nel  fiore  degli  anni  coll'animo  de- 
vastato dalle  passioni,  dal  dolore  e  dai  disinganni.  Ancora  risuona 
al  suo  orecchio  l'orgia  rumorosa  e  l'allegro  folleggiare  delle  fa- 
cili bellezze,  in  compagnia  delle  quali  cercava  di  spegnere  le 
cure  precoci  della  vita.  Dove  sono  gli  amici  d'un  giorno,  compa- 
gni allegri  e  spensierati  delle  sue  feste?  Perduti,  insieme  alla 
sua  fortuna.  Dove  quelle  donne  dal  riso  seducente  e  dalle  mo- 
venze baldanzose?  Perdute  anch'esse,  perocché  soltanto  ciò  che 
risplende  ed  abbaglia,  esercita  un  impero  sulla  donna  ;  come  la 
farfalla,  essa  cade  vittima  della  luce,  e  Mammone  esce  vincitore 
in  una  lotta,  dove  spesso  i  Serafini  cadono  disperati.  0  sogni  di 
amore  perduti  per  sempre  senza  lasciare  in  fondo  al  cuore  che 
un  ricordo  disgustoso  ed  amaro  !  Pure  quel  volto  di  donna  spa- 
gnuola  che  s'  anima  nell'  ebbre>.za  delle  danze  e  sul  quale  brilla 
un  raggio  della  immortale  bellezza  esercita  ancora  sopra  Aroldo 
una  grande  seduzione.  Anch' egli  vorrebbe  mescolarsi  alle  danze 
e  vivere  ancora  d'  obblio  e  di  amore  :  ma  ahimè  !  un  negro  velo 
di  malinconia  gli  scende  sul  cuore  e  ricade  nella  trista  solitu- 
dine del  suo  pensiero.  Quale  arcano  doloroso  corrode  i  suoi  gio- 
vani anni  e  distrugge  ogni  sua  gioia  ?  Non  è  amore,  non  è  odio, 
non  sono  onori  perduti,  non  ambizione  tradita.  E  un  senso  di  ar- 
cana avversione  che  prova  per  tutto  ciò  che  vede  ed  incontra.  Il 
suo  triste  destino  è  come  quello  dell'  Ebreo  della  favola,  senza 
speranza  di  pace  mai  sulla  terra.  Egli  corre  disperato  per  diverse 
plaghe  portando  nel  suo  petto  la  maledizione  della  vita  e  non 
confortato  che  dal  triste  pensiero  di  avere  conosciuto  il  peggio  di 
ciò  ch'essa  può  dare. 

0  bella  Spagna  !  o  terra  del  romanzo  e  della  cavalleria  ! 
Dov'è  la  tua  grandezza  d'un  giorno?  Essa  è  caduta,  e  poiché  il 
tempo  distrugge  anche  le  granitiche  culoune  e  la  storia  è  bu- 
giarda, essa  è  oramai  affidata  solo  al  memore  pensiero  ed  alla 
tradizione  popolare.  Ma  i  figli  della  Spagna  si  risvegliano  alfine; 
tutta  quella  terra  rigurgita  d'  armi  e  di  armati  in  difesa  della 
libertà  conculcata  dallo  straniero.  0  giorni  gloriosi  di  Albuera, 
di  Calice  e  di  Saragozza,  dove  una  bella  ed  eroica  fanciulla  vide 
le  spalle  del  Gallo  fuggente  !  Sforzi  inutili  e  strano  destino  di  un 
popolo  combattente  per  la  libertà  senza  essere  mai  stato  libero, 
di  un  popolo  devoto  a  capi  vigliacchi  e  traditori,  idolatra  di  una 


LORD   BYRON.  41 

terra,  che  non  gli  diede  altro  che  la  vita!  L'orgoglio  soltanto 
insegna  ad  esso  la  via  che  conduce  alla  libertà.  0  vincitore,  o 
vinto,  il  suo  grido  è  sempre  un  solo  e  lo  stesso  :  guerra  sempre  ; 
guerra  fino  al  coltello  !  Ma  nuove  legioni  scendono  dai  Pirenei  e 
nuove  prove  attendono  i  soldati  della  libertà.  Nessuno  può  preve- 
dere il  fine  della  gran  lotta.  Le  prostrate  nazioni  del  continente 
guardano  ansiose  la  Spagna  ;  è  dessa  vincitrice  e  fa  ripassare,  i 
Pirenei  all'odiato  nemico?  ed  ecco  ch'essa  libera  con  ciò  ben 
più  popoli  che  il  suo  barbaro  Pizzarro  non  ne  abbia  un  giorno 
posti  in  catene.  Ma  il  successo  non  corrisponde  a  tanto  valore  e 
a  tanta  perseveranza.  Talavera,  Barossa  ed  Albuera  non  ba- 
starono a  conquistare  i  suoi  conculcati  diritti.  Quando  mai  lo 
straniero  cesserà  di  maltrattare  l'ulivo  spagnuolo  e  l'albero  della 
libertà  potrà  crescere  bello  e  rigoglioso  di  sua  vita  propria  sul 
terreno  della  Spagna  ? 

Dove  sono,  o  Atene,  i  tuoi  magnanimi  figli  ?  Essi  sono  scom- 
parsi dalla  scena  del  mondo  e  più  non  vivono  che  come  un  sogno 
di  cose  passate.  Essi  vinsero,  trionfarono  e  si  spensero  ;  ecco  tutto, 
una  storiella  da  scolare,  il  prodigio  di  un'ora!  Invano  tu  cerchi 
qui  la  lancia  del  guerriero  e  la  zimarra  del  sofista,  e  intorno  alle 
torri  rovinate  che  lambì  1'  alito  greve  del  tempo  è  fuggita  an- 
che l'ombra  della  potenza  d'un  giorno.  Venite,  o  figli  dell'Oriente! 
venite,  ma  non  turbate  il  sacro  silenzio  di  queste  urne  omai  senza 
difesa.  Fissate  lo  sguardo  in  quest'angolo  di  terra;  è  la  tomba  di 
un  popolo  !  un  luogo  sacro  un  giorno  a  Dei  che  non  hanno  ora 
più  altari.  Anche  gli  Dei  se  ne  vanno,  ed  hanno  anche  le  religioni 
il  loro  turno.  Un  giorno  imperava  Giove,  ora  Maometto  è  il  Dio  di 
questi  luoghi  ;  altre  religioni  sorgeranno  col  tempo,  e  l'uomo  alla 
perfine  vedrà  che  invano  salgono  al  cielo  i  suoi  incensi,  invano 
sanguinano  le  sue  vittime,  povero  figlio  del  Dubbio  e  della  Morte 
che  colloca  le  sue  speranze  nelle  viscere  di  un  innocente  agnello! 
Figlio  della  terra,  tu  osi  alzare  il  tuo  sguardo  al  cielo.  Non  ti 
basta,  disgraziato,  di  sapere  che  esisti?  vorresti  eternare  la  tua 
esistenza  e  sentirti  rapito  nei  cieli  ?  tu  ti  ostini  a  riempire  di 
gioie  e  dolori  l'avvenire;  sta  contento  alla  tua  polvere,  questa  pic- 
cola urna  dice  ben  più  di  cento  omelie.  Chi  piange  oramai  sulla 
tomba  dei  greci  eroi  e  chi  sta  a  guardia  di  quelle  ossa  onorate? 
Guardate  quelle  mura  e  quegli  archi  rovinati;  questo  era  un  giorno 
il  teatro  delle  ardenti  ambizioni,  il  luogo  sacro  al  Pensiero  ed 
alle  manifestazioni  dell'Anima.  Ora  tutto  è  ruderi  e  rovine.  Ma 
lasciatemi  riposare  su  questa  fredda  pietra.  Era  questo  il  tuo  trono 


42  LORD  BYRON. 

favorito.  0  figlio  di  Saturno  ;  che  io  mi  provi  a  tracciare  nel  pen- 
siero la  grandezza  del  tuo  tempio.  Inutile  prova;  non  può  sforzo 
di  fantasia  ricostruire  ciò  clie  il  tempo  ha  lavorato  a  disfare. 

Avanti,  o  Aroldo,  avanti  !  non  è  da  te  il  fermarti  a  mandare 
u;i  lamento  per  cosa  che  gli  uomini  piangano.  0  bella  Fiorenza! 
dai  grandi  occhi  lucenti,  speranza,  condanna,  punizione,  legge  di 
cento  adoratori,  eccomi  dinanzi  a  te  pienamente  calmo  e  sicuro, 
compreso  d'ammirazione,  non  per  anco  d'amore.  Ah,  se  mai  una 
donna  potesse  possedere  questo  mio  incostante  e  desolato  cuore, 
esso  sarebbe  tuo  ;  ma  tradito  quante  volte  io  amai,  non  oso  in- 
nalzare un  povero  mio  voto  fino  a  te,  né  chiedere  che  la  tua 
dolce  anima  senta  per  me  il  più  leggero  affanno.  E  pure  questo 
mio  cuore  che  sembra  di  marmo,  che  non  ha  un  accento  per  te,o  per 
orgoglio  sta  in  difesa,  non  fu  altre  volte  inesperto  nelle  arti  di  sedu- 
zione e  ben  sapeva  stendere  all' ingiro  le  sue  reti  licenziose  e  tener 
dietro  con  perseveranza  all'agognata  preda.  Ma  Aroldo  non  ama  più 
queste  arti,  e  s'anche  ti  amasse,  o  Fiorenza,  non  vorrebbe  però  mai 
scendere  a  livello  della  piagnucolosa  turba  degli  amanti.  E  poi  non 
sono  i  sospiri  che  vincono  quella  mobilissima  creatura  che  è  la  donna, 
e  coloro  che  più  lo  sanno,  più  deplorano  di  saperlo.  Quando  si  è 
giunti  al  possesso  dell'oggetto  ardentemente  desiderato,  si  vede  che 
il  premio  non  vale  la  pena  che  costa;  dissipazione  dei  nostri  mi- 
gliori anni,  avvilimento  dello  spirito,  disonore,  ecco  i  vostri  frutti, 
0  passioni  fortunate  !  un  malanno  che  avvelena  poi  tutta  la  vita. 

Salute,  0  Albania,  madre  di  selvaggie  e  magnanime  passioni! 
qual  è  il  nemico  che  vide  mai  le  spalle  dei  prodi  tuoi  figli,  o 
chi  più  di  essi  forte  nell'afifrontare  i  pericoli  e  tollerare  i  mali  della 
guerra?  quanto  inesorabile,  mortale  la  loro  collera  !  però  quanto 
sicura  e  leale  la  loro  amicizia!  Così  ad  essi  somigliassero  i  figli 
della  Grecia!  0  bella  Grecia;  trista  reliquia  di  passate  grandezze, 
immortale,  benché  spenta,  quantunque  caduta,  grande!  Il  mio  spi- 
rito sempre  a  te  ritorna  Chi  raccoglierà  le  tue  membra  sparto  per 
rivolgerle  contro  l'esoso  oppressore  ?  0  genio  di  Libertà  che  ap- 
paristi con  Trasibulo  sulle  alture  del  File,  avresti  tu  mii  preve- 
duto che  sarebbe  giunta  un'  ora  di  abbominazione  infesta  alla 
bellezza  dell'attica  pianura?  E  pure  i  figli  della  Grecia  non  insor- 
gono, ma  piegano  tremanti  il  dorso  allo  staffile  musulmano,  evirati 
e  schiavi  sempre,  dalla  culla  alla  tomba.  Tutt'  al  più  essi  invocano 
sommessi  e  neghittosi  armi  straniere,  che  li  aiutino  a  riconqui- 
stare la  perduta  libertà.  Non  sapete,  o  disgraziati,  che  chi  vuole  la 
libertà  deve  conquistarsela  c^l  suo  proprio  sangue.  A  che  sperare 


LORD   BYRON.  43 

nel  Franco  e  nel  Moscovita?  Essi  ben  ])ossono  schiacciare  i  vostri 
oppressori:  non  per  questo  raggiera  per  voi  l'albóre  della  libertà. 
Mani  degli  Iloti  !  voi  trionfate  dei  vostri  abborriti  nemici  !  0 
Grecia,  i  tuoi  giorni  di  gloria  sono  passati,  non  quelli  del  tuo  di- 
sonore. Non  sorgerà  dunque  mai  un  vero  patriotta  in  Grecia,  che 
non  chiacchieri  solo  di  guerra,  ma  sia  deciso  a  farla?  Sol  quando 
rinascerà  la  fortezza  spartana,  quando  Tebe  darà  la  vita  ad  un 
nuovo  Epaminonda,  quando  i  figli  di  Atene  avranno  un  cuore, 
quando  le  greche  madri  daranno  la  vita  ad  uomini,  soltanto  al- 
lora tu  risorgerai,  o  Grecia,  non  prima. 

E  pure  tu  sei  sempre  bella,  o  Grecia,  terra  di  Dei  e  di  uo- 
mini divini!  Il  verde  che  rallegra  le  tue  valli,  i  tuoi  monti  nevosi 
ti  proclamano  anche  ora  la  figlia  favorita  della  natura  ;  bello  è 
sempre  il  tuo  cielo,  selvaggie  le  rupi,  i  tuoi  boschi  incantevoli,  d'un 
bel  verde  i  tuoi  campi.  L'olivo  cresce  come  al  tempo  di  Minerva  e 
fabbricano  anche  ora  le  api  le  loro  case  odorose.  Anche  ora  seguita 
Apollo  ad  indorare  i  giorni  estivi,  splendono  tuttavia  al  sole  i 
marmi  di  Mendeli,  Son  cadute  la  Gloria,  l'Arte,  la  Libertà;  ma 
la  natura  è  rimasta  la  stessa,  ed  è  sempre  bella.  Il  tempo  ha  di- 
strutto le  mura  di  Atene,  ma  ha  risparmiato  il  verde  campo  di 
Maratona.  0  giorno  glorioso  !  Ecco!  al  solo  nome  di  Maratona  ap- 
parire allo  sguardo  il  campo,  l'oste,  la  battaglia,  la  fuga  del  con- 
quistatore, il  Medo  fuggente,  il  suo  arco  rotto  e  la  faretra  disar- 
mata, il  Greco  furente  che  insegue  il  nemico  colla  lancia  rosseg- 
giante ;  in  alto  le  montagne,  al  basso  la  pianura  e  l'Oceano,  la 
morte  in  fronte,  la  strage  a  tergo  !  Era  questa  la  scena.  Ed  ora 
che  rimane  di  tutto  ciò?  Qual  trofeo  ricorda  questa  sacra  gior- 
nata, e  il  sorriso  della  Libertà  e  il  lamento  dell'Asia  prostrata? 
Una  vuota  urna,  e  la  polvere  che  solleva  intorno  a  te,  o  barbaro 
straniero,  l'unghia  del  tuo  corridore.  Pure  a  questi  resti  di  una 
passata  grandezza  trarranno  per  'lunghi  secoli  ancora  pensosi  e 
riverenti  i  pellegrini;  per  lungo  tempo  ancora  i  tuoi  annali,  o 
Grecia,  e  la  tua  lingua  immortale  riempiranno  del  tuo  nome  infi- 
nite contrade,  come  si  addice  alla  terra  che  è  vanto  degli  antichi 
ed  esempio  dei  giovani! 

II. 

Passarono  cinque  anni,  e  Aroldo  riprende  il  suo  viaggio.  Egli  è 
costretto  a  fuggire  il  suo  paese  con  poca  o  nessuna  speranza  e  vo- 
lontà di  rivederlo.  Siatemi  propizie,  onde  del  mare!  Per  quanto 


44  LORD  BYRON. 

formidabile  sia  il  ruggito  della  tempesta  e  l'albero  della  nave  strida 
al  soffio  dell'aquilone,  pure  è  destino  ch'io  salpi,  imperocché  sono 
come  un  arbusto  svelto  dalla  rupe  e  cacciato  nell'oceano  ;  esso  è 
un  giocattolo  dei  cavalloni  e  della  tempesta!  Ma  rimango  io  a  me 
stesso;  mi  rimane  la  superba  solitudine  del  mio  pensiero.  Quegli 
che  invecchiò  per  fatti  non  per  anni,  e  passò  per  tutti  gli  abissi 
della  vita,  in  modo  che  nulla  più  può  eccitare  in  lui  il  senso  della 
meraviglia  ;  né  angoscio,  amore,  fama,  ambizione,  lotte  possono 
pili  tormentare  il  suo  cuore  coi  loro  affilati  strali,  quegli  sa  per- 
chè il  pensiero  cerca  rifugio  nella  solitudine  dando  vita  e  nutren- 
dosi di  fantasie  ed  immagini  impalpabili  e  solenni,  vivendo  così 
una  vita  piìi  intensa  in  compagnia  delle  creazioni  del  proprio 
pensiero.  Quanto  è  mutato  Aroldo  da  quel  di  prima!  Altro  é  il 
suo  cuore,  il  suo  volto,  altra  la  sua  età;  egli  vuotò  troppo  rapi- 
damente la  coppa  della  vita  e  trovò  che  in  fondo  non  v'  era  che 
fiele  ed  assensio  ;  la  riempì  di  nuovo  attingendo  a  più  pure  fonti 
in  un  sacro  suolo,  e  credette  quella  scaturigine  perenne.  Invano  ! 
che  una  catena  invisibile  e  tenace  gli  si  avvinceva  sempre  attorno 
alla  sua  persona  tormentandola  e  impedendone  ogni  libero  mo- 
vimento. Egli  si  era  immaginato  che  armandosi  di  riserbo  e  di 
fredda  insensibilità  avrebbe  potuto  nuovamente  mescolarsi  coi 
suoi  simili,  tenendo  la  mente  sempre  ferma  in  sé  stessa  e  come 
coperta  da  uno  scudo  invulnerabile;  e  così  se  non  poteva  aspet- 
tarsi gioie  nel  mondo,  sarebbe  stato  almeno  al  sicuro  dal  dolore 
e  dalle  ansie  traditrici,  e  sarebbe  vissuto  inosservato  in  mezzo 
alla  folla  fantasticando,  come  aveva  fatto  in  straniere  contrade  in 
mezzo  alle  meraviglie  dell'arte  e  della  natura.  Ma  chi  può  gettare 
lo  sguardo  sopra  la  rosa  vivace  e  non  desiderare  di  possederla?  chi 
può  guardare  con  semplice  senso  di  curiosità  una  bella  guancia 
di  donna,  fresca,  morbida  e  lucente,  e  non  sentire  che  il  cuore  mai 
non  invecchia  ?  Chi  può  contemplare  da  lungi  sopra  il  monte 
scosceso  e  in  mezzo  ai  nembi  risplendere  il  tempio  della  Gloria, 
e  non  provarsi  a  salire  la  via  che  vi  conduce?  Egli  è  così,  che 
Aroldo  si  trovò  ancora  una  volta  cacciato  in  mezzo  al  vortice 
della  vita,  e  pur  sentendosi  in  petto  un  più  nobile  fine  che  altre 
volte  non  aveva  avuto,  si  trovò  nuovamente  nella  ridda  vertigi- 
nosa delle  passioni  umane.  Ma  ahimé!  egli  conobbe  ben  presto 
eh'  era  l'uomo  meno  adatto  a  vivere  cogli  altri  uomini;  egli  aveva 
poco  0  nulla  di  comune  con  essi,  non  sapeva  e  non  voleva  piegare 
il  suo  pensiero  a  quello  degli  altri  ;  altero  e  chiuso  nella  sua  de- 
solazione gli  bastava  di  vivere  della  sola  sua  vita  e  di  respirare 


LORD   BYRON.  45 

lontano  dai  suoi  simili.  Peroccliè  la  sua  vita  era  nei  campi  aperti, 
sulle  montagne,  sotto  un  cielo  puro  e  lucente,  nei  deserti,  nelle 
foreste,  in  mezzo  alle  onde  combattute  del  mare.  Qui  egli  tro- 
vava i  suoi  compagni  e  i  suoi  amici,  e  si  sentiva  liberamente  re- 
spirare: la  sua  abitazione  era  quella  dell'aquila  intrepida,  i  campi 
sterminati  del  cielo;  mentre  in  mezzo  agli  uomini  si  sentiva  in- 
tristire e  dolorosamente  sanguinare  il  cuore.  Aroldo  adunque  ab- 
bandona nuovamente  il  suo  paese  senza  speranza  nel  cuore,  ma 
con  meno  tristezza,  imperocché  la  coscienza  di  essere  vissuto  in- 
vano e  che  tutto  è  finito  per  lui  sulla  terra,  dà  aUa  disperazione 
stessa  una  specie  di  sorriso  che  la  rende  meno  cruda;  simile  in 
questo  al  naufrago,  che  suole  abbandonarsi  ad  eccessive  libazioni 
per  rendere  meno  tristi  gli  ultimi  momenti  della  sua  vita. 

0  Waterloo,  campo  fatale  percosso  dall'  unghia  insanguinata 
della  morente  aquila  napoleonica  !  Qui  cadde  e  andò  in  frantumi 
il  colosso  innalzato  dall'ambizione  sterminata  di  un  uomo!  Ma 
non  v'inorgoglite,  o  potenti  scettrati!  È  dessa  forse  per  questo  la 
terra  resa  libera?  E  le  nazioni  collegate  avrebbero  insieme  com- 
battuto e  schiacciato  un  uomo  per  raffermare  i  vostri  dispotici 
troni?  E  noi  avremmo  ucciso  il  leone,  per  poi  rendere  omaggio 
al  lupo?  E  chi  tergerà  il  pianto  ai  congiunti  dei  caduti  in  quel 
campo  immortale?  La  tromba  sola  dell'Arcangelo,  non  già  la 
gloria,  sveglierà  i  loro  cari  dal  sonno  della  tomba;  essi  pian- 
gono, ma  finiranno  per  aprire  nuovamente  le  labbra  al  sorriso, 
che  sarà  un  triste  sorriso.  L'albero  intristisce  e  muore  molto  tempo 
prima  di  cadere;  il  legno  continua  a  muoversi,  quantunque  la  tem- 
pesta abbia  fatti  in  pezzi  l'albero  e  le  vele  ;  le  mura  cadono,  ma 
rimangono  a  terra  le  imponenti  macerie;  e  così  pure  il  cuore  si 
spezza,  ma  spezzato  continua  a  vivere.  Vive,  come  uno  specchio 
rotto  che  si  vede  quasi  moltiplicato  nei  suoi  frammenti  e  rende 
mille  immagini  per  una  sola  che  prima  ne  dava,  e  più  ne  darà  se 
più  lo  si  spezza.  E  così  il  cuore,  fatto  in  pezzi,  moltiplica  i  suoi 
tristi  ricordi  e  vive  d'una  vita  fredda  e  tormentata,  ma  pur  vive, 
perocché  la  disperazione  ed  il  veleno  hanno  qualche  cosa  di  vitale 
anch'essi.  Cosa  sarebbe  il  morire?  Il  male  é  vivere  accompagnati 
dal  frutto  più  detestato  del  dolore,  che  é  come  il  pomo  del  Mar 
Morto,  che  al  tatto  diventa  cenere. 

Ma  bando  a  questa  malinconia  che  risvegliò  nel  mio  pensiero 
la  tempestosa,  pazza  e  fatale  ambizione  di  un  uomo.  L'uomo  deve 
vivere  delle  sue  proprie  creazioni,  o  nel  tuo  grembo,  o  bella  Natura. 
Io  ti  saluto,  0  Eeno  maestoso,  le  cui  sponde  abbellano  i  prodotti 


46  ■'  LORD  BYRON. 

più  varii  e  più  squisiti,  e  donde  si  vedono  qua  e  là  sorgere  veccliie 
castella  dall'austero  aspetto,  nido  altra  volta  di  feroci  masnadieri, 
teatro  di  strane  leggende  e  di  misteriosi  amori.  Ecco  le  Alpi,  pa- 
lazzi della  Natura,  che  spingono  fino  al  cielo  le  loro  cime  ne- 
vose dovo  si  formano  e  cadono  le  valanghe,  e  i  cui  fianchi  di  ghiac- 
cio danno  come  un'idea  dell' eternità.  Salute  a  te,  o  Morat  campo 
glprioso  che  vide  schiacciata  la  superbia  di  Borgogna.  Se  la  strage 
di  Waterloo  gareggia  con  quella  di  Canne,  Morat  e  Maratona 
sono  due  nomi  gemelli,  due  vittorie  immacolate  degne  della  più 
pura  gloria.  E  tu  Giulia  Alpinula,  qual  lode  può  eguagliare  la 
grandezza  del  tuo  pietoso  sacrifìcio,  povera  vittima  infelice  del- 
l'amor figliale! 

0  dolce  Lemano,  o  bei  luoghi  ingentiliti  dal  profumo  dei 
fiori,  resi  allegri  dal  canto  degli  augelli  e  animati  da  un  indis- 
tinto bisbiglìo  che  è  come  la  voce  della  bella  Natura  !  Anche 
solitari,  come  ci  si  sente  accompagnati  in  mezzo  a  tanta  pro- 
fusione di  cose  !  11  cielo,  le  montagne,  i  campi,  il  ruscello,  il  più 
umile  insetto  diventano  parte  di  noi  stessi  e  ci  sentiamo  vivere 
della  loro  stessa  vita.  Smarrita  in  questa  solitudine,  l'anima  aspira 
all'infinito,  sente  come  una  musica  delle  cose  e  l'eterna  armonia 
del  creato.  Qui  visse  quel  solitario  infelice  che  seppe  trarre  dal 
fondo  del  suo  dolore  stesso  accenti  di  irresistibile  eloquenza  e  al) 
bellire  di  celesti  colori  le  sue  fantasie  e  i  suoi  pensieri.  E  come 
fu  ardente  il  suo  amore!  ardente  come  un  tronco  incendiato  dal 
fulmine.  Però  il  suo  non  era  amore  di  donna  vivente,  né  il  fan- 
tasma di  un  amore  spento,  ma  era  amore  della  bellezza  ideale 
che  si  era  compenetrato  nella  sua  stessa  esistenza  e  che  trabocca 
impetuoso  ed  irresistibile  nelle  sue  pagine  infocate.  0  Giulia,  tu 
sei  figlia  di  quella  passione  divina,;  e  lo  sei  tu  pure,  o  bacio  me- 
morabile, omaggio  purissimo  che  il  solitario  rendeva  ogni  mat- 
tino all'  idolo  della  sua  mente  innamorata.  0  Clarens,  o  dolce 
Clarens,  patria  dell'amore,  intorno  a  cui  spira  un'aria  piena  di 
ardenti  pensieri,  perfino  le  tue  piante  hanno  radice  nell'amore; 
le  nevi  di  quei  monti  e  gli  stessi  ghiacciai  si  tingono  de' tuoi  co- 
lori; le  rupi,  i  macigni  stessi  parlano  qui  d'amore.  0  Clarens,  le 
tue  vie  sono  battute  da  orme  celesti,  dalle  orme  dell'amore  im- 
mortale, che  ha  qui  innalzato  un  trono  al  quale  si  sale  per  gra- 
dini che  sono  montagne.  Ma  non  è  colassù  soltanto  e  nelle  pro- 
fonde foreste  che  il  Dio  è  signore;  che  ogni  cosa  all'intorno  egli 
compenetra  della  sua  vita  e  della  sua  luce. 


LOED  BYRON.  47 


III. 


Italia,  Italia,  eccomi  in  mezzo  a  te.  L'anima  nel  riguardarti 
si  riempie  della  luce  dei  secoli.  0  Venezia,  Cibele  marina  che 
sorgi  dalle  acque  bella  della  tua  tiara  di  torri  gagliarde,  i  tuoi 
giorni  di  grandezza  sono  iti.  0  Arquà  che  geloso  custodisci  le  ce- 
neri del  più  tenero  e  gentil  poeta:  o Ferrara,  che  mi  presenti  vivo 
al  pensiero  il  mio  Tasso;  o  Firenze,  splendida  gemma  incastonata 
in  una  cintura  di  graziose  colline!  Ahimè!  il  mio  male  si  fa  più 
grande  in  mezzo  a  tante  splendide  rovine  ;  che  io  pure  sono  una 
rovina.  Pure  si  finisce  per  sopportare  la  vita,  e  il  dolore  stesso 
suol  diventare  il  più  fermo  alimento  dei  cuori  nudi  o  desolati.  Il 
cammello  non  fa  forse  silenzioso  la  sua  via  pur  essendo  oppresso 
da  grave  soma?  11  lupo  non  muore  egli  in  silenzio?  Apprendiamo 
a  durare  la  sventura  da  questi  animali  che  soffrendo  non  mandano 
un  lamento,  quantunque  siano  di  natura  tanto  inferiore  alla  no- 
stra, e  ci  consoli  il  sapere  che  la  prova  non  sarà  lunga. 

Il  dolore  distriiirge  ojìpur  distrutto 

È  da  colui  che  lo  sopporta;  ad  ogni 

Modo  esso  ha  fine.  —  Alcuni  da  novella 

Speranza  accesi  riedono  a  quel  punto, 

Donde  partir  primieramente;  e  sempre 

Alla  stessa  tendendo  ultima  meta, 

Si  poTigon  lesti  ad  intrecciar  l'istessa 

Trama.  — -  Affranti  e  già  curvi  p.ltri,  col  crine 

Incanutito,  e  lo  squallor  sul  volto, 

Vinti  si  danno  innanzi  tempo  ;  e  insieme 

Al  bastoncel  che  sorreggeaue  i  passi, 

Sprofondan  nella  tomba;  o  fiduciosi 

Dio  chiamano  a  soccorso,  le  fatiche, 

La  guerra,  la  virtù,  perfin  la  colpa, 

A  seconda  che  il  vario  animo  al  cielo 

Si  sospinge  anelando  o  rade  il  suolo; 

Ma  i  repressi  dolor  tale  un  vestigio 

Ne  lascian,  che  .somiirlia  alla  puntura 

Impercettibil  dello  scorpio ^ 

Ma  io  vaneggio.  Torniamo  indietro  a  meditare  sulle  cadute 
grandezze.  Siamo  in  un  paese  che  è  stato  il  più  potente  che  i  se- 
coli abbiano  mai  veduto;  gli  ordini  che  emanavano  un  giorno  i 

1  Pellegrinaggio  di  Aroldo,   traduzione  di  Faccioli. 


48  LORD  BYRON. 

suoi  reggitori  éran  ascoltati  e  ubbiditi  da  un  capo  all'altro  del- 
l'orbe conosciuto.  Ma  anche  ora,  o  Italia,  tu  sei  sempre  il  paese 
più  amabile,  la  più  bella  fattura  delle  divine  mani  della  natura, 
quel  luogo  dove  nacquero  e  si  formarono  gli  eroi,  i  gagliardi  di- 
fensori della  libertà,  i  signori  della  terra  e  del  mare. 

O  Roma,  o  patria  mia!  città  dell'alma! 
A  te  che  sei  la  desolata  madre 
D'imperi  estinti,  gli  orfani  di  cuore 
Si  rivolgon  pensosi,  e  pongon  freno 
Ai  lor  garriti  da  pigmei.  Che  sono 
Malori  e  angoscie  onde  l'umana  vita 
Si  funesta  pur  tanto  ?  Oh  !  qua  venite, 
Ecco  il  cipresso  funeral:  tra  i  sassi, 
Che  involge  la  silvestre  ellera  e  il  musco, 
Beffardo  ulula  il  gufo;  incerto  il  piede 
Noi  moviam  sdrucciolando  in  su  rottami 
Di  troni  e  templi.  —  Voi,  le  cui  sciagure 
Son  sciagure  d'un  dì,  mirate  intorno, 
Fragile  al  par  di  nostra  argilla,  un  mondo  ! 

La  Ni'obe  dei  popoli  !...  Spogliata 
Di  manto  e  serto,  senza  figli,  muta 
Ella  qui  sta.  Colle  avvizzite  mani 
Sorregge  un'urna  vota.  Ahimè  !  la  polve 
Sacra  che  racchiudea,  volò  dal  soffio 
Dei  secoli  dispersa.  Indarno  frughi 
Nell'avel  de'  Scipioni  e  ne  ricerchi 
Il  cener  i::lorioso.  Anco  i  sepolcri 
Fur  profanati.  O  Tevere  divino, 
Come  scorrer  puoi  tu  fra  una  marmorea 
Solitudine. P  or  via  gonfiati,  e  rompi 
E  nei  biondi  tuoi  flutti  ogni  ruina 
Involgi.... 

Ahimè  !  dovunque  io  volga  lo  sguardo  non  vedo  apparire  un'arca 
di  rifugio  per  l'atterrita  umanità. 

....  Da  questa  arida  vita 
Qual  mai  frutto  si  tragge;  e  che  s'apprende?  — 
L'odi:  che  angusti  abbiamo  i  sensi,  e  frale 
La  ragion;  che  più  ratti  del  baleno 
Volano  i  nostri  dì;  che  il  vero  è  gemma 
Giù  negli  abissi  immersa,  ed  ogni  cosa 
Si  pondera,  s'apprezza  in  sulla  falsa 


LORD   BYRON.  "'  4i) 

Lance  dell'uso.  Ohimè!  l'opinione 
Impera  onnipotente,  e  del  suo  velo 
Tenebroso  ravvolge  l'universo; 
Cod  che  il  bene  e  il  mal  meri  accidenti 
Riescono  oggimai.  L'uom  si  fa  smorto 
Temendo  il  senno  suo  troppo  svegliato, 
Libero  troppo  il  suo  peusier,  da  troppa 
Luce  la  terra  irradila,  ed  ecco 
Perchè  lenta  ne  affligge  e  vergognosa 
Miseria;  e  perchè  mai  di  padre  in  figlio 
E  di  secolo  in  secolo  più  basso 
L'umanità  precipita;  e  superba 
Dell'invilita  sua  natura,  lega 
La  follìa  ereditaria  alla  novella 
Progenie  degli  schiavi.  Allegri  questi 
Pugneran  pei  tiranni  ;  e  come  un  tempo 
Venduti  gladiatori,  e  sangue  e  vita, 
Libertà  rifiutando,  oguor  daranno.... 


0  Egeria,  questo  tuo  luogo  mi  fa  ripensare  ai  sacri  misteri 
dell'amore.  Oh  dimmi,  trasfuse  pure  l'amore  nel  tuo  petto  gaudii 
immortali,  e  confondesti  la  purità  del  cielo  colle  gioie  della  terra  ? 
Ahimè!  è  vano,  o  amore,  il  cercarti  sulla  terra.  Noi  poniamo  cieca 
fede  in  te,  ma  hen  presto  ci  lasci  col  martirio  nel  cuore.  Ma  peg- 
giore anche  del  male  è  il  guarirne  : 

Quando  vezzo  si  sepai'a  da  vezzo 
E  fugge  via  dai  cari  idoli,  allora 
Che  ci  accorgiam  che  né  virtù  né  dolce 
Bellezza  era  al  di  fuor  dell'ideale 
Forma  che  ne  creò  la  fantasia, 
Non  crediate  disciolto  il  maledetto 
Fàscino!  ognor  da  questo  attratti  e  avvinti 
Preda  al  turbine  siam  che  noi  mede.smi, 
Stolti  0  iirnari.  destammo. 


Sin  dai  primi  anni  ridenti 

Di  giovinezza  si  appassisce.  Infermi 

Poscia  e  anelanti,  —  senza  tregua,  senza 

Estinguer  mai  l'inesorabil  sete,  — 

Giungiamo  all'orlo  della  fossa;  —  e  un  qualche 

Fantasma,  che  con  lunga  ansia  inseguimmo 

Per  tutto  il  corso  della  vita,  innanzi 

Là  ne  sfavilla,  abbaglia,  attrae.  Ma  è  tardi  ! 


VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  18Ì0. 


gQ  LORD  BYROxX. 

Siam  doppiamente  maledetti.  Amore, 
Gloria,  avarizia  e  ambizion  la  cosa 
Medesraa  che  non  muta  altro  che  nome  : 
Perfide  e  stolte  vanità,  fugaci 
Meteore  !...  ed  è  la  morte  il  tetro  fumo, 
Che  raccoglie  ed  estingue  il  lor  bagliore. 

Pochi....  nessun  s'imbatte  in  quella  dolce 
Creatura,  che  mesto  il  cor  sospira 
Ne'suoi  deliri  indefiniti.  Il  caso, 
Un  cieC')  e  vii  contatto  o  la  febbrile 
Necessità  d'amor  silenzio  impose 
Alle  più  forti  antipatie,  che  in  breve 
Riarsero  nell'alma  attossicate 
Da  offese  irreparabili. 


Che  è  mai  la  vita  umana?  Un'  aspra  e  falsa 
Condizion.  Disarmonica  riesce 
Nell'armonia  magnifica  dei  mondi. 
Questa  dura  condanna  e  questo  mirchio 
Indelebil  di  colpa,  questo  immane 
Upas,  malvagio  arbor  che  tutto  strugge, 
Le  cui  radici  son  terrigne,  e  belle, 
Sì  come  il  ciel  che  nitido  le  avvolge, 
Fronde  e  foglie  dispiega,  arbor  che  piove. 
Come  rugiada,  un  pestifero  influsso 
Sull'atterrita  umanità  :  malori,  — 
Morte,  —  servaggio,  —  angoscie  note  e  ignote. 
Che  ne  laceran  l'alma.  ... 

E  tu,  vendicatrice  d'  ogni  malvagia  opera  dell'  uomo,  ine- 
sorabile Nemesi;  tu  che  evocasti  le  furie  anguicrinite  dal  più  ne- 
gro abisso  per  cacciarlo  contro  Oreste,  tu  m' ascolta.  Se  levo 
ora  la  voce,  non  è  già  che  io  indietreggi  impaurito  dinanzi  al  do- 
lore. Nessuno  vide  chino  al  suolo  il  mio  ciglio.  Io  rimasi  imper- 
territo sotto  le  strette  dei  più  atroci  affanni.  Solo  bramo  fare  qui 
una  mia  aperta  confessione.  Le  mie  parole  non  andranno  disperse 
quantunque  io  sia  polvere,  esse  suonano  maledizione,  e  ja  mia 
maledizione  è  questa  :  Perdono  e  obblio  !  Non  ho  forse  io  lottato 
contro  un  crudele  destino?  ne  chiedo  a  testimonio  il  cielo  e  la 
mia  stessa  terra  materna  !  Non  mi  furono  forse  lanciati  incontro 
sanguinosi  oltraggi  da  labbra  sorridenti  ?  Non  ho  io  visto  lace- 
rato il  mio  nome  e  ogni  mia  più  cara  speranza  distrutta  ?   E  se 


LOKD   EYRON.  51 

mi  astenni  da  opere  di  vendetta,  egli  è  die  non  sono  della  stessa 
putrida  argilla  de'  miei  nemici.  Tutto  sopportai,  tutto,  dall'aperto 

oltraggio  alle  piccole  perfidie 

Ma  ecco  il  Pellegrino  è  ornai  giunto  al  termine  del  suo  viao-"-io  : 

Simile  a  un'  ombra 

Or  nel  nulla  ritorna,  se  dal  nulla 
Pur  seppe  emerj^er.  Lo  creò  l'accesa 
Fantasia  del  poeta  ;  o  in  sulla  terra 
Visse  e  sofferse?  Alcun  non  tia  che  solva 
Tal  enimma.  Ei  dispare  ;  e  già  l'avvolge 
Distruzion  nel  lugubre  suo  panno 
Mortuario,  ove  insiem  vanno  confuse 
Vite,  sostanze,  ombre,  follie,  dolori. 
Attraverso  a  un  tal  manto  ogni  più  salda 
Cosa  ne  appar  leve  fantasma.  Oscura 
Nube  già  cala,  e  invidiosa  copre 
Tutto  che  a'  nostri  lieti  occhi  splendea, 
Perfin  la  gloria  un'iride  sbiadita 
Spiega  in  quel  fìtto  tenebrori  la  dubbia 
Sua  luce  oscilla  e  ne  confonde  il  guardo, 
E  triste  è  più  d'ogni  più  trista  notte. 
Si  tenta  indarno  di  spiar  l'abisso 
Che  si  spalanca  ad  ingoiarne.  Indarno 
Scioglier  si  tenta  il  doloroso  arcano 
Dell'avvenir:  —  quel  che  saremo  un  giorno 
Quando  il  frale  risolto  in  sozzi  vermi 
Consumerà  sotterra 

Il  Pellegrino  giunse  alla  meta  ed  è  scoccata  l'ora  che  deve 
separarci.  Volgiamo  un  ultimo  sguardo  al  maestoso  oceano.  Pure 
anche  sul  punto  di  immergermi  nel  nulla  sento  un  dolce  richiamo 
alla  vita. 

Oh  se  a  me  stanza 

Fosse  un  ampio  deserto,  ove  la  vita 
Scorrer  potessi  a  vaga  ninfa  accanto 
In  libertà  serena,  ed  obbliando 
Tutta  la  stirpe  umana  avessi  a  caro 
Unico  Nume,  Amor  !  Voi,  maestosi 
Elementi,  nel  cui  vivido  grembo 
Esultando  m'immergo,  un  sì  leggiadro 
Spirto  mi  componete;  — o  ch'io  m'inganno, 
0  alcun  v'ha  di  tai  spirti  ;  e  a  nostra  argilla 
Vederli,  udirli  si  concede.  Gaudio 


52  LORD   BYRON. 

IneffaLil,  purissimo,  celeste 
Io  mattiiiier  pregusto  entro  le  dense 
Ombrìe  dei  boschi  o  sul  des-^rto  lido 
Del  risonante  mar,  dove  Natura 
Col  suo  dobe  idioma  a  me  favella 
Ed  il  passato  obblio,  né  brama  alcuna 
Dell'avvenir  mi  punge.  Ivi  m'è  dato 
Inebbriarmi,  mescermi  al  vivente 
Universo  e  sentir  fremiti  arcani 
Che  a  svelarvi  io  non  valgo,  e  pur  del  t'itt-O 
Tacer  non  posso. 


IV. 


Incominciando  il  ChiUle  IlaroJd,  l'autore  s'era  peritato  a  met- 
tersi troppo  in  vista  e  s'era  nascosto  dietro  un  personaggio  preso 
ad  imprestito;  ma  a  misura  ch'egli  procede  innanzi,  quella  finzione 
lo  infastidisce  e  si  fa  egli  stesso  il  protagonista  del  poema.  Il 
tema  è  il  dolore  umano,  l'inanità  della  vita,  la  vanità  di  tutte  le 
cose:  il  piacere  stesso  è  un  inganno,  nessuna  speranza  di  una  vita 
migliore.  Andando  innanzi,  il  Pellegrino  cammina  come  se  fosse 
un'  ombra,  un  fantasma,  e  sembra  che  gli  acuti  strali  del  dolore 
abbiano  avuto,  come  il  fulmine,  efletti  di  inaridirgli  le  sorgenti 
stesse  della  vita.  Piangere,  ridere,  versare  nel  grembo  di  un  essere 
amato  i  propri  dolori  e  sentirne  conforto,  associarsi  alle  gioie 
degli  altri  e  sentirle  nostre,  faticare,  riposarsi,  godere  di  un  impen- 
sata fortuna,  tutto  ciò  infine  onde  si  compone  la  vita  ordinaria  de- 
gli uomini,  sembra  spento  in  lui.  Egli  non  ha  pii!i  nulla  di  comune 
cogli  altri  uomini,  perciò  vive  sempre  solitario.  Però  la  sua  solitu- 
dine è  animata  e  piena  di  vita.  Le  montagne,  i  campi,  le  foreste,  i 
ruscelli,  le  onde  del  mare  sono  j  suoi  amici  ;  con  essi  egli  conversa  e 
solo  in  loro  compagnia  gli  par  di  vivere.  Ma  questo  rifugio  che  la 
natura  gli  offre  dal  male  Uomo  non  è  che  momentaneo;  è  im- 
possibile il  vivere  lungamente  così  mutilati,  e  nessuno  può  impu- 
nemente spezzare  in  tal  modo  la  propria  esistenza.  Quindi  il  ri- 
torno della  mente  alla  realtà  è  triste,  penosissimo.  Però  il  poeta 
non  si  accascia  sotto  il  peso  di  essa;  si  direbbe  anzi  ch'egli  la 
provochi  e  la  sfidi;  egli  fissa  gli  occhi  imperterriti  sul  suo  cuore 
devastato  e  ne  fa  una  descrizione  minuta,  accurata,  con  una  fer- 
mezza di  mano  che  mette  raccapriccio.  Sembra  quasi  ch'egli  si 
compiaccia  di  esagerare  il  suo  male  per  far  meglio  risaltare  la 
sua  potenza  di  ribellione  contro  il  destino  che  lo  ha  percosso.  In 


LORD    BYRON.  53 

certi  punti  il  poema  è  come  una  esposizione  di  immagini  funerarie 
clic  scolpiscono  dinanzi  al  pensiero  la  morte  nei  suoi  più  varii 
aspetti  ;  vi  sentite  intorno  come  un  triste  concerto  di  gemiti  stra- 
zianti, di  singhiozzi  e  di  spasimi  crudeli  ;  vedete  la  terra  intri- 
stirsi e  non  dar  più  vita  ad  un  fiore  né  ad  un  filo  d'erba. 

Tutto  muore  dinanzi  al  poeta;  il  cuore  è  spezzato,  è  inaridita  la 
sorgente  della  vita  ben  prima  ancora  che  il  corpo  renda  alla  terra 
le  sue  misere  spoglie  ?  Ebbene  egli  non  manderà  un  lamento,  re- 
sisterà, vivrà  del  suo  pensiero  come  in  una  ròcca  inespugnabile; 
esso  sarà  il  suo  unico  amico,  il  suo  Dio  ;  nessuno  potrà  togliergli 
0  menomargli  il  pensiero;  con  esso  egli  osserverà,  comprenderà  la 
vita  e  guarderà  impavido  e  securo  lo  svolgersi  delle  forme  e  delle 
cose.  Byron  si  era  assuefatto  fin  dai  più  giovani  anni  a  combat- 
tere con  ogni  maniera  di  astinenza  e  con  esercizi  corporali  la 
temuta  pinguedine,  vizio  ereditario  della  sua  famiglia,  e  v'era  pie- 
namente riuscito.  Da  non  pochi  non  si  è  voluto  attribuire  questa 
risoluzione  che  ad  un  sentimento  di  puerile  vanità.  Sarebbe  più 
giusto  vedere  in  questo  una  tendenza  a  quell'ideale  ch'egli  sentì 
poi  prepotentemente  durante  tutta  la  sua  vita.  Egli  voleva  spiri- 
tualizzare, per  dir  cosi,  il  suo  corpo,  e  rendere  così  più  agile  e 
ardita  l'immaginazione.  Tutto  egli  sacrificò  a  questo  intento.  Ecco 
Aroldo  piagato  mortalmente  e  che  non  ha  più,  per  così  dire,  in 
sé  che  la  vita  che  dà  la  disperazione,  quella  ch'egli  chiama  la 
vitalità  del  veleno.  Pure  a  quali  altezze  egli  non  giunge  !  Le  sue 
piante  di  creta  e  il  suo  cuore  di  cenere  sostengono  una  mente  che 
sale  impavida  sulle  sommità  più-  gigantesche  dove  trova  la  sua 
abitazione  naturale  e  gli  elementi  della  sua  forte  esistenza.  Il 
contrasto  è  straordinario,  immenso;  la  morte  e  la  vita  non  si  sono 
mai  trovate  a  così  grande  distanza  e  a  più  opposti  confini.  Di  lassù 
egli  manda  una  voce  solenne  che  par  l'eco  delle  cose  passate,  dei 
dolori  del  mondo.  Bisogna  far  di  tutto  per  vincere  la  morte; 
guerra  alla  morte  !  è  questo  il  grido  di  Aroldo.  Quindi  bisogna 
svestirsi  di  questa  creta  caduca,  spingersi  nell'etere  sublime  e 
trovarvi  quelle  forme  gigantesche  del  pensiero  nelle  quali  l'uma- 
nità vive  immortale.  Sì,  povera  vita  umana,  tu  mi  hai  fatto 
troppo  soffrire;  i  tuoi  stessi  doni  non  furono  che  inganno  e  tra- 
dimento. Ma  ora  l'incanto  è  rotto  ;  ora  salgo  sulle  cime  dell'ideale, 
s  dove  trovo  la  vera  vita.  I  tuoi  palazzi,  o  Venezia,  le  tue  torri 
cadranno  un  giorno  ;  ma  vivranno  eternamente  Otello  e  Shilock. 
Io  pure  vivrò  in  qualche  essere  immortale,  creazione  della  mia 
mente.  Il  pensiero  dato  in  alimento  a  sé  stesso  si  accende,   s'in- 


54  LORD  BYROX. 

fìainma  e  diffonde  una  luce  che  abbaglia,  e  stacca  potentemente 
gli  oggetti  dal  fondo  cupo  della  tela,  e  vedete  vivi  dinanzi  a  voi 
il  Gladiatore  e  l'Apollo  del  Vaticano,  Sono  finite  le  nenie  sulla 
caducità  dell'amore  e  della  bellezza  mortale.  Ora  il  poeta  ha  di- 
nanzi a  sé  il  tipo  della  bellezza  immortale  che  tutto  lo  governa 
e  Io  ispira  e  gli  eccita  nel  pensiero  una  danza  di  idee,  il  cui  con- 
trasto manda  sprazzi  di  una  luce  affascinante  e  sprigiona  da  ignote 
cavità  una  musica  divina  che  inebria  i  sensi  ed  il  pensiero.  L'amore 
precipitato,  violento  dell'ideale  è  giunto  al  suo  colmo.  11  pensiero 
è  diventato  incandescente,  e  il  calore  e  la  luce  che  da  quello  escono 
sono  cosi  vivi  e  forti,  che  quasi  accendono  le  cose  e  inaridiscono 
all'ingiro  la  vita.  È  l'esuberanza  stessa  del  pensiero  che  attenta 
alla  vita  e  la  uccide.  Il  poeta  è  dominato  da  una  sete  ardente  di 
vita  che  nulla  riesce  a  spegnere;  epperò  egli  accumula  forze  su 
forze  per  dare  alimento  all'azione  del  pensiero  che  è  in  continuo 
travaglio  e  che  costituisce  la  sua  suprema  ed  unica  facoltà.  Da 
una  mente  posta  in  questo  stato  di  combustione  escono  forme  incan- 
descenti che  acquistano  la  solidità  del  bronzo.  Data  una  situazione 
drammatica,  ne  nascerà  il  Manfredo,  un  colosso  di  bronzo  che  al 
tocco  manda  un  suono  cupo  e  solenne.  Maestoso  di  fuori,  ha  di  dentro 
il  vuoto.  Solitario,  impassibile,  è  una  creazione  che  non  ha  forse 
l'eguale  in  nessuna  letteratura.  Macbet  e  Eiccardo  III  sono  tor- 
mentati dalle  furie  e  dal  rimorso,  ma  Manfredo  non  sa  che  sia 
rimorso.  Cos'è  l'ideale  di  Aroldo  ?  Non  è  Dio,  non  è  la  natura, 
non  è  l'amore.  Il  suo  ideale  è  lui  stesso,  vivente  nel  suo  pensiero 
creatore,  nel  quale  soltanto  trova  la  sua  forza  e  lo  scopo  della  sua 
vita.  Egli  finisce  la  sua  carriera  in  vista  dell'Oceano.  Il  suo  in- 
finito è  là.  Anche  là  trova  il  mezzo  di  lanciare  un'  ultima  male- 
dizione all'uomo  esaltando  il  mare  che  non  tollera  l'impero  di 
quello  e  lo  sprofonda  nelle  sue  voragini  quando  gli  talenta  di 
mettere  in  burrasca  le  sue  onde.  Anche  là  gli  ritorna  un  pensiero 
di  amore,  ma  vuole  per  compagno  uno  spirito  che  gli  faccia  di- 
menticare la  razza  umana,  e  chiede  quello  spirito  all'Oceano.  Poi 
si  spegne  in  un  lungo  addio  come  spossato  di  forze  e  di  pensiero. 
Tale  è  Aroldo. 

V. 

Nel  Cialde  Harold  il  poeta  s'innalza  a  sommità  altissime: 
egli  è  come  sopra  un'  alta  piramide,  vicino  al  sole,  avendo  di- 
nanzi a  se  uno  sterminato  orizzonte,  in  mezzo  ai   nembi  ed  alle 


LOKD    BYRON.  55 

tempeste  e  dove  può  mescolarsi  al  cozzo  ed  alla  lotta  degli  ele- 
menti. Ma  da  quell'  altezza  bisogna  alla  fine  scendere.  Il  Cliilde 
Harold  è  un  sogno  prolungato.  —  lo  dice  il  poeta  stesso,  —  e  bi- 
sogna che  si  dilegui.  Lord  Byron  aveva  troppo  vissuto  nel  mondo, 
aveva  avuto  troppo  da  fare  cogli  uomini  perchè  il  Chikìe  Harold 
potesse  essere  1'  ultima  sua  parola  di    poeta.  Egli  aveva  avuto  a 
fare  con  letterati  pedanti,  con  gente  ingrata  che  si  serviva  dei 
suoi  stessi  benefizi  per  calunniarlo,  con  critici  maligni  e  beffardi, 
con  donne  da  lui   non  curate    od   offese,  con   politici  e   uomini 
di  Stato  paurosi   e   formalisti,    infine    con   tutta    la   società    in- 
glese, che   con  un  soffio  di   esecrazione    lo   aveva  cacciato  sulle 
spiaggie    dell'  Inghilterra    e    lo    aveva    costretto   a   prendere   le 
vie  dell' esigilo.  Ora  Lord  Byron  era  un  uomo  di   temperamento 
essenzialmente  battagliero,  un  uomo  d'  azione,  ed  il  rimanere  cosi, 
lungamente  fuori  della  vita  reale  nel  Childe  Harold  doveva  avergli 
costato  uno  sforzo    straordinario  e  violento,  ed   averlo   obbligato 
ad  impiegare  in  quel  poema  tutti  i  mezzi  del  suo   ingegno  smi- 
surato. Una    rivincita  adunque    non   si    poteva    fare    lungamente 
aspettare  ;  1'  uomo  attaccato,  vilipeso,  segnato   all'  abbominazione 
dei  suoi  concittadini  doveva  farsi  sentire  un  giorno  e  rispondere. 
Una  prova  del  temperamento  umorista  e  battagliero  di  Lord 
Byron  s'era  già  avuta  nella  notissima  sua  satira  contro  i  Rivistai 
'di  Edimburgo  che  pubblicò  nel  1809.  Quel  suo  poetico  lavoro  non 
era  poi  stato  tenuto  in  gran  conto  neanche  dall'autore  stesso,  il 
quale  lo  corresse  e  ne  condannò  molte  parti  come  false  ed  ingiu- 
ste. Però  in   quella  prova  egli  aveva,  per  dir  così,  acquistato  co- 
scienza della  sua  forza  e  concepito  simpatia  per  quel    genere  di 
letteratura.  Infatti  nel  suo  viaggio  in  Oriente  ch'egli  fece  pochi 
mesi  dopo  la  pubblicazione  degli  English  Bards  and  Scotch  Be- 
viewers,  Lord  Byron  impiegò  il  suo  miglior  tempo  a  fare  un  lavoro 
di  critica  letteraria,  quell'imitazione  di   Orazio  ch'egli  intitolò: 
Hints  frani  Horacc.  Abbiamo  già  notato   altrove  ^  quanto  Lord 
Byron  teneva  a  questo  suo  lavoro  e  come  di  gran  lunga  lo  pre- 
ferisse ai  due  primi  cauti  del  Childe  Harold  eh'  egli  aveva  scritti 
pure  in  quel   viaggio,  al  punto  da  non  lasciarsi   indurre  a  pub- 
blicar questi  prima  degli  Hints  froni   Horace  se  non  in  seguito 
alle  più  vive  e  sincere  insistenze  dei  suoi  amici,  i  quali  in  questa 
circostanza  —  cosa  non  rara   fra  sii   autori  —  si  mostrarono  di 


1  V.  r  art.  «Giorgio  Byron.»  Memoranda  Byi-07iiana,  nel  fascicolo  dei  1  mag- 
gio 1878. 


56  LORD   BYEON. 

gran  lunga  migliori  giudici  di  Lord  Byron  stesso.  La  pubblica- 
zione dei  due  primi  canti  del  Chiìdc  Harold  incontrò,  com'è  noto, 
un  fovore  straordinario  nel  pubblico  inglese  ;  e  possiamo  con  fon- 
damento credere  che  la  popolarità  in  cui  venne  l'autore  e  la 
premura  rispettosa  con  cui  letterati  e  scrittori  a  lui  venivano, 
spense  la  collera  che  aveva  ispirata  la  famosa  satira  e  fece  per 
lungo  tempo  tacere  in  lui  la  passione  dell'  umorismo  e  delia- 
critica.  Fu  in  questo  tempo  che  egli  scrisse  il  Giauro.  il  Corsaro, 
il  Lara,  creazioni  poetiche  nelle  quali  vedesi  una  parentela  più 
0  meno  prossima  col  Childc  Harold.  Ma  verso  la  fine  del  1815 
le  cose  erano  del  tutto  cambiate.  La  popolarità  del  poeta  se  ne 
era  ita  e  in  quella  vece  egli  era  perseguitato  dall'  invidia,  dalla 
indignazione  e  dalla  ostilità  coperta  o  palese  di  tutti.  Egli  dovette 
in  quella  occasione  per  propria  esperienza  fare  molte  riflessioni 
sulla  mutabilità  dei  sentimenti  umani.  La  sua  corrispondenza  re- 
lativa a  quel  tempo  è  scritta  in  tono  triste,  e  mostra  un  uomo 
profondamente  ferito.  Ma  appena  giunto  in  Italia  intervenne  un 
gran  cambiamento  nei  suoi  sentimenti.  Lord  Byron  era  in  fondo 
ciò  che  si  dice  un  buon  figliuolo;  aveva  un  temperamento  allegro 
e  vivace,  non  chiedeva  di  meglio  che  di  espandersi  e  di  abbando- 
narsi a  tutte  le  impressioni  della  sua  spontanea  e  mobilissim.a 
natura.  In  Italia  egli  si  trovò  come  nel  suo  elemento  in  mezzo 
a  gente  del  suo  stesso  cuore.  La  vita  libera,  facile,  spensierata 
di  Venezia,  che  era  in  così  diretto  contrapposto  con  quella  com- 
passata e  formalista  della  società  inglese,  gli  andava  oltremodo 
a  sangue.  Uno  dei  primi  lavori  che  Lord  Byron  fece  a  Venezia 
fu  il  Bepiìo,  una  storiella  veneziana,  in  stile  bernesco,  nuovo  ge- 
nere nel  quale  l'autore,  per  evitare  la  ripetizione  e  il  manieri- 
smo, voleva  provarsi,  avendo  già  forse  fin  d'  allora  in  pensiero  di 
scrivere  in  quel  genere  ben  altri  lavori.  Un  autore  francese,  il 
signor  Etienne,  in  un  suo  lavoro  intitolato  :  Le  vrai  et  le  faiix 
Byron  sostiene  che  questo  nuovo  genere  nel  quale  Lord  Byron 
entrò  era  quello  suo  proprio  e  naturale,  mentre  che  1'  altro  che 
aveva  ispirato  il  Cliilde  Harold,  il  Corsaro  e  Lara  non  era  che 
una  maschera.  Lord  Byron  avrebbe  avuto,  secondo  il  citato  scrit- 
tore, fin  da  quando  scrisse  gli  Englisli  Bards  and  Scotch  Bevieivers 
il  pensiero  fisso  di  dedicare  la  sua  vita  a  far  la  guena  e  demolire 
la  società  inglese  quale  era  al  suo  tempo  costituita.  La  satira  contro 
i  rivistai  di  Edimburgo,  dice  l'Etienne,  lasciava  già  fin  dal  1809  pre- 
vedere il  Don  Juan.  Tutto  quello  che  Lord  Byron  scrisse  in  Inghil- 
terra dal  1812  al  1816  non  era  che  decorazione,  una  maschera  colla 


LORD  BYRON.  57 

quale  egli  si  divertiva  a  se  draper  majcstueusement  devant  la  société 
anglaìsc  Byron.  stando  sempre  all'  Etienne,  si  deve  essenzialmente 
riguardare  come  un  rivoluzionario  che,  in  mancanza  di  altri  mezzi, 
scelse  la  satira  per  abbattere  la  prepotenza  aristocratica  e  la  super- 
stizione religiosa  nel  suo  paese.  Egli  è  un  figlio  dell'  89  e  un  apostolo 
anche  lui  dei  famosi  immortali  principii  banditi  dalla  prima  Re - 
IDubblica  francese. 

E  egli  vero  questo?  Lord  Byron  era  uno  scrittore  sponta- 
neo, che  non  scriveva  che  dietro  immediate  impressioni  personali 
profondamento  sentite,  e  si  può  subito  credergli  quando  assi- 
cura di  non  aver  mai  nulla  scritto  witlioid  a  personal  foitn- 
daiion,  ed  anche  nelle  sue  opere  di  pura  immaginazione  v'  è  un 
fondo  di  realtà  che  non  sfugge  a  chi  ne  ha  attentamente  studiata 
la  vita.  Tutta  la  sua  opera  poetica  è  adunque  una  fioritura  spon- 
tanea del  suo  pensiero  creata  e  cresciuta  via  via  col  tempo  senza 
preoccupazione  o  indirizzo  premeditato.  Giunto  in  Italia  nel  1816, 
Lord  Byron  non  dimenticò  che  egli  aveva  dei  conti  da  regolare 
coi  suoi  concittadini.  Gli  attacchi  erano  stati  troppi  e  troppo 
gravi  perchè  egli  pensasse  mai  a  starsene  rassegnato.  I  primi 
assalti  erano  stati  contro  il  suo  nome  di  poeta  ed  egli  aveva  ri- 
sposto cogli  Englisli  Bnrds  and  Scotch  Reviewers  ;  ora,  si  trattava 
di  ben  altre  cose;  non  v'era  oltraggio  con- cui  il  suo  nome  non 
fosse  stato  coperto  ;  non  ordine  di  persone  che  non  gli  avesse 
scagliata  la  sua  pietra  ;  la  plebe  lo  aveva  insultato  in  piazza,  come 
gli  eleganti  nelle  salo  aristocratiche  ;  in  breve,  egli  aveva  da  fare 
con  tutto  il  suo  paese  e  bisognava  aspettarsi  ad  una  rivincita  solenne 
e  rumorosa.  Il  Don  Juan  è  adunque  stato  come  tutte  le  altre  opere 
del  poeta  un  frutto  spontaneo  del  suo  ingegno,  non  una  lontana 
premeditazione  contro  le  istituzioni  del  suo  paese,  come  tenderebbe 
a  far  credere  1'  Etienne.  Trovandosi  libero  da  una  società  che  lo 
aveva  per  cinque  anni  tenuto  come  soffocato  nelle  sue  strette, 
nella  piena  libertà  della  vita,  sotto  un  cielo  purissimo,  traspa- 
rente e  pieno  di  una  luce  che  dà  rilievo  e  forza  agli  oggetti. 
Lord  Byron  acquistò  come  una  comprensione  più  viva  della  realtà, 
si  senti  corpo  a  corpo  colle  cose,  ne  vide  meglio  il  giuoco  e  do- 
vette sentirsi  trascinato  a  procedere  innanzi  nella  via  in  cui  era  già 
entrato  col  Bcppo.  Ecco  1'  origine  del  Don  Juan.  11  Childe  Harold 
è  il  poema  della  gioventù  e  dell'immaginazione;  il  Don  Juan 
è  il  poema  della  realtà  veduta  attraverso  la  luce  abbondante  dei 
cieli  italiani. 

La  satira  aveva  già  avuto  in  Inghilterra  prima  di  Byron  una 


58  LOPxD   BYKON. 

plejade  di  illustri  cultori.  Swift,  Drydeu  e  Pope  dovevano  in  gran 
parte  a  questo  genere  di  letteratura  la  loro  celebrità  letteraria. 
Il  primo  aveva  resa  immortale  la  sua  acre  bile  negli  innumerevoli 
suoi  opuscoli,  ma  specialmente  nel  Racconto  della  hol.te  {The  tale 
of  a  tuh),  e  gli  altri  duo  nelle  loro  satire  oraziano,  e  in  particolar 
modo  Pope  nella  sua  celebre  Dnnciad.  11  capo  dei  classici  inglesi 
aveva  fatto  in  questo  celebrato  poema  una  giustizia  sommaria  e 
spietata  dei  poetastri  imbrattacarte  e  pedanti  del  suo  tempo,  il 
cui  vuoto  strepito  raffigurò  nei  venti  soffianti  in  un  sotteraneo  in 
quei  suoi  due  versi  ; 

Keen  hollow  wind.s  liowl  tliroiigli   the  bleak  recess, 
Embleni  of  ii)U:^ic,  caus'd  by  einptiness. 

Però  se  si  fa  forse  eccezione  dell'atrabiliare  irlandese,  il  quale 
sfogò  durante  tutta  la  sua  vita  il  suo  umor  nero  divertendosi  a  lace- 
rare uomini  e  cose  e  non  contentandosi  se  non  quando  vedeva  sangui- 
nare e  fatte  a  pezzi  le  sue  vittime,  tanto  Dryden  che  Pope  ebbero 
questo  di  particolare,  che  non  solo  rispettarono  nelle  loro  satire 
lo  Stato,  la  Chiesa  stabilita  e  la  Costituzione  del  loro  paese,  ma 
segnarono  al  vituperio  ed  all'odio  dei  loro  concittadini  coloro  che 
si  erano  resi  in  qualche  modo  colpevoli  verso  queste  tre  divinità 
dell'Inghilterra  ;  e  quando  si  arrischiano  a  lanciare  qualche  colpo 
un  po' ardito,  lo  fanno  con  incredibile  cautela  e  quasi  si  rimpiat- 
tano dietro  il  nome  e  l'autorità  di  Orazio.  Pope  aveva,  come  il 
francese  Montaigne  col  quale  ha  tanti  tratti  di  somiglianza,  un 
deciso  orrore  per  i  novatori  di  qualunque  sorta.  L'autore  del- 
l' Essa)/  on  Man  fece  l'apoteosi  del  mondo  così  com'è;  tutto  va 
bene  nel  mondo,  o^ni  cosa  è  al  suo  posto  ed  ha  quella  precisa 
destinazione  che  deve  avere  secondo  il  decreto  di  quella  sapiente 
Provvidenza  che  ha  ordinato  il  tutto.  Guai  a  chi  tocca  un  solo 
sassolino  dell'edifizio  del  mondo;  v'è  pericolo  che  si  rovesci  sul- 
r  istante  e  vada  in  frantumi.  Si  direbbe  ch'egli  ha  il  presentimento 
di  una  vicina  conflagrazione  sociale  e  che  sia  questo  presenti- 
mento che  gli  ispira  di  idolatria  per  ciò  che  esiste.  Quindi  la 
satira  di  Pope  è  piana,  regolare,  compassata  e  soprattutto  morale. 
Egli  è  un  saggio  nel  vero  senso  della  parola,  vede  come  sono 
ordinate  le  cose  nel  mondo,  è  persuaso  che  non  lo  possono  essere 
diversamente,  ed  è  quindi  con  piena  convinzione  e  perfetta  aggiu- 
statezza che  scaglia  i  suoi  dardi  satirici.  Ma  ai  tempo  di  Byron, 
le  cose  correvano  diversamente;  la  Costituzione  e  la  Chiesa  erano 
tuttavia  in  piedi  e  fermissime  sulle  loro  fondamenta,  la  lotta  era 


LORD   BTRON.  59 

sempre  ristretta  fra  tories  e  ivhigs,  come  al  tempo  di  Pope  ;  .ma 
in  quanto  diverse  condizioni  quella  lotta  aveva  luogo  !  C'era  già 
stato  Eoberto  Burns,  il  quale  aveva  introdotto  nella  poesia  un 
alito  popolare  e  democratico  ignoto  nel  tempo  precedente,  ed 
aveva  iniziato  in  poesia  l'opera  che  poi  continuarono  al  nostro 
tempo  Macaulay,  Thackeray,  Stuart  Mill,  Carlyle.  Dickens  e  Ten- 
nyson,  quell'opera  cioè  che  consiste  a  far  entrare  senza  urti  e  senza 
guasti  nella  Costituzione  e  nella  Chiesa  inglese  l'alimento  della 
democrazia  e  della  filosofia  moderna.  E  poi  c'era  stata  la  rivolu- 
zione francese,  del  cui  spirito  è  pur  penetrato  qualche  cosa  anche 
al  di  là  della  Manica.  Tutto  ciò  creava  una  situazione  nuova. 
La  nuova  satira  doveva  avere  una  forma  e  un  intento  diversi  da 
quelli  di  Dryden  e  di  Pope.  Gittando  lo  sguardo  su  qualunque 
pagina  del  Don  Juan  vi  pare  di  essere  in  presenza  di  un  mondo 
andato  in  rovina.  Tutto  è  caricatura,  ipocrisia,  dispotismo,  falsità, 
putridume  nella  società  inglese.  Quanto  siamo  lontani  dal  pensiero 
di  Pope  ! 

Il  signor  Nisard,  nel  suo  Byron  et  la  sociclc  angJaisc,  scrive: 
«  Basta  una  dimora  di  poco  tempo  in  Inghilterra  per  subito 
accorgersi  che  la  conversazione  ordinaria  non  è  che  un  formulario. 
L'inglese  in  conversazione  non  parla  mai  di  sé.  Questa  discrezione 
straordinaria  della  società  inglese,  nella  quale  a  molto  calcolo  si 
unisce  una  disposizione  naturale,  non  può  non  esserle  molesta. 
Non  è  un  piccolo  sacrifizio  quello  di  non  mai  parlare  di  se. 
Quanto  a  tacere  degli  altri,  non  è  cosa  quasi  più  agevole,  essendo 
un  solo  ed  unico  movente  quello  che  ci  fa  parlare  degli  altri  e 
di  noi.  Taluno  si  permetterà  di  qualificare  di  ipocrisia  questo 
riserbo,  ed  altri  non  vi  vedrà  che  una  vanità  raffinata.  Checché 
ne  sia,  non  può  che  essere  causa  di  una  pena  fastidiosa.  Basta 
entrare  in  una  sala  inglese  per  subito  accorgersi  che  nessuno  si 
diverte  e  che  tutti  i  presenti  sono  di  ciò  convinti.  Or  bene,  lan- 
ciate in  mezzo  a  questa  società  fredda,  compassata,  nella  quale 
ognuno  cerca  di  nascondersi  agli  altri  e  a  se  stesso,  in  mezzo 
a  questa  gente  volontariamente  ecclissata,  che  dico  ?  di  queste 
ombre,  un  uomo  che  si  mette  a  far  loro  delle  confessioni  brutali 
sopra  di  se  stesso  e  sopra  di  loro,  che  dice  il  bene  e  il  male,  il 
bene  senza  entusiasmo,  il  male  senza  veli;  lanciate  in  mezzo  a 
quella  sala,  in  cui  ci  si  diverte  tanto  poco,  quantunque  vi  si  rida 
molto,  un  libro  potente,  provocante,  nel  quale  i  convenuti  si 
vedono  rivelati  a  se  stessi  e  denunziati  gli  uni  agli  altri,  quale 
sarà  l'effetto  !  E  quest'effetto,  questo  scandalo  che  produssero  le 


60  LORD   BYKON. 

prime  confessioni  di  Chilcle  Harold.  Gli  eroi  dei  poemi  che  ven- 
nero dopo,  completarono  quelle  confidenze.  Lord  Bj^ron  faceva 
salire  il  rossore  su  più  d'una  fronte  che  non  era  inai  stata  turbata 
che  da  emozioni  permesse  :  egli  suscitava  dei  dubbi  in  seno  di 
questa  acquiescenza  di  abitudine  o  di  calcolo  a  tutti  i  principii 
della  società  stabilita;  egli  toglieva  gli  animi  da  quel  normale 
riserbo  che  si  accettava  nell'  interesse  della  conservazione  sociale 
e  dei  eacrifizi  che  l'uomo  fa  in   InghUterra.  sdì' anììnale  politico.» 

E  altrove  lo  stesso  autore  scrive:  «  Bisogna  pur  dirlo,  una 
certa  aria  di  ipocrisia,  di  canf,  per  adottare  la  parola  inglese, 
può  rendere  sospette  a  prima  vista  le  virtù  stesse  della  società 
inglese.  Il  dovere  non  vi  si  presenta  colla  grazia  di  un  movi- 
mento volontario.  Esso  sembra  meno  l' atto  di  un  essere  libero 
che  l'adempimento  di  una  prescrizione  d'ordine  pubblico  o  l'imi- 
tazione di  un  uso  generale.  E  siccome  la  società  è  divisa  in  classi, 
la  sottomissione  dell'individuo  alla  società  somiglia  un  poco  alla 
parola  d'ordine  di  una  consorteria  o  alia  disciplina  interessata  di 

una  casta  che  difende  i  suoi  privilegi La   società    inglese    è 

naturalmente  religiosa.  Ora  essa  ha  fatto  i  più  grandi  sforzi  per 
esserlo  ancora  di  più:  e  non  è  già  il  rispetto  umano  che  ha  ras- 
sodato, è  la  f^de;  ha  costrutto  chiese,  non  per  mostra,  ma  per 
servirsene.  L'uomo,  in  quel  paese,  sente  l'utilità  pubblica  della 
sua  fede  personale.  Si  crede  per  credere,  e  perchè  importa  alla 
società  che  si  creda  ;  si  usano  le  pratiche  religiosp,  perchè  se  ne 
è  avuto  r  esempio  e  lo  si  vuol  dare  agli  altri.  Un'idea  di  interesse 
generale  si  unisce  anche  a  ciò  che  sembra  essere  il  dono  più  in- 
dividuale, la  grazia.  L' inglese  sa  che  dicendo  le  sue  preghiere 
nell'interno  della  sua  famiglia,  coi  servitori  inginocchiati  al  suo 
lato,  egli  fa  qualche  cosa  per  sé  e  qualche  cosa  per  il  pub- 
blico. » 

Sventuratamente  per  Lord  Byron  quest'ambiente  sociale  e  re- 
ligioso non  poteva  essere  il  suo.  Egli  s'  era  dato  ad  una  vita  li- 
bertina sin  dai  più  giovani  anni,  e  il  verme  dello  scetticismo  era 
nato  in  lui  nell'età  in  cui  l'immaginazione  suol  tingere  il  mondo 
di  rosei  colori  e  l'anima  s' imbeve  di  illusioni  e  di  fede.  E  non 
solo  non  faceva  mistero  del  suo  libertinaggio  e  del  suo  dubbio 
filosofico  e  religioso,  ma  spiattellava  l'uno  e  l'altro  dinanzi  alla 
credente  e  costumata  Lighilterra  con  un'audacia  che  poteva  an- 
che  parere  una  sfida  all'opinione  pubblica.  Dispiaceri,  sgarbi, 
punture  al  suo  orgoglio,  persecuzioni  letterarie,  delusioni  amo- 
rose, erano  poi  venute    ad    irritare    anche    più    il    suo  tempera- 


LORD   BYRON.  61 

mento  irritabilissimo;  ed  egli  invece  di  correggersi  o  moderarsi, 
rese  ognor  più  sciolto  e  provocante  il  suo  contegno  e  la  sua 
penna  fino  a  non  mostrare  più  nessun  rispetto  per  gli  usi  e  i  co- 
stumi del  suo  paese.  Finché  la  sua  popolarità  di  poeta  si  man- 
tenne, egli  potè  reggersi  in  Inghilterra,  ma  quando  questa  andò 
scemando  e  cominciò  invece  a  sorgere  nell'animo  dei  suoi  con- 
cittadini il  sentimento  delle  convenienze  sociali  e  della  religione 
offesi,  i  giorni  di  Lord  Byron  poterono  dirsi  contati.  Un  minimo 
accidente  doveva  bastare  per  rovesciarlo.  Quell'incidente  fu  la  sua 
separazione  da  sua  moglie.  Fra  lui  ed  i  suoi  concittadini  si  schiuse 
un  abisso  che  non  si  colmò  più  mai. 

Disponendosi  a  scrivere  il  Don  Juan  non  crediate  eh'  egli  ab- 
bia l'animo  occupato  da  pensieri  acerbi  e  che  senta  in  sé  stesso 
l'impeto  e  la  violenza  che  inspirarono  la  sua  prima  satira.  Nean- 
che per  sogno.  Egli  è  del  miglior  suo  umore,  allegro,  e  pieno  di 
grazia.  Non  sarà  lui  che  si  armerà  dello  staffile  di  Giovenale  e 
della  stoica  bile  di  Persio;  egli  è  amabile  come  Orazio.  Lord 
Byron  è  un  uomo  di  mondo  e  la  sua  arme  è  il  ridicolo;  egli  non 
vuole  scomporsi,  né  turbare  in  verun  modo  la  serenità  olimpica 
della  scena  sulla  quale  egli  è  il  protagonista.  Egli  guarda  le  sue 
vittime  sorridendo  e  le  colma  di  carezze  e  di  complimenti:  ma 
sono  carezze  che  graffiano,  complimenti  che  penetrano  nelle  carni 
come  strali  affilati;  per  lui  l'essenziale  é  che  la  vittima  muoia 
soffocata  senza  mandare  un  lamento.  Per  questo  1'  autore  parla 
sempre  per  sottintesi  e  sfumature,  ha  cura  che  i  colpi  non  siano 
vibrati  e  repentini,  ma  lenti,  ripetuti  e  involgano  la  vittima  per 
via  di  rigiri  e  di  circonlocuzioni  raffinate  e  maliziose.  Lord  Byron 
è  crudele  come  il  gatto  che  sulle  prime  si  contenta  di  dare  una 
zampata  al  topo,  poi  lasciatagli  fare  una  corsettina,  gli  è  di  nuovo 
addosso,  gli  dà  un'  altra  zanìpata,  te  lo  stropiccia  ben  bene  e  se- 
guita a  maltrattarlo  finché  la  povera  bestiolina  è  morta  più  di 
affanno  e  di  paura  che  di  percosse.  Così  è  Byron  in  tutti  i  sedici 
canti  del  Don  Juan.  Egli  scrive  per  scrivere  ;  è  uno  spettatore  che 
guarda  dall'  alto  il  suo  mondo  e  vuole  spassarsela  a  descriverlo 
così,  secondo  ch'egli  stesso  dice,'  com' altri  giucca  a  carte,  tanto 
per  passare  qualche  ora  a  ricordare  le  cose  passate. 

Eccovene  una  prova.  Siamo  a  Londra.  Lady  Adelina  Amun- 
deville,  moglie  di  Lord  Henry,  uno  dei  più  illustri  patrizi  dell'In- 
ghilterra, è  una  bellissima  signora,  colta,  elegante,  istruitissima,  ma 

'  Don  Juan,  canto  XIV,  stanza  XI. 


62  LORD   BYRON. 

ciò  che  vai  meglio  di  tutto  il  resto,  un  modello  di  virtù,  a  sentire  il 
poeta.  Essa  però  ha  sempre  intorno  a  sé  una  quantità  infinita  di  ado- 
ratori, perchè  Lord  Henry,  occupato  negli  affari  e  nella  politica  del 
suo  paese,  non  ha  guari  tempo  da  perdere  presso  sua  moglie.  Ma 
che  perciò?  la  forza  dell'onestà  di  Lady  Adelina  è  tanta,  ch'essa  non 
ha  neanche  bisogno  per  salvare  quel  tesoro  di  prendere  quelle  pic- 
cole precauzioni  a  cui  le  altre  creature  fragili  del  suo  sesso  so- 
gliono ricorrere  per  sfuggire  ai  pericoli  della  seduzione  e  del- 
l'inganno. Che  merito  avrebbe  l' onestà  di  Lady  Adelina  se  per 
mantenerla  dovesse  licenziare  tutti  i  galanti  che  ha  d'attorno,  e 
allontanare  ogni  occasione  di  cadere  ?  queste  precauzioni  si  la- 
sciano prendere  alle  donnine  di  cuor  piccolo.  Il  gran  merito  in- 
vece è  di  mostrarsi  più  forte  dell'occasione  e  dei  pericoli.  Non  è 
egli  in  mezzo  agli  scogli  che  si  conosce  l'abilità  del  pilota?  Don 
Juan  faceva  egli  pure  parte  del  corteggio  di  Lady  Adelina.  Egli 
aveva,  nella  sua  qualità  di  diplomatico,  frequentissime  occasioni 
di  vedere  Lord  Henry,  col  quale  doveva  trattare  gravi  affari  di 
politica  estera,  epperò  egli  era  un  intimo  della  casa.  Questo 
dava  occasione  al  mondo  di'  sussurrare  qualche  sospetto  intorno 
alle  relazioni  sue  con  Lady  Adelina  e  alimentava  le  calunnie  dei 
maligni.  Di  che  cosa  non  è  capace  il  mondo  ?  Don  Juan  era  l'eroe 
del  giorno  nella  società  elegante  di  Londra,  e  quando  egli  en- 
trava in  qualche  sala,  un  vivo  movimento  di  simpatia  animava 
subito  il  volto  di  ogni  donna  presente,  rej)resso  naturalmente  su- 
bito dalla  vigile  virtù.  Avviene  che  Don  Juan  si  mostri  premu- 
roso e  gentile  più  che  le  convenienze  non  permetterebbero  colla 
duchessa  di  Fitz-Eulke,  una  signora  galante  e  alla  moda.  Ed  ecco 
Lady  Adelina  mettersi  in  sospetto,  trovar  tro]Dpo  libero  e  ri- 
prensibile il  contegno  della  duchessa,  e  cercar  di  salvare  Don 
Juan  dal  pericolo.  Naturalmente  è  la  virtù  che  le  ispira  tutto 
ciò.  Essa  concepisce  il  pensiero  di  dar  moglie  a  Don  Juan;  è  questo 
l'unico  mezzo  di  sottrarlo  ai  pericoli  della  società  lubrica  in  mezzo 
alla  quale  vive.  Pensato  e  fatto,  ed  ecco  Lady  Adelina  presentare 
a  Don  Juan  una  lista  completa  di  signorine  della  più  eletta 
società,  tutte  adatte  e  convenienti  per  lui.  Però  Lady  Adelina, 
non  si  sa  perchè,  oppure  lo  si  sa  anche  troppo,  aveva  dimenticato 
nella  sua  lista  il  nome  della  signorina  Aurora  liaby,  un  fiore 
appena  sbocciato,  tutto  grazia,  colori  e  profumo,  e  che  aveva  già 
chiamato  su  di  sé  più  d'una  occhiata  tenera  di  Don  Juan.  Siamo 
in  villeggiatura,  ed  ha  luogo  un  pranzo  in  casa  di  lord  Henry. 
Don  Juan,  che  è  fra  gli  invitati,  è  stato  posto  in  mezzo  a  Lady 


LORD   BYRON.  63 

Adelina  ed  alla  signorina  Aurora  ;  situazione  oltremodo  dif- 
ficile !  La  signorina  Aurora  è  l'innocenza  stessa.  Però  Lady  Ade- 
lina non  se  ne  fida  molto  e  teme  un  agguato  per  Don  Juan.  A 
qualche  attenzione  di  Don  Juan,  la  signorina  Aurora  appena  ri- 
sponde con  un  piccolo  cenno  e  accetta  un  complimento  col  più 
grande  riserbo,  quasi  con  indifferenza,  come  cosa  che  non  la  ri- 
guardasse; di  tanto  in  tanto  un  piccolo  sorriso,  ma  lasciato  ca- 
scare dall'alto.  Lady  Adelina,  che  tutto  osserva,  si  crede  vitto- 
riosa. Ma  procedendo  innanzi  il  pranzo,  certe  maniere  e  certe 
attenzioni  di  una  delicatezza  infinita  da  parte  di  Don  Juan  co- 
minciano a  produrre  uno  strano  mutamento  sul  volto  della  si- 
gnorina Aurora,  e  Lady  Adelina  ricomincia  a  temere.  Comunque 
sia,  il  pranzo  è  finito,  e  dopo  un  po'  di  conversazione  ognuno  va 
a  letto  negli  appartamenti  destinatigli,  e  così  pure  fa  Don  Juan. 
Ma  egli  non  può  prender  sonno;  tanta  è  l'agitazione  in  cui  lo 
posero  le  emozioni  della  sera,  e  specialmente  certi  segni  e  certe 
occhiate  femminili  troppo  eloquenti.  Apre  la  porta  della  stanza, 
e  così  per  far  del  moto,  si  mette  a  passeggiare  nella  vicina  gal- 
leria le  cui  pareti  sono  coperte  di  arazzi  e  di  ritratti  di  antenati 
di  Lord  Henry.  Tutto  ciò  lo  fa  pensare  alla  mutabilità  delle  cose 
umane  ed  a  quella  delle  donne  —  strano  accoppiamento  !  Ad  un  tratto 
egli  vede  attraverso  le  ombre  e  lungo  gli  arazzi  muoversi  qualche 
cosa.  Che  è,  che  non  è?  la  figura  è  involta  in  una  tonaca  di 
frate;  passa  e  ripassa  pii^i  volte  dinanzi  a  Don  Juan,  il  quale 
rimane  colpito  dallo  sguardo  vivo  e  sfolgorante  che  aveva  quella 
apparizione.  Egli  aveva  sentito  piìi  volte  parlare  di  uno  spet- 
tro che  sotto  le  spoglie  di  un  frate  abitava  quell'  antico  ma- 
niere, nel  quale  soleva  fare  frequenti  apparizioni  notturne.  Ma 
non  era  uomo  da  credere  a  simili  fole.  Lo  spettro  entra  nella 
stanza  di  Don  Juan.  Questi  vuole  assolutamente  venire  in  chiaro 
della  cosa.  Corre  verso  l'essere  misterioso,  lo  avvolge  nelle  sue 
braccia  e  sente  fremere  in  quell'amplesso  delle  forme  tonde,  piene 
e  resistenti.  L'incanto  è  rotto;  la  figura  lascia  andare  la  veste  di 
frate  che  indossava  e  compare  sotto  le  spoglie  dell'adorabile  con- 
tessa di  Fitz-Fulke. 

Lord  Byron  si  burlava  in  questo  modo  della  società  di  Lon- 
dra, che  in  nome  della  morale  lo  aveva  cacciato  dal  suo  seno  nel 
1816.  Perfino  la  passione  di  far  quattrini  per  cui  tanto  si  contrad- 
distinguono i  suoi  concittadini,  ed  alla  quale  si  sentiva  inclinato 
Lord  Byron  stesso  verso  il  tempo  in  cui  scrisse  il  XII  canto  del 
Don  Juan,  è  presa  di  mira  e  sberteggiata  nel  suo  poema.  «  0  de- 


64  LORD  BYRON. 

iiaro  !  esclama  il  poeta;  perchè  cliiamare  miserabile  l'avaro?  Il 
piacere  ch'egli  gode  non  si  affievolisce  mai;  esso  è  il  piacere  mas- 
simo da  cui  tutti  gli  altri  grandi  e  piccoli  dipendono.  L'amore  e 
le  dissolutezze  rovinano  la  salute,  l'ambizione  logora,  e  chi  gioca 
perde;  ma  il  far  quattrini,  adagio  prima,  poi  in  fretta,  questo  è 
il  meglio  di  tutto.  Viva  i  quattrini!  Chi  ha  in  mano  le  redini  del 
mondo?  Chi  regna  nei  congressi  dispotici  o  liberali?  Chi  ha  l'ul- 
tima e  decisiva  parola  in  politica?  l'ebreo  Eothschild  e  il  suo 
collega*  cristiano  Baring.  Niente  di  meno  speculativo  che  un  im- 
prestito; esso  pone  in  assetto  una  nazione,  o  rovescia  un  trono.  0 
bei  gruzzoli  di  ghinee  e  di  dollari  !  0  sfolgoranti  casse  di  verghe 
metalliche  e  di  monete  di  fresco  coniato!  Sì,  le  monete  sonanti 
hanno  la  piìi  bella  luce  che  esiste.  »  '  I  moralisti  e  i  satirici 
d'ogni  tempo  hanno  preso  di  mira  la  passione  del  far  danaro. 
L'avaro  Ummidio  di  Orazio  sostiene  contro  il  moralista  che  non 
si  ha  mai  troi^pi  quattrini  in  questo  mondo  perchè  tanto  vali 
quanto  hai  : 

Nil  satis,  esr,  inquit,  quia  tanti,  quantum  habeas'  sis. 

La  plutomania  inglese  aveva  pure  ispirato  a  Pope  quei  due  versi: 

There  is  Londoa's  voice,  Get  money,  money  stili! 
And  tlien  let  virtue  foUow,  if  slie  will.  ^ 

Lord  Byron,  il  quale  sapeva  per  propria  esperienza  che  la  plu- 
tomania era  uno  dei  principali  agenti  degli  stessi  liberali  in- 
glesi, non  aveva  tardato  ad  abbandonarsi  allo  scetticismo  politico. 
«  Liberalismo  e  filantropia  non  sono  che  vuote  e  sonanti  parole, 
scrive  egli  in  qualche  luogo  del  suo  giornale;  e  per  mia  parte 
ho  riassunta  la  mia  fede  politica  in  questo  precetto:  il  denaro  è 
potere  ;  e  la  iJovertà.  sclneivitù,'»  ed  aveva  voluto  mostrare  al  mondo 
che  su  questa  cruda  realtà  si  fondava  la  vantata  liberalità  e  la 
grandezza  dell'  Lighilterra. 

Del  resto  nel  Don  Jnem  ce  n'  è  per  tutti.  11  poeta  comincia 
con  un'  apostrofe  ironica  alle  sue  antiche  conoscenze,  Southey  e 
Wordsworth,  e  fa  una  caricatura  buffonesca  di  «sua  moglie,  che 
copre  appena  sotto  il  nome  di  Donna  Inez;  si  burla  dei  Blues 
e  delle  Blues,  cioè  dei  pedanti  e  delle  conventicole  letterarie  del 
suo  paese;  accusa  di  menzogna  la  vantata  sicurezza  pubblica  del- 

'  Don  Jua7ì,  canto  XII,  stan-.e  III,  IV  e  XII. 

-  Satire,  ì,  I. 

3  Epist.  a  Lord  Boiinbroke. 


LORD   BYRON.  65 

r  Inghilterra  facendo  aggredire  Don  Juan  da  una  banda  di  mal- 
fattori appena  si  appressa  alla  capitale  ;  mette  in  canzonatura  gli 
usi  e  costumi  della  società  inglese  in  cui  mai  non  trova  nulla  di 
spontaneo  e  di  naturale  : 

Althougli  it  seems  both  prominent  and  pleaaant, 
Tliere  Ì3  a  sameness  iu  its  gem  and  ermine, 
A  dull  aud  faaiily  likeness  through  ali  ages, 
Of  no  great  promise  for  poetic  pages.  ' 

E  nella  seguente  stanza: 

With  much  to  excite,  there's  little  to  exalt; 
Notbing  tbat  speaks  to  ali  men  and  ali  times  ; 
A  sort  of  varnish  over  every  fault; 
A  kind  of  comraon-place,  even  in  their  crimes; 
Factitious  passiona,  wit  without  much  salt, 
A  want  of  that  true  nature  that  sublimes 
Wate'er  it  shows  with  truth  ;  a  smooth  monotony 
Of  character,  in  those  at  least  who  have  got  any. 

Ride  in  tutto  il  poema  della  religione,  e  fa  passare  per  raffinata 
ipocrisia  la  religiosità  dei  suoi  concittadini;  e  finalmente  se  la 
piglia  anche  col  clima  inglese  che  accusa  di  avere  un  inverno  di 
undici  mesi. 

È  stato  egli  il  Don  Juan  il  semplice  sfogo  di  un'  anima  ama- 
reggiata da  torti  reali  od  immaginarli,  oppure  1'  autore  ebbe  in 
quel  poema  un  intento  più  serio,  il  pensiero  di  contribuire  in 
qualche  parte  a  correggere  il  temperamento  politico  e  sociale  del 
suo  paese  ?  11  temperamento  di  Byron  non  era  tale  da  portarlo  a 
maturare  un'opera  destinata  a  produrre  effetti  lenti  e  lontani.  Egli 
era  anzitutto  artista  ed  obbediva  alle  sue  impressioni  più  imme- 
diate: opperò  si  può  ritenere  ch'egli  abbia  incominciato  il  Bon 
Juan  con  nessun  altro  fine  che  quello  di  spassarsela,  com'  egli 
stesso  dice,  e  starsi  contento  a  godere  quel  piacere  intimo  che  sente 
r  artista  nel  descrivere  le  cose  eh'  egli  ha  vedute,  piacere  che  è 
anche  più  grande  quando  il  mondo  eh'  egli  ha  dinnanzi  a  sé  ha  le 
disuguaglianze  e  il  barocchismo  che  Lord  Byron  vedeva  nella 
società  inglese  e  eh'  egli  pose  ogni  cura  a  mettere  in  mag- 
gior rilievo.  La  società  inglese  s'  inalberò  vivamente  contro 
Lord  Byron  appena  comparvero  i  primi  canti  del  Don  Juan,  spe- 
cialmente per  la  caricatura  eh'  egli  ad  ogni  passo  vi  fa  del  sen- 

^  Canto  XIV,  stanza  XV. 
VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  ISÌQ.  5 


66  LORD   BYRON. 

timento  religioso  del  suo  paese  e  dei  quadri  a  forti  tinte  realiste 
che  qua  e  là  infiorano  il  poema.  Però  si  può  essere  certi  che  il 
Don  Juan  non  ebbe  un  triste  effetto  sulla  morale  in  Inghilterra  ; 
il  ridicolo  che  è  sparso  a  piene  mani  in  quel  poema  non  ebbe  l' ef- 
fetto che  potè  avere,  p.  e.,  la  Pucelle  (V  Orleans  di  Voltaire  in 
Francia.  Non  si  può  dire  lo  stesso  però  di  altre  parti;  la  cari- 
catura che  il  poeta  fa  dell'  aristocrazia  dominante  e  dei  costumi 
politici  dell'  Inghilterra,  e  il  tono  spietato  con  cui  svela  l'ipocrisia 
costituzionale  di  quel  paese  devono  avere  non  poco  contribuito  a 
determinare  quel  movimento  liberale  che,  cominciato  colla  emanci- 
pazione dei  cattolici  sotto  il  ministero  di  Lord  Wellington,  seguitò 
poi  sempre  senza  interruzione,  dando  al  paese  la  prima  riforma 
elettorale  del  1832,  1'  altra  del  1867,  1'  abolizione  della  legge  sui 
grani,  la  soppressione  della  chiesastabilita  in  Irlanda,  ed  altre 
riforme  di  rilievo,  per  le  quali  la  costituzione  politica  e  sociale 
dell'Inghilterra  venne  in  mezzo  secolo  profondamente  mutata. 
L'  arme  del  ridicolo  che  esautorò  tanti  governi  in  Francia,  se  non 
produsse  immediati  effetti  in  Inghilterra;  pose  però  in  sull'avviso 
queir  aristocrazia,  tenacissima  certo  dei  suoi  privilegi  e  delle  sue 
tradizioni,  ma  vigile  sempre  a  spiare  il  vento  che  tira  per  non 
urtare  la  corrente  ed  accomodarsele  con  vantaggio  proprio  e  del 
paese.  È  cosa  facile  condannare  senz'  altro  le  ingiustizie  e  le  tirate 
immorali  che  certamente  abbondano  nel  Don  Juan;  però  non  sì 
deve  neanche  togliere  a  quel  poema  il  merito  di  avere  contribuito 
a  dare  una  forte  scossa  alla  società  inglese  determinandola  ad 
entrare  anch'  essa  nel  nuovo  giro  della  vita  politica  e  sociale  del 


continente. 


YI. 


Tre  quarti  di  secolo  quasi  ci  separano  dal  tempo  in  cui 
vedevano  la  luce  questi  poemi  di'  lord  Byron  ed  occupavano  nel 
più  alto  grado  l'attenzione  del  pubblico.  Quale  cambiamento  da 
quel  tempo  e  che  diverse  vie  si  videro  l'arte  e  la  letteratura 
percorrere  !  Nessuno  ancora  aveva  veduto  un  simile  spettacolo  : 
un  uomo  lanciato  negli  anni  stessi  dell'adolescenza  in  mezzo  al 
mondo  e  impegnato  a  sostenere  una  lotta  ardente  contro  letterati 
prima,  poi  con  tutta  la  società  del  suo  paese.  Par  di  vedere  un 
gladiatore  nel  Circo,  forte,  generoso,  impavido,  risoluto  a  vincere 
0  a  morire.  È  stata  una  tensione  d'animo  e  di  pensiero  che  non 
rimase  sospesa  un  giorno  in  tutta  la   vita   di  Lord  Byron.   Egli 


LORD   BYRON.  67 

l'accettò  eoa  intrepidezza  e  la  proseguì  senza  sgomento  e  senza 
esitare  mai.  Tutto  egli  fece  servire  al  suo  intento,  e  quante  forze 
gli  riesci  di  scoprire  nel!'  interno  suo,  tutte  egli  sviluppò,  rinvi- 
gorì e  rivolse  a  vantaggio  suo  e  di  quella  ch'egli  credeva  che 
fosse  la  sua  causa  personale.  Le  stesse  incredibili  astinenze  alle 
quali  egli  si  sottoponeva  erano  rivolte  a  questo  scopo,  quello  di 
tener  deste  e  non  lasciare  intorpidire  mai  le  forze  del  suo  pen- 
siero. L'uomo  e  lo  scrittore  erano  in  lui  In  stessa  cosa;  scrivere 
per  lui  era  agire,  e  non  si  pose  a  scrivere  se  non  perchè  le  con- 
dizioni del  suo  paese  gli  impedivano  di  agire.  Quindi  egli  riuscì 
scrittore  efficacissimo,  ed  il  più  spontaneo  del  suo  tempo,  il  primo 
di  quelhx  bella  coorte  di  poeti  che  vantava  fra  i  più  illustri  Walter 
Scott,  Kogers,  Moore,  Crabbe.  È  di  moda  ora  il  ridere  dei  dolori 
e  degli  spasimi  di  cuore  e  d'intelligenza  che  travagliavano  il 
povero  Aroldo  e  di  guardare  quella  creazione  quasi  come  una 
anticaglia.  È  passato  il  tempo  delle  grida  disperate  di  Fausto, 
di  Aroklo  e  di  Obermann,  manifestazioni  di  anime  che  si  di- 
battono nelle  strette  di  un  problema  insolubile.  Ora  ognuno 
si  accom.oda  alla  vita  qnale  essa  si  presenta,  e  si  pone  il  maggior 
pensiero  nel  migliorarla.  Ma  quanto  durerà  questa  quiete  apatica 
dell'anima? 

Lord  Byron  soleva  dire  che  non  v'è  nel  Childe  Haroìd  la 
decima  parte  di  verità  che  e'  è  nel  Don  Juan,  e  traeva  argomento 
a  conformarsi  in  questa  opinione  della  preferenza  che  le  donne 
sogliono  dare  al  primo  di  questi  poemi.  Sembra  che  l'autore  abbia 
voluto  nel  Don  Juan  fugare  di  proposito  deliberato  quelle  splen- 
dide larve  che  aveva  evocato  nel  Childe  Harold.  La  bellezza  eterna 
vestita  de'  suoi  colori  immateriali,  quale  figura  in  questo  poema, 
scende  dal  suo  tripode  celeste  e  s'incarna  nella  bella,  ingenua 
appassionata  Aidea.  Addio,  o  grandiose  immagini,  espressione  vi- 
sibile di  un'idea  potente  e  trascendentale  !  Nel  Don  Juan  tutto  è 
umano,  splendono  dapertutto  i  colori  e  i  toni  della  realità.  L'au- 
tore si  diverte  a  lacerare  il  velo  che  nasconde  le  nudità  della 
vita,  e  con  eguale  intento  ma  con  più  grazia  del  suo  compatriotta 
Swift  leva  la  maschera  di  volto  a  tutte  le  ipocrisie  e  a  tutte 
le  falsità  mondane,  a  rischio  anche  di  toccare  alla  veste  sacra  del 
pudore  umano,  dolce  e  serena  immagine  di  una  innocenza  di  altri 
tempi. 

Giovanni  Boglietti. 


DELL!  VITA  E  DELLE  OPERE 

DI  SIMONE  PORZIO- 


{Continuazione  e  fine.) 


Il  pensiero  continuo  di  Simone  Porzio,  su  lo  scorcio  della  sua 
vita,  fu  l'avvenire  de'  propri  figliuoli.  Tra  le  ultime  cose  che  ab- 
bia scritto  sono  da  annoverare  due  lettere,  una  diretta  al  Duca, 
l'altra  alla  Duchessa  di  Firenze:  al  Duca  sei  giorni,  alla  Duchessa 
due  giorni  prima  di  morire.  A  leggerle  si  sente  la  rassegnazione 
del  filosofo,  e  l'affetto  profondo  del  padre  ;  si  sente  inoltre  la  piena 
fiducia  verso  i  suoi  antichi  protettori.  Sul  limitare  della  morte,  ei, 
contro  il  solito,  si  volge  direttamente  alla  Duchessa,  la  quale  come 
donna  ei  stima  più  disposta  ad  accogliere  l'ultimo  voto  di  un  mo- 
ribondo. 

«  Ill.mo  et  Ecc.mo  Signor  mio  Padrone  osservandissimo, 

»  L'affettione  et  la  servitù  che  io  sempre  ho  tenuto  verso  la 
Ecc.  V.  et  l'amore  che  ho  conosciuto  che  quella  di  continuo  et  in 
assentia  et  in  presentia  mi  ha  portato  mi  sforzano  ancora  in  que- 
sti estremi  di  ricordarmi  dell'Eoe.  Sua.  Parecchi  dì  et  mesi 
sono,  mi  trovo  di  diverse  infermità  opjDresso  et  ancora  che  que- 
sti medici  mi  promettono  qualche  di  di  vita,  nondimeno  io  che 
ancor  sono  la  parte  mia  medico  conosco  di  non  poter  durar  molto. 
Per  tanto  innanzi  che  muoia  ho  voluto  con  questa  basciar  le  mani 
della  Ecc.  Sua  e  fargli  intendere  che  ancor  che  la  morte  per  ordi- 
nario dolga  a  ciascheduno  et  a  me  tra  gli  altri,  nondimeno  ella  mi 
duole  assai  manco,  poiché  ho  inteso  tanti  felici  successi  nelle  cose 
della  Ecc.  Sua,  et  così  siguro  che  in  quell'altro  mondo  babbi  a 
udire  di  mano  in  mano.  Restami  solo  supplicarla  che  poi  che  Dio 


DELLA   VITA    E   DELLE   OPERE   DI   SIMONE   PORZIO.  69 

mi  ha  dato  figliuoli,  e  già  di  età  che  possino  in  molte  cose  ser- 
vire a.H'Ecc.  Sua,  si  degni  valersene  et  servirsene  in  tutto  quello 
che  giudicherà  che  saranno  atti  et  utili  per  l'Ecc.  Sua;  et  poiché 
son  certo  che  l'Ecc.  Sua  adempierà  questa  speranza  che  io  ho,  cioè 
che  confermi  il  buon  animo  che  ha  tenuto  meco  in  questi  miei 
figliuoli,  me  ne  vo  tanto  più  lieto  et  contento,  et  non  volendola  piii 
fastidire  humilmente  gli  bacio  le  mani. 

»  Da  Napoli,  il  dì  21  di  agosto  1554. 

»  Deditissimo  Servo 
»  Semone  Portio.  »  1 

E  quattro  giorni  appresso,  scriveva  alla  Duchessa  quest'altra 
lettera  di  consimile  tenore,  e  più  commovente  ancora: 

«  111. ma  et  Ecc.ma  S.  mia  et  Padrona  osservandissima, 
»  Insino  a  mo  che  ho  scritto  all'Ecc.  del  Duca  mio  signore  non 
ho  scritto  altrimenti  all'Eoe.  Sua,  parendomi  di  fargli  torto  se  non 
havessi  creduto  che  scrivendo  a  Sua  Eccellenza  havessi  ancor 
scritto  all'Eco.  Vostra,  sapendo  essere  una  cosa  medesima  con  esso. 
Ma  bora  che  l'infermità  mie  m'han  condotto  a  nn  mal  essere  et 
in  un  certo  dubbio  della  vita,  ho  voluto  separatamente  ragionare 
con  l'E-ic.  Sua  e  dirgli  che  l'ho  in  modo  impressa  nell'anima  che 
in  quel  modo  l'havrò  in  l'altro  come  l'ho  havuta  in  questo  mondo. 
>■>  La  supplico  che  poiché  col  Duca  mio  Signore,  mentre  son 
vissuto,  mi  ha  tanto  aggiutato  et  favorito,  vogli  il  medesimo  fare 
con  me.  benché  morto,  dico  meco,  perchè  facendolo  con  questi 
mia  figliuoli,  che  sono  le  carni  mie,  farà  tanto  quanto  se  in  pro- 
pria persona  l'Eoe.  Sua  si  adoperassi.  Et  perché  so  di  dargli  do- 
lore perdendo  un  si  affettionato  servidore,  fo  fine  con  pregargli 
lunga  et  felice  vita  insieme  coi  figliuoli  e  con  la  Ecc.  del  Ducha 
suo  consorte. 

»  Da  Napoli  il  dì  25  di  agosto  1554. 

»  Di  V.  S.  Ill.ma  et  Ecc.ma 

»  Deditissimo 

»  Semone  Pgrcio-  »  - 

11  Porzio  morì  il  27  agosto,  due  gioi-ni  dopo  scritta  la  prece- 
dente lettera;  né  i  suoi  voti  furono  vani,  perché  il  Duca  non  mancò 
de'  suoi  buoni  uffici  verso  i  figli  del  morto  filosofo  :  il  Duca,  e 
quelli  di  sua  casa.  Infatti  Camillo,  che  s'era  dato  all'avvocheria, 

'  Archivio  mediceo,  filza  433,  a  e.  488. 
"  Archivio  mediceo,  filza  432  a  e.  916. 


70  DELLA  VITA  E    DELLE   OPERE   DI   SIMONE  POKZIO. 

ed  era  divenuto  feudatario  di  Geritola,  quando  chiese,  il  1561, 
l'ufficio  di  Consigliere,  fa  raccomandato  non  solo  dal  Duca  Cosi- 
mo, ma  dal  Cardinale  Griovanni  suo  tìglio.  Similmente  fu  racco- 
mandato l'altro  figlio,  Antonio,  die  poi  fu  Vescovo  di  Monopoli. 
In  certi  appunti,  comunicatimi  gentilmente  dal  signor  Milanesi, 
e  ricavati  dagli  Avvisi  di  Eoma,  sotto  la  data  del  27  luglio  1571, 
si  legge: 

«  Il  luogo  di  Monsignor  Aldobrandino  Segretario  si  crede 
che  si  darà  all'Abate  Portio  gentiluomo  napoletano,  et  amico 
strettissimo  del  Cardinale  de' Medici,  di  Sansererina,  Sirleto  et 
altri.  >  ' 

I  Medici  adunque  continuarono  a  proteggere  quelli  che  Simone 
con  frase  energica,  che  rivelava  tutto  l'amor  paterno,  aveva  racco- 
mandati come   carne  sua;  e  di  ciò  vanno  sommamente  lodati. 

II. 

Delle  lezioni  dettate  dal  Porzio  non  rimangono  manoscritti, 
salvo  alcuni  fogli  conservati  nella  Biblioteca  Nazionale  di  Firenze, 
di  cui  diremo  tra  poco.  È  un  fatto  degno  di  nota,  quando  si  con- 
sideri che  di  altri  tanto  minori  di  lui  abbiamo  ancora  i  cartolari. 
La  spiegazione  di  questo  fatto,  a  parer  mio,  si  può  desumere  da  ciò 
che  avvertì  il  Tasso,  ponendo  in  bocca  del  nostro  Porzio  le  seguenti 
parole:  «  Io  tuttavolta  ho  seguitata  e  seguito  quella  (l'opinione) 
de'  Greci,  cli'è  la  più  antica  per  origine,  e  la  più  salda  per  fon- 
damento di  ragione,  e  la  più  reverenda  per  età,  ma  non  ho  avuti 
sempre  seguaci  i  miei  scolari  medesimi.  » 

Fosse  l'abitudine  di  seguire  il  commento  arabo,  o  la  difficoltà 
maggiore  di  servirsi  de'  testi  greci,  certo  è  che  non  tutti  gli  scolari 
erano  in  grado  di  profittare  dell'insegnamento  del  Porzio.  La  via 
più  facile  è  sempre  la  più  battuta.  Anche  Lelio  Torelli,  propo- 
nendo quel  poveraccio  del  Lapino,  com'ei  stesso  lo  chiamava,  scri- 
veva al  Lottini  un  giudizio  che  avvalora  la  nostra  congettura: 

«  Benché  la  filosofia  mi  pare  non  patiscili  molto,  se  il  Porzio 
vorrà  faticare  un  poco,  e  leggere  cose  utili  a  scholari,  come  non 
fece  l'anno  passato,  che  lesse  lezioni,  si  può  dir  da  vaglia,  e  di 
ninno  profitto  a  chi  ha  bisogno  d'imparai-e.  »  - 

Questa  lettera  riportata  dal  Fabbroni  è  del  1548,  quando  il 
Porzio  leggeva  a  Pisa  da  due  anni.  Intendendo  che  l'utile  degli 

'  Avvisi  di  Roma,  filza  4027. 
2  Faljbroni,  pag.  335. 


DELLA   VITA   E   DELLE   OPERE   DI   SIMONE    PORZIO.  71 

scolari  non  consistesse  nelle  lezioni  da  vaglia,  il  Torelli  stesso  ne 
concludeva,  che  il  Porzio  giovava  all'Università  più  con  la  riputa- 
zione e  col  nome,  che  con  l'effetto.  Della  qual  conclusione  non  è 
da  dire  quanto  si  compiaccia  il  Fabbroni,  che  mostra  contro  il  Por- 
zio una  certa  parzialità  e  malevolenza.  Egli  intanto  avrebbe  potuto 
riferire  altre  testimonianze,  che  suonano  ben  altrimenti,  e  che  levano 
a  cielo  quell'insegnamento,  giudicato  da  lui  pressoché  inutile.  Ecco 
che  cosa  ne  scriveva  Simone  Fornari  di  Reggio  di  Calabria  all'ar- 
civescovo Agostino  Gonzaga,  nella  parte  seconda  della  Esposizione 
sopra  Y Orlando  Furioso:  «  Mi  sono  portato  a  Pisa  per  udire  il  dot- 
tissimo, et  dal  mondo  honoratissimo  Simon  Portio  philosopho,  et 
senza  contradiction  veruna  in  questa  età  Principe  de  philosophi. 
Questi  avendo  gli  anni  adietro  con  profitto  inestimabile  d'inge- 
gnosi et  dotti  gioveni,  tutte  le  sublimi  et  oscure  parti  della  phi- 
losophia  esposte,  et  dilucidate;  questo  presente  anno  (1550)  con 
meraviglia,  et  istupore  di  chi  l'udì,  si  vide  con  tanta  certezza 
et  lume  di  verità  esporre  le  meteore,  che  quelle  sue  dichiara- 
zioni parevano  non  cose  da  pura  mente  umana  imaginate,  ma 
dette  da  una  di  quelle  superne  intelligentie  che  muovono  i  cieli, 
qua  in  terra  discese  per  palesare  a'  mortali  gl'incomparabili  se- 
creti della  natura  et  di  Dio.  »  ^ 

Nel  giudizio  di  Simone  Fornari  c'è  dell'entusiasmo  meridio- 
nale, come  in  quello  di  Angelo  Fabbroai  c'è  del  rigore  gianse- 
nistico. Vediamo  ora  le  poche  lezioni  che  ci  rimangono  manoscritte 
per  giudicare,  come  suol  dirsi,  ex  ungue  leonem. 

Il  breve  ms.  è  intitolato:  Domini  Simonis  Portii  in  lihrum 
primum  de  coclo  cxposìtio  feìiciter  incipit.  Contiene  cinque  lezioni, 
e  non  più;  e  non  è  autografo. 

L'esordio  comincia:  prioribus  annis  Aristotelem  salutavimus 
pliirihus  proloqiiiis;  sicché  accenna  ad  un  insegnamento  continuato: 
dove  ?  A  Napoli,  o  a  Pisa  ? 

Per  me  questo  frammento  di  corso  si  riferisce  all'insegna- 
mento dato  a  Napoli,  dopo  essere  stato  a  Pisa  la  prima  volta.  L'au- 
tore difatti  si  mostra  informato  de'codici  che  si  trovavano  a  Firenze. 
«  Theniistius  non  invenitur  apud  nos,  sed  est  Florentiis  »  (sic). 
Ora  il  commento  sul  De  coelo,  essendo  stampato  la  prima  volta  a 
Venezia  il  1574,  il  Porzio  non  avrebbe  potuto  studiarlo,  se  non 
fosse  stato  in  Firenze.  D'altra  parte  adducendo  alcuni  esempi  di 
una  grandezza  sproporzionata,  ei  si  serve  di  tali  similitudini,  che 

'  Della  Esposizione  sopra   1'  Orlando  Furioso.  —  Parte  II,  in  Fiorenza  l3  )0, 
appresso  Lorenzo  Torrentino. —  Nella  lettera  dedicatoria  in  data  del  20  giugno  1550. 


72  DELLA   VITA  E   DELLE   OPERE   DI   SIMONE   PORZIO. 

non  avrebbero  potuto  occorrere,  se  non  a  chi  parlava  dimorando  in 
Napoli.  Eccole  riportate  testualmente,  anche  per  dimostrare,  come 
sebbene  l'insegnamento  allora  si  facesse  in  latino,  pure  vi  s'in- 
tercalavano soventi  non  solo  frasi  italiane,  ma  anche  di  dialetto. 

«  Si  faceres  una  nave  che  fosse  doi  miglia,  porriate  servire 
a  la  navigatioiie  ?  No,  quia  ista  quantitas  excedit  modum  navi- 
gandi:  se  fosse  quanto  una  coccola  de  nocella?  Manco,  quia  haec 
quantitas  non  posset  exire  ad  tale  opus,  ut  sit  determinatae  quan  ■ 
titatis,  similiter  in  natura,  sicut  in  arte.  Se  se  facesse  uno  homo 
che  avesse  uno  dito  da  equa  a  posilipo,  quoraodo  posset  operare  ? 
Similiter  se  havesse  uno  naso,  che  diceva  messere  Angustino,  da 
equa  a  lo  globo  de  la  luna,  innante  che  soffiasse,  nge  vorria  uno 
anno,  ergo  res  naturales  determinant  sibi  certam  materiam  et 
quantitatem.  »  ^ 

Farmi  evidente  che  non  può  parlare  di  un  naso  fino  a  Posi- 
lippo,  se  non  chi  discorre  stando  a  Napoli.  Ed  un'  altra  cosa  parmi 
da  notare  pure,  la  menzione  di  aver  udito  messer  Agostino,  ch'è 
il  Nilo. 

Stal)ilito  il  luogo,  ed  anche  approssimativamente  il  tempo, 
cui  si  dee  riferire  il  frammento  di  manoscritto  della  Magi labechiana, 
dico  due  parole  intorno  al  metodo  dell'insegnamento,  cbe  se  ne 
può  argomentare. 

Il  Porzio  si  studia  di  commentare  Aristotele  con  Aristotele 
stesso  :  nielius  est  Aristoteleni  per  Aristotdem  exponere.  Tra  i  com- 
mentatori poi  preferisce  i  greci  :  chiama  Simplicio  un  gran  mae- 
stro :  loda  Averroè  per  l'acume  dell'ingegno,  onde  sebbene  avesse 
tra  le  mani  un  testo  scorretto,  pur  nondimeno  raro  è  che  non  im- 
brocchi nel  segno.  Prevalendosi  della  non  comune  perizia  della 
lingua  greca,  il  Porzio  riscontra  le  traduzioni  col  testo  greco  : 
raddrizza  le  false  interpretazioni  ;  disdegna  gli  storcimenti  cavil- 
losi, e  se  la  piglia  con  quel  formalismo  logico,  ch'era  invalso  spe- 
cialmente per  colpa  della  scuola  di  Parigi. 

«  Vellem  ridere  a  queste  consequentiae  di  Strodo  :  mira  a 
chi  li  antichi  se  confidavano,  et  quod  peius  est,  le  hanno  commen- 
tate, et  tutto  venne  da  la  scola  de  Parisi,  da  lo  collegio  Montis 
acuti  :  ora  famme  questo  sillogismo,  o  Simplicio,  et  vedi  se  con- 
clude. » 

Il  logico  a  cui  allude  qui  il  Porzio  ò  quel  Kodolfo  Strodo, 
autore  di  un'  opera  intitolata  Consequentiae,  fiorito  circa  il  1370, 

'   Vedi  il  ms.  della  Magliabechiana,  che  non  è  numeralo. 


DELLA    VITA    E   DELLE   OPERE   DI    SIMONE    PORZIO.  73 

competitore  del  Vicleffo  in  teologia,  e  messo  in  canzone  dal  Fo- 
lengo. ' 

Stando  a  qnesto  saggio  che  abbiamo  avuto  sott' occhio,  le 
lezioni  del  Porzio  ci  sembrano  Incide,  precise,  e,  fatta  ragione 
de'  tempi,  piene  di  dottrina. 

Toccato  dell'  insegnamento  orale ,  venghiamo  alle  opere 
stampate. 

Prima  in  ordine  di  tempo  è  forse  1'  opuscolo  :  Bc  pìiella  ger- 
manica. Veramente  la  prima  volta  fu  pubblicato  senza  data,  ma 
essendo  stato  dedicato  a  Paolo  III,  e  questi  essendo  stato  creato 
papa  r  ottobre  del  1534,  è  chiaro  che  se  ne  dee  riportare  la  pub- 
blicazione dopo  di  quel  tempo. 

Il  De  Thou  afferma  che  il  Porzio  fu  richiesto  del  suo  parere, 
non  dice  però  da  chi  :  soggiungo,  che  risi30se  al  Pontefice  :  se 
sia  stato  il  Pontefice  stesso  a  richiedernelo,  non  appare.  Appar 
certo,  che  il  filosofo  non  voleva  con.  la  spiegazione  data  intoppare 
contro  i  sospetti  della  Chiesa,  come  chi  s' ingegnasse  di  chiarire 
per  vie  naturali,  fatti  che  avevano  del  portentoso.  Ei  prega  il 
Pontefice,  afiinchè  il  suo  avviso  sia  ponderato  nella  bilancia  della 
verità  ;  e  la  bilancia,  si  sa,  l'aveva  in  mano  Paolo  III.  Fu  pesato, 
e  fu  trovato  giusto:  e  fin  d'allora  forse  il  Pontefice  ne  concepì 
stima,  onde  allorché  lo  vide  a  Koma,  come  abbiamo  detto,  cercò 
di  ritenerlo  appresso  di  sé. 

Quando  l'opuscolo  si  ristampò  a  Firenze  il  1551,  ed  il  Gelli 
lo  tradusse  in  italiano,  il  traduttore  vi  premise  una  breve  nar- 
razione del  fatto,  che,  in  sostanza,  dice:  esserci  stata  l'anno  1531 
una  fanciulla  nomata  Margherita,  figliuola  di  una  Barbara  e  di 
un  Pietro,  lavoratore  di  terra,  nella  villetta  di  Roet  presso  Spira, 
la  quale  fanciulla  era  vissuta  circa  due  anni  senza  mangiare  e 
senza  bere.  Il  caso  parve  maraviglioso,  e  Ferdinando  re  de'  Ro- 
mani, quando  passò  per  Spira,  tornando  dalla  impresa  di  Unghe- 
ria, volle  vederla;  e  la  fece  visitare  da  Greraldo  Bo'^coldeano 
medico  alemanno.  Osservata  per  quaranta  giorni,  benché  invitatavi. 
non  assaggiò  cibo:  il  Gelli  asseriva,  che  vivesse  ancora  a' tempi 
suoi. 

Ecco  il  fatto  che  diede  origine  alla  dissertazione  del  Porzio, 
narrato  con  più  particolari  dal  brioso  calzaiolo  fiorentino. 

Dopo  questa  prima  pubblicazione,  se  ne  dovrebbe  aggiungere 

'   Il    Folengo  nell'ulfimo  can^o  della  Macàroyiea   tra  quelli    che    formavano  la 
scuola  de'sapientoni  annovera  questo  Strodo  : 

«  Illic  Burleus,  Strodus,  Simplicius.  Hermes.  » 


74  DELLA   VITA   E  DELLE   OPEKE   D(   SIMONE   PORZIO, 

un'  altra:  De  coelihntu,  stando  alle  assicurazioni  de'  biografi:  fatto 
sta  che  per  cercare  che  ne  avessi  fatto,  non  mi  è  riuscito  di  rin- 
venirla in  nessuna  biblioteca;  non  a  Napoli,  non  a  Firenze,  dove 
principalmente  si  sarebbe  dovuta  trovare.  Sospetto  non  sia  stato 
stampato  punto  questo  opuscolo,  e  che  sia  corso  manoscritto  ;  certo 
è  che  vi  allude  1'  Anisio  nell'  epigramma  riferito,  con  le  parole  : 
fu  quia  tantopere  gaudehas  coelihe  vita  :  ma  dall'  averlo  compo- 
sto e  comunicato  agli  amici  ad  averlo  messo  a  stampa  ci  corre. 
Debbo  tuttavia  avvertire  che  il  Tafuri  non  dubita  di  accennare 
perfino  l'editore,  e  il  formato,  e  l'anno:  Be  coeUbatu  apud  Joan- 
nem  Sultzhachium,  1537  in-4°;  e  che  il  Fabbrucci  attesta  che  per 
questa  e  per  un'  altra  pubblicazione,  di  cui  diremo,  venne  in  fama 
appresso  Cosimo;  ma  parmi  impossibile,  che  mentre  di  tutte  lo 
altre  opere  si  ha  notizia,  mentre  di  tutte,  quando  ei  fu  a  Firenze, 
si  fece  ristampa  co'  tipi  del  Torrentino,  quest'  una,  così  ghiotta, 
fosse  stata  trascurata. 

11  27  ed  il  28  di  settembre  del  1538,  nelle  vicinanze  di  Na- 
poli, successero  grandi  tremuoti;  il  29  sollevossi  tra  Monte  Bar- 
baro e  il  lago  di  Averno  quel  monte,  che  si  dice  Monte  Nuovo: 
sTli  animi  erano  sbigottiti:  il  Porzio  ne  scrisse  una  relazione  a 
Don  Pietro  di  Toledo,  dove  si  propose  di  spiegare  quegli  avve- 
nimenti con  le  cause  naturali,  mentre  i  più  ci  vedevano  del  por- 
tento :  causas  naturae  convenientes  explicare  tentabo. 

La  relazione  è  in  forma  di  lettera  al  Viceré,  suo  Mecenate, 
e  porta  il  titolo  :  De  conflagrai  ione  agri  piifcolani,  Simonis  Portii 
Neapolitani  cpisfoìa.  Pubblicata  la  prima  volta  a  Napoli  dal 
Sultzbach  il  1538,  fu  poi  ripubblicata  a  Firenze  il  1551. 

Ed  ecco  le  poche  cose  composte  dal  Porzio  a  Napoli,  alle 
quali  si  potrebbero  aggiungere  alcune  dissertazioni  pubblicate 
molti  anni  dopo  la  sua  morte  dal  Marta,  che  non  sono  però  di 
grandissima  importanza;  di  cui  alcune  anzi  non  erano  inedite. 
Esse  haimo  i  seguenti  titoli:  De  specicbiis  infeUigibilihns,  una;  e 
l'altra:  Quaestio  num  detur  sensus  agens.  Le  altre  due  erano 
state  pubblicate,  e  non  sappiamo  perchè  il  Marta  le  abbia  messe 
insieme  con  le  inedite.'  Esse  sono:  una  De  puella  germanica,  l'al- 
tra De  dolore. 

Le  due  prime    dissertazioni    appartengono   all'  insegnamento 

i  «  Opnscula  excellentissimi  Simonis  Portii  Neapolitani  cum  Jacobi  Anionii 
Martae  phiiosophi  neapolitani  Apologia  de  Imraortalitate  animae  adversus  opuscn- 
lum  De  mente  humana.  —  Ad  illustrem  et  maximum  Virum  Alonsum  Salazar  Re- 
ginm  Consiliariura  Lateranensem.  »  Ex  superiorum  permissu.  N'eapoli  apud  Iloratium 
Salvianum,  1518. 


DELLA    VITA    E    DELLE   OPERE    DI   SIMOXE    PORZIO.  75 

dato  a  Napoli;  né  hanno  novità,  essendo  le  solite  ad  agitarsi  a 
proposito  dei  libri  De  anima.  Il  Marta  stesso  lo  dice,  confermando 
ciò  che  con  altri  documenti  è  stato  posto  in  sodo,  cioè  che  il 
Porzio  abbia  insegnato  a  Napoli.'  E  soggiunge  esservi  stato  indotto 
dalle  premure  degli  amici,  ai  quali  pareva  non  doversi  lasciare 
occulte  quelle   questioni  dal  Porzio  con    tanta  esattezza  trattate. 

Venuto  che  fu  a  Pisa,  il  Porzio  diessi  ad  alcune  ricerche,  le 
quali  pur  troppo  non  gli  fruttarono  quel  nome  cli'ei  se  ne  ripro- 
metteva. Il  Tuano  racconta  eh'  egli  a  Pisa  intendeva  a  scrivere 
la  storia  de' pesci:  che  avuto  ch'ebbe  il  libro  del  Rondelet,  che 
questi  aveva  composto  sui  commentari  del  Pelissier  vescovo  di 
Montpellier,  smise  non  sine  occulto  livore,  perchè  si  vedeva  tolta  la 
gloria  che  sperava  da  quell'opera;  non  giudicando  opportuna  la 
pubblicazione  del  suo    libro  dopo  quella  dello  scrittore  francese. - 

Non  sarà  inutile  ora  aggiungere  i  documenti  che  ci  è  venuto 
fatto  di  raccogliere  intorno  al  modo  come  il  Porzio  lavorava,  ed 
intorno  al  destino  ch'ebbero  le  sue  ricerche.  Abitando  in  una 
città  a  poca  distanza  dal  mare,  aiutato  nell'impresa  dal  Duca,  il 
Porzio  faceva  raccolta  de' pesci  più  rari,  e  ne  faceva  studio:  tal- 
volta se  li  faceva  dipingere  da  Francesco  Bertini,  detto  il  Ba- 
chiacca,  eh'  era  il  pittore  del  Duca  stesso.  Riscontrava  le  osser- 
vazioni proprie  con  quelle  fatte  da  Aristotile  in  quella  storia 
degli  animali,  che  servi  di  modello  ai  naturalisti  del  risorgimento; 
e  talvolta  a  quelle  del  filosofo  greco  aggiungeva  le  sue.  Ecco  due 
lettere  che  si  riferiscono  appunto  a  queste  ricerche  : 

«  Ill.mo  et  Ecc.mo  Sig.  mio, 
»  Viene  da  V.  Eccellentia  uno  vitello  marino,  che  è  tanto 
grande,  se  pò  ben  dire  Bo  marino,  secondo  Aristotile,  quatrupede 
imperfetto  e  animale  ambiguo,  e  terrestre  e  aquatico,  e  se  notri- 
sce  dentro  1'  acqua  et  fuori,  dorme  nell'  acqua,  attuffase  come  la 
ranocchio,  e  spesso  al/a  il  capo  for  de  l'acqua,  perchè  spira,  et 
partorisce  nel  litto.  et  latta  come  cagnia,  et  bave  doi  tette,  de 
li  parti  al  più  ne  fa  tre,  et  per  dodici  dì  li  tiene  in  terra;  poi 
con  le  mano  dinanti  le  mena  et  porta  ad  avezarle  ne  l' acqua 
più  spesso:  partorisce  quando  le  prime  capre  partoriscono  di  gen- 
naro  ;  usa  il  coito  comò  il  cane,  et  sta  un  pezzo  a  staccarsi  come 
li  cani;  la  pelle  durissima,  et  dice  Aristotile  difficilmente  s' am- 

1  «  Quod  advertens  philosophus  hic  insignis  dum  Neapoli  secimdum  de  anima 
libellum  interpretabatur,  quaestionern  hanc  (de  intelligendo  per  species^  peregit 
gravissime.  »  Id.  eod.,  pag.  31. 

2  Jacobi  Aur,!:sTi  Tiiuani,  IIi.\toi\  Londiiii,  1~33,  tomo  I,  pag.  459. 


76  DELLA   YITA  E  DELLE   OPERE   DI   SDIOXE   PORZIO. 

mazza,  se  no  a  le  tempie  ferito,  more  presto,  chiamasi  vitello; 
che  quando  dorme  muge  comò  vitello,  esce  più  delle  fiate  di  notte 
dal  mare,  et  comò  nel  Nilo  sono  li  cocrodilli,  nel  mare  sono  li 
vitelli  :  li  reni  benché  siano  come  quelli  del  bove,  sono  tanto  forti 
et  duri  più  de  li  animali  terrestri.  Dice  Aristotile  che  non  have 
tele,  Eudemio  dice  farse  domestico  con  li  pescatori  ;  questo  Ari- 
stotile non  dice,  dice  bene  essere  bestia  malefica:  le  parte  poste- 
riore V.  Eccellentia  lo  vederà,  e  corno  ne  le  mano  dinanzi  è  si- 
mile all'  orso,  et  li  membri  naturali  sono  grandi.  Et  le  baso  le 
mano  senza  fine,  et  a  la  Signora  mia  la  Signoria  Duchessa,  che  Dio 
vi  prosperi  come  desiderate. 

»  De  V.a  Ecc.tia 

»  Da  Pisa  a  dì  14  febbraio  del  49. 

»  Servo  deditissimo 
->->  Simone  Portio.  »  ' 

L'  anno  appresso,  mentre  egli  passava  le  vacanze  a  Firenze, 
ed  il  Duca  villeggiava  a  Poggio  a  Caiano,  gli  scrive  di  altri  pesci 
rari,  statigli  portati  dalla  Spezia,  e  de' ritratti  che  ne  aveva  fatti 
fare.  Ecco  la  lettera,  eh'  è  pure  importante  per  un  altro  verso  ; 
perchè  ci  fa  sapere,  che,  mentre  attendeva  alla  stampa  del  De 
niente  Jmmana,  il  Porzio  andava  a  chiesa  per  guadagnarsi  le  in- 
dulgenze del  giubileo. 

«  HWo  et  Ecc™"  Sig.  mio, 

»  Non  posso  difendermi  da  li  infortunio  Volendo  domenica  pi- 
gliare il  Jubileo -in  la  Nuntiata,  tanta  fola  calca  de  le  gente  che 
me  ferno  cascar  in  compagnia  di  molti  altri  che  mi  dolo  il' brac- 
cio. Di  poi  il  sig.  Cesaro  sta  male  in  letto  sono  quattro  dì,  et 
mi  ha  stretto  che  non  vengha  al  Pogio  per  doi  dì,  et  più  de  la 
febre  have  peggio,  che  a  bocca  dirrò  ad  V.  Ecc.:  per  questo  non 
sono  venuto. 

«Mando  tre  pesci;  quali  sono  otto  giorni  vennero  perle  po- 
ste da  la  Spetia,  ne  è  uno  rarissimo,  et  sono  tardato  a  mandarlo: 
che  ne  ho  fatto  lare  il  ritratto  al  pittore  di  V.  E.  Bachiacca,  et 
comò  quella  vederrà,  assai  l'ha  fatto  simile. 

»  La  supplico  che  mi  li  rimandi  tutti,  che  il  Cardinale  di  Santa 
Croce  per  certi  homori  melincolici  che  le  son  venuti,  me  pregha  li 
mandi  ad  vedere  di  pesci,  io  non  voglio  mandarli  quelli  de  la 
Spezia,  li  manderò  quelli  di  Firenze  amarinati  quando  V.  Ecc. 
ne  sia  servita,  altramente  non  li  vederà  né  l'uno  né  li  altri.  Et 

1  Archivio  mediceo,  filza  391   'bis)  e.  856. 


DELLA.   VITA   E    DELLE   OPERE   DI   SIMONE    PORZIO.  77 

quanto  posso  me  li  l'accomando,  basandole  la  mano   et   li   pedi, 
et  a  la  signora  mia  la  Signora  Duchessa,  che  Dio  li  conservi. 
»  Da  Firenze,  a  dì  10  di  settembre  del  50. 

»  Sen)o  deditissimo 
Simone  Portio.  »  ^ 

Di  queste  ricerche  il  Porzio  aveva  preso,  nota,  e  compostone 
un  catalogo,  del  quale  si  doveva  essere  sparsa  voce  anche  fuori 
di  Firenze  e  di  Napoli,  perchè  il  celebre  Ulisse  Aldovrandi,  in- 
defesso ricercatore  de'varii  regni  della  natura,  lo  domandava  al 
Maranta,  due  anni  dopo  ch'era  morto  il  Porzio.  E  noi  siamo  in 
grado  di  dimostrare,  che  l'Aldovrandi  il  catalogo  l'ebbe,  e  che 
quindi  il  frutto  delle  osservazioni  del  nostro  filosofo  non  andò 
perduto  per  la  scienza. 

Nel  copioso  carteggio  tenuto  dall'Aldovrandi  in  tutte  le  re- 
gioni d'Italia  per  la  fondazione  del  suo  celebre  Museo,  e  con- 
servato nella  biblioteca  di  Bologna  in  quattro  grossi  volumi,  ho 
rinvenuto  la  seguente  lettera  del  napoletano  Pinelli,  professore 
all'università;  di  Padova,  che  tanto  aiutò  l'impresa  dell'Ulisse  fel- 
sineo, come  i  suoi  ammiratori  lo  chiamavano. 

«  Molto  magnifico  signore, 
»  M.  Bartolomeo  Maranta  si  ritrova  al  Campo  Imperiale  ap- 
presso r  illmo.  sig.  Vespasiano  di  Gonzaga  per  medico,  et  ha- 
vendo  lasciate  persone  trascurate  a  ricomperar  le  sue  lettere, 
n'  è  venuto  che  questa  matina  mi  sono  state  portate  a  casa  le 
lettere  vostre,  di  Mad.  Gentile  "^  sì  che  havete  risposta  tarda,  pur 
gliele  ho  mandate,  et  io  in  servitio  suo  vedendo  che  desiderate 
il  catalogo  de' pesci  del  Portio,  ve  lo  mando,  qual  hor  bora  ho 
finito  di  copiare,  et  così  farò  in  tutto  quello  che  vedrò  poter  fare 
per  Lei,  et  priegola  tenermi  per  amico,  come  pure  la  bona  me- 
moria di  M.  Luca  s'ora  fatto  tutto  mio  per  tal  mezzo  termino, 
dico  del  nostro  M.  Bartolomeo;  né  vi  curate  che  procediamo  de 
ignoto  ad  ignotiim,  perchè  introdurremo  una  foggia  nova  de  sil- 
logismi. State  sano  ed  amatemi. 

»  Di  Napoli,  il  1  d'ottobre  1556. 

»  Servitore 

»  Gio.  Vincenzo  Pinelll  ^ 

»  Al  molto  Mag.co  et  honorando 

»  Signor  mio  M.  Ulisse  Aldovrandi  in  Bologna.  » 

'  Archivio  Mediceo,  Filza  399,  e.  137. 

2  Madama  Gentile  era  la  vedova  di  M.  Luca  Ghini,  stato   professore  di    sem- 
plici a  Pisa,  e  poi  a  Bologna. 

3  Carteggio  di  Ulisse  Aldovrandi,  tom.  I. 


78  DELLA   YITA   E   DELLE   OPERE   DI  SIMONE   PORZIO. 

Lo  studio  de' fenomeni  naturali  non  andò  scompagnato  nel- 
l'animo del  Porzio  da  quel  buonsenso,  che  non  era  frequente  nei 
naturalisti  anteriori  all'  età  del  Galilei.  Egli  stesso  nella  lettera 
a  Don  Pietro  di  Toledo  nota  l'abuso  e  lo  biasima:  «  H(x€C  igitur, 
conclude  in  fin  d'essa  lettera,  mi  Moecenas,  scribenda  duxi;  ne  ha- 
rioli,  sonmiorumque  interpretes,  ac  vulgares  astrologi  alio  trahant 
quae  natura  duce  provenìimt. 

Verso  gli  ultimi  tempi  della  sua  vita,  fosse  stanchezza  di 
mente,  o  che  l'abuso  condannato  in  altrui  non  gli  pareva  con- 
dannevole in  persona  sua,  scrive  al  duca  di  certe  sue  predizioni 
intorno  alle  turbolenze  che  avevan  travagliato  principalmente  la 
Toscana  per  causa  della  guerra  di  Siena  :  va  più  in  là,  presa- 
gendo una  pace,  la  quale  non  si  verificò  per  altri,  che  per  lui^ 
essendo  indi  a  pochi  giorni  morto.  Nell'animo  di  Cosimo  queste 
l)redizioni  trovavano  facile  accesso,  tanto  che  nello  Studio  di  Pisa 
non  aveva  mancato  di  preporre  all'insegnamento  di  astrologia, 
con  lauto  stipendio,^  fra  Girolamo  llistori  da  Prato,  solo  per  avere 
presagito  la  morte  violenta  del  duca  Alessandro,  quale  poi  real- 
mente successe  ;  e  per  avere  svelato  a  Cosimo  stesso  alcune  insidie 
tese  contro  la  sua  persona. 

Ecco  la  lettera,  una  delle  ultime  del  nostro  Porzio,  scritta, 
sembra,  udito  eh'  ebbe  i  lieti  successi  delle  armi  fiorentine  su 
l'esercito  di  Pietro  Strozzi,  nella  battaglia  di  Marciano  combattuta 
il  2  agosto  1554. 

«  Eccellentissimo  et  illustrissimo  signor  mio,  honor  d'Italia, 

»  Non  poteva  Iddio  benedetto  mostrare  il  valore  et  delle 
genti  et  della  persona  Vostra,  et  dell'animo  vostro,  se  non  fussero 
venuti  gli  turbatori  della  quiete  dell'Eccellenza  Vostra  a  irritarla,^ 
che  ha  mostrato  con  quanta  prudenza  gli  ha  vinti  et  domati. 
Et  benché  io  scrissi  due  lettere,  una  al  signor  messer  Lelio  e 
l'altra  all'Eccellentia  Vostra  di  quello  che  mi  pareva  che  le  stelle 
promettevano,  et  già  ho  cominciato  a  mostrare  la  quiete  che  ha 
promesso  al  mese  di  ottobre,  et  già  è  felice  principio  della  quiete 
come  si  ragiona,  et  a  me  ha  fatto  quel  che  tutti  e  medici  non 
poterno  fare,  che    quattro  mesi  ho  un   esito   di   sangue,    che   mi 

•  Nella  nota  degli  stanziamenti  de'  professori  ili  Pisa  per  Tanno  1547,  si  tro- 
vano assegnati  200  ducati  a  M.  Giuliano  del  Carmine  astrologo.  Il  GeUìne'' Cajìricci 
del  Bottaio  chiama  questo  Giuliano  immagine  di  Dio,  e  dice  che  istruiva  nella 
matematica  un  Camerino  iegi-.aiuolo. 


DELLA  VITA   E   DELLE   OPERE  DI  SIMONE   PORZIO.  79 

havea  infiacchito  assai,  questa  nuova  mi  lia  riavuto,  clie  spero 
nella  vita  star  più  che  prima.  Et  più  spero  quanto  la  quiete  clel- 
l'Eccellentia  Vostra  verrà  più  confirmata.  Et  come  di  queste  bande 
io  intenderò  buona  nuova,  1'  Eccellenza  Vostra  sappi  che  sarrà 
pontello  della  vita  mia.  Sì  che  sia  rin^ratiato  Iddio  et  le  stelle 
che  questo  ci  promettono.  Desidererei  che  la  mia  signora  Duchessa 
et  l'Eccellenza  Vostra  mi  comandassero  così  amalato  in  cosa  eh'  io 
potessi  servirgli,  perchè  nessuna  cosa  mi  par  impossibile  in  servigio 
dell'Eccellenza  Sua  alla  qual  bascio  i  piedi  et  le  mani  et  della  mia 
unica  signora  Duchessa. 

»  Da  Napoli,  a  dì  xi  di  agosto  1554. 
»  De  Vostra  Eccellentia 

»  Servo  deditissimo 
»  Simone  Porzio.  »  ' 

Diamo  ora  un'occhiata  alle  opere  composte  in  Pisa,  che  sono 
i  documenti  più  importanti  del  suo  ingegno  non  ordinario. 

Il  Porzio,  anche  a  giudizio  de' suoi  più  acri  avversari,  ebbe  il 
merito  di  aver  vestito  le  dottrine  filosofiche  di  un  abito  decente.  Il 
Papadopoli  ripetè  le  lodi  date  a  Simone  dal  Tuano,  confermando  ch'ei 
ridusse  al  greco  ed  al  latino  nitore  la  scuola  peripatetica  che 
grugniva  co'  barbari  interpetri  :  e  sì  che  il  Papadopoli  non  aveva 
esitato  di  aderire  al  giudizio  abbastanza  sordido  di  Conrado  Gesner, 
il  quale  bisticciando  sul  cognome  porcum  non  duhitaverit  appel- 
lare. Era  un   maiale   che  non   grugniva  ;  e  non  è  poco. 

Simone  Porzio  era  versato  nelle  lettere  greche  e  nelle  latine  ; 
era  al  caso  d'  intendere  Aristotele  nel  testo,  e  di  voltarlo  in  latino 
elegante;  di  raffrontare  i  codici,  e  di  proporre  delle  correzioni,  e 
di  scegliere  tra  una  lezione  ed  un'altra.  Di  questa  perizia  lasciò 
prova  non  dubbia  nella  traduzione,  eh'  ei  primo  fece  del  libro  sui 
colori,  attribuito  ad  Aristotele,  condotta  su  due  codici  assai  im- 
perfetti, e  su  di  un  esemplare  a  stampa  mutilato  anch'esso.  Il  suo 
lavoro  mira  a  far  cosa  grata  non  solo  ai   cultori  della  filosofia, 
ma  ancora  agli  studiosi  delle  lettere  umane.  Ed   è  notevole  poi, 
ch'ei  sospetta  non  esser  questo  libro  di  Aristotele,  ma  di  Teofrasto 
non  già  dalla  dottrina  esposta,  sì  veramente  dalla  frase.  «  Phrasis 
Theophrastum  potius  quam  Aristotelein,  milii  sapere  videtur.  »  ' 

1  Archivio  mediceo.  Filza  432  e.  498. 

2  In  lib.  de  coloribus,  pag.  25. 


80  DELLA   Vn'A   E   DELLE   OPEKE   DI   SIMONE   PORZIO. 

Quando  si  considera  che  il  Franti  nel  1849  ha  impugnata  con 
ragioni,  le  quali  anche  al  Zeller  piiiono  fondate,  la  genuinità  del 
libro  de' colori;  ^  non  si  può  a  meno  di  ammirare  l'acume  di  Si- 
mone Porzio,  il  quale  con  si  scarsi  mezzi,  e  quando  la  critica  era 
ancora  sul  nascere,  aveva  concepito  lo  stesso  sospetto. 

Questo  primo  lavoro  pubblicato  a  Firenze  è  dedicato  al  duca 
Cosimo,  e  porta  la  data  della  villa  di  Filettole,  dove  il  filosofo 
era  solito  di  passare  gran  parte  delle  vacanze  autunnali,  fuggendo 
V  inclemenza  dell'aere  pisano. 

Prima  che  il  Porzio  salisse  in  fama  come  filosofo,  era  stimato 
assai  per  la  perizia  delle  lingue,  e  per  la  maravigliosa  facilità  di 
scrivere  in  più  lingue  nel  medesimo  tempo.  Il  Tafuri,  difatti,  lasciò 
scritto  di  lui. 

«  Egli  (il  Porzio)  fu  filosofo,  teologo,  matematico  e  storico,  ed 
ebbe  dalla  natura  un  intendimento  cosi  grande  e  maraviglioso 
che  nella  medesima  città  di  Napoli,  in  presenza  di  molti  lette- 
rati e  personaggi  di  qualità,  per  divertimento  dettò  nell'  i- 
stesso  tempo  a  dieci  persone  sopra  vari  soggetti,  ed  in  lingue 
diverse.  »  ■ 

Anche  a  Pisa  il  suo  giudizio  fu  tenuto  in  conto.  Quando  Fran- 
cesco Eobortello  compose  per  ordine  del  Duca  l'epigrafe  da  scol- 
pire sul  monumento  di  Matteo  da  Corte,  mandolla  per  mezzo  del 
nostro  Porzio,  non  senza  raccomandazione  di  avvalorarla  con  la 
sua  autorità;  secondochè  appare  dalla  seguente  lettera: 

«  Sig.  Jo.  Francisco  mio  ^ 

»  Di  menti  calmi  darvi  lo  Epitafio  che  messer  Francisco  Eo- 
bertello  ^  me  diede  lo  mostrasse  all'Excellentia  del  Duca,  de  la 
sepoltura  del  Corte:  lo  mando  ad  V.  S.  che  faccia  questo  officio 
subito,  che  qui  lo  scoltore  ha  fretta,  et  quanto  al  mio  poco  judicio 
mi  pare  assai  avere  de  l'antiquo,  et  più  breve  che  s  è  possuto,  et 

»  Zeller,  Die  Phil.  der  Griechen.  Tom.  3,  pag.  63. 

■2  Storia  degli  scrittoti  nati  nel  regno  di  Napoli  scritta  da  Gio.  Bernar- 
dino Tafuri  da  Nardo.  Tom.  Ili,  par.  Il,  pag.  3-2.  Napoli  175-2. 

3  Dev'essere  Giovan  Francesco  Lettini,  segretario  del  Duca  per  poco  tempo, 
che  il  Segni  chiama  giovane  di  grande  spirito. 

■*  L'epiiaffio  composto  dal  valoroso  latinista  Francesco  Robortelio  di  cui  si  parla 
in  questa  lettera,  è  il  seguente: 

«  Matthaeo  Curtio  Ticinensi  qui  Hippocratis  Gaienique  vindex  salutis  augurium 
egit  medicinamque  esercendo  et  ducendo  ipse  valens  semper  excoluit.  Mouumentum 
hoc  amplius  quam  fllii  T.  F.  I.  Cosmus  Medie.  Floren.  Dux  II  sere  suo  ponendum 
curavit,  MDXLVI.  Vixit  annos  LXX.  » 

Il  monumeato  fu  posto  nel  camposanto  di  Pisa. 


DELLA   VITA  E   DELLE   OPERE  DI  SIMONE   PORZIO.  81 

quando  parrà  che  si  abrevia  più,  se  farrà;  benché,  come  me  di- 
cono, el  marmo  è  capace:  et  ve  baso  le  mano  sine  fine. 

»  Da  Pisa  a' di  12  de  aprile;  et  vi  si  manda  la  litera 
de  Filippo  '  che  contiene  e '1  judicio  de  messer  Lelio,  et  di 
Firenze. 

»  Servitor 
»  Simon  Portio.  »  - 

La  lettera  precedente  manca  della  data  dell'anno,  ma  questo 
si  può  porre  tra  il  1546  e  il  1548,  perchè  il  Kobortello  il  1549 
partì,  chiamato  all'Università  di  Padova,  a  succedere  a  Giambat- 
tista Egnazio  vecchio  e  malaticcio.  Se  vogliamo  anzi  credere  al 
Fabbroui,  non  poco  adoperaronsi  i  Padovani  ad  allettarvi  anche  il 
Porzio,  e  del  non  esservi  riusciti  si  dispiacquero.  ^ 

A  complemento  della  traduzione  e  del  commento  del  libro  sui 
colori,  il  Porzio  stampò  il  1550  un  altro  opuscolo  sui  colori  degli 
occhi:  T)p  colorihns  oculormn.  E  una  specie  di  appendice  all'opera 
di  Aristotele,  o  di  Teofrasto;  stata  da  lui  promessa  nella  prima 
traduzione.  DedicoUa  ad  Ercole  Gonzaga,  vescovo  e  cardinale,  che 
poi  morì  a  Trento  mentre  presiedeva  il  Concilio,  e  che  de' lavori 
del  nostro  filosofo  sommamente  si  dilettava.  Dalla  lettera  di  de- 
dica sembra  anzi  che  il  Porzio  ed  il  cardinal  Gonzaga  si  fossero 
conosciuti  di  persona,  e  che  avessero  fatto  degli  studi  assieme;  il 
che,  quando  fosse  vero,  sarebbe  potuto  avvenire  a  Bologna,  e  sotto 
la  disciplina  del  Pomponazzi,  di  cui  Ercole  Gonzaga  fu  certamente 
discepolo.  ^  Se  non  che  non  risultandomi  ciò  da  più  stringenti 
indizi,  voglio  soltanto  averlo  per  accennato. 

Giambattista  Gelli  tradusse  questo  libro  sui  colori  degli  occhi, 
a  richiesta  dell'autore  medesimo,  come  aveva  tradotta  la  disputa 
sopra  quella  fanciulla  della  Magna,  di  cui  si  è  detto  di  sopra;  e 
condusse  tanto  bene  la  sua  traduzione,  che  il  Porzio  se  ne  com- 
piacque, e  lo  ringraziò  con  la  seguente  lettera: 

^  Filippo  del  Migliore  fu  provveditore  dello  Studio  Pisano,  ed  uno  de'  protet- 
tori del  Robortello  (non  Roberlello,  com'è  scritto  nella  lettera  del  Porz  o).  Il  Lelio, 
di  cui  si  parla  appresso,  è  Lelio  Torelli,   di  cui  si  è  parlato  altra  volta. 

2  Arrhivio  Mediceo,  Filza  387,  e.  104. 

3  Fabbroni,  op.  cit.  paa:    335. 

*  Ecco  le  parole  che  mi  sembrano  esprimere  una  reciproca  famigli uità: 
«  Etsi  statuerara  ali  quid,  qnod  ad  nostra  cnmmunia  siudia  pertinere  videbanUir, 
mea  industria  elaboratum  ad  te  mittere,  ut  meo  nomine  te  salutaret,  et  mei  erga 
te  amoris  et  obsertmntiae  imaginem  exprimeret  :  quoniam  aliquot  abhinc  a;  nis, 
nescio  quonam  meo  bono  fato,  nostra  tibi  piacere  a  multis  accepi,  quem  lonce  et 
colui,  et  admiratus  sum  semper.  »  —  De  coloribus  oculorum,  Firenze,  1550. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  marzo  1879.  6 


82  DELLA   VITA  E   DELLE   OPERE   DI   SIMONE   PORZIO. 

«  Simone  Portio  a  M.  Giambattista  Gelli. 
»  Ho  letto  la  vostra  traduttione  del  mio  libretto  I)c  ocuUs. 
carissimo  messer  Giovanni,  et  due  cose,  oltre  a  lo  essere  stato 
compiaciuto  da  voi  di  quello  cbe  io  vi  liavea  ricerco,  mi  sono 
stremamente  in  quella  piaciute.  L'una  è,  che  e'  mi  pare  die  la  filo- 
sofia non  è  manco  utile  a  quegli  che  per  ispasso  la  desiderano  in- 
tendere, che  a  quegli  che  ne  fanno  professione.  L'altra  è  che  vedo 
il  buono  ingegno,  et  ottimo  giuditio  vostro,  haver  bene  inteso  il 
libro,  et  haverlo  fedelmente  tradotto,  per  il  che  come  io  deggio 
haver  piacere  che  un  tanto  mio  caro  amico  sia  così  nelhi  filosofìa 
esercitato,  così  anchora  quegli,  che  nell'altra  lingua  non  l'inten- 
devono,  ve  ne  haveranno  uno  infinito  obbligo,  et  vi  conforto  a 
giovare  agli  huomini  quando  potete  ;  et  son  vostro. 

»  Da  Pisa,  addì  xii  febbraio  mdl.  »  ^ 

Potrà  sembrare  strano,  che  il  Porzio  richiedesse  il  Gelli  della 
traduzione,  quando  sarebbe  stato  più  semplice  lo  scrivere  da  sé 
r  opera  in  lingua  italiana,  alla  bella  prima,  e  senza  intervento  di 
un  altro;  e  non  meno  strano  poi  che  si  rivolgesse  a  tale,  i  cui  studi 
dovevan  parere  insufficienti  a  quella  impresa. 

Quanto  alla  prima  di  queste  difficoltà,  è  da  avvertire  che  la 
lingua,  quasi  direi  ufficiale,  della  filosofia  era  allora,  e  si  conservò 
per  parecchio  tempo,  la  lingua  latina;  uso  invalso  da  prima  per  la 
creduta  insufficienza  delle  lingue  volgari  ad  esprimere  le  più  sot- 
tili astrazioni  del  pensiero,  e  mantenuto  dipoi  pel  concorso  di 
moltissimi  stranieri  nelle  nostre  Università;  ritenuto  finalmente, 
anche  dopo  finita  quest'  altra  condizione  di  cose,  per  la  diffusione 
più  agevole  de'libri  scritti  in  una  lingua  che  tutt'  i  dotti  di  Europa 
egualmente  intendevano.  Così,  molto  più  tardi,  lo  stesso  Cartesio 
fu  costretto  a  scrivere  alcune  delle  sue  opere  in  latino,  non  ostante 
la  perfezione  e  la  diffusione  della  sua  lingua  nativa. 

Per  tali  ragioni,  benché  il  Duca  Cosimo,  stando  a  quel  che 
ne  dice  lo  stesso  Gelli  ne'  suoi  Capricci.  "  si  fosse  messo  ad  esaltar 
la  lingua  italiana;  benché  il  Gelli  citasse  l'esempio  di  Girolamo  da 
Ferrara,  che  in  lingua  italiana  aveva  espresso  pensieri  filosofici  : 
pure  la  latina  rimase  signora  delle  cattedre.  Francesco  Verino 
filosofo,  leggendo  filosofia,  quando  vedeva  venire  ad  udirlo  il  capi- 
tano Pepe,  il  quale  non  intendeva  il  latino,  subito  cominciava  a 

1  Vedi  Trattato  de'  colori  degli  occhi  tradotto  dal  Gelli.  Firenze,  l.wl.  In  fine. 

2  Vedi  ne'  Capricci  del  Bottaio  il  ragionamento  quarto. 


DELLA   Vita  e   delle   opere   di   SIMONE   PORZIO.  83 

leggero  in  vulgare,  perchè  potesse  intendere  anch'egli:  così  rac- 
conta lo  stesso  Gelli,  e  dal  lodare  tanto  la  cortesia  del  Ve- 
rino si  scorge,  quanto  fosse  parsa  straordinaria  quella  eccezione. 
Il  Porzio  adunque  si  trovava  costretto  a  seguir  l'usanza  univer- 
sale; ma  appunto  perchè  il  Golii  era  caldo  propugnatore  della 
efficacia  della  lingua  italiana  nello  esprimer  dottrine  filosofiche, 
e  forse  per  secondare  il  desiderio  del  Duca  medesimo,  si  rivolse 
al  valoroso  calzaiolo.  Il  quale  non  era  poi  tanto  calzaiolo,  come 
si  crede:  di  venticinque  anni,  per  poter  intendere  i  concetti  di  Dante, 
si  era  messo  a  studiare  il  latino,  e  se  non  si  sa  quanto  sarebbe 
riuscito  a  scrivere  in  quella  lingua  ;  certamente  però  nel  tradurre 
mostra  d'intender  bene  il  testo.  E  delle  cose  filosofiche  era  anche 
molto  pratico:  no'  Capricci  del  i:?o^/c«V?,  negli  arguti  dialoghi  che 
Giusto  da  San  Pier  Maggiore  fa  con  la  sua  anima,  c'è  tutta  quanta 
la  psicologia  di  Aristotele,  e  per  giunta  le  controversie  degli  in- 
terpetri  assai  ingegnosamente  e  quasi  scherzosamente  insinuate. 
Si  vede  ch'ei  non  faceva  professione  d'ignorare  le  ricerche  filo- 
sofiche dell'età  sua  :  combattendo  tutto  il  giorno  con  la  forbice  e 
con  l'ago  aveva  trovato  tanto  tempo  da  conversare  non  solo  coi 
poeti,  ma  coi  filosofi:  non  aggiunge  nulla  di  nuovo,  ma  sa  abba- 
stanza bene  ciò  che  gli  altri  avevano  escogitato. 

Il  Golii  adunque  era  quegli  che  ci  voleva  pei  Porzio,  e  questi 
se  ne  prevalse  alla  diffusione  delle  sue  opere  ;  se  non  che  neppure 
la  veste  elegante  e  nuova,  onde  comparvero  adorne,  bastò  alla 
intenzione  del  filosofo. 

Luigi  Tansillo,  amico  del  Porzio,  lodò  il  cortese  fiorentino 
della  sua  opera,  lodollo  radunando  in  una  immagine  1'  ufficio  di 
calzaiolo  e  di  traduttore: 

Coa  ago  e  penna  i  vostri  amici  voi 
Or  d'abito  adornate,  ed  or  di  gloria, 
E  fate  veste  al  tempo,  e  veste  eterna. 

Di  tutte  le  traduzioni  che  il  Gelli  fece  de'libri  del  Porzio,  que- 
sta de'  colori  degli  occhi  fu  la  prima,  conforme  apparisce  dalla  let- 
tera con  cui  egli  dedicava  la  traduzione  ad  Alamanno  Salviati, 
dove  dice  di  sé,  non  aver  fatto  prova  alcuna  nel  tradurre,  e  dove 
perciò  mostra  una  certa  peritanza  prima  di  mettere  i  segreti  della 
filosofia  nella  nostra  lingua.  Poscia  dovette  seguire,  sebbene  sen- 
za data,  l'altra  su  la  fanciulla  di  Germania,  di  cui  s'è  detto  in- 
nanzi. Il  Porzio  intanto  continuava  a  scrivere,  o  forse  a  pubbli 
care  scritti  composti  prima:  imperciocché  nello  stesso  anno  1551 


84  DELLA  VITA   E  DELLE   OPERE  DI   SIMONE   PORZIO. 

comparvero  pe'  tipi  di  Lorenzo  Torrentino  altre  tre  opere  di  lui. 
Lorenzo  Torrentino  era  stato  invitato  dal  Duca  Cosimo  a  traspor- 
tare la  sua  tipografia  dal  Belgio  in  Firenze,  per  lo  spazio  di  do- 
dici anni,  con  amplissimi  privilegi  ;  e  questi  v'era  venuto  l'agosto 
del  1547,  non  senza  invidia  de'Giunti.  Ferveva  una  nobile  gara  tra 
il  tipografo  e  gli  scrittori,  affinchè  le  edizioni  e  le  opere  appa- 
rissero degne  le  une  delle  altre.  E  da  supporre  adunque  che  non 
senza  incitamento  del  Duca  si  affrettasse  il  Porzio  a  concorrere 
all'impresa,  perchè  egli  non  doveva  essere  troppo  inclinato  alle 
pubblicazioni,  se  in  tanti  anni  d'insegnamento  sostenuto  a  Napoli 
si  era  contentato  di  due  opuscoli  dati  faori,  piuttosto  mosso  dalle 
richieste,  e  premure  altrui,  che  dal  desiderio  proprio.  L' occa- 
sione della  tipografia  del  Torrentino  non  parmi  quindi  estranea 
alla  non  consueta  sollecitudine,  di  cui  die  prova  in  questo  trien- 
nio. Confortano  questa  mia  opinione  le  parole,  con  cui  esso  Porzio 
scrive  a  Lelio  Torelli  nella  lettera  dedicatoria,  che  va  innanzi  al- 
l'opuscolo :  An  ìiomo  bonus  vel  vtaJus  volens  fiat,  perciocché  egli 
confessa  di  aver  cavato  fuora  quella  disputazione  poco  elaborata,  né 
abbastanza  diffusamente  esaminata,  secondochè  portava  la  brevità 
del  tempo  :  '  dichiarazione  insulsa,  s'ei  non  avesse  avuta  nessuna 
sollecitazione  a  pubblicarla. 

Questa  dissertazione  poi  parmi  sia  stata  la  prima  fra  quelle 
che  portano  la  stessa  data  del  1551,  perchè  dopo  il  Duca  la  prima 
dedica  andava  fatta  a  Lelio  Torelli,  nelle  cui  mani  si  poteva  dire 
riposta  l'amministrazione  del  governo  fiorentino.  L'autore  vi  si 
mostra  conscio  della  pericolosa  difficoltà  del  tema,  perchè  se 
l'uomo  opera  il  bene  ed  il  male  per  una  cotal  propensione  natu- 
rale, a  che  gioverebbero  le  leggi  e  le  loro  sanzioni  ?  0  piuttosto  con 
qual  ragione  si  promulgherebbero?  E  dove  ne  andrebbe  la  fede? 
Con  qual  frutto  si  sarebbero  ingegnati  i  teologi  ad  indicarci  le  vie 
per  propiziarci  Iddio,  se  noi  non  potessimo  distoglierci  di  là,  dove 
natura  ci  mena  con  la  sua  rapina?  Parum  quoque  feliciter  tot  libro- 
rum  volumina,  id  docentia  ediderinf,  si  alio  divertere  quam  quo  na- 
tura rapit,  non  licet.  »  " 

Il  Porzio  coglie  a  meraviglia  tutta  l'importanza  della  sua 
ricerca,  e  si  prepara  a  trattarla  da  filosofo  :  promette  anzi  di 
tornarci  sopra  un'altra  volta,  se  l'approvazione  del  segretario  di 
Cosimo  gliene  avesse  dato  animo.  Il  nuovo  trattato  che  qui  pro- 

'  Vedi  op.  cit.  nella    lettera:  «  Laelio  Taurello  Jurisconsultiss.  Florentinoruiu 
Duci  a  secretis  Simon  Portius  S.  » 
°'  Id.  loc.  cit. 


DELLA   Vita  E  DELLE   OPERE  DI  SIMONE   POEZIO.  85 

mette  è  un  lavoro  sul  libero  arbitrio;:  «  Qiiod  si  abs  te  prohari 
sensero,  animum  ad  liherum  arhitriiim  expdendiim  addideris.  »  ' 

L'opera  promessa  non  fu  pubblicata,  dunque  l'approvazione  del 
Torelli  non  ci  fu.  Da  uomo  di  affari,  il  Segretario  di  Stato  capì 
forse,  essergli  più  facile  proteggere  Francesco  Kobortello  dalle 
richieste  de' Lucchesi  per  l'omicidio  quivi  commesso,  che  non  già 
le  dottrine  del  Porzio  dagli  assalti  de'  teologi.  Ora  il  Porzio,  seb- 
bene fosse  l'anno  avanti  andato  alla  Chiesa  dell'Annunziata  a  go- 
dervi le  indulgenze  del  Giubileo,  non  dubitava  di  conchiudere  la 
dissertazione  con  queste  parole  ;  «  Haec  sunt  quae  his  feriis  ex 
Peripateticorum  placitis,  mdla  hahita  ratione  nostrorum  theologo- 
ritm,  in  medio  produximus.  -  «  Non  tener  nessun  conto  de'teologi 
era  peggio  che  combatterli  ;  ed  il  Torelli  sei  sapeva.  Invano 
(Giambattista  Gelli,  che  quell'  anno  stesso  ne  stese  e  ne  pubblicò 
la  traduzione,  con  amichevole  e  cauto  consiglio  cercò  di  rimediare 
all'  ingenuità  del  filosofo,  tagliando  netta  la  sfida  ai  teologi  ;  che  di 
simile  argomento  il  Porzio  non  pubblicò  più  altro. 

Lisorge  però  qui  un  dubbio,  come  vada,  cioè,  che  tra  le  opere 
di  lui  i  biografi  annoverino  una  col  titolo:  De  fato,  la  quale  poi 
col  fatto  non  riesce  di  ripescare.  Per  ricerche  che  ne  abbia  fatte, 
ninno  me  ne  ha  saputo  dare  notizie,  e  qualcuno  mi  ha  espresso 
l'opinione  che  il  libro  De  fato  sia  tutt'uno  con  l'altro  di  cui  stiamo 
discorrendo;  tratto  in  errore  dalla  somiglianza  dell'argomento. 
Dirò  quel  che  ho  raccolto  dall'attenta  lettura  de'  libri  di  Simone 
Porzio,  in  poche  parole.  Il  libro  De  fato,  ed  un  altro  De  Ubero  ar- 
bitrio sono  stati  certamente  composti  dal  nostro  filosofo  ;  che  siano 
stati  stampati  però,  non  consta,  né  parmi  credibile,  non  trovando- 
sene esemplare  né  qui  a  Pisa,  dove  il  Porzio  insegnò,  né  a  Firenze 
né  a  Napoli. 

Che  siano  stati  composti  risulta  dalle  seguenti  esplicite  cita- 
zioni che  ne  fa  1'  autore,  senza  dire  della  promessa  scritta  a  Lelio 
Torelli,  la  quale  sarebbe  potuta  sfumare. 

Nel  De  rerum  principiis,  di  cui  diremo  tra  poco,  scrive  :  «  velut 
in  libello  de  libero  arbitrio  ostendimus.  »  (pag.  47  ediz.  del  1561). 

E  che  il  libro  del  libero  arbitrio  sia  stato  distinto  da  quello 
sul  fato,  me  lo  induce  a  credere  una  citazione,  che  si  rinviene  una 
pagina  innanzi  a  quella  testé  citata,  dove  il  Porzio  dice  :  «  multa 
in  hanc  rem  diximus  in  libello  nostro  de  fato,  quale  modo  ne  pre- 
lixiores   (prolixiores)  simus,  omictimus.  »  Ora  a  me  sembra  che 

'  Id.  loc.  cit. 

*  Op.  cit.  in  fine. 


86  DELLA   VITA    E  DELLE   OPERE  DI  SIMONE  PORZIO. 

alla  distanza  di  una  sola  pagina  non  si  sarebbe  convenientemente 
citata  con  due  titoli  differenti  una  medesima  opera. 

A  sgombrar  poi  ogni  dubbio  cbe  il  libro  del  libero  arbitrio 
non  solo  è  diverso  da  quello  :  An  homo  ec,  ina  che  era  già  com- 
posto, quando  l'altro  fu  pubbblicato,  basta  il  dire  che  nel  pre- 
citato libro  dedicato  a  Lelio  Torelli,  quello  del  libero  arbitrio 
v'è  citato  ben  sette  volte  ;  citazioni,  che  per  non  esser  inutilmente 
.  prolisso,  tralascio,  e  di  cui  mi  contento  riportare  una  sola,  fatta  in 
fine  del  primo  capitolo:  «  vduf  libro  de  hominis  arhifrio  disscrui- 
mus  »  (pag.  9,  ediz.  del  1551). 

La  stessa  ragione  milita  pel  libro  sul  fato,  che  pure  viene 
menzionato  come  già  composto,  circa  la  fine  del  libro  dedicato 
al  Torelli.  «  Sed  liane  omnm  libro  de  fato  copiosins  et  exqnisitius 
decìaravimus.  »  (pag,  Q'o  ediz.  del  1551). 

Può  darsi  ancora  che  Simone  Porzio  abbia,  seguendo  l'esem- 
pio del  Pomponazzi,  radunato  la  trattazione  del  libero  arbitrio 
e  del  fato  in  una  sola  opera,  intitolandola:  De  fato  et  liìtero  arbi- 
trio  :  onde  nelle  citazioni,  secondo  l'occorrenza,  ha  potuto  men- 
zionare ora  una  parte  ora  l'altra  della  intestazione  complessiva. 
Di  ciò  mi  darebbe  indizio  la  seguente  citazione  che  si  trova  nel 
J)c  rerum  prineiiyiis  : 

«  Simt  et  rationrs  Fetri  Pomponalii  qui  liane  sententiam  mor- 
dicns  defendit  libro  suo  de  Fato:  veruni  nos  in  nostro  eiusdem  ar- 
cjumenti  libello  cis  abunde  satisfccimus  :  quas  si  quis  postulai .  inde 
})etat  licebit  »  (pag.  48  v.,  ediz.  del  1561). 

E  la  sola  volta  che  il  nostro  Porzio  accenna  al  Pomponazzi 
e  non  a  proposito  della  questione  dell'immortalità;  e  lo  menziona 
per  dire  che  gli  ha  risposto  abbondevolmente.  Che  se  il  filosofo 
napoletano  rimane  fedele  ai  principi!  di  Aristotele:  se  è  costretto 
quindi  a  dichiarare  al  suo  amico  Lelio,  che  sono  stretti  e  piccoli  i 
termini  del  nostro  arbitrio,  e  che  molti  predatori  gli  stanno  da 
torno;  tuttavia  ei  gli  fa  sempre  più  larga  parte  di  quel  che  glie 
ne  avesse  conceduta  l'audace  Perotto.  Il  nome  di  Aristotile,  e  l'ar- 
dore che  ferveva  di  quei  tempi  nel  tradurre  i  documenti  della  coltura 
greca  e  latina  gli  erano  certamente  valido  usbergo  ;  ma  d' altra 
parte,  qualche  concessione  agli  uomini  che  l'accerchiavano  gli  era 
pure  indispensabile.  La  stessa  obblivione  in  cui  lasciò  cadere 
quest'opera,  o  queste  opere  sul  libero  arbitrio,  e  sul  fato,  ce  ne 
danno  un  chiaro  indizio. 

Il  Gelli,  che  tradusse  l'opera  del  Porzio  l'anno  stesso  che  fu 
da  lui  pubblicata  nel  testo,  dedicandola  al  figlio  di  Lelio  Torelli 


DELLA  VITA  E   DELLE  OPERE   DI  SIMONE  PORZIO.  87 

a  nome  Francesco,  ci  fa  sapere  di  averlo  fatto  «  desiderando  di 
tanta  sua  utilità  far  partecipe  maggior  numero  di  huomini,  come 
di  cosa  oggi  forse  più  utile  e  più  necessaria,  che  di  molte  al- 
tre. »  E  poiché  quell'anno  egli,  insieme  con  Pierfrancesco  Giam- 
buUari,  con  Benedetto  Varchi  e  con  Carlo  Lenzoni,  era  stato  no- 
minato accademico,  le  lodi  fatte  all'eccellentissimo  filosofo  M.  Si- 
mone Porzio  napoletano  acquistavano  maggiore  autorità,  N'  ebbe 
invidia  il  Fabbroni,  due  secoli  dopo,  e  si  mostrò  meravigliato  che 
tanta  importanza  gli  avesse  attribuito  il  Creili;  perchè  a  lui  pa- 
reva che  dopo  averne  lette  le  opere  non  se  ne  diventava  né  più  dotto 
né  più  buono. 

L'opuscolo  De  dolore,  pubblicato  pure  il  1551  pe'  tipi  del  Tor- 
rentino,  fu  dedicato  a  Guido  Guidi,  ch'era  stato  archiatro  di  Fran- 
cesco I;  medico  il  quale  congiuugeva  gli  studi  della  medicina  e 
della  naturai  filosofia,  e  che  soleva  leggere  con  avidità  le  cose  del 
Porzio.  Allora  la  filosofia  e  la  medicina  erano  molto  connesse,  ed 
il  Porzio  professava,  come  abbiamo  visto,  e  l'una  e  l'altra.  Egli  vi 
si  propone  di  assodare  che  il  dolore  non  è  spiegabile  con  sole 
cagioni  corporali:  non  con  la  dismisura  del  temperamento;  non  con 
la  soluzione  di  continuità;  e  conclude  ch'è  una  contrazione  del- 
l'anima, come  il  piacere  è  una  effusione. 

A  proposito  di  questo  libro  il  Giovio  scriveva  allo  stesso  Porzio, 
che  un  poeta  nuovo,  stato  maestro  di  scuola  a  Firenze  gran  tempo, 
quando  ebbe  vista  l'intestazione:  De  dolore  Simonis  Portii,  do- 
mandò ingenuamente  il  Varchi:  oh!  gli  sarà  forse  morto  qualche 
figliuolo  al  Porzio,  che  gli  avrà  cagionato  questo  dolore? 

Nel  catalogo  riportato  dal  Toppi  è  menzionato  un  altro  libro 
De  dolore  ccqntis  come  stampato  a  Napoli  il  1538,  che  niuno  ha 
visto,  e  che  molto  probabilmente  sarà  stata  un'alterazione  del  titolo 
di  questo  pubblicato  a  Firenze  il  1551.  Vero  è  che  la  indicazione 
del  Toppi  è  precisa  a  segno,  da  informarci  perfino  che  il  formato 
era  in  ottavo;  ma  non  sarebbe  la  prima  citazione  precisa  che  si 
verificasse  sbagliata,  o  inventata  di  sana  pianta. 

Lasciando  ora  queste  minori  publ)licazioni,  trattiamo  alquanto 
più  distesamente  della  opera  De  mente  humana  più  importante  non 
solo  tra  quelle  venute  fuori  questo  anno  1551,  in  cui  si  pubblicò  il 
più  gran  numero  de'  lavori  del  nostro  filosofo,  o  si  ripubblicarono 
i  precedenti  ;  ma  fra  tutte  quelle  ch'egli  abbia  composte  e  prima 
e  dopo. 

Noi  sappiamo  di  certo  che,  nell'insegnamento  dato  a  Napoli,  il 
Porzio  si  era  occupato  de'  libri  De  anima  :  ne  fa  aperta  testimo- 


88  DELLA   VITA   E  DELLE  OPERE   DI   SIMONE  PORZIO. 

nianza  il  Marta  nel  pubblicare  i  due  opuscoli  psicologici  rimasti 
inediti,  come  di  sopra  s'è  detto.  Sappiamo  inoltre,  che  il  Porzio 
non  s'era  appagato  del  semplice  commento  de'  libri  aristotelici  ; 
ma  aveva  composto  del  suo  un  libro  :  De  partihus  animae.  '  Sap- 
piamo finalmente  che  di  questo  suo  lavoro  quasi  giovanile  ei  tien 
conto  e  fa  menzione  ancora  nel  libro  ;  An  homo,  ecc.  ' 

E  poiché  di  questa  opera  del  Porzio  non  è  stato  fatto,  ch'io 
sappia,  cenno  da  nessuno,  mi  preme  assodare,  ch'essa  non  è  da 
confondere  col  commento  del  libro  aristotelico  De  partibiis  ani- 
maliiim,  e  ch'è  una  vera  e  propria  opera  del  nostro  filosofo.  ^ 

Compresa  con  questa  De  partihus  animi  T^otvehhe  essere  l'altra 
De  motihiis  animi,  ch'ei  menziona  pure  come  opera  sua  ;  e  se  non 
compresa,  certamente  di  argomento  psicologico.  ^ 

Tutte  queste  cose  ho  voluto  ricordare,  parte  per  richiamare 
alla  memoria  libri  del  nostro  autore  finora  ignorati,  parte  per 
chiarire  quanto,  ed  in  che  modo  egli  avesse,  atteso  agli  studi  psi- 
cologici, principalmente  quando  incominciò  l'insegnamento  a  Pisa. 
E  ciò  perchè  tutti  i  biografi  del  Porzio,  fondati  sopra  una  lettera 
di  Francesco  Spino  a  Pier  Vettori,  hanno  dato  ad  intendere  '^che 
il  Porzio  su  le  prime  non  avesse  corrisposto  alla  grande  aspet- 
tativa che  si  aveva  di  lui.  Lo  Spino  difatti  informa  cosi  Pier  Vet- 
tori :  che  il  dì  8  novembre  il  Porzio  aveva  cominciate  le  sue  lezioni 
con  grandissimo  concorso  di  uditori  ;  che  la  sua  prelezione  mi- 
rava alle  Ilefcore  di  Aristotele  ;  che  sul  finire  della  lezione  in 
molti  si  misero  a  gridare:  «  anima,  anima:  »  che,  sforzato,  principiò 
suo  malgrado  l'esposizione  del  terzo  libro  dell'anima  ;  ma  che  gli 
scolari  non  ne  furono  molto  sodisfatti.  La  lettera  tende  ad  insi- 
nuare che  il  Porzio  avesse  cominciato  con  un  fiasco.  Ora  noi  che 
abbiamo  sott'occhio  i  libri  del  Porzio  su  questo  argomento,  com- 
posti e  prima  e  dopo  di  quel  tempo,  incliniamo  a  sospettare  che 

'  «  Verum  sunt  aliae  rationes,  quas  in  libro  meo  de  partibus  animae  di.vi.  » 
Opuscula  Simonis  Portii  —  Neapali,  1573,  pag.  35. 

2  «  Velut  latiìcs  in  libro  de  partibiis  animi  demonstrm-imìis.  »  V.  «  An  homo 
bonus  vai  malus.  »  etc,  pag.  32  nnll'efliz.  del  155). 

3  Ecco  difatti  come  nell'opera  medesima  cita  il  libro  di  Aristotele:  «  Ut  prò - 
lixius,  cum  libriim  secundum  d-i  Partibus  animaiium  inteì^pretaremur,  supe- 
riori anno  dispiitavirniis.  »  Op.  cit.,  png    15. 

L'opera  sua  è  De  partibus  animi:  l'opera  di  Aristotele,  De  partibus  ani- 
maiium. 

*  Ecco  la  menzione  di  quest'altra  opera,  sfuggita  parimente  all'attenzione  di 
tutti  i  precedenti  biografi  del  Porzio: 

«  Multa  de  animi  motu,  in  libello  nostro,  quem  de  animi  motibus,  atque  in  eo 
quem  de  arbitrio  inscripsimus,  olim  receusuimus.   »  Op.  cit.,  pag.  31. 


DELLA   VITA   E   DELLE    OPERE    DF    SIMONE    PORZIO,  89 

tanto  chi  informava,  quanto  il  Vettori  a  cui  le  notizie  si  manda- 
vano, nutrissero  un  pochino  di  gelosia  verso  del  filosofo  napole- 
tano :  il  qual  sentimento  traluce  da  questo  modo  che  usa  lo  Spino 
nello  indicare  il  Porzio  :  Portius  vero  ille  philosophus.  Pier  Vet- 
toii  poi  la  pretendeva  a  primeggiare  fra  tutti  nella  cognizione 
de' libri  di  Aristotele;  onde  non  senza  propria  sodisfazione  doveva 
sentire  che  il  nuovo  competitore  non  fosse  tanto  eccellente,  da 
oscurare  la  sua  fama.  E  che  di  tal  fama  godesse,  si  rileva  dalle 
seguenti  parole,  con  cui  parla  di  lui  il  Segni  nella  dedica  della  tra- 
duzione della  Rettorica  aristotelica  fatta  a  Cosimo  de'  Medici 
l'anno  1548:  / 

«  Né  io  so,  scrive  il  Segni,  se  altro  huorao  si  trovi  (non  pur 
dico  nella  nostra  città,  quanto  in  tutta  l'Italia)  che  la  dottrina, 
che  s'appartiene  per  intender  perfettamente  questa  arte,  sappia 
meglio  che  Piero  Vettori  nostro,  huomo  sopra  d'ogni  altro  dot- 
tissimo, e  da  me  amato  singularissimamente.  » 

Queste  lodi  espresse  in  simil  forma  non  mi  paiono  scevre  di 
significato  per  rispetto  al  Porzio:  checché  sia  però  di  ciò,  egli  è 
certo  che  rivincita  piìi  degna  non  poteva  pigliarsi  il  filosofo  na- 
poletano sopra  de'  suoi  emuli  :  la  disputazione  De  mente  huniana 
è  tal  prova  della  sua  competenza  in  quelle  controversie,  quale 
difficilmente  avrebbe  potuto  dare  nessun  altro  a'  tempi  suoi. 

L'opera  fu  dedicata  a  Mariano  Savelli,  figliuolo  di  quel  Giam- 
battista che  il  1548  successe  a  Stefano  Colonna  nel  supremo  co- 
mando dell'esercito  ducale.  Il  Porzio  la  dedica  al  figlio  per  l'an- 
tica amicizia  che  lo  legava  al  padre,  e  per  averlo  visto  inclinato 
agli  studi  filosofici.  «  Eccoti  qua  un  palloa  da  nuoto,  gli  scrive,  il 
quale  ti  aiuterà  a  galleggiare  in  quel  vasto  gorgo,  che  Aristotele 
ha  cosperso  del  suo  inchiostro.  »  Il  filosofo  napoletano  disdegna  di 
misurarsi  coi  latini  che  si  sono  soffermati  su  la  soglia  della  ve- 
rità; ed  entra  in  lizza  con  gl'interpreti  greci,  i  quali,  a  suo  av- 
viso, neppure  hanno  colto  il  vero  metodo  d'Aristotele  nella  trat  ■ 
tazione  dell'anima. 

Il  presente  libro  del  Porzio  vince  il  celebre  opuscolo  di 
Pietro  Pomponazzi  De  immovialitate  ammae,  non  solo  per  la  ele- 
ganza della  forma,  ma  per  maggior  larghezza  di  dimostrazione. 
Imperocché  dove  il  Perotto  si  circoscrive  alla  funzione  psichica 
dell'intelletto;  il  Porzio  ripiglia  la  questione  dai  primi  principii; 
la  tratta  come  connessa  con  la  fisica,  con  la  fisiologia  e  con 
l'etica  aristotelica:  raffronta  i  luoghi  attinenti  al  proposito,  chia- 
risce uno  con  l'altro;  e,  prevalendosi  della    perizia  nella    lingua 


90  DELLA   VITA   E   DELLE  OPERE   DI   SIMONE   PORZIO. 

greca,  discute  le  varie  lezioni  del  testo  non  solo  de'lil)ri  aristo- 
telici messi  a  stampa,  ma  altresì  de'codici  manoscritti.  Kaggua- 
gliata  ogni  cosa,  questa  dissertazione  su  la  mente  umana  è,  a 
mio  giudizio,  il  miglior  libro  di  critica  aristotelica  che  noi  pos- 
siamo vantare  nel  Kisorgimento. 

La  conclusione  a  cui  arriva  il  Porzio  non  è  nuova  ;  essendo 
la  medesima  a  cui  era  pervenuto  con  minor  dottrina,  ma  non 
con  minore  acume  il  Pomponazzi:  con  tutto  questo  i  contempo- 
ranei ne  furono,  o  se  ne  mostrarono,  scandolezzati  come  di  nuova 
bestemmia:  i  lamenti  contro  l'empietà  dell'autore  non  mancarono. 
Paolo  Giovio  difatti  gli  scriveva  cosi:  «  preti  riformati  si  sono 
scandalizzati,  per  non  dire  ammutinati,  del  titolo  del  vostro  libro 
De  ìììnifr  Jiumann,  dicendo  che  non  vuol  dire  altro  in  effetto, 
che  Delibero  animi  arhitrio'.  per  il  che  è  stato  arenato,  e  poco 
mancò  che  non  a1)l)i  dato  a  traverso.  » 

Le  riserve  usate  dal  Pomponazzi  alibondano  altresì  nel  Porzio; 
ma  non  approdarono  a  lui  meglio  che  al  suo  antecessore.  Invano 
entrambi  protestarono,  altro  essere  il  discorso  del  filosofo  natu- 
rale, ed  altra  la  credenza  religiosa;  invano  entrambi  si  mostra- 
rono ossequenti  ai  decreti  della  Chiesa;  che  i  detrattori  non  se 
ne  contentarono.  La  casa  de'Medici  fece  e  verso  l'uno  e  verso 
l'altro  però  bella  mostra  di  tolleranza,  e  se  Leone  X  aveva  la- 
sciato dire  il  Pomponazzi,  Cosimo  non  solo  non  si  offese  della 
pubblicazione  del  Porzio,  ma,  come  abbiamo  visto,  gli  continuò 
la  sua  benevolenza. 

11  Porzio  non  ebbe  molestie,  ma  smise  dallo  stampare  i  ri- 
manenti suoi  scritti;  ed  a  questo  o  sgomento  o  disdegno  dobbiamo 
forse  la  perdita  degli  altri  lavori  da  lui  certamente  composti,  e 
pur  nondimeno  lasciati  inediti.  Anche  l'amico  Creili,  il  volgariz- 
zatore delle  dottrine  del  nostro  filosofo,  lasciò  inedita  la  tradu- 
zione del  De  ineiìte  hiimann;  la  qua!  traduzione  par  che  si  trovi 
tuttavia  manoscritta  nella  biblioteca  di  Parigi,  poiché  il  Marsand 
la  registra  nel  catalogo  de'codici  al  numero  79.  E  poiché  la  nostra 
letteratura  filosofica  non  è  molto  ricca  di  opere  scritte  con  pre- 
cisione di  linguaggio,  e  con  eleganza  di  gusto,  non  sarebbe  inutile 
di  pubblicare  questa  con  tutte  le  altre  traduzioni  fatte  dal  Creili  ; 
e  quanto  al  De  mente  liumana  non  sarebbe  neppure  soverchia  la 
ristampa  del  testo  latino;  perchè  qualcosa  ci  si  imparerebbe 
anche  oggidì. 

Giambattista  Gelli,  il  quale  non  aveva  dubitato  d'inserire 
ne'dialoghi  tra  Giusto  e  la  propria  anima  il  grazioso  e  pungente 


DELLA    VITA    E   DELLE    OPERE   DI   SIMOME   PORZIO.  91 

racconto  del  libro  di  Lazzero  interpretato  da'Papi  ;  senza  dar 
retta  ai  clamori  levatisi  contro  il  Porzio,  aveva  tradotto  dunque 
il  nuovo  libro  come  aveva  fatto  de'precedenti.  L'opinione  del 
Gelli  poi  era  die  Aristotele  n'era  in  forse  egli  stesso,  e  perciò 
parlava  in  modo  «  die  non  si  possa  cbiaramente  cavare  da  le 
sue  parole,  s'egli  la  tiene  immortale  o  mortale:  ma  va  dando  un 
colpo  quando  in  sul  cercbio,  e  quando  in  su  la  botte;  di  maniera 
che  ci  è  chi  tiene  di  mente  sua  che  l'anima  sia  immortale,  e  chi 
mortale.  »  ^  Capacitato  di  quest'ambiguitcà  de'testi  aristotelici, 
persuaso  anzi  che  l'ambiguità  fosse  usata  ad  arte  per  coprire  il 
difetto  delle  vere  ragioni,  il  Gelli  doveva  trovare  naturalissimo 
che  si  potesse  sostenere  il  prò  ed  il  contro.  11  Porzio  è  più  ri- 
soluto: ei  rifiuta  addirittura  ogni  interpretazione  che  si  fosse 
volta  a  prova  della  immortalità.  La  critica  moderna  è  andata 
più  oltre  ancora,  e  non  contenta  di  attribuire  ad  Aristotele  la 
dottrina  della  mortalità  dell'anima  individuale,  l'ha  estesa  anche 
a  Platone,  con  cui  Aristotele  si  troverebbe  perfettamente  d'accordo, 
salvo  il  di\'ario  della  terminologia  de'rispettivi  sistemi.  Così  ha 
fatto  recentemente  il  Teichmiiller,  j)rofessore  all'università  di 
Dorpat.  ^  Quanto  ad  Aristotele,  nessuno  de'più  valorosi  critici  ne 
dubita,  onde  si  può  dire  che  gli  studi  recenti  abbian  dato  ra- 
gione alle  accurate  ed  ingegnose  interpretazioni  del  filosofo  na- 
poletano. 

11  1552  pe'  tipi  del  Torrentino  esce  fuori  un  opuscolo  inaspet- 
tato: che  cosa  è  ?  L'esposizione  del  Pater  noster:  Chi  n'  è  l'autore  ? 
11  Porzio;  e  nuova  meraviglia  ancora,  il  Gelli  l'ha  tradotto  in 
volgare;  tradotto  prima  che  fosse  pubblicato  il  testo  latino.  La 
traduzione,  difatti,  porta  la  data  del  1551,  e  fa  fatta  ad  istanza 
dell'autore,  come  dice  espressamente  il  traduttore  nella  lettera 
del  15  novembre  di  questo  anno  indirizzata  a  Bartolomeo  To- 
lomei. 

Perchè  tanta  fretta  nel  tradurre  ?  A  me  sembra  che  amici 
del  Porzio,  a  cessare  i  richiami  contro  la  sua  ortodossia,  gli  ab- 
biano suggerito  il  consiglio  di  comporre  un  qualche  lavoro  di 
religione;  e  che   la  traduzione,  come  quella  che   poteva  correre 

'  Capricci  del  Bottaio  di  Giovambattista  Gelli,  accademico  fiorentino.  — 
Venezia,  1550,  pag.  43. 

^  Noi  non  possiamo  entrare  in  questo  luo?o  a  discutere  la  nuova  interpreta- 
zione data  dal  Teichmiiller  delia  dottrina  platonica.  Si  riscontrino  le  opere  del 
precitato  filosofo:  Die  pla'onische  Frage  Bine  Streitschrift  ffegen  Zeller,  von 
Gustav  Teichmiiller.  —  Gotha,  1876,  pag,  41.  —  Studien  zur  Geschichle  der 
Beg>-iffe,  Berlin  1844,  p.  343-7. 


92  DELLA   VITA   E   DELLE   OPEEE   DI   SIMONE   PORZIO. 

per  le  mani  di  tutti,  fu  stimata  di  maggior  urgenza,  che  non 
l'opera  stessa. 

«  Formae  orandi  cJirisf ianae  enarratio  Simonis  Portii.  Eius- 
dem  in  EvangeUum  Divi  Joannis  Scholion.  »  Eoco  il  titolo  del- 
l'opuscolo diviso  in  due  parti,  una  dedicata  al  Cardinale  di  Toledo; 
l'altra  a  Geronimo  Ricci,  vescovo  di  Pavia.  Col  primo  il  Porzio 
sì  duole  della  perturbazione  religiosa  avvenuta  per  opera  della 
Protesta,  più  dell'essersi  insinuata  anche  in  Italia,  anche  a  Roma  : 
col  secondo  si  scolpa  dell'ardimento,  con  cui  egli  profano,  versato 
in  studi  naturali,  osa  di  un  tratto  volare  su  nel  cielo;  quasi  quasi 
trapela,  mal  dissimulato,  un  fino  riso  d'ironia.  A  me  non  è  riu- 
scito aver  sott'occhio  questo  opuscolo  del  Porzio  nel  testo  latino 
il  quale  per  altro  si  trova  nella  biblioteca  nazionale  di  Napoli; 
ma  nella  Corsiniana  di  Roma  ho  potuto  leggerne  la  traduzione 
del  Gelli  dedicata  al  Cardinale  di  Ferrara  con  la  data  del  15  no- 
vemlìre  1551.  —  L'opera  ha  tutta  l'aria  di  uno  scritto  composto, 
come  si  direbbe  ora,  con  la  tendenza  di  chiarirsi  ortodosso  nella 
religione;  e  credo  che  l'autore  riuscì  nell'intento.  Allora,  come 
forse  in  tutt'  i  tempi,  appresso  di  noi  si  badava  piìi  alle  appa- 
renze che  alla  sostanza:  si  faceva  più  caso  di  una  deviazione  in 
una  data  credenza,  che  della  negazione  recisa  del  fondamento  di 
ogni  fede;  si  odiava  più  la  Protesta,  la  quale  cercava  di  mondare 
qualche  ramo  secco,  che  non  la  dottrina  aristotelica  la  quale  sbar- 
bicava l'albero  dalle  radici. 

Il  Porzio,  fornita  la  pubblicazione  del  Modo  di  orare  cristia- 
namente, come  traduceva  il  Gelli,  partì  di  Pisa  ;  né  si  può  dire 
di  aver  patito  un  dolor  di  capo  pei  suoi  libri  filosofici;  che  anzi, 
come  abbiamo  visto,  si  faceva  valere  appresso  il  Pontefice  per  be- 
nemerito della  Chiesa.  A  Napoli,  il  1553,  poneva  per  l' ultima 
volta  mano  alla  stampa  dei  due  libri  intitolati:  De  rerum  nafu- 
ralium  principiis:  ma  l'opera  era  stata  composta  a  Pisa,  conforme 
si  raccoglie  dalla  lettera  dedicatoria  premessa  all'edizione  del  1553, 
e  tralasciata,  non  so  perchè,  nella  edizione  del  1561.  ' 

1  Essendo  rarissima  l'edizione  dei  1553,  stimiamo  di  riferire  integralmente  questa 
dedica,  come  ci  è  stata  cortesemente  ricopiata  dal  cav.  Scij)ione  Volpicelia.  Essa 
contiene  alcuni  particolari  che  ci  sembrano  importanti. 

«  Illustri  ac  reverendo  Marco  Antonio  Columnae  Simon  Portius  S.  —  Plurimum 
quidem  bonae  artes,  earumque  professores  tuae  lamiliae,  ac  tuis  avis.  Marce  An- 
toni suavissirae,  debent:  qui  illas  auxerint,  et  studiose  nutriverint;  hos  vero  semper 
amaverinl,  et  in  primis  observaverint.  Verum  Pompeio  Columnae,  cardinali  amplis- 
simo, mugno  pairuo  suo,  longe  amplius  equidem  me  debere  sentio;  quod  incredi- 
bili quadam  sua  humanitate,  Inter  suos  quoque  familiares  ascripserit.  Tibi  tamen 


DELLA  VITA.   E  DELLE   OPERE   DI   SIMONE   PORZIO.  93 

Da  questa  lettera  apparisce  che  il  Porzio  aveva  pronti  non 
solo  i  libri,  ma  perfino  la  dedica  fin  da  quando  era  ancora  a 
Pisa;  che  dunque  se,  scambio  di  pubblicar  questi,  diessi  a  chio- 
sare l'orazione  domenicale,  un  qualche  motivo  doveva  esserci  stato: 
apparisce  che,  oltre  al  commento  de'  primi  due  libri  della  fisica 
aristotelica,  aveva  in  ordine  il  rimanente  commento;  che  la  po- 
dagra ne  lo  impedì:  apparisce  che  da  giovine  era  stato  tra  i  fa- 
migliari del  cardinale  Pompeo  Colonna,  protettore  del  Nifo;  che 
da  vecchio  era  stato  maestro  del  giovinetto  Marco  Antonio  Co- 
lonna andato  appositamente  a  Pisa  per  frequentare  le  lezioni  del 
nostro  filosofo  con  ardore  veramente  meraviglioso  per  la  sua  età. 

Marcantonio  Colonna,  nato  a  Civitalavinia  il  26  febbraio  1535, 
non  aveva  piìi  di  diciotto  anni,  quando  il  Porzio  gli  dedicava  il 
commento  de'  primi  due  libri  della  fisica:  ne  doveva  avere  ancora 
meno,  quando  venne  all'università  di  Pisa.  Questi,  che  venne  poi 
in  tanta  fama  per  la  parte  presa  albi  battaglia  di  Lepanto,  si  for- 
tificava la  mente  di  buoni  e  severi  studii,  quali  erano  le  lettere 
greche  e  le  latine,  e  di  poi  la  filosofia.  Quando  poi,  più  tardi, 
Pio  V  con  Breve  del  dì  11  giugno  1570  lo  nominava  capitano  ge- 
nerale e  prefetto  di  tutta  l'armata  navale  che  si  muoveva  contro 
de'  Turchi,  era  Duca  di  Paliano,  nobile  di  Venezia,  feudatario  del 
Ee  di  Spagna,  e  gran  Conestabile  della  corona  di  Napoli. 

Ma  lasciando  la  parte  estrinseca  del  libro,  che  il  Porzio  pub- 
blicò ultimo,  e  quasi  alla  vigilia  della  sua  morte,  è  pur  necessario 
dire  della  sua  importanza. 

Sebbene  l' intenzione  dell'  autore  fosse  stata  di  fare  un  com- 
mento, pure  la  trattazione  procede  cosi  coerente,  così  spigliata, 
che  tu  la  crederesti  opera  originale,  se  1'  autore    medesimo    non 

nescio  qua  maiori  necessitudine  devincior  :  quod  te  in  id  unum  stndere,  ut  ne  quid 
raearum  in  philosophia  lucubrationum  ant  fugiat,  aut  latear,  animadvenam.  Huc 
accedit  quod  vix  dum  e  pueritia  exced-^ns,  post,  graecae,  latinaeque  linguae  pei-itiam, 
summo  ardore  ad  plùlosopliiani  nostrani  peripateticam  cont.endis  ;  ut  et  conqnisitis 
undique  praeceptoribns,  ei  diligentem  operam  nàves  :  et  in  Academiam  pi-anam  ad 
me  senem,  atque  ex  pedibus  laborantem  mira  spe,  ac  fide  accesseris,  quo  quae  ia 
Aristotele  obstrusa  ac  difScilia  habe;itur,  mea  opera  libi  eruautur  ac  explicentur, 
Sed  quoniam  studia,  quae  lecte,  ordineque  instituuntur,  ab  optimi?  initiis,  velut 
omnium  phiiosophorum  consensus  docet,  sunt  auspicanla  ;  iccirco  de  rerum  natu- 
ralium  primordiis  opusculum  tibi  mitto;  ut  inde  quis  sii  primi  et  secundi  naturalis 
auscultationis  libri  sincerus  et  genuinus  sensus  ediscas  :  ea  eiiira  tam  sunt  tempora, 
ut  non  minor  sit  ambages  evitandi,  quam  veritatern  sectandi,  labor.  InteliiLi-es  autern 
ex  eo,  quantas  in  naturalium  principiorum  explica'ione  Latini  quidam  ineptias  ef- 
futiverint.  Quo  i  si  hanc  tractationena  tibi  non  di^plicere  audiam;  prop^-diem  reli- 
quam  ejus  commentationis  Aristotelis  partem,  quae  est  de  raotu,  simuLvtque  a  raeis 
doionbus  quievero,  accipies.  Vale,  ex  Accademia  Pisana-  » 


94  DELLA   TITA   E   DELLE   OPERE   DI   SIMONE  PORZIO. 

ti  avesse  posto  su  1'  avviso.  La  falsariga  del  testo  diviene  affatto- 
impercettibile,  perchè  il  commentatore  non  vuol  ripetere  noiosa- 
mente le  cose  dette,  ma,  dopo  tante  veglie  spese  nello  studio 
della  filosofia,  qualche  frutto  vuol  apportare  del  suo  campicello  ; 
^<  si  de  nostro  (juoque  agello.  post  tot  tantasque  vigilias,  aliquid 
ad/erre  liceat.  »  ^ 

Fatta  la  distinzione  tra  libri  essoterici,  o  popolari,  (|uali  sona 
gli  Etici,  ed  i  Problemi,  e  libri  acroamatici,  il  Porzio  nota  che 
la  risica  ha  ritenuto  il  nome  di  libro  acroamatico  per  eccellenza, 
come  il  più  poderoso.  Qui  Aristotele  gitta  le  prima  fondamenta 
del  suo  vasto  edificio  :  qui  dunque  bisogna  far  capo  per  inten- 
dere il  resto.  Con  questo  criterio  il  Porzio,  come  abbiamo  av- 
vertito di  sopra,  allarga  sempre  le  questioni  particolari,  rime- 
nandole ai  principii  supremi  della  intuizione  universale  del 
sistema;  e  non  ha  né  le  esitanze  degli  altri  espositori,  né  le  loro 
frequenti  contraddizioni:  egli  si  può  dire  l'aristotelico  più  schietto, 
più  fedele  al  testo  greco,  che  ci  sia  stato  in  tutto  il  Risor- 
gimento. 

Tra  i  diversi  commenti  che  tenevano  il  campo  ei  dispregiava 
quasi  il  latino,  come  quello  che  più  si  dipartiva  dalla  verace 
intelligenza  dell'aristotelismo.  Due  chiose  del  commento  latino 
avevano  alterato,  una  la  fisica  ;  1'  altra,  la  psicologia  di  Aristo- 
tele; la  creazione  della  materia,  cioè,  e  la  immortalità  dell'anima 
umana.  Il  Porzio,  pur  riconoscendo  che  ({uesti  due  presupposti 
sono  i  cardini  della  nostra  religione;  pure  aderendovi  come  cri- 
stiano ;  non  rifinisce  dal  dichiararli  affatto  alieni  dalla  mente, 
e  dai  principii  dello  Stagirita:  né  per  i|uesto  verso  è  chi  possa 
dargli  torto. 

Da  questa  schiettezza  del  criterio  usato  dal  nostro  filosofo 
proviene,  che  mentre  il  commento  latino  e  l'arabo,  sebbene  il 
secondo  in  minor  misura  del  primo,  non  hanno  oggidì  altra  im- 
portanza, che  per  intendere  lo  sviluppo  della  Scolastica  e  del 
Risorgimento  ;  il  commento  greco,  e  segnatamente  quello  del 
Porzio,  giovano  ancora  alla  diritta  interpetrazione  di  Aristotele. 
Dico  segnatamente  quello  del  Porzio,  perchè  egli  per  lo  inten- 
dimento de' testi  aristotelici  non  si  giova  d'altro  sussidio,  che  de' 
testi  dello  stesso  autore  ricavati  da  altre  opere,  e  diligentemente 
messi  a  riscontro  :  il  che  non  sempre  praticarono  Temistio  e 
Simplicio,  i  quali   non  di  rado  frammischiarono  alla   interpetra- 

'  De  rerum  princìpiix,  1561,  jiai^.  4. 


BELLA   VITA   E   DELLE   OPERE   DI    SIMONE    PORZIO.  95 

zione  di  Aristotele  dottrine  raccolte  o  da  Platone  o  da  altri  filo- 
sofi. Di  che  nasce  la  preferenza  concessa  dal  Porzio  ad  Alessandro 
d'  Afrodisia  ;    preferenza  eh'  egli    ha   in  comune  col  Pomponazzi. 

Non  voglio  qui  omettere  un'avvertenza,  ed  è,  che  i  tre  più  grandi 
rappresentanti  del  triplice  commento  aristotelico  appartengono 
all'  Italia  meridionale.  Napoletano  Tommaso  di  Aquino,  oh'  è  il 
più  chiaro  ed  ordinato  tra  i  commentatori  latini:  napoletano 
Agostino  Nifo,  eh' è  forse  il  più  grande  averroista:  napoletano 
finalmente  Simone  Porzio,  che  tornando  alle  fonti  greche,  benché 
venuto  dopo  del  Pomponazzi,  gli  contende  e  talvolta  gli  toglie  di 
mano  la  palma.  E  quando  si  consideri  che  nel  torno  medesimo 
di  tempo,  che  il  Porzio  mirava  a  ripresentare  il  genuino  Ari- 
stotelismo, svestendolo  dell'  abito  disadorno  e  variopinto,  onde  lo 
avevan  ricoperto  le  scuole,  Bernardino  Telesio  lavorava  a  com- 
batterlo di  tutta  sua  forza,  non  si  può  a  meno  di  ammirare  la 
sempre  feconda  vena  filosofica  di  quella  gloriosa  parte  d' Italia. 

Riiccogliendo  ora  il  risultato  delle  nostre  ricerche  intorno 
alle  opere  del  Porzio,  ne  enumeriamo  i  titoli,  scrivendo  in  cor- 
sivo quelle,  che  sebbene  menzionate  dall'  autore,  pure  non  ci  è 
venuto  fatto  di  vedere,  o  di  sapere  pubblicate.  In  questo  cata- 
logo non  annovereremo  punto  il  De  ccelihatu.  perchè  né  l'ab- 
biamo potuto  trovare,  né  l' abbiamo  visto  menzionato  in  altre 
opere  dello  stesso  autore.  Seguiremo  l' ordine  cronologico,  e  di 
quelle  che  sono  state  tradotte  dal  Gelli  daremo,  subito  dopo, 
r  anno  della  traduzione. 

1.  De  puella  germanica,  qiiae  fere  biennium  vixerat  sine  cibo,  potiique,  ad 

Paulura  III  Pontificem  Maximum  Simonis  Portii  disputatio.  Senza  data 
di  anno. 

C  è  un'  altra  edizione  ;  Plorentiae  1551,  apud  Laurentium 
Torrentinum,  in  4. 

«  Disputa  dello  eccellentissimo  filosofo  Simon  Portio  Napoletano  sopra 
quella  fanciulla  della  Mag"na,  la  qual  visse  due  anni,  o  più,  senza  man- 
iriare,  et  senza  bere  ;  tradotta  in  lingua  fiorentina  da  Giovambattista 
Gelli.  Con  privilegio.  In  Firenze,  iii  8.  » 

2.  De  Conflagratione   Agri  puteolani,  Simonis  Portii    neapoletani   Epistola, 

Neapoli,  apud  Io.  Sultzb.ichium,  15158. 

C'è  un'altra  edizione:  Florentiae  1551,  in  4. 

Questa  lettera  tradotta  dal  latino  fu  da  Jacobo  Antonio 
Buoni  inserita  nel  suo  Dialogo  del  terremoto,  Modena  1571, 

3.  Dì  Coloribus  libellus  a  Simme  Portio  Neapolitano  latinitate  donatus,  et 

commentariis  illustratus  :    una    cum    eju^dem   praefatione,    qua    coloris 


96  DELLA   VITA   E   DELLE   OPERE  DI   SIMONE    PORZIO. 

naturaui    declarat.    Florentiae    1548    ev    officina    Laurentii   Tonentiui, 
curn  privilegio,  in   4. 

Ce  n'è  un'altra  edizione  con  questa  variante:  Aristotelis  vel 
Teophrasti  de  coloribus.  Parisiis  apud  Yiscosanum  1549. 

4.  De    coloribus    oculorum    Simonis  Portii    Xeupoletani.    Florentiae    1550, 

apud  Laurentium  Torrentinum,  in  4. 
«  Trattato  de'  colori    degli    occhi    dello    eccellentissimo  filosofo  M.  Simone 
Portio  Napoletano  ec,  tradotto  in  volgare  per  Giambattista   Gelli.   In 
Fiorenza  appresso  Lorenzo  Torrentiuo   1551,  in  8.  » 

5.  An  homo  bonus,  vel  malus    volens    fiat,    Simonis    Portii  disputatio.  Ad 

Laelium  Taurellium  .Turisconsultiss.  Duci  flore ntinorum  a  Secretis.  Flo- 
rentiae 1551,  in  4. 
«Se  l'homo  diventa  buono  o  cattivo  volontariamente.  Disputa  dello  eccel- 
lentissimo filosofo  M.  Simone    Portio    napoletano    tradotta    in  volgare 
per  Giovambattista  Gelli.  In  Firenze  appresso  Lorenzo  Torrentino  1551,  » 

6.  De  dolore  Simonis  Portii  disputatio,  1551. 

1.  Simonis  Portii  Neapoletani  de  humana  mente  disputatio.  Florentiae  1551, 
apud  Laurentium  Torrentinum,  in  4. 

Tradotta  dal  Gelli,  ma  la  traduzione  è  inedita. 

8.  Formae  Grandi  Christianae,  enarratio  Simonis  Portii.  Ejnsdem  in  Evan- 

gelium  Divi  Jnannis  Scholion.  Florentiae  1552  apud   Laurentium  Tor- 
rentinuu],  in  4. 
«  Modo  di  orare  christianaraente  con  la  esposizione  del  Fater  noster    fatta 
da  M.    Simone    Portio  Napoletano     Tradotta   in    lingua   fiorentina    da 
Giovanbattista  Gelli.  In  Firenze  1551,  in  8.  » 

9.  De  rerum  naturalium  principiis,  Simonis  Portii  Neapolitani,    libri   duo  : 

quibus  plnrimae,  eaeque  haud  contemnendae  quaestiones  naturales  expli- 
cantur.  Ad  illustrera  ac  Reverendura  ÌNIarcum  Antonium  Oolumuam. 
Neapoli,  Excudebat  Mathias  Cancer.  1553. 

Ce  n'è  un'altra  edizione:  Neapoli  apud  Jo.  Mariani  Sco- 
tum  1561. 

10.  Opuscula   excellentissimi    Simonis    Portii    neapol.    cura    Jacobi    Antonii 

Marthae  philos.  Neapolitani  apologia  etc.  Neapoli  1578. 

11.  7/  catalogo  de'' pesci.,  di  cui  si  trova  menzione  in  una  lettera  del  Pinelli. 

12.  De  Fato  ] 

13.  De  libero  arbitrio  {  di  cui  si  trova  menzione  ne'  libri  editi  dal  Porzio 

14.  De  animi  partibus  i  stesso. 

15.  De  animi  motibus  1 

Concliiudo  questo  catalogo  col  voto  die  più  accurate  ricer- 
che possano  farci  rinvenire  a  Napoli  questi  manoscritti  di  Si- 
mone Porzio. 

F.  Fiorentino. 


MIO  FIGLIO  STUDIA. 


RACCONTO. 


Quell'anno  nostro  figlio  ci  aveva  promesso  solennemente  di 
studiare,  di  essere  uno  dei  primi  della  scuola. 

Evangelina  ed  io  gli  avevamo  detto:  «  bravissimo!  »  sog- 
giungendo però  con  un  tacito  accordo  d'  indiscrezione  che  non 
doveva  bastargli  d'  essere  fra  i  primi,  ma  che  bisognava  mettersi 
primo  addirittura.  Ed  allora  Augusto  aveva  spalancato  gli  occhioni 
e  ci  aveva  detto  con  una  specie  di  terrore  che  il  Panseri  era 
troppo  forte. 

Subito  quel  signor  Panseri  cominciò  a  farmi  stizza;  solo  al 
pensare  che  mio  figlio  aveva  tanta  paura  di  lui,  mi  venivano  in 
mente  certe  idee  senza  senso  comune,  certi  propositi  indeter- 
minati, certe  baldanze  inesplicabili,  come  se  io  dovessi  cacciarmi 
non  visto  nell'ultima  panca  della  scuola,  poi,  dal  posto  dell'asino 
levarmi  in  piedi  a  un  tratto  e  con  una  vocetta  tremenda  pro- 
nunziare queste  parole  solenni:  <^  Signor  maestro,  sfido  l'impera- 
tore romano!  »  E  al  cospetto  di  tutta  la  scolaresca  sbigottita 
farmi  innanzi  a  lui,  all'imperatore  Panseri,  e  chi.anarlo  sul  ter- 
reno dell'  analisi  grammaticale  e  logica,  e  tentarlo  nei  so^f^etti. 
nei  verbi  e  negli  attributi,  poi  avvolgerlo  in  un  sillogismo  tra- 
ditore, spingerlo  in  un  dilemma  senza  uscita  e  fiirgli  perdere 
scettro  e  corona. 

Questa  singolare  idea  di  prestare  la  mia  scienza  a  mio  figlio 
perchè  ne  facesse  un  uso  tanto  fatale  al  signor  Panseri,  continuò 
a  trottarmi  per  la  testa  anche  quando  seppi  che  nelle  scuole 
comunali  di  Milano  non  usavano  i  tornei  meravigliosi  d'una 
volta,  e  che  da  un  pezzo,  fin  da  quando  non  si   studiava   più   il 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  1879.  7 


98  MIO   FIGLIO   STUDIA, 

qui,  quac,  qnod  in  versi,  e  non  ci  era  bisogno  di  nascondere  la 
fenda  del  signor  maestro  se  non  si  sapeva  la  lezione,  fin  d'allora 
nissuno  aveva  più  inteso  parlare  dell'  imperatore  romano  e  del- 
l' imperatore  cartaginese,  suo  rivale. 

In  altri  momenti,  disperando  di  poter  compiere  alcuna  di 
quelle  mie  prodezze,  guardavo  le  cose  con  occhio  diverso  ;  vedevo 
mio  figlio,  che  era  piccino  e  gracile,  più  gracile  e  piccino;  pen- 
savo quanto  il  suo  corpicciuolo  irrequieto  dovesse  trovarsi  a  disa- 
gio fra  le  panche  della  scuola,  sotto  gli  occhi  del  signor  maestro, 
0  me  lo  immaginavo  per  lunghe  ore  curvo  sopra  una  lezione 
ribelle  ;  allora  la  vantata  forza  del  signor  Panseri  non  mi  tirava 
a  cimento,  mi  rassegnavo  a  permettere  che  quell'imperatore  mi- 
nuscolo si  avvolgesse  nella  sua  porpora  senza  provare  la  tenta- 
zione di  strappargliela  di  dosso  e  di  far  palesi  a  tutta  la  scola- 
resca le  sue  vergogne  grammaticali. 

E  dicevo  ad  Augusto  parole  riboccanti  di  senno  : 
—  Tu  studia  la  lezione  per  aprire  la  mente  alla  verità,  fa 
il  compito  giornaliero  per  esercitarti  in  ciò  che  avrai  imparato: 
al  signor  Panseri  non  badare  neppure,  come  se  non  esistesse,  e 
chi  sa  che  un  giorno  o  l'altro  non  ti  trovi  d'essergli  passato  in- 
nanzi senza  aver  patito  le  ansie  del  cimento.  La  scienza,  figlio 
mio,  ha  questo  di  divino.... 

Mio  figlio  non  istava  ad  ascoltare  che  cosa  avesse  di  divino 
la  scienza;  l'idea  di  passare  innanzi  al  signor  Panseri  non  gli 
poteva  entrare  per  nissun  verso  ;  bastava  accennargliela  di  pas- 
sata perchè  egli  vi  si  fermasse,  sbigottito  del  mio  coraggio,  e 
facesse  di  no  col  capo.  Assolutamente,  il  signor  Panseri  era  troppo 
forte,  ed  io  non  lo  poteva  soffrire. 

Intanto  Augusto  mi  veniva  svelando  il  segreto  del  suo  nuovo  e 
straordinario  amore  allo  studio  ;  quell'anno  doveva  avere  dei  libri 
nuovi,  non  so  quali  e  quanti,  un'infinità,  ed  uno  più  grosso  dell'al- 
r  altro,  ma  tutti  grossi  abbastanza  ! 

—  Costeranno  un  occhio  del  capo,  diceva  Evangelina,  che  an- 
cora non  era  guarita  del  tutto  dai  piccoli  terrori  economici  che  la 
tormentavano  nei  primi  anni  del  nostro  matrimonio,  quando  il  mio 
primo  cliente  non  si  voleva  decidere  a  chiamare  in  tribunale  la  parte 
avversaria. 

—  La  scienza  non  costa  mai  troppo,  rispondevo  con  un  sorriso 
da  milionario;  cosi  rasserenavo  mia  moglie  e  mettevo  in  capo  a  mio 
figlio  una  massima,  —  ed  era  bella  e  buona  economia  anche  questa. 
Ma  sì,  Augusto  non  dava  retta  a  me,  non  badava  a  sua  madre,  la- 


MIO  FIGLIO   STUDIA.  99 

sciava    dissipare    l' interruzione  e  ripigliava  a  fare   sulle    dita  il 
conto  dei  suoi  libri. 

—  Il  Compendio  di  Storia,  uno,  V Aritmetica,  due,  i  Diritti 
ed  i  doveri  del  cittadino,  tre,  la  Storici,  Sacra,  la  Grammatica.... 

—  Non  l'hai  già  la  Grammatica?  chiedeva  sua  madre. 

—  Quella  era  la  Gramniatichetta,  rispondeva  Augusto. 

E  bisognava  vedere  a  che  cosa  si  riduceva  in  bocca  di  mio 
figlio  quella  che  un  tempo  era  la  Gramniatichetta,  per  compren- 
dere che  in  avvenire  non  poteva  essere  più  nulla. 

Veramente  non  era  già  più  gran  cosa;  quando  io  volli  ve- 
derla, sebbene  piccola  ed  indegna,  per  non  so  quale  recondito 
istinto  di  misericordia  verso  la  specie  grammaticale,  prima  Au- 
gusto si  schermi  dicendo  che  l'aveva  nel  cassetto,  e  che  nel  cas- 
setto non  ce  l'aveva  più,  e  che  non  sapeva  dov'era,  poi  portò  a 
sua  madre  un  arnese  irriconoscibile.  Aveva  uno  o  più  occhi  dise- 
gnati e  non  finiti  in  ogni  pagina,  ed  un  numero  d'orecchi  incalcolabile 
senza  l'aiuto  della  piccola  Aritmetica  sua  compagna,  che  non  istava 
meglio,  come  accertammo  subito  dopo.  Con  tanti  occhi  e  tanti 
orecchi,  sarebbe  stata  una  crudeltà  abbandonare  i  due  libriccini 
in  questo  mondo  di  calcoli  sbagliati  e  di  sgrammaticature,  ed  io 
vidi  senza  stupore  che  là  mia  Evangelina  se  n'andava  a  riporre 
quegli  invalidi  in  un  cassetto. 

—  Farai  lo  stesso  trattamento  ai  libri  di  quest'anno  ?  Do- 
mandai a  mio  figlio  senza  rancore,  ma  con  un  biasimo  sottinteso. 

Augusto  mi  rispose  risolutamente  di  no:  perchè  i  libri  di 
quell'anno  erano  tanti,  ed  erano  grossi,  ed  erano  belli,  perciò  li 
avrebbe  tenuti  con  mille  riguardi.  Ed  era  proprio  come  se  li 
avesse  dinanzi;  li  contemplava  con  amore  e  faceva  atto  di  lisciarne 
la  coperta. 

—  Quando  me  li  compri,  babbo? 

—  Domani. 

—  Oggi  no?  insistè  con  quella  sua  civetteria  a  cui  non  sa- 
pevo resistere. 

—  E  perchè  no?  chiesi  maliziosamente. 

Allora  lo  sfacciatello  spiccò  un  salto,  e  corse  a  portare  alla 
mamma  la  buona  novella  che  il  babbo  andrebbe  subito  subito  a 
comperare  i  libri  nuovi. 

Non  andai  solo;  venne  anche  lui,  e  quando  ebbe  tutti  i  suoi 
libri  in  un  fascio,  non  li  volle  più  abbandonare;  se  li  prese  a 
braccetto  come  buoni  amici,  e,  con  ansia  mista  di  sussiego,  mi 
consigliò  di  far  presto  per  farli  vedere  subito  alla  mamma. 


100  MIO  FIGLIO   STUDIA. 

Per  via  non  diceva  nulla;  la  sua  testina  ricciuta  aveva  dei 
pensieri  gravi.  A  quell'età  i  pensieri  gravi  rendono  il  passo  leg- 
giero, ed  io    stentava  a  tener  dietro  a  mio  figlio. 

Quando  fu  alla  porta  di  casa,  Augusto  spiccò  un  salto  cosi 
audace,  che  la  nuova  Grammatica,  novissima  agli  esercizi  della 
scolaresca,  non  potè  reggere,  gli  scivolò  dal  braccio  e  cadde.  Cadde, 
ma  non  si  fece  male,  perchè  il  pianerottolo  era  pulito;  ed  io  ne 
resi  grazia  agli  Eterni  ed  alla  fantesca,  pensando  all'afflizione  che 
il  piccolo  bibliofilo  avrebbe  provato  se  avesse  visto  solo  un'ombra 
nell'azzurro  della  coperta  immacolata. 

In  questa  come  in  molte  altre  cose,  Evangelina  non  aveva  le  opi- 
nioni di  suo  figlio:  essa  diceva,  per  esempio,  che  si  mettono  troppi 
libri  nelle  mani  della  gioventìi,  per  avere  il  pretesto  di  chiamarla 
studiosa,  e  si  permetteva  di  dubitare  che  Augusto  avesse  poi  a 
leggere  tutte  quelle  pagine. 

11  piccino  era  sicuro  del  contrario  e  lo  affermava  a  viso 
aperto,  senza  placare  la  mamma.  La  quale  insisteva: 

—  Io  invece  temo  che  non  le  legger.ii  nemmeno  mezze;  e  sono 
poi  sicura  d'una  cosa....  d'una  cosa.... 

—  Di  che  cosa? 

—  Sono  sicura  che  fra  una  settimana  tutti  questi  bei  libri 
avranno  perduto  la  coperta.... 

—  Come  devono  fare  a  perderla?  domandava  Augusto  fingendo 
di  non  capire. 

—  Se  non  lo  sai  tu 

Allora  il  piccolo  furbo  faceva  un  atto  dispettosetto  e  minac- 
ciava di  andarsi  a  chiudere  in  una  camera  e  di  leggere  tutti  i  libri 
nuovi  d'un  fiato,  per  farla  vedere  alla  mamma.  Qnanto  alle  coperte... 
quanto  alle  coperte...  Le  lisciava  con  delicatezza,  le  guardava  con 
amore,  --  aveva  ragione  lui  intanto. 

Ed  io  dissi  senza  ridere  : 

—  Serbala  sempre  questa  tenerezza  per  le  coperte  dei  tuoi 
libri,  non  lasciarti  vincere  mai  dalla  tentazione  di  strapparle  per 
fartene  un  cappello  da  carabiniere,  né  una  barca,  né  un'oca;  bada 
a  non  versarvi  sopra  il  contenuto  del  tuo  calamaio;  accontentati  di 
scriverci  il  tuo  nome,  senza  illustrarlo  col  ritratto  dei  tuoi  compa- 
gni di  scuola  e  tanto  meno  del  signor  maestro.  Serbala,  sì  serbala 
sempre  questa  tenerezza  che  ora  dimostri,  perchè  l'amore  delle 
coperte  dei  libri  è  il  fondamento.... 

Avevo  un'  idea  vaga  che  l'amore  delle  coperte  dei  libri  fosse 
il  fondamento  di  qualche  cosa,  ma  non  sapevo  bene  di  che,  e  per 


ilio    FIGLIO   STUDIA.  lOl 

non  dirla  grossa  volli  tacere,  sperando,  un  po'  tardi,  clie  mio  figlio 
non  mi  avesse  dato  l'etta.  Invece  era  là,  tutt'occhi  e  tutt'orecclii, 
e  mi  toccò  spingere  innanzi  la  frase  ad  ogni  costo. 

E  fu  cosi  che  quel  giorno  affermai  solennemente  in  faccia  a 
mio  figlio,  il  quale  non  ne  capì  una  sillaba,  essere  l'amore  delle 

coperte    e   dei  frontispizi  il  fondamento   d'ogni    dottrina  vera 

0  falsa. 

Se  riuscimmo  a  star  seri,  Evangelina  ed  io,  dopo  esserci 
scambiati  un'occhiata,  bisogna  dire  che  la  coscienza  dei  nostri 
doveri  seppe  fare  un  miracolo.  Augusto  ad  ogni  modo  lesse  qual- 
che cosa  nella  nostra  faccia,  capi  che  ne  avevo  detta  una  grossa, 
probabilmente  veniva  ripetendo  fra  sé  e  sé  la  mia  frase  sconclu- 
sionata, ingegnandosi  di  vederne  il  fondo,  —  ed  io,  per  fargli 
perdere  il  filo  delle  sue  idee  e  correggere  alla  meglio  lo  sproposito 
paterno,  mi  affrettai  a  commetterne  un  altro. 

—  Fra  tutti  quei  libri,  domandai  a  mio  figlio,  quale  preferisci? 
Non  mi  capiva. 

—  Quale  ti  é  più  caro  ?  A  quale  vuoi  più  bene? 

Li  guardò  alla  sfuggita,  con  poca  speranza  di  scorgere  in 
qualcuno  delle  qualità  straordinarie  che  meritassero  un  affetto 
speciale,  —  erano  tutti  nuovi,  —  non  sapeva  che  rispondere, 
voleva  bene  a  tutti. 

—  E  pure,  insistei  con  malizia,  ce  n'é  uno  che  non  ti  seccherà 
mai,  che  non  ti  darà  mai  un  dispiacere,  né  un  affanno,  né  uno  sgo- 
mento, che  ti  sarà  amico  discreto  tutto  l'anno....  ed  è  quello  li.... 
quello,  si,  proprio  quello.... 

—  Il  vocabolario  !  balbettò  Augusto:  e  soggiunse  pigliandolo 
in  mano: 

—  Ah!  si,  perchè  è  legato,  e  poi  è  più  grosso I 

—  Già,  è  più  grosso,  ed  è  legato...  per  questo...  Del  resto  biso- 
gna amarli  tutti  i  libri  di  scuola,  che  ci  aprono  l'intelletto  e  ci 
spezzano  il  primo  pane  della  scienza... 

In  fondo  era  l'idea  di  mio  figlio,  anzi  egli  andava  più  in  là:  li 
amava  tutti  senza  secondo  fine,  e  non  entrava  ombra  di  metafora 
nel  suo  istinto  amoroso. 

Augusto  non  era  però  il  solo  ad  amare  i  propri  libri;  ci  era  in 
casa  chi  li  amava  più  di  lui,  e  d'un  amore  più  cieco,  —  era  Laura, 
sua  sorella,  una  personcina  alta  due  spanne,  che  si  reggeva  be- 
nissimo sulle  gambuccie  e  non  barcollava  più  camminando,  ma 
ancora  non  sapeva  leggere. 


102  MIO  FIGLIO   STUDIA. 

Quello  era  un  amore  sviscerato!  Se  vedeva  da  lontano  un  libro 
d'A.ugnsto  dimenticato  sulla  tavola,  accorreva  festosa,  immaginan- 
dosi di  poterlo  pigliare,  ma  giunta  presso  alla  tavola  non  vedeva 
ncanclie  più  il  libro,  e  allora  mandava  in  giro  certe  occbiate 
smarrite,  che  facevano  ridere  il  fratello  maggiore. 

Non  rise  un  pezzo;  nella  testina  di  Laura  germinò  un'ideuzza 
baldanzosa;  quell'idea,  coltivata  con  amore,  crebbe  rapidamente, 
diventò  sublime;  ed  un  giorno  la  personcina  alta  due  spanne,  visto 
il  Compendio  di  storia  sul  tavolino,  accorse  a  gran  passi,  afferrò 
il  tappeto,  e  tirò  con  tutte  le  sue  forze  centuplicate  dalla  pas- 
sione. Non  pensava  al  pericolo  che  correva  col  farsi  venire  ad- 
dosso una  valanga,  o  per  dir  meglio  vi  pensava,  ma  era  prepa- 
rata a  tutto,  perchè  seguitò  a  tirare;  solo  all'ultimo  momento 
chiuse  gli  occhi,  non  altro.  TI  Cornpcmlio  di  storia  cadde  travolto 
nelle  pieghe  dell'ampio  tappeto;  Laurina,  rimasta  incolume,  rialzò 
il  suo  caro  caduto,  se  lo  strinse  al  seno  palpitante  ancora  della 
prodezza  compita,  e  venne  a  posaido  sulle  ginocchia  del  babbo,  il 
quale  aveva  visto  ogni  cosa  e  rideva. 

—  Non  ridere  !  mi  disse  Laurina. 

Ammutolii.  Essa  mi  scrutò  prima  attentamente  in  faccia  per 
vedere  se  dovesse  fidarsi  della  mia  gravità,  poi  apri  alla  rovescia 
il  Compendio  di  storia  di  suo  fratello,  e,  con  un  seriume  bizzarro, 
cominciò  a  leggere  sopprimendo  le  virgole:  —  Due  più  due  quattro 
più  due  sei  più  due  otto  più  due  ventidue  più  due  ventiquattro 
più  due  dodici  più  due  quaranta.... 

Chiuse  il  libro  e  soggiunse  gravemente:  —  Ecco,  l'ho  letto 
tutto!  —  poi  se  n'andò  contenta  perchè  il  babbo  era  stato 
serio. 

Ancora  la  scienza  dei  miei  figli  non  mi  aveva  fatto  male,  ed 
io  poteva  crederla  assolutamente  innocua;  delle  ariuzze  d'omino 
saputo  che  pigliava  Augusto  al  ritorno  dalla  scuola  non  avevo 
diffidenza  né  sospetto,  anzi  me  ne  compiacevo  e  le  incoraggiavo 
con  tutta  la  rettorica  paterna. 

—  Studia,  gli  dicevo  solennemente,  figliuolo  mio,  studia  con 
coraggio  se  vuoi  farti  uomo. 

La  frase  non  aveva  bisogno  di  commento,  pei'chè,  almeno  per 
mio  figlio,  io  era  un  uomo  fatto  da  un  pezzo;  ma  la  mia  Evan- 
gelina  credeva  necessario  soggiungere  : 

—  Piglia  esempio  dal  babbo;  studia,  e  diventerai  come  lui. 

—  Diventerò  anch'io  avvocato  ? 


MIO   FIGLIO   STUDIA.  103 

—  Senza  dubbio,  entravo  a  dire,  ed  avrai  una  magnifica  clien- 
tela, e  sarai  famoso. 

—  Tu  sei  famoso  ? 

—  Altro  che  ! 

Questa  bugia  enorme  è  di  mia  moglie. 

—  Quanti  libri  bisogna  studiare  piar  diventare  avvocato  famoso? 

—  Tanti. 

—  Anche  il  Coììipcndio  di  stoì'ia  ? 

—  Anche  quello. 

—  E  bisogna  saperlo  tutto  ? 

—  Sicuramente. 

Senza  avvedermene,  io  aveva  commesso  il  più  grosso  spropo- 
sito della  mia  carriera  di  genitore. 

Augusto  mi  lasciò' in  gran  pensiero,  e  poco  dopo  l'udii  can- 
tare nella  camera  attigua  la  sua  lezione  ;  ripeteva  con  una  specie 
di  puntiglio  insolito  lo  stesso  periodo,  si  provava  poi  a  ripeterlo 
a  memoria,  e  sbagliava,  e  si  correggeva,  e  tornava  da  capo,  can- 
tando sempre. 

—  //  re  di  Persia,  Dario,  figlio  d'Istaspe,  detto  anche  Assuero, 
volle  scegliere  una  moglie  tra  le  piii  oneste.... 

—  //  re  di  Persia,  Dario,  figlio  d'Istaspe,  detto  anche....  detto 
anche....  (pausa). 

—  Il  re  di  Persia,  Dario,  figlio  d'Istaspe,  detto  anche  Assuero, 
volle  scegliere  una  moglie  fra  le  piic  oneste  ed  avvenenti.... 

Ed  io,  ignaro  della  mia  sorte  miseranda,  mi  fregava  le  mani 
e  non  pensava  nemmeno  a  domandarmi  qual  donna  onesta  ed  av- 
venente avesse  poi  menato  in  moglie  quel  Dario  figliuolo  d'Istaspe, 
detto  anche  Assuero,  che  non  voleva  entrare  in  capo  a  mio  figlio. 

—  Gli  entrerà,  pensavo:  Augusto  è  ostinato  come  suo  padre; 
vedrai  che  Dario  finirà  col  darsi  vinto,  ed  entrerà  prigioniero  con 
tutto  il  suo  seguito. 

Nel  seguito  di  Dario,  per  mia  disgrazia,  ci  era  della  gente 
di  cui  non  udivo  parlare  da  un  pezzo,  e  a  me  allora  non  poteva 
nemmeno  passare  pel  capo  che  fosse  prudente  rinfrescarmene  la 
memoria. 

Il  dì  dopo,  Augusto  mi  venne  incontro  con  un'aria  soddisfatta. 

—  La  so  tutta  !  mi  disse  da  lontano. 

—  Che  cosa  ? 

Ed  egli  incominciò  addirittura: 

—  11  re  di  Persia,  Dario,  figlio  d'Istaspe,  detto  anche  Assttero... 
Ma  io  aveva  alle  calcagna  un  cliente  melanconico  che  biso- 


104  MIO  FIGLIO   STUDIA. 

gnava  mandare  in  appello,  e  con    tutta  la  buona   volontà   di  far 
felice  Augusto,  non  gli  potei  dar  retta. 

La  faccia  scura  del  mio  cliente  era  appena  scomparsa  dietro 
l'uscio,  quando  si  affacciò  più  sotto,  nel  vano,  la  faccetta  maliziosa 
di  mio  figlio. 

—  Dunque,  dissi  io  aprendogli  le  braccia  perchè  vi  si  slan- 
ciasse con  un  salto,  come  usava  fare,  dunque  il  re  di  Persia,  Dario 
figlio  d'Istaspe,  detto  anclie  Asstiero ..? 

Augusto  non  si  moveva,  era  pieno  di  scienza. 

—  Dunque,  insistei  spinto  dal  mio  destino,  dunque  voleva  sce- 
gliere una  moglie  tra  le  piìi  oneste  e  le  più  avvenenti...?  E  l'ha 
poi  trovata? 

—  Lo  sai  bene  che  l'ha  trovata? 

Allora  soltanto  vidi  l'abisso  su  cui  mi  aveva  spinto  la  mia 
imprudenza;  perchè  ahi!  non  lo  sapevo  uè  bene  uè  male;  me  ne 
ero  dimenticato  interamente.  Mi  sentii  in  balìa  di  mio  tìglio,  il 
quale  poteva  darmi  a  credere,  se  glie  ne  veniva  la  tentazione,  che 
il  re  di  Persia  avesse  sposato  la  sua  serva  come  il  nostro  vicino 
dirimpetto,  e  feci  una  ginnastica  prodigiosa  per  salvarmi.  Per  un 
po' mi  riuscì;  avevo  già  strappato  ad  Augusto  la  confessione  che 
la  moglie  di  Dario  si  chiamava  Ester,  ed  era  orfana,  ed  aveva  uno 
zio  chiamato  Mardocheo,  quando  venne  ad  Augusto  la  curiosità 
di  sapere  perchè  lo  zio  Mardocheo  non  si  fosse  dato  a  conoscere 
al  re  suo  parente.  Un  perchè  ci  doveva  essere,  tanto  più,  soggiun- 
geva mio  figlio,  che  se  Mardocheo  non  avesse  fatto  cosi,  Dario  non 
si  sarebbe  fidato  tanto  di  q/telValtro,  sai,  qneW altro...  aspetta... 

Io  sorrisi  ed  aspettai  con  una  pazienza  esemplare,  ma  (pensi 
chi  ha  cuor  di  padre  la  mia  tortura)  qitcll'alfro  non  sapevo  pro- 
prio chi  fosse...  Aspettavo  e  sorridevo:  queir  altro  non  venne. 

—  L'  ho  sulla  punta  della  lingua,  diceva  Augusto,  e  sollevava 
gli  occhioni  al  soffitto,  o  me  li  metteva  in  faccia  alla  sfuggita  spe- 
rando l'impossibile,  cioè  che  io  gli  venissi  in  aiuto  senza  offenderlo. 

Me  ne  piangeva  il  cuore,  ma  fui  inesorabile. 

—  Non  la  sai  ancora  bene,  dissi:  una  ripassatina  ci  vuole... 

—  L'  ho  qui...  aspetta... 
Questa  volta  uscì  di  corsa. 

Quando  egli  tornò  trinfante  a  dirmi  che  quell'altro  si  chia- 
mava Amanno,  io  mi  era  tirato  dinanzi  un  grosso  volume  di  P(ni- 
dette,  e  potei  far  credere  a  mio  figlio  d'essere  immerso  nella 
scienza,  mentre  non  facevo  che  ripetere  a  me  stesso:  —  Dottore 
mio,  sei  un  asino!  — 


MIO   FIGLIO   STUDIA.  105 

La  natura  benigna  non  lia  permesso  all'uomo,  e  sia  pure  l'a- 
sino pili  convinto,  d'incrudelire  lungamente  contro  so  stesso.  Quelle 
Pandette  che  avevo  dinanzi  agli  occhi  e  non  vedevo  erano  mie 
buone  amiche  da  un  pezzo;  approfittando  dello  stupore  che  segue 
ogni  gran  disastro  dell'amor  proprio,  esse  mi  parlarono  blanda- 
mente così: 

—  Jiistiniani  Institutionuìn  libri  quatuor  ..  I  bei  tempi  passati 
all'Università!    Le   belle  notti  vegliate  insieme  ! 

lo  sospirava  e  voltava,  le  pagine  senza  interrompere. 

—  Capitis  diminidio  Iria  genera  sunt  insistevano  le  dotte  pti- 
gine,  —  ed  io  proseguiva  rialzando  gli  occhi  dal  libro  con  una 
compiacenza  istintiva:  «maxima,  media,  minima,  tria  enim  sunt 
quae  hahemiis:  lihertatem,  civitatem,  familiam.  Igiiur  qimm  omnia 
liaec  amittimus...  »  Omnia  haec  le  so  ancora. 

Mandavo  un  sospiro  a  Mardocheo,  e  continuavo  a  sfogliare  il 
volume 

—  Fraetoris verha diclini:  Infamia  notatur. 

Ed  io  sorrideva  e  senza  avvedermeno  tiravo  innanzi  a  ripe- 
tere ad  occhi  chiusi  le  parole  confortatrici  del  pretore. 

Ad  ogni  sentenza  latina  veniva  dietro  un  codazzo  di  memorie 
allegre;  mi  ricordavo  in  che  luogo,  in  qual  ora  e  in  compagnia 
di  chi  aveva  imparato  a  distinguere  le  rcs  mancipi  dalle  ncc  man- 
cipi, Yhereditas  dalla  bonornm  posscssio  ;  mi  era  persino  rimasto 
ia  mente  che  il  vadinioninm  (quel  vadimomum  che  gli  studenti 
di  terzo  anno  mandano  inevitabilmente  al  diavolo  per  far  ridere 
i  matricolini)  aveva  prima  messo  di  buon  umore  me,  poi  mi  aveva 
servito  a  far  lo  spiritoso  con  altri. 

Ah!  Giustiniano  !  quello  era  un  gran  re!  Altro  che  Dario 
figlio  d'istaspe! 

E  mentre  una  voce  nemica  mi  grid..va  da  lontano  :  «  e  che 
ne  sai  tu  di  Dario  figlio  di  Istaspe  ?»  —  Giustiniano  mi  metteva 
sotto  gli  occhi  una  sentenza  che  diede  un  altro  corso  ai  miei 
pensieri. 

Nascitiirus  prò  jam  nato  hahcfitr,  dicevano  le  Pandette,  ed  io 
colpito  da  un  senso  nuovo  che  mi  si  rivelava  in  quella  massima, 
esclamavo:  «E  vero!  mio  figlio  era  vivo  prima  che  nascesse!» 

Lieto  di  questa  chiosa  che  mi  pareva  più  profonda  di  tutta 
la  dottrina  del  pretore,  me  ne  andai  allegramente  ai  tempi  lontani 
in  cui  non  avevo  nò  un  figlio  né  un  cliente. 

Ritrovando  più  tardi  il  mio  re  di  Persia  implacabile,  prima 
mi  strinsi  nelle  spalle,  poi  lo  mandai  a  farsi  benedire. 


106  MIO  FIGLIO   STUDIA. 

—  Il  tuo  regno  è  finito,  gli  dissi,  è  finito  da (qui,  se  lo  avessi 

saputo  avrei  messo  un  numero  preciso  d'anni,  di  mesi  e  di  giorni 
per  dar  solennità  al  mio  periodo)  è  finito  da  secoli,  e  ad  un  ga- 
lantuomo dev'essere  lecito  vivere  senza  immischiarsi  nei  fatti  tuoi. 
Io  poi  faccio  l'avvocato,  e  lo  faccio  bene  ;  domandane  al  tuo  col- 
lega Giustiniano;  ho  tante  faccende  io;  e  se  a  suo  tempo  mi  sono 
rotto  la  testa  per  fartici  entrare,  oggi  sono  nel  mio  diritto  pre- 
tendendo che  tu  n'esca  tutto  d'un  pezzo. 

E  per  istinto  d'arte  oratoria  agitavo  la  testa  come  se  ci  fosse 
davvero. 

La  mimica  che  accompagnava  il  mio  monologo  durava  ancora 
e  il  monologo  era  già  finito,  quando  mi  avvidi  d'avere  un  testi- 
monio —  Augusto,  il  quale  collo  zaino  ad  armacollo  veniva  a  darmi 
il  bacio  prima  d'andare  a  scuola. 

Per  solito  quella  scenetta  seguiva  così:  «  Si  può?  »  diceva  mio 
figlio.  Non  altro,  ma  io  intendevo:  «  Sono  qua  per  il  bacio,  »  e  su- 
bito, da  qualunque  lontananza  di  codice,  accorrevo  col  pensiero, 
aprivo  le  braccia,  egli  vi  si  slanciava  facendo  un  tentativo  per 
respingere  lo  zaino,  che  entrava  sempre  di  mezzo  in  quell'am- 
plesso, ed  i  nostri  tre  co)"pi  si  aHacciavano  stretti.  «  Mi  racco- 
mando »  dicevo  poi  con  solennità  paterna,  sprigionando  Augusto 
il  quale  se  ne  andava  seguito  dal  suo  zaino  enorme,  ed  io  sten- 
tavo a  ritrovare  Valinca  in  cui  ero  rimasto,  perchè  mettevo  bensì 
gli  occhi  sul  codice,  ma  il  pensiero  accompagnava  un  tratto  mio 
figlio. 

Questa  volta,  baciando  Augusto,  sentii  che  qualche  cosa  s'era 
mutato  nei  rapporti  tra  me  e  lui,  e  che  il  mio  amore  paterno, 
l'unico  amore  in  cui  credevo  non  dovesse  entrar  mai  la  civette- 
ria, aveva  anch'esso  le  sue  vanità. 

Ero  stato  sempre  per  mio  figlio  il  migliore  degli  uomini,  e 
non  avevo  mai  rifiutata  nessuna  delle  perfezioni  che  egli  mi  at- 
tribuiva. Perchè  me  lo  mettevo  a  sedere  sul  braccio  teso  e  lo 
portavo  in  giro  per  la  camera,  egli  mi  ammirava  dicendo:  «  Come 
sei  forte  !  »  ed  era  perfino  andato  a  dire  in  cucina  allo  spacca- 
legna che  il  babbo  era  più  forte  di  lui. 

Gli  era  bastato  vedermi  curvo  sopra  i  grossi  volami,  e  con- 
tare i  palchetti  della  mia  libreria  per  non  dubitar  più  che  io 
fossi  un  2)ortento  di  dottrina.  «  Tu  sai  tutto  !  »,  mi  diceva  nel 
tempo  in  cui  egli  non  sapeva  nulla,  e  in  (juesta  idea  trovava  un 
conforto  alla  sua  ignoranza. 

«Tu  sai  più   del    maestro!»  affermava  qualche   volta,  ed  io 


MIO   FIGLIO   STUDIA.  107 

capivo  subito  che  quel  giorno  il  signor  maestro  aveva  abusato 
della  sua  scienza  per  tormentarlo.  Non  dico  che  fossi  propria- 
mente in  buona  fede  intascando  tutta  quella  ammirazione,  ma  ci 
trovavo  gusto  e  sapevo  di  far  felice  mio  figlio. 

Ahi!  Quella  opinione  magnifica  che  Augusto  s'era  fatta  del 
babbo,  non  poteva  più  durare  !  Grià  Dario  figlio  d'Istaspe  aveva 
dato  il  primo  colpo  alla  mia  grandezza  bugiarda;  chi  sa  se  prima 
di  sera  un  altro  personaggio  famoso  non  sarebbe  uscito  dalle  pa- 
gine del  Compendio  di  storia  per  isvergognarmi  in  faccia  a  mio 
figlio  ! 

Mi. sentii  ripigliare  dai  miei  dubbi;  tutto  ciò  che  mi  ero  messo 
dinanzi  per  farne  una  barricata  in  cui  la  mia  ignoranza  si  avesse 
a  trovare  al  sicuro,  mi  sembrò  a  un  tratto  inutile  e  biasimevole; 
e  ragionando  precisamente  all'opposto  di  poco  prima,  mi  parve 
che  non  mi  fosse  lecito  vivere  un'ora  di  più  su  questa  terra,  se 
non  mi  fossi  ficcato  bene  in  capo  tutta  la  storiella  dello  zio  della 
moglie  del  re  di  Persia. 

>'issuno  mi  vedeva;  frugai  nella  libreria,  ne  estr?^ssi  una  sto- 
ria antica  e  vi  cercai  avidamente  la  tranquillità  della  mia  co- 
scienza turbata. 

Non  lo  avessi  mai  fatto  ! 

In  capo  a  mezz'ora  io  era  il  più  ignorante  ed  il  più  desolato  de- 
gli uomini;  e  dopo  aver  sfogliato  il  volume,  leggicchiando  qua  e  là 
e  trovando  in  ogni  pagina  un  capo  d'accusa,  arrestai  l'occhio  atto- 
nito nell'indice  che  pareva  messo  a  posta  in  fine  del  libro  come  una 
requisitoria,  a  dimostrarmi  compendiosamente  quello  che  io  era 
coli^evole  di  saper  male  o  di  non  sapere  niente  alEfatto. 

Era  caduta  la  benda  alla  mia  ignoranza!  Poc'anzi  mi  potevo 
illudere  pensando  che,  perchè  tante  cose  me  l'ero  messe  in  capo 
in  ilio  tempore  e  non  le  avevo  mai  mandate  via  come  Dario, 
potessero  esserci  rimaste.  M'accorgevo  ora  che  tutta  quella  buona 
gente  ebraica,  assira,  persiana,  se  n'era  andata  alla  chetichella, 
lasciando  una  gran  confusione  di  date  e  di  regni  nel  mio  corvello. 

Non  era  più  luogo  a  dubl)iezze  ;  mi  trovavo  in  faccia  ad  un 
dilemma  inesorabile:  o  rassegnarmi  a  passare  per  un  asino  agli 
occhi  di  mio  figlio,  o  rifare  coraggiosamente  il  mio  bagaglio 
storico. 

—  «  La  storia  è  la  maestra  della  vita  »  diceva  qualcuno  dentro 
(3i  me:  non  ti  è  lecito  goderti  il  tuo  presente  se  non  hai  sulle 
dita  il  passato  dell'umanità. 

—  Baie  !  rispondeva  dentro  di  me  un  altro  ;  te    lo    sei   pur 


108  MIO  FIGLIO   STUDIA. 

goduto  finora  il  tuo  tempo  senza  l'aiuto  di  alcuna  gente  morta; 
tu  continui  a  far  cosi  in  avvenire  e  te  la  ridi.  Che  jdoì  la  storia 
sia  la  maestra  della  vita  lo  vanno  dicendo  da  un  pezzo,  ma  ancora 
non  è  provato;  se  te  l'ho  da  dire  in  confidenza,  questa  mi  pare 
una  bella  frase,  messa  li  come  un  puntello,  per  reggere  una  scienza 
enorme  e  vana.  La  storia  non  ha  mai  servito  ad  altra  gente  che 
agli  storici,  e  non  ha  generato  mai  alcuna  cosa  al  mondo,  fuorché 
compendi  di  storia  e  monografie  storiche.  Le  dinastie  dei  Faraoni 
si  succedono,  passano,  e  che  cosa  lasciano  all'umanità  ?  Poche  pi- 
ramidi che  non  servono  a  nulla.  Eccoti  la  storia. 

Queste    parole    dell'anonimo,   che    ragionava   dentro    di   me, 
furono  un  raggio  di  luce  al  mio  spirito  rabbuiato;   io  aveva  tro- 
vata un'uscita  al  terribile  dilemma,  e  quest'uscita  era  la  filosofia. 
Si  sa  che  la  filosofia  serve  i  dotti  e  gl'indotti,  senza  guardare 
in  faccia  a  nessuno  ;  io  vado  più  oltre  e  dico  che  per  un  ignorante 
non  vi  ha  altra  via  di  scampo  che  diventar  filosofo  e  farsi  ìm  sistema. 
11  mio  sistema  filosofico  doveva  servirmi  ad  inculcare  a  mio 
figlio  la  necessità  di  studiare  tutte  le  cose  che    il   babbo    aveva 
studiato,  per  aver  poi  il  diritto  di  dimenticarle  tutte  come  il  babbo. 
Era  un'idea  grande  ed  ardita  ;  da  principio  mi  piacque,  l'am- 
mirai, poi  mi  parve  d'un'arditezza  impertinente,  d'una  grandezza 
spropositata;  nuovo  alla  ginnastica  dei  filosofi,  ebbi  vergogna,  lo 
confesso,  e  tornai  a  sentimenti  pii^i  umili. 

Quel  giorno  invece  di  recarmi  in  tribunale  colla  baldanza  d'un 
uomo  preparato  a  tutte  le  sorprese  della  procedura  civile,  vi  andai 
col  fare  dimesso  d'uno  scolaro  che  non  sa  bene  la  lezione. 

E  mentre  l'avvocato  avversario  esponeva  le  sue  ragioni  e 
citava  non  so  quali  Sentenze  della  Corte  Suprema  per  ottenere 
addirittura  il  sequestro  della  roba  del  mio  cliente,  io  fissava  lo 
sguardo  sul  presidente,  sui  giudici,  sull'avvocato,  ricercando  sotto 
quelle  toghe  e  quei  berrettoni  la  mia  gente  persiana.  Pensavo  : 
se  ora  sorgessi  all'improvviso  a  domandare  uno  schiarimento  sopra 
Mardocheo,  chi  di  costoro  me  lo  darebbe  ?  Quel  giudice  che  sonnec- 
chia no  certo;  e  nemmeno  il  presidente  con  tutto  il  suo  sussiego! 
Qiumdo  poi  toccò  a  me  a  rispondere  alle  enormi  pretese  della 
parte  avversaria,  sorsi  baldanzosamente  a  dire  che  mi  opponevo 
al  sequestro,  invocando  il  codice  e  la  civiltà.  —  Abbiamo  ancora 
delle  buone  ragioni  da  esporre,  esclamai,  e  vogliamo  essere  ascol- 
tati! E  soggiunsi  eloquentemente:  «Non  siamo  più  ai  tempi  dei 
Faraoni  e  dei  re  Persiani.  Oggi  Assuero  non  farebbe  impiccare 
Amanno  senza  dargli  tempo  di  provvedersi  in  appello.  » 


MIO   FIGLIO   STUDIA.  109 

Ditelo  voi:  die  c'entrava  Amaiino  ?  E  pure  la  frase  fece  effetto, 
e  al  mio  cliente  non  fu  sequestrata  la  roba;  segno  che  la  storia 
può  servire  a  qualche  cosa. 

Eadunai  tutta  la  mia  buona  volontà,  e  rubando  ogni  sera 
mezz'ora  alle  mie  cause,  e  il  compendio  di  storia  a  mio  figlio, 
mi  avviai  anch'io  in  mezzo  agli  Assiri  ed  ai  Persiani.  Camminavo 
senza  fretta,  non  ero  punto  punto  assetato  di  scienza  storica,  come 
potreste  credere,  e  mi  bastava  precedere  d'un  passo  mio  figlio  nel 
suo  compendio,  tanto  da  non  essere  esposto  a  tavola  a  certe  sorprese 
che  avrebbero  guastato  a  me  la  digestione,  a  mio  figlio  il  rispetto 
ammirativo  che  egli  doveva  all'autore  dei  suoi  giorni. 

Le  cose  andarono  bene  per  un  po',  ma  venne  un  disgraziato 
giorno  in  cui  la  scolaresca,  che  era  rimasta  meco  in  Persia,  e  pre- 
cisamente al  regno  di  Dario  III  Codomano,  se  n'andò,  senza  avver- 
tirmi, in  Assiria,  e  mio  figlio,  non  immaginando  quanto  male  mi 
faceva,  nominò  alla  mia  presenza  Sulmanassurre  e  Sennacheribbo. 

Io  finsi  prima  di  non  intendere,  e  fatto  un  vano  tentativo 
per  ricondurlo  in  Persia,  dove  mi  sarei  trovato  come  in  casa  mia, 
fui  costretto  a  lasciarlo  dire. 

Poi  vennero  altre  sorprese;  la  geografia,  la  storia  sacra  e 
perfino  l'aritmetica  di  mio  figlio  avevano  conservato  meco  dei 
segreti.  Incoraggiati  dall'esempio  del  Catechismo,  che  era  con  me 
pieno  di  misteri,  quei  tre  libri ccini  di  poche  pagine  mi  tormen- 
tarono mattina  e  sera,  mi  guastarono  regolarmente  il  desinare  per 
parecchie  settimane,  e  turbarono  i  miei  sonni. 

Io  lasciavo  un  sacramento  per  seguire  il  corso  d'  un  fiume 
americano,  che  a  farlo  apposta  non  poteva  essere  più  tortuoso  ;  scen- 
devo da  un  monte  dopo  aver  interrogato  l'aspetto  di  un  paese,  e  tro- 
vavo la  geometria  piana,  una  geometria  che  mi  faceva  venir  la  tenta- 
zione di  rifar  la  salita  del  monte  e  non  scendere  più  alla  pianura. 

Cieli  misericordiosi  !  Quanto  era  grande  la  mia  ignoranza! 
Non  sapevo  più  nulla;  peggio  ancora:  sapevo  degli  errori,  perchè 
quel  po' che  mi  era  rimasto  in  mente  era  confuso  ed  inesatto. 

Ripigliare  da  bel  principio  tutti  i  miei  studi,  come  se  dovessi 
ancora  presentarmi  agli  esami,  rifarmi  una  dottrina  nuova,  ecco 
il  rimedi-*  eroico;  ma  io  fui  vile,  mi  accontentai  di  rattoppare  la 
mia  scienza  dove  lasciava  vedere  i  gomiti  e  le  ginocchia. 

E  non  andò  molto  che  Augusto  mi  colse  in  fallo  una  volta, 
due,  dieci,  prima  con  stupore,  poi  con  dolore,  da  ultimo  con  ma- 
lizia.  Non  mi  diceva  più,   come    nei  bei   tempi    della  sua  inno- 


110  MIO   FIGLIO   STUDIA. 

cenza  —  tu  sai  tutto,  —  al  contrario,  gli  accadeva  di  spropositare 
coraggiosamente  in  faccia  mia  nelle  cose  piìi  elementari,  perfino 
nei  diritti  e  nei  doveri  dei  cittadini  che  erano  il  mio  pane  quo- 
tidiano, e  di  rifiutare,  senza  arroganza,  ma  con  sicurezza,  la  mia 
correzione,  dicendomi  la  frase  sacramentale  che  ha  fatto  impal- 
lidire tanti  genitori:  «L'ha  detto  il  signor  maestro!» 

Evangelina  si  provava  a  difendermi,  metteva  tutte  le  sue 
forze  centuplicate  dall'affetto  e  dalla  buona  fede  per  sollevar  me 
sopra  il  signor  maestro,  —  ma  era  inutile.  Augusto  non  diceva 
già  che  non  fosse  vero:  —  se  non  che  alla  prima  occasione  mi 
lasciava  intendere  che  sulla  mia  dottrina  famosa  non  si  faceva 
pilli  alcuna  illusione,  ripetendo  quasi  sottovoce:  «  L'ha  detto  il 
maestro!  » 

Ed  io  studiava  in  segreto,  con  un  disordine  che  dipingeva  lo 
stato  della  mia  mente,  le  montagne,  le  popolazioni,  il  quadrato 
dell'ipotenusa,  l'eucaristia. 

Li  vano.  Incalzato  dal  mio  destino,  venni  finalmente  in  faccia 
alla  prova  suprema. 

Avevano  dato  a  mio  figlio  un  difficile  problema  da  risol- 
vere, e  il  poveretto,  che  non  era  forte  nelle  matematiche,  non  se 
ne  poteva  cavare. 

—  Augusto  non  sa  fare  il  compito,  mi  venne  a  dire  Evange- 
lina; questi  maestri  non  so  dove  l'abbiano  la  testa.  La  bella  ma- 
niera di  tormentare  un  povero  ragazzo  !  È  tutta  la  mattina  che 
lo  vedo  curvo  a  tavolino,  —  mi  fa  proprio  pena  ;  —  dovresti 
aiutarlo. 

—  Aiutarlo  io!  esclamai;  e  allora  che  gli  giova  l'andare  a 
scuola  ?  Se  i  problemi  glie  li  danno,  è  segno  che  deve  saperli  ri- 
solvere ;  e  se  non  sa,  è  meglio  che  il  maestro  se  ne  avveda  e 
rifaccia  la  spiegazione  —   e  poi,  sono  tanto  occupato! 

Evangelina,  meno  scrupolosa,  andò  probabilmente  a  provarsi 
lei  a  fare  quel  che  non  volevo  far  io,  perchè  poco  dopo  tornò  a 
dirmi  : 

—  È  un  problema  difficilissimo;  c'entra  la  geometria  piana 
e  r  aritmetica.  —  Augusto  non  può  risolverlo,  piange... 

—  Piange?... 

Andai  subito,  e  nell'  attraversare  la  soglia  dello  stanzino  in 
cui  Augusto  si  torturava  da  un'  ora,  ebbi  come  il  presentimento 
d'una  catastrofe.  Ma  non  ero  più  in  tempo  a  dare  indietro;  mi 
accostai  a  mio  figlio,  gli  accarezzai  prima  il  visino  lagrimoso,  poi, 
con  un  po'  di  sussiego: 


MIO   FIGLIO   STUDIA.  HI 

—  Dà  qua,  dissi...  «  Un  fabbricante  di  mattoni  deve  conse- 
gnare tanti  mattoni  quanti  ne  occorrono  all'  ammattonato  di  una 
stanza  di  forma  trapezoidale  i  cui  lati  misurano...  eccetera.  »  Non 
è  difficile,  dissi.  E  non  sei  buono  a  cavarsene? 

Mio  figlio  non  rispose;  mi  guardava  con  quell'ammirazione 
ingenua  di  altri  tempi  mista  ad  un  tantino  di  stupore.  Ed  io  sog- 
giunsi : 

—  Io  non  ho  tempo,  e  poi  tocca  a  te  fare  il  compito;  se  i 
tuoi  compiti  dovessi  farli  io,  sarebbe  inutile  che  tu  andassi  a  scuola. 
Ora  però  hai  lavorato  troppo;  divagati;  va  in  cortile  e  corri;  poi 
torna  su,  e  ti  sarà  più  falcile. 

—  E  troppo  difficile;  disse  lui. 

—  È  facile;  dissi  io. 

Egli  andò  in  cortile  a  correre,  ed  io  presi  il  suo  posto  dinanzi 
al  tavolino.  Dio  misericordioso  risparmi  ad  ogni  padre  la  tortura 
che  provai  quella  mattina.  Ciò  che  mi  sembrava  facile  da  lontano 
mi  apparve  irto  di  mille  difficoltà  appena  ci  volli  riflettere.  Evan- 
gelina  mi  stava  a  guardare,  indovinando  anch'  essa  il  mio  imba- 
razzo; io  sentiva  Augusto  che  fiiceva  il  chiasso  in  cortile,  vedevo 
col  pensiero  una  comparsa  urgente  che  avevo  lasciata  sulla  mia 
scrivania,  e  continuavo  a  star  lì  come  inchiodato,  sfogliando  dispet- 
tosamente la  geometria  piana,  calcolando,  cancellando,  rifacendo 
i  calcoli  sbagliati.  A  poco  a  poco  la  testa  mi  si  empì  siffattamente 
di  cifre,  che  non  mi  raccapezzai  più  ;  sbagliavo  perfino  le  somme, 
e  per  ritrovare  1'  errore  d'  un'  unità  perdevo  un  tempo  prezioso. 
Mi  vennero  a  dire  che  un  cliente  mi  voleva  parlare  ;  gli  feci  ri- 
spondere che  ero  occupatissimo  e  che  non  potevo  dargli  udienza. 
Ma  si  fece  una  luce  nel  mio  cervello  ;  il  problema  mi  si  affacciò 
netto,  ed  io  non  istentai  cinque  minuti  a  risolverlo. 

—  È  fatto,  dissi  ad  Evangelina;  davvero  non  era  facile;  io 
poi  non  ci  ho  più  pratica... 

Era  inutile  che  mendicassi  delle  scuse.  —  Evangelina  mi  am- 
mirava, né  più  né  meno  —  ed  io  vidi  quella  sua  ammirazione 
passare  tutta  d' un  pezzo  nello  spirito  smaliziato  di  Augusto, 
quando  egli  venne  su  e  trovò  il  problema  risoluto. 

E  non  mi  parve,  no,  di  aver  perduto  il  mio  tempo  ;  anzi  rien- 
trando nel  mio  Studio,  avevo  una  certa  solennità,  come  se  vi  por- 
tassi la  fiaccola  della  scienza. 

A  questo  punto  mi  aspettava  il  mio  destino.  Invece  di  tor- 
nare da  scuola  allegro  e  di  far  irruzione  nella  mia  camera  a 
dirmi    che    aveva   preso    dieci  decimi  e  la  lode   per  il   compito, 


112  MIO  FIGLIO   STUDIA. 

Augusto  arrivò  a  casa  come  un  cane  ])attuto.  e   se  ne   stette    in 
cucina.. 

E  quando  io  volli  sapere  che  cosa  avesse,  mi  rispose  di  mala 
voglia  che  il  problema  era  sbagliato! 

—  E  impossibile!  esclamai, 

—  Guarda!  mi  disse  melanconicamente  mio  figlio;  doveva 
dare  4526  mattoni,  e  invece  dà  3916. 

Io  guardai,  non  vidi  nulla.  Ss  tutti  quei  mattoni  mi  fossero 
caduti  addosso,  non  mi  avrelìboro  fatto  pili  male  di  sicuro. 

Ma  accanto  alle  sventure  il  cielo  mette  le  consolazioni,  ed  io 
ne  trovai  una  dinanzi  alla  scrivania.  Era  Laurina,  la  piccola 
studiosa;  essa  si  era  arrampicata  sulla  poltrona  e  leggeva  attenta- 
mente il  codice  di  procedura. 

—  Senti  babbo,  mi  disse  appena  mi  vide  entrare;  senti;  la  so 
tutta:  «  due  più  due  quattro  più  due  otto  più  due  dieci  più  due 
ventidue  più  due  ventiquattro  più  due  trenta.  » 

Salvatore  Farina. 


LA  VITA  VEGETALE. 


In  UQ  precedente  articolo  '  io  ho  ricordato  quel  vero,  che 
come  ultima  conclusione  risulta  da  tutti  gli  studi  comparativi 
sulle  forme  delle  piante:  come  cioè  sotto  alla  mirabile  varietà 
delle  loro  apparenze  esterne  si  nasconda  una  unità  più  mirabile 
ancora.  Tutte  queste  forme  di  piante,  a  prima  vista  così  distinte, 
così  lontane  le  une  dalle  altre,  si  possono  ricondurre  a  due  tipi 
fondamentali,  che  passano  l'uno  nell'altro,  e  di  cui  desse  non  sono 
che  modificazioni  e  trasformazioni. 

E  quel  che  ho  detto  delle  forme  esterne  vale  ancora  per  l'in- 
terna tessitura.  Ivi  ancora  la  unità  nella  varietà.  Per  quanto  di- 
versissimi a  primo  aspetto  ci  si  presentino  i  tessuti  vegetali,  ora 
molli  e  quasi  liquefatti  come  in  alcuni  frutti,  ora  consistenti  ma 
pure  pieghevoli  ed  elastici  come  nelle  foglie,  ora  rigidi  come  nei 
legni,  ora  duri  a  guisa  di  pietra  come  in  molti  semi  e  frutti,  ora 
facilmente  divisibili,  ora  resistenti  come  nelle  fibre  tessili,  varia- 
mente colorati,  di  odore  e  di  sapore  altrettanto  svariati  :  pur  tut- 
tavia, qualunque  pianta,  qualunque  parte  di  pianta  ci  facciamo 
ad  esaminare,  analizzandola  noi  troviamo  mai  sempre  per  ultimo 
termine  della  nostra  analisi  anatomica  una  cosa  sola,  un  corpo 
sempre  sostanzialmente  identico  a  sé  stesso,  poiché  riveste  sempre 
la  forma  di  una  vescichetta  chiusa  da  tutte  le  parti.  Questa  ve- 
scichetta, organo  fondamentale  delle  piante,  è  quella  che  dai  bo- 
tanici ha  ricevuto  il  nome  di  cellula. 

Nella  cellula  si  compendiano  tutti  i  fenomeni  della  vita  vege- 

'  Vedi  la  Nuova  Antologìa,  1  novembre  1878. 
VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  iS^g.  8 


114  LA   VITA   VEGETALE. 

tale.  La  cellula  si  nutrisce,  si  propaga,  e  nel  proprio  seno  come 
in  un  laboratorio  genera  tutte  le  sostanze  atte  ai  bisogni  dell'eco- 
nomia della  pianta,  come  le  fecole,  gli  olii,  le  materie  coloranti, 
i  sali,  gli  zuccheri,  le  gomme,  le  resine  e  via  dicendo.  La  vita 
generale  della  pianta  non  è  altro,  per  così  dire,  se  non  la  somma 
e  r  armonia  delle  vite  particolari  delle  sue  cellule  costituenti. 
L'esame  della  cellula  e  delle  sue  manifestazioni  vitali  è  adunque 
indispensabile  per  meglio  intendere  le  funzioni  più  complesse  del- 
l'intera pianta. 

Non  occorre  quasi  avvertire  essere  le  cellule  di  piccolissime 
dimensioni.  Ab  benché  in  alcuni  casi  eccezionali  siano  grandi  ab- 
bastanza per  essere  visibili  all'occhio  nudo,  generalmeute  però  non 
si  possono  affatto  scorgere  senza  l'aiuto  del  microscopio,  che  con 
mezzi  ottici  ne  procura  una  immagine  molte  migliaia  di  volte  su- 
periore al  vero.  Del  che  uno  si  persuaderà  facilmente,  ove  badi 
che  per  lo  più  le  cellule  hanno  una  grandezza  che  varia  fra  un 
cinquantesimo  e  un  quinto  di  millimetro  ;  vale  a  dire  che  ne  ab- 
bisognano in  media  più  di  100  mila  di  questi  corpicciuoli  per  ri- 
cuoprire  uno  spazio  di  un  centimetro  quadro,  ch'è  presso  a  poco 
l'estensione  dell'unghia  del  nostro  dito  mignolo. 

Svariatissime  sono  le  forme  di  questi  minuti  organismi.  Pos- 
sono rivestire  la  forma  di  un  globo,  o  di  un  ovo,  o  di  un  diamante 
faccettato,  o  di  un  tubo,  o  di  un  fuso,  e  molte  altre  ancora  ;  pos- 
sono anche  dividersi  in  braccia  diversamente  configurate.  Sva- 
riatissimi  pure  i  disegni  della  loro  superficie:  la  quale  può  mo- 
strarsi segnr.ta  di  punti,  di  righe,  di  una  rete  a  maglie,  d'incavi, 
di  sporgenze  in  rilievo,  e  via  dicendo.  Però  tutte  queste  diversità 
si  riscontrano  soltanto  nelle  cellule  adulte  ;  mentre  nella  loro  pri- 
ma età  hanno  un  aspetto  molto  più  semplice  e  uniforme,  quando 
constano  di  una  membranella  sottilissima,  scolorita,  diafano,  molle, 
omogenea,  circoscrivente  una  cavità  ripiena  di  una  materia  mu- 
cilagginosa,  granellosa,  sospesa  in  una  certa  quantità  d'acqua.  Da 
questa  materia  hanno  immediata  origine  le  nuove  cellule,  e  molti 
fra  i  prodotti  che  nella  cellula  trovansi;  è  la  materia  propriamente 
atta  alle  nuove  formazioni,  plasmica  per  eccellenza,  onde  bene  a 
ragione   ha  ricevuto  il  nome  di  plasìna  cellulare. 

La  massa  del  plasma  non  sta  ferma;  ma,  animata  da  un  con- 
tinuo lavorìo  intestino,  si  muove  in  correnti,  che  con  moto  len- 
tissimo si  portano  ora  qua  ora  là,  raggirandosi  entro  la  cavità 
della  cellula,  ora  spartendosi  per  dirigersi  su  parti  opposte,  ora 
di  bel  nuovo  confondendosi    per    procedere    unite.    In    mezzo    a 


LA  VITA  VEGETALE.  115 

questo    movimento  si   vede  spesse  volte    il    plasma    condensarsi 
maggiormente    in  alcuni  punti  ;    i  quali  da  indi  in  poi  si   fanno 
centri  di  una  vitalità  propria,  distinta  da  quella    del    resto    del 
plasma  stesso.  Il  condensamento  della  materia  plasmica  in    quei 
punti  progredisce  e  si  fa  più  sensibile  a  grado  a  grado  :  le  masse 
condensate  si  delimitano  sempre  meglio  nel  loro  contorno  :  e  fin 
d  allora  possono  considerarsi  nuove  cellule  nate  in  seno  alla  cel- 
lula-madre, perchè  anche  in  quello  stalo  sono    capaci    in   alcuni 
casi  di  uscire  dal  suo  seno  e  di  entrare  in  relazione  diretta  col 
mondo  esterno,  vivendo  a  conto  proprio.  Però  questo  non  succede 
generalmente  cosi  presto.  La  giovine  cellula  per  lo  più  ha  biso- 
gno ancora  del  sostegno  materno,  fino  a  che  non  abbia  acquistato 
tutte  le  sue  parti  costitutive,  col  provvedersi  di  un  inviluppo  pro- 
prio, che  la  separi  da  tutto  ciò  che  non  è  lei.  La  quale  cosa  av- 
viene subito  che  alla  superficie  della  massa  condensata,  e  a   sue 
spese,  SI  sia  formata  una  sottile  pellicola,  in  modo  analo-o  ^  per- 
mettasi questo  paragone  molto  grossolano  -  a  quello  con  cui  si  for- 
ma Ja  pelle  alla  superficie  di  una  tazza  di  latte  caldo  mentre  si 
va  rafi-reddando.  La  pellicola  o  membrana  generata  in  tal  guisa  cir- 
coscrive esattamente  la  cellula,  la  trasforma  in  vescichetta  chiusa 
da  tutte  le  parti,  con  tutti  i  caratteri  perciò  della  cellula  autonoma, 
il  processo  di  formazione  e  di  successivo  accrescimento  delle 
cellule  qualche  volta  è  abbastanza  lento,  e  si  lascia  agevolmente 
seguire  nelle  sue  diverse  fasi:  altre  volte  invece  è  di  una  rapidità 
sorprendente.  Tutti  hanno  sentito  rammentare  e  forse  osservato  il 
sollecito  crescere  di  alcune  piante,  del  luppolo,  della  vite,  degli  spa- 
ragi, massime  di  quella  Agave  oriunda  del  Messico,  ma  ora  resa 
cosi   abbondante   su  tutta  la  costiera  mediterranea,  il  cui  stelo 
fiorifero  ben  grosso  si  allunga  nel  massimo  della  vegetazione  per- 
fino di  3  decimetri  al  giorno.  Ora  sapendo  che  le  piante  sono  com- 
poste unicamente  di  cellule,  sappiamo  che  ogni  loro  accrescimento 
deve  riferirsi  alla  formazione  e  all'accrescimento  di  questi  minu- 
tissimi corpi,  e  ci  possiamo   fare  un'idea  della  celerità  con  cui 
deve  procedere  il  fenomeno  nei  casi   accennati.  È  proverbiale  la 
istantanea  comparsa  dei  funghi,  i  quali  nella  stagione  autunnale 
calda  e  umida  m  poche  ore  raggiungono  il  completo  loro  sviluppo, 
anche  quando  sono  ben  grandi,  come  certe  cosidette  Boviste  dei 
nostri  scopeti  che  arrivano  ad  avere  la  grossezza  di  una  testa  di 
bambino,  e  per  le  quali   si  è  calcolato  che    la  produzione    delle 
loro  cellule  si  deve  fare  in  ragione  di  ventimila  al  minuto. 

Una  volta  nata  e  organizzata  con  la  sua  membrana  propria, 


116  LA   VITA  VEGETALE. 

la  cellula  seguita  a  crescere,  distendendola  e  ingrossandola.  Ma 
per  crescere  bisogna  che  si  nutrisca,  ed  ogni  nutrimento  non  le 
può  venire  oramai  che  a  traverso  la  sua  membrana,  la  quale  ad 
un  tempo  la  segrega  e  la  mette  in  relazione  col  mondo  esterno. 
Il  nutrimento  non  le  può  essere  somministrato  che  allo  stato  aeri- 
forme 0  liquido,  perchè  ogni  particella  solida,  per  quanto  minuta 
sia  e  ridotta  in  finissima  polvere,  è  incapace  di  passare  a  traverso 
la  membrana  cellulare,  sottilissima  sì,  ma  continua  ed  impervia. 

Il  nutrimento  aeriforme,  aria  atmosferica  o  gassi  diversi  che 
siano,  è  facile  comprendere  come  possano  penetrare  a  traverso  la 
membrana,  permeabile  ad  essi  come  ogni  altra  membrana  orga- 
nica; e  dalla  loro  penetrazione,  e  reciproca  uscita,  insomma  dagli 
scambi  di  gassi  fra  la  cellula  e  il  suo  ambiente  esterno  risultano 
tutti  i  fenomeni  respiratorii  della  cellula  stessa.  Agevole  passaggio 
hanno  pure  le  sostanze  liquide,  di  cui  in  primo  luogo  s'imbeve 
la  membrana  della  cellula,  e  che  poi  per  diffusione  passano  nel- 
l' interno  della  sua  cavità.  Non  occorre  dire  cosa  s' intende  per 
diffusione:  quel  miscuglio  che  si  fa  tra  due  li(iuidi  di  eguale  den- 
sità, fra  r  acqua  pura,  per  esempio,  e  una  soluzione  gommosa, 
quando  che  siano  messi  a  contatto,  o  anche  disgiunti  mediante  una 
sottile  membrana,  a  traverso  la  quale  si  stabilisce  allora  una 
doppia  corrente,  del  liquido  più  denso  verso  il  meno  denso,  e  re- 
ciprocamente, con  questa  particolarità  che  la  quantità  del  liquido 
meno  denso  che  si  porta  verso  il  più  denso  è  maggiore  di  quella 
del  liquido  più  denso  verso  il  mono  denso.  Nelle  giovani  cellule 
si  ha  un  contenuto  liquido  denso,  il  plasma;  al  di  fuori,  si 
ha  un  liquido  poco  denso,  qual  è  l'acqua  della  vegetazione,  presente 
in  cellule  più  adulte  contermini  :  ecco  esistenti  tutte  le  condi- 
zioni perchè  avvenga  la  diffusione  fra  i  due  liquidi  a  traverso 
la  doppia  membrana,  con  ingresso  nella  cellula  giovane  di  una 
quantità  di  materia  maggiore  di  quella  che  ne  esce,  e  perciò  nu- 
trizione e  conseguente  accrescimento. 

Nel  tempo  che  si  distende  la  membrana  cellulare,  ingrossa 
per  nuovo  acquisto  di  materia,  che  si  stacca  dal  contenuto  della 
cellula  e  va  ad  insinuarsi  entro  la  sua  parete.  L' ingrossamento 
della  parete  cellulare  offre  una  notevole  particolarità  :  inquanto- 
chè  per  lo  più  avviene  non  in  modo  uniforme,  ma  al  contrario 
siffattamente  disuguale  che  restano  qua  e  là  degli  spazi  liberi,  dei 
vuoti,  i  quali  costituiscono  tanti  canaletti,  diretti  dall'interno  della 
cellula  verso  la  sua  membrana  iniziale,  e  che  per  di  più  da  una  cel- 
lula all'  altra  vicina  si  corrispondono,  cosicché   l' ingrossamento 


LA    VITA   VEGETALE.  117 

anche  cospicuo  della  parete  delle  cellule  non  frappone  ostacolo  al 
passaggio  dei  liquidi  dall'  una  all'  altra,  a  traverso  quei  luoghi 
della  loro  membrana  sottratti  all'  ingrossamento  e  perciò  rimasti 
sottilissimi.  Quegli  spazi  vuoti  variano  poi  per  la  loro  configura- 
zione e  disposizione;  e  siccome  lasciano  passare  piìi  luce  che  gli 
spazi  igieni  quando  si  guardi  la  cellula  per  trasparenza,  contro 
luce,  segnano  sulla  sua  superficie  tanti  punti  luminosi,  o  tante 
strie,  0  linee  elicoidali  ecc.,  di  cui  frequenti  sono  gli  esempi  nei 
tessuti  vegetali. 

Ma  il  modo  descritto  or  ora  non  è  il  solo  col  quale  si  mol- 
tiplicano le  cellule.  Da  una  sola  se  ne  possono  formare  due,  o  un 
numero  maggiore,  per  divisione  conseguente  alla  comparsa  di 
tramezzi  nel  loro  interno;  i  quali  altro  non  sono  che  uno  strato 
di  plasma  che  si  rende  solido  dalla  periferia  verso  l' interno  della 
cellula,  e  si  converte  così  in  membrana  cellulare.  Può  accadere 
il  fenomeno  inverso.  Più  cellule,  poste  l'una  a  capo  dell'altra,  vanno 
assottigliando  la  loro  membrana  in  quella  porzione  dove  si  toc- 
cano, tanto  che  da  ultimo  viene  a  essere  riassorbita  e  sparisce,  la- 
sciando liberala  comunicazione  da  un  estremo  all'altro  della  serie 
di  cellule,  e  trasformandole  in  un  corpo  unico.  Ecco  d'onde  hanno 
origine  i  cosidetti  vasi  delle  piante. 

Mentre  succedono  tutti  questi  fatti,  o  1'  uno  o  l'altro  soltanto 
di  essi,  la  divisione  o  fusione  delle  cellule,  o  l' ingrossamento  della 
loro  membrana,  il  contenuto  originario  ossia  il  plasma  si  esau- 
risce mano  a  mano,  e  al  suo  posto  è  sostituita  l'acqua  venuta 
dal  di  fuori.  In  mezzo  a  quest'  acqua  vedonsi  i  molteplici  prodotti 
della  vita  vegetale,  generati  in  seno  alla  cellula,  mirabile  labo- 
ratorio! dalle  continue  combinazioni  delle  molteplici  sostanze  che 
vi  sono  penetrate  allo  stato  fluido,  o  pure  da  modificazioni  della 
sostanza  plasmica.  Ho  già  accennato  i  principali  fra  questi  pro- 
dotti :  la  fecola,,  che  in  forma  di  tanti  bianchi  granelli  sta  so- 
spesa nel  succhio  cellulare,  ogni  granello  costituito  da  tanti  strati 
sovrapposti  addosso  ad  un  nucleo  centrale;  le  sostanze  coloranti, 
sciolte,  0  condensate  in  minuti  granellini,  o  la  materia  colorante 
verde  delle  foglie  distesa  come  patina  sopra  piccoli  ammassi  di 
fecola  0  di  plasma;  i  sali,  sciolti,  o  cristallizzati;  le  gomme,  gli 
zuccheri,  sempre  sciolti;  gli  oli,  fissi  o  volatili;  e  tante  altre  so- 
stanze di  cui  sarebbe  troppo  lunga  la  sola  enumerazione. 

Svariatissimi  sono  pure  i  cambiamenti  che  avvengono  nella 
composizione  chimica  della  membrana;  la  quale  si  mostra  formata 
in  origine  di  quella  materia  particolare  detta  cellulosa,  di  cui  i 


118  LA   VITA  VEGETALE. 

fili  del  cotone  ci  porgono  un  esempio  a  tutti  noto  ;  ma  che  poi  tra- 
mutano spesso  questa  cellulosa  nella  sostanza  del  legno,  del  su- 
ghero o  altre  consimili.  Se  domandasi  poi,  quale  sia  l'agente  ge- 
neratore di  tutte  queste  sostanze,  quali  le  influenze  per  cui  si 
formano,  per  parecchie  fra  esse  la  risposta  è  pronta,  poiché  le  ve- 
diamo prodursi  anche  all'infuori  dell'organismo  vegetale  per  opera 
di  quelle  forze  tisiche  e  chimiche,  di  cui  ben  si  conoscono  gli  ef- 
fetti sulla  materia  bruta.  Ma  per  molte  altre  l'effetto  delle  sole 
forze  tisiche  e  chimiche  conosciute  non  basta  a  spiegarne  la  for- 
mazione; e  per  esse  volentieri  la  si  riferisce  all'azione  della  forza 
detta  vitale.  E  così  sia  pure,  se  per  forza  vitale  dobbiamo  inten- 
dere quella  grande  incognita  dei  problemi  fisiologici,  che  sta  a 
rappresentare  la  causa  o  le  cause  di  tutti  i  fenomeni  degli  esseri 
viventi  che  non  arriviamo  a  spiegare  altrimenti  e  in  modo  più  di- 
retto con  forze  di  cui  l'azione  ci  sia  conosciuta.  Ma  se  per  forza 
vitale  volessimo  intendere  un  eiiuivalent-^*  della  gravità,  del  calo- 
rico, dell'elettricità,  dell'affiaità  chimica  ecc.,  un  agente  insomma 
di  cui  l'azione  fosse  egualmente  bene  definita  e  precisata  nei  suoi 
effetti;  allora  io  non  credo  che  possiamo  ammettere  la  forza  vi- 
tale con  tale  signific;ito,  qualora  non  credcosimo  spiegare  quel 
che  non  comprendiamo  con  parole  vuote  di  senso.  Se  vi  siano  o 
no  nei  corpi  viventi  forze  proprie,  diverse  da  quelle  dei  corpi 
morti,  è  quistione  dalla  cui  soluzione  la  scienza  è  ancora  troppo 
lontana. 

Le  cellule  formatesi  per  divisione  di  una  preesistente  possono 
dissociarsi,  ma  restano  d'ordinario  unite  insieme.  Anche  quelle 
nate  liberamente  in  seno  alla  cellula-madre,  non  di  rado  si 
congiungono.  Dall'uno  e  dall'altro  processo  vengono  formati  i  tes- 
suti vegetali. 

Per  la  cellula  vegetale  come  per  qualunque  organismo,  dopo 
la  vita  per  legge  inesorabile  viene  la  morte.  Il  segnale  è  la  scom- 
parsa del  succhio  cellulare.  La  cellula,  prosciugata  che  sia  e 
priva  del  suo  succhio  per  una  qualsiasi  cagione,  è  morta,  e  non 
torna  più  a  vita.  Bensì  può  servire  ancora  da  recipiente  ai  gassi 
0  ai  liquidi  che  vi  si  riversano,  ma  come  recipiente  passivo,  senza 
influenza  sul  suo  contenuto.  Ho  detto  che  la  cellula  morta  non 
torna  a  vita.  Qu  'sta  regola  è  vera  per  la  generalità  dei  casi,  ma 
pur  tuttavia  trova  le  sue  eccezioni  in  alcune  pianticelle  di  strut- 
tura più  semplice,  nelle  quali  in  pari  modo  che  in  certi  umili 
rappresentanti  del  regno  animale,  si  può  ammirare  la  f^icoltà  di 
ritornare  ad  attività  vitale  dopo  la  morte  apparente  per  completo 


LA    VITA   VEGETALE.  119 

prosciugamento.  Quei  muschi,  quei  licheni,  quelle  alghe  gelatinose 
che  vivono  sulle  rupi,  sui  muri  e  in  altri  luoghi  asciuttissimi,  ivi 
soffrono  nella  stagione  estiva  tutti  gli  ardori  del  sole,  fino  a  per- 
dere ogni  particella  di  succhio  e  a  ridursi  quasi  in  polvere;  venga 
ciò  nonostante  una  pioggia  che  le  bagni,  e  in  pochi  momenti,  a 
vista  d'occhio  per  così  dire,  queste  pianticelle  s'imbevono  del- 
l'acqua benefica,  e  riprendono  tutte  le  loro  funzioni  vitali,  quasi 
non  vi  fosse  stata  così  lunga  e  completa  interruzione. 

Così  abbiamo  veduto  come  nasce  la  cellula,  come  vive,  come 
muore.  La  sua  esistenza  però  non  è  isolata,  è  invece  intimamente 
connessa  a  quella  di  tutte  le  compagne,  comprese  nell'unità  di 
uno  stesso  individuo  vegetale.  La  somma  di  tutte  queste  singole 
esistenze  rappresenta  la  vita  dell'  intera  pianta,  a  cui  ora  occorre 
rivolgere  l'attenzione. 

Come  la  cellula,  così  l' intera  pianta  si  nutrisce,  e  si  pro- 
paga. 

Le  piante,  sprovviste  (meno  casi  specialissimi)  di  organi  e  di 
volontà  di  movimento  da  un  luogo  ad  un  altro,  sono  incapaci  di 
andare  in  cerca  del  loro  nutrimento  come  sogliono  fare  gli  ani- 
mali. È  giuocoforza  che  lo  prendano  dall'  ambiente  dove  vivono 
immobili.  Le  piante  acquatiche  trovano  gli  alimenti  nell'acqua 
che  le  circonda,  le  terrestri  nell'atmosfera  ad  un  tempo  e  nel 
terreno  in  cui  sprofondano  le  loro  radici.  Queste  radici  si  allun- 
gano via  via  per  la  loro  estremità  inferiore;  e  penetrando  così  in 
strati  sempre  nuovi  del  terreno,  vi  prendono  l' alimento  ivi  de- 
posto, per  poi  procedere  più  innanzi.  Poiché  è  un  fatto  che  la  estre- 
mità giovane  di  una  radice  è  sola  capace  di  togliere  l'alimento 
del  terreno,  appunto  perchè  giovane,  perchè  composta  di  cellule 
di  recente  formazione,  di  cui  le  più  esterne  venendo  in  contatto 
immediato  con  le  sostanze  nutritive  e -bistenti  nel  terreno  allo  stato 
fluido,  per  imbibizione  e  diffusione  se  ne  impossessano,  e  le  tra- 
smettono alle  cellule  interne;  mentre  le  parti  più  vecchie  della 
radice  non  presentano  alla  loro  superficie  che  cellule  del  pari 
invecchiate,  con  pareti  non  più  atte  al  passaggio  degli  alimenti. 

In  che  cosa  consistono  gli  alimenti  delle  piante  tolti  alla 
terra?  In  primo  luogo  vi  è  l'aria  che  circola  fra  le  zolle  del  ter- 
reno, con  i  tre  corpi  che  lo  compongono,  ossigeno,  azoto  e  car- 
bonio, quest'ultimo  in  proporzioni  molto  maggiori  che  nell'aria 
atmosferica.  In  secondo  luogo  v'è  l'acqua,  composta  d'idrogeno 
e  ossigeno.  E  poi,  sciolti  nell'acqua,  questi  medesimi  quattro  corpi, 
ossigeno,  idrogeno,  carbonio  e  azoto,  variamente  combinati  fra  di 


120  LA.  VITA  VEGETALE. 

loro  per  formare  sostanze  diverse  ;  e  più,  quale  sotto  una  forma, 
quale  sotto  un'altra,  lo  zolfo,  il  fosforo,  il  potassio,  il  calcio,  il  ma- 
gnesio ecc.,  insomma  tutti  quei  corpi  che  poi  si  ritrovano  nell'or- 
ganismo vegetale  immedesimati  con  esso.  Cosi,  a  mo'  d'esempio, 
l'ossigeno,  l'idrogeno  e  il  carbonio  combinati  fra  di  loro  in  certe 
determinate  proporzioni  danno  origine  nelle  cellule  alla  fecola, 
0  alla  cellulosa;  questi  medesimi  tre  corpi,  con  l'aggiunta  di  una 
data  proporzione  di  azoto  e  di  qualche  altro  corpo  elementare, 
formano  il  plasma,  o  la  materia  colorante  verde. 

In  che  cosa  consistono  gli  alimenti  tolti  all'  atmosfera  ?  Non 
possono  essere  che  due,  l' aria  e  1'  acqua.  In  quanto  all'  acqua 
atmosferica,  il  modo  con  cui  contribuisce  alla  nutrizione  della 
pianta  non  è  sostanzialmente  diverso  da  quello  che  succede  nel 
terreno.  L'aria  si  sa  che  penetra  nell'  interno  dei  tessuti  per  tante 
minutissime  impercettibili  boccucce  sparse  su  tutta  quanta  la 
superficie  della  pianta,  principalmente  delle  foglie;  circola  fra 
una  cellula  e  l'altra  dell'interno  delle  foglie  stesse,  il  cui  tessuto 
suol  essere  più  o  meno  poroso;  ed  ivi  con  complicato  processo 
sotto  l'azione  della  luce  deposita  nelle  cellule  fornite  di  materia 
verde  uno  de'  suoi  corpi  componenti,  il  carbonio,  in  proporzione 
mao'n'iore  o  minore  secondo  le  varie  circostanze  concomitanti  del 
fenomeno. 

Le  anzidette  boccucce  servono  nel  tempo  stesso  all'  uscita 
di  gassi  inutili,  nonché  all'esalazione  allo  stato  di  vapore  acqueo 
di  tutta  quella  porzione  dell'acqua  assorbita  dalle  radici,  che 
non  fa  d'uopo  altrimenti  all'economia  vegetale,  dopo  avere  servito 
di  veicolo  a  traverso  i  tessuti  a  tutte  le  sostanze  nutritive  in 
essa  sciolte. 

Questi  residui  della  nutrizione  delle  piante,  in  forma  di  aria 
e  di  acqua,  rappresentano,  per  così  dire,  le  loro  escrezioni,  mentre 
d'altra  sorta  ne  difettano,  come  difettano  di  tutto  l'apparecchio  di- 
gerente proprio  degli  animali.  L'animale  ha  bisogno  di  far  subire 
una  preparazione  ai  suoi  alimenti  prima  di  poterli  assorbire,  ha 
bisogno  di  digerirli;  la  pianta  gli  assorbisce  direttamente  e  senza 
preparazione  dall'atmosfera,  dall'acqua,  dal  suolo,  con  cui  si  trova 
a  contatto. 

L'esalazione  acquosa  poi  è  un  mezzo  potentissimo  per  atti- 
vare la  vita  vegetale.  L'acqua  esalata  lascerebbe  un  vuoto  nei 
tessuti  superficiali,  e  perciò  richiama  a  sé  i  succhi  delle  parti 
vicine,  e  così  a  mano  a  mano  si  propaga  l'attrazione  da  un 
estremo    all'altro   della    pianta,    sino  alle   punte   delle   radici,    e 


LA    VITA   VEGETALE.  121 

tutti  i  succhi  sono  eccitati  a  muoversi,  dal  basso  all'alto  e  dalle 
parti  interne  alle  periferiche.  Salgono  dal  basso  e  si  portano  alla 
periferia  i  succhi  poco  densi  composti  dell'acqua  terrena  assor- 
bita con  le  sostanze  sciolte  che  trascina  seco;  giunti  colà,  si  con- 
densano per  perdita  della  maggiore  parte  della  loro  ac(|ua  che  si 
va  esalando,  indi  costretti  dal  giungere  di  nuovi  succhi  retroce- 
dono, e  si  diffondono  per  tutti  quegli  organi  dove  sono  chiamati 
dall'uso  cui  possono  servire,  per  contribuire  cioè  all'accrescimento 
di  parti  già  esistenti,  o  alla  formazione  di  parti  nuove.  Tutto 
questo  movimento  di  succhi  si  fa  necessariamente  per  passaggio 
continuo  da  una  cellula  o  da  un  vaso  ad  altra  cellula  o  vaso  vi- 
cino. Non  havvi  niente  nella  struttura  della  pianta  che  necessiti 
la  direzione  di  quei  succhi  per  un  verso  piuttostochè  per  un 
altro,  e  se  muovonsi,  almeno  in  generale,  a  preferenza  in  certe 
determinate  direzioni,  ciò  dipende  da  cause  secondarie  ;  cosicché 
potete  anche  capovolgere  una  pianta,  mettendo  la  sua  chioma 
in  terra  e  innalzando  le  sue  radici  in  aria,  ed  ottenere  l'effetto 
che  dalla  parte  messa  in  terra  escano  radici  assorbenti,  e  dalla 
parte  lasciata  all'aria  foglie  che  respirino  ed  esalino,  e  i  succhi 
suoi  prendano  senza  difficoltà  nuo^'o  e  non  usato  corso.  Molto  a 
torto  perciò  si  è  chiamata  circolazione  il  movimento  dei  succhi 
nelle  piante,  poiché  niente  ha  che  si  possa  paragonare  al  corso 
circolatorio  del  sangue  negli  animali,  il  quale,  come  si  sa,  dal 
cuore  è  spinto  per  un  apposito  sistema  di  canali,  le  arterie,  sino 
a  tutte  le  parti  del  corpo,  da  dove  ritorna  al  cuore  per  altro  sistema 
di  canali  che  sono  le  vene. 

In  generale,  mentre  nel  regno  animale  esiste  per  le  funzioni 
un  accentramento,  molto  energico  negli  animali  superiori,  e  di 
cui  si  scorgono  tracce  anche  negli  infimi,  nel  regno  vegetale  per 
contrario  é  in  vigore  un  discentramento  più  o  meno  completo. 
L'abbiamo  visto  per  le  funzioni  della  nutrizione  ;  ora  lo  vedremo 
anche  per  quelle  della  riproduzione.    , 

Due  sono  i  modi  principali  di  riproduzione  nelle  piante  :  per 
gemme  superficiali,  o  per  germi  interni;  tralasciando  la  riprodu- 
zione fissipara  che  distrugge  un  individuo  preesistente  sciogliendolo 
in  tanti  frammenti  o  individui  nuovi  fra  loro  equivalenti. 

Le  gemme  possono  svilupparsi  ovunque  sulla  pianta.  Abben- 
ché  più  spesso  e  volentieri  si  producano  in  certi  determiiuiti  luoghi 
dei  fusti,  nulla  toglie  che  sorgano  in  qualunque  parte  dei  fusti 
stessi,  0  delle  radici,  o  sulle  foglie,  o  perfino  nei  fiori,  come  difatti 
non  di  rado  accade.  In  origine   non  sono  altro  che  piccoli  grup- 


122  LA   VITA   VEGETALE. 

pi  di  cellule,  i  quali  per  un  qualche  speciale  impulso  si  svi- 
luppano in  modo  indipendente  dalle  parti  vicine,  e  costituiscono 
così  un  organismo  distinto,  destinato  col  progresso  del  tempo  a 
rappresentare  un  nuovo  individuo  vegetale  con  tutti  i  suoi  caratteri. 
Spesso  le  gemme  si  distaccano  più  o  meno  presto  dalla  madre- 
pianta,  mettono  radici,  e  vivono  per  conto  proprio.  Ma  più  spesso 
ancora  restano  intimamente  unite  per  la  loro  base  alla  pianta 
sulla  quale  sono  nate,  e  sviluppandosi  in  rami  seguitano  ad  avere 
in  comune  con  essa  la  vita  vegetativa.  Ki guardo  alla  sua  confor- 
mazione, la  pianta  dotata  di  rami  devesi  adunque  considerare 
come  un  aggregato  d'individui,  una  intiera  comunità;  ma,  fisiolo- 
gicamente parlando,  è  sempre  un  individuo  unico,  vivendo  di  una 
vita  comune  a  tutte  le  sue  parti. 

I  germi  invece,  nati  nell'interno  dei  tessuti  della  madre-pianta, 
non  vi  oltrepassano  i  primi  periodi  del  loro  sviluppo,  compiendolo 
soltanto  dopoché  ne  siano  usciti  in  qualche  modo. 

Così,  per  esempio,  in  molte  di  quelle  alghe  acquaiole  che  sono 
in  tutti  i  fossi  e  paduli,  i  germi  si  formano  nell'interno  di  una 
qualunque  cellula,  per  condensamento  del  suo  plasma  e  produzione 
di  una  o  più  nuove  cellule.  Queste,  prima  ancora  di  essersi  fornite 
di  membrana  propria,  svolgono  dalla  loro  superficie  un  certo  nu- 
mero di  peli  sottilissimi,  i  quali  entrano  in  vibrazione  rapidissima, 
e  comunicano  un  movimento  giratorio  alla  cellula  ossia  germe, 
onde  questo  urta  contro  le  pareti  della  cellula-madre,  le  sfonda, 
e  si  slancia  nell'ambiente  liquido  esterno;  dove  finalmente  posan- 
dosi abbandona  i  suoi  peli,  e  d'ora  innanzi  immobile  cresce  in 
una  pianta  simile  a  quella  da  cui  è  nato. 

Così  ancora  nelle  felci,  nell'interno  o  alla  superficie  del  tes- 
suto delle  foglie  si  formano  certe  cellule,  germi  di  nuove  piante, 
riunite  in  piccoli  gruppi,  e  che  poi  trovano  modo  di  liberarsi  e  di 
uscire  dal  tessuto  circostante  rompendolo,  per  cadere  sul  suolo  ed 
ivi  sviluppare  un  nuovo  individuo  della  loro  specie. 

Altre  volte  la  formazione  dei  germi  riesce  più  complicata,  per 
la  necessità  dell'opera  combinata  di  due  cellule.  Per  esempio,  in 
qualche  alga  e  qualche  fungo,  acciò  si  formi  il  germe  occorre  che 
due  cellule  di  parti  diverse  della  pianta  o  di  piante  diverse  siano 
accostate  fra  di  loro,  quindi  rigonfino  la  loro  membrana  in  qual- 
che punto,  fino  a  che  per  effetto  di  questo  rigonfiamento  le  mem- 
brane si  ritocchino  per  un  certo  tratto,  e  siano  infine  riassorbite 
sulle  superfici  di  contatto,  e  così  venga  attuata  una  libora  comu- 
nicazione da  una  cellula  all'altra  :  allora  si  mescolano   e  si  con- 


LA    VITA   VEGETALE.  123 

fondono  i  contenuti  plasmici  delle  due  cellule,  e  dalla  loro  reci- 
proca azione  si  genera  il  germe,  atto  a  riprodurre  la  specie. 

11  più  delle  volte  però  la  produzione  del  germe  si  effettua  per 
un  processo  ancora  più  intricato.  Non  solo  havvi  necessità  della 
cooperazione  di  due  cellule,  ma  occorre  eziandio  che  siano  esse 
d'indole  diversa,  e  che  luna  eserciti  un'azione  definita  sull'altra 
acciò  in  questa  si  formi  il  germe.  In  una  parola  havvi  necessità 
di  una  vera  fecondazione  di  una  cellula  per  l'altra.  Il  modo  della 
fecondazione  poi  varia  secondochè  si  tratti  di  una  od  un'  altra 
categoria  di  piante.  Semplice  abbastanza  in  alcune,  raggiunge  in 
altre  una  complicanza  estrema,  segnatamente  in  quelle  più  fami- 
liari a  tutti  noi  che  mostransi  fornite  di  fiori.  In  questo  vago  or- 
ganismo, nel  fiore  appunto,  ha  luogo  la  fecondazione.  Ivi,  sotto  a 
moki  invogli  di  diversa  natura,  e  racchiusi  e  gelosamente  segre- 
gati, stanno  gli  organi  destinati  al  compimento  del  fenomeno. 

Nel  centro  del  fiore,  dove  sono  i  pistilli,  in  apposita  cavità 
trovansi  certe  piccolissime  gemme,  d'indole  tutta  particolare.  Nel- 
l'interno del  tessuto  di  quelle  gemmette,  una  cellula  determinata 
si  sviluppa  grandemente.  Entro  la  sua  cavità,  generate  a  spese 
del  suo  plasma,  compariscono  alcune  altre  cellule  :  sono  questi  i 
germi,  atti  ad  essere  fecondati. 

Da  un'  altra  parte,  verso  la  periferia  del  fiore,  trovansi  in 
certe  appendici  (gli  stami)  elei  rigonfiamenti  di  tessuto  di  cui  le 
cellule  ne  generano  molte  altre  nel  proprio  seno,  e  queste,  invece 
di  contrarre  aderenza  fra  di  loro,  restano  affatto  libere  e  disgiunte; 
cosicché  quando  in  ultimo  la  membrana  delle  cellule-madri  è  stata 
riassorbita,  que'tali  rigonfiamenti  vengono  a  costituire  tante  specie 
di  borsettine,  ripiene  di  minutissima  polvere,  di  cui  i  singoli  gra- 
nelli, ossia  cellule  libere  {pollini),  sono  gli  organi  atti  a  fecondare. 

Quandoché  tutte  queste  parti  del  fiore  siano  giunte  a  matu- 
rità di  sviluppo,  le  borsettine  si  aprono,  e  spandono  la  polvere 
fecondante.  Questa,  aiutata  spesso  da  cause  esterne,  dall'agitazione 
del  vento  o  dall'opera  degli  insetti,  è  trasportata  in  certa  quan- 
tità sulle  parti  centrali  del  fiore.  Ivi  trova  predisposta  una  su- 
perficie di  tessuto  molle,  bagnato  di  un  liquido  denso.  Le  cellule 
fecondanti  s'imbevono  di  quel  liquido,  e  per  il  nutrimento  così 
acquistato  possono  distendere  la  loro  membrana,  la  quale  si  al- 
lunga in  una  specie  di  braccio  sottilissimo  come  un  filo,  che  grado 
a  grado  crescendo  penetra  in  mezzo  all'anzidetto  tessuto  molle  e 
rilassato,  fino  a  che  sia  giunto  alla  cavità  centrale  del  fiore  ove 
stanno  le  gemmette  rammentate  di  sopra.  Quindi  ancora  disten- 


124  LA   VITA  VEGETALE. 

dendosi  il  prolungamento  della  cellula  fecondante,  arriva  ad  una 
geminetta,  ne  attraversa  il  tessuto,  fino  a  che  tocchi  con  la  sua 
jjunta  la  cellula  centrale,  quella  che  racchiude  i  germi.  Allora,  a 
traverso  le  due  membrane  a  contatto,  l'azione  fecondante  esercita 
la  sua  influenza,  di  cui  il  risultato  ben  presto  si  manifesta  nello 
sviluppo  speciale  di  uno  dei  germi  a  spese  di  tutto  1'  organismo 
che  lo  circonda.  11  germe  fecondato  diventa  con  ciò  un  embrione 
e  poi  una  pianticella,  prima  racchiusa  entro  la  gemmetta  tramu- 
tata in  seme,  ma  che  poi  a  tempo  opportuno  ne  rompe  gli  invo- 
gli, e  affidata  alla  terra  ivi  sprofonda  le  sue  radici,  e  all'  aria 
spande  le  sue  foglie,  compiendo  tutte  quelle  funzioni  vitali  di  cui 
ho  cercato  dimostrare  il  processo  e  le  ragioni. 

In  questi  fenomeni  principalissimi  della  vita  vegetale  quali 
ci  si  sono  manifestati  nelle  funzioni  della  nutrizione  e  della  ripro- 
duzione, abbiamo  potuto  accertarci  della  loro  semplicità  fonda- 
mentale, col  ricondurre  le  funzioni  dell'intera  pianta  a  quelle  delle 
cellule  di  cui  si  compone,  e  in  cui,  come  dicevo  fin  da  principio, 
si  compendiano  tutti  i  fenomeni  della  vita  vegetale  stessa. 

In  questa  serie  di  considerazioni  ci  siamo  attenuti  stretta- 
mente ai  risultati  dell'osservazione,  contenti  di  conoscere  la  ma- 
nifestazione esterna  delle  cose,  e  le  loro  cause  prossime,  senza 
cercare  d'indagarne  le  cause  ultime  o  l'essenza,  di  cui  la  ricerca 
e  la  cognizione  forse  non  sono  concesse  all'umano  intelletto,  e  cer- 
tamente stanno  al  di  fuori  del  compito  della  scienza  positiva. 

T.  Caruel. 


L'ACCADEMIA  DEI  LINCEI. 


Non  è  senza  una  qualche  titubanza  che  io  mi  metto  a  scri- 
vere di  un'Accademia,  che  comprende  nel  suo  seno  tanta  parte 
del  senno,  della  dottrina  italiana  e  straniera;  ma  fidato  alla  scorta 
dell'illustre  Domenico  Carutti,  e  coll'aiuto  delle  due  comunica- 
zioni di  lui  intorno  a  questo  argomento,  ^  procurerò  di  tessere 
a  rapidi  cenni  la  storia  di  questa  valorosa  Compagnia,  e  traendo 
un  po'  di  lume  da  altre  cose,  dimostrare  la  sua  importanza  scien- 
tifica e  morale.  Da  questo  scritto,  cred'io,  si  vedrà,  cora'ella  fo 
sempre  combattuta  da  due  grandi  avversarii,  che  sono  pure  i 
nemici  di  ogni  miglioramento  umano,  il  fanatismo,  da  non  con- 
fondersi col  vero  senso  religioso,  e  la  dispotica  signoria.  Quindi 
possiamo  fin  da  principio  aspettarci  questo  fatto,  che  l'Accademia, 
una  volta  istituita,  vive  e  fiorisce,  quando  contro  di  Lei  non  insor- 
gono persecuzioni  religiose  o  politiche  ;  ma  è  oppressa  e  spenta, 
quando  infuria  l'una  o  l'altra  tirannide. 


1. 

Fonriatori  dell'Accademia  dei  Lincei  furono  il  Marchese  di 
Monticelli  {Montis  Coelii)  Federico  Cesi,  col  titolo  di  Princeps 
et  lìisiitutor,  d'anni  diciotto  circa;  Griovanni  Heck,  in  latino  HecJcius, 

'  «  Di  Giovanni  Eckio  e  della  instituzione  dell'Accademia  dei  Lincei,  con  alcune 
note  inedite  intorno  a  Galileo.  »  Comunicazione  di  Domrnico  Carutti  nella  Seduta 
del  21  gennaio  e  del  18  marzo  l8n.  —  «  Degli  ultimi  tempi,  dell'ultima  opera  degli 
antichi  Lincei  e  del  Risorgimento  dell'Accademia.  »  Id.  17  marzo  1818. 


126  l'accademia  dei  lincei. 

presso  noi  Eckio,  olandese,  nativo  di  Deventer,  laureatosi  medico 
a  Perugia,  cattolico,  ricoveratosi  in  Italia,  per  sottrarsi  ai  furori 
delle  sètte  religiose  infestatrici  dei  Paesi  Bassi  :  Francesco  Stel- 
luti  da  Fabriano,  di  nobile  casato:  Anastasio  conte  De  Filiis  di 
Terni,  parente  dei  Cesi,  tutti  e  tre  d'anni  circa  26.  Segna  la  data 
della  fondazione  il  giorno  17  agosto  1603;  secondo  i  costumi  acca- 
demici di  quei  tempi,  lasciando  il  proprio  nome  il  Cesi,  fu  chia- 
mato il  Celivago  (Coeììvogus),  lo  Stelluti  il  Tardigrado  (Tardi- 
gradus),  il  De  Filiis  l'Eclissato  { Edi psahis),V Eckio  l'Illuminato 
{Illuminatiis)  ;  ma  nessuno  poi  degli  Accademici  posteriori,  a  quel 
che  vedo,  seguì  tale  caricatura.  Nella  distribuzione  dei  gradi  il 
Cesi  fu  prima  Consigliere  Maggiore  e  poi  Principe;  Francesco 
Stelluti  e  Giovanui  Eckio  Consiglieri;  Anastasio  De  Filiis,  Segre- 
tario. In  un  opuscolo  clell'Eckio  figura  il  titolo  di  Cavalur  Linceo 
{Disimtatio  unica  dodoris  Joarwis  HedHi,  eqnitis  Lìjncei  I)aven- 
t  riensis  de  Peslc):  pare  anzi  di  qui,  che  l'Eckio  fosse  il  primo 
ad  assumere  per  le  stampe  il  nome  di  Linceo,  e  ciò  fece  nel  16u5 
coll'opuscolo  citato  e  coU'altro  JJe  Nova  Stella.  Oltre  i  nomi  ave- 
vano i  Lincei  emblemi  proprii,  che  insieme  coi  nomi  furono  dagli 
altri  compagni  lasciati  in  disparte;  avevano  pure  diploma  ed 
anello;  i  presenti  Lincei  al  diploma  ed  all'anello  sostituirono  la  ta- 
voletta incisa  in  bronzo.  Come  si  vede,  nei  loro  scritti,  nelle  cor- 
rispondenze epistolari,  nelle  adunanze,  usavano  per  lo  più  la  lingua 
latina,  ma  un  po'  barbara  e  non  senza  sgrammaticature.  Come 
la  scienza  e  la  verità,  l'Accademia  non  aveva  indole  di  nazione 
0  popolo  singolare,  ma  carattere  universale;  gli  Accademici  eleg- 
gevansi  tra  i  dotti  di  tutta  l'Italia  e  dell'Europa  ;  né  era  neces- 
sario che  pigliassero  stanza  in  Roma.  L'Eckio  era  olandese;  Gio- 
vanni Demisiano,  eletto  nel  1612  in  età  di  36  anni,  nel  catalogo 
detto  Nuovo,  si  scrisse  di  sua  propria  mano  Crphallenirnsis.  Gio- 
vanni Schreck  si  scrisse  Terrcntius.  eletto  nel  1611  in  età  di  anni  35, 
di  Costanza;  tedeschi  erano  pure  Giovanni  Fabri  (Fahcr^  e  Teo- 
filo Molitore,  eletti  nel  medesimo  anno  1611.  Giusto  Eycquio 
fiammingo,  fu  eletto  nel  1625;  tra  i  francesi,  fu  proposto  il  bene- 
merito Niccolò  Claudio  Fabrizi  di  Peires,  e  tra  gl'inglesi  il  nostro 
Cassiano  Dal  Pozzo  raccomandò  Francesco  Bacone.  Gli  accade- 
mici, e  specialmente  i  primi  quattro  fondatori  dicevansi  fr;itelli, 
e  di  fraternofamore  veramente  si  amavano.  Arieggiava  quella 
Compagnia  ne'suoi  primordii  un  non  so  che  di  sodalzio  reli- 
gioso; il  25  dicembre  1603,  inaugurata  la  Società  con  uw  discorso 
del  Cesi,  a  cui  rispose  l'Eckio,  e  giurate  loro  costituzioni,  il  Cesi 


l'accademia  dei  lincei.  127 

diede  ai  tre  amici  la  collana  della  Lince,  all'Eckio  dicendo:  B.icevi 
questo  simbolo  di  fraternità  a  te  ed  a  me  stesso  comune  :  sia  questo 
non  solo  un  segno  di  virtù  e  di  fratellanza,  ma  un  proemio  ancora 
delle  future  e  delle  presenti  fatiche.  laU)na,rono  quindi  il  Te  Deum 
laudamus,  e  stabilirono  che  ogni  loro  tornata  si  aprisse  colla 
recita  di  un  salmo  davidico.  Sulla  proposta  dell'  Eckio  fu  pure 
convenuto  che  la  Società  si  ponesse  sotto  la  protezione  di  un 
Santo,  e  per  consiglio  dello  stesso  Eckio  fu  scelto  S.  Giovanni, 
l'apostolo  delle  arcane  visioni,  e  uniti  visitarono  S.  Giovanni  in 
Laterano,  e  al  Patrono  sé  e  loro  studi  raccomandarono.  Né  in 
mezzo  a  questi  studi  puramente  scientifici  e  di  scienze  fisiche  e 
naturali  taluno  mancò  di  scrivere  intorno  a  cose  di  religione. 
L'Eckio  infatti  ha  dettata  tra  le  altre  quest'opera  intitolata: 
Poleitia  Catholica  de  hono  et  malo  civili,  composta  a  Madrid,  e 
scrivendo  al  Cesi  il  2  giugno  1608  così  ne  parlava  :  est  liher  exi- 
gims  mole,  sed  Lipsiano  modo,  totus  ex  sententiis  conflatus.  Scrisse 
anche  un  Libro  contro  gli  Heretici,  dedicato  a  Paolo  V,  forse 
quel  medesimo  che  é  registrato  dall'Odescalchi  e  dal  Cancellieri 
col  titolo:  De  nostri  tcmporis pravis  haereticormn  moribus,' ecc.: 
e  nel  catalogo  della  collezione  di  manoscritti  posseduti  da  D.  Bal- 
dassarre Boncompagni,  tra  i  codici  del  nostro  Olandese,  trovasi 
notato  lo  scritterello  :  De  mundi  pernicie  ac  haereticorum  insania 
quae  in  ìiac  mundi  senecta  apud  Belgas  maxima  est.  Si  é  accen- 
nato come  l'Eckio,  cattolico,  per  fuggire  i  furori  delle  sètte  dei 
protestanti,  abbandonasse  la  patria  e  si  ricoverasse  in  Italia.  Or 
bene,  costretto  poi,  per  le  ragioni  che  diremo,  a  lasciar  Koma  e 
tornatosene  in  Olanda,  sì  per  viaggio  e  nella  stessa  sua  patria 
venne  a  disputa  cogli  eretici,  e  a  Dieppe  scampò  difendendosi 
colla  spada;  a  Deventer  una  volta  ebbe  l'esilio,  una  seconda  volta, 
rimpatriato  con  licenza  dei  magistrati,  ebbe  l'esilio  e  la  confisca 
dei  beni.  Eppure  il  duca  d'Acquasparta,  padre  di  Federico  Cesi, 
non  si  vergognava  di  denunziare  al  Sant'Uffizio  il  nostro  Eckio 
qual  eretico  e  propagatore  della  eretica  nequizia. 

L'Accademia,  in  quei  principii,  se  non  proibiva  assolutamente, 
avversava  e  sconsigliava  a  tutta  possa  il  matrimonio,  che  al  Cesi 
pareva  mollis  et  effaeminata  requies:  onde,  quando  l'Eckio,  tro- 
vandosi a  Praga,  pensava  di  chiedere  perdono  ai  magistrati  di 
Deventer  per  ritornarvi,  riavere  i  suoi  beni  e  prender  moglie,  e 
di  tutto  ciò  chiedeva  consiglio  al  Cesi,  questi,  principali  aucto- 
,ritate  et  fraterno  amore,  lo  pregava  di  non  pensare  a  più'^lunghi 
viaggi,  soggiungendogli   che  non   gli  venisse   neppure  l'idea  di 


128  l'accademia  dei  lincei. 

nozze,  dal  suo  petto  e  dalla  sua  mente  cacciasse  un  tal  pensiero. 
Mase  dell'Eckio,  il  quale  pure  nella  citata  lettera  del  2jgiugno  1608 
informando  da  Madrid  il  Cesi  delle  sue  cose,  gli  notificava  che 
era  preso  d'amore,  coll'intenzione  di  finirla  o  colle  desiderate 
nozze,  0  col  consacrarsi  in  perpetuo  alla  castità,  nulla  però  sap- 
piamo intorno  alla  |deliberazione  presa,  mancandoci  affatto  da-1 
1608  al  1614  notizie  di  lui;  il  Cesi  tuttavia,  che  era  il  primoge- 
nito erede  dei  beni  e  titoli  paterni,  :di  necessità  abbandonò  le 
sue  giovanili  opinioni,  e  contro  il  consiglio  dato  all'Eddo  con 
viva  istanza  e  calda  raccomandazione,  mortagli  la  prima  moglie, 
passava  a  seconde  nozze.  Del  resto  quella  Compagnia,  mentre  da 
una  parte  per  l'amore  alla  vita  tranquillamente  studiosa  e  riti- 
rata, aliena  dai  lacci  nuziali  e  per  la  religiosità  dei  sentimenti, 
delle  idee,  dei  riti  stessi  tenuti  nelle  adunanze,  e  la  strenua  difesa 
del  Cattolicismo,  rassomigliava  alquanto,  come  si  è  detto,  ad  uno 
di  quei  sodalizi,  che  nei  secoli  andati  sorgevano  di  tratto  in  tratto 
nel  seno  della  Chiesa;  era  per  altra  parte  contraria  ai  Regolari, 
i  quali  non  vi  erano  ammessi;  il  che  spiega  perchè  non  fu  nomi- 
nato il  Padre  Benedetto  Castelli,  proposto  da  Filippo  Salviati 
nel  1613,  e  perchè  Giovanni  Terrenzio,  resosi  Gesuita,  cessò  dalla 
Società.  Avevano  insomma  quei  primi  Lincei  meditato  un  Ordine 
particolare,  che,  mantenendosi  affatto  straniero  a  ogni  briga  mon- 
dana da  cui  la  scienza  non  ricavasse  alcun  profitto,  consecrasse 
tutto  sé  stesso  unicamente  alla  scoperta  della  verità,  di  qualunque 
natura  ella  si  fosse,  od  appartenesse  al  mondo  materiale  od  al 
morale.  Perciò  la  Lince,  animale  creduto  di  vista  acutissima,  col 
motto  sagacius  ista,  fu  assunta  per  impresa  a  ricordare  di  con- 
tinuo, come  avvertiva  lo  Stelluti,  che  nello  studio  della  natura 
devesi  procurare  di  penetrare  Vinterno  delle  cose  per  conoscere  le 
loro  cause  et  operazioni  della  natura,  che  interiormente  lavora, 
come  con  bella  similitudine  dicesi  clic-  la  Lince  faccia  col  suo 
sguardo,  vednido  non  solo  quello  che  è  di  fuori,  ma  anche  ciò  che 
dentro  si  asconde.  E  il  fine  dei  Lincei  era,  come  sta  esposto  nel 
Linceografo,  non  solo  di  acquistare  la  cognizione  delle  cose  e  la 
sapienza,  vivendo  virtuosamente,  ma  eziandio  di  manifestarle  agli 
uomini  colla  voce  e  cogli  scritti.  Sebbene  fossero  curate  special- 
mente le  scienze  matematiche  e  naturali,  pure  non  ne  furono  cac- 
ciate in  bando  le  filologiche  discipline  e  le  amene  lettere,  secondo 
che  avvertivano  le  Praescri-ptiones  Linceae:  non  negl.cctis  interim, 
amoeniorum  musarum  et  philologiae  ornamentis.  Ed  invero  Fran- 
cesco Stelluti.  uno  dei   quattro  fondatori,   commentava   e    tradu- 


l'accademia  dei  lincei.  129 

cova  Persio;  erudito  e  storico  fu  Marco  Volsero,  di  Augusta,  eletto 
nel  1612;  poeta  e  antiquario  Vincenzo  Mirabella,  Siracusano,  eletto 
nel  1614;  lodato  verseggiatore  Griovanni  Ciampoli ,  Fiorentino, 
eletto  nel  1618  ;  giureconsulto  e  filologo  Giuseppe  Xeri,  di  Pe- 
rugia, eletto  nel  1622;  amante  della  filologia  e  dell'erudizione  il 
cardinal  Giuseppe  Barberini,  clie  si  scrisse  Caroli  filius,  Urbani  Vili 
nepos  ex  fratre,  eletto  nel  1623;  versatissimo  nell'antiquaria  Cas- 
siano  Dal  Pozzo,  eletto  nel  1622.  Fino  al  1630  l'Accademia  con- 
tava 32  soci,  ai  quali  per  la  scoperta  recente  di  un  documento 
fatta  dal  prof.  Eezzi,  si  dovrebbe  forse  aggiungere  anche  Ales- 
sandro Adimari,  Fiorentino,  traduttore  di  Pindaro,  al  quale  il  Cesi 
sopraggiunto  dalla  morte,  non  fu  in  tempo  di  mandare    l'anello. 

II. 

La  sede  non  era  fìssa;  per  lo  più  tenevansi  le  adunanze  nel 
palazzo  del  principe  Cesi,  talvolta  altrove,  come  in  casa  del  Ce- 
sarini,  di  Giovanni  Fabri,  una  volta  in  casa  dello  stesso  cardinal 
Cesi.  Kare  le  tornate,  i  cui  verbali  non  registrassero  le  discus- 
sioni scientifiche,  ma  solamente  le  provvisioni  ordinarie,  le  no- 
mine dei  soci,  le  stampe  dei  libri,  e  simili.  I  denari  per  le  stampe, 
per  la  compera  degli  strumenti  necessari  alle  osservazioni  ed  alle 
esperienze,  e  per  ogni  altro  bisogno  fornivali  il  principe  Federico 
Cesi,  duce  e  anima  dell'istituto.  Vastissimo  era  il  concetto  di  que- 
sto giovane  diciottenne,  che  lascia  gli  allettamenti  d' una  vita 
mondana  solita  a  menarsi  dai  baroni  romani,  disprezza  i  piaceri 
propri  di  quella  bollente  età,  per  tutto  consacrarsi  al  progresso 
morale  e  scientifico  del  genere  umano.  L'Accademia  doveva  aver 
case  dette  Licei,  nelle  quattro  parti  del  mondo,  provvedute  di 
rendite  proprie,  dove  i  soci  menassero  vita  comune;  in  esse  musei, 
librerie,  stamperie,  specole,  macchine,  orti  botanici, laboratorii,  ogni 
arredo  insomma  conveniente  agli  studi,  e  al  culto  delle  scienze: 
da  ogni  Liceo  ogni  osservazione,  ogni  scoperta  fatta  doveva  tosto 
alle  altre  case  tutte  e  al  principe  comunicarsi.  E  cominciò  a  fon- 
darsi un  Liceo  a  Napoli,  del  quale  Giambattista  Porta  napoletano, 
eletto  accademico  di  75  anni,  nel  1310,  fu  nominato  Propincipe,  e 
morto  lui,  ebbe  quel  grado  Fabio  Colonna  della  stessa  città, 
eletto  accademico  linceo,  nel  1612,  d'anni  40.  Il  Cesi  intendea  fab- 
bricare a  Tivoli  una  villeggiatura  per  gli  accademici  e  pro7ve- 
dere  di  casa  il  Liceo  napoletano,  il  quale,  secondo  che  narra  il 
Bianchi,  riminese,  uno  dei    restauratori  della  Compagnia   e    del 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  1879.  9 


130  .  l'accademia  dei  lincei. 

nome  Linceo,  cessò,  per  ordine  del  viceré  spaglinolo  prima  della 
morte  del  Cesi.  Ma  il  più  glorioso   acquisto,  dice    rettamente   il 
nostro  Camiti,  che  il  mondo  potesse  concedere  e  del  qnale  si  onorò 
l'Accademia,  fu  quello  registrato   l'anno    1611    nel    catalogo   con 
queste  parole:  Ego  Galilaeus  Galilaeus  Lyncaeus  Vincenh'i  fiUiis 
Florentinus  aetatis  meae  anno  IIL  (48)  Sai.  1611,  die  25  aprilis, 
Boniae  manu  propria  scripsi;  ed  eccolo  intento  alla  costruzione 
del  Telescopio,  che  se  non  fu  da  lui  trovato,    spettando    l' inven- 
zione, secondo  lo  stesso  Galileo,  a  un  dotto  fiammingo,  fu  senz'alcun 
dubbio  da  lui  ridotto  a  perfezione.  La  prima  idea  però  di  questo 
strumento  fu  concepita  non  dall'occhialaio  di  Middelburgo,  Gia- 
como Mezio,  ma  dal  nostro    Porta    napoletano,  che    nel    trattare 
delle  lenti  lo  divinò  trent'anni  innanzi,  e  recato  in  Eoma  dal  Ga- 
lileo, il  Cesi  lo  chiamava  Tckscopio,  Telescopium,  nome  che  gli  ri- 
mase. Aveva  il  Galileo  già  fin  dal  marzo  del  1610  pubblicato  in 
Padova  il  suo  Nuntius  sidercus,  e  nel  maggio  del  1612  scriveva 
tre  lettere  a  Marco  Velsero  linceo  sulle  ]][acchie  Solari  in  risposta 
del  finto  Apelle,  il  padre  Cristoforo  Schei ner,  il  quale  in  un'ope- 
retta intitolata  Tres  epistolae  de  ■ìnaculis  solarihus  si  usurpava 
la  gloria  di  tale  scoperta.  Ma  il  manoscritto  presentato  all'iVcca- 
demia  da  Angelo  De  Filiis  nella  tornata  del  9  novembre  ed  ap- 
provato per  la  stampa  non  uscì  alla  luce  che  al  principio  del  se- 
guente anno  1613  in  Roma  appresso  Giacomo  Mascardi  coli'  ag- 
giunta in  fine  delle  tre  lettere  e   disquisizioni   del    finto  Apelle. 
Fu  decretata  eziandio  la  stampa  del  libro    De  aeris    transmufa- 
tionihus  del  Porta  e    delle    opere   di   Antonio    Persio,    nominato 
Linceo  pur  nel  1611.  Il  Cesi  pose  mano  alle  sue  Tavole  fdosofìche, 
quasi  frontispizio  del  Theatrum  totius  Naturae,  che  la  morte  gli 
impedì  di  finire.  Nel  1614  fece  disegnare  il  tempio  della  Fortuna 
Prenestina  e  il  suo  musaico  in  diciotto  tavole  ;  nel  1618  impren- 
deva l'opera  del  Celispicio  sopra  la  fluidità  dei   Cieli.  Nel  1715 
lo  Stelliola,  Nolano,  eletto  d'anni  65  accademico  Linceo  nel  1612, 
componeva  il  libro  sul  Telescopio.  Il  Terrenzio  prima,  e  poi  Fabio 
Colonna,  Giovanni  Falnù,  lo  Stelliola  e  il  Rycquio  curavano  e  il- 
lustravano l'edizione  della    Storia  naturale  del  Messico,  detta  con 
varii  titoli  Rerum  Mcdicarum  Novae   Hispaniae  Thesaurus,  seu 
Plantarum,  Animalium,  3Iineraliwn  McxicanorumHistoria,  etc; 
opera  colossale,  che  per  fortunose  vicende   non   potè  pubblicarsi 
che  nel  1651. 

Nel  1622  Galileo  mandò  agli  accademici   il  manoscritto  del 
Saggiatore,  ed  essi  lo  fecero  stampare  in  gran  fretta,  per  non  es- 


l'accademia  dei  lincei.  131 

sere  impediti  (come  Virginio  Cesarini  detto  Linceo  d'anni  25,  nel 
1618,  scriveva)  dai  gesuiti  che  di  già  V hanno  penetrato.  L'opera  è 
appunto  dedicata  in  forma  di  lettera  all'llLmo  e  Eev.mo  monsi- 
gnor don  Virginio  Cesarini,  e  fece  bene  il  prof.  Augusto  Conti  a 
inserirla    nelle  Prose  scelte  del  Galileo  per  la  lettura  dei  nostri 
giovani  studenti  liceali,  dividendola  in  26  capitoli   e   rendendola 
co'  suoi  belli  e  succosi  argomenti  più    chiara    e   più   dilettevole. 
Colla  data  del  23  settembre  1624,  da  Firenze  il  Galileo  scrive  al 
principe  Federico  Cesi  sull'uso  di  quell'  occhialino  per  vedere  da 
vicino  le  cose  minime,  da  Giovanni  Fabri  nominato  e  che  seguita 
a  nominarsi  il    Microscopio,  della  cui  invenzione  molto    si    è  di- 
sputato e  il  Tiraboschi  sosterrebbe  averne  avuto  una  qualche  idea 
pel  primo  lo  stesso  Galileo,  fin  dall'anno  1612,  e  pare  che  vi  al- 
ludesse ne'  suoi  Ragguagli  di  Parnaso   il    Boccalini,  che  li  pub- 
blicò in  quell'anno  medesimo  (cent.  I,  rag.  1).  Ma  comunque  sia  la 
cosa,  fatto  sta  che  il  Galileo  perfezionavalo  nel  1624,  come  lo  di- 
mostra questa  lettera  di  lui  al  Cesi,  inserita  pur  essa  dal   Conti 
nelle  Prose  scelte.  Intanto  Giusto  Rycquio  scriveva  opere  di  eru- 
dizione; il  Cesi  occupavasi  dei    legni    fossili  trovati    ad  Acqua- 
sparta  e  di  un  lavoro  intorno  alle  Api  {Apiarium,  nel  cui  fron- 
tespizio pare  che  si  legga  la  dedica   in   queste   parole   precise: 
Urhano  Vili  Pontifici  Maximo  cum  Mn:A[iiorPA*[A  a  Lynceorum 
Academia  in  perpettiae  devotionis  Symholum  ipsi  offeretur,  etc.)Lo 
Stelluti  scriveva  intorno  a  quei  fossili  e  compieva  la  traduzione 
di  Persio,  pubblicata  nel  1630:  Fabio  Colonna  proseguiva  le  sue 
osservazioni  botaniche,  molto  rallegrandosi  che  il  reduce  viaggia- 
tore Pietro  Della  Valle  nuovi  semi  e  piante  recasse  dalle  regioni 
orientali.  Nel  1628  il  Fabri  stanco  dei  soverchi  indugi  frapposti 
alla  pubblicazione  del  Tesoro  Messicano,  ne  mandò  fuori  la  parte, 
in  cui  trattava  degli  animali,  discorrendo  in  una  sua  lettera  del 
25  aprile  al  Cesi  delle  difficoltà  incontrate  presso  la   Censura,  a 
vincere  le  quali  fu  costretto  ad  accettare  le  impostegli  condizioni. 
Nel  1629  il  Galileo  conduceva  a  termine  il  suo  Dialogo  sopra  i 
due  massimi  sistemi  del  Mondo  Tolomaico  e  Copernicano,  e  nel  1630 
venne  a  Roma  per  ottenerne  l'approvazione  e  vigilarne  la  stampa  ; 
e  l'approvazione  della  Censura  conseguì,  ma  non  potè,  per  la  s  > 
pravvenuta  morte  del  principe   Cesi,  conseguirne    la   stampr    da 
parte  dell'Accademia.  Quell'opera  per  cui  si   disfogarono    contro 
il  grande  autore  i  mal  repressi  odii  degli   arrabbiati  e  fanatici 
partigiani  del  vecchio  Aristotelismo,  usci  alla  luce  due  anni  dopo 
in  Firenze  dedicata  al   serenissimo    Granduca.   Da   questi    cenni 


132  l'accademia  dei  lincei. 

comprende  ognuno  quanto  feconda  si  fosse  1'  attività  dei  Lincei 
dal  1610  al  1630;  nel  qual  anno,  al  1"  agosto,  morì  il  principe 
Federico  Cesi,  personaggio  veramente  degno  di  memoria  ;  la  qual 
perdita  non  fu  ultima  causa  del  primo  sbandamento  di  quegli 
strenui  campioni  della  verità  e  della  virtù.  Quei  valorosi  difen- 
soi'i  e  propagatori  della  scienza  miravano  a  fondare  con  forze 
unite  le  naturali  discipline  sopra  l'osservazione  di  ciò  che  è,  sopra 
l'esperienza  reale  e  sicura  dei  fitti,  poco  ó  nulla  curandosi  del- 
l'autorità d'Aristotile  e  dei  ciechi  seguaci  suoi.  Il  metodo  inaugurato 
dal  Galileo  di  porre  a  base  del  ragionamento  puro  l'osservazione 
e  l'esperienza  formava,  dirò  così,  la  divisa,  l'arma  e  lo  stromento 
di  tutta  la  società.  Al  grande  toscano,  e  in  genere  a  tutta  l'Ac- 
cademia dei  Lincei  dove  il  mondo  civile  la  fonte  e  la  cagion 
prima,  il  primo  principio  motore  e  fattore  di  quel  grande  incre- 
mento scientifico,  onde  l'età  nostra  non  senza  pompa  retorica  al- 
tamente si  vanta.  «  Quegli  anni,  dice  il  Carutti,  e  quegli  uomini, 
che  furono  il  Cesi,  il  Porta,  il  Galilei,  il  Colonna,  per  tacer  degli 
altri,  e  le  loro  opere,  le  sventure  patite  per  amor  del  vero,  e 
il  rivolgimento  scientifico,  che  assicurarono,  e  i  cui  effetti  du- 
reranno perpetui,  fanno  ragione,  perchè  in  Roma  il  nome  dei 
Lincei  abbia  avuto  sempre  culto  affettuoso,  e  perchè  la  rima- 
nente Italia,  che  tutta  quanta  era  rappresentata  nella  loro  prima 
instituzione,  abbia  voluto  con  pari  ossequio  conservarlo.  Poco 
poteasi  aggiungere  all'idea  prima  dei  fondatori,  larghissima  e 
conveniente  a  nazione  fatta.  » 

III. 

Dopo  il  Cesi  veniva  lo  Stelluti,  1'  operoso  Tarcligrndo.  che 
aveva  l'ufficio  di  procuratore  generale;  il  cancelliere  e  segretario 
della  Società  era  Giovanni  Fabri  ;  Giovanni  Demisiano  fu  censore, 
Angelo  De  Filiis  bibliotecario.  Ma  prima  di  procedere  oltre  nel 
racconto,  stimo  opportuno  rifare  la  via  percorsa  e  ritornare  a  quei 
primi  anni  per  esporre  altre  difficoltà,  che  dovette  la  nascente 
Compagnia  vincere,  e  per  far  conoscere  meglio  il  carattere  spe- 
ciale di  Giovanni  Eckio,  donde  risalterà  una  maggior  luce  sul- 
Pindole  di  tutta  quell'Accademia  in  generale.  Abbiamo  già  veduto 
come  si  portasse  1'  Eckio,  quando  ritornò  in  Olanda,  con  quelli 
che  da  lui  dissentivano  per  motivi  di  religione.  Per  quanto  si  vo- 
glia scusare  il  fatto  di  lui  coli' addurre  a  sua  difesa  la  provoca- 
zione e  il  furor  settario  de'suoi  nemici,  non  si  può  tuttavia  negare 


l'accademia  dei  lincei.  133 

ch'egli  fosse  d'auiiiio  alquanto  violento  e  irrequieto  e  battagliero. 
Prima  che  egli  stringesse  col  Cesi  quella  fraterna  amicizia  sovra 
accennata,  fu  dal  duca  Giovanni  Antonio  Orsini  chiamato  ad 
esercitare  1'  arte  salutare  a  Scandriglia  nel  Reatino,  con  provvi- 
gione annua  di  cento  scudi  e  quindici  rubbia  di  grano.  11  nostro 
giovane  medico  avea  composto  nello  stesso  anno  della  sua  laurea, 
1601,  un  libro  col  titolo  :  De  mirahiìihus  crcaturariim  Bei,  super 
Caii  PUnii  Secundi  Historias  Naturalcs  Coìììmentarium,  Opus 
Divo  Johanni  Baptistae  dicatum.  E  1'  anno  appresso  un'  altra 
opera  scrisse  col  titolo  :  Exper intenta  medica  hahita  Scandrillae 
an.  1602  praesidio  Dncis  S.  M.  Ma  a  Scandriglia  ebbe  mala 
ventura  ;  poiché  guastossi  collo  speziale,  Raniero  Casolini,  il  quale 
per  amor  di  guadagno,  nello  spedire  le  ricette  ordinate  da  lui  o 
non  dava  buoni  farmachi,  o  li  alterava,  e  venne  più  d'  una  volta 
con  lui  a  parole;  onde  l'Eckio  minacciato  di  morte  ebbe  a  difen- 
dersi, ma  nella  propria  difesa  lo  feriva  gravemente,  sì  che  lo 
speziale  mori  quindici  giorni  dopo  la  ferita  ricevuta.  Il  nostro 
dottore,  presentatosi  al  Vicario  che  sedeva  in  Corte,  e  costituitosi 
prigione,  fu  tradotto  a  Eoma,  dove  il  giovane  Cesi,  avuta  di  lui 
ottima  informazione,  prese  a  proteggerlo,  e  colla  difesa  presen- 
tata dal  suo  procuratore  e  comprovata  dalle  dichiarazioni  dei 
testimoni  essendosi  dimostrata  la  necessità  di  ferire  lo  speziale 
per  salvare  sé  stesso,  fu  l'Eckio  rimesso  in  libertà.  Di  qui  il  vin- 
colo della  santa  amicizia  fraterna  tra  lui  e  il  giovane  Cesi,  e 
l'amore  alla  scienza  ed  alla  verità  inspirato  dal  primo  al  secondo, 
e  il  pensiero  di  fondare  coU'opera  degli  altri  due  compagni  quella 
società,  di  cui  parliamo. 

Ma  se  il  giovane  Cesi  era  tutto  nei  generosi  e  sublimi  senti- 
menti che  sollevano  1'  uomo  ad  un  mondo  superiore,  non  si  può 
dire  lo  stesso  di  suo  padre,  il  duca  d'Acquasparta.  Egli  era  uomo 
di  cattiva  indole,  sommerso  nei  debiti;  temeva  o  fingeva  di  cre- 
dere che  r  Olandese  cercasse  d' indurre  il  figliuolo  a  fuggirsene 
seco  nei  Paesi  Bassi.  Perché  quei  giovani  chiamavansi  fratelli 
giurati?  Quale  vincolo  li  stringeva?  Non  poteva  capacitarsi  che 
il  solo  amore  del  sapere  gli  unisse  in  così  fida  lega  ;  doveva  muo- 
verli una  qualche  sinistra  e  nera  intenzione.  Ricorse  ad  arti  basse 
ed  inique  per  far  di  nuovo  incarcerare  1'  Eckio,  esortando  a  ciò 
ed  a  rinfrescare  il  processo  dell'omicidio  il  Governatore  di  Roma 
con  tre  suppliche.  E  notiamo  che  1'  Eckio  per  offerta  del  giovane 
Cesi  godeva  la  sua  ospitalità,  avendo  preso  stanza  nel  suo  stesso 
palazzo.  Fallitogli  il  colpo  accennato,  non  ebbe  ribrezzo  di  ricor- 


134  l'accademia  dei  lincei. 

rere  al  Santo  Uffizio,  dijjingenclo  1'  ospite  suo  quale  perfidissimo 
eretico,  il  quale  tentava  di  subornargli  il  figliuolo  e  condurlo  negli 
stessi  errori,  menando  vita  scostumata,  esercitando  negromanzia 
ed  altre  diaboliche  arti.  Quell'  aria  di  mistero,  onde  s'  erano  cir- 
condati i  quattro  Lincei  fondatori,  quello  studio  precipuo  della 
natura,  quel  carteggiare  tra  loro  in  cifra,  tutto  contribuiva  a  dare 
un'apparenza  di  vero  alle  calunnie  del  signor  Duca.  Il  quale  ri- 
corse al  cardinal  Vicario,  il  cardinal  Borghese,  che  fu  poi  Paolo  V. 
Costui,  uditi  falsi  testimoni  trovati  dal  Duca,  e  fatte  scrivere  le 
loro  deposizioni,  ordinò  che  1'  Eckio  fosse  ricondotto  in  carcere. 
Il  che  non  ebbe  efi'etto,  perchè,  abitando  egli  tuttavia  il  palazzo 
ducale,  il  padrone,  che  pur  gli  faceva  quel  tiro  ignominioso,  ver- 
gognavasi  e  non  desiderava  che  fosse  arrestato  in  casa  sua.  L'Eddo 
stette  rinchiuso  negli  appartamenti  di  Federico,  in  sino  a  che  per 
consiglio  di  lui  se  ne  partì  da  Eoma,  accompagnato  per  viaggio 
da  due  uomini  del  Duca,  a  sorveglianza  piuttosto  che  a  guardia. 
Durante  questa  vile  persecuzione  il  nostro  Olandese  pose  mano 
all'  opera  De  negìecta  siderali  scicnfia,  di  cui  pare  scrivesse  il 
primo  volume  e  che  doveva  essere  distesa  in  due,  come  ricavasi 
dalla  dissertazione  De  peste,  che  egli  dettò  in  Olanda  nel  1605, 
mentre  quel  paese  era  dal  morbo  infestato.  Lasciando  il  viaggio 
dell'  Eckio  partito  da  Roma  per  Siena,  Firenze,  Pisa,  Milano, 
Torino,  per  la  Savoia,  la  Francia  fino  alla  sua  patria,  e  non  toc- 
cando neppure  le  accoglienze  oneste  e  liete  ricevute  nella  corte 
di  Rodolfo  II  e  le  amicizie  strette  con  Ticone  Brahe,  col  Keplero 
e  con  altri  illustri  uomini,  e  le  lettere  colle  quali  egli  informava 
il  Cesi  di  tali  conoscenze,  della  diffusione  del  nome  e  della  fama 
dei  Lincei,  degli  acquisti  fatti  per  l'Accademia,  degli  scritti  da 
lui  composti,  delle  sue  vicende  vediamolo  reduce  in  Italia  nel  1606. 
Egli  si  trovava,  come  sembra,  in  Parma,  dove  era  ancora  lo 
Stellati,  quando  il  Cesi  gli  scrisse  di  venirsene  incognito,  sostando 
a  Terni,  donde  intendeva  mandarlo  a  Napoli.  Ma  l' Eckio  rispose, 
che  non  poteva  ciò  fare  senza  disonore,  e  pare  non  desse  retta 
all'avvertimento  dell'amico,  sì  che  nel  1606,  il  10  aprile,  ricom- 
parve in  Roma,  dopo  l'assenza  di  due  anni.  Di  qui  egli  scriveva 
a  Giovanni  Keplero,  che  lo  salutava  dalV  alma  città  di  Doma. 
Parevano  spente  le  ire  del  duca  d'Acquasparta  e  sicuro  l' Eckio: 
onde  il  giovane  Cesi  scrivendone  allo  Stelluti  il  17  gennaio  1607 
diceva,  doversi  rnngyaziarc  il  Signor  Dio  che  hahhia  rimosso  la 
causa  principale  dei  travagli  et  concesso  principio  di  quiete.  Ma 
la  era  una  vana  lusinga:  l'odissea  dell'Olandese  non  era  termi- 


l'accademia  dei  lincei.  135 

nata.  Narrasi  die  il  signor  duca  d' Acquasparta  sempre  gli  nu- 
trisse odio  e  con  sue  lettere  lo  avesse  messo  in  sospetto  al  Nun- 
zio in  Vienna,  e  per    la  seconda  volta   lo  costringesse  a  partire. 
Della  nuova  offesa  del    Duca  non  venne  fatto  al    Carutti  di  sco- 
prirne traccia  nei  documenti.  Pure  egli    rettamente  osserva,  che 
le  ammonizioni  del  Cesi  di  non  farsi  vedere  in  Roma  e  di  volerlo 
mandare  a  Napoli  dimostrano  che  il  mare,  sebbene  in  apparente 
bonaccia,  tuttavia  non  era  sicuro.  Fatto  sta  che  nel    giugno  del 
1608  noi  lo  vediamo  a  Madrid  e  di  qui  scrivere  allo  Stelluti  come, 
scossa  la  protezione  di  un  cotal    marchese  di  Moya,  si   desse  ad 
esercitare   la    medicina  e  fuggisse    la   casa   del    Nunzio,  officina 
cV  inganni;  e  tra  le  altre  cose  dirgli:  (lìii  nummos  etiam  renue- 
bam,  nimc  studiose  quacro:  foctorem  aveo  et   nummos  praecipue 
spero:  ad  mcrcimonium  mea  me  redegit  sors  et  scienliam  foeneri 
siihjiigavi:   latino   barbaro  rivelante  anima  civilissima,  contro   le 
sue  aspirazioni  costretta  a  vivere  dell'esercizio  della  sua  profes- 
sione. Dal  1608  al  1614  non  abbiamo  notizie  di  lui;  non  sappiamo 
nemmeno  se  egli  abbia  o  no  seguito  il  consiglio  del  Cesi  riguardo 
al  matrimonio.  11    26   luglio    1614   ricomparve    in  Roma,  ove  fu 
dallo    Stelluti   condotto    in   mezzo  ai    Lincei,  ai    quali    fece   per 
un'  ora  eloquente  esjiosizione  dei  suoi  viaggi  e  delle  sue  vicende, 
parlando  ora  latino  e  ora  greco.  Avea  peregrinato  tuttala  Spa- 
gna, la  Francia,  l' Inghilterra,  varie    parti  del    Belgio,  veduto  e 
fatto  un  mondo  di  cose  e  tutto  scritto.  L'ultima  volta,  in  cui  si 
fa  menzione   dell'  Echio  nelle  Gesta   dei    Lincei,  fu  il  24  marzo 
1616;  si  trovò  presente  a  quell' adunanza,  ma  solo  materialmente 
col  suo  corpo;    la  mente  era  da   grave   offesa  colpita;  il    povero 
Echio  non  era  più  in  senno.  E  siccome  non  se  ne  parla  più,  sem- 
bra assai  probabile  che  sia  morto  fra  il  1618  e  il  1621.  Giovanni 
Echio  diffuse  nelle  più  remote  contrade  il  nome  dell'Accademia, 
che  egli  insieme  col  Cesi  fondò  e  potè  vedere,  per  opera  dei  soci 
e  specialmente  del  Galileo,  lodata  e  di  bella  vita  e  fama  fiorente. 
Non  v'  è  genere  di  letteratura,  secondo  che  scrive  monsignor  Gae- 
tano Marini,  che  egli  non  abbia  toccato,  ma  di   tanta  operosità, 
del  suo  grandissimo  amore  alla   scienza  pochissimo  ci    resta,  da 
cui  non  ci  è  lecito  argomentare  del  valore   dell'  ingegno  di   lui. 
Cassiano  Dal  Pazzo  ne    aveva   raccolti    i  manoscritti,  conservati 
poi  nella   biblioteca  Albani;  i   giovanili   si    conservano    ora    dal 
principe  D.  Baldassarre  Boncompagni. 


136  l'accademia  dei  lincei. 


IV. 


Si  è  detto  che  l'Accademia  ne' suoi  primordii  era  aliena  dal- 
l'ammettervi  dotti  ecclesiastici  regolat-i,  e  n'  aveva  ben  ragione  ; 
l'esperienza  almeno  ha  dimostrato  che  erano  giusti  i  presenti- 
menti dei  fondatori.  I  primi  a  rivolgersi  contro  le  dottrine  Co- 
pernicane furono  i  regolari;  unica  eccezione  troviamo  fare  il  Cam- 
panella, il  quale,  come  riferisce  il  D'Ancona  nella  sua  bella  e 
documentata  Vita,  nel  1614  scriveva  al  Galileo  :  «  Io  fo  la  nuova 
Teologia,  dove  mostro  che  la  scrittura  sacra  e  li  rabbini  piìi 
antichi  tutti  son  di  questa  opinione  :  già  sono  al  4'  libro.  —  Io 
sepolto  fo  quanto  un  vivo  per  V.  S.  e  per  l'onor  comune.  »  Nel  26 
di  febbraio  1616  il  Galileo  aveva  ricevuto  dal  cardinal  Bellar- 
mino l'ammonizione  di  non  difendere  né  tenere  le  dottrine  del 
moto  della  terra,  perchè  contrarie  alle  Sacre  Scritture,  e  il  5  del 
marzo  seguente  la  Congregazione  dell'Indice  aveva  proibiti  i  libri 
De  Rivoìutioniìms  Orhmm  Coelestium  del  Copernico,  donec  cor- 
rigantur.  Credevano  non  di  meno  il  Galileo  ed  i  Lincei,  che  se 
essa  dottrina  era  dannata  come  tesi,  la  si  potesse  avere  in  conto 
di  ipotesi;  ma  neppur  come  ipotesi  fu  tollerata.  Indarno  il  Galileo 
medesimo,  prevedendo  1'  avversione  prima  e  la  persecuzione  poi 
mossa  ai  propugnatori  del  novello  sistema,  fin  dal  1613  scrivendo 
al  celebre  Padre  Benedetto  Castelli  intoruo  al  sistema  Coperni- 
cano e  all'autorità  scritturale  in  argomento  di  Fisica,  concludeva 
con  queste  solenni  parole  :  «  Avendo  io  dunque  scoperto  e  necessa- 
riamente dimostrato  il  globo  del  sole  rivolgersi  in  sé  stesso, 
facendo  un'  intera  conversione  in  uà  mese  lunare  incirca  per 
quel  verso  appunto  che  si  fanno  tutte  le  altre  conversioni  ce- 
lesti; ed  essendo  di  più  molto  probabile  e  ragionevole,  che  il 
sole,  come  strumento  massimo  della  natura,  quasi  cuore  del 
mondo,  dia  non  solamente,  com'egli  chiaramente  dà,  la  luce,  ma 
il  moto  ancora  a  tutti  i  pianeti,  che  intorno  se  gli  raggirano; 
se,  conforme  alla  posizione  del  Copernico,  noi  costituissimo  la 
terra  muoversi  almeno  di  moto  diurno,  chi  non  vede  che  per 
fermare  tutto  il  sistema  senza  punto  alterare  il  restante  delle 
scambievoli  rivoluzioni  dei  pianeti,  solo  si  prolungasse  lo  spa- 
zio e  il  tempo  della  diurna  illuminazione,  basta,  perchè  fosse 
fermato  il  sole,  come  appunto  suonano  le  parole  del  Sacro  Testo? 
Ecco  adunque  il  modo,  secondo  il  quale  senza  introdurre  con- 
fusione   alcuna    delle   parti    del    mondo  e   senz'  alterazione  delle 


l'accademia  dei  lincei.  137 

parole  della  Scrittura,  si  può  con  fermare  il  sole,  allungare  il 
giorno  intero  {Prose  sndte).  »  La  qual  conclusione  molto  pru- 
dente e  per  quei  tempi  maravigliosa  per  la  maggior  parte  di  vero 
che  conteneva  non  fu  punto  accettata  da  quei  Teologi,  e  tutti  sanno 
la  cieca  e  furente  ostinatezza,  con  cui  negli  ultimi  anni  della  sua 
vita  fa  perseguitato  il  sommo  filosofo,  il  vero  padre  della  filoso- 
fìa esperimentale.  E  non  solo  il  Gralileo,  ma  nella  sua  persona 
tutti  i  Lincei  furono  perseguitati,  e  il  primo  principio,  la  prima 
pietra  dello  scandalo  fu  porta  da  un  socio  dell'accademia,  da  un 
amico  dello  stesso  Galileo,  Luca  Valerio  nominato  Linceo  nel  1612^ 
in  età  d'anni  60,  napoletano,  figlio  di  Giovanni.  Era  uomo  di  gran 
fama  e  valore,  massime  nelle  matematiche  e  nella  teologia,  tanto 
che  nella  presentazione  ai  Lincei,  il  7  giugno  1612  per  poco  non 
si  faceva  superiore  a  tutti  i  matematici  dopo  Archimede,  e  nella 
teologia  e  sana  filosofia  così  eccellente,  da  non  sapersi  giudicare 
in  quale  delle  due  scienze  più  valesse.  Anche  il  Galileo,  come 
risulta  dalle  sue  02)cre  e  specialmente  dalla  lettera  del  5  gen- 
naio 16i3  al  Cesi,  lo  stimava  assai  e  lo  venera  va.  Ma  appena  il 
sommo  Fiorentino  fu  ammonito  e  i  libri  del  Copernico  dalla  Con- 
gregazione dell'Indice  proibiti  finché  non  fossero  corretti,  Luca 
Valerio  cambiò.  Era  professore  nell'Archiginnasio  Eomano,  e  disse 
in  certo  modo  di  non  voler  più  appartenere  ai  Lincei,  perchè 
fautori  di  una  dottrina  riprovata  dalla  Chiesa,  ascrivendo  loro  a 
gran  delitto  e  quasi  a  manifesto  errore  l'averla  professata,  e  ne 
incolpò  apertamente  il  Galileo,  sebbene  l'ammonito  del  sant'  Uf- 
fizio affermasse  d'averla  sostenuta  non  come  tesi,  ma  solo  come 
ipotesi.  I  Lincei,  d'accordo  col  Galileo,  giudicarono  di  dover  pu- 
nire esemplarmente  un  /■ra/c//o,  che  usava  tali  modi,  escludendolo 
dal  commercio  e  dalle  tornate  accademiche  e  privandolo  della  voce 
attiva  e  passiva.  Nella  sentenza,  pronunciata  nel  2-1  marzo  1616 
e  pubblicata  colle  stampe  dal  Carutti  per  la  prima  volta,  leg- 
gonsi  generose  parole,  con  cui  la  Compagnia  nel  Galileo  difende 
sé  stessa  e  nell'offesa  recata  a  lui  riconosco  una  propria  offesa. 
Né  questa  condotta  di  Luca  Valerio  deve  farci  stupire;  siamo  in 
Roma  sotto  Paolo  V;  sedici  anni  prima  il  vento  aveva  disperso 
le  ceneri  del  Bruno.  La  persecuzione  aperta  contro  i  Lincei  e  il 
loro  protetto  se  non  incomincia  subito,  si  macchina  però  occul- 
tamente; dal  1618  al  1621  l'Accademia  non  tiene  che  una  sola 
adunanza,  e  questa  nel  1621  in  casa  di  Virginio  Cesarini.  Il  ver- 
bale incomincia  con  queste  parole  :  «  Post  longam  non  mcnsium 
modo,   ned  annorum  etiam  interccssitiidincni,  consessum  et  collo- 


138  .  l'accademia  dei  lincei. 

quinm  Lyncacum,  habìùmus  in  aedihiis  iUustrissimi  cìomini  Vir- 
ginii  Cacsarini,  ecc.  Già  si  è  detto,  come  gli  Accademici  faces- 
sero stamimre  nel  1622  il  Saggiatore  del  Galileo  in  gran  fretta, 
per  non  essere  impecìiti,  secondo  che  scriveva  il  medesimo  Cesa- 
rini,  dai  Gesuiti,  che  di  già  Vhanno  jìenetrnto.  E  inutile  il  far  com- 
menti; stimo  più  opportuno  il  riferire  qui  un  brano  di  lettera, 
che  fra  Paolo  Sarpi  scriveva  ad  un  amico,  parlandogli  del  Ga- 
lileo e  prevedendo  le  sue  dolorose  disavventure:  «Ora  intendo 
che  il  Galileo  è  per  trasferirsi  a  Eoma,  là  invitato  da  vari  car- 
dinali a  far  mostra  de' suoi  inventi  nel  cielo;  io  temo  che  se 
in  tale  circostanza  egli  metta  in  vista  le  dotte  ragioni,  che  lo 
portano  ad  anteporre  circa  il  nostro  sistema  solare  la  teoria 
del  Canonico  Copernico,  non  incontrerà  certamente  nel  genio 
dei  gesuiti  e  degli  altri  frati.  Cambiata  da  costoro  la  questione 
fisica  ed  astronomica  in  teologica,  prevedo,  con  mio  massimo 
dispiacere,  che  per  vivere  in  pace  e  senza  la  taccia  di  ei-etico 
e  di  scomunicato  dovrà  ritrattare  i  suoi  sentimenti  in  tale  pro- 
posito. Verrà  però  il  giorno,  e  ne  son  quasi  certo,  che  gli  uomini 
da  studi  migliori  rischiarati,  deploreranno  la  disgrazia  di  Ga- 
lileo e  l'ingiustizia  usata  a  sì  grand'uomo;  ma  intanto  egli  dovrà 
soffrirla  e  non  lagnarsene  che  in  segreto.»  E  tutto  ciò  che  il  Sarpi 
aveva  preveduto,  si  è  verificato.  Dall'Appendice  della  Comunica- 
zione prima  dell'illustre  Caratti  risulta  quanta  stima  avesse  l'Ac- 
cademia, e  specialmente  il  principe  Cesi,  del  Galileo;  lo  Stellati  fin 
dal  15  settembre  1610  scrivendo  a  suo  fratello  ricordava  le  po- 
lemiche e  la  bassa  invidia  degli  avversarli  contro  il  grande  filo- 
sofo; un'altra  lettera  del  principe  Federico  Cesi  diretta  nel  30 
aprile  1611  al  medesimo  Stelluti  riferiva  le  osservazioni  celesti, 
che  i  Lincei  facevano  col  telescopio  del  Galileo,  e  toccava  del  si- 
stema copernicano.  In  un' adunanza  del  10  luglio  1614  domandava 
il  Galileo  come  dovesse  rispondere  a  Simone  ]\Iario,  il  quale  si 
usurpava  l'onore  della  scoperta  del  sistema  di  Giove;  se  si  do- 
vesse trattarne  col  Keplero,  o  scriverne  al  Marchese  di  Brande- 
burgo  Marco  Filippo;  e  fu  deliberato  essere  meglio  che  il  Galileo 
dirigesse  piuttosto  una  lettera  al  Keplero,  come  astronomo.  Dai 
fatti  esposti  noi  possiamo  concludere  che  i  nemici  dell'  Accademia 
del  Galileo,  del  sistema  astronomico  dal  Galileo  difeso  e  dall'Acca- 
demia sostenuto,  erano  i  partigiani  della  vecchia  scuola,  che  par- 
tendo unicamente  dal  principio  d'autorità  per  ignoranza  e  cecità 
singolare  confondevano  l'autorità  d'Aristotele  con  quella  delle 
Scritture  malamente  interpretate. 


l'accademia  dei  lincei.  139 


Y. 


Nelle  opinioni  del  Galileo  pertanto  cercavano  gli  avversarii 
di  combattere  le  opinioni,  e  più  ancora  i  principii  inquisitivi  del- 
l'esame, dell'osservazione,  dell'esperienza  professati  da  tutti  i 
Lincei.  Ma  1'  Accademia  era  capitanata  da  un  nobile  romano  per 
religiosità  inappuntabile,  per  aderenze  potente.  S'aspettava  il  mo- 
mento opportuno  ;  il  Cesi,  duce  e  vita  ed  anima  della  compagnia, 
fu  sopraggiunto  da  una  febbre  acuta,  che  in  tre  giorni  lo  spe- 
gneva (1  agosto  1630),  mentre  volendo  anche  dopo  di  sé  prolungare 
ed  assicurare  la  vita  dell'accademia,  intendeva  legarle  il  museo, 
la  libreria  e  il  prodotto  della  Storia  Naturale  Messicana,  con- 
dotta pressoché  a  compimento  e  prossima  a  pubblicarsi.  Ma,  es- 
sendogli mancato  il  tempo  di  scrivere  il  testamento,  non  ebbero 
effetto  quelle  sue  buone  intenzioni.  Non  lasciando  figli  maschi, 
i  beni  della  primogenitura  passarono  a  Giovanni  Cesi,  fratel  suo 
secondogenito,  e  le  due  figliuole,  Teresa  ed  Olimpia,  nategli  dalla 
seconda  moglie  ed  ancora  in  tenera  età,  ne  ereditarono  le  sostanze 
libere,  passando  però  sotto  la  tutela  della  madre,  duchessa  Isa- 
bella Salviati.  Il  patrimonio  non  era  in  buon  assetto,  stremato 
specialmente  per  opera  del  padre  di  Federico,  morto  poche  setti- 
mane prima  di  lui;  l'eredità  fu  accettata  con  benefizio  d'inven- 
tario, e  ordinato  l' inventario  del  museo  e  della  libreria  ne  fu  de- 
liberata la  vendita,  che  fu  commessa  allo  Stelluti  ed  eseguita.  Né 
si  provvide  al  compimento  della  Storia  Nr.turale  del  ]\Iessico,  cui 
mancava  solo,  per  testimonianza  di  Francesco  Stelluti,  la  prefa- 
zione cogl' indici  e  poche  tavole  del  Cesi;  e  lo  stesso  Stelluti  si 
profferiva  a  compierla,  credendo  che  la  signora  duchessa  per  200 
0  300  scudi,  che  occorrevano  ancora,  non  avrebbe  voluto  rinun- 
ziare all'utile  di  alcune  migliaia  di  scudi  per  le  signorine  sue 
figlie.  Ma  i  tutori  delle  signorine  Cesi  posero  in  disparte  il  pen- 
siero di  compiere  la  Storia  Naturale,  di  cui  lasciarono  che  si  di- 
stribuissero alcuni  esemplari  portanti  la  data  di  quell'  anno.  Il 
resto  dell'  edizione  rimase  giacente  in  custodia  del  duca  Salviati 
zio  delle  signorine,  il  quale  aveva  non  so  che  credito  verso  la 
successione.  Ma  i  Lincei  per  bocca  del  medesimo  Stelluti  confes- 
savano che  le  cose  loro  sarebbero  ite  in  rovina,  se  non  fossero 
state  da  signore  potente  sostenute,  e  quindi  si  rivolgevano  al 
Cardinal  Barberini,  il  quale  era  stato  due  anni  prima  da  Giovanni 
Fabri  pubblicamente  salutato  praecipiius  patronns  dei  Lincei.  In- 


140  l'accademia  dei  lincei. 

tanto  il  Magistrato  accademico  secondo  le  Praescriptiones  doveva 
eleggere  per /ni'e/7:>r'«ic/j;e  il  socio  pili  anziano,  e  questi  era  ap- 
punto lo  Stelluti,  che  da  parecchi  anni  dimorava  in  casa  Cesi. 
Egli,  disagiato  dei  beni  di  fortuna  e  in  procinto  di  doversene  ri- 
tornare a  Fabriano,  terra  natia,  ben  sapeva  di  poter  nulla  ope- 
rare efficacemente  e  durevolmente  per  l'Accademia,  e  previde  su- 
bito che  ogni  speranza  di  salute  era  riposta  nel  cardinal  Barbe- 
rini, Poiché  era  potentissimo  pel  suo  casato  e  quale  ministro  di 
Urbano  Vili  ;  i  socii  Ciampoli  e  Cassiano  dal  Pozzo  erano  ai  ser- 
vigi di  lui;  il  socio,  proposto  e  non  ancora  riconosciuto,  Luca  01- 
stenio,  da  lui  dipendeva,  e  inoltre  Pietro  della  Valle,  e  il  Mar- 
chese Pallavicino  Sforza  non  erano  pure  stati  riconosciuti  soci. 
Ma  il  cardinal  Barberini,  qualunque  ne  sia  la  crtusa,  non  accettò 
il  Principato  linceo,  né  poteva  accettarlo;  anche  il  barone  Carntti 
accennandone  le  varie  cagioni,  vien  fuori  in  queste  parole  ;  «Nulla 
di  meno  può  sembrare  non  inverosimile  che  l'Inquisizione  non 
dormisse,  né  dimenticasse  l'ammonito  del  1616,  nobilmente  al- 
lora difeso  dai  Lincei.  Ed  essa  e  i  peripatetici,  infensi  senza 
tregua  al  novatore,  che  toccava  a  quei  di  il  sommo  della  gloria, 
informati  del  nuovo  libro  che  trattava  nuovamente  le  riprovate 
materie  astronomiche  {il  Dialogo  sopra  i  due  massimi  sistemi  del 
Mondo  Tolomaico  e  Copernicano),  poterono  per  avventura  rap- 
presentare al  Cardinale  non  essere  prudente  coprire  anticipa- 
tamente coir  autorità  della  Porpora  istanze  possibili  e  vicine.  » 
Comunque  sia  la  cosa,  fatto  sta  che  noi  troviamo  questi  due  fe- 
nomeni quasi  contemporanei,  od  almeno  con  poco  intervallo  di 
tem])o  tra  l'uno  e  l'altro.  L'Accademia  dei  Lincei  orbata  dalla 
morte  del  suo  duce,  stenta  e  alla  fine  non  riesce  a  trovare  un 
altro  suo  capo,  il  suo  principe  successore  del  Cesi  ;  il  Dialogo 
dei  Due  Sistemi  esce  a,\ìa.  luce  net  1632,  e  nella  seconda  metà  del 
16S2  incomincia  il  famoso  processo  contro  l'Autore  di  quel  dia- 
logo. Non  si  può,  cred'  io,  negare  un  nesso  tra  questi  due  fenomeni, 
Rimaste  senza  frutto  le  pratiche  fatte  presso  il  cardinal  Fran- 
cesco Barberini,  i  Lincei  rimasero  senza  principe,  senza  erario 
e  senz'archivio,  ogni  cosa,  che  fu  già  appartenente'  all'Accade- 
mia, passata  in  proprietà  degli  eredi  Cesi,  e  stata  messa  in  ven- 
dita. 11  cardinal  Barberini  comperò  una  ventina  di  volumi:  il 
cav.  Cassiano  Dal  Pozzo  con  animo  veramente  principesco  tolse 
a  scampare  le  preziose  reliquie  di  quel  naufragio,  e  con  settcccìiio- 
ciìtquantolto  scudi  in  n:onda  comperò  tutta  la  libreria,  meno  l'ana- 
tomia, e  poi  anche  uno  stucciodi  diversi  instrumenti  d'ottone  mate- 


l'accademia  dei  lincei.  141 

inatici  con  la  sua  cassa  per  venticinque  scudi  in  moneta.  L'  Ac- 
cademia fuori  di  Roma  fu  considerata  come  ancora  vivente, 
poiché  il  Dal  Pozzo  «  accogliendo  senza  alcun  riguardo  di 
spesa  nel  suo  Museo  le  memorie  e  gli  scritti,  e  nel  suo  cuore 
i  disegni  e  i  pensieri  di  così  dotta  adunanza,  prorogò  ad  essa 
elle  già  languiva,  pietosamente  la  vita  ;  »  così  dice  Carlo  Dati 
nella  sua  orazione  Brlle  lodi  del  Cav.  Cassiano  Dal  Pozzo.  E  per 
verità  dal  1632  al  1657  le  stanze  di  Cassiano  potevano  chiamarsi 
un'Accademia,  se  con  tal  nome  vogliasi  intendere  un'eletta  com- 
pagnia d'uomini,  i  quali  si  dedicavano  a  letterarie  ricerche  per 
conforto  d'un  uomo,  che  le  coltivava  per  sé,  e  negli  altri  le  proteg- 
geva, in  luogo  delle  scienze  fisiche,  naturali  ed  astronomiche,  per- 
seguitate nella  persona  del  Galileo  condannato  appunto  in  quei 
tempi  e  costretto  ad  abiurare,  si  coltivarono  di  preferenza  l'an- 
tiquaria, r  erudizione  e  le  arti  belle.  Cassiano  incominciò  e  con- 
dusse a  termine,  con  larga  e  regale  munificenza  e  con  discerni- 
mento d'uomo  dottissimo,  la  grande  raccolta  disegnata  e  dipinta 
di  tutto  il  corpo  delle  Antichità  Romane,  la  più  vasta  opera 
sin  allora  compiuta  di  questo  genere,  a  cui  cresceva  pregio  la 
matita  di  quel  valoroso  artista  che  fu  Nicola  Poussin.  Carlo  An- 
tonio, degnissimo  fratello  di  Cassiano,  dopo  la  costui  morte  di- 
ceva di  quei  volumi:  «  Per  stamparsi  ...  ne  si  richiederebbe  spesa 
più  che  regia.  Restano  però  comunicabili  a  quelli  che  di  noti- 
zie sì  fatte  si  dilettano.  »  Oggi  parte  sono  smarriti,  parte  in  In- 
ghilterra dispersi.  Né  qui  vuoisi  passare  sotto  silenzio  un  fatto  de- 
gnissimo di  memoria,  qual  indizio  della  somma  venerazione  di 
Cassiano  per  Galileo.  Imperocché  nella  sua  propria  casa  egli  col- 
locò il  ritratto  del  cieco  prigioniero  d'Arcetri,  con  sotto  questi 
versi  composti  da  Gabriele  Naudè: 

Non  viiUum,   G'itUaee,  fuum  viihi  cura  videndi  est; 

Ast  oculata  mar/is  pictn  tahelln  jjlacet. 
Naìnque  oculis  resf-ratn  tuis  qui  sidera  vidi 

Et   Coelo  per  te  reddita  jurn  novo. 
Nunc  ocuhs  cooca  dudum  sub  nocte  latente» 

Aequa  non  j^osaem  cernere  mente  tuos. 

«  L'immagine  dell'infelice,  osserva  bene  a  proposito  il  Ca- 
rutti,  e  quel  verso  Et  Coelo  per  te  reddita  jnra  novo,  prostanti 
sotto  gli  occhi  del  Santo  Uffizio  e  di  papa  Barberini,  rendono 
più  onoranda  la  memoria  del  Conservatore  dei  Lincei.  »  Cassiano 
morì  nel  ]657:  Carlo  Antonio  Dal  Pozzo,  fratello  di  lui  ed  erede, 
uomo  anch'esso  di  buone  lettere,  serbò  con  religiosa  riverenza  e 


142  l'accademia  dei  lincei, 

con  somma  ed  affettuosa  cura  i  tesori  legatigli;  ma  nel  1703  un 
suo  pronipote  li  A'endette,  e  passarono  poi  nel  1714  nella  biblio- 
teca Albani.  Nel  1798,  proclamata  la  repubblica  romana  alla 
francese,  fu  la  biblioteca  Albani  dai  furori  plebei  malamente 
bistrattata,  e  ai  tempi  nostri  venduta  all'asta  pubblica;  cosi  qua 
e  là  andarono  disperse  le  reliquie  accademiche. 


YI. 

Ma  se  in  quel  secolo  di  persecuzioni  di  ogni  genere  i  Lincei 
furono  persino  nella  vita  di  Virginio  Cesarini,  scritta  nel  1672 
da  Agostino  Favorito,  quali  audaci  novatori  esecrati,  e  si  disse 
la  memoria  loro  in  breve  spenta  del  tutto  e  per  sempre,  pure 
essi  ebbero  altrove,  ed  in  Eoma  stessa,  vari  periodi  di  risorgi- 
mento, che  possiamo  col  nostro  Carutti  ridurre  a  tre.  Il  primo 
ebbe  luogo  a  Eimini  per  opera  di  Giovanni  Bianchi,  che  curio- 
samente latinizzavasi  per  Janns  Flancus;  era  uomo  dottissimo, 
valente  nella  medicina,  autore  di  molte  opere  italiane  e  latine, 
e  in  particolare  scrisse  sopra  le  conchiglie,  il  flusso  del  mare  e 
la  botanica  di  Fa1)io  Colonna,  pubblicandone  l'opera  intitolata 
Phytohasanos  colla  vita  dell'autore  ed  una  breve  notizia  sui 
Lincei.  Molti  avversari  trovò  e  molte  polemiche  sostenne;  era 
socio  delle  Accademie  della  Crusca  e  di  Berlino;  restaurò  quella 
dei  Lincei  nel  1745.  Questo  era  il  titolo  che  egli  prese:  Janns 
Pìancus  lìatricì'us  ariniinensis  philosophiae  et  medicinae  Dodor, 
et  in  nrhc  Arimini  medicns  primarius.  Bestìtutor  pcrpetmis.  Am- 
mise all'Accademia  specialmente  gli  scenziati  scrutatori  della  na- 
tura e  scopritori  delle  sue  leggi,  comprendendovi  però  anche  i 
teologi,  i  dotti  giurisperiti,  gli  antiquari  e  tutti  i  cultori  delle 
buone  lettere.  Così  non  solo  il  nome,  ma  in  massima  parte  il 
concetto  dell'antica  Accademia  rinnovò,  abbracciandovi  colle 
scienze  naturali  anche  le  morali  e  filologiche;  e  per  verità  tra 
gli  scritti  letti  e  pubblicati  da  quella  società  troviamo  un  Discorso 
in  lode  dell'arie  comica  recitato  nelV Accademia  dei  Lincei.  Ve- 
nezia presso  G.  B.  Pasquali.  Le  Novelle  Letterarie  di  Firenze, 
con  tali  parole  annunziano  questa  restaurazione:  «  Il  signor 
Giovanni  Bianchi  gentiluomo  riminese  e  professore  primario  di 
medicina  nella  città  di  Kimini  ha  creduto  d'essere  bene  e  alla 
sua  patria  molto  utile  e  onorevole,  il  ristabilire  quella  Accademia 
dei  Lincei,  che  un  secolo  fa  fu  fondata  in  Koma  e  che  fu  di  tanto 


l'accademia  dei  lincei.  143 

onore  all'Italia,  ecc.  »  Non  sappiamo   quanto   durasse;  le  opere 
pubblicate  vanno  dal  1745  al  1752. 

Il  secondo  periodo  incomincia  dal  16  aprile  1801  e  giunge 
sino  al  1840,  dapprima  col  nome  di  Nuovi  Lincei,  e  poi  nel  1804 
l'Accademia  considerandosi  come  una  continuazione,  anzicliò  una 
rinnovazione  dell'antica  Komana,  lasciò  l'aggiunto  di  Nuovi  e  ri- 
tenne il  primo  titolo  dei  Lincei.  Tre  furono  gli  autori  principali 
di  questo  secondo  risorgimento  :  il  duca  Francesco  Caetani  di 
Sermoneta,  il  prof.  Gioacchino  Pessuti,  e  l'abate  Feliciano  Scar- 
pellini.  L'onore  della  restaurazione  spetta  al  prof.  Gioacchino 
Pessuti,  che  fu  eletto  presidente  dell'Accademia,  e  al  Duca  Fran- 
cesco Caetani  di  Sermoneta,  nel  cui  palazzo  convenivano  quei 
dotti,  i  quali,  avendo  in  animo  di  fondare  una  nuova  Accademia 
nel  principio  del  1801,  prima  che  dei  Liìicei  vollero  denominarla 
Caetani  per  gratitudine  verso  il  Duca.  Ma  pure  il  vanto  di  con- 
servatore ed  ampliatore  di  quella  Societcà  si  appartiene  all'abate 
Feliciano  Scarpellini,  che  ne  fu  il  segretario  e  poi  il  direttore 
perpetuo  ;  onde  l'Accademia  visse  tanto  quanto  il  buon  abate. 
Nato  costui  in  Foligno  il  20  ottobre  1762,  dopo  d'avere  studiato  nel 
collegio  Umbro,  entrò  nel  1780  come  educatore  in  casa  del  mar- 
chese Frangipani  e  vi  stette  per  cinque  anni.  Quivi  egli  racco- 
glieva giovani  studiosi  in  private  adunanze,  dove  le  materie  in- 
segnate ripeteva  in  compagnia  di  essi  e  quasi  in  forma  acca- 
demica. Chiamato  alla  direzione  della  gioventù  del  suo  paese 
nativo,  raccolta  nel  collegio  Umbro-Fuccioli,  aperto  in  Koraa  ai 
giovani  di  parecchie  città  dell'Umbria  per  legati  di  due  bene- 
meriti cittadini  di  quella  provincia,  l'abate  Scarpellini  si  consacrò 
tutto,  corpo  ed  anima,  all'istruzione  ed  alla  educazione  dei  gio- 
vani alle  suo  cure  affidati.  Provvide  a  sue  spese  un  apparato  di 
macchine,  fabbricate  quasi  tutte  colle  sue  mani;  insegnò  con  zelo 
singolare;  e  con  opportuni  esperimenti  corroborava  l'insegna- 
mento. Essendo  anche  ripetitore  delle  facoltà  filosofiche,  ripigliò 
quelle  adunanze  e  conferenze  inaugurate  in  casa  Frangipani; 
onde  codeste  sue  esercitazioni  furono  dagl'intendenti  osservate  e 
in  tutta  Roma  lodate,  quando  un  fatto  particolare  avvenuto  nel- 
l'anno 1797  contribuì  non  poco  in  appresso  alla  stabilità  di  que- 
sta scientifica  adunanza.  Trovavasi  allora  in  Roma  uno  dei  lu- 
minari, così  lo  chiamava  l'abate  Scarpellini,  della  Francia,  il  ce- 
lebre sig.  Monge,  mandatovi  non  so  per  quali  negozi  dal  governo 
della  sua  patria.  Costui,  inteso  per  avventura  parlare  di  quel 
nascente  istituto,  volle  un  giorno  all'improvviso  visitarlo  e  vi  si 


144  l'accademia  dei  lincei. 

recò  appunto  nel  momento  della  ripetizione  di  due  memorabili 
esperienze  dell'analisi  chimica  e  della  sintesi  dell'acqua.  Si  fa- 
cevano queste  esperienze  per  la  prima  volta  in  Roma  e  senza 
dubl)io  coi  metodi  dei  chimici  frai;cesi;  la  novità  della  cosa 
trasse  al  collegio  più  gente  dell'ordinario  e  al  certo  la  pili  eletta 
cittadinanza;  e  lo  scienziato  francese,  vedendo  che  i  giovani  erano 
al  fatto  delle  cogni:':ioni  e  scoperte  piìi  recenti,  si  mise  al  en- 
comiare il  loro  studio,  la  loro  diligenza  e  il  buon  ingegno  ed 
anche  le  cure  di  chi  loro  impartiva  quell'utile  insegnamento. 
V'intervenne  altre  volte  e  sempre  più  confortava  i  giovani  stu- 
diosi e  il  savio  loro  insegnante.  Si  avvicinavano  i  tempi  grossi 
ben  noti:  Koma,  come  il  resto  d'Italia,  mutò  il  suo  reggimento 
non  una  volta  sola.  Essendo  stati  dalla  repubblica  francese  de- 
putati quattro  commissari  a  dettare  e  promulgare  in  Roma  la 
costituzione  della  nuova  Repubblica  col  suo  Senato,  col  Tribunato 
e  cinque  Consoli,  vi  tornò  in  qualità  di  commissario  il  sig.  Monge, 
il  quale  fece  tribuno  e  socio  dell'Istituto  Nazionale  l'abate  Scar- 
pellini.  Questi  in  allora  usò  il  favore  dell'amico  potente  a  inco- 
lunntà  del  suo  collegio  Umbro-Fuccioli,  campandolo  dall'aboli- 
7.ione  decretata  già  di  simili  corpi  morali.  11  Monge  lo  consigliò 
a  dare  leggi  scritte  alla  società  scientifica  ivi  sedente;  ed  il  savio 
consiglio  fu  accettato,  e  gli  statuti  furono  proposti  ai  soci  nel  1799 
con  questo  titolo:  Lrfjr/i  sullo  sfahiìinicnfo  e  travagli  dclV Acca- 
demia del  collegio  Und)ro-Fnccioli  in  Roma,  proposte  ai  mem~ 
òri  della  medesima  nrlf  anno  V  della  sua  fondazione  e  VII 
delVcra  repidÀIicaiìa.  Questa  speciale  protezione  del  sig.  Monge 
€  la  tutela  della  legge  tanto  contribuì  al  nome  e  alla  stabilità 
dell'Accademia,  che  altri  scienziati,  tra  i  quali  alcuni  membri 
dell'Istituto,  non  ebbero  a  sdegno  di  unirsi  coi  giovani  negli 
esercizi  accademici  e  di  essere  alla  loro  compagnia  aggregati. 

Il  fine  di  quella  società  era  piuttosto  didattico  che  scienti- 
fico, dovendo  gli  accademici  diffondere  l'istruzione  e  perciò  pre- 
sentare dei  sunti  ed  estratti  delle  Memorie  inserite  negli  Atti 
delle  Accademie  estere,  o  di  altre  opere  pubblicate  e  relative  alle 
arti  ed  alle  industrie.  J\Iiravasi  insomma  alla  istruzione  tecnica  e 
popolare,  a  profitto  di  (juelli  che  si  applicavano  specialmente  alle 
arti  meccaniche,  i  quali,  secondo  le  prescrizioni,  potevano  essere 
ammessi  alle  sedute  private  dell'Accademia,  e  ciascun  membro 
doveva  prendersi  cura  speciale  fr/.s//-«iVe  anche  privatamente  questi 
iddi  individui  della  società,  dichiarandosi  benemerito  dell'Acca- 
demia quel  membro  che  mosso  da  sentimenti  di  fratellanza  avrebbe 


l'accademia  dei  lincei.  145 

prestato  Vopera  sua  a  questo  sì  lodevole  ufficio.  Lo  Scarpellini  era 
stato  eletto  presidente  pel  primo  semestre  ;  e  già  da  parecchi  anni 
era  anche  stato  nominato  professore  di  filosofia  al  Collegio  Ro- 
mano. Ma  per  le  disfatte  dei  Francesi,  restaurato  in  Italia  colla 
preponderanza  austriaca  l'antico  ordinamento,  lo  Scarpellini,  amico 
del  Monge,  tribuno  e  membro  dell'Istituto,  accusato  quale  repub- 
blicano e  infranciosato  e  avuto  per  colpevole,  fu  destituito  della 
cattedra   al    Collegio  romano;   il   Collegio   Umbro-Fuccioli   sog- 
giacque ai  furori  del  1799  e  fu  chiuso;  l'Accademia,  appena  sorta, 
fu  dispersa.  Per  buona  ventura  il  duca  Caetani  chiamò  a  sé  il 
professore  destituito,  aifidògli  l'educazione  dei  figli,   e  diede  ri- 
covero nel  proprio  palazzo  alle   macchine  dello  Scarpellini,  som- 
ministrando ampio  e  comodo  appartamento  per  conservarle.  Mu- 
tate poco  dopo  le  condizioni  politiche  in  grazia  della  battaglia  di 
Marengo,  successo  a  Pio  VI,  morto  in  esiglio,  Pio  VII  e  bandito 
un  generale  indulto  per  fatti  politici,  gli  uomini  dotti  ed  alcuni 
membri  della  società  Umbro-Fuccioli,  usi  a  convenire  nel  palazzo 
Caetani  stabilirono  di  fondare  un'Accademia  in  principio  del  1801, 
la  quale  per  gratitudine  al  duca  fu  denominata  Caetani-  Fu  inau- 
gurata con  discorso  del  suo  primo  presidente,  Gioacchino  Pessuti, 
il  16  aprile  1801;  quindi  sulla  proposta  dal  presidente  fatta  in 
questo  suo  discorso,  e  certo  d'accordo  col  duca  Caetani,  fu  chiamata 
dei  Nuovi  Lincei,  col  qual  nome  compariva  la  prima  volta  nel 
12  febbraio  1802;   finalmente  nel   1804    si  depose    l'aggiunta   di 
Nuovi  e  si  ritornò  alla  primitiva  denominazione.  Gioacchino  Pes- 
suti, nato  in  Roma  l'il  aprile  1743,  era  non  solo  un  valoroso  ma- 
tematico e  professore  all'Università  romana,  la  Sapienza,  ma  an- 
cora virtuoso  ed  onestissimo  cittadino,  amante  della  patria  e  della 
sua  libertà,  non  però  della  licenza,  odiando  fieramente  la  sogge- 
zione alle  soldatesche  straniere,  in  nome  di  Bruto  e  Catone  deva- 
statrici e  distruggitrici  d'ogni   nostra  fortuna   e   gloria.   Serbò, 
finché  visse,  puro  e  dignitoso  contegno,  e  prima  di  morire,  nel  1814, 
rispose  ancora  al  grido  d'indipendenza  e  d'unità  levato  da  Gioac- 
chino Murat.  Ottimo  augurio  pertanto  annunziava  il  concetto  del 
Pessuti;  alla  società  si  aggregarono  provetti  e  celebrati  uomini, 
che  la  posero  in  onore  ;  l'abate  Feliciano  Scarpellini  fu  nominato 
segretario  perpetuo.  Ma,  appena   rinata  l'antica  Accademia  dei 
Lincei,  ecco  ricominciare  le  vecchie  persecuzioni;  non  ostante  l'in- 
dulto pontificio,  ecco  monsignor  governatore   di   Roma  chiamare 
a  sé  il  duca  Caetani,  segnargli  con  una  crocetta  nell'albo  accade- 
mico sette  nomi  di  soci  inscritti,  tra  i  quali  pel  primo  quello  di 

YoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  1879.  iO 


146  l'accademia  dei  lincei. 

Gioacchino  Pessuti,  e  per  le  loro  opinioni  liberali  intimargli  di 
cassarli,  Francesco  Caetani  si  rivolse  tosto  con  una  lettera  al 
cardinale  Consalvi  segretario  di  Stato,  il  quale,  fatto  cliiamare  a 
sé  il  Caetani,  gli  concesse  tutto  quello  che  con  belle  e  sante 
ragioni  gli  domandava,  e  i  sette  Lincei  furono  conservati.  In  ap- 
presso l'abate  Scarpellini  fu  restituito  alla  sua  cattedra  del  Col- 
legio Romano,  e  lo  zelo  che  aveva  dimostrato  per  la  sua  società 
Umbro-Fuccioli,  usò  pure  per  l'Accademia  dei  Lincei,  che  egli 
considerava  come  una  continuazione  della  sua  propria;  ed  anzi 
ne  fece  una  cosa  sola,  ponendo  ai  Lincei  restaurati  la  data  del  1795, 
sebbene  la  cronologia  noi  consentisse. 

vn. 

Dal  1801  al  1807  l'Accademia  dei  Lincei  ebbe  stanza  nel  palazzo 
del  duca  di  Sermoneta,  reggendosi  dal  più  al  meno  colle  leggi  mede- 
sime stabilite  dallo  Scarpellini  nel  1799  per  la  sua  propria  Compa- 
gnia, tralasciando  però  quella  troppo  rapida  permutazione  degli  uf- 
fici, che  a  nulla  approdava;  e  di  fatto,  come  dissi,  lo  Scarpellini  era 
stato  costituito  segretario  perpetuo.  Trovandosi  poi  libero  il  locale 
già  appartenente  al  collegio  Umbro-Fuccioli,  ed  avendo  la  Società, 
per  suggerimento  dello  Scarpellini,  fatto  ricorso  al  pontefice  Pio  VII 
per  poterlo  occupare  essa,  domandando  che  il  governo  pagasse 
la  pigione  di  dugento  scudi,  il  pontefice  acconsenti,  e  i  Lincei 
ebbero  sede  quasi  propria,  dove  insieme  colle  altre  cose  traspor- 
tarono il  ga])inetto  di  fisica  Scarpelliniano,  Adunque  il  17  ago- 
sto 1807,  giorno  anniversario  della  fondazione  nel  1603,  l'Acca- 
demia convenne  nella  nuova  sede,  lieta  di  avere  diretta  speciale 
protezione  del  Governo;  onde  la  sala  delle  adunanze  fu  adornata 
dei  busti  nel  tempo  stesso  del  Pontefice,  di  Federico  Cesi  e  del 
duca  Francesco  Caetani  di  Sermoneta.  Onorarono  e  si  resero  be- 
nemeriti dell'Accademia  anche  Antonio  Canova  e  il  cardinale 
Fesch;  ecco  il  cenno  ufficiale  della  nomina  del  grantle  scultore  : 
«  Il  15  agosto  1803  fu  nominato  membro  d'onore  il  chiarissimo 
cavaliere  Antonio  Canova  marchese  d'Ischia,  presidente  perpetuo 
dell'Accademia  di  S.  Luca,  in  considerazione  della  celebrità  che 
acquistò  colle  famose  sue  produzioni,  del  favore  che  accorda  alle 
scienze  ed  alle  belle  arti  sorelle,  e  degli  incoraggiamenti  che 
generosamente  appresta  alla  nostra  Accademia.  »  —  Nell'adunanza 
del  27  marzo  del  1806  intervenne  l'eminentissimo  cardinale  Giu- 
seppe Fesch,  ministro  plenipotenziario  presso  la   Santa  Sede  di 


l'accademia  dei  lincei.  147 

S.  M.  V imperatore  dei  Francesi  e  re  tV Italia,  il  quale  sommini- 
strava i  mezzi  necessari  per  l'istruzione,  che  i  giovani  ricevevano 
cogli  esperimenti  accademici,  onde  si  confermavano  le  teorie  delle 
scienze  fisiche  e  della  chimica.  Mutato  di  bel  nuovo  l'ordinamento 
politico,  il  governo  napoleonico  non  solo  continuò  a  pagare  per 
l'Accademia  dei  Lincei  l'affitto  della  residenza,  ma  le  assegnò 
eziandio  un  annuo  sussidio  di  lire  2500,  e  vi  furono  ascritti  il 
generale  Miollis  quale  socio  d'onore,  e  Griuseppe  Maria  De  ae- 
rando socio  ordinario.  L'abate  Scarpellini  fu  insignito  della  croce 
della  Legion  d'onore  ed  eletto  deputato  al  corpo  legislativo  di 
Parigi,  dove  si  condusse  durante  le  brevi  sessioni  degli  anni  1811, 
1812,  1813,  più  assiduo  alle  tornate  dell'Istituto  nazionale  che 
alle  legislative,  non  deponendo  però  mai,  né  in  mezzo  ai  dotti, 
né  tra  i  deputati,  il  suo  abito  sacerdotale. 

Nel  1813  si  pensò  alla  riforma  delle  leggi  accademiche  da 
parecchi  anni  desiderata;  ma  pure  gli  statuti  di  quest'anno  non 
aprirono  le  porte  dell'Accademia  né  ai  cultori  dell'economia  po- 
litica, siccome  già  fin  dal  1808  proponeva  monsignor  Nicolai,  né 
agli  studiosi  della  filologia,  come  raccomandava  Luigi  Marini; 
onde  gli  studi  e  le  ricerche  dei  Lincei  si  restrinsero  alle  scienze 
matematiche,  fisiche  e  naturali  e  a  tutte  le  arti  che  ne  dipen- 
dono. Fra  gli  altri  articoli  fu  pure  approvato  quello,  a  forma 
del  quale  l'Accademia  doveva  soddisfare  alle  richieste  del  go- 
verno sopra  le  materie  analoghe  al  suo  istituto;  ed  il  governo 
s'obbligava  da  parte  sua  ad  un  sussidio  per  le  medaglie  ai  soci 
e  per  le  altre  spese  di  cancelleria.  Caduto  Napoleone,  l'abate 
Scarpellini  fu  privato  un'altra  volta  della  sua  cattedra  nel  Col- 
legio romano;  ma  due  anni  appresso,  quasi  a  ricompensa  dei  danni 
e  dell'onta  sofferta,  era  deputato  a  insegnare  la  fisica  sacra  nel- 
l'Università. All'Accademia  dei  Lincei  fu  conservata  la  sua  resi- 
denza, ma  tolto  il  sussidio;  unico  sostegno  le  restava  il  povero 
abate  Scarpellini.  Antonio  Canova  poi  le  assegnò  un'annua  dote 
di  cento  e  dieci  scudi,  al  qual  legato  non  molto  dopo  rinunziò 
la  stessa  Accademia,  né  s'è  venuto  finora  a  scoprirne  la  ragione. 
Venendo  meno,  o  non  bastando  gli  aiuti  nazionali  per  le  espe- 
rienze scientifiche  e  per  la  conservazione  della  Società,  l'abate 
Scarpellini  li  cercò  e  li  trovò  specialmente  nei  diplomatici  resi- 
denti presso  la  Santa  Sede;  per  la  qual  cosa  vediamo  nel  1818  a 
parecchi  di  costoro  conferito  il  diploma  di  socio  d'onore. 

Nel  1824  a  Pio  VII  successe  Leone  XII  e  promesso  il  fab- 
bricato  del  Collegio  Umbro-Fuccioli,  sede  dell'Accademia,  al  Col- 


148  l'accademia  dei  lincei. 

legio  germanico  diretto  dai  Gesuiti,  per  poco  l'Accademia  col  suo 

gabinetto  e  con  tutte  le  altre  suppellettili  non  rimase  senza  sede: 

10  stesso  cardinale  della  Somagli?,,  pro-segretario  di  Stato,  scri- 
veva una  lettera  allo  Scarpellini  intimandogli  lo  sgombero  del 
locale.  Si  ricorse  al  patrocinio  straniero,  e  in  grazia  dell'intervento 
del  conte  di  Funchal,  ambasciatore  del  Portogallo,  e  dei  buoni  uf- 
fici del  cardinal  Pacca,  il  Groverno,  accordatosi  col  principe  Al- 
tieri, senatore  di  Eoraa,  assegnò  definitivamente  all'Accademia  le 
stanze  del  secondo  piano  del  Campidoglio,  spendendovi  pel  riadat- 
tamento la  somma  di  tre  mila  scudi.  La  prima  adunanza  nella 
nuova  sede  fu  tenuta  il  26  luglio  1826,  inaugurata  dallo  Scarpel- 
lini con  un  discorso  intorno  a  Federico  Cesi  e  ai  doveri  accademici. 

11  cardinal  Camerlengo  era  stato,  secondo  l'uso  romano,  nominato 
protettore;  papa  Leone  con  rescritto  del  28  luglio  1828  fece  fa- 
coltà all'Accademia  di  stampare  le  sue  Memorie  per  mezzo  della 
stamperia  Camerale;  inoltre  fece  costruire  la  specola,  apertasi  nella 
tornata  del  27  luglio  1829.  Morì  in  quest'anno  medesimo  papa 
Leone,  ed  anche,  dopo  venti  mesi  di  pontificato,  il  successore  di 
lui  Pio  Vili;  ed  eletto  il  2  febbraio  1831  Gregorio  XVI,  chiuse 
l'Università  Romana,  fece  tacere  il  pubblico  insegnamento  ed  abolì 
tutte  le  scientifiche  iidunanze;  i  Lincei  non  ebbero  facoltà  di  adu- 
narsi che  il  28  luglio  1833.  Temeva  lo  Scarpellini  che  l'Accademia, 
come  già  colla  morte  del  Cesi,  insieme  con  lui  si  estinguesse,  e 
con  uno  scritto  al  Pontefice  nel  1834  ed  altro  nel  1835  si  racco- 
mandò, perchè  il  Governo  prendesse  la  Società  sotto  la  sua  pro- 
tezione, assicurandone  con  un  sussidio  l'esistenza  futura,  e  com- 
perasse le  macchine  e  gli  strumenti  suoi.  Percio.'chè  il  gabinetto 
di  fisica  era  proprietà  dello  Scarpellini,  e  rappresentava  l'unica 
sua  s'ostanza,  che  intendeva  lasciare  in  eredità  alla  famiglia  di  un 
fratello  amato  e  non  ricco.  Era  il  frutto  dei  risparmi,  delle  priva- 
zioni e  perfino  dei  digiuni,  com'egli  stesso  scriveva  in  una  sua  let- 
tera, di  un  povero  prete  durati  per  lo  spazio  di  cinquant'anni;  era 
anche  l'opera  del  suo  ingegno  e  delle  sue  mani,  perchè,  siccome  si 
è  detto,  buona  parte  degli  strumenti  erano  stati  da  lui  stesso  fab- 
bricati 0  perfezionati.  Ed  il  Governo  accolse  per  metà  le  pietose 
istanze  del  vecchio  benemerito;  con  p^tto  rogato  il  21  luglio  1840 
comperava  il  gabinetto  di  fisica,  ma  all'Accademia  non  assegnò 
alcuna  provvisione.  L'abate  Scarpellini  moriva  il  29  novembre  di 
quest'anno  medesimo  1840  e  si  verificarono  pur  troppo  i  suoi  ti- 
mori per  l'Accademia,  la  quale  in  sulle  prime  con  diversi  modi 
travagliata  e  sospesa,  fu  poi  tenuta  definitivamente  chiusa. 


l'accademia  dei  lincei.  149 

Dal  1801  al  1840  l'Accademia  contava  39  anni  di  esistenza, 
e  quanti  valent'uomini  coltivarono  in  quel  frattempo  le  scienze 
fisiche  e  matematiche  vi  appartennero.  I  loro  scritti  non  furono 
mandati  alla  luce  in  volumi  accademici  secondo  il  prescritto,  e 
la  facoltà  concessa  da  papa  Leone;  e  per  questa  parte  l'abate 
Scarpellini  si  mostrò  inferiore  al  principe  Federico  Cesi.  Nel  1840 
le  Memorie  lette  nell'Accademia  sommavano  a  più  di  350;  alcune 
soltanto  furono  stampate  separatamente,  ed  altre  inserite  in  rac- 
colte diverse.  Fra  gl'incarichi  eseguiti  dall'Accademia  per  com- 
missione del  Governo  napoleonico,  il  principale  fu  quello  affida- 
tole nel  1809  per  la  introduzione  del  sistema  metrico.  Vi  presero 
parte  gli  accademici  Pessuti,  Monchini,  Calandrelli,  Oddi,  Lenotte, 
Folchi,  Provinciali  e  Scarpellini;  ed  anzi  costui  immaginò  pure 
una  bilancia  di  precisione,  premiata  con  medaglia  d'oro  da  Na- 
poleone I  ;  le  operazioni  di  tale  Giunta  per  lo  stabilimento  del 
sistema  metrico  furono  pubblicate  nel  1811.  Il  Governo  pontificio 
ricorse  più  d'una  volta  alla  s'^ienza  ed  all'opera  dei  Lincei.  L'abate 
Scarpellini  fomentò  a  suo  potere  i  progressi  della  scienza,  aiu- 
tando egli  stesso  i  suoi  cultori  con  tutte  le  forze,  e  ricorrendo, 
quando  le  sue  forze  più  non  gli  bastassero,  alla  munificenza  di 
qualche  potente  signore;  e  così  egli  fece  per  l'inventore  dei  ri- 
flettori ad  uso  dei  grandi  telescopi,  che  fu  Alberto  Gatti  del  cir- 
condario d'Alba.  L'abate  Scarpellini  lo  raccomandò  alla  nota  ge- 
nerosità del  principe  Alessandro  Torlonia,  che  non  venne  meno 
né  al  Gatti,  né  al  suo  allievo,  Pietro  Belli  da  Voghera;  onde 
nelle  stanze  accademiche  a  spese  del  principe  si  condusse  a  fine 
un  riflettore  di  otto  piedi  di  foco  e  del  diametro  di  sedici  pollici. 
Con  esso  il  principe  fece  costruire  un  telescopio  catadriottico,  cui 
donò  all'Accademia,  facendo  anche  costruire  presso  la  specola  una 
camera  per  collocarvelo.  E  nel  1835  l'abate  Scarpellini  leggeva 
una  Memoria  sui  riflettori  del  Gatti,  persuadendosi  che  un  grande 
profitto  ne  verrebbe  alla  scienza  e  ne  durerebbe  l'uso.  Alberto 
Gatti  morì  di  75  anni  il  14  dicembre  1840,  pochi  giorni  dopo  lo 
Scarpellini;  era  socio  corrispondente  della  Kegia  Accademia  delle 
Scienze  di  Torino.  Pietro  Belli  suo  allievo  compose  altri  riflet- 
tori; ma  dopo  la  morte  sua  il  metodo  dei  due  piemontesi  non  fu 
più  seguito. 


150  l'accademia  dei  lincei. 


vili. 


Il  terzo  risorgimento  si  deve  a  Don  Mario  Massimo  duca  di 
Rignano,  al  professor  Paolo  Volpicelli  e  ad  altri  antichi  soci,  i 
quali  si  adoperarono,  affinchè  il  Governo  stesso,  posto  dal  novello 
Pontefice  su  nuova  via,  concedesse  che  l'Accademia  fosse  non  solo 
riaperta,  ma  per  pubblico  decreto  costituita  e  dotata. 

E  la  domanda  sostenuta  dal  Cardinal  Altieri,  figlio  del  prin- 
cipe Altieri  senatore  di  Roma  e  già  amico  e  difensore  dell'Acca- 
demia, fu  accolta  favorevolmente,  e  nel  3  luglio  1847  uscì  il  nuovo 
statuto  deW Accademia  Pontificia  dei  nuovi  Lincei;  che  fu  resti- 
tuita nella  sua  sede  al  Campidoglio,  assegnandole  la  dotazione  di 
cento  scudi  mensili.  Fu  nominato  presidente  D.  Mario  Massimo, 
duca  di  Rignano,  personaggio  per  dottrina,  liberalità  di  sensi  e 
natali  cospicuo  ed  amato;  vice -presidente  il  duca  D.  Pietro  Ode- 
scalchi,  uomo  di  buone  lettere  ;  bibliotecario  il  principe  D.  Bal- 
dassarre Boncompagni,  instancabile  ricercatore  della  storia  delle 
scienze  fisiche  e  matematiche;  segretario  il  prof.  Paolo  Volpicelli, 
già  chiaro  nelle  discipline  fisiche  e  principale  compilatore  degli 
Statuti.  Lasciando  le  vessazioni  sofferte  per  cause  politiche,  io  mi 
restringerò  a  far  notare  col  barone  Carutti,  che  del  buono  anda- 
mento interno  della  Società  vuoisi  saper  grado  ai  varii  Presidenti 
e  al  prof.  Paolo  Volpicelli,  tre  volte  segretario,  cioè  per  tren- 
t'anni.  Notevoli  doni  di  manoscritti  e  di  libri  furono  fatti  da  al- 
cuni soci,  donde  ebbe  origine  la  biblioteca  linceana.  11  principe 
Boncompagni  donò  i  busti  degli  antichi  Lincei,  il  Porta  e  il  Ga- 
lileo; il  duca  Massimo  quello  dell'abate  Scarpellini. 

Ognuno  sa  come  nel  1870  riunita  Roma  alla  restante  Italia 
e  fatta  capitale  del  Regno,  insieme  con  altre  nazionali  glorie  fu 
riacquistata  la  gloria  di  questa  Società  la  quale  prese  il  nome 
di  Reale  Accademia  de" Lincei,  aggiungendovi  la  classe  delle  scienze 
morali,  storiche  e  filologiche,  di  cui  e  nel  primitivo  concetto  dei 
fondatori  e  nel  disegno  del  primo  restauratore,  Giovanni  Bianchi, 
esisteva  qualche  traccia.  Il  rinnovamento  deirAccademia  è  merito 
di  Quintino  Sella,  come  è  noto,  e  gli  statuti  nuovi,  approvati  nella 
seduta  del  25  gennaio  1875,  furono  sanciti  con  R.  Decreto  14 
febbraio  dello  stesso  anno. 


l'accademia  dei  lincei.  151 

E  qui  finisco  la  narrazione  delle  vicende  dell'Accademia  la- 
sciando che  altri  discorra  della  insolita  operosità,  di  cui  essa  porge 
ora  documento  a  vantaggio  della  scienza  e  onore  d'Italia.  ^ 

Carlo  Giambelli. 


1  Gli  atti  dell'  Accademia  dei  Lincei  dal  terzo  suo  risorgimento  all'anno  181*7 
constano  di  due  serie.  La  prima  ha  XXVI  volumi.  I  XXIII  primi  portano  il  titolo  : 
Atti  deir Accademia  poìitificia  dei  Nuovi  Lincei  ;  cominciano  coU'anno  1850  e  fini- 
scono col  1869.  I  tre  ultimi  volumi  portano  il  titolo  :  Atti  della  R.  Accademia  dei 
Lincei  (1810-1813).  Vuoisi  notare  che  i  volumi  III,  Vili  e  IX  furono  pubblicati  sol- 
tanto nel  1874. 

La  seconda  serie  comprende  dieci  volumi,  nei  quali  sarà  compresa  la  stampa 
del   Codex  Astensis,  per  cura  di  Q.  Sella. 

Coiranno  accademico  1816-11  fu  incominciata  la  terza  serie  che  d  videsi  in 
tre  parti  distinte:  i  volumi  dei  Transunti,  i  volumi  delle  Memorie  della  classe  di 
scienze  fisiche,  tnatematiche  e  naturali,  e  i  volumi  delle  Memorie  della  classe  di 
scienze  morali,  storiche  e  filologiche. 


RASSESM  DELLE  LETTERATURE  STRAl^IERE 


L'ideale  del  principe  malese  —  La  religione  vedica  —  Un  nuovo  poemetto  filosofico 
indiano  — Le  letture  del  Miiller  sopra  l'origine  e  lo  svolgimento  delle  religioni 
indiane  —  La  Mitologia  greca  del  Decharme  —  Il  Dizionario  delle  antichità 
greche  e  romane  —  Una  nuova  storia  della  Persia  —  Nuovi  romanzi  della 
Bentzon,  di  Laura  Surville,  di  F.  Fabre,  di  L.  Hennique,  di  E.  Cadol. 


Della  letteratura  malese  i  cultori  che  si  contano  in  Europa  arrivereb- 
bero forse  a  qualche  diecina;  ma  il  maggior  numero  di  questi  cultori  si 
trovano  in  Olanda;  e  gli  Olandesi  sono  buoni  patrioti  che  scrivono  volen- 
tieri la  loro  lingua.  Sebbene  il  tradurre  dall'olandese  sia  certamente  molto 
più  tacile  che  il  tradurre  dal  malese,  poiché  il  maggior  numero  de'  lettori 
ha  fretta,  gli  scrittori  olandesi  che  hanno  scritto  della  INIalesia  non  ebbero 
la  fortuna  di  firsi  leggere  oltre  i  confini  della  loro  patria  e  rimangono  perciò 
ignorati.  Più  fortunato  può  <lirsi  ora  l'egregio  orientalista  francese  abate 
Aristide  Marre,  il  quale,  avendoci  ora  offerta  tradotta  in  francese  la  «Co- 
rona dei  Re»  [MaJwta  ragia-ragia]  di  Bokliàri  di  Giolior,  '  può  essere  si- 
curo che  troverà,  fra  i  suoi  lettori,  oltre  ad  alcuni  pochi  dotti  che  rico- 
noscei^anno  il  pregio  della  sua  versione,  molti  leltori  curiosi  di  sapere  in 
qual  modo  i  Machiavelli,  del  resto,  molto  diminutivi,  della  Malesia  am- 
maestrino i  loro  principi  nel!'  arte  del  regno.  Il  MaJwta  ragia-ràgia  è 
un'opera  che  fu  composta  nell'anno  1603  da  Bokhùridi  Giohor,  città  la  quale 
divenne  la  capitale  dei  sultani  malesi  della  penisola,  dopo  che,  nel  1511, 
l'Albuquerque  ebbe  conquistata  Malacca.  L'opera  è  una  specie  d'antologia 
fatta  coi  brani  estratti  da  una  cinquantina  d'autori  arabi  e  persiani,  con 
l'intento  di  dimostrare  quali  sono  i  doveri  dell'uomo,  da  prima  verso  sé 
stesso,  poi  verso  Dio  e  verso  la  società;  i  doveri  reciproci  de' principi  e 
de' popoli;  i  doveri  de' ministri,  degli  ambasciatori,  degli  scrittori  ed  uffi- 
ciali dello  stato.  Numerosi  esempli  derivati  dalla  storia  de'  più  celebri  mo- 

*  Paris,  Maisonneuve. 


RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE   STRANIERE.  153 

narchi  dell'Asia  fanno  del  liljro  una  specie  di  «  Morale  en  action  »  orien- 
tale, non  priva  di  una  certa  importanza.  Bokhàri  è  un  maomettano  molto 
ortodosso  ;  perciò,  con  una  speciale  venerazione,  egli  non  solo  traduce  i  ver- 
setti del  Corano,  ma  li  riproduce  nel  loro  testo  originale.  Il  traduttore  fran- 
cese (un  abate,  come  dissi),  non  avendo  gli  stessi  scrupoli,  ci  ha  fatta  gra- 
zia per  queste  citazioni;  ed  ogni  lettore  europeo  glie  ne  avrà  obbligo, 
posto  che  i  libri  si  traducano  per  farsi  leggere.  Neil'  ultimo  capitolo  del 
libro,  un  apologista  di  Bokhàri  promette  a  quelli  che  leggeranno  e  con- 
serveranno diligentemente  il  libro,  a  quelli  che  se  lo  faranno  leggere,  a 
quelli  che  lo  copieranno,  a  quelli  che  Io  collazioneranno,  a  quelli  che  lo  tra- 
durranno, l'eterna  beatitudine  ;  questa  grazia  è  dunque  ora  assicurata  al- 
l'olandese  Roorda  van  Eissjnga  che  nel  1827  traduceva  dalla  sua  lingua 
l'opera  del  moralista  di  ISIalacca  e  all'abate  Marre  che  viene  a  rendercela 
maggiormente  famigliare,  per  mezzo  della  lingua  francese.  L'  apologista 
compilatore  dell'opera  del  fachiro  Bokhàri  ci  dà  egli  stesso  l'enumerazione  dei 
ventiquattro  capitoli  nei  quali  vuoisi  che  l'opera  originaria  fosse  divisa. 
Il  primo  insegna  all'uomo  a  conoscere  sé  stesso,  cioè  a  conoscere  l'origine 
e  la  natura  del  proprio  essere;  il  secondo  capitolo  insegna  a  conoscere  il 
Signore  creatore  del  mondo  ;  il  terzo  capitolo  a  conoscere  il  mondo  e  la 
vita  dell'uomo  nel  mondo;  il  capitolo  quarto  a  conoscere  il  fine  della  vita 
dell'  uomo  e  quello  che  si  chiama  1'  ultimo  spiro  sul  punto  di  morte  ;  il 
capìtolo  quinto  rappresenta  la  dignità  sovrana  del  re,  del  sultano  ;  il  capitolo 
sesto  la  giustizia  e  il  modo  di  praticarla;  il  capitolo  settimo  il  carattere  dei 
re  giusti,  facendo  menzione  di  quelli  che  hanno  veramente  praticata  la  giusti- 
zia; il  capitolo  ottavo  fa  conoscere  come  alcuni  re  infedeli  abbiano  governato 
con  giustizia;  il  capitolo  nono,  la  tirannide  e  gli  atti  de' tiranni;  il  capitolo  de- 
cimo, la  dignità  de' ministri;  il  capitolo  undecime  l'ufficio  degli  storiografi 
e  scrittori  ufficiali  ;  il  capitolo  dodicesimo,  l'ufficio  di  ambasciatore  ;  il  ca- 
pitolo decimoterzo,  l'ufficio  di  agente  del  re  ;  il  capitolo  deeimoquarto,  for- 
nisce i  precetti  per  l'educazione  de'  fanciulli  ;  il  capitolo  deeimoquinto  de- 
finisce la  vera  grandezza  del  carattere;  il  capitolo  sedicesimo  studia,  un 
po' diversamente  dal  Taine,  la  natura  dell'intelligenza;  il  capitolo  decimo- 
settimo espone  le  regole  alle  quali  è  sottoposto  il  reggimento  del  prin- 
cipe; il  capitolo  decimottavo  studia  gli  istinti  ed  i  gesti;  il  capitolo  decimo- 
nono prosegue  lo  stesso  argomento  con  l'esame  de'  segni  particolari  carat- 
teristici; il  capitolo  ventesimo  fa  conoscere  quale  deve  essere  la  condotta 
dei  re  nel  governo  de' sudditi;  il  capitolo  ventesimo  primo  espone  il  reg- 
gimento al  quale  si  trovano  sottoposti  i  sudditi  non  musulmani  sotto  il 
governo  di  re  musulmani;  il  capitolo  ventesimo  secondo  definisce  laverà 
natura  della  generosità  e  della  beneficenza;  il  capitolo  ventesimo  terzo 
definisce  la  lealtà,  ossia  l'osservanza  degl'impegni  presi,  delle  promesse 
date;   il   ventesimo  quarto  conchiude  l'opera.  Da  questa  semplice  enume- 


154  EASSEGNA   DELLE   LETTERATURE   STRANIERE. 

raziono  degli  argomenti  esposti  nell'opera  è  agevole  rilevarne,  ad  un  tempo, 
il  disordine  come  opera  letteraria  e  la  sua  pretesa  enciclopedica,  onde  si 
raccomanda  ai  Malesi  come  un  libro  di  universale,  civile  e  morale  sapienza. 
A  noi  importa,  senza  dubbio,  assai  meno,  ma  non  è  inutile  neppure,  poi- 
ché raccoglie  insieme  numerose  creilenze  maomettane  che  si  trovano  sparse 
in  diverse  opere  musulmane,  e,  oltre  a  questo,  poiché  le  immagini  poetiche 
e  popolari  del  fachiro  Bokhàri  hanno  pure  qualche  colore  di  originalità. 
Bokhàri  parla,  per  lo  più,  in  versetti  aforistici,  che  il  suo  compilatore 
amplifica.  Citerò  alcuna  di  queste  sue  sentenze;  ai  vanagloriosi  che  si 
pompeggiano,  egli  dice:  «Se  lo  specchio  non  brilla,  é  un  pezzo  di  ferro, 
e  nulla  più  ;  smettf3te  dal  glorificarvi  da  voi  stessi,  non  perdetevi  in  vani 
giuochi  da  fonciulli.  Il  rubino  brilla  soltanto  pel  suo  splendore;  se  questo 
splendore  lo  abbandona,  che  cosa  diverrebbe,  io  ve  lo  domando,  un  rubinola 
niente  più  che  una  rozza  pietra  inutile  »  Anche  Bokhàri  predica  l'ugua- 
glianza degli  uomini  innanzi  alla  miseria  della  vita  ed  alla  morte  «  Se 
tu  osservi  sopra  la  terra  qual  é  lo  stato  degli  uomini,  tu  non  riconosce- 
rai differenza  alcuna  fra  il  suddito  ed  il  sultano;  tutto  quanto  esiste  è 
destinato  a  perire  ;  ascolta,  o  uomo,  la  parola  di  Dio  :  tutto  ciò  che  si  trova 
sopra  la  terra  muore.  »  Bokhàri,  come  Salomone,  come  Giobbe,  come  Buddha, 
sente  la  profonda  miseria  del  vivere  mortale,  ed  esclama  anch'esso  :  «  Dal 
principio  al  fine,  non  vi  é  altro  che  pena  e  dolore  »  ;  ma  si  consola  nella 
virtù  che,  praticata  in  questa  vita  mortale,  assicura  la  beatitudine  della 
vita  eterna.  Dopo  avere  trovata  così  la  soluzione  de'  suoi  dubbi  tormen- 
tosi, Bokhàri  esalta  sé  stesso  con  queste  parole  :  «  0  Bokhàri,  ora  tu  hai 
detto,  non  aggiungere  altro  ;  il  fondamento  di  tutto  il  sapere  sta,  di  certo, 
nelle  ultime  parole  da  te  proferite.  » 

Il  Semita  é  monoteista;  Bokhàri  afferma  che  il  mondo  perirebbe  se  vi  fos- 
sero due  Dei  supremi.  La  contemplazione  stessa  del  mondo  vario  persuade 
Bokhàri  che  uno  solo  può  essere  il  sovrano  reggitore  di  tanta  varietà  di  cose 
A  questo  nume  supremo,  Bokhàr'i,  come  Salomone,  domanda,  qual  dono  su- 
premo, la  salute  dell'intelletto  «L'intelligenza,  egli  esclama,  é  la  fonte 
della  bontà;  la  bontà  é  una  dote  dell'intelligenza.  L'uomo  intelligente  è 
ricco,  luomo  privo  d'intelligenza  é  povero.  Se  tu  possedessi  anche  tutti  i 
tesori  del  mondo,  quando  mancasse  l'intelligenza,  il  nome  tuo  sarebbe  mi- 
serabile, e  tu  stesso  sai*esti  povero  e  misero  Se  tu  vuoi  dunque  veramente 
arricchire,  chiedi  a  Dio  che  l'intelletto  risplenda  in  te.  0  mìo  Signore  !  Bokhàri, 
secondo  il  suo  consueto,  ti  domanda  la  sanità  del  proprio  intelletto  »  E, 
con  ciò,  il  buon  fachiro  s'immagina  aver  dichiarato  la  natura  dell'in- 
telligenza; credendo  che  questo  saggio  basti  a  dar  la  misura  dell'ingegno 
proprio  di  Bokhàri,  procediamo  oltre  nell'esame  di  alcune  opere  relative 
alla  storia  delle  idee  religiose  in  Oriente. 

Il  professore  Abele  Bergaigne  e'  introduce,  in  modo  nuovo,  nello  studio 


RASSEGNA   DELLE    LETTERATURE    STRANIERE.  155 

della  religione  vedica  da  lui  studiata  particolarmente  negl'inni  del  Rigveda. 
Tutto  ciò  che  si  è  scritto  fin  qui  sopra  la  religione  e  la  mitologia  vedica 
Ila  suo  fondamento  sopra  questi  inni:  ma  noi  siamo  ancora  molto  lontani 
dal  poter  dire  che  la  interpretazione  che  fu  data  fin  qui  degl'  inni  vedici 
sia  tutta  intieramente  sicura.  Questo  libro  del  Bergaigne,  in  ogni  modo,  viene 
a  provarlo;  e,  per  quanto  ci  costi  il  confessare  che  una  parte  dell'edifìzlo 
ideale  che  si  levò  sopra  la  base  delle  interpretazioni  vediche  della  scuola  te- 
desca del  dottissimo  Roth  e  de'  suoi  seguaci  si  trovi  minacciato  dalla  critica 
filologica  intrapresa  dal  Bergaigne  sopita  il  t(>sto  del  Kigvoda,  sebbene  non 
disposti  ad  accettare  tutte  le  sue  conclusioni,  non  si  può  negare  l'evidenza 
di  alcune  sue  dimostrazioni.  Il  Bergaigne  accusa  la  scuola  critica  tedesca 
di  avere  troppo  spesso  dato,  nel  lessico  vedico,  un  senso  diverso  alle  stesse 
parole  unicamente  per  farle  obbedienti  ad  un  loro  sistema  preconcetto 
d'interpretazione.  L'accusa  è  molto  grave;  per  giu!?tiflcarla,  il  professor 
Bergaigne  scrisse  un  libro.  Ma  non  si  può  dire  eh'  egli  medesimo  sia  libero 
da  preconcetti.  Egli  pure  è  partito  da  una  base  ideale  prima  di  stabilire 
la  sua  nuova  classificazione  di  parole  vediche,  alle  quali  egli  attribuisce 
generalmente  una  grande  stabilità  sopra  una  stessa  idea  fondamentale,  che 
per  lui  è  quasi  sempre  un'  idea  religiosa  Ogni  preconcetto  che  si  fa  centro 
d'un  sistema,  porta  il  sistema  stesso  all'esagerazione.  Ora,  se  può  essere 
che  il  Roth  e  i  suoi  compagni  e  discepoli  abbiano  ecceduto  in  un  senso,  mi 
pare  che  talora  il  Bergaigne  ecceda  nel  sistema  opposto  e,  restringendo  di 
soverchio  l' alto  e  complesso  significato  ideale  della  poesia  vedica,  restringa 
pure  di  troppo  e  troppo  sistematicamente  il  significato  delle  parole  vediche. 
Il  modo  generale  di  concepire  l' interpretazione  vedica  che  divenne  ora 
proprio  del  Bergaigne,  fu  già  quello  del  commentatore  indiano  Sàyana,  e 
più  tardi  quello  del  traduttore  francese  Langlois;  entrambi  non  vedevano 
quasi  altro  negli  inni  vedici  che  preghiere  e  sacrificii;  ma  il  Bergaigne 
ebbe  il  merito  di  adoperare  il  rigore  del  metodo  filologico  in  questo  vieto 
sistema  d'interpretazione  puramente  tradizionale.  Egli  poi  viene  primo  ancora 
a  indicare  con  precisione  la  ragione  filosofica  per  la  quale  il  sacrificio  vedico 
rinnovava  in  sé  stesso  tutta  la  rappresentazione  mitologica  de'  fenomeni 
celesti  :  «  Se  ora,  egli  scrive,  si  domandi  quale  poteva  essere  l' importanza 
di  un  sacrificio  concepito  come  una  imitazione  dei  fenomeni  celesti,  vi  si 
riconoscerà,  senza  dubbio,  sotto  la  forma  particolare  di  un  culto  naturali- 
stico, una  di  quelle  pratiche  che  consistono  nel  produrre  in  effigie  ciò  che 
si  desidera  di  veder  succedere  in  realtà,  pratiche  comuni  alla  maggior 
parte  de'  popoli  primitivi,  e  persistente  pure  in  uno  stato  di  civiltà  abba- 
stanza avanzata,  come  quella  per  esempio  che  il  nostro  medio-evo  rappre- 
sentava sotto  il  nome  di  envoùtement.  Il  sacrificio  vedico,  regolato  secondo 
le  ore  del  giorno  e  le  stagioni  dell'  anno,  aveva  per  oggetto  di  assicurare 
il  mantenimento  dell'  ordine  naturale  del  mondo,  sia  ne'  fenomeni  solari. 


156  RASSEGNA  DELLE   LETTERATURE   STRANIERE. 

sia,  particolarmente,  ne'  fenomeni  meteorologici  meno  regolari,  od  anche 
di  affrettare  la  produzione  di  questi  ultimi,  a  seconda  degli  umani  desiderii. 
In  altri  termini,  era  questo  un  modo  di  far  cadere  la  pioggia,  effettuando, 
per  le  rappresentazioni  terrestri  delle  acque  della  nuvola  e  del  lampo,  le 
condizioni  nelle  quali  questo  determina  nel  cielo  la  manifestazione  delle 
acque  celesti.  L'  eflìcacia  di  una  tale  operazione  era,  del  resto,  tanto  meglio 
assicurata  che,  nella  credenza  degli  Arii  vedici,  essa  non  riducevasi  ad  una 
imitazione  pura  e  semplice,  ma  il  sacrificio  adempievasi  col  mezzo  di  ele- 
menti flerivati  dal  cielo  e  dagli  uomini  che  riferivano  al  cielo  la  loro  propria 
origine.  »  Questa  magia  sacrificale  potrebbe  essere  dimostrata  con  non 
minore  evidenza,  con  lo  studio  degli  inni  dell' Atharva veda  fondati  in  gran 
parte  sopra  gli  effetti  magici  delle  formolo  sacre  e  delle  giaculatorie,  col 
'Sclmaveda  consacrato  per  intiero  ai  canti  che  accompagnano  le  sacre  li- 
bazioni e  col  Yagiurveda  intieramente  sacrificale.  La  teoria  del  Bergaigne 
ha  quindi,  anche  senza  cercare  sussidio  dall'  analogia  delle  tradizioni  ma- 
giche babilonesi,  nel  solo  campo  vedico,  molti  documenti  in  suo  fovore. 
Tuttavia,  per  ciò  che  riguarda  il  solo  Rigveda,  mi  par  dubbio  che  possa 
applicarsi  cosi  costantemente  e  così  generalmente  come  il  l'ergaigne  ha 
creduto  di  poter  fare.  Vi  sono  parecchi  inni  del  Rigveda,  ove  la  sua  teoria 
non  l'egge;  ed  è  poi  necessario,  in  ogni  modo,  ch'egli  stesso  ammetta  la 
preesistenza  di  inni  puramente  mitologici  a  quegli  stessi  inni  sacrificali 
ne'  quali  si  ripetono  immagini  mitologiche.  11  sacrificio  potè,  per  via  di 
analogia,  togliere  alcune  immagini  per  la  rappresentazione  di  fenomeni 
analoghi  ai  celesti,  ed  appropriarsele,  ma  non  già  crearle  esso  stesso  di 
sana  pianta.  Tanta  virtù  creativa  il  sacrificio  non  ebbe  mai;  esso  prese  ad 
imprestito  immagini  che  esistevano  in  inni  mitologici  più  antichi.  Ora,  è, 
per  l'appunto,  sopra  questi  inni,  che  hanno  quasi  nessuna  relazione  coi 
riti  sacrificali,  che  si  è  fondato  queir  edifizio  d'  una  mitologia  vedica  che 
servì  di  caposaldo  a  tutti  gli  studii  di  mitologia  comparata.  Il  Bergaigne  può 
benissimo  avere  col  suo  libro  provato  che  si  è  ecceduto  nella  dimostrazione 
de' miti  vedici;  ma,  per  quanto  siano  dotte  ed  acute  le  sue  indagini,  per 
quanto  formidabile  la  sua  critica  filologica,  essa  non  esclude  che  la  nozione 
mitologica  abbia  preceduto  negli  stessi  inni  vedici  la  nozione  sacrificale  e 
non  rovescia  perciò  alcun  sistema  precedente,  se  bene  ne  mostri,  con  molta 
evidenza,  ì  difetti.  Egli  stesso,  del  resto,  prima  d' arrivare  alla  dimostra- 
zione dolla  sua  teoria,  è  obbligato  a  ricercare  le  figure  mitiche  principali 
che  si  manifestano  nel  cielo  vedico  indipendentemente  da  qualsiasi  sacrificio 
terrestre.  Solamente,  invece  d' insistere,  come  fecero  fin  qui  i  mitologi, 
sopra  il  primo  momento  mitico,  preferì  ricercare  gli  stessi  miti  celesti  nella 
loro  forma  riflessa  del  sacrificio.  In  questa  indagine  che  gli  appartiene, 
egli  fece  scoperte  importanti;  solamente,  alla  sua  volta,  anch' egli  talora 
mi  sembra  avere  voluto  provar  troppo,  e  ricercare  troppo  spesso  gli  Dei 


RASSEGNA  DELLE  LETTERATUKE  STRANIERE.         157 

vedici  nella  loro  figura  secondaria  sacrificale.  Questa  impressione  si  riceve 
già  alla  lettura  della  prima  parte  del  lavoro,  la  sola  fin  qui  pubblicata, 
ove  si  studiano  gli  elementi  della  mitologia  vedica  ne'  fenomeni  naturali  e 
nel  culto;  il  capitolo,  per  esempio,  relativo  all' aurora  è  de' più  istruttivi, 
per  mostrarci  quello  che  vi  è  di  giusto  e  quello  che  vi  è  d'eccessivo  nel 
sistema  d' interpretazione  vedica  adottato  dal  Bergaigne.  È  noto  che  questi 
inni  sono  tra  i  più  poetici  del  Rigveda;  in  essi  è  anche  un  particolare  mo- 
vimento lirico,  r  impeto  del  quale  non  è  stato  fin  qui  abbastanza  conside- 
rato, e  si  sentirà  forse  meglio  nella  versione  poetica  degli  inni  all'  aurora, 
che  prepara  in  Italia  il  nostro  professor  Kerbaker.  Bastarono  alcune  allu- 
sioni che  vi  si  trovano  al  sacrificio,  perchè  il  Bergaigne  li  comprendesse 
pure  nell'ordine  degli  inni  sacrificali,  sacrificando  così  egli  stesso  il  più 
al  meno,  ciò  che  negli  inni  è  secondario,  accidentale,  ascitizio,  agli  elementi 
assolutamente  mitici  e  poetici  che  ne  costituiscono  la  base;  ed  occorre  un 
vero  sforzo  anti-poetico  per  immaginare  che  la  splendida  immagine  vedica 
delle  aurore  tessitrici  possa  riferirsi  ad  un  sacrificio  celeste.  Tuttavia, 
l'opera  del  Bergaigne,  qual  è,  vuol  essere  adoperata  dagli  studiosi  della 
mitologia  vedica  come  un  eccellente  correttivo,  non  già  par  arrivare  alla 
conclusione,  alla  quale  ripugna  lo  stesso  buon  senso  del  Bergaigne,  che  la 
mitologia  vedica  sia  un  semplice  giuoco  della  fantasia  europea,  ma  per 
avvezzarsi  a  una  maggiore  esattezza  nella  determinazione  delle  parole  vc- 
diche,  posto  che  dai  nomi  vedici,  secondo  la  dottrina  muUeriana,  siano  ve- 
ramente emersi  i  numi,  posto  che  la  base  principale  de'  miti,  secondo  la 
stessa  dottrina,  abbia  ad  essere,  il  che  può  venire  ancora  contestato,  l'equi- 
voco nato  sulle  parole. 

Un  curioso  commento  alla  religione  vedica,  ma  di  un  carattere  molto 
diverso,  ci  viene  offerto  da  un  moderno  brahmino  di  Puua,  Mahàdeva  Mo- 
reshvar,  in  un  suo  poemetto  in  inglese  intitolato  :  The  r'ishi  '  ove  si  tenta 
di  rappresentare  tutta  la  vita  del  sacro  sapiente  vedico.  Mahàdeva  Mo- 
reshvar  è  egli  stesso  un  dotto  filosofo;  nel  1877  fondò  a  Puna  un  giornale 
filosofico  mensile  scritto  in  inglese  ed  in  marathi,  intitolato  Saddarshana- 
Chintanikd,  inteso  a  spiegare  gli  aforismi  delle  sei  scuole  filosofiche  in- 
diane ;  egli  impresta  pertanto  facilmente  al  sapiente  vedico  i  pensieri  reli- 
giosi e  filosofici  che  sono  propri  di  un'altra  età.  L'autore,  nel  poemetto  stesso, 
dopo  avere  nominato  un  personaggio  mitico,  ha  la  gentile  e  paziente  cura 
dì  dichiararne  l'essenza,  per  timore  che  il  lettore  non  intenda  il  linguag- 
gio figurato;  ogni  lettore  europeo  può  argomentare  da  ciò  quanto  ne 
rimanga  avvantaggiata  la  poesia.  Il  poemetto  incomincia  con  l' esporre  il 
concetto  generale  del  rishi;  seguono  un'invocazione  alla  musa,  molto  singo- 
lare sulle  labbra  d' un  brahmino,  un  soliloquio,  la  rappresentazione  della 

'  Pubblicato  a  Puna  nel  1878. 


158  RASSEGNA   DELLE    LETTERATURE   STRANIERE. 

lotta  primeva  fi'a  InJra  e  Vritra  nel  principio  della  creazione,  un  coro  ili 
risili,  una  libazione,  un  inno  al  sole,  una  esposizione  della  fede  del  r'ishi, 
una  disputa  fllosoflca,  una  disgrazia,  le  conseguenze  della  disgrazia  sopra 
il  rishi^  la  sua  lode  di  Dio,  un  inno,  le  conseguenze  della  disgrazia  sopra 
i  discepoli  ;  essi  vengono  confortati  ;  ritorno  delle  vacche  con  un  Gotama 
ferito;  sua  storia;  suoi  sentimenti  ;  visita  del  guerriero  liberatore;  la  figlia 
di  lui;  suo  matrimonio  con  Gotama;  benedizione  del  r'ishi;  il  r'ìshi  in  me- 
ditazione; il  rishi  legge  sui  doveri  dell'uomo;  effetto  ch'egli  produce  sopra 
gli  uditori;  r  ultima  preghiera  del  r'ishl;  conclusione.  Per  quanto  simili 
componimenti  siano  piii  che  altro  opera  di  ricamo,  è  sempre  utile  il  vedere 
come  ricami  su  materia  antica  l'ingegno  di  un  odierno  indiano.  Mahàdeva 
Moreshvar  è  certamente  un  uomo  molto  erudito  ;  le  sue  note  lo  provano; 
alcuni  dei  suoi  versi  parrebbero  anche  dimostrarlo  poeta;  ma  il  male  è 
che  la  poesia  e  l'erudizione  si  succedono  nel  suo  poemetto,  senza  confon- 
dersi mai  in  una  sola  armonia;  vi  è  un  po'  dell'una  e  un  po'  dell'altra; 
ma  non  mi  riuscì  di  trovarle  insieme  riunite  ;  è  possibile  tuttavia  che  io 
m'inganni,  se  debbo  giudicarne  dal  seguente  attestato  onorifico  che  il  mae- 
stro d' inglese  Fraser  ha  rilasciato  al  dotto  professore  di  Puna.  «  Io  lessi 
il  Il'ishi  con  piacere  ed  ammirazione  Se  la  poesia  è  arte,  intendimento, 
buon  gusto  nel  presentare  le  cose  piià  elette  nelle  loro  forme  più  perfette, 
nei  loro  migliori  atteggiamenti,  nel  loro  costume  più  amabile,  nelle  loro 
relazioni  più  seducenti,  allora  il  ll'ishi  ò  un  vero  poema;  in  tutto  il  poema 
vi  è  armonia,  armonia  di  soggetto,  di  filosofia,  di  spirito,  di  condotta,  di 
illustrazione,  di  espressione  Tutte  le  leggi  del  pensiero,  del  sentimento,  del 
linguaggio  sono  osservate  e  adempiute  Quivi  sono  le  idee  migliori,  nel  mi- 
glior ordine,  espresse  come  si  poteva  meglio.  L'intelligenza  ne  rimtine  col- 
pita, il  cuore  commosso,  l'orecchio  allettato.  Io  vedo  combinate  nel  poema 
tutte  le  qualità  del  bello  che  possono  immaginarsi  riunite  in  letteratura, 
bellezza  di  pensiero,  di  ordine,  di  suono,  ragione,  immaginazione  e  senso.  » 
Chi  direbbe  mai  che  un  tale  iperbolico  elogio  fu  scritto  da  un  inglese  ?  ma 
un  inglese  in  oriente  si  compiace  facilmente  nelle  immagini  orientali;  e 
il  Fraser  sembra  aver  posto  ogni  cura  percliè  il  suo  complimento  avesse 
un  profumo  orientale;  solamente,  dopo  averlo  riferito,  mi  manca  ogni  co- 
raggio d'aggiugnere  altro,  per  timore  di  offuscarne  con  le  mie  parole  il 
colore  intieramente  locale. 

Checché  ne  sia  del  valore  intrinseco  del  poema  di  ]Mahàdeva  Moreshvar, 
non  vi  è  dubbio  che  le  sue  note  sono  molto  importanti  e  contribuiscono  a 
chiarire  alcune  parti  del  culto  indiano.  Non  è  pertanto  meraviglia  che  al 
dotto  brahmino  di  Puna  si  rivolgesse  di  recente  il  professore  Max  Mùller 
per  completare  con  alcune  informazioni  autentiche  native  ciò  ch'egli  aveva 
affermato  intorno  alla  recitazione  dei  Vedi  nella  terza  delle  splendide  let- 
ture da  lui  fatte  nella  celebre  abbazia  di  Westminster  nello  scorso  anno. 


RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE  STRANIERE.  159 

I  lettóri  della  Nuova  Atitologia  ebbero  già  un  t^agglo  di  tali  lezioni;  ora 
le  sette  lezioni  vennero  raccolte  in  un  solo  volume  sotto  il  titolo  di  Lec- 
tures  on  the  origin  and  grovjth  of  religion.  *  (Letture  sopra  l'origine  e  lo 
svolgimento  della  religione,  studiata  particolarmente  nelle  religioni  del- 
l'India). 

La  prima  lezione,  come  sanno  i  lettori  della  Nuova  Antologia,  s'aggi- 
rava sulla  percezione  dell'inflnito  ;  la 'seconda  lezione  esaminava  la  questione 
se  il  feticismo  sia  la  forma  primitiva  della  religione,  per  arrivare  ad  una 
conclusione  negativa,  dimostrando  che  la  nozione  del  feticcio  è  già  secon- 
daria ed  implica  la  prescienza  o  coscienza  di  un  essere   superiore,  imme- 
desimato poi,   in  una  specie  di    degradazione  dello  spirito,  in   un  oggetto 
materiale,  in  un  feticcio  ;  la  terza  lezione  studiava  la  storia  della  lettera- 
tura indiana,  in  quanto  essa   può   somministrar  materiali  per  una  storia 
della  religione,  materia  in  verità   non   intieramente  nuova,  che  il  INKiUer 
stesso  avea  già  trattata  in  un'opera  speciale  e  il  Muir  in  uno  dei  suoi  pre- 
ziosi volumi  di  Sanshrit  7'exis,  ma  ch'egli  ha  óra  saputo  rendere  popolare 
ed  evidente,  e  maggiormente  attrattiva,  con   1  aggiunta  di  qualche  nuovo 
particolare  caratteristico  relativo  alla  tenacità  della  tradizione  orale  vedica. 
La  quarta  delle  lezioni,  alla  quale,  come  dissi  in  una  delle  mie  precedenti 
rassegne,  ebbi  l'onore  d'assistere,  volgeva  sopra  il  culto  degli  oggetti  tan- 
gibili, semitangibili  ed  intangibili.  La   quinta   lezione   trattava  della  idea 
vedica  delF  infinito  e  dell'  ordine  (legge]  ossia  delle  voci  vediche  Aditi   e 
l'ita,  che  il  Miiller  accosta  allo  zendo  Asha  iper  la  mediazione  di  aria, 
arsa).  La  sesta  lezione  considerava    l'henoteismo  'ossia  il  culto  isolato  di 
un  oggetto,  di  un  Dio,  senza  la  pretesa  che  quello  fosse  1  unico  Dio  assor- 
bente ed  universale,  tali  per  esempio,  il  culto  del  sole,  della  lunaj,il  poli- 
teismo, il  monoteismo  e  l'ateismo,  al  quale  ultimo  s'arri^"a  già  per  mezzo 
dello  scetticismo  di  cui  si  trovano  traccio  in    alcuni  degli  inni  vedici  ;  il 
Muller  distingue  con  ragione  l'ateismo  volgare  dall'ateismo  ch'egli  chiama 
onesto,  l'ateismo  di  Buddha  e  di  Socrate  che  non  credono  agli  Dei  dell'India 
e  della  Grecia  ma  sentono  il  divino,  dall'ateismo  di  chi  riconosce  forse  an- 
cora per  istinto  superstizioso  una  parte  del  culto  degli  Dei  rinnegando  ogni 
idealità,  rinunciando  ad  ogni  cura,  ad  ogni  pensiero  di   queir  infinito,  col 
quale  soltanto  può  la  divinità  confondersi.  I  primi  cristiani  per  i  greci  e  per 
i  romani,  secondo  la  testimonianza  di  Eusebio,  erano  atei.  Vanini  fu  bru- 
ciato come  ateo,  per  aver  magnificato  la  grandezza  di  Dio  pur  dicendo  che 
non  è  lecito  il  definirlo,  poiché  nessuno,  fuor  che  Dio  stesso,  può  sapere  ciò 
eh 'è  Dio.  L'ultimo  stadio  della  relig'ione,  il  suo  grado  più  perfezionato,  più 
elevato  dovrebbe  essere  l'ateismo  così  inteso;  ma  quanti  lo  intendono  cosi  ? 
Non  è  dunque  ben  sicuro  il  Muller  che  la  sua  nobile  conclusione  della  sua 

'  London,  Longraan  and  Green,  1878. 


160  KASSEGNA  DELLE  LETTERATURE   STRANIERE. 

sesta  lezione  non  dia  motivo  a  malintesi,  calunnie,  e  forse  persecuzioni; 
ma,  dopo  Buddha,  Socrate,  Cristo,  calunnie  di  tal  genere  non  fanno  più 
paura  ad  alcun  uomo  di  mente  elevata;  vi  è  dunque  solamente  ragione 
di  compiacersi  che  il  Mùller  abbia  potuto  ed  osato  recarsi  a  parlare  con 
tanta  libertà  di  cose  religiose  nella  badia  di  Westminster,  poicliè,  non  vi  ha 
dubbio  che  il  beneficio  delia  sua  parola  generosa  e  intieramente  liberale 
sarù  assai  grande.  L'ultima  lezione  metteva  a  riscontro  la  religione  vedica 
con  la  filosofia  delle  Upanishad  e  descriveva  i  varii  stadi  della  vita  re- 
ligiosa indiana.  Il  Mùller  conchiude  finalmente  con  la  speranza  che  i  cre- 
denti d'ogni  religione  lasciando  nelle  loro  pagode,  nei  loro  vihdrds,  nelle 
loro  moschee,  nelle  loro  sinagoghe,  nelle  loro  chiese,  tutto  ciò  che  avrà 
invecchiato,  tutto  il  superfluo,  conserveranno  quello  che  la  loro  fede  ha 
di  più  puro  e  di  più  elevato;  l'indiano  il  suo  disprezzo  di  questa  vita,  e  la 
sua  fiducia  nella  vita  eterna,  il  buddhista  la  sua  pietà  e  sottomissione 
alla  legge  fatale  che  governa  il  mondo,  il  maomettano,  se  non  altro,  la  sua 
sobrietà,  l'ebreo  la  sua  fede  nella  giustizia  di  un  Dio  solo,  il  cristiano  il 
suo  amore  di  Dio,  si  chiami  poi  questo  Dio  come  si  vuole,  infinito,  invi- 
sibile, padre.  Ente  supremo,  pur  che  si  manifesti  sopra  ogni  cosa  nel- 
l'amore de'vivi,  nel  compianto  de'morti,  nella  carità  vivente  ed  immortale. 
Chi,  rifuggendo  dalla  lotta,  dallo  strepito,  riparerà  con  questa  sua  fede 
viva  ed  ardente  in  qualche  piccola  ed  oscura  cripta  solitaria,  vi  troverà 
pace  e  riposo  e  vi  porterà  un  po'  di  luce  novella  che  la  dilaterà,  e  con- 
vertirà forse  un  giorno  la  modesta  cripta,  l' umile  solitaria  cella,  ove 
nella  rovina  delle  singole  i^eligioni  i  veri  credenti  si  salveranno,  nella 
chiesa  ideale  futura!  È  possibile  ora  che  alcuni  lettori  condannino  come 
vani  sogni  di  una  mente  inferma  questi  voli  lirici  del  maestro  di  Oxford. 
Ma  la  scienza  ha  bisogno  anch'essa  di  tempo  in  tempo  d'ingegni  alati  che 
la  sollevino  da  cure  troppo  minute  ed  umili;  e  nessuno  può,  con  maggiore 
autorità  del  Mùller  che  spese  tanta  parte  della  sua  vita  in  pazienti  in- 
dagini scientifiche,  evocare  ora  la  scienza  alla  contemplazione  di  più  alti 
e  più  vasti  orizzonti.  Egli  è  con  l'inalzarsi  sopra  i  pensieri  e  gli  studi 
del  suo  tempo  ch'egli  seppe  divinare  una  nuova  scienza,  la  mitologia 
comparata;  che  se  ora  le  nuove  indagini  critiche  possono,  in  parte,  ren- 
dere vane  alcune  delle  sue  divinazioni  mitologiche,  non  è  dubbio  ch'egli 
ha  il  merito  col  Kuhn  di  avere  comunicata  agli  studi  di  mitologia  non 
pure  una  maggiore  vitalità,  ma  una  molto  più  profonda  intensità.  Vi  ha 
di  più  ;  con  l'idee  generali  rese  luminose  dalla  mitologia  comparata,  si 
schiarirono  pure  le  mitologie  speciali  che  vengono  ora  studiate  più  me- 
todicamente e  più  a  fondo.  Ne  abbiamo  ora  una  prova,  tra  l'altre,  nel 
nuovo  cospicuo  lavoro  del  Decharme  sopra  la  mitologia  greca.  *  L'opera 

'  Mythologie  de  la  Grece  antique;  Paris,  Garnier  Fr.  1SÌ9. 


EASSEGNA  DELLE  LETTERATURE   STRANIERE.  161 

del  Preller  aveva  già  ordinato  molto  sistematicamente  il  materiale  mito- 
logico dell'antica  EUenia,  distinguendo  giudiziosamente  le  tradizioni  mito- 
logiche secondo  la  loro  probabile  progressione  cronologica.  Ma  quando  il 
Preller  incominciò  a  scrivere  il  suo  lavoro,  la'  scienza  della  mitologia 
comparata  non  era  nata;  e  quando  nel  1854  lo  pubblicò,  non  aveva  ancora 
tanto  favore  da  determinarlo  a  modificare  l'ordine  di  un  lavoro  intrapreso 
indipendentemente  da  essa.  Ora  non  può  dirsi  che  tutti  gl'insegnamenti 
della  mitologia  comparata  siano  sicuri  ;  molte  delle  sue  scoperte  meritano 
ancora  esame  e  conferma;  ma  le  verità  generali  rimangono  accertate  e 
un  mitologo  giudizioso  può  farne  buon  uso. 

Il  Decharme  l'ha  provato  descrivendo  nuovamente  i  miti  cileni,  non  con 
la  guida  ma  col  sussidio  della  mitologia  comparata.  Egli  avrebbe  potuto 
estendere  le  comparazioni  molto  più  che  non  abbia  fatto  ;  e  in  qualche 
opera  speciale,  non  escluso  il  modesto  lavoro  di  un  italiano  sopra  la  Mi- 
tologia vedica  (Firenze  1874),  egli  avrebbe  trovato,  per  esempio,  come 
neil'Aiirora  vedica  si  possa  riconoscere  non  pure  un'Afrodite,  un'Elena, 
una  Cenerentola,  ma  ancora  una  Minerva  ed  una  Valkiria.  Le  tradizioni 
elleniche  del  diluvio  dalle  nuove  opere  di  mitologia  comparata  potrebbero 
derivare  molta  luce;  così  il  riso  di  Giove  tonante  diede  occasione  ad  un 
lungo  discorso  nel  primo  capitolo  della  Mythologie  zoologique,  che  il  De- 
charme ebbe  alcuna  volta  la  bontà  di  citare.  Ma,  alla  sua  volta,  il  lavoro 
dell'egregio  professore  della  facoltà  di  Nancy  è  tale  non  solo  da  aprire 
un  nuovo  mondo  ideale  al  maggior  numero  de'suoi  lettori,  ma  ancora  da 
far  nascere  nuove  idee  ai  mitologi,  e  metterli  sulla  via  di  trovar  nuovi 
riscontri.  Precede  l'opera  una  giudiziosa  introduzione,  nella  quale  si  espon- 
gono i  progressi  fatti  dalla  critica,  dall'antichità  Ano  a  noi,  nelle  indagini 
intraprese  sopra  la  mitologia  greca.  L'opera  stessa  è  divisa  in  quattro 
parti:  La  prima  prende  ad  esame  le  divinità  del  cielo;  la  seconda  la  di- 
vinità delle  acque  (e  qui  molto  giustamente  il  Decharme  osserva  che  i 
miti  ellenici  hanno  un  loro  particolare  carattere  etnico  e  sono  nati  per  la 
massima  parte  sul  suolo  d'Ellenia  e  meglio  ancora  sopra  il  mare,  che  gU 
Arii,  prima  della  loro  divisione  non  conoscevano;  se  non  che  si  può  ag- 
giungere che  essi  conoscevano  un  oceano  nuvoloso  celeste,  e  aveano  già 
concepito  il  cielo  come  un  mare;  ogni  estensione  di  acqua  era  per  essi 
un  sìndhu,  nome  col  quale  si  denominavano  ad  un  tempo  nell'età  vedica 
il  fiume  ed  il  mare;  vi  era  poi  la  coscienza  cosmogonica  di  un  mondo 
emerso  dalle  acque;  tutte  le  tradizioni  cosmogoniche  indiane  si  riferiscono 
a  questo  mare  primordiale,  e  le  stesse  tradizioni  locali  ancora  vive  nel 
Kacmìra  serbano  memoria  di  un  mare  che  occupava  in  origine  quelle  valli  : 
se  i  Greci  rinfrescarono  dunque,  e  abbellirono  con  nuove  rappresentazioni 
antropomorfiche  gli  antichi  miti  acquatici,  non  può  dirsi  che  li  abbiano 
intieramente   creati).  La  terza  parte    studia   le   divinità  della  terra   (qui 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Marzo  1819.  H 


162  RASSEGNA   DELLE   LETTERATURE   STRANIERE. 

ancora  noi  dobbiamo  tenere  gran  conto  delle  condizioni  speciali  del  suolo 
greco  ;  e  percorrendo  l'opera  di  Pausania  ci  persuadiamo  molto  spesso  che 
numerosi  miti  secondari  sono  il  prodotto  di  osservazioni  locali;  ma  la 
possibilità  stessa  di  tali  osservazioni  basta  a  provare  la  preesistenza  di 
miti  più  larghi  originari  che,  avendo  fatto  una  profonda  impressione  nella 
fantasia  degli  Arii,  permisero  poi  loro  di  fecondarli  nell'aspetto  di  nuovi 
fenomeni  che  presentassero  qualche  analogia  con  le  prime  figure  mitiche 
del  loro  pensiero).  La  quarta  parte  tratta  degli  eroi  definitivamente  esclusi 
da  quel  mondo  storico  nel  quale  gli  evhemeristi  li  avevano  figurati  e 
studiati  in  relazione  coi  loro  prototipi  orientali.  Il  Decharme  ha  col  suo 
libro  fatto  opera  non  solo  di  erudizione  ma  di  buon  gusto,  eleggendo  dalle 
nozioni  recentissime  della  mitologia  comparata  le  più  sicure  per  collegare 
il  mondo  mitico  elleno  col  mondo  orientale.  Per  quanto  poi  siasi  già 
scritto  molto  sopra  la  mitologia  ellenica,  e  le  sue  favole  possano  quindi 
ormai  sembrare  sbrogliate  dal  loro  caos,  si  è  pur  continuato  a  scoprir 
tanto  in-  questi  ultimi  anni  dai  filologi  e  dagli  archeologi,  che  ogni  nuovo 
lavoro,  oltre  al  somministrare  agli  studiosi  alcuni  materiali  poco  noti, 
può  intraprenderne  la  critica  e  senza  alterare  la  sostanza  de'miti  elioni, 
rischiararli  notevolmente.  Questo  può  dirsi  aver  fatto  il  Decharme  ri- 
spetto a'  suoi  predecessori  Preller,  Guigniaud  e  Maury  ;  e  di  questa  nuova 
diligenza  messa  nel  raccogliere  e  ordinare  più  luminosamente  i  miti 
greci,  ogni  studioso  gli  dovrebbe  esser  girato. 

Ma  chi  voglia  veramente  persuadersi  come  il  mondo  greco  e  romano 
siano  miniere  inesauste  ed  inesauribili  pel  filologo,  pel  mitologo  e  per  l'ar- 
cheologo, deve  prendere  fra  le  mani  il  Dictionnaire  des  Antiquitcs  greoques 
et  romaines  pubblicato  dalla  casa  Hachette  di  Parigi,  sotto  la  direzione 
del  Saglio.  Questa  pubblicazione  procade  assai  lenta;  tarde  sed  tute;  nello 
spazio  di  sei  anni,  siamo  appena  arrivati  al  sesto  fascicolo  ;  ma  quali  fa- 
scicoli !  Io  ho  già  annunziato,  man  mano  che  si  pubblicarono,  i  fascicoli  pre- 
cadenti; al  sesto  collaborarono,  oltre  il  Saglio,  G.  Humbert,  Heuzey,  E.  Cail- 
lemer.  Oh.  Em.  Ruelle,  Labatut,  Masquelez,  Bouché-Leclercq,  Hunziker, 
Jean  Morel,  E.  Cougny,  E.  Gebhart,  C  de  la  Berge,  Gaston  Boissier,  Ch.  Chipiez, 
G.  Perrot,  F.  Baudry,  A.  France,  Ch.  Thierry,  Héron  de  Villefosse,  Fran- 
cesco Lenormant;  alcuno  di  questi  nomi  mi  giunge  nuovo,  ma,  poiché  mi 
pare  di  poter  riconoscere  sotto  il  Villefosse,  il  Lenormant,  si  può  rimanere 
tranquilli  che  nessun  ignoto  è  scrittore  incompetent?.  Come  ne'  fascicoli 
precedenti,  parecchi  articoli  sono  riusciti  vere  monografie  alle  quali  le  no- 
tizie bibliografiche  che  sempre  le  accompagnano  aggiungono  gran  pregio. 
Le  notizie,  per  esempio,  relative  alla  calzatura,  ai  carri,  ai  candelabri  degli 
antichi  greci,  latini  ed  etruschi,  come  gli  studii  sopra  i  calendarii  greco- 
romani sono  di  una  singolare  importanza  ed  esauriscono  l'argomento.  Gli 
architetti  vi  troveranno  pure  compendiate  con  molta  chiarezza  le  princi- 


EASSEGNA   DELLE   LETTERATURE   STRANIERE.  163 

pali  notizie  che  si  hanno  intorno  agli  antichi  capitelli;  i  naturalisti  non 
vedranno  senza  un  vivo  interesse  flgurate  e  descritte  in  questo  fascicolo  le 
.  varie  specie  di  cani  antichi  quali  si  rivelano  dai  monumenti.  Meritano  pure 
di  venir  segnalate  per  la  loro  estensione  le  notizie  sopra  il  Campidoglio, 
sopra  le  carceri  antiche,  sopra  gli  antichi  accampamenti  {castra),  come 
pure  sopra  gli  antichi  formaggi  ;  anzi  quest'  ultima  monografia  firmata  da 
E.  Cougny,  oltre  alla  sua  speciale  curiosità,  mi  parve  non  solamente  eru- 
dita ma  dotta. 

Talora  il  dizionario  fa  pure  qualche  escursione  nel  vicino  mondo 
orientale,  particolarmente  in  Egitto  e  nell'Asia  minore;  e  non  è  mera- 
viglia. Per  quanto  si  vantino  i  progressi  dell'  odierna  civiltà  per  le  age- 
volate vie  di  comunicazione,  non  è  dubbio  che  I'  Asia  era  molto  più  vi- 
cina nell'  antichità  alla  Grecia  ed  a  Roma  che  non  lo  sia  al  presente.  Mag- 
gior parte  dell'  Asia  si  versava  in  occidente,  ed  i  porti  dell'  Asia  erano  fre- 
quentatissimi dalle  navi  cilene  e  romane.  Per  questa  frequenza  di  commerci 
avvenne  pure  che  1'  arte  orientale  si  modificasse  notevolmente  al  contatto 
dell'  arte  greca,  come  possono  farne  fede  non  solamente  i  monumenti  del- 
l' Asia  minore,  ma  quelli  della  regione  indiana  dell'  Indo  e  della  Persia.  Ciò 
eh' è  vero  per  l'arte  persiana,  non  lo  è  meno  per  la  storia  della  Persia, 
la  quale  non  si  può  bene  intendere  senza  il  sussidio  che  ci  viene  dagli  storici 
greci.  Questo  sussidio  anzi  fino  a  qui  era  considerato  cosi  importante,  che 
quasi  fin  verso  la  metà  del  nostro  secolo  tutta  1'  antica  storia  persiana  che 
conoscevasi  in  Europa  fondavasi  sopra  le  sole  informazioni  degli  storici 
greci.  Dopo  i  viaggi  recenti  fatti  in  Persia  dagli  Europei,  dopo  lo  scopri- 
mento delle  rovine  di  Persepoli  e  di  altre  antichità  persiane,  dopo  lo  studio 
delle  iscrizioni  degli  Achemenidi  e  delle  antiche  monete  persiane,  dopo  le 
indagini  fatte  sopra  la  lingua  e  la  letteratura  zenda  con  le  loro  appendici 
pehlviche  la  storia  della  Persia  potè  venire  riscritta  da  capo  e  con  1'  au- 
torità di  fonti  originali.  Ora  possiamo  dir  veramente  che  ci  è  toccata  una 
gran  buona  fortuna,  poiché  a  scrivere  questa  storia  si  accinse  non  già  un 
compilatore,  ma  uno  de'  piii  dotti  e  geniali  iranisti  del  nostro  tempo,  il 
professor  Ferdinando  Insti  di  Marburgo.  *  Egli  divide  col  vecchio  Spiegel 
e  col  giovine  Darmesteter  il  primato  degli  studii  zendici,  e  supera  poi  i 
suoi  dotti  colleghi  per  la  mirabile  facoltà  che  possiede  di  animare  col  soffio 
dell'arte  la  materia  ch'egli  assume  a  trattare.  Leggendo  ora  questa  sua 
storia  della  Persia,  una  sola  impressione  se  ne  può  ricevere,  che  non  mai 
alcuna  storia  piii  dotta  fu  scritta  più  amabilmente.  È  consolante  il  persua- 
dersi nel  leggere  un  libro  così  attraente,  che  gli  si  può  prestare  intiera 
fede,  poiché  nessuno  sopra  le  cose  dell'  antica  Persia  potrebbe  istruirci  con 
più  sicura  dottrina.  11  lusti  ama  evidentemente  il  suo  mondo  iranico,  e  lo 

'  Geschichte  des  alteri  Persiens;  Berlin,  Grote  1819. 


164  RASSEGNA   DELLE   LETTERATURE   STRANIERE. 

ama  tanto  che  lo  fa  pure  amare  ;  onde  a  me  rimane  qui  un  solo  voto  da 
fare  che,  se  vi  fosse  un  editore  italiano  vago  di  pubblicare  una  buona  storia 
dell'  Oriente,  invece  di  far  compilare  il  lavoro  da  qualche  professore  di 
storia  enciclopedica,  si  raccomandi  alle  migliori  storie  speciali  che  furono 
già  scritte  delle  grandi  monarcliie  o  costituzioni  asiatiche,  e  le  faccia  dili- 
gentemente tradurre;  la  storia  della  Persia  del  professor  lusti  sarebbe,  in 
questo  caso  felice,  una  delle  prime  che  mi  parrebbe  meritar  1'  onore  di  una 
versione  italiana. 

L'autore  conosce  naturalmente  tutti  i  lavori  più  notevoli  antichi  e  re- 
centi che  furono  scritti  sulla  Persia,  e  se  ne  giova;  ma,  dove  egli  può  ri- 
correre alle  prime  fonti,  specialmente  per  tutta  quella  parte  che  può  es- 
sere illustrata  dall' Avesta,  dà  alla  sua  storia  un  carattere  intieramente 
originale  e  indipendente.  Qui  si  opporrà  forse  che  ogni  zendista  ha  un  suo 
modo  particolare  d'interpretare  l'A vesta  e  che  però  sarebbe  a  temersi  che 
dalla  mano  di  tre  diversi  zendisti  venissero  fuori  tre  storie  diverse  della 
Persia.  È  ora  assai  possibile  che  alcuna  delle  notizie  del  Insti  per  i  più 
remoti  secoli  della  storia  persiana,  ne'  quali  è  pure  malagevole  il  distin- 
guere gli  elementi  mitici  dagli  storici,  possa  ancora  meritar  conferma  e 
suscitare  alcuna  contradizione;  ma,  oltre  che  egli  evitò  prudentemente  i 
punti  più  controversi  per  attenersi,  per  quanto  si  poteva,  ai  soli  dati  più 
generalmente  accertati,  noi  siamo  sicuri,  in  ogni  caso,  d'avere  innanzi  a  noi 
una  buona  ed  onesta  guida,  la  quale  non  ha  nessun  interesse  ad  ingan- 
narci, neppure  quel  terribile  interesse  che  per  gli  uomini  di  lettere  è 
l'amor  proprio,  il  quale  li  rende  spesso  più  tenaci  difensori  della  loro  opi- 
nione che  generosi  propugnatori  del  vero  ;  quando  il  Insti  sostiene  un'  opi- 
nione nuova,  che  o  fu  già  o  crede  che  possa  venire  combattuta,  pone  in- 
nanzi ai  propri  avversari  le  sue  ragioni,  perdio  essi  sappiano  tosto  con 
quali  armi  intende  difendersi  e  che  queste  armi  sono  oneste.  Egli  stesso 
poi,  diffidando  della  mano  di  artisti  ignari  dell'arte,  dell'architettura,  della 
lingua  e  della  storia  persiana,  ebbe  cura  di  disegnare  da  sé  a  penna 
dai  monumenti  o  dai  disegni  dei  viaggiatori  tutte  le  illustrazioni  e  le 
carte  geografiche  che  accrescono  il  pregio  dell'opera,  raro  esempio  di  un 
orientalista  che  accoppi  tanta  conoscenza  di  disegno  a  tanta  erudizione  sto- 
rica e  linguistica.  La  storia  della  Persia  del  Insti  muove  dalla  signoria 
dei  Medi  e  giunge  fino  al  termine  della  signoria  dei  Sassanidi,  ossia  ab- 
braccia tutto  quel  periodo  di  storia  nel  quale  la  Persia  appartenne  intie- 
ramente a  sé  stessa,  alla  propria  lingua,  alla  propria  religione,  alle  pro- 
prie leggi,  ai  proprii  riti,  ai  proprii  costumi;  quello  ch'essa  sia  divenuta 
ora,  dopo  lunghi  secoli  di  servitù,  e  dopo  il  perverso  e  fatale  influsso  della 
religione  maomettana,  è  noto,  pur  troppo.  I  Parsi,  i  discendenti  degli  anticlii 
Persiani,  rifugiati  in  un  piccolo  angolo  dell'India,  ci  mostrano  soli  un  resto  di 
popolo  religioso,  virtuoso  e  sapiente.  Cosi  venisse  il  giorno  in  cui  non  pure 


KASSEGNA  DELLE   LETTERATURE  STRANIERE.  165 

l'Europa  ma  anche  l'Asia  si  purgasse  di  quella  fatale  epidemia  che  è  stala 
per  la  umana  civiltà  la  religione  di  Maometto,  e  ci  sarebbe  ancora  da  sperare 
per  la  Persia  come  per  l'india  un  risorgimento.  Io  non  ho  tanta  fede  nella 
energia  dei  popoli  orientali  per  isperare  che  essi  risorgano  mai  più  per 
loro  propria  virtù.  Ma  parmi  che  gli  scrittori  europei,  riappresentando  gli 
splendori  delle  antiche  civiltà  asiatiche,  non  facciano  opera  inutile  per 
l'Asia  stessa;  poiché  essi  riusciranno,  in  ogni  modo,  col  tempo,  a  persua- 
dere quella  parte  d'Europa,  che  puntella  in  Europa  come  in  Asia  le  signorie 
maomettane,  come  sia  venuto  per  queste  il  tempo  di  crollare.  Checché  ne 
sia,  è  importante  per  lo  storico  il  conoscere  quello  che  fu  la  Persia  prima 
di  cadere  tanto  in  basso.  Il  lusti  non  si  è  precisamente  messo  in  capo  di 
scrivere  alcun  panegirico  degli  antichi  Persiani;  ma  i  fatti  stessi  parlano 
a  gloria  loro;  e  tali  fatti  si  trovano  in  questo  libro  nel  modo  più  completo 
ed  evidente  enumerati  ed  esposti.  I  lettori  che  già  conoscono  l'eccellente 
volume  dal  Duncker  dedicato  alla  storia  complessiva  degli  Arii  e  che  vo- 
gliano riudir  narrata  con  maggior  precisione  e  più  estesamente  da  una 
bocca  più  autorevole  la  storia  iranica,  gradiranno  ora  il  conoscere  che,  in 
grazia  del  professor  lusti,  un  tale  loro  desiderio  può  venir  soddisfatto. 
Io  vorrei  ora  trovare  un  naturale  ponte  di  transizione  per  condurre 
il  mio  discorso  da  una  dotta  storia  di  Persia  ai  più  recenti  romanzi  fran- 
cesi de'  quali  ho  promesso  di  parlare.  Sperai  per  un  momento  che  potesse 
venire  in  mio  soccorso  un  elegante  volume  pubblicato  dal  Lévy,  con  una 
figura  di  donna  velata  e  col  titolo  attraente  di  Aziyadé  sul  frontespizio: 
ma  fu  vana  speranza;  il  «  lieutenant  de  la  marine  anglaise  »  dalle  note  e 
lettere  del  quale  l'autore  vorrebbe  che  credessimo  essere  stato  tolto  il  suo 
insipido  romanzetto  turco,  ama  raccontare  facetamente  le  cose  più  lugubri; 
è  un  gusto  come  un  altro,  ma  non  è  il  mio,  e  non  credo  che  sia  quello 
de' miei  lettori.  Da  Aziyadé  passai  ad  una  Reine  de  Saba  sperando  che 
questa  almeno  mi  tratterrebbe  per  alcun  tempo  col  suo  romanzetto  in 
Oriente,  ma  fu  breve  illusione;  la  Begina  Saba  non  é  una  regina  d'Oriente 
autentica;  è  una  povera  fanciulla  anglo-americana  impazzata  che  si  credeva 
la  regina  Saba,  e  di  cui  un  autore  americano,  Tommaso  Bayley  Aldrich,  ci  ha 
raccontata  con  molta  grazia  la  storia,  che  Th.  Beutzou  ci  ha  poi,  con  non  mi- 
nor grazia,  tradotta  in  francese.  Ma  autentica  o  no,  questa  regina  Saba  mi 
interessa  e  mi  scusa  se  desidero  intrattenermi  un  momento  con  l'autore  che 
l'ha  creata  e,  meglio  ancora,  col  traduttore  (dovrei  dire  traduttrice)  che  l'ha 
divulgata  in  Europa.  Tommaso  Bayley  Aldrich  é  un  giovine  poeta  e  roman- 
ziere americano;  esordì  con  la  poesia,  poi  si  rivelò  romanziere  col  romanzo 
Marjorie  l'aio  ;  questo  con  la  Regina  Saba  e  con  Prudenza  l'alfrey  sono 
i  suoi  migliori  lavori.  Il  Bayley  Aldrich  è  un  umorista  di  buon  genere,  os- 
servatore fine  e  delicato,  artista  squisito;  ricorda  talora  la  maniera  di 
Dickens.  Quanto  alla  Bentzon  (pseudonimo  di  Teresa  Blanc),  é  ben  nota  al 


166         RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE  STRANIERE. 

pubblico  europeo,  ma  poiché  mi  trovo  tra  le  mani  il  suo  ultimo  '  romanzo 
Un  remords,  gioverà  forse  meglio  dire  alcune  parole  di  esso. 

L'intreccio  non  ne  è  molto  nuovo;  una  bella  giovane  povera  è  sposata 
da  una  vecchia  zia  ad  un  ricco  fabbricante  che  essa  non  ama;  amava, 
prima  di  sposarsi,  un  elegante  e  seducente  romanziere,  che  rivede  dopo 
il  matrimonio;  non  cade,  ma  è  vicina  a  cadere,  quando  il  marito  la  sor- 
prende e  si  persuade,  se  non  altro,  di  non  essere  amato;  egli  impedisce, 
da  quel  punto,  a  sua  moglie  di  avere  qualsiasi  relazione  col  romanziere; 
essa  sfoga  i  suoi  pensieri  in  un  proprio  giornale;  in  un  foglietto  si  domanda 
quando  sarà  liberata  da  quel  supplizio;  un  operaio  licenziato  dalla  fabbrica 
trova  per  caso  quel  foglio,  e  risolve  di  uccidere  il  proprio  padrone,  im- 
maginandosi di  liberarne  cosi  la  moglie  infelice,  dalla  quale  intanto  si  fa 
raccomandare  per  essere  l'iammesso  alla  ftibbrica;  non  ottenendo  l'intento, 
l'operaio  compie  il  meditato  assassinio;  in  fln  di  vita,  il  fabbricante  può 
temere  che  la  mano  dell'assassino  sia  stata  armata  dalla  propria  moglie; 
il  dolore  di  questa,  il  rimorso  che  ella  sente  non  per  il  delitto  compiuto, 
ma  perchè  può  a  sé  stessa  apparirne  complice,  è  vivissimo;  ella  se  ne  accora 
in  modo  che  ne  muore  consunta,  intanto  che  l'amico  romanziere  pubblica  un 
nuovo  romanzo  pessimista,  che  viene  molto  ammirato:  <  ici,  scrive  l'autrice, 
l'analyse,  avait  pour  ol'jet  le  remords,  Ics  nuances  multiples  qu'il  peut  pren- 
dre  dans  une  àme  impressionnable,  delicate,  terriflée  soudain  par  ce  qui  lui 
paraìt  étre  la  eonséquence  vengeresse  de  la  fante  qu'  elle  a  i^évée,  mais 
qu'elle  n'a  point  commise,  dont  elle  se  sent  coupable  cependant  par  l'aspi- 
ration  caressée,  par  le  désir  longtemps  entretenu  en  secret.  La  foudre  éclate, 
elle  ne  l'a  pas  lancée,  elle  ne  l'a  pas  apjjelée  peut-étre  ;  mais  oette  circon- 
stauce  fortuite  réalise  son  voeu  criminel.  Elle  doitètre  punie,  elle  se  punirà, 
elle  mourra  de  cette  tache  imaginaire,  qui  i^our  elle  est  réello,  qu'elle  volt, 
qui  la  brftle.  Il  y  avait  dans  cette  étude  de  la  plus  poignante  psychologie 
une  science  de  la  douleur  morale  dans  tous  ses  rafflnements,  une  cruauté 
de  scalpel,  un  mélange  bizarre  de  sensibilité  presque  maladive  et  de 
misanthropie  feroce  qui  faisait  dire:  Gomme  il  sent  toutes  ces  choses!  Oii 
les  a-t-il  observées?  N'  a-t-il  pas  disséqué  son  propre  coeur?  C  est  écrit 
avec  du  sang,  avec  des  larmes.  Et,  en  effet  Merton  avait  utilisé  impi- 
toyablement  ses  propres  impressions  et  mème  celles  des  autres.  C'était 
son  droit  d'artiste.  » 

Il  soggetto,  in  verità,  non  è  nuovo,  ma  è  luiova  l'arte  con  cui  Tli. 
I^ntzon  ha  saputo  trattarlo;  son  nuove  e  bene  spiccate  le  figure  ch'egli 
ci  presenta,  a  incominciare  da  quella  baronessa  di  Clairac  che  tiene  aperto 
in  casa  sua  un  salone  di  conversazione,  e  che  sembra  essere  stata  dipinta 
e  scolpita  sul  vivo.  «  La  signora  Récamier,  la  signora  Duras,  essa   dice, 

1  Nel  tempo  che  lo  stavo  leggendo,  mi  giunse  un  altro  suo  volume  più  recente 
«  I/obstacle  »  ;  colgo  intanto  l'occasione  per  annunciarlo. 


RASSEGNA   DELLE   LETTEKATUHE   STRANIERE.  167 

la  signora  di  Broglie,  la  signora  di  Boigne,  la  signora  Swetchine,  erano 
i  suoi  tipi,  le  sante  del  suo  calendario;  tutta  la  destrezza  di  cui  era  capace 
essa  l'adoperava  per  attirar-e  e  trattenere  presso  la  sua  poltrona  uomini 
eletti  de'  quali  sapeva  assimilarsi  le  idee  ed  i  convincimenti,  a  segno  da 
far  loro  credere  che  essi  venivano  da  lei  a  prender  dei  lumi,  mentrecliè, 
invece  di  essere  un'Egeria  essa  stessa,  era  solamente  il  loro  riflesso,  avendo 
di  proprio  soltanto  la  scienza  innata  della  lusinga  e  il  rispetto  della  li- 
bertà di  ciascuno  ;  non  occorre  neppur  tanto  per  crearsi  un  nome  di  donna 
superiore  e  di  perfetta  padrona  di  casa.  » 

Sopra  questo  ritratto,  che  sembra  divertirla,  l'autrice  stessa  ritorna 
dopo  alcune  altre  pagine,  con  accresciuta  malizia. 

«  La  signora  di  Clairac  procurava  a  ciascuno  l'occasione  di  fav  buona 
figura  sul  proprio  terreno:  metafisica,  filologia,  storia,  letteratura,  ma 
senza  permettergli  di  diventare  il  padrone  assoluto  della  conversazione  e 
di  l'iuscir  noioso.  Essa  aveva  l'accorgimento  particolare  di  fare  entrare  il 
monologo  nella  conversazione  generale  senza  urtare  alcuno,  senza  inflam- 
miarsi  né  prò  né  contro  alcuna  opinione,  fosse  pure  politica.  Il  suo  atteg- 
giamento fra  le  varie  parti  era  quello  di  conciliatrice.  Fra  gli  ospiti  di 
quella  sera  vi  era  pure  un  accademico  settuagenario  ed  un  giovane  filosofo 
di  cui  la  baronessa  conosceva  cosi  bene  gli  scritti  ch'esso  potè  supporre 
che  li  avesse  letti.  Il  vero  é  che  su  quei  grossi  volumi  diligentemente  ta- 
gliati e  messi  in  mostra  possedeva  venti  opinioni  diverse,  le  opinioni  de'  suoi 
venti  amici.  »  Ma,  se  io  volessi  citare  le  pagine  spiritose  e  vivaci  del 
libro,  dovrei  riferirlo  tutto. 

La  Bentzon  non  deve  aver  solamente  letto  molto,  ma  anche  discorso 
molto  con  gli  uomini  de'  quali  sorprende  con  tanta  destrezza  e  delicatezza 
le  debolezze.  Nulla  sfugge  al  suo  occhio  maliziosamente  indagatore,  neppure 
che  la  signora  de  Clairac  teneva  a  posta  sopra  il  suo  tavolo  «  ces  menus 
objets,  crayons,  étuis,  tablettes,  dout  aiment  à  s'emparer  certains  causeurs 
Madame  de  Clairac,  une  des  femmes  rares  chez  lesquelles  on  cause  encore 
prenait  au  sérieux  catte  manie  »  Quanto  al  rimorso  stesso,  che  parrebbe 
essere  il  soggetto  del  romanzo,  quel  che  si  potrebbe  forse  osservare  é 
ch'esso  arriva  un  po'  tardi  e  quando  il  pentirsi  non  giova  più  ad  alcuno  : 
ma  come  la  Chiesa  assolve  i  peccatori  che  fanno  una  morte  edificante  così 
l'autrice  ha  voluto  che  il  mezzo  peccato  fosse  espiato  con  una  mezza  pe- 
nitenza: e  dico  mezza  soltanto,  perché  Manuela  muore  non  solo  pel  suo 
dolore  che  l'accascia,  ma  perchè  sembra  avere  un  male  ereditario  che  la 
condanna  a  morir  giovine  come  suo  padre  e  come  sua  madre.  Tutto  ciò 
riesce  a  dire  che  il  romanzo  ben  condotto  fin  verso  il  fine,  nelle  ultime 
pagine  si  arruffa  un  poco  ;  di  Manuela  rimasta  vedova  l'autrice  non  seppe 
troppo  che  cosa  dovesse  fare  ;  pensò  un  momento  a  mandarla  a  finire  i 
suoi  giorni  in  convento  ;  ma  questo  mezzo  d'espiazione  le  parve,  oltre  che 


168  RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE  STRANIERE. 

un  po'  abusato,  insufficiente;  la  lasciò  vivere  dunque  per  altri  due 
anni  fuori  di  convento  con  la  propria  suocera,  ottima  donna  che  le  vo- 
leva  bene;  e  poi  permise  che  «  La  Providence  »  venisse  a  por  tìne 
a' suoi  mali;  ma  questi  mali  l'autrice  stessa  iion  ebbe  tanta  pazienza 
d'esaminarli  e  la  «  Providence  »  che  <  intervient  et  trancile  la  question,  » 
come  dice  l'autrice,  è  un  mezzo  assai  pio  di  terminare  un  romanzo,  ma 
non  parendomi  un  mezzo  artistico,  avrei  sperato  che  il  fervido  ingegno 
deli'  autrice  ne  avrebbe  immaginato  un  altro  un  poco  più  umano  e  un 
poco  più  nuovo. 

Di  un'altra  specie  di  provvidenza  si  giova  la  signora  Laura  Surville 
(nata  Balzac)  per  istruire  la  piccola  Marianna  ;  '  essa,  mentre  dorme,  e  pensa 
al  suo  compito  di  scuola,  vede  apparire  una  fata,  la  regina  Mah,  la  quale, 
di  notte  in  notte,  le  viene  spiegando  que' misteri  della  scienza  che  possono 
venir  penetrati  dalla  mente  d'una  fanciulla.  Io  dico  in  verità  che  non  ho 
molta  fiducia  nell'opera  educativa  delle  fate,  e  temo  troppo  che  i  fanciulli, 
vedendo  le  fate,  si  preoccupino  troppo  della  loro  figura  meravigliosa  per 
tener  poi  desta  ugualmente  la  loro  attenzione  quando  le  fate  pigliano  il 
posto  della  maestra  e  del  maestro  che  insegna  loro  la  nomenclatura  scien- 
tifica. Il  metodo  parmi  piuttosto  fatto  per  distrarre  il  fanciullo  dalla  ri- 
cerca del  vero  che  per  attirarvelo.  Mescolando  la  finzione  alla  verità  si 
complica  il  lavoro  della  mente  anzi  che  agevolarlo;  quest'obbligo  in  cui 
è  messo  il  fanciullo  di  cercare  dove  finisca  la  finzione  e  dove  incominci 
la  realtiì,  di  separare  il  vero  dal  falso,  mentre  sarebbe  tanto  più  semplice 
l'insegnargli  subito  unicamente  quella  parte  di  vero  che  la  sua  tenera  mente 
può  comprendere  e  ritenere,  mi  sembra  pericoloso.  Ogni  inganno  è  dannoso; 
il  dire  al  fanciullo  che  non  deve  fare  ciò  ch'è  male,  per  non  dispiacere  all'An- 
gelo Custode  od  alla  buona  Fata  che  gli  sta  al  fianco,  è  una  tacita  facoltà  che 
gli  si  dà  di  operare  a  suo  piacere  il  giorno  in  cui  non  crederà  più  agli  Angeli 
Custodi  ed  alle  Fate.  I  giuochi  d'immaginazione  possono  essere  innocenti  ado- 
perati in  cose  lievi  e  con  persone  libere  ;  ma  i  fanciulli,  poveretti,  non  sono 
liberi  ancora;  essi  non  hanno  ancora  facoltà  di  scelta,  e  mi  pare  perciò 
quasi  un  sacrilegio  il  venir  loro  innanzi  con  qualsiasi  forma  d'inganno,  anche 
quando  si  creda  ingannarli  per  fin  di  bene.  Io  non  credo  poi,  e  questo  mi 
pare  che  importi,  che  il  làuciuUo  impari  meglio  dandogli  prima  l'illusione 
che  tutto  il  mondo  della  scienza  è  un  mondo  fantastico;  mi  pare  che  un 
tal  modo  di  insegnare  abbia  lo  stesso  esito  infelice  di  chi  per  invogliare 
il  fanciullo  a  mangiar  cibi  sani  e  sostanziosi  incominci  a  dargli  la 
chicca  e  a  rovinargli  lo  stomaco.  Premessa  tutta  questa  lunga  dichiara- 
zione che  mi  pareva  necessaria,  mi  è  grato  il  poter  soggiungere  che  la 
signora  Surville  ha  saputo  condurre   molto   ingegnosamente  tutto  il  suo 

*  Les  Hcves  de  Marianne.  Parigi,  Calmann  Lery. 


RASSEGNA  DELLE   LETTERATURE   STRANIERE.  169 

libro,  che  i  sogni  latti  dalla  sua  Marianna  sono  graziosi  e  che  sareb- 
bero pure  molto  istruttivi  se  invece  di  sogni  latti  la  notte  fossero  vere  e 
proprie  lezioni  fotte  nel  giorno  innanzi  al  vivo  e  splendido  spettacolo  della 
natura 

La  realtà  è  talora  la  più  bella  poesia,  e  questo  ha  provato,  senza 
dubbio,  il  signor  Ferdinando  Fabro,  il  quale,  scrivendo  la  biografia  del  gio- 
vane e  valente  pittore  francese  Gian  Paolo  Laurens  ha  potuto  intitolarla  «  Le 
Ronaan  d'un  peintre  >  e  farla  comprendere,  senz'altro,  fra  i  romanzi  del- 
l'editore Charpentier,  oltre  al  comprenderlo  egli  stesso  fra  1  suoi  romanzi 
migliori.  Egli  non  vi  ha  messo,  in  vero,  altro  di  suo  che  la  simpatia,  la 
vivacità,  la  poesia  del  racconto;  il  racconto  stesso  è  tutto  veridico;  il  Fabre 
accompagna  la  vita  dell'artista  dal  suo  primo  uscir  dall'  infanzia  quando 
rimaneva  come  estatico  innanzi  alle  sacre  immagini  di  un  «  Livre  des 
heures  »  unico  ricordo  di  sua  madre,  Ano  agli  ultimi  trionfi  nel  Salon  di 
Parigi,  ove  espose  i  suoi  celebri  quadri  «  La  mort  du  Due  d'Enghien  »  e 
«  Le  Pape  Formose.  »  La  vita  del  Laurens  fu  assai  penosa  nel  principio 
della  sua  vita  artistica;  egli  incominciò  come  pittore  ambulante,  ed  ora  è  uno 
dei  primi  maestri  della  pittura  francese.  Forse  il  maggior  numero  di  pit- 
tori potrebbe  offrire  a  romanzieri  destri  e  benevoli  come  il  Fabre  materia 
di  un  romanzo  ;  quasi  tutti  hanno,  nei  primi  anni  del  loro  pellegrinaggio 
artistico,  patito  assai  :  ma  poiché  a  pochi  è  stato  concesso  di  arrivare,  dopo 
tanti  contrasti,  ad  una  meta  gloriosa,  è  utile  questo  romanzo  di  un  gran 
pittore,  se  non  altro  perchè  prova  una  volta  più  che  nell'arte  come  nella 
vita  per  gli  eletti  il  volere  è  veramente  potere.  E  il  Laurens  è  veramente 
un  eletto;  ma  non  fu  neppure  piccola  fortuna  la  sua  quella  di  trovare 
come  biografo  uno  scrittore  così  affettuosamente  simpatico,  ed  un  eccitatore 
gentile  e  generoso  di  ogni  suo  nobile  coraggio. 

«  Io  penso,  scrive  il  signor  Fabre,  che  l'amicizia  fra  due  cuori  generosi 
non  conosce  nulla  di  meschino  e  lascia  ad  entrambi  l'intiera  libertà  del 
giudizio.  Di  questa  libertà  ho  profittato  anch'io  Io  non  nego,  di  certo,  d'es- 
sere stato  più  spesso  portato  ad  ammirare;  senza  tener  conto  di  queirtì?« 
resistibile  orgoglio  che  mi  spingeva  a  trovar  migliore  quello  che  mi  seni?- 
brava  buono,  il  privilegio  dell'amico  non  è  soltanto  di  vedere  ciò  che  l'a- 
mico ha  saputo  fare,  ma  poiché  gli  fu  concesso  di  penetrare  nel  segreto 
della  sua  anima  d'artista,  fucina  sempre  ardente,  anche  di  prevedere  quello 
che  l'amico  saprà  fare  Per  quanto  ne  pare  a  me,  Gian  Paolo  Laurens,  a 
cui  nessuno,  nella  nostra  scuola,  è  superiore  per  la  selvaggia  energia  del 
tocco,  per  la  fierezza  della  composizione,  per  la  fluida  abbondanza  delle  idee, 
Gian  Paolo  Laurens  compirà  grandi  e  forti  cose.  Tali  cose,  oltre  che  io  le 
indovmo  nella  sua  mente  di  continuo  commossa,  agitata,  impaziente  di  pro- 
durre, le  tocco,  si  può  dire,  ad  ogni  istante  col  dito,  sia  quando,  con   l' e- 


170  KASSEGNA  DELLE   LETTERATURE   STRANIERE. 

l'oica  ingenuità  di  Masaccio,  egli  dipinge  nel  Panthéon  la  Morte  di  Santa 
Genoveffa,  sia  quando  per  la  casa  Hachette,  che  ama  tanto  i  bei  libri 
d'arte,  egli  illustra  con  disegni  che  potrebbero  divenir  quadri  i  «  Récits 
merovingiens  »  d'Agostino  Thierry.  Essere  lodati  dai  giornali,  amati,  am- 
mirati, desiderati  dal  pubblico  è  certamente  una  cosa  assai  gloriosa;  ma 
incontrare  sopra  la  via  un  tale  amico  quale  si  rivelò  pel  Laurens  il  Fa- 
bro è  una  gloria  anche  più  rara  e  più  grande,  e  una  fortuna  certamente 
migliore. 

Una  biografia  è  ancor  essa  un  romanzo  realista;  e  il  signor  Zola,  se 
non  fossero  già  troppe  le  prove  recate  in  mezzo  da'  suoi  avversarli  ch'egli 
è  troppo  spesso  un  plagiario  (1'  ultimo  suo  lavoro,  come  ha  dimostrato 
r  Ulbach,  con  la  pretesa  di  riuscire  un  romanzo  contemporaneo  è  un  plagio 
delle  memorie  del  Casanova),  potrebbe  stimarsi  un  eccellente  biografo  dei 
rappresentanti  più  scorretti  della  moderna  società  parigina;  ma  le  bio- 
grafie de' malfattori  si  dovrebbero  riserbare  alle  requisitorie  de'i"egi  pro- 
curatori. Il  pubblico  è  oramai  sazio  di  rivedersi  innanzi  ne'  libri  figuri  che 
eviterebbe  studiosamente  se  li  incontrasse  per  via.  E  pure  l' esempio  dello 
Zola  è  contagioso.  Tra  i  suoi  più  recenti  imitatori  ne  segnalo  uno,  il  signor 
Leon  Hennique,  che  ha  pubblicato  presso  il  Charpenticr  un  così  detto 
roman  naturaliste  sotto  il  titolo:  La  Bc'vouée.  Questo  pare  il  primo  d'una 
serie  di  romanzi  dello  stesso  genere  che  recherà  il  titolo  generale:  Les 
Eéros  Modernes.  Intanto,  per  incominciar  bene,  il  primo  eroe  è  un  padre 
cinico  e  mostruoso,  che  avvelena  una  delle  sue  figlie,  e  manda  la  seconda 
figlia  alla  ghigliottina  lasciando  che  sia  creduta  autrice  dell'  avvelenamento 
della  sorella,  e  nel  tempo  in  cui  la  sua  figlia  Michelle  «  la  devouée  »  sta 
nelle  mani  del  carnefice,  fa  il  giro  de'  instoratori  e  café-chantants  parigini. 
11  signor  Hennique  non  ha  nulla  da  invidiare  allo  Zola,  e  quar.do  un  tal 
genere  di  fama  lo  tenti,  non  deve  disperare  d'acquistarla;  ma  quanto  du- 
rerà poi?  A  me  pare  schiettamente  che  l'ingegno  dell' Hennique  gli  meriti 
una  fama  migliore.  E,  dopo  tutto,  i  buoni  modelli  di  romanzi  imitabili  non 
mancano  neppur  oggi  in  Francia,  per  chi  voglia  giovarsene  La  Berthe 
Sigei  in,  per  esempio,  pubblicata  di  recente  da  Edoardo  Cadol  *  non  sa- 
crifica mai  la  verità  alla  poesia,  ma  facendo  anzi  servir  questa  ad  illu- 
minare il  vero,  lo  i^ende  simpatico.  Gli  uomini  e  le  donne  del  Cadol  sono 
uomini  e  donne  del  nostro  tempo;  gli  uni  fanno  il  loro  dovere;  gli  altri 
lo  dimenticano;  la  simpatia  dell' autore  e  la  nostra  rimane  per  i  primi.  Il 
Cadol  non  va  nelle  nuvole,  ma  non  rade  neppure  il  suolo;  Filippo  e  Berta 
Sigelin  li  abbiamo  conosciuti;  sono  migliori  di  noi,  ma  entrambi  hanno 
passioni  umane;  le  domano,  le  vincono,  e  raccolgono  in  questa  vitii  stessa 

1  Calmann  Lévy,  18Ì8. 


EASSEGNA  DELLE   LETTERATURE   STRANIERE.  171 

(non  nell'altra)  il  premio  di  quella  virtù  che  nessuno  ha  loro  predicata 
ma  eh'  essi  si  sono  volontariamente  imposta.  Romanzi  come  Berta  Sigelin 
Q  romanzieri  come  Edoardo  Cadol  non  sono  solamente  innocenti,  ma  sanno 
pure  rendersi  utili;  e,  poiché  io  non  ho  mai  capito  come,  in  un  tempo  oc- 
cupato come  il  nostro,  vi  possano  essere  lettori  di  romanzi  per  solo  pas- 
satempo, e  credo,  invece,  che  il  maggior  numero  di  lettori,  anche  non  con- 
fessandolo, desideri  imparar  qualche  cosa  anche  dai  romanzi,  non  mi  di- 
spiace aver  terminato  la  presente  rassegna  raccomandando  la  lettura  di 
quello  che  mi  pare  un  buon  romanzo. 


Angelo  De  Gubernatis. 


EASSEGNA  MUSICALE. 


Gli  spettacoli  della  stagione  di  carnevale-quaresima.  —  Il  teatro  Apollo  di  Roma. 
—  Le  opere,  —  Don  Giovanni  d'Austria  del  maestro  Marchetti.  —  La  Scala 
di  Milano.  —  Il  Re  di  Lahore  del  maestro  Massenet.  —  Ero  e  Leandro  del 
maestro  Bottesini  al  Teatro  Regio  di  Torino.  —  La  Regina  di  Saba  del 
maestro  Goldmark.  —  Speranze  per  T  avvenire. 


Da  alcuni  anni  anche  le  antiche  consuetudini  teatrali  vanno  scompa- 
rendo; la  stagione  di  carnevale-quaresima,  che  un  tempo  era  importantis- 
sima per  la  maggior  parte  dei  teatri  musicali  della  Penisola,  ora  non  lo  è 
più  che  per  pochi  Le  opere  moderne  richiedono  spese,  che  soltanto  alcuni 
teatri  sono  in  grado  di  sostenere.  La  Scala  di  Milano,  il  Regio  di  Torino. 
l'Apollo  di  Roma,  ecco  le  scene  nelle  quali  si  mantengono  più  o  meno  vive 
le  tradizioni  delle  passate  glorie.  11  San  Carlo  di  Napoli  è  ridotto,  per  molti 
riguardi,  alle  condizioni  di  un  teatro  di  second'ordine ;  la  Pergola  di  Fi- 
renze è  chiusa;  il  Carlo  Felice  di  Genova  si  dibatte  nelle  strette  dell'agonia  ; 
i  teatri  maggiori  di  Parma  e  di  Modena  si  contentano  di  spettacoli  da  pro- 
vincia; la  Fenice  di  Venezia  si  riapre  qualche  anno  ed  altre  volte  sta 
chiusa.  E  siccome  l'allestire  un  decente  spettacolo  costa  assai  più  in  car- 
nevale che  in  altre  stagioni,  così  poco  per  volta  si  à  estesa  in  parecchie 
città  l'usanza  di  sacrificare  ad  Euterpe  in  primavera  o  nell'  autunno,  od 
anche  durante  l'estate.  Per  verità,  indipendentemente  dalle  nuove  condi- 
zioni d'Italia,  basta  considerare  il  mutamento  avvenuto  nella  qualità  degli 
spettacoli  per  avere  la  spiegazione  dei  fatti  sovraccennati.  Quarant'anni  fa, 
tre  0  quattro  artisti  di  prim' ordine  erano  su flìcien ti  a  costituire  un  teatro, 
come  allora  lo  si  denominava,  di  cartello.  Trentadue  coristi,  cinquanta  pro- 
fessori d'orchestra  erano  più  clie sufficienti  alle  esigenze  degli  spartiti  che, 
in  quel  tempo  erano  in  onore.  Oggi  le  cose  procedono  diversamente.  Non 
una,  ma  due  e  qualche  volta  tre  compagnie  di  canto  si  richiedono,  e  al- 
meno ottanta  coristi,  e  dagli  ottanta  ai  cento  suonatori  por  le  opere  che  il 
pubblico  a  ragione  o  a  torto  mostra  di  prediligere.  Non  parliamo  della 
parte  coreografica  che  costa  ancor  più.  In  generale  è  aumentato  anche 
il  prezzo  d' ingresso,  ma  questo  aumento,  se  è  poco  avvertito  nei  centri 
più  cospicui,  riesce  assolutamente  intollerabile  nelle  città  minori  ;  tanto  è 


RASSEGNA   MUSICALE.  173 

vero  che  in  esse  poco  per  volta  si  ritorna  ai  prezzi  miti,  contentandosi  di 
opere  veccliie  eseguite  da  artisti  dozzinali. 

Tutte  queste  cause  insieme  l'iunite  tolgono,  come  abbiamo  detto  fin 
da  principio,  gran  parte  del  suo  prestigio  alla  sera  di  Santo  Stefano,  locchè 
non  significa  che  in  parecchi  teatri  il  carnevale  e  la  quaresima  non  sieno  an- 
cora lo  stagioni  nelle  quali  avvengono  le  più  ragguardevoli  manifestazioni 
dell'arte  musicale  scenica,  sia  per  le  esecuzioni  complessive  degli  spetta- 
coli, sia  per  le  novità  che  sono  sottoposte  al  giudizio  del  pubblico.  Forse 
fra  qualche  anno  si  entrerà  in  un  nuovo  periodo  e  avremo  quell'ordinamento 
dei  teatri  a  repertorio,  eh'  è  nei  desiderii  di  molti  ;  ma  non  è  qui  oppor- 
tuno di  rimettere  in  campo  una  questione  sulla  quale  si  è  tanto  scritto  e 
stampato,  e  che  ormai  è  venuta  a  noia  perfino  a  coloro  che  l'hanno  promossa 
Fermandoci  allo  stato  presente  dell'  arte  e  senza  spingere  lo  sguardo  nel 
futuro,  non  sarà  inutile  di  passare  brevemente  in  rassegna  gli  spettacoli 
de'  primarii  teatri  italiani  dal  26  dicembre  fino  ad  oggi.  E  incominceremo, 
com'è  giusto,  dalla  capitale. 

L'  Apollo  di  Roma  parve  dovesse  aprirsi  sotto  lietissimi  auspicii. 
Certo,  non  si  era  mai  vista  sul  manifesto  del  nostro  massimo  teatro  una 
schiera  di  artisti  cosi  numerosa  come  quella  di  quest'anno.  Ma  i  fatti  di- 
mostrarono che  se  per  alcune  parti  c'era  abbondanza  anche  soverchia,  ad 
altre  invece  era  troppo  scarsamente  provveduto.  Le  rappresentazioni  fu- 
rono spesso  interrotte  e  sospese  per  la  cattiva  distribuzione  del  personale 
artistico;  di  una  parte  della  compagnia  di  canto  fu  quasi  impossibile  gio- 
varsi; a  un'altra  parte  fu  imposto  un  lavoro  superiore  alle  sue  forze.  Non 
entreremo  nei  particolari  dei  vari  spettacoli  che  nel  corso  di  due  mesi  si 
sono  succeduti  all'Apollo;  una  rassegna  di  questa  fatta  sarebbe  qui  fuor 
di  luogo  e  non  somministrerebbe  argomento  ad  alcuna  utile  considerazione. 
Fino  ad  ora  nessuna  novità  è  stata  rappresentata;  V Amleto  del  Thomas 
(mai  eseguito  a  Roma),  e  l'opera  nuova  del  maestro  Marchetti,  Bon  Gio- 
vanni d'Austria,  non  andranno  in  iscena  che  nella  seconda  metà  della  sta- 
gione teatrale.  La  prima  è  stata  occupata  quasi  esclusivamente  àdiW  Africana 
e  àSiWAida,  opere  entrambe  già  notissime  al  pubblico  romano  E  seguendo  il 
mal  costume  di  altri  teatri,  V Africana  dopo  le  prime  sere  è  stata  barba- 
ramente mutilata  e  ridotta  a  tre  atti  per  far  posto  al  ballo.  È  vero  che 
in  compenso  si  aggiunse  non  meno  barbaramente  una  coda  al  settimino  del 
secondo  atto,  senza  alcun  rispetto  alla  memoria  del  Meyerbeer,  il  quale, 
se  fosse  vivo,  esclamerebbe  come  Dante:  quesfarri  non  vi  mis'  io.  Assai 
migliore  e  più  commendevole  è  stata  la  riproduzione  deìVAida  che  esercita 
ancora  un  fascino  irresistibile  quando  è  interpretata  a  dovere,  poiché  il 
Verdi  è  ancor  vivo,  e  l'illustre  maestro  e  i  suoi  rappresentanti  non  tolle- 
rano facilmente  che  a  quel  capolavoro  si  rechi  offesa. 

Quindi  nell'Aida  si  ebbe  cura  di  riunire  il  buono  ed  il  meglio  della 
compagnia  e  di  far  le  prove  necessarie,  e  di  rispettare  le  intenzioni  del- 
l'autore senza  stimarsi  lecite  mutilazioni  ed  aggiunte.  Ma  è  veramente 
spiacevole  che  in  Italia  non  si  abbia  a  sperare  che  un'opera  sia  convenien- 


174  KASSEGNA  MUSICALE. 

temente  eseguita  in  ogni  sua  parte  se  non  interviene  la  ferrea  volontà  del 
Verdi  o  del  suo  editore  a  ina  porre  gli  artisti,  il  direttore  d'orchestra,  l'al- 
lestimento scenico.  Felice  il  Verdi  che  per  la  gloria  acquistata  è  in  grado 
di  esercitare  questa  salutare  tirannia!  Ma  ben  più  ancora  avrebbe  ragione 
di  rallegrarsi  l'arte  se  questo  rispetto  per  le  opere  de'grandi  maestri 
fosse  sentito  dagl'impresari,  dalle  direzioni  teatrali,  dai  direttori  d'orche- 
stra, dalla  stampa,  e  più  ancora  dal  pubblico,  il  quale  spesso  ne'suoi  giu- 
dizi non  è  guidato  da  criteri  artistici  e  inveisce  a  torto  contro  alcuni 
spettacoli  0  altri  ne  approva  senza  ragione.  la  Italia  poi,  e  sovrattutto  a 
Roma,  vediamo  da  qualche  tempo,  metter  salde  radici  alcune  usanze  che 
non  sì  potranno  mai  biasimare  e  deplorare  abbastanza.  La  più  funesta,  la 
più  micidiale  di  tutte  è  la  claque  per  la  quale  la  nostra  lingua  non  ebbe^ 
in  passato,  vocabolo  corrispondente.  Ora  bisognerà  trovarlo,  inventarlo  se 
occorre  e  pregare  gli  accademici  della  Crusca  di  concedergli  benigna 
ospitalità.  La  claque  è  l'applauso  prezzolato  e,  ci  si  meni  buona  anche 
questa  parola,  organizzato.  Chi  è  stato  a  Parigi  (e  chi  non  ci  è  stato?) 
rammenta  quella  fila  di  plaudenti  che  in  tutti  i  teatri,  ad  un  segnale  del 
loro  capo  picchiavano  le  mani  in  mezzo  allo  sprezzante  silenzio  del  pub- 
blico pagante.  L'arte  della  claque  aveva  raggiunto  un  altissimo  grado  di 
perfezione;  vi  erano  diverse  qualità  di  applausi,  e  semplici  approvazioni 
e  opportune  esclamazioni  d'ammirazione.  Diciamo  vi  erano  e  non  vi  sono, 
perchè  chi  oggi  ritornasse  a  Parigi  troverebbe  quasi  in  isfacelo  queir  an- 
tica e  poco  benemerita  istituzione.  Molti  impresari  e  direttori  dei  teatri 
parigini  hanno  approfittato  dello  straordinario  concorso  di  spettatori  re- 
cato loro  dalla  Esposizione  universale  per  sopprimere  la  claque  e  restituire 
la  libertà  di  giudizio  al  vero  pubblico.  In  Italia  siffatte  brutture  non 
s'orano  mai  viste  in  passato;  anzi  erano  tanto  contrarie  alle  nostre  abitu- 
dini che,  perfino  a  Parigi,  quando  la  claque  regnava,  si  può  dire,  padrona 
del  campo,  il  solo  Teatro  italiano  non  era  infetto  di  quella  lebbra.  Ora  ci 
pare  strano  che  si  venga  propagando  in  Italia  una  consuetudine  che  i 
francesi  stessi  riconoscono  pessima  e  ripudiano,  e  procurano  con  tutte  le 
loro  forze  di  rimuovere.  Fra  noi  la  malattia  è  in  sul  nascere;  forse  a 
Roma  ha  progredito  un  po' più,  ma  non  tanto  da  non  potere  essere  curata 
con  energici  rimedi.  Ci  dovrebbero  pensare  il  pubblico,  gl'impresari  stessi 
nel  proprio  interesse,  e  in  qualche  caso  anche  le  autorità,  imperocché  la 
claque  assume  pure  qualche  volta  i  caratteri  del  ricatto,  e  al  pari  di 
tutti  gli  altri  ricatti  dovrebbe  andare  soggetta  alle  pene  minacciate  dalla 
legge.  Un  tempo  si  combattevano  le  battaglie  artistiche,  le  quali  avevano 
un  eerto  qual  carattere  di  elevatezza  e  di  nobiltà,  anche  quando  soccom- 
beva la  causa  giusta  11  pubblico,  che  per  un  errore  di  giudizio  fischia 
il  Barbiere  di  Rossini,  o  la  Lucrezia  Borgia  del  Donizetti,  o  la  Traviata 
.  del  Verdi,  non  è  da  confondersi  con  coloro  che  discutono  e  stabiliscono  la 
tariffa  degli  applausi.  Di  quello  si  compiange  l'ignoranza,  di  questi  muove 
a  schifo  la  venalità.  Ma  forse  l'inconveniente  che  lamentiamo  è,  alla  sua 
volta  una  conseguenza  diretta  e  quasi  inevitabile  dell'importanza  commer- 


RASSEGNA   MUSICALE^  175 

ciale  che  sempre  più  vengono  assumendo,  non  solamente  in  Italia  ma  in 
tutto  il  mondo,  le  arti  teatrali.  Un'  opera  di  un  maestro  illustre  rappre- 
senta un  valore  di  qualche  centinaio  di  migliaia  di  lire  ;  un  artista  di 
grido  guadagna,  oggidì,  addirittura  milioni,  che  crescono  o  scemano  secondo 
la  maggiore  o  minore  intensità  del  successo.  Con  questi  interessi  se  ne 
collegano  molti  altri  che  hanno  duopo  di  essere  patrocinati  e  sostenuti. 
Ed  è,  se  non  lodevole,  (almeno  nel  caso  di  cui  parliamo)  certo  naturale, 
che  i  patrocinatori  di  interessi  commerciali  vogliano  trovarci  anch'essi  il 
loro  tornaconto.  Se  ci  provassimo  ad  esaminare  a  fondo  questa  delicata 
questione,  si  aprirebbe  un  vasto  campo  alle  nostre  meditazioni,  e  ci  con- 
verrebbe rivelare  ai  lettori  molte  piaghe  che  il  maggior  numero  di  essi 
ignorano.  La  venalità  in  una  minima  frazione  del  pubblico  è  stata  prece- 
duta e,  per  così  dire,  preparata  dalla  corruzione  che  si  ò  venuta  infiltrando 
nella  massima  parte  della  stampa  teatrale  e  da  questa  s'  è  incominciata 
a  diffondere  anche  nella  critica  artistica  dei  giornali  politici.  Ciò  non  ac- 
cade, ne  siamo  persuasi,  nei  giornali  più  autorevoli  e  rispettabili,  ma 
guai  all'arte  se  quelle  male  azioni  diventeranno  consuetudine  presso  di 
noi  !  I  critici  che  non  si  venderanno,  saranno  segnati  a  dito,  come  avviene 
in  altri  paesi,  dove  questi  peccati  sono  tenuti  inseparabili  dall'  uftìcio  di 
giornalista. 

Ma  è  tempo  di  lasciare  questo  spiacevole  argomento  e  di  ritornare 
senz'altro  agli  spettacoli  del  teatro  Apollo.  Abbiamo  detto  che  sono  pro- 
messi per  la  seconda  stagione  Y Amleto  del  maestro  Thomas  e  1'  opera 
nuova  Don  Giovanni  d'Austria  del  maestro  Marchetti,  il  simpatico  au- 
tore del  popolare  Buy  Blas.  DeìV Atnleto  poco  abbiamo  a  dire,  trattandosi 
di  musica  non  ancora  eseguita  a  Roma,  ma  già  da  parecchi  anni  giudi- 
cata all'estero  e  nota  anche  in  alcune  città  d'Italia,  dove  l'opera  del  Tho- 
mas è  stata  favorevolmente  accolta. 

II  Thomas,  direttore  del  Conservatorio  di  Parigi,  appartiene  alla  scuola 
degli  eclettici:  uno  de'  suoi  migliori  lavori  è  il  Caid  specie  di  parodia  della 
musica  italiana,  ma  che  vale  e  piace  appunto  per  la  chiarezza  delle  me- 
lodie quasi  tutte  italiane  schiettamente.  Non  enumereremo  le  altre  opere 
di  questo  egregio  compositore,  il  quale  ha  pi^ocurato  di  raccogliere  in  sé 
le  qualità  del  Meyerbeer,  del  Verdi,  del  Gounod,  ma  in  fondo  non  ha 
un'  individualità  propria,  quantunque  la  sua  musica  vada  lodata  per 
molti  pregi  d"  inspirazione  e  di  fattura.  Le  opere  alle  quali  egli  va  prin- 
cipalmente debitore  della  sua  fama  e  dell'alto  posto  occupato  in  Francia, 
sono  la  Mignon  e  V Amleto.  La  prima  è  lavoro  più  completo,  fors'  anche 
perchè  il  soggetto  era  più  adatto  alla  musica;  nelV Amleto  invece  il  mae- 
stro si  accinge  ad  un'impresa  impossibile  tentando  di  riprodurre  musi- 
calmente il  profondo  concetto  filosofico  del  poeta  inglese.  È  invece  mira- 
bilmente colorita  la  parte  drammatica  e  poetica  e  in  ispecie  la  soave 
figura  d'Ofelia.  Qualunque  abbia  ad  essere  il  giudizio  del  pubblico  romano, 
esso  giungerà  troppo  tardi  per  acci'escere  o  scemare  credito  a  uno  spartito 
che  percorre  da  oltre  dieci  anni  i  principali  teatri  d'Europa.  È  vero  però 


176  RASSEGNA   MUSICALE. 

elle  VAmleto,  il  quale  per  le  sue  incontrastabili  qualità  drammatiche 
piacque  in  Francia  e  in  Italia,  non  trovò  fortuna  in  Inghilterra  né  in 
Germania,  appunto  perchè  non  parve  rispondere  interamente  al  capolavoro 
di  Shaskespeare. 

Dell'opera  del  Marchetti  potremmo  parlare  a  lungo,  poiché  per  cortesia 
dell'autore  ne  abbiamo  letta  tutta  la  musica  II  Marchetti  ha  avuto  sempre 
davanti  agli  occhi  un  nobile  ideale:  l'espressione  melodica  del  dramma. 
Ma  è  avvenuto  a  lui  come  ad  altri  artisti,  che  prima  di  raggiungere  la 
meta,  hanno  dovuto  cercare  lungamente  la  via,  e  moltiplicare  gli  sforzi 
e  i  tentativi.  Però  nell'opera  Giulietta  e  Romeo  e  nel  Ruy  Blas  è  già 
indicato  lo  scopo  a  cui  mira  il  compositore.  Sarà  esso  pienamente  conse- 
guito nel  Bon  Giovanni  crAusiì^iaì  A  noi,  per  quanto  è  lecito  giudicarne 
da  una  semplice  lettura,  par  di  sì.  il  Marchetti  si  è  sovratutto  preoccu- 
pato di  sciogliere  un  problema:  conciliare  la  più  ampia  libertà  delle  forme 
colla  condotta  regolare  dei  pezzi  e  lo  sviluppo  necessario  delle  idee  mu- 
sicali. Egli  ci  diceva  non  ha  guari  :  il  maggior  timore  eh'  io  mi  abbia,  si 
è  di  udirmi  a  dire  che  ho  fatto  troppo  dramma  e  poca  musica.  Or 
bene,  a  nostro,  avviso  questo  timore  non  lia  fondamento,  perchè  nella  nuova 
opera  la  musica  serve  il  dramma  senza  rinunziare  a  tutte  le  proprie  ragioni, 
come  accade  troppo  spesso  nelle  opere  moderne.  La  questione  della  forma 
musicale  è  ormai  matura;  non  bisogna  confondere  la  libertà  della  forma 
colla  mancanza  di  una  forma  chiara  e  ordinata.  Gli  è  come  se  in  un  di- 
scorso .si  lodasse  il  procedere  a  sbalzi,  il  menare  ad  ogni  tratto  il  can 
per  l'aia,  e  1'  interrompere  i  ragionamenti,  anzi  il  non  conchiuderli  per 
progetto.  Tale,  è  pur  troppo,  la  novità  della  forma  come  la  intendono 
alcuni  dei  moderni  maestri,  i  quali  non  sanno  trovare  una  via  dì  mezzo 
tra  le  forme,  per  così  dire  stereotijyate,  di  venti  o  trentanni  fa  e  il  di- 
sprezzo di  qualunque  regola,  di  qualunque  freno,  di  (lualunque  ordine.  Il 
Marchetti  crede  che  ai  diritti  del  dramma  non  sia  necessario  di  sacrificare 
quelli  della  musica,  e  tutto  il  suo  Don  Giovanni  d'Austria  rende  testi- 
monianza di  questa  sua  fede  inconcussa.  Qualunque  abbia  ad  essere  il 
risultato  (e  noi  portiamo  ferma  fiducia  che  sarà  favorevolissimo;,  il  nuovo 
lavoro  del  Marchetti  ò  un  ardito  tentativo  frutto  di  lunghi  studi  e  di 
salde  convinzioni  sorrette  da  un  grande  ingegno.  Un'altra  delle  novità 
dell'opera  sarà  la  grande  semplicità.  L'azione  drammatica  si  svolge  senza 
il  lenocinlo  dei  frequenti  mutamenti  di  scena,  delle  danze,  delle  lunghe 
processioni,  della  banda  sul  palco  scenico,  degli  arredi  strani  o  sfarzosi. 
Il  D'Ormeville,  autore  del  libretto,  sfuggirà  diffìcilmente  un  rimprovero, 
quello  cioè  di  aver  collocato  personaggi  dai  nomi  storici  rimbombanti  — 
Don  Giovanni  d'Austria,  Filippo  li,  Carlo  V  —  nel  piccolo  quadro  di  un 
dramma  intimo.  Il  D'Ormeville  risponderà  che  ha  tolto  il  suo  libretto  da 
una  commedia  del  Delavigne  e  che  d'altronde,  neanche  il  poeta  francese 
inventò  di  pianta  la  favola,  ma  la  trasse,  almeno  in  parte,  da  storici  do- 
cumenti. Comunque  sia,  e  anche  ammesso  che  la  critica  trovi  a  ridire 
sulla  scelta  del  soggetto,  è  fuor  di  dubbio  che  il  dramma  per  se  stesso,  e 


RASSEGNA   MUSICALE.  177 

in(iipenrbnteraente  dagli  illustri  nomi  dei  personaggi,  è  commovente  e  terrà 
desta  dal  principio  al  tìn3  l'attenzione  dagli  spettatori.  E  questa,  checché 
se  ne  dica,  è  la  miglior  qualità  di  un  libretto  per  musica. 

Poiché  abbiamo  parlato  sommariamente  di  alcune  delle  opere  rappre- 
sentate 0  da  rappresentarsi  all'Apollo  di  Roma,  non  sarebbe  inopportuno 
il  recar  un  giudizio  anche  su  taluno  degli  artisti  che  vi  hanno  parte.  Sa- 
rebbe uno  studio  utile,  anche  perché,  trovandosi  riuniti  sul  palco  scenico 
di  quel  teatro  artisti  appartenenti  a  diverse  nazioni,*  ci  sarebbe  luogo  a 
importanti  confronti.  Ma  l'entrare  in  numerosi  panicolari  ci  porterebbe 
troppo  lungi  e  richiederebbe  soverchio  spazio  Una  sola  osservazione  vo- 
gliamo fere,  vale  a  dire  che  l'arte  r'el  bel  canto  non  è  più  esclusivamente 
italiana.  All'Apollo,  per  esempio,  essendosi  rappresentata  la  1  ucrezia 
Borgia,  una  cantante  vienne.se,  la  Tremelli.  alla  quale  era  affldata  la  parte 
di  jMalBo  Orsini,  fu  la  sola  che  mostrasse  di  conoscere  ancora  e  posse- 
dere-le  buone  tradizioni  di  quella  musica  Neil'. ^fcZt/,  un'altra  primadonna 
viennese,  la  Sin^ier,  pronunzia  più  chiaramente  e  correttamente  che  non  i 
suoi  compagni  italiani  e  li  vince  ez'andio  per  l'eflicacia  dell'accento  dram- 
matico. Arrogi  che  i  cantanti  stranieri  sono  quasi  tutti  più  colti  e  più 
diligenti  dei  nostri.  E,  ciò  ch'è  più  doloroso  a  dirsi,  gli  artisti  italiani 
diventano  migliori  cantando  all'estero  II  tenore  Stagno,  artista  di  vaglia 
e  applauditissimo  all'Apollo,  ha  percorsa  quasi  tutta  la  sua  carriera  fuori 
d'Italia.  Si  aprirebbe,  dunque,  un  larghissimo  campo  alle  nostre  osserva- 
zioni sulle  scuole  di  canto,  e  sul  pericolo  che,  anche  per  questo  riguardo, 
noi  di  entiamo  fra  breve  tributari  delle  altre  nazioni.  Ma  a  che  ripetere 
ciò  che  tutti  sanno?  In  Italia  i  buoni  maestri  di  canto  (diciamo  buoni  e 
non  ottimij  si  contano  sulle  diti  E  per  alcuno  di  essi  l'insegnamento  non 
è  che  un  mazzo  par  cercare  e  reclutare  b9lle  voci,  che  poi  vendono  al 
miglior  offerente  appena  sono  in  grado  di  urlare  il  Trovatore  o  il  Ballo 
in  maschera,  senza  curarsi  punto  di  ripulirle,  educarle.  Gli  antichi  maestri 
di  canti  ponevano  tutta  la  loro  gloria  nel  far  si  che  il  giovine  artista 
uscisse  dalla  loro  scuola  interamente  padrone  dei  segreti  dell'arte,  e  impedi- 
vano ch'esordisse  sulle  scene  prima  del  tempo.  Oggi,  invece,  i  maestri  sono 
essi  i  primi  ad  incoraggiare  gli  scolari  a  terramare  prematuramente  gli  studi 
e  a  slanciarsi  nell'agone  teatrale  senz'nitro  corredo  di  cognizioni  che  cinque 
o  sei  spartiti  imparati  a  memoria.  Oli  è  ohe  il  maestro  é  pure  impi'e.sario, 
agente  teatrale  e  qualche  volta  anche  giornalista,  e  da  questo  cumulo 
d'ufnci  ritrae  profitti  «li  varie  specie 

Alla  Scala  di  Milano,  quest'  anno  gli  spettacoli  camminano  col  vento 
in  poppa;  e  1  è  un  fatto  da  segnarsi  col  carbon  bianco.  I  Milanesi  so- 
glion  dire  che  il  loro  teatro  è  il  primo  del  mondo,  ed  hanno  avuto 
ragione  in  alcune  grandi  occasioni  Certo  pochi  teatri  dispongono  di  mezzi 
così  numerosi  e  ragguardevoli.  Questo  ebbe  a  confessare  lealmente  anche 
il  maestro  Massanct,  che  pose  in  iscena  alla  Scala  il  suo  Re  di  I.ahure  I 
lettori  ^e\y Antolorjia  rammenteranno  che,  fin  dall'anno  scorso,  a  proposito 
di  quest'opera  abbiamo  lamentata  la  soverchia  facilità  con  cui  in  Italia  si 

VoL.  X!V,  Serie  II  —  l  Marzo  l'ì9.  12 


178  EASSEGNA  MUSICALE. 

concerie  ospitalità  ai  lavori  stranieri,  mentre  all'estero,  e  segnatamente  in 
Francia,  i  lavori  italiani  non  sono  accettati  che  con  grandi  cautele,  quasi 
con  ripugnanza  e,  per  usare  il  linguaggio  parlamentare,  dopo  prova  e 
controprova.  Il  R(  di  Lahore  è,  senza  dubbio,  opera  ricca  di  pregi,  ma 
non  un  capolavoro  consacrato  dal  tempo;  il  Massenet  è  un  valente  musi- 
cista, ma  non  superiore  a  parecchi  che  ne  abbiamo  in  Italia.  Ora  è  dolo- 
l'oso,  a  cagion  d'esempio, che  gl'impresari  italiani  vadano  a  gara  nel  ripro- 
durre il  Re  di  Lahore  e  lascino  poi  in  disparte  i  Lituani  e  la  Gioconda 
del  Po.nchielli,  opere,  ci  sia  concesso  il  dirlo,  di  ben  altro  merito.  E  fu 
pure  opportunamente  ricordato  che  mentre  noi  decretiamo  gli  onori  del 
trionfo  al  Massenet  e  all'opera  sua,  a  Parigi  furono  severamente  giudicati 
ed  esclusi  dal  repertorio  il  Don  Carlos  e  i  Vespri  siciliani  del  Verdi. 
Il  cosmopoli tikmo  dell'arte  sarebbe  un  principio  sacrosanto,  se  gli  si  ac- 
compagnasse quello  della  reciprocità.  Con  ciò  non  intendiamo  di  bandire 
dalle  nostre  scene  le  opere  straniere;  vorremmo  soltanto  ch'esse  fossero 
tali  da  far  progredire  l'arte  e  da  esercitare  una  salutare  influenza  anche  sugli 
studi  musicali  nel  nostro  paese  Nessuno  negherà  che  una  siffatta  influenza 
l'abbiano  esercitata  le  opere  del  Meyerbeer,  il  Faust  di  Gounod,  il  Lohen- 
grin di  Wagner,  ma  questa  non  è  ragione  suflìciente  per  aprire  le  porte 
dei  nostri  teatri  a  tutte  indistintamente  le  opere  che  nascono  fuori  d'Italia. 
Questo  abbiamo  dichiarato  altre  volte,  e  lo  ripetiamo  anche  ora  in 
termini  generali  e  senza  alcuna  intenzione  di  mostrarci  men  che  benevoli 
verso  il  maestro  Massenet,  il  quale  agli  altri  suoi  meriti  unisce  quello  di 
una  grande  modestia.  Del  resto  la  fortuna  del  Re  di  Lahore  in  Italia  si 
spiega  facilmente;  oltre  la  musica  in  gran  parte  lodevole,  lo  raccoman- 
dano la  novità  e  la  varietà  dello  spettac()lo.  IMa  è  vero,  del  pari,  che  dopo 
essere  stato  rappresentato  nei  principali  teatri  della  penisola,  non  lascerà 
traccia  di  sé  e  sparirà  come  una  meteora.  In  fondo,  è  questo  il  giudizio 
che  ne  hanno  recato  anche  i  giornali  milanesi,  giudizio  che  convien  leggere 
fra  le  righe  e  scoprire  sotto  il  velame  delle  riserve,  dei  sottintesi  e  della 
qualità  stessa  delle  lodi,  È  avvenuto  però  a  Milano  un  curioso  fatto;  la 
parte  coreografica  del  Rs  di  Lahore,  che  altrove  aveva  suscitato  maggior 
entusiasmo,  alla  Scala  non  piacque,  anzi  fu  disapprovata  con  tanta  insi- 
stenza che  convenne  mutilarla  sconciamente  per  non  esser  obbligati  a 
sopprimerla  addirittura.  La  medesima  sorte  era  toccata,  poco  prima,  alle 
danze  del  .X'o^i  Carlos.  La  grandiosa  opera  del  Verdi  era  stata  accolta 
con  grandissimo  favore,  ma  dopo  alcune  sere  divenne  necessario  di  omet- 
tere i  ballabili.  Si  è  detto  che  la  causa  delle  proteste  del  pubblico 
andava  ricercata  non  già  nella  musica  ma  nella  cattiva  composizione  co- 
reografica delle  danze.  Non  abbiamo  visto  il  Con  Carlos  e  il  Re  di  Lahore 
alla  Scala,  ma  trattandosi  del  primo  teatro  del  mondo,  non  ci  pare  pos- 
sibile che  le  danze  fossero  composte  ed  eseguite  peggio  che  a  Roma,  o  a 
Torino  o  a  Vicenza.  Più  probabilmente  queste  disapprovazioni  sono  un 
principio  di  reazione  che  si  viene  manifestando  contro  Vopera-ballo,  Vopera- 
mastodonte,  come  fu  bizzarramente  denominata  da  un  uomo  di  spirito. 


RASSEGNA   MUSICALE  179 

Dovremmo  ringraziare  gli  Dei  se  il  pubblico  si  mettesse  davvero  per  questa 
via  e  domandasse  il  ritorno  ad  opere  più  brevi,  più  semplici,  e  incorag- 
giasse i  maestri  a  rompere  il  patto  che  hanno  stretto  col  coreografo,  col 
vestiarista,  con  lo  scenografo. 

Abbiamo  più  sopra  accennato  al  tentativo  del  Marchetti  in  questo 
senso;  ora  dobbiamo  far  menzione  di  un'altra  opera  breve  anch'essa  (in 
tre  atti),  il  successo  della  quale  va  attribuito  al  merito  intrinseco  della 
musica,  anziché  alla  parte  coreografica  e  allo  splendido  allestimento  della 
scena.  E  dessa  il  nuovo  spartito  del  Bottesini  —  Ero  e  Leandro  —  testé 
rappresentato  al  teatro  Regio  di  Torino.  Il  Boito  ne  scrisse  il  libretto  ed 
egli  stesso  ne  avea  composta  pure  la  musica.  Ma  poi  si  sgomentò  dell'opera 
propria  ;  gli  nacque  il  dubbio  che  l'argomento  fosse  troppo  freddo,  che 
gli  mancasse  quella  impronta  di  grandiosità  ch'è  il  carattere  delle  opere 
moderne.  E  tra^'agliato  da  questi  timori,  distrusse  la  musica  e  cedette  al 
Bottesini  il  libretto.  Alcuni  pezzi  dell'aro  e  Leandro,  come  il  duettino: 
Lontano,  lontano,  furono  dal  Boito  trasportati  nel  Mefistofele  rinnovato. 
Noi,  giusti  estimatori  dell'ingegno  del  Boito,  crediamo  ch'egli  abbia  avuto 
torto.  Il  libretto  dell'^'ro  e  Leandro  è,  nella  sua  semplicità,  uno  dei  mi- 
gliori fra  quanti  ne  sono  venuti  alla  luce  in  questi  ultimi  anni.  La  mu- 
sica, giudicandola  dai  pochi  saggi  che  ne  abbiamo  uditi  nel  Mefistofele, 
doveva  rispondere  egregiamente  al  soggetto.  Non  ci.  recherebbe,  dunque, 
meraviglia  che  il  Boito,  male  inspirato  e  consigliato,  avesse  distrutto  colle 
proprie  mani  un  capolavoro. 

Il  Bottesini,  valentissimo  suonatore  di  contrabbasso,  compositore  simpa- 
tico, ma  che  finora  nel  campo  teatrale  era  andato  innanzi  con  incerto 
passo,  ebbe  il  raro  accorgimento  d'intendere  tutto  il  partito  che  si  poteva 
trarre  dall'  idillio  del  Boito.  Il  nuovo  spartito  non  è  ancora  venuto  alla 
luce  per  le  stampo,  ma  i  giornali  torinesi  sono  stati  unanimi  nel!'  enco- 
miarlo. Ad  ottenergli  una  cortese  accoglienza  giovò  anche  la  esecuzione, 
buona  in  complesso,  ottima  per  parte  del  valente  tenore  Barbaccini.  Ma  la 
buona  esecuzione  non  é  mai  riuscita  a  render  gradita  la  musica  cattiva; 
quindi  dobbiamo  prestar  fede  alla  stampa  torinese,  la  quale  porta  a  cielo 
le  melodie  del  Bottesini  e  assicura  che  la  sua  nuova  opera  vivrà  lunga- 
mente nel  repertorio  italiano.  Della  qual  cosa  siamo  lietissimi.  Del  resto  va 
detto  ad  onore  del  vero  che  l'impresario  del  Teatro  Regio  di  Torino  è  forse 
il  solo  in  Italia  che  provveda  ai  propri  interessi  promovendo  queWi  dell'arte. 
È  uno  degli  impresari  che  più  facilmente  si  persuadono  a  tentare  in  Italia 
le  opere  straniere,  ma  d'altro  canto  corregge  questo  difetto  (se  pur  lo  si  può 
chiamar  tale),  ponendo  in  iscena  ogni  arino  anche  un'opera  di  autore  italiano, 
nuova  di  zecca.  L'anno  passato  fu  il  primo  a  rappresentare  in  Italia  il  He  di 
Lahore,  ma  chiamò  pure  i  torinesi  a  giudicare  per  i  primi  la  Francesca  da 
Rimini  del  Cagnoni.  Quest'anno  ha  divisato  di  rappresentare  la  liegina 
di  Saba  del  Goldsmark,  ma  l'ha  fatta  precedere  dall'aro  e  Leandro  del 
Bottesini.  E  anche  la  scelta  della  liegìna  di  Saba,  qualunque  abbia  da 
essere  la  sentenza  del  pubblico  torinese,  ci  pare  opportuna,  essendo  questa 


380  RASSEGNA   MUSICALE. 

un'opera  che  da  più  anni  viene  eseguita  con  eostante  successo  in  tutti  1 
teatri  della  Germania  II  Golilsmai'k  g()de  fama  di  eccellente  musicista; 
l'opera  sua,  della  quale  conosciamo  la  riduzione  per  canto  e  pianoforte, 
appartiene  anch'essa  allo  stile  eclettico,  con  un  po'  di  tendenza  alla  scuola 
wagneriana.  Non  ci  sentiamo  in  j-rado  di  pronosticarne  le  sorti  a  Torino, 
ma  ripetiamo  che  neppure  un'accoglienza  sfavorevole  scemerebbe  in  noi 
il  rispetto  che  sentiamo  per  l'autore. 

Abbiamo,  per  tal  modo,  p  ssato  rapidamente  in  rassegna  ciò  che  nella 
prima  parte  della  stagioie  di  carnevale-quaresima  è  avvenuto  di  più  im- 
portante per  l'arte  musicale  nei  principali  teatri  della  Penisola.  E  la  colpa 
non  è  nostra  se  la  mèsse  non  è  riuscita  abbondante.  Siamo  costretti  a  ta- 
cere del  San  Carlo  di  Napoli,  dove  non  si  ebbero  che  meschinissimi  spet- 
tacoli e  opere  stravecchie  e  gli  scandali  sorti  per  l'incredibile  albagia  dei 
divi  Patti  e  Niccolini,  che  abbandonarono  il  San  Carlo  e  Napoli,  perchè  il 
pubblico  non  li  portava  in  trionfo  E  neppure  possiamo  occuparci  dell'opera 
nuova  Cleopaira  del  Bonamici  rappresentata  alla  Fenice  di  Venezia,  perchè 
la  si  può  dire  m  )rtu  in  sul  nascere.  Confldiamo  che  la  seconda  parte  della 
stagione  olirà  più  ampia  materia  alle  nostre  considerazioni,  e  con  questa 
speranza  prendiamo  commiato  dal  cortese  lettore. 

F.  d'Arcais. 


EASSEG^^A  POLITICA 


11  trattato  di  pace  tra  la  Russia  e  la  Turchia.  —  Il  consenso  dell'Austria  alla 
soppressione  della  clausola  sullo  Schleswig.  —  11  voto  sulTainnistia  alla  Ca- 
mera francese.  —  La  sicuiezza  puliblica  in  Italia  e  le  cause  per  cui  non  mi- 
gliora. —  I  tentativi  Ji  conciliazione  per  i  gruppi  della  Sinistra. 


Finalmente  il  lungo  e  triste  periodo  de'guai  d'Oriente,  aperto  dal- 
l'insurrezione della  Bosnia  e  dell'Erzegovina,  fu  chiuso  colla  firma  del 
trattato  fra  la  Russia  e  la  Turchia.  Non  clie  con  questo  sieno  risolte  tutte 
le  questioni  lasciate  dietro  di  sé  dal  trattato  di  Berlino.  Resta  ancora  da 
dare  soddisfazione  alla  Grecia,  alla  quale  fu  promessa  la  rettifica  dei  con- 
fini, faccenda  che  procede  stentatamente  fra  il  solito  schermirsi  e  l'indu- 
giare e  il  tergiversare  della  Porta  e  le  proteste  del  regno  ellenico,  tute- 
lato segnatamente  dalla  Francia  Resta  poi  anche  un'altra  determinazione 
di  confini,  quella  fra  la  Russia  e  la  Rumenia,  o  più  precisamente  fra  la 
Bulgaria  e  la  Dobruscia,  per  la  quale  i  runjeni  avevano  poche  settimane 
fa  occupato  improvvisatiiente  Arab-Tabiah,  un  punto  forte  a  due  miglia  da 
Silistria,  da  cui  si  ritrassero  poi  per  le  proteste  della  Russia  e  il  voto 
delle  potenze,  alle  quali  la  controversia  fu  deferita.  Oltre  a  questo,  rimane 
che  la  Rumenia  in  obbedienza  al  trattato  di  Berlino  dia  effetto  alla  pari- 
ficazione degli  israeliti  agli  altri  cittatlini,  se  vuole  che  le  potenze  ricono- 
scano la  sua  indipendenr'a  Siccome  però  né  la  parificazione  degli  israeliti 
in  Rumenia  né  la  determinazione  dei  coi.flni  fra  la  Rumenia  e  la  Russia, 
o  fra  la  Turchia  e  la  (Grecia,  sono  faccende  atte  a  mettere  in  fiamme  l'Eu- 
ropa, la  dolorosa  serie  degli  eccidi  orientali  si  può  dir  chiusa  dal  trattato, 
del  quale  non  ha  guari  si  .scambiarono  le  ratifiche  fra  la  Russia  e  la 
Porta,  prima  di  che  durando  sempre  l'occupazione  russa  della  Rumelia 
turca,  non  si  sarebbe  potuto  aff^^rmare  altrettanto. 

Tutti  si  rammentano  come  l'Inghilterra  vedesse  alcuni  mesi  fa  di 
mal  occhio  le  prime  pratiche  della  Russia  per  indurre  la  Porta  a  una  con- 
venzione s  «parata,  sospettando  che  la  Russia  non  mirasse  con  questo  ad 
altro  che  a  ritornare  per  una  via  indiretta  ai  preliminari  di  S  Stefano  e  a 
deludere  il  trattato  di  Berlino.  E  for.se  questo  segreto  pensiero  entrò  per 
qualche  cosa  nel  gira  e  rigira,  in  cui  andò  avvolgendosi  la  cancelleria 


182  RASSEGNA   POLITICA. 

russa.  Ma  poi  la  politica  .senza  complimenti  dell'Inghilterra  e  l'approva- 
zione sempre  piìi  manifesta  che  il  risoluto  contegno  del  governo  della  re- 
gina trovarono  nell'opinione  pubblica  inglese,  la  persuasero  che  il  tempo  fe- 
lice di  lord  Derby  era  passato,  e  il  meglio,  per  ora  tanto,  era  accontentarsi 
di  ciò  che  s'era  ottenuto  e  farla  Anita.  Perciò  il  trattato  separato  colla 
Turchia  è  veramente  nulla  più  e  nulla  meno  che  un  trattato  complementare 
di  quello  di  Berlino,  tanto  che  il  primo  articolo  riconosce  che  il  trattato  di 
Berlino  era  stato  sostituito  di  pieno  diritto  ai  preliminari  di  S  Stefano,  dei 
quali  il  Congresso  s'era  occupato,  e  non  rimaneva  quindi  se  non  risolvere  le 
questioni  non  tocche  da  quello.  Questo  patto,  o  per  dir  meglio  questa  di- 
chiarazione, che  in  realtà  non  importa  alcun  obbligo  per  nessuno,  appunto 
perchè  non  muta  in  nulla  ciò  eh'  era  stato  patLuito  innanzi  ed  è  oziosa, 
dev'esser  considerata  come  una  soildisftizione  data  all'Inghilterra  e  perciò 
come  una  guarentigia  di  pace.  La  Russia,  riconosciuti  i  pericoli  che  le  so- 
vrastavano e  da  essa,  e  anche  dall'Austria  e  dalla  Germania,  se  avesse 
continuato  a  compromettere  la  tranquillità  dell'Europa,  non  solamente  ha 
finito  col  rassegnarsi  j^er  il  momento  alla  volontà  di  qu3Sta,  ma  ha  creduto 
bene  di  dichiararlo. 

Per  tutto  il  resto,  il  trattato,  com'è  naturale,  non  ha  molta  importanza. 
L'indennità  di  guerra  è  stabilita  nella  somma  di  8 '-^5 'O  lire,  dàlie  quali 
sarà  convenuto  poi  il  modo  e  il  tempo  del  pagamento.  Gli  altri  articoli  ri- 
guardano il  rimborso  p^r  il  mantenimento  dei  prigionieri,  l'amnistia  agli 
abitanti,  ecc.  Lo  sgombaro  dei  Russi  dalla  Rumelia  turca,  come  è  fissato  in 
una  nota  annessa  al  trattato,  avrà  fine  al  pila  tardi  entro  j27ì  giorni  dallo 
scambio  delle  ratifiche. 

I  Russi  se  ne  rivanno  colla  compiacenza  di  avere  acquistato  un  territo- 
rio considerevole,  ma  che  appena  si  può  riguardare  come  un  compenso  alle 
spese  sterminate  e  ai  danni  d'ogni  genere  patiti  nella  guerra.  Ingrandendo 
sé  stessi  essi  finirono  infatti  a  ingrandire  anche  l'Austria-Ungheria  da  una 
parte  e  l'Inghilterra  dall'altra,  piantatesi  a  modo  di  due  sentinelle  a'suoi 
fianchi  per  contender  loro  ogni  altro  passo  in  avvenire.  Perciò,  se  si  considera 
che  ogni  potenza  è  relativa  ed  è  commisurata  dalla  forza  e  dalla  posizione 
degli  Stati  che  la  circondano,  la  Ru.ssia  non  è  oggi  più  poderosa  di  quello 
che  fosse  prima  della  guerra.  Ad  onta  del  suo  contine  più  avanzato,  l'andare 
più  oltre  le  riuscirà  più  difficile  che  in  altro  tempo,  trovandosi  guardata  e 
invigilata  da  rivali  desti  più  che  mai  dalle  sue  ambizioni  e  più  pronti  a 
preparar  le  difese. 

Tutto  questo  però  non  vuol  dire,  che  dei  disegni  dell'Austria-Ungheria 
sull'Oriente  si  sia  avuta  una  prova  nella  condiscendenza  di  questa  verso 
la  Prussia  all'  abolizione  della  clausola  annessa  all'  art  5  del  trattato  di 
Praga.  La  clausola  era  del  seguente  tenore:  «  Se  le  popolazioni  dello 
Schleswig  liberamente  consultate  votassero  per  la  loro  riunione  alla  Dani- 
marca, si  accondiscenderebbe  alla  loro  dimanda.  »  Questa  clausola  era  stata 
imposta  alla  Prussia  da  Napoleone  III  a  modo  di  una  piccola  umiliazione 
per  quest'ultima  potenza  dopo  Sadowa  e  di  una  piccola  consolazione  per 


EASSEGNA  POLITICA.  183 

l'impero  francese,  che  sa  pure  come  un  appicco,  che  riservasse  all'av- 
venire la  iDossibilità  di  un  rimedio  a  una  politica  timida  e  incerta  che 
aveva  preparato  l'unitìi  della  Germania  In  effetto  però  tredici  anni  passa- 
rono dalla  conquista  dei  ducati  e  le  popolazioni  non  furono  consultate, 
forse  perchè  fosse  apparso  nel  frattempo  troppo  evidente  il  loro  contento 
e  la  loro  felicità.  Ora  la  Prussia,  un  po'  tardi  invero,  volendo  liberarsi 
anche  da  questo  minuto  spino,  in  una  convenzione  con  l'Austria-Ungheria, 
che  porta  la  data  dell'ottobre,  stipulò  che  la  detta  clausola  del  trattato 
del  l>=G(j  riguardante  la  retrocessione  dello  Schleswig  settentrionale  alla 
Danimarca,  si  intendesse  abolita. 

È  una  piccola,  ma  intempestiva  e  tarda,  e  punto  bella  e  gentile  pun- 
tura flitta  alla  Francia,  che  certo  stava  pensando  a  tutt'  altro  che  allo 
Schleswig,  ma  che,  nondimeno,  avendo  accettato  la  politica  napoleonica  col 
beneflcio  dell'inventario,  potè  senza  compromettere  la  sua  dignità  non  te- 
nersene per  offesa.  Ma  quanto  alla  facile  acquiescenza  dell'Austria-Unghe- 
ria,  non  sembra  esservi  nessun  bisogno  di  imaginare  per  ispiegarla,  che 
la  Prussia  1'  abbia  comperata  colla  promessa  di  lasciarle  mano  libera  in 
Oriente,  secondando  la  politica  del  conte  Andrassy.  L'Austria  non  è  in  ne- 
cessità di  far  concessioni  perchè  la  Prussia  non  le  dia  incomodo  s'essa  s'im- 
mischia sempre  di  piìi  nelle  cose  orientali,  avendo  il  principe  di  Bismarck 
mirato  a  questo  cominciando  dall'insurrezione  della  Bosnia  e  dell'Erzego- 
vina e  poi  via  via  fino  al  congresso  di  Berlino  D'  altra  parte,  oltre  che 
all'Austria  non  importa  gran  Mto,  che  lo  Schleswig  settentrionale  appar- 
tenga piuttosto  alla  Danimarca  che  alla  Germania,  essa  sapeva  benissimo 
che,  in  onta  alla  clausola  del  trattato,  quest'ultima  non  se  lo  sarebbe  la- 
sciato sfuggire  di  mano.  Oltre  tutto  poi  l'Austria  non  fu  mai  la  potenza 
che  si  riscaldasse  per  i  plebisciti.  La  cosa  apparisce  quindi  più  semplice 
ohe  non  si  sia  imaginato  Nel  bivio  di  offendere  gravemente  la  Prussia, 
che  la  richiedeva  del  suo  consenso,  ovvero  leggermente  la  Francia,  che 
avrebbe  taciuto,  preferì  questo  secondo  partito  tutti  gl'inconvenienti  del 
quale  si  riducevano  a  dover  dare  alla  Francia  qualche  spiegazione,  e  ognuno 
nel  caso  suo  avrebbe  fatto  altrettanto. 

La  Francia,  del  resto,  si  vede  fino  da  ora,  ma  si  vedrà,  pare,  sempre 
più  in  appresso,  ha  molto  di  meglio  a  fare  che  risuscitare  i  plebisciti  dello 
Schleswig.  La  gran  questione  dell'amnistia,  grande  per  essere  stata  gon- 
fiata ad  arte  dallo  spirito  di  partito,  non  perchè  lo  fosse  da  sé,  non  es- 
sendovi nulla  di  più  naturale  di  lasciare  che  i  condannati  subiscano  la  loro 
pena,  la  gran  questione  fu  risolta  dalla  Camera  dei  deputati  in  modo  più 
soddisfacente  che  dal  chiasso  e  dalla  confusione  che  la  precedette,  non  si 
potesse  aspettare.  La  Camera  accolse  con  ;-i>i  voti  contro  W  il  progetto 
della  Commissione  parlamentare  accettato  dal  Ministero.  L'amnistia  com- 
prende i  condannati  pei  fatti  di  insurrezione  del  Isti  e  anche  i  condannati 
per  crimini  o  delitti  di  insurrezione  posteriori  a  quel  tempo,  ma  esclude 
tutti  quelli  che  furono  condannati,  oltre  che  per  i  fatti  accennati,  anche 
per  crimini  e  delitti  comuni.  La  facoltà  di  applicare  l'amnistia  è  data  al 


184  RASSEGNA    POLITICA. 

presiilento  della  repubblica,  che  perù  deve  usarne  entro  tre  mesi.  Presun- 
tivamente si  considera  che  circa  llou  rimangano  escludi,  ma  più  che  al- 
trettanti, i  più  pericolosi,  non  per  i  diritti  privati,  ma  per  l'ordine  pub- 
blico, rientrino  in  Francia  e  quasi  tutti  a  Parigi 

Intanto  fu  gran  fortuna  che  l'amnistia  potesse  essere  cosi  limitata  e 
in  questi  termini  fosse  accolta  da  tanti  voti.  I  radicali  avevano  fatto  ogni 
possa,  percliè  equivalesse  a  un'  assoluzione  o  a  una  riabilitazione  della 
Camera,  giungendo  a  proporre  che  nella  stessa  amnistia  fossero  compresi 
anche  i  ministri  del  1'^  maggio,  come  se  anche  questi  fossero  stati  con- 
dannati, e  l'accettare  di  far  parte  di  un  ministero  per  incarico  del  pre- 
sidente della  repubblica  fosse  tutt'uno  col  tirare  a  mitraglia  sopra  i  fran- 
cesi che  non  erano  caduti  combattendo  lo  straniero  e  col  mettere  il  fuoco 
all'Hotel  de  Ville,  al  Luxemburg  e  alle  Tuilleries  Per  questa  volta  il  mi- 
nistro Leroyer,  riuscì  a  difendere  la  causa  della  giustizia  e  del  buon  senso, 
sostenendo  che  la  Comune  fu  un'esplosione  socialista  preparata  di  lunga 
mano  eoll'aggrayante  che  fu  f.itta  sotto  gli  ocelli  del  nemico,  ed  era  im- 
possibile di  perdonare  a  rivoltosi  che  glorificano  gli  atti  pei  quali  furono 
condannati,  mostrandosi  con  ciò  pronti  a  ritentarli.  Ed  è  pure  consolante 
che  per  intanto  la  Camera  l'abbia  seguito,  essendosi  i  repubblicani  uniti  ai 
conservatori  contro  i  radicali. 

Ma  comincia  a  parer  molto  dubbio,  se  rientrati  a  Parigi  gli  amnistiati, 
appunto  i  politici,  il  ministero  potrà  far  prova  in  ogni  occasione  della  stessa 
sicurezza  e  incontrare  la  stessa  fortuna.  11  Comune  di  Parigi  che  vota 
100,0iJ0  lire,  per  soccoirerli,  appena  giungano,  a  dimostrazjone  di  parte, 
più  che  per  benelica  prudenza  ed  aiuto,  e  i  giornali  radicali,  scatenati 
al  linguaggio  più  audace  e  più  provocante,  sono  sintomi  minacciosi  per 
un  paese,  che  par  destinato  a  trapassare  periodicamente  dalla  reazione 
alla  rivolta  e  da  questa  a  quella.  Ora  si  può  dire  veramente  che  incomin- 
cino le  difficoltà,  semprech'i  almeno  il  voto  del  20  febbraio  non  sia  per  la 
Camera  francese  il  principio  di  una  ricostituzione  dei  partiti,  che  riosca  a 
mettere  insieme  una  gi'ossa  maggioranza  di  governo  contro  i  radicali  Senza 
di  questo,  senza  un  distacco  risoluto  e  deciso  di  tutti  coloro  che  già  fecero 
causa  comune  con  essi  contro  la  reazione,  ciò  che  suppone  l'abbandono  tli 
ogni  disegno  di  ristabilire  la  monarchia  nella  destra,  il  governo  diventerà 
sempre  più  condiscendente  e  più  debole  tino  a^l  essere  soverchiato  e  tra- 
volto dai  più  audaci. 

Del  rimanente  è  curioso  e  non  punto  edificante,  che  uno  dei  mezzi  dei 
quali  la  democrazia  si  serve  per  accrescere  lo  sue  forze  debba  essere 
l'indulgenza  verso  i  colpevoli  Ci  guarderemo  dal  ricercare  le  cause  del  fatto 
non  bello  in  sé,  né,  a  lungo  andare,  uiile  forse  a  lei  stessa.  Il  fiitto  però  è 
indubitabile,  avviene  fra  noi  come  in  Francia,  e  sgomenta  tutti  quelli  i 
quali  credono  in  buona  fede  che  la  convivenza  sociale  e  civile  debba  avere 
per  suo  primo  line  la  tranquillità  pubblica  e  la  sicurezza  dei  diritti  privati. 
Se  non  serve  a  mantenere  l'una  e  a  tutelare  gli  altri,  un  governo  non  è  che 
un  vivaio  di  impiegati  e  un  laboratorio  di  scarabocchi,  che  i  facinorosi  ed 


KASSEGNA^  POr.ITICA.  185 

i  ladri  volgono  a  comodo  loro  e  nel  quale  le  vittime  sono  sempre  i  ritrosi, 
i  prudenti  e  gli  onesti. 

Alle  cifre  riferite  dall'on.  Rudini  nel  suo  meditato  e  coraggioso  discorso 
alla  Camera,  completamente  noi  non  crediamo  ;  non  crediamo  cioè  che  dal 
1859  al  1875  i  reati  in  Italia  sieno  cresciuti  nella  proporzione  da  100  a  210. 
Dal  1h59  ad  oggi  sono  grandemente  aum3ntate  le  azioni  punibili,  si  dichia- 
rarono cioè  delitti  azioni  riprovevoli  che  prima  passavano  impunite  Inol- 
tre nel  periodo  di  undici  anni  aumentò  grandemente  la  vigilanza  della  que- 
stura, ed  ora  si  scoprono  e  si  puniscono  atti  che  rimanevano  ignorati, 
0  dei  quali  non  si  riusciva  a  s^^oprire  gli  autori.  Per  ciò  la  statistica  pe- 
nale nel  1875  è  tutt'altra  cosa  da  quella  clie  si  poteva  fixre  e  si  faceva 
nel  1859,  ha  un  numero  molto  minore  di  omissioni  e  di  lacune  e  s'accosta 
molto  più  al  vero.  Appunto  perciò,  se  si  levano  alcune  provincie  che  rac- 
colgono un  amaro  frutto  dalla  loro  mitezza  tradizionale,  p  e.  quelle  della 
Toscana,  non  si  può  dire  che  la  condizione  della  sicurezza  pubblica  in  Italia 
sia  peggiorata  a  petto  di  quello  ch'essa  era  o  prima  dell'anno  in  cui  la 
guerra  e  il  trambusto  politico  tenne  in  sospeso  anche  i  malfattori  o  poco 
dopo  Noi  siamo  all'incirca  quello  ch'eravamo  in  passato,  continuando  ad 
avere  i  nostri  7  omicidi,  ilove  la  Francia  ne  ha  uno. 

Ma  anche  senza  peggioramenti  è  enorme,  è  cosa  degradante  e  umi- 
liante per  tutto  il  paese,  e  alla  quale,  se  non  si  cura  di  far  riparo  con 
due  modi  opposti  a  quelli  che  si  mettono  in  voga  oggi,  l'Italia  non  acqui- 
sterà mai  il  rispetto  che  le  appartiene.  II  primo  pensiero  che  viene  a  tutti 
è  infatti  questo,  che  un  governo,  il  quale  non  basta  neppure  contro  gli 
assassini,  è  un  governo  impotente  anche  più  per  il  resto.  Certo  il  male 
è  vecchio  nel  paese  nostro,  e  il  governo  italiano  l'ha  ereditato  e  non  già 
fatto  nascere.  Ma  in  venti  anni,  chi  si  fosse  messo  davvero  sul  serio  a 
medicare  questa  piaga,  l'avrebbe  guarita,  e  l'Italia  potrebbe  ora  vantarsi 
almeno  per  questo  di  andare  alla  pari  colle  altre  nazioni. 

Le  cause  del  deplorabile  indugio  sono  molte  e  meriterebbero  di  essere 
studiate  da  una  Commissione  cui  non  mancasse  il  coraggio  di  rintracciarle 
e  di  dirle. 

Forse  c'entrano  per  molta  parte  l'abitudine  rassegnata  e  incurante  delle 
popolazioni  di  vivere  mal  sicure,  la  ripugnanza  loro  a  denunciare  i  reati  e 
a  fare  testimonianza,  i  giurati  che  indebolirono  l'amministrazione  della 
giustizia,  la  lentezza  di  questa,  la  esitanza  dei  giudici  e  quell'aura  di 
indulgenza  improvvida  e  malsana,  di  cui  parlavamo  poco  fa,  che  spira  a 
favore  dei  malfattori  Anche  la  ripugnanza  alle  leggi  eccezionali  e  le  va- 
nità e  le  partigianerie  politiche,  che  tennero  il  governo  sospeso  e  incerto, 
0  l'impedirono,  ebbero  la  loro  parte.  Ma,  oltre  al  resto,  non  è  senza  colpa 
mi  codice,  qual'è  quello  del  l^.'y.i,  inspirato  dall'istinto,  primitivo  d'una  se- 
verità esagerata  contro  i  reati  che  minacciano  la  proprietà,  ma  molle  circa 
tutti  gli  altri  diritti,  la  sicurez-'.a  della  persona,  la  libertà,  l'onore,  un  codice 
insomma  che  non  insegna  bastevolmente  il  rispetto  dovuto  alla  personalità 
umana.  È  un  codice  che  pensa  a  difendervi  il  paletot  e  l'orologio,  ma  non 


186  EASSEGNA   POLITICA. 

le  costole,  e  che  unito  a  tutte  le  cause  accennate  sopra,  in  mezzo  a  popolazioni 
rassefrnate  e  indolenti  e  a  magistrature  lìacche,  contribuisce  a  fiirvi  il  re- 
galo (li  oltre  a  4i;0;)  omicidi  all'anno,  quanti  non  ne  novellano  la  Francia, 
la  Svizzera,  l'inn^hilterra  e  la  Germania  sommate  insieme. 

Quando  si  pensa  a  questioni  così  vitali  per  la  nostra  pace,  il  nostro 
onore  e  la  nostra  considerazione  e  influenza  nel  mondo,  pare  un  sogno  il 
vedere  la  Camera  smaniare  e  sciuparsi  in  parteggiamenti  personali,  di- 
videndosi a  ogni  poco  in  nuove  chiesuole  e  poi  affaticandosi  a  riunirle, 
come  S9  in  Italia  non  rimanesse  altro  a  fare  che  questo  gioco.  Sfuggiti 
assai  tardi  alle  mani  di  governi  eh  3  ci  traviarono  e  ci  guastarono,  noi 
non  volemmo  persuailerci  che  avevamo  in  casa  il  medio  evo  da  combattere 
e  dovevamo  por  mente  a  rifalle  noi  stessi,  volendo  che  tutte  le  istitu- 
zioni, con  cui  attendevamo  a  vestirci  a  nuovo,  mettessero  radice  e  dessero 
frutto.  Quello  sarebbe  stato  il  campo  proprio  di  una  Sinistra  illuminata  e 
previdente,  mentre  la  Destra  indugiava;  il  gran  disegno  di  guarire  i  no- 
stri mali  vecchi,  di  liberarci  dagli  assassini,  di  reiìimere  le  terre  incolte, 
di  risanar  le  paludi,  di  accrescerei!  lavoro  e  il  risparmio,  di  fere  insomma 
quanto  non  avevano  fatto  i  governi  passati,  che  fondavano  il  loro  domi- 
nio sull'ignoranza  delle  popolazioni,  sulla  paura  e  sulla  miseria. 

Se  questo  proposito  avesse  avuto  la  Sinistra,  in  luogo  di  quello  d'in- 
grandirsi e  di  far  seguaci  accarezzando  gl'istinti  e  le  passioni  popolari, 
non  ci  troveremmo  ora  alla  miseria  di  sentir  pai'lare  di  unioni  e  con- 
ciliazioni e  coordinazioni,  e,  quello  eh'  è  peggio,  invano.  Le  scissure  avvenute 
nella  Sinistra  non  sono  di  quelle  a  cui  possa  metter  fine  la  semplice  idea 
vaga  dell'interesse  di  partito.  Il  poiero.su  gruppo  Cairoli  si  elevò  contro  di 
quelli  degli  on.  Crispi  e  Nicotera  a  modo  di  vindice  della  pubblica  moralità, 
ciò  che  da  questi  non  può  essere  dimenticato,  nò  può  dimenticare  egli  stesso, 
fino  a  mostrarsi  d'accordo  insieme  Più  tardi  i  gruppi  Crispi  e  Nicotera  pre- 
sero la  rivincita  contro  quello  dell'on.  Cairoli  in  nome  daHordiiie  pubblico, 
dei  principii  fondamentali  di  governo,  del  rispetto  alle  istituzioni  e  alle 
leggi,  anche  questa  faccenda  troppo  gnwe  per  potere  essere  seppellita  con 
una  stretta  di  mano.  Il  solo  timore  della  Destra  è  poi  un  interesse  invero 
non  molto  grandioso,  nò  nobile,  ma  oltre  a  questo  troppo  debole  per  servire 
di  cemento  a  un  partito  andato  in  frantumi  per  effetto  di  dissidi  profondi 
e  sopra  questioni  vitali.  È  la  Destra  così  vicina  al  potere,  che  il  timore 
di  vederla  risorgere  basti  a  risuscitare  una  e  concorde  la  vecchia  mag- 
gioranza ? 

Di  questa  maggioranza  è  avvenuto  quello  che  da  tutti  si  prevedeva 
al  tempo  delle  elezioni -nel  I87i>,  fatte  senz'altro  criterio  che  quello  di 
raccattare  nemici  contro  la  Destra,  fossero  poi  di  un  colore  o  di  un  altro, 
repubblicani  o  progressisti  o  clericali,  o  anche  borbonici.  Bastò  che  la 
Destra  si  tenesse  tranquilla  e  si  limitasse  a  guardare,  perchè  i  germi 
delle  divisioni  prepai  ati  da  opinioni  e  da  intendimenti  così  diversi  pul- 
lulassero, e  a  poco  a  poco  si  producesse  il  tritume  che  si  vede  oggi  Ciò 
è  come  dire  che  il  male   è  organico   e  non   ammette  rimedio.   Pson  resta 


RASSEGNA  POLITICA.  187 

quindi  che  tirar  via  alla  meglio,  aspettando  la  sola  occasione  da  cui  possa 
venire  il  rimedio  vero,  le  nuove  elezioni.  Il  ministero  va  innanzi  con  pru- 
denza, evitando  le  grandi  questioni  e  attendendo  principalmente  all'am- 
ministrazioue  giornaliera.  É  il  meglio  che  possa  fare.  Continuando  per 
questa  via  a  guadagnare  fiducia  come  fece  fino  ad  oggi,  può  prima  o  dopo 
sentirsi  forte  abbastanza  da  sciogliere  la  Camera,  unico  espediente  che 
ormai  rimanga  per  metter  fine  a'suoi  dissidi  e  alle  sue  divisioni. 

È  anche  da  considerare  che  troppi  casi  avvennero  dal  187(5  ad  oggi, 
troppe  novità  si  fecero,  troppe  cose  furono  rimestate,  perchè  non  convenga 
di  interpellare  anche  il  paese.  La  guerra  d'Oriente,  i  rapporti  dell'Italia 
in  questo  periodo  colle  potenze  straniere,  il  trattato  di  Berlino,  l'aboli- 
zione del  macinato,  il  rapido  aumento  delle  spese,  la  nuova  tassa  sugli 
zuccheri  e  sul  petrolio,  la  condizione  presente  delle  finanze,  la  rinnova- 
zione dd  trattati  commerciali,  i  progetti  di  nuove  costruzioni,  le  dispute 
sorte  sul  diritto  di  associazione,  la  pubblica  sicurezza,  giustificano  piena- 
mente l'appello  agli  elettori  che  trovano  davanti  a  sé  anche  troppo  co- 
piosa materia  di  esame  e  troppi  criteri  per  il  loro  voto.  Il  tempo  che 
passa  fra  un'elezione  e  un'altra  non  va  misurato  solamente  col  calen- 
dario. Gli  avvenimenti  politici  interni  ed  esterni  che  si  accumularono 
negli  ultimi  tre  annij  bastarebbero  a  farne  parere  assai  lunghi  dieci.  Giova 
quindi  al  Governo  stesso  di  conoscere  prima  o  dopo  come  sieno  stati  giu- 
dicati dall'opinione  pubblica,  per  non  andarne  troppo  lontano  e  non  rac- 
chiudersi troppo  a  lungo  nella  fittizia  atnaosfera  parlamentare  che  gli 
attriti  giornalieri  generano  di  necessità  nella  Camera.  Non  lo  diciamo  per 
oggi  né  per  dimani,  poiché  per  il  momento  le  cose  hanno  l'aria  di  andare 
abbastanza  quiete.  È  facile  però  prevedere  che  non  sempre  potranno  con- 
tinuar così  ;  e  dacché  da  un  lato  la  maggioranza  non  si  crede  che  ci  sia 
e  dall'altro  non  si  vede  modo  di  rifarla,  ognuno  può  prevedere  dove  si 
volgano  e  debbano  andar  a  finire. 

X. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


LETTERATURA 


Elementi  di  umane  lettere  coordinati  secondo  il  programma  ministeriale 
dal  prof.  F.  I).  BLANCARDI.  —  Torino,  Paravia,   1878. 

Nuoto  saggio  di  composizione  italiana  per  le  scuole  primarie  superiori  e 
le  inferiori  secondarie  di  Fkancesco  GASPARRI.  —  Torino,  Paravia,  1879. 

Dando  un'occhiata  a  questi  due  brevissimi  Manualetti  di  Precetti  del 
dire,  nessuno  dei  quali  arriva  alle  IDI  pagine  in  sedicesimo;  non  ostante 
che  intendano  trattare  tutta  quanta  l'arte  di  scrivere,  ci  siamo  ingenua- 
mente dimandati:  a  che  prò?  dopo  tanti  eccellenti  libri  antichi  e  moderni 
che  svolgono  compiutamente  questa  materia  e  in  modo  da  appagare  tutti 
i  gusti,  a  che  scopo  pubblicare  questi  trattateili  in  pillola?  Forse  la  faci- 
lità maggiore?  forse  appunto  una  maggiore  bt'evità?  Ma  in  primo  luogo 
la  brevità  non  deve  esser  troppa,  perchè  qui  è  proprio  il  caso  di  dire  che 
porta  oscurità;  specialmente  negli  elementi  del  Blancard'  che  spesso  hanno 
una  forma  troppo  filosofica  e  dove  quasi  tutti  i  precetti  mancano  di  esempi. 
Onde  è  chiaro  che  si  perde  anche  lo  scopo  della  facilità.  Più  piano  e  me- 
glio corredato  d'esempi  è  certamente  il  •'^'arjgio  del  Gasparri,  al  quale 
diamo  lode  d'avere  rimesso  fuori  e  assai  chiaramente  trattata  la  dottrina 
de'luoghi  topici,  utile,  forse  più  che  non  si  crede,  a'giovanetti,  massime  ove 
sieno  sforniti  d'ingegno  e  d'inventiva.  Ma  nelle  altre  parti  anche  di  questo 
libretto,  perchè  voler  trattare  tante  cose,  accennandole  appena,  e  citando 
piuttostochè  portando  gli  esempi  ':'  Intendiamo  che  il  professore  delti  ai 
suoi  scolari  anche  pochi  appunti,  per  supplirvi  poi  colla  lezione  orale;  ma 
che  tali  appunti  si  stampino  così  nudi  e  gracili  e  senza  il  dovuto  corredo  di 
spiegazioni,  siano  pure  succinte,  e  di  necessari  esempi,  non  l'intendiamo 
davvero. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO. 


189 


Sintassi  latina  distribuita  in  LXXIII  tavole  cogli  esercizi  e  coli' aggiunta 
della  Prosodia  e  Metrica  latina  del  prof.  D.  Ltiigi  MONTI,  —  Ditta 
Paravia,  1879. 

L'idea  di  questo  Manuale  non  è  nuova,  ma  non  ci  ricorda  che  altri 
prima  del  prof.  Monti  abbia  con  semplici  tavole  sinottiche  abbracciato 
tante  regole  di  sintassi,  e  così  chiaramente,  e  con  si  bell'ordine.  L'autore 
parte  dalla  costruzione  italiana  ed  a  ciascuna  proprietà  di  essa  contrap- 
pone il  modo  di  volgerla  in  latino,  aggiungendovi  un  piccolo  esempio.  Ciò 
nella  pagina  a  sinistra,  mentre  in  quella  a  destra  offre  copia  di  esercizi, 
consistenti  in  sentenze  morali  italiane  e  latine.  A  maggior  compimento 
delle  regcde  principali,  si  danno  infine  osservazioni  particolari  sull'uso  di 
certe  particelle,  sulla  loro  differenza  di  significato,  sulla  collocazione  delle 
parole  nella  proposizione,  sulle  figure  grammaticali,  sulle  abbreviazioni 
piìi  comuni,  oltre  a  un  quadro  dei  numerali  ed  un  altro  del  calendario. 
Nella  Prosodia  le  regole  sulle  brevi  e  le  lunghe  sono  esposte  nudamente  in 
mezzo  alla  pagina  e  poi  riassunte  nel  margine  con  versetti  italiani  ;  del 
che  per  altro  non  sapremnjo  dar  lode  all'autore,  perchè,  secondo  il  nostro 
avviso,  0  conveniva  sbandire  affatto  il  sistema  delle  regole  in  versi,  o.  non 
volendo  o  potendo  farlo,  preferire  i  soliti  versi  latini  che  offrono  il  van- 
taggio di  addestrare  i  giovani  nell'uso  della  lingua,  al  tempo  stesso  che  ne 
insegnano  la  prosodia.  E  sarà  sempre  meglio  mettersi  nella  memoria  versi 
latini  poco  belli,  che  dei  versi  italiani  brutti  e  dit^armonici  come  sono 
quelli  sostituiti  ai  primi.  Checché  sia  di  ciò,  il  Manualetto  del  prof.  Monti 
ci  sembra  utilissimo  alle  scuole,  si  pel  modo  con  cui  è  fatto,  come  per  la 
bellezza  e  nitidezza  della  stampa,  e  vorremmo  che  egli  lo  accompagnasse 
con  un  trattatello  di  Sinonimia  latina  compilata  col  medesimo  metodo. 


STORIA 

Estratto  di  Storia  Sacra.  —  Cenni  di  Storii  Orientale.  —  Lezioni  di  Sto- 
ria della  Grecia  iintica  di  Giuseppe  GHIO.  —  Firenze,  tip.  Beucini,  LS78, 
(png.  384). 

Il  sig.  Ohio,  capitano  di  fanteria  nel  nostro  esercito,  e  che  i  lettori  della 
Nuova  Antologìa  conoscono  già  per  qualche  suo  articolo,  attende  con 
mollo  amore  e  molta  intelligenza  ad  istruire  nella  storia  gli  allievi  del  Col- 
legio milicare  di  Firenze;  e  per  loro  uso  ha  compilato  questo  Manuale  di 
storia  greca.  Nemico,  a  buona  ragione,  di  scarsi  e  mozzi  compendi  o  piut- 
tosto imperfetti  sommari,  che  se  danno  le  linee  principali,  non  danno  certo 
il  colorito  dei  fatti  solo  atto  a  lasciar  profonda  impressione  nella  mente  dei 


190  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO. 

giovanetti;  egli  ha  concesso  alla  sua  trattazione  uno  spazio  sufficiente  a 
porre  nel  debito  lume  tutti  i  principali  avvenimenti,  senza  lasciare  gli  aned- 
doti pili  caratteristici,  né  le  notizie  sulle  istituzioni  e  costituzioni  de'popoli 
greci.  Supplendo  poi  a  quello  di  che  i  programmi  de'collegi  militari  difet- 
tano, ha  premesso  alla  Storia  Greca  un  compendio  della  Storia  Sacra;  e  sì 
dell'Egitto  come  delle  Monarchie  asiatiche  ha  dato  solo  quanto  era  necessa- 
rio 0  più  utile  per  bene  intendere  e  la  stessa  Storia  Sacra  e  quella  di  Grecia. 
Alla  parte,  propriamente  parlando,  storica  va  unita  con  giusta  parsimonia, 
la  parte  leggendaria  e  mitologica,  divenuta  essa  stessa  elemento  indispensa- 
bile di  storica  erudizione,  sicché  il  giovine  ha  in  questo  libro  quanto  basta  a 
dilettarlo  ed  istruirlo  nelle  vicende  anteriori  alla  civiltà  romana  Altro  pre- 
gio di  quest'opera  si  è  l'esposizione  facile  e  naturale  come  si  richiedeva  per 
l'età  cui  è  destinata,  senza  troppe  o  troppo  elevate  riflessioni,  e  senza  esa- 
gerazione 0  parzialità  di  nessun  genere  ma  con  quella  serenità  che  è  più 
che  mai  necessaria  quando  si  insegna  la  storia  ai  giovinetti  irf capaci  a  giu- 
dicare di  per  sé  i  fatti  narrati.  La  lingua,  benché  in  generale  sufficiente- 
mente corretta,  dovrebbe  però  essere  riveduta  e  purgata  qua  e  là  di  al- 
cune espressioni  non  del  tutto  proprie  né  italiane,  p.  es.  dell'uso  frequente  di 
lo  adoperato  come  soggetto  davanti  al  passivo  riflessivo  [lo  si  avvisava  per 
era  avvisato]  e  frasi  simili  a  queste:  subire  le  conseguenze  di  un  fatto; 
uomo  aWaltezza  della  circostanza  ecc.,  modi  che  chiameremmo  burocra- 
tici), se  il  soggetto  ce  lo  permettesse. 

Lezioni    dì    Storia    moderna  ad  uso  delle  scuole  normali,  proposte   da  Sa- 
vina FABRICIUS.  —  Firenze,  Felice  Faggi,  1878  (un  voi.  di  pag.  442). 

L'egregia  e  operosa  autrice  delle  Biografie,  già  annunziate,  quando 
uscirono  in  luce,  dalla  nostra  Rivista,  sì  è  ora  messa  al  più  difficile  assunto 
di  compilare  un  Manuale  di  storia  scolastica  da  Carlo  Magno  al  Congresso 
di  Vienna,  periodo  che  dai  programmi  ministeriali  viene  assegnato  al  terzo 
anno  del  corso  normale.  Avendo  noi  data  una  rapida  scorsa  a  quest'ope- 
reuta,  ci  è  sembrata  condotta  con  quel  giusto  metodo  che  accoppia  i  moderni 
progressi  degli  studi  storici  coi  riguardi  dovuti  alla  gioventù.  Primeggia, 
com'era  dovere,  la  storia  d'Italia  ;  ma  non  vi  mancano  i  principali  fatti 
d'Europa  assai  bene  concatenati  coi  nostrani.  L  ordine  è  fedele  alla  crono- 
logia, senza  però  spezzare  malamente  il  filo  della  narrazione.  Buone,  e  sulle 
traccie  dei  migliori  storici,  le  divisioni  dei  periodi  principali.  Non  mancano 
riassunti  geografici  e  politici  né  riepiloghi  e  serie  cronologiche  di  papi  e 
principi  in  ciascun  periodo.  Si  vede  insomma  che  la  scrittrice  é  padrona 
della  materia  da  essa  svolta,  e  che  ha  la  pratica  dell'insegnamento.  Anche 
le  opinioni  politiche  non  ci  paiono  esagerate  né  parziali;  come  si  vede  a  pro- 
posito dei  Papi,  dei  quali  con  lodevole  riguardo  l'autrice  accenna  sì  gli  er- 
rori quando  ne  hanno,  ma  senza  nasconderne  i  meriti,  né  le  scuse  e,  per 
esempio,  non  contesta  ai  Borgia  il  diritto,  benché  male  lo  esercitassero,  di 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  191 

abbattere  i  signorotti  della  Romagna.  In  alcuni  punti  peraltro  avremmo  de- 
siderato un  giudizio  anche  più  largo  ed  illuminato,  come  quando  a  pag.  117 
si  nota  con  una  certa  maraviglia  che  Alessandro  IH  pensasse  più  al  vantag- 
gio della  Chiesa  che  a  quello  dei  popoli  confoderati,  mentre  ci  sarebbe  da 
maravigliarsi  che  il  Papa,  il  quale  anzitutto  era  Papa,  avesse  fatto  il  con- 
trario ;  0  quando  parlandosi  della  riforma  di  Lutero  oltre  ad  accennare  la 
vendita  delle  indulgenze  {causa  occasionale,  come  ben  dice  la  signora  Fa- 
bricius)  non  se  ne  nota  pure  la  causa  fondamentale  e  principale,  che  consisto 
nello  spirito  d'indipendenza,  proprio  dei  tedeschi  e  più  fjrto  allora  poiché 
cominciavano  a"  incivilirsi.  Quanto  alla  lingua,  come  già  accennammo  per  le 
Biografie,  si  desidera  una  maggiore  accuratezza,  benché  dalle  Biografie 
stesse  a  questa  Storia  non  si  possa  non  vedere  un  certo  progresso. 


DIRITTO  COSTITUZIONALE 

La  donna  ed  i  nuovi  tempi  dell' avv.  G.  URTOLLETJ,  insegnante    di    di- 
ritto costituzionale  all'  Università  di  Parma.  —  Cesena,   1878. 

È  una  raccolta  di  articoli  sulle  questioni  principali  che  riguardano  la 
parificazione  giuridica,  politica  e  sociale  della  donna,  e  segnatamente  il  suo 
diritto  alla  libera  attività  e  il  suo  intervento  nelle  elezioni  amministrative 
e  politiche.  L'autore  è  contrario  a  ogni  legge  che  limiti  la  sua  operosità, 
e  trova  poi  una  manifesta  contraddizione  che  in  un  paese,  nel  quale  la 
donna  é  tutrice,  proprietaria  e  amministratrice,  ha  la  patria  potestà  e  può 
obbligarsi,  ipotecare,  alienare,  contrar  mutui  ec.  sia  giudicata  incapace  di 
un  voto  pensato  e  indipendente  nelle  elezioni  amministrative  e  politiche. 
Lo  stesso  autore  però,  il  quale  parlando  in  generale  e  in  modo  teoretico, 
sembra  propugnare  la  parificazione  assoluta,  stretto  dalle  necessità  prati- 
che accondiscende  alle  transazioni.  Così  p.  e.  egli  vorrebbe  per  le  donne 
elettrici  un  censo  più  elevato  che  non  per  gli  uomini. 

Certe  differenze  di  uffici  tra  gli  uomini  e  le  donne  nella  vita  sociale 
sono  date  dalla  natura.  Per  quanto  si  faccia,  né  senza  dubbio  l'autore 
pretende  a  questo,  le  donne  non  potranno  far  mai  né  l' ingegnere,  né  il 
soldato,  né  il  pompiere,  né  il  capitano  di  bastimento.  Ma  non  c'è  bisogno  di 
leggi  che  determinino  o  limitino  i  loro  uffici,  appunto  perchè  questi  limiti 
sono  assegnati  dalia  natura,  e  non  c'è  dubbio  che  in  nessun  tempo  faranno 
ciò  che  non  possono  ftxre.  Basta  che  il  legislatore  si  astenga  dall'oppor  loro 
impedimenti  ed  inciampi  in  quello  a  cui  da  natura  son  atte,  perchè  in- 
traprendano da  sé  quel  tanto  e  non  più.  E  fino  a  qui  l'autore  ha  ragione. 

Vero  è  che  gì'  impedimenti  non  vengono  dalla  natura  soltanto,  essendoci 
oltre  ad  essa  le  abitudini  e  le  tradizioni.  Nulla  é  più  giudizioso  di  quanto 
in  proposito  dice  l'autore  stesso  a  pag.  47  :  «  Le  leggi  per  riuscire  efficaci 


192  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO. 

occorre  sieno  lo  studio  del  carattere  della  nazione  cui  sono  rivolte,  tenorano 
conto  delle  tendenze  dei  popoli,  ne  rispettino  i  costumi  e  vi  porr.ino  quelle 
ivioilifieazioni  che  sono  compatibili  coli'  indole  nazionale  e  coi  progressi 
della  civiltà.»  Se  l'autore  avesse  tratto  tutto  le  conseguenze  che  derivano 
da  questa  massima  savia  e  prudente,  dubitiamo  che  fosse  riuscito  alla 
ooncbiusione  di  concedere  alle  donne  in  Italia  l'elettorato  politico.  Posti 
appunto  i  costumi  presenti,  le  donne,  tolte  rarissime  né  forse  le  migliori, 
non  l'userebbero  e  la  legge  sarebbe  vana.  Ci  si  arriverà  col  tempo,  ma 
per  ora  la  cosa  sarebbe  prematura,  e  come  non  siamo  i  primi  nelle  altre, 
Cosi  cercheremmo  invano  di  esserlo  in  questa. 

Gli  articoli  del  signor  Urtoller  non  mancano  di  giudiziose  osservazioni, 
ma  lasciano  desiderare  uno  sviluppo  maggiore  del  pensiero,  una  maggiore 
facilità  e  sicurezza  nel  maneggio  della  lingua  e  una  maggiore  proprietà. 


ECONOMIA  E  STATISTICA 

Raffaelp  Mariano.  —  Contro  il  Ubero  scambio.  Memoria  Ietta  nella  reale  ac- 
cademia dei  Lincei.  —  Roma,  coi  tipi  del  Salviucci,  1879  (pag.  50). 

Il  titolo  è  così  franco,  che  ci  dispensa  dal  l'esporre  il  fine  di  quest'opu- 
scolo. E  il  nome  dell'autore  è  così  autorevole,  in  un  altro  ordine  di  studi, 
che  richiama  l'attenzione  sopra  questa  sua  escursione  —  la  quale  ad  ogni 
modo  non  è  la  prima  —  nel  campo  degli  studi  economici 

Non  è  focile  riferire  per  filo  e  segno  le  ragioni,  delle  quali  il  Mariano 
si  serve  a  so.stegno  della  sua  tesi  Egli  non  procede  in  via  troppo  sistematica; 
jua  armeggia  contro  il  nemico,  che  s'è  proposto,  con  una  certa  agilità 
grave,  che  gli  è  propria,  e  che  lo  induce  a  moltiplicare  i  colpi  numeiosi, 
se  non  vigorosi,  senza  che  gli  ripugni  troppo  tornare  ripetutamente  su  lo 
stesso  argomento,  comunque  l'uniformità  dell'attacco  sia  dissimulata  sotto 
una  certa  varietà  apparente  di  movenze.  Fuor  di  metafora,  il  Mariano,  il 
quale,  secondo  egli  stesso  confessa,  non  è  economista,  non  ha  dovizia  di  ragioni 
tecniche,  più  o  meno  buone,  a  sostegno  della  sua  tesi.  Tuttavia  di  queste 
rag'.oni  non  rinunzia  a  servirsi  ;  e,  come  suole  accadere  a  chi  non  ha  uno 
studio  abbastanza  completo  di  qualsisia  disciplina,  nelle  generalità  non  esce 
dai  vecchiumi  già  da  gran  tempo  sfruttati,  e  nei  particolari  cade  in  palpabili, 
e  relativamente  numerose,  inesattezze.  Tra  le  prime  è  la  disputa,  che  si 
riduce  in  una  logomachia,  se  debba  prevalere  1'  interesse  dei  lavoratori,  o 
quello  dei  consumatori,  o,  per  dirla  con  le  parole  stesse  del  Mariano  «  se 
interesse  sommo  per  una  nazione  sia  lo  spender  meno  dai  suoi  consumatori, 
o  il  rimunerare  sufficientemente  i  suoi  lavoi^atori,  »  (pag.  28).  Eppure 
sarebbe  tempo  d'intendere,  che  il  battapliare  per  o  contro  l'uno  di  questi 
due  termini  è  tempo  perso;  perchè  nessuno  dei  due,  preso  assolutamente. 


BOLLETTINO   BlBiJOGEAFICO.  193 

può  servir  d' ideale  economico.  Né  il  buon  mercato  giova  ai  pezzenti  ;  né 
l'aumento  dei  salari  li  arricchisce,  quando  le  cose  necessarie  alla  vita  rin- 
carano in  proporzione  maggiore.  Non  è  con  queste  armi  arrugginite,  che  si 
risolve  l'annosa  contesa.  E  del  pari  poco  giova  cavar  fuori,  come  il  Mariano 
fa  con  una  certa  solennità,  un  interesse  del  lavoro,  concepito  come  distinto  da 
tutti  gli  altri  interessi,  e  che  non  si  sa  bene  che  cosa  sia.  —  Quanto  alle  ine- 
sattezze nei  particolari,  che  dimostrano  una  insufficiente  cognizione  dei  pre- 
cedenti economici  della  quistione,  nell'ordine  delle  dottrine  e  nell'ordine  dei 
fatti,  la  ristrettezza  dello  spazio  ci  mette,  come  suol  dirsi,  neW embaì'ras  du 
cìioix.  Ecco,  p  e.,  che  cosa  dice  il  Mariano  a  pag.  28-29:  «  Ora  la  corrente 
internazionale  degli  scambi  ha  due  capi,  dall'un  dei  quali  e'  è  la  vendita, 
dall'altro  la  compera.  Se  il  vender  molto,  comprando  poco  o  niente,  é  brama 
al  tutto  insensata  e  irrealizzabile,  rimane  pure  dall'altro  lato  a  sapere,  se 
ci  sia  speranza  di  prospero  stato  per  un  popolo,  che  viva  e  consumi,  com- 
prando senza  vendere,  o  senza  vendere  in  proporzione  eguale  alla  compera.» 
In  queste  parole  si  rivela  una  inesattissima  conoscenza  della  teoria  degli 
scambi  internazionali;  la  quale  è  tra  quelle,  che  hanno  raggiunto  un  certo 
grado  di  relativa  perfezione,  sebbene  non  si  sia  trovato  modo  finora  di  formu- 
larla in  moio  facile  e  piano  per  i  novizi.  Or  noi  siamo  perfettamente  disposti 
a  concedere,  che  chi  non  è  economista  non  sia  obbligato  a  rendersene  una 
chiai-a  ragione  Ma  siamo  del  pari  disposti  a  sostenere,  che  chi  non  se  ne 
rende  una  chiara  ragione,  non  ha  il  diritto  di  risolvere  quistioni,  come 
quella  del  regime  degli  scambi,  che  sono  in  essa  poco  men  che  imme- 
desimate. 

^Maggiore  apparenza  di  valore  hanno  gli  argomenti  dell'A.,  quando  si 
fondano  sopra  i  fatti  e  le  tendenze  contemporanee  prevalenti  presso  molte 
nazioni.  È  indubitato,  che  spira,  poco  men  che  dappertutto,  un  tetro  soffio 
di  reazione,  generato  specialmente  dalle  condizioni  prolungatamente  tristi 
del  mercato  internazionale.  Ma  il  Mariano,  riconoscendo  l'origine  della  crisi 
nella  produzione  eccessiva,  ne  attribuisce  la  colpa  al  libero  scambio  ;  e 
vorrebbe  rimediarvi,  promovendo  con  i  pannicelli  calrii  della  protezione  le 
industrie  nazionali,  cioè  accrescendo  appunto  quella  produzione,  che  è,  o 
pare,  esuberante.  Il  che  potrebbe  riuscir  salutare  nel  caso  che  una  nazione 
sola,  illuminata  dalla  novissima  teoria,  si  circondasse  di  barriere  doganali, 
persistendo  tutte  le  altre  nell'  ingenuità  di  lasciar  libero  l' ingresso  ai  pro- 
dotti di  questa  fortunata.  Del  resto,  anche  la  conoscenza  dei  fatti  economici 
contemporanei  è  abbastanza  incerta  nell' A,  poiché  lo  trae  a  conclusioni 
quasi  contradilittorie;  così,  dopo  di  avere  affermato,  che  i  paesi,  i  quali 
hanno  industrie  rigogliose,  come  l'Inghilterra  e  la  Francia,  hanno  tutto  da 
guadagnare  col  regime  della  massima  concorrenza  internazionale,  approva 
altamente  le  tendenze  protezioniste,  che  vi  si  rivelano,  a  suo  vedere  nelle 
leggi,  e  nell'opinione. 

L'A.,  com'era  preve.iibile,  non  ci  risparmia  le  solite  tirate  contro  l'eco- 
nomia egoistica,  o  atomistica,  o  individualistica,  dalla  quale,  secondo  lui, 
sarebbe  derivato  tutto  questo  malanno  del  libero  scambio.  Egli,  pur  rico- 

VoL.  XIV.  Sei'ie  II  —  1  marzo   18"?P.  13 


194  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO. 

noscendo  che  l'economia  è  riuscita  ad  appurare  «  gli  elementi  fissi,  costanti, 
imperituri,  che  concorrono  nel  comporsi  della  prosperità  e  del  capitale 
nel  formarsi  delle  ricchezze  e  nel  loro  moto,  ec.  >  'pag.  7  e  34) ,  le  nega 
nella  pagina  seguente  ogni  diritto  ad  essere,  o  a  rimanere  «scienza  a  sé, 
scienza  speculativa  e  astrattamente  universale  >  Di  questa  nostra  economia 
egli  non  vuol  più  sentirne  parlare;  e  ne  voi'rebbe  un'altra,  quella  propria- 
mente che  si  trova  già  bell'e  pronta  nel  geschlossene  Handelsstaat  del 
Fichte.  0  nei  g§  l'^9-20R  dei  Grundlinien  der  Philosophie  dea  I^echts  di 
Hegel.  La  quale  non  sappiamo  in  verità  di  quanto  riuscirebbe  meno  spe- 
culativa, e  astratta,  e  assoluta  della  vigente.  Nò  dimentica  il  Mariano  Tana 
tema  obbligato  contro  «gli  uomini  di  Manchester  ;»  ai  quali,  impenitenti 
nella  loro  propaganda  del  truce  egoismo  della  libera  concorrenza,  si  con- 
trappone il  pio  esempio  della  recente  conversione  del  principe  di  Bismarck 
al  protezionismo.  Or  noi  ci  permettiamo  dubitare ,  se  la  risurrezione  del 
dazio  d'importazione  sui  grani,  propugnata  dal  principe  di  Bismarck.  sarà 
piii  benefica  per  i  lavoratori,  di  quello  eh' è  stata  la  sua  abolizione,  propu- 
gnata e  conseguita  da  Riccardo  Cobden  e  da  quei  suoi  abominati  seguaci  della 
setta  manchesterriana.  D'altra  parte  c'ò  di  curioso,  che  il  Mariano,  concor- 
dandosi con  i  socialisti  della  cattedra  nella  condanna  della  vecchia  eco- 
nomia, approva  poco  la  nuova,  ch'essi  le  vogliono  sostituire;  e  li  tratta 
d' inconseguenti,  perchè  osano  re.'^tar  seguaci  e  fautori  della  teoria  del  libero 
scambio.  Mentre  in  questo  egli  scorge  una  tra  le  precipue  cagioni,  e  nella 
sua  abolizione  uno  tra  i  più  efficaci  rimedi,  del  socialismo. 

Ed  è  abbastanza  per  l'esame  di  quest'opuscolo.  Il  quale  certamente 
non  è  destinato  ad  avere  alcuna  influenza  nella  definitiva  risoluzione  della 
gran  lite,  che  forse  non  sarà  mai  completamente  risolala  nell'un  senso  o 
nell'altro.  Parecchie  altre  osservazioni  avremmo  a  fare  sopra  i  fatti  addotti 
e  le  dottrine  accennate  dall'A.  Ma  ci  preme  solo  soggiungere,  che  il  Ma- 
riano rimane  robusto  pensatore  e  valoroso  scrittore,  anche  quando,  come 
in  questo  caso,  piglia  a  sostenere  una  tesi  assai  dubbia  con  una  inadeguata 
preparazione.  La  sua  Memoria  si  fa  leggere  con  interesse  da  cima  a  fondo 
per  la  forte  tempra  dell'  ingegno  dell'autore,  ed  anche  per  un  certo  calore 
di  leale  convinzione,  che  vi  traspare  in  ogni  linea,  e  che,  pur  trascendendo 
non  di  rado  in  un  tono  di  dommatismo  intollerante,  impone  una  certa  stima 
per  opinioni  sostanzialmente  sbagliate  e  correliate  di  poco  validi  argomenti. 

(t.  Fr.  Kolb.  -  Ilmulbuch  der  ve>(/leichenden  S/.atùtik  —  der  Vdlkerzustands 
und  Staatenkunde — fiir  den  fd/yetneinen  praktiachen  GebrAuch.  Achte  auf 
Grundlage  der  neuesteu  staatlicheii  Gestaltungen  bearbeitete  Auflage. 
Leipzig,  1879.  (pag.  Vili,  535;. 

Il  Manuale  di  Statistica  del  Kolb  iia  conseguita  una  cosi  grande  e 
meritata  diffusione,  che  una  nuova  edizione  è  poco  men  che  un  avveni- 
mento per  gli  studiosi  e  per  gli  uomini  di  Stato.  1  libri  di  questa  natura 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  195 

hanno  di  particolare,  che  ogni  nuova  edizione  è  una  completa  rifusione  di 
tutt'  i  dati  ;  e  appunto  per  questo  diminuisce,  ma  non  distruj2:ge,  il  pregio 
delle  edizioni  precedenti,  le  quali  rimangono  sempre  come  documento  sto- 
rico di  grande  importanza.  Le  otto  edizioni  del  Manuale  del  Kolb  formano 
una  collezione;  la  quale  serve  d'indispensabile  complemento  alle  pubblica- 
zioni annuali,  che  hanno  valore  poco  men  che  ufficiale,  come  l'Almanacco 
di  Gota  e  lo  Statesman's  Yearhook  di  Federico  Martin.  In  questa  ultima 
edizione  il  Kolb,  oltre  a  sostituire  i  dati  recenti  agli  antiquati,  ha  mutata 
la  forma  e  la  disposizione  delle  materie,  in  guisa  da  rendere  più  maneg- 
gevole e  meno  costoso  il  volume.  Vero  è  che,  per  conseguire  questa  dimi- 
nuzione di  grossezza  e  di  prezzo,  ha  dovuto  sopprimere,  o  abbreviare,  la 
parte  storica,  della  quale  abbondava  specialmente  la  penultima  edizione 
(7'^),  del  1875.  Il  che  toglie  l'agevolezza  di  parecchi  raffronti,  tanto  neces- 
sari a  chiunque  ha  bisogno  di  cercare  non  solo  la  statica,  ma  anche  la 
dinamica^  delle  cifre  ;  e,  costringendo  a  tener  di  continuo  presente  la  edi- 
zione precedente,  rende  per  lo  meno  dubbia  l'utilità  della  riforma  apportata 
in  quella  di  quest'anno. Salvo  queste  osservazioni,  l'abbondanza,  l'accuratezza 
e  l'ordine  delle  notizie  raccolte  dal  Kolb  rimangono,  com'erano,  difficilmente 
superabili,  data  l'imperfezione  tuttora  grande  di  non  poche  tra  le  fonti  uffi- 
ciali della  statistica  politica  ed  economica." 


Prof.  Fr.  PROTONOTARI.  Direttore 


David  Marchionni,  Resjìonsahile. 


Firenze  -  G.  BAEBÉRA  -  Editore. 


(Estratto  dal  Catalogo  generale,  Giugno  1875.) 


storia  di  Roma,  dai  tempi  più  antichi 
fino  alla  costituzione  dell' Impero,  per 
FIneico  G.  LiDDELL.  —  Un  voi.  .  L.  4. — 

Stoi'iH  «lolla  Ut'enilcnzu  e  novitia 
dell' Inipoi-u  Koiiiuno,  di  E.  Gibbon, 
compendiata  da  G.  Smith.  —Un  voi.  4.  — 

Storia  di  Circciu,  dai  tempi  primitivi 
fino  alla  conquista  romana,  con  Cnpitoli 
aggiunti,  di  G.  Smith.  Prima  traduzione 
italiana  con  una  Carta.  —  Un  voi.  lì.  — 

Storia  Antica  dfll'  Oriente,  dai  più 

remoti  tempi  fino  alla  conquista  d'Ales- 
sandro il  Grande,  di  G.  Smith.  Prima  tra- 
duzione italiana  di  0.  Carrara.  —  Un 
volume 3  50 

Conipon«ilo  della   Storia  d^  Italia, 

di  L  Sfiiuzosi,  con  una  Carta  Geografica 
dell'  Italia  Moderna.  —  Un  voi.    .  3.  — 

Manuale  di  Storia  Modem»,  (14.54- 
1866)  a  uso  delle  Scuole  per  Celestino 
Bianchi.  (Quarta  ediz.)  —  Un  voi.  3.50 

Manuale    di    fìcograda    ItlodciDin, 

Matematica,  Fisica  e  Descrittiva,  di 
6.  L.  Bkvan.  Prima  traduzione  italiana 
con  aggiunte  e  note  ad  uso  degl'Ita- 
liani. Terza  edizione  riveduta  e  corretta 
dall'Autore  e  corredata  di  prospetti  sta- 
tistici. —  Uu  volume 4.  — 

Manuale    di    Geografìa    /tnficn^  dì 

G.  L.  Bevan,  pubblicato  da  G.  S?nith. 
Prima  traduzione  italiana  arricchita  di 
molte  Carte  Topografiche.  (Seconda  edi- 
zione). —  Un  volume 4.  — 

CoHiuograna.  Nozioni  fondamentali  sul- 
r  ordinamento  del  mondo  fisico,  psposte 
dal  dott.  C.  Pescatori.  (Terza  edizione). 

—  Un  volume 1.20 

Geografla  Fisica,  di  Maria  Somrr- 
vn.LE  Terza  edizione  italiana  rivista  ed 
aumentata,  conl'urmemcnte  alla  quinta 
edizione  inglese.  —  Due  volumi.  .  8.  — 

Formulario  Matematico,  ossia  Rac- 
colta di  Formule  relative  all'Aritmetica, 
all'Algebra,  alla  Geometria,  alla  Trigo- 
nometria, alla  Fisicn,  .alla  Chimica,  alla 
Meccanica,  ec.  coli' aggiunta  di  varie  ta- 
vole   numeriche,   per   Giuseppe   Coesi. 

—  Uu  volume 4.  — 


L'Kuropu  nel  Mediu  Kvo,  di  Enrico 
Hallam,  con  le  ultim/-.  ricerche  dell'Au- 
tore e  con  aggiunte,  adattate  agli  stu- 
diosi da  Gtiglieìmo  Sjìuth,  prima  tradu- 
zione italiana  con  note  ed  aggiunte  di 
Giuseppe  Carrara.  —  Un  voi.  .  L.  4.  — 

Vocabolario  della  Ungila  Italiana 

cnm|iiiato  da  Giuseppe  Rigutini  p'-r  uso 
delle  Scuole,  accresciuto  di  voci  did  co- 
mun  parlare  e  dogli  approvati  scrittori. 
—  Un  volume  legato  all'inglese  .  7. — 

l>Ì7,ionario  Fruncese-lfuliuno  e 
Kaliaiio-FranceNe  compilato  da  F. 
Costerò  e  H.  Lefkbvre,  arricchito  delia 
pronunzia  delle  due  lingue,  di  un  dizio- 
nario geografico,  e  di  un  supplemento. 
Contiene  molti  vocah  ,ìi  di  Marina.  —  Un 
volume  legato  all'  inglese 7.  — 

Dizionario  ltaliano-Inglc.*ic  e  Bn- 
gle««e-ltaliano,  ad  uso  dì  ambedue  le 
nazioni,  colla  pronunzia  e  coli' accento 
su  le  parole  delle  due  lingue,  di  J.  P. 
RoBERTS.  —  Un  volume  legato  all'  in- 
glese   7.  — 

Sulle  Frazioni  I>ecimn3i  e  nuì  Sì- 
titcma  Metrico  Italiano,  discorso 
alla  buona  di  Angelo  Gamberai  —Un 
volume —  80 

%'ita  di  Cri.istoforo  Colomlto  scritta 
da  Arturo  Hklps.  Prima  traduzione  dal- 
l'inglese. —  Un  volume 1. — 

Opere  complete  di  Galileo  Galilei. 

Edizione  condotta  sugli  Autografi  MSS. 
per  cura  del  prof.  E.  Alberi.—  16  vo- 
lumi, edizione  in  8°  classici  .  .  L.  150 

Edizione  in  piccol  4" 200 

Il  Saggiatore,  di  Galileo  Galilei.  — 
Un  volume -.25 

l,a  Vita  di  Mino  itixio,  narrata  da 
Giuseppe  Guerzoni,  con  lettere  e  do- 
cnmenti.  (Seconda  ediz.)  —Un  voi.  4.  — 

fj' Uomo  o  la  IVatiira,  ossia  la  super- 
ficie terrestre  modificata  per  opera  del- 
l'uomo,  di  Giorgio  P.  JIarsh.  (Seconda 
edizioue),  —  Un  volume 5.  — 

L,a  Geometria  delle  Curve,  del  pro< 
fessor  Niccola  Collignon.  —  Uu  volume 
in  8°  con  270  incisioni 9.50 


j^"  Le  suddette  opere  saranno  spedite  franco  in  tutto  il  Regno  a  chi  ne  rimet. 
torà  l'importo  con  Vaciìia  postale  all'Editore  (i.  BARBÈRA  in  Firenze.  —  Chi  1« 
desidera  raccomandate,  aggiunga  Cent.  30 


L' ISTRIA 

re    IL    NOSTRO    CONFINE    ORIENTALE- 


I. 


S0CI6TA'  n'mC0RA6G)AMfNTOJ 
P€ii  léSWlTé Jr  MESTIERI   i 


Che  cosa  è  una  regione  ?  Quand'è,  e  com'è  che  può  costituire 
un  tutto  morale  e  politico? 

Se  gli  uomini  fossero  così  ragionevoli  come  amano  di  venire 
qualificati  nelle  presontuose  definizioni  della  specie,  non  ci  sarebbe 
davvero  una  domanda  più  oziosa  di  questa. 

Iddio  con  immortali 

Caratteri  di  monti  o  di  mariue 
Ha  scolpito  le  patrie. 

Così  il  buon  Aleardi.  E  che  l'Italiana  sia  stata  scolpita  pro- 
prio ad  alto  rilievo,  ne  giudicò  senza  esitazioni  e  senza  menoma- 
menti colui  che  in  questo  secolo,  e  forse  in  tutti,  se  ne  intendeva 
di  più.  A  Napoleone  l'Italia  parve  così  spiccatamente  separata  dalle 
altre  parti  d'Europa  che,  secondo  lui,  un'isola  non  potrebbe  meglio. 
Sentenza  la  quale  uno  dei  maggiori  geografi  militari  del  nostro 
tempo,  il  Lavallée,  fa  tutta  sua.  «  La  vallata  continentale,  egli 
dice,  coll'annessa  penisola  lunga  e  stretta,  le  tre  grandi  isole  a  mez- 
zodì e  le  parecchie  minori  a  ponente,  costituiscono  la  regione 
italica,  i  cui  limiti  naturali  rimangono  delineati  con  precisione  non 
minore  che  se  fossero  quelli  d'un' isola.  » 

Il  Correnti,  nell'annuario  statistico  italiano  del  1864,  osserva 
con  irrecusabile  verità  ed  acutezza  che  tutti  indistintamente  i 
geografi  da  Tolomeo  al  Balbi  furono  di  questa  opinione,  e  che  il 
mal  gioco  di  sofisticarci  i  nostri  confini,  non  cominciò  che  dal  mo- 
mento nel  quale  l'Italia  parve  divenuta  qualche  cosa  di  più  che 
una  semplice  espressione  geografica. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  marzo  1819.  13 


194  l'istjrlv  e  il  nostro  confine  orientale. 

Infatti,  quando  essa  era  padrona  di  tanto  mondo  come  quando 
cessò  anche  di  essere  tale  fin  di  sé  stessa,  la  questione  dei  suoi 
confini  non  era  che  un  fatto  dottrinale 

Ebbene,  sta  in  ciò  la  debolezza  ovvero  la  forza  delle  citazioni 
infinite  che  possono  venire  allegate  a  prova  del  riconoscimento  dei 
nostri  diritti  per  parte  di  tutti  ?  Le  citazioni  remote  hanno  senza 
dubbio  tutto  il  grandissimo  valore  di  fatti  appurati  e  procla- 
mati colla  più  completa  imparzialità,  vale  a  dire  nell'assenza 
di  tutte  le  passioni  e  i  secondi  fini,  dei  quali  nessuno  potrebbe, 
a  cagione  di  esempio,  accusare  né  Strabone,  né  Plinio,  uè  Ero- 
diano,  persone  abbastanza  lontane  da  ogni  tentazione  in  proposito. 
Nessuno  per  converso  potrebbe  supporre  perfettamente  sgombro 
ed  imparziale  l'animo  dello  Schmidt,  dell'Hoff",  del  Kohl,  del 
Coustein,  del  Mayr  '  da  una  parte,  né  dell'Antonini,  del  Bonfiglio, 
del  Combi,  del  Fabris,  del  Luciani,  del  Marinelli  né  tampoco  di 
chi  scrive  dall'altra.  Ma  l' imparzialità  degli  autori  citati  può 
sembrare  nel  tempo  stesso  un  argomento  di  debolezza  in  fatto  di 
autorità  per  tutti  coloro  i  quali  opinano,  che  a  questo  mondo  molte 
cose  si  facciano  anche  splendidamente  ma  nessuna  coscienziosa- 
mente quando  non  se  n'abbia  un  reale-  e  pratico  bisogno,  e 
che  le  questioni  meramente  dottrinali,  fra  le  quali  andava  pur 
collocata  questa  del  confine  nel  primo  e  nel  secondo  degli  stadii 
sopraccennati,  quello  cioè  della  potenza  nazionale  massima  e  della 
nessuna,  non  debbano  mai  considerarsi  risolute  sul  serio. 

Per  la  quale  ragione,  sebbene  ciò  possa  parere  contrario  al- 
l'interesse della  tesi,  io  ammetterò  senza  difficoltà  che  la  cosa 
possa  anche  riguardarsi  non  risoluta  e  discutersi  come  nuova, 
per  quanto  i  criterii  e  documenti  storici  ed  etnografici,  non  meno 
che  geografici,  militassero  per  colui  il  quale  volesse  invece  conside- 
rarla come  al  tutto  chiara  e  definita  nell'ordine  dei  fatti  scien- 
tifici, e  soltanto  controversa  in  quello  dei  politico-militari. 


il. 

1  patti  chiari  fanno,  come  suona  il  proverbio,  l'amicizia  lunga. 
Lo  stesso  può  dirsi  dei  confini,  che  ijuando  sieno  ragionevolmente 

1  Schmidt,  Das  K.  Ilbjrien,  1S40,  Stutganl.  —  Hoff.  Hist.  s/at.  top  Gemalde 
vom  Hz  Krain  und  deìnselben  einverleihten  Istrien,  Laibach,  1808.  —  Kohl  I.  Q. 
Reise  im  sudestischen  Deutschland,  v.  2,  p.  442,  Leipsig.  —  Caustein,  Biucke  in  die 
vestischen  alpen,  Berlin,  i83T  —  Carta  deU'Illiria,  de/r/sf.  ec,  Vienna,  1843.— 
Mayr,  I.  Q,  Atlas  der  Alpenlunder,  Gotha,  l'erthes,  1863. 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  195 

€  nettamente  tracciati,  sono  altrettanti  patti  chiari  scritti  con 
quei  grandi  caratteri  che  il  poeta  canta  e  dei  quali  soltanto  la 
natura  dispone.  Essi  fanno  lunga  1'  amicizia  fra  gli  Stati,  sia  to- 
gliendo l'occasione  a  dispute  quotidiane,  come  allontanando  quelle 
che  nel  linguaggio  criminale  si  chiamerebbero  spinte  al  delin- 
quere', frase  che  in  politica  non  si  osa  pronunziare,  ma  della  cui 
applicabilità  morale,  e  con  ragioni  cento  volte  più  forti  che  nei 
casi  individuali,  nessuno,  pur   troppo,  saprebbe  oramai  dubitare. 

Nulla  può  sostituirsi  ad  un  confine  che  la  natura  abbia  per  lo 
meno  concorso  a  tracciare.  Lo  Stato  al  quale  venga  tolto  il  pro- 
prio, vale  a  dire  quello  la  cui  naturale  linea  difensiva  si  trovi  ol- 
trepassata di  già  dal  vicino  (e  tanto  piìi  se  questo  lo  soverchi  di 
forze),  non  possiede  la  sua  autonomia  che  sulla  carta,  e  proverebbe 
dei  grandi  disinganni  e  dei  disastri  non  minori  in  quel  giorno 
difficile,  nel  quale  si  credesse  sul  serio  il  padrone  della  propria 
dignità  e  dei  propri  destini. 

Taluni  osservarono  che  ciò  significa  negare  addirittura  ogni 
effetto  utile  alla  scienza  delle  fortificazioni  e  fare  troppo  buon 
mer'-ato  di  quelle  linee  frontiere  e  di  quegli  scacchieri  sfra- 
tegici  che  i  classici  dell'  arte  seppero  levare  a  sì  grande  onore. 
La  guerra  moderna,  potrebbero  anche  soggiungere,  presenta  essa 
forse  risoluto  il  problema  se  i  nuovi  sistemi  e  le  nuove  armi  tornino 
più  utili  all'attacco  o  alla  difesa  delle  piazze  forti?  —  È  a  buon 
conto  accertato  che  del  tiro  lungo  e  preciso  si  vantaggia  assai 
più  la  difesa,  mentre  rimane  tutt'altro  che  accertato  che  nuovi  ap- 
procci possano  superare  di  efficacia  gli  antichi,  e  che  i  fulminati 
e  le  dinamiti  valgano  a  soppiantare  la  vecchia  zappa.  Ora,  pos- 
sono seguitare,  in  presenza  di  un  vantaggio  assicurato  e  d' uno 
svantaggio  assai  dubbio  (il  quale  forse  per  potenza  di  contro- 
mine e  di  focate,  che  oggi  possono  farsi  brillare  anche  dai  rampari, 
e  senza  l'eroismo  di  nessun  Pietro  cricca,  può  essere  mutato  an- 
ch'esso in  vantaggio)  come  si  osa  negare  che  le  linee  frontiere  ar- 
tificiali possano  valere  le  naturali? 

Non  è  qui  il  caso  di  riaram azzare  degli  uomini  morti,  confu- 
tando le  teorie  del  D'Argon,  del  Noizet  e  dei  loro  discepoli  intorno 
alla  assurdità  delle  linee  frontiere  e  degli  scacchieri,  che  quando 
anche  non  fossero  della  più  completa  inutilità  militare,  rimar- 
rebbero pur  sempre  economicamente  impossibili. 

Quella  fortezza  la  quale  non  ha  uno  di  questi  due  scopi,  chiu- 
dere un  passo,  ovvero  assicurare  una  base  di  approvvigionam?nto 
od  un  perno  di  manovra,  è  un  anacronismo.  Ciò  è  tanto  compreso 


196  l'istkia  e  ]l  nostro  confine  orientale. 

dai  militari  e  penetrato  di  già  nella  convinzione  di  tutti  che,  fin 
da  un  secolo  e  mezzo  fa,  il  Vauban  di  queste  deboli  piazze  forti 
ne  fece  demolire  meglio  che  un  centinaio. 

È  un  fatto  che  la  parte  di  qualsiasi  specie  di  rifugi,  ostacoli 
od  anche  campi  esclusivamente  difensivi  in  campagna  aperta  o 
quasi,  ha  perduto  della  sua  importanza  mano  mano  che  l'arte  della 
guerra  si  è  perfezionata. 

Il  generale  Paixhans  osserva  che  mentre  prima  del  1741  erano 
più  gli  assedi  che  le  battaglie,  dal  1741  al  1783  ci  furono  invece 
67  assedi  su  100  battaglie,  e  durante  la  rivoluzione  francese  26 
su  100.  In  appresso,  neanche  parlarne.  Non  furono  che  23  sotto 
il  Consolato  e  16  sotto  l'Impero. 

Le  piazze  l'orti  non  sono  punto  quello  che  dice  il  generale 
D'Argon  «  cioè  delle  mura  di  bronzo  contro  le  quali  venga  a 
spezzarsi  la  rabbia  impotente  e  l'ambizione  dei  conquistatori.» 
La  sua  idea,  che  è  delle  più  false,  diede  origine  alle  ridicole 
espressioni  di  catena  e  di  barriera,  le  quali  non  debbono  trovarsi 
nel  dizionario  del  generale,  né  in  quello  dell'ingegnere. 

Le  catene,  le  barriere  sono  il  non  surrogabile  lavoro  della 
natura.  Questi  vocaboli  appartengono  alla  geografia  dalla  quale 
l'arte  strategica  e  l'ingegneresca  li  ricevono  semplicemente  a 
prestito. 


III. 

I    principi i  generali  della  difesa  degli  Stati  sono  cosi  formu- 
lati dal  Brialmont  : 

1"  Occupare  i  principali  passi  (defìles),  gole  di  montagna, 
nodi  di  vallate,  strade  attraversanti  foreste  o  paludi,  ponti  desti- 
nati a  favorire  le  operazioni  dell'esercito  difensivo  sulle  due  rive 
di  un  orso  d'acqua  importante  ; 

2"  Munire  le  grandi  rade,  i  punti  di  sbarco  e  i  principali 
ancoraggi  ; 

3"  Costruire  al  limite  di  ciascuna  zona  d'invasione  una  piazza 
destinata  a  servire  di  deposito  e  di  base  di  operazione  all'esercito, 
allorché  esso  dovrà  portarsi  al  di  là  delle  frontiere. 

Tali  sareblìero  stati  per  la  Francia:  Lille.  Metz  e  Strasburgo 
per  le  operazioni  in  Belgio,  nelle  Ardenne  ed  in  Grermania. 

Del  4"  e  5°  principio  che  riguardano  le  piazze  di  rifugio  ed 
il  grande  ridotto  centrale  non  è  il  caso  di  far  qui  menzione,  ri- 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  197 

mandando  il  lettore  che  volesse  per  altri  motivi  occuparsene  al 
capitolo  delle  considerazioni  strategiche  sulle  piazze  forti  nella 
magistrale  opera  di  lui  intorno  alla  difesa  degli  Stati. 

Delle  tre  accennate  cose  essenziali  per  la  difesa  di  una  fron- 
tiera, l'Italia  di  fronte  all'Austria  non  può  efficacemente  fare  che 
la  terza,  cioè,  tenere  a  grado  proprio  una  o  più  piazze  forti  al 
limite  interno  della  zona  d'invasione. 

I  passi  alpini,  ed  il  reale  e  guarentito  possesso  della  costa  adia- 
cente sono  al  tutto  fuori  del  suo  campo  d'azione  difensiva. 

La  ragione  economica  non  meno  che  la  militare  escludono  il 
disseminamonto  delle  forze  e  delle  stazioni  difensive. 

L'Italia  domanda  però  anche  meno  di  ciò  che  il  Brialmont 
reputa  necessario  alle  difese  d'uno  Stato. 

Essa  non  aspira  che  a  guardare  i  passi,  possedere  i  nodi 
delle  valli  che  sono  le  sue  porte  di  casa,  e  piantare  costì  dei  ri- 
fugi pei  suoi  alpini,  che  è  quanto  dire  nulla  più  che  il  proprio 
versante  e  degli  sharramenti  contro  le  invasioni. 

Le  sue  piazze  di  seconda  linea  essa  le  tiene  non  poco  di  là  dal 
limite  della  zona  d'invasione  e  rinunzia  a  qualsiasi  baluardo  o 
deposito  di  frontiera  che  valga  quando  che  sia  a  servirle  di  base 
ad  operazioni  offensive. 

A  ciò,  ripeto,  l' Italia,  non  vuol  pensare  né  può  sebbene  le 
attuali  piazze  dell'Adige  amendue  di  là  del  lato  interno  della  zona, 
non  possano,  immediatamente  per  la  loro  distanza  e  specie,  consi- 
derarsi, difensive,  ma  rivestano  tutto  al  più  il  carattere  di  piazze 
di  deposito  e  primi  ridotti  di  difesa  interna  anziché  mezzi  di 
contr'offensiva.  Se  non  che  alle  piazze  intermedie  si  può  anche 
rinunziare,  ma  agli  sharramenti  no.  Acquetarsi  all'avere  la  fron- 
tiera scavalcata  di  già,  è  come  dire  tenersi  una  guarnigione  stra- 
niera in  casa,  il  che  nessun  paese  può  volere  e  nessun  teorico, 
per  quanto  parziale,  può  mai  consigliare  se  onesto. 


IV. 

Sono  un  mille  e  trecento  chilometri  di  masse  alpine  che  co- 
stituiscono il  colossale  semicerchio  divisorio  elevatosi  fra  il  ba- 
cino del  Danubio,  del  Reno,  del  Rodano  e  questo  nostro  del  Po. 
I  geografi  distinguono  in  esso  tre  archi  distinti,  i  quali  fronteg- 
giano per  r  appunto  codesti  tre  bacini  ;  1'  occidentale,  di  440 
chilometri,  dal  Monte  Schiavo  al  Monte  Bianco;  il  settentrionale 


198     •  l'istria  e  il  nostro  confine  orientale. 

da  questo  al  Picco  dei  Tre  Sigiion;  e  l'orientale  fin  giù  all'Adria- 
tico, anicndue  di  estensione  approssimativamente  eguale  al  primo. 

È  di  quest'ultimo  che  qui  si  ragiona,  imperocché  dal  Picco  dei 
Tre  Signori  comincia  la  frontiera  orientale  d'Italia  ed  è  da  esso 
che  si  distreccia  la  gran  catana  delle  Alpi  principali,  e  ad  esso 
che  faimo  capo  le  valli  della  Brava,  della  Salza  e  della  Eienza. 
Di  costà  si  stacca  ad  Oriente  l'Alpe  Norica  e  a  mezzodì  quella 
fatalmente  minore  che,  prima  Carnica  e  poi  Giulia,  seconda  in 
largo  giro  l'ultima  insenatura  dell'Adriatico  e  scende  a  dividere, 
sebbene  tanto  meno  di  quello  che  si  vorrebbe,  l' Italia  dalla  Ca- 
rinzia,  dalla  Carniola  e  dalla  Croazia. 

Nel  citato  annuario  dei  signori  Correnti  e  Maestri  e  in  a.ltre 
pubblicazioni  è,  per  la  descrizione  di  questa  geografica  ma  non 
politica  frontiera,  lasciata  la  parola  al  Combi  che  la  conosce  e 
descrive  con  evidenza  scientifica  e  plastica  al  tutto  particolare. 

Io  pure  mi  vi  atterrò  senza  per  questo  staccar  l'occhio  dagli 
studi  analoghi  dell'Antonini,  il  cui  lavoro  sul  Friuli  orientale  ha 
l'importanza  d'un'  opera  maestra,  e  da  quelli  dell'Amati,  del  Bonfi- 
lio,  del  Coiz,  del  Fabris,  del  Luciani,  non  che  del  geografo  Marinelli 
e  del  geologo  Taramelli,  dotti  analizzatori  e  non  meno  vivi  e 
lucidi  espositori  dei  latti. 

Giammai  scrittore  si  trovò  di  fronte  a  tanto  materiale  e  così 
sapientemente  preparato. 

La  frontiera  move  quasi  diretta  a  mezzodì  per  50  chilometri 
fino  al  Monte  Bianco  (p.  8902)  e  separa  il  Cantone  di  Bninecco 
da  quel  di  Sillian  e  la  valle  della  Rienza  da  quella  della  Brava, 
sebbene  il  giogo  di  Tobalch  che  mette  dall'una  all'altra  non  sia 
più  alto  di  Bormio  (p.  3711)  e  presenti  l'aspetto  d'un  varco 
piano,  tanto  che  le  due  valli  conservano  un  solo  nome  (Pusteria, 
Pusterthal).  Ma  sul  collo  di  Kreutzberg  che  da  Val  Pusteria 
mette  nel  Cadore  e  donde  le  Alpi  cominciano  più  propriamente 
a  prendere  il  nome  di  Carniche,  la  strada  passa  a  5280  piedi 
d'altezza.  Ba  Kreutzberg  fino  al  quadrivio  di  Tarvis  le  Carniche 
tirano  quasiché  diritte  verso  levante  per  90  chilometri.  ^  Balla 
sella  di  Saifnitz  che  poco  prima  di  Tarvis  divide  con  un  depresso 
culmine,  alto  appena  2469  piedi,  la  valle  carnica  del  Gail  dal- 
l'italica del  Fella  e  riesce  per  una  lunga  cruna  alla  Pontehba,  si 
staccano  lo  Alpi  Giulie  che  da  Tarvis  al  Quarnero  corrono  260 
chilometri  e  cominciando  umili  s'innalzano  poc'oltre  intorno  alle 

^  Correnti  e  Maestri,  Amiuario  1864,  pag.  70. 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  199 

alte  valli  della  Roccolana,  della  Sava  e  dell'Isonzo  fino  alla  re- 
gione delle  nevi  perpetue  coi  picchi  del  Mangert  (8462  p.),  del 
Eambon  (6791  p.),  del  Canin  (8400  p.),  del  Km  7005  p.)  e  del  Tri- 
corno, il  principe  delle  Alpi  orientali   (10,015  p.) 

Tra  le  falde  occidentali  del  Tricorno  e  i  monti  di  Predil, 
ove  s'apre  il  passo  che  mena  dal  Goriziano  (alto  mille  piedi  piìi 
che  quello  di  Saifnitz)  serpeggia  Val  Trenta  ove  sono  le  prime 
vene  dell'Isonzo.  Il  muro  delle  Giulie  benché  giri  a  spinapesce 
dintorno  alle  scaturigini  di  parecchi  fiumi  (la  Coritenza,  l'Isonzo, 
il  Tolmino,  la  Bazza,  e  l'Idria,  il  Vipacco  da  una  parte,  la  Sa- 
vizza,  lo  Zeyer,  la  Soura  e  il  Liibiano  dall'altra),  pure  scende  verso 
mezzodì  sì  continuo  ed  erto,  che  per  tutti  gli  ottanta  chilometri 
correnti  tra  il  Predil  e  l' Idria,  non  dà  alcun  varco. 

L'Alpe  Giulia  pertanto  può  dividersi  in  due  parti,  superiore 
ed  inferiore,  facendo  cominciare  questa  dai  monti  che  si  elevano 
sopra  le  sorgive  dell'Idria.  E  infatti  «  fra  Idria  e  Sayrach  che  le 
montagne  s'allargano  e  quasi  dire  affogano  in  un  vasto  altipiano 
dove  le  cime  e  i  risalti,  chi  li  guardi  di  li,  non  paiono  più  che 
uno  sparso  e  bizzarro  basso  rilievo  di  colli  petrosi. 

Errano  nondimeno  coloro  che  danno  all'  Alpi  Giulie  solo 
dai  2000  ai  2500  piedi  di  altezza,  poiché  da  Tarvis  sino  ad  Idria 
esse  fanno  una  diga  continua  dai  5  ai  7000  piedi  di  altezza,  e  più 
sotto,  quando  sono  quasi  a  dire  murate  negli  altipiani,  si  elevano 
ancora  dai  2000  ai  3000  piedi,  e  sul  largo  bastione  torreggiano 
qua  e  là  delle  alte  piramidi  come  il  Nanos  (p.  4(i98)  ed  il  Ne- 
voso (p.  5328)  che  è  la  vetta  più  orientale.  L'  altipiano  è  aspro, 
cavernoso,  disertato  dai  venti  nordici  o  grecali  che  gli  Istriani, 
sincopando  il  borea  dei  latini,  chiamano  bora. 

«  La  superiore  è  continua,  alta,  veramente  alpina,  l'inferiore 
i-otta  e  depressa.  Gira  quella  nel  primo  suo  tratto  per  guisa  da 
accogliere  in  grembo  le  due  orride  vallate  di  Trenta  sul  versante 
nostro,  e  di  Wohein  su  quello  della  Carniola.  Le  più  alte  vette 
dell'Alpe  Giulia  si  spiegano  lungo  questa  linea  sinuosa;  il  Man- 
gert (2675  m.),  il  Tricorno  (3046  m),  il  Yagatin  (2000  in.),  il  Mon- 
tenero,  quasi  a  giusta  distanza  tra  loro,  e  segnante  i  termini  delle 
due  curve,  per  cui  si  svolge  la  imponente  giogaia.  Dal  Montenero  ad 
Idria  scende  essa  quasi  diritta  al  sud,  dirompendosi  ai  fianchi  nelle 
valli  silvestri  della  Bazza  e  del  Zayer  a  levante,  e  in  quelle  della 
Bazza  e  dell'Idria  a  ponente.  Questa  Giulia  superiore  ha  il  solo 
passo  naturale  del  Predil  (1168  m.),  quasi  al  suo  cominciare  tra 
la  vallicella  dello  Schlizza,  che  scorre  per  Tarvis  nel  Gailitz,  os- 


200  L'ISTRIA  E   IL  NOSTRO   CONFINE  ORIENTALE. 

sia  nel  bacino  della  Drava,  e  quella  della  Coritenza,  influente  del- 
l'alto Isonzo.  I  viottoli    rovinosi  che  mettono  nel    Val  trenta   dai 
ridossi  del  Mangert,  del  Presnig,  del  Tricorno,  e  nelle  forre  della 
Bazza  e  dell' Idria  dal  Montenero  e  dal  Plegas,  non  sono  varclu 
di  cui  occorra  tener  conto.  Fra  la  Giulia  superiore  e  T  inleriore, 
precisamente  all'anzidetto  limite  dei  gioghi  d' Idria,  monta  la  strada 
che  da  Sayrach  sulle  fonti  del  Zayer    guadagna   l'altipiano  della 
Selva  Piro   (Birnbaumerwakl    840  m.),  proteso  poi  nell'  altro  di 
Tarnova  (791  m.).  Ed  è  questo  appunto  quel  tratto,  in  cui  l'Alpe 
quasi  a  dire  dilaga,  perdendo  naturalmente  di  sua  elevazione.  Quivi 
i  monti,  sebbene  seguano  a  comporre  il  dosso  delia  frontiera  per 
G-odovic,  Velchiverch,  Kaltenfeld  e  Adelsberga,  muovono  a  gruppi 
disordinati,  e  prendono  forma  di  tumuli  giganteschi  in  mezzo  al- 
l'ampia terrazza  petrosa.  Ad  essa  conducono  la  via  già  detta  di  Say- 
rach e  quella  di  Nauporto  (Oberlaibach,  .370  m.)  e    di  Longatico 
(Loitsch,  915  m.),  la  prima  dalla  valle  dei  Zayer,  e  la  seconda  da 
quella  del  Lubiano.  Ambedue  riescono  all'infossamento  di  Podkray 
e  Zoll,  che  da  levante  a  ponente  taglia  l'altipiano  e  smonta  sulla 
valle  del  Vipacco  o  Frigido,  poco  più  sopra  di  Aidussina.  Se  non 
che  la  via  maestra,  ossia  il  passo  principale  dell'Alpe  Giulia,  non 
valica   la   Selva  Piro,   ma,    continuando  l'adito   di   Longatico,  la 
gira  sotto  per    la   conca  dell'  Unz,  e   quindi    per    la  insellatura 
di  Adelsberga  (590  m.)    e  la  vallicella  della  Piuca  e  della  Na- 
nosizza  fino  al  piede  del  Nanos  (1295  m.),  in  cui  si  appunta,  spic- 
candosi l'altipiano  alla  maggiore  sua  altezza.  Più  oltre  di  Prewald 
(654  m.),  che  sta  a  cavaliere  della  strada  che  svolta  questo  monte, 
corre  essa  da  una  parte  lungo  la  valle  del  Vipacco,  raggiungendo 
le  vie  della  Selva  Piro  tino  a  Gorizia,  e  dall'altra  supera  per  Se- 
noseccia  e  Sessana  la  seconda  terraz7,a  calcare  dell'Alpe   Giulia, 
cioè  il  Carso  dell'Istria,  per  poi  ridiscendere  a  Trieste.  Dalle  al- 
ture di  Adelsberga  (673  m.),  dove  arriva  la  schiena  della  giogaia 
alpina,  si  alza  questa  verso  sud-est  a  forma  di    larghissima    pi- 
ramide, agitandosi  in  moltiplici  accidenti  così   sulle    valli    della 
Piuca  e  dell'alto  Timavo  a  ponente,  come  sulle  acque    intermit- 
tenti dell'  Obrech  e  del  lago  di  Zirknitz    a    nord-est.    La    punta 
della  piramide  è  quel  Monte  Nevoso  (1686  m.),  che  sorge  ultimo 
termine  orientale  d'Italia.  Sotto  di  esso,  verso  Fiume,  l'Alpe  sfianca 
nuovamente,  sì  che  da  Castua  ad  Adelsberga  sale  altra    via  per 
Lippa  (285  ni.),  che  indi  tragitta  le  anzidette  due    valli  del   Ti- 
mavo e  della  Piuca.  Ma  ben  tosto  si  rizza   maestoso    al    gruppo 
del  Planic  (1268  m.),  nodo  dei  monti  dell'Istria    e    principio   di 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  201 

quel  secondo  altipiano  che  sovrasta  a  Trieste  e  percorso  dalla 
Vena  (1107  m.)  fascia  la  provincia  istriana,  non  lungo  tratto 
di  sotto  al  grosso  della  frontiera,  da  quelle  sommità  che  domi- 
nano il  seno  di  Fiume  alle  foci  del  Tiraavo  nelle  lagune  di 
Monfalcone.  Infine  il  nodo  del  Planic,  chinandosi  alquanto  di  so- 
pra a  Lovrana,  là  dove  passa  (950  m.)  l'altra  strada  che  da  Fiume 
volge  nel  centro  dell'Istria,  l'Alpe  Giulia  si  eleva  ancora  più  alta 
al  Monte  Maggiore  (1394  m.).  Di  là  quasi  muraglia  procede  verso 
il  mare,  e  spinge  in  esso  il  promontorio  di  Fianona.  » 

Il  Goriziano  e  l'Istria  sono  i  paesi  italiani  abbracciati  dalla 
frontiera  cosi  perspicacemente  messaci  sotto  gli  occhi  dalla  pla- 
stica descrizione  del  Combi.  Oltr'  essa  vi  soggiace  la  Carniola,  e 
per  breve  spazio  al  settentrione  la  Carinzia,  e  a  scirocco  la  Croa- 
zia. E  da  queste  tre  regioni  si  schiudono  i  varchi  nella  nostra  peni- 
sola, vale  a  dire  quello  del  Predil  dalla  Carinzia,  l'altro  di  Adel- 
sberga,  con  cui  si  aggruppano  i  due  minori  dell'altipiano  centrale, 
dal  mezzo  della  Carniola,  e  il  terzo  di  Fiume,  Lippa  e  Monte 
Maggiore  dalla  Croazia. 

Il  baluardo  delle  Giulie  è  rinterzato  dal  Predile,  dal  Man- 
gert,  dal  Jalus,  dal  Tricorno  ed  altri.  A  greco  dei  monti  Predile 
e  Mangert  sorgono  altre  aspre  giogaie  le  quali  si  rannodano  al 
Leobel  nella  valle  della  Drava. 

In  questi  monti  nascono  il  Savo,  il  Lubiano  e  l'Isonzo;  il 
Savo  di  Wurzeu  nel  piovente  settentrionale  del  Tricorno,  1'  altro 
di  Wohein  da  un  piccolo  lago  situato  alle  falde  del  monte  Cucco 
e  Vagatino.  I  due  rami  poi  si  uniscono  presso  Radmanustorf,  Il 
Lubiano  nasce  a  pie'  del  monte  Lublonski.  Quanto  alle  tre  fonti 
dell'Isonzo,  esse  sono  opposte  a  quelle  del  Savo  perchè  nelle  gole 
di  Trenta  fra  il  Mangert  ed  il  Tricorno.  Dalle  strette  di  Caniza 
al  mare  Adriatico  l'Isonzo  scorre  la  pianura  del  Friuli  orientale 
per  circa  130  chilometri.  ^ 

1  contrafforti  delle  pendici  a  greco  delle  Alpi  Giulie  si  di- 
stendono ora  continui  ed  ora  trarotti  fino  alle  rive  del  Savo.  L'An- 
tonini deplora  con  grande  ragione  che  queste  curiose  compli- 
cazioni orografiche  ed  altre  idrografiche,  delle  quali  sarà  breve- 
mente ragionato  in  appresso,  abbiano  non  solo  fatto  buon  giuoco 
alle  sofisticaggini  dei  naturali  avversarli  dell'  Italia,   ma    altresì 

1  Per  la  descrizione  del  corso  di  questo  fiume  e  dei  suoi  affluenti  il  lettore 
può  consultare  V Annuario  Statistico  per  la  provincia  di  Udine,  anno  I,  pag.  91  e 
seguito.  Il  lavoro  del  prof.  Marinelli  intorno  al  territorio  della  provincia  vi  è  per- 
spicuo ed  accuratissimo. 


202  l/lSTRIA  E   ÌL  NOSTEO  CONFINE   ORIENTALE. 

confuse  le  menti  di  taluni  tra  coloro  che  avrebbero  dovuto  esserne 
i  campioni.  Egli  se  la  piglia,  per  esempio,  e  assai  giustamente, 
col  Marmocchi,  il  quale,  dopo  di  avere,  nel  suo  Prodromo  della 
storia  naturale  d'Italia,  divise  le  Alpi  orientali  in  Noriche,  Car- 
niche  e  Giulie  ed  estese  queste  ultime  da  Tarvisio  a  Fiume,  in 
un'  altra  sua  opera  di  geografia  non  si  perita  di  assegnare  alla 
regione  slavo-ellenica  le  correnti  dell'Isonzo  per  confine. 

Solo  non  è  abbastanza  chiarito  se  le  prealpi  tra  il  Fella  e 
l'Isonzo  vadano  considerate  quali  attinenze  immediate  della  catena 
carnica  o  quali  appendici  e  diramazioni  della  Giulia. 

<^  Taluni  infatti  sostengono,  così  l'Antonini,  che  il  Monte  Canino, 
il  Babà,  il  Bombone,  il  Nabois,  il  Moutasio,  il  Ciraone,  il  Monte- 
maggiore  sopra  Cividale,  il  Mia  ed  il  Mataiur  con  tutti  i  colli  i 
quali  ad  ostro  ed  ostro-ponente  diramandosi  calano  verso  Gemona 
e  Udine,  Cividale  e  Cormousio,  non  possano  appartenere  se  non 
al  sistema  delle  Giulie,  comechè  poste  alla  sinistra  del  Taglia- 
mento  e  del  Fella. 

»  Altri  per  contro  osservarono  che  le  valli  secondarie  del 
Torre,  del  Natisene  e  dell'  Idria,  torrenti  i  quali  affiuiscono  nel- 
l'Isonzo, trovansi  quanto  la  Valle  del  Tagliamento  rannodate  ai 
pendii  meridionali  delle  Alpi  Carniche,  e  con  questi  sono  in  certo 
modo  per  continuità  immedesimate.  » 

Felice  Orsini,  nella  sua  geografia  militare  dell'  Italia,  scrive 
così  : 

«  Al  nord-est  delle  sorgenti  dell'Isonzo,  si  stacca  una  seconda 
diramazione  delle  Gamiche.  Segue  1'  Isonzo  sul  quale  cade  con 
clivi  erti,  indi  viene  sostenuta  da  estese  colline  che  coprono  tutto 
il  terreno  fra  Gorizia,  Gradisca  e  Butrio.  » 

E  negli  Studi  topografici  e  strategici  siili'' Italia  di  Luigi  e  Carlo 
Mezzacapo,  leggesi  che  questo  «  secondo  ramo  alpino  assai  stretto 
che  si  stacca  dalle  Alpi  Carniche  ad  occidente  del  Predile,  pro- 
cede lungo  l'Isonzo  e  ne  segue  le  sinuosità,  discende  co'  suoi  fian- 
chi ripidi  sul  fiume  e  stacca  ad  occidente  alcuni  rami  allungati 
molto  alti  ed  aspri  fino  a  Gemona  che  poi  verso  mezzodì,  presso 
Udine  e  Cividale,  divengono  più  dolci  e  vanno  a  perdersi  nelle 
pianure  dell'Isonzo  inferiore.  » 

Il  punto  culminante  di  questo  ramo  è  il  Moutemaggiore  alto 
1621  metri. 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  203 


V. 

Le  alpi  orientali  dal  Picco  dei  Tre  Signori  al  seno  Liburnico 
segnano  i  limiti  dell'Italia;  nondimeno  per  la  loro  conformazione 
e  per  essere  la  catena  delle  Giulie  in  più  luoghi  assai  depressa, 
voglionsi  considerare  siccome  la  parte  più  debole  del  muro  alpino. 
Ad  afforzarlo,  dice  con  molta  verità  il  Combi,  la  natura  ha  prov- 
veduto  col  dare  all'Italia  un  antemurale  nella  penisola  Istriana, 
poi  col  rinterzare  i  contrafforti  che  sorgono  nelle  valli  superiori 
dell'Isonzo,   del  Tagliamento  e  del  Piave,  dove  i  valichi  dell'alto 
Goriziano,  della  Carnia  e  del  Cadore  impediti  da  torrenti,  chiusi 
da  dirupi  a  borea  prospettano  verso  mezzodì  le  lagune  dell'Adria- 
tico e  ad  occidente  non  si  discostano  per  lungo  spazio  dalle  fortis- 
sime posizioni  dell'Adige.  La  valle  superiore  di  questo  fiume  ser- 
randosi strettamente  sopra  i  fianchi   delle  Alpi  Gamiche,  forma 
colle  sue  controvallazioni  quella  specie  di  laberinto  prealpino  che 
costituisce  il  fortissimo  propugnacolo  dell'Italia  settentrionale. 

L' Antonini,  dal  cui  volume  non  possono  facilmente  staccarsi 
gli  jcchi  di  chi  abbia  a  meditare  intorno  a  queste  materie,  dopo 
esposte  le  molteplici  ragioni  oro-idrografiche  ed  etnografiche  in 
prò  della  sua  tesi  nazionale,  fa  appello  altresì  alle  climatologiche, 
né  può  certamente  dirsi  che  sia  il  solo. 

Adriano  Balbi,  nel  volume  I  della  sua  geografia  stampata  a 
Torino  nel  1840,  afiFerma  che  la  linea  più  conveniente  del  confine 
sotto  l'aspetto  geografico  è  quella  che  dal  Terglou  volgendo  a 
mezzodì  passa  ad  oriente  di  Idria,  di  Planina,  di  Adelsherg,  tocca 
la  vetta  dello  Schnecberg  e  scende  al  mare  tra  Fiume  ed  il  poggio 
di  Tarsato  nella  Reczina.  L'autore  dopo  citatolo  osserva  che  «  la 
temperie  dei  paesi  al  di  là  delle  alture  di  Planina,  di  Zirchi- 
nizza  e  di  Longatica  è  senza  confronto  più  rigida  non  riuscendo  i 
tepidi  venti  marini  a  sorpassare  le  giogaie  che  disgiungono  il  ba- 
cino danubiano  dall'Adriatico.  » 

Il  clima  dell'Istria  montana  e  della  Carsia  tanto  inferiore  che 
superiore  è  al  paragone  assai  più  mite  di  quello  della  Carniola, 
delle  regioni  Saviane  e  della  valle  della  Culpa. 

Infatti  è  vero  che  sopra  i  vertici  meridionali  ed  occidentali  delle 
Alpi  Giulie,  come  su  vari  punti  dell'altipiano  Carsico,  la  vegetazione 
è  non  solo  precoce,  ma  presenta  nelle  Flore  dell'Istria,  del  Friuli 
e  della  Carsia  moltissime  specie,  le  quali  non  possono  in  modo 
veruno  attecchire  nella  Carniola   tanto   per  l'indole   diversa  del 


204  l'istria  e  il  nostro  confine  orientale. 

suolo  che  per  la  differenza  delle  condizioni  atmosferiche  lungo  i 
pendii  montani  rivolti  a  greco.  Il  Malte-Brun,  accennando  alle 
frontiere  naturali  dell'Italia  continentale,  soggiunge  :  «  Considérée 
daus  ses  limites  naturelles,  la  partie  septentrionale  de  l'Italie  cora- 
prend  tout  le  versant  des  Alpes  depuis  la  branche  appelée  Alpes 
Cotiennes  jusqu'à  celle  que  l'on  appelle  Alpes  Juliennes. 

»  Mais  les  lignes  de  démarcation  politique  ont  modifié  ce 
limite.... 

»  A  peine  arrivés  sur  le-  versant  meridional  des  Alpes,  nous 
voyons  changer  tout  à  coup  la  végétation,  les  hommes  et  les  usages. 
Il  semble  qu'un  climat  favorable  au  laurier,  au  myrte  et  à  l'oli- 
vier.  porte  l'homme  à  l'amour  de  la  gioire  et  aux  bienfaits  de  la 
civilisation.  » 

Qui  il  geografo  francese  è  non  meno  poeta  del  Rizzi  nostro 
il  quale  ci  cantò  con  tanto  colore  e  calore  il  suolo,  il  cielo,  le 
aure  mutate  col  mutar  fianco  della  stessa  montagna.  Del  resto, 
anche  senza  passare  fiumi  e  monti,  accade  a  moltissimi  di  vedere 
e  provare  altrettanto  nella  propria  casa.  Se  in  una  giornata  d' in- 
verno passiamo  da  una  stanza  a  tramontana  a  quella  di  contro  a 
mezzogiorno   gli  è  a  dirittura  un  altro   vivere,  un  altro  mondo. 

A  questi  che  forse  lo  Czoernig  e  i  suoi  discepoli  chiamereb- 
bero lirismi,  si  abbandonava  il  Malte-Brun  nella  sua  geografia 
universale  stampata  a  Parigi  nel  1828,  vale  a  dire  tutt'altro  che 
in  un  momento  nel  quale  gli  scrittori  francesi  di  nessun  partito 
pensassero  per  nulla  a  far  la  corte  all'Italia  o  a  farsene  una  amica 
ed  un'  alleata. 

È  naturale  che  se  ne  difenda  ancora  meno,  sebbene  vecchio 
e  severo,  TAntonini. 

«Il  sole  d'Italia,  egli  scrive,  splende  nelle  valli  del  Vipaco 
e  dell' Idria.  Chi,  lasciate  a  tergo  le  fredde  nebbie  del  Savo  e  del 
Lubiana,  si  viene  accostando  alle  alture  di  Postoina  e  del  Prevrald, 
vede  il  cielo  italico  tingersi  del  colore  di  orientale  zaffiro  e 
sente  aleggiarsi  d'intorno  i  tepidi  venti  marini.  » 

E  sulla  unità  e  indivisibilità  naturale  di  questa  dalla  rima- 
nente regione  italiana,  non  meno  chiaro  del  cielo,  dell'aria  e  della 
superficie,  parlano  le  profondità  e  le  latebre  intime  del  suolo. 

Il  Tarameli!  dimostra,  nel  citato  annuario  scientifico  del  R.  Isti- 
tuto tecnico  di  Udine,  che  la  struttura  geologica  da  Tarvis  a  Pon- 
tebba  è  diversissima  nei  due  versanti  della  stessa  montagna.  Ma 
quello  che  più  importa,  è  l'unità  geologica  intuita  dal  Tarameli  i 
e  in  via  di  essere  dimostrata  da  lui,  di  tutte  le  varie  parti  della 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  205 

catena  Giulia  colla  quale  notò  rispondenze  e  coincidenze  in  tutta 
l'Istria.  Lungo  la  Dragogna,  presso  Pinguente,  ad  Albona  e  nel 
Carso  Istriano  gli  pareva  di  trovarvi  i  colli  di  Biija,  di  Monte- 
uars,  di  Brazzano  e  di  Medea,  tante  e  tali  vi  erano  le  reali  ana- 
logie di  roccie,  di  fossili  e  di  relazioni  stratigrafiche. 

«  Tranne  l'orizzonte  lihurnico.  egli  scrive  al  Marinelli,  che 
è  esclusivo  alle  Giulie  meridionali,  fino  a  Medea  non  ho  tro- 
vato nell'Istria  alcun  piano  che  non  avesse  il  suo  analogo  nel 
Friuli,  e  la  comunanza  delle  relazioni  stratigrafiche  è  tale  che 
l'asse  di  sollevamento  congiunge  il  M.  Maggiore  dell'Istria  col 
Matajur  del  Friuli,  e  l'asse  di  inclinazione  o  disinclinale,  decorre 
difilato  dal  campo  di  Osopo  al  golfo  del  Quarnero.  » 

È  un  felice  commento  scientifico  ai  versi  del  povero  Aleardi 
intorno  al  modo  nel  quale  Dio  scoljjisce  le  patrie. 

VI. 

Però  è  inutile  negarlo.  Se  la  scultura  è  massiccia,  non  è  do- 
vunque finita.  La  giogaia  continua  bensì,  ma  il  suolo,  couìo  il 
Balbi  deplora,  «  non  offre  che  un  altipiano  cui  sovrastanno  gruppi 
di  montagne  di  varie  altezze  e,  mancando  la  linea  non  interrotta. 
manca  pure  la  regola  ovvia  per  segnare  un  confine  naturale  lungo 
le  alture.  » 

L'  Adriatico  e  il  Mar  Nero  restano  quindi  due  alti  signori  ai 
quali,  dall'alto  delle  Giulie,  mal  si  potrebbe  fare  l'esatto  computo 
dei  rispettivi  tributari.  Quivi  l' idrografia  piglia  a  gabbo  geografi 
8  geoioghi.  I  fiumi  e  gli  stessi  rigagnoli  qui  scorrono  placidi  alla 
superficie,  là  piombano  nei  pozzi  e  nelle  tombe  di  sottopassaggio 
0  si  rimpiattano  nelle  grotte  e  fanno  un  cammino  non  esplorabile 
né  dall'occhio  né  dall'orecchio,  per  quindi  ricomparire  grandi,  so- 
nanti e  al  tutto  irreconoscibili  da  quelli  di  prima. 

Il  corso  del  Piuca,  per  esempio,  è  tuttora  un  mistero. 

Quest'ultimo  rampollo  della  famiglia  dei  fiumi  ha  saputo  di- 
fendersi assai  meglio  del  Nilo  dalla  indiscreta  curiosità  degli 
scienziati  moderni,  anzi,  se  fosse  ancora  vivo  il  Bernini,  egli  po- 
trebbe pretendere  dal  suo  scalpello,  che,  strappato  il  velo  di  capo 
al  gigante  di  Piazza  Navona,  lo  gettasse  sopra  il  piccolo  suo. 

Infatti  del  suo  viaggio  chi  ne  sa  niente?  Nessun  Grant,  nes- 
sun Beker  vinse  la  partita  a  mosca  cieca  alla  quale  esso  sfidò 
geografi  e  idrologhi.  Alcuni  scrittori,  e  specialmente  i  Tedeschi, 
sono  felici  dell'equivoco  e  non  si  lasciano  fuggire  la  buona  occa- 


206  LÌSTRIA   E   IL  NOSTRO  CONFINE   ORIENTALE. 

sione  per  sostenere  che  esso  Piuca  insieme  coll'Oncia,  altro  corso 
d'acqua  del  quale  si  dovrà  forse  parlare  più  innanzi,  non  sono 
altro  che  il  ramo  superiore  del  Lubiano  affluente  della  Sava,  e 
ciò  giova  loro  ad  escludere  dall'Italia  geografica  il  territorio  at- 
traversato da  quelle  correnti. 

Il  Timavo  invece  si  lasciò  smascherare.  Scaturito  dalle  viscere 
del  Catalano  ai  piedi  del  Nevoso,  egli  corre  alla  luce  del  sole 
per  una  trentina  di  chilometri  in  direzione  occidentale  e  ri- 
ceve nel  suo  cammino  le  acque  del  Plivnig.  Fino  a  San  Canziano 
si  chiama  Reca  ;  quivi  si  inabissa  nelle  grotte  e  fa  una  marcia 
nascosta  di  ben  25  chilometri,  dopo  i  quali,  come  se  il  fatto  non 
fosse  suo,  si  ripresenta  altero  e  chiassoso,  vasto  cimi  murmure 
niontis,  come  canta  Virgilio  parlando  proprio  di  lui,  e  con  altra 
fortuna,  come  quello  che  diventa  largo  e  navigabile,  ed  anche  con 
altro  nome  perchè  non  si  chiama  più  Reca  ma  Timavo,  e  se  ne  va 
all'Adriatico  dopo  d'avere  sostenuto  anche  l'ufficio  di  Porto  ed  es- 
sere stato  onorato  fino  dalla  più  remota  antichità  del  titolo  di 
famoso  ricovero.  Malgrado  i  connotati  e  il  nome  cambiato  dopo  la 
latitanza,  il  Fabris  afferma  che  la  sua  identità  venne  riconosciuta  e 
messa  in  sodo.  I  geoioghi  italiani  sono  con  lui  ;  non  ne  mancano  alcuni 
anche  tedeschi,  ma  non  saranno  probabilmente  quelli  che  la  pole- 
mica diplomatica  citerà  in  una  eventuale  discussione  sugli  acci- 
denti dei  confini. 

Questi  scherzi  geologici  ed  idraulici  coi  quali  la  natura  sem- 
bra divertirsi  a  far  disperare  gli  scienziati,  sono  dovuti  agli  av- 
vallamenti carsici,  i  quali  debbono  in  origine  essere  stati  ^  «  ca- 
verne, le  cui  volte  crollando  si  sprofondarono.  Che  se  poi  si  voglia 
indagare  quali  cause,  e  quali  forze  naturali  concorressero  alla 
formazione  dei  tanti  sotterranei,  la.  opinione  più  comune  e  pro- 
babile si  è  avere  il  trabocco  e  lo  spandimento  fra  strato  e 
strato  di  molte  acque  minerali  corroso  a  lungo  andare  cogli 
acidi  il  suolo,  prima  ancora  che  le  sinuosità  cavernose  si  amplias- 
sero e  modificassero  in  virtù  del  meccanico  trasporto  dei  massi 
riurtati  dalle  correnti.  Alcune  conche  imbutiformi  perforate  alle 
estremità  lasciano  scorgere  le  sottoposte  profondissime  voragini  ; 
altre  sogliono  periodicamente  ogni  anno  trasformarsi  quasi  a  un 
tratto  in  pescosi  laghetti,  poi,  rasciutte,  consentono  vi  possa  essere 
nell'ima  parte  seminato  qualche  po'  di  grano,  il  quale  giunge  an- 
che in  breve  maturanza  la  state.  » 

1  Antonini,  Il  Friuli  Orientale,  pag.  -25  e  seguito. 


LÌSTRIA   E   IL  NOSTRO  CONFINE   ORIENTALE.  207 

Di  codesti  stagni  {Loque  in  idioma  sloveno,  Kali  e  Koliid 
in  lingua  illirica)  ove  le  ac(|ue  zampillano  rifluendo  da  sotterranei 
canaletti  foggiati  a  modo  dei  sifoni  intermittenti,  il  più  celebre 
come  il  pili  ampio  è  il  laghetto  di  Zirchiuiza  o  di  Zirknitz, 
poco  discosto  da  Planina,  ben  noto  ai  romani  geografi  sotto  il 
nome  di  Palus  Lungea. 

Parecchi  naturalisti  descrissero  i  varii  fenomeni  che  presenta 
e  che  tutti  fanno  derivare  dalla  cavernosa  natura  del  suolo.  Fra 
le  meraviglie  narrate  dal  Valvasore,  annalista  carnioìico,  il  quale 
in  sullo  scorcio  del  secolo  XVil  visitava  lo  stagno  di  Zirchiniza, 
la  pili  strana  si  è  quella  di  certe  oche  cieche  ed  implumi  nate 
sotterra,  poi  spinte  a  galla  dalle  acque  zampillanti. 

Il  maresciallo  Marmont,  aggiustando  fede  a  codesto  racconto, 
lo  riportava  bonariamente  nelle  sue  memorie. 

Erano  per  davvero  dei  canards  codesti  e  non  semplici  ma 
doppi,  cioè  di  nome  e  di  forma. 

L'Arago  per  verità  con  altro  spirito  critico  da  quello  del 
duca  di  Kagusa,  del  resto  in  tante  altre  cose  tanto  più  furbo  di 
lui,  dedicò  la  sua  più  seria  attenzione  al  favoleggiato  lago,  e  lo 
descrisse  con  interessanti  particolari  nell'annuario  del  bureau  des 
lùngitudes  del  1834  spiegandovi  il  reale  fenomeno  della  intermit- 
tenza delle  acque. 

VII. 

Quivi  la  natura  si  è  pertanto  assai  sbizzarrita.  Essa  ha  parlato 
assai  chiaro  ed  alto  per  tutti  coloro  i  quali  non  hanno  motivi  di 
passione  o  d'interesse  per  disudire,  ma  non  ancora  abbastanza 
per  tagliar  corto  con  tutti  coloro  che  vogliono  o  debbono  servire 
a  quello  ed  a  questo. 

Appigli  a  mettere  fuori  delle  interpretazioni  bicipiti,  e  modi 
di  arruffare  razze,  provenienze,  lingue,  confondendo  monti  e 
fiumi,  concetti  strategici  e  rivendicazioni  politiche  o  scientifiche, 
non  ne  mancano  pur  troppo.  Le  catene,  i  rinterzamenti,  le  rughe, 
le  ondulazioni,  le  propagini,  i  contrafforti  più  molteplici  e  tumul- 
tuari sono  tanti  ibis  e  rcdibis  del  suolo  cui  fanno  riscontro  quelli 
delle   acque   in  nessun  posto  più  misteriose  e  bizzarre. 

L'orografia  e  l'idrografia  realmente  balenano. 

Si  dovrà  dire  per  questo  che  il  problema  del  tracciamento 
razionale  del  confine  sia  divenuto  insolubile  ? 

Forse  che  dei  diplomatici  e  dei  soldati  debbono  far  dipendere 
la  statica  militare  e  politica  delle  nazioni  rispettive  dalla  colloca- 


208  l'istria  e  il  nostro  confine  orientale. 

zione  della  virgola  dopo  Vibis  ovvero  dopo  il  redibis  del  Finca  o 
del  Tiinavo?  Che  la  Pitonessa  oracoleggi  finché  le  pare  dal  suo 
tripode,  all'uomo  rimane  sempre  un  mezzo  per  la  ricerca  della 
più  ardua  verità  e  questo  è  l'esercizio  piano  della  ragione. 

Cos'è  un  confine?  —  Un'alpe,  un  fiume,  un  lago,  un  mare,  un 
fosso,  ovvero  una  linea  di  paracarri  con  una  stanga  dipinta  dai 
colori  nazionali,  ed  una  garritta  per  la  guardia? 

Può  essere  l'una  come  l'altra  di  queste  cose,  ma  quelle  accen- 
nate da  ultimo  e  che  rappresentano  non  dei  fatti  ma  dei  segnali 
divisori!  possono  valere  nel  solo  caso  nel  quale  la  sproporzione  fra 
i  due  stati  sia  incommensurabile,  e  che  il  debole  non  insista  per 
una  garanzia  che  gli  è  impossibile  trovare  in  altra  cosa  che  nella 
fede  dei  trattati  e  nella  lealtà  del  vicino.  Un  fosso  od  una  linea 
di  paracarri  reggenti  delle  catene  può  bastare  fra  il  regno  d'Italia 
e  San  Marino  o  il  Principato  di  Monaco.  Quando  un  duello  è  im- 
possibile, la  scienza  cavalleresca  non  ha  niente  da  prevedere  né 
da  prevenire;  ma  quando  è,  sta  a  lei  di  curare  la  parità  delle  armi 
e  del  terreno  primo,  lasciando  sussistere  la  sola  disuguaglianza 
inevitabile  della  diversità  delle  forze,  delle  attitudini  e  degli  umori 
provenienti  dalla  maggiore  o  minore  tempo  degli  animi  e  coscienza 
dei  diritti. 

Fra  due  stati  di  primo  ordine  un  confine  non  può  essere  dun- 
que altro  che  un  limite  divisorio  di  fatto  e  non  di  segnalamento, 
una  forza  e  non  una  forma. 

Un  confine  ha  da  essere  una  cosa  la  quale  : 

I.  Non  separi,  che  è  quanto  dire  non  spezzi,  dei  sentimenti 
e  degli  interessi  naturali  e  rispettabili  ;  sia  una  disarticolazione, 
non  un  colpo  di  scure. 

IL  Per  converso  non  avvinca  elementi  fra  loro  di  necessità 
ripugnanti,  nel  qual  caso  non  sarebbe  una  tutela,  ma  una  ritorta, 
un  capestro. 

IH.  Non  lasci  da  nessuna  delle  due  parti  libertà  di  pronte 
e  non  rintuzzabili  iniziative  di  grandi  operazioni  di  guerra,  impe- 
rocché l'ufficio  di  un  confine  debba  in  ogni  caso  essere  quello  di 
una  robusta  porta,  la  (^uale,  anche  sfondabile,  assicuri  in  ogni 
modo  il  tempo  a  chi  abita  la  casa  di  mettersi  sulle  difese  quando 
possa  e  sappia  farne,  o  per  lo  meno  di  trattare  senza  esser  già 
vinto  e  col  nemico  dentro. 

Chi  può  negare  nulla  di  ciò?  E  so  i  caratteri  di  un  confine 
fra  due  potenze  deve,  per  riposare  simultaneamente  sulla  duplice 
base  della  vera  forza  militare  e  del    buon    diritto,  rispondere   a 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  209 

queste  condizioni,  chi  vorrà  poi  dire  che  la  geologia  o  l'idrologia 
possano  essere  altra  cosa  che  degli  strumenti,  e  che  la  irreperi- 
bilità 0  l'equivoco  di  uno  spartiacque  {divortia  o  divertigium 
aquarum),  la  saltuarietà  di  un  filone  o  la  discontinuità  di  una 
cresta  possano  tenere  per  dei  decenni  a  mezz'aria  molti  interessi 
supremi?  I  filoni,  gli  spartiacqua,  le  divisioni  dei  versanti,  le  in- 
sellature, i  boschi  e  va  dicendo,  sono  stromenti  di  accertamento 
e  niente  di  più,  e,  quando  non  funzionano,  vanno  senza  altro  sur- 
rogati. 

Nel  tracciamento  dei  confini  le  scienze  naturali  sono  altrettanti 
periti  cui  la  ragione  politica  e  la  militare  chiedono  talora  un  voto 
consultivo,  ma  riservano  sempre  per  sé  quello  deliberativo.  Sono 
esse  soltanto  che  possedono  il  concetto  ed  hanno  la  responsabilità 
del  fine,  mentre  i  geoioghi,  gli  idroioghi  e  gli  stessi  etnologhi 
non  sono  che  altrettanti  cercatori  di  leggi  e  collettori  ed  aggrup- 
patori  di  fatti  che  la  natura,  per  quanto  seni fr ice  di  patrie,  coor- 
dinò certamente  a  tutt'altri  fini  che  a  quelli  dell'  equilibrio  e 
delle  paci  nel  consorzio  dei  popoli,  che  sono  invece  l'unico  di  chi 
sia  chiamato  a  deliberare  sopra  una  così  suprema  questione. 

È  su  ciò  che  importa  intendersi  molto  bene,  subordinau'^lo  ai 
tre  irrecusabili  criteri  surriferiti,  e  principalmente  al  terzo,  quello 
militare,  il  concetto  del  confine. 

Vili. 

Ma  questa  scienza  così  detta  militare,  che  è  il  composto,  avrà 
essa  più  precisione  e  più  sicurezza  di  criteri  delle  scien:^e  sue  com- 
ponenti? 

Del  partigianesimo  degli  scienziati  e  quindi  dell'uso  partigiano 
della  scienza,  l'ottimo  Marinelli  non  sa  davvera  persuadersi.  La 
cosa  gli  ripugna  tanto  che  egli  per  tale  accusa,  messa  fuori  più 
vivamente  che  non  si  fosse  mai  fatto  sin  allora  dal  Correnti  e  dal 
Maestri,  se  la  piglia  fino  al  punto  da  non  rispettare  abbastanza 
quegli  egregi  uomini,  e  chiamarli  responsabili  di  una  insinnacione. 
È  un  rispetto  platonico  che  egli  professa  a  tutti  gli  scienziati,  e 
che  non  poche  delle  stesse  sue  pagine  forniscono  il  modo  di  tro- 
vare troppo  largo  ed  ingenuo. 

In  fatto  di  partigianesimo  cominciamo  anzitutto  dall'accusare 
noi  stessi. 

Imparziali  non  fummo  e  non  siamo.  Molto  meno  poi  tali  fu- 
rono 0  sono  gli  stranieri. 


210  l'istria  e  il  nostro  confine  orientale. 

La  nostra  carta  orografica  delle  Alpi  d'Italia  pubblicata  a 
Torino  nel  1845  rappresenta,  per  esempio,  egualmente  si)iccate  le 
Giulie  del  colle  di  Camporosso  fino  alle  loro  estreme  diramazioni 
oltre  Fiume  e  Fortore,  dove  la  catena  alpina  scende  nel  canale 
del  Mal-tempo  dirimpetto  all'isola  di  Veglia.  E  non  è  la  sola. 

Le  carte  italiane  in  generale  segnano  le  vette  delle  Giulie 
dissimulandone  la  discontinuità,  e.  reciprocamente,  i  Tedeschi  esa- 
gerandola. 

Gli  scaglioni  di  Idria,  gli  altipiani  di  Fostoina,  dice  l'Anto- 
nini, vengono  segnati  in  modo  da  farvi  scomparire  le  traccie  del 
limite  oltre  al  quale  le  acque  si  versano  da  un  lato  nel  Lubiano 
e  nel  Savo  e  dall'  altro  nell'Adriatico.  Così,  la  linea  divisoria 
delle  acque  del  colle  di  Camporosso,  confine  naturale  fra  la  Ger- 
mania e  l'Italia,  in  parecchie  carte  è  appena  avvertita.  E  sog- 
giunge: 

«  Codesti  artifizi  sono  posti  in  opera  per  servire  alle  esi- 
genze dell'Austria,  la  ouale,  dacché  l'Italia  cessò  di  essere  una 
semplice  espressione  geografica,  piìi  che  mai  si  va  industriando 
ad  inframmettere  dubbi  su  ciò  che  in  addietro  non  fu  soggetto 
di  controversia.  L'Austria  trapiantò  nella  \ alle  italiana  dell'Adige 
il  Tirolo,  nella  valle  italiana  del  Fella  la  Carinzia,  nella  valle 
italiana  del  Vipaco  la  Camicia,  nella  valle  italiana  dell'Isonzo  la 
Germania  federale;  però  tali  usurpazioni  in  danno  dell'Italia  erano 
soltanto  politiche.  Ora  si  vuole  coonestarle,  facendone  complice  la 
scienza  geografica,  ovvero  puntellandosi  al  bisogno  con  certe  ra 
gioni  dedotte  dalla  etnografia  e  stortamente  applicate. 

»  Vi  hanno  scrittori  moderni  (tedeschi  per  lo  più)  i  quali 
recisamente  sostengono  Trieste,  Gorizia,  Aquileja  non  essere  città 
dell'Italia,  né  l'Istria  potersi  considerare  terra  italiana.  E  le  Alpi? 
Queste,  secondo  l'avviso  di  que'  paradossisti,  appartengono  all'Eu- 
ropa, non  all'Italia,  avvegnaché  il  suolo  italico  incominci  a  pie 
delle  Alpi,  non  sul  vertice  di  esse.  Né  le  Alpi  s'inarcano  a  cin- 
gere le  ])ianure  Eridanie;  ma  da  Ciamberi  vanno  a  Vienna,  e  dal 
Gottardo  in  là  sono  montagne  della  Germania.  L'Adige,  il  Brenta, 
il  Flave,  il  Tagliamento,  l'Isonzo  recano  al  mare  tributo  di  acque 
germaniche.  Quanto  alle  Alpi  Giulie,  la  fantasia  dei  poeti  può 
averle  immaginate,  o  nel  lontano  orizzonte  forse  talvolta  qualche 
valligiano  di  Gorizia  o  dell'Istria  sognate,  scambiandole  cogli  orli 
più  elevati  delle  Carsiche  alture,  che  l'Italia  ad  oriente  è  aperta, 
manca  di  naturali  frontiere,  e  trovasi  signoreggiata  dalle  giogaie 
alpine,  le  quali  s'itmalzano  nel  cuore  dell'Europa.  » 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  211 

Se  poi  dico  she  gli  stranieri,  o,  per  essere  più  preciso,  i  Te- 
deschi sono  in  questo  ancora  tanto  meno  imparziali  di  noi,  ciò 
per  verità  torna  ben  più  ad  accusa  nostra  che  loro.  Imperocché 
in  Italia,  sia  povertà  di  studi  o  d'animo,  (!ome  dubita  il  Combi. 
ed  è  forse  d'amendue,  all'aulico  coniine  dell'Isonzo  molti  deboli 
spiriti  si  acquetarono,  ed  un  generale  italiano,  senatore  e  pub- 
blicista per  giunta,  che  non  aveva  studiato  la  questione,  osò  chia- 
mare disputabile  geograficamente  la  questione  del  nostro  confine 
orientale.  Se  l'Antonini  lo  tratta  male,  io  non  saprei  che  dire,  e 
non  posso  avergli  altro  riguardo  che  quello  di  non  lo  citare. 

La  partigianeria  fa  compatti  gli  stranieri  avversari,  l'inscienza 
fa  sconnessi  e  qualche  volta  contradditorii  i  nazionali.  Laonde  quel 
ìuoUo  meno  imparziali  è  a  carico  morale  più  nostro  che  loro. 

Per  quanto  possano  parere  esuberanti  le  già  date,  non  è  inu- 
tile moltiplicare  le  prove  per  mettere  tutti  in  avviso  della  necessità 
di  aguzzare  e  tendere  ognora  il  proprio  senso  critico,  vedendo  non 
solo  come  si  svisino  all'uopo  storia,  tradizioni,  ma  anche  fatti 
naturali  facendo  a  fidanza  colla  pazienza  degli  offesi  e  la  inerzia 
dei  moltissimi  rifuggenti  dalla  briga  di  ogni  riscontro. 

Il  Marinelli  stesso,  l'autore  che  protesta  contro  il  severo 
giudizio  del  Correnti  intorno  alla  mala  fede  degli  scienziati  par- 
tigiani, ci  fornisce,  come  fu  annunziato  più  sopra,  non  poca  parte 
del  materiale  per  le  seguenti  osservazioni, 

È  noto  come  sia  da  Giulio  Cesare,  o  por  lo  meno  da  Augusto, 
che  viene  alle  Alpi  Griulie  il  loro  nome,  il  quale  comparisce  prima 
in  Tacito,  poi  ai  tempi  di  Alessandro  Severo  nella  Tavola  Peutin- 
geriana  non  che  in  San  Girolamo,  Sesto  Rufo,  Ammiano  Marcellino. 
poi  nell'itinerario  Jerosolimitano  del  quarto  secolo,  e  nello  scola- 
stico Sozomeno  del  quinto. 

Aftinché  non  potesse  dubitarsi  della  comprensività  di  tale 
denominazione  la  quale  taluni  supponevano  limitata  al  passo  di 
Nauporto,  che  il  Giambullari  chiama  la  solita  strada  dei  Barbari, 
saltò  fuori  per  gran  ventura  un  famoso  documento  geografico,  la 
vita  di  San  Martino  di  Venanzio  Fortunato  da  Duplav^o  vescovo  di 
Poitiers,  del  sesto  secolo,  dove  in  esametri  sonanti  vengono  de- 
scritte le  Giulie.  Il  testo  non  è  facile  a  trovare,  ma  i  versi  in 
discorso  sono  leggibili  nel  lodato  annuario  statistico  della  pro- 
vincia di  Udine  che  li  riporta. 

Ebbene,  chi  lo  crederebbe  ?  la  maggior  parte  degli  scrit- 
tori e  dei  cartografi  tedeschi  non  si  danno  per  intesi,  né  di  Cesare, 
né  di  Tacito,  né  della  Peutingeriana,  né  di  Marcellino,  né  di  San 


212  l/lSTRIA   E   IL   NOSTRO   CONFINE    ORIENTALE. 

Mari  ino,  e,  sbattezzano  per  loro  comodo  le  Giulie  chiaraanrlole  di 
loro  capo  Alin  calcari  Meridionali  (Sadliche-Kalk-Alpen)  per 
cedere  poi  il  nome  di  monti  Giulii  a  non  importa  ora  precisare 
quali  accidenti  balcanici.  Ma  e  'è  senso  né  storico,  né  scientifico,  né 
critico  né  tampoco  comune  in  ciò  ? 

L'Alpe  si  chiamò  Giulia,  é  vero,  anzi  tutto  pei  lavori  dei 
quali  attesta  1'  iscrizione  riportata  dal  Marinelli  medesimo,  ma 
Giulia  è  quasi  ancora  più  la  regione.  Infatti  la  terra  dei  Carui, 
chiamata  poi  Aquileiese,  si  trasformò  in  Foro-Julese  dal  Forum 
Juìii,  fondatovi.  Non  vi  è  niente  di  più  naturale  che  per  ragioni 
di  nesso  non  che  di  analogia,  anche  senza  la  faccenda  delle  strade, 
si  ingiuliasse,  dirò  così,  la  montagna  perimetrale.  Laonde,  prima 
che  all'Alpe,  i  geografi  tedeschi  avrebbero  dovuto  mutar  nome  al 
Friuli. 

E  non  si  può  dire  che  ciò  non  tentassero  in  parte,  ma  con 
quello  che  i  francesi  chiamerebbero  succfsso  cVilarità,  e  in  questo 
si  scoraggiarono,  e  si  buttarono  rabbiosamente  alla  idrografia. 
«  Dal  San  Gottardo  sino  alle  Alpi  illiriche  non  giunge  una 
goccia  d'acqua  nei  piani  italici  la  quale  non  isgorghi  da  sorgenti 
tedesche  »!  !  !  Così  scriveva  il  conte  di  Ficquelmont  nel  suo  volume 
intitolato  Lord  Pahìiersion,  Vltalia  e  il  Continente.  E  falsissimo: 
ma  quando  fosse  stato  verissimo,  e  nel  nostro  territorio  entrassero 
delle  acque  straniere,  forse  che  ciò  in  generale  dà  il  diritto  alle 
truppe  straniere  di  seguirle?  forse  l'avere  spessissimo  assunti  i 
fiumi  come  norme  o  come  limiti,  e  sono,  non  c'è  che  dire,  oppor- 
tunissimi,  ciò  fa  della  politica  e  della  strategia  due  applicazioni 
pure   e  semplici  dell'  idraulica  ? 

E  anche  noi,  sebbene  più  modestamente,  si  tira  l'acqua  al 
molino. 

Alla  sua  volta  il  Sacchi  parlando  all'Istituto  lombardo  nel  1864 
millanta  la  non  interrotta  maestà  delle  Giulie,  le  quali  invece 
hanno  alla  cresta  interruzione  innegabile  e  maestà  nessuna. 

Esaurimenti  che  dissimulandosene  gli  accidenti,  che  si  difende 
la    causa   militare   del    nostro  confine. 

È  buono  che  tutte  le  industrie  della  scienza  si  sappiano, 
perchè  le  moltitudini  le  quali  tante  A^olte  difiìdano  di  ciò  che  ha 
veste  eloquente  e  sanno  mettersi  anche  troppo  in  guardia  contro 
le  forme  dialettiche,  imparino  cbe  le  scientifiche  li  ingannano  anche 
più  spesso,  perchè  con  aria  più  spassionata  e  assai  minore  necessità 
d' ingegno,  perchè  la  fraseologia  essoterica  dà  sovente  il  colore 
locale  della  scienza  alle  più  avventate  ed  irrazionali  affermazioni  del 
mondo. 


L'ISTRIA   E   IL   NOSTRO   CONFINE   ORIENTALE.  213 

Nessuno  vorrebbe  per  questo  dire  che  la  scienza  sia  partigiana 
sempre.  Però,  quando  non  si  verifichi  ciò,  avviene  la  cosa  opposta 
—  quando  la  scienza  consultata  non  appartenga  alla  famiglia  delle 
esatte  o  delle  applicate,  si  rimane  peritosa  e  schiva  delle  ricise  pro- 
posizioni e  si  astiene  dall' affermare  e  dal  negare  assoluto.  Nelle 
questioni  etnografiche,  idrografiche,  orografiche,  geologiche  —  tutta 
materia  rudimentale  ancora,  e  spesso  pure  congetturale  —  la  scienza 
coscienziosa  non  può  domandare  che  tempo  per  nuove  osservazioni, 
od  accertamenti. 

Né  questo  può  essere  sempre  accordato,  od  anche  potendosi, 
conviene  che  sia. 

Se  i  caratteri  della  natura  non  sono  tosto  e  nettamente  leg- 
gibili, bisogna  subito  rinunziare  alla  applicazione  della  teoria  geo- 
grafica e  idrografica  dei  versanti,  la  quale  può  venire  assai  ragio- 
nevolmente surrogata. 

Ebbe  infinita  ragione  l'Amati,  forse  primo  a  sostenere  ciò 
coraggiosamente,  e  l'ebbe  più  tardi  il  Fabris  facendosene  l'eco. 

Quali  sieno  i  criteri  da  sostituire,  è  già  stato  detto  più 
sopra  e  qui  si  ripete:  i  militari  anzitutto. 

Grli  scopi  militari  sono  netti  e  diretti,  e  quando  tali  sono 
gli  scopi,  tali  riescono  pure  i  criteri  di  apprezzamento. 

Negare  all'uno  o  compensare  all'altro  le  posizioni  essenzial- 
mente offensive,  assegnare  a  ciascuno  le  difensive,  rendere,  ove  ci 
sia  modo,  impossibili  da  amendue  le  parti  le  sorprese,  assicurare 
a  ciascuna  il  tempo  di  mobilitarsi,  e  simili. 

Chi  ci  chiedesse  se  questi  criteri  possano  costantemente  riu- 
scire applicabili  obbligherebbe  chi  scrive  a  divagare  in  copia  in- 
terminabile di  ragioni  e  di  esempli  che  non  sono  materia  diretta 
del  presente  studio. 

Basterà  mostrare  in  appresso  come  per  la  soluzione  più  razio- 
nale del  problema  di  questo  nostro  confine  orientale,  essi  rispondano 
in  ogni  parte,  e  non  possano  trovarsi  di  contro  altra  obbiezione 
che  quella  delle  eccitate  passioni  o  dei  male  calcolati  interessi. 


IX. 


Fu  lungamente  altrove  che  ai  confini  naturali  dove  i  Komani 
pensavano  a  difendere  l' Italia. 

Padroni,  dopo  lunghe   ed   ardue   fazioni  di  guerra,  di  tutta 

VoL.  XIV,  Serie  11  —  15  Marzo  I8ì9.  '  13  ' 


214  l'istria  e  il  nostro  confine  orientale. 

]a  grande  regione  che  dalle  falde  settentrionali  delle  Gamiche  e 
dall'Ocra  si  stende  giìi  fino  al  Danubio,  vale  a  dire  dell'antico 
Noricum  (quasi  tutta  l'attuale  Stiria,  parte  dell'Austria,  della  Car- 
niola,  della  Baviera,  del  Tirolo  e  l'intera  Carinzia),  essi  possede- 
vano il  corso  superiore  della  Drava  e  della  Sava,  e  stavano  alle 
frontiere  della  Rezia,  della  Vindelicia,  e  della  Pannonia. 

Essi  tenevano  molte  forze  specialmente  nel  così  detto  Norico 
ripense,  o  riverasco.  e  ciò  meno  per  difendersi  dagli  abitanti,  quan- 
tunque sempre  mal  dorai,  che  dalle  tribù  trans-danubiane. 

Sul  gran  fiume  essi  mantenevano  tre  flottiglie  dette  l'una  das- 
sis  Comngmensis,  l'altra  Arlapensis,  la  terza  Laureacensis. 

Il  Norico  mediterraneo,  cioè  fra  il  Danubio  e  le  Gamiche, 
era  la  zona  interposta  fra  le  truppe  avanzate  e  la  piazza,  allora 
non  tanto  di  frontiera  quanto  di  deposito,  che  era  Aquileia  il 
massimo  e  centrale  baluardo,  la  Roma  seconda  dalla  quale  s' inti- 
tolava, prima  di  Gesare,  tutta  la  regione  dei  Gami  la  quale  prima 
che  di  Foro  Jidiense  ebbe  da  essa  nome  di  Aquileiese. 

11  Danubio  fu  pertanto  assai  lungamente  la  fossa  del  gran 
vallo  romano. 

Eoma  ebbe  prima  diciassette,  poi  (alla  morte  d'Augusto) 
ventinove  provincie,  piìi  tardi  (dopo  quella  di  Traiano)  quarantotto, 
e  da  ultimo  fin  sessantaquattro.  —  E  notisi  che  provincie  voleva 
dire  regioni  ;  la  Pannonia,  per  esempio,  che  era  tutt'insieme  la 
Groazia,  la  Schiavonia,  la  Bosnia  e  i  confini  militari,  era  una.  La 
Dacia,  vale  a  dire  molta  Ungheria,  la  Transilvania,  la  Valacchia, 
la  Bessarabbia,  la  Bucovina  e  qualche  cosa  ancora,  era  un'altra. 
A  qualsiasi  altro  popolo  ciò  avrebbe  dato  le  vertigini.  Infatti, 
a  che  occuparsi  dei  passi  alpini?  Si  può  ben  dormire  tranquilli  i  pro- 
pri sonni  anche  coU'uscio  di  casa  aperto  quand'esso  dà  sul  pro- 
prio giardino  circondato  da  altissime  mura,  e  passeggiato  da  in- 
transigenti molossi. 

Le  Alpi!  in  quei  giorni  di  ebbra  e  fastosa  grandezza  che  cosa 
erano  esse?  Un  impaccio,  un  ritardo  per  uscire  d'Italia,  non  tanto 
per  conquistare,  che  di  mondo  non  ce  n'era  quasi  più,  ma  per 
infliggere  tratto  tratto  delle  lezioni  a  popoli  e  re  meno  discipli- 
nati. Ma  quanto  a  marciare  per  Roma,...  chi  mai?  A  cercare  che 
cosa?  Di  andarne  avvinti  a  una  biga  trionfale  non  altrimenti  che 
cani  al  veicolo  del  carrettiere  ?  —  il  problema  di  tutto  il 
mondo  pareva  dovere  oramai  essere  quello  di  sfuggirle  non  di 
venirle  a  cercare  le  legioni. 


LÌSTRIA   E   IL  NOSTRO  CONFINE  ORIENTALE.  215 

Qualche  cosa  di  simile  a  ciò  si  sarebbe  certamente  detto  a 
Koraa  se  lo  spirito  latino  non  fosse  stato  ancora  un  po'  più  sodo 
e  pratico  che  oggi  pur  troppo  non  sia.  Per  quanto  fosse  guardato 
il  Danubio,  si  pensava  pure  tratto  tratto  alle  Alpi,  e  si  voleva 
chiuso  l'uscio  anche  supponendo  ben  custodito  il  parco.  Interrot- 
tamente  sì,  ma  pur  sentivano  tutti  l'importanza  profetica  dell' 
Alpibus  Italiae  riiptis,  penetrabis  ad  iirbem. 

Se  Stilicone  si  fosse  fatto  origliere  di  Claudiano  come  Ales- 
sandro di  Omero,  non  sarebbe  stato  obbligato  di  vincere  a  Pol- 
lenzia  senza  ancora  salvare  1'  urhem  promessa  a  chi  sapesse  pre- 
pararsi quell'ablativo  assoluto  dell'  alpibus  ruptis. 

Il  Kandler,  tante  volte  citato  nella  prima  parte  del  presente 
studio,  scoperse  nelle  sue  ultime  esplorazioni  nella  Venezia  Giulia 
montana  un  duplice  vallo  eretto  dai  Komani  nell'Istria  per  segnare 
i  confini  d'Italia,  e  di  più  un  claustrum  o  chiusa  delle  Alpi  che  gli 
stessi  innalzarono  a  quello  che  il  Sacchi,  nella  sua  relazione  in 
proposito  all'Istituto  Lombardo  (1864,  volume  I),  chiama  il  loro 
unico  varco. 

Con  una  cura  grandissima  egli  scorse  tutte  le  vette  della 
prima  e  della  seconda  linea  delle  Alpi  Giulie,  e  lungo  quelle  aeree 
creste  rintracciò  da  per  tutto  i  vestigi  dell'antico  vallo  romano. 
Egli  fece  all'uopo  delineare  sulla  faccia  dei  luoghi  tre  carte  espli- 
cative. Nella  prima  volle  riprodotti  i  contorni  delle  due  grandi 
linee  del  vallo.  Nella  seconda  lo  spaccato  e  Y  alzata  di  quello 
eretto  sulle  Alpi,  e  la  pianta  del  clausfruni  che  tuttora  scor- 
gesi  a  Piro,  sulla  via  che  conduce  a  Lubiana,  Nella  terza  de- 
lineò egli  stesso,  sulle  traccio  dei  ruderi  tuttora  esistenti,  la  ve- 
duta prospettica  delle  chiuse  delle  Alpi,  che  presenta  l'aspetto  di 
un  alto  muro  merlato,  afforzato  da  torri,  da  una  delle  quali, 
innalzata  presso  la  vetta  del  monte,  i  militi  romani  esploravano 
collo  sguardo  tutta  la  valle.  Il  varco  della  chiusa  passavasi  per 
una  porta  fortificata.  ^ 

Il  dottor  Kandler  donava  queste  carte  alla  Biblioteca  Nazio- 
nale di  Milano. 

Dall'esame  della  prima  carta  topografica  si  raccoglie,  come 

'  Noi  riscontrammo,  dice  il  citato  Sacchi,  il  disegno  di  questo  muro  colla  veduta 
prospettica  degli  avanzi  delle  mura  merlate  fatte  erigere  da  Augusto  a  Pola,  e  le 
trovammo  identiche  nella  forma  di  costruzione.  Veggasi  a  pag.  68  il  Voyage  pit- 
tcn^esque  et  historique  de  l'Istrie  et  Dalmatie  di  Lavallée.  Parigi,  1802.  Edizione 
in  foglio  illustrata. 


216  l'istria  e  il  nostro  confine  orientale, 

i  Komaui  avessero  l'avvedimento  di  costruire  un  duplice  vallo,  che 
comincia  da  Fiume  e  spinge  la  prima  linea  avanzata  sin  oltre 
Oberlaybacli,  *  e  la  seconda  linea  mettesse  capo  a  Aidussina, 
ove  esisteva  un  castrum  romano.  Tra  Aidussina  ed  Oberlaybach, 
lungo  il  varco  tortuoso  dello  Alpi,  avevano  i  Romani  distese  altre 
due  linee  intermedie  di  mura  fortificate,  cosicché,  prima  di  giun- 
gere a  Aidussina,  dovevansi  prendere  d'assalto  tre  linee  di  forti  - 
lizi.  Se  si  riscontrano  queste  grandi  linee  di  propugnacoli  sulle 
mappe  topografiche,  si  scorge  come  vi  siano  state  poste  a  segnare  e 
coprire  i  confini.  Se  poi  si  consultano  le  storie,  i  monumenti  e  le 
stesse  tradizioni  etnografiche,  viene  ognora  più  comprovato  il  fatto, 
che  quando  l'Italia  fu  autonoma,  cercò  e  mantenne  i  suoi  confini 
orientali  là  dove  la  natura  glieli  aveva  creati.  E  il  Sacchi  fece  opera 
degnissima  a  dimostrarlo  così  efficacemente  all'Istituto  Lombardo. 
Appena,  seguita  egli  a  notare,  appena  Augusto  rese  permanenti 
le  milizie  romane,  fece  inviare  nell'Istria  le  legioni  dei  veterani 
per  custodirvi  i  confini,  A  questi  vecchi  soldati,  che  pretendevano 
premi  bellici,  fece  distribuire  alcune  terre  dell'Istria,  e  li  collocò 
lungo  il  duplice  vallo  che  la  difendeva  dai  Barbari. 

Fra  le  lapidi  d'onore  clie  qua  e  là  si  rinvengono  nell'Istria,  ve 
ne  sono  alcune  erette  ai  veterani  della  sesta  legione,  detta  la 
Vincitrice,  della  ottava  detta  Trionfatricr^  e  della  undecima.  Pare 
credessero  prezzo  dell'opera  tenervi  le  ottime.  Gli  Istriani  eres- 
sero statue  anche  equestri  ad  illustri  guerrieri  romani,  ed  ai  più 
valenti  condottieri  delle  flotte  che  tenevano  sede  a  Eavenna  e  a 
Grado. 

Ciò  combina  colla  singolare  forza  difensiva  data  alla  piazza 
di  A(iuileia,  e  la  grandissima  fixbbrica  d'armi  stabilita  sul  Le- 
mene  in  quella  Concordia  Sagittaria  intorno  ai  cui  recenti  tesori 
archeologici  trattarono  così  dottamente  il  Mommsen  ed  il  Ber- 
tolini.  Il  famoso  saggio  tedesco  trovò  in  questo  dotto  quanto 
modesto  giureconsulto  del  luogo  un  compagno  di  ricerche  e  di 
studi,  del  quale  ebbe  la  non  comune  lealtà  di  proclamare  l'inatteso 
valore. 

X. 

La  stessa  Italia  Romana,  che  si  difendeva  ad  Oriente  sul  Da- 
nubio e  possedeva  il  litorale  Illirico  non  che  tutto  quel  Noricum 
che  Napoleone,  il  quale   del    resto  amava  le  frasi  di  eifetto  e  le 

1  Questo  primo  vallo  venne  costruito  128  anni  prima  dell'era  volgare. 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  217 

sorprese  paradossali,  chiamava  strategicamente  più  importante 
della  Lombardia,  malgrado  l'importanza  di  siffatta  occupazione, 
co'  suoi  baluardi  e  le  tre  flottiglie  nel  gran  fosso  del  Vallo,  non 
dovette  nel  terzo  secolo  la  propria  salvezza  clie  all'avere  un  osta- 
colo sulla  propria  reale  frontiera. 

Senza  Aquileia  i  fasti  di  Attila  anticipavano  di  oltre  un  paio 
di  secoli. 

Finito  tragicamente  Alessandro,  Massimino   rivestito  del  po- 
tere supremo  aveva  stravolto  ogni  cosa.  Incorso  nell'odio  di  tutti 
per  quel  suo  repentino  passaggio  da  vilissima  condizione  al  più 
alto  stato  di  fortuna  e  peggio  pei  costumi  in  tutto  affacenti  alla 
barbarica  origine,   attendeva  principalissimamente,    come    narra 
Erodiano,  ad  assicurarsi  lo  stato  colla  paura,  solo    mezzo  sugge- 
ritogli   dalla    ferocia  incolta    dell'animo    e  dalla  memoria   della 
precedente  abbietta  ignobilità,  la  quale  egli,   in  ciò  ingiusto  an- 
che seco  medesimo,  pareva  non  reputare  né  cancellabile  né  com- 
pensabile da  opere  egregie.  E  di  queste,  per  vigore  smisurato  della 
persona  e,  militarmente  parlando,  anche  dell'animo,  poteva  certo 
vantarne  alcune  maravigliose.  Nella  guerra  contro  i  Germani,  per 
esempio,  egli  aveva  inseguiti  i  fuggiaschi  fin  dentro  a  una  palude 
dove  spingendo  il  cavallo  fin  sopra  il  petto  si  era  avventurato  primo 
e  lungamente  solo.  Se  costui,  dice  Erodiano,  che  lo  detesta  e  dis- 
prezza, non  fosse  stato  una  belva,  avrebbe  lasciato  fama  imperi- 
tura di  sé.  Ma  fu  invece  crudelissimo  prima  contro  i  grandi  e  ciò, 
a  detta  dello  storico,  gli  nocque  poco,  «  per  quella  indifferenza,  colla 
quale  vede  il  volgo  le  disgrazie  della  gente  ricca,  anzi  per  quel 
riguardarle  che  fanno  i  molti  di  perverso  e  maligno  carattere  con 
occhio  allegro  e  goditore.  »  Però  ben  presto  i  signori  non  ci  fu- 
rono più  e   mancarono  i  privati  da   spogliare.  Allora    toccò  alle 
istituzioni,  le    casse   delle  comunità  e  quelle  dell'  annona,   poi  le 
offerte  dei  templi,  le    opere    pubbliche  e    cittadinesche  e  gli  og- 
getti d'arte.  La  cosa  cominciò  tosto  ad  essere  ben  diversa.  I  po- 
poli n'ebbero  gli  animi   trafitti,  come  quelli  che  «  non  potevano 
a  viso  asciutto  vedere  in  piena  pace  quelle  ostili   devastazioni,  e 
ve  n'  ebbe  alcuni  che  facendo  petto  alla  difesa  de'  templi,  elessero 
prima   morire   e   cadere    innanzi    ai    sacri   altari,   che  rimanersi 
spettatori  del  saccheggio  della  patria.  » 

Costui,  preceduto  dalla  fama  dei  terribili  successi  tedeschi  ed 
africani,  superava  senza  ostacoli  le  Alpi,  ma  la  vasta  Aquileia 
gli  chiudeva  in  faccia  le  porte. 


218  L'ISTRIA    E   IL   NOSTRO   CONFINE   ORIENTALE. 

Era  popolatissima.  Erodiano  dice  die  oltre  il  gran  numero 
dei  cittadini  (oh  gli  storici  antichi!  Si  contentano  di  dire  gran 
numero  come  se  ciò  non  convenisse  a  due  come  a  cinquecento 
mila  abitanti),  oltre  il  gran  numero  dei  cittadini,  dice,  v'  era 
sempre  una  folla  immensa  di  forestieri  e  di  negozianti  e  in  quel 
momento  più  che  mai,  essendovisi  ricoverato  dai  vicini  castelli  e 
dal  contado  popolo  infinito  sperante  nella  grandezza  della  città 
e  nella  robustezza  delle  sue  mura,  le  quali  però,  nella  beata  quiete 
che  la  grandezza  romana  faceva  godere  alle  città  italiane,  eransi 
già  invecchiate  e  dirupate.  All'accostarsi  di  Massimino  erano  state 
alla  meglio  ristaurate  e  invigorite  di  torri  e  di  baluardi. 

Sono  curiosissime  le  pratiche  e  le  astuzie  parlamentarie  pre- 
messe da  Massimino  ai  lavori  di  oppugnazione. 

«  Trovandosi  nel  suo  esercito  un  tribuno  nativo  di  Aquileia 
la  cui  intera  famiglia  era  racchiusa  in  quella  città,  gli  comandò 
di  portarvisi  con  alcuni  altri  capitani,  sperando  che  il  popolo 
non  avrebbe  dissentito  ai  consigli  autorevoli  di  un  suo  con- 
cittadino. Accostatisi  costoro  alle  mura,  parlarono  in  questo 
modo:  Comandare  il  loro  comune  sovrano  che  depongano  le  armi 
e  invece  di  nemico,  lo  accolgano  in  piena  pace  ed  amico,  e  at- 
tendano piuttosto  alle  feste  che  a  mischiarsi  della  guerra  :  ab- 
biano pietà  della  patria  che,  se  avessero  persistito,  vedrebbero 
schiantata  dai  fondamenti  ;  essere  in  istato,  se  vogliono,  di 
provvedere  a  un  medesimo  tempo  alla  propria  salvezza  e  a  quella 
di  lei,  promettendo  il  clementissimo  principe  perdono  e  dimen- 
ticanza di  ogni  trascorso,  convinto  che  altri  e  non  loro  avevano 
colpa  di  quegli  scandali. 

»  Queste  e  simili  cose  dicevano,  secondo  riferisce  Erodiano, 
ad  alta  voce  gli  ambasciatori  da  sotto  le  mura  per  farsi  inten- 
dere, se  non  da  tutti,  almeno  da  quelli  ch'erano  sui  baluardi  e 
nelle  torri  ;  e  quasi  nel  più  gran  silenzio  attendevano  a  quei 
detti.  » 

I  parlamentari  d'allora,  come  gli  innamorati  di  trenta  o  qua- 
ranta anni  fa,  esponevano  le  loro  idee  e  facevano  i  loro  tentativi 
dalle  strade  ai  piani  superiori. 

Crispino,  comandante,  temendo  che  quelle  promesse  movessero 
il  volgo  a  fare  la  pace  e  aprire  le  porte,  scorreva  innanzi  e 
indietro  tutte  le  mura  confortando  e  pregando  particolarmente 
taluno  a  star  forte,  osservare  la  fede,  tenersi  in  guardia  dalle 
promesse  e  dai  lacci  dell'astuto  tiranno  e  dalle  parole  seduttrici 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  219 

de'messi,  né  lasciarsi  scai^pare  la  bella  gloria  di  avere,  durandola, 
salvata  l'Italia.  Tante  altre  cose  vere  e  calzanti  ripeteva  il  bra- 
v'uomo  ai  cittadini,  che  di  soldati  si  può  dire  quasi  non  ce  ne  fos- 
sero. Ma  egli  è  certo  che  nulla  servi  più  ad  incorare  i  difensori  e 
scoraggiare  gli  oppugnatori  che  il  portare  che  si  faceva  per  le 
torri  e  pei  baluardi  gnìude  abbondanza  di  munizioni  da  bocca 
delle  quali  si  scialavano  sotto  gli  occhi  degli  affamati  assedianti  cui 
doveva  parere  in  quel  momento  di  vedere  mutate  a  un  tratto  le 
parti,  e  gli  assediati  esser  loro. 

Prima  di  questi  parlamenti  non  passava  giorno  che  quei  di 
fuori  dopo  irretito  da  ogni  lato  la  città  (come  si  esprime  il  cru- 
schevole  traduttore  d' Erodiano  che  del  moderno  investire  non 
vuol  saperne)  più  volte  non  si  azzuffassero  conducendo  sotto  le  mura, 
larghe  non  meno  di  quattro  metri  alla  base,  come  si  può  assicu- 
rarsi anche  oggi,  ogni  specie  di  castelli  e  d'ordigni  e  non  lasciando 
indietro  alcuno  dei  modi  suggeriti  dalla  macchinosa  poliorcetica 
di  allora.  Ma  gli  Aquileiesi,  chiuse  le  case  e  i  templi,  assistiti  dalle 
mogli  e  dai  figliuoli,  difendevano  virilmente  ogni  posto,  non  vi 
essendo  nessuno  il  quale  per  età  o  debolezza  si  ricusasse  a  com- 
battere. Freccio,  sassi  e  appresso,  quando  il  nemico  calava  nella 
fossa  per  impostarvi  le  scale,  olio,  acqua  e  bitume  bollenti.  Ve- 
nute meno  le  corde  pegli  archi,  le  signore  diedero  le  treccie. 

Mano  a  mano  che  le  cose  andavano  in  lungo  e  i  soldati  di 
Massimino  si  scoraggiavano,  i  cittadini  pigliavano  ardire  e  di 
soltanto  coraggiosi  e  pertinaci  si  facevano  pure  canzonatori  e 
beffardi. 

Grli  ufficiali  e  i  soldati  di  Massimino  d'  ogni  razza  e  colore 
erano  oggetto  oramai  delle  loro  beffe.  Quando  il  barbaro  impe- 
ratore, col  suo  figliuolo  accanto,  facevano  il  giro  intorno  alle 
mura,  erano  caricati  d' improperii  e  di  villanie  che  li  rendevano 
furiosi.  A  lui  davano  di  harharo,  assassino,  e  traditore;  al  bellis- 
simo figlio,  di  Bafillo  e  simili.  Alle  parole  s'aggiungevano  gli 
atti  sconci  e  le  missiles,  specie  di  proiettili  con  delle  scritte  so- 
pra o  dentro,  tal  quale  i  nostri  confetti  di  carnevale.  La  polvere, 
checché  ne  imprechi  1'  Ariosto,  ha  certo  il  merito  di  avere  rese 
le  guerre  alquanto  parlamentari.  Co'  fucili  che  azzeccano  per 
bene  a  800  metri  non  c'è  più  da  scambiarsi  convenevoli  di  que- 
sta specie.  Se  però  la  fonografia  seguita  il  cammino,  torneremo 
forse  anche  a  queste.  Multa  renascentur,  ecc.  Massimino  crudele 
quanto  orgoglioso,  e  balordo  quanto   forte  e  prode,  perdeva  nel- 


220  L  ISTRIA  E   IL  NOSTRO   CONFINE   ORIENTALE. 

l'accesso  della  rabbia  ogni  temperanza,  si  volgeva  contro  ai  suoi, 
e  faceva  tratto  tratto  morire  degli  ufficiali  accusandoli  di  molle 
e  timido  procedere  negli  assalti. 

Venendo  così  meno  da  una  parte  la  pazienza  e  la  disciplina, 
dall'altra  ogni  specie  di  provvisione  e  di  conforto  pegli  uomini  e 
pei  cavalli,  perchè  il  Senato  aveva  spedito  in  ogni  luogo  perso- 
naggi consolari  con  seguito  di  gente  scelta  ed  ardita  per  custo- 
dire tutto  il  litorale  ed  i  porti,  l'oppugnazione  perdeva  ogni  giorno 
probabilità  di  riuscita.  La  cosa  finì  come  doveva,  colle  abitudini 
divenute  oramai  generali  nell'  impero.  Un  bel  giorno  i  soldati 
della  guardia  tagliarono  a  pezzi  l'imperatore  e  il  figlio,  facendo 
altresì  ogni  scherno  e  vitupero  a'  cadaveri  innanzi  di  lasciarli  in 
pasto  ai  cani  ed  agli  avoltoi.  Le  loro  teste  furono  spiccate  e  por- 
tate a  Roma  da  un  drappello  di  soldati  a  cavallo  che  vi  giunsero 
in  quattro  giorni  —  cosa  la  quale  sfronda  ahjuanto  gli  allori 
della  Leda  e  del  capitano  vSalvi. 

Il  Candido  peraltro,  nel  suo  Commentario  delle  cose  aqui- 
leiesi,  maravigliandosi  delle  maraviglie  degli  scrittori  su  ciò,  sog- 
giunge :  noi  del  resto  riceviamo  le  lettere  di  là  in  u.8  ore!  Ciò 
per  l'anno  di  grazia  1553  merita  conferma. 

Spacciato  Massimino,  sotto  Aquileia  vi  furono  scene  di  tutt'al- 
tra  specie.  I  soldati,  anche  quelli  che  non  si  rallegravano  della 
costui  fine,  come  gli  Ungheresi  ed  i  Traci,  autori  della  sua  ele- 
vazione all'impero,  non  volendo  mettersi  a  nuovi  sbaragli  per  degli 
uomini  morti,  posate  le  armi  si  accostarono  tutti  allo  mura,  e 
fatta  conoscere  ai  cittadini  la  strage  col  mostrare  i  resti  san- 
guinosi, dimandarono  si  aprissero  le  porte  e  non  si  dovessero 
più  tenerli  per  nemici,  dacché  riconoscevano  gV im]}eratori  scnatorHi 
come  chiamavano  per  il  momento  senza  scherno  Massimo  e  Bal- 
bino eletti  del  Senato.  Se  non  che  gli  Aquileiesi,  bravi  e  pra- 
tici, come  tuttora  sono  le  popolazioni  furlane,  fraternizzarono 
volentieri,  ma  quanto  ad  aprire  le  porte  risposero  picche.  Stando 
però  sulle  mura,  come  chi  conversasse  dalla  finestra  o  dal  ter- 
razzo, vi  portarono  le  imagini  di  essi  Massimo  e  Balbino  impe- 
ratori, e  le  incoronarono  d'alloro  festeggiandole  con  evviva  e 
confortando  1'  esercito  a  fare  il  medesimo,  ma  dal  di  fuori,  che 
tanto  la  voce  arrivava.  L'aspetto  delle  cose  era  completamente 
ed  nuche  comicamente  mutato  perchè  dalle  mura  al  ciglio  esterno 
del  fosso  non  si  gettavano  più  freccie  e  sassi,  ma  commestibili,  panni^ 
vesti,  scarpe  e  coperte  a  sollievo  di  quell'esercito  che  rimaneva  schie- 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  221 

rato  sotto  non  più  a  combattere  ma  a  mendicare  e  a  chiacchierare. 
Quei  baluardi  di  qualche  giorno  prima  erano  proprio  un  mercato, 
così  empiti  di  jjane,  di  vino,  e  d'ogni  specie  d'oggetti  e  com- 
mestibili dei  quali  abbondava  quella  che  tutti  gli  storici  chiamano 
la  florida  e  doviziosa  città.  Aquileia  aperse  da  ultimo  le  porte 
quando  l'imperatore  Massimo,  avute  le  notizie,  si  partì  da  Kavenna 
passando  il  Po  incontrato  dall'esercito  già  assediante  che  gli  andò  in- 
contro coronato  d'alloro,  e  in  abito  di  pace  a  fare  riverenza,  unen- 
dosi alle  legazioni  di  tutte  le  città  d'Italia  composte  dei  cittadini 
più  ragguardevoli  venuti  pure  in  veste  candidissima  e  inghirlandata 
d'alloro  rec3.ndo  seco  le  immagini  dei  loro  dii  e  quante  più  corone 
d'oro  avevano   nei  loro  templi.  —  Così  Erodiano.  — 

Il  senato  fece  grande  onore  ad  Aquileia  e  segnatamente  alle 
sue  cittadine  decretando,  in  riconoscenza  delle  recise  chiome,  un 
tempio  a  Venere  calva.  Non  è  facile  spiegarsi  come  una  città  tanto 
fornita  per  un  assedio  da  scialarla,  e  gettare  ogni  ben  di  Dio 
agli  assedianti  prima  per  canzonatura,  indi  per  misericordia,  do- 
vesse poi  mancare  di  corde  pegli  archi.  Ma  lasciamo  correre  e 
adoriamo  senza  discussione  Venere  anche  calva. 

Sta  intanto  il  fatto,  che  se  la  porta  orientale  d'Italia  fosse 
rimasta  aperta,  Massimino  se  ne  andava  difiUito  sotto  Eoma  che 
si  sarebbe  difesa  forse  meno  e  meno  felicemente,  di  Aquileia, 
perchè  i  barbari  non  avrebbero  patito  quivi  la  stessa  fame  che 
alle  radici  delle  alpi. 

Che  del  resto  tale  porta  non  fosse  stata  interamente  aperta,  i 
Komani  ebbero  ben  poco  merito.  Giulio  Cesare  ed  Otta.vio  Augusta 
avevano  capito  perfettamente  l'importanza  del  Friuli,  ma  dopo  di 
loro  la  beata,  o,  meglio,  ignava  pace,  aveva  fatto  obliare  ogni 
cosa. 

Erodiano,  è  sempre  lui  qui  che  ci  fa  le  spese,  descrive  il 
senso  di  terrore  che  aveva  invaso  il  campo  di  Massimino  tutto 
di  barbari,  quando  da  loro  fu  visto  l'altissimo  selvoso  ostacolo  delle 
Alpi.  Se  gli  Italiani,  sclamarono,  si  sono  appostati  tra  quei 
gioghi  per  farci  fronte  nei  posti  più  ardui  a  superarsi,  riusciremo 
noi  a  vincere,  e  nemmeno  a  salvarci?  —  Ma  essi  trovarono  ogni 
punto  sguernito,  e  scesero  freschi  e  baldi  nelle  pianure  nostre, 
Massimino  allargò  il  cuore  alla  speranza  e  fece  tra  sé  un  ragiona- 
mento cui  lo  storico  accenna,  e  che  è  da  persona  giudiziosa  anziché 
da  quella  che  era:  Oramai  la  fortuna  non  può  che  arridermi; 
se  gli  Italiani  non  hanno  osato  difendere  questi  accessi,  meno  che 
meno  difenderanno  il  resto. 


222  L'ISTKIA  e  il  nostro  COìNFINE  okientale. 

Gli  ItaHani  però  lo  aspettavano  ad  Aquileia.  Egli  non  aveva 
più  completamente  ragione,  quantunque  essi  avessero  egualmente 
avuto  così  gran  torto  non  guardando  i  passi,  che  senza  una  ca- 
tastrofe militare  a  quel  modo,  nessuno  potrebbe  dire  se  il  Trace 
non  avesse  anticipato  suU'  Unno,  e  imbarbarito  fin  dal  secondo 
secolo  l'occidente. 


XI. 

È  sempre  dalla  frontiera  Orientale  che  vengono  i  maggiori 
danni.  Nel  452  Eoma  aveva  ancora  un  gran  generale  ma  non  ba- 
stò. Ezio  fu  l'ultimo  dei  generali  romani,  come  quella  di  Chàlons 
fu  l'ultima  vittoria  riportata  in  nome  dell'impero  occidentale. 
Eimane  anche  da  osservare  con  tutti  che  non  fu  una  vittoria  uni- 
camente romana,  e  col  Thierry  e  qualche  altro  che  non  fa  se  non 
mediocremente  tale.  Certo  non  portò  a  conseguenze  efficaci,  im- 
perocché il  vinto  Unno  si  rimase  in  cagnesco,  dietro  alla  linea  dei 
propri  carri.  E  se  non  poteva  dirsi  formidabile  in  modo  alcuno  il 
trinceramento,  ])isogna  pure  che  tale  fosse  in  qualche  parte  ri- 
masto l'esercito,  dacché  vi  fu  lasciato  rifare  tranquillamente  lena  ed 
animo,  indi  ritrarsi  non  senza  ordine  e  non  senza  preda.  Attila  a 
quella  sua  accozzaglia  comandava  ben  piìi  che  non  si  pensi. 

Narra  infatti  Candido,  scrittore  del  principio  del  secolo  XVI, 
com'egli  di  quei  suoi  Quadi,  Svevi,  Eruli,  Turdinii,  Ruglì,  Ostrogo- 
ti, Valacchi,  Gepidi  ed  Unni  bianchi  e  neri,  ne  facesse  quello  che 
gli  pareva  e  per  fino  della  gente,  incredibile  a  dirsi,  rispettosa  della 
proprietà  altrui.  Infatti,  seguita  a  diro  lo  stesso  autore  contrario 
al  Yelsero  ed  al  Giordano,  ma  tutt'altro  che  tenero  di  codesto 
barbaro,  com'egli  passasse  il  Danubio  e  pervenisse  al  Eeno  rite- 
nendo tanto  severamente  i  soldati  dal  rubare  e  dal  soverchiare 
comunque,  che  la  cosa  pareva  a  tutti  un  miracolo  e  le  popolazioni 
gli  erano  divenute  fidenti  ed  amiche.  Né  la  contraddizione  è  altro 
che  apparente,  dovendo,  chi  consideri  le  ragioni  e  le  circostanze 
le  quali  portarono  costui  nelle  Gallie,  immediatamente  persua- 
dersi che  la  cosa  aveva  da  andare  in  talune  parti  in  un  modo  e  in 
tali  altre  ad  un  altro.  Chiamato  dal  primogenito  di  Clodione 
contro  Meroveo,  egli  doveva  avere  mezzi  Franchi  con  sé  e  mezzi 
contro,  e  non  poteva  non  voler  risparmiare  il  territorio  dei  propri 
e  desolare  quello  degli  avversi.  Eimane  meraviglioso  che  potesse 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  223 

comunque  riuscire  a  ciò,  egli  che  non  era,  come  s'è  visto,  a  capo 
di  una  nazione  unica,  né  tampoco  di  una  aggregazione  messa 
insieme  da  parecchio  tempo,  e  consenziente  in  un  fine  determinato 
od  animata,  checché  ne  dica  in  contrario  il  Gibbon,  da  nessuna 
specie  di  fanatismo  religioso  o  politico. 

Attila  non  era  nemmeno  un  gigante,  come  quell'accidentone 
del  Massi  mino  a  petto  al  quale  i  più  esercitati  atleti  greci  erano 
monelli,  né  brillava  per  la  gloria  di  nessuna  fazione    esclusiva- 
mente sua   la  quale  lo  segnalasse  a  tutti,  come  ne   aveva   avuto 
parecchie  in  Germania  e  in  Africa  il  Trace  bestiale.  Egli  invece, 
di  persona  membruta  ma  appena  mediocre,  di  non  comune  valore 
ma   con    mezzi    non    grandemente    superiori   al   comune,  traeva 
l'autorità  sconfinata   dai    molti  e  fidi    amici    come   Valandro  re 
degli  Ostrogoti  ed  Ardarico    re  dei  Gepidi  ai   quali  usava   ogni 
riguardo,  a  differenza  di  colui   che   lì    per  lì    ordinava  la  morte 
degli  amici.  Ciò  spiega  già  assai.  Il  resto  viene  dalla  astuzia  molta 
di  lui,  e  soprattutto  dalla  efferatezza  e  inevitabilità  delle  pene   in- 
flitte a  chiunque  osasse  contravvenire  non  a  dei  personali  capricci, 
ma  a  delle  norme   fisse  ed  evidentemente  consentite  dai   singoli 
capi  dei  diversi    gruppi   dell'esercito.  L'efficacia  delle  repressioni, 
checché  ne  possano  dire    alcuni  ideologhi   adulatori    della   razza 
umana,  è  infinita  sulle  moltitudini  fino  a  che  rimanga  in  loro   in- 
crollata la  convinzione  della  assoluta  inevitabilità  della  pena.  Né 
il    terrore  potente  e  solo  a  reprimere  istinti  e  a  creare  imman- 
cabilmente delle  virtù  passive  come  la  probità,  e   la   castità,  ma 
vale  talora  fino  a  svolgere  quella  attiva  del  valore  e  dello  slancio. 
1  Quadi  e  gli  Unni    che    attraversano   magari  un    chilometro  di 
paese   senza    derubarlo    provano    l' onnipotenza    dell'uomo   sulla 
natura  stessa  dell'uomo  e  delle  cose. 

Sidonio  Apollinare  enumera  gli  elementi  dell'esercito  calato 
'  sul  nostro  Friuli  con  Attila  l'anno  452: 

Subito  cum  rupta  tuìnultu 

Barba  I-ras  totas  in  te.  transfuderat  arctos 
Gaìlia,  jnif/nacem  JRugum  comitante  Gelono, 
Gepida  trux  sequitiir,  Sei/rum  Buìyundio  cogit, 
Chunus,  Be.lUmutu?,  Neurus.  Basterna  Turingus 
Bructerus,  ulvosa  quem  vel  Nicer  abluit  uìida, 
Prorumpit  Francus 

E  che  cosa  fossero,  per  esempio,  Franchi,  e  Turingi,  per  pre- 
scindere dall'Unno  del  quale  si  ha  un  concetto  etnografico  non  in- 


224  l'istria  e  il  kostro  confine  orientale. 

terainente  iDreciso,  ne  dà  un'idea  il  Gil)l)on  narrando  come  questi  ul- 
timi mettessero  scelleratamente  in  pezzi  per  mezzo  di  cavalli  sel- 
vatici i  corpi  di  200  giovani  fanciulle  date  loro  in  ostaggio  per 
indi  stritolarne  le  ossa  sotto  le  ruote  dei  carri  e  lasciarne  in  preda 
ai  cani  ed  agli  avoltoi  gli  avanzi  sminuzzati.  Tali,  esclama  lo 
storico  inglese,  erano  quei  selvaggi  le  cui  imaginarie  virtù  si 
sentono  qualche  volta  lodare  nei  secoli  inciviliti. 

Se  Attila  trovò  in  Francia  aiuti  francesi,  in  Italia  ne  trovò 
non  pochi  degli  italiani.  Gli  arieti,  le  catapulte,  le  torri  mobili,  ogni 
maniera  di  ingegni  da  lanciare  sassi,  freccie,  fuochi  ed  altro,  fu- 
rono opera  d'artisti  latini.  Oreste,  il  suo  segretario,  greco  seconda 
i  pili,  è  da  parecchi  critici  moderni  dato  anch'  esso  per  latino. 

Aquileia  era  l'unico  ostacolo  alla  conquista  dell'Italia. 

Dentro  la  città  pare  che  vi  fossero  parecchi  alleati  gotici  coi 
loro  principi,  Alarico  ed  Antala. 

Influiva  di  molto  sugli  animi  dei  cittadini  la  memoria  dell'an- 
tica lezione  inflitta  a  Massimino  e  dell'Italia  così  fieramente  salvata- 
dagli  indomiti  arcavoli.  Narra  l'autore  della  storia  Misceìla  che 
l'assedio  durasse  oltre  a  venti  mesi.  Ciò  manca  di  prove  favore- 
voli e  ne  ha  moltissime  di  contrarie.  L'assedio  sarebbe  stato  per 
tal  modo  contemporaneo  alla  campagna  di  Francia  e  perciò  co- 
mandato da  un  altro.  Ipotesi  dimostrata  impossibile  dal  Muratori, 
il  quale  jirova  come  egli  rinnovasse  sul  principio  dell'anno  la  do- 
manda della  mano  di  Onoria, 

L'assedio  durò  tre  mesi  senza  effetto.  La  mancanza  delle 
provvigioni,  ed  i  clamori  dell'  esercito  stavano  per  costringere 
Attila  ad  abbandonare  l' impresa  e  comandare  con  ripugnanza 
che  le  truppe  nella  seguente  mattina  levassero  le  tende  ed  in- 
cominciassero a  ritirarsi.  Mentre  però  cavalcava  intorno  alle 
mura  pensoso,  tristo  e  sconcertato,  osservò,  narra  Procopio,  una  ci- 
cogna la  quale  preparavasi  a  lasciare  il  nido,  posto  in  una  delle 
torri  della  città,  e  portare  alla  compagna  i  suoi  nati.  Costui,  colla 
pronta  penetrazione  d' un  furbo,  trasse  partito  prontissimo  dal- 
l' accidente,  e  chiamossi  d' intorno  molti,  mostrando  ad  essi  il  fatto 
e  osservando  in  alto  ed  allegro  tuono  che  un  uccello  così  domestico, 
e  costantemente  attaccato  alla  società  e  al  posto,  non  avrebbe  mai 
abbandonato  le  sedi  antiche,  senza  l'istintiva,  presaga  intuizione 
che  quelle  torri  erano  condannate  a  rovinare.  L'  augurio  parve 
evidente,  la  persuasione  rinnovellò  il  vigore,  e  tuttociò  dette  al  nuovo 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  225 

immediato  attacco  la  pienezza  del  risolutivo  successo.  Le  macchine 
a  un  tratto  avanzate  verso  quella  parte  delle  mura,  da  cui  la 
cicogna  aveva  preso  la  fuga,  apersero  la  breccia,  subito  irresi- 
stibilmente invasa  e  passata. 

La  seguente  generazione  potè,  scrivono  gli  storici  quasi  tutti, 
appena  scoprire  le  rovine  d'Aquileia, 

Per  altro  di  codesto  vix  ejus  vestigia  del  Giordano,  la  furia 
d'  Attila  non  è  la  sola  spiegazione.  Sono  citati  negli  annali  del 
Muratori,  alcuni  appunti  del  Baronie,  i  quali  proverebbero  invece 
che  Aquileia  ebbe  poi  a  rialzarsi  alquanto. 

Distrutta  piìi  o  meno  (poco  preme  alla  materia  del  presente 
studio  mettere  in  sodo  se  più  giusto  dicessero  l' autore  della 
Miscella,  il  Giordano,  il  Dandolo,  o  il  Baronie),  Attila  passò  innanzi 
senza  venire  fermato,  come  era  ben  prevedibile,  e  si  arrestò  nella 
Lombardia  che  forse  fu  un  po'  la  sua  Capua.  È  pure  con  ciò 
che  molti  s'aiutano  a  spiegare  il  fortunato  successo  dell'amba- 
sciata di  Leone  papa  sul  Mincio,  che  rimane  però  uno  dei  più 
bei  fatti  della  storia  del  cristianesimo,  anche  non  ammettendo 
per  cosa  indiscutibilmente  assodata  l' apparizione  di  una  riserva 
a  mezz'aria  formata  dagli  apostoli  Pietro  e  Paolo.  Xon  risulta 
ben  chiaro  dalle  relazioni  degli  storici  contemporanei  né  il  nu- 
mero, né  la  qualità,  né  gli  accantonamenti  o  le  mosse  delle  truppe 
comandate  da  Ezio.  Esse  non  dovevano  però  mancare  di  una 
qualche  importanza,  e  potevano  eventualmente  da  un  giorno  al- 
l'altro triplicarla,  che  degli  aiuti  Valentiniano  avrebbe  potuto 
forse  ripromettersene  sia  dalle  Alpi  Galliche  e  Ketiche  come 
•dalle  Orientali,  conciossiachè  i  barbari,  tanto  delle  razze  germa- 
niche come  delle  tartare  e  pannoniche,  fossero  la  più  vendereccia 
gente  del  mondo,  e  l'erario  dell'  impero  si  trovasse  ancora  in 
grado  di  disporre  di  molto  oro.  Alarico  non  aveva  certamente  in- 
goiato il  frutto  dei  trecento  trionfi  romani  attraverso  i  secoli.  Forse 
il  sospetto  di  ciò  aiutò  non  poco  l'eloquenza  di  Leone. 

Del  resto  il  famoso  conquistatore  non  aveva,  pare,  l'animo  im- 
placabile e  sapeva  anzi,  a  quanto  ne  scrivono  anche  dei  biografi 
non  barbari,  impadronirsi  qualche  volta  degli  animi  non  meno  che 
degli  stati  e  degli  averi. 

Prisco,  andato  a  lui  ambasciatore  di  Bisanzio,  non  dice  nulla 
della  lingua  che  parlasse.  Ci  fu  un  gran  bere  e  un  gran  farsi 
inchini,  ma  i  brindisi,  a  quanto  pare,  furono  onninamente  muti  ed 
anticiparono  sul  bellissimo  attuale  sistema  inglese.  Chi  scrive,  fé- 


226  l'istria  e  il  nostro  confine  orientale. 

ce  di  molte  ricerche  intorno  alla  lingua  parlata  da  Attila.  Queste, 
s'intende,  consistono  tutte  nell'  aver  messo  a  torture  degne  dei 
tempi  della  storia  della  colonna  infame,  quasi  tutti  i  maggiori 
glottologhi  dei  quali  il  nostro  paese  si  onori.  Gli  pareva  assai 
importante  di  sapere  o  almeno  congetturare  come  si  fossero 
passate  le  cose  in  quella  conferenza.  Leone,  sebbene  italiano, 
non  avrebbe  egli  potuto  conoscere  la  lingua  degli  Unni  i  cui 
accampamenti  erano  pure  stati  tante  volte  percorsi  da'  suoi  non 
pavidi  missionari?  Attila  medesimo,  il  quale  sotto  Aquileia  si 
era  servito  di  ufficiali  ingegneri  tutti  latini,  quante  volte  non  avrà 
dovuto  conferire  seco  loro  sulle  cose  dell'  assedio  ?  —  In  tre  mesi 
un  uomo  del  suo  ingegao  pronto  ed  acuto,  non  poteva  avere  ap- 
preso tanto  della  lingua  del  paese  occupato,  da  intendere  e  da 
rispondere  sopra  una  materia  importante,  anzi  capitale,  ma  pur 
semplicissima  come  quella  di  ricevere  o  no  una  fanciulla  in  isposa, 
e  la  tale  piuttosto  che  la  tale  altra  indennità  di  guerra?  —  D'altra 
parte  non  aveva  egli  un  secretarlo  greco,  e  forse  latino,  in  Oreste, 
che  poteva  tanto  essergli  stato  non  piii  che  interprete  come,  tratto 
tratto,  maestro? 

Quanto  alla  lingua  parlata  dagli  Unni  non  ce  n'è  stato  tramanda- 
to, rispose  il  luminare  dei  nostri  glottologhi,  l'Ascoli,  alcun  saggio. 
I  nomi  propri,  scarsi  anch'essi,  svisati  forse  chi  sa  quanto,  dicono 
troppo  poco.  Né  più  della  lingua  sono  appurate  le  origini  di  costoro. 

Pare  a  molti  probabile  che  appartenessero  all'amplissimo 
sistema,  che  dicesi  uralico  o  urale-altaico,  e  comprende  anche  i 
Màgiari,  non  perciò  si  crede  e  neppur  si  presume  che  questi  sieno 
i  diretti  continuatori  di  quelli.  I  Tartari  poi,  qual  pur  sia  l'esten- 
sione che  a  questo  nome  si  dia,  ricadono  sempre  essi  pure  in 
grembo  al  sistema  uralico:  ma  è  una  denominazione  vaga  o 
mal  certa  con  la  quale  non  si  stringe  nulla.  Del  ritratto  di  Attila 
si  dice  che  sia  parlante  quello  di  un  Calmucco,  e  i  Calmucchi 
stanno  nel  gruppo  Mongolico  e  sono  Uralici  anch'essi. 

Ad  ogni  modo  la  ragione  del  diverso  linguaggio  non  poteva 
opporre  grandi  difficoltà  alla  relazione  fra  Attila  o  altri  barbari 
e  i  latini  o  i  greci.  Da  una  parte  il  greco  era  una  specie  di 
lingua  universale  in  quei  secoli,  e  dall'altra  i  soldati  barbari  che 
militavano  o  avevano  militato  sotto  le  bandiere  di  Roma  (caval- 
leria ausiliare,  guardia  teutonica  ec.)  erano  pure  riusciti  ad 
introdurre  un  certo  numero  dei  loro  vocaboli  nel  linguaggio 
romano  ed  erano  diventati  una  specie   di   uomini    bilingui,  par- 


l'istria  e  il  nostro  confine  orientale.  227 

lanti  cioè,  oltre  il  proprio  idioma  barbarico,  anche  un  po' di  la- 
tino disseminato  per  tutta  l'estensione  dell'impero. 

Fatto  sta  che,  senza  che  si  possa  ben  precisare  in  qual  lingua 
Attila  si  lasciò  svolgere  da  Leone,  egli  si  ritirò  in  Pannonia,  certo 
ben  pagato  ma  non  imperialmente  ammogliato  come  pretendeva, 
ed  avendo,  senza  saperlo,  e  contro  tutte  le  proprie  intenzioni,  non 
solo" distrutto,  ma  anche  fondato  qualche  cosa  di  grande  in  Italia. 

Qualche  cosa  anzi  di  molto  più  grande  di  quanto  egli  aveva 
distrutto  :  Venezia. 

XIT. 

I  profughi  di  Aquileia  e  di  Aitino  si  sparsero  a  Grado,  a 
Malamocco,  e  sopratutto  calarono  numerosi  nelle  isolette  venete 
intorno  a  Rialto. 

Cotesti  poveri  diavoli  internati  dal  confine  orientale  rimasero, 
anche  dopo  cessata  l'urgenza  del  pericolo,  nelle  isole  veneziane 
le  quali  cominciarono  ad  essere  unite  tra  loro  da  ponti  che  fa- 
cevano tra  le  varie  frazioni  di  quella  sporadica  topografia  la  parte 
delle  così  dette  gambe  tra  i  vari  fiori  dei  locali  merletti.  Così  fu 
cominciato  a  creare  il  reticolato,  l'abbozzo  d'insieme  della  futura 
regina  dei  mari,  divenuta  da  ultimo,  come  cantò  il  Mameli,  la  gran 
mendica e  un  poco  rimastaci. 

Le  origini  di  Venezia  in  particolare  presentano  un  riscontro 
molto  diretto,  e  quasi  direi  combaciante,  colle  prime  origini  di- 
fensive dell'umano  consorzio.  Venezia  è  l'ampliazione,  la  magni- 
ficazione, del  preistorico  rifugio  lacustre,  il  quale  rimane  pur 
sempre  la  radice  vera  di  questa,  sia  pure  stragrande,  potenza 
della  specie. 

Venezia  non  fu  per  lunghi  secoli  che  la  patria  seconda  dei  ve- 
neziani, i  quali  tennero  sempre  con  affetto  e  devozione  infinita  lo 
sguardo  rivolto  alla  terra  delle  loro  origini.  Marco,  il  santo  che, 
secondo  la  leggenda,  aveva  scritto  il  proprio  vangelo  in  Aqui- 
leia, ne  fu  proclamato  patrono,  il  leone  suo  ne  divenne  il  simbolo 
e  la  bandiera.  Come  vessillo  minore,  Venezia  ebbe  quello  di  Er- 
magora  e  Fortunato,  due  santi  abbinati  nel  martirologio  aquilese. 

Fu  per  l'appunto  con  in  pugno  lo  stendardo  di  sant'Erma- 
gora  che  il  doge  Pietro  Orseolo  corse  la  Dalmazia  ed  occupò 
Pola.  La  repubblica  divenne  grande,  potentissima  e  tenne  nel 
mondo  medioevale  il  posto  dell'Inghilterra  in  questo  moderno,  ma 


228  l'istria  e  il  nostro  confine  orientale. 

quando  ebbe  il  possesso  della  terra  delle  sue  origini,  non  la 
chiamò  mai,  come  tutte  le  altre,  la  provincia,  ma  bensì  la  putria 
del  Friuli.  11  Candido,  l'Alberti,  l'Amaseo,  il  Giambullari,  tutti 
infine,  dal  primo  all'ultimo,  gli  scrittori  antichi,  rispettarono  tale 
sacra  nomenclatura,  che  è  un  documento  della  storia  ed  uno 
slancio  del  cuore,  e  conservarono  alla  intera  Venezia  Giulia  questo 
nome  di  patria,  che  oggi  le  ubbie  o  falsificazioni  dell'etnografia 
e  della  geografia  straniera  le  vorrebbero  contendere. 

Ma  chiudiamo  ora  le  storie,  e  nella  terza  parte  del  presente 
studio  limitiamoci  quasi' esclusivamente  a  guardare  al  territorio 
da  uomini  politici  e  da  soldati. 

Paulo  Fambri. 


LE  NOSTRE  ORIGIiNL  ' 


IV. 

Le  età  preistoriche. 

Quello  che  l'uomo  si  facesse  nei  cinquecentomila  anni  dell'epoca 
terziaria  e  nei  dugentocinquantamila  dell'  epoca  quaternaria,  che 
tale  è  la  minima  durata  assegnata  a  queste  epoche,  è  curioso 
a  sapere  ed  è  difficile  a  indovinare;  il  che  vale  anche  pei  tempi 
preistorici  dell'epoca  attuale.  Per  saperlo,  lo  scienziato  scava  e  fruga 
la  terra,  esplora  grotte  e  caverne,  esamina  tumoli,  costruzioni  a 
palafitte,  terremare,  cumoli  di  conchiglie,  e  ovunque  va  ricercando 
un  utensile,  un'arme,  un  osso,  un  segno  infine  che  gli  parli  dell'uomo 
e  delle  forme  della  sua  attività.  Le  due  scienze  naturali,  la  geologia  e 
r  antropologia,  aiutano  la  paleontologia  umana  e  l'archeologia  prei- 
storica nella  ricerca  e  nella  spiegazione  di  que' prodotti  dell'attività, 
che  ci  permettono  di  distinguere  le  età  attraversate  dall'uomo  prima 
di  entrare  nella  vita  istorica  e  civile.  Di  queste  due  ultime  scienze, 
la  prima,  cioè  la  storia  delle  razze  umane  nelle  epoche  geologiche 
anteriori  alla  presente,  comprende  lo  studio  de'  prodotti,  delle  spo- 
glie, degli  avanzi  dell'  uomo  nell'  epoca  terziaria  e  nella  quaternaria. 
Suo  dominio  è  il  mondo  dei  fossili  umani,  seppelliti  negli  strati 
della  terra  e  nel  fondo  delle  acque  o  trasportati  da  alluvioni  sulla 
superficie  dei  continenti  ;  ma  seppelliti  e  trasportati  in  epoche  geo- 

1  Questo  era  il  titolo  generale  del    presente    lavoro.    Per  un  errore,  si  è  dato 
air  articolo  precedente  un  titolo  diverso  e  particolare. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Marzo  1819.  14 


230  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

logiche  anteriori  alla  presente.  A  rigor  di  termini  adunque  essa 
occupasi  soltanto  della  prima  fra  le  età,  che  tutte  chiamo  preistori- 
che, l'età  archeolitica  o  l' antica  età  della  pietra,  quella  della  pietra 
greggia  e  scheggiata.  A  questa  seguì  Tetà  neolitica,  o  la  nuova  età 
della  pietra,  quella  della  pietra  pulita  o  levigata,  i  cui  oggetti  tro- 
vausi  ne'  terreni  di  recente  formazione.  Poi  venne  l' età  del  bronzo 
ed  infine  quella  del  ferro,  che  entra  nei  tempi  storici.  L'archeologia 
preistorica  occupasi  più  specialmente  delle  due  seconde  età.  Ma  co- 
deste età,  badisi  bene,  si  succedono  e  coesistono  :  il  bronzo  succede 
alla  pietra,  ma  non  la  discaccia. 

Gettiamo  un  rapido  sguardo  ai  ijrincipali  fatti  che  contrasse- 
gnano la  vita  dell'  uomo  in  queste  età  preistoriche. 

Nei  tempi  di  mezzo  dell'epoca  terziaria,  cioè  nel  periodo  mio- 
cenico, il  clima  dell'Europa  era  sensibilmente  più  caldo  del  pre- 
sente, come  attestano  la  fauna  e  la  fiora.  Al  dire  dello  Schimper 
{Paleontologia  vegetale)  la  temperatura  avvicinavasi  alla  media 
subtropicale  e  nell'  estate  avevasi  un  caldo  tropicale.  Calcolasi  che 
la  media  temperatura  fosse  allora  fra  il  18  e  il  19°.  In  quell'  am- 
biente caldo  e  umido  si  dischiuse  una  vegetazione  lussureggiante, 
si  manifestarono  le  più  elevate  forme  di  mammiferi,  e  in  Francia 
viveva  il  gibbone,  che  cerca  le  regioni  calde.  Tale  clima  era  favo- 
revolissimo allo  sviluppo  dell'  uomo,  il  quale  potè  benissimo  nascere 
anche  in  Europa  e  vivere  accanto  agli  antrojjomorfi.  Non  è  neces- 
sario andarne  a  trovare  1'  originaria  sede  nelle  contrade  attualmente 
calde,  come  vorrebbe  il  Lubbock  ;  ma,  come  ben  dice  l' Hamy 
{Paleontologia  umana),  l'uomo  ha  potuto  essere  originato  in  quelle 
regioni  che  allora  erano  calde.  L' apparizione  della  nuova  specie, 
per  effetto  della  legge  di  trasformazione,  ha  potuto  adunque  acca- 
dere in  un  medesimo  periodo  geologico  e  in  diversi  continenti.  Ma 
non  bastano  le  condizioni  climatologiche  per  produrre  una  determi- 
nata forma  in  un  dato  periodo  geologico.  Eichiedesi  una  lunga 
sequela  di  anni  prima  che  le  modificazioni  derivanti  dall'  adatta- 
mento e  quelle  provenienti  dall'  eredità  si  riequilibrino  e  consolidino 
in  una  forma  diversa  e  più  alta.  La  nuova  forma,  che  in  un  pe- 
riodo si  elabora,  può  diventare  appariscente  solo  nel  seguente. 
E  l'uomo,  che  poteva  bensì  vivere  ne'  tempi  miocenici,  non  è  certo 
che  vi  sia  vissuto.  Però  le  ricerche  del  Bom-geois  e  del  Delaunày, 
e  alcune  analogie  paleontologiche  fanno  credere  a  non  pochi  che  i 
nostri  progenitori  si  godessero  infatti  i  voluttuosi  tepori  dei  tempi 
miocenici.  Sotto  alle  sabbie  fluviatili  dell'Orleanese,  ove  il  Bom-geois 
incontrò  il  gibbone  fossile   {Hylohates  antiquus),  e  sotto  al  calcare 


LE  NOSTRE  ORIGINI.  231 

di  Beauce,  ove  scopri  il  rinoceronte  a  quattro  dita  (Acerotherium), 
trovò  pure  le  prime  selci  lavorate,  pare,  dalla  mano  dell'uomo. 
Sono  raschiatoi  simili  a  quelli  dell'  epoca  quaternario-,  ma  più  im- 
perfetti, anzi  imperfetti  tanto  da  far  pensare  che  essi  siano  semplici 
ciottoli,  trasformati  dall'  immaginazione  paleontologica,  la  quale 
scorgendoli  deposti  presso  le  sponde  inclinate  di  un  lago,  già  pensa 
che  ivi  stessero  le  stanze  dell'  uomo  e  già  vede  le  abitazioni  lacu- 
stri nei  tempi  miocenici.  E  poiché  le  selci  di  Thenay  portano  le 
tracce  del  fuoco,  se  ne  induce  tosto  che  quelle  abitazioni  furono  da 
esso  distrutte,  e  che  l' uomo  miocenico  conosceva  già  l' arte  di  pro- 
durlo. Il  Bourgeois  crede  di  aver  provato  che  l'uomo  adoperava 
certamente  il  fuoco  ne'  tempi  miocenici,  e  propriamente  in  quelli 
che  la  cronologia  preistorica  del  Lartet  denomina  da'  mastodonti, 
appartenenti,  come  si  sa,  alle  specie  estinte.  Egli  ha  trovato  nelle 
sabbie  dell'  Orleanese  un  frammento  pietroso,  formato  da  una  pasta 
dura  e  grigia,  mescolata  col  carbone  ;  il  che  gli  farebbe  credere  che 
r  uomo  miocenico  non  pui'e  adoperava  il  fuoco,  ma  tentava  anche 
i  primi  saggi  di  ceramica.  Se  a  questo  aggiungasi  che  i  raschiatoi 
trovati  ne'  ten-eni  rispondenti  a  questi  tempi  sono  di  miglior  ma- 
teria, se  non  di  miglior  fattura,  di  quelli  trovati  nei  terreni  ri- 
spondenti al  tempo  anteriore,  si  ha  qualche  argomento  per  cre- 
dere che  r  uomo  miocenico  contemporaneo  dei  mastodonti  aveva 
progredito  sull'  uomo  miocenico  contemporaneo  de'  rinoceronti.  Ma 
quel  non  trovare  ossa  umane  insieme  con  gli  utensili,  fa  sempre 
dubitare  molti  paleontologi  dell'esistenza  dell'uomo.  Neanche  le  inci- 
sioni scorte  sulle  ossa  degli  animali  appartenenti  a  specie  estinte 
non  parvero  a  molti  un  argomento  convincente,  perchè  possono 
essere  state  prodotte  o  dal  dente  di  altro  animale  o  dalla  zappa 
dello  scavatore.  Quelle  osservate  sull'  Halitheriwn  fossile  paiono 
però  davvero  opera  dell'  uomo  e  richiamano  alla  mente  i  costumi 
dei  moderni  selvaggi  dell'Australia,  che  si  cacciano  a  traverso  il 
grasso  della  balena  e  si  pongono  a  scarnirla,  producendo  incisioni 
sulla  carcassa. 

A'tempi  miocenici  succedettero  i  pliocenici,  che  rappresentano  il 
periodo  moderno  dell'epoca  terziaria.  La  media  temperatura  dell'Eu- 
ropa si  abbassò  di  6°,  come  scorgesi  dallo  studio  della  fauna  :  spa- 
rirono gl'ilobati,  i  driopitechi,  e  furono  sostituiti  da'pitechi,  scimmie 
senza  coda,  ancora  rappresentate  dai  bertuccioni.  È  assai  probabile 
che  in  tempi  così  glaciali  l'uomo  emigrasse  verso  il  sud;  ma  la 
sua  esistenza  in  questo  periodo  della  storia  terrestre,  non  è  ancora 
pienamente  accertata.  11  famoso  uomo  fossile  di  Savona,  trovato 


232  LE  NOSTRE   ORIGINI. 

in  un  terreno  chiaramente  pliocenico,  pare  vi  sia  stato  posterior- 
mente seppellito.  Forse  è  più  probabile  che  sia  terziario  l'uomo 
fossile  della  California,  perchè  il  cranio  del  Campo  degli  Angeli  si 
è  trovato  a  153  ijiedi  di  profondità,  di  sotto  a  stratificazioni  vul- 
caniche prodotte  da  lave  che  il  Whitney  fa  rimontare  ai  tempi 
pliocenici.  L'uomo  pliocenico  in  America  e  l'uomo  miocenico  in 
Europa  farebbero  credere  alla  poligenesi  dell'umanità.  Ben  è  vero 
che  l'uomo  poteva  dall'Europa  e  dall'Asia  emigrare  in  America  o 
pel  nord  o  anche  per  l'ovest,  se  si  ammette  l'esistenza  dell'Atlan- 
tide terziario,  cioè  di  un  continente  fra  la  Spagna,  l'Irlanda  e  l'Ame- 
rica; ma  tali  spostamenti,  in  tempi  così  primitivi  e  quando  la 
popolazione  doveva  essere  radissima,  parranno  forse  allo  scienziato 
meno  naturali  del  perfezionamento  delle  specie  d' un  medesimo 
genere,  ne'  vari  continenti  da  esse  abitati.  Le  migrazioni  da  nord 
a  sud,  in  un  medesimo  continente,  sono  per  contrario  spiegabi- 
lissime nel  periodo  glaciale,  in  cui  l'uomo  dovè  combattere  contro 
i  rigori  della  natura  così  da  far  credere  ad  alcuni  che  da  quelle 
sofferenze  e  dai  ricordi  dei  tempi  miocenici  sia  stata  originata 
l'idea  di  un  paradiso  terrestre,  che  è  in  antitesi  con  la  verità  del 
progresso  umano.  Ma  il  progresso  non  è  continuo,  non  è  privo  di 
ritorni,  e  per  l'uomo  pliocenico  del  periodo  glaciale  erano  al  certo 
invidiabilissimi  i  tepori  e  le  verdeggianti  campagne  de'  tempi  mio- 
cenici. 

Se  non  ossa  umane,  sonosi  però  rinvenute  ne' terreni  plioce- 
nici ossa  incise  di  animali,  utensili,  armi,  così  da  far  pensare  al 
Desnoyers  che  l'uomo  sia  vissuto  in  Francia  e  in  Val  d'Arno,  ove 
tali  avanzi  furono  scoperti,  contemporaneamente  aWElephas  me- 
ridionali s,  appartenente  ad  una  specie  estinta,  che  nella  cronologia 
del  Lartet  dà  il  nome  a  (luesto  periodo  pliocenico.  Le  incisioni 
sulle  ossa  di  elefanti  e  di  altri  animali,  come  a  dire  il  rinoceronte 
leporino,  l'ippopotamo,  ecc.,  trovate  a  Saint-Prest  e  in  Val  d'Arno 
fanno  dire  al  Desnoyers  che  l'uomo,  per  difendersi  e  per  alimen- 
tarsi, lottava  contro  i  grandi  mammiferi  pliocenici.  E  se  pensiamo 
che  la  temperatura  era  bassa  e  che  difficilmente  esso  conosceva 
l'uso  del  fuoco,  dobbiamo  convenire  che  l'uomo  menava  una  vita 
ben  triste.  Ma  il  Lubbock  e  il  Lyell,  due  autorità  eminenti,  non 
hanno  la  medesima  fede  del  Desnoyers,  e  pensano  che  quelle  inci- 
sioni sulle  ossa  degli  animali  possano  essere  state  prodotte  o  dal- 
l'azione dei  torrenti  o  da  quella  dei  denti  di  altri  animali.  Se  non 
che  è  da  osservare  che  ornai  si  sa  distinguere  l'una  dall'altra  in- 
taccatura, e  che  insieme  a  quelle  ossa  sono  stati  rinvenuti  anche 


LE   NOSTRE  ORIGINI.  233 

istrumenti  di  selce  e  punte  di  lance.  Si  può  adunque  dubitare  del- 
l'esistenza dell'uomo  terziario  ;  ma  non  si  può  negare  che  le  grandi 
probabilità  sono  in  favore  di  essa. 

La  paleontologia  umana  o  paleoetuologia  trova  un  solido  fon- 
damento nell'epoca  postpliocenica  o  quaternaria.  Qaella  parte  del- 
l'età  archeolitica  che  risponde  alle  formazioni  quaternarie,  vien 
divisa  in  due  periodi,  quello  degli  animali  appartenenti  a  specie 
estinte,  a  specie  emigrate  e  a  specie  viventi,  e  quello  degli  ani- 
mali appartenenti  solo  a  specie  emigrate  e  viventi.  Estinti  sono 
p.  e.  l'orso  delle  caverne,  il  mammuto,  che  dà  il  nome  al  primo 
periodo  postpliocenico  ;  emigrata  e  vivente  è  p.  e.  la  renna,  che 
contrassegna  il  secondo  periodo.  Questa  divisione  paleontologica, 
adottata  dall'Hamy,  discepolo  del  Lartet,  implica  una  contraddi- 
zione con  la  divisione  geologica,  creata  dal  Lyell,  secondo  il  quale 
le  formazioni  postplioceniche  si  distinguono  dalle  recenti  appunto 
per  la  esistenza  di  specie  estinte.  In  quella  vece,  secondo  l'Hamy, 
avrebbesi  un  periodo  postpliocenico  senza  specie  estinte.  Non  ostante 
ciò,  io  ho  adottato  la  partizione  paleontologica  dell'Hamy,  non  solo 
perchè  conferisce  alla  chiarezza  dell'esposizione  o  ad  una  più  or- 
dinata classificazione,  ma  anche  perchè  m'è  parso  che  la  contrad- 
dizione sia  in  gran  parte  più  apparente  che  reale.  Lo  stesso  Hamy 
conviene  che  nel  periodo  delle  renne  continuano  a  vivere  i  mam- 
muti,  i  quali  vanno  disparendo  a  poco  a  poco,  e  che  solo  nel  se- 
condo subperiodo  di  quello  non  se  ne  incontra  neppur  uno.  Ora 
tale  subperiodo  si  può  considerare  come  un  momento  di  transi- 
zione fra  i  tempi  poetpliocenici  e  i  recenti. 

La  esistenza  dell'uomo  nel  primo  periodo  di  questa  epoca  è 
un  fatto  ornai  indiscutibile,  come  abbiamo  veduto  nel  §  precedente 
{Aìdichifà  dell'  Uomo).  Ed  è  pure  ammesso  che  all'alba  di  questo 
periodo  continuò  la  dilatazione  dei  ghiacciai,  dovuta  all'azione  del 
freddo  sul  vapore  acqueo  diffuso  dal  calore  nell'atmosfera  (Tyudall)  ; 
il  che  fa  credere  ad  una  certa  intermittenza  nei  tempi  glaciali  del- 
l'Eui^opa.  Questa  venne  in  gran  parte  invasa  da'  ghiacciai,  che  avan- 
zavano con  irresistibile  lentezza.  La  loro  posteriore  fusione  o  il  loro 
ritiro,  prodotto  forse  anche  da  che  lo  stato  continentale  si  andò 
in  Europa  sostituendo  a  quello  insulare,  determinò  la  formazione 
delle  correnti  che  deposero  terreni  alluvionali,  ove  in conti'ansi,  in- 
sieme con  gli  scheletri  degli  animali,  gli  oggetti  dell'industria  qua- 
ternaria dell'uomo  preistorico.  L'esame  di  questi  avanzi  ci  fa  in- 
durre con  positivo  fondamento  che  l'Europa  era  abitata  da  giganteschi 


234  LE  NOSTRE  ORIGINI. 

animali  e  forse  da  non  giganteschi  uomini.  Fra  le  specie  estinte 
erano  il  mammuto  o  elefante  primigenio,  il  grande  orso  delle  ca- 
verne, il  bicornuto  rinoceronte  dalle  narici  spaccate,  il  leone,  la 
tigre  e  la  iena  delle  caverne,  —  animali  diversi  dai  contempo- 
ranei e  di  questi  più  robusti,  —  il  bisonte  europeo  rimasto  in  Polonia, 
il  gi-an  bue  e  il  cervo  dalle  lunghe  corna  {Cervus  megaceros),  ecc. 
La  renna,  il  cervo  d'Islanda,  il  castoro,  ecc.  vivevano  pure  al- 
lora, ma  in  altre  regioni  da  quelle  in  cui  vivono  adesso.  In  un 
clima  nefasto  e  fra  aniiBiali  robusti  e  colossali,  la  volontà  dell'uomo 
primitivo  dovette  essere  stimolata  a  ricercare  i  mezzi  per  soste- 
nere la  lotta  contro  la  matrigna  natura,  così  matrigna  che  a  chi 
vuol  continuare  a  credere  in  un  Eden  primitivo  non  resta  altro 
scampo  che  acconciarsi  a  credere  all'esistenza  dell'uomo  mioce- 
nico. Quando  la  volontà  è  stimolata,  l'intelligenza  si  aguzza.  È 
per  tanto  credibile  che  in  questa  epoca  postpliocenica  l'uomo  sco- 
prisse il  modo  di  produrre  il  fuoco,  elemento  essenziale  per  con- 
servare sé  e  per  allontanare  gli  animali  feroci.  Chi  sa  quante 
volte  avrà  egli  veduto  uscir  fumo  da  due  pezzi  di  legno  secco, 
confricati  insieme,  senza  badarvi  più  che  tanto!  Ci  voleva  il  pungolo 
del  prepotente  bisogno,  una  esperienza  maggiore  e  uno  spirito 
di  osservazione  più  sviluppato  per  produrre  la  prima  fiamma  ar- 
tificiale, per  trarre  il  primo  partito  utile  dalla  trasformazione  del 
moto  in  calore.  Noi  immaginiamo  lo  stupore  e  la  gratitudine  pel 
fortunato  Prometeo,  di  quegli  uomini  pe'quali  il  fuoco  era  la  vita. 
Qual  meraviglia  che  ogni  razza  abbia  divinizzato,  col  tempo,  il 
suo  grande  benefattore!  Egli  aveva  la  potenza  della  folgore,  ma 
non  il  suo  genio  distruttivo. 

Con  gli  avanzi  dell'  industria  umana  si  può  ricostruire  in  parte 
la  vita  dell'uomo  in  questo  primo  periodo  dell'epoca  postpliocenica.  In 
un  lavoro  sintetico  come  quello  che  offro  a' lettori  è  impossibile 
dar  le  prove  di  ogni  affermazione.  I  paragrafi  si  cangerebbero  in 
volumi,  molti  de'quali  risponderebbero  ciascuno  ad  una  speciale 
disciplina ,  e  però  ad  una  particolare  biblioteca.  L' autore  di 
questo  scritto  deve  condensare  i  molti  volumi  in  poche  pagine; 
ma  egli  sente  di  potere  assicurare  che  non  afferma  nulla  che  non 
possa  provare.  La  sua  libera  fede  è  in  lui  cosi  fondata  su  con- 
vinzioni scientifiche  da  renderlo  non  pure  sdegnoso  di  qualunque 
cosciente  falsificazione  di  fatti,  ma  altresì  pauroso  di  qualunque 
falsificazione  incosciente,  prodotta  dal  desiderio  o  dall'  immagi- 
nazione. I  lettori  avi'anno  osservato  che  egli  dubita  anche  quando 
altri  afferma,  altri  meno  radicale  di  lui  nelle  credenze  fondamen- 


LE  NOSTRE  ORIGINI.  235 

tali,  e  che  non  si  studia  di  celare  ad  alcuno  la  incertezza  di 
parecchie  induzioni  o  deduzioni.  Egli  non  aspetta  le  ossa  dell'uomo 
terziario  per  convincersi  dell'alta  antichità  della  nostra  specie,  né 
aspetta  i  crani  e  le  mascelle  dell'  uomo  pitecoide  per  sorridere 
all'idea  che  l'uomo  ahhia  potuto  nascere  d'un  getto.  La  lealtà  scien- 
tifica, che  per  molti  deriva  dallo  schietto  desiderio  di  appurare  la 
verità  vera,  in  lui  è  anche  figlia  della  profonda  convinzione  che 
le  cose  non  hanno  potuto  evolversi  che  secondo  leggi  naturali.  Se 
molte  prove  mancano  ora  non  importa  ;  non  mancheranno  domani. 
Che  se  dovessero  far  difetto  per  sempre,  ebhene,  io  rimarrei  in- 
crollabile nelle  mie  convinzioni,  sino  a  quando  le  lacune  non  ve- 
nissero colmate  da  prove  contrarie.  Ma  questo  è  impossibile! 

Per  non  soccombere  nella  lotta  per  l'esistenza  contro  la  natura 
inorganica,  organica  e  sopraorganica,  contro  questa  triade  di  ne- 
mici, i  contemporanei  del  mammuto  dovettero  trovare  un  riparo 
contro  gli  eccessi  della  temperatura,  contro  la  ferocia  delle  belve 
e  gl'istinti  rapaci  de'loro  fratelli,  dovettero  prodm're  armi  e  darsi 
alla  caccia  di  animali  e  di  uomini.  Asce,  coltelli,  raschiatoi  si 
trovano  nelle  caverne,  frammisti  alle  ossa  di  animali  apparte- 
nenti a  specie  estinte  e  non  estinte.  Le  caverne,  covi  delle  bestie, 
furono  pure  le  prime  abitazioni  dell'uomo  :  l'uomo  cominciò  adun- 
que per  essere  troglodita.  In  quegli  antri  si  riposò,  si  difese,  ap- 
parecchiò gl'istrumenti  di  pietra  per  uscire  alla  caccia,  cucinò 
le  carni  animali  e  umane,  preparò  le  pelli  per  coprir  la  per- 
sona, e  si  seppellì  con  i  suoi.  La  ispezione  delle  caverne  scoperte 
da'paleontologi  ha  fornito  le  prove  di  queste  affermazioni,  e  fa 
pensare  ad  alcuni  che  gli  animali  furono  i  primi  maestri  dell'uomo. 
Seguendo  e  inseguendo  gli  animali,  egli  imparò  a  trarre  partito 
dalle  caverne  in  cui  ritiravasi  l'orso,  il  rinoceronte,  la  iena,  ecc. 
Se  così  fu,  l'uomo  si  è  di  poi  mostrato  ingrato  quanto  un  discepolo  ; 
ma  chi  crede  in  una  graduale  evoluzione  della  specie,  non  può 
concepire  un  primo  uomo,  affatto  ignorante,  che  dall'animale  im- 
pari i  primi  elementi  del  vivere.  La  specie  umana,  ne'tempi  in  cui 
acquistò  la  sua  particolar  fisonomia,  trovavasi  già  in  possesso 
degli  usi  e  costumi  de'suoi  predecessori.  L'uomo  fu  ereditaria- 
mente troglodita.  La  trasmissione  ereditaria  degli  usi  e  costumi  è 
stata  chiaramente  intraweduta  anche  dal  poeta  Orazio,  il  quale 
ispiravasi  in  verità  alle  dottrine  di  Lucrezio.  Orazio  in  fatti  parla 
dello  stato  trogloditico  e  arboreo  dell'uomo,  che  ancor  privo  della 
favella  articolata,  disputava  con  le  unghie,  con  i  pugni  e  col  ba- 
stone le  ghiande  e  il  covo.  L'uso  del   bastone,   ch'è   scimiesco,  ha 


236  ,  LE  NOSTRE   ORIGINI. 

suggerito  ad   alcuni  l'idea    di   far   precedere   all'età   della   pietra 
un'età  della  clava. 

La  legge  del  progresso  già  si  verifica  nel  passaggio  dall'epoca 
terziaria  al  primo  periodo  di  ({uella  quaternaria.  Oltre  agli  utensili 
e  alle  armi  di  miglior  fattura,  tu  trovi  anche  un  istrumento  di 
corno  nella  grotta  di  Aurignac,  aghi  di  osso  e  conchiglie  forate 
da  servire  per  monili,  come  quelle  scoperte  ne'terreni  diluviali  di 
Amiens,  L'uomo  adunque  nettava  le  pelli  degli  animali  col  ra- 
schiatoio, le  cuciva  con  l'ago  e  così  le  riduceva  a  vestimenta. 
E'ijensava  già  a  j)iacere  e  si  ornava  di  rozzi  monili,  che  forse 
l'aiutavano  a  solleticare  la  vanità  delle  donne.  Erano  le  prime  se- 
duzioni estetiche,  provocate  da  quella  legge  che  il  Darwin  ha 
chiamato  della  scelta  sessuale.  E  poiché  parliamo  di  estetica,  dirò 
pure  che  forse  forse  a  quei  tempi  postpliocenici  rimontano  i  primi 
abhozzi  artistici  dell'uomo,  stando  alla  placca  di  cui  parla  il  Bur- 
meister  e  alle  selci  raccolte  dal  Boucher  de  Perthes  a  Saint-Acheul, 
su  di  alcune  delle  (juali  egli  vorrebbe  scoprire  i  tratti  di  una 
testa  umana,  imperfetti  naturalmente  come  quelli  disegnati  da'fan- 
ciulli.  Se  vi  aggiungiamo  l'ossatura  in  legno  d'una  capanna,  tro- 
vata a  Sodertelje,  e  qualche  vago  indizio  che  al  Lyell  fa  credere 
nell'esistenza  di  un  popolo  di  pescatori  scandinavi,  noi  possiamo 
inferirne,  benché  con  debole  fondamento,  che  gli  antichi  selvaggi 
quaternari  cominciavano  a  passare,  in  alcune  contrade  d'Europa, 
dallo  stato  di  cacciatori  trogloditi  a  quello  di  pescatori  abitanti 
delle  capanne. 

I  caratteri  anatomici  degli  uomini  vissuti  nel  primo  periodo 
dell'epoca  postpliocenica,  dei  contemporanei  cioè  del  mammuto,  si 
possono  desumere  dagli  avanzi  ossei  sinora  trovati  in  diverse  con- 
trade dell'Europa;  ma,  oltre  che  tali  avanzi  sono  pochi,  è  assai 
difficile  il  determinare  con  esattezza  a  (j[uale  periodo  di  quell'epoca 
appartengano.  Non  trattasi  già  di  sapere  se  un  fossile  appartenga 
alle  formazioni  quaternarie  o  terziarie  o  recenti;  ma  se  nelle  for- 
mazioni quaternarie  si  debba  attribuire  al  periodo  del  mammuto 
o  a  quello  della  renna  ;  il  che  è  tanto  più  difricile  in  (juanto  che  al 
tempo  de'  mammuti  vivevano  pure  le  renne,  e  nella  prima  parte  del 
periodo  delle  renne  continuavano  ad  esistere  i  mammuti  che  si  an- 
darono gradatamente  estinguendo.  Tali  periodi  sono  stati  creati  dal 
semplice  predominio  dei  fossili  dell'  una  o  dell'  altra  specie  ;  il  che, 
unito  alla  scarsità  degli  elementi,  rende  facili  gli  errori.  Infatti 
non  poche  contraddizioni  s' incontrano  negli  scritti  de' paleontologi 
intorno  alla  cronologia  delle  razze  quaternarie,  massime  quando  si 


LE   NOSTRE  ORIGINI.  237 

vuole  cou  troppa  esattezza  determiuare  la  loro  successione.  Siamo 
in  un  campo  nel  quale  la  confusione  giustamente  ripugna  ad  una 
mente  lucida  e  bene  ordinata,  e  la  soverchia  chiarezza  giustamente 
spaventa  un  cauto  e  profondo  osservatore.  La  natura  non  è  confu- 
sione, è  vero  :  essa  ha  un  certo  suo  ordine  ;  ma  questo  è  assai  meno 
semplice  e  chiaro  di  quel  che  non  appaia  dalle  sistematiche  e  bene 
architettate  classificazioni  paleontologiche.  Queste,  appunto  quando 
sono  più  chiare,  possono  essere  più  vicine  al  poema  che  alla  storia. 
Dirò  qualche  cosa  de' principali  avanzi  umani  trovati  in  Eu- 
ropa nelle  formazioni  quaternarie,  contenenti  ossa  di   mammiferi 
delle  specie  estinte,  o  sia  corrispondenti  al  periodo  del  mam.muto, 
per  ricavarne  il  carattere  generale  della  razza  o  delle  razze  umane 
vissute  in  questo  periodo.  Si  può  cominciare  a  indurre  quel  carat- 
tere; ma  siccome  gli  elementi  sono  pochi,  così  bastano  poche  altre 
scoperte  per  abbattere  tutto.  1'  edifizio  degli  odierni  paleoetnologi. 
Dalla^ Scandinavia  all'Italia  pare   che  ne' primi   tempi   dell'epoca 
quaternaria  siasi  distesa  una  razza  dolicocefala  o  a  cranio  oblungo. 
Dolicocefali  sono  giudicati  i  crani  trovati  a  Stiingenàs,  insieme  ad 
un  robusto  femore,  che  calcolasi  essere  appartenuto  ad  un  uomo 
alto  1"°  78.  Tali  vengono  pure  considerati  i  crani  trovati  a  Lahr, 
Maestricht,  Eguisheim:  le  loro  arcate  sopraccigliari  sono  saglienti, 
la  fronte  è  stretta  ed  appiattita,  la  faccia  è  bene  sviluppata  e  di 
forma  triangolare,  la  mascella  inferiore  è  larga,  e  i  denti  incisivi 
sono  obliquamente  inseriti.  La  medesima  dolicocefalia  è  stata  os- 
servata nel  cranio  dell'Olmo,  trovato  nel  1863  presso  Arezzo  ne' ter- 
reni postpliocenici,  insieme  ad  avanzi  dell'elefante  fossile,  ne'  fram- 
menti ossei  di  Denise,  ne'  crani  di  Clicliy,  presso  Parigi.  L'incertezza 
che  regnò  intorno  a'  caratteri  craniologici  della  mascella  di  Moulin- 
Quignon,  quella  scoperta  da  Boucher  de  Perthes,  venne  dileguata  dal 
cranio  trovato  nel  1864  nella  cava  di  Moulin-Quignon,  a  3   metri 
di  profondità.  Esso  è  piuttosto  dolicocefalo.  Al  medesimo  risultato 
si  perviene  esaminando  gli  avanzi  umani  trovati  nelle  caverne,  che 
pe'loro  caratteri  paleontologici  e  archeologici  corrispondono  a' ter- 
reni alluvionali  dei  bassi  livelli,  in  cui  furono  trovati  gli  avanzi  or 
citati.  Dolicocefalo  è  p.  e.  il  cranio  del  Neanderthal,  riguardo  al 
quale  ho  di  già  fatto  cenno  dell'opinione  dell'Huxley,  con  cui  con- 
corda lo  Schaaffhausen.  Se  con  la  sua  scoperta  non  possiamo  dire 
di  essere  in  possesso  di  una  forma  dell'anello  intermedio  fra  l'uomo 
e  gli  antropomorfi,  dobbiamo  d'altra  parte  riconoscere  che  ci  tro- 
viamo davanti  uno  de'  più  bestiali  e   forse  il  più  bestiale  cranio 
d'uomo.  Ma  lo  scienziato  che  non  voglia  generalizzare  un  fatto  par- 


238  LE  NOSTRE   ORIGINI. 

ticolare  non  deve  considerare  il  cranio  del  Neanderthal  come  tipico 
della  razza  che  abitò  1'  Europa  ne'  primi  tempi  quaternari,  tanto 
più  quando  altri  fatti  lo  obbligano  a  temperare  le  sue  induzioni. 
E'  pare  che  quella  razza  potrebbesi,  così  pel  suo  corpo  come  per 
i  prodotti  della  sua  industria,  paragonare  a'  moderni  selvaggi  del- 
l'Oceania, che  sono  parimente  dolicocefali  e  prognati,  cioè  col  muso 
sporgente  e  col  mento  fuggente.  Questa  è  l'opinione  dell'Haniy,  il 
quale  crede  pure  che  in  Francia  e  nel  Belgio  sia  sopravvenuta  una 
seconda  razza,  una  razza  brachicefala,  di  piccola  statura,  con  un 
cranio  poco  sviluppato  e  con  la  faccia  più  o  meno  prognata.  Gl'in- 
dizi da'  quali  trae  questo  suo  pensiero  sono  così  pochi  e  fragili  da 
impedirmi  di  seguirlo.  Possibile  che  bastino  poche  ossa  trovate  a 
Clichy,  alla  Naulette,  ad  Arcy-siu-Cure  per  piantarvi  su  un  castello 
immaginario  !  Il  trovare  in  uno  strato  superiore  alcuni  crani  brachi- 
cefali non  è  ancora  un  argomento  sufficiente  per  credere  ad  una 
nuova  alluvione  etnica.  Nelle  medesime  razze  che  noi  chiamiamo 
dolicocefale,  per  accennare  al  carattere  dominante,  non  mancano 
molti  e  molti  individui  brachicefali,  e  cadrebbe  nell'errore  il  paleoet- 
nologo dell'avvenire  se  da  pochi  crani  d'individui  brachicefali,  se- 
polti molti  secoli  dopo  la  morte  d' individui  dolicocefali,  volesse 
indurne  una  successione  di  razze.  Quello  che  a  me  pare  meglio  accer- 
tato è  solamente  la  esistenza  di  una  razza  dolicocefala  nel  periodo 
del  mammuto. 

Seguo  volentieri  questa  opinione  anche  perchè  essa  evita  la 
soluzione  di  continuità  paleoetnologica,  che  altrimenti  vi  sarebbe 
nel  periodo  del  mammuto  e  nei  tempi  di  transizione  da  questo  a 
quello  della  renna.  Infatti  nelle  formazioni  geologiche  rispondenti 
a  questi  tempi  e  contrassegnate  dalla  graduale  disparizione  de'  grandi 
mammiferi,  da  speciali  selci  e  da  particolari  istrumenti  di  osso, 
sono  stati  scoperti  di  recente  gli  avanzi  di  una  razza  di  alta  sta- 
tura, piuttosto  ortognata  e  fornita  di  cranio  dolicocefalo  e  volumi- 
noso, che  veduto  sotto  un  certo  angolo  pare  di  forma  ogivale.  Tale  è 
il  carattere  degli  scheletri  di  Grenelle  e  di  Cro-Magnon,  a'  quali  po- 
trebl)esi  forse  anche  riattaccare  il  cranio  di  Engis.  La  razza  a  cui 
appartengono  potrebb'  essere  stata  quella  stessa  della  quale  ab- 
biamo discorso;  ma  perfezionata  dall'evoluzione. 

Stando  alla  descrizione  del  Broca,  gli  scheletri  di  Cro-Magnon 
apparterrebbero  ad  una  razza  che  per  certi  caratteri  riteneva  delle 
scimmie  e  per  certi  altri  avviciuavasi  alle  razze  incivilite.  Tali 
uomini  eransi  adunque  trasformati  a  mezzo,  erano  uomini  ma  non 
ancora  interamente  separati  da'  progenitori  di  altre  epoche.  Chi 


LE  NOSTRE  ORIGINI.  239 

osserva  il  mondo  che  lo  circonda,  incontra  ancora  oggi,  massime 
presso  la  bella  razza  inglese,  tipi  in  cui  non  è  appieno  distrutto  lo 
stampo  ereditario  delle  forme  anteriori.  Due  fatti  ci  colpiscono 
nell'esame  di  questi  scheletri  :  le  dimensioni  delle  ossa  e  quelle  del 
cervello.  Predomina  fra  gli  scienziati  un'  opinione  opposta  a  quella 
del  volgo  intorno  alle  proporzioni  anatomiche  degli  uomini  primi- 
tivi :  si  pensa  eh'  e'  fossero  piuttosto  piccoli  di  statura  e  che  aves- 
sero il  cervello  poco  sviluppato.  Ora,  la  conformazione  delle  ossa 
degli  scheletri  di  Cro-Magnon  è  atletica  e  la  capacità  craniale  assai 
vasta.  Che  vuol  dire  ciò  ?  Non  ci  affrettiamo  alle  induzioni.  Prudente 
qual  sono  a  indurre  in  prò  della  mia  tesi,  ho  il  dritto  di  esserlo 
anche  contila.  Sarebbe  per  me  stranissimo  se  tutti  gli  uomini  dell'epoca 
del  mammuto  fossero  stati  piccini  o  tutti  altissimi,  e  parmi  più  natu- 
rale che  anche  allora  vi  fossero  razze  di  alta  e  razze  di  bassa  sta- 
tura. Per  iscoprire  il  carattere  predominante  bisognerebbe  fare  un 
calcolo  comparativo  di  medie,  il  che  è  impossibile  effettuare  su 
pochissime  ossa.  Kitorneremo  su  di  ciò  nel  paragrafo  seguente. 
Per  ora  accennerò  soltanto  che,  al  dire  del  Broca  medesimo,  le  re- 
gole di  proporzione  mediante  le  quali,  dalla  lunghezza  del  femore 
p.  e.,  s'induce  la  statura  di  un  uomo,  sono  state  ottenute  studiando 
le  razze  attuali  e  possono  non  essere  giuste  applicate  alle  razze 
preistoriche.  Quanto  alla  capacità  cerebrale  trovo  giusta  una  osser- 
vazione dell'  Hamy,  il  quale  dice  che  la  capacità  craniale  di  quei 
tipi  primitivi  è  considerevole  soprattutto  indietro,  cioè  all'occipite, 
il  che  viene  considerato  come  un  carattere  d' inferiorità  relativa. 
D'altra  parte  la  capacità  del  cranio  del  Neanderthal  è  di  1230  cen- 
timetri cubici,  cioè  non  superiore  alla  media  de'  crani  degli  Otten- 
totti e  de'  Polinesiaci,  e  quella  del  cranio  del  Liri  è  di  1306  cent., 
corrispondente  ad  un  cervello  pesante  1358  grammi,  cioè  appena 
uguale  al  peso  medio  del  cervello  dell'  odierna  donna  italiana.  Il 
Canestrini,  dal  quale  ho  tolto  quest'  ultima  citazione,  conchiude 
cosi  :  «  lo  studio  de'  cranii  dell'  epoca  della  pietra  finora  rinvenuti 
in  Italia  ha  condotto  alla  conclusione,  che  la  loro  capacità  interna 
è  inferiore  a  quella  de'  cranii  italici  delle  epoche  posteriori.  »  Que- 
sto fatto  è  naturalissimo  :  1'  esercizio  delle  funzioni  intellettuali  è 
pel  cervello  quello  che  la  ginnastica  è  per  le  membra. 

In  generale  gli  avanzi  umani  dell'  epoca  della  pietra  manife- 
stano i  segni  delle  razze  inferiori  e  anche  delle  specie  animali  in- 
feriori. I  più  antichi  avanzi  par  che  appartengano  ad  una  razza 
dolicocefala,  ma  quelli  che  immediatamente  seguono  appartengono 
piuttosto  alle  teste  rotonde.  Il  Pruner-Bey,  che  ha  fatto  un  accu- 


240  LE  NOSTRE   ORIGINI. 

rato  studio  sugli  scheletri  di  Cro-Magnon,  vi  ha  discoperto  il  tipo 
mongoloide,  analogo  a  quello  degli  attuali  Lapponi  ed  Eschimesi. 
Faccia  romboidale,  mandibola  sviluppata,  pomelli  sporgenti,  ma- 
scelle e  denti  proiettati  avanti,  e  forse  tinta  bruna  e  capelli  neri. 
Se  non  che  è  da  osservare  che,  rispetto  alla  forma  del  cranio,  il 
cosi  detto  tipo  mongolico  comprende  popolazioni  brachicefalo,  come 
i  Finni  e  i  Lapponi,  e  popolazioni  dolicocefali,  come  gli  Eschi- 
mesi, i  quali  del  resto  vengono  dagli  antropologi  considerati  come 
i  migliori  rappresentanti  della  maggioranza  della  razza  gialla. 
Secondo  il  Pruner-Bey,  così  fatta  razza  mongoloide  sarebbesi  di- 
stesa in  Europa,  nell'Asia  settentrionale  e  nell'America  del  Nord 
11  predominare  di  altre  razze  1'  avrebbe  respinta,  ed  oggi  i  suoi 
avanzi  s' incontrano  presso  i  Baschi,  i  Liguri,  i  Lapponi,  i  Finni, 
ne'  monti  Urali  e  nell'America  del  Nord.  Le  affinità  del  linguag- 
gio confermano  codesta  identità  primigenia.  Se  questa  razza  è 
venuta  dall'Asia,  noi  ne  dobbiamo  inferire  che  gli  scheletri  di  Cro- 
Magnon  non  ci  hanno  fatto  conoscere  ancora  gli  autoctoni  del- 
l'Europa, i  quali  a\Tanno  dovuto  formare  un'anteriore  stratificazione 
etnica.  Ma  da'  soli  caratteri  anatomici  non  si  può  argomentare 
con  sicurezza  che  quella  razza  sia  venuta  dall'Asia,  e  non  è  da  re- 
spingere l'ipotesi  che  essi  sieno  projjri  non  già  del  solo  uomo  asia- 
tico, ma  dell'uomo  primitivo  di  certe  regioni  cosi  europee,  come  asiar- 
tiche  ed  americane.  A  maniera  di  esempio,  la  natura  dell'alimentazione 
dell'uomo  primitivo  ha  esercitato  un'azione  che  spiega  di  per  sé  lo  svi- 
luppo mandibolare,  e  la  modificazione  di  quel  regime,  dovuta  al  pro- 
gresso, basta  essa  pure  a  spiegare  la  trasformazione  della  mandibola. 
L'Hamy,  paragonando  l'industria  e  i  carcami  della  razza  dolicocefala 
dell'  epoca  del  mammuto  con  l' industria  e  le  forme  anatomiche 
degli  odierni  Oceanici,  è  colpito  da' molti  punti  di  somiglianza; 
ma  non  per  questo  sogneremo  noi  una  invasione  oceanica  in  Eu- 
ropa, non  per  questo  ci  reputeremo  discendenti  dei  selvaggi  della 
Polinesia.  Ecco  un  problema,  che  l'antropologia  non  basta  a  risol- 
vere, senza  il  soccorso  della  filologia. 

Dura  il  freddo,  sebbene  la  temperatura  dell'  Europa  vada  ele- 
vandosi, e  le  renne  che  prediligono  il  clima  nordico,  crescono  e 
si  moltiplicano  nelle  regioni  che  oggi  sono  temperate  e  che  allora 
dovevano  essere  freddissime.  Fra  le  argille,  il  limo  e  le  sabbie  che 
costituiscono  il  terreno  quaternai'io  superiore  abbondano  infatti  le 
ossa  delle  renne,  e  quelle  de'  grandi  mammiferi  veggonsi  andare 
gradatamente  scemando.  Siamo  nel  secondo  periodo  dell'  età  della 


LE  NOSTRE  ORIGINI.  241 

pietra  greggia,  quello  che  piglia  nome  appunto  dalle  renne,  indivisibili 
compagne  dell'  uomo,  i  cui  progressi  in  questo  periodo  sono  inne- 
gabili, e  sono  agevolati  dall'  aiuto  che  gli  porgono  le  renne,  voglio 
dire  dal  partito  eh'  egli  ne  impara  a  trarre.  L'  uomo  continuò  ad 
abitare  le  grotte:  ma  imparò  piu*e  a  profittare  di  quelle  sporgenze 
delle  rocce,  che  formano  come  una  specie  di  tetto  naturale,  con  la 
veduta  aperta  della  campagna,  e  si  perfezionò  nell'arte  di  fare  tende 
con  pelli  di  animali  e  capanne  con  rami  e  foglie.  E  dico  si  per- 
fezionò, perchè  io  non  posso  credere  che  nelle  epoche  anteriori 
l'uomo  non  conoscesse  j^unto  l'arte  di  far  capanne.  Quantunque  la 
scarsa  popolazione  de'primi  tempi  quaternari  dovesse  sentire  una 
potente  attrazione  pe'siti  montuosi  e  pe'loro  ricoveri,  perchè  vi  si 
poteva  meglio  difendere  e  conservare,  pure  è  da  ammettere  che 
abitanti  della  pianura  dovettero  essercene  e  che  questi  non  pote- 
rono vivere  che  prima  sugli  alberi  e  sotto  gli  alberi,  poi  coperti 
da  artificiali  capanne.  L'uomo,  in  questo  secondo  periodo,  continuò 
ad  essere  cacciatore,  ma  si  affidò  maggiormente  sulle  acque  e  di- 
ventò meno  timido  cacciatore  di  j)esce.  11  Dupont  suppone  che 
l'uomo  dei  tempi  della  renna  avesse  zattere  e  barche,  e  lo  argo- 
menta da  certi  pezzi  di  psammite,  trovati  nella  grotta  di  Chaleux, 
e  che  non  potettero  essere  raccolti  senza  passare  di  là  dalla  Lesse. 
Quello  che  è  certo  si  è  che  nelle  grotte  trovansi  ossa  di  pesci, 
frammiste  ad  altre  di  animali  terrestri,  ad  armi,  ad  utensili.  L'uomo 
continuò  a  mangiare  erbe  e  carni  di  animali,  ma  cominciò  a  raf- 
finare il  suo  palato  e  a  diventar  ghiotto  dei  cervelli  e  del  midollo 
delle  ossa.  11  modo  con  cui  le  ossa  vedonsi  spaccate  indica  chia- 
ramente che  questa  usanza  era  generalizzata  nei  tempi  delle  renne, 
e  ci  dimostra  inoltre  che  gli  uomini  erano  soprattutto  ipjìofagi  e 
antropofagi.  Oh  povero  diritto  naturale,  qual  bestiale  fondamento 
hai  tu,  tu  che  ti  scambi  con  l'ideale  dell'imianità  !  Ahimè,  l'uomo 
non  porta  di  natura  il  diritto  a  votare,  ma  quello  a  mangiare 
l'altro  uomo  !  Parlisi  di  un  dritto  degl'individui  associati,  di  un 
dritto  sociale;  parlisi  della  meta  a  cui  la  società  e  il  suo  dritto 
debbono  tendere  ;  parlisi  della  capacità  e  dello  stato  come  condizione 
al  suffragio,  che  allora  sì  farà  scienza  vera  e  positiva;  ma  smet- 
tasi di  porre  a  fondamento  del  dritto  e  della  democrazia  le  ugua- 
glianze di  natura.  Eccole  codeste  uguaglianze  ;  il  più  forte  mangia 
il  più  debole,  i  genitori  uccidono  i  loro  figliuoletti,  i  figli  uccidono 
i  loro  vecchi  genitori,  e  neanche  la  morte  livella  le  differenze  che 
la  natura  crea. 

Il  progresso  umano  in  questo  periodo  si  rende  più  manifesto 


242  LE   NOSTRE  ORIGINI. 

e  comincia  a  far  sentire  il  suo  ritmo  accelerato.  Le  armi  e  gli 
utensili  sono  più  perfezionati,  e  insieme  all'uso  della  selce  ab- 
bonda quello  dell'osso  e  delle  corna  di  renne.  Nelle  grotte  riferi- 
bili a  questi  tempi  trovansi  ami  di  osso  o  di  corna,  per  pescare  ; 
aghi  per  cucire  le  vesti,  che  consistevano  soprattutto  nelle  pelli 
delle  renne;  seghe  per  lavorarne  le  corna;  armi  che  a  quei  tro- 
gloditi dovevano  parer  di  lusso,  poiché  ve  n'ha  di  quelle  coi  ma- 
nichi scolpiti  in  forma  di  renne  ;  e  fra  le  armi  trovasi  pure  l'arco, 
ignoto  a'contemporanei  del  mammuto.  L'uomo  cominciò  a  elevarsi 
di  sopra  alla  semplice  soddisfazione  de' suoi  materiali  bisogni  e 
a  sentire  gli  stimoli  dell'arte,  che  è  la  potenza  generatrice  del- 
l'ideale. Non  voglio  dii-e  che  il  fischietto  trovato  nel  Trou  de 
Noutons  sia  indizio  che  la  musica  era  nata.  Fatto  da  una  tibia 
di  capra  poteva  servire  solo  a  trarre  un  suono  che  indicasse  la 
chiamata  a  raccolta,  l'avviso  della  scolta  e  simili;  ma  era  sempre 
un  istrumento  che  mandava  suono  e  però  era  una  condizione  pel 
nascimento  della  prima  musica  pastorale.  Ma  che  il  gusto  arti- 
stico cominciasse  a  rivelarsi,  e  a  distinguere  seriamente  l'uomo 
dall'animale,  si  argomenta  da  certi  saggi  nella  costruzione  dei  vasi 
e  molto  più  da'primi  tentativi  nelle  arti  del  disegno.  Il  combatti- 
mento delle  renne  inciso  sulla  lastra  di  ardesia,  trovata  a  Lan- 
gerie-Basse,  e  le  fi.gure  d'animale  o  d'uomo  incise  su  qualche  ma- 
nico di  pugnale  e  su  qualche  bastone  da  comando,  sono  una  prova 
di  quell'affermazione.  Certo  noi  moderni  non  possiamo  trattenerci 
dal  ridere  nell'osservare  quei  primi  tentativi  artistici  de'nostri  an- 
tenati; ma  che  perciò?  Non  pigliano  forse  il  loro  posto  ne'nostri 
musei  artistici  alcune  opere,  che  pure  ci  fanno  sorridere  ?  Noi  non 
reclamiamo  tanto  per  le  produzioni  de'trogloditi  del  periodo  della 
renna;  ma  chiediamo  semplicemente  che  in  quei  tentativi  veggasi 
l'aurora  di  quel  potere  artistico  che  è  stato  così  gran  fattore  del- 
l'umanità. Traccia  della  esistenza  di  altro  potere,  per  sollevare 
l'uomo  dall'animalità,  noi  non  troviamo,  dico  non  troviamo  in  modo 
provabile.  Il  Figuier,  che  ha  scritto  avW  Uomo  primilivo  un  libro 
assai  popolare,  ricco  di  fatti  e  di  brani  degli  autori  originali,  e 
non  povero  d'immaginarie  induzioni,  scorge  la  credenza  nella  vita 
futura,  nel  costume  di  deporre  provvigioni  e  altro  presso  il  corpo 
de'defunti.  Tali  provvigioni  dovevano  servire  pel  viaggio  oltre  la 
tomba.  Vedremo  nel  paragrafo  seguente  che  gii  uomini  primitivi 
credevano  soltanto  ad  un  risveglio  del  defunto  da  un  sonno  più 
lungo  di  quello  ordinario,  ad  un  rifiorimento  del  corpo  come  quello 
delle  piante  a  primavera;  e  ponevano  vicino  alla  tomba  alimenti, 


LE   NOSTRE  ORIGINI.  243 

vesti,  armi,  e  qualche  volta  il  cavallo,  affinchè  l'uomo  potesse  o 
servirsene  in  un  viaggio,  la  cui  prima  idea  era  stata  suggerita  dai 
sogni,  0  ritrovare  tutto  i^ronto  al  suo  ritorno  da  quello.  Questa 
era  la  sua  credenza,  ben  altra  da  quella  che  noi  chiamiamo  fede 
nell'immortalità.  N'era  bensì  l'origine,  e  se  in  ciò,  nel  vago  terrore 
per  le  misteriose  forze  naturali,  e  nel  rispetto  per  gli  uomini  su- 
periori e  per  gli  antenati,  vuoisi  vedere  un  rudimento  di  religione, 
di  quella  religione  primitiva,  che  precede  l'arte,  come  il  sentii-e 
sensualistico  precede  il  turbato  immaginare,  di  cui  parla  il  Vico, 
io  lo  ammetto;  ma  codesto  polline  non  potrà  germogliare  senza 
che  sopravvenga  a  fecondarlo  il  potere  artistico,  vero  organo  ge- 
neratore di  quel  mondo  ideale,  che  il  sentimento  religioso  crede 
e  adora  e  la  ragione  scientifica  pensa  e  spiega. 

Che  l'adorazione  dell'uomo  per  l'altro  uomo,  creduto  tempo- 
raneamente estinto,  sia  stato  uno  dei  primi  semi  del  sentimento 
religioso,  si  può  argomentare  dall'assenjza,  ne'periodi  del  mammuto  e 
della  renna,  di  qualunque  rudero  ascrivibile  a  uso  religioso  e  dalla 
cura  con  cui  si  custodivano  i  morti.  Questi  di  rado  gettavansi 
lungi  dalla  grotta  o  dalla  capanna,  come  carogne  di  cani;  ma 
o  seppellivansi  su'focolai  della  grotta  o  si  faceva  loro  rovinare  la 
capanna  di  sopra  o  si  formava  loro  un  ricovero  ammassando  pie- 
tre. Era  dunque  nata  la  religione  de'sepolcri.  Ma  con  quale  forma 
bestiale  !  Che  pensare  di  quegli  antri  in  cui  l' uomo  viveva  con 
i  cadaveri  de'parenti  estinti,  brancolando  fra  le  ossa  degli  ani- 
mali uccisi  e  aspirando  gli  effluvi  de'putrefatti  avanzi  del  cibo  e 
de'morti?  Quanto  poco  una  famiglia  di  trogloditi  si  sarebbe  con- 
tinuata a  distinguere  da  una  di  animali,  se  la  lotta  per  la  esi- 
stenza non  le  avesse  stimolata  la  volontà,  se  l'esperienza  non  le 
avesse  allargato  e  acuito  l'intelletto,  e  la  scelta  naturale  non 
avesse  assicurato  la  sopravvivenza  de' migliori!  Queste  sono  le 
forze  primordiali  e  costanti  che  trassero  l'uomo  dagli  antri  dello 
stato  selvaggio  e  lo  spinsero  e  spingono  nelle  vie  del  progresso 
civile.  Col  moltiplicarsi  dei  rapporti  fra  gli  uomini,  si  esci  dall'iso- 
lamento della  famiglia  e  del  gregge,  e  si  preferì  l'aria  libera  de'campi 
e  il  vasto  orizzonte  de'mari,  le  cui  svariate  emozioni  temprano  la 
fibra,  rinsaldano  il  cuore  e  ispirano  all'anima  i  presentimenti  del- 
l'infinito. Di  questi  rapporti  già  troviamo  i  primi  segni  nel  periodo 
della  renna,  a  giudicarne  dalle  conchiglie  della  Sciampagna  sco- 
perte nel  Belgio.  0  gli  abitanti  di  Chaleux  recavansi  in  Francia 
per  farne  incetta  o  quelli  della  Sciampagna  le  esportavano  nel 
Belgio,  ove  probabilmente  servivano  per  comporne  collane  e  or- 


244  LE  NOSTRE   ORIGINI- 

namenti  vari.  Benedetta  la  muliebre  vanità,  se  essa  fece  nascere 
i  primi  traffici  e  i  lontani  commerci  !  Ma  oggi  che  il  commercio  si 
è  cotanto  allargato,  la  vanità  potrebbe  risolversi  ad  ecclissarsi  nei 
rapporti  delle  società  virili.  Infine,  se  gli  sgorbi  scolpiti  su  di  un 
osso  rinvenuto  nella  grotta  della  Vacca,  ad  Ariegi,  fossero  dav- 
vero i  primi  segni  di  scrittura,  noi  potremmo  risolverci  a  salutare 
con  lieto  animo  negli  ultimi  tempi  postpliocenici  i  primi  raggi 
dorati  dell'alba  della  civiltà. 

1  caratteri  anatomici  della  razza,  in  questo  secondo  periodo 
della  pietra  greggia,  non  si  differenziano  da  quelli  degli  abitanti 
di  Grrenelle  e  di  Cro-Magnon  ecc.  1  crani  di  Bruniquel  sono  doli- 
cocefali, quelli  della  caverna  di  Furfooz  debolmente  brachicefali 
col  viso  piramidale,  e  l'uomo  di  Solutrè,  descritto  dal  Pruner  Bey, 
accentua  sempre  più  i  caratteri  di  quel  tipo  mongoloide,  che  ora 
si  è  rincantucciato  fra  le  popolazioni  iperboree.  Ma  se  la  carcassa 
ossea  non  ci  rivela  un  deciso  progresso  antropologico,  i  prodotti 
industriali  ci  dicono  chiaramente  che  quella  scatola  era  interior- 
mente animata  da  più  perfette  funzioni. 

Alla  fine  dell'epoca  quaternaria  gli  scienziati  biblici  pongono 
quel  diluvio  universale  di  cui  parla  la  Genesi,  quel  diluvio  che 
distrusse  la  perfida  razza  umana,  salvo  la  prediletta  famiglia  di 
Noè,  e  tutto  il  regno  animale,  salvo  i  rappresentanti  di  ciascuna 
specie.  Naturalmente  gli  scienziati,  per  biblici  che  sieno,  non  ac- 
cettano tutta  la  tradizione  ebraica,  ma  si  tengono  paghi  a  quella 
parte  di  essa  che  si  fonda  sull'idea  dei  cataclismi,  e  se  non  cre- 
dono proprio  «  all'apertura  delle  cataratte  del  cielo  e  allo  scop- 
pio degli  abissi  »  continuano  bensì  a  credere  ad  un'azione  delle 
cause  naturali  diversa  da  quella  attuale.  Eglino  sanno  bene  in 
qual  modo  produconsi  le  piogge  e  le  alluvioni,  e  comprendono 
senza  dirlo  che  l'apertura  delle  cataratte  e  lo  scoppio  degli  abissi 
erano  spiegazioni  immaginarie  di  genti  ignoranti;  ma  le  idee  di 
catastrofi  e  cataclismi  straordinari,  di  rivoluzioni  cosmiche,  di 
subitanei  sollevamenti  di  montagne  o  sprofondamenti  di  conti- 
nenti, di  rapidi  capovolgimenti  del  globo,  di  apparizione  e  dispa- 
rizione istantanea  delle  specie  animali  e  vegetali,  insomma  di  ri- 
volgimenti a  noi  ignoti  e  di  fenomeni  miracolosi,  o  quasi,  non  sono 
disparite  dal  loro  cervello,  sul  quale  l'eredità  delle  primitive  tra- 
dizioni ha  impresso  un'orma  incancellabile.  Se  non  fosse  così,  non 
si  saprebbe  come  spiegare  il  permanere  della  loro  fede  nell'ori- 
gine soprannaturale  dell'uomo  e  nel  diluvio  universale.  In  un  altro 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  245 

scritto,  die  spero    di  pul)l)licare    in  (questa    rassegna,    parlerò  del 
punto  di  vista  della  geologia  moderna,  e  propriamente  della  scuola 
fondata  dall'immortale  Lyell,  cioè  quella  che,  spiega  i  passati  fe- 
nomeni tellurici  con  l'azione  lenta  e  costante  delle  cause  attuali. 
Per  ora  bastami  il  dire  che,  seuL^a  spingere  agli  estremi  la  teoria 
dell'azione  lenta  di  siffatte  cause  e  quasi  aggiungerei  del   moto 
equabile  dei  loro  effetti,  e  pur  credendo  alla  loro  aziono  or  lenta 
ed  or  concitata  e  ad  effetti  ora  tardivi  ed  ora  più  pronti,   ordi- 
nari e  straordinari,  nessun  uomo  che  abbia  un  senso   scientifico 
esercitato  e  la  mente  sgombra  di  ereditati  pregiudizi,  può  negare 
la  verità  del  seguente  principio:  all'intervento   di   cause   diverse 
dalle  attuali,  alla  credenza  in  processi  naturali   sostanzialmente 
'diversi  dai  presenti  può  ricorrersi  solo  quando  vengano  soddisfatte 
queste  due  condizioni,  cioè  sia  irremissibilmente  dimostrato  che 
le  cause  e  i  processi  attuali  non  bastino  e  non  lascino  alcuna  spe- 
ranza che  possano  neanche  nell'avvenire  bastare  a  spiegare  i  fe- 
nomeni della  natura,  e  che  lo  sforzo  all'immaginazione  richiesto 
dalla  ipotesi  di  cause  e  processi  diversi  dai  presenti   sia  minore 
di  quello  richiestole  da  questi  ultimi.  Tale  non  è  il  caso  pel  di- 
luvio universale,  come  tale  non  era  per  l'origine  dell'uomo.  A  co- 
minciare dal  fatto  deUa  tradizione  diluviana,  che  presso  vari  po- 
poli incontrasi,  e  a  terminare  a'  suoi  particolari  eziandio  favolosi, 
nulla  v'ha  che  non  si  possa  spiegare  con  le  leggi  naturali  e  psi- 
cologiche 

È  un  fatto  che  la  recente  formazione  geologica  dell'Europa 
è  costituita  da  un'argilla  rossastra  o  grigia,  mescolata  con  ciot- 
toli angolosi,  che  i  geologi  chiamano  terreno  diluviano  rosso  o 
grigio  {diluvium  rosso  o  grigio,  secondo  i  paesi)  sul  quale  si  è 
disteso  un  mantello  di  limo,  chiamato  loess  superiore  o  terra  a 
mattoni.  Codesto  deposito  diluviale  è  proprio  quello  attribuito  al 
cataclisma  che  rovesciò  sull'Europa  i  torrenti  del  cielo,  che  fuse 
d'un  subito  i  ghiacciai  e  fece  scoppiar  gli  abissi,  cioè  sollevò  il 
fondo  dei  mari,  mediante  l'azione  vulcanica,  in  guisa  da  lanciar 
le  acque  sui  pendii  delle  montagne  che  dagli  abissi  eruppero, 
spinte  dalla  medesima  causa  vulcanica.  Ecco  il  magnifico  castello 
pseudoscientifico,  che  si  è  voluto  elevare  sul  fragile  fondamento 
di  una  tradizione,  che  ha  lo  stesso  valore  di  quella  di  Ogige,  di 
Deucalione,  di  Samotracia,  ecc.  Per  distruggerlo  sono  bastati  due 
soffi.  L'aumento  di  temperatura  che  ha  prodotto  la  fusione  dei 
ghiacciai  e  l'evaporazione  da  cui  è  poi  derivata  la  pioggia,  è  un 
fatto  incontestabile,  ma  non  peculiare  alla  fine  dell'epoca  quater- 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Marzo  1819.  15 


246  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

naiia,  come  si  è   visto    precedentemente.    Quella    fusione,   quello 
piogge  e  i  conseguenti  alluvioni  e  straripamenti  non  furono  dunque 
un  fatto  nuovo  e  subitaneo,  ma  antico  e  graduale.  La  spiegazione 
tratta  poi  dagli  abissi  è  distrutta  chiaramente  dal  fatto  dell'esi- 
stenza del  terreno  diluvialo  a  sterminata  distanza  dalle  montagne, 
come  fa  osservare  lo  stesso  Figuier,  che  nei    cataclismi    crede  e 
nell'origine  naturale  dell'uomo  non  crede.  E  il  Lyell,  che  cominciò 
col  non  credere  a'  primi  e  finì  col  credere  alla  trasformazione  e 
alla  serie  progressiva  delle  specie,  attribuisce  il  mantello  limac- 
cioso delle  valli  del  Reno  e  del  Rodano  alle  rocce  che  prima  sop- 
portavano i  ghiacciai  delle  Alpi  e  poi  si  fransero  e  vennero  tra- 
sportate dalle  acque  che  di  lassù  discesero.  Noi  possiamo  adunque 
ammettere  che  la  fine  dell'epoca  quaternaria  sia  stata   contrasse- 
gnata da  una  potente  invasione  di  acque,  molto    più  potente    di 
quelle  che  a'  nostri  tempi  vediamo  accadere,  ma  della  medesima 
essenza  di  queste,  cioè  dovuta  come  queste  a  cause  naturali,  at- 
tuali e  spiegabilissime.  Quello  che  è  maggiormente  mutato  è  piut- 
tosto lo  specchio  riflettitore  di  quei  fenomeni;  esso  non  è  più  o  non 
è  soltanto  la  immaginazione  sbrigliata  di  quelle  genti  che  erano 
vittime  delle  parziali  alluvioni,  degli  straripamenti  e  delle  piogge 
che  allagavano  il  loro  paese  e  le   costringevano   a  fuggire   sulle 
colline  e  sulle  montagne:  esso  non  è  più    la   immaginazione  an- 
tropocentrica, cioè  che  fa  l'uomo   centro  dell'universo  e  suppone 
che  tutta   la    terra  sia  sommersa   sotto    le  acque,    le    quali    co- 
prono la  sua   meschina  capanna    e   penetrano   nelle   sue    oscure 
grotte  ;  ma  accanto  a  questo  corroso  e  appannato  specchio  havvi 
oggimai  quello   tersissimo  della  ragione   scientifica,  che  nei    di- 
luvi  ebraici,   greci,  ecc.  vede  parziali    e   naturali  fenomeni,  che 
colpirono  le  immaginazioni  degli  abitanti    dell'Asia    occidentale, 
dell'Eliade,   della  Samotracia,  più  di  quanto  le  inondazioni   del 
Po  e  della  Bormida  abbiano  colpito  le  fantasie  delle  nostre  classi 
ignoranti,  dolorosamente  ancora  troppo  digiune  per  poter  digerire 
il  pane  della  scienza. 

Due  altre  cause  si  possono  arrecare,  e  sono  dal  Lyell  (Prin- 
cipii  di  Geologia,  voi.  1)  tolte  ad  esame,  per  spiegare  le  inon- 
dazioni straordinarie:  lo  straripamento  delle  acque  di  un  gran  lago 
il  cui  livello  è  molto  superiore  a  quello  del  mare  o  l'irrompere  di 
una  corrente  marina  sulle  terre  il  cui  livello  è  molto  inferiore  a 
quello  dell'Oceano.  I  due  fenomeni  possono  a  loro  volta  avere  per 
causa  l'abbassamento  graduale  o  la  rottura,  per  opera  dei  tre- 
muoti,  della  barriera  che  separa  le  acque  del  lago  da  quelle  del 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  247 

mare  o  quelle  del  mare  dalle  basse  terre.  Le  rive  del  Mare  Morto 
sono  in  media  di  380  metri  inferiori  a  quelle  dei  Mediterraneo; 
di  sorta  che  la  rottura  della  barriera  di  separazione  può  far  pe- 
netrare le  acque  del  Mediterraneo  nella  valle  del  Griordano  e 
sommergere  le  città  costruite  sulle  colline  a  circa  380  metri  di 
altezza.  Simili  abbassamenti  è  assai  probabile  accadano  e  sieno 
accaduti  in  modo  graduale,  così  che  invece  di  avere  una  subitanea 
inondazione  si  può  avere  e  si  sarà  avuto  una  sequela  di  piccoli 
diluvi.  Quanto  la  favola  d'un  diluvio  universale  ripugni  al  senso 
scientifico  si  può  scorgere  dal  calcolo  che  fa  il  Lyell  ponendo 
l'ipotesi  di  un  versamento  delle  acque  del  Lago  superiore  nel  golfo 
del  Messico,  nella  stagione  in  cui  straripano  le  acque  dei  canali 
ordinari  e  degli  affluenti  del  Mississipì.  In  tal  caso,  che  è  fra 
quelli  più  disastrosi,  una  regione  contenente  parecchi  milioni  di 
abitanti  potrebbe  andar  sommersa.  Eppure,  egli  dice,  «  quest'ul- 
timo avvenimento  sarebbe  insufficiente  a  produrre  una  violenta 
irruzione  delle  acque  e  a  determinare  effetti  pari  a  quelli  de- 
signati col  nome  di  diluviani,  perchè  la  differenza  di  livello  fra 
il  Lago  superiore  e  il  golfo  del  Messico,  che  è  di  180  metri,  ri- 
partita su  di  una  superficie  di  2880  chilometri,  darebbe  in  media 
10,  16  e.  m.  di  acqua  per  1600  metri.  »  (Voi.  I,  cap.  VI).  Lo 
sforzo  che  la  tradizione  biblica  richiede  dalla  nostra  immagina- 
zione è  troppo  grande  e  troppo  contrasta  con  la  esperienza  perchè 
la  scienza  indipendente  possa  acconsentire  a  sottoporsi  a  così  fatta 
tortura.  La  quale  è  per  soprassello  interamente  inutile,  perchè  la 
teoria  de'  parziali  e  rovinosi  ma  non  biblici  diluvi,  unita  con  quella 
dei  processi  dello  spirito,  basta  a  spiegare  la  genesi  dei  diluvi  di 
Noè,  di  Oxige,  di  Deucalione,  di  Samotracia  ecc.,  cioè  dei  conce- 
pimenti preistorici  relativi  ai  fenomeni  naturali,  Erodoto,  Aristo- 
tile, Diodoro,  Strabene,  che  rivolsero  il  loro  spirito  di  esame  a  quelle 
tradizioni  mitologiche,  come  i  moderni  scienziati  sono  andati  fa- 
cendo verso  lo  non  meno  mitologiche  tradizioni  degli  Ebrei,  attri- 
buirono 0  allo  straripamento  dei  fiumi  o  ai  tremuoti  l'origine  di 
quei  diluvi.  È  noto  che  i  fenomeni  vulcanici  sono  accompagnati 
da  forti  piogge  e  da  un  radicale  sconvolgimento  del  sistema  dei 
corsi  d'acqua;  ma  è  bene  sapere  quello  che  il  Lyell  osserva,  cioè 
che  se  i  diluvi  della  Grecia  fossero  accaduti  tutti  contemporanea- 
mente ed  avessero  prodotto  l'inondazione  delle  regioni  situate  fra 
il  Ponto  Bussino  e  il  sud  ovest  del  Peloponneso,  da  una  parte,  tra 
Rodi  e  la  Macedonia  dall'altra,  non  sarebbero  perciò  riusciti  a  pro- 
durre effetti  più  disastrosi  di  quelli  che  afflissero  il  Chili  al  tempo 


248  LE  NOSTRE   ORIGINI. 

delle  eruzioni  vulcaniche  del  183ò.  Intere  città  furono  sepolte,  il 
suolo  si  sollevò  in  modo  permanente,  e  vere  montagne  di  acqua  si 
precipitarono  dall'Oceano  Pacifico  nell'interno  delle  terre.  I  recenti 
fenomeni,  dovuti  all'azione  di  cause  naturali  e  attuali,  hanno  anche 
essi  il  carattere  grandioso,  e  la  scienza  non  richiede  dalla  nostra 
immaginazione  il  più  piccolo  tour  de  force  per  ricostruirci  dinanzi 
la  mente  i  diluvi  che  posero  fine  all'epoca  quaternaria  e  trasporta- 
,  rono  i  materiali  serviti  a  formare  il  mantello  stratigrafico  de'  recenti 
terreni.  Gli  uomini  neolitici  ricevettero  da  quelli  archeolitici  le  tra- 
dizioni orali  dei  tempi  anteriori,  le  corroborarono  e  le  tramanda- 
rono accresciute  a  quelli  de'  primissimi  tempi  storici,  a'  fondatori 
delle  nazioni,  a'  sacerdoti,  a'  poeti,  i  quali  le  modellarono  e  fissa- 
rono in  quelle  tradizioni  scritte,  che  la  fede  venera  e  la  ragione 
spiega,  imbrigliando,  non  uccidendo,  la  ricostruttrice  facoltà  dell'im- 
maginare, mutando  e  non  distruggendo  la  fonte  dei  conforti  e  la 
base  della  moralità. 

Il  tramonto  dell'epoca  quaternaria  è  insieme  l'alba  dei  tempi 
della  pietra  levigata.  Non  trovansi  piìi  specie  fossili  ma  soltanto 
di  animali  viventi,  e  noi  col  porre  il  piede  su'  terreni  di  recente 
formazione  usciamo  dal  dominio  della  paleoetnologia  ed  entriamo  in 
quello  dell'archeologia  e  dell'antropologia  preistorica.  L'uomo,  a 
cui  faceva  ancor  difetto  la  conoscenza  dei  metalli,  rimase  congiunto 
alla  rupe  originaria;  ma  pur  se  ne  allontanò  assai  più  dia  nella 
età  archeolitica.  Esso  continuò,  ne'  primordi  del  periodo  neolitico, 
ad  abitare  caverne  e  ripari  sotto  le  rocce;  ma  finì  con  l'uscire  mag- 
giormente all'aria  libera  dei  campi,  de'  monti,  dei  laghi,  del  mare. 
Omai  è  provato  che  1'  uomo  neolitico  italiano  abitava  su'  laghi  e 
lungo  i  corsi  d'acqua;  ma  l'uso  delle  costruzioni  su  palafitte  si  è 
altrove  generalizzato,  pare,  nell'  età  del  bronzo,  il  che  potrebb'es  - 
sere  indizio  che  già  nei  tempi  preistorici  gì'  Italiani  precedevano 
gli  altri  popoli  nelle  vie  dell'incivilimento,  come  continuarono  a  fare 
ne' tempi  storici,  sino  a  quando  furono  vinti  dalla  stanchezza.  Le 
scoperte  fatte  in  Piemonte,  relativamente  a  questo  periodo  neo- 
litico, si  associano  nella  mia  memoria  col  nome  del  professore 
Gastaldi,  il  quale  io  voglio  qui  citare  a  titolo  di  onore,  di  com- 
pianto e  di  gratitudine.  Esso  mi  ricorda  quei  tempi  felici,  ne'quali 
fatta  la  mia  lezione  di  Storia,  discendevo  nell'anfiteatro  chimico 
della  scuola  superiore  di  guerra  a  udire  quella  di  Geologia  del- 
l' illustre  professore.  E  mi  rallegravo  nello  scorgere  che  pari  era 
in  noi  il  culto  per  la  libera  investigazione,  identico  il  modo  di  con- 


LE    NOSTRE    ORIGINI.  249 

cepire  egli  la  storia  della  terra,  io  quella  dell'  umanità.  Venuti, 
l'uno  dai  ghiacciai,  che  descriveva  artisticamente,  e  1'  altro  dai 
vulcani,  e'  incontravamo  nelle  deduzioni  scientifiche  e  nell'amore 
per  quella  balda  gioventù,  che  mi  faceva  credere  nel  grande  av- 
venire d'  Italia.  Ed  ora,  che  una  forte  generazione  di  benemeriti 
Italiani  ci  abbandona  e  che  assisto  alle  povere  rappresentazioni 
di  altro  teatro,  non  è  maraviglia  se  a  quando  a  quando  mi  vinca 
lo  scoramento  e  se  il  desiderio  e  1'  amarezza  mi  spingano  a  far 
presto  ritorno  all'  uomo  neolitico  de'  tempi  preistorici. 

Andiamocene  al  nord  di  Europa.  Non  pure  nelle  caverne,  ma 
anche  nei  KioeJcken-moeddings,  cioè  negli  ammassi  di  rifinii  dei 
banchetti  che  i  primitivi  Danesi  facevano  lungo  le  coste,  sonosi 
trovati  molti  oggetti  da'  quali  è  stato  possibile  indurre  gli  usi 
e  i  costumi  degli  uomini  neolitici.  Tali  cumuli  di  conchiglie,  gusci 
di  ostriche,  ossa  di  animali,  selci  ecc.,  sonosi  poi  trovati  anche  in 
Inghilterra,  in  Iscozia,  in  Francia,  in  America,  ecc.  Dagli  oggetti 
rinvenuti  in  essi,  nelle  grotte,  nelle  torbiere  e  nelle  stazioni 
lacustri  riferibili  al  periodo  neolitico  si  desume  con  certezza  che 
l'uomo  di  quei  tempi  progrediva  verso  l'incivilimento.  Non  parrà 
strano,  a  chi  bene  intende,  se  come  primo  segno  di  codesto  pro- 
gredire arrecherò  la  maggior  perfezione  delle  armi,  soprattutto  di 
quelle  danesi.  Il  perfezionamento  delle  armi  non  pure  agevola  la 
vittoria  dell'uomo  nella  lotta  per  l'esistenza,  non  pure  assicura  la 
trasmissione  ereditaria  degli  uomini  più  vigorosi,  e  di  quella  loro 
esperienza  che  precede  e  apparecchia  lo  stato  civile;  ma  è  anche 
un  effetto  della  superiorità  industriale  e  intellettuale  degli  arte- 
fici suoi.  Ed  è  questa  medesima  superiorità  che,  oltre  alle  buone 
armi,  produce  comodi  utensili  e  svariati  oggetti  o  sieno  utili,  come 
il  pettine  di  osso,  o  di  semplice  ornamento,  come  le  collane  di 
ambra.  Né  di  sola  selce  fabbricaronsi  armi  e  utensili,  ma  si  fece 
uso  di  altre  sostanze  minerali,  come  scorgesi  dalle  asce  di  gneiss, 
fibrolite,  diorite  ecc.,  raccolte  un  po'  dappertutto,  dalle  caverne  di 
Danimarca  a  quelle  d'Italia.  E  siccome  trattasi  di  minerali  du- 
rissimi, cosi  è  naturale  che  per  levigarli,  come  per  ottenere  i 
netti  spigoli  e  le  molteplici  forme  dell'istessa  selce,  fosse  neces- 
sario possedere  acconci  lisciatoi.  Se  ne  sono  in  fatti  trovati  a 
Pressigny-le-Grand,  a  Varenne-Saint-Hilaire  ecc.  E  sonosi  pure  tro- 
vati indizi  della  esistenza  di  officine,  ove  i  lisciatoi  adoperavansi, 
ove  si  fabbricavano  bellissime  punte  di  lance  e  di  frecce,  armi 
in  genere,  per  venderle  o  farne  baratto.  Questo  vorrebbe  signifi- 
care che  non  più  un  medesimo  uomo  faceva  tutto  nella  medesima 


250  LE    NOSTRE   ORIGINI. 

caverna,  ma  che  erano  nati  speciali  offici  e  speciali  occupazioni. 
Non  ogni  uomo  poteva  essere  buon  armaiolo  e  buono  stovigliaio, 
né  le  armi  più  perfette  e  gli  oggetti  dell'arte  ceramica,  per  rozzi 
che  sieno  stati,  avrebbero  potuto  nascere  senza  l'applicazione  della 
divisione  del  lavoro.  A  questa  medesima  divisione,  creatrice  del  pro- 
gresso, devesi  attribuire  lo  sviluppo  della  navigazione  e  dell'a- 
gricoltura nel  periodo  neolitico.  L'uomo  continuò  a  essere  cacciatore 
e  pescatore,  ma  divenne  più  esperto  marinaio  e  più  stabile  agri- 
coltore e  allevatore  di  animali  domestici.  Andò  a  caccia  con 
l'arco  0  con  l'ascia,  e  a  pesca  con  l'amo  o  con  le  reti;  perfezionò 
gli  ami,  facendoli  o  acuti  o  ricurvi  ;  perfezionò  le  prime  barche 
formate  da  grossi  tronchi  di  alberi,  riquadrati  e  scavati,  e  fece 
uso  di  molini  per  macinare  il  grano,  trovato  carbonizzato  presso 
i  focolai  delle  cucine  neolitiche. 

Se  la  divisione  del  lavoro  sociale  sia  pervenuta  sino  a  creare 
il  sacerdote,  in  questo  periodo  dell'  età  della  pietra,  è  cosa  che 
non  potrebbesi  negare  con  ragioni  deduttive,  nò  affermare  con 
prove  di  fatto,  A  priori  è  facile  ammettere  che  la  medesima  spe- 
cificazione del  lavoro,  la  quale  aveva  fatto  uscire  dall'uomo  uni- 
versale dei  primi  tempi  l' armaiolo,  il  marinaio,  lo  stovigliaio, 
l'agricoltore,  fosse  riuscita  a  flir  nascere  il  sacerdozio;  ma  a  poste- 
riori è  difficile,  anzi  sinora  impossibile,  provare  l'esistenza  di  un 
culto  religioso,  con  le  forme  che  sogliono  accompagnarlo.  Sarebbe 
più  facile  provare  la  esistenza  di  campi  trincerati,  e  però  di 
una  certa  specificazione  dell'arte  della  guerra,  che  fu  la  più  du- 
revole occupazione  di  tutti  i  validi,  che  non  quella  di  altari  o  d'idoli, 
dei  quali  è  ministro  il  sacerdote  e  senza  dei  quali  l'officio  suo  po- 
teva ben  essere  disimpegnato  dal  medesimo  pad  refamiglia  che  con- 
duceva i  suoi  alla  caccia  e  alla  pugna.  In  fatti  l'Hannour  e  l'Hime- 
lette  pretendono  di  avere  scoperti  i  campi  trincerati  dell'  età 
della  pietra  nel  Belgio,  a  Furfooz,  Hastedon,  Poilvache.  E  dico 
pretendono,  perchè  non  sarei  stupito  se  si  dimostrasse  che  questa 
loro  scoperta  manchi  di  solido  fondamento,  tanto  più  che  nei  primi 
due  siti  essendosi  costruiti  campi  romani  e  nel  terzo  un  castello 
medievale,  è  difficile  giudicare  quale  pietra  appartenga  all'  età 
della  pietra  e  quale  all'età  del  ferro.  Ma  riguardo  agli  alta^ri  e 
agli  idoli,  anche  gli  scrittori  che  credono,  come  il  Figuier,  alla 
miracolosa  origine  dell'uomo  e  al  biblico  cataclisma  del  diluvio, 
ammettono  che  sinora  non  se  ne  vegga  traccia  né  nell'età  dèlia 
pietra  e  neanche  in  quella  seguente  del  bronzo.  I  dolmen  infatti, 
che  furono  presi  per  altari  druidici,   non   sono  altro  che  tombe, 


LE   NOSTRE    OKIGIXI.  251 

formate  da  una  grande  pietra  collocata  orizzontalmente  su  di  altre 
che  la  sostengono  verticalmente  e  il  tutto  ricoperto  da  terra  in 
guisa  da  raffigurare  un  tuinolo.  Caduta  col  tempo  la  terra,  sono 
rimaste  in  piedi  solamente  le  pietre,  che  la  fantasia  degli  archeo- 
logi battezzò  per  altari  druidici.  Osservo  qui,  per  non  essere  ob- 
bligato a  ritornare  sul  medesimo  argomento,  che  probabilmente 
anche  la  fantasia  indusse  gli  archeologi  ad  ascrivere  al  culto 
della  luna  quelle  certe  mezzelune  di  terra  cotta  o  di  pietra  tro- 
vate nelle  abitazioni  lacustri  dell'età  del  bronzo,  e  che,  secondo 
il  Vogt,  erano  origlieri  portatili  a'  quali  i  selvaggi  e  i  barbari 
appoggiavano,  durante  il  sonno,  le  loro  enormi  capigliature,  che 
era  dovere  il  non  scomporre,  al  pari  di  quello  che  oggi  scorgesi 
presso  gli  Abissini,  i  Neo-Zelandesi,  i  Cinesi,  i  Giapponesi,  Chi 
potrebbe  ora  prevedere  quello  che  da  qui  a  quattromila  anni  di- 
ranno gli  archeologi,  i  quali  troveranno  pietrificato  nelle  viscere 
della  terra  uno  di  quei  cuscini  elastici,  a  forma  di  ciambella  col 
buco,  che  i  nostri  vecchi  portano  in  ferrovia  ? 

Codesta  assenza  di  oggetti  concernenti  il  culto  a  me  pare  un 
fatto  spiegabile,  per  quello  che  ho  detto  di  sopra,  cioè  che  il  na- 
scimento della  religione  precede  quello  dell'arte,  se  per  religione 
intendesi  soltanto  il  sentimento  di  terrore  per  le  forze  naturali  e 
di  adorazione  par  gli  uomini  superi<n'i,  massime  dopo  morti  e  so- 
prattutto pe'  pili  forti;  ma  che  molte  sue  personificazioni  sono 
per  sé  stesse  un  prodotto  artistico  e  le  forme  del  suo  culto  non 
possono  acquistare  sviluppo,  determinatezza  e  regola  senza  l'eser- 
zio  delle  facoltà  artistiche.  Quel  complesso  di  atti,  di  riti  e  forme 
mediante  cui  l'uomo  immagina  un  mondo  soprannaturale  e  vi  si 
pone  in  riipporto,  quello  insomma  che  comunemente  chiamasi  culto 
religioso,  rappresenta  già  un  grado  ulteriore  dell'evoluzione  umana. 
Molto  tempo  si  richiede  prima  che  l'uomo  giunga  a  creai'e  quel 
mondo  di  forme  e  di  credenze  intorno  al  principio  e  al  fine  delle  cose, 
intorno  a' rapporti  del  finito  con  l'infinito,  del  visibile  con  l'invisi- 
bile, quel  mondo  che  oggi  noi  reputiamo  nato  con  lui,  condizione  im- 
prescindibile della  sua  esistenza,  contrassegno  certo  della  verità 
del  regno  umano.  Certo  che  il  culto  pe'  morti,  come  si  dirà  nel 
paragrafo  seguente,  fu  la  cellula  germinale  del  culto  divino  o  re- 
ligioso, e  però  era  ben  naturale  che  i  monumenti  funerarii  fossero 
i  primi  altari  e  i  primi  templi  dell'  umanità  e  che  l'arte  delle 
costruzioni  di  tali  monumenti  dovesse  svilupparsi  prima  di  quella 
dei  monumenti  religiosi  propriamente  detti.  Nuove  ricerche  po- 
tranno rivelarci  la  esistenza  di  templi  e  di  altari,  nell'  età    della 


252  LE   NOSTEE  OKIGINI. 

15ielra,  ma  difficilmente  ijotranno  dimostrare  che  questi  abbon- 
dassero più  die  le  megalitiche  costruzioni  di  sepolture,  che 
l'uomo  preferisse  alla  tomba  altro  metliimi  per  porsi  in  rap- 
l^orto  con  i  suoi  cari,  con  gli  antenati  della  famiglia,  con 
i  fondatori  della  sua  tribù,  con  i  donatori  del  fuoco,  con  gli 
eroi  che  gli  sottomisero  altra  tribù,  insomma  con  gli  spiriti  di 
coloro  che  gli  avevano  fatto  o  molto  bene  o  molto  male  e  che 
furono  le  sue  prime  mezze  divinità.  Quelle  costruzioni  megalitiche 
presero  tale  sviluppo  da  far  ritenere  con  fondamento  che  l'uomo 
neolitico  conosceva  i  primi  elementi  dell'architettura.  Vere  strade 
coperte  menavano  ad  una  vasta  sala,  intorno  alla  quale  dispone- 
vansi  i  cadaveri,  e  qualche  volta  pietre  in  forma  di  bassi  obeli- 
schi circondavano  le  tombe  o  formavano  lunghi  e  allineati  viali, 
come  a  Carnac.  A  quelle  camere  mortuarie,  che  succedettero  alle 
grotte,  gli  uomini  neolitici  accompagnavano  colui  dalla  cui  bocca 
era  uscito  un  alito,  che  poteva  far  ritorno  nell'  esanime  corpo 
e  risoffiargli  la  vita.  Preparavano  perciò  l'occorrente  così  pel  viag- 
gio di  quell'essere  aereo,  di  che  si  era  dipartito,  come  pel  corpo 
destinato  a  risvegliarsi  al  ritorno  del  viaggiatore,  e  a  quando  a 
quando  venivano  a  banchettare  nella  dimora  dei  morti,  attorno 
alle  tombe.  Così  continuano  a  fare  i  presenti  eredi  dell'uomo 
neolitico,  i  viventi  selvaggi  di  alcune  civilissime  città  di  Europa! 
L'  esame  degli  avanzi  ossei  dei  tempi  neolitici  dimostra  che 
al  perfezionamento  dei  prodotti  corrispondeva  quello  del  produt- 
tore, cioè  quello  anatomico  della  razza  che  predominava  in  Europa. 
Credesi  che  gli  Ariani  si  sieno  allora  distesi  nel  nostro  continente. 
In  questa  gente  ortognata  noi  scopriamo  gl'immediati  proge- 
nitori preistorici  dei  popoli  istorici  della  nostra  Europa.  Essi,  ve- 
nendo forse  dall'Asia  o  soltanto  dall'est  di  Europa,  sottomisero, 
discacciarono,  s'  incrociarono  con  le  popolazioni  mongoloidi  che 
qui  trovarono  e  n'uscì  quel  tipo  armonico,  lontano  così  dal  polo 
dei  dolicocefali  come  da  quello  dei  brachicefali.  È  probabile 
e  degno  di  attenzione  che  alle  formazioni  geologiche  abbiano 
risposto  le  stratificazioni  etniche  :  agli  autoctoni  dell'epoca  terzia- 
ria si  sarebbero  sovrapposti  gì'  imigrati  mongolici  dell'  epoca 
quaternaria,  e  a  questi  gli  Ariani  dell'epoca  contemporanea. 

A  4000  anni  avanti  Cristo  si  fa  rimontare  il  principio  dell'età 
del  bronzo,  che  insieme  con  una  parte  di  quella  del  ferro  comprende 
i  tempi  di  passaggio  dell'uomo  dallo  stato  selvaggio  e  antistorico 
a  quello  civile  e  storico,  i  tempi  cioè  di  quello  stato  barbaro,  che 


LE  NOSTRE  ORIGINI.  253 

Tacito  scolpì  nelle  sue  eterne  pagine.  In  verità  deve  sembrare 
pericoloso  il  fissare  una  data  precisa  ad  origini  graduali,  massime 
quando  si  pensa  che  trattasi  di  tempi  preistorici,  e  che  non  regna 
molto  accordo  persino  sull'invenzione  della  polvere,  che  appartiene 
a'  tempi  storici.  A  giudicarne  dalla  evoluzione,  a  cui  soggiacciono 
tutte  le  cose,  l'uso  del  bronzo  ha  dovuto  essere  assai  graduale  e 
così  il  passaggio  dall'una  all'altra  età.  Ho  già  avvertito  che  le 
cose  in  realtà  non  procedono  in  modo  così  liscio  come  nelle 
pagine  degli  scrittori,  i  quali  tagliano  la  evoluzione  della  terra  e 
dell'uomo  in  periodi  ben  determinati.  Come  la  pietra  perdurò  col 
bronzo,  così  durante  l'età  di  quella  vi  saranno  stati  molti  e  molti 
oscuri  tentativi  per  fabbricare  metalli;  e  come  lo  stato  selvaggio 
perdura  per  certi  rispetti  in  quello  civile,  non  che  in  qnello  bar- 
baro, così  in  esso  spuntarono  già,  e  l'abbiamo  osservato,  i  primi 
elementi  di  una  superiore  condizione  dell'uomo.  Con  le  nostre  de- 
finizioni, partizioni  e  classificazioni  si  vuol  cogliere  il  lato  saliente, 
il  carattere  prevalente  delle  cose,  il  momento  in  cui  un'idea  o  un 
fatto  divengono  appariscenti  e  generali;  ma  non  si  vuole  esclu- 
dere il  carattere  complesso  del  reale  o  negare  la  genesi  succes- 
siva delle  cose. 

A  nessuno  parrà  strano  che  la  scoperta  e  l'uso  de' metalli 
segnino  l'elevarsi  del  livello  umano  e  sociale;  ma  a  molti  non 
parrà  naturale  che  l'uso  di  una  lega  metallica,  qual'è  il  bronzo, 
abbia  in  Europa  preceduto  quello  di  uno  dei  due  metalli,  ossia 
del  rame  e  dello  stagno,  che  combinati  col  carbone  formano  il 
bronzo,  mediante  un  certo  lavorìo.  In  America  di  fatti  l'età  del 
rame  precedette  quella  del  bronzo.  Ma  la  maraviglia  cessa  quando 
si  osserva  che  colà  abbondano  le  miniere  di  rame,  e  che  agli 
Europei  preistorici  dovè  riuscire  più  facile  l'alleanza  fra  i  due 
minerali,  rame  e  stagno,  che  non  la  estrazione  del  metallo  dall'im- 
puro minerale.  Se  avessero  trovato  maggiore  abbondanza  di  mi- 
niere cuprifere,  forse  avrebbero  aguzzato  l'ingegno  per  trarne  più 
diretto  partito,  come  se  i  minerali  di  ferro  avessero  richiamato 
più  presto  la  loro  attenzione,  forse  avremmo  avuto  con  l'uso  pre- 
coce del  ferro  un  acceleramento  di  sviluppo  verso  la  civiltà;  ma, 
checché  sia  di  ciò,  noi  possiamo  ben  rallegrarci  che  i  nostri  an- 
tenati riuscirono  a  conquistare  uno  di  quei  potenti  istrumenti  che 
permettono  all'uomo  di  sollevarsi  verso  l'empireo  della  civiltà. 

I  prodotti  dell'industria  umana  durante  l'età  del  bronzo  sano 
stati  pur  trovati  negli  avanzi  di  certe  abitazioni,  che  ci  rivelano 
un  altro  lato  della  vita  preistorica  :  accenno  alle  abitazioni   lacu- 


254  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

stri,  alcune  delle  quali  sono  però  riferibili  all'età  della  pietra. 
Codeste  abitazioni,  scoperte,  come  si  sa,  in  Isvizzera  e  trovate  di  poi 
in  Italia  e  altrove,  erano  costruzioni  su  palafitte  cbe  gli  uomini  di 
quella  etcà  facevano  nei  laglii,  j)er  difendersi  dalle  fiere,  o  più 
probabilmente  dall'uomo  istesso.  I  nostri  aborigeni  erano  adun- 
que usciti  dalle  grotte  e  si  erano  dati  a  costruire,  o  sull'acqua  o 
in  terraferma,  abitazioni  fondate  su  palafitte  e  consolidate  con 
pietre.  E  quando  dico  usciti,  accenno,  ripeto,  al  fatto  dominante, 
percbè  ancora  oggi  sentiaino  a  parlare  di  firoite  degli  spagari  in 
una  città  come  Napoli.  Quelle  abitazioni,  die  a  volte  raggiungono 
le  proporzioni  di  un  villaggio,  dimostrano  non  pure  una  certa 
conoscenza  de' primi  elementi  dell'arte  delle  costruzioni  idrauliche, 
ma  anche  un  certo  sviluppo  degli  aggregati  sociali.  E  le  terre- 
mare  italiane,  in  cui  sonosi  trovate  ossa  di  animali  accumulate 
con  ogni  sorta  di  rifiuti,  ci  suggeriscono  un'altra  osservazione, 
onorevole  pel  nostro  ])aeso,  cioè  che  la  fauna  domestica  superava 
quella  selvaggia,  indizio  di  maggior  progresso  verso  quello  stato 
agricolo  che  fornisce  alla  civiltà  il  suo  principal  fondamento:  la 
stabilità.  11  cane,  l'asino,  il  porco,  il  bue,  la  pecora,  la  capra,  il 
cavallo  erano  di  già  addomesticati.  In  generale,  gli  avanzi  dell'età 
del  bronzo  ci  rivelano  che  l'uomo  era  più  agricoltore  e  allevatore 
che  non  fosse  nel.  passato.  11  Gastaldi  raccolse  qualche  utensile 
agricolo  nelle  torbiere  di  M(n-curago,  e  cereali  carbonizzati  ven- 
nero trovati  in  grandi  vasi,  così  da  lasciar  supporre  che  l'arte  di 
fare  il  pane  potesse  essere  già  nota.  Ma  che  cosa  sono  gl'incerti 
e  pochi  avanzi  di  agricoli  isti'umenti,  rispetto  agli  abbondanti 
istrunienti  con  cui  gli  uomini  si  davano  in  fra  loro  la  morte!  A 
codesti  istrunienti  1'  uomo  preistorico  rivolgeva  la  sua  maggiore 
attività,  e  nella  loro  ])roduzione  e  in  quella  degli  ornamenti 
otteneva  i  migliori  risultati.  Nò  l'uomo  storico  si  è  voluto  mo- 
strare degenere:  la  sua  attività  si  è  diffusa  su  molteplici  oggetti,  ma 
non  si  è  distolta  nemineno  un  istante  dall' aumentare  la  jiotenza 
distruttiva  degli  istrumenti  bellici.  Veramente  ammirevoli  sono 
le  asce,  le  accette,  gli  scalpelli,  i  coltelli,  i  martelli,  gli  ami,  le  falci, 
gli  aghi  crinali,  le  auella,  i  braccialetti,  i  pendagli,  insomma  gli 
oggetti  di  bronzo  trovati  qui  e  là,  ma  soprattutto  al  nord  .del- 
l'Europa. Gli  Scandinavi  eccellevano  davvero  nel  lavoro  delle  else, 
ben  s'intende  relativamente  alle  condizioni  de' tempi.  La  spada 
dunque  nell'età  del  bronzo  si  ag'.,nuns^  alla  lancia,  alla  freccia  ed 
al  pugnale,  e  le  armi  di  pietra  gareggiarono  con  quelle  di  bronzo, 
sforzandosi  a  diventare  più  varie  e  più  perfette.  Un'altra  speciale 


LE  NOSTRE  ORIGINI.  2Ó5 

occupazione  si  rese  perciò  necessaria,  quella  del  fonditore.  Noi 
possiamo  sino  a  un  certo  punto  ammettere  che  in  su  i  primordi 
di  questa  età  ogni  famiglia  facesse  la  sua  piccola  fusione  come  in 
Tartaria  ciascuno  prepara  il  ferro  per  sé  ;  ma  la  richiesta  delle 
armi  e  de' rimanenti  oggetti  di  bronzo,  doveva  per  necessità  dare 
origine  all'officina  del  fonditore  e  a  quella  del  costruttore  di  oggetti 
di  bronzo.  Probabilmente  il  costruttore  di  armi  la  faceva  pure 
da  gioielliere  e  forse  il  costruttore  era  pure  fonditore;  ma  certa- 
mente non  ogni  uomo  poteva  essere  o  fonditore  o  costruttore 
e  tanto  meno  le  due  cose  insieme,  e  certamente  il  fabbricante 
di  oggetti  di  pietra  distinguevasi  da  quello  di  oggetti  di  bronzo. 
Cotali  armi  di  bronzo,  massime  poi  quelle  che  rivelano  un  fino 
lavoro,  non  potevano  essere  patrimonio  di  tutti,  e  insieme  ai 
dischi  con  i  quali  ornavansi  i  cavalli  ci  avvertono  che  a  quel- 
l'epoca esisteva  già  la  distinzione  delle  classi,  e  che  l'aristocrazia 
delhi  forza  coninciava  a  formare  la  prima  cavalleria.  Ovunque  ci 
volgiamo  vediamo  nascere  quella  diversità  di  occupazioni,,  quegli 
elementi  eterogenei,  che  integrati  di  poi  dal  regolatore  potere 
politico,  costituiranno  il  corpo  organico  della  società  civile,  lo 
Stato.  Simile  potere  non  devesi  credere  che  mancasse  affatto  in 
quella  età,  ma  devesi  soltanto  ritenere  ch'esso  era  affatto  rudi- 
mentale e  che  si  esercitava  su  di  una  materia  sociale  ancora 
troppo  scomposta^  e  in  un  campo  di  occupazioni  ancora  troppo 
ristretto.  Il  suo  svolgimento  proceda  all'unisono  con  la  moltiplica- 
zione degli  uffici  e  col  loro  successivo  perfezionamento  :  effetto  e 
causa  insieme.  Lo  sviluppo  delle  varie  attività  rende  necessario 
il  consolidamento  del  potere  politico,  unificatore  e  organatore,  e 
cosiffatto  consolidamento  permette  a  quelle  attività  di  svolgersi 
viemaggiormente.  Ohe  tali  attività  si  andassero  svolgendo  nell'età 
del  bronzo  lo  inferiamo  non  pure  dalle  cose  osservate,  ma  anche 
da  altre  invenzioni,  da  altre  scoperte,  da  altri  prodotti  e  dallo 
scambio  di  questi  o  dalle  lontane  spedizioni  per  la  ricerca  dei 
materiali  divenuti  necessari  all'esistenza.  Inventossi  l'arte  di  fare 
il  vetro  e  quella  del  tessere,  per  la  quale  l'uomo  potè  cominciare 
a  deporre  le  pelli,  che  ancora  gli  davano  la  parvenza  dell'animale, 
e  a  coprirsi  di  vesti  da  esso  lavorate.  L'incremento  della  ceramica 
deve  soprattutto  fermare  la  nostra  attenzione,  perchè  le  svariate 
forme  di  vasi  verniciati  e  ornati  rivelano  un  vero  raffinamento 
del  gusto  artistico.  L'uomo  si  andava  sollevando  sulla  bassa  ma- 
terialità del  suo  stato  originario,  e  cominciava  ad  avere  a  nausea 
persino  quei  cadaveri,  ch'erano  come  a  dire  i  penati,  i  geni  tute- 


256  LE   NOSTKE   ORIGINI. 

lari  delle  famiglie  trogloditiche.  Nell'età  del  bronzo  si  seppelli- 
vano i  morti  entro  bare  deposte  nelle  camere  sepolcrali;  ma,  per 
eccezione,  si  bruciarono  pure  i  cadaveri,   le   cui   ceneri  nelle  se- 
guenti età  si  raccolsero  pietosamente  nelle  urne  familiari.  L'idea 
della  risurrezione  de'  corpi  trionfò  di  nuovo  pienamente  e  ristorò, 
con  forme  pii^i  ampie,  le    dimore    dei    morti.    La    scienza    ora  si 
dibatte  tra  il  far  ritorno  alla  cremazione  che  nacque  al  cadere  del- 
l'età del  bronzo,  e  il  ripristinare  con  più  sapienti  metodi  quelli 
degli  Egiziani.  Pensiamo  a  lasciare  nobili  esempi  a'nostri  figli,  che 
questa  è  la  piìi  bella  immortalità  a  cui    l'uomo    possa  aspirare  ! 
Tutte  le  anzidette  attività  si  andarono  svolgendo  nella  seguente 
età,  cioè  quella    del  ferro,    il    cui    uso    si    fa    con  incerti  calcoli 
rimontare  a  2000  anni  a.  C.  Per  generalizzare  l'uso  del  metallo, 
ce  ne  voleva  uno  di  poco  valore  e  facilmente  lavorabile:  esso  fu 
trovato  nel  ferro,  la  cui  età  segna  il  passaggio  da  tempi  preisto- 
rici a  quelli  storici,  e  penetra  in  questi.  Stando  a  quello  che  ne 
dice  il  j\!orIot,   ne'  primordi    di    co  testa    età   non    conoscevasi    il 
mantice,  per  il  che  il  vento  la  faceva  da  mantice   naturale,  sof- 
fiando sugli  strati  di  legname  e  di  minerale  che  si  accatastavano  e  si 
accendevano  nelle  buche  aperte  su'  fianchi    delle    colline.  Questa 
operazione  è  sì  semplice  che  ogni  uomo  può  compierla  ;  ma  quando 
osserviamo  gli  oggetti  di  ferro,  appartenenti  a  questa  età,  mas- 
sime quelli  trovati  nelle  tombe  di  Hallstadt,  noi  dobbiamo  infe- 
rirne che  era  nata  l'arte  del  fabbro  ed  erasi    aggiunta  a  quelle 
altre  che  rivelano  le   specificazioni   del   lavoro  nella   grande  età 
de'  metalli.  Noi  scorgiamo  in  fatti  bei  lavori  di  ornamento,  come 
quelli  dei  collari    e    braccialetti    trovati    nelle    tombe    or  citate, 
elmi,  avambracci,  centanni,  lame  damascate,  foderi  di  spade  con 
figure  a  rilievo,  che  rivelano  l'abilità  del  fabbro  e  il  gusto  del- 
l'artista. E  l'una  e  l'altro  erano,  al  pari  di  ciò  che  usavasi  dagli 
operai  de'  tempi  precedenti,   posti    soprattutto    al    servizio  della 
guerra  e  della  vanità,  le  due  più  durevoli  potenze    dei    consorzi 
umani.  Manco  male  che  cresceva    nel   tempo    istesso   la  benefica 
potenza  del  commercio,  usufruita  ma  tenuta  a  vile  dalle  aristo- 
crazie politiche  e  ieratiche,  onorata  dal  pensiero  scientifico  e  dal 
sentimento  democratico,  che  in  essa  riconoscono  un  mezzo  efficacis- 
simo per  allargare  1'  intelletto   e    per   affratellare  i  popoli.  Ove 
Jiavvi  civiltà,  essa  l'accresce,  ed  ove  non  ancora  ha  preso  forma, 
aiuta  a  produrla.  Per  avere  l'oro  trausilvano  e  l'avorio  africano 
faceva  mestieri  che  gli  uomini  dell'età  del  ferro  intraprendessero 
lunghi  viaggi,  intrecciassero  lontane  relazioni,  e  cosiffatti  scambi 


LE   NOSTrxE   ORIGINI.  257 

e  rapporti  ricliiesero  l'uso  della  moneta,  per  la  quale  venne  ado- 
perato il  bronzo.    Era  i   poteri   regolatori,  che   insieme   con    la 
guerra    con   la  politica    valsero  a  organare  l'aggregato  sociale, 
a  dare  autorità  ai  dominatori   e  disciplina  a' soggetti,  dobbiamo 
porre  la  religione  ;  ma  duolci  clie  non  possiamo  ancora  porla  fra 
le  forze  risolutamente  addomesticatrici  dell'uomo.  Il  potere  sacer- 
dotale, dopo  quello  militare,  ha  molto  contribuito  a  sottomettere 
gli  uomini  ad  un  ordine  legale  e  stabile,  e  però  a  creare  un  go- 
verno, un  ordine,  una  legge,  uno  stato,  senza  cui  la  civiltà  è  nome 
vano.  La  civiltà  di  fatto  comincia  quando  le  attività,  che  abbiamo 
visto  nascere  e  altre  ancora  che  si  produssero  poi,  svolgonsi  nello 
Stato.    All'  età  del   ferro,   se  dobbiamo  giudicarne  da  quello  che 
conosciamo  intorno  allo  stato  degli  antichi  Barbari  e  per  analogia 
da  quello  che  vediamo  presso  i  moderni,  il  potere  religioso    do- 
veva energicamente  procedere  in  questa  opera  incivilitrice.    Non 
interamente  separato  dal  potere  politico,  come  questo  non  era  dal 
potere  militare,  il  che  vediamo  ancora  durare  oggidì  presso  quelle 
nazioni  orientali  in  cui  il  re  è  capo  del  governo,  dell'esercito   e 
della  chiesa,  esso  concorreva  per  fermo  ad  assicurare  la  forza  del- 
l'autorità, dandole  per  fondamento  il  cielo;  forza,  di  cui  ogni  civile 
società  ha  bisogno,  ma  che  lo  spirito  emancipato  della  nostra  ci- 
viltà intende  a  collegare  con  quella  della  libertà,   dando  ad  en- 
trambe per  fondamento  la  terra.  Ma  quello  che  dolorosamente  non 
possiamo    concedere   è,   come  dicevamo,  che  il  potere  ieratico  si 
affermasse  in  questa  età  con  amorevoli  e  mansueti  sensi.  Scoperte 
fatte  presso  le  tombe  elvetiche,  racconti  di  antichi  storici,  testi- 
monianze di  usi  ancora  perduranti,  infondono  la  certezza  che  nell'età 
del  ferro  la  superstizione  religiosa  aveva  generato  l'uso  barbaro  e 
crudele  dei  sacrifizi  umani.  Attorno  alle  tombe  non  troviamo  sol- 
tanto le  armi,  le  vesti  e  le  vivande  pel  gran  viaggio  e  pel  ritorno  ai 
domestici  lari;  ma  le  vesti  lacere  e  i  cadaveri  delle  vittime  im- 
molate a  un  pregiudizio  non  sapremmo  dire  se  più  scellerato  o  più 
stolto.  L'uomo  non  si  accontentava  più  di  andar  solo  nel  suo  pel- 
legrinaggio;  ma   voleva  la  compagnia  della  sposa  o  delle  spose, 
dei  figli,  de' parenti,  degli  amici;  e  il  Dio  di  quei  Barbari  aveva 
induriti  i   suoi    sensi   e   non   si   placava   più  col  sacrifizio    degli 
animali  :  voleva  sangue  umano  !   Ah  !  la  prima  evidente  luce  che 
la  religione  manda,  fra  i  ruderi  di  quelle  età  preistoriche,  è  fosca  e 
sanguigna,  e  l'uomo  virile  si  domanda  pensoso  se  essa  abbia  più 
asciugate  che  non  spremute  lagrime.  Consoliamoci  pensando  che, 
anche  la  religione,  la  quale  si  pretende  divina  e   immutabile,   è 


258  .  LE  NOSTRE  ORIGINI. 

sottomessa  alla  legge  di  evoluzione,  è  mutabile  e  può,  come  ogni 
umana  cosa,  o  progredire  o  declinare.  Essa  si  sprigionò  infatti  da 
così  turpi  e  insieme  scempie  costumanze  e  finì  col  predicare  mercè 
il  Cristianesimo  l'amore,  la  carità,  la  fratellanza.  Non  tanto  la 
fede  nell'immortalitcà  della  persona,  che  ha  per  radice  un  egoistico 
sentimento  di  conservazione,  quanto  il  sentimento  dell'  infinito, 
l'aspirazione  ad  un  ideale  formano  la  sua  più  chiara  luce.  Lo  scien- 
ziato vero  toglie  alla  più  perfetta  religione  la  scoria  che  la  oscura 
e  corrompe,  e  conserva  gelosamente  quel  diamante  tersissimo.  An- 
che esso  è  religioso,  anzi  esso  è  il  solo  uomo  veramente  degno 
di  questo  sacro  aggettivo,  se  per  religione  intendesi  il  sentimento 
dell'infinito,  gì'  instancabili  sforzi  per  conoscere  il  vero,  il  culto 
per  ogni  grande  idea,  per  ogni  nobile  azione,  e  l'amore  pel  prossimo. 

{Continua) 

NiccOLA  Marselli. 


L'ARTE  A  PARIGI. 


XV. 

Non  vi  è  forse  nessuna  delle  genti  arie  che  non  abbia  nel 
suo  leggendario  popolare  una  qualche  gentile  figliuola  o  sposa  di 
re,  caduta  per  avversità  di  casi  o  per  malìa  di  sortilegio  in  basse 
fortune.  Che  aspri  sentieri  non  le  tocca  di  calcare,  che  erte  non 
le  tocca  d'ascendere,  quante  fatiche  e  quante  prove  non  le  sono 
imposte,  prima  che  il  talismano  lungamente  cercato  la  ridoni  agli 
splendori  natii!  Ma,  povera,  sola  ed  errabonda,  ella  non  s'è  mai 
persa  di  coraggio  ;  c'è  stata  sempre  una  stella,  o  una  fiammolina, 
0  un  lumicino  lontano  lontano,  che  l'ha  aiutata  a  trovare  la  via. 
Questa  fiaba,  o  qualcosa  di  somigliante,  mi  torna  a  frullar  per  il 
capo  ogni  volta  che  mi  ritrovo  in  uno  dei  più  umili  comparti  di 
Campo^Marzio,  e  che  ci  leggo,  nell'idioma  d'Esiodo  e  d'Omero, 
quel  magico  nome  di  i^/.ia;  tutto  pieno  di  lusinghe  e  di  memorie, 
tutto  smagliante  di  candore,  là  in  fondo  sulla  parete,  non  so  bene 
se  come  un'ironia  o  come  una  promessa. 

11  contrasto  però  tra  i  ricordi  del  passato  e  le  sensazioni  del 
presente,  che  è,  rispetto  alla  scultura,  vivissimo,  colpisce  meno 
nella  pittura,  dove  il  termine  di  confronto  non  si  vede  né  si  tocca 
con  mano,  e  solamente  s'indovina  dai  libri  :  oltreché  dei  quadri 
che  la  Grrecio,  mette  in  mostra  si  può  dire  veramente,  come  di 
certi  versi  diventati  famosi,  che  sono  pochi  ma  buoni.  E  mi  pare 
che  avrei  mancato  a  un  debito  di  fratellanza,  se  non  ne  avessi 
qui  detto  sillaba;  e  che  il  Kallis  con  le  sue  gentili  reminiscenze 


260  L'aKTE   a   PAKIGI. 

femminine  di  Megara,  e  il  Lytras  con  quelle  sue  bianche  fan- 
ciulle e  col  suo  Indotto  di  Scio,  e  fiao  il  Pantazis  con  certe  sue 
nehhic  ch'egli  si  ostina  a  darmi  per  nordiche,  e  dietro  le  quali 
io  mi  ostino  a  supporre  il  Pindo,  rimetto,  o  l'Olimpo,  siano  op- 
portuni introduttori  alla  pittura  nostra  del  Mezzodì,  spagnuola  e 
italiana.  Quelle  poche  tele  del  Lytras  massimamente,  mi  si  son 
fitte  nella  memoria;  l'intonazione  chiara,  la  fattura  semplice,  certi 
bianchi  su  bianco  cavati  ingegnosamente  e  senza  fatica,  sono  ca- 
parra di  una  bene  spiccata  individualità.  E  poi,  unorfanella  so- 
litaria che  cuce  il  suo  povero  abitino  di  lutto;  un  altra,  ohe  vdl- 
tizza  un  po'  di  fiamma  sul  deserto  suo  focolare;  una  bella  figliuola 
di  Giannina,  che  sembra  sonnecchiare,  appoggiata  il  capo  al  sar- 
tiame di  non  so  che  harca  di  pirati  barbareschi,  e  che  invece  spia, 
s'io  non  erro,  il  momento  in  cui  sonnecchieranno  a  loro  volta  i 
pirati;  un'altra  graziosa  figliuola  dell'Epiro  o  della  Tessalia,  che 
serrata  in  casa,  chi  sa,  dalla  matrigna,  si  rizza  sulle  punte  dei 
suoi  piedi  nudi  per  dare  «n  bacio,  attraverso  l' unico  pertugio 
della  sua  stamberga,  al  conteso  amatore  —  o  non  dicono,  senza 
volerlo,  assai  più  di  quello  che  sta  scritto  sui  polizzini? 

Già  il  bisogno,  anzi,  se  si  vuole,  la  manìa  di  correre  alle  in- 
terpretazioni e  agl'indovinelli,  è  un  vecchio  peccato  di  cui  la  cri- 
tica non  sa  guarire;  e  guai  se  ne  guarisse  del  tutto!  Che  ne  sa- 
rebbe di  lei  se  la  si  contentasse  della  tecnica  sola,  e  non  volesse 
vedere,  a  costo  anche  di  traveder  qualche  volta,  l'intimo  senso 
che  traspare  dalle  cose,  il  carattere  morale  che  ne  ojffre,  a  pi- 
gliarla tutta  insieme  e  a  interpretarla  per  via  d'induzioni  e  di 
paralleli,  la  produzione  artistica  di  un  dato  periodo,  presso  un 
dato  popolo,  in  una  data  temperie  d'idee,  d'opinioni  e  d'istituzioni 
sociali?  Dice,  secondo  a  me  pare,  molto  sagacemente  se  anche  un 
poco  paradossasticamente  l'Hamerling,  «  che  ogni  opera  veramente 
poetica,  come  ogni  opera  di  natura,  ha  più  significanze....  che  ogni 
creazione  d'arte  è  così  profondamente  piena  di  misteri  e  così  poco 
suscettiva  di  spiegazione  completa,  come  la  vita  medesima;  e  che 
però  non  s'ha  tanto  da  guardare  a  quello  che  l'artista  o  il  poeta 
consapevolmente  ci  abbia  messo  dentro,  quanto  a  quello  che  ci 
si  trova.  Il  poeta,  l'artista,  sa  quel  che  ci  ha  messo;  ma  di  quel 
che  ci  si  possa  trovare,  egli  non  ne  sa  più  d'un  altro;  e  non  tocca 
a  lui  ne  a  nessuno  di  fissare  in  modo  irrevocabile  il  senso  del- 
l'opera sua,  e  di  chiudere  con  una  spiegazione  autentica  la  via  a 
tutte  le  esegesi  ulteriori.  »  Eccoci,  per  esempio,  alla  penisola  ibe- 
rica: chi  mai  vorrebbe  negare  che  una  personali  cà  morale  risulti 


l'arte   a   PARIGI.  261 

evidente  dal  complesso  della  Mostra,  che  una  trasformazione  v'ap- 
parisca manifesta,  cosi  nei  modi  pittorici,  come  nei  convincimenti 
e  nelle  intensioni  ? 

Se  mai  vi  è  stato  paese  in  cui  un  intenso  fervore  religioso, 
un  profondo,  tetro,  geloso  ascetismo,  sia  penetrato  nel  midollo 
dell'arte,  e  1'  abbia  pervasa  e  dominata  tutta  quanta,  questo  fu 
senza  dubbio  la  Spagna.  Il  papato,  massime  quando  sul  soglio 
pontificio  sedettero  degli  Italiani,  non  conobbe  mai  sì  fiera  e  per- 
vicace ripulsa  d'ogni  sentimento  e  d'ogni  legame  mondano.  L'arte 
chiamata  in  Koma  a  celebrare  i  fasti  del  cattolicesimo  era  ascesa 
fino  a  un  concetto  così  vasto  e  cosi  veramente  universale  del  di- 
vino, da  potervisi  adagiare  persino  le  rideste  memorie  del  mondo 
antico,  anzi  da  potervisi  trasfondere  gl'ideali  medesimi  di  bel- 
lezza, di  serenità,  di  forza  rigogliosa  ed  equanime,  tramandati  a 
noi  dalla  civiltà  greco-romana.  Ma  poscia  che  le  ostilità  prorup- 
pero colla  Riforma,  e  che  l'ortodossìa,  asserragliatasi  dietro  al 
duplice  vallo  del  monarcato  e  dell'Inquisizione,  s'ebbe  rivendicato 
un  assoluto  dominio  sulle  volontà  e  sulle  menti,  la  Spagna,  appa- 
recchiata già  dalle  diuturne  sue  guerre  di  razza  e  di  religione 
ad  appassionarsi  per  l'unità  chiesastica  come  per  una  condizione 
intrinseca  della  unità  nazionale,  s'imbevve  del  dogma,  più  che 
mai  popolo  al  mondo  ;  gli  assoggettò  con  devozione  intera  tutte 
le  forme  dell'arte,  gl'imprestò  tutti  gli  ardori  del  suo  sangue  e 
tutte  le  potenze  del  suo  genio. 

Ella  aveva  avuto,  è  ben  vero,  l'iniziazione  pittorica  dall'Ita- 
lia, allorché  sotto  lo  scettro  di  Carlo  V  le  due  stirpi  si  trame- 
scolarono nella  infelicissima  vastità  dell'Impero;  ma,  padrona  che 
fu,  e  lo  fu  subito,  dello  strumento  dell'arte,  essa  il  rivolse  a  tut- 
t'altri  propositi.  Nel  Nord,  nella  ribelle  Neerlandia,  1'  arte  era 
scesa  a  farsi  volgare,  per  parlare  al  popolo  il  duro  e  schietto  lin- 
guaggio della  informa;  in  Ispagna  ella  s'afferrò  non  meno  riso- 
lutamente a  tutte  le  violenze  e  a  tutte  le  crudezze  del  vere,  ma 
per  temprarsene  un'arme  di  battaglia  in  senso  opposto,  per  rin- 
focolare la  febbre  delle  macerazioni  e  della  penitenza,  per  ri- 
specchiare l'inesorabilità  dei  supplizii.  Il  chiostro  gittò  sulla  pit- 
tura spagnuola  le  sue  ombre  più  profonde.  V  atto-di- feci  e  la  riempì 
di  flagellazioni,  di  calvarii  e  di  tormenti.  Juanes,  il  fondatore 
della  scuola  di  Valenza,  non  principiava  quadro  senza  devote  pra- 
tiche religiose;  Vargas,  il  fondatore  della  scuola  di  Siviglia,  si 
preparava  all'opera  coprendosi  di  cilizio  e  coricandosi  nel  cata- 
letto. Ed  Espinosa  con  le  sue  Addolorate,  Ribera  cogli  scarni  suoi 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Marzo  1879.  16 


262  l'arte   a  PARIGI. 

San  Girolami,  Herrera  con  le  sue  anatomie,  Zurbaran  co'  suoi  teschi 
e  co'  suoi  asceti,  Valdes  Leal  co'  suoi  cadaveri  in  decomposizione, 
significarono  eloquentemente  l'indole  di  un  tempo,  nel  quale,  se- 
condo ha  detto  un  fisiologo,  quando  l'ultim'ora  suonava,  non  si 
finiva  già  di  vivere,  ma  si  fluiva  di  morire. 

Peraltro  la  divina  potenza  del  genio  non  soggiace  mai  intera 
e  senza  lotta  alla  tirannia  del   destino,  I  due    più   grandi   nomi 
dell'arte  spagnuola,  Velasquez  e  Murillo,  la  solcano  tuttodì  di  una 
striscia  di  luce,  che  non  è  riverbero  di  roghi  e  neppure    di    fu- 
nerali, ma  limpido  saluto  di  sole.  Velasquez  sfuggì  all'ascetismo 
del  maestro,  meno  pittore  che  autore  di  dissertazioni  teologiche 
intorno  alle  estasi  di  Santa  Teresa,  e  si  ancorò  all'umanesimo  nel 
ritratto;  Murillo,  dopo  aver  raspato  in  tutte  le  miserie  della  leb- 
broseria  in  omaggio  all'umiltà  di  Santa  Elisabetta,  ritrovò  nelle 
sue  Madonne  i  sorrisi  della  gioventìi  e  gli  azzurri  del  cielo.  Ma 
quando  egli  sparve,  la  luce  si  estinse    con    lui.    In   quella  trista 
Corte  dell'Escuriale,  dove  s'era  fatto  di  tutto  per  rattrappire   la 
pianta  uomo,  si  apersero   indarno   pinacoteche  ed   accademie,    si 
largirono   indarno  provvisioni  a  maestri  stranieri,  a  Van  Loo,  al 
Procaccino,  a  Raffaello  Mengs;  l'arte  non  voleva  attecchir  piìi;  e 
bisogna  scendere  fino  verso  la  metà  del  Settecento,  per  trovare, 
non  dirò  un  genio  ma  un  ingegno  bizzarro,  che,   piantato   quasi 
a  cavaliere  tra  lo  scorso  secolo  e  il  nostro,  sembra  ad  un  tempo 
epilogare  il  passato,  e  gittare,  se  anche  a  vanvera  e  come  il  ca- 
priccio gliene  frulla,  la  semenza  di  un  tutt'altro  avvenire. 

Chi  visita  la  galleria  storica  del  Trocadero,  giunto  che  sia 
alla  sezione  spagnuola,  non  può  a  meno  di  rimanere  colpito  da 
una  serie  di  pitture  così  cupe,  così  eteroclite,  così  diaboliche, 
che  sembrano  trasportare  la  smarrita  fantasia  moderna  nel  più 
fitto  della  tregenda  medieva.  Incubi  e  succubi,  streghe  a  caval- 
cioni di  scope,  demoni  imbacuccati  nella  cocolla  e  nella  pazienza 
del  monaco,  orchi  in  atto  di  divorare  bambini  ;  niente  ci  manca 
di  tutto  quello  che  il  farnetico  potè  mai  generare  di  più  spaven- 
toso nei  malati  cervelli  delle  demonomaniache.  Di  chi  sono  quelle 
pagine  dipinte  colla  fuliggine  del  Sant'Uffizio  ?  Sono  di  Goya.  Ma 
se  un  altro  giorno  tu  vai  a  riposare  gli  stracchi  nervi  nelle  de- 
lizie del  Louvre,  arrivato  agli  Spagnuoli  t'avvieni  in  una  sedu- 
cente manola,  la  madamina  dal  galano  rosso  all'  orecchio,  dalla 
nera  mantilla,  dal  braccetto  ritondo,  di  cui  benissimo  indovini 
le  curve  perfette  sotto  la  seta  color  di  rosa  di  un  giubberello  a 
ricami  d'argento.  Di  chi  è  quel  mondano  demonietto  ?  È  di  Goya. 


l'arte  a   PARIGI.  263 

Allora,  io  ne  son  sicuro,  tu  pigli  a  scartabellare  curiosamente  le 
acqueibrti  di  cotesto  bel  tomo,  che  fu  Plntor  del  Rey  fino  allo 
scoppiare  del  turbine  rivoluzionario;  e  mai  non  ti  sarà  accaduto 
d'imbatterti  in  un  più  strano  mescuglio  di  reminiscenze  satani- 
che e  di  sogghigni  volteriani.  di  spaventi  e  di  celie,  di  foreros,  di 
mayas,  di  preti,  di  frati  e  di  Convenzionali  francesi  dal  cappello 
piumato  e  dalla  nappa  tricolore.  Groya  aveva,  già  innanzi  la  ri- 
voluzione, indovinato  la  democrazia;  i  suoi  sarcasmi  erano  arditi 
come  quelli  del  Figaro  di  Beaumarchais;  la  punta  con  cui  li  scri- 
veva sul  rame  non  era  più  aguzza  della  sua  lingua.  Or  da  costui 
bisogna  rifarsi,  chi  voglia  capire  anche  la  rivoluzione  della  tec- 
nica nell'arte  spaglinola;  perché  lui,  l'ultimo  ospite  della  nera 
tregenda,  è  tuttavia,  quando  vuole,  il  più  ardito  interprete  dei 
cieli  sereni,  dell'  effetto  d' aria  libera,  di  quella  che  Leonardo 
chiama  «  la  luce  universale  dell'  aria  in  campagna  ;  »  e  fu,  come 
a  dire,  l'anello  che  ricongiunse  i  moderni  a  quei  due  unici  mae- 
stri usciti  incolumi  dalla  febbre  calda  dell'  ascetismo,  Velasquez 
e  Murillo.  Egli  menò  i  novatori  modernissimi  a  ricordarsi  di  Ve- 
lasquez, al  quale  attinsero  la  rapida  semplicità  e  la  spigliata 
efficacia  della  pennellata,  le  sapienti  armonie  e  le  brillanti  con- 
trapposizioni, la  gamma  chiara  e  le  vivacissime  audacie  della  ta- 
volozza ;  egli  li  condusse  a  ricordarsi  della  maniera  ultima  di 
Murillo,  d'onde  tolsero  quelle  tenerezze  di  colore  indicibili,  così 
diafane,  così  zuccherine,  così  femminine,  che  ti  fanno  pensare  al- 
l''ewige  Weibliches  di  Goetlie;  alle  grazie  di  Elena  e  alle  insidie 
feline  della  Sfinge. 

Una  bizzarria  eloquente  del  caso  ha  posto  la  sala  spagnuola 
vicino  alla  austriaca;  l'ha  aperta  proprio  rimpetto  a  quel  Carlo  V 
del  Makart,  il  quale,  in  tutto  le  splendore  del  suo  fasto,  sem- 
bra condurre  indarno  la  sua  gran  cavalcata  imperiale  verso  le 
porte  d'un  regno  che  non  è  più  suo,  sembra  sforzarsi  indarno 
d'uscire  dalla  penombra  alla  luce.  E  veramente,  per  magnifica 
eh'  ella  sia,  la  pittura  del  Makart,  scaturita  com'  è  tutta  quanta 
dalla  tradizione  e  dalla  dottrina,  s'aiuta  di  valori  intensissimi 
sui  primi  piani,  di  toni  rosolati  e  fulvi,  di  generose  spalmature 
d'asfalto,  di  tutti  gli  spedienti  che  assicurano,  col  sacrifizio  delle 
luci  sparse,  una  ponderata  e  prestabilita  armonia.  L'  aspetto  in- 
vece della  sala  spagnuola  è,  nel  suo  complesso,  poco  men  chiaro 
di  quello  del  cielo  aperto;  ci  si  respira  come  un' aria  mattinale, 
un  alito  di  primavera,  un  ambiente  libero  ;  si  direbbe  che,  sve- 
gliatasi da  un  sogno  lungo  e  tormentoso,  fregatasi  gli  occhi,    e 


264  l'arte  a    PARIGI, 

ributtati  nella  cieca  ombra  dell'oblio  gì' incappucciati  fantasimi 
della  Santa  Hermandad,  la  giovane  Spagna  sia  corsa  a  pigliarsi 
un  bagno  di  rugiada,  e  folleggi  al  primo  riso  dell'alba  in  giar- 
dino, tra  i  profumi  degli  aranci  in  fior.;  e  delle  bianche  magno- 
lie, tornando,  come  una  bella  reìapsa  andalusa,  a'  suoi  primi 
amori  moreschi,  al  giocondo  amplesso  della  proscritta  natura.  0 
non  sarebbe  lei  quella  che  ci  guarda  coi  grand'occhi  innamorati, 
fiore  vivente  in  mezzo  a'fiori.  a' tappeti,  a'gioielli,  sotto  le  spoglie 
leggiere  della  vaghissima  Zaìdn  del  Casado  ?  Oramai  1'  angelo 
caduto  è  un  tènia  che  non  la  spaventa  più:  si  direbbe  anzi  che 
ella  ci  si  compiaccia.  Dopo  che  il  Bellver  l'ha  ritratto  in  plastica, 
il  Pescadur  ce  lo  rida  alla  sua  volta  in  un  quadro,  E  già  che 
Lucifero  s'è  fatto  cacciare  dal  cielo  e  che  il  cielo  è  perduto,  viva 
oramai  in  terra  la  luce,  la  letizia  e  la  libertà  !  Il  coro  del  Don 
Giovanni  di  Mozart  pare  che  riecheggi  qai  da  tutte  le  parti,  come 
scatta  una  molla  troppo  lungamente  compressa. 

Non  voglio  dire  che  della  pittura  severa  e  cupa  non  resti 
nulla,  o  clie  quello  che  resta  non  sia  degno  di  memoria  e  di  lode. 
Come  al  mattino  i  vapori  della  notte  aleggiano  ancora  sospesi  in 
lunghi  strati,  quasi  a  far  padiglione  al  sole  che  sorge,  cosi  è 
della  vecchia  tradizione  pittorica  nell'arte  spagnuola;  però  que- 
sti strati  anch'  essi  già  si  tingono  agli  orli  d'un  riflesso  d'aurora. 
Il  Dominguez  con  una  Morte  di  Seneca,  il  Rosales  con  un  Giu- 
ramento di  Bruto,  opera  condotta  cosi  alla  brava  che  la  si  di- 
rebbe piuttosto  abbozzata  che  finita,  e  forse  rimase  in  tronco  per 
la  morte  del  valoroso  pittore,  appunto  ricordano  le  cupezze  anti- 
che e  gli  antichi  vigori:  ma  il  pensiero  dei  novi  tempi  si  sente 
fremere  nella  scelta  istessa  del  tèma.  Due  poi  dei  più  valorosi 
giovani  ci  raccontano  i  funerali  di  un  Santo  e  di  un  Ee  ;  ma 
nelle  loro  grandi  tele,  che  sono  delle  più  cospicue  e  delle  più  ri- 
cordabili, la  interpretazione  nova  tanto  dista  da  quella  che  cento 
anni  sono  si  sarebbe  inesorabilmente  imposta  come  un  obbligo, 
quanto  dista  la  critica  storica  dalla  liturgia.  C'è  di  mezzo  nien- 
t'altro  che  la  Kivoluzione. 

Il  Ferrant  ci  fa  assistere  alle  pietose  esequie  di  quel  capitano 
del  pretorio,  che  la  Chiesa  suole  mostrarci  trafitto  dalle  frecce 
dei  soldati  mauritani,  e  che  non  sopravvisse  al  primo  mai  tirio  se 
non  per  isfidare  una  seconda  volta  il  furore  di  Cesare  con  Tar- 
dente  zelo  di  un  eroe  della  fede.  Pietose  donne  traggono  la  salma 
di  San  Sebastiano  dalla  cloaca  del  Circo  a  onorata  sepoltura: 
solenne,  dolorosa  e  pia,  siccome  conviene,  è  la  scena;   ma  Tese- 


l'arte  a   PAKIGI.  265 

gesi  è  moderna  affatto  ;  senza  punto  pretendere  di  penetrar  l'in- 
tenzione dell'artista,  gli  è  lecito  dire  che  non  è  altrimenti  una 
pagina  degli  agiografi  quella  ch'egli  traduce  ;  e  che  nella  sua  opera 
prevale  quel  medesimo  sentimento  umano,  onde  siamo  accostu- 
mati a  trovar  sature  le  meste,  pensose,  ed  eloquenti  pagine  del 
più  recente  istorico  del  Cristianesimo. 

Il  Pradilla  anche  fu  guidato,  consapevolmente  o  no,  poco 
importa,  da  un  acuto  e  modernissimo  senso  dell'istoria  nell'ideare 
quella  sua  grande  scena  funebre,  dove  l'apparato  della  podestà 
regale  e  della  pompa  liturgica  non  è  già  l'obbiettivo  ultimo, 
anzi  non  pare  destinato  se  non  a  mettere  in  risalto  l'elemento 
umano,  intimo,  fisiologico  del  dramma.  Né  un  dramma  più  com- 
plesso e  più  profondo  si  troverebbe  facilmente  in  tutta  la  storia 
spagnuola.  Strana  fortuna  di  cotesta  superba  monarchia  !  Uscita 
appena  dal  connubio  di  due  avventurate  ambizioni,  alle  quali 
Consalvo  dona  un  regno  e  Cristoforo  Colombo  un  mondo,  essa 
ricade  subito,  come  rifinita  dallo  sforzo,  nelle  mani  di  una  pazza 
e  di  un  dissoluto:  di  quel  Filippo  d'Austria,  che  a  ventotto  anni 
muore  di  libertinaggio,  e  di  quella  Giovanna,  che,  presa  di  costui 
tanto,  quant'egli  è  schivo  di  lei,  s'avviticchia  alla  sua  bara  come 
un  cespo  d'edera  a  una  rovina.  Miserabile  maritaggio  di  due 
infermità,  dal  quale  è  uscito  il  regale  rampollo  che  dominerà 
sui  due  emisferi,  e  che  andrà  poi  a  finire  tra  i  cilizii  del  con- 
vento di  Yuste,  lipemaniaco  come  la  madre.  Io  non  dico  che  tutto 
questo  si  legga  nel  quadro  del  Pradilla  :  ma  si  può,  quasi  in 
epitome,  indovinarlo  nella  scemi  ch'egli  ci  mette  sott'occhi,  cosi 
triste  e  tuttavia  cosi  aliena  da  ogni  declamazione.  Quella  sosta  di 
un  funerale  in  aperta  campagna,  del  funei-ale  che  la  loca  si  tra- 
scina dietro,  suntuosa  e  lamentevole  odissea,  attraverso  il  suo 
proprio  regno;  quella  bara  posata  a  terra,  alla  quale  il  fasto 
araldico  degli  stemmi  sembra  contendere  anche  l'ultima  quiete  ; 
quei  ceri  che  le  ardono  intorno  ;  quella  diritta  e  pallida  figura 
di  donna,  dal  volto  scombuiato  e  senza  lagrime,  che  le  si  è  pian- 
tata accanto  come  la  statua  del  dolore  ;  quell'orizzonte  grigio, 
quella  vegetazione  inaridita,  quel  soffio  decembrino,  che  stringe 
l'anima  e  intirizzisce  le  membra  ;  quelle  preci  salmodiate  som- 
messamente dai  monaci  col  sussurro  uguale,  monotono,  inconscio 
del  mulino  a  preghiere  ;  quelle  cameriste  accoccolate  in  terra, 
che  sentono  il  freddo  avanti  tutto,  e  sgranchiscono  le  mani  a  un 
gran  fuoco  di  sarmenti;  quei  gruppi  sparsi,  muti,  cogitabondi,  di 
(jrandcs  e  di  hidalgos  —  non  ti  mettono  solamente  addosso  una 


266  l'arte   a   PARIGI. 

impressione  profonda,  ma  anche  un  gran  desiderio  di  raccoglierti 
e  di  pensare.  E  le  qualità  propriamente  pittoriche,  una  composi- 
zione naturale,  un  colore  robusto  e  fino,  un  disegno  sicuro,  una 
rara  larghezza  di  pennello,  concorrono  a  fare  di  questa  tela  più 
che  una  splendida  promessa  ed  anche  pili  che  un  ottimo  quadro. 
Essa  è  la  prova  irrecusabile  di  un  indirizzo  di  studii  eccellente, 
di  un  felice  innesto  del  pensiero  moderno  sul  buon  tallo  degli 
antichi  maestri. 

Quando  gli  artisti  spagnuoli  tornano  col  pensiero  al  passato, 
e' cercano  volentieri  nella  storia  patria  le  occasioni  a  vigorosi  effetti 
pittorici  ;  e  niente  vi  si  presta  meglio  delle  smaglianti  e  diver- 
sissime foggie  del  Quattrocento  e  del  Cinquecento.  Ma  all'effetto 
essi  anche  alleano  volentieri  un  pensiero;  e  piace  d'  incontrarne 
qualcuno  che  racconti  le  ardite  resistenze  delle  borghesie  all'arbi- 
trio de'  principi,  come  il  Sala  ha  fatto  col  suo  GitiUen  de  Viuafea, 
un  tenace  difensore  di  quei  fncros,  oggi  inciampo,  altre  volte  asilo, 
secondo  i  tempi  unico,  <lelle  patrie  libertà.  Però  a  dire  le  cose 
come  staiino,  la  inclinazione  dei  moderni  volge  in  Ispagna  come 
altrove  piuttosto  verso  l'aneddoto,  e  verso  Vhuiiiour,  e  s'industria 
a  scovarne  fuori  l'occasione  persino  in  fondo  ai  secoli  piiì  remoti. 
Nessuno  ci  riuscì  meglio  di  quel  povero  Zamacoi's,  troppo  presto 
rapito  all'arte,  il  quale  aveva  trovato  modo  di  ridere  anche  della 
più  cupa  fra  le  monarchie;  e  co'  suoi  Buffoni  di  Corte,  o  sia  che 
gli  accovacciasse  come  gnomi  dentro  agli  splendori  della  reggia, 
o  che  prosternasse  loro  innanzi  un  servidorame  anche  più  servile 
di  loro,  disse  mirabilmente  la  protestazione  perpetua  della  satira 
contro  il  despotismo. 

Non  c'è  sforzo  alcuno  da  fare  per  tener  dietro  a  questa  incli- 
nazione critica,  gaudente,  ridente,  mezzo  epicurea  e  mezzo  ber- 
teggiatrice  in  cui  assai  meglio  del  Cid  Campeador  troverebbe  il 
suo  conto  el  Burlador  de  Sevilla.  E  d'onde  mai  si  principierebbe 
a  novellare,  nella  patria  di  Cervantes,  se  non  da  qualcuno  dei  casi 
di  Don  Chisciotte  ?  Gli  è  il  Moreno  che  s'incarica  di  ammannircene 
uno  dei  più  gustosi  dentro  alle  aride  gole  di  quella  Sierra,  dove 
tante  extranas  cosas  y  raras  aventuras  intervennero  al  buon 
cavaliere  della  Manclia',  e  l'accento  gaio,  il  giocondo  riso  della 
commedia,  che  riempie  fino  gli  echi  della  petrosa  e  riarsa  Estre- 
madura,  sembra  discendere  con  noi  e  accoinpagnarci  di  contrada 
in  contrada  e  di  secolo  in  secolo.  A'  tempi  bui,  alle  scene  tristis- 
sime che  nella  storia  spagnuola  sovrabbondano,  la  pittura  spa- 
gnuola  nova  non  ci  si  ferma;  e  il  periodo  in  cui  ella  si  compiace 


l'arte  a  PARIGI.  267 

è  la  fine  del  secolo  xviii,  quel  periodo  nel  quale  il  bel  mondo 
madrileno,  gittata  la  maschera  d'  ipocrisia  che  gli  aveva  imposta 
il  regno  austero  e  devoto  di  Carlo  III,  si  dà  buon  tempo  con  una 
licenza  di  cui  l'esempio  scende  dall'alto;  quel  periodo  in  cui  il 
re  s'obblìa  nelle  eterne  sue  caccie,  e  chi  dà  il  tono  alle  eleganze 
di  Corte  è  Manuel  Godoy,  il  favorito  della  regina:  e  le  belle 
duchesse  d'Alba  e  di  Benavente  contendono  a  Maria  Luisa  lo 
scettro  della  moda,  degli  intrighi  e  dei  piaceri. 

Gli  è  un  mondo  codesto  tutto  abiti  ricamati,  parrucche  inci- 
priate, innocentissimi  spadini  dall'else  d'acciaio,  dame  graziosa- 
mente impacciate  nelle  loro  guaine  di  raso  e  di  merletti:  e  la 
nota  locale  è  data  dalle  pittoresche  cuaclrillas  delle  corridas  de 
toros,  dagli  espadas,  dai  handerilleros,  dai  picadores,  così  balda- 
mente atteggiati  nei  loro  farsetti  tutti  nappe  e  lustrini,  con  la 
monterilla  di  velluto  nero  piantata  di  traverso  sui  bruni  capelli, 
coi  vistosi  lombi  cinti  dalla  faja  di  seta  del  più  smagliante  cina- 
bro. Però  i  pittori  non  ci  guastano  il  sangue  colle  scene  cruente 
del  circo;  eleggono  piuttosto  di  mostrarci,  come  fa  nel  suo  qua- 
dro il  Casado,  il  matador  dopo  la  vittoria,  in  atto  di  fare  omaggio 
della  sua  buona  lama  alla  gentildonna  del  suo  cuore,  la  quale, 
durante  il  combattimento,  gli  ha  buttata  nell'arena  quella  fresca 
rosa,  ch'egli  si  stringe  così  cavallerescamente  sul  petto.  Anche  i 
buoni  religiosi  trovano  modo,  si  vede,  d'acconciarsi  alle  dolcezze 
della  vita.  Una  dolce  pasta  di  curato  dall'  immenso  cappellone 
tradizionale  si  lascia  volentieri  presentare  dal  Gonzales,  insieme 
col  resto  del  corteggio,  a  una  vezzosa  puerpera;  e  un  giocondo 
frailf,  al  quale  il  Casanova  mesce  un  gustosissimo  cioccolatte, 
beatamente  se  ne  riconforta,  essendosi  lasciato  senza  fatica  per- 
suadere dalla  dialettica  del  Padre  Hartado  che  el  chocolate  no 
qiiehranta  el  jejuno  de  la  Iglrsm.  liqnidum  non  rumpit  jejunium, 
beninteso  sotto  condizione,  come  savissimamente  soggiunge  lo 
stesso  reverendo  Padre,  che  non  sia  adulterato  con  fave,  con  gar- 
hanzos,  né  con  altri  immondi  legumi.  Fino  quel  pacifico  snntero, 
che,  nel  delizioso  quadretto  del  Gimenes  j  Arando,  va  intorno 
questuando  per  il  mercato  di  Siviglia,  mi  pare  che  raccolga  più 
celie  che  quattrini,  e  che  non  se  ne  dia  per  offeso.  C  è  bene  in 
una  bizzarra  tela  del  Santa  Cruz  una  veglia  dì  morto  in  casa 
patrizia;  ma  i  servitori  filosoficamente  ne  profittano  per  giuocare 
a  carte  e  fumare  la  sigaretta,  lasciando  dire  il  proverbio,  il  quale 
pretende  che  carte  e  tabacco  ed  il  resto  {talaco,  toros,  naipes  y 
vino)  menino  l'uomo  alla  mala  ventura.  E  c'è  anche  un  esorcismo, 


268  l'arte   a    PARIGI. 

del  Martinez  del  Kincoii;  ma  e' m' ha  Faria  di  essere  l'ultimo 
e  il  più  innocente  degli  esorcismi.  Sua  Eccellenza  il  marchese 
padre,  che  sembra  tanto  disperarsi  per  amore  della  sua  bella  e 
endemoniada  figliuola,  può  star  sicuro  che  la  piccina  non  aspetta 
altro  se  non  un  conte  d'Almaviva  per  risanare  in  un  batter  d'oc- 
chio; il  medico  di  Molière  non  esiterebbe  un  momento  a  dirglielo. 
«  Voiìa  iwurquoi  votre  fdle,  est  nmdtc.  » 

Tutta  codesta  cara  letizia  e  gioventìi  della  odierna  pittura 
spagnuola  si  compendia  poi  in  un  triumvirato  d'artisti,  del  quale 
non  si  saprebbe  imaginare  il  più  lieto,  se  pur  tropiio  uno  dei 
tre,  che  n'  era  proprio  la  stella,  non  fosse  da  tre  anni,  nel  più 
vivo  del  suo  fulgore,  scomparso.  Chi  non  conosce  Eortuny?  Egli 
ha  esercitato  anche  fra  noi,  in  Italia,  un  prestigio,  che  per  un 
momento  s'insignorì  di  più  d'un  maestro,  e  che  fra  i  giovani  lascia 
scorgere  ancora  vivissimo  il  suo  solco  fosforescente.  «  Fortuny 
—  diceva  anche  quel  Regnault,  che  fu  la  più  bella  speranza  della 
scuola  francese  —  Fortuny  mi  toglie  il  sonno.  »  E  la  sua  indole 
pittorica  è  veramente  così  nova,  così  mobile,  così  iridescente,  così 
compenetrata  a  tutte  le  baldanze,  a  tutte  le  sorprese,  a  tutti  i 
giuochi  della  luce,  egli  ha  così  intero  il  coraggio  della  evidenza 
e  della  identità,  egli  signoreggia  con  una  sagacia  così  epicurea 
r  infinito  spettacolo  del  mondo,  pigliandone  tutto  quello  che  gli 
dà  gusto,  muri  incandescenti  di  sole,  verzieri  brulicanti  di  vita 
vegetativa,  armi  damaschinate,  maioliche,  madreperle,  e  Beduini 
e  Kabili  e  Berberi  e  leggiadre  donnine  e  umoristiche  figure  di 
bibliotecari,  di  professori  e  di  àrcadi,  tutti  insieme  a  fascio  col 
resto,  che  non  c'è  spettatore  dalla  retina  un  poco  sensibile  il  quale 
non  si  lasci  rapire  dall'incanto,  e  non  lo  acclami,  sul  primo  gioire 
della  novissima  voluttà,  delizioso,  nnico,  incomparabile.  Dalla 
Fantnsht  nraha  e  dalla  Forta  di  Giustizia  dell'  Alhnì)d)ra  al 
Matrimonio  in  Vicarìa,  al  Giardino  dei  poeti,  e  alla  Scelta  della 
modella.  Oriente  e  Occidente  gli  tributano  tutte  le  ricchezze  del 
prisma,  tutte  le  gioie  dell'arcobaleno.  Una  bionda  carnagione  di 
donna  su  un  bel  grigio  di  sabbia,  un  lucco  rosso  pallido  su  un 
rosso  più  vivo,  gli  bastano  a  trovare  accordi,  a  deliziarsene  e  a 
deliziare.  Dopo  che  Rembrandt  s'è  tolto  il  capriccio  di  dipingere 
un  bove  sventrato,  e  che  Decamps  ne  ha  dato  a  piluccare  le  ossa 
al  cane  del  suo  occcaio  arabo,  più  d'un  pittore  s'era  arrisicato 
ne'macelli,  ma  per  lo  più  senza  raccogliervi  altro  che  disgusto  : 
Fortuny  solo  ti  passeggia  sicuro  anche  in  mezzo  alle  beccherie 
algerine,  e  n'esce  con  una  squillante  fanfara  di  lacche  e  di  cinabri. 


l'arte   a   PARIGI.  269 

Ma  de'suoi  quadri,  provati,  se  sei  da  tanto,  a  descriverne  uno. 
La  Vicarìa  sola  forse  (ed  è  il  solo  quadro  che  manchi  alla  Mo- 
stra) ti  dà,  oltre  alla  delizia  degli  occhi,  un  intuito  chiaro  del 
luogo,  del  tempo,  dei  caratteri;  c'è  anche  un'azione  semplice, 
intelligihile,  corretta.  Le  scene  arabe,  che  appartengono  alla 
prima  maniera,  se  non  parlano  con  un'  azione,  parlano  almeno 
con  un'impressione  genuina,  quella  della  figura  umana  còlta  alla 
sprovvista,  nella  sua  sincerità  e  nella  sua  fierezza.  Ma,  a  misura 
che  ti  inoltri  in  m3zzo  ai  portenti  del  caleidoscopio  fortuniano, 
e  t' inveschi  con  1'  artista  nelle  tentazioni  infinite  che  assediano 
il  suo  prodigioso  pennello  senza  che  neppur  una  rimanga  insod- 
disfatta, tu  vedi  la  virtuosità  pigliare  sempre  piìi  il  passo  sul 
concetto,  fare  signorilmente  a  fidanza  col  tèma,  e  finire  a  pren- 
dere ad  unico  tèma  sé  medesima,  per  rifulgere,  per  ispecchiarsi, 
per  gioire  in  sé  sola.  Cosi  diceva  Lucrezio  che  gioissero  gli  Dei, 
e  così  a  un  dipresso,  io  credo,  ripeterono  anche  i  teologi  del 
medio  evo  che  in  cielo  la  Intelligenza  si  estrinseca 

Girando  sé  sovra  sua  imitate. 

Ma  è  egli  lecito  all'arte  di  pareggiarsi  all'assoluto,  e  di  passarsi 
d'cgui  altro  fine?  A  me  non  pare.  E  mi  pare  che,  per  buona 
sorte,  la  ragione  estetica  collimi  in  questo  con  la  ragione  mo- 
rale; perchè  non  solamente  rimano  qualcosa  d'insoddisfatto  nel 
tuo  r.nimo  quando  la  virtuosità  dell'artista  non  ti  dà  altro  che 
una  squisita  delizia  dei  sensi;  ma  i  sensi  medesimi  sono,  alla 
lunga,  ecceduti,  faticati,  rifiniti  da  uno  scintillìo,  il  quale  non  per- 
dona a  nulla,  non  sagrifica  nulla,  non  ti  risparmia  nessun  parti- 
colare e  nessuna  finezza;  tu  affoghi,  alla  fine,  in  un  mare  d' im- 
pressioni gradevoli,  dove  però  l'una  elide  l'altra,  e  un  viso  di 
donna  finisce  a  non  valere  più  del  calice  di  un  fiore.  Vedi,  per 
esempio,  la  scelta  della  iitodella.  Quella  sala  di  palazzo  Colonna, 
dove  il  pittore  ha  collocato  la  sua  scena,  è  tutta  un'onice,  un'opale, 
una  gemma.  Ma  fra  quei  rilucenti  accessori  non  ce  n'è  forse  piìi 
d'uno  che  ti  cattiva  più  deW accessorio  vivente?  E  quei  professori, 
0  amatori  che  siano,  schierati  in  semicerchio  a  consulta,  o  non  ti 
danno  essi  questa  impressione,  che  il  pittore  si  sia  piìi  assai  oc- 
cupato di  assortire  i  rasi  e  i  broccati  dei  loro  abiti,  che  non  di 
sindacare  le  loro  teste  e  i  loro  cervelli? 

«  11  lume  universale  dell'aria  in  campagna,»  per  ripetere  le  pro- 
prie parole  di  Leonardo,  pare  che  sia  diventato,  per  questa  genera- 
zione di  pittori,  l'unico  obbiettivo  a  cui  intendono  tutte  le  potenti 


270  l'arte  a   PARIGI. 

loro  f^icoltà;  ma,  se  in  una  cosa  sicuramente  giovarono,  voglio 
dire  nel  togliere  via  l'abuso  del  trasportare  anche  all'aria  aperta 
gli  effetti  ritratti  «  a  un  lume  particolare  nella  casa,  »  errore 
che  Leonardo  già  condannava,  credo  che  troppo  restringano  l'uf- 
ficio dell'arte  e  l'ambizione  de'  valorosi  loro  ingegni,  contentan- 
dosi di  questa  vittoria  sola.  E  questo  sopratutto  mi  pare  che 
debba  dirsi  delle  composizioni  di  figura,  alle  quali  sta  dinanzi  un 
così  vasto  campo  da  percorrere  nella  storia,  nella  vita,  nel  per- 
petuo dramma  dell'anima  umana.  Per  il  paese  tanto,  la  schiet- 
tezza e  la  valentìa  del  rendere  compendiano  già  quasi  tutte  le 
parti  desiderabili,  e  si  può  dire  che  quando  ci  s'aggiunga  la 
scelta  del  sito  pittoresco,  non  resti  a  dimandar  altro;  perchè  la 
poesia  scaturisce  spontanea  da  un  sito  pittoresco  dipinto  bene. 
Gli  è  quello  che  ottimamente  ci  dimostra  il  Rico,  un  Fortuny  del 
paese;  uno  dei  pochi  che  ci  facciano  innamorare  della  vita  con 
la  sola  e  schietta  imagine  del  vero.  Egli  arriva  a  una  profondità 
di  verdi,  che  pochi  osarono  prima  della  riscossa  dei  veristi;  a  uno 
smalto  d'azzurri,  che  vince  qualche  volta  di  forza  persino  il  ri- 
lievo delle  alberature;  e  a  questi  intensi  valori  egli  ti  sa  mari- 
tare dei  grigi  incredibilmente  fini  nei  terreni  e  nelle  fabbriche  ; 
e  con  una  punta  di  pennello  meravigliosamente  agile  e  rapida, 
ti  dà  risalto  ai  minimi  accidenti  nei  metalli  che  rullano  faville 
al  sole,  nelle  muraglie  bianche  che  se  ne  imbevono,  nei  marmi  su 
cui  la  luce  scivola  e  mareggia;  e,  in  quadretti  grandi  come  la 
mano,  ti  popola  le  rive  e  le  fondamenta  di  Veìies/a,  le  piazze  di 
Granfiti,  le  rovine  di  Roma,  le  vecchie  porte  moresche  di  Toledo, 
le  spiagge  di  Fontarabia,  fino  i  mercati  della  vorticosa  Parigi. 
qualunque  paese  dove  egli  abbia  serbato  dne  minuti  fra  mano  il 
suo  libercolo  di  memorie,  d'un  mondo  di  macchiette  vive,  affac- 
cendate, caratteristiche,  della  famiglia  di  quelle  del  Guardi. 

Lasciamolo  correre  la  campagna,  in  cerca  di  novo  sempre,  e 
diamo  posto  al  terzo  triumviro.  Raimundo  Madrazo,  figliuolo  di 
un  valente  pittore,  del  quale  tutte  le  bellezze  araldiche  e  tutte 
le  corone  ducali  di  Spagna  si  disputano  i  signorili  ritratti,  ebbe 
in  famiglia  un'altra  corona;  fu  cognato  e  intrinseco  del  povero 
Fortuny.  Costui  vivente,  e'  parve  quasi  volontariamente  nascondersi 
dentro  al  fraterno  splendore;  oggi  la  sua  pittura  si  espande  come 
un  finme  di  latte  e  di  rose  in  ogni  maniera  di  graziosi  soggetti  : 
mattiniere  uscite  da  feste  di  hallo,  ìnsìàìosQ pierrettes,  leggiadre 
gnitarrere  dal  pie  sottile,  vertiginose  regine  della  jota  e  del  fan- 
dango, aristocratiche  senoritas.  Per  coronar  l'opera,  la  mostra  ha 


l'aETE   a   PARIGI.  271 

di  suo  un  ritratto  del  Coquelin,  uno  degli  eredi  della  tradizione 
di  Molière,  alla  Commedia  Francese;  e  Molière  medesimo,  ne  metto 
pegno,  ravviserebbe  senza  esitare  in  quella  fina,  ironica,  provo- 
cante, temeraria,  birrichina,  truffaldinesca  testa,  l'eroe  delle  Four- 
bcries,  l'inesauribile  alleato  di  tutti  gl'innamorati  Lelii  e  Leandri 
del  vecchio  Teatro, 

lìelhi  ijeranf  alii.    tu.  foeli.f   Anstrùi,  nube, 

fu  detto  un  giorno  da  un  poeta  aulico,  il  quale  anche  nell'  apo- 
logia ci  metteva,  pare,  un  grano  di  malizia.  Noi,  senza  una  ma- 
lizia  al   mondo,  possiamo  congratularci  colla  Spagna  che  a'  suoi 
giovani  artisti  basti  guardare  per  dipingere,  gustar  il  colore  per 
rapirlo  sulla  tela,  vivere  per  vincere.  Kesta  che  vogliano  vincere 
sempre  da  gagliardi,  aspirare  a  fatiche  e  a  vittorie  virili.  E  quando 
vorranno,  detto  fatto:  non  hanno  che  da  battere  la  via  del  Pradilla. 
È  da  credere,  e  l'opera  del  Pradilla  appunto  ce  ne  dà  fede, 
che  la  pittura  spagnuola,  dopo  avere  assaporato  con  giovanile  bal- 
danza tutta  quanta  la  voluttà  del  sentirsi  libera,  dopo  avere  spa- 
droneggiato a  sua  posta  accumulando  sulla  tela  le  cose  belle  e  gli 
effetti  pittorici  per  il  solo  gusto  di  pascerne  gli  occhi,  tornerà  ai 
grandi  intenti  e  alle  severe  tradizioni  dell'arte.  La  sua  levata  di 
scudi,  nondimeno,  la  sua  rivolta,  si  capisce  senza  difficoltà.  Fu  una 
rivolta  contro  l'Escuriale  e  contro  il  Quemadero,  contro  gli  spettri 
di  Filippo  II  e  di  Torquemada,  che  le  avevano  oscurato  persino 
i  suoi  cieli  sereni  e  riempiuto  di  contrizione  e  di  spavento  per- 
sino l'anime,  non  che  l'opere,  de' suoi  maestri.  Ma  il  distacco  dalla 
tradizione,  il  ripudio  di  un  glorioso  passato  si  capirebbe   meno, 
anzi  non  si  capirebbe  affatto  presso  di  noi  Italiani,  in  quest'altra, 
come  gli  stranieri  dicono,  delle  due  Penisole;  dove  non  c'è  stata 
libertà,  né  gloria,  né  vittoria  dello  spirito  umano  che  non  si  sia 
riflettuta  e  incarnata  nell'arte,  dove  anzi  l'arte  tutta  quanta  nei 
suoi  migliori  periodi  non  è  stata  altro  che  parola  vivente  del  genio 
patrio,  e  incarnazione  di  libertà.  Ora,  un  poco  per  il  capriccio  del 
caso,  che  ha  dato  alla  Mostra  italiana  una  fisonomia  non  al  tutto 
genuina  e  conforme  alla  fisonomia  vera  dell'arte  in  Italia,  un  poco 
anche,  confessiamolo,  per  colpa  nostra,  per  una  certa  ostentazione 
eccessiva  di   modernità,   per  una  certa  smania  di  proclamare  ai 
quattro  venti  che  in  Italia  ncn  si  vuole  affatto  vivere  a  spese  degli 
avi,  noi  abbiamo  l'aria,  costì  in  Campo  Marzio,  d'essere,  non  dico 
insorti  contro  i  nostri  vecchi,  e  neppure  dimentichi  di  loro,  ma, 
che  forse  è  peggio,  indifferenti  ;  sopratutto  occupati  a  far  capire 


272  l'arte   a   PARIGI. 

al  mondo  che  siamo  al  corrente  di  tutte  le  novità,  di  tutte  le  teme- 
rità, di  tutte  le  emancipazioni;  e  che,  in  quanto  a  emancipata  e  a 
temeraria  e  a  impaziente,  l'Italia  può  venir  di  pari  —  ahimè  povero 
vanto!  —  con  chi  che  sia. 

Gli  stranieri,  i  quali  ci  giudicano  daUa  Mostra  sola,  ci  pigliano 
in  parola  pur  troppo;  e  alcuni  con  benevolenza,  se  anche  un  poco 
con  quel  fare  paterno  che  s'usa  con  le  pecorelle  smarrite,  ci  am- 
moniscono del  pericolo  e  dell'errore  ;  altri  si  affrettano  a  mettere 
senza  più  a  riscontro  il  presente,  pieno  d' incertezze,  di  tasteg- 
giamenti e  di  prove,  con  un  passato  pieno  di  trionfi,  e  ci  schiac- 
ciano senza  misericordia  sotto  il  paragone;  pochi  assai,  e  tra  i  po- 
chi mi  giova  notare  quel]'  autorevolissimo  dei  periodici  d' arte 
che  ho  già  ricordato  a  titolo  d'onore,  la  Gazsdhi  francese  delle 
Belle  arti,  pochi  s' indugiano  a  cercare  il  segreto  della  nostra 
irrequietezza,  e  sanno  mettere  il  dito  sulla  piaga,  e  in  fondo  a 
tutte  le  nostre  millanterie  apparenti,  a  tutte  le  nostre  pretensioni 
di  riprincipiar  l'arte  senza  mediatori,  senza  esempi,  senza  metodi, 
sforzando  e  saccheggiando  la  natura  piuttosto  che  contentandoci 
di  amarla  e  di  interrogarla,  sanno  ritrovare  una  forza  viva,  una 
febbre  di  ricerca,  una  volontà  risoluta  di  partecipare  piuttosto 
alle  battaglie  quotidiane  che  non  alle  commemorazioni  solenni, 
ripetitrici  e  incruente,  delle  battaglie  passate.  Principi  d'azione 
esagerati  nell'applicazione  senza  dubbio,  male  definiti  nella  co- 
scienza medesima  della  generazione  che  li  accampa,  sbagliati  anche 
forse  nell'obbiettivo  che  sembrano  togliere  di  mira;  ma  sintomi, 
al  postutto,  d'una  fibra  che  non  s'accascia,  che  non  s'allenta,  che 
non  assonna. 

Io  credo  che  si  possa,  senza  illusione  di  vanità  e  senza  pe- 
ricolo d'offesa,  paragonare  l'artista  italiano  della  odierna  gene- 
raziojie,  dico  della  più  giovane,  e  naturalmente  della  più  in(|uieta 
e  più  rotnorosa,  al  figliuolo  di  una  stirpe  illustre,  ma  inqioverita; 
che  è  stufo  di  vedere  ammucchiarsi  la  polvere  sugli  stemmi  corrosi, 
sugli  arazzi  sbiaditi,  sui  rugginosi  trofei  del  suo  vecchio  palazzo: 
che  a  restaurarlo  per  bene  e  a  rimettere  in  assetto  tutti  quei  vec- 
chiumi preziosi  non  può  nemmanco  pensare,  il  fatto  suo  non  gli 
bastando  a  gran  pezza  a  vivere;  e  però  piglia  in  uggia,  ed  an- 
che affetta  di  avere  in  uggia  più  che  non  abbia  in  realtà,  i  suoi 
titoli,  i  suoi  diplorai,  i  suoi  avi;  e  vuol  rialzare  la  propria  casa 
e  la  propria  fortuna  come  vede  gli  altri  erigere  e  difender  la  loro, 
come  si  può,  come  si  usa,  buttandosi  nella  mischia  alla  pari  con 
tutti,  dando  di  piglio  all'armi,  alle  idee,  agli  strumenti  del  suo 


l'arte   a  PARIGI.  273 

tempo.  Se  non  che  di  maniere  d'emergere,  di  tornar  su,  di  salire, 
ce  ne  hanno  di  varie  sorta;  e  pur  troppo  quelle  di  cattiva  lega 
sono  le  più  numerose.  Si  contenterà  egli  d'un'operosità  febbrile, 
ma  intemerata,  oppure  si  lascierà  involontariamente,  inconsape- 
volmente travolgere  in  mazzo  coi  facitori,  che,  senza  badare  al 
come,  non  mirano  se  non  a  far  colpo?  Questo  è  il  punto;  questa, 
direbbe  Amleto,  è  la  quistione. 

Inutile  soggiungere  che,  secondo  il  mio  convincimento,  l'onestà 
artistica,  la  sincerità,  l'ardore,  il  vigore  anche,  degli  animi  gio- 
vanili che  più  perdutamente  si  lanciano  nel  moto  e  nelle  impronti- 
tudini della  innovazione,  sono  superiori  ad  ogni  dubbio;  dirò  di  più, 
io  ho  ferma  fede  che  l'arte  medesima,  non  ostante  le  esagerazioni, 
i  traviamenti  e  le  cadute  inevitabili,  non  avrà  da  ultimo  a  do- 
lersi di  essere  passata  attraverso  i  cimenti  di  questo  battagliero 
periodo  ;  ma,  ad  una  condizione  :  che  il  paese  non  la  lasci  sola;  che 
la  coscienza  pubblica  non  s'alieni  dalle  agitazioni  sue,  da'  suoi 
sforzi,  dalle  sue  lotte,  e  che  la  pubblica  azienda  non  si  ostini  a 
considerarla  come  un  fuor  d'opera,  a  mala  pena  e  di  mala  voglia 
ammissibile  fra  gli  apparati  di  certi  giorni  di  gala,  per  ossequio 
alle  costumanze  e  a  titolo  di  elegante  superfluità.  C  è  poi  un 
modo  d'  assicurarsi  che  l'arte  in  Italia  è  viva  e  vitale,  e  che  il 
pericolo  non  istà  tanto  nei  bollori  un  poco  tumultuari,  nelle  ef- 
fervescenze un  poco  scottanti  che  la  inquietano  e  la  travagliano 
e  la  trasformano,  quanto,  diciamolo  aperto,  nella  diserzione  del 
paese.  E  il  modo  è  di  non  fermarsi  all'  episodio  delia  Mostra,  e 
di  percorrere,  sia  pure  con  un'occhiata  rapidissima,  le  evoluzioni 
dell'arte  italiana  nel  nostro  secolo:  una  serie,  la  mercè  della 
quale  soltanto  è  possibile  di  afferrarne  il  carattere,  e  di  presa- 
girne, con  qualcbe  verisimiglianza,  il  corso  ulteriore. 

Non  è,  cred'  io,  un  inganno  dell'amore  la  persuasione  in  cui 
si  viene,  quando  si  rivolge  indietro  lo  sguardo  verso  i  principii 
di  questo  periodo,  che  ciascuna  sua  fase,  così  nell'arti  plastiche 
come  nei  resto,  ci  abbia  trovati  bensì  in  una  costante  comunione 
di  spirito  cogli  agitatori  di  novità  di  ogni  contrada,  e  massime 
coi  Francesi;  ma  siasi  inaugurata  da  noi  con  modi  nostri,  affini 
agli  altrui  e  non  identici,  informati  piuttosto  a  una  certa  isotermia 
naturale  delle  menti,  che  non  a  una  impulsione  meccanicamente 
ricevuta.  Per  restare  nella  pittura,  tutto  il  moto  francese  della 
prima  Eepubblica  e  del  primo  Impero  fa  capo  a  David;  il  nostro 
all'Appiani:  e  quanto  non  è  questi  più  vivo,  più  splendido,  più 
aggraziato!  Il  David  non  appartiene  oramai  che  alla  storia;  l'Ap- 


274  l'arte   a   PARIGI. 

piani,  nella  pittura  decorativa  e  solenne,  è  ancora,  e  resterà  io 
credo  sempre,  un  esemplare  da  consultarsi  non  solamente  cou 
frutto,  ma  con  quel  piacere  tranquillo  che  danno  le  cose  greche. 
il  nostro  classicismo  dunque,  se  anche  ai  Palagi,  ai  Camuccini. 
agli  Agricola,  ai  Benvenuti,  ai  Bezzuoli  e  agli  altri,  non  rimanga 
che  un  poco  di  chiarore  riflesso  piuttosto  che  un  raggio  di  luce 
propria,  e  siano  vissuti  più  di  virtù  dativa  che  nativa,  il  classi- 
cismo nostro,  io  dico,  avrebbe  già  una  propria  e  limpida  scatu- 
rigine. Ma  quanta  virtù  non  gli  aggiunse,  e  quanto  recisamente 
impressa  del  nostro  proprio  genio,  il  Sabatelli  ?  Se  a  costui  mancò 
il  fascino  del  colore,  egli,  per  la  facoltà  dell'  invenzione,  fu  mag- 
giore del  suo  tempo  ;  e  la  Peste  di  Firenze  e  le  stampe  àeW Apo- 
calisse il  ricongiungono  senza  intervallo  alla  grande  generazione 
del  Cinquecento. 

Ohe  se  Alfieri  e  Monti  e  Foscolo  possono  rivendicare  a  sé 
l'ispirazione  letteraria,  il  soffio  animatore  delle  arti  plastiche  in 
questa  prima  fase  della  nostra  storia  contemporanea,  anche  più 
evidente,  è  rispetto  a  quella  che  immediatamente  vi  tenne 
dietro,  la  ispirazione,  oserei  dire  la  paternità,  del  Manzoni  e  del 
Niccolini.  Il  romanticismo  fu  da  noi  sì  poco  un  frutto  esotico,  che 
mentre  in  Germania,  dov'ebbe  le  prime  radici,  era  stato  stru- 
mento di  restaurazione  religiosa  e  monarchica,  da  noi  pur  ser- 
bando una  certa  impronta  di  religiosità  meditativa  e  sentimentale, 
diventò  segnacolo  in  vessillo  agli  spiriti  più  insofferenti  della  ser- 
vitù politica,  non  che  della  vecchia  falsariga  letteraria.  La  nostra 
pittura  romantica,  poi,  fu  senz'altro  la  incarnazione  della  scuola 
letteraria  indigena;  e  il  nostro  venerando  Hayez,  che  vive  alla 
riverenza  di  tre  generazioni,  roman::eggiò  in  tela  Shakspeare, 
Scott,  Manzoni  o  i  discepoli  di  Manzoni,  quando  il  Delacroix 
principiava  forse  a  combattere  le  sue  strepitose  battaglie,  ma 
certo  l'eco  di  queste  non  aveva  ancora  varcato  le  Alpi.  Dall'uno 
all'altro  poi  corre  una  diversità  d'indole  tanto  profonda,  quanta 
ne  può  correre  dalla  soavità  alla  fierezza,  e  dalla  grazia  al  vi- 
gore. Più  affinità  si  troverebbe  forse  fra  rHa3^ez  e  il  Delaroche; 
ma,  dove  questi  nel  colore  fallisce  la  prova,  quegli,  se  anche  in  una 
tonalità  un  poco  velata,  ha  tutte  le  finezze  e  le  leggiadrie  de'  suoi 
Veneziani,  dei  quali  mirabilmente  rivendica  in  luce  i  fasti  e  i  nefasti. 

Noi  scendiamo  dunque  tutt'altro  che  da  ibridi  padri;  e  già 
gl'ibridi,  secondo  natura,  non  avrebbero  avuto  virtù  prolifica. 
Quanta  invece,  dopo  quelle  due  prime  generazioni,  non  è  la  mol- 
teplicità   delle    famiglie    in    cui    ci    siam   venuti  partendo  !    Ma 


l'arte   a  PARIGI.  275 

badiamo.  Molteplicità  non  è  confusione,  come  ricchezza  non  è 
sperpero,  e  come  libertà  non  è  anarchia.  Già  in  diritta  linea 
dal  Sabatelli  e  dall'Hayez,  sospinta,  incuorata  da  loro,  nasce  la 
nova  scuola  lombarda;  non  solamente  una  maniera  nova,  ma, 
per  noi,  una  forma  nova  dell'arte,  «  Fate  come  sentite  »  aveva 
detto  il  Sabatelli  al  più  promettente  de'suoi  discepoli;  e  Dome- 
nico Induno,  alla  memoria  del  quale  io  rendo,  non  senza  lagrime, 
questa  testimonianza,  suscitò  (e  non  aveva  visto  allora  paranco 
altro  cielo  che  il  suo,  né  altr'  arte  che  quella  di  Brera)  la  pit- 
tura di  genere  italiana.'  Dal  buon  ceppo  intanto  dei  Bertini,  a 
cui  l'Italia  era  andata  debitrice  della  restaurata  arte  veti-aria, 
rampollava  quel  maestro,  che  recò  in  dote  alla  pittora  storica 
la  più  limpida  e  tersa  tavolozza.  E  agli  Schiavoni,  i  quali  ave- 
vano serbata  viva  in  casa  la  buona  tradizione  veneta,  sottentrava 
con  più  vario,  più  dotto  e  più  potente  pennello  lo  Zona;  ed  al 
Coghetti  e  al  Podesti,  depositari  sapienti,  ancora  che  un  poco 
farraginosi  e  accademici,  della  tradizione  romana,  il  Fracassini 
dava  in  giovane  età  un  glorioso  continuatore.  Ma  una  metà  del- 
l'Italia ancora,  si  può  dire,  ignorava  l'altra.  Che  splendida  e  fe- 
lice rivelazione  non  fu  quella  onde  la  prima  volta,  dopo  atter- 
rate le  secolari  barriere,  il  Mezzodì  della  penisola  parve  tras- 
fondere nel  Nord  la  sua  vena  giovanile,  fervida,  riboccante  di 
vita,  di  fantasia  e  di  colore  !  Morelli  restituì  ai  Lombardi  quella 
rivoluzione  ch'essi  avevano  portata  a  Napoli;  e  Pagliano  e  Gamba 
e  i  più  giovani  che  vennero  sulle  loro  orme,  apersero  anche  a 
questa  rivoluzione  le  porte;  e  rinsanguarono  di  più  vive  por- 
pore le  pensate  e  forti  loro  creazioni. 

Dopo  quei  gruppi  di  classici  e  di  romantici  che  furono,  e 
forse  vie  più  ci  sembrano,  a  cagione  della  distanza,  compatti  ed 
omogenei,  le  scuole  pittoriche  in  Italia  si  son  venute,  dicevamo, 
moltiplicando,  anzi  disgregando  senza  posa.  Il  qual  moto  poi  di 
disgregazione,  e,  se  mi  passi  la  barbara  parola,  d'individualiz- 
zazione, seguitò  negli  ultimi  anni  tanto  rapido,  che  oramai  pres- 
soché ciascun  artista,  vuoi  nel  soggetto  o  vuoi  nel  fare  od  anche 
in  amendue,  cerca  di  mettere  un  certo  suo  proprio  sigillo,  un 
accento,  una  intenzione  pittoresca,  una  maniera,  e  alla  peggio 
un  ticchio  e  un  capriccio  suo  proprio;  inclinazione  la  quale  non 
meriterebbe  se  non  lode,  quando  sempre  emanasse  da  un  con- 
vincimento meditato  ed  intimo,  e  qualche  volta  invece  non  fosse 
0  male  dissimulata  primizia  d'alcuna  moda  recente  e  forestiera, 
oppure  ostentazione  più  che  coscienza  d'originalità.    Ma  bisogna 


276  l'arte    a   PARIGI. 

confessare  anche  che  codesto  sbizzarrir  del  pennello  in  creazioni 
più  sin,2;olari  che  nuove  e  più  eccentriche  che  originali  ha  un'al- 
tra causa,  la  quale  non  può  affatto  apporsi  all'artista,  anzi  in 
qualclie  modo  lo  discolpa  e  lo  scusa;  dico  quell'abbandono,  quella 
solitudine  morale,  che  gli  s'è  andata  facendo  intorno,  proprio 
quando  la  rivendicata  indipendenza  pareva  promettere  alla  patria 
coltura,  se  non  la  partecipazione  nppassionata  dell'universale, 
almeno  l'aifetto  di  più  numerosi  e  di  più  caldi  amici,  e  un  più 
diffuso  e  ])iù  limpido  senso  di  quella  solidarietà  che  intrecoia 
tutti  fra  loro  gli  studi,  e  tutti  insieme  gl'immedesima  col  decoro, 
colla  reputazione  e  colla  prosperità  del  paese. 

E  tristo  a  dirsi,  ma  è  necessario.  0    fosse  l'irrompere   degli 
interessi    materiali    nell' arringo  lungamente    conteso    della   vita 
pubblica;  o  lo  svampare  delle  volontà  nelle  effervescenze  parolaie 
di  quella  che  chiamano,  forse  per  antitesi,  politica,  e,  lunge  che 
edifichi  la  città,  spesse  volte  è  un'arte  malsana,  che  la  sbriciola 
e  la  disperde;  o  fosse  la  tirannia  ineluttabile  delle  esaurite  finanze, 
quell'anatema  della  povertà,  che  ne  sigilla  dentro  al    circolo  vi- 
zioso di  una  produzione  insufficiente  a    sti])endiare  il   lusso   del- 
l'intelligenza, e  di  una  fiscalità    eccedente  le   forze  della  produ- 
zione; 0  un  poco  di  tutte  insieme  queste  cagioni,  e  di  quell'altre 
che  il  giudizio  di  ciascuno  ])uò  facilmente  presumere:  fatto  è  che 
l'arte  non  si  è  sentita    mai  più  sola,    più  negletta,  più   derelitta 
dalla  coscienza  pul)blica,  non  che  dalla  prJjblica  munificenza.  Ke- 
secazioni  di  sussidi  male  dissimulate  sotto  apparenze  di  riforma; 
riforme  imjiernate  al  criterio  unico   del  risparmio;   balzelli  get- 
tati fino  sull'ospitalità  antica  di  quei  Muspi  e  di  quelle    Pinaco- 
teche, die    sono   fattori   del  gusto    e  corredo    efficacissimo   della 
istruzione  popolare,  e  ciò  nell'atto   a])punto   che  l'istruzione    po- 
polare si  proclama  obbligata  e  gratuita;  sminuzzamento  infinite- 
simo anche  della  picciol'offa  buttata  all'arte,  più  per  pudore  che 
per  amore:  cospirazioni    del  silenzio  e    invasioni  della   partigia- 
neria fili  dentro  alla  critica;  le  grand;  liberalità   in   dileguo  in- 
sieme con  le  fortune  patrizie,  e  poco  e  male  supplite  dalle  nuove 
fortune:  tutta  questa  sequela  di  guai  non    avrà  fine  se    prima  il 
paese  non  respiri   da  quella  contenzione    ii'razionale,  inumana  e 
infeconda,  a  cui  la  irresoluta  Europa  si  condanna  da  sé,  non  sa- 
pendo essere  né  in  pace  né  in  guerra:  e  tutta  questa  sequela  di 
guai  non  fi  alle  arti  un    letto  di  rose:    laonde  al    critico   che  si 
lamenti  può  bene  il  pittore,  come  il  martoriato  Messicano  al  suo 
Ministro,  rinviar  la  rampogna. 


l'arte  a  rAKiGi.  277 

Con  tutto  questo,  noi  siamo  in  arte,  e  in  pittura  anche,  assai 
msn  poveri,  che  non  ci  hisci  credere  la  Mostra  di  Campo  Marzio. 
L'affresco  non  è  una  memoria  soltanto,  nel  paese  dove  il  Fracas- 
sini  ha  istoriata  con  larghezza  antica  di  mente  e  di  mano  una 
delle  più  antiche  fra  le  romane  basiliche,  e  dove  il  Bertiui  venne 
degnamente  commemorando  sulle  pareti  di  una  splendida  sede 
gentilizia  le  invenzioni  del  genio  italiano;  uè  la  pittura  filosofico- 
religiosa  accenna  a  perire  dove  il  Gastaldi  osa,  da  quel  pensatore 
ch'egli  è,  la  gran  macchina  del  Simon  M(igo,  e  il  Morelli  con  la 
vivacità  e  la  gentilezza  greca  del  suo  genio,  trova,  dopo  la  divi- 
nissima  Salve  JRcgina  e  VAssunta,  quelle  traduzioni  sue,  così 
nuove  e  così  profonde,  della  leggenda  evangelica;  né  la  pittura 
storica  è  morta  dove  sono  ricordi  ancora  recenti  le  Donne  vcne- 
sianc  dello  Zona  (cito  esempi  a  rifascio  come  mi  soccorrono  alla 
memoria),  il  Duca  (V Atene  dell'Ussi,  il  Bujardo  e  il  Maramaldo 
del  Pagliano,  il  Borgia  del  Faruffini,  il  Carlo  Emanuele  del  Fo- , 
cosi,  il  Biirharossa  a  Susa  del  Giuliano,  i  Funerali  di  Tiziano 
del  Gamba;  né  giace  inonorata  l'epopea  contemporanea  dove  il 
Pagliano  col  passo  del  Ticino,  col  Solferino  e  colla  fazione  di 
Seriale,  il  Fattori  con  un  ciclo  intero  di  haitaglie,  Girolamo  In- 
duno  coi  fasti  di  Roma  e  di  Crimea,  con  Magenta,  con  Aspromonte, 
con  Quarto,  con  Villaglori,  ne  celebrano,  da  artisti,  da  patrioti  e 
da  soldati,  gli  episodi  diversamente  memorabili.  Ma  di  tutti  codesti 
maestri,  a  quali  fra  i  morti  s'è  pensato,  quanti  dei  vivi  sono  com- 
parsi, e  con  quali  opere,  alla  tenzone  mondiale  di  Campo  Marzio? 
Quale  sprone  s'è  aggiunto  ai  ritrosi,  quale  fastidio  s'  è  alleviato, 
quale  dolce  violenza  s'è  imposta?  Diciamolo  e  ridiciamolo  prima 
di  correre  la  breve  rassegna  di  questi  nostri  piuttosto  assaggi  e 
scampoli  che  prodotti:  tutta  non  è  degli  artisti  la  colpa  se  costà 
dentro  si  vive,  mi  guardi  Iddio  dal  dire  senza  speme  come  nel 
limbo  dantesco,  ma  certo  e  non  lietamente  in  desio. 

L'arte,  anche  questo  giova  ridirlo,  si  priva  da  sé  di  una  infi- 
nita ricchezza,  lasciando  cadere  i  soggetti  attinti  al  ciclo  cristiano. 
Erano  soggetti  bene  definiti  nella  mente  d'ognuno;  e,  appunto 
perchè  avevano  nella  intelligenza  universale  un  substrato  di  no- 
zioni già  acquisite  e  perspicue,  e  proscioglievano  l'artista  dal  fa- 
stidio di  una  esposizione  complicata  o  malagevole  sempre  ad  in- 
tendersi, gli  lasciavano  una  duplice  e  preziosa  libertà:  libertà  di 
trovare  quelle  varianti  delicate,  sottili,  qualche  volta  profonde, 
che  l'intimo  sentimento  solo  sa  suggerire,  e  nelle  quali  veramente 
risiede  il  bello  e  il  novo  dell'arte:  e  libertà  sopratutto  di  consa- 

VoL.  X!V,  Serie  II  —  15  Marzo  1819.  IT 


278  L'AETE   a   PARIGI. 

orare  alla  potenza  e  alla  finezza  della  fattura  tutte  quelle  forze 
che  da  noi  moderni,  più  letterati  sempre  che  artisti,  si  sciupano 
nel  tormento  del  tèma.  Chi  non  vede  quanta  varietà  e  ricchezza 
d'invenzioni  non  comporti  una  semplice  Nalhntà  o  una  Adora- 
zione de'  Magi,  secondo  che  ciascun  jiittore  vi  reca  l'esegesi  del 
suo  tempo  e  del  suo  ingegno?  Se  dagli  incunaboli  del  Trecento 
fino  alle  prodigalità  della  decadenza  tu  consideri  la  scala  che  uno 
solo  di  codesti  soggetti  ha  percorsa,  sei  sicuro  di  leggervi,  insieme 
con  la  storia  delle  opinioni  e  dei  costumi,  poco  meno  che  la  fisio- 
logia comparata  di  tutti  quei  cervelli,  attraverso  ai  quali  un  me- 
desimo germe  è  passato,  per  diventar  nucleo  a  una  formazione 
sempre  nova  e  sempre  diversa;  tanto  ai  due  estremi,  diversa,  quanto 
l'interpretazione  di  Giotto. può  esserlo  dall'interpretazione  di  Ru- 
bens, (jli  è  dunque  già  da  parte  dell'artista  moderno  una  prova 
di  addottrinato  e  fino  ingegno  l'accostarsi  volontariamente  a  tèmi 
di  questa  sorta,  dove  la  mente  volgare  non  vede  che  ripetizione,  e 
la  mente  istrutta  per  lo  contrario  sa  di  possedere  una  riposta  mi- 
niera. Ed  è  lodevole  che  nno  almeno  dei  nostri  si  sia  affacciato  a 
questo  cimento,  l'Altamura,  il  quale  nel  suo  Cristo  al  Pretorio 
parve  incontrarsi  d'intenzioni  con  l'Antokolski;  se  non  che,  vo- 
lendo dare  alle  caratteristiche  di  costume  e  di  razza  tutta  quella 
prevalenza  che  loro  assegna  la  critica  odierna,  lasciò  un  poco  ge- 
mere sotto  il  peso  dell'etnografia  l'ideale.  Fu  ad  ogni  modo  una 
ricerca  da  pensatore  la  sua;  mentrechè  non  mi  j^are  che  di  un 
consimile  travaglio  ci  sia  traccia  molto  profonda  nella  aggrade- 
vole fattura  di  una  Mater  amabilis  del  Fontana;  la  quale  a  tutti 
riuscirà  amabile  senza  dubbio,  ma  forse  più  amabile  che  madre, 
e  sopratutto  più  donna  che  Madonna. 

L'antichità  greco-romana,  considerata  rispetto  all'arte,  ha  in 
una  certa  misura  comuni  col  ciclo  cristiano  questi  vantaggi,  che, 
sebbene  in  una  sfera  un  poco  più  ristretta,  è  però  altrettanto 
certa  di  trovare  animi  apparecchiati  a  intenderla  ed  a  gustarla  ; 
e  che  i  sussidi  di  una  ermeneutica  più  addottrinata  e  più  acuta 
di  quella  che  per  lo  addietro  prevalse,  le  permettono  di  innovare 
e  quasi  di  riuverginare  l'interpretazione  dei  vecchi  tèmi.  Non 
altrimenti  si  spiega  il  prestigio,  di  cui  il  Gérome  e  più  recente- 
mente l'Alma  Tadórna  seppero  circondare  il  loro  mondo  neo-clas- 
sico; e  giova  che  anche  da  noi,  tanto  più  vicini  alle  fonti,  questa 
via  non  rimanga  inesplorata  e  negletta.  In  essa  si  è  di  buona 
lena  avventurato  il  Simoni,  cimentandosi  a  un  soggetto  nobilis- 
simo, Bruto  a  Filippi;  e  dalla  sua  tela  spira  un  senso   grave   e 


l'arte   a   PARIGI.  27& 

solenne,  che  non  disdice  al  tramonto  della  romana  repubblica. 
Vero  è  bene  che  quando  Bruto,  uscito  in  salvo  per  la  generosa 
abnegazione  di  Lucilio  dagli  stracorridori  barbari  che  l'inseguivano, 
ristette  in  mezzo  ai  pochi  suoi  capitani  ed  amici,  e  pronunzia 
quelle  parole  che  la  posterità  non  si  stanca  di  ripetere,  era  già 
notte;  ed  egli,  prima  d'uscire  in  quella  desolata  professione  di 
scetticismo  che  tutti  sanno,  guardò,  secondo  Plutarco,  il  cielo, 
che  tutto  era  stellato.  Onde  l'artista  che  avesse  osato  di  staccarsi 
dalle  invenzioni  mezzane,  e,  piuttosto  di  un  incerto  crepuscolo, 
avesse  fatto  una  notte  di  Grecia  stellata  e  fredda  (poiché  anche 
si  ha  dagli  storici  che  il  verno  era  tanto  rigido,  da  esserne  ge- 
lata l'acqua  sotto  le  tende),  avrebbe,  io  credo,  ottenuto  uno  di 
quegli  effetti  spiccanti,  a  cui  appunto  i  pittori  neo-classici  rac- 
comandano i  novi  loro  successi.  Né  anche  avrebbero  costoro  om- 
messo  di  lasciar  intendere  dal  picciolo  ed  ultimo  drappello  dei 
vinti  il  carattere  appariscente  e  signorile  di  quelle  milizie,  che 
si  davano  bene  per  tutrici  della  libertà,  ma  in  realtà  erano  fa- 
lange ultima  della  oligarchia  senatoria;  di  che  la  Vittoria  d'oro 
di  Cassio,  e  gli  elmi  e  gli  scudi  d'argento  de'  soldati  suoi,  pote- 
vano rendere  anche  materiale  testimonianza.  Ma  troppo  più  facile 
è,  lo  so  bene,  il  dimandare,  che  il  fare. 

Della  utilità  peraltro  di  questi  accorgimenti  sottili  mi  pare 
che  si  sia  bene  penetrato  il  Campi,  il  quale,  a  ringiovanire  con 
un  aspetto  novo  un  vecchissimo  tèma,  non  volle  già  metterci  in- 
nanzi lo  strazio  dei  martiri,  ma  piuttosto  l'angoscia  delle  loro 
famiglie,  vaganti  intorno  a  quelle  carceri  del  Circo,  dove  essi 
aspettano  l'ultima  sera.  Il  pensiero  era  eccellente  ;  e  accennava  a 
proseguire  per  quella  ingegnosa  via  che  il  Boschetti  aperse  anni 
sono,  quando  dij)inse  la  folla  intenta  a  leggere  nel  fòro  le  tavole 
sillane  di  proscrizione.  Ma  perchè  i  vecchi  interpreti  delle  nostre 
istorie  greche  e  romane  hanno  ecceduto  nell'apparato  scenico  e 
in  un  artificiale  calore,  i  giovani  appunto  pare  che  si  credano  in 
debito  di  eccedere  nell'estremo  contrario;  e  fanno  queste  turbe 
di  dolorosi  così  tacite  e  cosi  fredde,  come  non  mi  pare  probabile 
che  siano  state  mai  neppure  le  piìi  accasciate  e  misere  moltitu- 
dini. Checché  ne  sia,  di  questi  quadri  d'antico  tèma  uno  solo  ce 
n'ha  che  mi  contenti  pienissimamente,  Y  Orazio  in  villa  del  Miola,. 
D'una  intonazione  chiara  e  limpida,  così  da  dare  già  solo  per  la 
macchia  il  gusto  di  un  piccolo  affresco  pompeiano,  questa  genti- 
lissima cosuccia  spira  tutta  quanta  la  grazia  del  Venosino.  Gli 
è  come  se  tu  riudissi  dalla  sua  bocca  medesima  l'Epodo  a    Me- 


280  l'arte   a   PARIGI. 

cenate  o  l'Epistola  ad  Vdlicuìii.  Questo  propriamente  è  il  pode- 
retto,  questo  il  verziere,  questa  la  casa  piccina  ma  adatta;  e  corre 
il  giorno  degli  onesti  tripudi,  quando  si  spilla  il  primo  sugo  di 
quella  bell'uva  porporina, 

Cerùnitem  et  uiam  i^wpiu-ae 
Qua  muneretur  te  Priaj>e,  et  te  pater 
Silvane,  tufo)-  Jiiiìuin  ; 

e  anche  i  pochi  servi  del  poeta,  servi  si  vede  di  un  buon  padrone 
e  non  punto  diversi  da'  moderni  famigli,  partecipano  allegri  alla 
festicciuola  rurale.  Egli,  da  una  finestretta,  vigila  il  piccolo  stuolo 
operoso  : 

Cuncta  festlnat  nianus  :  huc  et  illuc 
Cursitant  mixtae  puerir,  puellae  ; 

e  dietro  al  poeta  ride  un  leggiadro  viso  di  fanciulla;  non  Cinara 
rapace,  io  credo,  e  neppure  Neera,  di  braccia  tenacissima  piìi  che 
di  fede;  ma  Fillide  forse,  l'invitata  a  deli!)are,  in  onor  di  Mece- 
nate, il  botticino  d'Albano  quasi  bilustre.  Chi  a  quest'aurea  me- 
diocrità non  s'acconcerebbe  di  cuore!  Chi,  a  questi  patti,  non  da- 
rebbe ragione  al  sorcio  campagnuolo,  che  preferisce  agli  insidiati 
intingoli  cittadini  la  sua  selva,  il  suo  buco  e  i  suoi  legumi!  Io 
metto  pegno  che  non  favoleggia  d'altro,  a  due  passi  di  qua,  quel- 
V Esopo  del  Fontana,  cinto  di  così  gioconda  corona  d'ascoltatrici  ; 
e  ringrazio  il  Napoletano  ed  il  Loml)ardo  che,  in  mezzo  a  tante 
melanconie  medieve.e  moderne,  si  sian  voluti  ricordare  un  poco 
dei  nostri'  antichi  ;  dei  soli,  oramai,  ai  quali  pare  che  ancora  a])- 
partenga  il  privilegio  della  letizia. 

Tuttavia  anche  nel  medio  evo  nostro,  a  voler  esserne  sufficien- 
temente curiosi,  non  avrebbero  i  nostri  pittori  trovato  soltanto  le 
quattromilacinquecentoquarantotto  guerre  fraterne,  segnate  con  sì 
gran  nembo  di  frecce  da.ll'istorico  delle  rivoluzioni  d'Italia;  anzi 
vi  avrebbero  potuto  attingere  esempi  mirabili  di  virtù  patrie 
e  di  senno.  Ma  di  una  tanta  età  non  mi  pare  che  s'incontri  da 
noi  in  Campo  Marzio  altro  testimonio  ricordabile  che  il  Bonifa- 
cio Vili  del  Gastaldi,  il  quale  nella  poderosa  e  tragica  testa 
viene  rimuginando  l'affronto  di  Anagni.  È  vero  che  la  scelta  iu 
tanta  ricchezza  di  patrimonio  non  era  facile;  e  non  gli  è  per 
nulla  un  contraddire  a  quello  che  affermavo  dianzi  della  inesau- 
ribilità di  certi  tèmi,  il  confessare  che  ve  ne  hanno  altri  d'esau- 
riti affatto  ;  i  quali,  per  lo  più,  sono  quelli  recati  già  a  non  su- 


l'arte   a   PARIGI.  281 

perabili  altezze  dall'arte  della  parola.  Potè  il  Flaxman.  per  esem- 
pio, dar  forma  condegna  agli  spiriti  offensi  di  Paolo  e  di  Fran- 
cesca, perchè  si  contentò  di  un  semplice  contorno  scultorio;  ma  se 
Ary  Sclieffer  e  Giuseppe  Bertini,  traducendo  sulla  tela  e  sul  vetro  la 
pietosa  visione  dei  duo  cognati,  credettero  di  non  si  dover  disco- 
stare più  die  tanto  dalla  prima  trovata  dell'Inglese,  neppur  dovrà 
troppo  dolere,  io  credo,  al  colto  ingegno  del  Cefali,  che  né  a  lui  né 
ad  altri  sia  facilmente  concesso  di  oltrepassarla.  La  difficoltà  mas- 
sima, Yomne  puìicfiini  nella  elezione  del  tèma,   precisamente  sta. 
s'io  non  erro,  nel  trovarne  uno  in  cui  bene  si  contemperino  l'idea  e 
la  forma,  in  cui  venga  di  pari  coll'efficacia  di  un  concetto  potente 
l'occasione  a  un  vigoroso  effetto  pittorico.  Gl'ingegni  letterari!,  e 
certo  non  sono  i  più  numerosi,  pendono,  anche  nelle  arti  plasti- 
che, verso  le  seduzioni  dell'idea  ;   gl'ingegni   pittorici   facilmente 
corrono  invece,  e  questa  è  oramai  la  via  più  battuta,  al  solo  allet- 
tamento dei  sensi.  Or  io  non  voglio  dire  per  nulla  che  d'idea  siano 
vuote  quelle  splendide  scene  della  Rer/aia  in  Canal  Grande  e  degli 
Apparecchi  d'nn  torneo,  onde  ci  deliziano  il  Delleani  e  il  Marchetti. 
Di  lusinghe  certamente  riboccano.  Da  una  parte  ne  allieta  l'accordo 
squisitissimo  che  fanno  con  le  acque  glauche  e  con  le  architetture 
di  varia  materia  gli  arazzi  e  le  vesti  signorili,  dai  toni  vellutati, 
cangianti,  iridescenti  come  il  collo  dei  colombi  di  San  Marco  ;  dal- 
l'altra parte  un  brulichìo  di  dame,  di  cavalieri,  di  araldi,  di  mu- 
sici, di  buffoni,  di  servi,  che  si  mescolano  e  pompeggiano  e  bril- 
lano come  uccelli    tropicali   in  una, dorata  uccelliera.   E  poiché 
ciascun'arte  deve  parlare  il  proprio  linguaggio,  e  la  pittura  vuol 
essere  avanti  tutto  pittorica,  non  vi  ha  dubbio  che  queste  aggra- 
devoli  scene  non  rechino  per  via  de'  sensi  alla  mente  una  più  ade- 
guata idea  delle  età  a  cui  ci    richiamano,    che    non    farebbe,    se 
poveramente  dipinta,  la  tesi  più  astrusa  e  più  filosofica.  Ma  non  è 
raen  vero  che,  senza  uscire  dal  regno  dei  pennelli  e  della  tavolozza,' 
qualche  più  sottile  indagine  dei  tipi  e  qualche  più  manifesta  inten- 
zione 0  storica  o   fisiologica   non    farebbe   danno.    Cercò    l'una  e 
l'altra  l'Altamura  nel  suo  Carnevale  di  Firenze  ;  se  non  che  la  me- 
lanconia pensosa  dei  Piagnoni  gli  riuscì,  s'io  non  fallo,  più  della 
monellerìa  dei  Palleschi,  che  carnescialano  poco.  E  all'obbiettivo 
dell'epigramma  nella  storia  anche  mirarono  (e  colpiron  vicino,  se 
non  proprio  nel  segno)  il  Venturi  col  suo  Fanfidla  e  il  Zuliani 
co'  suoi  principeschi  sponsali.  Questi  sponsali  massimamente,  dove 
la  scritta  si  celebra,  in  mezzo  a  due  solenni  e  tronfii  corteggi,  fra 
due  bimbi  da  cercine  e  da  carruccio.  erano  un'idea  felice,  da  cui 


282  l'arte   a   PARIGI. 

poteva  uscire  un  capo  d'opera....  che  n'uscirà,  giova  credere,  un'al- 
tra volta.  E  lo  stesso  dicasi  di  un  3Idton  del  Bianchi  da  Lodi,  che 
vende,  per  cinque  lire  di  sterlini,  il  suo  manoscritto. 

Le  comitive  signorili,  le  lettiere  giocose,  le  monf errine,  i  batte- 
simi, le  vecchie  dimore  invase  da  giovani  eredi,  tutte  le  occasioni  di 
mettere  in  risalto  costumanze  pittoresche,  contrasti  piccanti,  foggie 
vistose,  ricche,  bizzarre,  piacciono  agli  odierni  pittori;  e  non  si  rac- 
conta cosa  nova  a  nessuno  dicendo  che  il  Castiglione,  il  Quadro- 
ne, il  Vannutelli,il  Pastoris,  n'escono  vittoriosi  ;  che  il  Jacovacci  e  il 
Pagliano  vi  fanno,  qui  alla  Mostra,  miracoli.  C'è  del  primo  una  visito 
alla  puerpera,  del  secondo  mmcredità,  dove  l'eleganza  del  disegno,  la 
scioltezza  e  la  finezza  del  pennello,  il  brio  del  colorire,  non  lasciano 
desiderii.  Ma  s'io  ho  a  dire  proprio  tutto  il  mio  pensiero,  incomin- 
cio un  pochette  a  dubitare  che  del  mondo  incipriato,  e  forse  an- 
cora più  di  quell'altro  mondo  in  brache,  abito  di  spada,  mani- 
chini a  crespe,  cappello  arricciato  e  mazza  di  tralcio  di  vite,  il 
qual  mondo  va  dalla  prima  Kepubblica  francese  al  primo  Impe- 
ro, e  fu  dal  Fortuny  tirato  su  in  una  sterminatissima  voga,  se  ne 
abbia  oramai  abbastanza.  E  non  vorrei  essere  tacciato  di  temerario 
se  osassi  buttare  un  poco  sulla  coscienza  di  questa  moda  anche  l'ele- 
zione di  un  certo  tèma,  che  gradì  a  un  maestro  provetto  e  a  un  altro 
in  via  di  formarsi,  e  che  tuttavia  a  parecchi  non  parve  un  tèma 
felice:  dico  quel  ripudio  di  Giuseppiìia,  dove  ha  ben  potuto  il  Pa- 
gliano spiegare  tutta  la  bravura  che  gli  è  consueta,  e  il  Didioni 
tutta  quella  di  che  si  va  sempre  più  impossessando;  ma  non  hanno 
potuto  né  l'uno  nò  l'altro  evitare  che  un  grand'uomo,  avendo  torto, 
0  se  ne  rimanga  interdetto  e  corto  a  ragioni,  o  volti  le   spalle. 

Se  tant'è  che  ingegni  provati  e  sicuri  abbiano  un  momento 
sentito,  e  non  sempre  con  indisputabile  beneficio,  l'influsso  del  For- 
tuny, è  facile  imaginare  che  sèguito  costui  conservi  fra  i  giovani. 
Né  certi  nostri  vivacissimi  e  originalissimi  ingegni  avevano  guari 
bisogno  d'imbattersi  nel  mirabile  Spagnuolo  per  aUingere  a  lui 
una  baldanza  pittorica,  la  quale  già  sussulta  spontanea,  rigogliosa 
e  pronta  nel  loro  fervido  sangue.  Ma  il  Fortuny  ha  aggiunto  an- 
cora, io  credo,  un  po'  di  rincalzo  ;  e  in  un  tempo  in  cui  tutta 
Parigi  volentieri  attinge  ispirazioni  alla  freschezza  dell'arte  orien- 
tale, si  può  dire  senz'ombra  d'epigramma  che  il  Giappone  an- 
ch'esso non  rimase  estraneo  a  certi  atteggiamenti  della  nostra 
più  giovane  generazione.  Bisognerebbe  in  effetto  essere  chiusi  ad 
ogni  istinto  di  colorista  per  non  sentire  che  la  novità  di  certi 
motivi,  che  la  felicità  di  certi  accordi,  che  la  ingenuità  dell'inten- 


l'AKTE   a    PARIGI.  283 

dere  e  del  fare  (vengano  anche  dal  Mar  Giallo  se  occorre)  non  sono 
meno  accettabili  di  quei  suggerimenti  che  Leonardo  medesimo 
raccomandava  si  pigliassero  fin  dalle  macchie  dei  muri.  Si  ascolti 
dunque,  io  no  '1  contrasto,  l'ispirazione,  si  osi,  si  scriva  liberamente 
per  impresa  sul  cavalletto 

Ogni  viltà  couvien  che  qui  sia  morta. 

Ma  non  si  disconosca  al  postutto  che  1'  arte,  anche  cercando  la 
novità  e  accettando  l'audacia,  deve  sapere  essa  medesima  bene  e 
dire  chiaro  altrui  che  cosa  si  voglia.  Ora  io  non  so  se  dinanzi  al 
quadro  del  Michetti  s' intenda  altro,  se  non  che  egli  ha  venti 
anni  e  un  talento  grandissimo.  Un  mare  infinito,  placido,  splen- 
dido, a  strie  d'azzurro  sopra  azzurro:  una  ripa  verde,  un  pesco 
in  fiore  ;  bimbi  e  adolescenti,  fanciulli  e  fanciulle,  seminudi  come 
figliuoli  d'eroi,  che  fioriscono  al  sole  anch'essi,  in  un  paese  ignoto, 
in  una  più  ignota  libertà,  come  boccinoli  di  rose;  un  così  inna- 
morato soffio  neir  aria,  che  tutti  amoreggiano,  persino  le  bestie 
e  gl'insetti  usciti  a  vagal)ondare  sulla  cornice;  tutto  codesto  è 
gaio,  è  fresco,  ride,  folleggia,  ha  un  nome  ehe  gli  scende  bene- 
detto fin  dal  Petrarca  e  che  Vittor  Hugo  gli  ribenedice: 

O  primavera,  gioventù  dell'anno, 
Gioventù,  primavera  della  vita  ! 

Ma  la  gioventù  non  dura  eterna;  e  l'anno  anch'esso  ha  bisogno 
d'uscir  dall'aprile  per  maturare  i  suoi  frutti.  E  il  rilievo,  la  pro- 
fondità,.  la  sostanza  delle  cose,  anche  a  cielo  aperto,  hanno  i  di- 
ritti loro  ;  e  la  ragionevolezza,  anche,  i  suoi. 

Se  però  il  capriccio  pittorico,  e  un  pochette  la  moda,  hanno 
usurpato  il  posto  alle  composizioni  longanimi,  saviamente  medi- 
tate e  nudrite  col  gagliardo  midollo  dell'istoria,  ci  ha  un  altro 
fatto,  e  questo  è  consolante  per  ventura  nostra,  che  emerge  chiaro 
dal  complesso  della  Mostra  italiana.  Come  in  ogni  campo  della 
umana  operosità,  cosi  anche  nell'arte,  anzi  nella  pittura  sopra- 
tutto, la  nova  Italia  va  assiduamente,  ansiosamente  cercando  sé 
stessa.  Quante  volte  non  si  è  egli  detto  che  la  rinnovazione  ma- 
teriale e  morale  di  un  paese  deve  incominciare  dalla  nitida  co- 
scienza di  sé,  dal  socratico  ^•/o')'  aaaÒTiv  !  Quante  volte  non  s'  è  au- 
gurato che,  invece  di  avventurarsi  alle  sintesi  premature  ed  alle 
induzioni  temerarie,  si  desse  opera  paziente  a  raccogliere  la  te- 
stimonianza dei  fatti,  a  riconoscere  le  condizioni,  il  carattere,  la 
fisonomia  di  ciascuna  contrada  !  In  questa  patria  così  grande  e  così 
lungamente  divisa,  le  sue  più  discoste  regioni  hanno  bene  istinti- 


284  l'akte  a  pakigi. 

vamente  anelato  sempre  a  riunirsi,  come  anelano  alle  nozze  le 
palme  lontane,  nutant  ad  mutua  iialmae  foederd;  ma  eziandio  si 
sono,  come  queste,  prima  amate  che  conosciute.  Ora,  quella  inda- 
gine che  faticosamente  s'  è  venuta  iniziando,  e  adagio  adagio  si 
mena  innanzi  nel  campo  degli  interessi  economici  e  delle  condi- 
zioni morali,  l'arto,  di  proprio  moto,  d'istinto,  e  per  quella  incli- 
nazione che  dagli  ideali  lontani  la  l^x  rivolgersi  verso  la  realtà 
prossima  e  odierna,  l'arte  l'applica  agli  aspetti  del  paese  e  dei 
molteplici  abitatori.  Onde  a  un'Italia  stereotipa  che  da  troppo 
tempo  seguitava  ad  aver  corso,  come  una  vecchia  moneta  di  cui 
s'accetta  il  conio  senza  indagarne  la  lega,  viene  a  poco  a  poco 
sottentrando  una  meno  pittoresca  ma  più  pittorica  Italia,  e  so- 
pratutto una  Italia  tanto  pii^i  curiosa  e  più  degna  di  studio,  quanto 
è  più  vera,  più  viva,  e  più  varia. 

Chi  muove,  anche  senza  alcun  preconcetto  giudizio,  attraverso 
la  Mostra  italiana  di  pittura,  può  facilmente  accorgersi  che  quello 
ch'egli  dall'Alpi  alla  Sicilia  a  mano  a  mano  percorre,  non  è 
più  l'adulato,  commiserato,  e  fittizio  paese  d'un  tempo.  Non  si 
usciva,  un  tempo,  dagli  epici  orizzonti  della  campagna  roiuana, 
dai  ruderi  d'  acquedotto,  dal  hùttcro  e  dalla  ciociara,  artistica- 
mente postati  a  fregio  di  quelle  superbe  e  meste  rovine.  Oggi  i 
nostri  pittori  ci  dipingono  meno  estetici  e  meno  solenni,  ma  lode 
a  Dio  più  forti  e  più  desti  ;  e  sanno,  per  avervi  sparato  le  loro 
carabine,  d'onde  l'Italia  incominci.  Sono  le  Alpi,  quelle,  che  tutte 
ammantate  di  bianco,  si  pèrdono  corno  una  visione  nei  magici 
lontani  che  sa  dipingere  Girolamo  Induno  ;  e  quella  nota  che 
abbiamo  chiesta  indarno  agli  Svizzeri,  quella  patetica  nota  della 
emigrazione  dalle  alte  Alpi,  ce  la  ripercote  fino  al  cuore  un  par- 
lante gruppo  di  belle  e  forti  Anzaschinc  ;  le  (juali,  cariche  il 
dorso,  come  usano,  di  tutti  i  rustici  loro  penati,  volgono  ancora 
indietro  uno  sguardo  alla  bianca  e  muta,  eppure  rimpianta  con- 
valle natia.  Non  s' ha  poi  che  a  scendere  un  poco  di  conserva 
con  l'artista  e  con  loro,  per  ritrovarsi  in  mezzo  a  quello  che  ha 
di'più  tipico  la  vita  nova  del  nostro  paese,  in  mezzo  a  un  villag- 
gio dove  i  nostri  giovani  s'  adunano,  pronti  alla  chiamata  e  fe- 
stosi, intorno  alla  bandiera  nazionale,  tra  gli  al)l)racci  e  gli  addii 
delle  madri,  delle  amanti  e  delle  sorelle.  I  matrimoni  ne  saranno 
un  pochetto  indui^iati,  s'intende:  ma  che  feste  al  ritorno,  e  che 
allegre  e  splendide  nozze!  La  cura  degli  apparecchi,  si  può  la- 
sciarla fidatamente  al  Mantegazza;  un  giovanotto  che  sa  fare  le 
coso  a  modo,  e  mostra  di  voler   continuare    degnamente    questa 


l'arte  a  pakigi.  285 

pittura  induniana  ;  alla  quale  se  qualcosa  vesta  da  raccomandare, 
gli  è  di  mettere  nella  indagine  dei  caratteri  altrettanta  penetra- 
zione, quanta  sicurezza  già  possiede  nel  rendere  ogni  aspetto  delle 
cose  esteriori.  Un  poco  meno  di  grazia,  ma  un  poco  più  di  vigore, 
ci  mettono,  mi  pare,  in  Piemonte  :  e  gli  è  davvero  un  virilo  paese 
questa  terra  aspra  e  gagliarda,  che  1'  aratro  del  Pittara  viene  fa- 
ticosamente solcando,  e  bravamente  dissoda  e  feconda.  Con  un 
pochetto  di  fantasia,  l' onesto  quadro  potrebbe  passare  per  un 
simbolo  della  patriottica  vigilia,  durante  la  quale  questa  zolla 
subalpina  ha  maturato  all'  Italia  i  germi  delle  sue  presenti 
fortune.  » 

Due  passi  soli,  ed  eccoci  in  Lombardia.  Le  Brimisole  di  Luigi 
Bianchi  escono  sulla  soglia  a  vederci  passare  ;  e  «  Guarda,  guarda!  » 
dicono,  accennando  con  mano,  e  ridendo  di  tutta  la  gaiezza  d'una 
gioventù,  che  per  loro,  poverine,  come  per  tutte  le  fanciulle  del 
contado,  non  dura  che  un  giorno.  Ma  questo  poco  di  luce  e  di 
letizia  che  traversa  anche  la  più  dura  giornata  delle  plebi,  è 
buona  opera  il  non  lasciare  che  dilegui  senza  imprimerne  una 
qualche  traccia  nell'arte;  e  non  è  da  credere  che  per  ciò  attuti- 
sca e  sia  per  farsi  in  noi  meno  acuto  il  senso  di  quelle  loro  penose 
angustie  di  vita.  Tutt'altro.  Noi  siamo  tutti  quanti  cosi  fatti,  che 
ci  vuole,  per  commoverci  sulla  sorte  degli  altri,  una  certa  quale 
corrente  d'intelligenza  e  di  sentimento  fra  gli  altri  e  noi.  Avvi- 
lisci, abbrutisci  la  donna,  come  qualche  volta  ha  fatto  il  Courbet, 
e,  per  miserabile  che  tu  la  dipinga,  non  ci  toccherà  punto:  ma 
chi  invece  potrà  non  sentirsi  commosso  all'aspetto  della  povertà, 
se  tu  la  illumini  di  bellezza  e  d'amore?  Questo  ha  dilicatissima- 
mente  compreso  il  Giuliano;  e  le  sue  fanciulle  lif/uri,  che,  sul  far 
della  sera,  lungo  una  di  quello  chiare,  serene,  limpide  marine, 
tornano  dall'opificio  o  dai  campi,  e  sciolgono  la  voce  a  una  di 
quelle  melodìe  che  nessuno  sa  chi  l'abbia  trovate,  ma  che  tutti 
sentono  in  cuore,  quelle  fanciullo,  a  capo  scoperto,  a  piedi  nudi,  a 
mala  pena  ravvolte  d'una  camiciuola  e  d'un  gonnellino,  così  vere 
e  insieme  così  gentili,  ci  fanno  pensare  a  tutti  i  fiori  viventi  che 
lasciamo  bruttare  di  fango  e  di  polvere,  o  che  qualcuno  anche  di 
noi,  senza  ricordarsene,  senza  addarsene  forse,  calpesta. 

Ma  la  Liguria  ci  ha  fatto  uscire  di  strada.  Eravamo  avviati 
a  Milano;  e  gli  è  un  peccato  che  non  ci  aspetti  laggiù  quella  pit- 
tura caratteristica,  che  più  avremmo  desiderata.  Milano  ha  bene 
avuto  il  pittor  vero  delle  sue  classi  popolari  in  Domenico  Induno, 
il  quale,  nato  egli  stesso  di  popolo,  e  altero  di  esserne,  lo  cono- 


286  l'arte    a   PARKil. 

sceva  bene,  lo  capiva,  lo  amava.  La  Mostra  lia  di  lui  un  quadro 
solenne,  Vittorio  Emanuele  che  pone  la  prima  pietra  della  Galleria 
intitolata  nel  suo  nome:  un  quadro  pieno  di  difficoltà  superate,  e 
di  curiosità  clie  un  giorno  saranno  storiche;  ma  del  dramma  cit- 
tadino e  del  dramma  domestico,  che  meglio  rispondevano  al  genio 
del  pittore,  non  ha  proprio  nulla.  Dov'è  il  Bollettino  della  pace 
di  Vdlafranca?  Dove  il  Cader  delle  foglie,  Pane  e  lagrime,  il  Cat- 
tivo amico,  il  Monte  di  Pietà,  il  Trovatello?  Ricordi  e  rammarichi: 
e  rammarico  più  acuto  questo,  che  la  mano  che  li  ha  creati,  la 
mano  dell'amico  e  del  maestro,  si  sfa  nella  terra.  Soldato  succede 
a  soldato,  nell'arte  come  nell'altre  battaglie;  e  Mosè  Bianchi 
avrebbe  potuto  anch'egli  dirci  egregiamente  la  vita  nostra;  ma 
Tatti  al  campo  e  la  Benedizione  delle  case,  la  commedia  e  la  tra- 
gedia domestica,  anche  ci  mancano;  e  non  ci  resta  che  la  saynete, 
la  nota  comica  dei  chierici  in  processione. 

Tiriamo  via  per  Venezia;  e  non  dimentichiamo,  cammiu  fa- 
cendo, il  Cadore.  E  un  paese  di  pittori  e  di  valorosi;  è  anche  un 
paese  di  tarchiate  e  floride  alpigianine,  dai  poderosi  lombi  e  dal- 
l'agile piede;  e  a  vederle,  sprofondate  il  capo  entro  enormi  fasci 
di  fieno  e  fastelli  di  legno,  inerpicare  sugli  orli  delle  balze  più 
trarupate,  ti  mettono  i  griccioli.  Ma  oggi  è  festa;  è  Sagra,  come 
dicono;  hanno  cinto  il  vezzo  di  granate  o  di  coralli,  messa  al  collo 
la  pezzuola  più  vistosa,  infilzalo  il  garofano  silvestre  all'orecchio 
od  al  cappello;  hanno  calzato  le  scarpette  di  feltro,  e  non  punto 
parenti  del  Silenzio  per  questo,  riempiono  di  un  giocondo  pigolìo 
il  piazzale  della  Pieve,  dove  i  forti  e  rusticamente  azzimati  gar- 
zoni rinnovano  in  più  esigui  termini,  a  dolciumi,  a  ghiottornìe,  a 
chiappolerìe  di  stringhe,  di  similori  e  di  trapunti,  ({wqW assalto 
delle  belle  Trivigiane,  che  un  giorno  costò  sì  caro  a  Padova  e  a 
Venezia.  Ringraziamo,  passando,  il  Nono  e  il  sUo  rapido  e  fiero 
pennello  d'averci  convitati  anche  a  questo  gustosissimo  spasso,  e 
scendiamo  in  compagnia  del  Ciardi  in  riva  alla  sua  bella,  splen- 
dida, opalina,  dorata  laguna. 

Che  mare  di  luce,  che  limpidità,  che  nitidezza  d'atmosfera! 
Rare  volte,  dopo  il  Canaletto,  s'è  visto  tanto.  Ed  ecco  Venezia.  E 
a  Venezia  le  memorie  del  secolo  scorso  sono  ancora  così  fresche, 
il  Goldoni  e  il  Gozzi  sembrano  ancora  tanto  nostri  contemporanei, 
per  non  dire  famigliari  ed  amici  nostri,  che  il  costume  del  loro 
tempo  non  ha  l'aria,  costì  come  altrove,  d'un  vecchiume  o  d'una 
finzione,  anzi  ci  par  cosa  di  ieri  appena.  Niente  di  più  giovane  e 
di  più  geniale  di  quelle  gentildonne  in  rasi  e  merletti  —  un  vero 


l'arte   a   PARIGI.  287 

mazzolino  d'odorosissimi  fiori  di  serra  —  che  scendono  da  uno 
scolpito  e  storiato  palazzo  nella  gondola  del  Jacovacci.  E  codesto 
popolino  anch'esso,  per  mutato  e  incupito  un  poco  che  sia,  è  an- 
cora la  più  geniale,  la  più  simpatica  plebe  del  mondo.  Si  ride 
ancora  in  quella  botteguccia  del  Favretto;  e  chi  sa  quali  arguzie 
scoppiettano  dalle  labbra  di  quel  sartore,  e  fanno  mettere  in 
mostra  sì  belle  chiostre  di  bianchissimi  denti  a  quelle  sguaiatelle 
di  cucitrici!  I  bimbi  anch'essi  del  Mion,  sebbene,  a  gusto  mio,  un 
poco  troppo  carezzati  e  lisci,  sono  pur  le  graziose  creaturine,  in 
quel  loro  allegro  rincorrersi  a  mosca  cieca/  Ed  è  pure  la  buona, 
aperta,  dolcemente  romanzesca  faccia  di  vecchierella  quella  che 
Antonio  Kotta  ci  ha  dipinta,  in  atto  di  rammaricare  il  buon  tempo 
antico  .imbattendosi  nel  suo  antico  farsetto  di  sposa!  Egli  ce  la 
vuol  sgabellare  per  la  GrancVmère  del  Béranger;  ma  io  mi  pro- 
testo ch'ell'è  la  venezianissima  nonna,  alla  quale  un  dì  o  l'altro 
il  Gallina  ricondurrà  il  suo  moroso.  E  dell'istessa  famiglia  sono 
tutte  le  mamme,  e  le  fanciulle  ed  i  bimbi  che  un  altro  Kotta, 
figliuolo  del  precedente,  ci  schiera  innanzi  in  un  suo  preziosis- 
simo acquerello;  un  acquerello,  che,  insieme  con  qualche  altro  del 
Cabianca  e  del  Gaudi,  non  ci  lascia  in  verità  temere  confronti. 

La  è  una  povera  cale,  codesta  del  Rotta;  dove,  secondo  il 
solito  dei  poveretti,  si  vive  più  sulla  soglia  di  casa  che  in  casa, 
pigliando  a  pretesto  il  commercio  di  certi  fronzuti  cavoli,  e  maz- 
zuoli d'agli  e  raperonzoli  e  citrioli  e  cipolle,  che  sono  tutt'insieme 
la  mostra  e  la  mercanzia.  Infrattanto  una  bella  grassoccia  di  co- 
mare, da  provetta  velettaia  ch'ell'è.  sta  tutta  intesa  a  trapungere 
non  so  che  magnifica  sciarpa  ;  un  bel  pezzo  di  figliuola,  vero  tipo 
di  putta  onorata  (le  parole  del  Goldoni  .  scivolano  costì  di  bocca 
senza  volerlo),  dipana  la  sua  scarmigliata  matassa  ;  la  nonnetta 
si  trastulla  con  un  marmocchio  ancora  in  benduccio  e  bavaglio, 
al  quale  fa  da  cestino  un  resto  di  seggiola,  che  fu,  nel  tempo  dei 
tempi,  impagliata  ;  e  un'  altra  di  queste  vecchierelle  rubizze  e 
serene,  di  cui  Venezia  ha  il  privilegio,  rimenda  uno  strappo  nella 
gonna  d'un'altra  fanciulla.  Il  quale  strappo,  e'  è  da  scommettere, 
non  è  stato  per  la  furbacchiotta  altro  che  un  pretesto  a  sgat- 
taiolarsela dal  suo  sgabello,  e  a  buttarvi  su  per  un  poco  a  giacere 
il  tombolo  dalle  eterno  uggiosissime  trine.  0  che  pensi  tu  ch'ella 
si  crucci  di  cotesti  sbrendoli  della  sua  vesticciuola  ?  Manco  per 
ombra.  Al  varco  della  vanità  giovanile  ella  ancora  non  è  giunta, 
per  fortuna  sua  ;  e  allegramente  si  volta  a  fare  il  chiasso  con  una 
sorellina  più  piccola,  che,  ruzzolando  per  le  terre  e  imbrandendo 


288  l'arte   a   PARIGI. 

ìq  maniera  d'esca  un  suo  bocconcello  di  polenta,  si  tira  tutta  la 
nidiata  dei  pulcini  intorno,  a  bezzicare  il  prezioso  manicaretto. 
Inezie,  lo  so  1)ene,  che  risicano  di  parere,  in  carta,  stucchevoli: 
ma  che,  a  vedertele  innanzi,  genuine,  schiette,  parlanti  come  il 
vero,  sono  un  incanto  ;  perchè  dentro  ci  leggi  la  fisiologia  intera 
di  quella  brava  gente,  quella  gaiezza  foderata  di  tristezza,  che  è 
la  nota  dominante  nella  vita  del  popolino  di  Venezia. 

La  Toscana  —  e  parrà  incredibile  a  chi  la  conosca  soltanto 
attraverso  i  poeti,  non  a  chi  sappia  le  sue  profonde  e  inciprignite 
doglianze  —  la  Toscana  è  forse  delle  regioni  italiane  quella  che, 
anclie  in  arte,  in  pittura  almeno,  si    mostra  più  annuvolata,  più 
infestata  dall'  incubo  della  questione  sociale.  Saresti  per  dire  clie 
ella  pencoli  incerta  tra  le  consolazioni  della  fede  e  le  disperanze 
del  pessimismo;  tra  quella  divozione  piuttosto  elegiaca  che  equa- 
nime, onde  paion    compresi    i    bifolchi  e  le    contadine  del  Gioii, 
inginocchiati  laggiù  nei  crepuscoli    di   Val   d'  Elsa  sul  passaggio 
del   Vidtico,  e  quell'asprezza  sconsolata  e  un  poco  selvaggia  della 
hoscaiaola  del  Ferroni,    che,  sentendosi  fremere  il  temporale  sul 
capo,  ha  buttata  in  terra  la  sua  fascina,  e  si  piega  sopra  di  sé  ad 
allacciare  certe  sue  enormi    scarpacce,  tanto   da  camminare  più 
franca  per  sassi  e  per  bronchi,  in  mezzo  ai  sibili  del  vento  e  al 
rombare  minaccioso  del  tuono.  Forse    in    questa   ermeneutica   di 
quadri  noi  ci  mettiamo   senza  volerlo,  un   poco    delle  nostre  im- 
maginazioni :  ma  un  fatto  almanco  risulta  chiaro,  e,  piaccia  o  non 
l)iaccia,  bisogna  dirlo  :  in  tutta    codesta  pittura  di  popolo  la  fa- 
miglia e'  entra  assai  poco.  C'entra,  dicerto,  l'amore  ;  vago  per  lo 
più,  e  adombrato  appena  nelle   fantasticherie    desiose  della  fan- 
ciulla; corrisposto  anche  qualche  volta,  e  lasciato  intendere  o  dai 
vagheggiamenti  rusticani,  o,  come  nel  graziosissimo  quadretto  del 
Moradei,  dai  sorrisi  e  dai  silenzii,  da  quel  corteggiare  un  po'  fur- 
besco del  buio  da  taverna,  e  da  queir  accivettare  un  poco  ingenuo 
della  birrichina  forese,  che  accarezza    per    tutta   risposta    il  suo 
micio:  personaggi,  sia  detto  di  passo,  vivi   come  quei  carrettieri 
e  quelle  risaiuole,  che  una  valente  scrittrice  ha  còlti   dianzi  dal 
vero  in  una  sua  novella.  Tutt'al  più  fino  alla  soglia  della  chiesa, 
fino  alle  porte  del  municipio    la  pittura  ci  va;  mi  dov'  è  poi  la 
casa,  con  le  sue  melanconie  e  con  le  sue  gioie  ?  Bisogna,  per  la- 
sciarcene intravedere  un  qualche  spiraglio,  che  -il  Busi  con  le  gen- 
tilezze di  un  aristocratico  pennello  c'intrometta  nelle  confidenze 
della  famiglia  signoriir,  accanto   alla  culla  drappeggiata  di  veli 
G  di  merletti,  tra  i  soffici  cuscini  dello  spogliatoio  e  le  poltrone 


l'arte   a   PARIGI.  289 

del  salotto  ;  e  ancora  il  l)abbo,  il  più  sovente,  non  c'è.  Il  che  non 
vuol  ""ià  dire  che  i  babbi  amino  da  noi  meno  che  in  Germania  o 
in  Inghilterra  i  loro  figliuoli,  o  che  i  mariti  amino  meno  le  loro 
spose,  Dio  guardi  !  vuol  dire  che  in  casa  ci  vivono  meno.  Ed  è 
un'  induzione,  del  resto,  che  la  critica  francese  ha  già  fatta,  non 
a  nostro  carico  e  nelle  nostre  sale,  ma  nelle  sale  sue,  e  ragio- 
nando del  suo  proprio  paese.  Il  guaio,  dunque,  se  guaio  c'è,  di- 
vidiamcolo  tra  noi  Latini;  e  insieme  anche,  quando  la  politicaci 
darà  requie,  pensiamoci.  Gli  è  quello  che  insieme  col  Busi  ha  già 
principiato  a  fare,  s' io  non  erro,  un  gentilissimo  e  meditabondo 
ingegno,  Edoardo  Tofano,  il  quale  anch'  egli  non  crede  che  una 
mano  abile  ad  ogni  più  squisita  industria  di  pennello  sia  una 
buona  scusa  per  non  pensare  :  e,  a  protestazione  quasi  contro  la 
sfidata  noncuranza  del  grande  binomio  maritale,  ne  ha  voluto  tòr 
via  tutta  quanta  la  prosa,  e  indovinare  tutta  quanta  la  poesia.  Il 
suo  leggiadrissimo  quadretto  «  Soli  !  »  manca  alla  Mostra  italiana. 
E  pur  troppo  non  alla  Mostra  soltanto,  ma  all'arte  ed  alla  patria 
è  mancato  un  altro  finissimo  ingegno,  il  Cremona,  infaticabile  cer- 
catore di  tutte  le  finezze  del  sentimento  e  dell'espressione. 

Da  noi  però,  bisogna  dirlo,  il  non  vivere  in  casa  non  vuol 
sempre  dire  viver  divisi;  e  a  vivere  in  casa  per  la  gente  povera, 
massime  del  Mezzodì,  col  confronto  tra  il  purgatorio  di  dentro, 
e  il  paradiso  di  fuori,  ci  vorrebbe  un  singolare  eroismo.  Tutta  la 
pittura  popolaresca  dal  Tronto  in  giù  ci  fa  toccar  con  mano 
questo  contrasto.  La  via  è  il  ristoro  del  popolino;  ei  ci  si  sente 
rinascere,  ci  respira,  ci  si  raddirizza;  il  j)iù  guitto  fannullone  ci 
ritrova  il  suo  buon  umore,  le  sue  spacconate,  la  sua  baldanza;  la 
più  grama  pigionante  vi  piglia,  sotto  un  raggio  di  sole,  daccanto 
a  una  fontana,  non  so  che  aria  di  venustà  e  di  alterezza.  0  non 
ti  pare,  per  esempio,  in  quella  Via  Flaminia  del  Joris,  di  riudir 
le  comari  del  Belli: 

Ma  cche  ppassioue  avete,  sor  Ularia, 
De  tene  ssempre  sta  finestra  chiusa  ? 


Ai'ia  e  ssole  sce  vòuuo  :  io  ve  lo  predico, 

Dov'entra  er  zole,  fia,  min  entra  er  inedico. 

S'iutenne:  ttutto  sta  une  la  perzona; 
Chi  è  svérta  com'è  nnoi,  la  peggio  robba 
Je  s'adatta  e  jje  sta  ccome  la  bbóna. 


290  l'aKTE   a   PARIGI. 

'.     .  Vedete  SaraHna  ? 

Co'cquella  bbella  su'  disinvoltura, 

Lei  un  straccio  eh 'è  un  straccio  je  figura  : 

Se  mette  un  corno,  e  pare  una  reggina. 

E  più  tu  scendi,  verso  il  Mezzodì,  più  la  natura  impresta 
sorriso  anche  ai  cenci;  e  più  l'istinto  di  mescolarsi  al  sorriso  e 
al  saluto  della  natura  diventa  bisogno,  e  in  certi  giorni  febbre, 
febbre  di  baldoria,  di  strepito,  di  esultanza.  Il  Joris,  di  un  haffc- 
siìììo  popolano  in  riva  alle  magiche  marine  d'Ischia  fa  una  co- 
setta  rara,  che  ha  la  grazia  di  un'antica  Panatenea:  i  pittori  na- 
poletani poi,  s'intende,  gareggiano  nel  riprodurre  quelle  loro  fe- 
stività così  caratteristiche;  e  il  Mancini  e  la  signora  Sindici 
Stuart  nei  ritorni  dalla  Madonna  dei  l'Arco  e  da  Montcvcrginc, 
rendono  al  vivo  il  tramestìo  della  folla,  il  tumulto  delle  grida  e 
delle  canzoni,  la  furia  olimpica  di  quelle  gare,  di  quelle  corse, 
di  quelle  scarrozzate  a  carriera,  in  cui  pare  che  sino  la  magra 
rozza  ed  il  ciuco  sentano  la  vanità  dei  fronzoli,  dei  talchi  e 
delle  penne,  e  partecipino  di  gusto  alla  mattana  universale.  È 
una  specie  di  fraternità  panteista,  che  non  ha  dimenticata  il  De 
Nigris,  quando,  con  una  punta  d'ironìa  che  i  meridionali  maneg- 
giano finissimamente,  ha  piantato  un  buon  asinelio  alla  porta 
della  Chiesa,  dove  pacatamente  aspetta  il  suo  contadino,  che  se 
n'è  ito  dentro  un  poco  in  ritardo  a  sgranocchiarsi  V  idthna 
messa. 

Ma  gV  interni?  Di  lieto  io  ne  conosco  uno  solo;  quel  deli- 
zioso chilo,  che,  accanto  alle  cinigie  del  suo  braserò,  colle  pal- 
pebre dolcemente  calate,  colla  presa  di  tabacco  serrata  ancora 
tra  il  pollice  e  l'indice,  se  ne  sta  facendo  un  buon  j)astricciano 
di  prete,  il  prete  del  Volpe.  Fuor  di  lì,  non  vedo  altro  che  tri- 
stezza. Dimandane  al  Mancini  e  a  que'  suoi  fanciidli  che  ascen- 
dono la  corda  del  funambolo,  che  si  smezzano  una  crosta  di  pane, 
che,  precoci  d'ingegno  e  rachitici  di  fibra,  cercano  ingannar  la 
fame  tra  gli  scartafacci  della  scuola;  dimandane  al  Tedesco  e  a 
quel  suo  figlinolo  delV  amore,  allattato  di  furto  in  mezzo  a  un 
pruneto,  al  Thoma  e  a  quella  veglia,  anzi  a  quell'  ebete  letargo, 
delle  sue  vecchie  custodi  di  ospizio,  a  cui  il  ifo?"?io  sta  per  recare 
sulle  braccia  un  povero  trovatello:  tutte  pagine  piene  di  j^ene- 
trazione  e  di  sentimento,  ma  insieme  d'una  profonda  melanconia. 
Ed  io  non  vo' esagerare  affatto  quel  che  può  anche  essere  giuoco 
del  caso;  butto  però  questa  osservazione  in  pascolo  a  quei 
cercatori  assidui  del  vero,  per  i  quali   la   fisiologia   delle    classi 


l'AKTE  a  PARIGI.  291 

popolari,  più  ancora  che  uno  studio,  è  nn  apostolato  fervido,  ge- 
neroso, sapiente.  Per  il  filosofo  e  per  il  filantropo  nessuna  orma 
va  perduta,  nessun  indizio  è  puerile.  E  concludo  che  la  pittura 
popolare,  senza  pretenderlo,  senza  saperlo  forse,  ha  hravaniente 
fatta  la  sua  indasjine,  la  sua  inchiesta  come  dicono,  e  non  la 
meno  schietta  e  la  meno  efficace,  sulle  condizioni  del  popola 
italiano. 

La  fisiologia,  o  la  fisonomia  per  lo  meno,  delle  classi  agiate, 
potrebbe  esserci  offerta  dal  ritratto  ;  e  gli  è  appunto  questa  sorta 
di  rivelazione  quotidiana  ed  intima  che  ci  rende  così  preziose  le 
semplici  tele  e  tavole  iconiche,  nelle  quali  i  nostri  vecchi  maestri 
ci  hanno  trasmesso,  meglio  che  la  memoria,  la  vita  del  loro  tempo. 
Qualcosa  di  non  dissimile  si  vede  apparecchiarsi  a'  dì  nostri  an- 
che in  Francia,  dove  —  già  non  tralasciai  di  notarlo  —  il  ritratto 
seguita  ad  essere  in  onore,  ed  esercita  in  larga  misura  i  pen- 
nelli più  illustri.  Da  noi  pure  era  così  non  sono  molt'  anni  :  ma 
l'industria  fotografica  è  venuta  a  cacciare  di  nido  il  ritratto  ar- 
tistico, o  per  lo  meno  a  contendergli  sempre  più  quel  terreno 
delle  classi  medie,  dove  riusciva  meno  difficile  d'imbattersi  nella 
verità  schietta.  Qualche  volta  ancora  il  ritratto  trova  appicco 
nella  intimità  della  casa  borghese,  per  lo  meno  nella  famiglia 
medesima  dell'artista;  e  gli  è  di  lì  che  si  vede  scaturire,  tratto 
tratto,  poco  importa  se  sbozzata  di  colpi,  qualche  testa  vi- 
gorosa e  potente,  come  quella  effige  paterna  che  Mosè  Bian- 
chi ha  regalmente  donata  a  sé  stesso.  Ma,  nel  più  dei  casi, 
il  ritratto  è  freddo,  pettoruto,  solenne,  vincolato  per  lo  meno  a 
tutte  le  consuetudini  della  high  life\  e  ne  porta  la  pena.  Il  che 
non  vuol  dire  che  anche  in  alto  elegantissimi  ed  efficacissimi 
tipi  non  si  troverebbero;  ma  e' sarebbe  mestieri  che  i  ritrattisti 
di  grido,  il  Desanctis,  il  Gordigiani,  il  Bompiani  e  gli  altri,  po- 
tessero più  sovente  accompagnare  alla  squisita  loro  maestria  la 
libertà  dei  Keynolds  e  dei  Lawrence,  i  quali  seppero'  darci  e  lords 
e  ladies  e  rampolli  baronali,  ducali  e  principeschi,  senza  lo  stra- 
scico e  l'inamidatura  di  Corte.  Passi  tutt' al  più  per  i  sovrani; 
sebbene,  anche  per  loro,  quando  chi  porta  una  corona  ha  insieme 
il  vanto  di  essere  il  più  leale  degli  uomini  o  la  più  gentile  delle 
donne  gentili,  gli  è  peccato  che  non  possa  mostrarsi  così  semplice 
e  così  alla  mano  in  pittura,  com'è  nella  vita.  Per  tutto  il  resto 
del  mondo,  a  ogni  modo,  toccherebbe  all'arte  di  disimpacciare 
dal  fasto  la  espressione  del  carattere,  e  di  porla  in  cima  d'ogni 
desiderio  e  d'ogni  pensiero. 


292  l'akte  a  pakigi. 

II  ritratto  è.  al  postutto,  forse  la  sola  forma  dell'arte  in  Ita- 
lia, che,  jDer  le  ragioni  dette  dianzi,  non  partecipi  a  quella  in- 
clinazione universale  onde  l'arte  è  portata,  e  troppo  in  fretta 
anche,  verso  una  sincerità  così  ruvida,  da  toccar  la  crudezza 
od  il  pessimismo.  Non  solamente  si  vuol  vedere  oramai  co'  pro- 
pri occhi  e  non  punto  con  quelli  della  dottrina  e  della  scuola; 
ma  degli  occhiali  s'iia  tanta  paura,  che  si  preferisce  veder  tor- 
bido e  sporco,  oppure  strillante  e  stridente,  per  orror<?  di  veder 
lucido,  e  di  cascare  nel  levigato.  Il  paese  anch'esso  subisce  que- 
sta trasformazione.  Al  paese  leggendario  e  solenne  restano  tut- 
tavia fedeli  alcune  tenaci  tempre  d'artisti  ;  e  il  Vertunni  fa  an- 
cora discendere  i  rutilanti  soli  della  Magna  Grecia  a  indorare 
le  Bovine  di  Pesto,  fa  ancora  fremere  il  rombo  dei  tuoni  augu- 
rali dentro  a  quei  grandi  cumuli  che  sovrinconibono,  gravidi  di 
febbre,  alla  stesa  lugubre  delle  paludi  pontiìie',  e  ancora  l'Alla- 
son  poeteggia  le  sue  notti  ossianesche,  e  il  Cavalle  i  suoi  tramonti  ; 
ma  la  corrente  mena  l'arte  per  un'altra  china;  la  giovine  gene- 
razione non  vuol  essere  epica  più  né  anacreontica  a  nessun  patto  ; 
e  il  Carcano,  per  farsi  perdonare  lo  splendido  scintillìo  del  suo 
viale,  ci  ha  dovuto  mettere  una  coppia  d'amanti  del  secolo  scorso. 
Cavoli  vogliono  essere  ora,  e  tacchini  ;  e  davvero  quando  si  sa 
dipingere  come  il  Michetti,  la  poesia,  volere  o  no,  sboccia  fuori 
anche  solo  da  quelle  esuberanze  di  vita  vegetale  e  animale,  delle 
quali  pare  ch'egli  possegga  il  segreto,  e  ami  di  circondare  come 
d'un'  atmosfera  vibrante  e  fremebonda  l'erotico  hacio  de'  suoi  abo- 
rigeni. Il  Lojacono  piacque,  quando  rapì  alla  nativa  Sicilia  il 
polverìo  e  la  caldura  e  l'afa  tormentosa  e  greve  di  un  giorno  di 
luglio',  i  sorrisi  invece  della  sua  Conca  d'oro,  inverosimili  a  fu- 
ria d'essere  paradisiaci,  hanno  minore  fortuna.  Piace  il  Calde- 
rini,  che  ha  il  coraggio  di  far  verde  come  il  verde  vero,  sotto  un 
cielo  di  profondissimo  azzurro;  gli  è  insomma  un  ars  poetica  a 
rovescio,  quella  che  corre;  e,  non  che  tollerar  volentieri,  pare  che 
si  desideri  qualche  strappo  alla  prosodia,  tanto  s'è  stufi  di  Begia 
Parnassi. 

Ma  siamo  schietti.  Se  da  qualcuno  la  prossimità,  l'intimità 
del  vero  è  accettata,  così  nuda  e  cruda,  come  protestazione  con- 
tro il  vecchio  andazzo  accademico,  altri  non  dispettano  i  vecchi 
effetti  pittoreschi  e  scenografici  se  non  perchè  la  finezza  dei  loro 
sensi  li  rende  capaci  di  più  sottili  e  riposte  armonie,  e  la  dili- 
catezza  del  loro  ordigno  pittorico  può  scendere,  per  dir  così,  fin 
nelle  crespe  del  vero,  a  tesoreggiarvi  quei  rapporti   sottili,  che, 


l'arte   a  PARIGI.  293 

per  la  comune  degli  osservatori,  anche  artisti,  o  passano  trascu- 
rati 0  non  saprebbero  essere  efficacemente  raggiunti.  Da'  soltanto 
un  cespo  d'alcee  rosee,  in  un  orticello  di  monache,  al  Gignous,  e 
te  ne  caverà  fuori  variazioni  deliziose;  accampa  il  De  Tivoli  sulle 
rive  piatte  della  Senna,  e  ti  farà  gustare  le  armonie  delicate  di 
un  cielo  grigio  d'oro  sopra  azzurrino;  poni  il  Kossano  in  faccia 
ad  una  mèsse,  a  uno  di  quei  campi  che  si  soglion  fare  d'  oro 
schietto,  non  li  sapendo  fare  di  spiche,  e  vedrai  indefinibile  in- 
canto di  toni,  mareggianti,  alternanti,  secondo  l'alito  d'aria  che 
spira;  conduci  sulla  strada  di  Brindisi  il  De  Nittis,  e,  dov'altri 
non  vedrebbe  che  polvere  e  barbaglio,  egli  ti  farà  sentire,  ar- 
monizzati nell'unità  del  tono  locale,  semitoni,  trasparenze,  tran- 
sizioni così  fine,  come  l'iride  di  un'ala  di  libellula  che  palpiti 
al  sole. 

Ho  pronunziato  il  nome  d'un  artista,  che,  giovane  ancora,  ha 
saputo  occupare  Parigi  e  Londra  di  sé,  e  rapidamente  salirvi  in 
grandissima  reputazione  ;  né  a  tanto  è  pervenuto  coll'ostentare  ef- 
fetti bizzarri  e  macchine  farraginose,  ma  semplicemente  coll'ap- 
plicare  la  sua  arguta  interpretazione  a  quello  che  ha  di  più  mu- 
tevole il  vero,  agli  aspetti  quotidiani  dei  più  grandi  e  più  popo- 
losi centri  del  mondo.  Avvezzo  a  guardare  in  faccia  la  realtà  e 
a  tradurla  senz'ombra  di  pregiudizi  persino  dove  la  tradizione 
conserva  più  indisputato  il  suo  regno,  persino  nella  terra  clas- 
sica dove  sono  ancora  cosa  viva  gl'itinerari  di  Orazio  e  di  Vir- 
gilio, il  De  Nittis  non  s'è  spaurito  affatto  delle  grandi  capitali 
moderne;  anzi,  come  uno  di  quei  giovani  venturieri  delle  fiabe, 
che  se  ne  vanno  sorridendo  a  combatter  giganti,  s'è  tranquilla- 
mente affacciato  a  un'impresa  audacissima:  afferrare  e  fermar 
sulla  tela  il  dramma  vivente  della  piazza,  l'imagine  esteriore  più 
completa  che  forse  esista  della  società  moderna,  il  solo  poema, 
forse,  possibile  alla  democrazia.  Quando  taluni  voglion  dare  come 
precursori  al  De  Nittis  il  Van  der  Meer,  il  Van  der  Heyden,  il 
Barckeyden,  quei  pazientissimi  olandesi,  che  hanno  con  infinita 
minuziosità  cesellato  ad  uno  ad  uno  i  particolari  delle  loro 
fabbriche,  e  lavorato  alla  lente  quadri  che  soltanto  l'occhio  ar- 
mato di  lente  può  ammirare,  quadri  che  la  fotografia  è  venuta 
oramai  spogliando  anche  del  vanto  dell'esattezza,  io  credo  che 
scambino,  sotto  un'identità  meramente  nominale,  un  proposito 
sostanzialmente  diverso.  Ci  fu  nel  Seicento  un  ingegno  facile  e 
bizzarro,  che  s'accostò  un  poco  più  alla  vita  viva  della  piazza. 
Quel  curiosissimo  Ponte  Nuovo  di  Parigi  che  l'Accademia  di  Ve- 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Marzo  1819.  ^^ 


294  l'arte    a    PARIGI. 

nezia  possiede,  mostra  che  il  Callot  e1)be  di  questo  genere  un 
qualche  barlume;  se  non  che  il  pennello  gli  fu  troppo  meno  fa- 
migliare che  non  la  punta  dell'acquafortista.  La  sapiente  inter- 
pretazione dei  valori,  il  sentimento  dell'ambiente,  la  divinazione 
di  quel  genius  loci,  che,  trasfuso  nello  spettatore,  gli  reca  qual- 
cosa meglio  dell'imagine,  l'idea,  la  percezione  storica,  etnografica, 
oserei  quasi  dire  fisiologica  della  scena,  balenarono  piuttosto  al 
Canaletto  ed  al  Guardi;  e  qualche  continuatore  di  questi  inge- 
gnosi prospettici  v'ebbe  in  Italia  sempre;  il  Giganti  a  Napoli, 
il  Mazzola  a  Milano,  per  dirne  qualcuno,  non  lasciarono  che  al 
tutto  si  spezzasse  il  filo  della  tradizione.  Ma  il  De  Nittis  può  ri- 
vendicare a  sé  il  vanto  d'avere  fatto  una  cosa  sola  dell'  aspetto 
materiale  dei  luoghi  con  la  fisonomia  dei  ceti,  con  la  storia  delle 
consuetudini,  con  la  ricerca  dei  tipi,  che  tutti  insieme  ne  costi- 
tuiscono l'aspetto  morale  ;  d'averci  dato  non  Vurbs  solamente,  ma 
la  civitas  dell'età  moderna. 

Parigi  !  Chi  proferisce  questo  magico  nome  non  evoca  già  una 
muta  sequela  d'edifizì;  nella  sua   mente    la   città    materiale    non 
riapparisce  se  non  come  teatro  del  dramma    e    della  commedia 
quotidiana.  Una  riva  della  Senna,    per    chiunque   1'  abbia   vista, 
rimane    una    visione    animata   d' infinita    varietà    di    moti    e    di 
caratteri.    L' incrociarsi    delle   vetture    sotto  la  pioggia,  sotto  il 
sole,  che  in  un  batter  d'occhio  s'alternano  come  un  capriccio  di 
donna  o  di  popolo;  il  palpitare  dei  pennacchi  di   fumo,  sospinti 
dalle  piccole  e  rapide  vaporiere  a  ravvolgersi  in  globi  azzurri  su 
quel  fondo  d'oro    cesellato,   in  cui    si    trasforma    la  facciata  del 
Louvre  al  primo  raggio  che  trapeli  fra   le   nuvole;    l'onda   per- 
petua dei  passeggieri  —  spigliate  e  rapide  figure  di  donna,  stormi 
di  fanciulli  sotto  l'ala  della  bambinaia,  mercanti  girovaghi,  che 
s'imbattono  con  la  aristocratica  dama,  uscita   per   un    momento, 
come  alla  Parigina  qualche  volta  piace,  fuor  dal  tedio  signorile 
della  carrozza  alle  tentazioni  avventurose  del  lastrico;  politicanti 
in  cerca  del  loro  pane  quotidiano,  il  giornale  :    eterni,    incrolla- 
bili frugatori,    che    anelano  a  riscattare  i   vecchi    librattoli    dal 
limbo  de'  muricciuoli;  monelli  che  lanciano  a  dritta  e  a   manca, 
dove  loro  capita,  il   razzo   de'   loro   epigrammi  —  tutto   codesto 
riempie  appena  una  pagina  di  quel  libro  aperto  e  parlante,  che 
non  ha  segreti  per  il  De  Nittis.  Un'altra  volta  ei  ti  dirà  lo  sfarzo 
aristocratico  e  gli  sciali  mondani  di  un  riforno  dalle  corse;  un  sd- 
irsi, la  eleganza  fiera,  nervosa,  elettissima,  di  qualcuna  di  quelle 
gentildonne,  che,  anche  pedestri,  conservano  il  profumo  e  il  por- 


l'arte  a   PARIGI.  295 

tamento  di  un  superbo  fiore  di  serra.  E  quando,  dal  Bosco  di 
Boulogne  al  Ponte  Reale,  da  Fiazsa  delle  Piramidi  al  Teatro  del- 
l'Opera,  gli  parrà  d'  aver  foraggiato  per  il  suo  alveare  abba- 
stanza, varcherà  a  volo  lo  stretto,  e  si  farà,  in  un  attimo,  concit- 
tadino dei  duchi  del   West-End  e  dei  banchieri  della  City. 

Londra  ha  tutt'  altra  fisonomia  da  quella  di  Parigi  ;  e  tut- 
t'altra  te  la  rende  il  De  Nittis.  C'è  in  quell'aspro  clima,  in  quelle 
alte  e  rigide  e  fuligginose  fronti  di  palazzi,  in  quel  padiglione 
di  nebbia,  attraverso  il  quale  gli  ottusi  contorni  danno  ai  mo- 
numenti qualcosa  di  fantastico  e  di  spettrale;  c'è  nell'ingombro, 
nell'arruffìo,  nell'intrico  dei  veicoli,  nel  vertiginoso  moto  dei  vian- 
danti, nessuno  dei  quali  ti  pare  attorno  per  ispasso,  anzi  ciascuno 
è  tutto  al  suo  affare,  e  tanto  abitualmente  è  all'affar  suo,  da 
portarne  inalterabile  sul  viso  l'impronta;  c'è  nelle  epiche  pro- 
porzioni a  cui  arriva  ogni  cosa,  nella  vastità  dogli  empori,  nella 
grandiosità  dei  parchi,  nella  farragine  dei  mercati,  nella  cupezza 
medesima  di  certe  note  dissonanti,  che,  attraverso  al  tintinnire 
perpetuo  dell'oro,  paiono  ascendere  dall'umido  acciottolato  de'  tri- 
vi, dove  il  cencioso  Irlandese  trascina  la  sua  greve  ubbriachezza, 
e  il  pitocco  indiano  i  suoi  brividi,  c'è  in  tutto  questo  una  forte 
e  rude  poesia,  che  il  De  Nittis  benissimo  afferra.  Quel  suo  Westmin- 
ster  perduto  in  una  nebbia  ossianesca,  su  cui  non  istaccano  che 
le  buie  e  caratteristiche  facce  dei  roughs,  postati  al  parapetto  del 
ponte  con  la  coscienza  di  sovrani  dell'avvenire,  mette  superba- 
mente in  contrasto  col  fantasma  oligarchico  del  Parlamento  la 
dura  prosa  del  popolo.  E  qualcosa  di  dantesco  emana  da  quella 
anche  più  buia  visione  di  Canonhridge,  dove  il  pittore  ci  porta  ad 
asfissiare  sottesso  il  ponte  medesimo,  in  mezzo  ài  fumo  che  vi 
gorgoglia  come  in  una  bolgia,  e  che  lascia  a  mala  pena  indovi- 
nare per  qualche  spiraglio  la  folla  muta,  continua,  avviata  a  salire 
in  lunga  riga  dalla  spiaggia  tenebrosa  alla  città  trista  del  danaro 
e  del  lavoro.  Però  quest'  istesso  Tamigi  che  dentro  Londra  pare 
un  gigante  in  servitù,  poco  prima  di  giungervi  è  ancora  un  gen- 
tile fiumicello.  tra  due  ripe  verdi  e  gioconde;  e  lì  il  De  Nittis  va 
a  rifarsi  dall' incubo  cittadino,  e  con  una  deliziosa  chiarezza  di 
toni,  della  quale  è  tutto  suo  il  magistero,  ci  racconta  anche  l'idil- 
lio caro  ai  lakists,  i  poetici  diporti  della  miss,  che,  sola,  in  mezzo 
a  un  corteggio  di  cigni  e  d'anitrocoli,  scende  in  battello  il  corso 
limpido  delle  acque,  e  la  china  de'  propri  pensieri. 

Rimproverano  a  noi  altri  Italiani,  e  rimproverano  partico- 
larmente al  De  Nittis,  in  mancanza  d'  altro,  di   andar   cercando 


296  l'arte  a   PARIGI. 

fuor  di  casa  i  soggetti.  Ma  la  Via  di  Brindisi  risponde  per  lui  ; 
e  vie  meglio  risponderanno  un  di  o  1'  altro,  io  spero,  i  suoi  studi 
di  Venezia  e  di  Koina  ;  per  gli  altri  risponde  la  lunga  serie  di 
cose  nostrali  che  dianzi  ho  ricordate.  Così  fossimo  ancora,  del 
resto,  come  siamo  stati  e  come  in  arte  tuttavia  siamo,  un  popolo 
d'audaci,  di  forti,  d'infaticabili  viaggiatori!  Quest'essere  aperti 
alle  impressioni  d'ogni  paese  e  parati  sempre  a  transustanziarle 
nel  nostro  sangue,  non  è  punto  tale  attitudine  che  occorra  giu- 
stificarcene come  d' una  colpa.  Da  Dante  uditor  di  Sorbona 
sino  a  Ferrari  professore  d' Università  francese,  da  quel  milanese 
Surigoni,  contemporaneo  del  Chaucer,  del  quale  il  nostro  Maggi 
ha  rivendicato  la  fama  e  deterso  dalla  polvere  il  vecchio  epi- 
taffio in  Westminster,  sino  a  Foscolo,  a  Mazzihi,  a  Ruflini,  i  no- 
stri fuorusciti  hanno  facilmente  e  sempre  dottrineggiato  e  poe- 
tato in  lingue  straniere  :  quasi  la  natura  avesse  voluto  a  questi 
poveri  errabondi  della  patria  e  del  pensiero  concedere  in  com- 
penso il  dono  di  pascersi  d'ogni  semente  e  di  fare  il  nido  sotto 
ogni  cielo.  In  Levante  poi,  e  in  ogni  più  remota  e  favolosa  terra 
d'  Africa  e  d'  Asia,  il  nome  dei  nostri  viaggiatori  letterati  è  le- 
gione. E  quante  volte,  raccogliendo  dalle  ingenue  pagine  di  Marco 
Polo  quelle  sue  notizie  piene  di  sagacia  e  d'evidenza,  o  cernendo, 
per  dire  come  un  istorico,  i  granelli  d'oro  nella  sabbia  di  Giosafatte 
Barbaro,  o  ammirando  nel  Sassetti  le  ultime  industrie  di  una 
operosità  in  guerra  colla  fortuna,  quante,  volte  non  abbiamo  noi 
augurato  anche  alla  più  provetta  arte  della  parola  qualcosa  di 
quella  un  poco  rude  ma  pittoresca  efficacia!  Di  pittori  randagi 
poi,  in  terra,  come  dicevano,  d'infedeli,  da  Filippo  Lippi  che  si 
redime  di  schiavitù  grazie  all'agile  suo  schizzar  di  carbone,  a 
Gentil  Bellino  che  riconcilia  con  le  imagini  persino  il  secondo 
Maometto,  e  da  Gentile  giù  scendendo  sino  a' nostri  tempi,  e' ci 
sarebbe  da  narrare  una  intera,  bizzarra,  gloriosa  odissea.  Che  se 
questa  ha  ancora  chi  la  continui,  ce  ne  dobbiamo  dunque  tenere, 
non  solamente  come  altri  farebbe  di  nova  conquista,  ma  come 
ogni  casa  ricca  di  belle  e  nobili  tradizioni  dovrebbe  tenersi  delle 
sue,  lungo  che  lasciarle  vituperosamente  cadere. 

1  più  recenti  nostri  pittori  orientalisti,  l'Ussi,  il  Biseo,  non 
hanno  potuto  forse  rispondere  alla  chiamata.  Doppia  lode  per  il 
Pasini  r  aver  sostenuto  solo,  in  questo  arringo,  l'onore  del  suo 
paese.  Che  bella,  eletta  e  serena  arte  è  la  sua!  Davanti  ai  suoi 
quadri  si  dimentica  il  doloroso  strazio  che  nel  nome  dell'umanità 
s'è  fatto  pur  dianzi  di  quelle  infelici  terre  orientali,  preda   an- 


l'arte  a  PARIGI.  297 

Cora  prima  manomessa  che  ghermita  dal  furore  dei  contendenti  ; 
e  si  rivive  in  quell'  Oriente  dei  nostri  sogni,  dai  cieli  azzurri, 
dagl'  infiniti  orizzonti,  dalle  architetture  fantastiche,  dai  silenzi 
pieni  di  voluttà  e  di  poesia.  Ha  detto  celiando  un  critico  francese 
che  il  Pasini  è  troppo  islamita  da  poter  sfuggire  al  foco  pennace  ; 
ma  che  a  cavarlo  di  laggiù  scenderà  Maometto  in  persona,  e  lo 
trasporterà  fra  le  sue  uri  e  i  suoi  corsieri  di  guerra,  a  vivere 
cogli  eroi  dell'  Islam,  sotto  quelle  fresche  ombre  di  sicomori  e 
di  palmizi,  di  ch'egli  ha  sì  ben  compreso  i  dolci  misteri.  La  ce- 
lia è  buona  e  può  correre;  ma  non  dice  intiera  l'indole  della 
pittura  pasiniana.  Non  è  tutto  letizia  il  suo  Oriente  ;  anzi  ne'suoi 
quadri,  come  è  carattere  appunto  di  quelle  regioni  e  di  quella  ci- 
viltà, una  calma  pensosa  e  austera  attesta  la  presenza  dell'uomo 
in  mezzo  ai  sorrisi  della  natura.  11  Pasini  poi  non  s'  è  fermato 
alle  rive  del  Bosforo  sole:  egli  sa  le  mestizie  solenni  dell'Arme- 
nia e  le  maestose  selvatichezze  del  Libano,  quanto  le  delizie  del 

Corno  d'  oro. 

Su  un  altipiano  di  quel  Libano,  non  più  chiomato,  come  ai 
tempi  di  San  Girolamo,  di  densissime  foreste,  ma  ancora  verde  e 
ferace  dentro  alle  apriche  convalli,  fertiUssimus  et  virens,  in  un 
breve  spazio  a'  pie  di  alte  rupi  calcari,  tutto  seminato  di  bian- 
che tende,  da  cui  salgono  verticali  nell'aria  morta  sottilissimi  fili 
di  fumo,  il  nostro  pittore  ha  visto  schierarsi  due  di  quelle  splen- 
dide e  variopinte  cavalcate  di  metualis,  che,  da  un  dì  all'altro, 
danno  alla  chiamata  degli  emiri,  formidabili  eserciti:  sono  militi 
di  due  capitani  costoro,  ma  sembrano  capitani  tutti  ;  immobili 
in  arcione,  colla  lancia  sulla  coscia,  piuttosto  in  aria  di  altret- 
tanti re  che  ricevano  l'omaggio,  di  quello  che  in  aspetto  di  sol- 
dati, fanno  pensare  alle  epiche  rassegne  del  Tasso.  E  con  questi 
magnifici  guerrieri  anche  s'è  mescolato  il  nostro  Bussetano,  at- 
traverso i  rocciosi  greti  e  i  palmizi  nani  della  costa  siriaca;  e  ha 
cacciato  con  loro  al  falcone,  poco  altrimenti  da  quello  che  Marco 
Polo  col  Khan  Kubilai  nel  secolo  sui.  Altre  cavalcate,  altre 
schiere  superbe  ha  viste  in  quell'  Asia  minore,  dove  le  antiche 
magnificenze  della  Frigia,  della  Lidia  e  della  Caria  pare  che  uni- 
camente gettino  di  sé  qualche  lampo  nel  fasto  dei  Begler-beghi  ; 
e  di  tutta  codesta  solennità  di  vita  eroica  e  grandiosità  di  scene 
naturali  ha  plasmato  alla  pittura  sua  un  fondo  severo  e  grave,  che 
dà  risalto  a'  più  geniali  ricordi  turcheschi. 

Anche  però  in  mezzo  agli  splendori  di  Scutari  e  di  Stambul 
egli   non   dimentica   la   nota  pensosa;  e  ne  conduce  a  meditare 


298  LARTE   A   PARIGI. 

presso  a  quei  melanconici  e  poetici  tarhe,  dove  i  morti  lianuo  una 
ospitalità  poco  meno  fiorita  dei  vivi  ;  e  ci  fa  sedere  accanto  a  lui 
tra  stormi  di  colombi,  presso  a  qualche  curioso  pozzo,  in  qualche 
vecchio  cortile  di  conak,  dalle  pareti  nude  e  grigie,  rilevate  d'al- 
cun tocco  di  colore  grazie  alle  maioliche  verdi  e  turchine,  agli 
nzulejos,  che  incorniciano  una  qualche  finestretta  bifora  e  bianca  ; 
e  ci  mostra  le  nefande  soglie  di  qualcuna  di  quelle  prigioni,  dove 
le  picche  de'  cancelli  sono  perpetuamente  rugginose  di  sangue. 
Poi,  non  so  con  qual  talismano,  ei  penetra  fin  dentro  a' verdi  orti 
del  serraglio,  tutti  un  profumo  d'aranci,  d'oleandri  e  di  rose,  tutti 
un  fruscio  di  broccati,  di  sciamiti,  di  damaschi;  e  quelle  odalische 
sue  non  sono  affatto  le  solite  comparse  da  scena  ;  quella  vera- 
mente è  la  cadina,  preceduta  dalla  bruna  senatrice  di  liuto,  cir- 
condata dalle  sue  schiave,  che  recano  il  narghilè,  l'ombrello,  il 
tappeto  ;  e  l'aria  del  volto  di  quelle  povere  recluse  dice  i  tedii 
profondi  che  nessuna  dolcezza  di  vita  può  consolare,  le  tetre  ge- 
losie che  armarono  di  stiletto  più  di  una  candida  mano.  Ma 
quando  1'  harem,  il  conak  e  il  turbe  cedono  il  posto,  come  siparii 
che  SI  levino  suU'  aperto  orizzonte,  alla  vita  libera  dei  bazar, 
delle  piazze,  delle  rive  gremite  di  popolo,  allora  la  gioconda  sin- 
fonia del  colore  prorompe  con  tutte  le  sonorità,  con  tutti  i  clan- 
gori della  sua  gamma  ;  e  si  vive  davvero  sulle  incantate  spiagge 
del  golfo  di  Bujukderé  e  del  Mar  di  Mannara,  a'  giorni  in  cui 
si  conoscevano  ancora  le  liete  scarrozzate  in  araba  delle  hanuin 
curiose  come  bimbe  sotto  i  loro  veli,  e  il  lieto  gi'idio  dei  vendi- 
tori di  dolci,  di  sorbetti,  di  cocomeri,  e  il  tramescolarsi  pacifico 
di  Turchi,  di  Greci,  d'Armeni,  di  Circassi,  di  Zingari;  e  tutto  è 
un  fulgore,  un  luccichio,  un  occhibagliolo. 

Le  facoltà  pittoriche,  s'  è  visto  bene  anche  da  questa  Mostra 
imperfetta,  in  Italia  non  mancano;  non  manca  una  indagine  acuta 
del  vero,  e  neppure  una  irrequieta  sollecitudine  dei  grandi  pro- 
blemi del  tempo,  se  anche  poco  certa  del  proprio  obbietto,  anzi 
poco  o  punto  consapevole  a  sé  medesima.  La  fattura  poi  è  in- 
contrastabilmente d'assai  progredita  ;  e,  se  anche  a  volte  burbera, 
trarotta,  spezzata,  è  fuor  di  confronto  piìi  abile  che  venti  o  tren- 
t'anni  addietro  non  fosse.  Bisogna  avere  sott' occhi  quello  che 
allora  è  bastato  a  riputazioni  solidissime,  e  confrontarlo  con 
quello  che  oggi  si  dimanda,  a  titolo  di  primo  ingresso,  agli  esor- 
dienti, per  capire  i  passi  giganteschi  che  si  son  dati  innanzi,  la 
via  rapidiosima  che  s'  è  percorsa.  E  con  tutto  questo  c'è  un  disa- 
gio, un  senso  di  vuoto,  una  mala  contentatura  che  spiccia  fuori 


l'arte  a   PARIGI,  299 

da  tutti  i  meati  dell'opinione  pubblica,  da  tutti  gli  sfiatatoi  della 
critica,  da  tutte  le  bocche  stesse  dell'  arte.  Che  cosa,  in  nome  di 
Dio,  le  manca?  Io  ho  procurato  di  dirlo  tante  volte  e  in  tante 
maniere,  che,  anche  qui,  sul  chiudere,  dove  il  tirar  la  somma  è 
permesso,  io  dubito  che  a  ripeterlo  mi  tirerò  invece  addosso  cen- 
sure, non  soltanto  d'importunità,  ma  di  cocciuta  arroganza.  E 
nondimeno,  passi  anche  questo;  e  ancora  dirò,  sia  pure  per  l'ul- 
tima volta,  quello  che  ho  in  cuore. 

L'  artista,  l' italiano  massime,  a  cui  pesa  la  sua  nobiltà  e  cuoce 
il  suo  isolamento,  patisce  più  degli  altri  d'una  malattia  che  è 
quasi  congenita  all'uomo  moderno:  dubita,  cerca,  sottilizza  troppo; 
non  si  lascia  abbastanza  andare  alla  schiettezza  dell'  ispirazione, 
non  confida  abbastanza  nella  sincerità  e  nella  semplicità,  queste 
divine  pronube  di  tutti  i  capi  d'opera.  L'antico,  perchè  gli  è  stato 
guasto  dall'imitazione  dei  pedanti  e  fatto  uggioso  dal  precetto 
delle  scuole,  gli  sembra  una  cosa  morta,  un  passato  senza  ap- 
picco col  presente,  un  libro  bene  rilegato  e  prezioso,  da  lasciar 
dormire  negli  scaffali.  E  non  gli  viene  in  mente  quasi  mai  che 
non  è  già  d'imitare  1'  antico  che  gli  si  dimanda:  ma  di  guar- 
dare il  vero  colla  schiettezza  d'intenzioni,  colla  serenità  di  mente, 
coir  abbondanza  di  cuore,  che  ci  mettevano,  a  interrogarlo,  gli 
antichi.  Deh  come  lo  persuaderebbe  meglio  della  mia  inutile  e 
frantesa  giaculatoria  un'oretta  sola  eh'  egli  consentisse  a  passare, 
dopo  il  tumulto  intellettuale  e  la  pletora  artistica  di  Parigi  mo- 
derna, nei  deliziosi  silenzi  del  Louvre!  Laddentro  è  impossibile 
non  capire  come  la  molteplicità,  la  triturazione,  Io  sparpiglia- 
mento  infinito  del  mondo  artistico  moderno  sia  sopratutto  quello 
che  lo  snerva,  lo  stempera,  lo  sfa  ;  come  la  fibra  dello  spettatore 
sia  tesa,  sforzata,  esaurita  dalla  fatica  istessa  che  l'artista  mo- 
derno sostiene  per  riuscire  novo,  inaspettato,  bizzarro. 

Asserto  paradossale,  ma  vero  :  la  ripetizione  —  e  ripetizione 
non  c'è  mai  in  arte  se  non  in  apparenza  —  la  ripetizione  stanca 
assai  meno  di  quella  che  vuol  essere  e  non  è  novità.  Presso  gli 
antichi  un  profilo  di  vergine  tu  lo  rivedi  dieci  volte,  attraverso 
dieci  visioni  differenti  d'anime  diversamente  innamorate;  e  cia- 
scuna ti  dà  una  voluttà  nova,  ti  fa  salire  in  una  nova  sfera  nella 
divinizzazione  del  tuo  desiderio.  L'oro  biondo  di  Tiziano,  l'argento 
oltremarato  di  Paolo,  il  profumo  primaverile  di  Murillo,  i  pro- 
fondi e  transumani  crepuscoli  di  Leonardo,  l'ambra  diafana  di 
Andrea  del  Sarto,  i  purissimi  sereni  di  Raffaello,  sono  come  al- 
trettanti ambienti  in  cui  diversamente  si  colora  un' istessa   ima- 


300  l'arte   a   PARIGI. 

gine,  in  cui  si  trasfigura  un'istessa  idea:  ma  tu  passi  dall'uno 
all'altro  come  portato  da  ali  invisibili,  senza  urtarti  contro  nes- 
suno spigolo,  senza  dar  del  capo  in  nessun  impalcato,  che  ti  rompa 
la  dolce  illusione  del  volo:  quelle  innamorate  anime  si  sono  im- 
padronite ciascuna  della  tua,  e  tu  remeggi  nell'azzurro  con  loro. 
Eibelle,  impersuasibile,  ostile  quanto  tu  voglia  essere  e  sia,  non 
c'è  verso,  tu  le  segui,  tu  le  abbracci,  tu  con  loro  ti  indii. 

Solamente  quando,  come  diceva  Zaverio  De  Maistre,  la  bestia  ti 
tira  daccapo  in  terra,  tu  fai  uno  sforzo  per  negare,  per  prote- 
stare, per  analizzare  almanco,  il  paradiso;  e  dimandi:  0  che  po- 
vertà di  spirito  è  questa  di  basire,  di  sdilinquire,  di  dar  la  volta, 
per  tutte  queste  sbagliate  invenzioni?  Vedi  stoltezze  !  Che  ci  hanno 
a  fare  nella  Cena  in  Emaus  di  Paolo  i  figliuoletti  del  patrizio 
che  si  trastullano  coi  cani,  e  la  gentildonna,  e  tutta  la  famiglia? 
Che  c'entra  quel  signore  armeno,  e  quel  dilettante  di  contrab- 
basso, e  quel  cavalier  di  Malta,  nelle  Nozze  di  Cana  ?  Che  sugo 
c'è  a  far  riscaldare  i  pannilini  della  bimba  di  Sant'Anna  davanti 
a  una  gran  caminata  firentina  del  xv  secolo,  e  a  celebrare  lo 
sposalizio  di  Maria  in  vista  d'un  tempietto  bramantesco?  Né  ti 
fermeresti  così  presto,  se  non  t'accorgessi  che  è  la  bestia  che  di- 
scorre cosi.  Gli  è  il  momento  quello,  di  cui  1'  iu  profitta,  e  ri- 
sponde: Che  importa!  Tu  senti,  tu  ami,  tu  speri;  tutto  questo  è 
fresco  come  l'alito  dell'alba,  è  sereno  come  l'innocenza,  è  lieto 
come  la  luce,  e  più  vero  del  vero.  E  tu  vuoi,  indocilissimo,  sapere 
perchè  ti  sei  goduto  il  paradiso  ?  Ecco  qua.  Perchè  tutti  costoro 
che  non  hanno  pensato  alla  veste,  alla  camera,  ai  parati,  alle  sa- 
pienti fatture  del  sartore,  del  tappezziere  e  del  capomastro  dei 
tempi  di  Ottaviano  Augusto  (e  non  ci  hanno  pensato  i^erchè  — 
fortunati  loro!  —  non  ne  sapevano  abbastanza  —  pensaci  pure  tu, 
che  ne  sai)  hanno  sentito,  invece,  la  sovrumana  dolcezza  d'amare. 
Semplicità  e  sincerità,  figliuol  mio,  ecco  tutto  il  talismano.  Inter- 
rogare il  cuore  col  cuore,  tutto  l'incantesimo  dei  vecchi  maestri 
sta  qui.  Per  questo  gli  atti  più  ingenui  acquistano  nelle  inven- 
zioni loro  non  so  che  fragranza  ambrosia,  non  so  che  finezza  at- 
tica, non  so  che  euritmia  di  movenze  e  dolcezza  d'accento  che 
scendono  all'anima,  tornando  là  d'onde  sono  venute.  Per  questo 
un  putto  che  tocca  la  viola,  una  mamma  che  apre  le  braccia  alla 
sua  creatura,  una  testolina  che  si  ripiega,  vinta  dal  sonno,  sull'o- 
mero materno,  un  bimbo  che  poppa,  che  si  piglia  il  piedino  fra 
mani,  che  gioca  colla  bilancia  di  San  Michele  o  inanella  per 
ispasso  Santa  Caterina,  t' hanno  aperto,  ingrato,  il  paradiso. 


L'aETE   a   PARIGI,  301 

Quell'altra,  allora,  che  non  si  vorrebbe  dare,  niente  di  meno, 
per  vinta  —  Bellissime  cose,  —  perfidia  —  ma  cose  finite.  C  è  un 
proverbio... —  E  tu  non  la  lasci  finir  lei.  Si,  c'è  un  proverbio  che 
anche  a  un  gran  valentuomo  è  scivolato,  in  un  momento  di  stan- 
chezza e  di  malumore,  dalle  labbra:  «  7Z  morto  giace  e  il  vivo  si 
dà  pace.  »  Ma  chi  è,  di  grazia,  che  è  morto?  Non  l'amore,  non  il 
sentimento,  non  il  culto  del  bello,  dell'onesto  e  del  grande;  le 
quali  cose  tutte,  fino  a  quando  anima  umana  resti  per  accoglierle 
e  riscaldarsele  in  grembo,  non  muoiono.  E  chi  si  dà  pace?  Non 
l'uomo  moderno  davvero:  il  quale,  pasciuto  d'ogni  vanità,  satollo 
d'ogni  cupidigia,  trionfante  d'ogni  resistenza,  ancora,  quando  non 
riesca  a  fermar  per  il  lembo  della  veste  quelle  ospiti  divine,  si 
sente  gelido,  inutile,  uggioso  a  sé  stesso:  s'agita,  si  cruccia,  e  fa 
come  il  malato 

Che  non  può  trovar  posa  iu  su  le  piume 
E  per  dar  volta  suo  dolore  scherma. 

E  buon  per  lui  :  che  quel  suo  non  trovar  posa,  appunto   è   il   suo 
sigillo  d'onest'uomo  e  d'artista. 

No,  se  a  tutto  il  magnifico  spettacolo  delle  arti  e  delle  indu- 
strie moderne  s'ha  a  dare  una  conclusione  che  ne  riconforti,  che 
ne  inciti  a  bene  sperare  e  a  ben  fare,  la  conclusione  non  può  es- 
sere se  non  questa:  che  il  presente  non  deve  ripetere,  ma  nep- 
pur  dimenticare  il  passato;  che  deve  invece  continuarlo.  Per 
questo  un  grande  artista  ha  detto:  «  tornate  all'antico;  »  che  non 
voleva  sicuramente  dire  tornate  indietro,  ma  tornate  a  tutto  quello 
che  ricrea,  che  eleva,  che  raggentilisce,  che  edùca  l'anima  umana. 
Quanto  al  proverbio  poi,  non  c'è,  nel  caso  nostro,  che  una  cosa 
da  fare;  pigliarlo  a  rovescio.  No  —  il  morto  non  giace,  e  il  vivo 
non  si  dà  pace. 

TuLLO  Massarani. 


GUSTAVO  FLAUBERT. 


V'ha  un  momento  nella  vita  di  certi  scrittori  nel  quale  essi 
hanno  raggiunto  il  compimento  della  propria  operosità  letteraria 
in  tutte  quelle  parti  che  costituiscono  complessivamente  la  loro 
individualità.  È  quello  un  momento  in  cui  l'individualità  appare 
più  evidente,  perchè  non  essendo  ancora  uscita  dalla  vita  del  pro- 
prio tempo  e  non  avendo  ancora  spezzato  nessun  legame  che  a  questo 
l'unisce,  porta  in  sé  piìi  viva  e  chiara  l'impronta  di  esso.  Se  oggi, 
senza  il  pretesto  di  un  libro  nuovo  (l'opera  più  recente  del  Flau- 
bert porta  la  data  della  fine  del  1877)  prendiamo  ad  argomento 
di  queste  pagine  il  celebre  autore  di  Madame  Bovary,  è  precisa- 
mente perchè  ci  sembra  vederlo  in  quel  momento  in  cui  tutta 
la  sua  figura  letteraria  appare  più  compiuta,  perchè  ci  sembra 
che  precisamente  ora,  analizzandolo  e  studiandolo,  si  possa  ritro- 
vare in  esso  quella  rassomiglianza  col  proprio  tempo  che  accre- 
sce sempre  in  noi  il  desiderio  di  conoscere  a  fondo  i  nostri  con- 
temporanei e  ci  fa  svolgere  dall'analisi  della  loro  individualità 
una  pagina  viva  della  storia  d'oggi,  di  quella  storia  più  dif- 
ficile a  sapersi  di  tutte  l'altre,  perchè  comunque  si  svolga  è  sem- 
pre una  parte  di  noi  stessi. 

Senza  che  l'individuo  trovi  fuori  di  sé  un  aiuto  continuo,  senza 
che  il  proprio  tempo  l'alimenti  compiutamente,  non  può  crearsi 
quel  tipo  eccezionale,  più  vigoroso  e  perfetto  degli  altri,  il  quale, 
staccandosi  dalle  grandi  masse  vive  che  ogni  secolo  trae  dietro  di 
sé,  può  starsene  solo,  e  riflettere  in  sé  stesso  sia  una  sia  molte  ten- 
denze della  propria  età.  Studiare  dunque  una  individualità  lettera- 


GUSTAVO  FLAUBERT.  303 

ria  ili  quel  modo  che  ci  permetta  anche  di  cercare  in  essa  una 
parte  di  storia  morale  e  intellettuale  della  società  in  cui  viviamo, 
cercare  il  tipo  non  il  letterato  soltanto,  ecco  lo  scopo  che  ci  siamo 
prefìssi,  scegliendo  oggi  ad  argomento  di  questo  breve  articolo, 
Gustavo  Flaubert 

Sebbene  sia  scorso  più  di  un  anno  e  mezzo  dacché  il  Flau- 
bert pubblicò  i  suoi  Trois  contes,  e  ventidue  dal  giorno  in  cui 
stampò  il  suo  primo  lavoro  Mddame  Bovary,  pure  vi  ha  sempre 
qualcosa  di  cosi  nuovo,  di  così  fresco,  di  (permetteteci  la  pa- 
rola) sempre  recente,  intorno  alla  individualità  letteraria  di  questo 
autore,  è  sempre  così  viva  ed  efficace  la  sua  influenza  nelle  let- 
tere, che,  comunque  possa  riescire  incompiuto  il  nostro  tentativo 
di  critica,  non  mancherà  per  altro  certamente  di  opportunità. 

Non  si  creda  che,  quando  si  parla  di  una  individualità, 
s' intenda  con  questa  parola  raffigurarci  un  essere  vivente  fatto 
tutto  di  un  pezzo,  nel  quale  la  stabilità  di  certe  linee  non  s'  al- 
tera mai ,  la  cui  rigidità  costante  lotta  e  contrasta  con  tutto 
ciò  che  l'avvicina.  No,  l'individualità  letteraria  così  come  appare 
a  noi  e  come  vorremmo  studiarla,  si  svolge  a  poco  a  poco,  pieghe- 
vole e  docile,  seguendo  l'impulso  che  le  vien  dato  dalla  società 
che  la  circonda,  e  mutando  con  essa  e  per  essa  forma  e  colore  : 
piena  d'elasticità  intelligente  che  la  trasforma  a  tempo  e  in  ar- 
monia col  tempo;  e  per  quanto  apparentemente  contrasti  e  lotti, 
liure  non  crediamo  che  vi  sia  mai  stata  individualità  la  quale 
non  si  sia  sentita,  intimamente  e  fortemente  in  accordo  con  una 
tendenza  forse  nascosta,  ma  certamente  matura  e  vigorosa,  della 
propria  età,  e  che  non  abbia  seguito  flessibile  e  docile  l'evoluzione 
di  quella  tendenza. 

Se  del  Flaubert  si  volesse  fare  un  ritratto,  non  si  farebbe  di  lui 
che  una  immagine,  i  tratti  della  quale  dovrebbero  mutare  come 
mutano  per  opera  degli  anni  i  tratti  di  tutti  gli  esseri  viventi  ;  bi- 
sognerebbe fare  molti  Flauberts,  in  molte  epoche  diverse,  per 
avere  un  Flaubert  solo,  ammettendo  che  coll'ultimo  fosse  esaurita 
la  vita  intellettuale  di  esso:  altrimenti  s'egli  durasse  sempre,  quel 
ritratto  unico  che  riassume  tutti  gli  altri  non  s'avrebbe  mai.  Per- 
chè è  col  mutare  costantemente,  col  modificarsi  di  certe  tendenze 
generali  che  l'essere  intellettuale  più  perfetto  dura  e  prospera. 
Così  nell'individualità,  quel  tratto  costante  che  si  cerca  sempre  e 
che  traverso  tante  modificazioni  è  così  difficile  ritrovare,  non 
appare  realmente,  e  si  riduce  a  non  essere  che  la  pieghevolezza 
sottile  e  armonica  dell'intelletto  nel    seguire  l'evoluzione  e   l'in- 


304  GUSTAVO   FLAUBERT. 

dole  di  UH  tempo,  e  nel  trovare  il  modo  di  intuirlo.  Questo  modo 
di  sentire,  questo  punto  di  contatto  col  mondo  esteriore  crediamo 
sia  il  solo  tratto  costante,  anzi  la  vera,  unica  nota  fondamentale 
delle  individualità.  Nel  Flaubert  questa  nota  qual  è?  Ma,  qui  ci 
si  presenta  la  prima  e  maggiore  delle  difficoltà,  v'ha  in  esso  real- 
mente quella  nota  che  cerchiamo? 

Se  esaminiamo  le  sue  opere,  sorprendiamo  nella  sua  vita  let- 
teraria dei  periodi  interi  nei  quali  egli  sembra  mutare  a  un 
tratto  la  natura  della  sua  fantasia.  Nei  inigliori  suoi  scritti, 
Madame  Bovary  e  La  Teidation  de  Saint  Anioine,  il  contrasto 
appare  vivissimo.  Nel  primo  è  una  descrizione  dell'amore  nelle 
sue  manifestazioni  meno  elevate,  nella  sua  influenza  più  dannosa, 
che  l'autore  analizza  e  svolge  nella  storia  di  una  donna  la  cui 
vivisezione  morale  è  un'oj^era  piena  di  verità  maravigliosa;  nel 
secondo  invece,  egli  si  trasporta  in  un  mondo  ideale,  religioso, 
fantasticamente  lontano.  La  diversità  fra  quelle  due  opere  appare 
così  grande,  che  nell'ultima  sembra  davvero  spezzato  il  vincolo 
intellettuale  fra  l'autore  di  Madame  Bovary  e  quello  della  Tenta- 
tion;  sembra  che  abbandonando  improvvisamente  un  certo  ordine 
di  cose  e  d'idee,  il  Flaubert  abbia  lasciato  dietro  di  sé  una  parte 
di  sé  stesso,  per  farsi  trasportare  dalla  potenza  della  mente  e 
della  fantasia,  lontano  da  tutto  ciò  che  lo  aveva  prima  ispirato. 
È  sorprendente  davvero  la  dissimiglianza  nelle  opere  del  Flaubert; 
tutte  differenti  una  dall'  altra  nella  forma  e  nella  sostanza, 
quasi  non  fossero  dello  stesso  autore.  In  ognuna  di  esse  è  sempre 
qualcosa  di  essenzialmente  differente  dalle  altre;  qualcosa  che 
non  appare  nella  scena,  nei  caratteri  o  nell'argomento  soltanto, 
ma  nella  natura  stessa  di  chi  scrive.  Direbbesi  che  Flaubert  pren- 
desse a  vivere  di  una  vita  nuova  ogni  volta  scriveva  una  nuova 
opera;  che  la  sazietà  della  prima  generasse  in  lui  la  necessità  del 
contrasto;  che  finita  l'analisi  di  un  periodo  di  tempo  moderno  lo 
tormentasse  un  desiderio  pungente  d'altri  tempi,  d'altre  genti,  e 
che  la  fantasìa  lo  trascinasse  disordinatamente  e  lo  spingesse  ad 
escire  più  volte  dal  proprio  campo.  Eppure,  malgrado  tanto  svariato 
e  scompigliato  mietere  in  campi  diversi,  il  valore  letterario  delle 
opere  del  Flaubert  si  mantiene  costantemente  al  disopra  di  un 
certo  livello;  questi  audaci  tentativi  della  fantasia  non  lo  fanno 
mai  cadere,  esso  non  pone  mai  il  piede  in  fallo,  e  comunque  vada, 
ardito  e  lontano,  si  sente  che  egli  ha  in  sé  o  fuori  di  sé  un  appoggio 
sicuro.  Nella  città  di  provincia  moderna  come  a  Cartagine,  a  Parigi 
come  nella  Tebaide  del  deserto,  il  Flaubert  non  si  perde  mai. 


GUSTAVO    FLAUBERT.  3U5 

Di  questa  salvezza  va  egli  debitore  alla  sua  ricca  fantasia  o 
agli  artificii  sapienti  del  romanziere  furbo  e  acuto?  Non  crediamo 
che  la  fantasia  sola  né  le  perfezioni  dell'arte  bastino  a  spiegare 
il  valore  costante  che  l'autore  ha  saputo  conservare  alle  sue  opere, 
qualunque  ne  fosse  l'argomento. 

Come  potè  il  Elaubert,  ideare  prima  un  romanzo  qual  è  Ma- 
dame Bovary,  in  cui  la  vita  di  una  provinciale  isterica  è  scritta 
con  una  finitezza  di  analisi,  con  una  verità  psicologica  e  fisiolo- 
gica quasi  ributtante,  nel  quale  si  vede  l'autore  tanto  compene- 
trato dell'opera  sua,  che  sembra  proprio  aver  trovato  in  essa  la 
rivelazione  delle  proprie  attitudini  intellettuali,  come  potè,  ripe- 
tiamo, il  Flaubert,  dopo  aver  fatto  quel  romanzo  e  averlo  fatto  a 
quel  modo,  abbandonare  a  un  tratto  la  via  così  felicemente  per- 
corsa per  avventurarsi  in  tutt' altra  direzione  senza  perdercisi  o 
nuocere  alla  fama  già  acquistata?  Perchè,  intendiamoci,  se  il 
Flaubert  ha  i  pregi  delle  individualità  non  ha  quelli  delle  in- 
telligenze veramente  eccezionali.  Nel  suo  secondo  lavoro  non  più 
analisi  psicologica,  non  più  descrizioni  della  vita  moderna,  trat- 
teggiate con  sì  squisita  verità  nella  JfofZawe  Bovary;  il  psicologo 
e  fisiologo  si  è  fatto  a  un  tratto  archeologo;  abbandona  i  tempi 
moderni  per  la  vita  antica;  a  Mach  une  Bovary  succede  inaspetta- 
tamente la  sorella  di  Annibale,  alla  città  di  provincia  francese  si 
sostituisce  la  vecchia  Cartagine.  La  nuova  opera  di  Flaubert  era 
fatta  tanto  bene,  che  quando  Salanibò  esci  dalle  stampe,  forse  alcuni 
che  non  avevano  letto  Madame  Bovary  (in  Francia  pochi  assai) 
potettero  credere  che  nelle  grandi  descrizioni  della  vita  antica  stesse 
il  segreto  del  genio  letterario  del  Flaubert,  che  nel  romanziere 
ci  fosse  uno  storico  il  quale  chiedesse  alla  fantasia  del  novelliere 
una  immagine  più  viva  dei  tempi  passati  ;  ma  chi,  avendo  letto 
Madame  Bovary,  avrebbe  potuto  dimenticarla,  e  dimenticarla  al 
punto  da  non  aver  sentito  nell'autore,  in  tutta  la  sua  potenza, 
r  intuizione  della  vita  presente  ?  del  presente,  non  soltanto  nelle 
sue  manifestazioni  più  nascoste,  ma  nell'intuizione  del  come  era 
fatto  nei  più  intimi  recessi  della  sensazione  e  percezione,  un  tipj 
del  proprio  tempo  ?  Perchè  se  Madame  Bovary,  è  un  tipo  che  ora 
già  declina  e  incomincia  a  trasformarsi,  pure  ella  porta  in  sé 
l'impronta  indelebile  d'un' epoca:  quella  in  cui  fu  sentita  e  pen- 
sata da  Flaubert.  E  dopo  questi  due  romanzi  ne  scrisse  altri  an- 
cora, e  approfondì  e  indagò  nuovi  diversissimi  argomenti,  e  an- 
dando a  sbalzi,  pareva  battesse  inquieto  e  insanziabile  a  tutte  le 
porte  della  fantasia. 


306  GUSTAVO   FLAUBERT. 

Era  instabilità  e  incertezza  dell'intelletto  ?  mancava  forse  in  esso 
quella  nota  fondamentale  della  individualità,  di  cui  parlammo?  No, 
anzi  questa  sua  apparente  instabilità  era,  ne  siamo  sinceramente 
convinti,  una  necessità  contro  la  quale,  anche  volendo,  il  Flaubert 
non  avrebl)e    potuto    lottare;  e  pochi  sono    stati    gli   autori    che 

■  abbiano  seguito,  come  ha  fatto  lui,  un  impulso  costante,  inva- 
riabile e  non  interrotto  che  lo  eccitava  e  dominava  in  tutta  la 
sua  operosità.  Pochi   hanno  potuto   fare  più    compiutamente   del 

■  Flaubert,  tutto  ciò  eh'  egli  ha  ideato  ;  in  mezzo  a  tanta  prodigalità 
apparente  esso  non  ha  mai  perduto  nulla  per  via;  ha  raccolto  per- 
fino le  briciole  della  sua  intelligenza.  E  se  lo  ha  potuto  fare,  fu  per- 
chè ogni  sua'  nuova  opera  era  una  parte  sua  intellettuale  compiuta  e 
intera,  cbe  egli  esauriva compenetraudosene  e  scrivendola;  e  allorché 
quella  era  finita,  non  avrebbe  più  potuto  rifare  nessun  lavoro  che  la 
rassomigliasse  perchè  non  aveva  più  in  sé  materia  a  crearlo. 

Ogni  opera  di  Flaulìcrt  rappresenta  un  senso  soddisfatto  in 
tutte  le  sue  manifestazioni.  E  quando  alcuni  critici  fanno  le  ma- 
raviglie dello  spazio  di  tempo  cbe  egli  lascia  sempre  trascorrere 
fra  un  lavoro  e  l'altro,  spazio  di  circa  sei  o  sette  anni,  noi  non  pos- 
siamo né  maravigliarcene  con  essi,  né  attribuire  (juesta  lentezza  alle 
accurate  indagini  cbe  l'autore  ha  bisogno  di  fare  a  fine  di  compiere 
i  suoi  lavori  con  quella  precisione  di  fatti  e  descrizioni  che  gli  è 
propria.  Esso  non  ha  bisogno  di  tempo  né  per  pigrizia  della  mente 
né  per  pedanteria;  tutta  la  sua  natura  ne  ha  bisogno  per  rifai'si 
di  quella  parte  di  se  stessa  perduta  nell'opera  precedente,  e  matu- 
rare in  sé  l'altra,  la  nuova,  quella  che  in  forma  affatto  diversa  si 
fai'à  viva  col  tempo. 

Nel  Flaubert  ha  luogo  uno  di  quei  fatti  naturali  più  facili 
a  intendersi  che  non  lo  sieno  generalmente  i  fatti  cbe  riguardano 
l'intelletto.  Per  cercare  di  conoscere  che  cosa  lo  fa  operare  in  quel 
modo  tutto  suo,  die  cosa  lo  fa  essere  in  alcune  opere  superiore  e 
inferiore  a  molti,  bisogna,  come  d'ogni  essere  vivente  che  si  vuol 
conoscere  bene,  ricercare  quella  parte  di  esso  cbe  dura  e  domina 
ognora  costante  nella  sua  operosità.  E  quel  movente  continuo  che 
varia,  ma  è  pur  sempre  lo  stesso,  quello  che  feconda  e  domina 
l'intelligenza  del  Flaubert,  é  la  sensualità;  sono  i  suoi  sensi  per- 
■  fetti,  sempre  sicuri  della  chiarezza  di  percezione  con  la  quale 
tutta  la  sua  fantasia  può  rendersi  conto  della  pienezza  della  loro 
vita  nei  più  minuti  particolari. 

La  nota  fondamentale  della  sua  individualità  è  il  sensualismo. 
È    un    sensualismo   raaraviglioso,  cbe  ba  percorso    tutta  la  scala 


GUSTAVO   FLAUBERT.  307 

delle  sensazioni,  ed  è  arrivato  così  in  alto  che  talvolta  sembra 
rinnegare  la  stessa  sua  origine  se  non  l'esaltasse.  Ogni  opera 
del  -Flaubert  rappresenta  una  forma  nuova  di  sensualità,  e 
porta  con  sé  le  perfezioni  della  verità  e  di  un  fatto  intel- 
lettuale per  sé  stesso  completo,  mentre  nel  medesimo  tempo 
soggiace  all'inevitabile  esaurimento  della  cosa  la  cui  origine 
si  trae  tutta  da  un  ordine  di  fatti  che  finisce  necessaria- 
mente entro  certi  limiti.  Le  sue  opere  sono  piaceri  della  sua 
fantasia,  la  quale  s'alimenta  tutta  in  una  festa  splendida  dei  sensi, 
ed  è  perfetta  soltanto,  perchè  i  suoi  sensi  lo  sono,  e  perchè  il  piacere 
che  essi  fanno  provare  alla  sua  intelligenza  diventa  una  forza  che 
la  domina,  che  essa  non  può  arrestare,  che  deve  in  certe  sue  parti 
esaurirla  tutta  prima  di  finire  ;  e  per  ciò,  quando  un'  opera  del 
Flaubert  è  compiuta,  è  finita  anche  la  forza  che  la  creò,  e  non 
potrebbe  piti  con  quelle  stesse  forze  farne  altre;  e  questo  solo  basta 
a  spiegarci  le  dissomiglianze  strane  dei  suoi  lavori  e  la  necessità 
che  egli  prova  d'aspettare  fra  un'opera  e  l'altra  che  rinasca  nella 
sua  natura  un  nuovo  modo  di  sentire  e  godere,  che  esso  poi 
narrerà  a  suo  tempo  come  narrò  la  forma  già  esaurita. 

11  sensualismo  del  Flaubert  è  un  sensualismo  accorto  e  de- 
licato, che  ha  troppa  dimestichezza  con  l'intelligenza  per  non  cer- 
car sempre  la  propria  rivelazione  fuori  del  campo  basso  e  tri- 
viale entro  il  quale  si  rivela  la  sensualità  altrui.  Esso  ha  trovato 
il  segreto  di  tormentare  la  propria  mente  con  tutte  le  febbri  dei 
suoi  sensi,  ed  a  quel  modo,  inscientemente,  le  ha  portate  in  alto, 
così  in  alto  che  talvolta  sembra  aver  lasciato  in  disparte  nelle 
sue  creazioni  appunto  quella  parte  di  esse  che  a  molti  parrebbe 
la  più  sensuale  ;  ma  la  sapiente  fibra  sensitiva  del  Flaubert  sa 
sempre  intuire  quanto  c'è  di  meglio,  e  sa  andare  cercando  sottil- 
mente nelle  inesplorate  regioni  della  fantasia  le  ultime  rivelazioni 
della  vita  dei  sensi.  E  le  trova  sempre  senza  mai  sbagliare. 

Nella  Tentation  de  Saint  Anioinc,  vediamo  in  tutta  la  sua  po- 
tenza questa  gagliarda  forza  intuitiva,  che  sembra  perduta  fra  le 
nebbie  lontane  dell'ascetismo,  e  che  pur  vi;  cammina  sicura  e  trion- 
fante, forse  ancor  più  di  quando  ci  narrava  con  tanta  perfezione 
i  nevrosici  amori  di  una  donnina  di  provincia. 

Ma  il  Flaubert  quando  scriveva  la  Tentation  era  già  lontano 
dai  tempi  della  Bovary  :  aveva  già  fatto  un  passo  avanti.  Aveva 
già  abbandonato  da  un  pezzo  la  vita  presente  con  tutti  quei  suoi 
particolari  che  egli  conosceva  tanto  bene,  aveva  già  finito  con 
quella,  e  s'era  già  potuto  trasportare  nella  Salanibò  in  mezzo  alle 


308  GUSTATO  FLAUBERT. 

grandi  scene  dell'antichità  senza  perdercisi  mai.  Ormai  era  sicuro 
di  portare  in  sé  ciò  che  lo  avrebbe  salvato  certamente  dallo  smarrirsi 
neir  ignoto.  Egli  sapeva  di  giungere  sicuro  sempre  laddove  erano 
giunti  tutti  i  sensualismi  umani,  fossero  pure  lontani,  o  sepolti 
dal  passato  o  dissimili  affatto  dai  nostri  ;  esso  li  riconosceva  sempre, 
li  intuiva,  sentiva  di  poterli  descrivere  tutti,  e  fin  dove  questa 
fibra  viva  serpeggiava  nascosta  nel  mondo  più  alto  delle  idee,  fin 
dove  s'insinuava  nelle  più  astratte  percezioni,  fin  là  ma  non  più 
in  là,  Flaubert  sapeva  di  poter  giungere  con  sicurezza. 

Nella  Salamhò  la  fantasia  dello  scrittore  del  secolo  decimo- 
nono fece  un'  orgia  splendida  di  colori  e  di  vita,  in  mezzo  alle  più 
sanguinose  scene  della  vecchia  Cartagine.  L' Autore  mise  tutta 
l'accuratezza  di  un  archeologo  insigne  per  provarci  la  verità  di 
quello  che  descrive,  per  provarla  anche  a  sé  stesso  a  fine  di  sentir 
meglio  la  propria  opera.  Flaubert  si  fece  archeologo  per  rifare  Car- 
tagine con  esattezza  e  precisione,  per  descriverla  tutta,  per  rievo- 
carla senza  lacune,  per  rifarla  viva  e  bella,  e  tale,  che,  per  un 
periodo  di  vita  della  sua  fantasia,  essa  potesse  essere  un  nido  degno 
dei  suoi  amori.  L'Autore  andò  in  Affrica,  studiò  le  rovine  del- 
l'antica città,  ci  visse,  e  il  risultato  fu  quale  lo  meritavano  le  sue 
fatiche.  Rifatta  Cartagine,  il  Flaubert  la  popolò.  Quella  barbara 
civiltà  lo  esaltò  in  modo  veramente  straordinario,  le  sue  fibre 
moderne  indovinarono  con  intuizione  morbosa  ciò  che  i  deliri 
dei  sensi  avevano  provocato  in  quel  mondo  così  lontano  e  dis- 
simile dal  nostro.  Quel  mondo  raffinato  e  barbaro,  gretto  e  splen- 
dido, osceno  e  superstizioso,  pareva  fatto  apposta  per  essere  de- 
scritto da  lui.  Era  un  giorno  di  vita  antica  che  corrispondeva 
mirabilmente  con  l'insensata  follia  sensuale  dello  scrittore  del 
nostro  secolo.  Era  un  angoscioso  desiderio  retrospettivo  d'oggi  che 
s'incontrava  con  una  grande  immagine  del  passato  :  che  la  vagheggiò 
lungamente,  la  volle,  e  infine  la  fece  sua.  Quelle  nudità  di  bar- 
bari ebbero  le  sue  carezze,  quei  supplizi  atroci,  orgie  di  sangue 
e  dolore,  accontentarono  le  momentanee  morbose  crudeltà  della 
sua  fantasia;  la  religione  oscena  fu  intuita  da  esso  con  serietà 
pagana.  E  la  serietà  del  Flaubert  in  tutte  le  sue  opere  è  per  noi 
una  garanzia  sicura  dell'intensità  con  la  quale  le  ha  ideate.  Le  sue 
gioie  non  hanno  sorrisi,  perché  le  grandi  sensualità  ridono  talvolta, 
ma  non  sorridono  mai;  il  sorriso  incomincia  soltanto  laddove  la 
percezione  s'innalza  sola,  lontano  dalla  sensazione,  e  ne  contempla 
serenamente  il  ricordo;  ma  fintanto  che  quella  dura,  si  compie 
in  noi  un  fatto  che  é  severo  perchè  inevitabile  e  che  non  ha  nulla 


GUSTAVO   FLAUBEKT.  309 

di  comune  con  la  natura  del  sorriso,  il  quale  segna  ed  è  forse  in 
noi,  il  punto  più  lontano  dei  nostri  sensi.  Questo  forse  ci  spiega 
la  costante  serietà  del  Flaubert  la  cui  sensualità  è  troppo  perfetta 
per  essere  volgare,  cosicché  egli  sta  quasi  solo  fra  la  volgarità  che 
ride  e  le  intelligenze  che  sanno  sorridere,  sicuro  di  non  abbassarsi 
verso  l'una  e  incapace  forse  di  salire  verso  le  altre. 

Se  vogliamo  giudicare  la  Salanibò  come  un  complesso  di 
quadri  della  vita  antica  a  Cartagine,  non  si  può  che  lodare  quale 
opera  letteraria  di  gran  valore;  ma  se  la  prendiamo  a  conside- 
rare come  romanzo,  non  solo  è  inferiore  assai  a  Madame  Bovary, 
ma  non  ha  superato  nessuna  delle  difficoltà  che  si  presentano  ine- 
vitabilmente a  chiunque  vuol  intessere  un  romanzo  nella  vita  antica. 

La  narrazione  psicologica  e  fisiologica  dell'individuo  a  quei 
tempi  riesce  sempre  impossibile,  perchè  la  moltiplicità  d'incrocia- 
menti  con  razze  diverse,  le  differenze  enormi  fra  gli  uni  e  gli  altri, 
non  di  civiltà  soltanto,  ma  di  consuetudini,  credenze,  anzi  aberra- 
zioni religiose  dovevano  dar  luogo  a  tali  e  tante  diversità  di  tipi 
morali  e  fisici  da  non  poter  farsene  a'  tempi  nostri  un  concetto 
•esatto.  11  giovane  mondo  barbaro,  sempre  cosi  vicino  a  quello  vec- 
chio e  civile,  civile  sino  alle  piìi  astruse  raffinatezze  della  civiltà, 
dava  luogo  necessariamente  a  contatti  frequenti  dai  quali  nascevano 
connubi  e  miscele  di  razze  ;  tutto  ciò  produceva  infine  in  ogni  in- 
dividuo dei  risultati  quasi  impossibili  a  studiarsi  ora  da  uno 
scrittore  del  nostro  tempo,  e  ne  veniva  un  impasto  organico  equi- 
librato così  diversamente  dal  nostro,  che  l'analisi  psicologica  di  esso 
non  può  farsi  in  nessun  modo.  0  se  riesce,  riesce  a  sbalzi,  perchè 
si  afferra  soltanto  un  momento  di  vita  che  il  tempo  ha  trasmesso 
a  noi  chiaro  e  vivo,  e  poi  vi  è  di  nuovo  una  lacuna,  uno  spazio 
buio,  e  l'individuo  psicologico  scompare  per  noi  nelle  tenebre  di 
un  mondo  finito  e  morto  per  sempre;  e  così  quella  figura  del  pas- 
sato va  e  viene,  appare  e  scompare,  e  la  storia  di  essa  rimane 
inevitabilmente  sconnessa.  E  così  è  stato  della  Salanibò. 

Gli  autori  più  mediocri  di  romanzi  moderni  hanno  talvolta 
in  questa  parte  una  immeritata  superiorità  di  fronte  agli  autori 
migliori,  i  quali  vollero  cercare  in  tempi  troppo  lontani  i  tipi 
delle  loro  epere.  Perfino  gli  scrittori  più  schivi  di  realismo,  più 
superstiziosamente  paurosi  di  esso,  hanno  senza  volerlo,  spesso 
senza  meritarlo  e  in  quelle  parti  che  i  realisti  sogliono  meglio 
trattare,  una  singolare  superiorità  sopra  tutto  quello  che  dai 
realisti  stessi  è  stato  fatto  o  tentato  di  fare  al  di  là  dei  limiti  se- 
gnati dal  cristianesimo  alla  storia  psicologica  dell'umanità.  Mentre 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Marzo  1879.  19 


310  GUSTAVO   FLAUBERT. 

invece,  lo  scrittore  dì  romanzi  della  vita  antica,  per  quanto  con 
la  potenza  della  mente  ricerchi  il  vero  e  se  lo  faccia  sentire 
presente,  non  potrà  mai  intuirlo  con  quella  verità  e  chiarezza  con 
la  quale  ne  abbiamo  quell'  intuizione  nel  presente,  che  sola  ci  dà 
il  vigore  necessario  per  osservare  e  approfondire  fuori  di  noi  i 
fatti  psicologici.  Checché  ne  sembri,  questo  presente  del  quale  ab- 
biamo sì  gagliarda  l' intuizione,  noi  non  1'  abbandoniamo  mai,  per 
quanto  il  nostro  pensiero  vada  ad  indagare  nell'  ignoto  cose  lon- 
tane e  nascoste.  Inscientemente  ci  teniamo  aggrappati  ad  esso,  e 
con  maggior  forza  quanto  più  crediamo  di  dovercene  allontanare. 
Ma  poteva  l'autore  di  un  romanzo  come  la  Salambò,  tenersi  stretto 
a  questa  intuizione  del  presente?  No;  esso  doveva  abbandonarla 
coraggiosamente  oppure  sentire  dentro  di  sé  un  contrasto  continuo 
che  sarebbe  apparso  nella  sua  opera.  E  quel  contrasto  non  vi  pap- 
pare :  ma  vi  si  scorge  invece  l' abbandono  necessario  di  quell'  in- 
tuizione del  presente,  abbandono  che  non  fu  compensato,  come 
era  impossibile  lo  fosse,  dall'  intuizione  di  un  altro  tempo  che 
nessuno  potrà  mai  rievocare.  Il  compenso  invece,  l'autore  lo  ha 
trovato  per  sé  e  per  noi  nelle  splendide  descrizioni  della  vita 
antica,  quando  agita  e  muove  delle  grandi  masse  umane,  quando 
prodiga  colori  così  vivi  e  smaglianti  sopra  ogni  cosa,  che  quella 
vecchia  Cartagine,  scintilla  sotto  al  sole  d'Africa,  dinanzi  agli 
occhi  di  chi  legge,  come  s'egli  la  vedesse;  e  tripudia  e  grida  e 
freme  con  una  verità  intensa,  che  mette  quasi  i  brividi  addosso 
a  chi,  trasportato  dall'eloquenza  della  narrazione,  crede  udirla 
davvero. 

Nella  Tentation  de  Saint  Antoìnc,  sebbene  la  stranezza  del- 
l'argomento e  la  distanza  dei  tempi  sia  ancora  grandissima,  pure 
la  continuità  dello  studio  psicologico  si  ritrova  perfettamente; 
perchè  in  quell'opera  1'  autore  ha  ritrovato  il  suo  punto  d'  appoggio, 
e  non  naviga  più  nell'ignoto.  Fra  il  mondo  antico  che  tramonta 
e  l'alba  di  quello  moderno,  s'incontra  in  una  figura  che  non  può 
sfuggire  alle  sue  osservazioni,  perchè  in  essa  riconosce  un  tipo 
sempre  vivo,  il  solo  tipo  che  lo  scrittore  di  romanzi  conosca  dav- 
vero: il  tipo  cristiano. 

Col  cristianesimo  soltanto  si  fa  vivo  l'uomo  che  conosciamo 
a  fondo,  che  possiamo  analizzare  psicologicamente,  la  cui  vivise- 
zione ci  è  possibile.  Dai  primi  secoli  del  cristianesimo  sino  ad 
oggi,  chiunque  sia  stato  analizzato  psicologicamente  dalla  penna 
0  dalla  parola  viva,  chiunque  ha  servito  di  studio  al  romanziere 
anche  il  più  realista,  il  più  ateo,  il  più  innamorato  del  pagane- 


GUSTAVO   FLAUBERT.  311 

simo,  è  sempre  stato  e  non  poteva  essere  altro  che  un  cristiano  : 
perchè,  si  dica  o  si  speri  pure   il  contrario,   ma  da  Carlomagno 
in  poi  non  abbiamo  avuto  nel  mondo  che  cristiani,  eccettuato   i 
selvaggi   che   non   contano,  e  quei  popoli  come  i  chinesi  e  i  mu- 
sulmani che  con  altro  nome  ed  altre    consuetudini  sono  stati  sog- 
getti allo  spirito  di  una  legge  rassomigliante   assai   alla  nostra, 
e  nelle  cui  scritture  sacre  abbiamo  attinto  i  nostri  migliori  inse- 
gnamenti, cosicché  possiamo  dire  che  vissero  una  parte   di  vita 
cristiana  prima  di  noi.  E  da  Carlomagno  in  poi,  lo  ripetiamo,  non 
vi  fu  altro  tipo  nel   mondo   morale;    e   i  chiamati   eretici,  atei  a 
pagani,  erano  pur  tutti  cristiani  ;  accessibili  tutti  alle  nostre  ana- 
lisi psicologiche  più  minute,  fossero  pure  l' analizzatore  e  1'  ana- 
lizzato increduli  affatto  nel  cristianesimo.  Perchè  l'influenza  dello 
spirito  cristiano,  che  ha  compenetrato  ogni  cosa  nel  mondo  nostro 
civile,  ci  assicura  quella  continuità  logica  delle   nostre   ricerche, 
le  quali  vanno  sempre  indagando  prima  i  sentimenti,  poi  le  idee  : 
prima  la  sensazione  e  poi  la  percezione  che  è  provocata  da  essa.  Ed 
è  precisamente  nel  sentimento,  che    dai   primi  secoli  del  cristia- 
nesimo sino  ad  oggi  noi  siamo    ancor   tutti    cristiani.   Le   nostre 
sensazioni,  di  qualunque   natura  sieno,    sono  essenzialmente    cri- 
stiane; ed  è  con  fatica,  con  spreco   di  forza   intellettuale,  che  in 
taluni  la  percezione  si  libera  violentemente  da  quei  vincoli  mo- 
rali; e  non  è  se  non  per  opera  di  un  ultimo  ed  elevato  processo 
mentale  che  alcuni  se  ne  staccano  affatto,  senza  essere  per  altro 
in  grado  di  attingere  poi  in  sé  stessi  nuove  sensazioni  che  non  sieno 
in  contradizione    con  il  risultato  finale  dei  loro  ragionamenti.  Le 
cose  pensate   ed  elaborate  da   questi  pochi  non   bastano   che   di 
rado,  e  forse  a  pochissimi,   per  stabilire   un   equilibrio    costante 
fra   il   modo    di   sentire  e  il  modo  di  pensare,    pel  quale  la  sen- 
sazione nasca  così  come  vorrebbe  la   percezione;   e   quand'anche 
ciò  fosse,  e   l'equilibrio   fosse   ritrovato  pienamente,   questo   tipo 
nuovissimo  sarebbe  forse   tanto  difficile   ad   analizzarsi  psicologi 
camente  dallo  scrittore  moderno,  quanto  lo  sarebbe  per  esso  una 
Saìamhò  pagana  e  cartaginese. 

È  la  natura  e  l'aspirazione  del  sentimento  che  sole  ci  per- 
mettono di  conoscere  il  tipo  morale  che  vogliamo  studiare;  se 
quel  movente  interno  di  tutte  le  manifestazioni  ci  è  ignoto  o  im- 
perfettamente noto,  r  essere  umano  diventa  per  noi  un  indovi- 
nello strano,  complicato,  che  non  sapremo  mai  risolvere;  e  la 
Salambò  di  Flaubert  è  rimasta  ad  esso  e  a  noi  un  indovinello 
insoluto,  perchè  ci  mancava  la  chiave  che  apriva  la  porta  segreta. 


312  GUSTAVO  FLAUBERT. 

dei  suoi  sentimenti.  L'uomo  dell'antichità  ci  sfugge  così  sempre, 
allorché  vogliamo  studiarlo  compiutamente;  noi  non  siamo  sicuri 
di  sapere  come  e  perchè  sente;  mentre  l'uomo  moderno  invece  ci 
rivela  tutti  i  suoi  segreti,  e  la  chiave  di  quei  segreti  è  il  cristia- 
nesimo che  ha  modellato  e  compeuetrato  tutti  i  suoi  sentiraenti. 
E  se  una  Salambò,  miracolosamente  risuscitata,  ci  apparisse  oggi 
e  ci  vivesse  accanto,  e  ci  fosse  ognora  presente,  pure  non  sapremmo 
conoscerla  meglio  di  quello  che  la  conobl^e  il  Flaubert,  quando  essa 
gli  apparve  luminosa  sotto  al  sole  affricano,  in  mezzo  alle  ora 
deserte  rovine  della  sua  Cartagine. 

Ma  sant'Antonio,  invece,  chi  non  lo  conosce?  Chi  non  ha  sentito 
narrare  le  istorie  delle  sue  tentazioni?  Chi  non  ha  sentito  in  sé 
quel  fatto  cristiano,  e  non  ha  afferrato  con  la  propria  mente  l'im- 
magine di  un  diavolo  tentatore,  sia  pure  un  diabolo  astratto  quanto 
si  vuole,  che  appare  nelle  febbri  delle  nostre  fantasie?  K  così, 
quando  finita  quell'orgia  antica  di  supplizi  e  di  sangue,  finita  da 
un  pezzo,  il  Flaubert  sentì  rinascere  nella  sua  fantasia  sensuale 
un  nuovo  dramma,  una  nuova  febbre,  e  che  ideò  la  Tentation.  ri- 
trovò il  filo  perduto  dell'analisi  psicologica. 

Nella  Salaìììhò,  egli  si  era  sentito  potentemente  artista,  ma 
ora  voleva  essere  qualcosa  di  più.  T  suoi  sensi,  fatti  pili  acuti, 
vollero  qualcosa  di  più  elevato  ancora  di  tutto  ciò  che  avevano 
provato  nel  dar  vita  alle  opere  precedenti;  vollero  andare  più 
lontano  che  non  fossero  mai  andati,  più  vicino  alle  regioni  ideali 
che  non  fossero  mai  stati;  e  vi  riuscirono;  vi  riuscirono  così 
bene,  che  forse  la  Tcntation  de  Saint  Antoine  è  la  migliore  opera 
del  Flaubert. 

Credete  forse  che  il  sensualismo  dello  scrittore  francese  va- 
gheggiasse una  tentazione  volgare,  una  tribolazione  dei  sensi 
qualunque,  un  diavolo  da  medioevo?  No,  la  tentazione  scritta 
dal  Flaubert  è  così  squisitamente  elevata,  va  a  ricercare  desideni 
cosi  delicati,  che  il  sensualismo  dell'autore  sembra  perdersi  e  di- 
leguarsi nell'immensità  del  sogno  grandioso  e  fantastico  del  santo 
cristiano.  Eppure  non  fu  mai  così  intenso,  né  così  acuto  come  nella 
storia  della  tentazione. 

Sant'Antonio  è  visitato  e  tentato,  nel  deserto,  da  tutte  le^ re- 
ligioni dell'anticbità.  Con  ardore  febbrile,  con  un'impazienza  piena 
di  commozioni  Flaubert  spoglia  dinanzi  a  lui  le  religioni  della 
loro  vita  ideale  e  la  fantasia  ardita  di  esso  va  a  toccarne,  trion- 
fante, il  nòcciolo  vivo,  sensuale,  riboccante  di  sentimenti  umani, 
intorno  al  quale,  fantasia  e  idea  rivestirono  poi  infinite  e  svariate 


GUSTAVO    FLAUBERT.  313 

le  forme  religiose.  Le  spoglia  tutte;  e  nude  appaiono  più  vive,  e 
si  vede  allora  in  esse,  come  nelle  opere  del  Flaubert,  lo  svolgersi 
della  storia  di  una  sensualità  umana  grandiosa  e  collettiva:  la 
storia  di  ciò  che  ha  dominato  nei  sensi  di  certi  popoli  ed  il  cui 
dominio  è  divenuto  un  culto.  E  tutti  quei  sensualismi  di  popoli 
sconosciuti,  0  sepolti  nelle  nebbie  del  passato,  o  morti  da  un 
pezzo,  ballano  una  ridda  fantastica  nella  solitudine  silenziosa 
di  una  notte  del  deserto,  dinanzi  agli  occhi  del  santo  cri- 
stiano ;  e  degli  idoli  •  fiitti  vivi  proiettano  ombre  strane  sulle 
calde  sabbie,  dinanzi  alla  sua  grotta,  e  animali  stravaganti  e  crea- 
ture mostruose  raccontano  le  istorie  audaci  di  aberrazioni  dei 
loro-  istinti.  Donne  che  appaiono  come  fiabe,  femmine  che  sono 
religioni,  intemperanze  mostruose  che  hanno  forma  e  vita,  ten- 
tano il  santo  e  lo  tormentano  in  ogni  modo.  Poi  lo  tentano  le  ar- 
guzie dello  spirito,  lo  tentano  le  vanità  della  fantasia,  lo  tenta 
l'amore  della  verità  per  paura  d'aver  fatto  soffrire  inutilmente  i 
sensi,  e  nella  speranza  colpevole  di  poterli  soddisfare  senza  pec- 
cato. Esso  è  tentato,  in  tutte  le  parti  vive  della  sua  natura,  da 
tutto  ciò  che  è  stato  vivo  e  vive  sempre  nella  natura  intera.  Fi- 
nisce, addormentandosi  stanco  e  travagliato  nel  riposo  delle  spe- 
ranze cristiane  ;  e  l'opera  più  elevata  dell'autore  di  Madame  Bo- 
vary è  compiuta. 

Per  un  momento,  con  intuizione  grandiosa,  Flaubert  ha  sen- 
tito nelle  più  remote  e  svariate  manifestazioni  di  vita  collettiva, 
la  rassomiglianza  con  ciò  che  provava  egli  stesso  nella  piccola 
sfera  della  sua  individualità;  ha  intuito  che  in  certi  tipi  umana- 
mente più  perfetti,  la  storia  della  umanità  si  riflette  maravi- 
gliosamente, ed  ha  avuto  l'audacia  di  servirsi  di  un  periodo  di 
vita  propria,  per  spiegare  a  sé  stesso,  quelli  più  lontani  e  col- 
lettivi che  fanno  parte  della  storia  umana;  e  indovinò  il  momento 
in  cui  un'impazienza  e  un'aspirazione  dei  propri  sensi  combinavasi 
perfettamente  con  l'argomento  che  prendeva  a  studiare. 

l^eWÉducafìon  sentimentale,  Flaubert  ha  invece  esaurito  tutta 
la  storia  del  sentimentalismo  sensuale,  e  l'ha  fatto  con  grande 
sottigliezza  d'analisi  e  verità  di  descrizioni,  ma  quell'opera  è  rie- 
scita  troppo  lunga  ed  in  alcune  sue  parti  anche  noiosa,  malgrado 
sia  in  alcune  altre  perfettissima. 

Dei  Trois  contes,  che  sono  la  sua  ultima  e  più  recente  pub- 
blicazione, non  parleremo,  perchè  l'argomento  di  questo  studio  non 
lu  specialmente  quello  di  fare  la  critica  delle  opere  del  Flaubert, 
quanto  del  ricercare  in  esse  il  tipo  letterario  dell'autore  nei  suoi 


314  GUSTAA^O   FLAUBERT. 

vari  modi  di  manifestazione;  e  nei  Trois  conies  egli  non  si  pre- 
senta a  noi  sotto  nessuna  forma  nuova,  anzi  vi  ritroviamo  delle 
ripetizioni,  non  nei  racconti  stessi,  ma  nel  modo  in  cui  furono 
creati,  che  ci  sembrano  affievolite  manifestazioni  di  ciò  che  provò 
scrivendo  altri  lavori. 

I  Trois  conies,  sono  fatti  con  la  potenza  della  memoria,  non 
sono  stati  intuiti  e  non  hanno  vissuto  nelle  sue  fibre  prima  di 
nascere,  come  hanno  fatto  Madame  Bovary,  Salamhò,  YÉduca- 
tion  sentimentale  e  la  Tentation  de  Saint  Antoine,  opere  fatte  tutte 
di  un  pezzo,  vive  tutte  di  una  parte  di  vita  sua. 

Flaubert  volle  anche  provarsi  a  scrivere  una  commediola,  Le 
Candidat,  ma  non  gli  riuscì  che  mediocremente. 

Ed  ora,  prima  di  finire,  guardando  questa  bella  figura  let- 
teraria del  nostro  tempo  cerchiamo  di  trovare  in  essa  quel  ri- 
flesso dell'  etcà  in  cui  siamo,  quella  parte  di  vita  nostra  collet- 
tiva, che  s'è  incarnata  nella  sua  individualità;  e  domandiamo  a 
noi  stessi  se  il  Flaubert  del  secolo  decimonono  potrel}be  rasso- 
migliare ad  uno  stesso  Flaubert  nato  e  cresciuto  in  un  altro  tempo. 
Osiamo  affermare  che  un  tipo  letterario  come  il  suo  non  poteva 
essere  che  ai  giorni  nostri,  ne'  quali  le  tendenze  materialiste  e 
le  scoperte  della  scienza,  risvegliando  vivamente  in  molti  la 
coscienza  della  propria  solidarietà  con  tutto  il  mondo  orgauico, 
provocano  una  intuizione  di  esso,  nuova,  speciale,  ora  grandissima, 
ora  puerile  ma  compiuta  più  che  non  lo  sia  mai  stata. 

Nei  primi  tempi  del  cristianesimo,  Flaubert  avrebbe  dato 
i  suoi  sensi  all'ascetismo  e  si  sarebbe  fatto  grande  lottando  contro 
di  essi,  eppure  traendo  inscientemente  dalla  loro  potenza  le  aspi- 
razioni per  le  quali  doveva  poi  combatterli.  Nell'epoca  del  rina- 
scimento avrebbe  forse  potuto  essere  artista,  e  modellare  le  im- 
magini della  sua  fantasia  nella  creta  o  nel  marmo;  nel  nostro 
secolo  invece,  egli  si  trova  in  perfetta  armonia  con  l'evoluzione  di 
una  grande  tendenza  della  società.  Il  punto  di  contatto  col  proprio 
tempo  l'ha  trovato  senza  neppure  cercarlo.  Mentre  il  sensualismo 
artistico  e  letterario  del  Flaubert  cresceva  e  maturava,  cresce- 
vano e  maturavano  anche  intorno  ad  esso,  nella  società  cui  ap- 
parteneva, delle  convinzioni  nuove  e  profonde,  che  riallacciavano 
potentemente  fra  loro  sensazione  e  idea,  e  infondevano  in  molti 
un  sentimento  nuovissimo  della  natura;  e  mentre  da  un  lato  si 
spezzavano  dei  legami,  se  ne  riannodavano  mille  dall'  altro  ;  fili 
sottilissimi  e  vivi,  che  tengono  strette  e  unite  fra  loro  tutte  le  cose 
che  sono  intorno  a  noi.  Inscientemente   il    Flaubert,  via  via  che 


GUSTAVO   FLAUBERT.  315 

s'affermava  nel  mondo  questa  nuova  fede,  si  avvicinava  sempre  più 
ad  una  tendenza  del  suo  tempo  e  affidava  ad  essa  tutta  la  forza 
produttrice  della  sua  individualità  letteraria.  E  in  questa  fede 
ristretta  ad  un  solo  punto,  quello  della  vita  dei  sensi  nelle  loro 
più  alte  manifestazioni,  in  questa  fede  per  la  quale  il  Flaubert 
attingeva  nelle  idee  del  nostro  secolo  una  garanzia  nel  valore  e 
nella  continuità  della  propria  operosità  letteraria,  sta  il  segreto 
della  sua  individualità.  È  il  punto  di  contatto  fra  essa  e  la  vita 
collettiva  che  la  circonda. 

Ma  questo  punto  di  contatto  se  è  per  esso  una  forza,  di- 
venta a  volte  anche  un  vincolo  ;  e  l'uniformità  del  punto  di  con- 
tatto, ma  più  di  tutto  la  sua  natura,  per  quanto  svariate  ne  sieno 
le  manifestazioni,  porta  in  sé  un  limite  che  non  permetterà  mai 
all'  intelligenza,  che  in  esso  si  rinchiude,  di  conseguire  i  grandi 
scopi  del  genio.  È  un  vincolo  dell'intelligenza  che  la  tiene  ferma, 
stretta  alla  vita  contemponanea  quasi  in  quel  modo  nel  quale  vi 
stanno  necessariamente  ferme  e  chiuse  le  manifestazioni  materiali 
di  essa.  È  da  questo  stesso  vincolo  col  tempo  presente  che  noi 
crediamo  sia  sorta  la  scuola  realista  d'oggi;  ricca  e  viva  di  tutto 
ciò  che  può  dare  la  moltiplicità  e  ricchezza  di  vita  reale  che  le 
sta  d'attorno,  ma  che  dovrà  sempre  rinnovarsi  per  durare,  morire 
per  rinascere,  e  che  nessun  altro  tempo  ammirerà  nei  suoi  meriti 
maggiori  fuorché  quello  presente  che  la  crea. 

Il  genio  solo  vive  oltre  il  proprio  tempo,  in  quel  modo  speciale 
che  te  lo  fa  sentire  vicino  con  tutta  la  potenza  della  verità  anche 
quando  dei  secoli  ti  separano  materialmente  da  esso.  Dante,  Shake- 
speare, Goethe  sono  oggi  per  noi  ciò  che  furono  nel  passato  e  sa- 
ranno neir  avvenire  ;  il  momento  di  vita  e  di  verità  che  ha  toccato 
le  loro  fibre  intellettuali,  è  un  momento  che  dura  sempre  nell'uma- 
nità. Ma  queste  grandi  eccezioni  non  si  potrebbero  giudicare  e 
studiare  così  come  ci  è  dato  analizzare  le  individualità  minori. 
Esse  sono  tanto  lontane  da  noi  che  non  possiamo  indagare  com- 
piutamente la  loro  natura,  mentre  le  sentiamo  d'altra  parte  così 
vicine  per  la  giusta  intuizione  che  hanno  della  natura  nostra,  che, 
quando  il  genio  parla  di  noi,  ci  sembra  descriva  di  noi  stessi  sempre 
quella  parte  che,  per  essere  più  intimamente  ed  essenzialmente 
nostra,  non  abbiamo  mai  potuto  afferrare  compiutamente  con  la 
percezione  ;  e  la  verità  e  semplicità  delle  cose  dette  da  esso 
sorprende  tutti  ugualmente,  mediocri  o  grandi;  onde  alla  po- 
tenza sua  del  veder  lontano  con  la  mente,  e  afferrare  e  collegare 
grandi   masse  d'idee,  sembra  andare  unita  una  straordinaria  pò- 


316  GUSTAVO  FLAUBERT. 

tenza  del  veder  meglio  e  più  da  vicino  che  tutti  gli  altri,  e  così 
strappare  sicuramente  alla  vita  dello  spirito  il  suo  segreto  di 
vita  stessa. 

Fra  queste  due  grandi  attitudini  della  mente  del  vedere  con 
straordinaria  chiarezza  le  cose  vicine  e  quelle  lontane,  vi  sono 
molte  categorie  d'intelligenze  diverse,  le  quali  cercano  la  perfe- 
zione ora  in  una  di  queste  attitudini  dell'  intelletto ,  ora  nel- 
l'altra; ma  troppo  difficile  sarebbe  indagare  a  quale  fra  tante  e 
diversissime  categorie  possa  ascriversi  il  Flaubert. 

È  indubitato  che  esso  non  aspira  al  conseguimento  di  un  fine 
veramente  ideale  e  lontano,  ma  non  è  neppure  vincolato  alla 
stretta  e  sola  indagine  e  osservazione  delle  cose  vicine.  Appar- 
tiene in  un  certo  qual  modo  alla  scuola  realista  d'oggi,  poiché 
egli  va  debitore  della  potenza  del  proprio  intelletto  alla  stessa 
fonte  dalla  quale  il  realismo  attinge  la  sua  forza,  eppure  non  si 
può  chiamarlo  realista. 

La  scuola  dei  realisti  dovrebbe  sconfessarlo.  La  verità  cosi 
come  la  descrive  e  la  vuole  il  Flaubert,  non  è  quella  verità  sol- 
tanto quale  appare  all'evidenza  dei  sensi  senza  interpretazione 
alcuna,  così  come  la  vediamo  fuori  di  noi  ;  quella  verità  che  il 
realismo  non  crede  possibile  di  osservare  con  chiarezza  se  non 
raggiunge  la  miiturità  di  una  manifestazione  materiale  compiuta. 
No,  la  verità  del  Flaubert  è  molto  diversa  da  quella  che  ricerca  lo 
Zola,  e  nella  quale  lo  Zola  raggiunge  una  perfezione  assai  mag- 
giore, non  per  il  metodo  dell'indagine,  ma  per  vigore  di  mente  r 
il  vero,  il  realismo,  il  Flaubert  lo  trae  tutto  da  sé  stesso.  11 
vero  cosi  come  é  stato  ed  è  nel  mondo  esterno,  il  Flaubert  lo  deve 
sentire  a  jiassare  come  traverso  un  vaglio  nel  sensualismo  della 
sua  fantasia  prima  di  poterlo  descrivere.  Se  non  lo  trae  prima  a 
vivere  nei  suoi  sensi,  se  non  lo  sente  prima  dentro  di  sé,  non  lo 
può  manifestare.  Esso  ha  bisogno  di  una  interpretazione  per  af- 
ferrarlo compiutamente;  dunque  non  è  interamente  realista,  e 
non  importa  che  gì'  istrumenti  della  sua  interpretazione  sieno 
i  sensi. 

Ma  se  questo  fatto  basta  a  provarci  che  egli  non  è  veramente 
realista,  ci  proverà  peraltro  che  in  esso  s'incarna  uno  dei  tij)i  più  no- 
tevoli e  meritevoli  di  studio  del  tempo  nostro,  più  rassomigliante  ad 
esso  di  qualsiasi  altro,  nei  suoi  pregi  e  nei  suoi  difetti,  e  più  di 
tutto  in  questa  stessa  contradizione  con  la  scuola  cui  dovrebbe 
appartenere.  Questa  contradizione  costante,  questa  necessità  di 
effettuare  con  un  vecchio  sistema  un'opera  nuova  in  evidente  con; 


GUSTATO  FLAUBERT.  317 

tradizione  col  sistema  stesso  che  l'ha  creata;  questo  modo  di 
stare  fra  l'antico  e  il  moderno,  fra  il  realismo  e  l'interpretazione 
della  verità;  di  starvi  senza  ipocrisia  s'intende,  ma  con  la  natu- 
ralezza spontanea  di  chi  obbedisce  al  modo  d'essere  della  pro- 
pria natura,  raffigura  meglio  di  qualsiasi  storia  morale  contem- 
poranea, un  tratto  notevolissimo  della  società  nostra. 

Nella  bella  e  robusta  individualità  dell'autore  di  Madame 
Bovary,  troviamo  quasi  idealizzata  questa  fase  morale  della  no- 
stra età;  soltanto  in  essa  non  vediamo  né  il  dubbio,  né  l'ipocrisia, 
né  l'incerto  fluttuare  che  agita  realmente  il  mondo  moderno  e 
sembra  che  egli  sia  stato  creato  da  tutti  questi  contrasti  in  un 
momento  nel  quale  speravano  forse  rappacificarsi. 

E  in  un  certo  qual  modo,  nella  sana  e  vigorosa  natura  del 
Flaubert,  quelle  contraddizioni  si  sono  rappacificate  fra  loro;  nel 
suo  fecondo  sensualismo  si  sono  annidate  tutte,  quasi  fosse  un 
grande  focolare  che  aveva  luce  e  calore  per  ognuna  di  esse  ;  e 
la  sua  fantasia  le  ha  accolte  compiacente,  le  ha  guardate  tutte  con 
amore  e  le  lia  fatte  sue  ad  una  ad  una  senza  lotta  e  senza  dolore. 
Ma  nel  Flaubert  era,  ed  è  sempre,  ciò  che  manca  all'età  nostra  ; 
una  forza  nascosta  che  domina  nel  contrasto  e  nella  lotta,  uno 
scopo  forse  quasi  inscientemente  vivo  nella  sua  fantasia,  ma  co- 
stantemente presente.  Esso  é  il  segreto  del  vigore  e  dell'armonia 
nelle  sue  opere;  e  forse  ci  spiega  perchè  il  vigore  e  l'armonia 
non  sieno  in  questo  tempo  quanto  sono  nella  sua  individualità, 
che  pure  é  opera  dell'età  nostra. 

11  Flaubert  trae  bensì  tutto  dalla  vita  dei  sensi  e  ci  descrive 
dal  vero  ciò  che  prova  ;  ma  quella  sua  fantasia  sensuale  non  erra 
senza  guida  nel  torbido  agitarsi  delle  sensazioni  ;  non  é  il  piacere 
di  dire  senza  scopo  ciò  che  esso  hanno  provato,  che  eccita  la  sua 
fantasia,  è  il  piacere  di  farci  vedere  che  lo  svolgersi  di  quelle 
sensazioni  ha  per  risultato  un'  opera  d'arte  ;  e  dentro  a  quelle 
fibre  vi  è  un  ideale  artistico  sempre  vivo,  che  domina  sopra  ogni 
lotta  ed  ogni  contrasto,  e  questo  ideale  é  il  segreto  del  vigore 
e  dell'armonia  nelle  opere  di  Flaubert. 

È  un  segreto  vecchio  come  il  mondo,  é  il  segreto  d'ogni  bel- 
lezza, è  il  segreto  d'ogni  sforzo  potente  per  farci  migliori,  ed  è, 
dovunque  si  compia,  checché  ne  dica  il  realismo,  un'opera  bella; 
perchè  un'  opera  bella  non  si  fa  senza  un  desiderio  di  crearla  a 
quel  modo,  e  l'aspirazione  a  far  meglio  è  e  sarà  sempre  un'aspi- 
razione ideale.  E  anche  se  a  taluno  riescisse  d'effettuare  insciente- 
mente un'opera  grande,  vi  sarebbe  pur  sempre  un  momento,  quello 


318  GUSTATO   FLAUBERT. 

in  cui  l'autore  contempla  il  proprio  lavoro  compiuto,  in  cui  l'evi- 
denza della  bellezza  di  esso  lo  porterebbe  a  contatto  col  concetto 
ideale.  E  l'amore  della  verità  nel  realismo  è  anch'  esso  un'  aspi- 
razione, un  fatto  ideale,  qualsiasi  il  fine  che  si  vuol  conseguire; 
e  la  fede  nei  propri  sensi,  ai  quali  soli  i  realisti  affidano  la 
ricerca  della  verità,  è  una  fede  anch'essa,  una  fede  che  è  parte 
della  stessa  aspirazione  intellettuale  ;  e  comunque  l'umanità  si 
tormenti  e  si  affanni,  troverà  in  ogni  nuovo  tormento  e  in  ogni 
nuovo  affanno  un  nuovo  ideale,  e  finché  progredirà  j^er  le  vie 
dell'intelletto  sarà  spinta  e  animata  da  esso.  Non  è  la  tendenza 
stessa  del  volersene  liberare  un  fatto  ideale? 

Ma  il  Flaubert  non  lotta  né  contro  l'ideale  vecchio  né  in 
favore  del  nuovo.  Mentre  cercava  la  verità,  la  prese  laddove  si 
manifestava  con  maggiore  chiarezza,  dove  la  trovò  più  bella;  la 
prese  in  sé  stesso;  e  forse  a  questo  modo  è  stato  più  realista  di 
quello  non  lo  sieno  generalmente  i  realisti  più  ortodossi,  perché 
ebbe  maggior  fede  in  ciò  che  sentiva  dentro  di  sé  che  in  quello 
che  vedeva  soltanto  fuori  di  sé,  e  indovinò,  forse  meglio  di  tant'altri, 
quel  punto  tra  noi  e  il  vero,  in  cui  questo  si  vede  più  compiuta- 
mente. 

Emma. 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA. 


APPUNTI  DI  TIAGGIO. 


VII. 

Quasi  nello  stesso  punto  in  cui  m'imbarcava  a  Pictou  per  l'isola 
del  Principe  Edoardo,  salpava  a  quella  direzione  anche  un  bat- 
tello a  vapore  con  qualche  centinaio  di  Scozzesi,  i  quali  si  eran 
dato  convegno  colà  per  celebrare  una  loro  festa  annuale:  «  Annual 
Highlancl  Gathermg»  dicevano  gli  avvisi.  11  comitato  promotore 
è  un  club  Caledonia  che  ha  lo  scopo  di  mantenere  le  tradizioni  na- 
zionali, e  il  carattere  della  festa  è  quello  di  una  gita  di  piacere 
con  corse  a  piedi,  ballo  ed  altro.  Siffatte  partite  sono  colà  in  gran 
voga  e  tutto  basta  per  offrirne  pretesto  ;  talvolta  si  fanno  solo  in 
famiglia,  tal'altra  in  larga  compagnia,  spesso  anche  dietro  l'ini- 
ziativa di  qualche  speculatore  ;  nel  basso  Canada  le  tante  isole  del 
S.  Lorenzo  ne  sono  il  preferito  teatro. 

L'isola  del  Principe  Edoardo  nell'inverno  può  comunicare  senza 
navigazione  colla  Nova  Scozia,  grazie  ad  una  immensa  via  di  solido 
ghiaccio  che  si  forma  da  Capo  Traversa  a  Capo  Tormentine  i  due 
punti  dell'isola  e  del  continente,  posti  in  comunicazione  dal  tele- 
grafo sottomarino  :  nondimeno  la  mia  traversata,  mi  ricondusse 
invece  col  pensiero  alle  zone  tropicali,  tale  era  in  quel  giorno  la 
sferza  del  sole,  e  tanta  l'oppressura  del  caldo.  Mentre  ci  avvicina- 
vamo all'isola  ho  notato  come  una  strana  singolarità  che  il  sotto 
suolo  ha  un  colore  rossiccio,  pel  quale  le  alte  spiaggie  si  vede- 
vano spiccare  con  lunghe  strisce  rosee  sopra  il  ceruleo  dell'onde 
e  sotto  il  verde  pallidissimo  dei  prati.  Geologicamente  questo  fe- 
nomeno è  spiegato  colla  presenza  in  quelle  sabbie  del   perossido 


320  IL   DO.MINIO    DEL   CANADA. 

di  ferro  che  il  mare  nelle  sue  invasioni  toglie  alle  roccie  e  poi 
deposita  nei  momenti  di  calma.  Se  ne  trovano  anche  altri  esempi 
nella  Nova  Scozia,  specialmente  nella  baia  di  Fundy,  dove  intere 
paludi,  formate  dall'  alte  maree  hanno  il  loro  fango  tinto  in  ros- 
siccio come  altre  lo  hanno  di  un  color  giallognolo,  a  spiegazione 
di  che  fu  detto  che  il  ferro  esiste  colà  nello  stato  di  solforato  :  in- 
fatti esponendo  al  fuoco  un  po'  di  quel  fango,  ne  esala  un  forte 
odore  solforoso  e  il  color  rosso  ritorna.  ^  I  terreni  di  sedimento, 
di  color  rosso,  per  quanto  variino  spesso  in  grado  di  bontà,  sono 
in  generale  eccellenti  per  l'agricoltura,  e  potrebbero  vincere  al 
confronto  i  più  celebri  sedimenti  alluvionali  del  vecchio  e  del 
nuovo  mondo.  Quanto  al  terreno  azzurrognolo,  invece,  accade  che 
il  solforato  di  ferro,  rimanendo  esposto  all'ossigeno  dell'aria,  diventa 
solfato  di  ferro  o  vetriolo  verde,  sostanza  fatale  a  molte  colture. 

L'isola  del  Pi-incijie  Edoardo  fu  una  delle  ultime  Provincie  ad. 
entrare  nella  Federazione  del  Canada.  Fin  dal  1"  settembre  1864 
si  era  tenuta  a  Charlottetown,  sua  capitale,  una  conferenza  per 
discutere  sulla  convenienza  di  congiungere  insieme  con  vincolo 
federale  l'isola  del  Principe  Edoardo,  la  Nova  Scozia  ed  il  Novo 
Brunswick,  ma  si  voleva  evitare  ogni  legame  col  Canada,  il  cui 
enorme  debito  pul)blico  faceva  disperare  delle  sue  condizioni  fi- 
nanziarie, e  che,  per  la  propria  importanza,  non  avrebbe  po- 
tuto a  meno  di  esercitare  una  preponderanza  allarmante  sulle 
Provincie  sorelle.  Invece  il  Canada  offrì  esso  stesso  il  pro- 
prio intervento  col  mezzo  d'  una  deputazione  inviata  alla  Con- 
ferenza, la  quale  allora  decise  di  continuare  le  sedute  nell'ottobre 
a  Quebec,  per  discutere  invece  il  piano  più  vasto  dell'attuale  Fe- 
derazione ;  ma  quando  questo  fu  concretato,  l' isola  del  Principe 
Edoardo  pose  per  condizione  del  proprio  assenso  che  si  costruisse 
a  spese  della  Federazione  una  ferrovia  la  quale  attraversasse  l'isola 
in  tutta  la  sua  maggior  lunghezza;  e  la  ferrovia  fu  di  recente 
costruita,  ma  non  si  può  dire  che  serva  molto  né  al  traffico,  né 
ai  passeggieri. 

L'  isola  misura  5439  chilometri  quadrati  e  la  popolazione 
conta  94,021  abitanti,  la  cui  maggioranza  è  d'origine  irlandese. 
Come  ogni  altra  Provincia  della  Federazione,  essa  conserva  il  suo 
governo  locale,  ma  molti  degli  abitanti  di  Carlottetown  rimpian- 
gono sempre  i  tempi  in  cui  vantavano  per  ospite  un  governatore 
coloniale,  nominato  direttamente    dalla    regina,  il   quale   soleva 

1  Dawson,  Accadian  Geology.,  London  1868,  Macmillan,  pag.  24. 


IL   DOMINIO   DEL  CANADA,  321 

circondarsi  di  quel  fasto  che  non  è  permesso  al  vice-governatore 
attuale.  La  vita  politica  è  però  sempre  agitatissima,  e  nella  sola 
capitale  dell'isola  si  pubblicano  sei  giornali  settimanali  assai  bat- 
taglieri. Il  palazzo  per  le  camere  legislative  è  un  grandioso  edi- 
fizio  di  tre  piani  :  una  torre  quadrata  spicca  nel  centro  come 
avancorpo,  le  finestre  son  lungbe  e  strette,  e  sopra  ogni  coppia 
abbinata  s' incurva  un  sol  arco  ;  il  tetto  ha  ampi  abbaini  ed  è 
sormontato  da  eleganti  cancellate  ;  la  facciata  trae  da  una  pietra 
arenaria  un  bel  color  rosso  vivo  la  cui  monotonia  è  rotta  dal  tufo 
delle  modanature  delle  finestre.  La  cattedrale  cattolica  è  forse 
ancora  più  imponente  ;  è  un  rozzo  tentativo  di  stile  gotico  a  cui 
fa  contrasto  l'elegante  palazzo  del  vescovo  che  le  sta  di  fronte.  Quel 
monsignore,  con  cui  avevo  viaggiato  da  Pictou,  mi  disse  eh  era 
stato  in  Italia  pel  concilio,  ma  non  aveva  tanta  pienezza  d' ire 
contro  i  nostri  empi  attentati  da  sfogarsene  subito  con  me,  come 
molti  preti  che  avevo  incontrato  sul  Saguenay  ed  in  ferrovia  fra 
Cacouna  e  Rimoski.  Egli  mi  mostrò  un  altro  libro  di  preghiere 
per  gl'Indiani  stampato  a  Vienna  in  lingua  Micmack,  con  carat- 
teri speciali  e  fantastici,  a  cui  si  ricorse  invece  che  agli  alfabeti 
europei  per  cercare  che  quelli  fra  loro  che  imparano  a  leggere 
e  scrivere  si  tengano  soltanto  al  vestibolo  della  nostra  civiltà,  ne 
abbian  in  mano  nessuna  chiave  di  quelle  nostre  letterature,  nelle 
quali  tanto  loglio  è  commisto  al  grano.  Sempre  eguale  a  sé  stesso 
l'esclusivismo  clericale  ! 

L'albergo  a  cui  discesi,  che  era  la  perla  frai  molti  di  Carlotte- 
town,  aveva  anche  una  perla  di  direttrice,  di  molto  talento  musi- 
cale, elegantissima,  e  che  tuttavia  disimpegnava  le  sue  incom- 
benze con  zelo,  sollecitudine  e  naturalezza.  Dopo  ch'ebbi  scritto 
il  mio  nome  sul  registro,  un  signore  che  per  caso  erami  a  fianco 
mi  disse  in  mediocre  italiano  eh'  era  lieto  di  vedere  in  me  un 
compatriotta,  giacché  egli  era  nato  in  Italia.  Sua  madre  era 
di  Siena,  e  sposatasi  ad  un  inglese,  l'aveva  amorosamente  se- 
guito in  tutti  i  suoi  pellegrin figgi;  ma  finché  visse  coltivò 
nei  figliuoli  la  conoscenza  della  nostra  dolce  favella.  Simile 
è  il  caso  di  molti  degli  emigrati  italiani  al  Canada  :  vi  fu- 
rono portati  da  condizioni  di  famiglia  piìi  che  dal  proprio 
determinato  volere  :  non  mancano  per  altro  gl'insegnanti  di 
musica,  i  marmisti,  i  figurinai,  ed  altri  mestieranti.  ' 

'  Il  censo  del  1810  per  sei  Provincie  dà  la  cifra  di  1035  abitanti,  di  naziona- 
lità Italiana,  ma  di  essi  416  soltanto  figurano  come  nati  veramente  in  Italia.  Sui  1035 
ben  414  abitavano  le  città;  in  nessun  distretto   di  campagna  ve  n'ha  più  di  35. 


322  IL   DOMINIO   DEL  CANADA. 

Nell'isola  non  si  sente  il  bisogno  di  fare  speciale  appello  al- 
l'emigrazione. I  proprietari  sanno  far  fruttare  a  dovere  i  loro  cento 
0  duecento  acri,  e  le  loro  case  sono  ammobigliate  e  provvedute 
meglio  di  quelle  di  qualsiasi  nostro  benestante,  né  solo  è  assai 
diffusa  l'agiatezza,  ma  proprio  può  dirsi  che  non  vi  sia  miseria. 
Nel  gennaio  del  1876  si  fece  a  Charlottetown  una  questua  per  i 
poveri  che  fruttò  cento  dollari  :  al  momento  della  mia  visita,  cioè 
già  sette  mesi  dopo,  ne  rimanevano  ancora  trenta  da  erogare  perchè 
non  si  sapeva  trovare  chi  ne  avesse  bisogno. 

Dormii  la  notte  a  bordo  del  vapore  che  doveva  ricondurmi 
a  Pictou  e  la  mattina,  mentre  già  avevamo  salpato,  mi  svegliò 
<•<  col  domestico  suon  la  cornamusa  »  e  precisamente  il  suono  e  la 
musica  di  quella  cornamusa  con  cui  gli  Abbruzzesi  girano  le  nostre 
città  confusi  sotto  il  nome  di  pifferari.  Dapprima  provai  un  senti- 
mento di  dispetto  contro  1'  importunità  di  questi  semi-mendicanti 
per  cui  non  v'è  orecchio  sacro  né  terra  abbastanza  lontana  ;  tuttavia 
cedendo  ad  una  debolezza  patriottica,  mi  vestii  in  fretta  e  corsi 
per  vederli  ;  ma  uscito  che  fui  di  cabina  notai  con  sorpresa  che 
il  suonatore  aveva  la  fisonomia  tipicamente  nordica,  che  il  ventre 
del  suo  strumento  era  ricoperto  di  lana  di  un  disegno  scozzese 
e  che  dal  portafiato  e  dalle  canne  ben  affusolate  pendevano  nastri 
anch'essi  a  mille  riquadri  a  colore.  Nel  salone  v'  era  una  gran 
folla  di  persone  venute  a  bordo  nella  notte,  molto  probabilmente 
gli  attardati  dell'  «  Annual  Highland  Gathering.  »  Quando  il  suo- 
natore di  cornamusa  ci  die  pace,  subentrarono  i  violini,  e  la  danza 
si  fé  cosi  generale  come  lo  spazio  consentiva.  Era  bello  ve- 
dere la  gravità  del  primo  violino  che  mentre  suonava  doveva 
anche  comandare  le  quadriglie,  e  nei  lancieri,  ad  ogni  nuova  cop- 
pia che  doveva  uscire,  ne  gridava  il  numero  con  un'  intonazione 
militare,  la  quale  stuonava  stranamente  colla  gaiezza  delle  danze 
e  della  stessa  sua  musica. 


Vili. 

Come  lo  fa  pensare  il  nome,  nella  Provincia  della  Nova  Scozia 
gli  abitanti  d'origine  scozzese  formano  la  maggioranza  della  po- 
polazione. '  Nel  1625  Ee  Carlo  I   fondò  l'ordine  dei  baroni  della 

*  Secondo  il  censo  del  1870,  la  Nova  Scozia  su  una  popolazione  totale  di 
387,800  abitanti  conta  130,741  Scozzesi,  113,5-20  Inglesi,  G2,851  Irlandesi,  32,853  Fran- 
cesi, 31,942  Tedesciii,  6,212  Africani,  2,868  Olandesi,  1,665  Selvassi,  1,775  Svizzeri 
283  Scandinavi  e  152  Italiani.  —  Per  rapporto  alla  religione  la  popolazione  si  di- 


IL  DOMINIO   DEL  CANADA.  323 

Nova  Scozia  a  cui  diede  18  miglia  quadrate  di  terra  per  ciascuno, 
e  nel  1827  Kiclielieu  concedeva  la  stessa  contrada  alla  compagnia 
dei  cento  associati  ;  i  Francesi  la  colonizzarono  prima  che  gli  scoz- 
zesi; se  non  che,  dopo  molte  varie  vicende  di  guerra  tra  Francia 
ed  Inghilterra  per  la  difesa  o  rivendicazione  di  quel  possesso,  ac- 
cadde finalmente  nel  1755  quella  dispersione  della  popolazione  fran- 
cese che  è  fra  le  più  brutte  pagine   della  storia  inglese   e  che 
Longfallow  ha  tanto   poeticamente  cantato  nella  sua  Evangelina, 
Da  qualche  tempo  l'Inghilterra  aveva  già   ridotta  in  suo   potere 
r  Acadia,  ma  invano   richiese  il  giuramento   di   fedeltà  ai  coloni 
d'origine  francese;  essi  che  colla  singoiar  loro  industria  avevano 
sparso  in  breve  tempo  di  floridi  villaggi  le  selvaggie    terre  del 
bacino  di  Minas  offrirono  d'essere  considerati  come  neutrali  nella 
trepidanza  di  potere  essere  chiamati  a  combattere  contro  la  madre- 
patria. Parve  di  dubbia  fede  la  domanda  e  nei  reali  consigli  fu 
reputato  opportuno  di   sequestrarne  i  beni  e  di  tradurli  fino  al- 
l'ultimo uomo   sul   suolo    della  Nova  Inghilterra.   Essi   in  tutto 
contavano  appena  7000  anime,  ma  si  trovò  prudente  di  tener  se- 
greta la  decisione,   e  di   coglierli   alla  sprovvista.  Donne,  vecchi, 
fanciulli  furono   imbarcati   a  viva  forza  del  pari   che  i  vigorosi 
sostegni  della  famiglia,  né  sempre  furono  rispettati  i  sacri  vincoli 
dell'affetto:  le  mogli  ebbero  diversa  destinazione  che  i  mariti,  i 
figli  diversa  che  i  genitori  ;  sicché  abbandonati  su  terre   a  loro 
sconosciute,  in  mezzo  a  gente  di  costume   e  di  lingua  straniera, 
senza  mezzi,  coli' animo  affranto   dall'orrenda   sciagura,   finirono 
per  la  maggior  parte  col  vendersi  in  schiavitù.  Soltanto  molto  più 
tardi,  alcuni  riuscivano  a  ripatriare  e  tornarono  a  crearsi  una  pro- 
prietà laddove  tutto  il  loro  era  stato  distrutto  o  confiscato. 

Fu  a  Capo  Bréton,  isola  le  cui  sorti  sono  ora  legate  alla 
Nova  Scozia^  che  io  trovai  il  primo  nucleo  d'Acadiani  francesi, 
10,000  circa  in  una  popolazione  di  50,000.  Da  Pictou  con  un  bat- 
tello a  vapore  passai  lo  stretto  di  Causo,  che  i  naviganti  chia- 
mano porta  d'oro  dell'Atlantico,  poetico  nome  che  pure  non  può 
dare  se  non  una  pallida  idea  della  poetica  natura  di  quei  luoghi. 
Dalla  baia  di  S.  Griorgio  colle  sue  cento  barche  peschereccie  ai 
dolci  pendii  che  coronan  le  rive  dello  stretto,  é  tutto  un  incanto 
di  placide  marine,  di  azzurre  coste  sparse  di  isolati  casolari 
circondati   dai    sempreverdi,    o   di  piccoli   approdi    con  bittjJJi 

vide  in  103,539  Presbiteriani,  10^,001  Cattolici,  73,430  Battisti,  55,124  delia  Chiesa 
d'Inghilterra,  40,886  Metodisti.  30,120  abitanti  appartengono  ad  altre  diverse  cre- 
denze e  fra  essi  son  da  notare  15  Marinoni. 


324  IL  DOMINIO  DEL   CANADA. 

e  reti  stese  al  sole. —  Port  Hawksbury  si  vede  in  fondo   ad   un 
piccolo  bacino,  dentro  lo   stretto,  il  quale   è  corso  da  sei  ore  in 
sei  ore  da  due  opposte  correnti  che  hanno  la  velocità  di  12  nodi 
all'ora.    Il    villaggio    non   conta    più    di  un  migliaio  di    abitanti 
ed    è  già   uno  dei    più    importanti    dell'isola;    Arichat,  la    città 
principale,   ne   conta   6000.   A   Port  Hawksbury  del    pari   che  a 
Sidney  vi   sono   importanti   miniere   di   carbone,   ma   gli  operai 
al  momento  della  mia  visita  erano   in  isciopero.   A  Sidney   eran 
seguiti  dei  disordini  e  un  certo  numero  di  operai  che  s'eran  ac- 
comodati colle  compagnie   proprietarie  delle   mine  dovettero  di- 
fendersi   dagli    assalti  degli  altri.  A  Port    Hawksbury    poi,   gli 
scioperanti  s'eran  rifiutati  d'abbandonare,  come  ne  avevan    rice- 
vuto intimazione,  le  case  di  proprietà  della  compagnia  che  essi  te- 
nevanin  affitto,  e  alla  notizia  di  arrivi  di  truppe  le  disertarono  sì,  ma 
per  demolirle  la  notte.  I  salari  eran  di  oltre  cinque  lire  al  giorno 
le  due  compagnie  s'erano  impegnate  ad  aumentarli  per  quest'anno, 
ma  poi  mancarono  alla  promessa  pretestando  la  crisi  commerciale 
ed  industriale  degli  Stati  Uniti.  Degli  Acadiani  francesi,  tutti  mi 
dissero  che  l'infelice  razza  non  s'è  potuta  ancora  sollevare  dal- 
l'abbattimento in  cui  l'ha  gettata  l'antica  dispersione.  Essi  hanno 
perduto  del  pari  ogni  fiducia  in  sé  stessi  ed  ogni  franchezza  verso 
gli  altri.  Poche  sono  le  famiglie  d' Acadiani  dove  non  si   viva  in 
continuo   sospetto   d'ogni   estraneo,  e  dove   non  regni   una   certa 
diffidenza  anche  nella  cerchia  dei  vincoli  dèi  sangue:  sono  entrati 
nel  triste  convincimento  d'esser  una  razza  inferiore  e  credono  che 
per  loro    oggimai  non  vi    sia  miglior   avvenire   dell' anglizzarsi; 
quindi  hanno  già  incominciato  dal  bandire  la  lingua  ed  ogni  inti- 
mità di  rapporti  nazionali. 

Posto  di  nuovo  il  piede  sulla  penisola  mi  fermai  al  villaggio  di 
Stellarton  per  visitarvi  le  miniere  di  carbone  della  società  Alhion 
Mincs.  Il  pozzo  da  cui  discesi  (ve  ne  sono  parecchi)  ha  la  pro- 
fondità di  400  metri  che  percorsi  con  un  ascensore  idraulico,  ap- 
pollaiato in  una  piccola  cassa  senza  poter  sedere  né  rizzarmi  in  piedi. 
Le  gallerie  si  stendono  alte  ed  ampie  in  molte  direzioni;  gli  strati 
di  carbone,  di  uno  spessore  considerevole,  si  prolungano  per  pa- 
recchie miglia.  I  rinforzi  alle  gallerie  sono  fatti  con  numerosi 
e  robustissimi  tronchi  d' albero,  i  quali,  dacché  il  legname  co- 
minciò a  farsi  caro,  costano  1  fr.  25  l'uno  alla  compagnia.  Ogni  gal- 
leria ha  parecchie  porte  per  impedire  la  fuga  dell'aria,  che  viene 
introdotta  da  appositi  congegni.  Il  carbone  viene  trasportato  in 
carri  tirati  da  cavalli  su  rotaie  di  ferro  ;  la  sua  gravità  specifica  è 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA.  325 

di  1.318  e  una  libbra  di  carbone  può  convertire  in  vapore  sette 
libbre  e  mezzo  d'acqua.  Non  mi  sarei  mai  stancato  di  veder  la- 
vorare i  picconieri;  a  mano  a  mano  die  il  loro  colpo  vigoroso 
si  ripete  e  s' approfonda,  gli  strati  di  carbone  crepitano  come 
se  prendessero  fuoco,  e  par  sempre  che  possa  svilupparsi  un  in- 
cendio. I  minatori  son  complessivamente  oltre  200  e  son  pagati 
ad  opera,  ma  la  media  del  loro  salario  può  calcolarsi  di  lire  6 
al  giorno:  vi  son  anche  circa  80  ragazzi  col  soldo  di  lire  3  al 
giorno,  e  il  loro  ufficio  è  di  condurre  i  cavalli  per  le  grandi 
gallerie,  e  spingere  i  carri  per  brevi  traverse  di  connessione 
fra  una  galleria  e  l'altra.  Era  importantissima  l'esportazione  di 
carbone  che  la  società  Albion  Mines  faceva  in  addietro  per  gli 
Stati  Uniti,  ma  nel  1865  questi  hanno  denunziato  il  trattato  di 
commercio  che  avevano  colle  diverse  Provincie  del  Canada  pre- 
tendendo di  vendicarsi  così  delle  simpatie  addimostrate  agli  Stati 
ribelli  del  Sud.  Forse  lo  stesso  commercio  americano  ha  più  sof- 
ferto di  questa  inconsulta  ed  appassionata  misura,  a  diminuire 
il  cui  rigore,  già  molti  espedienti  furono  addottati  d'accordo  dal 
governo  di  Washington  e  da  quello  del  Dominio  del  Canada. 

Da  Stellarton  ad  Halifax,  la  ferrovia,  dopo  aver  attraversato 
nuove  foreste  costeggia  il  lago  di  Bedford.  La  velocità  con  cui  si 
correva  era  la  massima,  cioè  circa  60  chilometri  l'ora;  ed  io  sulla 
piattaforma  dell'ultima  carrozza,  mentre  ad  ogni  nuova  scossa  ci 
sparivan  dinanzi  lunghi  tratti  di  binario,  girava  lo  sguardo  ra- 
pito da  quello  specchio  d'acque  argentine,  intorno  e  dentro  al 
quale  la  nostra  strada  serpeggiava,  sulle  colline  e  sulle  isole  che 
ci  lasciavamo  a  manca  e  sull'alternarsi  a  dritta  dei  poggi  colla 
piana  vezzura,  e  dell'orrido  dei  nudi  macigni  colle  ville  eleganti. 
Intanto  il  crepuscolo  andava  stendendo  dovunque  le  sue  ombre; 
qualche  barca  faceva  forza  di  rem.i  per  toccar  terra  e  la  luna 
sorgeva  con  un  disco  gigantesco,  infuocato  dai  riflessi  del  tramonto, 
disegnando  sulle  acque  un  largo  nastro  dorato.  Pochi  minuti  dopo 
eravamo  ad  Halifax. 

Passai  nella  graziosa  città  i  due  giorni  successivi.  Essa  è  la 
capitale  della  Nova  Scozia,  e  come  tale,  sede  del  governo  locale, 
che,  al  solito,  è  composto  di  due  Camere  e  d'un  potere  esecutivo 
concentrato  in  un  ufficiale  della  regina,  il  quale  in  suo  nome 
esercita  il  diritto  di  i^eto.  Variano  del  resto  da  quelle  della  Pro- 
vincia di  Quebec,  le  leggi  elettorali  del  parlamento  locale  ;  le 
quali  valgono  pure  a  regolare  le  elezioni  dei  membri  del  Par- 
lamento   federale.    È    elettore    ogni    cittadino    di    21   anno,  che 

VuL.  XIV,  Serie  II  —  15  Marzo  1819.  20 


326  IL  DOMINIO  DEL  CANADA. 

abbia  un  valore  censito  in  immobili,  di  150  dollari,  o  in  mobili 

di  400. 

La  città  di  Halifax  è  principalmente  popolata  da  oriundi 
irlandesi  che  non  sono  né  i  piìi  costumati  né  i  più  puliti  fra  i 
cittadini.  ^ 

La  questione  che  più  divide  gli  animi  é  quella  delle  scuole, 
a  cagione  dell'intolleranza  religiosa  che  domina  i  membri  di  tutte 
■  le  confessioni,  e  che  viene  principalmente  spiegata  coU'ardore  del 
proselitismo.  Poco  prima  del  mio  arrivo  una  giovane  di  famiglia 
presbiteriana,  fatta  educare  in  un  convento  cattolico  dalla  fami- 
glia, perchè  tenuissima  la  spesa,  fini  col  convertirsi,  e  i  suoi  ge- 
nitori quando  rientrò  presso  di  loro,  la  trattarono  sì  duramente 
che  ella  ne  moriva  di  crepacuore;  al  letto  di  morte  essi  perfino  le 
impedirono  a  forza  di  ricevere  altri  conforti  religiosi  che  quelli 
del  ministro  presbiteriano. 

Anche  la  Nova  Scozia  é  Provincia  assai  prosperosa,  ma  molto 
spera  dall'emigrazione  europea. 

Un'immigrazione  notevole  è  quella  di  alcuni  Islandesi  i  quali 
si  sono  stabiliti  all'est  di  Halifax.  Questi  discendenti  da  una  razza 
di  guerrieri  hanno  vissuto  per  parecchi  secoli  isolati  dall'  altre 
nazioni  e  come  rinserrati  entro  i  loro  confini  di  ghiaccio.  Ho  detto 
isolati  ma  la  corrente  del  golfo  Stream  li  aveva  messi  in  co- 
municazione coll'America  prima  ancora  della  sua  scoperta  por- 
tando in  copia  a  quelle  coste  legnami  che  avevan  disceso  i  fiumi 
dell'ignorato  continente,  e  che  essi  consideravano  come  un  dono  della 
provvidenza  la  quale  si  pentisse  dell'ironia  di  così  rigorosi  freddi 
all'ombra  del  più  irrequieto  vulcano.  Orgogliosi  delle  glorie  dei  loro 
padri,  rassegnati  all'ingratitudine  del  loro  suolo,  vivevano  di  pesca 
e  dei  pochi  pascoli,  ben  lontani  da  ogni  pensiero  di  emigrazione; 
ora  impararono  d'un  tratto  a  conoscere  un'altra  più  benigna  na- 
tura ed  a  fruirne  i  doni;  possano  essere  fra  suoi  più  fortunati 
figli  adottivi. 

L'emigrazione  è  anche  promossa  sotto  una  forma  nuova  e 
singolare  da  Mistress  Birt,  una  signora,  la  quale,  fino  dal  1873, 
dietro  invito  del  sig.  Laurie  di  Oakwille,  colonnello  nell'  armata 
inglese  e  aiutante  generale  nella  Provincia  della  Nova  Scozia,  in- 

1  Essi  ascendono  a  11,665;  dopo  loro  vengono  gl'Inglesi  in  numero  di  QtìG 
quindi  gli  Scozzesi,  i  Tedeschi,  gli  Africani  ed  i  Francesi;  gl'Italiani  sono  42  II 
maggior  numero  di  seguaci  è  vantato  dalla  confessione  cattolica  (1-2,431)  e  per 
ordine  si  schierano  successivamente  la  chiesa  Anglicana,  la  Battista,  la  Presbiteriana 
e  la  Metodista. 


IL  DOMINIO   DEL   CANADA.  327 

viava  dall'Inghilterra  un  buon  numero  di  fanciulli  quivi  raccolti 
coll'assenso  dei  genitori,  tenuti  pochi  giorni  in  una  scuola  speciale, 
eppoi  fatti  emigrare  per  essere  confidati  ai  vari  proprietari  della 
Provincia.  Al  marzo  1876  il  numero  di  codesti  fanciulli  emigrati 
nel  corso  dei  tre  anni  precedenti,  superava  i  trecento.  Prima 
dell'arrivo  dei  vapori  che  li  trasportano  è  fatto  appello  a  coloro 
che  intendono  di  prenderne  al  servizio  qualcuno,  di  farne  la  domanda 
in  scritto  su  un  modulo  nel  quale  il  parroco  od  il  ministro  della 
parrocchia  deve  dare  poi  le  informazioni  sul  carattere  del  ri- 
chiedente ;  informazioni  che  il  colonnello  Laurie  pretende  di  essere 
in  grado,  per  le  sue  estese  relazioni  nella  Provincia,  di  poter  con- 
frontare anche  con  quelle  di  altre  persone.  È  egli  che  destina  dove  il 
fanciullo  debba  essere  collocato,  dietro  le  necessarie  considera- 
zioni sul  temperamento,  sulla  costituzione,  od  altro,  in  rapporto 
agli  uffici  a  cui  lo  si  vuol  destinato.  11  richiedente  può  non  ac- 
cettarlo, ma  non  mai  fare  un'altra  scelta.  È  pur  necessario  il  con- 
senso del  fanciullo,  ed  entrambi  devono  sottoscrivere  un  secondo 
modulo  in  presenza  di  un  giudice  di  pace,  obbligandosi  ad  os- 
servare gli  accordi  ivi  descritti.  Il  ministro  che  ha  date  le  infor- 
mazioni sul  richiedente  ha  poi  l'ufficio  di  esercitare  una  certa 
tutela  a  favore  del  fanciullo  facendone  un  rapporto  trimestrale. 
Il  fanciullo  sa  che  deve  ricorrere  al  ministro  come  ad  un  amico 
e  in  ogni  caso  scrivere  o  far  scrivere  al  colonnello  Laurie  del 
modo  con  cui  viene  trattato;  e  il  colonnello,  se  riceve  qualche 
lagnanza,  scrive  o  al  ministro  o  a  qualche  altra  persona  auto- 
revole del  distretto,  con  preghiera  di  appurare  le  cose,  e  se  si  tratta 
di  leggiere  difficoltà,  di  tentar  d'appianarle  ;  se  invece  sono  dif- 
ficoltà gravi,  egli  stesso  pensa  ad  impiegar  altrove  il  fanciullo. 
Finora  42  fanciulli  furono  ritirati,  e  di  essi  24  per  cattivo  trat- 
tamento, dovuto  però  piìi  a  manco  di  tatto  che  a  vera  crudeltà  ; 
18  per  rapporti  sulla  stessa  loro  mala  condotta.  Io  non  so  se  non 
fosse  ora  da  promuovere  nelle  provinole  napoletane  una  simile 
emigrazione  di  fanciulli  per  i  paesi  dove  vi  sono  colonie  italiane, 
piuttosto  che  lasciarli  vendere  ad  impresari  che  esercitano  poi  su 
di  loro  ogni  sorta  di  tirannie  e  di  sevizie. 

In  Halifax,  e  in  generale  nella  Nova  Scozia,  le  opere  sono 
piuttosto  alte  :  sei  lire  guadagna  giornalmente  sia  il  muratore, 
sia  il  colono,    dieci  un   falegname,  fino  a  venti  il  carpentiere.  ^ 

*  Il  totale  degli  operai  impiegati  nel  1810  nelle  varie  fattorie  industriali  della 
nova  Scozia  fu  di  15,595  (25,000  abitanti),  e  la  media  del  ioro  annuo  salario  fu  di 
dollari  203.67  cioè  oltre  mille  lire. 


328  IL  DOMINIO  DEL  CANADA. 

La  penisola  trae  le  sue  maggiori  risorse  dalle  foreste,  dalla  pesca, 
dal  commercio  e  dalle  miniere;  di  miniere  oltre  quelle  di  car- 
bone, ve  n'ha  parecchie  d'oro  e  d'altri  metalli.  Nel  marzo  del  1860 
un  uomo,  fermatosi  a  bere  ad  una  sorgente,  trovò  un  pezzo  d'oro 
che  risplendeva  fra  i  ciottoli  del  torrente  sottostante.  Lo  rac- 
colse, ne  cercò  ancora,  e  potè  trovarne  dell'altro.  Quello  era  il 
.  Tangier  Eiver,  che  nasce  non  molto  lontano  dalle  origini  del 
Musquodoboit;  scorre  attraverso  una  catena  di  laghi,  bagnando 
per  parecchie  miglia  una  terra  rocciosa  e  selvaggia,  e  poi  si  getta 
nell'Atlantico  circa  70  chilometri  all'est  di  Halifax.  Quella  sco- 
perta venne  presto  seguita  da  altre  a  Musquodoboit,  Laurencetown, 
Lunenbourg  e  Vine  Harbour.  Le  miniere  d'oro  della  Nova  Scozia 
non  sono  certo  rimunerative  come  quelle  della  California,  ma 
tuttavia  il  distretto  di  Waverley  ha  dato  qualche  cosa  di  più  che 
un'oncia  d'oro  per  tonnellata  di  quarzo,  e  895  dollari  all'anno 
per  ogni  minatore. 

Lasciato  Halifax,  mi  diressi  ad  Annapolis,  attraverso  il  poe- 
tico paese  di  Evangelina.  Il  treno  fa  sosta  ad  una  stazione  chia- 
mata Gran  Pré,  ma 

Naught  biit  tradition  remains  of  the  beautiful  villane, 

eppure  prima  della  dispersione,  v'erano  là  le  agiate  case  come 
vi  sono  ancora  i  floridi  campi,  come  vi  sono  le  traccio  delle  dighe 
innalzate  dagli  industri  Acadiani,  i  quali  potevano  si  por  freno 
all'ira  del  mare,  non  già  all'odio  degli  uomini.  Seguii  a  lungo 
cogli  occhi  le  rive  del  bacino  di  Minas,  dove 

away  to  the  northward 
Blomidou  rose  aud  the  forests  old  ; 

poi  giunto  ad  Annapoli,  rimasi  a  contemplare  per  poco  quella  baia 
di  Fundy,  le  cui  maree,  le  più  alte  del  mondo,  hanno  resa  tanto 
celebre.  A  mano  a  mano  che  le  coste  del  Novo  Brunswick  e 
della  Nova  Scozia  si  fanno  l'una  all'altra  più  vicine,  per  riu- 
nirsi poi  colla  terra  di  Cumberland,  appiedi  dei  Monti  Cobequid, 
la  marea  si  fa  così  violenta  e  così  grossa,  sino  a  raggiungere  la 
velocità  di  sette  miglia  all'ora,  e  l'altezza  di  20  metri. 

■  IX. 

Traversai  la  baia  di  Fundy  a  bordo  del  battello  a  vapore  VEm- 
press,  e  mentre  conversavo  con  alcuni  passeggieri,  notai,  non  senza 
qualche  inquietudine,  che  l'aria,  nella  direzione  di  jsrora  si  faceva 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA.  329 

assai  fosca,  e  come  un  immenso  cono    rovesciato   discendeva  dal 
cielo  sul  mare  :  si  sarebbe  detto  che   fosse    una   tromba  marina. 
Presto  però  corse  la  voce  che  era  invece  un  incendio  sulle  coste 
del    Novo   Brunswick,   e  questa  parve  più  plausibile  spiegazione 
di  quel  nero  lembo  isolato  in    mezzo  al    sereno   del    cielo,    e  di 
quell'aspetto  truce  del  sole  che  traspariva  a  stento  senza  raggi 
e  senza   luce,    tra    il    fumo,    come  un    disco    di    ferro   infuocato 
che  va  rafireddandosi  tra  il  fosco  aere  della  bottega  di  un  fabbro 
ferraio.  Un  odore  di  legname  in  combustione  giungeva  sino  a  noi, 
e  il  mare,  che  prima  per  breve  tratto  sotto  il  bacio  del  sole  aveva 
alcune  onde  splendenti  come  l'oro  piìi  fulgido,   s'agitava  allora 
irrequieto,  mescolando   ad  un  cupo   verdastro   riflessi   cremisini. 
L'incendio  era  un  po'sulla  sinistra  della  nostra  rotta,  e  fu  detto 
anzi  nella  direzione  del  torrente  Musquash.  Il  vento   portava  il 
fumo  sempre  più  a  sinistra:  a  destra  pallide  nubi  dal  bianco  profilo 
si  alzavano  dietro  le  colline  della  costa  a  cui  ci  dirigevamo  raf- 
figurando gigantesche  montagne  di  neve  colle  vette  irregolari,  colle 
anguste  gole,  cogli  scoscesi   contrafforti  :  poi  al  nostro  avanzarci 
quelle  nubi  si  dissiparono,  e  dinanzi  a  noi,  in  una  stessa  penombra,, 
come  una  magica  apparizione,  vedemmo  gli  edifizi  di  S.  John  tor- 
reggiare sopra  il  meraviglioso  bacino  del  suo  porto.  Chi  mi  avrebbe 
detto  allora  che  in  breve  quella  città  dovesse  in  gran  parte  rimaner 
preda  di  un  altro  ben  più  terribile  incendio? 

Due  giorni  dopo  risalivo  il  fiume  S.  John  sopra  il  battello 
a  vapore  The  City  of  Federicton,  e  al  momento  dell'imbarcarci 
temeva,  al  pari  degli  altri  passeggieri,  che  il  fumo  deirincendio, 
di  cui  l'aria  era  sempre  ingombra,  ci  guastasse  la  gita:  ma  nelle 
mille  tortuosità  del  cammino,  il  vento  lo  allontanava  spesso  da 
noi,  e  allora  erano  continue  esclamazioni  di  sorpresa  e  di  ammi- 
razione. Le  bellezze  del  S.  John,  specialmente  perchè  varie  assai, 
sono  fuori  di  ogni  dubbio  superiori  a  quelle  del  Saguenay,  che  hanno 
pur  tanta  maggiore  rinomanza.  Nessuna  descrizione  può  dare 
un'idea  di  quell'improvviso  allargarsi,  restringersi  e  avvolgersi  del 
fiume,  che  circonda  vaghe  isole  dalla  rigogliosa  vegetazione,  s'in- 
terna a  bagnare  sponde  animate  frequentemente  da  casuccie  e 
chiesuole,  o  scherza  fra  alti  banchi  di  grigie  sabbie,  rotte  appena  da 
gruppi  d'alberi  d'un  cupissimo  verde. 

Fredericton  conta  appena  8000  anime,  ed  è  città  di  poco  in- 
teresse quantunque  capitale  del  Novo  Brunswick;  il  governo 
locale  si  ostina  a  mantenerle  quella  dignità,  nella  speranza  che 
1  esser  essa  centro  politico,    la  conduca  ad  incremento  e  prospe- 


330  IL  DOMINIO  DEL  CANADA. 

rità  ;  ma  forse  con  questo  sforzare  il  corso  naturale  delle  cose, 
non  trionfa  l'arte,  e  rimane  combattuta  la  natura.  Anche  qui  le 
leggi  sul  diritto  dell'elettore  sancirono  limiti  di  censo  diversi 
dalle  altre  Provincie,  ^  e  per  giunta  vi  è  la  novità  del  voto  se- 
greto. Di  fronte  a  Fredericton  vi  sono  le  foci  del  fiume  Nashvaak, 
e  due  miglia  al  disopra  visitai  le  vaste  segherie  di  legname  del 
signor  Alessandro  Gibson.  Quest'uomo  di  veramente  straordinaria 
iniziativa  ha  fondato  tutto  un  piccolo  villaggio  chiamato  Marys- 
ville,  dove  non  so  se  ammirai  più  le  macchine,  la  superba  e  ric- 
chissima chiesa  o  le  umili  ma  pulite  case  degli  operai.  Queste  eran 
tutte  costrutte  sullo  stesso  disegno;  così  identiche  auzi  che  non 
so  se  non  debba  talora  accadere  agli  abitanti  di  sbagliarle  l'una 
coll'altra.  Il  signor  Gibson  deve  tutto  al  proprio  lavoro,  e  Marys- 
ville  deve  tutto  a  lui.  Quanto  bene  non  può  fare  un  uomo  che 
dedichi  l'ingegno  e  l'energia  in  servigio  dei  proprii  simili,  ed 
anche  avvantaggiando  sé  stesso,  migliori  l'altrui  condizione  ma- 
teriale e  morale  ! 

Da  Fredericton  a  Woodstock  vi  è  una  ferrovia  a  binario  ri- 
dotto e  di  legno;  è  costruzione  immensamente  economica. 

Di  ritorno  a  Saint  John,  ebbi  una  conversazione  con  quel- 
l'agente governativo  di  emigrazione.  Egli  mi  assicurò  che  l'emi- 
grazione dall'Europa,  la  quale  nel  1875  era  stata  di  molto  inferiore 
ai  due  anni  precedenti,  poteva  dirsi  di  nuovo  in  aumento,  e  che 
un  gran  numero  di  antichi  coloni  del  Novo  Bruns^vick.  i  quali 
s'erano  stabiliti  negli  Stati  Uniti,  venivano  ora  indotti  a  rimpa- 
triare dalla  crisi  industriale  e  commerciale  di  quella  Eepubblica  ; 
tuttavia  non  seppe  dirmi  quanta  potesse  reputarsi  l'importanza 
di  questo  movimento,  giacché  le  strade  che  prendono  i  reduci 
sono  varie,  e  ve  n'ha  che  scelgono  i  vapori  della  linea  internazio- 
nale che  fa  il  servizio  tra  Boston  e  S.  John;  altri  che  si  valgono 
della  ferrovia,  e  finalmente  molti  che  traversano  a  piedi  la  fron- 
tiera dello  Stato  del  Maine,  stabilendosi  nella  parte  superiore 
della  contea  di  S.  John.  Per  altro,  siccome  nei  tre  ultimi  anni, 
solo  per  l'emigrazione  europea  la  popolazione  rurale  fu  accre- 
sciuta di  250  giornalieri  agricoli,  il  bisogno  di  braccia  è  molto 
diminuito.  Quanto  agli  emigranti  coltivatori,  la  Provincia  ha  desti- 
nato per  ogni  nazionalità  colonie  diverse,  e  i  contingenti  princi- 
pali son  dati  dagli  Inglesi  e  dagli  Scozzesi,  dopo  i  quali  vengono 

'  Il  voto  è  accordato  a  chi  nell'età  di  21  anno  posseda  un'  annua  rendita  di 
100  dollari,  se  proveniente  da  proprietà  fondiaria,  di  400  se  provenga  da  proprietà 
mobiliare. 


IL  DOMINIO   DEL   CANADA.  331 

i  Danesi  e  gli  Svedesi  ;  sempre  però  i  maschi  superano  d'un  terzo 
circa  le  femmine.  Se  gli  emigranti  recano  seco  loro  un  piccolo 
capitale^  hanno  molta  probabilità  di  riescire.  ^ 

Una  delle  mie  belle  gite  nei  dintorni  di  S.  John  fu  al  luogo 
One  Mile  House,  dove  trovasi  una  fonderia  di  ferro.  Il  fabbricato 
non  è  molto  appariscente,  ma  son  grandiose  le  macchine,  e  attivo 
il  lavoro.  Si  fonde  il  ferro  vecchio  che  si  acquista  per  tre  cente- 
simi la  libbra  e  si  vende  a  dodici.  Il  carbone  costava  allora  tre 
dollari  e  mezzo  la  tonnellata  di  1000  libbre,  posto  alla  fabbrica. 


X. 

Il  17  agosto  ero  di  nuovo  nella  Provincia  di  Quebec,  a  Mon- 
treal, '^  la  più  importante  città  di  tutto  il  Dominio.  Molti  sono 
i  fabbricati  d'imponenti  dimensioni,  e  i  loro  marmi  si  trovan 
talora  disposti  anche  con  buone  linee  architettoniche.  La  catte- 
drale cattolica,  Notre  Dame,  va  superba  della  sua  vastità  e  d'una 
campana  di  dimensioni  fenomenali,  ma  l'interno,  pareti,  terrazze, 
pilastri,  tutto  è  di  legno,  e  non  v'ha  un  sol  dipinto  che  meriti 
d'esser  considerato.  Bello  è  l'edifizio  appartenente  alla  Young's  men 
Association,  società  formata  dalle  sètte  dissidenti  dell'  ansrli- 
canismo,  per  la  discussione  di  problemi  di  religione  e  di  morale,  e 
per  la  diffusione  delle  bibbie,  le  quali,  grazie  a  loro,  si  trovano 
dappertutto,  perfino  nei  carri  ferroviari,  entro  appositi  eleganti 
scaffali  su  cui  è  scritto:  «Leggete  e  rimettete  al  posto.  »  Anche 
il  palazzo  dei  tribunali  è  davvero  cospicuo  colle  sue  colonne  ioni- 
che e  le  sue  grandiose  dimensioni.  Il  cimitero  protestante,  a  Mon- 
treal come  ad  Halifax  ed  a  S.  John,  ha  i  suoi  monumenti  sparsi 
per  la  collina  e  invece  che  all'ombra  dei  cipressi,  sotto  gli  ontani, 
gli  aceri  ed  i  pini.  Poco  lungi  dall'ingresso  v'è  una  camera  mor- 
tuaria, che  quei   nativi  francesi  chiamano   col   nome    volgare  di 


'  I  318,000  abitatiti  della  Nuova  Scozia  appartengono  a  6184  famiglie.  Gli  oc- 
cupanti di  terre  sono  46,6l6  e  43,820  figurano  come  proprietari,  2314  come  af- 
fittuari, appena  \12  come  impiegati.  Le  terre  occupate  comprendono  acri  5,031,217 
sopra  nna  superfìcie  totale  di  13,382.003.  Le  terre  sottoposte  a  lavoro  comprendono 
acri  1,6;1,071  ;  quelle  a  coltura  190,155,  quelle  a  prato  823,322,  quelle  ad  orto  13,614. 
Sono  4428  le  proprietà  superiori  ai  200  acri,  10,401  le  inferiori  ai  200  e  superiori 
ai  104;  1  (,138  le  altre  non  minori  di  50;  11,401  non  minori  di  10;  1148  di  10  o 
anche  meno. 

-  La  popolazione  era  nel  1811  di  101,225  abitanti,  di  cui  56,856  di  origine  fran- 
cese, 48,156  di  origine  inglese,  191  italiani.  —  11,980  son  cattolici. 


332  IL  DOMINIO  DEL  CANADA. 

charnière,  dove  vengono  tenuti  i  morti  nell'inverno,  quando  la  neve 
è  tanto  alta  da  render  impossibile  il  dar  loro  sepoltura. 

Nei  giorni  in  cui  rimasi  a  Montreal  si  tenne  un  meeting  impor- 
tante a  proposito  della  ripartizione  e  dell'entità  delle  tasse  comu- 
nali, e  io  ne  presi  occasione  d'informarmi  un  po'meglio  sul  bilancio 
della  città.  Coll'aprile  del  1876  si  è  fatto  un  nuovo  regolamento, 
col  quale,  sono  decretate  anzitutto  due  tasse  generali  ;  1.  Una  tassa 
annuale  di  un  per  cento  sul  capitale  di  ogni  proprietà  immobiliare, 
rustica  od  urbana,  inclusa  nel  territorio  del  municipio;  2.  Una  tassa 
annuale,  detta  tassa  d'affari  del  sette  e  mezzo  per  cento  sul  valore 
annualmente  determinato  dei  luoghi  occupati  per  le  loro  industrie 
o  professioni  da  commercianti,  industriali,  impresari,  società  fer- 
roviarie ed  assicuratrici,  artisti,  avvocati,  medici  ed  ingegneri. 
Vengono  appresso  molte  tasse  annuali  speciali  pei  vari  istituti 
che  fanno  affari  nella  città,  e  cioè,  per  le  banche:  dollari  400  se 
il  capitale  versato  è  di  un  milione,  500  se  è  di  due,  600  se 
è  maggiore;  per  le  compagnie  di  assicurazioni  :  400  dollari  se 
assicurano  dal  fuoco,  200  se  assicurano  la  vita  od  altro;  perle 
compagnie  ferroviarie:  12,000  dollari;  perle  compagnie  del  gas  : 
5,000  dollari.  Gli  albergatori  devon  pagare  la  licenza  dai  27  ai 
175  dollari;  coloro  che  vendono  per  asta  pubblica  dai  160  ai  200; 
200  chi  presta  su  pegno  e  50  ogni  sensale  o  commissionario.  I 
proprietari  di  distillerie  di  spiriti  devon  pagare  80  dollari  all'anno 
(e  i  proprietari  di  fabbrica  di  birra  60)  per  ogni  40 J  dollari  del 
valore  annualmente  determinato  dei  luoghi  ed  aree  che  occupano 
per  la  loro  industria.  Ogni  teatro  permanente  è  colpito  d'una  tassa 
annua  di  120  dollari;  pei  circoli  equestri,  i  serragli  e  le  esposi- 
zioni si  devono  pagare  fino  a  250  dollari  per  ottenerne  l'apertu- 
ra, e  fino  a  100  per  ogni  giorno  di  rappresentazione,  secondo 
l'importanza  che  viene  riconosciuta  allo  spettacolo:  per  le  sale 
di  bigliardo,  100  dollari  annui  pel  primo  tavolo,  50  per  il  secondo, 
20  per  ogni  altro.  1  carri  e  le  vetture  dei  particolari  pagano  da  6  a 
20  dollari,  e  i  cavalli  di  lusso  6  dollari  ciascuno;  le  vetture  da 
fitto  invece  son  tassate  da  3  a  4  dollari  e  i  cavalli  da  lavoro  2  dol- 
lari e  mezzo.  La  tassa  sui  fycchini  è  di  8  dollari,  e  di  20  se  si  ser- 
vono di  carretto.  Finalmente  nel  regohaiiento  v'ha  un  articolo  22 
che  suona  come  appresso  :  «  Le  montant  de  la  contribution  per- 
sonnelle  payable  chaque  année  par  chaque  personne  sujette  à 
la  corvée  sur  les  grands  chemins  dans  la  dite  ci  té  est  par  le 
présent  fixée  à  la  somme  d'une  piastre  ;  et  toute  telle  personne 
palerà   la  dite  somme  d'une   piastre   chaque   année,  sans   qu'il 


IL  DOMINIO  DEL   CANADA.  333 

lui  soit  permis  d'offrir  son  travail  personnel  sur  les  dits  grauds 
chemius  au  lieu  d'icelle.  »  Molto  probabilmente  è  una  tassa  che 
colpisce  un  numero  limitato  di  persone  perchè  nel  bilancio  del  1875 
sono  iscritti  solo  184  dollari  come  suo  provento.  L'autorità  comu- 
nale è  investita  dalla  legge  del  diritto  di  stabilire  delle  pena- 
lità forti,  come  per  esempio  il  carcere  per  due  mesi,  in  caso  di 
contravvenzione  ai  regolamenti  sulle  tasse,  ma  poi  è  soggetta 
alla  repressione  dei  tribunali  ordinari  se  si  rendesse  colpe- 
vole d' infrazione  al  codice  civile,  o  di  abuso  ed  usurpazione  di 
potere. 

L'esame  del  bilancio  del  1875  è  indispensabile  per  compren- 
dere più  facilmente  l'importanza  del  sistema  di  tasse,  e  il  modo 
con  cui  è  organizzato  il  servizio  municipale  ;  comincerò  dall'enu 
merare  le  varie  rendite. 

Ogni  anno  è  fatta  una  stima  del  valore  della  proprietà  fondiaria 
che  si  trova  nella  circoscrizione  del  municipio  :  nel  1875  il  valore 
totale  fu  stimato  in  dollari  92,915,175,00,  ma  in  seguito  ad  esen- 
zioni e  correzioni  fu  ridotto  a  dollari  79,253,565,00,  su  cui  dovevano 
pagarsi  dollari  751,000.00,  ma  in  causa  delle  negligenze  furono 
riscossi  soltanto  dollari  556,791,06;  quanto  all' insieme  delle  tasse 
personali  fra  cui  è  da  comprendere  anche  la  tassa  per  le  scuole, 
la  cifra  dei  pagamenti  fatti  dai  cittadini  giunge  a  dollari  145,282. 
Ponendo  ora  la  parte  attiva  del  bilancio  sotto  i  suoi  vari  titoli, 
avremo  ; 

Attivo.  —  Tassa  sulla  proprietà  riscossa 

nel  1875.     .......    doli.  556,791  06 

Tassa  degli  affari,  tasse  perso- 
nali e  tassa  per  le  scuole  .     »       145,282  55 

Arretrati  di  queste  tasse  del- 
l'esercizio 1876    ....      »         78,547  48 

Diritto  sull'acqua  degli  acque- 
dotti pubblici »       328,748  38 

Tasse  e  licenze »        56,431  — 

Tasse  sui  mercati    ....     »         66,959  56 

Multe  inflitte  dalla  corte  del 
Recorder »         16.^59  22 

Interessi  e  affari  attivi    .     .     »         69,302  52 

Diverse »  5,779  39 

Totale  doli.  1,324,301 16 


334  IL   DOMINIO  DEL  CANADA. 

Passivo.  —  Interessi  ed  ammortamento  di 

prestiti  contratti  in  passato,  doli.  652,192  35 

Impiegati  e  spese  d'Ammin.     »  68,299  02 

Concorso  per  l'educazione  ele- 
mentare     »         130,405  20 

Perle strade(opere  181,617  08)»         200,457  54 

Servizio  degli  acquedotti 
(molti  lavori  sono  straor- 
dinari)   »         107,924  89 

Servizio  di  polizia  (salari  alla 

forza  100,491  55)     ...»         124.17893 

Servizio  dei  pompieri  (salari 

L.  537,621  33) »  55,945  07 

Servizio  di  illuminazione  .     »  35,155  04 

Servizio  degli  ospedali  e  di 
vaccinazione »  29,670  02 

Manutenzione  dei  mercati.      »  24,036  34 

Passeggiate  pubbliche  ed  altri 

lavori »  12,063  81 

Corte  del  Recorder  *  (salari 
L.  12,500) »  13,990  59 

Spese  diverse »  21,741 39 

Totale  doli.  1,476,06019 

In  Montreal  hanno  la  loro  sede  quasi  tutte  le  bancne  della 
provincia  fli  Quebec,  che  sono  circa  20,  con  un  capitale  medio 
di  3  milioni  di  dollari  per  ciascuna.  Il  dividendo  annuo  che  pagano 
s'aggira  generalmente  dal  6  all'S  per  cento,  e  fra  questi  medesimi 
limiti  varia  l'interesse  dei  mutui  ipotecari.  Le  casse  di  risparmio 
postali  che  sono  molto  sparse  per  le  campagne  pagano  un  interesse 
del  quattro  per  cento.  Indizio  in  parte  della  prosperità  del  com- 
mercio interno  della  Confederazione,  mi  parve  il  fatto  che  i  noli 
dalla  Nova  Scozia  a  Montreal  erano  molto  piìi  cari  che  dall'In- 
ghilterra, sicché  conveniva  piìi  ritirare  il  carbone  dall'Europa, 
che  dalle  miniere    di  Pictou  e  di  Sidney. 

In  tutte  le  città  del  Canada,  e  i  protestanti  e  i  cattolici 
osservano  la  domenica  col  maggior  rigore;  nei  negozi  per  lo  piìi 

'  Anticamente  in  Inghilterra  molti  funzionapii  municipali  erano  investiti  di 
attribuzioni  giudiziali;  la  legge  del  1835  le  abolì,  ma  invece  la  regina  può  accor- 
dare alle  città,  che  per  certe  materie  civili  e  criminali  in  cui  la  loro  amministra- 
zione è  interessata,  decida  un  giudice  speciale  che  il  governo  elegge  e  che  esse 
pagano.  Codesto  giudice  si  chiama  Recorder. 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA.  335 

le  vetrine  son  lasciate  esposte  allo  sguardo  dei  rari  passeggieri, 
ma  l'interno  è  deserto  e  gli  antiporti  son  cliiusi  a  chiave;  quella 
mostra  silenziosa  fa  uno  strano  effetto  in  mezzo  alle  strade  spopo- 
late. Son  chiuse  tutte  le  hiblioteche,  non  corrono  treni,  né  parton 
vapori,  e  non  v'è  altro  modo  di  passar  il  tempo  se  non  in  chiesa 
0  nelle  passeggiate.  La  domenica  del  20  agosto    io  spinsi  i  miei 
passi  lungo  il  fiume  sulla  cui  riva   la   città  si  stende   per   oltre 
quattro  chilometri,    e    dove    pure    son   begli  edifizi  come  il  Bon 
Secours  Market,  e  il  Castoni  House,  e  belle   piazze    come  quelle 
su  cui  sorge  la  statua  di  Nelson.  In  questo  monumento  la  colonna 
e  il  piedistallo  sono  di  una   pietra  grigia,  dei    terreni   siluriani, 
adoperata  moltissimo,  anche  negli  edifizi  più  cospicui  ;    si    trova 
nelle  vicinanze,  e,  a  giudicarne  dallo  stato  del  monumento  la  cui 
erezione  data  dal  1808,  se  è  di  bell'apparenza  non  ha  lunga  du- 
rata. Kisalendo  sempre    il    San   Lorenzo,    giunsi  all'imboccatura 
del    canale    di    Lachine.    11    San    Lorenzo  da  quel    punto    non 
è    più    navigabile    perchè   il   suo   letto    è    ostruito    qua  e  là   da 
vari  ostacoli    natui'ali   che   ne    trattengono  le  acque,  dando  loro 
una  maggior  espansione  tutto  intorno,  e  ne  fanno  dei  veri  laghi. 
Perchè    le    navi    potessero    raggiungere    il   lago  Ontario   si  do- 
vettero costruire  70  miglia  di  canali  con  cinquantaquattro  chiuse 
vincendo  una  massima  altezza  di  ^^56  piedi.  Il  grandioso    lavoro 
fu  eseguito   durante  l' unione   delle    due  Provincie    del    Basso  e 
dell'Alto  Canada  e  costò  circa  quaranta  milioni  di  lire  nostre;  il 
prezzo  di  trasporto,  che  prima   si    calcolava   il  100  per  100  del 
valore,  oggi  è  ridotto  al  15  o  20. 

Poco  lungi  notai  l'elevatore  dei  grani  o  granaio  meccanico, 
un  immenso  fabbricato  tanto  alto  che  la  sola  vista  esterna  mi 
mise  paura.  Il  grano,  dalla  stiva  delle  navi,  è  sollevato  ai  piani 
superiori  per  esservi  custodito,  da  una  serie  di  secchi  di  ferro 
legati  fra  loro  da  una  enorme  catena  e  mossi  a  vapore.  Oltre- 
passato l'elevatore  giunsi  al  Ponte  Vittoria,  una  delle  meraviglie 
dell'  ingegneria  moderna.  Il  ponte  è  tubulare  e  riposa  sopra  24 
pile  distanti  circa  90  metri  l'una  dall'altra  :  altri  500  metri  son 
misurati  dalle  due  teste  ;  in  tutto  una  lunghezza  di  quasi  tre 
chilometri  (9194  piedi);  la  travata  di  mezzo  è  alta  20  metri  sul 
pelo  d'acqua  estivo.  L' intero  ponte  ha  quattro  milioni  di  chi- 
logrammi di  ferro,  centoventicinque  milioni  di  chilogrammi  di 
pietra,  ed  è  costato  trentun  milioni  e  cinquecentomila  lire. 
Dalle  imboccature  non  si  vede  se  non  un'  immensa  e  nuda  gal- 
leria, ma  se  non  v'ha  nessun  effetto  artistico  né   all'  interno    né 


336  IL   DOMINIO  DEL  CANADA. 

all'esterno,  non  manca  certo  l' impressione  del  grandioso:  e  quei 
giganteschi  tubi  posti  a  contatto  immediato  fra  loro,  con  soltanto 
una  piccola  distanza  fra  pila  e  pila  per  le  dilatazioni  del  ferro, 
quello  spessore  delle  loro  pareti,  quella  vasta  estensione  dell'area 
delia  galleria,  danno  una  ben  alta  idea  della  potenza  del  ge- 
nio umano.  Applicando  l'occhio  ad  un  piccolissimo  foro  praticato 
espressamente  ad  una  delle  pareti,  si  ha  poi  una  stupenda  vista 
del  San  Lorenzo  ;  nella  direzione  di  Quebec  1'  isola  di  Sant'  Elena 
nel  mezzo,  a  sinistra  la  città  di  Montreal,  a  destra  il  villaggio 
d'Hochelaga  e  le  sue  arboree  vicinanze:  dalla  parte  opposta  in- 
vece, parevami  che  il  iiume  fosse  rinchiuso  tutto  in  giro  dalla 
gigantesca  curva  d'una  verde  riva. 

XI. 

All'estremo  ovest  dell'  isola,  sbocca  il  fiume  Ottawa.  Esso 
divide  la  Provincia  d'Ontario  da  quella  di  Quebec  scorrendo  per 
1300  chilometri  in  una  direzione  obbli([ua  al  S.  Lorenzo  con  cui 
forma  un  angolo  di  45  gradi  ;  sulla  dritta  lo  costeggiano  i  monti 
Laurenziani,  i  quali  al  punto  di  quella  confluenza  si  staccano  dal 
gran  fiume  per  dirigersi  attraverso  il  nord-ovest,  e  raggiungere 
le  montagne  Eocciose  nella  loro  parte  settentrionale.  L'  isola  di 
Montreal  saluta  le  acque  dell'Ottawa  con  un  grazioso  villagio,  il 
villaggio  di  S.  Anna,  dove  Tomaso  Moor  scrisse  il  suo  Canadian 
Boat  Song.  ^  Le  cime  delle  colline,  i  prossimi  gorghi  di  Lachine 
e  la  Chiesa  del   villaggio   hanno   egualmente   ispirato   il  poeta. 

Un  piccolo  steamer  su  cui  ci  eravamo  imbarcati  a  Lachine 
ci  faceva  rimontare  il  fiume  :  pochissimi  erano  i  passeggieri,  e  fra 
loro  parlavan  tutti  inglese  al  pari  dell'equipaggio;  a  un  tratto 
mi  sentii  timidamente  dimandare  se  parlavo  francese.  Era  una 
giovane  donna  dall'aspetto  assai  malato   eppure  sempre  bella  nel 

f  «  Faintly  as  toUs  the  eveiiing  chime 

Our  voiijes  keep  tiiiie  and  our  oars  keep  lime, 
Soon  as  the  woods  on  shote  look  ilim 
We'll  sing  at  St  Aniie's  our  evening'  hymn. 

Row,  brothers,  rovv,  the  stream  ruiis  fast  ; 

The  rapids  are  near  and  the  daylighi's  past. 
Uttawas'tide  !  This   trembling  moon 

Shall  see  us  float  oVr  thy  surges  soon. 
Saint  of  this  green  isle  I  liear  our  prayers, 
Oh,  grant  us  cool  heavens  and.  favoring  airs  ! 

Blow  breezes,  blo   ,  the  stream  runs  fast, 

The  rapids  are  near  and  the  daylight's  past.  » 


IL  DOIUNIO  DEL  CANADA.  337 

SUO  pallore  e  ne'  suoi  affilati  lineamenti.  Si  trovava  troppo  sola, 
mi  disse,  in  mezzo  a  quella  gente  di  cui  non  comprendeva  la 
lingua  e  s'annoiava  di  non  aver  un  libro  per  le  mani  e  di  non 
poter  scambiare  una  parola  ;  ingenuamente  mi  raccontò  di  sé,  del 
marito  da  cui  le  doleva  allontanarsi,  di  suo  padre  e  della  sua 
matrigna  da  cui  andava  a  passar  qualche  giorno  per  vedere  se 
l'aure  natie  le  potesser  riuscire  più  benefiche  che  quelle  di  Mon- 
treal. —  Suo  marito  era  inglese  e  protestante,  ella  cattolica  :  il 
curato  non  avrebbe  voluto  quelle  nozze,  ma  il  marito  era  così  buon 
giovane  !  Egli  le  promise  che  tutti  i  loro  figliuoli  sarebbero  stati 
allevati  nel  cattolicismo,  e  recavasi  sempre  a  prenderla  in  Chiesa 
dopo  messa.  Forse  potevasi  rimproverargli  che  fosse  framassone  ; 
ciò  non  voleva  dire  che  potesse  mai  agire  tristamente,  ma  non- 
dimeno ella  si  diceva  ben  afflitta  di  questo  suo  legame....  Ecco  i 
dolori  ignoti  di  questa  terra,  dove  il  benessere  materiale  è  così 
diffuso.  Trovarsi  soli  ed  estranei  in  mezzo  ai  vicini  dello  stesso 
villaggio  nativo,  ed  anche  nel  seno  della  propria  famiglia  perchè 
si  parla  una  lingua  diversa,  perchè  diversa  la  fede  e  le  pratiche 
religiose  ! 

A  Carillon  prendemmo  la  ferrovia  per  un  breve  tratto  per 
evitare  delle  forti  correnti  formate  dal  fiume  ;  imbarcatici  quindi 
a  bordo  d'un  altro  vapore,  il  Peerless,  incontravamo  ad  ogni 
istante  vastissime  zattere  con  carichi  di  legname  tagliato  nei  bo- 
schi superiori,  e  fatto  così  discendere  ai  cantieri  del  S.  Lorenzo. 

I  primi  coloni  della  valle  dell'Ottawa  sono  stati  i  mercanti 
di  legname,  i  quali  improvvisavano  qua  e  là  in  piena  foresta 
qualche  coltura  di  terra,  che  trascuravano  ed  abbandonavano  ap- 
pena tagliato  tutto  il  legno  dei  dintorni.  Là  si  formarono  i  cen- 
tri della  popolazione  attuale,  che  non  è  numerosa  ma  ben  agiata, 
specialmente  nelle  contee  d'  Ottawa  e  di  Pontac  che  occupano  la 
riva  dritta  del  fiume.  Per  ottenere  del  legname  da  alberatura 
per  le  navi,  raro  oggi  anche  in  Svezia  ed  in  Norvegia,  il  dibosca- 
mento è  spinto  fino  a  cento  leghe  oltre  Ottawa,  il  che  vuol  dire  al- 
l'estremità delle  regioni  vegetali.  È  vero  che  si  computa  che  al 
Canada  la  foresta  si  rinnova  nello  spazio  di  25  anni;  ma  forse 
l'ascia  del  boscaiuolo  vi  reca  una  distruzione  già  allarmante. 

In  una  delle  piccole  soste  ai  villaggi  lungo  il  fiume  abbiamo 
raccolto  a  bordo  la  lieta  e  numerosa  brigata  di  un  picnic. 
È  impossibile  dir  l'efletto  esilarante  che  fa  il  veder  quelle 
ondate  di  giovani,  di  vecchi  e  di  fanciulli,  ciascuno  con  una  cesta 
di  piatti,  di  bottiglie,  o  di  tazze  e  bicchieri,  tutti  in  gaia  fami- 


338  IL  DOMINIO   DEL  CANADA. 

gliarità  fi-a  di  loro,  scherzosi,  loriuaci,  precipitare  in  mezzo 
al  taciturno  sussiego  di  viaggiatori  l'uno  all'altro  sconosciuti.  E 
fra  essi  v'è  sempre  chi  corre  al  pianoforte  che  inìuiaucabilmente 
si  trova  a  bordo,  e  chi  arrischia  una  canzone  il  cui  ritornello  è 
ripetuto  in  coro  dagli  altri, 

Uiungemmo  ad  Ottawa  verso  le  tre.  Vent'  anni  prima  non 
era  se  non  un  povero  villaggio,  ed  io  la  trovai  una  prosperosa 
città  '  alla  quale  il  movimento  dei  tramways,  del  pari  che  la  feb- 
brile attività  dei  lavori  sempre  in  corso,  eran  promesse  di  uno 
splendido  avvenire. 

Nel  quartiere  più  elevato  vi  è  una  larga  piazza  di  30  acri, 
sulla  quale  sorgono  gli  edilizi  del  Governo  e  del  Parlamento  : 
Non  è  ancora  compiuta  l'elegante  terrazza  che  deve  chiuderla 
tutto  intorno  e  vi  posano  già  minacciosi  alcuni  cannoni.  Sono  tre 
i  palazzi,  uno  in  fondo,  e  due  ai  fianchi  della  piazza,  tutti  in 
quello  stile  italiano  del  secolo  XIII  di  cui  il  Palazzo  Vecchio  è  così 
gran  saggio,  non  senza  però  qualche  linea  del  rinascimento. 
Dietro  al  palazzo  principale  vi  ha  un  fabbricato  circolare  desti- 
nato ad  uso  di  libreria.  La  sua  sala  a  poligono  di  sedici  lati, 
è  costruita  sul  disegno  di  quella  del  British  Museum  a  Londra, 
e  dovrebbe  contenere  200,000  volumi.  Le  proporzioni  di  tutti  e 
tre  i  palazzi  sono  colossali  e  senza  vederli  non  se  ne  può  avere 
un'  idea  adeguata.  Finora  vi  furono  spesi  20  milioni,  quantunque 
l'interno  sia  meschino,  e  le  aule  del  Parlamento  e  del  Senato  sieno 
ancor  meno  belle  e  meno  ricche  di  quella  della  libreria. 

Io  aveva  già  percorso  tre  delle  Provincie  della  Confederazione 
informandomi  delle  condizioni  loro  e  del  governo  locale  ;  poiché 
mi  trovavo  alla  sede  del  governo  centrale,  parevami  giunto  ormai  il 
tempo  d'occuparmi  di  esso,  studiandolo  in  sé  medesimo  e  nei  suoi 
rapporti  colle  Provincie.  Agli  Stati  Uniti  la  sovranità  degli  Stati  è 
la  regola,  la  sovranità  federale  l'eccezione.  Nel  Dominio  del  Canada 
forse  gli  ordinatori  della  Costituzione  ebbero  presente  lo  stesso 
principio,  ma  le  condizioni  storiche  delle  Provincie,  e  la  neces- 
sità di  conservare  alla  monarchia  le  sue  prerogative  portarono  a 
conseguenze  diverse.  Mentre  nella  costituzione  degli  Stati  Uniti 
sono  enumerati  i  poteri  del  Congresso,  e  non  quelli  delle  legisla- 
ture degli  Stati,  che  si  suppone  debbano  esser  tutti   gli  altri,  nel- 


'  Già  il  censo  del  1871  le  dh  una  popolazione  di  •21,54")  abitanti,  di  cui  8021 
Irlandesi,  2285  Scozzesi,  7214  Francesi,  3721  Inglesi,  23  Italiani.  I  cattolici  erano  12,734 
e  4274  appartenevano  alla  Chiesa  d'Inghilterra. 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA.  339 

l'Atto   di   Federazione   (30   Vlctoriae,  Gap.  3)  sono  anche   questi 
singolarmente  specificati. 

E  il  matrimonio  e  il  divorzio  son  di  competenza  del  Parla- 
mento federale,  ma  quanto  alle  leggi  civili  in  generale  si  sanci- 
scono quelle  già  in  vigore  in  ciascuna  Provincia,  rimanendo 
soltanto  in  facoltà  del  Parlamento  federale  di  renderle  tutte  uni- 
formi se  vi  fosse  l'assenso  delle  legislature  locali.  Il  diritto  poi 
alla  separazione  delle  scuole  secondo  le  diverse  confessioni  religiose 
è  messo  al  coperto  da  ogni  arbitrio  per  parte  delle  autorità  pro- 
vinciali, colla  salvaguardia  di  un  appello  al  Governator  generale. 
Cosi,  malgrado  il  diverso  esempio  della  grande  Eepubblica,  sono 
riservati  al  Parlamento  in  Ottawa  tutti  i  lavori  pubblici  concer- 
nenti ferrovie,  canali,  telegrafi  e  linee  di  navigazione  a  vapore, 
quando  tali  vie  di  comunicazione  pongano  il  Dominio  in  rap- 
porto colla  madre  patria  o  coll'estero,  o  congiungano  una  Pro- 
vincia ad  un  altra;  viene  insomma  ad  essere  creato  in  Ottawa 
quel  Ministero  federale  dei  lavori  pubblici,  che  a  noi  Euro- 
pei par  quasi  una  lacuna  nel  governo  di  Washington.  Tutto 
quanto  riguarda  la  milizia,  il  servizio  navale,  il  servizio  mi- 
litare e  la  difesa  del  paese,  è  di  competenza  del  Parlamento 
federale,  ma  il  comando  supremo  continua  ad  essero  investito  nella 
Kegina:  e  circa  il  diritto  di  pace  e  di  guerra,  nulla  è  preveduto 
ma  certo  lo  eserciterebbe  la  Regina  d'accordo  col  Parlamento  fe- 
derale, perchè  nessuna  delle  sue  prerogative  è  tolta  alla  corona 
e  perchè  nel  governo  del  Dominio,  il  Parlamento  d'Ottawa  è  so- 
stituito a  quello  di  Londra.  Diversamente  dagli  Stati  Uniti,  ogni 
maniera  di  suffragio  od  elezione  è  esclusa  nella  nomina  dei  ma- 
gistrati giudiziari  che  spetta  al  Governatore  generale,  tanto  pei 
giudici  delle  corti  superiori  quanto  per  quelli  di  distretto  e  di 
contea  ;  gl'impiegati  civili  poi,  invece  d'essere  cambiati  in  massa 
ad  ogni  nuovo  avvenimento  di  partito,  hanno  serie  garanzie  di 
permanenza,  e  perfino  i  luogotenenti  governatori  nominati  dopo 
l'apertura  della  prima  sessione  del  Parlamento,  non  posson  es- 
sere rimossi  o  richiamati  se  non  dopo  cinque  anni,  a  meno  che 
non  vi  sia  un  legittimo  titolo,  e  venga  comunicato  del  pari  a  lui 
ed  al  Parlamento. 

Due  sono  le  Camere.  I  membri  del  Senato  devon  avere  30  anni, 
e  possedere  in  mobili  od  immobili  una  rendita  di  4000  dollari,  nella 
Provincia  per  la  cui  rappresentanza  il  Governatore  generale  li  no- 
mina. La  Provincia  di  Quebec  è  rappresentata  da  22  senatori, 
quella  d'Ontario  da  24,  da  12   la  Nova  Scozia  e  il   Novo  Bruns- 


340  IL  DOMINIO  DEL  CANADA. 

wick  rispettivamente,  da  3  la  Colombia  Inglese,  da  3  l'Isola  del 
Principe  Edoardo,  da  2  il  Manitoba.  In  Inghilterra,  è  la  Kegina 
che  decide  sulle  questioni  intorno  alla  qualificazione  d'un  Pari, 
e  la  Camera  dei  Pari  se  ne  occupa  soltanto  ove  ne  abbia  incarico 
dalla  Corona;  qui  tale  facoltà  spetta  sempre  al  Senato.  I  membri 
della  Camera  dei  deputati  sono  eletti  nella  proporzione  di  uno  per 
ogni  17  mila  abitanti  e  la  loro  eleggibilità  dipende  dalle  stesse 
condizioni  che  le  singole  Provincie  impongono  per  la  elezione  dei 
deputati  alla  loro  Camera  locale.  Il  presidente  ha  un  assegno  di  4000 
dollari  all'anno,  e  ciascun  membro,  se  la  sessione  dura  un  mese,  ha 
10  dollari  al  giorno  ;  se  più,  un'  indennità  complessiva  di  1000 
dollari,  e  in  ogni  caso  un  dollaro  ogni  dieci  miglia  per  spese  di 
viaggio. 

Ho  già  accennato  a  casi  di  corruzione  nelle  elezioni  del  Canada 
prima  della  Federazione  :  pur  troppo  benché  la  storia  del  Dominio 
non  abbia  ancora  oltrepassato  il'  decennio,  furono  molti  gli  scan- 
dali per  questo  titolo.  Nel  1872  il  ministero  Macdonald  trattava 
per  la  costituzione  di  una  grande  società  nazionale  per  pro- 
muovere la  costruzione  di  una  ferrovia  che  corresse  dall'  Atlan- 
tico al  Pacifico:  intanto  si  fecero  le  elezioni  generali.  Dopo  qual- 
che mese  che  le  nuove  Camere  erano  state  aperte,  M.  Huntington, 
uno  dei  deputati  dell'opposizione,  accusò  i  ministri  d'aver  ricevuto 
da  sir  Hugh  Allan,  il  presidente  di  una  delle  società  che  si  di- 
sputavano il  contratto  di  costruzione,  forti  somme  di  den;iro,  allo 
scopo  di  pagare  certe  spese  elettorali.  ^  Fu  subito  votata  un'inchie- 
sta parlamentare,  ma  i  membri  che  ne  avevan  ricevuto  l'incarico, 
tre  della  maggioranza  e  due  dell'opposizione,  dovettero  declinarlo 


1  Frai  docuraeati  prodotti  v'erano  la  seguente  lettera  e  il  seguente  telegramma 
del  ministro  dei  lavori  pubblici  e  del  presidente  del  Consiglio. 

(Lettera)  *  Monreal,  24  agosto  1872. 

Caro  sig,  Abbott. 
Nell'assenza  di  sir  Hugh  Allan,  vi  sarò    grato    se    farete    tenere    al    Conitato 
centrale  un  ulteriore  somma  di  20  mila  dollari  alle  stesse  condizioni  che  scrissi  a 
piedi  della  mia  lettera  a  sir  Hugh  Allan  il  30  ultimo. 

Georgk  e.  Cartier. 
P.S.  — Favorite  mandare  anche  a  sir  John  Macdonald  10  mila    dollari  come 
sopra.  » 

{Telegraìnma}  "■'  Toronto  96  agosto    l872. 

Onorevole  J.  J.  C.  Abbott,  St  Anna, 
{Urgente  privato) 
Dovete  darmi  altri  10  mila  dollari:  sarà  l'ultima  volta;  non  mancate.  Rispon- 
detemi oggi.  John  A.  Macdonald.  » 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA.  Sii 

per  le  difficoltà  loro  sollevate  dal  ministero.  Il  Governatore  invece 
decretò  un  inchiesta  giudiziaria,  e  i  suoi  risultati  furono  tali  da 
provare  pienamente  i  fatti  addotti,  e  da  indurre  il  ministero  a 
dimettersi  senza  nemmeno  attendere  il  voto  di  quella  Camera 
sulla  cai  maggioranza  poco  prima  poteva  riposare  tranquillo. 
Ma  non  solo  non  vi  fu  nessun  processo  contro  i  dimissionari,  ma 
a  dimostrare  quanta  radice  la  corruzione  elettorale  abbia  preso 
nel  paese,  giova  riportare  le  parole  con  cui  lo  scandaloso  fatto 
viene  spiegato  in  una  pubblicazione  semi-ufficiale  recentemente 
uscita  alla  luce:  «  Quantunque  non  vi  sia  giustificazione  possi- 
bile, molto  può  esser  detto  in  via  di  attenuante.  Il  vizio  di  cor- 
ruzione è  inseparabile  dalle  istituzioni  rappresentative:  non  fu 
creato  nel  Canada  né  dai  conservatori  né  dai  liberali,  ma  nacque 
col  governo  rappresentativo,  del  quale  è  un  triste,  ma  inse- 
parabile, elemento.  Crebbe  col  crescer  del  paese,  entrambe  le  parti 
lo  nutrirono,  entrambe  ne  furon  colpevoli:  e  se  i  conservatori 
ne  furon  più  da  rimproverare  che  i  liberali,  cosa  dubbia  assai 
egli  è  che  i  liberali  avevano  minori  mezzi  di  ricorrervi.  La  misura 
del  loro  peccato  dipendeva  da  quella  delle  loro  borse:  prova  ne 
sono  i  casi  di  elezioni  contestate  prodotti  davanti  alle  Corti.  Il 
vizio  aveva  penetrato  fino  nel  focolare  dell'agiato  possidente  e 
dopo  aver  contaminato  le  popolazioni  bisognose  delle  larghe 
città,  aveva  invaso  i  precinti  di  una  classe  di  popolo  che  non  jduò 
allegare  la  povertà  a  scusa  del  proprio  delitto.  Era  ormai  pra- 
ticato da  entrambi  i  partiti  l' organizzare  Comitati  elettorali, 
incaricati  anche  di  raccoglier  fondi  per  influire  sulle  elezioni: 
le  ramificazioni  di  queste  organizzazioni  erano  enormi,  si  estende- 
vano in  ogni  capanna  del  Dominio,  ed  ogni  uomo  di  partito  era  posto 
nella  convenienza  di  contribuire  a  questo  fondo  coi  propri  mezzi.... 
Migliaia  di  partigiani  àccordavan  le  centinaia  di  dollari,  sir  Hugh 
Allan,  eccezionalmente  ricco  ne  diede  centinaia  di  migliaia.  La 
differenza  fra  l'umile  giornaliero  che  contribuiva  il  suo  dollaro 
e  il  millionario  che  contribuiva  un  terzo  di  milione,  era  solo  di 
quantità,  e  la  pratica  sembrava  un'autorizzazione  della  corru- 
zione universale.  ^ 

La  Camera  dei  deputati  non  può  adottare  nessuna  risoluzione 
o  legge  che  implichi  imposte  o  spese  del  pubblico  denaro,  se  l'og- 
getto non  sia  stato  prima  ad  essa  raccomandato,  durante  la  ses- 
sione, da  un  messaggio  del  Governator  generale;  ed  il  Governa- 

1  Leggo,  Hiitory  of  the  administration  of  the  Earl  of  Duffevin  in  Canada 
—  Montreal,  Lovell  181S,  pag.  192. 

VoL.  XIV,  Serie  11  —  15  Marzo  18T9.  2l 


342  IL  DOMINIO   DEL  CANADA. 

ter  generale  dopo  che  una  legge  è  votata,  può  apporvi  il  suo  veta 
in  nome  della  Kegina  o  riservarsi  la  sottoposizione   della  legge 
al  veto  della  liegina.  ^  Tuttavia  se  queste  misure  fanno  supporre 
per  un  momento  che  l'azione  legislativa  delle  Camere  sia  alquanto 
vincolata,  e  che  il  governator  generale  possa  abusare  de'  suoi  po- 
teri da  altro  lato  vi  sono  molte  considerazioni  atte  a  dimostrare 
che  speciali  vantaggi  nella  organizzazione  del  governo  canadese 
sono  accordati  agli  interessi  della  popolazione  e  forse   la   stessa 
persona  del  Governator  generale  deve  riconoscersi  come  un  ele- 
mento di   equilibrio   introdotto  nel   sistema  costituzionale.  Negli 
Stati  dove  la  Corona  esercita  il  suo   potere   direttamente,  se  ac- 
cade che  insorga  una  differenza  fra  il  Re  ed  i  rappresentanti  del 
popolo,  essa  può  degenerare  in  un  conflitto  di  ben  grave    carat- 
tere che  nemmeno  il  sagrifìcio  di  più  ministeri  o  lo  scioglimento 
della    Camera   oppositrice  varrebbe  ad   appianare  ;  invece  al  Ca- 
nada la  Corona  può  non  riconoscersi   compromessa   dall'  operato 
del  suo  governatore,  e  per  dirla  colle  parole  di  Lord  DufFerin,  la 
differenza  è  rimessa  al  Governo  della  madre  patria  come  ad  un 
amicus  curiae,  ed  esso  non  può  non  intervenire    con  benevolenza 
ed  imparzialità,  per  dar  libero  corso  alle  istituzioni  parlamentari 
della  colonia,  per   surrogare    il  funzionario  impopolare    con    un 
altro  pili  idoneo,  senza  la  menoma  scossa,    e  senza  nessun  inter- 
ruzione 0  disguido  nell'ordinario  corso  degli  affari. 

Comunque  ciò  sia,  è  fuor  d'ogni  dubbio  che  il  modo  con  cui 
l'Inghilterra  governa  queste  sue  colonie  è  il  più  liberale  che  im- 
maginare si  possa,  e  nello  stesso  tempo  assicura  alle  colonie  i  be- 
neficii  d'una  vera  autonomia,  e  garantisce  la  madre  patria  da  ogni 
pericolo  di  sacrificio,  giacché  essa  non  spende  un  solo  scellino  per 
la  loro  amministrazione,  non  invia  un  solo  soldato  per  la  loro  difesa, 
e  i  rapporti  più  cordiali  corrono  fra  le  due  contrade,  e  i  più  spi- 
nosi problemi  sono  risolti  con  un'ammirabile  spirito  d'equità.  Se 
non  die  se  è  facile  il  convenire  che  siffatta  maniera  di  regime  co- 
loniale prevenga  i  casi  d'attrito  e  di  contrasto,  qualcuno  potrebbe 

1  Nel  26  agosto  1873  il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  l'ederali  spiegava 
in  un  rapporto  del  Governatore  l'importanza  del  diritto  di  voto  dicendo  che  è  do- 
vere de!  Ministero  locale  o  federale  di  opporsi  nelle  Camere  all'adesione  delle  mi- 
sure che  disapprovano,  ma  se  vengano  tuttavia  votate,  o  devono  ritirarsi  o  accon- 
ciarvisi.  —  Soltanto  il  Governatore  generale  e  il  luogotenente  Govei-natore,  secondo 
i  casi,  può  vedere  se  la  legge  si  trovi  in  conflitto  colle  sue  istruzioni  a  i  suoi  do- 
veri di  funzionario  della  Regina,  perchè  «  the  provision  to  reserve  a  bill  for  the 
significance  of  Iler  Majesiy's  pleasure  was  solely  raaJe  with  the  view  to  the  pro- 
tection  of  Imperiai  interests,  and  the  maintenance  of  Imperiai  pohcy.  » 


IL  domìnio  del   CANADA.  343 

peraltro  dimandare  quali  siano  i  vantaggi  che  rispettivamente  ne 
ritraggono  i  due  popoli.  Quello  della  protezione  dall'un  lato    ac- 
cordata, ricevuta  dall'altro,  quello  della  soddisfazione  orgogliosa 
della  nazione  che  si  sente  più  grande  nella  vita  dei  suoi  figli,  o 
dei  figli  che  si  sentono  superbi  di  tanta  madre  patria,  quello  in- 
fine delle  facilità  dei  rapj)orti  commerciali,  non  basterebbero  certo 
di  per  sé  soli,   e  nemmeno  basterebbero  tutti  insieme  riuniti,  se 
non  ne  ingigantisse  l'importanza  l'essere   vivo   in   tutti  il  senti- 
mento di  una  medesima  nazionalità,  e  per  quei  coloni  che  non  lo 
nutrono  per  ragion  di  sangue,  l'esserne  però  penetrati  per  debito  di 
riconoscenza.  È  il  vero  caso  della  propagazione  spontanea  del  vin- 
colo politico  ;  j)ropagazione  che  è  tanto  forte  da  vincere  la  separa- 
zione dell'onde  sterminate  dell'Atlantico.  Quando   è  solo  una  di- 
stanza materiale  che  divide  gli  uomini,  tutto  basta  a  farne  bat- 
tere i  cuori  all'unisono,  o  a  farne  incontrare  i  pensieri  in  una  stessa 
meta.  Se  invece  li  separasse  l'antagonismo  degli   interessi  od  un 
sistema  d'oppressioni  forse  facilmente  esercitate,  non   mai    tolle- 
rate, nascerebbe  la  ribellione  o  la  secessione  anche  nel  seno  della 
pili   omogenea  famiglia   nazionale.   L'Inghilterra    non  piange  la 
partenza  dei  suoi  emigranti  per  il  Canada,  ed  essi,  poiché  vi   si 
sono  fissati  non  si  vergognano  del  loro  suolo  natio.  Ciò  valga  ad 
insegnare  a  coloro  che  fra  noi  consigliano  di  rivolgere  gli  sforzi 
comuni  alla  colonizzazione,  a  quali  condizioni  essa  potrebbe  rie- 
scire  una  risorsa  e  non  un  imbarazzo  :  veggano  poi  essi  se  queste 
sieno  facilmente  conseguibili  dall'Italia. 

Certo  che  si  può  obbiettare  che  il  sentimento  della  comu- 
nanza d'origine  potrebbe  anche  gettare  piìi  facilmente  i  Canadesi 
nelle  braccia  dei  loro  germani  al  di  là  del  S.  Lorenzo;  ma  la  vita, 
i  costumi  e  le  istituzioni  del  Canada  rivelano  ancora  troppo  di- 
rettamente la  figliazione  inglese  perché  quei  popoli  possano  ob- 
bedire ad  un  impulso  di  più  lontana  parentela  cogli  Americani 
finché  seguiteranno  a  godere  di  buon  governo  e  di  buona  ammi- 
nistrazione, 0  finché  il  progresso  economico  non  manifesti  1'  esi- 
stenza d' una  rivalità  naturale  d' interessi  fra  continente  e  con- 
tinente. 

Per  ora  convien  pur  riconoscere  che  fu  alto  concetto  politico 
il  legare  insieme  Provincie  così  lontane,  di  interessi  cosi  diversi,  e 
opporre  alla  forza  d'assorbimento  che  potevan  su  ciascuna  di  esse 
singolarmente  esercitare  la  grandezza  e  la  libertà  degli  Stati 
Uniti,  il  sentimento  di  una  grandezza  propria  fin  allora  impen- 
sata, la  soddisfazione  di   istituzioni   altrettanto    libere  e   saggio, 


344  If'   DOMINIO   DEL   CANADA. 

che  s'erano  poi  migliorate,  diffuse  e  radicate  colla  stessa  loro  sto- 
ria. La  Nova  Scozia,  il  Novo  Brunswick,  l'isola  del  Principe 
Edoardo  die  erano  tributarie  degli  Stati  Uniti  pel  mercato  dei 
grani,  poiché  la  Federazione  fu  fatta,  hanno  imparato  che  nelle 
Provincie  di  Ontario  e  di  Quebec,  in  una  parte  cioè  del  medesimo 
loro  territorio,  esisteva  un  granaio  nazionale  con  cui  poter  sopperire 
agli  annuali  bisogni,  e  in  cambio  delle  cui  riserve  esitare  il  proprio 
carbone:  l'oro  della  Colomlna  inglese  non  dovè  più  essere  inviato 
fino  in  Inghilterra  perchè  valesse  a  dar  sussistenza  ed  agiatezza 
a  quei  minatori  indipendentemente  dal  mercato  della  vicina  Ca- 
lifornia, e  il  Manitolja  cessò  di  sentirsi  isolato.  È  vero  che  alle 
Provincie  d'Ontario  e  di  Quebec  conviene  ancora  più,  per  ragione  di 
prezzo  di  nolo,  di  fornirsi  di  carbone  dagli  Stati  Uniti  e  dal- 
l'Inghilterra che  non  dalla  Nova  Scozia  e  dal  Novo  Brunswick; 
è  vero  che  i  rappresentanti  della  Colombia  inglese  devono  cor- 
rere 2000  miglia  per  poter  giungere  ad  Ottawa,  sede  del  go- 
verno, ma  le  nuove  linee  ferroviarie  abbrevieranno  presto  le 
enormi  distanze,  e  un  intelligente  sistema  di  dazi  riparerà  agli 
inconvenienti  geografici. 

Nei  brevi  anni  di  vita  del  Dominio  1'  importazione  crebbe 
da  75  a  100  milioni  di  dollari  e  l'esportazione  da  60  a  80.  Il 
debito  federale  è  grave  assai,  e  alla  fine  del  giugno  1877  s'av- 
vicinava a  140  milioni  di  dollari,  ma  vennero  compiuti  impor- 
tanti lavori  pubblici,  e  le  forze,  produttive  della  nazione  sono 
molto  cresciute.  '  Il  bilancio  federale  dal  luglio  1875  al  giugno  1878 
può  riassumersi  così  :  l'attivo  fu  circa  di  18  milioni  di  dollari 
di  cui  otto  per  redditi  delle  dogane,  quattro  per  le  tasse  sugli 
spiriti  e  sul  petrolio,  quattro  per  prodotti  delle  privative  (ta- 
bacchi,  poste,  canali,   pésche,   ecc.)    e    due    per    redditi   diversi 

1  Nel  Journal  of  the  Statistica!  Society  [december  1878)  il  signor  Bateman 
fa  l'osservazione  che  il  debito  pubblico  dei  Dominio  è  sempre  minore  di  quello 
delle  colonie  di  Vittoria  e  South  Wales  insieme  riunite,  che  pure  hanno  poco  più 
di  un  terzo  delia  popolazione  del  Dominio.  —  Il  censo  del  ISTI  dice  che  gli  acri  col- 
tivati a  cereali  e  legumi  eran  12  milioni  e  diedero  l.^  milioni  d'ettolitri  di  cereali. 
e  15  d'altri  prodotti;  5  milioni  erano  gli  acri  coltivati  a  pascolo  e  si  computavano 
a  oltre  5  milioni  i  capi  di  bestiame  grosso  e  minuto  :  ma  queste  cifre  sarebbero  ora 
molto  più  cospicue.  Le  casse  di  risparmio  che  col  fondarsi  del  Dominio  avevan  un 
milione  e  mezzo  di  dollari  di  depositi,  hanno  oggi  triplicata  quella  somma.  Però 
le  ferrovie,  nel  Dominio  come  negli  Stati  Uniti,  offrirono  poco  brillanti  risultati  a 
chi  vi  rivolgeva  i  capitali.  La  lunghezza  totale  delle  varie  linee  è  di  miglia  5346; 
fra  azioni,  prestiti  e  sovvenzioni  vi  si  investirono  circa  340  milioni  di  dollari:  gli 
introiti  lordi  ascendotio  a  20  milioni,  e  a  16  milioni  le  spese:  sicché  ap[)ena  rimane 
un  4  o  5  per  cento  per  le  obbligazioni,  ma  le  azioni  e  le  anticipazioni  governative 
e  provinciali  sono  per  lo  meno  un    impiego   sterile. 


IL   DOMINIO   DEL   CANADA.  345 

(bollo,  terre  iDubbliclie,  diritto  di  tonnellaggio,  multe,  ecc.)  ;  — 
il  passivo  fu  di  circa  20  milioni  di  dollari  di  cui  otto  per  inte- 
ressi ed  ammortamento  del  debito  pubblico,  quattro  per  sovven- 
zioni alle  Provincie,  due  per  lavori  pubblici,  uno  e  mezzo  per 
impiegati  civili  e  amministrazione  della  giustizia,  uno  e  mezzo 
per  la  milizia.  ' 

Lord  Dufferin,  allora  Governatore  generale,  e  cbe  io  non  ebbi 
la  fortuna  di  vedere,  percliè  in  quel  momento  trovavasi  in  giro 
per  la  Colombia  inglese,  disse  in  uno  dei  suoi  discorsi:  «  The 
only  thing  we  shall  want  is  to  man  the  sliip  with  a  more  nume- 
rous  crew.  »  Ma  davvero  non  poteva  essere  più  attiva  la  propa- 
ganda fatta  prima  dall'Alto  Canadcà,  poi  dal  gover-no  del  Dominio 
per  richiamare  l'emigrazione  europea.  Dal  1829  al  1875  sbarca- 
rono a  Quebec  pel  Canada,  1,364,655  emigranti  di  cui  1,134.747 
provenivano  dall'Inghilterr?,  205.255  dalla  Germania  o  dalla  Nor- 
vegia, e  poco  più  di  20,000  da  altri  paesi:  U  media  annuale  fu 
quindi  di  circa  30  mila  immigranti.  Lo  spirito  intraprendente  con 
cui  si  va  a  predicare  ed  organizzare  l'emigrazione  nei  centri  più 
lontani,  dall'Islanda  alla  Russia,  trova  le  sue  spiegazioni  nella  somi- 
glianza climatologica  di  quelle  contrade  alla  regione  del  Canada, 
ma  ciò  che  più  sorprende,  e  fa  davvero  pensare  che  in  fondo  al 
loro  cuore  gli  agenti  di  emigrazione  debbano  avere  una  certa  sin- 
cerità di  convincimento,  è  l'ingegnosità  con  cui  danno  al  proprio 
lavoro  apparenza  e  ragioni  di  apostolato  filantropico  o  di  sforzi 
pel  miglior  ordinamento  del  sistema  sociale.  Ho  già  accennato  al- 
l'immigrazione  dei  fanciulli  organizzata  per  Halifax  dal  colon- 
nello Laurie  e  da  mistress  Birt;  aggiungerò  di  volo,  che  in  pre- 
cedenza la  si  faceva  per  altre  parti  del  Dominio  anche  di  fan- 
ciulli raccolti  nelle  tvorlhouses  e  nelle  case  di  correzione  ;  ma  ad 
Ottawa  ebbi  occasione  d'essere  informato  di  esempi  ben  più  sin- 
golari dell'attività  degli  agenti.  M''  Jenkins,  membro  del  Par- 
lamento Inglese  ed  agente  generale  d'emigrazione  a  Londra,  nel- 
l'ottobre del  1875  si  recò  in  Svizzera,  e  col  dottor  Joos,  dell'As- 
semblea federale,  ebbe  a  formulare  un  progetto,  le  cui  basi  erano 
le  seguenti:  Che  il  governo  del  Canada,  o  di  alcuna  delle  sue  Pro- 


1  È  una  legge  del  marzo  1868  che  regola  TobLligo  della  milizia:  possono  essere 
chiamati  a  farne  parte  tutti  i  cittalini  .lai  iS  ai  60  anni,  ma  la  sua  prima  cate- 
goria è  composta  di  30  mila  uomini  circa  volontariamente  arruolatisi  per  il  servizio 
di  due  o  di  tre  anni.  La  riserva  che  comprenderebbe  655  mila  uomini  con  30  mila 
ufficiali  (circa  ilsestodella  popolazione)  viene  soltanto  in  parte  chiamata  ad  annuali 
esercizi  che  durano  circa  15  giorni. 


346  Ili  DOMINIO   DEL  CANADA. 

vincie,  offrissero  al  governo  della  Confederazione  Svizzera  una 
cessione  incondizionata  di  300  mila  acri  di  terra,  liberi  per  10 
anni  da  imposta  fondiaria,  e  che  il  governo  di  Berna  avesse  un 
anno  di  tempo  per  le  sue  determinazioni,  e  frattanto  potesse  in- 
viare propri  emissari  a  studiare  la  località,  e  le  prospettive 
che  vi  potrebbero  trovare  gli  emigranti.  Il  dottor  Joos.  che  pel 
passato  era  uno  degli  avversari  dell'emigrazione,  dichiarò  al  signor 
Jenkins  che  oramai  la  giudicava  una  inevitabile  necessità  morale 
e  politica  e  che  il  cercar  di  regolarla  e  di  impedirne  le  tristi 
conseguenze  era  una  questione  d'interesse  pubblico  e  di  filantropia, 
per  la  quale  rischiava  volentieri  la  propria  riputazione.  Il  dottor 
Jenkins  nel  raccomandare  il  progetto  al  governo  canadese  ne 
descrisse  i  vantaggi  e  gli  svantaggi.  Vide  l'obbiezione  dell'incom- 
patibilità che  poteva  incontrare  colla  sovranità  legittima  del  ter- 
ritorio canadese,  l'esercizio  di  quel  nucleo  di  proprietà  accordate 
cosi  in  massa  ad  un  governo  estero.  Ma  gli  parve  che  ogni  incon- 
veniente sarebbe  stato  scongiurato  col  ben  chiarire  la  natura  dei 
rapporti  che  dovevansi  creare;  d'altronde  egli  considerava  come 
una  grande  arra  di  riescita  l'impegnare  il  governo  svizzero  a  fare 
cosa  sua  quel  tentativo  di  colonizzazione.  Perchè  il  progetto  non 
abbia  avuto  seguito  io  non  ho  potuto  saperlo,  ma  eboi  subito  a  no- 
tare che  il  signor  Jenkins  rivolgeva  i  suoi  sguardi  anche  all'Italia 
settentrionale,  ch'egli  diceva  parergli  «  en  ce  moment  le  champ 
d'exploitation  le  plus  vaste  pour  l'éinigration  en  Europe.  ^  La 
population  y  est  extréinement  vigoureuse.  Elle  émigre  en  grands 
nombres  dans  les  différentes  parties  de  l'Europe  où  les  hommes 
sont  principalement  emplojés  comme  ouvriers  et  raanoeuvres. 
Ceux  que  j'ai  vu  travailler  dans  les  rues  de  Berne  étaient  cor- 
pulents  et  robustes.  Un  climat  chaud  ne  peut  les  affaiblir  et 
je  crois  qu'ils  s'accommoderaient  bien  dans  quelques  parties 
du  Canada.  Les  colonies  australiennes  travaillent  fort  pour  avoir 
quelques    uns    de    ces   émigrants    précieux,   et  je  vous   conseille 

fortement  de  tàcher  de  vous  en  procurer Si  vous  étes  d'avis, 

d'après  l'expérience  qu'ont  fournie  les  manoeuvres  italiens  qui 
ont  été  employés  sur  'les  chemins  de  ter  du  Canada,  que  ces 
gens-là  feraient  de  bons  émigrants  pour  Ontario  ou  Manitoba, 
il  ne  sera  pas  difficile  de  s'en  procurer;  il  est  méme  possible 
qu'en  raison  des  privations  que  le  nombre  immense  des  émi- 
grants partis  de  ce  pays   pour  les  républiques  de  l'Amérique  du 

'  Rapportdu  ministre  de  V AgrirAilture  du  Canada,  Annèe  de  Calendrier  1875. 
—  Ottawa,  Maclean  and  Comp.,  1876. 


IL  DOMINIO   DEL  CANADA.  347 

sud  ont  endurées,  il  soit  facile  de  faire  avec  le  gouvernement  italien 
des  arrangemeats  qui  faciliteront  considérablement  rémigration.  » 
Una  signora,  Elisa  di  Koerber,  nei  suoi  rapporti  al  governo 
federale  diede  saggio  dal  canto  suo  di  non  minore  immagina- 
zione ed  attività.  11  suo  programma  è  che  la  sovrabbondanza  nu- 
merica del  sesso  femminile  in  confronto  al  maschile,  e  la  condi- 
zione delle  donne  in  varie  parti  d'Europa,  sono  tali  fatti  da 
fra  credere  desiderabile  la  emigrazione,  circondata  di  cautele,  delle 
indigenti;  quindi  essa  propone  di  organizzare  una  vasta  società 
di  patronato,  la  cui  opera  dovrebbe  avere  il  suo  primo  campo  in 
Germania  per  essere  poi  continuata  in  Francia  ed  in  Inghilterra. 
La  Germania  conta  già  due  associazioni  di  dame  numerose  ed 
ammirabilmente  organizzate  che  consacrano  i  loro  sforzi  e  la  loro 
energia  a  migliorare  la  condizione  della  donna:  una  è  l'Alleanza 
universale,  sotto  il  patronato  di  S.  M.  l' Imperatrice  Augusta, 
l'altra  l'associazione  Lette  Bereire,  di  cui  è  capo  il  Principe  Ere- 
ditario; la  signora  di  Koerber  sperava  di  ottenere  d'entrambe 
l'appoggio,  e  quanto  al  Canada,  essa  contava  sulle  promesse  delle 
due  associazioni  di  Montreal  e  di  Toronto  delle  Giovani  Donne 
Cristiane;  e  così  la  tutela  combinata  di  coloro  che  meglio  pote- 
vano rappresentare  gl'interessi  della  morale  e  della  umanità  tanto 
nel  paese  di  provenienza  come  in  quello  di  destinazione,  doveva 
ispirare  alle  emigranti  un  sentimento  di  maggior  fiducia  nel 
proprio  avvenire. 

XII. 

Nella  notte  del  26  agosto  ho  lasciato  Ottawa  per  Prescott,  e 
quivi  mi  sono  imbarcato  per  rimontare  il  S.  Lorenzo  attraverso  le 
mille  isole. 

Le  mille  isole  !  Nome  affascinante  che  temevo  sempre  non  fosse 
iustificato  dalla  realtà,  e  mi  chiedevo  ripetutamente  :  ma  saranno 
proprio  mille,  od  è  un'espressione  iperbolica?  Ma  questa  volta  non 
v'era  iperbole,  e  sono  anzi  1800  che  formano  l'arcipelago  del 
S.  Lorenzo  che  s'incontra  fra  Kingston  e  Brockville. 

Nulla  di  più  incantevole  che  il  vedere  emergere  in  mezzo  alle 
onde  tutti  quei  tratti  di  terra,  ora  vasti  e  collinosi,  ora  piani  ed 
angusti,  nei  quali  il  verde  della  vegetazione  interrotto  talvolta  dai 
nudi  piani  di  qualche  roccia,  nascondeva  fra  il  ricco  fogliame  gra- 
ziosissime  ville.  E  le  onde  in  cui  quelle  isole  si  specchiano  le  cin- 
gono tutto  intorno  di  una  rilucente  fascia,  e  mentre  procedevano 


348  IL    DOMINIO   DEL   CANADA. 

prima  raccolte,  torbide  e  miuacciose,  prendono  tersi  cristallini 
riflessi,  e  s  umiliano  in  lento  corso  ed  in  modesti  canali,  quasi  vo- 
lessero mansuefarsi  e  rendersi  più  pure  nella  dolcezza  di  quegli 
abbracci. 

Entrando  fra  i  loro  meandri,  la  mia  curiosità  rimaneva  sempre 
tesa  e  toglieva  forza  all'ammirazione:  ma  poi  questa,  a  misura  che 
le  isole  aumentavano  di  numero  e  di  bellezza,  si  convertì  in  entu- 
siasmo. Ad  ogni  istante  la  vista  cambiava  come  all'agitarsi  di  un 
caleidoscopio  o  al  cenno  di  una  flxta,  e  il  fresco  smeraldo  della 
vegetazione  e  il  limpido  zaffiro  delle  onde,  luccicando  come  grandi 
distese  di  gemme  abbagliavano  l'occhio: 

«  The  tbousaud  ìsles,  the  thousand  isles  ! 

Dimpled,  the  wave  around  them  siuiles 

Kissed  by  a  thousaud  redlipped  flowers 

Gemmed  b}^  a  thousand  emerald  bowers. 

A  thousand  birds  iheir  praises  wake 

By  rocky  ghide  and  pluniy  brake  ; 

A  thousand  cedars'  fragrant  shade 

Falls  where  the  Indians'  children  played, 

And  fancj^'s  dream  luy  heart  beguiles 

While  siuging  you  the  thousand  isles  ! 

There  Saint  Lawrence  gentlest  fiows, 

There  the  South  wiud  softest  blows, 

There  the  lilies  whitest  blonm, 
t 

There  the  birch  hath  leafiest  glnora  ; 

There  the  red  deer  feed  in  spring, 

There  doth  glitter  wood-duck's  wing, 

There  leaps  the  muscalonge  at  inorn, 

Thei'e  the  loon's  night  song  is  boru, 

There  is  the  fishenuan's  paradise- 

"With  troUing  skiff  at  red  sunrise.  » 

Molte  di  quelle  isole  hanno  anche  poetici  nomi;  poco  più  su 
dell'isola  dei  pini  v'è  Garden  Island  e  Cedar  Island.  Nel  1875 
alcuni  membri  di  una  setta  dissidente  del  protestantismo  acquista- 
rono 100  acri  di  terreno  poco  più  su  di  Wells  Island,  per  erigervi 
in  mezzo  ad  ameni  viali  e  giardini  una  chiesa  ove  sempre  si 
celebra  il  servizio  religioso:  essi  con  quella  pace,  e  con  tanto 
incantevole  natura,  sperano  di  potere  attirare  maggiori  proseliti. 

Verso  sera  il  vento  si  mise  a  soffiar  gagliardo  e  nel  bel  mezzo 
del  lago  Ontario  avemmo  tutto  il  trambusto  di  una  piccola  bur- 
rasca; ma  la  mattina  seguente  il  vento  tornò  a  mutarsi  in  brezze 
carezzevoli,  e  le  onde  eran  già  assai  calme  quando  toccai  le 
bocche  del  fiume  Niagara.   Da  una  riva  all'altra  i  forti  ameri- 


IL   DOMINIO  DEL  CANADA.  349 

cani  e  canadesi  si  guardavano  accigliati,  e  il  nostro  battello  pro- 
cedeva tranquilamente  sotto  le  minacele  dei  loro  fuochi.  Sbarcai 
al  villaggio  di  Niagara  e  mentre  attendevo  il  treno  mi  divertii  ad 
osservare  un  gruppo  di  tre  persone,  una  donna  e  due  uomini,  tutti 
intenti  a  leggere  nella  relazione  del  Lyell  sul  suo  primo  viaggio 
in  America,  il  capitolo  dove  parla  della  formazione  geologica  del 
bacino  del  Niagara.  Il  più  vecchio  leggeva  forte,  l'altro  compagno 
e  la  signora  lo  interrompevano  spesso  con  parole  d'ammirazione  e 
con  domande  di  schiarimenti  :  più  d'una  volta  gli  ho  visto  svol- 
gere la  nota  litografia  che  sta  in  fronte  all'edizione  inglese  del  1845, 
dove  è  data  una  veduta  del  fiume  in  prospettiva  e  son  distinti  con 
diverso  colore  i  vari  strati  geologici.  Ma  era  già  inoltrato  il  po- 
meriggio e  il  treno  non  tardò  a  chiamarci  per  la  partenza.  Attra- 
versammo celeremente  prima  alcune  pianure,  poi  alcune  forti  ondu- 
lazioni di  terreno  che  sembravano  nei  loro  accidenti  volere  pre- 
parare i  sensi  e  l'animo  alla  vista  della  gran  meraviglia.  Vi  fu  una 
prima  sosta  a  Queenston:  già  il  sole  calava  cinto  di  aureole  d'oro, 
di  contro  al  vano  interposto  fra  due  folte  boscaglie,  le  quali,  nelle 
tinte  del  riflesso,  partecipavano  del  cinereo  e  del  ceruleo  appunto 
come  sponde  lontane  in  fondo  al  mare;  mentre,  vicino  a  noi, 
alberi,  cespugli  e  pascoli  mostravano  un  verde  più  cupo  del  ■  olito. 
Oltrepassammo  in  breve  un'altra  stazione,  ed  ecco  che  incominciò  a 
giungerci  all'orecchio  il  rumor  sordo  delle  cascate.  «  Niagara 
Falls,  >  gridavano  i  conduttori,  ed  io  in  luogo  di  scendere  cogli 
altri,  rimasi  sul  pianerottolo  della  carrozza  ad  ammirare  il  fanta- 
stico ponte  sospeso,  e  dopo  di  esso  l'immenso  volume  delle  acque 
precipitanti.  Quando  mi  riscossi  il  treno  aveva  già  ripreso  la  corsa 
e  mi  fu  forza  continuare  fino  a  Welland  dove  però  non  ebbi  lungo 
attendere,  che  un  altro  treno  mi  riportò  presto  a  Niagara  Falls. 
fra  i  tanti  alberghi  la  mia  scelta  non  poteva  esser  dubbia,  per- 
chè sapevo  che  da  Clifton  House  si  gode  la  miglior  vista  delle  ca- 
scate, e  colà  scesi;  ma  dopo  breve  istante  ne  uscii  attraversando 
il  salotto,  e  fatti  pochi  passi  mi  trovai  sulla  sponda  del  fiume.  Le 
linee  del  paesaggio  rimanevano  incerte  nelle  ombre,  ma  dove  la 
luna  batteva,  si  vedeva  benissimo  il  precipitare  delle  acque,  il 
sollevarsi  dei  vortici  spumeggianti,  e  più  su  le  aure  inondate 
dai  bianchi  vapori.  Solo  in  mezzo  ad  un  gruppo  di  pini,  io  me 
ne  sono  stato  contemplando  a  lungo  quello  spettacolo  a  cui  la 
notte  e  la  luna  davano  anche  maggior  fascino.  Non  era  se  non 
il  diluviare  d'alcune  onde  a  cui  d'improvviso  manca  il  letto,  ma 
quelle  onde  portavano  in  sé  la  storia  dei  secoli,  e    in  quella   loro 


350  IL   DOMINIO   DEL  CANADA. 

fuga  io  fantasticava  la  fuga  del  tempo.  L'acqua,  il  vapore  e 
l'aria  erano  colà  fasi  quasi  simultanee  d'un  incessante  fenomeno, 
e  vedevo  aperti  a  me  dinanzi  il  libro  della  fisica,  e  sotto  di  esso 
l'altro  della  geologia:  perchè  iion  v'era  lì  presso  anche  l'arpa  del 
poeta?  Chi  avverte  misteriose  voci  nel  sospiro  delle  aure,  nel  gemito 
dei  ruscelli  e  nei  susurri  della  foresta,  quali  ispirazioni  non  avrebbe 
mai  trovato  in  quel  momento!  Forse  quel  cupo  fragore  poteva 
parergli  il  palpito  d'un  grande  e  nuovo  eroe  leggendario  che 
recasse  in  seno  le  sorti  dell'umanità;  forse  la  voce  straziante 
della  natura  data  in  balìa  ad  un  inesorabile  destino,  forse  la  mi- 
naccia di  lividi  gnomi,  forse  un  angelico  appello  alla  devota  pre- 
ghiera. Son  laghi  immensi,  son  mari  che  s'incalzano  l'un  l'altro 
e  si  rovescian  finalmente  colà:  ma  dalle  originarie  oceaniche  di- 
stese a  quelle  sottili  goccio  di  vapore,  dalla  nordica  estremità  del 
Lago  Superiore    alle    rive  romantiche  dcll'Erie,   quante   distanze, 

e  quante  trasformazioni  ! No,  il  mio  occhio  non  si   stancava 

mai  di  mirare  quei  vortici  scintillanti,  e  al  mio  orecchio  non 
jncresceva  punto  quel  fragore  assordante,  che  ricordava  quello 
del  mare  in  burrasca,  ma  parevami  ancor  più  poderoso  e  più 
pieno  di  grida  e  di  echi.  Il  mare  ha  vaste  dimore  che  corre  e 
ricorre  irrequieto:  quelle  acque  non  ne  hanno  nessuna.  Tengono, 
si  incalzano,  si  sconvolgono  e  s'infrangono,  ma  non  ritornano. 
Il  grandioso  immenso  spettacolo  è  offerto  da  sempre  nuovi  ele- 
menti. 

Dopo  una  lunga  sosta,  mi  tolsi  ancora  a  malincuore  al  mio 
gruppo  d'alberi,  e  me  ne  andai  nella  mia  stanza,  mezzo  ebbro 
d'entusiasmi,  e  nonostante  bisognevole  di  riposo  :  ma  come  sedotto 
da  un'  arcana  malia,  aprii  la  finestra  per  ritornare  alle  mie  con- 
templazioni. Mi  trovai  su  una  larga  e  lunghissima  terrazza:  rami 
e  foglie  tutto  intorno,  perfino  sulle  grosse  colonne  fra  cui  sten- 
devasi  il  parapetto  e  in  fondo  all'una  estremità,  di  nuovo  la 
vista  delle  cascate  e  del  ponte  sospeso.  La  luna  era  scomparsa  e, 
senza  i  suoi  allucinanti  chiarori,  la  scena  appariva  in  una  luce 
più  fosca  ma  più  veritiera.  Eiconobbi  Goat  Island  e  da  un  lato 
la  cascata  che  dalla  sua  forma  trae  il  nome  di  Horse  Shoe  e  che 
pareva  da  sola  sbarrare  ogni  passo;  dall'altro  lato  la  cascata  ame- 
ricana che  precipitava  a  breve  distanza  sul  lontano  sfondo  di  due 
alture  dalle  dolci  curve;  l'aria  mi  avvolgeva  rugiadosa,  il  cielo 
era  malinconico,  e  il  fragore  delle  cascate  sempre  egualmente 
solenne. 

L'indomani  mattina  mi  posi  in  giro  di  buon'ora  per  una  visita 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA.  351 

più  accurata  delle  due  cascate.  In  vicinanza  di  quella  di  Horse 
Slioe  sostai  a  rivestirmi  da  capo  a  piedi  di  un  costume  di  stoffa 
impenetrabile,  e  poi  discesi  al  Table  Rock,  che  è  un  vano  formato 
insieme  e  dalla  curva  delle  acque  precipitanti  dall'alto,  e  dal  rien- 
trare della  roccia  sottostante,  la  quale  fa  sopra  il  capo  di  chi 
scende  colà  un  nudo  e  terribile  arco.  Il  sentiero  per  cui  si  è  gui- 
dati è  scavato  ad  un  quarto  dell'altezza  della  roccia,  e  non  solo 
è  pericolosissimo  perchè  angusto  e  sdrucciolevole,  ma  è  reso  anche 
malagevole  da  quella  furia  di  pulviscoli  d'acqua  che  vi  toglie  quasi 
la  vista.  Nei  brevi  istanti  nei  quali  è  dato  agli  occhi  di  rimanere 
aperti  fra  goccia  e  goccia,  io  travidi  il  sole  al  di  là  delle  cristalline 
masse  delle  onde  prorompenti  di  sopra  e  rimasi  abbagliato  da  una 
nuova  iridescenza  di  splendori. 

Il  rumore  assordante,  la  desolante  vista  della  roccia  flagellata, 
l'incanto  di  quegli  effetti  di  luce  colpiscono  vivamente  la  fantasia: 
qualche  cosa  d'arcano  simpatizza  dentro  di  voi  con  quella  furia 
implacabile  e  pare  che  cercando  la  morte  laggiù,  vi  si  debba 
prima  incontrare  una  suprema  gioia.  Francesco  Abbot,  1'  ere- 
mita delle  cascate,  per  due  anni  dimorò  sulle  rive  del  fiume  ad 
amarle  e  cantarle,  poi  nel  giugno  del  1831  si  slanciò  nei  loro 
vortici  per  non  più  comparire  nemmeno  cadavere.  Qual  talamo  e 
qual  bara  in  quei  bianchi  vapori  !  in  nessun  altro  luogo  si  com- 
prenderebbe meglio  il  mito  di  Venere,  la  Dea  della  bellezza  e 
della  felicità  che  nasce  dalle  spume  marine;  e,  correndo  da  quelle 
rimembranze  mitologiche  al  romanzo  di  novelli  sijosi  che  qui 
cercano  un'umida  tomba  alla  soverchiante  ebbrezza  dei  loro  amori, 
si  pensa  con  un  fremito  al  fatale  vacillare  dell'idea  umana  fra  la 
sublimità  e  gli  abissi,  fra  il  paradiso  e  l'inferno,  fra  l'eternità  e 
l'annientamento. 

A  crescer  poi  l'impressione  di  quel  tremendo  conflitto  di  forze 
inanimate,  si  aggiunge  l'aggirarsi  nelle  vicinanze  dei  vari  curiosi 
che  vengono  o  ritornano  nello  strano  costume  dell'impenetrabile 
il  quale  ha  generalmente  un  color  giallo  carico,  e  il  di  cui  cap- 
puccio è  staccato,  ma  finisce  con  un  largo  collare  che  copre  gran 
parte  delle  spalle  ;  quel  colore,  quella  foggia,  quel  procedere  lento 
e  muto  dà  a  tutti  sembianza  di  altrettante  ombre  che  vadano 
errando  per  regioni  soprannaturali  ;  no,  non  v'è  finzione  poetica  di 
Virgilio  o  di  Dante  che  m'abbia  raffigurato  così  vivamente  i  regni 
d'oltretomba. 

Le  rapide  correnti  poco  più  su  della  cascata  americana  ;  Goat 
Island,  l'isola  rinchiusa  dalle  due  cascate:  Whirlpool,  i  vorticosi 


352  IL   DOMINIO    DEL   CANADA. 

gorghi  del  tratto  più  stretto  del  fiume  ;  sono  altrettanti  luoghi 
che  ho  visitato  con  molto  interesse  e  sempre  udendo  pietose  storie  : 
nel  1850  franò  un  intero  tratto  di  sponda  trascinando  nel  preci- 
pizio una  carrozza  col  cocchiere  e  i  cavalli  :  nel  1871  tre  visitatori 
remavano  molto  superiormente  attraverso  il  fiume,  ma  la  corrente 
trascinò  la  barca  e  perirono  poi  miseramente.  Nel  1873  la  stessa 
sorte  toccò  ad  una  coppia  di  novelli  sposi  che  furon  visti  passar 
sopra  le  cascate  1' un  nelle  braccia  dell'altro.  Ma  v'hanno  anche 
storie  meno  triste  :  nel  1827  fu  lasciato  andare  sopra  la  cascata  Horse 
Shoe  un  barcone  carico  di  animali,  ma  un  orso  sagace  abbandonò 
il  barcone  quand'era  ancora  fra  le  correnti  superiori,  e  raggiunse 
a  nuoto  la  riva.  11  15  giugno  1867  l'intrepido  capitano  iiobinson 
diresse  il  vaporino  «  Maid  of  the  Mist  »  eh'  egli  voleva  condurre 
nel  lago  Ontario,  frai  gorghi  di  Whirlpool  :  per  un  momento  il 
vaporino  scomparve  affatto  sotto  le  onde,  poi  ritornò  a  galla  con  il 
tubo  del  camino  spezzato,  e  parte  della  «Wheel  House»  perduta. 
Nessun  altro  sfidò  mai  il  terribile  cimento. 

Della  formazione  geologica  delle  cascate  del  Niagara  oltre  il 
Lyell  e  l'Hall  ha  parlato  un  autorevole  italiano,  il  professore  Cap- 
pellini nei  suoi  «  Bicordi  di  uu  viaggio  scientifico  nell'  America 
Settentrionale  nel  1863.  »  '  Il  fiume  è  l'emissario  delle  acque  dei 
laghi  Winnipeg,  Winnebago,  Superiore,  Michigan,  Huron,  S.  Clair 
ed  Erie,  i  quali  hanno  tutti  un  livello  molto  superiore  a  quello 
dell'  Ontario,  attraverso  il  quale,  e  attraverso  il  S.  Lorenzo,  si 
scaricano  poi  nel  mare.  Un  tempo  il  lago  Erie  occupava  un'esten- 
sione maggiore  e  giungeva  quasi  alla  riva  dell'Ontario  fra  le  al- 
ture di  Queenston  e  Lewiston  declinando  con  una  serie  di  rapide; 
ma  queste  poi,  col  loro  impeto  nell'estate,  coi  loro  ghiacci  nell'in- 
verno, si  sono  scavate  in  mezzo  agli  schisti  ed  al  calcare  il  letto 
che  oggi  è  corso  dal  fiume  dando  luogo  alle  attuali  cascate,  se 
non  anche  ad  una  serie  di  cascate  successive,  poscia  ristrettesi  alle 
due  attuali.  Alcuni  geologi  hanno  preteso  riconoscere  che  dall'epoca 
della  catastrofe,  le  cascate  devon  aver  retroceduto  di  sette  miglia, 
e  il  processo  della  retrocessione  si  spiega  molto  naturalmente  colla 
disgregazione  degli  schisti,  i  quali  una  volta  che  vengono  a 
mancare  lasciano  senza  base  il  calcare  sovrastante,  che  frana 
anch'esso  man  mano.  Da  32  anni  che  il  Lyelè  emise  per  il  primo 
questa  teoria,  il  fatto  è  venuto  già  a  conqjrovarla  e  le  linee  del- 
l'Horse  Shoe  Fall  hanno   sensibilmente    cambiato,    nò  presentano 

'  Bologna,  1867.  Tip.  di  Giuseppe  Vitali, 


IT;  DOMINIO    DEL   CANADA.  353 

ornai  più  la  forma  di  un  ferro  di  cavallo  ma  bensì  quella  di  un 
Y  rovesciato. 

Un'altra  meraviglia  del  Niagara  sono  i  due  ponti  sospesi. 
11  primo  in  ordine  di  data  (1852)  è  quello  dovuto  alla  direzione 
dell'  ingegnere  John.  Roebling  di  Trenton.  È  a  due  piani,  il  su- 
periore per  la  ferrovia,  l'inferiore  per  le  carrozze  ed  i  pedoni: 
lungo  duecentocinquanta  metri,  largo  oltre  sette,  ed  alto  settan- 
tacinque sul  livello  dell'acqua,  pesa  800  tonnellate  inglesi,  e  può 
sostenere  un  massimo  peso  di  circa  il  decuplo.  Esso  rimane  so- 
speso su  quattro  gomene  di  ferro,  ciascheduna  composta  di  3684 
fili:  le  torri  di  sostegno  hanno  l'altezza  di  25  a  28  metri;  è  co- 
stato 500,000  dollari.  Il  secondo  ponte  fu  inaugurato  il  1°  gen- 
naio 1869  e  costa  appena  175,000  dollari,  perchè  serve  soltanto 
per  pedoni  e  carrozze,  ma  è  celebre  per  il  suo  disegno  leggiero, 
elegante  e,  direi  quasi,  aereo.  Da  torre  a  torre  conta  375  metri. 
Le  gomene  di  sostegno  son  due  e  ciascuna  è  composta  di  sette 
corde  di  133  fili. 

Poiché  sono  in  via  d'infilzar  cifre,  noterò  che  le  cascate  del  Nia- 
gara son  più  basse  di  quella  del  iVlontmorency  :  nelle  prime  la 
difi"erenza  di  livello  fra  i  due  piani  è  di  metri  52,70,  nella  se- 
conda di  73,  però  la  larghezza  in  questa  si  calcola  di  15  metri, 
in  quelle  di  320;  sicché  il  volume  d'  acqua  delle  cascate  del 
Niagara  è  senza  confronto  maggiore.  Ljell  lo  calcolò  in  90  mi- 
liardi di  piedi  inglesi  cubici  per  ogni  ora,  e  Dwight  in  cento  mi- 
lioni di  tonnellate  inglesi  di  1000  libbre  ciascuna. 

{Continua). 

Enea  Cavalieri. 


LE  NUOVE  COSTRIZIONI   FEIiROVIARIR 
E  LE  FERROVIE  ECONOMICHE. 


I. 

Imminente  la  discussione  parlamentare  intorno  alle  nuove 
costruzioni  ferroviarie,  che  potranno  importare  una  spesa,  forse, 
di  un  miliardo,  uno  sguardo  sulle  condizioni  econòmiche  del  paese 
non  parrà  ad  alcuno  opera  inutile;  perchè  non  è  tanto  l'ingente 
somma  di  questa  spesa  che  richiama  la  più  seria  attenzione,  quanto 
la  necessità  di  indagare  se  per  non  inaridire  le  fonti  della  ric- 
chezza nazionale  non  sia  miglior  consiglio  destinare  ad  esse  una 
parte  dei  capitali  che  si  vogliono  ora  impiegare  nella  costruzione 
rli  nuove  ferrovie. 

Gli  avvenimenti  dell'ultimo  hiennio  accrescendo  le  controversie 
politiche  ebbero  altresì  per  effetto  di  rendere  piii  grave  la  crisi 
economica  che  già  da  qualche  tempo  minacciava  l'Europa.  Quando 
si  vede  da  un  lato  il  Kegno  Unito,  inquieto  per  l'esuberanza  dei 
suoi  prodotti,  tentar  le  porte  di  nuovi  mercati  in  Asia  ed  in 
Africa,  e  la  Germania,  dall'altro,  spaventata  della  concorrenza, 
inalzar  la  bandiera  del  protezionismo  con  la  tenacità  e  l'energia 
che  le  sono  proprie,  non  è  più  lecito  dubitare  che  si  navighi  in 
un  mare  ignoto  e  pericoloso. 

Certamente  all'Italia  non  toccarono  i  disastri  economici  che 
colpirono  altre  nazioni,  ma  non  le  fu  possibile  però  evitarne  il 
contraccolpo  nello  stato  di  malessere  in  cui  si  trovava,  e  che  per 
essere  latente  non  era  perciò  meno  diffuso  in  tutte  le  classi  della 
società  attiva.  Né  fa  duopo  lo  sguardo  molto  acuto  per  abbracciare 
la  vera  situazione  nostra.  Si  guardi  all'agricoltura  o  all'industria, 


LE   NUOVE   COSTRUZIONI  FERROVIARIE.  355 

s'interroghi  il  commercio  o  la  popolazione,  una  sola  è  la  nota:  il 
languore. 

Per  l'agricoltura  basta  notare  che  soli  quattro  quinti  del  nostro 
suolo  è  in  coltivazione  e  rimangono  ancora  intatti  dall'  aratro 
pressoché  40  mila  chilometri  quadrati,  dei  quali  circa  12  mila  in 
terreni  paludosi-  Per  la  parte  coltivata  vi  sono  eccezioni  lodevo- 
lissime,  ma  in  generale  non  v'ha  di  che  esserne  lieti  :  la  potenza 
produttiva  delle  terre  non  è  in  proporzione  alle  nostre  cognizioni 
agricole  che  sono  scarse  e  poco  diffuse,  perchè  i  valorosi  ingegni 
dei  quali  è  ricca  l'Italia,  anco  in  materia  agraria,  né  hanno 
mezzi,  né  attribuzioni  sufficienti  a  sviluppare  convenientemente 
l'istruzione  agricola.  D'altra  parto  le  condizioni  materiali  ed  in- 
tellettuali dei  coloni,  i  vecchi  modi  di  coltura,  il  problema  fore- 
stale tuttora  insoluto,  il  poco  o  nessuno  sviluppo  del  credito  agra- 
rio mantengono  la  nostra  agricoltura  in  tale  stato  da  far  dire  agli 
Inglesi  che  un  metro  quadrato  del  loro  ingrato  terreno  dà  tanto 
come  quattro  metri  del  nostro. 

Non  ci  consola  di  queste  condizioni  agricole  lo  stato  delle 
nostre  industrie  manifatturiere.  La  lavorazione  delle  lane  e  dei 
cotoni,  per  esempio,  diminuisce  per  la  concorrenza  formidabile  che 
loro  può  fare  l'industria  straniera,  nonostante  i  dazi  d'entrata  non 
leggieri,  e  le  sete  anche  esse  nel  1878  hanno  patito  un  sensibilis- 
simo ribasso  di  produzione,  incerti  i  produttori  sui  dazi  che  sa- 
rebbero risultati  dalla  rinnovazione  dei  trattati  di  commercio  in 
iscadenza. 

La  situazione  del  nostro  commercio  ci  é  bastantemente  de- 
scritta con  poche  cifre.  Il  bollettino  dei  fallimenti  che  si  pubblica 
dal  Ministero  d' agricoltura  e  commercio,  segna  nei  primi  otto 
mesi  del  1878,  581  sentenze  di  dichiarazioni  di  fallimenti,  e  il 
maggior  numero  di  queste  dichiarazioni  riguardano  appunto  i  ne- 
gozianti in  tessuti  e  in  manifatture;  mentre  il  minor  numero  ri- 
guarda i  negozianti  di  materie  prime,  E  davvero  se  all'  Italia  è 
dato  fare  una  concorrenza  rilevante  al  commercio  delle  altre  na- 
zioni, ciò  non  può  accadere  che  sulle  materie  prime  per  uno  sviluppo 
maggiore  dell' industria  agricola.  Né  deve  dimenticarsi  che  i  canali 
marittimi  e  le  Alpi  traforate  hanno  accumulato  sui  mercati  di  un 
popolo  giovane  il  prodotto  delle  ricchezze  straniere,  alle  quali  le 
industrie  nascenti  non  presentano  resistenza. 

La  popolazione  non  appare  in  condizioni  migliori  dell'agricol- 
tura, dell'industria,  dei  commerci.  Se  si  vuole  anco  lasciare  da 
parte  la  cifra  che  rappresenta  l'emigrazione  come  quella  che,  pur 


356  LE   NUOVE   COSTRUZIONI   FERROVIARIE, 

facendo  testimonianza  di  un  aumento,  riguarda  un  fatto  pur 
troppo  divenuto  ordinario;  non  si  può  passar  sopra  ai  fenomeni 
che  ]a  società  ci  presenta  da  qualche  tempo.  Mentre  da  un  lato 
le  idee  sovvertitrici  si  diffondono  sempre  più  fra  le  masse,  onde 
poi  le  classi  operaie  sono  tratte  agli  scioperi  ed  ai  tumulti,  dal- 
l'altro  le  classi  colte  non  spiegano  tutta  l'operosità  che  da  loro 
si  attende  la  società  moderna.  Né  vi  ha  cosa  forse  pii!i  vera  che, 
chi  è  pigro  nei  proprii  doveri  lo  diventa  anche  nei  diritti  e  nei 
bisogni.  Tutto  ciò  dimostra  chiaramente  che  nella  vita  italiana  la 
produzione,  tanto  dal  lato  materiale  che  dal  lato  morale,  non  cor- 
risponde ai  bisogni  del  paese.  Fa  mestieri  dunque  ravvivare  le 
fonti  della  produttività  nazionale;  soccorrerle  con  tutte  le  risorse 
possibili;  bisogna,  in  una  parola,  volgere  l'attenzione  subito  là 
dove  prima  è  stato  colpito  l'organismo  economico. 

Per  quanto  riguarda  i  capitali  necessari  alle  costruzioni,  lo 
stato,  che  ha  raggiunto  il  pareggio  nel  suo  bilancio,  non  si  tro- 
verà certo  a  gran  disagio  per  realizzarli:  ma  ciò  ammesso,  par- 
rebbe poco  prudente  e  poco  equo  il  non  impiegare  gran  parte 
di  questi  capitali  in  aiuto  dell'agricoltura,  dell'industria  e  del 
commercio  nazionale.  So  bene  che  anco  le  ferrovie  si  possono 
considerare  come  industrie,  e  in  un  ordinato  movimento  econo- 
mico sono  come  in  Francia  e  in  Inghilterra  fonte  di  pubblica  ric- 
chezza. Non  è  così  pur  troppo  in  Italia  ove  i  primordi  del  1879 
già  segnano  sul  1878  un  aumento  di  perdita.  Non  sembra  quindi 
che  le  condizioni  generali  d'Europa  e  quelle  d'Italia  in  ispecie 
rendano  questo  il  momento  più  opportuno  per  azzardare  in 
tante  costruzioni  ferroviarie  una  somma  che  toccherebbe,  se  forse 
noi  superasse,  il  miliardo  ;  mentre  al  contrario  e  al  governo  e 
ai  privati  non  è  più  concesso  chiudere  pietosamente  gli  occhi 
sulle  condizioni  agricole  industriali  e  commerciali,  sulle  condizioni 
delle  popolazioni,  le  quali  attendono  un  sollievo  alle  gravezze  che 
le  fanno  irrequiete,  e  se  questo  sollievo  non  può  risolversi  in  di- 
minuzione d'imposte,  si  risolva  almeno  in  uno  impulso  potente  a 
quelle  forze  della  natura,  che  non  sono  lusinghiere  illusioni,  ma 
un  vero  benessere,  h'S  mamclles  de  VEtaf,  come  le  chiamava,  in 
\\n  secolo  povero  di  risorse  e  pregno  di  pregiudizi,  il  grande 
Sully. 


LE  NUOVE  COSTKUZIONI  FERROVIARIE.  357 


II. 

Veggasi  ora  in  quali  condizioni  economiche  e  finanziarie  tro- 
vansi  le  provinole  ed  i  comuni  che  secondo  il  progetto  di  legge 
debbono  concorrere  per  180  milioni  nella  spesa  preveduta  per  le 
nuove  costruzioni,  e  secondo  la  Commissione  parlamentare  con 
aumento  di  29  milioni  in  209  milioni  di  lire. 

Noi  siamo  giunti  all'equilibrio  delle  entrate  colle  spese  oel 
Bilancio  dello  Stato  ma  se  il  disavanzo  ivi  è  finito,  questo  perdura 
ancora  nei  bilanci  provinciali  e  comunali.  Vi  è  dunque  un  secondo 
pareggio  che  bisogna  compiere,  ed  è  quello  delle  entrate  colle  spese 
nei  comuni  e  nelle  provincie. 

Consultando  le  statistiche,  esse  inesorabilmente  ci  dicono  che 
siamo  ben  lungi  dal  poter  conseguire  un  risultato  così  benefico, 
e  che  ogni  dì  vieppiii  questi  Enti  locali  s'incamminano  in  una  via 
perigliosa  ove  le  funeste  conseguenze  non  tarderanno  a  farsi 
sentire. 

10  leggo  infatti,  in  una  recente  pubblicazione  ufficiale  intorno 
ai  debiti  dei  Comuni,  che  nel  quinquennio  1873-1877  il  numero 
dei  comuni  indebitati  si  accrebbe  di  95,  e  la  somma  dei  debiti 
aumentò  di  166  milioni,  elevando  per  tal  modo  a  40  milioni  l'au- 
mento annuale  del  deficit.  Al  31  dicembre  1877  su  8297  comuni, 
con  una  popolazione  di  27,769,475  abitanti,  si  trovarono  3510  co- 
muni in  debito,  con  una  popolazione  corrispondente  di  16,175,842 
abitanti,  e  un  debito  complessivo  di  701.263,144. 

11  debito  delle  provincie,  fino  al  31  dicembre  1877,  è  rap- 
presentato dalla  somma  rilevante  di  90,059,503.  Aggiungendo  a 
questo  importo  dei  debiti  comunali  e  provinciali  i  redditi  straor- 
dinari che  i  comuni  si  sono  procurati  alienando  od  assottigliando 
il  loro  Asse  patrimoniale,  si  ha  che  il  bilancio  dei  comuni  e  pro- 
vincie preso  complessivamente  presentava  un  deficit  dai  40  ai  45 
milioni. 

Il  1878  non  ci  dà  occasione  di  rallegrarci,  né  l'anno  in  corso 
tende  a  migliorare,  che  le  fila  dei  comuni  che  invocano  ed  otten- 
gono soccorsi  dalla  Cassa  Depositi  e  Prestiti,  si  vanno  ingros- 
sando per  tal  modo  da  destare  viva  apprensione. 

Queste  cifre,  di  per  sé  stesse  eloquenti,  segnano  un  doloroso 
stato  di  cose  e  danno  ragione  dell'indugio  frapposto  dai  comuni 
e  Provincie  nello  sviluppare  le  opere  produttive  e  soprattutto  ad 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Marzo  18ì9.  %% 


358  LE   NUOVE   COSTRUZIONI   FERROVIARIE. 

accelerare  il  compimento  della  viabilità  ordinaria  che  a  sua  volta 
diviene  l'elemento  necessario  del  movimento  nelle  ferrovie. 

Quando  poi  si  vede  che  quasi  tutti  i  Comuni  del  Regno,  poche 
eccezioni  fatte,  non  hanno  compiuta  la  loro  rete  stradale,  e  appena 
due  terzi  hanno  costruite  le  strade  più  importanti,  il  pensiero  che 
primo  sorge  nella  mente  di  ognuno  si  è  che  già  in  questo  fatto 
istesso  si  racchiude  una  quistione  a  risolvere  bastantemente  ar- 
dua da  assorbire  tutta  l'attenzione  e  tutte  le  risorse  possibili. 

Con  più  ragione  mi  chiedo  se,  date  le  condizioni  economiche 
generali  del  nostro  paese,  date  queste  condizioni  finanziarie  della 
Provincie  e  dei  Comuni,  si  possa  sperare  il  concorso  di  questi  Enti 
per  r  ingente  somma  di  209,623,817  che  la  Commissione  Parla- 
mentare chiede  per  le  nuove  costruzioni  ferroviarie? 

E  bensì  vero  che  il  periodo  entro  il  quale  dovranno  prov- 
vedere la  somma  necessaria  è  fissato  in  anni  18,  ma  le  difficoltà 
che  incontrano  nell'  adempiere  all'  obbligo  di  costruire  le  loro 
strade  ordinarie  non  essendo  certamente  di  tempo,  le  stesse  dif- 
ficoltà, se  non  maggiori,  incontreranno  per  il  concorso  alle  costru- 
zioni ferroviarie. 

Non  è  certo  a  nuove  imposte  che  gli  Enti  locali  potranno 
ricorrere,  espediente  di  difficile  esecuzione  perchè  arduo  e  poco 
prudente  trovare  nuova  materia  da  colpire,  né  puranco  sarebbe 
saggia  cosa  operare  delle  prelevazioni  sui  loro  bilanci,  avvegnaché 
ne  soffrirebbe  anche  la  parte  destinata  alla  viabilità  ordinaria. 

Al  complesso  di  queste  obbiezioni  ed  a  molte  altre,  ritengo 
per  certo,  abbiano  voluto  rispondere  il  Ministro  e  la  Commissione 
unendo  al  progetto  l' istituzione  delle  Casse  ferroviarie. 

Queste  Casse  sarebbero  come  un  intermedio  fra  i  capitalisti  che 
verserebbero  in  esse  i  loro  fondi,  e  i  Comuni  che  prenderebbero 
le  somme  a  prestito  dalle  Casse  predette.  Sembrami  che  potreb- 
bero paragonarsi  agli  Istituti  di  Credito  Fondiario  che  sono  anche 
essi  un  intermedio  fra  i  capitalisti  ed  i  possessori  dei  fondi  che 
hanno  bisogno  di  creare  mutui  ammortizzabili  a  lunghe  sca- 
denze. 

Ma  si  avverta  però  come  gli  Istituti  di  Credito  Fondiario  siano 
appoggiati  a  Casse  di  Eisparmio  che  hanno  già  una  forte  po- 
tenza economica  come  nell'Alta  Italia,  oa  Banchi  di  Emissione 
come  a  Napoli  ed  in  Sicilia,  i  quali  hanno  una  estesa  circolazione 
fiduci9,ria.  Si  noti  inoltre  che  l'ipoteca  dei  possessori  dei  fondi  é 
una  garanzia  maggiore  di  quella  che  sia  il  credito  dei  Comuni, 
oggi  sopratutto    che  1'  esperienza  dimostra    che  alcuni  di    questi 


LE  NUOVE  COSTKUZIONI   FERROVIARIE.  359 

sono  insolvibili.  Non  sembra  dunque  sperabile  che  queste  nuove 
Casse  possano  fare  operazioni  così  estese  come  quelle  degli  Istituti 
Fondiari.  E  se  si  considera  che  gli  affari  fatti  da  tali  Istituti  in 
un  periodo  di  ben  dodici  anni  non  oltrepassano  i  218  milioni, 
non  è  egli  lecito  dubitare  che  le  nuove  Casse  possano  essere 
un  organo  veramente  efficace  e  pronto  allo  scopo  che  si  desidera? 
Per  il  concorso  di  tutte  le  circostanze  fin  qui  esposte  io  veggo 
adunque  dileguarsi  la  speranza  che  i  Comuni  e  le  Provincie  pos- 
sano in  realtà  concorrere  nella  spesa  delle  nuove  costruzioni  fer- 
roviarie col  progetto  ministeriale,  e  tanto  meno  poi  colle  ag- 
giunte della  Commissione  Parlamentare. 


III. 

All'atto  di  por  mano  e  su  vasta  scala  alla  costruzione  di  nuove 
linee  ferroviarie  un  fatto  eloquentissimo  di  per  sé  stesso  deve  con- 
durci a  profonde  riflessioni.  Quello  cioè  di  vedere  che  coli' ac- 
crescersi del  numero  dei  chilometri  in  esercizio  il  reddito  chilo- 
metrico diminuisce.  Su  questo  fatto  le  opinioni  divergono,  alcuni 
vogliono  che  ciò  addivenga  dal  non  essere  completata  l'intera  rete 
e  non  allacciate  fra  loro  le  linee  esercitate.  Altri  trovano  ragione 
di  tale  avvenimento  nelle  condizioni  economiche  generali  del  paese 
e  vi  scorgono  un  avviso  salutare  a  procedere  colla  massima  cau- 
tela e  moderazione  nell'attuare  nuove  linee  ferroviarie,  cosicché 
queste  non  abbiano  mai  a  soverchiare  il  reale  e  sentito  bisogno 
delle  popolazioni,  dei  commerci  e  delle  industrie. 

I  primi  sono  mossi  dai  confronti  fatti  fra  il  nostro  e  gli  altri 
paesi  d'Europa,  e  ciò  che  si  manifesta  altrove  credono  debba  es- 
sere possibile  in  Italia.  Io  non  esito  a  schierarmi  con  i  secondi, 
imperocché  in  ordine  alle  ferrovie  i  paragoni  non  sempre  reg- 
gono, e  da  un  fatto  medesimo  ed  in  paesi  diversi  ne  conseguono 
effetti  contrari;  e  ciò  che  ora  é  per  noi  un  fatto  incontestato,  cioè 
che  il  reddito  chilometrico  diminuisce  in  ragione  dell'allargarsi 
della  rete,  se  potrebbe  non  realizzarsi  più  allorquando  il  progresso 
economico  in  luogo  di  procedere  lentamente  come  fa  tuttora,  avan- 
zasse con  passi  rapidi  nella  via  della  prosperità,  non  è  men  vero 
che  oggi  sussiste,  che  bisogna  rintracciare  le  cause  che  lo  deter- 
minano e  provvedere  ai  mezzi  efficaci  ad  attenuarne  gli  effetti. 

Le  nostre  condizioni  topografiche  che  elevano  sensibilmente 
la  spesa  di  costruzione:  talune  necessità  politiche  che  creano  al- 
lungamento 0  spostamento  dei  tracciati   aumentandone  il  costo; 


360  LE   NUOVE  COSTRUZIONI   FERROVIAEIE. 

le  condizioni  economiche  del  paese  in  generale  che  danno  poco 
alimento  all'industria  locomotrice;  la  concorrenza^  che  le  linee  si 
fanno  a  vicenda,  onde  per  la  stazionarietà  o  lentezza  dello  svi- 
luppo industriale  e  commerciale,  s'aumentano  le  spese  di  eserci- 
zio, sono  tante  cause  per  cui  le  ferrovie  non  riescono  in  Italia 
rimuneratrici.  Una  pur  ve  n'ha  le  di  cui  conseguenze  si  possono 
scongiurare  in  avvenire:  l'attuale  sistema  di  costruzione  pel  quale 
vengono  costruite  con  gli  stessi  tipi  ed  esercitate  nell'identico 
modo  tanto  le  grandi  arterie,  internazionali,  di  grande  comuni- 
cazione, quanto  (|uelle  d'interesse  locale.  Se  un  radicale  muta- 
mento non  sopravviene  in  questo  sistema,  non  sono  lungi  dal 
credere,  che  i  lamenti  cresceranno  e  le  conseguenze  che  ne  de- 
riveranno saranno  anco  più  gravi. 

Le  ferrovie  ordinarie  all'oneroso  costo  di  costruzione  fanno 
seguire  ingenti  spese  per  l'esercizio,  dalle  quali  cose  poi,  com'è 
naturale,  risultano  le  tariffe  elevate.  Se  a  queste  possono  accedere 
l'alto  commercio  e  le  grandi  industrie,  è  facile  comprendere  che 
il  piccolo  traffico-  non  ha  grande  incentivo  a  servirsene;  e  dap- 
poiché l'esperienza  ci  addimostra  che  le  ferrovie  ordinarie  non 
ritraggono  sufficiente  vita  dal  movimento  economico  del  paese, 
non  sarehbe  utile,  come  si  è  fatto  altrove,  di  promuovere  il  pic- 
colo traffico  e  portare  un'agitazione  salutare  nei  centri  sprovvisti 
di  ferrovie  con  le  costruzioni  così  dette  economiche? 

Altri  Stati,  alcuni  di  essi  in  condizioni  topografiche  anche 
migliori  delle  nostre,  dove  lo  svolgimento  della  pubblica  ricchezza 
è  in  continuo  progredimento,  ove  le  industrie  ed  i  commerci  fio- 
riscono assai  più  che  in  Italia,  hanno  già  adottato,  e  largamente, 
nn  sistema  di  costruzione  e  di  esercizio  più  economico  per  le  fer- 
revie  locali,  dopo  avere  stabilito  la  rete  di  grande  interesse  ge- 
nerale ed  internazionale,  col  sistema  delle  linee  a  grande  velocità. 

Nell'Italia,  anchp  indipendentemente  dalla  buona  prova  fatta 
altrove  delle  costruzioni  delle  ferrovie  economiche,  sembrami  di 
scorgere  tutto  il  complesso  di  quelle  circostan'_'e  necessarie  a  bene 

'  In  Inghilterra  le  linee  ferroviarie  hanno  lottato  le  une  contro  le  altre.  Da 
questa  abbondanza  di  linee  di  cui  una  parte  era  superflua  è  resultato  subito  uno 
sperpero  enorme  di  capitale  e  una  serie  di  crisi  finanziarie  delle  quali  la  Borsa 
di  Londra  serba  il  ricordo. 

2  «  La  rapidiie  des  transports  perraet  anjourd'hui  de  (ionner  au  capital  employé 
dans  le  commerce  de  détail  un  emploi  plus  fréquent  et  plus  fructueux.  Ce  pro- 
grès que  l'on  doit  aux  voies  ferrées  n'a  certainement  pus  dlt  son  dernier  mot.  » 
—  Chakles  Lavollée.  —  Les  Chemins  de  fer  depuis  la  Guerre  à  propos  de 
l'Enquéte  Parlementaire    1872. 


LE  NUOVE  COSTRUZIONI  FERROVIARIE.  361 

accogliere  una  tale  innovazione,  a  ricavarne  tutti  quei  benefici 
effetti,  i>er  i  quali  sarebbero  in  gran  parte  rimosse  le  cause  che 
Oggi  impediscono  alle  ferrovie  di  essere  rimuneratrici. 

IV. 

Una  seria  economia  nel  costo  chilometrico  di  una  ferrovia  da 
costruirsi  non  si  può  ottenere  se  non  quando  si  riduca  la  larghezza 
del  binario  adottata  dalle  ferrovie  ordinarie  per  tal  modo  che  si 
possano  sviluppare  curve  di  piccolo  raggio,  e  salire  con  forti 
pendenze. 

La  riduzione  dello  scartamento  se  ha  fatto  buona  prova  in 
altri  paesi  di  Europa,  incontra  tuttora  in  Italia  dell'opposizione, 
ed  in  ispecial  modo  per  il  fatto  inevitabile  del  trasbordo  delle 
merci.  A  tal  uopo  giova  osservare,  che  le  società  attuali  per  le 
ferrovie  ordinarie  operano  spesso  il  trasbordo  delle  merci  per 
loro  interesse,  sia  per  completare  il  carico  dei  vagoni  di  una 
data  destinazione  utilizzando  così  maggiormente  il  peso  morto 
del  veicolo,  sia  per  avere  pronti  i  vagoni  vuoti  in  previsione  di 
nuovi  carichi.  Se  così  praticano  le  società  per  le  ferrovie  ordina- 
rie, che  volendo  potrebbero  farne  a  meno,  non  sembra  fuor  di 
ragione  l'argomentare  che,  attuate  le  ferrovie  a  scarto  ridotto, 
tale  inconveniente  sarebbe  per  manifestarsi  in  grado  minore  di 
quello  che  in  oggi  si  pensa. 

Lo  scartamento  delle  ferrovie  a  sezione  ridotta  non  è  ancora 
definitivamente  stabilito,  varie  essendo  le  larghezze  del  binario 
adottate  nei  diversi  paesi;  '  però  il  tipo  va  oggidì  uniformandosi 
come  lo  dimostrarono  le  varie  locomotive-tender  per  ferrovie 
economiche  prodotte  da  Case  Inglesi,  Svizzere  e  Belghe  alla  Espo- 
sizione di  Parigi  ed  eseguite  per  lo  scartamento  di  1  metro. 

Anzi  a  convalidare  un  tal  fatto  citerò  le  parole  del  chiaris- 
simo ing.  Comm.  E,ivera.  * 

«  In  tutti  i  paesi  è  riconosciuto  che  la  larghezza  di  m.  1  è 
»  la  più  conveniente  per  le  ferrovie  d' interesse  pubblico,  e  che 
»  abbia  a  considerarsi  come  la  sezione  normale  delle  ferrovie 
»  ridotte.  > 

'  Il  signor  Baum  ingegnere  dei  ponti  e  strade  di  Francia,  nel  suo  pregiato 
lavoro  del  novembre  1818  intitolato  :  Études  sur  les  chemins  de  fer  d'ir\te'rét  locai 
trova  conveniente  limitare  la  lari^hezza  del  binario  a  mptri  0,80 

2  V.  Giornale  del  Genio  Civile  n.  10-11  pa-te  ufficiale  ottobre  e  novembre  1818 
pag.  616.  Relazione  sulle  ferrovie  aormali  e  ferrovie  a  sezione  ridotta  dal  Comm. 
lag.  A.  II.  Rivera  a  S.  E.  il  Ministro  dei  lavori  pubblici. 


362       ■  LE   NUOVE   COSTRUZIONI   FEKROVIARIE. 

In  quanto  alle  curve  ed  alle  pendenze,  il  fatto  ci  dimostra 
luminosamente  che  oggi  si  percorrono  curve  di  raggio  di  m.  18 
(linea  di  Chantilly),  e  si  superano  pendenze  fino  al  75  per  mille 
(Linea  Tavaux-Pontséricourt),  nelle  quali  la  locomotiva-tender, 
oltre  a  sé  stessa,  rimorchia  coil  facilità  un  peso  uguale  al  proprio 
con  una  velocità  di  15  chilom.  all'ora. 

Premessi  i  fatti  accennati  e  volendo  mantenere  una  velocità 
mìnima  di  20  chilometri  all'  ora,  ammettiamo,  per  ipotesi,  che  in 
Italia  s' imprenda  la  costruzione  delle  ferrovie  a  Scarto  ridotto 
e  ad  un  metro  di  larghezza  con  pendenze  del  40  o  45  per  mille, 
e  curve  di  un  raggio  minimo  di  m.  35.  Tali  ferrovie  non  possono 
costare  più  di  50  mila  lire  al  chilom.  in  media,  ed  è  quanto  mi 
accingo  a  dimostrare  succintamente. 

Le  strade  provinciali  costruite  nel  1877  costarono  allo  Stato 
L.  23,078  al   chilometro  ed  hanno  5  metri  di  larghezza. 

Per  la  nostra  ferrovia  alla  quale  non  occorrono  che  3  m.  si 
dovrebbe  verificare  una  rilevante  economia  sul  costo  delle  vie 
provinciali  :  ed  ove  si  consideri  che  tale  ferrovia  nella  maggior 
parte  dei  casi  potrà  occupare  una  parte  della  stessa  strada  pro- 
vinciale, senz'altro  lavoro  che  qualche  correzione  di  pendenza  o 
di  curva,  è  facile  il  persuadersi  che  la  spesa  chilometrica  del 
corpo  stradale  delle  ferrovie  in  questione  si  manterrebbe  molto 
al  disotto  delle  23,078  delle  strade  provinciali  suddette,  anzi  p:- 
trebbe  in  .qualche  caso  diventare  pressoché  nulla.  Però  in  previ- 
sione delle  rettifiche  probabili  tanto  nelle  curve  che  nelle  pen- 
denze, in  seguito  alle  quali  si  potrebbe  essere  obbligati  ad  ab- 
bandonare per  diversi  tratti  il  tracciato  della  strada  esistente, 
per  prudenza,  riterremo  nella  sua  integrità  la  cifra  sj^esa  realmente 
in  media  di  lire  23,000  al  chilometro,  quantunque  in  ragione  di 
larghezza  il  detto  costo  dovrebbe  diminuirsi  dei  /^. 

Stabilito  così  all'evidenza  il  costo  chilometrico  del  corpo  stra- 
dale della  nostra  ferrovia  a  scarto  ridotto,  passiamo  a  determi- 
U'^.re  quello  dell'armamento  e  del  materiale  mobile  occorrente  al- 
l'esercizio. 

Le  rotaie  d'acciaio  Bsssemer  hanno  oggi  la  preferenza  sulle 
rotaie  di  ferro;  potremo  quindi  adottare  senz'altro  un  tipo  di  ro- 
taia in  acciaio  di  20  chilogrammi  per  metro  il  cui  pre::/;^  non  sarà 
certo  superiore  a  L.  150  la  tonnellata  compreso  il  materiale  minuto.  ' 

*  In  questi  giorni  la  Società  delle  Ferrovie  Romane  ha  stipulato  un  contratta 
con  una  Casa  inglese  per  una  fornitura  di  rotaie  in  acciaio  Bessemer  al  prezzo 
di  lire  131  la  tonnellata. 


LE   NUOVE  COSTRUZIONI   FEEROVIARIE.  363 

Instituendo  il  calcolo  sopra  sei  metri  di  binario,  avremo  : 
Eotaie  vignolles  in  acciaio  con  stecche,  piastre,  viti  e 

chiodi  relativi  (20  X  6)  2  X  150 L.  36,00 

Traversine  di  quercia  N.  7  X  4,00 »  28,00 

Ghaia  2,00  X  0,40  X  6,00  X  L.  4,00 »  19.20 

Posa  dell'armamento  e  trasporto  materiale  m.6  X  IjSO    »  9,00 

Consumo  attrezzi  ed  imprevviste »  3,80 

Totale  L.    96,00 

E  per  metro  L.  16,  e  quindi  per  chilometro  L.  16,000 

Il  materiale  mobile  può  venire  stabilito  per  un  tronco  di  20 

chilometri  come  segue  ; 
N,  3  locomotive  di    12  a  14  tonnellate    di    cui  2  in 

servizio  a  L.  1,50  il  chilogramma  ^    .     .     .    .     L.    58,500 

»    8  vagoni  viaggiatori  a  L.  3,500 »    28,000 

»    4  vagoni  merci  .     .    »    »  2,500 »    10,000 

Totale  L.    96,500 
e  per  chilometro  L.  4,900. 

Aggiungendo  V'g  dell'importo  dell'armamento  e  stabilendo  un 
fondo  per  lavori  accessorii  ed  imprevvisti,  avremo  che  il  costo 
di  una  ferrovia  a  scarto  ridotto  entro  i  limiti  sopra  esposti  sarà 
di  lire  50,000  al  chilometro  così  ripartito  ; 

1.  Per  espropriazione  e  costruzione  del  corpo  stradale 
esclusa  la  massicciata L.    23,000 

2.  Armamento  sistema  Vignolle  di  acciaio  Bessemer 
di  20  chil.  con  7  traversine,  due  rotaie  con  accessorii,  com- 
presa la  massicciata  e  la  posa »    16,000 

3.  Maggiore  sviluppo  dell'armamento  e  materiale  fisso 

nelle  stazioni    .' »  3,200 

4.  Materiale  mobile,  cioè  locomotive-tender,  carrozze, 
viaggiatori  e  vagoni  merci »  4,900 

5.  Per  fabbriche  accessorie  ed  imprevisti    ...»  2,900 

Totale  costo  chilometrico  L.    50,000 

Resterebbe  ora  a  concretare  la  spesa  dell'esercizio,  in  fun- 
zione delle  resistenze  passive  dei  treni,  delle  curve  e  delle  pendenze, 
del  carico  e  della  velocità,  della  manutenzione,  illuminazione,  am- 

1  La  Società  delle  Ferrovie  Romane  ha  stipulato  un  contratto    con  una  Casa 
Belga  per  fornitura  di  locomotive  al  prezzo  medio  di  lire  1.30  il  chilogramma. 


364  LE   NUOVE  COSTRUZIONI   FERROVIARIE. 

ministrazioue,  ec,  elementi  tutti  il  cui  sviluppo  ci  porterebbe  ad 
un  dettai:flio  di  calcoli  minuziosi  non  consentiti  dalla  brevità  im- 
postami del  presente  scritto;  mi  limiterò  dunque  a  dare  il  risul- 
tato dei  calcoli  fatti  che  è  di  L.  3500  al  chilometro,  conservando 
piena  fiducia  che  all'atto  pratico  non  al)bia  la  detta  somma  a 
soffrire  aumento. 

Ora  se  è  vero  come  alcuni  affermano,  ed  in  particolare  l'in- 
gegnere Michel  dei  Ponti  e  Strade  di  Francia;  che  col  me- 
todo dei  confronti  fra  gli  abitanti  di  una  data  regione  con  altre 
consimili  e  col  numero  dei  biglietti  e  delle  tonnellate  di  merci 
arrivate  e  partite,  si  abbia  potuto  stabilire  che  in  un  paese  suffi- 
cientemente agricolo  ogni  abitante  faccia  in  media  6.  50  viaggi 
all'anno,  e  il  movimento  di  merce  per  abitante  sia  di  tonn.  2.  10, 
ne  deriverebbe  che  5830  abitanti  sparsi  lungo  un  tratto  di  ferrovia 
a  scartamento  ridotto  darebbero  un  introito  sufficiente  a  coprire 
tutte  le  spese  di  esercizio.  Ed  una  popolazione  di  10,000  abitanti, 
che  non  potrebbe  mancare  lungo  un  percorso  di  25  chilometri, 
produrrebbe  L.  6000  per  ogni  chilometro  all'anno,  la  quale  somma 
sarebbe  sufficiente  a  rendere  la  ferrovia  rimuneratrice  del  capitale 
d'impianto  che  sarebtie  così  investito  al  5  7o  con  aumento  progres- 
sivo in  ragione  dello  sviluppo  agricolo  e  industriale. 

Dalle  quali  cose  tutte  si  può  concludere  che,  attuando  le  fer- 
rovie complementari  a  scartamento  ridotto  nella  sistemazione 
generale  della  rete  italiana,  e  il  Governo  concorrendo  in  misura 
equa  alle  spese  di  costruzione,  l'industria  privata  si  offrirebbe 
spontanea  a  costruirle  e  ad  esercitarle,  liberando  le  provincie  ed 
i  comuni  dal  gravame  che  fa  loro  pesare  il  progetto  ministeriale 
a  titolo  di  concorso,  offrendo  in  pari  tempo  allo  Stato  il  modo  di 
fare  un  notevole  risparmio  sulla  spesa  totale  in  oggi  dal  progetto 
medesimo  preventivata. 

V. 

Il  lungo  indugio  posto  nel  provvedere  al  completamento  della 
rete  ferroviaria  è  forse  una  delle  maggiori  cause  per  le  quali  i 
desideri!  e  le  speranze  delle  popolazioni  non  hanno  avuto  più 
alcun  freno,  cosicché  oltre  le  ferrovie  contemplate  nei  progetti 
del  Governo  e  della  Commissione  parlamentare,  v'ha  tuttora  un 
numero  rilevante  di  domande  rimaste  inesaudite.  La  staziona- 
rietà della  crisi  industriale  e  commerciale  e  l'idea  che  le  ferrovie 
siano  di  per  sé  stesse,  nonostante  la  insufficienza  di  attività  eco- 


LE   NUOVE   COSTRUZIONI  FERROVIARIE.  365 

nomica,  come  il  tocca  e  sana  del  malessere  in  clie  si  trovano  la 
più  gran  parte  delle  popolazioni,  valgono  a  spiegarci  l'insistenza 
che  esse  pongono  nel  chiedere  allo  Stato  nuove  costruzioni  ferro- 
viarie. È  lo  stesso  motivo  pel  quale  si  comprende,  come  Governo  e 
Commissione  ^  abbiano  dovuto  in  parte  lasciarsi  vincere  da  que- 
sta insistenza,  imperocché  ninno  certamente  vorrà  nascondersi  la 
ingrata  situazione  nella  quale  si  sarebbe  messo  lo  Stato  di  fronte 
alle  Provincie  e  ai  comuni  se,  dopo  aver  lasciato  nutrire  le  più 
indeterminate  speranze,  le  avesse  ])ruscamente  trascurate  e  avesse 
pensato  soltanto  alle  costruzioni  che  lo  interessano  più  diretta- 
mente. Tutto  dunque  induce  nella  persuasione  che  le  popolazioni 
desiderano  le  ferrovie,  tenendo  conto  soltanto  dell'effetto  che  a 
queste  è  proprio,  senza  preoccuparsi  delle  condizioni  necessarie 
a  produrre  questo  effetto;  ed  è  chiaro  che  l'ottenere  tali  condi- 
zioni è  in  ultimo  il  vero  oggetto  dei  loro  bisogni  e  dei  loro  de- 
siderii.  ' 

È  qui  adunque  che  si  racchiude  il  nodo  della  questione. 
Trovare  un  modo  che  permetta  di  costruire  le  ferrovie  senza 
distrarre  i  capitali  dall'impiego  che  è  più  necessario  nelle  attuali 
condizioni  economiche  d'Italia.  A  questo  proposito  io  trovo  che 
molti  anni  or  sono,  al  momento  in  cui  la  Francia  si  preparava 
alle  sue  grandi  costruzioni  ferroviarie,  le  quali  importavano  una 
ingentissima  spesa  (1  miliardo  e  mezzo).  Michele  Chevalier  così 
opinava  sullo  storno  dei  capitali:  «  Distraire  de  propos  deliberà 
une  pareille  masse  de  fonds  des  autres  usages  auxquels  l'industrie 
applique  le  capital  national,  ce  serait  vouloir  pianger  le  pays 
dans  une  pertiirhation  commerciale  semblable  à  celle  dont  l'Amé- 
rique  à  récemment  été  la  victime.  En  fait  de  capitaux,  quoique 
ce  soit  une  matière  naturellement  douée  d'une  certaine  élasticité, 
tout  déplacement  qui  n'est  pas  ménage  est  da.ngereux.  Là  aussi 
se  vérifie  cette  loi  de  la  mécanique  rationnelle  que  tout  choc 
brusque  occasionne  une  porte  de  forces  vives.  »■ 

Per  le  condizioni  dell'  Italia  in  generale,  e  quelle  dei  Comuni 
e  delle  Provincie  in  particolare,  il  modo  per  costruire  le  ferrovie 


1  «  Coniraeat  obtenir  le  vote  de  la  Chambre  des  députés,  en  faveur  des  che- 
mins  de  fer,  si  l'on  ne  fait  jouir  à  peu  près  simulcanément  de  la  cólérité  mrtgique 
qui  les  distingue,  toutes  les  grandes  divisions  du  tei-ritoire,  le  centre  et  Ics  extré- 
mités,  l'Est  et  l'Ouest,  le  Nord  et  le  Sud  ?  »  —  M.  C.  Chemin  de  fer  en  France,  1838. 

*  Michel  Chevalier:  Du  re'seau  des  chemins  de  fer  tei  qiiil  pourrait  étrc 
étdbli  aujourd'hui  en  France.  Mérnoires  à  l'Académie  des  scieiices  morales  et  po- 
litiques,  1838. 


366  LE  NUOVE   COSTRUZIONI   FERROVIARIE. 

senza  distrazioni  dannose  di  capitali  dalle  industrie  e  dai  com- 
merci ritengo  non  si  possa  ottenere  che  adottando  il  doppio 
sistema  di  costruzione,  e  cioè  costruire  a  sistema  ordinario  tutte 
quelle  linee  ohe  sono  indispensabili  al  completamento  della  rete 
nel  concetto  degli  interessi  internazionali  e  degli  interessi  gene- 
rali dello  Stato  ;  in  quanto  agli  interessi  locali,  entro  i  quali  sta, 
io  direi  quasi,  nascosto  il  principio  di  quel  maggiore  incremento 
economico  che  si  desidera,  e  che  non  può  essere  prodotto  altri- 
menti se  non  per  effetto  di  un  moto  bene  ordinato  di  una  atti- 
vità a  cui  possano  prendere  parte  tutte  le  forze  possibili  della 
natura  e  dell'uomo,  per  questi  interessi  locali,  io  dico,  voglionsi 
piuttosto  le  ferrovie  economiche. 

Completata  adunque  la  rete  generale  a  sistema  ordinario  ed  al- 
lacciate le  linee  principali  con  numerose  ferrovie  complementari  ed 
economiche,  si  avrà  un  complesso  di  locomozione  atto  a  tener  vivo 
il  calore  della  vita  industriale  in  tutta  la  nazione,  in  quella- stessa 
guisa  che  il  calore  della  vita  fisica  è  dato  dalle  grandi  arterie  pei 
piccoli  vasi,  a  tutte  le  parti  del  corpo  umano.  E  così  distribuita  in 
modo  più  assimilato  alle  condizioni  economiche  del  paese,  la  in- 
dustria locomotrice,  mentre  per  effetto  della  stessa  richiesta  di- 
verrà oggetto  di  produttiva  speculazione,  potrà  anche  trovare 
numerosi  capitali  esteri  che  vi  si  impieghino  ;  e  più  facilmente 
i  capitali  indigeni  potranno  rimanere  impiegati  nell'  agricoltura 
e  nella  industria  nostra,  perchè,  se  altrove  è  una  speculazione, 
in  Italia  l'impiego  dei  capitali  alla  produzione  di  materie  prime  è 
tale  necessità,  da  considerarsi  quasi  una  seconda  natura. 

Mi  sia  lecito  una  volta  ancora  invocare  l'autorità  dello  Cheva- 
lier.  Egli,  che  vedeva  come  le  condizioni  economiche  della  Francia 
non  permettessero  di  por  mano  ad  una  estesa  costruzione  di  fer- 
rovie, propugnò  l'idea  di  costruire  soltanto  le  grandi  linee  d'in- 
teresse generale,  e  per  gli  interessi  locali  di  far  servire  alle  co- 
municazioni i  fiumi  ed  i  canali.  Era  l'anno  1838;  se  a  quell'epoca 
si  fossero  già  conosciute  le  ferrovie  economiche,  può  credersi  che 
r  illustre  economista  ne  avrebbe  consigliata  la  costruzione  per  gli 
interessi  locali. 

Oggi  la  questione  delle  nuove  costruzioni  ferroviarie  sta  di- 
nanzi alla  Camera. 

Io  confido  che  la  Rappresentanza  Nazionale  ispirandosi  ai 
bisogni  reali  del  paese,  ed  elevandosi  al  di  sopra  degli  interessi 
locali,  che  sovente  offuscano  la  serenità  del  pensiero  e  l'impar- 
zialità dei   giudizi,  saprà,  approvate  le  grandi  linee  più  urgenti 


LE   NUOVE  COSTRUZIONI  FERROVIARIE.  367 

proposte  nel  progetto  di  legge,  conciliare  per  tutte  le  altre  i  voti 
delle  provinole  colle  condizioni  economiche  e  finanziarie  di  esse. 
A  questo  intento  nulla  può  più  efficacemente  contribuire  del- 
l'accettare, come  abbiamo  dimostrato,  il  sistema  delle  ferro- 
vie economiche,  insegnatoci  dalla  scienza  moderna,  e  dall'espe- 
rienza di  quei  popoli  che  ci  hanno  preceduto  nel  cammino  della 
civiltà. 


Alfonso  Audinot. 


368 


Sicuri  di  lare  cosa  gradita  ai  nostri  lettori,  diamo  tradotta  dall'illu- 
stre G.  B.  Giorgini  la  seguente  elegia  del  prof.  Domenico  Gnoli  puijbli- 
cata  già  nell'  Illustrazione  italiana. 


IL  PIIIMO  CAPELLO  BIANCO. 


Davvero  se'  bianco  ?  e  t'ho  dal  capo  divelto 

Dal  nero  mio  capo?  se' veramente  mio? 
Ahi,  sento  una  nova  stanchezza,  e  come  di  piombo 

Cade  sugli  antichi  libri  la  fronte  grave. 
All'ilare  festa  la  prima  lampada  è  spenta. 

La  prima;  poi  l'altre  mancano  ad  una  ad  una: 
E  dove  formose  volgean  le  vergini  i  balli, 

Empie  l'atra  notte  le  fragorose  sale. 
Ahi,  la  prima  foglia  nel  denso  bosco  virente 

Ingiallita  al  freddo  soffio  d'autuinio  cade; 
Poi  segue  una  pioggia  di  gialle  foglie,  e  distende 

L'albero  pel  morto  aere  gli  stecchi  nudi. 
Addio,  troppo  cari  fantasmi  !  11  bianco  capello 

E  l'anel  che  tutti  fuga  gl'incantesimi. 
Stamane  mi  scosse  la  Giovinezza  dal  sonno, 

E  aprendo  le  imposte.  Vivi,  mi  disse,  e  spera. 
E  già  questa  sera  la  sconsolata  Vecchiezza 

Me  al  freddo  letto,  nova  compagna,  guida: 
E  nella  lucerna  soffiando.  Dormi,  mi  dice, 

Avvezzati  al  buio  cui  nessun'alba  segue. 


369 


AD  CAOTM  CAPILLUM. 


Fallor  an  hic  meus  est,  nigris  e  crinibus  album, 

Unco  quem  nuper  pollice  diripui  ? 
Deserit  heu  notus  vigor  artus:  plumbea  tamquam 

In  veteres  libros  frons  mihi  fessa  cadit. 
Festis  prima  jocis  extincta  est  lampas  :  ad  unara 

Heu  post  hanc  omnes  ordine  deficiunt: 
Et  qua  ducebat  virgo  formosa  choreas, 

Nox  late  vacuas  occupat  atra  domos. 
Jam  folium,  primis  silvara  torquentibus  Euris, 

Decidit  autumni  frigore  pallidulum: 
Turbine  post  alia  heu  volitant,  exutaque  tendit 

Arbos  ad  pigrum  bracliia  sicca  jovera. 
Aeternum  mihi  cara  nimis  simulacra  valete  ! 

Annulus  hic  magicae  dissipat  artis  opus. 
Me  placido  excussit  somno,  reseransque  fenestram 

«  Vive  et  spera  >•>  inquit  mane  Juventa  mihi. 
Jamque  meis  hospes  succedens  vespere  tectis, 

Ostendit  gelidum  moesta  Senecta  torum. 
Lumen  dehinc  afflans  «  Soranum  disce,  inquit,  et  umbras 

Quas  remeante  nitens  non  fugat  bora  die.  » 

G.   B.   GlORGINI. 


RASSEGNA  LETTERARIA 


Teodora,  l'i  A.  Ricci.  —  Firenze,  Tipografia  Successori  Le  Monnier. 


Mentre  la  pioggia  batteva  i  vetri  ilelle  imposte  con  eguale  cadenza  e 
il  vento  strideva  giù  per  la  cappa  del  caminetto,  davanti  al  quale  io  me 
ne  stavo  sdraiato  su  d'un  seggiolone  a  contemplare  i  tizzoni  che  ardevano 
divampando  e  cigolando  in  mille  guise  ;  una  grande  uggia  m'aveva  assalito 
lo  spirito, e  dicevo  trame  e  me:  la  leggerò  o  non  la  leggerò  questa  Teodora? 
un  romanzo  italiano!  oibò!  sarà  una  dello  solite  novelle  che  si  scrivono  in 
Italia  con  titolo  di  romanzo,  perchè  si  dice  che  l'Italia  è  una  nazione  fanciulla, 
e  ai  fanciulli  si  raccontano  a  sollazzo  i  fattarelli;  si  vuole  tenere  in  loro  desta 
la  fantasia,  mentre  il  cuore  e  la  mente  stanno  li  immoti  come  a  guardare  da 
una  finestra  lo  sfilare  dei  soldati  o  delle  maschere  :  sarà,  in  somma,  una 
delle  solite  tisi  di  cuore,  nelle  quali  forse  l'autore  ci  si  ritrova, ma  chi  legge 
cerca  e  non  trova  nulla,  né  meno  il  medico. 

Così  dicevo  a  me  stesso,  sogghignando  al  libro  ;  ma  poi  il  nome  del- 
l'amico che  stava  accanto  al  nome  del  romanzo,  vinse  questa  stanchezza  del 
mio  animo,  e  mi  misi  a  leggei'e. 

Leggevo;  e  pian  piano  i  fogli  cominciarono  a  voltarsi  nello  mie  dita 
pili  e  più  veloci,  e  non  sentivo  più  la  pioggia  nei  vetri,  né  m'accorgevo  che 
il  fuoco  s' andava  smorzando  :  tutto  il  mio  animo  era  a  Teodora,  quella 
donna  che  sulle  rovine  dei  sentimenti  puri  e  nobili  che  la  sua  bellissima 
persona  suscitava  negli  animi  generosi  ed  elevati  de'  suoi  adoratori,  e  sulla 
bassa  e  vile  passione  di  un  vecchio  perverso,  edificava  e  un  trono  d'oro  alla 
sua  cupidigia  e  un  letto  di  porpora  alla  sola  Deità,  alla  quale  credesse:  il 
culto  e  il  piacere  di  sé  stessa.  Da  Teodora  a  Maurizio,  da  Teodora  alCornaro, 
da  Teodora  a  Gisella,  che  mondi,  che  orizzonti,  che  influito:  quanto  ne  corre 
da  un  baratro  all'azzurro  de'  cieli,  dal  cupo  fondo  di  un  astro  alla  lucente 
atmosfera  ! 

E  pian  piano  leggendo,  io  riandavo  sulla  mia  vita,  sui  ricordi  del  pas- 


RASSEGNA  LETTERARIA.  371 

sato,  sulle  impressioni  del  presente;  e  il  romanzo  si  faceva  vivente,  e  il  secolo 
nostro  così  com'era,  nel  quale  ogni  sentimento  e  ogni  pensiero  si  riflet- 
tono nella  coscienza  matura  come  in  uno  specchio  terso,  appariva  all'oc- 
chio della  mia  mente.  E  tanto  era  viva  e  potente  questa  impressione,  eh'  io 
m'andavo  dicendo:  ma  che  avessi  conosciuta  questa  Teodora;  fossi  stato 
l'amico  di  Cipriano  Cornaro;  amassi,  per  caso,  anch'io  una  Gisella, 
quella  Gisella,  dall'  amore  puro  e  fedele,  senza  gelosie  e  senza  rancori 
sicura  di  sé,  ma  rassegnata  a  morire  amando  e  incompresa  ?  E  m'adiravo 
e  gioivo  e  speravo  e  credevo  e  amavo  con  loro  ! 

Ma  questa  è  la  virtù  di  chi  intrapende  oggi  a  scrivere  sulle  orme  del 
Feuillet  e  de'  grandi  romanzieri  moderni:  egli  diventa  pittore,  scultore,  poeta 
del  suo  tempo,  nel  quale  la  forma  eccellente  della  letteratura  è  il  romanzo, 
cioè  la  società  moderna  medesima.  Rotte  dalla  rivoluzione  francese  con 
grande  fracasso  e  strage  d'uomini  le  barriere  delle  caste,  le  classi  si  sono  mi- 
schiate, i  ceti  posticci  sono  caduti  coi  pregiudizi  e  le  astrazioni  vuote,  e  la 
società  dei  salotti  è  diventata  realmente  l' immagine  più  sincera  dei  senti- 
menti del  tempo,  poiché  tutto  il  sentire  delicato  vi  si  è  liberamente  concen- 
trato; e  nel  bene  o  nel  male  tutto  vi  si  è  venuto  raffinando  e  assottigliando 
con  l'educazione  e  la  coltura  di  tutto  e  di  tutti  e  lo  studio  di  sé  stessi  e 
degli  altri. 

Nel  XYIII  secolo  un  salotto  era  forse  la  cattedra,  dove  un  Voltaire  o  un 
Rousseau  raccontavano  le  meraviglie  della  nuova  speculazione;  ma  la  na- 
tura coperta  di  belletto  e  di  trine  non  s'agitava  pe'  moti  del  core;  e  l'eco 
più  viva  se  ne  ripercoteva  lontanamente  nel  tugurio  umile  e  derelitto.  Che 
Iddio,  che  l'anima  immortale  fosseroo  no,  era  l'ignoto  d'un  problema  d'algebra, 
che  tra  una  barzelletta  e  l'altra  faceva  pensare  questo  o  quello;  ma  non  il 
misterioso  segreto  che  nel  XIX  secolo  rode  più  il  cuore  che  non  faccia  la- 
vorare la  mente.  Quelli  erano  gaudenti  che  a  volte  pensavano;  questi  del 
secolo  nostro  sono  pensatori  che  amano  ed  odiano,  sperano  o  disperano, 
perchè  il  dubbio  della  mente  è  diventato  il  sospetto  del  cuore.  Il  salotto 
del  XMII  secolo  era  un  teatro;  quello  del  .secolo  XIX  è  diventato  un  campo 
d'azione. 

Tra  i  due  è  corso  una  tragedia  viva  e  non  rappresentata  :  il  93  !  Di 
qui  il.  nuovo  romanzo. 

Il  conte  di  Camors  e  Sybille  sono  l'uomo  e  la  donna  che  il  secolo 
frutta  ;  sono  i  tipi  che  dovevano  nascere  dopo  l'epopea  del  medio-evo  e  il 
desolante  dubbio  che  l'ha  seguito  nel  pensiero  umano,  venutosi  a  cono- 
scere più  addentro  e  meglio  in  relazione  col  mondo  fisico  che  lo  riveste 
tutto,  e  del  quale  egli  si  chiede  pauroso  se  è  l'effetto  o  la  causa. 

Il  moderno  Atlante  cade  schiacciato  sotto  la  mole  che  l'altro  Atlante 
de'  nostri  padri  aniichi  teneva  baldanzoso  sugli  omeri  suoi! 

Il  romanzo,  ultima  espressione  della  fantasia  scossa  da  una  così  cruda 
riflessione,  doveva  abbandonare  e  abbandonò  il   mondo   leggendario  delle 


372  KASSEGNA  LETTERARIA. 

azioni  esteriori  e  rientrò  nell'ignoto  della  coscienza.  Se  dallo  studio  del 
filosofo  e  del  matematico  l'uomo  nuovo  veniva  fuori  pieno  di  titubanza  e 
scettico  ;  il  cuore  e  la  fantasia  in  lotta  con  quella  reagivano  ;  e  nel  con- 
trasto del  pensiero  e  del  sentimento,  del  cuore  e  della  mente,  specchio  vi- 
vente dell'antitesi,  sorgeva  il  romanzo  moderno.  Il  Camors  non  credeva; 
ma  amò  ! 

In  Italia  ragioni  storiche,  che  non  saranno  qui  da  me  analizzate  e  che 
pure  trovano  un  raffronto  nel  torpore  che  ha  invaso  da  più  e  più  anni  le 
menti,  ci  dettero  il  romanzo  storico  per  eccellenza  col  Manzoni,  ma  non  ci 
hanno  dato  il  romanzo  intimo,  la  storia  della  coscienza,  il  romanzo  mo- 
derno. 

Si  voleva  lare  la  pitiura  della  società;  ma  o  quelli  che  v'andavano 
erano  ignari  o  quelli  che  avevano  mente  e  cuore  non  v'  andavano  ;  così  che, 
a  cagione  delle  condizioni  del  tempo  che  tenevano  divise  regioni  da  regioni, 
ceti  da  ceti,  e  segregavano  gli  uomini  colti  tra  i  fossi  e  le  mura  delle  bi- 
blioteche, baluardi  del  sapere,  ma  non  campo  della  operosità  che  sola  fa 
scaturire  la  vera  passione;  il  romanzo  era  di  là  da  venire,  com'era  di  là 
da  venire  la  società  italiana. 

Come  rappresentare  ciò  che  non  esisteva  ?  come  l'uomo  del  secolo  po- 
teva muoversi  e  pensare  ed  operare,  quando  ad  ogni  pie  sospinto,  e  la 
sua  azione  e  il  suo  pensiero  si  trovavano  legati,  intralciati,  compressi  ? 
E  non  essendo  libertà,  nasceva  l'albero  sterile  non  fecondo  di  frutti  belli 
alla  vista  e  al  sapore  ;  erano  tisici  nudriti  e  allevati  tra  le  pareti  di  mura 
cittadine,  non  uomini  robusti  e  vegeti  avvezzi  a  correre  i  campi  di  libere 
terre  :  la  mente  opprimeva  il  cuore,  il  dubbio  vinceva  il  sentimento,  non 
c'era  lotta,  ma  il  torpore  del  cinismo. 

Fra  l'Italia  antica  e  la  nuova  in  luogo  del  03  corse  il  00;  in  luogo 
del  sangue  che  ritempra,  le  dimostrazioni  che   snervano. 

Tale  essendo  la  vita  letteraria  degli  ultimi  anni  in  Italia,  non  è  a  dire 
con  quanto  stupore  io  mi  trovassi  al  fine  di  Teodora  agitato  da  mille  pen- 
sieri diversi,  che  mi  rivelavano  l'alba  d'una  nuova  èra  intellettuale  :  quella, 
nella  quale  la  società  moderna  italiana,  rifatti  e  rifusi,  per  dir  così,  gli 
elementi  della  sua  nuova  unità,  cominciasse  ad  avere  di  sé  stessa  una 
coscienza  adeguata,  e  dalla  fanciullezza  posticcia  che  le  volevano  imporre 
i  nostri  dottrinarli  economisti,  tornasse  alla  maturità  che  spetta  in  I^uropa 
alla  più  vecchia  delle  nazioni;  vecchia  pel  tempo,  vecchia  per  la  storia 
del  suo  pensiero,  che  compendia  la  vita  intellettuale  di  tutto  il  mondo. 

Io  ho  dunque  salutato  in  Teodora,  più  che  una  opera  d'arte  di  bella 
forma  e  un  dramma  che  tiene  l'animo  sospeso  sino  in  fondo,  uno  dei  primi 
romanzi  moderni  scritti  in  Italia  con   caratteri   italiani  e  lingua  italiana. 

Ma  che  cos'è  Teodora 'r  quale  l'intreccio? 

Eccone  un  brevissimo  schema. 

La  prima  parte  ha  luogo  in  Napoli,    sulle   sponde  [di  quel  bel  golfo, 


EASSEGNA  LETTERARIA.  373 

dove  la  natura  si  fa  quasi  eterea  tanto  clie  l'A.  non  sapendo  come  dipin- 
gerla, esclama  :  «  che  un  bacio  del  Creatore  al  Creato  non  si  stemperò 
nemmeno  sulla  tavolozza  del  Sanzio.  »  Quivi,  dunque,  viveva  Teodora, 
figliuola  del  marchese  di  Collaprico,  stato  derubato  di  tutto  il  suo  in  un 
fallimento  apparecchiato  ad  arte  dal  suo  socio,  uà  tale  Remolli,  che  col 
frutto  del  furto  arricchisce  in  America,  e  poi  torna  in  patria  milionario 
e  amico  della  casa  ch'egli  aveva  spogliata.  La  bellissima  Teodora  aveva 
intanto  fatto  nascere  un  santo  e  purissimo  culto  nel  cuore  di  Maurizio,  che 
da  misero  orfano  di  poveri  pescatori  per  la  protezione  d'un  mecenate  e  il 
fuoco  dell'arte  che  ne  scaldava  le  vene,  era  salito  a  pittore  di  grido.  Ma 
sia  perchè,  come  dice  il  Leopardi: 

«  ...  Ciò    che    inspira   ai  generosi    amanti 
La  sua  stessa  beltà,  donna  non  pensa, 
Né  comprender   potria  ;  » 

sia,  e  più  di  tutto,  perchè  l'animo  di  lei  non  si  commoveva  che  per  gì'  im- 
pulsi della  ambizione  e  della  cupidigia,  Teodora  sacriflca  l'amore  alla  sete 
dell'apparire,  la  gioventù  e  i  suoi  affetti  alle  voglie  della  ricchezza  e  del 
lusso,  sogno  costante  delle  sue  notti,  e  uccide  nel  giovane  Maurizio  la  fede 
nata  dall'arte  e  dall'amore,  per  vendersi  al  vecchio  Remolli,  che  per  la 
vista  abbagliante  dell'oro  nascondeva  l'animo  suo  turpe  e  affascinava 
l'altrui  vista  :  spettacolo  d'ogni  tempo  e  d'ogni  giorno  !  Il  giovane  Maurizio 
impazzisce  e  Teodora  sposa  Remolli. 

In  questa  prima  parte  tu  assisti  alla  notte  buia  che  man  mano  si 
stende  sull'animo  del  giovane  per  opera  di  quella  stessa  donna  ch'era  per 
lui  il  sole  dun  giorno  splendidissimo  ;  e  in  quella  donna,  che  rischiarava 
di  tanta  luce  l'altrui  fantasia,  tu  veili  crescere  e  dilatarsi  le  tenebre  di  un 
egoismo  senza  confine  che  si  confondono  poi  con  le  voglie  d'un  uomo  cre- 
sciuto con  l'inganno  del  padre  di  lei.  Il  tessuto,  direi,  psicologico  del  fatto 
è  poi  avvivato  qua  e  là  da  scene  pittoresche  quanto  mai  di  popolani  che, 
con  1'  intuizione  innata  della  coscienza  retta,  si  fanno  una  ragione  de'tatti, 
ignorata  dagli  altri,  e  pigliano  le  parti  e  consolano  i  derelitti  della  sorte. 
Sono  quadretti  di  genere;  e  ti  pare  di  scorgere  quegli  acquarelli  a  tinte 
calde,  dove  si  dipinge  o  un  corricolo  o  si  vedono  i  pescatori  cenare  sulla 
spiaggia  del  mare  dopo  d'aver  tirata  la  rete. 

Nella  seconda  parta,  Teodora,  riavutasi  alquanto  dall'ebbrezza  che 
l'aveva  invasa  nel  sentirsi  da  un  povero  tugurio  sollevata  a  un  sontuoso 
palazzo,  comincia  a  cercare  sé  stessa  ;  e  la  noia  profonda  dell'  isolamento 
che  ella  da  sé  aveva  fatto  nel  suo  animo,  la  prende  a  un  tratto. 

Ma  chi  ha  distrutto,  non  riedifica  in  quel  mondo  che  vive  dentro 
dell'uomo:  è  legge  inesorabile.  Dentro  di  sé  ella  aveva  fatto  il  vuoto; 
necessariamente  doveva  cercare  fuori  delle  gioie  intime  del  sentimento  lo 
sfogo  d'una  natura  bollente  e  insaziabile. 

"VoL.  XIV,  Serie  11—15  Marzo  1819.  23 


374  RASSEGNA   LETTERARIA. 

Eccola  a  S.  Moritz,  lontana  dal  Remolli,  del  quale  ella  si  è  momentanea- 
mente liberata;  ed  ecco  altresì  a  S.  Moritz  una  contessa  Duppeldorf  con  la 
sua  figliuola  Gisella,  accompagnate  da  un  principe  Gabrianine  amante  del- 
l'una e  padre  ignorato  dell'altra.  Con  questi  all'  Hotel  Badrutt  si  trova 
una  sera  Teoilora,  la  quale  ebbe  allora  a  conoscere  Cipriano  Cornaro,  di 
antica  famiglia  patrizia  veneziana,  amato  senza  saperlo  da  Gisella  e  amante, 
da  quella  sera,  di  Teodora.  Durante  ([uesta  parte  del  romanzo  la  figura  di 
Gisella  è  come  una  angelica  visione  che  apparisce  e  scomparisce  sulla 
scena,  dove  lottano  le  passioni  violente  del  Cornaro,  affascinato  e  fatto 
schiavo  dalle  arti  e  seduzioni  di  Teodora;  mentre  il  ^iabrianine  vuole  salvare 
l'amico  Cornaro  dalla  inevitabile  rovina  della  nobiltà  e  sincerità  de'  suoi 
sentimenti  che  non  potevano  essere  né  compresi  uè  contraccambiati  da  una 
Teodora;  e  vorrebbe  anzi  destinarli  alla  sua  tìgliuola  Gisella  che  nel  tacito 
suo  amore  si  va  spegnendo  ed  è  vicina  a  morirne,  se  non  la  sostenesse  la 
lontana  speranza  che  il  Gabrianine  tiene  in  lei  viva. 

Intanto  il  fuoco  latente  prorompe,  e  il  Cornaro  dichiara  l' amor  suo  a 
Teodora;  ma  alla  melodia  che  vien  fuori  dall'animo  di  lui  non  risponde 
la  lira  rotta  di  Teodora,  che  crede  di  salire  con  esso  nel  cielo  del  senti- 
mento additandogli  un'alcova  e  i  piaceri  della  Venere  girovaga.  Il  Cornaro 
incosciente  rimane  perplesso  dinanzi  alla  porta  socchiusa,  invito  ch'egli  era 
lontano  ilallo  sperare,  e  Teodora  delusa  nella  espettativa  rompe  con  lui. 
E  mentre  l'una  di  repente  porta  sul  lago  di  Como  il  suo  disinganno, 
l'altro  pensa  al  suicidio,  l'oblio  senza  speranza,  la  notte  senza  alba,  il  nulla 
assoluto,  nel  quale  si  abbandona  l'uomo  che  nella  vita  ha  cercato  il  bene 
e  trovato  il  male,  ha  amato  ed  è  stato  disamato:  contrasto  dell'ideale  che 
abbiamo  in  noi,  il  quale  violentemente  si  urta  e  si  spezza  con  la  realtà 
che  è  fuori  di  noi:  contrasto,  nel  quale  le  anime  elette  a  volt^  sog- 
giacciono. 

Ma  l'opera  soccorritrice  dell'amico  Io  salva  e  richiama  a  sé  stesso, 
cioè  alla  lotta,  per  la  quale  l'uomo  a  traverso  i  secoli  è  destinato  a  vin- 
cere contro  so  stesso  e  far  trionfare  l'iflea  sulla  materia. 

Intanto  il  Gabrianine,  messo  il  Cornaro  la  passione  del  quale  né  meno  il 
tentato  suicidio  potò  domare)  in  relazione  a  Parigi  con  un  tale  Rutenef  che 
ha  comune  con  lui  il  pensiero  di  una  grande  opera  commerciale  nell'Au- 
stralia, viene  sul  lago  di  Como,  e  fattosi  l'amico  di  Teodora,  ne  diventa 
poi  l'amante,  per  uno  strano  avvicendarsi  di  casi,  in  parte  da  lui  appa- 
recchiali e  in  parte  più  forti  d'ogni  volere  ;  soggetto  di  dialoghi  e  descri- 
zioni dell'A.  che  fanno  palpitare  l'animo  di  chi  legge,  vedendo  alle  prese 
la  potenza  e  l'arte  di  una  donna  bellissima,  ma  senza  cuore,  e  lo  studio  e 
l'affetto  d'un  uomo  ilominato  dal  pensiero  dell'amore  paterno. 

Aveva  indovinato  qual  donna  ella  fosse  e  con  l'armi  sue  proprie  la 
voleva  abbattere  e  ricondurre  il  cuore  di  Cipriano  a  Gisella  Ma  in  (luei 
giorni  passati  sul  lago  di  Como  accanto  a  quella  Teodora,  che   gli   confi- 


RASSEGNA  LETTERARIA.  375 

dava  il  suo  ribrezzo  di  dover  convivere  col  ladro  di  suo  padre,  dappoi- 
ché questi  era  venuto  a  sapere  tardi  il  fatto  e  ingiungeva  a  sua  figlia 
di  separarsi  da  quello  o  l'avrebbe  maledetta;  quante  volte  egli,  il  fedele 
Gabrianlne,  pensò  di  aver  da  fare  con  un  povero  cuoi'e  esulcerato  e  ingan- 
nato, come  l'A.  si  domanda  a  volte:  Teodora  ha  amato  mai?  Per  perfido 
che  sia  l'animo  umano,  degli  sprazzi  di  luce  rompono  qua  e  là  le  tenebre  e 
l'ultimo  atto  d'una  vita  buona  o  malvagia  non  è  che  la  soluzione  d'una 
catena  di  dubbi,  della  quale  l'ultima  maglia  dice  bene  o  male  secondo  che 
questo   0  quello   siede  signorilmente  sulla  vetta  del  lungo  cammino. 

Però,  il  bisogno  del  lusso  potè  più  che  l'amore  dell'  amante,  più  che 
il  rispetto  al  padre,  e  Teodora  china  l'altera  fronte  sotto  lo  sguardo  bieco 
del  marito  furfante.  E  allora  il  Gabrianine  non  ha  più  esitanze,  e,  prima  di 
separarsi,  persuade  Teodora  di  accettare  in  deposito  un  finimento  di  sme- 
raldi, che  poi  diventa  il  prezzo  del  loro  fuggitivo  amore. 

Difatti,  eccoci  alla  terza  parte;  a  Nizza. 

Qui  il  Gabrianine,  titubante  e  incerto  dell'avvenire  né  sapendo  come 
dipanare  a'  suoi  fini  la  matassa  filata  sul  lago  di  Como,  si  reca  a  trovare 
Teodora,  la  quale  é  invasa  da  quell'altra  passione  che  d'un  angelo  farebbe 
della  donna  una  vipera:  la  passione  del  giuoco.  Teodora  butta  sul  tap- 
peto verde  l'oro  che  aveva  ottenuto  da  suo  marito  per  ricomprare  il  fini- 
mento di  smeraldi  ch'ella  non  aveva  mai  restituito,  e  non  sapendosene 
staccare  accetta  l'offerta  del  Gabrianine  di  diventare  sua  debitrice  a  tempo 
indeterminato. 

Teodora  era  nelle  mani  del  Gabrianine,  il  suo  lato  era  scritto. 

E  qui  si  accelera  la  soluzione  del  romanzo.  Il  Gabrianine  a  un  tratto 
racconta  a  Teodora  il  lungo  e  costante  amore  del  Cornaro,  la  disperazione, 
il  tentato  suicidio  di  lui;  e  Teodora  che  s'era  creduta  umiliata  dall'  esi- 
tanza del  giovane  a  S  Moritz,  si  ridesta  tutta  nel  pensiero  del  suo  trionfo 
e  riarde  delle  antiche  brame  che  ci^edette  non  corrisposte.  E  la  bellissima 
donna  corre  a  Venezia  ad  abbandonarsi  nelle  braccia  dell'  amante  ;  impe- 
rocché anche  la  donna  meno  capace  di  amore  si  compiace  dell'amore  più 
nobile  del  suo  amante,  che  mette  tutto  l'animo  ai  piedi  di  chi  non  gli  offre 
che  una  persona  spoglia  d' ogni  affetto  ideale.  Ma,  spettro  della  sua  co- 
scienza, comparisce  il  Gabrianine. 

In  un'antica  stanza  del  vecchio  palazzo  dei  Cornaro,  dove  pareva  che 
nella  notte  il  silenzio  del  luogo  dovesse,  al  cospetto  delle  mura  auguste, 
farne  agitare  ogni  ricordo,  il  Gabrianine  si  presenta  e  chiede  a  Teodora  con 
che  dritto  la  donna  dell'amore  prezzolato,  del  quale  ella  portava  refl3gie 
sul  capo,  fruisse  dell'amore  purissimo  d'un  Cornaro.  Quella  vista  e  quelle 
parole  incutono  tale  terrore  in  Teodora  ch'ella  fugge,  e  perseguitata  dal 
Cornaro  che  riscosso  dal  lungo  sonno  vuole  darle  l'oro  che  fu  l'unico  Dio 
di  quella  vita  disamorata,  inconscia  di  sé,  cade  nella  Laguna,  nel  punto 
che  voleva  saltare  su  d'una  gondola.  Allora  il  Gabrianine  ritiene  il  Cornaro 


376  RASSEGNA   LETTERARIA. 

che  si  voleva  precipitare  in  suo  aiuto,  con  queste  parole,  compendio  del 

libro  : 

«  Cipriano,  raccogli  l'oro  che  offi-isti  a  Teodora,  e  gittalo  tra  l'acque 
alla  ventura.  Esso  sia  come  il  flore  più  gradito  che  si  possa  spargere 
sulla  tomba  di  una  donna  malvagia.  La  sua  morte  è  la  tua  vita.  » 

Questo  lo  schema  di  Teodora;  è  senza  pecche?  è  perfetto?  tutti  i  ca- 
ratteri son  quali  dovrebbero  essere? 

Io  dico  che  son  quali  l'A.  voleva  che  fossero;  e  che  di  Teodoro  e  Gi- 
selle  e  Cornare  io,  per  conto  mio,  ne  ho  incontrati  e  conosciuti,  se  non  tali 
e  quali,  poiché  quelli  sono  tipi,  certo  in  gran  parte  somiglianti  E  viva 
Iddio  che  in  questi  opposti  ci  fa  navigare  tr^^  la  speranza  e  il  disinganno, 
tra  la  lede  e  il  dubbio,  tra  il  piacere  e  il  dolore;  perchè  se  non  incon- 
trassimo gli  uni,  saremmo  incapaci  d'amare  gli  altri,  e  dalla  melma  che 
ci  copre  i  piedi,  fissare  gli  occhi  alla  volta  stellata  del  cielo! 

E  quanto  alle  pecche,  scagli  una  pietra  chi  si  sente  tale  da  scrivere 
le  scene  finissime  tra  Teodora  e  il  Gabrianine  sul  lago  di  Como  e  a  Nizza, 
e  tra  il  Gabrianine  e  il  Cornaro  a  S.  Moritz;  gl'impulsi  momentanei 
di  Teodora  verso  il  bene  che  l' istinto  predominante  vien  tosto  a  soffo- 
care; il  vuoto  e  la  miseria  di  quell'animo,  che  nell'amore  di  sé  non 
trovò  mai  posa,  e  all'amore  puro  e  nobile  volle  fare  inganno  con  la  sen- 
sualità più  brutale  Ma  allora,  nel  cozzare  dei  due  mondi,  una  vittima  vi 
doveva  essere:  o  Teodora  o  Gisella;  e  in  quell'attimo  die  fu  il  suggello 
della  vita  del  giovane  fòrte  e  onesto,  la  luce  serena  dell'ideale  spunta  sul- 
r  orizzonte  del  Cornaro,  e  irraggia  quella  cupa  parte  della  Laguna,  dove 
annega  con  una  borsa  la  vile  meretrice. 

Tutto  il  romanzo  si  compendia,  si  aggruppa,  s'incentra  in  quel  mo- 
mento; e  questa  è  la  loile  maggiore  del  libro  che  trova  la  sua  sintesi  nel 
fatto  che  lo  termina. 

Io  dico  :  scriva  chi  sa  meglio  e  lo  loderò  ;  ma  quanto  a  me,  scor- 
gendo tanti  pregi  in  quel  libro,  e  quello  singolare  d'un  nuovo  indirizzo  dato 
alla  letteratura  romantica  italiana,  epilogo  il  mio  pensiero  in  queste  pa- 
role: il  Ricci  é  artista;  e  il  suo  romanzo  è  il  romanzo  del  tempo. 

,1.  De  Martino. 


RASSEGNA  POLITICA 


I  radicali  in  Francia.  —  Strana  caduta  dei  ministro  Marcère.  —  La  proposta  di 
accusa  contro  i  ministri  del  16  maggio.  —  Quella  di  trasferire  le  Camere  a 
Parigi.  —  Se  la  situazione  ammetta  rimedio.  —  Alcune  analogie  con  noi.  —  Il 
disegno  del  ministro  Magliani  di  salvare  una  parte  del  Macinato.  —  La  di- 
scussione sul  bilancio  dell'istruzione  pubblica. 


Le  cose  di  Francia  peggiorano  di  giorno  in  giorno,  lasciando  perplessi 
gli  amici  dell'ordine  e  della  pace  tanto  dentro  che  fuori.  Perchè  debbano 
peggiorare  non  apparisce  abbastanza  chiaro,  non  essendo  facile  scorgere 
il  fondo  a  tante  ire,  a  tante  invidie,  a  tante  cieche  passioni,  che  tornano 
a  rimescolarsi  e  ribollono  disprezzando  il  buon  senso,  l'esperienza  e  la  tran- 
quillità del  paese.  Certo  è  che  le  passioni  ribollono,  e  non  si  può  assistere 
a  cosi  melanconico  spettacolo  di  una  gran  nazione  senza  inquieta  maravi- 
glia, considerando  quanto  vicine  sieno  ancora  le  sue  sventure  e  come  mi- 
nacci di  sparir  presto  l'unico  frutto  che  si  potesse  raccogliere  dal  dolore. 

La  repubblica  esce,  per  il  miracolo  di  un  voto,  dalla  prima  Assem- 
blea; n'esce  come  una  transazione,  una  tregua,  un  simbolo  di  pace  fra  i 
partiti  già  infocati  in  modo,  che  paiono  preparare  una  seconda  guerra 
civile  ;  a  forza  di  prudenza,  rassicurando  i  timidi,  persuadendo  gì'  incerti, 
mantenendo  fermamente  l'ordine,  guadagna  fautori  e  amici,  supera  il  ci- 
mento cui  la  sottopone  il  suo  stesso  presidente,  meno  disposto  degli  altri 
a  credervi;  vince  nelle  elezioni  della  Camera;  torna  a  vincere  in  quelle 
del  Senato;  Analmente  coll'abdicazione  del  Maresciallo,  la  si  dice  confer- 
mata, stabilita,  sicura,  e  proprio  il  dì  dopo,  quando  dovrebbe  cominciare  a 
godere  del  suo  trionfo,  quando  le  sarebbe  dischiusa  innanzi  una  vita  senza 
contrasti  e  senza  inquietudini,  ecco  che  tutto  vacilla  di  nuovo,  non  più  per 
opera  di  monarchici  ormai  debellati,  ma  degli  stessi  repubblicani.  Liberi 
appena  dal  timore  dei  partiti  contrari,  non  sanno  tenersi  in  cuore  la  gioia 
della  vittoria,  e  irrompono  senza  freno  in  tutte  le  stranezze  immaginabili, 
purché  servano  a  manifestare  la  loro  audacia  e  la  loro  prepotenza. 


378  EASSEGNA   POLITICA. 

Un  caso  simile  a  quello  che  rovesciò  non  ha  g-uari  il  ministro  Mar- 
cère  non  si  riesce  a  capire.  Come  mai  un  ministro  così  importante,  un 
uomo  poco  fa  tanto  riputato  e  stimato,  possa  ridursi  a  cadere  in  una  Ca- 
mera con  quattro  voti,  non  si  spiega,  se  non  supponendo,  che  il  sentimento 
delle  necessità  di  governo  vi  sia  in  tutti  più  debole  delle  proprie  passioni, 
e  gli  stessi  monarchici  abbiano  badato  a  votare  contro  il  repubblicano, 
senza  riflettere  ad  altro. 

Sarà  infatti  che  il  Ministro  si  fosse  difeso  male  contro  l'interpellanza 
del  sig.  Clemenceau,  ch'egli  non  avesse  dovuto  cercar  di  interrompere 
l'inchiesta  sulla  Prefettura  di  polizia,  che  questa,  come  l'interpellante  af- 
fermò, sia  piena  di  bonapartisti,  e  non  a  torto  le  si  rimproverino  certi 
abusi.  Ma  è  il  tempo  di  intimorire  e  di  indebolire  la  polizia  quello  in  cui 
stanno  per  irrompere  in  Parigi  tutti  gli  amnistiati  della  Comune,  pieni 
di  baldanza  per  l'assoluzione  imposta,  più  che  propugnata,  da  un  partito 
in  lega  con  loro,  forte  in  parte  per  loro,  e  che  accenna  a  diventare  pre- 
dominante? È  il  tempo  in  cui  un  ]\Iinistro  dell'interno  che  difende  la  po- 
lizia, una  dolorosa,  ma  inevitabile  necessità,  contro  la  ({uale  si  grida  un 
giorno  per  domandarle  aiuto  il  giorno  successivo,  debba  rimanere  con  quat- 
tro voti,  senza  che  vi  si  scorga  il  sintomo  d'una  condizione  di  cose  grave? 

Né  ciò  che  avvenne  sarebbe  ancora  il  peggio,  in  paragone  di  quello  che 
parrebbe  sovrastare,  se  non  fosse  sperabile  ancora  un  rimedio.  Il  processo 
contro  i  ministri  del  IG  maggio  appariva  da  so  tanto  inopportuno  ed  irragio- 
nevole, da  doversi  credere  che  la  Commissione  cui  era  stata  deferita  l'inchie- 
sta, lasciasse  cadere  la  cosa  in  dimenticanza,  o  la  eludesse  con  un  voto  con- 
trario. Oltreché  infatti  un  processo  simile  basta  da  sé  a  risuscitare  i  monar- 
chici e  a  ri.spingere  la  Francia  in  tutte  le  ire  di  parte  con  tanto  stento  sopite, 
la  colpa  maggiore  del  16  maggio  ricade  sul  presidente,  proprio  quello  che 
dalla  costituzione  è  dichiarato  irresponsabile  e  non  potrebbe  neppure  essere 
interrogato  Poi  quello  del  16  maggio  è  forse  l'unico  tentativo  commesso  in 
Francia  contro -la  costituzione  e  le  leggi  politiche?  E  perchè  fermarsi  a 
quest'ultimo,  in  luogo  di  rimontare  anche  agli  altri?  Queste  e  molte  altre  ra- 
gioni davano  non  poco  a  sperare,  quando  la  Commissione,  contro  le  dissua- 
sioni ripetute  più  volte  e  assai  fermamente  dal  presidente  del  Consiglio,  signor 
Waddington,  deliberò  con  21  voti  contro  7  che  i  ministri  del  16  maggio  fos- 
sero posti  in  accusa. 

Ora  è  fuori  d'ogni  dubbio  clie  la  Camera  respingerà  cosi  matta  idea, 
la  quale,  sempreché  fosse  accolta,  basterebbe  a  far  cadere  il  ministero 
Waddington,  un  mese  o  poco  più  dacché  venne  al  mondo,  a  mettere  il  go- 
verno in  mano  dei  radicali  e  a  scompigliare  tutta  la  Francia.  Per  quanto 
sia  stato  grande  1'  errore  commesso  verso  il  ministro  Marcerò,  questo  se- 
condo sarebbe  doppio,  poiché  genererebbe  una  serie  di  turbamenti,  dei  quali 
nessuno  potrebbe  prevedere  l'ultimo.  Ma  il  solo  aver  potuto  essere  da  prima 
lungamente  e  seriamente  esaminata   e  poi  portata  alla   Camera  una  prò- 


RASSEGNA  POLITICA.  379 

posta  COSÌ  ripugnante  alla  quieta  pubblica,  e  della  quale  nessun  frutto  si 
attende  fiiorcliè  il  disor.line,  mostra  a  che  punto  sieno  precipitate  le  cose 
di  Francia  in  un  tempo  relativamente  brevissimo  e  quanto  sieno  ragione- 
voli i  timori,  coi  quali  si  attende  l'avvenire,  benché  nulla  sia  accaduto 
fin  qui  di  grave,  11  governo,  così  quello  del  signor  Waddington  ora,  come 
quello  del  signor  Dutaure  prima,  fa  ogni  opera  per  contenere  il  torrente 
che  s'avvalla  e  Io  trascina  seco  minacciando  altrimenti  di  rovesciare  lui 
per  il  primo  e  tutto  il  resto  di  mano  in  mano.  Ma  appunto  in  questo 
continuo  moto,  nel  quale  il  governo  perde  terreno  e  chi  l' insegue  e  lo 
preme  ne  acquista,  non  si  sa  dove  le  cose  potranno  giungere,  se  almeno 
uno  di  quegli  scatti  di  saviezza,  che  in  vero  non  furono  rari  in  Francia 
dal  1871  in  qua,  non  torni  a  dominarle  e  a  riporlo  in  via. 

Anche  la  proposta  di  trasferire  la  Camera  a  Parigi,  a  cui  il  presi- 
dente del  Consiglio  si  oppose,  se  prima  non  si  fosse  deliberato  suU'  altra 
intorno  al  processo  dei  ministri  del  !•■  maggio,  ragionevole  e  giusta  se 
la  si  considera  separatamente,  diventa  improvvida  e  inopportuna  collegata 
con  tutto  il  resto,  col  ritorno  dei  comunardi,  colla  guerra  alla  polizia, 
con  una  stampa  che  soffia  nelle  invidie  del  volgo,  colle  accuse  al  ministro 
Say,  che  tengono  dietro  a  quelle  delle  quali  fu  vittima  il  signor  Carcere. 
Che  r  indugio  di  un  ministro  a  smentir  la  voce  della  riduzione  della  rendita, 
una  di  quelle  voci  che  alla  borsa  rinascono  ad  ogni  momento,  debba  bastare  a 
gridarlo  complice  degli  speculatori  e  dei  banchieri  ?  Tale  è  il  pretesto  ;  ma  il 
movente  è  che  si  vorrebbe  un  nuovo  sistema  di  economia,  che  assicurasse  al 
lavoro  più  pronto  e  sicuro  spaccio  dei  suoi  prodotti,  cioè  in  ultimo  desse  spe- 
ranza di  ai'ricchire  presto,  la  suprema  e  terribile  brama  del  nostro  tempo. 
Ora  con  quest'  aria  che  spira,  le  Camere  si  dovrebbero  da  Parigi  tra- 
sportare a  Versailles,  se  qui  gii\  non  fossero,  invece  che  da  Versailles  ri- 
condurle a  Parigi,  dove  più  materia  s'accumula  e  più  è  facile  che  divampi 
r  incendio.  Dal  1872  ad  oggi  non  c'è  stato  un  tempo,  in  cui  stessero  così  bene 
fuori  della  babilonia  parigina,  come  oggi,  mostrando  di  aver  in  sé  suffi- 
cienti semi  di  discordie  e  di  intemperanze,  senza  riportarle  in  un'atmo- 
sfera, la  quale  servirebbe  maravigliosamente  a  far  sì  che  questi  ger- 
mogliassero e  dessero  il  frutto  che  si  aspettano  i  radicali. 

In  verità,  vedendoli  accumulare  tante  ardue  questioni,  e  suscitare  al 
governo  tante  difficoltà,  e  premerlo  e  perseguitarlo  con  tanta  violenza,  che 
ne  rimangono  attoniti  perfino  i  presidenti  Grévy  e  Gambetta,  non  si  può 
credere  che  lo  facciano  a  caso  e  senza  saper  dove  vanno  «  11  governo,  disse 
la  l^evue  des  deuor  Mondes,  cede  a  impegni  pericolosi,  alla  pressione  di 
vecchie  e  compromettenti  amicizie.  »  Di  queste  antiche  aderenze,  dalle  quali 
il  ministero  non  può  sciogliersi,  di  questo  passato,  che  l'impaccia  e  l' irretisce, 
ma  al  quale  non  può  abdicare  senza  cadere  in  contraddizione  con  sé  me- 
desimo e  indebolirsi  anche  più,  i  radicali  profittano  e  si  prevalgono  spieta- 
tamente  Il  pae.?e,  la  sua  tranquillità  al  di  dentro,  il  suo  credito  e  la  sua 


380  EASSEGNA    POLITICA. 

influenza  al  ili  fuori,  sou  per  essi  nomi  vani;  ciò  che  loro  imi^orta  è  la 
soddisfazione  dei  loro  rancori  e  delle  loro  ambizioni,  è  farsi  largo,  è  il 
potere.  Il  mezzo  poi  è  la  popolarità  ad  ogni  costo,  il  secondare  tutte  le 
I)a£sioni,  le  ambizioni,  le  vanità  e  le  intolleranze  del  volgo,  seminando  l'odio  e 
parlando  d'amore.  Non  comincia  egli  il  tempo  di  dire,  che  se  a  Versailles 
stanno  deliberando  sul  processo  da  fare  ai  ministri  del  16  maggio,  questi 
ed  il  maresciallo  ne  hanno  già  fatto  un  altro,  illegale  bensì  ed  improv- 
vido, alla  repubblica,  ma  che  questa  sembra  proporsi  di  giustificare? 

Un  rimedio,  come  dicemmo  la  quindicina  passata,  potrebbe  venire  al- 
meno momentaneamente  da  una  ricomposizione  dei  partiti,  dallo  staccarsi 
del  Centro  sinistro  e  la  formazione  per  mezzo  suo  di  una  maggioranza 
conservativa  Ma  ciò  supporrebbe  nel  Centro  destro  l'oblio  della  gran  que- 
stione, che  l'ha  fuorviato  per  tanto  tempo,  sulla  forma  di  governo,  di  quella 
per  cui  la  Camera  delibera  ora,  se  convenga  o  no  porre  i  principali  ade- 
renti suoi  in  accusa,  supporrebbe  cioè  una  virtù  e  uno  spirito  di  sacrifi- 
cio, che  qualche  rarissima  volta  può  avere  un  individuo,  ma  non  ha  mai 
un  partito.  Non  resta  quindi  che  lo  scioglimento  della  Camera,  a  cui  s'è 
pensato  e  si  pensa;  un  rimedio,  clie  tornerà  a  parere  esagerato  e  prema- 
turo, quando  la  Camera  avrà  respinto  la  proposta  di  accusa  contro  i  mi- 
nistri del  16  maggio  e  per  qualche  temilo  si  rifarà  un  po' di  calma,  ma 
che  prima  o  dopo  riuscirà  inevitabile  Senza  di  esso  le  co.se  continuereb- 
bero a  scendere  per  una  china  fatale  trascinate  da!  loro  proprio  peso, 
essendo  troppo  forte  T  impulso  che  già  ricevettero  per  fermarsi  da  sé 
medesime. 

C,;me  si  vede,  la  situazione  parlamentare  francese  non  è  gran  fatto 
dissimile  dalla  nostra,  tolto  però  un  solo  punto,  che  in  vero  ha  conse- 
guenze molto  notabili,  e  tutte  a  nostro  vantaggio.  Anche  da  noi  è  al  potere 
la  Sinistra,  anche  da  noi  la  Sinistra  è  divisa  in  tre  o  quattro  gruppi  ;  anche 
da  noi  antiche  aderenze  e  solidarietà  poco  è  mancato  che  non  traessero 
fuori  di  strada  il  governo,  compromettendo  la  quiete  dello  Stato;  anche 
da  noi  si  sente  il  bisogno  di  una  maggioranza  governativa,  tranquilla  e 
solida,  che  non  almanacchi  tanto  sul  da  fare,  contentandosi  piià  facilmente 
di  quello  che  può  essere  fatto.  La  differenza  però  è  questa,  che  i  radicali 
fra  noi  non  sono  nò  così  numerosi,  nò  così  accesi,  come  alla  Camera  fran- 
cese, non  avendo  dietro  di  sé  gli  operai  delle  grandi  città  industriali,  né 
una  capitale  come  Parigi,  o  in  altri  termini,  non  trovando  sostegno  e  se- 
guito nel  paese,  cli'è  per  natura,  per  inclinazione,  per  tradizioni  storiche 
e  per  condizioni  sociali,  conservatore.  Ciò  spiega  come  ad  ogni  crisi  che 
succede  in  Francia  sorga  un  ministero  più  avanzato,  mentre  fra  noi,  come 
appena  s'è  visto  qualche  cosa  che  accennava  a  un  correre  precipitoso  e 
senza  freno,  ne  sorse  uno  più  temperato. 

Resta  però  la  gran  questione,  se  questo  abbia  la  maggioranza;  e  noa 
avendola,  come  possa  formarsela  e  rendersela  fida  e  sicura.  I  modi  imma- 


RASSEGNA   POLITICA.  381 

ginati  son  molti,  ma  nessuno  finora  molto  efiBcace.  Nella  quindicina  s'è 
parlato  un  po'  meno  di  accordi  tra  i  vari  gruppi  della  maggioranza,  e  invece 
un  po' più  di  rilacimenti  ministeriali.  Non  riuscendogli,  pare,  di  mutar 
gli  altri,  il  ministero  si  rassegnerebbe  a  mutar  sé  stesso.  Ma  tutto  si  ri- 
duce finora  anche  per  questa  parte  a  discorsi  ;  come  a  discorsi  si  riduce 
r  intenzione  attribuita  al  ministero  di  premettere  all'  esposizione  finanzia- 
ria la  legge  sulle  nuove  costruzioni  ferroviarie;  una  legge  che  soddisfa- 
cendo ai  desiderii  di  molti,  accaparrerebbe  pur  molti,  e  dalla  quale  il  mi- 
nistero potrebbe  uscire  dalle  angustiose  incertezze  presenti  con  una  mag- 
gioranza riunita  momentaneamente  dall'  interesse,  ma  in  fine  battezzato  da 
un  cimento  e  quindi  fortificato. 

La  fortificazione  però  non  durerebbe  che  un  giorno,  poiché  all'espo- 
sizione finanziaria  si  dovrebbe  pur  venire  e  la  maggioranza  effimera  ot- 
tenuta colle  ferrovie  potrebbe  sciogliersi  un'  altra  volta.  Questa  prova, 
eh' è  la  sola  vera  e  la  sola  seria,  non  è  evitabile.  Senza  soggiungere  che 
nella  discussione  stessa  della  legge  sulle  nuove  costruzioni,  che  impegna 
il  bilancio  per  tanti  anni,  verrebbe  da  sé  che  si  domandasse,  se  lo  Stato 
sia  in  condizione  da  poter  addossarsi  il  gravissimo  carico,  se  le  nuove  spese 
saranno  coperte  dai  redditi,  se  si  può  o  non  si  può  tutto  quello  che  si  vor- 
rebbe. Chi  potrebbe  infatti  dare  la  sua  approvazione  all'enorme  spesa 
che  trattasi  di  incontrare  senza  averlo  saputo  ?  Da  un  anno  in  qua  s'  è 
fatto  un  tal  discorrere  delle  nostre  finanze,  si  son  sollevati  tanti  dubbi, 
si  intesero  tanti  pareri,  che  il  ministero,  nonché  poter  ingollarsi  legger- 
mente in  altre  spese,  non  può  trovare  una  base  tanto  o  quanto  durevole 
nella  Camera  senza  rassicurare  innanzi  tutto  su  questa  parte  e  la  Camera 
e  il  paese.  Si  può  senza  il  macinato  assumersi  il  carico  delle  nuove  costru- 
zioni ?  Ecco  il  quesito  semplice,  che  s'impone  da  sé  a  tutti,  che  sta  al  di  sopra 
di  qualunque  partito,  e  al  quale,  né  il  ministero  presente,  né  un  altro  po- 
trebbe sottrarsi  con  giocherelli  politici  e  con  furberie. 

Il  miglioramento  economico  è  la  ragione  di  tutti  gli  altri.  Senza  di 
esso  è  vano  sperarne  in  cosa  nessuna,  perchè  tutto  a  questo  mondo  si  fa 
coi  danari.  Perciò,  se  è  vero  che  il  ministro  INIagliani  s'adopera  a  salvare 
in  parte  la  tassa  sul  macinato,  non  si  può  se  non  professargli  riconoscenza 
ed  ammirazione. 

Il  procacciare  allo  Stato  più  di  ottanta  milioni  all'anno  con  nuove 
tasse,  è  cosa  impossibile  senza  schiacciare  industrie  che  nascono  appena 
e  senza  far  nascere  un  malcontento  molto  maggiore  di  quello  che  ormai 
generi  il  macinato.  Perciò,  o  la  Sinistra  non  lo  farà  mai,  com'è  più  proba- 
bile, e  cadrà  sopra  di  lei  la  responsabilità  delle  finanze  dissestate,  o  si 
rassegnei^à  a  farlo,  e  collo  scompiglio  e  i  lamenti  che  susciteranno  le  nuove 
imposte,  perderà  nel  paese  gran  parte  de' suoi  fautori.  Di  ([ui  non  s'esce. 
Perciò  il  ministro  delle  finanze,  mirando  a  salvare  almeno  in  parte  una 
tassa  abolita  frettolo.^amente,  per  impeto  e  senza   pensarvi   ma   di  cui  si 


382     .  KASSEGNA   POLITICA. 

vede  ogni  dì  più  chiaro  che  non  si  può  fare  a  meno,  rende  un  servigio 
segnalato,  non  solamente  al  paese  stesso,  ma  anche  al  partito,  che,  mercè 
il  suo  coraggio,  viene  sollevato  da  una  grandissima  responsabilità.  L'abo- 
lizione completa  del  macinato  unita  alle  nuove  spese  che  si  assumono 
farebbe  un  buco  nelle  nostre  finanze,  che  venti  anni  di  pensieri,  di  inquie- 
tudini, di  lamenti  non  basterebbero  a  riempire,  e  nulla  è  più  ragionevole, 
più  provido,  diremmo  quasi,  più  umano  del  rifletterci  finché  e'  è  ancora 
tempo,  preservandoci  da  fatali  illusioni. 

Quanto  al  partito,  non  vogliamo  dire  ch'esso  non  avesse  un  modo  di 
salvarsi  e  di  reggersi,  o  ad  onta  del  dissesto  delle  finanze,  o  ad  onta  del- 
l'odiosità che  trarrebbe  seco  il  sopracaricare  di  imposte  l' industria  e  il 
commercio.  Sarebbe  quello  di  buttarsi  da  un  lato,  per  ciò  che  riguarda  la 
finanza,  allo  imposte  progressive,  e  dall'altro,  per  quanto  si  attiene  alla  poli- 
tica, al  suffragio  universale,  formandosi  una  base  nel  proletariato  e  istigandolo 
e  scatenandolo  contro  di  quelli  che  hanno  qualche  cosa.  Sarebbe  il  disegno  di 
molti  radicali  francesi  e  di  alcuni  pochissimi  anche  dei  nostri.  Ma  il  pro- 
vocare e  promuovere  la  baraonda  sociale  non  è  un  espediente  di  governo, 
non  è  cosa  a  cui  possa  mettere  mano  la  gente  savia  ed  onesta,  e  rimane 
poi  le  mille  miglia  lontana  dal  pensiero  degli  uomini  che  ci  reggono,  il  cui 
patriottismo  non  ha  bisogno  di  prove  e  che,  se  vanno  acquistando  aderenti 
e  amici,  lo  devono  al  governare  con  prudenza  e  al  mantenere  l'ordine, 
guardandosi  da  esagerazioni  e  da  utopie. 

Il  supremo  )jisogno  nostro  è  quello  di  imparare  a  star  fermi  in  qual- 
che cosa,  ad  aspettare  molti  miglioramenti  dal  tempo,  a  persuaderci  che 
alcuni  mali  sono  inevitabili;  né  giova  lo  sconvolgere  ogni  poco  quello  che 
esiste,  fimtasticando  ilietro  agli  esempi  di  popoli  più  di  noi  fortunati,  o,  pog- 
gio ancora,  dietro  a  ideali  impossibili  a  conseguire.  Di  questa  verità  porse 
testimonianza  la  discussione  sul  bilancio  dell'istruzione  pubblica,  della  quale, 
se  il  ministro  e  la  Camera  ascoltassero  i  desiderii  che  furono  manifestati, 
non  resterebbe  più  nulla  di  ciò  che  esiste  a  cominciare  dagli  asili  e  finire 
colle  università.  È  che  di  istruzione  pubblica  tutti  ne  sanno,  perdio  tutti 
sono  stati  a  scuola?  È  inquietudine,  leggerezza,  diletto  di  disfare  por  ri- 
fare? Probabilmente  un  poco  di  tutto  questo,  mentre  puro  non  è  difficile 
di  capire  che,  se  le  scuole  nostre  non  sono  perfette,  sono  però  quali  le 
può  dare  un  paese,  figlio  di  una  rivoluzione  recente,  nel  quale  si  mandò 
sottosopra  ogni  cosa,  tutt'altro  che  ricco,  nò  tutto  acceso  di  uno  smisurato 
amore  per  il  sapere.  Ad  onta  di  questo,  nell'istruzione,  so  la  si  lascia 
tranquilla,  tutto  migliora;  i  giovani  sapranno  un  po' mono  il  latino,  unico 
studio  e  cura  dei  nostri  anni  giovanili;  ma  in  compenso  sanno  molte  altre 
cose,  delle  quali  a  noi  noppur  si  parlava,  e  hanno  testa  più  chiara  e  giu- 
dizio più  retto  e  più  pratico  di  quello,  che,  a  parte  le  eccezioni,  solessero 
avere  al  nostro  tempo.  ÌNIigliorarc  via  via  ogni  cosa,  senza  rimescolamenti 
rivoluzionari,  senza  iilealità  audaci,    senza  credere   nell'onnipotenza  di  un 


RASSEGNA  POLITICA,  383 

regolamento  anziché  di  un  altro,  è  tutto  quello  che  «i  può  fare,  [n  questo 
metodo  c'è,  non  foss'altro,  il  vantaggio  di  non  far  credere  che  tutto  vada 
alla  peggio,  e  l'istruzione  che  la  gioventù  riceve  nelle  scuole  non  serva  se 
non  a  guastarle  il  ben  dell'intelletto.  A  generare  un'opinione  siffatta  nelle 
famiglie  bastano  già  gli  esami  e  le  tasse,  senza  che  vi  si  aggiunga  la  voce 
di  persone  autorevoli,  che,  cominciando  per  desiderio  del  bene  dal  dire  il 
male,  trovano  subito  gli  orecchi  aperti  ad  ascoltarli  e  gli  animi  pronti 
alla  fede. 

X. 


BOLLETTIA^O   BIBLIOGRAFICO 


■     LETTERATURA  E  POESIA 

D' Anton  Francesco  Grazzìuì  detto  il  Lasica,  e  delle  sue  opere  in  prosa  e 
in  rima,  per  G.  B.  Dott.  MAGRINI.  —  Imola,  Galeati,  1879  (pag.  59). 

Sarebbe  importantissimo  uno  studio  profondo  sopra  questo  lepido  spe- 
ziale fiorentino,  clie  trattò  quasi  tutti  i  generi  della  letteratura  amena,  ed 
ebbe  cosi  strette  relazioni  coll'accademia  degli  Umidi  e  con  quella,  che  poi 
ne  derivò,  della  Crusca.  Ma  nulla  d' importante  né  di  nuovo  trovasi  in 
questo  libretto,  che  superficialmente  scorre  le  varie  opere  del  Lasca,  dan- 
done di  tanto  in  tanto  gli  argomenti,  e  qualche  brano  per  saggio  ;  poco 
più  di  quello  che  si  legga  nel  Ginguené  o  in  altri  lavori  simili.  Discor- 
rendo del  Grazzini  bisognava  studiarne  meglio  la  vita,  e  valersi  a  ciò  degli 
epistolari,  della  storia  di  quelle  accademie,  e  di  documenti  inediti  o  rari; 
ritrarre  in  succinto  ma  con  vivaci  colori  la  vita  di  Firenze  ai  tempi  di 
Cosimo  I  quando  il  Lasca  fiorì  ;  e  nelle  sue  opere  ricercar  meglio  la  parte 
originale,  come  le  imitazioni  e  le  somiglianze  che  esser  vi  possono  rispetto 
ad  altri  scrittori.  Il  Novelliere  specialmente  richiedeva  un  serio  studio,  per 
determinare  a  quali  Ibnti  il  Lasca  abbia  attinto,  e  quanto  vi  sia  di  storico 
in  alcune  delle  sue  novelle,  per  esempio  in  quella  bizzarrissima  di  maestro 
Manente.  Vogliamo  dire  che  questo  libro  del  signor  Magrini  se  può  riuscire 
utile  a  chi  punto  non  conosca  il  Novellatore  da  lui  preso  a  soggetto,  non 
ha  però,  nel  suo  genere,  quella  importanza  che  trovammo  e  notammo  nel- 
l'altro suo  libro  Carlo  Gozzi  e  le  Fiabe. 

Rime  e  lettere  di  Veronica  Grànibara,  nuovamente  pubblicate  per  cura  di 
Pia  mestica  CHIAPPETTI.  -  Firenze,  G.  Barbèra,  1879.  fCollez. 
Diamante,  pag.  xLiv-407). 

Questo  volumetto  viene  a  chiudere,  nella  collezione  Diamante,  la  glo- 
riosa triade  delle  più  illustri  poetesse  del  secolo  XVI,  la  Colonna,  la  Stampa. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO.  385 

la  Gàmbara.  Quest'  ultima,  nata  in  quel  di  Brescia  e  sposata  a  Giberto 
signore  di  Coreggio,  fu  dotta  in  italiano  e  in  latino,  in  lettere  e  in  filosofia, 
ebbe  amicizia  coi  più  sommi  scrittori  del  secolo,  ed  ospitò  nel  suo  castello 
lo  stesso  imperatore  Carlo  Y.  Chi  vuole  conoscerla  ed  apprezzarla,  legga 
l'elegantissima  vita  premessa  a  questa  edizione  dalla  valente  editrice  Pia 
Mestica  Chiappetti  la  quale,  dopo  aver  curato  le  rime  della  Stampa,  ha 
qui  raccolto  tutti  i  versi  e  le  lettere  della  Gàmbara  seguendo  l'edizione 
Bresciana  del  1~59,  ma  aggiungendovi  alcune  cose  inedite  che  sono  accen- 
nate nella  prefazione.  I  versi  si  riducono  a  trentasette  sonetti,  una  bal- 
lata ed  alcune  stanze  ;  non  hanno  l'affetto  profondo  di  quelli  della  Stampa, 
ma  neppure  la  ricercatezza  e  lo  splendore  artificioso  di  quelli  della  Colonna, 
e  dagli  uni  e  dagli  altri  si  distinguono  per  1'  aura  classica  che  vi  spira, 
perchè  vi  si  sentono  essere  qua  e  là  imitazioni  felici  dai  poeti  latini  di  cui 
l'autrice  fu  studiosissima,  come  si  vede  anche  da  un'ode  in  quella  lingua, 
pubblicata  qui  per  la  prima  volta.  Fra  le  molte  lettere,  sono  un  modello 
di  stile  epistolare,  e  spesso  anche  un  bel  ritratto  dell'animo  di  chi  scrive, 
quelle  indirizzate  a  m3sser  Lodovico  Rosso  e  a  messer  Lodovico  Ercolani. 
Né  può  far  maraviglia  che  fra  le  altre  se  ne  leggano  alcune,  davvero 
troppo  benevole,  a  Pietro  Aretino;  ove  si  pensi  al  prestigio  che  quell'in- 
fausto nome  esercitava  indebitamente  sopra  ogni  genere  di  persone,  ed  an- 
che, in  generale,  alla  soverchia  indulgenza  che  allora  si  aveva  per  i  co- 
stumi degli  uomini,  quando  fossero  sorretti  dall'ingegno  e  dalla  eleganza. 
A  compimento  delle  opere  di  Veronica  Gàmbara  sono,  anche  qui,  riportate 
le  rime  di  vari  autori  (Vittoria  Colonna,  il  Bembo,  il  Varchi,  il  Sannazzaro, 
ed  altri)  indirizzate  alla  poetessa,  e  un  estratto  delle  note  con  cui  Felice 
Rizzardi  illustrò  l'edizione  Bresciana;  onde  può  dirsi  che  nulla  manchi  di» 
quanto  è  più  necessario  ad  intendere  il  testo,  se  non  fosse  per  avventura 
qualche  maggior  notizia  sopra  le  persone  alle  quali  vengono  indirizzate  le 
lettere. 

Conversazioni   di   Leoxe   FORTIS  [Dottore    Yeritas)  —  Seconda    Serie.  — 
Milano,  Treves,   1879. 

Due  anni  fa  furono  raccolte  in  un  bel  volume  le  Conversazioni,  ossia 
gli  articoli  di  critica  letteraria  e  teatrale  che  il  dottore  Veriias  (Leone 
Fortis)  pubblica  settimanalmente  neW Illustrazione  italiana.  La  fortuna 
incontrata  dal  primo  fece  nascere  questo  secondo,  fors'anche  più  ricco,  più 
vario,  più  bello  dell'altro. 

C'è  tanta  roba  in  questo  volume  da  divertircisi  per  un  mese  È  una 
galleria  di  ritratti,  una  raccolta  di  costumi  e  di  ane'ldoti,  un  emporio  di 
riflessioni  morali,  una  storia  della  letteratura  degli  ultimi  anni,  una  pittura 
del  tempo,  senza  nessuna  prosopopea  dottoresca,  ad  onta  del  pseudononimo 
scelto  dall'autore,  ma  con  quella  disinvoltura  naturale  e  l'andare  saltuario 


386  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO. 

e  lefr^rero  ohe  pif;lia  appunto  la  conversazione  Ed  ò  poi  un  esempio  raris- 
simo di  critica  franca  e  veridica  senza  malignità,  di  quella  schiettezza 
urbana  e  cirtese  che  adorna  la  conversazione  delle  persone  ben  nate  e 
dabbene  che  non  credono  necessario  di  mordere  per  dar  prova  di  si)irito, 
un  esempio  di  sincerità  abbellita  dal  buon  garljo  e  di  giustizia  temperata 
dalla  benevolenza  e  dal  soitìso. 

Il  dottore,  si  sa,  ama  qualche  volta  un  po'  il  rliscorrere  Ma  anche  qui 
non  si  può  disconoscere  ch'ò  fatta  cosi  la  conversazione,  nella  quale,  se  si 
pesano,  non  però  si  numerano  le  parole.  E  pai'la  poi  cosi  bene,  con  tanta 
varietà  e  tanto  brio,  che  gli  si  va  dietro,  senza  avvedersi  anche  talvolta 
per  il  solo  gusto  di  sentirlo  parlare.  La  sua  lingua  è  varia,  copiosa,  co- 
lorita, ma  usuale  e  senza  fiorentinerie  di  seconda  mano,  senza  gemme 
ripescate,  quantunque  eletta,  colta  e  gentile.  Per  dir  tutto  in  una  parola, 
il  grosso  volumi.'  finisce  assai  prima  che  incominci  la  voglia  di  metterlo 
a  riposare. 

STORIA 

Baldassarre  Castiglione:  articolo  inediio  dell'operi  del  C.  Giammaria  Maz- 
ziichelli  intitolati  Gli  Scrittori  d  Ttalin,  pubblicato  da  Enrico  NARDUCCI 
lìonia,  tip.  delle  Scienze  niateniaticlie,   1879. 

A  tutti  è  noto  come  la  grand'opera  del  Mazzuchelli,  dopo  pubblicati 
sei  volumi  in  foglio,  rimanesse  interroùta,  compiute  scdtanto  le  due  prime 
lettere  dell'alfabeto:  non  tutti  sanno  che  i  materiali  per  la  susseguente 
lettera  erano  già  prónti  o  quasi,  e  che  dal  nipote  dell'autore  furono  nel  ls6G 
depositati  nella  biblioteca  Vaticana  Comprendono  essi  ben  (!(  4S  articoli 
dei  quali  1518  già  pronti  per  la  pubblicazione;  e  il  sig.  Narducci,  quando 
il  dono  pervenne  a  Roma,  diede  una  descrizione  dei  35  volumi  mazzuche- 
liani,  coirindice  di  tutti  i  nomi  in  essi  contenuti.  Sarà  egli  mai  possibile 
che  un  giorno  questi  manoscritti  così  preziosi  per  la  storia  letteraria  e 
per  la  letteraria  biografia  vengano  pubblicati?  A  dir  vero  non  lo  crediamo; 
benché  possa  desiderarsi  che  una  società  di  dotti  come  furono  i  Benedet- 
tila francesi  e  i  loro  presenti  continuatori  dieW Histoire  Utti'ìutire  de  la 
Frmice,  ci  diano  un  compiuto  repertorio,  o  per  secoli  od  alfabetico,  degli 
scrittori  italiani  Intanto  contentiamoci  di  poco,  e  auguriamo  che  questo 
primo  saggio  olTertoci  dal  Carducci,  estraendo  dalla  ricca  miniera  la  bio- 
grafia e  bibliografia  del  Castiglione,  non  rimanga  senza  continuazione.  Nò 
il  Narducci  si  è  limitato  al  mero  ufficio  di  pubblicatore:  ma  ci  ha  dato 
importanti  aggiunto  bibliografiche  tratte  tutte  dalle  biblioteche  romane, 
e  riguardanti  l'articolo  del  Cortigiano  che  è  la  maggior  gloria  del  Casti- 
glione   Notiamo  soltanto  che  uguali  aggiunte,    sebbene  assai   minori   pel 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  387 

numero,  sarebbersi  potute  fare  rispetto  alle  Lettere  del  Castiglione  stesso, 
delle  quali  non  poche  sparsamente  vennero  pubblicate  dopo  l'edizione  del 
Serassi,  del  IMortara,  del  Ferrato  e  da  altri.  Ad  ogni  modo  la  pubblica- 
zione di  questo  piccolo  saggio  della  grand'opera,  è  una  ottima  idea  del 
sig.  Narducci:  e  noi  la  vogliamo  prendere  come  arra  di  altre  pubblicazioni 
avvenire,  fidando  soprattutto  nell'operosità  del  valente  bibliotecario  romano. 


Statuto  dei  Mercanti  drappieri  della  città  di  Vicenza.  —  Vicen/.a,  Du- 
rato, JS7SJ. 

Questo  Statuto  scritto  in  volgare  nel  1348,  e  pubblicato  adesso  per 
cura  dell'egregio  bibliotecario  vicentino,  l'ab.  Capparozzo,  c'invita  a  formare 
il  voto  che  di  simili  Statuti,  o  matricole  o  mariegoLe,  delle  arti  e  delle  indu- 
strie italiane  nell'età  dei  Comuni,  si  facciano  edizioni  che  rispondano  ai 
bisogni  della  scienza,  della  storia  e  della  filologia.  Qua  e  là,  e  il  più  spesso 
per  fuggevoli  occasioni,  se  ne  pubblica  taluno;  ma  ben  sarebbe  desidera- 
bile che  si  riunissero  in  un  corpo,  almeno  città  per  città  o  regione  per 
regione,  opportunamente  annotandoli  e  fra  loro  raffrontandoli.  L'ordina- 
mento delle  Corporazioni  artigiana  nell'età  media  e  nella  successiva  ognun 
sa  di  quanta  importanza  sia,  così  rispetto  alla  storia  dell'industria,  come 
a  quella  politica.  Ad  ogni  modo  accettiamo  quel  che  ci  vien  porto  volta 
per  volta,  come  adesso  in  Vicenza  per  nozze  illustri,  sperando  che  in  seguito 
il  pensiero  che  abbiamo  esposto  trovi  taluno  o  meglio  qualclie  corpo  scien- 
tifico, a  cui  sembri  utile  ed  attuabile.  Questo  Statuto  della  «  frataglia  »  vi- 
centina dei  mercadanti  serve  intanto  a  chi  non  ne  avesse  altra  maggior 
notizia,  per  dare  una  idea  di  ciò  che  fossero  in  quei  tempi  le  corporazioni, 
quali  gli  intenti  comuni,  quali  gli  obblighi  degli  ascritti.  Ci  piace  riferirne,  a 
titolo  di  curiosità,  la  rubrica  contenente  il  giuramento  del  capo  o  gastaldo 
della  fraternità —  «  lo  gastaldo  zuro  a  li  sancti  evangelii  de  Idio  con  bona 
fede  e  senza  inganno  fare,  trattar  e  ordenare  quello  che  cognoscerò  esser  a 
mazor  utilità  del  <  omun  de  Mcenza  e  della  frataglia  delli  mercadante:  e 
che  tutti  gli  statuti  e  ordeni  della  frataglia  osserverò  e  farò  osservare  a 
tutto  mio  podere,  e  quelli  che  faranno  contra  gli  statuti  et  ordini  della  ditta 
frataglia  condonerò,  e  farò  scoder  li  bandi  o  pene,  et  le  farò  scriver  in  libro 
e  nissuno  offenderò  per  odio  né  subleverò  per  amicitia.  »  Il  dettato,  come 
si  vede,  è  italiano  leggermente  intinto  di  forme  venete;  ma  vi  si  trovano 
per  entro  alcune  parole  particolari,  illustrate  saviamente  dall'  editore, 
talune  delle  quali  mancanti  e  ai  dizionari  volgari  e  al  Ducange. 


388  BOLLETTINO   BIBLIOGKAFICO. 


ECONOMIA  E  STATISTICA 

Gerolamo  Boccardo.  —  Il  dottor    Schiiffle  e  il  problema  econoìnico    e  sociale 
in  Germania   —  (Prefazione  al  voliimtì  V.  della  Biblioteca  dell' Econoiuista. 

Torino,  Unione  tipogralico-editrice,    187i),  pag.  xxxij. 

Dopo  un  breve  cenno  della  vita  e  delle  opere  dello  Scliafnc,  l'illustre 
direttore  della  terza  serie  della  Biblioteca  dell'  Economista  si  fò  a  carat- 
terizzare, dai  suoi  lati  più  nuovi  e  salienti,  il  grande  lavoro  tradotto  ia 
questo  volume  :  il  Sistema  sociale  della  economia  umana.  Dimostra,, 
prima  di  tutto,  come  lo  Schàffle  abbia,  più  e  meglio  di  ogni  altro  dei 
precedenti  trattatisti,  rannodata  l'economia  politica  agli  altri  rami  del 
grande  albero  delle  scienze,  tenuto  conto  dei  più  recenti  progresfi  di  tutte ;^ 
e  acutamente  rileva  l' influenza,  che  su  quell'opera  ha  avuto  l' indi- 
rizzo filosofico  del  pensiero  germanico.  Quindi  mette  in  luce  i  due  più 
o-randi  meriti  dello  Schàffle:  l'aver  tenuto  il  debito  conto  dell'eleniento 
sociale,  il  quale,  sotto  la  forma  di  associazione  libbra  o  forzosa,  va  sempre 
più  prevalendo  nel  mondo  moderno,  anche  nei  rapporti  economici,  sopra 
l'elemento  individuale;  e  l'avere  accentuato  l'intimo  legame  tra  l'economia 
e  la  morale,  scagionando  definitivamente  la  scienza  economica  dalla  vecchia 
e  ripetuta  accusa  di  scetticismo  morale.  Del  resto,  l'on  Boccardo  è  tutt'altro 
che  incondizionato  ammiratore  dell'economista  wurtemberghese.  Poiché 
molto  opportunamente  gli  rimprovera  la  redazione  i.spida,  intralciata,  tal- 
volta oscura;  il  difetto  dell'arte,  tanto  necessaria,  di  fare  il  libro;  sopra 
tutto  il  vizio  gravissimo  di  trascendere  troppo  spesso  i  limiti  della  propria 
trattazione,  divagando  lungamente  in  campi  più  o  meno  limitrofi  II 
Boccardo  qualifica  di  ecletismo  economico  la  posizione  media  assunta  dallo- 
Schàffle  tra  il  socialismo  e  l'individualismo;  ma  nota  pure,  che,  trovata 
nella  scienza  una  prevalenza  eccessiva  dell'elemento  individuale,  l'autore 
del  Sistema  sociale  non  di  rado,  per  reazione,  esagera  nel  senso  opposto. 
E  da  queste  osservazioni  il  Boccardo  è  condotto  ad  esporre  una  serie  di 
considerazioni  generali  sopra  la  ineltìeacia  della  mutualità,  o  della  coope- 
razione come  soluzione  finale  del  problema  sociale,  sopra  il  movimento 
socialista  tedesco,  tanto  nell'ordine  dei  fatti,  quanto  nell"  ordine  delle 
dottrine,  e  sopra  l'eco,  che  questo  movimento  trova  presso  le  altre  nazioni 
di  Europa 

È  inutile  soggiungere,  che  queste  considerazioni,  insieme  alle  precedenti, 
che  sono  di  natura  essenzialmente  critica  formano  un  saggio  notevolissimo,, 
nel  quale,  come  in  tutti  i  lavori  delTonor  senatore,  una  erudizione  straordi- 
naria è  subordinata  a  un  pensiero  originale  e  sintetico,  espresso  in  forma 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  389 

rapida,  vivacissima,  che  attira  e  mantiene  potentemente  l'attenzione.  Anche 
il  Boccai\Io  si  chiarisce,  se  non  erriamo,  foutore  di  un  sapiente  eeletismo 
economico,  ma  evidentemente  lontanissimo  dalle  propensioni  al  socialismo, 
che  il  dotLor  Schiiflle  palesava  nel  suo  Sistema  sociale^  ed  ha  poi  più 
apertamente  accentuate  nei  suoi  lavori  più  recenti.  Solo  qualche  riserva 
nei  particolari  avremmo  a  fore  in  ordine  a  questa  splendida  introduzione  : 
p.  e ,  dove  è  accennato  a  una  «  forma  esclusivamente  individualistica  della 
proprietà  primitiva  »  (pag.  vii)  ;  e  dove  si  annovera  lo  Schulze-Delitsch 
tra  i  socialisti  della  cattedra  (pag.  xxii)  ;  e  dove  pare  che  l'A.  ponga  il 
movimento  scientitìco  di  questa  scuola  quasi  come  precedente  di  quella  dei 
Lassai  le  e  dei  Marx  (pag.  xxvi).  Ma  è  molto  probabile,  che  anche  queste, 
che  a  prima  vista  sembrano  inesattezze,  non  sieno  se  non  conseguenze  solo 
apparenti  della  soverchia  rapidità  dell'esposizione,  che  rende  per  avventura 
men  chiaro  il  concetto  dell'autore. 

Ad  ogni  modo,  ci  corre  l'obbligo  di  congratularci  con  la  scienza  italiana 
per  questa  nobile  persistenza,  con  la  quale  il  direttore  e  l'editore  della 
terza  serie  della  Biblioteca  delV Fconomista  si  adoperano  a  diffondere 
presso  di  noi  le  opere  più  notevoli  della  letteratura  economica  contem- 
poranea di  Germania  e  d'Inghilterra,  aggiungendo  a  ciascun  volume  una 
introduzione,  che  ne  accresce  singolarmente  l'importanza  scientifica. 

C.   F.   Ferraris.  —  Saggi   di  scienza   ileiramìninistr azione   e   di   economia   poli- 
tica I.  —  Torino,  Loescher,  1879  (pag.  7-''.). 

Sono  due  prolusioni  al  corso  di  Scienza  dell'Amministrazione  nell'Uni- 
versità di  Pavia.  Nella  prima  —  La  scienza  delV Amministrazione;  Oggetto, 
limiti  ed  ufficio  —  è  chiarito  in  primo  luogo  il  significato  del  titolo,  che 
si  dà  a  questo  nuovo  ramo  di  recente  isolato  dall'albero  delle  scienze 
giuridiche  e  sociali,  dimostrando  in  che  si  distingue  e  in  che  si  collega 
con  le  scienze  sorelle,  e  da  qual  punto  d'aspetto  la  scienza  dell'ammini- 
strazione studi  i  rapporti  tra  la  società  e  lo  Stato.  Quindi  si  fa  a  deter- 
minare somma'iamente  la  natura  e  i  limiti  di  talune  categorie,  nelle  quali 
si  possono  classiflcare  le  svariate  azioni  amministrative  dello  Stato.  La 
seconda  —  Le  relazioni  della  scienza  deW amministra zione  col  diritto 
amministrativo  e  la  sua  sede  nel  sistema  delle  scienze  politiche  —  è  quasi 
una  difesa  della  scienza  insegnata  dal  valoroso  professore  contro  coloro, 
che  vogliono  negarle  il  diritto  a  una  esistenza  autonoma,  ritenendola  com- 
presa nel  Diritto  Amministrativo,  che  già  s'insegna  nelle  nostre  univer- 
sità. L'A.  cerea  distinguere  nettamente  i  due  campi,  assegnando  al  diritto 
amministrativo  la  parte  formale,  lo  studio  dell'organismo  e  del  contenzioso 
amministrativo,  e  rivendicando  per  la  scienza  dell'amministrazione  la  parte 
sostanziale:  il  determinare  l'estensione  e  i  modi  dell'azione  amministrativa 
dello  Stato. 


390  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO. 

Noi  crediamo,  che  il  prof.  Ferraris  aljbia  fatto  opera  utiiissiiua,  insl- 
sterulo  nel  dileguare  i  dubbi,  che  una  coltura  tenacemente  limitata  solleva 
contro  un  insegnamento,  il  quale  è  destinato  a  occupale  un  posto  d'ira- 
portanza  sempre  crescente  nel  quadro  degli  studi  giuridico-politici.  Era 
un  nobile  ufficio,  che  incombeva  a  lui,  il  quale  ha  avuto  l'onore  d'  inau- 
gurare nelle  università  italiane  l'insegnamento  della  scienza  dell'ammini- 
strazione. Ed  egli  l'ha  compiuto  da  par  suo,  cioè  disponendo  con  grande 
ordine  e  vigore  di  concetti  una  massa,  forse  esuberante  relativamente  allo 
spazio,  di  conoscenze  e  di  studi.  Ma,  dopo  questo  franco  riconoscimento 
dell'alto  merito  delle  due  prolusioni  del  Ferraris,  ci  sarà  concesso  fare 
alcune  x'iserve  sopra  certe  sue  classificazioni,  forse  non  abbastanza  ben  de- 
finite, delle  scienze  giuridiche  e  sociali;  e  più  sopra  certe  dottrine  scien- 
tifiche, le  quali,  in  verità,  in  questi  discorsi  di  scopo  principalmente  for- 
niale,  sono  accennate  assai  sommariamente.  Alludiamo  sopra  tutto  alla 
teoria  dell'azione  economica  dello  Stato,  la  quale,  da  quanto  se  ne  può 
desumere  da  qualclie  cenno,  ci  pare  intesa  dal  Ferraris  con  eccessiva 
larghezza.  E  ci  sarà  pure  concesso  significare  il  desiderio  di  una  forma  ])ìii 
propria  e  ben  determinata,  se  non  più  elegante.  Anche  noi  riteniamo  in- 
dispensabile attingere  principalmente  in  questi  studi  alle  fonti  germaniche; 
ma  ci  pare  che  il  Ferraris  vi  si  attenga  troppo  esclusivamente,  trascu- 
rando troppo  quello  die  di  pregevole  hanno  pure  le  altre  nazioni.  E  ci 
pare  altresì  che,  oltre  allassimilazione  del  pensiero  scientifico  tedesco,  sia 
indispensabile  elaborarlo  in  guisa,  che  lo  scrittore  italiano  si  trovi  in  grado 
di  riprodurlo  in  una  forma  nuova  e  consentanea  all'indole  nostra.  Solo 
dopo  questa  elaborazione,  sarà  possibile  lavorare  con  efficacia  a  quel  fe- 
condo maritaggio  tra  le  due  colture,  del  quale  l'A.  si  fa  prode  propugna- 
tore (pag.  iì(3),  ma  che  non  deve  risolversi  in  un  assorbimento,  da  cui  riesca 
totalmente  cancellata  l'impronta  originale  della  coltura  nostra.  Sappiamo 
di  chieder  molto;  ma  sappiamo  di  chiedere  a  chi  può  dare. 

Dello  stesso  autore  ci  è  pervenuto  in  pari  tempo  un  più  ampio  lavoro 
—  La  Moneta  e  il  corso  forzoso  ;  —  e  ci  riserviamo  renderne  conto  in  un 
fascicolo  prossimo. 

Il  sistema  tributario  del  Comune  e  <lclle  Provincie,  dell'avv.  Carmine 
SOIIO-DELITALA.  —  Roma,  1879. 

È  un'esposizione  concisa  (in  12G  pagine)  della  maggior  parte  delle 
questioni  che  riguardano  l'ordinamento  amministrativo  dei  Comuni  e  delle 
provinole  in  Italia.  11  soggetto  non  ha  per  noi  disgraziatamente  se  non  troppa 
opportunità,  ed  è  trattato  dall'autore,  che  apparisce  non  solo  esperto,  ma 
colto  in  materia  amministrativa,  con  semplicità,  con  chiarezza,  con  una 
indipendenza  che  non  sente  il  bisogno  di  manifestarsi  col  furore,  ma  tran- 
quillamente, imparzialmente,  da  uomo  pratico  e  serio. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  391 

Posta  in  chiaro  la  condizione  miseranda  della  maggior  parte  dei  nostri 
Comuni,  egli  Unisce  naturalmente  col  cercarne  i  rimedi,  e  li  troverebbe  in 
un  nuovo  sistema,  nella  limitazione  dei  loro  redditi  alla  sovraimposta  dei 
contributi  diretti.  Siccome  poi  questa  non  sarebbe  bastante,  oggi  segnata- 
mente, vorrebbe  da  un  lato  sollevati  i  Comuni  dal  mantenimento  di  tanti 
servigi  che  non  hanno  indole  comunale,  e  dall'altro  vorrebbe  che  alcune 
istituzioni  fossero  a  carico  di  quelli  che  ne  approfittano  e  venissero  quindi 
mantenuti  con  fondi  speciali.  È  questa  un'idea  utile,  che  già  si  fa  luogo 
praticamente,  come  si  vede,  per  esempio,  dall'abolizione  delle  sovvenzioni 
per  i  teatri  e  dall'istituzione  delle  scuole  a  pagamento.  Quanto  alle  Pro- 
vincie, l'autore  proporrebbe  ch'esse  non  avessero  imposte  proprie,  ma  as- 
segni di  contributi  sui  bilanci  di  tutti  i  Comuni  in  ragione  composta  della 
superficie,  della  popolazione  e  dell'imposta  diretta  di  ciascheduno. 

E  tutto  questo,  meno  il  criterio  della  superficie  che  trarrebbe  seco 
conseguenze  erronee  ed  ingiuste,  sta  bene.  Ma  quello  che  l'autore  non  dice, 
0  dice  troppo  poco,  è  che  per  amministrare  con  qualunque  sistema  ci  vo- 
gliono teste  amministrative  e  che  i  Comuni  sprecarono  e  sprecano  ancora 
oggi  i  loro  redditi  in  spese  di  lusso,  o  peggio  in  spese  dì  scialacquo  e  di 
dissipazione,  in  costruzioni  di  teatri,  in  sovvenzioni  per  il  carnovale,  in 
corse  di  barberi,  in  processioni  e  feste  ecclesiastiche,  e  cose  simili.  Di  ciò 
hanno  la  colpa  non  le  leggi,  ma  gli  uomini,  i  Consigli  comunali  che  fanno 
male  e  le  Prefetture  che  lasciano  fare. 

Certo  la  legge  può  essere  modificata  e  migliorata.  Ma  se  intanto  la 
si  fosse  da  tutti  osservata  qual  è,  il  bisogno  di  riformarla  non  ci  sembre- 
rebbe cosi  urgente,  poiché  gl'inconvenienti  che  si  deplorano  sarebbero  molto 
minori.  Se  bastasse  far  leggi  e  disforie  e  tornare  a  farle,  e  non  occorresse 
altro,  noi  saremmo  la  prima  nazione  di  questo  mondo.  Se  se  ne  potesse  fare 
una  sola,  che  insegnasse  a  osservare  quelle  che  ci  sono  !  Che  bella  legge, 
che  santa  legge  !  E  che  immenso  risparmio  di  inquietutiini,  di  tempo  e  di 
fatiche  ! 


Prof.  Fr.  PKOTONOTARI,  Direttore 


David  Marchionni,  Responsabile. 


^^. 


Firenze  -  G.  BARBERA  -  Editore. 


E  pubblicato  : 

ALFONSO    LA   MARMORA 

COMMEMORAZIONE 

(5  Gennaio  1879). 
Un  Tol.  in-8°  dì  pag.  200.  —  Lire  3. 


Si  vende  a  profitto  dei  Monumenti  da  inalzarsi  in  Torino  ed  in  Biella 
alla   memoria   del   g-enerale   La   Marmerà. 
Dirigere  le   domande   all'Editore  G.  BARBÈRA,  Firenze. 


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ALFONSO  LA  MARMORA 


Con  questo  titolo  è  stato  iDubblicato  iu  Firenze  un  melanco- 
nico li}3ro  iu  un  triste  anniversario.  L'autore  non  si  nomina;  ma 
vi  appare  l'amico  costante  e  fidissimo  d'un  uomo  eccellente,  già 
morto  da  un  anno.  Ora,  questa  qualità  suole  spettare  a  pochi  ;  ed 
è  facile  tra'  pochi  riconoscere  e  ricordare  chi  l'autore  possa  essere. 
Un  segreto,  però,  così  facile  a  rivelare,  mi  par  l^ene  di  rispettarlo. 
Anche  l'affetto  e  la  devozione  ha  la  sua  verecondia  ;  e  l'autore,  che 
più  che  parlar  egli  stesso  dell'uomo  di  cui  narra  il  cuore  e  lo  spi- 
rito, ha  raccolto  con  una  diligenza  sagace  e  amorosa,  dalle  lettere 
e  dagli  scritti  di  lui,  i  tratti  più  opportuni  a  disegnarlo  e  colorirlo, 
ci  avrà  maggior  grado,  se  noi  lo  teniamo  nascoso  dietro  l'ombra 
dell'  amico  suo,  come  egli  già  vi  si  è  nascoso  da  sé. 

Non  si  ripensa  ad  Alfonso  La  Marmora  senza  rimorso.  Egli  ha 
vissuto  73  anni  ;  ma  il  forte  ordito,  con  cui  l'aveva  tessuto  Iddio, 
sarebbe  durato  ancora  più  a  lungo,  se  il  dolore  non  gliel' avesse 
consumato.  E  di  questi  73,  si  può  dire,  che  gli  ultimi  dodici,  egli 
li  vivesse  quasi  del  tutto  inutile,  se  non  a  sé  e  alla  storia,  alla 
vita  pubblica  del  suo  paese,  cui  pure  aveva,  con  tanto  frutto,  con- 
sacrato tutto  sé  stesso,  insin  quasi,  son  per  dire,  da  fanciullo. 

Il  La  Marmora  scriveva  il  12  agosto  1866  da  Padova  : 

«  I  tormenti  morali  di  questi  due  ultimi  mesi  logorarono  il 
mio  fisico.  Feci  uno  sforzo  supremo  per  sollevare  il  paese  da  que- 
st'ultima orrenda  posizione.  Ora,  non  ne  posso  più.  Se  continuassi, 
tradirei,  colle  sorti  dell'esercito,  quelle  d'Italia.  Ora,  abbiamo  ar- 
mistizio. Una  sola  cosa  io  chiedo,  la  mia  dimissione  da  ministro 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Aprile  1819.  24 


394  ALFONSO   LA  MARMORA. 

e  da  capo  di  stato  maggiore;  non  desidero  né  altro  comando  ne 
altra  posizione.  »  Parole  sconsolate,  e  che  mostrano  quanto  pro- 
fonde dovessero  essere  le  ragioni  d'  abbattimento,  perchè  si  sen- 
tisse così  prostrato  d'animo  un  uomo  pure  fortissimo.  E  le  ragioni 
v'erano. 

Più  si  studia  quell'angoscioso  periodo  della  storia  nostra,  che 
corre  dal  24  giugno  1866,  giorno  della  battaglia  perduta  di  Cu- 
stoza,  al  12  agosto,  giorno  dell'armistizio  angoscioso  di  Cormons;  e 
più  s' intende  perchè  la  tempra  d'un  uomo,  che  l'aveva  pure  ada- 
mantina, si  dovesse  sentire  spezzata.  Un  immenso  peso  aveva  gra- 
vato, durante  quel  tempo,  le  spalle  di  lui.  Egli  era  caduto,  a 
principio  della  campagna,  in  un  errore,  dal  quale  la  natura  del 
suo  spirito  l'avrebbe,  per  sé,  tenuto  lontano,  ma  in  cui  lo  trascinò 
una  cotal  bontà  d'animo,  molta  devozione  al  Ee,  uno  schietto  e 
semplice  affetto  del  suo  paese,  la  coscienza  che  l'autorità  sua  mi- 
litare non  avrebbe  trovato,  come  prima  d'allora,  animi  abba- 
stanza docili  e  volonterosi  in  quegli  i  quali  v'  avrebbero  dovuto 
sottostare,  e  forse  ancora,  una  non  sufficiente  sicurezza  di  sé  me- 
desimo. Egli  accettò  un'organizzazione  del  comando  dell'esercito, 
nella  quale  la  responsabilità  principale  era  sua,  ma  pure  siffatta, 
che  in  quella  stessa  lettera  citata  più  su,  egli  potette  dire  :  «  Nel 
48,  al  campo  di  Carlo  Alberto,  essendo  prima  maggiore  e  poi  co- 
lonnello, ero  più  ascoltato  che  non  lo  fui  in  questa  campagna,  » 
dove  pur  era  stato  sin  da  principio,  e  tra  infinite  ambiguità  e  male 
voglie  e  sospetti  e  dinieghi  e  vanità  non  sue,  era  rimasto  capo 
di  stato  maggiore. 

La  battaglia  del  24  giugno  non  era  stata  perduta  senza  qual- 
che parte  non  di  colpa,  ma  d'errore  suo.  Egli  annotò  a  un  mio 
scritto  :  *  «  Chi  non  è  militare,  non  si  vuol  persuadere,  che  i  nove 
decimi  delle  battaglie  avvennero  per  sorpresa.  Ilarengo,  Magen- 
ta, Solferino,  Sadoiva  ;  e  gli  Austriaci  furono  sorpresi  a  Custo- 
za.  »  Il  che  è  vero  ;  ma  non  impedisce  che  l'abilità  del  generale 
è  nel  volgere  la  sorpresa  a  proprio  vantaggio,  e  nell'averue  pronti 
i  mezzi  per  riuscirvi.  L'esempio  appunto  degli  Austriaci  a  Custoza, 
come  dei  Prussiani  a  Sadowa  e  dei  Francesi  nelle  altre  tre  bat- 
taglie citate,  prova  che  si  può  essere  sorpresi  e  vincere.  Non  serve 
aggiungere  che  è  tutt'altra  cosa  l'essere  sorpresi  e  perdere.  Nella 
battaglia  stessa  mostrò,  in  genere,   molta  chiarezza   d'  intuito   e 

*  Al  capo  III  del  mio  lavoro  «  Siili'  alleanza  prussiana  e  V  acquisto  della 
Venezia,  »  pubblicato  nel  fascicolo  della  Nuova  Antologia  dell' aprile  1869,  vi  fece 
parecchie  note  manoscritte  a  lapis,  come  soleva,  e  me  le  mandò. 


ALFONSO  LA  MARMORA.  395 

molta  prontezza  di  risoluzioue  sul  campo,  da  per  tutto  dov'  egli 
fu  e  potette  essere;  ma  non  aveva  ordinato  il  modo  di  portare 
la  volontà  dov'egli  non  poteva  essere  di  persona  e  comunicare  l'im- 
pressione che  facevano  in  lui,  a  cui  dovevano  metter  capo,  le 
vicende  diverse  della  battaglia.  Ma  qui  finiscono  le  censure,  quanto 
minori  e  quanto  diverse  da  quelle  colle  quali  fu  con  tanta  slealtà 
amareggiato,  perseguitato  più  anni  ! 

Fu  detto  ch'egli  perdesse  il  capo,  biasimo  che  lo  pungeva  più. 
d'ogni  altro.  «  Devo  passare  (scriv'  egli  non  ricordo  ben  dove)  per 
un  generale  che  ha  perso  il  capo  »  quando  davvero  tutta  la  sua 
condotta  militare,  a  Genova,  nella  campagna  del  1859,  in  Crimea, 
a  Custoza  stessa,  avevan  provato  eh'  egli  aveva  conservata  lu- 
cidissima la  mente,  così  prima  che  la  battaglia  s'appiccasse,  come 
nel  fervore  di  questa.  Fu  detto  che  disperasse  dell'esercito,  e  lo 
calunniasse  egli,  che  il  giorno  stesso  della  battaglia  scriveva  da 
Cer lungo  al  ministro  della  guerra,  che  due  corpi,  il  V  e  il  2", 
erano  rimasti  quasi  intatti,  e  avrebbe  cercato  di  trarne  il  mag- 
gior partito  possibile  ;  (^)*  e  il  25  già  presentiva,  chs  gli  Austriaci 
non  avrebbero  inseguito  e  si  apparecchiava,  in  ogni  caso,  ad  im- 
pedirglielo, quantunque  gli  paresse  deplorabile  la  condizione  di 
quella  parte  dell'esercito,  che  s'era  battuta,  ed  era  stata  disfatta  ;  (^). 
e  risolveva  d'indietreggiare  alquanto  non  per  eseguire  una  ritirata, 
ma  per  mutare  il  piano  di  guerra,  poiché  il  primo  era  fallito  ;  (^) 
più  speranzoso  di  ripigliare  la  guerra  subito,  che  non  si  mostrasse 
il  Cialdini,  il  cui  corpo  era  pure  intatto  ;  (^)  e  il  27  assicurava  Bre- 
scia che  nessun  assalto  imminente  avesse  a  temere  ;  (^)  e  raccolte 
più  esatte  informazioni  della  condotta  delle  truppe  nella  batta- 
glia, ne  scriveva  al  ministro  della  guerra  parole  di  grandissima 
lode;  (^)  e  il  28  ne  diceva  eccellente  lo  spirito.  (^) 

Ma  se  uè  nella  battaglia  del  24,  né  nei  giorni  che  seguirono^ 
il  La  Marmerà  si  smarrì,  fece  assai  maggiore  e  più  difficile  prova 
non  ismarrendosi  nei  due  mesi  che  seguirono. 

Durante  questi,  mentre  la  condizione  del  comando  dell'esercito, 
come  potrebbesi  provare  con  documenti,  non  solo  era  rimasta  cat- 
tiva, ma  s'  era  peggiorata,  e  l'autorità  sua  era  di  soppiatto  e  aperta- 
mente più  contrastata  di  prima  in  mezzo  a  una  confusione  grandis- 
sima dello  spirito  pubblico,  che  faceva  vacillare  la  testa  quasi  d'ogni 
altro  uomo  di  stato  o  generale  in  Italia,  egli  dalla  coscienza  chiara 


*  Le  note  segnate  con  numero  progressivo  trovansi    in  fine  di  questo  scritto, 
pag.  412  e  seg. 


396  ALFONSO   LA  MARMORA. 

del  suo  dovere,  dalla  persuasione  semplice,  che  ciò  che  solo  importava 
fosse  il  compierlo,  fu  manodotto  ad  assumere  sopra  di  sé  le  responsa- 
bilità le  più  grandi,  affrontandole  con  un  coraggio  civile  tanto  più 
raro  ed  ammirevole,  che  nessuno  aveva  più  diritto  di  chiederlo  a  lui. 
Verso  la  metà  del  luglio,  noi  ci  trovavamo  nella  posizione 
militare  la  più  disadatta  ad  effettuare  l'ideale  politico  di  restau- 
razione nazionale  che  s'era  andato  maturando  nel  ^cuore  della 
parte  più  ardente  del  paese  e  nel  suo  governo.  Noi  avevamo  ri- 
pigliata la  guerra  il  giorno  dopo  che  la  Prussia  aveva,  si  può 
dire,  finita  la  sua;  ed  eravamo  costretti  a  farlo  entrando  in  un 
territorio,  che  il  giorno  innanzi  di  principiare  ad  occuparlo  era 
già,  si  può  dire,  diventato  nostro.  Al  generale  Cialdini,  che  do- 
veva condurre  la  seconda  campagna,  questa  pareva  oramai  una 
«  buffonata.  »  Pure,  al  generale  La  Marmora,  che  da  molti  giorni 
premeva,  perchè  quegli  rompesse  gl'indugi,  ed  [invadesse,  vali- 
cando il  Po,  la  Venezia,  doleva  che  questa  dovesse  essere  ricevuta 
oramai  in  dono  dalla  Francia,  al  cui  imperatore  l'Austria,  disfatta 
in  Boemia  e  disperata  di  mantenersela,  l'aveva  ceduta.  Egli,  {ami- 
cissimo di  Napoleone  III,  reputava  un'umiliazione  ricevere  in  dono 
da  lui  la  Venezia  ;  «  tutti  crederanno  che  noi  tradiamo  la  Prussia; 
non  si  potrà  più  governare  in  Italia,  Vescrcito  non  avrà  jnù 
prestigio.  »  Di  fatti,  gli  Austriaci  abbandonavano  a  gran  fretta 
r  Italia  ;  (^)  e  a  noi  pareva  di  suprema  importanza,  creare  prima 
che  l'armistizio  si  cominciasse  a  trattare,  una  posizione  militare 
vantaggiosa  per  noi.  (^)  Il  16  luglio,  il  generale  Cialdini  asseriva 
che  occorressero  ancora  otto  o  dieci  giorni  per  averla  tale.  ('")  In- 
tanto il  principe  di  Bismarck,  a  cui  premeva  mantenerci  in  que- 
st'ardore di  speranze  e  in  questo  solletico  di  guerra,  sino  a  che 
non  si  fosse  risoluto  egli  stesso  sull'opportunità  di  sospendere  le 
ostilità  da  parte  sua  e  di  far  la  pace  coll'Austria,  e' induceva  a 
credere  che  niente  fosse  più  alieno  dal  suo  animo  del  dar  tregua 
all'Austria  sconfitta.  (")  Ma  fu  altrimenti,  quando  egli  ebbe  preso 
il  suo  partito;  il  21  Juglio  ci  voleva  ancora  decisi  a  combattere;  ('^) 
il  26,  giorno  [in  cui  firmò  l'armistizio  e  i  preliminari  di  pace  a 
Nikolsburg,  non  ci  accordò  di  ritardarne  la  conclusione  d' un'ora 
sola.  ('^)  E  intanto,  a  noi  la  perdita  della  battaglia  di  Lissa  (20 
luglio)  aveva  accresciuto  lo  stimolo  di  ricuperare  la  riputazione 
del  valore  e  dell'armi  italiane;  e  la  principiata  occupazione  del 
Tirolo  aveva  sollevato  le  ambizioni  ed  acceso  i  desiderii.  ('^)  Il 
generale  Lamarmora,  sinché  la  Prussia  era  parsa  inclinata  a  con- 
tinuare la  guerra,  aveva  creduto  che  si  dovesse  continuarla  anche 


ALFONSO  LA.  MARMORA.  397 

noi  ;  ma  intese  subito  che,  soli,  era  una  follìa  il  tentarlo.  *  L'  eser- 
cito, che  aveva  inteso  correre  dietro  gli  Austriaci,  per  congiungersi 
coi  Prussiani  sotto  le  mura  di  Vienna,  si  trovava  ora  in  i^ericolo, 
sparso  per  la  Venezia,  di  avere  ad  affrontar  solo  gli  Austriaci,  che 
sicuri,  sciolti  d'ogni  paura  per  parte  de'Prussiani,  accennavano  a  tor- 
nare da  ogni  parte.  Il  generale  Cialdini  non  osava  retrocedere  ;  non 
poteva  avanzare;  disperava  di  vincere.  (^^) Il  Ministero,  prevenuto  da 
quella  che  si  chiama  opinione  pubblica,  ma  che  talora  è  il  clamore 
dei  più  petulanti  e  dei  meno  compromessi,  non  cessava  di  esprimere 
desiderii,  e  di  affacciare  pretensioni,  che  non  potevano  trovare  nes- 
suna soddisfazione.  ('^)  Finché  il  generale  La  Marmora  prese  tutta 
sopra  di  sé  la  responsabilità  della  decisione,  che  tutti  schivavano, 
e  tutti  pure  credevano  urgente.  L'8  agosto  dette  al  generale  Ga- 
ribaldi e  al  generale  Medici  1'  ordine  di  ritirare  le  truppe  dal 
Tirolo  ;  e  il  12  fu  concluso  1'  armistizio  di  Cormons,  non  un'  ora 
prima  del  bisogno. 

Ho  cominciato  dal  ricordare  queste  due  date  della  vita  del 
generale  La  Marmora,  il  24  giugno,  e  il  12  agosto,  perchè,  se  la 
prima  non  aveva  accresciuto  i  suoi  meriti  col  paese,  la  seconda 
segna  il  più  gran  servigio  che  gli  si  sia  reso.  Se  il  generale  non 
aveva  risposto  a  Custoza  all'  aspettazione  che  s' era  concepita  di 
lui,  il  seguito  della  campagna  provò  che  di  nessun  altro  dei  ge- 
nerali nostri  noi  avremmo  potuto  desiderare  che  avesse  tenuto  il 
suo  posto;  e  tutto  il  suo  contegno,  nel  tratto  di  tempo  trascorso 
tra  il  giugno  e  l' agosto,  mostrò  quanta  fosse  la  lealtà  sua  nel  vo- 
lere, proseguendo  la  guerra,  tenere  tutta  la  promessa  fatta  alla 
Prussia,  e  come  sapesse  far  tacere  nell'  animo  suo,  il  più  ingenua- 
mente e  interamente,  ogni  sentimento  di  rivalità,  di  gelosia,  di 
presunzione, ('■)  parendogli  naturale,  ovvia,  doverosa  ogni  maggiore 
abnegazione;  **  e  infine,  quando  la  Prussia,  dopo  averci  spronato 
a  continuare  con  ardore  la  guerra,  ci  ebbe    lasciati  soli,  egli  fu 


*  Scrive  COSI  in  una  di  quelle  note  delle  quali  ho  discorso  altrove:  «  Finche 
la  Prussia  stava  con  noi,  io  era  perfettamente  d'accordo  col  barone  Ricasoli  di 
continuare  la  guerra,  e  lo  prova  il  mio  contegno  e  la  mia  immediata  adesione  di 
ffidare  14  divisioni  al  gpnerale  Cialdini  come  comandante  indipendente.  Ma  quando 
era  chiaro  che  la  PnisMa  ci  abbandonava,  me  ne  andai  a  Rovigo,  e  mi  tenni  in 
disparte,  finché,  abbandonato  e  dalla  Prussia  e  dalia  Francia,  e  che  il  Ministero 
troppo  comprome^-so  non  osava  pigliare  risoluzioni,  ordinai  io  il  ritiro  di  Medici 
e  di  Garibaldi  dal  Tirolo.  » 

"  Un  giorno  egli  k  spinse  al  punto  che  Vittorio  Emanuele,  abbracciandolo,  gli 
disse:  •«  Oh!  no;  caro  La  Marmora,  questo  è  troppo.  =>  Commemor.  p.  11".  Cita: 
Un  po' più  di  luce;  2^^  parte  (inedita). 


398  ALFONSO  LA   MARMOKA. 

quello,  che  intese  cou  fermezza  il  solo  partito  che  riraaneva,  e  come 
la  dignità  consistesse  nel  prenderlo  con  quella  semplicità  e  dirit- 
tura, che  sono  la  miglior  prova  ed  il  più  chiaro  segno  della  for- 
tezza d' animo  così  in  ciascuna  singola  persona,  come  in  un  popolo. 

E  in  questa  qualità  il  La  Marmora  è  tutto.  Il  risorgimento  ita- 
liano ha  avuto  maggiori  uomini  di  lui  ;  ma  e'  e'  era  nella  sua  indole 
qualcosa,  che  dà  all'immagine  sua  un  rilievo  e  un  significato,  che  la 
rende  preziosa  e  salutifera  a  riguardare.  Il  suo  genio  è  un  senti- 
mento; un  sentimento  scevro  d'ogni  affettazione,  che  ogni  atto 
umano  abbia  una  regola,  facile  a  percepire,  e  cui  bisogna  seguire. 
Nessuna  utilità  può  distogliere  dal  seguirla;  anzi  nessuna  utilità  è 
possibile  di  ritrovare  nel  non  seguirla.  Avanti  a  questa  regola,  che 
sovraneggia,  scompare  l' interesse  della  persona.  La  lode  o  il  bia- 
simo hanno  piccolo  valore,  fuori  che  in  quanto  servano  a  confor- 
mare l'atto  umano  a  quella  regola,  o  a  castigarlo  se  ne  devia. 
Cotesti  ideali  di  uomini  non  sono  sempre  i  più  abbaglianti,  ma  sono 
i  più  puri  ;  non  mirano  a  mete  molto  sublimi  e  spettacolose,  non 
muovono  o  commuovono  troppo  intorno  a  sé,  ma  il  complesso  delle 
idee  ed  affetti  che  li  costituiscono,  è  il  più  adatto  ad  un  andamento 
della  società  umana  tranquillo,  onesto,  sano,  sicuro.  Sono  i  veri 
ideali  proi^rii  ad  educare  le  generazioni  delle  società,  che  non  vo- 
gliono essere  rimescolate  e  messe  sossopra.  Il  general  La  Marmora 
dovrebb'essere  imparato  a  cuore,  così  per  dire,  nelle  scuole  italiane. 

Un  altro  uomo  dabbene,  che  fu  molto  amico  di  lui,  e  che  è 
ancora  uno  di  quegli,  la  cui  immagine  serena  è  utile  a  contem- 
plare, il  generale  Dabormida,  scriveva  in  alcuni  consigli  al  suo 
figliuolo  :  «  Position,  honneurs,  richesses  méme  ne  peuvent  garantir 
une  existence  tranquille.  Cette  garantie  ne  peut  ètre  donnée  que 
par  les  qualités  personnelles,  et  encore  cette  garantie  ne  peut-elle 
pas  s'étendre  à  la  tranquillité  matérielle,  mais  seulement  à  la  paix 
de  la  conscience.  Fais  ce  que  dois,  advienne  ce  que  pourra,  doit 
ètre  la  maxime  de  l'homme  honnéte  et  de  caractère,  c'est  la  maxime 
de  notre  cher  La  Marmora  dont  le  dévouement  à  son  pays  et  à 
son  roi  ne  connaìt  pas  de  bornes,  et  qui  est  toujours  prét  à  se 
sacrifier  au  bien  public,  parce  qu'il  a  la  forte  et  admirable  convic- 
tion  que  le  premier  devoir  du  citoyen  est  de  faire  taire  son  propre 
intèret  devant  l'intéret  general.  Il  n'y  a  pas  de  doute,  qu'il  est 
méconnu  et  mal  compensé.  Mais  si  tu  pouvais  lire  au  fond  de  son 
coeur,  tu  trouverais  qu'il  ne  se  trouve  pas  malheureux.  *  »  Ci  aveva 

*  Nuptialia.  Pubblicazione  (di  cento  esemplari)  l'alta  uel  giugno  del    1878    da 
L.  Ghiaia  ;  p.  46. 


ALFONSO   LA  MARMORA.  399 

ad  essere  molto  di  moralmente  salubre  e  vigoroso  in  un  paese, 
nel  quale  la  vena  del  sentimento  morale  durava  così  limpida  nel- 
l'animo di  persone  cui  erano  spettate  le  principali  parti  nelle  milizie 
e  nel  governo  ;  ed  è  brutto  segno  di  decadenza,  se  uomini  sifiatti 
muoiono,  e  nessuno  appare  a  surrogarli.  Ma  checché  sia  di  ciò? 
non  ha  dubbio  che  nelle  parole  citate  un  uomo  buono  dipinse  un 
uomo  buono  ;  e  la  dipintura  che  muove  dal  cuore,  raffigura,  nella 
verità  sua,  un  cuore  eccellente. 

In  questa  semplice  ricerca  e  nel  naturale  adempimento  del 
dovere  il  La  Marmora  era  tutto.  Allievo  a  12  anni  della  E.  Ac- 
cademia militare,  a  18  sottotenente  d'  artiglieria,  a  19  luogote- 
nente, a  27  capitano,  a  41  maggiore,  in  ciascuno  di  questi  gradi, 
dall'uno  all'altro  dei  quali  passa  all'ora  sua,  non  solo  senza  chie- 
dere 0  desiderar  favori,  ma  pronto  a  respingerli,  se  gli  si  offris- 
sero, *  ha  studiato  per  prima  cosa  quale  fosse  il  mezzo  di  com- 
piere bene  1'  ufficio  suo,  e,  o  gli  s' approvasse  o  no  dagli  altri,  o 
ci  trovasse  o  no  compenso  di  lode,  praticarlo.  Egli  ha  ingegno, 
sottile,  curioso.  Non  gli  basta  fare,  ma  vuol  le  cagioni  del  fare. 
Non  gli  basta  sapere  come  si  fa  in  sua  casa;  vuol  sapere  come 
si  fa  in  casa  altrui.  Il  suo  spirito  non  è  audace,  ma  non  è  mogio. 
Non  ama  il  muovere  senza  sapere  dove  si  posa  il  piede  ;  ma  ama 
anche  meno  lo  stare.  Innanzi  di  potere,  ha  già  i  fini  nobili  del 
potere  davanti  agli  occhi.  Non  ha  fretta,  non  lo  muove  speranza  di 
dover  salire  o  prima  o  poi  ad  un  posto  donde  potrà  dirigere  gli  altri 
a  sua  posta,  od  attuare  con  autorità  qualche  concetto  di  riordi- 
namento militare  o  civile  ;  ma  intanto  forma  nel  suo  spirito  dili- 
gente e  paziente  concetti  adatti  ad  introdurre  migliori  e  più  efficaci 
ordini  nell'esercito,  quando  che  sia.  11  giorno  che  gli  occorreranno 
per  agire,  gli  saranno  stati  maturati  da  uno  schietto  e  lungo  studio 
delle  cose,  non  gli  sorgeranno  tumultuarli,  scompigliati,  dalla 
smania  di  fare  o  di  parer  di  fare,  stantechè  uno,  bene  o  male,  di 
sbalzo,  senza  riputazione,  senza  preparazione,  si  trovi  pure  giunto 
dove  è  un  amor  proprio  oramai,  una  passione  egoista,  il  motivo 
necessario  dell'agire  anche  a  caso. 

Ebbe  poi  promozioni  rapide;  colonnello  in  tre  anni,  mag- 
giore generale  in  sei  mesi,  luogotenente  generale  in  altri  sei;  ** 
generale  d'armata  dopo  altri  sei.  Ma  a  nessuno  parvero  troppo 

*  Commemor.,  p.  84.  «  Vidi  Pei  itti,  scrive  da  Milano,  il  4  giugno,  che  va  per 
alcuni  giorni  in  Alessandria.  Pare  che  potrà  anche  venire  qui  destinalo  invece  di 
Mollerd.  Come  ti  puoi  immaginare,  mi  farebbe  piacere.  Ma  non  intendo  di  chie- 
derlo, come  non  chiedo  mai  nulla  che  possa  sembrare  un  favore  qualsiasi. 

**  Copio  dalla  bella  Comìnemorazione  di  Paulo  Fambri.  Padova,  1878,  p.  6- 


400  ALFONSO  LA  MARMORA. 

rapide  eccetto  che  a  lui.  lu  effetti,  di  alcuna  delle  ultime  scrive 
che  :  «  non  sembrandogli  avere  meritato  quel  posto  »  che  gli 
si  conferiva  nello  stesso  tempo  dell'ufficio  di  commissario  straor- 
dinario a  Genova  il  1  aprile  del  1849,  innanzi  d' aver  domata 
r  insurrezione,  «  egli  ne  tenne  nascoso  il  decreto  »  sin  dopo 
presa  la  città.  E  già  l'aveva  rifiutato  una  volta.  La  «  sete  di  avan- 
zamento »  pareva  a  lui  una  delle  maggiori  pesti  d'un  esercito,  e 
r  impensieriva  per  quello  di  Francia.  La  teneva  quindi  lontana 
da  sé.  Quando  nel  luglio  del  1860  furon  fatte  molte  promozioni 
nell'esercito,  pur  giustificate  e  necessarie,  egli  scrisse  a  un  suo 
amico:  «  Le  ultime  promozioni  hanno  portato  una  immensa  per- 
turbazione, che  il  piacere  di  avere  con  me  Petitti  non  mi  fa  meno 

deplorare Tale  è  lo  stato  dell'  esercito  nel  quale  non  si  parla 

più  che  di  promozioni,  stipendi  ed  altri  vantaggi;  e  si  può  star 
di  buon  umore  ?  »  Che  direbbe  oggi  ?  Più  d'un  ufficiale  m'ha  detto 
che  la  malattia  nell'  esercito  più  che  mai  ferve  ;  e  se  è  naturale 
che  vi  s' inoculi  dopo  una  guerra,  sarebbe  stato  naturale  altresì 
che  una  lunga  pace  l'avesse  risanata.  Se  non  che  l'umore  dei  par- 
titi politici  ha  operato  in  contrario;  e,  se  non  sono  informato 
male,  l'ha  esacerbata  e  la  esacerba  tuttora. 

Dovremmo  ricordarci  davvero  della  vita  costituzionale  del 
Piemonte,  assai  più  che  non  facciamo.  Non  i^i  può  dire  che.  per 
essersi  il  Piemonte  piccolo  convertito  in  un'  Italia  grande,  gli 
uomini,  e  di  quella  e  d'ogni  altra  regione  d'Italia,  sieno  diventati 
0  migliori  0  maggiori.  Anzi,  si  può  dire  che  scemino  nella  mi- 
sura stessa  nella  quale  ci  allontaniamo  dai  primi  tempi  della  pro- 
mulgazione dello  Statuto  o  della  formazione  del  Regno.  Anzi  ab- 
biamo avuto  a  disdegno  i  pochi  che  eran  rimasti,  e  ci  siamo 
affrettati  a  gittarli,  come  ciarpe  vecchie,  da  banda.  Frettolosi  e 
poco  scrupolosi  j)o/vY/c/r/«5,  a  chiamarli  col  loro  nome  americano, 
che  per  fortuna  manca  l' italiano  ancora,  non  hanno  avuta  pace, 
sinché  vedessero  tolti  di  mezzo  uomini  avanti  a'  quali  il  rossore 
montava  loro  sul  viso.  E  sia;  ma  conserviamone  la  memoria,  la 
memoria  non  dei  maggiori  soltanto,  ma  dei  minori  ;  poiché  que- 
sti ultimi  possono  soli  essere  esempio  ai  più,  che  v'ha  virtù,  delle 
quali  tutti  possono  essere  capaci,  se  ve  n'ha  altre  delle  quali 
possono  essere  capaci  soltanto  pochi.  Nelle  lettere  del  La  Mar- 
mora  noi  incontriamo  parecchi  di  questi  uomini,  nei  quali  ap- 
pare spiccato  im  tipo  che  va  venendo  meno,  il  tipo  dell'uomo,  che 
comanda  senza  orgoglio  ed  obbedisce  senza  bassezza;  devoto  al 
Ee,  allo  Stato;  non  i)resuntuoso,  non  turbolento,  non   invidioso; 


ALFONSO   LA    MARMORA.  401 

che  all'ufficio  pubblico  si  sobbarca,  se  chiamato,  non  si  affretta, 
impaziente;  che  rispetta  gli  ordini  politici  che  trova,  e  non  im- 
magina che  la  prima  cosa,  la  cosa  necessaria,  è  di  mutarli,  ed 
egli  sia  destinato  a  mutarli;  che  non  misura  i  doveri  suoi  dalla 
soddisfazione  che  prova  ad  adempierli,  e  dall'utilità  che  gli  pro- 
cura l'adempierli;  che  crede  quelli  sempre  maggiori  che  i  suoi 
diritti,  e  pensa  che  il  sentimento  del  dovere  è  la  vera  radice 
della  dignità,  quello  del  diritto  è  la  più  ordinaria  scaturigine 
della  petulanza,  per  usare  una  parola  del  La  Marmora  appunto. 
Il  Balbo,  lo  Sclopis,  il  Collegno,  il  Moffa  di  Lisio,  il  Dabor- 
mida,  il  Vegezzi,  il  Cassinis  e  tanti  altri,  che  sono  già  usciti 
di  mente  alla  generazione  nostra,  dovrebbero  esserle  ricordati 
di  nuovo.  Ma  voglio  qui  nominarne  due,  poiché  il  La  Mar- 
mora  me  ne  dà  1'  occasione,  che  la  più  pazza  e  la  più  abbietta 
delle  politiche  ha  ucciso  prima  che  morissero,  il  Valfrè  e  il 
Petitti.  Del  primo  il  Dabormida  scriveva  al  La  Marmora  di 
averlo  suggerito  al  conte  Cavour  nel  1857  per  ministro  della 
guerra  ;  e  che  il  conte  Cavour  n'avesse  proposta  la  nomina  al  Re,, 
del  quale  non  dubitava  che  1'  avrebbe  aggradito  ;  sicché  non  ve- 
deva difficoltà  che  nella  modestia  del  suo  amico  ;  e  questa  appunta 
fu  provata  invincibile,  cosa  la  quale  oggi  parrebbe  impossibile  l 
Del  Petitti  voglio  ricordare,  come,  suo  malgrado,  non  chiama- 
tovi dall'ufficio  suo,  più  premuroso  di  adempiere  un  dovere  diffi- 
cile, che  di  sofisticare  sulla  convenienza  di  commetterlo  a  lui, 
andasse  l'il  agosto  del  1866,  richiesto  dal  La  Marmora,  a  chie- 
dere all'Austria  l'armistizio  a  Cormons.  ('^)  Questa  pareva  al  La 
Marmora  fosse  prova  e  suggello  d'  amicizia  vera,  il  far  sempre 
minor  conto  di  sé  che  della  patria.  E  al  Petitti  si  dovette  so- 
prattutto che  l'armistizio  fosse  concluso  in  maniera  onorevole  per 
r  Italia. 

Però,  quando  nel  maggio  del  1877,  il  Petitti,  il  Cadorna,  il 
Valfrè  furono  mandati  via  dall'  esercito,  ed  il  Ministro  della  guerra, 
che  osò  farlo,  osò  anche  dire  nella  Camera,  eh'  egli  aveva  reso  un 
gran  servigio  all'  esercito,  il  La  Marmora  non  si  seppe  dar  pace. 
Non  era  più  deputato,  poiché  aveva  rinunciato,  né  era  senatore, 
poiché  non  aveva  mai  voluto  essere.  Ma  si  vede,  nelle  sue  lettere, 
che  se  avesse  avuto  modo  di  affrontare  il  ministro  in  Parlamento, 
non  vi  avrebbe  mancato.  Ma  che  !  «  diss'  egli,  Valfrè,  Petitti,  Ca- 
dorna, erano,  dunque,  secondo  il  Ministro,  o  pericolosi  o  incapaci  ?»  * 

*  Commemoraz.,  p.  80. 


402  ALFONSO   LA   MARMOKA. 

Ed  aggiunge  :  «  Io  nou  so  cosa  uè  penseranno  i  tre  generali,  ma 
io  certamente  nou  inghiottirei  un  insulto  simile  !  »  E  ricorda,  come 
il  Petitti  ministro  avesse  ritrovato  «  il  Mezzacapo  in  dispouibilità, 
e,  quel  che  è  peggio,  iu  poco  buon  concetto  per  qualità  militari, 
perchè  si  diceva  che  nel  1859  e  dopo  avesse  fatto  poco  buona  prova 
nel  comando  di  truppe;  e,  nou  ostante  ciò,  l'avesse  richiamato 
dalla  disponibilità,  e  destinato  alla  Presidenza  del  Consiglio  su- 
periore degl'  Istituti  militari,  parendogli  un  ufficio  cotesto,  che 
quegli  potrebbe  «  coprire  opportunamente  ed  onorevolmente.  »  Ed 
esclama:  «  Che  dirà  Ricotti?  se  è  vero  che  il  Ministero  rispondesse 
alla  sua  domanda  di  dispouibilità,  dandogli  1'  ordine  di  partire  per 
Piacenza.  Ma  mai,  neppure  col  governo  assoluto,  si  trattavano  così 

brutalmente  i  generali Cadorna,  rispondendo  ad  una  lettera  di 

rammarico  che  io  gli  scrivevo,  pel  modo  indegno  con  cui  l'hanno 
trattato,  mi  rammenta  che  poco  prima  si  andasse  in  Crimea,  egli 
fece  alla  Camera  un  lungo  discorso  contro  alcune  mie  disposizioni, 
e  che  ciò  malgrado  gli  facilitai  la  sua  carriera.  E  Menabrea,  che 
per  10  anni  votò  contro  il  Ministero,  e  mi  fece  opjiosizione  sin  per 
la  Crimea!...»  E  in  un'  altra  lettera:  «  Ella  ha  ragione  di  scrivermi 
a  proposito  della  condotta  di  Mezzacapo  con  Petitti:  C'est  à  ne 
l)as  y  croire!  Ma  che  in  Senato  nessuno  alzerà  la  voce?  Se  io  fossi 
0  Valfrè  o  Petitti  o  Cadorna,  protesterei  energicamente  contro  al- 
l' impudente  dichiarazione  del  Ministro  ;  e  se  il  Senato  non  la 
biasimasse,  non  ci  metterei  più  il  piede.  » 

Come  vibra  il  sentimento  dell'  uomo  offeso  dall'  ingiustizia  e 
dall' iudignità  !  Qui  non  si  tratta  di  nulla  che  concerne  lui.  Egli 
è  già  fuori  d'ogni  operosità  politica.  Si  può  dire,  che  se  non  ama  gli 
uomini  giunti  gli  ultimi  al  governo,  non  amava  però  più  quelli 
che  sono  stati  sbalzati  da  questi.  Ciò  che  lo  muove,  è  il  danno 
fatto  all'  esercito  ;  è  lo  spettacolo  dato  al  paese  ;  è  il  torto  inflitto 
a  persone  egregie.  Ci  ha  qualcosa  nel  cittadino,  eh'  egli  non  per- 
mette a'  poteri  pubblici  di  violare  ;  anzi,  crede,  che  sia  dell'inte- 
resse pubblico,  che  gli  uomini,  nelle  cui  mani  sta  il  governo,  non 
isperino  mai  che,  nel  caso  eh'  essi  osino  offenderlo,  il  cittadino 
paia  cosi  umiliato  e  rassegnato  da  non  insorgere  contro  di  loro, 
da  non  levarsi  a  combatterli  con  tutte  quelle  armi  che  la  costitu- 
zione dello  Stato  ammannisce  e  permette. 

Ebbene,  questo  sentimento  spiega  tutt'una  j^arte  della  vita  pub- 
blica del  La  Marmerà.  Esso  è  stato  causa,  che  nel  marzo  del  1861 
egli  combattesse  con  tanto  vigore  le  riforme  minori,  che  il  Fanti  in- 
troduceva neir  ordinamento  dell'esercito  fatto  da  lui  ne'varii  suoi 


ALFONSO   L.V   MARMORA.  403 

Ministeri  dal  1848  al  1860;  e  nel  1871  e  nel  1872  combattesse  il  più 
che  potesse  e  sapesse,  collo  scritto  e  colla  parola,  quelle  maggiori 
che  v'  introdusse  il  Kicotti.  A  me  non  può  appartenere  di  giudicare 
chi  avesse  ragione  ;  ma  avrebbe  torto  chi  ascrivesse  l'opposizione  ri- 
soluta del  La  Marmora  a  vanità  offesa.  La  vanità  è  meno  convinta 
e  più  rabbiosa.  Il  La  Marmora  non  era  mosso  da  questa,  di  cui 
non  era  capace,  bensì  dalla  molta  chiarezza  e  precisione  delle  idee, 
donde  moveva  la  critica  sua.  Egli   era   stato  novatore,  ma  misu- 
rato; né  nel  giudizio  dell'  esercito  Piemontese,  né  in  quello  degli 
eserciti  forestieri  aveva  seguito  la  corrente,  senza  fermarla  e  di- 
mandarle le  sue  ragioni.  L'  esercito  Prussiano  era  stato  studiato 
per  il  primo  da  lui  nel  1860,  e  sin  d'  allora  n'  aveva  avvertito  i 
pregi  tuttora  nascosi  agli  occhi  volgari  ;  nel  1861,  aveva  sostenuto 
pubblicamente  alla  Camera  contro  il  Fanti  «  non  esser  tutto  per- 
fetto nell'esercito  Francese  ;  quella  parte  del  meccanismo  che  ri- 
flette la  disciplina  e  le  istruzioni  pratiche  esser  molto  più  semplice 
neir  esercito  Prussiano,  il  quale  poteva  servir  di  modello  a  qua- 
lunque altro;  »  anzi,  nel  ritorno  da  un  suo  viaggio  a  Berlino,  aveva 
scritto  al  Cavour,  che  in  una  guerra  tra  la  Francia  e  la  Prussia, 
niente  assicurava,  che  la  vittoria  sarebbe  rimasta  alla  prima.  Ma, 
l)ronto  ad  ogni  esame  accurato,  non  amava  gli  entusiasmi  facili, 
e  le  imitazioni  frettolose.  E  ragione  o  torto  eh'  egli  avesse  in  taluni 
particolari,  aveva  certamente  ragione  circa  i  modi,  e  i  temperamenti 
coi  quali   qual  sia  riforma,  pur  necessaria,  si   doveva  introdurre 
in  un  ordinamento  militare,  macchina  delicatissima  e  piena  di  con- 
gegni difficili.  Oltreché  aveva  delle  disposizioni  morali  che  fanno 
le  virtù  d' un  esercito,  un  concetto  più  vero,  più  vivace  di  chi  si 
si  sia,  sicché  non  so  se  da  altri  discorsi  o  da  altri  libri  se  ne  trar- 
rebbero nozioni  più  chiare  e  profonde  che  da'  suoi.  Sicché  1'  oppo- 
sizione fatta  da  lui  a  provvedimenti  militari  che   gli  parvero  in 
uno  od  altro  rispetto  dannosi,  ebbe  per  sola  ragione  la  profonda 
convinzione  sua  che  si  noceva  all'  esercito,  e  che,  (Quando  un  danno 
pubblico  era  per  intervenire,  nessun  rispetto  privato,  nessuna  mi- 
nore considerazione  dovesse  trattenere,  chi  poteva,  dal  tentare  di 
stornarlo  od  impedirlo. 

L'io,  come  complesso  di  persuasioni,  era  potente  nel  La  Mar- 
mora  ;  ma  come  complesso  d' interessi  o  di  vanità,  egli  stesso  non 
avvertiva  d'averlo  dentro  di  sé,  se  non  per  dirgli  di  starsi  zitto 
e  tranquillo.  Non  ha  fatto  mai  differenza  nella  sua  condotta  la 
qualità  del  posto  che  occupava.  Nella  campagna  del  1859  egli  non 
ebbe  nessun  ufficio  militare.  Non  accettò  il  comando  d'  una  parte 


404  ALFONSO   LA   MARxMORA. 

dell'  esercito,  né  fu  capo  dello  stato  maggiore.  Seguì  il  Re,  coman- 
dante supremo,  come  ministro.  Uno,  che  non  gli  era  punto  benevolo, 
scriveva  di  lui  :  «  È  un  atto  di  eroico  patriottismo  dal  canto  di  La 
Marmerà  il  sopportare  con  rassegnazione  e  pel  bene  della  cosa  pub- 

l^lica  la  posizione che  gli  è  fatta  all'  esercito.  Ieri  ne  piangeva  di 

rabbia,  e  non  potei  trattenermi  dal  dirglielo.  »  *  Pure,  egli  non  av- 
vertì 0  non  parve  avvertire,  che  in  questa  posizione  egli  ci  stesse 
male  ;  egli  avvertì  soltanto,  che  anche  in  quella  egli  aveva  doveri, 
che  non  diminuivano  punto,  solo  i^erchè  non  si  sarebbe  potuto  censu- 
rarlo se  non  gli  avesse  adempiuti.  Nel  maggio  del  1859,  mentre 
l'esercito  Sardo  era  già  accampato  tra  Alessandria  e  Valenza,  e  gli 
Austriaci  minacciavano  d' impedirne  la  congiunzione  coli'  esercito 
«Francese  che  doveva  venire  in  buona  parte  da  Genova,  fu  risoluto 
dal  Comando  supremo  dell'  esercito  Sardo,  di  ritirarsi  sull'  Appen- 
nino. Questa  risoluzione  si  sapeva,  che  il  generale  La  Marmora 
l'avrebbe  combattuta;  sicché  parve  miglior  consiglio  il  nascon- 
dergliela. Pure,  egli  n'  entrò  in  qualche  sospetto  ;  e  quantunque 
nessuno  avrebbe  potuto  accusar  lui  delle  conseguenze,  a  lui  parve 
dover  suo  l' impedirlo,  poiché  gli  pareva  nocivo.  Corre  a  San  Sal- 
vatore dov'  era  il  Re,  che  aveva  appunto  dato  1'  ordine  della  riti- 
rata, persuaso  che  fosse  necessaria.  Quando  il  La  Marmora  vi  giunse, 
il  Re  era  già  chiuso;  v'era  ordine  che  non  fosse  lasciato  entrare 
nessuno.  »  Ma  il  La  Marmora,  quantunque  gii  s'impedisse  la  via 
non  ebbe  pace,  sinché  il  Re  non  l' ebbe  udito,  e  gridato  all'  usciere 
Lascialo  entrare.  Doveva  distogliere  il  sovrano  da  un  partito  che 
questi  aveva  già  preso,  con  ragioni,  come  gli  era  parso,  buone,  e 
col  consenso  non  solo  dei  suoi  generali,  ma  del  maresciallo  Can- 
robert.  Non  venne  meno  alla  difficile  impresa;  e  quando  il  Re  gli 
disse,  che  era  vano  oramai  il  discutere  un  ordine  già  eseguito, 
rispose  fieramente  :  «  Quand'  anche  si  ritirassero  tutti,  non  sarà 
mai  che  mi  ritiri  io  ;  preferisco  mille  volte  essere  fatto  prigioniero 
dagli  Austriaci,  anziché  lasciarmi  sputare  in  viso  da' Francesi.  » 
Il  maresciallo  Canrobert,  presente,  finì,  interrogato  dal  Re,  col 
dare  ragione  al  generale  La  Marmora;  e  il  Re  finì  col  mutarsi 
di  parere  egli  stesso  e  col  dare  ordine,  che  la  ritirata  si  sospen- 
desse, e  le  truppe  ripigliassero  i  loro  posti  di  prima.  Poiché  Vit- 
torio Emanuele,  delle  due  qualità  che  possono  avere  i  principi: 
—  seguire  i  consigli  buoni  quantunque  sgradevoli,  e  prediligere  chi 
ne  gli  dà  —  aveva  certamente  la  prima. 

*  Commemorai,  p.  82. 


ALFONSO  LA.  MARMORA.  405 

Chi  corre  così  difilato  al  dovere  suo,  né  bada,  se  gli  accidenti 
del  posto  in  cui  egli  è,  gli  levano  l' obbligo  di  compierlo,  ma  guarda 
solo  alla  sostanza  dell'  atto  suo,  e  alle  relazioni  in  cui  esso  è  col 
concetto  eh'  ei  s'  è  formato  del  bene,  è  adatto  a  mettere  da  banda 
nella  sua  condotta  molte  considerazioni,  le  quali  non  conservano 
più  in  sé  e  a'  suoi  occhi,  se  non  un  valor  secondario.  Davvero, 
questa  é  vera  natura  di  uomo  politico  in  uno  Stato  libero.  Negli 
Italiani  non  abbonda  ;  la  smania  del  compromesso,  dell'  espediente, 
dell'intrigo  l'uccide.  Questa  smania  é  morbosa,  e  si  può  dire  la 
più  profonda  radice  della  visibile  e  palpabile  debolezza  della  no- 
stra vita  pubblica.  Giova  avere  avanti  agli  occhi,  per  medicarla, 
gli  uomini  che  ne  sono  stati  del  tutto  liberi;  e  il  La  Marmora 
fu  certo  di  quelli.  Una  tale  franchezza  schietta,  aperta,  balda  egli 
mise  a  difendersi  da  un'accusa,  falsa,  scipita,  assurda,  che  gli  ama- 
reggiò tutti  gli  anni  della  sua  vita  dal  1866  in  poi.  L'  accusa,  —  chi 
l'avrebbe  immaginato  —  fu  questa,  eh'  egli  il  quale  era  stato  autore 
e  negoziatore  dell'alleanza  colla  Prussia,  avesse  perduta  a  bella 
posta  la  battaglia  del  24  giugno,  e  soprattutto  indugiato  a  bella 
posta  la  ripresa  delle  ostilità  dopo  quella,  per  ossequio  a'  consigli, 
anzi  a'  voleri  della  Francia.  Non  e'  è  virgola  di  un'  acqusa  siffatta 
che  non  fosse  bugiarda.  Né  la  Francia  aveva  dato  siffatti  consigli  ; 
e  si  può  non  solo  affermare,  ma  provare  che  il  La  Marmora  non  era 
adatto  a  seguire  nessun  consiglio  che  offendesse  non  diciamo  l'onor 
suo,  ma  quello  del  paese.  Ci  bisogna  una  vera  perversità  mentale 
per  pensare,  che  un  generale  volesse  perdere  una  battaglia  a  posta; 
ed  un'  ignoranza  presuntuosa  per  asserire,  che  fosse  colpa  di  lui, 
se  la  ripresa  delle  ostilità  indugiò  più  di  cinque  giorni.  Pure,  una 
cosi  lampante  menzogna  trovò  chi  la  pronunciasse;  ed  una  igno- 
ranza così  presimtuosa  trovò  chi  se  ne  rendesse  colpevole.  E  ciò 
fu  peggio,  che  quegli  i  quali  pronunciarono  la  menzogna,  e  si  pro- 
varono così  presuntuosamente  ignoranti,  non  solo  erano  i  più  potenti 
ma,  e  di  quegli  ancora  che  colla  potenza  accoppiano  una  suprema 
burbanza.  I  Tedeschi,  così  ostinati  nella  ricerca  del  fatto  vero,  sono 
altrettanto  industriosi  e  pertinaci  nel  voler  convincere  altrui  di  un 
fatto  falso,  se  una  volta  ne  son  persuasi  essi  stessi.  La  mente  loro, 
eh' è  delle  più  elette,  è  soggetta  a  prendere  storte,  che  non  si  riesce 
più,  per  nessuno  sforzo,  a  raddirizzare.  E,  favorita  da  espressioni 
o  non  vere  o  dubbiose,  sia  scritte  in  documenti  ufficiali,  sia  uscite 
di  bocca  con  gran  petulanza  a  persone  ufficiali,  si  diffuse,  si  con- 
fermò, si  dilatò  per  tutta  Germania  la  voce,  che  il  generale  La 
Marmora  fosse  stato  infido  all'alleanza  prussiana  stipulata  da  lui. 


406  ALFONSO  LA  MAKMOKA. 

Questa  voce  fu  nutrita,  gonfiata  da  scrittori  d'  ogni  qualità  e  ca- 
libro, e  un  nugolo  di  scrittorelli  vi  danzò  sopra  per  un  gran  tempo. 
Persino  una  parola  fu  inventata:  lamarmorizein;  e  voleva  dire 
essere  di  mala  fede.  Quando  più  tardi  il  generale  viaggiò  in  Ger- 
mania, si  vide  indicato  a  dito,  come  traditore,  lui,  e  scansato 
dalle  persone  di  rilievo  ed  in  grado.  E  nella  sua  patria,  da  pochi 
in  fuori,  non  si  pareva  risentire  1'  afironto  che  gli  era  fatto.  Nes- 
suno pareva  accorgersi,  che  un  uomo,  il  quale  aveva  occupato  così 
alti  posti,  non  poteva  essere  offeso,  senza  offendere  anche  il  paese 
del  quale  aveva  goduto  così  spesso  e  così  meritatamente  la  fiducia. 
Né  le  accorte  frasi  del  governo  prussiano  erano  ribattute  dal  go- 
verno nostro,  né  i  racconti  falsi  autorevolmente  contradetti. 

All'interno  le  accuse  contro  l'incapacità  del  generale,  all'estero 
quelle  contro  la  mala  fede  dell'uomo  di  Stato  si  lasciavano  accu- 
mulare senza  smentita.  Egli  non  rifiniva  di  chiedere,  che  i  fatti 
della  campagna  italiana  del  1866  fossero  ufficialmente  accertati, 
per  sceverare  la  parte  di  responsabilità,  che  potesse  spettare  a 
lui,  nelle  sventure  occorse;  non  se  ne  veniva  a  capo.  Il  partito 
suo  stesso,  nella  Camera,  lo  difendeva  mollemente.  Era  lasciato 
insultare  da  deputati  di  nessun  valore  e  ci  edito,  a'  quali  pareva, 
coU'oltraggiare  lui,  acquistar  merito  e  fede  presso  ministri  fore- 
stieri, il  cui  favore  gli  avrebbe  aiutati  prima  o  poi  a  salire. 
Quanta  amarezza  doveva  essere  da  tanto  malanimo  ed  obblio  get^ 
tata  in  quell'animo  !  Che  schianto  il  sentirsi  accusare,  senza  quasi 
difesa,  di  esser  venuto  meno  a'  piìi  semplici  e  più  facili  doveri 
d'un  galantuomo!  Non  è  meraviglia,  quindi,  che  il  La  Marmora 
prorompesse;  e  poiché  nessuno  bastava  a  far  tacere  così  acerbe 
calunnie,  ci  si  provasse  a  riuscirvi  lui.  E  lo  fece  in  uno  scritto 
celebre,  il  cui  rumore  fu  tanto,  e  tanto  lo  scandalo,  che,  dovendo 
essere  di  due  volumi,  il  secondo  non  é  stato  anche  creduto  bene 
dì  pubblicarlo,  e  tutto  scritto  e  litografato,  aspetta  l'ora  di  venir 
fuori,  e  di  diventar  noto  oltre  la  cerchia  piccola  d'amici,  cui  è 
stato  dato  di  leggerlo. 

Unpo'2)ÌH  di  luce  sugli  eventi  politici  e  militari  delVanno  1866, 
così  s'intitolò  il  libro.  Fu  davvero  luce  meridiana;  ma  l'autore, 
che  era  stato  l'attore  principale  dei  fatti  che  raccontava,  ebbe 
necessità,  per  diffonderne  tanta  che  tutti  oramai  ci  vedessero,  di 
venir  meno  a  troppi  riguardi,  e  a  taluni,  anche  —  bisogna  dirlo  — 
che  gli  uffici  stessi  rivestiti  da  lui  gli  rendevano  doveroso  di  ri- 
spettare. Qui  non  voglio  tornare  sopra  una  quistione  già  dibat- 
tuta più  volte;  poiché  in  questo  scritto  non  mi  sono  proposto  se 


ALFONSO  LA  MAKMORA.  407 

non  di  dipingere  l'uomo  quale  è  stato.  Yu  una  molla  che  scattò 
nel  generale  La  Marmora,  lungamente,  dolorosamente  compressa  ; 
ed  è  facile  predicare  e  provare,  che  sarebbe  stato  più  degno  di 
un  uomo  di  Stato  il  lasciarla  pure  comprimere,  e  1'  impedirne 
lo  scatto;  ma  è  necessario  confessare  altresì,  che  a  tanta  inso- 
lenza d'accuse  crudeli  da  una  parte,  a  tanta  negligenza  di  difesa 
dall'altra,  non  v'è  cuore  che  avrebbe  retto  in  silenzio.  D'altronde, 
non  s'intende  bene  la  pubblicazione  a  cui  si  risolvette  il  La  Mar- 
mora,  se  se  ne  ascrive  il  motivo  tutto  e  solo  alla  difesa  della  sua  per- 
sona. Gli  era  —  e  si  vede  nelle  sue  lettere  —  estremamente  pe- 
nosa la  nube  di  calunnie  e  d'ingratitudini,  dalla  quale  si  vedeva 
attorniato  e  coperto;  ma  gli  era  più  penosa  l'ofFesa  fatta  in  lui 
alla  verità,  alla  giustizia  ed  all'onore  dell'esercito  e  della  patria. 
Parlò  per  sé,  ma  non  era  soprattutto  impensierito  di  sé.  Parlò, 
con  quella  vivacità,  con  quella  franchezza  che  avrebbe  fatto,  se 
fosse  dovuto  venire  a  difendere  il  Petitti  e  il  Valfrè,  sbanditi 
dall'esercito,  in  Parlamento. 

E  le  censure,  pur  necessarie,  lo  aspreggiarono  peggio.  I  docu- 
menti venuti  fuori,  offesero  vanità  e  presunzioni,  al  di  qua  e  al 
di  là  dell'Alpi;  né  sempre  a  ragione.  Sicché  di  fuori  vennero 
premure,  perchè  la  legge  italiana  vietasse  la  pubblicazione  di 
documenti  governativi,  e  di  dentro,  gli  animi  erano  bene  disposti 
a  consentire  a  siffatte  premure.  Del  disfavore,  che  veniva  al  ge- 
nerale La  Marmora  dalle  pubblicazioni  fatte,  si  giovavano  contro 
lui  i  partiti  democratici,  desiderosi  da  una  parte  d'ingraziarsi 
colla  Prussia,  dall'altra  di  abbatter  lui,  che  riputavano  loro  prin- 
cipale e  più  costante  nemico.  Il  generale  La  Marmora,  a  cui  il 
paese  tutto  doveva  più  volte  la  sua  salvezza,  si  sentì  allora  nel 
suo  paese  poco  meno  che  solo.  Anche  quegli  i  quali  lo  difende- 
vano, non  lo  facevano,  secondo  lui,  come  e  quanto  abbisognasse;  e 
all'animo  esulcerato,  pareva  che  gli  si  desse  torto  in  ogni  cosa  se  non 
gli  si  dava  in  tutto  ragione.  Il  calice  traboccò,  quando  il  Governo, 
nel  Codice  penale,  propose  un  articolo,  tutto  inteso  contro  di  lui. 
Ed  egli  allora  prese  di  nuovo  la  penna,  a  dimostrare  che  quella 
disposizione  che  già  il  Senato  aveva  votata,  era  assurda,  dannosa; 
e  i  ministri,  nel  presentarla  avevan  fatto  prova  di  debolezza  e 
lesa  la  dignità  dello  Stato,  perché  vi  s'eran  lasciati  indurre  dalla 
dimanda  imperiosa  d'un  governo  forestiero. 

Il  Generale  non  aveva  torto  in  tutto,  né  in  tutto  ragione. 
Neanche  è  qui  il  luogo  di  sceverare  la  parte  di  quella  e  di  que- 
sto; poiché  è  quistione   morta,  e  che   non    giova  risuscitare.  Ma» 


408  ALFONSO   LA   MARMORA. 

se  v'ha  qualche  eccesso,  è  eccesso  nella  difesa;  e  ad  ogni  modo, 
(luest'uomo,  che  leva  contro  tutti  la  fronte  alta  e  sicura,  e  nella 
coscienza  dell'integrità  sua  combatte  senza  odio,  ma  risoluto  a 
non  desistere,  sino  a  che  non  sia  riconosciuto  il  vero,  è  un'alta 
figura.  Un  giorno,  fu  il  2  giugno  1870,  parecchi  deputati  di  Sini- 
stra presentarono,  i  dissennati,  una  proposta  intesa  a  cacciar  via 
dall'esercito  attivo  il  generale  La  Marmora  come  incapace  al  ser- 
vigio militare.  Con  quelli  che  si  levarono  a  votarla,  si  levò  il 
Generale,  anche  lui.  Qui  si  trattava  dell'attitudine  sua,  e  qualun- 
que opinione  egli  ne  avesse,  poteva  mostrar  di  consentire  con 
quelli  che  gliela  negavano,  o  almeno  abbandonarne  ad  essi  il 
giudizio  come  cosa  che  non  lo  riguardasse.  Ma  avanti  alla  storia, 
al  suo  cognome,  alla  sua  coscienza,  egli  non  poteva  a  nessun 
patto  consentire  di  non  alzarsi  anche  solo  contro  quelli,  i  quali 
gli  parevano  risoluti  ad  annientare  la  sua  riputazione  di  onesto 
uomo  e  di  buon  cittadino.  Un  altro  giorno,  nella  Camera,  il  17  di- 
cembre 1877,  egli  aveva  detto  di  sé  :  «  lo  non  ho  nessuna  smania  di 
salire  all'Olimpo,  di  passare  alla  posterità  come  un  grand'uomo, 
«ome  un  gran  capitano,  uè  come  diplomatico;  ed  ancora  meno 
come  rivoluzionario;  ma  io  tengo  a  vivere  e  morire  come  un 
onesto  cittadino,  come  un  soldato  senza  macchia.  ->  Ed  era  questa 
meta  appunto  di  tutta  la  sua  vita,  verso  la  quale  l'aveva  diretto 
il  sentimento  più  intimo  del  suo  cuore,  (]uesta  meta  era  appunto 
(piella,  che  gli  si  voleva  ostinatamente  negare  di  avere  raggiunto, 
quella  dalla  quale  si  voleva  pervicacemente  pretendere  ch'egli 
si  fosse,  di  proposito  deliberato,  e  con  abbiettezza  d'animo,  al- 
lontanato ! 

Una  lotta,  combattuta  per  più  anni  poco  meno  che  da  solo, 
e  contro  tanti,  gli  rese  più  agile  l'ingegno  e  più  sensitiva  la  fibra. 
I  criterii  morali,  che  l'avevano  retto  sino  da  giovine,  li  andò 
applicando  come]  la  sola  norma  di  giudizio  in  ogni  cosa.  Già  era 
stato  così  prima.  «  Il  modo,  col  quale  si  è  aggredito  il  Borbone»  non 
pare  a  lui  adatto  a  produrre  buon  effetto  in  Europa.  È  di  quelli  che 
ammira  il  Cavour,  ma  non  sa  approvare  tutto  ciò  ch'egli  fa,le  sue  fur- 
òerie. A' suoi  elettori  di  Biella,  nel  1867,  dice:  «  Impegnato,  o  signori, 
per  circa  tre  anni  nella  ingrata  lotta  del  brigantaggio,  non  ho 
mai  permesso  si  ricorresse  ad  inganni,  nemmeno  coi  briganti.... 
Kifiutai  sempre  di  portare  la  guerra  civile  in  casa  altrui,  anche 
degli  stessi  nemici.  »  Militare,  non  ama  la  guerra;  il  fatto,  di  cui 
si  gloria  di  più,  è  l'avere  nel  1859,  salvata  la  vita  a  molti  sol- 
dati austriaci  ;  e  a'  nemici  sul  campo,  vincitori  o  vinti,  è,  fuori  di 


ALFONSO  LA   MAKMORA.  409 

quello,  amico  caldissimo.  Non  si  risolve  a  procurare  d'ottenere  la 
Venezia  per  forza  d'armi,  se  non  quando  ogni  speranza  d'ottenerla 
per  negoziati  pacifici  gli  è  venuta  meno.  Allontanato  dalla  vita  poli- 
tica attiva,  allarga  l'uso  dei  criterii  morali,  che  l'avevan  diretto 
in  quella.  Attende  a  migliorare  la  sua  coltura,  rileggendo  le 
storie  antiche,  e  studiando  le  vicende  sociali  dei  popoli.  La  sua 
mente  non  è  pigra  ;  i  libri  ch'egli  legge,  li  riempie  nel  margine 
di  note  sue.  Verità  ed  onestà  va  cercando  attraverso  i  secoli,  con 
ischiettezza  e  semplicità  di  sentimento.  Vi  porta  uno  spirito  libe- 
rissimo. Legge  e  rilegge  la  Bibbia  ;  e  nella  storia  che  vi  racconta, 
discerne  soprattutto  chi  vi  si  conduce  da  uomo  dabbene  e  chi  no  ;  e 
non  v'ha  aureola  di  gloria,  che  salvi  quest'ultimo  dalla  sua  censura. 
Davide  gli  appare  un  uomo  cattivo,  e  in  ogni  aspetto  biasimevole; 
tra  gli  uomini  di  quel  tempo,  non  ha  stima  se  non  a  Gionata. 
Cristiano,  cattolico  per  tradizione  di  famiglia  e  per  convinzione 
propria,  legge  gli  scritti  del  Renan,  non  una  volta  ma  più;  e  li 
compara  colle  fonti;  vuol  sapere,  se  dica  vero,  non  giudica  a  priori 
ch'egli  deva  dir  falso.  Il  Manuale  d'Epitteto  gli  va  grandemente 
a  genio.  Ristudia  la  Storia  romana;  e  gli  si  spoglia  d'ogni  gran- 
dezza, in  tutte  le  sue  parti,  nelle  quali  la  grandezza  par  frutto 
d'ingiustizia  e  violenza.  A  ciascun  uomo,  chiamato  grande,  dimanda 
se  è  stato  virtuoso.  Questa  storia,  rifatta  al  punto  di  veduta  del  ga- 
lantuomo non  è  senza  novità  ;  e  talora,  alla  buona,  persino  nei  di- 
scorsi alla  Camera,  s'è  sentita  rammentare  a  tratti  da  lui,  ma 
gioverebbe  forse  raccoglierla  sui  fogli  nei  quali  l'ha  sparsa.  I 
suoi  giudizii  forse  servirebbero  anche  a  temperarne  o  migliorarne 
molti  altri,  e  certo  a  dipingere  lui. 

V'ha  qualcosa  d'angusto  nello  sguardo  del  Generale.  Troppi 
lati  delle  cose  gli  sfuggono  ;  e  gli  atti  altrui  gli  si  colorano  tutti 
a  un  modo.  Abituato  da  giovine  ad  un  delicato  ed  uno  scrupo- 
loso esame  di  sé,  in  ogni  suo  passo,  sconfortato  più  tardi  dal 
vedere  tanti  o  in  contraddizione  rispetto  a  lui  colla  testimonianza 
sicura  della  sua  coscienza  o  indifferenti  a  raccoglierla,  acquista 
senza  volere,  senza  sapere,  un'opinione  di  sé,  non  troppo  alta,  ma 
troppo  esclusiva,  e  diventa  ingiusto,  severo  più  del  bisogno  con 
troppi.  Il  mondo  gli  si  circoscrive  ;  e  il  consorzio  di  quelli  coi 
quali  gli  par  possibile  vivere,  gli  diventa  via  via  più  piccolo.  E 
anche  prima  che  muoia,  le  fonti  dell'  operosità  politica  e  civile  gli 
si  diseccano  ;  perché  quelle  le  nutre,  le  vivifica  soltanto  una  larga 
simpatia,  un'intima,  una  profonda,  una  continua  intelligenza  collo 
spirito  pubblico  del  paese,  sia  per  seguirlo,  sia  per  correggerlo. 

VoL.  XIV,  Serie  II.  —  1  Aprile  1819.  25 


410  ALFONSO  LA   MARMOEA. 

Io  non  ho  voluto  scrivere  la  vita  del  generale  La  Marniora, 
né  raccogliere  nuovi  fatti  di  lui.  Quest'opera  ha  già  chi  la   deve 
compiere,  e  la  compirà  di  certo  assai  bene.  Uno  scrittore,  che  ha 
mente  e  cuore,  che  ha  il  sentimento  del  retto  e  l'ardore  delbene, 
narrerà  all'Italia  ciò  che  il  La  Marmora  è  stato  per  essa,  si  nella 
preparazione  giovanile  degli  studi,  e  sì  a  Genova  nel  1849,  quando 
compresse    in  un    attimo  un'insurrezione  pazza  e    sleale;  e  poi 
ministro  della  guerra  a  piìi  riprese  circa  undici  anni  dal  1849  al 
1860,  nel  quale  ufficio  rinnovò  gli  ordini  e  rifece  lo  spirito  del- 
l' esercito  ;  e  generale  delle  truppe  piemontesi  in  Crimea  nel  1855, 
dove  ne  ristorò  la  riputazione  scemata  dalle  sventure  delle  cam- 
pagne di  sette  anni  innanzi;  e  ministro   al  campo  nel  1859,  dove 
giovò  col  consiglio,  in  momenti   angosciosi  e  perplessi,  e   s'ado- 
però al  successo,  come  se  non  fosse   stato    lasciato  fuori  d'  ogni 
posto  efficace  a  tutelarlo;  e  Presidente  del  Consiglio   per  breve 
tempo    in    quell'  anno  stesso    al    finire   improvviso    della  guerra, 
quando,  al  credito  suo,  tenne  l' Italia  attenta  e  tranquilla  in  un 
difficile    momento   di   sosta;   e    luogotenente    del   Re    a    Napoli, 
nel  1861,  dove  per   il  primo   riuscì  a  migliorare  una  condizione 
diventata  pericolosa   perchè  il  disordine  vi  era  fomentato   dalle 
voglie    sfrenate    della    reazione    e   della    rivoluzione    insieme;  e 
di  nuovo  presidente  del  Consiglio    nel   1864,  allorché  riuscì,  nel 
principio,  a  mantenere  intatto  il  patto  concluso  colla  Francia  ri- 
spetto allo  sgombero  di  Koma,  malgrado  1'  opinione  sua  propria, 
e  il  sentimento  del  suo  paese  natio,  e  nella  fine  a  concludere  colla 
Prussia  l'alleanza  che  ci  ha  data  la  Venezia;  e  capo  di  stato  mag- 
giore nel  1866,  quando  riparò  il  danno  fatto,    malgrado    suo,    al 
paese,  per  non  essere  stata  vinta  la  battaglia  di  Custoza  conclu- 
dendo quasi  d'arbitrio  suo,  e  mentre  ogni  altra  volontà  era  con- 
fusa e  falliva,  l'armistizio  di  Cormons  ;  e  in  fine  luogotenente  del 
Re  a  Roma,  dove  assicurò  col  nome  suo  all'Europa  la  temperanza 
della  politica  del  governo  italiano,  e  non  venne  meno  a  nessuno 
dei  doveri  estremamente  difficili  d'un   ufficio  accettato  solo   per 
devozione  al  Re  ed  alla  patria. 

Pure  non  è  in  tutta  questa  sua  azione  pubblica,  ufficiale, 
che  sta  il  merito  principale  del  generale  La  Marmora.  Il  me- 
rito principale  suo  è  nell'esempio  lasciato  ad  uno  Stato,  che  se  è 
nuovo,  é  oramai  stabilito,  d'una  vita  intemerata,  pura,  d'una  co- 
scienza sicura,  impavida,  d'un  cuore  leale,  benefico,  generoso  ;  che 
disceso  di  stirpe  antica  e  nobilissima,  non  si  giovò  della  nascita  sua 
che  per  negarne  a  sé  ed  altrui  ogni  privilegio  ;  nell'  esempio  d' un 


ALFONSO   LA   MAKMORA,  411 

uomo,  che,  odiando  la  rivoluzione,  non  ha  mai  disdegnato,  contra- 
stato il  moto  ;  che,  o  gliene  venisse  favore  o  disfavore,  ha  detto  alta- 
mente sempre  e  fieramente  il  vero  ;  cui  nessun'oblio  o  dispregio  ha 
fatto  mutare  via,  quantunque  sentisse  vivamente  i  torti  che  gli  si  fa- 
cevano ;  che  non  s'è  piegato  mai  a  mostrar  di  stimare  quelli  che 
disistimava,  e  a  patteggiare  cogl'intriganti  politici,   che  credeva 
dannosi,  perniciosi  all'Italia.  Questa  purità  di   coscienza  si  con- 
verte in  lui  in  chiarezza  di  sguardo.  Possono   esservi   stati  nella 
storia  italiana  di  questi  ultimi  anni  molti    di   più  larga  intelli- 
genza della  sua;  ma  la  sua    perspicacia,   aiutata  dalla   sincerità 
dell'animo,  è  arrivata  talora  più  lontano  di  quelli,  ed  ha  dato  alla 
sua  condotta  una  maggiore  costanza  e  fermezza.  Q^)  In  una  di  quelle 
note  citate  più  sopra  egli  scrive  :  «  Cade  pur  troppo  anche  il  Bonghi 
nell'errore  comune  a  tutti  gl'Italiani,  che  la  sottigliezza  dell'in- 
gegno sia  principal  pregio  di  un  generale,  mentre  la  storia  prova 
chiaro  come  il  sole,  che  anche   in   guerra   i  gran   caratteri  sono 
assai  più  pregevoli  dei  grand' ingegni,   e   che  la  fermezza  di  ca- 
rattere è  prima  d'ogni  altra  cosa  necessaria  in   guerra.  »  Vera- 
mente io  uè  cadeva,  nel  luogo  a  cui  il  La  Marmora  annota  così, 
nell'errore  ch'egli  mi  appone,  né  vi  son  caduto  mai.  Anzi,  a  me 
è  parso  sempre,  che  l'ingegno  non  giovi,  se  il  carattere  non  l'ac- 
compagna, non  solo  nella  condotta  degli  eserciti,  ma  neanche  in 
quella  degli  aifari  politici  e  civili.  E  se  appunto  ho  scritto  spesso 
del  generale  La  Marmora   ed  ora,    con  ammirazione  ed  affetto, 
non  è  già  perchè  n'avessi  nessuna  cagione  d'amicizia  o   di  fami- 
liarità; ma  perchè,  compreso  ogni  cosa,  e  pur  lasciando  ad  altri 
di  averlo  superato  in  altre  parti,  egli  è  stato  il  più  forte  carat- 
tere che  abbia  preso  parte  al  risorgimento  d'Italia,  e  merita,  come 
tale,  di  rimanere  in  cima  alla  mente  e  al  cuore  d'ogni  italiano.  (^'') 

R.   BONGHL 


412  ALFONSO  LA  MARMORA. 


NOTE. 


{')   Cerlungo,  2^-  (jinf/no  i8G6,  ore  10  3/ 4  jyom.  —  Al  Ministro  della  Guerra. 

Oggi  accanito  combattimento  che  durò  dall'alba  quasi  fino  al  cadere  della 
notte.  Il  primo  Corpo  d'armata  che  doveva  occupare  posizioni  tra  Peschiera 
e  Verona  non  riuscì  nell'attacco.  Il  secondo  e  terzo  corpo  non  poterono  liberare 
il  primo  dall'assalto  che  questo  ebbe  a  sostenere  di  forze  preponderanti  ;  essi 
sono  quasi  intatti  e  cercherò  di  trarne  il  magiifior  partito  possibile. 

La  Mabmoka. 

{*)    Cerlunf/o,  25  giugno   1866.  —  Al  Ministro  della  Guerra. 

Austriaci  gettatisi  ieri  con  tutte  loro  forze  contro  corpi  Generale  Durando 
e  Della  Rocca  verso  Valleggio  e  Villafranca  li  hanno  rovesciati.  Stanotte  tene- 
vano ancora  Valleggio,  Pozzolo,  Goito,  ma  stato  armata  deplorabile,  incapace 
agire  per  qualche  tempo;  cinque  Divisioni,  Generale  Cerale,  Generale  Bri- 
gnone,  Generale  Govone,  Generale  Cugia,  essendo  disordinate.  Non  sembra 
per  ora  Austriaci  vogliano  inseguire  —  si  dispone  per  energica  difesa  di  Goito, 
Volta,  Cavriana,  Solferino.  —  Abbiamo  forti  perdite  che  non  si  possono  finora 
valutare.  —  Generale  Cerale,  Generale  Dho,  Generale  Gozzani,  Principe  Ame- 
deo feriti.  —  Generale  Villarey  morto.  —  Principe  Umberto  ha  fatto  prodigi 
.  y^Joi'^  — ;8ua  Divisione  quantunque  abbia  sotierto  assai  è  in  buon  ordine.  — 
Divisioni  Pianell,  Longoni  ed  Angioletti  ancora  intatte.      La  Marmora. 

(*)  Cerlungo,  23  giugno    1866,   ore    6.13.    —   Al  Ministro  della  Guerra. 

Stante  1'  insuccesso  della  giornata  di  ieri,  presentando  gravi  difficoltà 
eseguire  ulteriormente  piano  strategico  adottato  presente  campagna,  si  è  perciò 
deciso  fare  movimento  addietro,  non  per  eseguire  ritirata,  ma  per  adottare  altro 
piano  di^  guerra.  La  prego  concertarsi  Ministro  Interni  perchè  fuggiaschi  terzo 
Corpo  d'armata  sieno  diretti  Cremona,  quelli  altri  corpi  armata  per  Piacenza. 

La  Marmoka. 

Redondesco,    26  giugno    1866.  —  Al  Ministro   della    Guerra.  

Oggi  esercito  comincia  ritirata  su  Cremona,  Piacenza,  Pizziirhettone  per 
collegarsi  con  Generale  Cialdini.  —  Vi  giungerà  circa  1"  luglio.'—  Quartiere 
Generale  principale  domani  Redondesco,  dopo  domani  Piadena,  dopo  Cremona. 
—  Austriaci  Valleggio  e ma  poco  numerosi.  La  M.ì.rmora. 

(  }  IJa  Ferrara,  26  giugno   1866.  —  Al  Ministro  della  Guerra. 

Dopo  giornata  24  e  ritirata  su  Cremona  sarebbe  pericolosa  mia  perma- 
nenza sul  Po,  potendo  nemico  sbucare  dai  distretti  Mantovani.  Domani  a 
mezzogiorno  quattro  mie  Divisioni  saranno  presso  Modena,  Nonantola  e  Ba- 
stiglia con  brigata  Cavalleria  a  Mirandola  e  cordone  degli  avamposti  sul  Po 
da  Borgoforte  alla  Mescla.  Nel  mattino  del  29  tutto  qu^irto  Corpo  d'armata 
sarà  concentrato  fra  Rubiera,  Modena  e  IrJastiglia  colla  Divisione  Franzini  a 
Bologna.  lu  simile  posizione  osservo  sbocchi  distretti  Mantovani  e  Pontelago- 
scuro  senza  abbandonare  Bologna  e  Firenze.  Informati  S.  M.  e  generale  La 
Marmora. —  Per  ora  attitudine  difensiva  indispensabile.  Cialdini. 

(^)  Redondesco,  27  giugno   1866.  —   Al  Ministro  della   Guerra. 

Scrivo  prefetto  Brescia  e  comando  divisione  secondare  Garibaldi  se  di- 
sposizioni popolazioni  sono  favorevoli  difesa.  Io  ritengo  attacco  di  Brescia 
poco  probabile  od  almeno  non  imminente.  La  Marmora. 

C")  Redondesco,  27  giugno   1866.  —  Al  Ministro  della  Guerra. 
Ora  che  si  chiariscono  i  fatti,  il  combattimento  del    24   ci    fa   assai   più 
onore  di  quello  che  sembrasse  dapprincipio.  Il  campo  di  battaglia   rimase  m 


ALFONSO  LA  MARMORA.  413 

parte  agli  Austriaci,  ma  in  parte  anclie  a  noi,  e  se  noi  ci  ritirammo,  essi  pure 
il  fecero,  sicché  24  ore  dopo  i  nostri  feriti  poterono  liberamente  raggiungerci: 
le  nostre  perdite  furono  sensibili,  ma  quelle  del  nemico  lo  furono  pui-e.  La 
maggior  parte  delle  truppe  fece  prodigi  di  valore,  e  gli  Austriaci  si  sono  si- 
curamente persuasi  n  quest'ora  che  l'esercito  italiano  non  è  inferiore  all'an- 
tico esercito  piemontese.  La.  Makmoea. 

C)  Piadena,  28  giugno  fS66,  —  Al  Ministro  della  Guerra, 
Partecipo  V.  S.  modificazione  movimento  ritirata  —  esercito  prende  posi- 
zione suirOglio  :  1°  Cgrpo  d'armata  Ponte  Vico,  2°  Bozzolo,  3°  Piadena.  Quar- 
tiere generale  Cremona  —  Divisione  cavalleria  Linea  lega  esercito  Garibaldi.  Tutti 
capi  hanno  ordine  spingere  frequenti  ricognizioni  su  zona  terreno  che  li  se- 
para dal  Mincio.  —  Marcie  questi  giorni  fatte  con  grandissimo  ordine.  — 
Spirito  delle  truppe,  salute,  eccellente.  —  Dispersi  rientrano  volentieri.  —  Corpi 
austriaci  non  hanno  passato  Mincio.  La  Maemora. 

(*)  /2  luglio.  —  Il  Ricasoli  scrive  per  telegrafo  al  ministro  degli  esteri: 
«  Les  Autrichiens  abandonnent  en  grandes  marches  l'Italie  pour  courir  au  nord. 
Vous  voyez  l'impression  que  Qa  produira  en  Prusse,  où  l'on  a  raison  de  n'étre 
pas  content  de  nous.  Il  faut  empécher  que  cela  arrive  à  tout  prix.  Il  est  urgent 
occuper  le  Tyrol  avec  troupes  régulières,  envoyer  Garibaldi  en  Croatie,  en- 
voyer  la  flotte  avec  troupes  de  débarquement  en  Istrie  et  l'occuper.  » 

(')  12  luglio.  —  Dello  stesso  alio  stesso.  Questione  nostre  frontiere  è  vitale 
per  noi  ;  come  l'accomoderemo  se  non  si  pensa  occupare  Trento  e  Trieste? 
L'Italia  deve  terminarsi  Quarnero.  La  guerra  deve  condursi  in  modo  da  rag- 
giungere questo  segno. 

('•)  /6  luglio. — Il  Ministro  degli  affari  esteri  scrive  da  Ferraraal  bar. Ricasoli  : 

<  Tàchez  de  voir  Usedom D'après   ce   que    Cialdini   euvoie    dire,   il    faut 

ab.solnment  gagner  huit  ou  dix  jours;  on  peut  y  réussir  si  le  gouvernement 
prussien  fait  valoir  la  necessitò  de  se  mettre  directement  d'accord  avec  nous 
avant  que  Empereur  notifie  par  télégraphe  la  réponse  de  la  Pra.sse  comme 
fait  accompli.  Veuillez  engager  Usedom  à  télégraphier  tout  de  suite  à  Berlin.  » 

Florence.  /7  juillet  1 866.  —  «  Comte  Usedom  a  re^u  l'ordre  du  comte 
Bismarck  déjà  en  date  du  11  courant  de  Zwittau,  d'insister  que  le  gouvernement 
italien  envoie  au  quartier  general  prussien  une  personne  capable  et  munie  d'in- 
structions  suftisantes  pour  cunclure  un  arrangement  entre  les  denx  Puissances 
alliées  sur  un  programme  commun  pour  la  paix  ou  l'armistice  qui  la  devrait 
préparer.  (Expédié  au  chevalier  Visconti  le  27  juillet  1HG6,  1  30  soir). 

«  Depuis  corate  Bismarck  m'a  télégi-aphié  avant-hier,  come  je  l'ai  écrit  hier, 
à  M.  Visconti.  La  Prusse  compte  que  l'Italie  n'accepte  pas  l'armistice,  et  dans 
ce  cas  elle  (la  Prusse)  continuerà  la  guerre  avec  tonte  energie.  Si  au  contraire 
l'Italie  acceptait  néanmoins,  la  Prusse  y  verrait  la  preuve  qu'elle  n'a  plus  rien 
à  attendre  de  l'Italie  dans  aucime  circon.«itance,  et  elle  aviserait  en  conséquence 
Monsieur  Visconti  verrà  par  cela,  que  mon  gouvernement  tient  les  mémes 
vues  que  le  gouvernement  italien  quant  à  enterite  jjréalable  entre  les  alliés, 
laquelle  ayant  trait  aux  conditions  de  paix  (qui  ne  peuvent  se  séparer  des 
conditions  de  l'armistice)  ne  saurait  se  trailer  par  télégrammes,  par  écrit  et 
encore  par  des  personnes  munies  d'instructions.  » 

(")  16  luglio  —  Il  Ricasoli  telegrafava  al  Ministro  degli  esteri: 
«  Ricevuti  suoi  due  telegrammi  —  conferito  subito  Usedom.  Questi  mi 
comunica  averlo  avvertito  Bismarck  notte  decorsa:  1"  avere  concesso  tre  giorni 
sospensione  armi,  perchè  armata  prussiana  aveva  bisogno  di  riposo  e  di  scarpe, 
vitto,  che  l'intendenza  restata  indietro.  ^  —  2°  Che  Prussia  non  desidera  armi- 
stizio; e  se  Italia  non  accetta  armistizio.  Prussia  continuerà  guerra  con  ener- 
gia, e  se  V Italie  accepte  arttiistice  (proprie  parole  Bismarck),  ce  sera  pour 
nous  la  preuve,  que  nous  en  tonte  circonstance  ne  pouvons  plus  compter 
avec  elle.  » 

1  Questa  sospensione  fa  proposta  dalla  Prussia,  ma  non  po.uta  concludere,  stante  le  condi- 
zioni poste  dall'Austria. 


414  ALFONSO   LA   MARMORA. 

(12)  Kikuhbury,  21  luf/lio  i866.  —  Dispaccio  del  conte  di  BisììiarcJc  al  ìiiini- 
Siro  prussiano  presso  il  Re  d  Italia. 

Nous  n'avons  pas  accordé  d'arruistice  ;  méme  en  génóial  nous  uè  traitons 
nullemerit  avec  l'Autriche  et  avecla  Fraiice;  seulemeut  en  y  adniettant  le  comte 
Barrai;  je  voiis  renvoid  à  ce  siijet  à  luou  tólégramme  u*  8  d'hier. 

Sur  la  représentation  de  la  rrunce  que.  si  l'Etalia  accède,  il  pniirrait  ótre 
désirable  d  avi'ir  préveiui  tonte  effusion  de  sang,  qui  aurait  précède  sou  adhésion, 
nous  avons  déclaré  à  la  France  que  nous  n'attaquerions  pas  pendant  cinq  jnurs, 
si  nous  n'étions  pas  attaqués;  nous  l' avons  fait,  parce  que  iiotre  armée  avait 
besoiu  d'un  peu  de  repos.  Mais  méme  à  ce  sujet  nous  n'avons  en  aucune 
manière  traité  avec  l'Autriche.  •    Signé  Bisjtarck. 

Instruction  poùr  la  Conseiller  de  Légatiou  Monsieur  de  Bernhardi. 

Après  reception  de  la  présente  dópéche  vous  voudrez  bien,  Monsieur,  vous 
présBTiter  chez  S.  M.  le  Roi  pour  porter  à  sa  connaissance  ce  qui  suit: 

J'ai  re9u  do  Bei'lin  les  ordres  les  plus  précis  d'insister  sur  une  action 
immediate  et  r^ipide  de  l'arniée  itilienne.  Si  au  lieu  d'altaquer  et  de  détruire 
l'armée  autricliienne,  on  lui  permettait  de  se  retirer  du  quadrilatere  intacte 
et  sans  étre  poursuivie,  pour  nous  ètre  opposée  sous  Vienne,  nous  pourrions 
éviderament  nous  voir  forcés  de  conciare  une  mauvaise  paix.  Cette  paix 
ne  nous  offrirait  certainement  pas  eu  Alleniagne  ce  que  nous  devons  dési- 
rer,  mais  il  en  serait  sans  aucun  doute  de  mème  relativement  aux  intéréts  de 
l'Italie. 

La  guerre  continuée  de  deux  cótés  avec  la  méme  energie  et  una  méme 
bonne  foi,  peut  et  doit  seule  assurer  pour  tous  les  deux  des  résultats  égalemeut 
heureux.  Siyné  Usedom. 

(")  Nikohburg,  26  luglio.  —  Dispaccio  del  general  Govone  al  Ministro  de- 
gli Esteri. 

«  ri  ni 'a  été  irapossible  d'arriver  ici  avant  aujourd'hui,  2f5.  J'ai  vu  comte 
Bismarek  deux  fois.  .Te  lui  ai  expliqné  pression  de  la  Friiuce,  la  résistance  du 
roi,  l'offre  de  la  Vénétie  refusée  pur  nous  avant  la  guerre;  la  nócessité  du 
Trentin;  n<itre  droit  à  une  égale  loyauté  de  la  part  de  la  Prusise  de  ne  pas 
trailer  sans  nous  armistice  et  paix.  Comte  de  Bismarek  m'a  répondu  que  l'ar- 
mée prussienne  est  très  affaiblie  par  l'éloignement  de  sa  base;  le  choléra  écla- 
tant partout;  le  climat  de  la  Ilongrie  mortel  en  aoiit  pour  l'armée,  si  l'on  y 
portait  la  guerre;  100  m.  hommes  déjà  arrivós  de  l'Italie.  Il  reconnait  aussi 
la  part  que  la  fortune  a  eue  aux  victoires  passées  et  les  dangers  d'une  conti- 
nuation  de  la  guerre.  On  désire  donc  ici  et  l'on  croit  nécessaire  armistice  et 
paix.  Comte  de  Bismarek  dit  que  d'après  la  condition  de  l'intégrité  du  terri- 
toire  autricliienne  pi-oposée  comme  condition  par  la  France  et  acceptée  en 
principe  par  la  Prnsse,  il  est  impossible  d'appnyer  uotre  demande  pour  Tyrol. — 
Que  l'on  avait  signé  aujourd'hui  avec  Autriclae  (comme  comte  de  Biirral  l'a 
rapporté  en  détail  à  V.  E.)  l'armistice  à  commencer  du  2  aoùt.  et  qu'on 
avait  pris  cette  date  pour  avoir  le  cnuaentement  de  l'Italie.  J'ai  demandé  à 
S.  E.  ce  que  la  Prnsse  ferait  si  notre  consentement  ótait  refusé.  —  Il  a  ré- 
pondu qu'il  se  rapporterait  à  l'article  4  du  traité,  d'apvès  lequel  l'Italie  ne  peut 
pas  refuser  son  consentement  aj'ant  la  Vénétie.  Il  a  dit  que  si  l'Autriche 
poussée  par  la  Russie  et  l'Angleterre  refusait  plus  tard  à  la  Prusse  certaines 
annexions  telles  que  le  Hinovre,  la  guerre  pourrait  continuer;  dans  ce  cas  plus 
l'Italie  prétendrait,  mienx  il  vaudrait.  Sur  ma  demande,  il  m'a  autorisé  à  le 
déclarer  à  V.  E.  Mon  avis  est  qu'il  n'y  a  pas  possibilité  d'article  additiounel 
quant  à  nous;  que  tonte  opposi tion  de  notre  part  serait  inutile. 

»    GOVONE.    > 

('*)  Ferrara^  22  luglio  ore  3/2  poni.     -  Al  Ministro  Affari  Esteri. 

Les  bases  de  l'armistice  paraissant  convenues  entre  la  France,  la  Prusse 
et  l'Autriche,  nous  serons  bientót  en  deineure  de  préciser  nos  propres  con- 
ditions  envers  la  Prusse  et  la  France.  Voici  celles  que  je  vous  propnserais: 

1'  La  réunion  de  la  Vénétie    déjà  en  voie  d'accomplissement  militaire- 
ment  et  politiquement  pourra  étre  cuusacree  par   plebiscite   sans  que    l'Italie 


ALFONSO  LA  MARMOEA.  415 

ait  à  prendve  acte  de  la  substitution  d'une  tierce  puissance  dans  l'état  de  pos- 
sessioii  de  l'Autriche.  Oession  directe  ou  iiidirecte  n'est  pas  nécessaire  pour 
cette  réuuion,  la  Vér.étie  d«vetiant  de  plein  di-oit  maitresse  d'elle-méiue,  mais 
il  fauiira  pom-  rétablissemeiit  de  la  paix  que  la  situation  snit  ré'>-ularisée  di- 
recteiueut  eutre  rAutriche  et  l'Italie  dans  le  Traile  ù  intervenir,  où  l'Italie 
figurerà  en  complète  parité  avec  la  Prusse. 

2'  Verone,  au  nioins,  sera  remise  lors  de  la  conclusion  de  l'armistice: 
cet  acte  militaire  plutót  que  politique  sera  concerté  entre  les  chefs  bellio'érants 
daus  les  foriues  d'usage  et  de  convenance  militaire  dans  leur  entière  liberté 
d'action.  L"x\utrichH  laissera  intactes  les  autres  fortifications,  ponts,  routes  etc... 
sur  le  thécàtre  de  la  guerre  et  ne  frapperà  paa  les  populations  de  taxes  ex- 
traordinaires. 

3"  Le  territoire  à  réuiiir,  sans  oompensation  ou  indemnité,  sera  déter- 
miné  par  la  doublé  conditimi  de  nationalité  et  de  sécurité  du  R'iyaume.  Le 
Trentin  y  sera  compris.  L'Italie  reserverait  expressément  les  droità  des  popu- 
lations de  ristrie,  et  exprimerait  l'avis  que  l'Isirie,  corame  située  dans  nos  fron- 
tières  naturelles  et  peuplée  d'Italiens,  devrait  étre  au  moins  ueutralisée  et 
Trieste  devenir  ville  libre  avec  des  lieus  éganx  envers  l'AUemagne  et  l'Italie. 
Un  accord  devrait  avoii'  lieu  sur  la  substance  de  ce  qui  précède  avec  la 
Prusse  et  la  France,  après  quoi  l'acceptation  de  ces  bases  par  l'Autriche  dé- 
ciderait  de  l'armistice  qui  serait  conclu  pour  uous  dans  la  méme  forme  que 
pour  la  Prusse.  RiCASOLi. 

(*•)  A  S.  E.  il  General  La  Mannara,  Padova. 

Dal  Quartier  Generale  di  Udine,  3  agosto   1866. 
(Riservata) 

Quanto  io  argomentava  da  un  cumulo  d"  indizi  resta  confermato  dal  fatto. 
L'Austria  desidera  rifarsi  su  noi  dei  disastri  sofferti  dalla  Prussia  e  rifiuta 
quindi  l'armistizio,  ponendovi  condizioni,  a  parer  mio,  inaccettabili. 

Ciò  vuol  dire  che  il  giorno  10  potremo  ripigliare  la  guerra  coH'x^ustria 
ed  avere  sulle  nostre  braccia  tutte  le  sue  forze  disponibili. 

L'  E.  V.  non  ignora  che  il  Ministero....  mi  lascia  tuttora  senza  viveri  e 
senza  scarpe.... 

Se  si  dovesse  far  la  guerra  ragionevolmente,  io  dovrei  partire  domani 
con  tutte  le  mie  forze  per  Treviso  e  là  manovrare  rapidamente  ora  sull'Adige, 
ora  sulla  Piave  riunendo  tutta  le  nostre  forze  disseminate. 

Ma  confesso  all'  E.  V.  che  in  vista  dello  stato  di  esaltazione  in  cui  tro- 
vasi il  piese,  un  movimento  retrogrado  parrebbe  oggidì  se  non  tradimento 
certamente  viltà.  D'altronde  si  direbbe  che  non  avendo  io  scarpe  per  andare 
avanti,  ho  saputo  trovarne  per  andare  indietro.  Subisco  adunque  la  sorte 
singolare  in  cui  fui  posto  dalle  circostanze  e  mi  decido  a  rimanere  ed  a  com- 
battere risolutamente,  persuaso  però  di  commettere   un  irrave  errore  militare. 

Poiché,  se  la  fortuna  mi  fosse  propizia,  io  non  potrei  trar  partito  al- 
cuno dalla  vittoria,  non  potendo  inseguire  il  nemico  per  la  nota  mancanza 
di  viveri,  di  scarpe  e  di  riserve. 

Se  poi  la  sorte  delle  armi  mi  fosse  nemica,  il  passaggio  del  prossimo 
Tagliamento  potrebbe  divenire  un  vero  disastro  che  rovinerebbe  l'Italia.... 

Il  dado  è  tratto,  come  dissi,  e  seriamente  pensandoci  altro  non  resta 
fuorché  combattere  il  meglio  che  si  possa,  non  consentendo  le  condizioni  po- 
litiche del  paese  altro  consiglio.... 

Pi'ego  l'È.  V.  di  dar  conoscenza  di  questa  mia  lettera  a  S.  M.  e  a  S.  E. 
il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri.... 

Il    General  d'armata 
(firmato)  Cialdini. 

Padova,  6  agosto,  ore  10  pom.  —   Dispaccio  del  generale  La  Marmora  al  Presi- 
dente del  Consiglio. 
«  Se  l'Imperatore  de'  Francesi  non  riesce  a  fare   accettare    all'Austria  le 

condizioni  d'armistizio,  nostra  posizione  diventa  gravissima.  Io  tradirei  se  la- 


416  ALFONSO   LA  MARMORA. 

sciassi  credere  al  Ministero  che  noi  abbiamo  probabilità  di  successo  se  comin- 
ciamo ostilità  il  10.  Generale  Cialdini  dice  avere  a  fronte  100  mila  uomini. 
Generale  della  liocca  riferisce  che  60,000  uomini  sono  entrati  in  Tirolo.  No- 
stre forze  sono  divise  senza  unità  di  comando.  Provveda  almeno  il  governo  a 
questo  gravissimo  inconveniente,  affidando  supremo  comando  al  general  Cial- 
dini. Se  per  l'insuccesso  del  24  giugno  l'Italia  si  commosse,  pensi  quali  sa- 
rebbero le  conseguenze  di  un  disastro  non  solo  per  la  Venezia,  ma  per  l'Italia 
tutta.  »  La.  Marmora.  » 

(^®)  Ne  citerò  delle  ultime: 

Il  Ministro  invita  il  LaJMarmora  a  ottenere  dal  Comando  Austriaco  di 
lasciar  occupare  alcune  località  zona  neutra  (coU'impegno  beninteso  di  abban- 
donarle se  i  negoziati  falliscono)  onde  poter  noeglio  far  accampare  le  truppe 
ammassate  in  località  insalubri. 

La  Marmora  telegrafa  5  agosto  ore  11,  minuti  15  ant. 

«  La  domanda  contenuta  nel  dispaccio  N*.  359  equivale  chiedere  carità 
austriaca.  Io  non  mi  sento.  » 

Il  Ministro  insiste.  La  Marmora  telegr.ifa  lo  stesso  giorno  alle  2.  10  pom. 
,  .  .  .  «  fermo  nella  mia  opinione  che  nelle  trattative  d' armistizio  non 
convenga  chiedere  favori  all'Austria  » 

(")  Telegramma  (senza  cifra) 

Cialdini  a  La  Marmora. 

Treviso,  25  luglio  66. 

Avendo  io  comando  indipendente,  V.  E.  non  dovea  stabilire  decorrenza 
sospensiva  senza  prender  meco  gli  opportuni  concerti,  onde  non  mettermi  in 
condizioni  impossibili,  ed  espormi  a  passare  per  mancatore  ai  patti  conchiusi. 
Protesto  adunque  contro  l'operato  di  V.  E.  Cialdini. 

La  Marmora  a  Cialdini. 

Padova,  26  luglio  (in  cifra) 

Ho  agito  dietro  ordini  precisi  del  Re  e  del  Presidente  del  Consiglio.  Se 
ha  poi  rimproveri  a  farmi,  non  sono  certamente  di  aver  mancato  di  riguardi 
a  V.  E.  ma.ssime  in  questa  campagna.  Io  l'aveva  invitato  ad  un  appunta- 
mento per  metterla  appunto  al  corrente  delle  cose  politiche  e  concertarsi  ; 
Ella  si  allontanò  da  Padova  senza  accordarmelo.  Austriaci  sono  prevenuti 
che  ordini  non  potranno  arrivare  in  tempo  da  per  tutto.         La  Marmora. 

(")  Udine,  il  agosto,  ore  1 1  antim. —  Telegramma  del  generale  Petitti  [coman- 
dante il  4"  corpo  d'armata  nell'esercito  di  spedizione  comandato  dal  gene- 
rale Cialdini)  al  generale  La  Marmora,  Padova 

Per  ubbidienza  militare  parto  per  Cormons. 

Non  posso  a  meno  di  lagnarmi  di  essere  stato  scelto  per  una  sì  ingrata 
ed  um  liante  missione.  Se  questa  mi  fosse  spettata  per  la  mia  posizione,  mi 
sarei  tignato  meco  stesso  della  mia  sorte  ma  non  avrei  fatto  parola.  Ma  io 
comandante  di  corpo  d'armata  essere  mandato  invece  dal  sotto-capo  di  stato 
maggi"re  a  trattare  anzi  a  subire  le  ingiunzioni  di  un  semplice  brigadiere  ^  in 
una  questione  di  cui  ero  perf tuttamente  ignaro  e  senza  una  parola  d'istruzione, 
questo  mi  è  profondamente  doloroso. 

Sono  mortificato  per  me  e  pel  Governo  italiano  della  figura  che  ho  fatto 
ieri  a  Cormons.^  È  deplorabile  che  co.«e  paese  sieno  state  condotte  in  guisa 
da  dover  subire  un  armistizio  cosi  umiliante  che  per  mia  disgrazia  si  chiamerà 
armistizio  Petitti.  Petitti. 

'   Móring. 

,,,  "  '^.'""•^^^t"   PS""    negoziare    1"  armistizio,  Móring  dichiarò  eh»  non  av  va  ricevuto   istruzioni 
(ili I  Arciduca,  e  '.he  fra  poco  più  di  et  o  ore  gli   Austriaci  avrebbero  ripreso  le  ostilità. 


ALFONSO  LA.   MARMORA.  417 

Per  l'abilità  del  generale  Petitti  l'Arciduca  desistette  da  pretese  umilianti. 

Padova^  /2  agosto.  —  Telegramma  La  Mar7nora  a  Petitti,  Udine. 

Ti  ringrazio  particolarmente  per  le  migliori  condizioni  ottenute.  Ieri 
anche  prima  di  ricevere  tuo  telegramma  ero  dolentissimo  che  tu  fossi  fatal- 
mente destinato  a  quella  missione.  Oggi  me  ne  congratulo,  poiché  ho  la  co- 
scienza che  abbiamo  reso  segnalato  servigio  all'Italia.  La  Marmora. 

(*')  Mi  piace  raccogliere  qui  alcune  prove  della  sagacìtà  di  congettura  po- 
litica del  La  Marmora.  Le  lettere  sue  da  Napoli  del  febbraio  e  del  marzo  1862 
paiono  scritte  per  raccontare  i  procedimenti  ed  atti  del  g'^verno  italiano  negli 
ultimi  tre  anni.  Egli  era  amico  del  Rattazzi  e  l'aveva  avuto  a  collega  nel  mi- 
nistero del  17  luglio  1859.  Pui-e,  quando  nel  1862  il  Rattazzi  compose  un 
ministero,  egli  previde  male.  Scriveva  il  14  marzo  al  Daborraida  :  «  Quanto 
si  passò  e  si  passa  tuttora  a  Torino  è  oltre  modo  deplorabile,  e  può  essere  fa- 
tale per  le  nostre  sorti...  »  Ed  il  28:  «  Sono  pochi  giorni  che  il  Ratta/zi  mi 
interpellava  sulla  necessità  di  mandare  commissari  straordinari  ;  io  gli  rappre- 
sentai i  molti  inconvenienti  che  ne  sarebbero  derivati,  ed  ora  i  giornali    danno 

come    certo  che tutti  del  partito  d'azione  sono  nominati Sono  dunque 

questi  i  commissari  straordinari  che  Rattazzi  voleva  mandare '^  Ma  questi 

signori  hanno  fatto  tutti  le  loro*  prove,  e  che  prove  !  Le  loro  prepotenze 
e  vendette  hanno,  forse  più  d'ogni  altro,  contribuito  a  prolungare  il  brigan- 
taggio ed  a  crear  nemici  al  governo Il  Ministero  mandò  qui  due  agenti.... 

Sono  gente  di  cui  non  mi  fido  né  punto  né  poco,  che imbarazzano    ogni 

operazione..  .  »  E  il  Dabormida  gli  rispondeva,  il  3  aprile,  che,  avendo  discorso 
col  Rattazzi.  questi  gli  confessò  «  che  i  due  agenti  non  sono  veramente  di- 
fendibili e  che  egli  non  intende  difenderli,  anzi  li  conosce  per...,  ma  che  egli 
fu  obbligato  di  mandarli  con  una  missione  costì  per  allontanarli  da  Torino....» 

Ed  aggiungeva:  «  Egli  non  ha  coraggio Dio   voglia  che  ciò  non  ci    riesca 

fatale.  »  E  al  6  aprile,  il  La  Marmora,  ritornando  su  cotesti  agenti  :  «  Il  bello 
è  che  al  Ministero  interno  (Fontana),  quando  videro  che  io  aveva  subito  co- 
nosciuto, che  cosa  era  il....  mi  raccomandarono  di  sorvegliarlo  come  capace  a 
sconvolgerci  tutta  la  nostra  questura!  E  si  mandano  a  Napoli    tali    individui!-' 

Venendo  al  nuovo  prefetto il  Rattazzi  ammette  che  è  del  partito  d'azione.... 

Io  so  benissimo  che  sbagli  di  persone  tutti  ne  fanno,  ma  quel  che  di  Rat- 
tazzi mi  rincresce  è  che....  per  contentare  la  Sinistra  si    appoggia    su    uomini 

che  comprometteranno  il  paese Riguardo  alla  venuta    di   Garibaldi,   io    ho 

dichiarato  a  Rattazzi  che  non  intendevo  fare  il  benché  menomo  atto  che  sem- 
brar potesse  debolezza  o  adulazione.  Ciò  vuol  dire  che  io  mi  terrò  dignitosa- 
mente in  disparte  da  qualunque  siasi  funzione  o  festa  che  gli  si  voglia  dare...» 
E  dopo  caduto  il  Ministero  Rattazzi,  il  31  dicembre  scriveva:  «  Ti  rammen- 
terai come  fin  dal  principio  del  Ministero  Rattazzi  io  ti  dicessi  come  quel  no- 
stro antico  collega  battesse  una  falsa  via.  Ed  è  appunto  quella  via  che  ci  con- 
dusse a  Sarnico  e  poi  ad  Aspromonte.  La  colpa  al  certo  non  é  tutta  sua,  an- 
che il  forte  Barone  colle  sue  tolleranze  verso  le  società  emancipatrici  vi  er)be 
una  buona  parte.  »  E  saltando  più  anni,  così  scriveva  il  3  luglio  1873  :  «  Pen- 
sare che  .siamo  stati  alla  vigilia  di  avere  un  Ministero  Minghetti,  Depretis  e 
compagni  !  Però  Lei  vedrà,  che  Minghetti  genererà  Depì-etis....  finirà  per  ab- 
bandonarci in  mano  alla  Sinistra...»  E  l'il  giugno  1875:  «  Una  trista  discus- 
sione si  sta  continuando  alla  Caraei-a  sulla  sicurezza  pubblica!  Il  Miui.stero 
ricava  quel  che  merita,  mettendo  nelle  alte  cariche  i....  e  simili.  Vedrà  dove 
ci  porterà....  dando  importanza  a  uomini  come  Depretis...  » 

C^")  Mi  si  permetta  di  prendere  la  parola  per  un  fatto  personale.  In  queste 
lettere  del  generale  La  Marmora,  pubblicate  nella  Commemorazione,  io  sono 
nominato  più  volte.  Io  non  ho  avuto  la  fortuna  di  conoscere  molto  il  Generale; 
non  mi  posso  contare  tra  gli  amici  di  lui;  credo  ch'egli  ave.sse  poca  bene- 
volenza per  me,  anzi  son  sicuro  che  n'aveva  poca,  soprattutto  perchè  non  gli 
andavano  a  genio  gli  uomini  politici  dei  quali  ero  più  amico;  sicché,  se  son;i 
stato,  come  anche  1'  autore  della  Commemorazione  afferma,  quello  tra  gli  scrit- 
tori Italiani  che  1'  ha  più  ostinatamente  difeso,  quando  si  eccettui  lo  lacini  col- 


518  ALFONSO  LA  MARMORA. 

lega  di  lui,  l' lio  fatto  per  amore  del  vero,  e  non  per  nessuna  passione  di  parte 
od  amicizia.  Pure  le  mie  difese  imn  son  >  mai  state  scevre  di  qualche  censura; 
poiché  mi  pareva  che  anche  a  questa  vi  fosse  luogo,  e  mi  pare  tuttora.  Ora, 
nessuna  delle  censure  mie  od  altr  i  parve  giusta  al  Generale;  sicché  s'è  molto 
più  dispiaciuto  meco  di  queste,  che  non  fosse  contento  o  grato  di  quelle,  E  di 
ciò  appunto  le  citazioni,  che  son  fatte  del  mio  nome,  nella  Comiìicmurazione, 
mi  danno  prova.  Ora,  anche  nei  Segreti  di  Stato  il  Generale  si  applicò  soprat- 
tutto a  confutar  me,  non  senza  qualche  vivacità  soverchia  qui  e  là  Io  non  me 
ne  detti  per  inteso;  nella  Perseveranza  scusai  e  lodai  il  libro;  e  il  Generale 
scrive  il  13  febbraio  del  1877,  che  io  C ito  jjresn  da  uomo  di  spirito  (p.  177).  Dav- 
vero, io  non  aveva  fatto  soprattutto  prova  di  spinto,  ma  di  molto  rispetto  per 
lui.  Però  vi  sono  casi,  che  di  spirito  se  ne  può  aver  troppo,  e  sarebbe  appunto 
uno  di  questi,  se  io  mi  tacessi  di  due  accuse  che  mi  sou  fatte  in  questa  pub- 
blicazione, le  quali  mi  hanno  molto  maravigliato,  e  mi  sarebbe  parso  bene,  se 
r  Editore  le  avesse  surrogate  con  tanti  puntini.  L'una  é  questa:  «  Anche  questa 
lettera  progettata  al  Bonghi  la  manderò  prima  al  laciui,  che  potrà  anche  mo- 
diticarla.  Ma  temo  che  mi  dirà  di  non  farne  niente.  Infatti  come  convincere, 
chi  pretende  a  pag.  286  che  un  trattito  offensivo  e  difensivo  non  obl)liga  alla 
reciproci:à  d'una  difesa  reciproca?  »  Ora,  a  me  qui  non  duole  che  il  Generale 
non  si  volesse  persuadere,  che  se  il  trattato  di  Berlino  dell' 8  aprile,  così  come 
era  scritto,  obbligava  l' Italia  a  dichiarare  guerra  all' Austria,  quando  le  fosse 
stata  dichiarata  dalla  Prussia  (art.  1),  e  d'  allora  in  poi  a  proced^'re  nella  guerra 
d'accordo  e  a  non  fare  pace  se  non  insieme  (art.  2),  non  obbligava  punto  la 
Prussia  a  dichiarare  la  guerra  all'Austria,  quando  e  sempre  che  questa  l'avesse 
dichiarata  a  noi.  S'intende,  che  l'utilità  sua  e  la  necessità,  una  volta  l'I  trat- 
tato conchiuso,  1'  avrebbero  forzata  a  muoversi,  ma  l'obbligo  nel  testo  non  c'era. 
Del  rimanente,  qui  il  Generale  poteva  pur  credere  ciò  che  meglio  gli  piacesse; 
ma  non  mi  pare  che  mi  compensasse  bene  del  molto  che  io  ho  scritto  in  favor 
suo,  trattandomi  da  uomo,  che,  per  qualsia  chush,  non  volesse,  non  potesse 
intendere  ragione.  L'altra  accusa  è  peggiore  :  «  Quanto  al  Bonghi,  sciive  in  una 
lettera  del  14  ottobre,  chi  crederebbe  che  il  medesimo  pubblicista  abbia  potuto 
scrivere  l'articolo^  della  Perseveranza  (credo  del  6  settembre)  e  quello  nell'ul- 
tima Antoluyia?  È  vero  che  uno  era  scritto  prima,  e  l'altro  dopo  che  il  J^onghi 
si  recasse  a  Berlino.  »  Davvero,  non  mi  risolvo  senza  rincrescimento  r  scolparmi 
dalla  censura, confusa,  ma  disaggradevole,  che.  ad  ogni  modo,  è  in  queste  parole; 
né  se  altri  che  il  generale  La  Manno) a  le  avesse  scritte,  condiscenderei  a  farlo. 
L'articolo  della  Perseveranza  del  quale  egli  parla,  fu  pubblicato  appu"t.o  il 
i\  settembre;  e  quello  della  Auova  Antologia  è  nel  fascicolo  di  questa  del  1"  ot- 
tobre. Il  re  Vitt(nio  Emanuele  partì  da  Torino  il  16  settembre  e  vi  tornò  il  28. 
Io  lo  seguii  privatamente,  e  fui  a  Firenze,  credo,  il  29.  Ebbi  tempo  a  scrivere 
la  Rassegna  del  fascicolo,  ma  l'articolo  pubblicato  in  questo,  l'aveva  scritto 
innanzi  che  partissi.  Sicché  il  mio  viaggio  a  Berlino  non  potette  avere  nessuna 
influenza  sul  tuono  di  quello;  e  chi  lo  legge  e  lo  confronta  coli' articolo  della 
Perseveranza,  vede  che  non  ci  corre  altra  differenza  tra  es,«i,  se  non  quella  sola 
che  passa  tra  la  trattazione  breve  d'  un  soggetto  in  due  colonne  d'  un  giornale 
quotidiano,  e  quella  più  lunga,  complessa  e  compiuta,  che  ne  può  esser  fatta 
in  lino  scritto  di  diciassette  pagine  in  ottavo.  Scrissi  bensì  dopo  il  viaggio  di 
Berlino  un  secondo  articolo  sul  libro  Un  pò  più  di  luce,  che  fu  pubblicato 
nel  fascicolo  del  dicembre;  e  di  questo  il  Generale  scrive  il  19  dicembre, 
«  ch'esso  è  meno  feroce  del  primo,  e  che  in  sostanza  mi  difende  più  che  non 
mi  offende.  »  Del  resto,  mi  piace  dichiarare  due  cose:  l'una,  che,  essendo  io 
conosciuto  in  Germania,  anche  più  del  vero,  per  uno  scrittore  punto  inclinato 
ad  adularne  le  pretensioni  o  a  solleticarne  le  ambizioni,  anzi  passandovi  per 
più  amico  a' Francesi  che  non  a' Tede.schi,  non  m'accorsi  punto,  che  l'opinione 
che  s'  aveva  de'  miei  sentimenti  mi  facesse  accogliere  men  bene,  poiché  anzi 
non  ci  potevo  ricevere  più  cortesie  di  quelle  che  mi  si  fecero;  l'altra,  che  nes- 
suno m'  aprì  bocca  sul  generale  La  Marmora,  solo  i  giornali_  popolari  mi  fecero 
avvertire,  e  me  ne  dolse,  quanta  poca  riverenza  ed  amicizia  s'  avesse  per  lui. 


BEATRICE  CENCI 

DOPO    LE    ULTIMK    PUBBLICAZIONI. 


I. 

Inauguratore  Roderigo  de'  Borgia,  non  poteva  il  secolo  deci- 
mosesto  riuscire  altrimenti  di  quello  che  fu;  stupendo  per  ec- 
cellenza e  raoltiplicità  di  tenebrosi  misfatti.  Se  i  delitti  pure  sono 
prova,  giusta  l'apotegma  dell'Alfieri,  che  la  pianta  uomo  nasce  più 
robusta  in  Italia  che  altrove,  non  mai  essa  crebbe  cosi  rigogliosa 
quanto  in  quel  secolo,  in  cui  a  conseguire  il  primato  d'infamia 
parve  che,  insieme  con  l'aperta  brutalità  di  assassini  di  strada, 
gareggiasse  la  profonda  malvagità  di  animi  educati  al  culto  del 
bello  e  l'impavida  violenza  di  coronati  malfattori.  Io  non  so  se 
le  selve  in  cui  scorazzavano  Marco  di  Sciarra  e'  suoi  truculenti 
seguaci  vedessero  mai  niente  di  più  sconcio  e  di  più  turpemente 
crudele  di  quello  che  videro  i  sontuosi  palazzi  dei  Borgia,  dei 
Farnesi,  dei  Medici,  ove  pure  si  accoglieva  quanto  v'era  in  Italia 
di  più  squisito  nelle  arti,  di  più  eletto  negl'ingegni,  di  più  leg- 
giadro e  gentile  in  palpitanti  figure  di  donne. 

Dei  tanti  casi  miserandi  che  funestarono  l'Italia  dall'  osceno 
strazio  del  giovinetto  Astorre  Manfredi  fino  allo  scempio  dei 
Cenci,  col  primo  de'  quali  principiò  e  con  l'altro  ebbe  termine  la 
lunga  sequela  di  scelleraggini  onde  fu  così  sciaguratamente  fe- 
condo quel  secolo  malaugurato,  nessuno  quanto  quell'ultimo  durò 
sì  lungamente  nella  memoria  del  popolo,  e  nessuno  fu  mai  con 
tanta  varietà  di  forme  e  d'intenti  rappresentato  e  descritto.  Esso 
atteggiato  da  drammaturghi  ;  esso  cantato  da  poeti  ;  esso  narrato 


420  BEATRICE  CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI. 

da  novellieri:  esso  argomento  di  studi  storici,  in  cui  peraltro, 
non  meno  che  nelle  opere  d'immaginazione,  troppo  evidente  si 
dimostra  la  parzialità  dei  propositi.  Sì  per  questa  ragione,  ed 
anche  perchè  troppo  scarsi  e  di  poca  importanza  i  documenti 
scoperti,  la  cupa  tragedia  rimase  e  rimane  pur  sempre  avvolta 
nell'oscurità  del  dubbio;  e  credo  che  nessuno,  che  si  faccia  a  stu- 
diarla sgombro  l'animo  da  preconcetta  opinione,  possa  darne  in 
coscienza  un  sicuro  giudizio.  Peraltro  in  tanta  diversità  di  pareri 
esposti  con  linguaggio,  nonché  aspro  ed  acerbo,  ingiurioso  e  vio- 
lento, parve,  e  fu  veramente,  molto  mirabile  cosa,  che  tanto  co- 
loro i  quali  tenevano  innocenti  gli  uccisi,  quanto  quelli  che  li 
giudicavano  rei,  convenissero  tutti  nell'esprimere  un  sentimento 
di  profonda  pietà  per  la  giovinetta  infelice,  protagonista  del  dramma 
tenebroso,  riguardata  dagli  uni  come  vittima  dell'altrui  avidità, 
dagli  altri  come  martire  del  verginale  pudore.  Quindi  è  che  non 
sapremmo  dire  se  con  più  di  meraviglia  ovvero  di  rincrescimento 
abbiamo  testé  veduto  sollevarsi  una  mano,  ancora  aspersa  della 
polvere  degli  archivi  da  essa  frugati,  e,  in  nome  della  verità, 
procacciarsi  a  strappare  dalla  fronte  di  quella  povera  morta  la 
corona  o  di  vittima  o  di  martire  che  da  trecent'anni  la  ricinge,  per 
imprimervi  in  quella  vece  un  marchio  d'infamin,. 

Chi  ha  tenuto  appresso  alla  controversia  sui  Cenci,  avrà  fa- 
cilmente capito  come  io  accenni  ad  una  recente  pubblicazione 
intitolata  Francesco  Cenci  e  la  sua  famiglia,  notisi  e  e  documenti  rac- 
colti per  A.  Bertolotti.  nome  già  noto  agli  studiosi  delle  patrie  me- 
morie per  parecchi  altri  documenti  storici  da  lui  dati  alla  luce. 
Ultimo  per  tempo  a  far  indagini  intorno  ai  casi  di  quella  scia- 
gurata famiglia,  il  signor  Bertolotti  può  a  buona  ragione  inti- 
tolarsi primo  di  tutti  per  la  copia  dei  documenti  da  lui  ritrovati,  e 
che  sono  chiarissima  prova  non  solo  della  sua  molta  pazienza  nel 
sostenere  le  noie  di  così  difficili  ricerche,  ma  anche  dell'ottimo 
metodo  con  cui  ha  saputo  condurle.  Forse  taluno  potrà  avere  de- 
siderato una  maggiore  correzione  tipografica  in  questa  pubblica- 
zione, dacché  di  alcuni  passi  dei  documenti,  come  per  esempio  di 
qualche  periodo  della  sentenza  de'  Cenci,  non  si  riesce  che  a 
grande  stento  a  capire  il  significato.  Sarebbe  pure  stato  deside- 
rabile che  l'egregio  raccoglitore  non  avesse  trascurato  tanto  spesso 
di  notare  il  mese  ed  il  giorno  degli  atti  da  lui  recati,  poiché  la 
precisione  delle  date  è  cosa  di  molta  importanza  in  sifi'atte  que- 
stioni, e  può  talvolta  fornire  efficaci  argomenti  alla  critica  storica. 

Ma  queste  ed  anche  talune  altre  mende,  facilmente    visibili 


BEATRICE   CENCI  DOPO  LE   ULTIME  PUBBLICAZIONI.  421 

airocchio  del  critico,  non  tolgono  però  che  i  documenti  pubblicati 
dal  signor  Bertolotti  sieno  molto  curiosi  e  fino  ad  un  certo  punto 
importanti,  e  che  del  suo  lavoro  gli  debbano  sapere  assai  grado 
coloro  che  ancora  vorranno  prendere  a  scopo  dei  loro  studi  questo 
soggetto  di  secolare  pietà.  Imperocché  io  credo  che  il  signor  Ber- 
tolotti, malgrado  la  sua  buona  volontà  e  le  sue  stesse  speranze, 
non  abbia  detto  l'ultima  parola  sopra  il  caso  funesto  ;  giacché  le 
sue  scoperte,  se  in  qualche  parte  rettificano  l'opinione  comune 
intorno  a  certe  poco  rilevanti  particolarità  del  fatto,  non  chia- 
riscono punto  la  questione  principale,  la  quale,  checché  egli  ne 
creda,  resta  pur  sempre  nella  medesima  condizione  in  cui  la  trovò. 
Difatti,  che  importa  alla  questione  principale  che  la  prima  figlia 
di  Francesco  Cenci  si  chiamasse  Antonina  e  non  Olimpia,  e  che 
si  sposasse  al  signor  Lucio  Savelli  barone  romano  anziché  al 
signor  Carlo  Gabrielli  gentiluomo  d'Agubbio?  Quando  sappiamo 
che  Rocco  Cenci,  altro  figlio  di  Francesco,  fu  ucciso  da  un  ba- 
stardo del  conte  di  Pitigliano  e  non  da  un  norcino;  ^  quando  ab- 
biamo la  prova  che  l'infame  Francesco  si  sottrasse  alla  pena  do- 
vuta alle  sue  nefandità  pagando  non  cinquecentomila  scudi,  ma 
soltanto  centomila  ;  quando  siamo  assicurati  che  il  giovinetto  Ber- 
nardo non  fu  subito  liberato  dalla  prigionia,  come  n'era  corsa  la 
voce,  ma  penò  per  ben  sei  anni  nelle  galere  papali;  siamo  noi 
in  grado  di  vedere  più  chiaramente  entro  il  fitto  buio  che  avvi- 
luppa quella  sanguinosa  catastrofe?  Non  intendiamo  mica  farne 
una  colpa  al  signor  Bertolotti  ;  egli  ci  ha  dato  quanto  gli  é  stato 
possibile,  e  se  non  ha  potuto  presentarci  anche  quello  che  solo 
forse  potrebbe  risolvere  la  questione  e  assicurarci  a  pronunziare 
un  considerato  giudizio,  intendiamo  dire  il  processo,  non  per 
questo  sono  meno  degne  di  lode  le  sue  fatiche,  né  meno  gliene 
dovrà  avere  obbligo  quegli,  qualunque  e' sarà,  che  vorrà  e  potrà 
essere  il  futuro  storico  della  tragedia  de'  Cenci. 

Dove  peraltro  non  credo  che  il  lavoro  del  signor  Bertolotti 
possa  meritargli  eguale  misura  di  lode,  gli  è  quando  egli,  sti- 
mando che  l'aver  avuto  alle  mani  più  carte  di  tutti  gli  dia 
autorità  di  giudicare  meglio  di  tutti,  non  si  contenta  più,  come 
si  aveva  proposto  in  principio,  d'essere  soltanto  archivista,  ma 
lasciasi  trascinare  dal  desiderio,  pur  troppo  comune  a  tutti  i 
raccoglitori  di  documenti,  di  sentenziare  assolutamente,  tirannica- 
mente sui  fatti.  Egli  ha  creduto  che  il  mettere  insieme  una  copiosa 

'  Alcune  memorie  dicono  da  un  Orsino,  e  Orsino  era  difatti   il    conte   di  Pi- 
tigliano, 


422  BEATRICE  CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONL 

quantità  di  materiali  possa  bastare  a  farci  divenire  anche  archi- 
tetti; ed  eccolo  subito  attorno  ad  innalzare  un  edificio  il  quale  a 
lui,  che  n'è  l'autore,  può  sembrare  di  tale  una  solidità  da  reggere 
invitto  all'urto  del  più  violento  uragano;  ma  che  agli  occhi  di  chi 
lo  consideri  spassionatamente  debbe  parere  affatto  poggiato  sulla 
mobile  arena,  e  da  dovere  precipitare  a  rovina  al  primo  spiro  di 
vento  che  lo  percuota.  E  vaglia  il  vero,  per  poco  che  si  prendano 
ad  esame  le  sue  asserzioni  ponendole  a  riscontro  dei  documenti 
da  lui  stesso  pubblicati,  apparirà  manifesto  come  sovente  i  suoi 
giudizi  non  solo  non  si  fondino  punto  sui  fatti,  ma  sieno  anzi  in 
aperta  coittraddizione  con  essi.  Alcune  parole  qua  e  colà  raccolte, 
e  che  potrebbero  a  pena  a  pena  far  nascere  qualche  sospetto 
assai  vago  ed  incerto,  gli  sem])rano  sufficienti  per  dargli  ragione 
di  gravissime  accuse,  affermate  con  tanta  sicurezza  e  sostenute 
con  tanta  insistenza,  come  se  fossero  necessarie  conseguenze  di 
precise  dimostrazioni  matematiche.  Uno  dei  punti  più  controversi 
della  questione,  cioè  il  dubbio  che  nell'uccisione  dei  Cenci  avesse 
0  no  parte  l'avida  brama  di  chi  cercò  poi  di  appropriarsi  le  loro 
sostanze,  è  da  lui  risoluto  negativamente  senza  punto  prenderlo 
ad  esame,  e  però,  com'è  ben  naturale,  senza  minimamente  dile- 
guare i  gravi  sospetti  addensati  da  circa  trecent'anni  sul  capo 
di  chi  alla  potestà  di  fare  e  misfare  non  aveva  allora  altro  limite 
che  il  proprio  talento. 

Perchè  non  s'abbia  a  supporre  che  noi,  favellando  di  questa 
guisa,  piuttosto  che  difendere  le  ragioni  della  verità,  che  fu  e 
sarà  sempre  ispiratrice  de'  nostri  studi,  cediamo  all'  influenza  di 
qualche  preconcetta  opinione,  riporteremo,  esaminandole  ad  una 
ad  una,  le  principali  conclusioni  del  signor  Bertolotti,  aftinché 
chiunque  vorrà  seguirci  in  questa  controversia,  possa  da  sé  stesso 
giudicare  se  e  quanto  sieno  esse  conformi  all'  inconfutabile  testi- 
monianza de' fatti. 


II. 

S'era  fin  qui  generalmente  creduto  che  Francesco  Cenci  fosse 
di  quegli  uomini  profondamente  malvagi,  i  quali  anche  in  tempi 
di  corrotti  costumi  si  segnalano  nelle  opere  più  abbominose  d'ini- 
quità. Tale  lo  avevano  rappresentato  le  memorie  contemporanee  ; 
tale  giudicato  storici  insigni  e  di  sincerissima  fede;  ^  tale  ripu- 

'  Vedi,  tra  gli  altri,  il  Muratori,  Avnali,  an.  1599. 


BEATRICE   CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI.  423 

tato  il  concorde  parere  di  molte  generazioni,  ch'avevano  maledetto 
e  ricoperto  d'infamia  la  sua  memoria.  Ora  però  non  può  più  dirsi 
essere  questo  l'universale  giudizio  ;  dacché  vi  ha  pure  un  qual- 
cheduno  che  tiene  assai  diversa  opinione;  e  questo  qualcheduno 
è  il  signor  A,  Bertolotti,  il  quale  è  d'avviso  che  «  Francesco 
Cenci  fosse  un  buon  padre  e  capo  di  famiglia  ;  avaro  sì,  ma  cu- 
rante della  prosperità  della  famiglia  di  cui  era  il  rappresentante; 
e  non  ateo,  non  misantropo,  bensì  credente  nella  religione  de'suoi 
padri  e  largitore  ne'  suoi  testamenti  ad  opere  pie  ed  a'  poveri  » 
(pag.  11  e  109).  Sarebbe  senza  dubbio  da  credere  che  il  giudizio 
di  tale  che  ha  «  letto  e  studiato  un  ammasso  enorme  di  carte 
riguardanti  la  famiglia  Cenci  »  (pag.  109)  dovess'essere  davvero 
assai  ben  fondato,  e  perfettamente  concorde  con  la  «  miriade  di 
documenti  ch'egli  si  dovette  ingoiare  »  (pag.  109).  Peraltro  noi 
abbiamo  preso  da  gran  tempo  l'abito  —  altri  giudichi  se  buono 
0  cattivo  —  di  credere  piuttosto  ai  fatti  che  alle  parole  ;  ed  è  per 
ciò  che  prima  di  ricrederci  dell'opinione  fino  ad  ora  generalmente 
ricevuta  intorno  al  Cenci,  e  di  porre  il  suo  nome  nell'elenco  dei 
personaggi,  com'ora  si  dice,  riabilitati,  chiediamo  ci  sìa  permesso 
di  riassumere  brevissimamente  i  principali  fatti  della  vita  di  lui, 
tali  quali  essi  risultano  dai  documenti  pubblicati  dal  signor 
Bertolotti,  per  vedere  s'egli  abbia  veramente  meritato  gli  onore- 
voli epiteti  di  cui  gli  è  stato  così  cortese  l'egregio  suo  difensore. 
Come  tutti  coloro  che  poi  riuscirono  famosi  in  opere  di  virtù 
0  di  scelleraggini,  Francesco  Cenci  dette  ben  presto  motivo  di 
far  parlare  di  sé.  Non  aveva  ancora  undici  anni,  ancora  tenevasi 
al  fianco  del  pedagogo,  e  già  mostravasi  degno  che  si  prendesse 
durevole  ricordo  del  nome  suo.  Ma  non  mica  nei  libri  di  qualche 
pia  sodalizio  dedicato  al  soccorso  dei  poveri,  come  sarebbe  a 
supporre  s'ei  fosse  stato  davvero  quell'uomo  caritatevole  e  reli- 
gioso che  il  signor  Bertolotti  ci  vorrebbe  far  credere,  bensì  nei 
registri  del  tribunale  criminale,  imputato  di  avere  trascorso  a 
fatti  violenti.  Secondate  da  attitudine  fisica  straordinariamente 
precoce,  le  malvage  passioni  che  agitavano  l'animo  di  lui  presto 
proruppero  in  atti  vituperosi,  sicché  non  era  ancora  trilustre,  e 
già  aveva  dato  prova  d'essere  capace  a  contaminare  l'onestà  di 
fanciulle  e  a  procreare  bastardi.  Nel  1567  s'era  già  da  qualche 
anno  sposato  ad  Ersilia  Santacroce,  forse  giovane  e  bella;  certo 
di  nobilissima  e  ricca  famiglia  romana.  Pareva  ch'egli  l'amasse  ; 
con  lei  come  marito  conviveva;  se  ne  riprometteva,  e  n'ebbe  pur 
troppo,  ricchezza  di  prole.    Eppure    mirate  la  cupa,  la  profonda 


424  BEATKICE   CENCI  DOPO  LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI. 

malignità  di  questo  giovinetto  di  dioiott'  anni.  Nel  testamento  da 
lui  fatto  in  quell'anno  lasciava  eredi  i  figli  nascituri  ;  ma  ferendo 
in  antecedenza  la  moglie  nell'affetto  piìi  caro  e  più  sacro  per  una 
donna,  l'amore  materno;  antiveggendo  l'avvenire  per  vietarle  anche 
quello  che  le  sarebbe  stato  suprema  gioia  e  conforto,  l'aspetto 
e  il  sorriso  de'  figli  ;  non  solo  proibiva  che  le  si  lasciasse  alcuna 
parte  nella  tutela  di  essi,  ma  neppure  voleva  ch'ella  avesse  con 
loro  abitazione  comune.  L'animo  scellerato  di  lui  è  qui  già  tutto 
palese;  non  potendo  ancora  recare  l'ultimo  vituperoso  oltraggio 
alle  leggi  della  natura,  s'adopra  a  sua  possa  per  contrariarle  ed 
offenderle.  Un  anno  innanzi,  quando  cioè  contava  appena  diciassette 
anni,  insieme  con  un  suo  sgherro  tende  un  aguato  a  un  parente, 
Cesare  Cenci,  e  lo  ferisce.  Incarcerato  per  ben  due  volte  per  de- 
litti di  sangue,  si  libera  dalla  pena  la  prima  volta  con  cinque- 
mila scudi,  la  seconda  con  ventimila.  Ciò  gli  dà  ansa  a  maggiori 
misfatti  :  ormai  conosce  quanto  costa  la  giustizia,  e  sa  qual  è  il 
prezzo  di  ogni  delitto.  A  chi  lo  ammonisce  di  guardarsi  dal  tra- 
scorrere a  violenze,  risponde:  die  imporla?  non  ci  sono  buoni 
quattrini  da  pagare  ?  (pag.  12).  Che  ve  ne  pare  di  «  questo  buon 
padre  e  capo  di  famiglia,  di  quest'uomo  molto  curante  della  pro- 
sperità della  famiglia  »  che  va  continuamente  consumando  il  re- 
taggio dei  figli  per  comprare  l'impunità  delle  sue  scelleraggini? 
Accusato  di  crimine  pessimo  al  tribunale  del  senatore,  egli  in  sul 
principio  nega  reciso;  ma  le  prove  lo  stringono  da  ogni  parte; 
le  testimonianze  concorrono  tutte  a  suo  danno.  Allora  che  fa?  Sa 
di  aver  Imoni  quattrini,  e  da  essi  si  ripromette  la  sua  salvezza. 
Udite  com'ei  conclude  un  suo  costituto  :  «  Io  supplico  con  ogni 
humiltà  Sua  Santità  a  farmi  gratia  come  principe  benigno  et 
misericordioso  di  supporre  (sic.  ma  forse  comporre)  et  fornire 
questo  mio  negotio  et  causa  in  quel  modo  che  più  sarà  vero  et 
piacerà  a  Sua  Santità,  perchè  come  ho  detto  più  volte  et  di  nuovo 
io  mi  (sic,  ma  forse  dovrà  dire  noìi)  domando  giustizia  ma  mise- 
ricordia di  Sua  Santità  et  in  tutto  et  per  tutto  mi  rimetto  alla  mi- 
sericordia et  benignità  di  Sua  Santità  et  non  voglio  preterire 
una  vita  {sic,  forse  un  iota)  dì  quello  che  ordinerà  Sua  Santità  et 
per  questo  io  vorrei  la  pubblica  per  poter  trattare  con  gli  amici 
et  parenti  miei  per  trattare  con  N.  S.  tutto  quello  che  sarà  bi- 
sogno in  questa  mia  causa,  et  se  mai  si  troverà  che  io  voglia 
diffondermi  in  questa  causa  mi  tenghi  per  infame,  non  avendo 
altra  mira  se  non  di  rimettermi  alla  benignità  di  N.  S.  »  (pa- 
gina 23).  E  difatti  l'invocata  benignità  e  misericordia  non  tardò 


BEATRICE  CENCI   DOPO  LE  ULTIME  PUBBLICAZIONI.  425 

guari  a  manifestarsi.  Indi  a  poco  Illmus  senator  ex  ordine  S.mi 
D.  N.  lo  rilasciava  in  libertà.  E  vero  che  gli  costò  cara:  cento- 
mila scudi  di  moneta  sonante;  ma  ne  cavò  fuori  la  testa,  che  a 
tenore  delle  leggi  di  allora  avrebbe  dovuto  lasciare  sul  patibolo, 
e  n'acquistò  la  certezza  che,  finché  gli  durassero  i  quattrini, 
avrebbe  potuto  ciò  che  voleva. 

Da  quel  processo  apprendiamo  altre  sconcie  e  turpi  ed  infami 
azioni  di  lui.  I  servi  di  casa  sollecitava  a  prestarsi  a'  suoi  nefandi 
piaceri  (pag.  17,  18,  20,  21);  ed  uno  di  essi,  incaricato  a  governare  i 
cavalli,  deponeva  di  averlo  veduto  chiamare  dellì  ragazzi  nella 
stalla  ove  io  slava  et  in  mia  presenza  li  baciava,  poi  mi  mandava 
a  far  qualche  servizio;  ma  egli  dalle  fessure  della  porta  vide 
cose  che  non  si  possono  ridire.  Un  dì  chiama  una  pigionale  che 
andasse  a  lui;  e  le  si  mette  a  narrare  non  so  che  di  Jesù  Na- 
zareno che  non  so  dire  quello  che  si  abbia  detto,  ma  diceva  ch'era 
nato  di  re  et  altre  cose  che  io  non  intendeva.  Di  che  sorta  fossero 
queste  altre  cose,  ce  lo  spiega  una  sua  druda,  presente  al  turpe 
ed  empio  colloquio,  la  quale  racconta  che  ragionavano  di  cose 
grasse  intorno  alle  donne  (pag.  12  e  13).  Un'altra  volta  mentre  fa 
racconciare  una  sua  casa  alla  dogana,  vede  una  donna  di  perduta 
fama  che  scopava  per  i  muratori  ch'ivi  lavoravano,  e  preso  da  su- 
bito impeto  libidinoso,  se  la  trae  nello  studio,  e  n'usa  e  n'abusa 
(pag.  22).  Violento  pure  in  quelli  che  non  si  possono  chiamare 
amori,  una  certa  Maria  detta  la  Spoletina  che  per  lungo  tempo 
tenne  appresso  di  sé  e  dormiva  quasi  continuamente  con  lui  bat- 
teva spessissimo  a  sangue,  talvolta  per  gelosia,  talvolta  perchè 
quella  lo  rimproverava  che  si  menasse  in  casa  altre  donne  con- 
taminate da  brutto  male  (pag,  12,  13,  24)-  La  moglie  e  la  figlia 
teneva  sempre  chiuse  in  casa  (pag.  49)  :  e  le  faceva  custodire  da 
un  ladruncolo  di  un  suo  bagascione  chiamato  Sergietto,  poiché 
non  voleva  che  gli  altri  servitori  comunicassero  con  loro. 

Ai  figli  dimostrò  sempre  animo  avverso  e  nemico;  sicché 
eglino,  mancando  affatto  d'ogni  modo  per  vivere,  furono  obbligati 
a  muovergli  lite  per  avere  gli  alimenti,  i  quali  difatti  ottennero 
per  decreto  del  papa  (pag,  27).  11  primogenito,  Giacomo,  fu  da  lui 
diseredato  nel  testamento  che  fece  nel  1586,  quando  quegli  aveva 
forse  appena  quindici  anni,  e  però  non  poteva,  come  crede  il  signor 
Bertolotti,  avere  abusato  della  fiducia  del  padre  come  ammini- 
stratore de'  suoi  beni,  officio  del  resto  che  non  risulta  punto  es- 
sergli stato  giammai  confidato.  Quando  nel  94  fu  egli  carcerato 
per  sodomia,  Giacomo,  che  aveva  assunto  il  governo    della  fami- 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Aprile  18ì9.  26 


426  BEATRICE  CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI. 

glia,  curò  affinchè  fosse  meno  molestato,  ed  in  compenso  ebbe  dopo 
una  querela  per  tentato  parricidio  (pag.  50).    Però    dal    processo 
venne  in  chiaro  che  il  preteso  tentativo   era   stato    inventato  ad 
arte  da  Francesco  di  concerto  con  un  suo  bardassone,  quel   Ser- 
gietto  che  teneva  a  custodia  delle  donne,  ed    una   sua   bagascia 
detta  la  Secondina,  a  fine  di  far  capitar  male  il  misero  Giacomo. 
E  qui,  presa  a  insuperabile  nausea  la  sconcia    materia,  ces- 
siamo con  l'animo  ingombro  di  sdegno  e  di  orrore    dal    riferire 
altri  misfatti  di  quello  schifoso  malvagio.  Quelli  che  abbiamo  ri- 
cordato basteranno  senza  dubbio,  e  forse  ce  n'ha  pure  d'avanzo, 
per  darci  fondato  argomento  di  giudicare  se  Francesco  Cenci  fu 
davvero,  come  piacque  di  rappresentarcelo  al  signor  Bertolotti,  un 
buon  padre  di  famiglia  ed  un  pio   e    caritatevole   uomo,  ovvero 
quello  scellerato,  quel  mostro,  quel  violatore  d'ogni  umana  ragione 
e  delle  più  sacre  leggi  della  natura,  quale  per  quasi  trecent'anni 
è  stato  universalmente  tenuto.  Avviene  pur  troppo  qualche  volta 
che  anche  dopo  aver  letto  e  studiato  un  ammasso  enorme  di  docu- 
menti, si  formino  dei  giudizi  che  sono   in    manifesta  opposizione 
con  essi;  e,  se  mal  non  mi  avviso,  mi  sembra  che  da  quest'errore 
non  abbia  saputo  guardarsi  neppure  il  signor  Bertolotti  ;  il  quale, 
in  quella  appunto  che  taccia  risolutamente   di    falso    la    comune 
opinione  intorno  al  Cenci,  fornisce  le  più  splendide  e  sicure  prove 
della  sua  verità. 


III. 

Ma  più  assai  che  la  difesa  del  turpe  Francesco,  invano  ten- 
tata dal  signor  Bertolotti,  ci  sembra  grave  e  importante  l'accusa 
ch'egli  lancia  a  Beatrice,  e  che,  se  fosse  provata,  noi,  dolendoci 
come  di  una  colpa  di  averla  presa  a  difendere,  anziché  più  ricor- 
darla alla  compassione  degli  uomini  gentili,  su  lei  invocheremmo 
implacabile  lo  sdegno  di  Dio  e  l'esecrazione  degli  nomini.  Però 
alta  una  voce  ci  parla  nella  coscienza,  e  ci  assicura  che  quella 
pietà  di  cui  ci  accesero  i  casi  della  giovinetta  infelice,  non  fu,  no, 
immeritata.  Laonde  ricingendo  le  armi  già  da  tempo  depositate, 
riprendiamo  volenterosi  un'altra  volta  le  sue  difese,  affidandoci 
non  tanto  alle  nostre  deboli  forze,  quanto  nella  romorosa  vanità 
dei  colpi  avversari. 

«  Erano  ormai  trentacinque  anni  —  narra  il  signor  Berto- 
lotti  —  che  Beatrice  giaceva  nella  chiesa  di  S.  Pietro  in  Montorio, 
quando  l'Ill.mo  et  Ecc.mo  Giulio  Lanciano,  Procuratore  fiscale  della 


BEATRICE  CENCI  DOPO   LE   ULTIME  PUBBLICAZIONI.  427 

venerabile  fabbrica  di  S.  Pietro,  si  portò  dal  notaio  Colonna,  as- 
serendogli che  aveva  avuto  notizia  dell'esistenza  di  un  codicillo, 
fatto  a  dì  8  settembre  1599,  dall'Ili. ma  Beatrice  Cenci,  e  che  per- 
ciò cercasse  ne'suoi  protocolli  notarili  detto  codicillo,  consistente 
in  un  foglio  sigillato,  il  quale  fu  aperto  con  tutte  le  debite  for- 
malità.... 

»  Sul  dosso  del  sigillato  piego  stava  scritto: 
«  In  nomine  Domine  amen.  Die  8  septerabre  1599.  Coram 
testibus  meique  notarli  etc.  personaliter  constituti  111. ma  D"^  Bea- 
trice Cenci  romana  affirmans  suum  ultimum  condidisse  testa- 
mentum  et  nunc  velie  illi  addere  propterea  sponte  etc.  conse- 
gnavit  mihi  notarlo  hoc  folium  clausum  et  suo  sigillo  ut  asseruit 
sigillatum  in  quo-  dixit  continere  suos  codicillos,  quos  se  ulva 
secretos  esse  uoluit  sed  post  eius  obitum  mandauit  aperiri  etc.  — 
Actum  Kome  in  carceribus  curiae  de  Sabellis  presentibus  etc. 

»  Io  Beatrice  Cenci  o  fato  fare  li  entro  scritti  codicilli. 

»  Io  Girolamo  Spampano  fui  presente  quanto  sopra. 

»  Io  Gio.  Francesco  Hormezano  fui  testimonio. 

»  Io  Jacopo  Cenci  fui  id. 

»  Io  Enrico  Massari  id. 

»  Io  Bernardino  Cernecchio  id.  » 
Ciò  che  in  questo  codicillo  attrae  ed  assorbe  intieramente 
l'attenzione  del  signore  Bertolotti,  sono  i  due  seguenti  legati, 
ne'quali  egli,  per  poco  non  gridando  Eureka  come  Archimede,  si 
avvisa  di  aver  trovato  il  bandolo  della  matassa,  il  Deus  ex  machina 
della  tragedia  de'Cenci. 

«  Lascio  per  ragione  di  legato  et  in  ogni  altro  miglior  modo 
alla  signora  Margherita  Sarocchi-Birago  scudi  cinquecento  de 
moneta  acciò  preghi  Dio  per  l'anima  mia  godendosi  però  li  frutti, 
ma  non  levando  sorte  principale  et  venendo  detta  signora  a 
morte  ricada  la  sorte  principale  a  M.'^  Caterina  De  Santis  vedova 
overo  ad  altri  nominati  da  essa  M.""  Caterina  con  l'obbligo  che 
dirò  di  sotto. 

»  Lascio  nell'istessa  maniera  a  M.*  Caterina  De  Santis  vedova 
la  quale  bora  si  ritrova  in  compagnia  di  detta  signora  Marghe- 
rita altri  scudi  cinquecento  di  moneta  con  obbligo  di  porli  in 
sustentar  un  povero  fanciullo  pupillo  come  gli  ho  conferito  a 
bocca,  et  mentre  vive  detto  fanciullo  sia  sempre  obbligata  con  li 
frutti  di  sustentarlo;  et  venendo  a  morte  la  signora  Margherita 
sia  anco  obbligata  di  spendere  i  frutti  di  quelli  altri  cinquecento 
scudi  nell'istessa  opera  di  carità,  et  morendo  detta  M.^  Caterina 


428       BEATRICE  CENCI  DOPO  LE  ULTIME  PUBBLICAZIONI. 

avanti  di  esso  fanciullo  debba  las-^-iare  tutta  la  somma  di  detti 
danari  ad  altre  persone  con  l'obbligo  sopra  detto  ;  ma  morendo 
il  fanciullo  avanti  di  lei  sieno  semplicemente  li  suoi.  Et  venendo 
caso  la  signora  Margberita  et  M.^  Caterina  fossero  morte,  et  che 
il  fanciullo  fosse  in  età  di  venti  anni,  resti  in  tal  caso  esso  fan- 
ciullo nominato  da  ì.!."  Caterina  libero  padrone  così  delli  frutti 
come  di  tutta  la  sorte  principale  con  obbligo  di  pregare  l'ani- 
ma sua.^  » 

«  11  lettore  —  aggiunge  il  signor  Bertolotti  —  avrà  già  ca- 
pito perchè  Beatrice  usasse  tanta  segretezza  nel  passare  questo 
codicillo  ad  un  altro  notaio  con  proibizione  di  aprirlo  prima  della 
sua  morte.  Ripugnava  alla  nobile  donzella  far  conoscere  questo 
fallo;  pure,  a  consiglio  ed  ordine  forse  del  confessore  stesso,  pensò 
alla  sorte  del  figlio,  in  modo  però  riservatissimo,  afiinchè,  se 
fosse  stato  possibile,  non  mai  alcuno  giungesse  a  capire  lo  scopo 
del  lascito.  » 

Prima  di  muovere  qualche  osservazione  sulle  conseguenze  che 
il  signor  Bertolotti  trae  da  queste  disposizioni  della  povera  Bea- 
trice, mi  sia  permesso  di  chiedere  talune  spiegazioni  intorno  a 
certe  particolarità  intrinseche  del  codicillo,  le  quali,  a  dire  il 
vero,  non  mi  riescono  prefettamente  intelligibili. 

Come  lo  manifesta  il  suo  stesso  nome  di  codicillo,  fa  esso 
seguito  al  testamento  di  Beatrice  e  ad  un  suo  primo  codicillo 
consegnati  entrambo  al  Jacobillo,  notare  della  confraternita  delle 
Stimmate.  Di  questi  antecedenti  suoi  atti  fa  in  esso  menzione  la 
testatrice  dicendo  :  Io  Beatrice  Cenci  doppo  il  mio  testamento  e  co- 
dicillo dato  in  mano  delV Jacohillo  dichiaro  etc.  Ora  si  vuol   notare 


"  La  Margherita  Sarocchi,  di  cui  qui  si  paria,  fu  poetessa  a  quei  tempi  molto 
lodata  Era  nata  in  Napoli  nel  1569,  ma  da  giovinetta  trasferitasi  a  Roma,  come 
si  rileva  da  una  lettera  del  Tasso  al  Cataneo  in  data  del  24  agosto  1583:  «  Stu- 
diò (scrive  la  Canonichi  Facilini  nel  suo  Prospetto  biografico  delle  donne  ita- 
liane rinomate  in  poesia)  filosofìa,  teologia  e  fu  di  mente  fervidissima.  Più  ce- 
lebre si  rese  incontrando  lo  sdegno  del  Marini  e  dello  Stigliani,  per  aver  avuto  il 
sano  discernimento  di  sprezzarli  quali  corruttori  del  buon  gusto.  Aldo  Manuzio  il 
giovane,  l'Eritreo,  il  Tassoni  ed  altri  come  donna  assai  valente  la  commendarono. 
Lasciò  moltissime  poesie,  ed  un  poema  eroico  intitolato  Scandebreide  in  dodici 
canti.  »  Nella  raccolta  delle  rime  del  Tasso  si  leggono  tre  sonetti  in  risposta  di 
uno  che  la  Sarocchi  gl'invio  nel  detto  anno  1583  quando  quel  grande  infelice  lan- 
guiva in  S.  Anna.  Eppure  questa  donna,  che  meritò  fin  da  giovinetta  le  lodi  del 
Tasso,  e  che  fu  avuta  in  pregio  ed  in  istima  da'maggiori  letterati  di  quei  di,  il 
signor  Bertolotti  (pag.  69)  la  crede  una  della  mezzane  del  fallo  da  lui  gratuita- 
mente attribuito  alla  povera  Beatrice.  Del  resto,  l'amicizia  di  questa  povera  fan- 
ciulla con  la  Sarocchi  può  forse  dimostrare  com'ella  pure  avesse  l'animo  disposto 
all'amore  delle  arti  gentili. 


BEATRICE  CENCI  DOPO  LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI.  429 

che  il  testamento  fu  rogato  il  27  agosto  1599,  ed  il  primo  codi- 
cillo tre  giorni  dopo,  di  esso.  Come  dunque  il  secondo  codicillo, 
eh'  è  quello  dei  lasciti  testé  riferiti,  benché,  come  abbiamo  ve- 
duto, consegnato  al  notaio  l'S  settembre,  porta  la  data  dell' 8 
febbraio,  cioè  di  oltre  a  sei  mesi  prima  che  fosse  fatto  il  testa- 
mento di  cui  doveva  essere  una  prosecuzione?  Che  Minosse  giu- 
dicasse con  la  coda,  sapevamcelo  ;  ma  che  essa,  la  coda,  non  più 
contentandosi  di  essere  un'  appendice  del  corpo,  occupasse  superba 
il  luogo  della  testa,  non  l'avevamo  hno  ad  ora  potuto  credere  ; 
e  però  non  ci  si  tacci  d'indiscreta  curiosità,  se  chiediamo  che  ci 
venga  chiarito  come  sia  potuta  avvenire  una  cosi  strana  metatesi. 
È  noto  che  i  Cenci  negli  ultimi  mesi  della  loro  prigionia 
erano  rinchiusi  le  donne  in  Corte  Savella,  gli  uomini  in  Tordi- 
nona.  Difatti  da  Tordinona,  Giacomo  il  27  agosto  fece  anch'egli 
testamento,  al  quale,  pure  da  Tordinona,  aggiunse  il  10  settembre 
un  codicillo.  Ci  pare  quindi  di  non  poter  essere  incolpati  neppure 
qui  d'indiscretezza,  se  dimandiamo  come  mai  poteva  esso  Giacomo 
trovarsi  l'S  settembre  in  Corte  Bavella  a  far  da  testimonio  alla 
consegna  del  secondo  codicillo  di  Beatrice  ? 

Quando  la  compagnia  della  Misericordia  andò  a  levare  dalle 
carceri  di  Corte  Savella  la  disgraziata  fanciulla  per  condurla  alla 
morte,  ella,  come  si  ha  dal  registro  di  quella  confraternita,  dopo 
rassegnatasi  con  grande  pietà  degli  astanti  all'infelice  sua  sorte, 
disse  volere  «  che  il  suo  testamento  già  fatto  per  atti  del  notaro 
della  compagnia  delle  sacrate  stimate  sia  interamente  eseguito, 
e  prega  Sua  Santità  che  per  amor  di  Dio  gli  faccia  gratia  del 
detto  testamento  che  abbia  effetto,  contentandosi  che  lei  abbia  fa- 
coltà di  testare  la  sua  dote  di  scudi  20  mila,  acciò  non  sia  defrau- 
data la  sua  volontà  di  sovvenire  a  quei  luoghi  pii  ai  quali  è  las- 
sata questa  sua  robba.  »  Del  codicillo  consegnato  all'altro  notaro 
non  fece  punto  parola;  eppure  perché  non  avrebbe  ella  fatto  men- 
zione anche  di  questo,  e  pregato  perchè  questo  pure  fosse  eseguito, 
tanto  più  che,  a  lei  madre,  doveva  importare  assai  più  che  avesse 
effetto  la  sua  volontà  in  quanto  provvedeva  alla  sorte  del  figlio 
che  in  quanto  beneficava  alcuni  luoghi  pii?  Forse  si  risponderà 
essere  sua  intenzione  che  rimanesse  secreto,  appunto  perchè  non 
si  venisse  a  sapere  il  suo  fallo.  Ma  se  voleva  che  il  codicillo  re- 
stasse ignorato,  perchè  l'aveva  fatto  ?  Ma  nel  consegnarlo  al  no- 
taio non  aveva  espresso  la  sua  volontà  che  fosse  dopo  la  sua  morte 
aperto  :  Seti  post  eiiis  ohitum  mandavit  aperiri?  E  non  era  ella  già 
per  morire,  già  sulle  mosse  per  la  dolorosa  via  del  patibolo  ? 


430  BEATRICE  CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI. 

Crede  il  signor  Bertolotti  eh'  ella  pensasse  alla  sorte  del  figlio 
per  consiglio  ed  ordine  forse  del  confessore.  Ma  perchè  questi  non 
si  curò  poi  che  le  disposizioni  eh'  egli  aveva  consigliato,  o  forse 
ordinato,  avessero  il  loro  effetto,  e  lasciò  che  il  codicillo  rima- 
nesse ignorato  per  tanto  tempo,  e  che  il  povero  fanciullo  punto 
non  conseguisse  ciò  che  la  testatriee  gli  aveva  assegnato  ? 

Queste  elie  ci  piace  chiamare  piuttosto  dimando  che  osserva- 
zioni, non  si  fanno  già  con  animo  di  negare  l'autenticità  del  co- 
dicillo pubblicato  dal  signor  Bertolotti.  Per  pronunciarsi  sicu- 
ramente intorno  ad  esso  sarebbe  d'uopo  vederlo,  confrontarlo  con 
il  testamento,  esaminare  diligentemente  i  caratteri  estrinseci,  se- 
condo le  norme  date  dai  diplomatici  per  accertarsi  della  legit- 
timità degli  atti  ;  cose  tutte  che  io  non  ho  potuto  fare,  non  aven- 
doci detto  il  signor  Bertolotti  presso  quale  notaro  esso  si  trovi,  e 
neppure  se  quello  veduto  da  lui   sia  l'originale  o   una  copia. 

Non  sappiamo  se  il  signor  Bertolotti  vorrà  esserci  di  tanto 
cortese  da  rispondere  a  queste  nostre  dimande,  che  pure  non  ci 
sembrano  affatto  immeritevoli  di  risposta.  Ma  anche  presuppo- 
nendo eh'  egli  ci  voglia  di  ciò  contentare,  e  che  dalle  sue  spiega- 
zioni sia  splendidamente  confermata  l' autenticità  del  codicillo, 
non  per  questo  ci  parranno  meno  avventate  le  conseguenze  ch'egli 
si  assicurò  di  ritrarne,  e  che,  a  nostro  avviso,  tornano  di  assai 
maggior  danno  alla  sua  fama  di  critico  savio  e  discreto,  che  alla 
memoria  della  sventurata  Beatrice.  E  veramente,  perchè  ella,  ce- 
dendo ai  consigli  del  confessore,  si  contentò  di  lasciare  una  tenue 
somma  di  denaro  per  sostentamento  di  un  povero  fanciullo  pu- 
pillo, se  ne  dovrà  necessariamente  inferire  che  questi  fosse  nato 
di  lei  ?  Ella,  che  soltanto  per  la  sua  dote  era  ricca  di  ventimila 
scudi,  ella,  così  generosa  largitrice  del  suo,  che  regalò  qualche 
amica  di  ben  cinquecento  scudi,  e  una  chiesa,  quella  di  S.  Pietro 
in  Montorio,  di  oltre  a  tremila;  che  ne  lasciò  più  di  mille  per 
sole  messe,  e  quasi  dodicimila  per  dotare  povere  giovinette  ;  ad 
un  figlio,  ad  un  misero  abbandonato  fanciullo,  da  cui  avrebbe 
dovuto  farsi  perdonare  la  colpa  di  avergli  dato  la  vita  senza  po- 
tergli dare  il  nome  e  1'  affetto  di  un  padre,  avrebbe  ella  lasciato 
per  tutto  retaggio  il  meschino  fruttato  di  soli  cinquecento  scudi 
e  r  incerta  speranza  di  ereditarne  altrettanti  alla  morte  di  due 
altre  legatario?  Oh  veramente  poteva  ella  chiamarsi  generosa  ed 
amorevole  madre  ;  ben  poteva  ella  consolarsi  in  sul  morire  di  aver 
largamente  provveduto  alla  sorte  del  figlio!  Lontana  appena  di 
poche  ore  dal  momento  che  doveva  cosi    bruscamente    separarla 


BEATRICE  CENCI  DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI.  431 

da  Ogni  cosa  più  caramente  diletta,  quando  in  quel  cuore  già  vi- 
cino a  tacersi  per  sempre  avrebbe  dovuto  fremere  più  fervente 
che  mai  l'amore  materno,  ella,  con  animo  tranquillo  e  sereno,  ri- 
corda e  compensa  pure  taluni  lievi  servizi  prestatile  in  carcere  ; 
e  se  ancora  la  stringe  qualche  premura  di  ciò  che  lascia  quaggiù, 
se  ancora  rivolge  una  preghiera  ai  potenti  sulla  terra,  n'  è  ca- 
gione il  testamento  da  lei  consegnato  ri  notaio  della  compagnia 
delle  stimmate,  il  quale  implora  che  abbia  efifetto,  ^erc/iè  non  sia 
defraudata  la  sua  volontà  di  sovvenire  a  quei  luoghi  pii  acquali  ha 
lasciato  la  sua  roba.  Ma  di  quell'atto  in  cui  aveva  disposto  a  favore 
del  povero  fanciullo  pupillo,  neppure  una  parola,  neppure  un  fug- 
gevole ricordo,  neppure  una  lontana  allusione.  Avrebbe  una  ma- 
dre dimenticato  così? 

Ma  se  anche  il  signor  Bertolotti,  anziché  innalzare  arditis- 
sime supposizioni  sopra  così  deboli  fondamenti,  fosse  riuscito  a 
provare  che  il  fanciullo  menzionato  da  Beatrice  fu  veramente 
figlio  di  lei,  come  ciò  potrebbe  menomare  la  pietà  che  ci  desta 
la  sua  misera  sorte?  Perchè  farle  una  colpa  della  sventura?  Con 
che  ragione,  con  che  giustizia  accagionare  alla  fanciulla  violata 
gli  effetti  della  patita  violenza?  Anzi,  non  dovremmo  farla  og- 
getto di  più  viva  e  profonda  compassione,  e  riverire  quasi  come 
sacra  la  sua  sventura  di  donzella,  circondata  dall'aureola  di  una 
non  consentita  infelicissima  maternità?  Ma  il  signor  Bertolotti, 
compassionando  al  nostro  sentimentalismo,  ci  fa  sapere  ch'ella 
non  andò  reluttante  agli  amorosi  congressi  dai  quali  uscì  madre. 
Ingiustamente  —  assicura  il  signor  Bertolotti  —  essere  stato  in- 
colpato Francesco  Cenci  di  sì  abbominevole  misfatto.  Tenere  egli 
rinchiusa  la  figlia  non  già,  padre  snaturato,  per  obbligarla  a  con- 
discendere a  desiderii  nefandi;  bensì,  giudice  severo,  per  punirla 
dell'onta  da  lei  recata  alla  sua  famiglia,  abbandonandosi  nelle 
braccia  di  chi  sa  quale  amante.  Non  tengono  qui  testimonianze 
contrarie;  invano  si  adducono  le  parole  del  Farinaccio.  «  Fu  ap- 
punto il  Farinaccio  il  primo  a  lanciare  questa  taccia  al  Cenci 
per  salvare  Beatrice  dalla  morte;  ma  egli  tacciava  pure  d'im- 
becillità Bernardo  per  lo  stesso  scopo,  e  abbiamo  veduto  che  non 
era  vero.  »  Si  concede  che  il  Farinaccio  reputasse  poco  sincero 
di  mente  Bernardo;  non  però  che  questa  asserzione  fosse  affatto 
priva  di  fondamento.  Ecco  il  costituto  di  un  tal  Mario  da  Fano, 
il  quale  così  parla  di  lui:  «  non  è  saggio  come  dovrebbero  essere 
li  giovani,  et  quando  l'ho  praticato  più  presto  l'ho  avuto  per  lescio, 
che  altrimenti,  perchè  mi  parlava  et  non  concludeva  niente,   et 


432  BEATRICE   CENCI  DOPO   LE   ULTIME  PUBBLICAZIONI. 

non  ne  cavavo  costrutto  alcuno;  »  e  quindi  aggiungeva:  «  l'ho 
tenuto  per  isciocco,  et  di  poco  cervello  come  si  dice  nell'arti- 
colo. »  A  provare  il  contrario  non  seml)ra  che  sieno  sufficienti  le 
istanze  e  le  lettere  di  affari  scritte  in  suo  nome  che  il  signor  Ber- 
tolotti  ha  stampato,  giacché  quelle  possono  benissimo  essergli  state 
fatte  da  qualche  avvocato  che  aveva  preso  a  curare  le  cose  sue 
Difatti,  lo  stesso  signor  Bertolotti  porta  un  memoriale  di  un  tal 
Siila  Morico  procurator  et  defensor^  (pag.  86),  il  quale  dice  di  «  aver 
procurato  sei  anni  continui  per  il  signor  Bernardo  Cenci  con  ogni 
diligentia  et  sollecitudine,  di  maniera  tale  che  l'ha  fatto  liberare  di 
galera,  come  pubblicamente  si  vede,  ed  introdottagli  una  causa  civile 
a  Ruota  dell'eredità  paterna,  che  sino  al  presente  giorno  non  ha 
fatto  mai  altro  che  star  vigilante  alli  negotii  di  esso  Bernardo.  » 
Del  resto  l'imbecillità  di  Bernardo  non  fu  l'argomento  prin- 
cipale addotto  dall'avvocato  per  iscusarlo;  bensì  affatto  secondario 
e  toccato  appena  di  passaggio.  Non  così  rispetto  a  Beatrice.  L'in- 
fame attentato  del  padre  è  per  lei  come  il  perno  della  difesa,  la 
quale  interamente  si  sostiene  su  di  esso  e  intorno  ad  esso  si  aggira. 
E  sarà  verisimile  che  il  Farinaccio,  il  primo  giureconsulto  della 
curia  romana,  stabilisse  un  intero  sistema  di  difesa  sopra  una  vaga 
sua  idea,  sopra  un'arbitraria  supposizione,  sopra  una  menzognera 
taccia  ch'egli  sarebbe  stato  il  primo,  dice  il  signore  Bertolotti, 
ad  affibbiare  al  padre  della  sua  cliente?  E  questa  difesa  intera- 
mente fondata  sopra  un'asserzione  gratuita  e  da  niente  giustifi- 
cata, avrebbe  egli  avuto  la  temerità  di  proferirla  al  cospetto  del 
papa,  anch'egli  molto  valente  giureconsulto,  il  quale,  anziché  ri- 
dere di  tanta  insania  del  celebre  avvocato,  ovvero  imporgli  che 
cessasse  dall'insultare  senza  ragione  alla  memoria  dell'estinto,  si 
sarebbe  lasciato  indurre,  stretto  dagli  argomenti  di  lui,  ad  esa- 
minare egli  stesso  la  causa  per  un'intera  nottata?  Se  il  turpe  ol- 
traggio recato  da  Francesco  Cenci  alla  figlia  non  avesse  avuto  con- 
ferma nella  coscienza  universale;  se  il  crederlo  non  fosse  stata 
una  necessaria  conseguenza  di  fatti  inconfutabili,  poteva  egli,  il 
Farinaccio,  assicurarsi  di  affermare  «  essere  vero  (com'è  creduto 
verissimo)  che  lo  stesso  Francesco  col  tenere  entro  stanze  oscure 
e  chiuse  a  maniera  di  carcere  la  detta  Beatrice,  e  mal  trattandola, 
abbia  cercato  di  violarne  la  pudicizia?  »  E  pare  che  il  fatto  in- 
fame fosse  ammesso  se  non  come  compiuto,  almeno  come  tentato, 
dal  Fisco  stesso  ;  il  quale,  per  quanto  apparisce  dalle  parole  del 
Farinaccio,  sembra  obbiettasse  che  Beatrice  dovea  non  fare  uc- 
cidere, ma  soltanto  accusare  il  suo  oltraggiatore. 


BEATRICE  CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI.  433 

Di  fronte  a  queste  testimonianze  di  un  contemporaneo,  che 
aveva  avuto  tutto  l'agio  di  esaminare  il  processo  e  di  raccogliere 
informazioni  e  notizie  dai  famigliari  della  casa,  e  il  quale,  per 
quanto  fosse  interessato,  non  mai  avrebbe  potuto  avventurarsi  a 
portar  fino  al  trono  del  principe  un'accusa  fondata  sulla  sua  sola 
immaginazione  senza  mostrarsi  non  quel  dotto  e  riputato  giure- 
consulto ch'egli  era,  ma  un  uomo  affatto  manchevole  del  più  vol- 
gare buon  senso;  di  fronte  alle  concordi  asserzioni  di  sincrone 
memorie,  da  insigni  storici  accettate  per  vere  ;  di  fronte  alla  con- 
tinuata tradizione  ancora  vivente  tra  noi,  che  non  ha  mai  cessato 
di  riguardare  la  povera  Beatrice  come  una  vittima  della  paterna 
nequizia;  che  valore  si  potrà  mai  attribuire  alle  contrarie  affer- 
mazioni del  sig.  Bertolotti,  destituite  come  sono  nonché  di  alcuna 
prova,  ma  di  qualsiasi  anche  apparente  argomento? Ecco:  il  sig.  Ber- 
tolotti continui  nelle  sue  pazienti  ricerche  ;  rovisti  a  suo  senno, 
egli  che  n'ha  si  bell'agio,  le  carte  dell'archivio  di  Stato  ;  e  quando 
sarà  riuscito  a  trovare  chi  fosse  l'incognito  amante  da  lui  attri- 
buito a  Beatrice,  od  anche  a  provare  soltanto  ch'ella  fosse  sospet- 
tata di  aver  preso  amorose  confidenze  con  qualche  persona  estra- 
nea alla  casa,  noi  non  esiteremo  punto  di  confessarci  in  errore  e 
di  scusarci  con  lui  di  averlo  combattuto.  Ma  finché  egli  non  sarà 
giunto  a  tanto,  noi,  ci  perdoni  il  sig.  Bertolotti,  se  abbiamo  po- 
tuto spingere  la  nostra  compiacenza  sino  a  secondarlo  per  un 
breve  momento  nel  suo  sospetto  che  il  fanciullo  pupillo  nascesse 
di  quella  sventurata  giovanotta,  non  possiamo  però  riferire  ad 
esso  altro  padre  fuorché  colui  che  la  testimonianza  de'contempo- 
ranei,  l'autorità  della  storia  e  la  continuata  voce  della  tradizione 
concordemente  accusano  di  aver  violentato  la, madre. 

Benché  la  memoria  di  Francesco  Cenci  sia  pur  troppo  ese- 
cranda, pure  non  senza  molta  ripugnanza  io  mi  sono  indotto  a 
mostrare  l'inanità  degli  sforzi  tentati  per  iscolparlo  del  suo  più 
brutto  delitto,  mossovi  dal  vedere  come  sifiatti  poco  caritatevoli 
tentativi  mentre  non  giovavano  punto  alla  fama  di  lui  tornavano 
interamente  a  danno  della  sua  vittima.  E  se  tra  le  anime  che  di 
lassù  son  cittadine  tu  pure  ora  siedi,  o  fanciulla  tanto  infelice 
qui  in  terra,  come  ne  danno  certa  speranza  la  vita  tua  tanto  do- 
lorosa e  l'infinita  misericordia  divina,  alla  quale  così  pietosamente 
ti  rimettesti  ne'tuoi  ultimi  momenti  di  dolore,  deh,  non  ti  spiaccia 
ch'io,  per  respingere  dalla  tua  povera  testa  recisa  il  marchio  d'in- 
famia di  cui  si  voleva  vituperarla,  per  conservarti  integra  quella 
che  ti  fu  forse  unico  conforto  nel  morire  —  la  compassione  degli 


434       BEATRICE  CENCI  DOPO  LE  ULTIME  PUBBLICAZIONL 

uomini  —  abbia  dovuto  ricordare  l'atroce  ingiuria  da  te  sofferta, 
e  di  cui  tanto  nel  secreto  del  tuo  cuore  ti  dolesti  da  preferire  la 
morte  alla  vergogna  di  confessarla.  Se  essa,  non  voluta  da  te  far 
palese,  non  ti  valse  a  sottrarti  al  patibolo,  ora  ti  varrà,  lo  spero, 
a  mantenerti  nella  tua  fama  di  vittima  e  nel  compianto  degli 
uomini.  Che  se  allora  ti  stava  conti'o  l'avara  avidità  di  un  fiscale, 
bramoso  di  raccattare  tra  '1  tuo  sangue  la  ventesima  parte  delle 
tue  sostanze  ;  il  tuo  avversario  d'adesso  è  un  buono  e  bravo  ar- 
chivista, il  cui  noto  amore  per  la  verità  c'è  garante  che  non  tar- 
derà a  ritirare  la  sua  accusa,  erronea  sì,  ma  non  interessata.  Se 
allora  avevi  a  giudice  tale,  cui  la  tua  giovane  testa  fu  gradino  a 
più  splendida  servitù,  ora  tuo  giudice  è  la  libera  opinione  degli 
uomini  che  alla  mente  illuminata  accoppiano  il  cuore  naturato  a 
gentilezza:  ed  essa,  cui  non  seduce  lusinghe,  non  corrompe  pecu- 
nia, non  isforza  potere,  te  assolvendo  dell'accusa  novella,  confer- 
merà il  giudizio  che  di  te  e  de'tuoi  casi  infelici  portarono  i  tuoi 
contemporanei,  ed  approvò  la  pietà  delle  successive  generazioni. 

IV. 

11  processo  dei  Cenci  parve  al  Guerrazzi  grassazione  a  mano 
armata  di  corda  e  di  aspersorio  di  acqua  benedetta  nella  curia  ro- 
mana ;  e  questo  fiero  giudizio,  ripetutamente  espresso  sì  nel  ro- 
manzo e  sì  in  altri  scritti  che  a  quello  aggiunse  per  ribadirne  le 
conclusioni,  confermò  anche  tre  anni  prima  di  morire  nell'  epi- 
grafe che  dettò  per  Beatrice,  e  che,  non  essendo  guari  conosciuta, 
non  riuscirà  forse  sgradito  il  pubblicarla  di  nuovo: 

Beatrice  Cenci  —  Morte  acerba  —  Fiore  di  giovinezza  per- 
(liifQ  —  G-ioie  di  amore  negate  —  Censo,  unica  colpa,  rapito  — 
Sepolcro  disperso  —  Tanto  non  me  dolsero  —  Quanto  la  fama 
per  lumjo  secolo  contaminata  —  Ora  che  per  voi  si  può  —  Sorelle 
romane  —  Rendete  alle  ossa  il  sepolcro  —  Alla  memoria  la  fama 

—  Ciò  facendo  gioverete  —  Alla  giustizia  eterna  —  Alla  patria 

—  A  me!  ed  anco  a  voi. 

il  signor  Bertolotti,  com'era  da  prevedersi,  dopo  i  suoi  ten- 
tativi di  reintegrare  la  memoria  di  Francesco  Cenci  a  danno  del- 
l'onore di  Beatrice,  porta  anche  in  ciò  opisiione  a  quella  del 
Guerrazzi  affatto  contraria.  Egli  afferma  che  il  papa  «  temporeg- 
giò ondeggiando  tra  la  giustizia  del  sovrano  e  la  bontà  del  rap- 
presentante di  chi,  morendo,  aveva  perdonato  a'  suoi  carnefici  ; 
quando  un'altra  tragedia  in  lari   gentilizi,   prossimi    parenti   dei 


BEATRICE  CENCI   DOPO  LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI.  435 

Cenci  medesimi,  lo  spinse  a  dar  un  esempio  di  giustizia.  »  A  pa- 
rer SUO,  le  molte  e  principali  famiglie  di  Roma,  alle  quali  quella 
dei  Cenci  era  congiunta  di  parentela,  «  vedendosi  disonorate  dal- 
l'esecuzione, cercarono  di  attenuare  prima  il  delitto,  poscia  pas- 
sarono ad  invertire  i  fatti,  facendo  dei  rei  le  vittime,  del  giudice 
un  delinquente.  Morto  il  papa  che  aveva  fatto  eseguire  la  giustizia, 
si  cominciò  a  gridare  :  Il  hanno  spogliati  !  E  di  questo  passo, 
sempre  andando  di  esagerazione  in  esagerazione,  siamo  venuti 
all'apoteosi  di  Beatrice  Cenci  ed  alla  daimazione  dello  stupratore 
Francesco  e  di  Clemente  VIU  spogliatore  de'Cenci.  »  E  finalmente 
conclude  che  «  indarno  chi  non  ha  idee  preconcette  spera  di  trovar 
appiglio  per  segnalare  l'ingiustizia  papale,  e  tanto  meno  l'inerente 
scopo  di  spogliare  la  famiglia  de'Cenci.  y> 

Esprimendo  un'opinione  tanto  favorevole  per  la  memoria  di 
personaggi  principalissimi  nella  curia  romana,  e  che  è  affatto 
conforme  a  quella  di  scrittori  palesemente  e  schiettamente  cleri- 
cali, il  sig.  Bertolotti  dubitò  non  avessero  a  sospettarlo  anche  lui 
clericale.  Ma  il  timore  di  questo  sospetto  non  lo  tenne  dal  dire 
apertamente  l'animo  suo,  bastandogli,  a  buona  ragione,  che  la  sua 
coscienza  lo  assicurasse  di  non  meritarlo.  Teneri  quanto  altri  mai 
dell'indipendenza  de' giudizi,  non  possiamo  non  lodare  la  franca 
schiettezza  del  sig.  Bertolotti  ;  e  ben  volentieri  crediamo  che  egli, 
ufficiale  di  un  libero  governo,  non  sia,  né  possa  essere  un  clericale. 
Altra  ed  assai  diversa,  a  parer  nostro,  la  vera  ragione  di  quel 
suo  giudizio. 

Yi  ha  degli  uomini  in  cui  il  sentimento  dell'  imparzialità  è 
tanto  profondamente  radicato,  eh'  eglino,  per  timore  di  parere 
passionati,  si  lasciano  andare,  senza  pure  avvedersene,  all'estremo 
contrario,  cioè  a  far  quasi  le  difese  e  1'  apologia  del  partito  av- 
versario e  di  coloro  che  lo  hanno  rappresentato  o  lo  rappresen- 
tano. Ciò  spiega,  a  mio  avviso,  perchè  in  taluni  storici  protestanti, 
il  Leo,  per  esempio,  e  l'Hurter,  si  trovino  di  tali  ritratti  di  qual- 
che pontefice,  che  neppure  gli  scrittori  più  svisceratamente  cat- 
tolici ne  fecero  mai  di  cosi  belli  e  piacenti.  E  senza  dubbio  un 
errore  anche  questo  ;  ma  un  errore  che  procede  da  tale  uno 
squisito  sentimento  dellci  giustizia,  che  non  può  non  tornare  a 
lode  e  ad  onore  grandissimo  di  colui  che  vi  cade. 

Peraltro  io  credo  che  nel  fatto  dei  Cenci  debba  tenersi  in- 
teramente lontana  qualunque  considerazione  di  partito;  e  però 
non  posso  partecipare  all'opinione  di  chi  avvisò  di  servirsene  come 
di  arma  per  ferire  il  papato.  Concesso  pure  per  vero  ciò  che  finora 


436  BEATRICE  CENCI  DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI. 

non  può  essere  che  un  grave  sospetto,  cioè  che  l'uccisione  di 
quella  famiglia  fosse  promossa  dalla  brama  di  spogliarli  delle 
loro  sostanze,  tale  delitto,  tale  crudele  e,  se  volete,  scellerato 
abuso  di  autorità,  come  quello  ch'era  in  quei  tempi  egualmente 
possibile  anche  in  un  principato  laico,  non  può  addursi  come 
prova  della  necessaria  malvagità  del  principato  ecclesiastico.  A  mio 
avviso,  in  quel  dramma  sanguinoso  debbe  essere  studiato  il  fatto 
storico  e  psicologico,  non  quello  politico;  1'  individuo,  non  il 
principio.  L'aver  fatto  1'  opposto  è  stato  appunto  cagione  che  il 
caso  funesto  rimanesse  e  rimanga  tuttora  oscurissimo;  giacché 
trasportato  l'interesse  da  certe  persone  a  certi  principii,  le  pas- 
sioni che  avrebbero  dovuto  cessare  con  quelle,  si  sono  con  questi 
perpetuate;  e  di  qui  la  diuturnità  delle  accuse  esagerate  e  delle 
non  meno  esagerate  difese  ;  ed  il  vigilare  continuo  e  sospettoso 
perchè  non  fossero  resi  pubblici  quei  documenti  del  fatto,  che 
soli,  forse,  potrebbero  chiarire  le  ragioni  vere  di  esso. 

Sebbene  dunque  io  sia  molto  lontano  dall'approvare  la  troppo 
generale  accusa  del  Guerrazzi,  tuttavia  non  credo  neppure  do- 
ver accettare  la  piena  assoluzione  che,  forse  con  poca  maturità 
di  giudizio,  è  stata  testé  proferita  dal  signor  Bertolotti  ;  pa- 
rendomi invece  che  appunto  chi  prenda  ad  esame  senza  idee 
preconcette  il  caso  de'  Cenci,  non  possa  non  concepire  de'  dubbi 
assai  gravi  sulla  imparzialità  dei  loro  condannatori.  Già  scrissi 
in  altra  occasione,  e  adesso  mi  torna  a  taglio  ripeterlo,  che  con 
il  despotismo  che  allora  regnava  arbitro  di  vita  e  di  morte,  e 
faceva  spesso  che  il  giudice  fosse  piuttosto  provveditore  del  car- 
nefice che  ministro  di  giustizia;  e  con  il  sistema  di  procedura 
di  quei  di,  tanto  involuto  ancora  di  barbarie,  né  le  confessioni 
degli  accusati  né  le  sentenze  dei  tribunali  mi  certificano  della 
reità.  Anche  le  maliarde  del  secolo  decimosesto  e  decimosettimo 
furono  processate  e  condannate  con  tutte  le  debite  formalità;  e 
confessarono  anch'esse  le  colpe  di  cui  si  volevano  ree.  Gli  untori 
nella  pestilenza  di  Milano  del  1630  ebbero  pur  essi  il  loro  pro- 
cesso in  piena  regola;  e  anch'essi,  da  bravi  e  coscienziosi  mal- 
fattori, fecero  ampia  confessione  del  loro  delitto.  Eppure  chi  crede 
adesso  che  quelle  sventurate  donne  e  quei  poveri  malcapitati  fos- 
sero rei?  E  s'ingannerebbe  all'ingrosso  chi  supponesse  che  nei 
giudici  di  allora  fosse  soltanto  ignoranza,  e  obbedissero  solamente 
a  false  opinioni;  che  troppi  esempi  occorrono  per  mostrare  come 
eglino  a  molta  dose  di  malizia  accoppiassero  abbietta  e  feroce 
servilità.  A  sfogo  di  vendetta  politica  il    parlamento    di  Francia 


BEATKICE   CENCI  DOPO   LE    ULTIME   PUBBLICAZIONI.  437 

nel  1617  condannava  al  rogo  come  strega  Maddalena  Galli  gai,  ve- 
dova dell'assassinato  Concini.  A  chi  non  è  nota  le  miserabile  fine 
di  Urbano  Grandier  curato  di  Laudon,  bruciato  vivo  per  delitto 
di  negromanzia  sull'accusa  delle  monache  del  suo  paese,  che  ave- 
vano creduto,  od  a  cui  era  stato  fatto  credere,  d'essere  diventate 
ossesse  per  opera  sua?  Ma  la  sua  vera  colpa  «  stava  nell'avere 
scritto  contro  Richelieu,  giacché  allora  e  in  ogni  tempo  i  processi 
secreti  diventarono  strumenti  ai  rancori,  all'  avarizia,  all'  ambi- 
zione. ^  »  E  che  stima  facessero  non  pure  la  gente,  ma  i  principi 
stessi  dei  processi  criminali  di  quei  tempi,  valga  a  pienamente 
dimostrarlo  il  fatto  seguente.  Ranuccio  Farnese,  duca  di  Parma, 
fece  condannare  nel  capo  parecchi  gentiluomini  delle  principali 
famiglie  di  quella  città,  imputati  di  aver  congiurato  contro  la 
vita  di  lui.  Fu  opinione  dei  piìi  che  la  congiura  fosse  stata  una 
finzione  del  Farnese  sì  per  togliersi  dattorno  quei  troppo  po- 
tenti feudatari  e  sì  per  impadronirsi  de'  beni  eh'  eglino  estesis- 
simi possedevano.  Premendogli  scagionarsi  di  quest'accusa,  il  duca 
mandò  in  giro  per  tutta  l'Italia  il  sommario  del  processo;  e  a 
Cosimo  de'  Medici,  che,  come  quegli  ch'era  più  addentro  in  queste 
arti,  era  forse  più  degli  altri  sospettante,  inviò  un  ambasciatore 
a  posta  con  copia  di  tutto  il  processo,  affinchè  si  persuadesse  della 
reità  dei  condannati  e  della  rettitudine  sua.  Il  Medici  non  fece 
risposta;  ma  quando  l'ambasciatore  di  Ranuccio  si  accomiatò  da 
lui  per  ritornarsene  a  casa,  gli  consegnò,  perchè  lo  recasse  al  suo 
padrone,  un  altro  processo;  dal  quale  con  tutte  le  formole  della 
giustizia  era  evidentemente  provato  ch'egli,  l'ambasciatore,  aveva 
commesso  un  omicidio  a  Livorno,  dove  il  pover  uomo  non  era 
mai  stato.  Aggiunge  il  Botta,  dal  quale  ho  compendiato  questo 
fatto,  che  «  divulgatasi  la  cosa,  i  popoli  esclamavano  :  oh  va'  e 
credi  ai  processi  de'  principi!  » 

Inoltre  nella  causa  de'  Cenci  pare  non  fossero  neppure  osser- 
vate le  formalità  volute  dalla  procedura  di  allora.  Alcuni  anni 
dopo  la  morte  loro  il  Farinaccio  fu  richiesto  del  suo  parere  in- 
torno alle  istanze  mosse  da  Bernardo  per  esser  posto  in  possesso 
dei  beni  paterni.  Era  già  morto  Clemente  Vili  ;  gli  Aldobrandini 
guardati  con  occhio  piuttosto  irato  che  benevolo  dal  nuovo  ponte- 
fice; quindi  la  verità  meno  pavida  di  palesarsi.  Riprendendo  ad 
esame  la  causa,  il  Farinaccio  oltre  a  mostrare  che  la  confessione  di 
Bernardo  fu  estorta  dolosamente,  mise  pure  iu  chiaro   un'altra 

1  Cantù,  Stor.  Univ.,  lib.  XV,  cap,  15. 


438  BEATRICE  CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI. 

grave  irregolarità  del  giudice;  il  quale,  contrariamente  a  tutte 
le  regole  della  pratica  criminale,  procede  alla  condanna  degl'im- 
putati, appoggiato  sopra  il  semplice  processo  informativo,  2>crc7«p 
non  fu  provato  che  Francesco  restasse  morto  in  virtù  del  misfatto,  e 
così  mancò  il  corpo  del  delitto. 

A  chi  meravigliasse  perchè  di  questa  gravissima  irregolarità 
non  toccasse  punto  il  Farinaccio  nella  difesa,  ricorderemmo  come 
in  tempi  di  dispotismo  sia  cosa  assai  difficile  e  di  non  lieve  pe- 
ricolo difendere  liberamente  coloro  che  il  principe  o  i  suoi  mini- 
stri vogliono  0  tengono  rei.  E  che  tali  fossero  i  Cenci  nella  mente 
del  papa,  hen  lo  dimostrano  quelle  terribili  parole  ch'egli  rivolse 
ai  difensori:  Dunque  in  Roma  si  trova  gente  che  uccide  il  padre,  e 
si  trova  ancora  citi  li  difende?  Un  avvocato  che,  forse  ancora  no- 
vellino del  suo  mestiere  e  delhi  corte,  volle  parlare  con  maggiore 
libertà  ciie  non  comportassero  i  delicati  nervi  del  sovrano,  appena 
uscito  del  palazzo  pontifìcio,  fu  tratto  in  carcere  ;  e  per  ottenere  la 
libertà  dovè  molto  raccomandarsi  e  chiamarsi  in  colpa  di  avere  con 
poca  pruden sa  offeso  le  oreccìiie  di  Sua  Beatitndine.  ^  Ammonito  da 
quest'esempio,  il  Farinaccio,  che  sapeva  di  non  essere  veduto  troppo  di 
buon  occhio  dal  papa,  il  quale  chiamavalo  un  buon  sacco  di  cattiva 
farina,  e  che  inoltre  con  la  sua  vita  sregolata  aveva  dato  e  fa- 
cilmente poteva  dare  giustificata  cagione  alla  vendetta  de' potenti, 
cercò  prudentemente  di  tenersi  in  un  giusto  mezzo  ciie  gli  per- 
mettesse di  adempiere  al  suo  ufficio  di  difensore,  senza  dispia- 
cere a  chi  regolava  a  suo  senno  la  corte  romana  ;  e  di  qui  venne 
che  la  sua  difesa  parve,  e  fu  veramente,  assai  minore  della  sua 
fama  e  della  gravità  della  causa. 

Del  resto,  il  sospetto  che  nel  supplizio  dei  Cenci  non  rima- 
nesse estranea  la  prepotente  volontà  dei  nepoti  del  papa,  e  special- 
mente del  cardinale  Pietro  Aldobrandini,  in  grembo  al  quale  il 
vecchio  pontefice  aveva  finito  col  mettere  il  capo  ;  il  sospetto,  dicia- 
mo, che  il  maggiore  delitto  di  quei  miseri  fossero  le  loro  immense 
ricchezze,  e  la  nativa  povertà  della  famiglia  ascesa  per  subita 
fortuna  a  potere  quanto  avesse  voluto:  questo  sospetto  non  data 
mica  da  ieri,  e  non  fu  già  il  primo  il  Guerrazzi  a  metterlo  fuori. 
11  capo  degl'infelici  condannati  non  era  peranco  stato  troncato 
dal  ferro  infame  del  carnefice,  e  già  se  ne  levavano  per  la  nostra 
città  alte  voci  di  sdegno  e  di  corruccio.  11  giorno  innanzi  all'ese- 
cuzione il  rappresentante  toscano  in  Koma    scriveva  al    suo   go- 

'  Bertolotti,  op.  cit..  pag.  60. 


■  BEATRICE   CENCI   DOPO  LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI.  439 

verno  di  aver  saputo  come  la  dimane  si  dovessero  far  morire  i 
Cenci,  «  per  li  quali  S.  S.  pare  non  abbia  trovato  nessun  altro 
temperamento  fuori  il  detto  supplizio.  La  quale  deliberazione  è 
opinione  fosse  presa  dalla  S.  S.  senza  punto  esitare  dopo  il  fatto 
del  matricidio  successo  in  casa  Santacroce,  per  la  quale  ai  detti 
Cenci  si  è  a  stento  la  difesa  permessa.  Non  conosco  in  che  termini 
fu  concepita  e  proferita  la  sentenza,  né  se  e  come  avrà  il  suo 
effetto,  essendo  die  assai  voci  corrono  di  malumori  in  città,  e 
Koma  è  tutta  piena  d'ire  e  di  corrucci.  »  ^  Eseguita  fra  il  com- 
pianto del  popolo  la  ferale  sentenza,  il  cavaliere  Giovanni  Moce- 
nigo,  ambasciatore  della  Eepubblica  Veneta  in  Eoma,  così  ne  in- 
formava la  serenissima:  «  Questa  mattina  hanno  fatto  morire  i 
Cenci  convenuti  di  aver  fatto  aramazzare  il  padre.  »  Queste  ulti- 
me parole,  convenuti  di  aver  fatto  ammassare  il  padre,  il  canonico 
Torreggiani,  strenuo  difensore  degli  Aldobrandini,  le  riportava 
stampate  in  carattere  corsivo,  parendogli  ch'esse  fossero  la  più 
sicura,  piena  e  convincente  dimostrazione  che  il  veneto  ambascia- 
tore era  al  tutto  persuaso  della  regolarità  del  processo  e  della 
giustizia  della  condanna.  Questa  peraltro,  con  buona  pace  dell'ot- 
timo canonico,  non  mi  seml)ra  molto  logica  conclusione.  Poiché  se 
l'accorto  e  prudente  diplomatico,  uso  a  pesare  diligentemente  le 
sue  parole,  si  ostinava  a  chiamare  convenuti  coloro  che,  come  rei, 
erano  già  stati  condannati  ed  uccisi,  gli  è  forse  a  sospettare  ch'egli 
avesse  sul  processo  della  curia  romana  gli  stessi  dubbi  di  Cosimo 
de'  Medici  intorno  a  quello  dei  giudici  parmegiani. 

Subito  dopo  l'esecuzione  di  quella  che  molto  dubitiamo  di 
poter  chiamare  giustizia,  ne  corsero  per  tutta  Italia  numerose 
relazioni,  dove  il  fatto  era  narrato  in  guisa  da  destare  grandi  so- 
spetti sulla  vera  cagione  della  miserabile  fine  di  quegl'infelici:  la 
quale,  più  che  a  loro  colpa,  attribuivasi  alla  nota  avidità  dei 
nepoti  del  papa.  Abbiamo  veduto  di  sopra  come,  per  provare  la 
falsità  di  un'accusa  assai  simile  a  questa,  Ranuccio  Farnese  non 
si  peritasse  di  mandare  in  giro  i  processi  fatti  istruire  da  lui. 
Questo  peraltro  non  fu  creduto  buono  espediente  dalla  curia  pa- 
pale ;  la  quale  mentre  anzi  ordinava  che  del  processo  dei  Cenci 
non  si  potesse  servire  altrove  che  nella  corte  romana,  e  riteneva  an- 
che le  copie  che  di  esso  avevano  fatto  fare  gli  accusati  per  alle- 
stire le  difese,  comandava  a  tutti  i  legati,  vice-legafi,  presidenti, 
governatori,  pretori  e  a  qualunque  altro  ufficiale  dello  Stato  eccle- 

*  Documento  pubblicato  dal  Dal  Bono. 


440  BEATKICE  CENCI  DOPO  LE   ULTIME   PUBBLIC4.ZI0NI. 

siastico  di  sequestrare  tutte  le  relazioni  della  funesta  storia  che  loro 
fosse  riuscito  di  ritrovare.  ^  Se  questi  argomenti  valessero  a  far 
cessare  od  aumentare  i  sospetti,  torna  vano  discutere. 

I  difensori  degli  Aldobrandini,  tra'  quali  principalissimi  lo 
Scolari  e  il  Torreggiani,  ne'  testamenti  fatti  dai  Cenci  alcuni  giorni 
prima  di  morire,  s'avvisarono  di  aver  trovato  una  buona  ragione 
per  provare  che  non  vi  fu  volontà  di  spogliarli  delle  loro  sostan- 
ze. Non  meraviglia  che  lo  Scolari  e  il  Torrigiani  argomentassero 
così;  eglino  negarono  pure  che  i  beni  dei  Cenci  fossero  confiscati: 
partigiani  furono  e  lo  dimostrarono.  Bensì  n'è  cagione  di  non  poco 
stupore  il  vedere  che  anche  il  signor  Bertolotti  abbia  creduto  di 
potersi  servire  di  questo  stesso  argomento;  giacché  avendo  egli 
pubblicato  tanto  i  testamenti  quanto  la  condanna,  avrebbe  dovuto 
avvertire  che  i  primi  precederono  di  alquanti  giorni  la  seconda  ; 
e  però  considerare  come  niente  vietasse  che  gl'inquisiti  dispones- 
sero di  quella  roba,  di  cui  nessuna  sentenza  li  aveva  ancora  pri- 
vati. Del  resto,  anche  se  il  testamento  avesse  seguito  e  non  pre- 
ceduto la  condanna,  che  importava  al  Fisco,  o  a  chi  era  dietro  al 
Fisco,  che  i  Cenci  testassero  ?  lìimaneva  forse  impedito  con  ciò  che 
la  sentenza  avesse  egualmente  il  suo  pienissimo  effetto? 

Mentre  dunque  l'aver  lasciato  che  i  morituri  testassero,  non 
prova  punto  che  non  si  avesse  1'  intenzione  di  prendersi  le  loro 

'  «  Cleraens  P.P.  Vili.  —  Pastoralibus  Romani....  etc.  Diim  itaqus  etc.  Mulia 
soripta  cuiTunt,  sic  venit  ad  aures  nosiras,  super  domestica  facta  Ciiiciura  et  scri- 
jitores,  jaiii  in  odium  Sanctae  Roinanae  Ecclesiae,  non  soium  adversare  et  vitupe 
rare  praesumunt  Pontifices  Romanos,  sed  etiam  Sacrae  Romiiaae  Rotae  Decisiones 
in  hac  alma  urbe,  totaque  Statu  nostro  Ecclesiastico  celebratissimae  incriminare 
volunt  et  de.spicere.  Et  sicut  nobis  nuper  exponi  fecerunt  dilecti  filli  Praesidens  et 
Officiales  nostri,  ex  libello  praedicto  et  impio  labore  querunt  lucrum  et  secreto 
curant  imprimi  (sine  licentia  in  scriptis  ohtinenda)  ipsorum  jusiitiae  praejudicium 
et  libellurn  impressum  vendere  in  dieta  nostra  alma  urbe  quam  in  Universo  Stato 
Ecclesiastico,  inhibimus  et  prohibimus  propterea  universis  Christi  fideiibus  prae- 
sertim  librorum  Impressoribus  et  Bibliopolis  in  dictione  nostra  Ecclesiastica  con- 
sistentibiis  sub  indignationis  nostrae.  Et  motu  proprio,  et  ex  certa  scientia  matu- 
raque  deliberatione  declaramus  (ut  non  dare  materia  funestam  historiam  repetendi) 
libelliim  praedictiim,  aut  aliquam  illius  pariem,  lam  in  magno  quam  in  parvo  folio 
in  odium  auctoris  et  manlamus  dilecto  filio  nostro  nunc  et  prò  ^tempore  existenti 
in  Urbe  Vicario  et  ejus  Ofticialibus  in  dieta  Urbe  et  ejus  districtu  etc.  dileclis  filiis 
aostris  seilibus  Apostolicae  Legalis,  seu  eorum  Vice  Legatis,  aut  Praesideutibus, 
Gubernatoribbs,  Praetoribus  et  aliis  Stati  nostri  Ecclesiastici  Officialibus  ;  quatenus 
iisdem  praesi  leut  et  Oftìcialibus  per  firaesentes  injuagimus  ac  respective  manda- 
mus  ut  poenas  praedictas  in  contravenientes  quando  et  quoties  requisiti  fuerint, 
irremisibiliter  exqua-tur.  Ds^cernentes  etc. 

Datum  Romae  sub  anulo  Piscatoris  die  11  sept.  1600  Pontificatus  nostri  anno 
decimo.  »  (Documento  pubblicato  dal  Dal  Bono,  Storia  di  Beatrice  Cenci  e  dei  suoi 
tempi.) 


BEATRICE   CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI.  441 

ricchezze;  questa  intenzione,  se    non  evidentemente  manifesta,  è 
fatta  però  assai  credibile  dall'averli  condannati  alla  confisca  dei 
beni  anche  fìdeicommessi,  dei  quali  a  tenore  di  tutti    gli  statuti 
e  di  tutte    le    consuetudini   di   quei    tempi    non    poteva  il   Fisco 
impossessarsi  giammai.  ^  E  qui  è  curioso  osservare  come  gli  scrit- 
tori, che  hanno  preso  a  scusare  i  nepoti   del  Papa  dall'  incolpa- 
zione loro  data  fin  da  allora  dalla  pubblica  voce,  si  trovino  per 
siffatta  guisa  discordi  tra  loro  da  confutarsi  pienamente  gli  uni 
con  gli  altri:  il  che,  se  non  prendo  errore,  sembrami  possa  essere 
una  chiara  dimostrazione  della  scarsità  e  insufficienza  delle  loro 
ragioni.  Difatti,  mentre  lo  Scolari  e  il  Torreggiani  si  arrabattano 
per  provare    calunniosa  «  l'accusa    data   dal    Guerrazzi    a   Papa 
Clemente,  d'avere  cioè  fatto  morire  i  Cenci  per  impadronirsi  delle 
loro  ricchezze,  essendo   un   tal    fatto  giuridicamente  impossibile 
in  quanto  che  la  legislazione  criminale  di  Ironia  teneva  la   mas- 
sima legale  che  nel  delitto  di  parricidio  non  aveva  luogo  la  pena 
della    confìscazione    de  beni:  »    il   signor   Bertolotti   recando   la 
sentenza  dei  Cenci,  ove  la  crnfisca   dei   beni   è  amplissimamente 
dichiarata,  non  solo  senza  volerlo,  e  forse  senza  saperlo,  distrugge 
interamente  l'edifizio  di  difesa  innalzato  con  non  poca  fatica  dai 
citati  scrittori,  ma  rafforza  anche  di  molto  le  ragioni  dell'accusa, 
dando  la  prova  di  un  fatto  che  dagli  stessi  apologisti  degli  Aldo- 
brandini  era  riputato  giuridicamente  impossibile.   Quando  poi  il 
signor  Bertolotti  si  fa  a  sentenziare  che  stava  allora  legalmente 
la  confisca  al  delitto  de'  Cenci,  egli  o  non  sa  o   non  ricorda  di 
essere  già  stato  confutato  da  quei  due  suoi  predecessori,  i  quali, 
come  abbiamo  veduto,  con  la  legge  criminale  alla  mano  poterono 
provare  proprio  l'opposto  dell'opinione  di  lui.  Il  che  o  non  sapesse 
il    signor   Bertolotti  o  non    ricordasse,    in    ogni    modo    dimostra 
com'egli  sia  entrato  con  molta  leggerezza  nella  presente  questione, 
non  avendo  non  solo  presa  esatta  conoscenza  del   diritto  di  quei 
tempi,  ma  neppure  letto  o  tornato  a  leggere    gli    autori  che  ne 
avevano  trattato  prima  di  lui. 

Aumentano  poi  di  non  poco  il  sospetto  i  compensi  che,  quasi 
prezzo  del  sangue,  furono  accordati  con  inusitata  larghezza  ai 
due  principali  compilatori  del  processo,  il  fiscale  ed  il  giudice. 
Nelle  avide  canne  di  quello  fu  versata  la  vigesima  parte  degli 
averi  degli  uccisi;  l'altro  fu  insignito  di  un  cavalierato,  onore 
che  allora  tenevasi  in  maggior  conto  che  non  adesso,  e  si  conce- 
deva solo  a  coloro  che  con  particolari  servigi   s'erano  resi  assai 

1  Farinaccio,  Praxis,  Quaest.  25,  n.  69. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Aprile  18Ì9.  2T 


442  BEATRICE   CENCI   DOPO  LE   L'LTIME   PUBBLICAZIONI. 

benemeriti  del  padrone.  E  quando  consideriamo  come  il  maggiore 
tenimento  di  casa  Cenci,  il  vastissimo  casale  di  Torre  Nova, 
andasse  ad  accrescere  le  possidenze  de'  nepoti  del  Papa,  quando" 
vediamo  che  la  vedova  di  Giacomo,  se  volle  ricuperare  a'  suoi 
figli  parte  delle  rapite  sostanze,  fu  obbligata  a  riconoscere  la 
vendita  che  del  detto  tenimento  aveva  fatto  il  Fisco  a  Giovanni 
Francesco  Aldobrandini,  il  dubbio  che  nella  morte  di  quegl'infelici 
non  fosse  estraneo  il  desiderio  d'impossessarsi  delle  loro  ricchezze 
assume  sempre  maggiore  gravità,  e  si  viene  talmente  estendendo 
da  toccare  quasi  i  limiti  della  certezza. 

Non  consentendo  le  mutate  condizioni  de'  tempi  d'  innalzare 
la  loro  casa  a  sovrana  potenza,  a  cui  un  più  propizio  concorso 
di  eventi  aveva  sollevato  altri  germogli  papali,  i  nepoti  di  Cle- 
mente Vili  volgevano  assidui  tutte  le  loro  sollecitudini  a  far 
procaccio  di  beni,  affinchè  quel  nuovo  splendore  di  fortuna  cui 
erano  così  subitamente  saliti  non  isparisse  con  -loro,  ma  si  con- 
servasse con  lustro  punto  minore  anche  nei  secoli  avvenire.  Noti 
erano  questi  intenti  e  queste  arti  loro  ai  popoli  che  ne  sofferi- 
vano  il  peso  ;  note  agli  altri  governi,  soliti  ad  osservare  con  vigile 
sguardo  gli  andamenti  ed  i  personaggi  principali  della  corte 
romana.  ^  Singolarmente  il  cardinale  Pietro,  del  quale  si  disse 
che  mai  alcun  nipote  di  papa  fu  altrettanto  potente,  adoperava 
l'autorità  che  intera  gli  aveva  concessa  il  favore  dello  zio  ad 
accrescere  la  grandezza  della  casa,  non  solo  aumentandola  di 
ricchezze  e  di  onori,  ma  decorandola  di  edifizi  magnifici  tanto 
da  emulare  le  roggie  più  sontuose  ;  e  se  per  condurre  a  fine  opere 
di  così  grave  dispendio  non  aveva  talora  pronto  il  denaro,  punto 
non  peritavasi  di  prenderne  alla  scoperta  nell'erario  di  quello 
stato,  cui  egli  sotto  il  nome  dello  zio  con  assoluta  potestà  gover- 
nava. -  E  poiché  dell'eccidio  dei  Cenci  lui  principalmente  si  dubita 

1  «  Attendono  l'uno  e  l'altro  dì  questi  nepoti  ad  accumulare  danari  et  arricchire 
quanto  più  si  possa  credere.»  —  (Relazione  di  Giovanni  Delfini,  ambasciatore  della  Re- 
pubblica di  Vene/.ia,  recitala  in  Senato  l'anno  1598). 

2  «  Aveva  egli  intrapreso  a  far  edificare  una  sontuosissima  villa  nel  Tuscolo  che 
per  la  varietà  e  la  ricchezza  degli  ornamenti  fu  chiamata  la  meraviglia  delle  de- 
lizie umane.  Volendovi  condurre  grande  copia  di  acqua,  e  mancandogli  il  danaro 
sufficiente  a  quest'opera,  la  quale,  per  essere  la  villa  a  pie'  de'  monti  tusculani, 
portava  gravissima  spesa,  fece  che  lo  zio  ordinasse  che  i  grandi  lavori  che  a 
quell'effetto  si  avevano  ad  eseguire,  tutti  coi  denari  della  camera  apostolica  fossero 
condotti,  mentre  con  ispeciale  chirografo  dichiarava  che  di  tutte  quelle  somme, 
quante  mai  ne  potessero  occorrere,  faceva  al  cardinale  una  piena  e  irrevocabile 
donazione.  »  —  (ViscoNxr,  Città  e  famiglie  nobili  dello  S^ato  pontificio,  fam.  Aldo- 
brandini). Sembra  che  per  i  signori  Aldobrandini  il  tesoro  della  camera  aposto- 
lica, cioè  dello  Stato,  fosse  una  succursale  dello  scrigno  di  casa  loro. 


BEATRICE  CENCI   DOPO  LE  ULTIME   PUBBLICAZIONI.  443 

autore,  non  sarà  superfluo  riportare  il  ritratto  che  di  lui  ci  lasciò 
il  cardinale  Guido  Bentivoglio,  il  quale  ne' principii  della  sua 
carriera  cortigiana  ebbe  occasione  di  conoscerlo  assai  da  presso  ; 
ed  a  questo  aggiungeremo  altresì  il  racconto  di  taluni  fatti  che 
la  pubblica  fama  gli  apponeva,  imperocché  potendo  da  essi  for- 
marci un  giusto  concetto  del  carattere  suo,  dello  smisurato  potere 
da  lui  esercitato,  e  dell'uso  ch'ei  ne  faceva,  potremo  anche  giudi- 
care s'abbia  avuto  la  jnalvagità  d'animo  e  l'autorità  sufficiente 
per  commettere  pure  il  delitto  di  cui  viene  accusato. 

«  Aveva  Aldobrandino  (scrive  il  Bentivoglio)  allora  intorno 
a  trent'anni.  Eragli  stata  poco  favorevole  là  natura  in  formarlo,  e 
di  piccolo  corpo  e  di  poco  nobile  aspetto.  Kestavagli  molto  se- 
gnata la  faccia  dal  vainolo,  e  aveva  molto  offeso  il  petto  ancora 
dall'asma;  e  l'imperfezione  di  questa  parte  ne  cagionava  un'altra 
alla  voce,  che  nasceva  torbida  per  tal  cagione  in  vece  di  uscir 
chiara,  e  faceva  che  si  avessero  da  indovinare  molte  parole  in 
vece  d'intenderle.  Quindi  ancora  nasceva  l'accendersi  in  lui  di 
maniera  alle  volte  la  tosse,  che  tutto  il  volto  se  gli  infiammava^ 
e  notabilmente  l'anelito  ne  pativa;  ma  nondimeno  godeva  egli 
tutta  quella  sanità  che  bastava  per  sostenere  il  peso  delle  fa- 
tiche, le  quali  non  potevano  quasi  essere  maggiori,  né  gli  man- 
cavano l'altre  qualità  per  un  sì  gran  ministero  più  necessarie  ; 
vigilanza,  industria,  consiglio,  vigore  d'ingegno,  e  costanza  di 
animo.  Procurava  d'apparire  anco  zelante  ecclesiastico:  ma  per 
comune  giudizio  prevalevano  però  in  lui  di  gran  lunga  le  cu- 
pidità temporali.  Vedevasi  ch'egli  troppo  amava  le  dipendenze 
assolute;  e  che  non  favoriva  se  non  chi  le  professava;  cupido 
sopra  modo  ne'  sensi,  avido  sempre  più  dell'  autorità,  e  di  ma- 
niera poi  accecato  negli  ultimi  anni  dal  desiderio  di  posse- 
derla, che  usandola  non  come  prestata,  ma  come  propria,  e 
confusi  troppo  nel  resto  anco  i  termini  del  governo,  pareva  che 
egli,  a  favor  della  sua  casa  e  di  sé  medesimo,  si  considerasse  mi- 
nistro supremo  di  un  principato  temporale  e  non  ecclesiastico, 
ereditario  e  non  elettivo,  di  lunga  e  stabile,  e  non  di  transitoria 
e  breve  durata.  » 

Ora  ecco  i  fatti  che  abbiamo  di  sopra  citato,  e  che  varranno 
a  farci  conoscere  il  cardinale  Pietro  Aldobrandino  forse  anche 
meglio  dello  stesso  ritratto  del  Bentivoglio. 

Girolamo  Longobardi,  di  ricca  e  nobilissima  famiglia  romana, 
teneva  a  sua  posta  una  cortigiana  a  quei  tempi  famosa  per  ec- 
cellente bellezza.  Invaghì  fieramente  di  costei  il  cardinale  Aldo- 


44:i  BEATKICE  CENCI   DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI. 

brandino,  che  le  memorie  di  allora  dicono  essere  stato  fin  da 
fanciullo  effeminatissimo,  e  col  passare  di  frequente  sotto  la  casa 
di  lei,  coU'usare  spesso  nella  cliiesa  ov'ella  recavasi,  ed  ivi  amo- 
rosamente guardandola  e  salutandola,  cercava  di  farle  noto  il  suo 
animo  e  di  condurla  ai  suoi  desiderii.  Venne  a  sapere  il  Longo- 
bardi di  queste  premure  del  cardinale  per  la  donna,  e  come 
questa  punto  non  si  mostrasse  schiva  di  compiacerlo.  Il  perchè 
sia  che  Jo  movesse  amore  per  la  giovane,  o  che  al  suo  orgoglio 
di  gentiluomo  sapesse  male  che  altri  cercasse  di  soverchiarlo, 
montato  in  grandissimo  sdegno  avvisò  la  donna  che  s'ella  non 
cessasse  dal  coltivare  le  speranze  del  cardinale  mostrando  di 
l^render  piacere  della  sua  corte,  egli  l'avrebbe  sicuramente  am- 
mazzata. Non  si  sa  se  la  mala  femmina  facesse  sapere  all'Aldo- 
brandino ciò  ch'era  passato  tra  lei  e  il  Longobardi:  fatto  è  che 
un  bel  giorno  il  capo  del  misero  giovane  fu  ritrovato  confitto  in 
un  piccone  sulla  piazza  di  S.  Pietro.  «  Con  la  morte  di  questo 
cavaliere  (dicono  le  memorie  contemporanee)  il  cardinale  potè 
esigere  dalla  donna  il  suo  bramato  desiderio.  » 

Il  secondo  fatto  è  così    raccontato    nello    stesso    manoscritto 
dal  quale  compendiamo  il  miserando  caso  del  Longobardi: 

«  Il  signor  Onofrio  Santacroce,  cavaliere  di  meriti  impareg- 
giabili, s'era  parimenti  invaghito  di  una  dama  di  qualità  e  di 
sfera  principale,  dalla  quale  esigeva  anche  il  suo  amore  il  car-' 
dinale  Aldobrandino.  Fu  questa  dama  regalata  dal  cardinale 
di  un  diamante  di  valuta  di  scudi  3000;  ne  foce  lo  sborso 
il  Santacroce  alla  dama  per  avere  l'anello  e  portarlo  a  scorno  et 
onta  dell'Aldobrandino,  e  per  gloriarsi  così  di  haver  avuto  (come 
per  boria  si  usa  tra  cavalieri)  li  regali  di  una  sua  intrinseca, 
faceva  pompa  il  Santacroce  di  quest'anello  per  essere  venuto  dalle 
mani  del  cardinale.  Si  sparse  anco  questa  fama  per  Roma,  e  si 
sarebbe  il  cardinale  vendicato  ancora  di  lui;  ma  temendo  gran- 
demente dello  sdegno  del  Papa,  che  faceva  fare  diligenze  per  avere 
gl'indizi  dell'omicidio  del  Longobardi,  faceva  forza  a  se. stesso  di 
trattenere  il  colpo,  ma  haveva  però  dato  ordine  alla  corte  che 
ogni  peccato  veniale  che  si  fosse  potuto  attribuire  al  signor  Onofrio 
si  facesse  convertire  in  sacrilegio,  per  fargli  purgare  il  peccato  di 
ambizione  che  haveva  esso  propalato  a  scorno  del  cardinale.  » 

»  Eiuscì  assai  bene  il  caso  a' suoi  disegni  per  la  morte  della 
Santacroce;  che  saltato  fuori  il  Fisco  con  esatte  diligenze  inter- 
rogato il  signor  Onofrio  fu  convinto  d'omicidio  e  stiracchiata  la 
legge  più  che  si  potè    per   farlo    decapitare.    Il    governatore   di 


BEATRICE   CENCI  DOPO  LE   ULTIME   prjBBLICAZIONI.  445 

Roma  sul  mezzogioriio  nelle  liore  più  calde  andava  in  Torre  Sa- 
vella  ad  esaminarlo  con  falsi  interrogatori  per  poterlo  convin- 
cere. 11  cardinale  Aldobrandino  doppo  la  cattura  del  Santacroce 
ad  ogni  ora  et  ogni  momento  voleva  sapere  ciò  ch'era  passato 
nell'esame  facendosi  portare  avanti  se  le  scritture  e  l'interroga- 
torio, e  non  si  vergognò  di  dire  al  governatore  che  col  sangue 
del  Santacroce  si  sarebbe  tessuta  una  veste,  toccando  gli  suoi 
abiti.  Il  delitto  era  facilmente  scusabile  quando  il  Santacroce  non 
avesse  avuto  questi  persecutori.  Furono  falsificati  gli  esami,  e  mo- 
strato al  papa  la  falsità  del  processo  dalli  avvocati  difensori  del 
Santacroce;  ma  perchè  questi  vedevano  che  al  cardinale  premeva 
grandemente  questa  morte,  non  volsero  tirarsi  addosso  l'odio  di 
uno  che  il  tutto  poteva  in  quel  pontificato;  onde  molti  avvocati 
avvisati  di  ciò  abbandonarono  la  difesa  del  Santacroce,  e  lasciarono 
di  votare  nella  Congregazione.  Doppo  avere  il  fiscale  rappresen- 
tato al  papa  tutto  il  processo,  e  mostrati  gli  esami,  disse  :  Santo 
Padre,  vi  sarebbe  da  fabbricare  altri  processi  sopra  le  ribalderie 
di  questo  cavaliere,  perchè  non  solo  di  questo,  ma  consta  ed  è  stato 
convinto  di  aver  commesso  altri  delitti.  Inteso  questo  il  papa, 
con  la  conferma  del  governatore  e  del  cardinale  Aldobrandino 
che  lo  molestava  acciò  dovesse  morire,  risolse  in  un  chirografo, 
e  lo  sentenziò  al  taglio  della  testa;  fu  eseguita  la  giustizia,  e 
nella  prima  promozione  fu  fatto  il  governatore  cardinale  del  titolo 
di  Santa  Prassede;  onde  fu  detto  per  tutta  Roma  che  aveva  tinto 
la  porpora  nel  sangue  del  Santacroce.  Cosi  vinse  la  forza  la 
verità.  ■  » 

Questi  l'uomo  alle  cui  voglie  stava  la  vita  e  le  sostanze  dei 
Cenci,  questi  colui  che  la  pubblica  voce  incolpava  della  loro  ro- 
vina. Dopo  quanto  abbiamo  narrato  di  lui,  confessiamo  schietta- 
mente di  stare  in  gran  dubbio  se  suonino  piuttosto  ironiche  che 
vere  queste  parole  del  signor  Bertolotti:  «  Temporeggiò  (parla 
del  papa  che  interamente  si  governava  col  consiglio  di  quel  suo 
prediletto  nepote)  ondeggiando  tra  la  giustizia  del  sovrano  e  la 
bontà  del  rappresentante  di  chi,  morendo,  aveva  perdonato  a' suoi 
carnefici,  quando  un'altra  tragedia  in  lari  gentilizi,  prossimi  pa- 
renti dei  Cenci  medesimi,  lo  spinse  a  dare  un  esempio  di  giusti- 
zia. »  Ma  forse  ad  altra  cagione  altri  potrebbe  attribuire  l'indugio. 
Grave  correva  per    Roma  il  dubbio    sulla    colpa    degli  accusati; 

'  Memoria  dell'origine  dell'odio  che  il  cardinale  Aldobrandino  portò  a  Giro- 
lamo Loiii^obardi  et  Onofrio  Sauiacroce  (Archivio  Capitolinu,  cred.  XIV,  voi.  9> 
pag    r25  e  seg.) 


446  BEATKIOE  CENCI  DOPO   LE   ULTIME   PUBBLICiZIONI. 

grave  il  sospetto  sulle  intenzioni  de'  governanti,  già  troppo  noti 
per  insaziata  ed  insaziabile  avidità  di  ricchezze.  Ricordavano  eglino, 
ricordava  la  gente  essersi  lasciato  impunito  Francesco  Cenci  la 
mercè  di  molta  pecunia:  ora,  lui  morto,  lo  sterminio  della  sua 
casa  poteva  forse  parere  simile  al  colpo  die  abbatte  l'albero  di 
cui  più  non  si  giunga  a  cogliere  i  frutti  residui.  Di  qui  per  av- 
ventura la  peritanza  a  ferire;  questa  la  probabile  ragione  che 
tratteneva  ancora  la  mannaia  sul  capo  degl'infelici  carcerati.  Ac- 
cadeva intanto  il  matricidio  di  Paolo  Santacroce,  Certo,  il  fatto 
scelleratissimo  dovè  commuovere  Roma,  raccapricciarne  ogni  one- 
sto. Molti  i  parlari  e  forse  non  senz'arte  promossi.  Ecco  a  che 
condurre  la  soverchia  indulgenza:  lasciare  impunito  un  delitto, 
subito  commettersene  altri.  Non  essere  tempo  quello  di  pietà;  la 
frequenza  de'  misfatti  volere  pronti  e  terribili  esempi  di  giustizia: 
la  comune  sicurezza  pericolante,  le  oltraggiate  leggi  della  natura 
esigere  ormai  la  troppo  tardata  vendetta.  Ottima  l'occasione,  né 
fu  lasciata  sfuggire.  La  sospesa  sentenza  era,  rapidissimamente, 
pubblicata,  eseguita. 

Non  si  assicura  che  fosse  proprio  così  ;  bensì  si  suppone,  e 
quei  tempi,  quegli  uomini  danno  pur  troppo  a  credere  che  la  sup- 
posizione non  sia  temeraria.  Certo,  viscere  di  pietà  nel  cardinale 
Pietro  Aldobrandino  non  furono  mai  sospettate  ;  e  né  tampoco  in 
papa  Clemente  Vili,  del  quale  il  ferocissimo  Sisto  V,  promoven- 
dolo al  cardinalato,  diceva  aver  analmente  trovato  un  uomo  secondo 
il  cuor  suo  !  Se  in  lui  fossero  stati  quei  pietosi  sentimenti  che  il 
signor  Bertolotti  cortesemente  gli  presta,  avrebbe  dovuto  consi- 
derare, troppo  diverso  essere  il  caso  di  Paolo  Santacroce  da  quello 
della  donzella  de'  Cenci.  Là  un  giovane,  rotto  da  lungo  tempo  ad 
ogni  vizio,  micidiale  della  madre  per  sola  libidine  di  danaro; 
qua  una  fanciulla  la  cui  breve  vita  era  stata  una  continuata  se- 
quela di  dolori,  difenditrice  o  vindice  dell'onore  pericolante  o 
perduto.  Se  nel  primo  caso,  la  giustizia  aveva  a  procedere  armata 
di  tutto  rigore;  nel  secondo  però,  non  doveva  mai  scompagnarsi 
dalla  clemenza:  e  tanto  più  poi  se  il  supremo  moderatore  di  essa, 
interrogata  la  propria  coscienza,  avesse  considerato  come,  innanzi 
agli  occhi  del  giudice  eterno,  egli  pure  era  reo  ;  dacché  del  sup- 
posto delitto  si  dovesse  in  gran  parte  accagionare  la  sua  colpe- 
vole e  interessata  indulgenza  verso  il  padre  degli  accusati.  E  qui 
cadono  molto  bene  in  acconcio  le  seguenti  parole  del  Muratori, 
che,  a  parer  mio,  esprimono  assai  più  di  quello  che  dicono:  «  E 
se  fosse  stata  fatta  giustizia  di  lui  (Francesco  Cenci),  allorché  per 


BEATRICE   CENCI  DOPO  LE   ULTIME   PUBBLICAZIONI.  447 

tre  volte  fu  messo  in  prigione  a  cagione  del  vizio  nefando,  per 
cui  si  compose  in  duecentomila  scudi,  non  sarebbero  incorsi  in  sì 
lacrimevole  disavventura  i  figli  suoi.  » 

Fatta  adunque  la  debita  stima  dei  processi  di  allora,  e  spe- 
cialmente di  quello  dei  Cenci,  notato  di  gravissimi  difetti  da  in- 
signi giureconsulti;  e  a  ciò  aggiungendo  la  costante  cura  di 
tenerlo  secreto,  la  poca  o  nessuna  libertà  delle  difese  concesse 
agl'imputati,  i  rigorosi  divieti  con  cui  si  cercò  di  soffocare  la 
pubblica  voce  protestante  controia  giustizia  di  quella  condanna; 
la  confìsca  dei  beni  anche  fide-commessi  ordinata  in  onta  di  tutti 
gli  statuti  e  le  consuetudini  di  quei  tempi;  la  vendita  fatta  dal 
Fisco  agli  Aldobrandini  di  considerevole  parte  di  essi  beni  con 
lesione  enormissima  di  prezzo  ;  e  finalmente  il  carattere  cupa- 
mente malvagio  del  più  stretto  parente  e  onnipotente  ministro  e 
favorito  del  principe,  ambizioso,  vendicativo,  avidissimo;  io  di- 
mando se  non  sia  da  altamente  meravigliare,  vedendo  che  taluno 
assicuri  di  avere  studiato  diligentemente,  profondamente  la  que- 
stione, e  poi  concluda  con  1'  asserire  che  :  «  indarno  chi  non  ha 
idee  preconcette  spera  di  trovar  appiglio  per  segnalare  l' ingiu- 
stizia papale,  e  tanto  meno  l' inerente  scopo  di  spogliare  la  fa- 
miglia de'  Cenci  ?  »  Quanto  a  me,  dopo  le  cose  testé  discorse,  se 
posso  ammirare  la  profonda  capacità  della  sua  buona  fede,  nonché 
acconciarmi  a  così  diversa  opinione,  sento  più  che  mai  ingagliar- 
dirsi il  sospetto;  e  più  che  mai  insistenti  e  sonore  come  rintocchi 
di  squilla  mi  percuotono  la  mente  quelle  terribili  parole  con  le 
quali  il  Guerrazzi  poneva  fine  al  suo  racconto  della  cupa  tra- 
gedia :  «  Quando  l'oro  del  condannato  si  versa  nell'arca  del  giu- 
dice, a  questo  sta  con  prove  limpidissime  chiarire  le  genti,  ch'egli 
non  fece  causa  comune  col  boia.  » 

Francesco  Labruzzi  di  Nexima. 


LE  NOSTRE  OIIIGINL 


V. 

I    NOSTRI  PkOGENITORI. 

Con  questo  titolo  non  voglio  alludere  ad  alcuna  specie  in- 
feriore all'uomo,  e  neanche  a  quel  certo  tipo  intermedio,  del 
quale  il  Darwin  e  1'  Haeckel  ci  hanno  dato  lo  schizzo.  Non  è  mia 
mente  il  far  ritorno  sul  campo  di  quelle  induzioni,  ma  piuttosto  far 
conoscere  meglio  un  essere  antichissimo  sì,  ma  interamente  umano  : 
l'uomo  primitivo.  Studiandolo,  troveremo  1'  origine  di  molte  nostre 
idee,  delle  quali  andiamo  orgogliosi  perchè  le  reputiamo  alta- 
mente civili,  e  così  impareremo  a  conoscere  meglio  noi  stessi. 

Se  non  è  facile,  è  almeno  possibile  penetrare  sino  alla  pre- 
senza di  codesto  indiscutibile  nostro  progenitore,  sebbene  esso  sia 
vissuto  migliaia  e  migliaia  d'anni  sono.  Oltre  agli  avanzi  del  suo 
lavoro,  che  ci  parlano  delle  credenze,  degli  usi,  de'  costumi  suoi, 
e  che  formano  il  contenuto  della  paleoetnologia,  noi  abbiamo 
i  rappresentanti  viventi  degli  estinti  progenitori,  noi  troviamo 
oggi,  nello  spazio  geografico,  quelle  forme  inferiori  che  predo- 
minarono nei  tempi  originari  dell'umanità.  Lo  studio  degli  odierni 
selvaggi  è  il  miglior  modo  per  indurre  i  caratteri  dell'  uomo  pri- 
mitivo. Questo  è  il  concetto  che  informa  il  libro  del  Lubbock 
sulle  Origini  delV  incivilimento.  Pel  Lubbock  i  selvaggi  in  gene- 
rale non  sono  i  discendenti  di  civiltà  decadute,  ma  gì'  immobili 
rappresentanti  degli  uomini  preistorici.  Eglino  non  potrebbero  es- 
sere quali  sono,  se  fossero  gli  eredi  di  antiche  civiltà,  perchè  vi 


LE   NOSTRE  OlilGINI.  449 

Lamio  cognizioni  utili  alla  propria  conservazione  che  una  volta 
acquistate  nello  stato  civile,  non  si  perdono  più  quand'anche  un  po- 
polo decada.  Ora  molte  popolazioni  selvaggie  mancano  interamente 
0  quasi  di  quelle  cognizioni,  senza  cui  la  civiltà  è  un  nome  vuoto  di 
senso.  Predomina  in  esse  qualcosa  di  così  chiarameute  rudimentale, 
da  fare  accettare  piuttosto  l'idea  d'una  fermata  ne' primi  gradini 
dell'  evoluzione,  che  non  quella  di  una  discesa  da  piìi  alti  seggi. 
Anche  in  questa  particolare  questione  la  dottrina  del  progresso 
deve  sostituirsi  a  quella  della  decadenza,  ispirata  dai  pregiudizi 
biblici. 

Che  lo  studio  accurato  degli  odierni  selvaggi  possa  fornire 
una  ricca  congerie  di  dati  per  indurne  i  caratteri  fisici,  morali, 
intellettuali,  sociali  de'  nostri  progenitori,  mi  par  chiaro  ed  in- 
negabile ;  ma  è  duopo  aggiungere  che  quello  studio  va  fatto  con 
molta  intelligenza  e  dirò  anche  con  molta  circospezione.  In  primo 
è  da  tener  conto  che  gli  odierni  selvaggi  in  generale,  per  la  du- 
rata del  tempo  da  che  esistono,  hanno  raggiunto  un  grado  mag- 
giore di  sviluppo  ;  poi  è  da  stare  in  guardia  contro  il  facile  ge- 
neralizzare, imperocché  se  molte  popolazioni  selvagge  esprimono 
una  fermata,  di  altre  si  sa  con  certezza  che  sono  eredi  di  un  più 
alto  stato  sociale.  Ora  altro  è  una  fermata,  altro  una  caduta,  o 
dicasi  pure  una  retrocessione.  In  questa  si  portano  tracce  delle 
qualità  e  cognizioni  acquisite,  e  mal  s'indurrebbero  i  primissimi 
uomini  da  tali  rimaoinate  popolazioni.  Così  guardingo  mostrasi  lo 
Spencer  nel  suo  primo  volume  su'  Principii  di  Sociologia,  non  ha 
guari  pubblicato.  L' illustre  scrittore,  che  più  di  ogni  altro  si  è 
adoperato  a  rendere  scientifica  la  teoria  della  evoluzione,  dimostra 
appunto  in  quali  errori  può  trarre  l'idea  del  progresso,  quando  è 
presa  in  una  forma  assoluta.  In  questo  volume,  volendo  egli  ri- 
suscitare tutto  il  mondo  delle  uZee  j}rz/^/27it'e  per  costruirne  infine 
la  teoria  primitiva  delle  cose,  premette  (capitolo  Vili)  alcune  osser- 
vazioni sulle  difficoltà  d'indurre  quel  mondo  mediante  l'esame  delle 
idee  de'  più  bassi  e  semplici  gruppi  sociali  oggi  viventi,  e  di  tra- 
sferirsi in  esso  per  coloro  il  cui  cervello  è  modellato  dalle  idee 
complesse  della  nostra  progredita  società.  La  teoria  del  continuo 
progredire  gli  sembra  così  insostenibile  come  quella  della  de- 
gradazione, perchè  un  attento  esame  dei  fatti  deve  farci  conclu- 
dere che  il  progresso  noli'  evoluzione  di  alcuni  tipi  non  esclude 
la  stazionarietà  e  la  retrocessione  di  altri,  anzi  molto  spesso  il 
progresso  di  certi  tipi  implica  la  retrocessione  di  altri,  perchè 
la  vittoria  del  tipo  più  sviluppato  sposta  i  tipi  rivali  e  li  riduce  a 


450  LE  NOSTRE  ORIGINI. 

vivere  in  coudizioni  inadatte,  che  fanno  loro  perdere  l'acquistato 
grado  di  superiorità.  Questa  verità  si  verifica  tanto  nel  mondo 
organico  quanto  in  quello  sopraorganico  o  sociale,  e  nella  lotta  per 
la  vita  che  fra  i  vari  popoli  si  combatte,  noi  vediamo  infatti  civiltà 
splendere  ed  ecclissarsi,  società  divenir  potenti  e  decadere  o  spa- 
rire, perchè  vinte  o  conquistate  o  disperse  e  schiacciate  da  altre 
civiltà,  da  altre  società,  Grli  esempi  son  tanti  da  render  pallida 
qualsiasi  citazione  di  fatti.  Da  ciò  segue  la  difficoltà  di  sceverare 
le  idee  veramente  primitive  e  rudimentali  da  quelle  che  sono 
state  trasmesse  dalle  tradizioni  e  che  hanno  preso  nasci- 
mento in  uno  stato  sociale  superiore.  Per  riuscirvi  l' indu- 
zione non  basta,  ma  ci  vuole  il  concorso  della  deduzione,  cioè 
dobbiamo  partire  da  alcune  premesse  o  postulati  che  esprimano 
i  caratteri  logici  delle  idee  primitive.  La  psicologia  deve  venire 
al  soccorso  della  sociologia,  V  a-priori  daWa-posicriori.  La  psi- 
cologia e'  insegna  a  distinguere  le  idee  semplici  dalle  complesse, 
i  rapporti  apparenti  da  quelli  sostanziali  e  reali,  e  la  legge  di 
evoluzione  sociale  e  mentale  ci  avverte  che  l'uomo  parte  da'  primi 
per  muovere  verso  i  secondi.  I  concetti  reali  che  scaturiscono 
da  rapporti  complessi  non  possono  appartenere  al  mondo  primi- 
tivo. E  quello  che  diciamo  delle  idee  si  può  applicare  ad  ogni 
fatto,  ad  ogni  foi'ma  dell'  attività  umana,  poiché  tali  fatti  e  forme 
non  sono  che  manifestazioni  del  modo  di  concepire,  e  però  vivono 
con  questo  in  perfetta  consonanza,  ossia  obbediscono  alle  medesime 
leggi. 

Codesto  metodo  scientifico  e  armonico  è  servito  allo  Spencer 
per  ricostruire  il  sistema  delle  idee  primitive,  e  gli  è  dovuto  ser- 
vire, sebbene  non  lo  dica,  per  fare  quella  descrizione  dell'uomo 
IDrimitivo  fisico,  affettivo  e  intellettuale,  che  ci  ha  dato  ne'primi 
capitoli  della  sociologia.  Darò  un  cenno  tanto  di  questa  descri- 
zione dell'  uomo  primitivo,  quanto  di  quella  ricostruzione  delle 
idee  primitive,  perchè  sono  studi  che  rientrano  nel  quadro  del 
mio  lavoro,  ma  fermandomi  piuttosto  su'risultati  che  non  su'pro- 
cessi  per  ottenerli  e  su  gli  esempi  per  dimostrarli. 

Ordinariamente  si  crede  che  1'  uomo  primitivo  sia  stato  di 
alta  statura,  che  le  prime  razze  umane  abbiano  avuto  gigantesche 
proporzioni.  Né  l'induzione  né  la  deduzione,  dice  lo  Spencer,  con- 
fermano questa  ipotesi.  Le  misure  eseguite  su  di  parecchie  po- 
polazioni selvagge  e  barbare  e  l'esame  delle  ossa  di  razze  spa- 
rite   lasciano  indurre,  egli  soggiunge,   che   se  l'uomo   primitivo 


LE   NOSTRE  ORIGINI.  451 

non  era  molto  più  basso  dell'  uomo  civile,  non  era  neanche  più 
alto,  anzi  in  media  era  di  statura  inferiore.  L'esame  delle  ossa, 
come  si  è  detto,  non  conferma  ancora  tale  opinione,  e  come  fac- 
cia lo  Spencer  a  calcolare  la  media,  io  non  potrei  dire.  Farmi 
chiaro  che  in  alcune  condizioni  l'alta  statura  abbia  potuto  essere 
favorita,  dove  che  in  altre  le  razze  di  piccola  statura  abbiano  po- 
tuto facilmente  moltiplicarsi  e  dilatarsi,  perchè  l'alta  statura  non 
era  necessaria  per  la  loro  conservazione.  La  induzione  però  ci 
mantiene  nell'  incertezza,  e  solo  la  deduzione  ci  spiana  la  via  per 
giungere  ad  una  conclusione  netta.  Gli  è  certo  che,  in  generale, 
la  superiorità  della  statura  porge  un  vantaggio  nella  lotta  per 
l'esistenza,  ond'è  naturale  che  la  statura  dell'uomo  primitivo 
debba  avere  obbedito  piuttosto  alla  tendenza  verso  l' aumento, 
che  non  a  quella  verso  il  decrescere.  Gli  abiti  sedentari  d'una 
sviluppata  civiltà  possono  solo  contrastare  quella  tendenza,  ma 
difiicilmente  riescono  a  fare  indietreggiare  la  statura  sino  a  quello 
che  era  nei  tempi  primitivi,  cosi  perchè  nella  medesima  civiltà  vi 
sono  occupazioni  fisicamente  attive,  come  anche  perchè  il  regime 
alimentare  è  più  nutriente. 

Al  minore  sviluppo  della  statura  è  compagno,  presso  1'  uomo 
primitivo,  lo  sviluppo  difettoso  delle  membra  inferiori.  È  quest'ul- 
timo un  fatto  osservato  da'  viaggiatori  che  hanno  visitato  con- 
trade abitate  da  razze  diverse,  senza  legame  di  parentela.  Anche 
i  vestigi  delle  razze  estinte  dimostrano  che  l'uomo  primitivo  do- 
veva avere  gambe  corte  e  sottili.  Questo  suo  carattere  scimiesco 
si  comprende  agevolmente,  a  cagione  delle  abitudini  da  rampicante 
che  hanno  dovuto  pòrgere  alle  braccia  una  forza  e  uno  sviluppo 
sproporzionato  a  quello  delle  membra  inferiori,  come  si  comprende  il 
successivo  perfezionamento  di  queste,  pensando  a'  vantaggi  che  nella 
lotta  fra  le  razze  davano  le  gambe  più  sviluppate.  Gli  uomini  forniti 
di  gambe  più  forti  hanno  potuto  non  pure  sottrarsi  più  facil- 
mente a'  pericoli  e  trasferirsi  più  prontamente  da  un  punto  al- 
l'altro; ma  anche  trionfare  più  agevolmente  nella  lotta  corpo 
a  corpo.  Eglino  hanno  dovuto  tendere  a  predoujinare,  e  anche  in 
questo  la  evoluzione  si  effettua  col  progredire  dal  tipo  piuttosto 
scimiesco  a  quello  dell'agile  e  robusto  alpinista.  La  deduzione, 
come  è  palese,  lascia  prevedere  quello  che  la  induzione  d'altra 
parte  suggerisce  e  suggella. 

Altro  carattere  anatomico  dell'uomo  primitivo  è  quello  con- 
sistente nello  sviluppo  delle  mascelle  e  de' denti,  derivante  pro- 
babilmente dall'abito  di    masticare    alimenti    grossolani,  duri  e 


452  LE  NOSTRE  ORIGINI. 

Spesso  crudi,  e  di  servirsi  de' denti  come  istruinenti.  Grande  del  pari 
è  la  capacità  dello  stomaco  e  lo  sviluppo  dell'addome.  Il  Thompson, 
parlando  de'  boschimaui,  dice  cbe  essi  hanno  «  lo  stomaco  simile 
a  quello  delle  bestie  feroci  tanto  per  la  voracità,  quanto  per  l'at- 
titudine a  sopportar  la  fame.  »  Né  può  essere  diversamente.  I 
pasti  dell'uomo  primitivo  non  potevano  aver  luogo  con  la  regola- 
rità con  cui  si  succedono  quelli  dell'uomo  civile:  ora  egli  poteva 
riempire  il  sacco  ed  ora  doveva  per  necessità  trascinarsi  con 
la  pancia  vuota.  Aggiungasi  che  i  suoi  alimenti  erano  poco 
nutritivi,  così  che  se  ne  richiedeva  molta  quantità  per  fornirgli 
le  sostanze  necessarie  alla  propria  conservazione.  Per  il  che 
il  grande  sviluppo  addominale,  come  quello  che  osservasi,  p.  e., 
presso  gli  Akkà,  era  un  carattere  derivante  necessariamente  dalle 
condizioni  in  cui  viveva  l'uomo  primitivo.  Tali  proprietà  ana- 
tomiche e  fisiologiche  dovevano  renderlo  in  generale  meno  forte 
dell'uomo  civile,  sebbene  per  certi  rispetti  i  selvaggi,  che  in  parte 
ne  sono  la  riproduzione,  manifestino  maggiore  vigore  corpo- 
rale. Il  difetto  di  una  sana  e  corroborante  alimentazione  non  po- 
teva ingenerar  la  forza,  né  produrre  lo  sviluppo  del  sistema  ner- 
voso e  delle  facoltà  mentali,  del  che  scorgonsi  molte  riprove  fra 
i  selvaggi  visitati  da'  viaggiatori.  Il  Galton  e  l' Anderson  hanno, 
p.  e.,  osservato  che  fra  i  Da  mari  non  riuscì  loro  di  trovare  al- 
cuno che  si  potesse,  per  la  forza,  comparare  alla  media  de'  loro 
vigorosi  Inglesi. 

Quando  dalle  indagini  su  i  caratteri  fisici  dell'uomo  primi- 
tivo passiamo  a  quelle  concernenti  le  sue  emozioni,  noi  vediamo 
mancarci  un  elemento  dell'analisi,  qual  é  quello  fornitoci  dagli 
avanzi  ossei,  ma  vediamo  sorgerne  un  altro,  che,  interpetrato  per 
bene,  può  esserci  di  molto  aiuto.  Dicesi  che  il  selvaggio  abbia  lo 
spirito  di  un  fanciullo  con  le  passioni  di  un  uomo.  Lo  studio 
psicologico  del  fanciullo  ci  può  dire  qualche  cosa  intorno  alle 
emozioni  del  selvaggio  o  dell'uomo  primitivo,  e  la  legge  di  evo- 
luzione conferma  che  l'individuo  civile  attraversi  fasi  rappresen- 
tanti quelle  percorse  dalla  razza.  La  sua  fanciullezza,  psicologi- 
camente considerata,  è  in  gran  parte  immagine  della  infimzia 
dell'umanità.  Connettendo  adunque  quello  che  negli  odierni  sel- 
vaggi si  osserva  con  quello  che  si  osserva  ne' nostri  fanciulli  facendo 
la  dovuta  parte  alle  emozioni  che  si  ricevono  per  accumulata  tra- 
smissione ereditaria,  in  una  parola  interrogando  i  fatti  con  la  legge 
dell'evoluzione,  é  possibile  farsi  un'idea  abbastanza  esatta  dell'uomo 
preistorico  affettivo  e  anche  dell'uomo  primitivo  intellettuale. 


LE  NOSTRE   ORTGINI.  453 

Le  emozioni  dell'uomo  piiinitivo  limino  dovuto  somigliare 
molto  non  pure  a  quelle  de'  selvaggi  e  de'  fanciulli,  ma  anche  a 
quelle  delle  scimmie  e  di  altri  animali.  Eiporterò  il  ritratto  che 
il  Lichtenstein  ha  fatto  di  un  hoschimano,  cioè  di  un  individuo 
appartenente  appunto  a  quella  razza  che  rappresenta  uno  de'  più 
bassi  gradini  dell'umanità  e  che  perciò  ricorda  meglio  il  primi- 
tivo tipo  dell'uomo.  La  mobilità  fisica  e  affettiva  vi  si  trovano 
scolpite.  Dopo  aver  detto  che  quel  boschiinano  somiglia  a  una 
scimmia,  continua  così:  «Ciò  che  rende  maggiormente  vero  un 
tal  paragone  è  la  vivacità  de'  suoi  occhi  e  la  mobilità  delle  sue 
sopracciglia,  le  quali  egli  inarcava  o  abbassava  ogni  volta  che 
mutava  posa.  Parimente  movevansi  in  modo  involontario  le  sue 
narici,  gli  angoli  della  bocca,  gli  orecchi,  ed  esprimevano  così  il 
rapido  passare  da  un  desiderio  ardente  ad  una  diffidenza  so- 
spettosa... Allorché  gli  si  dava  una  cosa  da  mangiare  e'  si  levava 
a  metà,  stendeva  la  mano  con  diffidenza,  se  ne  impadroniva  solle- 
citamente  e  la  gettava  nel  fuoco,  volgendo  intorno  i  suoi  piccoli 
occhi  penetranti,  come  se  temesse  che  non  glie  la  togliessero  di 
nuovo.  Codesti  atti  erano  accompagnati  da  sguardi  e  da  gesti  che 
voi  avreste  giurato  essere  interamente  copiati  dalle  scimmie.  » 
(Capo  VI). 

L'indagine,  fatta  nel  modo  detto  di  sopra,  conduce  lo  Spencer 
a  concludere  che  l'uomo  primitivo  era  di  primo  moto,  impre- 
vidente, insofferente  di  freni,  infantile  nelle  manifestazioni  della 
sua  gioia.  Il  suo  sentimento  della  proprietà  era  molto  rudi- 
mentale, nuova  prova  che  chi  spinge  la  società  verso  il  comu- 
nismo la  risospinge  inconsapevolmente  verso  lo  stato  selvag- 
gio e  primitivo  delle  razze  umane.  Fra  i  sentimenti  che  lo 
Spencer  chiama  ego-altruisti  ,  cioè  intermedi  fra  l' egoismo  e 
l'amore  del  prossimo  o  altruismo,  troviamo  la  smania  di  piacere 
agli  altri  e  di  ottenerne  l'approvazione,  onde  l'opinione  pubblica 
predominava  in  guisa  da  tener  le  veci  di  legge  e  di  tribuna  e, 
il  che  presuppone  invero  che  l'uomo  primitivo  sia  già  uscito 
dallo  stato  eslege  ed  entrato  in  quello  della  solidarietà  sociale. 
Il  Wallace,  che  è  vissuto  fra  le  società  selvagge  dell'America 
meridionale  e  orientale,  conferma  quella  indagine,  secondo  la 
quale  lo  stato  civilissimo  si  differenzierebbe  da  quello  barbaro 
non  mica  perchè  nell'uno  predomini  un  sentimento  ego-altruista 
e  nell'altro  l'assoluto  egoismo  arbitrario,  ma  per  la  natura  dei 
costumi  e  delle  idee  che  la  sociabilità  ispira  e  impone  all'indi- 
viduo. Vedendo  che  ancora  nel  nostro  secolo  uomini  e    donne   si 


454  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

tingono  baffi,  capelli,  guance,  ocelli,  la1)bra,  si  potrebbe  credere 
che  neanche  questa  differenza  esista  fra  il  nostro  stato  civile  e 
quello  selvaggio;  ma  pensando  che  l'opinione  pubblica  non  im- 
pone pili  l'omicidio  come  riparazione  individuale,  la  mutilazione 
come  religione,  il  suicidio  come  dovere  coniugale  e  simili,  noi  ci 
riduciamo  a  credere  che,  quanto  a'  sentimenti,  un  qualche  pro- 
gresso r  uomo  abbia  pur  fatto  e  che  gli  abitanti  della  civilis- 
sima Europa  non  siano  poi  tanto  vicini  allo  stato  bestiale  del- 
l' umanità. 

Mentre  alcuni  fatti  lasciano  credere  che  appresso  i  selvaggi 
l'amore  alla  prole  sia  grande,  altri  debbono  farci  pensare  che  sif- 
fatto amore  sia  una  così  strana  passione  da  rendersi,  pe'  suoi  ef- 
fetti, non  distinguibile  dal  piìi  feroce  odio.  Ammirevole  quella  loro 
tenerezza  che  conduce  così  facilmente  all'infanticidio!  11  padre 
ammazza  il  figlio  solo  perchè  questi  si  è  lasciato  cadere  un  oggetto 
dalle  mani.  Lo  Spencer  vi  scopre  un  effetto  dell'impeto,  connaturale 
a' selvaggi;  ma  vi  si  potrebbe  eziandio  scoprire  l'effetto  del  più 
freddo  egoismo.  L'infanticidio  di  fatto  incontrasi  nello  stato  selvag- 
gio quando  i  genitori  non  hanno  come  alimentare  o  come  trasportare 
i  fanciulli,  e  persino  quando  hanno  bisogno  di  grasso  per  aescar 
l'amo.  Non  parliamo  neanche  della  facilità  con  cui  li  vendono  per 
procacciarsi  qualche  bazzecola.  Oh  quanto  le  più  feroci  bestie  sono 
per  questo  rispetto  superiori  all'uomo,  a  questo  re  della  creazione, 
a  questo  semideo  pel  quale  l'universo  nacque  e  si  evolve  !  Ma  lo 
Spencer,  che  in  questi  fatti  non  ha  riconosciuto  che  una  manife- 
stazione irregolare  dei  sentimenti  altruisti,  che  una  delle  mol- 
teplici contraddizioni  in  cui  muovonsi  gli  affetti  de'  selvaggi,  trova 
nel  cattivo  trattamento  della  donna  la  prova  risolutiva  che  in  essi, 
e  però  nell'uomo  primitivo,  la  tendenza  altruista  è  fiacchissima. 
Ed  ha  ragione:  il  principale  indizio  del  sentimento  umanitario  è 
l'affetto  rispettoso  per  la  donna. 

Una  osservazione  che  parrà  curiosa  agli  uomini  politici  è 
questa:  l'uomo  primitivo  è  altamente  conservatore.  Peccato  che 
nella  Camera  italiana  non  vi  siano  parecchi  uomini  primitivi  ! 
Tale  carattere  è  conseguenza  del  precoce  sviluppo  fisico»  a  cui 
succede  una  rapida  sosta,  perchè  il  sistema  nervoso  non  ha  più 
la  plasticità  necessaria  per  modificarsi  e  adattarsi  a  nuovi  usi. 
Il  medesimo  carattere  incontrasi  presso  gli  uomini  non  inciviliti, 
presso  le  nostre  classi  ignoranti  e  anche  presso  una  parte  della 
gente  colta.  Che  direbbero  coloro  i  quali  si  rifiutano  ad  ogni  pro- 
gresso nella  religione  de'  loro   padri,  se   sapessero    che   i   negri 


LE   NOSTRE   ORIGINI,  455 

Hiissa  dicono  per  l'appunto  «  questa  cosa  conviene  a  me  perchè 
conviene  a  mio  padre  ?  » 

L'induzione  e  la  deduzione  concorrono  a  farci  pensare  che 
l'uomo  primitivo,  considerato  in  rapporto  all'intelletto,  non  aveva 
e  non  poteva  avere  che  idee  particolari  rispondenti  al  ristretto 
giro  della  sua  esperienza,  ma  non  idee  astratte  e  sintetiche,  la  cui 
elaborazione  è  correlativa  alla  conoscenza  di  fatti  generali.  I  suoi 
sensi  erano  acuti  e  il  suo  percepire  pronto,  come  gli  odierni  selvaggi 
attestano  ;  ma  il  loro  spirito  era  conficcato  nel  particolare.  Quello 
che  il  Palgrave  dice  de'  Beduini,  cioè  che  sono  «  eccellenti  osser- 
vatori superficiali  »  si  può  dire  dell'uomo  primitivo,  ed  anche  dei 
nostri  contemporanei,  dediti  a  quel  genere  di  scienza  rudimentale 
che  consisto  nella  esteriore  cognizione  del  puro  fatto  particolare. 
In  quella  vece  l'intelligenza  veramente  sviluppata  e  superiore  pog- 
gia alla  cognizione  di  quelle  verità  cardinali  che  dominano  i  fatti 
particolari.  La  medesima  ristrettezza  dell'esperienza  e  della  mento 
produceva  la  nessuna  previsione  de'  risultati  lontani  e  la  nessuna 
mutabilità  nelle  credenze  acquisite.  Fa  duopo  abbracciare  una 
lunga  serie  di  fatti  antecedenti  e  conseguenti,  e  un  vasto  campo 
di  esperienze  eterogenee  e  contradditorie  per  diventare  preveggente 
del  lontano  futuro  e  progressivo  nelle  modificabili  credenze.  È 
in  verità  molto  naturale,  ma  poco  provvidenziale  questo  spirito 
conservatore  dell'uomo  primitivo  e  del  selvaggio  :  l'uomo  è  più 
incatenato  quando  avrebbe  maggior  bisogno  di  camminar  libero  ! 
E  quando  la  locomotiva  corre  e  fa  sessanta  chilometri  all'ora,  l'uo- 
mo si  affatica  a  darle  una  velocità  vertiginosa  che  può  gittarlo 
nell'abisso  ! 

La  incapacità  di  astrarre  dai  fatti  particolari  l'idea  gene- 
rale toglie  all'uomo  primitivo  la  cognizione  delle  cause  reali 
de'fenomenr,  ed  apre  la  porta  a  tutti  quei  fantasmi  de'  tempi  origi- 
nari, i  quali  sono  appunto  prodotti,  come  vedremo,  dalla  falsa 
estensione  data  ad  un  fatto  particolare  malamente  interpretato. 
Non  progredendo  esso  nella  via  della  generalizzazione,  o  meglio 
progredendovi  in  modo  lento  e  insensibile,  non  poteva  scoprire 
l'uniformità  dell'ordine  naturale,  di  sotto  alla  variabile  successione 
dei  fenomeni.  Ci  volevano  le  misure  comparative  per  constatare 
l'uniformità  dell'ordine  naturale  e  ci  volevano  molti  risultati  misu- 
rati per  elevarsi  all'idea  della  legge.  Il  pensiero  dell'uomo  primi- 
tivo era  dunque  debole,  come  il  suo  cervello  era  più  piccolo  di  quello 
dell'uomo  civile,  e  mancandogli  la  forza  di  segregare  nuove  idee 
non  poteva  non  avere  il  genio  imitativo  simile  a  quello  delle  scira- 


456  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

mie.  La  tendenza  a  sciniraiottare  è  osservabile  non  solo  presso  i  sel- 
vaggi odierni,  ma  anche  presso  le  nostre  classi  inferiori  e  presso 
i  dappoco  delle  classi  superiori.  Non  avendo  l'uomo  primitivo  la 
nozione  dell'ordine  naturale,  non  poteva  avere  quella  antitetica  del 
disordine.  Inetto  a  distinguere  l'ordine  dal  disordine,  esso,  al  pari 
del  fanciullo,  non  si  sorprendeva  alla  vista  di  ciò  che  esce  dall'or- 
dine naturale,  prestava  facile  credenza  a  qualsiasi  impossibile  fin- 
zione e  si  formava  un  mondo  di  assurde  credenze,  che  poi  si  fissarono 
si  trasmisero  ereditariamente  e  vivono  ostinatamente  anche  nel  cer- 
vello di  molti  uomini  odierni,  che  si  reputano  colti  e  illuminati. 
Non  maravigliandosi  di  ciò  che  è  innaturale,  non  poteva  avere  la 
curiosità  degli  intelligenti,  e  accettando  come  buona  qualunque  as- 
surda spiegazione,  non  poteva  avere  quello  spirito  critico  e  scettico 
che  è  la  condizione  preliminare  per  scoprire  il  vero.  Molti  esempi  at- 
testano che  la  curiosità  e  lo  spirito  di  esame  incontransi  pure  ap- 
presso i  selvaggi  ;  ma,  se  ben  si  osserva,  scorgesi  che  gli  esempi 
riferisconsi  in  buona  parte  a  razze  meno  inferiori,  come  per  es.  quelle 
maleso-polinesiache.  1  boschimani,  che  riproducono  molto  i  carat- 
teri dell'uomo  primitivo,  non  mostrano  alcuna  curiosità  di  sapere 
come  accada  uno  de'  fatti  che  per  essi  deve  essere  immensamente 
strano,  cioè  la  riflessione  di  sé  nello  specchio.  Ne  ridono,  ma  non 
più  che  tanto,  come  soglion  pure  fare,  in  casi  simili,  gli  indi- 
vidui stolidi  delle  razze  civili.  Del  resto  quella  viva  curiosità  che 
mostrano  i  selvaggi  e  i  fanciulli  potrebbe  essere  un  effetto  dell'ere- 
dità, ed  uno  dei  casi  da'  quali  mal  s'indurrebbe  il  carattere  intellet- 
tuale dell'uomo  primitivo.  Onde  è  un  vero  assurdo  il  credere  che 
l'uomo,  sin  dai  primissimi  tempi  della  sua  esistenza,  sia  soggia- 
ciuto all'anelito  di  risolvere  i  grandi  problemi  religiosi. 

Le  poche  cose  che  ho  esposte  sull'intelletto  dell'uomo  primi- 
tivo ci  aprono  la  via  a  parlare  del  sistema  delle  idee  da  codesto 
intelletto  generate.  Tale  sistema  è  diametralmente  opposto  a  quello 
della  scienza,  ma  è  pienamente  consono  a  quello  della  religione, . 
anzi  è  la  religione  stessa,  come  è  stata  sinora  generalmente  in- 
tesa. La  sua  razionalità  consiste  solo  in  questo  :  le  conclusioni 
che  l'uomo  primitivo  traeva  dalle  premesse  erano  necessarie,  cioè 
conformi  al  ristretto  giro  della  sua  esperienza  e  al  rudimentale 
sviluppo  della  sua  intelligenza.  L'idea  della  passeggiata  del  sole 
attorno  alla  terra  era  una  deduzione  necessaria  e  però  razionale, 
poste  le  cognizioni  astronomiche  dei  tempi  in  cui  nacque.  Con  la 
consapevolezza  di  questa  identità  delle  leggi  del  pensiero,  e  della 


LE  NOSTRE   ORIGINI.  467 

differenza  fra  quello  che  è  razionale  e  reale  per  lo  scienziato  e 
quello  che  è  razionale  e  reale  per  l'uomo  primitivo,  lo  Spencer  si 
pone  ad  analizzare,  a  spiegare  e  coordinare  il  sistema  delle  idee 
primitivo.  Egli  vi  si  adopera  con  raro  acume  ;  ma  non  si  accorge 
che  la  ricerca  della  genesi  di  tutte  le  idee  religiose  e  la  spiega- 
zione naturale  che  ne  dà,  è  la  negazione  di  quella  teoria  sull'ar- 
monia fra  la  scienza  e  la  religione,  che  egli  premise  ai  suoi  Primi 
Frincìpii  e  che  io  ho  combattuto  nello  scritto  intorno  oXV Azione 
della  natura  sulV incivilimento,  pubblicato  in  questo  periodico. 

La  piccola  nube  che  comparisce  su  di  un  cielo  purissimo  e 
a  mano  a  mano  s' ingrandisce,  e  la  grande  nube  che  a  poco  a 
poco  svanisce,  destano  nel  selvaggio  l'idea  di  qualcosa  d'invisibile 
che  divien  visibile  e  viceversa.  Egli  non  ne  comprende  la  causa, 
né  sa  d'onde  sia  venuto  quello  che  prima  non  vedeva,  né  ove  la 
corsa  abbia  trasportato  la  nube  che  vedeva;  ma  ciò  che  gli  par 
certo  si  è  che  le  cose  si  trasformano,  ora  appaiono  ed  ora  scom- 
paiono, in  somma  ch'esse  hanno  due  stati,  il  visibile  e  l'invisibile, 
0,  in  altri  termini,  che  nelle  cose  esiste  una  dualità.  Le  stelle  che 
brillano  nella  notte,  poi  impallidiscono  e  scompaiono  all'alba  per 
ricomparire  a  sera,  il  sole  che  sorge  e  tramonta,  la  luna  che  cre- 
sce e  poi  diminuisce  e  scompare,  le  comete,  le  meteore,  l'aurora, 
il  lampo,  l'arcobaleno,  l'alone,  il  piccolo  stagno  formato  da  acqua 
piovana  che  poi  evapora,  la  nebbia  che  viene  ad  avviluppar  la 
campagna,  poi  si  dilegua  e  l'indomani  ritorna  per  ricominciar  la 
sua  alterna  vicenda,  e  molti  altri  fenomeni  del  medesimo  genere 
confermano  quella  credenza  nella  dualità,  cioè  nel  doppio  stato 
di  ciascuna  cosa.  Né  egli  crede  che  il  cambiamento  sia  solo  for- 
male, ma  molti  fatti  lo  spingono  a  credere  che  sia  benanche  so- 
stanziale, vale  a  dire  che  il  passaggio  dal  visibile  all'invisibile 
rechi  seco  la  metamorfosi  della  sostanza  o  che  ogni  cosa  possa 
esistere  in  due  modi  o  stati  sostanzialmente  diversi.  E  come  po- 
trebbe non  crederlo,  quando  la  conchiglia  fossile  eh'  egli  vede 
abbarbicata  alla  roccia,  gli  alberi  petrificati  e  simili  non  gli  sve- 
gliano altra  idea  se  non  quella  di  una  tramutazione  della  sostanza 
organica  in  pietra?  Nessuna  metamorfosi,  per  radicale  che  sia, 
può  parergli  strana  e  incredibile,  a  lui  che  nulla  sa,  che  tutto 
crede  e  che  accetta  per  migliore  la  spiegazione  più  immediata. 

Le  esperienze  che  fa  il  selvaggio  dell'ombra  che  i  corpi  proiet- 
tano, della   loro  immagine    riflessa   nell'acqua  d'un   lago,  di  un 
fiume,  del  mare,  e  dell'eco  che    ripete   il  suono,  vengono  a  con- 
fermare l'idea  di  quel  dopino,  originata  come  si  é  detto.  Pel  sel- 
VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  aprile  1879.  28 


458  LE  NOSTRE  ORIGINI. 

raggio  0  per  l'uomo  primitivo,  come   pel  fonciullo,  l'ombra  è  un 
essere,  che   accompagna  la  persona,  anzi   le  appartiene,  ma  che 
in  alcune  circostanze  se  ne  separa  per  ritornare.  Non  conoscendo 
il  modo  con  cui  opera  la  luce,  essi  non  possono  avere  altro  con- 
cetto dell'ombra,  e  per  essi  è  razionale  il   considerarla  come  un 
altro  sé,  come  un  oscuro  essere  o  spirito  che  ci  spia  di  giorno  e 
ci  lascia  di  notte.  I  negri  di  Benin,  gli  [Janiki,  i  Groenlandesi,  i 
Figi  forniscono  esempi  che  riprovano  tali   deduzioni.    Lingue   di 
famiglia  diversa  attestano   appunto    il   significato    comune  delle 
parole  ombra  e  spirito,  e   corroborano  l'ipotesi  che  da  tali  espe- 
rienze abbia  avuto  origine  l'idea  del  nostro  duplice  essere.  Pa- 
rimente  un   altro    essere,   visibile    ma    non  tangibile,   appare  al 
selvaggio  r  immagine  che  si  specchia  nell'  acqua,  e   la  sua  idea 
d'un  duplicato   gli  si  ribadisce,   poiché  vede  persino   riprodotti 
i  colori  e  le  contrazioni  del   viso.  Oltre   di  ciò  l'immagine  delle 
stelle   e    di    altri   oggetti    naturali   nelle   acque  non  lascia   essa 
credere  che    tali  oggetti  abbiano  due  dimore  e  non  fa  supporre 
che,  quando  divengono  invisibili,  siano  discesi  nel  profondo  delle 
acque?  L'eco  infine,  che  il   selvaggio  non  può  interpetrare  come 
la  riflessione   dell'onda  sonora,  viene  da  lui  considerata  in  prima 
come  la  voce  di  un'altra  persona,  e  poi  come  il  grido  di  un  essere 
invisibile,  quando   l'esperienza  gli  ha  dimostrato   che  non    havvi 
persona  visibile  colà  ove  l'eco  si  fece  udire.  Non  trovo  difficoltà 
a  pensare  che  la  identità  delle  parole  ripetute  dall'eco  induca  il 
selvaggio  0  l'uomo  primitivo  a  pensare  che  l'eco  emani  dall'altro 
sé  ;  ma  quello  che  soprattutto  importa  constatare  é  che  l'eco  con- 
ferma il   selvaggio  nella   credenza  in  uno   stato    invisibile   della 
persona.  L'idea  di  questo  duplice  stato  delle  cose  è,  nel  modo  con 
cui  l'ignorante   selvaggio    la  concepisce,  un'aberrazione  mentale: 
ma,  non  ostante  ciò,  é  per  lui  il  solo  razionale  possibile  ed  è  l'idea 
cardinale    e   organatrice    di    tutto  il  sistema  delle  sue   credenze. 
L'idea  della  dualità,  suggerita  dai  fenomeni  del  mondo  este- 
riore, viene  anche  nell'uomo  primitivo  risvegliata  da  fenomeni  più 
personali  e  a  lui  famigliari,  come  a  dire  i  sogni,  il  sonnambulismo, 
la  sincope,  l'apoplessia,  la  catalessia.  Per  l'uomo  primitivo  e  pel 
selvaggio,  privo  di  qualunque  nozione  dello    spirito  umano,  che 
non  può   considerarlo   come  un'interna  attività  inseparabile  dagli 
organi,  i  fenomeni  relativi  a' sogni  e   al  sonnambulismo   debbono 
venire  considerati  come    prodotti    da  un   altro  sé,    che   durante 
la  notte  abbandona  il  corpo  e  va  davvero  ad  operare  quello  che 
il  dormiente  sogna.  Trattar  le  ombre   come  corpi  e  i  personaggi 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  459 

de'sogni  come  persone  vive  è  un  abito  mentale  ciie  perdura  nelle 
credenze  delle  razze  incivilite,  di  cui  troviamo  esempli  nei  poemi 
come  quello  àelVIliade,  negli  scritti  biblici   degli  Ebrei   e   nelle 
allucinazioni  o  nelle  furfanterie  de'moderni  spiritisti.  In  verità  se 
l'uomo  primitivo,  che  nulla  sapeva  dello  spirito,  non  si  fosse  spiegato 
il  sonno,  il  sogno  e  il  risveglio  con  l'idea  che  l'altro  sé,  fors'  anche 
quell'ombra  che  di  giorno  lo  accompagnava,  quella  immagine  che 
nell'acqua  gli  si    affacciava,  abbandonava  la  persona  e  poi  le  si 
ricongiungeva,   sarebbe    rimasto    privo  di    qualsiasi    spiegazione 
conforme  alla  sua  esperienza  e  noi  non  potremmo  trovare  alcuna 
ragione   naturale   delle  sue   credenze.  In  quella  vece   l'idea  del 
doppio,  svegliata  da  tutte  le   sue  esperienze,  spiega  la  credenza 
nella  temporanea  migrazione  dell'altro  sé  e  la  fede  nella   realtà 
de'fatti  che  si  compiono  e  delle  persone  che  si  veggono  in  sogno. 
Tali  fatti  e  tali  persone   corroborano   a  loro  volta  l'idea  della 
dualità,  anzi  io  inclino  a  pensare  che  questa  idea  sia  stata  con- 
temporaneamente  generata  da'fenomeni  del  mondo  esterno  e  da 
quelli   dell'  attività  interiore  dell'  uomo.  Le   malattie  infine,  che 
abbiamo  enumerate  di  sopra,  vennero  sj^iegate  allo  stesso  modo, 
cioè  come  la  insensibilità  prodotta  dal   temporaneo  distacco  del- 
l'altro sé,  e  la  sola  differenza  con  i  sogni  stette  e  sta  nella  durata 
di  questo   distacco,   il   quale  non   parve   definitivo  neanche  nella 
morte,  donde  l'idea  della  risurrezione.  Fissatasi  cosi  nel  cervello 
l'idea  del  doppio,  l'evoluzione  mentale  andò  gradatamente  deter- 
minando la  natura  dell'altro  sé.  Da  prima  questo  venne  conside- 
rato come    identico  all'altro,  cioè    visibile,  appetitoso,  assetato  e 
non  sempre  di  acqua,  fornito  insomma  de'medesimi  sensi  e  delle 
medesime  passioni  ;  ma  a  poco  a  poco   esso  si  modificò,  divenne 
meno  materiale,  e  l'esperienza  istessa  aiutò  l'uomo  a  progredire 
verso  il  concetto  di  uno  stato  etereo  dell'altro  sé  o  sia  dello  spi- 
rito, I  lettori  rammenteranno  che  l'anima  di  Patroclo  si  dileguò, 
quando  Achille  volle  afferrarla.  Essa  non  era  dunque  tangibile.  E 
se  rifletteranno  poi  che  i  fatti  de'sogni  s'intrecciano  senza  rego- 
lare nesso  e  che  i  personaggi  che  li  compiono  non  operano  secondo 
le  leggi  del  mondo  naturale,  entrano  p.  e.  in  una  camera  che  ha 
le  porte  chiuse  a  chiavi,  percorrono  in  un  attimo  distanze  enormi  ec  , 
si  persuaderanno  agevolmente  come  nasca  l'idea  di  un'altra  natura 
piuttosto  immateriale. 

Ecco  aperta  la  porta  di  tutto  quel  mondo  di  fantasmi  in  cui 
viveva  l'uomo  primitivo,  e  vive  ancora  una  gran  parte  degli  uomini 
civili  del  secolo  XIX  ! 


460  LE   NOSTRE  ORIGINI. 

Le  idee  primitive  di  anima,  di  spettro,  di  spiriti,  di  demoni, 
di  angeli,  e  per  conseguenza  le  credenze  nell'ispirazione,  la  divi- 
nazione, l'esorcismo,  la  magia,  la  stregoneria,  che  si  fondano  su 
di  un  rapporto  fra  il  visibile  e  l'invisibile,  fra  l'uomo  e  gli  spiriti, 
hanno  per  radice  l'illusione  di  un  doppio  etereo,  che  va  e  viene, 
ed  ora  entra  nel  corpo  umano  ed  or  ne  esce,  mediante  magiche 
parole  e  bizzarri  scongiuri.  Ma  per  eterea  che  si  supponga  la 
sostanza  di  codesto  doppio,  l'uomo  non  può  altrimenti  concepirne 
la  esistenza  che  trasportando  in  essa  le  idee  del  mondo  che  lo 
circonda.  E  qui  ci  torna  innanzi  il  Feuerl)ach,  il  quale  già  diceva 
e  dimostrava  che  l'uomo  crea  gli  dèi  ad  immagine  propria.  Lo 
studio  delle  credenze  non  pure  de'selvaggi,  ma  anche  de'popoli 
inciviliti  dimostra  positivamente  così  fatta  concordanza  di  occu- 
pazioni individuali  e  di  rapporti  sociali  fra  l'uomo  e  il  suo  dop- 
pio, 0  fra  la  prima  e  la  seconda  vita.  Le  anime  dei  popoli  pastori  e 
agricoltori  fanno  l'idillio,  quelle  dei  popoli  cacciatori  inseguono  la 
preda  e  quelle  dei  guerrieri  combattono  ferocemente.  E,  quando 
per  un  processo  spiegabilissimo  e  provabilissimo,  le  anime  degli 
antenati  e  degli  uomini  superiori  si  sollevano  cotanto  dinanzi  alla 
memoria  e  all'immaginazione  de'  popoli  primitivi  da  originare  le 
divinità  e  il  loro  culto,  le  passioni  e  le  idee  che  a  queste  si  attri- 
buiscono non  sono  che  le  passioni  e  le  idee  di  coloro  che  le  venerano. 
Nessun  sistema  religioso  o  mitologico  fa  eccezione  a  questa  regola. 
E  quanto  al  sito  in  cui  dimorano  le  anime  dei  morti,  esso  è  pure 
in  rapporto  con  le  credenze  e  i  ricordi  di  una  determinata  razza. 
Esse  or  popolano  la  vicina  foresta  e  vi  consumano  le  offerte  ali- 
mentari, che  vi  depongono  la  pietà  o  la  paura  dei  fedeli  ;  ora  emi 
grano  in  un  altro  mondo,  che  spesso  è  l'originaria  dimora  da  cui 
la  razza  è  venuta,  e  siccome  nel  viaggio  di  ritorno  esse  debbono  pas- 
sare il  mare,  tragittare  fiumi,  valicare  monti,  così  i  viventi  la- 
sciano presso  la  tomba  canotti,  cavalli,  armi,  danari  e  persino 
passaporti.  L'abito  infine  di  seppellire  i  morti  sulla  vetta  delle 
montagne  o  di  vederle  occupate  da  popoli  conquistatori,  fa  con- 
siderare il  cielo,  col  quale  le  alte  cime  si  confondono,  come  uno 
degli  altri  mondi,  in  cui  menano  la  loro  vita  le  anime  dei 
morti  e  quelle  degli  dèi.  Di  là  esse  si  mantengono  in  rapporto 
col  mondo  di  qua,  e  non  v'ha  fenomeno  inesplicabile  per  l'uomo 
primitivo,  che  non  sia  attribuito  al  loro  intervento.  Naturalmente 
sorge  allora  il  desiderio  di  rendersi  propizi  codesti  agenti  so- 
prannaturali mediante  offerte  e  sacrifizi  d'ogni  maniera.   Di   qui 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  461 

il  culto  con  le  sue  forme  svariatissime  e  rispondenti  agli  usi  etl 
ai  costumi  dei  popoli.  E  come  gli  spiriti  incominciano  per  essere 
il  duplicato  de'  viventi  e  finiscono  per  diventare  celesti  divinità, 
cosi  il  culto  comincia  per  essere  un  rito  funebre  e  finisce  per 
diventare  un  rito  divino.  La  tomba  diviene  altare;  il  suo  rico- 
vero, tempio;  le  provvigioni,  obblazioni;  le  mutilazioni  e  immo- 
lazioni sulla  tomba,  omicidi  a  pie  dell'altare;  l'astinenza  per  ri- 
spetto a'  morti,  digiuno  per  timor  degli  dèi;  le  visite  alle  tombe, 
pellegrinaggi  ai  templi;  gl'inni  in  onore  dei  valorosi  estinti, 
omaggi  e  preghiere  agl'iddìi,  i  quali,  fatti  a  immagine  dell'uomo, 
non  potevano  essere  naturalmente  disposti  alla  carità,  ma  dove- 
vano essere  piegati  e  rammolliti  con  le  preghiere,  con  le  lagrime 
e  col  sangue  d'innocenti  vittime. 

Come  l'ombra,  l'immagine  e  il  sogno,  insieme  con  le  parvenze 
fenomenali  del  mondo  esteriore,  furono  la  causa  della  primitiva 
e  fantastica  creazione  d'un  mondo  di  spiriti,  così  il  culto  degli 
antenati,  cioè  degli  spiriti  de'  morti,  del  duplicato  degli  uomini, 
fu  il  cardine  di  quel  lavorio  di  divinizzazione,  che  creò,  molti- 
plicò, ordinò  gli  dèi  a  società  e  li  sottopose  ad  un  capo.  Questo 
concetto,  che  si  può  dedurre  con  la  teoria  dell'evoluzione,  si  po- 
trebbe induttivamente  dimostrare  con  migliaia  di  esempi  e  di  fatti 
ricavati  dallo  studio  delle  credenze  e  de'  linguaggi.  Tipico  è  quello 
che  si  osserva  presso  i  Tannesi,  cioè  che  la  parola  che  designa, 
un  dio  vuol  dire  letteralmente  un  uomo  morto.  L'ombra  d'un 
nemico  diviene  un  diavolo,  quella  di  un  amico  un  dio,  e  qualche 
volta  il  dio  non  è  altra  cosa  che  il  diavolo  ;  il  che  dinota 
che  i  due  concetti  tardi  sonosi  specializzati.  In  America,  dice  lo 
Spencer,  i  missionari  furono  costretti  a  servirsi  della  parola  dia- 
volo come  la  sola  acconcia  a  designare  dio.  Nel  greco,  egli  ag- 
giunge, tali  parole  sono  equivalenti.  E  che  la  radice  delle  divi- 
nità stia  nella  credenza  agli  spiriti  degli  antenati,  agli  spiriti  in 
genere,  si  scorge  anche  dai  classici  esempi  dell'antichità  greco- 
romana. I  figli  di  Agamennone  veggonsi  nella  tragedia  di  Eschilo 
invocare  lo  spirito  del  padre  loro  come  un  dio,  e  i  Komani  si 
servivano  della  parola  deus  per  indicare  indistintamente  o  un  dio 
o  uno  spirito.  Anclie  presso  gli  Ebrei  la  parola  eloliim  significava 
dio  e  spirito,  e  il  Kuenen  osserva  non  esservi  alcun  dubbio  che 
in  origine  gli  esseri  superiori,  gli  oggetti  che  incutevano  paura 
all'uomo  (eloah)  erano  chiamati  eloliim. 

Dal  culto  per  lo  spirito  degli  antenati,  dalla  venerazione  pei 


462  LE  NOSTRE   ORIGINI. 

loro  corpi,  i  quali  si  cercò  di  conservare  affinchè  i  loro  eterei  du- 
plicati potessero  al  loro  ritorno  trovarli  intatti,  al   culto   per  le 
loro  immagini  e  per  tutto  ciò  che  loro  apparteneva  o   ch'eglino 
potevano  prohabilmente  frequentare,  il  passo  è  breve.  Anche  noi 
moderni,  se  siamo  dominati  da  spiritiche    credenze,  crediamo  in 
alcune  circostanze  di  veder  muovere  e  rivivere    il    ritratto   d'un 
nostro  antenato.  Pensate  un  po'  quel  che  doveva  accadere  quando 
le  fantasie  erano  gagliardamente  agitate  e  commosse!  Le  imma- 
gini più  imperfette  e  rudimentali  dovevano  parere  animate  dallo 
spinto  della  persona  rappresentata,    e   l'uomo   doveva  religiosa- 
mente adorarle  e  prostrarsi  dinanzi  ad  esse,  se  la  credenza  nello  spi- 
rito di  un  uomo  superiore  erasi  in  lui  trasformata  in   quella   di 
un  dio   soprannaturale.    Parimente   con  religioso  terrore   doveva 
l'uomo  guardare  ogni  oggetto,  il  quale,  o  per  avere  appartenuto 
al  morto  o  pel  suo  carattere  straordinario  o   per  qualsiasi  acci- 
dentale somiglianza  e  strano  rapporto,  era  presumibile  fosse   vi- 
sitato dallo  spirito  di    un    morto,    od    ospitasse    un    dio.    Di   qui 
l'idolatria  e  il  feticismo,  che  non  sono  così  primitivi  come  in  ge- 
nerale si  crede,  poi  che  non  possono  esistere  senza  che  l'uomo  sia 
assediato  e  conquistato  da'  fantasmi  spiritici.  Or  se  il  culto    per 
un  oggetto  inorganico,  per  la  più  orrida  pietra  trova   una   spie- 
gazione cosi  naturale,  che  cosa  non   accadrà  per    i   prodotti   del 
mondo  organico,  per  le  piante  e  gli  animali  ?  Il  loro  culto  ha  la 
medesima  genesi,  aiutata  dalla  facile  credenza  nelle  metamorfosi 
e  dagli  errori  derivanti  da  un  linguaggio  imperfetto.  Noi  moderni, 
i  quali  nella  fcirfalla  che  ci  gira  intorno  e  persino  nella  schifosa 
mosca  che  ostinatamente  ci  tormenta,  immaginiamo  esista  l'anima 
di  un  estinto,   non  possiamo  rifiutarci  a  concepire  la  facilità  con 
cui  l'uomo  primitivo  vedeva  negli  animali  che  frequentavano    le 
dimore  de'  vivi  e  de'    morti   la  trasmigrazione   delle    anime    nel 
■   trarautamento  delle  forme.  Oh  quanto  il  vecchio  uomo  vive  ancora 
in    certi    nostri    abiti    psicologici  !    Volendo    citare    un    esempio 
fra   migliaia,    scegliamo    quello    del    famoso    serpente,    che   più 
di    ogni    altro    animale    s'insinua   nelle    abitazioni    degli    uomini 
in   Asia,  in   Africa,   in    America,    e    che  perciò  quei  popoli  con- 
siaerano    a   preferenza    come    la    forma    prescelta    dallo    spirito 
del    morto    per    visitare    e    anche    per    mordere  i  vivi.    La  divi- 
nizzazione dello   spirito    di    un   antenato   reca   seco,    per    logica 
conseguenza,    quella    dell'  animale    in    cui    ha   preso    forma    no- 
vella.   Oltre   di  ciò,  i  soprannomi  di  toro,  leone,  gran   leone,    ti- 
gre, ecc.  che  agli  eroi  si  davano,  confondevansi  a  poco  a  poco  con 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  463 

l'antenato  da  lunga  pezza  disparito,  e  quelle  genti  che  da  lui 
discendevano  finirono  per  stimarsi  progenie  di  l^oni,  di  tori,  di  tigri. 
Chiarissima  diviene  così  l'origine  degli  animaleschi  iddii,  di  tutte 
quelle  variazioni  del  medesimo  motivo  che  furono  gli  dèi  mezzo 
uomini  e  mezzo  bestie.  Nella  stessa  confusione  delle  menti  pri- 
mitive sta  il  bandolo  per  dipanar  la  matassa.  La  genealogia  dei 
re  ascianti  ci  dice  che  il  loro  progenitore  era  i;n  serpente  vele- 
noso chiamato  Bora;  ma  Bora  era  pure  un  legislatore,  un  capo, 
una  persona  umana.  La  leggenda  passa  con  questo  doppio  Bora 
a'  posteri,  i  quali  non  potranno  non  pensare  che  Bora  fosse  ser- 
pente e  uomo,  e  se  dovranno  raffigurarlo  graficamente  non  è  me- 
raviglia che  ce  lo  rappresenteranno  come  un  essere  mezzo  uomo  e 
mezzo  rettile.  Il  vittorioso  Eadama  in  fatti,  che  ora  è  chiamato  toro 
potente,  ora  uomo  ed  ora  dio,  diviene  il  dio  Kadama,  rappre- 
sentato or  come  un  uomo  con  la  testa  di  toro  ed  or  come  un  toro 
con  la  testa  di  uomo.  La  spiegazione  di  questi  fatti  è  per  lo 
Spencer  assai  più  chiara,  più  semplice,  più  naturale  di  quel  che 
non  pensino  i  mitologi  con  il  loro  raffinato,  complicato  e  conven- 
zionale simbolismo.  Il  simbolo  si  rattrova  soltanto  nel  nome  del- 
l'animale che  all'uomo  si  dà,  perchè  la  forza,  il  coraggio,  la  fe- 
rocia, l'astuzia  di  questo  risponde  ai  caratteri  di  certi  animali  ; 
ma  non  in  tutti  quei  sistemi  naturali  troppo  sottili  che  la  moderna 
sapienza  inventa  e  trasporta  nei  tempi  primitivi. 

Ciò  che  si  è  detto  del  culto  per  gli  animali  vale  pel  culto 
di  qualsiasi  obbietto  e  di  qualsiasi  forza  della  natura.  Il  culto 
per  gli  antenati  è  sempre  il  perno  del  culto  pe'  monti,  pel  mare, 
per  le  stelle,  per  la  luna  e  pel  sole,  e  gli  avvenimenti  che  si  at- 
tribuiscono a  questi  oggetti  personificati  hanno  per  causa  la  con- 
fusione delle  idee  e  gli  errori  del  linguaggio.  Le  genti  che  ve- 
nivano da  un  sito  montuoso  o  silvano  eran  chiamate  «  figli  dei 
monti  0  delle  selve  >  e  anche  figli  di  quella  particolar  montagna 
0  di  quella  particolare  selva;  i  conquistatori  che  movevano  dal- 
l'oriente, cioè  dal  paese  ove  il  sole  si  leva,  furono  chiamati  «  figli 
del  sole.  »  Oltre  di  ciò,  il  capo  di  una  tribù,  l'illustre  guerriero, 
la  regina  da' dorati  capelli,  la  fanciulla  dagli  occhi  vividi,  ecc.  ri- 
cevettero i  nomi  di  sole,  di  aurora,  di  stella  e  simili.  Se  abbiamo 
la  facoltà  di  trasportarci  in  quei  primitivi  tempi,  ne' quali  ogni 
stranezza  ed  ogni  confusione  diventavano  possibili,  noi  non  pene- 
remo ad  ammettere  che  la  venerazione  prima  e  il  culto  poi  per 
gli  antenati  e  pel  loro  spirito  si  confondeva  e  identificava  con 
quello  degli  oggetti  naturali  di  cui  riportavano  i  nomi,  e  che  la 


464  LE    NOSTRE   OEIGINI. 

leggenda  tessuta  intorno  all'  avo  si  trasportava  e  applicava  alle 
vicende  della  terra  e  de'  cieli.  Questo  modo  di  spiegare  il  culto 
della  natura  rende  evidente  la  differenza  che  corre  fra  il  punto 
di  vista  de'  mitologi  e  quello  dello  Spencer.  Secondo  i  mitologi 
l'uomo  adora  prima  le  forze  della  natura  come  impersonali,  le 
personifica  poi  applicando  ad  esse  alcuni  caratteri  inerenti  alle 
parole  con  cui  le  designa,  e  infine  crea  le  leggende  sulle  persone 
identificate  con  le  forze.  Secondo  lo  Spencer  la  personalità  umana  è 
l'elemento  primitivo,  l' identità  del  nome  fra  la  persona  e  1'  og- 
getto che  glielo  ha  imprestato  produce  la  confusione  e  la  iden- 
tificazione infra  loro,  e  di  poi  nasce  il  culto  per  la  forza  o  per 
l'obbietto  personificato.  Il  sistema  dello  Spencer  è  adunque  un 
evemerismo  rinnovato,  corredato  della  grande  quantità  di  fatti 
che  le  odierne  ricerche  forniscono,  e  illustrato  da  una  mente 
perspicacissima.  Col  rigettare  interamente  le  spiegazioni  dei  mi- 
tologi, col  negare  che  la  tendenza  personificatrice  dell'uomo  pri- 
mitivo funzionò  pure  in  modo  indipendente  dal  culto  per  gli  an- 
tenati, col  non  riconoscere  che  i  miti  non  sono  stati  prodotti 
solamente  mediante  il  trasporto  delle  gesto  umane  dall'antenato 
agli  oggetti  naturali,  ma  anche  con  un  processo  opposto  e  con  la 
confusione  de'  due  processi,  lo  Spencer  ha  guardato  il  mondo  mi- 
tologico da  un  punto  di  vista  esclusivo.  Non  ostante  ciò,  il  suo 
sistema  contiene  la  maggior  parte  del  vero,  e  comprende  le  spie- 
gazioni pili  chiare,  più  plausibili  e  più  provabili  intorno  alle 
origini  del  mondo  delle  idee  primitive.  Movendo  dal  nostro  altra 
viaggiatore,  passando  pel  medesimo  doppio  che  ci  abbandona  con 
la  morte  e  che  gradatamente  diviene  uno  spirito  prima  tempo- 
raneo e  poi  indistruttibile,  egli  perviene  a  quella  società  sempre 
più  numerosa  di  esseri  soprannaturali  che  riempiono  lo  spazio  e 
sono  gli  autori  di  tutte  le  cose  inesplicabili,  di  tutti  i  fenonemi 
non  fiimiliari  alla  rudimentale  intelligenza  dell'uomo  primitivo. 
«  Poiché  il  divino  e  il  superiore  sono  idee  equivalenti  per  1'  uomo 
primitivo,  poiché  1'  uomo  che  vive  e  lo  spirito  che  ritorna  non 
formano  da  principio  che  una  medesima  cosa  nelle  sue  credenze ^ 
poiché  le  parole  spirito  di  un  morto  e  dio  sono  alle  origini  ter- 
mini sinonimi,  é  facile  comprendere  come  il  dio  venga  fuori,  per 
insensibili  gradi,  dall'  uomo  potente  e  dallo  spirito  dell'  uomo 
morto.  »  (Capo  XXVI) 

Dinanzi  al  libero   e    positivo  esame    della    scienza  si    rende 
chiara    ed    elidente    non    pure    la   genesi    di   ciascuna  parte  del 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  465- 

sistema  delle  primitive  superstizioni,  ma  anche  il  modo  con 
cui  svolgesi  così  fatto  sistema.  La  teoria  dell'evoluzione  verificasi 
qui  come  in  ogni  altro  ramo  dell'  attività  mondiale.  Il  sistema 
delle  credenze  o  superstizioni  passa,  al  pari  della  materia,  al 
pari  della  società,  da  un  certo  stato  caotico,  incoerente,  o- 
mogeneo,  indefinito,  allo  stato  integrato,  coerente,  eterogeneo, 
definito,  o,  in  altri  termini,  dalla  semplicità  indeterminata  e  con- 
fusa alla  complessità  specificata,  armonica,  organica.  Abbiamo 
osservato  che  il  numero  degli  spiriti,  da  prima  stazionario,  andò 
crescendo  continuatamente,  quando  la  credenza  alla  loro  immorta- 
lità impedì  di  sottrarre  gli  uni  mentre  si  aggiungevano  gli  altri. 
Secondo  che  un  popolo  avanza  verso  la  civiltà,  ed  anche  sino  a 
un  certo  punto  nella  civiltà,  il  mondo  degli  spiriti  si  popola  e  il 
panteon  degli  dèi  o  il  regno  dei  santi  si  arricchisce  di  adorabili 
persone.  Non  fa  mestieri  ricorrere  all'esempio  del  Messico  per 
osservare  come  gli  dèi  crescano  a  migliaia:  noi  abbiamo  l'esempio 
de'  Romani,  che  conquistavano  popoli  e  divinità,  e  quello  piìi 
prossimo  dei  cristiani  che  santificarono  un  numero  sempre  cre- 
scente di  uomini.  In  questo  semplice  accrescimento  della  massa, 
lo  Spencer  riconosce  il  fatto  della  integrazione  ;  la  qual  cosa 
gli  si  può  mandar  buona,  quando  insieme  all'aumento  nume- 
rico si  verifica  il  processo  di  consolidamento  e  di  aggruppa- 
menti più  coerenti  delle  molteplici  e  cozzanti  superstizioni.  Al- 
trimenti col  numero  non  si  aumenterebbe  che  il  caos.  Le  cre- 
denze dell'  uomo  primitivo  sono  in  fatti  contraddittorie,  cosi 
che  a  noi  pare  inesplicabile  la  fede  in  simili  assurdità;  ma 
con  l'esperienza  e  col  progresso,  lo  spirito  logico  le  va  elaborando 
in  guisa  da  farne  uscire  un  sistema  più  coerente,  ed  anche  più 
differenziato,  più  definito.  Ed  è  naturale  sia  cosi:  lo  svolgimento 
delle  credenze  di  un  popolo  non  può  essere  che  correlativo  a 
quello  della  sua  vita  pratica  e  del  suo  cervello.  Secondo  che  la 
società  si  ordina  moltiplicando  le  sue  funzioni,  ma  in  pari  tempo 
assegnando  a  ciascuna  il  suo  posto,  secondo  che  la  gerarchia  si 
forma  e  le  attribuzioni  si  chiariscono,  il  sistema  delle  credenze 
diviene  più  coerente,  più  specificato,  più  definito.  Il  principio  della 
divisione  e  dell'armonia  del  lavoro  sopraintende  alla  evoluzione 
della  vita  pratica  e  a  quella  della  vita  mentale.  Se  presso  i  popoli 
più  selvaggi  0  non  incontriamo  idee  di  spiriti  e  di  divinità, 
0  incontrandole,  non  vi  scopriamo  altra  discinzione  che  quella 
di  buoni  e  di  cattivi,  presso  i  popoli  più  sviluppati  vediamo  alla 
gerarchia  sociale  corrispondere  quella  soprannaturale.  Con  la  pie- 


466  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

cola  nobiltà  nascono  i    semidei,    con   la    grande    aristocrazia  gli 
dèi,  e  col  monarcato  il  dio  supremo.  Lo  Spencer,  che  così  scruta 
la  genesi  delle  prime  credenze  e  così  discopre  la  legge  di  evolu- 
zione nel  processo  di  formazione   del   sistema  loro,  è    egli  quel 
desso  che  ne'  Primi  Principii  voleva  segnare    la  pace  a  pie  del- 
l'altare dell'Inconoscibile,  fra  la  scienza  e  la  religione?  Io  osservai 
che  le  religioni  —  almeno  quelle  che  sinora  abbiamo  conosciute  — 
non  si  restringono  ad  ammettere    la    causa  prima  dell'  universo, 
non  si  arrestano  dinanzi  all'inconoscibile;  ma  con  le  loro  creazioni 
intendono  a  rivelarcelo,  facendoci  conoscere  i  particolari  della  sua 
esistenza,  quali  sono  a  modo  loro  le  cause  dei  fenomeni  naturali 
e  sociali,  e  che  la  scienza,  pure   ammettendo  l' Ignoto,  scopre  la 
falsità  delle  superstizioni  religiose.  Di  questo,  ella  dice  alla  reli- 
gione, io  non  so  il  vero,  ma  so  di  certo    cbe  quello  tu    dici  non 
è  il  vero.  Il  primo  volume  della  Sociologia  dello  Spencer  è  la  ri- 
prova della  verità  della  mia  osservazione  ed  è  per    tanto  la  ne- 
gazione della  possibilità  di    conciliare  la  scienza    e  la  religione, 
vagheggiata  nei  Primi  Principii.  Certo  se  la  religione  restringesse 
il  campo  suo  ove  la  scienza  non  penetra  e  forse  non    mai   potrà 
penetrare  con  i  suoi  istruraenti  e  con  le  sue  evidenti  prove,  una 
pacifica  convivenza,  se  non  una  piena  pace,  sarebbe  possibile;  ma 
le  religioni  non  sono  mai  state  così  modeste  e  non   accennano  a 
volerlo  diventare.  Esse  pretendono  creare  tutto  un  mondo  di  sog- 
gettive credenze,  con  le  quali  vogliono  governare  la  vita  pratica 
e  regnare  su  di  questo  mondo.  Nessuno  meglio  dello  Spencer  ha 
saputo  ricostruire  l'uomo  primitivo  e  il  sistema  delle  sue  credenze, 
e  nessuno  è  stato  più  di  lui  ardito  nel  ricercare  la  genesi  natu- 
rale di  quel  sistema,  che  tuttavia  domina  sullo  spirito  dell'uomo. 
Ora,  scoprirne  1'  origine  gli  è  dimostrarne  in    modo   irresistibile 
la  falsità.  La  religione  ci  dice  che  la  sua  origine  è   soprannatu- 
rale, ma  la  scienza  ci  dimostra  che  quel  soprannaturale  è  il  na- 
turale, interpetrato  dal  vuoto  cervello  dell'uomo  primitivo  e  poetiz- 
zato  dalla  sua  eccitata  fantasia.  La  forza  dell'eredità  e  dell'abi- 
tudine ci  fa  continaare  a  credere  alla  realtà  de' sogni,  ci  preclude 
la  vista  della  verità  e  ci  toglie  le  virili  consolazioni  che  derivano 
dal  ricercare  in  essa   il  sostegno    contro  le  traversìe    della  vita. 
Solo  ricercandolo  in  essa  1'  uomo  si  rialza  e  si    rassegna,  perchè 
la  conoscenza  delle  leggi  naturali  lo  invita  alla  calma  e  alla  pa- 
zienza, dove  che  il  sistema  delle  superstizioni  non  può  che  gettare 
la  disperazione  nel  cuore  di  chiunque  abbia  un  cervello  logico. 


LE   NOSTKE   ORIGINI.  467 

VI. 

Epilogo  intokno  allo  stato  antistorico. 

Kiepilogando  quello  che  si  è  detto  intoi-no  airuoino  preisto- 
rico, mi  studierò  di  aggiungere  qualche  altra  osservazione,  sotto 
forma  di  risultati  dell'analisi,  per  rendere  meno  incompiuto  lo 
schizzo  di  quei  tempi,  che  non  si  possono  conoscere  appieno  senza 
un  esame  critico  più  diffuso  di  tutti  gli  usi,  costumi  e  credenze 
degli  attuali  selvaggi  e  harbari,  e  senza  il  minuto  esame  delle 
tradizioni  leggendarie  de' vari  popoli  storici.  Questo  ultimo  esame 
oltrepassa  la  soglia  de' preliminari  generali  della  scienza  istorica, 
a' quali  mi  voglio  arrestare  in  questi  articoli,  e  forma  oggetto 
degli  speciali  capitoli  che  precedono  la  storia  di  ciascun  popolo. 

Lo  stato  antistorico  è,  come  si  è  veduto,  medesimamente  an- 
ticivile, e  distinguesi  in  brutale,  selvaggio  e  barbaro,  i  primi  due 
più  vicini  allo  stato  così  detto  di  natura,  il  terzo  allo  stato  civile, 
ma  separati  da  minor  distanza  che  non  interceda  fra  lo  stato 
barbaro  e  il  civile.  Graduale  è  la  transizione  dall'uno  all'altro 
stato,  del  pari  che  la  evoluzione  dal  comune  stipite  dei  pri- 
mati all'uomo;  ma  come  lo  specificarsi  della  forma  umana  segna 
nell'ordine  dei  primati  il  passaggio  dalle  famiglie  inferiori  a  quelle 
superiori,  così  il  nascimento  dello  stato  civile  segna  nella  vita 
dell'umanità  il  passaggio  da'  gradi  inferiori  a  quelli  superiori,  a 
quelli  che  sovranamente  contraddistinguono  la  nostra  specie  dalle 
altre  specie  animali.  I  rami  dell'albero,  che  simboleggia  l'ordine 
dei  primati,  andavano  divergendo  con  gli  stati  preistorici  e  si  allonta- 
nano incommensurabilmente  Hallo  stato  civile.  Fra  l'animale  e  l'uomo 
civile,  senza  più  esservi  l'infinito,  permane  l'immensa  distanza. 
È  adunque  il  complesso  delle  attività  coscienti  e  progressive,  orga- 
nate e  svolgentisi  nello  Stato,  e  non  la  semplice  religiosità,  come 
pensa  il  Quatrefages,  quello  che  costituisce  davvero  il  regno 
umano.  Negli  stati  preistorici  possiamo  dire  che  questo  regno 
sorga  e  si  elabori  ;  ma  esso  non  ancora  è.  Sono  stati  che  tramez- 
zano fra  due  regni,  e  però  mentre  non  sono  più  interamente  l'uno, 
non  sono  ancora  interamente  l'altro.  Le  differenze  naturali  che 
distinguono  la  famiglia  umana  dalle  rimanenti  famiglie  de'  pri- 
mati, non  grandi  o  almeno  non  tali  pei  nostri  limitati  mezzi  di  os- 
servazione, divengono  grandissime  ne'  prodotti  derivanti  dall'eser- 


468  LE  NOSTRE  ORIGINI. 

cizio  delle  loro  funzioni  ;  e  però  non  ci  consentono  di  affermare  la 
esistenza  di  un  vero  e  proprio  regno  umano,  se  prima  tali  pro- 
dotti non  si  accumulino  e  coordinino  nell'organesimo  civile.  In  breve, 
se  l'uomo  fosse  rinìasto  confitto  nello  stato  antistorico,  non  avrebbe 
neppur  sognata  l'esistenza  di  un  regno  umano  :  il  sole  della  ci- 
viltà gli  ha  fritto  sentire,  e  giustamente  sentire,  la  dignità  del- 
l'esser suo. 

Quanto  alla  religiosità,  di  cui  il  Quatrefages,  con  la  scuola 
teologica,  vorrebbe  fare  il  contrassegno  peculiare  della  umanità, 
noi  abbiamo  già  osservato  che  tale  contrassegno  non  sempre  esi- 
ste 0  non  sempre  è  bastevole  ad  assicurare  all'uomo  un  posto  da 
sovrano.  Sonvi  animali  idolatri  come  vi  sono  selvaggi  sforniti  di 
religione.  Dei  primi  ci  ha  recato  un  esempio  il  Purchas,  che  nel 
suo  Pellegrinaggio,  e  propriamente  nella  sesta  parte  del  capitolo 
sulle    avventure    di    Andrea   Battei,    parla  delle    idolatrie    delle 
scimmie,  dette  Pongo.  Dei  secondi  abbondano  gli   esempi,   fra   i 
quali  ricorderò  quello  degli  abitanti  della    Nuova   Olanda.  Ecco 
come  li  descrive  il  Bory  de  Saint- Vincent:  «  Senza  religione,  senza 
leggi,  senz'arte,  essi  vivono  a  coppie,  nel  più  misero  stato  e  privi 
di  qualunque  legame  sociale.  Non  hanno  coscienza  della  loro  nu- 
dità, non  case  e  neanche  rudimentali  capanne:  a  mala  pena  sanno 
costruire  una  specie  di  paravento  contro  la  pioggia,  che  del  resto 
sopportano  con  istupida  indifferenza:  a  mala  pena  sanno  accen- 
dere il  fuoco  per  cuocere  le   loro  lucertole  o  i  loro   datteri   ma- 
rini, unica  loro  caccia,  perchè,  per  semplice  che  sia  l'arco,  persin 
d'  esso  ignorano   l'uso  e  non  hanno  altra  arme    che  la  lancia,  la 
clava  e  il  ben  noto  giavellotto.  »   Ed  ecco  genti  selvagge,  che  il 
Quatrefages  o  deve  porre  nel  regno  umano,  quantunque  non  ab- 
biano la  religiosità,  o,  non  potendolo  fare,  dovrebbe  porre  addirit- 
tura in  altra  famiglia  non  umana  deW'ordine  dei    primati,  quan- 
tunque abbiano  ben  diversi  caratteri  anatomici  e  fisiologici.  Per 
chi  non  voglia  fondarsi  sopra  un  carattere  esclusivo  e  non  gene- 
rale, qual  è  la  religiosità,  selvaggi  come  quelli  appartengono  già 
alla  famiglia  umana  dell'ordine  de'  primati;  ma  non  appartengono 
a  quelle  razze  superiori  e  civili,  che  costituiscono   il  regno  umano 
altamente  inteso,  a  quelle  razze  superiori  e  civili  che  sono  il  pro- 
dotto di  una  trasformazione  secolare  e  profonda,  per  opera  della 
quale  si  potrebbe  dire  che  l'uomo  civile  non  pure  si  spicca  dal- 
l'ordine dei  primati  e  l'oltrepassa,  ma    perviene  a  costituire  nella 
storia  il  regno  propriamente  umano  della  Cultura.  Stato  e  Cultura 
sono  per  me  le  due  forze  essenziali  dell'umanità,  le  due  manife- 


LE  NOSTRE   ORIGINI.  469 

stazioni,  oggettiva  e  soggettiva,  pubblica  e  individuale,  della  co- 
scienza progressiva  della  società  e  dell'individuo;  le  due  forze 
fondamentali  intorno  a  cui  tutte  le  attività  si  aggruppano;  le  due 
forze  costituenti  il  regno  umano  della  Civiltà.  L'uomo  emana  dalla 
natura,  vi  appartiene,  continua  ad  appartenervi  persino  quando 
diviene  civile  e  storico;  ma  nello  Stato  e  con  la  Cultura  perviene 
a  crearsi  una  propria  sfera  di  azione,  un  proprio  mondo,  un  pro- 
prio regno.  Il  concetto  die  io  espongo  è  la  sola  e  vera  àncora  di 
salvezza  della  dignità  umana.  Se  è  falso,  a  noi  non  resta  che  ripiom- 
bare negli  abissi  dell'animalità,  perchè  le  altre  àncore  o  sono  spez- 
zate o  sono  fragili.  Ma  esso  non  è  falso,  per  fortuna,  e  gli  stessi  uomini 
nobilmente  religiosi  potrebbero  finire  per  acconciarvisi,  perchè  io, 
senza  vagheggiare,  come  lo  Spencer,  impossibili  conciliazioni  fon- 
date sull'equivoco,  considero  la  religione  come  una  prima  forma 
di  rudimentale  cultura,  come  una  potenza  che  lavora  a  trarre  lo 
spirito  fuori  della  bassa  materialità,  come  una  forza  che  si  svolge 
con  l'arte  e  con  la  scienza,  dalle  quali  ritrae  il  personificare  imma- 
ginoso, i  templi,  le  svariate  creazioni  del  culto,  la  bellezza  in 
somma  delle  forme  e  la  idealizzazione  del  contenuto,  ed  alle  quali 
porge  il  sentimento  del  bello  e  dell'infinito.  La  religione,  in  fatti, 
che  come  terrore  per  le  forze  naturali  e  umane,  come  culto  pei 
morti,  come  indistinto  e  timido  sentimento  del  mistero  delle  selve 
e  degli  astri,  della  natura  astronomica,  vegetale,  animale  nasce 
prima  dell'arte,  si  accompagna  poi  con  questa,  e  infine  con  l'arte 
e  col  pensiero  scientifico  procede  per  linee,  la  cui  direzione  ge- 
nerale è  parallela,  ma  che  ciò  non  ostante  ad  ogni  momento  s'in- 
contrano, si  urtano,  si  compenetrano,  per  ripigliar  di  nuovo  la 
loro  rotta  indipendente.  Così  l'una  forza  opera  sull'altra  e  tutte 
e  tre  costituiscono  le  svariate  forme  della  cultura,  le  forme  pro- 
dotte dal  sentire,  dall'immaginare,  dal  pensare  dell'umanità.  I 
primi  sentimenti  e  anche  le  prime  soluzioni  dell'umanità,  il  con- 
tenuto cioè  delle  religioni  originarie,  riceve  dall'arte  il  potere  di 
svilupparsi  con  le  sue  forme  plastiche  e  all'arte  fornisce  un  ma- 
teriale che  questa  rielabora,  e  riceve  dalla  scienza  il  potere  di 
sollevarsi  nella  regione  di  più  ideali  concetti  e  di  più  umanitari 
sentimenti.  Un  profondo  esame  del  Cristianesimo  ci  deve  rendere 
accorti  che  non  pure  il  sentimento  spontaneo,  ma  anche  l'azione 
del  sapere  indiano  e  alessandrino  contribuirono  a  far  salire  la 
religione  ad  un  grado  più  alto  della  sua  evoluzione  storica.  Que- 
sto fatto,  mentre  invita  tutti,  sacerdoti,  artisti,  letterati,  scien- 
ziati, alla  tolleranza  ed  al  rispetto  reciproco,   e   ci   fa  presentire 


470  LE  NOSTRE  ORIGINI. 

quello  che  la  medesima  religione  ritrarrà  dal  presente  movimento 
scientifico,  pel  quale  sinora  non  ha  che  stolte  bestemmie,  d'altra 
parte  ci  fa  persuasi  che  la  idealizzazione  e  la  spiritualizzazione 
della  religione  accadono  ne' tempi  storici  e  civili,  accadono  cioè 
per  opera  dello  sviluppo  artistico  e  scientifico  in  uno  Stato  or- 
dinato e  progressivo.  La  religiosità,  adunque,  veramente  degna 
dell'uomo,  quella  che  si  vorrebbe  considerare  come  il  suo  pecu- 
liare contrassegno,  è  un  prodotto  dello  stato  civile,  la  cui  idea 
complessa  contiene  il  modo  più  razionale  per  affermare  il  nobile 
carattere  dell'umanità. 

Come  all'esclusivo  fattore  della  religiosità  va  sostituita  la 
potenza  della  cultura  per  contraddistinguere  il  regno  umano,  cosi 
alla  sociabilità,  altro  fattore  escogitato  al  medesimo  fine,  deve 
andar  sostituito  lo  Stato.  La  sociabilità  è  l'attitudine  a  vivere  in 
società  ed  è  riputata  una  dote  speciale  dell'uomo.  Nella  sociabi- 
lità lo  Spencer  riconosce  la  distinzione  fra  i  fenomeni  della 
evoluzione  organica,  cioè  della  vita  individuale  fisiologica  e  psico- 
logica, e  i  fenomeni  della  evoluzione  sopraorganica,  com'egli  la 
chiama,  cioè  quella  in  cui  non  si  tratta  più  della  nascita,  sviluppo 
e  decadenza  dell'organismo  individuale,  ma  delle  azioni  coordinate 
di  molti  individui.  Lo  Spencer  però  non  ciide  nell'errore  di  cre- 
dere che  i  fenomeni  sopraorganici  comincino  con  l'uomo.  A  lui, 
che  tutto  sa,  non  potevano  sfuggire  e  non  sono  sfuggiti  i  fenomeni 
sociali  della  vita  degli  animali,  che  omai  sono  noti  anche  a  coloro 
che  non  sono  addentro  nella  storia  naturale.  Vi  sono  specie  di 
animali  che  menano  vita  solitaria,  specie  in  cui  la  vita  sociale  è 
rudimentale,  e  specie  infine  che  formano  società  con  rapporti 
molto  definiti,  con  abitazioni  fisse  e  stabili  relazioni.  Si  sa  che 
presso  le  formiche  la  divisione  delle  occupazioni  sociali  è  molto 
avanzata,  e  che  esse  costituiscono  società  diverse  secondo  che  ana- 
tomicamente diversi  sono  gl'individui.  Le  formiche  bianche  hanno 
operai  e  soldati,  altre  formiche  hanno  operai  sedentanei  ed  operai 
attivi,  e  molte  dividonsi  in  padroni  e  schiavi.  Oltre  di  ciò,  fra  i 
membri  di  queste  società  regna  un  sistema  di  segnali,  che  può 
venire  paragonato  a  informe  linguaggio,  e  da  essi  eseguonsi 
lavori  e  costruzioni  da  superare,  per  metodica  abilità,  quelli  degli 
abitanti  del  paese.  Così  dice  il  Tuckey  del  villaggio  di  formiche, 
trovato  al  Congo.  E  lo  Schweinfurth  aggiunge  che  ci  vorrebbe  un 
volume  per  descrivere  i  magazzini,  le  camere,  i  ponti  contenuti 
in  una  accolta  di  termiti.  Né  questo  è  il  più  alto  grado  di 
evoluzione  sopraorganica,  a  cui  gli  animali  pervengano.   È  piut- 


LE  NOSTRE   ORIGINI.  ^'^^ 

tosto  la  forma  della  vita  patriarcale,  perchè  le  associazioni  delle 
formiche  sono  formate  da  una  o  più  generazioni  di  rampolli  di 
una  medesima  madre,  che  fa  da  regina,  di  guisa  che  le  diverse 
classi  e  funzioni  derivano  soltanto  da  differenze  nella  struttura. 
Se  si  vogliono  esempi  di  più  sviluppato  coordinamento  sociale,  è 
duopo  andarli  a  cercare  nella  vita  degli  uccelli  e  de'  mammiferi. 
«  Presso  alcuni  primati,  dice  lo  Spencer,  non  si  trova  soltanto 
la  vita  a  branchi,  ma  osservasi  pure  un  certo  coordinamento,  una 
certa  coalizione,  una  certa  espressione  di  sentimenti  sociali.  Essi 
obbediscono  a  capi,  combinano  i  loro  sforzi,  pongono  sentinelle 
per  dare  l'allarme,  hanno  qualche  idea  di  proprietà,  praticano  un 
po'  lo  scambio  de'  servigi,  adottano  ortani,  infine  l' inquietudine 
che  s'impadronisce  della  società  la  spinge  a  soccorre  i  suoi  membri 
pericolanti.  » 

L'evoluzione  sopraorganica  è  adunque  cominciata  nel  regno 
animale,  e  però  la  sociabilità  non  basta  a  creare  un  regno  umano, 
se  non  è  intesa  in  ispecial  modo.  La  società  dei  tempi  preistorici, 
sebbene  raggiunga  un  grado  assai  più  alto  dell'evoluzione  sopra- 
organica  a  cui  possa  giungere  il  più  perfetto  fra  i  primati  inferiori 
all'uomo,  pure,  a  parer  mio,  è  ancora  troppo  eslege  per  costituire 
davvero  il  regno  umano.  Per  riuscirvi  è  necessario  che  le  attività 
individuali  operino,  si  coordinino  e  si  svolgano  in  quell'organesimo 
legale,  che  si  chiama  Stato.  Trovo  maggior  differenza  fra  la  so- 
cietà preistorica  e  quella  civile,  che  non  fra  la  prima  e  quella 
de'  più  alti  vertebrati.  Solo  nella  società  civile  i  rapporti  si  fis- 
sano stabilmente,  le  attribuzioni  si  distinguono  nettamente,  la 
cooperazione  si  esplica  ordinatamente,  in  somma  la  legalità  e 
l'ordine  fortemente  prevalgono.  E  solo  in  essa  si  fa  evidente  e 
irresistibile  il  progresso  delle  istituzioni  e  della  cultura.  Gli  studi 
fatti  intorno  a'  moderni  selvaggi  e  barbari  dimostrano  che  molte 
e  potenti  forze  di  resistenza  si  oppongono  al  loro  progredire,  al 
loro  innalzarsi  dallo  stato  antistorico  a  quello  storico  e  civile  ; 
segno  che  l'uomo  in  quello  stato  è  fieramente  sbattuto  dalla  tem- 
pesta della  vita,  e  che  non  può  esser  sicuro  di  camminare  verso  i 
suoi  alti  destini,  se  non  tocca  il  porto  degli  ordini  civili.  Affer- 
ratosi a'  primi  gradini  di  questi  ordini  egli  può  dire  che,  uscito 
fuori  del  pelago  alla  riva,  dovrà  sostenere  nuove  battaglie  nel- 
l'eterno dramma  della  vita,  ma  che  le  sosterrà  con  tutti  i  mezzi 
che  sono  a  disposizione  degli  eserciti  regolari.  Anche  questa 
regolarità  avrà  la  sua  evoluzione,  è  vero,  ma  1'  uomo  ha  posto  il 
piede  sul  solido  terreno  della  civiltà:  esso  può  con  buoni  auspicii 


472  LE   NOSTRE    ORIGINI. 

combattere  coutro  la  natura  esteriore,  contro  le  razze  inferiori, 
contro  se  stesso.  Cultura  e  Stato,  ripeto,  sono  le  forze  essenziali 
della  Civiltà,  le  forze  costituenti  il  regno  umano.  Unificate  dalla 
coscienza  progressiva,  esse  trasportano  l'uomo  dalla  servitù  alla 
libertà,  dalla  cieca  fede  alla  illuminata  ragione,  da'brutali  istinti 
alla  conoscenza  e  alla  jiadronanza  di  sé.  E  allora  che  cosa  ha  più 
da  fare  il  migliore  edifizio  costruito  da'  castori  col  Colosseo 
de'  nostri  padri,  con  le  gotiche  cattedrali,  e  soprattutto  con  la 
meccanica  applicata  alle  costruzioni  ?  Il  castoro  ha  pur  dovuto 
progredire,  per  giungere  a  costruire  la  sua  mirabile  dimora;  ma 
esso  si  è  arrestato  là,  e  non  fa  che  ripetere  meccanicamente  le 
raeclesime  forme.  L'uomo  civile  è  perennemente  trascinato  dalla 
fiumana  del  progresso,  procede  di  forma  in  forma,  e,  quello  ch'è 
più,  ha  coscienza  di  ciò  che  fa  e  scopre  le  leggi  dell'Universo. 

Lo  stato  preistorico  e  anticivile  o  eslege  comprende,  come  si 
■è  detto,  tre  forme:  quella  dell'uomo  bruto,  quella  dell'uomo  sel- 
vaggio, quella  dell'uomo  barbaro  ;  corrispondenti  alle  età  del  ba- 
stone, della  pietra,  dei  metalli.  A  quel  modo  che  con  la  prima 
forma,  rappresentata  dall'uomo  ferino  del  Vico,  dall'  uomo  pite- 
coide del  Darwin,  dall'  Aìalus  dell'  Haeckel,  lo  stato  preistorico 
penetra  addentro  nel  regno  animale,  parimente  dalla  sua  ul- 
tima forma  si  spicca  un  particolare  modo  di  essere,  che  penetra 
nello  stato  civile  e  che  ha  conquistato  il  suo  proprio  nome  di 
stato  eroico.  Lo  stato  eroico  infatti,  quello  che  ci  viene  descritto 
tìqW Iliade,  non  è  lo  stato  barbaro,  oltrepassa  persino  le  svilup- 
pate forme  di  questo  stato  quale  ci  venne  dipinto,  con  amorevole 
cura,  da  Tacito;  ma  non  è  ancora  un  vero  stato  storico  e  legale. 
«  Assai  noto  è,  dice  Tacito,  che  i  Germani  non  abitano  in  città;  né 
pur  vogliono  case  a  muro  comune.  Una  qui,  una  qua,  presso  a 
quel  fonte,  in  quel  campo,  in  quel  bosco  secondo  aggrada.  »  Per 
contrario  i  Greci  dell'età  eroica  abitavano  già  in  città  murate, 
dentro  alle  quali  sorgevano  splendidi  palagi.  Ammettiamo  che 
prima  i  rapsodi  e  poi  il  poeta  unificatore  abbiano  dipinto  quella 
età  con  ideali  colori;  ma,  oltre  che  qualcosa  pure  é  tratto  dal 
vero,  non  vuoisi  dimenticare  che  anche  Tacito  idealizzò  i  Ger- 
mani, per  contrapporne  le  vergini  virtù  a' corrotti  costumi  della 
sua  patria  decaduta.  Non  volendo  qui  descrivere  e  porre  a  con- 
fronto lo  stato  barbaro  dei  Germani  con  quello  eroico  de' Greci, 
ho  preso  soltanto  l'esempio  dell'abitare,  perché  m'  é  parso  deci- 
sivo: da  città,  mediante  civitas,  viene  civiltà,  e,  stando  al  greco, 


LE   NOSTRE  ORIGINI,  473 

da  TzoXiz  (città),  viene  anclie  politica  (Tr/AtTsia).  Lo  stato  eroico  era 
adunque  più  cittadino  e  civile  di  quello  barbaro:  ma  pur  non- 
dimeno non  era  ancora  materia  da  storia,  sì  bene  da  poema,  non 
era  ancora  fondato  su  rapporti  legili.  Sebbene  Agamennone  fosse 
il  duce  della  spedizione  contro  Troia,  Achille  e  i  suoi  compagni 
facevano  un  po'  troppo  il  piacer  loro.  Era  quello  stato  ancor  più 
eslege  del  periodo  eroico  o  cavalleresco  della  storia  europea, 
dopo  la  caduta  dell'impero  romano;  il  che  è  naturalissimo,  per- 
chè l'eroismo  de'  Greci  precedeva  i  tempi  storici,  dove  che  quello 
de'  Germano-Latini  si  manifestò  nella  storia,  fu  un  ricorso  del 
fondo  eroico,  ma  nella  cornice  delle  esistenti  forme  istoriche, 
anzi  con  la  miscela  del  fondo  civile  e  cristiano, 

Eifacendo  l'opera  del  Vico,  a  traverso  le  ricerche  positive 
della  scienza  contemporanea,  noi  abbiamo  ritrovato  quello  stato 
silvano  e  ferino  in  cui  l'uomo  menava  vita  solitaria  e  in  sua  fa- 
vella mandava  informi  suoni  ;  ma  non  l'abbiamo  al  certo  ritro- 
vato come  caduta  derivante  dal  peccato  originale,  sibbene  come 
un  perfezionamento  nella  evoluzione 'del  regno  animale,  di  che 
dovremmo  piuttosto  compiacerci  che  dolerci,  se  le  ubbìe  non  ci 
perturbassero  la  mente.  Ed  abbiamo  pur  ritrovata,  nel  vesti- 
bolo della  storia,  la  sua  età  eroica,  e  nel  tempio  l'età  umana; 
ma  non  ci  è  riuscito  punto  di  trovare,  almeno  con  i  colori  suoi, 
quella  età  divina  con  cui  il  Vico  apre  il  corso  delle  nazioni. 
Prima  di  tutto  il  corso  delle  nazioni,  —  badisi,  di  quegli  organesi- 
rai  che  di  tal  nome  sono  degni,  —  si  apre  con  le  vicende  dell'età  uma- 
na 0  legale  o  storica  o  civile  che  si  voglia,  ne'  primordi  della  quale  si 
fa  sentire,  è  vero,  l'eco  de'  tempi  preistorici,  ma  non  per  questo 
a'  medesimi  cessano  di  appartenere  il  monarcato  patriarcale  e  il 
monarcato  con  l'aristocrazia  eroica.  Col  dimenticare  il  carattere 
preistorico  e  però  vago  di  quelle  prime  età  e  coli' adoperarsi  a 
dipingerle  trasportandovi  i  colori  dei  ricorsi,  nel  mondo  romano 
e  nel  mondo  cristiano,  noi  ci  formiamo  molte  illusioni,  che  non 
resistono  alla  prova  dei  fatti.  È  necessario  rinunziare  a  descri- 
vere con  particolarità  e  precisione  i  tempi  preistorici  dell'  uma- 
nità, è  necessario  smettere  la  tendenza  a  costruire  edifizi  troppo 
architettonici.  Che  cosa  è  mai  codesta  età  divina?  Con  un  po' di 
buona  voglia  si  riesce  a  trovare  tutto,  come  col  cattivo  volere 
nulla  si  rinviene.  Nei  tempi  eroici,  che  sono  così  prossimi  al  lume 
della  storia,  ci  riesce  di  scorgere  con  evidenza  il  dominio  della 
religione  e  più  dell'arte,  il  predominio  del  monarcato  e  del  con- 
siglio de'  padri,  de'  forti,  de'  capi,  de'  nobili  nella  vita  cittadina  o 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Aprile  1879.  29 


474  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

politica;  ma  riguardo  a' precedenti  tempi  preistorici,  gli  sforzi 
prodigiosi  che  facciamo  per  ricostruirli  urtano  contro  la  preva- 
lenza della  dissoluzione  sulla  integrazione  sociale,  donde  la  diffi- 
coltà di  scorgere  nettamente  qualche  principio  organatore  nella 
confusa  elaborazione  di  tutti  gli  elementi  sociali.  Ho  tentato  di 
ficcar  lo  sguardo  in  quell'oscura  notte,  e  quando  ho  visto  un  rag- 
gio di  luna  brillare  e  sparire,  sono  corso  alla  matita  ansi  che 
allo  scalpello  ed  ho  preferito  gli  schizzi  della  scienza  alle  sta- 
tue del  Vico. 

Ma  in  quella  medesima  materia  disciolta  e  confusa  deve 
pure  esservi  calato  qualche  principio  organatore,  senza  di  che 
la  vita  dell'umanità  non  sarebbe  passata  dallo  stato  eslege  a 
quello  legale.  La  integrazione  di  questo  ultimo  stato  altamente 
sociale,  non  è  potuta  accadere  se  non  gradatamente,  comin- 
ciando nella  notte  dei  tempi  preistorici.  Qual' è  dunque  stato 
codesto  principio  integrante  ?  Prima  di  ogni  altro,  la  forza. 
Che  questa  costituisca  i  primi  aggregati  umani,  e  ad  essi 
presieda,  così  nell'  unione  tra  i  sessi  come  in  quella  tra  fa- 
miglie, è  cosa  che  non  accade  neanche  dimostrare.  Nel  pri- 
mitivo stato  degli  uomini  non  vi  potrebbe  essere  altro  prin- 
cipio aggregatore  che  la  forza,  con  tutte  le  virtù  che  in  essa 
s'imperniano,  come  a  dire  il  coraggio,  il  valore  e  simili.  E  quello 
un  principio  ereditato  dalla  vita  sopraorganica  delle  anteriori 
specie  animali,  e  che  con  l'evoluzione  va  mano  mano  attraendo  a 
sé  la  compagnia  dell'astuzia  e  della  destrezza.  Ed  è  un  principio 
che  nel  corso  preistorico  e  storico  si  accompagna  bensì  ad  altri  prin- 
cipii  regolatori  della  vita  pratica  ed  anche  vi  si  sottomette;  ma  senza 
mai  smettere  dalla  sua  azione.  Non  io,  ma  il  Bagehot,  nelle 
Leggi  di  svolgimento  delle  nazioni,  ha  detto  che  il  fatto  piìi  rile- 
vante della  storia  è  che  l'arte  militare  è  in  progresso,  perchè 
siccome  nella  storia  regna  la  legge  della  selezione  e  le  nazioni 
più  forti  prevalgono,  così  è  naturale  che  ogni  nazione  la  quale 
voglia  prevalere  s'adoperi  a  progredire  nell'arte  militare.  Non  è 
qui  il  luogo  acconcio  per  esaminare  se  sia  davvero  quello  il  fatto  più 
rilevante  della  storia,  e  porre  in  luce  qual  genere  di  forza  assicuri 
la  vittoria  in  tempi  di  sviluppata  civiltà;  ma  m'importa  conclu- 
dere, con  l'autorità  del  Bagehot,  che  fu  primo  a  vincere  quell'ag- 
gregato che  primo  conseguì  un  ordine,  e  che  questo  ordine  venne 
in  origine  conseguito  mediante  la  forza.  La  donna  venne  tolta  con  la 
forza,  oltre  che  con  la  scelta  sessuale  di  cui  ragiona  il  Darwin,  e  con 
la  forza  una  famiglia  più  robusta  ne  sottomise  una  meno  robusta^ 


LE   NOSTRE  ORIGINI.  475 

la  tribù  più  potente,  quella  che  era  meno.  Così  e  non  altrimenti 
cominciarono  a  nascere  le  certe  donne,  i  certi  figliuoli,  le  certe  fa- 
miglie, di  cui  parla  il  Vico. 

Sarebbe  un  far  torto  alla  religione  il  discorrerne  come  di  un 
primo  regolatore  della  vita  pratica.  Essa  è  stata  certamente  nei 
tempi  preistorici,  ed  anche  per  molta  parte  dei  tempi  storici,  una 
forza  organatrice  delle  società,  un  potere  piuttosto  di  formazione 

0  conservazione  sociale  che  non  di  progresso  ;  ma,  come  si  è  ve- 
duto, è  stata  un  potere  che  ha  richiesto  un  certo  tempo  per  manife- 
starsi e  un  maggior  tempo  per  assumere  le  forme  sviluppate  del 
culto  divino,  amministrato    da   una  speciale  classe    di  sacerdoti. 

1  primi  uomini  avevano  potentissimi  alcuni  sensi,  come  l'udito, 
l'odorato,  il  tatto,  e  potentissimi  certi  sentimenti  rudimentali,  come 
l'impeto,  in  certi  casi  la  paura,  in  certi  altri  la  non  curanza 
della  propria  vita;  ma  non  potevano  ancora  avere  esercitata 
la  fantasia  alle  carole  generatrici  del  mondo  religioso.  Quan- 
tunque io  vegga  nella  facoltà  artistica  l'organo  fecondatore  del 
seme  religioso;  quantunque  io  non  sappia  scindere  nell'esercizio 
dell'attività  psicologica  l'unità  dell'immaginare  e  del  sentire;  quan- 
tunque io  non  concepisca  religione  senza  fantastiche  o  artistiche 
personificazioni  d'idee  e  di  cose,  senza  la  immaginaria  proiezione 
dalla  terra  sul  cielo,  pure  io  considero  la  religione  come  il 
potere  organatore,  che  immediatamente  segue  la  forza,  perchè 
le  riconosco  sull'arte,  massime  nei  tempi  primitivi,  il  vantaggio 
di  rivolgersi  direttamente  alla  direzione  della  vita  pratica  del- 
l'uomo. E  se  il  Vico  con  la  sua  età  divina,  messa  a  capo  del 
corso  delle  nazioni,  non  avesse  voluto  intendere  che  questo,  noi, 
con  le  debite  riserve,  potremmo  acconciarci  a  seguirlo,  come  'ad 
ammettere  che  lo  stato  eroico  segua  e  sino  a  un  certo  punto 
si  differenzi  per  un  più  evidente  sviluppo  dell'arte  e  pel  predo- 
minio dei  nobili  e  dei  poeti  nella  vita  pratica.  Della  scienza 
non  parlo  nemmeno,  perchè  ne'tempi  preistorici  essa  non  solo 
non  può  svilupparsi  come  tale,  ma  neanche  avere  quella  rudi- 
mentale determinazione  che  hanno  il  culto  e  le  leggende.  Essa 
manda  le  sue  prime  vibrazioni  sotto  la  forma  della  logica  in- 
fantile. Ma  il  Vico  non  si  accontentò  di  così  poco,  e  si  abban- 
donò a  descrivere  l'età  divina  con  colori  tanto  ideali  da  ren- 
derci assolutamente  impossibile  il  seguirlo,  anche  avendone  molta 
voglia.  Dirò  infine  quale  potrebb'  essere  l'età  divina,  secondo 
la  scienza.  Per  ora  basti  osservare  che  la  definizione  di  un'età 
con    un   semplice    aggettivo  è  sempre  pericolosa,    e  che,  volendo 


476  LE  NOSTRE  ORIGINI. 

stare  sul  terreno  positivo  dei  fatti  bene  appurati,  vai  meglio 
attenersi  alla  distinzione  di  tempi  preistorici  o  eslegi  o  anti- 
civili  e  istorici  o  legali  o  civili,  frammezzati  al  più  da  quelli 
eroici,  che  sono  come  gli  anfibi.  Il  porre  in  fronte  a  ciascuno  dei 
tre  tempi  l'etichetta  di  religione  o  di  arte  o  di  scienza  può  essere 
in  un  certo  senso  esatto;  ma  può  anche  distrarre  le  menti  dal 
l'intreccio  reale  delle  umane  attività. 

È  tempo  di  concludere,  ma  non  senza  riassumere  lo  stato  an- 
tistorico. 

L'uomo  primitivo  ereditò  dagli  antenati  l'istinto  organico  della 
conservazione  e  quello  sopraorganico  della  socievolezza.  Paiono  due 
motori,  ma  hanno  unica  radice,  perchè  l'associarsi  giova  a  vincere 
nella  lotta  per  la  vita,  che  la  conservazione  rende  necessaria. 
E  1  unica  radice  è  l'egoismo,  sviluppatissimo  presso  l'uomo  primi- 
tivo. Dalla  radice  dell'egoismo   germoglia  l'albero    della   società. 

La  necessità  del  combattere  contro  uomini  e  contro  altri  animali, 
per  alimentarsi  e  propagarsi,  creò  quella  di  avere  armi,  che  furono 
prima  di  legno,  poi  di  pietra,  in  fine  di  metallo,  bronzo  e  ferro. 
Con  le  pelli  degli  animali  uccisi,  imparò  l'uomo  a  fare  vestimenta 
por  coprire  dalle  intemperie  una  nudità,  che  l'assenza  del  pudore 
non  rendeva  vergognosa,  e  la  frequenza  della  sua  vista  non  ren- 
deva seducente.  Dall'esempio  degli  altri  animali,  soprattutto  dei 
primati,  trasse  il  suo  modo  di  abitare,  che  migliorò  con  la  sua 
intelligente  esperienza.  Furonvi  genti  che  dormirono  distese  su 
pe'  campi  o  che  fra  i  rami  degli  alberi  fecero  il  loro  nido:  ma 
altre  trovarono  nelle  grotte  le  loro  tane.  I  nomadi  pastori  costrui- 
rono capanne  con  quattro  pertiche,  sulle  quali  deposero  rami 
d'alberi  o  stesero  pelli  di  animali;  gli  stabili  pescatori  e  agricol- 
tori elevarono  a  poco  a  poco  villaggi  o  sulle  acque  o  in  terra- 
ferma. Quando  le  sparse  case  di  tali  villaggi  si  serrarono  in  fra 
loro  e  si  cinsero  di  mura,  cominciarono  quei  rapporti,  che  dovendo 
essere  più  stretti  vollero  essere  più  definiti.  Ed  ebbe  origine,  con 
la  civiltà,  la  storia  delle  grandezze  e  delle  miserie  umane.  L'uo- 
mo si  andò  sempre  più  addomesticando  ;  ma  senza  rompere  inte- 
ramente la  catena  che  lo  lega,  non  che  allo  stato  selvaggio,  a 
quello  bestiale. 

Gli  uomini  vissero  pria  di  frutta  e  di  erbe,  poi  di  caccia  e 
di  pesca.  Cominciarono  per  mangiare  cruda  la  carne  e  finirono 
col  cuocerla  al  sole  e  al  fuoco,  procacciandosi  questo  con  attrito 
di  legna  o  urto  di  pirite  sulla  selce,  e  il  combustibile  con  le  me- 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  477 

desime  legna  o  con  sterco  di  animali.  I  popoli  più  selvaggi  man- 
giarono rettili  e  insetti,  i  cacciatori  il  prodotto  della  loro  caccia, 
i  pescatori  della  loro  pesca,  gli  agricoltori  e  selvaggina  e  vege- 
tali, propagando  maggiormente  quelli  reputati  o  più  utili  o  più 
piacevoli.  Prima  che  i  traffici  consentissero  gli  scambi,  il  genere 
dell'alimentazione  era  affatto  subordinato  al  suolo  e  al  clima.  In 
generale  esso  era  uniforme  e  il  regime  disordinato:  il  primo  ri- 
chiedeva, e  però  tendeva  a  produrre  forti  organi  per  la  mastica- 
zione; il  secondo  un  grosso  stomaco  per  insaccare  in  una  volta 
un  enorme  volume  di  erbe,  frutta  con  la  buccia,  noci,  e  forse  non 
pure  di  carne  ma  persino  di  ossa.  È  da  credere  che  gli  uomini 
primitivi,  al  pari  dei  selvaggi  e  de'  barbari  odierni,  abbiano  avuto 
mestieri  cosi  di  eccitanti  come  di  stupefacienti,  per  occupar  lo 
stomaco  e  il  tempo,  ed  ingannar  la  fame  e  l'ozio  ;  onde  l'uso  di 
narcotici  e  di  bevande  spiritose,  che  gl'inciviliti  trafficanti  hanno  di 
poi  moltiplicato  a  dismisura,  producendo  per  amore  al  proprio 
lucro  il  logoramento  dell'altrui  fibra.  Alcuni,  fra  quei  popoli, 
mangiarono  pure  l'uomo  come  l'animale  mangia  l'altro  animale, 
e  non  mai  più  che  allora  valse  l'adagio  che  il  grosso  pesce  divora 
il  piccolo.  L'antropofagia,  generata  da  difetto  di  carne  nella  con- 
trada abitata,  diventò  mezzo  per  procacciarsi  un  prelibato  mani- 
caretto, 0  per  assorbire  le  virtù  della  vittima,  o  segno  di  ven- 
detta e  di  religiosa  onoranza. 

Nudrirsi,  distruggersi,  riprodursi  era  la  principale  occupa- 
zione degli  uomini  preistorici,  i  quali  avevano  un  fiuto,  che  par 
maraviglioso,  ma  era  frutto  di  accumulata  esperienza,  per  scoprire 
quello  che  poteva  loro  giovare,  per  intravvedere  quello  che  poteva 
loro  nuocere.  Così  potettero  sottrarsi  all'assoluta  schiavitù  verso 
la  natura,  da  questa  schermirsi  piuttosto  che  dominarla,  e  cam- 
minare verso  lo  stato  civile,  a  cui  non  tutti  pervennero.  Ma  come 
quel  fiuto  non  fu  ingenito,  cosi  quella  emancipazione  non  fu  ra- 
pida, anzi  fu  oltremodo  lenta:  la  lotta  dell'uomo  preistorico  contro 
la  natura  costò  più  vittime  che  non  tutte  le  guerre  fra'  popoli 
civili.  È  noto  che  le  genti  selvagge  e  barbare  hanno  una  grande 
tendenza  all'immobilismo  conservativo,  che  li  configgerebbe  eter- 
namente nel  loro  stato,  se  il  pungolo  della  medesima  conser- 
vazione di  sé  e  l'esperienza  non  aiutassero  a  trarneli  fuori.  L'uomo 
ha  minore  forza  progressiva  appunto  quando  ne  avrebbe  maggior 
bisogno,  perchè  alla  tirannide  della  natura  risponde  la  poca  espe- 
rienza e  il  grado  basso  delle  sue  facoltà  intellettuali.  Onde  la 
difficoltà  di  sollevarsi   dallo    stato   preistorico   a   quello   isterico, 


478  LE  NOSTRE   ORIGINI. 

difficoltà  che  si  supera  solo  mediante  la  somma  di  piccoli  passi 
in  lunj];hissiraa  distesa  di  tempo.  Gli  uomini  preistorici  comin- 
ciarono per  essere  quali  le  circostanze  li  fecero,  e  poi  variarono 
secondo  che  queste  richiesero.  Figli  della  terra  che  abitavano, 
furono  simili  ad  essa:  immigrati,  divennero  un  prodotto  di  sé, 
dell'adattamento  e,  quando  ne  fu  il  caso,  dell'  incrociamento.  Clima, 
suolo,  alimenti,  la  natura  geograficainsorama,  la  fauna,  la  flora  di  una 
regione  determinarono  il  genere  di  vita  dei  suoi  abitanti,  e  questo 
sviluppò  attitudini  acconce  e  favorevoli,  che  l'eredità  trasmise,  ac- 
cumulò e  fissò.  Perirono  coloro  i  cui  organi  non  potettero  variare 
in  modo  conforme  alle  circostanze,  si  salvarono  queglino  che  riu- 
scirono ad  adattarsi,  e  col  trionfo  dei  migliori  si  assicurò  il  pro- 
gresso umano.  Presso  i  selvaggi  e  i  barl)ari,  che  in  parte  rappre- 
sentano gli  uomini  preistorici,  la  selezione  opera  in  modo  più 
favorevole  allo  sviluppo  delle  qualità  fisiche  che  non  a  quello  delle 
qualità  ideali.  Tra  le  prime  tendono  più  a  crescere  la  forza  e  la 
bellezza,  fra  le  seconde  l'astuzia  e  la  eloquenza.  Quanto  alla  mo- 
rale, le  religioni  tramandano  con  pertinacia  un  buon  precetto, 
favorevole  al  progresso  civile:  ma  con  pari  pertinacia  tramandano 
massime  e  pratiche  favorevoli  alla  debolezza  ed  alla  ferocia. 

Dicemmo  che  la  forza  presiede  a'  primi  rapporti  umani,  così 
a  quelli  sessuali  come  agli  altri.  Alla  forza,  che  non  esclude  la 
scelta  sessuale,  dobbiamo  aggiungere  la  promiscuità.  In  origine 
non  aravi  costanza  e  specificazione  di  rap[)orti  famigliari,  come 
non  eravi  distinzione  di  classi  sociali.  La  donna  si  toglieva  e  si 
abbandonava,  né  da  essa  facevasi  distinzione  fra  marito  o  geni- 
'  tore  0  figliuolo:  come  nei  bassi  fondi  delle  nostre  città  e  campagne 
vediamo,  pur  troppo!  giacere  confusamente  in  un  medesimo  letto 
l'intera  famiglia,  ludibrio  della  nostra  civiltà!  Lo  stato  anima- 
lesco, naturale  nei  tempi  preistorici  e  presso  i  selvaggi,  diviene 
vergognoso  quando  si  perpetua  in  mezzo  alle  conquiste  dell'uomo 
civile.  Ma  non  pare  che  quello  stato  di  cose  durasse  molto  a  lungo, 
così  che,  stabiliti  i  primi  rapporti  sociali,  forme  più  regolari  pre- 
siedettero a  matrimoni  più  certi.  La  donna  però  venne  in  gene- 
rale considerata  come  cosa  e  continuò  ad  essere  reputata  come 
alienabile  proprietà.  Sappiamo  bene  che  vi  sono  popolazioiii  sel- 
vagge, anche  nella  nuova  Gruinea,  presso  cui  la  donna  è  tenuta  in 
onore  ;  ma  questo  potrebbe  essere  un  portato  del  progresso  di  certi 
selvaggi  odierni  rispetto  a  quelli  preistorici  ;  e  del  resto  noi 
siamo  obbligati  in  questo  schizzo  a  cogliere  le  linee  saglienti  e  a 
non  lasciarci  distrarre  dalle  svariate  particolarità  dello  stato  prei- 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  479 

storico.  Che,  per  grande  sia  stata  allora  l'uniforniitcà  delle  cou- 
dizioni e  de'  rapporti  umani,  le  differenze  esistevano  pure  come 
non  mai  spariranno:  e  in  questo  è  il  pericolo  delle  descrizioni 
sintetiche;  riescono  o  troppo  generiche  o  molto  inesatte.  Ritor- 
nando alla  promiscuità  famigliare,  inclino  a  credere  ch'essa  andò 
cessando  così  per  effetto  dell'istinto  venereo  dell'uomo,  attratto 
più  verso  le  donne  estranee  a  cui  è  assuefatto  meno,  come  per 
opera  della  mala  prova  fatta  dall'unione  fra  stretti  consanguinei. 
La  morale  venne  in  ultimo  a  consacrare  i  risultati  dell'istinto  e 
dell'esperienza,  poiché  la  morale,  come  il  diritto,  non  è  che  la 
formula  ideale  di  quei  fatti  fisiologici,  patologici,  economici,  ci- 
vili, politici  che  assicurano  la  conservazione  e  lo  sviluppo  dell'in- 
dividuo e  della  società.  11  sentimento,  in  questo  campo,  non  pre- 
cedette la  ragione  ;  ma  questa  venne  svegliata  dalla  esperienza 
e  finì  col  trapassare  nel  sentimento.  Gli  uomini  in  fatti  comin- 
ciarono col  combattersi  ferocemente  e  col  non  amare  che  i  com- 
pagni nelle  prede  e  nelle  pugne;  poi  conobbero  i  vantaggi  del- 
l'amore sull'odio,  della  pace  sulla  guerra,  ed  infine  uscì,  sebbene 
ancora  indarno,  dal  labbro  di  Gesù  quel  sublime  precetto:  amate 
il  prossimo  vostro  come  voi  stessi!  Così  la  promiscuità  famigliare 
venne  innanzi,  con  la  poliandria  e  la  poligamia,  al  costante  le- 
game e  al  solido  affetto  della  monogamia,  che,  nata  presso  popoli 
sobri  dimoranti  in  regioni  fredde,  diventò  istituzione  di  popoli 
civili  e  cristiani  in  qualsiasi  regione  della  terra.  Dei  Germani, 
in  fatti,  dice  Tacito:  «  Perchè  soli  questi  barbari  si  contentano 
d'una  moglie,  se  non  qualche  nobilissimo,  che,  non  per  libidine,  ma 
per  esser  bramato  da  molte.  »  Le  mogli  erano  adunque  oggetti 
di  lusso,  che  potevano  possedere  solo  le  classi  superiori,  cioè  quelle 
che  meno  avrebbero  dovuto;  indizio  che  il  costume  non  era  di- 
ventato ancora  istituzione  e  moralità.  Richiedevasi  perciò  l'azione 
di  popoli  più  civili  e  di  una  religione  spirituale  ed  elevata,  la 
(juale,  nata  in  contrade  calde,  conosceva  tutti  i  mali  derivanti 
dalla  poliandria  e  dalla  poligamia. 

Al  padre,  ch'è  l'attivo  potere  generatore  e  protettore,  appar- 
teneva non  pure  la  moglie,  ma  anche  la  prole,  su  cui  aveva  dritto 
di  vita  e  di  morte.  I  vincoli  di  parentela  e  di  affetto  duravano 
quanto  quelli  degli  animali,  cioè  sino  a  che  i  figliuoli  erano  deboli 
ed  avevano  mestieri  di  protezione;  poi  si  allentavano  e  proscioglie- 
vano, ciascun  essere  andando  per  la  sua  via.  Ma  le  popolazioni 
0  molto  erranti  o  assai  povere  facevano  per  astuto  egoismo  quello 
che  l'animale  non  fa  per  istinto:  uccidevano  i  vecchi  che  non  pò- 


480  LE  NOSTRE  ORIGJNI. 

tevano  trasportare,  esponevano  i  fanciulli  clie  non  potevano  al- 
levare, vendevanli  per  averne  in  cambio  qualcosa  utile  all'esi- 
stenza, uccidevanli  persino  o  per  impeto  d'ira  o  per  bisogno  di 
grasso.  Superfluo  è  aggiungere  che  questo  raffinato  e  crudele 
egoismo  non  era  qualità  generica,  ma  bruttura  di  razze  peggio 
che  bestiali.  Era,  del  resto,  e  continua  ad  essere,  come  cosa  dav- 
vero naturale,  più  forte  l'affetto  dei  genitori  per  la  prole  che  non 
l'affetto  di  questa  per  essi.  I  genitori  si  specchiano  e  compiacciono 
nella  prole,  che  li  riproduce  e  fa  rivivere,  più  che  questa  in  quelli: 
chi  dona  la  vita  ama  l'opera  sua  più  che  non  faccia  la  creatura 
verso  il  creatore.  E  la  vecchiaia  non  poteva  non  ispirare  noia  e 
disprezzo  in  tempi  ne'  quali  la  forza  era  sovrana.  11  rispetto  per 
essa  surse  col  rispetto  pel  senno  e  con  la  compassione  per  la  debo- 
lezza, cioè  col  senno  e  con  la  generosità,  epperò  tardi. 

Nello  stato  selvaggio  la  famiglia  e  la  tribù  erano  le  forme 
rudimentali  della  vita  sociale;  nello  stato  barbaro  predominavano 
le  leghe  fra  tribù;  in  quello  eroico  nacque  la  vita  cittadina,  che 
con  la  civiltà  si  ordino  sotto  la  disciplina  della  legge  e  si  allargò 
mediante  la  lega  e  l'assorbimento  delle  città  nell'unità  della  na- 
zione. Le  famiglie,  le  tribù  e  le  loro  leghe  vivevano  in  perenne 
guerra  con  gli  aggregati  simili,  che  giacevano  presso  la^  zona  da 
esse  occupata  o  sulla  zona  che  esse  volevano  occupare.  Non  mai, 
come  a'  primordi  della  vita  sociale,  la  concorrenza  vitale  prese 
forma  di  lotta  brutale.  La  devozione  alla  tribù  e  l'odio  allo  stra- 
niero, origini  del  patriottismo,  furono  qualità  necessarie  così  per 
costituire  1'  individualità  dei  popoli,  come  per  conservarla  ed 
imporla.  E  da  quella  utile  devozione  scaturirono  le  virtù  del- 
l'almegazione:  l'uomo  imparò  a  vivere  negli  altri,  a  godere  del- 
l'altrui salute,  a  soffrire  con  rassegnazione  e  con  gioia  per  la  vit- 
toria dell'associazione  di  cui  faceva  parte.  Allarghisi  col  processo 
evolutivo  la  sfera  di  tale  aggregato  e  si  vedrà  che  l'albero  della 
società,  il  quale  ha  per  radice  l'egoismo,  avrà  per  fiore  l'abnega- 
zione. Questo  nobilissimo  fiore  si  farà  splendido  e  rigoglioso  non 
pure  mediante  l'esperienza  dell'utile  individuale  derivante  d^sd- 
l'esercizio  delle  virtù  sociali;  ma  anche  per  opera  di  più  dome- 
stici costumi  e  della  cultura.  Ritornando  alla  barbarie,  da  cui  la 
civiltà  ci  stava  per  distogliere,  diremo  che  essa  mostrossi  amore- 
vole e  ospitale  verso  lo  straniero  che  si  fece  alla  porta  di  casa, 
debole,  disarmato,  supplicante.  La  corda  dell'umanità,  silenziosa 
e  dominata  da  quella  dell'egoismo  e  del  morboso  patriottismo, 
mandava  pure  a  quando  a  quando  i  suoi  flebili  suoni. 


LE   NOSTRE  ORIGINI.  481 

Le  differenze  sociali  nacquero  sino  dal  giorno  in  cui  i  più 
forti  sottoposero  i  piìi  deboli,  e  la  tribìi  si  ebbe  la  sua  coda.  La 
soggezione  dei  vinti  ai  vincitori,  produsse  le  classi,  le  caste,  la 
servitù,  la  schiavitù.  Con  l'evoluzione  le  differenze  mutarono  di 
origine  e  crebbero  di  numero:  nuovi  mestieri  o  professioni  crea- 
rono nuove  occupazioni,  nuove  classi.  Il  capo  della  famiglia  di- 
ventò capo  della  tribù,  quando  la  famiglia  si  ampliò  con  i  di- 
scendenti suoi  ;  e  il  più  valoroso  capotribù  divenne  sovrano  di  quello 
aggregato  che  nacque  dalla  sottomissione  di  una  all'altra  tribù. 
Nello  stato  selvaggio  i  legami  fra  il  capo  e  i  suoi  seguaci  furono 
più  lenti,  le  differenze  appena  incipienti,  l'universalità  delle  poche 
occupazioni,  maggiore.  Vera  banda  di  briganti,  che  procede  ar- 
mata e  vive  di  rapina:  come  prima  il  capo  non  piace,  lo  depongono 
o  lo  ammazzano  :  procedere  sommario  che  ad  alcuni  è  parso  ugua- 
glianza democratica  e  sovranità  del  popolo  !  Nel  fatto  esso  indica 
assenza  di  governo,  sovranità  dell'arbitrio.  Nello  stato  barbaro  le 
funzioni  si  specificano  di  più,  i  rapporti  si  precisano  meglio,  i  le- 
gami si  cominciano  a  serrare,  e  però  l'autorità  del  capo  tende  a 
diventare  assoluta,  non  senza  essere  circondata  da  un  consiglio  di 
anziani,  o  di  padri  o  di  nobili,  che  poco  consiglia,  e  accompagnata 
da  una  parvenza  di  appello  al  popolo,  che  spesso  approva,  piac- 
ciagli 0  no.  Se  volessimo  distenderci  a  paragonare  i  barbari  Ger- 
mani di  Tacito  con  gli  eroi  ài  Omero,  troveremmo  appresso  i 
primi  più  popolari  usi  di  governo,  appresso  i  secondi  un  potere 
monarchico  più  assoluto,  appena  consigliato  dal  sommesso  Bah.  In 
quei  tempi  di  caotica  elaborazione  sociale,  i  tre  elementi,  monar- 
chico, aristocratico,  democratico,  si  confondevano  e  si  contendevano 
il  predominio;  per  il  che  tu  trovi  svariate  e  anche  contraddittorie 
società  politiche;  ma,  giudicando  secondo  la  natura  delle  cose  e 
dai  fatti  meno  particolari,  noi  potremmo  inferirne  che  il  governo 
prevalente  era  quello  dell'uno. 

E  quest'uno  fu  re,  guerriero,  magistrato,  sacerdote,  e,  persino 
nello  stato  eroico,  da  sé  fabbricossi  la  casa  e  si  arrosti  il  vitello. 
Qu'ando  si  generò  e  fissò  la  credenza  in  Dio,  egli  fu  di  questi 
interpetre,  rappresent  inte,  personificazione,  e  quando  nacque  la 
classe  sacerdotale,  egli  continuò  ad  essere  il  sommo  pontefice  e 
quella  cominciò  per  essere  ministra  di  lui.  I  suoi  soggetti  furono 
guerrieri,  cacciatori,  pescatori,  agricoltori  anche,  nelle  stabili  sedi, 
in  breve  furono  tutto  prima  di  essere  o  questo  o  quello.  I  legami 
che  l'utile  produsse,  la  religione  suggellò  e  il  vate  abbellì,  can- 
tando il  valore  dei  capi,  la  devozione  de'seguaci,  le  gesta  eroiche 


482  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

di  tutti.  La  religione,  cominciata  per  essere  paura  della  incom- 
prensibilità, adorazione  pei  forti,  culto  per  lo  spirito  degli  ante- 
nati, per  gli  oggetti  e  le  forze  della  natura,  divenne  culto  d'iddii 
clie  la  fantasia  fece  personali;  cominciata  per  essere  terrestre, 
divenne  celeste  mediante  l'opera  di  una  facoltà  artistica,  che 
prima  creò  le  immaginarie  persone  e  poi  le  tragittò  dalla  terra 
al  cielo.  E  il  culto  passò  dalle  tombe  agli  altari,  conservando  i 
suoi  pii  costumi  e  i  suoi  riti  sanguinosi.  Non  si  possono  senza 
orrore  leggere  queste  parole  da  Giulio  Cesare  scritte  ne'  Com- 
v.ientari.  parlando  de'  Galli:  «Alcuni  hanno  simulacri  di  smisu- 
rata grandezza,  le  cui  membra  mteste  di  vinchi  riempiono  d'uomini 
vivi,  i  quali,  circondati  ed  arsi  dalle  fiamme  che  vi  si  appiccano, 
esalano  lo  spirito.  »  L'arte,  che  cominciò  per  essere  la  spontanea 
canzone  del  pastore,  la  modellatura  di  utili  oggetti,  l'ascosa  po- 
tenza plastica  del  sentimento  religioso,  divenne  conservatrice, 
mediante  i  rapsodi,  elaboratrice,  mediante  i  poeti,  del  confuso  e 
mobile  contenuto  delle  leggende.  Ma  quando  le  orali  tradizioni 
finirono,  e  vennero  i  poemi  scritti,  la  preistoria  aveva  ceduto  il 
posto  alla  storia. 

11  nomadismo  in  prima,  i  traffici  in  ultimo,  posero  in  relazione 
tribù  e  popoli  ;  donde  o  la  lotta  o  lo  scambio  per  l'esistenza,  più 
sovente  la  prima  che  non  il  secondo  nei  tempi  preistorici.  E  il 
nomadismo  suggerì  l'uso  di  mezzi  di  trasporto,  animali,  carri, 
carri  con  tenda,  zattere,  barche,  che  il  commercio  perfezionò. 
Agi'  Indo-Europei  la  gloria  di  avere  inventata  la  ruota,  che  fu 
pe'  tempi  preistorici  quello  che  la  locomotiva  per  i  tempi  di  svi- 
lupi3ata  civiltà.  Negli  scarabi  il  valore  fu  rappresentato  prima  da 
un  oggetto  ricercato,  poi  dal  peso  dei  metalli,  infine  dalla  mo- 
neta. E  con  i  contatti  l'uomo  andò  perdendo  la  natia  selvatichezza 
ed  acquistando  quel  sentimento  di  tolleranza,  che  è  il  fondamento 
e  il  coronamento  del  vivere  civile  e  del  progresso  sociale.  Che, 
ricordiamolo  bene,  vergini  erano  quelle  fibre  ma  feroci  i  loro 
costumi,  e  se  la  franchezza  sovrastava  all'astuzia.,  mancava  quasi 
del  tutto  la  preveggenza  lontana,  la  fredda  prudenza,  la  bene- 
vola e  illuminata  tolleranza  ;  mancavano  cioè  le  virtù,  che  crescono 
solo  col  lungo  svolgimento  civile.  Sono  desse  le  forze  calcolatrici 
e  umanitarie,  che  si  sviluppano  con  detrimento  dei  vigorosi  ma 
meschini  e  ciechi  sentimenti  spontanei,  con  vantaggio  dei  larghi 
e  profittevoli  sentimenti  riflessi.  Delle  due  corde  che  vibrano 
nell'anima  umana,  egoismo  e  altruismo.  (Quella  manda  suoni  stra- 
zianti e  assordanti  nello    stato    preistorico.    Non    che   tali   suoni 


LE    NOSTRE    ORIGINI.  483 

cessino  nello  stato  civile,  oibò  !  ma  si  armonizzano  meglio,  o  meno 
23eggio,  con  quelli  dolcissimi  dell'altruismo,  così  nella  vita  fami- 
gliare e  nazionale  come  in  quella  internazionale.  E  una  società 
progredisce  quando  una  tale  consonanza  cresce,  decade  quando  la 
dissonanza  si  riproduce  con  l'accentuarsi  dell'egoismo. 

Per  via  abbiamo  veduto  alcuni  sprazzi  di  luce  dell'età  di- 
vina, che  il  Vico  pone  alle  origini  del  corso  delle  nazioni,  e  che 
io  non  oso  neanche  porre  nell'avvenire  di  esso.  E  non  oso.  piìi 
perchè  temo  che  non  perchè  disperi  Mi  spiegherò.  L'età  divina 
è  r  Ideale  dell'  umanità.  Considerandolo  per  poco,  al  modo  co- 
mune degli  uomini  mezzo  pensanti,  cioè  come  la  somma  di  tutte  le 
perfezioni,  senz'  alcun  contrapposto  che  limiti  il  vero,  il  bello,  il 
buono,  noi  dobbiamo  dire  che  ogni  progresso  ne  realizza  una 
parte;  ma  che  esso  non  mai  si  effettuerà  interamente,  e  se  potesse 
calare  tutto  in  terra,  distruggerebbe  il  moto,  la  vita,  la  storia. 
L'  età  divina  sarebbe  pertanto  1'  età  ultrastorica.  Se  la  terrestre 
evoluzione  degli  esseri  organici  non  ha  ancor  toccato  il  suo 
ultimo  confine  e  riuscirà  a  far  derivare  dall'umanità  una  specie 
superiore,  la  vita  di  questa  non  potrà  esistere  senza  moto, 
senza  lotta  e  senza  storia.  Se  la  età  divina  è  quella  ultrastorica,  e 
se  questa  è  la,  morte,  qual  meraviglia  adunque  ch'io  tremi?  Ma 
se  la  sua  pienezza  mi  spaventa,  la  sua  successiva  conquista  mi 
rallegra,  massime  quando  la  ragione  mi  avverte  che  il  regno  da 
conquistare  non  ha  confini  o  almeno  essa  non  arriva  a  concepirli,  per 
isforzi  che  faccia,  aiutata  dall'ancella,  da  cui  invano  tentasi  se- 
pararla :  l'immaginazione.  E  veggo  in  quella  successiva  conqui- 
sta l'umanità  volgere  sempre  più  le  spalle  alla  età  preistorica,  e  in- 
cedere, con  passo  lento  e  a  traverso  lotte  perenni,  verso  un  Ideale, 
che  è  l'opposto  del  reale  colà  dominante,  che  è  diverso  da  quello 
comunemente  vagheggiato,  al  quale  or  ora  ho  fatto  allusione,  ed 
è  l'esplicamento  delle  buone  tendenze  che  nelle  età  storiche  si  ma- 
nifestano, e  ne'  tempi  democratici  e  scientifici  si  fanno  rilevanti. 
Importa  studiare  i  tep:pi  preistorici,  non  per  farvi  ritorno  come 
pensa  una  falsa  scuola  democratica,  ma  per  fuggirli;  importa  stu- 
diarli per  comprendere  la  evoluzione  dell'  umanità,  e  per  isco- 
prirvi  e  conoscere  la  piccola  parte  di  natura  eterna  dell'  umanità. 
Voi  ci  troverete  bensì  la  brutale  disuguaglianza,  ma  non  mai 
l'uguaglianza  che  cercate,  inventando  un  idillio  che  è  un  raggio 
di  quell'Eden,  a  cui  credete  di  non  credere:  voi  ci  troverete 
una  maggiore  uniformità  di  occupazioni,  un  livellamento,  che  può 


484  LE   NOSTRE   ORIGINI. 

sedurre  la  selvaggia  demagogia,  ma  che  non  deve  essere  l'aspira- 
zione di  una  civile  democrazia,  la  quale  intenda  che  l'uguaglianza 
civile  non  è  sinonimo  di  uniformità  delle  funzioni,  e  che  la  varietà 
di  queste  è  l'essenza  della  vita  sociale,  è  la  condizione  del  progres- 
so :  voi  ci  troverete  non  la  libertà,  che  vive  con  la  legge,  ma  l'ar- 
bitrio e  la  tirannide  che  si  nutrono  di  licenza  e  di  schiavitù;  voi  ci 
troverete  infine  la  superstizione  e  non  la  ragione.  Se  il  fiume  tem- 
pestoso della  storia  muterà  le  sue  acque  in  olio  e  scorrerà  lento 
lento  e  ristagnerà  infine,  allora  o  1'  assenza  di  circolazione  della 
vita  produrrà  anemia  e  decomposizione,  o  lo  sprigionarsi  di  forze 
ascose  e  non  più  rattenute  da  alcun  limite  potrà  produrre  un  ri- 
torno, che  dia  ragione  al  Vico;  ma  la  rinselvatichita  umanità  si 
accorgerebbe  che  Kousseau  aveva  torto.  La  dissoluzione  sociale  ri- 
condurrebbela  allo  stato  bestiale,  e  l' idillio  riceverebbe  una  ter- 
ribile smentita.  Ma  togliamo  la  mente  da  così  tristi  pensieri  e  ri- 
volgiamola ad  un  avvenire  possibile  e  desiderabile,  quello  in  cui 
l'altruismo  precìomiyii  sull'  egoismo  :  quello  in  cui  l'individuo,  an- 
dando, come  è  sua  natura,  alla  ricerca  della  propria  felicità,  la 
ritrovi  maggiormente  nel  benessere  materiale,  morale,  intellettuale 
dell'  Umanità. 

È  innegabile  che  la  civiltà  fiorisce  ne'  periodi  in  cui  regna 
la  consonanza  fra  l'individuo  e  la  società,  fra  la  nobile  sponta- 
neità e  lo  studiato  calcolo,  e  decade  quando  vengono  a  galla  l'im- 
pudente egoismo,  il  sordido  interesse,  l'ammantato  gesuitesimo, 
(quando  ogni  sentimento  de'doveri  sociali  impallidisce  e  muore,  e 
l'uomo  non  vede  nell'altro  uomo  che  una  vittima  da  uccidere  o  da  in- 
gannare. Ora  in  che  cosa  meglio  che  nel  predominio  del  sentimento 
di  umanità  e  nella  signoriadella  ragione  scientifica  potremmo  vedere 
noi  il  migliore  avvenire  di  quelle  nazioni,  che,  non  logore  fisiolo- 
gicamente e  non  corrotte  socialmente,  dimostrano  avere  ancora  la 
potenza  di  progredire  instancabilmente?  Non  volendo  abbando- 
narci a  fantastici  sogni,  noi  dovremo  contentarci  di  affrettare 
con  i  voti  e  con  l'opera  la  venuta  di  un  tempo  in  cui  l'uomo,  con 
la  cultura  e  con  l'educazione  morale,  si  renda  degno  di  maggior 
libertà;  i  popoli,  costituiti  a  nazioni  indipendenti,  si  considerino 
più  come  fratelli  che  non  come  nemici  ;  gli  operai  della  materia 
abbiano  tutti  una  salubre  casetta  ed  una  alimentazione  azotata  : 
gli  operai  del  pensiero  insieme  agli  uomini  di  Stato  sieno  i  veri 
sacerdoti  del  popolo,  e  in  questo  maggioreggino  i  cittadini  che 
sappiano  porre  la  moralità  sotto  il  solo  e  adamantino  usbergo 
della  propria  coscienza,  gli  uomini  la  cui  nobiltà  consista  nell'eman- 


LE   NOSTRE   ORIGINI.  485 

cipazione  da'pregiudizi  e  da  qualsiasi  irragionevole  tirannide  e  nella 
sottomissione  alla  moralità  e  alla  ragione.  Ma  anche  in  questa  più 
felice  età  perdureranno  i  mali,  i  vizi,  i  delitti,  i  dolori,  le  sofferenze, 
le  guerre,  i  pregiudizi,  in  una  parola  i  limiti,  e  guai  se  così  non 
fosse  !  Toglieteli  affatto,  e  voi  che  credevate  di  abbracciare  l'Ideale, 
stringerete  invece  un'ombra;  voi,  che  credevate  di  spingere  in- 
nanzi la  società,  la  vedrete  cadere  nella  atonìa  e  nella  dissoluzione, 
e  far  ritorno  a  quelle  origini,  donde  erasi  allontanata  conqui- 
stando col  sudore  e  col  sangue  ogni  tappa  del  suo  progresso. 
Gli  uomini  partono  dall'uniformità  dello  stato  selvaggio,  passano 
per  le  differenze  dello  stato  civile  e  debbono  tendere  a  coordinare 
e  attenuare  codeste  differenze,  ma  non  a  distruggerle.  Chi  a  queste 
toglie  ogni  limite,  risospinge  la  società  ai  tempi  preistorici  e 
meriterebbe  il  supplizio  che  Dante  inventò  per  gì'  indovini  : 

Mira  c'ha  fatto  petto  delle  spalle  : 
Percliè  volle  veder  troppo  davante, 
Dirietro  guarda,  e  fa  ritroso  calle. 

11  limite  è  la  condizione  per  l'esistenza  di  ogni  cosa,  anche 
per  quella  dell'Ideale.  Sottraete,  se  potete,  i  contrari  dal  mondo, 
e  voi  avrete  distrutto  col  reale  l'ideale,  il  quale  li  armonizza  sot- 
toponendo il  male,  il  dolore,  l'ignoranza,  ma  non  distruggendo 
uno  dei  combattenti.  Se  questo  facesse,  distruggerebbe  con  la  lotta 
sé  medesimo.  Ecco  laverà  nozione  dell'Ideale  scientifico  e  pratico. 
del  dio  che  concilia  gli  uomini  di  Scienza  con  gli  uomini  di  Stato, 
che  può  ispirare  l'artista  e  che  dovrebbe  ricevere  il  rispetto  per- 
sino dal  sacerdote  del  sensibile  culto.  Qualunque  altro  Ideale,  per 
diversa  via.  ci  riconduce  alla  stessa  meta,  ci  rimena  cioè  alle  no- 
stre origini. 


NiccoLA  Marselli. 


INI^IIILTERHA  ^ELL'AFUICA  AUSTRALE. 


« Così,  uel  breve  giro  di  un  anno,  pacificarono  tre  con- 
tinenti. Senza  trarre  spada  dal  fodero  nella  guerra  d'oriente  ebbero 
in  soggezione  Cipro,  e  da  quell'isola,  come  dal  più  adatto  degli  os- 
servatorii  militari,  si  posero  in  grado  di  seguire  con  occhio  vigile 
i  movimenti  delia  Eussia  e  dei  giovani  Stati  creati  dalle  sue  vit- 
torie, (j[uasi  sangue  del  suo  sangue,  sulla  riva  europea  dell'Eusino 
e  dell'Egeo.  Ampliarono  in  Asia  i  confini  dell'impero,  debellando 
gli  infidi  vicini  dell'Afganistan,  ai  (|uali  tolsero  di  mano  per 
forza  d'armi  le  chiavi  delle  storiche  vie  dell'India,  quando  si  mo- 
stravano disposti  a  consegnarle  al  rivale,  cui  s'erano  rivolti  per 
protezione  ed  aiuti,  che  la  politica  dei  vincitori  seppe  a  tempo 
impedire.  In  Africa  poi,  se  anche  da  poco  avessero  guerreggiato 
contro  l'Etiopia  ad  oriente  e  ad  occidente  contro  gli  Ascianti  sel- 
vaggi, furono  costretti  a  scendere  in  campo  per  assicurare  recenti 
conquiste,  le  quali,  compiute  nel  silenzio,  non  erano  loro  costate 
una  goccia  di  sangue.  E  sebbene  l'esercito  fosse  dapprima  rotto 
ed  arrestato  per  via,  senza  perdersi  d'animo  armarono  nuove  spe- 
dizioni, colle  quali,  debellati  e  distrutti  i  nemici,  assicurarono  al 
soverchio  delle  popolazioni  una  federazione  di  colonie  sterminate, 
messe  oramai  in  grado  di  provvedere  alla  propria  difesa.  » 

Lo  si  direbbe,  scritto  nella  lingua  di  Livio  e  di  Tacito,  e  mu- 
tati i  nomi,  un  periodo  di  storia  romana.  Nella  moderna  Inghil- 
terra, in  quella  di  Beaconsfield  più  che  in  quella  di  Gladstone, 
è  infatti  assai  del  romano,  cosa  avvertita  da  molti  e  dimostrata 
nello  sviluppo  delle  istituzioni,  nella  genesi  del  diritto  patrio,  nella 


L'INGHILTERRA   NELL' AFRICA    AUSTRALE.  487 

diplomazia,  nelle  armi,  ma  giammai  evidente  come  in  quest'ul- 
timo periodo.  Sulle  buone  qualità,  e  sulle  cattive  anche,  dell'ebreo 
di  Venezia,  si  innestarono  così  mirabilmente  in  Beniamino  Disraeli 
conte  di  Beaconsfield  le  idee,  la  coscienza  e  l'attitudine  dei  grandi 
uomini  di  Stato  inglesi,  ch'egli  è  riuscito  ad  elevare  il  suo  paese 
a  tale  un  grado  di  potenza  e  d'influenza,  come  non  ebbe  mai, 
neanche  quando  a  Ledru-Rollin  appariva  cosi  insuperabile  da  leg- 
gervi i  segni  della  decadenza. 

Chiunque  vanti  animo  generoso  e  serbi  fede  alle  idee  libe- 
rali è  tratto  necessariamente  a  deplorare  lo  sconfinato  egoismo 
della  politica  dei  conservatori  inglesi,  le  loro  tendenze  autorita- 
rie e  quegli  eccessi  di  utilitarianism,  per  dirlo  con  una  parola 
loro,  che  non  giovano,  di  certo,  ad  accrescere  e  confermare  gli 
amici,  ed  a  guadagnare  quelle  simpatie  che  accompagnavano  la 
politica  liberale,  umana,  generosa,  piena  d'alti  e  nobili  intendi- 
menti di  Gladstone  e  dei  suoi  amici.  Ma  non  si  può  trattenere, 
per  quello  che  hanno  fatto  e  fanno  i  tories  della  presente  ammi- 
nistrazione, un  sentimento  di  vivissima  ammirazione.  Per  essi  e 
con  essi  il  governo  britannico  tiene  fisso  lo  sguardo  a  tutti  i  punti 
del  mondo,  dove  ha  interessi,  e  dovunque  dimostra  la  sua  potenza. 
Alle  volte  pare  quasi  che  la  terra  quanto  è  vasta  sia  piccola  alle 
sue  ambizioni;  certo  nessuno  ha  superati  sino  ad  ora  gli  In- 
glesi nello  scoprire  nuove  isole,  nel  ricercare  gli  abissi  oceanici, 
nel  penetrare  le  ghiacciaie  del  polo.  Cosi,  mentre  in  Europa  sor- 
reggono sulle  braccia  poderose  il  gran  malato,  dettandogli  a  modo 
loro  il  testamento,  e  parrebbe  ufficio  abbastanza  arduo,  esso  solo. 
ad  una  grande  potenza,  provvedono  a  dare  alla  federazione  del  Ca- 
nada più  larghi  e  stabili  ordinamenti  ;  studiano  in  creazione  d'una 
marina  coloniale  per  la  difesa  delle  coste  d'Australia:  tengono 
d'occhio  il  Giappone  perchè  non  sfugga,  con  artifici  di  tarifle. 
a'  loro  mercanti;  spiano  l'occasione  favorevole,  che  adesso  sem- 
bra lor  porta  dalle  immani  stragi  fraterne  del  nuovo  imperatore, 
per  insignorirsi  della  Birmania  ;  provvedono  l' India  di  nuovi  e 
più  sicuri  confini,  accrescendo  colla  pompa  del  cerimoniale,  col 
prestigio  delle  vittorie,  coi  benefizi,  la  devozione  e  l'affetto  di 
que'  dugenquaranta  milioni  di  sudditi  ;  vigilano  tutto  intorno  alle 
coste  d'Africa,  come  fosse  un  loro  piccolo  feudo,  e  s' apprestano  ad 
allontanare  dalle  colonie  del  Capo,  decimandole,  le  selvaggie  tribù 
che  le  premono  a  minaccia,  mentre  stringono  i  freni  della  tutela 
egiziana  così  da  metter  in  sospetto  dei  veri  intendimenti  loro  la 
Francia  compagna  sinora,  ma  domani  forse,  rivale  nella  delicata 


488  l'  INGHILTERKA 

missione.  Fu  mai  al  mondo  potenza,  la  quale  nutrisse  concepi- 
menti più  vasti,  0  dovesse  volgere  il  pensiero  a  cure  maggiori  ? 
Nessun  poeta  per  fermo,  può  cantare  d' un  popolo,  né  solo  de'  suoi 
morti,  quello  che  Felicia  Hemans  dell'inglese: 

«  Wave  711(11/  notfuatii,  nor  wild  ivind  siceep, 
W/iere  rest  not  Enykmd's  dead.  » 

Così  anche  le  utopie  diventano  presto  realtà.  Non  pareva  uto- 
pia quella  di  Camerou,  quando,  reduce  dalla  sua  meravigliosa 
traversata  equatoriale,  diceva  con  sicurezza  ai  suoi  uomini  di  Stato, 
ai  suoi  mercatanti  preoccupati  della  crisi  economica,  a'  suoi  con- 
cittadini pensierosi  dell'avvenire  del  Canada,  e  dubbiosi  persino 
dell'India,  quando  diceva  «  abbiamo  in  Africa  un  altro  impero 
più  vasto,  pm  ricco,  più  utile  di  quello  dell'India,  sul  quale  ci  basta 
stendere  la  mano  a  ghermirlo  ?  ->>  Or  ecco  che  l'utopia  è  ben  avviata 
a  realtà:  la  colonia  del  Capo  ci  cresce  sotto  agli  occhi  cosi  che 
vivremo  tutti  a  vederla  trasformata  in  impero.  Nel  1871  il  paese 
diamantifero  dei  Griqua,  una  vera  Golconda;  nel  1874  il  Griqua 
occidentale  ;  nel  1875  il  Nomausland  ed  il  Fingoland  :  nel  1877 
il  Transvaal,  e  adesso,  per  arrotondarlo  e  assicurarlo,  il  paese 
degli  Zulù.  Dal  Capo  Frio  sull'Atlantico,  ai  confini  della  baia  di 
Delagoo  sull'oceano  Indiano,  tutta  la  cuspide  australe  dell'Africa 
è  dominio  britannico,  e  già  ai  Portoghesi  impigriti  intorno  alle 
foci  dello  Zambesi  come  sulle  opposte  marine,  tocca  provve- 
dere ne  quid  respuhlica  detrimenti  capiat.  Ieri  il  governo  bri- 
tannico assoggettava  definitivamente  i  turbolenti  Boeri  ;  oggi  as- 
sicura dalle  minacele  degli  Zulù  gli  sconfinati  domimi;  domani 
forse  contenderà  al  Portogallo  le  invidiate  marine,  che  daranno 
il  più  facile  accesso  agli  estremi  empori  di  una  confederazione 
di  colonie  australi,  alla  quale  è  certamente  serbato  il  più  splen- 
dido avvenire  di  ricchezza  e  di  potenza,  il  più  forte  e  decisivo 
influsso  sulla  civiltà   del  continente  africano.  * 


1  Fra  i  piv"!  importanti  documenti  ufficiali  sulle  Colonie  del  Capo  si  vedano  : 
Cape  of  Good  Hope  Blue  lìook  for  1877.  '^■apetown,  18T7.  —  Ceìisus  ofthe  Colony 
taken  on  ihe  night  of  march  7,  1875.  Capetown,  18~1.  —  Correspon dence  re- 
garding  the  establishment  of  responsible  govemment  at  the  Cape  and  the  ivìth- 
drawal  of  tra  >ps  from  that  colony.  London,  1870.  Per  gli  ultimi  avvenimenti,  si 
vedano  poi,  nei  Parliamentary  Papers,  i  Blue  Books,  presentati  in  quesii  ultimi 
anni  sugli  affari  dei  Capo,  e  specialmente  i  rapporti  di  l;artle  Frère,  di  Wolselej, 
di  J.  Sheusioiie,  e  quelli  recenti  del  gt-nerale  Chelmslbrd,  e  del  Governatore  del  Natal. 
Fra  le  pubblicazioni  non  ufficiali,  e  cito  appena  i  lavori  più  notevoli,  chi  voglia  cono- 
scere il  paese:  Anderson  C.  J  ,  Notes  of  Travet.  London,  I8ì5.  —  Hall  H.,  Manual  of 
South  African  geography.  Capetown,  1866.  —  Neveu  C,  Re'publiques  de  VAfrique 


nell'africa  australe.  489 


I. 


Chi  guarda,  su  d'uu  mappamondo,  la  felice  posizione  del  Capo 
di  Buona  Speranza  è  tratto  a  credere  che,  discoperto  appena,  si 
accendesse  tra  le  potenze  coloniali  viva  contesa  per  insignorirsene. 
Fu  quella,  e  lo  ricordiamo  bene  noi,  italiani,  le  cui  repubbliche 
marinare  e  commercianti  n'  ebbero  le  maggiori  jatture,  fu  quella 
una  delle  più  grandi  rivoluzioni  economiche  della  storia.  La  s'era 
trovata,  alla  fine,  questa  via  sospirata,  la  cui  ricerca  aveva  ar- 
mate le  paranzelle  di  Colombo,  e  le  spedizioni  numerose  e  per- 
severanti d'Enrico  il  navigatore  e  dei  successori.  Bartolomeo  Diaz 
che,  solo  a  girare  il  Capo,  durò  una  fiera  tempesta,  lo  chiamò  il 
Cabo  de  los  l'ormentos;  ma  il  Ke  di  Portogallo  don  Joaò  II  re- 
spinse con  felice  ispirazione  il  nome  malaugurato.  «  Quel  pro- 
montorio ci  apre  la  via  dell'Asia;  sia  dunque  chiamato  il  Capo 
di  Buona  Speranza.  »  E  infatti  non  passarono  anni,  che  Vasco 
di  Gama  prendendo  terra  a  Calicut,  vi  fondava  quel  grande  im- 
pero che  Albu(iuerque  doveva  consolidare  perchè  al  Portogallo 
ne  rimanessero  appena  gli  avanzi. 

Si  compiva  la  memorabile  scoperta  nel  1486,  e  166  anni  pas- 
sarono prima  che  al  Capo  'sorgesse  uno  stabilimento  europeo. 
Diffidavano  gli  avventurieri  di  quella  costa  africana,  dove  veni- 
vano i  pingui  Ottentotti,  miserabili  e  nudi,  quasi  testimoni  di  un 
nudo  e  miserabile  paese,  di  'magri  pascoli,  di  sterili  lande,  di 
deserti.  Che  seduzione  poteva  trattenere  colà  uno  di  quegli  avidi 
coloni  europei,  che  muovevano  all'India  attratti  dai  tesori  dei 
suoi  sultani,  dalle  docili  popolazioni  cresciute  fra  le  spezie  e  gli 
aromi,  dalla  speranza  di  lucri  rapidi  e  smisurati?  Scambiavano 
dunque  nella  baja  della  Tavola,  quando  non  lo  potevano  rubare, 

^meridionale,  nella  Revue  mar.  et  colon.  Paris,  18T2. —  Chase  J.  and  A.  Wilmot 
History  of  the  colony  of  the  Cajìe  of  Good  Hope,  front  its  discoveìy  to  the  year 
1868.  London,  ISIO.  —  Fritsch  Dr.  A.,  Dret  Jahre  in  Siid-Afrika.  Breslau,  l^^GS 
—  Pos  N.,  Bene  stem  uit  Zuid-Afrika.  Breda,  1868.  -  Trollope  A ,  South  Africa, 
1  voi  8.  London,  1878.  —  Meidinger  PL,  Die  sudnfrikani  sher  Colonien  Englands, 
imd  die  Freistuaten  der  hollandischen  B'ere».  Frankfurt  a.  M,  1861. —  Blerzy  H, 
Lescolons  de  VAfrique  australe,  nella  Rfvne  des  deuxMondes,  18~8,  voL  25,  p.  167- 
196,  346-311.—  'Hoìii.^Sonvi,  South  Africa,  post  and  present.  Capetown,  1811.  — 
Campbell-Johnston  a.  R.,  South  Africa:  its  difficulties  and  present  state.  Lon- 
don, 1811.  —  Hall  H.,  Southern  Africa.  London,  1816.  —  Gehre,  Die  europaische 
Colonisation  in  der  sudlichen  Halfte  d's  trnpischen  Afrika.  Leipzig,  1817.  — 
Frikdkrichsen  L.,  Die  britischen  Besitzungen  SUd-Afrihas.  Hambourg,  1811.  — 
Altri  studi  speciali  citerò  a  suo  luogo. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Aprile  1819.  30 


490  l'  inghilterka 

il  bestiame,  si  provvedevano  d'acqua  potabile,  deponevano  sotto 
una  nota  pietra  la  posta  per  la  via  che  avevano  percorsa,  e  pro- 
seguivano la  navigazione  già  troppo  lenta  al  desiderio  di  far  for- 
tuna 0  goderla. 

Soltanto  quando  la  Compagnia  olandese  per  le  Indie  orien- 
tali crebbe  a  smisurata  potenza  ed  ebbe  frequenza  di  comunica- 
zioni co'  suoi  domini  parve  di  qualche  pregio  la  sicurezza  di  trovare 
al  Capo  viveri  freschi,  notizie,  ed  all'uopo  aiuti.  Così  mandarono 
nel  1652  un  chirurgo  loro,  Jan  A.  van  Riebeck,  con  cento  soldati 
e  funzionari,  a  fondarvi  una  stazione.  Costruirono  un  forte,  col- 
tivarono la  terra  intorno  intorno,  e  non  tardarono  ad  avvedersi, 
che  su  quel  suolo  ferace,  nel  delizioso  e  saluberrimo  clima,  iu 
quella  posizione  impareggiabile,  conveniva  all'Olanda  una  sicura 
e  forte  colonia.  Così  gli  europei  andarono  aumentando  cogli  anni: 
erano  fra  essi  Danesi  e  Tedeschi,  Portoghesi  ed  Olandesi,  questi 
ultimi  quasi  sempre  con  lor  donne  e  figlioli,  ma,  iu  que'primi 
tempi  rari  gl'Inglesi.  Più  tardi,  quando  la  revoca  dell'editto  di 
Nantes  e  le  guerre  delle  Alpi  costrinsero  Ugonotti  e  Valdesi  a 
cercare  rifugio  iu  quell'unica  oasi  della  libertà  di  coscienza 
ch'era  allora  l'Olanda,  incresciosi  delle  nordiche  brume  mossero 
per  più  lungo  esilio.  Li  animava  anche  la  fede  di  trovare  ^al  Capo 
una  libera  patria  come  quella  che  offriva  loro  generosa  l'Olanda, 
e  invece  furono  costretti  a  rinunciare  persino  alla  cara  lingua 
materna,  imprigionati  tra  le  maglie  fitte  di  quel  monopolio  cie- 
camente assoluto,  sul  quale  era  fondata  tutta  la  potenza  colo- 
niale dell'Olanda,  e  per  poco  non  toccò  loro  rinunciare  anche  a 
quanto  avevano  di  più  caro  al  mondo,  la  libertà   di  coscienza. 

Chiunque  prendeva  ferma  stanza  al  Capo  aveva  buon  tratto 
di  terra,  con  anticipazioni  di  grano,  di  utensili,  e  di  bestiame. 
Il  governo  della  Compagnia  ebbe  cura  non  mancassero  le  donne, 
e  rivolse  cure  minuziose  ed  assidue  perchè  la  colonia  avesse  ra- 
pido incremento.  Un  piano  saggio  e  prudente,  quanto  fallaci  ed 
assurdi  i  criteri  economici  coi  quali  fu  tradotto  in  atto.  La  Com- 
pagnia impacciava  con  regolamenti  e  divieti  ogni  sviluppo  del 
commercio  e  dell'agricoltura.  Soltanto  per  mezzo  dei  suoi  agenti 
era  lecito  ai  coloni  di  vendere  e  comprare  checchefosse  dagli 
stessi  nativi;  vietato  loro  persino  di  recarsi  a  far  legna  nei  bo- 
schi per  costruire  le  capanne.  Un  regime,  che  Merivale  de- 
scrive e  condanna  con  coscienza  di  storico,  minutamente,  e  si 
crederebbe  una  parodia  di  Bastiat  o  di  Franldin  in  azione, 
tanto  è  assurdo.  Riguardo  ai  nativi,  poi,  nessuno  scrupolo  o  pietà 


nell'africa  australe.  491 

li  tratteneva,  come  in  tutte  le  altre  colonie  loro,  dal  trattarli 
peggio  che  bestie  da  soma.  «  Io  non  riesco  a  comprendere  — 
scriveva  il  primo  governatore  del  Capo,  —  come  mai  la  Provvi- 
denza abbia  largito  a  qiie'pagani  tante  dovizie!  E  pensare  che 
potremmo  prendere  loro,  senza  fatica  o  pericolo,  solo  che  la  Com- 
pagnia ce  ne  accordasse  facoltà,  diecimila  capi  di  bestiame!  Spero 
bene  l'occasione  ci  si  presenterà  di  nuovo,  e  sarà  più  facile,  per- 
chè avranno  maggior  fiducia  in  noi.  » 

Così  l'Olanda  mite,  liberale,  generosa  fra  le  brume  dei  suoi 
fiumi  e  delle  sue  dighe,  mostravasi  anche  al  Capo  di  Buona  Spe- 
ranza ingiusta,  intollerante,  disumana,  crudele.  Nessuna  meravi- 
glia, se,  dopo  i  primi  entusiasmi,  il  numero  dei  coloni  si  accrebbe 
assai  lentamente  e  la  provincia  visse  poveramente  per  più  d'un 
secolo,  turbata  dalle   sanguinose  rappresaglie  degli  Ottentotti  e 
dei  Cafri,  onde  non  era  sempre  in  grado  di  difendersi.  Imperoc- 
ché i  coloni  vivevano   isolati  fra  loro;  il  governo   olandese,  per 
prevenire  il   soverchio   aumento   della   popolazione   concedeva   la 
terra    a    tratti    isolati    l'uno    dall'altro,   od   uniti    a    guisa    di 
cerchi   tangenti,   per   modo    che   nel   mezzo    rimanessero   sempre 
vasti   spazi   non  occupati.  *   Quando   un   distretto  era  minacciato 
dai  nativi,  il  veld-comef,  un  capo  riconosciuto  appena  nei  supremi 
pericoli,   proclamava  il  commando,  e  alla  testa  dei  coloni  accor- 
renti a  codesto  bando  di  medioevo   respingeva   gli   invasori,  ven- 
dicando  su  di  loro  ad  usura  di  terre,  di  bestiame,  di  vite  umane, 
le  patite  offese. 

In  questa  indipendenza  poco  men  che  selvaggia,  con  un  go- 
verno il  quale  si  manifestava  soltanto  negli  impacci  onde  era  li- 
mitata la  libertà  economica,  si  formò  tuttavia  una  razza  energica 
di  pastori,   di  allevatori  di  bestiame,  di  Boeri,  nome  che  fu  dato 
loro  in  que'tempi   e  rimase  [in  tutto   l' esodo  lungo  al  quale  fu-  ^ 
rono  poi  ridotti.  Avevano  pur  sempre  i  pregi  della  nazione  olan- 
dese:  laboriosi,  economi,    perseveranti,  tenaci.   A    queste  popo- 
lazioni presto  alquanto  scadute   dalla  civiltà  europea,  aveva  gio- 
vato l'intromissione   degli  industriosi   ugonotti,   alcuni   dei  quali 
avevano  nelle  vene  il  nobilissimo  sangue  dei  Roubaix,  dei  Du  Plessis^ 
dei  De  Yillers  de  la  Eochelle,  e  d' altre  grandi  famiglie  :  elemento 
raffinato,   ingegnoso,  che   recò   nella  colonia  uno   spirito  di  pro- 
gresso. Per  opera  di  questi  coloni   furono  impiantati   nella  valle- 


1  Merivale:  On  Colonies.  Voi.  I,  pag,  ll5. 


492  L'  INGHILTERRA 

della  Perla  i  vigneti  di  Provenza  e  del  Eeuo,  e  diedero  quel 
vino  di  Costanza,  che  per  qualche  tempo  salì  in  fama  nel  mondo. 

Ma  già  l'Inghilterra  incominciava  a  preoccuparsi  di  quel  pen- 
siero che  inspirò  tanta  parte  della  sua  politica,  la  sicurezza  della 
via  per  le  Indie.  Mei  1795  lo  Slatolder  dell'Olanda  vinta  ed  invasa 
consentì  di  buon  grado  al  governo  britannico  di  mandare  al  Capo 
navi  e  soldati,  per  occupare  e  difendere  la  colonia,  minacciata  dai 
francesi,  vincitori  in  Europa  dei  re  congiurati.  Una  facile  impresa; 
senonchè,  dopo  la  pace  di  Amiens,  l'Inghilterra  dovette  rinunciare 
a  quelle  terre,  e  soltanto  nel  1806  le  venne  fatto  di  fondarvi 
definitivamente  la  sua  signoria. 

Era  tempo.  Il  governo  olandese  aveva  perduta  ogni  autorità 
sulla  colonia  del  Capo,  e  vi  regnava  la  più  assoluta  anarchia. 
I  nativi,  che  avevano  imparato  a  viver  di  rapina,  minacciavano  i 
più  sicuri  stabilimenti  ;  alcuni  erano  riusciti  ad  avere  armi  e  mu- 
nizioni, e  già  chiese  e  scuole  e  interi  villaggi  erano  scomparsi 
sotto  r  irruente  barbarie.  Nei  distretti  di  Grraaf  Keynet  e  di 
Zwellendam  erano  scoppiate  fiere  rivolte  contro  il  monopolio  della 
Compagnia,  e  in  questo  si  era  anzi  proclamata  una  forma  di  re- 
pubblica. Gli  Inglesi  vennero  adunque  quasi  necessari  tutori,  re- 
cando in  quella,  come  nelle  altre  colonie  loro,  l'amore  dell'ordine  e 
del  progresso,  l'istinto  delle  libertà  locali,  ed  una  cura  assidua 
per  affezionarsi  le  popolazioni,  e  vantaggiarsi,  senza  nessuno  arti- 
ficio di  divieti  e  monopoli,  del  loro  stesso  benessere.  Il  seco- 
lo XVIII  aveva  lasciato,  è  vero,  anche  sulla  colonizzazione  inglese 
un'ombra  fnnesta;  ma  il  gran  colpo  avuto  colla  separazione  delle 
tredici  provincie  americane  era  stato  efficace  lezione.  La  razza 
anglosassone  non  tardò  a  mostrare,  nel  più  splendido  modo,  le 
impareggiabili  qualità  che  la  chiamavano,  a  preferenza  delle  altre, 
a  fondare  ed  accrescere  colonie,  e  le  valsero  il  più  vasto  e  vario 
e  potente  impero  del  mondo. 

Dapprima  gli  abitanti  del  Capo  accettarono  contenti  il  reg- 
gimento inglese,  che  abolì  i  monopoli,  consentì  libertà  di  commercio 
coi  nativi,  e  provvide  alla  difesa.  Ma  d'altra  parte  la  nuova  Am- 
ministrazione vietò  subito  di  trattare  gli  Ottentotti  peggio  che 
cose,  di  maltrattarli  e  toglier  loro  terre  e  bestiami  ed  ucciderli  ; 
che  anzi  voleva  affezionarli  agli  europei,  educarli  a  civiltà,  pro- 
curare loro  un  relativo  benessere.  Il  malcontento,  dapprima  trat- 
tenuto dei  Boeri  per  coteste,  che  sembravano  loro,  fisime  umani- 
tarie, scoppiò  nel  1815  ad  aperta  rivolta.  La  rivolta  fu  subito  doma, 
ed  i  promotori  s'ebbero  il  capestro;  ma  i  più  insofferenti  di   un 


nell'africa  australe.  493 

domiuio  che  parea  loro  non  tollerabile  servitù,  lasciarono  la  co- 
lonia per  cercare  verso  ponente  più  libera  e  selvaggia  vita.  Inco- 
minciava cosi  quell'esodo  miserabile  cbe  continua  tuttodì,  come 
se  i  Boeri  avessero  la  missione  provvidenziale  di  precorrere  la 
civiltà  sin  nel  cuore  dell'Africa  selvaggia,  o  fossero,  come  si  cre- 
dono, a  somiglianza  dei  Mormoni,  l'eletto  popolo  biblico  vagante 
in  cerca  della  nuova  Gerusalemme. 

Presto  il  vuoto  lasciato  fu  largamente  coperto,  perchè  nel 
1820  quattromila  emigranti  inglesi  e  scozzesi,  girando  il  Capo, 
si  stabilirono  intorno  alla  baia  di  Algoa,  dove  fondarono  Port 
Elizabeth,  una  colonia  britannica  dalle  origini,  che  per  qualche 
tempo  minacciò  il  primato  di  Capetown.  Anzi  tra  le  due  parti 
della  colonia,  tra  le  provinole  occidentali  dove  prevaleva  sempre 
l'elemento  olandese  e  le  orientali  che  mettevano  Capo  a  Port 
Elizabeth,  si  manifestò  una  rivalità  che  preoccupò  per  molti  anni 
le  autorità  della  colonia  e  il  governo  britannico,  e  per  poco  non 
condusse  alla  definitiva  separazione.  Seuouchè,  continuando  ad  ar- 
rivare numerosi  i  coloni,  chiamati  dal  più  liberale  reggimento 
incominciavano  a  prevalere  anche  nelle  provincie  occidentali  la 
lingua  e  l'influenza  inglese.  Intorno  al  1825  si  potè  far  uso  pro- 
miscuo delle  due  lingue  nei  pubblici  uffici!  ;  nel  1828  il  governo 
mandò  i  suoi  dispacci  in  inglese  ed  alle  antiche  Corti  olandesi  dei 
Landdrosts  e  dei  Neemraden  sostituì  una  magistratura  mista 
stabile  e  bene  ordinata.  Tre  anni  innanzi  il  potere  militare  del 
governatore  era  stato  temperato  da  im  consiglio  dei  sette,  il  primo 
embrione  delle  istituzioni  parlamentari  della  colonia. 

Nuova  cagione  di  contrasti  fra  le  due  nazionalità  europee 
s'aggiunse  nel  183d,  quando,  come  in  tutti  i  possedimenti  inglesi, 
anche  nell'Africa  australe,  furono  coronate  coli' abolizione  della 
schiavitù  le  cure  assidue  usate  alle  razze  di  colore.  Si  pagarono 
per  35,745  schiavi  ch'erano  al  Capo  28  milioni  di  lire  nostre,  ma 
la  somma  andò  in  parte  malamente  dispersa,  ed  i  Boeri,  specie 
sui  confini,  già  depauperati  dalle  devastazioni  dei  Cafri,  privi 
d'un  tratto  dei  loro  schiavi,  si  trovarono  nella  miseria  e  lasciarono 
l'ingrata  colonia  in  gran  numero.  Né  per  umanità  di  governo 
cessavano  le  scorrerie  dei  nativi,  e  porgevano  al  governo  di  Londra 
argomento  di  fiere  rampogne  contro  l'incerta  politica  dei  go- 
vernatori. «  Scacciati  dalle  terre  che  possedevano  legittimamente 
da  secoli,  confinati  in  limiti  angusti,  dove  non  hanno  pascoli  suf- 
ficenti  alla  greggia,  spinti  alla  disperazione  dalle  sistematiche 
ingiustizie,  avevano  il  pieno  diritto  di  tentare,    come  hanno  fatto. 


494  l'  INGHILTERRA 

l'uso  della  forza  per  ottenere  quello  che  non  potevano  altrimenti.  »  ^ 
Cosi  scriveva  lord  Glenelg,  segretario  di  stato  per  le  colonie  ;  un 
linguaggio,  che  si  trova  sovente  nel  Blue  hooJc,  e  concorre  a  spie- 
gare la  grandezza  coloniale  di  quel  popolo  meraviglioso, 

Senonchè  più  che  quelli  dei  governatori  mutavano  troppo  so- 
vente i  criteri  direttivi  del  Governo  della  metropoli  e  la  colonia 
ne  pativa  danni  considerevoli.  La  condotta  umana  di  uomini  come 
lo  Stockenstrom  verso  le  razze  africane  esasperava  vieppiù  i  Boeri  : 
e  quando  al  contrario  il  Durbau   faceva  qualche    ragione   ai   co- 
storo lamenti  prorompevano  i  Cafri  accendendo   terribili    guerre. 
Quella  ch'ebbe  termine  nel  1847,  assicurò  i  confini  orientali  della 
colonia  e  vi  aggiunse  il  vasto  territorio  che  si  distende  fra  il  Keis- 
kamme   ed  ii  Kei  e  diventò  una  patria  inglese  pei  Cafri  {British 
Kafrarla),  ai  quali  fa  pur  data  facoltà  di  cercare  oltre  il  Kei  una 
libertà  più  selvaggia.  Nuova  guerra  scoppiò  nel  1850  e  fu  la  più 
sanguinosa,  perchè  i  Cafri,  insorti  alla   voce  di]  un  loro   profeta, 
massacrarono  interi  villaggi.  Appena  dopo  due  anni,  con  una  per- 
dita di  4000  uomini   e   di    50    milioni  fu   domata   quella    fiera 
rivolta.  E,  fino  quasi  a'  di  nostri,  fu  l'ultima.  Nel  1857,  un  altro 
profeta  fece  credere  a  quei  selvaggi,  che  un  nuovo  e  grande   av- 
venire di  libertà  e  di  potenza   li   aspettava;   sarebbero   diventati 
tutti  giovani,  beili,  invincibili,  e  sarebbero  tornati  dai  mondi  lon- 
tani i  loro  antichi  guerrieri;  avrebbero  trovato  mandre  innume- 
revoli, e  sterminati  campi  ondeggianti  di  mèssi  mature.   Ma   do- 
vevano distruggere  tutto  il  loro  grano,   uccidere  il   bestiame,   ed 
astenersi  per  un  anno  dal  seminare.    Morirono   cinquantamila   di 
fame,  e  lo  storico,   memore  dell' /s  fecit   cui  prodest,  sospetta   a 
buona  ragione  che  quel  falso  profeta  fosse   un   astuto   stromento 
della  politica  inglese.  -  Frattanto   il  memorabile    disinganno  e  la 
strage  domarono  gli  spiriti  ribelli  dei  Cafri,  e  da  quell'epoca  fu 
ristabilito  anche  al  Capo  il  regno  del  l'ordine. 

La  prevalenza  morale  dell'elemento  inglese  nella  colonia  aveva 
però  creato  un  nuovo  bisogno,  quello  delle  libertà  politiche.  Gli 
anglosassoni,  se  anche  lontani  dalla  patria,  non  sanno  rinunciarvi  ; 
hanno  bisogno  di  amministrarsi  da  sé  :  vogliono  consentire  le  tasse 
che  pagano,  avere  l'influenza  che  loro  spetta  sul  governo.  Tengono 
in  gran  conto  i  vincoli  che  li  stringono  alla  madre  patria,  e  ne 
invocano  il  braccio;  ma  non  ammettono  che  gli   affari   della   co- 

'  Parliamentary  Papers,  1829,  C.  181. 

^Trollope,  Sonth  Afr-ica.  I,  p.  45.  —  Si  rammenti  che  a  quell'epoca  gli  In- 
glesi si  trovarono  sulle    spalle  la  rivolta  imliana. 


nell'africa  australe,  495 

Ionia  possano  essere  meglio  condotti  ne'  loro  particolari  sulle  rive 
del  Tamigi,  di  quello  che  sul  luogo,  per  cura  degli  interessati. 

Le  difficoltà  che  impacciavano  la  trasformazione  del  Capo,  da 
colonia,  ch'era,  della  Corona,  in  colonia  parlamentare,  erano  molte 
e  gravi.  Come  assegnare  a  ciascuna  razza  la  giusta  parte  d'in- 
fluenza? Come  accordare  il  potere  politico  ai  Cafri,  che  erano 
pure  liberi  cittadini,  al  pari  degli  europei,  soggetti  com'essi  alla 
legge  ed  alle  imposte?  E  come  provvedere  alle  elezioni  in  così 
vasto  e  spezzato  territorio,  e  credere  che  uomini  abbastanza  agiati 
e  capaci,  avrebbero  lasciate  le  remote  masserie  alla  diuturna  mi- 
naccia dei  selvaggi,  e  le  cure  assidue  della  pastorizia  e  dell'agri- 
coltura, per  recarsi  a  dettar  leggi  nell'Assemblea  del  Capo  ?  Que- 
sti ed  altri  argomenti  prolungarono  le  esitanze  del  governo  di 
Londra;  si  aggiunsero  poi  le  tendenze  separatiste  dell' Grange  e 
del  Natal,  le  guerre  coi  Cafri,  ed  un  tentativo  malaugurato  di 
trasformare  l'Africa  australe  in  una  colonia  penale,  che  vi  man- 
tenne per  due  anni  una  pericolosa  agitazione,  sì  che  parve  che  i 
coloni  dovessero  deporre  ogni  speranza  di  vedere  accolti  i  loro  voti. 

11  modo  come  fu  condotta  qaesta  campagna  contro  la  depor- 
tazione dimostrò  tuttavia,  che  la  colonia  era  in  grado  di  ammi- 
nistrarsi da  se.  Furono  esaminati  i  progetti  messi  innanzi  dalle 
autorità  locali,  ed  un  Order  in  council  dell'I!  marzo  1853  largì  al 
Capo  una  costituzione  poco  diversa  dalle  altre  britanniche  e  mo- 
dellata come  queste  sulle  istituzioni  della  madre  patria.  '  V'era 
però  una  ditferenza  semplice  a  primo  aspetto,  eppur  bastevole  a 
dare  al  governo  parlamentare  del  Capo  un  carattere  essenzial- 
mente diverso.  La  colonia  aveva  una  Assemblea  eletta  dai  citta- 
dini che  possedevano  25  sterline  di  reddito  annuo;  un  corpo  le- 
gislativo più  ristretto,  ed  un  Consiglio  esecutivo  ;  ma  i  membri  di 
questo  non  riconoscevano  la  loro  autorità  dal  voto  delle  Camere, 
bensì  dal  governatore,  per  modo  che  le  Camere  non  avevano  mezzo 
di  esercitare  sulla  politica  generale  alcuna  efficace  influenza,  tanto 
peggio,  che  gli  affari  militari,  e  le  questioni  cogli  indigeni,  erano 
sottratte  alla  loro  competenza.  Tuttavia  la  colonia  possedeva  or- 
mai una  rappresentanza  legale,  come  dire  una  libera  arena  dove 
discutere  dei  propri  interessi,  ed  era  una  grande  conquista.  Con 
essa  terminava  il  primo  periodo  della  sua  storia,  e  il  costante 
progresso   economico   che   s'era  compiuto  ad  onta   delle   guerre 

'    Sta'Kte  lato  of  the  Cape  of  Good  Hope.  C&'^&iown.    1862.  —  e  Cape  of  Good 
Hope  Stalutes.  Capetown,  18G3. 


496  l'  inghilteera 

cogli  indigeni,  delle  emigrazioni,  e  delle  frequenti  contraddizioni 
del  governo  metropolitano,  poteva  trarre  dalle  nuove  e  liberali 
istituzioni  più  vigoroso  alimento. 

II. 

La  storia  coloniale  non  ha  forse  un  esodo  più  commovente 
di  quello  dei  Boeri  dell'Africa  australe.  Dalle  prime  emigrazioni, 
quando  fuggirono  la  signoria  inglese  appena  stabilita  nel  paese, 
sino  alle  recenti  fortune  per  cui  lasciarono  il  Transvaal  dopo 
l'annessione,  questi  pionieri  della  civiltà  europea  si  inoltrarono 
sempre  verso  l'interno,  vieppiù  intolleranti  dei  vincoli  che  ogni 
civile  convivenza  domanda,  e  come  inselvatichiti  nell'isolamento 
della  loro  vita  pastorale.  Quando  l'abolizione  della  schiavitù  tolse 
loro  gli  strumenti  del  lavoro,  e  ne  scompigliò  le  masserie,  ven- 
dute le  terre  «  per  un  uovo  e  una  patata  »  caricarono  ogni 
aver  loro  sui  carri  trascinati  da  sette  coppie  di  buoi,  e  caccian- 
dosi innanzi  le  mandre  s'avviarono  verso  il  nord.  Dove,  noi  sa- 
pevano essi  medesimi:  l'Africa  era  grande,  le  leggi  inglesi  odiate, 
tanto  più  che  temevano  d'essere  violentati  ad  abbracciare  il  cat- 
tolicismo;  ed  essi  lasciavano  le  dolci  case,  e  i  memori  altari,  e 
muovevano  verso  il  deserto,  in  cerca  d'erba  e  di  libertà.  L'Olanda 
avrebbe  commesso  a' suoi  governatori  di  trattenerli  a  forza;  ma 
i  giureconsulti  della  colonia,  interpellati  dal  governatore,  lord 
Durban,  affermarono  che  la  legge  inglese  non  gliene  consentiva 
il   diritto. 

I  primi  emigranti  erano  comandati  da  Reuzenburg  e  Lewis 
Trichard.  Vivevano  di  caccia;  si  arrestavano  dove  erano  pingui 
pascoli  per  le  greggie,  e  disposti  i  carri  in  quadrato  ne  chiudevano 
con  rami  spinosi  gli  interstizi  e  vi  raccoglievano  come  in  un  for- 
tilizio le  donne,  i  fanciulli,  ed  ogni  cosa  loro.  Poi,  dall'alto  di  co- 
teste  trincee,  col  fucile  in  mano  e  le  cariche  in  bocca,  respingevano 
gli  assalti  dei  selvaggi,  che  alle  volte,  sorpresili  alla  spicciolata,  ne 
facevano  orrendo  macello.  Nel  passaggio  delle  montagne  del  Dra- 
gone perdettero  buona  parte  del  bestiame.  Poi  si  divisero  :  gli  uni 
discesero  verso  il  sud  ;  gli  altri  proseguirono  la  marcia  faticosa 
traverso  un  paese  infestato  da  tribù  feroci.  Nubi  di  mosche,  la 
terribile  tsetsé  uccisero  loro  il  bestiame,  rimasto,  ultima  risorsa,  e  i 
poveretti,  perduta  ogni  speranza,  fra  non  credibili  patimenti,  dovet- 
tero quasi  tutti  soccombere;  i  pochi  superstiti,  che  arrivarono  alla 
baja  di   Delagoa,   furono   ivi   raccolti   dalla  pietà  dei  Portoghesi- 


nell'africa  australe.  497 

Più  tardi  un'  altra  carovana  raggiunse  la  prima  nel  Natal,  la 
Terra  natnlis,  scoperta  da  Gama  nel  suo  primo  viaggio  alle 
Indie.  Ma  anche  là  ebbero  a  soffrire  perdite  sanguinose,  e  fu 
quando  gli  Zulù  ricominciarono  a  salire  in  fama  di  ferocia.  A 
Cbaka.  un  Attila  africano  cbe  aveva  esteso  il  suo  dominio  su 
tutto  il  paese  fra  la  Cafreria  ed  il  Limpopo.  era  succeduto  nel- 
l'impero il  fratello  Dingaan,  cbe  si  mostrò  dapprima  fautore  de- 
gli Europei.  Assentì  infatti  alla  domanda  dei  Boeri,  quando  gli 
domandarono  terre,  ed  il  loro  capo  Retief  con  70  de' suoi  andò 
a  stringere  il  contratto,  pieno  di  fiducia,  senz'armi.  Gli  Zulù  die- 
dero loro  una  gran  festa,  durante  la  quale  li  trucidarono  senza 
pietà  ;  poi  si  in'ecipitarono  sugli  attoniti  coloni  cbe  avevano  pre- 
ceduto il  grosso  della  carovana,  e  ne  misero  a  morte  oltre  a  600. 
Gli  altri,  mossi  alla  vendetta  dei  compagni,  furono  dapprima 
battuti  ;  ma  poi,  indettatisi  con  un  fratello  di  Dingaan,  e  trovato 
in  Andrea  Pretorius  un  capo  vigoroso  ed  audace,  tornarono  alla 
prova  e  vinsero.  Così  ebbero  quella  cbe  dalle  vette  delle  monta- 
gne del  Dragone  era  loro  sembrata  quasi  una  terra  promessa,  e  vi 
fondarono  la  città  di  Pietermaritzburg,  in  memoria  dei  duci  morti 
innanzi  di  giungervi. 

Costituivasi  così  nel  Natal  una  libera  repubblica,  o  piuttosto 
una  federazione  di  famiglie  unite  appena  per  la  necessità  della 
difesa.  L'occhio  vigile  e  il  braccio  potente  dell'Inghilterra  non  tar- 
darono però  a  raggiungere  i  Boeri  anche  nelle  nuove  dimore  ;  sicché 
messi  nel  bivio  di  riconoscere  la  signoria  britannica  o  sgombrare 
da  un  paese  che  l' Inghilterra  teneva  per  suo,  resisterono  fiera- 
mente colle  armi.  Ma  ben  presto,  perduta  la  capitale,  invocata 
indarno  la  protezione  dell'  Olanda,  lasciarono  anche  le  nuove  di- 
more, pensando,  ^colla  Bibbia  che  leggevano  ogni  sera,  di  non 
essere  ancora  abbastanza  provati  dalla  sventura  per  raggiungere 
la  loro  Gerusalemme,  e  godervi  i  benefici  promessi. 

Gli  esuli  s'arrestarono  dapprima  sulle  rive  del  Vaal  e  fon- 
darono la  città  di  Potchefstroom  ;  poi,  appena  seppero  che  in 
una  ordinanza  del  Governo  del  Capo  si  consideravano  siccome 
estese  a  tutti  gli  Europei  a  sud  del  25°  di  lat.  le  leggi  inglesi, 
si  inoltrarono  ancra  più  a  ponente,  negli  estremi  stabilimenti 
di  Zutpansberg  e  di  I  eydenburg.  11  loro  capo,  Pretorius,  non  li 
aveva  seguiti  in  quest'ultima  migrazione.  S'adoperò  invece  ad  ot- 
tenere dal  governatore  del  Capo  l' indipendenza  del  paese  tra 
]' Grange  ed  il  Yaal,  dove  s'era  raccolto  il  maggior  numero  dei 
Boeri,  e  quando  già  stavano  per  consentire  a  riconoscere  di  buon 


498  L'  INGHILTERRA 

grado  le  leggi  inglesi,  eccitò  il  poi^olo  alla  rivolta,  costrinse  a 
cai^itolare  il  comandante  di  Bloemfontaiu,  e  proclamò  l'indipen- 
denza di  tutto  il  paese.  L'Onmge  frij  State  durò  appena  sei  set- 
timane, perchè  giunsero  presto  i  rinforzi  inglesi,  i  Griqua  si  uni- 
rono loro  ed  ai  ribelli  non  rimase  altro  scarnilo  che  la  fuga. 

Intanto  il  governo  inglese,  ch'era  allora  in  mano  dei  tvJiigs, 
essendo  ministro  delle  colonie  lord  Grey,  richiamava  l'attenzione 
del  governo  del  Capo  sulla  convenienza  di  non  allargare  più  ol- 
tre i  confini  della  colonia.  Perchè  consumare  uomini  e  danaro, 
per  contxuistare  e  mantenere  territori  vastissimi  e  deserti,  quando 
già  la  colonia  aveva  una  così  grande  estensione  ?  Protegger  le  razze 
afi-icane  dagli  Europei,  difendere  gli  stabilimenti  di  questi,  por- 
tare fra  i  selvaggi  la  civiltà,  aprire  al  commercio  nuovi  sbocchi, 
erano  buoni  ed  utili  ]3i"opositi  ;  ma  non  dovevano  essere,  compiuti 
per  forza  d'armi.  Infatti  nel  1852,  colla  Sancì  Uiver  Convention, 
il  governo  britannico  riconobbe  l'indipendenza  dei  Boeri,  che  ave- 
vano fondata  oltre  i  confini  inglesi  la  repubblica  del  Transvaal, 
e  l'anno  appresso  consenti  anche  a  quelli  dell'Orange  facoltà  di 
darsi  libero  reggimento,  rinunciando  alla  sua  sovranità  sul  jmese, 
dove  fu  del  pari  proclamata  la  reimbblica. 

11  lìoyal  order  in  coimcil,  col  quale  la  Kegina  dichiarò  the 
ubandoncìnent  and  renunciallon  of  our  doìuiniou  and  sovercignty 
over  tìie  said  territonj  and  the  inahitants  thereof,  fu  severamente 
censurato  in  quel  tempo  ed  alimentò  una  viva  polemica.  Dubita- 
vano molti  se  la  Corona  avesse  facoltà  di  rinunciare  ad  un  ter- 
ritorio britannico,  senza  alcuna  coazione  di  guerra  o  di  trattato  ; 
se  potesse  togliere  lo  status  di  sudditi  inglesi  agli  abitanti  di 
quel  territorio,  perciò  solo  che  non  vi  era  ancora  applicata  la 
legislazione  parlamentare.  '  La  disputa  ha  piuttosto  natura  poli- 
tica, ma  la  ricordo,  perchè  gioverà  a  spiegare  più  tardi  la  poli- 
tica dei  toryes  e  l'annessione  del  Transvaal.  Intanto  colla  procla- 
mazione delle  repubbliche  dell'Orange  e  del  Vaal  i  Boeri  pote- 
rono godere  vent'anni  di  libertà  e  di  pace,  e  più  l'avrebbero 
goduta  se  avessero  continuato  a  prevalere  nel  governo  inglese  i 
principii  dai  quali  quelle  due  repubbliche  ripetevano  la  loro  in- 
dijjendeuza. 

'  FoRSYTH,  Cases  and  opiyiions  on  constitutional  lato.  London,  1860. 


nell'africa  australe.  499 


III. 


Così,  accanto  alle  colonie  inglesi  del  Capo  di  Buona  Speranza 
e  di  Natal,  nascevano  le  repubbliche  olandoidi  dell'Orange  e  del 
Transvaal.  La  loro  storia,  da  questo  momento,  vuol  essere  rias- 
sunta a  parte  a  parte,  prima  di  descriverne  la  situazione  presente 
e  di  narrare  gli  ultimi  avvenimenti  che  precedettero  la  guerra 
cogli  Zulù,  e  condurranno  alla  fondazione  della  confederazione 
australe  africana  vagheggiata  da  lord  Carnarvon.  '■ 

Per  qualche  tempo  la  repubblica  dell'  Grange  visse  in  pace 
coi  vicini.  Ad  occidente  i  Griqua,  che  obbedivano  allora  a  due 
capi,  Waterboer  e  Adamo  Kok,  nati  da  unioni  tra  i  Boeri  ed  i 
loro  schiavi  africani,  non  esitarono  a  vender  alla  repubblica  lor 
terre;  ad  oriente  i  Basutos,  raccolti  sotto  un  sovrano  accorto,  ri- 
soluto, di  nome  Moshesh,  li  tennero  in  conto  di  alleati.  Ma  nella 
costituzione  stessa  della  repubblica  erano  i  germi  di  inevitabili 
conflitti,  né  i  Boeri  avevano  rinunciato  alla  loro  antica  politica 
contro  i  nativi.  Il  potere  esecutivo  venne  commesso  ad  un  pre- 
sidente eletto  dal  popolo  per  5  anni  ;  il  legislativo  ad  una  As- 
semblea di  50  membri,  il  Volhsraad,  alla  cui  elezione  concor- 
revano tutti  i  cittadini  bianchi,  con  limitate  condizioni  di  censo 
e  di  capacità.  Il  territorio  venne  suddiviso  in  13  distretti,  go- 
vernati da  un  Landdrost,  nominato  dal  Presidente  e  confermato 
dall'Assemblea.  Il  fondo  della  legislazione  fu  costituito  dal  diritto 
consuetudinario  olando-romano  ;  le  leggi  dovevano  essere  sanzio- 
nate dal  popolo. 

1  Anche  i  due  Stati  dei  Boeri  hanno  oramai  una  ricchissima  letteratura.  Cito 
fra  altre  opere,  che  mi  corrono  S'->tto  la  penna,  le  seguenti:  Silver  S.  W.  :  Hand- 
bnok  to  the  Trniisvaal,  its  naturai  featurex,  industries,  population  and  gold 
fields.  London,  181".  —  P.  Gillmore  :  The  great  Thirst  Land,  A  Rìde  thro^igh 
Grange  free  State,  Transvaal,  and  Kaluhari  Desert,  London,  1818.  —  Gap. 
Ei.TON  :  Special  Report  itpon  the  Gold  Field  at  Marabastadt  and  upon  the 
Transvaal    liejDublic,  Durban,    1872.  Chesson  F.  W  :    The    dutch  republic  in 

So'ilh  Africa,  London,  18T1. — Jacquenin  -.Le  Transvaal,  nel  Bull,  de  la  soc. 
belge  de  géngr.  1816,  pag.  451-468,  491-539.  —  Ravenstkin  :  The  South-African 
Republic-;  nel  Geogr.  Magas.,  t'ebbr.  1811.  —  Maelen,  G.  van  der  :  Bibliographie 
speciale  du  Ti^atìsvaàl,  nel  Bulletin  de  la  Société  belge  de  ge'ographie,  1871, 
p.  122-13Ì,  371-316.  —  Jkpp-:  Frid:  Transvaal  Bonk-Almanac  and  Directory 
far  1877,  un  voi.  in-12,  Pietermariizburg,  1811.  —  Russell  M. ile:  The  republics 
of  South- Africa,  nel  Bull,  of  the  Americ.  geogr.  Society,  p.  30-44.  New  York, 
1871.  —  Merbnsky  a.:  Eine  nene  Karte  der  sùd-afrihanisch en  Repitblik,  nella 
Zeitschrift  dèr  Gesellschafc  filr  Erdkiinde,  X,  Berlin,  1815.  —  Reks  \y.  A 
van.:  Naar  de  Transvaal,  in  8,  Amsterdam,  ISlS.  —  De  Zuid  Afrikannsche 
republieken  met  de  diamant  velden,  Amsterdam,  1811. 


500  L  INGHILTERRA 

Erauo  le  istituzioni  d'ima  democrazia  elvetica,  trapiautate 
fra  popolazioni  costrette  a  combattere  una  continua  lotta  per  la 
vita  cogli  antichi  signori  della  terra,  una  lotta  che  si  manifestava 
cogli  assassini  isolati,  con  scaramuccie  di  confine  presto  chetate 
0  punite,  quando  non  prorompevano  a  vere  guerre,  con  tutte  le 
abitudini  del  comwando  tradizionale.  Per  ben  tre  volte  interven- 
nero pacieri  gli  Inglesi  ;  ma  i  Basutos,  sebbene  avessero  la  ragione 
di  chi  vince,  erano  sempre  costretti  a  cedere  ai  Boeri  qualche 
loro  terra.  E  quando  nell'  angusto  spazio  loro  restato  si  trova- 
rono a  disagio,  domandarono  di  essere  annessi  ai  domini  inglesi. 
Dopo  brevi  esitanze  convenne  pur  accettare  la  dedizione,  perchè 
non  si  gettassero  disperati  alla  macchia  sui  declivi  delle  montagne 
del  Dragone  a  minacciare  i  coloni.  Così  si  abbandonava  nel  1867, 
la  politica  'proclamata  tre  anni  innanzi,  ed  il  territorio  dei  Ba^ 
sutos  veniva  incorporato  al  Capo,  quasi  anello  di  congiunzione 
colla  minor  colonia  di  Natal.  Vane  tornarono  le  proteste  del  Volks- 
raad  di  Bloomfontein  contro  una  così  aperta  violazione  della 
convenzione  del  1854;  l'Orange  dovette  rassegnarsi  alla  perdita 
di  un  territorio  sul  quale  già  volgeva  i  cupidi  sguardi,  perdita 
ben  lieve  a  paragone  di  quella  che  dovette  subire  j)oco  appresso 
in  sugli  opposti  confini. 

In  principio  'del  1868  alcuni  fanciulli,  che  si  trastullavano 
non  lungi  dal  confluente  del  Vaal  nell'Orango,  tornarono  con  le 
mani  piene  di  pietruzze  del  più  vago  splendore.  Un  pastore  olandese 
vendeva  in  quel  torno  alcune  pietre  ad  un  colono  del  Capo,  e 
questi  lavorandole,  fu  colpito  dallo  stesso  splendore.  Avevano 
scoperto  una  miniera  di  diamanti,  ed  è  facile  immaginare  come 
rapida  si  diffuse  la  notizia.  Fu  un  movimento  generale  di  emi- 
grazione, un  entusiasmo,  un  delirio  ;  i  mercatanti  delle  città  del 
littorale  abbandonavano  i  bandii;  i  pastori  le  masserie;  gli  ar- 
tigiani le  officine;  ufficiali  e  soldati  domandavano  un  congedo  o 
disertavano  ;  e  persino  un  alto  funzionario  del  Transvaal,  un  pre- 
fetto, armato  della  sua  zappa  e  del  vaglio  mosse  per  alla  volta 
della  nuova  Golconda.  Poi  vennero  emigranti  dall'  Europa,  dagli 
Stati  Uniti,  persino  dall'  Australia,  sedotti  dai  racconti  esagerati 
di  bocca  in  bocca  delle  prime  scoperte.  Un  indovino  cafro,  di 
quelli  che  hanno  grande  autorità  fra  i  selvaggi,  avea  rinvenuto 
la  stdia  dell'Africa  australe,  un  diamante  di  dugentottanta  ca- 
rati, e  l'avea  ceduto  in  cambio  d'un  fucile;  un  diamante  di  75 
carati  era  stato  trovato  nei  rifiuti  delle  terre  vagliate  in  fretta 
dai  primi   minatori,   che  badavano  alle   pietre  di  maggiore  evi- 


nell'africa  australe.  501 

denza  ;  un  cavallo  graffiando  il  suolo  colle  zampe,  aveva  scoperta 
una  miniera,  e  più  d'un  cuoco,  sventrando  con  premura  ignota 
sino  allora  i  grossi  uccelli  del  paese,  avea  trovato  nel  gozzo  una 
fortuna.  Mai  paese  al  mondo  fu  trasformato  più  rapidamente  di 
questo,  dove  si  trovarono  tali  ricchezze.  Un  commercio  animato, 
una  vita  quasi  vertiginosa  si  svilupparono  in  pochi  mesi,  dove 
avevano  vagato  sino  allora  branchi  d'antilopi,  e  regnato  libera- 
mente sciacalli  e  leoni.  Da  tutte  le  direzioni  muovevano  a  quella 
volta,  carri  pesanti  con  munizioni  d'ogni  specie,  stromenti  di  la- 
voro, tende,  e  tutto  quanto  era  necessario  alle  nascenti  colonie. 
E  fortune  più  sicure  e  rapide  dei  minatori  fecero  coloro  che  prov- 
videro ad  ajjpagarne  i  primi  bisogni,  e  qualchevolta  tenevano  il 
sacco  ai  nativi,  che  rubavano  i  diamanti  ai  padroni,  pei  quali 
attendevano  a  frugarli  in  seno  alla  terra. 

Nel  1870  erano  arrivati  5000  bianchi;  l'anno  dopo  se  ne  con- 
tavano 35,000.  A  New-Kush,  la  più  ricca  di  queste  miniere,  nel 
1872,  pel  corso  di  otto  mesi,  si  trovarono  in  media  3000  diamanti 
al  giorno,  molti  di  cospicua  grossezza.  Ma  a  chi  apparteneva  co- 
testa  vera  Golconda  ?  Era  proprietà  di  Waterboer,  il  capo  super- 
stite dei  Griqua,  o  compresa  nel  territorio  lasciato  dall'Inghil- 
terra airOrange  ?  A  qual  legge  dovevano  obbedienza  i  minatori  ? 
chi  doveva  mantenere  fra  loro  almeno  quel  tanto  d'ordine  neces- 
sario ad  ogni  civile  convivenza?  Da  principio  i  nuovi  arrivati  si 
organizzarono  ad  esempio  delle  società  fondate  in  modo  non  dis- 
simile in  California,  in  Australia,  nel  Nevada,  dovunque  l'im- 
provvisa scoperta  di  ricchi  giacimenti  aveva  chiamata  folla  di 
coloni  in  \m  paese  deserto.  Deputarono  alcuni  fra  loro  ad  am- 
ministrare la  giustizia,  se  così  jjotevasi  chiamare  un  processo 
sommarissimo,  che  riusciva  di  solito  alla  frusta  o  alla  forca.  Vie- 
tato severamente  agli  uomini  di  colore  di  lavorare  per  proprio 
conto  nelle  miniere  e  possedere  diamanti;  i)uniti  coll'incendio  di 
ogni  aver  loro  i  cantinieri,  che  ne  ricettavano  i  farti.  Si  proclamò 
una  «  repubblica  diamantina,  »  che  ebbe  per  qualche  giorno  a 
presidente  un  garzone  di  caffè.  Intanto  l'Orange  proponeva  al  go- 
vernatore del  Capo  di  chiamare  arbitro  della  proprietà  della 
terra  l'imperatore  di  Germania,  e  il  signor  Brand,  che  da  quin- 
dici anni  si  trova  alla  testa  della  repubblica,  pubblicava  un  pro- 
clama e  mandava  fra  i  minatori  un  governatore  incaricato  del- 
l'amministrazione. Per  colmo  di  confusione  il  Transvaal  fece  al- 
trettanto sull'opposta  riva  del  Yaal,  di  guisa  che,  quando  sir 
H.  Barkiy,  governatore  del  Capo,  venne  sul  luogo,  si  trovò  davanti 


502  l'  INGHILTERRA 

ad  una  delle  più  ingarbugliate  questioni  si  potessero  immagi- 
nare. Dritti  d'uso  creati  da  un  lungo  possesso,  concessioni  di  terre 
accordate  da  chi  non  ne  aveva  la  proprietà,  frasi  a  doppio  senso, 
carte  geografiche  erronee,  lettere  scritte  da  un  capo,  che  non  sa- 
peva leggere,  e  peggio.  Il  Barkly  neanche  vi  pose  mente:  non 
aveva  fatto  1200  chilometri,  quanti  corrono  da  Capetown  a  Kilf- 
drift,  per  fare  un  processo,  sibhene  per  affermare  la  sovranità  in- 
glese sul  territorio,  e  vi  innalzò  la  sua  bandiera.  Il  Transvaal 
non  fiatò;  ma  l'Orange  continuò  a  protestare,  a  lamentarsi,  ad 
invocare  arbitrati.  Anzi,  sebbene  il  Parlamento  del  Capo  provve- 
desse subito  all'amministrazione  del  nuovo  territorio,  ch'ebbe 
nome  di  Griqualand  occidentale,  la  disputa  continuò  sino  al  1876, 
quando  lord  Caruarvon  fece  pagare  al  presidente  Brand,  recatosi 
a  Londra,  una  indennità  di  ceutoquindicimila  sterline,  per  ter- 
minare la  lite  e  cattivarsene,  sperava,  il  favore,  per  il  suo  pro- 
getto di  federazione  australe.  Tornato  che  fu  a  Bloemfontain,  il 
Brand  attese  con  tutto  lo  zelo  a  compiervi  il  riordinamento  delle 
finanze  e  il  buon  assetto  dell'amministrazione,  ed  istituì  una  forza 
armata  pel  mantenimento  dell'ordine.  Cosi  l'Orange  gode  tuttora 
di  una  prosperità  relativa,  e  conserva  la  sua  indipendenza  poli- 
tica, sebbene  stretto  tutto  intorno  dai  possedimenti  britannici. 

Al  Griqualand  occidentale,  dopo  che  il  Parlamento  del  Capo 
ne  ricusò  l'annessione  immediata,  il  governatore  mandò  tre  com- 
missarii  per  l'amministrazione,  la  difesa  e  la  giustizia.  Ma  come 
non  avevano  sufficiente  autorità  su  quell'accolta  di  avventurieri 
d'ogni  nazione,  nei  quali  era  cresciuto  un  fiero  spirito  d'indipen- 
denza, mancò  loro  la  forza  di  impedire  le  sanguinose  repressioni 
contro  i  nativi,  le  contese  fra  i  proprietari  del  suolo  ed  i  mina- 
tori, e  le  turbolenze  naturali  in  cosiffatto  paese.  Così  il  governa^ 
tore  al  principio  del  1873  mandò  a  reggere  la  provincia  un  luo- 
gotenente, con  un  Consiglio  di  otto  persone,  metà  eletto  dagli 
abitanti,  ed  una  piccola  forza  armata,  ed  allora  fu  possibile  man- 
tenere l'ordine,  riscuotere  qualche  tributo,  ed  avviare  nel  cuore 
dell'Africa  selvaggia  un  altro  embrione  di  governo  parlamentare. 

Diversa  sorte  ebbe  la  repubblica  del  Transvaal,  come  ebbe 
diverse  dall'  Grange  le  origini.  1  Boeri  rimasti  in  quella,  si  ri- 
corda, eransi  dapprima  acconciati  al  reggimento  britannico,  [poi 
secondarono  i  civili  intendimenti  del  Brand,  quando,  ad  un  rag- 
gruppamento di  monadi  scompigliate,  volle  sostituire  una  orga- 
nizzazione liberissima  sì,  ma  pur  tale  da  compatire  una  suffi- 
ciente autorità  di  governo.  Invece   nel   Transvaal   si   erano   rifu- 


nell'africa  australe.  ^^^ 

giati  i  Boeri  più  intolleranti  d'ogni  disciplina,  che  non  volevano 
riconoscere  aiitoritcà  fuor  del  loro  volere,  e  nessuna  forma  di  go- 
verno fuor  della  pastorale,  che  la  Bibbia  aveva  loro  imparato  a 
preferire  ad  ogni  altra.  Quando  si  legge  in  Jeppe,  in  Merensky,  in 
Trollope,  od  in  qualche  altro  degli  scrittori  che  visitarono  il  Trans- 
vaal  il  semplice  racconto  della  vita  de'  suoi  abitanti,  ci  tornano, 
alla  mente  le  ingenue  narrazioni  di  Robinson  Crosuè. 

I  Boeri  odiano  il  progresso  ;  eppure  hanno  eccellenti  qualità, 
come  un  ricordo  dei  pacifici  ed  industriosi  progenitori  dell'Olanda. 
Cercano  un  terreno  ondulato,  grande  da  sei  a  ventimila  arpenti, 
arrestano  il  carro  presso  ad  una  fonte,  a  quindici  chilometri,  se 
non  oltre,  dallo  stabilimento  più  vicino,  e  vi  costruiscono  una  ca- 
panna. La  terra  bagnata  e  cementata  colla  sabbia  porge  semplici 
materiali  di  costruzione;  gli  interstizi  si  coprono  col  fango  sino 
a  che  tutto  il  ^muro  presenti  una  tal  quale  solidità.  Seminano 
buon  tratto  di  terra  presso  alla  capanna  a  frumento  ed  a  gran- 
turco; dall'altra  parte  preparano  l'orto  e  il  giardino,  poco  oltre 
le  chiuse  dove  custodiscono  la  greggia.  Presto  il  suolo  ferace  lar- 
gisce copia  d'aranci,  limoni,  fichi,  pèsche,  pere  e  d'ogni  ben  di 
Dio.  Chi  vuol  presto  arricchire  vi  aggiunge  un  parco  di  struzzi, 
e  sanno  l'arte  di  ridurli  come  dentro  ad  un  imbuto,  per  strap- 
par loro  intatte  le  preziose  penne,  e  mandarle  a  Delagoa  od  a 
Port  Natal,  insieme  alle  lane,  e  al  sopravanzo  dei  prodotti  agri- 
coli. Così  vivono  nell'abbondanza,  con  pochi  utensili,  colla  Bibbia 
unica  lettura,  fra  i  figliuoli  e  le  mandre,  hmgi  da  ogni  contatto 
civile.  Ad  ogni  matrimonio  si  costruisce  una  capanna,  a  due  tiri 
di  fucile  dalla  prima,  e  si  mette  a  coltura  un  tratto  di  terreno 
intorno  intorno;  e  formano  un  villaggio  patriarcale,  dove  il 
paterfamilias  è  re,  sacerdote,  giudice,  tutto.  La  mattina  rac- 
coglie i  suoi  alla  recita  di  un  salmo;  la  sera  siedono  al  comun 
desco  e  fanno  la  preghiera.  Nessun  bisogno,  che  non  possano  su- 
bito appagare  ;  un  orizzonte  chiuso,  limitato  ;  una  stima  assai  me- 
diocre della  ricchezza;  un  dispregio  assoluto  per  le  raffinatezze 
della  civiltà.  Alimentano  il  focolare  cogli  escrementi  animali,  per- 
chè è  scarso  il  combustibile,  e  s'abituano  presto  al  cattivo  gusto 
che  ne  ritraggono  le  semplici  vivande.  Vestono  all'europea,  e  mai 
si  spogliano  la  notte,  per  l'abitudine  contratta  [nelle  lunghe 
emigrazioni,  o  piuttosto  per  essere  pronti  alla  difesa.  Le  capanne 
presentano  dentro  una  tal  quale  grossolana  eleganza,  che  ricorda 
l'Olanda;  qualche  volta  le  seggiole  sono  ricoperte  di  spoglie  fe- 
line e  leonine,  trofei  di  omeriche  caccie  alle  quali  i  coloni   sono 


50  i  L'  INGHILTERRA 

-costretti  per  preservare  sé  e  la  greggia.  Parlano  un  olandese  cor- 
rotto con  qualche  parola  di  inglese  e  molte  dei  dialetti  africani, 
conosciuti  nei  loro  contatti.  Non  pagano  imposte   e  s'adattano   a 
fatica  a  riconoscere  appena  quel  tanto  di  autorità  che  basta    ad 
assicurare  loro  la  fiera   indipendenza   e   il   possesso   delle   terre. 
Pretorius,  ch'era  il  degno  capo  di  questa  gente,  aveva  appunto 
ima  autorità  effimera,  appena  sufficeute  a  firmare  la  convenzione 
del  Sand  River,  colla  quale  il  governo  inglese  aveva  riconosciuta 
l'indipendenza  del  Trausvaal.  Alla  sua    morte,    nel    1753,   nessun 
legame  univa  tra  loro  i  tre  stabilimenti  di  Potchefstroom,  Leiden- 
biu'g  e  Zutpansberg,  nei  quali  si  erano  raccolti  i  Boeri,  e  questi 
rimanevano  esposti  alle  minacele  dei  selvaggi,  sì  che  la  storia  breve 
del  Trausvaal  è  piena  di  massacri,  di  incendi  e  di  sanguinose  trage- 
die. Né,  a  dir  vero,  il  torto  maggiore  era  dei  selvaggi.  Anzitutto  i  Boeri, 
con  evidente  malafede,  mantenevano  la  schiavitù,  che  si  erano  impe- 
gnati nel  trattato  del  1852  ad  abolire  di  netto.  Uccidevano  i  guer- 
rieri e  le  donne,  ed  allevavano  i  fanciulli  che  poi   vendevano   ai 
Portoghesi  della  baia  di  Delagoa  ed  agli  Arabi  che  vi  ancoravano 
le  barche,  quando  non  ^preferivano  mantenerli  in  ischiavitù  nelle 
masserie,  facile  impresa  dacché  avevano  perduto  ogni  ricordo  della 
patria  e  fin  della  lingua.  Quando  il  figlio  di  Pretorius  tentò  di  unire 
i  Boeri  del  Trausvaal  per  la  difesa  comune,  non  trovò  ascolto  ed  egli 
lasciò  la  presidenza  e  il  paese,  che  precipitò  nell'anarchia.  Ridottosi 
nell'Orauge,  vi  fu  eletto  presidente,  e  tentò  di  unire  le  due  repub- 
bliche ;  ma  vi  si  oppose  il  Voìksrad  di  Blomfoutain,  che  aveva  una 
stima  assai  mediocre  de'  connazionali  d'oltre  Vaal.  Dal  cauto  suo  il 
governatore  del  Capo  dichiarò,  che  non  avrebbe  consentito  l'unione, 
nello  stesso  modo  che  più  tardi,  quando  Pretorius  lasciò  l'Orange 
e  ristabilì  l'ordine  nel  Trausvaal,  che  lo  rielesse  presidente,  non 
gli  consentì  di  trattare  con  gli  Zulù  per  avere  uno  sbocco  sul  mare. 
La  mancanza  di  questo  sbocco  era  per  il  Trausvaal,  a  dir  poco,  una 
rovina;  ma  gli  Inglesi,  che  già  invidiavano  ai  Portoghesi  la  baia 
di  Delagoa,  e  l'avrebbero  loro  tolta,  se  il  presidente  della  repub- 
blica francese,  chiamato  arbitro  della  contesa,  non  avesse  trovato 
comprovate  le  ragioni  di  possesso  del  governo  di  Lisbona,'  gli  In- 
glesi non  potevano  riconoscere  altra  autorità  fuor  della  loro,  su 
tutto  il  litorale  australe  dell'Africa  sino  ai  possedimenti  lusitani. 

'  Con  cotesto  giudizio  arbitramentale  il  maresciallo  Mac-Mahon  tenne  per  de- 
bitamente comprovate  le  pretese  del  governo  poi-toghese  sui  territorii  di  Tembe  e 
<li  Majuito,  sulla  penisola  d' Inyaok,  e  sulle  isole  d' Inyack  e  degli  Elefanti,  — 
V.  Journal  Officiel  30  luglio  1875. 


nell'africa  australe.  505 

Intanto  si  era  fondata  nel  Transvaal  la  nuova  città  di   Pre- 
toria, scelta  a  capitale,  e  vi  si  era  proclamata   una   costituzione 
democratica.  Il  potere  esecutivo  fu  affidato   al  presidente   eletto 
ogni  cinque  anni  a  suffragio  universale,  ed  a  quattro  consiglieri;  il 
legislativo  ad  una  Assemblea  di  30  deputati  eletti  pure  a  suffragio 
universale.  Nei  primi  anni  l'Assemblea  fu  tutta  occupata  a  ratificare 
le  annessioni  clie  la  repubblica  andava  facendo  continuamente  sulle 
tribù  del  confine.  Quando  insorgeva  una  contesa,  e  le  autorità  del 
Transvaal  erano  chiamate  a   pacificarla,   si   appropriavano   inva- 
riabilmente le  terre  del  più  debole;  ed  i  coloni  imitavano  la  pro- 
cedura svelta  del  governo.  Alle  volte  compravano  da  un  capo  per 
somme  da  burla  un  territorio  non  suo,  e  lo  scrivevano    nel    ca- 
tasto della  repubblica.  A  lungo  andare  cotesti  usurpatori   si   fe- 
cero tanti  nemici,  che  cominciarono  a  rimetterci  del  loro;  anzi,  in- 
torno al  1865  perdettero  d'un  tratto  parecchi  villaggi,  con  masserie 
chiese  e  scuole,  e  furono  costretti  a  dispendiose  spedizioni.  Il  com- 
mercio languiva,  la  moneta  era  scarsa,  gli  Inglesi  imponevano  al  loro 
confine  gabelle  esorbitanti,  e  Pretorius  si  vide  costretto  a  decretare 
il  corso  forzoso  di  certi  biglietti  di  banca,  che  precipitarono   su- 
bito ad  un  corso  rimesso  assai.  Una  rovina,  se  giusto  in  quell'epoca 
non  si  fossero  scoperte   miniere   di   diamanti  sul   Vaal   e   ricchi 
filoni  di  quarzo  aurifero  nel  Zutpansberg,   due   avvenimenti   che 
chiamarono  nel  paese  nuove  frotte  d'emigranti,  ravvivarono  il  com- 
mercio, e  fecero  rinascere  speranze  di  miglior  avvenire.  Vedemmo 
però  come  il  Pretorius  fosse  costretto  a  rinunciare  alle  sue  pre- 
tese sulla  regione  diamantifera,  senza  neanche  ^il   compenso   che 
ottenne,  litigando  anni  ed  anni  come  un  leguleio,  il   suo  collega 
deirOrange.  La  politica  del  presidente  aveva  subito  troppe  scon- 
fitte per  continuare   ad   avere   le   grazie   di   quella  rozza   gente, 
laonde  lo  deposero  senz'altro,  ed  elessero  in  sua  vece  F.  Burgers. 
Il  rev.  Francesco  Burgers,  educato  nelle  missioni  olandesi  al 
Capo,  era  uomo  di  tutt'  altra  tempra.  Mite  ed  energico  ad  un  tempo, 
dotato  di  un  sicuro  colpo  d' occhio,  convinto  dei  benefici  della  ci- 
viltà, egli  vide  nel  Transvaal  un  paese  da  rigenerare.  Le  condi- 
zioni sue  non  potevano   essere   peggiori;   eppure  il  suolo  era  un 
paradiso  terrestre,  le  miniere  abbondanti,  laboriosi  e  frugali  gli 
abitanti,  e  relativamente  vicino  uno  sbocco  magnifico,  sebbene  nelle 
mani  dei  Portoghesi.  Adottò   dunque  saggie  ed  energiche  misure 
per  la  buona  amministrazione  dello  Stato;  contrasse  a  Capetown 
un  prestito  di  63  mila  Ls.  per  ritirare  la  carta  moneta  ;  riformò 
la  legislazione;   pacificò  i  nativi,  stringendo   con   essi  trattati  di 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Aprile  18^9.  31 


506  l'  inghilterka. 

pace  e  d'amicizia,  e  si  dedicò  tutto  a  sviluppare  la  ricchezza  del 
paese.  Lo  percorse  in  tutti  i  sensi,  fondò  chiese  e  scuole,  costruì 
strade,  istituì  un  corpo  di  polizia  per  il  mantenimento  dell'  or- 
dine, specie  nei  distretti  auriferi,  dove  erano  convenuti  in  folla 
nuovi  emigranti.  Ma  il  suo  pensiero  dominante  era  la  costruzione  di 
una  ferrovia  tra  Pretoria  e  Delagoa.  La  repubblica  pagava  agli 
inglesi,  di  soli  diritti  di  esportazione,  54  mila  Ls.  l' anno,  e  basta- 
vano a  contrarre  un  prestito  per  costruire,  d'accordo  col  Porto- 
gallo, la  nuova  linea.  Il  Burgers  sapeva  bene  che  al  Capo  non 
avrebbe  trovato,  con  tali  propositi,  capitali  e  simpatie,  per  lo  che 
nel  1876  venne  in  Europa.  Ebbe  in  Olanda  splendide  accoglienze  ; 
negoziò  un  prestito,  convenne  col  Portogallo  i  patti  necessari  per 
costruire  e  mantenere  di  comune  accordo  l' importantissima  linea. 
E  tardandogli  il  momento  di  iniziare  un  lavoro  dal  quale  gli  pareva 
che  la  sua  repubblica  potesse  aspettarsi  ogni  bene,  accattò  mate- 
riali, condusse  seco  ingegneri  ed  operai,  e  tornò  il  15  aprile  1877 
a  Pretoria. 

Quivi  però  lo  aspettavano  amare  delusioni.  Aveva  fatto  i  conti 
senza  i  suoi  Boeri,  cedendo  troppo  facilmente  ad  un  nobile  entu- 
siasmo, che  essi  punto  non  dividevano.  La  legislatura  ed  il  popolo 
si  opposero  ai  suoi  disegni,  per  volgere  tutte  le  forze  alla  guerra 
coi  nativi,  una  guerra  incominciata  con  somma  imprudenza  du- 
rante r  assenza  di  lui,  e  che  doveva  terminare  colla  più  terribile 
e  completa  sconfìtta.  Il  Transvaal  vi  perdette  la  sua  indipendenza, 
e  gli  Inglesi,  occupando  il  territorio  della  repubblica  ed  assu- 
mendone la  difficile  eredità,  si  trovarono  alla  lor  volta  trascinati 
alla  guerra  presente. 

IV. 

Prima  di  proseguire  questo  racconto -è  necessario  conoscere 
con  qualche  particolare  le  popolazioni  indigene,  con  le  quali  i 
Boeri  dapprima  e  poi  gli  Inglesi  si  trovarono  a  contatto  nel- 
l'Africa australe.  ^  Due  grandi  razze,  essenzialmente  diverse  fra 

'  Sui  nativi  dell'  Africa  australe  si  veda  specialmente  V  opera  magistrale  del 
Fritsch  :  SUd-Afrika's  ethnographisch  imd  artatomisch  beschr  eben.  Bresiau,  1874. 
—  Aggiun^'o:  Hamy  Dr.,  Un  7-e'ce>it  voyng"  eh" z  les  Cafres  Zoulous  nel  {Nature, 
6  janvier,  19,11.  -  Holub  E.,  A  few  words  on  the  Native  questùm,  ecc.  ecc. 
Kiniberiey,  1816-11.  —  Adler  N..  lieber  di  Kafjlren  7ind  deren  jetzige  Slellung 
zuden  Sv da fr ikanischen  Republiken,  r\e:\\?i  Oesterr.  Monatschrift  fur  den  Orient. 
Wien,  1877.—  Bezoek  van  den  Leer  E.:  Brunnfr  van  het  npperhofd  d/'r  Zoeloe- 
Kaffers  Cetswayo,  nei  Tijdschrift  van  het  aardrijkskundige.  Genootschap.  Ams- 
terdam, 1877.  p.  35-2-357). 


nell'africa  australe.  507 

loro,  si  dividono  il  paese,  gli  Ottentotti  ed  i  Cafri,  a  non  par- 
lare dei  Boschimani,  i  quali  ricacciati  nell'  interno,  e  ridotti  a 
scarso  numero,  vanno  oggimai  scomparendo. 

Gli  Ottentotti,  che  si  chiamano  in  loro  lingua  Koi-hoin  (plu- 
rale Ko-koi-koin)  hanno  capelli  assai  crespi  ed  arruffati,  fronte 
bassa,  zigomi  sporgenti,  mento  aguzzo,  mani  e  piedi  piccolissimi, 
cranio  platistenocefalo.  Non  sono  aitanti  della  persona,  ma  forti  ; 
la  pelle  è  d' un  tanè  alquanto  sbiadito.  Le  donne  hanno  una  pin- 
guedine straordinaria,  come  una  ipertrofia  benigna  (sicaiopigia) 
della  membrana  adiposa  in  tutte  le  sporgenze  del  tronco.  Si  sud- 
dividono in  molte  tribù,  alcune  quasi  scomparse,  altre  ancora 
abbastanza  numerose,  che  si  possono  ridurre  a  tre  tipi  principali  : 
i  Namaqua,  nella  valle  dell'  Orange  ed  oltre,  fra  il  deserto  di 
Kalahari  e  la  baia  della  Balena;  i  Coranna,  lungo  l' Orange  su- 
periore ed  il  Vaal,  co'  loro  affini  i  Griqua,  ed  i  pochi  Gonachi 
superstiti  nella  provincia  di  Stockenstrom  ;  e  gli  Ottentotti  veri, 
che  errano  intorno  al  Capo,  sino  a  confondersi  coi  Cafri.  All'  epoca 
di  Van  Riebeck  potevano  essere  150,000;  adesso,  secondo  l'ultimo 
censimento,  non  superano  i  centomila.  ^  La  lingua,  del  genere  delle 
suffisso-pronominali,  è  ricca  di  suoni  scoppiettanti,  e  si  suddivide 
in  quattro  dialetti,  uno  dei  quali,  il  Nama,  dopo  gli  studi  di  Le- 
psius  e  di  Max  Miiller,  fu  creduto,  per  qualche  tempo,  affine  all'  an- 
tico egizio,  affinità  confutata  specialmente  da  Bleek  e  T.  Hann. 

Gli  Ottentotti  precipitano  a  rovina,  come  poche  altre  razze 
africane.  Il  Fritsch  lo  attribuisce  al  temperamento  sanguigno,  alla 
sconfinata  leggerezza  loro,  alla  facilità  colla  quale  si  assimilarono 
le  buone  qualità,  ma  più  i  difetti  dei  coloni  europei.  Sensuali  ed 
ubbriaconi,  sono  spietatamente  mietuti  dalla  sifilide  e  dall'  acqua- 
vite, ed  i  missionari  hanno  cercato  indarno  di  educarli  a  senti- 
menti morali,  alla  coscienza  delle  loro  azioni,  alla  fede  in  una 
vita  futura.  Non  hanno  senso  di  nazionalità;  sono  servili,  e  con- 
siderano i  bianchi  come  padroni  naturali,  che  possono  derubare, 
non  disobbedire.  È  difficile  che  la  civiltà  riesca  a  farne  altro  che 
schiavi  ;  i  tentativi  degli  Liglesi,  per  quanto  onesti  e  perseveranti, 
non  hanno  avuto  alcun  importante  successo. 

I  Cafri^  che  è  più  esatto  chiamare  Bantu,  ^  formano,  come 


'  81,000  al  Capo  ;  15,000  nel  grande  Namaqualand,  poche  centinaia  nei  dne 
Oriqiialand. 

*  Il  nome  di  Cafii,  deriva  dall'arabo  ka/ir  (miscredente)  e  fu  dato  loro  per 
dispregio. 


508  l'  INGHILTERRA 

dissi,  una  razza  completamente  diversa.  Hanno  pelle  fra  il  nero 
cupo  di  seppia  ed  il  nero  azzurrognolo,  capelli  alquanto  cre- 
spi, cranio  dolicocefalo  piuttosto  alto,  corpo  robustamente  svilup- 
pato. Parlano  una  lingua  prefisso-preuominale  ^  che  si  suddivide 
in  iin  gran  numero  di  dialetti.  I  Cafri  appartengono  a  quella 
grande  razza  nera,  che  dall'Africa  centrale,  dalle  regioni  dei 
grandi  laghi,  si  spinse  sino  alla  costa  orientale,  e  discese  verso 
il  Capo  di  Buona  Speranza  frammettendosi  alle  razze  j^iù  deboli 
che  incontrava  nelle  sue  invasioni.  Appunto  in  quella  che  gli  Euro- 
pei occupavano  la  baja  della  Tavola,  i  Cafri  j^assavano  il  Kei,  ed 
invadevano  il  paese  degli  Ottentotti.  Si  suddividono  propriamente 
in  [quattro  (grandi  famiglie]:  i  veri  Cafri,  gli  Zulù,  i  Besciuani, 
ed  i  Damara.  I  veri  Cafri  si  chiamano  Ama-Xosa,  come  ^dire 
figliuoli  di  Xosa,  l'eroe  dal  quale  si  vantano  usciti,  e  si  suddivi- 
dono alla  lor  volta,  forse  dal  nome  dei  figliuoli  di  lui,  in  Galechi, 
Cìaichi,  Tslambi,  e  Tambuchi.  Vivono  questi  nelle  locations,  o  sta- 
bilimenti, che  si  trovano  fra  il  fiume  Keiskamma,  ad  oriente  del 
Bashee,  e  l'Oceano  indiano  a  ponente  delle  montagne  del  Dra- 
gone. Quasi  tutte  queste  tribù  furono  a  poco  a  poco  assoggettate 
dal  governo  del  Capo.  Così  il  censo  del  1874  ci  dà  29,200  Gaichi 
nel  distretto  di  King's  William  Town;  25,000  Tslambi  nel  Tama- 
cha  e  distretti  finitimi,  e  47,375  Tambuchi  nei  distretti  di  Queen- 
stown  e  Wodehouse.  Si  aggiungano  le  altre  tribù,  che  accettarono 
spontanee  jla  signoria  britannica,  e  sono  i  Fingoes,  circa  73,500,  i 
Tembi,  in  sul  confine  dei  Basutos,  mescolati  ai  Fingoes  ed  ai  Basutos 
medesimi,  (circa  25,000,  ed  i  Tembi  ad  oriente  del  Kei,  che  ri- 
conoscono a  loro  capo  Gangelizne,  un  suddito  inglese,  in  numero 
di  circa  70,000.  Fra  queste  tribù  ed  i  confini  del  Natal  si  tro- 
vano ancora  intorno  a  70,000  Galechi,  20,000  Bomuaui,  e  200,000 
Pondos. 

I  Besciuani,  che  comprendono  varie  tribù,  quasi  tutte  assai 
ben  conosciute  dopo  gli  scritti  di  Livingstone,  che  passò  fra  i 
Besciuani  parecchi  anni  della  sua  vita  gloriosa,  si  estendono  molto 
addentro  nell'Africa  australe.  Appartengono  a  questa  famiglia  i 
Basutos,  circa  128,000,  che  si  mostrarono  i  più  adatti  alla  vita 
civile,  ed  hanno  già  fatto  in  dieci  anni  progressi  assai  considere- 
voli; vi  appartengono  del  pari  le  numerose  tribù,  che  vivono,  con 
nomi  diversi,  nel  Trausvaal.  I  Damara,  che  si  chiamano  Ova-herero, 


•  Cosi  il  plurale  di  Bantu  è,  nella  loro  lingua,  A-Bàntu. 


nell'africa  australe.  509 

hanno  qualche  legame  coi  Besciuani,  e  costituiscono  propriamente 
l'anello  di  congiunzione  fra  i  Neri  ed  i  Cafri.  Circa  85,000  sono 
nel  paese  cui  danno  il  nome,  annesso,  se  anche  non  ordinato  an- 
cora, al  dominio  britannico,  e  s'allarga  fra  la  baja  della  Balena  ed 
i  fiumi  di  Cunene  ed  Okavanga.  Coi  veri  Damara  non  bisogna 
confondere  quelli  che  i  geografi  chiamano  i  Damara  della  mon- 
tagna, ed  i  loro  vicini,  i  Ghou-damap,  quasi  uomini  fatti  di  fango, 
che  ,sono  sempre  in  guerra  con  quelli,  e  vivono  di  preda.  Il  rev.  H. 
Hahn  fondò  fra  essi  una  missione,  ma  non  ne  ha  colto,  che  si 
sappia,  successi  importanti,  fuorché  per  la  scienza.  ' 

Alla  quarta  tribù  dei  Cafri  appartengono  gli  Zulù,  che  si 
difi"erenziano  ben  poco  dai  veri  Cafri,  ed  a  proposito  dei  quali, 
poiché  sono  adesso  i  più  feroci  avversari  dei  coloni  europei,  dirò 
dei  caratteri  generali  della  razza.  Anzitutto  gli  Zulù  stessi  vanno 
divisi  come  in  due  grandi  famiglie,  d'indole  alquanto  diversa. 
Vivono  gli  uni  nel  Natal,  dove  si  sono  acconciati  di  buon  grado 
al  dominio  britannico;  gli  altri  sul  littorale  che  s'appoggia  ai 
monti  del  Transvaal  e  si  estende  dalla  baja  di  Delagoa  ai  con- 
fini del  Natal  lunghesso  il  fiume  Tugela.  Quando  gli  Inglesi  oc- 
cuparono la  colonia,  nel  1843,  vi  erano  forse  ottanta  o  centomila 
Zulù;  adesso  sono  trecentomila.  Altrettanti,  se  non  più,  vivono 
liberi  e  selvaggi  oltre  il  Tugela  sotto  l'impero  di  Cetywayo,  che 
ha  sui  suoi  sudditi  potere  assoluto,  conclude  i  matrimoni  a  suo 
talento,  e  può  mettere  in  campo  da  venticinque  a  trentamila 
soldati.  -  Le  donne  nubili  formano  una]  specie  di  esercito  di  ri- 
serva, ed  i  viaggiatori  narrano  di  una  guardia  reale  di  giovani 
amazzoni,  armate  di  archibugi,  e  tiratrici  eccellenti.  Gli  Zulù  non 
rappresentano,  come  li  descrissero  alcuni,  quasi  un'ideale  del- 
l'umana bellezza.  Non  sono  statue  viventi,  ^levusàve  l'espressione  del 
Moher,  sebbene  aitanti  della  persona,  di  statura  vantaggiata, 
belli  d' aspetto  come  pochi  Neri  ;  dotati  d'una  forza  di  resistenza 
contro  gl'influssi  nocivi  proprio  ammirabile,  e  d'acutissima  vista. 
Sono  piuttosto  vantatori  che  eroi,  e  non  di  rado  basta  la  paura 
di  perdere  la  greggia  a  farli  vili.  Non  hanno  idea  di  religione, 
non   sanno   comprendere  altra  legge  morale   fuor  di  quella  del 

*  CoATES  Palgrawe  W.  :  Report  of  a  mission  to  Damara  Land  and  great 
Namaqua  land  in  1876.  Capetown,  18T7. 

*  Le  forze  di  questo  corpo  sono  variamente  calcolate  nei  diarii  inglesi.  SirT 
Shepstone,  che  deve  intendersene,  non  crede  possa  mettere  in  campo  più  di  30,000 
nomini.  Il  Sanderson  dice  36,550.  Certo  nell'ultima  guerra  furono  più,  perchè  dopo 
la  battaglia  di  Tsandula  una  parte  dell'esercito  si  mandò  a  casa  perchè  attendesse 
ai  raccolti* 


510  L'INGHILTERRA 

vantaggio  individuale.  Sono  ipocriti,  mentitori,  ladri  :  sui  confini 
del  Natal  l'abigeato  è  tanto  comune  da  assumere  una  vera  im- 
])ortanza  politica.  Quando  si  vedono  trattati  con  affetto,  sono  ospi- 
tali, manierosi,  incuranti  della  dimane,  e  coprono  come  d'una 
vernice  di  bontà  la  naturale  selvatichezza.  * 


Y. 

La  colonizzazione  europea  occupa  nell'Africa  australe  una  su- 
perficie di  1,587,000  chilometri  quadrati,  sui  quali  vive  appena 
una  popolazione  di  due  milioni  d'abitanti,  come  chi  dicesse  gli 
abitanti  della  Toscana  sparsi  sopra  meglio  che  cinque  volte  l'Ita- 
lia. La  gran  maggioranza  della  popolazione  è  di  razza  africana, 
ma  la  prosperità  del  paese  e  la  sua  presente  civiltà  debbonsi 
esclusivamente  ai  coloni  europei.  Sotto  l'aspetto  politico  il  paese 
si  divide  in  tre  parti  distinte:  i  possedimenti  inglesi,  i  territori 
soggetti  alla  giurisdizione  britannica  ma  non  ancora  ufficialmente 
annessi  ed  organizzati,  e  la  repubblica  deirOrange. 

La  colonia  del  Capo  è  compresa  tra  i  fiumi  Grange  e  Kei 
e  il  litorale  dell'Oceano  atlantico  e  dell'Indiano;  però  stanno  come 
a'  suoi  cenni  il  paese  dei  Basutos,  il  Griqua  occidentale  (Dior 
monds'  fields)  ed  il  Transvaal  ;  tutta  la  costa  occidentale  fino  al 
Capo  Frio,  il  paese  dei  Gran  Namaqua,  e  il  paese  dei  Damara 
sono  pure  virtualmente  sotto  la  giurisdizione  coloniale,  sebbene 
non  ancora  incorporati  colla  sanzione  della  corona.  Anche  il  ter- 
ritorio fra  il  Kei  ed  i  confini  del  Natal  è  stato  in  gran  parte 
annesso.  I  censimenti  del  1875  e  del  1877  ed  i  calcoli  più  accu- 
rati dell'ufficio  coloniale  danno  per  la  superficie  e  la  popolazione 
di  questi  territori  le  cifre  seguenti  : 

Cape  Colony.  .  Chilomet.  517,819  abitanti  720,984 

Basutoland »  21.886  »  127,701 

Griqualand  West.  .     »  43,076  »  45,277 

Transkei  Districts  .     »  32.250  »  254,500 

Natal »  48,560  »  325,512 

Transvaal »  296,175  »  315,000 

Namaqualand.  ...»  258,800  »  16,850 

Damaraland »  258,9  JO  >  21,150 

Tutta  l'Africa  australe  è  come  orlata  da  una  grande  catena 
di  montagne,  che   segue  a  distanza  il  profilo    della  costa,    e  so- 

'  Trollope,  I,  pag.  125,  e  ce 


nell'africa  australe.  511 

stiene  l' altopiano  australe  del  continente.  Varii  i  nomi  ;  dove  si 
estolle  a  maggior  altezza  troviamo  le  montagne  del  Dragone.  Chi 
muove  dal  litorale,  prima  di  questa  catena,  ne  incontra  un'  altra 
minore,  sebbene  nel  piovente  meridionale,  col  nome  di  Montagna 
Nera,  presenti  rigidi  orli  e  s'innalzi  a  1670  metri.  Fra  le  due  si 
estende  una  vasta  pianura,  in  gran  parte  arida,  coperta  di  un 
terreno  durissimo,  color  d'ocre,  sotto  il  quale  si  trova  subito  la 
roccia.  Gli  alvei  fluviali  che  la  traversano  sono  privi  d'acqua  per 
nove  mesi;  ma  pochi  giorni  dopo  le  pioggie  il  deserto  si  veste 
d'una  pompa  di  fiori  e  di  verzura:  alofìti,  mesembriantemi,  gi- 
gli, amarillidi,  iridi,  ed  altre  piante,  ed  erbe.  Le  mandre  scen- 
dono ai  nuovi  pascoli,  e  si  raccolgono  intorno  ai  radi  stabilimenti 
che  sorgono  nelle  oasi. 

Il  clima,  grazie  all'atmosfera  pura  ed  asciutta  ed  alla  asso- 
luta mancanza  di  paludi,  è  molto  sano  «  uno  dei  più  adatti  alla 
costituzione  umana  in  generale,  ed  uno  dei  più  deliziosi  della 
terra.  »  '  Come  si  procede  nell'interno  si  trovano  però  due  fatti, 
i  quali  costituiscono  una  seria  preoccupazione  per  l'avvenire  del- 
l'Africa australe:  mancano  le  foreste,  e  va  scemando  la  copia 
delle  acque  correnti.  Come  alla  punta  australe  dell'America  an- 
che a  quella  dell'Africa  i  primi  navigatori  avevano  dato  il  nome 
di  Terra  do  fumé,  a  cagione  dei  frequenti  incendi  provocati  dai 
nativi  in  cerca  di  pascoli  e  di  facili  caccie,  e  colle  foreste  scom- 
parvero 0  scemarono  le  acque.  Già  da  parecchi  anni  H.  Wilson 
lo  notò  nella  valle  dell'Orango,  e  il  valente  botanico  di  Capetown, 
J.  Croumbie  Brown,  ha  raccolto  mezzo  secolo  di  documenti  dai 
quali  risulta,  che  il  progresso  di  questa  aridità  del  suolo  ben  po- 
trebbe turbare  i  sogni  di  Cameron,  dove  non  si  proceda  a  vasti 
imboschimenti,  per  trattenere  i  sottili  strati  di  terra  vegetale  ed 
accrescere  la  quantità  delle  pioggie.  ^  Così  cesserebbero  le  inon- 
dazioni e  gli  incendi  delle  erbe  e  dei  boschi,  cui  le  colonie  euro- 
pee dovettero  nel  periodo  corso  fra  il  1865  e  il  1873  una  per- 
dita annua  di  due  milioni  e  mezzo  di  nostre  lire,  e  solo  nel  1874 
di  nove  milioni. 

Oltre  ai  coloni  europei  ed  ai  nativi,  dei  quali  abbiamo  par- 
lato, vivono  al  Capo  e  ne'  suoi  dominii  parecchi  neri  di  Mozam- 
bico  e  malesi,  i  quali  professano  l'islamismo,  con  una  parte  della 

'  Merivale,   On  Colonies,  I.  116. 

*  Hydrologie  of  South  Africa,  or  details  of  the  former  hydrographic  condi- 
tion  of  the  Capi',  of  Good  Hope,  and  the  cauxes  of  its  present  ariddy,  uith  sug- 
gestions  of  appropriate  reìnedies  for  this  aridity.  London  1875. 


512  l'  inghilterka 

popolazione  indigena.  Crii  Europei,  nel  Capo  proprio,  sono  236,783; 
10,817  i  Malesi,  gli  altri  Africani.  La  maggior  parte  della  popo- 
lazione (209,136)  attende  alla  coltura  del  suolo  o  degli  animali, 
e  dà  al  paese  il  carattere  prevalente  che  ha,  di  colonia  agricola. 
Appena  7736  persone  attendono  alle  arti,  e  men  che  due  volte 
tante  alle  industrie  tessili  che  cominciarono  da  qualche  anno  ad 
introdursi  nella  colonia  ;  4535  persone  fanno  parte  del  governo  e 
dell'amministrazione  o  provvedono  alla  difesa;  e  3381  alle  arti  e 
professioni  liberali.  V'ha  tutte  sorta  di  religioni,  dall' ultramon- 
tanismo  al  paganesimo,  dal  giudaismo  alle  ultime  forme  della 
dottrina  mussulmana  e  alle  bizzarre  credenze  dei  tremanti  e  de- 
gli svedeniborgiani. 

La  colonia  è  ricca  d'animali,  ed  esporta  lane,  penne  di  struzzo, 
avorio,  e  svariati  prodotti  del  suolo  e  delle  miniere.  Il  suo  commercio, 
per  naturale  consuetudine  e  per  interesse  piuttosto  che  per  violenza  di 
dogane,  si  fa  quasi  esclusivamente  colla  Gran  Bretagna  ;  dove  i  na- 
vigli recano  dal  Capo  per  3,330,353  sterline  d'esportazioni  sopra  un 
totale  di  3,542,694,  traendone  per  appagare  i  bisogni  dei  coloni  per 
3,560,499  sterline  di  valore  sulle  5,158,348,    che   costituirono   nel 
1877,  -^  e  sono  cifre  poco  men  che  costanti  da  cinque  anni,  —  la  loro 
importazione  totale.  Il  prodotto  col  quale  saldano  precipuamente  i 
loro  scambi  è  la  lana,  e  ne  vendettero  nell'anno  medesimo  oltre 
a  36  milioni  di  libbre  inglesi,  contro  un  equivalente  di  2,232,755 
sterline.  Cotesta  industria  pastorale,  che  nel  1850  rendeva  appena 
trecentomila  sterline,  era  già  riuscita  a  dare  nel  1872  per  49  mi- 
lioni e  più  di  libre  di   lana  un  reddito  di  tre  milioni  e  un  quarto 
di  lire.  Gli  altri  cespiti  precipui  dell'esportazione  sono  :  le  penne 
di  struzzo,  che  procurano   un'  entrata   di   393,406  ;   l' oro   scavato 
nelle  miniere,per  303,645 ;  e  le  pelli  di  animali  diversi,  per  249,552, 
oltre  a  116,382  lire  sterline  di  crini.  Cotesto  sviluppo  di  commercio, 
tanto  più  ammirabile,  che  rappresenta,  a  vantaggio  della  colonia, 
anche  la  produzione  delle  altre,  che  le  stanno  a  tergo,  prive  di  sbocchi, 
data,  si  può  dire,  principalmente  dal  1870,  poco  dopo  che  il  Capo 
si  era  abituato  a  non  vedere  più  ne'suoi  porti  grosse  navi  volte  al- 
l'Asia e  ai  nostri  antipodi.  Nell'anteriore  quinquennio  il  commercio 
era  rappresentato  complessivamente  da  una  somma  di   4,453,374, 
mentre  nei  cinque  anni  appresso,  con  un  aumento  che  si  raggua- 
glia quasi  al  cento  per  cento,  ascese  a  8,691,301  sterline.  Uno  svi- 
luppo, il  quale   non  accenna  ad  arrestarsi,  ma  piuttosto  assume 
andamenti  più  rapidi  e  sicuri.  Aumentano  infatti  i  centri  di  pro- 
duzione, del  pari  che  i  capitali  e  le  braccia,   e   si   sviluppano  i 


nell'africa  australe.  513 

mezzi  di  coniimicazioue  ai  quali  il  governo  del  Capo  volge  le  più 
sollecite  cure.  Appena  si  possono  immaginare  i  vantaggi  di  una 
gran  linea  ferroviaria,  che  dalla  baia  della  Tavola,  su  per   l'al- 
tipiano, traverso  le  più  fiorenti  colonie,  collegasse  i  campi  de'  dia- 
manti alle  più  estreme  miniere  transvaaliche,  per  scendere  alla  baia 
di  Delagoa,  ferrovia  che  si  aggiungerà  fra  pochi  anni  agli  846  chi- 
lometri sui  quali  già  fischia  il  vapore,  mentre  alla  costruzione  d'al- 
trettanti attendono  gli  ingegneri  del  governo.  E  sono  ordinate  mi- 
rabilmente le  poste,  così  che  nessun'altra  regione  aù'icana  offre  più 
agevoli  e  piane   comunicazioni.  Nulla  di  più  primitivo,   so  bene, 
di  quelle  diligenze,  tratte  per  vie  appena  segnate  da    sette   cop- 
pie di  cavalli,  o  di  buoi,  o  d'asini    (quesf  ultimo  è  il   solo  qua- 
drupede che  la  puntura  velenosa  della  tsetsé  non  offende)  ;  i  po- 
veri viaggiatori,  seduti  sulle  panche  di  legno  fra  un  imgombro  di 
bagagli,  che  sono  qualche  volta  diamanti,  non  possono  muovere  le 
gambe,  danno  del  capo  dovunque  ad  ogni  scossa,  soffrono  il  caldo, 
il  freddo,  qualche  volta  la  fame,  sempre  il  sonno,  ed  arrivano  dopo 
otto  o  dieci  giorni  sui  campi  diamantiferi,  o  nell'altre  regioni  sino 
a  dove  mette  la  posta,  colle  ossa  rotte,  gli  occhi  infossati,  inca- 
paci di  muoversi.  Eppure  che  cosa  non  sarebbe  l'Africa,  se   dalle 
due  marine  di  Guinea  e  del  Zanzibar  potessero  muovere  verso  l'in- 
terno di  cosifatti  congegni  primitivi  !  Ben  è  vero  che  a  cotesti  pro- 
gressi non  bastano,  nell'Africa  australe,  le  risorse  presenti  delle 
colonie,  perchè  il  Capo  contro  una  entrata  di  2,631,602  lire  sterline 
ebbe  nel  1877  una  spesa  di  3,428,392,  ed  al  31  decembre  1877  era 
aggravato  da  un  po'  più  di  5  milioni  di  debiti,   ai   quali   si  ^ag- 
giunse poi,  nell'ottobre  del  1878,  un  altro  milione.  Ma  che  ^cosa 
sono  queste  cifre  a  paragone  delle  più  modeste  previsione  dell'av- 
venire ? 

Le  altre  colonie,  già  dissi,  sono  dominate  da  quella  del  Capo 
anche  nella  loro  vita  economica.  Natal,  the  garden  colony  of  South 
Africa,  come  la  chiamano,  ha  una  popolazione  di  307,501  abitanti. 
ma  fuor  di  19,990  bianchi  e  9147  Malesi,  sono  indigeni  della  pro- 
vincia. Digrtidasi  in  terrazze  dalle  montagne  del  Dragone,  fra  il 
fiume  Umtamfuna  e  il  Tugela,  ed  è  adatta  ad  ogni  genere  di  col- 
tura. Gli  abitanti  vivono  dispersi  nelle  masserie,  nelle  piantagioni, 
nelle  stazioni  dei  missionari;  appena  9136  si  raccolgono  nelle 
due  città  di  Pietermaritzburg,  capitale,  e  di  Durban,  porto  della 
colonia.  Le  colture  tropicali  le  procurano  jun  diecimila  tonnellate 
di  zucchero,  oltre  al  caffè,  allo  zenzero,  ed  a  minori  prodotti.  Il 
cespite  maggiore   dell'entrata  sono  anche  qui  le  lane;  nel  1877, 


514  l'  inghilterka 

8,695,553  libbre  furono  vendute  per  518,379  Ls.  ;  ma  accennano  a  cre- 
scente importanza  il  tabacco  e  il  carbone,  che  già  una  ferrovia 
avviata  da  Durban  a  Verulamio  ed  a  Zipingo  andrà  a  cercare 
nei  vasti  giacimenti  del  fiume  Klip.  Il  valore  complessivo  delle 
importazioni,  colle  quali  il  Natal  provvede  anche  a  molti  bisogni 
dell' Grange,  ammontò  nel  1877  a  1,268,838  Ls.,  contro  835,643  di 
esportazione.  Ai  bisogni  dell'  amministrazione  e  delle  opere  pub- 
bliche il  governo  della  colonia  provvede  coi  prodotti  delle  dogane, 
d'una  specie  di  tassa  di  famiglia  e  di  alcune  tasse  sugli  affari, 
che  gli  procurano  una  entrata  di  472,473  Ls.  sufficiente  anche  a 
pagare  gli  interessi  di  un  debito  di  331,60  )  Ls.  Il  governo  è  di 
forma  parlamentare  mista  ;  vi  è  un  luogotenente,  con  alcuni  segre- 
tari esecutivi  o  ministri,  ed  una  legislatura  di  28  membri,  13  nomi- 
nati dal  governatore,  15  eletti  dagli  abitanti. 

Il  Transvaal  confina  colle  montagne  di  Lobombo  e  del  Dra- 
gone, che  lo  separano  dai  dominii  del  Portogallo  e  dalle  terre  degli 
Zulù;  col  Limpopo,  sul  quale  s'adagia  a  ponente,  col  Pogola, 
oltre  al  quale  abitano  i  Batlapi,  e  coi  possedimenti  dell'  Grange 
e  del  Capo.  Non  vivono  nella  colonia  più  di  40,000  europei,  e  v'è 
chi  fa  ascendere  i  nativi  ad  800,000,  ^  fra  i  quali  sono  Mata- 
beli,  Basuti,  Besciuani,  Zulù,  ed  altre  tribù  nere,  colle  quali  ha 
famigliarità  chiunque  ha  seguito  nei  loro  viaggi  il  Livingstone, 
il  Jeppe,  il  Merenski,  l' Erskiue,  e  gli  altri  che  frequentarono  quel 
vago  giardino  di  natura.  A  320  chilometri  dall'  Gceano,  sopra  un 
altopiano  di  1800  metri  sorge  Pretoria,  il  capoluogo,  colle  sue  vie 
bene  allineate,  con  tutti  i  suoi  embrioni  di  civiltà  europea.  Il  clima 
è  dolce,  il  cielo  quasi  sempre  sereno,  le  pioggie  brevi,  ma  fre- 
quenti, come  si  domandano  per  1'  agricoltura,  per  modo  che  in 
pochi  altri  paesi  del  mondo  la  terra  risponde  con  maggior  sicu- 
rezza alle  fatiche  del  colono.  Non  sono,  è  vero,  lontane,  le  deso- 
late solitudini  del  Kalahari,  ma  i  venti  dell'  Gceano  indiano  le 
recano  una  sufficiente  umidità.  Così  oltre  ai  cereali  d' Europa, 
frumento,  orzo,  avena,  che  danno  due  raccolti  1'  anno,  oltre  la  vite, 
il  tabacco,  1'  arancio,  e  i  frutti  più  ricercati,  e  i  più  utili  legumi 
del  nostro  clima,  vi  allignano  la  canna  da  zucchero,  il  caffè,  il 
cotone  e  le  altre  produzioni  del  tropico.  Lunghesso  i  corsi  del 
Limpopo  e  del  Vaal  abbondano  spesse  foreste,  e  già  si  conoscono 

1  Cosi  F.  Noble;  ma  il  Transvaal  Bo'ik  Almanac  dice  da  250  a  300,000; 
anche  il  Lauen,  console  di  Francia  al  Capo,  dopo  raaiure  ricerche,  s' arresta  a 
questa  cifra. 


nell'africa  australe.  515 

immensi  giacimenti  carboniferi,  che  porgeranno  alle  ferrovie  del- 
l'avvenire  facile  alimento.  Dagli  hooge-veld,  o  terreni  di  monta- 
gna, il  suolo  digrada  dolcemente  pei  banken-vdd,  dove  sono  le  più 
fiorenti  masserie,  sino  ai  hash-veld  delle  rive  dei  fiumi.  Quivi  si  na- 
scondono ancora  d' ogni  sorta  fiere,  pachidermi  enormi,  mandre  nu- 
merosissime di  antilopi  ed  altre  ricercate  cacciagioni  in  così  gran 
copia,  che  fu  chiamato  1'  eldorado  dei  nembroddi  a'  quali  sono 
venute  in  uggia  le  modeste  prede  che  può  ojffrire  l'Europa.  Laonde 
scemano  i  pericoli  che  gli  animali  feroci  minacciavano  ai  coloni, 
i  quali  vorrebbero  ugualmente  distruggere  il  flagello  non  raro 
delle  cavallette,  cotesta  peste  alata,  che  i  Boeri  contemplano  so- 
vente, rassegnati  come  turchi,  distruggere  in  un  batter  d'  occhio 
le  loro  fatiche  e  le  speranze  di  tre  raccolti,  ed  i  nativi  reputano 
arrostite  o  risecche,  un  cibo  prelibato.'  Aveva  la  repubblica,  quando 
fu  annessa  al  Capo,  una  entrata  di  86,496  sterline  ed  una  spesa  di 
86,045  con  un  debito  di  82,000.  Il  reddito  traevasi  principalmente 
dalle  dogane  e  da  una  imposta  diretta  sulla  fondiaria  e  sui  redditi 
personali.  La  città  principale  Potchefstrom  aveva  non  più  di  2000 
abitanti  ;  Pretoria  1500  ;  e  Lydenburg  appena  sette  od  ottocento. 
Gli  abitanti  esportavano  penne  di  struzzo,  lana,  avorio,  bestiame, 
cereali,  pelli,  frutta,  tabacco,  burro,  e  minerali,  dall'  oro  e  dai 
diamanti  sino  al  carbone.  L' annessione  gioverà,  già  dissi,  alla 
colonia,  che  racchiude  tutti  gli  elementi  di  un  grande  e  prospero 
stato  africano. 

Chiusa  afiatto  oramai  nei  possedimenti  inglesi  è  la  repubblica 
deU'Orange,  della  quale  ho  narrato  l'origine  e  le  democratiche  isti- 
tuzioni. La  moderazione  degli  abitanti,  il  senno  del  Presidente, 
e  la  posizione  sua,  che  la  rende  pur  sempre  sotto  l' aspetto 
economico  suddita  degli  Inglesi,  la  preservarono  sino  ad  ora  dalla 
sorte  dei  fratelli  d'  oltre  il  Vaal.  Del  resto  la  civiltà  vi  è  più  in 
onore,  e  il  governo  attende  con  più  assidua  cura  allo  sviluppo  del- 
l' istruzione,  all'  amministrazione  della  giustizia,  all'  incremento 
delle  pubbliche  risorse,  né  lo  tormenta  V  assidua  cura  delle  guerre 
coi  nativi.  Le  condizioni  finanziarie  dello  Stato  sono  eccellenti,  e 
le  sue  entrate,  sufficienti  alla  spesa,  s'aggirano  in  sulle  120,000  Ls., 
tratte  alcune  da  tasse  sugli  atfari,  e  da  una  mite  imposta  fondia- 
ria, e  consentiranno  presto  di  ritirare  le  33  mila  Ls.  di  carta,  che 
sono  ancora  in  circolazione  per  impero  di  legge.  La  capitale,  Bloen- 
fontain.  non  ha  più  di  1500  abitanti,  ed  il  commercio  si  fa  esclu- 

'  MoHR,    Zu  der  Wasserf alien  der  Zambesi,  voi.  i,  115. 


516  l'  inghiltekra. 

sivamente  colle  vicine  colonie  inglesi,    che    ne    registrano    come 

cosa  loro  i  risultati.  La  lana  ne  è  il  principale  alimento,  perchè  se 

ne  esportarono  nel  1875,  787,279  Ls.  contro  743,604  di  altre  merci, 

in  cambio  delle   quali   entrarono   nella   repubblica   20,000  Ls.  in 

denaro  e  677,732  in  prodotti   europei,  anzi  quasi   esclusivamente 

inglesi. 

VL 

Questi  gli  Stati  e  le  provincie  che  lord  Carnarvon  meditava 
intorno  al  1875  stringere  in  una  confederazione.  La  prova  gli  era 
riuscita,  otto  anni  innanzi,  nel  Canada;  nell'Africa  australe  le 
difficoltà  erano  maggiori,  ma  l'abile  ministro  per  le  colonie  del 
gabinetto  di  Gladstone  non  intendeva  di  imporre  le  sue  idee 
colla  forza.  In  un  dispaccio  ch'egli  mandò  a  sir  H.  Barkly,  governa- 
tore del  Capo,  in  principio  di  quell'anno  sviluppò  il  suo  progetto  ; 
un  governatore  generale,  un  ministero  responsabile  in  faccia  al 
Parlamento,  due  Camere  elettive  in  diverso  modo,  ecco  il  governo 
nel  quale  dovevano  liberamente  convenire,  dopo  matura  riflessione, 
coll'assenso  delle  rispettive  legislature,  i  capi  delle  varie  colonie 
europee.  Il  Capland,  il  Natal,  il  West  Griqualand,  la  repubblica 
del  Transvaal  e  lo  stato  libero  d'Orange  dovevano  mandare  a  Londra 
i  loro  delegati,  per  risolvere  le'  questioni  locali,  specie  quella  dei 
rapporti  coi  nativi,  e  determinare  la  forma  e  la  competenza  della 
nuova  federazione  la  quale  doveva  accrescere  la  forza,  non  sce- 
mare la  libertà  dei  singoli  Stati.  Una  condotta  uniforme  nei  rap- 
porti coi  nativi  avrebbe  giovato  ad  evitare  le  guerre,  che  sole 
impacciavano  la  crescente  prosperità  dei  possedimenti  europei. 

L'idea  di  lord  Carnarvon  non  fu  accolta  comesi  credette  dap- 
prima in  Europa.  La  legislatura  del  Transvaal  dichiarò  netto,  che 
neanche  voleva  sentir  parlare  di  cotesto  progetto,  e  vietava  al 
suo  presidente,  ch'era  in  Olanda,  perfino  di  recarsi  a  Londra.  Il 
Volksraad  dell'Orange  accoglieva  l'idea  d'una  confederazione,  ma 
poneva  la  condizione  preliminare  che  l'Inghilterra  non  vi  avesse 
alcuna  ingerenza.  I  Boeri  non  dimenticavano  gli  antichi  torti,  e 
non  potevano  far  tacere  il  risentimento  contro  i  più  forti,  che  li 
avevano  costretti  a  lasciare  le  prime  colonie,  e  ad  esulare  più 
volte  verso  l'interno.  Al  Capo  fu  peggio,  perchè  temettero  subito 
che  la  loro  città  avrebbe  perduto,  causa  la  posizione  sua,  il  grado 
di  metropoli,  e  i  nuovi  distretti  avrebbero  contrastata  loro  l'in- 
fluenza preponderante  che  possedevano  nell'Africa  australe.  A  tutti 


nell'africa  australe.  517 

pareva  ardua  sovra  le  altre  la  questione  dei  nativi  ;  qual  potere 
politico  sarebbe  loro  riconosciuto?  dovevano  forse  contare  come 
cittadini,  o  mandare  al  Parlamento  federale  alcuni  delegati,  ovvero 
vivere  soggetti  agli  europei  ?  I  Cafri,  già  vedemmo,  non  indietreg- 
giano davanti  alla  conquista  europea,  non  soccombono  nella  lotta 
per  la  vita  contro  la  razza  più  civile,  ma  si  mostrano  capaci  di 
progresso.  Piuttosto  che  agli  Indi  dell'America,  ai  Maori  ed  alle 
altre  razze  della  Polinesia,  somigliano  ai  Numidi,  le  cui  cavallerie 
ben  conobbero  gli  eserciti  di  Eoma,  ai  Mauri,  uno  dei  terrori  del- 
l'età di  mezzo,  ai  Turcos,  che  noi  abbiamo  carezzati  trionfatori  a 
Magenta  e  Solferino. 

Così  alla  conferenza  tenuta  a  Londra  il  5  agosto  1876  lord 
Carnarvon  si  trovò  quasi  solo.  Il  Griqualand  aveva  delegato  il 
Froude,  un  alleato  fido,  entusiasta  del  ministro  delle  colonie;  il 
Natal  aveva  pur  condisceso  a  parlare  di  confederazione.  Ma 
quando  si  venne  ai  poteri  che  ciascuno  stato  o  provincia  doveva 
pur  mettere  insieme,  per  farne  la  dote  di  un  governo  comune,  si 
dovette  abbandonare  ogni  trattativa,  e  quasi  direi  ogni  speranza. 
Ben  presto  però  i  fatti  vennero  a  dar  ragione  al  Carnarvon,  e  in 
pochi  anni,  dimostrarono  con  tanta  evidenza  e  cosi  prontamente 
il  vantaggio  del  di  lui  concepimento,  che  possiamo  contare  ora- 
mai di  vederlo  assai  vicino  ad  essere  accolto. 

Mentre  si  consultava  a  Boma,  il  nemico  espugnava  Sagunto. 
Una  bene  agguerrita  tribù  di  Basutos,  provocata  dai  coloni  di 
Lydenburg,  disputava  loro  quei  campi  auriferi  e  tutto  il  territorio 
della  provincia.  Il  Transvaal  trattò  la  pretesa  col  disprezzo  con- 
sueto, ignorando  come  negli  ultimi  anni  si  fossero  armati  ed  or- 
dinati gli  ereditari  nemici  dei  Boeri.  Intimò  dapprima  a  Secocoeni 
il  capo  dei  Basutos,  di  rispettare  una  tribù  alleata,  gli  Suazi,  e  lo 
provocò  siffattamente  che  lord  Carnarvon  dovette  subito  interve- 
nire, avvertendo  i  Boeri  del  pericolo  al  quale  esponevano  sé,  e 
tutti  i  coloni  europei  delle  provincie  orientali.  ]\Ia  indarno  ;  che 
quelli  primi  assalirono  Secocoeni,  il  quale  con  ventimila  armati 
invase  il  Transvaal,  minacciò  in  men  di  due  mesi  la  capitale, 
e  se  non  lo  avessero  assalito  alle  spalle  gli  Suazi,  sarebbe  stato 
uno  sterminio.  '  Subito  il  Volksraad  si  perdette  d'animo,  ed  invocò 

1  V.  nei  Parlamentari/  Papers,  C.  1148,  p.  22,  49,  198,  216  ecc.  e  C.  1961, 
passim  varii  documenti  sui  contrasti  fra  i  Boeri  del  Transvaal  e  gli  Zulù  a  cagione 
delle  terre  che  quelli  reclamavano.  A  pag.  49  vi  è  una  lettera,  scritta  in  nome  di 
Cetywayoda  Zulù  Dunn  il  20  aprile  1816,  dove  il  Re  espone  le  sue  ragioni  contro 
i  Boeri. 


518  l'  INGHILTERRA 

quella  protezione  inglese,  che  aveva  sempre  aborrita,  eppur  si 
presentava  adesso  come  la  sola  via  di  salvezza.  Il  disperato  ap- 
pello del  Parlamento  transvaalico  trovò  insensibile  la  stampa  in- 
glese, ma  non  il  governo.  Era  necessario  evitare  che  i  nativi,  vinti 
i  Boeri,  scendessero  anche  contro  gli  Inglesi,  e  poi  parve  una 
buona  occasione  per  riprendere  il  progetto  della  federazione,  che 
in  Inghilterra  era  stato  accolto  nel  frattempo  con  molto  favore. 
Lord  Carnarvon  ave\'a  un  uomo  adatto  alla  bisogna  in  sir  Teofìlo 
Shepstone,  il  quale,  vissuti  vent'anni  nel  Natal,  avea  acquistato 
qualche  influenza  fra  gli  Zulù,  e  conosceva  come  niun  altro  la  loro 
lingua  ed  i  costumi.  Contemporaneamente  veniva  mandato  governa- 
tore al  Capo  quell'illustre  Bartle  Frère,  che  aveva  j)assata  la  sua  vita 
neir  India,  e  sapeva  il  segreto  di  conquistare  alla  metropoli  l'affetto 
delle  razze  di  colore.  Ebbe  il  Bartle  Frère  istruzioni  di  secondare 
l'idea  della  federazione;  ed  allo  Shepstone  si  commise  di  andare 
nel  Transvaal,  esaminare  lo  stato  delle  cose  e  degli  animi,  ed 
annettere,  se  lo  credeva  opportuno,  ai  dominii  britannici  tutto 
il  paese.  Dopo  un  viaggio  penoso  di  trent'otto  giorni  arrivò  a 
Pretoria  con  25  soldati  ed  altrettanti  ufficiali  di  stato  maggiore, 
ma  fu  accolto  con  maggior  freddezza  di  quello  aveva  preveduto.  La 
popolazione  era  divisa,  il  tesoro  vuoto,  il  commercio  sospeso; 
minacciavano  i  nativi,  e  il  paese  era  vicino  a  cadere  nell'anar- 
chia. Secocoeui  aveva  fatto  la  pace,  ma  il  partito  della  guerra  ac- 
cennava a  prevalere  fra  i  Boeri;  Burgers  tornato  dall'Europa 
co'  suoi  ingegneri  e  i  suoi  maestri  di  scuola  aveva  perduta  ogni 
autorità.  11  Volksraad  non  aveva  la  forza  di  pigliare  alcuna 
decisione,  e  intanto  i  distretti  minerari,  ed  alcuni  villaggi,  abitati 
dai  coloni  più  tranquilli  e  pacifici,  domandavano  l'annessione.  Biso- 
gnava decidersi,  e  il  12  aprile  1877  Shepstone  innalzò  il  vessillo 
britannico,  proclamando  che  la  repubblica  del  Transvaal  aveva 
cessato  di  esistere.  Così  l'Inghilterra  conquistava  senza  goccia  di 
sangue  un  paese  grande  giusto  quanto  1'  Italia.  Si  chiamò  un 
reggimento  britannico  dal  Natal  piuttosto  per  farne  pompa,  che 
per  necessità  di  difesa,  che  giammai  uno  Stato  rinunciò  con 
maggior  buona  grazia  alla  propria  indipendenza. 

Cosi  in  tutta  1'  Africa  australe  il  Governo  inglese  potè  adot- 
tare verso  i  nativi  una  politica  umana,  costante  ed  uguale.  Ma 
era  tardi.  I  Boeri  avevano  seminato  fra  i  Cafri  inesauribili  sor- 
genti di  odio  ;  e  grazie  alla  trascuraggine  loro  e  delle  autorità  bri- 
tanniche, i  nativi  avevan  potuto  metter  su  a  poco  a  poco  un  esercito 
armato  di  fucili,  bene  agguerrito,  e  disposto    a   contendere   agli 


nell'africa  austeale.  519 

europei  invasori  le  loro  terre.  Lo  Shepstone  quando  aveva  assistito 
all'  incoronazione  di  Cetywayo,  il  re  degli  Zulù,  aveva  già  avvertita 
cotesta  trasformazione.  Il  re  si  mostrò  in  quella  festa  alla  testa 
di  ottomila  armati,  e  rinunciò,  per  cortesia  o  per  astuta  politica, 
alle  sanguinose  cerimonie  e  alle  stragi,  che  appo  ogni  selvaggia 
corte  africana  sogliono  adornare  una  incoronazione.  E  l'inviato 
inglese  scriveva  al  suo  governo  «  che  sarebbe  un  brutto  giorno 
quello  in  cui  gli  Zulù,  memori  della  potenza  degli  avi,  provocati 
dagli  europei,  fossero  discesi  dalle  loro  montagne  a  combatterli.»  ^ 
Cotesti  ed  altri  avvertimenti  furono  tenuti  a  Londra  nel  conto 
che  meritavano,  ma  il  governatore  del  Capo  intendeva  la  que- 
stione sotto  un  punto  di  vista  diverso.  Non  era  possibile  con- 
sentire, che  gli  Zulù  aumentassero  di  potenza  e  di  forza;  una 
lotta  con  Cetywayo  era  questione  di  tempo.  Cosi  negli  ultimi 
dispacci  di  Bartle  Frère,  come  in  quelli  di  sir  H.  Bulwer,  del 
signor  Shepstone  medesimo,  e  del  generale  Garnett  Wolseley,  che  fu 
inviato  ad  esaminare  la  situazione,  si  parla  della  guerra  contro 
gli  Zulù  come  di  una  necessità  imposta  dalla  self-preservation.  I 
documenti  del  Blue  Booch  presentato  alla  Camera  in  principio  di 
questo  mese  dimostrano  chiaramente,  che  se  il  governo  di  Londra 
ha  cercato  d'impedire  la  guerra,  non  poteva  riuscirvi,  perchè  si 
presentava  come  una  necessità.  Sui  confini  del  Natal  si  succede- 
vano con  crescente  frequenza  gli  abigeati,  le  incursioni,  le  ribel- 
lioni di  piccole  tribù,  e  cresceva  negli  Zulù  la  baldanza,  mentre 
i  loro  profeti  preconizzavano  vicino  lo  sterminio  dei  bianchi.  «  De- 
ploro —  scriveva  il  ministro  delle  colonie  a  sir  Bartle  Frère,  quando 
già  non  era  più  in  tempo,  l' indomani  della  battaglia  di  Isandula 
—  deploro,  che  la  necessità  di  una  azione  immediata  sia  sembrata 
a  vossignoria  così  imperiosa,  da  non  consentirle  di  aspettare  che 
il  governo  centrale  esprimesse  il  suo  parere  intorno  all'ultimato 
mandato  al  re  degli  Zulù.  »  ^  Cause  e  complici  di  tutti  i  disordini 
della  colonia  del  Natal,  una  delle  più  tranquille  sino  a  questi  ul- 
timi anni,  gli  Zulù  dovevano  essere  ridotti  all'obbedienza,  e  poiché 
Cetywayo  non  si  arrese  alle  intimazioni  britanniche,  si  mandarono 
contro  di  lui  tutte  le  forze  raccolte  a  Natal  ed  al  Capo,  che  si 
reputavano  sufficienti  ad  averne  ragione. 

Fu  questo  il  grave  errore  del  governatore,  e  di  quelli  che  si 
accinsero  all'impresa.  Laonde  i  dispacci  di  lord  Chelmsford,  che 


'   Paì'larnentary  Papers.  C.  1748,  p.  79. 

*  Pari.  Papers,  Citati  nel   Times  del  12  mario. 


520  L'  INGHILTEREA 

narrano  della  rotta  di  Isandula  e  della  ritirata  di  qua  del 
Tugela,  per  proteggere  la  colonia  del  Natal,  sono  pieni  di  sor- 
presa e  di  meraviglia.  Come  in  Abissinia,  come  fra  gli  Asolanti, 
come  sempre  e  dovunque,  gli  Inglesi  disprezzavano  il  nemico.  Non 
spetta  a  noi  narrare  i  particolari  della  guerra  onde  si  conoscono 
adesso  le  cagioni  ed  è  facile  presagire  1'  esito  finale.  Il  quale  avrà 
duplice  natura,  perchè  da  un  lato  si  darà  ai  Cafri  tale  un  colpo, 
dal  quale  non  potranno  rialzarsi  più  mai,  dall'  altro  i  coloni  del- 
l' Africa  australe  comprenderanno  che  la  madre-patria  viene  in 
loro  aiuto  per  l'ultima  volta.  «Hanno  respinto  —  dice  il  Times  — 
i  nostri  consigli;  accolsero  il  progetto  di  una  confederazione  che 
non  avrebbero  fatto  peggio  se  messo  innanzi  da  avversari,  nel 
proprio  interesse.  È  duro  per  noi,  dopo  il  poco  conto  che  si 
è  fatto  dei  nostri  consigli,  dopo  essere  stati  trattati  in  cotal  modo, 
è  duro  pagare  due  milioni  di  sterline,  per  salvare  i  nostri  coloni 
da  un  pericolo,  che  noi  volevamo  prevenire,  e  bisogna  che  essi  prov- 
vedano definitivamente  alla  propria  salvezza.  ^  » 

Così  si  pensa  e  si  scrive  nella  libera  Inghilterra,  così  si  fon- 
dano, si  accrescono,  si  consolidano  colonie  dalle  quali  la  madre 
patria  trae  tanta  parte  della  propria  potenza.  Altri  metodi,  altri 
criteri  di  governo  si  usano  pel  Canada,  altri  per  l' Australia 
e  per  l' Africa ,  e  sempre  e  dovunque  si  governa  con  larghi 
e  sicuri  criteri  di  libertà,  serbando  fede  ai  savi  principi  econo- 
mici, provvedendo  non  solo  allo  sviluppo  del  dominio  britannico, 
ma  ai  progressi  della  civiltà  generale.  Noi,  sangue  latino,  abbiamo 
una  salutare  paura  delle  colonie,  perchè  ci  vediamo  davanti  l'Al- 
geria, la  Nuova  Caledonia,  le  sciagurate  o  impotenti  repubbliche 
spagnuole.  Cuba  sempre  ribelle,  e  i  Portoghesi  sulla  soglia  del- 
l' Africa  centrale  da  tre  secoli,  senza  penetrarvi  con  frutto.  Invece 
l'Inghilterra  alleva  le  colonie  sue  come  figliuoli,  seguendone  le 
inclinazioni,  ed  emancipandoli  appena  è  possibile.  Ed  è  il  segreto 
principale  della  sua  jDotenza  e  della  sua  influenza  civile. 

Attilio  Brunialti. 


•  Times  del  4  corrente  marzo.  I  giornali  liberali,  Daily  News  specialmente 
insistono  ancora  più  sulla  necessita  di  dare  alle  Colonie  del  Capo  un  ordinamento 
simile  a  quello  del  Canada. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  ' 


li. 


Nel  precedente  articolo  obbligammo  i  nostri  cortesi  lettori 
a  passare  una  selva  di  cifre;  dovremo  pur  troppo  tornarci  ancora 
prima  di  compiere  lo  studio  intrapreso.  11  quale  ci  ha,  per  cosi 
dire,  trascinati  e  sorpresi  a  misura  che  ci  approfondammo, 
tanto  la  questione  del  credito  popolare  si  avvingliia  e  confonde, 
come  abbiamo  già  annunciato,  colla  questione  sociale.  Ci  affret- 
tiamo di  assicurare  che  siamo  ben  lungi  dal  voler  descrivere 
tutta  l'innumerevole  serie  degli  istituti  di  credito  popolare,  sorti 
all'estero,  e  sui  quali  non  tanto  per  lettura  di  libri  quanto  per 
visite  personali  si  affaticarono  i  nostri  occhi  e  il  nostro  spirito. 
Ma  non  volendo  procedere  per  via  di  semplici  raziocini  o  di 
sillogismi,  sibbene  persuadere,  com'  è  nostro  proposito  ed  uso, 
colle  cifre  ed  i  fatti,  non  potremo  esonerare  i  lettori  da  un  po'di 
logismografia  bancaria  e  dalle  relative  statistiche. 

Speriamo  di  escirne  per  la  più  breve,  ed  intanto,  ricordandoci 
che  scriviamo  nella  Nuova  Antologia,  ci  concediamo,  una  sosta 
col  ritrattare  brevemente  due  personaggi,  a  nostro  avviso,  le  due 
più  grandi  intelligenze  che  alla  questione  complessa,  che  discu- 
tiamo, posero  mente:  Schulze-Delitzsch  e  Lassalle;  poi  col  di- 
pingerli stretti  in  formidabile  lotta  fra  di  essi.  Chi  ebbe  la 
fortuna  di  vedere  quella  grande  figura  di  uomo  che  è  Schulze- 
Delitzsch  nel  suo  romantico  villino  di  Potsdam,  e  quella  mag- 
giore di  udire  di  viva  bocca  narrare  la  lunga  e  travagliata  car- 

'  Vedi  fascicolo  del  15  dicembre  l8^8. 
VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  aprile  I8ì9,  32 


522  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

riera  di  apostolo  della  cooperazione,  ne  riporta  le  più  dolci  me- 
morie nell'animo. 

Un  pubblicista  eminente,  il  sig.  Nefiftzer,  recatosi,  pochi  anni 
sono,  in  Germania,  per  studiare  più  davvicino  la  persona  e  l'opera 
evangelizzatrice  del  nostro  Schulze,  ne  riportava  un  giudizio  ol- 
tremudo espressivo  e  caratteristico  della  figura  di  quest'  uomo. 
Scriveva  costui  al  Temps  :  «  Questo  economista,  non  saprei  meglio 
descrivervelo,  che  dicendovi  che  vi  è  in  esso  del  Bastiat  e  del 
Lutero  ;  e  che  dopo  Bistnarck  rappresenta  la  più  grande  influenza 
ed  individualità  della  Germania  moderna.  » 

Ermanno  Schulze  è  nato  il  29  agosto  1808  a  Delitzsch,  pic- 
cola città  della  Sassonia  prussiana,  di  cui  egli  aggiunse  il  nome 
al  suo  nome  di  famiglia.  Figlio  di  un  magistrato  distinto,  rice- 
vette la  sua  prima  istruzione  all'Università  di  Lipsia,  d'onde  poi 
passò  a  completare  gli  studi  di  diritto  a  quella  di  Halle  e  a 
Naumburg,  dove  la  sua  carriera  scolastica  fu  coronata  da  così 
splendidi  risultati  di  esami,  che  gli  aprirono  l'accesso  ai  più  alti, 
uffici  della  magistratura  tedesca. 

Nominato  giudice  assessore  presso  la  Corte  di  Naumburg, 
poscia  alla  Camera  di  giustizia  di  Berlino,  lasciò  nel  1841  l'alta 
magistratura  per  divenire  amministratore  del  Consiglio  di  giu- 
stizia di  Delitzsch,  di  cui  il  buon  vecchio  si  ricorda  ancora  con 
immensa  tenerezza;  la  gloria  e  i  trionfi,  di  cui  a  guisa  di  au- 
reola si  cinse  poscia  il  suo  nome,  non  gli  affievolirono  punto  la 
memoria  dei  lieti,  tranquilli  ed  operosi  giorni  della  sua  giovi- 
nezza, passata  in  mezzo  alla  semplicità  e  candore  dei  costumi 
veramente  patriarcali  di  quell'industre  popolazione  del  suo  luogo 
nativo,  che  fu  il  focolare  da  cui  partì  la  prima  favilla  del  gran 
movimento  cooperativo,  al  quale  dovette  la  sua  prosperità  e  la 
gloria  del  suo  illustre  cittadino,  come  vedremo  più  oltre. 

Schulze-Delitzsch  non  tardò  molto  a  guadagnarsi  la  simpatia, 
stima  ed  affetto  dei  suoi  concittadini.  Già  fin  dal  1848  la  capa- 
cità di  cui  esso  avea  dato  prova  ed  i  pubblici  servigi  resi  nel- 
l'esercizio delle  sue  funzioni  di  magistrato,  lo  designarono  ai  voti 
della  sua  città  natale,  che  lo  nominò  suo  rappresentante  all'  as- 
semblea nazionale  di  Berlino,  dove  egli  fu  eletto  presidente  della 
commissione  speciale  istituita  pollo  studio  della  questione  operaia. 
E  tale  distinzione  convien  dire  che  non  fosse  puramente  onorifica, 
poiché  il  numero  delle  petizioni  inviategli  da  tutte  le  parti  del 
Kegno  ascesero  a  non  meno  di  mille  seicento. 

Come  si  vede,  1'  agitazione  operaia  fermentava  fin  d'  allora. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  523 

Rieletto,  dopo  lo  scioglimento  di  qiiest*  assemblea,  dallo  stesso 
distretto,  membro  della  Camera  dei  deputati,  egli  siede  al  centro 
sinistro  di  cui  diviene  uno  dei  capi,  e  prende  parte  a  tutte  le 
grandi  questioni. 

Nel  corso  del  1849  Schulze  fu  accusato,  insieme  a  quaran- 
tun  altri  suoi  colleghi  della  precedente  assemblea,  di  delitto  di 
lesa  maestà  per  avere  votato,  come  membro  della  maggioranza,  il 
rigetto  dell'  imposta.  Fu  assolto  del  pari  che  i  suoi  compagni 
dalla  giurìa  di  Berlino,  il  cui  verdetto  fu  inspirato  non  meno  dal 
rispetto  pel  diritto  parlamentare  che  dall'ingiuria  arrecata  alle 
leggi  pell'invasione  a  mano  armata  dell'aula  legislativa,  eseguita  . 
per  ordine  del  ministero  Brandenburg-Manteuffel. 

Schulze  che  avea  capitanato  eroicamente  la  difesa,  in  seguito 
a  tal  successo  giudiziario,  divenne  oggetto  di  ripetute  ovazioni. 
Gli  furono  offerti  banchetti  a  Berlino  e  a  Potsdam.  E  i  suoi  elet- 
tori di  Delitzsch,  saputo  l'avvenimento,  celebrarono  questo  suo 
trionfo  con  cavalcate  e  processioni  di  fiaccole,  regalandolo  inoltre, 
a  memoria  della  cosa,  di  una  magnifica  tazza  d'onore,  che  l'illu- 
stre uomo  gode  di  poter  mostrare  anche  oggi  ai  suoi  visitatori 
insieme  a  molti  altri  doni  preziosi,  che  formano  un  piccolo  mu- 
seo in  seno  alla  famiglia. 

Ma  questa  popolarità  lo  esponeva  ai  rigori  del  potere.  E  la 
nuova  organizzazione  giudiziaria  offerse  al  Governo  l'occasione  di 
sfogare  e  soddisfare  i  suoi  mal  celati  rancori.  Il  nostro  Schulze 
si  vide  relegato  a  Wreschen,  piccola  città  polacca  del  ducato  di 
Posen,  sulle  frontiere  della  Russia.  Egli  dovette  recarvisi  a  ma- 
lincuore colla  sua  giovane  Berta,  che  avea  sposato  da  poco  tempo 
a  Berlino.  Isolato  così  dal  centro  del  movimento  politico-sociale, 
e  bisognoso  nulladimeno  di  operosità,  si  dedicò  tutto  all'esercizio 
delle  sue  funzioni  di  magistrato,  dando  novelle  prove  della  sua 
riconosciuta  capacità.  Disseppellì  e  svolse  un  processo  che  rimon- 
tava a  più  di  mezzo  secolo,  e  che  aveva  rapporto  con  una  que- 
stione di  credito  fondiario  piena  di  complicazioni. 

Malgrado  i  nuovi  meriti  acquistatisi  nel  disbrigo  di  questa 
lite  secolare,  dove  rivelò  qualità  e  cognizioni  giuridiche  non  co- 
muni, gli  venne  ricusato  un  congedo  in  occasione  delle  ferie  della 
magistratura,  quantunque  avesse  dimostrato  di  avere  bisogno  di 
riposo.  Tutt'al  più  gli  si  sarebbe  concessa  una  qualche  escursione 
sulle  rive  della  Vistola,  ma  lungo  le  sponde  della  Sprea  o  del- 
l'Elba non  era  senza  inconveniente  pel  Governo  di  quel  tempo. 

Che  cosa  fa   allora  il  nostro  esiliato  ?   Si  mette  in   viaggio 


524  DEL   CREDITO  POPOLARE. 

senza  autorizzazione,  appellandosi  al  diritto,  che  ha  ogni  magi- 
strato di  godere  le  vacanze  ordinarie.  Di  ritorno  a  Wreschen, 
gli  si  fa  sapere  che  era  stata  ordinata  dal  governo  una  ritenuta 
sul  suo  stipendio.  Egli,  sdegnatone,  invia  tosto  al  ministro  la  sua 
dimissione  e  si  ritira  nel  1851  a  Delitzsch,  presso  i  suoi  cari  pa- 
renti ed  amici. 

Schulze  avea  tempo  innanzi  fondato  ad  Eulenburg  e  nella 
sua  città  natale  due  società  per  la  compra  e  vendita  delle  ma- 
terie prime,  ciò  che  non  era  stato  visto  di  buon  occhio  dal  go- 
verno. Libero  adesso  di  ogni  rapporto  coU'amministrazione  gover- 
•  nativa,  si  consacra  a  quella  propaganda  di  riforma  economica,  che 
oramai  proseguirà  senza  arrestarsi  un  momento. 

Gli  esordi  furono  lenti,  sia  che  le  circostanze  gli  imponessero 
una  riserva  e  precauzione  particolari,  dirimpetto  alle  autorità, 
sia  che  egli  sentisse  la  necessità  di  preparare  gli  spiriti,  pel  ti- 
more che  una  prematura  applicazione  dei  suoi  nuovi  principii 
economici  non  portasse  con  sé  qualche  insuccesso,  o  degli  sco- 
raggiamenti e  dubbi  intorno  alla  bontà  ed  efficacia  di  essi.  Dal 
1852  al  1855  vennero  fondate  sette  unioni  di  anticipazioni  {Vor- 
schussrereine).  Nel  1859  il  movimento  economico,  di  cui  Schulze 
si  era  fatto  il  promotore,  avea  acquistato  uno  sviluppo  abbastanza 
importante  da  permettergli  di  pubblicare  i  rendiconti  annuali 
col  mezzo  delle  informazioni  e  scritti  che  avea  potuto  riunire.  E 
finalmente  nel  1861  si  constatava  nei  diversi  Stati  della  confede- 
razione germanica  l'esistenza  di  340  Unioni  di  credito  e  di  an- 
ticipazioni. Eletto  verso  questa  epoca  alla  Camera  dei  deputati 
dalla  città  di  Berlino,  Schulze  rientrò  nella  vita  pubblica  col 
doppio  prestigio  di  scrittore  e  di  riformatore  nell'ordine  econo- 
mico. In  questo  tempo  la  popolarità  di  Schulze  in  tutta  la  Prus- 
sia, ma  specialmente  a  Berlino,  è  tale,  che  tanto  le  classi  borghesi 
quanto  quelle  operaie  lo  riguardano  come  il  loro  vero  ed  unico 
rappresentante.  All'indomani  di  un  grande,  successo  riportato  da 
un  suo  discorso  alla  Camera,  1'  entusiasmo  della  popolazione  di 
Berlino  per  Schulze  fu  così  grande,  che  si  vuole  che  lo  stesso  re 
Guglielmo  rivoltosi  ai  suoi  ministri  esclamasse:  «Vedremo  eh! 
miei  Signori,  chi  di  noi  due  trionferà,  se  il  signor  Scliulze 
0  io!  » 

Vedi  potenza  dello  spirito!  un  figlio  del  magistrato  di  una 
piccola  città  acquista  un  tale  ascendente  sulle  popolazioni  tede- 
sche da  bilanciare  il  suo  potere  al  potere  reale  di  una  monarchia 
essenzialmente  militare.  Sintomo  evidente  del  movimento  democra- 


BEL  CREDITO  POPOLARE.  525 

tico  che  fin  d'allora  invadeva  le  nazioni  d'Europa.  Pascal  osservava 
nell'uomo  tre  specie  di  grandezza:  quella  della  fortuna  o  della 
nascita  ;  quella  dell'intelletto  ;  e  quella  morale.  La  trasformazione 
politica  e  sociale,  a  cui  assistiamo  tutti,  consci  od  inconsci  operai, 
assegna  all'avvenire  di  queste  tre  specie  di  grandezza  un  ordine 
inverso  a  quello  occupato  fino  a  poco  fa. 

Le  testimonianze  dell'  immensa  popolarità,  di  cui  godeva 
Schulze,  si  manifestavano  tutte  le  volte  che  si  trovava  in  pre- 
senza del  pubblico,  e  specialmente  nelle  conferenze,  in  cui  espo- 
neva agli  operai  i  principii  che  devono  presiedere  alle  Unioni 
cooperative,  ed  i  mezzi  pratici  per  realizzarle.  Qui  principia  il 
vero  apostolato  di  Schulze.  Anche  in  Germania  le  idee  sociali- 
stiche della  Francia  avevano  trovato  molti  fautori,  che  si  erano 
schierati  formidabilmente  contro  le  dottrine  economiche  del  nostro 
riformatore,  che  ebbe  a  sostenere  infinite  lotte  prima  di  poter 
assicurare  loro  il  successo  e  la  popolarità  di  cui  godono  oggi. 
Come  sono  sorte  in  Glermania  tali  lotte;  che  cosa  si  combatte; 
che  cosa  si  vuole  dai  fieri  contendenti  di  ambe  le  parti  discordi? 
Rispondere  a  queste  domande  è  spiegare  la  genesi  delle  nume- 
rose istituzioni  cooperative,  di  cui  più  oltre  dovremo  esporre 
l'indole,  gli  scopi  ed  i  risultati  ottenuti  a  tutt'oggi.  Le  principali 
cause  che  crearono  il  movimento  politico  sociale,  ed  afirettarono 
il  trionfo  delle  nuove  dottrine  economiche  e  del  principio  dèlia 
cooperazione  tedesca  in  special  modo,  sono  da  ricercare,  a  nostro 
avviso,  nelle  fasi  per  cui  passò  l'economia  politica  a  partire  dalla 
sua  origine,  o  ciò  che  è  lo  stesso,  nelle  seguite  evoluzioni  dei 
rapporti  tra  capitale  e  lavoro.  A  misura  che  questi  variano  e 
creano  coli'  inesorabile  linguaggio  dei  fatti  un  nuovo  ordine  di 
cose,  anche  l'eccnomia  deve  cambiare  o  modificare  il  suo  conte- 
nuto, poiché  è  essa  che  dà  e  riceve  legge  dallo  sviluppo  dei  fe- 
nomeni sociali.  Quando  le  industrie  dormivano  ancora  nell'infan- 
zia della  produ.'^ione,  e  che  un  sistema  fiscale,  grave  oltre  ogni 
dire,  le  opprimeva  per  tutta  l'Europa,  si  gridò  contro  le  pastoie 
ed  i  vincoli  della  produzione,  riguardandoli  come  violazione 
dell'ordine  naturale  insito  negli  uomini  e  nelle  cose.  E  la  scuola 
fisiocratica  concepì  un  sistema  di  dottrine  basato  sulle  pretese 
leggi  della  natura,  ed  affidò  soprattutto  la  ricchezza  delle  nazioni 
allo  svolgimento  o  sviluppo  dei  germi  di  produzione  contenuti 
nel  gran  seno  della  madre  terra.  Lasciate  che  la  natura  e  l'uomo 
operino  liberamente;  la  prima  è  governata  da  leggi  divine;  il 
secondo  ha  per  norma  l' idea   del    giusto,  del  bene  e   del  male, 


526  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

che  lo  guiderà  nella  scelta  dei  mezzi  migliori  al  conseguimento 
del  proprio  scopo. 

Ma  in  realtà  le  cose  procedevano  ben  diversamente.  Dopo 
la  grande  rivoluzione  meccanica  che  alterò  e  modificò  sostan- 
zialmente gli  antichi  rapporti  del  capitale  e  del  lavoro,  alla  con- 
cepita armonia  dei  fenomeni  del  mondo  economico  successe,  nel- 
r  ordine  dei  fatti,  un  immenso  spostamento  delle  ricchezze  sociali, 
un  disquilibrio  enorme  tra  le  forze  di  produzione  e  quelle  del 
consumo,  infine  un  attrito  ed  antagonismo  degli  interessi  materiali 
a  danno  dei  principii  morali.  Le  classi  lavoratrici  ne  risentirono 
svantaggi  non  piccoli;  e  gli  economisti,  commossi  delle  loro  sorti, 
gridarono  all'  ingiustizia  sociale. 

Alla  voce  degli  economisti  si  unì  quella  degli  scrittori  più  o 
meno  sentimentali;  avemmo  l'èra  dei  romanzi,  dove  si  adoprarono 
tutte  le  tinte  della  tavolozza  pittorica  per  dipingere  al  vivo  sotto 
gli  occhi  dei  lettori  le  piaghe  della  moderna  società,  spesso  anche 
esagerandone  i  contorni  e  le  sfumature,  pur  di  commovere  ed 
eccitare  i  popoli  a  scuotere  il  giogo  della  nuova  situazione  sociale. 

Ma  con  quali  mezzi?  Tutti  accusano  l'insopportabilità  di  un 
tale  stato  di  cose  ;  tutti  oramai  convengono  che  c'è  una  questione 
sociale  imperiosa,  e  che  bisogna  trovare  il  modo  di  sciogliere 
polla  salvezza  degli  stati,  pel  bene  dell'umanità,  ed  in  omaggio 
soprattutto  alla  giustizia  sociale.  Luigi  Blanc  e  Fourier  si  pre- 
sentano come  i  redentori  dell'umanità  sofferente,  ed  additano  corno 
panacea  dei  mali  e  disordini  sociali  gli  Ateliers  nationaux.  Ad 
essi  come  corollario  fa  seguito  la  Banca  universale  di  Proudhon. 
Alle  utopie  di  questi  socialisti  sa  ognuno  la  triste  sorte  che  toccò. 
Non  avevano  che  un  lato  sano,  ed  era  quello  di  riconoscere  il  bi- 
sogno delle  associazioni  per  scongiurare  molti  dei  mali,  di  cui  è 
gravido  il  presente  e  l'avvenire  dei  popoli. 

Questo  bisogno  si  fece  riconoscere  e  sentire  più  efiicacemente 
al  di  là  del  Keno.  La  soluzione  del  nuovo  problema  sociale  agita 
tutta  la  Germania,  ed  a  Berlino  è  oggetto  di  discussioni  calorose 
e  di  lotte  accanite  da  parto  principalmente  di  due  uomini  che 
si  mostrano  profondamente  preoccupati  del  pauperismo  delle  mol- 
titudini, e  delle  condizioni  antieconomiche  create  loro  dal  mo- 
derno industrialismo.  Le  loro  vedute  circa  i  modi  ed  i  mezzi  di 
pervenire  a  sciogliere  la  questione  sociale,  ed  assicurare  un 
migliore  avvenire  al  proletariato,  appariscono  affatto  differenti 
e  discordi.  Questi  due  uomini  sono  Schulze  e  Lassalle  che 
adesso  dobbiamo  vedere   in  lotta  a  Berlino,   dove  si   contendono 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  ^27 

a  palmo  a  palmo  il  terreno  della  vittoria,  la  quale  finalmente  ve- 
dremo arridere  al  nostro  venerato  amico  di  Potsdam.  Si  può  dire 
che  in  tal  tempo  la  Germania  si  dividesse  in  due  campi  sul  ter- 
reno economico,  e  che  la  questione  sociale  vi  fosse  discussa  col 
più  grnnde  ardore  e  con  molto  successo  tanto  nell'  un  campo  che 
nell'altro,  sebbene  sotto  punti  di  vista  affatto  contrari. 

Intorno  al  nostro  riformatore  si  ajijgruppavano  gli  economisti 
Huber,  Max  Wirth,  Bohmert,  Michaelis.  Huber,  il  più  influente 
dei  suoi  aderenti,  non  differisce  da  Schulze  che  per  una  propen- 
sione maggiore  per  le  forme  cooperative  dell'Inghilterra,  che 
egli  si  sforza  d'introdurre  in  Germania,  e  di  cui  egli  è  promotore 
eminente  ed  infaticabile. 

Alla  testa  invece  del  partito  socialista  spicca  sopra  tutti 
Ferdinando  Lassalle,  che  aveva  l'appoggio  del  professore  Wutke, 
dei  sigg.  Hess,  Robertus,  Bucher  Dammer,  del  poeta  politico 
Giorgio  Herwegh,  del  colonnello  Becker,  e  di  molti  altri  illustri 
e  potenti  ausiliari. 

Ferdinando  Lassalle,  che  fu  il  capitano  di  questa  scuola, 
nacque  1'  11  aprile  1825  a  Breslavia  (Slesia)  di  una  famiglia  di 
ricchi  negozianti  israeliti.  Inviato  alla  scuola  di  commercio  di 
Lipsia  allo  scopo  di  prepararlo  a  seguire  la  carriera  paterna, 
Lassalle  ne  esce  un  anno  dopo,  per  andare  a  fare  i  suoi  studi 
di  diritto  e  di  filosofia  a  Breslavia  e  poi  a  Berlino.  Lassalle  entrò 
nel  gran  mondo  politico  nel  1846.  Enrico  Heine,  meravigliato 
della  sua  attitudine  sulla  dialettica,  lo  raccomandò  a  Varnhagen 
d'  Ensa,  che  lo  mise  in  relazione  con  celebri  personaggi. 

E  interessante  il  giudizio  che  il  poeta  dell'umorismo  e  della 
tristezza  dà  fin  d'  allora  sul  futuro  demagogo:  «  Il  mio  amico,  cosi 
scrive  Heine  a  Varnhagen,  che  vi  consegnerà  questa  lettera,  Las- 
salle, è  un  giovane  dotato  di  distinta  intelligenza.  Alla  coltura  la 
più  profonda,  alle  conoscenze  le  più  vaste,  alla  penetrazione  la  più 
acuta,  unisce  una  forza  di  volontà  ed  una  abilità,  che  mi  fanno  me- 
raviglia. È  un  vero  figlio  dei  nuovi  tempi  che  non  conosce  nulla  di 
quella  annegazione  e  modestia,  di  cui  noi  abbiamo  fatto  professione 
con  più  0  meno  ipocrisia.  Appartiene  ad  una  generazione  che  vuol 
godere  e  dominare.  »  In  queste  parole  c'è  la  personificazione  non 
solo  del  carattere  di  Lassalle,  ma  della  rivoluzione  che  picchiava 
alle  porte  degli  Stati. 

All'  università  si  scaldò  d'  entusiasmo  per  Fichte  e  sopratutto 
per  Hegel,  che  fu  il  suo  maestro  nelle  alte  regioni  del  pensiero 
metafisico.  In  politica  adottò  le  idee  della  giovane   Alemagna,  e 


528  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

si  schierò  nelle  file  i^iù  radicali,  clie  fin  d'allora  si  chiamarono' 
«  le  file  dei  rivoluzionari.  »  Aveva  concepito  il  progetto  di  scri- 
vere la  storia  dell'antica  scuola  della  filosofia  ionica.  Per  racco- 
gliere i  materiali  necessari  ed  anche  per  respirare  1'  ambiente 
della  grande  città,  si  recò  nel  1845  a  Parigi,  dove  allora  fermen- 
tavano tutte  le  idee  del  nuovo  verbo  socialistico  e  dove  si  trovava- 
da  qualche  tempo  il  poeta  atrabiliare  Enrico  Heine. 

Kitornato  a  Berlino  dove  Lassalle  voleva  stabilirsi  come 
lirivat-docent.  entrò  in  relazione  con  tutto  il  mondo  letterario  & 
scientifico,  che  gli  fece  grande  accoglienza.  Ed  Humboldt,  l'illu- 
stre naturalista,  lo  ebbe  in  grande  amicizia;  lo  chiamava  il 
fanciullo  prodigioso  das  Wundcrkind,  e  lo  raccomandò  ai  suoi 
colleglli  dell'Istituto  di  Francia,  allorquando  Lassalle  si  recò  pella 
seconda  volta  a  Parigi.  Nel  1845  principiano  le  sue  relazioni  ed 
avventure  celebri  colla  contessa  Sofia  di  Hatzfeldt,  separata  da 
suo  marito,  il  cui  divorzio  dette  luogo  ad  un  processo  dove  Las- 
salle prese  le  difese  della  contessa,  colla  quale  si  recò  anche  in 
Italia,  e  vi  conobbe  Garibaldi,  che  lo  invitò  a  tentare  una  spe- 
dizione sopra  Vienna  affinchè  l'unità  italiana  e  tedesca  potes- 
sero stabilirsi  sulle  ruine  dell'Austria.  Tali  idee  erano  anche- 
quelle  di  Bismarck,  ma  i  tempi  non  erano  maturi  e  ci  volle  il  1866 
per  eff"ettuare  il  programma  italo-tedesco. 

Finito  il  processo,  che  resultò  favorevole  alla  sua  contessa, 
si  dette  tutto  al  movimento  politico-sociale  del  tempo.  Scrisse 
allora  nella  Neue  PJieinische  Zeiiiing,  dove  collaboravano  anche- 
Engels,  Freiligrath,  Schapper,  Wolff  ed  altri  scrittori  meno  cono- 
sciuti. 

Nel  1861  pubblicò  uno  studio  letterario  sopra  Lessing,  come 
prima  avea  pubblicato  una  dotta  dissertazione  sulla  filosofia  di 
Eraclito  {Die  Fhilosophie  Herncleitos  des  Diinkeln  von  Epìiesos, 
Leipzig  1858,  2  volumi).  Questo  lavoro  gli  meritò  la  nomina  a 
membro  della  Società  di  Filosofia,  che  lo  incaricò  anche  di  pro- 
nunziare dei  discorsi  in  occasione  delle  feste  in  onore  di  Fichte,  il 
filosofo  che  avea  profetizzato  l' unità  germanica  ed  annunziato 
che  il  popolo  tedesco  godrebbe  un  giorno  della  libertà  ed  ugua- 
glianza proclamate  dalla  rivoluzione  francese.  Di  qui  anzi  la  sim- 
patia di  Lassalle  per  questo  filosofo,  ed  il  culto  suo  per  certi 
uomini  compatrioti  e  contemporanei  di  Robespierre. 

Ma  ancora  siamo  nel  campo  delle  astrattezze  filosofiche,  dove 
pare  che  si  bei  l'ingegno  trascendentale  e  potente  di  Lassalle. 
Verso  questo  stesso  tempo  pubblicò  il  «  Sistema  dei  diritti  acqui- 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  523 

siti  »  (System  der  erworhenen  Rechie).  È  una  specie  di  concilia- 
zione «  Versohnung,  »  osserva  giustamente  Adolfo  Wagner,  ^  del 
diritto  positivo  col  diritto  filosofico.  Fra  mezzo  a  dissertazioni 
puramente  scientifiche  fanno  a  capolino  di  tanto  in  tanto  delle 
idee  di  riforma  radicale,  come  si  può  vedere  laddove  parla  dei 
regime  attuale  della  proprietà  e  della  eredità,  che  sottopone  a 
vivissima  critica.  .In  due  opuscoli  politici  pubblicati  poco  tempo 
dopo  «  l'Essenza  di  una  costituzione  »  {Uber  Verfassungsweseri} 
e  «  Forza  e  Diritto  »  [Macht  und  Rechf)  egli  riprende  la  sua 
favorita  idea,  che  negli  affari  umani  tutto  ciò  che  decide  in  ul- 
tima istanza  è  sempre  la  forza. 

Ma  non  è  che  verso  il  1862  che  Lassalle  si  fa  il  campione  del 
socialismo.  Era  l'epoca  di  lotta  tra  i  liberali  prussiani  e  JBismarck 
a  motivo  della  riorganizzazione  dell'  esercito  e  del  bilancio  della 
guerra,  che  la  Camera  rigettò  ostinatamente  per  parecchi  anni  di 
seguito.  I  liberali  si  sforzavano  di  guadagnare  l'appoggio  delle 
classi  operaie,  gli  uni  con  Schulze  Delitzsch  alla  testa,  gli  altri 
con  Lassalle,  che  principiò  allora  a  gettarsi  nella  mischia  per 
esporre  e  difendere  le  idee  socialiste.  La  sua  attività  di  propaganda 
fu  meravigliosa.  Durante  i  tre  anni  che  durò  il  suo  apostolato 
attivo,  non  ebbe  un  istante  di  riposo;  organizzava  dei  meetingSy 
pronunziava  dei  discorsi,  o  pubblicava  degli  opuscoli.  In  un  tempo 
cosi  breve  pervenne  a  fare  del  socialismo  un  partito  politico  mili- 
tante col  suo  posto  riservato  nell'  arena  elettorale.  Fece  in  Ger- 
mania da  sé  solo  ciò  che  in  Francia  avea  fatto  la  rivoluzione  di 
febbraio.  ì^elV  Arbeiter  Prograrnm  (Programma  degli  operai)  si 
adopra  a  dimostrare  che  nel  modo  stesso  che  la  borghesia  è  suc- 
ceduta all'aristocrazia  territoriale,  così  anche  il  «  quarto  stato  » 
la  classe  operaia,  deve  diventare  il  potere  dominante  nella  società 
per  mezzo  del  suffragio  universale.  Processato  per  avere  provocato 
r  odio  delle  classi  sociali  le  une  contro  le  altre,  egli  si  difende 
con  grande  abilità  nell'  opuscolo  intitolato  DU  Wissenschaft  und 
die  Arbeiter  (La  Scienza  e  gli  operai).  «Nel  1848,  diceva  costui,, 
gli  operai  erano  alla  mercè  di  agitatori  ignoranti.  Bisogna  met- 
tere la  scienza  alla  loro  portata  ed  istruirli;  cosi  comprende- 
ranno qual  è  il  loro  vero  interesse,  e  sapranno  condursi  come 
conviene.  » 

Egli  dimostra  in  fondo,  che  l' evoluzione  storica  deve  mettere- 

'  V.    Briffe  von  Ferdinand  Lassalle  an  Cari  Rodbertus-Jagetzoiv.  Mit  eìner- 
FAnleitung  von  A.  Wagner;  Berliu  1878.  Pattkammer, 


530  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

capo  al  trionfo  della  democrazia,  e  dice  di  non  aver  fatto  altro 
che  sviluppare  una  tesi,  che  può  benissimo  incorrere  nei  rigori 
della  critica,  ma  non  in  quelli  del  codice  penale.  E  in  occasione 
di  un'assemblea  di  operai  a  Lipsia  espone  mediante  lettera  aperta 
al  suo  amico  Rodbertus  le  stesse  idee,  che  poi  svolge  anche  in 
una  seduta  del  Congresso.  1  processi  e  le  persecuzioni  continuano, 
ed  egli,  lungi  dal  ritrattarsi,  conferma  le  sue  idee  precisandole 
ancora  di  più  cogli  scritti  Der  Lassalle  sche  Criminal  Process,  1863. 
Der  Hochverraths  Frocess  loidcr  F.  Lassalle.  Verihcidigungsrcde 
vom  12  nuirz  1864.  Ma  è  tempo  di  vederlo  alle  prese  con  Schulze^ 
Lassalle,  come  tutti  gli  spiriti  troppo  assoluti,  non  conosceva 
temperamenti.  Non  pensava  che  al  mezzo  di  impossessarsi  dello 
Stato,  e  con  esso,  di  trasformare  la  società.  Il  suo  libro  «  il 
Giuliano  dell'  Economia  Politica  »  {Herr  Bastiat-SclmUe  von 
Delitzsch,  der  Oeconomisclie  Jidian.  Berlin,  Schlingmann,  1864) 
è  una  violenta  protesta  contro  il  partito  liberale,  che  egli  ac- 
cusa di  disertare  gli  interessi  popolari,  ed  una  confutazione  di- 
retta dei  mezzi  con  cui  Schulze  propone  e  si  adopra  di  riformare  i 
pubblici  poteri  e  lo  stato  sociale.  Riassumiamone  le  idee.  Sotto 
il  regime  sociale  attuale,  l' operaio  può  coi  suoi  propri  sforzi 
migliorare  la  sua  condizione  come  pretende  Schulze-Delitzsch  ? 
No,  risponde  Lassalle,  «  la  legge  ferrea  »  del  salario  vi  si  op- 
pone. Che  cosa  è  questa  legge  ferrea  {das  eherne  Lohngesetz) 
che  è  la  base  di  tutte  le  sue  deduzioni?  E  quelhx  legge  in  virtù 
della  quale  nella  società,  quale  è  attualmente  sotto  l'azione  del- 
l' offerta  e  della  domanda,  il  salario  in  media  è  ridotto  a  ciò  che 
è  puramente  indispensabile  per  permettere  all'operaio  di  vivere 
e  di  procreare.  E  il  livello  verso  il  quale  gravita,  nelle  sue  varie 
oscillazioni  il  salario  reale,  senza  che  possa  mantenersi  lungo 
tempo  né  al  disopra,  né  al  disotto  di  tal  misura.  Non  può  restare 
per  molto  spazio  al  disopra  di  quel  livello,  perché  appunto  pel 
fatto  di  una  maggiore  agiatezza  e  prosperità  che  porterebbe  un 
tal  rialzo,  crescerebbe  il  numero  dei  matrimoni  e  delle  nascite 
nella  classe  operaia;  e  così  il  numero  delle  braccia  cercanti  im- 
piego non  tarderebbe  ad  aumentare,  ed  offrendosi  a  gara,  la  con- 
correnza ricondurrebbe  alla  stregua  fatale.  Non  può  del  pari 
cadere  al  disotto  di  quel  livello,  poiché  altrimenti  la  miseria  e 
la  fame  produrrebbero  la  mortalità,  1'  emigrazione,  là  diminuzione 
dei  matrimoni  e  delle  nascite,  e  per  conseguenza  una  riduzione 
nel  numero  delle  braccia.  L'  offerta  di  queste  essendo  minore,  il 
prezzo  alzerebbe  per  la  concorrenza  dei  padroni  nel  disputarsi  gli 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  531 

operai  ed  il  salario  si  troverebbe  cosi  ricondotto  alla  stregua  nor- 
male, l  periodi  di  prosperità  e  di  crisi,  cbe  attraversa  continuamente 
r  industria,  producono  queste  oscillazioni,  ma  «  la  logge  ferrea  » 
è  là  pronta  a  ricondurre  sempre  la  retribuzione  dell'  operaio  al 
minimo  di  ciò  che  gli  è  indispensabile. 

Può  avvenire  che  in  seguito  dei  progressi  industriali,  questo 
miniìHum  si  modifichi.  Lo  standard  oflife.  la  maniera  cioè  di  vivere 
ed  i  bisogni  di  prima  necessità  hanno  cambiato.  Difatti  nel  medio- 
evo non  si  portava  biancheria,  si  andava  spesso  scalzi,  mentre  che 
oggi  le  scarpe  e  le  camicie  si  considerano  come  indispensabili.  Si 
tratta  dunque  di  un  minimum  ad  un'  epoca  determinata,  che  sarà 
sempre  quello,  al  disotto  del  quale  1'  operaio  cesserà  di  maritarsi, 
di  procreare,  o  di  potere  allevare  i  propri  figli. 

La  «  legge  ferrea  »  del  salario  non  è  che  una  applicazione 
della  legge  generale  che  regge  e  governa  il  prezzo  delle  mer- 
canzie, e  che  è  uno  dei  luoghi  comuni  della  economia  politica. 
Sotto  questo  rapporto  bisogna  distinguere  tre  specie  di  oggetti. 
Dapprima  quelli  che  non  si  possono  creare  a  volontà,  come  le 
statue  antiche  e  i  quadri  di  antichi  autori,  il  cui  prezzo  si  deter- 
mina non  dalle  spese  della  produzione,  poiché  non  si  possono  ripro- 
durre, ma  da  ciò  che  gli  acquirenti  o  dilettanti  vogliono  pagare.  Poi 
altri  oggetti  che  possono  aumentare  il  loro  prezzo  in  certi  limiti,  ma 
con  una  difficoltà  crescente.  Per  questi  le  spese  di  produzione  di  altri 
che  si  ottengono  in  condizioni  le  più  onerose,  determinano  il  prezzo 
generale;  tali  sono,  ad  esempio,  le  derrate  agricole.  E  finalmente 
vi  è  una  terza  specie  di  cose  che  si  può  moltiplicare  quasi  quanto 
si  vuole,  come  appunto  sono  tutti  gli  oggetti  manifatturati.  Il 
prezzo  n'  è  regolato  dalle  spese  di  produzione  delle  merci  fabbri- 
cate in  condizioni  le  più  favorevoli,  cioè  a  dire  con  minore  sacri- 
ficio. Il  lavoro  considerato  come  merce  appartiene  appunto  a  questa 
terza  categoria,  poiché  il  numero  delle  braccia  aumenta  in  ragione 
della  domanda;  il  prezzo  della  mano  d'opera,  cioè  il  salario,  sarà 
dunque  determinato  dal  minimo  del  costo  di  mantenimento  del- 
l'operaio, minimo  che  risponde  qui  alle  minori  spese  di  produ- 
zione di  questa  specie  di  merce  particolare,  che  è  la  forza  pro- 
duttiva dell'  operaio. 

Se  tale  è  la  legge  generale,  le  istituzioni  preconizzate  da 
Schulze-Delitzsch,  nonché  le  antiche  opere  di  beneficenza  e  di 
patronato,  non  possono  conseguire  l'effetto  di  migliorare  la  sorte 
delle  classi  operaie  in  generale.  La  ragione  ne  è  semplice:  fin- 
ché non  si  tratta  che  di  un  certo  numero  di  operai,  questi  avranno 


532  I>EL   CREDITO   POPOLARE. 

evidentemente  un  vantaggio  ad  ottenere  da  una  Società  di  consumo 
a  più  buon  mercato  ed  a  migliore  qualità  i  commestibili  e  prov- 
vigioni di  cui  abbisognano;  ma  se  la  maggior  parte  degli  ope- 
rai profittassero  di  tali  istituzioni,  ne  seguirebbe  che  essi  vivreb- 
bero come  oggi  stesso  ma  con  minori  spese;  il  ".ninimvm  delle 
loro  spese  di  campamento,  cioè  le  spese  di  produzione  del  lavoro 
diminuirebbero  ;  e  come  questo  minimum  è  il  livello  al  quale  la 
concorrenza  finisce  col  ricondurre  il  salario,  ne  seguirebbe  che 
questo  abbasserebbe  a  misura  che  il  mantenimento  dell'operaio 
divenisse  meno   costoso. 

Così  Lassalle  credeva  mostrare  l'inanità  degli  sforzi  di  Schulze- 
Delitzsch  e  dei  borghesi  filantropi  che  insieme  ad  esso  vogliono 
migliorare  la  sorte  dell'operaio  senza  cambiare  l' organazione 
attuale  della  società.  Tutti  i  tentativi  che  il  loro  buon  cuore  gli 
ispira    vengono  a  rompersi  contro  la  «  Irggr  ferrea.  » 

Tali  ragionamenti  fondati  sui  principii  generalmente  accettati 
dalla  scienza  ortodossa  gli  valsero  gli  assalti  i  più  vivi  del  gior- 
nalismo liberale.  Lassalle  rispose  con  non  minore  veemenza  {Zur 
Arhcifcrfrage.  —  Rcdc zu  Lripzir/  ani  16avril  1863. —  Redes/i  Fran- 
furt  am  17  und  19  mai  1863).  Egli  non  esitò  a  dimostrare  che  la 
teoria  del  salario  quale  aveva  es-posto,  per  quanto  desolante  po- 
tesse apparire,  pure  è  conforme  alla  realtà,  e  riceve  conferma 
anche  dagli  scritti  di  economisti  come  Stuart  Mill,  Roscher,  Say 
Eicardo  e  via  dicendo.  Anche  la  scuola  fisiocratica  adombrò  una 
tal  legge.  «  Le  simple  ouvrier,  disse  Turgot,  qui  n'a  que  ses  bras, 
n'a  rien  qu'autant  qu'il  parvient  à  vendre  à  d'autres  sa  peine. 
Il  la  vend  plus  ou  moins  chère,  mais  ce  prix  plus  ou  moins  haut 
ne  dépend  pas  de  lui  seul  :  il  résulte  de  1'  accord  qu'il  fait  avec 
celui  qui  paie  son  travail.  Celui-ci  le  pale  le  moins  cher  qu'il 
peut,  et  comme  il  a  le  choix  entro  un  grand  nombre,  il  préfère 
celui  qui  travaille  à  meilleur  marche.  Les  ouvriers  sont  dono 
obligés  de  baisser  leur  prix  à  l'envi  les  uns  des  autres.  En  tout 
genre  de  travail,  il  doit  arriver,  et  il  arrivo  en  efiet,  que  le  salaire 
de  l'ouvrier  se  homo  à  ce  qui  lui  est  nécessaire  pour  lui  pro- 
curer  sa  snhsistance.  » 

Queste  poche  linee  adombrano  tutto  il  sistema  di  Lassalle. 
Del  resto,  a  parte  i  temperamenti  di  cui  è  suscettibile  una  tal 
legge  a  seconda  dei  progressi  morali  e  civili  di  un  popolo,  e  che 
il  Socialista  di  Breslavia  tenne  troppo  poco  in  conto,  per  non 
dire  escluse  quasi  affatto,  il  fondo  di  essa  è  in  buona  parte  vero 
e  vi  è  stato  un  tempo  in  cui  lo  fu  interamente.  Quando  la  scuola 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  533 

inglese  indica  e  formula  la  legge  che  presiede  allo  sviluppo  ed 
aumento  della  i^roduzione,  vi  ripete  in  altre  parole  la  stessa  cosa; 
il  massimo  di  produzione  col  minimo  mezzo  non  significa  altro 
che  produrre  al  minimo  costo,  e  quindi  col  più  basso  salario  pos- 
sibile. 

Ed  il  perchè  è  facile  a  capirsi.  Il  prezzo  delle  merci  sale  e 
scende,  ma  tende  continuamente,  a  motivo  della  concorrenza,  ad 
avvicinarsi  sempre  più  al  livello  delle  spese  di  produzione.  Per 
vincerla  sovra  i  suoi  concorrenti,  il  fabbricante  è  dunque  costretto 
a  ridurre  più  che  può  le  sue  spese  di  produzione  onde  potere 
offrire  i  suoi  prodotti  a  miglior  mercato  degli  altri.  E  queste  spese 
di  produzione  della  merce-lavoro  (Arbeit-Waare),  per  usare  la 
frase  già  nota,  non  sono,  in  più  dei  casi,  che  il  nutrimento,  al- 
loggio e  vestiario  dell'  operaio. 

Lassalle  avea  in  qualche  modo  ragione  quando  ai  discepoli 
di  Smith,  che  j)arvero  scandalizzati  delle  afiermazioni  sue,  si  fece 
a  provare  che  la  sua  legge  è  la  conseguenza  naturale  e  necessa- 
ria delle  deduzioni  assolute  del  loro  maestro. 

Ma  Lassalle  ha  torto  quando  alla  sua  legge  ferrea  dà  lo  stesso 
carattere  assoluto  della  scuola  inglese.  Se  la  domanda  e  l'offerta 
è  una  di  quelle  leggi  reali  che  fanno  sentire  i  suoi  effetti  in  molte 
operazioni  del  mondo  economico,  non  è  a  dimenticare  però  che 
nel  salario  essa  opera  sempre  diversa  e  sempre  modificata  dalle 
circostanze  di  luogo  e  di  tempo,  dallo  sviluppo  maggiore  o  mi- 
nore della  coscienza  morrle  e  giuridica  di  un  popolo,  in  una  pa- 
rola dal  grado  di  civiltà  di  esso.  Tenuto  debito  conto  di  tutti  i 
mobili  coefficienti  del  salario,  allora  la  pretesa  legge  ferrea  si 
spoglia  di  quel  suo  carattere  crudelmente  rigido  ed  assoluto,  e  • 
diviene  una  legge  umana  come  tante  altre  che  gli  uomini  fanno 
e  disfanno  a  seconda  dei  propri  bisogni. 

Lassalle  che  pare  rimproverare  al  sistema  inglese  il  suo  ma- 
terialismo, non  si  avvede  poi  di  cadere  colla  formulazione  della 
cliernes  Gesetzes  nello  stesso  difetto  della  scuola  inglese,  cioè  nel 
fatalismo  delle  leggi  immobili  ed  eterne  credute  presiedere  allo 
sviluppo  e  governo  di  tutti  i  fenomeni  del  mondo  economico.  Oggi 
questo,  dopo  le  esperienze  di  quasi  un  secolo,  si  intuisce  in  modo 
assai  differente  dall'assolutismo  fatale  e  materiale  della  vecchia 
scuola,  che  considerò  le  influenze  che  regolano  il  salario  come 
leggi  naturali,  che  s' impongono  ineluttabilmente  come  quelle  che 
governano  i  fenomeni  del  mondo  fisico,  e  che  è  inutile  ed  anche 
assurdo  volere  cambiare.  Ma,  come  abbiamo   detto,   questa   ma- 


534  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

niera  di  vedere  è  affatto  erronea.  Certo,  data  1'  organizzazione 
sociale,  i  costumi  e  le  abitudini  attuali,  come  resultato  della  no- 
stra civiltà,  i  fattori  che  regolano  il  salario  saranno  una  conse- 
guenza naturale  di  questi  rapporti  e  circostanze  ;  ma  questi  fat- 
tori, queste  islituzioni,  di  cui  essi  sono  un  portato,  non  formano 
delle  leggi,  ma  sono  dei  fatti  contingenti,  prodotti  dal  libero  ar- 
bitrio dell'uomo,  e  capaci  di  variare  ali*  infinito,  come  la  libera 
potenza  intellettuale  di  esso,  che  li  modifica  e  rinnova  continua- 
mente. 

Gli  uomini  che  ne  sono  gli  autori,  possono  quindi  cambiare 
questi  rapporti,  come  lo  hanno  fatto  parecchie  volte  nel  corso  dei 
secoli.  Neil'  economia  politica  non  esistono  catene  di  fatti  neces- 
sari come  ne  presenta  il  mondo  fisico,  su  cui  non  abbiamo  potere. 
Si  subiscono  le  leggi  cosmiche,  si  fanno  quelle  sociali.  Le  une 
sono  immutabili  ed  hanno  la  loro  radice  nella  costituzione  del- 
l'universo ;  le  altre  cambiano  di  secolo  in  secolo  a  misura  che  lo 
svolgimento  e  progresso  della  storia  creano  altri  tipi  di  civiltà. 

La  legge  ferrea  ha  un  lato  vero  tuttavia,  quello  in  cui  Las- 
salle  afferma  che  il  salario  ha  un  livello  minimo  oltre  il  quale 
non  si  può  andare,  poiché  ne  seguirebbe  l'annientamento  fisico  e 
morale  dell'uomo.  Ma  non  è  vero  del  pari,  che  non  sia  possibile 
sorpassare  di  molto  questo  minimo  livello  e  restarvici  anche 
normalmente  o  almeno  per  lungo  tempo.  A  ciò  è  contraria,  dice 
Lassalle,  la  prosperità  che  ne  segue  nelle  classi  operaie,  per  cui 
si  aumenta  la  popolazione,  e  quindi  l'offerta  delle  braccia,  che 
riduce  di  nuovo  il  salario.  Ma  è  assolutamente  vero  questo?  Le 
statistiche  non  ci  mostrano  il  contrario,  in  molti  casi  almeno  ? 
Mille  esempi  abbiamo  in  cui  la  popolazione  aumenta  in  ragione 
diretta  dell'aumento  della  miseria:  ed  invece  diminuisce  in  ra- 
gione diretta  dell'  aumento  della  prosperità  e  ricchezza.  Non 
ne  abbiamo  una  prova  nell'  Irlanda  dove  la  popolazione  trenta 
anni  sono  pullulava  in  seno  alla  piìi  abbietta  miseria,  e  nella 
parola  stessa  di  proletario  che  significa  miserabile  e  generatore 
di  prole  in  pari  tempo  ?  E  la  prospera  Francia  oggi  non  prova 
il  caso  contrario,  cioè  della  diminuzione  della  sua  popolazione, 
mentre  l'Inghilterra  travagliata  dagli  scioperi  e  dalla  miseria 
delle  sue  falangi  operaie,  si  vede  aumentare  la  sua  popolazione 
fino  ad  allarmare  i  suoi  economisti?  Dunque,  bando  all' assoluti- 
smo dei  giudizi  nei  fenomeni  del  mondo  economico,  e  stiamo 
fermi  al  linguaggio  dei  fatti.  La  libertà  morale  ed  intellettuale 
dell'uomo,    i    progressi    della  civiltà,  gli  sforzi  dei  filantropi,  e 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  535' 

soprattutto  le  sane  tendenze  dell'odierna  democrazia  e  della  nuova 
scuola  economica  ;  ecco  i  modificatori  sostanziali  della  legge  fer- 
rea di  Lassalle. 

Non  staremo  a  riferire  tutte  le  considerazioni  che  Lassalle 
espone  sulla  odierna  organizzazione  industriale,  sulle  differenze 
tra  la  piccola  e  la  grande  industria,  per  cui  egli  viene  a  conclu- 
dere che  l'operaio  è  mancipio  del  capitale,  e  nell'assoluta  impos- 
sibilità, se  non  si  emancipa,  di  migliorare  la  sua  sorte,  e  di  per- 
venire ad  un  certo  grado  d'indipendenza.  Altrove  noi,  trattando 
dell'odierna  questione  sociale,  esponemmo  queste  stesse  obiezioni 
mosse  all'odierno  industrialismo,  e  dimostrammo  come  sono  inu- 
tili, e  come  occorra  rimediare  agl'inconvenienti  e  mali  di  que- 
st'ultima. Chi  fosse  desideroso  di  approfondire  la  questione,  legga, 
oltre  i  numerosi  scritti  di  Lassalle,  Die  hedrohliclie  Eativicheìung 
(ics  Socialismus  (Il  minacciante  sviluppo  del  socialismo)  di  Rodolfo 
Meyer,  scritto  in  un  modo  chiaro,  e  di  un  contenuto  pieno  di  sostanza 
Der  moderne  Socialismus  (il  Socialismo  moderno)  del  D.r  Eugenio 
Jager;  Bie  Lehrcn  des  hcutigen  Socialismus  (Le  dottrine  del  so- 
cialismo contemporaneo)  diH.  von  Sybel  ;  Die  Theorie  dcr  Sosialen 
Frage  (La  teoria  della  questione  sociale)  di  H.  von  Scheel.  Ma  in 
realtà  Lassalle  non  ha  che  poco  di  originalità  nelle  sue  obbiezioni  ; 
le  dottrine   socialistiche  erano  già  nate  e  formate  prima  di   lui. 

I  piani  di  riforma  sociale  di  Lassalle  non  implicavano  una 
rivoluzione  violenta.  E  in  realtà  le  sue  idee  sono  presso  a  poco 
quelle  sviluppate  da  Luigi  Blanc  nel  libro  V  Organisation  du  trn- 
vail  nel  1841  con  questa  differenza,  che  il  riformatore  tedesco,  in- 
vece di  opporsi  ai  principii  di  economia,  li  invocava  per  conse- 
guire la  trasformazione  del  regime  attuale.  E  tutte  le  sue  mire 
consistevano  nel  moltiplicare  le  società  cooperative  di  produzione, 
in  cui  vedeva  non  solo  la  sospirata  pace  ed  eguaglianza  tra  ca- 
pitale e  lavoro,  ma  la  vera  e  sola  panacea  di  tutti  i  mali  che 
affliggono  l'età  nostra.  Le  dolorose  esperienze  fatte  di  queste  idee 
ci  dispensano  dalla  critica,  ma  non  possiamo  negare  che  siffatte 
utopie  non  esercitassero  ed  esercitino  tutt'oggi  un  gran  fascino 
tra  le  classi  operaie,  e  sulle  menti  di  chi  le  guida,  e  di  chi  in 
buona  fede  vuole  il  loro  bene. 

Questo  ci  spieghi  come  tra  gli  illustri  aderenti  di  Lassalle 
ci  potesse  essere  oltre  a  Bismarck  ^  anche    un   personaggio   del 

1  È  noto  il  discorso  di  Bismarck  al  Reichstag  del  IT  settembre  ultimo,  dove  a 
proposito  delle  sue  simpatie  con  questo  socialista  esclamava: 

«  Io  mi  .sono  in  realtà  unito  a  Lassalle  per  ottenere   l'appoggio   da   parte  del 


536  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

ceto  ecclesiastico,  che  fece  le  jneraviglie  di  tatti  i  puritani  reli- 
giosi della  Germania,  vogliamo  dire  di  monsignor  Ketteler  ve- 
scovo di  Magonza.  Grazie  a  questo  ambiente,  De  Ketteler  pub- 
blicava La  questione  del  lavoro  e  il  cristianesimo  —  q  Libertà, 
Autorità  e  Chiesa.  Quest'ultimo  scritto  si  ritenne  in  Germania 
come  il  manifesto  del  partito  cattolico  sulla  questione  sociale. 
Insigne  letterato,  abile  scrittore,  il  cui  stile  vigoroso  e  conciso 
pare  un  riflesso  della  professione  militare  che  fu  quella  della  sua 
giovinezza,  Monsig.  de  Ketteler  aderisce  alla  dottrina  di  Lassalle, 
pell'adozione  del  suo  principio  di  partenza,  che  consiste  nel  rim- 
proverare al  salario  di  essere  nelle  condizioni  attuali  stretta- 
mente commisurato  e  proporzionato  ai  bisogni  della  vita,  ed  inol- 
tre pel  suo  ideale  di  governo,  specie  di  teocrazia  socialista,  il  cui 
-spirito  sarebbe  essenzialmente  contrario  ad  ogni  libertà  econo- 
mica. Anch'esso  per  distinguere  i  mali  della  società  attuale  prende 
a  prestito  da  Lassalle  i  colori  e  perfino  le  espressioni.  Come  lui 
ne  rende  responsabile  il  liberalismo  e  l'economia  politica  di  Man- 
chester {Bas  Marchesterthum).  Una  volta,  dice  il  vescovo  di  Ma- 
gonza,  la  sorte  dell'operaio  era  garantita,  ed  assicurata  dalle  cor- 
porazioni di  arti  e  mestieri.  Il  lavoro  costituiva  una  proprietà, 
che  i  regolamenti  preservavano  dalle  oscillazioni  del  mercato  e 
dalle  lotte  della  concorrenza.  Oggi  non  è  piìi  la  stessa  cosa:  il 
lavoro  è  una  merce  {die  arheit  ist  eine  Woare)  ;  e  come  tale  è  sot- 
toposto alle  leggi  che  regolano  il  prezzo  delle  mercanzie.  Mons. 
de  Ketteler  toglie  pur  da  Lassalle  in  prestito  l'idea  delle  società 
cooperative  di  produzione,  per  mezzo  delle  quali  si  ripromette  di 

governo  alle  società  cooperative,  ed  oggi  ancora  non  credo  che  sarebbe  cosa  inu- 
tile. Non  so  se  fu  l'effetto  dei  ragionanaenii  di  Lassalle  o  il  frullo  della  mia  pro- 
pria esperienza,  acquistata  durante  il  mio  soggiorno  in  Inghilterra  nel  1862,  ma  io 
ho  sempre  creduto  che  organizzando  le  socieià  cooperative  come  funzionano  in 
Inghilterra,  si  potrebbe  seriamente  migliorare  la  condizione  degli  operai. 

»  Io  ne  conferii  con  Sua  Maestà,  che  s'interessa  vivamente  delle  classi  operaie, 
■ed  il  Re  mi  donò  una  somma  assai  importante  per  fare  uno  esperimento.  .Mi  me- 
raviglio che  mi  si  faccia  un  rimprovero  d'essermi  occupato  della  soluzione  della 
questione  sociale.  Il  vero  rim[.irovero  da  farmi  sarebbe  di  non  avere  perseverato  e 
condotto  a  buon  fine  quest'opera.  Ma  non  era  affare  del  mio  dipartimento  miui- 
steriale  ed  il  tempo  necessario  mi  è  mancato.  La  guerra,  la  politica  estera,  mi 
hanno  totalmente  assorbito.  La  prova  delle  società  cooperative  non  è  riuscita, 
per  mancanza  di  una  buona  organizzazione.  Fella  produzione  ogni  cosa  procedeva 
bene;  pella  parte  commerciale,  la  cosa  era  ben  differente,  e  le  difficoltà  tanto  nu- 
merose da  non  potere  esser  vinte.  Forse  la  causa  è  anche  nella  mancanza  di 
fiducia  negli  operai  verso  gli  amministratori  e  i  superiori.  In  Inghilterra  questa 
confidenza  esiste  e  le  socieià  cooperative  sono  floride.  Io  non  comprendo,  in  oo-ni 
caso,  elle  mi  si  faccia  un  rimprovero  di  aver  tentato  delle  prove  a  spese  dello 
scrigno  particolare  di  Sua  Maestà.  »  V.    Allg.  Zeitung  del  19  seti.  1S7S. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  537 

trasformare  completamente  l'organizzazione  sociale.  «  Bisogna,  dice 
esso,  far  passare  gli  strumenti  di  produzione  nelle  mani  degli 
operai;  e  per  far  questo  il  self-help  di  Schulze-Delitzsch,  cioè  il 
risparmio  fatto  dagli  stessi  operai,  non  basta.  »  Ma  mentre  che  il 
socialista  di  Breslavia  domanda  per  riformare  l'ordine  attuale  100 
milioni  di  talleri  allo  Stato,  il  prelato  cattolico  si  rivolge  alla 
carità  cristiana.  ^  E  così  la  dottrina  di  Monsignor  Ketteler  è  pur 
essa  l'esagerazione  di  un  principio,  che  abbiamo  dimostrato  esser 
falso;  ha  poco  di  nuovo  per  noi,  come  per  tutti  coloro  che  studia- 
rono l'origine,  fasi  e  sviluppo  del  socialismo  antecedente  ai  tempi 
di  Ketteler  e  di  Lassalle,  il  quale,  alla  fine,  lo  ripetiamo,  non  fa 
che  divulgare  le  dottrine  socialiste  già  formate  prima  di  lui. 

Il  merito  di  Lassalle  (se  pure  può  chiamarsi  tale  la  propa- 
gazione di  errori),  la  originalità  di  Lassalle,  consistono  nell'aver 
rese  accessibili  tali  dottrine  alle  più  incolte  intelligenze.  Sono 
il  suo  stile  vivacissimo,  il  vigore  della  sua  polemica  e  più  ancora 
la  sua  eloquenza  ed  influenza  personale  che  fanno  escire  il  so- 
cialismo dalla  regione  dei  sogni  e  delle  ombre  dei  libri  poco 
letti  ed  incompresi,  per  gettarlo  in  preda  alle  discussioni  ed  alle 
lotte,  sulle  pubbliche  piazze,  nei  cortili  degli  opifici,  delle  officine 
e  delle  fabbriche.  In  soli  due  anni  la  sua  parola  e  la  sua  penna 
infiammate  sollevarono  tutta  la  Germania  e  crearono  il  partito 
democratico  socialista,  che  poi  divenne  potente  e  formidabile. 
Un  illustre  scrittore  diceva  che  Lassalle  esercitava  lo  stesso  fa- 
scino di  Abelardo,  e  come  questi,  sapeva  tanto  incantare  le 
donne  quanto  sedurre  e  trascinare  le  moltitudini.  Percorreva, 
dice  un  suo  critico,  tutte  le  città  «  giovane,  bello  ed  eloquente, 
trascinando  con  sé  tutti  i  cuori  sentimentali,  e  dappertutto  la 
sciando  degli  ammiratori  e  dei  discepoli  entusiasti,  che  forma- 
vano il  nucleo  delle  società  operaie.  »  Non  havvi  un  secondo 
esempio  di  una  influenza  così  grande  esercitata  così  estesamente, 
ed  acquistata  in  così  poco  tempo.  Del  pari  tutta  la  sua  vita  è 
un  vero  romanzo. 

Eiassumendola,  si  può  dire  che  la  sua  vita  pubblica  si  distin- 
gue fin  da  principio   per   un'agitazione    continua,    che  lo    toglie 

'  Il  programma  cristiano-socialist,a  (c/iri5fZéc/i-,socjafó)  tracciato  da  Ketteler  per 
venire  ia  aiuto,  mediante  la  religione,  allo  scioglimento  della  questione  sociale, 
trovò  e  ha  anc'oggi  moltissimi  aderenti  nelle  file  del  cattolicismo  tedesco.  I  vari 
gruppi  in  cui  si  divide  quest'ultimo  di  fronte  alla  questione  sociale,  si  possono  ve- 
dere nell'opera  di  Rodolfo  Meyer,  Ber  Emancipations-Kampf  des  vierten  Standes 
(La  lotta  peir  emancipazione  del  quarto  stato),  e  nel  recente  articolo  Le  socialisme 
contemporain  en  Allemagne  del  De  Laveleye  nella  Revue  des  deu-v  Mondes. 

VoL.  XIV,  Serie  li  —  1  Aprile  1819.  33 


538  DEL   CREDITO   POPOLARE. 

spesso  allo  studio.  Processi  privati  e  processi  politici  si  alternano, 
come  vedemmo  colla  pubblicazione  di  lavori  di  filosofia  generale 
0  giuridica.  Dopo  poco,  la  rivoluzione  del  1848  lo  trascina  nella 
politica  di  azione  dove  egli  si  schiera  sotto  le  file  del  radica- 
lismo. Le  condanne  e  persecuzioni  che  incorre  ne  fanno  l'idolo 
del  popolo,  ed  è  lui  che  il  nostro  Sohulze  incontra  come  avver- 
sario il  più  formidabile.  Ci  sarebbe  da  scrivere  più  d'una  pagina 
interessante  al  sommo  grado  se  volessimo  dipingere  la  situazione 
degli  animi  a  Berlino,  durante  la  lotta  di  questi  due  potentissimi 
avversari,  ciascuno  dei  quali  cercava  di  distruggere  a  vicenda 
giorno  per  giorno  gli  effetti  prodotti  sulle  moltitudini  dai  discorsi 
dell'altro.  Qua  si  grida  viva  Schulze,  là  viva  Lassalle;  oggi  trionfa 
l'uno,  domani  l'altro,  e  così  per  vario  tempo.  Tutti  e  due  ardono 
di  zelo  apostolico,  e  a  somiglianza  di  Socrate  usano  della  più  fina 
dialettica  per  persuadere  le  moltitudini.  Schulze  in  opposizione 
ai  meetings  dell'avversario  organizza  delle  conferenze. 

L'economista  di  Delitzsch  si  mostra  abilissimo  a  trattare  la 
scienza  pura  del  pari  che  la  scienza  applicata.  Queste  due  atti- 
tudini, che  d'ordinario  si  escludono,  acquistano  riunite  un'impor- 
tanza unica  nell'ordine  dei  fatti  ed  idee,  a  cui  le  rivolse  Schulze. 
Trattando  dei  mezzi  propri  a  risolvere  la  questione  sociale, 
passa  in  rivista  i  diversi  sistemi  proposti  e  dichiara  subito  che 
la  questione  non  è  politica,  ma  puramente  economica,  e  che  perciò 
essa  attende  la  soluzione  unicamente  dall'  individuo  e  non  dallo 
Stato  che  rappresenta  la  collettività.  Ei  respinge  in  prima  linea 
la  carità  sistematica  organizzata,  sia  dagli  individui  sia  dallo 
Stato.  La  respinge  come  impotente  a  disseccare  le  sorgenti  della 
miseria,  ed  a  migliorare  le  condizioni  delle  classi  povere,  come  de 
moralizzante  e  distruggitrice  dell'  iniziativa  individuale.  Schulze 
confida  soltanto  nell'  iniziativa  personale  fecondata  dall'associa- 
zione come  il  solo  mezzo  di  sollievo  e  progresso  pelle  classi 
operaie. 

Riandando  le  origini  dell'associazione  presso  i  popoli  moderni, 
Schulze  espone  come  nel  medioevo  si  formarono  le  corporazioni 
neir  imploro  germanico,  e  come  esse  si  costituirono  in  unioni  o 
corporazioni  di  mestieri,  donde  è  escita  la  borghesia.  Egli  mostra, 
come  a  quest'epoca,  i  diritti  non  essendo  riconosciuti  che  sotto 
forma  di  privilegi,  queste  corporazioni  non  potevano  essere  aperte 
che  a  quelli  che  adempivano  certe  condizioni,  e  dovevano  quindi 
avere  per  legge  la  costrizione  e  l'obbedienza  passiva.  Ed  aggiunge, 
che  sòrte  come  mezzo  di  lotta  per  sottrarsi  al  servaggio  feodale, 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  539 

le  corporazioni  hanno  poscia  perduto  la  loro  ragione  di  essere 
mediante  il  trionfo  dell'eguaglianza  dei  diritti  civili,  donde  con- 
clude, che  esse  devono  d'ora  innanzi  trasformarsi  in  associazioni 
libere  ed  accessibili  a  tutti.  Rende  omaggio  nel  passato  come  nel 
presente  al  genio  particolare  della  schiatta  tedesca,  alle  sue  qua- 
lità tali  come  la  confidenza  e  fiducia  nelle  proprie  forze,  lo  spirito 
d' iniziativa,  ed  altre  qualità  in  cui  è  riposta  l'attitudine  della 
nazione  ad  associare  le  sue  fatiche  ed  i  suoi  lavori.  Raccomanda 
ed  insiste  che  si  proceda  gradualmente  nello  spirito  di  associa- 
zione ;  che  non  si  aspiri  alle  società  di  produzione,  termine  supe- 
riore della  cooperazione,  se  non  dopo  aver  percorsi  i  gradi  inter- 
medi. Dimostra  perchè  l'operaio  francese  non  sia  riuscito  nelle 
società  di  produzione  per  averle  volute  organizzare  senza  vie  di 
mezzo  invece  di  cominciare  colle  società  elementari  di  credito 
mutuo. 

Esamina  con  grande  profondità  di  studio  l'enorme  quantità 
di  cognizioni,  lavori,  opere,  procedimenti  e  metodi  industriali, 
trasmessici  dalle  generazioni  che  ci  hanno  preceduto.  Egli  defi- 
nisce tutto  questo  assieme  di  fatti  ed  idee  col  nome  di  fondo  o 
di  patrimonio  comune  dell'umanità,  e  stabilisce  il  diritto  che  ha 
ciascuno  di  partecipare  a  questa  eredità  collettiva,  che  consiste 
nell'istruzione,  la  quale  soltanto  può  darci  la  chiave  del  grande 
arsenale  delle  conoscenze  umane.  E  sebbene  le  società  operaie 
abbiano  fondato  delle  scuole,  Schulze  non  le  riconosce  suffi- 
cienti: fa  di  questo  diritto  individuale  un  dovere  dello  Stato,  pro- 
tettore naturale  dei  minorenni,  per  una  eccezione  ai  suoi  principii 
generali,  sì  sfavorevoli  all'intervento  del  Governo  o  dello  Stato, 
base  dei  sistemi  sociali.  In  tutto  il  resto  sostiene  la  neutralità 
assoluta  dello  Stato  come  principio  necessario  del  progresso.  Las- 
calle  chiede  la  sicurezza  e  protezione  dell'agente  manuale  del- 
l'industria ad  un  potere  assoluto  sorto  dalle  viscere  della  nazione, 
e  dispensatore  supremo  del  credito  alle  classi  operaie.  Schulze 
non  attende  questa  sicurezza  che  dall'iniziativa  individuale,  ba- 
sata sulla  cooperazione:  vuole  che  l'operaio  sia  l'autore  del  suo  de- 
stino, come  lo  fu  a  sé  stessa  la  borghesia  attraverso  le  istituzioni 
e  gli  ostacoli  del  medio-evo. 

Tale  è  con  qualche  variante  il  carattere  generale  delle  idee, 
che  combatte  Schulze  in  risposta  a  Lassalle.  Vede  nei  concepi- 
menti di  questo  una  nuova  specie  di  despotismo,  delle  caserme, 
0  conventi  industriali,  incompatibili  col  grado  di  civiltà,  a  cui  è 
pervenuta  oggi  l'Europa.  È   dunque   soltanto   dallo  sviluppo  ed 


540  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

estensione  delle  istituzioni  cooperative,  e  non  dalla  carità  pub- 
blica 0  privata,  che  Sculze  si  ripromette  di  distruggere  il  pau- 
perismo sociale. 

Nessuno  oserebbe  negare  che  la  carità  non  è  né  di  diritto  eco- 
nomico, né  di  diritto  politico  e  che,  sotto  il  punto  di  vista  legale, 
essa  deve  restringersi  ai  casi  di  rigorosa  necessità.  Non  è  meno  con- 
testabile che  l'elemosina  deprava  ed  abbassa  colui  che  senz'altro  ne 
fa  il  mezzo  permanente  della  sua  esistenza,  invece  di  dimandarlo 
all'impiego  delle  sue  facoltà.  È  evidente  che  l'elemosina  praticata 
su  larga  scala  ed  elevata,  come  in  Inghilterra  e  nel  Belgio,  all'altezza 
di  istituzione  legale,  non  nuoce  soltanto  alla  moralità  ed  intelligenza 
dell'individuo,  ma  danneggia  ancora  la  fortuna  pubblica  nelle  sue 
sorgenti  principali  coll'assorbimento  improduttivo  di  capitali  consi- 
derevoli, ed  impedendo  lo  sviluppo  delle  forze  produttive  presso 
coloro  che  vivono  del  lavoro.  Noi  siamo  anche  convinti,  che  la 
propagazione  delle  diverse  forme  cooperative,  e  la  solidarietà 
che  conseguentemente  si  stabilirà  di  più  in  più  tra  gli  uo- 
mini, limiteranno  gradualmente  il  terreno  oggi  sì  vasto,  in  cui 
si  esercita  la  beneficenza  pubblica  e  privata.  Ma  non  bisogna 
perder  d'occhio  gli  ostacoli  che  incontrano  i  progressi  dell'uomo, 
nelle  imperfezioni  native  della  propria  intelligenza,  nello  stato 
attuale  della  società,  e  nelle  lente  e  difficili  movenze  verso  la  di- 
minuzione 0  soppressione  dei  mali  che  la  travagliano.  In  attesa 
sempre  di  un  avvenire  migliore,  non  sono  frattanto  da  rigettare 
tutte  quelle  transazioni  tra  lo  Stato  e  l'individuo,  capaci  di  af- 
frettare il  morale  e  materiale  benessere  di  quest'ultimo.  Non  ci 
illudiamo,  vi  saranno  sempre  degl'invalidi  nell'elemento  umano, 
sempre  dei  naufraghi  nell'oceano  burrascoso  della  vita  sociale. 
Donde  la  necessità  permanente  di  una  assistenza  che  potrà  essere 
limitata,  ma  soppressa  mai,  e  per  cui,  in  mancanza  di  una  suf- 
ficiente iniziativa  dei  cittadini  e  dei  comuni,  lo  Stato  dovrà  in- 
tervenire in  modo  però  da  impedire  che  i  suoi  aiuti  divengano 
un  premio  al  vizio  o  alla  pigrizia. 

Schulze,  anima  altamente  cristiana,  e  piena  di  sentimento 
religioso  pel  prossimo,  qualità  che  gli  danno  una  certa  superiorità 
sull'ebreo  Lassalle,  conviene  di  quanto  diciamo  più  sopra,  e  cerca 
di  temperare  le  rigide  asperità  delle  dottrine  sistematiche,  colla 
considerazione  dei  doveri  imposti  ad  ognuno  verso  il  proprio  si- 
mile dalla  religione.  Uno  anzi  dei  lati  del  carattere  di  Schulze, 
restati  più  nell'ombra,  e  che  noi  crediamo  interessante  di  far  co- 
noscere ai  lettori,  é  quello  filosofico  e  religioso  dei  suoi  insegna- 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  541 

menti,  lato  che  dona  al  suo  talento  oratorio  quel  carattere  parti- 
colare che  resulta  dalla  felice  armonia  del  pensiero  col  sentimento, 
per  cui  a  buona  ragione  lo  si  è  paragonato  a  Lutero  del  pari 
che  a  Bastiat. 

In  una  delle  sue  conferenze,  Schulze,  dopo  avere  esposto  il 
cammino  della  civiltà  nelle  sue  diverse  epoche,  segnala  agli  operai 
l'influenza  esercitata  sur  essa  dal  cristianesimo,  il  cui  principio  fon- 
damentale è  nella  qualità,  dice  Schulze,  di  figli  di  Dio,  data  a  tutti 
gli  uomini  ;  donde  deriva  per  tutti  il  diritto  di  partecipare  al  pa- 
trimonio comune,  alfine  di  crescere  in  moralità,  di  progredire  in 
cognizioni,  e  di  cooperare  al  compimento  dei  destini  della  umanità. 
Quanta  differenza  nel  modo  di  concepire  le  relazioni  dell'uomo  col 
proprio  simile  esista  tra  Schulze  e  Lassalle,  ci  è  resa  evidente  dal 
seguente  brano  di  una  conferenza  del  primo,  che  traduciamo  alla 
lettera.  ^   Direbbesi  uno  squarcio  di  eloquenza  sacra  alla  Bossuet, 

' «  In  questa  preghiera    (l'orazione  domenicale),   esente    e    scevra   di 

ogni  dommatismo,  e  veramente  universale,  i  cristiani  tanto  numerosi  delle  diffe- 
renti confessioni  si  sentono  dopo  due  mila  anni  animati  da  uno  stesso  spirito,  e  il 
senso  sublime  di  essa,  che  sfugge  all'irreliessione  dei  dotti,  è  sempre  compreso  dai 
cuori  semplici  ed  onesti.  Ecco  una  preghiera  per  tutti  ed  in  tutte  le  situazioni,  sia 
che  si  cerchi  una  più  chiara  intelligenza  dei  misteri  della  nostra  religione,  sia  che 
si  provi  il  bisogno  di  raccogliersi  dopo  una  grande  crisi,  sia  infine  che  s'implori 
l'aiuto  di  Dio  nei  dolori  morali  e  materiali.  Nei  momenti  di  gioia  e  di  riconoscenza, 
del  pari  che  nella  tristezza  e  nell'ora  della  morte,  ci  sgorga  dalle  labbra;  poiché 
simile  alla  vita  stessa,  ella  ab'oraccra  tutto,  unisce  il  celeste  al  terrestre,  l'ideale 
al  reale,  riassumendo  cosi  in  sé  l'umanità  sotto  i  suoi  diversi  aspetti,  e  nei  suoi 
rapporti  colla  missione  sociale  del  cristianesimo.  Questa  preghiera  fa  derivare 
l'umano  dal  divino,  e  li  confonde  nel  sentimento  àe\\3. paternità  e  àeWa.  figliazione 
poiché  comincia  con  queste  parole  :  Nostro  padre  e  ci  trascina  tosto  verso  il 
mondo  dell'ideale.  Difatti  ci  suggerisce  di  rendere  omaggio  al  Creatore  nei  suoi 
decreti  e  nelle  sue  opere  ;  risveglia  in  noi  il  presentimento  di  un  avvenire  migliore, 
evocandoci  l'immagine  di  un  regno  celeste,  conformemente  al  linguaggio  simbolico 
dell'epoca. 

»  Ma  tale  immagine  non  è  presentata  al  nostro  spirito  che  per  invitarci  a 
realizzarla  nelle  condizioni  sociali,  poiché  tale  è  lo  scopo  finale  prefisso  da  Dio  ai 
nostri  sforzi:  Che  questo  regno  venga  nei  nostri  gioiti,  che  la  volontà  di  Dio 
sia  fatta  sulla  terra  e  possano  le  condizioni  della  nostra  esistenza  elevarsi  e  no- 
bilitarsi nel  sentimento  delle  aspirazioni  ideali  dell'umanità  !  E  ciò  che  più  attira 
la  nostra  attenzione  in  questa  preghiera,  è  che  passando  dall'ideale  celeste  alle 
realtà  di  questo  mondo,  il  primo  voto  che  essa  esprime  dopo  le  parole:  Che  la 
volontà  di  Dio  sia  fatta  cosi  in  Cielo  come  in  terra,  è  quello  di  domandare  il 
nostro  pane  quotidiano.  Ecco  l'idea  madre,  il  punto  essenziale  di  tutta  questa 
preghiera,  il  punto  dove  si  forma  il  nodo  tra  l'ideale  e  la  vita  mediante  il  senti- 
mento dei  nostri  rapporti  necessari  colla  materia,  ed  è  l'opera  preliminare  che  fa 
d'uopo  subito  adempire  per  giungere  all'effettuazione  dei  nostri  alti  destini.  E  quanto 
non  è  profonda  e  vera  l'irresistibile  tendenza  che  sorge  allora  in  noi,  e  che  non 
'e  altro  che  l'imperioso  bisogno  di  un  appoggio  morale  e  materiale  nel  conflitto  di 
ogni  giorno  tra  le  aspirazioni  ideali  e  la  cruda  realtà  che  ci  circonda  !  Da  ciò  la 
necessità  dell'indulgenza  pelle  imperfezioni  della  natura  umana  che  fanno    im  ob- 


542  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

0  di  Lacordaire.  Schulze  esorta  gli  operai  alla  fede  in  Dio  e  alla 
preghiera,  pur  non  cessando  di  lottare  per  vincere  gli  ostacoli  che 
si  frappongono  al  miglioramento  delle  condizioni  della  propria  esi- 
stenza, e  dimostra  loro  quanta  grandezza  di  sentimenti,  quanta  ge- 
nerosità di  pensieri  rampollino  da  una  meditazione  sull'intimo  senso 
dell'orazione  dominicale,  simbolo  di  unione,  di  fede  e  speranza  tra 
le  genti  cristiane,  che  egli  contrappone  al  crudele  e  spietato  fata- 
lismo della  legge  ferrea  di  Lassalle. 

Ecco  come  tra  l'economico  e  il  mistico,  tra  il  politico  e  reli- 
gioso, poteva  il  nostro  Schulze  far  pendere  per  intere  ore  dalle 
sue  labbra  eloquenti  tutto  il  numeroso  pubblico  delle  sue  confe- 
renze; al  contrario  di  Lassalle  che  non  sapeva  eccitare  che  la  ima- 
ginazione e  le  cupidigie. 

Tali  conferenze  principiarono  nell'inverno  del  1862  nella 
grande  sala  della  Friedricstrasse  a  Berlino.  Questa  immensa  aula, 
narrano  testimoni  oculari,  era  ogni  sera  stipata  di  gente  fino 
nelle  gallerie;  e  il  nostro  Schulze  parlava  dalla  cattedra  in  mezzo 
al  silenzio  e  alla  calma  più  perfetta.  Si  sarebbe  detta  una  grande 
moltitudine  di  persone  riunite  in  un  edificio  religioso  pell'eser- 
cizio  del  loro  culto.  È  là,  in  mezzo  a  questo  uditorio,  composto 
di  operai,  e  di  uomini  anche  cospicui  nella  scienza,  nella  poli- 
tica e  nell'industria,  che  Schulze  espone  le  sue  vedute  sulla  que- 
stione sociale,  sulla  situazione  delle  classi  operaie  e  sopra  i  mezzi 
di  migliorarla.  La  sua  vigorosa  intelligenza,  applicata  a  questioni 
così  difiicili,  prodiga  del  tesoro  delle  sue  meditazioni  mostra  le 
vie  per  le  quali  gl'interessi  opposti  si  possono  conciliare  in  seno 
della  civiltà. 

Tale  è  l'origine  dei  discorsi,  il  cui  immenso  successo  costrinse 
il  loro  autore  a  farne  un'edizione  a  parte  sotto  i  seguenti  titoli: 
«  Capitolo  d'un  catechismo  degli  operai  tedeschi  »  {Kapitel  su 
einem  cìeidschen  Arheiterhatccìiismiis.  Leipzig,  bei  C.  Keil  1863) 
e  l'altro  «  L'abolizione  dei  rischi  industriali   e   commerciali  se- 

bli^o  del  perdono  alle  ofifese,  della  tolleranza  ed  assistenza  reciproche,  condizioni 
indispensabili  pel  mantenimento  di  una  comunione  morale  tra  gli  uomini.  Da  ciò 
anche  l'umile  confessione  delle  nostre  debolezze  mediante  la  domanda,  che  noi  vol- 
giamo a  Dio,  di  non  essere  indotti  nella  tentazione,  visto  che  l'individuo,  abban- 
donato alle  sue  proprie  forze,  non  saprebbe  resistervi.  La  conclusione  :  liberateci 
dal  ma?<?,  riassume  in  sé  l'idea  generale  ed  abbracciando  tutto  l'assieme  dei  feno- 
meni storici  della  civiltà,  domanda  la  soppressione  di  tutti  gli  ostacoli  che  potreb- 
bero arrestare  o  impedire  nel  suo  corso  lo  sviluppo  benefico  della  vita  individuale, 
e  della  vita  sociale,  ed  opporsi  al  miglioramento  delle  nostre  condizioni.  E  ap- 
punto lo  scopo  finale  delia  civiltà,  il  compimento  dei  destini  del  genere  umano,  che 
ci  presenta  in  tutta  la  sua  sublimità  quest'ultima  conclusione.  » 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  543 

condo  il  signor  Lassiille  »  {Die  Ahscliaffumj  des  gcscMftliclicn 
Risics  durcli  Hemi  Lassallc.  Berlin,  bei  F,  Duncker  1865),  che 
Scliulze  considera  come  un  capitolo  da  aggiungersi  al  catechismo 
degli  operai. 

L'insegnamento  impartito  nel  1862  con  tanto  contrastato  suc- 
cesso dall'eminente  oratore,  non  potè  fare  a  meno  di  risollevare 
vive  contraddizioni  da  parte  del  partito  socialista  e  autoritario, 
le  cui  dottrine  erano  diametralmente  opposte  a  quelle  di  Schulze, 
che  predicava  lo  sviluppo  dei  progressi  economici  e  civili  della 
società  mediante  la  libertà  ed  iniziativa  individuale.  È  il  periodo 
più  agitato  della  vita  del  grande  apostolo  tedesco  e  dei  suoi 
amici.  Lassalle  gli  sguinzaglia  contro  le  frecce  velenose  dei  suoi 
scritti  e  discorsi  con  cui  minaccia  di  ribellargli  le  classi  operaie 
e  il  popolo  fino  allora  affezionatamente  e  sinceramente  devoto  alla 
persona  e  alla  dottrina  di  Schulze.  Sono  appunto  di  questo  tempo 
i  seguenti  scritti: 

^<  Libro  di  lettura  pegli  operai  »  {Arheiterlesehuch.  Franco- 
forte a  M.  1853,  Reinh.  Baist). 

*  Agli  operai  di  Berlino  »  {An  die  Àbeiter  Berlins  E  ine  Aus- 
prache  in  Neanien  der  Arheiier.  Berlin,  1853.  R.  Schlingmann). 

«  Le  imposte  indirette  e  la  situazione  degli  operai  »  {Die 
indir ecte  Siener  und  die  Luze  der  arheitenden  Klassen.  Zlirich,  1863, 
Meyer). 

A  ben  comprendere  la  genesi  di  questi  ed  altri  scritti  di 
Lassalle  giova  leggere  le  lettere  che  quest'ultimo  scrisse  al  suo 
intimo  amico  Carlo  Rodbertus-Jagetzow,  che  per  la  prima  volta 
sono  state  raccolte  e  pubblicate  da  Adolfo  Wagner.  ^  Queste  ed  altre 
opere  ricevono  da  quelle  lettere  commenti. ed  illustrazioni  op- 
portune alla  intelligenza  degli  errori  e  verità  del  celebre  demagogo 
di  Breslavia,  di  cui  molto  si  parla,  ma  pochi  sono  in  grado  di  ap- 
prezzarne con  cognizione  di  causa  le  virtù  e  i  difetti. 

Per  quanto  il  nostro  Schulze  ribattesse  valorosamente  molte 
delle  obbiezioni  del  sao  avversario,  non  poche  di  esse  restarono 
e  restano  anc'  oggi  indistruttibilmente  vere,  e  servirono  e  servono 
ancora  di  arma  formidabile  in  bocca  degli  allievi  del  celebre 
maestro,  come  ne  può  far  fede  lo  spettacolo  odierno  del  movi- 
mento sociale  tedesco.  La  lotta  tra  i  due  illustri  campioni,  con- 
siderata l'audacia,  versatilità  e  fecondità  dello  spirito,  spesso  pa- 
radossale di  Lassalle,  non  si  sarebbe  sospesa  tanto  presto,  senza 

'  V.  opera  citata. 


544  I>EL  CREDITO  POPOLARE. 

la  morte  prematura  di  quest'ultimo,  sopravvenuta  il  31  agosto  1864. 
Com'è  noto  Lassalle  era  innamorato  fortemente  di  una  giovane  figlia 
di  un  diplomatico  bavarese,  la  signorina  Elena  De  Doenniges,  da 
cui  era  anche  riamato.  Ma  il  progetto  di  matrimonio  riuscì  un 
inganno  per  parte  del  padre  di  Elena,  il  quale  non  poteva  con- 
ciliare la  propria  carica  di  diplomatico  coi  nuovi  legami  di  un 
genero  socialista,  la  bète  noire  di  tutti  gli  Stati  della  confedera- 
zione. Lassalle,  sdegnatosene,  lo  sfidò  al  duello,  ma  invano.  Ac- 
cettò la  sfida  per  il  padre,  un  amico  di  questo,  il  signor  Eacko 
witz,  che  al  giorno  ed  ora  fissata  si  presentò  sul  terreno  per 
rispondere  della  provocazione.  Il  duello  fu  alla  pistola  ed  ebbe 
luogo  nei  dintorni  di  Carouge.  Al  primo  colpo  di  pistola  Lassalle 
cadde  ferito  mortalmente  e  spirò  all'Hotel  Vittoria  a  Ginevra 
dopo  tre  giorni. 

La  sparizione  di  questo  capo  del  partito  ebbe  per  resultato 
una  certa  tregua  nell'agitazione;  tregua,  che  la  guerra  del  1866, 
ed  i  cambiamenti  profondi  che  ne  seguirono,  prolungarono  ancora 
di  più  in  Germania.  Ma  i  dissensi  economici,  rappresentati  dalle 
due  differenti  scuole,  tornarono  a  galla  più  minacciosi  che  mai 
verso  il  1868.  Lassalle  aveva  avuto  per  successore  Schweizer  ' 
deputato  al  parlamento  di  Berlino  per  Elberfeld,  ^città  industriale 
molto  importante  delle  provincie  Renane,  redattore  del  Giornale 
Democratico  Socialista  e  presidente  generale  delle  associazioni 
operaie  che  aderiscono  alle  idee  di  Lassalle.  Si  tenne  da  esso  un  con- 
gresso a  Berlino,  ove  furono  convocati  tutti  i  delegati  di  queste 
associazioni. 

La  lotta  ricominciò  dunque  ed  essa  fu  di  nuovo  sostenuta 
dall'illustre  Schulze,  aiutato  dai  suoi  amici  ;  esso  mostrò  una  per- 
severanza così  tenace,  che  non  trae  radici  che  da  profonde  con- 
vinzioni. Conferenze  di  città  in  città,  di  giorno  e  di  notte:  perio- 
dici, riviste  e  pubblicazioni  di  ogni  genere  portano  la  luce  del 
nuovo  verbo  della  cooperazione  in  ogni  angolo  della  terra  tede- 
sca. A  qualunque  avvisaglia  di  guerra  Schulze  è  pronto  sulla 
breccia;  sono  sue  armi  invincibili  l'eloquenza  della  sua  parola, 
la  dialettica  del  suo  spirito,  e  gli  eserciti  delle  associazioni  coo- 
perative che  tutti  i  giorni  si  moltiplicano  dall'uno  all'altro  capo 
della  Prussia  e  della  Germania,  e  che  finalmente  gli  formano  una 
di  quelle  trincee  che  resistono  a  tutti  gli    assalti,    e   dietro  alla 


'  V.  il  suo  libro  Ber  tod-    Schulze  gegen    den    lebenden    Lassalle    (Il    morto 
Schulze  contro  Lassalle  vivente). 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  545 

quale  riposa  tranquillo  oggi  lo  spirito   ancora    operosissimo  del 
venerando  vecchio  di  Potsdam. 

A  testimoniare  al  nostro  Scliulze  la  gratitudine  della  sua 
patria  per  là  benefica  opera  compita  colle  sue  istituzioni,  nel  1864 
il  D.  Lette,  presidente  della  Corte  dei  conti,  gli  faceva,  a  nome 
della  Democrasia  Tedesca,  un  dono  di  50,000  talleri  proveniente  da 
volontarie  sottoscrizioni. 

A  Parigi,  in  occasione  dell'Esposizione  del  1867,  si  era  con- 
venuto di  tenere  un  Congresso  internazionale  per  trattare  delle 
istituzioni  basate  sul  principio  della  cooperazione,  nel  quale  l'opera 
meravigliosa  del  nostro  Scliulze  dovea  ricevere  la  sanzione  e  l'in- 
coronamento  da  parte  degli  economisti  i  più  eminenti  di  Europa, 
che  espressamente  vennero  invitati  a  recarsi  a  Parigi.  Si  citava 
fra  essi,  John  Bright  e  Stuart  Mill  per  l'Inghilterra,  il  D""  Boh- 
mert,  ed  il  D""  Hirsch,  nonché  Schulze  medesimo  pella  Germania. 
Tutti  credevano  che  l'autorizzazione  di  riunirsi  in  tal  Congresso 
sarebbe  stata  facilmente  accordata  dal  governo,  che  nell'  anno 
precedente  aveva  messo  a  disposizione  della  Società  dei  tessitori 
di  Lione  parecchie  migliaia  di  franchi;  che  verso  la  stessa  epoca, 
aveva  stabilito  a  Parigi,  Place  Royale,  una  cassa  di  prestiti  ed 
anticipazioni  jier  i  cooperatori,  ed  aveva  inoltre  fatto  fare  delle 
offerte  ai  diversi  gerenti  delle  società  parigine  di  operai  ;  e  che 
finalmente  aveva  sollecitato  un'inchiesta  pubblica  su  queste  asso- 
ciazioni, e  fatto  presentare  e  votare  dal  Corpo  Legislativo  una 
legge  in  proposito.  In  tutto  questo  però  si  era  dimenticato  una 
cosa;  ed  è  che  il  cesarismo  napoleonico  non  avea  per  principio 
di  condotta  di  servire  la  democrazia,  ma  di  servirsene  ;  si  era 
dimenticato  che  dopo  il  colpo  di  Stato  politico  del  2  dicembre  1851 
r  imperatore  avea  fatto  circondare  dalla  polizia  le  associazioni 
operaie  fondate  nel  1848,  e  che  nel  1860  era  successo  il  secondo 
colpo  di  Stato  nell'ordine  economico  col  trattato  di  Cobden. 

A  dir  breve,  insomma  il  Congresso  fu  proibito,  e  gli  orga- 
nizzatori dopo  un  palleggiamento  derisorio,  tra  il  prefetto  di  po- 
lizia e  il  ministro  dell'interno,  ne  dovettero,  con  grande  loro  in- 
dignazione, abbandonare  l'esecuzione.  Schulze  in  questa  occasione 
scrisse  contro  il  governo  imperiale  a  guisa  di  manifesto  una  vio- 
lenta e  legittimissima  protesta,  che  fece  tutto  il  giro  della  stampa 
europea.  ^ 

'  Rivolgendosi  agli  organizzatori,  diceva:  «  Nou  scendiamo  a  patti  con  tal  po- 
litica I  Trasferite  il  congresso  nel  Belgio,  o  meglio  ancora  in  Germania  ad  Hei- 
delberg, Mannheim,  Coblentz,  Cologna  e  ovunque  vi  piace  meglio  !  E  la    migliore 


546  DEL   CREDITO   POPOLAKE. 

Non  entra  nel  piano  di  questo  schizzo  biografico  di  far  per- 
correre al  lettore  tutte  le  fasi  in  particolare  della  vita  politica 
di  Scliulze,  Diremo  solo  che  fedele  alla  divisa  dei  suoi  principii 
economici,  egli  si  è  mostrato  strenuo  difensore  delle  libertà  po- 
litiche, che  non  vorrebbe  separate  da  quelle  economiche,  come 
ne  fan  fede  i  suoi  scritti,  in  cui  si  professa  discepolo  di  Bastiat 
e  di  Carey  in  pari  tempo  ;  il  che  però  non  gli  fu  dare  a  queste 
ultime  il  valore  assoluto  che  possono  reclamare  le  prime.  Come 
uomo  politico,  il  nostro  Schulze  ha  seguito  sempre  le  fortune  di- 
verse dell'opposizione,  di  cui  è  restato  uno  dei  capi.  Fin  dai  pri- 
mordi della  sua  carriera  parlamentare,  lo  vediamo  contendere 
palmo  a  palmo  il  terreno  alla  reazione,  che  seguì  lo  scioglimento 
del  parlamento  di  Francoforte,  e  sforzarsi  a  riconquistare  le  li- 
bertà perdute  e  a  lottare  senza  interruzione  contro  lo  usurpazioni 
del  governo  personale  e  dell'autocrazia  ministeriale. 

Dopo  avere,  negli  anni  che  precedettero  le  ultime  guerre, 
vanamente  tentato  di  opporre  ostacoli  ai  progetti  di  Bismarck, 
furono  lui  e  i  suoi  amici  costretti  a  dimettere  l'antica  acrimonia 
dinanzi  al  suo  doppio   trionfo  del  1866  e  del  1870,  poiché  si  tro- 


risposta  al  regime  arbitrario  e  dispoiico.  Nessuno  presso  noi,  in  Germania,  oserà 
disiurbarvi  ;  ve  lo  garantisco  sul  mio  onore.  » 

E  altrove...  «  Io  mi  trovava  in  viaggio  per  Parigi,  dove  mi  proponeva,  in  qua- 
lità d'adente  ilell'Unione  delle  associazioni  tedesche,  di  assistere  al  congresso  delle 
istituzioni  cooperative,  convocato  per  la  metà  di  agosto,  quando  ricevetti  la  notizia 
che  il  governo  francese  si  opponeva  alla  riunione  di  esso.  Io  ho  rigettato  come 
compromettente  per  la  libertà  e  dignità  del  congresso  ogni  concessione  fatta  in 
vista  del  ritiro  di  quella  proibizione,  ed  ho  tosto  deliberato  di  ritornare  indietro.... 
11  presente  manifesto  ha  per  scopo  di  protestare  dinanzi  al  mondo  civile  contro  la 
esclusione  di  cui  è  oggetto  il  movimento  sociale  cooperativo.  Colla  proibizione  del 
congresso  internazionale,  l'Esposizione  universale  di  Parigi  ha  perduto  uno  dei  suoi 
titoli  più  importanti  alla  sua  universalità,  e  visto  menoraai'si  il  suo  valore  inter- 
nazionale. Qualunque  cosa  possano  dire  le  associazioni  degli  altri  paesi  di  questa 
ingiuria  alla  dignità  ed  al  diritto  sociale  della  nostra  causa,  non  sarà  mai  abba- 
stanza pelle  unioni  cooperative  tedesche,  il  cui  agente  perciò  si  crede  in  dovere  di 
fare  sentire  la  sua  voce  in  tal  circostanza.  Noi  rappresentiamo  un'  organizzazione 
completa,  dove  ci  siamo  riuniti  per  la  difesa  della  nostra  causa  e  la  tutela  e  sal- 
vezza dei  nostri  comuni  interessi.  Noi  siamo  una  potenza;  abbiamo  obbligato  lo 
Stato  a  riconoscerci  nel  nostro  paese;  siamo  una  potenza  economica  e  morale,  fon- 
dala su  tutto  ciò  che  è  buono,  giusto  e  veramente  umano.  A  questo  titolo  noi  ri- 
gettiamo un  tal  atto  arbitrario. 

»  Il  governo  francese,  che  altre  volte  ha  preso  per  divisa  «  L'empire,  c'est  la 
paia;»  ha  respinto  colla  sua  proibizione  uno  degli  elementi  più  preziosi  della  pace 
interna  ed  esterna  dei  popoli.  Le  associazioni  ne  prendano  atto. 

»  In  nome  della  Unione  generale  delle  associazioni  cooperative  tedesche, 

»  L'Agente  attuale 
»  Segnato:   SchnUe-Delitsich.  » 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  547 

varono  di  fronte  alla  maggioranza  della  nazione,  ebbra  d'entusia- 
smo pella  vittoriosa  politica  del  gran  Cancelliere.  Ma  adesso  la, 
lotta  riprincipia  dopo  gli  ultimi  atti  della  politica  interna  di 
quest'ultimo,  che  ha  il  torto  di  volersi  un  po'troppo  imporre  al- 
l'autorità di  uomini  che  colle  loro  opere  gli  crearono  la  nazione, 
e  gli  prepararono  il  cammino  ai  trionfi  di  Sadowa  e  Sédan. 

Schulze  è  un  uomo  di  alta  statura,  e  di  buona  costituzione  fisica: 
fisonomia  energica,  dolce  e  simpatica  in  pari  tempo  ;  fronte  spaziosa 
e  prominente  :  sguardo  vivacissimo  ed  espressivo.  La  sua  voce  è 
oltremodo  sonora,  e  parla  davvero  col  tuono,  il  gesto,  il  calore 
dell'uomo  inspirato.  Quando  poi  l'argomento  cade  su  questioni  che 
lo  toccano  davvicino,  la  sua  parola  è  d'una  eloquenza  che  tra 
scina  e  affascina;  ha  tutte  le  nobili  indignazioni  del  moralista  e 
tutti  gli  slanci  dell'entusiasmo,  e  si  comprende  allora  come  abbia 
potuto  com movere  ed  indurre  una  nazione  tutta  quanta  all'osser- 
vanza e  pratica  dei  nuovi  principii  economici,  di  cui  si  fece  pro- 
motore ed  apostolo  fin  dalla  sua  giovinezza.  L'eloquenza  di  Schulze 
non  è  però  di  quelle  che  solleticano  e  lusingano  le  passioni  delle 
plebi;  ma  s'impone  col  linguaggio  che  va  dritto  all'intelligenza 
e  al  cuore.  La  sua  elocuzione  è  esente  di  ornamenti  superflui 
di  frasi  alla  francese;  semplice  e  conforme  sempre  alle  leggi  di 
una  logica  rigorosa,  istruisce  senza  pedanteria,  persuade  colla 
sola  forza  della  verità  e  senza  mai  adulare  le  plebi  e  tanto  meno 
i  suoi  interlocutori  (indizio  di  animo  debole  o  preoccupato),  e 
tuttavia  sa  rendersi  oltremodo  popolare. 

Tale  è  l'uomo  che  andiamo  a  conoscere  qual  fondatore  delle 
Banche  popolari  in  Germania  e  sul  quale  un  dotto  tedesco,  amico 
intimo  e  collega  di  Schulze,  pubblicherà  quanto  prima  un'ampia 
e  particolareggiata  biografia. 

Ed  ora  venendo  alla  terza  parte  del  nostro  articolo,  dopo  di 
avere  assistito  alle  travagliate  lotte  dell'origine  della  cooperazione 
tedesca,  passiamo  allo  studio  delle  istituzioni  create  da  essa,  esa- 
miniamone di  volo  l'esistenza  e  i  vantaggi  che  nel  disbrigo  delle 
loro  molteplici  e  svariate  operazioni  arrecano  alle  classi  popolari 
tedesche. 

in. 

Le  Istituzioni  di  Cooperazione  {Genossenscliaften)  sparse  nel 
Regno  ed  Impero  Alemanno  ammontano  a  tutt'  oggi  a  3123  contro 
3080  nel  1877.  L'aumento  rapido  e  progressivo  di  anno  in  anno  pò- 


548  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

Irebbe  offrirci  prova  sufficiente  della  bontà  ed  efficacia  del  prin- 
cipio che  le  governa,  e  della  utilità  dei  servizi  che  rendono  alle  classi 
bisognose  delle  popolazioni  tedesche.  Ma  a  tale  dimostrazione  con- 
vincente è  duopo  lo  studio  del  poderoso  organamento  che  le  abbrac- 
cia ed  affratella  insieme  tutte  quante,  organamento  che  non  ha 
riscontro  in  nessun  altro  paese  di  Europa,  e  che  troppo  poco  si  è 
studiato  anche  da  noi,  dove,  sia  per  l'indole  delle  popolazioni,  sia 
per  la  diversa  legislazione,  ma  più  che  altro  pel  loro  diverso  orga- 
namento, le  nostre  imitazioni  riuscirono  vere  miniature. 

Le  Unioni  {Vereine)  alemanne  di  cooperazione  si  fondano, 
come  ognuno  sa,  sul  gran  principio  della  responsabilità  illimitata 
(  TJnheschranlde  Haft)  di  uno  per  tutti  e  di  tutti  per  uno  ;  prin- 
cipio altamente  democratico  ed  il  più  efficace  ad  aprire  le  sor- 
genti del  credito  ai  nullatenenti,  siccome  quello  che  ricerca  e  san- 
ziona le  garanzie  delle  persone  accreditate  non  tanto  nelle  loro 
sostanze,  quanto  nella  loro  onestà,  nelle  loro  opere  quotidiane, 
nel  loro  onore.  Qualunque  povertà  onorata,  i  cui  mezzi  di  sussi- 
stenza dipendono  dal  solo  lavoro,  si  potrebbe  e  dovrebbe,  secondo 
questo  principio,  aggregare  in  Germania  alle  falangi  della  coope- 
razione, e  divenire  tosto  una  potenza  capace  per  sé  stessa  di  dare 
e  di  ricever  credito. 

Mentre  altrove  il  principio  della  cooperazione  o  ebbe  altra  base 
0  si  sviluppò  sotto  un  solo  aspetto,  sotto  l'aspetto  bancario,  tra  le 
popolazioni  tedesche  invece  trovò  la  più  feconda  applicazione  in 
quei  rami  principali  della  operosità  umana,  dalla  cui  prosperità 
dipendono  il  lavoro,  il  sostentamento  e  l'agiatezza  delle  classi 
operaie  in  particola!*  modo.  E  singolare  a  prima  vista  che  la 
schiatta  teutonica,  il  cui  passato  storico  è  la  personificazione  del- 
l'individualismo il  più  accentuato  sia  nelle  lettere  che  nelle  arti, 
tanto  nella  religione  che  nella  filosofia,  ci  offra  oggi  il  più  perfetto 
modello,  nelle  sue  associazioni  cooperative,  di  quello  spirito  solidale 
e  collettivo,  che  parrebbe  dovesse  essere  dote  esclusiva  delle 
schiatte  latine,  alntuate  da  secoli  a  piegarsi  sotto  il  giogo  della 
Koma  dei  Cesari,  ed  educate  dipoi  allo  spirito  accentratore,  cui 
s'informò  il  governo  della  Chiesa,  nonché  la  politica  degli  Stati  da 
essa  particolarmente  influenzati  e  sorretti,  come  furono  appunto 
l'Italia  e  la  Francia,  per  tacere  di  altri:  ^  tuttavia  il  principio  soli- 

1  E  tra  questi  il  Belgio,  che  fu  del  resto  il  più  pronto  e  fedele  imitatore  della 
cooperazione  tedesca,  e  non  ci  ha  dato  ancora  le  varie  ramificazioni,  che  osser- 
viamo nella  Germania;  ed  anche  la  forma  delle  sue  Unioni  di  credito  fu  in  que- 
sti ultimi  tempi,  come  vedremo,  molto  allerata  dalla  originale,  che  prese  a  modello. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  549 

dale  della  cooperazione  tedesca  non  trovò  finora  in  essi  il  terreno 
acconcio  che  ha  potuto  trovare  nell'odierna  Germania,  che  nelle 
sue  tante  istituzioni  cooperative  può  dire  di  preparare,  per  gli  uo- 
mini di  buona  volontà,  i  germi  per  la  migliore  e  pacifica  soluzione 
di  ogni  questione  sociale. 

A  ben  comprendere  i  resultati  ed  effetti  del  principio  coope- 
rativo tra  le  popolazioni  tedesche,  fa  d'uopo  studiarlo  non  solo 
nelle  sue  singole  e  principali  manifestazioni,  ma  anche  e  segnata- 
mente nei  rapporti  esistenti  tra  le  varie  forme  di  applicazione 
dello  stesso  principio,  forme  che  mirano  a  scopi  diversi,  ma  coor- 
dinati tutti  nel  comune  intento,  come  a  mèta  ideale  di  ogni  Unione, 
quale  sarebbe  di  collegare  insieme  tutte  le  classi  lavoratrici,  tutti 
i  privi  di  mezzi  di  fortuna,  onde  porli  in  condizioni  di  bastare  a  sé 
stessi,  più  che  coi  propri  averi,  col  capitale  del  proprio  lavoro  e 
della  propria  onestà. 

Tutte  le  varie  applicazioni  che  di  tal  principio  si  sono  fatte,  si 
possono  riassumere  e  comprendere  in  quattro  grandi  categorie; 
esse  corrispondono  appunto  in  pratica  ai  bisogni  principali  e  più 
comprensivi  delle  classi  operaie,  e  si  possono  enumerare  e  classifi- 
care nel  seguente  modo  fino  a  tutt'oggi  : 

1^  Forma    —    Unioni  Cooperative  di  Credito 1827 

2^      »  »                       di  Comra.  e  Produzione    622 

3""      »  »                       di  Consumo     ....     624 

4^      »  »                       di  Costruzione     ...      50 


Totale        3123 

Ognuna  di  queste  forme  di  associazioni  (Vcreine)  porge  uno 
speciale  aiuto  al  membro  che  ne  fa  parte,  aiuto  che  trova  il  suo 
compimento  in  quello  somministrato  dalle  altre.  Nella  prima  l'ope- 
raio mediante  il  suo  credito  può  ottenere  il  denaro;  nella  seconda 
le  materie  prime  e  gli  strumenti  pel  lavoro  ;  nella  terza  il  vitto 
saluberrimo  e  a  buon  mercato  pel  suo  sostentamento  ;  nella  quarta 
finalmente  può  avere  come  farsi  la  propria  casa.  Prima  di  stu- 
diarne i  rapporti  e  la  poderosa  organizzazione  che  le  collega  e 
rafforza  nell'unità  degl'intenti  morali  ed  economici,  e  della  quale 
è  anima,  vita  e  mente  il  venerando  vecchio  di  Potsdam,  credia- 
mo opportuno  di  premettere  un  rapido  esame  del  patrimonio  e 
stato  sociale  di  ciascuna  di  queste  quattro  categorie. 


550  DEL  CREDITO  POPOLARE. 


Unioni  Cooperative  di  Credito. 

(  Volkshimke  Vvì'schuss-vereine]. 


11  primo  ramo  della  cooperazione,  che  come  abbiamo  visto  è  il 
più  sviluppato,  annoverando  in  sé  1827  unioni,  si  può  considerare 
come  il  ceppo,  da  cui  rampollarono  le  serie  delle  altre  istitu- 
zioni. Difatti  una  volta  costituita  l'organizzazione  del  credito 
popolare,  questo  a  guisa  di  leva  dovea  sollevare  di  un  tratto  le 
classi  operaie,  e  somministrar  loro  i  mezzi  di  soddisfare  alle  pro- 
prie tendenze  ed  ai  propri  bisogni,  clie  d'  indi  in  poi  si  tradussero 
nelle  unioni  di  consumo,  di  produzione  e  via  dicendo,  e  che  oggi 
si  possono  considerare  come  gli  sbocchi  principali,  in  cui  in  ul- 
tima analisi  si  risolve  in  realtà  il  credito  popolare  tedesco. 

Delle  unioni  di  quest'ultimo  sole  929  pubblicarono  quest'anno 
i  loro  bilanci,  e  di  cui  giova  qui  riassumere  il  contenuto  in  com- 
parazione con  quello  dei  bilanci  passati.  (  Vedi  pag.  seg.) 

Da  questa  stessa  tabella  comparativa  risulta  che  il  numero 
■delle  banche  e  la  relativa  partecipazione  della  popolazione  sono 
più  grandi  nei  piccoli  principati  della  Turingia,  nell'Assia-Nassau. 
nel  Baden  e  nel  Wùrtemberg.  Questo  fatto  si  spiega  con  ragioni 
locali  —  che  possono  valere  anche  per  altre  nazioni.  In  quei  paesi 
e  comuni  della  Prussia  e  Germania  dove  la  piccola  industria  e 
i  piccoli  possedimenti  predominano  ancora,  ivi  la  popolazione  è 
più  interessata  alle  Unioni,  e  i  soci  di  queste  sono  più  numerosi; 
mentre  negli  stati  e  provincie,  dove  prevalgono  la  grande  indu- 
stria ed  i  latifondi,  il  numero  delle  unioni  di  credito  è  assai  più 
scarso,  e  la  media  dei  soci  minore.  Il  ceto  medio  o  la  borghesia 
che  coltiva  le  terre  o  esercita  un  traffico  per  proprio  conto,  è  più 
rappresentata  nelle  piccole  che  nelle  grandi  città. 

I  commenti  alle  cifre  dei  rendiconti,  sopratutto  a  quelle  del- 
l'ultimo bilancio  ci  riserbiamo  più  oltre.  Frattanto  amiamo  notare 
la  media  micrografica  e  democratica  dei  capitali  propri  di  ogni 
banca  in  119,161  marchi  (il  marco  equivale  a  L.  1,25  di  moneta 
decimale),  nonché  quella  dei  depositi  a  risparmio  nel  valore  di 
377,846,  e  l'altra  nelle  anticipazioni,  sconti  e  prestiti  nella  somma 
di  1,668,894  marchi.  Dato  il  numero  dei  soci  nel  totale  di  468,652, 
è  facile  ai  lettori  scorgere  le  microscopiche  medie  rappresentate 
da   ogni  socio  e  da  ogni  singola  operazione  di  credito. 


DEL    CREDITO  POPOLARE. 


551 


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552 


DEL  CKEDITO  POPOLAEE. 


Si  trovano  distribuite  nel  seguente  modo  rispetto   ai  singoli 
stati  in  cui  si  divide  l' Impero  tedesco. 


STATI 


(Escluso  il  Lussembergo  con  1 
unione  di  credito  avente  n.  221 
soci). 


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Prussia 

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Pomraerania  .... 

Posen  

Slesia  

Sassonia 

Schleswig-Holstein 

Hannover    

Vestfalia 

Nassau 

Province  Renane  . 


I.  Prussia 


Totale 


II. 

III. 

IV. 

V. 

VI. 

VII. 

Vili. 

IX. 

X. 

XI. 

XII. 
XIII 


Baviera 

Sassonia 

Wùrttemberg 

Badea  

Assia 

jVIeckleniburg 

Brauuschweig,  Oldenburg  . 
Granducati   di    Sassonia    e 

Turingia 

Lippe,  Waldeck,    Schaura- 

burg-Lippe  

Città  Anseatiche 

Anhalt ,  . 

Alsazia-Lorena 


Totale.  Prussia  e  Germania 
Senza  la  Prussia , 


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16 
36 
24 
92 
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16 
14 
50 
34 

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51 


28 
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15 

11 


1 
5 
1 

928 

410 


29,140 
32,8^1 
16,:s44 
10,018 
51,004 
33,091 
14  929 
9,351 
4,238 
40,651 
12,332 

260,149 

33,036 
29,131 
31,344 
35,63T 
11,64T 
12,299 
4,546 

35,890 


"ifill 
895 
234 

468,425 

20S.276 


429 
433 
454 

4n 

620 
419 
515 
.596 
308 
813 
303 

502 

542 
511 
434 
614 
416 
456 
303 

505 


1,088 
179 
234 

505 
508 


3,i9p,ni 

3,126,411 
1,462,290 
1,606,084 
3,843,699 
2,168,988 
1,025,156 
2,011,393 
1,905,691 
1,461,898 
3,804,381 

25,742,404 

5,022,390 

2,860,586 

1,881,505 

1,501,119 

884,218 

649,458 

841,135 

1,099,386 


581,130 
213,565 


41,041 

41,131 

40,619 

66,920 

41,119 

21,456 

35,350 

126.081 

136,121 

29,358 

111,894 

49,696 

42,334 
54,129 
21,818 
25,986 
31,519 
24,054 
51,416 

15,484 


83,961 
42,713 


1,531,804|1,531,804 

42,727,360     46,042 
16,984,956    41,427 


9-1 

10 '5 

11-2 

6 '2 

14.8 

15-3 

14,'G 
4)7 
2>2 

21 

3.2 

10, 

6-6 

11, 

20.0 
23,6 
13,2 
19:0 
5.6 

32. 


13,0 
4,2 
0,2 

Ilo 

12 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  553 

Malgrado  la  guerra  orientale  e  la  crisi  che  da  più  anrà  pesa 
funestamente  anche  sul  commercio  della  Germania,  in  questo 
ultimo  anno  il  numero  delle  banche  si  accrebbe  di  74  contro  40  che 
si  sciolsero.  Di  queste  circa  20  non  sono  Unioni  registrate  {Ein- 
getragene  V creine),  cioè  comprese  nella  nuova  legge,  di  cui  par- 
leremo più  innanzi;  da  vario  tempo  queste  unioni,  vedendosi  in 
perdita  avevano  dismesso  parte  dei  loro  ajffari,  senza  darne  notizia 
^lla  direzione  centrale.  Le  altre  vennero  alla  liquidazione,  parte 
per  motivi  di  discordia  tra  il  consiglio  di  amministrazione  ed  i 
soci,  parte  per  furti  e  falsificazione  da  lato  degli  am  ministratori, 
e  finalmente  4  vi  furono  trascinate  dal  fallimento  della  banca 
di  Dusseldorf,  che  a  guif^a  di  pianeta  precipitò  nella  sua  caduta 
anche  i  satelliti  delle  piccole  banche.  Ma  se  sono  da  notare  le 
sparizioni  in  ben  piccolo  numero  nelle  province  Eenane,  e  nella 
Sassonia,  non  è  da  tacere  che  in  Posen  vi  fu  un  aumento  di  9 
unioni  di  credito.  Dal  che  si  vede  che  questo  ramo  di  coopera- 
zione segue  il  suo  corso  naturale,  spiegando  la  sua  rigogliosa 
vita  nell'antagonismo  delle  forze,  che  periscono  e  si  rinnovano  a 
vicenda. 

La  ristrettezza  dello  spazio  ci  costringe  a  sopprimere  per 
ora  un  ampio  prospetto  sinottico  di  tutte  le  operazioni  bancarie 
compiute  dalle  numerose  associazioni  di  credito  tedesche  durante 
l'amio  del  loro  ultimo  bilancio.  Esso  è  la  più  minuta  ed  analitica 
fisiologia  delle  forze  organiche  della  cooperazione;  i  nostri  cor- 
tesi lettori  lo  leggeranno  altrove. 

Frattanto  bastino  a  dare  una  idea  della  loro  indole  e  potenza 
i  resoconti  già  citati,  e  passiamo  ad  esaminare  la  qualità  dei  soci. 

Quale  sia  la  natura  della  clientela  di  queste  Unioni  di  cre- 
flito,  si  può  vedere  dal  seguente  altro  prospetto  in  cui  si  trovano 
tutti  i  soci  delle  banche  classati  in  dodici  categorie  a  seconda 
dello  stato  e  professione,  cui  ciascun  socio  appartiene. 


VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  Aprile  1819.  34 


554 


DEL   CREDITO   POPOLARE. 


Tabella,  contenente  il  numero 


Luògo  di  residenza 
dell'Unione 


MOVIMENTO  DEI  SOCI 

e 

Usciti  nell'anno 

13 

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1—81  Slesia 

82 — 155  Sassonia  .... 
156-224  Brandenburg   . 

225—282  Prussia 

283-  322  Hessen-Nassau 

323-  353|Pommerania 

354 — 3821  Province  Renane. 

383—408  Schleswig-Holstein 

409— 432lPosen 

433 — 444 1  Hannover, 

445 -458!  Vestfalia 


459  — 462;Wurtemberg 

4G3 — 528:Sassonia  e    TuriuKia 

j     (granducati) 
529— 583  Baviera 

t— 635lBaden 
636—  tì~6  Sassonia 

Qll  —  1()4  Hessen 

105— 728jMecklemburg  .... 
129—141  Braunschweig,  Olde 

I     burg,     Lippe      e 

j     Waldect 

142— 141jCittà  Anseatiche  .  . 

148— 152JUnba]t 

153,Strasbur 

Totale  Generale  .  3420n'38010'lin3  4816'll40  26129  1618l'4846  3o3418,'l6526  3030  9858  635  1324 


E  computando  il  numero    totale  dei    soci  secondo    le  medie 

percentuali  di  ciascuna  classe  si  ha; 

Alla  l"*  classe- appartengono  il 18,94: 

»  2^  classe               »                3.03 

»  3""  classe               »                3.45 

»  4^  classe                »                 29.67 

»  5^  classe                »                 11,30 

»  6*^  classe                »                8.99 

»  7*  classe                »                0.89 

»  8''  classe               »               4jl 


DEL  CREDITO  POPOLARE. 


555 


ILITÀ   DEI  SOCI  FINO  AlL'aNNO   1877-78. 


L.    4" 

Ul.  .-»" 

Cl.  6" 

Cl.  7* 

Cl.  8' 

Cl.  'J' 

Cl.  10' 

Cl.  11" 

Cl.  12' 

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U     D 

U       D 

U     D 

U      D 

U     D 

U    D 

U       D 

U        D 

U 

D 

Z 

741 

529 

2009 

101 

1 
3859    366 

320' 

14 

2612 

1 
151  1001 

15 

342 

88 

3383 

133 

1486    1429 

41623 

3496 

1  —  81 

252 

202 

1995 

10 

2288    138 

111 

— 

145S 

64    651 

4 

162 

21 

14-0 

26 

911;     811 

28500 

1518 

82-155 

012 

214 

1636 

45 

3636    no 

140 

6 

1816 

10 

515 

3 

103 

30 

1842 

51 

1052    1434 

21526 

2280 

156-224 

1-14 

211 

240 

18 

2351    151 

88 

6 

856 

59 

356 

4 

58 

33 

2350 

120 

692 

839 

21460 

1888 

225—282 

636 

341 

1914 

11 

2151     124 

198 

9 

1160 

&à 

635 

'4 

331 

156 

2101 

80 

661 

2323 

26511 

3108 

283—322 

901 

91 

344 

1 

1319      83 

13 

2 

128 

26 

143 

1 

85 

5 

1021 

28 

491 

395 

11412 

146 

323—353 

109 

62 

840 

11 

1598      93 

81 

1 

621 

49 

190 

3 

46 

31 

511 

8 

243 

264 

9811 

601 

354  -  382 

-36 

111 

468 

1 

1951 

14 

162 

5 

1005 

42 

225 

— 

102 

41 

914 

28 

611 

459 

12148 

849 

383-408 

252 

64 

186 

2 

1356 

68 

49 

3 

390 

11 

211 

2 

62 

4 

995 

12 

393,     145 

9615 

403 

409—432 

258 

99 

133 

1 

405 

16 

38 

2 

181 

1 

38 

1 

33 

— 

189 

8 

92        11 

3229 

320 

433—444 

413 

24 

2026 

54 

238 

213 

1 

no 

13 

84 

1356 

24 

48 
2 

117 

6 

560 

12 

4169 

81 

31 

1 

21 

1345 

3 

3 

424 
6 

301 

3 

491 

112 

6159 

96 

8280 

101 

4082 

156 

445—458 
459—462 

544 

10003 

21696  1296 
285      19 

11004 
225 

15143 

201989 

16031 

114 

101 

230 

6 

28 

2822 

222 

184 

302 

2651 

61 

1719    161 

113 

5 

1084 

59 

412 

1 

303 

56 

2232 

85 

818 

1551 

29115 

2600 

463—528 

962 

4.S4 

491 

51 

2812'  280 

191 

38 

1053    61 

411 

11 

231 

112 

1.^69 

124 

601 

898 

19326 

•2407 

529—583 

101 

113 

933 

111 

2331     138 

200 

4 

2026    53 

164 

2 

341 

189 

1165 

33 

558 

664 

29216 

1619 

584—635 

298 

314 

1115 

84 

1154'   156 

243 

28 

835    50 

300 

16 

114 

26 

1339 

120 

i     664 

942 

,   16581 

1944 

636-616 

013 

98 

403 

25 

1019|     45 

13 

— 

408    25 

166 

1 

44 

23 

693 

8 

1     289 

253 

9208 

621 

611-104 

110 

114 

584 

9 

820 

55 

39 

— 

563 

28 

216 

1 

231 

59 

841 

54 

293 

596 

9420 

1059 

105-128 

030 

53 

114 

3 

341 

27 

11 

126 

5 

41 

1       4 

1 

281 

9 

111 

69 

2685 

195 

129-141 

160 

53 

23 

— 

816:     82 

156 

2 

232 

5 

116 

— 

— 

— 

256 

22 

125 

283 

i     4118 

391,142-141 

449 

21 

44 

1 

90,       5 

4 

— 

38 

2 

24 

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6 

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66 

2 

20 

12 

845 

44,148—152 

36 

— 

1 

— 

24'       2 

1 

— 

13 

— 

93 

— 

— 

— 

43 

— 

1 

2 

,       230 

4 

153 

827 

3812 

16-180 

1 

565 

338212216 

2411 

12- 

11601 

861 

6919 

82 

2634 

962 

24451960 

10321 

13651 

326215 

i 

21203 

Alla    9"  classe  appartengono  il 2,82 

»      10'  classe 1,19 

»      11'  classe 8,13 

»      12°  classe 6.88 


Totale 


100,00 


Kispetto  poi  al  sesso  la  proporzione  percentuale  degli  uomini 
col  totale  dei  soci  è  del  92,3;  quella  delle  donne  del  7,7.  La  ma- 
niera con  cui  ciascuna  classe  partecipa  ai  vantaggi  dell'Unione 
è,  come  si  capisce  da  sé,  molto  difìerente.   Cosi   abbiamo  che  le 


556  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

classi  I,  III,  IV,  VI  e  Vili,  le  quali  comprendono  i  piccoli  indu- 
striali, i  negozianti,  i  commercianti  a  dettaglio,  i  Selhstst  aneli  gè 
Handtverker  (lavoranti  ed  artigiani  indipendenti)  e  vari  altri 
operai  che  esercitano  qualche  ramo  d'industria  manuale,  o  col- 
tivano terreni  per  conto  proprio,  sono  quelle  che  addimandano  il 
credito  dell'Unione;  mentre  le  classi  li,  V,  VII,  IX,  X,  XI,  XII 
sono  quelle  che  procurano,  mediante  il  deposito  dei  propri  risparmi, 
i  capitali  necessari  all'esercizio  delle  operazioni  di  credito  delle 
Unioni. 


Distribuzione  dell'  Unione  di  credito 


Comun 

i  di  100,000 

e 

Comuni 

da  100,000 

a 

Comun 

da  50.000  a 

STATI 

pie 

abitanti 

50,000  abitanti 

20,000  abitanti 

Numero 

Numero 

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Numero 

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4 

5 

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7 

8 

9 

10         11 

li.' 
2,9; 

Prussia 

I,6l3,-i28 

11,862 

28 

1>06 

1,028,300 

11,521 

10 

1,<2 

1,134,524 

33,520 

21 

Baviera 

193,024 

164 

2 

0,49 

148,231 

10,531 

2 

1.11 

153,458 

1.086 

2 

O,-' 

Sassonia 

324,6-^2 

8,282 

4 

2,55 

18,209 

3.012 

2 

3,n.'? 

141,243 

4,3.->4 

6 

2,6.1 

Wiirdemberg  .... 

1 01,213 

2,50S 

1 

2.34 

— 

— 

— 

— 

51,430 

3,006 

3 

5.»; 

— 

— 

— 

- 

56,421 
152.769 

1,941 
234 

1 

1 

3,44 

0„5 

165,969 
62,904 
69,846 

4,193 
1,311 

4 
2 

2,0: 

Alsazia -Lorena  .  .  . 

Restante  Germania. 

36'7,20T 

1,438 

0 

'-ì,o.^ 

65,938 

— 

— 

112,615 

1,815 

5 

4,5 

Totale  .  . 

2,665,914 

36,8.54 

40 

1,3S 

1,529,868 

21,305 

16 

1,78 

1,951,989 

55,345 

49 

2,8 

Prussia 

1,613.128 

11,8  ;2 

28 

1,06 

1,028,300 

11,521 

10 

Li2 

1,134,524 

33,520 

21 

2,9! 

Germania 

992,186 

18,992 

12 

1,01 

348,199 

1.5,544 

5 

4,46 

153,619 

21,825 

22 

2,s 

Alsazia  e  Lorena .  . 

— 

— 

— 

— 

152,169 

234 

1 

0,15 

69,846 

— 

— 

Totale  .  . 

2,665,914 

36,854 

40 

1,38 

1,529,868 

21,305 

16 

1,78 

1,951,989 

55,345 

49 

2,? 

Col  Lussemburgo  .  . 

— 

— 

- 

- 

— 

— 

— 

— 

— 

— 

— 

- 

Totale  .  . 

— 

— 

— ■ 

— 

— 

— 

— 

— 

— 

— • 

— 

^l 

DEL  CKEDITO  POPOLARE.  557 

È  poi  sommamente  interessante  vedere  come  si  propaghino 
tra  le  popolazioni  tedesche  le  Unioni  di  credito  ;  in  quali  rap- 
porti stieno  col  numero  degli  abitanti,  e  quali  differenze  e  pro- 
porzioni passino  tra  i  grandi,  i  medi  e  i  piccoli  comuni  di  fronte 
al  numero  e  sviluppo  di  esse  nelle  singole  regioni.  Il  seguente  pro- 
spetto, che  togliamo  dall'opuscolo  Die  neuesfe  Eniwickeìung  der 
d.  linde.  Enverbsgenosse7ischaft  del  D"".  K.  Jannasch, offrirà  ai  lettori 
una  comparazione  interessante  di  quanto  più  sopra  diciamo. 


IN    RAPPORTO   COLLA  QUANTITÀ   DELLA   POPOLAZIONE 


Comuni  da  20.000  a 

Comuni  da  5000  a 

Comun 

1  non  meno  di 

Totale: 

5000  abitanti 

2000  abitanti 

2000  abitanti 

Numero 

1^1 
e  'S 

il 

Numero 

Numero 

■  2 

Numero 

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17 

IS 

19 

20 

21 

22 

23 

24 

25 

26       1  27 

2S 

3,338,182  100,014 

184 

3,00 

3.168,884 

76,581 

187 

2,42 

15  350,016 

20,645 

82    0.1 3 

i  25,693,634 

260,149  518 

1,0» 

401,206     12,155 

20 

3,03 

410,078 

4,763 

15 

1,16 

3,716,393 

3,737 

20    0,10 

5,022,390 

33.036     61 

0,66 

441,412       6,559 

16 

1,49 

463,572 

3.028 

13 

0,78 

1,305,468 

3,236 

10      0,£5 

2,760,586 

29,131|    51 

1,06 

198,090;    10,414 

19;    5,?6 

276,501 

16,310 

49 

5.9o 

1.248,211 

5,106 

14 

0,41 

1,881,505 

37,344'    86 

1,98 

91,689       5,139 

9,   5,60 

272,611 

16,402 

25 

6,02 

976,910 

9,903 

20 

1."' 

1,507,179 

35,637'    58 

2,36 

64.163 

1,682 

4:  2,60 

157,599 

5,602 

15 

3,55 

542,531 

1,111 

6 

0,20 

884,218     1 1,647  i    28 

1,32 

132,2n 

— 

—    — 

212,948 

— 

— 

— 

964,024 

— 

~ 

— 

1,531,804 

234 

1 

0,02 

451,278 

n,28i 

30 

3)83 

366,015 

17,791 

4S 

4>86 

1,974,221 

10,862 

37 

0)55 

3,397,274 

61,481 

126 

1,81 

5,118,83'7j  153,244 

282 

2»99 

5,328,208 

141,077 

352 

2,65 

26,077,774 

54,600 

189 

0,21 

'  42,678,590 

468,425 

928 

1,10 

3,338,182  100,014 

184 

3,00 

3,168,884 

76,581 

187 

2,42 

15,350,016 

20,645 

82 

0,13 

25,693,634 

260,149 

518 

1,01 

1,648,438 

53,230;    98 

3,23 

1,946.376 

64,496  165 

3,31 

9,763,731 

33,955 

107 

0,35 

15.453,152 

208,042 

409 

1,35 

I3-2,2n 

i 

— 

212,948 

— 

— 

— 

964,024 

— 

— 

— 

1,531,804 

234 

1 

0,2 

),118,83T  153,244' 282 

2,99 

5,328,208 

141,077 

352 

2,65 

26,077,774 

54,600 

189 

0.21 

'  42,678,590 

468,425 

928 

1,1» 

21,595         22T 

1 

0,82 

51,531 

— 

— 

— 

126,032 

— 

— 

— 

205,158 

227 

1 

0,n 

—           — 

— 

—      5,379,739,' 

141,077  352 

2,62 

26,203,806 

54,600 

189 

0,21 

*  42,883,748 

468,652' 929! 

1,(9 

^  Escluso  Lauenburg  con  48,770  abitanti. 


558  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

Dai  due  precedenti  prospetti  resulta  una  conferma  di  quanto 
più  sopra  abbiamo  detto  della  differenza  tra  le  piccole  e  le  grandi 
città.  Difatti  vediamo  come  i  comuni  che  hanno  maggior  numero 
di  Unioni  di  credito  e  di  soci,  sono  appunto  quelli  che  hanno 
una  popolazione  che  va  da  20,000  a  5000  abitanti,  che  è  quanto 
dire,  i  più  piccoli  comuni.  E  appunto  in  questi  che  si  trova  la 
clientela  occorrente  a  tali  Unioni;  il  ceto  delle  persone  che  la- 
vorano per  conto  proprio  vi  è  più  rappresentato.  Così  nelle 
piccole  città  da  5000  a  20(i0  abitanti  i  cosidetti  Handwcrlcer,  che 
costituiscono  il  numero  maggiore  dei  soci  del  mutuo  credito  te- 
desco, rappresentano  il  nerbo  dell'Unione.  Essi  formano  la  classe 
degli  artigiani  indipendenti,  che  attendono  a  coltivare  qualche 
piccolo  possedimento  di  propria  pertinenza,  o  qualche  traffico  o 
ramo  della  piccola  industria  per  proprio  conto,  e  sono  quelli  che 
più  abbisognano  del  credito  delle  Unioni,  e  che  in  pari  tempo  ne 
possono  trarre  profitto,  e  lo  traggono  in  realtà,  meglio  di  tutti. 
Grandissimo  è  in  Germania  il  numero  delle  piccole  e  mezzane 
città,  i  cui  abitanti  sono  esclusivamente  dediti  a  mestieri  ed  in- 
dustrie manuali  per  proprio  conto,  ed  attingono  con  imperioso 
bisogno  i  mezzi  necessari  ai  loro  lavori  alle  sorgenti  del  credito 
cooperativo,  per  cui  in  molti  casi  hanno  potuto,  se  non  arrestare, 
neutralizzare  l'invaditrice  influenza  della  grande  industria.  Nelle 
grandi  città  al  contrario,  gì'  istituti  di  credito  ordinario  essen- 
dovi numerosi,  il  capitale  abbondevole,  e  la  grande  industria  pre- 
valente, r  interesse  per  la  Unione  non  è  così  vivo  come  altrove 
fu  visto. 

Il  compito  di  tali  Unioni  è  diverso  a  seconda  della  gran- 
dezza del  comune,  in  cui  ciascuna  di  esse  si  trova,  e  generalmente  si 
può  dire  che  dove  la  proprietà  agricola  è  molto  divisa,  dove  il 
traffico  e  lavoro  manuale  sono  molto  estesi,  ivi  è  l'ambiente  vero 
dell'Unione  e  i  risultati  benefici  di  questa  sono  infiniti. 

Gli  è  quanto  osservammo  nel  nostro  primo  articolo  passando 
in  rivista  le  banche  italiane  e  paragonando  quelle  dei  grandie  dei 
piccoli  centri.  Non  è  poi  che  manchino  in  Italia  le  piccole  città 
o  borgate  dove  si  esercitino  le  piccole  industrie  a  somiglianza 
della  Germania.  La  fabbricazione  dei  cappelli  di  paglia,  e  di 
cappelli  in  genere,  l' industria  del  canape  nella  corderìa  e  nelle 
tele  casalinghe,  quella  dei  coltellinai,  il  mobilio,  le  basse  cera- 
miche, gli  stromenti  agricoli  ed  altri  rami  di  lavoro  si  raggrup- 
pano e  si  celebrano  nei  piccoli  centri.  V  hanno  in  Italia  delle 
Provincie  agricole  dove  la  proprietà  è   così    suddivisa  come   la 


DEL  CREDITO   POPOLARE.  5^^ 

piccola  industria,  e  dove  parecchi  sono  i  coloni  indipendenti.  E 
se  nelle  banche  fondate  nei  piccoli  centri  abbiamo  potuto  rile- 
vare quanta  inclinazione  anche  da  noi  ci  sarebbe  per  la  coope- 
razione, è  vivamente  a  deplorarsi  che  il  loro  vizioso  organamento 
impedisca  che  si  rendano  schiettamente  popolari.  Infatti  gli  e 
sempre  il  gran  principio  della  responsabilità  illimitata  che  solo 
può  giungere  ad  una  efficace  cooperazione,  sia  fra  i  meno  agiati 
consorziati  tra  di  loro,  sia  fra  i  più  ed  i  meno  agiati.  Che  im- 
porta vantare  certi  gratuiti  servigi  che  son  fuori  dalla  natura 
delle  cose,  o  certe  esteriorità  che  non  trapassano  la  credenza 
dei  semplici?  La  cooperazione  a  fondarsi  nell'ordine  morale  deve 
trovar  la  sua  base  nell'ordine  fisico,  e  la  responsabilità  individuale 
è  la  gran  molla  della  responsabilità  collettiva  e  quindi  dell'or- 
dine sociale. 

In  attesa  però  che,  dopo  questo  secolo,  gravido  di  tempeste,  il 
mondo  sociale  trovi  i  suoi  germi  di  salute  e  di  vita  rompendo 
le  parti  ingiuste  fra  chi  gode  e  chi  lavora,  frazionandosi,  e  vor- 
remmo quasi  dire,  impiccolendosi  come  le  banche  tedesche  e 
stringendosi  insieme  quant'  esse  coi  vincoli  della  onestà  e  della 
operosità,  verremo  noi  a  condannare  le  banche  delle  grandi 
città  e  le  grandi  industrie?  Tale  non  è  certo  il  nostro  pensiero. 
Benché  possa  dirsi  che  diverso  sia  il  mondo  civile  ed  intellettuale 
fra  i  grandi  e  i  piccoli  cei  tri,  perchè  diversa  ne  è  la  natura, 
non  è  che  il  popolo  manchi  nelle  grandi  città  o  che  queste  al 
popolo  precludano  la  via  della  cooperazione.  Anche  nello  più 
grandi  città  della  Germania  esiste  un  numero  non  scarso  di 
Unioni.  Così  a  Berlino  se  ne  contano  18  con  4628  soci,  in  Am- 
burgo 3  con  3537  soci,  in  Breslavia  4  con  5123,  in  Dresda  2 
con  918,  in  Monaco  2  con  764,  in  Konigsberga  2  con  1185,  in 
Lipsia  2  con  7364,  in  Brema  2  con  3901.  Ma  i  risultati  che 
l'Unione  dà  nelle  grandi  città  sono  ben  differenti  da  quelli  che 
danno  le  altre  dei  piccoli  comuni;  mentre  in  questi  è  quasi  esclu- 
sivamente l'operaio  indipendente  che  trae  i  vantaggi  del  credito 
pel  suo  mestiere,  nelle  grandi  sono  gli  industriali  ed  il  commer- 
ciante anche  alquanto  riguardevoli  che  scontano  le  proprie  cam- 
biali, che  chieggono  anticipazioni  e  prestiti  dalle  Unioni;  la  clien- 
tela di  esse  è  più  intelligente  ed  istruita,  e  la  borghesia  vi  pre- 
domina. Le  operazioni  tuttavia  hanno  in  rari  casi  la  natura  di  quelle 
delle  grandi  banche,  come  più  volte  ci  venne  fatto  di  vedere  nelle 
pretese  banche  popolari  italiane.  Ad  esempio,  in  Berlino  la  Unione 
più  colossale  è  quella  dello  Stralaurer  {Gen.   B.  des  Stralaurer) 


560  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

con  790  soci;  poi  viene  quella  della  Fnedrichstrasse  {Credit 
Verein)  con  736.  Or  bene  la  prima  impiegò  in  sconti  durante 
tutto  il  1877  marchi  11,428,041  sopra  cambiali  15,562,  delle 
quali  molte  rappresentano  un  valore  che  è  il  minimo  di  25 
marchi. 

La  seconda  pure  in  sconti  impiega  2,797,378  marchi  sopra 
cambiali  5516. 

Dopo  queste  due  maggiori  vengono  la  Voìkshanh  in  Louisen- 
strasse  con  374  soci,  la  Volks  Verein  {Alt  Berlin)  con  368  soci, 
la  Aelteste  D.  Bank  con  305  soci  e  varie  altre  più  piccole. 

La  prima  di  queste  tre  ultime  impiegò  in  sconti  nel  1877 
marchi  2,176,579  sopra  cambi:di  4860. 

La  seconda  impiegò  in  sconti  e  obbligazioni  237,791  marchi 
sopra  operazioni  981,  di  cui  non  poche  nel  valore  minimo  di  15 
marchi. 

La  terza  impiegò  in  sconti  e  cambiali  m.  636,755  sopra 
operazioni  2350,  il  cui  massimo  valore  è  rappresentato  da  3000 
marchi. 

Le  medie  che  si  possono  derivare  da  queste  cifre  devono 
essere  istruttive  anche  per  noi,  ma  una  delle  ragioni  per  cui 
il  credito  cooperativo  si  è  più  diffuso  e  meglio  organizzato  in 
Germania  che  altrove,  è  appunto  che  in  molte  città  piccole 
e  mezzane  si  conserva  ancora  il  tipo  della  piccola  industria  su 
vast'1.  scala,  e  l'esercito  degli  artigiani  indipendenti  {selhststdndige 
Hanìiverlier)  è  numeroso  oltre  ogni  dire. 

Giova  a  questo  proposito  avere  una  prova  in  un  recente  la- 
voro di  statistica  industriale  di  quel  dotto  e  beneraerio  scienziato 
che  è  il  Dr.  Ernesto  Engel,  direttore  dell'  officio  di  statistica  di 
Berlino.  Nel  suo  «  Gewerbestalisiik  im  deutschen  Reich  »  le  pro- 
porzioni tra  la  piccola  e  la  grande  industria  appariscono  in  tal 
modo  : 

Esistono  in  Prussia  1,799,600  fabbriche  ed  opifici.  Di  questa 
somma  1,623,591  appartegono  alla  piccola  industria  {Kleinhetriehe). 
e  sono  opifici  con  5  e  meno  operai;  45,513  sono  fabbriche  eser- 
citanti la  grande  industria  {Grosshctriehc.)  E  queste  ultime  si 
dividono  precisamente  in  tal  modo: 

Fabbriche  17,685  con  meno  di       11  operai 

»  20,474  da      11  a      50  operai 

»  4,362  da      51  a    200      * 

»  905  da    201  a  1000      * 

»  87  da  1000  e  più  oltre. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  561 

Un  altro  simile  esempio  1'  abbiamo  nella  Baviera,  dove  anche 
oggi  la  piccola  industria  predomina  e  le  unioni  di  credito  fun- 
zionano e  prosperano  a  meraviglia.  La  «  Zeitschrift  des  K.  haye- 
risch  statistiscli.  Bureau  »  constatava  nel  seguente  modo  1'  esi- 
stenza delle  fabbriche  in  Baviera  dentro  l'anno  1877  : 

Fabbriche    14,533  con  meno  di  5  operai, 
munite  di  motore, 

aventi     30,906  uomini 
1,094    donne 
»  340,057  con  meno  di  5  operai, 

non  munite  di  motore, 
aventi  440,321  uomini 
86,883     donne 
»  6,191  grandi  con  120,570  uomini 

32,550     donne 

Se  in  luogo  delle  medie  professionali  artefatte  che  ci  pre- 
sentano in  Italia  alcune  relazioni  di  Banche  popolari,  noi  potes- 
simo avere  un  eguale  prospetto  dal  nostro  K.  Ufficio  di  Stati- 
stica, e  come  certo  speriamo  di  averlo  tra  breve  dal  benemerita 
Direttore  attuale.  Prof.  Bodio,  si  vedrebbe  che  anche  in  Italia  la 
piccola  industria  è  molto  numerosa.  Intanto  nelle  esposte  cifre^ 
che  esprimono  le  peculiari  condizioni  della  Germania  in  fatta 
d'  industrialismo,  è  da  ricercare  anche  la  cagione  principale  del- 
l'estensione e  prosperità  delle  Unioni  di  credito  tedesche. 

Ma  non  è  soltanto  nell'Impero  tedesco,  come  ognuno  sa,  che- 
si  può  ammirare  una  robusta  e  democratica  organizzazione  del 
credito  cooperativo.  L'apostolato  di  Schulze  si  estese  oltre  i  con- 
fini della  propria  patria,  e  trovò  alla  propagazione  dei  suoi  prin- 
cipii  economici  un  terreno  oltremodo  acconcio  e  fruttifero  nei 
•paesi  del  Danubio  e  della  Leita  e  un  amico  devotissimo,  uno 
strenuo  propugnatore  dei  medesimi,  nella  persona  dell'  egregio 
Dr.  Ermanno  Ziller.  Il  Dottor  Ziller  collaborò  per  lunghi  anni 
insieme  a  Schulze  alla  diffusione  delle  Unioni  cooperative  tra 
le  popolazioni  austro-ungheresi,  ed  oggi,  stante  il  numero  sem- 
pre crescente  di  queste  ultime,  si  separa  amichevolmente  dalla 
direzione  generale  di  Potsdam  onde  potere  egli  stesso  assumerne 
una  sorveglianza  più  immediata  ed  una  direzione  a  parte.  E  come 
è  avvenuto  nella  Germania  e  Prussia,  così  alle  stesse  cause  può 
ascriversi  anche  il  movimento  ed  estensione  che  presero  in  questi 
ultimi  anni  le  Unioni  cooperative  in  Austria  ed  Ungheria,  di  cui 


-562  DEL  CREDITO   POPOLARE, 

non  sarà    discaro    conoscere  il   progressivo   sviluppo,  quale    ci  è 
ofierto  dalla  seguente  rassegua. 

Fino  a  tutto  il  1876,  anno  in  cui  data  il  loro  ultimo  bilancio, 
esistevano  in  Austria-Ungheria  N.  1037  Unioni  di  Credito,  così 
-divise  rispetto  alle  singole  provincie: 

In  Boemia Unioni  463 

»  Moravia »  318 

»  Austria  Inferiore »  134 

»  Slesia  Austriaca »  32 

»  Stiria »  30 

»  Carinzia »  21 

»  Austria  Superiore »  16 

»  Litorale  Austriaco »  9 

»  Tirolo »  4 

»  Yoralberga »  4 

»  Carniola »  4 

»  Salisburgo »  2 

Totale    .    .    .  1037 

A  queste  sono  da  aggiungere  le  altre  specie  di  associazioni 
^cooperative,  già  mentovate,  cioè  le  Unioni  di  vendita  di  materie 
prime  143,  di  costruzione  10,  di  produzione  e  consumo;  il  quale 
ultimo  ramo  ha  pure  in  Austria  ricevuto  un  grande  sviluppo 
■come  lo  dimostra  il  seguente  prospetto. 

Fino  a  tutto  il  1876  esistevano: 

In  Boemia    ......     Unioni  di  Consumo  215 

»  Moravia »  »  116 

»  Austria  Inferiore.     .     .  »  »  27 

»  Stiria »  »  19 

»  Austria  Superiore     .    .  »  »  13 

»  Tirolo »  »  8 

»  Slesia *  »  6 

»  Carinzia  ......  »  »  5 

»  Yoralberga »  »  3 

»  Litorale  Austriaco    .     .  >  »  2 

»  Salisburgo *  »  1 

>  Carniola  ......  *  »  1 

Totale    ...    416 


DEL  CREDITO   POPOLARE.  5£3 

Da  ciò  si  comprende  la  necessità  di  costituire  d'ora  innanzi 
di  tutte  le  Unioni  coopei-ative  austro-ungheresi  una  federazione 
a  parte  a  somiglianza  di  quanto  si  è  fatto  da  Schulze  per  quelle 
tedesche.  A  questo  intento  mirano  da  vari  anni  gli  sforzi  del 
chinro  e  benemerito  Dr.  Ermanno  Ziller,  a  cui  in  principal  modo 
si  deve  il  rapido  estendersi  di  esse.  Egli  è  come  Schulze  un  apo- 
stolo istancabile  delle  associazioni  cooperative,  e  in  pari  tempo 
strenuo  sostenitore  del  principio  della  responsabilità  illimitata  co- 
me base  della  loro  organizzazione.  Egli  è  la  personificazione  del- 
l'elemento  sano  dell'odierna  democrazia;  prese  parte  attiva  a  tutti 
i  movimenti  politici  della  Germania  in  prò  della  libertà  ed  indi- 
pendenza politica  tedesca,  per  cui  anche  sofferse  asprissimi  esilii. 
Fu  redattore  in  capo  di  pregiati  periodici,  austriaci  e  tedeschi, 
dove,  cessato  il  tempo  dell'azione,  difese  con  la  penna  valentemente 
le  stesse  idee  e  gli  stessi  principii,  per  cui  più  volte  avea  esposto 
la  vita. 

Si  contano  di  esso  vari  scritti  sulla  cooperazione.  Fra  questi 
interessante  è  «  Das  Gtnossenschaftgesets^s  und  die  Organisation 
der  Vorschussvcrcine  »  dove  difende  a  spada  tratta  il  principio 
summenzionato,  e  *  Die  Bedeutung  dcr  Erwerbs-und  Wirthschafts- 
genosscnschaften  »  dove  dimostra  l' importanza  e  grandezza  dei 
bencficii  prodotti  alle  popolazioni  dalla  cooperazione,  e  finalmente 
«  Die  Erwerbs-und  W/rfhschaft-genossenschaflen  und  deren  Bcste- 
iierimg  »  in  cui  a  buon  diritto  si  lagna  dell'  oppressione,  cui  sog- 
giacciono le  Unioni  cooperative  a  cagione  delle  gravi  e  multiformi 
tasse  ed  imposte  che  il  fisco  austriaco  senza  pietà  né  misericordia 
impone  loro  perfino  nelle  più  frivole  ed  inconcludenti  operazioni. 
Noi  vorremmo  che  questo  libro  si  leggesse  da  chi  in  Italia  indica 
le  banche  popolari  come  vittime  predilette  dal  fisco. 

Questo  illustre  uomo  ha  oggi  quasi  la  stessa  età  di  Schulze. 
Al  pari  di  questo  è  di  una  eloquenza  e  d'una  modestia  che  sor- 
prendono. Vive  adesso  di  memorie  e  di  speranze;  è  celibe  e  con- 
sacra tutte  le  ore  della  giornata  con  ardore  serafico  al  sostenimento 
ed  aiuto  delle  sue  tante  Unioni  cooperative,  che  egli  cura,  consiglia 
e  dirige  con  amore  di  padre,  e  come  un  uomo  che  si  è  interamente 
consacrato  al  benessere  e  prosperità  delle  numerose  classi  che  vi- 
vono soltanto  del  lavoro  delle  proprie  braccia. 

Fino  a  poco  fa  egli  inviava  i  propri  rendiconti  alla  Direzione 
generale  di  Potsdam,  e  Schulze  gli  inseriva  insieme  a  quelli  delle 
Unioni  tedesche  nell'annuale  Kelazione.  Ma  per  le  ragioni  anzidette 
d'  ora  innanzi  le  Kelazioni  esciranno  separate  dalle  due  Direzioni 


564  DEL  CREDITO  POPOLARE, 

di  Potsdam  e  di  Vienna.  Ed  a  tale  uopo  il  solertissimo  Dr.  Ziller 
ha  già  raccolto  i  rendiconti  statistici  di  tutte  le  Unioni  austro- 
ungheresi  ;  tali  rendiconti  dentro  quest'  anno  vedranno  la  luce, 
inaugurando  così  la  serie  delle  relazioni  annuali  come  si  fa  dal- 
l' agenzia  di  Potsdam  per  quelle  della  Prussia  e  della  Germania, 
Il  dott.  Ziller  poi  ha  compilalo  uno  statuto  organico  per  la  fonda- 
zione dell'  agenzia  generale  {Anwaltschaft),  ed  altri  regolamenti 
e  disposizioni  concernenti  gli  uffici  della  medesima,  e  che  quanta 
prima  riceveranno  la  sanzione  dall'  assemblea  generale  di  tutti  i 
delegati  delle  Unioni.  Già  esiste  da  qualche  tempo  un  periodico 
ebdomadario,  redatto  per  la  maggior  parte  dal  signor  Ziller  «  Die 
Genossenschaft  »  che  è  l'eco  ed  organo  di  tutte  le  associazioni,  e' 
tratta  argomenti  e  questioni  concernenti  esclusivamente  gl'interessi 
ed  andamento  di  queste  ultime  ;  ufficio  questo  che  ha  in  comune 
anche  coli'  altro  periodico  «  BUUler  filr  Genossenschaftsivesen  » 
pubblicato  da  Schulze  e  diffuso  a  cura  della  Direzione  generale  di 
Potsdam  per  tutto  l'impero  tedesco. 

Non  piccole  sono  le  difficoltà  che  il  D^  Ziller  incontra  a  mo- 
tivo delle  diflferenti  nazionalità,  a  cui  appartengono  le  sue  tante 
Unioni.  E  ci  vuole  davvero  tutta  la  sua  indefessa  ed  affiitto  di- 
sinteressata operosità  per  vincere  gli  antagonismi,  differenze  e 
rancori  politici  che  si  oppongono  alla  unione  delle  associazioni 
cooperative  czeche  e  tedesche,  slave  e  ungheresi,  boeme  e  magiare, 
in  una  federazione  generale  che  soddisfi  ai  comuni  interessi  ed 
alle  comuni  aspirazioni.  Ma  come  ha  saputo  abilmente  trionfare 
delle  difficoltà  delle  diverse  favelle,  per  cui  parla  e  scrive  a 
tutte  secondo  la  rispettiva  lingua,  così  gli  auguriamo  di  cuore 
che  pervenga  anche  ad  intendere  i  lati  delle  simpatie  reciproche, 
dei  comuni  interessi,  delle  aspirazioni  affini,  per  poi  persua- 
derle dei  vantaggi  provenienti  da  una  loro  confederazione,  dove 
le  divisioni  politiche  cedono  di  gran  lunga  all'  unità  degli  intenti 
economici  ;  dove  se  le  nazionalità  sono  diverse,  una  sola  e  comune 
è  la  mèta  da  raggiungere  ;  e  dove  finalmente  la  fusione  degli  in- 
teressi economici  può  preparare  la  via  all'  armonia  e  concordia 
delle  aspirazioni  politiche. 

(Continua) 

Alessandro  Bossi 


UN  VIAGGIATORE  FILOLOGO. 


GABRIELE  BALINT. 


Piccola  nazione,  ma  non  oscura,  è  1'  ungherese  :  e  1'  amore 
tìvo  alle  cose  sue,  alle  leggi,  alle  lettere,  alla  lingua,  le  accresce 
forza  e  nobiltà.  Senza  toccare  di  altri  pregi,  vi  abbiamo  da  ara- 
miria-e  quegli  industriosi  viaggiatori  che,  per  lunghe  vie  selvagge, 
animati  anzi  tutto  dal  desiderio  di  illustrare,  collegandole  a 
quelle  di  lontane  genti,  le  origini  del  popolo  magiaro,  vi  logo- 
rano in  gloriose  fatiche  la  vita.  A  questo  zelo  che  non  ha  posa 
dobbiamo,  nel  secolo  nostro,  molti  incrementi  al  sapere.  Un  uomo 
ingegnoso  e  intrepido,  Alessandro  Csoma,  invoglia  1'  Europa  dei 
tesori  accumulati  ne'  monasteri  tibetani  e  ne  dà  la  chiave  :  An- 
tonio Reguly  fra  oscuri  popoli  trova  fratelli  a'  suoi  paesani,  e 
torna  di  là  con  innumerabili  scritti  che  non  ha  la  fortuna  di  or- 
dinare ma  che  arrivano  a  un  divulgatore  fedele:  Arminio  Vàm- 
béry,  fra'  turchi  quasi  turco,  cerca  nuovi  congiunti  e  con  le  ar- 
dite ricerche  sveglia  e  nutrisce  la  critica  che  spesso  vorrebbe 
frenarlo.  Cose  che  tutti  sanno  che  è  inutile  ripetere;  ma  alle 
quali  mi  fa  ripensare  con  piacere  vero  un  breve  scritto,  che  mi 
«ade  nelle  mani,  e  che  ci  conduce  innanzi  agli  occhi  un  altro  di 
codesti  eroi.  Un  conquistatore  che  non  si  getta  con  arme  e  con 
fuoco  su'  popoli,  ma  va  loro  predando  la  favella  che  hanno  sulle 
labbra  ;  e  di  terra  in  terra  passa,  non  alle  feste  e  a'  chiassi  e  ai 
guadagni,  ma  di  scuola  in  scuola  come  giovanetto  modesto  e  ope- 
roso; e  dopo  tre  anni  di  viaggi   e   di  studi,  egli  magiaro,  a'  suoi 


^QQ  UN   VIAGGIATOKE  FILOLOGO. 

magiari  che  lo  aiutarono,  con  animo  grato,  e  con  parole  semplici 
racconta  le  sue  vittorie.  Parlo  di  Gabriele  Bàlint.  ^ 

Noi  lo  verremo  seguendo  e  con  brevità  mostreremo  come  egli 
rispondesse  alla  fiducia  che  ponevano  in  lui  i  dotti  del  suo  paese. 
11  Bàlint  incomincia  da  Casan,  ove  rivolge  le  sue  cure  al  bulga- 
ro-tatarico  di  quella  regione  :  e,  suU'  autorevole  consiglio  del 
s.  Il'minskij,  lasciati  da  banda  i  mussulmani,  s'addestra  nel  par- 
lare di  que'tatari  che,  dopo  la  conquista  di  Giovanni  il  crudele, 
si  aveva  cominciato  a  convertire  alla  chiesa  ortodossa.  Tardi  e 
pochi  furono  i  maestri  :  cosi  che,  più  lontani  dalla  civiltà  assimi- 
gliatrice,  con  maggiore  purezza  serbano  la  lingua  nazionale  ;  e 
grande  aiuto  a  insignorirsene  è  la  nuova  versione  della  bibbia. 

Così  por  i  tatari,  come  per  altre  genti  soggette  ai  russi,  ce- 
remissi,  votiachi,  morduini,  amavano  i  preti  che  le  parole  "delle 
scritture,  e  le  immagini  del  santo  libro,  fossero  con  religiosa  cura 
conservate  ;  ne  uscirono  traduzioni  che  non  può  con  facilità  com- 
prendere gente  semplice  e  alla  poesia  degli  ebrei,  antica  e  solenne, 
non  usa. 

Ma  il  dotto  Il'minskij  lottò  contro  alle  paurose  tradizioni  del 
sacerdozio,  e  vinse.  Andava  con  infinita  pazienza  spiegando  ai 
tatari  luogo  a  luogo  la  bibbia;  e  badava  che,  ripensando  le  idee 
dei  semiti  alla  tatarica,  dessero  loro  veste  semplice,  e  delle  ver- 
sioni fatte  non  si  contentava,  se  altri  tatari,  ascoltando  e  spiegando, 
non  avessero  dimostrato  che  non  v'  era  pericolo  di  fraintendere 
una  sillaba  sola.  E  ancora  fece  sì  l' Il'minskij,  che,  abbandonata 
la  scrittura  degli  arabi,  la  cirilliana  si  accostasse  tanto  ai  suoni 
stranieri  da  non  svisarli.  L'opera  dell'ardimentoso  innovatore  frut- 
tò. Non  s'ebbe  solo  la  bibbia,  ma  via  via,  d'anno  in  anno,  si  pub- 
blicarono, in  schietta  lingua,  certi  scritterelli  che  disseminavano 
gli  elementi  della  fede.  Anche  con  le  librettino,  se  possiamo  dire 
così,  si  comincia  una  nuova  letteratura,  e  deve  avere  premio  di 
gratitudine  il  s.  Il'minskij  che  tanto  si  travaglia  per  la  fede  in- 
sieme e  per  la  coltura  de'casanesi. 

11  Bàlint,  abita  fuori  della  città,  daccosto  alla  scuola  tatara 
e  due  volte  per  giorno  vi  sta  di  molte  ore,    domandando  parole 

'  Il  discorso  dal  quale  tolgo  queste  notizie  fu  letto  all'accademia  di  Pest  il 
2  marzo  1874:  e  ha  il  titolo:  «  Relazione  di  G.  B.  sopra  il  suo  viaggio  fatto  in 
Russia  e  nell'Asia  e  sopra  i  suoi  studiì  dì  Vmgua..  *  Bdlinth  Gàborjeleìit^se  Orosz- 
orszcìg~és  Azsiàban  tett  iitazdsàról  és  nyelvészeti  tanulmdnyairól.  Budapest 
1814. 

Scrivo  «  Bàlint  »  e  non  «  Bàlinth,->  perchè  nelle  altre  opere  sue  trovo  che  il  nostro- 
viaggiatore  presceglie  questa  grafia. 


UN  VIAGGIATOEE  FILOLOGO.  567 

e  scrivendo.  Presto  dal  russo  passa  al  casanese  anche  nel  discorso 
famigliare,  egli  esperto  già  nel  turco  osmaniano  :  e  aduna  attorno 
a  sé  i  giovanetti  e  li  provoca  al  canto,  e  i  versi  raccoglie  che  poi 
si  fa  con  ogni  diligenza  interpretare  ;  senza  dimenticare  e  indo- 
vinelli e  proverbi.  Maestro  gli  è  un  prete  tataro,  il  Timothejev. 
e  un  altro  tataro,  Simone  Boriss,  scrive  per  lui  le  novelline,  e  le 
tradizioni  che  del  samanesimo  durano  ancora  tra'cristiani  ;  quelle 
specialmente  sugli  spiriti  che  guardano  le  case,  le  stalle,  le  acque 
e  le  foreste. 

Poi,  col  Timothejev,  si  pone  alla  grammatica  casanese:  duro 
lavoro,  che  alle  altre  difficoltà  si  aggiunge  il  dovere  alle  voci 
tenniche  provvedere  creando.  Ma  nulla  arresta  il  focoso  filosofo  ; 
ogni  cosa  è  a  lui  stromento  e  soccorso.  Nella  scuola  accorrono 
giovani  di  molte  parti,  e  con  quelli,  e  coi  genitori  loro,  ha  l'op- 
portunità di  apprendere  ;  va  al  villaggio  vicino  e  da  un  calzolaio 
ha  le  parole  che  al  suo  mestiere  si  attengono  ;  s'accosta  a  chi  ara, 
a  chi  miete,  a  chi  batte  il  grano;  sono  tutti  precettori:  precet- 
tore anche  il  servo,  un  maomettano  di  là,  che  sente  e  intende  e 
spiega  le  cose  raccolte  dal  suo  padrone.  Nuova  prova  che  mus- 
sulmani e  cristiani  parlano  sempre  ad  un  modo. 

Ricco  di  tanta  preda,  non  sazio,  il  Bàlint  lascia  la  famiglia 
turca  e  va  in  traccia  di  nuove  cognizioni  in  Astracan,  tra  i  cal- 
mucchi, 0,  se  vogliamo  dire,  tra  i  mongoli  di  ponente.  Trova  un 
altro  maestro,  Samba,  trova  un'altra  scuola.  Anche  qui  vi  passa 
giorni  e  mesi,  tra'  giovani  e  libri,  interrogando,  studiando,  no- 
tando: lo  aiuta  un  chirurgo  calmucco,  Manzin  Sabghar,  e  anche 
da'giuochi  dei  ragazzi  guadagna  frasi  e  parole,  e  le  loro  canzoni 
dalla  scrittura  mongola  trasporta  nell'alfcibeto  magiaro,  che  egli 
cambia  leggermente:  e  si  aifatica  ad  afferrarne  il  significato  e, 
tra'calmucchi  meravigliati  e  lieti,  alla  loro  unisce  la  sua  voce  nel 
canto.  Poi  novelline  e  proverbi  e  indovinelli  e  lettere  e  carte 
di  tribunale,  noiose  ad  altre  genti,  amore  e  trastullo  degli  astra- 
canesi  ;  trascrive,  serbando  la  pronuncia  del  popolo,  tutto  un  les- 
sico russo  e  calmucco,  e  infine  si  pone  a  cercare  le  leggi,  e  a  or- 
dinarle, della  morfologia.  Per  lui  lavorano  Mac'ka  Baldir  e  il 
bravo  chirurgo,  e  descrivono  la  vita  de'loro  tatari  per  ricompen- 
sare il  Bàlint  dello  zelo  posto  a  insegnare  ai  loro  paesani  il  greco^ 
il  latino,  il  francese.  Oltre  agli  astracanesi  poi  il  nostro  unghe- 
rese vede  spesso  altri  calmucchi  che  per  ragioni  di  commercio  ac- 
correvano a  un  bazar  che  è  a  un  miglio  dalla  città,  sopra  il  Volga, 
e  dove  hanno  ancora  e  chiesa  e  preti.  Quanto  si  meravigliavano 


568  UN   VIAGGIATORE   FILOLOGO. 

que'seinplici  mercanti  che,  fuori  di  Eussia,  ci  fosse  terra  iu  terra! 
che  un  nomo  di  altro  re  ilell'  occidente  studiasse  il  calmucco  !  E 
il  Bàlint  acquetarli  e  consolarli  affermando  che  di  quella  lingua 
non  può  far  senza  un  uomo  dotto,  un  erdem  hilitke. 

Di  Ica  esce  e  rimane  tra  gente  affine,  tra'  mongoli  ;  che  al  suo 
calmucco  lo  credono  un  torgot,  un  mongolo  di  Zungaria,  e  arriva 
ad  Urga  (o  Khuren,  se  si  vuole).  Per  la  via  paragona  e  impara, 
e  appena  giunto  trova  un  lama,  celebrato  per  la  eloquenza  tra 
i  suoi,  e  che  non  scrive  che  il  tibetano.  Solo  la  lingua  santa  è 
degna  che  altri  ci  si  affatichi  a  farla  durare  sulle  carte!  Anche 
di  questa  mezza  ignoranza  si  rallegra  il  Bàlint  e  profitta  ;  uomo 
non  corrotto  dalla  lingua  letteraria  parla  più  schietto  e  vivo  il 
mongolo  del  popolo.  Col  suo  lama  va  dunque  girando  il  magiaro, 
e  di  quante  cose  vede  domanda  il  nome,  e  ne  fa  lunghe  liste,  e 
i  racconti  del  suo  compagno  serba  con  fedeltà.  Il  quale  lo  aiuta 
ancora  a  ritradurre  nel  mongolo  dei  Khalkha  la  Leggenda  di 
Ghesscr  Khan,  libro  ben  conosciuto  e  studiato  in  Europa;  poi  gli 
narra,  come  nella  memoria  popolare  si  conserva,  parte  del  libro 
nero  di  Cinghiz  Khan,  e  gli  detta  la  maniera  di  fare  le  profezie 
usando  una  scapola  di  pecora,  e  finalmente  una  pittura  dei  costumi 
di  Mongolia.  Per  i  canti  nazionali  non  può  bastare  il  prete,  il  quale 
a  idee  sacre  travolge  la  parola  del  popolo;  ma  invece  egli  con- 
duce al  Bàlint  un  cherico  mongolo  che  più  canti  gli  dice  e  gl'in- 
rsegna;  benché  quegli  sperasse  trovare  più  ricca  vena  presso  a'  suc- 
■cessori  di  Cinghiz.  Non  basta  ;  a  Mai-mai-cin  e  a  Khuren  vengono 
spesso  mongoli  di  mezzodì  (i  Ciakhar)  e,  poiché  il  viaggio  tra- 
verso il  Gobi  è  penoso  e  lungo,  cercano  sbrigarsi  presto  delle 
merci  cinesi  e  del  grano  loro  che  portano  sopra  carri  a  due  ruote 
sa.  quali  attaccano  un  bue. 

Ma  se  il  Bàlint  non  ha  il  modo  di  studiarne,  nelle  brevi  sue 
visite,  la  lingua,  gode  sentirli  e  s'  accorge  che  dal  parlare  occi- 
dentale li  distingue  il  rammollimento  di  poche  consonanti.  A  Urga 
il  mongolo  non  basta  all'insaziabile;  e'  è  nella  scuola,  presso  al 
consolato,  un  maestro  di  mangese,  Vainté,  e  alle  prime  lezioni 
questi  si  accorge  che  di  quella  lingua  ringegnoso  scolare  si  oc- 
•cupò  già  molto  in  Europa  e  che  non  può  fargli  servigio  che  nel- 
l'avviarlo  a  più  esatta  pronuncia.  Invece  degli  uomini,  il  Bàlint 
pensa  a'  libri;  e  da  Pechino  gliene  provvedono,  anche  per  il 
mangese,  e  parte  li  studia,  parte  si  addestra  a  cavarne  più  tardi 
maggiori  vantaggi. 

Finiscono  i  tre  aimi  e  gli  studii,  e  badiamo  che,  parlando  agli 


UN   VIAGGIATOKE  FILOLOGO.  569 

accademici,  il  Bàlint  saltò  via  tutte  le  ricerche  fatte  a  Pietroburgo 
sulle  lingue  finniche;  così  che  di  questo  albero  fronzuto  egli  si 
arrampicò  a  quattro  rami,  il  finnico,  il  tatarico,  il  mangese,  il  mon- 
golo, da  tutti  spiccò  frutta,  e  vediamo  che  non   sono   immature. 

Non  avessimo  nelle  mani  le  prove  sicure,  molto  sarebbe  da 
augurare  di  bene  quando  un  uomo,  cosi  preparato  dalla  natura 
e  dagli  studii,  va  a  interrogare  la  voce  viva  degli  uomini,  a  cre- 
scere 0  scemare  forza  alle  testimonianze  dei  libri  e  a  farne.  Forse 
altri  scritti,  sfuggiti  a  me,  diede  fuori  il  s.  Bàlint;  ma  intanto 
annovererò  gli  Studi  sul  tataro  casanese  nei  quali  abbiamo  l'an- 
tologia, con  versione  magiara,  la  grammatica,  il  dizionario  {Bu- 
dapest, 1875-77)  la  Breve  relazione  sul  dialetto  dei  mongoli-huriati 
di  settentrione  (nel  decimo  terzo  volume  del  giornale  di  Hunfalvy) 
e  il  discorso  sopra  un  libro  mangese  intorno  ai  riti  sacri,  cioè  il 
Manjusai  vecere  metere  Jcooli  bithe,  che  è  nelle  Dissertazioni  filo- 
logiche pubblicate  per  cura  dell'Accademia  di  Pest  (1876). 

Molti  sono  i  chiamati  e  pochi  gli  eletti  :  molti  quelli  che, 
aiutati  dai  governi,  vanno  a  girare  il  mondo,  pochi  quelli  che  mo- 
strino di  aver  meritata  tanta  grazia. 

E.  Teza. 


VoL.  XIV,  Serie  II  —  1  aprile  1879.  35 


RASSEGNA  POLITICA 


Il  voto  della  ('amera  francese  sui  ministri  del  16  maggio.  —  La  proposta  di  tra- 
sferire la  Camera  a  Parigi.  —  Come  la  Russia  si  destreggi  nel  lasciare  la 
Rumelia.  —  La  nota  di  lord  Salisbnry  e  le  disposizioni  delle  potenze  verso  la 
Russia.  —  Quanto  sia  difficile  la  rettificazione  del  confine  greco.  —  I  tumulti 
di  Milano  e  di  Genova.  —  La  discussione  finanziaria  alla  Camera. 


Come  tutti  prevedevano,  la  proposta  di  mettere  in  accusa  i  ministri 
del  16  maggio  e  del  23  novembre  1877,  fu  dalla  Camera  francese  respinta 
a  una  grandissima  maggioranza,  essendo  stati  i  voti  contrari  317  e  i  fa- 
vorevoli 159,  E  se  alla  Camera  ci  fosse  stata  quella  serenità  di  spirito  e 
quella  tranquillità,  che  non  c'erano,  perchè  in  tal  caso  una  questione 
simile,  nonché  esser  risolta  in  un  modo  o  in  un  altro,  non  sarebbe  nem- 
meno nata,  la  cosa  avrebbe  dovuto  fermarsi  qui.  Ma,  come  suole  accadere 
in  mezzo  ad  animi  affannati  ed  accesi,  si  volle  a  questa  disgraziata  fac- 
cenda vedere  il  fondo,  cogliere  l'occasione,  per  quanto  poca  adatta,  di  mi- 
surare le  forze  dei  partiti  e  quelle  del  nuovo  Ministero  e,  mescolato  inop- 
portunamente il  presente  col  passato,  la  Camera  fu  trascinata  al  di  là  del 
fine  al  quale  avrebbe  dovuto  arrestarsi  col  suo  voto. 

I  ministri,  e  segnatamente  il  presidente  Waddington,  pure  professan- 
dosi per  ragioni  di  opportunità  risolutamente  avversi  alla  proposta  di 
accusa,  avevano  dichiarato  i  ministri  del  16  maggio  e  del  23  novembre 
colpevoli  di  un  reo  disegno  contro  la  Repubblica  e  di  atti  che  miravano 
a  compierlo,  accostandosi  con  ciò  non  solamente  alla  maggior  parte  della 
Sinistra,  ma  anche  ai  radicali.  Senza  di  questo,  se  il  signor  Waddington 
cioè  avesse  lasciato  sospettare  che  per  lui  il  duca  di  Broglio  e  il  generale 
De  Rochebonet  erano  innocenti,  il  Ministero  sarebbe  rimasto  soffocato  dalla 
tempesta  che  si  sarebbe  sollevata  nella  Camera.  Siccome  però  la  reità 
dei  vecchi  ministri  era  la  premessa  teorica,  nel  discorso  del  presidente 
Waddington,  mentre  la  conchiusione   pratica   era   l'assoluzione,  ne  segui 


RASSEGNA  POLITICA.  571 

che  Ogni  partito  s'accalorasse  per  trar  profìtto  di  quella  parte  del  ragio- 
namento elle  gli  giovava.  La  destra  si  attenne  alla  concliiusione  e  unen- 
dosi con  l'S7>  voti  alla  sinistra,  contribuì  a  clie  la  proposta  fosse  respinta  ; 
la  sinistra  s'appigliò  invece  alla  premessa  e  per  bocca  del  signor  Rameau 
propose  poi  un  ordine  del  giorno  di  biasimo,  che  venne  accolto  natural- 
mente da  una  maggioranza  molto  minore,  da  soli  -'17  voti. 

Riferiamo  questo  lungo  ordine  del  giorno  per  intero,  servendo  esso 
coll'asprezza  e  durezza  sua,  tanto  insolita  in  Francia,  dove  almeno  si  vo- 
gliono rispettare  molto  le  forme,  a  dare  un  concetto  chiaro  delle  disposi- 
zioni degli  animi  : 

«  La  Camelea  dei  deputati  prima  di  ripigliare  il  suo  ordine  del 
giorno  : 

»  Constata  una  volta  di  più  che  i  ministri  del  16  maggio  e  del  23  no- 
vembre hanno,  mercè  la  loro  colpevole  impresa  contro  la  Repubblica, 
tradito  il  Governo  che  servivano,  calpestate  le  leggi  e  le  libertà  pubbli- 
che, e  non  retrocessero,  dopo  di  aver  condotta  la  Francia  alla  vigilia 
della  guerra  civile,  se  non  di  fronte  alla  indignazione  ed  alle  virili  riso- 
luzioni del  paese; 

T>  Ma,  convinta  che  Io  stato  di  discredito  in  cui  essi  sono  in  oggi 
caduti,  permette  alla  Repubblica  vittoriosa  di  non  perdere  tempo  in  un 
processo  contro  nemici  ormai  colpiti  d'impotenza; 

»  Considerando  che.  a  porre  riparo  al  male  che  hanno  fatto,  la  Francia 
ha  bisogno  di  ealma  e  di  tranquillità  e  che  è  giunta  l'ora  pel  Parlamento 
repubblicano  di  consacrarsi  esclusivamente  alla  elaborazione  delle  grandi 
leggi  economiche  industriali  e  finanziarie  dal  paese  reclamate,  e  dalle 
quali  attende  lo  sviluppo  della  sua  ricchezza  e  della  sua  prosperità; 

»  Abbandona  al  giudizio  della  coscienza  nazionale,  che  li  ha  di  già 
solennemente  respinti,  i  disegni  e  gli  atti  criminosi  dei  ministri  del  \('>  mag- 
gio e  del  23  novembre. 

»  Invita  il  Ministro  degli  interni  a  fare  affiggere  la  presente  risolu- 
zione in  tutti  i  comuni  della  Francia.  * 

L'accogliere  la  proposta  di  accusa  sarebbe  stata  una  grande  impru- 
denza, poiché  avrebbe  risollevato  tutte  le  passioni  politiche,  sopite  colle 
ultime  elezioni.  Ad  ogni  modo  una  risoluzione  di  questo  genere,  per  quanto 
inopportuna  ed  improvvida,  sarebbe  riuscita  almeno  logica,  sebbene  la 
logica  si  fosse  fatta  valere  assai  tardi  presentandosi  sotto  le  spoglie  d'una 
vendetta  anche  più  che  sotto  di  quelle  della  giustizia.  Una  logica  rigorosa 
avrebbe  voluto  infatti  che  il  primo  atto  della  Camera  dopo  le  elezioni, 
con  cui  la  Francia  aveva  condannato  il  maresciallo  e  i  suoi  consiglieri, 
fosse  stata  appunto  quell'accusa,  che  meditata  e  indugiata  per  due  anni, 
veniva  a  perdere  ogni  valore  morale  e  a  parere  piuttosto  Io  sfogo  di  un 
rancore  partigiano,  che  la  soddisfazione  richiesta  dalla  legge  Nondimeno 
la  Camera  anche  dopo  il  lungo  ritardo,  sarebbe  stata  nei  termini  del  suo 


572  RASSEGNA   POLITICA. 

diritto  accogliendo  l'accusa,  e  se  non  avesse  meritato  lode  di  prudenza, 
non  sarebbe  incorsa  in  contraddizione  con  sé  medesima.  Ma  così  che  è 
avvenuto?  Che  i  ministri  del  16  maggio  e  del  2i  novembre  fossero  prima 
assolti  dall'accusa  di  un  tentativo  colpevole  contro  la  costituzione  e  tosto 
dopo  per  questo  stesso  titolo  condannati;  condannati  per  giunta  senza  pro- 
cesso, senza  sentirne  la  difesa,  senza  nessuna  delle  formalità  e  delle  gua- 
rentigie che  si  concedono  anche  ai  rei  più  manifesti  e  più  noti  L'ordine 
del  giorno  votato  dalla  Camera  si  risolve  infatti,  né  più  né  meno,  in  una 
sentenza  di  condanna,  nulla  o  poco  importando  che  la  pena  inflitta  sia 
piuttosto  un  biasimo,  cne  una  multa,  o  l'esilio,  o  il  carcere.  A  ciò  si  ag- 
giunga che  la  sentanza  era  data  da  un  tribunale,  che  non  aveva  compe- 
tenza, e  si  arrogava  un  potere  spettante  ad  altri. 

Queste  contraddizioni  furono  rilevate  in  due  proteste  separate  tanto  dai 
ministri  del  16  maggio  quanto  da  quelli  del  23  novembre,  indirizzate  al 
presidente  della  repubblica.  E  con  questo  si  va  dicendo  che  tutto  è  finito, 
e  gli  stessi  condannati  hanno  di  che  andarne  paghi,  essendo  loro  riuscito 
di  trarsi  d'impiccio  a  buon  mercato.  Ma  apparentemente  son  voci  messe 
fuori  dai  più  savi,  per  bisogno  e  desiderio  di  pace,  più  che  per  convinci- 
mento di  averla  ottenuta,  e  per  prevenire  maggiori  mali  L'inutile  offesa 
recata  alla  maggior  parte  dei  conservatori,  mentre  dall'altro  lato  strepi- 
tano e  picchiano  così  furiosamente  alle  porte  i  radicali,  lascia  una  traccia 
fra  i  primi  ed  è  un  nuovo  incoraggiamento  per  questi  ultimi,  i  quali  non 
ometteranno  sicuramente  di  prevalersene.  Ciò  è  come  dire  che  il  centro 
sinistro  resta  sempre  più  legato  colle  sue  condiscendenze  e  colla  sua  de- 
bolezza a  quelli  che  lo  minano,  e  per  troppa  prudenza  perde  l'autorità, 
rendendo  sempre  più  diffìcile  quella  conciliazione  tra  gli  uomini  di  governo, 
senza  la  quale  il  ministero  non  potrà  vivere  se  non  a  forza  di  condiscen- 
denze e  concessioni. 

Un  altro  indizio  di  questa  verità  fu  anche  la  deliberazione  presa  con 
•3S0  voti  contro  131  di  riunire  il  Congresso  per  rivedere  l'articolo  della 
Costituzione,  che  pone  a  Versailles  la  sede  delle  Camere,  e  trasferirle  a 
Parigi.  Per  quanto  la  cosa  si  riduca  fin  qui  all'esame  della  proposta,  si 
vede  già  a  che  fine  sia  volta.  Esaminare  la  proposta  vuol  dire  verosimil- 
mente accettarla,  essendo  diffìcile  che  quelli  che  non  trovarono  il  coraggio 
di  resisere  all'amnistia  e  di  opporsi  all'ordine  del  giorno Rameau  trovino 
ora  quello  molto  maggiore  di  contrastare  a  una  risoluzione  in  apparenza 
più  ragionevole,  qual  è  quella  che  le  Camere  abbiano  sede  nella  capitale. 
Il  ministero  non  vi  è  favorevole,  ma  forse  si  troverà  costretto  a  fingere 
di  esserlo;  il  centro  sinistro  non  saprà  far  di  meglio,  e  i  radicali,  vin- 
cendo ancora  e  vincendo  sempre,  non  si  risolveranno  a  fermarsi  da  sé 
medesimi  finché,  di  vittoria  in  vittoria,  non  sieno  giunti  al  potere. 

Intanto  le  cose  d'Oriente  accennano  ad  avvilupparsi  un'altra  volta.  La 
Russia,  dopo  aver  dichiarato  nel   trattato   separato  colla  Turchia,  senza 


RASSEGNA  POLITICA.  573 

necessità  e  col  bonario  intento  di  dare  una  soddisfazione  spontanea  all'In- 
ghilterra e  all'Europa,  di  volere  adempiere  al  trattato  di  Berlino,  rinun- 
ciando ai  preliminari  di  S.  Stefano,  torna  a  lavorare  sottomano  co'  suoi 
eterni  va  e  vieni  per  farli  rivivere,  o  almeno  per  mostrare  la  necessità 
che  rivivano  e  quanto  torto  abbiano  avuto  quelli  che  non  li  vollero.  Le 
voci  messe  in  giro  con  una  lunga  e  lenta  costanza  dai  giornali  russi  e 
devoti  alla  Russia,  e  ora  affermate,  ora  smentite,  un  giorno  di  congressi 
che  debbano  rivedere  il  trattato  di  Berlino,  un  altro  di  convegni  di  am- 
basciatori incaricati  di  riesaminare  certi  punti  tuttavia  dubbi,  un  terzo 
di  nuove  e  inopinate  difficoltà  che  sorgono  in  Romelia,  mirano  evidente- 
mente ad  abituare  l'opinione  pubblica  a  quest'idea,  che  la  questione  d  Oriente 
non  è  finita,  essendo  stata  dall'Europa  recisa  a  mezzo  e  finita  male.  Il 
gabinetto  di  Pietroburgo  naturalmente  non  apre  bocca  per  lagnarsi  di  nulla. 
Tutt'altro;  il  governo  russo  ha  assunto  di  recente  degli  impegni  formali 
dinanzi  all'Europa  e  non  si  propone  che  di  soddisfarvi  lealmente.  Le  lagnanze 
però  escono  da  altre  bocche,  nelle  quali  egli  ha  l'incomodo  di  mettere  il 
flato;  per  esempio  dall'assemblea  costituente  della  Bulgaria  radunata  a 
Timova  sotto  la  sua  protezione,  che  in  luogo  di  attendere  seriamente  al 
suo  ufficio  di  ordinare  il  paese,  vota  indirizzi  di  ringraziamento  al  prin- 
cipe Dondukofi'-Korsakoff,  il  suo  ispiratore,  e  si  duole  che  il  paese  i^ap- 
presentato  da  lui  sia  piccolo,  aggravato  di  immense  spese,  sotto  la  conti- 
nua minaccia  dei  Turchi,  che  avranno  diritto  di  tener  guarnigione  nei  passi 
dei  Balkan,  tale  insomma  che  gli  manca  il  respiro,  nonché  possa  prepa- 
rarsi a  una  vita  alacre  ed  operosa,  quale  parrebbe  doverle  promettere  la 
sua  gioventù. 

Tutto  questo  però  non  basta.  I  Russi,  sapendo  pure  di  dovere  abban- 
donare la  Romelia  orientale  e  restituirla  alla  Porta,  alimentarono  fino 
all'ultimo  fra  le  popolazioni  per  mezzo  dei  loro  agenti  l'illusione,  ch'esse 
avrebbero  potuto  essere  unite  alla  Bulgaria,  come  la  Russia  aveva  otte- 
nuto nei  preliminari  di  Santo  Stefano.  Con  ciò  la  Russia  parlando  a  un 
modo  e  operando  a  un  altro,  nutrendo  speranze  e  seminando  odi,  pre- 
para al  ritorno  dei  Turchi  difficoltà,  che  possono  diventare  insuperabili  e 
dare  origine  a  nuovi  moti  rivoluzionari  e  nuovi  massacri,  a  maggior 
gloria  della  sua  mal  paga  ambizione.  Ciò  per  non  dire  che  la  Russia  ha 
conseguito  il  suo  scopo  e  la  rivoluzione  è  già  incominciata  coi  tumulti, 
coi  quali  viene  accolto  dovunque  il  signor  Schmidt,  il  disgraziato  agente 
europeo  per  l'assestamento  delle  finanze,  in  cui  i  Bulgari  della  Romelia, 
come  disse  il  Journal  des  Débats,  vedono  persoìiificato  il  trattato  di 
Berlino. 

Ciò  posto,  è  duro  a  capire,  come  perfino  da  ultimo  si  sia  dato  voce 
di  accordi,  o  almeno  di  intelligenze  amichevoli,  fra  l'Inghilterra  e  la  Rus- 
sia. Voci  di  questo  genere,  in  mezzo  ai  fotti  sopraccennati,  non  possono 
essere  se   non  un'eco  tardiva  e  smarrita   del  trattato  della  Russia  colla 


574  KASSEGNA   POLITICA. 

Turchia,  o  più  probabilmente,  far  parte  di  quel  lavorìo  poco  onesto,  con 
cui  i  giornali  al  servizio  del  gabinetto  di  Pietroburgo  s'arrabattano  a  far 
confusione  riferendo  ogni  cosa  a  rovescio  di  quel  che  è.  La  situazione  vera 
apparisce  infatti  in  modo  manifesto  dalla  Nota  di  lord  Salisbury  all'am- 
basciatore inglese  a  Pietroburgo,  fatta  pubblicare  dal  conte  Andrassy  nella 
Politische  Correspondenz  di  Vienna  col  proposito  di  tor  via  gli  equivoci. 
Nota  a  cui  potrebbero  servir  di  commento,  ss  ci  fosse  bisogno,  le  parole 
di  sir  Elliot,  ambasciatore  inglese  a  Vienna:  «  Al  bisogno  noi  sapremo 
mostrarci  più  Turchi  della  Turchia  e  più  Europei  dell'Europa.  » 

La  Nota  di  lord  Salisbury  riguarda  le  difficoltà  incontrate  dalla  Com- 
missione internazionale  per  l'esecuzione  del  trattato  di  Berlino  in  Bulga- 
ria e  le  spiega  coli' opposizione  fatta  dai  delegati  russi  a  quelli  di  tutte 
le  altre  potenze,  i  quali  invece  si  trovarono  d'  accordo  insieme.  Ma  la 
parte  più  conclusiva  del  documento  è  quella  clie  si  riferisce  alforganiz- 
zazione  della  milizia  lucale  che,  secondo  lord  Salisbury,  accenna  chiara- 
mente alla  segreta  intenzione  di  eccitar  le  popolazioni  a  un'opposizione 
attiva  all'adempimento  del  trattato  di  Berlino.  Queste  milizie  vengono 
infatti  istruite  con  ardore  da  ufficiali  russi,  mentre  non  si  vede  qualj  uti- 
lità lecita  la  Russia  aspetti  da  quest'esercito,  dovendo  tra  poco  lasciare 
il  paese.  Inoltre  lord  Salisbury  deplora  che  il  governo  della  Romelia  sia 
ancora  oggi  tutt'uno  con  quello  della  Bulgaria,  quando  dovrebb' esserne 
separato,  e  conchiude  chiedendo  che  le  reggenza  provvisoria  dell'una  venga 
separata  dalla  stabile  e  duratura  dellaltra,  e  l'ordinamento  delle  milizie 
sia  fatto  in  modo,  da  preparare  l'adempimento  degli  impegni  assunti  dalle 
potenze  a  Berlino,  in  luogo  di  contrastarvi. 

La  risposta  del  principe  Gortciakoff  fu,  quale  si  poteva  aspettare,  la 
conferma  della  sua  politica  diplomatica  e  ufficiale  Egli  dichiarò  che  nella 
Nota  di  lord  Salisbury  non  c'era  cosa  che  non  convenisse  colle  vedute 
della  politica  russa,  la  quale  voleva  apputo  come  Tlngliilterra  l'adempi- 
mento del  trattato  di  Berlino.  Qualche  discrepanza  possibile  non  sarebbe 
derivati  se  non  dalla  sua  interpretazione,  la  quale  al  principio  sembra 
tale  da  consentirgli  di  chiedere  protezione  per  le  popolazioni  liberate.  Per 
modo  che  si  ritornerebbe  ora,  dopo  una  gran  guerra  e  un  congresso  so- 
lenne e  due  trattati  di  pace,  al  punto  di  circa  quattro  anni  fa,  quando 
tutte  queste  cose  non  c'erano  state,  alle  garanzie  contro  la  malafede  e  i 
soprusi  turchi,  che  la  Russia  chiedeva  per  gli  Slavi  all'Europa. 

Buon  per  tutti  però,  che  se  la  Russia  non  apparisce  farsi  un  gran 
carico  di  ciò  che  avvenne,  ne  tengono  conto  per  lei  tutti  gli  altri,  dietro 
l'esempio  e  la  guida  dell'Inghilterra.  Colla  pubblicazione  della  Nota  di 
lord  Salisbury,  che  svela  la  doppia  polìtica  del  gabinetto  di  Pietroburgo, 
r  Austria  ha  mostrato  di  uscire  dalle  sue  affannose  perplessità,  per  ac- 
costarsi alla  politica  inglese.  A  questo  suo  passo  molto  meditato  e  tar- 
divo contribuirono   certamente  non  poco  le  migliori   disposizioni  de'  suoi 


RASSEGNA   POLITICA.  575 

due  parlamenti  acconciatisi  via  via  alla  politica  spettatrice  da  prima  e 
poi  invasiva  del  conte  Andrassy.  Ma  ciò  stesso  non  basterebbe  a  dare 
spiegazione  del  suo  coraggio  che  proviene  evidentemente  da  un  altro  fatto, 
dalla  sicurezza  che  dietro  di  lui  sta  la  Germania.  La  quale,  per  quanto 
benevola  verso  la  Russia  e  legata  a  lei  da  moltiplici  necessità  prima 
e  dopo  la  guerra  colla  Francia,  non  è,  né  potrebbe  essere  in  nessun  caso 
disposta  a  seguirla  nelle  sue  ambizioni  illimitate,  senza  commettersi  a 
una  politica  sentimentale  ed  imprevidente,  che  le  scemerebbe  autorità  ed 
influenza. 

Ciò  è  come  dire  che  vien  disegnandosi,  non  già  un'alleanza,  non  un 
accordo,  che  in  caso  diventerebbe  più  intimo.  Ira  l' Inghilterra,  l'Austria  e 
la  Germania,  e  da  cui  la  pace  d'  Europa  è  assicurata  meglio  che  non  dalle 
Note  del  principe  Gortciakoff.  Contribuiscono  a  rassodarla  le  condizioni  delle 
finanze  russe,  le  sue  sètte  di  socialisti  e  di  nihilisti,  le  sue  congiure,  la 
sua  stanchezza  finta  in  parte  per  quel  suo  gusto  istintivo  di  fare  il  morto 
per  addormentare  l'Europa,  ma  in  parte  anche  vera.  Però  la  rafferma 
anche  più  il  risoluto  contegno  dell'  Inghilterra,  a  cui  s'accostano  visibil- 
mente l'Austria  e  la  Germania.  È  questa  la  ragione  principale  per  cui 
appena  si  parla  di  documenti  diplomatici,  che  in  altri  tempi  sarebbero 
sembrati  minacciosi,  e  il  mondo  ad  onta  di  essi  riposa  fidente  e  tranquillo. 

Le  cose  d'Oriente  non  sono  assestate  in  modo  definitivo;  altri  moti  di 
popoli  e  tumulti  e  sanguinose  vendette  sono  sempre  possibili,  dove  co- 
vano antichi  odi  istigati  e  rinfocolati  da  artifizi  nuovi.  Ma  ad  onta  di 
questo,  si  può  presumere  che  le  passioni  che  s'agitano  in  questo  disgra- 
ziato paese  non  comprometteranno  per  molti  anni  la  tranquillità  dell'Eu- 
ropa, la  quale  avendo  veduto  nella  prova  fatta  dall'  Inghilterra,  gli  effetti 
di  due  opposte  politiche  verso  la  Russia,  sa  ormai  delle  due  quale  sia  più 
efficace. 

Lo  strascico  più  grave  ormai,  finite  le  questioni  del  Montenegro, 
delia  Serbia  e  della  Rumenia,  la  più  grave  difficoltà,  diciamo,  dopo  di  quella 
dello  sgombero  dei  Russi  dalla  Rumelia  e  della  restituzione  di  questa  provincia 
alla  Porta,  è  la  famosa  rettifica  della  frontiera  fra  la  Turchia  e  la  Grecia. 
La  povera  Grecia  è  la  figlia  derelitta  delle  potenze,  le  quali,  l' Inghilterra 
segnatamente,  dopo  di  averla  tenuta  a  bada  con  grandi  promesse  nella 
migliore  occasione  che  avesse  mai  di  soddisfare  a'  suoi  lunghi  voti,  la  pa- 
garono nel  trattato  di  Berlino  con  un'  altra  promessa,  che  al  bisogno 
potrà  essere  un'altra  volta  prorogata.  Da  più  di  due  mesi  le  potenze  no- 
minarono una  Commissione  per  conferire  coi  delegati  della  Turchia,  ma 
questi  prima  non  giunsero  a  Janina  in  tempo,  poi  giunsero,  al  solito,  senza 
istruzioni,  e  in  fine  le  cose  rimasero  come  prima.  Una  difficoltà  delle  più 
semplici  e  gravi  insieme,  è  che  la  Grecia  vorrebbe  ottenere  molto  e  la 
Porta  conceder  poco.  Ma  il  peggio  è  ancora  che  nessuna  delle  potenze, 
tolta  la  Francia,  prende  la  cosa  sul  serio.  La  Russia  non  ha  interesse  di 


576  RASSEGNA   POLITICA. 

tirar  su  la  Grecia  dove  un  giorno  potrebbe  mettere  il  piede  lei,  né  diver- 
samente apparisce  all'Austria,  dopoché  la  politica  del  conte  Andrassy  fini 
coU'essere  approvata  dai  parlamenti  ed  è  conforme  agli  intendimenti  della 
Germania.  All'Inghilterra  poi  parrebbe  di  lavorare  contro  sé  stessa  ado- 
perandosi a  indebolire  la  Turchia.  Di  qui  le  fortunate  tergiversazioni  della 
Porta,  e  il  vano  sperare  e  piccLiare  della  Grecia,  che  avrà  molto,  ma  molto 
a  fare  per  ottenere  qualche  cosa,  e  a  lagnarsi  e  dolersi  per  un  gran 
pezzo,  senza  che  i  suoi  lamenti  commuovano  la  sorda  Europa. 

Del  rimanente  la  quindicina  fu  riempita  dai  cementi  sulla  poco  com- 
presa crisi  spagnuola  e  sul  contemporaneo  scioglimento  della  Camera  ;  dalla 
crisi  ministeriale  dell'Egitto,  dove  il  viceré  vorrebbe  liberarsi  dal  prodo- 
minio dei  ministri  inglesi  e  francesi  e  riacquistare  la  sua  indipendenza 
sostituendo  loro  ministri  nazionali  ;  devoti  alla  sua  persona,  e  ripigliando 
il  pagamento  degli  interessi;  e  in  fine  dalle  novelle  delTAfganistan,  dove 
parvero  dileguarsi  le  speranze  di  pace  concepite  dagli  Inglesi,  dei  quali 
l'emiro  non  si  mostrerebbe  disposto  ad  accettare  le  condizioni.  Tutte  que- 
ste faccende  però,  molto  notabili  per  altri,  non  importano  gran  fatto  all'Ita- 
lia, intenta  da  mesi  ormai  a  due  sole  cose  sue  proprie;  alle  sue  finanze 
■e  al  crescei'e,  ora  palese,  ora  nascosto,  al  dileguarsi  momentaneo  e  all'im- 
provviso riapparire  di  gente  torbida,  che  con  un  nome  o  con  un  altro  co- 
glie tutti  i  pretesti  per  far  chiasso  e  imporsi,  se  fosse  possibile,  colla  vio- 
lenza alla  immensa  maggioranza  del  paese  che  la  ripudia. 

Non  fu  prova  di  molta  imparzialità  e  tranquillità  di  spirito  1'  asser- 
zione che  la  causa  dei  tumulti  di  Milano,  di  Genova  e  di  altre  città  minori 
si  debba  cercare  nel  compromesso  conchiuso  da  ultimo  fra  il  ministero  e 
il  gruppo  dell'on.  Cairoli,  tanto  per  salvare  nella  discussione  sulle  finanze 
il  partito.  Che  persone  come  quelle  che  tumultuano  per  la  strada  e  si  bat- 
tono coi  carabinieri  per  portare  intorno  una  bandiera,  odorino  così  presto 
le  sottili  combinazioni  dei  partiti  alla  Camera,  é  una  supposizione  troppo 
arrischiata  per  essere  vera.  Ma  ben  è  vero  che  disordini  di  questo  genere 
non  possono  se  non  indebolire  un  ministero  già  per  sé  poco  forte  e  che 
deve  'a  pi'opria  vita  precisamente  alla  volontà  della  Camera  e  del  paese, 
ch'essi  fossero  non  solamente  repressi,  ma  prevenuti.  Il  ministero  Depretis 
é  sorto  precisamente  con  questo  mandato,  si  resse  fino  ad  ora  perché  parve 
risoluto  a  soddisfarvi,  e  non  potrebbe  cominciare  comunque  a  venirvi 
meno,  senza  che  gli  crollasse  sotto  la  sua  base.  Far  rispettare  la  legge  e 
le  istituzioni  dello  Stato  e  mantenere  l'ordine  pubblico  é  il  primo  di  tutti 
i  doveri  per  qualunque  governo;  ma  é  il  primissimo  per  un  Ministero, 
che,  per  un  insieme  di  accidenti  inutili  a  ricordare,  ha  in  questo  ufficio  le 
ragioni  speciali  della  sua  origine  e  della  sua  vita 

Certo  é  ingiusto  il  rovesciare  sopra  il  governo  la  responsabilità  di 
tutto  quello  che  accade.  Il  Ministero  Depretis  non  desidera  i  chiassi  e  i 
tumulti  più  che  qualunque  altra  persona  la  più  ragionevole  e  tranquilla. 


K ASSEGNA  POLITICA.  577 

Anche  questo  però  non  basta,  essendo  opinione  troppo  comune  clie  certi 
fatti  non  avvengano,  quando  si  sappia  come  il  governo  l'intende  e  non  si 
presuma,  o  non  si  speri,  che  possano  esser  tollerati.  E  lo  si  sa  poi  chia- 
ramente, quando  esso  faccia  il  debito  uso  del  suo  diritto  e  del  suo  dovere 
di  prevenire,  sia  convinto  che  questo  diritto  gli  spetta  e  questo  dovere 
gl'incombe,  e  adoperi  l'uno  e  adempia  all'altro,  senza  esagerazioni  di  zelo, 
ma  con  quella  fermezza,  che  toglie  gli  equivoci  e  non  consente  illusioni.  E 
queste  e  quelli  invece  pullulano  e  s'alimentano,  quando  il  governo  si  limita 
a  dire  a  chi  ha  intenzione  di  compromettere  la  quiete  pubblica,  che  li 
denuncerà  all'autorità  giudiziaria,  una  frase  che  non  ha  chiaro  senso, 
poiché  l'autorità  giudiziaria,  nei  reati  d'ordine  pubblico  appunto,  procede 
da  sé  senza  bisogno  di  denunzia,  e  fa  credere  che  il  governo,  per  mante- 
ner l'ordine,  abbia  bisogno  di  diventare  un  querelante  privato. 

Quanto  alle  finanze,  la  discussione  é  proceduta  Ano  a  qui  assai  calma 
in  virtù  dei  preventivi  accordi  passati  fra  il  Ministero,  la  maggioranza 
della  Commissione  e  il  gruppo  Cairoli,  accordi  che  servendo  molto  al  par- 
tito, non  serviranno  altrettanto  ad  accrescere  la  fiducia  del  pubblico  verso 
le  conclusioni.  Due  fatti  però  furono  posti  in  chiaro  dal  Ministro  delle 
finanze,  per  quanto  egli  si  sia  sforzato  di  accostarsi  alla  maggioranza. 
della  Commissione  e  di  dispiacere  il  meno  possibile  al  gruppo  Cairoli.  Il 
primo  che  i  60  milioni  di  avanzo,  preveduti  dall'on,  Seismit-Doila  restat<i 
passata,  si  riducono  a  14;  il  secondo  che,  data  l'abolizione  del  macinato, 
volendo  sopperire  all'  immenso  vuoto  che  questa  lascia  nelle  nostre  fi- 
nanze, sarà  inevitabile  di  ricorrere  a  nuove  imposte,  alcune  delle  quali 
furono  anche  da  lui,  con  poca  soddisfazione  della  maggioranza,  annunciate. 
I  più  vorrebbero  manifestamente  abolire  le  imposte,  aumentare  le  spese, 
conservare  il  pareggio  e  avere  anche  degli  avanzi;  ma  il  santo  ministro 
operatore  di  questi  miracoli  ancora  non  s' è  trovato.  E  perciò  nulla 
apparisce  più  lagrimevole  dal  vedere  abolire  per  pura  ostinazione  di  parte 
quei  1">  milioni  di  macinato  sul  grano,  che  tutti  pagano  senza  avvedersene 
e  che,  per  giunta  dopo  l'abolizione  pagheranno  ugualmente  ai  fornai  invece 
che  al  governo,  per  ispremerli  dagli  zuccheri,  dagli  alcool  e  dai  dazi, 
opprimendo  i  fabbricatori  e  aumentando  il  malcontento  delle  città.  Non  si 
intende  poi  come  annunciandosi  sempre  avanzi,  si  sieno  alienati  da  tre 
anni  in  qua  124  milioni  di  rendita,  o  in  altri  termini  si  sieno  fatti  12-1 
milioni  di  debiti.  Ne  abbiamo  ad  esuberanza,  ma  viceversa  poi  ce  ne  mancano. 
Tale  è  l'effetto  della  comoda  usanza  di  inscrivere  certe  spese  fuori  del 
bilancio! 

Tutto  considerato,  la  discussione  di  questi  giorni  non  è  sufficiente  a 
dissipare  i  dubbi  sorti  sulle  condizioni  della  nostra  finanza  da  un  anno  in 
qua.  Alcun  che  di  meno  impreciso,  quantunque  anche  di  meno  lusin- 
ghiero, si  seppe,  ma  non  abbastanza,  per  vedere  chiaro  dove  siamo  e  dove 
andiamo  coU'abolizione  del  macinato  e  le  nuove  imposte.  Perciò  nulla  di  più 


578  RASSEGNA   POLITICA. 

ragionevole  della  proposta  di  riservare  il  giudizio  al  tempo  in  cui  si  po- 
tranno valutare  questi  ed  altri  elementi  ancora  ignoti,  fra  gli  altri  le  spese 
per  le  nuove  costruzioni  ferroviarie.  Senza  di  questo ,  approvando  o 
disapprovando  una  conchiusione  qualunque,  la  Camera  verrebbe  a  dire  di 
saper  ciò  che  ignora,  di  conoscere  la  somma  ma  non  le  cifre  che  entrano 
a  formarla,  pronunciando  un  voto  politico  di  nessun  valore  per  la 
finanza. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 


LETTERATURA 

Raccolta  di    proverbi    veneti,    fatta    da    Cristoforo    PASQUALIGO.  — 

Venezia,  Istituto  Colletti,  1879. 

I  proverbi,  come  dice  l'autore,  sono  documenti  storici  della  vita 
fisica,  morale  e  intellettuale  di  un  popolo;  sono  la  pittura  che  un  popolo 
fa,  di  se  stesso,  e  la  più  esatta  e  fedele,  perchè  vi  si  rivela  e  vi  si  di- 
pinge senza  proporselo  e  senza  avvedersene.  Nei  proverbi  esso  vi  fa  sa- 
pere com'  egli  la  intenda  circa  i  costumi  e  le  usanze  sue  e  degli  altri, 
circa  le  virtù,  i  vizi,  i  difetti,  le  passioni  e  le  atfezioni,  e  circa  le  donne, 
il  matrimonio,  la  famiglia,  gli  amici,  e  l' arte  e  la  prudenza  del  vive- 
re, giudicando  di  tutto  coli' esperienza,  e  mostrandosi  filosofo  e  pensa- 
tore. Che  se  anche  i  proverbi,  come  i  canti  popolari,  dovettero  uscire 
la  prima  volta  dalla  bocca  di  un  individuo,  il  popolo  coll'adottarli,  col 
farli  suoi  e  col  conservarli  mostrò  che  li  giudicava  corrispondenti  alla 
sua  coscienza  e  vi  si  sentiva  rappresentato.  Di  qui  il  loro  valore  di  espe- 
rienza universale,  di  esperienza  dei  secoli  e  l' importanza  delle  raccolte 
ormai  numerose  in  Italia  e  fuori  simili  a  questa  dell'onor.  Pasqualigo  per 
i  proverbi  della  Venezia. 

La  raccolta  di  cui  parliamo  è  già  alla  sua  seconda  edizione,  ed  esce 
arricchita  di  molti  proverbi  e  di  note  sagaci  e  preziose.  Fra  note  illu- 
strative e  proverbi  è  un  libro  che  si  legge  con  piacere  e  con  frutto,  fa- 
cendo conoscenza  intima  con  popolazioni  sveglie  e  argute,  coi  suoi  dialetti 
briosi,  col  suo  modo  non  molto  ideale,  ma  pratico,  di  considerare  gli  uo- 
mini e  le  cose  umane.  Per  quanto  sia  vero,  che  l'esperienza  degli  altri 
non  giova,  si  impara  da  questo  libro  più  che  da  un  trattato  di  filosofia, 
e  più  che  da  una  storia.  Di  una  sola  cosa  esso  ci  lascia  desiderio,  dei 
proverbi  friulani,  che  non  sappiamo  perchè  il  diligente  Autore  non  abbia 


580  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO. 

cercato  di  unire  agli  altri,  per  dare  un'idea  più  completa  delle  provincia 
venete.  Ci  sono  i  trentini  e  i  bellunesi,  e  perchè  non  anche  i  friulani? 
Forse  l'autore  ne  fu  distolto  o  dal  timore  delle  ripetizioni,  o  dalle  dif- 
ficoltà del  dialetto  per  la  maggior  parte  degli  stessi  Veneti. 

Sull'inseguamento  delle  ling'ue  classiche,  di  F.  G.  FUMI,  prof,  di  glottolo- 
gia all'Università  di  Palermo. 

«  Il  lagnarsi  a  torto  o  a  ragione  di  tutto  e  di  tutti  è  un  vezzo  gene- 
rale e  fra  noi  una  seconda  natura;  sicché  appena  uno  dall'occhio  fino  ha 
veduto  il  pelo  nell'uovo  e  strombazzato  colla  voce  grossa  la  magagna  sco- 
perta, è  sicuro  di  tirarsi  dietro  il  coro  dei  plaudenti,  i  quali,  alla  loro  volta 
si  fanno  banditori  del  nuovo  guaio  e  tanto  sbraitano  e  s'affannano,  che  il 
volgo  s'induce  in  buona  fede  a  schiamazzare  con  essi.  »  Questa  poco  felice 
inclinazione  nostra  dà  origine,  secondo  1'  Autore,  a  due  opposti  ordini  di 
detrattori  degli  studi  classici  come  sono  ordinati  al  presente:  ai  detrattori 
del  latino  e  del  greco,  a  quelli  che  considerano  queste  lingue  come  inutili 
e  non  vorrebbero  nei  giovani  altre  cognizioni  che  quelle  per  mezzo  delle 
quali  possano  poi  guadagnarsi  il  pane;  e  ai  fanatici  loro  fautori,  che  ban- 
direbbero dalle  scuole  la  matematica,  le  scienze  naturali,  la  geografia,  cau- 
se, secondo  loro,  di  i^ervertìmento,  o  almeno  di  distrazione;  quelli  troppo 
teorici,  troppo  moderni,  troppo  grettamente  e  ciecamente  utilitari,  questi 
ligi  alla  tradizione,  innamorati  delle  loro  reminiscenze  giovanili,  figli  troppo 
devoti  dei  Barnabiti,  degli  Scolopi  e  dei  Gesuiti. 

Ma  il  peggio  è,  secondo  l'autore,  che  in  due  classi  consimili  si  divi- 
dono anche  gii  insegnanti.  I  quali  naturalmente  non  sono  in  vero  o  amici 
0  nemici  degli  studi  classici,  ma  amici  o  troppo  moilerni  o  troppo  vec- 
chi; quelli  tutta  filologia,  tutta  erudizione  linguistica,  e  discussioni  sui  te- 
sti, ecc ,  questi  tutta  grammatichetta  pedantesca  e  noiosa  ed  esercizi  in- 
terminabili e  peggio,  regole  mal  comprese  e  male  applicate,  che  rendono 
odiose,  non  solamente  le  lingue  classiche,  ma  molte  volte  qualunque  studio. 
L'autore  scstiene  la  necessità  delle  lingue  classiche  come  fondamento  di 
qualumiue  solida  coltura,  e  solamente  desidererebbe  tale  conciliazione  nei 
metodi  di  insegnarle,  che  non  rivelasse  un  profondo  dissidio  tra  il  vecchio 
e  il  nuovo,  non  desse  origine  a  così  opposte  lagnanze  e  permettesse  di 
sperar  dagli  studi  maggior  profitto. 

E  fin  qui  niente  a  dire.  Ma  quello  che  ci  sorprese  e  ci  parve  non  accor- 
darsi punto  con  tutto  il  resto,  fu  il  veder  l'autore  buttarsi  anche  lui,  per 
amore  di  conciliazione,  alla  proposta  indarno  vecchia  e  indarno  sperimen- 
tata dannosa  in  Francia,  della  scuola  unica  di  tre  anni  dopo  l'elemen- 
tare e  quindi  della  biforcazione;  senza  considerare  che  in  tal  modo  sarebbe 
dato  un  colpo  mortale  agli  studi  classici,  dei  quali  egli  è  pur  fautore,  che 
andrebbero  perduti,  per  gli  alunni  che  s'avviassero  poi  al  ginnasio,  appunto 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  581 

quei  tre  primi  anni,  nei  quali  egli  stesso  confessa  che  imparano  qualche 
cosa  più  che  negli  altri,  che  si  toglierebbe  loro  quella  preziosa  ginnastica 
intellettuale  ch"è  lo  studio  della  grammatica  d'una  lingua  antica.  Aggiun- 
gasi che  gli  alunni  che  vanno  al  ginnasio,  appartengono  a  una  classe  so- 
ciale diversa  da  quelli  che  vanno  alla  tecnica,  e  l'amalgamarli  servirebbe  a 
farne  fuggire  una  parte,  che  si  riceverebbe  nelle  scuole  private,  produ- 
cendo per  gli  altri  una  miscela,  dalla  quale  non  si  sa  che  vantaggio  o 
che  frutto  si  potesse  aspettare.  Se  ora  gli  alunni  di  ginnasio  imparano  poco, 
levati  tre  anni  al  latino  imparerebbero  molto  meno,  e  i  nemici  di  questa 
lingua  avrebbero  vinta  la  loro  causa  contro  gli  stessi  desideri!  e  i  propositi 
dell'Autore.  Allora  potrebbero  dire  davvero  che  questa  è  uno  studio  inutile, 
e  poiché  avrebbero  ragione,  bisognerebbe  finire  col  dire  loro  che  l'hanno. 

In  questa  parte  dell'ordinamento  o  della  riforma  degli  studi  classici,  il 
lavoro  del  prof  Fumi  zoppica  alquanto,  non  essendo  cosa  da  risolvere  così 
alla  spiccia  com'egli  fece.  Per  tutto  il  resto,  e  singolarmente  per  quanto 
riguarda  il  metodo,  è  un'esposizione  esatta,  e  piena  di  verità  E  poi  tanto 
ordinata  e  lucida,  che  non  si  può  esimersi  da  una  certa  maraviglia  nel  ve- 
dere un  uomo  di  testa  chiara,  come  si  mostra  l' autore,  trattai'e,  a  dire 
la  parola,  con  leggerezza  il  soggetto  principale  risolvendo  una  questione 
importantissima  con  così  pochi  argomenti  contro  le  sue  inclinazioni  e 
contro  sé  stesso. 

POLITICA 

Pensieri  politici,  di  GirsEPPE  FERRARELLI. —  Napoli,  De  Angelis.  1879. 

Di  rado  ci  è  accaduto  di  vedere  un  libro  tanto  piccolo  e  che  contenesse 
tante  verità,  offerendo  in  poche  pagine  la  prova  indubitabile  di  una  dot- 
trina non  comune  e  di  una  testa  molto  chiara.  L' autore  comincia  dal  ricer- 
care la  libertà  che  ci  manca,  dopo  le  tante  che  abbiamo,  e  vede  venirci  menu 
quella  dell'  intelligenza,  l' abitudine  cioè  del  dubbio ,  e  V  inclinazione  a 
esaminare  e  a  pensare,  piuttosto  che  a  credere.  Ciò  premesso,  considera  la 
politica  dei  Romani,  quella  dei  Veneziani,  quella  del  Machiavelli,  e  gli 
appariscono  tutte  guidate  dal  sentimento  della  necessità  del  conservare 
derivata  dallo  studio  dei  fatti,  o  piuttosto  da  una  vita  sotto  il  continuo  do- 
minio dei  fatti,  e  dalla  persuasione  profonda  e  quasi  istintiva,  che  le  muta- 
zioni sociali  avvengono  assai  lentamente,  come  quelle  della  natura.  Perciò 
chiunque  si  sforza  a  produrvi  dei  cangiamenti  rapidi  per  mezzo  di  leggi 
che  non  s'  accordano  colle  tradizioni  storiche  e  ispirate  da  principii  teoretici 
e  ideali,  non  solamente  fa  opera  vana,  ma  incontra  una  resistenza,  che  ri- 
cade sopra  di  lui. 

<  La  moderna  scienza  politica,  dice  1'  autore  a  pag.  34,  ha  visti  gl'in- 


582  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO. 

timi  legami  che  ci  sono  fra  essa  e  le  scienze  naturali.  Appuntx)  perciò, 
come  in  tali  scienze  si  è  proceduto,  rispetta  i  fatti  e  li  assume  per  punto 
di  partenza  delle  sue  investigazioni.  Da  tali  investigazioni  ha  desunto  che 
le  trasformazioni  nella  società  accadono  costantemente,  ma  anche  lentissi- 
mamente, e  per  conseguenza  ha  veduto  i  limiti  della  potenza  degli  statisti, 
delle  leggi  e  degli  organismi  politici.  La  moderna  scienza  politica  non  spegne 
la  fede  nel  progresso ..  ma  la  sua  fede  è  temperata  dal  dubbio,  è  la  fede 
circoscritta  di  chi  pensa...  La  moderna  scienza  poUtica  non  è  radicale,  perchè 
il  radicalismo  è  il  passato  ..  e  il  radicalismo  è  il  passato,  perchè  è  l'indagine 
primitiva  e  superflciale,  è  l' indagine  arrestata  alle  forme  e  non  penetrata 
ancora  nella  sostanza.  La  moderna  scienza  politica  non  è  astratta,  visio- 
naria, dottrinaria,  ideologa,  metafisica,  giacobina.  » 

Dalle  considerazioni  generali  l' autore  viene  poi  alle  applicazioni,  pren- 
dendo in  esame  la  politica  seguita  in  Italia  dal  1860  ad  oggi,  e  trova  che 
troppi  cangiamenti  si  fecero  e  con  troppa  impazienza,  perchè  avessero  potuto 
non  turbare  profondamente  il  paese,  e  dare  copiosi  frutti. 

Egli  deplora  il  dispiezzo  mostrato  a  tutte  le  istituzioni  regionali  e  la 
violenza  usata  per  conseguire  una  unificazione  alla  francese  che  non  va 
oltre  alla  forma,  le  improvvide  e  audaci  teorie  indarno  tramutate  in  leggi 
e  la  mancanza  di  senso  pratico,  con  cui  si  rimescola  di  continuo  ogni  cosa, 
sempre  coll'animo  di  far  meglio,  ma  impedendo  che  questo  meglio  nasca 
appunto  colle  interminabili  mutazioni.  Accennato  a  ciò  che  fu  fatto  di 
troppo,  considera  poi  dall'altra  parte  quanto  si  sarebbe  potuto  tare  e  non 
si  fece,  e  conchiude  augurando  al  nostro  paese  una  scuola  di  politici  pratici 
e  istrutti,  in  grado  di  rendersi  conto  delle  leggi  che  governano  la  vita  dei 
popoli  e  di  dominarne  con  un  pensiero  netto  e  con  animo  imparziale  le  con- 
dizioni prendendo  dal  passato  lume  per  l'avvenire.  «  Tocca  "all'Italia, 
scrive  il  signor  Ferrarelli  a  pag  72,  colla  potenza  dell'esempio  di  guarire 
il  morbo  politico  che  travaglia  le  nazioni  latine;  vale  a  dire  credere  che 
le  forme  politiche  abbiano  una  potenza  magica;  credere  che  un  grand'uomo 
sia  più  che  un  grand'uomo  e  possa  essere  grande  senza  l'aiuto  dei  piti; 
credere  che  tutto  il  bane  debba  nascere  da  una  carta  costituzionale  la  quale 
possa  far  accadere  prontamente  ciò  che  deve  accadere  lentamente  ;  credere 
che  la  libertà  di  un  paese  si  valuti  dal  numero  degli  uomini  proclamati  li- 
beri, anziché  da  quelli  veramente  liberi  e  dai  fatti  liberi  che  si  compiono.  » 

A  molte  cose  accenna  l'Autore,  ma  appunto  vi  accenna  più  che  non 
le  dica.  Ed  è  un  guaio,  perchè  il  suo  libro  non  potila  essere  inteso,  se  non 
da  chi  sia  già  nell'ordine  de'  suoi  pensieri,  ed  abbia  dentro  di  sé  almeno 
qualcuna  delle  sue  opinioni,  che  gli  dia  in  certa  maniera  la  chiave  delle 
rimanenti.  A  tutti  gli  altri,  che  non  saimo  storia,  che  fanno  l  politici  per 
non  sapere  far  meglio,  e  parlano  di  politica  per  la  stessa  ragione  per  cui 
le  donnicciole  parlano  di  medicina,  il  suo  prezioso  lavoro  parrà  uno  spro- 
loquio simile  ai  tanti  che  genera  l'ozio,  più  che  il  sapere  e  la  riflessione. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO.  583 

In  conchiusione  la  sola  cosa  che  ci  dispiace  è  ch'esso  sia  troppo  breve, 
per  potere  essere  capito  e  apprezzato  come  merita  da  un  considerevole 
numero  di  lettori.  Il  momento  storico  per  libri  di  questo  genere,  dove  si 
sottintende  più  che  non  si  dica,  s'accosta,  forse,  ma  non  è  ancora  giunto. 

I  Meridionali  alla  Camera,  di   Micrele  TORRA.CA.   —  Napoli,  De  An- 
gelis,  1879. 

È  uno  scritto  che  serve  di  illustrazione  e  di  cemento  al  programma 
delV Associazione  nazionale  di  Napoli,  pubblicato  in  gennaio  dai  deputati 
Abignente,  Sorrentino  ed  altri,  sulle  condizioni  presenti  della  Rappresen- 
tanza napoletana  e  sui  criteri  che  dovrebbero  guidare  i  Meridionali  nelle 
prossime  elezioni;  uno  scritto  in  cui  si  dicono  con  urbana  franchezza  molte 
verità  e  che  si  legge  con  profitto  e  con  piacere.  Ma  esso  non  va  esente  da 
esagerazioni  e  qualche  volta  anche  da  contraddizioni.  Così,  per  esempio,  a 
pag.  12,  parlando  delle  accuse  fatte  ai  Meridionali,  l'autore  dice:  «  Certe 
brutte  cose  che  qui  non  si  conoscevano,  sono  state  apprese  fuori  ;  alla 
scuola  non  demmo  maestri,  ma  discepoli.  »  E  a  pag.  22,  a  proposito  delle 
disposizioni  che  c'erano  nel  Mezzogiorno  tosto  dopo  il  1860,  si  legge:  «La 
censura  si  esercitava  severissima  sugli  uominiesullecose.il  passato  triste 
serviva  di  esempio  al  presente  pel  contrasto  che  doveva  fare  con  esso. 
Non  più  frodi,  non  più  arbitrii,  non  più  corruzione.  Bisognava  esser  tutti 
modelli.  »  Di  queste  due  proposizioni,  se  è  vera  l'uiia,  non  è  più  vera 
l'altra  o  in  altri  termini,  se  i  Meridionali  ne  sapevano,  benché  senza  loz'o 
colpa,  già  tanto  da  sé,  non  restava  loro  gran  che  ad  apprendere  da  altri. 
Ma  prescindendo  da  alcune  pecche,  del  resto  scusabili  in  uno  scritto  po- 
litico, resta  verissima  la  storia  delle  cause,  per  le  quali  la  deputazione 
napoletana,  fatte  le  debite  eccezioni,  venne  via  via  guastandosi  e  deca- 
dendo, come  pure  è  savio,  pratico,  utile  l'intento  dell'autore,  ch'è  quello 
di  avere  una  Sinistra,  non  moderata  o  spinta,  non  rossa  o  azzurra,  non 
vecchia  o  giovane,  non  storica  o  nuova,  ma  una  Sinistra  rispettabile. 
<  La  rispettabilità,  dice  l'autore,  che  viene  dal  carattere  morale  e  dalle 
doti  intelettuali,  è  garanzia  sufficiente  per  tutto.  »  Ciò  però  suppone  negli 
elettori  un  patriotismo  illuminato  e  sincero,  e,  SQ  si  vuole,  la  virtù  di  an- 
teporre il  bene  generale  agli  interessi  locali,  in  luogo  dello  sforzo  perchè 
questi  prevalgano  a  quello.  È  questa  la  parte  più  difficile  e  intorno  a 
questa  avremmo  desiderato  che  Fautore  si  trattenesse  più  lungamente  pa- 
rendoci il  nodo  della  questione  specialmente  per  un  uomo  che  si  professa 
di  sinistra. 


584  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO. 


filosofìa 

Problema  fondamentale  della  scienza,  pel  canonico  prevosto  prof.  Pieteo 
TARINO  dottore  in  teologia,  in  filosofìa  ed  in  metodo.  — Biella  1879:  un 
voi.  di  pag.  xs:xii-502. 

Non  sappiamo  perchè  il  dotto  prof.  Tarino  abbia  voluto  apporre  al 
suo  libro  un  titolo  così  strepitoso  ed  equivoco,  e  non  preferitone  alcun 
altro  più  modesto,  e  meglio  appropriato;  avvenga  che  il  suo  scopo  è  di. 
commentare  e  difendere  la  dottrina  tomistica  intorno  alla  umana  cono- 
scenza. Egli  si  è  posto  in  ischiera  con  quella  parte  del  clero  italiano,  la 
quale  armeggia  da  qualche  tempo  affine  di  ricondurre  nelle  scuole  mo- 
derne la  filosofia  scolastica  sotto  l'autorità  di  San  Tommaso,  reputando 
che  dove  riesca  ad  insinuar  nuovamente  negl'  intelletti  cotal  complesso 
di  dottrine,  avrà  ben  tosto  allontanata  la  peste  degli  errori  serpeggianti 
nel  seno  della  società  religiosa  e  civile,  e  restituita  la  tranquillità  del- 
l'ordine universalmente  sconvolto. 

Se  non  che  il  proposto  rimedio  viene  stimato  dalla  maggior  parte 
peggiore  del  male;  e  non  mai,  quanto  oggidì,  essere  una  restaurazione  di 
metodi  e  sistemi  dogmatici  avversa  all'avviamento  critico  e  sperimentale 
che  tutte  le  scienze  hanno  preso  per  ogni  sempre. 

Ma  quel  che  voglia  essere  degl'  intendimenti  del  nostro  A.,  certo  è 
ch'egli  a  torto  si  scusa  di  avere  abbozzata  soltanto  la  soluzione  del  pro- 
blema ideologico  secondo  la  filosofia  delle  scuole;  e  non  l'accuseranno  per 
fermo  di  soverchia  concisione  sintetica  i  lettori  del  suo  grosso  volu- 
me. Nel  quale  dopo  aver  deplorata  l'apostasia  di  Cartesio  dal  vecchio 
metodo  degli  scolastici,  e  attribuitole  le  funeste  conseguenze  teoriche  e 
pratiche  dell'  idealismo  trascendentale,  del  materialismo,  dello  scetticismo, 
e  simili,  applica  in  un  capitolo  preliminare  il  rinnovato  metodo  logico  a 
confutar  gli  errori  moderni  de'  positivisti,  degli  atomici ,  e  de'  trasfor- 
misti (pag.  3-102).  Di  poi  tratta  della  natura  dell'  idea,  cui  dice  essere 
«  una  rappresentazione  della  cosa  conosciuta,  fatta  ed  impressa  nella 
mente  ;  »  e  circa  la  quistione  dell'origine  della  conoscenza,  premesso  un 
esame  confutativo  delle  soluzioni  proposte  da'  sensisti,  dagli  idealisti  auto- 
matici e  dinamici,  dai  tradizionalisti  e  dagli  ontologi,  spone  il  sistema 
scolastico,  e  l'applica  sì  nell'ordine  puramente  ideale,  sì  nel  reale.  Quindi 
conferma  la  predetta  teorica  nel  triplice  ordine  teologico,  cosmologico,  e 
psicologico;  e  da  ultimo  ne  cerca  il  riscontro  nell'ordine  morale  o  politico. 

L'essere  oggimai  conosciutissima  la  dottrina  scolastica  sulla  natura  e 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO.  585 

l'origine  delle  idee,  ci  dispensa  dal  riepilogare  la  esposizione  fattane  dal 
Tarino,  la  quale  peraltro  ne  sembra  chiara,  esatta  e  concepita.  Non  ugual- 
mente felice  però  giudichiamo  la  deduzione  delle  conseguenze  di  tal  dot- 
trina, cui  l'A.  presume  tirare  fino  ad  ammettere  l'onnipotenza  teocratica 
della  Chiesa  sopra  lo  Stato. 

E  finalmente  non  doveva  egli  passar  con  silenzio  il  sistema  ontologico 
del  nostro  Mamiani  circa  la  obbiettività  e  la  natura  peculiarniente  rappre- 
sentativa delle  idee,  uè  pretermettere  le  capitali  obbiezioni  fatte  da  questi 
a'  nuovi  peripatetici  nella  Filosofia  delle  scuole  italiane  (voi.  X,  pag.  189; 
XVI,  216  segg.)  ed  in  parecchi  luoghi  delle  sue  opere.  Il  Mamiani  disse 
a  ragione  che  la  noologia  tomistica  cambia  il  contingente  nell'assoluto,  il 
creato  nelP  increato,  il  finito  nell'infinito,  né  rispondersi  a  ciò  col  trarre 
in  mezzo  le  essenze.  Or  come  non  parve  al  Tarino  di  spendere  almeno  una 
mezza  pagina  del  suo  libro  a  ribattere  siffatte  istanze  ? 

Cenni  storici  e  critici  sull'origine  e  sulla  natura  della  fllosofla  sco- 
lastica, di  Andrea  CAPELLO.  —  Torino,  Eredi  Botta,  1879.  Pag.  6, 
in  8°  grande. 

Ecco  un  lavoro  di  poca  mole  e  assai  pregio,  utile  soprattutto  al  pre- 
sente, in  cui  tentasi  da  una  parte  del  nostro  clero  di  risuscitar  nelle 
scuole  il  Tomismo  per  la  salvezza  delle  anime  e  la  maggior  gloria  di 
Dio.  Un  bel  saggio  sopra  V aristotelismo  della  scolastica  nella  storia  della 
filosofia  venne  pubblicato,  ha  pochi  anni,  con  intendimento  apologetico  da 
Salvatore  Talamo,  uno  de'piil  valorosi  difensori  delle  dottrine  tomistiche. 
L'attuale  studio  di  Andrea  Capello  al  contrario  è  scevro  d'ogni  preoccu- 
pazione dogmatica,  e  merita  d'essere  raccomandato,  perchè  contiene  la 
soluzione  di  un  importantissimo  problema  fatta  col  doppio  presidio  della 
storia  e  della  pura  speculazione.  Vi  si  descrive  dapprima  con  larghi  tratti 
il  sorgere  e  lo  svolgersi  successivo  delle  scuole  medio-evali,  in  cui  la 
scolastica  si  andò  lentamente  costituendo.  Segue  un  breve  ragguaglio,  e 
come  dire  un  inventario  dei  tesori  della  scienza  antica,  dei  quali  i  dottori 
delle  scuole,  ne'vari  periodi  del  medio  evo,  ebbero  conoscenza,  e  che  pote- 
vano costituire  il  fondo  materiale  del  loro  insegnamento.  Né  sono  dimen- 
ticate le  condizioni  di  varia  natura,  in  mezzo  alle  quali  si  andarono  svilup- 
pando le  scuole,  e  sopratutto  lo  stato  materiale  de'tempi,  i  documenti  del 
sapere  tradizionale,  e  l'idea  religiosa.  Da'vari  gradi  poi  della  reazione  delle 
menti  verso  questa  idea  religiosa  vengono  dal  Capello  considerate  due 
principali  forme  e  periodi  della  scolastica,  il  primo  che  durò  dal  secolo  VII 
a  tutto  il  secolo  XI,  e  corse  da  Rabano  Mauro  a  S.  Anselmo;  e  l'altro 
definitivo  e  compiuto  dal  XIII  secolo  in  poi,  che  ebbe  per  massimi  rap- 
presentanti Alberto  Magno  e  S.  Tommaso.  La  scolastica  del  primo  periodo 
è  una  forma  di  filosofia  della  religione  e  confondesi  colla  teologia,  atteso 

VoL.  XIV,  Serie  II.— 1  Aprile  1819.  36 


586  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO. 

che  la  fede  vien riiiuardata  come  una  condizione  all'intendere:  «  Credo  ut 
intelligam.  » 

Nel  secondo  periodo  la  filosofìa  tende  a  costituirsi  come  scienza  auto- 
noma, e  distinta  dalla  teologia,  sebben  concorde  con  essa  nel  principio  e 
nel  termine  :  e  allora  la  scolastica  diviene  un  «  prodotto  del  pensiero  filo- 
sofico cristiano,  svolgentesi  principalmente  sotto  l'azione  dell'antica  filo- 
sofia pagana,  soprattutto  aristotelica,  armonizzata,  al  possibile,  colle  dot- 
trine del  cristianesimo.  > 

Di  ciascuno  dei  due  mentovati  periodi  è  fatto  dal  Capello  un  esame 
assai  diligente,  e  posti  in  rilievo  i  principali  elementi  che  entrarono  a 
comporre  il  contenuto  dello  scolasticismo  in  entrambi.  Da  ultimo  il  lavoro 
vien  chiuso  con  una  descrizione  rapida  dello  svolgimento  del  pensiero 
filosofico  dal  punto  in  cui  la  seconda  forma  della  scolastica  si  fé'  padrona 
deo-l'intelletti,  alle  prime  lotte  combattute  dagli  umanisti  contro  di  essa,  e 
al  crollo  finale  datole  da  Bacone,  da  Galileo  e  da  Cartesio. 

<i  II  periodo  della  filosofia  scolastica  del  secolo  XIII,  cosi  conchiude  il 
Capello,  noi  crediamo  e  storicamente  e  dottrinalmente  assai  importante. 
Mediano  fra  i  due  momenti  principali  del  nuovo  pensiero  suscitato  dal 
cristianesimo,  cioè  la  filosofia  patristica  e  la  moderna,  esso  ne  porge  il 
punto  pii^i  alto  e  meglio  opportuno  per  osservare  e  per  istudiare  il  costi- 
tuirsi e  lo  svolgersi  graduale  di  esso  nuovo  pensiero  lungo  il  corso  dei 
tempi.  Riguardare  la  scolastica  da  questo  punto  di  vista,  a  noi  parve,  fosse 
appunto  il  riporla  al  luogo,  che  nella  storia  della  filosofia,  a  ogni  buon 
dritto,  ella  deve  occupare.  » 

Princìpii  dì  Filosofia  Prima,  esposti  ai  giovani  italiani  per  Vincenzo  DI 
GIOVANNI,  professore  di  Filosofia  nel  R.  Liceo  Nazionale  di  Palermo. 
Seconda  edizione  nuovamente  curata  e  riordinata  dall'autore.  —  Volumi  3. 
Palermo,  1878. 

Il  nome  dell'abate  Di  Giovanni  suona  oramai  chiaro  in  Italia  e  fuori 
pe'suoi  molti  e  pregiati  volumi  di  letteratura,  di  erudizione,  di  Filosofia 
speculativa,  e  di  storia  della  Filosofia  siciliana.  Si  può  dire  che  dal  1854 
ad  oggi  il  prof.  Di  Giovanni,  in  mezzo  alle  cure  quotidiane  del  suo  inse- 
gnamento nelle  scuole  secondarie  di  Palermo,  non  abbia  mai  cessato  di 
rovistare  negli  archivi  e  nelle  biblioteche  della  sua  prediletta  Sicilia  e 
segnatamente  nelle  biblioteche  di  Palermo  e  di  Monreale,  per  illustrare  il 
pensiero  filosofico  e  l' opere  de'  suoi  concittadini  ;  nò  gli  ha  fatto  mai  di- 
fetto, in  ogni  congiuntura  della  vita  privata  e  pubblica,  la  fermezza  dei 
propositi  e  il  vigore  intellettuale  proseguendo  alacremente  ne"  suoi  studi 
severi  e  ne'  suoi  scritti  mai  sempre  eruditi,  chiari,  ordinati,  non  senza  ele- 
ganza ed  efficacia,  talvolta  profondi  e  ingegnosi. 

Seguace  temperato  delle  dottrine  del  Gioberti,  nel  1863  il  Di  Giovanni 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO.  587 

pubblicò  i  suoi  rrincipii  di  Filosofia  prima,  eh'  ebbero  degna  e  larga 
diffusione  nelle  scuole  di  Sicilia.  Nei  due  anni  successivi  la  pubblicazione 
de'  suoi  bellissimi  Dialoghi  sul  Miceli  o  sull'  E/ite  uno  e  reale,  e  più  tardi 
la  Storia  della  Filosofia  in  Sicilia  dai  tempi  antichi  al  secolo  X/A' fecero 
acquistare  al  valente  professore  palermitano  fama  novella  e  più  alta  nella 
Penisola,  e  specialmente  in  Francia,  ed  un  posto  segnalato  fra  gli  eruditi 
e  gli  storici  della  filosofìa  in  Sicilia. 

Ma,  considerato  pure  come  filosofo  e  scrittore,  al  Di  Giovanni  non 
può  negarsi  vigore  speculativo  sia  nell' esporre  le  proprie  dottrine, 
sia  nel  far  la  critica  de' sistemi  altrui,  come  rilevasi  particolarmente 
dalle  opere  Sofismi  e  buon  senso  e  rrincipii  di  Filosofia  prima. 
La  seconda  edizione  di  quest'ultimo  trattato  è  sostanzialmente  iden- 
tica alla  prima,  contenendo  le  stesse  dottrine  professate  dall'  autore, 
conformi  alla  scuola  ontologica.  Tuttavia  non  le  manca  un  certo 
aspetto  di  novità  per  le  numerose  aggiunte  (oltre  l'appendice  al  primo 
volume,  la  quale  contiene  un  saggio  logico  sulle  categorie  e  su'  giu- 
dizi) fondate  sempre  sull'  autorità  de'  più  rinomati  filosofi  antichi  e  mo- 
derni, e  per  i  non  pochi  cenni  delle  più  note  dottrine  contemporanee 
di  mano  in  mano  che  lo  svolgimento  del  soggetto  ne  forniva  1'  oppor- 
tunità. 

La  scienza  dell'essere,  del  conoscere  e  dell'operare  umano  sono  trat- 
tate successivamente  nella  Filosofia  prima  dal  professore  siciliano  Quindi 
la  seconda  edizione  di  quest'  opera  abbraccia  tre  volumi.  Il  primo,  dopo  tre 
lezioni  su'  Preliminari  intprno  alla  scienza  e  alla  filosofia,  tratta  della 
logica  in  sé  stessa  e  qual  propedeutica  della  scienza.  Il  secondo  volume 
parla  dell'Ontologia,  della  Teologia  razionale  e  della  Cosmologia;  il  terzo 
contiene  la  Psicologia  e  la  Neologia,  o  scienza  del  conoscere,  l'Etica  e  un 
cenno  sulla  Teleologia  universale,  o  scienza  de'fini. 

Senza  qui  scendere  ai  particolari  sulle  dottrine  del  chiarissimo  Di  Gio- 
vanni, noi>eremo  che  fra  i  criteri  del  conoscere  umano  e  della  verità  egli 
ripone  anche  la  rivelazione  ;  bensì  vuole  l'accordo  de'  vari  criteri,  cioè 
della  natura,  del  senso  comune  e  della  rivelazione.  Difatti  egli  esce  in 
questi  pronunziati  :  «  L' autorità  è  argomento  e  aiuto  alla  certezza,  ma 
non  il  principio  o  il  criterio  esclusivo  di  essa.  Il  negare  alla  ragione  la 
facoltà  di  giungere  per  sé  al  certo,  è    gettar    l'uomo    nello    scetticismo. 

La  ragione  pertanto  che  ha  facoltà  di  concepire  il  vero  e  di  potere  esser 

certa,  si  fa  capace  di  fede;  e  la  fede  nella  sua  esteriorità  si  rende  acces- 
sibile alla  ragione,  accordandosi  così  il  razionalismo  e  il  sovrarazionali- 
smo,  per  l'accordo  che  e'  è  interiore  e  dialettico  tra  il  vero  razionale  e  il  so- 
vrarazionale, l'evidenzae  il  mistero  ».  (Voi.  1,  Logica,  pag.  260-61). Ed  altrove 
soggiunge  :  «  La  rivelazione  è  criterio  di  certezza  nell'ordine  sovraintelli- 
gibile  e  sovrarazionale,  e  malamente  si  vuol  porre  come  principio  di  scienza 
che  ha  per  materia  gì'  intelligibili  e  il  naturale  (pag.  279)  ».   Ciò  nondi- 


ggg  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO, 

meno,  sarebbe  stato  miglior  partito  distinguere  più  accuratamente  la 
scienza  dalla  fede,  la  parte  scientifica  dalla  teologica  o  tradizionale  in 
alcuni  quisiti  supremi  della  filosofla;  e,  se  mai,  considerare  sempre  la 
fede,  0  le  tradizioni  universali  religiose,  qual  criterio  secondario  ed  aiuto 
alla  ragione  umana.  Comunque  il  Di  Giovanni  è  un  filosofo  che  adopera 
il  metodo  comprensivo,  e  indi  non  può  dirsi  tradizionalista. 

Quanto  alla  Morale,  sia  confrontando  questa  parte  con  le  altre  del- 
l'Opera intera,  sia  considerando  l' Etica  in  se  stessa  e  nella  sua  grande 
importanza  pratica,  avremmo  desiderato  che  nella  seconda  edizione  le 
fosse  stato  dato  più  largo  svolgimento,  affinchè  i  giovani  (ai  quali  segna- 
tamente venne  destinata  quest'  opera)  vi  avessero  attinto  una  compiuta 
instituzione  morale. 

Del  resto,  la  Filosofia  prima  del  valoroso  professore  palermitano  è 
meditata  profondamente  e  saviamente  condotta  ;  perocché  in  ogni  argo- 
mento ivi  trattato,  alla  parte  spositiva  e  dimostrativa  1'  autore  ha  unito 
con  eletta  erudizione  la  parte  storica,  senza  confondere  il  suo  trattato 
speculativo  di  Filosofia  razionale  e  morale  con  la  storia  della  Filosofla  pro- 
priamente detta. 


ECONOMIA  E  STATISTICA 

Teoria   generale  dei   prestiti    pubblici,   di   G.    Ricca-Salerno.   —  Mi- 
lano, 1879.  (Pa!,^  xvii-141). 

Questo  notevole  lavoro  comincia  con  una  introduzione,  nella  quale 
l'A.  passa  a  rassegna  le  varie  dottrine  professate  da  economisti  e  da 
finanzieri,  nel  secolo  passato  e  nel  nostro,  in  argomento  di  prestiti  pub- 
blici. Vivacemente  criticate  le  vecchie  opinioni,  spesso  contraddittorie, 
l'A.  accenna  a  fondarsi  più  specialmente  su  le  indagini  recenti,  compiute 
in  Germania  dal  Dietzel,  dal  Nasse,  dal  Wagner,  dal  Laspeyres,  dal 
Soesbeer  e  da  altri.  Tuttavia  nemmeno  i  risultati  di  queste  accetta  senza 
riserva;  e  pare  s' imprometta  di  dare  per  la  prima  volta  alla  scienza 
una  teorica  veramente  compiuta  dei  prestiti  pubblici.  A  conseguire  il  suo 
fine  egli  non  sceglie  la  via  dell'  induzione,  o,  come  impropriamente  suol 
dirsi  in  fatto  di  scienze  sociali,  il  metodo  sperimentale.  Gli  pare  più  op- 
portuno dedurre  tutta  la  sua  dottrina  da  una  duplice  serie  di  premesse, 
che  si  trovano  esposte  nei  due  primi  capitoli  del  libro:  il  primo  dei  quali 
tratta  dei  Principii  fondamentali  della  scienza  finanziaria,  e  contiene 
considerazioni  generali  sopra  la  natura  e  la  ragione  dolle  spese  degli 
Stati  moderni,  sopra  i  loro  rapporti  con  le  entrate,  e  sopra  la  finanza 
considerata  in  relazione  a  una  certa  triplice  categoria  di  economie  :  l'eco- 


BOLLETTINO  BIBLIOGKAFICO.  589 

nomia  dello  Stato,  l'economia  nazionale,  e  le  economie  private;  e  il  secondo, 
su  le  orme  di  un  recente  libro  del  Knies,  è  un  riassunto  della  teoria  ge- 
nerale economica  del  credito,  con  poche  osservazioni  finali  sopra  il  credito 
pubblico  in  ispecie.  —  E  qui  potrebbe  osservarsi,  in  via  di  parentesi,  che 
a  molti  sembrerà  per  avventura  superfluo,  in  un  lavoro  d' indole  mono- 
grafica, venir  ripetendo  le  definizioni  più  elementari  su  Io  scambio,  la 
circolazione,  il  credito  in  generale  e  simili,  per  le  quali  bastava  un  rinvio 
a  un  buon  manuale  di  economia,  o,  al  più,  al  libro  stesso  del  Knies.  Ma  non  è  a 
far  gran  caso  di  un  peccato  d'  abbondanza.  —  Le  ricerche  propriamente 
attinenti  all'argomento  del  lavoro  sono  comprese  nei  capitoli  IIl-V. — I  prestiti 
pubblici  vi  sono  prima  considerati  in  relazione  all'  economia  dello  Stato. 
Dalla  distinzione  delle  spese  dello  Stato  in  ordinarie  e  straordinarie,  fatta 
specialmente  con  la  guida  del  Wagner,  salvo  qualche  lieve  modificazione 
alle  dottrine  di  questo,  1'  Autore  desume  un  certo  limite  massimo,  e  un 
certo  limite  minimo  all'  uso  del  credito  pubblico.  I  prestiti  pubblici  sono 
studiati  di  poi  in  relazione  con  V Economia  nazionale,  ponendo  special- 
mente in  luce  la  considerazione,  che,  nei  paesi  ricchi,  si  traggono  dal 
fondo  disponibile,  e,  nei  poveri,  per  lo  più  dai  capitali  esteri,  e  in  amen- 
due  i  casi  son  preferibili  alle  imposte  troppo  gravose.  Da  ultimo  si 
tratta  delle  relazioni  tra  i  prestiti  pubblici  e  le  econotnie private  tor- 
nando sull'osservazione,  che  essi  si  desumono  dai  capitali  disponibili  o  di- 
spensabili, come  dice  l'A.;  e  quindi  fermandosi  a  difenderli  contro  co- 
loro, che  ritengono  aver  essi  effetti  nocivi  alle  classi  lavoratrici  e  alla 
miglior  possibile  distribuzione  della  ricchezza  in  generale.  In  fine  al  ca- 
pitolo V,  l'A.  riassume  la  sua  dottrina,  concludendo,  che  «  l'averne 
(dei  prestiti  pubblici)  dimostrato  la  corrispondenza  con  alcune  opere  pub- 
bliche e  le  tendenze  generali  per  rispetto  al  patrimonio  e  al  reddito  della 
nazione  e  dei  privati,  e  l'averne  assegnato  i  limiti  assoluti  e  relativi  di 
competenza  (.'')  nella  economia  dello  Stato  e  del  popolo  equivale  a  stabi- 
lirne la  legge  ed  apprestare  i  principii  direttivi  all'  arte  finanziaria  e 
alle  indagini  storiche  e  statistiche  particolari.  »  In  un  ultimo  capitolo 
sono  raccolti  alcuni  fatti  economici  e  finanziari  relativi  al  periodo  delle 
guerre  napoleoniche  per  l'Inghilterra,  al  periodo  successivo  alle  guerre 
del  1870-71  per  la  Francia,  e  all'era  dei  grossi  disavanzi  e  dei  grossi  de- 
biti, nei  primi  anni  dopo  la  costituzione  del  regno,  per  l'Italia:  in  essi 
l'A.  cerca  la  riprova  delle  sue  teorie. 

Molte  e  gravi  obiezioni  si  potrebbero  fare  a  questo  scritto  del  profes- 
sore Ricca-Salerno.  È  assai  discutibile,  se  il  metodo  prettamente  deduttivo 
da  lui  seguito,  possa  condurre  à  conclusioni  di  qualche  valore  in  questo 
argomento,  tuttora  tanto  dibattuto,  dei  prestiti  pubblici.  Né  basta  a  ri- 
mediarvi quella  mingherlina  e  unilaterale  raccolta  di  fatti,  che  è  nel  ca- 
pitolo VI.  E  a  molti  sembrerà  sproporzionata  la  parte  del  lavoro,  che  di- 
vaga in  considerazioni  generali,  non  di  rado  ripetute,  di  fronte  a  quella, 


590  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO. 

che  si  attiene  proprio  all'argomento  speciale  del  prestiti  pubblici.  La  quale 
in  vece  è  assai  lontana  dal  costituire  una  teorica,  come  che  sia,  completa  ; 
poicliè  vi  è  affatto  trasandata  ogni  distinzione  di  effetti  economici  e  finanziari, 
secondo    le   varie  categorie   di  prestiti  pul)blici,  e  insufficientemente  stu- 
diata l'importanza  grandissima  della   distinzione  tra  prestiti  contratti  al- 
l'estero, e  prestiti  contratti  all'interno.  La  teoria  generale,  che  non  tien  conto 
di  queste  distinzioni,  rimane  campata  nel  vuoto.  Ed  è  pure  deplorevole,  che 
i  prestiti  pubblici  siano  studiati  quasi  esclusivamente  nel  primo  momento, 
all'atto  della  emissione,  e  non  se  ne  ricerchino,   salvo  qualche  accenno,  le 
conseguenze  economiche  e  finanziarie  rilevantissime,  in  quanto  rimangono  a 
gravare  col  peso  annuo  degl'  interessi  l'economia  dello  Stato  e  quella  della 
nazione.  Mentre,  per  contro,  la  distinzione,  tanto  spiccatamente  fatta  dall'A ., 
tra  economia  nazionale  ed  economie  private,  riesce  oltremodo  sottile,  poco 
rispondente  alla  realtà;  e  lo  costringe  a  ripetersi,  o  a  distribuire  in  due  parti 
l'esame  di  fenomeni,  che  in  fondo  sono  identici.  Come  si  fa,  p.  e.,  a  intendere, 
che  la  sottrazione,  o  meno,  del  capitale  alle  industrie,  sia  fenomeno  attenente 
alla  economia  nazionale,  e  la  migliore  o  peggiore  distribuzione  della  ric- 
chezza, e  l'aumento  o  la  diminuzione  dei  salari,  siano  fenomeni  da  riferirsi 
alle  economie  private  ?  Da  cotesto  lusso  di  distinzioni  un  po'bizantine,  prodi- 
gate in  alcune  opere  tedesche,  sarebbe  utile  guardarci.  Quanto  poi  alla  so- 
stanza della  dottrina  del  Ricca- Salerno,  pure  riconoscendogli  molta  potenza 
speculativa  e  molto  acume  critico,  dobbiamo  fare  ampie  riserve  sopra   il 
valore  pratico  delle  sue  conclusioni,  troppo  favorevoli  all'uso  e  secondo  noi 
all'abuso  del  credito  pubblico.  Si  provi  egli  stesso  a  imaginare,  che  cosa  di- 
verrebbe, in  breve  tempo,  una  finanza,  la  quale  fosse  governata,  applicando  le 
sue  dottrine.  0  si  provi,  dopo  uno  studio  minuto  dei  fatti,  a  spiegare  con  le 
sue  dottrine  la  recente  pratica  finanziaria  del  governo  inglese  —  del  governo 
cioè  del  paese,  che,  avendo  il  massimo  dei  capitali  disponibili,  si  trova,  secondo 
r  A.  nella  condizione  di  contrarre   prestiti  pubblici  a  iosa.  Di  certo  egli 
dovrà  fieramente  condannare  la  diminuzione  del  capitale  del  debito  conso- 
lidato, che  da  781  milione  nel  1^4  è  sceso  a  710  milioni  di  sterline  nel  1878, 
e  la  recente  assegnazione  di  28  milioni  di  sterline  all'anno  per  il  fondo  di 
ammortamento.  E  dire,  che  tutto  questo  è  prelevato   dalle   imposte;   le 
quali  hanno  pure  sopperito  a  molte  di  quelle  spese  straordinarie,  che  l'au- 
tore vorrebbe  fatte  con  l'aiuto  del  credito  pubblico.  Del  resto,  tenuto  conto 
del  punto  d'aspetto  troppo  parziale,  non  mancano  nel   lavoro  in  esame 
utili  osservazioni;  ed  è  specialmente  a  lodarsi  per  essere  il  primo  studio, 
nel  quale  si  sono  fatti  conoscere  in  Italia  gli  scrittori  tedeschi  contempo- 
ranei, che  si  sono  occupati  dell'importantissimo  tema. 

Da  ultimo  ci  corre  l'obbligo  di  riconoscere  in  questo  lavoro  un  grande 
pregio,  e  di  notare  due  gravi  difetti.  Il  pregio  è  l'erudizione  dottrinale  copiosa, 
sicura,  completa,  in  ispecie  per  gli  scrittori  taleschi  :  ne  son  documento  le  nu- 
merose note,  nelle  quali,  forse  con  esuberanza,  si  può  riscontrare  tutta  quella. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  591 

che  Oggi  barbaramente  suol  dirsi  la  letteratura  della  questione.  I  difetti  sono 
la  mancanza  poco  men  che  completa  di  quel  vivace  senso  della  realtà,  senza 
del  quale  gli  studi  economici  e  finanziari  restano,  a  nostro  vedere,  vacue 
esercitazioni  teoretiche;  e  la  forma  che,  trascendendo  l'ineleganza,  pecca 
troppo  spesso  d'improprietà,  d'indeterminazione,  e  riesce,  con  gran  detri- 
mento dell'etlicacia  dei  concetti,  ad  annebbiare  non  di  rado  ciò  che  è  chiaro 
ad  intralciare  e  a  mostrare  asti'uso  ciò  che  di  per  sé  è  facile  e  piano. 
Non  vogliamo  addurre  esempi;  ma  osserviamo  soltanto,  che  non  à  impos- 
sibile, che  l'un  difetto  sia  intimamente  connesso  coll'altro. 

Relazione  statistica  dei  lavori  compiuti  nel  distretto  della  Corte  di 
Appello  di  Genova  nelPanno  1878,  del  counu.  G.  G.  COSTA  Pro- 
curatore gegnerale 

È  un  chiaro  e  molto  accurato  resoconto  dell'amministrazione  della  giu- 
stizia civile  e  penale  nel  distretto  della  Corte  d'Appello  di  Genova  nel 
18"8,  illustrato  da  opportuni  confronti  colle  cifre  degli  anni  precedenti  nel 
distretto  stesso  e  talora  anche  con  quelle  di  tutto  il  Regno  e  della  Francia, 
nell'intento  di  riconoscere,  se  si  va  innanzi  od  indietro  e  che  cosa,  a  lume 
del  passato  e  del  presente,  possiamo  attenderci  dall'avvenire.  Ma,  oltreché, 
coi  confronti  frequenti,  le  cifre  vengono  interpretate  e  spiegate  colle  que- 
stioni giuridiche  a  cui  si  collegano,  e  che  l'autore  accenna  assai  brevemente, 
come  gli  era  imposto  dai  limiti  del  suo  lavoro,  ma  con  evidenza  ed  ef- 
ficacia da  maestro,  e  poi  con  quell'autorità  che  gli  deriva  dalla  molta 
dottrina,  dalla  lunga  esperienza  e  dall'  indipendenza  del  carattere.  Egli 
infatti,  accennando  ai  mali,  non  dissimula  punto  la  sua  opinione  sulla  qua- 
lità dei  rimedi,  ciò  che  trasforma  una  relazione  statistica  in  un  lavoro  giu- 
ridico meritevole  dello  studio  più  diligente. 

Così,  per  esempio,  nella  parte  clie  riguarda  la  giustizia  civile,  è  molto 
notabile  che  in  tutto  il  1878  furono  istituiti  4  soli  nuovi  consigli  di  fa- 
miglia e  7  ne  furono  convocati.  Nel  1874  i  nuovi  consigli  erano  stati  3  e 
le  convocazioni  4;  nel  1875,  4  i  primi  e  5  le  seconde.  Il  che  significa  in 
conchiusione  che  i  consigli  di  famiglia  sono  un'istituzione  che  esiste  sol- 
tanto di  nome,  e  lascia  la  tutela  indipendente  da  qualunque  vigilanza,  con 
ohe  si  riesce  non  di  rado  alla  trascuranza  dell'educazione  dei  pupilli  e  allo 
sperpero  del  loro  patrimonio.  Si  pretese  di  sostituire  i  consigli  di  famiglia 
al  giudice  pupillare,  gl'interessati  alla  burocrazia,  il  cuore  al  dovere  di 
uflicio,  ma  con  questi  bellissimi  discorsi  si  distrusse  una  vigilanza  efficace 
per  sostituirgliene  una  che  si  risolve  in  parole.  Il  comm.  Costa  lo  dice 
in  una  forma  più  temperata,  ma  senza  dissimulare  i  pericoli  e  i  danni. 

Importantissime  sono  poi  le  osservazioni  dell'autore  sul  continuo  cre- 
scere dei  fallimenti,  che  da  44  ch'erano,  sempre  nel  distretto  della  corte  di 


592  BOLLETTINO  BIBLIOGKAFICO. 

Appello  di  Genova,  nel  1867,  si  elevarono  a  92  nel  1S77,  giungendo  a  ben 
64")  negli  undici  anni  compresi  fra  questi  due  estremi.  Né  ha  punto  minor 
valore  quant'egli  dice  sul  diritto  di  prevenzione,  che  la  legge  «  interpre- 
tata con  senso  umano  e  liberale  »  attribuisce  allo  Stato,  perchè  essa  col- 
pisce gli  atti  preparatori!  costituenti  reati  speciali,  la  provocazione  a  de- 
linquere, l'associazione  di  malfattori,  il  porto  e  il  possesso  delle  armi,  ecc., 
azioni  tutte  che  per  sé  sole  non  recano  nessun  danno  e  sono  proibite  e  pu- 
nite soltanto  in  vista  di  un  possibile  danno  a  venire. 

Ma  principalmente  notabili  sono  le  considerazioni  a  cui  gli  danno  ma- 
teria le  cifre  delle  denuncie,  dei  processi,  dei  rinvìi,  delle  assoluzioni  e 
delle  condanne,  della  qualità  dei  reati  e  delle  pene.  Da  questa  relazione, 
come  dalle  precedenti  del  comm.  Costa,  risulta  che  i  reati  nel  distretto  di 
Genova  continuano  a  crescere.  Certe  specie  di  crimini  fanno  eccezione.  Ma 
dal  1877  al  1878  aumentarono  i  reati  di  ribellione  da  185  a  302,  gli  omi- 
cidi volontari  da  38  a  ó9,  le  ferite  e  percosse  da  1857  a  2000,  le  grassa- 
zioni da  yo  a  luO,  i  furti  qualificati  da  1097  a  lól3.  Le  cagioni  di  questo 
fatto  doloroso  sono,  benché  fuggevolmente,  accennate  dall'autore,  e  ciò  ac- 
cresce non  poco  1"  importanza  e  l' opportunità  di  questo  lavoro.  Si  parla 
tanto  da  qualche  tempo  dellaumento  dei  reati  e  delle  cause  da  cui  dipende, 
che  un  giudizio  del  comm.  Costa  in  proposito  non  può  non  destare  l'atten- 
zione di  quanti  si  occupano  di  faccende  giuridiche  e  sociali. 


Prof.  Fr.  PKOTONOTARI,  Direttore 


David  Marchionni,  Responsabile. 


LA  POLITICA 

NELLA  LETTERATURA  CO^^TEMPORANEA  DELLA  FRANCIA. 


LA  LEGGENDA  NAPOLEONICA. 

Chi  segue  con  occhio  attento  e  diligente  il  corso  di  una  grande 
idea  attraverso  un  lungo  periodo  storico  non  può  non  rimanere 
colpito  dal  vario  avventuroso  destino  ch'essa  sul  suo  cammino  suole 
incontrare.  Le  soste,  i  contrasti,  le  trasformazioni  ch'essa  subisce, 
sono  l'accompagnamento  ordinario  di  un'  idea  quando  entra,  per 
dir  così,  nel  crogiuolo  della  realtà  e  tende  ad  acquistare  con  que- 
sta uno  stesso  impulso  e  una  stessa  vita:  e  quei  fatti  confonde- 
rebbero inutilmente  l'occhio  di  un  osservatore  superficiale  che 
non  avesse  sempre  dinanzi  alla  mente  l'idea  madre  intorno  alla 
quale  essi,  siccome  intorno  a  proprio  centro,  si  aggirano.  Epperò 
un  dato  periodo  storico  si  può  considerare  come  la  somma  degli 
sforzi  che  l' idea  fa  per  accomodare  a  se  stessa  la  realtà  e,  in 
certo  modo,  soggiogarla,  creando  così  quel  connubio  fra  l'idea  e 
la  realtà  che  è  il  momento  più  potente  e  solenne  dell'attività 
umana,  e  che  suole  avere,  secondo  i  tempi  e  i  casi,  più  o  meno  lunga 
durata. 

In  questo  rispetto  è  oltremodo  interessante  quel  periodo  di 
storia  che  s'inaugura  coli'  idea  delle  due  unità  mondiali:  il  Papato 
e  l'Impero,  ora  discordi,  ora  uniti,  sempre  però  animati  da  mutua 
gelosia,  e  tuttedue  ambiziosi  di  una  dominazione  esclusiva  ed 
universale.  Non  mai  spenta  nel  pensiero  comune  e  nella  tradizione 
popolare,  l'idea  dell'unità  imperiale,  come  eredità  di  Roma  antica, 

'  V.  Nuova  Antologia,  fascicoli  del  settembre  e  novembre    18TI. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Aprile  1879.  31 


594  LA  POLITICA 

si  rifece  viva  e  gigante  sotto  Carlomagno,  quando  i  Saraceni  in  Spagna 
e  in  tutte  le  regioni  meridionali  dell'  Europa  da  una  parte,  e  le 
stirpi  ariane  della  Grermania  dall'altra,  tendevano  per  vie  diverse 
a  creare  uno  stato»  di  cose  nel  quale  quell'  idea  avrebbe  trovata  la 
sua  rovina  e  la  sua  morte.  L'idea  dell'unità  non  ha  soltanto  va- 
lore per  certe  sue  relazioni  esteriori;  essa  è  inerente  all'  indole 
ed  alla  costituzione  stessa  del  pensiero  umano,  ed  è  la  prima  ed 
essenzialissima  coudizione  di  ogni  e  qualsiasi  organismo.  Quando 
si  pensi  allo  stato  di  confusione  in  cui  era  caduto   il  mondo  ro- 
mano al  tempo  di  Carlomagno,  si  comprende  facilmente  come  il 
pensiero   di  ricostituire   l'antica   unità  imperiale   fosse  ravvisato 
come  una  imperiosa  necessità.  Da  Carlomagno  adunque  si  inau- 
gurano ed  hanno  principio    le    due   unità   imperiale  e   pontificia 
che  animano  la  storia  del  medio  evo.  Intorno  ad  esse,  siccome  in- 
torno a  due  astri  maggiori,  si  aggirano  a  guisa  di  costellazioni 
minori  tutte  le  altre  consociazioni  politiche  minori;  però  senza 
una  fede  costante  e  sicura:  una  città,  un  borgo  oggi  è  imperiale, 
domani  papale,  e  a  rovescio,  a  seconda  dell'  interesse  e  del  suo 
speciale  fine  politico  ;  ed  è  stato  uno  dei  più  bei  capitoli  di  storia 
scritto  da  Giuseppe  Ferrari,  '  quello  nel  quale  questo  scrittore  mo- 
stra che  intento  precipuo  e  generale  di  tutte  le  consociazioni  poli- 
tiche italiane  del  medio  evo  era  di  contenere  il  Papato  coli' Im- 
pero, e  a  vicenda  questo  con  quello,  impedendo  cosi  la  domina- 
zione esclusiva  di  uno  dei  due,  che  avrebbe  prodotto  la  servitù 
di  tutti.  L' idea   dell'unità    imperiale    continuò    a   vivere  e  farsi 
sentire  nel  pensiero  inconsapevole  del  popolo  anche  quando  era 
da  essa  fuggito,  od  almeno  si  era  grandemente  afiievolito,  lo  spirito 
che  l'aveva  dapprima  animata.  Quando  venne  in  Firenze  Carlo  Vili, 
i  Fiorentini  lo  grìàsirono  Ri.sfaiiratore  della  libertà  italiana  e  padre 
della  patria;  e  Gino  Capponi  avverte  con  ragione  che  ciò  proveniva 
da  questo,  che  al  tempo  di  Carlo  Vili  l' Italia  si  regolava  ancora 
politicamente  secondo  le  idee  politiche  medievali.  Carlomagno  era 
stato  il  restauratore  dell'  impero  d'occidente,  e  tutti  i  successori 
di  lui  ereditarono  con  più  o  meno  autorità  il  concetto  medievale 
dell'unità  politica   del    mondo,    unità   nella   quale    si   vedevano, 
come  tutti  gli  altri  popoli,  fusi  anche  i  Fiorentini. 

Però  chi  avrebbe  mai  potuto  prevedere  che  l'idea  dell'impero 
d'occidente  e  dell'unità  mondiale  sarebbe  risorta  nel  nostro  secolo 
ed  avrebbe  dato  luogo  ad  un  ciclo  storico  che  per  la  mente  gi- 

'  Histoire  des  Revolittions  d'Italie,  tom.  I,  cap.  XII. 


NELLA  LEITERATURA  CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.  595 

gantesca  che  lo  occupò  e  per  l'ampiezza  dei  disegni  da  essa  con- 
cepiti non  è  certo  inferiore  a  quello  di  Carlomagno  ?  11  mondo 
vide  a  Parigi  un  nuovo  imperatore  d'occidente  consacrato  dalle 
mani  di  un  papa,  come  era  stato  Carlomagno  da  Leone  HI. 
L'autorità  di  quest'uomo  era  anche  più  estesa  di  quella  dell'im- 
peratore franco;  essa  si  estendeva  dal  Tago  alla  Vistola,  dalla 
Sprea  all'Adriatico;  e  un  poeta  epico  che  si  disponesse  a  cantarne 
le  gesta,  dovrebbe,  nel  fare  la  rassegna  dei  suoi  eserciti  essere 
forse,  in  questa  parte,  anche  più  diffuso  dei  cantori  di  Carlomagno. 
Il  mondo  vide  ancora  una  volta  il  lusso,  la  pompa  e  gli  usi  delle 
corti  imperiali  del  medio  evo;  vide  un  re  di  Koma,  un  esercito 
di  dignitari,  una  nuova  aristocrazia  bellica  capace  di  far  ri- 
scontro senza  sfigurare  allato  dei  paladini  di  Carlomagno.  Per 
giungere  a  tanto  apogeo  di  gloria  e  di  potenza  ci  voleva  un  genio 
e  un'ambizione  sterminati,  e  queste  qualità  certamente  non  man- 
carono né  a  Napoleone  né  a  Carlomagno.  Però  intorno  a  questo 
ultimo  ed  alle  sue  gesta  si  formarono  le  più  curiose  e  strane  leg- 
gende, le  quali,  diedero  poi  origine  ai  poemi  più  illustri  che 
vantino  le  letterature  europee.  Cosa  s'  è  fatto,  o  cosa  si  farà,  per 
questo  riguardo,  intorno  a  Napoleone  ed  al  ciclo  storico  che 
in  lui  si  compendia?  La  scarsa  suppellettile  leggendaria  che  finora 
quel  ciclo  ci  ha  tramandato  mostra  la  diversità  dei  tempi  ;  e  a 
meno  della  sopravvenienza  di  una  nuova  barbarie  in  mezzo  alle 
cui  tenebre  suole  la  leggenda  fecondarsi,  quella  scarsa  suppel- 
lettile non  avrà  assai  probabilmente  la  fortuna  della  cronaca  at- 
tribuita all'arcivescovo  Turpino. 

E  pure  quanta  materia  epica  nella  vita  di  Napoleone!  La 
sua  carriera  è  vasta  come  il  mondo  ;  straordinaria  per  gli  umili 
principi  che  ha  avuti,  non  meno  che  per  la  tragica  sua  fine,  essa 
è  di  una  grandezza  che  sbalordisce  per  le  imprese  ond'  essa  si  com- 
pone. Eccolo  questo  figlio  di  un  nobiluzzo  còrso.  Egli  si  reca  in  Fran- 
cia e  chiede  alla  vecchia  monarchia  1'  educazione  che  s' impartisce 
nelle  scuole  militari  alla  nobiltà  decaduta.  Appena  escito  dalle 
scuole,  si  guadagna  in  una  sanguinosa  sommossa  il  titolo  di  generale 
incapo;  in  seguito  passa  dall'esercito  di  Parigi  a  quello  d'Italia, 
conquista  in  poche  settimane  questo  paese,  richiama  sopra  di  sé 
e  distrugge  una  dopo  1'  altra  tutte  le  forze  della  coalizione  eu- 
ropea, impone  la  pace  di  Campo  Formio  all'  Austria,  e  già  troppa 
grande  per  vivere  allato  del  governo  della  Repubblica,  va  a  cer- 
care un  nuovo  destino  in  Oriente  ;  passa  con  cinquecento  vele  at- 
traverso le  flotte  inglesi,  conquista  1'  Egitto  a  passo  di  corsa,  con- 


596  LA  POLITICA 

cepisce  r  idea  di  invadere  l' India  seguendo  la  strada  di  Alessan- 
dro; poi  richiamato  ad  un  tratto  in  Occidente  dalla  guerra  europea 
nuovamente  scoppiata,  dopo  di  aver  cercato  di  imitare  Alessandro, 
imita  Aimibale  col  passaggio  delle  Alpi,  schiaccia  di  nuovo  la 
coalizione  europea  e  le  impone  la  pace  di  Luneville.  Fin  qui  questo 
figlio  di  un  povero  gentiluomo  corso  ha  già  percorso  a  trent'anni 
una  straordinaria  carriera!  Ma  non  è  che  a' suoi  principii.  Di- 
ventato per  qualche  tempo  pacifico,  egli  rafferma  colle  sue  leggi 
su  nuove  basi  la  società  moderna;  poi,  abbandonandosi  agli  impeti 
del  suo  bollente  genio,  è  di  nuovo  alle  prese  coli'  Europa,  la 
schiaccia  in  tre  giornate  immortali:  Austerlitz,  Jena,  Friedland; 
crea  e  rovescia  imperi,  pone  sul  suo  capo  la  corona  di  Carlomagno, 
vede  i  re  offrirgli  a  gara  la  loro  figlia  per  isposa,  sceglie  quella 
dei  Cesari,  dalla  quale  ha  un  figlio  che  sembra  destinato  a  por- 
tare la  più  splendida  corona  che  sia  mai  esistita;  da  Cadice  vola 
a  Mosca,  dqve  soccombe  in  una  catastrofe,  di  cui  i  secoli  non  regi- 
strano l'eguale;  rifa  la  sua  fortuna,  la  distrugge  un' altra  volta  ; 
è  relegato  in  una  piccola  isola  del  Mediterraneo,  ne  esce  ad  un 
tratto  con  poche  centinaia  di  soldati  fedeli,  ridesta  nuovamente 
il  prestigio  del  suo  nome,  riconquista  la  Francia  in  venti  giorni, 
si  pone  nuovamente  a  fronte  dell'  Europa  esasperata,  soccombe  per 
r  ultima  volta  a  Waterloo,  e  dopo  di  aver  sostenuto  delle  guerre 
più  colossali  che  non  siano  quelle  stesse  dell'  impero  romano,  è 
costretto,  lui  nato  in  un'isola  del  Mediterraneo,  a  morire  in  un'isola 
dell'  Oceano,  legato  come  Prometeo  ad  una  rocca  dall'  odio  e  dalla 
paura  dei  regnanti.  Ebbene  questo  figlio  di  un  povero  gentiluomo 
córso  ha  certo  fatta  nel  mondo  la  figura  di  Alessandro,  di  Anni- 
bale, di  Cesare,  di  Carlomagno! 

Qual  carriera  più  vasta,  quale  più  strepitosa  successione  di 
avvenimenti  straordinari  ha  mai  potuto  scuotere  più  fortemente 
r  immaginazione  di  un  popolo,  e  qual  nome  più  meritevole  di  vi- 
vere eternamente  nella  leggenda  popolare  ?  Finché  1'  eroe  visse,  i 
Francesi  passavano  di  ammirazione  in  ammirazione;  ogni  altro 
sentimento  era  come  spento  in  essi;  ogni  altra  facoltà  sospesa;  si 
era  tutti  intenti  a  seguire  coll'occhio  quell'uomo  straordinario  sulla 
scena  del  mondo;  si  cercava  di  indovinare  i  suoi  pensieri,  si  am- 
miravano i  suoi  scritti,  si  portavano  al  cielo  le  sue  gesta.  Pareva 
che  non  vi  fosse  più  posto  per  altra  attività  intellettuale  che  per 
la  sua;  com'  egli  era  il  primo  capitano,  cosi  era  pure  il  primo 
scrittore  del  suo  tempo,  cantore  egli  stesso  delle  sue  proprie  ge- 
sta nei  suoi  famosi  dispacci.  Siéyès,  sentendosi  un  giorno  doman- 


NELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.     597 

dare. da  qualcuno  che  cosa  stesse  pensando,  rispose:  Je  ne  pense 
plus.  Egli  esprimeva  con  questo  il  pensiero  di  tutta  la  Francia. 
Tutto  il  pensiero,  la  vita  e  la  speranza  di  essa  era  nel  suo  capo 
e  nel  suo  esercito  che  le  avevano  dato  la  calma,  la  prosperità,  la 
gloria,  una  grandezza  inaudita.  Questo  stesso  stato  di  assorbimento 
di  tutto  un  popolo  in  un  pensiero  unico,  in  un  sentimento  esclu- 
sivo di  ammirazione  impediva  alla  poesia  di  prendere  uno  slancio 
degno  dell'uomo  e  dell'argomento:  le  muse  si  nascondevano  ge- 
lose di  tanto  fulgore  e  di  tanta  gloria.  Né  la  leggenda  poteva 
ancora  nascere.  La  leggenda  è  l'ammirazione  popolare  concentrata 
nel  fuoco  della  memoria:  essa  ha  bisogno  di  vedere  a  qualche  di- 
stanza il  suo  eroe,  perchè  la  distanza  lo  ingrandisce.  In  quella  vece 
abbiamo  i  discorsi  e  le  allocuzioni  chiare,  corrette,  eleganti  e  fredde 
di  Cambacérès  e  di  Fontanes;  poi  una  quantità  innumerevole  di 
commedie,  vaudevilles,  drammi,  dove  è  fatta  l'apoteosi  imperiale,  e 
dovuti  alla  penna  di  scrittori  ora  andati  pressoché  tutti  in  dimen- 
ticanza. 

Però  in  questo  concerto  di  inni  all'eroe  del  giorno  va  fatta 
particolare  menzione  di  un  poeta  di  carattere  rispettabile  e  di  vero 
merito  letterario,  il  quale  non  potè  egli  neppure  resistere  alle 
seduzioni  dell'astro  napoleonico.  È  questi  il  Viennet.  Egli  poi 
diventò,  sotto  la  monarchia  di  Luglio,  il  poeta  dei  dottrinari, 
ma  ebbe  il  merito  di  fermarsi  lì  e  di  fare  del  dottrinarismo 
di  Thiers  e  di  Guizot  l'ultima  sua  fede  politica;  cosa  che  non 
può  dirsi  di  Lamartine,  di  Victor  Hugo  e  di  quasi  tutti  gli 
altri  poeti  del  suo  tempo,  i  quali  seguirono  a  capo  chino  la  Fran- 
cia nelle  variazioni  più  repentine  e  piìj  scapigliate  della  sua 
atmosfera  politica. 

L'epistola  del  Viennet  À  Vempereur  Napolcon  P''  ha  da  cima 
a  fondo  la  piìi  spiegata  intonazione  cesarea;  ma  è  scritta  con  di- 
gnità e  senza  ampollose  adulazioni.  11  poeta  felicita  l'imperatore 
per  gli  abbellimenti  da  lui  fatti  nella  città  di  Parigi,  e  si  ferma 
con  predilezione  sui  monumenti  che  ricordano  le  vittorie  napo- 
leoniche e  la  gloria  della  Francia. 

Là  des  jours  des  Fleurus,  d'Arcole  et  d'Aboukir, 
Des  pahnes  dii  Helder  vivrà  le  souvenir; 
lei  de  Rivoli  les  superbes  portiques 
Rediront  les  affront?  des  aigles  germaniques. 
Du  lion  de  la  Sprée,  en  sept  jours  terrassé, 
Sur  le  pont  de  Jena  l'opprobre  est  retracé. 
Cet  autre  d'Austerlitz  rappelle  la  journée, 


598  LA  POLITICA 

Où,  de  vingt  potentats  fixant  la  destiuée, 

Nous  t'avons  vu,  le  glaive  et  l'olive  à  la  main, 

Abattre  et  relever  le  tróue  du  Gennai  n, 

Et,  frappant  de  terreur  l'orgueilleux  Moscovite, 

Pardonner  à  soa  maitre  et  protéger  sa  fuite. 

Plus  loin  de  Marengo  le  Forum  ppacieux 

Redit  du  Ooiisulat  les  exploits  glorieux. 

Ailleurs  le  nom  d'Erfurth  nous  ramène  à  ces  féteg 

Où  le  czar  dans  tea  bras  oublia  ses  défaites, 

Quand  aux  màles  accenta  de  sa  magique  voix 

Talma  fit  tressaillir  un  parterre  de  rois. 

De  plus  grands  monuments  diront  aux  fils  des  hommes 

Quel  règne  fut  le  tien  et  quel  peuple  nous  sommes: 

Oui,  cet  are  élégant,  orgueil  du  Carrousel, 

Qu'enrichit  de  Saint-Marc  le  quadi-ige  immortel  ; 

Oette  colonne  altière,  où  se  roule  eii  spirale 

Des  vainqueurs  d'Austerlitz  la  course  triompbale; 

Sur  ce  bronze  captif  des  foudres  ennemis, 

Qu'à  traverà  mille  feux  leur  audace  a  conquis; 

Ce  tempie,  qui,  gardant  les  fastes  de  leur  gioire, 

Sera  pour  les  Fran^ais  le  tempie  de  mómoire; 

Ce  portail  colossal,  dont  le  large  fronton 

De  ton  palais  au  loin  diminue  Tborizon, 

Semblent,  par  leur  grandeur  et  leur  magnificence, 

D'un  peuple  de  géauts  retracer  la  vaillance. 

(1809). 

Napoleone  ebbe,  anche  morendo,  un  destino  straordinario. 
Dopo,  di  essere  salito  ad  una  altezza  non  inferiore  forse  a  quella 
raggiunta  da  Alessandro,  Cesare  e  Carloinagno,  ne  cadde  mi- 
seramente e  finì  i  suoi  giorni  esigliato  e  prigioniero  sopra  un 
orrido  ed  inclemente  scoglio.  Egli  aveva  abusato  della  fortuna, 
delle  forze  e  della  fiducia  del  suo  paese,  stancata  1'  Europa 
col  suo  despotismo  e  colla  sua  sfrenata  ambizione,  ripieni  d'odio 
i  liberali  di  tutti  i  paesi  per  avere  tradito  quella  rivoluzione 
in  nome  della  quale  era  salito  tanto  alto,  e  reso  in  ultimo 
malcontento  l'esercito  stesso,  che  non  scorgeva  un  fine  alle  eterne 
guerre,  e  che  si  vedeva  ridotto  a  non  più  essere  altro  che 
un  cieco  stromento  di  un  egoismo  sconfinato;  Egli  doveva  ca- 
dere e  cadde,  e  quando  la  Nouvelle  Espérance.  con  a  bordo 
r  eroe   e  pochi  seguaci  partì  per   Sant'Elena,  la  Francia  e  l'Eu- 


NELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.  599 

ropa  tutta  mandarono  un  gran  sospiro  di  soddisfazione  e  si 
sentirono  liberate  da  un  peso  insopportabile.  Ma  questa  sod- 
disfazione doveva  durar  poco.  In  luogo  dell'  uomo  dal  genio 
ardente  e  battagliero  che  per  venti  anni  aveva  tenuto  in  agi- 
tazione il  mondo,  era  venuto  ad  assidersi  sul  trono  della  Fran- 
cia un  rampollo  degli  odiati  Borboni,  il  quale  doveva  la  sua  co- 
rona all'intervento  straniero.  Di  più,  gli  atti  del  nuovo  governo 
parevano  escogitati  a  posta  per  togliergli  la  fiducia  e  la  simpatia 
del  paese.  In  luogo  di  un  governo  di  conciliazione  e  saggiamente 
liberale  tendeva  a  prevalere  fin  dal  principio  una  politica  di 
odio,  di  combattimento  e  di  vendetta.  All'estero,  il  nuovo  go- 
verno borbonico  significava  sommessione  assoluta  alle  potenze  vin- 
citrici ;  all'interno,  significava  guerra  a  tutto  ciò  che  la  rivolu- 
zione aveva  creato.  Ai  tristi  indizi  tennero  presto  dietro  gli  atti; 
fu  introdotta  la  censura,  limitatala  libertà  della  stampa,  ristretto 
il  diritto  elettorale,  ristabiliti  i  maggioraschi,  creata  una  legge 
di  religione,  infine  fu  posto  il  paese  in  balìa  dell'  aristocrazia  e 
del  clero.  A  queste  novità  reazionarie  facevano  fedele  riscontro 
novità  di  simil  genere  negli  altri  stati  d'  Europa,  e  appai-ve  su- 
bito evidente  a  tutti  che  intento  comune  dei  governi  d'allora  era 
di  ricondurre  un  po'  alla  volta  le  cose  allo  stato  in  cui  si  trova- 
vano al  buon  tempo  antico.  Una  viva  reazione  non  tardò  a  ma- 
nifestarsi dovunque  contro  le  idee  dominanti,  ma  specialmente  in 
Francia,  la  quale  orgogliosa  della  sua  rivoluzione  era  ben  risoluta 
a  non  lasciarla  disonorare  e  seppellire  senza  dar  battaglia  ai  ne- 
mici di  essa. 

Fin  da  quando  il  governo  della  Eestaurazione  mosse  i  primi 
passi  in  questa  via  antiliberale  si  poteva  con  certezza  prevedere 
che  avrebbe  in  essa  trovato  la  sua  rovina.  Egli  si  andava  in  tal 
modo  alienando  la  parte  più  viva  del  paese,  quella  che,  per  dir  così, 
conteneva  in  sé  l'avvenire.  1  liberali,  che  avevano  a  capi  più  auto- 
revoli e  popolari  Lafayette,  Manuel  e  Koyer-Collard,  denunziavano 
dalla  tribuna  parlamentare  gli  arbitrii  e  la  politica  reazionaria  del 
governo,  e  minacciavano  ad  ogni  istante  di  scendere  in  piazza  per 
rovesciarlo.  Ma  v'era  un' altra  potenza  che  sorgeva  contro  quel  go- 
verno, potenza  che  si  era  creduta  spenta,  o  almeno  grandemente  in- 
debolita dopo  Waterloo,  la  quale  però  cominciava  da  qualche  tempo 
a  farsi  sentire  e  minacciava  di  diventare  un  altro  terribile  avver- 
sario del  governo  della  Restaurazione.  Questa  potenza  era  il  nome 
del  Grand'  Uomo.  Ed  è  qui  che  cominciano  a  notarsi  i  primi  al- 
bóri  della  leggenda  napoleonica.    Essa    ad   ogni    modo   sarebbe 


600  LA   POLITICA 

sorta  sull'orizzonte  politico  e  letterario  della  Francia;  ma  gli  er- 
rori del  governo  di  Luigi  XVIII  ne  affrettarono  la  nascita  e  le 
diedero  presto  forza  e  vigore.  Il  bonapartismo  sotto  la  Restau- 
razione non  si  può  veramente  chiamare  un  partito  politico  par- 
lamentare; la  sua  influenza  non  si  concentra  fra  le  mura  di  un 
parlamento  per  spandersi  di  là  nel  paese  ed  acquistarvi  forza  ed 
influenza;  egli  ha  una  base  piìi  vasta,  ha  le  sue  radici  negli  strati 
più  dispersi  del  popolo,  ed  è  impossibile  non  riconoscere  in  esso 
un  largo  carattere  nazionale.  Esso  ha  i  suoi  partigiani  fra  gli 
operai  e  nel  popolo  delle  campagne,  in  particolar  modo,  gente 
questa  di  aspirazioni  indefinite,  di  immaginazione  facilmente  ec- 
citabile, che  poco  0  nulla  capisce  di  equilibrio  dei  poteri  e  di 
garanzie  parlamentari,  mentre  la  memoria  del  Grand' Uomo  fa- 
cilmente la  seduce  ed  infiamma. 

Bisogna  rinunziare  a  dare  una  lista  anche  incompleta  delle 
opere  aventi  ad  argomento  1'  epopea  napoleonica,  che  comincia- 
rono a  pubblicarsi  poco  dopo  restaurato  il  governo  borbonico. 
Esse  furono  innumerevoli.  Dopo  di  averle  viste  od  udite,  il  po- 
polo amava  ora  di  veder  narrate  quelle  gesta  straordinarie  che 
avevano  portato  tanto  alto  il  nome  della  Francia;  e  l'influenza 
che  questa  grande  produzione  letteraria  ebbe  nel  mantener  viva 
la  leggenda  napoleonica  è  stata  senza  dubbio  grandissima.  Ma 
egli  è  nella  poesia  che  la  fonte  leggendaria  appare  più  viva 
e  genuina  e  nella  veste  sua  più  propria  e  naturale. 

Nei  Souvenirs  du  peuple,  il  Béranger  cosi  canta  dei  tempi 
napoleonici  : 

Oa  parlerà  de  sa  gloii'e 
Sons  le  chauiue  bien  longtenips; 
L'iiumble  toit,  dans  cinquaute  aus, 
Ne  connaìtra  pas  d'aiitre  liistoire. 
Là  viendrout  les  villageois 
Dire  alors  à  quelque  vieille: 
Par  des  récits  d'autrefoip, 
Mère,  abrégez  notre  veille. 
Bien,  dit-on,  qu'il  nous  ait  nui, 
Le  peuple  encore  le  révère, 

Olii,  le  révère  ; 
Parlez-nous  de  lui,  grande-mère, 

Parlez-nous  de  lui. 


Lui,  qu'un  pape  a  couronné, 


NELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.  601 

Est  mort  dans  une  ile  deserte, 
Longtemps  aucim  ne  l'a  cru; 
Oa  disait:  il  va  parai  tre; 
Par  ruer  il  est  accouru; 
L'étraiiger  va  voir  son  maitre  ; 
Quand  d'erreur  on  nous  tira 
Ma  douleur  flit  biea  amère, 
Flit  bieii  amère  ! 

E  nel  Cinq  Mai  il  genio  napoleonico  torna  a  rifulgere  del  suo 
più  grande  splendore  sul  vedovo  scoglio  di  Sant'Elena: 

Bien  aii  dessiis  des  tróues  de  la  terre 

Il  apparaìt  brillant  sur  cet  écueil  ; 

Sa  gioire  est  là  cornine  le  phare  immense 

D'un  nouveau  monde  et  d'un  monde  trop  vieux, 

Pauvre  soldat,  je  reverrai  la  Trance, 

La  mala  d'un  lìls  me  fermerà  les  yeiix. 

Pagò  pure  un  largo  tributo  alla  leggenda  napoleonica  il 
Barthélemy  nel  suo  Napolcon  en  Égypte,  come  pure  il  Delavigne 
in  qualcuna  delle  sue  Messéniennes.  lì  Laraartine,  nell'  ode  Bo- 
naparte,  così  tratteggia  la  carriera  epica  dell'eroe: 

S'élancer  d'un  seul  bond  au  char  de  la  victoire  ; 
Foudroyer  l'univers  des  splendeurs  de  sa  gioire; 
Fouler  d'un  méme  pied  des  tribuns  et  des  rois; 
Forger  un  joug  trempé  dans  l'amour  et  la  baine, 
Et  faire  frissonner  sous  le  frein  qui  l'enchaìne 
Un  peuple  écbappé  de  ses  lois. 

Etre  d'un  siede  eutier  la  pensée  et  l'envie, 
Emou?ser  le  poignnrd,  décourager  l'envie, 
Ébranler,  raffenuir  l'univers  incertain  ; 
Aux  sinistres  clartós  de  la  foudre  qui  gronde, 
Vingt  fois  contre  les  Dieux  jouer  le  sort  du  monde. 
Quel  réve!!!  et  ce  fut  ton  destia!... 

Victor  Hugo  stesso,  il  quale  nel  1827  non  aveva  ancora  ab- 
bandonata la  fede  borbonica,  dopo  di  avere,  nell'ode  À  Bonaparte 
scritta  in  quell'anno,  chiamato  l'uomo  del  secolo  uno  di  quei  tristi 
eredi  dello  spirito  di  Nembrod  che  Dio  manda  a  punizione  degli 
uomini,  nella  prima  sua  ode  À  la  Colonne,  scritta  nello  stesso 
torno  di  tempo,  accetta  con  orgoglio  l'eredità  napoleonica  e  dice 
che  le  aquile  dellaColonna  saranno  d'or  innanzi  difese  dalla  bandiera 
bianca.  E  poi  esce  in  questa  intemerata  contro  lo  straniero,  ispi- 


602  LA  POLITICA 

rata  dalla  gloria  che  versò  sulla  Francia  l'epopea  bellica  dell'lin- 
pero: 

Prenez  garde,  étrangers  ;  uous  ne  savons  que  faìre  ! 
La  paix  nou3  berce  ea  vain  dans  sou  oisive  sphère, 
L'arène  de  la  guerre  a  poiir  nous  tant  d'attrait  ! 
Nous  froissons  dans  nos  mains,  hélas  !   inoccupées, 

Des  lyres,  à  défaut  d'épées  ! 

Nous  chantons  comme  on  combattrait! 

L'étranger  briserait  le  blasoii  de  la  France  ! 
On  verrait,  enbardi  par  notre  indififórence, 
Sur  nos  fiers  écussons  toiuber  son  vii  marteau! 

Ob  ! comme  ce  Romain  qui  remuait  la  terre, 

Vons  portez,  ó  Fran^^iis!  et  la  paix  et  la  guerre 
Daus  le  pli  de  votre  manteau. 

Votre  aile  en  un  moment  toucbe,  à  sa  fantaisio, 
L'Afrique  par  Cadix,  et  par  Moscou  l'Asie; 
Vous  cbassez  en  courant  Anglais,  Russes,  Geruiains; 
Les  tours  croulent  devant  vos  trompettes  f atales  ; 

Et  de  toutes  les  capit;iles 

Vos  drapeaux  savent  le  chemin. 

in. 

La  rivoluzione  del  Luglio  1830  presenta  un  aspetto  oltremodo 
curioso  ed  interessante.  Essa  era  stata  fatta  per  rivendicare  le 
libertà  costituzionali  violate  dal  governo  di  Carlo  X.  Ogni  rivo- 
luzione perturba  naturalmente  le  acque  di  una  nazione;  se  non 
che  quella  del  1830,  in  luogo  di  quetare,  raggiunto  che  ebbe  il 
fine  per  cui  era  stata  fatta,  continuò  ad  esistere  in  paese  ora  allo 
stato  latente,  ora  palese;  in  modo  che  sotto  quest'aspetto  i  mini- 
stri di  Luigi  Filippo  si  potevano  paragonare  a  quelli  di  Carlo  X; 
essi  avevano  contro  di  sé  tutte  quelle  classi,  alle  quali  la  rivo- 
luzione non  aveva  profittato,  che  è  quanto  dire  pressoché  tutto  il 
paese,  ad  eccezione  dei  borghesi  grassi,  nelle  cui  mani  il  governo 
era  caduto.  Era  malcontenta  ed  ostile  l'aristocrazia,  la  quale  si 
vedeva  minacciata  in  quell'effìinero  olimpo  che  la  Ristorazione  le 
aveva  creato;  ostili  più  che  mai,  e  decisi  ad  agire  i  repubblicani, 
per  i  quali  le  libertà  arrecate  dalle  giornate  di  Luglio  non  erano 
che  un'  arma  per  meglio  proseguire  nella  loro  agitazione,  ed  i 
quali  avevano  per  sé  i  bassi  strati  del  popolo  e  molta  parte  della 
borghesia  che  sentiva  indebolite  o  spente  forse  per  sempre  le 
tradizioni  monarchiche  in  Francia. 


NELLA  LETTERATURA   CONTEMPORANEA   DELLA  FRANCIA.  603 

Il  grand'affare  dei  ministri  di  Luigi  Filippo  fu  sin  dal  prin- 
cipio di  contenere  questi  elementi  avversi  che  erano  risoluti  a 
non  quetare  a  nessun  costo  e  di  continuare  in  quella  politica  così 
detta  di  resistenza  che  ebbe  a  campioni  più  autorevoli  Casimiro 
Périer  e  Guizot.  Ma  la  monarchia  di  Luglio  aveva  a  lottare 
finche  con  un  altro  avversario  forse  più  terribile  dei  repubbli- 
cani, quantunque  come  partito  politico  parlamentare  esso  non 
avesse  guadagnato  molto  da  quello  che  era  sotto  la  Kistora- 
zione.  Già  si  è  indovinato  che  questo  avversario  era  il  bonapar- 
tismo. Napoleone  negli  ultimi  giorni  di  Sant'Elena  aveva  detto  a 
Las  Cases:  «  Ce  n'est  pas  mon  fils  qui  profitera  le  premier 
des  fautes  des  Bourbons  ;  la  maison  d'Orléans  passera  avant  lui  ; 
mais  à  la  suite  de  celle-ci  le  tour  des  Bonaparte  pourra  bien 
venir.  »  E  le  cose  erano  diffatti  succedute  come  aveva  con  occhio 
sicuro  previsto  il  prigioniero  di  Sant'Elena;  era  venuto  il  turno 
degli  Orléans,  ma  già  si  vedeva  in  lontananza  l'astro  napoleonico. 
e  si  poteva  con  certezza  prevedere  che  sarebbe  venuto  anche  il 
turno  di  lui.  Quell'astro  era  il  simbolo  della  gloria  e  della  gran- 
dezza della  Francia;  esso  accecò  tutti.  Tendeva  a  diventare  sempre 
più  generale  il  pensiero  che  se  lo  spirito  liberale  era  nella  rivo- 
luzione, nell'impero  soltanto  era  lo  spirito  veramente  nazionale; 
quindi  quell'associazione  innaturale  di  liberali,  repubblicani,  so- 
cialisti e  bonapartisti,  aventi  idee  cozzanti  fra  di  loro,  però  con- 
cordi tutti  nell'intento  di  rovesciare  la  Monarchia  di  Luglio. 

Egli  è  verso  questo  tempo  che  la  leggenda  napoleonica  ha  il 
suo  punto  più  splendido  e  culminante.  Il  nome  di  Napoleone  di- 
ventò espressione  della  grandezza  e  della  gloria  della  Francia,  e 
si  fece  di  esso  una  specie  di  divinità  soldatesca  e  popolare  alla 
quale  non  mancava  che  il  complemento  di  un  culto  pubblico. 
Cosa  valevano  le  meschine  libertà  politiche  conquistate  nella  Ri- 
voluzione di  Luglio  se  esse  erano  scompagnate  dalla  gloria  e  dalla 
potenza  esterna  della  Francia?  Ecco  quindi  tornare  a  farsi  vive 
quelle  tendenze  ad  una  politica  di  conquista  e  di  propaganda 
che  avevano  animato  la  prima  repubblica  e  l'Impero.  E  come 
nutrire  questo  pensiero  senza  divinizzare  l'Uomo  che  aveva  posta 
l'Europa  a' piedi  della  Francia?  Tutti  furono  verso  questo  tempo 
presi  dalla  vertigine  napoleonica  :  repubblicani  e  monarchici, 
l'aristocrazia,  la  borgesia  e  la  plebe  minuta,  perocché  tutti  più  o 
meno  sentivano  che  al  suono  di  quel  gran  nome  si  risveglia- 
vano le  memorie  più  splendide  e  gloriose  della  nazione.  E  non 
fu  certo  una  cosa  che  manchi  di  singolarità  quella  di  essere  stato 


604  LA  POLITICA 

il  Thiers,  cioè  uno  dei  più  illustri  ministri  di  Luigi  Filippo, 
che  scrisse  la  più  splendida  epopea  napoleonica  che  si  conosca, 
e  di  avere  con  ciò,  inconsciamente  certo,  contribuito  non  poco 
ad  esautorare  quella  monarchia  eh'  egli  serviva  e  che  credeva 
realmente  utile    e    necessaria   al   bene   della  Francia. 

Una  prova  luminosa  della  verità  di  ciò  che  ho  detto  si  ha 
nel  poema  di  Edgardo  Quinet,  intitolato  Napoléon,  da  lui  scritto 
verso  il  1835.  E  un  poema  leggendario,  nel  quale  vengono  date 
a  Napoleone  proporzioni  gigantesche  ed  una  fisionomia  quasi  so- 
vrannaturale. 11  poeta  incomincia  invitando  la  Francia  e  il  mondo 
a  sentire  il  suo  canto  meraviglioso.  La  culla  del  gigante  era 
predestinata.  Perchè  l'irrequieto  popolo  francese  in  giorni  di 
tremenda  collera  scosse  nella  loro  tomba  le  ossa  dei  suoi  vecchi 
monarchi  e  dovunque  egli  passò  rovesciò  istituzioni,  eserciti,  troni? 
Per  procurarsi  un  giuocattolo  che  divertisse  il  gigante  nella 
sua  culla.  La  madre  del  gigante,  Letizia,  tiene  consiglio  con  suo 
marito  sull'educazione  da  dare  al  figlio  portentoso.  Egli  non  sarà 
paggio  di  corte,  perchè  i  re  sono  in  pericolo;  non  sarà  diacono 
del  papa,  perchè  la  sua  casa  è  battuta  dai  venti  e  i  turiboli  non 
hanno  più  incenso.  Egli  sarà  il  figlio  delle  tempeste  e  degli  ura- 
gani; sarà  il  pilota  di  un  regno  combattuto  dalle  onde.  Ma  l'oceano 
non  ha  un'isola  abbastanza  vasta  per  un  tal  pilota;  i  suoi  occhi 
sono  di  un'aquila,  il  suo  braccio  è  fortissimo,  il  suo  cuore  batte 
rapidissimo;  egli  sarà  cacciatore  nei  boschi,  ma  cacciatore  di 
leopardi  e  di  leoni. 

Ci  voleva  una  fata  che  predicesse  l'avvenire  del  gigante.  Un  tal 
personaggio  è  necessario  in  un  poema  epico;  ed  ecco  la  fata  ap- 
parire nel  terzo  Canto  sotto  le  volgari  spoglie  di  una  zingara 
(Bolle  mi  enne),  la  quale  legge  nelle  mani  di  Letizia  la  buona 
ventura,  non  di  lei,  ma  del  figlio.  La  zingara  prevede  tutto  il  ciclo 
napoleonico;  si  vedon  passare  nel  suo  caleidoscopio  cimieri,  elmi 
scintillanti,  trombe,  cannoni,  masse  interminabili  di  soldati  afi'a- 
ticati  a  correre  il  mondo  all'appello  del  gigante;  si  vedon  le  gesta 
dell'eroe  sull'Adige,  sul  Nilo,  alle  Piramidi,  sull'Eridano.  Napo- 
leone vede  un  trono  sulla  sua  via,  se  ne  impossessa,  ed  i  popoli 
hanno  nuovamente  un  Cesare.  Il  gigante  stanca  la  vittoria  stessa; 
ma  viene  il  giorno  del  disastro;  i  cavalli  dell' Ukrania  riempiono 
il  mondo  dei  loro  forti  nitriti,  e  il  gigante  cade.  Ecco  la  buona 
ventura  della  zingara. 

11  poeta  segue  Napoleone  in  tutti  i  suoi  campi  di  battaglia. 
All'approssimarsi  dell'eroe,  Venezia  si  sente  compresa  di  alto  spa- 


NELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.     605 

vento  e  tristamente  esclama:  la  mia  ora  è  venuta.  Il  leone  di 
san  Marco  cerca  invano  i  suoi  deserti  libici  e  la  sabbia  affricana; 
egli  muore  in  fondo  al  mare  scuotendo  invano  la  sua  criniera, 
scherno  delle  onde. 

Giuseppina  scrive  a  Napoleone  lamentandosi  ch'egli  la  lasci 
sempre  sola  e  che  piuttosto  che  mettere  nelle  dita  di  lei  l'anello  nu- 
ziale lo  abbia  messo  in  quelle  sanguinose  delle  battaglie.  Napoleone 
risponde  che  pensa  a  lei  tutti  i  giorni,  ma  soggiunge  che  si  cre- 
derebbe indegno  di  lei  e  che  temerebbe  d'essere  un  giorno  rin- 
negato dai  suoi  figli  se  non  mettesse  ai  loro  piedi  la  terra  tutta. 
Intanto  andrà  in  Oriente,  che  è  il  luogo  del  suo  pensiero;  colà 
la  sua  aquila  farà  il  suo  nido. 

In  Egitto  era  stato  predetto  dalle  sfingi  ed  aspettato  da  tutti 
il  leone  dell'occidente  che  doveva  schiacciare  tutti  i  leoni  del 
deserto. 

Napoleone  è  primo  console.  Egli  è  tutto,  gli  altri  nulla;  egli 
ha  fatto  il  male  e  il  bene;  mille  nomi  sono  periti  per  far  grande 
il  suo;  un  sol  uomo  ha  occupato  il  posto  dei  popoli  mentre  questi 
dormivano.  E  dormano  pure!  Il  giovane  console  sarà  vigile  sen- 
tinella j)er  loro  tutti.  Armato  del  suo  compasso,  egli  farà  una 
nuova  spartizione  del  mondo.  Con  un  sol  cenno  farà  scomparire 
dalla  faccia  della  terra  un  popolo  superbo;  traccerà  con  un  tratto 
di  penna  una  nuova  via  attraverso  le  Alpi  come  Annibale,  e  la  sua 
lampada  nel  rinnovarsi  illuminerà  un  universo  sempre  nuovo.  Egli 
unirà  i  miracoli  della  pace  a  quelli  della  guerra,  creerà  un  nuovo 
codice,  e  di  mille  consuetudini  diverse  farà  una  sola  legge  che 
sarà  immortale  come  il  suo  nome. 

Vengono  il  passaggio  del  san  Bernardo  e  Marengo.  Ma  l'erba 
cresce  troppo  presto  sui  campi  di  Marengo;  troppo  presto  il  de- 
serto disperde  persin  l'eco  di  questo  nome.  Viene  Austerlitz.  Ecco 
il  grande  imperatore!  Egli  veglia  su  un  letto  di  paglia.  Egli  ve- 
glia, e,  pieno  il  cuore  di  un  grande  o.vvenire,  costruisce  nel  suo 
pensiero  una  via  di  bronzo.  Egli  sente  nel  suo  bivacco  flagellato  dal 
vento  e  dalla  pioggia  ruggire  la  battaglia  nell'abisso  del  suo  genio. 
E  la  battaglia  viene  sanguinosa,  orrenda,  immortale: 

Et  lui,  comme  un  géant,  debout  dans  son  domarne, 

Il  attise  à  ses  pieds  son  foj'er  dans  la  plaiae. 

Comme  un  ftìuillage  mort  qu'on  ramasse  en  janvier, 

Il  jette  à  pleines  mains  ses  peuples  aii  brasier; 

Et  crénelaut  leurs  toits  d'ime  fiamme  rougeàtre 

Les  hameaux,  alentour,  pétillent  dans  sou  atre. 


606  LA  POLITICA 

Un  messager  survient,  puis  un  autre  après  lui. 
Et  puis  un  autre  encor.  —  L'arrière-garde  a  fui  ! 

—  Sire,  couvrez  vos  flancs!  —  Sire,  votre  aile  ploie! 

—  Sire,  tout  est  perdu!  —  Lanne  en  son  sang  se  noie! 

—  C'est  assez,  compte  Rapp  !  ils  sont  à  nous,  marchez  ! 
La  bataille  est  là-bas  au  pied  de  ces  clocbers. 

Puis,  comme  un  serpent  d'eau  qui  sous  l'berbe  s'agite 

Il  foule  aux  pieds  des  lacs  le  serpent  moscovite. 

Son  ópée  a  fremì  sans  sortir  du  fourreau, 

Et  cent  villes  déjà  se  creuseut  le  tombeau. 

Que  serait-ce,  raon  Dieu!  si  devant  leurs  niurailles 

Elle  eùt  lui  tonte  mie  au  soleil  des  batailles? 

Ma  i  fami  della  superbia  salgono  alla  testa  dell'eroe;  egli  è 
preso  da  vertigine;  egli  vede  al  suo  lato  l'abisso  spalancato  pronto 
a  divorare  la  sua  ombra  e  la  sua  fortuna.  Attendimi,  o  abisso,  che  io, 
nel  mio  accecamento,  non  tarderò  a  venire  a  te,  lasciami  su  questa 
sommità  un'ora  soltanto,  un'ora!  il  più  vile  insetto  ha  una  vita 
più  lunga.  Che?  nemmeno  un'ora,  tanto  tempo  per  scrivere  qui  il 
mio  nome  e  spiegare  la  mia  tenda  !  Ahimè  !  io  non  giunsi  quassù 
se  non  per  sentirmi  vacillare  i  piedi,  e  il  mio  impero  non  è  giunto 
a  tanta  altezza  se  non  per  cadere  con  più  fracasso,  lo  chiusi  le 
porte  del  Caos  e  spensi  la  sua  notte  profonda,  ho  ricollocato  il 
mondo  sui  suoi  vecchi  cardini;  ho  fatti  e  disfatti  re  per  diver- 
tirlo. Io  mi  credevo  il  padrone  di  tutti,  e  non  era  che  uno  stru- 
mento; la  mia  stessa  potenza  volgeva  in  favore  di  un  altro,  e  io  non 
ero  che  il  Caso  che  si  chiama  Provvidenza.  Ebbene,  diamo  libero 
sfogo  ad  ogni  nostro  desiderio,  che  la  nostra  volontà  sia  nostra  legge 
suprema  ;  diamoci  il  piacere  di  vivere  per  noi  stessi  e  per  noi  soli, 
e  siamo  anche  per  un  giorno  solo  la  nostra  divinità.  Che  ci  si 
abbrucino  gl'incensi,  il  resto  è  nulla.  0  anima  mia,  colloca  la  tua . 
sede  nel  regno  dell'impossibile;  e  tu  stessa,  se  lo  puoi,  cerca  di 
divertirti  rovesciando  sopra  di  me  la  mia  stessa  opera  di  gigante. 
Al  postutto,  questa  felicità  monotona  mi  è  venuta  a  noia,  e  voglio 
provare  il  gusto  del  male.  Voglio  scendere  di  tanto  di  quanto  mi 
sono  innalzato,  per  poter  meglio  conoscere  il  bene  e  il  male.  E 
chissà  se,  giunti  alla  cima  agognata,  sia  meglio  salire  o  scendere, 
stare  in  alto  o  cadere  nell'abisso  ?  Ma  che  sarà  del  mondo  quando 
io  non  sarò  più?  Esso  temerà  di  perdersi  come  un  fanciullo  ab- 
bandonato a  sé  solo;  potrà  esso  camminare  quando  più  non  bril- 
lerà sull'orizzonte  il  mio  astro  tutelare?  —  Io  regnerò  nella  mia. 


NELLA  LETTEKATURA  CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.  607 

assenza  stessa,  ed  anche  più  che  non  abbia  regnato  colla  mia  on- 
nipotenza; il  mio  stesso  nulla  riempirà  il  vuoto  immenso  meglio 
che  non  abbiano  fatto  la  mia  stessa  gloria  e  la  mia  prosperità. 
E  deciso;  ho  bevuto  il  vino  del  mio  orgoglio  e  mi  ha  colto  la 
vertigine.  Voglio  mettere  su  una  carta  il  mio  impero;  la  sorte 
deciderà. —  Dio!  ho  perduto! 

Ed  ecco  che  in  Roma  il  Papa  prepara  i  suoi  fulmini  e  i  suoi 
anatemi  contro  il  reprobo  accecato  dall'orgoglio;  egli  fa  sentire 
al  mondo  queste  tremende  parole:  «  In  nome  dello  Spirito  Santo, 
fonte  di  ogni  luce,  in  nome  del  Padre  e  del  Figlio  !  0  Napoleone 
còrso,  che  ieri  fosti  incoronato  dalle  nostre  stesse  mani  e  fatto  re 
più  grande  di  tutti  i  re,  e  il  padrone  del  mondo  ;  o  flagello  di 
Dio,  idolo  della  terra  che  un  giorno  eri  polvere,  ridiventa  pol- 
vere! La  tua  ora  è  suonata,  finita  ogni  tua  gioia;  rovesciati  da  te 
stesso  dalla  superba  Babele  che  hai  costruito  !  Hai  tu  mai  pòrto 
l'orecchio  ai  lamenti  del  mondo,  o  figlio  della  collera  ?  Non  più  san- 
gue ;  il  braccio  dell'Onnipotente  ti  abb  andona.  Tu  innalzasti  un  al- 
tare alla  tua  stessa  iniquità  e  nella  tua  prosperità  hai  veduto  te 
solo.  Tu  non  ami  il  popolo,  tu  non  ami  nulla  fuorché  lo  squillo 
delle  tue  trombe  e  le  tue  belliche  tende;  tu  non  avesti  nessuna 
pietà  del  mondo  tremante  a'  tuoi  piedi;  tu  sei  il  flagello  dei 
popoli  che  compongono  il  tuo  impero,  silenzioso  ormai  come  una 
tomba.  Tu  hai  voltato  le  spalle  al  cielo  e  disdegni  come  un'  arme 
spuntata  il  solo  ferro  che  eternamente  dura:  lo  spirito,  l'anima, 
il  pensiero.  Ed  è  per  questo  che  noi,  servi  di  Dio,  ti  interdiciamo 
il  pane,  il  sale,  il  fuoco.  L'Eterno  nella  sua  collera  ti  toglie  la  si- 
gnoria del  tuo  popolo.  Anatema  su  di  te,  sul  tuo  trono,  sulla  tua 
tenda  di  lino  come  sull'oro  del  tuo  palazzo!  Anatema  sul  tuo 
letto,  sui  sogni  che  ti  agitano,  sul  tuo  pallido  volto,  sul  tuo  scet- 
tro, sul  tuo  nome,  sulla  tua  successione,  sulla  tua  spada  spezzata, 
sul  tuo  tetto,  e  infine  sulla  tua  tomba!  » 

Ma  altre  gesta  strepitose,  altre  vittorie  spengono  il  fuoco  dei 
fulmini  sacerdotali.  Nasce  il  re  di  Roma,  il  figlio  dell'aquila.  Suo 
padre  aveva  sognato  per  lui  una  culla  cento  volte  più  bella  ancora, 
un  palazzo  di  rubini  con  cento  porte  d'oro,  decine  di  re  proni  a 
terra,  e  un  trono  più  sublime  di  quello  di  suo  padre.  L'aqui- 
lotto chiede  all'aquila  che  lo  porti  sulle  più  alte  cime  dei  monti, 
e  che  per  cibo  gli  dia  il  sangue  dell'agnello,  la  carne  delle  pecore 
e  i  nati  delle  vipere. 


608  LA  POLITICA 

L'enfant  dit  au  hérns  :  nion  pére,  donnez-moi 
Des  sceptres  d'eiiipereur  et  des  raanteaux  de  roi; 
Qiiand  je  serai  plus  grand,  sous  un  dais  qui  rayonne, 
Aurai-je  corame  vous  une  lourde  couronne  ? 

Anrai-j'ì  corame  vous  tout  entière    d'airain, 
Une  épée  aussi  grande  et  qui  brille  en  raa  maìn  ? 
Et  si  je  faÌ3  un  paa,  les  peuples  de  la  terre 
Cacheront-ils  aussi  leur  front  dans  la   poussière  ? 

Aurai-je  dans  la  mer  où  la  vague  s'endort 

Une  ile  tonte  blene  avec  des  sables  d'or? 

Et  la  monde  à  raes  pieds  qui  pleure  el  qui  soupire 

Sera-t-il  assez  grand  pour  rae  faire  un  erapire  ? 

L'eroe  mostra  al  popolo  il  figlio,  e  così  gli  parla:  «  Fate  bene 
la  guardia  alla  culla  di  mio  figlio,  come  suol  farla  il  leone  presso 
i  suoi  leoncelli;  quando  io  più  non  sarò  sulla  terra,  la  mia  corona 
e  il  mio  raggiante  trono  saranno  suoi.  I  sudditi  sono  sgomentati.  » 
Essi  così  parlano  all'aquila  temuta: 

Sire,  il  est  notre  roi,  noua  veillerons  sur  lui, 
A  votre  grand  combat  retournez  anjourd'hui, 
Gomme  l'aiglon  à  l'aigle,  il  resserable  à  son  pèrej 
Il  a  son  pale  front  et  sa  fauve  paupière. 

Comraent  nourrirons-nous  l'enfant  de  vos  sueurs  ? 
Que  faut-il  lui  donner  pour  apaiser  ses  pleura  ? 

—  Les  petits  des  vautours  dans  les  cliamps  homicides, 
Et  la  chair  des  lions  aux  pieds  des  pyramides. 

Commeut  vétirons-nous  cet  enfant  d'un  héros  ? 
Du  lin  de  la  moisson  ?  des  toisons  des  tronpeaux  ? 

—  Non  pas  de  vos  toisons,  ou  du  lin  de  vos  quenouilles, 
Mais  du  lin  des  corabats  trouvó  dans  leurs  dépouilles. 

De  quoi  reraplirons-nous  sa  coupé  de  rubis? 
Du  viu  de  notre  vigne  ?  où  du  lait  des  bróbis  ? 

—  Non  du  lait  des  agneanx  que  la  louve   épouvante, 

—  Mais  du  vin  de  l'ópée  eii  sa  vigne  sanglante. 

Ma  ecco  l'eroe  che  si  appressa  all'abisso;  vengono  Mosca, 
Waterloo,  Sant'Elena;  il  gigante  è  incatenato  sopra  un  nudo  scoglio 
percosso  dall'ira  degli  uomini  e  di  Dio;  un  giorno  il  mondo  sente 
la  spaventosa  notizia  ch'egli  ha  cessato  di  vivere.  Però  il  gigante 
non  è  morto;  no,  non  è  morto. 


NELLA   LETTERATURA   CONTEMPORANEA   DELLA  FRANCIA.  609 

Non  !  le  cercueil  est  vide  et  la  tombe  a  menti  ; 

Non  !  l'écho  du  n-laat  a  trop  tòt  retenti  ! 

Non  !  le  ver  a  trop  tòt  convoité  sa  pàture, 

Trop  tòt  le  fossoyeur  a  fait  la  sépulture. 

Il  n'est  pas  mort  !  il  n'est  pas  mort  !  De  son  sommeil 

Le  géant  va  sortir  plus  grand  à  son  ré^^eil  ! 

Car  lui  n'était  pas  fait  comme  les  morts  vulgaires 
Que  couvre  tout  entiers  l'herbe  dea  cimetières, 
Ceux-là  lieurtent  en  vaiu  le  sépulcre  du  front, 
Se  creusent  de  leur  main  un  néant  plus  profond; 
Ils  ne  reverront  pas  avant  l'anbe  éternella 
Leur  toit,  ni  leur  foyer,  ni  leur  veuve   fidèle, 

Mais  lui  ne  s"était  pas  de  sable  et  de  limon 

Bàti  son  espérauce  et  compose  son  nom  ; 

Il  n'avait  rien  fonde  sur  l'amour  ou  la  baine, 

Sur  les  vents,  sur  l'écume  ou  sur  la  vague  humaine  ; 

Rien  sur  un  réve  ailé  qui  meurt  en  seveillant, 

Rien  sur  les  vains  regrets  qui  rampent  en  fuyant. 

Il  n'avait  pas  non  plus  établi  sa  demenre 
Farmi  les  faiix  héros  qui  ne  durent  qu'une  heure, 
Du  moindre  de  ses  jours,  dans  l'ombre  enseveli, 
Il  ne  redevait  rien  à  la  cendre,  à  l'oubli. 
Il  ne  s'était  pas  fait  du  lin  de  son  empire 
Une  tente  d'un  jour  que  le  chevreau  déchire  ; 

Mais  en  mille  combats  ramassant  son  butin, 
Toujours  il  revenait  les  bras  chargés  d'airain; 
Puis  il  avait  d'avance,  au  coeur  de  son  royaume, 
Comme  un  bon  forgeron  sur  la  place  Vendóme, 
Bàti  sa  tour  de  fer  en  la  grande  cité, 
Pour  y  passer  les  jours  de  llmmortalité. 

Cadranno  popoli,  re,  imperi,  leggi,  religioni; 

Mais,  comme  un  souvenir  que  se  gardait  l'abime 
Lui  demeurait  debout  sur  son  altière  cime  ; 
Lui  Seul  il  survivait  en  sa  forte  cité  ; 
Car  ses  soldats  d'airain  sans  fermer  la  paupière, 
Le  défendaient  encore,  ainsi  qu'une  barrière, 
Des  morsures  du  temps  et  de  l'éternité  ! 

Così  finisce  il  poema  di  Edgardo  Quinet.  Napoleone  non  è  morto  ; 
egli  è  vivente  nel  suo  popolo  e  com'esso  immortale  !  L'astro  na- 
poleonico non  era  mai  apparso  così  vivo  e  sfolgorante  come  verso 

VoL.  XIV,  Serie  II.—  15  Aprile  iSig.  38 


610  LA   POLITICA. 

il  1835,  epoca  in  cui  quel  poema  fu  scritto,  né  la  leggenda  im- 
periale erasi  mai  come  allora  mostrata  cosi  calda  di  vita  ed  ec- 
citatrice di  più  potenti  ispirazioni. 

Verso  questo  stesso  tempo,  un  poeta  di  ben  altro  valore 
del  Quinet  prese  ad  accendere  ne'  suoi  versi  immortali  1'  animo 
dei  Francesi  per  le  glorie  napoleoniche  e  ravvivare  anche  più  la 
leggenda  imperiale.  Questo  poeta  è  Victor  Hugo.  Certo  nessuna  in- 
telligenza era  più  della  sua  atta  a  concepire  grandi  pensieri  e  a  com- 
prendere quindi  in  tutta  la  sua  ampiezza  il  genio  napoleonico  e 
colorire  l'epopea  imperiale  con  tutta  la  pompa  e  la  magnificenza 
del  suo  gran  genio  poetico.  Victor  Hugo  era  uno  di  quegli  uomini 
politici  pei  quali  il  reale  ha  sempre  in  sé  molte  parti  inaccetta- 
bili e  odiose,  e  che  per  conseguenza  presto  lo  abbandonano  per 
correre  dietro  ad  un  ideale  politico  dotato  di  ogni  purezza  e  perfe- 
zione. In  questo  Victor  Hugo  si  può  considerare  come  il  rappre- 
sentante più  genuino  del  genio  della  nazione  francese.  La  facoltà  di 
spingersi  fino  alle  più  alte  cime  dell'ideale,  pur  restando  fermamente 
attaccati  al  reale,  non  sembra  essere  una  dote  particolare  dei  france- 
si. Nel  1830,  Victor  Hugo,  come  tutti  gli  uomini  politici,  i  quali  non 
appartenevano  al  presente  governo  e  non  facevano  parte  della  con- 
sorteria dei  borghesi  grassi  dominanti,  che  è  quanto  dire  quasi  tutta 
la  Francia  liberale,  la  Francia  dell'  avvenire,  per  usare  una  frase 
corrente,  dimenticarono  subito  le  conquiste  che  il  paese  aveva  fatto 
colla  rivoluzione  di  Luglio.  Parve  a  tutti  che  quelle  conquiste  fossero 
una  meschina  cosa  e  che  si  doveva  andare  in  cerca  di  ben  altri  ideali 
politici.  In  luogo  di  porsi  all'opera,  di  raffermare  il  trono  popolare 
di  Luigi  Filippo  e  consolidare  nelle  leggi  e  nei  costumi  le  libertà  con- 
quistate nelle  famose  giornate,  tutti  corsero  dietro  all'idolo  della 
gloria  e  della  grandezza  nazionale.  Nella  seduta  del  7  ottobre  del 
1830,  la  Camera  francese,  che  era  dominata  dai  borghesi  grassi, 
pei  quali  la  rivoluzione  di  Luglio  doveva  essere  l' ultima  pa- 
rola, e  sui  quali  aveva  poca  presa  la  vertigine  napoleonica  che 
cominciava  ad  infiammare  il  cervello  dei  Francesi,  aveva  votato 
r  ondine  del  giorno  sopra  una  petizione,  la  quale  chiedeva  che 
la  Camera  intervenisse  per  far  trasportare  le  ceneri  di  Napoleone 
sotto  la  Colonna  della  Piazza  Vandòme.  Ed  ecco  Victor  Hugo 
scrivere  due  giorni  dopo  quella  sua  stupenda  ode  A  la  Colonne  : 

Non,  s'ils  ont  repou3sé  la  relique  iiumortelle, 
O'est  qu'ils  eu  sout  jaloux!  qu'ils  trembleut  devant  elle! 
Qu'ils  en  sont  tous  palisi 


NELLA  LETTERATURA   CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.  611 

C'est  qu'ils  OQt  peur  d'avoir  l'empereur  sur  leur  téte, 
Et  de  voir  s'éclipser  leurs  lampions  de  féte 

Au  soleil  d'Austerlitz  ! 
Pourtant,  c'eùt  óté  beau!  lorsque,  sous  la  colonne, 
On  eùt  senti  présents  dans  notre  Babylone 

Ces  ossements  vainqueurs. 
Qui  pourrait  dire,  au  jour  d'une  guerre  civile, 
Ce  qu'une  si  grande  ombre,  hótesse  de  la  ville, 

Eùt  mis  dans  tous  les  cceurs! 


O  merveille!  0  néant!  tenir  cette  dépouille! 
Compter  et  mesurer  ces  os  que  de  sa  rouille 

Rongea  le  flot  marin  ; 
Ce  genou  qui  jamais  n'a  ployé  sous  la  craint», 
Ce  pouce  de  géant  dont  tu  portes  l'empreinte 

Partout  sur  tnn  airain  ! 
Conteiupler  le  bras  fort,  la  poitrine  feconde, 
Le  talon  qui,  douze  ans,  éperonna  le  monde, 

Et,  d'un  oeil  filial, 
L'orbite  du  regard  qui  fascinait  la  foule, 
Ce  front  prodigieux,  ce  cràne  fait  au  moule 

Du  globe  imperiai  ! 
Et  croire  entendre  en  baut  dans  tes  noires  entraillea. 
Sortir  du  cliquetis  des  confuses  batailles, 

Des  bouches  du  canon, 
Des  chevaux  hennissants,  des  villes  crénelées, 
Des  clairons,  des  tambours,  du  soufflé  des  mélées. 

Le  bruit:  Napoleoni 

Gemello  della  Colouna  è  1'  Arco  di  Trionfo,  destinati  tutti  e 
due  a  portare  alla  più  lontana  posterità  il  nome  napoleonico  e  a 
sopravvivere  essi  soli  a  tutti  gli  altri  monumenti  della  gran  città. 
0  Arco,  tu  sarai  eterno,  e  la  tua  esistenza  sarà  allora  soltanto 
veramente  completa  quando  tutto  ciò  che  le  acque  defila  Senna 
ora  riflettono  sarà  ridotto  in  polvere;  quando  di  questa  città  che 
fu  eguale  a  Koma,  non  resterà  più  che  un  angelo,  un'  aquila,  un 
uomo  torreggianti  su  tre  cime:  Notre-Dame,  la  Colonna,  l'Arco! 
Tu  sarai  allora  più  che  mai  vivo  accanto  a  Parigi  seppellito.  Che 
più  ?  verrà  un  giorno,  un  giorno  molto  lontano  in  cui  l' Arco 
stesso  si  animerà  e  le  figure  che  in  esso  sono  scolpite  parleranno 
e  manderanno  un  grido  solenne  : 

Débout! 

Ceux  de  quatre-vingt-seize  et  de  mil  huit  cent  onze, 
Ceux  que  conduit  au  ciel  la  spirale  de  bronzo, 


612  LA  POLITICA 

Ceux  que  scelle  à  la  terre  im  socie  de  granit, 
Toiis,  poiissant  au  combat  le  cheval  qui  hennit, 
Le  drapeau  qui  se  gonfie  et  le  canon  qui  roule, 
À  l'immense  mélée  ils  se  rùront  en  foule  ! 
Alors  on  entendra  sur  tou  raur  lea  clairons, 
Les  bombes,  les  tanibours,  le  choc  des  escadrons, 
Les  cris  et  le  bruit  sourd  dea  plaines  ébraulées, 
Sortir  confusémeat  des  pierres  ciselée.«, 
Et  du  pied  au  sommet  du  pilier  souveraia 
Cent  batailles  rugir  avec  des  voix  d'airain  ! 
Tout  à  coup  écrasant  l'ennemi  qui  s'effare, 
La  victoire  aux  cent  voix  sonnera  sa  fanfare. 
De  la  colonne  à  toi  les  cris  se  répondront. 
Et  puis  tout  se  taira  sur  votre  doublé  front; 
Une  rumeur  de  féte  emplira  la  vallee, 
Et  Notre-Dame  a.u  loia,  aux  téuèbres  mélée, 
Illuniinant  sa  croix  ainsi  qu'un  labarum, 
Vous  chautera  dans  l'ombre  un  vaj^ue   Te  Deum! 

Tutti  erano  ornai  invasi  da  un  pensiero  dominatore  e  tiranno 
Gli  autori  drammatici  continuavano  in  teatro  1'  opera  dei  poeti  ; 
Thiers,  pur  essendo  ministro  di  Luigi  Filippo,  faceva  una  immensa 
propaganda  napoleonica  in  quella  Histoire  de  VEmpire  che  il  conte 
di  Cavour  chiamò  a  ragione  la  plus  eclatante  apologie  du  succès. 
Pareva  che  la  Francia  tutta  sentisse  che  aveva  qualche  cosa  da 
espiare  verso  l'uomo  di  Sant'Elena.  Lo  stesso  Luigi  Filippo,  o  che 
fosse  un  senso  di  ammirazione  in  lui  pure,  o  che  sentisse  di  non  po- 
ter urtare  la  dominante  corrente  napoleonica  senza  vedere  andar  di 
mezzo  il  suo  prestigio  e  la  sua  popolarità,  aveva  con  tutta  buona 
grazia  accondisceso  a  che  fosse  riposta  sulla  colonna  Vendòme  la 
statua  del  Grand'  Uomo.  Più  tardi  acconsentì,  senza  esitare,  che 
fosse  fatta  richiesta  all'Inghilterra  di  lasciar  trasportare  in  Fran- 
cia le  ceneri  che  riposavano  nell'  isola  immortale.  Fu  Thiers  il 
principale  fautore  del  trasporto  in  Francia  delle  ceneri  di  Napo- 
leone. Quando  il  Guizot,  che  era  ia  quel  tempo  ambasciatore 
francese  a  Londra,  ricevette  dal  Thiers  informazione  della  cosa 
e  l'incarico  di  trattarla  col  governo  inglese  colla  raccomandazione 
di  mettere  in  opera  ogni  suo  mezzo  per  condurla  a  buon  fine,  ne 
risenti,  com'egli  stesso  confessa,  ^  una  grande  e  poco  gradita  sor- 
presa. Quell'ingegno  temperato,  sobrio,  severo  e  positivo  dei  Gui- 
zot non  s'era  lasciato  prendere  da  quella  vertigine   da  cui  tutti 

\  Mémoires  jpour  servir  à  l'kistoire  de  mon  temps  ;  tomo  V,  pag.  lOT 


NELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.     6^^ 

si  sentivano  dominati.  Ma  egli  non  aveva  mezzo  di  fare  osserva- 
zione e  di  opporsi  ;  il  governo  inglese  acconsentì  di  cedere  alla 
Francia  le  ceneri  del  Grand'Uomo,  le  quali  arrivarono  a  Cherbourg 
il  30  novembre  del  1840,  e  a  Parigi  il  14  decembre  successivo. 
Il  giorno  dopo,  15,  si  celebrò  nella  chiesa  degli  Invalidi  un  solenne 
servizio  funebre  in  suffragio  dell'anima  di  Napoleone  restituito 
alla  Francia.  Tutta  Parigi  era  per  le  vie  ;  ognuno  aveva  l'animo 
come  soverchiato  da  ìin  sentimento  di  rispetto,  di  ammirazione  e 
di  profondo  rimpianto.  Quante  memorie  quelle  ceneri  non  susci- 
tavano nel  pensiero,  quanto  grandi  avvenimenti,  quale  tumulto 
d'uomini  e  di  cose,  quanta  gloria,  quanta  grandezza  !  Strana  in- 
coerenza degli  uomini!  Come  non  vedere  che  Napoleone  I  a 
Parigi  significava  l'amnistia  di  Strasburgo  e  di  Boulogne  ?  che 
anzi  quest'apoteosi  'napoleonica  non  poteva  non  incoraggiare 
più  tardi  altri  simili  tentativi  ?  Nel  discorso  del  trono  pro- 
nunziato da  Napoleone  III  nell'apertura  della  sessione  del  1867 
del  Corpo  legislativo,  l'imperatore  alludendo  al  Thiers,  lo  quali- 
ficò accortamente  Vhistorien  illustre  et  national.  Era  un  compli- 
mento ben  meritato,  perocché  non  si  può  negare  che  lo  storico 
del  Consolato  e  dell'Impero  abbia  grandemente  contribuito  a  porre 
le  basi  del  secondo  Impero. 

Però  qualche  isolata  individualità  si  tenne  in  lontananza  e 
non  prese  parte  a  questo  concerto  di  inni  al  risorto  astro  napo- 
leonico. Vogliono  qui  essere  notati  due  poeti  di  valore,  Egesippo 
Moreau  e  Augusto  Barbier,  Nel  luglio  del  1833,  quando  il  par- 
tito bonapartista  si  agitava  esso  pure,  come  i  socialisti  e  i  repub- 
blicani, contro  la  Monarchia  di  Luglio,  l'infelice  poeta  di  Provins 
scrisse  la  sua  poesia  À  Joseph  Bonaparte,  dove  si  scaglia  contro 
l'Impero,  sventura  e  maledizione  della  Francia. 

Non,  Joseph,  tu  n'es  pas  Banaparte,  et  quaud  mème!.... 
Quand  méme  il  reviendrait  gigantesque,  celui 
Devant  qui  peuples,  rois,  empereurs,  tout  a  fui; 
Quand  méme  du  tombeau  le  uouvel  Encelade 
Boiidirait,  et  des  cicux  teaterait  l'escalade, 
Pense-t-ou  qua  la  soif  de  l'aigle  reuaissant 
La  Fi'ance-Promethée  irait  livrer  son  sauor? 


Mutilez  par  le  fer,  brùlez  par  les  acides 
La  bouche  qui  vomit  les  sons  liberticides  ; 
Car,  si  l'on  évoquait  l'ombre  du  soldat-roi, 
La  liberto  feconde  avorterait  defifroi. 


614  LA  POLITICA 

Mentre  per  Victor  Hugo  il  gigante  dell'Impero  è  risorto, 
per  Moreau  è  morto  e  chiuso  per  sempre  nella  sua  bara,  e  la 
Francia 

En  vieillissant,  confond  dans  son  indifférence 
Sa  race  tricolore  et  ses  blancs  souverains, 
L'huile  de  Notre-Dame  et  l'ampoule  de  Reims. 

Anche  più  veemente  è  Augusto  Barbier  nel  suo  celebre  Idole. 
11  poeta  si  mostra  tutto  rattristato  che  i  suoi  compatriotti  si  siano 
fatto  un  idolo  del  dispotico  e  sanguinario  Córso.  Stupendamente  bella 
è  la  sua  invettiva  contro  l' uomo  fatale  : 

0  Corse  à  cheveux  plats,  que  la  France  était  belle 

Au  grand  soleil  de  messidor  ! 
C'était  une  cavale  iadomptable  et  rebelle, 

Sans  frein  d "acier   ni  rénes  d'or. 
Une  jument  sauvage  à  la  croupe  rustique, 

Fumante  encore  du  sang  des  rois  ; 
Mais  fière,  et  d'un  pied  fort  heurtant  le  sol  antique, 

Libre  pour  la  première  fois  ; 
Jamais  aucune  main  n'avait  passe  sur  elle 

Pour  la  flétrir  ou  Foutrager; 
Jamais  ses  larges  flancs  n'avaient  porte  la  selle 

Et  le  harnais  de  l'étrauger; 
Tout  son  poil  reluisait,  et,  belle  vagabonde, 

L'oeil  liaut,  la  croupe  en  mouvement. 
Sur  ses  jarrets  dressée,  elle  effroyait  le  monde 

Du  bruit  de  son  henuissement. 
Tu  parus,  et  sitót  que  tu  vis  son  allure, 

Ses  reins  si  soiiples  et  dispos, 
Centaure  impétueux,  tu  pris  sa  chevelure, 

Tu  montas  botto  sur  son  dns. 
Alors,  comme  elle  aimait  les  rumeurs  de  la  guerre, 

La  poiidre,  les  tambours  battants, 
Pour  champ  de  course,  clos,  tu  lui  donnas  la  terre, 

Et  des  combats  pour  passe-temps; 
Alors,  plus  de  repos,  plus  de  nuit,  plus  de  sommeil  ; 

Toujours  l'air,  toujours  le  travail, 
Toujours  corame  du  sable  écraser  des  corps  d'homiues, 

Toujours  du  sang  Jasqu'au  poitrail. 
Quìnze  ans  son  dur  sabot,  dans  sa  course  rapide, 

Broya  des  générations; 
Quinze  ans  elle  passa,  fumante,  à  tonte  bride, 

Sur  le  ventre  des  nations. 


NELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA   DELLA   FRANCIA.  615 

Eutin,  lasse  d'aller  sans  finir  sa  carrière, 

Et  d'aller  sana  user  son  cheiuiu, 
De  pétrir  l'Univera,  et,  corame  une  poussière, 

De  soulever  le  genre  liuiuain  ; 
Les  jarrets  épuìsés,  haletante  et  aans  force, 

Près  de  fléchir  à  chaque  pas, 
Elle  demanda  gràce  à  son  chevalier  corse  ; 

Mais,  bourreau,  tu  ne  l'écoutaa  pas! 
Tu  la  pressas  plus  fort  de  ta  cuisae  nerveuse 

Pour  étouffer  ses  cris  ardente, 
Tu  retournas  le  mors  dans  sa  bouche  baveuse. 

De  fureur  tu  brisas  ses  dents; 
Elle  se  releva;  mais  un  jour  de  bataille, 

Ne  pouvant  plus  mordre  ses  freins, 
Mourante  elle  tomba  sur  un  lit  de  mitraille 

Et  du  coup  te  cassa  les  reins, 

L' anima  del  poeta  si  sente  amareggiata  da  quel  concerto 
d' inni  a  Napoleone  che  intorno  a  lui  risuona,  e  vede  con  dolore 
l'aborrita  aquila  riprendere  il  suo  volo  pei  cieli  della  Francia: 

Napoléon  n'est  plus  ce  voleur  de  couronne, 

Cet  usurpateur  effrontó, 
Qui  serra  sans  pitie,  sous  les  coussins  du  tróne 

La  gorge  de  la  liberté; 
Ce  triste  et  vieux  forgat  de  la  Sainte-Alliance 

Qui  mnurut  sur  un  noir  rocher, 
Traìnant  comme  un  boulet  l'image  de  la  Franca 

Sous  le  bàton  de  l'étranger. 
Non,  non,  Napoléon  n'est  plus  souillé  de  fange; 

Gràce  aux  flatteurs  mélodieux, 
Aux  poètes  menteurs,  aux  sonneurs  de  louange, 

Cesar  est  mis  au  raiig  des  Dieux. 
Son  image  reluit  à  toutes  les  murailles, 

Son  nom  dans  tous  les  carrefours 
Rósonne  incessamment,  comme  au  fort  des  batailles 

Il  résonnait  sur  les  tambours. 
Puis  de  ces  hauts  quartiers,  où  le  peuple  foisonue, 

Paris  comme  un  vieux  pélerin, 
Redescend  tous  les  jours  au  pied  de  la  colonne 

Abaisser  son  front  souverain  ; 
Et  là,  les  bras  chargés  de  palmes  éphómères, 

Inondant  de  bouquets  de  fieurs 
Ce  bronze  que  jamais  ne  regardent  les  mères. 

Ce  bronze  grandi  sous  leurs  pleura, 


616  LA  POLITICA 

Ea  veste  d'ouvrier,  ciana  son  ivresse  folle, 
Au  bruit  du  fifre  et  du  clairon, 

Paris,  d'un  pas  joyeux,  danse  la  Carmagnole 
Autour  du  grand  Napoléon  ! 


lY. 


Griunti  a  questo  punto,  siamo  indotti  a  ripetere  l'osservazione 
fatta  in  principio  di  quest'articolo,  e  rilevare  le  soprese  singola- 
rissime che  talvolta  la  storia  ci  prepara  col  lanciare  un'idea  che 
in  altri  secoli  ha  tenuto  agitato  il  mondo  e  che  diede  ad  essi 
vita  e  carattere,  in  epoche  da  quelli  lontanissime  e  in  mezzo  a 
società,  che,  per  il  progresso  avvenuto  e  per  gli  elementi  che  le 
compongono,  non  sono  più  atte  a  ricevere  nel  loro  grembo  quel- 
l'idea e  fecondarla.  Tale  è  stato  il  destino  dell'idea  dell'impero 
d'Occidente,  idea  essenzialmente  medievale,  lanciata  in  pien  secolo 
decimonono  dal  genio  napoleonico.  Quale  differenza  di  tempi,  di 
cose,  di  civiltà,  di  indirizzo  delle  idee!  Al  tempo  di  Carlomagno 
la  società  si  reggeva  sul  concetto  dell'unità  mondiale  rappresen- 
tata dalla  persona  dell'Imperatore,  e  quel  concetto  compendiava 
tutta  intiera  la  civiltà  di  quei  secoli.  Ma  come  noi  ci  allon- 
taniamo da  Carlomagno  e  scendiamo  verso  i  tempi  moderni,  quel- 
l'idea va  via  via  perdendo  vigore  ed  intensità.  Gli  Ottoni,  gli 
Svevi,  i  principi  della  Casa  d'Absburgo  non  sono  piìi  che  pallide 
ombre  della  grande  figura  di  Carlomagno;  in  quella  vece  nasce, 
cresce  ed  acquista  forza  un'  altra  idea  che  è  in  diretta  opposizione 
di  quella,  l'idea,  per  chiamarla  con  una  parola  tedesca,  partico- 
larista.  Questo  movimento  di  disgregazione  delle  parti  che  com- 
pongono l'unità  medievale  è  visibile  fin  dai  primi  secoli  del 
presente  millenio,  riceve  un  impulso  rapido  e  precipitatissimo 
nel  secolo  XVI,  e  nel  principio  del  presente  secolo  quel  movi- 
mento si  poteva  dire  interamente  compiuto.  Com'è  naturale,  quel 
movimento  non  ha  luogo  soltanto  rispetto  al  principio  fonda- 
mentale che  regola  tutto  il  mondo  medievale,  ma  anche  nella 
struttura  interna  di  tutte  le  varie  società  che  compongono  quel 
mondo.  È  un'  intera  rivoluzione  quella  che  si  è  operata,  è  il  concetto 
della  personalità  che  viene  a  sostituirsi  a  quello  della  collettività 
medievale;  il  centro  di  gravità  dell'unità  non  è  più  in  un  uomo 
solo,  ma  ognuno  lo  porta,  per  dir  così,  dentro  di  sé  stesso.  Eppure 
l'impero  occidentale  fu  ristabilito  e  il  più  illustre  storico  di  esso 
registra  quella  data  con  parole  di  entusiasmo,  quantunque  egli 


NELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA   DELLA   FRANCA.  617 

timidamente  osservi  clie  a  suo  giudizio  quell'  impero  per  avere 
delle  garanzie  di  solidità  e  di  durata  avrebbe  dovuto  limitarsi  a 
comprendere  i  paesi  di  razza  latina  ed  escludere  quelli  di  stirpe 
germanica. 

Ma  l'immane  colosso  aveva  le  piante  di  creta  e  cadde.  Tutta- 
via abbiamo  veduto  che  il  pensiero  napoleonico  non  rimase  sepolto 
a  Waterloo.  Il  Guizot  scrive  che  nessuno  ha  posseduto  più  del- 
l'imperatore Napoleone  il  dono  di  ispirare  una  devozione  piena 
ed  assoluta  alla  sua  persona  e  alle  sue  idee  :  «  Il  mourait  — 
così  quello  scrittore  —  en  ce  moment  méme  sur  le  rocher  de 
Sainte-Hélène;  il  ne  pouvait  plus  rien  pour  ses  partisans;  il  n'en 
trouvait  pas  moins,  dans  le  peuple  comme  dans  l'armée,  des  coeurs 
et  des  bras  préts  à  tout  faire  et  à  tout  risquer  pour  son  nom  : 
généreux  aveuglement,  dont  je  ne  sais  s'il  faut  s'attrister  ou 
s'enorgueillir  pour  l'humanité.  »^  Lo  stesso  scrittore,  sulla  cui 
precisa,  sobria  e  corretta  intelligenza  le  glorie  dell'Impero  non 
avevano  mai  esercitato  una  seduzione  pericolosa,  ricordando  più 
oltre  che  il  governo  del  ISSO  aveva  dovuto  lottare  fin  dal  prin- 
cipio contro  la  passione  postuma  di  avventure  e  di  conquiste, 
nota  con  ragione  che  non  può  immaginarsi  un'idea  più  radi- 
calmente falsa  e  funesta,  più  smentita  dall'esperienza,  più  con- 
traria alle  vere  tendenze  del  nostro  tempo  e  alla  grandezza 
della  Francia,  come  al  progresso  generale  dell'  Europa,  quanto 
quella  di  un  impero  conquistatore  come  fu  il  napoleonico;  e 
soggiunge  che  le  massime  essenziali  più  incontestate  del  diritto 
pubblico  europeo  moderno  sono  in  diretta  opposizione  con  quel- 
l'idea.^ Ma  egli  era  solo,  o  pressoché  solo,  a  vedere  le  cose  in 
questo  modo,  e  mal  poteva  resistere  alla  corrente  che  trasci- 
nava uomini  e  cose  sopra  una  via.  nella  quale  la  Monarchia  di 
Luigi  Filippo  doveva  inabissarsi  per  sempre. 

Ed  è  appunto  per  questo  vizio  fondamentale,  che  abbiamo 
sopra  notato,  dell'epopea  napoleonica,  che  la  leggenda  che  si  è 
venuta  formando  intorno  al  nome  di  Napoleone  doveva  presto 
perdere  di  vivacità  e  di  forza,  e  la  predizione  di  Béranger, 
che  fra  cinquant'anni  la  Francia  non  avrebbe  avuto  amore  per 
altra  storia  che  per  quella  napoleonica,  si  può  dire  del  tutto 
fallita.  Perocché  qua!  risultato  si  era  infine  ottenuto  da  tante 
guerre  sanguinosissime  e  da  quello    scombussolamento  generale 

'  Guizot,  Mémoires  pour  servir  à  l'histoire  de  mon  temps,  tom.  I,  p.  237. 
2  Loco  cit,  tomo  IV,  cap.  XXH,  pag.  5. 


618  LA  POLITICA 

di  uomini  e  di  cose  che  aveva  durato  quindici  anni?  E  c'era 
anche  questo  di  peggio,  che  quel  risultato  negativo,  se  così 
è  lecito  esprimerci,  era  stato  accompagnato  dalla  sospensione 
di  ogni  libertà  ;  tutte  le  garanzie  politiche  che  formano  la 
gloria  e  l'appendice  necessaria  della  vita  della  società  del  nostro 
tempo,  i  diritti  del  pensiero  e  della  scianza,  l'indipendenza  dei 
popoli  e  degli  individui,  il  progresso  sociale  stesso  infine  avevano 
subito  una  sosta  ed  erano  state  come  messe  al  bando  per  non  far 
luogo  ad  altro  che  all'  egoismo  insaziabile  di  un  uomo.  Però  la 
spinta  all'immaginazione  popolare,  e  diciamo  pure  anche  agli  inte- 
ressi, era  stata  data  e  non  mancava  certo  chi  era  tutto  intento 
a  profittare  dell'occasione  per  far  rivivere  sul  trono  quel  nome 
che  gli  sciittori  ed  i  poeti  avevano  cinto  di  una  così  splendida 
aureola.  I  tentativi  di  Strasburgo  e  di  Boulogne  non  sarebbero 
stati  possibili  se  non  fossero  stati  preceduti  da  quella  elabo- 
razione leggendaria  intorno  alla  quale  siamo  venuti  fin  qui 
intrattenendo  il  lettore,  e  che  certo  doveva  avere  esaltata  anche 
r  immaginazione  dell'autore  di  essi.  Tutti,  non  esclusi  neanche  i 
repubblicani,  avevano  lavorato  ad  appianare  la  via  del  trono  al 
principe  Luigi  Napoleone.  E  pure,  fatale  inconseguenza  degli  uo- 
mini! quanto  non  combatterono  poi  il  secondo  Impero  quegli 
stessi  che  coi  loro  scritti  gli  avevano  dato  maggiore  argomento 
di  vita!  Basta  citare  tre  nomi:  Victor  Hugo,  Thiers,  Quinet; 
proscritti  tutt'e  tre,  per  tempo  più  o  meno  lungo;  ironia  del 
destino  ! 

Edgardo  Quinet,  ripubblicando  nel  1857  le  sue  opere,  non 
volle  sopprimere  il  poema  Napoléon  da  lui  scritto  ventidue  anni 
prima,  quantunque  egli  stesso  confessi  che  il  suo  eroe  leggendario 
gli  è  in  quel  frattempo  caduto  a'  piedi  e  che  lo  schiacciò  coi  suoi 
frantumi.  Egli  si  scusa  di  averlo  scritto  quando  le  ceneri  stesse 
dell'eroe  erano  proscritte  da  tutti,  ed  aggiunge  di  averne  denun- 
ziata la  memoria  quando  quel  nome  era  ridiventato  una  potenza. 
Ma  perchè  evocarla  quella  potenza?  L'epoca  della  critica  e  del 
giudizio  della  storia  è  arrivata  per  Napoleone  molto  prima 
che  non  si  aspettasse.  Non  si  può  negare  ch'egli  è  sceso  rapi- 
damente dalle  poetiche  cime  su  cui  era  stato  innalzato  per  en- 
trare nel  dominio  della  storia,  la  quale  chiede  a  ognuno  un 
conto  esatto,  rigoroso  delle  sue  opere;  è  sceso  dalle  regioni 
dorate  della  leggenda,  della  favola  e  dell'immaginazione;  egli 
appartiene  per  sempre  al  dominio  severo  della  realtà  e  della 
prosa.  Per  fare  un  personaggio  poetico  e  leggendario  di  Giulio 


NELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA  DELLA  FRANCIA.  619 

Cesare   ci   volle    il    cataclisma  della  barbarie   e    il    medio    evo. 
E  cosi  pure  sarà  di  Napoleone.  Perchè  esso  riprenda  una  forma 
esclusivamente  poetica  e  leggendaria  bisognerebbe  supporre  l'av- 
veniiiiento  di  una  nuova  barbarie  che    ottenebri   nuovamente   il 
pensiero  e  la  ragione  e  cancelli  ogni  ricordo  della  vita  moderna. 
Per  quanti  scrittori,  i  quali,   oltre  al  Quinet,  esaltarono  un 
tempo  il  nome  napoleonico,  è  venuta  poi,  presto  o  tardi,  l'epoca 
della  critica  e  della  fredda  ragione!  Non  pochi,    dopo    di  avere 
ammirato  senza  restrizioni  e  senza  confine,  andarono  poi  all'ec- 
cesso  opposto,    alla   denigrazione    ed    all'ingiustizia.    Per  citare 
uno  dei  nomi  più  noti,  il  Michelet   è  stato  de'  più  accaniti  de- 
molitori del  nome  napoleonico.'  Egli  è  tutto   intento  ad  avvilire 
il   carattere  e  a  togliere  ogni  serietà  politica  al  primo  Napo- 
leone. Lo  fa  realista,  robespierriano,  marattista,  cattolico,  vol- 
terriano, di  tutti  i  colori,  sempre  secondo  che  l'interesse  gli  detta. 
Contraddicendo  il  Thiers,  il  quale  non  crede  che  Napoleone  avesse 
nei  primordi  della  sua   carriera   alcuna  coscienza  dell'altezza   a 
cui  sarebbe   giunto,  il  Michelet  non  esita  ad   accreditare   l' opi- 
nione  eh'  egli  sia    sempre    stato  sotto    1'  influenza  dell'  oroscopo 
di  una  zingara,  la  quale   aveva  predetto  a  Giuseppina   che   sa- 
rebbe salita  su  un  trono.^  Più  oltre,  fa  quasi  una  colpa  a  Napo- 
leone di  essersi  tutto  occupato,  prima  di   intraprendere  la  cam- 
pagna d'Italia,  a  farsi  amici  i  fornitori  dell'esercito  e  di  essersi 
quasi  esclusivamente  occupato  del  servizio  dei  viveri  delle  truppe, 
tutto  ciò  nell'intento  di  far  supporre  che  l'esito  di  quella  cam- 
pagna non  sia  stato  che  una  questione  di  epe  ben  pasciute.  Cri- 
tica la  condotta  di  Bonaparte  a  Lodi  e  a  Castiglione,  delle  quali 
giornate  gli  toglie  ogni  merito,  e  lo  mostra  tutto  intento  a  sempre 
travisare  il  vero  in  suo  favore  per  mezzo  dei  giornalisti  che  egli 
accortamente  seppe  collocare  accanto  a  sua  moglie  Giuseppina  in 
Parigi.  E  su  questo  tòno  e  con  questo  metodo  prosegue  il  Mi- 
chelet la  sua  critica  di  Napoleone,  uomo  politico  e  capitano. 

V'è  molto  a  dubitare  che  vi  sia  della  serietà  storica  in  tutto 
questo.  Anche  senza  questi  mezzi  di  una  critica  animata  da  un 
deplorabile  odio  politico,  il  grande  Imperatore  non  si  sarebbe 
potuto  lungamente  reggere  sul  piedestallo  sul  quale  lo  aveva 
collocato  la  leggenda  del  1830.  Come  tutte  le  cose  umane  che 
nella  loro  origine  portano  1'  impronta  della  purità  e  della  schiet- 


^  Orìgine  des  BonaparU. 

»  Origine  des  Boìiaparte,  tom.  I,  cap.  VI. 


620  LA   POLITICA 

tezza,  quella  leggenda  rispondeva  ad  un  sentimento  lodevole   e 
nobilissimo,    senza   ombra   di    idee    volgari  ed  interessate  ;   essa 
rimetteva  in  onore  il  genio    caduto  e   consacrava  il   culto   della 
grandezza  nazionale.  Ogni  memoria  sua  passata  deve  essere  cara 
ad    un    popolo,   specialmente    quando    ricorda    avvenimenti    così 
solenni  e  gloriosi  come  quelli  dell'  Impero  :  le  nazioni   come  gli 
individui  non  vivono   di   solo    pane  ;    l'onore    e    la    gloria  è  per 
quelle  come  per  questi  il  patrimonio  più  prezioso  e  quel  raggio 
di  luce  che  li  guida  pei  sentieri  spesso   tenebrosi    e  infidi  della 
vita.  Se  non  che  quella  smania  di  glorificazione  di  un  uomo  e  di 
un'  epoca  aveva  il  suo    lato    pericoloso.    Napoleone    potè   col  suo 
genio  straordinario  ispirare  una  devozione  illimitata  agli  uomini 
del  suo  tempo  e  trascinarli  dietro  di  sé  per  tutta  l'Europa  obbe- 
dienti ai  suoi  cenni  ed  ai  suoi  voleri  :  ma  fu  uno  sforzo  immenso 
che  uccise  l'uomo  stesso  che  lo    aveva  tentato  ;   l'idea   di  racco- 
gliere pochi  lustri  dopo  la  Francia  tutta  riverente  e  china  a' piedi 
della  Colonna  Vendome  non  poteva  a  lungo  andare  non  riuscire 
molesta  ad  una  società,  qual'è  la  presente,  che  non  si  lascia  più 
così  facilmente  come  in  passato  prendere  all'amo  delle  ambizioni 
tiranniche  di  un  capitano.  In  fondo,  malgrado  quella  temporanea 
vertigine  napoleonica,  il  popolo  francese    era    dello  stesso  senti- 
mento del  Béranger,  il  quale  avrebbe  volato  veder  sulla  bandiera 
francese  sostituito  all'aquila  napoleonica  il  vecchio  gallo  nazionale: 

Sou  aigle  est  re-*té  daiis  la  poudre, 
Fatiorué  de  loiutains  exploits; 
Reiidoiis-lui  le  coq  des  Gaulois  ; 
Il  sHt  aussi  lancer  la  f(>udre  ! 
La  France  oubliant  ses  douleur.*, 
Le  rebóiiira  libre  et  fière. 

[Le  vieux  Drapeou). 

Da  quella  leggenda  però  è  nato  il  secondo  Impero.  Essa  dopo 
di  avere  acceso  per  qualche  tempo  l'entusiasmo  di  un  popolo 
immaginoso  e  ricordevole,  ed  ispirati  i  canti  più  disinteressati 
dei  poeti,  aveva  poi  finito  per  cadere  nelle  mani  di  un  par- 
tito che  la  fece  servire  ai  suoi  propri  fini  ed  alle  sue  mire 
particolari.  Era  venuto  il  turno  dei  Bunaparte  come  aveva  jDre- 
detto  il  proscritto  di  Sant' Elena.  Ma  quanto  diverso  il  secondo 
Impero  dal  primo!  Si  vide  subito  che  mancava  all'  Impero  rinno- 
vato quella  larga  base  nazionale  che  aveva  fatto  la  forza  del 
primo;  esso  venne  a  formare  un  nuovo  partito  politico  in  mezzo 


NELLA  LETTEKATURA  CONTEMPORANEA   DELLA  FRANCIA.  621 

agli  altri  che  tenevano  e  tengono  tuttora  divisa  la  Francia,  cir- 
costanza questa  che  rende  la  vera  pacificazione  di  quel  paese 
tanto  difficile  e  penosa.  Senza  associarsi  a  tutti  i  sentimenti  che 
ispirarono  la  musa  collerica  e  violenta  dei  Chàfiments,  non  si  può 
negare  che  in  essi  non  ci  fosse  un  fondo  di  verità.  È  noto  il  para- 
gone che  in  un  suo  libro  famoso  Victor  Hugo  fa  del  secondo  Ira- 
pero.  Ecco  laNeva  è  gelata;  sul  suo  dorso  si  costruiscono  delle  case: 
sovr'esso  passano  uomini,  carri,  come  sulla  terraferma;  il  fiume  non 
è  più  acqua,  è  diventato  roccia:  la  gente  va  e  viene  su  quel  marmo 
che  poco  prima  era  un  fiume,  si  improvvisa  una  città,  si  fanno 
strade,  si  aprono  botteghe,  si  vende,  si  compra,  si  beve,  si  mangia, 
si  dorme,  si  accende  il  fuoco  su  quell'  acqua,  si  può  fare  ogni  cosa. 
Ognuno  fa  ciò  che  vuole,  si  ride,  si  danza  senza  il  minimo  timore  ; 
il  pavimento  risuona  come  se  fosse  di  granito.  Ma  ecco,  ad  un 
tratto  si  sente  un  rumore  sordo,  poi  un  fragore  immenso,  formi- 
dabile! È  lo  scoscendimento  di  tutto  queir  edifizio;  èia  Nevache  si 
inabissa.  E  questo  è  pure  il  destino  del  secondo  Impero.  L'avve- 
nire solo  potrà  dire  se  quella  inaudita  catastrofe  avrà  contribuito 
a  toglierle  il  prestigio  e  a  definitivamente  spezzare  la  tradizione 
napoleonica. 

Giovanni  Boglietti. 


RITRATTI  CONTEMPORANEI. 


CAVOUR,  BISMARCK,  THIKES. 


È  vezzo  comune  oggidì,  fra  gli  vioiniiii  ca  cui  la  vanità  del 
sentenziare  sorride  piìi  facile  che  la  serietà  del  pensare,  ftir  getto, 
con  mirabile  disinvoltura,  dei  tipi  umani  moderni;  asserir  bur- 
banzosi che  le  grandi  personalità  son  finite  :  calunniare  la  ci- 
viltà contemporanea  come  essic^atrice  di  atleti,  baloccandosi  invece 
con  ingenua  ammirazione  dinanzi  a  qualunque  simulacro,  che  i 
secoli  abbiano  annerito,  o  che  compiacenti  cronisti  abbiano  rive- 
stito di  arabeschi  dorati. 

Noi  non  siamo  così  irriverenti  col  tempo  nostro.  Non  pensiamo 
punto  che  la  natura  abbia  rotto  io  stampo  né  dei  grandi  caratteri, 
né  dei  grandi  ingegni.  Pensiamo  soltanto  che  il  molto  orgoglio 
nostro  ci  renda  ora  non  piìi  difficile  lo  scernerli,  ma  piìi  penoso 
il  confessarli.  Nel  turbinìo  di  abitudini  e  di  interessi  che  oggi 
serra,  mescola,  confonde  e  raggruppa  tutte  le  esistenze,  tutte  le 
classi  umane,  la  grandezza  ha  forse  maggiori  ostacoli  a  vincere 
per  dirsi  tale,  ma  ha  nel  tempo  stesso  molto  maggiori  diritti  ad 
essere  come  tale  riconosciuta  da  molta  piìi  gente  e  da  molto  mag- 
giore consenso.  Solamente  la  minore  distanza  che  i  tempi  e  i  co- 
stumi hanno  posto  fra  i  grandi  e  i  piccoli  acuisce,  a  dannq  dei 
primi,  la  suscettibilità  dei  secondi  ;  ai  quali  non  può  parer  vero 

'  Ritratti  contemporanei.  Cavour,  Bismarck,  Thiers,  perR.  Bonghi. —  Tre- 
ves,  Milano  1819. 


RITRATTI  CONTEMPORANEI.  623 

né  giusto  che  tanta  ala  li  separi  da  gente  che  urtano  del  gomito 
tutti  i  giorni  o  a  cui  si  sono  avvezzi  a  dare  del  tu. 

Noi  non  siamo  del  resto  neanche  sicuri  che  il  fenomeno  dei 
giorni  nostri  non  sia  lo  stesso  fenomeno  dei  tempi  antichi.  Dal 
sentire  la  grandezza  al  confessarla  c'è  sempre  stato,  crediamo,  un 
salto  pauroso  anche  fra  gl'ipocriti  delle  vecchie  età.  E  ciò  ch'è 
accaduto  a  Temistocle,  a  Socrate,  ad  Annibale,  a  Dante,  a  Colombo 
dimostra  che  fin  d'allora  il  genio  non  si  negava,  ma  si  persegui- 
tava; segno  evidente  che  si  riconosceva. 

Ruggero  Bonghi,  che  non  è  un  uomo  né  piccolo  né  ipocrita, 
deve  aver  pensato  qualche  cosa  di  simile,  quando  scrisse  le  bio- 
grafie che  oggi,  con  opportuno  pensiero,  il  Treves  riunisce  e  ripub- 
blica insieme. 

È  difficile  infatti  accogliere  come  discutibile  la  teoria  del- 
l'esaurimento morale  del  tipo  umano,  allorché  si  consideri  che 
azione  hanno  esercitata  e  che  influenza  hanno  avuto  nel  mondo, 
in  una  brevissima  distesa  di  tempo,  i  tre  uomini  di  Stato  che  co- 
prono della  loro  ombra  la  seconda  metà  del  secolo  decimonono. 

Forse,  per  trovare  al  governo  di  tre  nazioni  europee  tre  pa- 
triottismi egualmente  alti  e  operosi,  bisogna  risalire  a  ducent'anni 
innanzi,  quando,  contemporanei  di  vita,  se  non  tutti  di  potere. 
Gustavo  Adolfo,  Richelieu  e  Cromwell  riempivano  l'Europa  di  cosi 
novi  pensieri. 

II. 

Da  quasi  diciott'anni  noi  abbiamo  perduto  il  conte  di  Cavour; 
non  sono  ancora  due  anni  che  s'è  spento  ilThiers;  Dio.  solo  sa 
quanti  anni  e  quante  prove  aspettino  ancora  il  principe  di  Bismarck. 
È  a  dirsi  perciò  che  il  giudizio  su  questi  tre  uomini  sia  pre- 
maturo? noi  non  lo  crediamo,  e  ha  fatto  bene  il  Bonghi  a  non 
crederlo. 

Può  darsi  che  la  posterità  non  sia  ancora  cominciata  per  le 
opere  a  cui  quei  tre  uomini  posero  mano;  ma  é  certo  incominciata 
per  gli  artefici;  giacché  dall'italiano  e  dal  francese  pur  troppo 
non  si  può  più  attendere  nulla,  e  il  tedesco  ha  già  fatto  tanto  e 
s'è  tanto  rivelato,  che  è  impossibile  pensare  situazioni  od  eventi, 
in  cui  sappia  fare  o  rivelarsi  di  più.  Se  v'è  dunque  chi  voglia  dir 
grandi  questi  tre  uomini  —  e  noi  siamo  del  numero,  —  ha  gli 
elementi  per  giustificare  l'opinione  propria.  Giacché  noi  non  con- 
sentiamo in  tutto  col  Bonghi,  laddove  dice  che  «  nelle  storie  dei 


624  RITRATTI  CONTEMPORANEI. 

popoli  non  resta  grande  se  non  quegli  la  cui  opera  dura  e  si 
mostra  feconda  »  (pag.  205).  Quante  glorie  pure  e  severe  dovrebbe 
l'umanità  raschiare  dal  suo  prezioso  elenco,  se  questa  dura  sen- 
tenza fosse  destinata  ad  applicarsi  nella  sua  rigidità!  Né  Catone 
avrebbe  avuto  diritto  di  inspirare  uno  de'più  nobili  versi  dell'an- 
tichità classica,  né  Farinata  avrebbe  tratto  sì  alta  riputazione  dal 
pensato  omaggio  del  suo  divino  cantore.  La  grandezza  ha  in  sé, 
come  la  bellezza,  qualcosa  di  tipico  e  di  assoluto.  Non  discute  le 
sue  forze,  ma  le  espone.  È  psichica,  se  così  ci  è  lecito  esprimerci; 
e  le  circostanze  possono  talvolta  impedirle  di  agire,  non  possono 
impedirle  di  essere.  È  ingiusto,  crediamo  noi,  il  criterio  che  rende 
responsabili  i  creatori  dei  fatti  degl'imitatori.  Il  successo  durevole 
aggiunge  alla  grandezza,  ma  non  la  scema  l'insuccesso,  che  tal- 
volta può  essere  torto  di  avversa  fortuna.  E  in  ciò  la  posterità  è 
più  mite  dell'austero  scrittore  ;  essa,  che  non  ha  ancora  ritolto 
ad  Alessandro  ed  a  Carlo  il  predicato  di  Magno,  malgrado  che  i 
generali  del  primo  e  gli  eredi  del  secondo  abbiano  in  pochi  anni 
sciupato,  a  furia  d'incapacità  e  di  gelosie,  l'opera  smisurata  di 
quelle  due  smisurate  attività. 

Eccoci  davvero  ben  lungi  dal  nostro  argomento.  Ma  è  questo 
il  privilegio  degl'intelletti  superiori;  che.  quando  s'affisano,  vi 
forzano  a  levarvi  nei  loro  orizzonti  e  a  trovare  con  altre  supe- 
riorità di  cose  e  di  uomini  vincoli  naturali  e  legittimi.  Come  ac- 
cade a  quei  valenti  passeggiatori  delle  Alpi;  che,  giunti  sulla 
cima  di  un  elevato  picco,  ne  scorgono  intorno  a  sé  cento  altri  di 
eguale  altezza  o  maggiore,  legati  a  quel  primo  per  valli  e  spe- 
roni e  pareti  e  contrafforti,  che  prima  e  da  più  basso  né  si  vede- 
vano né  SI  potevano  indovinare. 

Torniamo  dunque  al  Bismarck,  al  Thiers,  al  conte  di  Cavour. 
Torniamo  anzi  più  addietro,  torniamo  al  loro  biografo,  al  quale 
vorremmo  esporre  un  rimprovero  od  un  lamento.  Perchè  egli  che 
ha  avuto  da  Domineddio  un  ingegno  così  largamente  operoso,  s'è 
lasciato  questa  volta  sopraffare  dalla  pigrizia;  sicché  il  suo  studio 
s'è  fermato  pel  Cavour  all'aprile  1861,  pel  Bismarck  all'aprile  1866, 
pel  solo  Thiers  è  arrivato  alla  fine  della  vita  e  dell'azione  poli- 
tica? Vuol  dire  che  del  Cavour  non  ha  potuto  scrivere  né  il  gran 
dissidio  parlamentare  ch'ebbe  col  Garibaldi,  né  la  pagina  nobi- 
lissima della  sua  morte  ;  vuol  dire  che  del  Bismarck  non  ha  trat- 
teggiato né  l'epopea  germanica  del  1866  né  il  dramma  francese 
del  1870. 

Il  Bonghi  s'è  bene  accorto  di  questa  offesa  della  sua  insolita 


RITRATTI  CONTEMPORANEI.  625 

pigrizia,  e  ha  cercato  sviarne  la  responsabilità  con  due  noticine 
di  dieci  righe  l'una,  apposte  alle  due  biografie  interrotte.  Ma 
queste  noticine  di  magra  scusa,  se  possono  valere  presso  gli  edi- 
tori, non  valgono  presso  i  lettori  ;  i  quali  argomentano  dal  resto 
del  libro  di  che  eletto  cibo  avrebbero  potuto  saziarsi,  se  il  pro- 
fondo ed  agile  pensiero  dell'egregio  statista  si  fosse  soffermato  a 
dirci  gli  effetti  che  sentì  la  politica  nazionale  italiana  dalla  scom- 
parsa del  suo  audace  pilota,  a  descriverci  le  procellose  emozioni 
di  quelle  due  guerre  straordinarie  che  gettarono  ai  piedi  del 
principe  di  Bismarck  la  più  legittima  e  la  più  rivoluzionaria  fra 
le  corone  imperiali  europee. 

Questa  è  veramente  l'unica  lacuna  del  libro  ;  il  quale  è  letto 
0,  secondo  i  casi,  riletto,  con  quell'interesse  che  nasce  ad  un  tempo 
dalla  qualità  delle  cose  narrate  e  dalle  qualità  dello  scrittore  che 
narra. 

III. 

Fu  destino  comune  a  tutti  tre  i  personaggi,  dei  quali  stiamo 
occupandoci,  che  i  loro  titoli  alla  gloria  perenne  dovessero  acqui- 
starli soltanto  assai  tardi  nella  loro  vita.  A  quarant'anni,  di  nes- 
suno di  loro  si  sarebbe  osato  dire  che  fossero  grandi  ;  oggi  biso- 
gna osare  altrettanto  per  contrastarlo. 

Chi  conosceva  sul  principio  del  1850  quel  giornalista  italiano 
che  scriveva  nel  Risorgimento,  e  a  cui  gli  elettori  politici  di  Torino 
avevano  un  anno  prima  preferito  un  Pansoya  ?  Chi  conosceva,  al 
di  fuori  d'una  stretta  camarilla  feudale  germanica,  Carlo  Ottone 
di  Bismarck-Schonhausen  ?  Adolfo  Thiers  era  conosciuto  bensì,  e 
aveva  fatto  parlar  molto  di  se;  ma,  Dio  buono!  quale  riputa- 
zione! uno  scrittore  brillante  di  storie,  nelle  quali  ogni  diritto 
era  sacrificato  al  successo;  un  oratore  meraviglioso  che  combat- 
teva le  ferrovie  e  sosteneva  il  potere  temporale  dei  papi  ;  un  uomo 
di  Stato  che  aveva  dato  il  gambetto  a  due  dinastie,  che  s'era  mo- 
strato tenero  di  nuU'altro  che  di  serbarsi  il  potere,  che  aveva  per- 
ciò carezzato  il  Gruizot  contro  il  Mole,  poi  l'Odillon-Barrot  contro 
il  Guizot,  poi  Luigi  Bonaparte  contro  Cavaignac,  poi  Changarnier 
contro  Luigi  Bonaparte,  poi  Luigi  Bonaparte  e  Changarnier  e  Ca- 
vaignac contro  l'Italia  ed  a  favore  del  Papa! 

Ed  ecco  questi  tre  uomini  che  si  slanciano,  l'uno  dopo  l'altro, 
verso  la  fama,  e  che  la  conquistano  a  forza  d'ingegno,  di  volere, 
di  patriottismo.  Dopo  il  1850,  vi  sono  decenni  e  quinquenni,  nei 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Aprile  1819.  39 


626  RITRATTI  CONTEMPORANEI. 

quali  l'Europa  non  fa  che  star  a  vedere  un  uomo.  Dal  1850  al  1860^ 
è  Cavour  che  lavora  a  creare  l'Italia,  e  l'Europa  lo  sta  a  vedere  ; 
dal  1860  al  1870  il  principe  di  Bismarck  crea  la  Germania,  e 
l'Europa  lo  sta  a  vedere  ;  dal  1870  al  1875  tocca  al  Thiers  rifare 
la  Francia  ;  e  l'Europa  lo  sta  ancora  a  vedere,  persuasa  che  que- 
st'opera compiuta  da  un  vegliardo  di  quasi  ottant'anni  è  appena 
meno  meravigliosa  dell'opera  compiuta  a  cinquant'anni  dai  due 
emuli  suoi- 

Vediamo  da  qui  i  contorcimenti  filosofo-umanitari  che  pro- 
durrà su  qualche  lettore  —  se  questo  articolo  sarà  letto  —  una  pa- 
rola che  ci  è  caduta  dalle  labbra;  Creare  !  —  ecco,  si  dirà,  il  teorista 
degli  uomini  provvidenziali  !  come  se  l' Italia,  la  Germania,  la 
Francia  potessero  impersonarsi  in  un  uomo,  e  sparire  o  non  es- 
sere senza  di  lui  ! 

Se  una  latitudine  siffatta  fosse  necessariamente  congiunta 
colla  parola  che  abbiamo  adoperata,  non  v'  ha  dubbio  che  questa 
avrebbe  ecceduto  di  molto  il  nostro  pensiero,  e  in  omaggio  alla 
filologia  non  esiteremmo  a  ritirarla.  Ma  dubitiamo  anche  si  possa 
celare  sotto  così  dottrinaria  vernice  uno  dei  pregiudizi  più  vol- 
gari e  più  illiberali  di  una  falsa  democrazia  ;  e  se  così  fosse,  non 
sarebbero  male  spese  alcune  parole  a  combatterlo. 

Gli  uomini  provvidenziali  !  e  che  sono  essi  mai  se  non  quegli 
eletti  organismi  che  la  provvidenza,  il  caso,  la  legge  sto^'ica,  Dio, 
suscita  tratto  tratto  nel  mondo,  per  dare,  con  un  complesso  di 
facoltà  squisite  e  potenti,  impulsi  et  avviamenti  nuovi  allo  spi- 
rito umano  ?  che  e'  è  egli  di  umiliante  per  V umanità  nel  pensiero 
che  V  uomo,  questo  generatore  e  prototipo  suo,  sia  talvolta 
fornito  in  dosi  straordinarie  ed  esuberanti  di  quelle  prerogative 
morali  per  cui  esso  si  distingue  dalla  materia  e  dai  bruti  ?  e 
come  potrebb'essere  altrimenti?  e  non  ridonda  a  suo  vantaggio 
e  ad  onor  suo  questa  prova  dell'eccellenza  a  cui  può  giungere 
in  certi  casi  questo  strumento  di  azione  e  di  vittoria  che  è 
r  uomo  ? 

La  falsa  democrazia  che  noi  deploriamo  vorrebbe  sostituire 
all'uomo  la  massa  d' uomini.  Ma  non  è  evidente  che  il  tentativo  è 
assurdo  ?  Le  facoltà  morali  non  nascono  in  una  massa,  ma  in  uno 
spirito  ;  e  lo  spirito  guida  la  massa,  ma  non  si  trasfonde  in  essa 
e  non  se  ne  lascia  assorbire.  Mille  facoltà  volgari  insieme  coa- 
lizzate non  s'  eleveranno  mai  alle  altezze  d'un  solo  ingegno  emi- 
nente; non  sarà  mai  dagli  uomini,  ma  dalV  uomo  che  le  scienze 
e  le  arti  trarranno  vigore  di  progressi  e  ardimenti  di  novità. 


KITRATTI  CONTEMPORANEI.  627 

Che  cosa  fu  Galileo  ?  un  uomo  provvidenziale.  Dante,  Raf- 
faello, Volta  furono  uomini  provvidenziali.  Forse  i  consequentiarii 
della  collettività  diranno  che  se  la  Divina  Commedia,  la  Tras- 
figurazione e  la  Pila  erano  opere  necessarie  all'  umana  civiltà, 
qualche  altro  le  avrebbe  tratte  dal  nulla,  pur  non  chiamandosi 
Volta,  Raffaello  o  Dante.  Ammettiamolo,  come  si  ammettono  tutte 
le  cose,  contro  le  quali  non  c'è  la  possibilità  della  prova.  Ma 
ne  segue  perciò  che  noi  non  dobbiamo  gratitudine  agli  uomini 
che  a  queste  opere  hanno  sposato  il  loro  genio  ?  Può  dirsi  che 
Volta  non  sia  il  creatore  della  pila,  per  ciò  solo  che  gli  elementi 
onde  la  pila  fu  costituita  esistevano  nel  mondo  anche  prima  di 
lui  ?  Quanti  anni,  quanti  secoli  avrebbero  potuto  trascorrere,  se 
Volta  non  avesse  esistito,  prima  che  i  beneficii  del  telegrafo  elet- 
trico aiutassero  di  mirabili  impulsi  la  santa  opera  del  progresso 
civile  ?  Giacché  nessuno  oserebbe,  per  es. ,  sostenere  che,  in  man- 
canza d'un  uomo,  l' Istituto  di  scienze  o  la  Facoltà  matematica 
avrebbero  prodotto  la  pila.  E  nessuno  sa  quante  e  quali  insigni 
verità,  quanti  e  quali  mezzi  di  benessere  sociale  stiano  nascosti, 
forse  a  due  passi  da  noi,  nell'aria  o  nella  terra,  aspettando  Yuomo, 
che  la  provvidenza,  il  fato,  la  legge  storica.  Dio,  ci  darà  fra 
vent'  anni,  fra  un  secolo,  forse  mai  ! 

E  ciò  che  è  vero  nelle  scienze  e  nelle  arti,  non  potrà,  non  do- 
vrà esser  vero  nella  politica,  nell'arte  di  Stato  ?  0  che  v'  è  meno 
bisogno  di  menti  superiori  e  vigorose  in  queste  discipline,  che  rac- 
chiudono le  maggiori  difficoltà  e  i  più  paurosi  problemi  del  vivere 
sociale  ?  Ebbene,  succede  dei  fatti  politici  come  dei  fatti  scienti- 
fici. Gli  elementi  dei  progressi  sociali,  delle  unità  nazionali,  pree- 
sistono; ma,  come  le  forze  della  natura,  aspettano  Vuomo  che  li 
indovini,  che  li  armonizzi,  che  li  cementi.  Noi  non  diciamo  che 
l' Italia  non  si  sarebbe  fatta  senza  il  conte  di  Cavour  ;  diciamo 
che  s'  è  fatta  col  conte  di  Cavour.  A  chi  si  farebbe  torto  nello  as- 
serirlo ?  Vuol  dire  che  dopo  tanti  secoli  d'infecondità,  dopo  tanti 
conati  d'indipendenza,  dal  re  Arduino  a  Gioachino  Murat,  s'  è 
finalmente  trovato  un  uomo,  un  italiano,  che,  fornito  di  grandi 
qualità  e  giunto  nell'  ora  della  fortuna,  ha  saputo  raccogliere  e 
fondere  in  isalda  compagine  gli  elementi  preparati  dai  secoli,  ha 
saputo  trovare  i  cooperatori,  disanimare  i  nemici,  dare  finalmente 
suggello  d'esistenza  e  forma  di  pratica  verità  a  ciò  ch'era  stato 
prima  di  lui  aspirazione  di  pensatori  o  istinto  di  moltitudini. 

Volete  sopprimere  l'uomo  provvidenziale  in  nome  della  col- 
lettività ?    Padroni  ;    ma    allora  bisogna  reimprimere  sulla  col- 


628  RITRATTI  CONTEMPORANEI. 

lettività  quello  stigma  d'impotenza  che  dieci  secoli  di  storia  vi 
hanno  pur  troppo  lasciato;  bisogna  rassegnarsi  ad  aspettare  che 
altri  secoli  passino,  come  vi  si  rassegnano  pur  troppo  altre  stirpi, 
altri  popoli,  ai  quali  parrebbe  una  crudele  ironia  il  sentirsi  dire 
che  sono   fortunati  di  non  aver  posseduto  uomini  provvidenziali. 

È  forse  priva  la  Polonia  di  collettività  e  di  tradizioni?  No; 
non  la  mancanza  di  uomini,  la  mancanza  di  «oi  ?^o»io  l'ha  lasciata 
perire  e  non  la  lascia  risorgere.  E  chi  non  vede  che  il  problema  più 
minaccioso  dei  giorni  nostri,  il  problema  orientale  sarebbe  presto 
risoluto,  se  la  razza  greca  o  la  ra,zza  bulgara  avessero  prodotto  a 
quest'ora  V uomo  provvidenziale,  che  traesse  dalle  agitazioni  popo- 
lari e  dalle  contraddizioni  dell'  Europa  quello  che  seppero  trarne 
per  la  Germania  e  per  l'Italia  il  Bismarck  e  il  Cavour  ? 

Cessiamo  dunque  dallo  attribuire  dignità  di  filosofici  veri  alle 
miserabili  intolleranze  del  nostro  orgoglio  o  della  nostra  invidia. 
Eiconosciamo  che  nella  lotta  per  l'umano  miglioramento,  se  è 
compito  delie  moltitudini  la  preparazione  e  la  cooperazione,  è 
compito  dell'  uomo  il  pensiero  e  la  volontà.  E,  italiani,  tedeschi  e 
francesi,  ringraziamo  la  sorte  che  ci  ha  fatto  incontrare,  nell'ora 
del  pericolo  o  in  quella  della  fortuna,  tre  personalità  assorbenti 
come  quelle  del  Cavour,  del  Bismarck  e  del  Thiers.  Che  se  pro- 
prio la  parola  creare  urta  troppo  i  puristi,  pel  suo  richiamo  agli 
attributi  della  divinità,  via,  mettiamo  ricomporre,  e  sia  finita. 

IV. 

Nella  vita  pubblica  del  conte  di  Cavour  si  notano  tre  periodi 
nettamente  distinti. 

A  trent'anni  ha  già  tracciata  nella  sua  mente  la  via  che  deve 
percorrere:  libertà,  indipendenza,  Italia;  e  dal  1810  al  1850, 
viaggia,  studia,  scrive,  promove  associazioni,  dirige  istituti,  fonda 
giornali,  parla  nei  comizi  e  alla  Camera.  È  il  periodo  dell'apo- 
stolato delle  idee  liberali.  Dal  1850  al  1859  è  ministro:  riforma 
i  partiti,  conchiude  alleanze,  rimuta  e  riordina  gli  organismi 
amministrativi  del  governo  e  l'economia  del  paese;  si  assicura  e 
disciplina  le  forze  morali  e  gli  stromenti  materiali  che  dovranno 
aiutarlo  nel  gran  disegno.  È  il  periodo  della  preparazione.  Dal 
1859  al  1861,  due  anni,  ahimè,  troppo  brevi,  il  conte  afferra  e 
precipita  il  periodo  dell'azione;  è  l'epoca  delle  guerre,  delle 
annessioni,  dei  plebisciti,  della  diplomazia  novatrice  e  nazionale. 
Non  è  già  che  il  periodo  dell'apostolato  non  implichi  in  sé  una 


RIIRATTI  CONTEMPORANEI.  629 

vera  e  propria  preparazione  morale;  né  che  il  periodo  della 
preparazione  sia  scompagnato  da  un'attitudine,  anche  gagliarda, 
d'azione.  La  guerra  di  Crimea  è  lì  a  provarlo.  Pure  i  tre  periodi 
sono,  come  dicemmo,  ben  chiari  ;  e  Camillo  Cavour  li  percorse 
tutti,  misurandoli  e  prevedendoli,  con  un  crescendo  di  inspira- 
zioni e  di  audacie  da  rendere  stupefatti  quelli  che  più  avevano 
creduto  e  più  avevano  presagito  del  vigore  e  dell'elasticità  del 
suo  genio. 

Lo  scrittore  degli  articoli  SiilV Irlanda  e  sui  Mezzi  rivolu- 
zionari denuncia  già  una  mente  di  prima  riga  fra  i  contemporanei 
italiani.  La  politica  ecclesiastica  e  la  politica  economica  del 
ministro  del  1852  rivelano  uno  statista  riformatore,  a  cui  sono 
familiari  cosi  i  più  alti  pinacoli  delle  quis  tieni  morali  come  le 
più  difficili  e  più  complicate  disquisizioni  d'affari.  Lo  stipula- 
tore  del  trattato  10  gennaio  1855  si  posa  innanzi  all'Europa  come 
un  atleta  già  consumato  nelle  lotte  e  negli  avvedimenti  della 
politica  estera.  La  campagna  del  1859,  1'  invasione  delle  Mar- 
che, i  plebisciti  del  1860,  i  discorsi  dell'll  ottobre  1860  e  del  25 
marzo  1861  intorno  a  Koma  e  a  Venezia  finiscono  di  additare 
nel  grande  ministro  di  un  piccolo  Stato  il  più  ardimentoso  consi- 
gliere di  sovrani  che  la  storia  contemporanea  avesse  veduto. 

E  in  questa  energica  e  tenace  evoluzione  del  suo  pensiero 
politico,  Cavour  non  si  lascia  mai  dominare  che  da  un  solo 
sentimento:  il  bene  della  patria.  Istinti,  educazione,  abitudini, 
amicizie,  tutto  egli  sottopone  a  un  concetto  elevato  del  suo  dovere 
di  ministro  patriota.  Tratto  da'  suoi  studi  e  da'  suoi  concetti  di 
governo  verso  la  dottrina  e  l'influenza  inglese,  non  esita  a  sco- 
starsene e  ad  avvicinarsi  alla  Francia,  appena  vede  che  di  lì 
parte  la  più  vicina  e  più  sicura  speranza  di  un  aiuto  efficace. 
Cresciuto  nell'  intimità  dell'aristocrazia  più  conservativa  del  Pie- 
monte, rompe  senza  livore  i  suoi  vincoli  politici  con  essa,  e  cerca 
nella  borghesia  liberale  italiana  un  perno  d'azione  più  largo  e  più 
agile  per  la  politica  nazionale,  di  cui  si  fa  duce  e  moderatore. 
Amico,  per  convinzioni  politiche,  piuttosto  dei  parlamentari  fran- 
cesi che  degli  autoritari  napoleonici,  ^a'iuta  nel  capo  di  questi  il 
partigiano  volonteroso  delle  nazionalità  europee,  e  lo  seconda  e 
lo  seduce  e  talvolta  lo  domina,  a  servigio  delle  proprie  idee  e  del 
proprio  paese.  Non  si  lascia  però  mai  trar  fuori  dall'orbita  sua 
0  lontano  da'  suoi  principii  di  governo  libero  ;  e  in  questa  lotta, 
necessariamente  sostenuta  fra  due  uomini  che  avevano  alcuni 
intenti  comuni  ma  governavano  con   indirizzi    diversi,  non  è  il 


g30  KITRATTI  COMTEMPORANEL 

ministro  del  piccolo  Stato  che  cede  o  transige,  è  il  capo  assoluto 
del  grande  impero.  Così,  nel  dissidio  d'Oriente,  l'imperatore  cerca 
e  spera  attrarre  l'Austria  nell'alleanza  sua  ;  e  il  Cavour  tergiversa 
questa  politica,  provoca  l'Austria,  l'avviluppa  abilmente  nelle  sue 
stesse  contraddizioni,  e  finisce  col  mettere  sé  e  l' Italia  al  posto 
cui  non  osa  occupare  il  gabinetto  di  Vienna 

A  Dio  spiacente  ed  a'  nimici  sui. 

Circa  l'assetto  italiano,  l'imperatore  preferisce  la  forma  fede- 
rativa, e  stipula  a  questo  intento  la  pace  di  Villafranca.  Il  Cavour 
lascia  passare  la  pace  di  Villafranca  e  lavora  bravamente  all'Ita- 
lia unitaria.  E  quando  la  Francia  accenna  un  istante  a  rendere 
meno  passiva  la  sua  opposizione,  discutendo  se  convenga  impedire 
a  Garibaldi  di  passare  dall'isola  al  continente,  il  ministro  di  Vit- 
torio Emanuele  lascia  il  braccio  della  Francia  per  prendere  quello 
dell'  Inghilterra.  E  così,  non  ritraendosi  mai,  non  affrettandosi 
troppo,  discutendo  tutto,  nulla  accordando,  il  Conte  avvince  al 
proprio  carro  la  fortuna  napoleonica,  restando  avversario  del  na- 
poleonismo  in  Italia,  e  personale  estimatore  dell'  uomo  che  ne 
rappresenta  in  Francia  il  sistema  e  l'idea. 

Poiché  fu  scomparso,  e  dopo  diciotto  anni  dacché  scomparve, 
s'ode  ancora  a  quando  a  quando  discutere,  se,  vivo  lui,  avrebbe 
saputo  sormontare,  con  più  successo  dei  suoi  continuatori,  le  dif- 
ficoltà del  riordinamento  italiano.  La  disputa  é  delle  più  oziose 
che  si  possano  affacciare,  e  ha  fatto  bene  il  Bonghi  a  non  soffer- 
marvisi. Non  é  solo  compito  degl'intelletti  superiori  l'essere  alle 
prese  coi  fatti,  ma  1'  appuntarli  prima  eh'  ei  siano  palesi  agli 
sguardi  comuni,  e  fermarli  o  mutarli  o  dirigerli  a  bene.  Non  bi- 
sognerebbe soltanto  discutere  se,  risuscitato,  p.  es.,  nel  1865  o  nel 
1876,  il  conte  di  Cavour  avrebbe  potuto  trarre  dagli  elementi 
allora  dominanti  in  Italia  trionfi  rimasti  sconosciuti  ai  ministeri 
d'allora  ;  bisognerebbe  discutere  altresì  se,  continuando  a  vivere, 
non  avrebbe  visto  nascere  ed  ingrossare  questi  elementi  assai 
prima,  e  non  avrebbe  saputo,  con  influenze  o  con  iniziative  sue, 
sviarne  i  danni  o  temprare  gli  elementi  stessi  a  migliore  indi- 
rizzo. Anche  Anteo  può  esser  vinto  dalla  brutalità  di  una  forza  ; 
ma  l'accorto  domatore  di  belve  studia  l'istinto  del  leone  prima 
che  si  manifesti  ;  lo  batte,  lo  accarezza,  lo  attira  ;  e  s'impadroni- 
sce del  suo  vigore  e  della  sua  volontà  al  punto  da  renderlo  per- 
suaso che  nel  debole  sta  la  forza,  nel  forte  la  debolezza. 


RITRATTI  CONTEMPORANEI.  631 


V. 


Il  principe  di  Bismarck  parte  da  tutt'altre  origini  e  affronta 
tutt'altre  difficoltà. 

Nulla  di  liberale  in  lui.  Nulla  di  irremovibile  quanto  ai  prin- 
€ipii,  nulla  di  determinato  circa  i  mezzi.  Anche  lui  vuol  fare  la 
patria,  ma  si  getta  nell'impresa  a  capo  fitto,  come  un  guerriero 
dell'Ariosto  svegliatosi  in  mezzo  alla  verbosa  modernità.  Non  si 
cura  gran  fatto  di  studiare  o  di  scrivere.  Non  ha  periodi  di  apo- 
stolato 0  di  preparazione.  E  solo  e  sempre  un  uomo  d'  azione  e 
in  questo  solo  periodo  si  sente  audace  e  gagliardo.  Ha  due  pas- 
sioni, che  diventeranno  poi  due  propositi  :  odia  l'Austria  ed  ama 
la  Russia,  Del  resto  del  mondo  non  si  cura  se  non  quando  lo 
toccano  ;  si  burla  della  Francia,  tartassa  l'Inghilterra,  carezza  o 
abbandona  l'Italia,  secondo  gl'importa.  All'Austria  tira  il  primo 
colpo  nella  questione  dello  Schleswig-Holstein  ;  riuscitogli,  ne  tira 
un  secondo  nella  questione  dell'ordinamento  federale-germanico  ; 
fattasi  la  mano,  lancia  il  colpo  finale,  la  sconfigge  a  Sadowa,  la 
caccia  dalla  Germania.  Contemporaneamente  affronta,  in  un  senso 
contrario  a  tutta  l'Europa  civile,  la  questione  della  Polonia  ;  non 
teme  di  dare  addosso  al  debole  in  compagnia  del  forte;  seconda 
la  Kussia  nella  sua  politica  di  compressione,  l'aiuta  a  sgominare 
le  saltellanti  iniziative  della  timida  diplomazia  occidentale,  e  si 
fa  così  del  colosso  moscovita  un  amico  devoto,  la  cui  minacciosa 
neutralità  gli  servirà  così  bene  nel  1866  e  nel  1870. 

La  sua  politica  parlamentare  non  è  di  diverso  metro  o  di 
diversa  essenza  della  sua  politica  estera.  Ai  rappresentanti  del 
paese  ch'egli  medita  di  aggrandire  dice  le  cose  più  dure  sotto  la 
forma  più  aspra.  Contraddetto,  inveisce  ;  dissolve  tre  o  quattro 
Camere,  che  non  si  prestano  senza  mormorio  ai  disegni  eh'  egli 
matura  e  che  a  nessuno  vuol  dire.  Tratta  liberali,  feudali,  pro- 
gressisti nella  stessa  misura,  benevolmente  se  s'acconciano  a  ciò 
ch'egli  vuole,  brutalmente  se  gli  si  oppongono.  Quando  si  move, 
ha  contro  di  sé  lo  spirito  del  paese,  trascina  a  stento  e  riluttante 
il  Re.  Non  ha  quasi  con  sé  che  due  uomini  :  Moltke  e  Roon.  Ma 
questi  due  uomini  gli  rappresentano  la  vittoria  ;  e  allora  lo  spi- 
rito tedesco  ritorna  a  lui,  il  Re  gli  accorda  intera  la  sua  fiducia  ; 
dopo  Sadowa  è  padrone  della  Germania,  dopo  Sédan  è  padrone 
dell'Europa. 


632  KITRATTI  CONTEMPORANEI. 

Yincitore  di  tutti,  non  sa  vincere  sé  stesso  ;  non  modifica  né 
linguaggio,  né  istinti  ;  abusa  della  vittoria.  Ha  per  la  forza  lo 
stesso  culto  di  prima,  ha  la  stessa  alterigia  pei  rappresentanti  del 
paese  che  ha  fatto  grande  e  dominante.  Ora  si  afferma  Vuomo 
j^iù  odiato  cV Europa,  ora  si  vanta  d'essere  Vuomo  meno  sentimen- 
tale che  esista.  I  suoi  discorsi  parlamentari  sono  modelli  di  logica 
e  di  serietà  di  governo,  ma  acri,  mordaci,  implacabili  per  ogni 
amor  proprio,  per  ogni  debolezza.  Quando  trova  un  ostacolo,  non 
si  ferma  a  esaminarlo,  a  discuterlo  ;  gli  salta  addosso.  Se  l'ostacolo 
si  chiama  la  Curia  romana,  escogita  ed  applica  le  leggi  di  ma^-- 
gio;  se  si  chiama  il  socialismo,  gli  si  stringe  ai  panni  e  a  mala 
pena  gli  accorda  l'acqua  e  il  fuoco  ;  se  si  chiama  il  parlamentari- 
smo, non  esita  a  proporgli  una  legge  di  m-useniola.  Non  tratta  la 
finanza  con  maggiore  rispetto  a  principii;  propone  monopoli!  e 
s'irrita  perchè  glieli  negano;  è  libero-scambista  nel  1865,  perchè 
ciò  lo  aiuta  ad  avvicinare  all'Italia  lo  Zollverein  ;  diventa  ultra- 
protezionista nel  1878,  perchè  crede  così  di  poter  forzare  la  natura 
e  l'industria  a  fare  per  la  Prussia  e  per  la  Germania  ciò  che  gli 
parrebbe  utile  fosse  fatto. 

Tale  è  l'uomo;  i  cui  difetti  sono  grandi  come  le  sue  qualità, 
e  che  in  diciassette  anni  di  ministero  può  dire  d'  essere  riuscito 
quasi  in  ogni  cosa  che  abbia  tentata;  e  ne  ha  tentate  di  molte 
e  temerarie  assai. 

Nel  momento  in  cui  scriviamo,  sta  ornai  bruciando  le  sue  ul- 
time cartuccie  contro  i  liberali  parlamentari,  contro  cui  s'era  pure 
avventato  appena  giunto  al  potere,  e  che  poi  l'avevano  tanto  aiu- 
tato a  vincere,  così  dentro  come  fuori  del  Parlamento.  In  un 
paese  come  l'Inghilterra,  come  la  Francia  o  come  l'Italia,  un 
ministro  che  avesse  proposto  la  metà  di  ciò  che  ha  proposto  lui, 
0  che  avesse  detto  la  metà  delle  impertinenze  da  lui  lanciate 
contro  uomini  parlamentari,  non  sarebbe  rimasto  al  governo  ven- 
tiquattr'ore  di  più.  In  Germania,  rimane  ed  è  sicuro  di  rimanere, 
forse  sin  che  vorrà;  giacché  in  quel  paese,  in  cui  gl'individui  sono 
così  indisciplinati,  le  masse  sono  tanto  assetate  di  disciplina  elio 
non  si  meravigliano  né  s'offendono  d'  una  situazione  siffatta.  Il 
Bismarck  rimane  l'uomo  che  ha  fatta  la  patria  così  com'essa  oggi 
si  trova;  e  nessuno  dei  molti  a  cui  egli  è  antipatico  oserebbe 
discutergli  questo  merito  e  questa  gloria.  Gli  basterà,  al  bisogno,, 
riagitare  leggermente  lo  spauracchio  francese,  perchè  tutto  il 
paese  ritorni  a  lui  e  il  Parlamento  sia  obbligato  a  fare  come  il 
paese.  Ed  egli  lo  farà,  se  gli  giova;  giacché  di   scrupoli  ha  mo- 


RITRATTI  CONTEMPOR.\NEI.  633 

strato  non  averne  soverchi,  e  del  popolo  ch'egli  governa  conosce 
tutte,  fino  all'ultima,  le  passioni  e  le  tentazioni. 

L'edificio  innalzato  dal  principe  di  Bisraarck  può  non  essere 
in  tutte  le  sue  parti  perfetto  e  può  anche  non  essere  più  dure- 
vole di  molti  altri  edifici  politici.  Certo  però,  se  v'ha  popolo  in 
Europa  atto  a  perfezionare  i  particolari  d'un  gran  disegno  e  ad 
aspettare  dalla  coesione  del  tempo  i  beneficii  di  un'istituzione 
politica  affrettatamente  compiuta,  è  quel  forte  e  intelligente  e 
tenace  popolo  tedesco,  per  cui  il  Bismarck  ha  pensato  e  lavorato. 
E  ad  ogni  modo,  v'è  in  questa  moderna  creazione  d'un  impero 
germanico,  e  nella  stessa  rapidità,  pur  violenta,  con  cui  s'è  co- 
stituito, tal  carattere  di  grandezza  e  di  fierezza,  che  basterà  da 
solo  a  lasciare  per  un  pezzo  impronte  efficaci  su  tutta  la  storia 
contemporanea.  È  inutile  soggiungere  che  sovrabbonda  per  la  fama 
di  un  uomo. 

YI. 

Non  è  agevole  trovare  al  principe  di  Bismarck  un  contrap 
posto  più  spiccato  di  Adolfo  Thiers. 

Il  Thiers  è  la  Erancia;  colle  sue  mobilità,  colle  sue  seduzioni, 
col  suo  spirito,  colla  sua  coltura,  colla  sua  fabbrica  di  costituzioni 
e  di  poteri  esecutivi,  col  suo  genio  egoista  e  accentratore,  colia 
sua  maschera  volteriana  appiccicata  sul  volto  di  un  sottoscrittore 
all'obolo  di  S.  Pietro. 

Che  cosa  non  ha  fatto  a  questo  mondo  il  signor  Thiers?  Di 
ottant'anni  della  sua  vita  ne  ha  consacrati  sessanta  alla  politica  : 
ha  rovesciato  governi  e  ne  ha  fondati;  ha  scritto  opere  colossali 
ed  opuscoli;  ha  fondato  giornali  ;  è  stato  membro  dell'Accademia 
francese,  deputato,  ministro,  diplomatico,  carcerato,  esule,  presi- 
dente di  una  repubblica  che  non  osava  chiamarsi  tale.  Una  cosa 
sola  non  ha  fatta  mai,  né  s'è  mai  trovato  a  doverla  ordinare:  la 
guerra.  E  questa  è  forse  la  cagione  che  rende  difficile  paragonarlo 
al  Bismarck  o  al  Cavour.  Giacché  la  guerra,  fra  tutte  le  artifi- 
ciose combinazioni  della  politica  umana,  è  certo,  come  la  più 
disastrosa,  quella  altresì  che  svolge  e  acuisce  la  maggior  somma 
di  facoltà  morali  in  chi  la  dirige  e  in  chi  ne  assume  la  responsa- 
bilità. Se  il  Bismarck  e  il  Cavour  non  avessero  trattato  e  diretto 
combinazioni  guerresche,  avrebbero  forse  potuto  essere  egual- 
mente benemeriti  dei  loro  paesi,  ma  non  sarebbero  apparsi  com- 
pleti in  faccia  alla  posterità.  È  nel  preparare,  nel  compiere  e  nel 


^Bi  KITRATTI  CONTEMPORANEI. 

trarre  i  risultati  di  queste  imprese  che  l'uomo  di  Stato  si  trova 
veramente  nel  mezzo  di  tutte  le  passioni,  di  tutte  le  molle,  di 
tutte  le  difficoltà,  di  tutti  i  fenomeni  della  vita;  e  se  ne  esce  con 
onore,  sia  in  caso  di  fortuna  che  di  sciagura,  potrà  dirsi  vera- 
mente di  lui  che  ha  la  mente  temprata  alle  grandi  cose,  l'animo 
atto  a  sopportare  lo  sforzo  dei  grandi  doveri. 

Ora,  il  Thiers,  come  dicemmo,  non  ha  fatto  la  guerra;  giac- 
ché guerra  non  osiamo  chiamare  quella  repressione  che  s'è  tro- 
vato a  dover  fare  negli  ultimi  anni  della  sua  vita  contro  l'insur- 
rezione comunista  di  Parigi;  repressione,  che,  se  ha  forse  avuto 
della  guerra  le  ansie  e  la  carnificina,  fu  ben  lontana  dallo 
iiverne  avuto,  e  ne'suoi  primordi  e  nella  sua  fine,  la  nobiltà  e  la 
gloria. 

La  guerra  è  la  conseguenza  di  una  politica  estera;  e  in  que- 
sta ebbe  il  signor  Thiers  così  poca  fortuna,  che  di  lui  sarà  co- 
stretta la  storia  a  ricordare  solamente  due  grandi  insuccessi:  la 
quadruplice  alleanza  del  1840  sugli  affari  d'Oriente,  da  cui  egli, 
ministro  degli  aifari  esteri  di  Francia,  fu  tenuto  estraneo  ed  al 
buio:  il  giro  diplomatico  del  1870  per  le  corti  d'Europa,  da  cui 
tornò  con  un  sacco  di  compianti  e  neanche  una  briciola  di  soc- 
corsi. È  vero  che  in  quest'ultima  occasione  nessuno  al  mondo 
avrebbe  potuto  ottenere  nulla  di  più,  e  pochi  avrebbero  saputo 
dar  prova  di  un'a1)negazione  così  altamente  patriottica. 

L'opera  di  Adolfo  Thiers  fu  essenzialmente  un'opera  di  poli- 
tica interna.  Ed  anche  in  questa,  le  due  pagine  più  memorabili 
non  le  scrisse  da  ministro  costituzionale,  ma  da  semplice  citta- 
dino 0  da  capo  del  potere  esecutivo.  La  sua  stella  brilla  della 
luce  più  fulgida  ai  due  estremi  della  sua  carriera  politica.  A 
trent'anni,  giornalista  di  opposizione,  impersona  in  sé  stesso  la 
resistenza  liberale  al  ministero  Polignac,  trascina  gli  animi  esi- 
tanti, scrive  la  famosa  protesta  del  giornalismo,  e  dà  con  essa  il 
segnale  della  lotta  che  tre  giorni  dopo  scrollerà  un  trono  e  darà 
la  corona  al  candidato  di  Thiers.  A  settantaquattro  anni  assume 
la  responsabilità  di  reggere,  quasi  dittatore,  la  Francia,  mentre 
una  metà  di  essa  é  invasa  dal  vincitore,  l'altra  metà  immersa 
nell'anarchia,  e  tutta  intera  spossata  da  un  tal  cumulo  di  rovine 
e  di  umiliazioni,  quali  non  si  sarebbe  creduto  che  un  paese  civile 
potesse  sopportare  senza  morirne.  E  in  poco  più  di  due  anni 
rifa  ogni  cosa:  un  esercito,  un'amministrazione,  una  politica; 
vince  l'anarchia;  sgombra  di  nemici  il  territorio  nazionale  j)ri ma 
-dell'epoca  stabilita  ;  paga,  prima  dell'epoca  stabilita,  una  favolosa 


RITRATTI  CONTEMPORANEI.  635 

indennità  di  guerra;  placa  gli  spiriti,  riconduce  la  patria  alle 
arti  della  pace,  agli  affari,  all'eloquenza,  agli  studi  ;  e,  sopraffatto 
da  un  risveglio  di  ostilità  partigiane,  abbandona  il  primo  posto 
dello  Stato  con  una  grandiosa  semplicità,  che,  per  essere  quasi 
nuova  in  Francia  ed  esempio  di  future  rassegnazioni,  lo  tiene  più 
alto  di  prima  nella  riputazione  e  nella  influenza. 

Fra  questi  due  poli  della  sua  vita  politica,  ondeggia  con  minore 
larghezza  di  mente  e  minor  copia  di  effetti.  Pare  un  uomo  che 
abbia  bisogno,  per  rivelarsi  intero,  delle  emozioni  delle  grandi 
catastrofi.  Allora  il  suo  patriottismo  sfavilla  da  tutti  i  pori  ;  la 
sua  audacia  sale  ad  ogni  altezza  di  casi  ;  il  suo  intelletto  assume 
il  tono  del  genio.  Nelle  situazioni  ordinarie,  la  vanità  e  la  dialet- 
tica ne  turbano  l'iniziativa  :  agita  senza  posa  intorno  a  sé,  ma  è 
più  atto  a  distruggere  che  a  ricostruire  ;  indebolisce  ogni  avver- 
sario che  tocca,  seduce  ogni  moltitudine  a  cui  discorre  ;  ma  non 
appare  necessario  in  nessun  luogo  ;  non  lascia  in  nessuna  istituzio- 
ne, in  nessuna  disciplina  di  Stato,  orma  potente  di  sé. 

Alla  effettiva  responsabilità  del  governo  è  durato  pochi  anni  ; 
un  quinquennio  ministro  colla  dinastia  orleanese  ;  un  triennio  pre- 
sidente del  governo  innominato  del  1871.  Il  Cavour  era  stato  mi- 
nistro, con  pochissimi  intervalli,  per  dieci  anni  di  seguito,  e  sol- 
tanto la  morte  gli  tolse  di  continuare  ad  esserlo.  Il  Bismarck  è 
al  potere  da  diciassette  anni,  e  non  accenna  a  scenderne.  Pure, 
nel  Thiers  v'  è  una  meravigliosa  attitudine  al  governo  ;  talché, 
uscitone  nel  1840,  e  rimasto  d'allora  in  poi  in  opposizione  più  o 
meno  decisa  contro  tutti  i  regimi  che  mutarono  per  tanti  anni 
da  capo  a  fondo  leggi,  istituzioni  ed  uomini,  rientra  nelle  sommità 
del  governo  trent'  anni  dopo,  e  vi  si  move  fin  dal  primo  istante  con 
una  facilità  e  con  una  competenza  cosi  sicura,  come  se  un'  espe- 
rienza d'ogni  giorno  l'avesse  fino  allora  in  ogni  cosa  sorretto. 

Ciò  che  soprattutto  rende  eccezionale  la  personalità  di  Adolfo 
Thiers  é  quella  sua  eccellenza  in  ogni  disciplina  dello  spirito,  che 
ne  ha  fatto  veramente  il  più  splendido  rappresentante  della  civiltà 
moderna.  E  un  eclettico,  come  esige  l'epoca  sua,  ma  il  più  profondo 
e  nel  tempo  stesso  il  più  amabile  degli  eclettici.  La  Francia  troverà 
forse,  ancora  degli  uomini  che  sappiano  scrivere  nella  sua  storia 
qualche  pagina  più  memorabile  di  quelle  che  vi  ha  scritto  Adolfo 
Thiers.  L'  Europa  non  troverà  facilmente  cosi  presto  un  uomo,  a 
cui  riesca,  come  é  riuscito  al  Thiers,  di  tenere,  per  cinquant'anni 
di  seguito,  tanto  posto  nella  sua  attenzione,  nelle  sue  abitudini, 
nella  sua  simpatia. 


636  RITRATTI   CONTEMPORANEI. 


VII. 


Ciò  che  abbiamo  detto  di  questi  tre  uomini  mostra  die  noi 
saremmo  ben  lungi  dallo  intraprendere  o  dal  favorire  uno  studio 
comparativo  fra  loro.  Ci  pare  che  esigerebbe  sforzi  d'ingegno  più 
che  serietà  di  criterio;  tanto  dissimili  ce  li  ha  dati  la  natura  e 
ce  li  ha  mantenuti  l'indole  della  loro  azione  ! 

Hanno  sì  alcune  qualità  comuni,  come  necessariamente  ne  deb- 
bono avere  gli  uomini  che  s'innalzano  sopra  gli  altri.  Una  grande 
volontà;  che  però  nel  Cavour  s'atteggia  a  energia,  nel  Bismarck 
prorompe  a  violenza,  nel  Thiers  si  accosta  a  caparbietà.  Un  pa- 
triottismo sincero,  ma  che  si  fonda  sopra  apprezzamenti  assai  di- 
versi dei  patriottismi  altrui  :  dacché  il  Cavour  li  rispetta,  il  Thiers 
li  nega,  il  Bismarck  li  calpesta.  Una  singolare  lucidità  d'intel- 
letto; ma  che  nel  Bismarck  si  lascia  governare  dall'istinto,  anzi- 
ché cercare  di  governarlo  ;  nel  Thiers  discorre  su  tutti  i  problemi 
umani,  accettandone  soltanto  le  soluzioni  conformi  all'  orgoglio 
suo  ;  nel  Cavour  si  matura  con  profondità  ed  imparzialità  di  espe- 
rienze, fino  a  diventare  propriamente  scienza  ed  arte  di  Stato. 
Hanno  tutti  e  tre  la  passione  e  l'ambizione  del  potere  ;  ma  la 
diversità  dei  criteri  costituzionali  é  in  loro  siffatta,  che  il  Cavour 
non  avrebbe  consentito  a  restare  ministro  un  giorno  solo,  se  non 
avesse  sentito  comune  in  sé  la  fiducia  del  paese  e  quella  del  Prin- 
cipe ;  il  Bismarck  durò  ministro  parecchi  anni,  sapendo  di  avere 
schiettamente  contraria  tutta  quanta  l'opinione  del  paese  ;  il  Thiers 
non  si  fece  il  menomo  scrupolo  di  governare  col  più  manifesto 
disfavore  di  un  re  pur  fatto  tale  da  lui,  e  appoggiandosi  ad  una 
espressione  affatto  incompleta  e  fittizia  di  favor  popolare. 

Del  resto,  l'analogia  più  vera  fra  quei  tre  uomini  consiste  in 
ciò,  che  essi  rappresentarono  nei  loro  periodi  nazionali  più  cul- 
minanti i  tre  popoli  che  hanno  mosso  più  cose  in  Europa,  durante 
la  seconda  metà  del  nostro  secolo.  Vuol  dire  che  hanno  tutti  tre 
identificato  il  loro  nome  e  la  loro  storia  col  nome  e  colla  storia 
della  loro  patria,  nel  momento  in  cui  questa  patria  aveva  mag- 
giore bisogno  di  servitori  fedeli  e  intelligenti. 

È  un  elogio,  che  ne  può  valer  mille  ;  chi  pensi  di  quanti  no- 
mi serbi  illustre  memoria  il  mondo,  che  non  avrebbero  a  ciò  al- 
tro titolo,  fuor  quello  di  avere  conculcata  o  tradita  la  patria  ! 


RITRATTI  CONTEMPORANEI.  637 

Vili. 

Un  articolo  bibliografico  mancherebbe  al  cosiddetto  suo  scopo, 
se,  dopo  essersi  occupato  delle  cose  descritte,  evitasse  di  occu- 
parsi del  modo  con  cui  sono  descritte.  Un  po'  di  critica  debb' es- 
sere necessariamente  la  salsa  del  piatto,  anche  quando  il  critico 
è  magro  e  il  criticato  ne  sa  da  vendere. 

Abbiamo  dunque  cercato,  colla  coscienza  del  mestiere,  che 
cosa  vi  fosse  da  dire  contro  l'autore,  giacché  questa  lingua  no- 
stra è  talvolta  riuscita  nell'uso  della  parola  a  storpiarne  cosi  bene 
l'idea,  che  ormai  criticare  uno  significa  parlarne  male.  Lo  pos- 
siamo fare  tanto  più  agevolmente  col  Bonghi,  perchè  siamo  certi, 
dalla  sua  larghezza  d'ingegno  e  di  cuore,  che  dopo  averlo  criti- 
cato, la  sua  benevolenza  pel  critico  sarà  piuttosto  cresciuta  che 
diminuita. 

Quando  s'è  detto  del  Bonghi  che  scrive  troppo,  e  troppo  in 
fretta  ,  s'è,  ci  pare,  riassunta  in  una  sola  frase  quel  po'  di  cen- 
sura che  agli  scritti  suoi  si  può  movere.  Certo  è  maraviglioso 
che  ad  uno  scrittore  così  fecondo  riesca  di  mettere  assieme,  tutte 
ricche  di  pensiero,  tutte  alte  d'intento,  tante  pagine  di  così  varia 
materia.  Pure  questa  stessa  fecondità  sua  è  cagione,  temiamo,  che 
egli  non  si  rilegga;  e  basterebbe  il  più  delle  volte  ch'egli  si  ri- 
leggesse, perchè  non  restasse  più  modo  a  chi  lo  legge  di  tro- 
vargli nessuna  menda.  Ma  come  la  sua  pigrizia  gli  serve  talvolta 
per  non  aggiungere  nulla  a  ciò  che  ha  scritto,  così  la  sua  atti- 
vità gli  serve  sempre  per  non  mutar  nulla,  dopo  che  ha  scritto  ; 
sicché  le  mende  restano  e  nessuno  le  toglie. 

Nel  libro  di  cui  discorriamo,  queste  mende  ci  paiono  essen- 
zialmente due:  una  facilità,  forse  soverchia,  a  trarre  afi'ermazioni 
e  sentenze  di  lunga  portata  da  singoli  fatti  che  vorrebbero  essere 
studiati  ed  apprezzati  con  maggiore  prudenza;  una  vivace  seve- 
rità di  giudizi  che,  pur  dettata  dal  giusto  concetto  di  tenere  alta 
la  dignità  dell'elogio,  trascende  qualche  volta  ad  ingiusto  mot- 
teggio. Queste  due  mende  potrebbero  anzi  concentrarsi  in  una 
sola,  quando  la  dicessimo  in  genere  una  eccessiva  e  quasi  dog- 
matica rigidezza  di  affermazioni.  Meno  apparente  nei  due  ritratti 
di  Cavour  e  di  Bismarck,  perchè  fatti  da  più  tempo  e  con  mag- 
gior agio,  questa  menda  si  scorge  più  nel  ritratto  di  Thiers,  la- 
voro fatto  con  maggior  fretta  e  con  una  abbondanza  di  fregi  ed 
ombre  assai  maggiori  del  primitivo  disegno.  Vogliamo  citare  due 


638  RITRATTI  CONTEMPORANEI. 

soli  esempi,  da  cui  speriamo  giustificata  la  nostra  opinione;  e  ci 
parrebbe  di  essere  pedanti  a  prolungare  le  citazioni. 

Siamo  al  periodo  della  monarchia  di  Luglio;  e  in  una  pagi- 
netta  piena  di  senso  (p.  276-277)  lo  scrittore  fa  una  succosa  dia- 
gnosi del  male  onde  fu  travagliata  per  diciott'anni,  fino  ad  an- 
darne spenta,  la  dinastia  orleanese.  E  conchiude  :  «  Nuova  prova, 
che  le  classi  nobili  e  le  popolari  vincono  le  borghesi,  le  prime 
nQWahilità  a  reggere  i  moti  politici,  le  seconde  nell'attitudine, 
se  non  a  nutrirli  d'idee,  ad  insinuare  in  essi  l'istinto  di  ricer- 
carle, e  la  lena  a  trovarle.  » 

Qui,  è  chiaro  che  la  sovrabbondanza  di  pensiero  in  cui  nuota 
il  Bonghi  e  la  voluttà,  naturale  in  uno  spirito  così  pensoso,  di 
salir  sempre  dal  fatto  alla  dottrina,  non  gli  hanno  lasciato  trovare 
il  giusto  equilibrio  fra  la  premessa  e  la  conseguenza. 

Lo  scrittore  aveva  ricordato  due  pagine  addietro  come  si  fosse 
miseramente  sciupato  quel  moto  politico  della  ristorazione,  che  le 
classi  nohili  guidate  dai  Villèle  e  dai  Polignac  avevano  condotto 
con  tanta  abilità,  da  provocare  le  tre  giornate  del  luglio  ISSO. 
Avrebbe  potuto  ricordare  due  pagine  innanzi  come  il  moto  politica 
del  1848,  agitato  furiosamente  dalle  classi  popolari,  non  abbia 
nutrito,  in  fatto  d'idee,  che  quella  grande  vanità  degli  opifici  na- 
zionali, dovutasi  poi  dissipare  sulle  barricate  di  giugno,  con  tanto 
strascico  d'odj,  di  sangue  e  di  disastri.  Ebbene,  questi  due  esempi,, 
di  così  fresca  eloquenza,  non  hanno  bastato  a  fermare  sulla  penna 
dello  scrittore  una  così  fiera  condanna  delle  classi  borghesi,  che 
pure,  traverso  a  molti  errori,  avevano  mantenuto  in  Francia  il 
regime  politico  di  maggior  durata  che  si  fosse  ancor  visto  dal 
1789  in  poi. 

Un  po'  più  che  ci  avesse  pensato,  il  Bonghi  avrebbe  certa- 
mente detto, —  e  sarebbe  stato  più  vero,  sebbene  non  nuovo,—  che 
le  sole  classi  borghesi  non  valgono,  più  che  le  soie  nobili  o  le 
sole  popolari,  a  creare  in  uno  Stato  moderno  nulla  che  sia  nel 
tempo  stesso  durevole  e  liberale;  e  che  soltanto  negando  a  qua- 
lunque classe  sociale  una  predominanza  di  diritti  sulle  altre  e 
contemperando  in  equa  misura  gl'interessi  legittimi  di  tutte,  può 
un  governo  trovare  la  sua  formola  di  esistenza  e  la  sua  guaren- 
tigia di  ragionevole  stabilità. 

Altrove  (333),  il  Bonghi  cerca  a  quale  fra  gli  oratori  italiani 
potesse  paragonare  il  Thiers.  E  ne  vaglia  tre,  che  gli  paiono  pa- 
ragonabili per  vari  rispetti  :  il  Sella,  il  Cavour,  il  Minghetti.  Poi 
soggiunge:  «  Può  essere  che  vi  siano  altri   nel  Parlamento   ita- 


RITRATTI  CONTEMPORANEI.  639- 

liane,  i  quali  hanno  dato  saggio  d'una  facondia,  non  da  curiali, 
non  da  demagoghi,  ma  da  uomini  di  Stato  avanti  ad  un'assemblea  ; 
se  non  che,  e  me  ne  duole,  in  questo  momento  non  me  li  ri- 
cordo. » 

0  non  ti  pare,  ripensandoci,  carissimo  Bonghi,  che  l'amore^ 
del  frizzo  (irresistibile  se  contro  amici)  abbia  questa  volta  lan- 
ciata la  frase  bene  al  di  là  del  pensiero? 

Noi  dobbiamo  reprimere  sulle  labbra,  per  non  essere  ingiusti 
a  nostra  volta,  alcuni  nomi  e  di  morti  e  di  vivi,  a  cui  quel  disin- 
volto oblìo  dello  scrittore  potrebbe  ragionevolmente  sembrare 
un'amabile  impertinenza.  Ma  siamo  certi  che  a  rimettergli  li  sotto 
lo  sguardo  quel  suo  periodo,  il  Bonghi  stesso  lo  trova  scorretto  ed 
ingiusto.  Può  essere  bensì,  ed  è  liberissimo  uno  scrittore  di  dirlo, 
che  di  quei  tre  soli  illustri  uomini  parlamentari  riesca  possibile 
e  sensato  il  paragone  col  Thiers.  Ma  lì,  ci  pare,  avrebbe  dovuto 
fermarsi  l'austerità  critica  dello  scrittore.  Di  oratori,  né  curiali,- 
nè  demagoghi,  se  n'è  uditi  alcuni,  la  Dio  mercè,  anche  nel  Parla- 
mento italiano,  e  l'unica  giustificazione  del  fine  oblìo  è  certamente 
questa,  che,  deliberato  a  dare  addosso  barbaramente  a'  suoi  amici, 
il  Bonghi  non  ha  punto  cercato  di  sottrarre  sé  stesso  all'impeto 
delle  sue  mazzolate. 

Sicché  l'unico  nostro  consiglio  al  Bonghi  scrittore,  è  ch'egli 
mediti  un  po'  più  talora  i  suoi  giudizii  prima  di  metterli 
fuori,  0  almeno  prima  di  ristamparli.  Faccia  una  volta  lui  quello 
che  tanti  altri  fanno  cinquanta  volte,  e  colla  sola  soddisfazione 
del  loro  amor  proprio!  Del  resto,  il  nostro  è  consiglio  d'amico;  e 
può  bene  accettarne  egli  uno  da  noi,  se  Molière  ne  accettava  dalla 
sua  serva,  ed  Apelle  dal  suo  calzolaio. 

1  Ritratti  contemporanei  di  Ruggero  Bonghi  resteranno,  mal- 
grado queste  piccole  mende,  uno  dei  libri  italiani,  pubblicati  in 
quest'ultimo  decennio,  la  cui  lettura  torni  di  maggiore  aiuto  agli 
spiriti  sitibondi  di  pensiero  e  di  verità.  E  lo  avere  scritto  un  tal 
libro  sarà  per  sé  sola  una  prova,  che  se,  tratti  da  precoce  seni- 
lità, gli  italiani  vorranno  sviarsi  dalle  buone  tradizioni  e  dalle 
buone  dottrine  di  Stato,  non  sarà  perchè  ne  manchino  anche  oggi 
i  cultori,  atti  e  tenaci  a  confessarle  e  a  difenderle. 

Romualdo  Bonfadini. 


LE  RUINE  E  GLI  SCAVI  DI  DODONyV. 


Nel  mondo  archeologico  levano  attualmente  gran  rumore  gli 
oggetti  in  ])ronzo  raccolti  dal  sig.  Costantino  Carapanos  nei  suoi 
scavi  di  Dodona.  Alla  recente  esposizione  di  Parigi  spiccavano  in 
splendida  mostra  fra  le  altre  scoperte  delle  scienze  moderne,  ed 
i  periodici  francesi,  inglesi  e  tedeschi  ne  hanno  rilevato  a  più 
riprese  l'importanza  con  belli  articoli  dovuti  alle  penne  più  au- 
torevoli di  quelle  nazioni.  In  Italia  la  conoscenza  di  cotesti  bronzi 
tanto  singolari  non  è  ancor  fatta  così  generale  come  dovrebbe. 
In  conseguenza,  spero,  vorrà  tornare  gradito  ai  lettori  dell'  Anto- 
logia il  breve  cenno  che  mi  sono  proposto  di  porgere  intorno  ad 
essi  ed  alla  località  da  cui  furono  scavati.  Per  coloro  che  pi- 
gliano interesse  alle  quistioui  archeologiche  aggiungerò  pure  al- 
cune considerazioni  sul  merito  intrinseco  di  questi  bronzi  e  sul 
posto  che  occupano  nella  storia  dell'arte  e  della  civiltà  greca. 

Il  signor  Costantino  Carapanos,  banchiere  di  Costantinopoli, 
è  oriundo  di  Epiro.  Uno  spirito  indagatore  ed  un  intenso  amore 
per  la  storia  del  suo  paese  natio  l'aveano  condotto  a  ricercare  il 
sito  dell'  antico  tempio  di  Giove  Dodoneo,  il  quale,  in  onta  alla 
sua  celebrità,  era  sempre  rimasto  sconosciuto.  Già  molti  viaggia- 
tori si  erano  accinti  a  tale  impresa,  ma  sempre  senza  frutto,  per- 
chè ne  aveau  cercato  altrove  le  tracce.  Quasi  tutti  aveano  identi- 
ficato Dodona  con  le  ruine  di  Castritza,  situata  a  quattro  kilom. 
incirca  al  sud  di  Giannina.  Il  signor  Carapanos,  per  arrivare  ad 
un  risultato  certo,  non  si  limitò  ad  esplorare  un  punto  solo  del- 
l' Epiro,  ma  quante  località  presentavano  ruine.  altrettante  ven- 
nero da  lui  esaminate. 


LE   RUINE  E   GLI   SCAVI   DI  DODONA.  641 

Fu  nel  corso  di  siffatte  indagini  preliminari,  ch'egli    giunse 
a  cognizione  di  considerevoli  ruine  esistenti  a  Tchar acovi  sta,  ruine 
abbastanza  importanti,  e  che  consistevano   di  un   teatro,  di  una 
cinta , fortificata,  di  alcuni  tronchi  di  colonne  e  di  resti    di   mu- 
raglia dell'altezza  di  circa  tre  metri  sopra  suolo.   Anche   queste 
ruine  erano  già  note  a  parecchi  viaggiatori,    che   concordemente 
le  attribuivano  a  Passarono,  l'antica  capitale  della  Molossia.  Ca- 
rapanos  però  non  poteva  persuadersi  che  i  Molossi    tenessero   la 
capitale  in  un  luogo  così  separato  per  via  di  montagne  dal  loro 
vero  paese,  e  già  fin  d'allora  inclinava  a  credere  che  quelle  ruine 
spettassero    piuttosto    all'antica    Dodona.    Deliberò    adunque    di 
aprirvi  degli   scavi   per  trovar   qualche   docuniento  in  appoggio 
della  sua  ipotesi,  ed  ebbe  la  soddisfazione  di    ottenerne  la   con- 
ferma più  splendida  e  più  piena.  Fra  la  massa  di  oggetti   votivi 
usciti  in  luce,  vennero  anche  raccolte  numerose  iscrizioni  relative 
al  Giove  pelasgico  ed  alla  sua  compagna  Dione,  iscrizioni  che  at- 
testarono in  modo  inappuntabile  essere  quello  veramente  il    sito 
del  venerando  sacrario  di  Dodona. 

•È  facile  comprendere  con  quanta  alacrità  vennero  allora  con- 
dotti gli  scavi.  Incominciati  fin  dal  1875,  continuarono  per  più  di 
dieci  mesi  occupando  una  superficie  di  20,000  metri  quadrati  e  pe- 
netrando ad  una  profondità  media  di  metri  2,50.  I  risultati    fu- 
rono preziosissimi.  Non  solo  restò  definitivamente  fissata  l' ubica- 
zione dell'antico  tempio  dodoneo,  primo  centro  religioso  delle  razze 
pelasgo-elleuiche,  ma  furono  riposti  in  luce  molti  avanzi  di  edi- 
tìzi  connessi  col  tempio  e  molti  voti  dedicati  a  Giove  ed  a  Dione  ; 
vennero  chiariti  molti  particolari  inerenti  al  culto  di  Giove,  alla 
maniera  come  gli  si  rivolgevano  le  domande,  non  che  ai  rapporti 
che  passavano  fra  sacerdoti  e  profani.  Infine  fu  raccolto  un  ma- 
teriale imponente  sia  per  ricostruire  la  storia  della  località   dai 
suoi  tempi  più  remoti  fino  ai  più  recenti,  sia  per   avere   un'idea 
sufficiente  dell'arte  della  Grecia  settentrionale,  di  cui  Dodona  era 
divenuta  la  più  ricca  rappresentante,   e    che   sembra  aver  avuto 
uno  sviluppo  proprio  ed  indipendente  dal  resto  dell'arte  ellenica. 
Taluni  fra  i  più  curiosi  oggetti  raccolti  dal  Carapanos  erano 
stati  prontamente  divulgati  per  il  mondo  scientifico,  ed  i  perio- 
dici esteri,  specialmente  francesi,  la  lievue  Archeolo(jique,  la  Ga- 
iette   de  Beaux-Arts,  la   Gaiette  Archéologique,  i  Monuments 
Grecs,  ne  aveano  già  tatto  gustare  dei  saggi.  Ma    era   un   ecci- 
tare anziché  soddisfare  la  curiosità,  era  un  accendere  vieppiù  il 
desiderio  della  pubblicazione  completa  di  tutte  le  scoperte.  Ed  a 

VÒL.  XIV,  Serie  11—15  Aprile  1819.  40 


642  LE   RUINE   E  GLI  SCAVI   DI  DODONA. 

tale  desiderio  ha  soddisfatto  appunto  di  recente  lo  stesso  bene- 
merito scopritore  con  una  grande  pubblicazione  con  testo  in  4" 
grande  e  corredata  di  un  atlante  di  63  tavole.  L'opera  ha  otte- 
nuto un  favore  immenso.  Poiché  senza  abbandonarsi  a  difficili  elu- 
cubrazioni archeologiche,  espone  con  molta  chiarezza  la  storia 
dello  scavo  e  delle  singole  scoperte,  contiene  dotte  spiegazioni 
dei  monumenti  artistici  ed  epigrafici,  dovute  le  prime  al  Nestore 
degli  archeologi  francesi  il  barone  De-Witte,  ed  al  Heuzey  il 
dotto  esploratore  della  Macedonia,  le  seconde  al  filologo  Egger 
membro  dell'  instituto,  ed  al  prof.  Foucart  il  commentatore  delle 
iscrizioni  di  Delphi.  L'atlante  offre,  disposti  in  bell'ordine,  ripro- 
dotti con  molta  esattezza  ed  anche  con  lusso,  tutti  gli  oggetti  per 
qualche  riguardo  meritevoli  di  essere  conosciuti,  ed  in  tal  modo 
presenta  tutto  il  materiale  per  risolvere  le  varie  quistioui  stori- 
che ed  artistiche  eh'  era  da  attendersi  veder  sollevate  da  scoperte 
così  vaste,  così  nuove  e  così  importanti. 

Circondata  a  nord-est  dalla  catena  delle  colline  di  Manoliassa 
e  di  Cosmira,  ad  est,  sud  ed  ovest  dalle  gigantesche  montagne 
di  Olitzica,  il  Tomaros  degli  antichi,  irrigata  da  ruscelli  nume- 
rosi che  affluiscono  ad  un  torrente  il  quale  tutta  la  traversa  per 
la  sua  lunghezza,  la  valle  di  Dodona  offre  l'aspetto  di  un  recesso 
separato  dal  resto  del  mondo,  un  luogo  sacro  e  venerando,  stu- 
pendamente adatto  per  la  sede  di  un  Dio  misterioso.  Per  molti 
rispetti  la  sua  postura  ricorda  quella  di  Olimpia,  circondata  da 
colline  e  dalle  robuste  giogaie  dell'Arcadia  e  chiusa  in  mezzo  alle 
due  correnti  dell' Alfeo  e  del  Cladeo,  come  fosse  la  sede  terrestre 
riserbata  unicamente  al  Sommo  Giove. 

E  difatti,  al  pari  di  Olimpia  ed  anche  di  Delphi,  Dodona  non 
era  una  città,  ma  soltanto  un  centro  religioso,  un  luogo  consa- 
crato unicamente  agli  Dei,  ove  governi  e  privati  convenivano  in 
circostanze  supreme  per  interrogare  la  loro  volontà,  per  cele- 
brarvi delle  feste  e  dei  giuochi,  per  offrire  voti  e  ringraziamenti 
di  favori  e  vittorie  ottenute.  Era  il  luogo  ove  avea  sede  un  Dio 
venerato  in  comune  da  gente  della  medesima  razza,  epperciò  era 
una  specie  di  anello  religioso  che  univa  fra  loro  Stati  diversi. 
Nei  tempi  primitivi  e  presso  popoli  gelosissimi  della  propria  au- 
tonomia, quando  le  alleanze  politiche  erano  ributtate  dalla  fie- 
rezza egoistica  del  comune,  il  culto  religioso  di  un  Dio  ricono- 
sciuto da  tutti  diventava  l'unico  legame  fra  gli  Stati.  Per  cui  non 
mai  come  nell'antichità  il  significato  filologico  della  religione  cor- 


LE  BUINE   E  GLI  SCAYI  DI  DODONA.  643 

rispose  cosi  perfettamente  a  quello  storico.  Di  qui  sorsero  le  prime 
anfizionìe,  le  prime  confederazioni,  a  chiamarle  con  nome  odierno, 
di  cui  la  più  antica  fu  Dodona,  la  più  celebre  Delphi,  la  più 
universale,  quella  che  abbracciò  poi  non  solo  taluni,  ma  tutti 
quanti  gli  Stati  della  Grecia,  Olimpia.  Merita  ancora  di  essere  ri- 
levato che  la  creazione  di  tutti  tre  quei  centri  religiosi  della 
Grecia  sembra  essere  dovuta  all'  iniziativa  delle  razze  settentrio- 
nali della  Grecia,  alle  razze  doriche,  pratiche  e  conservatrici. 

Delphi  venne  senza  dubbio  fondato  da  esse,  perchè  prima 
ancora  che  occupassero  la  Focide  possedevano  le  sacre  anfizionìe 
in  Tessaglia  che  trasportarono  in  seguito  a  Delphi.  Oltre  a  ciò 
il  nume  venerato  in  questa  località,  quantunque  nei  tempi  sto- 
rici fosse  Apollo,  in  origine  sembra  essere  stato  Giove,  il  Dio 
pelasgico;  e  ciò  è  provato  dalle  tradizioni  poetiche,  secondo  cui 
Apollo  comunicava  i  responsi  per  bocca  di  Giove.  In  seguito  suc- 
cedette Apollo,  ma  solo  più  tardi  e  probabilmente  con  l'esten- 
sione delle  razze  ioniche  che  veneravano  in  Apollo,  padre  di  Ione, 
il  loro  patrono. 

Dell'oracolo  di  Olimpia  si  fa  rimontare  l'origine  a  tempi 
remotissimi;  ma  uè  i  poemi  omerici  ne  fanno  menzione,  né  della 
sua  esistenza  si  hanno  notizie  prima  dell'  emigrazione  dorica.  E 
certo  poi  che  la  potenza  di  quel  luogo  fu  stabilita  solamente  al- 
l' epoca  di  Licurgo,  quando  gli  Spartani  aiutarono  efficacemente 
gli  Elei  contro  i  Pisati,  quando,  per  la  lega  strettasi  fra  Sparta  ed 
Elide,  il  territorio  di  Olimpia  fu  dichiarato  sacro  e  venne  promul- 
gato un  editto  simile  a  quello  che  regolava  1'  anfizionìa  di  Delphi. 

Quanto  a  Dodona,  se  l'antichità  dell'oracolo  e  l'oscurità  dei 
tempi  non  ci  permettono  di  constatare  da  qual  popolo  venne  fon- 
dato, si  hanno  però  molte  ragioni  per  credere  che  ne  siano  stati  autori 
similmente  i  Dori.  Essi  infatti  appartengono  alle  razze  tessali- 
che  che  abitavano  le  contrade  circostanti  all'oracolo,  ed  i  riti,  le 
cerimonie  ed  il  culto  connesso  col  Giove  di  Dodona,  e  la  natura 
stessa  del  nume  venerato,  tutto  trova  il  più  vivo  riscontro  con 
r  oracolo  delfico,  la  cui  origine  dorica  non  può  essere  soggetto 
di  dubbio. 

In  ogni  caso  l'oracolo  di  Dodona  era  d'ogni  altro  il  più  an- 
tico. Sotto  le  mura  di  Troia  il  tessalo  Achille  invoca,  a  proteg- 
gere il  suo  amato  compagno  Patroclo,  la  potenza  del  Giove  pe- 
lasgico: Ulisse  si  reca  espressamente  a  Dodona  per  conoscere  dalla 
fatidica  quercia  come  dovrà  far  ritorno  ad  Itaca.  L'età  eroica  è 
piena  di  leggende    di  personaggi.  Ercole,  Creonte,  Oreste,  Enea, 


644  LE  KUINE  E  GLI   SCAVI  DI  DODONA. 

che  nelle  supreme  circostanze  ricorsero  all'  oracolo  dodoneo,  il 
che  prova  come  allora  dominava  padrone  assoluto  su  tutta  la 
Grecia. 

Nei  tempi  storici  invece,  da  una  parte  Delphi  con  la  sua  in- 
fluenza politica,  dall'altra  Olimpia  col  suo  carattere  panellenico 
riuscirono  ad  affievolire  l'importanza  di  Dodona.  Cionondimeno 
essa  fu  sempre  tenuta  in  altissima  venerazione,  e  se  perdette  dal 
lato  politico  e  legislativo,  acquistò  invece  sotto  il  rispetto,  per 
dirla  così,  famigliare.  Non  solo  negli  antichi  scrittori  abbondano 
le  prove  che  pur  nell'  epoca  storica  Dodona  venne  consultata  da 
popoli,  da  Stati  e  da  privati,  ma  e  le  iscrizioni  raccolte  dal  si- 
gnor Carapanos  nei  suoi  scavi  ed  i  numerosi  ex  voto,  e  gl'impo- 
nenti piedistalli  che  sorreggevano  grandiosi  doni  votivi,  e  la  cinta 
della  città  ed  il  teatro,  e  le  costruzioni  tuttodì  superstiti  le  quali 
spettano  ai  tempi  più  floridi  dell'  arte,  e  le  monete  di  tutte  le 
età  fino  a  quella  di  Costantino,  che  vi  furono  raccolte,  dimostrano 
che  r  oracolo  di  Dodona  venne  consultato  fino  ad  epoca  tardis- 
sima, cioè  fino  alla  sua  distruzione.  Questo  avvenne  al  principio 
del  quarto  secolo,  quando  sotteutrato  il  Cristianesimo  al  politeismo 
ellenico,  il  tempio  di  Giove  fu  trasformato  in  chiesa  cristiana. 

Dodona  non  era  una  città  nello  stretto  significato  della  pa- 
rola, ma  era  luogo  frequentatissimo,  ed  in  alcune  circostanze,  per 
esempio  nelle  rappresentazioni  teatrali,  nella  celebrazione  dei 
giuochi,  anche  assai  popolata.  Oltre  a  ciò  le  cerimonie  relative 
al  culto,  il  servizio  del  tempio,  la  collocazione  dei  doni  votivi  esi- 
gevano la  presenza  continua  ed  immediata  di  un  discreto  personale. 
Era  quindi  naturale  che  non  dovesse  mancare  un  sobborgo,  un 
luogo  per  abitazione.  Con  ciò  si  spiega  la  presenza  a  Dodona  di 
talune  costruzioni  profane,  circontanti  al  tempio,  ma  interamente 
segregate  da  esso.  Le  più  importanti  sono  un  grande  recinto  qua- 
drato, che  racchiudeva  la  parte  abitata,  ed  il  teatro. 

11  recinto,  conservatosi  ancora  quasi  intatto,  ha  una  sola  porta 
d'ingresso  fiancheggiata  da  torri.  Similmente  per  tutta  la  sua 
estensione  è  seminato  di  torri  collocate  ad  intervalli  pressoché 
uguali  fra  loro.  La  sua  costruzione  risale  con  molta  probabilità 
ai  tempi  più  remoti  di  Dodona,  all'  epoca  pelasgica,  giacché  ai 
fianchi  nord  ed  ovest,  i  blocchi  presentano  quel  taglio  irregolare 
e  poligonale  che  riscontrasi  a  Tirinto  e  Micene  ed  è  indizio  di 
un'altissima  antichità.  Gli  altri  due  fianchi  invece  vennero  rifatti 
all'epoca  ellenica,  epperciò  presentano  la  costruzione  quadrata 
propria  dei  bei  tempi. 


LE  RUINE  E  GLI   SCAVI  DI  DODONA.  645 

Ai  tempi  migliori  dell'architettura  greca  spetta  pure  il  teatro, 
che  trovasi  non  molto  discosto  dall'abitato,  a  sud-est  di  esso.  Ca- 
rapanos  lo  dice  il  più  grande  ed  il  meglio  conservato  fra  i  teatri 
greci.  Ma  il  diseguo  che  ne  porge  non  mi  trae  al  suo  parere. 
Finora,  a  mio  avviso,  il  teatro  di  Dioniso  in  Atene  è  il  più  grande 
ed  il  meglio  conservato  fra  tutti  i  teatri  ellenici.  Non  voglio  dire 
con  ciò  che  quello  di  Dodona  sia  in  cattivo  stato.  Le  gradinate, 
originariamente  in  numero  di  quarantanove,  la  galleria  superiore 
che  corona  l'edifizio,  la  costruzione  della  cavea,  tutto  è  sufficiente- 
mente conservato.  Cionondimeno  non  possono  gareggiare  con  l' in- 
tattezza,  per  dirla  così,  dei  gradini,  della  cavea,  e  dei  sedili  sa- 
cerdotali del  teatro  ateniese.  Non  parliamo  degli  ornati.  A 
Dodona  perfino  il  teatro  conserva  la  severità  pelasgica,  mentre  ad 
Atene  lussureggia  l'eleganza  ionica. 

Veniamo  ora  alla  parte  più  importante  delle  mine,  cioè  al 
tempio.  Il  tempio  ed  i  suoi  annessi  erano  chiusi  tutto  all'intorno 
e  separati  da  ogni  edifizio  profano,  mediante  un  vasto  recinto  di 
muro  molto  irregolare,  atteggiato  alla  forma  di  un  quadrangolo. 
Un  fianco  era  costituito  dallo  stesso  muro  meridionale  di  cinta 
dell'  abitato  :  un  secondo  dal  prolungamento  di  quello  orientale, 
il  quale  girava  poi  anche  a  nord,  per  venire  poscia  a  raggiun- 
gere ad  ovest  mediante  alcuni  serpeggiamenti  la  precinzione 
superiore  del  teatro.  Con  molto  giudizio  il  sig.  Carapanos  ravvisa 
nella  vasta  area  compresa  entro  questo  recinto  due  parti  distinte: 
quella  del  tempio  propriamente  detta  e  quella  del  temenos  o  pe- 
ribolo.  Erano  due  sezioni  separate  anche  naturalmente  fra  loro 
per  via  di  una  lunga  schiena  di  terra  che  a  guisa  di  contrafforte 
stava  a  cavaliere  del  tempio.  Perfino  gì'  ingressi  riserbati  al  tempio 
ed  al  temenos  erano  distinti.  Quello  che  conduceva  al  tempio 
trovasi  ad  oriente  ed  è  fiancheggiato  da  due  elevazioni  di  terra 
distanti  fra  loro  cinquanta  metri.  Nello  spazio  racchiuso  fra  queste 
due  elevazioni,  in  quella  valle,  per  dirla  così,  giaceva  il  tempio 
di  Giove  trasformato  oggidì  in  chiesa  cristiana. 

La  trasformazione  è  stata  proprio  completa.  Adesso  non  riesce 
più  possibile  determinare  la  pianta  primitiva  e  neppure  l'ordine 
architettonico  del  tempio.  Cionondimeno  non  può  cader  dubbio 
che  questo  non  fosse  il  suo  vero  sito.  Lo  hanno  posto  fuori  di 
contestazione  le  numerose  statuette  votive  in  bronzo,  e  più  ancora 
le  iscrizioni  su  lamine  di  bronzo  e  di  piombo  contenenti  domande 
rivolte  dai  devoti  al  Giove  Dodoneo,  oggetti  tutti  che  si  raccolsero 
dagli  scavi  praticati  ivi  alla  profondità  di  tre  metri. 


646  LE   RUINE  E   GLI  SCAVI  DI  DODONA. 

Eimettendo  l'esame  delle  statuette  a  più  oltre,  quando  trat- 
terò dell'arte  nel  settentrione  della  Grecia,  trovo  opportuno  di 
riferir  qui  un  saggio  delle  principali  domande  e  preghiere  che 
i  credenti  rivolgevano  all'oracolo  di  Giove.  Queste  domande  e 
preghiere  venivano  dal  postulante  stesso,  o  da  altri  in  sua  vece, 
scritte  sopra  laminette  rettangolari  di  piombo,  consegnate  ai  sa- 
cerdoti e  deposte  poscia  nell'  interno  del  tempio.  Le  domande 
sono  scritte  quasi  sempre  con  lettere  molto  chiare,  profonde,  ed 
assai  nette.  Ci  si  vede  una  certa  cura  posta  dallo  scrivente  af- 
finchè il  Dio  potesse  leggere  esattamente  e  non  fraintendesse  il 
senso  della  domanda.  Epperciò  le  lettere  sono  tutte  in  carattere 
epigrafico  ;  di  scritte  in  corsivo  non  ve  n'ha  che  una  sola  epperciò 
maggiormente  preziosa.  Quantunque  la  scrittura  delle  lamine  sia 
sempre  netta  e  non  contenga  ordinariamente  che  una  sola  di- 
manda, si  osserva  tuttavia  che  spesso  alle  prime  lettere  altre  ne 
vennero  sovrapposte  sia  più  fine  e  minute,  sia  più  grandi  e  pro- 
fonde. Sono  per  lo  più  poche  lettere,  ora  il  nome  del  postulante 
che  aveva  omesso  di  apporvelo,  ora  aggiunte  di  pensieri  dimen- 
ticati. L' irregolarità  con  cui  sono  tracciate  queste  correzioni  ed 
aggiunte  rivelano  la  fretta  dello  scrittore,  e  fauno  pensare  che 
siano  state  scritte  nel  momento  stesso  in  cui  dovevano  consegnarsi 
al  sacerdote  ;  forse  l'omissione  e  la  dimenticanza  era  stata  sola- 
mente avvertita  da  esso,  e  le  aggiunte  vennero  fatte  in  presenza 
sua.  Tutto  questo  dovea  turbare  quella  fiduciosa  tranquillità  ser- 
bata fino  allora  dal  postulante  ed  infondergli  un  sacro  sgomento 
che  non  avesse  omesso  anche  altre  cose,  od  espresso  bene  la  do- 
manda, 0  che  questa  finisse  per  riuscire  oscura  al  Dio  stesso. 
Perchè  contemplando  queste  laminette  mi  traversa  la  mente 
un'  idea  che,  senza  mancar  di  rispetto  al  Giove  Dodoneo,  comu- 
nico ai  lettori.  Ed  è  che  queste  omissioni,  pentimenti  ed  aggiunte 
venissero  a  bello  studio  suscitate  dai  sacerdoti  allo  scopo  quasi 
di  preparare  il  postulante  a  giustificare  egli  stesso  l'oscurità  della 
risposta  che  l'oracolo  avrebbe  pronunziato. 

Intanto  codesti  intralci  di  difìerente  scrittura,  queste  sovrap- 
posizioni di  lettere,  congiunte  con  la  superficie  opaca  del  piombo, 
le  cui  screpolature  bizzarre  assumono  spesso  la  forma  di  lettere,  con- 
fondendo e  guastando  le  lettere  vere  rendono  la  lettura  di  queste 
iscrizioni  difficilissima.  Per  convincersene  basta  gettare  uno  sguardo 
sulla  tavola  LX  dell'atlante  di  Carapanos  in  cui  sono  riprodotte 
con  la  fotografia  quattro  di  siffatte  laminette  plumbee.  11  rica- 
vare qualche  senso  da  quell'  intreccio  di  linee  e  di  segni,  sembra 


LE  RUINE   E  GLI   SCAVI  DI   DODONA.  647 

impresa  disperata.  Tuttavia  il  valente  ellenista  francese  profes- 
sore Foucart  è  riuscito  a  decifrarle  e  sempre  assai  felicemente, 
ed  è  in  grazia  alla  sua  fatica  che  ora  ci  è  dato  di  conoscere  il 
contenuto  di  queste  laminette,  le  quali  nel  campo  pur  cosi  uber- 
toso dell'epigrafia  sono  una  vera  novità.  Esse  riescono  di  sommo 
interesse  non  solo  per  la  lingua  greca,  ma  anche  per  la  conoscenza 
del  sentimento  religioso  o  meglio  superstizioso  del  popolo  greco, 
di  cui  ci  rivelano  un  lato  fin  qui  quasi  interamente  sconosciuto. 

Gli  oggetti  delle  domande  presentano  la  più  grande  varietà  : 
talune  hanno  uno  scopo  politico,  altre  riguardano  affari  privati 
0  religiosi  o  commerciali  :  non  mancano  i  delicati  segreti  di  fa- 
miglia, e  neppure  le  consultazioni  mediche. 

La  popolazione  di  uD,a  città  il  cui  nome  non  è  conosciuto, 
chiede  all'oracolo  se  potrà  conservare  la  propria  sicurezza  allean- 
dosi con  i  Molossi. 

I  Corciresi  domandano  quali  voti  e  quali  sacrifizi  debbonsi 
fare  per  ottenere  i  benefizi  della  concordia. 

Parecchi  consulenti  domandano  all'oracolo  d'indicare  a  quale 
partito  dei  tre  fra  cui  sono  in  dubbio  debbono  appigliarsi. 

Una  donna  vuol  sapere  dall'oracolo  se  la  sua  copertura  del 
capo  ed  i  suoi  orecchini  furono  perduti  o  rubati. 

Una  donna  domanda  le  si  indichino  i  sacrifizi  da  fare  per 
guarire  da  una  malattia. 

Lisanias,  il  quale  ha  qualche  dubbio  sulla  fedeltà  di  Nila, 
domanda  se  il  bambino  ch'essa  porta  in  grembo  è  di  lui. 

Un  altro,  il  quale  per  prudenza  non  declina  il  proprio  nome, 
chiede  all'oracolo  se  gli  convenga  occuparsi  in  persona  della  pro- 
pria villa  e  dei  propri  campi. 

Un  altro,  il  quale  vuol  conoscere  dall'oracolo  se  egli  riuscirà 
nella  sua  impresa  commerciale,  con  precauzione  anche  maggiore  non 
dichiara  né  il  proprio  nome  né  l'impresa  a  cui  si  vuol  dedicare. 

Un  abitante  di  Ambracia  vuol  conoscere  il  Dio  da  cui  potrà 
ottenere  salute  e  fortuna. 

Ma  vi  sono  anche  delle  domande  molto  affettuose,  come  la 
seguente  : 

Una  madre  domanda  all'oracolo,  se  facendo  una  data  cosa  per 
il  suo  bambino,  questo  ne  avrà  giovamento. 

In  generale  però  le  domande  sono  materiali  ed  egoistiche  : 
valga  ad  esempio  la  seguente  : 

Un  pastore  promette  riconoscenza  all'oracolo,  se  gli  riuscirà 
un'operazione  che  sta  facendo  sul  suo  gregge. 


648     "  LE   BUINE   E   GLI   SCAVI   DI    D0D0N4.. 

Molte  altre  domande  vi  erano  il  cui  contesto,  per  la  frattura 
0  per  la  soverchia  corrosione  del  piombo,  non  è  più  intelligibile. 

Ma  mentre  le  iscrizioni  dei  postulanti  sono  così  numerose  ed 
abbastanza  chiare  e  perfino  verbose,  le  risposte  dell'  oracolo  si 
fanno  molto  desiderare,  e  quelle  poche,  tre  o  quattro  in  tutto,  che 
si  posseggono,  brillano  per  brevità  di  linguaggio,  per  oscurità  ed 
ambiguità  di  senso.  Il  che  d'  altra  parte  ben  conviene  all'  indole 
dell'oracolo,  e  conferma  la  fama  poco  onorevole  di  cui  nell'  an- 
tichità stessa  fra  le  persone  intelligenti  godevano  siffatti  responsi. 

Non  ostante  l'ambiguità  della  risposta  che  lasciava  il  cliente 
iù  un'incertezza  anche  maggiore  di  prima,  uè  l'intensa  fede  si  af- 
fievoliva uè  veniva  meno  la  sui^erstizione.  Che  anzi  con  più  calore 
si  rendevano  grazie  al  Dio  e  Ja  riconoscenza  veniva  significata  per 
mezzo  di  doni  e  di  voti.  I  privati  e  le  persone  di  censo  limitato 
restringevansi  ad  offerte  di  esiguo  valore,  per  lo  più  ad  utensili 
della  vita  domestica  sui  quali  peraltro  facevano  incidere  imman- 
cabilmente il  nome  dell'  offerente  e  quello  della  divinità  a  cui 
l'oggetto  veniva  consacrato.  Gli  scavi  eseguiti  dal  sig.  Carapanos 
nell'interno  del  tempio  hanno  dato  in  luce  una  serie  considerevole 
di  piccoli  vasi,  treppiedi,  patere,  fiale,  specchi,  nastri,  passatoi,  can- 
delabri, dischi,  cerchi,  anelli,  oggetti  tutti  di  bronzo,  e  la  mag- 
gior parte  frammentati.  Le  iscrizioni  tracciate  anche  qui  in  ca- 
rattere epigrafico  sono  fatte  a  puntini  e  situate  all'  orlo  oppure 
sui  manichi  degli  oggetti,  talvolta  anche  ai  piedi.  Spesso  il  voto 
non  è  fatto  solamente  a  Giove,  ma  anche  alla  sua  compagna  Dione, 
e  ve  n'ha  pur  uno  alla  dea  Afrodite  che  in  epoca  posteriore  venne 
identificata  con  Dione  e  ne  occupò  il  posto. 

Le  domande  all'  oracolo  e  le  iscrizioni  sui  doni  votivi  costi- 
tuiscono la  parte  più  originale  e  curiosa  delle  scoperte  di  Cara- 
panos. Ma  non  sono  esse  che  attestano  la  grande  e  vera  impor- 
tanza storica  e  morale  del  santuario  di  Dodona.  La  superstizione, 
riflesso  dell'anima  volgare,  fu  in  ogni  tempo  accarezzata  e  lusin- 
gata dal  sacerdozio,  ma  non  diventò  mai  fondamento  stabile  di 
nessuna  istituzione.  Col  culto  di  Giove  erano  connessi  riti  di  un 
ideale  civile  assai  più  nobile  ed  elevato  che  non  fosse  la  tenta- 
zione dell'oscuro  avvenire.  La  presenza  del  Nume  supremo  veniva 
invocata  dai  sacerdoti  come  garanzia  di  atti  solenni  così  politici 
come  morali  che  venivano  conchiusi  fra  Stato  e  Stato,  fra  Stato 
e  cittadini,  fra  padroni  e  schiavi.  Voglio  alludere  specialmente 
alla  cerimonia  dell'  affrancazione  degli  schiavi.  Per  la  coudizione 
veramente  deplorevole  in  cui  nella  società  antica  trovavasi  lo  schia- 


LE   KUINE  E   GLI  SCAVI   DI   DODONA.  649 

vo,  esso,  anche  dopo  quando  con  sforzi  inauditi,  spesso  con  il  sa- 
crifizio di  tutta  la  sua  vita,  era  riuscito  ad  acquistarsi  la  libertà, 
poteva,  da  un  momento  all'altro,  vedersi  ritolto  questo  dono  pre- 
zioso, sia  dal  padrone  stesso  o  dai  parenti  e  discendenti  di  lui, 
se  all'  atto  della  liberazione  non  avesse  presieduto  un  Dio  che  si 
assumeva  sopra  di  sé  la  tutela  dello  schiavo  liberato.  Perciò  l'af- 
francazione dello  schiavo  veniva,  nei  tempi  più  antichi,  conside- 
rata come  una  vendita  dell'uomo  alla  divinità. 

Siffatta  forma  di  affrancazione  degli  schiavi  fu  per  la  prima 
volta  rivelata  all'  archeologia  in  modo  veramente  solenne  dalle 
iscrizioni  scolpite  sui  blocchi  del  muro  pelasgico  che  forma  il 
basamento  del  tempio  di  Apollo  a  Delphi.  Il  primo  a  copiarle  fu 
il  celebre  Ottofredo  Miiller  che  colpito  dai  raggi  esiziali  del  sole 
di  Delj^hi  espiò  con  la  vita  quell'  ultima  sua  fatica.  Lo  scolaro  ed 
amico  suo  Ernesto  Curtius,  fra  le  cui  braccia  il  Miiller  era  spirato, 
pubblicò  quelle  iscrizioni  nel  1844  e  le  dedicò  alla  pietosa  memo- 
ria del  maestro.  11  Lebas  le  ripubblicò  nel  suo  viaggio  archeologico 
in  Grecia  e  nell'Asia  Minore,  ed  il  Wallon  se  ne  valse  per  la  sua 
dotta  opera  Histoire  de  Vesclavage.  Ma  nel  1863  i  signori  Foucart 
e  Wescher,  della  scuola  francese  di  Atene,  eseguirono  a  Delphi, 
intorno  al  basamento  del  tempio  di  Apollo,  aijpositi  scavi  dai  quali 
ritrassero  quattrocento  ed  ottanta  iscrizioni,  delle  quali  quattro- 
cento trentadue  contenevano  atti  di  affrancazione  di  schiavi.  Con 
un  materiale  così  imponente  fu  conosciuta  una  serie  di  partico- 
lari precisi  e  cimosi  intorno  a  quella  cerimonia  a  cui  presso  la 
società  antica  era  annessa  tanta  importanza. 

L'affrancazione  avea  luogo  mediante  un  doppio  contratto  che 
stipulavasi  tra  il  padrone  ed  il  Dio,  e  fra  il  Dio  e  lo  schiavo.  La 
formola  adibita  pel  contratto  era  incirca  sempre  la  medesima 
quindi  tipica,  ed  il  Foucart  ne  propone  come  modello  la  seguen- 
te :  «  Cleoue,  figlio  di  Cleosseno,  ha  venduto  ad  Apollo  un  corpo 
maschio,  che  ha  nome  Hystieo,  di  Siria,  per  il  prezzo  di  quattro 
mine,  affinchè  Hystieo  sia  libero,  e  nessuno  possa  porre  le  mani 
sopra  di  lui  per  tutta  la  sua  vita.  »  Il  contratto  era  preceduto 
dal  nome  dell'arconte  delfico,  dai  nomi  dei  tre  senatori  in  carica 
durante  il  semestre  e  dal  nome  del  mese  per  la  data,  e  terminava 
con  i  nomi  dei  testimoni  che  avean  presenziato  l'atto.  Una  copia 
del  contratto  veniva  poscia  scolpita  sopra  il  muro  del  Santuario 
del  Dio  nel  cui  nome  esso  erasi  stipulato.  Ed  era  questa  inci- 
sione sul  muro,  che  equivaleva  ad  un  deposito  della  copia  negli 
archivi  del  tempio  che  dava  all'atto  un  carattere  religioso  e  che 


650  LE  KUINE  E  GLI   SCAVI   DI  DODONA. 

più  ancor  della  scrittura  era  ima  garanzia  per  l'esecuzione.  Fir- 
mato il  contratto,  avea  luogo  la  cerimonia  dell'  affrancazione.  11 
padrone  accompagnato  dallo  schiavo  si  presentava  davanti  la  so- 
glia del  tempio,  che  non  era  lecito  a  nessun  profano  di  varcare. 
I  sacerdoti  venivano  ad  incontrare  lo  schiavo  che  si  conduceva  al 
Pio,  ed  in  presenza  dei  senatori  e  dei  testimoni  rimettevano  il 
prezzo  convenuto  e  ricevevano  il  giuramento  da  ambe  le  parti. 
In  certa  guisa  aduu(|ue  era  il  Dio  stesso  che  comperava  lo  schiavo 
per  mezzo  dei  suoi  sacerdoti  e  gli  faceva  dono  della  sua  libertà. 
Ma  ciò  avveniva  solamente  nelle  epoche  più  remote,  quando  lo 
schiavo  liberato  veniva  adetto  al  servizio  materiale  del  tempio. 
In  seguito  però,  siccome  non  era  il  tesoro  sacro  del  tempio  che 
forniva  la  somma  della  compera,  ma  lo  schiavo  stesso  che  se  la 
era  procurata  con  le  fatiche  e  con  i  risparmi,  cosi  la  compera 
della  sua  libertà  per  mezzo  dei  sacerdoti  non  era  più  che  una 
formalità,  la  quale  valeva  soltanto  come  garanzia  per  l'esecuzione 
del  contratto  da  parte  del  padrone. 

Queste  brevi  notizie  intorno  alla  formola  ed  alle  cerimonie 
che  accompagnavano  l'affrancazione  a  Delphi  erano  necessarie,  sia 
per  comprendere  le  analoghe  iscrizioni  che  furono  raccolte  dal 
sig.  Carapanos  nell'interno  del  tempio  di  Giove  Dodoneo,  sia  per 
chiarire  la  destinazione  di  alcuni  edifizi  contigui  al  tempio  e  di- 
pendenti da  esso. 

Le  iscrizioni  di  Dodona  non  sono  scolpite  sai  muri  che  for- 
mano la  sostruzione  del  tempio,  ma  sopra  lamierette  di  piombo 
e  di  bronzo,  depositate  poi  nell'interno  del  santuario  come  in  un 
archivio  sacro.  Le  laminette  raccolte  dal  Carapanos  sono  in  nu- 
mero di  37,  di  cui  solo  cinque  intere  e  le  altre  più  o  meno  fram- 
mentate. 

Tutte  quante  sono  scritte  in  caratteri  epigrafici,  e  la  mag- 
gior parte  punterellate,  il  qual  genere  di  scrittura  si  vede  che 
a  Dodona  era  il  predominante.  Anche  la  formola  di  affrancazione 
è  molto  più  breve  e  sobria  che  non  sulle  iscrizioni  delfiche.  Co- 
mincia quasi  sempre  con  l' invocazione  alla  buona  fortuna,  segue 
la  dichiarazione  del  padrone  di  vendere  il  servo  per  un  prezzo 
determinato  che  è  molto  più  esiguo  che  non  a  Delphi,  limitan- 
dosi per  lo  più  ad  una  mina,  mentre  a  Delphi  il  prezzo  medio 
di  uno  schiavo  erano  quattro  mine.  Ciò  prova  che  nel  settentrione 
della  Grecia  erano  meno  ricercati  ed  usati.  La  dichiarazione  ter- 
minava col  nome  dei  testimoni  quasi  sempre  in  numero  di 
quattro. 


LE  RUINE   E  GLI   SCAVI   DI   DODONA.  G51 

La  data  del  contratto  si  rileva  dal  nome  del  naiarco  e  del 
prostata  dei  molossi.  Il  naiarco  di  Dodona  corrisponde  all'arconte 
delfico  ed  indica  il  gran  sacerdote  di  Giove  Naios,  epiteto  che 
Delle  iscrizioni  dodonee  viene  spesso  aggiunto  al  Giove  pelasgico. 
Le  funzioni  invece  che  i  senatori  compivano  a  Delphi  erano  a 
Dodona  esercitate  dal  prostata,  cioè  protettore  dei  Molossi,  un 
capo  eponimo,  un  magistrato  supremo,  il  quale  fino  dall'epoca 
dei  re  di  Epiro  stava  a  fianco  del  re  e  quasi  ne  controllava  il 
potere. 

Se  r  atto  era  preceduto  o  seguito  dalla  cerimonia  della  con- 
segna del  servo  liberato  al  sacerdote,  come  usavasi  a  Delphi,  è  ciò 
che  le  iscrizioni  dodonee  non  ci  fauno  conoscere,  e  che  neppure 
può  dedursi  dall'  esame  delle  costruzioni  circostanti  al  tempio. 
Queste  invece  potranno  giovare  per  chiarir  meglio  le  cerimonie 
eh'  erano  connesse  con  il  responso  dell'oracolo. 

A  dieci  metri  incirca  dal  sacrario  dodoneo  sono  gli  avanzi 
di  una  costruzione  quasi  quadrata  di  m.  19,50  su  18,  i  cui  quat- 
tro muri  interni  suddividonsi  in  diversi  ambienti  dall'aspetto  di 
corridori  e  camere  rettangolari.  Circa  48  metri  più  avanti  no- 
tansi  i  resti  di  un'  altra  costruzione  di  forma  trapezoidale  con  me- 
tri 42,50  sopra  32.  Nell'interno  punti  muri  di  divisione.  Solamente, 
addossata  ad  un  fianco  di  essa,  una  scala  di  cui  gli  scavi  hanno 
posto  allo  scoperto  quattro  gradini  la  cui  ellenica  fattura  è  resa 
evidente  dalla  diligenza  del  lavoro.  All'  esterno  di  questo  muro 
a  cui  la  scala  appoggiava,  osservansi  sette  contraflbrti  che  altro 
scopo  non  sembra  abbiano  avuto  fuorché  quello  di  un  più  valido 
sostegno. 

A  ragione  il  Carapanos,  nell'incertezza  d'indicare  la  destina- 
zione di  queste  costruzioni,  congettura  che  venissero  adibite  per  i 
differenti  sistemi  di  divinazione  praticati  dall'oracolo.  L' ipotesi 
appoggia  anche  sul  fatto  che  nel  primo  edifizio  venne  raccolto 
un  gran  numero  di  monete  in  bronzo  ed  in  tutti  due  numerosi 
oggetti  di  bronzo  figurato.  Ma  la  natura  dell'  oracolo  di  Dodoua 
spiegherà  meglio  il  motivo  di  quelle  costruzioni. 

L'  oracolo  di  Dodona  era  Ieratico,  vale  a  dire  di  quelli  in  cui 
il  Dio  invocato  manifestava  la  propria  volontà  per  mezzo  di  se- 
gni, la  cui  spiegazione  peraltro  era  riserbata  soltanto  a  persone 
rivestite  di  carattere  sacro,  ed  ispirate  dal  Dio  stesso. 

È  chiaro  che  tali  persone  non  erano  altro  che  i  sacerdoti. 
Questi  sono  chiamati  da  Omero  Selli,  e  detti  dai  piedi  non  la- 
vati e  dormienti  sul  terreno.  La  loro    presenza   però,    come  con 


652  LE  RUINE   E  GLI  SCAVI  DI  DODONA. 

rao-ione  lia  già  latto  osservare  Scliomaun,  nou  esclude  cxuella  delle 
sacerdotesse,  le  quali,  come  la  pitonessa  di  Delphi,  erano  più  fa- 
cili ad  essere  inspirate  ad  aprir  l'animo  alle  rivelazioni  del 
nume,  e  quindi  venivano  dagli  antichi  assomigliate  alle   sibille. 

I  responsi  peraltro  non  venivano  direttamente  comunicati  ai 
profani  dalla  sacerdotessa  chiamata  a  Dodona  «  Peliade  »  ed  a 
Delphi,  «  Pitonessa,  »  ma  venivano  rivelati  e  spiegati  per  mezzo 
di  segni  dai  sacerdoti.  Ora  già  in  questo  fatto  della  comunica- 
zione dei  responsi  per  via  di  segni  si  ha  una  prova  che  i  pro- 
fani ed  i  sacerdoti  non  trovavansi  per  questa  circostanza  a  con- 
tatto fra  loro,  ma  stavano  a  distanza  gli  uni  dagli  altri. 

In  coteste  pratiche  di  comunicare  i  responsi  per  via  di  se- 
gni possono  trovare  spiegazione  le  due  fabbriche  più  sopra  de- 
scritte. La  prima  situata  a  solo  otto  metri  di  distanza  dal  tem- 
pio era  forse  destinata  ad  accogliere  i  sacerdoti  perchè  potessero 
più  agevolmente  udire  dalla  bocca  della  Peliade  i  responsi  fa- 
tidici, e  comunicarli  immediatamente,  senza  moversi  dal  posto,  ai 
consultanti.  La  seconda  poi  poteva  essere  riserbata  ai  consulenti 
stessi  situati  a  maggior  distanza  affinchè  i  segni  riuscissero  cir- 
condati di  maggior  solennità  e  mistero.  Trasportiamoci  un  mo- 
mento con  r  immaginazione  a  quei  tempi  remoti  pieni  d'ignoranza 
e  di  superstizione  allorquando  1'  uomo  colpito  da  sventura,  o  cu- 
pido di  conoscere  il  futuro,  movea  da  lontani  paesi,  per  recarsi 
ad  interrogare  la  volontà  del  nume  a  Dodona.  Allora  quel  sito 
ove  sorgeva,  severo  e  maestoso,  il  sacrario  del  Dio  era  tuttoquanto 
attorniato  da  foreste  e  specialmente  di  querele.  Una  di  queste, 
la  più  sacra,  fiancheggiava  il  tempio,  vale  a  dire  si  trovava  quasi 
sullo  sbocco  dell'  ingresso  del  recinto.  11  vento  vi  soffiava  quasi 
sempre  e  fortissimo,  perchè  Dodona  è  situata  500  metri  sopra  il 
livello  del  mare  e  l' inverno  vi  è  rigorosissimo.  Oltre  ciò  la  ven- 
tilazione potevasi  ottenere  anche  artificialmente,  procurando  una 
forte  corrente  d'aria  dall'apertura  dell'ingresso  a  nord^est.  Allora 
lo  stormir  delle  fronde,  il  sacro  silenzio  del  luogo,  l'apparato  tea- 
trale in  cui  i  sacerdoti  non  doveano  dimenticare  di  avvolgere  la 
cerimonia,  il  rumor  della  fonte  che  cadeva,  tutto  questo  non  po- 
teva a  meno  che  produrre  nell'animo  del  credente  un'impressione 
di  terrore  ;  ed  in  tale  stato,  qualsivoglia  responso,  qualsivoglia  se- 
gno, qualsivoglia  spiegazione  non  poteva  a  meno  che  credersi  di 
origine  divina. 

Per  ciò  che  riguarda  adunque  le  pratiche  con  cui  i  sacer- 
doti ottenevano  e  comunicavano    i    responsi,    pratiche    che    dalle 


LE  RUINE   E  GLI  SCAVI   DI   DODONA.  653 

sole  notizie  degli  scrittori  non  si  potevano  determinare,  gli  scavi 
del  sig.  Carapanos  hanno  permesso  di  formarci  un'idea  se  non 
perfettamente  esatta,  almeno  molto  simile  al  vero,  in  grazia 
appunto  di  codeste  costruzioni  che  sorgevano  in  prossimità  del 
tempio  e  ne  dipendevano. 

Ma  la  costruzione  più  considerevole  annessa  al  recinto  del 
tempio  è  quella  che  Carapanos  chiama  il  fcmenos,  che  vorrebbe 
dire  propriamente  la  parte  segregata  dal  tempio.  Esso  infatti  è 
chiuso  tutto  all'intorno  da  un  muro  che  vorrebbe  descrivere  una 
figura  quadrata,  ma  che  è  riuscito  ad  una  forma  moltissimo  ir- 
regolare a  causa  dell'ineguaglianza  del  terreno.  Come  ho  detto 
più  sopra  l'area  del  temenos  era  separata  da  quella  del  tempio 
per  via  di  una  forte  elevazione  di  terra  che  segna  il  limite  sud 
del  tempio  e  quello  nord  del  temenos.  Oltre  ciò,  mentre  l' ingresso 
del  tempio  apresi  ad  est,  quello  del  temenos  trovasi  a  sud-ovest 
in  mezzo  a  due  specie  di  torri  quadrangolari,  di  cui,  una  forma 
il  termine  del  lato  ovest  del  muro,  l'altra  quello  del  sud.  Queste 
due  torri  sono  distanti  fra  loro  quasi  12  metri  e  nello  spazio  fra 
esse  compreso  trovansi  in  piedi  due  tamburi  di  colonne  in  tufo. 
L'opinione  del  Carapanos  che  qui  fosse  l'ingresso  principale  al 
temenos  mi  sembra  molto  probabile,  formandovi  appunto  le  torri 
e  le  colonne  intermedie  una  specie  di  propilei. 

L'interno  del  temenos  dovea  essere  altravolta  la  parte  più 
sontuosa,  più  ricca  di  Dodona.  Vi  si  trovavano  raccolti  le  statue 
in  bronzo,  i  doni  votivi  più  grandiosi,  i  monumenti  più  insigni 
per  arte  che  governi  e  privati  aveano  inviato  per  testimoniare  la 
loro  venerazione  al  Dio  di  Dodona.  Ora  quella  vasta  area  è  de- 
serta, e  dell'antica  sontuosità  e  grandezza  non  avanza  altro  ve- 
stigio all'iufuori  dei  muri  presso  cui  i  monumenti  erano  allineati, 
ed  i  piedistalli  che  li  sorreggevano.  I  muri  formano  due  specie  di 
corridoi,  l'uno  al  fianco  orientale,  l'altro  a  quello  occidentale  del 
recinto.  Dall'estremità  di  quest'ultimo  si  distacca  un  edifizio  qua- 
drangolare di  26  metri  per  10,60  chiuso  da  ogni  parte  e  col  pa- 
vimento coperto  di  pietre.  Proprio  nel  mezzo  vi  dovea  sorgere  una 
grande  statua,  della  quale  rimane  ancora  oggidì  al  posto  il  pie- 
distallo rotondo  formato  da  tre  gradini  di  pietre  sovrapposte.  Da 
una  ruota  in  bronzo  con  iscrizione  dedicatoria  ad  Afrodite,  rac- 
coltavi in  vicinanza,  il  Carapanos  è  indotto  a  credere  che  ivi  fosse 
un  sacrario  di  quella  Dea. 

I  piedistalli  che  sorreggevano  i  monumenti  sono  di  forme  e 
grandezze  svariatissime,  ma  in  generale   si   mostrano    capaci    di 


654  LE   RUINE   E   GLI  SCAVI   DI   DODONA. 

moli  cousiderevoli.  Per  quanto  si  può  giudicare  dalle  basi  super- 
stiti ancora  al  posto,  anche  i  monumenti  doveano  essere  assai 
variati.  Predominanti  erano  forse  le  statue  isolate,  perchè  i  piedi- 
stalli a  pianta  quadrata  e  di  modeste  proporzioni  sono  i  più  nu- 
merosi. Ma  abbastanza  frequenti  sono  pur  quelli  di  pianta  ret- 
tangolare e  di  dimensioni  assai  maggiori  in  modo  da  poter  ricevere 
non  solo  due  ma  anche  tre  statue  e  perfino  statue  equestri.  Me- 
ritano speciale  ricordo  per  la  loro  forma  peculiare  e  per  le  stra- 
grandi dimensioni  quattro  basamenti,  tre  dei  quali  di  forma  se- 
micircolare e  terminanti  a  ciascun  corno  in  una  base  quadrata  da 
colonna.  Su  ciascuno  di  questi  basamenti  potevano  disporsi  più 
statue  costituenti  un  solo  e  grandioso  dono  votivo,  secondo  il  prin- 
cipio di  comporre  prevalente  nelle  scuole  artistiche  del  Pelopon- 
neso ed  in  generale  delle  scuole  doriche.  Le  statue  doveano  essere 
per  maggior  parte  di  bronzo,  sia  perchè  sono  tutte  lavorate  in 
questo  metallo  quelle  raccolte  dagli  scavi  e  sfuggite  alla  distru- 
zione, sia  pure  perchè  pochissimi  e  proprio  insignificanti  sono  i 
frammenti  di  opere  marmoree  riposti  in  luce  dai  lavori.  Il  ma- 
teriale di  bronzo  in  cui  le  statue  erano  lavorate  ne  ha  favorito 
sia  il  rubamento  sia  la  fusione.  In  ogni  caso  la  spogliazione  è  av- 
venuta in  modo  completo  ed  accompagnata  da  incendio.  Ciò  è 
provato  dagli  strati  di  terra  che  ricoprono  adesso  l'area  del  te- 
menos.  Lo  strato  più  superficiale  è  una  terra  d'alluvione  :  un  metro 
più  basso  comincia  un  secondo  strato  composto  in  gran  parte  di 
frammenti  di  mattoni  e  di  terra  nerastra  con  molti  avanzi  di  legno 
bruciato  e  di  carbone  in  polvere.  Questo  strato,  come  dice  Ca- 
rapanos,  è  il  predominante  e  si  ritrova  'anche  attorno  ai  piedi- 
stalli dei  monumenti  votivi.  Queste  traccie  d'incendio  e  più  la 
mancanza  assoluta  di  qualsivoglia  costruzione  nell'interno  del  te- 
menos  fanno  credere  che  vi  fossero  edifizi  in  legno,  divorati  com- 
pletamente dalle  fiamme  al  tempo  della  distruzione  e  spoglia- 
zione del  tempio.  Cosi  in  un'ora  sola  la  barbarie  degli  uomini  e 
la  voracità  degli  elementi  hanno  violato  i  luoghi  rispettati  e  ve- 
nerati per  tanti  secoli  ed  hanno  consumato  tante  stupende  crea- 
zioni del  severo  genio  artistico  dei  Dori. 

Certo  che  ove  le  nobili  fatiche  di  Carapauos  fossero  state 
compensate  dall'acquisto  di  alcune  almeno  fra  quelle  scolture  mo- 
numentali, le  nostre  conoscenze  intorno  all'arte  della  Grecia  set- 
tentrionale, tuttora  così  deficienti  ed  incomplete,  avrebbero  im- 
mensamente guadagnato.  Ciò  nondimeno  anche  con  i  piccoli  lavori 
d'arte  ed  industria  raccolti  qua  e  là  dagli  scavi  si  può   tentare 


LE  RUINE   E  GLI  SCAVI  DI  DODONA.  655 

di  definire  approssimativamente  il  carattere  e  le  vicende  principali 
di  quest'arte.  Per  far  ciò  dobbiamo  procedere  con  ordine,  inco- 
minciando dai  monumenti  più  antichi. 

Come  ho  già  avuto  occasione  di  accennare  altravolta,  l'industria 
umana  più  antica  è  quella  dei  vasi  in  terracotta.  Nell'opera  di 
Carapanos  però  si  cerca  invano  il  diseguo  di  un  solo  di  tali  vasi. 
Certo  essi  non  erano  i  più  propri  per  offrirsi  alla  divinità,  ma 
almeno  non  dovevano  mancare  fra  gli  utensili  del  culto.  Perciò 
la  loro  assenza  è  molto  sorprendente  e  deve  avere  la  sua  ragione. 
Questa  sarà  forse  da  cercarsi  nell'esuberante  abbondanza  del  bronzo. 
Il  bronzo  di  Dodona  era  così  celebre  nell'antichità,  che  passò  in 
proverbio.  Esso  si  distingueva  da  tutti  gli  altri  per  la  sua  patina 
verde  tendente  al  bleu  che  già  gli  antichi  paragonavano  con  la 
tinta  del  mare.  Noi  crediamo  di  aver  trovato  la  vera  spiegazione 
di  tale  patina,  quando  la  supponiamo  prodotta  dal  lungo  deposito 
del  bronzo  sotterra.  Ma  giustamente  il  signor  Heuzey  fa  notare 
che  questo  è  un  errore.  Difatti  gli  antichi  stessi  ammiravano  una 
identica  patina  sopra  a'  bronzi  di  Dodona  che  erano  sempre  ri- 
masti all'aperto:  epperciò  con  molto  più  giudizio  essi  la  spiega- 
vano come  effetto  dell'aria  e  del  clima,  e  meglio  ancora  come  ri- 
sultato di  speciali  processi  adoperati  dai  primitivi  artisti  nella 
fusione  e  lavorazione  dei  metalli. 

Ma  i  raffinamenti  dei  processi  tecnici  non  si  ottengono  che 
dalla  lunga  pratica:  epperciò  trovandoli  a  Dodona  in  epoca  così 
remota,  si  è  quasi  indotti  a  credere  che  ivi  l'industria  più  antica, 
anziché  dei  vasi  in  terra  cotta,  la  fosse  dei  lavori  in  bronzo.  Gli 
oggetti  stessi  raccolti  dal  Carapanos  sembrano  appoggiare  l'ipo- 
tesi. Molti  fra  quei  vasi  di  bronzo  hanno  un  carattere  arcaicissimo, 
il  quale  e  per  le  forme  e  per  gli  ornati  trova  riscontro  solamente 
nei  monumenti  di  Micene,  nei  vasi  primitivi  dell'isola  di  Santo- 
rino  ed  in  quelli  di  Spata  presso  Atene,  lì  signor  Heuzey  è  stato 
il  primo  a  stabilire  questi  raffronti.  Io  posso  aggiungere  che  ta- 
luni oggetti  di  Dodona,  specialmente  il  Lebete  designato  sotto  il 
numero  2  della  tavola  XLII,  trovano  un  perfetto  riscontro  in  al- 
cuni utensili  usciti  dalle  nostre  tombe  più  antiche  del  Bolognese 
e  specialmente  dagli  scavi  Arnoaldi  e  Benacci.  La  somiglianza 
non  concerne  soltanto  la  forma  ma  persino  il  processo  tecnico 
degli  utensili,  non  esclusa  la  famosa  patina  verde  bluastra.  Oltreciò 
gli  esemplari  bolognesi  per  avere  i  manici  conservati  fanno  meglio 
comprendere  come  i  lebeti  stavano  in  piedi,  ciò  che  dal  solo  esem- 
plare di  Dodona  non  può  dedursi.  Gli  ornamenti  di    questi  vasi 


656  LE    RUINE   E  GLI   SCAVI   DI   DODONA. 

antichissimi  consistono  di  linee  parallele,  di  triangoli,  di  circoli 
concentrici,  di  spirali  semplici,  di  spirali  intrecciate,  ecc.,  disposte 
con  un  certo  gusto  severo  per  lo  più  intorno  al  collo.  Gli  ornati 
adunque  appartengono  al  più  antico  sistema  ornamentale  che  è 
la  decorazione  geometrica,  epperciò  la  loro  importanza  storica  è 
grandissima.  Perchè  provano  ancora  una  volta  come  la  decorazione 
geometrica,  lungi  dall'essere  un  portato  dell'arte  fenicia  che  con 
Dodona  centro  continentale  non  ebbe  mai  rapporti,  è  un  prodotto 
originale  ed  organico  dell'arte  j^elasgica,  come  già  i  monumenti 
antichissimi  di  Atene  e  di  Micene  aveano  fatto  supporre.  Se  la  de- 
corazione geometrica  a  Dodona  non  ha  ricevuto  tutta  quella  esu- 
beranza di  sviluppo  che  ci  colpisce  negli  ori  di  Micene,  vi  ha 
però  ottenuto  im  grandissimo  progresso  e,  ciò  che  più  monta,  si  è 
mano  mano  allargata  sulle  medesime  basi,  sui  medesimi  principii 
che  informano  gli  ornati  di  Micene.  Sulla  tavola  XLIX  dell'atlante 
di  Carapanos  sono  riprodotte  alcune  laminette  di  bronzo  che  pre- 
sentano un  intreccio  di  linee  e  di  spirali  così  grazioso,  che  invo- 
lontariamente ci  ricordano  i  bizzarri  ornati  usciti  di  recente  dalle 
tombe  di  Micene. 

Passando  ai  monumenti  a  figura  umana  dobbiamo  segnalare 
come  spettante  al  periodo  più  arcaico  una  testina  in  bronzo  di 
un  giovane  con  lunga  capigliatura.  E  tutto  ciò  che  si  possiede  di 
più  primitivo  in  fatto  di  arte  greca.  L'insieme  della  faccia  ed  i 
tratti  del  volto  sono  sbagliati  affatto,  la  fronte  è  depressa,  il 
mento  acuto  ed  esagerato,  bocca  e  naso  affatto  informi.  Invece  gli 
occhi  hanno  una  certa  espressione  aumentata  dalla  pupilla  che 
l'artista  non  ha  mancato  di  segnarvi.  I  capelli  sono  trattati  a  guisa 
di  una  pezzuola  a  strie  orizzontali  che  cade  dietro  l'occipite,  e 
con  cui  l'artista  volea  significare  la  zazzera.  In  tutto  l'insieme 
domina  senza  dubbio  il  principio  dell'arte  greca,  perchè  quella 
testa  vista  di  profilo  e  di  dietro  ci  ricorda  quelle  analoghe  del- 
l'Apollo di  Thera  e  di  Orcomenos,  quantunque  sia  ancor  più  an- 
tica di  esse.  E  quindi  un  pezzo  importantissimo  per  le  origini 
dell'arte  greca  e  specialmente  dell'arte  dorica.  Rimonta  al  set- 
timo secolo  avanti  Cristo. 

Pure  al  periodo  arcaico,  ma  già  ad  imo  stadio  successivo, 
spetta  una  statuina  di  Satiro  in  atto  di  danzare.  Senza  tema  di 
sbagliarmi,  la  posso  definire  la  figura  più  curiosa  e  più  originale 
di  Satiro  che  abbia  prodotto  l'arte  greca.  Il  Satiro  è  barbato,  ha 
orecchie  cavalline,  una  capigliatura  più  propria  della  criniera  dei 
cavalli  che  non  dei  capelli  umani,  piedi  fatti  ad  unghia  di  ca- 


LE   RUINE   E   GLI   SCAVI   DI    DODONA.  657 

vallo.  Al  fondo  della  schiena  rimane  un  foro  in  cui  era  immessa 
una  coda  da  cavallo,  trovata  staccata.  11  resto  del  corpo  invece  è 
d'uomo,  ma  non  posso  a  meno,  di  rilevare  la  curva  tagliente  della 
schiena  che  anch'essa  ricorda  l'elastico  dorso  cavallino.  Il  Satiro 
con  la  mano  destra  sul  fianco  con  la  sinistra  alzata  solleva,  come 
fanno  i  cavalli,  per  danzare,  la  gamba  destra  accompagnandone  il 
movimento  con  un'  inclinazione  della  testa  pieno  di  espressione, 
abbassando  l'orecchio  come  se  in  quel  momento  udisse  il  suono  e 
volesse  assecondarlo  con  la  scossa  del  capo.  È  un  monumentino 
interessante  anche  per  il  rispetto  mitologico.  Finora  il  tipo  sati- 
resco si  faceva  derivare  dalla  fusione  delle  forme  umane  con  quelle 
caprine.  Ora  dobbiamo  conchiudere  che  il  tipo  più  antico  dei 
Satiri  fosse,  come  quello  dei  Centauri,  un  misto  di  forme  umane 
e  cavalline.  Quanto  allo  stile,  si  nota  il  predominio  dell'arcaismo, 
tanto  nella  durezza  dei  contorni,  quanto  nel  trattamento  dei  ca- 
pelli e  della  barba,  i  cui  peli  hanno  la  forma  strana  di  tanti 
quadrettini.  Per  continuare  il  confronto  dei  bronzi  di  Dodona 
con  quelli  antichissimi  di  Bologna,  osservo  che  una  cista  rotonda 
uscita  dalla  Certosa  ha  i  sostegni  formati  appunto  da  figure  di 
Satiri  accovacciati  con  piedi  cavallini  anziché  caprini. 

Alla  stessa  epoca  del  Satiro  spettano  due  statuine  di  donzelle 
di  cui  l'una  suona  le  tibie  e  l'altra  è  seduta.  In  amendue  le  teste 
i  capelli^  cadono  dietro  le  spalle  in  tanti  piccoli  quadrettini,  e 
nella  prima  formano  per  di  più  dei  ricci  sopra  la  fronte,  in  modo 
che  la  loro  disposizione  presenta  una  viva  analogia  con  le  teste 
degli  Apòllini  di  Orcomenos  e  di  Thera.  Senonchè  nelle  statuette 
di  Dodona  lo  stile  vi  è  già  meno  rigido  e  le  forme  del  volto  più 
regolari,  ragione  per  cui  possono  assegnarsi  al  sesto  anziché  al 
settimo  secolo  avanti  Cristo. 

Siccome  poi  tutti  questi  bronzi  lasciano  riconoscere  una  certa 
parentela  ed  affinità  di  scuola  la  quale  ha  il  suo  prototipo  nelle 
scuole  doriche,  cosi  dobbiamo  conchiudere,  o  che  nell'Epiro  esistesse 
una  scuola  artistica  a  cui  erano  famigliari  i  principii  delle  altre 
scuole  doriche,  oppure  che  i  doni  inviati  al  santuario  dodoneo 
fossero  esclusivamente  lavorati  da  artisti  dorici. 

Fra  i  pezzi  di  età  relativamente  più  recente  dobbiamo  anno- 
verare una  figura  di  donzella  in  atto  di  correre,  ed  un'  altra  di 
cavaliere.  La  donzella  ha  lunghi  capelli  scendenti  a  masse  dietro 
l'occipite  ed  a  trecce  sul  petto.  Vestita  di  corta  tunica  senza  ma- 
niche fa  un  passo  enorme  avanzando  con  la  gamba  sinistra,  mentre 
il  braccio  destro  si  protende  all'  indietro,  quasi  per  equilibrare  il 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Aprile  1819.  41 


658  LE   EUINE   E  GLI   SCAVI   DI   DODONA. 

peso  del  corpo.  Il  barone  De-Witte  interpretò  la  figura  per  Ata- 
laute.  Io  la  credo  o  un  ritratto,  specialmente  a  cagione  del  naso 
aquilino,  o  una  figura  di  genere  pel  confronto  che  ne  trovo  con 
la  corritrice  del  JVIuseo  Vaticano,  la  prima  volta  esattamente 
interpretata  dal  Visconti  per  una  donzella  che  corre  allo  stadio, 
secondo  l'uso  delle  vergini  spartane.  Niente  di  più  probabile  che 
anche  in  Epiro  le  fanciulle  si  esercitassero  alla  corsa.  Nella  nostra 
figurina  vuol  essere  notato  ancora  il  trattamento  della  carne,  il 
cui  insieme  fa  l'impressione  di  gran  forza,  in  ispecie  alle  gambe, 
dove  i  muscoli  sono  fortemente  accusati  e  quasi  curvi,  indizio  di 
robustezza  straordinaria. 

Anche  il  cavaliere  è  coperto  di  corta  e  stretta  tunica  con  le 
gambe  nude  ed  arcuate,  perchè  stava  sopra  il  cavallo,  la  cui  figura 
più  non  si  rinvenne.  Vi  si  nota  una  certa  ricercatezza  di  orna- 
menti ed  una  mollezza  nel  vestire,  perchè  porta  monili  al  collo  e 
fregi  alla  tunica,  mentre  abbondanti  e  fluidi  capelli  gli  scendono 
dietro  l'occipite.  Anche  il  volto  di  questo  giovane  dal  naso  aquilino 
mi  sembra  un  ritratto,  e  sarà  forse  un  ricordo  di  monumento  più 
grande  innalzato  a  qualche  vincitore  nella  corsa  dei  cavalli.  Tanto 
la  corritrice  quanto  il  cavaliere  mostrano  uno  stile  proprio  al- 
l'arte greca   del  quinto  secolo. 

Alla  stessa  epoca  vuol  essere  riportato  un  gruppo  di  un  gio- 
vanetto a  cavallo,  pieno  di  movimento  e  di  vita.  Il  giovanetto  è 
interamente  nudo  :  lunghi  capelli  gli  fluiscono  dietro  le  orecchie  ; 
e  mentre  con  la  sinistra  regge  le  redini  del  focoso  destriero,  nella 
destra  stringe  lo  stimolo.  Il  cavallo  è  slanciato  a  gran  carriera, 
ed  il  giovane  vi  siede  impavido  sul  dorso. 

Come  ho  detto,  l' insieme  del  gruppo  è  pieno  di  movimento 
ed  anche  di  naturalezza:  le  proporzioni  fra  il  giovane  ed  il  cavallo 
sono  rigorosamente  osservate,  ciò  che  non  fu  fatto  neppure  sul 
fregio  del  Partenone,  in  cui  i  cavalli  sono  troppo  piccoli  in  con- 
fronto delle  figure.  La  difièrenza  proviene  da  ciò,  che  l'arte  dorica 
era  realistica,  quella  attica  idealizzava  e  cercava  di  mitigare  lo 
sgradevole  contrasto  delle  proporzioni  fra  l'uomo  ed  il  cavallo. 

Prima  di  scendere  all'esame  delle  statue  dell'epoca  grandiosa 
di  Policleto,  completiamo  le  nostre  cognizioni  sull'arte  arcaica 
con  la  rassegna  dei  lavori  a  rilievo  del  medesimo  periodo.  Il  pezzo 
più  antico  è  senza  dubbio  una  lastretta  di  bronzo  con  la  figura 
di  un  centauro  le  cui  gambe  anteriori  sono  umane  e  le  posteriori 
cavalline.  La  testa  manca,  e  tutto  il  corpo  è  seminato  di  puntini 
per  indicare  la  pelosità  del  mostro.  Sotto  il  Centauro  notansi  due 


LE   EUINE   E  GLI   SCAVI   DI  DODONA.  659 

file  di  spirali  di  tipo  molto  primitivo,  ciò  che  conferma  l'alto 
arcaismo  del  lavoro. 

Seguono,  in  ordine  di  tempo,  due  piastre,  una  quasi  intera  e 
l'altra  frammentata,  ognuna  con  rappresentazione  in  prospetto  di 
una  quadriga,  dentro  cui  stava  una  Vittoria.  L'artista  fu  abba- 
stanza ardito  da  tentare  quattro  cavalli  ed  il  carro  in  iscorcio, 
ma  non  ha  potuto  evitare  gravi  errori.  Gambe,  collo  e  petto  dei 
cavalli  sono  mostruosità,  le  teste  più  che  di  cavallo  sembrano  di 
grifo,  mentre  la  criniera  svolazza  in  maniera  impossibile.  Non  è 
a  mia  cognizione  che  l'arte  attica  nel  periodo  arcaico,  abbia  mai 
tentato  figure  in  scorcio,  e  sarà  questo  un  altro  fenomeno  proprio 
all'arte  dorica  del  sesto  secolo. 

Ad  uno  stadio  subito  successivo  vuol  essere  riferito  un  fram- 
mento di  lastra  di  bronzo  ove  rimane  la  parte  inferiore  di  un 
guerriero  la  cui  spalla  è  trapassata  da  parte  a  parte  da  un'asta. 
Quantunque  l'occhio  sia  ancora  segnato  di  prospetto  mentre  il 
volto  è  di  profilo,  e  benché  le  orecchie  siano  troppo  grosse  e  troppo 
in  alto,  tuttavia  nell'  insieme  si  ravvisa  più  correttezza  di  disegno, 
indizio  di  un'arte  progredita. 

Gli  scavi  di  Dodona  non  hanno  fornito  monumenti  che  spet- 
tino al  periodo  di  transizione  dall'epoca  arcaica  al  libero  sviluppo. 
Dobbiamo  quindi  subito  esaminare  alcuni  monumenti  da  riferirsi 
alla  scuola  peloponnesiaca  che  piglia  nome  da  Policleto.  Sono  tre 
statuette  di  giovani,  il  primo  con  manto  gettato  con  certa  disin- 
voltura sopra  la  spalla  sinistra  e  con  in  mano  pare  una  mazza. 
Il  secondo  con  un  tridente  nella  sinistra  e  col  braccio  destro  man- 
cante: il  terzo  con  la  mano  destra  distesa  e  la  sinistra  chiusa, 
con  cui  impugnava  un  arnese,  ora  perduto.  L'azione  di  questi 
giovani  non  ha  nulla  di  speciale,  i  concetti  sono  poveri,  le  figure 
plasmate  quasi  sul  medesimo  stampo:  le  teste  non  si  distinguono 
né  per  leggiadria  né  per  eleganza  od  idealità.  Ciò  nondimeno 
l'insieme  é  soddisfacente:  sono  la  bellezza  delle  proporzioni,  la 
naturalezza  della  posa,  la  correttezza  del  disegno  che  meritano 
altissima  lode.  Ci  si  vede  uno  studio  accurato  del  modello,  una 
gran  pratica  nel  trattare  il  nudo,  e  più  di  tutto  si  sente  l'appli- 
cazione delle  norme  impartite  da  Policleto  sulle  proporzioni  del 
corpo  umano,  norme  ch'egli  stesso  avea  applicato  sopra  una  statua 
chiamata  perciò  il  canone. 

Tra  gli  oggetti  finora  esaminati  si  nota  un  certo  legame  arti- 
stico, una  tradizione  progressiva  di  disegno  e  di  stile  che  li  dimo- 
stra quali  prodotti  dello  sviluppo  naturale  ed  organico  di  una  sola 


660  LE    KUINE   E   GLI   SCAVI   DI   DODONA. 

e  medesima  arte  senza  la  più  leggera  influenza  di  arte  forestiera. 
I  soggetti  sempre  tolti  dalla  vita  reale,  le  forme  del  corpo  umano 
non  mai  idealizzate,  lo  stile  sempre  un  po'  forte  e  severo,  le  faccie 
prive  di  espressione.  Abbiamo  dunque  ogni  ragione  per  mantenere 
l'opinione  emessa  più  sopra,  che  i  monumenti  di  Dodona  finora 
esaminati  sono  tutti  prodotti  genuini  del  severo  genio  artistico 
dei  Dori. 

Ora  invece  ci  occorre  una  serie  di  monumenti  in  cui  i  carat- 
teri artistici  or  ora  esposti  non  sono  più  così  puri. 

11  realismo  è  temperato  con  un  po'  d'idealismo  ;  le  proporzioni 
troppo  massiccie,  e  le  forme  troppo  rudi  vengono  ingentilite:  i 
soggetti  stessi  escono  dalla  cerchia  ristretta  della  vita  reale  e 
s'inspirano  anche  al  campo  fecondo  della  mitologia:  infine  il  lavoro 
a  tutta  scoltura  cede  il  posto  al  rilievo  che  diventa  un  genere  quasi 
predominante. 

E  di  lavori  in  rilievo  gli  scavi  di  Dodona  hanno  fornito  pezzi 
veramente  di  prim'ordine.  Accennerò  anzi  tutto  una  lastra  di 
forma  ovoidale,  i  cui  fori  seminati  presso  l'orlo  provano  che  ser- 
viva di  rivestimento  a  qualche  utensile,  forse  ad  un  guanciale  di 
elmo.  Vi  è  rappresentata  la  lotta  di  Ercole  e  di  Apollo  per  la 
conquista  del  tripode  delfico,  gruppo,  il  cui  prototipo  si  riporta 
concordemente  alla  scuola  corinzia.  Ma  qui  nella  nostra  lastra  il 
volto  nobile  ed  espressivo  di  Ercole,  attesta  l'influenza  di  un'altra 
scuola  più  fina,  senza  dubbio,  della  scuola  attica.  Lo  stesso  deve  dirsi 
per  la  testa  di  Ajjollo,  i  cui  capelli  ricordano  le  teste  apollinee 
dopo  Scopa  e  Prassitele.  Invece  il  trattamento  del  nudo,  e  proprio 
allo  stile  dell'arte  peloponnesiaca,  e  le  pieghe  a  zig-zag  nella 
clamide  di  Apollo  affettano  la  maniera  arcaica.  Per  cui  in  que- 
sto gruppo  abbiamo  una  miscela  di  tre  stili,  il  ieratico  in  sito  col 
soggetto  del  culto,  lo  stile  attico,  conseguenza  del  predominio  che 
l'arte  attica  a  quest'epoca  esercitava  su  tutta  la  Grecia,  infine  lo 
stile  peloponnesiaco,  che  indica  la  località  in  cui  fu  lavorato  il 
monumento. 

Lo  stesso  fenomeno  di  stile  misto  appare  sopra  altre  tre  la- 
stre, di  cui  una  con  Ercole  che  combatte  il  toro  di  Gnosso  e  le 
altre  due  con  lotte  di  guerrieri.  Anzi  in  queste  ultime  si  riconosce 
già  una  più  decisa  influenza  dell'arte  attica,  sia  nella  scelta  dei 
soggetti,  sia  nelle  proporzioni  slanciate  e  nella  varietà  e  ricchezza 
delle  mosse  delle  figure. 

Ma  il  monumento  che  porge  la  più  alta  idea  della  fusione 
che  dopo  Fidia  e  Policleto  si  operò  nel  Peloponneso  delle  maniere 


LE   RUINE   E  GLI  SCAVI   DI  DODONA.  661 

proprie  a  quei  due  grandi  maestri,  è  una  lastra  di  bronzo,  an- 
ch'essa guanciale  di  elmo,  con  la  rappresentazione  di  due  guer- 
rieri combattenti.  L'un  d'essi,  con  elmo  aguzzo  in  capo,  lo  scudo 
al  braccio  sinistro,  innalzava  il  braccio  destro  ora  perduto,  la  cui 
mano  stringeva  forse  l'asta  con  cui  nel  momento  ha  percosso  l'av- 
versario. Qaesto  è  in  una  posizione  che  mostra  avere,  per  il  colpo 
ricevuto,  perduto  l'equilibrio.  Perciò  la  gamba  sinistra  piegata  è 
ancora  in  alto,  quella  destra  già  tocca  col  ginocchio  il  suolo,  a 
cui  si  appoggia  anche  la  mano  che  ancor  stringe  il  pugnale.  11 
braccio  sinistro  lo  eleva  per  parare  il  secondo  colpo  che  il  nemico 
gli  vibra.  Il  gruppo  non  solo  è  pieno  di  slancio  e  di  vita,  ma  anche 
di  nobiltà  e  di  grandezza.  Le  teste  dei  due  giovani  sono  meravi- 
gliose per  purezza  di  linee,  per  verità  di  espressione.  Senza  essere 
né  ricercati  né  eleganti,  i  capelli  sono  trattati  con  la  massima  nar- 
turalezza,  ed  il  nudo  rivela  in  ogni  parte  una  finezza  e  maestria 
straordinarie.  Tutto  ciò  si  vede  dall'incisione,  ma  quanto  più 
effetto  non  dovrà  produrre  l'originale  se  il  D e- Witte  riferisce  che 
la  planche,  (luoUiuc  gravee  atee  le  plus  grand  soin,  ne  peut  donner 
qiiune  idée  Iniparfaite  du  niodèle  des  chairs  et  de  Vélégance  dea 
draperies?  Il  De- Witte  riporta  questo  bronzo  all'epoca  di  Lisippo: 
ma  non  è  possibile  essere  del  suo  parere.  Né  tipi  né  proporzioni 
sono  lisippee,  né  il  trattamento  del  nudo,  e  neppure  il  concetto. 
Senza  nulla  detrarre  al  merito  di  Lisippo,  questi  non  ha  prodotto 
nessuna  figura  cosi  elegante  e  così  j^iena  di  espressione.  Non  è  lo 
spirito  freddo  e  realistico  della  scuola  di  Sidone  che  anima  que- 
sto gruppo.  Qui  vi  é  l'entusiasmo,  la  grandezza,  l'idealismo  del- 
l'arte di  Fidia,  fuso  e  congiunto  con  la  purezza  e  la  finezza  della 
forma  propria  dell'arte  di  Policleto.  Questa  fusione  dell'arte  attica 
con  quella  peloponnesiaca  ci  era  già  nota  sia  pel  fregio  del  tem- 
pio di  Apollo  a  Basse  di  Figalia,  sia  per  le  opere  di  Damofonte 
di  Messene,  il  quale  trapiantò,  per  dir  così,  l'arte  attica  nella  sua 
patria.  Ma  tale  fusione  non  ci  avea  mostrato  finora  neppur  un 
prodotto  che  potesse  reggere  per  eleganza  e  finezza,  un  confronto 
con  la  lastra  di  Dodona. 

Un  altro  insigne  bronzo,  rappresentante  Scylla,  spetta  alla 
scuola  di  un  grande  maestro  che  educato  allo  studio  dei  capola- 
vori fidiaci,  trovò  sorgenti  affatto  nuove  di  creazioni  artistiche. 
Intendo  parlare  di  Scopa,  che  primo  fra  gli  scultori  greci  trattò 
l'elemento  marino  popolato  di  divinità  e  di  nereidi,  di  pesci  e 
d'ippocampi,  di  tritoni  e  di  mostri.  La  Scylla  appartiene  a  questo 
ciclo  di  figure  marine,  e  la  maniera  grandiosa  com'essa  è  trattata 


662  LE   RUINE   E   GLI   SCAVI    DI   PODONA. 

sul  bronzo  di  Dodona  è  veramente  degna  di  Scopa.  Scylla  presen- 
tata di  fronte,  con  uno  stupendo  petto  di  donna,  ha  un  volto  di 
una  beltà  grandiosa,  pieno  di  sentimento  e  di  melanconia  profonda 
espressa  ancor  meglio  nella  inclinazione  della  testa.  Tenendo  nella 
destra  un  remo  innalza  la  sinistra.  Figura  sì  bella  termina  in  due 
grandi  code  di  tritone  ed  in  due  cani  che  abbaiando  si  slanciano 
in  parte  opposta  scivolando  sulle  onde  marine.  Il  terrore  che  in- 
spira la  parte  inferiore  del  suo  corpo  è  accresciuto  dalla  presenza 
di  due  larghe  ali  che  le  si  distendono  alle  spalle  ed  hanno  la 
forma  di  ali  da  pipistrello.  Il  De-Witte  le  ha  scambiate  con  foglie 
di  acanto.  Ma  che  si  tratti  di  una  parte  del  corpo  della  Scylla 
risulta  dal  fatto  che  queste  ali  hanno  la  stessa  forma,  gli  stessi 
puntini  che  osservansi  sul  velo  che  ricopre  la  parte  anteriore  ove 
il  corpo  femminile  si  confonde  con  quello  dei  cani.  Tutto  in  que- 
sta figura,  stile,  disegno,  esecuzione  ed  espressione,  è  degno  della 
grand'arte  sentimentale  di  Scopa,  alla  quale  senza  esitazione  la 
riporto. 

Ad  un  altro  indirizzo  invece  della  Scuola  di  Scopa  dev'essere 
riportata  una  bellissima  statuetta  di  Baccante.  Fra  le  numerose 
figure  di  Menadi  che  popolano  i  Musei  non  ne  conosco  alcuna  ove 
l'ebbrezza  del  furore  bacchico  sia  espressa  con  piìi  forza,  con  più 
energia  che  in  questa  statuetta  di  Dodona.  La  Baccante,  gittata 
attraverso  del  petto  una  disordinata  pelle  di  pantera,  agita  con 
tanta  violenza  amendue  le  braccia,  che  una  parte  del  seno  si  scopre 
e  ne  traballa  la  mammella.  Il  sinistro  braccio  ha  disteso  in  basso 
con  la  mano  che  stringeva  convulsa  un  pugnale  :  il  braccio  destro 
in  alto,  la  cui  mano,  ora  perduta,  afferrava  probabilmente  lo  scan- 
nato capretto.  La  baccante  saliva.  Con  uno  sforzo  straordinario 
punta  il  nudo  e  delicato  piede  sulla  roccia,  dandovi  forza  col  gi- 
nocchio, mentre  il  pie  sinistro  trovasi  al  basso.  La  testa  inclinata 
in  avanti  sembra  voler  aiutare  lo  sforzo  del  corpo,  e  l'agitazione,  la 
fui'ia,  da  cui  è  compresa,  sjaicca  fuori  anche  dagli  occhi,  larghi, 
aperti,  vibranti.  Qua  e  là  vi  sono  delle  incrostazioni  d'argento  : 
gli  occhi  stessi  forse  erano  riempiti  di  una  pietra  lucente,  ed  allora 
r  effetto  che  la  statua  dovea  produrre  era  completo.  Dinanzi  a  questa 
figura  il  pensiero  corre  rapidissimo  alla  Menade  di  Scopa  descritta 
da  Callistrato.  Ma  quanto  più  si  capisce  con  un  solo  sguardo 
su  questa  statuetta,  che  non  da  tutta  la  pallida  ed  artifiziosa  de- 
scrizione del  retore. 

In  un  campo  così  ubertoso  e  così  ricco  di  monumenti  arti- 
stici non  ho  scelto  che  i  cimelii.  Ma  potrei  ancora  menzionare  la 


LE  EUINE   E  GLI  SCAVI    DI    DODONA.     '  663 

statuetta  di  un  istrione  in  atto  di  danza,  pregevolissima  per  il  co- 
stume e  per  il  tipo;  una  maschera  di  Giove  che  segua  un  ulte- 
riore ma  più  ricercato  sviluppo  del  Giove  di  Otricoli,  una  sta- 
tuetta di  Vittoria,  un'  altra  di  Minerva,  una  statuetta  di  Giove 
in  atto  di  scagliare  il  fulmine,  due  figure  arcaiche  adoperate 
come  manichi  di  specchi,  ed  un'  infinità  di  rappresentazioni  di 
animali,  cavalli,  capri,  serpi,  aquile,  colombe,  cervi,  pegasi, 
leoni,  conigli,  tori,  ecc.  Ma  sorpasserei  i  limiti  concessi  ad  un 
articolo,  perchè  molti  di  quei  pezzi  meriterebbero  una  particolare 
descrizione  dal  punto  di  vista  della  storia  dell'arte,  per  supplire 
a  lacune  lasciate  dalla  descrizione  sommaria  datane  dal  De-Witte 
ed  inserita  nell'opera  di  Carapanos.  Perciò  mi  sono  limitato  a 
descrivere  con  qualche  larghezza  i  pezzi  più  cospicui,  allo  scopo 
di  avere  una  base  più  sicura  per  giudicare  della  loro  importanza 
per  la  storia  dell'arte  e  per  le  vicende  del  santuario  stesso  di 
Dodona. 

Si  può  dire,  che  tutti  i  periodi  principali  dell'arte  greca  sono 
rappresentati  a  Dodona  da  uno  o  più  pezzi,  il  che  prova  come  in 
ogni  età  quell'oracolo  venne  consultato  e  venerato.  1  monumenti 
più  antichi  sono  di  esclusiva  scuola  peloponnesiaca,  perchè  questa 
fino  quasi  all'epoca  di  Fidia  ebbe  il  primato  non  solo  sulla  Gre- 
cia propria,  ma  anche  nella  Sicilia  e  nella  Magna  Grecia.  Dopo 
Policleto,  invece,  avviene  una  fusione  delle  scuole  attica  e  pelopon- 
nesiaca, fusione,  della  quale  anche  a  Dodona  si  sono  trovati  splendi- 
dissimi documenti.  Di  modo  che  senza  notevoli  interruzioni  si  arriva 
fino  all'epoca  di  Lisippo. 

Ma  ciò  che  sorprende  è  la  mancanza  di  monumenti  dell'età 
di  Alessandro  Magno.  Il  Giove  Dodoneo  dovea  allora  aver  gua- 
dagnato d'importanza,  perchè  era  il  Dio  patrio  del  gran  monarca 
macedone.  Ma  non  dobbiamo  neppur  dimenticare  che  tutte  le 
statue  grandiose  e  monumentali  che  un  giorno  riempivano  il  te- 
menos  di  Dodona  ebbero  a  sofi'rire  una  rapina  completa,  e  fra 
esse  non  potevano  mancare  quelle  dell'epoca  di  Alessandro.  Ciò 
almeno  si  può  congetturare  da  alcuni  resti  di  statue  colossali 
raccolti  nel  temenos,  avanzi  per  lo  più  di  armature  ed  il  cui  stile 
ben  conviene  all'arte  di  Lisippo  e  dei  suoi  successori.  Che  la  ve- 
nerazione poi  della  stirpe  guerriera  dei  Macedoni  verso  il  Giove 
Dodoneo  non  sia  mai  venuta  meno  ci  è  attestata  anche  da  notizie 
storiche.  E  forse  può  anche  provarsi  col  fatto  dei  numerosi  arredi 
guerreschi  che  si  raccolsero  in  vicinanza  dei  piedestalli  del  te- 
menos. I  principali  fra  questi  sono  vari  guanciali  di  elmo,  taluni 


664  LE   EUINE   E   GLI   SCAVI    DI   DODONA. 

senza  ornato,  altri  con  la  sola  indicazione  dei  baffi  dell'individuo 
che  li  portava,  un  altro  assai  più  finito  e  con  bellissimo  lavoro 
di  una  barba  folta  e  ricciuta  :  un  ultimo  infìue,  appartenuto  forse 
a  qualche  comandante  supremo,  con  un'  incisione  quasi  impercet- 
tibile di  un  fulmine.  Tra  gli  arnesi  guerreschi  raccolti  in  gran 
numero  dallo  scavo  debbono  pur  menzionarsi  elmi,  archi,  spade, 
speroni,  morsi  di  cavallo,  ascie,  coltelli,  oggetti  tutti  che  attestano 
il  culto  e  la  venerazione  verso  il  Giove  di  Dodona  di  stirpi  guer- 
riere e  cavalleresche. 

Ma  non  meno  intensa  dovea  essere  la  fede  e  la  venerazione 
che  vi  professavano  le  donne,  le  quali  la  testimoniavano  con  l'of- 
ferta dei  loro  stessi  ornamenti.  Epperciò  anche  questi  si  sono 
trovati  in  numero  straordinario,  braccialetti,  orecchini ,  spilloni, 
anelli,  fibule  di  forme  svariatissime,  aghi  crinali,  pinzette,  pen- 
nellini,  ecc. 

Ma  ciò  che  maggiormente  attesta  la  venerazione  secolare  in 
cui  da  tutta  la  Grecia  fu  tenuto  l'oracolo  di  Dodona,  sono  le  mo- 
nete che  i  credenti  venuti  a  consultare  il  Dio  deponevano  come 
offerta  nel  tesoro  del  tempio.  Le  monete  raccolte  dal  Carai)anos 
sono  in  numero  di  662,  di  cui  sole  l-±  in  argento  e  648  in  rame, 
trovate  la  maggior  parte  nel  tempio  di  Giove  e  nei  due  editìzi  da 
esso  dipendenti.  Le  monete  d'oro  mancano  afl'atto  e  così  pure 
quelle  in  argento  di  maggior  valore. 

11  fenomeno  è  spiegato  molto  bene  dal  Carapanos.  supponendo 
che  sieuo  state  rubate  al  tempo  della  spogliazione  dell'  oracolo. 
Le  monete  di  rame,  il  vile  metallo,  non  sedussero  l'avidità  degli 
spogliatori,  e  vennero  disperse  fra  le  ruine  degli  editìzi  incen- 
diati. Siccome  fra  le  monete  di  rame  ve  ne  sono  di  Costantino  e 
di  Crispo  suo  figlio,  cosi  è  certo  che  la  distruzione  di  Dodona  av- 
venne dopo  questi  imperatori. 

Ecco  adunque  come  l'oggetto  anche  meno  pregioso  uscito  in 
luce  da  quello  scavo  concorre  per  chiarire  la  storia  di  quel  gran 
centro  religioso  greco  che  fu  Dodona,  il  cui  tempio  fu  la  prima 
affermazione  dell'  ellenica  religione  e  si  mantenne  in  piedi  e  si 
conciliò  la  venerazione  fino  all'ultimo  momento  in  cui  il  politei- 
smo greco  scompariva  dal  numero  delle  religioni,  per  lasciar  po- 
sto al  Cristianesimo. 

F.  Brizio. 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA. 


APPUNTI  DI  VIAGGIO. 


XIII. 

Dal  Niagara  a  Toronto  non  v'ha  se  non  una  breve  traversata 
sul  lago  Ontario.  Toronto,  che  è  la  capitale  della  Provincia  d'  On- 
tario, è  città  popolosa,  ^  dalle  strade  larghe  e  diritte;  ma,  toltone 
i  principali  edifizi,  può  dirsi  che  le  sue  case  sien  tutte  d'  un  me- 
desimo tipo,  e  che  annunciano  subito  quella  sua  condizione  di  citta 
interamente  nuova,  delineata  quando  il  terreno  costava  poco,  e  fab- 
bricata ad  un  dipresso  tutta  nello  stesso  tempo,  colla  stessa  dire- 
zione, e  sotto  r  impulso  di  bisogni  perfettamente  consimili.  Però 
essa  ha  una  salvaguardia  contro  la  monotonia,  negli  alberi  che 
liancheggiano  i  marciapiedi  delle  strade.  Gli  alberi,  sieno  pure 
d'un  medesimo  seme,  non  sono  mai  uniformi,  e  mentre  cogli  om- 
briferi rezzi  proteggono  il  cittadino  dalla  sferza  del  sole  che  la  nuda 
ampiezza  delle  vie  renderebbe  insopportabile,  gì'  ispirano  anche  un 
sentimento  di  pace  e  di  riposo  ognora  salutare  dove  tante  son  le 
preoccupazioni  della  vita  degli  affari.  Quella  profusione  d'alberi 
per  le  vie  di  Toronto  giustifica  altresì  il  significato  del  nome  in- 
diano della  città,  che  suona  «  Alberi  sull'acqua.  » 

Il  valore  della  proprietà  a  Toronto  è  stimato  di  36  milioni  di 
dollari,  sicché  in  proporzione  di  popolazione  è  di  pocd  inferiore  a 
quello  della  proprietà  di  Montreal.  A  quel  municipio,  come  ad 
ogni  altro  dell'  Ontario,  la  legislazione  provinciale  prescrive  un  li- 

1  Gli  abitaati  souo  56,092  lii  cui  21,101  Inglesi,  24,010  Irlandesi,  8,2Tl  Scoz- 
zesi, 985  Tedeschi,  5Ì2  Francesi,  34  Itali. mi.  Per  rapporto  alla  religione,  11,881  son 
cattolici  ;  gli  altri,  delle  varie  sètte  del  protestantesimo. 


666  IL  DOMINIO   DEL   CANADA. 

mite  sia  nell'  imposizione  delle  tasse,  sia  nella  facoltà  di  contrar  pre- 
stiti: esso  non  potrebbe  mai  incorrere  un  debito  del  quale  gl'interessi 
ed  il  fondo  d'ammortamento,  insieme  colle  tasse  dell'  anno  prece- 
dente, superassero  la  cifra  del  due  per  cento  del  valore  della  pro- 
prietà fondiaria  e  mobile  dei  contribuenti. 

Ciò  che  v'ha  di  più  saliente  nella  struttura  del  reggimento 
della  Provincia  di  Ontario,  è  che  la  sua  rappresentanza  legislativa 
è  costituita  da  una  sola  camera  elettiva.  Ciò  è  contrario  intera- 
mente alle  tradizioni  dello  stesso  Canada,  dove  la  costituzione 
del  1791  e  l'atto  d' unione  del  1841  sancivano  del  pari  un  Con- 
siglio legislativo  come  Camera  alta,  ed  un'Assemblea  come  Ca- 
mera bassa  ;  nonostante,  nel  1866  gli  uomini  al  potere  credet- 
tero bene,  nella  formulazione  del  progetto  di  quella  parte  di  co- 
stituzione che  doveva  ordinare  le  legislature  locali,  di  proporre 
codesta  innovazione,  che,  secondo  loro,  era  giustificata  dal  fatto  che 
la  popolazione  del  Canada  francese  era  più  conservatrice  e  mo- 
narchica. 

Dopo  aver  letto  su  molti  libri  inglesi  1'  accusa  mossa  alla 
razza  francese  di  esser  poco  atta  alla  coltura  intensiva,  non  fu 
senza  sorpresa  che  udii  confessarmi  che  non  se  ne  fa  nemmeno 
nella  Provincia  d'Ont;irio  ;  tutti  quei  pochi  i  quali  ci  si  sono  pro- 
vati finirono  col  rovinarsi.  Ciò  che  è  possibile  e  conveniente  in 
Europa,  non  lo  è  più  qui,  perchè  le  distanze  ed  altre  difficoltà 
scematio  talmente  il  valore  del  prodotto,  da  rendere  il  benefizio 
della  coltura  intensiva  sproporzionato  al  valore  del  capitale  che 
essa  richiede;  inoltre  colle  sensibilissime  differenze  di  tempera- 
tura, i  risultati  della  coltivazione  son  troppo  incerti  per  consi- 
gliare di  rischiare  in  essa  l'investimento  di  grandi  capitali.  Co- 
loro che  qui  ebbero  ad  ammassare  ricchezze,  le  debbono  alla  col- 
tura estensiva,  e  sul  lago  Simcoe,  al  nord  ovest  dell'Ontario,  una 
società  d'ufficiali  inglesi  in  ritiro  che  erasi  appunto  formata, 
coll'appoggio  di  grandi  capitali,  allo  scopo  di  tentare  la  col- 
tura intensiva,  dovette  disciogliersi  e  rinunciare  all'impresa. 

Anche  a  Toronto  fui  ricevuto  in  varie  case  con  molta  ospi- 
talità, ed  oramai  le  varie  occasioni  di  contatto  che  avevo  infino 
allora  avuto  colla  popolazione  canadese  mi  ponevano  in  grado  di 
rispondere  ad  una  domanda  che  s'era  affacciata  di  continuo  al 
mio  pensiero  sin  da  quando  avevo  posto  il  piede  a  Quebec;  e  cioè, 
qual  fosse  il  carattere  dei  rapporti  che  intercedevano  fra  classe 
e  classe,  sia  dal  punto  di  vista  della  forma  che  assumevano, 
sia  da  quello  dei  sentimenti  respettivi  che  potevano   animarli.  E 


IL   DOMINIO  DEL  CANADA.  667 

fuor  (li  dubbio  che  su  questo  campo  le  differenze  fra  l'America  e 
l'Europa  son  tuttavia  molto  accentuate,  e  devono  esserlo  state 
assai  più  nei  tempi  addietro  ;  infatti  è  la  necessità  del  mutuo 
servizio  che  influisce  più  specialmente  a  determinare  la  socievo- 
lezza degli  uomini  e  a  consigliar  loro  l'amicizia  vicendevole  o  l'au- 
torità ed  il  rispetto,  la  soggezione  gerarchica  o  la  fratellanza; 
ora  siffatta  necessità  è  sentita  in  America  presso  a  poco  da  tutti 
in  egual  grado,  mentre  invece  in  Europa  è  impossibile  sottrarsi 
alla  considerazione  della  diseguaglianza  di  potere  che  si  nasconde 
sempre  dietro  le  differenze  di  nome,  di  educazione  o  di  ricchezza. 
Fin  dal  primo  sbarcare  degli  emigranti  europei  al  Canada,  il  ba- 
rone potè  trovarsi  improvvisamente  obbligato  allo  stesso  lavoro 
del  vassallo.  L'intendente  La  Fouquiè  re,  nel  1750,  riceveva  dal  Re 
uno  stipendio  di  sei  mila  franchi  con  cui  doveva  anche  pagare  e 
vestire  una  guardia  di  26  soldati.  ^  Più  tardi  ancora,  il  governa- 
tore inglese  Siracoe  mancava  della  possibilità  di  tenere  al  proprio 
servizio  un  solo  uomo.  '  Ciò  non  toglie  per  altro  che  se  le  circo- 
stanze sforzano  gli  animi  a  sentir  l'eguaglianza,  essi  non  sieno 
naturalmente  aperti  ad  altre  aspirazioni.  È  una  suprema  preoc- 
cupazione dei  canadesi  francesi  il  persuadersi  della  nobiltà  del- 
l'origine della  colonia,  e  mi  fu  mostrata  con  grande  compiacenza 
la  pagina  del  Rameau,  dove  egli  conclude  che  «  la  population  du 
Canada  n'a  pas  eu  pour  origine  quelques  aventuriers,  quelques 
hommes  de  hasard,  quelques  individus  déclassés  et  enrolés  par 
l'Etat;  ce  fut  l'émigration  réelle  d'un  éléraent  integrai  de  la 
nation  frangaise,  paysans,  soldats  et  seigneurs  ;  une  colonie  dans 
le  sens  romain  du  mot,  qu'a  emporté  la  patrie  tonte  entière 
avec  elle.»  ^  Gl'intendenti  scrivevano  infatti  al  governo  di  Francia, 
nel  chiedere  donne  per  la  colonia,  cbe  fossero  inviate  «  des  demoi- 
selles  bien  choisies,  »  ma  quando  i  vascelli  giungevano,  v'eran  del 
pari  le  ingenue  figlie  della  Normandia  e  le  esperte,  troppo  esperte, 
parigine,  e  fu  lamentato  ch'essi  ricevevano  «  une  marchandise  mè- 
lée.»  Dopo  la  conquista  inglese  i  pochi  nobili  che  v'erano  al  Canada 
ritornarono  in  Francia,  sicché  il  nucleo  della  colonia  rimase  for- 
mato di  coltivatori,  d'origine  contadini,  e  di  pochi  cadetti.  Nonostante 
ciò,  questi  abitanti  avevano  sempre  abbastanza  orgoglio  per  guar- 
dare con  disprezzo  gl'immigrati  inglesi,  e,  vedendoli  arrivare  spesso 

'  Hezot's,   Travels  in   Canada,  pag.  78.  —  Smith,    Histoire  du  Canada,  v.  1, 
pag.  219. 

'  John  Macmullen,  The  history  of  Canada,  p.  2*5. 
^  Rameau,  La  France  au.v  colonies. 


668  IL   DOMINIO   DEL  CANADA. 

laceri  e  s.^.alzi,  quando  le  navi  entravano  in  jDorto,  solevan  escla- 
mare: «  Tiens,  voilà  une  cargaison  de  bas  de  soie  qui  arrive.  » 
Ma  anche  negli  inglesi  si  formò  presto  una  classe  di  persone  che 
Hspiravan  a  primeggiare,  e  intanto  si  consideravano  già  esseri 
superiori  agli  altri.  Per  la  maggior  parte  ufficiali  a  metà  paga, 
o  cadetti  rimasti  con  poco  o  nulla,  venivano  a  tentare  la  fortuna 
al  Canada,  e  sentendosi  incapaci  di  lavorare  altrimenti,  facevan 
la  caccia  agli  impieghi.  Eran  essi  che  si  studiavano  di  persua- 
dere la  Corona  e  i  suoi  rappresentanti  della  necessità  di  tenere 
molto  soggetta  la  popolazione  francese  ;  dimostrandosi  arrabbiati 
partigiani  del  governo  e  difendendolo  anche  quando  non  era  as- 
salito, speravau  di  crearsi  un  diritto  alle  sue  dimostrazioni  di  ri- 
conoscenza. Essi  giunsero  persino  a  collegarsi  in  una  specie  di 
casta,  impegnandosi  fra  loro  a  che  i  matrimoni  seguissero  sempre 
nella  cerchia  delle  loro  famiglie.  Tale  fu  l'origine  del  <^  Family 
compact  »,  il  partito  di  conservatori  che  predominò  dal  1810 
al  1850. 

Nella  Provincia  d'Ontario  ricorre  frequentemente  il  tipo  del 
rougli.,  di  cui  gli  Stati  Uniti  hanno  ancor  più  triste  abbondanza. 
Il  rough  è  r  uomo  di  straordinaria  volgarità  e  prepotenza;  come 
tutti  i  prepotenti,  pone  ogni  merito  nello  sviluppo  delle  forze  fisi- 
che e  trae  ogni  maggior  ardire  dalla  compagnia  dei  suoi  pari. 
Le  h(ir  rooiìis  e  le  case  di  giuoco,  sono  il  teatro  naturale  delle 
sue  imprese,  ma  talora  disturba  anche  le  pubbliche  vie  e  le  cam- 
pagne imponendosi  a  chi  meglio  a  lui  talenta,  e  se  alcuno  osa  risen- 
tirsene aggiungendo  le  villanie  allo  scherno.  I  roughs  sono  coloro  che 
danno  il  maggior  contingente  d' ubbriachi,  ed  i  roughs  e  gli  ub- 
briachi  sono  i  futuri  delinquenti.  Una  statistica  generale  della 
criminalità  non  è  stata  ancora  tenuta,  ma  par  cosa  certa  che  la 
Provincia  d'  Ontario,  sotto  questo  rapporto,  rimanga  addietro  a 
quella  di  Quebec.  All'eccellenza  morale  dei  discendenti  dell'antica 
Normandia  giova  molto  l'essere  tanto  disseminati  per  le  campa- 
gne: i  maggiori  delitti  poi  avvengono  nella  città  di  Montreal,  dove 
v'  ha  anche  piìi  forte  proporzione  di  abitanti  inglesi;  infatti  Mont- 
real sola,  dà  un  contingente  del  75  per  cento  sul  totale  dei  de- 
linquenti della  Provincia. 

Un'  altra  città  dell'  Ontario  in,  cui  feci  sosta  fu  Hamilton. 
Venne  fondata  nel  1813  ed  ha  oggi  circa  30  mila  abitanti,  bei 
fabbricati  e  superbe  strade  e  piazze.  Certo  non  fu  senza  grandi 
sforzi  che  il  municipio  la  condusse  alla  sua  attuale  prosperità,  e 
nella  storia  di  quegli   sforzi  v'  ha  un  episodio   piuttosto  comico. 


IL   DOMINIO    DEL   CANADA.  669 

Il  21  ottobre  1862  lo  sceriffo  col  suo  usciere  dovè  procedere  all'in- 
canto della  proprietà  comunale  suU'  istanza  dei  creditori  ;  e  per- 
chè i  municipi  di  queste  città  nascenti  non  possiedono  né  terre 
né  ville  o  altro  cespite  di  rendita  che  non  sia  la  facoltà  d'imporre, 
il  sequestro  e  l'asta  caddero  sui  pochi  mobili,  e  molti  ne  furono 
deliberati,  prima  che  con  un  eroico  spirito  cittadino,  alcuni  si 
determinassero  a  raggranellare  la  somma  necessaria  a  togliere  il 
sequestro.  ' 

La  campagna  da  Hamilton  e  Dandas,  e  più  oltre  per  altre 
quaranta  miglia  nella  direzione  di  Parigi,  è  alquanto  ondulata, 
ed  il  suolo  è  fertilissimo.  Vi  si  coltiva  un  po'  il  granturco,  ma 
per  le  terre  migliori  si  preferisce  il  grano  che  si  alterna  col  tri- 
foglio, il  quale  migliora  le  condizioni  del  suolo  per  la  produ- 
zione del  grano  ;  pel  trifoglio  si  prepara  il  terreno  con  un'aratura 
profonda  nel  cuor  dell'estate,  acciò  possano  venir  estirpate  l'erbe 
nocive  con  minore  spesa.  Il  prezzo  elevato  della  mano  d'opera 
regola  tutte  le  colture,  e  il  supremo  principio  dell'agricoltore  è 
d'appigliarsi  a  quel  raccolto  che  oltre  al  buon  prezzo  intrinseco 
può  essere  ottenuto  con  minor  numero  d'opere.  I  campi  a  grano 
producono  da  600  a  900  litri  per  acro.^ 

Dopo  un  paio  d'ore  attraverso  quella  contrada,  che  è  anche 
chiamata  «  the  grain  district  of  Canada  »  giunsi  a  London,  il 
centro  del  distretto  del  petrolio.  Il  primo  pozzo  fu  scoperto  il  16 
gennaio  1862  scavando  ad  una  profondità  di  60  metri  nei  ripiani 
di  Black  Creek  Valley,  e  tosto  gli  speculatori  vi  corsero  in  folla. 
Un  italiano  che  abita  Peoria,  e  si  occupa  appunto  del  commercio 
del  petrolio,  ebbe  a  darmi  dei  particolari  importantissimi  che 
dimostrano  quali  artifiziose  vie  possa  facilmente  prendere  anche 
nel  nuovo  mondo  la  speculazione.  Cinque  dei  più  grossi  raffinatori 
hanno  preso  in  affitto  tutte  le  altre  raffinerie  del  Canada,  e  com- 
binarono coi  produttori  di  pagar  loro  due  dollari  ogni  barile  di 
quarantatre  galloni  d'olio  crudo,  quantunque  il  prezzo  rimuneratore 
del  costo  di  produzione  sarebbe  soltanto  dollari  1,20  il  barile,  e 
ciò  all'espressa  condizione  ch'esci  non  dovessero  pompare  oltre 
una  determinata  quantità.  Il  Canada  consuma  per  lo  meno  250,000 
barili  all'anno  di  petrolio  crudo;  può  quindi  calcolarsi  che  i  pro- 
duttori tolgono  senza  titolo  un  milione  di  lire  alle  tasche  dei  consu- 
matori, ma  poi  questi  vengono  posti  a  dura  contribuzione  anche 

'  S.  Philipp.  Day,  lo  scrittore  àeWEnglish  America  (Londra   1864),  narra  nel 
voi.  II,  pag.  199  d'aver  assistito  alla  vendita. 

2  Vedi  anche  Cairo,  Prairie  farming  in  America,  New-York,  Appletoa,  p.  20. 


670  IL   DOMINIO  DEL  CANADA. 

dai  raffinatori  i  quali,  com'è  naturale,  non  si  son  posti  d'accordo 
pel  solo  beneficio  dei  propri  contraenti.  Partiamo  ancora  dal- 
l'ipotesi che  la  quantità  di  olio  crudo  pompato  sia  di  barili  2 .0,000, 
ossia  galloni  10,750,000;  il  processo  di  raffinamento  la  ridurrà 
del  60  per  cento,  e  poi  vi  sarà  la  spesa  relativa,  più  quelle  per  la 
costruzione  dei  barili  e  per  le  tasse,  più  infine  gli  affitti  morti 
per  le  raffinerie  che  non  lavorano,  i  compensi  ai  dead  heads,  ed  al- 
tro; ma  quel  petrolio  che,  tenuto  conto  di  tutto  ciò,  potrebbe  sem- 
pre vendersi  30  soldi  il  gallone,  è  posto  invece  sul  mercato  a  40, 
e  la  concorrenza  dei  petroli  americani  viene  scongiurata  con  un 
dazio  protettore  di  15  soldi  al  gallone.  Questi  sono  gì'  interessi 
fittizi  che  tante  volte  il  protezionismo  finisce  col  favorire. 

Oltrepassata  London,  il  suolo  diventa  paludoso;  il  clima  del- 
l'Ontario è  più  favorevole  all'agricoltura  che  non  quello  della  Pro- 
vincia di  Quebe<c,  ma  è  assai  meno  salubre,  e  vi  regna  fatale  con- 
sovrana la  malaria.  Giunsi  di  notte  sull'acque  del  canale  che 
giunge  il  lago  Eric  col  lago  di  Saint  Claire,  e  poiché  dalle  fine- 
stre ebbi  dato  uno  sguardo  d'ammirazione  alle  mille  luci  onde 
scintilLivano,  rimpetto  l'una  all'altra,  le  città  di  Windsor  e  Detroit, 
m'accorsi  che  il  treno  veniva  diviso  in  due,  e  lo  si  imbarcava  in 
doppia  fila  a  bordo  d'un  gigantesco  vapore  per  farlo  raggiungere 
la  riva  degli  Stati  Uniti. 

XIV. 

Dal  30  agosto  al  5  settembre  attraversai  successivamente  parte 
degli  Stati  dell'Ohio,  dell'  Indiana,  dell'  Illinois,  del  Wisconsin  e 
del  Minnesota,  per  un  percorso  di  circa  2000  chilometri.  Trala- 
scio di  riportare  gli  appunti  che  si  riferiscono  a  quei  giorni, 
perchè  troveranno  più  opportuna  inserzione  fra  le  impressioni  del 
mio  viaggio  negli  Stati-Uniti;  nondimeno  non  voglio  riprendere 
esattamente  dal  confine,  ma  bensì  un  po'  prima. 

Da  Saint  Paul  a  Thomson  corrono  i  treni  della  compagnia 
Lac  Superior  and  Mississipi  Kiver;  da  Thomson  a  Glyndon,  e 
poi  fino  a  Fisher  Landing,  quelli  del  North  Pacific  Kahvay,  e 
sono  esclusivamente  adattati  al  passaggio  degli  immigranti  al 
Canada,  i  quali,  giunti  a  Duluth  per  la  via  dei  Laghi,  proseguono 
il  viaggio  attraverso  il  territorio  degli  Stati  Uniti.  Due  carrozze, 
e  la  macchina  formano  tutto  il  treno;  una  per  la  posta  e  per  i 
bagagli,  l'altra  pei  passeggieri.  Subito  oltrepassato  Thomson,  comin- 
ciano le  solitudini  di  paludi  e  praterie.  A  Sikotte,  la  prima  stazione 


IL  DOMINIO   DEL  CANADA.  671 

vedo  appena  un  cantoniere,  e  il  treno  neramanco  si  ferma.  A  Brai- 
nerd  si  costeggia  il  Mississipi  che  colà  è  povero  di  letto  e  d'acque, 
né  più  lontano  d'un  centinaio  di  miglia  dalle  sue  sorgenti  del  lago 
Itasca:  e  sulle  sponde  e  nei  dintorni  si  stende  folto  il  bosco.  Pas- 
sammo il  fiume  sovra  un  ponte  senza  ripari,  né  senza  qualche  tre- 
pidanza,  perchè  l'anno  prima,  nello  stesso  punto,  un  altro  ponte 
di  simil  fattura  era  rovinato  mentre  un  treno  lo  passava,  e  non 
poche  furono  le  vittime;  ma  noi  fummo  più  fortunati. 

Dopo  Brainerd  la  prateria  si  stende  senza  confini,  piana,  pa- 
ludosa talvolta,  e  sempre  disabitata:  non  una  capanna,  non  armenti 
ina  fieni  o  canneti.  I  canadesi  che  eran  nel  treno  guardavan  con 
molto  interesse  al  suolo  e  valutavan  le  probabilità  della  coloniz- 
zazione, le  quali,  per  vero  dire,  lungo  quella  linea  son  poco  sor- 
ridenti. Non  vi  sono  alberi  da  abbattere,  ma  in  confronto  di  questa 
prospettiva  di  minori  fatiche  conviene  impensierirsi  dei  prezzi 
che  costerà  il  legname  da  costruzione,  e  delle  sfuriate  che  potranno 
fare  i  venti.  Il  Comitato  per  la  colonizzazione  del  Minnesota,  se 
ne  è  pure  preoccupato,  ed  ha  ottenuto  dal  Governo  dello  Stato  una 
legge  che  incoraggia  le  nuove  piantagioni;  vi  sono  dei  lotti  che 
i  nuovi  coloni  possono  destinare  esclusivamente  a  coltura  boschiva  ; 
hanno  l'estensione  di  160  acri,  e  chi  li  ottiene,  al  primo  entrarvi, 
deve  cominciare  i  piantamenti,  coprendo  un  quarto  del  suolo 
entro  due  anni,  un  quarto  entro  i  tre  successivi  e  l'altra  metà 
entro  il  quarto  anno;  né  le  patenti  della  proprietà  son  accordate 
se  gli  alberi  non  sono  piantati  alla  distanza  di  tre  metri  in  ogni 
senso,  e  curati  a  dovere  almeno  per  otto  anni.  Queste  condizioni 
erano  state  fino  allora  accettate  per  un  estensione  di  180  mila 
acri,  e  gli  alberi  raccomandati  e  preferiti  erano  il  salice,  il 
popithis  lomhardus  e  il  populus  grandidentatus. 

A  Glynwood  cambiammo  di  treno,  ma  lungi  dal  trovarcene  me- 
glio, si  marciò  più  a  rilento  e  con  peggiori  scosse:  si  vedeva  che  i  bi- 
nari erano  stati  posti  in  fretta  e  senza  cura  affatto.  Nemmeno  s' incon- 
travano più,  come  poco  prima,  quei  luoghi  dove  un  nome  pomposo 
ingrandiva  le  proporzioni  dell'abitato,  e,  vedendo  scritto,  per  esem- 
pio :  «  Frasen's  city  »  si  era  indotti  ad  immaginare  una  futura  città 
all'  intorno  di  quel  solitario  ma  decente  fabbricato;  invece,  sostando 
al  luogo  «  The  Ada  >  per  rifocillarci  con  un  po'  di  cena,  non  po- 
tremmo dire  che  quella  capannuccia  recasse  in  sé  alcuna  promessa 
d'avvenire  :  le  mosche  coprivano  ogni  pollice  di  spazio,  anche  i  nostri 
piatti,  su  cui  già  erano  state  disposte  le  vivande  a  noi  destinate, 
pur  troppo  già  di  mediocre  qualità  e  di  meschine  proporzioni. 


672  IL   DOMINIO   DEL   CANADA. 

Era  quasi  la  mezzanotte  quando  siamo  giunti  a  Fisher's- 
landing,  e  subito  scendemmo  a  bordo  del  Manitoba.  Tutto  il 
giorno  aveva  piovuto,  ma  poiché  allora  il  cielo  s'era  rasserenato,  e 
la  luna  quasi  piena  l'illuminava  malinconicamente,  mi  trattenni 
per  qualche  tempo  sul  ponte,  a  mirare  gli  archi  frondosi  formati 
sul  nostro  capo  dai  pioppi  e  dai  salici  delle  sponde  del  Ked  Lake  Ri- 
ver,  un  tìumicello  conjfluente  del  Red  River,  che  il  nostro  vapore  nel 
procedere  ostruiva  quasi.  L'indomani,  a  Grand  Fork  incominciammo 
a  montare  il  Red  River,  ma  la  scena  non  era  punto  cambiata; 
le  acque  disegnavano  mille  serpeggiamenti,  e  ad  ogni  svolta,  da 
poppa  e  da  prora,  potevamo  strappare  colle  mani  il  fogliame  delle 
sponde. 

Il  nostro  vapore  non  era  più  lungo  di  45  metri,  ed  aveva  una 
sola  ruota  sul  di  dietro.  Era  stato  fabbricato  a  Moorhead,  nel 
Minnesota,  un  villaggio  di  poche  centinaia  d'abitanti,  ed  era  un 
curioso  saggio  di  ciò  che  possa  lo  spirito  intraprendente  degli 
Americani;  certo  non  vi  vedevi  lusso  e  nemmeno  vi  trovavi  molte  co- 
modità, ma  non  era  da  dimenticarsi  che  è  da  pochissimo  tempo  che 
il  Red  River  venne  navigato.  11  primo  battello  a  vapore  che  ne 
abbia  solcato  le  acque  fu  l' An^on  Northup  portatovi  nel  1869 
dal  fiume  St.  Pierre,  approfittando  di  uno  straripamento.  «  Le 
bateau  arriva  (scrive  monsignor  Taché  ')  à  l'improviste  au  milieu 
de  la  colonie  au  commencement  de  juin.  Personne  ne  l'attendait, 
SOn  arrivée  prit  les  proportions  d'un  événement  et,  à  la  surprise 
publique,  le  canon  gronda  et  les  cloches  carillonnèrent  en  signe 
d'allégresse.  Le  sifflement  de  la  vapeur  se  promenant  sur  les  eaux 
de  notre  rivière  disait  aux  échos  du  désert  qu'une  ère  nouvelle 
allait  luire  pour  ce  pays.  Chaque  revolution  de  l'engin  semblait 
diminuer  d'autant  la  distance  qui  nous  séparé  du  monde  civilisé.  > 
Questo  battello  fu  presto  seguito  àa.\V  Internazionale,  un  vapore 
molto  più  grande  e  quasi  splendido  al  confronto,  che  nel  1870 
rappresentò  una  parte  importante  nelle  avventure  del  maggiore 
Butler  '  ;  ed  ora,  oltre  di  essi,  v'è  un  altra  numerosa  linea  dei  cui 
vapori  formava  appunto  parte  il  Manitoha. 

La  navigazione  continuò  ancora  tutto  il  giorno  successivo.  Il 
Red  River  aveva  le  stesse  curve  e  le  stesse  sponde,  e  il  Mani- 
toha si  strascinava  sempre  dietro  un  barcone  carico  di  barili  di 
petrolio,  di  trebbiatrici,  e  di  altre  macchine  agricole.  Fra  i  passeg- 

'  Esguisse  sur  le  nord  ovest  de  VAmérique,  Quebec  1869,  pag.  27. 
'  Major  Butler,  The  Great  Lone  Land,  London. 


IL  DOMINIO  DEL   CANADA.  673 

•gieri  v'era  una  vecchia  coppia  di  nascita  irlandese;  andavano  a  rag- 
giungere tre  figliuoli  stabilitisi  a  Winnipeg,  e  n'avevano  lasciato 
un  altro  nella  Provincia  d'Ontario,  sui  terreni  ch'essi  stessi  avevano 
diboscato.  Era  toccante  il  vedere  le  mille  cure  del  marito  per 
la  vecchia  moglie  a  cui  aveva  procurata  una  cabina,  con  grave 
spesa,  mentre  egli  poi  se  ne  stava  coi  passeggieri  di  terza 
classe.  Non  era  la  prima  volta  che  mi  era  accaduto  di  ammirare  una 
certa  squisitezza  di  riguardi  nei  mariti  per  le  mogli,  ed  anche  in 
più  giovani  coppie.  Spesso  aveva  dapprima  supposto  che  certe  mie 
compagne  di  ferrovia  fossero  donne  che  viaggiavano  sole,  ma  poi 
avevo  visto  anche  il  loro  marito,  che,  preso  un  posto  di  classe 
inferiore,  veniva  visitandole  quasi  ad  ogni  sosta. 

Come  nella  coppia  irlandese,  il  marito  era  pieno  di  riguardi 
per  la  moglie,  così  a  bordo  tutti  avevan  molte  deferenze  per  l'età 
d'entrambi  :  e  a  me  pure  tutti  mostravano  la  pili  schietta  cordia- 
lità quantunque  due  giorni  prima  fossi  loro  straniero,  non  solo 
perchè  di  patria  diversa,  ma  perchè  essi,  figli  del  lavoro,  non  sa- 
pevano capacitarsi  che  si  viaggiasse  per  quei  luoghi  solo  per  di- 
vertimento 0  per  istudio. 

11  viaggio  era  tanto  più  lungo,  giacché  ad  ogni  tratto  ci  fer- 
mavamo per  far  le  legna  (to  vooden  tip)  onde,  per  economia,  s'  ali- 
mentavano le  due  caldaie  del  Manitoba.  Dapprincipio  eran  gli 
stessi  uomini  dell'equipaggio  che  si  gettavano  sulle  sponde  a  ta- 
gliarle coll'ascia,  ma  poi  le  si  comprarono  da  alcuni  coloni  che  si 
trovavano  sul  nostro  passaggio,  colle  cataste  già  pronte.  Presso 
Pembina,  ov'è  la  frontiera  Canadese,  ce  la  vendè  un  Indiano  Chip- 
peway  dalla  capigliatura  folta,  dai  mocassini  giallognoli,  dal  ber- 
retto di  pelo  di  lontra,  il  quale  incassò  con  superba  indifferenza 
i  suoi  sedici  dollari  per  le  otto  corde  vendute,  cioè  sedici  grossi 
metri  cubi.  Alla  sosta  di  West  Lynn,  mentre  noi  pranzavamo, 
entrò  nel  salone  un'  indiana  vestita  stranamente  che  il  capitano  ci 
disse  esser  la  regina  dei  Chippeway,  la  quale  talvolta  gli  faceva 
l'onore  d'una  visita  perchè  le  offrisse  un  po'  di  brandy.  Ci  strinse 
la  mano,  ci  parlò  a  lungo  nella  sua  lingua  senza  che  naturalmente 
nessuno  di  noi  la  comprendesse,  e  ci  mostrò  un  curioso  collare 
d'oro  e  due  medaglie  d'argento.  Una  delle  medaglie  era  di  vec- 
chio conio,  grandissima,  e  portava  l'effigie  di  Giorgio  ILI,  l'altra, 
più  piccola,  commemorava  il  ricevimento  che  il  principe  di  Wal- 
les  nel  1868  aveva  fatto  alla  regina.  Non  ho  potuto  capire  quali 
ricordi  si  collegassero  al  collare  d'oro  quantunque  la  regina  vo- 
lesse pur  spiegarcelo  con  molti  discorsi  nei    quali  ripetè  spesso 

VoL.  XIV,  Serie  II.—  15  Aprile  18~9.  42 


674  IL   DOMINIO   DEL   CANADA. 

la  parola  Manitou  o  «  Grande  spirito  *  la  sola  elio  non  mi  suonasse 
nuova. 

Verso  sera  eravamo  a  Selkirk,  e  l' indomani  mattina  sul  far 
del  giorno,  giungemmo  sotto  Fort  Garry.  il  centro  di  quel  com- 
mercio delle  pelliccie  che  rende  così  interessante  la  Provincia 
di  Manitoba  ed  il  territorio  circostante.  Il  forte  prospetta  l'As- 
siniboin  con  un  lungo  muro  e  due  torri  circolari,  a  pochi  metri 
dal  punto  in  cui  quel  fiume  si  getta  nel  Kod  River  :  l' ingresso 
era  custodito  da  un  cannone,  e  altri  se  ne  vedevan  più  indietro, 
nel  centro  di  un  vasto  piazzale  circondato  da  varie  costruzioni  di 
legno  ad  uso  di  amministrazione  e  di  magazzeni.  Una  guardia,  che 
mi  avrebbe  forse  altrimenti  interdetto  il  passaggio,  dormiva  pla- 
cidamente, e  io  compii  senza  difficoltà  quella  mia  visita  mattu- 
tina, correndo  ad  ogni  tratto  colla  mente  alle  pagine  della  storia 
dei  rapporti  che  gli  Europei  ebbero  cogli  Indiani. 

La  prima  concessione  del  territorio  della  Baja  d'  Hudson  venne 
fatta  da  Luigi  XII L  alla  Compagnia  della  Nova  Francia  insieme 
a]  privilegio  di  fare  il  traffico  esclusivo  delle  pelliccie  cogli  Indiani; 
ma  alla  sua  volta  Carlo  II  d'Inghilterra  accordava  qualche  anno 
dopo  lo  stesso  territorio  ad  una  truppa    di    avventurieri  inglesi, 
la  quale  lo  esplorò  ardita  e  lo  chiamò  col  nome  del  principe  Rupert 
che   la   guidava.  Dopo  che  la  Francia  ebbe  rinunciato  al  Canada, 
si  formò  nel  1783   una  Compagnia,  detta  del  Nord  Ovest,  che  si 
propose  di  far  suo  proprio  ed  esercitare  il  privilegio  che  già  go- 
devano   gli  antichi  sudditi  francesi,  ma  presto  si  trovò  di  fronte 
ad  una  fiera  lotta  per  parte  di  un'  altra,  che  aveva  acquistato  le 
ragioni  concesse  da  Carlo  li  al  principe  di  Rupert,  assumendo  il 
poi  celebre  nome    di    Compagnia    della    Baja  d' Hudson.   Mentre 
infierivano  le  rivalità,  il  conto  Selkirk  fondò  una  colonia  presso  la 
confluenza  dell'Assiniboin  col  Red  River    su  terre  in  parte    com- 
prate dagli  Indiani  ed  in  parte  dalla  seconda  Compagnia;  però 
i  colonisti  ebbero  ad  incontrare  molte  traversie,  e  poco  dopo  molti 
di    essi    emigravano    pel  Minnesota.  Nel -1821  la  Compagnia  del 
Nord  Ovest  dovette  riconoscersi  vinta  e  disciogliersi;  soltanto  al- 
cuni associati  ottennero  di  essere  ricevuti  nella   Compagnia    ri- 
vale, alla  quale  il  governo  inglese  diede  nuova  vita  col  concederle 
di  poter  esercitare  esclusivamente  per  vont'anni  ogni  commercio, 
anche  all'  ovest  della  terra  di  Rupert.  Questa  concessione,  più  e  più 
volte  rinnovata,  fu  revocata  nel  1859,  e  allora  il  commercio  delle 
pelliccie  divenne  libero  di  diritto. 

Il  capitale  della  Compagnia  della  Baja  d'Hudson  da  principio 


IL  DOMINIO   DEL  CANADA.  675 

era  tutt' altro  che  cosi:)icuo,  ma  fu  aumentato  a  poco  per  volta,  e  nel 
1863  ammontava  a  12,800,000  lire  nostre,  indipendentemente  dai  ti- 
toli alla  proprietà  del  territorio,  e  dai  numerosi  stabilimenti  sparsi 
qua  e  colà;  in  quello  stesso  anno  poi,  si  formò  una  nuova  società, 
che,  pagata  complessivamente  una  somma  di  lire  27,500,000  per 
sostituirsi  ai  vecchi  azionisti,  lanciò  alla  sua  volta  sul  mercato 
l'affare,  ponendo  in  vendita  i  suoi  capitali  ed  i  suoi  titoli  cui  aveva 
assegnato  un  valore  di  50  milioni  di  lire.  L'operazione  riesci,  e 
agli  acquirenti  si  offrì  presto  una  larga  risorsa  per  rifarsi  del 
prezzo  forse  esagerato  che  avevan  dovuto  pagare. 

Sorto  il  progetto  della  Federazione  del  Canada,  fu  rivolto  il 
j)ensiero  anche  al  territorio  del  Nord  Ovest.  Fin  allora  esso  era 
considerato  siccome  terr  torio  inglese,  ma  l'Inghilterra  se  ne  dava 
ben  poca  cura:  ogni  giurisdizione  civile  e  criminale  era  lasciata 
alla  Compagnia  della  Baja  d'Hudson,  la  quale  l'esercitava  subor- 
dinatamente allo  scopo  di  assicurare  la  riescita  delle  sue  opera- 
zioni commerciali.  Inoltre  la  Compagnia,  come  ereditaria  dei  di- 
ritti del  principe  Kupert  e  di  quelli  della  Società  del  Nord  Ovest, 
vantava  dei  titoli  di  proprietà  sul  paese  novellamente  esplorato. 
Invero,  nella  loro  lotta  per  la  supremazia,  le  due  Compagnie  ave- 
vano spinto  su  tutte  le  direzioni  dei  viaggiatori,  a  cui  dovevansi 
le  principali  scoperte  geografiche,  e  così  si  eran  fatte  le  spedi- 
zioni di  Hearne,  di  Mackenzie  e  di  Franklin;  ora  la  carta  di 
Carlo  II  accordava  al  principe  Rupert  ed  ai  suoi  compagni  l'intero 
ed  assoluto  possesso  del  territorio  che  entro  certi  conlini  essi 
avrebbero  esplorato.  Davanti  a  queste  difficoltà  il  Governo  del 
Dominio  preferi  di  venire  a  trattative,  e  pagò  quei  soli  titoli  di 
proprietà  e  di  giurisdizione  con  una  somma  di  7,500,000  lire 
nostre.  Ma  finite  quelle  trattative,  sorsero  nuovi  inciampi:  mal- 
grado le  molte  peripezie,  la  colonia  detta  del  Red  River  o  del- 
l'Assiniboin  non  s'era  interamente  disciolta;  quei  pochi  i  quali 
rimasero  sul  suolo,  dopo  gli  anni  più  critici,  divennero  alla  loro 
volta  nucleo  di  nuovi  coloni,  reclutati  per  lo  più  fra  gl'impiegati 
in  ritiro  della  Compagnia.  Una  popolazione  di  10,000  anime, 
imparentata  in  mille  guise  cogli  Indiani  ed  anzi  in  gran  parte 
meticcia,  viveva  colà  sotto  il  protettorato  della  Compagnia  ma 
nella  persuasione  d'avere  un'  esistenza  propria.  Talvolta  il  Go- 
vernatore era  stato  scelto  dal  Governo  inglese  senza  che  nem- 
meno fosse  membro  della  Compagnia,  e  se  questa  aveva  il  di- 
ritto di  nominare  i  consiglieri  che  la  dovevano  assistere,  l'eser- 
citava per  altro  con  riguardo  ai  desideri!  generali  della  Colonia. 


676  IL   DOMINIO   DEL   CANADA. 

Sorsero  pertanto  da  quella  piccola  popolazione  mille  proteste 
contro  ogni  posizione  di  dipendenza  che  potesse  averle  fatta  la 
vendita  che  la  Compagnia  aveva  concluso  dei  propri  titoli:  il  Go- 
vernatore inviato  da  Ottawa  dovè  tornarsene  indietro  e  si  costituì  un 
governo  provvisorio  sotto  la  presidenza  di  Luigi  Kiel,  un  meticcio 
francese.  I  nativi  scozzesi  ed  inglesi  tentarono  di  rovesciarlo,  ma 
esso,  costrettili  al  silenzio,  spadroneggiò  ancor  piìi  tirannicamente 
fino  che  una  spedizione  di  truppe,  inviata  dal  Governo  del  Dominio, 
non  rel)be  sopraffatto.  Il  Kiel  ed  i  suoi  compagni  furono  sottoposti 
a  processo  per  il  titolo  di  omicidio  politico,  ed  io  viddi  il  Da  Peine, 
il  suo  più  fido,  nelle  carceri   di  Winnipeg. 

Sedata  quella  rivolta,  gl'ingegneri  della  Federazione  comin- 
ciarono subito  a  trac-ciare  strade  e  a  misurare  il  terreno.  Il 
Manitoba  fu  dichiarato  una  Provincia  della  Pederazione,  e  a  due 
chilometri  da  Fort  Garry  venne  fondata  Winnipeg  perchè  ne  fosse 
la  capitale.  La  colonizzazione  fu  promossa  e  spinta  colla  mag- 
giore attività.  In  Russia  viveva  una  setta  chiamata  dei  Menoniti, 
da  Menone,  prete  riformatore  quasi  contemporaneo  a  Lutero,  fra 
i  cui  principi!  religiosi  v'era  quello  di  considerare  la  guerra  un 
delitto,  e  l'omicidio  in  guerra  la  stessa  cosa  che  un  omicidio  co- 
mune; il  governo  del  Dominio  profittò  del  malcontento  sorto  nel 
loro  seno  perchè  nuove  leggi  non  consentivano  più  loro  l' esclu- 
sione dalla  coscrizione,  e  gli  invitò  ad  emigrare  in  massa.  Nel  1876, 
oltre  4000  avevano  già  risposto  all'appello,  e  perchè  d'indole 
laboriosissima,  e  avevan  portato  seco  non  pochi  capitali,  forma- 
rono tosto  uno  de'migliori  elementi  della  popolazione  della  nuova 
Provincia.  Così,  era  corsa  voce  di  un'eruzione  disastrosissima  nel- 
l'Islanda che  aveva  abbruciato  i  fieni  e  distrutto  i  prati,  e  vari 
agenti  furono  inviati  colà  a  consigliare  quei  danneggiati  a  vendere 
il  loro  bestiame  e  cercarsi  una  seconda  patria  al  Manitoba.  Questo 
modo  di  popolare  una  contrada  con  genti  così  raccogliticcie  ha 
certo  i  suoi  inconvenienti,  e,  per  esempio,  riguardo  agli  Islandesi 
il  governo  fu  costretto  a  sovvenirli  di  un  prestito  a  causa  dell'im- 
mensa loro  povertà,  e  riguaixlo  ai  Menoniti,  poiché,  come  essi  ri- 
pugnavano dalla  coscrizione,  così  non  intendevano  concorrere  alla 
formazione  delle  milizie,  si  dovette  assicurarne  loro  l'esenzione 
non  senza  qualche  mormorio  di  un'alti-a  parte  della  popolazione  ; 
eppure  il  Governo  non  dubita  della  1)uona  riuscita  dopo  l' esempio 
degli  Stati  Uniti,  nei  quali  Inglesi,  Francesi  e  Tedeschi,  Europei  ed 
Asiatici,  uomini  bianchi,  pelli  rosse  e  negri,  continuarono  per  lungo 
tempo  e  continuano  sempre  a  sovrapporsi  quasi  senza  perturbazioni. 


IL  DOMINIO   DEL   CANADA.  677 

Ebbi  presto  girato  Winnipeg.  Come  città  nascente,  mi  parve  mi- 
racolo che  si  fosse  fatto  tanto.  Ciascun  abitante,  capo  di  famiglia,  o 
che  faceva  ftimiglia  a  sé,  possedeva  un'abitazione  propria.  Acqui- 
stato il  terreno,  si  suole  erigere  anzitutto  nel  suo  centro  un  piccolo 
gruppo  di  stanze,  anche  di  legno,  come  può  appena  bastare  per 
i  primi  bisogni  ;  col  tempo,  sulla  linea  che  fronteggia  la  strada, 
si  fabbrica  una  vera  casa  di  uno  o  due  piani,  e  i  locali  prima 
abitati  ne  diventano  le  adiacenze.  Notai  che  la  via  principale 
(Main  Street)  era  sempre  da  sistemare,  ma  vi  si  vedevano  già 
alcuni  magazzeni  ben  decorati  e  provveduti  ;  nelle  costruzioni  più 
cospicue  è  molto  adoperato  il  ferro  galvanizzato  sia  pel  tetto,  sia 
per  le  cornici.  Poiché  quelli  son  luoghi  classici  del  commercio 
delle  pelliccie,  è  naturale  che  vi  sia  un  certo  amore  agli  animali 
che  le  forniscono,  e  in  qualche  cortile  mi  è  accaduto  di  vedere  volpi 
legate  alle  corde,  e  piccoli  orsi  in  catene  ;  in  ogni  casa  poi  v'ha 
un  vero  museo  zoologico,  tante  sono  le  varie  pelli,  le  teste  a  più 
palchi  di  corna,  e  le  bestie  imbalsamate.  Fra  i  cani  che  vagano 
per  le  strade,  è  facile  riconoscere  alle  scorticature  della  pelle,  e 
al  passo  affaticato,  quelli  da  traino,  che  all'inverno,  appena  cade 
la  neve,  vengono  imprigionati  in  certi  loro  finimenti  (shagynappi) 
ed  attaccati,  a  quattro,  a  sei  od  a  otto,  al  tohagan,  che  è  una 
specie  di  slitta  destinata  al  trasporto  della  farina,  del  tabacco, 
del  pemmican,  del  brandy,  le  indispensabili  provviste  del  viag- 
giatore. 

Molto  terreno  fabbricativo  attende  ancora  gli  acquirenti  e  su 
quell'area,  dove  son  già  disegnate  e  strade  e  piazze,  ma  non  sorge 
una  sol  pietra,  s'erano  intanto  accampati  alcune  centinaia  d'emi- 
grati ;  sui  loro  carri  e  intorno  alle  loro  tende  era  una  gran  con- 
fusione di  strumenti  agricoli,  di  masserizie  e  di  stoviglie.  Più 
lungi,  nel  recarmi  alla  Missione,  incontrai  parecchi  selvaggi  e  al- 
cuni dall'aspetto  assai  feroce.  Il  viso  bronzino  avevano  strana- 
mente macchiato  di  rosse  pitture,  la  folta  capigliatura  lascia van 
discendere  sciolta  od  in  treccie  sulle  spalle,  od  anche  tenevano 
stretta  intorno  al  capo  con  un  fazzoletto  attorcigliato  a  guisa  di 
turbante.  Vestivano  una  camicia  di  lana  a  colori,  pantaloni  di 
panno  scuro  che  dal  ginocchio  in  giù  piovevan  sui  gialli  mocas- 
sini con  due  gambali  a  vivaci  e  curiosi  ricami  ;  poi  intorno  al  corpo, 
a  guisa  di  manto,  una  coperta  rossa  od  azzurra  che  cadeva  ta- 
lora dalle  loro  spalle  con  classici  panneggiamenti.  Alla  cintura 
avevano,  in  un  fodero  elegante,  il  largo  coltellaccio  che  sogliono 
adoperare  per  scalpare  le  capigliature  dei  nemici,  una  borsa  da 


678  IL  DOMINIO  DEL  CANADA. 

tabacco  di  pelle  di  daino,  anch'essa  curiosamente  ricamata,  ed  un 
cahtmct,  o  pipa,  di  singoiar  pietra  e  fattura,  colla  canna  rico- 
perta di  paglia  leggiadramente  intrecciata  e  colorita.  Meno  strano 
era  il  costume  delle  donne,  vaghe  soprattutto,  a  quanto  sembrava, 
d'  ornamenti,  di  qualsiasi  metallo,  al  collo  od  alle  braccia  ;  si  re- 
cavano i  bambini  dietro  le  spalle,  o  entro  un  piccolo  fusto  di  le- 
gno che  ne  proteggeva  il  corjiicino,  o  sciolti  le  tenere  membra 
entro  le  pieghe  degli  scialli,  le  cui  estremità  esse  avevano  anno- 
date sul  proprio  grembo.  Winnipeg  è  città  dove  di  selvaggi  se 
ne  incontrano  sempre,  anche  se  il  territorio  delle  tribù  cui  ap- 
partengono giace  molto  più  al  nord,  perchè  si  spingono  a  Fort 
Garrj  per  la  vendita  del  prodotto  della  loro  caccia  o  per  farvi 
acquisto  di  armi  ed  altro  dalla  compagnia  della  J3aja  d'Hudson. 

Nel  1870,  appena  il  governo  del  Dominio  si  fu  instaurato  nella 
nuova  Provincia,  subito  accordò  alla  colonia  una  rappresentanza 
locale  di  due  Camere,  elettiva  la  prima,  di  nomina  del  governa- 
tore la  seconda,  ma  nel  febbraio  1876  fu  chiesta  l'abolizione  del 
Senato,  perchè  giudicato  un'inutile  spesa  e  il  governatore  diede 
la  sanzione  al  voto  della  Camera  che  lo  sopprimeva.  La  popola- 
zione della  Provincia,  che  secondo  il  censo  del  1870  non  giungeva 
ai  12,000  abitanti,  *  era  già  triplicata  nel  1876.  La  popolazione  di 
Winnipeg  si  fece  ascendere  pel  1875  ad  oltre  5000  anime,  fra 
cui  2000  uomini  e  1000  donne  avevano  una  proprietà  loro:  il  valore 
della  proprietà  fondiaria  sui  ruoli  municipali  era  stimato  dol- 
lari 1,808,567,  quello  della  proprietà  personale  doli.  801,212. 

La  Provincia  di  Manitoba  giace  nel  cuore  del  continente  ame- 
ricano quasi  ad  eguale  distanza  dal  Polo  e  dall'Equatore,  dal- 
l'Atlantico e  dal  Pacifico.  La  sua  elevazione  media  è  di  circa 
200  metri  sul  livello  del  mare,  minore  cioè  che  nel  Minnesota,  ma 
tuttavia  gl'inverni  sono  rigidissimi  e  per  lungo  tempo  fu  creduto 
che  l'agricoltura  non  potesse  prosperarvi:  ora  per  altro  fu  rico- 
nosciuto che  è  anzi  contrada  assai  adatta  pel  grano.  Il  suolo  è  un  de- 
posito alluvionale  di  circa  quaranta  centimetri  di  profondità.  Lo  si 
ara  nell'autunno,  e  si  semina  appena  comincia  il  disgelo  della 
crosta  esterna  a  primavera:  coll'avanzarsi  della  stagione,  il  disgelo 
degli  strati  inferiori  continua,  e  mantiene  la  necessaria  umidità 
alla  radice  :  la  mèsse  per  altro  è  molto  tardiva.  Malgrado  il  freddo 
intenso  delle  notti  d'inverno,  i  cavalli  indiani  possono  fare  a  meno 


»  Meticci  francesi  5964,  meticci  inglesi  401n,  indiani  cristiani  581,  diversi  1614. 
I  egli  indiani  pagani  il  censo  non  tenne  conto. 


IL  DOMINIO  DEL   CANADA.  679 

di  stalle,  e  poiché  la  neve  non  si  rammollisce,  scoprendola  colle 
loro  zampe,  cibano  l'erba  die  essa  ricopre. 

Ma  la  grande  disgrazia  della  Provincia  fu  ed  è  la  ripetuta 
invasione  delle  cavallette  :  il  danno  che  essa  ne  soffrì  nel  1875  si 
calcola  di  due  milioni  di  dollari.  Non  v'è  raccolto  su  cui  si  possa 
sperare  in  un  anno  di  cavallette  :  pure  esse  trascuran  più  facilmente 
fave  e  piselli  mentre  poi  preferiscono  i  cereali  immaturi  e  le 
verdi  erbe.  Tre  sono  le  specie  che  si  trovano  in  America:  la  Ca- 
lopteniis  Siìreiiis  distinta  dalla  lunghezza  delle  sue  ali,  che,  chiuse 
lungo  il  c(?rpo,  passan  l'addome  d'oltre  un  terzo  della  loro  lun- 
ghezza; la  Calo2)iemis  femor  nihrum  o  cavalletta  di  aU  corte  e 
gambe  rosse;  VOedipoda  a^rox,  rara  all'est  delle  montagne  Koc- 
ciose,  che  ha  parecchi  punti  neri  sulle  ali  e  sul  dorso,  ed  una 
macchia  scura  dietro  l'occhio.  È  la  Calopfenus  Sprctus  che  di- 
strusse finora  i  raccolti  del  Manitoba;  la  femmina  suole  scavare 
nel  suolo  il  posto  per  le  sue  uova  che  depone  ravvolte  in  un  sacco 
nella  quantità  di  30  a  100  per  volta.  Per  buona  sorte  v'ha  1'  Icneu- 
mone  Pimpìa  instiyator  che  depone  le  proprie  uova  in  quello  stesso 
sacco,  e  le  larve  escono  in  tempo  per  succhiare  le  uova  della  ca- 
valletta; anche  una  mosca,  la  Tachina  o  Sarcophaga,  fa  alla  caval- 
letta una  guerra  micidiale  deponendo  le  proprie  larve  distruttrici 
fra  la  sua  testa  ed  il  suo  corpo.  Né  gli  uomini  rimangon  sempre 
inerti  a  contemplarne  e  piangerne  le  invasioni:  con  bastoni,  con 
pertiche  al  cui  capo  furon  legati  dei  cenci,  cercano  spesso  di 
farle  convenire  su  un  letto  di  paglia,  dove  il  riposo  par  loro  assai 
grato  ;  e  poiché  vi  son  raccolte,  danno  fuoco  alla  paglia.  Si  suol 
anche  dar  loro  la  caccia  in  altre  maniere,  e  il  governo  paga  un 
tanto  per  litro  le  cavallette  morte. 

XV. 

Colla  Provincia  di  Manitoba  non  va  confuso  il  resto  del  ter- 
ritorio del  Nord-Ovest  e  se  il  governatore  del  Manitoba  aveva, 
mentre  io  era  colà,  l'incarico  di  comprenderlo  pure  sotto  la  sua 
sorveglianza,  era  già  atteso  a  Fort  Carlton,  futura  capitale  di 
quella  futura  Provincia,  un  altro  governatore,  il  quale  doveva  poi 
venire  coadiuvato  da  un  consiglio  locale,  per  metà  di  nomina  go- 
vernativa e  per  metà  elettivo.  Forse  però  quella  nuova  Provincia 
non  potrà  mai  diventare  un  elemento  di  prosperità  o  di  potenza  per 
la  Federazione,  mentre  non  è  probabile  che  sotto  quel  clima  ghiac- 
ciale si  possa  stabilire  nessuna  seria   e   fiorente    colonia.  Già  a 


680  IL   DOMINIO   DEL  CANADA. 

Winnipeg  la  mèsse  si  fa  ai  primi  di  settembre  :  laggiù  poi  dove 
il  mercurio  rimane  gelato  per  interi  mesi,  appena  s'indurrà  a 
fissar  la  propria  dimora  qualche  altro  mercante  di  pellicce.  Molto 
si  spera  dalla  effettuazione  del  progetto  della  ferrovia  intercolo- 
niale  che  dovrebbe  collegare  la  Provincia  d'Ontario  con  quella 
della  Columbia,  e  passando  a  giusta  metà  fra  le  latitudini  di 
Fort  Carlton  e  di  Fort  Garry,  valicherebbe  le  montagne  Roc- 
ciose per  il  passo  Cache  de  la  Tète-Jaune,  o  per  quello  Leather, 
0  per  quello  Howe,  ad  un'altezza  che  varia  fra  i  3760  e  i  4000 
piedi,  mentre  sulla  ferrovia  Union  and  Centrai  la  più  grande 
elevazione  è  di  8240  piedi  e  su  quella  North  Pacific  è  di  5000 
piedi.  Non  so  per  altro  se,  quando  anche  il  progetto  di  questa 
grandiosa  costruzione  ferroviaria  fosse  tradotto  in  atto,  il  traffico 
diventerebbe  molto  attivo  e  se  potrebbe  dar  vita  a  luoghi  da  cui 
il  viaggiatore  passerà  a  gran  distanza  e  solo  di  sfuggita  e  per 
altre  necessità. 

Comunque,  non  è  poco  per  l'europeo  l'interesse  di  quelle  re- 
gioni ancora  dominio  naturale  dei  selvaggi,  i  quali  vi  dividon  la  no- 
made vita  col  bufalo,  coll'antilope,  col  martoro,  coll'orso  e  colla 
lontra;  e  io  fui  a  lungo  tormentato  dal  desiderio  di  percorrerli 
e  visitarli  meglio:  ma  monsignor  Taché,  vescovo  di  Saint-Boniface 
(la  diocesi  di  Manitoba),  al  quale  mi  diressi  per  consiglio,  mi  di- 
stolse dal  mio  piano  di  raggiungere  Fort  Union  sul  Missouri  ri- 
montando l'Assiniboin;  egli  aveva  fondate  notizie  che  su  quella, 
strada  si  trovavano  vari  drappelli  degli  Indiani  Sioux ,  dispersi 
recentemente  dalle  truppe  americane  dopo  i  combattimenti  san- 
guinosi del  Yellowstone  River;  se  fossi  arrivato  prima,  m'osservò 
egli,  avrei  potuto  con  grande  soddisfazione  recarmi  ad  assistere 
ad  una  conclusione  dei  trattati,  che  doveva  aver  luogo  nella  en- 
trante settimana,  sulla  grande  Saskatchewan,  fra  moltissimi  In- 
diani e  la  rappresentanza  del  governo  del  Dominio,  ma  per  giun- 
gervi occorrevano  almeno  quaranta  giorni  di  viaggio  da  Winnipeg  ; 
e  quanto  a  grossa  caccia,  non  v'era  speranza  di  farne  se  non  in- 
ternandosi per  un  400  chilometri  più  al  nord,  e,  poiché  intanto 
sarebbero  sopraggiunte  le  nevi,  rassegnandosi  a  svernare  nella, 
foresta. 

Non  mi  doleva  di  rinunziare  al  bisonte  (Bison  Americamis) 
che  sapevo  che  avrei  ritrovato  negli  Stati  Uniti,  ma  certo  rim- 
piansi amaramente  l'occasione  di  poter  far  mie  le  spoglie  di  altri 
ruminanti  e  specialmente  di  qualche  alce.  L'  alccs  amcricanus, 
noto  ai  meticci  col  nome  à'orignaì,  non  ha  né  l'armonia  nò  l'eie- 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA.  681 

ganza  di  forme  del  cervo  ordinario,  ma  è  assai  più  grande  e 
vince  forse  la  statura  del  cavallo  ;  ha  così  fine  1'  olfato  e  l'udito, 
che  in  estate  è  quasi  impossibile  di  averlo  a  tiro  di  fucile,  ma 
quando  la  neve  è  alta,  il  cacciatore  riesce  ad  avvicinarlo  perchè 
le  sue  immense  racchette  lo  salvano  da  quello  sprofondarsi  che 
fa  l'animale  ad  ogni  passo  men  cauto.  Un  altro  cervo  molto  ap- 
prezzato è  il  Wapiti  {stroìKjijloceros)  :  è  molto  più  facile  preda 
giacché  vive  in  numerose  bande,  e  quantunque  si  nutra  anche  di 
rami  d'albero,  ama  le  aperte  praterie,  dove,  come  il  bisonte,  migra 
l'inverno  verso  il  sud,  e  l'estate  verso  il  nord.  Quanto  alle  pel- 
liccio di  valore,  son  fornite  specialmente  dalla  volpe  delle  regioni 
artiche  e  dalla  divisione  delle  martore  che  trovansi  anche  esse  molto 
al  nord  ;  ^  dell'ermellino,  che  ha  fra  noi  cosi  splendide  tradizioni, 
si  fa  tuttavia  poco  caso  perchè  la  sua  pelliccia  è  troppo  minuta, 
e  non  ricompensa  il  cacciatore. 

Poiché  non  seppi  decidermi  a  svernare  nel  nord-ovest,  volli 
almeno  prima  di  far  ritorno,  fare  qualche  escursione,  nella  dire- 
zione del  lago  Winnipeg,  e  in  canotto  suU'Assiniboin,  e  a  cavallo 
per  le  praterie  ;  ebbi  così  occasione  di  vedere  molti  accampamenti 
d' indiani  di  varie  tribù,  dagli  assiniboini  ai  piedi-neri,  ai  crees 
ed  ai  chippewayans,-  e  mi  mescolai  spesso  famigliarmente  con  loro. 
Benché  naturalmente  non  potessi  fare  uno  studio  sul  loro  lin- 
guaggio, la  mia  attenzione  si  fermò  subito  al  fatto  che  anche  in- 
diani appartenenti  a  tribù  diverse  ma  della  stessa  razza,  non 
riescivano  a  comprendersi  a  vicenda,  sicché  nei  loro  rapporti  si 
servivano  specialmente  della  gesticolazione,  la  quale  sembra  aver 
raggiunto  un  alto  grado  di  perfezionamento  e  risponder  quasi 
alla  condizione  di  un  linguaggio  inarticolato.  La  diversità  delle 
voci  e  dei  suoni  non  esclude  per  altro  che  tutti  quei    linguaggi 


'  Canis  Vulpes  argentata,  Mustela  Ermina,  Mustela  Viilgaris,  Mustela  Vi- 
sori, Mustela  Canadensis,  Mephitis  Americana  Hudsonica.  L'  Hamilton,  nel  suo 
volume  The  prairie  province  (Toronto,  Belford  Brothers)  pag.  218,  dice  che  nel 
1815  la  Compagnia  della  baja  d'Hudson  vendette  2,419,886  pelliccie,  fra  cui  di  orso 
12,102,  di  castoro  183,200,  di  volpe  131,382  (solo  1515  argentate),  di  lince  14,833,  di 
martoro  166,512,  di  lontre  20,101,  di  topi  muschiati  1,835,593. 

-  E  ben  diftìcilc  il  dare  un'idea  chiara  della  parentela  delle  varie  tribù,  tut- 
tavia si  può  dire  che  tutti  gli  aborigeni  delle  regioni  nordiche  dsll'  America  si 
raggruppano  in  quattro  famiglie,  cioè  gli  Esquimesi  o  Innock,  i  Dené  Dindjé,  gli 
Algici, gli  Huroni  Jroquois.  I  Pieiii-neri,  i  Crees  appartengono  alla  razza  Algica,  i 
Chippewayans  alla  Dené  Dindjé,  gli  Assiniboini  a  quella  degli  Huroni  Jroquois 
Quanto  al  loro  numero,  il  censimento  ufficiale  del  1811,  pel  Cana  dà  (voi.  4,  p.  xri) 
li  porta  complessivamente  a  circa  centomila,  di  cui  un  quarto  all'  ovest  delle  mon- 
tagne rocciose  e  tre  quarti  all'est. 


682  IL  DOMINIO   DEL  CANADA. 

abbiano  delle  caratteristiche  comuni,  ed  una,  per  esempio,  è  quella 
di  riunire  in  un  solo  vocabolo  non  soltanto  le  modificazioni  del- 
l' oggetto  0  dell'  azione,  ma  oggetto  ed  azione  insieme,  concen- 
trando così  in  una  singola  espressione  un  complesso  d'idee  fra  cui 
corra  una  connessione.  ISissitaweijiltam,  in  lingua  crisa  significa 
«  egli  riconosce  ciò  nel  suo  pensiero,  »  nissitawiìiam,  «  egli  rico- 
nosce ciò  dalla  vista,  .>  nìssitonam,  «  egli  riconosce  ciò  toccandolo 
colla  mano,  »  nissitoskam,  «  egli  riconosce  ciò  toccandolo  col  pie- 
de. »  Nella  stessa  lingua  con  una  sola  parola  :  KisMnoivàtacìia- 
kiveiv  è  espresso  il  pensiero  «  egli  si  dirige  verso  le  stelle,»  e  solo 
che  quella  stessa  parola  sia  pronunziata  rendendo  lunga  anche 
la  terza  a  vorrà  diro  invece  «  egli  ha  1'  anima  con  una  impres- 
sione, ^  »  I  missionari  ammirano  assai  questa  particolarità  di 
struttura,  e  lamentano  che  fino  ad  oggi  i  filologi  abbiano  riguar- 
dato i  linguaggi  degli  indiani  come  un'accozzaglia  di  suoni  dis- 
armoniosi ed  inintelligibili.  Invero  tutte  quelle  frasi  che  udii  mi 
giunsero  dolcemente  all'  orecchio.  Quasi  sempre  alla  consonante 
i:)recede  o  fa  seguito  una  vocale,  e  frequentissime  sono  le  ripeti- 
zioni di  sillabe.  Alcune  delle  caratteristiche  comuni  ai  linguaggi 
indiani  possono  essere  riscontrate  anche  in  alcuni  linguaggi  del 
vecchio  continente,  specialmente  in  quelli  delle  famiglie  turaniane, 
ma  se  ne  possono  indurre  cosi  disparate  parentele  che  è  meglio 
rinunziar-e  all'argomentare.  M.  Kand  -  ha  notato  molte  somiglian- 
ze fra  il  micmac  ed  il  greco  ;  per  esempio,  j«f?e5  Selcia  piccione, 
agie  jr,  terra,,  pegoon  •^^u-^o-i  piuma,  o^^a/i  iy.iy^r.;  mare,  kaloos  -làX'.^ 
buono  ;  ma  non  è  possibile  dare  una  seria  importanza  ad  isolate 
consuonanze  che  traggono  forse,  più  che  altro,  l'origine  dalla  di- 
sposizione naturale  dell'uomo  di  dare  alle  cose  ed  ai  loro  modi 
di  essere  dei  nomi  onomatopeici  ;  per  le  conseguenze  etnologiche, 
di  fronte  alla  sana  filologia  avrebbe  forse  molto  più  peso  il  fatto, 
anche  se  riguardi  una  sol  tribù,  che  gli  Otomì,  i  quali  abitano 
il  Messico  centrale,  parlano  un  linguaggio  monosillabico  come  i 
Cinesi.  ^ 

Non  pochi  degli  indiani,  con  cui  ebbi  ari  incontrarmi,  reca- 
vano sul  capo  parecchie  piume  come  segno  del  numero  dei  ne- 
mici da  essi  scalpati  ed  alcuni  anche  lasciavano  pendere  dalla 
loro  cintura,  orribile  vista,  le  stesse  capigliature.  Ciò  non  m'im- 

1  Bictionnaire  de  la  langue  des  Crìs,  par  le  rev.    pére    Albert    Lacombe, 
Oblat  de  M.  I.,  Montreal,  Beauchemin  et  Valois,  1874. 
-  Micmac   Version  of  -S.  John,  Halifax,  1868. 
'  Manuel  Crisostomo  Naxera,  Dwerf.  so&re  Za  Zen^im  Oiomz,  Meijco,  1865. 


IL  DOMINIO  DEL  CANADA.  683 

pedi  tuttavia  di  rimontare  solo  a  solo  in  canotto  con  due  di  essi 
un  buon  tratto  dell'Assiniboin.  1  canotti  che  vidi  eran  tutti  di 
larghi  brani  di  scorza  della  hctula  painjracea,  ricuciti  insieme  od 
altrimenti  calafatati,  su  una  leggerissima  armatura  interna;  i  re- 
mi erano  assai  corti  e  dalla  larga  estremità. 

11  canotto  può  dirsi  la  abitazione  naturale  di  quei  selvaggi  ^  e 
mi  pareva  di  dover  essere,  in  ragione  della  nozione  dell'ospitalità, 
più  sacro  per  loro  là  dentro  che  nei  loro  campi.  In  alcuni  di 
questi  trovai  le  tende  di  tela,  ma  più  spesso  di  pelle  di  bufalo 
o  di  scorza  d'albero,  che  avevan  assicurato  alla  meglio  su  alcune 
j)ertiche  incrociate  alla  sommità.  Una  volta  ho  passeggiato  a  sera 
fatta  fra  un  campo  e  l'altro,  ma  non  senza  una  certa  emozione.  Ad 
ogni  tratto  mi  trovavo  di  fianco  l'alta  statura  di  un  qualche  in- 
diano che,  grazie  ai  suoi  moccassini,  mi  aveva  raggiunto  senza  che 
me  n'accorgessi.  Mi  guardava  e  procedeva,  ma  in  me  s'agitavano 
le  fosche  rimembranze  del  romanzo  /  cacciatori  di  capigliature 
del  Mayne  Eeid. 

Sotto  il  rapporto  della  maniera  con  cui  si  procurano  il  vitto, 
il  censimento  ufficiale,  che  ho  citato  più  volte,  distingue  fra  gli 
Indiani  del  Dominio  23,000  che  vivono  in  caverne  e  capanne,  prin- 
cipalmente di  pesca,  e  sono  gli  Esquimesi,  18,000  che  vivono  nei 
campi  della  caccia  e  delie  praterie,  44,000  che  vivono  in  famiglia 
e  della  caccia  delle  foreste,  e  infine  15,000  che  si  sono  rac- 
colti in  villaggi  nel  seno  stesso  della  civiltà,  come  a  Lorette  e 
Mission  Poiut,  e  che  coltivano  la  terra.  I  confini  dei  territori  di 
cui  ciascuna  tribù  pretende  riservarsi  la  caccia  non  son  delineati 
dalla  natura,  ma  soltanto  immaginari,  e  ciò  è  causa  principale 
che  esse  abbiano  vissuto  finora  e  vivano  tuttavia  in  quasi  costante 
antagonismo  :  quindi  quelle  guerre  feroci  dove  la  rinomanza  del 
guerriero  dipende  dal  numero  delle  capigliature  che  ha  potuto 
scalpare,  non  importa  se  di  uomini  o  di  donne  o  di  fanciulli,  e  nem- 
meno se  dovuta  all'astuzia  od  alla  sorpresa  più  che  ad  una  sfida 
leale  ed  aperta.  Codesto  stato  di  lotta  e  la  diversità  dei  linguaggi 

^  And  the  forest  life  is  in  it 

AH  its  mistery  and  its  nnagic, 
AH  the  lightness  of  the  birch-tree, 
AH  the  toughness  of  the  cedar, 
AH  the  larch's  sùpple  sinews. 
And  it  floated  on  the  river 
Like  a  yeHow  leaf  in  autumn, 
Like  a  yellow  water  lily. 

LONGFELLOW,   HlAWATHA. 


68-é  IL   DOMINIO    DEL   CANADA. 

fanno  sì  che  ogni  tribù  abbia  riti  e  costumi  propri  :  vi  sono  per 
altro  fra  loro  non  pochi  tratti  comuni,  e  oltre  le  eguali  necessità 
create  da  un  tenore  di  vita  quasi  per  tutto  il  medesimo,  non  v'ha 
tribù  che  prima  d'abbracciare  il  cristianesimo  non  pratichi  la 
poligamia,  ed  anche,  benché  più  raramente,  l'unione  contro  na- 
tura. Adorano  tutte  uno  spirito  superiore,  ma  il  politeismo  che 
pure  professano,  in  alcune  tribù  si  manifesta  col  culto  del  sole 
e  delle  stelle,  ed  in  altre  con  superstizioni  verso  i  mani  dei  morti 
0  con  una  zoologia  mitologica  fatta  intervenire  anche  a  spiega- 
zione della  cosmogonìa.  Talune  sacrificano  animali,  ed  altre  pre- 
feriscono il  farsi  varie  sorta  d'incisioni  :  nessuna  si  dà  ordinaria- 
mente all'antropofagìa,  ma  ve  n'ha  che  vi  ricorrono,  quando  le 
dure  privazioni  con  cui  li  prova  l'avventurosa  vita  della  caccia, 
ne  offre  loro  la  sinistra  occasione. 

Il  missionario  padre  Lacombe,  autore  del  Dizionario  di  lingua 
Crisa  che  ho  citato,  ebbe  in  quei  giorni  la  bontà  di  farmi  spesso 
da  interprete.  Egli  ha  passato  oltre  vent'anni  della  sua  vita  in 
mezzo  ai  selvaggi  giungendo  spesso  là  dove  non  avrebbero  osato 
di  farsi  vedere  i  trafficanti  di  pelliccio,  e  subendo  le  più  dure 
privazioni  e  i  più  severi  sacrifici,  per  recare  in  mezzo  a  loro  la 
rivelazione  di  una  religione  d'amore  e  di  pace.  Come  non  ammi- 
rare tanto  zelo,  tanta  abnegazione,  tanto  eroismo?  11  missionario 
può  affidarsi  forse  in  generale  alla  ospitalità  degli  Indiani,  ed 
alla  buon'indole  dell'animo  loro:  ma  troppo  spesso  la  guerra  in- 
fierisce fra  tribù  e  tribù,  e  al  missionario  sorpreso  dai  Piedi-neri 
nel  campo  dei  Crees  non  si  farebbe  grazia  facilmente,  né  nei  san- 
guinosi combattimenti  con  cui  si  distruggono  fra  loro,  la  vittoria 
rimane  sempre  da  una  stessa  parte.  Padre  Lacombe  al  suo  giun- 
gere presso  una  nuova  tribù  cominciava  subito  a  predicare  le 
principali  massime  del  cattolicismo,  e  soggiungeva  che  se  finora 
essi  erano  scevri  di  colpa  perché  Dio  non  si  era  peranco  a  loro 
rivelato,  ora  che  egli  si  faceva  apostolo  della  sua  sacra  parola 
si  sarebbero  resi  peccatori  ed  empi  nel  ricusare  di  udirla.  In  ge- 
nerale i  selvaggi  non  oppongono  obbiezioni  al  dover  essi  addot- 
tare  la  religione  dei  «  bianchi  »  perchè  più  vera:  la  nostra  stessa 
civiltà  giudicano  una  testimonianza  di  predilezione  divina:  ma 
rispondono  sovente  che  il  Grande  Spirito  ha  dato  loro  una  ma- 
niera di  adorarlo  più  addatto  alla  vita  che  conducono  ed  egual- 
mente gradita;  temono,  essi  dicono,  di  non  poter  facilmente  seguire 
tutte  le  prescrizioni,  tutti  i  riti,  i  costumi  e  le  leggi  della  vera 
credenza.  Invero  devono  d'un  tratto  rinunziare  alla  poligamia,  al 


IL   DOMINIO  DEL  CANADA.  685 

diritto  di  vita  e  di  morte  sulla  moglie  die  comprano  e  sui  figli 
che  mettono  alla  luce,  e  devono  sentirsi  continuamente  rimpro- 
verare come  delitto  capitale  la  loro  barbara  e  prediletta  costu- 
manza di  scalpare  i  nemici.  Qualche  volta,  ma  di  rado,  espon- 
gono anclie  al  missionario  qualche  dubbio  ch'egli  non  sia  un  im- 
postore: ed  egli  si  trincera  dietro  il  proprio  disinteressamento  e 
li  fa  persuasi^  con  poca  insistenza,  che  non  può  essere  se  non  in 
buona  fede  e  per  sincero  zelo  ch'egli  rinunzi  agli  agi  della  vita 
che  lascia  dietro  sé,  e  che  si  rassegni  alla  stessa  loro  povertà, 
agli  stessi  loro  stenti. 

Il  padre  Lacorabe  m'ha  cortesemente  accompagnato  a  visitare 
anche  le  prigioni  di  Winnipeg.  Ivi  abbiam  veduto  in  una  stessa 
camera  un  selvaggio  della  tribù  dei  Blood-Indians  {Genf;  de  sang 
dei  francesi)  e  un  altro  della  tribù  dei  Piedi-neri.  Tutti  due 
erano  accusati  d'aver  ucciso  la  moglie  adultera,  ed  erano  stati 
arrestati  dai  soldati  del  Dominio  che  si  trovano  ora  nei  forti 
della  Compagnia  della  Baja  d'Hudson.  Il  governo  del  Dominio 
aveva  già  stretto  dei  trattati  coi  Black-feet  o  Piedi-neri  e  s'era 
su  essi  riservata  la  competenza  giudiziaria:  quanto  ai  Blood-Indians, 
nessun  trattato  ancora  esisteva  e  appena  può  argomentarsi  che 
il  governo  del  Dominio  intendesse  d'esercitare  i  diritti  già  con- 
cessi alla  Compagnia  della  Baja  d'Hudson  da  Carlo  II  e  da  essa 
ben  fiaccamente  fatti  valere.  Ma  qua,lunque  sia  la  giustificazione 
di  questo  caso  particolare  in  cui  un  uomo  che  ha  agito  come  consen- 
tono le  leggi  della  propria  comunanza  è  trascinato  in  catene  at- 
traverso 900  miglia  per  sentirsi  giudicare  da  uomini  d'altra  razza, 
d'altra  fede  e  d'altra  legge,  tutta  la  condotta  che  si  è  finora  tenuta 
nell'America  settentrionale  verso  gl'Indiani,  merita  davvero  l'in- 
dignazione dell'europeo  disinteressato. 

Ninno  può  porre  in  dubbio  che  la  civiltà  nostra  sia  di  gran 
lunga  superiore,  e  che  la  vita  nomade  degli  aborigini  sia  la  ne- 
gazione d'ogni  principio  di  sana  morale  e  di  benintesa  economia. 
Tutte  le  memorie  dei  missionari  e  dei  viaggiatori,  e  gli  stessi  dati 
ottenuti  da  più  recenti  investigazioni  limitano  ad  una  importanza 
numerica  molto  piccola,  la  popolazione  aborigena  sia  dei  tempi  pas- 
sati sia  dei  presenti  ;  e  infatti  per  vivere  esclusivamente  di  caccia 
e  di  pesca  si  richiede  un'estensione  straordinaria  di  territorio  in 
confronto  ad  una  ben  meschina  popolazione;  '  tutte  le  volte  che 

'  Sempre  secondo  le  stesse  statistiche,  la  superficie  territoriale  occupata  dai 
centomila  Indiani  del  Dominio  per  caccia  e  per  pesca  è  di  3,498,000  miglia  qua- 
drate, cioè  34  miglia  quadrate  per  individuo. 


686  IL   DOMINIO   DEL    CANADA. 

la  proporzione  di  questi  due  termini  parve  alterarsi,  la  fame,  le 
epidemie  o  la  guerra,  questi  funesti  agenti  della  teoria  di  Maltus, 
intervennero  a  ristabilirle.  D'altronde  la  stessa  vita  delle  tribù 
selvaggie,  indipendentemente  dalla  fatale  impossibilità  in  cui  si 
trovano  di  moltiplicarsi  e  prosperare,  non  è  tale  da  rappresentare 
un  ideale  di  missione  umana.  Ma  da  questa  verità  alla  sentenza 
di  distruggerle  corre  non  poco.  È  vero  che  i  suoli  piìi  fertili, 
prescelti  per  la  coltura,  in  generale  non  sono  quelli  che  offrireb- 
bero la  maggior  quantità  di  caccia,  e  che  la  pesca  delle  coste 
marittime,  risorsa  più  naturale  e  più  abbondante  dell'uomo  allo 
stato  selvaggio,  non  gli  è  tolta  ancora  interamente;  ma  malgrado 
queste  meschine  giustificazioni  rimangono  sempre  una  grande 
vergogna  l'usurpazioni  costanti  di  suolo  fatte  dal  governo  degli 
Stati  Uniti  0  da  quello  del  Dominio  del  (Janadà  sotto  l'egida  della 
bandiera  inglese.  Oggi  queste  usurpazioni  si  mascherano  sotto  il 
nome  di  trattati,  ma  non  occorre  grande  sforzo  per  rompere  il 
velame  della  parola. 

L'isola  Manitoulin  sul  lago  Huron  era  tutta  occupata  da  In- 
diani Chippewayans  ed  Ottawa.  Sir  Francesco  Head,  governatore 
inglese,  nel  1835  ne  aveva  loro  confermato  il  possesso  e  la  pro- 
prietà, quasiché  avesse  il  diritto  di  farlo,  e  quasiché  il  suolo  anche 
senza  di  ciò  non  avesse  appartenuto  legalmente  a  coloro  che  ne 
erano  i  primi  ed  esclusivi  occupanti.  In  ogni  modo  nell'assenso 
di  sir  Head  essi  ebbero  un  titolo  ulteriore  che  non  poteva  invali- 
dare il  vecchio.  Nel  1861  il  governo  pretestò  che  la  concessione 
di  sir  Head  era  vincolata  al  concentramento  nell'isola  di  altri 
indiani  che  poi  non  v'erano  mai  apparsi,  e  mandò  una  commissione, 
che  M.  Samuel  Philipps  Day  autore  àeWEnglish  America  ebbe 
la  sorte  di  accompagnare,  coU'incarico  di  distribuire  agli  indiani 
là  residenti  tanto  suolo  in  ragione  di  24  acri  per  ciascuno,  con 
una  sufficiente  estensione  di  bosco  da  potervi  far  legna  l'inverno, 
poi  di  pigliar  possesso  del  resto  per  la  Corona.  Com'era  naturale, 
gl'indiani  si  opposero:  «  Dio  v'ha  dato  ogni  ricchezza,  diceva  un 
loro  capo,  ed  a  noi  ha  dato  questa  povera  terra.  Io  non  posso  spo- 
gliare i  miei  figliuoli  di  ciò  che  loro  appartiene,  »  La  distribu- 
zione di  un  po' di  denaro  a  titolo  di  prezzo  del  terreno  che  la 
Corona  voleva  appropriarsi  (3,500  lire  per  350  mila  ettari  !)  fece 
che  alcuni  fra  gli  indiani  si  dichiarassero  per  l'accettazione  del 
trattato,  e  allora  il  capo  dovette  persuadersi  a  firmarlo:  ma  il 
Day,  che  pure  sottoscrisse  come  testimonio,  soggiunge  nel  suo  rac- 
conto, di  non  poter  a  meno  di  esprimerò  il  suo  sdegno  per  questa 


IL  DOMINIO   DEL   CANADA.  687 

spogliazione  fatta  senza  rimorso.  E  disordini  ne  seguirono;  e  vi 
furono  vittime  e  repressioni  per  parte  del  governo,  ma  di  chi  prima- 
mente era  la  colpa  ? 

Nel  1873  M.  Morris,  luogotenente  governatore  del  Manitoba, 
trattò  con  circa  800  Indiani  per  1'  acquisto  di  55  mila  miglia 
quadrate  del  piìi  ferace  terreno  della  nuova  Provincia:  le  condi- 
zioni furono,  che  per  ogni  famiglia  di  cinque  persone  sarebbe  stato 
riservato  un  miglio  quadrato  perchè  vi  potesse  cacciare,  e  che 
pel  resto  del  terreno,  a  ciascun  indiano  sarebbe  pagato  in  quel- 
l'anno dodici  dollari,  e  cinque  per  ogni  altro  anno  di  sua  vita; 
più,  munizioni  e  reti  per  l'intera  tribi!i,  pel  valsente  di  1500  lire 
l'anno:  i  capi  poi  dovevano  avere  trenta  dollari  all'anno  finché  vive- 
vano ed  una  medaglia  d'argento,  A  proposito  delle  medaglie,  il  capo 
Ma-ni-to-ba-sis  (capo  di  forte  Francesco)  osservò  al  governatore: 
«  Vi  mostrerò  ora  una  medaglia  che  fa  data  a  coloro  che  fir- 
marono il  trattato  a  Red  River  col  commissario  del  governo.  Egli 
disse  che  era  d'argento,  ma  io  non  lo  credo:  mi  vergognerei  di 
portarla  sopra  il  mio  petto,  sopra  il  mio  cuore.  Io  credo  che 
deve  umiliar  la  Regina,  mia  Madre,  il  recare  la  sua  immagine 
su  cosi  basso  metallo.  »  E  qui,  segue  la  relazione  inglese  delle  trat- 
tative, il  capo  levò  alto  la  medaglia,  la  percosse  colla  costa  del 
suo  coltello,  e  ne  risultò  un  suono  tutt'altro  che  argentino,  che 
fece  vergognare  ogni  spettatore  della  vile  bassezza  a  cui  si  era 
ricorso.  «  Fate,  aggiunse  il  capo,  che  le  medaglie  che  ci  darete 
sieno  d'argento,  medaglie  degne  dell'alta  posizione  della  nostra 
Gran  Madre  la  Regina.  »  Tutto  ciò  che  il  governatore  rispose, 
fu  che  avrebbe  reso  noto  ad  Ottawa  ciò  che  il  capo  aveva  detto 
e  come  V  aveva  detto.  * 

Simile  condotta  del  Governo  non  può  non  essere  un  triste 
esempio  per  la  popolazione,  e  infatti  il  presidente  Wood,  nel- 
r  indirizzarsi  al  giurì  radunato  a  Winnipeg  nell'ottobre  1875,  ebbe 
a  dire  che  egli  avrebbe  dovuto  senz'altro  congedarli,  poiché  tutte 
le  infrazioni  alla  legge  verificatesi  nella  Provincia  erano  di  sola 
competenza  dei  tribunali  inferiori,  se  non  vi  fossero  stati  quattro 
casi  nel  territorio  del  Nord  Ovest  di  uomini  bianchi  accusati 
d'aver  trucidati  parecchi  indiani  colle  loro  donne  e  fanciulli  mentre 
stavano   pacificamente    accampati.  -    Il  processo  provò  che  i  col- 

1  «  To  Ihe  Indians  the  first  intimation  of  danger  was  the  sharp  rattle  of 
the  deadly  repeating  rifle  from  a  treacherous  and  conceaied  foe.  » 

2  Leggo,  History  of  the  administration  of  the  Earl  of  Bufferin  in  Canada, 
Montreal,  Lovell  1818,  pag.  536. 


688  IL  DOMINIO  PEL  CANADA. 

pevoli  erano  originari  degli  Stati  Uniti,  ma  gli  stessi  Cana- 
desi avrebbero  i  rapporti  molto  più  difficili  cogli  Indiani  se 
non  fosse  l'interposizione  dei  numerosissimi  meticci,  i  quali,  per 
usare  le  parole  pronunziate  da  Lord  Dufferin  in  un  suo  discorso, 
«  combinando  la  attitudine  alle  fatiche,  la  resistenza  e  lo  spirito 
d'intrapendenza  ch'ereditarono  col  sangue  indiano,  colla  civiltà, 
l'istruzione  e  la  capacità  intellettuale  che  devono  ai  loro  padri, 
predicarono  il  vangelo  della  pace,  del  buon  volere  e  del  vicende- 
vole rispetto,  con  pari  benefici  risultati,  al  capo  indiano  nella  sua 
tenda  e  all'emigrante  inglese  nella  sua  capanna:  essi  furono  gl'in- 
termediari fra  r  Occidente  e  1'  Oriente,  gì'  interpreti  della  civiltà 
e  delle  sue  esigenze  ai  nomadi  delle  praterie,  ed  esposero  pure 
al  bianco  quanto  riguardo  era  dovuto  alle  suscettibilità,  alla  di- 
gnità, ai  pregiudizi,  all'  innato  scrupolo  per  la  giustizia  della 
razza  indiana.  »  ^ 

xvr. 

Il  Dominio  del  Canada  conta  ormai  oltre  un  decennio  di  vita. 
Al  suo  sorgere  non  ebbe  certo  propizi  tutti  gli  auspicii.  Nella  di- 
scussione davanti  al  Parlamento  di  Quebec,  un  Deputato  propose 
sarcasticamente  che  dovesse  scegliersi  l'iride  per  suo  emblema. 
«  Quella  varietà  di  colori,  diceva  egli,  darà  una  fedele  idea  della 
diversità  delle  razze,  delle  religioni,  dei  sentimenti  e  degli  inte- 
ressi delle  diverse  Provincie;  quel  sottile  e  prolungato  arco  ne 
rappresenterà  benissimo  la  configurazione  geografica;  e  final- 
mente la  natura  ingannevole  di  pr.rvenza  che  ha  il  celeste  fe- 
nomeno, risponderà  giustamente  alla  fragilità  del  nuovo   edifizio 

1  A  compire  la  mia  visita  del  Dominio  mi  rimaneva  ancora  da  vedere  la  Co- 
lombia inglese:  se  avessi  deciso  di  passar  l' inverno  nel  territorio  del  nord-ovest, 
potevo  recarmivi  a  piccole  tappe  presso  a  poco  per  quella  medesima  strada  che 
dovrà  poi  essere  percorsa  dalla  ferrovia  del  Canadian  Pacific,  ripetendo  dal  più 
al  meno  il  viHggio  che  hanno  coraggiosamente  intrapreso,  e  tanto  iiitei'essan- 
temente  descritto,  il  visconte  Milton  e  il  dott.  Cheadle  nel  18G2  :  ma  il  desiderio  di 
far  economia  di  tempo  mi  persuase  invece  ad  attendere  l'occasione  in  cui  mi 
sarei  trovato  a  San  Francisco.  Pur  troppo  ai  progetti  differiti  troppo  sovente  ac- 
cade di  rinunciare,  e  tale  fu  il  mio  caso;  mi  è  forza  dunque  ora  di  contentarmi 
di  notare  a  complemento  delle  notizie  che  ho  dato  sulle  altre  Provincie  del  Do- 
minio che  nella  Colombia  inglese  la  popolazione  nel  1810  era  di  circa  10  mila 
anime,  di  cui  un  quinto  fra  neri  e  chinesi,  e  che  quel  territorio  ha  grande  im- 
jìortanza  forestale  od  aurifera.  L'  oro  si  trova  quasi  seguitamente  sopra  una  esten- 
sione di  cento  o  duecento  miglia  a  partire  dalla  frontiera  degli  Stali  Uniti  tino 
al  53°  grado  di  latitu  line  nord;  nel  1869  ne  fu  esportato  per  3  milioni  e  mezzo 
di  dollari,  e  dal  1862  al  18T7  per  circa  22  milioni. 


IL   DOMINIO   DEL  CANADA.  689 

politico.  ->>  Ma  il  pungente  sarcasmo  non  venne  finora  giusti- 
ficato ,  e  gli  sfavorevoli  vaticinii  si  spersero  al  vento.  Oggi  se 
il  Dominio  vive  una  vita  tranquilla  e  quasi  ignorata  non  è 
meno  per  questo  il  nucleo  politico  più  prospero  dell'America,  dopo 
la  repubblica  degli  Stati  Uniti. 

La  diversità  delle  confessioni  religiose  porta  alla  sola  conse- 
guenza di  rendere  più  sincero  e  più  puro  l'esercizio  di  ciascuna 
di  esse:  la  diversità  delle  razze  assicura  una  più  versatile  indole 
alla  comune  civiltà  :  i  sentimenti,  gl'interessi  son  rivali  ma  non 
opposti,  anzi  facilmente  conciliabili.  Per  oltre  duemila  miglia  si 
stende  l'indifesa  frontiera,  e  in  qualunque  suo  punto,  gli  abitanti 
del  Dominio,  nel  guardare  i  potenti  vicini,  s'accendono  di  un'am- 
mirazione sincera  e  provano  anche  gli  eccitamenti  di  una  nobile  e  viva 
emulazione,  ma  sentono  nello  stesso  tempo  la  fierezza  della  loro 
individualità.  Sudditi  immediati  e  passivi  dell'Inghilterra,  avreb- 
bero dovuto  vergognare  davanti  al  limitrofo  illimitato  esercizio 
d'indipendenza,  ed  essere  attratti  verso  di  esso:  autonomi  anch'essi, 
considerano  le  proprie  istituzioni  come  eccellenti  ed  infinitamente 
superiori  a  tutte  le  altre.  Non  si  fanno  scrupolo,  no,  di  accettare 
e  riprodurre  dai  loro  germani  le  preziose  invenzioni  e  i  preziosi 
spedienti  con  cui  essi  così  ingegnosamente  provvedono  alle  neces- 
sità di  quella  peculiar  vita,  assediata  di  continuo  dalle  difficoltà 
della  solitudine  e  della  scarsità  dell'opera  mercenaria:  ma  si  stu- 
diano accuratamente  di  sfuggire  al  rimprovero  di  poca  riguardo- 
sita  nei  vicendevoli  rapporti,  o  di  trascurata  educazione,  che  tanto 
sovente  l'Inghilterra  e  l'Europa  infliggono  ai  colonisti. 

Ora  se  l'Inghilterra  regge  in  maniera  così  liberale  il  Dominio 
del  Canada  gli  è  senza  dubbio  per  la  dolorosa  esperienza  de're- 
sultati  a  cui  nel  secolo  scorso  riesciva  col  sistema  delle  oppressioni 
e  delle  concussioni;  ma  reggendolo  nel  modo  attuale,  qual  è  il  van- 
taggio che  ne  ritrae?  Ho  già  accennato  più  sopra  a  questa  do 
manda,  ma  allora  mi  sono  contentato  di  osservare  che  il  senti- 
mento della  comune  nazionalità  era  così  vivo,  da  vincere  l'enorme 
distanza  interposta  dall'Atlantico.  La  risposta  non  è  facile  davvero, 
ed  anzi  alcuni  anni  or  sono  la  pubblica  opinione  in  Inghilterra  s'era 
messa  in  sospetto  che  le  sue  colonie  del  Nord  dell'  America  fossero 
invece  un  danno  nazionale,  e  la  forma  federativa  sotto  cui  vennero 
raggruppate,  fu  escogitata  anche  nell'interesse  della  madre  patria, 
la  quale  era  stanca  di  spendere  per  esse  ;  ma  la  separazione  delle 
finanze  e  la  concessione  di  istituzioni  autonome,  se  possono  avere 
scemato  le  ragioni   ed  il  pericolo    di   esborsi,   non   lasciano  per 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  aprile  I8l9.  43 


690  IL   DOMINIO  DEL  CANADA. 

questo  meno  problematica  la  convenienza   per  l' Inghilterra  del 
conservare  siffatte  appendici  della  sua  potenza. 

Non  fermiamoci  troppo  alla  soddisfazione  die  un  popolo  può 
provare  nel  sapere  che  le  sue  leggi  imperano  anche  fuori  dei  e 
confini  naturali  tra  cui  nacque  che  i  suoi  figli  vivono  ossequiosi 
memori  di  lui  nelle  nuove  dimore  che  si  sono  elette,  che  la  sua 
bandiera  sventola  sopra  piìi  largo  tratto  di  territorio  che  niun'  al- 
tra potenza  al  mondo;  il  positivismo  dell'epoca,  e  piìi  special- 
mente della  politica  inglese,  se  non  ha  offuscato  del  tutto  lo 
splendore  di  questi  argomenti,  ne  ha  assai  sminuita  la  luce.  Il 
vantaggio  che  la  madre  patria  può  trarre  da  colonie  che  si  go- 
vernano da  sé,  perchè  sia  riconosciuto  e  sentito  reale  ed  indi- 
scutibile, oggi  deve  potersi  accertare  egualmente  dal  lato  poli- 
tico e  dal  lato  economico. 

Economicamente,  il  Dominio  del  Canada  è  per  l'Inghilterra 
un  mercato  che  le  condizioni  del  libero  scambio  rendono  favo- 
revole al  suo  commercio.  La  maggior  parte  delle  importazioni 
del  Dominio  son  ritirate  dagli  Stati  Uniti,  la  maggior  parte  delle 
esportazioni  son  dirette  all'Inghilterra.  L'Inghilterra  nel  1876  ha 
ritirato  dal  Dominio  per  circa  L5  milioni  di  dollari  di  cereali  e 
per  26  milioni  di  dollari  di  legname,  e  appena  inviò  in  cambio 
un  valore  di  16  milioni  di  dollari,  per  un  terzo  in  ferro  lavorato 
e  per  due  terzi  in  tessuti  di  lana  e  di  cotone.  Ora  è  facile  accor- 
gersi che  se  pure  cessasse  il  vincolo  politico,  il  Dominio  non 
colpirebbe  le  proprie  esportazioni,  né  sarebbe  di  gran  momento 
per  l'Inghilterra  se  esso  si  decidesse  a  tassare  i  pochi  articoli  di 
importazione.  Recentemente  il  partito  conservatore,  impadronitosi 
del  potere  federale,  ha  spiegato  la  bandiera  del  protezionismo 
contro  le  importazioni  dagli  Stati  Uniti;  ma  lo  scopo  da  esso 
vasjhesfffiato  é  di  far  rivivere  l'industria  locale  e  il  commercio 
fra  le  varie  Provincie,  non  già  quello  di  porre  in  miglior  condi- 
zioni la  madre  patria,  contro  la  quale  un  giorno,  se  le  necessità 
lo  volessero,  sarebbe  anche  aperta  una  campagna  finanziaria, 
come  lo  insegna  l'esempio  dell'agitazione  che  nel  1849  seguì  la 
proclamazione  delle  dottrine  del  libero  scambio. 

Politicamente,  nella  situazione  che  l'Inghilterra  occupa  verso 
l'altre  nazioni  continentali,  il  Dominio  del  Canada  non  può  riu- 
scirle di  nessuna  risorsa:  se  mai,  le  sarà  di  grave  imbarazzo  il 
dover  concorrere  a  difenderlo,  e  anche  negli  ultimi  tempi,  la 
Russia,  alla  prima  minaccia  di  una  guerra,  erasi  subito  posta  in 
posizione  di  attaccare  intanto  l' isola   di   Vancouver.  Rispetto    a 


IL   DOMINIO  DEL  CANADÌ.  691 

-continente  americano  il  problema  è  più  complesso  e  la  sua  so- 
luzione dipende  dall'importanza  a  cui  il  Dominio  può  crescere. 
Esso  possiede  un  territorio  quasi  altrettanto  vasto  che  quello 
degli  Stati  Uniti,  e  conta  appena  un  decimo  della  loro  popola- 
zione, la  quale  per  altro,  al  principio  del  secolo,  era  appunto 
dieci  volte  minoro.  Potrà  esso  pure  sperare  in  un  incremento  al- 
trettanto rapido  e  cospicuo?  Per  quanto  è  dato  di  prevedere, 
^onvien  rispondere  negativamente.  Anzitutto  gran  parte  del  ter- 
ritorio del  Dominio  giace  in  infelici  condizioni  climatologiche,  ep- 
poi  quasi  un  terzo  dell'  emigrazione  totale  (circa  10  milioni  di 
anime)  che  si  gettò  sugli  Stati  Uniti  nel  periodo  che  corse  dalla 
loro  fondazione  a  tutt'oggi,  proveniva  dall'Irlanda,  un  altro  terzo 
dalla  Germania;  ora  è  difficile  che  coloro  che  vorranno  emigrare 
in  avvenire  da  quelle  contrade,  non  accorrano  a  preferenza  dove 
vivono  già  tanti  loro  connazionali,  e  forse  fra  essi  i  loro  amici  o  i 
loro  congiunti.  Ora  la  risorsa  che  l'emigrazione  europea  può  ar- 
recare ad  un  paese,  è  molto  più  importante  che  non  appare  a 
prima  vista.  È  facile  convincersi  per  esampio,  che  il  contributo  di 
popolazione  portato  da  essa  agli  Stati  Uniti  dal  principio  del 
secolo  infino  ad  oggi,  tenendo  conto  dell'aumento  naturale  dovuto 
alla  riproduzione,  non  fu  solo  di  dieci  milioni  di  anime  ma  bensì  di 
trenta.  Inoltre  gli  economisti,  calcolando  il  valore  che  ogni  emi- 
grante rappresenta  come  coefficiente  di  lavoro,  e  pel  capitale  in 
esso  accumulato  col  suo  primo  nutrimento  e  colla  sua  educazione, 
hanno  concluso  che  il  suo  contributo  alla  ricchezza  nazionale 
del  paese  a  cui  vanno  è  dei  più  considerevoli.  ^  Ma  se  in  causa  della 
minore  emigrazione,  il  progresso  del  Dominio  sarà  meno  rapido, 
non  per  questo  deve  tenersi  meno  sicuro,  e  questa  nascente  potenza, 
anche  se  rivendichi  ogni  indipendenza  maggiore,  ma  soprattutto  se 
continui  ad  obbedire  all'Inghilterra,  non  potrà  a  meno  di  esercitare 
un  giorno  un'influenza  sulla  vita  politica  degli  Stati  Uniti.  Fintanto 
che  essi  si  terranno  strettamente  collegati  fra  loro,  ne  potranno 
con  ragione  disprezzare  il  pericolo,  ma  se  per  caso  l'idea  della 
secessione  non  fosse  stata  per  sempre  sepolta  dopo  i  sanguinosi 
combattimenti  della  guerra  dei  quattro  anni,  o  se  fosso  possibile 
un  giorno  un  accordo  fra  il  Messico  e  l'Inghilterra  od  il  Domi- 
nio, la  dottrina  di  Monroe  non  potrebbe  più  essere  il  baldanzoso 
programma  della  politica  internazionale  del  governo  di  Washing- 

1  Fredrich  Kapp,  Aìis  und  ùber  Amerika,  Berlin,  Julius  Springer,  1876,  voi.  I 
capitolo  TJber  Ausivanderung. 


692  II-  DOMINIO  DEL  CANADA. 

ton.  Tale  fu  il  segreto  pensiero  di  Napoleone  III  nel  suo  ten- 
tativo di  creare  l'Impero  del  Messico,  tale  fu  la  lontana  mira 
dell'Inghilterra  nel  soffiare  dentro  le  discordie  della  gran  guerra  di 
secessione.  Ma  checché  sia  per  avvenire  dei  rapporti  fra  l'Inghil- 
terra e  gli  Stati  Uniti,  le  altre  nazioni  non  possono  se  non  veder 
con  simpatia  che  le  straordinarie  risorse  naturali  dell'America 
settentrionale  non  sieno  poi  in  mano  ad  un  solo  ente  politico,  il 
quale  ne  faccia  esclusivo  monopolio,  e  possa  approfittarne  per  scal- 
zare colla  sua  assorbente  concorrezza  le  basi  del  sistema  indu- 
striale e  commerciale  europeo. 

Enea  Cavalieri. 


NOZZE  NELL'APPENNINO  MARCHIGIANO 


SCHIZZO   DI   COSTUMI. 


Due  famiglie  delle  più  antiche  e  delle  piìi  reputate  della  villa, 
coloni  dello  stesso  padrone,  avevan  da  poco  concluso  il  parentado. 
Il  padre  dello  sposo,  lo  zio,  e  il  nonno,  un  vecchio  rubizzo  di 
quasi  ottant'anni,  cogli  abiti  di  festa  eran  scesi  solennemente  giù 
dalla  china,  ed  erano  entrati  in  casa  della  sposa,  dove  erano 
aspettati/Il  padre  della  sposa,  un  contadino  svegliato,  fattore  di 
campagna,  e  quindi  uno  de'  maggiorenti  del  luogo,  li  aveva  at- 
tesi sulla  soglia  e  li  aveva  fatti  entrare  come  se  ospitasse  dei  pel- 
legrini, fingendo  ignorare  completamente  il  motivo  della  visita. 
Era  solo;  la  famiglia  numerosa  era  nei  campi  o  fingeva  di  es- 
serci; e  mancava  la  mamma  perchè  era  morta  da  otto  anni.  I 
parenti  dello  sposo  si  erano  seduti  in  tre  sedie  vicino  al  focolare, 
sotto  l'immensa  cappa  annerita  dal  fumo,  regnatore  secolare  di 
quella  cucina  modesta  e  pulita  ;  il  padre  della  sposa  in  un  an- 
golo solo  contro  tre,  perchè  quando  si  conclude  il  parentado  si 
combatte  una  vera  tenzone  e  si  osservano  strane  etichette  e  di- 
plomazie incomprensibili,  che  la  tradizione  gelosa  ha  tramandato 
fino  a  noi  e  che  rivelano  la  trasformazione  incessante  della  ci- 
viltà che  si  svolge,  prendendo  le  mosse  da  que'  nostri  progenitori 
che  facevano  il  ratto  delle  Sabine. 

Che  dicessero  in  quel  lungo  colloquio  non  è  facile  a  sapersi, 
perchè  non  e'  erano  né  ci  potevano  essere  testimoni  :  solo  si  sa 
che  dopo  aver  parlato  del  nuvolo  e  del  sereno,  della  speranza  di 
un  buon  raccolto,  delle  mucche  che  avevan  figliato,  e  del  gen- 
naio che  era  freddo  secondo  il  mantello  delle  pecorelle,  le  quali 
belavano  nella  capanna  di  contro  alla  fattoria,  il  padre  della  sposa 
ruppe  gl'indugi  e  in  omaggio  alle  prammatiche  ufficiali  saltò  di 


694  NOZZE  NELL'APPENNINO  MAECHIGIANO. 

botto  nel  discorso  del  perchè  di  quel  viaggio  de'  suoi  compari.  I 
quali  lasciando  la  parola  al  nonno  dello  sposo,  che  è  anche  il  capoccio 
della  famiglia,  dissero  e  spiegarono  come  e  qualmente  intendessero 
di  concludere  un  parentado  fra  le  due  famiglie,  chiedendo  in  isposa 
la  fantella  che  aveva  nome  Anastasia,  figlia  maggiore  di  lui,  con 
Giovannino  il  pili  grande  dei  maschi  di  casa  loro,  a  cui  spettava 
di  diritto  il  primato  nel  matrimonio.  Il  padre  della  sposa  aveva 
accordato  la  donna  co'  suoi  patti  e  le  sue  riserve,  enumerando- 
quel  po'  di  roheffa  delV acconcio,  che  era  proprio  e  civile  come 
si  conveniva  a  fanciulla  costumata  e  virtuosa,  promettendo  una 
piccola  dote  in  iscudi  da  pagarsi  dopo  un  anno  di  matrimonio, 
e  desiderando  di  sapere  quel  che  si  assicurava  allo  sposo  per  ri- 
cambio, al  quale  poi  si  accordava  come  un  supremo  beneficio  da 
quel  momento  1'  entrata  libera  in  casa  a  veglia,  il  che  in  tanti 
anni  non  si  era  mai  permesso. 

Stabiliti  cosi  i  preliminari  di  quel  parentado  che  fu  ed  è  l'am- 
mirazione di  tutta  la  popolazione  del  monte,  di  lì  a  pochi  giorni 
si  eran  fatte  le  spese  che  spettavano  allo  sposo:  i  coralli,  che  en- 
trano per  una  parte  importantissima  nelle  nozze  campagnole  delle 
Marche,  i  pendenti,  gli  anelli,  la  veste  di  lana  stoff'ata,  lo  sciallo 
di  seta  a  larghe  strisele  rasate  e  a  fiori  di  colori  smaglianti,  gli 
stivaletti  a  doppia  suola  e  il  collare  all'uncinetto  coi  relativi  pol- 
sini: e  la  sposa  aveva  regalato  allo  sposo  la  camicia  centinata 
col  largo  solino  e  la  cravatta  scozzese. 

Si  eran  promessi  davanti  al  curato  che  aveva  battezzato  l'Ana- 
stasia e  che  le  aveva  fatto  la  conocchia  di  dieci  lire,  perchè,  ri- 
masta orfana  a  sedici  anni  della  madre,  la  benedett'anima  di  Ma- 
rianna la  più  bella  e  virtuosa  contadina  della  villa,  era  stata  la 
mamma  de'  suoi  fratelli  e  delle  sue  sorelle,  che  erano  sette  altri, 
di  cui  due  di  coppia,  Sabbatino  e  Albina  lasciati  quasi  in  fasce, 
e  si  era  mantenuta  cosi  costumata  e  onesta.  Fare  la  conocchia 
vuol  dire  fare  il  dono  delle  nozze,  la  conocchia  essendo  fortuna- 
tamente ancora  lo  stemma  di  ogni  donna  che  va  a  marito  in  que- 
ste montagne,  uso  latino  che  ricorda  l'antico  motto:  casta  vixit, 
lanam  fccit,  domum  servai- it.  E  dopo  la  conocchia  del  curato,  che 
l'aveva  benedetta  il  giorno  di  Sant'Antonio,  quando  era  stato  chia- 
mato a  benedire  gli  armenti,  mille  altre  conocchie  erano  arri- 
vate da  tutte  le  comari,  le  vicine  e  le  parenti  alla  sposa,  la  quale 
era  la  vera  JRosière  ^  di  quella  casta  e  vereconda  cerimonia  nuziale. 

1    Vedi   II  vero  paest  dei  Miliardi  di  Max  Nardau  (Milano,  fratelli  Treves) 
sulla  Rasière. 


NOZZE   NELL'APPENNINO  MARCHIGIANO.  695 

Il  giorno  prima  delle  nozze  il  fratello  cugino  dello  sposo 
(che  di  fratelli  carnali  non  ne  ha  nessuno)  aveva  ripulito  ben 
bene  il  carro,  chiamato  biroccio,  ci  aveva  aggiogato  i  due  buoi 
più  belli  della  stalla,  lucidi  come  specchi  e  infioccati  di  mille  co- 
lori, ci  aveva  posto  le  campane  del  raccolto  e  della  vendemmia,  e, 
vestito  di  saglia  nuova  fatta  in  casa  come  quella  dello  sposo,  col 
cappello  a  larghe  falde,  era  sceso  a  prendere  la  Camera. 

La  Camera,  per  chi  noi  sapesse,  è  la  dote  che  si  porta  la 
sposa:  le  casse  col  corredo,  le  coperte,  i  cuscini  e  la  materassina 
per  i  piedi. 

Si  caricano  le  casse  sul  carro  in  forma  di  letto,  si  coprono 
colle  due  o  tre  o  quattro  coperte  che  la  donna  si  è  tessute  da 
sé:  ci  si  pongono  soprai  cuscini  e  la  materassina  e  sul  davanti 
si  appende  come  un  trofeo  una  larga  ciambella  ornata  di  con- 
fetti a  tanti  colori  con  pochi  metri  di  panno  o  di  mussalo  per 
fare  una  camicia,  ornata  di  piccole  fettuccie  bianche  e  rosse.  La 
faccenda  di  accomodare  la  Camera  sul  carro  è  una  delle  bisogne 
più  gravi  e  più  importanti  delle  nozze,  e  ci  vien  chiamata  la  più 
paina  ^  delle  contadine  del  vicinato,  perchè  tutto  sia  posto  in 
evidenza  con  maestria  e  garbo,  perchè  né  una  frangia,  né  un  fiocco, 
né  un  solo  colore  delle  coperte  sia  sottratto  all'occhio  vigile  del 
pubblico,  perché  in  una  parola  si  possa  far  comprendere  che  la 
sposa  porta  in  casa  un  po'  di  grazia  di  Dio. 

Nel  passato  anno,  negli  ultimi  di  aprile,  altre  nozze  s'eran 
celebrate  poco  lungi  di  lì,  fra  contadini  possidenti  di  due  diverse 
ville. 

Un  mattino  per  tempissimo  io  salii  l'erta  e  mi  condussi  a 
Valle  San  Martino,  un  paesetto  di  montanari  verso  ponente.  Mi 
ricordo  che  il  parentado  era  in  grandi  faccende  e  che  mi  avan- 
zavano coppie  di  invitati  che  s'affrettavano  alla  festa.  La  campana 
suonava  a  distesa,  la  gente  era  lieta  e  festante,  il  passo  leggero 
e  celere,  proprio  di  chi  va  a  nozze. 

Mi  conduceva  un  contadinello  sui  quattordici  anni  e  ci  se- 
guiva il  suo  cane  di  guardia,  che  in  quel  tramestio  di  gente  com- 
prendeva doveva  accadere  alcun  che  di  straordinario.  La  strada 
era  lunga  e  faticosa  e  s'arrampicava  a  svolte  sul  monte  e  qual- 
che volta  si  sfondava  giù  come  un  letto  di  fiume.  Querele  seco- 
lari la  ombreggiavano,  e  cantava  l'usignolo,  e  dalla  valle  ci  sa- 
liva il  cupo  verso  del  cuccolo.  Il   mio   contadinello    aveva  nome 

'  Paina  vale  donna  elegante  e  civile. 


696  NOZZE   NELL'APPENNINO  MARCHIGIANO. 

Ferdinando  in  omaggio  al  Re  di  Napoli,  perchè  la  sua  famiglia 
era  pochissimo  lìrogrcsslsta,  e  lo  chiamavano  tutti  Fiore  o  Fio- 
rino per  vezzeggiativo:  la  sua  nonna  Agnoletta  era  la  cuoca  che 
preparava  la  colazione  m  casa  della  sposa,  ed  egli  poi  era  pa- 
rente dei  parenti  e  compare  della  famiglia. 

—  Sentite,  signora,  l'usignolo  canta  gli  amori  e  il  cucco  canta 
il  caldo  che  s'approssima.  Perchè  nell'inverno  tutti  questi  uccelli 
se  ne  van  via  lontano  e  ritornano  soltanto  la  primavera. 

—  Oh!  e  dove  vanno? 

—  L'usignolo  non  lo  so:  il  cucco  va  in  Cuccumania,  un  paese 
lontano,  a  svernare,  poi  ritorna  qui  quando  là  ci  vien  freddo:  come 
la  rondolella  che  fa  su  per  i  tetti  delle  case. 

—  E  chi  ti  ha  detto  tutte  queste  belle  cose? 

—  Me  r  ha  dette  babbo. 

E  allora  alle  mie  domande  rispondeva  e  seguitava  i  suoi 
racconti  sulla  sposa  : 

—  Vedrete  che  festa:  ci  son  du' coppie  di  sposi,  una  ricca  e 
una  povera.  Prima  si  sposeranno  quelli  poveri  che  butteranno  i 
lupini  invece  dei  confetti  :  poi  verranno  gli  altri,  e  vedrete  la  ca- 
mora.  Dice  che  non  si  sarà  veduto  piìi  un  sì  bell'acconcio  ! 

E  intanto  salivamo  sempre  e  costeggiavamo  un  ruscello  dove 
correva  rumorosamente  nel  profondo  un'  acqua  lucente  e  limpi- 
dissima. 

—  Vi  fa  specie  1'  acqua,  che  è  tanta  qui.  E  davvero  questo 
paese  l'acqua  non  la  paté:  l'hanno  nella  porta  di  casa,  e  sta 
vena  non  si  risecca  mai  nemmeno  per  lo  caldo. 

Salita  la  spianata  e  fermatami  suU'  altura,  vidi  difatti  ad 
accomodare  nell'aia  la  camera  della  sposa.  Là  c'erano  invece  i 
comò  e  lo  specchio  perchè  gli  sposi  eran  possidenti  :  sul  carro 
stava  una  parente  che  stendeva  coperte,  piantava  spilli  e  legava 
nastri  alla  ciambella  o  roccia.  Le  vicine  eran  tutte  fuori  di  casa  ; 
chi  era  salito  sui  muricciuoli,  chi  sulle  panche  ;  la  monellerìa  si 
era  arrampicata  sulle  piante,  e  tutti  facevano  commenti.  Cina  vecchia 
mia  conoscente  mi  era  venuta  da  presso  e  mi  raccontava  la  storia. 

—  Lo  sposo  è  vedovo  ma  è  ancora  frese'  omo,  eppoi  è  molto 
ricco  e  ha  la  catena  d'oro  all'orologio;  ha  tre  fratelli:  lo  calzo- 
laro, lo  fornaro  e  un  altro  che  sa  sonare  il  violino  e  tutti  gl'istro- 
menti.  Sto  matrimonio  l'ha  fatto  il  ruffiano:  vedetelo  là  che  aiuta 
Mariuccia  ad  accomodare  la  camera.  Eh  !  lui  se  n'intende,  perchè 
di  matrimonii  n'ha  fatti  parecchi  e  di  maledizioni  glie  ne  son 
toccate  tante  ! 


NOZZE  NELL'APPENNINO   MAKCHIGIANO.  697 

—  Di  maledizioni  ? 

—  Si  vede  che  voi  sei  forestiera;  è  un  gran  peccato  a  fare 
lo  ruffiano,  ma  per  li  matrimoni  come  questi  ce  li  vuol  sempre, 
€  gli  si  dona  l'agnello  e  li  confetti  in  pubblico,  poi  quando  gli 
sposi  non  son  contenti  la  prima  maledizione  è  sempre  la  sua  ;  capisci  ? 

—  E,  seguitavo  io  a  dire,  queste  nozze  piacciono  molto  alle 
due  famiglie  ? 

—  Sei  matto  !  ?  mi  rispondeva  la  mia  interlocutrice,  frase  cbe 
dicon  sempre  quando  vogliono  affermare  con  ammirazione  ;  Se 
son  contenti  ?  Che  ti  pare  ?  È  venuto  perfino  lo  romano,  perchè 
capisci?  lo  fornaro  sta  a  Roma  ed  è  venuto  a  casa  per  questo. 
È  quello  biondo,  civile  civile:  si  vede,  che  viene  dalla  città! 
Sei  matto!  È  un  gran  parentado;  alla  Valle  non  se  ne  vedrà  mai 
più  uno  compagno.  Portano  via  la  sposa  colla  cavalcata.  E  ci  do- 
vreste andare  anche  voi  che  ti  toccherebbe  di  stare  da  presso 
alla  sposa.  Vedrai  che  t'invitano  a  colazione.  Sei  matto!  Avere 
Vossignoria  gli  saprà  un  gran  onore.  Me  l'ha  detto  l'Amalia,  la 
figlia  mia,  che  è  andata  a  vestire  la  sposa,  perchè  è  una  fan- 
tella  ^  civile  che  se  n'  intende.  Se  tu  sapessi  l'invidia  delle  altre  ! 
Vedi  come  stan  brutte  e  come  fanno  le  ciarle!  Ma  capisci?  chi 
gran  pena  paté,  gran  voce  mena. 

E  poco  stante  vidi  uscire  dalla  chiesa  la  prima  coppia  degli 
sposi  più  poveri,  vestiti  alla  meglio  con  piccolo  parentado  che  li 
seguiva  e  che  non  buttarono  né  lupini  né  confetti,  ma  si  teuevan 
modesti  e  quatti  per  quello  struggimento  di  veder  dopo  di  loro 
una  coppia  più  ricca  e  quindi  più  invidiata. 

—  Oh  !  che  nozze,  mi  diceva  la  vecchia,  fanno  compassione, 
povera  gente  !  E  proprio  oggi  ci  hanno  a  capitare  :  ma  capisci  ? 
non  hanno  voluto  aspettar  maggio,  perchè  il  mondo  se  ne  fa 
beffe  degli  sposi  di  quel  mese,  capisci  ?  (e  intanto  ammiccava  ma- 
liziosamente con  un  suo  piglio  particolare  stringendosi  il  nodo 
del  fazzoletto).  E  prima  le  nozze  non  si  son  fatte,  perché  era 
tempo  proibito  dalla  Chiesa.  E  pronunciava  proìltito  sdrucciolo 
alla  latina. 

Divisi  in  fatti  con  quei  montanari  il  pasto  di  quella  mattina 
che  era  succolento  e  interminabile  e  vidi  la  sposa  rapita  dai  pa- 
renti sulla  mula  e  circondata  da  una  miriade  di  donne  vestite  a 
mille  colori  vivissimi,  e  li  accompagnai  coU'occhio  fino  che  scom- 
parvero tra  il  fitto  della  boscaglia. 

'  Vale  giovanetta. 


698  NOZZE   NELL'APPENNINO   MARCHIGLVNO. 

Tutte  le  nozze  si  assomigliano  nella  montagna,  e  le  ultime 
die  vidi  furono  le  più  belle,  le  più  serene,  le  più  conformi  alla 
tradizione  dei  padri  della  villa. 

Era  la  Candelora,  e  io  montata  sulla  bestia  più  paziente  e 
docile  della  fattoria,  aveva  lasciata  la  città  di  prima  mattina. 
Quando  giunsi  sul  ponte  del  fiumicello  che  scorre  lungo  la  casa 
della  sposa,  vidi  venir  giù  da  una  ripida  stradetta  il  parentado 
con  lo  sposo  alla  testa,  vestito  di  gala  e  con  un  cotal  piglio  da 
ricordarmi  il  buon  Eenzo,  quando  quella  mattina  il  povero  Don 
Abbondio  stava  cercando  la  scusa  per  mandarlo  via  a  bocca  asciutta. 
Erano  molte  coppie  di  parenti  senza  contarci  lo  sposo,  le  donne 
a  sinistra  gli  uomini  a  destra,  che  venivano  per  fare  il  rapimento. 
Eeci  toccar  via  la  bestia  dal  mio  piccolo  palafreniere,  e  arrivai 
in  tempo  per  vedere  l'entrata  di  questa  buona  gente,  che  doveva 
rapire  la  sposa  e  condurla  alla  Chiesa. 

L'  Anastasia  usciva  allora  dalle  mani  della  sarta  del  villag- 
gio, con  la  veste  guernita  a  frastagli  di  velluto  nero,  il  filo  dei 
coralli  e  i  pendenti,  la  cintura  di  copale  lucida  a  fibbia  d'acciaio 
e  lo  sciallo  in  testa.  Aveva  gli  occhi  rossi,  e  piangeva  davvero  tra 
le  sorelle  e  le  donne  che  le  davan  animo.  Il  padre  era  in  cucina 
ritto  al  camino,  e  le  molte  faccende  gli  toglievano  l'apparenza 
del  gran  dolore  che  pur  aveva  per  quella  figlia  che  gli  scappava 
dagli  occhi,  che  era  stato  fino  allora  il  suo  bastone,  la  capoccia  di 
casa,  la  mamma  dei  figli  suoi. 

Quando  il  parentado  entrò,  il  capoccio  diede  a  tutti  il  buon 
dì  e  il  buon  anno  e  offrì  certe  ciambelle  dolci  e  vino  bianco  che 
era  disposto  in  bella  simetria  sul  lungo  desco  già  preparato  per 
la  colazione  di  prammatica.  In  casa  era  già  pronto  il  parentado 
della  sposa  in  numero  uguale  di  donne  e  di  uomini,  una  coppia 
per  ogni  famiglia  di  parenti;  eran  tutti  vestiti  nella  maggior 
pompa  e  non  vi  si  vedea  neppure  una  giovanotta. 

—  Oggi  non  è  dì  da  fantelle,  mi  diceva  una  zia  della  sposa, 
che  ha  nome  di  essere  una  delle  dottoresse  del  suo  vicinato.  Gli 
omini  vi  possono  venire,  le  femmine  no,  se  non  son  maritate. 

—  E  perchè  ?  chiesi. 

—  E  che  ci  sai  ?  son  costumanze.  Si  è  sempre  fatto  così  e  così 
s'  ha  da  fare.  E  la  legge. 

E  perchè  io  la  guardava  per  la  gala  che  essa  aveva  fatto  in 
quel  dì: 

—  Non  ci  badare,  signora  mia  tanta  cara,  se  mi  vedi  così  bella: 
r  abito  e  lo  sciallo  son  di  figlima  che  me  l' ha  prestati  per  oggi. 


NOZZE  NELL'APPENNINO   MARCHIGIANO.  699' 

E  difatti  la  maggior  parte  avevano  l' abito  tolto  a  prestanza  ; 
gli  uomini  s'avevan  prestata  quasi  tutti  la  camicia  coi  bottoni 
di  similoro  a  larghe  centinature  e  ricami  sul  davanti  :  le  donne, 
gli  abiti,  gli  scialli,  gli  orecchini,  i  coralli  che  avran  fatto  il  giro 
di  non  so  quante  nozze.  Ond'  è  che  una  vecchia  comare  e  parente 
sentendo  questo  mio  ragionamento  coli'  altra,  volle  interloquire  e 
avvicinandosi  con  un'aria  di  chi  vuol  farsi  comprendere  senza 
dire,  mi  sussurrò  all'orecchio  : 

— ■  Signora  mia,  chi  si  veste  delli  panni  altrui  presto  si  spoglia. 

Lo  sposo  aveva  bussato  colle  nocche  delle  dita  alla  camera 
dove  era  la  sposa,  ed  era  entrato.  Erano  commossi,  e  non  si  guar- 
darono in  viso. 

—  Anastasia,  figlia,  sei  pronta?  Queste  furono  le  sue  uniche 
parole  ;  ed  avendo  essa  risposto  5},  tutti  si  mossero  in  bell'ordine. 

La  sposa  era  avanti  condotta  da  suo  fratello  minore:  questa 
è  la  legge.  Io  ne  cercava  il  motivo  tra  me,  e  mi  parve  di  averlo 
trovato  in  ciò,  che  tutta  la  cerimonia  avendo  impresso  il  carat- 
tere d'un  ratto,  il  fratello  più  giovane  è  certamente  quello  che 
può  prestar  minor  difesa  alla  sposa.  Egli  stava  a  destra  ed  essa 
a  sinistra,  cogli  occhi  bassi  e  tremante  ;  venivan  dopo  i  parenti 
più  prossimi  della  sposa  a  due  a  due,  un  uomo  e  una  donna,  av- 
vertendo ciascuno  di  pigliare  la  donna  della  propria  casa:  poi  ve- 
nivano i  parenti  dello  sposo  in  ordine  inverso  del  grado  della 
parentela,  cioè  i  meno  i)arenti  prima,  poi  i  più,  e  finalmente  lo 
sposo  solo.  Salimmo  lentamente  l'erta  del  monte  per  andare  alla 
chiesa  della  parrocchia.  Giunti  all'alto  tra  le  querele  e  gli  olivi,, 
io  scorsi  sulla  strada  uno  spagliuccolio,  misto  a  certi  gambi  di 
una  pianta  che  chiamano  mercarella,  e  guardai  l'Anastasia  che 
si  era  fatta  rossa  un  po'  per  piacere,  un  po'  per  confusione. 

—  Che  è  questo  ? 

E  il  fratello  sorridendo  alla  sua  maniera  aperta  e  franca: 

—  Oh  !  Signora,  è  qualcuno  che  ci  si  è  voluto  spassare.  Si 
chiama  l' impaglicciata  ed  è  per  fare  rabbia  a  qualcuno  che  la 
pretendeva  a  sorima  e  che  essa  non  ha  volsuto.  La  raercurella 
ce  l'hanno  messa  per  uno  sprezzo;  ma  potevano  fare  a  meno. 
Uno  solo  se  ne  poi  sposare  :  e  anche  lui,  quello  a  chi  l'hanno  fatta 
r  impaglicciata,  che  tanto  si  capisce  chi  è,  è  una  persona  onesta  che 
non  se  la  meritava. 

—  Oh  !  e  chi  l'abbia  fatta  ? 

L'Anastasia  sorrideva  e  il  fratello,  un  giovanotto  intelligente 
e  aperto,  mi  rispose  francamente  : 


700  NOZZE   NELL'APPENNINO   MARCHIGIANO. 

—  Non  si  può  sapere,  ma  poderia  darsi  che  fosse  un  altro  che 
])retendeva  a  sorima  lui  pure.  Per  paura  non  la  facessero  a  lui 
s'è  dato  le  mani  avanti. 

E  così  s'arrivò  alla  chiesa  che  era  affollata  di  popolo.  Il  cu- 
rato li  attendeva  ed  entrò  nel  confessionale  :  prima  si  confessò  lo 
sposo,  eppoi  l'Anastasia,  indi  lo  sposo  si  recò  al  banco  pronto 
per  la  cerimonia  e  che  era  nudo  d'ornamento,  perchè  i  parenti 
dello  sposo  avevan  pregato  non  si  mettesse  il  tappeto  d'uso  affin- 
chè il  popolo  potesse  vedere  gli  abiti.  L'  uomo  ha  dappertutto  e 
sempre  gli  stessi  istinti  :  solamente  si  estrinsecano  in  modo  di- 
verso, ma  in  fondo  egli  è  sempre  il  medesimo.  La  pompa  gli  è 
necessaria  sia  egli  un  gran  monarca,  sia  egli  un  manovale:  la  cerca, 
la  studia,  la  desidera,  la  vuole,  e  le  nozze  poi,  tanto  ricche  quanto 
povero,  la  pompa  la  esigono,  perchè  amore  e  nozze  non  vogliono 
avari.  È  vero,  come  mi  diceva  il  padre  della  sposa,  che  i  pazzi 
fan  ìe  nozze  e  i  savi  se  le  mangiano,  ma  senza  nessuna  solen- 
nità né  pompa  sarebbe  tolta  l'unica  poesia  di  quel  giorno  festoso. 

La  cognata  condusse  la  sposa  all'altare,  dove  fu  finalmente  con- 
cluso questo  desiderato  maritaggio,  e  gli  sposi  furono  benedetti  dal 
curato  e  fecero  divotamente  la  Comunione;  poi  lo  sposo  portò  dietro 
l'altare  i  confetti,  il  fazzoletto  e  le  propine  al  Curato;  poi,  quando 
la  chiesa  fu  un  po'  sfollata,  uscimmo  tutti  noi  collo  stesso  ordine 
e  furon  buttati  al  popolo  festante  pugni  di  confetti  fini  e  vario- 
pinti. Le  donne  erano  sfilate  nel  crocicchio  della  via  e  in  gran 
folla  piangendo  perchè  il  pianto  ci  va  vollero  baciare  l'Anasta- 
sia, che  le  fece  regalare  di  confetti  dal  fratello  che  le  stava  accanto. 

E  siccome  io  mi  arrischiai  ad  asciugare  quelle  lagrime  dicendo: 

—  Voialtre  piangete  perchè  non  vi  tocca  a  voi  un  paino  sì 
bello  !  —  mi  si  fecero  attorno  baciandomi  la  mano  e  dicendo  : 

—  La  signora  è  troppo  cara!  tiene  allegra  la  sposa! 

Mi  svincolai  e  raggiunsi  il  corteo  che  m'avea  avanzata,  e  lo 
sposo  mi  servì  del  braccio  per  discendere  la  china  e  ritox'nare  in 
casa:  il  sole  ci  dardeggiava  e  gli  uccelli  garrivano  tra  i  rami  delle 
quercie.  .Lo  sposo  rideva  contento  e  mi  accarezzava  le  mani. 

—  La  Candelora,  diceva,  dall'inverno  senio  fuora.  Sentite,  le 
merle  cantano  la  primavera  ;  e  anche  il  tempo  s'è  rimesso  a  buono. 
E  una  benedizione  !  Tutto  mi  sarìa  creduto  che  voi  fossi  venuta  : 
ma  me  l'avevi  promesso  sempre  :  è  tanto  tempo  che  io  la  tratto 
quella  fantella,  e  mi  pareva  mill'anoi  che  queste  nozze  si  faces- 
sero. C'era  ancora  al  mondo  la  benedett' anima  di  Marianna  che  io 
ci  giva:  e  poi  parve  che  non  se  ne  facesse  più  cosa,  e  anch'io 


NOZZE  NELL'APPENNINO  MARCHIGIANO.  701 

m'ero  buttato  da  un'altra  parte  :  ma  se  gira  se  gira  eppoi  se  ri- 
torna sempre  alla  prima.  La  ragazza  è  bona  :  niuno  del  vicinato 
ne  ha  mai  potuto  dire  una  parola:  così  costumata  non  ce  n'è 
nissuna  ed  è  un  gran  tempo  che  non  si  son  fatte  nozze  tanto 
oneste  ! 

Io  lo  lasciava  parlare  e  anzi  ce  lo  spingevo:  l'animo  s'innal- 
zava in  quella  semplice  e  casta  storia  del  suo  amore.  Erano  cose 
tanto  vecchie,  eppure  mi  parevano  nuove;  erano  tanto  naturali, 
eppure  mi  parevano  straordinarie.  Quel  non  so  che  di  semplice, 
di  verecondo,  di  casto  in  quel  dì,  in  cui  si  rivelavano  a  loro  mi- 
steri di  gioie  indelibate  e  sconosciute,  quel  non  so  che  di  poetico, 
in  quella  stradetta,  sotto  quelle  querele  nude,  che  stendevano  le 
loro  enormi  braccia  verso  il  cielo  e  da  cui  fuggivano  gli  uccel- 
lini impauriti  dalla  numerosa  comitiva;  fra  quegli  ulivi  col  loro 
verde  cenerognolo  che  dicevano  pace;  quel  tutto  insieme  di  semplice. 
di  felice,  di  soddisfatto  che  brillava  in  quei  visi  arsi  dal  sole,  mi  dava 
un  insolito  sentimento  di  allegria  buona,  cordiale,  affettuosa,  senza 
beffa  e  senza  sottintesi,  di  quella  allegria  quasi  infantile  che  ci 
fa  voltare  indietro  a  considerare  la  nostra  prima  giovinezza  e  ci 
sussurra  parole  misteriose  di  giorni  sfumati  che  non  ritorneran 
più  e  il  cui  ricordo  è  ancora  la  più  bella  cosa  della  nostra  vita. 

—  Il  Curato  non  ci  ha  fatto  baciare  la  jìace,  seguitava  G-io- 
vannino  (là  j:>ace  è  una  specie  di  reliquia  che  si  dà  a  baciare 
agli  sposi  dopo  i  sacramenti),  ma  speramo  che  la  pace  l'avremo 
sempre  tale  e  quale  :  e  non  ti  credere  che  non  è  una  necessitcà  ; 
e'  è  chi  la  dà  a  baciare  e  chi  non  la  dà,  secondo  l'avvezzo  della 
Chiesa  e  della  gente.  Vuol  dire  che  qui  non  ci  sarà  questa  co- 
stumanza. 

E  intanto  s'era  giunti  a  casa,  dove  si  trovava  per  opera  e 
cura  della  solita  Agnoletta,  mia  vecchia  conoscenza  di  altre  nozze, 
già  imbandito  il  pasto.  Le  donne  si  levarono  lo  sciallo  che  ave- 
vano in  testa  e  si  posero  un  fazzoletto,  poi  ci  sedemmo  tutti 
al  lungo  desco.  I  due  sposi  in  capo  di  tavola,  poi  i  padroni  della 
fattoria,  poi  i  parenti  della  sposa  in  ordine  di  grado,  poi  i  pa- 
renti dello  sposo  in  fondo.  E  questa  era  la  prima  tavola.  Nella 
seconda  dovevano  mangiare  le  donne  di  casa  e  gli  altri,  appena 
noi  fossimo  partiti.  Uso  latino  anche  questo  che  ricorda  il  po- 
sita  secunda  mensa  dei  Komani. 

Prima  di  mangiare  i  due  sposi  fecero  la  purificazione. 

Giovannino  prese  un  bicchiere  e  versò  da  bere  del  vino  puro 
all'Anastasia  che  bevette:  poi  alla  sua  volta  l'Anastasia  nello  stesso 


702  NOZZE  NELL'APPENNINO  MAKCHIQIANO. 

bicchiere  versò  da  bere  a  Giovannino,  poi  fu  servito  un  gran 
pranzo  a  cui  è  di  costume  d'imporre  l'ingannevole  titolo  di  co- 
lazione. Sarebbe  di  prammatica  che  i  due  sposi  dovessero  man- 
giare nello  stesso  piatto,  ma  per  rispetto  a  noialtri  personaggi, 
in  quel  giorno  mangiarono  in  due  piatti  e  si  contentarono  di  avere 
soltanto  comune  il  bicchiere. 

—  Mangia,  disse  una  vecchia  comare  alla  sposa,  mangia  figlia, 
■cbè  giovinetta  così  non  ci  mangi  piìi  !! 

E  l'esclamazione  lunga  che  segui  questa  esortazione  mi  fece 
comprendere  che  la  frase  era  di  rito.  Di  fatti  l'aveva  sentita  alle 
nozze  dove  mi  condusse  Plorino,  e  la  sentii  più  tardi  dal  nonno 
di  Giovannino,  quando  s'andò  a  pranzare  un'ora  dopo. 

C'è  il  costume  di  far  dei  brindisi  e  quìilche  volta  di  improv- 
visarli, poiché  questi  montanini  sono  anzi  tutto  poeti,  sul  fare  di 
quelli  del  contado  pistoiese  e  di  tutta  la  Toscana.  Nella  piccola 
raccolta  dei  Canti  poi)olarl  dell' Apiìennino  Marchlr/iano  da  me 
pubblicata  non  figurava  nessuno  dei  canti  per  nozze,  per  ciò  solo, 
che  essendomi  io  rivolta  alle  donne,  le  quali  di  canzoni  ne  sanno  in 
maggior  copia  degli  uomini,  e  non  potendo  esse  pantare  nel  dì 
delle  nozze,  di  questo  genere  non  ne  conoscevano  neppure  una. 
In  quel  mattino  però  il  saper  presenti  i  padroni  tolse  a  più  d'un 
poeta  il  coraggio  di  presentarsi.  E  uno  di  essi  mi  diceva  due  o 
tre  giorni  dopo:  «Signora,  quando  seppi  che  c'era  Vossignoria 
mi  mancò  il  core,  perchè  mi  sarìa  piaciuto  di  venire  a  fare  la 
conocchia  all'Anastasia,  che  figurati!  la  conosco  da  un  pezzo,  e 
a  cantare  i  hrin,zi.  E  non  ci  son  venuto  per  rispetto.  E  quando 
mi  hanno  detto  che  tu  cercavi  lo  poeta,  io  figurati!  t'avria  vo- 
luto far  nascere  per  farteli  sentire,  che  ne  so  tanti,  e  la  voce 
è  bona.  » 

Ma  in  quella  mattina  nessuno  osò  di  cantare.  E  appena  finita 
la  colazione,  dove  per  rito  i  confetti  non  si  hanno  a  mangiare,  ci 
alzammo  per  prendere  la  via  della  casa  dello  sposo.  Questo  è  il 
momento  più  solenne  delle  nozze;  quello  che  più  raffigura  il  ratto 
e  che  nel  suo  silenzio  eloquente  rivela  tutti  i  sentimenti  che  si 
agitano  in  quei  semplici  cuori. 

Le  donne  si  rimisero  in  fretta  gli  scialli  sul  capo  e  l'Anasta- 
sia rientrò  in  camera  a  piangere  e  ad  ammonire  le  sorelle  e  i 
fratelli. 

—  «  Statete  boni,  curate  lo  monello  e  non  fate  inquietar 
babbo:  non  lipigate,  aggiate  il  timor  di  Dio,  ubbidite  alli  più 
grandi.  »  E  piangeva  forte  e  con  lei  in  coro  singhiozzavano  tutti 


NOZZE   NELL'APPENNINO  MARCHIGIANO.  703 

di  casa,  ad  eccezioue  del  padre  che  non  aveva  abbandonato  il  suo 
posto  di  sotto  al  camino  e  che  si  teneva  le  mani  dietro  la  schiena 
e  guardava  per  terra  cogli  occhi  gonfi  di  lagrime. 

—  «  Kicordatevi  di  quelle  povere  bestiole,  di  tenere  iiichia- 
vato  lo  gamazzino,  e  assestata  casa:  dite  lo  rosario:  vi  racco- 
mando tanto  babbo!  avete  capito?  Statete  boni  non  fatelo  in- 
quietare !  » 

E  lo  sposo  volle  cominciare  un  gran  discorso  per  consolarli, 
e  che 2)01  miga  andava  in  cajjìo  al  mondo,  e  che  miga  andava  a  star 
male  e  che  eoli' aiuto  di  Dio  si  jìotevan  riveder  sempre,  ma  il  di- 
scorso fini  nel  pianto  :  proprio  come  Renzo  né  più  né  meno,  colla 
stessa  apparente  baldanza  e  colla  stessa  eloquenza  semplice  e 
montanina. 

Finalmente  l'Anastasia  si  presentò  al  padre  che  la  benedisse  : 
essa  gli  baciò  la  mano  e  lui  la  baciò  su  ambo  le  guancie  dicendo 
in  mezzo  al  silenzio  generale:  —  Dio  ti  benedica,  o  figlia  —  poi 
benedisse  il  figliastro:  '  e  allora  il  parentado  cominciò  un'onda 
rumorosa  come  di  lotta  per  combattere  la  tenerezza  paterna;  tutti 
esclamarono  forte  e  disordinatamente  : 

—  Andiamo,  finiamola!  la  sposa  fa  spinta  fuori,  il  fratello  più 
giovane  riprese  il  suo  posto  e  col  solito  ordine  si  riparti. 

—  Coglie  male,  signora,  mi  diceva  il  fratello  di  Anastasia, 
che  non  ci  si  incontra  nessuna  casa  fra  quella  nostra  e  quella 
dello  sposo,  che  se  no,  vedereste  !  Ci  farebbero  la  sbarra.  Mamma, 
bona  memoria,  con  babbo  ne  ebbe  due  prima  d'arrivare  a  casa  ; 
ma  quella  fu  una  gran  combinazione! 

—  E  che  è  la  sbarra  ?  chiesi. 

—  La  sbarra  vuol  dire  che  da  dove  debbono  passare  gli 
sposi,  dalle  case  saltan  fuori  tutti  l'amici  vestiti  da  festa,  e  por- 
tano una  canestra  di  ciamì)elle  e  del  vino;  non  si  passa  se  non 
si  è  mangiato  e  bevuto  :  qualche  volta  hanno  il  tamburello  e  si 
balla  il  salterello;  ma  questo  è  raro.  Finite  le  ciambelle  e  be- 
vuto lo  vino,  gli  sposi  mettono  nella  canestra  li  confetti,  e  qual- 
che volta,  secondo  la  sbarra  come  è  fatta  più  o  meno  bella,  miga 
basta  una  libbra.  Babbo  dice  che  gli  convenne  rimandare  a  Ca- 
merino a  ricomprarne  altri  assai,  perchè  non  gli  bastavano  pel 
pranzo.  Per  le  nozze  più  ricche  e'  è  la  cavalcata  ;  ma  noi  senio 
poveri  e  questi  sfarzi  non  se  fauno.  L'avrai  veduta  quella  che 
da  Sant'Ermine  andò  a  Sorte.  Ma  essi  eran  possidenti  e    avevan 

I  Figliastro  si  chiama  il  genero,  e  figliastra  la  nuora. 


704  NOZZE  NELL'APPENNINO   MARCHIGIANO. 

l'abiti  di  seta  di  Camerino.  Le  ricche  in  quel  giorno  si  mettono 
anche  il  cappellino  con  li  fiori  sopra  lo  sciallo;  ma  che  t'ho  da 
dire  ?  Me  pare  che  stian  brutto  tanto.  Non  è  roba  da  contadini 
e  un  fiore  d'un  quattrino  non  sta  bene  a  tutti. 

Quando  fummo  a  metà  strada  circa  tra  le  due  case,  sempre 
salendo  l'erta,  si  udì  la  voce  dello  sposo  che  gridò  con  allegra 
impazienza  : 

—  Spianate,  eppoi  fermatevi. 

È  la  legge  che  a  metà  strada  i  parenti  della  sposa  debbono  la- 
sciare il  posto  a  quelli  dello  sposo.  E  difatto  tutta  la  comitiva  si 
fermò.  Il  fratello  di  Anastasia  baciò  la  sorella  con  nuovi  e  sinceri 
pianti,  poi  la  consegnò  al  fratello  cugino  di  Giovannino,  il  quale 
la  baciò  alla  sua  volta  e  la  prese  per  mano,  tenendola  così  fino  al 
limitare  della  nuova  casa  ;  il  parentado  di  Anastasia  in  ordine  di 
grado  si  ritirò  indietro  e  al  posto  de' primi  si  trovarono  gli  al- 
tri, baldanzosi  di  essere  finalmente  arrivati. 

Quando  si  entrò,  la  cucina  era  vuota  ;  soltanto  fumavano  nel 
focolare  vivande  numerose  e  abbondanti  preparate  dal  cuoco,  fatto 
espressamente  venire  da  una  villa  vicina. 

Una  giovanetta  sorella  di  Giovannino  comparve  finalmente  a 
fare  il  ricevimento  e  aprì  la  porta  della  camera  nuziale,  dove 
r  Anastasia  entrò  e  dove  la  raggiunse  il  nonno  che  le  diede  il 
benvenuto  e  la  benedisse  con  nuove  lagrime. 

—  Io  so' vecchio,  figlia,  diceva,  ma  ancora  laoro  :  sono  un 
po'  sordo,  ma  ce  vedo  bene,  e  colle  recchie  poi  non  se  laora.  A 
me  me  piace  che  tutti  me  obbediscano  e  lavorino  e  stiano  in 
pace,  che  guardino  quelle  bestiole,  e  che  s'abbia  il  timor  di  Dio. 
Se  tu  sarai  bona,  io  ti  vorrò  bene  :  ma  che  sei  bona  lo  so,  e  spera 
in  Maria  Vergine,  che  oggi  è  la  Candelora,  che  saremo  tutti  con- 
tenti. 

La  camera  nuziale  aveva  le  due  casse  variopinte,  il  letto 
colla  coperta  piil  bella,  i  cuscini  ricamati,  la  materassina  da  piedi, 
molti  santi  appiccati  alle  pareti,  la  croce  e  il  ramo  d'olivo;  era 
linda  e  imbiancata  di  fresco,  coi  vetri  a  piombo  alla  finestra  che 
dominava  la  vallata  pittoresca,  e  dove  si  vedeva  il  comignolo 
della  casa  paterna  di  Anastasia. 

All'invito  premuroso  del  cuoco  si  ritornò  a  tavola  e  si  riman- 
giò, il  che  può  parere  incredibile,  ma  ciò  non  toglie  che  non  sia 
vero.  Nessuna  variante  nel  cerimoniale  se  ne  leviamo  che  il  pa- 
rentado della  sposa  fu  relegato  al  fondo  della  tavola,  mentre  gli 
altri  s'erau  portati  vicini. 


NOZZE  NELT/aPPENNINO   MARCHIGIANO.  705 

Il  nonno  non  si  presentò  se  non  per  cantare  un  brindisi  il 
cui  senso  non  potei  afferrare,  e  questo  fu  il  segnale  perchè  la 
sorella  dello  sposo,  che  sarà  la  prima  a  maritarsi  in  quella  fa- 
miglia, una  bella  contadinella  cogli  occhi  neri  e  i  denti  bianchi 
e  splendenti  e  i  capelli  ricciuti  composti  in  lunghe  treccie,  colla 
bustina  allacciata  e  la  camicia  candida  e  il  fazzoletto  incrociato 
sul  seno,  girasse  intorno  al  desco  regalando  a  tutti  una  cucchiaiata 
di  confetti  cannellini  che  fanno  odorar  lo  fiato,  e  perchè  sbucasse 
di  non  so  dove  il  mio  piccolo  Fiorino  a  cantare  i  brindisi  agli 
sposi. 

Fiorino  promette  di  doventare  un  gran  poeta  e  già  lo  chia- 
mano con  questo  nome  e  già  è  il  delirio  delle  mense  del  vicinato. 
Si  cavò  il  cappello,  si  pose  in  posizione  di  trovatore,  e,  tenendo  in 
una  mano  alto  il  bicchiere,  intonò  festosamente  e  in  gran  fretta 
le  seguenti  canzoncine: 

Biùnzo,  brinzo  ti  fo  cara  donzella 
Che  sei  tanto  prudente  e  virtuosa: 
Siete  una  meraviglia  tanto  bella 
E  altrettanto  e  mille  graziosa  : 
E  sulla  fronte  una  lucente  stella, 
Guancia  per  guancia  una  vermiglia  rosa, 
Le  labbra  son  coralli,  gli  occhi  brillanti, 
Siete  lo  rubacore  degli  amanti. 

Con  virtù  di  questa  comitiva 
Degna  d'ogni  rispetto  e  riverenza, 
In  prima  faccio  a  tutti  un  alto  evviva, 
Spiegando  del  mio  cor  la  gioia  immensa, 
Quindi  con  chiari  accenti  lusinghieri 
Canto  di  una  donzella  i  pregi  veri. 

Non  mi  vanto  poeta  e  mi  diletto 
Or  che  vi  ho  visto  così  rara  e  bella, 
Modesta,  prudentina  in  dolce  aspetto 
Più  risplendente  d'una  vaga  stella  : 
Sposa,  parlo  di  voi  che  avete  il  vanto 
Sopra  tutte  le  belle,  ed  io  vi  canto. 

Canto  i  pregi  infiniti  che  gentili 
Oltrepassan  del  mar  le  fitte  arene  ; 
Non  caccian  tante  foglie  mille  aprili 
Quante  bellezze  stanno  intorno  a  tene, 
Quante  virtù  vi  splendono  dal  viso, 
Angioletto  dell'alto  paradiso. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Aprile  1879  .       ,  44 


706  NOZZE   NELL'APPENNINO  MARCHIGIANO. 

Siete  un  candido  giglio  e  pili  vermiglia 
D'una  rosa  serbata  nel  giardino, 
Siete  una  gemma  quale  rassomiglia 
Il  diamante,  le  perle  ed  il  rubino, 
Onde  a  parlarvi  come  ch"io  la  sento 
Siete  di  questa  mensa  l'ornamento. 

Sposina  e  col  bicchiere  nella  mano 
Io  gradirei  da  voi  un  po'  di  vino. 
Per  prendere  coraggio  piano  piano 
Vi  prego  anche  a  darmi  un  confettino. 
Scusatemi  l'ardire,  o  bella  Diva, 
A  voi  e  a  tutti  quanti  un  novo  evviva, 
Evviva  il  confetto,  evviva  il  bicchiere,  evviva  il  vino- 
Evviva  gli  sposi,  evviva  eppoi  m' inchino. 

Due  belle  foglie  che  sta  alla  finestra 
Pare  che  uno  ce  l'abbia  messe  apposta, 
Prima  saluto  a  chi  mi  sta  alla  destra 
Chi  mi  sta  alla  sinistra  mi  s'accosta, 
Col  mio  cantar  vi  faccio  un  bell'inchino 
Voi  padroni  del  brinzo,  ed  io  del  vino. 

Sposa,  vi  voglio  fare  un  argomento 
E  col  mio  dire  vi  saluto  tanto, 
Con  una  mano  sto  cristallo  prendo 
E  colla  mente  mia  vado  pensando  ; 
Felice  sposa,  sarete  contenta 
Oggi  che  avete  lo  tuo  spo«io  accanto. 
Iddio  vi  benedica  in  alto  cielo 
Da  voi  aspetto  confetti  nel  bicchiere. 
Sposa  li  tui  confetti  ho  ricevuti 
E  colle  vostre  mani  me  l'hai  dati, 
E  tanto  e  poi  tanto  mi  son  piaciuti; 
Venirà  un  giorno  e  vi  sarac  ridati. 
Delli  vostri  confetti  io  son  sazio. 
Mille  volte  di  core  io  vi  ringrazio. 

Fora  Noè  dell'Arca  del  Diluvio 

Pel  Cristiano  fabbricò  una  vigna, 

Per  una  spugna  [shorgna)  ognuno  ci  s'infrasca^ 

Sbeffeggiato  restò  dalla  famiglia. 

Quello  era  un  vino  che  le  pietre  pacca, 

Ancora  questo  gli  si  rassomiglia  ; 

Quello  era  un  vino  bono  e  delicato, 

Di  farvi  un  brinzo  me  n'era  scordato. 


NOZZE   NELL'APPENNINO  MARCHIGIANO.  707 

Mi  pare  di  vedere  im  bel  gioiello 
Come  Giacobbe  ritrovò  il  suo  figlio, 
Questo  è  quel  frutto  delicato  e  bello 
Appuntamente  gli  voglio  dar  di  piglio, 
Me  lo  voglio  mandar  giù  per  la  gola; 
Così  la  panza  mia  ci  si  consola. 

Per  rinfrescar  le  labbra  il  vino  piglio, 
Alzando  gli  occhi  al  cielo  il  canto  scioglie, 
Saluto  il  caro  Padre  e  il  Divin  Figlio 
Che  ci  conduca  al  suo  stellato  soglio  : 
Io  colle  mani  lo  ripiglio 
Eppoi  tutti  quanti  salutar  vi  voglio, 
Bevo  lo  vino  colli  labbri  asciutti 
Viva  Maria,  Gesù,  saluto  a  tutti. 

Vi  contentate  ch'io  prenda  la  via 
Di  farvi  un  brinzo  come  fossi  Dea, 
Lo  primo  sposo  fu  Gesù  e  Maria 
Ohe  celebrò  le  nozze  in  Galilea; 
Lo  vino  in  acqua  che  si  convertìa 
Questo  è  il  miracol  che  Gesù  facìa. 

Primo  arrivato  saluto  il  bicchiere 
Eppoi  saluto  chi  ci  ha  messo  il  vino, 
Saluto  il  paesano  e  il  forestiere 
E  tutti  quanti  in  conversazione 
E  se  si  burla  o  sì  dice  davvero 
Vi  voglio  salutar  ch'è  di  ragione  ; 
Con  sto  brinzo  saluto  tutti  quanti, 
Viva  Maria,  Gesù  e  tutti  li  Santi. 

Prima  arrivato  saluto  il  bicchiere, 
Eppoi  saluto  chi  ci  ha  messo  il  vino, 
Vorresti  aver  la  sorte  ch'ebbe  Adamo 
A  mezzo  la  luna  lo  portò  il  destino, 
Noè  che  lo  teneva  per  la  mano 
Lo  condusse  in  mezzo  d'un  giardino; 
Così  faresti  voi,  bellina  tanto. 
Sempre  vorresti  lo  tuo  amante  accanto. 

Romolo  e  suo  fratello  fecer  Roma, 
Numa  Pompilio  la  fece  romana  ; 
Io  ne  beverebbe  anche  'na  soma, 
Ci  metterebbe  una  giornata  sana, 
Questo  è  quel  vino  che  a  nessun  perdona 
Che  fa  sgrullare  come  'na  campana, 


708  KOZZE  KELL  APPENNINO  MARCHIGIANO. 

Si  appoggia  per  le  fratte  e  per  le  mura, 
Che  le  ginoccliia  non  bau  più  giuntura  ; 
S'appoggia  per  le  mura  e  per  le  fratte, 
Che  le  ginocchia  s'è  stuccate  affatto. 

Bella  che  vieni  qua  col  fiasco  in  mauo, 
Ditelo  se  portate  del  pomino, 
Ne  viene  dalla  Riccia  o  di  Gensano 
Ovveramente  dal  Pian  di  Spoletino  ? 
Io  ti  saluto  da  caro  germano  ; 
E  quanti  qua  ne  state  a  tavolino 
Saluto  giovinette  e  figlie  belle, 
Giovani,  vecchie,  vedove  e  zitelle. 

Cara  sposina  vi  sono  obbligato, 
D'esto  bicchiere  che  m'hai  favorito. 
Siete  pili  bella  che  un  giglio  nel  vaso, 
,  Io  meno  il  brinzo  e  vi  sono  obbligato. 

Bella  che  delle  belle  hai  pieno  il  viso, 
Quando  t'ho  veduto  io  son  rimaso 
E  nella  bocca  ti  vedo  un  gran  riso 
Accompagnato  dal  profilato  naso  : 
Guancie  vermiglie,  occhi  di  paradiso 
Dell'esser  sposa  voi  siete  stata  al  caso. 
Pili  bella  di  voi  non  vide  il  sole 
Sarà  sempre  felice  chi  ti  porta  amore. 

Non  ho  potuto  resistere  al  desiderio  di  porre  questi  brindisi 
qui,  che  io  ricoj)iai  nella  sera  di  quel  giorno  con  ogni  cura.  Il 
mio  Fiorino  mi  diceva  che  ne  sapeva  molti  altri,  ma  che  erano 
più  brutti,  e  che  poi  ne  avrebbe  detto  un  altro  solo  se  la  sposa 
avesse  avuto  la  mamma. 

—  Ma  figurati,  so  ott'anni  che  mori  d'una  j)^n?Yrt,  e  non  saria 
stata   prudenza  e  educazione   a   mettere  dei  mortorii  nelle  nozze. 

E  avendolo  io  pregato  a  dirla  a  me,  egli  si  mise  in  posizione 
e  cantò: 

Brinzo,  brinzo  ti  fo  cara  donzella. 
Ricordati  una  volta  di  tua  mamma. 
Eri  fanciulla  e  ti  ha  fatta  zitella, 
Oggi  collo  tuo  sposo  ti  accompagna. 
Dategli  un  bacio  delle  tue  partenze, 
Che  ti  perdona  delle  tue  mancanze  : 
Dategli  un  bacio  e  buttati  cortese, 
Sappi  che  t  ha  portato  nove  mesi. 


NOZZE  NELL'APPENNINO   MAECHIGLANO.  709 

A  nessuno  potrà  sfiiggii'e  la  candida  delicatezza  di  questo  con- 
tadinello  che  non  volle  parlare  della  madre  per  non  affligger  la 
sposa,  come  a  nessuno  potrà  sfuggire  l'importanza  che  hanno  ta- 
lune di  queste  canzoni,  in  cui  si  sposano  le  fantasie  dolcissime 
d'un'arte  primitiva  con  delle  notizie  di  storia  sacra  e  profana  e 
con  delle  considerazioni  morali  d' un'  altezza  che  mi  par  mera- 
vigliosa. 

Il  modo  dei  loro  parlari  poi,  che  io  riportai  scrupolosamente 
ne'brevi  dialoghi  che  ho  accennato  alla  sfuggita,  parmi  non  si 
discosti  troppo  da  quelli  che  il  Giuliani  ha  illustrato  con  sì  soave 
cura  e  diligenza,  come  i  canti  non  si  discostan  punto  da  quelli 
raccolti  così  sapientemente  dal  Tigri.  Si  direbbe  che  nelle  vene 
di  questa  gente  scorra  il  sangue  di  quel  sangue  e  palpiti  lo  stesso 
cuore:  si  direbbe  che  un  pezzo  di  Toscana  si  sia  staccata  da  quella 
plaga  fortunata  per  rifugiarsi  qui  in  questo  contado  dell'  Alta 
Marca,  dove  anche  i  costumi  son  sì  miti  e  gentili  e  dove  l'inge- 
gno è  sì  sottile  e  versatile. 

E  davvero  è  singolare  di  sentire  un  contadinello  illetterato 
a  cantare  che  Komolo  fece  Eoma  ma  che  solo  Numa  la  fece  ro- 
Dtana:  nessuna  filosofia  della  storia  studiata  potrà  mai  esprimere 
con  maggiore  efficacia  l' incremento  che  ebbe  la  civiltà  romana, 
quando  le  leggi  di  Numa  vennero  in  aiuto  alla  forza  brutale  di 
quei  Eomani  che  rapivano  le  Sabine.  E  forse  un  recondito  legame 
c'è  tra  questa  canzone  e  la  cerimonia  nuziale  dei  montanini  mar- 
chigiani, a  cui  per  tradizioni  vennero  gli  usi  e  i  costumi  e  le 
prammatiche  degli  sponsali. 

Già^  un'  altra  volta  io  nel  pubblicare  i  canti  innamorati  del 
contado,  ebbi  occasione  di  notare  che  il  contadino  marchigiano 
sente  del  latino  nel  fare,  nel  pensare,  nell' oprare,  nel  favellare. 
Mentre  ha  dimenticato  perfettamente  l'età  di  mezzo,  quando  i 
contadini  eran  servi  e  gli  altri  eran  vassalli,  egli  è  rimasto  at- 
taccato con  una  specie  di  religione  agli  usi  pagani  dei  Romani 
antichi:  a  quando  a  quando  si  scorge  un  richiamo  della  sepolta 
religione  degli  Dei.  C'è  qualche  cosa  di  classico  che  appena  si 
sente,  ma  si  respira,  e  che  è  connaturato  col  suolo,  coli' alito 
delle  prime  ricordanze  e  delle  antiche  tradizioni.  Né  si  potrebbe 
dire  che  sia  come  una  striscia  di  reminiscenze  lasciate  dagli  Ar- 
cadi e  dai  secentisti,  in  quanto  noi  vediamo  che  la  Bibbia  ha  in 
queste  canzoni  una  parte  maggiore.  Ciò  proverebbe  che  l'indole 
artistica  e  portata  al  soprannaturale  di  questa  buona  gente  si  as- 
simila tutte  le  nozioni,  tutte  le  ricordanze,  tutte    le    impressioni 


710  NOZZE   NELL'APPENNINO  MAKCHIGIANO. 

da  cui  può  trar  giovamento,  e  li  riveste  di  forma  nuova  a  seconda 
dei  tempi  e  delle  circostanze. 

La  città  marchigiana  invece  generalmente  non  conserva  nulla 
di  antico:  la  lingua  è  meno  pura  e  più  convenzionale,  le 
immagini  sono  meno  vive  e  meno  artistiche,  la  semplicità  è 
scomparsa,  i  costumi,  le  cerimonie  sono  suppergiù  quelle  di 
tutte  le  altre  città  d'Italia,  dove  sono  uguali  gì'  interessi  e  le 
];>assioni.  Questo  prova  una  volta  di  più  che  l'arte  del  contado  è 
schietta  e  pura  e  spontanea,  e  che  tutte  le  sue  immagini  come 
tutte  le  cerimonie  gli  son  passate  lentamente  in  eredità  trasfor- 
mandosi bensì,  ma  conservando  intatto  e  scolpito  il  tipo  primi- 
tivo di  origine. 

Questa  breve  digressione  non  mi  allontana  punto  dalla  ce- 
rimonia nuziale  di  cui  fui  testimone.  La  quale  mantenne  sino  alla 
fine  il  carattere  antico  e  patriarcale.  Finiti  i  canti  e  levate  le  mense, 
si  apprestò  la  seconda  tavola  in  cui  dovevano  assidersi  le  fantelle 
di  casa,  una  sorella  della  sposa  e  suo  padre,  il  cuoco  della  gior- 
nata, i  garzoni,  infine  l'altra  classe  che  fino  allora  aveva  digiunato. 

Per  la  solita  legge  il  padre  non  può  né  deve  sedersi  in  quel 
giorno  a  mensa  colla  figlia:  e  questa  cerimonia  deve  rappresen- 
tare certamente  che  essendogli  essa  stata  rapita,  egli  va  a  cer- 
carla in  quella  casa  dove  suppone  sia,  e  la  nuova  famiglia  gliela 
nasconde.  Gli  etnografi  potranno  comparare  questi  usi  e  costumi 
con  quelli  dei  popoli  che  si  chiamano  primitivi  e  che  oggi  sono 
ancora  sul  primo  gradino  nella  scala  della  civiljià;  certo  è  che  a 
chi  studia  con  diligenza  queste  ingenue  costumanze  appare  chia- 
ramente che  esse  non  sono  il  frutto  del  solo  caso,  e  che  si  colle- 
gano a  culti  e  a  usi  sepolti  nei  secoli  che  hanno  di  lungo  pre- 
ceduto il  nòstro. 

Il  padre  di  Anastasia,  benché  svegliato  assai,  e  in  continuo 
commercio  per  la  sua  qualità  di  fattore  con  ogni  classe  di  per- 
sone, restò  scrupolosamente  attaccato  al  cerimoniale:  egli  non 
volle  sciogliere  i  vincoli  di  quella  legge  sotto  di  cui  balbo  e 
mamma  si  erano  maritati  e  s'era  maritato  lui  pure, 

—  L'uomo,  disse  sentenziosamente  con  piglio  sicuro,  che  non 
ha  educazione  per  capire  quello  che  si  può  fare,  deve  avere  re- 
ligione, signora  mia.  Mi  farla  scrupolo  se   mancassi    alla   legge. 

E  mandato  ripetutamente  a  chiamare  dal    padrone   durant 
la  mensa  fece  rispondere  dall'ambasciatore  : 

—  Dite  al  sor  Antonio  che  appena  avrò  consolato  la  famiglia 
gli  farò  l'ubbidienza  come  gli  ho  sempre  fatto. 


NOZZE  NELL'APPENNINO  MARCHIGIANO.  711 

Ma  questa  resistenza  passiva  voleva  dire  di  guadagnar  tempo 
per  arrivare  dopo  die  la  prima  tavola  fosse  levata. 

Ci  raccogliemmo  poi  con  tutto  il  parentado  in  cucina  e  nel 
cortile,  e  si  finì  colle  donne  nella  camera  degli  sposi,  il  sancta 
sanctorum  dei  loro  ingenui  amori  ;  e  tutte  le  comari  racconta- 
rono il  loro  matrimonio  e  i  doni  e  le  feste  di  quei  giorni  della 
loro  età  più  bella,  e  la  sartrice,  che  era  venuta  insieme  agli  al- 
tri per  la  seconda  tavola,  parlò  di  mode  contadinesche  con  una 
superiorità  da  modista  convinta  e  sentenziosa.  Poi  tutto  il  paren- 
tado interprete  dei  voti  degli  sposi  mi  pregò  di  gradire  la  ciam- 
bella 0  roccia  della  Camera,  che  stava  appiccata  nel  luogo  dove 
si  era  pranzato  e  che  certamente  deve  significare  quella  specie 
di  rotella  che  le  contadino  si  fanno  sul  capo  con  un  pannolino 
per  portare  la  canestra  o  altro,  e  che  si  chiama  appunto  roccia^ 
forse  per  indicare  che  la  donna  è  robusta  e  sa  lavorare  e  por- 
tare il  carico.  E  alla  preghiera,  aggiunsero  la  scusa: 

—  Aggerete  pazienza;  semo  villanacci  e  non  sapemo  fare 
meglio. 

E  avendola  io  accettata,  la  staccarono  con  una  gran  solen- 
nità ;  il  fratello  cugino  dello  sposo,  che  come  abbiam  detto  ne 
era  il  legittimo  possessore,  levò  il  mussolo  e  i  nastri  e  me  la 
presentò  in  un  largo  piatto  fiorato. 

Intanto  s'era  fatto  tardi,  già  il  bel  sole  della  Candelora  si 
era  nascosto  dietro  al  monte,  e  il  primo  crepuscolo  velato  del- 
l'inverno fuggitivo  scendeva  nella  vallata.  Lo  sposo  mi  s'accostò, 
tra  riderello,  come  dicono  qui,  e  pensoso,  e  mi  disse  piano  e  con 
una  malizia  bonaria  e  ingenua  come  il  suo  viso: 

■ —  Oh!  non  vi  parerla  ora,  signora  mia,  che  il  parentado  sene 
gisse  via?  Ce  n'è  di  questi  che  stan  tanto  lontano! 

Io  risi  a  mezza  bocca,  e  lui: 

' —  Oh  !  t'  ho  capito,  signora  mia,  ma  non  t' ho  voluto  fare  offesa. 
Tu  sei  sempre  la  padrona  di  restare,  e  guarda!  ti  cederla  perfino 
la  camera  !  ! 

Io  gli  battei  sulla  spalla  a  quel  buon  Giovannino  e  lo  com- 
piacqui. Riunii  il  parentado  e  fui  la  prima  a  congedarmi:  e  allora 
tutti  si  mossero  e  fecero  lunghi  e  interminabili  saluti  e  augurii 
A  tutti.  Anastasia  volle  mescere  del  vino  e  regalare  una  ciam- 
bella di  ova  e  zucchero,  scusandosi  perchè  se  le  aveva  figliate 
iì  forno.  ' 

'  Il  pane,  le  ciambelle  ecc.  pigliato  o  pigliate  dal  forno  vale  :  essere  un  tan- 
<ttBO  abbrucjaticcio  al  di  fuori. 


712  KOZZE   NELL'APPENNINO  MARCHIGLiNO. 

La  nebbiolina  fìtta  si  cominciava  a  mutare  in  sottilissima 
jnoggia  e  il  nonno  volle  darmi  il  suo  ombrello  di  tela  incerata 
verde  pisello,  che  non  io  daria  a  nessuno  per  tatto  Toro  del  mondo, 
lo  ripigliai  la  via  del  monte  a  braccio  del  padre  di  Anastasia 
che  andava  sospirando. 

Era  finita  pei  due  sposi  la  giornata  più  bella  e  più  faticosa^ 
della  vita. 

JDa  Camerino,  Febbraio  1879. 

Caterina  Pigorini  Beri 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  ' 


lY. 

Esaminato  succintamente  lo  stato  e  lo  sviluppo  delle  Unioni 
di  credito  tedesche,  non  possiamo  passare  all'  esame  degli  altri 
rami  della  cooperazione  senza  fermarci  nello  studio  di  una  delle 
più  difficili  ed  importanti  funzioni  della  medesima,  intendiamo 
dire  le  operazioni  di  credito  agrario,  il  che  serva  a  dare  al  cre- 
dito popolare  quel  significato  che  il  titolo  esprime. 

Infatti  potevamo  noi  dimenticare  i  coltivatori  della  terra  ? 
Attorno  alle  grandi  industrie,  soccorse  liberalmente  dal  credito, 
fiorenti  per  grandi  capitali,  si  agitano,  per  le  classi  operaie,  dei 
problemi  astrusi  e  spesso  controversi  tanto  nell'ordine  economico 
che  nell'ordine  sociale.  Se  non  che  la  violenza  stessa  e  la  rapi- 
dità della  grande  evoluzione  industriale  valsero  a  produrre  uni- 
versalmente, 0  quasi,  una  salutare  reazione  mediante  la  poli- 
tica internazionale  degli  scambi  onde  non  trascendere  negli  eccessi 
e  potere  più  tranquillamente  indagare  come  il  capitale  e  il  la- 
voro possano  vivere  insieme,  come  dal  male  stesso  possa  germo- 
gliare il  bene  senza  far  retrocedere  il  progresso  umano,  ma  anzi 
spanderlo  e  distribuirlo  sovra  un  maggior  numero  d'individui. 

E  abbiamo  visto  qual  molla  potente  nel  nuovo  ordine  di  cose 
sarà  per  riuscire  il  credito  popolare,  onde  impedire  e  correggere 
gli  accentramenti  del  capitale  e  farlo  scorrere  come  una  benefica 
irrigazione  pei  fondi  popolari  che,  privati  delle  antiche  sorgenti, 
andrebbero  altrimenti  a  disseccarsi. 

'  Vedi  fascicolo  del  1  aprile  1879. 


714  DEL   CEEDITO   POPOLAKE. 

Più  calma,  più  pura  è  l'aria  dei  campi,  ma  la  questione  so- 
■ciale  per  esservi  meno  latente  non  è  che  più  profonda.  Ivi  pure 
il  capitale  è  il  grande  fattore,  dove  risiede  e  impera,  e  sotto  pena 
di  rimanerne  distrutto,  al  capitale  agricolo  è  necessario  oggi  l'ac- 
coppiamento della  scienza.  La  ingegneria,  la  meccanica,  la  chi- 
mica servono  il  grande  proprietario,  né  all'  uopo  gli  manca  il 
soccorso  del  credito  onde  possa  la  sua  terra  arricchirsi  dei  nuovi 
trovati  a  decuplicare  la  produzione  e  a  sostenere  la  concorrenza 
delle  terre  privilegiate  più  o  meno  lontane  del  nuovo  e  del  vec- 
chio mondo.  Ecco  quanto  esige  ed  affretta  la  crisi  anche  negli 
interessi  agricoli  sì  tardi  a  muoversi,  a  scomporsi;  quegl'interessi 
«he  secondo  le  promesse  dei  dottrinari  dovevano  trovare  in  una 
libertà  sconfinata  il  buon  regno  di  Saturno. 

0  dovrà  il  piccolo  proprietario,  il  piccolo  colono  veder  lan- 
guire la  sua  coltura  come  l'artigiano  dovette  chiudere  la  sua  of- 
ficina ?  Come  gli  è  possibile  concorrere  nei  prodotti  col  suo  ricco 
vicino,  mentre  questi  deve  già  misurarsi  coi  prodotti  della  Kussia 
e  degli  Stati  Uniti  ? 

Così  anche  per  gì'  interessi  agricoli  si  maturano  i  tempi. 
Bismarck,  che  ha  intuizioni  profonde,  non  sa  né  può  scindere  dalle 
economiche  le  questioni  politico-sociali;  e  mentre  i  suoi  avversari 
disputano  sui  centesimi  di  rincaro  che  i  nuovi  dazi  agricoli  porte- 
ranno sul  pane,  sul  formaggio  e  sulla  lattuga,  egli  guarda  l'agi- 
tazione crescente  delle  provincie  agrarie,  riceve  le  petizioni  che 
gli  si  fanno  dalle  numerose  Unioni  agricole  dell'  impero  ^  per  la 
nuova  riforma  doganale  e  i  giornali  ne  riproducono  le  lunghe 
risposte  che  oggi  si  tratterebbe  di  raccogliere  sotto  il  titolo  di 
«  Die  Bauerne  Brlefe  des  ReicJis'kanzìers  »  (Le  lettere  del  Cancel- 
liere del  Eegno  ai  contadini  tedeschi). 

Se  restano  meno  vulnerati  i  grandi  proprietari,  {grossgrnnd- 
hesitser)  si  tratta  del  minacciante  fallimento  dei  piccoli  (Jclei)i- 
grundhesitzer). 

Ma  se  la  riforma  doganale  proposta  da  Bisraarck  può  in  qual- 
che modo  migliorare  il  mercato  interno  per  le  produzioni  agricole, 
ben  più  necessario  si  rende  il  preparare  e  svolgere  dei  mezzi  ef- 
ficaci per  migliorare  le  condizioni  dei  produttori  medesimi,  dei 
piccoli  e  più  numerosi  in  ispecie. 


'  Nella  sola  Baviera  fecero  istanza  6T  Unioni  agricole  [Landwirthschaftliche 
Vereine)  rappresentanti  1,400,000  anime,  senza  parlare  della  Sassonia,  della  Prus- 
sia e  specialmente  delle  provinole  Renane, 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  715 

Laonde  date  le  mosse    dal    gran   Cancelliere,    venne  a  galla 
quanto  in  proposito  era  già  allo  studio,  ed  anche  in  esperimento, 
e  a  poco  a  poco  in  tutte  le  regioni  agricole  dell'impero  si  vennero 
costituendo  dei  comitati  collo  speciale  incarico  di  studiare  i  modi 
di  porre  i  piccoli  possessori,  contadini  e   fittaiuoli    indipendenti, 
in  grado  di  lottare  non  solo  colla  concorrenza  dei    grandi   agri- 
coltori interni,  ma  anche  coi  possessori  dei  lati-fondi  nelle  scon- 
finate terre  della  Russia  e  dell'  America  che  mina  celano,  come  si 
è  già  detto,  la  proprietà  dell'  agricoltura   europea.    Influito  è  il 
numero  degli  scritti,  libri,  opuscoli  ed  opere  voluminose  che  vi- 
dero la  luce  per  cura  ed  a  spese  di  que'comitati,  che  non  a  torto 
si  preoccupPvUO  della  soluzione  della  questione  agraria,  in    egual 
modo  che  la  borghesia  delle  grandi  città  si  preoccupa  oggi   del 
modus  vivendi  tra  la  piccola  e  la  grande  industria.  Desiderio  ci 
incolse  di  leggerne  parecchi,  ^  e  d'informarci  dei  fatti  e  consultare 
fin  anco  taluni  di  quei  benemeriti  comitati.  Occorre  dire  che  da 
ogni  lato  ci  si  presenta,  ritorna  in  campo  la  cooperazione.    Essa 
forma  la  base    fondamentale    degli    studi    dei    comitati  agricoli. 
Come  può  andarvi  incontro  il  credito  popolare,  come  possono  ac- 
cordarsi fra  di  loro  i  depositi  a  corso  indeterminato,  variabile  ed 
i  prestiti  a  lungo  corso?  Gli  è  questo    il   problema    che  non    fu 
dato  ancora  di  sciogliere  all'  illustre    fondatore    delle  Unioni   di 
credito  tedesche.    Schulze    Delitzsch    avea  adottato    la    seguente 
massima  :  «  Brevi  credenze  e  buona  garanzia  pel  credito     accor- 
dato alle  persone  »  che  in  tedesco  suona  come  aforisma  nel  «  Kurze 
Creditfristen,  gate  Burgschaft  far  den  gewdhrten  persunìichen 
Credit.  »  Laonde  non  è  a   meravigliare    se    una   delle    difficoltà, 
contro  cui  lottano  anche  queste  Unioni,  è  la  costituzione  di  una 
buona  e  solida  fonte  di  credito  agrario.  Le  più  tra  esse  non    ne 
fanno  un  ramo  speciale,  ma  ammettono  le  operazioni  di  esso  sullo 
stesso  piede,  fatte  poche  eccezioni,  delle  altre  operazioni  commer- 
ciali. Laonde  avviene  che  il   rimborso   dei   capitali   prestati   per 
usi  agricoli,  si  faccia  in  più  dei  casi  assai  prima    del    tempo  in 
cui  il  colono,  il  fittaiuolo  o  piccolo  proprietario  suole  raccogliere 
i  frutti  del  suo  lavoro,  o  del  capitale  immobilizzato  nelle  rispet- 
tive terre.  In  via  ordinaria  le  Unioni  di  credito  accordano    pre- 

1  Notevoli  ci  parvero  fra  questi  per  praticabilità  di  concetti  e  di  iJee  i  se- 
guenti : 

«  Die  Landwirthschaft  der  Gegemvart  und  das  Genossenschafts  princip  »  del 
dott.  "W.  ScHVENBERG.  Berlino. 

«  K.  voN  Langsdorff,  Lcindliche  Credit  und  Consumvereine.  »  Seconda  edi- 
zione, Neuvied. 


716  DEL  CREDITO   POPOLARE. 

siiti  a  scadenza  fissa,  e  a  un  lasso  di  tempo  non  maggiore  di  tre 
mesi.  '  È  vero  che  si  concedono  proroghe  fino  alla  rinnovazione 
di  altri  tre  mesi  e  in  qualche  caso  si  arriva  fino  a  9  e  12  mesi 

'  Tre  sono  i  principali  Statuti,  a  cui  dobbiamo  ricorrere  per  conoscerne  la 
vera  natura: 

1.  Lo  Statuto  normale  dell'Unione  di  prestito  di  Berlino  compiuto  colia  coope- 
razione della  direzione  dell'Associazione  generale,  introdottivi  alcuni  pochi  muta- 
menti adatti  all'ordine  delle  cose. 

2.  Lo  Statuto  e  l'ordinamento  di  affari  dell'Unione  di  Credito  di  Meissen. 

3.  Lo  Statuto  modello  compilato  dallo  stesso  Schuize  nella  sua  qualità  di 
direttore  dell'associazione  generale  per  quelle  Unioni  che  vogliono  adottare  le  nor- 
me della  legge  prussiana  sulle  associazioni. 

Il  primo  di  questi  statuti  è  adattato  in  particolar  modo  pelle  piccole  Unioni,^ 
o  che  sono  allo  Stato  d'incipienza,  e  non  tiene  conto  delle  norme  prescritte  dalla 
nuova  legge  prussiana. 

11  secondo  corrisponde  a  quelle  Unioni  che  vogliono  ottenere  i  diritti  di  cor- 
porazione, e  vige  in  special  modo  tra  le  Unioni  di  Sassonia  a  cagione  delle  con- 
cessioni accordate  loro  da  quel  governo. 

Il  terzo  serve  di  modello  per  tutte  le  Unioni  (e  che  oggi  formano  un  cospicuo 
numero  come  si  è  visto)  sottomesse  alle  norme  della  legge  prussiana  sulle  asso- 
ciazioni. Oltreacciò  si  acconcia  alle  condizioni  delle  Unioni  che  giunsero  a  mag- 
giore svolgimento  e  si  estesero  a  grande  traffico  bancario;  laonde  in  esso  si  è  an- 
che avuto  riguardo  ai  principii  del  codice  generale  di  commercio  germanico,  sui 
quali  appunto  si  fonda  quella  legge. 

Premessi  questi  cenni  a  semplice  schiarimento  diamo  qui  le  disposizioni  del 
primo  statuto. 

§  11.  —  DeW importo  dei  prestiti  e  dei  termini  delia  restituzione. 

L'importo  dell'imprestiti  che  si  concedono  ai  soci  dipende  dal  rapporto 
che  passa  fra  lo  stato  di  cassa  e  i  bisogni  dell'  Unione  e  la  determinazione  re- 
lativa è  lasciata  al  coscienzioso  giudizio  del  Comitato.  Se  il  fondo  di  cassa 
noa  basta  a  soddisfare  a  tutti  i  bisog'ni  le  domande  anteriori  hanno  la  prefe- 
renza sulle  più  recenti,  quelle  dì  j)restiti  minori  sopra  quelle  di  prestiti  maggiori. 

Né  si  concedono  prestiti  a  termine  più  lungo  di  tre  mesi  ;  però  il  Comitato 
ha  facoltà  di  prolungare  questo  termine  ad  altri  mesi. 

§  12.  —  Delle  condizioni  che  devono  soddisfarsi  da  chi  domanda  iìniirestiti. 

Perchè  una  persona  abbia  diritto  ad  un  imprestito  dalla  Cassa  dell'Unione 
è  necessario  : 

a)  Che  non  sia  rimasto  in  arretrato  verso  la  cassa  per  mancata  resti- 
tuzione di  prestiti  anteriori,  e  che  non  abbia  in  precedenza  recato  danni  ad  un 
fideiussore  senza  risarcirlo  ; 

Ìj)  Che  le  sue  condizioni  economiche  offrano  l'assicurazione  necessaria 
pella  restituzione  dell'imprestito. 

L'imprestito  si  concede  soltanto  verso  obbligazione  cambiaria  del  socio. 
Pella  concessione  di  un  prestito  è  necessaria  una  deliberazione  del  Comitato, 
sopra  la  cui  domanda  deve  essere  dal  socio  costituita  una  sicurtà  per  mezzo 
di  fideiussore  oppure  di  pegno.  Dell'accettabilità  della  fideiussione  (malleve- 
ria) o  del  pegno  giudica  il  Comitato. 

Il  fideiussore  risponde  qual  debitore  secondo  le  norme  della  legge  cam- 
biaria germanica:  ed  egli  e  il  socio  che  ricevono  prestiti  dall'Unione  dovranno 
pagare  alla  Cassa  dell'Unione  im  interesse  da  determinarsi  con  particolari  pre- 


PEL      CREDITO   POPOLARE.  717 

di  prolungazione.  Ma  allora  si  esigono  da  chi  fa  tali  concessioni 
maggiori  garanzie  e  maggiori  guadagni,  il  che  non  è  spesso  nel- 
l'interesse del  colono. 


scrizioni  deiradiiiianza  generale,  il  cui  importo  sarà  trattenuto   dal  cassiere   al 
momento  di  consegnare  le  somme  degl'imprestiti. 

II.  —  Statuto  di  Meisse:^. 

§  9. —  Dei  jìrestiti. 

\j&  proporzione  esistente  tra  le  condizioni  della  cassa  della  Società  e  le 
istanze  per  prestiti  determina  fino  a  qual  importo  possono  questi  concedersi. 
Il  giudizio  si  abbandona  allo  scrupoloso  esame  del  direttore.  Devono  però  os- 
servarsi le  nonne  seguenti: 

1"  Se  il  denaro  esistente  nella  cassa  non  basta  a  soddisfare  tutte  le  do- 
mande, le  istanze  anteriori  hanno  la  preferenza  sulle  posteriori,  e  quelle  che 
chiedono  somme  minori  in  confronto  di  quelle  per  somme  maggiori. 

2'  Un  prestito  che  non  superi  l'iuiporto  del  credito  determinato  per 
il  socio  che  lo  chiede,  può  esser  dato  verso  semplice  sottoscrizione  di  una  quie- 
tanza o  cambiale. 

3"  Per  imprestiti  maggiori  il  debitore  deve  offrire  assicurazione  per  mezzo 
<li  fideiussione  o  pegno. 

4'  Se  la  solvenza  di  chi  chiede  l'imprestito  sia  superiore  ad  ogni  ecce- 
zione il  direttore  può  anche  nei  prestiti  maggiori  omettere  di  chiedere  assi- 
curazioni mediante  pegno  o  fideiussione  e  può  concederli  sopra  semplice  cam- 
biale o  quietanza,  sempre  che  però  osservi  le  norme  del  regolamento  dell'a- 
zienda per  tali  casi. 

5''  Il  direttore,  in  concorso  del  cassiere,  deve  esaminare  il  pegno  o  la 
malleveria  offerta,  e  deve  nella  deliberazione  osservare  le  norme  date  in  argo- 
mento dal  Regolamento  dell'  azienda. 

6'  Chi  riceve  un  prestito  deve  pagarne  il  relativo  interesse  nella  ra- 
gione annua  determinata  dalla  presidenza  ed  inoltre  al  momento  del  ricevi- 
mento del  prestito  medesimo  deve  pagare  alla  cassa  quale  provvigione  una 
somma  proporzionata  all'importo  e  al  tempo  del  prestito  ricevuto. 

'7"  I  prestiti  non  saranno  mai  concessi  a  termine  piiì  lungo  di  3  mesi 
d'accordo  con  chi    riceve  il  prestito,  il  termine  sarà  espresso  nella    quietanza. 

8"  Non  si  diranno  le  ragioni  per  le  quali  sono  respinte  le  istanze  dei  pre- 
stiti ;  tuttavia  i  richiedenti  hanno  diritto  di  presentarne  rimostranza  alla  pros- 
sima adunanza  generale. 

III.  —  Statuto  in  analogia  alle  disposizioni  della  legge  pkussiana 

SULLE   associazioni   COOPERATIVE. 

§  64.  —  Imprestiti. 

I  prestiti  si  concedono  di  regola  sopra  cambiale  propria  o  tratta  e  sol- 
tanto in  via  di  eccezione  per  piccole  partite  sopra  quietanza  ordinaria. 

Perchè  sia  aperto  il  credito  a  conto  corrente  è  necessaria  l' adesione 
dell'adunanza  generale.  Un  tal  credito  non  può  concedersi  senza  conveniente 
assicurazione. 

L'importo,  fino  al  quale  l'Unione  può  concedere  crediti  nei  singoli  casi, 
dipende  in  generale  dal  rapporto  che  passa  tra  la  potenza  della  cassa  ed  i  bi- 
sogni prevalenti  ed  è  rimesso  al  giudizio  coscienzioso  della  presidenza  e  del 
comitato.  Nella  fissazione  dei  termini  di  restituzione,  che  TUnione  può  accor- 
dare ai  suoi  debitori,  si  ha  riguardo  ai  termini,  dei  quali  gode  l'Unione  stessa 
per  la  restituzione  dei  denari,  ch'essa  stessa  toglie  a  prestito.  Di  regola  per- 
tanto non  si  apre  credito  al  di  là  di  3  mesi;  tuttavia  trascorso  tal  termine, 
il  credito  può  coll'adesione  del  mallevadore,  prolungarsi  per   un  altro  periodo 


718  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

Il  più  beiresempio  di  quanto  si  fece  in  Germania  per  aiutare 
efficacemente  gl'interessi  compromessi  dei  piccoli  coloni  lo  abbiamo 
nelle  Unioni  agricole  della  Slesia,  e  nelle  Banche,  ancora  più  fa- 
mose di  queste,  di  RaifFeisen  nei  paesi  Renani,  che  attirarono  sovfa 
di  sé  Tattenzione  di  tutti  gli  economisti  della  Germania,  e  del 
Governo  medesimo. 

Ad  Oppeln  nella  Slesia  fin  dal  1868  venne  formata  dall'  As- 
sociazione cooperativa  ivi  residente,  una  commissione  e  le  venne 
affidato  il  seguente  compito  : 

«  Di  sottoporre  ad  un  profondo  studio  la  questione  della  Coo- 
perazione, l'applicazione  ed  importanza  di  essa  pell'agricoltura  e 
particolarmente  per  i  piccoli  possessi:  —  Die  Genossenschafts-fra- 
ge,  ihre  Anwendbar/ce/t  und  Bedeatiing  far  die  Landivirscìiaft  in- 
shesondere  filr  den  landìichen  Kìeigrimd  hesitz,  einem  eingeJiendeti 
Stiidium  zu  imterziehcn.  »  La  commissione  composta  di  ragguar- 
devoli personaggi  siedette  parecchi  mesi.  Fra  i  membri  ci  piace 
citare  anche  a  titolo  di  riconoscenza  il  chiarissimo  dott.  Rodolfo 
Jannasch,  nostro  amico  personale,  che  ci  forni  ampie  informa- 
zioni sulle  Unioni  agricole  della  Germania,  e  di  cui  si  hanno  im- 
portanti lavori  a  stampa  sulla  questione  agraria;  il  dott.  von  Scheel 
di  Proskau,  il  Barone  Von  Richhofen  di  Brechelsdorf,  il  segretaria 

tutt'al  più  eguale  al  primo,  ma  solo  colla  premessa  che  ciò  non  serva  mai   a 
nascondere  un  impiego  permanente  del  capitale. 

Condizioni. 

Si  concede  credito  soltanto  ai  soci  dell'Unione  e  solo  in  quanto  la  loro 
persona  e  i  loro  rapporti  economici  offrono  la  necessaria  sicurtà.  I  membri 
della  presidenza  finché  durano  nel  loro  ufficio  sono  esclusi  affatto  dal  credito. 

Per  tenui  importi,  che  si  restringono  alla  metà  dell'azione  dei  singoli  soci 
chiedenti  prestiti,  si  può  prescindere  da  ulteriore  assicurazione  in  quanto  non 
vi  si  oppongano  circostanze  particolari.  Per  prestiti  di  magginre  entità  deve  ot- 
tenersi assicurazione  per  mezzo  di  fideiussione  o  di  pegno,  sulla  cui  accettabi- 
lità si  darà  in  ogni  caso  il  giudizio  più  coscienzioso.  Si  sconteranno  cambiali 
Solo  quando  sieno  munite  di  due  firme  senza  eccezione. 

Per  credito  continuato  si  può  in  certe  circostanze  sostituire  una  cauzione 
ipotecaria  sopra  proprietà  fondiaria  del  debitore,  ma  in  tal  caso  occorre  sem- 
pre una  deliberazione  concorde  della  presidenza  e  del  Comitato. 

Sopra  ipoteca  speciale  invece  non  saranno  mai  prestati  denari,  ma  piutto- 
sto a  tale  genere  di  cauzione  si  ricorrerà  soltanto  in  via  di  eccezione  per  cre- 
diti periclitanti  verso  i  debitori  ed  i  garanti  in  mancanza  di  altro  modo  di  as- 
sicurazione. Del  resto  ad  uno  stesso  debitore  si  possono  contemporaneamente 
concedere  parecchi  prestiti,  ma  sempre  entro  la  cerchia  della  sua  capacità  di 
credito  e  verso  proporzionata  assicurazione.  In  quanto  però  sieno  interessati 
fideiussori  nei  prestiti  anteriormente  conceduti,  sarà  necessario  dare  loro  avviso 
del  nuovo  credito  accordato  prima  dell'effettivo  pagamento. 

I  gravami  sul  licenziamento  d'istanze  per  sovvenzioni  si  presentano  innanzi 
alla  prossima  adunanza  generale. 

(V.  Statuti,  Vnioni  di  Credito,  pag.  363  e  seg.) 


DEL  CREDITO  POrOLARE.  719 

Generale  ^  Korn  di  Breslavia  ed  altri.  Nell'aprile  del  1874  la  Com- 
missione comunicò  in  cinque  distinti  lavori  ^  i  risultati  delle  sue 
ricerche,  e  le  proposte  relative  alla  presidenza  dell'Unione  Coope- 
rativa centrale  della  Slesia.  —  Nel  1"  si  tratta  del  modo  di  eri- 
gere delle  casse  di  risparmio  a  vantaggio  della  piccola  agricol- 
tura; nel  2°  si  fanno  proposte  pell'introduzione  tra  i  contadini  delle 
istituzioni  di  mutuo  soccorso  in  caso  di  malattia;  nel  3°  si  get- 
tano le  fondamenta  ad  uno  statuto  per  la  formazione  di  un'  as- 
sociazione contro  l'epizoozia;  nel  4°  si  fa  la  statistica  della  coopc- 
razione agricola  nella  Slesia;  e  nel  5"  si  formula  uno  statuto- 
per  una  Unione  di  consumo  tra  i  contadini.  Mediante  questi  ed 
altri  lavori  riuscì  al  Comitato  Slesiano  di  eccitare  al  sommo  grado 
l'attenzione  ed  interesse  delle  classi  agricole  della  Slesia;  si  ten- 
nero ripetute  conferenze  ai  contadini  dei  vari  distretti  da  emi- 
nenti personaggi,  onde  propagare  gli  ammaestramenti  intorno  alla 
necessità  della  cooperazione  come  rimedio  alla  concorrenza  dei 
grandi  capitali  nella  coltura  dei  piccoli  possessi.  Si  stamparono 
questi  discorsi  e  se  ne  diffuse  lo  spaccio  gratuitamente  nel  con- 
tado a  spese  del  Comitato,  e  degli  stessi  autori  dott.  Friedentbal, 
prof.  Blomeyer,  dott.  Schoenberg  ed  altri  benemeriti. 

Ma  se  nessuno  più  dubitava  dei  vantaggi  della  cooperazione 
applicata  agl'interessi  dell'agricoltura,  restava  a  dimostrarsi  come 
fosse  possibile  conciliare  le  esigenze  di  quest'ultima  che  abbiso- 
gna di  capitali  a  lungo  corso,  colle  prescrizioni  e  consuetudini 
delle  Unioni  di  Schulze,  che,  come  abbiamo  visto,  esigono  il  rim- 
borso dei  capitali  imprestati  dopo  la  decorrenza  di  un  tempo  re- 
lativamente breve.  —  Il  credito  a  3  e  6  mesi  può  essere  efficace  al 
piccolo  industriale  e  commerciante  della  città,  i  quali  pel  rapido 
movimento  degli  affari,  pel  continuo  cambiamento  delle  loro  ope- 
razioni traggono  presto  il  dovuto  frutto  dalle  ricevuto  antici- 
pazioni, e  al  tempo  della  scadenza  del  debito  possono  benissimo 
soddisfare  ai  loro  obblighi  verso  la  Banca.    Ma  peli'  agricoltore 

'  Direttore  della  benemerita  Rivista  Agricola  «  Der  Landwirth  >  che  vede  la 
luce  due  volte  per  settimana,  il  venerdì  e  martedì  a  Breslavia. 
2  Nel  testo  portano  i  seguenti  titoli  : 

1°  «  Die  Kreissparkassen  und  das  landwirthschaftliche  Genossenschaftswe.'en,. 
nebst  einem  Statut  filr  diezu  begrilndenden  Sparvereine,  » 

2°  <  Vorschlàge  l'ilr  Einfilhrung  der  Kranken-Vèrsicherung  un  ter  dem  làndli- 
chen  Arbiter.  » 

30  «  Grundlagen  zu  einem  Statut  der  Schlesischen  Provinzial  Viehversiche- 
rungs  Gesellschaft  gegen  Langensenche.  » 

4°  «  Statistik  des  landwirthschaftlichen  Genossenchaftswesen  in  Schlesien.  » 

5°  «  Statut  filr  Kohlenconsumverein.  » 


720  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

la  cosa  è  ben  differente:  il  capitale  imprestatogli  s'immedesima 
e  fonde  colla  terra;  si  converte  spesso  in  alberi,  piante,  vigneti 
ed  altri  immobili  aderenti  al  terreno,  di  cui  è  possessore.  Prima 
che  il  processo  della  transustanziazione,  per  così  dire,  del  capitale 
sia  terminato,  e  ritorni  in  forma  di  rendita  coi  relativi  interessi 
nelle  mani  del  coltivatore,  passano  spesso  degli  anni,  delle  die- 
cine  di  anni;  e  quindi  la  necessità  da  parte  del  colono  di  resti- 
tuirlo al  creditore  dopo  un  più  lungo  periodo  ed  a  rate  annuali; 
ciò  che  non  permettono  i  Kiirzecreditfristcìi  degli  statuti  delle 
banche  popolari  tedesche.  Si  trattò  dunque  di  modificare  alquanto 
l'organismo  di  quest'ultime  nel  seguente  modo: 

Si  organizzarono  nuove  Siiarlcassevereine  ^  (Casse  di  risparmio) 
tra  i  contadini  della  Slesia  a  brevissima  distanza  le  une  dalle  altre 
onde  facilitare  anche  ai  paesani  distanti  dai  centri  popolati  il 
deposito  dei  propri  risparmi  ;  e  nelle  varie  Unioni  cooperative  di 
credito  già  esistenti  ^'introdusse  una  divisione  {AhthcilitìKj)  tra  i 


^  Non  è  a  dire  come  i  depositi  delle  casse  di  risparmio  possano  somministrare 
1  capitali  più  adatti  ad  un  tale  impiego.  Dalla  qui  annessa  Tabella  apparisce  come 
il  capitale  di  dette  casse  a  lungo  deposito  vada  sempre  aumentando. 

CASSE    DI    RISPARMIO    DELLA   PRUSSIA 


o 
z 
z 

< 

Depositi 

Vehsamenti 

iNTh  RESSI 

non  riscossi 

Rimborsi 

1863 
1872 
1813 
1814 
1815 
1816 

Media  per  Anno 

451,140,343 
633,889,618 

162,809,661 

911.932.234 

1,049  961,010 

1,110,881,815 

160,110,498 
26>*,311,594 
324,119,881 
3.59.619.333 
359,833,439 
361,835,316 

11,501,742 
1 6,612,245 
20,.Ò00,431 
24,152,661 
28,814,944 
32,20.5,154 

1 30,168,143 
114810,204 
191,991,231 
233,162,103 
264,421,588 
293,165,984 

PROPORZIONE  PERCENTUALE  DELLE  TRE  SEGUENTI  OPERAZIONI 
COL    CAPITALE    TOTALE    DELLE    CASSE    DURANTE     GLI    STESSI    ANNI. 


Anno 

Versamenti 

Interessi 

R.1MB0RSI 

1869 

35.3 

25 

29.0 

1812 

42.3 

2.6 

21.6 

1813 

42.5 

2.1 

.    26.0 

1814 

39.4 

2.1 

25,6 

1815 

34.3 

2.1 

25.2 

1816 

30.4 

2.8 

25,0 

V.  Zùr    Geschichte   und   Statistik    der   offentUchen    Sparcassen    im  preus- 
•sischen  Staatte  von  Dr  Engel  und  Hedelmann:  Berlin  1818. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  721 

depositi  destinati  ad  operazioni  civili  e  commerciali  e  quelli  ri- 
serbati in  modo  speciale  ad  usi  e  scopi  agrari.  Per  ottenere  que- 
sto ultimo  fondo  si  accordò  un  maggiore  interesse  ai  depositi 
rimborsabili  dopo  un  tempo  maggiore  del  consueto,  e  si  pervenne 
così  tanto  nelle  Casse  di  risparmio  come  nelle  Unioni  ad  accumu- 
lare forti  capitali,  il  cui  prolungato  rimborso  permise  d'impiegarli 
ad  esclusivo  vantaggio  dei  piccoli  agricoltori. 

Fino  a  tutto  il  1877  le  Unioni  di  credito  slesiane,  che  pochi 
anni  prima  erano  pochissime,  salirono  a  92  con  una  partecipazione 
di  soci  ammontanti  a  57,004.  I  crediti  accordati  durante  quell'anno 
ai  soci  raggiunsero  la  cifra  di  135,857,648  marchi. 

Ma  non  basta,  abbiamo  sempre  detto,  aprire  le  sorgenti  del 
credito,  bisogna  anche  suggerire  al  popolo  i  modi  onde  meglio 
sfruttarlo.  Ed  il  Comitato  slesiano  si  dette  pena  di  diffondere  tra 
le  popolazioni  rurali  i  precetti  di  una  buona  economia  di  esso 
mediante  la  cooperazione  nell'uso  dei  piccoli  capitali  presi  ad 
imprestito.  '  In  poco  tempo  i  depositi  a  lungo  corso,  grazie  all'esca 
del  maggior  interesse  e  sopratutto  delle  raccomandazioni  ed  istanze 
da  parte  dei  promotori  del  credito  agrario,  presero  il  disopra  sugli 
altri  depositi,  e  si  costituì  in  tal  modo  una  solida  sorgente  di  esso 
tra  gli  agricoltori,  che  permise  loro  di  organizzare  anche  i  canali 
e  le  arterie  per  cui  meglio  servirsene. 

Si  sono  costituite  tra  i  contadini  accreditati  alle  Unioni  o  alle 
Casse  di  risparmio  associazioni  cooperative  pel  conseguimento  di 
uno  scopo  comune,  quale  sarebbe  l'irrigazione,  il  prosciugamento 
{Entwdsseri(ng)  dei  terreni  di  propria  pertinenza  dei  soci  ;  l'uso 
degli  strumenti  agricoli  in  comune;  l'assicurazione  mutua  dai  danni 
degl'incendi,  dei  temporali,  della  epizoozia  e  via  dicendo.  Così  si 
ebbero  piccole  associazioni  di  tal  natura.  (V,  pag.  seg.). 

Nel  1870  di  queste  associazioni  non  se  ne  contava  che  una  a 
Weigelsdorf.  Oggi  esiste  quasi  una  mania  per  la  bonificazione  dei 
terreni,  e  sopratutto  pella  coltura  dei  prati  (  WieìisecuUare.)  A  tal 
uopo  si  fecero  venire  dalla  Westfalia  degli  espertissimi  ingegneri 
agronomi  (  WiesenhautecJiniJcer)  e  si  affidò  loro  nell'interesse  co- 
mune dei  soci  la  sorveglianza  e  direzione  dei  lavori  di  bonifica- 
mento. Occorrevano  però  buoni  strumenti  e  macchine  per  otte- 
nere gli  stessi  intenti  dei  grandi  agricoltori.  La  Commissione 
surricordata  studiò  anche  questo  bisogno,   e  si  accinse  a   suddi- 

1  Vedi  il  libro  della  Commissione:  Anleitung  zur  Grilndung  von  Làndicirt- 
schàftlichen  Credit:  und  Sparvereinen. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  aprile  1819.  45 


722  DEL  CREDITO   POPOLARE. 

sfarlo  mettendosi  in  diretta  relazione  coi  rappresentanti  delle 
fabbriche  di  macchine  e  strumenti  pell'agricoltura  in  Inghilterra, 
e  radunando  i  necessari  capitali  pell'acquisto  ed  uso  in  comune 
di  essi.  Si  fecero  venire  degli  aratri  a  vapore,  delle  mietitrici  nuovo 
modello,  delle  macchine  pelle  irrigazioni  e  prosciugamento,  e 
molti  altri  strumenti  di  siffatto  genere. 

Associazioni  pell' irrigazione  [Drainage  Genossenschaften). 

Anno  1877. 


NOME  DELLA  SOCIETÀ 

Numero 
dei 
Soci 

Superficie 
irrigata 

Capitale 

preso 
a  prestito 

1 
9, 

Cross  "W'eigelsdorf 

Cross  Peikerau 

5 

15 

5 

1 

5 

3 

5 

6 

15 

16 

19 

31 

Morgen 

268 

sn 

403 
364 
404 
3Ì2 
380 

1,062 
412 

1,500 
412 
840 

Marchi 

3,000 
8,400 
4,100 
3,800 
5,000 
5,269 
4,600 
12,163 

3 

4 
5 

6 

Klein  Peikerau  und  Radlowitz.  .   . 
Unkristen,  Sambowitz  ù  Sillraenau. 

Wilkowitz  ù  Sillmenau 

Sliauer  ù  Mandelbern 

7 

^Klnchwitz 

a 

Bischwitz  ù  Malfen 

q 

ScbSnau  .  • 

5,400 

20,590 

5,500 

8,400 

10 

11 

19, 

Soft  ù  Zarchargowitz 

Weigwitz 

Domsiau 

Totale.  .  .  . 

132 

1,294 

86,622 

Tutto  questo  venne  ottenuto  mediante  la  riunione  di  piccoli 
capitali  presi  a  prestito  dai  contadini,  che  si  costituirono  sotto  il 
nome  di  MascMnengenossenschaften  in  società  di  acquisto,  uso 
e  consumo  in  comune  degli  strumenti  di  lavoro.  Per  lo  più  sono 
di  8,  10  come  a  Liebau,  o  di  20  e  30  soci  al  massimo.  In  si- 
mile modo  si  sono  formate  le  ZucJitvich  Vcreinc  o  associazioni 
peli'  allevamento  in  comune  del  bestiame:  le  VersìcJierungsve- 
rcine  o  associazioni  di  mutuo  soccorso  contro  gli  incendi,  i  danni 
dell'atmosfera  e  la  peste  bovina,  e  finalmente  le  società  di  con- 
sumo Distribufion-Genossenschaften  per  l' approvvigionamento 
in  comune  delle  sementi,  dei  concimi  e  dei  foraggi.  Alcune  di 
esse  come  a  Thiemendorf,  Oppeln,  Grotthau,  Constadt,  non  cu- 
rano che  la  compra  degl'ingrassi  naturali  ed  artificiali.  Altre  poi 
estendono  gli  acquisti  a  tutto  ciò  che  è  materiale  di  prima  ne- 
cessità per  l'agricoltura;  tali  sono  quelle  di 

Anno  di  fondazione         Soci 
Brenndstadt  ....    1871  19 


Augsdorf 1869 


73 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  723 

Anno  di  fondazione  Soci 

Gorlitz 1870  84 

Rosenberg 1872  40 

Liebau 1870  56 

Ltiben 1871  18 

Leobschutz 1869  110 

Lossen 1870  158 

Proskau 1872  45 

Munita  di  tutti  questi  sostegni  l'agricoltura  della  provincia 
di  Slesia  non  potè  fare  a  meno  di  migliorare  le  sue  condizioni, 
e  di  assicurare  le  sorti  del  piccolo  proprietario  contro  la  concor- 
renza del  grande  agricoltore.  Questa  trasformazione  operata  in 
seno  alle  Unioni  Slesiane,  per  cui  si  ottennero  cosi  buoni  risul- 
tati pella  coltura  dei  terreni,  è  dovuta  principalmente  alle  cure 
del  dottor  Rodolfo  Jannasch,  che  la  difese  nelle  adunanze,  e  pro- 
pagò cogli  scritti.  '  Oggi  si  è  operata  anche  altrove;  ma  in  nes- 
sun luogo  raggiunse  uno  sviluppo  perfetto  come  nei  paesi  renani 
per  opera  dell'illustre  Raiffeisen,  che  delle  operazioni  di  credito 
agrario  volle  fare  il  solo  scopo  ed  ufficio  delle  sue  banche  di  pre- 
stiti Barlehnskassenvereine  che  da  due  o  tre  anni  danno  luogo 
ad  aspre  contese  tra  gli  avversari  e  i  fautori  di  esse.  I  primi, 
forti  dell'appoggio  di  Schulze-Delitzsch  ^  osteggiano  la  loro  dif- 
fusione come  dannosa  e  non  corrispondente  ai  principii  da  cui  è 
retto  il  commercio  bancario;  gli  altri,  e  non  sono  pochi,  visti  i 
risultati  fin  qui  abbastanza  buoni,  ed  appoggiati  anche  dalla  re- 
cente inchiesta  per  parte  del  Governo  ^  si  adoperano  a  tutta  possa 
per  propagarne  colla  parola  e  cogli  scritti  l'imitazione  anche  nelle 
altre  provinole  dell'Impero  tedesco,  ripromettendosene  i  più  splen- 
didi vantaggi  per  l'agricoltura  in  generale  e  pei  piccoli  proprie- 
tari in  particolarissimo  modo. 

F.  Guglielmo  Raiffeisen  è  oriundo  di  Heddesdorf  presso 
Coblenz  nella  Prussia  Renana,  di  cui  fu  per  lungo  tempo  Burg-' 
meister.  Pino  dalla  sua  giovinezza,  sull'esempio  di  Schulze,  si  dette 


'  Bericht  nber  die  Entwickelung  des  Landwirthschdftlicheìi  Genossen- 
schaftswesens  in  Schlesien.  Voa  Dott.  R    Jannasch,  Bresiau  l8^8. 

*  V.  Die  Raiffeisen' schen  Darlehencassen  in  der  Rheinprovinz  und  die 
Grund  creditfrage  fiir  den  landlichen  kleinbesit.  Von  Dott.  H.  Schulze-Delitzsch. 
Leipsig  1815. 

'  V.  Bericht  des  Enquéte  Commissioti  ilbet^  die  Rai ffeisen' schen  Barlehncas- 
sen.  Berlin  1815,  presso  Unger  in  4  volumi.  —  E  inoUre:  Die  landlichen  Darlehn- 
cassenverein  in  der  Rjieinprovinz  und  ihre  Beziehiing  zur  Arbeiterfrage  del 
Dott.  Ad.    Held  di  Bonn. 


724  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

a  propagare  tra  i  suoi  compaesani  lo  spirito  di  associazione,  e 
raccomandò  loro  in  special  modo  l'imitazione  delle  nascenti  isti- 
tuzioni cooperative.  Ma  le  condizioni  essenzialmente  agricole  dei 
paesi  che  erano  oggetto  della  sua  propaganda,  gli  fecero  presto 
sentire  la  necessità  di  venire  in  aiuto  mediante  il  credito  coope- 
rativo ai  bisogni  speciali  dell'agricoltura,  in  modo  più  diretto  ed 
efficace  che  non  facciano  le  Unioni  fedeli  ai  principii  rigorosi  degli 
statuti  di  Schulze. 

Pur  rimanendo  fedele  a  quest'ultimo  nel  principio  della  re- 
sponsabilità illimitata  {nnheschrdnJcte  Haft)  come  base  della  coo- 
perazione, egli  credette  di  doversi  allontanare  per  quanto  concerne 
il  modo  di  ripartire  il  credito  ai  soci  delle  sue  banche,  che  orga- 
nizzò in  modo  da  servire  quasi  esclusivamente  agli  interessi  dei 
Kleingrund  hesitser  '  o  piccoli  proprietari  di  terre,  di  cui  son 
fitti  i  paesi  lungo  la  riva  destra  del  Reno.  Kaiffeisen  conosceva 
la  misera  situazione  di  migliaia  di  essi  per  mancanza  di  capitali 
al  miglioramento  agricolo  dei  loro  fondi.  Vi  erano  numerosi  vil- 
laggi, in  cui  la  metà  della  popolazione  possidente  non  avea  neppure 
un  giumento  di  suo  proprio  ;  nel  Westerwald,  nell'Eifel,  in  Altwied, 
in  Feldkirchen  ed  altri  paesi  Renani  la  povertà  dei  contadini 
faceva  pietà.  Il  bisogno  di  credito  tutti  i  giorni  diveniva  più 
imperioso;  né  oramai  restava  che  l'usuraio  a  rovinare  e  dissan- 
guare del  tutto  famiglie  intere  di  contadini.  " 

Sorse  Raiffeisen  e  concepì  il  suo  tipo  di  Banca  di  prestiti, 
Darlelinshassen,  di  cui  ci  piace  trattenere  i  nostri  lettori,  perchè 
se  non  vuol  dirsi  perfetto,  ritrae  almeno  il  concetto  di  ciò  che 
dovrebbe  essere  un  siffatto  credito.  Poche  istituzioni  in  Germania 
ebbero  la  soddisfazione  di  suscitare  vive  polemiche  da  farne  una 
vera  letteratura,  come  le  Darlehnskasse  di  Raiffeisen.  E  dire  che 
da  noi  a  giudicare  dal  silenzio  che  se  n'è  fatto  fin  qui,  parreb- 
bero ignote,  quasiché  gl'interessi  agricoli  prevaler  possano  meno 
in  Italia  che  in  Germania. 

La  nota  caratteristica  e  fino  ad  un  certo  punto  contraddito- 
ria di  queste  banche  consiste  nell'accordare   dei  prestiti   fino  a 


1  V.  Die  Liindlichen  Darlehncassen,  dello  stesso  Raiffeisen.  Neuvied,  seconda 
edizione. 

^  ScHWERZ,  Rheinisch  ivestfdlisclie  Landu-irthschaft,  l.  pag.  396.  Anche  Er- 
leumeyer  parlando  della  sorte  di  questi  contadini  osserva:  Inder  Regel  muss  der 
Bauer  hangen  101  d  bmigen  zwìschen  Leben  iind  Tod,  dann  ist  er  filr  der  Wii- 
cherer  das  tanglichst  Objecte  der  Aussagung. 

Vorsckuss-icnd  Credit  Vereine,  pag.  18. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  725 

dieci  anni  di  tempo,  mediante  depositi  che  possono  essere  loro 
richiesti  dai  depositanti  da  un  momento  all'altro.  È  vero,  come 
vedremo  più  oltre,  che  si  ricevono  a  preferenza  i  depositi  a  lungo 
corso,  ma  è  lasciata  la  facoltà  a  chi  vuole  di  deporre  i  propri 
risparmi  a  breve  denunzia.  Laonde  gli  amministratori  di  esse  sono 
costretti  per  qualunque  imprestito  che  facciano  ai  propri  soci,  a 
riserbarsi  il  diritto  del  rimborso,  previo  l'avviso  di  quattro  set- 
timane in  ogni  caso  di  mancanza  di  capitale.  Questa  riserva,  seb- 
bene nei  più  dei  casi  si  sia  dimostrata  inutile,  è  imposta  loro 
dal  fatto  che  pei  lunghi  imprestiti  usano  ogni  sorta  di  depositi, 
a  corta  e  lunga  scadenza.  Questo  è  il  lato  debole  principale 
delle  banche  di  Kaiffeisen,  e  che  costituisce  il  punto  critico  e 
bersagliato  dai  loro  avversari,  i  quali  non  hanno  torto  quan- 
do asseriscono  che  un  tal  modo  di  procedere  è  contrario  alle 
leggi  che  presieggono  ad  una  sana  organizzazione  del  credito. 
Principio  fondamentale  di  un  solido  commercio  bancario  è  di  non 
accordare  altro  credito  che  quello  che  i  creditori  o  depositanti 
accordano  alla  Banca.  Questo  principio  osservano  ajipunto  gli  isti- 
tuti di  credito  ordinario,  non  escluse  le  banche  di  Schulze,  ed  è 
il  sano  fondamento  di  ogni  banca.  Kaiffeisen  al  contrario,  pur 
riconoscendo  la  verità  del  principio  enunciato,  intese  di  modifi- 
carlo a  seconda  del  luogo  e  del  tempo,  senza  per  ciò  far  correre 
pericolo  alle  sue  istituzioni,  o  diminuirne  la  fiducia  da  parte  dei 
numerosi  clienti.  Viste  le  misere  condizioni  in  cui  versavano  molti 
degli  agricoltori  della  sua  patria,  egli  fece  della  condizione  del 
lungo  credito  una  questione  di  essere  o  non  essere  pelle  sue 
banche,  e  pel  fine  che  dovea  raggiungere  ;  coi  prestiti  limitati  a 
mesi  ed  anche  a  un  anno  o  poco  più  di  rimborso,  il  desiderato 
miglioramento  delle  condizioni  agricole  dei  suoi  compaesani  non 
potersi  conseguire.  Dunque  o  rinunziare  a  questa  speranza  o  met- 
tersi per  una  via  nuova  ed  arrischiata.  Prescelse  egli  quest'ultimo 
partito,  e  foggiò  il  tipo  delle  sue  banche  in  modo  da  ovviare  il 
più  possibile  ai  pericoli  minacciati  dal  disequilibrio  deirofi"erta 
e  della  domanda  del  credito  di  esse.  Un  cenno  sulla  loro  indole 
chiarirà  meglio  il  concetto. 

Carattere  essenziale  delle  Barlehncassen  è  di  essere  una  im- 
mediata emanazione  delle  condizioni  e  circostanze  locali,  dell'am- 
biente, in  una  parola,  del  villaggio  in  cui  sono  sorte;  la  loro 
sfera  di  azione  è  piccola,  e  limitata  esclusivamenle  agli  affari  e 
bisogni  dei  vicini  abitanti.  Il  modo  con  cui  si  sono  formate  è 
patriarcale  e  popolare  al  più  alto  grado.  Kaiffeisen  non  richiedeva 


726  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

neppure  il  contributo  dell'azione  da  parte  dei  soci,  come  si  usa 
nelle  Unioni  di  Schulze.  Venti,  trenta,  quaranta  contadini,  fittaioli, 
0  proprietari,  che  coltivassero  le  terre  per  conto  proprio  si  asso- 
ciavano, e  in  nome  e  sotto  pegno  della  responsabilità  morale  e 
materiale  di  tutti  in  solido  illimitatamente,  si  presentavano  al 
pubblico  per  chiedergli  i  capitali  necessari  ai  loro  bisogni.  For- 
mato cosi  un  fondo  di  esercizio,  si  accordano  prestiti  ai  soci 
solidali,  che  ne  fanno  richiesta  ;  e  dal  semplice  interesse  e  prov- 
vigione percepiti  per  tali  prestiti,  si  pagano  gl'interessi  sui  depo- 
siti, e  le  spese  di  amministrazione;  il  resto  va  come  fondo  di 
riserva  non  accordandosi,  per  statuto,  nessun  dividendo. 

Questo  fu  l'esordio  umilissimo  di  molte  banche  di  Eaiffeisen; 
anch'oggi  esse  conservano,  come  vedremo,  un  organismo  che  le 
rende  le  più  democratiche  e  popolari  di  quante  ne  esistono  in 
simil  genere. 

Nella  limitazione  locale  della  banca  di  RaifPeisen  è  uno  dei 
principali  requisiti  della  sua  garanzia;  tanto  ai  soci  che  ai  cre- 
ditori di  essa  è  facile  assicurarsi  del  suo  stato  quotidiano  e  della 
natura  delle  sue  operazioni.  La  presidenza  ed  il  consiglio  di  am- 
ministrazione sono  gente  nata  e  cresciuta  nel  distretto  della  banca: 
dimodoché  ogni  persona  che  desidera  un  imprestito  è  noto  agli 
amministratori  sotto  tutti  i  rapporti.  Si  concedono  prestiti  ai  soci, 
dai  quali  l'LTnione  è  certa  che  non  si  mancherà  all'impegno.  Inoltre 
ad  epoche  determinate,  di  ogni  debitore  si  riesamina  la  solvibi- 
lità e  si  agisce  a  seconda  dei  risultati.  Da  ciò  si  capisce  come 
possano  essere  tanto  poche  e  tanto  piccole  le  perdite  di  queste 
banche,  come  vedremo  più  oltre.  Ad  esempio  di  quanto  diciamo, 
vogliamo  citare  la  Banca  di  Steimel  (  Wohltlìàtigheitsverein  Stei- 
mel)  la  più  florida  di  tutte  quelle  di  Raiffeisen,  la  quale  durante 
tutto  il  suo  tempo  di  esercizio  non  ebbe  perdite  se  non  una  di 
m.  1.  30,  che  in  moneta  nostra  equivalgono  a  L.  1.  66.  Avviene 
tuttavia,  come  dappertutto,  che  alcuni  debitori  restino  in  mora, 
e  si  debba  procedere  in  via  legale  contro  essi,  ma  in  rarissimi 
casi  è  occorso  di  dovere  spingere  la  procedura  fino  ai  mallevadori.  ^ 

Alla  limitazione  loccile  e  ristrettezza  della  sfera  di  azione 
queste  banche  possedono  un'altra  qualità,  non  comune  a  nessuna 
istituzione  di  pari  scopo.  Ed  è  la  gratuità,  a  fatti  e  non  a  parole,^ 
dell'amministrazione.  Tanto  il  Consiglio  di  quest'ultima,   quanto 

1  Aber  in  den  seltensten  Fàllen  braucht  man  bis  auf  die  Bilrger  zuriick- 

zugreifen. 

V.  Die  Raiffeisen  schen  Darlehnskassen,  di  Teodoro  Kraus,  pag.14.Bonn,  IS'Je . 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  727 

la  Presidenza,  e  in  una  parola  tutte  le  persone  che  sono  vita  e 
anima  dell'Unione,  devono  assumere  la  loro  carica  a  norma  dello 
statuto,  cioè  come  ufficio  onorifico  e  non  lucroso  ilir  And  aìs 
Ehrenamt  fiihren.  Soltanto  il  contabile  o  ragioniere  (Veremsre- 
chner)  percepisce  una  retribuzione  delle  sue  fatiche:  ma  questa 
è  così  tenue  ne'  più  dei  luoghi,  che  non  si  può  chiamare  stipen- 
dio. Chi  direbbe  tale  la  microscopica  somma  di  15  marchi?  Ep- 
pure tali  sono  gli  onorari  di  non  poche  banche.  ^ 

I  capitali  nei  primordi  di  esercizio  sono  presi  a  credito;  pro- 
prietà dei  terzi  anziché  dei  soci  dell'  Unione.  E  come  abbiamo 
accennato,  si  tiene  molto  a  che  il  deposito  sia  fatto  a  lungo  corso. 
Favorevole  occasione  a  ciò,  si  è  offerta  a  queste  banche  nell'am- 
mettere  nelle  proprie  casse,  come  deposito  fruttifero,  i  denari  di 
manomorta,  i  capitali  di  figli  minorenni  o  pupilli,  e  quelli  in  ge- 
nerale di  pubblici  istituti  o  corporazioni,  che,  dando  una  rendita 
sicura,  offrono  il  vantaggio  di  non  venire  tanto  presto  ritirati 
dalle  casse  delle  banche.  La  maggior  parte  di  queste  si  è  impos- 
sessata di  questi  capitali,  e  ne  trae  cospicui  vantaggi  economici 
pei  soci. 

Questo  ci  spiega  in  qualche  modo  la  ragione  per  cui  le  Dar- 
lehncassen  malgrado  i  loro  lunghi  prestiti  ai  soci  in  mezzo  anche 
a  crisi  fortissime,  restassero  non  solo  incolumi,  ma  continuassero 
l'andamento  regolare  dei  loro  affari  con  crescente  prosperità.  Come 
abbiamo  detto,  le  banche  s'impegnano  anche  a  restituire  i  propri 
depositi  dopo  4  settimane  dalla  loro  denunzia,  e  ciò  per  attirare 
la  maggiore  quantità  di  capitale  possibile;  ma  questa  specie  di 
depositi  costituisce  la  minor  parte  ;  e  quando  avviene  che  una 
banca  in  un  dato  momento  debba  rimborsarli,  se  non  ha  abba- 
stanza capitale  nelle  proprie  casse,  invece  d'intimare  ai  propri 
soci  la  restituzione  dei  prestiti  accordati  loro,  ricorre  all'aiuto 
delle  banche  congeneri  situate  nello  stesso  distretto,  dove  tra  esse 
si  è  stabilito  una  specie  di  mutuo  soccorso  nei  casi  di  bisogno. 

Per  tal  modo  si  è  fin  qui  ovviato  ai  pericoli  provenienti  dal- 
l'uso di  depositi  promiscui  per  i  prestiti  a  lungo  rimborso;  per 
tal  modo  si  è  potuto  attraversare  senza  imbarazzi  le  due  ultime 
grandi  crisi  del  1866  e  1870  ^  quando  le  denunzie  dei  creditori, 

'«....  Wie  soli  mann  z.  B.  eine  VergUtung  von  15  Mark  fur  dea  Rechner 
ansehen?  » 

V.  Die  Raiffeisen' schen  Darlehnhasser. ,  di  Teodoro  Kraus,  pag.  17.  Bonn  1876 

2  « sogar  wahrend  der  Kriegsjahre  1866  und  1870  niemals  in  Geldver- 

legenheit  gekommen.  » 

Ibidem. 


728  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

se  le  banche  non  avessero  saputo  a  tempo  ispirare  fiducia  nel 
pubblico,  minacciavano  di  ritorre  loro  tutti  i  capitali;  poiché  nella 
maggioranza  della  popolazione  renana  si  temeva  nell'ultima  guerra 
di  vedere  i  francesi  far  man  bassa  di  tutto  e  di  tutti  nella  destra 
sponda  dello  storico  fiume;  e  se  queste  giovani  istituzioni  resi- 
stettero a  tale  scossa,  non  sappiamo  davvero  quale  uragano  eco- 
nomico potrà  sradicarle  ed  abbatterle. 

Oltre  alla  severa  censura,  cui  vengono  sottoposti  coloro  tra 
i  soci  che  ricercano  il  credito  della  Banca,  per  cui  i  depositi  sono 
sicuri  di  ricevere  un  solido  impiego,  vi  è  da  aggiungere  che  il 
personale  alla  testa  della  amministrazione  è  formato  in  quasi  tutte 
le  Unioni  da  cittadini  e  paesani  che  ispirano  per  il  loro  carattere 
del  pari  che  per  la  loro  posizione  sociale  la  più  grande  simpatia 
e  fiducia  nel  pubblico.  Sono  per  lo  più  presidenti  di  esse  i  Burg- 
meister,  i  parroci  ed  altre  notabilità,  che  in  più  d'un  caso  misero 
fuori  i  propri  capitali  per  costituire  il  fondo  di  esercizio  della 
banca;  alcuni  fecero  dono  di  forti  somme  a  tal  uopo;  altri  ne  im- 
piegarono delle  vistose  a  lungo  deposito  contentandosi  di  un  qua- 
lunque interesse,  quale  poteva  dare  il  bilancio  annuale.  ^  Dopo  il 
finqui  detto  e  ben  ponderate  tutte  queste  circostanze  locali,  l'or- 
ganismo speciale  delle  banche,  e  la  severa  e  scrupolosa  ammini- 
strazione dei  capitali  ivi  apportati,  il  pericolo,  che  gli  avversari 
di  esse  scorgono  nell'impiego  di  questi  ultimi  ad  un  lasso  di  tempo 
anche  maggiore  che  non  comporti  la  natura  di  certi  depositi,  è 
molto  diminuito  ;  e  si  spiega  quindi  l'affluire  del  denaro  alle  JDar- 
ìeJincassen  in  modo  da  generare  qualche  volta  un  po'  di  pletora 
di  capitali,  pel  cui  sgravio  servirono  spesso  le  Unioni  di  Schulze, 
malgrado  che  questi  si  adoperi  in  buona  fede  a  screditarle.  Un 
esempio  di  quanto  sia  forte  la  pubblica  fiducia  sulle  Banche  di 
Kaiffeisen,  malgrado  il  modo  patriarcale  e  popolarissimo  con  cui 
esordiscono,  si  ha  in  quella  di  S.  Caterina  presso  Linz  sul  Beno. 

Questa  banca  in  origine  ebbe  soci  senza  denari,  tranne  uno, 
che  è  il  parroco  Krux,  che  vi  apportò  una  buona  somma  per  il 
primo  giro  di  operazioni;  tuttavia  il  pubblico  accorse  a  deporre 
i  propri  capitali  e  si  ebbe  fin  dal  primo  anno  di  fondazione  una 
bella  proporzione  tra  il  capitale  dei  soci,  rappresentato  in  questo 
caso  da  un  solo  socio,  il  già  menzionato  parroco,  ed  il  capitale  dei 
non  soci;  cioè,  il  64  per  cento  apparteneva  a  questi  ultimi  ed  il 


'  Fra  questi  filanìropi  occupa  il  primo  posto  il  principe  di  Wied  clie  tiene  da 
lungo  tempo  in  queste  banche  forti  somme  ii  tenue  interesse.  (V.  Opera  citata.) 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  729 

36  per  cento  ai  primi.  Poi  le  proporzioni,  cambiarono  fincliè  il  ca- 
pitale dei  soci  prevale  sovra  quello  dei  non  soci.  Anzi  a  misura  che 
i  fondi  propri  dell'Unione  di  Eaiffeisen  aumentano,  come  già  è  il 
caso  per  molte,  la  possibilità  di  una  insolvenza  da  parte  di  essa 
in  occasione  di  denunzie  in  massa  dei  creditori  o  depositanti,  di- 
.viene  sempre  più  rara.  E  qui  c'imbattiamo  in   un'altra  speciale 
qualità  delle  JDarlehncassen.  Presso  le  Unioni  di  Sclmlze  il  ca- 
pitale proprio  consiste  di  due  parti  differenti  tra  loro;  del  fondo 
di  riserva  e  delle  azioni.  Pel  fondo  di  riserva  servono  le  tasse  di 
entrata  ed  una  determinata  quota  del  guadagno  netto   annuale. 
Queste  due  parti  nelle  banche  di  Eaiffeisen  consistono  in  una  sola 
che  si  forma  in  modo  ben  differente  dal  suaccennato.  Grande  im- 
portanza pongono   anche   le   Darlehncasseu   nella  formazione  di 
un  fondo  di  capitali  proprio  dell'Unione;  ma  questo  si  ottiene 
complessivamente,  non  mediante  azioni  all'individuo,  ma  col  gua- 
dagno della  banca,  prelevate  le  spese  di  amministrazione  e  gl'inte- 
ressi da  pagarsi  a  depositi,  non  accordandoli,  come  si  è  già  ac- 
cennato, dividendo  a  sorte.  Un  tal  patrimonio  collettivo  serve  in 
seguito  a  coprire  eventuali  perdite  dell'Unione,   e  si  lascia    au- 
mentare tanto,  sino  a  che  queste  sieno  in  grado  di  fare  tutte  le 
operazioni  di  credito  occorrenti  ai  bisogni  dei  rispettivi  soci  coi 
propri  capitali.   Questa  è  la  meta  ideale  cui  mirano,  e  non  poche 
vi  si  sono  avvicinate.  Inoltre,  per  statuto,  ogni  Unione  si  obbliga 
a  diminuire  l'interesse  e  le  spese  di  provvisione,  tostochè  il  pa- 
trimonio collettivo  della  banca  avrà  raggiunto  una  sufficiente  ele- 
vatezza. '  E  gl'interessi  e  guadagni  ulteriori  di  tal  patrim  onio 
devono  per  statuto  non  distribuirsi  ai  singoli  soci,  ma  impiegarli 
a  scopi  di  comune  utilità,  ed  in  prima  linea  polla  fondazione  di 
scuole  d'istruzione  reciproca.  ^  Nessun  socio  ha  quindi  diritto  ad 
una  personale  partecipazione  dei  capitali  propri  dell'Unione.  An- 
che in  caso  di  scioglimento  di  questa,  il  patrimonio   non   si    di- 
stribuisce, ma  deve  sempre  servire  a  scopi,  che  risultino  di  e  guai 
vantaggio  per  tutti  i  soci.  Si  considera,  com'è  in  realtà,  il   frutto 
dell'industria  e  previdenza  di  tutti;  e  solo  il  credito  e    l'onestà 
dei  soci  sono  il  suo  fattore.  Tali,  fatte   le   debite  eccezioni,  sono 
le  principali  e  più  comuni  qualità  delle  Darlehncassen  di  Eaif- 
feisen, vediamone  ora  i  risultati. 

'  Nach  hinreichender  Ansammlung  eines  Vereinskapital  ist  to  bald  als  mò- 
glich  auf  herabsetzung  der  zerisen  und  der  Provision  Bedacht  zu  nehemen. 
V.  §  29  dello  statuto  delle  banche. 

*  «...  In  erster  linie  durch  GrùnJung  von  Fortbildungsschulen.  »   Ibidem,  §  34. 


730  I^EL  CREDITO  POPOLARE. 

La  prima  di  queste  banche  venne  fondata  nel  1855  a  Hed- 
dersdorf  per  opera  dello  stesso  Kaiffeisen  con  un  capitale  di 
6798  marchi,  di  cui  5475  tutti  in  prestito.  Questo  capitale  a  forza 
d'interessi,  aumenta  anno  per  anno  fino  a  permettere  la  forma- 
zione d'un  fondo  proprio  dell'Unione  nella  somma  di  9480  marchi. 
Giunta  a  questo  punto,  Raififeisen  credè  bene  decentrare  l'azione 
della  sua  banca,  che  egli  voleva  in  tutto  e  per  tutto  simile  come 
il  modello,  che  si  era  creato  in  mente;  e  da  quel  piccolo  patri- 
monio che  altrove  servirebbe  pei  bidelli  e  i  portieri,  Raiffeisen 
ne  fece  scaturire  i  fondi  necessari  alla  costituzione  di  altre  tre 
banche,  cioè  Bieber,  Altivied  e  Feldkirchen,  con  cui  volle  divi- 
dere i  capitali  dell'Unione  d'Heddersdorf.  Quindi  toccò  per  cia- 
scuna 2270  marchi.  D'  allora  in  poi  le  Darlehncassen  aumenta- 
rono rapidamente,  e  fino  a  tutto  il  1876,  anno  a  cui  rimontano 
gli  ultimi  bilanci  di  esse,  salivano  a  circa  100. 

Di  sole  66  fu  possibile  avere  il  bilancio  fin  qui:  alcune  non 
si  permettono  neppur  la  spesa  per  la  stampa  di  esso.  Il  numero 
totale  dei  soci  è  10,765:  in  media  per  banca  174.  La  più  grande 
delle  Darlehncassen  è  quella  d'Antweiler  con  450  soci:  la  più 
piccola  di  Bell  con  43  soci.  Per  48  unioni  è  dato  anche  il  nu- 
mero degli  abitanti  compresi  nel  distretto  occupato  da  ciascuna 
di  esse;  la  somma  della  popolazione  di  questi  48  distretti  era  di 
115,826  anime.  Se  computiamo,  considerata  la  prolificità  dei  con- 
tadini renani,  5  persone  per  ogni  famiglia  di  tal  popolazione  cam- 
pagnuola,  si  ha  in  media  che  il  36  Yo  di  tutti  i  paterfamilias  di  essa 
fa  parte  delle  banche.  Il  più  grande  distretto  di  queste  Unioni  è 
Losheim  con  6725,  il  più  piccolo  Bodendorf  con  544  abitanti. 

Alla  fine  dell'  anno  suddetto  vennero  accordati  prestiti  ai 
rispettivi  soci  nella  somma  di  1,381,400  marchi;  in  media  per 
ognuna  delle  66  unioni  238,408.  L'importo  del  più  piccolo  prestito 
ascende  a  2  marchi,  il  più  grosso  a  6000.  Prestiti  fino  a  soli 
3  anni  si  accordano  da  una  sola  Unione;  fino  a  5  da  24.  Le  re- 
stanti Unioni  concedono  prestiti  fino  anche  a  10  anni.  Anzi  di  55 
di  esse,  vien  dato  anche  il  numero  dei  prestiti  dentro  un  anno, 
da  1  a  5  anni,  da  5  a  10  anni,  e  via  dicendo.  Il  totale  di  essi 
per  queste  55  unioni  ammontò  nell'anno  accennato  a  848,338  mare, 
così  distribuiti  : 

Per  1   anno  e  meno        Da  1   a  5  anni  Da  5  a  10  anni 

274,218  M.  439,403  M.  134,717  M. 

Del  totale            32  °/„  52  Vo                       16  V» 

N.  dei  prestiti    718  1946                          234 

Media  di  essi     382  M.  226  M.                    474  M. 


DEL  CREDITO   POPOLARE.  731 

I  denari  ricevuti  a  fido  dalle  banche  ammontarono  a  961,690; 
i  piccoli  depositi  dei  risparmi  a  80,559  marchi.  In  totale  I,0i2,249, 
che  danno  una  media  per  ogni  banca  di  15,792. 

La  somma  di  capitali  che  le  Unioni  hanno  ancora  da  rim- 
borsare per  parte  dei  soci  debitori,  ascendeva  in  quell'anno  a 
3,039,401  dando  in  media  46,052  marchi  per  ogni  Unione.  Delle 
66  Unioni  di  cui  si  posseggono  i  bilanci,  9  soltanto  formarono 
un  capitale  proprio  mediante  azioni  calcolato  nella  cifra  di 
66,429  marchi.  Il  totale  dei  fondi  propri  di  esse  si  computava  in 
tal  modo; 

Guadagno  netto  durante  il  1876.    .    .    Marchi      52,398 

In  azioni »  66,429 

Capitale  accumulato  pel  passato     .    .  »  126,756 

Totale  Marchi    245,583 

E  poiché  i  prestiti,  come  abbiamo  visto,  ammontano  a  mar- 
chi 2,928,149,  così  si  ha  relativamente  al  fondo  di  riserva  o  pro- 
prio delle  banche,  che  circa  1*8  Vj  %  di  tali  prestiti  venne  coperta 
mediante  quest'ultimo. 

II  tasso  dell'interesse  oscillò  tra  il  5  e  il  3  Voi  e  colle  spese 
di  provvisione  tra  il  5  '/g  e  7  %.  Raiffeisen  a  somiglianza  della 
Banca  centrale  di  Berlino  per  le  unioni  tedesche,  aveva  istituito 
per  le  sue  Darlehncassen  una  banca  centrale  a  Neu-Wied  , 
la  quale  curava  gl'interessi  delle  altre  banche  strette  in  confe- 
derazione con  essa,  pel  reciproco  soccorso  di  capitali.  Questa 
banca  {NeuWieder  Genossenscìiaftshanlc)  che  si  prefiggeva  il 
risconto  delle  cambiali,  tra  le  altre  sue  operazioni,  mancando 
del  necessario  alimento,  poiché  il  credito  agrario  ha  pochi  cor- 
rispondenti nello  strumento  della  cambiale  commerciale,  si  è  sciolta, 
e  si  sta  adesso  studiando  il  modo  di  sostituirla  con  un  grande 
istituto  di  credito  ipotecario,  il  quale  pesca  mediante  i  suoi  ca- 
pitali venire  in  aiuto  di  tanto  in  tanto  alle  banche  più  biso- 
gnose. 

Al  moto  che  va  crescendo  via  via  rassomigliano  i  risultati 
della  maggior  parte  delle  Darlehncassen  di  Raiffeisen,  Dopo 
essere  pervenuti  ad  una  certa  potenza  di  credito,  hanno  potuta 
figliare  anch'esse  altre  istituzioni  cooperative,  con  cui  si  tengono 
in  intimo  rapporto.  La  Zeitschrift  pegli  interessi  agricoli  delle 
Provincie  renane  faceva  non  a  guari  a  tal  proposito  le  seguenti 
riflessioni  : 

«  Le  Unioni    Darlehncassen  dettero   luogo  in  questi  ultimi 


732  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

tempi  a  dei  ciixoli  sociali,  detti  casini,  comodi  ed  eleganti,  i  quali 
servono  a  meraviglia  come  luoghi  di  ritrovo  polla  popolazione 
campagnuola,  soci  e  non  soci,  e  sopratutto  come  centro  di  propa- 
ganda pegl'  interessi  delle  banche  e  dell'  agricoltura.  Il  casino  è 
divenuto  la  succursale  morale  di  ogni  banca,  che  con  esso  mira 
ad  informarsi  mediante  serali  conversazioni  delle  condizioni  e 
stato  dei  piccoli  possidenti  e  contadini,  e  procura  di  avvisare  ai 
mezzi  di  migliorarli  sotto  ogni  rapporto.  Di  qui  la  partecipazione 
numerosa  dei  contadini  a  queste  banche,  e  l'aumento  quotidiano 
del  loro  credito.  Di  settimana  in  settimana  coll'aiuto  e  prestanza 
dei  parrochi,  borgomastri,  medici,  speziali,  e  via  dicendo,  si  ten- 
gono letture  sopra  argomenti  d'interesse  e  vantaggio  per  le  classi 
rurali  ;  cosi  si  parla  del  modo  di  alimentare  i  diversi  generi  di 
bestiame,  degli  strumenti  da  lavoro  più  economici,  dei  vari  generi 
d'ingrassi  del  terreno,  e  via  dicendo.  Si  fanno  inoltre  progetti  pel 
conseguimento  di  scopi  utili  a  certe  regioni  agricole  ;  si  sotto- 
pongono a  discussione  pubblica,  e  se  vengono  approvati,  se  ne 
raccomanda  l'effettuazione.  Altrove  la  mancanza  dei  denari,  po- 
trebbe costituire  il  più  insuperabile  ostacolo  a  quest'ultimo;  ma 
il  casino  ha  dietro  di  sé  la  banca,  e  quando  una  proposta  è  rico- 
nosciuta buona,  i  soci  di  quest'  ultima  si  adoprano  perdi'  essa 
sborsi  i  denari  pell'applicazione.  »  E  per  tal  modo  si  fanno  delle 
vistose  compre  di  materie  prime,  strumenti,  commestibili  ed  altri 
oggetti  di  uso  comune.  A  tale  scopo  nell'anno  economico  da  noi 
esaminato  si  impiegarono  dalle  banche  13,221  marchi.  In  Arthal 
ed  altri  luoghi  lungo  il  Eeno,  le  Darlehncassen  stanno  in  in- 
timi rapporti  colle  società  pella  viticoltura,  e  ne  proteggono 
gl'interessi  e  sviluppano  la  produzione  coll'anticipazione  dei  loro 
capitali  a  lontano  rimborso. 

Visti  i  beneficii  provenienti  da  queste  banche  sotto  1'  aspetto 
morale  e  materiale  alle  popolazioni  che  ne  fanno  parte,  e  mercè 
soprattutto  la  severità  e  illuminatezza  degli  amministratori,  non  è 
a  meravigliare  che  i  capitali  vi  accorrano  in  abbondanza.  Le  casse 
di  mutuo  soccorso  di  ogni  distretto  {Hiìfscassen)  hanno  i  propri 
capitali  depositati  a  lungo  corso  presso  di  esse,  che  ne  traggono 
vantaggi  non  piccoli  peli'  agricoltura.  Anzi  dovrebbe  essere  prin- 
cipalmente coi  depositi  delle  casse  di  risparmio  in  generale,  che 
si  dovrebbe  organizzare  una  solida  sorgente  di  credito  agrario. 
Già  in  tutta  la  Germania  sorgono  in  questo  senso  di  tanto  in  tanto 
delle  voci  e  degli  scritti,  e  non  andrà  molto  che  i  denari  depo- 


DEL  CREDITO   POPOLARE.  733' 

sitati  dal  popolo  presso  tali  istituzioni,  riusciranno  di  nuovo  per 
fecondare  i  lavori  e  fatiche  di  esso.  ^ 

Fino  a  qual  punto  sarebbe  possibile  in  Italia  trasferire  certi 
depositi  delle  casse  pubbliche  del  Governo  in  quelle  delle  Unioni 
che  potessero  sorgere  a  guisa  delle  Slesiane  e  Renane  è  difficile 
oggi  e  qui  il  risolvere.  Certo  la  proposta  sembrerà  strana  a  coloro 
i  quali  usano  dare  alle  garanzie  legali,  non  sempre  da  noi  fortu- 
nate, un  peso  e  riguardo  eccessivi  in  confronto  delle  garanzie  mo- 
rali, non  sempre  tenute  nel  debito  pregio.  Si  potrebbe  intanto  stu- 
diare se  e  con  quali  temperamenti  potessero  rendere  quei  servigi 
di  natura  locale  le  casse  di  risparmio  postali.  Intanto  noi  ci  siamo 
limitati  ad  offrire  de'modelli,  coll'indicare  dei  fatti  a  creare  i  quali 
e  a  farli  prosperare  in  Germania,  non  è  da  credere  che  fossero 
scarse  le  malleverie  tanto  morali  quanto  materiali.   Una  delle 


'  II  già  menzionato  lavoro  di  Engel  ed  Hedelraann  sulle  Casse  di  Risparmio 
prussiane  contiene  anche  le  seguenti  notizie  intorno  all'impiego  dei  capitali  de- 
positati in  esse. 

Anno  1876. 


PROVINCIE 


Russia 

Brandeburgo  .... 

Pomerania 

Posnania 

Slesia  

Sassonia 

Schleswig  Holstein 

Annover 

"Westfalia 

Assia-Nassau.  .  .  . 
Paesi  del  Reno  .  . 


Sa  100  marchi  delle  Casse  di  Risparmio 

si  misero  ad  interesse 

In  fondi 

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13 

J3 

In  obbligaz. 

CAPITALE 

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O 

milioni 

20,196,196 

89,155,816 

59,036,010 

7.301,001 

87,4  !4,446 

133,492,273 

149.012,810 

154.502.218 

280,538  603 

38,044.-08 

158,289,133 

Anche  per  le  Casse  di  Pùsparmio 
positi  in  ipoteche  su  fondi  rustici  ed  ui 
Sopra  100  di  capitale  impiegarono 


91,02'  31,01 
97,99  21,56 
96,51  23,09 
96,24  24,13 


14,97  31,31 
19,12  38,65 
22,38  34,62 
10,66   32,05 


91,03  26.03|  17,58:  38,04 
96,94,26.41134,89',  28,08| 
96,59  28.21  i  29,26|  5,551 
96.95  14.21'  34,25  22,59' 
93,22  33,45'  24,')!'  10,51! 
91,11  18,51]  20,18,  26,42; 
96,39   25,11l  13,15,  30,63, 

della  Baviera  è  notevole  ì 

rbani. 

le  Casse  di  Risparmio  : 


9,14 

4,86 

6,80 

2632! 

0,91 

2,03 

21,83 

124 

11,03 

23,11 

12,15 


7,81 
2,46 
5,99 
0,58 
1,23 
2,81 
2,24 
5,45 


2,18 
4,14 
3,63 
2,50 
6,88 
2,12 
3,34 
1315 


2,24  11,32 
3.68  4,68 
3,68.11,61 


impiego  dei    de- 


Delle  Città   .  .  . 

Di  altri  Comuni 
»  Distretti 
»       Privati  . 


Sopra  ipoteche 


51,23 
62,92 
82,17 
88,42 


Presso  Comuni  della  Provincia  In  valori  pubblici 


17,38 
8,75 
1,05 
0,03 


25,36 

21,96 

10.80 

5,28 


734  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

prime  è  certo  la  resjjonsabilità  illimitata  e  solidale  dei  soci  tra  di 
loro,  e  il  credito  come  lo  accorda  il  tipo  delle  banche  di  Raiffeisen 
riesce  un  vero  stimolo  di  progresso  morale,  efficace  quanto  mai 
a  guarire  l' e  per  aio  da  certi  vizi.  Raiffeisen  pose  per  statuto  delle 
sue  banche  di  non  accordare  credito  alcuno  agi'  individui  in  fama 
■di  giuocatori  o  bevitori  eccessivi.  ^  Laonde  l'operaio  vizioso  si  vede 
astretto  a  dismettere  le  sue  prave  abitudini  onde  poter  usufruire 
dei  vantaggi  accordati  agli  altri  suoi  compagni  più  morigerati 
di  lui.  Nulla  è  più  efficace  della  virtù  dell'  esempio,  e  a  questo 
mirano  in  sommo  grado  i  benemeriti  amministratori  delle  banche 
renane.  G-ià  in  questi  ultimi  anni  si  è  estesa  di  molto  la  loro  in- 
fluenza nel  principato  di  Wied,  a  Treviri,  Aquisgrana,  Dusseldorf; 
e  perfino  nella  Westfalia  e  nel  Granducato  d' Assia  si  annoverano 
oggi  non  poche  di  tali  Darlehncassen.  Egli  è  a  questo  punto  che 
il  movimento  d' invasione  dà  nell'  occhio  a  Schulze  e  ai  suoi  nume- 
rosi fautori  ed  amici,  che  gli  movono  colle  loro  critiche  nel  Par- 
lamento e  nella  stampa  asprissima  guerra. 

Nel  1874  la  crisi  pesava  su  tutta  la  Germania  dopo  le  spe- 
culazioni degli  anni  precedenti.  Il  ristagno  del  commercio  interno 
si  fece  sentire  anche  nei  piccoli  comuni.  E  alla  fine  di  detto  anno 
alcune  banche  presentarono  un  bilancio  carico  di  passività,  for- 
mate per  lo  più  da  proroghe  e  dilazioni  più  o  meno  dannose  dei 
rimborsi  dei  capitali  prestati  ai  soci,  impotenti  a  far  fronte  ai 
propri  obblighi  verso  la  rispettiva  banca.  L' occasione  parve  pro- 
pizia agli  avversari  di  esse.  Schulze  e  Noll,^  consiglieri  di  Stato, 
si  affrettarono  a  fare  un'  interpellanza  in  proposito  nel  Reichstag, 
onde  assicurare  le  sorti  dei  creditori,  i  quali  alla  loro  volta  inti- 
moriti, che  la  cosa  avesse  destato  l'attenzione  del  Parlamento,  si 
recarono  in  massa  a  denunziare  i  propri  crediti.  L' imbarazzo  non 
poteva  essere  più  compromettente  e  fatale  per  quelle  poche  ban- 
che. Tuttavia  lo  superarono  ;  e  specie  la  banca  di  Hammersfeld 
la  quale  aveva  33,609  marchi  di  passività,  che  potè  coprire,  senza 
costringere  nessuno  dei  soci,  come  ne  avrebbe  avuto  il  diritto,  ad 
un  rimborso  prematuro  dei  denari  dati  loro  in  prestito.  Il  governo 
promise  agli  interpellanti  di  studiare  la  questione,  e  al  principio 
del  1875  si  nominò  dal  Ministero  d'  agricoltura  una  commissione 


'  Grundsdtzlich  stàndigen  Wirthhaitsbesxichern,  Kartenspilern  ic.  s.  w.  Kein 
Gela  gel'tehen  wird.  Ibidem. 

'  Sì  l'uno  che  l'altro  si  erano  già  pronunziati  contro  queste  banche  in  varie 
occasioni.  Schulze  all'assemblea  generale  delle  Unioni  Cooperative  tenuta  a  Neustadt 
nel  1369:  NoU  col  suo  libro  Die  landlichen  Darlehncassen-Vereine.  Berlin,  18^3. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  735 

incaricata  di  procedere  ad  un'  inchiesta  ed  esame  sullo  stato,  con- 
dizioni e  qualità  delle  Darlchncassen-Vereine  di  Raiifeisen.  Essa 
venne  composta  dai  signori  professor  Nasse,  dal  direttore  della 
BeichshanJc  dottor  Siemens,  e  dal  signor  Sclimidt  di  Francoforte, 
i  quali  dopo  un  lungo  studio  ed  ispezione  sul  luogo,  vennero  in 
queste  conclusioni:  «  Che  le  singole  Unioni  di  Raiffeisen  riescono 
di  grande  beneficio  alla  popolazione  agricola  dei  rispettivi  distretti 
{SeJir  segensreich  wirJcen)  sebbene  alcune  di  esse  appariscano  bi- 
sognose di  miglioramenti.  »  Il  deputato  Noli  tornò  alla  carica  sot- 
toponendo ad  una  severa  critica  i  risultati  dell'  inchiesta,  per  cui 
volle  dimostrare  che  il  parere  della  Commissione  era  troppo  roseo, 
e  che  se  questa  avesse  spinto  indagini  più  accurate  ed  estese,  i 
risultati  sarebbero  stati  differenti.  A  queste  obbiezioni,  che  rive- 
lano nel  signor  Noli  un  ^9ar/«  2^ris,  anziché  un  critico  impar- 
ziale, rispose  a  nome  della  Commissione  il  signor  Nasse  nei  Land- 
wirthsclidftliclie  Jahrliicher,  di  Berlino,  e  che  poi  tirò  a  stampa 
separatamente.  ^  Il  signor  Nasse  ha  il  merito  d'  aver  posto  la  que- 
stione di  queste  banche  nei  suoi  veri  termini;  tanto  gli  avversari 
quanto  i  fautori  di  esse,  riconoscono  i  meriti  e  pregi  delle  Darlehn- 
cassen;  però  questi  ultimi  hanno  il  torto,  dice  esso,  di  credere 
che  tutti  i  loro  procedimenti  sieno  regolari,  e  basati  solidamente; 
e  i  primi  invece  quello  di  vedere  troppi  pericoli  che  in  realtà  non 
ci  sono,  e  di  fare  delle  obbiezioni  non  attinte  all'esame  partico- 
lareggiato dei  fatti  e  circostanze  a  cui  devono  il  nascere  e  crescere 
cotali  istituzioni.  La  critica  del  dottor  Nasse  propose  anche  i  ri- 
medi a  certi  inconvenienti  coingeniti  all'  organizzazione  patriar- 
cale di  queste  banche,  e  quindi  preparò  il  terreno  ad  una  conci- 
liazione fra  i  due  partiti.  Intanto  la  questione  si  diffondeva,  e  la 
esposizione  recente  di  Bruxelles  offrì  occasione  al  partito  fautore 
di  compilare  una  statistica  coi  relativi  bilanci  delle  principali 
banche  di  Raiffeisen,  e  d'inviarlo  alla  mostra  universale  del  Belgio. 
11  governo  sovvenne  le  spese  necessarie  a  tal  uopo,  e  scelse  la  per- 
sona competente  a  tal  officio  nel  professor  Teodoro  Kraus,  su  pro- 
posta del  prof.  Held  di  Bonn,  che  era  stato  suo  maestro,  mentre 
Kraus  studiava  agricoltura  all'  università  di  quella  città. 

Costui  intraprese  un  viaggio  espressamente  per  i  paesi  renani  ; 
visitò  ad  una  ad  una  quasi  tutte  le  banche  di  Raiffeisen,  e  potè 
compilare  un'  accurata  statistica  di  46  tra  esse,  che  fece  seguire 


'  V.  Der  Bericht    der    Untersuchungs-Commission   iiher   di:   D.  K.  V.  und 
die  Kritik  des  Regìerungsrath  Nòli.  Von  Dr.  C.  Nasse.  Berlin,  1876. 


736  DEL  CREDITO   POPOLARE, 

dei  rispettivi  bilanci  fino  a  tutto  l' anno  1875,  e  di  considerazioni 
storico-critiche  interessanti.  ^  Il  tutto  poi  fu  stampato  in  modo 
chiaro  ed  elegante  ed  inviato,  come  si  è  detto,  all'  esposizione  del 
Belgio,  dove  al  suo  fianco  figurava  anche  un  voluminoso  e  splen- 
dido repertorio  di  tutti  gli  ultimi  bilanci,  progressi,  e  beneficii 
morali  e  materiali  delle  numerose  Unioni  cooperative  di  Schulze- 
Deìitzsch. 

Il  prof.  Teodoro  Kraus  continuò  anche  dopo  la  detta  esposi- 
zione le  sue  ricerche;  e  alla  fine  del  1877  potè  dare  alle  stampe 
la  seconda  ed  ultima  parte  dei  risultati  dei  suoi  studi  e  ricerche 
in  proposito.  ^  Egli  ci  dà  la  statistica  di  altre  20  Darlchncassen 
seguita  dai  singoli  bilanci  e  da  una  critica  molto  particolareg- 
giata delle  obbiezioni  mosse  alle  banche  di  Raiffeisen,  concludendo 
però  quasi  nello  stesso  modo  del  dottor  Nasse.  Egli  riduce  tutta 
la  sua  critica  alle  due  principali  obbiezioni  mosse  loro  da  Schulze  ; 
cioè  1°  sui  pericoli  provenienti  ai  creditori  dall'  abusivo  impiego 
promiscuo  di  tutte  le  specie  di  depositi  e  prestiti  a  lontano  rim- 
borso; 2°  sui  danni  temibili  da  una  mancanza  di  capitale  propria 
in  azioni  a  garanzia  delle  operazioni  della  banca  e  da  quella  di 
uno  speciale  fondo  di  riserva. 

Noi  abbiamo  visto  nella  descrizione  che  abbiamo  fatto  più 
sopra  di  queste  banche,  come  esse  intendono  e  possono  ovviare 
agi'  inconvenienti  eventuali  della  loro  speciale  organizzazione.  Il 
signor  Kraus  ha  dovuto  venire  in  questa  stessa  persuasione  dopo 
l'esame  dei  resultati  ottenuti  sin  qui  da  esse,  e  termina  la  sua 
dotta  ed  ampia  monografia  coli'  invocare  da  parte  degli  ammi- 
nistratori alcune  riforme  nello  statuto  organico  delle  banche,  ma 
tali  che  non  distruggono  punto  l' indole  fondamentale  e  lo  spirito 
di  esse.  Delle  critiche  che  venimmo  fin  qui    esponendo  ^  trasse  il 

1  Questa  è  l'opera  che  abbiamo  citata  più  avanti;  e  forma  la  prima  parte. 
I  Heft  :   Statistik  und  Beschreibung. 

^  II  Heft  :  Kntische  Bemerkungen  della  stessa  opera  di  Teodor  Kraus. 

3  A  chi  fosse  desideroso  di  più  particolareggiati  ragguagli  e  notizie  su  queste 
Banche,  offri  imo  qui,  anche  a  complemento  della  loro  ampia  letteratura,  le  opere 
che  più  direttamente  e  diffusamente  ne  parlarono,  oltre  alle  già  citate  nel  testo  e 
margine  di  quesco  scritto. 

J.  N.  C.  Thilmany,  Die  Lilndlichen  Barlelincassen  Vereine  in  der  Rheinprovinz 
(Sog.  Sistam  Raiffeisen).  Bonn.  1815.  Il  sig.  Thjdmany  è  il  segretario  generale  di 
queste  Banche  e  tutti  i  fatti  e  prova  che  cita  nella  confuta/ione,  che  fa  delle  obbie- 
zioni di  Noli,  sono  di  una  autenticità  ed  efficacia  incontrastabili. 

Capaun-Kari.owa,  Die  Ldndlichen Darlelnicassen- Vereine,  Eine  Entgegmaig. 
anf  die  iinter  gleìchem  Titel  erschienem  Sclirift  des  Regierungsra'hs  Nòli. 
Neuwied,  18Ì3. 

Dr  Weidenrammer,  Der  Kampf  gegen  die  Darlehncassen,  Assia  1815. 

Dr  Prof.  STEnGEh,  Dreioehn  Thesen  aher  die  J,dndlichen  Kleiìibesitze  {System 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  737 

massimo  profitto  Kaiffeisen,  il  quale  da  qualche  tempo  si  adopra 
ad  introdurre  tutte  quelle  innovazioni  nel  suo  organismo  bancario, 
che  l'esperienza  ha  riconosciute  indispensabili  per  la  sicura  è 
durevole  prosperità  di  tali  istituzioni.  Egli,  fra  le  altre,  permette, 
anche  per  quelle  banche  che  vogliono  essere  registrate  nella  nuova 
legge  prussiana,  di  costituire  il  capitale  proprio  mediante  azioni 
dei  soci  individualmente,  ma  prescrive  anche  che  il  dividendo  non 
oltrepassi  il  6  per  cento,  che  le  singole  azioni  sieno  di  60  marchi, 
che  ogni  socio  non  ne  possegga  più  d'una,  propriamente  una. 
Laonde  lo  spirito  altamente  democratico  e  popolare  di  queste 
banche  non  muterà,  pur  mutando  la  parte  formale  di  più  di  una 
tra  esse. 

E  questo  appunto  è  ciò  che  intende  fare  il  prof.  Gustavo 
Marchet  di  Vienna,  del  quale  faremo  fare  la  conoscenza  a 
quei  lettori  cui  fosse  ignoto.  Non  solo  lungo  i  paesi  del  Reno, 
nell'Assia  e  nella  Westfalia,  ma  anche  nell' Austro-Ungheria  la 
questione  del  Credito  Agrario  s' impose  ai  governanti  in  tutta  la 
sua  gravità  ed  estensione.  I  piccoli  possedimenti  pelle  ragioni  già 
espresse,  vanno  anche  là  subendo  gravi  perdite,  e  nella  concorrenza 
della  Russia  appena  resistono  i  grandi  coltivatori.  Laonde  da  più  «^ 

anni  si  discute  nelle  accademie  e  nei  circoli  d'economia  agricola, 
sui  modi  onde  venire  in  aiuto  al  piccolo  proprietario,  e  guaren- 
tirne l'esistenza  di  fronte  alla  minaccia  di  assorbimento  da  parte 
della  grande  industria  agricola. 

11  prof.  Marchet  è  da  più  anni  un  caldo  apostolo  della  que- 
stione agraria;  versato  profondamente  in  agronomia,  di  cui  pro- 
fessa r  insegnamento  all'accademia  di  Vienna,  e  praticissimo 
delle  condizioni  delle  classi  agricole  austriache,  ha  avuto  più 
d'una  occasione  di  pronunziarsi  circa  i  mezzi  atti  a  risolvere  il 
problema  in  discorso.  Ma  tra  i  molti  suoi  scritti  in  proposito, 
quello  che  meglio  riassume  i  suoi  concetti  è  il  recente  libro 
«  Dell'Organizzazione  del  Credito  Agrario  in  Austria.  »  Zur  orrja- 
ìiisation  des  landwirthschaftlichin  Credifs  fur  Oesterreich,  che 
fu  oggetto   di   lunghe   discussioni   in   seno  ai  circoli  e  comitati 

Raiffeisen)  als  grùndlage  eines  in  der  Sitzung  des  Centralansschusses  des  landio  : 
Vereins,  in  Baden  fur  1874,  zu  erstattenden  Referatis  Karlsruhe,   1845. 
M.  Marklin,  Vber  vorschuss   Vereine  und  Darlehnscassen  fur   Landwirthe^ 

Karlsruhe,  18~4. 

Rheinische  Wochenschrift  fnr  Land-Volksicirthschaft,  redigirt  von  Capaiin- 
Karloica,  Jahrgang  1814,  N.  9,  10,  35,  36,  44,  48,  50,  51,  52. 

Zeitschrift  des  Landwirthschfdtlichen  Vereins  fitr  Rheinpreussen.  Tutta 
Tannata,  1868. 

VoL.  XIV,  Serie  II  —  15  Aprile  1819.  46 


738  I>EL   CREDITO   POPOLARE. 

pegl' interessi  agricoli,  e  che  ebbe  finalmente  l'appoggio  del  go- 
verno. Il  concetto  da  cui  partono  le  proposte  della  nuova  orga- 
nizzazione del  Credito  Agrario,  è  informato  essenzialmente  ai 
principii  fondamentali  delle  Banche  di  Kaiffeisen,  e  si  allontana 
soltanto  in  quelle  parti  di  esse  che  egli  crede  suscettive  di  una 
più  sicura  base,  che  egli  stesso  s'appresta  ad  erigere  nelle  varie 
innovazioni  che  suggerisce 

Il  prof.  Marchet  si  recò  nel  1872  a  studiare  sul  luogo  le  asso- 
ciazioni Eenane  e  di  ritorno  in  Austria  si  fé'  caldo  propugnatore 
delle  idee  di  Kaiffeisen.  La  prima  occasione  di  successo  gli  venne 
offerta  dal  Congresso  Agrario  del  1873  in  cui  vi  erano  i  rappre- 
sentanti di  tutte  le  Società  Agricole  {Landwirthscììaftliche  Ge- 
sellschaften)  dell'Austria  e  dell'Ungheria,  ed  inoltre  molti  rag- 
guardevoli personaggi  inviativi  espressamente  dai  governi  dei 
due  paesi. 

Il  Congresso  mise  in  rilievo  1'  importanza  ed  urgenza  della 
questione  del  Credito  Agrario,  e  soprattutto  della  sua  organiz- 
zazione sovra  la  base  della  responsabilità  solidale  dei  soci  che 
ne  abbisognano  ;  e  fece  voti  in  modo  particolare  per  la  costituzione 
anche  per  le  classi  agricole  dell'Austria,  delle  istituzioni  Kenane, 
di  cui  il  prof.  Marchet  si  era  curato  di  spiegare  l'organismo  e 
funzioni  relative  ai  numerosi  membri  del  Congresso. 

Di  tal  voto  si  adombrarono  anche  nell'Austria-Ungheria  i 
fautori  delle  Unioni  Cooperative  a  sistema  di  Schulze  Delitzsch 
che,  come  vedemmo,  sono  ivi  rappresentati  dal  dott.  Ermanno  Ziller, 
noto  ai  nostri  lettori,  il  quale  fedele  com'è  ai  principii  del  suo 
Maestro,  ripetè  contro  Marchet  le  censure  che  Schulze  aveva 
propalate  contro  Kaiffeisen.  E  fattasi  vivace  la  disputa,  i  parti- 
giani delle  Unioni  di  Ziller,  adunatisi  in  assemblea  generale, 
emisero  un  voto  di  biasimo  contro  la  deliberazione  del  congresso 
del  1873  \ 

La  questione  mise  capo  al  Ministero  d'  Agricoltura  per  ve- 
nire all'organizzazione  del  credito  agrario,  che  pure  è  una  lacuna 
nelle  Unioni  cooperative,  e  presero  parte  alle  discussioni  vari 
personaggi  eminenti,  fra  cui  l'istesso  professor  Marchet  che  for- 
mulò proposte  ed  anche  uno  statuto  che  il  Ministero  discusse. 
Anzi  il  Marchet  volle  stendere  la  mano  ai  suoi  avversari  e  pre- 
parare il  terreno  alla  conciliazione  con  un  suo  dotto  scritto  pub- 

•  V.  Die  Raiffetsen,  Schen  Dariehncassen    Vereine    auf  dem  vierten  Allge- 
*neìnen-Vereinstaffe.  Von  Hermann  Ziller,  Wien,  1876. 


DEL  CREDITO  POPOLARE.  739 

blicato  nei  {Landesjahrhiicher)  Rivista  delV  Agricoltura  Scien- 
tifica diretta  dal  chiarissimo  von  Natliasius,  dove,  dopo  avere 
lungamente  insistito  sulla  necessità  del  credito  ai  piccoli  proprie- 
tari agricoli,  enumera  e  critica  i  principali  tentativi  fatti  fin 
qui  per  venire  in  loro  aiuto.  Dimostra  come  la  sua  organizza- 
zione ha  per  base  i  principii  di  Schulze  Delitzsh,  ma  ha  duopo, 
in  vista  degli  scopi  speciali  da  conseguire,  d'allontanarsi  alquanto 
nell'applicazione,  specialmente  pella  prescrizione  dei  tre  mesi  sa- 
cramentali nella  concessione  dei  prestiti,  che  non  corrisponde  punto 
alle  esigenze  dell'agricoltura. 

Noi  desideriamo  vivamente  che  questi  uomini  altamente  one- 
sti e  benemeriti  della  cooperazione  Schulze  e  Kaifi^isen,  Ziller  e 
Marchet  finiscano  per  intendersi  ad  armonizzare  quanto  havvi  di 
buono  nei  due  tipi  di  banche  per  raggiungere  lo  scopo,  che  senza 
•dubbio  è  nella  mente  di  tutti  essi.  Intanto  il  mondo  economico 
prosegue  il  suo  cammino,  e  pe'piccoli  agricoltori  i  fatti  danno  di 
più  in  più  ragione  alle  Darlelmcassen  come  in  Germania,  così 
nell'Austria- Ungheria. 

Nell'Ungheria,  malgrado  le  sue  tante  Unioni  Cooperative  di 
credito,  si  è  dovuto  costituire  Der  Landes  VolJcs-Bodencredit 
Verhand  per  venire  in  aiuto  al  bisogno  di  credito  dei  piccoli 
proprietari  Kleingrundhesitzer.  È  una  vasta  associazione  di  pic- 
cole Unioni  sparse  nei  vari  paesi  e  villaggi  del  regno  allo  scopo 
esclusivo  di  diffondere  il  credito  tra  le  classi  agricole^  ed  ha  la 
sua  sede  centrale  a  Budapest.  Grli  statuti  hanno  un  fondo  orga- 
nico che  si  può  considerare  come  il  Trait-d' union  tra  le  asso- 
ciazioni sostenute  da  Schulze,  e  le  Darleìmcassen  di  Eaiffeisen. 

E  già  prossima  la  presentazione  al  Eeichsrath  di  un  progetto 
di  legge  concernente  l'ordinamento  e  giuridicità  degli  atti  ed  ope- 
razioni di  questa  grande  organizzazione  di  credito  agrario.  Go- 
verno e  Parlamento  si  adoprarono  fin  dalla  sua  origine  a  conso- 
lidarne le  basi  con  sovvenzioni  non  fruttanti  interesse,  e  non  è  a 
dnbitare  delle  sollecitudini  che  si  porranno  dai  Deputati  Unghe- 
resi per  assicurare  a  tale  istituzione  mediante  il  nuovo  progetto, 
una  esistenza  tanto  solida  quanto  duratura  e  benefica  per  le  condi- 
zioni economiche  della  piccola  agricoltura  dell'  Impero  Austriaco 
e  dell'Ungheria  in  specialissimo  modo. 

E  qui  il  nostro  pensiero,  come  lo  scopo  di  questo  modesto 
scritto,  si  porta  all'Italia,  cosi  eminentemente  agricola,  ma  scarsa 
di  spirito  di  associazione  nel  bene,  scarsa  d'istruzione,  specie  nelle 
campagne,  onde  più  che  a  giovare  allo  Stato  le  popolazioni  son 


740  DEL  CREDITO  POPOLARE. 

tratte  a  giovarsene,  e  scarsa  pur  anco  di  legislazione  in  fatto  di 
credito  popolare,  ma  più  particolarmente  di  credito  agrario.  11 
nostro  clima  privilegiato,  ci  fa  sentir  meno  la  concorrenza  agri- 
cola della  importazione,  tranne  sulle  sete  dove  i  salari  agricoli 
vanno  equiparandosi  coi  salari  chinesi  e  giapponesi,  e  né  anche 
i  grandi  proprietarii  s'impongono  ai  piccoli,  se  tuttora  lamentiamo 
l'ozio  dei  latifondi,  senza  dire  che  un  sistema  disuguale  d'imposte 
muta  da  provincia  a  provincia  le  condizioni  dell'agricoltura.  Ma  di 
quanto  non  potrebbero  migliorarsi  le  sorti  dei  piccoli  possidenti, 
e  dei  piccoli  affittuari  !  E  i  contadini  non  potranno  aspirare  mai 
alla  proprietà  come  gli  operai  industriali  vi  aspirano  per  via  d'una 
migliore  distribuzione  del  capitale?  In  queste  gravi  considera- 
zioni ci  confortp.  l'inchiesta  agraria  votata  e  rinforzata  con  tanto 
patriottismo  dai  due  rami  del  Parlamento;  ci  conforta  il  vederne 
alla  testa  il  senatore  Jacini,  un  senatore  campagnolo  all'inglese, 
ed  altri  benemeriti  membri  delle  due  Camere.  Lodiamo  il  con- 
corso aperto  agli  studii,  e  vorremmo  che  un  eguale  concorso  si 
aprisse  per  le  iniziative  locali  nel  campo  di  azione.  L'aristocrazia 
non  saprebbe  trovarne  uno  migliore  per  mantenere  il  posto  de- 
gno ed  elevato  che  può  competerle  nella  società  moderna,  e  la 
borghesia  compirebbe  nel  campo  economico,  la  parte  grandissima 
che  essa  sostenne  nella  nostra  redenzione  politica. 

(Continua) 

Alessandro  Rossi. 


RASSEfiM  DELLE  LETTERATURE  STRANIERE 


Il  Canzoniere  di  Heine  rifatto  per  la  terza  volta  italiano  da  B.  Zendrini.  —  Goethe 
e  Schiller. —  Poesie  dell'Uruguay.  —  Racconti  andalusi. —  Studi  sugli  idiomi 
de'  Pirenei.  —  Studi  biografici  del  Lovenjoul,  dell"  Haussonville,  del  Cuvillier 
Fleury;  Memorie  della  duchessa  di  Chateauroux  ;  La  Corrispondenza  del  Ber- 
lioz.  —  I  discorsi  del  Thiers.  —  II  ^arto  volume  della  Storia  di  Firenze  del 
Perrens.  —  Storia  d'ell'Austro-Ungheria. 


«  A  Tulio  Massarani  che  primo  rivelava  Enrico  Heine  all'  Italia  »  il 
professor  Zendrini  volle  che  fosse  dedicato  il  monumento  piil  sicuro  ch'egli, 
traducendolo,  eresse  alla  gloria  del   poeta  umoristico   tedesco.  L'esempio 
dello  Zendrini  poi  non  rimase  infecondo;   altri  tre  o  quattro  nostri  poeti 
e  de'  migliori  entrarono  nell'arringo  e  vi  colsero  qualche  alloro,  riuscendo 
talora  a  dimostrare  che  il  meglio  a  chi  vuole  è  possibile  sempre.  Ma  cia- 
scuno si  limitò  a  un  piccolo  saggio  di  versioni.  Nessuno,  come  lo  Zendrhii, 
misurò  tutto  il  campo  ;   nessuno   s'  immedesimò   quanto   lui   ne'  pensieri, 
ne'  sentimenti,  nella  vita  dell'  Heine  ;  nessuno  lo   intese   meglio,   se  pure 
alcuna  volta  la  forma  italiana  gli  si  è  alquanto  ribellata.  Ma  egli  ha  fatto 
quanto  potè  per  domarla,  e  vi  è  spesso   riuscito.   La  prima  versione  ci 
aveva  dato  un  Heine  fedele,  ma  un  po'  disuguale,   talora   leccato,  talora 
volgare  e  disarmonico;  la  seconda  edizione  ebbe  de' ritocchi  felici;  la  terza 
che  ci  è  venuta  tra  le  mani,  senza  che  possa  dirsi  perfetta,  segna  ancora 
uu  notevole  progresso.  Lo  Zendrini,  sebbene  ei  l'abbia  quasi  tutto  in  mente, 
rimeditò  pagina  per  pagina   il   suo   difficilissimo  testo,   per   coglierne  il 
senso  più  preciso;  ha  poi  studiato  molto  nella  Valdinievole  e  nella  Mon- 
tagna Pistoiese  e  sui  libri  del  valente  Giuliani  la  maniera  insieme  naturale 
ed  elegante  di  significare  un  pensiero  poetico.  Di  questo  studio  utilissimo 
si  vedono  traccio  luminose  qua  e  là  nel  nuovo  suo  libro,  il  quale  è  tanto 
più  heiniano,  quanto  meglio  combina  insieme  le  due  qualità  poetiche  pro- 
prie dell'Heine  :  la   brevità  elegante   e   la   limpida  naturalezza.  Chi  s' è 
provato  a  tradurre  le  poesie   dell'  Heine   sa  quanto   è   difficile  riuscirvi 
meglio  dello  Zendrini;  il  che  non  vuol  dire  che  lo  Zendrini   stesso   creda 


742  RASSEGNA  DELLE   LETTERATURE  STRANIERE, 

già  compiuta  l'opera  sua,  alla  quale  egli  viene  anzi  prodigando  nuove 
carezze  ad  ogni  nuova  edizione.  Se  lo  Zendrini  non  ci  ha  dato  ancora  tutto 
Heine,  la  miglior  parie  di  lui,  quella  che  più  ci  preme  conoscere,  è  in  questa 
sua  versione  italiana,  che  l'acume  ed  il  buon  gusto  del  traduttore  perfe- 
zioneranno sempre  senza  guastarla.  L'Heine  ha  nelle  sue  brevi  strofette 
rappresentati  tutti  i  dolori,  tutte  le  illusioni,  tutte  le  malizie,  tutte  le 
ipocrisie  del  nostro  tempo  ;  il  suo  scherzo  non  è  mai  lieve  ;  egli  stesso  lo 
ha  detto: 

«  Mio  Dio  !  senza  saperlo  ho  detto 

In  via  di  scherzo  ciò  che  avea  nel  core.  » 

Vivo,  potè  farsi  odiare  per  la  sua  sincerità,  alcuna  volta  un  po' cinica; 
morto,  la  sua  poesia  assume  innanzi  alla  nostra  mente  un  carattere  più 
grave,  più  solenne,  e  quasi  tragico;  in  questo  senso  può  sempre  ripetersi 
il  bel  verso  scultorio  dello  Zendrini  : 

«  Il  morto  Enrico  poetava  ancora.  » 

Le  scimie  dell'Heine  sono  insopportabili,  perchè  si  sono  ridotte  a  far  la 
caricatura  d'un  solo  uomo;  l'Heine  invece  ha  fatto,  piangendo,  la  carica- 
tura di  tutto  il  suo  secolo.  La  sua  gran  commedia  lirica  fa  piangere 
quanto  il  dramma  più  lacrimoso.  Voltare  in  modo  preciso,  in  lingua  poe- 
tica, ogni  motto  di  quella  commedia  è  lavoro  arduo;  ma  lo  Zendrini  è 
riuscito  il  più  delle  volte  a  provare  che  non  è  impossibile,  e  che  anche 
la  lima  può  talora  far  miracoli. 

Dissi  che  il  momento  comico-dramm'atico  della  poesia  tedesca  mi  pare 
sia  rappresentato  dall'  Heine;  così  il  periodo  epico  è  segnalato  dalla  gloria 
del  Goethe  e  dello  Schiller.  Questi  due  giganti  della  letteratura  tedesca, 
la  testa  ed  il  cuore  della  Germania  ideale,  sono  divenuti  oggetti  di  culto 
da  oltre  un  mezzo  secolo.  Lo  studiare  il  Goethe  e  lo  Schiller  è  divenuto 
in  Germania  una  professione,  come  lo  studiar  Dante  in  Italia,  Shakespeare 
in  Inghilterra,  e  Omero  in  tutto  il  mondo  civile.  Dopo  tanto  studiare 
che  se  ne  fa,  dopo  tanto  rifrugare  d' archivi  pubblici  e  privati  e  di 
biblioteche,  dopo  tanto  meditar  sopra  le  opere  del  Goethe,  dello  Schil- 
ler e  de'  loro  contemporanei,  è  malagevole,  nell'anno  18~9,  lo  scrivere 
intorno  a  que'  due  grandi  scrittori,  con  la  speranza  di  dir  qualclie  cosa 
di  nuovo.  Ma  la  loro  vita  ideale  fu  così  varia  e  così  originale,  che 
l'esporla  in  modo  ordinato,  semplice  e  fedele  è  opera  non  facile  e  però 
non  poco  meritoria  a  chi  la  intraprende.  Dopo  tutto,  quando  amiamo 
assai  uno  scrittore,  ce  ne  formiamo  un  tipo  che  non  vorremmo  veder  più 
diminuito  od  alterato  da  alcuna  critica;  le  novità  demolitrici  irritano  inu- 
tilmente il  lettore  che  s'è  avvezzato  ad  ammirare  nel  Goethe  una  specie 
di  titano  che  ha  data  veramente  la  scalata  a  Giove  Olimpico,  e  nello 
Schiller  un  angelo.  Vi  può  essere  un  grado  diverso  nell'ammirazione  ;  ma 
il  consenso  ammirativo  è  unanime.  Nessuna  meraviglia  pertanto  che  un. 


RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE  STRANIERE.         713 

nuovo  libro  sul  Goethe  e  sullo  Schiller,  anche  fatto  da  un  professore  d'uni- 
versità, si  astenga  quasi  intieramente  dalla  critica,  per  esporre  soltanto, 
con  accento  animato  ed  entusiastico  la  vita  dei  due  genii  che  compirono 
in  sé  stessi  non  tanto  il  tipo  ideale  dell'uomo  tedesco,  quanto  il  tipo  ideale 
dell'uomo  moderno.  Il  professor  Boyesen,  che  ha  pubblicato  or  ora  presso 
l'editore  Scribner  di  Nuova- York  un  nuovo  libro  sul  Goethe  e  lo  Schiller,^ 
è  un  giovine  norvegiano  che  incomincia  a  contare  fra  i  primi  scrittori 
degli  Stati  Uniti.  Le  sue  novelle  Gunnar;  A  Norseman's  Filgrimage; 
Tales  from  two  Hemìspheres  gli  aprirono  le  porte  della  Cornell  Univer- 
sity, ove  egli  insegna  la  letteratura  tedesca,  dopo  avere  studiato  per  alcuni 
anni  in  Germania.  Egli  ebbe  tosto  cura  di  procacciare  alla  biblioteca  di 
quella  università  tutti  i  libri  e  articoli  che  da  un  secolo  in  qua  furono 
scritti  sopra  Goethe  e  Schiller, o  quelli  almeno  ch'egli  riusci  a  raccogliere; 
egli  ebbe  pertanto  nell'  intraprendere  il  suo  lavoro,  per  dire  il  vero  più 
narrativo  ed  espositivo  che  critico,  fra  le  mani  tutti  i  documenti  più  im- 
portanti che  gli  permisero  di  scrivere  una  biografia  compiuta  de'  due  poeti 
e  di  conoscere  tutte  le  principali  interpretazioni  alle  quali  il  poema  dram- 
matico del  Faust  diede  occasione. 

Dico  biografia  compiuta;  ma  debbo  aggiungere  molto  compendiosa,  e 
in  alcuni  casi,  soverchiamente.  Cosi,  per  esempio,  in  un'opera  speciale  sul 
Goethe,  è  troppo  scarsa  la  menzione  ch'egli  fa  delle  sue  relazioni  col  Manzoni 
e  con  l'Italia:  «  Con  l'Italia  pure,  egli  scrive,  Goethe  mantenne  una  re- 
lazione intermittente  [desultonj)  per  mezzo  del  poeta  Manzoni,  della  tra- 
gedia del  quale  Conte  Carmagnola  egli  scrisse  una  rassegna,  come  crede 
il  Goedeke,  più  con  l'intento  d'ammaestrare  l'autore  che  per  edificare  il 
pubblico;  »  giudizio  incompiuto  ed  inesatto,  essendo  ben  noto  che  il  Goethe 
esaminò  la  tragedia  del  Manzoni,  senza  saper  nulla  dell'autore,  col  quale 
entrò  soltanto  in  relazione,  dopo  che  il  Manzoni  ebbe  letto  quel  magni- 
fico articolo  e  scrisse  al  Goethe  la  famosa  lettera  della  quale  il  professor 
Boyesen  non  sembra  aver  conoscenza. 

Dall'America  del  Nord  ove  mi  trattenne  un  istante  il  prof.  Boyesen 
siami  lecito  fare  una  breve  escursione  nell'America  meridionale,  a  Monte- 
video,  ove,  a  beneficio  del  monumento  dell'Indipendenza  della  Repubblica 
dell'Uruguay  s'è  pubblicato  un  bell'Albo  di  poesie  uruguayane.  Mancavano 
alcune  migliaia  di  lire  per  coprire  le  spese  del  monumento,  non  s'aveva 
coraggio  di  cercar  nuovi  soscrittori  o  di  molestare  una  seconda  volta  gli 
antichi;  si  ricorse  pertanto  ad  un  mezzo  indiretto  di  far  danaro,  si  aflJdò 
ad  un  egregio  scrittore  dell'Uruguay,  Alexandro  Magarihos  Cervantes,  autore 
di  versi  lodati  (tra  i  quali  specialmente  quelli  raccolti  sotto  il  titolo:  Las 
Brisas  del  Piata),  e  di  un  volume  importante  di  studi  storici,  politici  e 

'  Goethe  and  Schiller,  Their  lives  and  works,  includmg  coinmentary  on  Goe- 
the's  Faust;  1879. 


744  RASSEGNA  DELLE   LETTEKATURE  STRANIERE, 

sociali  sopra  il  Rio  della  Piata,  l'incarico  di  mettere  insieme  un'antologia 
poetica  degli  scrittori  dell'Uruguay.  Il  Magarinos  Cervantes  vi  ha  pure 
meritamente  fatto  posto  a  sé  stesso,  e  ch'egli  non  vi  sia  un  intruso  ba- 
sterebbero a  provarlo  le  due  brevi  graziose  strofe  seguenti  intitolate:  Il 
Dubbio  (Duda)  : 

Donde  acaba  la  vida  ?....  do  la  muerte  ? 

Al  morir  viaja  el  houibre  peregrino, 

Y  mejorando  ea  ser,  eu  forma,  y  suerte, 

De  astro  en  astro  prosigue  su  camino  ? 
0  sin  romper  el  misterioso  lazo, 

Que  encadena  a  la  tierra  al  alma  humaaa, 

Reuace  de  la  tumba  ea  el  regazo, 

Ayer  fior,  ave  boy,  miiier  mariana  ? 

che  il  giovine  poeta  italo-americano  Giovacchino  Odicini  Sagra  ha  tra- 
dotto cosi: 

Dove  la  vita  ha  fin  ?  dove  la  morte  ? 

Viaggia,  morendo,  l'uomo  peregrino, 

E  migliora,  nell'easer,  forma  e  sorte, 

D'astro  in  astro  seguendo  il  suo  cammino  ? 
O,  sempre  avvinto  al  laccio  misterioso 

Che  incatena  alla  terra  l'alme  umane, 

Della  tomba  rinasce  nel  riposo, 

Ieri  augello,  oggi  fior,  donna  dimane? 

Sono  oltre  sessanta  i  poeti  uruguaiani  chiamati  a  contribuire  a  questa 
raccolta  e  ben  SSó  le  poesie  che  vi  furono  accolte,  hi  tutte  si  può  dire 
esservi  un  sentimento  elevato,  e  la  massima  parte  di  esse  è  consacrata  a 
celebrare  la  libertà  e  la  grandezza  della  patria;  ma  l'originalità  vi  è 
scarsa,  e  la  dizione  che  dovrebbe  essere  poetica  riesce  spesso  volgare;  i 
Juan  Cruz  Varela,  autori  delle  belle  ed  inspirate  strofe  intitolate  America 
sono  rari  pur  troppo.  Da  una  regione  del  mezzogiorno  parrebbe  lecito  at- 
tendersi maggior  ricchezza  d'immagini  colorate;  tuttavia,  e  per  lo  scopo 
al  quale  fu  destinato  e  che  venne  già  felicemente  raggiunto,  del  che  si 
deve  particolarissima  lode  allo  zelo  del  Magarinos  Cervantes,  e  per  l'af- 
fetto che  quella  splendida  terra  americana  inspirò  sempre  agli  Italiani,  un 
albo  di  poesie  dell'Uruguay  dev'esser  il  benvenuto  fra  noi;  che,  se  non  può 
darci  un'idea  superlativa  di  quel  Parnaso,  ci  dimostra  un  forte  consenso 
di  quei  poeti  in  un  pensiero  dominante  che  inspirò  il  canto  del  Magarinos 
Cervantes  con  cui  la  raccolta  si  chiude:  Educar  es  redimir. 

Ma,  tra  gli  scrittori  moralisti  i  più  morali  riescono  ancora  sempre 
quelli  che,  invece  di  recitar  sermoni  ai  viziosi,  si  contentano  di  pungere 
lievemente  i  vizi.  Queste  lievi  punture  sono  pur  sempre   le   più   efficaci. 


RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE  STRANIERE.  745 

Come  non  si  può  riformare  il  mondo  in  un  giorno,  così  è  quasi  pena  per- 
duta l'assalto  che  si  dà  in  certi  scritti  all'umana  nequizia  ed  all'umana 
corruttela.  INIa  una  satira  discreta  che  ferisca  in  ogni  lettore  una  sua  par- 
ticolar  debolezza  e  lo  inviti  a  riderne  seco  stesso  è  spesso  grandemente 
benefica.  Chi  potrebbe,  per  un  esempio,  immaginarsi"  un  Don  Chisciotte 
scx'itto  sul  serio,  ove,  invece  d'una  piacevole  rappresentazione  umoristica 
del  cavaliere,  si  venisse  con  una  severità  magniloquente  di  linguaggio  di- 
mostrando gli  errori  ed  i  torti  della  cavalleria?  Noi  ridiamo  volentieri  leg- 
gendo il  racconto  immortale  del  Cervantes;  ma,  dopo  avere  ben  riso,  chi 
oserebbe  ancora  darsi  aria  di  paladino?  A  questa  grande  scuola  del  Cer- 
vantes sembra  pure  essersi  educato  uno  dei  migliori  scrittori  spagnuoli 
contemporanei,  il  novelliere,  critico,  storico  e  uomo  politico  Giovanni  Va- 
lera,  uno  degli  otto  spagnuoli  eminenti  che  vennero  in  Italia  a  recar  l'in- 
felice dono  della  corona  di  Spagna  al  nostro  duca  d'Aosta.  L'editore  Cal- 
maun  Levy  ha  ora  dato  alle  stampe  una  versione  francese  dei  due  bellissimi 
racconti  andalusi  del  Yalera,  il  quale  ebbe  già  la  fortuna  di  esser  compreso 
e  gustato  da  quel  perfetto  buongustaio  e  fine  conoscitore  della  letteratura 
spagnuola  ch'era  l'autore  del  Teatro  di  Clara  Gazul  e  della  Colomba., 
Prospero  Mérimée,  ed  ora,  tradotto  in  francese,  rendiirà  tosto  popolare  il 
noma  del  Valora  a  tutti  1  lettori  europei  Quanta  malizia  nella  ingenuità, 
quanta  ingenuità  nella  malizia  delle  lettere  che  Don  Luis  De  Varga,  il 
quale  crede  avere  una  forte  vocazione  pel  sacerdozio,  scrive  al  proprio 
zio-prete!  Quanta  destrezza  nel  descrivere  i  progressi  della  passione  del 
giovine  seminarista  in  pericolo  di  dannarsi  per  la  bella  vedova  Pepita 
Ximenes  !  Quanta  semplicità  e  naturalezza  nel  racconto  !  E  qual  eccellente 
argomento  per  una  bella  commedia  di  costumi  e  di  caratteri!  L'autore  ha 
un'arte  così  fine  nel  mostrarci  i  vezzi  della  bella  Pepita,  che  il  lettore  non 
solo  assolve  il  giovine  santo  fallito  che  cede  alle  grazie  della  bella  anda- 
lusa, ma  quasi  sente  d'amarla  per  proprio  conto.  Nelle  Illusioni  di  Don 
Faustino  vogliono  che  l'autore  abbia  rilevato  alcuna  delle  impressioni  ed 
avventure  della  sua  gioventù  ;  checché  ne  sia,  vi  è  un'analisi  profonda  di 
sentimenti,  che  può  cosi  bene  l'appresentare  soltanto  chi  li  ha  bene  stu- 
diati e  forse  sperimentati  in  sé  stesso. 

Molta  parte  della  nostra  miseria  é  nei  nostri  propri  sogni,  e  l'obbligarsi 
qualche  volta  a  non  sognare  é  uno  de'  mezzi  più  sicuri  per  procurarsi 
uno  stato  di  tranquillità  relativa  che  può  scambiarsi  con  la  felicità  e  in 
alcuni  casi  divenire  felicità  perfetta.  11  sognatore  Faustino  è  il  migliore  tra 
i  personaggi  del  secondo  racconto  del  Valera;  ma  ciò  non  toglie  che  egli 
riceva  una  palla  nel  cuore,  e  che  gli  sopravvivano,  invece,  quelli  che  piglia- 
no il  mondo  qual  è  senza  curarsi  troppo  di  quello  che  potrebbe  o  dovrebbe 
divenire.  Ma,  come  avvertiva  già  il  Mérimée,  anche  al  di  là  de'Pirenei  gli 
uomini  son  divenuti  più  seri,  le  passioni  si  sono  calmate,  e  si  è  quasi  disim- 
parato a  far  l'amore  ;  la  poesia  della  vita  se  ne  va,  e  in  breve  non  si  troverà 


746  RASSEGNA   DELLE   LETTERATURE   STRANIERE. 

sopra  la  terra,  altro  che  Parnaso  ed  Elicona,  un  solo  rifugio  domestico,  un 
solo  asilo  pietoso  per  ricoverarla.  Manco  male  quando  e  dove  si  compensa  la 
povertà  del  sentimento  con  la  poesia  sovrana  del  pensiero,  dove,  nel  difetto 
della  foga  irrompente,  degli  ardori  simpatici,  della  simpatica  baldanza  de'gio- 
vani  si  mostra  almeno  una  gioventù  studiosa!  Questa  gioventù  si  trova  ora 
dove  parrebbe  che  fosse  meno  da  ricercarsi,  nella  parte  più  meridionale  della 
Francia,  ove,  da  alcuni  anni  in  qua,  si  promuovono  con  una  singolare  alacrità 
le  indagini  linguistiche,  ben  guidate  da  eccellenti  maestri.  Uno  di  questi  mae- 
stri è  Achille  Luchaire  «  maitre  de  conférences  d'histoire  et  de  langues  de  la 
Franco  meridionale  »,  presso  la  facoltà  letteraria  di  Bordeaux.  La  sola  esi- 
stenza di  una  cattedra  speciale  come  quella  che  copre  il  Luchaire  a  Bordeaux 
ci  mostra  come  l'indirizzo  di  quegli  insegnamenti  sia  pratico.  Mentre  che  il  pro- 
fessor Combes  espone  la  storia  della  Francia  e  della  Germania  nel  secolo  deci- 
motta  vo,  e  spiega  gli  storici  antichi,  il  Luchaire  narra  la  storia  della  riunione 
dei  paesi  di  lingua  d'Oc  al  dominio  regio,  prepara  i  giovani  all'aggregazione 
di  storia,  e  studia  con  essi  gì  idiomi  parlati  ne  Pirenei  Frutto  di  questi  studi 
è  ora  un  bel  volume  pubblicato  a  Parigi  dal  Maisonneuve  sotto  il  titolo  di  : 
Études  sur  les  idiomes  pyrénéens  de  la  rcgion  frangaise.  Precede  una 
dotta  introduzione  sopra  le  antiche  popolazioni  dell'Aquitania,   le  quali, 
secondo  l'opinione  autorevole  del  Luchaire,  avrebbero,  prima  dell  invasione 
romana,  parlato  la  lingua  basca,  ad  eccezione  dei  Biturigi  Vivischi  fondatori 
della  città  di  Bordeaux,  i  quali,  com'egli  ha  dimostrato  in  una  nuova  recen- 
tissima dissertazioncella  inserita  nel  primo  fascicolo  degli  importanti   An- 
nales  de  la  Faculté  des  lettres  de  Bordeaux,  appartennero  certamente,  pel 
loro  tipo  e  pel  loro  linguaggio,  alla  stirpe  celtica  Segue  una  nota  di  ben  241 
nomi  di  uomini,  donne  e  divinità  delle  antiche  popolazioni  aquitane  tolti  dalle 
iscrizioni  romane,  che  diviene  base  d'uno  studio  importante  fonetico-gram- 
maticale,  scopo  del  quale  è  principalmente  distinguere  gli  elementi  aquitani 
dai  gallici,  per  arrivare,  dove  è  possibile,  alla  conclusione  che  nella  maggior 
parte  di  que'  nomi  domina  l'elemento  aquilano;  ma,  nel  maggior  numero 
di  casi,  lo  stesso  dotto  autore  è  obbligato  a  convenire  che  ritrovandosi  gli  ele- 
menti medesimi  nei  due  gruppi  linguistici,  ogni  sentenza  definitiva  riesce 
prematura.  Il  Luchaire  ci  spiega  tuttavia  questo  fenomeno,  che  non  gli  paro 
pregiudicar  punto  la  sua  tesi  principale;  «  È  innegabile,  egli  scrive,  che  i 
nomi  indigeni  de'marmi  pirenaici  appartengano,  nella  loro  gran  maggioranza, 
all'antico  gallico  Questo  risultato  si  spiega  in  parte  ove  si  pensi  che  il  mag- 
gior numero  delle  iscrizioni  studiate  proviene  dalle  valli  del  Comminges,  ove 
l'elemento  tectosagio  dominò,  come  vi  prevalse  più  tardi  l'elemento  romano 
a  motivo  delle  vicine  acque  minerali  e  delle  grandi  cave  di  marmo.  L'assen- 
za 0  povertà  delle  iscrizioni  funebri  nel  maggior  numero  delle  valli  pirenai- 
che dipende  dagli  usi  de'  primitivi  aquitani,  i  quali  non  seguirono  il  costume 
romano  o  gallo-romano  d'incidere  sul  marmo  un  ricordo  del  trapassato  o  i 
loro  voti  agli  Dei.  Gl'indigeni  aquitani  de'  quali  le  iscrizioni  ci  rivelano  i 


RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE   STRANIERE.  747 

nomi  erano  in  diretto  contatto  coi  grandi  centri  gallo-romani  e  avevano  adot- 
tato i  costumi  de'  conquistatori.  Per  un  altro  verso,  dobbiamo  riconoscere 
che  il  predominio  de'  nomi  gallici  può  essere  indizio  d'un  fatto  che  abbiamo 
già  esaminato:  la  celtiflcazione  già  molto  spinta  dell'Aquitania  quando  i 
Romani  se  no  impadronirono.  Tuttavia  la  presenza  su  questi  marmi  di  uno 
scarso  numero  di  nomi  di  origine  ibero-euscarica  attesta  la  persistenza  della 
nazionalità  aquitanica,  la  quale  tante  altre  testimonianze  ci  mostrano  aver 
soprav\'issuto  alla  conquista  latina  e  conservato,  in  certo  modo,  la  sua  esi- 
stenza particolare  in  mezzo  ai  paesi  gallo-romani.  »  Checché  ne  sia  del  basco 
delle  antiche  iscrizioni,  la  sua  vitalità  e  originalità  spiccata  è  indiscutibile. 
Esso  è  ancora  parlato  in  Francia  da  140,000  persone.  Il  Broca  da  prima  e 
poi  con  molto  maggior  precisione  il  principe  Luciano  Bonaparte  hanno  trac- 
ciata la  carta  linguistica  dei  Baschi.  Il  Luchaire  ci  dà  oggi  i  risultati  delle 
ultime  indagini  etnografiche,  geografiche  e  linguistiche  sopra  i  Baschi,  dalle 
quali  si  rende  manifesto  che  essi  hanno  forse  guadagnato  in  intensità  ciò 
che  perdettero  in  estensione,  e  che  se  la  loro   zona  è  assai  ristretta,  su 
quella  zona  vivono  con  fisionomia  propria  molto  indipendente.  Il  Luchaire 
esordisce  con  una  specie  di  bibliografia  della  lingua  euskara  o  basca,  nel 
secolo  XVI;  quindi  intraprende  la  classificazione  ed  una  breve  analisi  fone- 
tica, grammaticale  e  lessicale  di  quella   lingua.   «  L'euskara,    scrive  il 
Luchaire,  deve  essere  classificato,  per  un  verso,  fra  le  lingue  agglutinanti; 
per  l'altro,  si  colloca  particolarmente  nel  gruppo  delle  lingue  uralo-altai- 
che  ed  in  quello  delle  lingue  americane.  Il  processo   de'  suffissi   nominali 
e  della  composizione  verbale  che  fanno  del  basco  un  idioma  isolato  fra  le 
lingue  a  flessione  che  lo  circondano  e  gli  sottraggono,   a   grado  a  grado, 
qualche  cosa,  costituiscono  pure  il  carattere  delle  lingue  dell'Indostan  me- 
ridionale, delle  lingue  della  Sib3ria,  della  Russia   del   nord,   dell'Africa  e 
dell'America  settentrionale.  Si  potrebbe  dunque  dire  che  il  basco  è  isolato 
geograficamente,  ma  non  linguisticamente,  come  lo  si  può  dire  dell'un- 
gherese. »  Io  non  credo  che  siasi  mai   con  maggior    brevità  definito   più 
chiaramente  e  più  scientificamente  il  vero  carattere  del  basco,  il  quale,  a 
malgrado  de'  suoi  caratteri  speciali  storici,  merita  oramai  di   essere  stu- 
diato in  armonia  con  le  altre  lingue  agglutinanti,  il  che  venne  già  fatto 
in  parte  dal  principe  Bonaparte  che  comparò  il  basco  con  le  lingue   fin- 
niche, dall'Hovelacque  che  lo  riscontrò  col   magiaro,   dal    Chareucey  che 
lo  pose  in  raffronto  con  l'algonchino  e  con  le  lingue  americane  in  genere, 
dal  Yinson  che  lo  studiò  con  le  lingue  dravidiche.  I  turanisti,  altaisti,  ame- 
ricanisti avranno  ora  dunque  nel  volume   del  Luchaire  un  nuovo  eccita- 
mento ad  approfondire  le  loro  indagini  sul  basco,  il  quale  cessa  di  essere 
un'  isola  linguistica  per  entrare  e  far  parte  anch'esso  di  una  numerosa 
famiglia  di  lingue. 

Nella  seconda  parte  dell'opera  del  dotto  filologo  di   Bordeaux,  ove  si 
studia  distesamente  la  lingua  guascona,  e  i   dialetti   speciali   del   Béarn, 


748  RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE   STRANIERE, 

del   Bigorre,  del    Commi nges,  del   Couserans,  della   Linguadocca   e   della 
Catalogna,  troveranno  nuovo  pascolo  a  importanti  osservazioni  i  romani- 
sti, non  solo  perchè  il  Luchaire  stesso  può  esser  loro  un'ottima  guida,  ma 
perchè  matte  loro  sott'occliio  molti   documenti  di   letteratura  dialettale  i 
quali  li  mettono  in  condizione  di  intraprendere  nuove  e  proprie  indagini, 
che  ci  avvicineranno  sempre  più  al  sentimento  di    quell'unità  linguistica 
cli'è  una  delle  conquiste  come  delle  consolazioni  del   nostro  tempo,  in  cui, 
per   opera  della  scienza  va  man  mano  cadendo  alcuna  di  quelle  antiche 
barriere  che  tenevano   fin    qui   divisa    1'  umanità;    del  che   si  sentiranno 
col  tempo,  i  beneflcii  anche  nella  politica.  Ne  vogliamo  indicare  un  esem- 
pio. Per   quanto  considerata   sotto   l'aspetto   slavo   la   simpatìa  nata   in 
questo  secolo  fra  Turchi  ed  Ungheresi  possa  sembrare  un  danno  e  quasi 
uu  regresso,  contemplata    da  una   maggiore   altezza   ideale  è,  invece,  un 
vantaggio,  un  trionfo  umano.  Due  famiglie  d'una  stessa  stirpe  erano  vicine 
e  rimasero  per  molti  secoli  senza  avere  alcuna  coscienza  della  loro  paren^ 
tela;  gli  studi   linguistici   hanno  nel    secolo   nostro   provato  che    Turchi 
e  Magiari  appartengono   alla  stessa   stirpe;  il   popolo  ancora  non  lo  sa, 
né  in   Turchia   né   in  Ungheria  ;  ma  le  persone  colte  ne'  due   paesi  non 
ignorano  questa  scoperta  linguistica,  e,  poiché  sono  esse  che  fanno  la  poli- 
tica, le  due   politiche  si  sono   avvicinate  e  ne  hanno  quasi   formata  una 
sola.  Tempo  verrà  forse  in  cui  fra  Turchi  e  Slavi  si  stabilirà  quell'accordo 
che  già  esiste  fra   Slavi  e  Finni,  e  che  sarà  possibile  fra   le  due  grandi 
stirpi  una  perfetta  intelligenza  e  convivenza   Non  é  inutile  frattanto  che 
siasi  distrutto,  per  opera  della  scienza,  se  non  tutti,  almeno  uno  dei  prin- 
cipali motivi  di  odio  che  dividevano  due   popoli,  i  quali  avvicmandosi  e 
conoscendosi  di  più,  si  odieranno  meno,  e  avranno  minori  ragioni  o  pre- 
testi di  entrare  in  nuove  guerre. 

Come  le  lingue  vanno  man  mano  legandosi  fra  loro  in  una  specie  di 
catena  armonica,  così  le  letterature;  noi  diffidammo  gran  tempo,  per  igno- 
ranza, degli  scrittori  stranieri;  ora  che  incominciamo  a  conoscerli  ci  me- 
ravigliamo quasi  nel  vedere  che  essi  sentono  cosi  spesso  e  talora  pure  si 
esprimono  come  noi.  Perciò  vanno  diminuendo  sempre  più  nelle  lettera- 
ture i  tipi  nazionali;  o,  per  lo  meno,  sotto  la  sottile  parvenza  del  tipo 
nazionale  troviamo  una  salda  compagine  d'afìetti  umani  conformi,  l'unità 
fondamentale  e  universale  del  vero.  Così  avviene  che  ci  sentiamo  concit- 
tadini del  tedesco  Goethe  che  concepisce  la  letteratura  universale,  e  al 
tempo  stesso,  con  minore  alterigia,  ma  forse  con  maggior  persuasione 
dell'autore  della  Comc'die  humaine,  di  Onorato  Balzac,  che  dedicava  alcuni 
desuoi  lavori  ad  italiani,  come  il  marchese  Gian  Carlo  Di  Negro  '18:50, 
V Elude  de  femme),  il  Puttinati  1830,  La  Vendetta  ,  la  marchesa  Clara 
Maffei  (184-',  La  Fausse  Maitresse'^,  la  contessa  Bolognini  nata  Vimer- 
cati  (1838,  Une  fille  d'Ève),  il  marchese  Damaso  Pareto  (I8:f2,  Le  mes- 
sage),  Achille   Deveria  (1843,  Honorine),  Gio vacchino   Rossini    (1835,  Le 


RASSEGNA   DELLE  LETTERATURE   STRANIERE.  74&' 

contrai  de  mariage),  il  principe  Alfonso  Serafino  di  Porcifi  (1838,  SpZm- 
deurs  et  misères  des  cowtisanes,  etc),  Michelangelo  Caetani  allora  prin- 
cipe  di   Teano  ora   duca  di   Sermoneta  (1846-47,  Les  parents  pauvres, 
La  cousine  Bette,  Le  cousin  Fons),  la  principessa  Cristina  di  Bel  gioioso 
(1844,  Gaudissart),  la  contessa  Seraflna   Sanse  verino   nata   Porci  a  (1830, 
Les  employés).  Questa  curiosa  notizia  sopra  le  dediche  del  Balzac  non  ho 
durato  molta  fatica  a  metterla  insieme;  ne  ha  tutto  il   merito   un   libro 
bibliografico  di  Carlo  di  Lovenjoul  pubblicato  di  recente  dall'editore  Lévy 
e  intitolato:  Histoire  des  oeuvres  de  H.  de  Patóflc;  si  tratta  niente  meno 
che  d'un  volume  in  8°  grande  di  ben  quattrocento  pagine,  degno  comple- 
mento di  tutta   l'edizione  delle  opere  del   Balzac,  scritte  fra  il   1822  e  il 
i850  e  che  formano  ora  ventiquattro  grossi  volumi.  Scrittore  più  fecondo 
del  Balzac  il  secolo  nostro  non  ebbe  ;  che,  se  può  citarsi  alcun  autore  che 
abbia   messo   insieme   un   maggior  numero  di   volumi    di    lui,  quando  si 
pensi  che  tutto  ciò  che  il  Balzac  scriveva  gli  usciva  proprio  dalla   testa 
e  dal  cuore,  si  comprenderà  facilmente  che   la   vera  miniera  inesauribile 
era  veramente  il  suo  prodigioso  intelletto.  Niente  dunque  di  più  istruttivo 
e  di  più  attraente  che  questo  catalogo   in  apparenza  così  arido  de'nume- 
rosi  lavori  del  Balzac,  ove  son  notati  i  suoi  primi  passi,  i  suoi  pentimenti,. 
i  suoi  ritorni,  tutta  la  varia  vicenda  e  fortuna  de'suoi  libri,  e  i  nomi  dei 
principali  critici  che  ne  scrissero.  Quanta  parte  di  storia  letteraria  fran- 
cese contemporanea  si  può  studiare  nella  sola  figura  del  Balzac.  il  quale, 
sebbene  fosse  solito  a  far  parte   da  sé,  si  versò   pur   tanto  al  di  fuori  e 
interpretò  tanta  parte  de'costumi  e  vizi  del  nostro  tempo,  che,  con  la  sola 
guida  de'suoi  libri,  si  è  veramente  iniziati  alla  parte  più  viva  della  com- 
media borghese  contemporanea. 

I  Francesi,  che  passarono  per  tanto  tempo  come  il  popolo  più  chauvin 
dell'Europa,  sono  pur  quelli  che  han  fatto  e  fanno  di  più  per  divulgare,  col 
mezzo  della  loro  lingua  facile  e  chiara,  ciò  che  vi  ha  di  meglio  nelle  let- 
terature straniere;  e  si  potrebbe  quasi  dire  che  nessuno  scrittore  acquista 
veramente  fama  europea  s'egli  non  viene,  in  qualche  modo,  battezzato  a 
Parigi.  È  in  tal  modo  che  noi  possiamo  quasi  dire  d'aver  conosciuto  lord 
Brougham  e  Guglielmo  Prescott,  dopo  che  il  visconte  D'Haussonville  ne 
parlò  distesamente  nella  Revue  des  Deux  Mondes.  Gli  Stati  Uniti  d'Ame- 
rica possono  vantarsi  d'avere  prodotto  tre  de' migliori  storici  del  nostro 
tempo,  il  vivente  Bancroft,  Guglielmo  Prescott  e  Giorgio  Ticknor.  Il  Ticknor 
visse  ancora  tanto  da  poterci  lasciare  un  prezioso  ricordo  del  suo  celebre 
amico  Prescott,  e  da  questo  ricordo  il  visconte  d'Hausson ville  derivò  prin- 
cipalmente lume  per  raffigurarci  l'insigne  storico  di  Ferdinando  ed  Isa- 
bella, di  Filippo  li  e  della  Conquista  del  Messico,  morto  or  sono  vent'anni, 
morto  sulla  soglia  della  sua  stanza  di  lavoro,  ove  desiderò  che  il  suo  ca- 
davere fosse  lasciato  alcun  tempo  prima  che  venisse  recato  alla  sua 
estrema  dimora.  «  Circondato,  scrive  il  D'Haussonville,  dalla  sua  moglie^. 


750  RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE   STRANIERE, 

dai  suoi  figli,  dalla  sorella  prediletta  che  era  stata  la  compagna  e  la  con- 
fidente dei  suoi  primi  anni,  dal  suo  vecchio  amico  Ticknor  accorso  al  suo 
capezzale,  egli  rese  1'  ultimo  spiro.  Morire  in  mezzo  a  quelli  eh'  egli 
amava,  era  una  delie  cose  ch'egli  aveva  maggiormente  desiderato.  Nel 
suo  testamento  si  trovò  l'espressione  d'un  voto  singolare.  Egli  richiedeva 
con  insistenza  che  prima  di  essere  trasportato  al  suo  ultimo  riposo,  il  pro- 
prio corpo  rimanesse  alcun  tempo  deposto  in  quel  gabinetto  di  lavoro, 
ov'egli  avea  passato  le  ore  più  dolci  della  sua  vita.  La  sua  ultima 
volontà  fu  religiosamente  compiuta.  Nello  stesso  giorno,  la  sua  bara 
veniva  portata  in  chiesa  e  calata  nel  sotterraneo  ove  dormivano  già 
i  suoi  parenti  e  la  flgliuoletta  ch'egli  aveva  tanto  amata,  fra  i  sin- 
ghiozzi degli  amici  e  la  commozione  generale  del  pubblico,  numeroso 
più  che  sia  possibile  immaginarselo.  Parecchie  persone  che  avevano  ve- 
duto una  0  due  volte  soltanto  nella  loro  vita  il  Prescott  o  che  lo  cono- 
scevano soltanto  di  nome,  aveano  seguito  fino  all'  ultimo  il  funebre  cor- 
teggio. »  La  tristezza  era  dipinta  sopra  ogni  volto,  ed  era  facile  il  vedere, 
soggiunge  qui  il  fedele  biografo  (Ticknor)  al  quale  spetta  qui  l'ultima  pa- 
rola «  che  tutti  avevano  perduto  assai  e  che  una  luce  cosi  benefica  come 
splendida  era  stata  spenta  dalla  mano  della  morte.  »  Morire  cosi  vai  meglio 
di  tutte  le  clamorose  dimostrazioni,  di  tutte  le  orazioni,  di  tutte  le  decla- 
mazioni che  sogliono  accompagnare  il  trapasso  degli  uomini  stimati  grandi, 
e  il  visconte  d'Haussonville,  che,  oltre  alla  biografia  del  Prescott  e  del 
Brougham,  inserì  pure  in  questo  volume  quelle  molto  attraenti  della  Sand 
e  del  Michelet,  ebbe  ragione  a  trovare  soverchio  il  rumore  che  si  fece  sul 
sepolcro  di  quest'ultimo,  del  quale  ci  sembra  tuttavia  ch'egli  siasi  mostrato 
critico  troppo  acerbo.  È  sempre  ingiusta  la  critica  biografica,  quando  im- 
prendiamo a  studiare  gli  uomini  secondo  un  nostro  tipo  ideale,  e  non  per 
quello  che  essi  sono  e  vogliono  essere.  L'indole  del  Michelet,  la  sua  ma- 
niera di  scrivere  poteva  riuscire  più  o  meno  simpatica,  secondo  il  vario 
temperamento  del  lettore;  ma  egli  scriveva  troppo  scopertamente,  si  ab- 
•bandonava  troppo  ai  propri  sentimenti,  perchè  gli  si  possa  far  carico  di 
non  avere  avuto  sempre  queila  temperanza,  quel  buon  gusto,  ch'è  indizio 
bensì  di  un'arte  consumata,  ma  molto  più  spesso  di  una  consumata  ma- 
lizia, della  quale  non  parmi  che  il  Michelet  fosse  capace.  È  evidente  che 
al  D'Haussonville  il  Michelet  non  piaceva  ;  ma  sarebbe  egli  giusto  il  rim- 
proverare a  lui  il  difetto  di  buon  gusto,  per  aver  detto  con  piena  since- 
rità e  qualche  volta  con  asprezza  del  Michelet  ciò  ch'egli  pensava?  Sta 
bene  che  ad  uno  scrittoz^e  si  domandi  sempre  di  scrivere  com'egli  sente  e 
che  non  si  risparmi,  quando  egli,  per  ignobili  ragioni,  si  allontani  da  questa 
regola;  la  sincerità  dev'essere  la  prima  qualità  di  ogni  scrittore;  ora  questa 
qualità  al  Michelet  non  si  poteva  negare,  e  la  critica  dovrebbe  solo  es- 
sergli severa  per  que'  pochi  casi  ne'  quali  egli  l'abbia  tradita.  Più  impar- 
ziale e  più  equo  si  mostrò  invece  il  D'Haussonville  nello  studio  biografico 


RASSEGNA  DELLE   LETTERATURE   STRANIERE.  751 

ch'egli  dedicò  alla  Sand;  anzi  la  sua  biografìa  è  riuscita  intieramente  af- 
fettuosa e  simpatica;  lo  amiamo  meglio  così,  e  lo  troviamo,  in  quest'at- 
titudine, molto  più  naturale  e  molto  più  eloquente. 

11  Michelet  definiva  la  bontà  humble  mot,  grande  cìiose;  è  cosa  sin- 
golare che  tutti,  anche  i  maligni,  amano  sentirne  gli  effetti,  e  pochi  si 
curano  d'incoraggiarla,  nessuno  forse  d'ammirarla.  Uno  scrittore  profon- 
damente buono  corre  spesso  il  rischio  di  non  trovare  chi  lo  legga;  quindi 
accade  che  tanti  scrittori  mettano  un  serio  impegno  nella  malizia,  e  che 
i  più  maliziosi  siano  per  lo  più  i  più  fortunati.  Tra  questi  può  sicuramente 
pigliar  posto  l'accademico  francese  Cuvillier-Fleury,  il  quale  in  un  recente 
volume  pubblicato  dal  Lévy  e  intitolato  T'osthurnes  et  Bevenanis  ha  raccolto 
i  vari  suoi  scritti  pubblicati  in  questi  ultimi  anni,  a  proposito  degli  epi- 
stolari e  ricordi  della  Sabran  e  del  Boufflers,  della  Geoffrin  e  del  Ponia- 
towski,  della  marescialla  di  Beauveau,  del  Lamartine,  del  Barrot,  del 
Doudan,  di  Daniel  Stern,  della  Récamier  e  dell'Ampère,  del  Mérimée  e  delle 
sue  due  inconnues.  Egli  danza  in  qualche  modo  e  ride  sopra  le  tombe. 
Questo  riso,  quantunque  fine  ed  elegante,  non  può  essere  sempre  simpatico. 
«  J'ai  donne,  scrive  l'autore,  à  ce  recueil  de  quelques  unes  de  mes  études 
de  critique  les  plus  récentes,  un  titre  qui  ne  serait  pas  fait  pour  leur  at- 
tirer  beaucoup  de  lecteurs,  si  les  seerets  d'outre -tombe  n'avaient,  par  bon- 
heur,  un  certain  attrait  de  curiosité  maligne  et  de  plaisir  défendu  qui 
leur  procure  très-vite  la  faveur  du  public.  C'est  mon  humble  confìance,  en 
dépit  de  mon  titre  et  de  mon  épigraphe.  »  Questa  sfida  heiniana  al  lettore 
si  perdona  all'Heine,  ma  non  si  giustifica  in  un  membro  dell'Accademia 
francese  che,  a  volte,  s'è  atteggiato  anch'esso  a  scrittore  grave,  discreto, 
prudente,  e  che  se  ha  fama  di  uomo  di  spirito  non  è  poi  obbligato  a  spen- 
derlo tutto  a  carico  del  suo  prossimo,  specialmente  d'un  prossimo  che  non 
può  più  difendersi.  È  possibile  che  a  molti  lettori  un  po'  cinici  il  modo  con 
cui  il  Cuvillier-Fleury  discorre  degli  ultimi  segreti  de'  morti  possa  parere 
esilarante;  ma  sono  persuaso  che  molti  lettori  avranno  trovato  nelle  let- 
tere, nelle  memorie  della  Shabran,  della  Geoffrin.  della  Récamier,  di  Daniel 
Stern  qualche  cosa  di  meglio  di  quello  che  vi  ha  cercato  lo  spiritoso, 
senza  dubbio,  ma  assai  troppo  maligno  accademico  francese. 

Manco  male  quando  la  malignità  de'  commenti  si  esercita  sopra  lettere 
e  ricordi  simili  a  quelli  che  troviamo  nelle  Memorie  della  duchessa  di  Cha- 
teauroux  e  delle  sue  sorelle,  esumate  e  rifuse  in  una  nuova  pittoresca  nar- 
razione dai  fratelli  Goncourt  (Paris,  Charpentier).  Questi  due  ben  noti  illu- 
stratori della  storia  segreta  francese  del  secolo  decimottavo  ci  fanno  par- 
lare con  tutta  la  maggior  sincerità  i  personaggi  di  cui  ci  raccontano  le 
gesta,  gesta  amorose  e  intrighi  di  corte  per  la  massima  parte;  ma  la  storia 
francese  di  quel  tempo,  la  storia  almeno  delle  corti,  non  ci  saprebbe  quasi 
dar  altro.  Io  ho  già  annunziato  nelle  precedenti  rassegne  le  biografie  della 
Dubarry  e  della  Pompadour;  con  la  presente  biografia  si  compie  la  trilo- 


752  EASSEGNA   DELLE   LETTERATURE  STRANIERE, 

già  storica  che,  col  regno  di  tre  donne,  definisce  e  rappresenta  tutto  il  lungo 
e  funesto  regno  di  Luigi  XV.  I  fratelli  Goncourt  intendono  avere,  con  l'opera 
loro,  fatto  qualche  cosa  di  meglio  che  saziare  una  vana  curiosità  ;  essi  credono, 
e  certamente  non  s'ingannano,  aver  coi  loro  tre  libri  data  una  grande  lezione 
di  storia.  «La  lezione,  scrivono  essi  stessi,  di  questo  lungo  e  rumoroso  scan- 
dalo sarà  un  avvertimento  che  la  Provvidenza  (veramente  qui  la  Provvi- 
denza è  di  troppo,  e  non  si  capisce,  in  verità,  come  scrittori  credenti  si  com- 
piacciano così  spesso  nel  rendere  la  Provvidenza  divina  complice,  per  i  suoi 
alti  fini,  delle  nostre  azioni  più  basse  e  più  vili;  se  il  machiavellismo  che 
per  i  fini  giustifica  i  mezzi  è  odioso  sulla  terra,  quanto  più  non  lo  deve 
essere  nel  cielo!)  volle  dare  all'avvenire,  con  l'incontro  in  un  solo  regno  di 
tre  regni  di  donne,  e  con  la  dominazione  successiva  della  donna  delle  tre 
classi  sociali,  della  donna  aristocratica:  madame  de  la  Tournelle;  della 
donna  borghese:  la  Pompadour;  della  popolana:  la  Du  Barry.  Il  libro  che 
lacconterà  la  storia  di  queste  donne  mostrerà  come  la  cortigiana  uscita 
dall'alto,  dal  medio,  dall'  infimo  ceto  della  società,  come  la  donna  col  suo 
sesso,  le  sue  vanità,  le  sue  illusioni,  i  suoi  dirizzoni,  le  sue  debolezze,  le 
sue  bassezze,  le  sue  fragilità,  le  sue  tirannie  e  i  suoi  capricci,  uccise  la 
monarchia  compromettendo  la  volontà  od  abbassando  la  persona  del  re.  11 
libro  convincerà  ancora  le  belle  del  secolo  XVIII  come  autrici  di  un'altr'opera 
di  distruzione,  dell'abbassamento  e  della  rovina  della  nobiltà  francese.  Ri- 
corderà come,  per  le  loro  pretese  all'onnipotenza,  per  le  viltà  che  richie- 
sero ad  una  piccola  parte  di  questa  nobiltà,  quelle  tre  donne  annientarono 
nella  monarchia  dei  Borboni  quello  che  il  Montesquieu  cliiamava  giusta- 
mente la  molla  delle  monarchie  :  l'onore  ;  com'esse  condussero  alla  rovina 
la  base  d'ogni  stato  durevole,  l'aristocrazia  ;  com'  esse  furono  cagione  che 
la  nobiltà  francese,  quella  che  le  avvicinava  come  quella  che  moriva  sui 
campi  di  battaglia  o  dava  esempio  in  provincia  di  virtù  domestiche,  in- 
volta nella  pubblica  calunnia,  nel  pubblico  disprezzo,  arrivasse,  al  pari 
della  monarchia,  disarmata  e  priva  di  corona,  innanzi  alla  rivoluzione  del 
1789.5»  Queste  parole  scrivevano  insieme  nel  l«f)0  i  fratelli  Edmondo  e 
Giulio  Goncourt;  ora  il  solo  fratello  Edmondo  le  mantiene  ristampando  il 
libro  assai  migliorato  quanto  alla  forma  e  all'ordine  della  narrazione.  Una 
sola  cosa  essenziale  mi  sembra  che  il  Goncourt  abbia  dimenticato  di  no- 
tare, ed  è  che  la  più  nobile  delle  tre  grandi  cortigiane  di  Luigi  XV,  la  Mailly, 
è  finalmente  stata  la  più  volgarmente  procace,  la  meno  artista,  la  più  in- 
significante delle  tre,  se  pure  la  men  rovinosa  e  la  meno  rapace,  quan- 
tunque la  più  povera  '.  Delle  sorelle  di  lei  <  madame  de  Vintimille  » 
e  «  de  la  Tournelle  *  si  può  dire  soltanto  che  non  valevano  molto  meglio 

1  «  Madame  de  Mailly,  scrive  il  Goncourt,  pprdant  cinq  écus  au  quadrille,  ne 
pouvait  ies  payer.  Et  ses  amis  s'entretenaient  de  ses  chemises  élimées  et  trouées, 
de  la  tenue  de  pauvresse  de  sa  femme  de  chambre,  et  plaignaient  du  fond  de  leur 
coeur  cette  maitresse  de  Roi  moins  payée  que  la  maitresse  d'uà  sous-fermier.  » 


RASSEGNA   DELLE  LETTERATURE   STRANIERE.  753 

di  essa  a  malgrado  del  sentimentalismo  della  prima  e  della  sua  maggior 
coltura  letteraria  che  la  faceva  notare  tra  le  cinque  sorelle  Nesle,  e  della  de- 
strezza della  seconda,  venuta  a  soppiantare,  con  la  più  fredda  e  cinica  indiffe- 
renza, la  propria  sorella  Mailly.  «11  semble,  scrivono  i  Goncourt,  qu'elle 
pousse  sa  soeur  par  les  deux  épaules  avec  ces  mots  qui  ont  la  basse  ener- 
gie des  expressions  du  peuple  »  ;  il  suo  egoismo  la  fece  Duchessa  di  Cha- 
teauroux  ;  il  disinteresse  della  Mailly  la  fece  esigliare  dalla  corte  di  Luigi  XV; 
ma  la  Touruelle  doveva  essere  bellissima,  a  giudicarne  dai  ritratti  e  dalle 
poesie  del  tempo,  come  dalla  descrizione  che  ce  ne  fanno,  con  una  diligenza 
forse  soverchia,  i  fratelli  Goncourt. 

Nel  1831  ,  il  Mendelssolm,  dopo  avere  conosciuto  il  giovine  ar- 
monista Berlioz,  scrivendo  ad  un  amico,  lo  definiva  cosi:  «  Berlioz 
è  una  vera  caricatura,  senz'ombra  d'ingegno,  che  cerca  a  tentoni  nelle 
tenebre  e  che  si  crede  il  creatore  d'un  mondo  nuovo;  mi  sentirei,  ta- 
lora, la  voglia  di  divorarlo.  »  In  queste  parole  si  volle  riconoscere  la 
malevolenza  del  rivale.  Del  Berlioz  vivo  fu  già  detto,  ed  io  ripeto 
sopra  la  parola  di  Daniele  Bernard  che  ora  si  è  fatto  editore  presso  il 
Lévy  della  sua  Correspondance:  «  Il  n'a  pas  le  succès,  mais  il  a  la  gioire  » 
E  non  sarebbe  di  certo  piccola  gloria  per  un  giovine  compositore  l'avere 
destata  l'invidia  (se  fosse  invidia  e  non  disgusto)  del  Mendelssohn.  Ora  il 
Bernard  trova  che  il  Berlioz  morto  ha  pure,  oltre  la  gloria,  una  parte  di 
quel  succès  che  s'era  negata  al  vivo,  solamente  perchè  era  un  vivo  :  «  Ber- 
lioz vivo,  egli  scrive,  aveva  tutti  gl'inconvenienti  di  quello  stato  di  vivo  ; 
quantunque,  per  le  sue  frequenti  malattie,  egli  desse  molte  speranze  a 
quelli  che  attendevano  la  sua  scomparsa,  egli  occupava  un  posto  nella 
stampa,  una  poltrona  all'Istituto,  un  palco  in  teatro,  un  certo  spazio  d'aria 
spirabile  ;  e  poi  egli  aveva  un  gran  prestigio  musicale,  quantunque  alcuni 
critici  s  immaginassero  di  averlo  distrutto  per  sempre,  o,  sebbene  non  ne 
fossero  essi  stessi  ben  sicuri,  si  dessero  aria  di  crederlo.  Esistevano  dunque 
altre  ragioni  perchè  Berlioz  fosse  assalito,  discusso,  calunniato  da'  suoi  com- 
pagni, che,  avendo  ingegno,  non  gli  permettevano  d'aver  genio,  o  che,  non 
avendo  né  ingegno  né  genio  si  buttavano  ad  assalire  indifferentemente 
ogni  seria  riputazione  pel  solo  infelice  piacere  di  recarle  danno  Coronato 
di  veri  allori  all'estero,  il  Berlioz  s'irritava  nel  sentir  fra  le  foglie  delle 
sue  corone  trionfali  le  punture  delle  zanzare  parigine,  »  Ora  egli  viene  am- 
piamente rivendicato;  purché  non  sia  troppo,  purché  lo  zelo  apologetico 
non  nuoccia  alla  giustizia  stessa  della  causa  che  il  Bernard  imprese  a  di- 
fendere, ma  che  vuol  essere  difesa  con  molta  prudenza,  studiando  di  evi- 
tare sopra  ogni  cosa  qualsiasi  ombra  di  esagerazione;  ora  questo  rischio 
non  ci  pare  che  sia  stato  evitato  sempre  dall'autore  della  Notice  sur  Ber- 
lioz., che  mi  sembra,  se  io  non  m'inganno,  avere  esagerato  un  poco,  sul- 
l'autorità sospetta  della  Gazzette  musicale,  al  pubblico  francese  l'opinione 
che  l'Europa  musicale  aveva  dell'insigne  armonista  francese.  Ma,  non  te- 

VoL.  XIV,  Serie  li  —  15  Aprile  1879.  47 


754  RASSEGNA  DELLE   LETTERATURE   STRANIERE. 

nuto  conto  di  ciò,  o,  per  dir  meglio,  tenutone  conto  per  leggerlo  con  mag- 
gior profitto,  la  notizia  sul  Berlioz  è  piena  di  cose  istruttive.  Anche  la  nota 
delle  spese  fatte  dal  Berlioz  a  Parigi  per  l'anno  1820  che  fu  il  ventesima 
terzo  della  sua  vita,  a  fine  di  continuarvi  i  suoi  studii  in  compagnia  di  un 
amico  farmacista,  acquista  importanza  e  potrebbe  insegnar  qualche  cosa  ai 
nostri  giovani  d'adesso  che  a  vent'anni  sognano  prebende  e  portafogli  :  <  Certi 
giorni  sembrano  essere  stati  terribili,  in  specie  verso  il  fine  del  mese.  11  '29  set- 
tembre, per  esempio,  i  due  studenti  vissero  con  alcuni  grappoli  d'uva  ;  il  30,. 
la  loro  spesa  fu  questa:  pane  0  fr.  43  e  sale  u  fr.  25  e;  somma  <i  fr.  68  e. 
Il  primo  di  gennaio,  giorno  in  cui  tutti  sono  in  festa,  il  Charbonnel,  che 
aveva  senza  dubbio,  qualche  amico  in  città,  pranzò  fuori  ;  Ettore  lontano 
dai  parenti,  privo  d'amici,  rimase  solo  innanzi  ai  tizzoni  spenti  del  sua 
triste  focolare.  In  quel  giorno  ei  rosicchiò  quaranta  centesimi  di  pan  secco, 
in  attesa  della  gloria,  e  recitando  alcuni  versi  di  Tommaso  Moore.  » 

Nel  i83R,  ossia  dodici  anni  dopo,  lo  ritroviamo  ancora  poverissimo; 
egli  mostrò  sempre  il  più  sui^erbo  disprezzo  per  la  musica  italiana  ;  e 
pure,  in  quell'anno  stesso,  un  musico  italiano,  Niccolò  Paganini,  fu  il  solo 
che  l'abbia  compreso,  ammirato  e  salvato  dalla  miseria,  con  la  seguente 
breve  lettera,  degna  di  un  gran  re. 

«  Mio  caro  amico,  Beethoven  estinto,  non  c'era  che  Berlioz  che  potesse 
fìirlo  rivivere,  ed  io  che  ho  gustata  le  vostre  divine  composizioni  degne  di 
un  genio  qual  siete,  credo  mio  dovere  di  pregarvi  a  voler  accettare  in 
segno  del  mio  omaggio  venti  mila  franchi,  i  quali  vi  saranno  rimessi  dal 
signor  baron  deRothschild  dopo  che  gli  avrete  presentato  1' a^'clusa  Cre- 
detemi sempre  il  vostro  aflfezionatissimo  amico,  Niccolò  Paganini.  (Parigi 
il  18  dicembre  1838).  » 

Il  Berlioz  accettò  lo  splendido  dono,  e  dedicò  al  <  digne  et  grand  ar- 
tiste »  italiano  la  sua  sinfonia  di  liomi'o  et  Juliette  e  musicò  l'ode  del 
Romani  in  onore  del  Paganini.  Ma  un  altro  italiano,  Pietro  Scudo,  che  fu 
critico  acerbo  del  Berlioz,  pel  biografo  di  quest'ultimo  diviene  un  uomo 
da  nulla  «  un  italien  désagréable,  qui  avait  échoué  dans  la  carrière  de  la 
composition  et  qui  avait  réussi  dans  la  specialité  du  dénigrement  de 
Fècole  francaise.  »  È  evidente  che  il  biografo  segue  nel  proprio  studia 
tutti  i  sentimenti  del  Berlioz  e  li  fa  suoi;  lo  studio  biografico  è,  in  qual- 
che modo,  un  compendio  senza  critica  delle  Memorie  autobiografiche 
dello  stesso  compositore  ;  convien  dunque  leggerlo,  a  malgrado  della  sim- 
patia che  desta  o,  più  tosto,  che  vuol  destare,  con  una  certa  diffidenza. 
Quanto  alle  lettere  stesse  del  Berlioz,  che  vanno  dal  181 'J  al  1808,  sono  tra 
le  più  singolari  che  siansi  mai  scritte,  ma  forse  più  bizzarre  e  grottesche 
che  veramente  originali. 

Quanto  a  noi  italiani,  occorre  molta  pazienza  per  avvezzarci  alle  im- 
pertinenze del  Berlioz  e  parlarne  ancora  con  moderazione,  e  non  ripetere 
per  conto  nostro  le  severe  parole  del  Mendelssohn.  dopo  aver  letto  questa 


EASSEGNA  DELLE   LETTERATURE  STRANIERE.  755 

apostrofe  (p.  83)  ;  «  0  Italiens,  misérables  que  vous  étes,  singes,  orangs- 
outangs,  pantins  toujours  ricanauts,  qui  faites  des   opéras   cornine   ceux 
de  BeUini,  de  Pacini,  de  Rossini,  de  Vaccai,  de  Mercadante,  quejouezdes 
airs  gais  aux  funérailles,  qui  pour  un  paolo...  »  Il  Berlioz  fa  qui  allusione 
ad  un  caso  successogli  a  Firenze,  ove  un  becchino,  per  un  paolo  lo  lasciò 
entrare  nella  stanza  mortuaria,  e   gli  permise   di  toccar   la  mano  d'una 
bella  donna  morta,  mentre  che  suo  marito  se  ne  stava  in  casa  a  piangere. 
Di  certo  il  marito  non  poteva  immaginarsi  l' impertinenza  del   forestiero 
profanatore  de'morti  ;  che  se  lo  avesse  potuto  immaginare,  qualunque  italia- 
no egli  fosse,  avrebbe  assai  probabilmente  fatto  provare  allo  strano  visita- 
tore qualche  emozione  di  genere  diverso.  Io  non  ho  qui  per  fortuna  da  dare 
alcun  parere  sopra  il  Berlioz  come  compositore  di  musica  ;  ma  l'armoni- 
sta, che  i   suoi  partigiani  dicono  uomo  di   genio,  non  ebbe  di  certo  mai  il 
senso  dell'armonia  ne'  suoi  pensieri,  ne"  suoi  sentimenti,  nella  sua  vita  Le 
lettere  gli  conciliano   tutt'altro   che   simpatia,   ce  lo   mostrano   un  uomo 
sempre  nervoso,  sempre  eccitato,  sempre  agitato,  sempre  scontento,  sempre 
occupato  di  sé,  facile  ad  irritarsi  e  a  lasciarsi  trasportare  da   un'  imma- 
ginazione fervida,  vivace,  ma  disordinata,  disuguale  ed  intemperante. 

L'editore  Levy  ha  pubblicato  in  tre  grossi  volumi  in  ottavo  la  prima 
parte  dei  Discours  parlementaires  del  Thiers.  Questi  discorsi  messi  in- 
sieme dal  senatore  A.  Calmon  risalgono  agli  anni  18^0-'36,  ossia  al  periodo 
più   splendido  e  più   originale   della   vita  politica   del   Thiers,  Intorno  a 
quest'uomo  insigne  discorse  qui  distesamente  e  da  pari   suo  il  Bonghi.  I 
lettori  di  quella  eccellente  monografìa  critica  e  biografica  non  avranno  ora 
discaro  di  sapere  che  s'è  intrapresa  una  edizione  completa  de'  discorsi  del 
celebre  oratore  politico.  Il  Calmon  divide  la  vita  politica  del   Thiers  in 
cinque  periodi;  l'uno  va  dal  1830  al  1836  (in  esso  il  Thiers  combatte  per 
difendere  la  nuova  monarchia  sorta  dalla  rivoluzione  del  1830)  ;  il  secondo 
dal  1837  al  1848  (nel  quale  il  Thiers  vuol  dirigere,  ora  come  ministro,  ora 
come  deputato,  il  governo  del  re,  che  deve  regnare  e  non  governare);  il 
terzo  dal  1848  al  1«51  (il  Thiers  vi  prevede   il  colpo  di  stato  e   mette 
invano  la  Francia  sull'avviso);  il  quarto  dal  1863  al  1870  (anni  ne'  quali 
il  Thiers  come   deputato  dell'opposizione   rivelò,    man   mano,  alcuni  dei 
grandi  errori  dell'  Impero)  ;  l'ultimo  periodo  è  il  più  noto  e  arriva  fino 
alla  morte  del  Thiers.  In  questi   discorsi   avremo   dunque   senza  dubbio, 
una  gran  parte   della   storia  contemporanea   francese;   sarà  la  voce  ora 
d'un  testimonio,  ora  d'un  attore,  non  sempre  sincera  ;  ma  le  stesse  malizie 
oratorie  gioveranno  a  colorire  la  storia  de'  nostri   tempi.  «  I  discorsi  che 
noi  pubblichiamo  ora,  scrive   il    Calmon,    furono  pronunciati  nel  primo 
periodo  dal  1830  al  1836  inclusi vamente,  fino  al  giorno  in  cui   il  Thiers, 
allora  primo  ministro,  trovandosi  in  disaccordo  col  re  Luigi-Filippo  sulla 
politica  da  seguirsi  per  rispetto  alla  Spagna,  si  dimise.  In  nessun  tempo, 
salvo  forse  il  tempo  in  cui  presiedette   la   repubblica,   il   Thiers  fu  più 


756  RASSEGNA   DELLE   LETTERATURE   STRANIERE. 

spesso  sulla  breccia.  Qual  deputato,  egli  è  il  primo  puntello  del  gabinetto  ; 
qual  ministro,  ne  è  il  principale  oratore,  e  non  discute  soltanto  le  materie 
relative  al  proprio  ministero,  ma  egli  prende  parte  a  tutte  le  discussioni 
importanti  sulla  politica  interna  ed  esterna,  sulle  finanze,  l'amministra- 
zione municipale  e  dipartimentale,  i  lavori  pubblici,  l'esercito,  sulle  que- 
stioni commerciali,  su  quelle  di  diritto  pubblico  e  di  diritto  internazionale. 
I  suoi  discorsi  sono  modelli  di  chiarezza,  di  metodo,  di  sapere  teorico  e 
pratico,  di  buon  senso  onde  ogni  giorno  s'accrebbe  la  sua  autorità  come 
oratore  e  come  uomo  di  stato  E  i  suoi  emuli  si  chiamavano  Guizot,  Du- 
pin,  Broglio,  Odilon  Barrot,  Berryer,  Royer  CoUard,  di  cui  la  palmola  ma- 
gistrale e  venerata  si  faceva  ancora  di  tempo  in  tempo  sentire.  Kon  mai 
la  tribuna  francese  brillò  di  tanto  splendore.  In  certi  giorni,  sopra  una 
questione  particolare,  quegli  oratori  eminenti  possono  uguagliare  il  Thiers, 
ma  nessuno  lo  supera,  e  il  suo  discorso  sopra  la  legge  delle  associazioni 
nel  maggio  1834,  quello  recitato  in  occasione  della  interpellanza  di  gen- 
naio, nel  dicembre  dello  stesso  anno,  la  sua  risposta  ai  duca  di  Fi tz- James 
e  quella  al  Berryer  nella  discussione  dell'  indennità  americana  nell'aprile 
1835,  il  suo  discorso  improvviso  sull'alleanza  inglese  nel  giugno  1836, 
rimarranno  fra  i  capolavori  dell'eloquenza  francese.  »  Ogni  discorso  è  pre- 
ceduto da  una  succosa  notizia  storica  sopra  l'occasione  in  cui  nacque,  il 
modo  con  cui  fu  accolto  dalla  Camera,  l'effetto  che  produsse  e  la  sua 
relativa  importanza.  Queste  notizie  non  sono,  di  certo,  il  minor  pregio  di 
questa  importante  pubblicazione  storica. 

È  noto  che  il  Thiers  lavorava  ad  una  storia  della  repubblica  fioren- 
tina, che  non  potè  comlurre  a  compimento.  L'opera  da  lui  interrotta  fu 
ripresa  con  più  largo  disegno  da  un  altro  egregio  francese,  da  un  uomo 
di  molta  erudizione,  da  un  grave  professore,  che  ama  molto  il  nostro  paese, 
che  conosce  benissimo  e  scrive  e  parla  la  nostra  lingua,  con  un  certo  sapore 
di  classicismo  che  si  potrebbe  desiderare  in  parecchi  de' nostri  scrittori.  La 
Nuova  Antologìa  annunciò  già  i  tre  primi  volumi  della  sua  Storia  di  Fi- 
renze; ora  è  comparso  il  quarto  che  muove  dall'anno  1313  ossia  dalle 
guerre  contro  Uguccione  e  Castruccio,  e  ci  conduce  Ano  al  1358,  ossia  Ano 
alla  logge  terroristica  dei  guelfi  contro  i  ghibellini.  Più  il  Perrens  s'avanza 
nel  suo  racconto,  e  più  s'  allontana  da  quella  terra  un  po'  incognita  delle 
origini  fiorentine  nelle  quali  era  molto  facile  lo  smarrirsi.  Aiutato  da  più 
copiosi  e  sicuri  documenti,  il  suo  racconto  può  camminare  più  spedito  e 
più  disinvolto,  quantunque  la  copia  infinita  di  minuti  particolari  gli  impe- 
disca d' innalzarsi  e  di  allargarsi  in  una  storia  artistica  come  potrebbe 
desiderarsi. 

La  ricchezza  de'  particolari  fa  talora  ingombro  allo  storico,  e  rende 
alquanto  grave  la  lettura  continuata  di  questo  lavoro  d' erudizione.  Ma  era 
lavoro  necessario  e  da  farsi,  e  il  Perrens  ha  il  merito  d'  averlo  per  il  primo 
tentato,  per  il  primo   accostando  e  mettendo  in   ordine   cronologico  tanta 


RASSEGNA  DELLE  LETTERATURE   STRANIERE.  757 

copia  di  materiale  storico  sopra  Firenze.  Quando  l'opera  sua  sarà  compiuta, 
e  la  critica  storica  avrà  vagliato  in  un'  ampia  discussione  tutti  i  materiali 
adoperati  dal  Perrens,  sarà  agevole  a  lui  stesso  o  ad  altri  il  compendiar 
tutta  la  storia  di  Firenze,  in  modo  da  animarla  come  un  solo  organismo 
vivente.  Intanto  questo  lavoro  stesso  rimane  molto  agevolato  da  parecchie 
osservazioni  critiche  piene  di  finezza  e  vivacità  con  le  quali  1'  autore  stesso 
rompe  di  tratto  in  tratto  l' aridità  di  una  sterile  enumerazione  di  fatti  sin- 
golari. Certe  parti  del  racconto  sono  finite  e  potrebbero  stare  da  sé  come 
un'ottima  monografia;  anche  la  peste  di  Firenze  enarrata  con  destrezza, 
se  non  con  ampiezza,  che  non  era  richiesta  dalla  qualità  dell'  opera  ;  ed  è 
perciò  più  da  felicitarsi  che  da  rimproverarsi  il  Perrens  per  avere  resistito 
alla  tentazione  di  aggiungere  anch'  esso  un  brano  eloquente  alla  sua  sto- 
ria, emulando  Tucidide,  il  Boccaccio  ed  il  Manzoni  ;  egli  non  ha  voluto 
dare  a  queir  episodio  un'importanza  maggiore  di  quella  che  abbia  avuto 
in  realtà,  e  di  ciò  merita  lode;  il  quarto  volume  si  termina  con  alcune  pa- 
role simpatiche  per  1'  antica  Firenze,  le  quali  non  possiamo  ricordare,  senza 
che  si  svegli  pure  in  noi  un  sentimento  di  gratitudine  per  le  parole  ge- 
nerose in  difesa  della  nuova  Firenze  che  scrisse  nell'  ultima  sua  Chronique 
italienne  il  nostro  illustre  amico  Marco  Monnier  presso  la  Biblioihèqne 
Universelle  et  Revue  Suisse  di  Losanna. 

Se  la  storia  di  Firenze  repubblicana  è  difflcile  a  scriversi  per  la  lunga 
serie  di  mutazioni  alle  quali  andò  soggetta,  molto  più  arduo  era  l'assunto 
del  prof.  Luigi  Leger,  il  chiaro  slavista  che  insegna  nella  scuola  superiore 
delle  lingue  orientali  viventi,  il  quale  imprese  per  la  importante  l'accolta 
di  opere  storiche  diretta  dal  Duruy  e  pubblicata  dall'  Hachette,  a  scrivere 
la  storia  dell'  Austro-Ungheria,  ossia  di  quel  gran  mostro  politico  protei- 
forme che  porta  un  tal  nome. 

Gli  storici  ufficiali  austriaci,  per  lo  più,  escono  di  briga  col  darci 
semplicemente  la  storia  della  dinastia  d' Asburgo,  dominatrice  antica  e  più 
o  meno  gloriosa  e  fortunata  di  popolazioni  diverse.  Ma  poiché  le  ragioni 
del  principe  furono  quasi  sempre  in  discordia  con  quelle  de'  popoli,  quando 
si  sono  bene  rappresentate  le  ragioni  e  le  vicende  della  dinastia  dominante 
non  s'è  ancora  fatta  la  metà  della  storia  dell'Austro-Unglieria,  ove  anche 
il  solo  nome  dello  stato  è  indizio  di  una  esclusione  ingiusta.  Ov'è  una 
Boemia,  una  Gallizia,  una  Croazia,  una  Dalmazia,  un'Istria,  una  Transil- 
vania  in  parte  rumana,  perchè  mai  l'impero  deve  chiamarsi  Austro- Unga- 
rico? Tutti  vorrebbero  vedere  grandi  e  indipendenti  gli  Austriaci,  i  Ma- 
giari, i  Boemi,  i  Croati,  i  Polacchi,  i  Ruteni,  i  Rumani;  e  gli  Italiani 
vorrebbero  molto  naturalmente  vedere  rientrare  in  famiglia  i  loro  fratelli 
Istinani  ;  ma  questa  grandezza  e  indipendenza  sono  impossibili  col  dualismo 
egemonico,  che  se  prevale  ora  nella  vicina  monarchia  non  promette  riuscir 
durevole  perchè  contrario  a  natura.  La  stessa  difficoltà  che  si  troverà 
sempre  a  mettere  in  accordo  elementi  così  disparati,  rende  difficilissimo 


758  RASSEGNA  DE^^LE   LETTERATURE   STRANIERE, 

allo  storico  dell'Austro-Ungheria  il  serbare  unità  di  racconto.  Il  Legar  su- 
però o,  per  dir  meglio,  evitò  questa  difficoltà  convertendo  il  suo  libro  in 
una  specie  di  trilogia  storica,  ove  se  la  Polonia,  la  Croazia,  la  Romania  e  le  po- 
polazioni italiane  dell'Austria  rimangono  sacrificate  e  neglette,  noi  troviamo 
riunite  tre  storie  speciali  importanti,  quella  della  Boemia,  quella  dell'Au- 
stria, e  quella  deirUngheria.  Non  recherà  meraviglia  a  nessuno  che  il  dotto 
slavista  francese  mostri  maggiore  simpatia  per  gli  slavi  che  per  i  magiari, 
e  maggiore  simpatia  per  i  magiari  che  per  gli  austriaci  rappresentati  dalla 
dinastia  di  Absburgo;  se  la  causa  dei  vinti  piaceva  a  Catone,  le  simpa- 
tie del  Leger  si  comprenderanno,  anche  senza  tener  conto  del  maggior  af- 
fetto che  si  pone  a  persone,  cose,  lingue,  istituzioni  che  meglio  si  cono- 
scono. Un  italiano  o  un  ungherese  che  avesse  scritta  la  storia  dell'Austria, 
l'avrebbe  forse  concepita  in  modo  alquanto  diverso  da  quella  del  Leger; 
tuttavia,  poiché  una  simile  storia  in  Italia  non  esiste  ancora,  e  nessuna 
storia  straniera,  oltre  quella  di  Francia,  ci  tocca  più  dappresso,  noi  fac- 
ciamo voti  perchè  alcun  editore  italiano  ce  la  dia  presto  tradotta,  in  ita- 
liano, con  un  supplemento  di  note  per  la  parte  che  può  riguardare  par- 
ticolarmente il  nostro  paese. 

Angelo  De  Gubernatis. 


RASSEGNA  SCIENTIFICA. 


La  vita  iatìma  dei  ragni  e  dei  pipistrelli  —  Studi  sugli  stambecchi  —  Ricerche  di 
Bert  e  di  Siragusa  sull'anestesia  chirurgica  e  sull'anestesia  delle  piante  —  Il 
caffè  di  girasole  -«-  La  psicologia  tedesca  moderna  secondo  il  R.ibot  —  Lavori 
recenti  dell'Herzen. 


Oggi  il  microfono  ci  permette  di  ascoltare  il  rumore  profomlo  della 
circolazione  del  sangue  fino  nei  piccoli  vasi  delle  nostre  dita  ;  vediamo  di 
applicarlo  all'organismo  della  scienza  per  scoprirne  i  fremiti  più  celati,  i 
segni  più  nascosti  del  suo  lavorìo  interiore.  Quando  s'è  fatta  la  somma  di 
tutte  le  unità  organiche  che  formano  la  vita,  si  trova  una  cifra  colossale 
di  milioni  e  di  miliardi,  ma  l'energia  palpita  in  ogni  molecola  di  proto- 
plasma, e  gli  atomi  della  vita  son  cosi  piccini  che  nessun  microscopio  non  li 
ha  ancora  potuti  scorgere. 

Un  atomo  di  scienza  è  l'opuscolo  del  prof  Francesco  Albanesi  «  Os- 
servazioni sui  ragni,  Venezia,  1879  ;  »  ma  pure  quanto  è  interessante  !  La 
granata  impertinente  del  nostro  servo  distrugge,  senza  saperlo,  molti  pic- 
coli mondi  di  viventi,  dove  la  morfologia  e  la  psicologia  troverebbero  te- 
sori di  osservazioni.  Amerei  che  le  signore,  quasi  tutte  nemiche  mortali 
dei  ragni,  avessero  d'ora  innanzi  un  po'di  piet;\  per  queste  creaturine  quasi 
sempre  innocentissime  e  che  sono  tanto  curiose  per  le  loro  forme  e  i  loro 
costumi  Ad  esse  anche  noi  uomini  potremmo  invidiare  parecchie  cose.  Vi 
sono  ragni,  che  hanno  due  giri  d'occhi  sulla  testa  come  tanti  brillantini  ; 
altri  ne  hanno  sei,  quattro  o  due,  ed  ora  son  fissi  come  quelli  delle  mo- 
sche, ora  invece  son  mobili.  I  ragni  filano  tutti,  ma  ora  riuniscono  dieci 
fili  in  un  filo  solo,  ora  tessono  le  loro  tele  con  pochissimi  elementi.  Un 
intiero  volume  non  basterebbe  di  certo  per  descrivere  tutte  le  forme  dei 
■loro  tessuti.  Col  filo  essi  si  difendono  e  col  filo  offendono,  con  esso  scen- 
dono, salgono  0  si  portano  orizzontalmente  da  un  punto  all'altro  ;  fanno  la 
casa  e  custodiscono  le  loro  uova;  e  in  questo  superiori  ai  migliori  tessitori 
umani,  portano  sempre  seco  i  loro  telai  e  il  filo  con  cui  tessere  le  loro 
stoffe. 

Il  ragno  a  gambe  lunghe  e  corpo  piccino  e  allungato  non  fa  tela  tes- 


760  KASSEGNA    SCIENTIFICA. 

suta  ma  passa  e  ripassa  il  suo  filo  per  tutte  le  ilirezioiii,  in  un  angolo  di 
muro  0  dovunque  e,  forma  cosi  un  intreccio,  un  zig-zag  per  prendere  gli 
insetti  che  vi  capitano.  Terminato  il  lavoro,  si  pone  nel  centro  della  sua 
trappola,  sostenuta  da  quattro  gambe,  talvolta  anche  da  due.  Quando  passa 
e  s'intoppa  nella  rete  una  mosca  o  un  altro  insetto  qualunque,  il  ragno  vi 
corre  precipitoso,  e  collocandosi  di  faccia  alla  preda,  comincia  sottilmente 
un  doppio  lavoro,  cioè  muove  prima  le  due  gambe  posteriori,  successiva- 
mente, in  modo  da  formare  un'infinità  di  semicerchi  lasciati  dall'  indietro 
all'avanti  per  prendere  il  Alo  e  portarlo  sulla  preda,  a  cui  si  attacca  Colla 
bocca  fa  un  secondo  lavoro,  rompendo  una  quantità  di  tìli  e  di  nodi,  allo 
scopo  di  aver  piti  liberi  i  movimenti  delle  due  gambe  posteriori.  Anche 
l'insetto  resti  attaccato  ad  un  solo  Alo  pendente.  Raggiunto  questo  scopo, 
il  ragno  Anisce  questo  secondo  lavoro  e  riprende  sollecitamente  il  primo, 
Anche  la  preda  sia  tutta  ravvolta  in  una  specie  di  sacchetto,  che  pare 
fatto  di  bambagia.  Allora  il  ragno  si  ferma  un  istante,  si  avvicina  all'in- 
volto, lo  morde,  si  attacca  alla  gamba  destra  posteriore  il  Alo  su  cui  è 
sospeso,  e  facendosi  strada  con  la  bocca,  rompendo  e  molte  volte  distrug- 
gendo la  fatica  del  giorno  innanzi,  se  ne  va  in  un  angolo  a  godersi  il 
frutto  della  vittoria. 

Il  prof.  Albanese  vide  una  volta  uno  di  questi  ragni  che  faceva  il  suo 
solito  mestiere  di  avviluppare  una  mosca  tra  i  suoi  Ali  insidiosi,  e  parec- 
chi ragnolini  appena  nati  a  pochi  centimetri  di  distanza  dalla  loro  madre, 
si  arrabattavano  colle  loro  gambucce  posteriori  e  con  la  loro  bocca  ad 
imitare  i  movimenti  del  ragno  adulto  (pag.  9). 

■  Altri  ragni  a  gambe  corte,  a  corpo  tondo  e  grosso  o  leggermente  al- 
lungato abitano  in  piccoli  buchi  nei  muri,  o  nel  legno  e  formano  col  loro 
Alo,  esteriormente  e  intorno  alla  loro  dimora,  un  intreccio  più  o  meno  am- 
pio, che  presenta  la  forma  raggiata  d'un  poligono  stellato.  Quando  un  in- 
setto cammina  su  quel  muro  o  su  quel  legno  e  s'impiglia  in  uno  di  quei 
raggi,  il  ragno  sempre  attento,  salta  sopra  in  un  baleno,  lo  afferra  e  la 
trascina  nella  sua  tana. 

Tutti  conoscono  i  magniAci  rosoni  composti  di  poligoni  concentrici,  nel 
cui  mezzo  stanno  alcuni  ragni;  e  alcuni  naturalisti  hanno  creduto  fin  qui 
che  in  quelle  ragnatele  il  numero  dei  raggi  varii  secondo  la  specie  e  la 
grandezza  dei  ragni.  L'Albanese  invece  ha  osservato  che  due  ragni  della 
stessa  specie  e  della  stessa  gramlezza  non  fecero  egual  numero  di  raggi, 
ma  uno  ne  fece  ventisei  e  un  altro  trentadue.  Xugae  acadeynicae  !  escla- 
merà alcuno  dei  miei  lettori  :  nugae  Anche  volete  ;  ma  nello  studio  della 
natura  nulla  è  indifferente,  nulla  è  inutile,  e  le  prime  linee  della  psicologia 
comparata  possono  trovarsi  nelle  ragnatele  d'un  ragno  così  come  nell'  al- 
veare d'un'ape.  Fatemi  l'analisi  del  perchè  di  quei  due  numeri  2(1  e  32,  e 
troverete  le  prime  origini  dell'individualità,  che  si  afferma  anche  in  orga- 
nismi semplicissimi. 


RASSEGNA  SCIENTIFICA.  761 

Tiriamo  dunque  avanti  colle  nostre  nugae  e  vediamo  se  un  generale 
d'armata  non  potesse  imparare  un  po'  di  strategia  e  magari  un  po'  di  tattica 
da  questi  altri  ragni. 

Essi  son  girovaghi,  vagabondi,  e  aiutati  da  una  bella  corona  d'occhi, 
affrontano  la  preda  direttamente,  usando  però  un'  arte  di  raffinatissima 
ipocrisia.  Si  vedono  ne'  muri  delle  case,  nei  telai  delle  finestre  adocchiare 
da  tutti  i  lati  e  sollevarsi  quanto  più  possono  sulle  gambe  per  veder  più 
lontano  e  per  veder  meglio.  Se  scorgono  da  lungi  una  mosca,  usano  la 
furberia  di  non  mai  andarle  di  faccia  e  perciò,  se  la  mosca  è  rivolta  dalla 
parte  loro,  essi  si  rimpiccioliscono,  fanno  un  po'  di  passi  indietro  lenta- 
mente, finché  abbiano  trovato  una  sboccatura  nel  muro,  o  nel  legno,  che 
li  nasconda  e  allora  affrettano  il  passo,  e  poi,  rimpicciolendosi  ancora, 
affacciano  la  testa  insensibilmente  per  osservar  meglio  la  posizione  della 
mosca.  Continuano  queste  gherminelle,  finché  le  arrivano  vicinissimo  sen- 
z'essere scoperti.  Allora,  facendosi  quanto  più  possono  piccini  piccini  e 
rattrappandosi  sulle  gambe  prendono  la  spinta,  fauno  un  salto  in  men  ch'io 
dica  e  la  mosca  è  presa  e  poco  dopo  divorata. 

Succede  talvolta,  che  uno  di  questi  ragni  cammini  lento  lento  verso 
una  mosca,  dalla  parte  di  fianco  e  la  mosca,  che  coi  suoi  ventimila  occhi 
lo  vede  benissimo,  si  prepara  imprudentemente  a  deludere  l'aspettativa  del 
suo  avversario.  E  che  fa  ?  Si  alza  quanto  più  può  sulle  gambe  e  come  se 
fosse  sospesa  in  aria,  si  volta  con  la  faccia  a)  ragno  :  questo  si  ferma  un 
istante,  si  restringe  in  sé  stesso  fino  a  sembrare  un  pallottoline  e  moven- 
dosi insensibilmente  cerca  di  girarle  sempre  intorno  per  afferrarla  di  dietro. 
Ma  la  mosca  par  che  comprenda  ogni  cosa  e,  tenendosi  sempre  alla  debita 
distanza,  e  sollevandosi  sempre  quanto  più  può  sulle  gambe,  segue  il  giro 
del  ragno  e  mostra  chiaramente  che  si  prende  beffe  di  lui,  finché  stanca 
del  giuoco  vola  via,  lasciando  il  ragno  in  asso. 

Una  lezione  di  diplomazia  potrebbero  prendere  i  nostri  uomini  di  Stato^ 
leggendo  quest'altra  pagina  dell'Albanese  : 

Grazioso  è  vedere  due  di  questi  ragni  quando  s'incontrano  nella  caccia. 
Appena  si  scorgono  in  distanza,  si  fermano  e  sollevano  il  corpo  sulle  gambe 
tese  e  dritte.  Se  uno  di  loro  sia  più  piccolo,  fa  un  front'  indietro  e  va  per 
altra  via.  Se  sono  tutti  e  due  della  stessa  grandezza,  allora  si  guardano 
e  tosto  sollevano  con  forza  le  due  gambe  davanti  come  due  antenne  e  si 
avanzano  a  zig-zag.  Arrivati  l'uno  di  faccia  all'altro,  si  fermano  e  comin- 
ciano una  spacie  di  linguaggio  del  telegrafo  ad  asta;  cioè  si  toccano  in 
tutte  le  direzioni  con  le  quattro  gambe  sollevate  in  alto  e  devono  certa- 
mente significare  qualche  cosa,  perché  dopo  un  mezzo  minuto  di  questo 
movimento,  si  vede  il  più  debole  allontanarsi  precipitosamente  e  tante  volte 
sbalzar  dal  muro  e  cader  giù  trattenuto  dal  filo  Se  sono  della  stessa  forza, 
allora  nessuno  dei  due  si  affretta  di  allontanarsi  e  seguono  entrambi  tran- 
quilli la  loro  via,  come  se  nulla  fosse  (pag.  14).   —  S' io  non  m' inganno^ 


762  RASSEGNA  SCIENTIFICA. 

in  questi  insetti  io  trovo  gli  stessi  priacipii  diplomatici,  che  governano 
l'equilibrio  europeo  e  le  relazioni  fra  popoli  e  popoli,  e  le  alleanze  e  le 
guerre. 

Studii  minuti  di  zoologia  trovansi  in  due  recenti  lavori  del  Canestrini. 
■€  Intorno  ad  alcuni  acari  parassiti,  Padova,  1879.  —  Nuove  specie 
del  Genere  Dermaleichus,  Venezia,  1878.  »  —  Altre  osservazioni  finis- 
sime di  morfologia  e  di  psicologia  troviamo  in  diverse  memorie  di  Ettore 
■Regalia  sui  pipistrelli.  '  Anche  questi  animalucci,  poco  simpatici  e  che  pure 
nella  loro  anatomìa  sono  dopo  le  scimmie  fra  i  nostri  più  vicini  parenti, 
■offrono  materia  di  studio  al  zoologo  e  al  psicologo  ;  e  nello  studiarli  si  può 
mostrare  tanta  acutezza  di  osservazione  e  tantti  sana  filosofia,  quanta  ne 
manca  in  molte  opere  in  quarto  e  in  folio  e  che  sono  scritte  da  autoroni 
<;he  vanno  per  la  maggiore.  Tutto  è  grande  per  un  grande  ingegno  ;  tutto 
è  piccolo  per  un  pìccolo  ingegno  e  molti  poi  mostrano  di  essere  sempre 
in  minimis  maximi  e  in  maximis  minimi. 

L'egregio  Dottor  Forsyth  Major,  che,  grazie  all'operosità  efficace  del 
nostro  illustre  Stoppani,  appartiene  oggi  al  Museo  fiorentino,  ha  pubblicato 
da  poco  un  importante  lavoro  sugli  stambecchi  {Materiali  per  servire  ad 
una  storia  degli  stambecchi,  Pisa,  1879)  che  deve  riuscir  simpatico  a  tutti 
gli  italiani  anche  non  zoologi,  perchè  parla  di  un  animale  grazioso  ed 
«legante,  che  faceva  la  delizia  di  Re  ^'ittorio,  e  che  senza  di  lui  sarebbe 
già  scomparso  per  sempre  dalle  vette  delle  nostre  Alpi.  Benché  il  Major 
abbia  dato  al  suo  lavoro  un  titolo  molto  modesto,  pure  può  chiamarsi 
una  vera  monografia  dello  stambecco,  scritta  con  quella  sana  filosofia 
zoologica  moderna,  che  fa  della  descrizione  di  un  animale  una  pagina  della 
storia  dell'evoluzione.  Il  Blasius,  che  fu  l'ultimo  autore  che  abbia  trattato 
questo  argomento,  sembra  disposto  ad  ammettere  una  forma  sola  di  stam- 
!becco,  giudicando  che  le  varietà  non  differiscono  fra  loro  che  per  il  colore 
del  pelo  0  la  direzione  delle  corna  11  Major,  invece,  dai  suoi  dilìgenti  studu 
craniologici  fu  tratto  a  trovare  differenze  più  essenziali  fra  le  diverse 
forme,  ed  egli  pensa  che  all'epoca  quaternaria  esistevano  già  varie  forme 
di  stambecchi  in  Italia,  e  queste  forme  quaternarie  non  sono  completa- 
mente identiche  ad  alcune  di  quelle  che  vivono  oggi   nel  nostro   paese. 

«  1.  Contributa  alio  studio  dei  Chirotteri  italiani.  Alcune  variazioni  e  partico- 
larità osservate  nel  Vespurugo  Savii,  Bonap.  sp.  (Major).  Nota  di  E.  Regalia, 
presentata  da  M  E.  Paolo  Maategazza,  letta  nel  R.  Istituto  Lombardo  nella  seduta 
del  25  aprile  1878. 

2.  Contributo  allo  studio  ec,  Vibrissae,  e  osservazioni  intorno  agli  arti  di  tre 
Rinolofi.  Nota  di  E.  Regalia.  (Estratto  dalla  Rivista  Scientifico-industriale,  fase. 
di  giugno,  Firenze,  1878). 

3.  Contributo  allo  studio  ec.  Sull'esistenza  di  terze  falangi  nella  mano.  Nota 
di  E.  Regalia.  (Estratto  dalla  Rivinta  Scientilìcolndustriale,  fase,  di  agosto,  Fi- 
renze, 1878. 


KASSEGNA.  SCIENTIFICA.  763 

Questo  ultimo  fatto  è  rimarchevole,  perchè  conferma  i  risultati  ai  quali 
l'autore  era  giunto  nello  studio  di  altri  generi,  cioè,  che  ogni  volta  che 
gli  si  offrirono  avanzi  poco  completi  di  mammiferi  quaternari,  l'identità 
fra  le  forme  quaternarie  e  quell'attuale  corrispondente  potè  sempre  essere 
negata.  Le  tavole  del  lavoro  di  Major  sono  stupende,  e  specialmente  quelle 
che  ritraggono  le  forme  dentarie  sono  degne  in  tutto  di  stare  accanto  alle 
migliori  pubblicate  oltralpi. 

Di  stambecchi  e  di  Re  Vittorio  come  sommo  cacciatore  si  occupa  an- 
che Zilliken  nel  bellissimo  giornale  di  caccia,  che  si  pubblica  due  volte  al 
mese  in  Germania  sotto  il  titolo  di  l)er  Waidmann,  Blàlter  fv.r  Jàger 
vnd  Jagdfreunde  e  che  è  ornato  di  molti  e  graziosi  disegni. 

Passando  dalla  zoologia  alla  biologia,  ci  troviamo  qui  dinanzi  due  lavori 
di  piccola  mole,  ma  di  molta  importanza  e  che  trattano  entrambi,  ma  su 
diverso  terreno,  la  questione  dell'anestesia. 

Il  primo  è  di  Paolo  Bert,  uno  dei  pochi  uomini  che  dimostrano  la  possi- 
bilità di  essere  in  una  volta  sola  grandi  scienziati  e  sommi  politici.  Egli  è 
oggi  uno  dei  deputati  più  influenti  della  sinistra  moderata  nel  Parlamento 
francese  ed  occupa  con  molto  lustro  la  cattedra  di  fisiologia  alla  Facoltà 
delle  scienze  di  Parigi.  Amico  personale  di  Gambetta,  relatore  di  quasi  tutte 
le  leggi  che  riguardano  la  pubblica  istruzione  in  questi  ultimi  tempi,  ha  dato 
alla  scienza  più  di  cento  memorie  ;  e  le  sue  scoperte  sugl'innesti  animali,  sui 
movimenti  della  sensitiva,  sull'influenza  della  pressione  barometrica  negli 
esseri  vivi  e  tante  altre  gli  assicurano  un  posto  eminente  nella  storia  della 
biologia.  I  suoi  lavori  si  distinguono  tutti  per  un  rigoroso  metodo  speri- 
mentale e  per  una  costante  e  saggia  preoccupazione  di  far  servire  la  scienza 
alle  applicazioni  dell'arte,  dell'industria  e  della  medicina. 

Ultimamente  egli  si  occupò  del  modo  di  ottenere  col  protossido  d'azoto 
senza  pericolo  un'insensibilità  di  lunga  durata.  Oggi  molti  dentisti  adoperano 
il  gas  esilarante  per  ottenere  l'anestesia  nell'operazione  di  strappare  i  denti, 
ma  conviene  far  presto  e  usare  infinite  precauzioni,  perchè  fino  ad  ora 
l'insensibilità  non  si  otteneva  che  a  patto  di  far  respirare  il  protossido 
d'azoto  puro,  e  in  questo  caso  l'asfissia  camminava  di  pari  passo  coll'ane- 
stesia.  Questo  gas  deve  essere  respirato  puro,  cioè  la  sua  tensione  deve 
essere  eguale  ad  un'atmosfera  per  poter  penetrare  in  quantità  suftìciente 
nell'organismo;  ma  se  noi  supponiamo  il  malato  in  un  apparecchio  in  cui 
la  pressione  sia  portata  a  due  atmosfere,  si  potrà  sottoporlo  alla  voluta 
tensione,  facendogli  respirare  una  miscela  di  50  per  cento  di  gas  esilarante 
e  di  50  per  cento  di  aria,  per  cui  si  potrà  ottenere  l'anestesia  completa, 
pur  conservando  nel  sangue  la  quantità  normale  di  ossigeno,  che  è  necessa- 
ria ad  una  perfetta  respirazione  Questa  scoperta  fu  fatta  dal  Bert  teorica- 
mente, ma  confermata  poi  da  lui  con  molte  esperienze  praticate  sugli  ani- 
mali. L'unica  difficoltà  pratica  sarà  quella  di  potere  avere  in  ogni  luogo  un 


764  RASSEGNA   SCIENTIFICA. 

apparecchio  ad  aria  compressa;  ma  la  cosa  sarà  sempre  possibile  nei 
grandi  ospedali  e  nelle  grandi  città,  e  chi  sa  che  la  respirazione  del  protos- 
sido d'azoto  diluito  coll'aria  non  debba  sostituirsi  alla  inalazione  di  cloro- 
formio che  mette  spesso  la  vita  in  pericolo,  sopprimendo  la  sensibilità  mi- 
dollare, dai  cui  moti  riflessi  dipendono  1  fenomeni  più  fondamentali  del 
cuore  e  del  polmone 

Il  Siragusa  invece  ha  studiato  L'anestesia  nel  regno  vegetale  (Pa- 
lermo, 1879),  argomento,  che  era  stato  illustrato  già  altra  volta  dal  Bert, 
da  Heckel,  da  Darwin  e  da  Bernard. 

Il  Siragusa,  ripetendo  l'esperienza  di  Bernard,  di  mettere  cioè  i  corpi, 
che  vogliamo  esaminare  immersi  in  un'acqua  anestetizzante,  osservò  che  gli 
effetti  erano  identici,  tanto  negli  animali  quanto  nelle  piante  superiori  e  infe- 
riori. Infatti  un  pezzo  di  carne  e  alcuni  semi  di  frumento  pestati,  posti  nel- 
l'acqua eterizzata  e  chiusi  in  due  tubi,  si  conservarono  inalterati  per  il 
lungo  spazio  di  tre  mesi  Usando  invece  dell'etere  sotto  forma  di  vapore, 
il  risultato  riesce  diverso  secondo  che  le  piante  sono  di  struttura  semplice  o 
complessa.  Non  è  qui  il  luogo  di  ripetere  tutte  le  ingegnose  esperienze  im- 
maginate dal  giovane  botanico  siciliano,  ma  daremo  solo  i  risultati  più 
importanti  delle  sue  ricerche  : 

1°  L'anestesia  agisce  ugualmente  sai  regno  animale  e  sul  vegetale, 
e  presenta  l'istessa  differenza,  secondo  che  gli  organismi  sono  più  o  meno 
elevati  nella  scala  organica,  qualunque  sia  il  regno  a  cui  appartengono. 

2°  Gli  esseri  inferiori,  come  Mucedinee,  L'acteri,  Vibrioni,  ecc  non 
risentono  l'anestesia,  né  gli  efletti  mortali  del  prolungamento  di  azione 
degli  anestetici. 

8"  Delle  principali  funzioni  vegetative  delle  piante  superiori,  la  ger- 
minazione, la  respirazione  cloroflllica,  la  produzione  di  clorofilla,  la  fecon- 
dazione, i  movimenti,  tanto  spontanei  che  eccitati,  sono  influenzati  dagli 
anestetici  ;  l'assorbimento,,  la  traspirazione,  la  respirazione  ordinaria  non 
lo  sono. 

4°  I  semi  non  perdono  la  facoltà  di  germinare  se  per  un  dato 
tempo  sono  stati  sottoposti  all'azione  anestetica. 

5'  Le  piante  non  resistono  ugualmente,  e  i  diversi  organi  secondo  che 
abbiano  o  no  il  colorito  verde,  presentano  modificazioni  diverse. 

(>°  Il  cambiamento  di  colorito  della  clorofilla  dal  giallo  al  rosso  non 
sembra  influenzato  dagli  anestetici. 

GììAnnali  della  stazAone  agi-aria  di  Forlì,  dei  quali  abbiamo  già  pub- 
blicati sei  fascicoli,  ci  dimostrano  l'operosità  del  valente  prof.  Alessandro 
Pasqualini,  il  quale  la  dirige.  L'ultimo  dei  pubblicati  è  quello  del  77  e  com- 
prende molti  lavori,  fra  i  quali  alcune  analisi  di  piante  da  foraggio,  ana- 
lisi di  acque  potabili,  di  concimi,  d'un  formaggio;  non  che  saggi  ampelogra- 


RASSEGNA  SCIENTIFICA.  765 

flci  d'otto  vitigni  romagnoli,  norme  per  la  falciatura  delle  leguminose 
foraggiere,  studii  suH'alimentaziono  del  soldato  e  sulla  polvere  di  gira- 
sole e  di  cicoria  adoperata  come  succedaneo  al  caffo. 

Ci  fermeremo  su  queste  ultime  ricerche,  perdio  riguardano  da  vicino 
l'igiene  e  l'economia  domestica.  Pochi  alimenti  ebbero  l'onore  di  tante 
falsificazioni  e  di  tante  alterazioni  quanto  il  caffè,  e  nella  civile  Europa 
chiamasi  con  questo  nome  qualunque  bevanda  di  colore  oscuro,  che  da 
vicino  0  da  lontano  rammenti  il  divino  grano  torrefatto  della  Coffea  ara- 
bica. Lo  zucchero,  l'orzo,  il  grano  turco,  i  fagiuoli,  moltissimi  semi  di  le- 
guminose, la  radice  di  cicoria,  i  semi  del  girasole,  i  fichi  secchi  e  infinite 
altre  sostanze,  purché  abbiano  subito  un  certo  grado  di  torrefazione,  hanno 
l'onore  di  sostituirsi  in  tutto  o  in  parte  al  vero  caffè,  e  in  molti  paesi  il 
palato  dei  consumatori  ha  talmente  perduto  ogni  criterio  da  ignorare  af- 
fatto ciò  che  sia  la  vera  Coffea.  Anche  in  questi  ultimi  giorni  la  egregia 
signora  Caterina  Botto,  moglie  dellillustre  scultore  Tassara,  chiamava  la 
mia  attenzione  sopra  il  coloramento  artificiale  di  molte  varietà  inferiori 
del  caffè  onde  farlo  credere  di  una  gerarchia  assai  più  alta,  tatto  che  mi 
propongo  di  studiare  fra  breve. 

Per  ora  fermiamoci  soltanto  sull'analisi  comparativa  fatta  nel  labo- 
ratorio della  stazione  agraria  di  Forlì  degli  acheni  di  girasole  tritati  e 
macinati  e  di  un  caffè  di  cicoria  di  qualità  superiore  della  fabbrica  Woel- 
ker.  Ecco  l'analogia  dei  due  prodotti  dimostrata  dall'analisi: 

Girasole  Caffè  di  cicoria 

Acqua 6,322  8,525 

Sostanze  proteiche  solubili    .    .    3,818  4,6-23 

Sostanze  proteiche  insolubili .     .    7,405  5,017 

Grasso  estratto  dall'etere      .     .  24,400  18,622 

Sostanze  estrattive  non  azotate  20,'i80  85,637 

Zucchero 0,'.r23  2,015 

Tannino 1,510  0,6:i6 

Fibre S0,017  17,312 

Cenere 4,688  7,510 

Perdite 0,437  0,093 

Il  Pasqualini  amerebbe  veder  sostituiti  i  semi  torrefatti  del  girasole 
alla  cicoria  per  allungare  il  vero  caffè,  essendo  i  primi  di  sapore  più  gra- 
devole e  di  azione  del  tutto  innocente.  Egli  ci  dice  che  il  caffè  ottenuto 
dalle  miscele  seguenti:  Torto  Ricco,  parti  9;  semi  di  girasole  torrefatti, 
parti  30;  acqua,  parti  200,  avea  un  colore  bruno  chiaro  e  un  pretto 
sapore  di  caffè  ;  mentre  il  caffè  di  cicoria  preparata  colle  stesse  dosi 
conservava  l'odore  disgustoso  della  melassa  e  il  sapore  della  liquirizia.  Il 
Pasqualini  però  non  giunge  all'entusiasmo  di  Vitman  e  di  Fumagalli  perii 
•caffè  di  girasole;  ma  soltanto  lo  trova  una  delle  falsificazioni  meno  spia- 
cevoli. 


766  KASSEGNA  SCIENTIFICA. 

Ma  lasciamo  ragni  e  acari,  pipistrelli  e  semi  di  girasole,  e  dopo  aver 
ascoltato  col  microfono  il  mormorio  operoso  e  utile  delle  api  scientifiche, 
innalziamoci  ai  larghi  e  sereni  orizzonti  della  sintesi. 

Uno  dei  libri  più  rimarchevoli  pubbUcati  in  questi  ultimi  giorni  è  di 
certo  la  Psychologie  allemande  contemporaine  de  Bihot  (Baillière,  Pa- 
ris, lf^^9),  il  dotto  direttore  della  Revue  philosophique,  che  da  quattro  anni 
tiene  alta  in  Francia  la  bandiera  della  scuola  sperimentale  sul  terreno  della 
filosofia.  11  Ribot  è  uno  degli  ingegni  più  simpatici  e  più  con  temperati  di 
molte  e  diverse  virtù  e  che  riesce  sommamente  raro  il  trovare  riunite  in 
un  sol  uomo.  Egli  ha  innanzi  tutto  uno  spirito  acuto  di  osservazione,  per  cui 
legge  chiaro  e  legge  profondo  nel  pensiero  umano  e  nelle  sue  evoluzioni 
storiche:  anche  quando  critica  sembra  sempre  ch'egli  abbia  pensato  col- 
l'autore  che  combatte  ;  per  cui  mette  ogni  errore  a  suo  luogo  e  nella  sua 
genesi  naturale.  Per  di  più,  egli  ha  una  tale  giusta  misura  della  critica 
da  non  essere  mai  affascinato  dalle  seduzioni  del  bello  o  inasprito  dalle 
battaglie  della  scuola;  e  così  ad  amici  e  a  nemici  assegna  con  mirabile 
giustizia  il  dare  e  l'avere  delle  colpe  e  delle  virtù;  mentre  poi  tutto  ab- 
bellisce e  tutto  rende  trasparente  con  quella  finezza  di  tocco,  che  è  uno 
dei  privilegi  più  invidiabili  dell'ingegno  francese,  quando  non  passi  troppo 
in  furia  sulla  superficie  delle  cose.  Egli  ha  poi  la  fortuna  di  collaborare 
con  Espinas,  che  gli  fu  compagno  nella  traduzione  dei  Frincipii  di  psi- 
cologia di  Herbert  Spencer,  e  che  è  uno  dei  critici  più  profondi  e  più 
incisivi  ch'io  mi  conosca. 

Si  può  dire,  che  il  Ribot  nel  suo  libro  abbia  reso  trasparenti  le  te- 
nebre, tanto  ha  schiarito  i  cupi  abissi  del  pensiero  germanico,  che  è  cosi 
spesso  metafisico,  anche  quando  combatte  la  metafisica.  Quanto  è  fino  il 
raffronto  fra  la  psicologia  inglese  e  la  tedesca  e  come  egli  ci  fa  toccare 
con  mano  maestra  che  l'una  è  sistematica  e  l'altra  tecnica;  una  vive  di 
lavoro  sintetico,  l'altra  abbonda  di  lavoro  minuto!  La  psicologia  inglese 
contemporanea  è  uno  studio  descrittivo:  in  Germania  invece  coloro,  che 
lavorano  all'edifizio  d'una  psicologia  empirica,  accordano  piccolo  spazio  alle 
descrizioni.  Sono  pressoché  tutti  fisiologi,  che  colla  loro  abitudine  e  i  me- 
todi propri  alla  biologia  hanno  abbordato  alcuni  punti  di  psicologia,  dando 
quindi  a  questa  scienza  il  battesimo  di  fisiologica;  quasi  la  psicologia 
non  fosse  altro  e  non  potesse  esser  altro  che  una  fisiologia  dei  centri 
nervosi. 

Ogni  metodo  sperimentale  si  appoggia  alla  fin  dei  conti  sulla  base  tetra- 
gona della  causalità,  per  cui  anche  la  psicologia  fisiologica  non  ha  a  sua 
disposizione  che  due  mezzi:  determinare  gli  effetti  dalle  loro  cause  (per 
esempio  la  sensazione  coU'eccitazione)  e  determinare  le  cause  dai  loro  effetti 
(gli  stati  interni  dagli  atti  che  li  esprimono).  Conviene  inoltre  che  almeno 
uno  di  questi  due  termini  sia  posto  fuori  di  noi,  fuori  della  coscienza;  sia 
cioè  un  fatto  fisico  e  come  tale  accessibile   all'esperimento.  Senza  questa. 


KASSEGNA   SCIENTIFICA.  767 

coadizione  il  metodo  sperimentale  è  impossibile.  Nell'ordine  di  quei  feno- 
meni, che  si  chiamano  interni  (riproduzione  delle  idee,  loro  associazioni,  ecc.) 
la  causa  e  l'effetto  rimangono  in  noi.  E  benché  si  debba  pensare,  che  anche 
in  questi  fatti  debba  regnare  la  legge  di  causalità,  benché  in  taluni  casi 
sì  possa  anche  determhiare  la  causa  con  certezza;  siccome  le  cause  e  gli 
effetti  sono  in  noi  e  non  ci  danno  alcuna  presa  estei-iore,  essendo  mal  co- 
nosciuti 0  per  ora  inaccessibili  i  loro  concomitanti  fisici,  ogni  ricerca  spe- 
rimentale che  li  riguardi  deve  essere  eliminata. 

Alcuni  rappresentanti  della  psicologia  tedesca  hanno  pensato,  che  anche 
dove  l'esperimento  è  impossibile,  noi  non  dobbiamo  limitarci  ad  osservare 
e  a  descrivere,  ma  possiamo  raggiungere  determinazioni  più  precise  ricor- 
rendo al  calcolo.  Essi  hanno  quindi  trattato  i  problemi  psicologici  col  me- 
todo matematico.  Appoggiandosi  al  principio,  che  ogni  fenomeno  interno  è 
una  grandezza  e  che  per  conseguenza  racchiude  in  sé  un  carattere  mate- 
matico, hanno  tentato  di  fare  per  la  psicologia  ciò  che  si  è  fatto  in  alcuni- 
rami  della  fisica  matematica.  Si  parte  da  principii  posti  come  ipotesi  pro- 
babili; se  ne  deducono  conseguenze  per  mezzo  del  ragionamento  e  del 
calcolo  e  si  confrontano  poi  i  risultati  ottenuti  coi  dati  dell'  esperienza. 
Perchè  questo  metodo  possa  essere  accettato,  bastano  due  condizioni;  con- 
viene cioè  che  i  principii  ipotetici  siano  preparati  dall'induzione  e  presen- 
tino un  carattere  incontrastabile  di  verosimiglianza,  e  conviene  poi  che  le 
deduzioni  che  se  ne  ricavano  siano  sempre  sottoposte  al  cimento  della  realtà. 
Tutto  ciò  è  nuovo,  è  ingegnoso,  ma  non  costituisce  per  Ribot  la  parte  più 
solida  della  psicologia  tedesca. 

Essa  ha  invece  per  caratteri  salienti  una  tendenza  costante  alla  preci- 
sione, l'appello  all'esperimento,  un  campo  di  studi  ristretto,  una  pre- 
ferenza per  le  monografie  invece  della  simpatia  per  i  lavori  di  assieme. 
Accanto  a  questa  psicologia  fisiologica  vi  é  poi  anche  in  Germania  una 
psicologia  spiritualistica,  che  passa  sotto  i  nomi  pomposi,  ma  vuoti,  di 
antropologia  o  di  scienza  dell'uomo  e  che  ha  il  ticchio  di  appellarsi  alle 
esperienze  dei  fisiologi  per  ricavarne  conclusioni  metafisiche.  11  Ribot  non 
si  è  occupato  di  questi  anfibi  del  mondo  filosofico,  come  non  ha  voluto, 
trattare  della  scuola  critica  ;  egli  ha  ristretto  le  frontiere  del  suo  campo 
d'osservazione  a  tutto  ciò,  che  può  cadere  sotto  l'esame  della  nostra  coscienza 
o  degli  strumenti  dei  nostri  laboratori.  È  questa  una  psicologia  che  può 
considerarsi  come  una  scienza  naturale,  pura  d'ogni  contagio  metafisico  e 
che  si  appoggia  sulla  base  sicura  delle  scienze  biologiche.  Tutte  le  scoperte 
psicologiche  della  Germania  moderna  non  si  devono  a  filosofi,  a  speculatori^ 
come  avviene  in  Inghilterra;  ma  bensì  a  naturalisti  o  a  fisiologi.  Mentre  in 
Inghilterra  una  tradizione  continua,  partendo  da  Locke  e  passando  per  Ber- 
keley, Hume,  Hartley,  James  Mill,  giunge  fino  ai  contemporanei  ;  in  Ger- 
mania non  si  può  trovare  traccia  di  una  scuola  o  di  una  tradizione  psico- 
logica. Qui  tutto  è  nuovo  Kant  ebb^  per  successori  dei  metafisici,  che  alla. 


768  RASSEGNA  SCIENTIFICA. 

lor  volta  genoraTOiio  dei  critici.  Solo  forse  fra  i  suoi  numerosi  discepoli,  Her- 
bavt  può  essere  contato  fra  i  psicologi.  Egli  parte  da  principii  a  priori, 
dù  piccola  parte  ai  fatti,  molta  parte  al  ragionamento  e  alla  matematica  ; 
ma  ha  concetti  giusti  e  nuovi  ed  esei'cita  un'intluenza  marcata  sul  pensiero 
germanico.  La  sua  dottrina  trasformata  da  Beneke  e  continuata  da  altri 
tende  a  perdersi  nelle  speculazioni  alquanto  vaghe  dell'antropologia  e  del- 
l'etnologia. Nello  stesso  tempo  però  quasi  inconsciamente  la  vera  psicologia 
empirica  si  andava  plasmando  e  gettava  le  prime  radici  nelle  memorie 
e  nei  libri  di  fisiologia.  Per  Ribut,  il  fondatore  della  nuova  scuola  psicolo- 
gica tedesca  sarebbe  Giovanni  Mùller,  il  quale  nei  suoi  libri  assegna  una 
larga  parte  alle  questioni  psicologiche,  e  le  tratta  con  savia  larghezza  ;  e 
discepolo  di  Kant  a  modo  suo  tentò  di  dare  una  base  fisiologica  alla  teoria 
delle  forme  soggettive  dell'intuizione.  Ad  ogni  specie  di  nervo  sensorio  egli 
attribuì  un'energia  specifica,  per  la  quale  ogni  organo  reagisce  in  un  modo 
che  gli  è  proprio,  qualunque  sia  poi  la  natura  dell'eccitamento  che  riceve. 
jMiiller  fece  subire  inoltre  alla  dottrina  Kantiana  dello  spazio  una  trasfor- 
mazione fisiologica,  ammettendo  che  la  retina  abbiali  sentimento  innato  della 
propria  estensione.  Quest'ipotesi  ripresa,  modificata,  respinta,  ha  dato  luogo 
ad  una  polemica  vivissima,  che  dura  ancora  e  che  tocca  i  più  alti  pro- 
blemi della  psicologia. 

Dopo  il  Mùller  ogni  ordine  di  sensazioni  divenne  argomento  di 
profonde  ricerche.  Se  ne  studiarono  le  differenze  qualitative  e  inten- 
sive, si  penetrò  sempre  più  nella  conoscenza  del  meccanismo  anatomico 
e  fisiologico,  e  si  potè  così  determinare  meglio  ciò  che  nella  sensazione  è 
semplice  e  immediato  e  ciò  che  viene  aggiunto  poi  con  un  lavorio  ulte- 
riore (induzioni,  deduzioni,  associazioni  d'invenzioni,  ecc.).  Helmholtz,  an- 
dando più  innanzi,  ci  fece  vedere  nello  studio  dei  suoni,  come  una  sensa- 
zione giudicata  assolutamente  semplice  si  decomponesse  in  sensazioni 
elementari  e  le  sue  esperienze  servirono  di  base  alle  ingegnose  interpre- 
tazioni di  Taine  e  di  Herbert  Spencer. 

Lo  stesso  fisiologo,  preceduto  in  questa  via  da  Dubois-Reymond  e  se- 
guito più  tardi  da  Donders,  da  Esener,  da  Wundt  e  da  altri,  tentò  di 
determinare  la  durata  degli  atti  psichici,  e  quelle  ricerche  che  durano 
tuttora  gettarono  una  nuova  luce  sul  meccanismo  e  le  condizioni  della 
<30scienza.  All'infuori  delle  scienze  fisiologiche,  il  Fechner  intraprese  una 
lunga  serie  di  ricerche  onde  misurare  l'intensità  delle  sensazioni  nel  loro 
rapporto  col  l'eccitamento  che  le  produce.  Egli  si  è  appoggiato  sulla  fisica 
e  sulle  matematiche,  fondando  quasi  una  sottoscuola  di  psicofisica 

Questo  movimento  filosofico,  che  dura  in  Germania  da  forse  trent'anni, 
oltre  il  Mùller  ebbe  a  promotori  principali  il  Weber,  il  Volkmann,  il 
Dubois  Keymond.  l'Helmholtz,  THering,  il  Donders,  il  Fechner,  il  Lotze,  il 
Wundt. 

Accanto  a  questi  nomi  avremmo  voluto,  che  il  Ribot  non  avesse  dimen- 


RASSEGNA  SCIENTIFICA.  769 

ticato  il  Burdaeb,  il  quale,  nato  a  Koenisberga,  ora  è  già  più  d'un  secolo, 
cioè  nel  177(',  e  professore  a  Lipsia  fin  dal  180(),  innalzò  la  fisiologia  fino 
alle  più  alte  regioni  della  psicologia.  Lodato  fino  all'adulazione  dai  con- 
temporanei, nel  rapido  e  febbrile  progresso  delle  scienze  biologiche,  il 
Burdach  è  oggi  troppo  dimenticato:  eppure  chi  togliesse  dal  suo  grande 
Trattato  di  fisiologia  quanto  riguarda  i  fenomeni  psichici  dell'uomo  e  lo 
studio  antropologico  inteso  in  senso  largo,  troverebbe  materia  sempre  fresca 
di  studio  e  di  ammirazione. 

Vorremmo  poter  accompagnare  il  Ribot  nell'esame  particolare,  ch'egli 
fa  dei  più  illustri  rappresentanti  della  scuola  psicologica  tedesca,  ma  la  cerchia 
angusta  della  nostra  rivistacelo  impedisce.  Per  persuadere  'quanto  egli  sia 
diligente  ed  esatto  nello  studio  dei  particolari,  cosi  come  è  largo  e  Incido 
espositore  degli  indirizzi  e  dei  metodi  generali,  basterebbe  a  provarlo  la 
lettura  del  Capitolo  VII,  in  cui  viene  esposta  la  storia  di  tutte  le  scoperte 
moderne,  che  si  riferiscono  alla  durata  degli  atti  psichici,  argomento 
prediletto  di  tanti  fisiologi  tedeschi,  dal  Donders  allo  Schiff. 

Di  queste  stesse  ricerche  interessantissime  si  sta  occupando  nel  suo 
laboz^atorio  di  Firenze  il  prof  Herzen,  il  quale,  dacché  ebbe  l'onore  di  suc- 
cedere allo  Schiff,  ha  centuplicata  la  sua  attività  scientifica,  dandoci  le 
più  lusinghiere  promesse,  ch'egli  potrà  essere  esperimentatore  egregio  cosi 
come  si  era  mostrato  fin  qui  psicologo  acuto.  Delle  sue  esperienze  sulla 
diversa  velocità  di  trasmissione  della  ì^olontà  secondo  il  sesso  e  l'età  non 
vogliamo  parlare  ancora,  perchè  le  sue  recenti  osservazioni  non  furono 
comunicate  che  in  un  modo  molto  sommario  alla  Società  antro^Mlogica  di 
Firenze,  ma  accenneremo  alla  sua  bella  traduzione  francese  che  ci  ha  dato 
dell'opera  di  Maudslej  {l'hysiologie  de  Vesprit  Paris,  1879),  e  alla  terza 
edizione  che  ha  pubblicato  in  questi  ultimi  giorni'del  suo  libro  sul  libero 
arbitrio  {Analisi  psicologica  del  libero  arbitrio  umano.  Edizione  terza. 
Firenze.  Bottini,  1879).  Questa  edizione  può  dirsi  un  libro  nuovo,  per- 
chè r  autore  vi  aggiunse  un'  appendice  ricca  di  tre  studi  nuovi,  che 
mancavano  alle  altre  edizioni,  cioè:  Polemica  contro  lo  spiritualismo  — 
IH  alcune  modificazioni  della  coscienza  individuale  —  Teoria  delVim- 
putabilifà  fondata  sulla  reazione  del  libero  arbitrio.  Questo  libro,  che, 
oltre  le  tre  edizioni  italiane,  ne  ebbe  una  francese,  meritava  quest'onore; 
tanta  è  la  perspicuità  con  cui  è  scritto;  tanto  stringente  e  incalzante  è 
l'argomentazione. 

In  una  delle  ulthne  sedute  della  R.  Accademia  dei  Lincei  lo  stesso 
Herzen  comunicava  un  suo  scritto  Sulla  condizione  fisica  della  coscienza, 
nel  quale  egli  espone  una  nuova  teoria  per  spiegare  i  fatti  di  coscienza. 
La  teoria  è  originale,  è  ingegnosissima  e  ci  sembra  segnare  linee  precise, 
dove  fino  ad  ora  non  avevamo  potuto  scorgere  clie  nebbia  o  crepuscoli 
vaghi  di  luce.  Se  lo  spazio  ce  lo  consentisse,  vorremmo  fare  un  lungo  ed 
accuratx)  esame  delle  teorie  dell'Herzen,  da  cui  dissentiamo  in  qualche  par- 

VoL.  XIV,  Serie  11—15  Aprile  18-9.  48 


770  KA.SSEGNA.  SCIENTIFICA. 

ticolare  Però  anche  dove  non  possiamo  seguirlo,  noi  Io  ammiriamo  :  è  uno 
dei  privilegi  più  invidiabili  dei  grandi  ingegni  l'essere  utile  tanto  coi  loro 
errori  come  colle  verità  nuove  che  ci  vanno  rivelando;  mentre  i  cervelli 
corti  e  piccini,  anche  quando  azzeccano  per  fortuna  del  caso  qualche  ve- 
rità, i;e  la  porgono  cosi  confusa,  così  incerta,  cosi  incrostata  di  scorie  da 
renderci  quasi  odiosa  perfino  la  verità;  che  è  pur  sempre  la  sfinge  immor- 
tale che  tutti  affascina  e  tutti  innamora. 


Paolo  Mantegazza. 


RASSEGNA  POLITICA 


Il  voto  del  4  aprile.  —  Il  maggior  cimento  pel  Ministero  è  sempre  quello  delle 
finanze.  —  Il  voto  del  Senato  francese  sul  trasferimento  delle  Camere  a  Pa- 
rigi. —  Le  elezioni  parziali  in  Francia.  —  L'occupazione  mista  della  Romelia.— 
La  crisi  ministeriale  in  Egitto. 


Più  volte  ci  occorse  di  avvertire  in  questa  rassegna,  che  il  ministero 
Depretis,  venuto  al  mondo  collo  speciale  ufficio  di  ristorare  e  di  guaren- 
tire l'ordine  pubblico,  non  avrebbe  potuto  acquistare  vigore,  se  non  nel- 
l'adempimento più  esatto  e  più  scrupoloso  di  questo  mandato,  ch'era  la 
ragione  della  sua  vita.  Se  cosi  fosse,  s'è  visto  nel  voto  del  4  aprile  con 
cui  la  Camera  confermò  nel  modo  più  solenne  quello  dell'  1 1  dicembre. 
Tanto  era  erroneo  ciò  che  allora  non  pochi  affermarono,  che  quest'ultimo 
si  riducesse  a  una  congiura  di  passioni  contro  il  ministero  Cairoli,  da 
cui  nessuna  amministrazione  nuova  avrebbe  potuto  sorger  vitale!  Con 
una  violenza  molto  minore  e  con  effetti  senza  paragone  meno  funesti 
dopo  un  intervallo  di  alcuni  mesi  si  rinnovarono  a  Genova,  a  Milano, 
ad  Anghiari  chiassi  e  tumulti,  che  rammentarono  lontanamente  quelli  di 
Firenze  e  di  Pisa,  e  la  Camera,  ad  onta  che  i  fatti  fossero  assai  meno 
gravi,  fu  più  concorde  e  più  risoluta  della  prima  volta  nel  riprovarli. 
Tanto  era  vera  la  coalizione  di  allora,  che  nel  giro  di  pochi  mesi  la 
maggioranza  nata  improvisamente,  dicevasi  dal  solo  intento  di  abbattere 
il  ministero  Cairoli,  è  diventata  poco  meno  che  unanimità,  per  sostenere 
invece  il  ministero  Depretis  sopra  una  questione  pressoché  identica;  e  il 
primo  era  simpatico  a  tutti,  aveva  a  capo  un  uomo  pieno  di  autorità  per 
sé,  ingrandito  dal  prestigio  del  coraggio  mostrato  nell'attentato,  e  pro- 
pugnava una  tesi  audace,  ma  generosa  e  ideale,  mentre  il  secondo  era 
sorto  meschino,  era  vissuto  di  aspettazione,  se  non  di  indulgenza,  aveva 
un  seguito  di  pochi  amici,  non  aveva  nulla  di  grandioso,  né  di  poetico 
e  difendeva  quelle  necessità  di  governo,  che,  per  quanto  innegabili,  non 
sono  però  intese  da  tutti  e  non  diventano  mai  piacevoli  e  popolari.  Una 


772  RASSEGNA  POLITICA. 

prova  più  manifesa  della  forza  che  un  governo  può  trarre  dal  solo  man- 
tener l'ordine,  non  si  sarebbe  potuta  vedere. 

Se  fra  il  voto  dell'I!  dicembre  a  quello  del  4  aprile  corre  una  diffe- 
renza, è  tutta  a  favore  di  quest'ultima  verità.  S'  è  visto  infatti  da  una 
volta  all'altra  un  fenomeno  inaspettato,  che  cioè  quasi  tutto  il  gruppo 
Cairoli,  rimasto  in  minoranza  nella  prima  occasione,  si  unisse  a  ingran- 
dire la  maggioranza  nella  seconda,  votando  in  certa  maniera  contro  sé 
stesso.  C'.è  invero  la  scusa  che  la  questione,  per  .quanto  simile,  non  si 
poteva  dire  del  tutto  identica,  perchè  da  ultimo  non  vi  entrava  se  non 
per  una  parte  assai  piccola  quel  diritta)  di  associazione,  che  interpretato 
così  largamente  dal  ministero  Cairoli  ne  aveva  invece  fatto  le  spese  la 
prima  volta.  Trattavasi  però  sempre  di  sapere,  se  al  governo  spetti  o 
no  il  diritto  e  incomba  il  dovere  di  prevenire  manifestazioni  contrarie  alle 
istituzioni  del  paese,  se  cioè  possa  e  debba  impedirle,  o  abbia  l'obbligo  di 
starle  a  guardare  impassibile,  per  denunciare  poi  il  fatto  all'autorità  giu- 
diziaria, riducendo  l'azione  sua  a  quella  di  qualunque  querelante  privato. 
Ora  il  presidente  del  Consiglio  dichiarò  nettamente  che  il  governo  è  il 
governo,  che  ha  l'obbligo  di  tutelare  la  quiete  pubblica,  perchè  il  paese 
la  vuole,  e  in  particolare  non  crede  che  in  uno  stato  monarchico  si  possa 
lare  pubblica  dimostrazione  di  emblemi  repubblicani.  Queste  proposizioni 
riassunte,  benché  nel  modo  più  generale  e  più  vago,  per  evitare,  come 
dovevasi,  asprezze  gratuite  e  pericolose,  furono  votate  il  -1  aprile  da  quasi 
tutto  il  gruppo  Cairoli;  il  quale  potrà  credere  di  non  essere  caduto  in 
contraddizione  con  sé  medesimo,  ma  in  fine,  voglia  o  no,  si  trova  aver  fatto 
un  gran  passo  verso  quei  principii  e  quelle  necessità  di  governo,  delle 
quali  non  era  apparso  altrettanto  convinto  1'  11  dicembre. 

E  che  il  gruppo  Cairoli,  e  segnatamente  il  suo  capo,  avvertito  dalla 
sua  propria  esperienza,  si  sia  persuaso,  che,  sciolta  la  disciplina  sociale 
e  cominciato  a  scendere  sul  pendìo  di  lasciar  fare,  non  si  sa  più  quando, 
uè  dove  si  possa  fermarcisi?  Oppure,  fu  un  atto  di  rassegnazione  per 
non  rimanere  in  minoranza  senza  prò  una  seconda  volta,  un  sacrifizio  alla 
concordia  e  all'unità  della  Sinistra,  un  espediente,  se  non  per  chiudere  il 
passo,  per  scemare  influenza  ed  autorità  all'  opposizione,  fra  le  braccia 
della  quale  sarebbe  andato  a  trovarsi  il  INIinistero?  Probabilmente  tutte 
queste  cause  ebbero  la  loro  parte  nella  mutazione  del  gruppo  Cairoli.  Se 
poi  a  questi  s'aggiunge  una  certa  apparenza,  che  la  questione  non  fosse 
la  stessa  del  dicembre,  perciiè  ora  trattavasi  di  emblemi  repubblicani 
portati  in  piazza  e  non  del  diritto  di  associazione,  e  s'aggiungono  ancora 
le  pudiche  riserve,  dalle  quali  fu  preceduto  il  voto,  affinchè  non  avesse 
avuto  a  significare  fiducia  nel  Ministero,  senza  per  questo  mostrare  di 
mancare  di  un  certo  sentimento  della  necessità  di  governo  e  di  rispetto 
alla  monarchia,  si  ottiene  il  complesso  delle  ragioni  per  le  quali  quasi 
tutto  il  gruppo  Cairoli  si  trovò  unito  alla  maggioranza. 


RASSEGNA   POLITICA.  773 

Ora  r  importante  l'imaue  questo,  che,  ad  onta  di  tutte  le  riserve  dei 
vari  gruppi,  la  Camera  fu  quasi  unanime  nel  riconoscere  clie  non  si  può 
consentire  di  portare  in  giro  emblemi  repubblicani, e  il  Governo  ha  il  diritto 
e  il  dovere  di  impedire  e  di  prevenire  fatti  di  questo  genere.  S' è  ottenuta 
finalmente  su  questo  punto  una  risoluzione  netta  e  precisa,  e  tanto  più  de- 
cisiva e  solenne,  quanto  più  la  si  volle  esente  da  significato  politico  e  da 
spirito  di  partito.  Gli  emblemi  repubblicani  non  sono  tollerabili  più  di 
quello  che  potessero  esserlo  la  bandiera  borbonica  o  quella  del  papa,  signi- 
ficando tutte  del  pari  l' intendimento  di  sostituii'e  uu'  altra  forma  di  go- 
verno a  quella  voluta  dalla  immensa  maggioranza  del  paese,  stabilita  dalla 
legge  e  a  cui  l' Italia  deve  la  sua  esistenza.  Né  è  punto  lecito  di  fare  i 
repubblicani  oggi  in  considerazione  che  ci  sarà  la  repubblica  in  avvenire. 
1  repubblicani  colti,  i  pochissimi,  credono  di  impancarsi  tra  i  profeti  ap- 
poggiandosi alla  teoria  dell'  evoluzione  e  annunciando  che  alla  monarchia 
costituzionale  succederà  la  repubblica.  Tutti  sanno  che  nulla  sulla  terra  è 
etei-no,  e  quando  quella  succederà,  essi  pure  saranno  a  posto.  Ma  1"  atteg- 
giarsi a  repubblicani  ora  in  grazia  della  repubblica  che  verrà  poi,  è  come 
andare  in  giro  coli' ombrello  aperto  quando  il  cielo  è  sereno,  perchè  al 
buon  tempo  prima  o  dopo  deve  tener  dietro  la  pioggia.  A  questo  mondo 
bisogna  imparar  dal  passato,  prevedere  il  futuro,  ma  vivere  del  presente. 
Ecco  infine  la  significazione  più  semplice  del  voto  della  Camera. 

11  quale,  del  resto,  quanto  più  fu  immune  di  partigianeria,  tanto  meno 
può  valere  come  segno  della  formazione  di  una  nuova  maggioranza.  Il 
Ministero  può  pur  esso  tenersi  sicuro  di  un''  approvazione  concorde  e  am- 
plissima, ogniqualvolta  faccia  osservare  la  legge  per  mantenere  1'  ordine 
pubblico.  Ma  su  tutto  il  resto-  durano  le  discrepanze  di  prima,  e  1  dissidi 
e  le  divisioni  possono  rinascere  in  qualunque  occasione  e  quando  s' aspet- 
tino meno.  Ciò  è  come  dii-e  che,  se  il  INIinistero  uscì  dalla  passata  discus- 
sione accresciuto  e  ingrandito  dal  prestigio  morale  che  dà  sempre  una 
gran  maggioranza  anche  occasionale  ed  effìmera,  non  per  questo  la  posi- 
zione sua  è  divenuta  molto  più  stabile  e  ferma  di  prima.  Lo  è  abbastanza, 
perchè  non  abbiano  più  alcun  senso  le  voci  rimesse  in  giro  dopo  il  4  aprile, 
che  voglia  ricomporsi  e  modificarsi,  poiché  se  mai  ci  fu  un  tempo  in  cui 
di  simili  rifacimenti  dovesse  sentire  svanito  il  bisogno,  è  appunto  il  pre- 
sente. Ed  è  forza  pur  dire,  che  il  terzo  ministero  Depreiis  fa  una  prova 
senza  paragone  più  felice  di  tutti  gli  altri  usciti  dalla  sinistra,  sia  che 
molto  abbia  imparato  da  sé,  sia  che  quelli,  che  l' istigavano  a  correre  più 
sbrigliato,  siano  divenuti  pei  loro  propri  casi  più  temperati,  sia  che  la 
coscienza  di  non  aver  grandi  forze  gli  sia  provvida  consigliera  di  ocula- 
tezza e  di  misura.  Comunque  però,  gli  gioverà  sempre  il  non  dipartirsi 
da  quella  prudenza  avveduta,  con  cui  si  governò  fino  ad  oggi  e  che  fece 
la  sua  fortuna  evitando  le  grandi  questioni  politiche. 

Il  cimento  più  grave  e  il  meno  evitabile  che  1"  aspetta,  è  sempre  quello 


774  RASSEGNA  POLITICA. 

della  finanza,  nella  quale  gli  tocca  di  liquidare  1'  eredità  infausta  lascia- 
tagli dal  ministero  Cairoli.  L'  eredità  è  infausta  per  più  ragioni  :  1'  una, 
r  abolizione  del  macinato,  che  il  ministero  presente  non  avrebbe  fatta  a 
nessun  patto,  e  che,  se  il  Senato  non  ci  metterà  la  sua  santa  mano,  lascerà 
un  vuoto  irrimediabile;  l'altra,  quell'aria  riscaldata  e  malsana  che,  intorno 
a  questa  faccenda  e  in  generale  alla  finanza,  venne  formandosi  nella  Camera, 
quando  se  ce  n'è  una  che  richiedesse  calma  di  spirito  e  assenza  d'ogni 
partigianeria,  dovrebbe  appunto  esser  questa  Così  lo  difficoltà  che  il  Mi- 
nistero ha  da  vincere  sono  di  doppia  natura,  delle  cose  in  sé  avviate  in 
modo  poco  rassicurante  dall'  amministrazione  passata  e  della  disposiziono 
degli  animi  accesi  fuor  di  proposito  e  fuor  di  misura  che  rassicura  anche 
meno. 

L'ordine  del  giorno  Cairoli,  che  mise  fine  a  una  discussione  lunga  e 
tuttavia  incompleta,  poiché  il  paese  rilevò  assai  poco  di  quello  che  più 
gli  importava  di  capire,  accolto  da  241  voti  contro  88,  aveva  parecchi 
peccati:  quello  di  ritornare  sopra  una  risoluzione  presa  altra  volta,  quello 
di  aver  l'aria  di  premere  sopra  il  Senato,  di  non  tenere  abbastanza  conto 
della  necessità  di  riempire  con  tasse  nuove  il  buco  che  si  farà  nelle  no- 
stre finanze  allo  scomparire  del  macinato.  La  frase  «  scompaia  il  macinato 
avvenga  quello  che  può,  »  non  è  un  programma  di  finanza  Tuttavia  il  Mi- 
nistero dovette  accettare  l'ordine  del  giorno  Cairoli  inspirato  per  ra- 
gione di  partito  e  astrettovi  dalla  politica,  pur  vedendosi  trascinato  oltre 
il  limite  a  cui  s'era  proposto  di  arrivare.  Ciò  apparve  chiarissimamente 
dalle  dichiarazioni  del  ministro  delle  finanze,  a  seguire  il  quale  s'indusse, 
benché  dopo  una  certa  riluttanza,  anche  il  presidente  del  Consiglio. 
L'ordine  del  giorno  naturale,  ovvio,  conforme  alla  situazione,  era  la  so- 
spensiva proposta  dall'on.  Minghetti,  alla  quale  ci  parve  accostarsi  molto 
dentro  il  suo  animo  lo  stesso  ministro  Magliani,  essendo  stati  troppi  i  pa- 
reri sull'avanzo  e  perfino  sul  punto  se  avanzo  ci  fosse,  e  troppi  elementi 
di  computo  rimanendo  ignoti,  perché  la  Camera  avesse  potuto  deliberare 
con  fondamento  nulla.  Ma  che  poteva  fare  il  Ministero,  fuorché  lasciarsi 
trascinare,  suo  malgrado,  dalla  corrente,  senza  di  che  avrebbe  perduto  i 
voti  del  gruppo  più  numeroso  e  con  quelli  la  maggioranza  ? 

Ne  segui  una  deliberazione  di  natura  esclusivamente  politica,  nella 
quale  la  finanza  andò  travolta  e  seppellita,  una  deliberazione  figlia  della 
solita  necessità  di  salvare  il  partito,  ma  non  di  quella  di  salvare  il  paese. 
Noi  speriamo  ancora  che  il  Senato  venga  in  aiuto  del  Ministero,  usando- 
gli una  violenza  a  cui  questo  si  rassegnerà  senza  gran  dolore,  col  sospen- 
dere l'abolizione,  almeno  di  una  parte,  del  macinato,  fino  a  che  la  Camera 
non  abbia  discusso  e  approvato  le  nuove  tasse,  che  secondo  i  disegni  del 
Ministero  stesso  dovrebbero  tenerne  luogo.  Abolire  le  tasse  che  ci  sono 
sotto  la  vaga  e  nebulosa  riserva  di  metterne  poi,  come  che  sia,  delle  al- 
tre, quando  si  sa  in  pratica  che  riluttanza  c'è  a  questo,  e   quando   bastò 


RASSEGNA   POLITICA.  775 

che  il  presidente  del  Consiglio  le  annunciasse,  anche  così  vagamente,  pei- 
sentirsi  disapprovato,  non  è  cosa  che  rassicuri  so  non  la  gente  avvezza 
a  pascersi  di  parole  andando  avanti  colla  testa  nel  sacco.  Se  bastasse  far 
politica,  per  aver  danari,  noi  saremmo  oramai  straricchi.  Ma  cosi  non 
essendo,  se  il  Senato  non  fa  riparo,  apparisce  fino  da  ora  evidente  1'  una 
0  l'altra  di  queste  due  conseguenze  :  o  la  Sinistra  dissesterà  le  finanze  ri- 
storate con  tanti  anni  di  sacrifici  e  con  tanta  pena  e  s'imputeranno  a  lei 
i  danni  ;  o  essa  si  risolverà  a  riempire  il  vuoto  che  il  macinato  lascia  con 
tasse  nuove,  e  il  malcontento  suscitato  da  queste  le  reciderà  le  radici  nel 
paese  ;  tanto  è  lontano  che  le  sortì  di  questo  si  possano  dividere  dalle  sue  1 
Ora,  quale  delle  due,  o  assumersi  l' odiosità  di  molte  e  gravissime  tasse 
nuove,  0  lasciar  le  finanze  sdruscite,  abbandonando  l' incomodo  di  rattop- 
parle a  chi  verrà  dopo,  quale  delle  due  sia  più  nell'indole  della  Sinistra, 
noi  non  vogliamo  dire.  Ma  ben  si  può  e  deve  dire,  che  essendo  ora  il  Mi- 
nistero alquanto  più  forte,  può  farsi  animo  a  parlar  più  chiaro,  e  se  esso 
sapesse  per  le  finanze  prendere  quel  contegno  netto,  risoluto  e  deciso,  che 
prese  da  ultimo  con  effetti  così  fortunati  per  la  politica  interna,  non  sa- 
rebbe impossibile  che  il  convincimento  suo  facesse  seguito  e  gli  riuscisse 
trascinare  in  luogo  di  esser  trascinato. 

Nel  gruppo  Cairoli  il  patriottismo  può  sempre  assaissimo,  può  a 
volte  più  del  paiHito,  e  quando  il  Ministero  stia  fermo  e  il  Senato  lo  aiuti, 
non  sono  neppur  alla  Camera  impossibili  quei  compromessi  e  quelle  tran- 
sazioni, che,  come  accadde  felicemente  il  4  aprile,  salvando  il  partito,  sal- 
vano anche  il  paese.  Il  Ministro  delle  Finanze  ha  già  acquistato  tanta 
autorità,  da  poter  osare  più  che  in  passato,  da  poter  seguire  il  pensiero 
suo  proprio,  piuttosto  che  quello  degli  altri,  senza  troppi  riguardi  poli- 
tici, e  colla  certezza  che  attribuendosi  al  suo  ingegno  e  al  suo  carattere 
il  valore  che  hanno,  il  giudizio  suo  arresta  e  fa  pensare.  Di  questo  pre- 
stigio meritato  egli  deve  prevalersi  per  il  bene  del  partito  stesso  a  cui 
dedicò  i  suoi  servigi,  e  che,  dopo  alcune  resistenze  inevitabili,  finirà 
coir  acconciarvisi  e  col  restargli  obbligato.  Il  momento  è  decisivo  per 
lui  non  meno  che  per  gli  altri,  e  nulla  è  più  prezioso  d'un  uomo  dello 
stesso  partito  che  gli  riveli  netta  e  lampante  la  verità,  poiché  egli  solo 
può  sperare  di  essere  ascoltato. 

Quanto  possa  un'opinione  confortata  da  buone  ragioni  e  sostenuta  con 
fermezza,  sì  vide  a  questi  giorni  in  Francia,  dove  le  cose  pubbliche,  in 
forza  del  continuo  cedere  del  Centro  sinistro  e  del  Ministero,  avevano  preso 
assai  mala  piega.  Non  che  oggi  si  possano  dir  ravviate,  poiché  un  moto 
così  precipitoso,  come  quello  che  i  radicali  impressero  alla  Repubblica, 
non  s'arresta  da  un  giorno  all'  altro.  Ma  fu  ventura  che  in  questo  scen- 
dere così  avventato,  il  Ministero  prendesse  ardire  di  fermarsi  e  far  ar- 
gine, opponendosi  in  Senato  alla  revisione  dell'  articolo  della  costituzione 
che  fissa   a  Versailles   la  sede  delle  Camere,  e  domandando  che  1'  esame 


776  EASSEGNA   POLITICA. 

della  proposta  Peyrat  per  il  trasferimeuto  di  queste  a  Parigi  fosse  diffe- 
rito a  dopo  le  vacanze.  Ciò  col  pretesto  messo  innanzi  dal  ministro  Say, 
che  i  Senatori  avessero  agio  di  recarsi  nei  loro  dipartimenti  e  di  indagare 
le  disposizioni  delllopinione  pubblica.  Il  Centro  sinistro,  seguendo  la  Com- 
missione, di  cui  era  capo  il  signor  Laboulaye,  tenne  fermo  col  AUnistero, 
e  la  dilazione  fu  accolta  da  l-"7  voti  contro  1"2(;.  Una  maggioranza  invero 
per  il  Senato  abbastanza  tenue  e  dalla  quale  si  rivela  chiaramente  dove 
le  cose  sieno  volte,  ma  che  per  intanto  ha  servito  a  procacciare  al  go- 
verno il  tempo  di  rifiatare.  La  resistenza  fortunata  gli  valse  il  ricupero 
di  una  parte  di  quell'autorità,  che  aveva  perduto  a  forza  cU  cedere  e  di 
lasciar  fare  e  rimise  un  po'  di  animo  nel  partito  che  lo  sostiene. 

Intanto  un  altro  avvenimento  buono  a  guadagnar  tempo  furono  le 
elezioni  parziali  della  Camera,  dalle  quali  uscirono  per  grandissima  parte 
repubblicani  moderati.  È  veramente  mirabile  il  buon  senso  con  cui  le  popola- 
zioni francesi  fanno  chiaro  in  ogni  occasione  il  lor  bisogno  e  il  loro  desi- 
derio di  pace.  Se  questa  è  posta  a  pericolo  dal  governo,  che  miri  a  di- 
struggere la  costituzione,  esse  votano  contro  di  lui;  se  invece  il  pericolo 
viene  da  un  partito,  eccole  cercare. di  far  contrappeso  col  gettarsi  dall'al- 
tra parte  e  coU'accorrere  in  aiuto  al  governo.  Ala  non  si  direbbe  che  an- 
che in  I^ rancia,  come  in  qualche  altro  paese,  la  vita  costipata  in  un'  at- 
mosfera artificiale  e  chiusa,  quale  diventa  a  poco  a  poco  quella  delle  Camere, 
e  la  necessità  dei  campar  parteggiando,  guastino  in  breve  e  sciupino  quel 
naturale  e  schietto  buon  senso,  che  ad  ogni  nuova  occasione  sgorga  come, 
da  lente  inesausta  dal  paese?  Certo  il  nemico  suo  più  terribile  è  la  pas- 
sione, e  questa  s'  accende  più  facilmente  e  divampa  dove  maggiori  sono 
gli  attriti,  dove  un  animo  agitato  ne  agita  intorno  a  so  molti  altri,  dove 
per  i  contatti  e  i  confronti  giornalieri  1'  amor  proprio  si  mescola  a  tutto, 
facenlo  velo  a  ciò  che  apparisce  chiaro  ad  occhi  anche  meno  acuti,  ma 
più  tranquilli. 

Circa  le  cose  d'Oriente  l'attenzione  pubblica  è  venuta  sempre  più 
raccogliendosi  e  concentrandosi  sull'occupazione  mista  della  Romelia  orien- 
tale; un  progetto  messo  innanzi  dalla  Russia  colla  sua  solita  fina  astu- 
zia, per  levarsi  ogni  responsabilità  di  tutto  quello  che  può  accadere 
al  ritiro  del  suo  e.sereito,  e  affinchè  non  s'avesse  a  ripetere,  allo  scoppiare 
di  un'altra  rivolta  contro  dei  Turchi,  ai  quali  il  paese  dovrà  tra  breve  es- 
sere restituito,  che  fu  preparata  da  lei.  La  Russia,  si  vede,  attribuisce  un 
gran  pregio  alla  sua  riputazione  di  lealtà  e  s'adopera  a  custodirla  ge- 
losamente. Perciò,  come  apparve  che  l'Europa  dubitasse  del  suo  contegno, 
credendo  ch'ella  volesse  mostrarle  coi  fatti  l'impossibilità  di  eseguii-e  il 
trattato  di  Berlino,  e  quanto  savi  e  utili  sarebbero  stati  invece  i  prelimi- 
nari di  S.  Stefano,  non  seppe  meglio  che  volgersi  alle  potenze  e  dire  loro  : 
Ebbene,  poiché  sospettate  di  me,  in  luogo  di  me  e  dei  Turchi,  o  con  me 
e  coi  Turchi  insieme,  veniteci  voi.  L'Inghilterra  non  esitò  a  prendere    la 


RASSEGNA  POLITICA.  777 

Russia  in  parola,  traendosi  uaturalmente  dietro  l'Austria,  da  tempo  in  qua 
fatta  coraggiosa  nel  seguire  1  passi  della  politica  inglese;  ma  nò  alla  Ger- 
mania, uè,  meno  ancora,  alla  Francia  e  all'Italia,  in  conchiusione  ai  meno 
interessati  nelle  cose  d'Oriente,  il  disegno  andò  a'  versi,  ed  anzi,  per  ciò 
elle  riguarda  queste  potenze,  pare  oggidì  poco  meno  che  disperato. 

Dicono  che  l'Inghilterra  abbia  fatto  ogni  cosa  per  indurvi  la  Francia, 
e  l'Austria  altrettanto  per  persuadere  l' Italia,  ma  nò  l' una  uè  l'aUra  ap- 
parisce si  sieuo  lasciate  muovere,  e,  a  dire  il  vero,  molto  a  ragione  Non 
consideriamo,  se  la  proposta  della  Russia  sia  stata  sincera,  se  cioò  deside- 
rasse più  che  venisse  accettata  o  respinta;  ciò  che  doveva  pure  avere 
qualche  peso  nelle  risoluzioni  di  due  potenze  trattate  a  Berlino  assai  male. 
Parlando  di  noi  se  la  Francia  avesse  acconsentito  e  con  lei  avessero  preso 
parte  all'occupazione  tutte  le  altre,  anche  l'Italia  si  sarebbe  trovata  nella 
necessità  di  intervenire,  per  far  vedere  la  sua  bandiera  e  non  parere  di- 
menticata. Ma  in  caso  diverso,  ricusandosi  di  qua  la  Francia,  e  di  là  la 
tìermania,  che  ragione  avrebbe  l'Italia  di  andar  incontro  ad  inimicizie  gra- 
tuite e  di  addossarsi  incomodi  e  spese,  per  aiutare  la  politica  del  conte 
Andrassy  ?  L'  Austria,  col  mostrarsi  diffidente  e  gelosa  verso  di  noi  du- 
rante tutta  la  guerra  d'Oriente  e  anche  al  congresso  di  Berlino,  non  ha 
acquistato  nessun  tliritto  alla  gratitudine  dell'Italia,  la  quale  deve  lasciarla 
sbrigare  da  sola  le  sue  faccende.  E  questa  l'opinione  dominante  nel  nostro 
paese  troppo  occupato  dai  bisogni  propri,  per  attendere  più  che  tanto  a 
quelli  degli  altri  dopo  esperienze  aoiorose  e  recenti.  L'Italia,  e  così  anche 
la  Francia,  apparirebbero  di  natura  troppo  arrendevole,  se  dopo  quello  che 
avvenne,  accondiscendessero  a  compiacimenti,  ai  quali  nessuno  si  prese  cura 
di  pi^epararla  almeno  con  quei  riguardi  che  non  sarebbero  costati  nulla. 
A  ciò  che  avverrà  dopo  il  3  maggio,  il  giorno  in  cui  i  Russi  dovranno 
abbandonare  la  Romelia,  ci  pensi  chi  ha  già  pensato  senza  la  Francia  e 
senza  l'Italia  a  tante  altre  cose. 

Intanto  la  questione  della  rettifica  dei  confini  fra  la  Turchia  e  la  Grecia 
sembra  presso  ad  essere  accomodata  per  via  di  una  transazione  proposta, 
od  imposta  dall'  Inghilterra,  giusta  la  quale  il  regno  ellenico  otteri^ebbe 
né  tanto  quanto  avrebbe  voluto  la  Francia,  né  tanto  poco  quanto  le  con- 
cedeva la  Turchia.  Ma  appena,  sotto  la  pressione  dell'Inghilterra,  cui  sta 
a  cuore  di  finirla  presto  con  tutti  questi  strascichi  del  congresso  di  Ber- 
lino, uno  sdruscio  viene  rattoppato  da  una  parte,  ecco  un  nuovo  strappo 
apparire  da  un'altra,  oome  in  una  veste  che  non  tenga  più  insieme. 

Accomodata  o  presso  a  poco  la  vertenza  greca,  viene  la  crisi  egiziana, 
una  ribellione  palese  e  aperta  del  viceré  contro  la  tutela  straniera  dopo 
le  molte  nascoste  e  dissimulate. 

Il  Kedive  ha  congedato  da  un  punto  all'altro  i  ilue  Ministri  inglese  e 
francese,  signori  Wilson  e  Bliguières,  sostituendo  a  questi  e  a  tutto  il  Mi- 
nistero più  0  meno  devoto  alle  potenze  occidentali  un  Ministero  composto 


778  KASSEGNA  POLITICA. 

esclusivamente  di  indigeni.  Siccome  a  giustificare  l'ingerenza  dell'Ingliil- 
terra  e  della  Francia  nell'amministrazione  egiziana  e  la  nomina  dei  due  mi- 
nistri ora  licenziati,  s'erano  invocati  i  debiti  dell'Egitto  e  i  diritti  dei  credi- 
tori inglesi  e  francesi,  così  il  Kedive  crede  di  rispondere  a  tutte  le  obbiezioni 
assumendo  sopra  la  sua  responsabilità  il  pagamento  degli  interessi.  In  pari 
tempo  egli  offrirebbe  all'Europa  la  garanzia  di  un'assemblea  di  notabili,  ai 
quali  si  sottoporrebbe  spontaneamente  con  una  specie  di  costituzione.  Ma 
è  assai  dubbio,  se  queste  soddisfazioni  mezzo  finanziarie  e  mezzo  politiche 
potranno  acquietare  l'Inghilterra  e  la  Francia,  che  per  adesso  senza  tanti 
complimenti  si  vedono  licenziate.  0  piuttosto  non  c'è  dubbio  nessuno  che  le 
due  potenze  tutrici,  l'Inghilterra  segnatamente,  dopo  i  tanti  anni  di  lento 
lavoro  per  acquistare  un'ingerenza  nelle  cose  d'Egitto,  non  si  rassegneranno 
cosi  facilmente  al  colpo  di  stato  del  viceré.  Di  ciò  danno  segno  i  giornali 
inglesi  irritati  al  punto  da  proporre  che  si  domandi  al  Sultano  la  sua  de- 
posizione. Ed  è  veramente  affrettarsi  un  po'  troppo  ;  perchè,  nello  stato  di 
cose  presente,  nulla  fuorché  le  convenienze  diplomatiche  vietava  al  viceré 
di  licenziare  un  Ministero,  fosse  pur  composto  di  inglesi,  di  francesi  o  di 
egiziani;  e  airinglunzione  del  Sultano  egli  potrebbe  ribellarsi,  donde  ver- 
rebbe poi  la  necessità  di  un'occupazione  armata  dell'Egitto,  con  che  effetti 
nei  rapporti  ilell'Inghllterra  e  della  Francia  colle  altre  potenze,  nessuno  è 
in  grado  di  prevedere.  L'Inghilterra  è  la  Russia  dell'Egitto  e  le  gelosie  su- 
scitate da  questa  al  di  qua  del  Danubio  si  esacerberebbero  contro  dell'altra 
pel  suo  contegno  sul  Nilo.  È  vero  che  l'Iughilterra  fa  intendere  di  voler  pro- 
cedere in  tutto  d'accordo  colla  Francia  e  da  quell'accordo  si  ripromette  di 
restar  coperta;  ed  è  vero  dall'altro  lato  che  d' Inghilterre  al  mondo  ce  n'è  una 
.sola  e  non  si  vede  donde  potesse  sorgerle  incontro  un'opposizione  efficace. 
Ma,  por  non  dir  altro,  la  Russia  si  troverebbe  incoraggiata  nel  suoi  disegni. 
In  ogni  caso  la  faccenda  è  assai  grave  e  tiene  a  ragione  in  pensiero  quanti 
attendono  alle  cose  di  questo  mondo  tanto  restie  a  trovare  riposo  e  pace. 

X. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 


LETTERATURA  E  POESÌA 

Compendìo   della   storia   della  letteratura   italiana   ad  uso   de' Licei, 

scritto  dal  prof.  Cablo  Maria   TALLAEIGO.  —  Parte  prima.    Napoli, 
Morano,  1879  (png.  459). 

È  un'opera  (a  giudicarne  da  questa  prima  parte  che  comprende  i  primi 
tre  secoli  della  letteratura)  ispirata  principalmente  dai  libri  del  Settem- 
brini e  del  De  Sanctis,  e  in  alcuni  luoghi  ancora  dalla  storia  di  Adolfo 
Bartoli.  Anche  qui,  come  ne' due  scrittori  napoletani,  prevale  l'estetica  alla 
critica,  e  negli  affetti  quel  naturalismo  spiritualizzato  che  è  proprio  sin- 
golarmente dei  meridionali.  Quando  l'Autore  si  imbatte  in  opere,  la  cui 
autenticità  è  messa  in  dubbio  (come  certe  famose  cronache),  accenna  sì  la 
questione,  ma  non  manifesta  per  proprio  conto  opinione  alcuna,  parendogli 
che  i  giovanetti,  pei  quali  scrive,  non  debbano  occuparsene.  Era  forse 
meglio,  scrivendo  appunto  per  giovinetti,  o  non  affacciare  il  dubbio  o  darne 
nettamente  il  proprio  parere.  Ma  questo  passi.  Quello  che  non  passa  è 
l'avere  risuscitato  la  Nina  Siciliana,  cui  già  il  D'Ancona  e  il  Borgognoni 
aveano  fatto  gli  onori  funebri;  e  attribuito  anch'agli  a  Fra  Jacopone  la 
canzone  Maria  Yergine  bella  ecc.  che  ormai  si  ritiene  come  un'imitazione 
dal  Petrarca  e  forse  opera  d'un  quattrocentista.  Ci  pare  anche  oziosa,  se 
nvjn  puerile,  per  chi  conosce  le  idee  cavalleresche  e  platoniche  del  se- 
colo XllI,  la  quistioncella  sollevata  a  pag.  144,  perchè  Dante  non  isposasse 
Beatrice  che  amava  pur  tanto;  e  falsa  oramai  l'opinione  delle  due  Bea- 
trici, quella  della  Vita  nuova  e  quella  del  Convito,  avendo  mostrato,  fra 
gli  altri,  il  Carducci  che  la  donna  gentile  non  è  Beatrice,  ma  qualche  cosa 
di  opposto  alla  figlia  del  Portinari.  E  il  dare  come  dantesca  la  canzone 
O patria  degna,  ecc.,  dopo  le  giuste  osservazioni  del  Carducci  medesimo  e 
del  D'Ovidio,  è  da  tollerarsi?  E  come  si  può  dire  che  la  Laura  del  Pe- 
trarca è  certissimamente  la  figlia   di  Audebert  De  Noves   maritata  ad 


780  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO. 

Ugo  (le  Sade?  Non  ha  veduto  il  prof.  Tallarigo  quanto  se  ne  è  disputato 
recentemente?  E  donde  ricava  egli,  per  darlo  come  sicuro,  che  la  Biogra- 
fia di  Dante  scritta  dal  Boccaccio  appartenga  all'ultimo  periodo  della  vita 
di  lui,  e  sia  posteriore  alla  conversione?  E  chiunque  abbia  letto  il  Bur- 
chiello, come  potrà  ammettere  che  egli  scrisse  in  purissimo  Haliano 
poesie  noii  poche,  delle  quali  se  talvse  sHntendono  a  stento,  altre, 
massime  certi  sonetti,  sono  ammirevolissime  per  festevolezza,  ecc.,  men- 
tre queste  ultime  sono  soltanto  una  scarsa  eccezione?  Ma,  lasciando  di  tali 
cose,  il  lavoro  presente  difetta  anche  di  simmetria,  tenuto  conto  special- 
mente dello  scopo  a  cui  mira:  certe  parti  sono  svolte  troppo  ampiamente 
'p.  es.  le  opere  minori  del  Boccaccio,  e  le  opere  latine  uel  Pontano)  ;  mentre 
altre  lasciano  troppo  a  desiderare,  come  jj.  es.  la  Divina  Commedia,  e  i 
cronisti  fiorentini,  i  quali  hanno  appena  un  cautuccuio  fra  i  prosatori  mi- 
nori. Eppure  la  materia  stessa  e  le  opinioni  tlegli  scrittori,  per  tacere  del- 
l'arte loro,  meritavano  qualche  cosa  di  più.  Infine  non  possiamo  tacere  di 
un  inconveniente  assai  grave  per  tutti  coloro,  e  fra  questi  poniamo  cer- 
tamente l'Autore  medesimo,  che  nell'istruzione  de'  giovani  vogliono  salva, 
per  quanto  sta  alla  scuola,  la  loro  morale.  Ed  è  il  poco  rispetto  serbato 
al  buon  costume,  non  solo  riportando  luoghi  di  poeti  che  parlano  troppo 
chiaro  .come  a  pag.  53  e  38.^'-,  ma  anche  analizzando  in  tutta  la  loro  nu- 
dità poemetti  amorosi  (vedi  i  capitoli  sul  Boccaccio  e  sul  Fontano.  Siamo 
certi  che  l'Autore  lo  ha  fatto  innocentemente;  egli  che  in  più  luoghi  rac- 
comanda ed  onora  il  buon  costume;  se  pure  non  è  stato  mosso  dall'idea, 
che  gli  studenti  del  Liceo  non  sono  ormai  più  bambini  ÌNIa,  ad  ogni  mo  lo, 
come  si  potranno  leggere  tali  cose  in  una  scuola  senza  destare  il  riso,  e 
senza  che  le  mobili  fantasie  de'  giovani  trascorrano  troppo  facilmente  dal- 
l'ideale al  reale?  La  è,  per  lo  meno,  una  seria    questione  di  convenienza. 

L'odierno  realismo  iu  poesia,  di  Aetuko  LINAKER.  —  Firenze,  Cellioi, 
187y  (pag.  .5t'.). 

Le  poesie  del  Guerrini  sotto  il  falso  nome  di  Lorenzo  Stecchetti,  e  le 
prose  con  cui  egli  non  tanto  cerca  difendersi  dai  suoi  avversari  quanto 
piuttosto  ride  delle  loro  paure,  e  si  mostra  risoluto  a  seguire  per  la  sua 
via,  furono  il  motivo  di  questo  libretto.  Il  dott.  Linaker,  scolare  del  pro- 
fessore Conti  a  cui  dedica  il  suo  scritto,  comincia  dal  provare:  quanto  sia 
scarso  e  parziale  il  realismo  in  arte,  dovendo  esso  o  ritrarre  esclusiva- 
mente il  brutto,  od  altrimenti  rinnegare  sé  stesso,  come  spesso  ha  fatto 
nelle  opere  di  valenti  poeti  detti  pure  realisti.  Venendo  poi  al  Guerrini, 
considera  appunto  in  lui  il  cantore  del  brutto  morale,  e  l'esageratore  della 
maniera  tenuta  dai  poeti  tedeschi  e  francesi  della  medesima  scuola  :  mo- 
stra, per  le  parole  stesse  del  poeta,  che  il  suo  ideale  in  politica  è  la  ri- 
voluzione sociale.  Ma  cogliendo  certe  contradizioni  che  qua  e  là  si   affac- 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO.  781 

ciano  nel  suo  canzoniere,  gli  augura  che  i  buoni  sentimenti  possano  rivi- 
vere in  lui,  e  fare  che  la  moi'ta  2Mesia  risurga.  11  dott.  Linaker  ha  lo 
svantaggio  di  chi  parla  sul  serio  contro  uno  che  inde;  ma  la  sua  causa 
è  giusta,  ed  egli  è  profondamente  convinto  di  quello  che  afferma,  come  ap- 
parisce dal  calore  di  alcune  pagine.  Se  egli  però  avesse  dato  a'  suoi  pen- 
sieri maggior  connessione,  ed  una  veste  un  po'  più  ricca,  crediamo  che 
l'efficacia  delle  sue  parole  sarebbe  stata  maggiore. 


Epigrafi  e  prose  edite  ed  inedite,  del  conte  Oaklo  LEONI,  con  piefaziui.e 
e  note  di  Gitjseppk  GxjiìKzoki  —  Fiieiii:e,  G.  Barbèra  editore,  IS'O 
(pag.  xcix,  595). 

Con  questa  pubblicazione  il  prof.  Guerzoni  ha  reso  un  ragguardevole 
servigio  e  un  tributo  d'onore  alla  illustre  città  ed  Università  di  Padova 
nella  quale  egli  ammaestra  la  gioventù  in  lettere  italiane.  11  conte  Leoni 
padovano  (1S12-1S7-1)  fu  un  egregio  pagnotta  del  vecchio  stampo,  onesto, 
credente,  largo  del  proprio  per  ogni  causa  generosa,  dilettante  di  lette- 
ratura, scrittore  mediocre,  ma  felice  epigrafista  di  genere  storico:  lasciò 
ordine  agli  eredi  di  pubblicare  il  meglio  de'  suoi  scritti  editi  e  inediti, 
determinando  puntualmente  la  scelta;  l'ordine  e  la  distribuzione  della  ma- 
teria. Gli  eredi  ne  affidarono  ultimamente  l'incarico  al  prof.  Guerzoni,  il 
quale  con  amorosa  diligenza  ha  dettato,  in  forma  di  prefazione,  la  vita 
dell'autore,  e,  col  doppio  proposito  di  rispettare  per  un  lato  la  volontà  di 
"lui,  e  provvedere  insieme  il  meglio  che  potesse  alla  fama  del  medesimo, 
ha  compreso  nel  presente  volume  le  Epigrafi  distribuite*  in  varie  classi; 
quei  pensieri  diversi  che  vanno  sotto  il  nome  di:  li  hello  nel  vero;  la 
Storia  aneddotica  delV arte  e  del  teatro  di  Padova;  e  delle  Cronache  Ae\ 
1848  e  49  quella  parte  soltanto  che  si  riferisce  a  Padova  ed  a  Venezia,  e 
che  è  scevra  di  certe  personalità  pericolose,  troppo  frequenti  nelle  altre. 
Le  Epigrafi,  non  sempre  forbite  abbastanza  ma  spesso  ingegnose  ed  inci- 
sive, meritano  d'esser  conosciute,  anche  perchè  appartengono  ad  una  specie 
di  cui  il  Giordani  e  il  Muzzi  ed  altri  epigratìsti  più  lodati  non  danno  clie 
pochi  esempi.  Le  altre  prose  sono  in  forma  di  pensieri  sciolti,  e  non  hanno 
pregio  di  eleganza  ;  ma  leggonsi  volentieri  per  le  tante  curiose  partico- 
larità che  forniscono,  specialmente  rispetto  alla  vita  padovana;  ed  anche 
per  la  bontà  d'animo  che  vi  trasparisce,  e  sovente  pure  per  una  acutezza 
di  pensiero  che  dà  novità  e  forza  all'espressione.  E  la  storia  può  trovare 
di  che  giovarsi  nei  ricordi  del  48  durante  l'assedio  di  Venezia,  scritti  da 
un  testimonio  oculare.  Accresce  poi  grandemente  il  pregio  del  volume  la 
bella  prefazione  del  prof.  Guerzoni,  che,  oltre  a  ritrarre  vivamente  il  ca- 
rattere e  la  vita  del  Leoni,  abbozza  come  una  storia  della  Lnivesità  di 
Padova,  e  ci  fa  rivivere  nei  tempi  che   precedettero  l'ultima  rivoluzione 


782  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO. 

italiana.  A  nostro  avviso,  è  questa  una  dello  più  belle  scritture  del  Guer- 
zoni,  e  quel  suo  stile  facile  insieme  e  vivace  procede  più  puro  e  più  ita- 
liano che  in  parecchie  delle  opere  precedenti. 

Pietro  Maggi  snatematico  e  poeta  veronese,  di  Giambattista  BIADEGO. 

-—  VeroDa,  Muubter,   1879  (pa<,^   176). 

Verona,  madre  di  molti  eletti  ingegni  che  unirono  alle  scienze  od  alla 
erudizione  storica  una  fina  letteraria  coltura,  diede  ne'  tempi  a  noi  vicini 
questo  matematico,  fisico  e  poeta,  scolare  dell'abate  Giuseppe  Zamboni,  e 
professore  di  matematica  applicata  nella  Università  di  Padova  dal  1850  al 
18o:-t,  anno  della  sua  morte.  La  presente  operetta  si  divide  in  tre  parti: 
Biografia  di  P.  Moggi:  P.  Maggi  scienz-iato:  P.  Maggi  poeta,  delle  quali 
l'ultima  è  opera  di  Giuseppe  Biadego.  Segue  una  bibliografia  degli  scritti 
editi  ed  inediti,  alcune  lettere  famigliari,  ed  un  elogio  dettato  dal  prolès- 
sore  Minich.  I  pochi  sagji  di  poesia  portati  dal  Biadego  porgono  una  fe- 
lice idea  del  valore  poetico  del  Maggi;  ma  più  assai  è  importante  la  no- 
tizia che  lo  considera  come  tìsico  e  specialmente  come  scrittore  di  mate- 
matica pura,  facendo  rilevare  l'abilità  singolare  che  egli  aveva  nel  maneggio 
dell'analisi. 

La  Vita  Jìfuoya  di  Daute  Alighieri,  discorso  di  Giammaria  CATTANEO, 

Trieste  Hermauusteufer,  1878. 

Buone  e  sensate  cose  contiene  questo  discorso,  Ietto  già  dal  prof.  Cat- 
taneo nelle  sale  del  gabinetto  di  Minerva,  ed  ora  messo  a  stampa.  Se  non 
che,  potremmo  rimproverargli  di  non  conoscere  a  fondo  e  tutt'intera  quella 
che  i  tedeschi  chiamano  la  «letteratura  »  del  soggetto:  cioò  gli  scritti 
anteriormente  pubblicati  sull'argomento  da  lui  prescelto.  Se  ciascuno  po- 
nendosi a  scrivere  su  determinata  materia  curasse  di  conoscere  ciò  che  fu 
detto  dai  suoi  antecessori,  si  eviterebbero  inutili  ripetizioni,  si  saprebbe 
ciò  che  è  stato  risposto  a  certe  obiezioni,  e  quali  obiezioni  anticipata- 
mente siensi  fatte  a  nuove  congetture.  Il  signor  Cattaneo  conosce  i  lavori 
del  Fraticelli,  del  Torri,  e  del  Giuliani,  ed  anche  l'elegante  edizione  M'it- 
tiana  della  Yifa  Nuova  (Lipsia,  1870j,  ma  ignora  affatto  l'edizione  pisana 
del  187-5,  fatta  dal  prof.  d'Ancona,  con  note  di  lui  e  del  prof.  Carducci  ; 
né  la  cita  se  non  per  quel  che  ne  è  detto  nell'edizione  del  Witte.  Ma 
poiché  il  Witte  si  dolse  che  l'edizione  pisa^ia  troppo  tardi  gli  giungesse 
alle  mani  per  trarne  pieno  profitto,  e  d'altra  parte  scrisse  che  «poche 
opere  di  scrittori  classici  ebber  la  sorte  di  esser  commentate  in  un  modo 
così  distinto,  »  poteva  il  signor  Cattaneo  sentir  la  voglia  di  gettarvi  sopra 
un'  occhiata.  Avrebbe  ivi  visto  a  pag.  xv-xvi  trattata  la  controversia  del 
tempo  in  che  fu  scritta  la   Vita  Nuova,  o  a  dir  meglio   furono  composte 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO.  783 

le  varie  parti  ond'essa  consta:  il  che  gli  sarebbe  stuto  non  inutile  per  la 
nota  apposta  a  pag.  ò.  Né  poi,  riferendo  (p.  12)  non  bene  dall'edizione 
del  Witte,  avrebbe  al  prof.  d'Ancona  appropriato  una  opinione  sul  vero 
valore  della  locuzione  Vita  Nuova,  che  spetta  invece  al  prof  Carducci. 
Anche  un  errore  d' interpretazione  del  Giuliani  e  d'altri  in  un  passo  del 
libretto  dantesco  :§  XI V)  è  stato  già  trionfalmente  ribattuto  dal  Carducci, 
ed  era  opportuno  riferire  ciò  nella  nota  alla  pag.  21.  Sui  versi  della  can- 
zone dantesca  in  che  sembra  accennarsi  a  un  primo  concetto,  diverso  da 
quello  che  fu  poi  eseguito,  del  viaggio  ai  tre  mondi  invisibili,  il  signor 
Cattaneo  avrebbe  dovuto  conoscere  i  dubbi  esposti  in  proposito  dal  prof. 
Todeschini  nel  voi.  II,  pag.  2S1  dei  suoi  Scritti  danteschi.  Il  sig.  Cattaneo 
non  sembra  credere  che  il  passaggio  di  Pellegrini  ricordato  nel  §  XLI 
della  V.  N.  si  riferisca  al  giubileo  del  1300;  ma  non  avrebbe  dovuto  igno- 
rare ciò  che  ne  scrisse  con  bontà  d'argomenti  il  prof  Lubin  di  Gratz  'e 
Trieste  non  è  da  Gratz  molto  lontana),  e  ciò  che  soggiunse  il  prof.  Car- 
ducci a  rincalzo  della  stessa  opinione. 

Insomma,  se  pari  al  buon  giudizio,  che  in  più  luoghi  mostra  l'autore, 
fosse  stata  l'erudizione,  questo  opuscolo,  per  altri  aspetti  pregevole,  avrebbe 
fatto  fare  un  passo,  riassumendole,  a  certe  questioni  di  non  poca  impor- 
tanza, tuttavia  dibattute  fra  i  cultori  della  poesia  dantesca. 

I  dialoghi  di  Eschiue  Socratico,  per  la  prima  volta  recati   in  italiano  da 
Demetrio  LIVIDATI.  —  Milauo,  Battezzati,  1879. 

Fra  i  dialoghi  che  si  trovano  mescolati  a  quelli  di  Platone  ve  ne 
sono  tre  intitolati  :  Della  virtù,  L'elle  ricchezze,  e  Assioco  o  Della 
morte,  i  quali  vengono  attribuiti  ad  Esehine  scolare  di  Socrate,  ma  sono 
probabilmente,  come  oramai  la  critica  ha  stabilito,  un  lavoro  di  tempi 
molto  posteriori.  Si  può  dire  che  non  siano  mai  stati  tradotti  in  nostra 
lingua,  perchè  il  solo  Assioco  ha  una  versione  antica  ed  assai  imper- 
fetta; e  d'altra  parte,  a  qualunque  età  essi  appartengano,  non  man- 
cano di  pregi,  specialmente  V Assioco  stesso,  che  è  una  difesa  della  moi'te 
con  una  notizia  dell'altro  mondo,  secondo  le  idee  platoniche.  Venutaci  a 
mano  la  recente  versione  del  Livaditi,  abbiamo  riscontrato  col  testo  questo 
ultimo  dialogo,  e  sol  di  esso  intendiamo  dar  giudizio,  argomentando  da 
questo  il  rimanente.  Tal  versione,  in  generale,  non  difetta  di  chiarezza  né 
di  buona  lingua;  ha  però  qua  e  là  una  certa  durezza  e  difficoltà,  che  di 
rado  mancano  a  simili  lavori  come  si  sogliono  fare  in  Italia.  Inoltre  vi 
sono  de'  luoghi  frantesi  o  in  parte  alterati  o  resi  freddamente  e  prolissa- 
mente, se  pure  alcuni  non  si  debbano  riferire  al  testo  seguito  dal  Tradut- 
tore (Vienna,  1814)  diverso  da  quello  che  noi  abbiamo  tenuto  sott'occhio 
(ediz.  curata  dall'Hermann,  Lipsiae,  18.38).  Vorremmo  insomma  piìi  fedeltà, 


784  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO. 

più  franchezza,  più  vivacità.  Il  tradurre  dalle  lingue  classiche  è,  o^gì 
specialmente,  opera  difficilissima,  e  richiede  cognizioni,  pazienza  ed  arte  in 
tal  misura  quale  trovasi  di  rado  in  un  solo  individuo. 

Morbo  sociale.  —  Mììia   di  L.  A.  MICHELANGELI.  —   Bologna,   presso 
N.  Zanichelli,   1870.  (Oollezione  elzeviriana,  pag-.  14). 

Se  la  collezione  elzeviriana  ha  dei  peccati  da  scontare  per  le  poesie, 
scapigliate  anzi  che  no.  di  cui  è  stata  ed iiriee,  può  dirsi  che  ne  abbia  fatto 
ammenda  con  altre  di  principii  diversi  od  opposti.  Ecco  qui  due  liriche, 
assai  belle,  di  un  liberale  conservatore,  che  a  giusta  ragione  s'impaurisce 
del  minacciante  socialismo  e  del  nissun  riparo  che  vi  prendono  i  ricchi. 
Nella  prima  ode  vediamo  un  sogno  lusinghiero  sulla  sperata  prosperità 
d'Italia,  paragonato  col  tristo  presente.  Nella  seconda,  poveri  affamati  e 
ricchi  spietati  sono  dipinti  con  vivi  colori,  e  la  conclusione  tratteggia,  pur 
vivamente,  la  rivoluzione  sociale.  Ad  alcuni  versi  che  contengono  un  buon 
augurio,  segue  una  prosetta,  dove  l'autore  rammenta  di  nuovo  alla  società 
il  dovere  che  ha  di  provvedere,  percliè  non  iscoppino  mali  peggiori.  La 
strofa  del  Michelangeli  è  franca,  rapida,  animata,  e  nello  stesso  tempo  con- 
serva il  sapore  dello  stile  classico.  Uu  bravo  di  cuore. 


SCIENZE  POLITICHE 

I  liiogiii  piì  riuniti  di  Verona  e  il  loro  riordinamento.  Relazione  del 
ciiUJiiiis.-.iiria  guveriuitivo  FiùilRARI  Bernardo  Carlo. —  Verona,  tipo- 
gratìa  Eraucbiui,  1878. 

La  questione  dello  opare  pie  in  Italia  è  delle  più  gravi  ;  d'ogni  parte 
si  invocano  provvedimenù,  ma  a  quelli  specialmente  d'mdole  legislativa 
contrastano  grandemente  le  incertezze  sulle  condizioni  di  fatto  di  esse  e 
sugli  effetti  della  legislazione  esistente.  In  Verona  è  stato  incaricato  di 
un'accurata  investigazione  in  proposito,  il  consigliere  di  prefettura  Fer- 
rari Bernardo  Carlo;  risultato  della  sua  inchiesta  si  è  la  pubblicazione  di 
cui  discorriamo. 

L'indole  di  questo  cenno  bibliografico  non  ci  permette  1'  esame  mi- 
nuto delle  questioni  che  vi  sono  annesse.  Stimiamo  soltanto  dire  che  l'au- 
tore prende  le  mosse  dalla  condizione  della  carità  collettiva  in  \'erona 
prima  del  18'Ji,e  dell'attuazione  della  legge  italiana  del  18l;2  esaminale 
questioni  delle  amministrazioni  caritative  locali,  studia  la  storia,  l'anda- 
mento e  le  condizioni  delie  singole  opere  pie  che  era  stato  chiamato  a 
investigare  :  la  casa  di  ricovero,  la  casa  di  ritiro,  l'orfanotrofio  femminile, 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  785 

il  collegio  degli  Artigianelli,  l'ospedale  civile,  la  commissione  di  benefi- 
cenza, la  casa  d'industria,  ecc. 

Fa  in  ultimo  un  riassunto  sullo  stato  delle  cose,  sulle  proposte  del 
municipio  e  sulle  sue- 

L'ampio  volume  non  è  di  ordine  generale  né  scentifico,  propriamente 
detto,  pure  è  un  tesoro  di  studi  diligenti  e  intelligenti;  ci  fa  perciò  viva- 
mente desiderare  che  i  più  solerti  e  capaci  funzionari  della  nostra  ammi- 
nistrazione pensino  e  ne  pubblichino  degli  altri  simili  sulle  opere  pie  delle 
altre  nostre  città  e  provinole  Le  questioni  si  potrebbero  studiare  e  risol- 
vere molto  meglio. 

Le  elezioni  e  il   broglio  nella  Repubblica  romana.  Studio  di  storia  del 

prof.  iGi^fio  GENTILE.  —  Milano,  Hoepli,  1879. 

È  un  piccol  libro  di  311  pagine  che  siamo  veramente  lieti  di  segna- 
lare all'attenzione  del  pubblico.  Generalmente  gli  studiosi  di  questa  parte 
così  fondamentale  del  diritto  politico,  quale  si  è  il  diritto  elettorale,  stu- 
diano le  leggi  e  l'andamento  delle  elezioni  pubbliche  nei  popoli  moderni 
o  meglio  nel  mondo  contemporaneo  Eppure  gli  antichi  e  in  particolare  il 
popolo  politico  più  eminente  dell'antichità  il  Romano,  se  non  avevano  il 
sistema  rappresentativo  odierno,  componevano  il  potere  pubblico  in  virtù 
delle  pubbliche  elezioni  ;  e  i  problemi  che  affaticano  noi  oggidì,  in  fatto  di 
elettorato,  di  eleggibilità,  di  procedimento,  di  brogli,  affaticarono  anche  loro; 
ed  è  sommamente  istruttivo  e  intei'essante  vedere  come  i  Romani  li  ab- 
biano trattati  risoluti  o  affrontati. 

L'autore  dunque  studia  dapprima  nella  loro  composizione  le  assem- 
blee elettorali  romane,  ossia  i  loro  famosi  comizi  curiati,  centuriati  e  tri- 
buti ;  si  occupa  poscia  in  particolare,  e  questa  ci  sembra  la  parte  più 
interessante,  di  ciò  che  si  riferisce  ai  candidati  ed  ai  brogli  elettorali,  alle 
forme  che  assunsero  in  Roma,  ai  modi  tentati  per  prevenirli  e  reprimerli. 

In  tutto  ciò  fa  capo  sempre  agli  scrittori  antichi,  segnatamente  Livio 
e  Cicerone,  e  ai  più  illustri  interpreti  moderni.  L'autore  fa  pruova  di  non 
comuni  qualità,  acume  e  diligenza  d'investigazione,  dottrina,  criterio  ;  e  se 
non  mancano  delle  ripetizioni,  non  si  può  dire  che  1-  esposizione  manchi 
di  attrattiva,  è  per  lo  meno  ordinata  e  chiara.  In  conclusione  è  un  piccol 
libro  degno  schiettamente  di  molta  lode,  e  ci  fa  vivamente  desiderare  che 
l'autore  ci  dia  ancora  dei  simili  studi  su  quelle  nostre  antiche  assemblee 
popolari  nelle  due  altre  loro  funzioni,  la  legislativa  e  la  giudiziaria. 


VoL.  XIV,  Serie  li  —  15  Aprile  18T9.  4& 


786  BOLLETTINO   BIBLIGGRAFiCO. 


GEOGRiFlA 


AyYiameuto  allo  studio  della  geografìa,    ovvero,    Descrizione  delln    città  e 
■pruni, tcia  di  Roma,  di  Elena  BALLIO.  —  Roma,  IV  ediz.,   1879. 

I  pedanfogistL  in  Italia  inculcarono  p'^r  mezzo  secolo  i  celebri  aforismi 
dal  nolo  aiV  ignoto  e  dal  facile  al  difficile  senza  per  questo  abbando- 
nar punio  il  vecchio  metodo  di  insegnare  geografia  cominciando  dai  pianeti 
e  dalle  stelle;  come  se  le  stelle  ci  fossero  più  note  della  terra  dove  te- 
niamo i  piedi,  e  fosse  più  facile  capire  i  circoli  celesti  e  i  moti  apparenti 
del  Sole,  di  Giove,  di  Marte  e  di  Venere,  clie  le  strade  per  cui  camminiamo. 
Tanto  si  cade  senza  avvedersi  a  imitare  il  padre  Zappata  parlando  bene 
e  razzolando  male,  tanto  è  ovvia  la  contraddizione  fra  il  dire  come  si  faccia 
e  il  fare,  e  tanto  l' abitudine  del  fare  a  un  modo  prevale  alla  teoria  che 
dovrebbe  condurre  al  modo  opposto  ! 

Questo  contrasto  fi-a  gì'  insegnamenti  della  teoria  pedagogica,  la  quale 
del  resto  non  ha  mai  avuto  la  compiacenza  di  fermarsi  a  indagare  quale 
sia  il  noto  per  la  testa  di  un  bambino,  s'era  cominciato  a  notare  anche 
in  Italia  e  in  questa  stessa  Rivista,  allorché  l'esposizione  di  Vienna,  rive- 
lando il  metodo  delle  scuole  della  Germania  e  parlando  coli'  autorità  del- 
l'esimpio,  ci  mostrò,  meglio  di  tutti  i  ragionamenti  e  tutti  i  discorsi,  la 
contraddizione  in  cui  eravamo  con  noi  medesimi  Fra  i  primi  ad  avvertirlo 
fu  ancora  la  Nuova  Aniulogia  Venne  poi  il  prezioso  libro  del  Bréal  sul- 
j  1  insegnamento  in  Francia  e  da  quel  tempo  la  rivoluzione  nel  metodo  di 
insegnare  la  geografia  non  s  è  più  arrestata. 

Come  farebbe  un  uomo  che  nel  modo  più  semplice  e  più  naturale  vo- 
lesse conoscere  la  terra  ?  Farebbe  come  fecero  i  prirai  uomini,  partirebbe 
dal  suo  paese,  eh  è  il  vero  ed  il  solo  noto,  per  visitare  via  via  gli  altri, 
traversando  fiumi,  superando  montagne,  fino  a  formarsi  un"  idea  «li  tutto. 
È  questo  il  processo  storico  con  cui  la  terra  fu  conosciuta  nel  corso  dei 
secoli  e  da  questo  non  giova  scostarsi  neppure  idealmente  volendo  fare 
acquistare  agli  alunni  la  cognizione  medesima,  senza  che  escano  di  casa 
loro  Disegnando  sulla  lavagna  le  vie  più  note  del  paese  dove  abitano,  si 
destano  nella  loro  mente  imagini  di  cose  da  essi  vedute  e  si  mostra  loro 
la  rei  zione  che  passa  fra  queste  e  il  disegno,  ciò  che  li  prepara  ad  in- 
tendere chiaramente  le  carte  geografiche  e  a  cavar  poi  da  esse  la  co- 
gnizione di  tutte  quelle  che  non  videro  e  non  vedranno.  Ecco  il  segreto 
del  metodo  seguito  molto  a  ragione  dalla  signora  Ballio  nel  giudizioso  e 
bene  ordinato  libretto  nel  quale,  dalla  discrizione  della  stanza  in  cui  si  tro- 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  787 

vano,  gli  alunni  finiscono  ad  acquistare  una  qualche  idea  dell  Italia  La 
stanza  però,  perchè  serva  a  muovere  il  primo  passo,  non  deve  porgere 
materia  a  una  semplice  descrizione,  ma  ad  un  disegno  sulla  lavagna.  Sic- 
come poi  la  sola  stanza  che  tutti  gli  alunni  conoscono  è  quella  della  scuola, 
il  meglio  è  in  pratica  partire  da  questa,  mostrando  loi'o  come  le  linee  dise- 
gnate sulla  lavagna  rappresentino  quelle  delle  pareti,  servendosi  della  espo- 
sizione delle  finestre  per  orientarsi,  ecc.  11  maestro  a  questo  modo  lavora 
in  luogo  di  predicare  e  gli  alunni  fanno  altrettanto  con  lui,  s  condo  le 
idee  moderne,  giusta  le  quali  la  scuola  dev*  essere  un  coniinuo  esercizio 
di  misurare,  computare,  disegnare  ecc.  in  modo  che  lo  spirito  dello  sco- 
lare sia  sempre  attivo. 

Molti  ridono  di  queste  cose,  parendo  loro  minuzie,  ma  sono  di  quelle 
che  formano  le  teste  chiare,  che  avvezzano  a  osservare,  a  riflettere  a  prov- 
vedere, che  mettono  la  scienza  in  relazione  colla  vita,  che  educano  uomini 
pratici  e  atti  non  solamente  a  dire  come  una  cosa  si  faccia,  ma  a  farla. 


ECONOMIA 

La  legge  di  periodicità  delle  crisi.  Perturbazioni  economiche  e  macchie 
solari  di  Girolamo  BOCCARDO.  Estratto  da  WArchmo  di  Staùxtka.  — 
Tipografia  Elzeviriana,  1879. 

Il  soggetto  di  questa  memoria  non  è  che  una  ipotesi,  che  il  chiaro  au- 
tore studia  sull'orme  di  alcuni  statisti  inglesi  e  principalmente  del  prof. 
Stanley-Jevons  ;  una  di  quelle  ipotesi,  alle  quali  la  scienza,  concepito  il  so- 
spetto, comincia  prima  col  fermare  la  sua  attenzione,  delle  quali  raccoglie 
poi  con  diligente  e  assidua  costanza  le  prove  e  che  non  rare  volte  fingono, 
contro  quello  che  i  più  s'aspettavano,  a  poter  essere  dimostrate.  Il  quesito 
del  curioso  scritto  di  cui  parliamo,  è  il  seguente  :  Se  le  crisi  commerciali, 
che  appariscono  soggette  a  un  periodo,  ossia  rinnovansi  ogni  dieci  o  un- 
dici anni,  coincidano  col  periodo  pressoché  eguale  che  sembrano  avere  le 
macchie  solari,  o  più  precisamente  col  ritorno  del  minimo  di  queste 
macchie. 

A  primo  aspetto  è  cosa  da  strabiliare,  non  apparendo  fra  le  crisi  com- 
merciali e  le  macchie  del  sole  alcun  nesso  di  causa  a  effetto,  supposto  pure 
che  si  potesse  mettere  fuori  di  dubbio,  ciò  che  è  già  difficile,  la  loro  coin- 
cidenza. Il  nesso  però,  o  se  si  vuole,  l'anello  di  congiunzione  consisterebbe 
nella  scarsa  produzione  agricola,  che,  per  l'influenza  del  sole  sulla  vege- 
tazione, deriverebbe  dal  minimo  delle  sue  macchie.  «  La  costante  corri- 
spondenza, dice  l'autore,  dei  rapporti  fra  due  serie  di  fenomeni  è,  in  buona 
logica,  un  forte  argomento  a  favore  della  presunzione  di  un  nesso  di  cau- 


788  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO. 

salita.  E  se  fosse  provalo  che  il  periodo  solare  eserciti  un'influenza  deter- 
minante sulle  raccolte,  e  fosse  dimostrato  inoltre  che  le  grandi  crisi  com- 
merciali e  finanziarie  prendono  sempre  origine  da  una  crisi  agraria,  la 
catena  dei  ragionamenti  del  prof.  Jevons  perderebbe  ogni  carattere  ipote- 
tico, per  entrare  realmente  nel  numero  delle  induzioni  rigorosamente  scien- 
tifiche »  Allora  poi  il  commercio  potrebbe  leggere  dieci  anni  prima  il  li- 
stino di  borsa  nelle  macchie  del  sole! 

È  inutile  dire  che  l'autore  per  ora  è  lontano  dal  credere  a  questo  ar- 
dito concetto,  ch'egli  chiama  anzi  seducenLe,  ma  paradossale.  Egli  accenna 
alla  periodicità  delle  crisi  commerciali,  alla  coincidenza  loro,  del  resto 
assai  naturale,  colla  scarsezza  dei  prodotti  agricoli,  considera  la  periodi- 
cità delle  maccliie  solari,  ravvicina  tutti  questi  fatti,  ma  insieme  ha  cura 
d'avvertire,  quanto  manchi  in  tutto  questo  a  un'argomeutazione  serrata  e 
conclusiva.  Dalle  lacune  poi  che  trova  nella  scienza  oggi,  passa  agli  studi 
che  si  richiederebbero  per  colmarle,  studi  meteorologici  e  fisici  in  parte, 
in  parte  statistici,  che  riuscirebbero,  non  foss'altro,  a  un  risultamento  ne- 
gativo, ciò  eh'  è  pur  molto,  perchè  lo  scoprire  che  una  data  cosa  non  si 
può  sapere  serve  almeno  a  distogliere  da  ricerche  inutili  e  a  risparmiare 
tempo  e  fatiche. 

Ma  intanto,  fino  a  che  le  indagini  suggerite  dal  prof.  Boccardo  non 
sieno  state  fatte,  non  sarebbe  lecito  di  sostituire  un'  ipotesi  a  un'  altra  ? 
La  periodicità  delle  crisi  commerciali  ogni  dieci,  undici,  o  dodici  anni  par 
poco  meno  che  certa,  almeno  secondo  la  storia  del  nostro  secolo  e  quella 
del  precedente.  Ipotesi  per  ipotesi,  non  si  potrebbe  spiegare  il  fatto  colle 
disposizioni  della  natura  umana,  o  eolla  psicologia,  anziché  colle  macchie 
solari  ? 

Si  sa  che  al  mondo  si  impara  assai  poco  dall'  esperienza  degli  al- 
tri, ossia  che  l'esperienza,  per  essere  fruttifera  a  noi,  vuol  essere  fatta  da 
noi  medesimi.  Ora  ogni  dieci  o  dodici  anni,  in  uno  Stato  si  rinnova  circa 
il  terzo  della  popolazione.  Questo  terzo  poi  è  composto  di  giovani,  vale 
a  dire  dei  più  operosi,  ma  anche  dei  più  appassionati  e  dei  più  audaci. 
Sarebb'egli  strano  il  supporre  che  questa  parte  della  popolazione  che  en- 
tra ingenua  ed  ignara  nelle  faccende  del  mondo,  che  non  fu  ammaestrata 
dai  disinganni  e  dalle  sventure  proprie  e  non  bada  a  quelle' patite  prima 
di  lei  dagli  altri,  sia.  se  non  più,  una  delle  cau.se  della  periodicità  delle 
crisi  ?  Resterebbe  a  spiegare,  perchè  il  periodo  di  queste  debba  essere  ap- 
punto di  dieci  0  dodici  anni,  piuttosto  che  di  cinque  o  di  quattro,  oppure 
di  venti  o  di  ventidue.  Ma  la  spiegazione  non  par  difticile,  se  si  considera 
che  passato,  suppongasi,  un  periodo  di  quattro  anni  da  una  crisi,  le  cose 
sono  ancora  quasi  esclusivamente  in  mano  della  generazione,  che  n'ha  patito 
le  conseguenze  e  se  le  rammenta,  mentre  invece  dopo  venti  o  ventidue  la  ge- 
nerazione nuova  e  in  parte  nata  prima  di  questo  periodo,  è  già  matura  e,  se 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO.  789 

avesse  avuto  bisogno  di  aiMottrinarsi  a  sue  spese,  avrebbe  subito  le  sue  prove 
prima.  Perciò  il  periodo  di  dieci  o  dodici  anni  apparisce  il  più  naturale,  in 
quanto  combina  il  massimo  numero  di  giovani,  che  s'affacciano  alla  vita,  col 
minimo  di  quel  corredo  di  ammaestramenti  che  si  raccolgono  dalla  propria 
esperienza,  e  condensa  il  più  possibile  di  vigore  senza  ritegno  e  di  fiducia  bal- 
danzosa e  disavveduta  Dopoché  questo  concorso  naturale  di  cause  produsse 
il  suo  effetto,  e  il  credito  senza  limiti,  le  speculazioni  esagerate,  il  gioco  che 
non  guarda  al  di  là  del  domani,  rimasero  puniti  da  una  crisi  econojiaica, 
la  diffidenza  che  ne  nasce  genera  di  nuovo  il  risparmio,  la  prudenza,  l' ocu- 
latezza, fino  a  che  col  miglioramento  delle  condizioni  private  e  pubbliche, 
ì  mali  passati  cadono  in  dimenti^^anza  e  si  prepara  il  ritorno  di  un  feno- 
meno simile  .  In  altri  teimini  il  periodo  di  dieci  o  dodici  anni  sarebbe  il 
periodo,  che,  data  la  durata  media  della  vita  umana,  si  richiederebbe  perchè 
cadessei'o  in  obblìo  presso  una  parte  della  popolazione  gli  ammaestramenti 
dell'esperienza  o  a  questa  non  si  prestasse  più  fede  senza  rifarla. 

È  vero  che,  essendo  questa  la  causa,  dovrebbero  avere  un  periodo  come 
le  crisi  commerciali  anche  le  sociali  e  le  politiche.  Ma  chi  può  dire  che 
non  avvenga  così  ?  I  moti  sociali  dipendono  in  molta  parte  dalle  pertur- 
bazioni economiche,  e  coincidendo  con  queste  vengono  per  ciò  solo  ad  avere 
un  periodo  anch'esse.  Che  se  non  si  può  dire  altrettanto  delle  politiche, 
delle  rivoluzioni,  p.  e.,  e  "delle  guerre,  egli  è  che  in  queste  entra  di  fre- 
quente la  volontà  di  pochi  o  anche  la  volontà  individuale,  più  che  la  collet- 
tiva, la  quale  sola  è  soggetta  a  una  legge.  I  rivolgimenti  politici  sono 
quasi  sempre  promossi  da  alcuni,  i  moti  sociali  da  molti  più,  ma  le  crisi 
economiche  da  un  numero  anche  maggiore  e  in  un  certo  senso  da  tutti, 
e  quindi  in  queste  la  legge  si  manifesterebbe  più  chiaramente  che  nelle 
altre. 

Dato  il  passo  alle  ipotesi,  ci  parve  lecito  di  arrischiare  anche  questa 
delle  generazioni,  che  si  rinnovano  per  un  terzo  nel  perioilo  sopraindicato 
e,  non  avendo  esperienza  propria,  ricadono  negli  errori  di  quelle  che  le 
precedettero.  Sarebbe  come  una  vasca  che  richieda  un  certo  tempo  per 
riempirsi  di  acqua,  e  questa  col  suo  peso  apra  una  valvola  la  quale  da  sé  si 
richiuda,  e  impieghi  poi  lo  stesso  tempo  a  ritornar  piena  e  a  rivuotarsi  colla 
stessa  vicenda  interminabile.  Con  un  effetto  però  un  poco  differente,  poiché 
r  acqua  scendendo  non  impara  nulla,  mentre  T  umanità  qualche  cosa  rac- 
coglie dalle  sue  cadute  ;  il  più  si  perde,  ma  qualche  poco  rimane.  Senza  di 
questo  non  ci  sarebbe  progresso  dell'umanità;  quel  progresso  al  quale  ad 
onta  dei  periodi  e  dei  ritorni,  la  storia  costringe  a  credere,  ma  che  rende 
tanti  così  dubbiosi  dell'  esser  suo,  appunto  perchè  è  vero  insieme  con  questi 
ritorni  stessi  coi  quali  apparisce  in  contraddizione. 

Vedrà  il  prof.  Boccardo  se  ci  sia  nulla  almeno  di  verosimile  in  questa 
presunzione.  Tornando  alla  sua  memoria,  non  sapremmo  meglio  qualiflcarla 


790  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO. 

che  come  uno  scritto  che  fa  pensare.  È  uno  di  quei  lavori  che  svegUano  tante 
idee,  che  mettono,  per  così  dire,  in  tumulto  la  mente  e  il  cuore,  che  si  sente 
battere  di  compiacenza  nel  vedere  fin  dove  si  levi  col  suo  volo  audace  l'in- 
gegno umano  È  buttato  giù  alla  brava,  secondo  1'  usanza  dell'  autore,  né 
va  esente  da  qualche  ripetizione,  ma  è  chiaro  e  lucido,  quantunque  ricco 
di  dottrina,  e  piacevole  a  leggere,  pari  insomma  al  nome  del  suo  illustre 
autore. 


Prof.  Fr.  PKOTONOTARI,  Direttore 


David  Marchionni,  Responsabile. 


INDICE  DEL  VOLUME  DECIMOQUARTO. 

(seconda  serie). 


Fascicolo  V  —  (1   marzo  181^9). 

Le  ori^'ini  dell'Uomo.—  Niccola  Marselli Pag.       3 

Lord  Byroii  -  Il  Childe  Harold  e  il  Don  Juan.  —  Giovanni  Boglietti     .     39 
Della  vita  e  delle  opere  di    Simone  Porzio  -  (  Continuazione  e  fine).  — 

F.  Fiorentino BS 

Mio  figlio  studia  (Racconto).—  Salvatore  Farina 97 

La  vita  vegetale.—  T.  Caruel 113 

L'Accademia  dei  Lincei.—  0.  Giambelli 125 

Rassegna  delle  letterature  straniere.  —  L' ideale  del  principe  malese  -  La 
religione  vedica  -  Un  nuovo  poemetto  filosofico  indiano  -  Le  letture 
del  Miiller  sopra  1'  origine  e  lo  svolgimento  delle  religioni  indiane  - 
La  Mitologia  greca  del  Decliarme  -  Il  Dizionario  delle  antirhità  gre- 
che e  romane  -  Una  nuova  storia  della  Persia  -  Nuovi  romanzi  dr-lla 
Bentzon,  di  Laura  Surville,  di  F.  Fabre,  di  L.  Heunique,   di  E.  Cadol. 

-  Angelo  De  Gubernatis 152 

Rassegna  musicale.  —  Gli  spettacoli  della  stagione  di  carnevale-quare^^ima 

-  Il  teatro  Apollo  di  Roma  -  Le  opere  -  Don  Giovanni  cV  Austria  del 
maestro  Marchetti  -  La  Scala  di  Milano  -  Il  Re  di  Lahore  del  maestro 
Massenet  -  Ero  e  Leandro  del  maestro  Bottesini  al  Teatro  Regio  di 
Torino  -  La  Regina  di  Saba  del  maestro  Goldmark  -  Speranze  per 

1  avvenire. —  F.  D' Arcais 172 

Rassegna  politica.  —  Il  trattato  di  pace  tra  la  Russia  e  la  Turchia  -  Il 
consenso  dell'Austria  alla  soppressione  della  clausola  sullo  Schleswig 

-  Il  voto  suir  amnistia  alla  Camera  francese  -  La  sicurezza  pubblica 
in  Italia  e  le  cause  per  cui  non  migliora  -  I  tentativi  di  conciliazione 
per  i  gruppi  della  Sinistra.  —  X.       .     .     • 181 

Bollettino  bibliografico.  —  Letteratura  -  Storia  -  Diritto  costituzionale  - 

Economia  e  Statistica 188 

Fascicolo  VI  —  (15  marzo  18»»). 

L'Istria  e  il  nostro  confine  orientale  -  (II).  —  Paulo  Fambri   .     .     .        193 

Le  nostre  origini  -  [Continua).  —  Niccola  Marselli 221) 

L' arte  a  Parigi  -  [Fine).  —  Tullo  Massarani 259 

Gustavo  Flaubert.  —  Emma 302 

Il  Dominio  del  Canada  (Appunti  di  viaggio)  -  [Continua).  —  Enea  Ca- 
valieri  319 

Le   nuove    costruzioni   ferroviarie  e  le   ferrovie   economiche.  —  Alfonso 

Audinot o     .     .  354 

Il  primo  capello  bianco.  Elegia,  [Traduzione), —  G.  B.  Giorgini  .     .     .  3(58 
Rassegna  letteraria  -  [Teodora.,  di  A.  Ricci.-  Firenze,  tipografia  Succes- 
sori Le  Mounier).  —  J.  De  Martino 370 


792  INDICE  DEL  VOLUME  DECIMOQUARTO. 

Hassegna  politica.  —  I  radicali  in  Francia  -  Strana  caduta  del  ministro 
Marcère  -  La  proposta  di  accusa  contro  1  ministri  del  16  mairgio  - 
Quella  di  trasferire  le  Camere  a  Parigi  -  Se  la  situazione  ammetta 
rimedio  -  Alcune  analogie  con  noi  -  Il  disegno  del  ministro  M;igliani 
di  salvare  una  parte  del  Macinato  -  La  discussione  sul  bilancio  del- 
l' istruzione  pubblica.  —  X Piig-  377 

Bollettino  bibliografico.  —  Letteratura   e  Poesia  -  Storia  -  Economia  e 

Statistica 384 

Fascicolo  VII  —  (I    aprile   iS-Y!»). 

Alfonso  La  Marmora  -  (Commemorazione,  5  gennaio  1879,  Firenze,  G.  Bar- 
bèra editore). —  E,.  Bonghi 393 

Beatrice  Cenci  dopo  le  ultime  pubblicazioni.  —  Francesco  Labrtjzzi     .  419 

Le  nostre  ongini  -  {Fine).  —  NICCOLA  Marsellt 448 

L'Inghilterra  nell'Africa  australe.  —  .Attilio  Brunialti 48G 

Del  credito  popolare  -  (II).  —  Alessandro  Rossi 521 

Un  viaggiatore  filologo  -  Gabriele  B  dint.  —  E.  Teza 565 

Rassegna  politica.  —  Il  voto  della  Camera  francese  sui  ministri  del  16 
maggio  -  La  proposta  di  trasferire  la  Camera  a  Parigi  -  Come  la 
Russia  si  destreggi  nel  lasciare  la  Rumelia  -  La  nota  di  lord  Salisbury 
e.  le  disposizioni  delle  potenze  verso  la  Russia  -  Quanto  sia  difficile 
la  rettificazione  del  contine  greco  -  I  tumulti  di  Milano  e  di  Genova 

-  La  discussione  finanziaria  alla  Camera.  —  X 570 

Bollettino  bibliografico.  —  Letteratura  -  Politica  -  Filosofia  -  Economia 

e  Statistica 579 

Fascicolo  Vili  —  (15  aprile   1S79). 

La  politica  nella  letteratura  contemporanea  della  Francia  -  La  leggenda 

napoleonica.  —  GIOVANNI  Boglietti 593 

Ritratti  contemporanei  -  Cavour,  B.smarck,  Thiers.  —  Romualdo  Bon- 
tadini    • 622 

Le  ruine  e  gli  scavi  di  Dodona.  —  F.  Rrizio ■     .  640 

Il  dominio  del  Canada  (Appunti  di  viaggio)  -  {Fine). —  Enea  Cavalieri  665 
Nozze  neir  appenuino  marchigiano  (Schizzo  di  costumi). —  Caterina  Pigo- 

RiNi  Beri 693 

Del  credito  popolare  -  (III).  —  Alessandro  Rossi 713 

Rassegna  delle  letterature  straniere.  —  Il  Canzoniere  di  Heine  rifatto  per 
la  terza  volta  italiano  da  B  Zendrini  -  Goethe  e  Schiller  -  Poesie 
dell'  Uruguay  -  Racconti  andalusi  -  Studi  sugli  idiomi  de'  Pirenei  - 
Studi  biografici  del  Lovenjoul,  dell' Hausson  vii  le,  del  Cuvillier  Fleury; 
Memorie  della  duchessa  di  Chateatiroux;  La  Corrispondenza  del  Ber- 
lioz  -  I  discorsi  del  Thiers  -  Il  quarto  volume  della  Storia  di  Firenze 
del  Perrens  -  Storia  dell'Austro-Ungheria. —  Angelo  De  Gubernatis  741 
Rassegna  scientifica.  —  La  vita  intima  dei  ragni  e  dei  pipistrelli  -  Studi 
sugli  stambecchi  -  Ricerche  di  Berte  di  Siragusa  suil' anestesia  chi- 
rurgica e  suir  anestesia  delle  piante  -  Il  caffè  di  girasole  -  La  psico- 
logia tedesca  moderna  secondo  il  Ribot  -  Lavori  recenti  dell' Herzen. 

—  Paolo  Maniegazza 759 

Rassegna  politica.  —  Il  voto  del  4  aprile  -  Il  maggior  cimento  pel  Mini- 
stero è  sempre  quello  delie  finanze  —  Il  voto  del  Senato  francese  sul 
trasferimento  delle  Camere  a  Parigi  -  Le  elezioni  parziali  in  Francia  - 
L'occup;izione  mista  della  Rumelia-La  crisi  ministeriale  in  Egitto. — X.  771 

Bollettino  bibliogiafìco. —  Letteratura  e  Poesia  -  Scienze  politiche  -  Geo- 
grafia -  Economia '^^ 


AP 
37 
N« 


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