•!._a-i-.^ V.JS.'
NUOVA
ANTOLOGIA
DI
SCIENZE, LETTERE ED ARTI
SECONDA SERTE
VOLUME DEOIMOQUARTO
(Della. Raccolta — Volitme XLIV)
ROMA
TIPOGRAFIA BARBÈRA
1879.
Q?
V,:'
ìiS
]ì
t^R Aif^x^
Proprietà letteraria.
LE ORIGINI DELL'UOMO.
ta^Tù* Ctf?C0«£0G!6W£NTD{
..«.
Il problema delle nostre origini è seducente ed arduo, in moda
da attirare e da tormentare i piìi noliili ingegni. Il tentativo,
troppo positivo, di non porlo dinanzi alla scienza, è cosi impo-
tente come irresistibile è quello di risolverlo. E la scienza, di-
nanzi alla cui potenza instancabile par che tutto pieghi, va squar-
ciando il velo e vedendo i suoi sforzi coronati da buoni successi.
Piaccia 0 non piaccia all'oscurantismo pauroso e vanitoso, egli è
certo che in simile questione il nome del Darwin non può essere
più taciuto, perchè la sua teoria, o se vuoisi la sua ipotesi, ha
preso nella scienza un posto eminente. Il trasformismo del Darwin
ha prodotto nelle scienze, che hanno per obbietto il mondo or-
ganico e il mondo morale, una rivoluzione pari a quella prodotta
neir astronomia dalla legge di attrazione universale del Newton.
L'autore di questo scritto non si sente 1' autorità necessaria
per portare un giudizio competente sul valore della dottrina del
Darwin. Solo egli crede potere affermare le seguenti cose. In pri-
ma, che il numero dei fatti arrecati dal Darwin a sostegno della
propria dottrina è tale da darle un carattere scientifico, sebbene
non sia, per confessione dello stesso Huxley, ancora tale da for-
nirle un pieno valore di certezza. Voglio dire che se la idea fon-
damentale della trasformazione delle specie non è ancora una
verità inconcussa, è almeno sinora l'ipotesi più razionale, meglio
confortata di prove, e più di ogni altra acconcia a spiegare il
mistero della nostra origine. In secondo luogo dirò, che alcune
esagerazioni nell'applicazione dell'idea fondamentale non possono
4 LE ORIGINI dell' UOMO.
infirmare questa idea, come i vuoti da riempire nella scala degli
esseri organici non possono al più fare altro che sospendere il
giudizio definitivo sulla dottrina. Il Darwin istesso, con la mo-
destia e la buona fede che lo distinguono, ha confessato nella re-
cente opera suW Origine dell" nomo che. dopo aver letto le opere
del Nilgeli e del Broca, si è persuaso di avere, nelle prime edizioni
àeW Origine delle Specie, esagerata l'azione della scelta naturale
e della sopravvivenza degli individui meglio provveduti. Potreb-
bero anche aver ragione coloro i quali sostengono essere un'esa-
gerazione il far discendere ogni maniera di organismi per li rami
di unica cellula, ed essere più verosimile il credere, come f;i
il Vogt, se la mia memoria non falla, che gli organismi discen-
dano da cellule primitive sì, ma di fattura diversa. A questo modo
il trasformismo rimarrebbe vero, p. e., nel campo dei vertebrati,
ma non potrebbe essere esteso sino a sostenere l'unità di origine del
regno vegetale e del regno animale e la gra:luale e secolare evolu-
zione dalla raonera all'uomo, come fa 1' Haeckel. Che che sia di
quest'altra ipotesi, che a non pochi parrà meno scientifica e più
incomprensibile, rimarrà sempre una giusta indagine quella che,
poggiando sulle variazioni delle così dette specie e sul poco ac-
cordo dei naturalisti nel classificare alcuni indivi lui in questa o
in quella specie, perviene a indurre che le specie non sono divise
da insormontabili cancelli, che queste separazioni sono astrazioni
nostre, e che mediante l'azione di certe leggi una varietà devia
cotanto da costituire di poi una nuova e distinta specie.
L' ultima osservazione che intendo fare riguarda gli effetti
morali della nuova dottrina. Puerile è lo spavento dei timidi,
come illusoria è la speranza che si possa arrestare il cammino
del vero. Gl'Inglesi, che non hanno la smania poco virile di at-
taccare senza necessità la religione, riconoscono che il darwi-
nismo non è punto demolitore della parte benefica della morale
cristiana; al contrario. Prima di tutto il Darwin istesso ha ri-
servato la questione della causa prima dell'universo, intorno alla
quale come intorno a quella dell' ultimo fine la religione e la
metafisica possono spaziare a posta loro, e solo ha sottratto alla
divinità la piccola cura del creare ogni specie organica. Elevando
il trono della divinità sul piedistallo delle leggi naturali, lo ha
reso più solido, e allontanandolo dai nostri sguardi lo ha circon-
dato di maggior prestigio. Il Wallace, il quale sostiene che l'uomo
arriva a sottrarre il suo corpo all'azione della scelta naturale,
conclude così: «L'uomo non pure è sfuggito, in ciò che lo con-
LE ORIGINI dell' UOMO. 5
cerne, alla scelta naturale, ma può realmente appropriarsi una
parte di questo potere, che, prima della sua comparsa, la natura
esercitava sull'universo intero. Si può prevedere il tempo in cui
la terra non produrrà più che piante coltivate ed animali dome-
stici, in cui la scelta umana avrà soppiantata la scelta naturale,
in cui r Oceano sarà il solo dominio sul quale possa esercitarsi
codesta potenza, che da innumerevoli cicli di età regnava sulla
terra come arbitra suprema. » Ed il Lubbock, dalla cui opera sui
Tempi preistorici ho estratto questo brano del Wallace, soggiunge :
« A questo modo il grande principio della scelta naturale, che è
alla biologia quel che la legge di gravitazione è all'astronomia,
non solo gitta sul passato una luce inattesa, ma illumina anche
con la speranza l'avvenire. Ed io non posso non essere maravi-
gliato che una teoria, la quale c'insegna l'umiltà pel passato, la
fede pel presente, la speranza per l'avvenire, sia stata considerata
come contraria a'principii del Cristianesimo e agli interessi della
vera religione. »
E in fatti non è. Venga pure l'uomo da qualunque più bassa
origine, non rimane men vero che esso sollevasi sino a produrre
opere come il Cristianesimo di Gesù, la Commedia dell'Alighie-
ri, la Trasfigurazione di Kaffaello, la Scienza di Aristotile, di
Galilei, di Newton, di Vico, di Kant, di Hegel, di Darwin ;
non è men vero che nobile o generoso continueremo a reputare
l'amore all'umanità, il sacrifizio di sé alla patria, l'abnegazione.
L'esperienza istorica ha comprovato l'utilità sociale delle virtù
private, civiche, umanitarie; e cosi le ha poste su di un fondamento
indipendente dalle opinioni che l'uomo si forma intorno alla sua
origine. La società umana, discenda dal Paradiso terrestre o dalla
Lemuria, non può conservarsi se non mediante la sottomissione
dell'arbitrio alla legge, dell'egoismo al bene sociale, e non può
progredire se non mediante la successiva emancipazione del-
l'uomo dalla tirannia della natura e di sé stesso, cioè con l'af-
fermazione sempre maggiore del sentimento di umanità. Ogni in-
vestigazione, veramente degna della scienza e della libertà, deve
condurre l'uomo a simile conclusione. E infatti noi vediamo la
tendenza a spargere l'istruzione e il benessere nelle classi povere,
nel che sta uno dei più alti indizi di vera religione e di profonda
moralità, essere incomparabilmente maggiore a'nostri tempi, in
cui la scienza parla della bassa origine dell'uomo, che non in
quelli in cui la religione proclamava la sua divina fattura. Questo
dogma e l'altro della fratellanza in Dio non hanno potuto impe-
6 LE ORIGINI DELL' UOMO.
dire la vita eslege dell'individuo medievale, la tirannide dell' uomo
sull'uomo, la incommensurabile disuguaglianza fra le classi. E le
frequenti guerre fra le nazioni e l'odio fra le classi, clie tormentano
la nostra società, minacciano di sommergerla ed impediscono il
trionfo delle tendenze umanitarie, sono appunto una conseguenza
dello stato del mondo in cui regnavano le vecchie credenze, che
si vorrebbero oggi ravvivare per quotare quelle guerre e per
sopire quegli odii. Che cosa non s'è fatto nel santo nome di Dio!
Si è fatto tanto che, per distruggerlo e per creare un ordine mi-
gliore di cose, siamo ridotti a vedere nella società più civile agi-
tarsi le passioni più selvagge, e le dottrine umanitarie diffon-
dersi mentre risorge la guerra di tutti contro tutti. Se non si
vuole ammettere la distinzione fra le pure credenze e i loro bassi
falsificatori, si è logicamente costretti a riconoscere che il teismo
ha sulla coscienza un numero di delitti incomparabilmente mag-
giore di quelli che ora si rimproverano all'ateismo. Gli episodi
delle Crociate, i fasti dell'Inquisizione, la strage degli Albigesi,
la notte di San Bartolomeo, la congiura delle polveri, il complotto
della macchina infernale, gli attentati del domenicano Clement,
di Kavaillac, e in generale tutti i fenomeni patologici del fana-
tismo religioso non sono meno orribili dell'incendio di Parigi e
de' mostruosi misfatti di uomini da' cui nomi la penna rifugge. La
verità è, che né il teismo né l'ateismo sono responsabili di si-
mili orrori : la terra ha sempre albergato uomini malvagi, ai
quali non è mai mancato un complice inconsapevole dei loro de-
litti. Se credevano in Dio, s'ispiravano nel sommo Fattore ; e se non
vi credono, s'inspirano in qualche umano feticcio od obbediscono
alle spiritiche imposture d'un magnetizzatore. Ma almeno la
odierna guerra, implacabile e feroce, che si fanno le classi e i
popoli, ha per obbiettivi la costituzione delle nazioni e l'ugua-
glianza delle classi, la quale non esclude la differenza d die occupa-
zioni, cioè ha per obbiettivi due condizioni imprescindibili per fare
entrare la società nel periodo storico della lunga pace internazio-
nale e nazionale. Le tendenze umanitarie e pacifiche, che il pensa-
tore discopre sotto il ribollire delle passioni distruttive, formano il
grande conforto delle anime nobili, le quali dalle presenti sciagure
potrebbero essere indotte a disperare dell'avvenire sociale. Quelle
tendenze esistono, non mai furono più forti e finiranno per trion-
fare. Non diremo già, per ritornare al nostro punto di partenza,
che la dottrina dell' origine naturale dell' uomo contribuisca di-
rettamente a questo trionfo, ma diremo soltanto che la teoria
LE ORIGINI DELL UOMO. 7
deirevoluzione, di cui quella è un'applicazione, ò la sola che possa
dominare lo spirito battagliero e rivoluzionario, e che essa e le sane
dottrine democratiche sono forme di un medesimo fatto : l'eman-
cipazione della coscienza umana dall'oscurantismo e dall'arbitrio.
L'emancipazione nella scienza genera la dottrina sull'origine del-
l'uomo ; r emancipazione nella vita produce la fratellanza fra i
popoli e fra le classi.
Lasciamo dunque che la scienza continui liberamente le sue
ricerche, senza preoccuparci delle vertigini clie essa può produrre
in chi non ha organi robusti per digerire i suoi veri. Volere che
la scienza arresti il suo corso, perchè i suoi vapori ubbriacano
alcuni, è come volere che si proibiscano le ferrovie, perchè i con-
vogli s'incontrano. Il rimedio a' mali dei nostri tempi non istà
nel ritorno all'ignoranza e all'assolutismo, che hanno apparec-
chiato il combustibile, ma nell'aumento del sapere riequilibrante
e nella diminuzione del disagio economico. La scienza è fatta per
gli uomini virili come la democrazia per i popoli maturi ; il che
deve spingerci a rendere uomini i fanciulli, e non già a far rima-
nere bambina la scienza. Le sue conquiste saranno il migliore
strumento pel perfezionamento sociale e per la vittoria dell'uomo
sulla natura, e saranno anche il fondamento più legittimo della
supremazia dell' uomo sul mondo animale. Coloro i quali vorreb-
bero frenare la libertà della scienza, perchè temono che le sue
scoperte rechino la strage nel campo della morale sociale, non
si accorgono di fare così la satira più amara di quello che chia-
mano ordine provvidenziale del mondo. Codest' ordine non po-
trebbe adunque reggersi che sulle illusioni e sulle menzogne?
Sarebbe questo il più gran segno eh' esso è un orribile disordine.
Tale è in parte, onde affidiamoci alla mano della scienza, che a
traverso sentieri malagevoli ci guida ad un ordine più alto. Guar-
dando alla meta, gli erramenti e le cadute ci possono addolorare,
ma non ci debbono spaventare, come non ci debbono scoraggiare
le fatiche.
Non si può abbastanza insistere sulla necessità di distinguere
il radicalismo pratico da quella pienezza di libere indagini e di
razionali deduzioni che alcuni chiamano radicalismo scientifico.
Questo è una tranquilla luce che rischiara e conforta, quello una
face che incendia e rattrista. L'uomo di Stato è indegno del suo
nome ed è la rovina della società, quando è privo della mode-
razione ne' desiderii, quando non sa comprendere i limiti neces-
sari nell'applicazione della libertà e la misura inseparabile dal
8 LE ORIGINI dell' UOMO.
in'ogresso sociale, quando al presentimento dell'avvenire non sposa
la piena conoscenza del presente. Esso trova un mondo in cui la
tradizione s'è abbarbicata, un mondo che non può trasformarsi
se non lentamente e opportunamente. Se osa fargli violenza ir-
ragionevole, vede subito reagire la società e abortire le rifo rme
più logiche. L' avvenire viene allora compromesso dal progresso
vorticoso, dall' attuazione immatura di dottrine troppo ideali. Ma
la scienza non sopporta freni : è sua natura e sua missione di ol-
trepassare le contingenze, di guardare il faro ed additarlo alle
classi dirigenti, di non ispaventarsi che dell' errore. Se la scienza
obbedisse alle regole della prudenza pratica, e si circondasse d'ipo-
criti veli, il progresso umano ristagnerebbe, esso eh' è già sì lento,
non ostante 1' ardire degli scienziati. Nò si creda che siavi con-
traddizione fra il radicalismo scientifico e la moderazione pratica.
Havvi per contrario una perfetta consonanza. È l' ignoranza o il
mezzano sapere, ma non la scienza, quello che sconvolge i ter-
mini della serie del progresso e si affatica a trasportare il domani
nell'oggi. La teoria dell' evoluzione, che è poi quella dai conser-
vatori battezzata come radicale e demolitrice, è, come dicevo, la
sola che possa ispirare il rispetto verso lo stato ereditario delle
società, è la sola che possa distogliere da riforme affrettate e con-
venzionali, è la sola che si affidi al cauto progresso e sia profon-
damente nemica dei miracoli e nemica dei cataclismi, i quali sono
da considerare come i miracoli della natura. Chi presta fede al-
l'una e all'altra forma di miracoli, anzi che alla graduale evo-
luzione, deve avere lo spirito disposto agli sconvolgimenti sociali,
i quali, se non sono lo scoppio subitaneo di cause lungamente ac-
cumulate, tradiscono la illusione del miracolo da cui derivano, e
falliscono lo scopo a cui mirano.
M' è parsa indispensabile questa franca dichiarazione, prima
di toccare questioni che urtano antiche credenze. Poniamoci ora
ad investigare tranquillamente, non dominati nò dal desiderio
del conservare né dalla smania del demolire. Le religioni conten-
gono alcuni 2)resentimenti del vero, e però vanno rispettate; la
scienza, che ha la nobile missione di scoprire il vero, deve sapersi
conservare calma ed imparziale.
LE ORIGINI DELL UOMO.
1.
Origine dell'uomo. — Posto dell'uomo nella natura, —
Se vi sia un regno umano.
L'origine dell'uoino è stata spiegata iti due modi: o mediante
l'atto creativo di una potenza soprannaturale o mediante le leggi
naturali di trasformazione delle specie. La prima spiegazione ap-
partiene alla religione, la seconda alla scienza. Una terza, assai
poco religiosa e molto meno scientifica, potrebbe riputarsi quella
di chi volesse applicare la generazione spontanea all'origine del-
l'uomo.
Quando l'intelligenza scientifica non è ancora sviluppata, le
religioni rendono all'uomo l'eminente servigio di risolvere, come
possono, i problemi misteriosi che agitano il suo petto. Esse non
sono solamente figlie della paura, come disse il Feuerbach, ma.
anche aell'ansia di conoscere la causa dei fenomeni, la quale per-
sonificano in un ente soprannaturale, quando non l'attribuiscono
all'azione malefica dei più vili animali. Pullulanti ne' tempi prei-
storici delle società, quando l'immaginazione tien luogo della ra-
gione, tutto rapportano ad una causa soprannaturale e personale,,
così l'origine dell'uomo come la caduta della pioggia o i boati
dei vulcani. Ma, a quel modo che oggidì par ridicolo agli uomini
colti r appagarsi della volontà di Dio come spiegazione della
pioggia, parimente ad essi dovrebbe parere per lo meno strana
l'accogliere un miracoloso atto creativo come spiegazione dell'o-
rigine dell'uomo. E miracoloso è un atto il quale si compie senza
la mediazione, anzi con la violazione delle leggi naturali. Si dice
130C0 quando affermasi che noi non possiamo provare la esistenza-
dell'atto creativo, ma fa mestieri aggiungere che noi ogni giorno
proviamo la non esistenza della creazione dal nulla, ogni giorno
sostituiamo una causa naturale ad una immaginaria causa sopran-
naturale, e siamo perciò condotti ad ammettere che la dottrina
della creazione non è già il compimento teologico della limitata
scienza umana, ma l'assoluta negazione di questa, l'assoluta nega-
zione di tutta la nostra esperienza e di tutto il nostro sapere. Or
quello che nega la scienza non ha diritto di pigliar posto in essa,
né di pigliarlo sopra di essa, cioè in un inconoscibile regno di là.
Per noi codesto inconoscibile, che è agli antipodi della nostra espe-
rienza e del nostro sapere, dovrebbe essere piuttosto chiamato non
10 LE ORIGINI dell' UOMO,
razionale. Noi crediamo di mostrare per le religioni tntto il rispetto
elle si meritano, quando affermiamo che esse racchiudono le prime
soluzioni dell'ignoto e i grandi presentimenti del vero ; ma allor-
ché si tenta di porre la soluzione teologica di sopra alla soluzione
scientifica, siamo costretti a dire che quelle prime soluzioni sono
immature e fantastiche, quei' presentimenti non sono ancora il
vero, e che le religioni precedono ma non coronano la scienza.
Di là dai limiti di questa noi troviamo la sfera dell'ignoto; ma
i passi che instancabilmente tacciamo in questo dominio ci con-
ducono a nuove forme, a nuove leggi naturali, e non a' castelli
incantati e a' celesti spiriti. Manco male se la teologia si re-
stringesse ad ammettere una causa prima della materia. Essa
potrebbe trovarsi in conflitto con le credenze metafisiche, che di
questa ammettono la eternità, ma non con le scienze positive
che di siffatta questione non si occupano. Che se anche queste non
passone non inclinare verso quella ipotesi, che è più conforme
a' processi naturali da esse studiate, cioè verso la evoluzione del-
l'eterna materia, non è manco vero che quello è un campo in cui
la dimostrazione non può raggiungere l'evidenza e che però resta
aperto al soggettivismo delle opinioni. Ma non volendo il teo-
logismo smettere dal fare intervenire quella causa prima nella
spiegazione dei fenomeni, che ogni giorno noi scopriamo essere
opera delle leggi naturali, rende inevitabile il conflitto con la
scienza. Anche il domma religioso dell'origine dell'uomo dal
nulla, pur depurato della creta e della costola, non è che la facile
e rudimentale soluzione delle genti primitive. Forse non passerà
molto e sarà dimenticato persino da' credenti, i quali non s'acque-
teranno più nella illusione di una potenza che tutto fa da sé e
dal nulla, ma finiranno per pensare essere più degno del sommo
Artefice il farsi servire dagli operai della natura, e l'aver creato
una macchina che non ha mestieri di essere da lui continuamente
raggiustata.
La metafisica più elevata, quella egheliann, non fa che sosti-
tuire la parola Idea alla parola Iddio, e il divenire alla creazione.
Ma alla domanda sull'origine dell'uomo, risponde: L'Idea fa
l'uomo, e questo altro non ò che una determinazione dell'Idea,
la quale, dopo di essere uscita fuori di sé nella natura, ritorna a
sé, e, personificandosi, diviene cosciente. Non credo che una scienza
positiva possa appagarsi di queste formule. La scienza intende
appunto comprendere come, sotto l'azione di quali leggi, mediante
(lìiali fenomeni 1' Idea produca 1' uomo. Un dotto e a me caro
LE OEIGINI dell' UOMO. 11
amico, non ancora libero dalle ubbie egheliane, mi diceva che
altro non si può affermare se non che l'uomo era in idea in un
essere a sé inferiore. E così dicendo sberteggiava il Darwin, che
si arrovella a scoprire come avvenga siffatta apparizione dell' in
sé. In verità egli faceva già un immenso passo verso il Darwin.
Eimane solo a sapere in qual modo, secondo l'idealismo, ciò che
stava in idea, cioè in potenza, siasi tramutato in fatto. Ma l'idea-
lismo, abituato a saltare i fossi, dispregia così piccole questioni.
Che se il dommatismo religioso e quel o metafisico, conservando
la loro fede nella personalità di Dio e nella forza plastica dell' Idea,
arrivassero sino a dire esplicitamente che Dio o l'Idea esercitano
la loro potenza mediante le leggi e i fenomeni dalla scienza ac-
cettati, allora noi saremo paghi, poi che ci separerebbe una que-
stione secondaria, e la scienza, ben lieta di aver tutto sottoposto
al suo governo, continuerebbe nella ricerca delle leggi naturali,
senza essere obbligata ad attaccare per difendersi.
Immaginare che l'uomo abbia potuto nascere per generazione
spontanea e diretta sarebbe una vera aberrazione mentale. La
venuta al mondo d'un organismo umano, senza progenitori o me-
diante gli amplessi della terra con l'oceano, può essere materia
degna della mitologia ma non della scienza. Il miracolo non sa-
rebbe distrutto, ma spostato. E quanto alla generazione spontanea
di una cellula umana, cioè di una cellula che svolgendosi diventi
uomo di getto, ogni scienziato serio la reputerà un sogno da di-
lettanti. La scienza, che pena di già molto ad ammettere la gene-
razione spontanea di un organismo rudimentale, semplicissimo,
amorfo, qual'é quello delle monere, ammetterebbe essa la gene-
razione spontanea di una cellula, che con la sua moltiplicazione
produrrebbe rapidamente l'essere più complesso della evoluzione ?
Per coloro i quali pensano che la materia organica e la inorga-
nica non si difi'erenziano sostanzialmente per la struttura, la
forma e la forza, come ha dimostrato l'Haeckel, la teoria della
generazione spontanea non ha nulla d'impossibile: ma essa non
può oltrepassare, e in verità non pretende di oltrepassare, la for-
mazione dei plastidi. Colmato l'abisso fra la materia inorganica
e quella organica, ristabilita l'unità della natura, essa si guarda
bene dal fare salti mortali e cbiama il soccorso della teoria evo-
lutiva per spiegarsi le trasformazioni dell'organismo ijrimordiale.
Del rimanente l'embriogenià è là per distruggere con i fatti, cosi
la credenza biblica come la supposizione de' getti spontanei della
natura, e per comprovare la verità della lenta trasformazione delle
12 LE ORIGINI dell' UOMO.
specie. L'embrione umano attraversa nel suo sviluppo, com'è noto,
alcune forme che riproducono transitoriamente quelle in cui sonosi
fissate le inferiori specie dei vertebrati, ed è fornito delle due
ossa frontali, dell'osso incisivo e delle vertebre cocci gee, che spa-
riscono o si attenuano con un maggiore sviluppo, dove che nei
mammiferi permangono. Bisogna proprio chiudere gli occhi al-
l'evidenza per non riconoscere lo stampo dell'antica progenio, per
non vedere le eredità delle forme assunte nel passato s il pre-
dominio di quella raggiunta nel presente. Ed eccoci in pieno tra-
sformismo.
Non è mia intenzione esporre la dottrina deHa trasformazione
delle specie, mille e mille volte esposta; ma di stabilire soltanto
il mio punto di vista. Scopo precipuo di questo lavoro è di stu-
diare le origini preistoriche della società, non l'origine naturale
dell'uomo.
Un tipo che permane trasmettendosi ereditariamente ed un
rapporto che varia tra questo tipo e il mondo esterno, o in altri
termini una potenza formatrice interna, che si riproduce eredi-
tariamente, ed una metamorfosi continua, che proviene dall'adat-
tamento dell'organismo al mezzo in cui vive, sono gli istrumenti
semplicissimi con i quali nella natura si conserva la sostanza e
si modificano le forme. La legge della scelta, cioè della soprav-
vivenza degli organismi più capaci di adattarsi all'ambiente, meglio
forniti per trionfare nella lotta per l'esistenza, in una parola degli
organismi più perfetti, assicura alla metamorfosi il carattere del
progresso. Senza questa legge avremmo bensì le varietà, ma non
la serie progressiva delle forme successive; e la natura non sa-
rebbe che il caos. Ammettiamo adunque che con le leggi di ere-
dità e di adaltameìdo si possa costruire la serie progressiva delle
forme organiche, a condizione che col dire adattamento s'implichi
già la scelta, cioè che gli organismi meglio dotati sien quelli che
riescano ad adattarsi ed a perpetuarsi. Se la metamorfosi pro-
gressiva degli organismi sia assicurata, oltre che dalla legge della
scelta, da una forza impulsiva interna, clie operi indipendente-
mente dalle condizioni esterne, è cosa che si può affermare ma
non dimostrare. Scientificamente noi possiamo ammettere la con-
comitanza delle due forze, cioè della tendenza interna dell'orga-
nismo a variare secondo una data direzione e dell'azione esterna
che lo sollecita e lo determina o a seconda o anche contra. Ogni
cambiamento di stato, così nel mondo inorganico come nello orga-
LE ORIGINI dell' UOMO. 13
nico e nel snperorganico, è conseguenza del concorso fra le proprie
forze e gli agenti esterni. Siamo così ricondotti a quello che di-
ceva il Goethe, del quale sarebbe poco dire che intravvide la teoria
dell'evoluzione : « La struttura dell'animale determina i suoi abiti,
e il modo di vivere reagisce potentemente, a sua volta, su di tutte
le forme. Così rivelasi la regolarità del progresso, che tende al
cangiamento sotto la pressione del mezzo esterno. » Nel dominio
della natura per tanto, come in quello sociale, noi troviamo due
forze 0 due partiti, il conservatore e il progressivo, i quali con
la loro reciproca azione impediscono al tipo di svanire e alle sue
forme di permanere. Il Goethe le chiamava forza centripeta e
forza centrifuga, e diceva che la prima è una forza d'inerzia che
fissa le specie ed impedisce alla seconda, cioè alla metamorfosi,
di sperderle in una infinita varietà. E le specie in fatti si fissano
e permangono; ma ciò non esclude che una loro varietà più pro-
gressiva, posta in speciali condizioni, possa cosiffattamente allon-
tanarsi dalle forme assunte da sembrare e divenire altra. Vi sa-
rebbe forse anche nella natura una forza che fa l'ufficio di partito
radicale? Quello che si può dire gli è, che la natura non perde
mai il senso dell'opportuno : la trasformazione più radicale accade
quando le circostanze lo richiedono e sempre per evoluzione
E quando nella evoluzione della natura il tempo fu maturo,
il più alto vertebrato andò lentamente trasformandosi in un
progenitore dell'uomo. Quale fa codesto più alto vertebrato ? La
soluzione di siffatta questione si connette con l'altra concernente
il posto dell'uomo nella natura.
11 lettore rammenterà che nella zoologia il regno animale
dividesi in sotto-regm (animali vertebrati, articolati, gastrozoi); il
sotto-regno in classi (p. e. quello degli animali vertebrati con-
tiene le classi dei pesci, de' rettili, degli uccelli, de' mammiferi):
le classi in ordini (p. e. la classe de' mammiferi comprende gli
ordini de' bimani, de' quadrumani ec); gli ordini in famiglie,
queste in generi, i generi in specie, e le specie in varietà o razze.
Si procede così dagli aggruppamenti dei caratteri più generali
via via a quelli de' caratteri più particolari, e però dal gruppo
più numeroso a quello meno numeroso. Il lettore rammenterà
pure che la zoologia dominante nelle scuole colloca nel primo
ordine, quello dei bimani, soltanto l'uomo {Homo sapiens), e nel
secondo, quello de' quadrumani, le scimmie. Il grande anatomico
inglese, Huxley, nel suo libro sul Posto che occupa Vuomo nflla
natura, ha con irrefragabili prove di fatto dimostrato che, anato-
14 LE ORIGINI dell' UOMO.
raicamente, è più lontano il gorilla da una scimmia inferiore che non
l'uomo dal gorilla. Partendo da ciò, egli non poteva collocare l'uomo
in un ordine a parte, ed ha accettato la classificazione di Linneo, se-
condo il quale l'uomo forma una famiglia a parte nell'ordine dei pri-
mati, che comprende altre famiglie costituite dalle scimmie e da' le-
muri. II Broca, che ha riordinato la medesima classificazione di
Linneo, divide l'ordine de' primati in cinque famiglie : 1'' l'uomo ;
2'' gli antropoidi o scimmie antropomorfe; 3'^ le scimmie dell'antico
continente o pitecoidi; 4"^ le scimmie del nuovo continente; 5"^ i
lemuri. L' Huxley medesimo, xìqW Introduction to tlte classi ficafion
of anhnals. pone l'uomo nel sottordine degli antropoidi ; un altro
sottordine vien costituito dagli scimmiadi, o scimmie del vecchio e
del nuovo continente, un terzo da' lemuridi.
Neil' opera prima citata 1' Huxley riconosce il valore della
dottrina del Darwin, ma la ritiene ancoi'a una ipotesi, a causa
del vuoto che trovasi nel passaggio dagli scimmiadi agli antro-
poidi, dello spezzamento quasi diremmo nella catena degli esseri,
del Kflut o crepaccio, come dice ilprofessore Seligmann nello scritto
intitolato Die MenscJienracen e pubblicato nel Geographischcs
Jahrhuch di E. Behm, 1. Band-1866. La scienza si occupaa col mare
il vuoto; ma se anche non vi riuscisse, i fatti di già accumulati, e
dalla ipotesi darwiniana spiegati meglio che da qualunque altra,
costituirebbero sempre una grande probabilità in suo favore, una
probabilità tale da controbilanciare il difetto di qualche anello,
che assai facilmente è potuto sparire, come vediamo sotto i nostri
occhi sparire razze di uomini selvaggi. Quando, come ha osser-
vato lo Schaffhausen, le scimmie antropomorfe saranno distrutte
e quando l'uomo civile si sarà dappertutto sostituito al selvaggio,
allora quel Kflut diverrà un abisso, perchè invece di paragonare
il più basso selvaggio alla più alta scimmia, paragoneremo l'uomo
più elevato alla scimmia inferiore. E adunque presumibile che
il futuro abisso un tempo non sia stato nemmanco un crepaccio.
L'archeologia preistorica si occupa della ricerca di un uomo
fossile intermedio tra la scimmia e l'uomo. Nella caverna di
Engis nella valle ^della Mosa, ed in quella di Neander presso
Dusseldorf, furono trovati crani che servirono e servono a stu-
diare tale quistione. Essi erano circondati di ossa deW debili as
priniigenms o mammuto, del rhinoccros Uchoriniis o rinoceronte.
Secondo 1' Huxley, è difficile il sentenziare con sicurezza su di
cosiffatti crani, perchè non furono conservate le mascelle. Egli
pensa che il cranio di Engis somigli a quello degli Australesi,
LE ORIGINI DELL* UOMO. 15"
ma che eziandio se ne differenzi, massime per l'arcata sopracci-
gliare. In quello del Neanderthal scopre tutti i caratteri del piteco ;
ma dice pure die per la sua capacità potrebbe paragonarsi a
quelli degli Ottentotti e degli abitanti della Polinesia. E termina
col reputarlo un cranio umano, molto vicino al tipo pitecoide, il
più basso cranio umano sinora conosciuto.
11 Darwin, nelle questioni dell'origine e della classificazione
dell'uomo, è stato per un certo rispetto più radicale e più risoluto
dell'Huxley. Se si considerano, egli dice, alcune importanti differenze
di struttura, l'uomo ha diritto ad occupare un proprio sotto- regno,
e se si guarda alle sue facoltà mentali, anche questo è troppo poco:
ma se si osserva da un punto di vista genealogico, sembra che
codesto posto sia troppo alto, e che l'uomo non debba formare
che una famiglia e forse anche solo- una sotto-famiglia. Badisi
che così dicendo si corre pericolo d' invertire i termini della que-
stione, che invece di far dipendere la genealogia dalle affinità
anatomiche, dalla classificazione tassonomica, si potrebbe riuscire
a far dipendere questa da quella, cioè da una presupposizione,
da un' ipotesi che è appunto da provare e che non altrimenti si
può provare se non con l'esame delle affinità. Non pertanto le
affinità tra gli scimmiadi e gli antropidi rimangono sempre tali
che, sebbene questi e quelli forniscano due gruppi anatomici
molto distinti, due sotto-ordini secondo l' Huxley e due ordini
secondo altri, pure basta tendere non molto l'arco del trasfor-
mismo per comprendere che l'un gruppo abbia potuto, mediante
una graduale evoluzione, e qualche forma perduta, divenire l'altro.
Naturalmente per effettuarsi simile trasformazione fu necessaria
l'azione di un tempo secolare e di condizioni, che oggidì sono
mutate.
Ciò posto, dirò elle il Darwin divide con la maggior parte
dei naturalisti la famiglia degli scimmiadi in due categorie; quella
delle catarrine o scimmie del continente antico, e quella delle pla-
tirrine o scimmie del nuovo continente. Distinguonsi per la varia
struttura delle narici e per avere, le prime quattro premolari in
ogni mascella, le seconde sei. Or siccome l'uomo, a cagione del
suo sistema dentale, delle sue narici, e di altri caratteri, rassomi-
glia alle prime e punto alle seconde, così esso deve essere consi-
derato come un germoglio dello stipite delle prime, e però, stando
in questo punto di vista genealogico, deve andar collocato nella ca-
tegoria delle catarrine. Il processo del ragionamento del Darwin
giustifica la verità della osservazione che io facevo di sopra, poiché
16 LE ORIGINI dell' UOMO,
il Darwin istesso è costretto a trarre la genealogia dalle affinità.
Cosi essendo, io, senza negare la possibilità di quella genealogia,
stimo più prudente non alterare in alcun modo il posto di clas-
sificazione all' uomo assegnato dall' Huxley, giudice competentis-
simo neir esame comparativo dei caratteri anatomici.
Il Darwin, dopo di aver tratto fuori da una larva, simile alle
nostreascidie, tutti i vertebrati (pesci, anfibi, rettili, uccelli, mam-
miferi), mediante doppia ramificazione divergente, l' una delle
quali arrestasi nel suo sviluppo e 1' altra continua a variare, sdop-
piandosi a sua volta e così di seguito, giunge alle catarrine dal
cui stipite uscì deviando il progenitore dell' uomo; progenitore che
andò perfezionandosi, mentre i suoi parenti collaterali non potet-
tero pareggiarlo; progenitore che da' suoi discendenti venne sop-
piantato, annullato. Poggiandosi sopiva una quantità considerevole
di fatti, il Darwin descrive con quattro tocchi, nella sua opera
sulla Discendenza delV uomo, codesto igno1)ile nostro avo. Ecco
il suo ritratto, riprodotto a mo'di scbizzo: la persona tutta coperta
di peli, tanto che il viso de' maschi come quello delle femmine
n'erano sparsi; aguzzi e mobili gli orecchi, sporgente la coda, il
piede prensile, grossi i denti canini a guisa di arme, l'intestino
cieco più grande dell' attuale, i costumi arborei, forestali. Abitava
calde regioni, ed era fornito di muscoli, che nei quadrumani sono
normali e che in noi ora ricompaiono per accidente. In tempi più
remoti 1' utero era doppio, gli escrementi si versavano in una
cloaca, l'occhio era protetto da una terza palpebra o membrana
nittitante. Procedendo più nella notte del tempo i nostri proge-
nitori dovevano avere acquatici costumi, il che inducesi da' nostri
polmoni, formati dalla trasformazione di una vescica natatoria,
che allora faceva 1' officio di organo idrostatico: le branchie sta-
vano ove ora stanno le fessure nel collo dell'embrione: il cuore
non era da più di un vaso pulsante, e la colonna vertebrale di una
corda dorsale. Non avevano adunque un organismo più sviluppato
di quello dell' Amphioxus lanceolatus, e probabilmente anche era
meno sviluppato. Ma con queste ultime induzicmi, il Darwin ha
oltrepassato la sotto-famiglia degl'immediati progenitori dell'uomo
e si è spinto sino alla prima classe de' vertebrati.
Stando adunque alla dottrina darwiniana, fra le catarrine e
V uomo, quale noi 1' abbiamo sinora conosciuto, vi sarebbe stata
una forma intermedia. Tale è pure l'opinione dell' Haeckel, per
non dire di altri, il quale nella sua Storia d'ila creazione degli
esseri organici, ci dà pure un suo ritratto deW Homo priììiigeìiius.
LE ORIGINI dell' UOMO. 17
« Havvi tanta analogia, egli dice, fra gli ultimi uomini a capelli
lanosi e le prime scimmie antropoidi, che non fa d' uopo d' un
grande sforzo d'immaginazione per figurarsi un tipo intermedio,
ritratto approssimativo e probabile dell' uomo primitivo o uomo
scimiesco. Era esso assai dolicocefalo ed assai prognato, aveva
capelli lanosi, pelle nera o bruna. Il suo corpo era rivestito di
peli più abbondantemente che in qualsiasi razza umana vivente ;
le sue braccia erano relativamente piìi lunghe e più robuste ; le
sue gambe al contrario più corte e più sottili, senza polpaccio;
la posizione era per metà verticale e le ginocchia erano as^'ai pie-
ghevoli. Oltre di ciò cosiffiitto uomo era sfornito di linguaggio
articolato, era mutolo (Alalus), perchè il linguaggio è apparso
dopo la differenziazione dell' uomo primitivo in ispecie diverse. »
La forma intermedia, immaginata e descritta dal Darwin e dal-
l' Haeckel, è quella che a rigor di termini si può dire apparte-
nere anatomicamente e genealogicamente alla medesima famiglia
delle catarrine; ma l'uomo, quale noi lo conosciamo, non vi ap-
partiene più. Esso ha ben potuto uscire con quelle da uno stipite
comune: ma il suo ramo, prossimo all'altro in origine, è andato
deviando con l'uomo bruto, divergendo maggiormente con l'uomo
selvaggio e barbaro de' tempi preistorici, e allontanandosi cosiffat-
tamente con r uomo civile de' tempi istorici da dare vita per lo
meno ad altra fxmiglia. Tanto se voleste costruire 1' albero ge-
nealogico, quanto se quello tassonomico, voi non potreste porre
la bella Italiana e la bionda Grermana dagli occhi cerulei nella
medesima famiglia delle catarrine. Una o più forme intermedie
ci allontanano grandemente da queste, e ci consentono di rista-
bilire r armonia fra la classificazione genealogica e quella tasso-
nomica. I nostri immediati progenitori furono adunque uomini
che più di noi ritennero dell'animalesco, e degli antenati di questi
ci siamo occupati abbastanza pel nostro scopo. Nel dominio degli
studi sociali i nostri progenitori furono gli uomini primitivi o prei-
storici, de' quali ci occuperemo in seguito.
Se ponendosi, come ha fatto il Darwin, nel punto di vista ge-
nealogico si corre il pericolo di togliere all' uomo il suo vero posto
zoologico, ponendosi d'altra parte in un punto di vista non zoolo-
gico si corre rischio di creare per 1' uomo un regno senza solido
fondamento.
La questione concernente la esistenza di un quarto regno, cioè
di un regno umano, merita di non essere trasandata. La sua so-
VoL. XIV, Serie II — 1 Marzo I8ì9. 2
18 LE ORIGINI DFLL' UOMO.
tuzione discende dalle cose dette e da altre che or diremo. Ana-
tomicamente non v' ha posto per un regno umano, oltre quello
animale, del che non disconvengono neanche quei sostenitori del-
l' esistenza di un regno umano, che sono all' altezza della scienza
moderna. 11 Quatrefages, che in questa parte è caposcuola, am-
mette che l'uomo anatomicamente appartenga al regno animale;
ma aggiunge che la religiosità e la moralità sono caratteri distin-
tivi e propri solo dell'uomo, così da renderlo degno di costituire
un regno a parte. Movendo da questa idea fissa, egli è costretto
a fare prodigi per trovarne la prova nei fatti, prodigi che fini-
scono con r alterazione dei fatti. Basta leggere i tre capitoli del
libro del Lubbock, / tempi preistorici, relativi ai selvaggi moderni,
per convincersi che vi sono molti popoli, i quali si distinguono
per r assenza di qualunque idea religiosa e per una moralità, cioè
per un amore alla famiglia ed alla comunità, inferiore a quello
degli animali. Ma, ammettendo pure che ciò non sia, è innegabile
che di quella religiosità e di quella moralità, piuttosto istintuale
e grossolana, che s' incontrano presso altri popoli selvaggi, gli
animali non sono privi, e per tanto esse non potrebbero venir
considerate come un carattere appartenente all' uomo soltanto. A
conferma di ciò leggansi i capitoli II o III della recente opera
del Darwin sull' origine dell' uomo, capitoli nei quali egli ha rac-
colto una grande congerie di fatti, a fine di paragonare le facoltà
mentali e morali dell' uomo con quelle dei sottostanti animali. Da
tali fìxtti emerge che le facoltà umane distinguonsi da quelle degli
animali inferiori solo per gradi, cioè per un maggiore sviluppo.
Oserò esporre la mia opinione sulla esistenza del regno
umano. Se con la creazione di un quarto regno si è creduto di
gittare l'abisso, di porre l'infinito tra l'animale e l'uomo, il tentativo
è fallito, perchè era davvero assurdo. Anche l'animale si com-
move come l'uomo, e prova dinanzi a' fenomeni della natura quel
terrore che per molti uomini, anche non selvaggi, costituisce l'es-
senza del loro sentimento religioso. Coloro i quali mostransi tanto
teneri dell'umana dignità da volere per sé un proprio regno non
dovrebbero rifiutarsi ad ammettere che l'adorazione del cane pel
padrone vale qualche cosa di meglio dell' adorazione dell' uomo
per le lucertole e gli scorpioni. Anche gli animali amano i propri
simili, convivono in società e certo non si fanno guerra piìi spietata
di quella che gli uomini continuano a farsi in pieno secolo XIX,
Anche essi hanno il loro linguaggio, fanno i loro giudizi, trag-
gono partito dall'esperienza e diffìcilmente ricadono nel mede-
LE OEIGINI dell'uomo. 19
simo agguato. Gli animali progrediscono adunque. Ma tutte le
loro facoltà sono assai limitate, così che il progresso non oltre-
passa una breve cerchia, toccata la quale la vita diviene ripeti-
zione. Vi sono razze umane che, sinora, versano in una condizione
quasi identica: la loro cerchia è più larga, ma ò ancor troppo
ristretta. Invece, havvene di quelle, come a dire gì' Indo-Europei,
che distinguonsi per uno sviluppo progressivo i cui limiti sinora
CI sfuggono. Le une e le altre distinguonsi però nettamente dal-
l'animale per la posizione verticale, il cervello più perfetto e la
laringe acconcia al linguaggio articolato. Di questi organi è pro-
dotto la intelligenza più progressiva. Xon è già che l'uomo abbia
organi che addirittura manchino agli altri animali, ma esso li ha
così sviluppati da dare origine nientedimeno che alla coscienza
nel senso profondo della parola. Il selvaggio, tale qual è, è più
vicino all'animale che non l'uomo civile al selvaggio ; ma il sel-
vaggio può diventare civile, dove che l'animale non diventa al più
che domestico. Che cosa ha potuto infondere tanta potenza ai fortu-
nati eredi di una specie inferiore? L'Huxley dice benissimo quando
afferma che basta un capello per arrestare il moto delle ruote di
un orologio. Bisogna allora aggiungere che codesto capello ha un
immenso valore fisiologico e psicologico, perchè sottratto dalle
spire del cervello e dalla laringe permette a questi organi di
muoversi e svilupparsi a segno da produrre la meccanica celeste
e le orazioni di Demostene. L'assenza di cosiffatto capello e la
presenza di altre differenze, alcune delle quali a noi sfuggono o
noi valutiamo solo grossolanamente, danno all'uomo il diritto di
occupare nel regno animale un posto speciale o sia un ordine,
come vuole anche il Canestrini nel suo bel manuale di antropo-
logia, 0 sia un sotto-ordine nell'ordine de' primati, o sia una fa-
miglia, in somma un proprio antro. In questo antro i più bassi
uomini ritengono ancora dei più alti scimmiadi, poi che le ana-
tomiche e fisiologiche differenze sono ancora troppo rudimentali e
in potenza; ma a poco a poco l'uomo esce dall'antro e trasforma
la terra nel regno della civiltà. Con l'esercizio si andarono per-
fezionando le facoltà ideali e insieme la struttura organica, mas-
sime del cervello e della laringe. L'uomo non ha cessato di avere
funzioni comuni cogli animali, come questi le hanno col regno
vegetale, ma pel suo sviluppo ideale, per la invenzione della scrit-
tura e pel suo ordinarsi in società retta da un potere politico e
governata da una coscienza progressiva, le quali cose non sono
potute accadere senza un correlativo sviluppo fisico, l'uomo è di-
20 LE ORIGINI dell' UOMO.
venuto un essere che ha bene il diritto di esclamare : il mio regno
è quello della civiltà. Non l'uomo, adunque, ma l'uomo civile è cit-
tadino di un nuovo regno, le cui grandezze non trovano riscontro
nel regno animale.
La buona gente cui fa ribrezzo questa dottrina della nostra
origine, invece di stemperarsi in vane contumelie, affermi la indi-
vidualità umana con lo studio di trasformare il proprio corpo,
il proprio spirito, in docili istrumenti del consorzio civile. Padro-
neggiando i brutali istinti animali e selvaggi, 1' uomo civile si
distingue essenzialmente dall' animale e dal selvaggio, e solo
allora acquista davvero il diritto di chiamarsi uomo. Col senti-
mento della sua modesta origine, esso acquista pure la virtù
della tolleranza, ma non verso le belve umane, e il disprezzo per
le esteriori vanità. Quell'orgoglio, die altri trae dal vano blasone
degli avi, 1' uomo sapiente attinge dalla sua intima virtù, il più
gran tesoro umano, quello che nessuno può rapirgli, la vera sor-
gente delle' consolazioni più ineffabili e meno prezzolate.
Accennando al sentimento di tolleranza ho detto fra paren-
tesi che esso non si deve estendere alle belve umane. Colgo il
destro per aggiungere che un' altra e benefica deduzione del tra-
sformismo applicato all' uomo è appunto la dottrina di quei pena-
listi che vogliono difendere 1' umanità civile con l'estirpare gli uo-
mini ferini. La dottrina degli abolizionisti della pena capitale,
funestissima nelle presenti condizioni della società e soprattutto
delle società fiacche e corrotte, è una conseguenza dei falsi si-
stemi teologici e ideologici intorno all' uomo. Posto 1' abisso fra
r uomo e il regno animale, veggonsi pullulare tutti quei noti
sofismi sulla personalità umana che non si ha dritto a distrug-
gere, tutti quei sottilissimi arzigogoli che farebbero ridere assai
se non giovassero molto ai l)ricconi. Li quella vece la dottrina
scientifica e positiva, che considera 1' uomo come parte del regno
animale, guarisce i cervelli da un morboso concepimento e i cuori
da un falso sentimentalismo. I ocntimenti di amore, di tolleranza,
di carità, non che ristringersi, si allargano a tutto il regno ani-
male, ma si sottopongono alla ragione, la quale sa distinguere
fra le nature elevate, le nature deboli, le nature in cui il mal
seme ha vinto ma non distrutto il buono, e le belve umane.
La società ha il dovere di onorare le prime, di proteggere le se-
conde, di sequestrare e correggere le'terze ; ma ha tanto dritto
di annientare le ultimo quanto di scaricare il fucile contro la
tigre. La personalità umana è rispettabile quando è civile o
LE ORIGINI dell' UOMO. 21
quando è capace di diventare tale. Or bisogna essere bene inge-
nui per credere che la stirpe de' Troppman sia correggibile, e
bisogna avere il senso morale assai ottuso e il sentimento d'uma-
nità oltremodo fiacco per non volere l'esterminio di simili mostri.
Una scienza positiva deve volerlo, sino a quando è necessario, per
assicurare la sanità e lo sviluppo civile del corpo sociale. Bisogna
aumentare nei malvagi la paura per le pene di qua, quando essi
vanno perdendo le fede nelle pene di là. I governi scrii, che
preoccupandosi oggidì dell'azione dissolvente di certi elementi che
si manifestano ne' tempi liberi, vogliono tuttavia rimanere ferma-
mente sul terreno della libertà — senza di che sarebbero irrepara-
bilmente perduti — debbono attendere ad educare amorevolmente
i cittadini, a spargere il benessere fra le popolazioni ed a punire
inesorabilmente i perversi. Solo così lo Stato acquista un carat-
tere positivo, e può pretendere di occupare il posto di quelle
potenze, che oggi si debbono considerare come i principi spode-
stati del regno della coscienza.
II.
Monogenismo e Poligenismo. — Luogo di nascita dell'uomo.
La grande questione del monogenismo e poligenismo, cioè
dell'unità o della pluralità di origine dell'umanità, si riattacca,
anzi discende direttamente da quella concernente 1' origine del-
l'uomo. Questa origine essendo apparsa sinora un'incognita per la
scienza, e cognita soltanto alla religione, n'è seguito che i cre-
denti nella Bibbia hanno votato pel monogenismo e gl'increduli
hanno dimostrato una propensione a negare con tutto il paradiso
anche la unica e primitiva coppia che l'abitava. Che che si dica,
e per sforzi che si facciano, difficilmente gli uomini si liberano
dal partito preso di trovare nei fatti argomenti o a conferma delle
credenze religiose o a negazione di esse. Solo in un periodo di pieno
e assicurato trionfo della scienza, l'uomo si pone a studiare con im-
parzialità le questioni che hanno attinenza stretta con la religione ;
e solo allora egli non teme di accettare una deduzione, la quale
confermi pure i presentimenti della religione. Noi entriamo feli-
cemente in questo tempo di calma, perchè entriamo in un tempo
in cui il razionalismo scientifico è assiso su d'incrollabile ròcca.
Secondo che ci avviciniamo ai nostri tempi, vediamo gli stessi
monogenisti biblici non osare di confessare che essi parteggiano
22 LE ORIGINI dell'uomo.
per l'unità di origine, sol perchè sono rimasti fedeli alle credenze
dell'infanzia; ma sforzarsi di camminare sul terreno della ricerca
soientifica. I razionalisti adunque non potendo risolvere la que-
stione deduttivamente, col riattaccarla cioè a quella dell' origine
dell'uomo, perchè la scienza non lo consentiva e credo io non lo
consenta ancora interamente, ed i credenti non volendo mostrare
che essi innalzavano un edifizio storico su di un semplice articolo
di fede, ne seguì clie la grande questione fu da tutti studiata in-
duttivamente. E, com'era da prevedersi, ciascuna parte trovò, non
sempre inconsapevolmente, molti argomenti a sostegno della tesi
a lei prediletta; il che se non riuscì a risolverla positivamente,
certo ne fece avanzare lo studio, insino a che venne il darwi-
nismo a gittare il suo peso nella bilancia, la quale, non volendo
neanche ora risolversi a traboccare, incomincia col suo equilibrio
ad annoiare gli studiosi.
Riassumiamo il dibattimento ed atteniamoci agli argomenti
principalissimi e più conformi allo stato attuale della (|uestione
e della scienza antropologica.
Eisolvere a posteriori la questione significa studiare se quello
che nel linguaggio comune chiamansi razze umane sieno separate
da differenze così rilevanti da vietarci di considerarle come di-
scendenti da unica coppia o almeno da coppie situate in una me-
desima e ristretta regione, o se non sia vero il contrario. In ter-
mini più generali, sono esse specie diverse o razze di una sola
specie? I poligenisti, come il Bory de Saint- Vincent, tendono na-
turalmente a considerarle come specie ; i monogenisti, come il Qua-
trefages, a reputarle razze.
Per evitare confusione nella mente di quei lettori, che non
sono versati nelle scienze naturali, dobbiamo i)reniettere alcune
definizioni.
È assai malagevole, per non dire impossibile, il definire la
specie. Intorno a questa ])irola si danno battaglia oggidì le più
opposte scuole de'naturalisti. Il Quatrefages nel suo liapporlo sui
progressi deW antropologi a (1867) riassume così le definizioni della
specie, date daCuvier,Blainville, Lamarck, Candolle, Yogt, Chevreul :
« La specie è il complesso degl'individui, più o meno simili fra
loro, che sono discesi o che possono esser ritenuti come discesi
da unica coppia, mediante non interrotta successione di famiglie. *
E continuando, aggiunge; « gl'individui che si allontanano dal
tipo generale specifico in modo sì pronunziato da essere facil-
mente distinti al primo colpo d'occhio, chiamansi varietà. Se i
LE ORIGINI dell' UOMO. 23
caratteri costituenti una varietà si trasmettono ereditariamente,
compariscono quei gruppi più o meno numerosi, che addiman-
dansi razze. » Il Knox e il Gliddon per contrario negano reci-
samente che la specie possa definirsi. Il Gliddon vi sostituisce la
parola tipo. In questo argomento è Jiecessario ascoltare soprattutto
il Darwin. Questi dice, nell'opera ^VlW Origine delle specie, che non
ancora vi è una soddisfacente definizione della specie; ma che ciò non
ostante tutti i naturalisti sanno almeno vagamente quel che s'intenda
con questa parola. In generale questa parola sottointende V elemento
incognito di un atto distinto di creazione. Infatti, aggiungo, coloro che
ammettono che la specie sia costituita da caratteri costanti, eredi-
tari, separati con insormontabili cancelli da altri caratteri pari-
mente costanti ed ereditari, non possono non ritenere le specie
come il risultato di tanti distinti getti creativi. Ma il Darwin
osserva che tra gì' individui classificati nella medesima specie so-
novi differenze rilevanti, differenze che, al contrario di quel che
certi naturalisti pensano, riguardano organi importantissimi, So-
novi eziandio specie dubbie, a classificare le quali i naturalisti
non vanno d'accordo. A questo proposito il Darwin dimostra
quanto vi sia di arbitrario e convenzionale nel classificare un
gruppo come specie anzi che come varietà, e dice che non vi ha
una linea netta di separazione tra specie, sotto-specie, varietà e
differenze individuali. Siffatte differenze si fondono in una serie
d'insensibili gradazioni. Or la serie implica transizione graduale
da una forma all'altra; epperò il Darwin considera le varietà più
distinte e più permanenti come gradi che menano a varietà anche
più distinte e permanenti, e queste come termini dì passaggio
alle sotto-specie, le quali conducono a nuove specie. La varietà
più spiccata è adunque una specie incipiente, nascente, e la tras-
formazione si effettua soprattutto mediante la scelta naturale,
cioè mediante la legge di conservazione delle modificazioni favo-
revoli e di eliminazione di quelle sfavorevoli.
Adunque v' ha naturalisti che definiscono la specie e credono
nella sua fissità, e ve n' ha di ■ quelli che non osano definirla
rigidamente, perchè non la reputano limitabile assolutamente e
la credono trasformabile. Ma poi che siamo sul dichiarare i ter-
mini, non abbandoniamo ancora il terreno. Ritorno al Quatrefages
per dire del significato di altre parole, e del valore di altri fatti
che occorrono nello studio delle razze.
Gli antropologi in generale chiamano ibrido il prodotto del-
l'incrociamento fra specie e meticcio quello fra razze. Ma nean-
24 LB ORIGINI dell'uomo.
che su di ciò 1' accordo è pieno. 11 geologo d' Omalius, nel suo
libro sulle Uaces huìuaines chiama ibrido il prodotto dell'incro-
ciamento fra razze; meticcio specialmente quello fra la razza
bianca e la rossa; mulatto tra la bianca e la nera; zambo fra
la nera e la rossa. Il Quatrefages, che riassume sempre egregia-
mente le idee della vecchia scuola, dice che presso i vegetali
come presso gli animali l' incrociamento tra specie è molto raro:
operato sotto 1' influenza dell'uomo, è infecondo nella gran parte
dei casi, e se è fecondo, la fecondità va sempre diminuendo. Per
contrario l'incrociamento fra razze è fecondo, e qualche volta più
che non tra individui della medesima razza. Cosiffatta legge ha
grande importanza nella questione del monogenismo e del polige-
nismo, perchè soprattutto da essa muovono gli antropologi per
chiamare razze o specie le divisioni dell'umanità, e per reputarle
discese da uno o da più stipiti.
Il Darwin dedica all' ibridismo un intero capitolo della sua
opera suU' Origine delle specie. Alla legge suU' incrociamento,
accennata di sopra, egli obbietta prima di tutto la incertezza
che domina la questione, perchè i naturalisti sovente tagliano
anzi che sciogliere i nodi, e quando trovano incrociamenti fecondi
tra gi'uppi battezzati come specie diverse, tosto cambiano loro
il nome e le ribattezzano come varietà. In una nota contenuta
nella Storia naturale deW uomo del Prichard ho trovato un esem-
pio calzante di ciò. Knight dice: « Se queste specie, distinte in
appartnz:(i, sono feconde e il loro prodotto non è un individuo
sterile, io non esito a considerarle come appartenenti alla mede-
sima specie, così come ho fatto per la fragola del Chili, la fra-
gola ananas, la fragola scarlatta. » Non sono soltanto le scienze
morali quelle che abusano dell' a priori/ Certo è che il fatto della
sterilità dipende da cause complesse, come ha ripetuto il Darwin
ueir Origine deW uomo, e non fornisce un solido fondamento per
stabilire differenze specifiche, massime quando si pensa che la
sterilità predomina nell' accoppiamento dei più prossimi parenti.
Quello che vi ha di più certo si è, che la sterilità ncgl' incrocia-
menti fra specie diverse varia di grado e insensibilmente dispa-
risce, mentre d' altra parte la fecondità delle specie dipende pure
da svariate condizioni; di guisa che è difficile determinare ove
finisce la perfetta fecondità ed ove comparisce la sterilità. La
legge più generale è che la fecondità diminuisce tra specie lon-
tanissime e tra parenti prossimissimi: nel mez/,o vi sono casi
svariati. Il famoso orticultore Herbert sostiene che gl'ibridi sono
LE ORIGINI dell' UOMO. 25
fecondi, come le specie madri. Su gli animali sonosi fatte minori
esperienze. Senza negare per tanto la relativa sterilità dei primi
incrociamenti tra specie e dei loro ibridi prodotti, si può benis-
simo affermare che essa non è assoluta e neanche universale, e
che essa dipende da diversissime condizioni di vita e da modifi-
cazioni^nel sistema riproduttore, anzi che da proprietà iìiereuli
alle specie diverse. Le medesime osservazioni si possono applicare
alla fecondità tra le varietà. Sovente gl'incrociamenti fra le razze
fanuosi allo stato domestico, sotto r azione d'identiche condizioni,
in tal caso non si possono produrre quelle modificazioni nel si-
stema riproduttore che potrebbero rendere sterili anche le varietà.
Senza negare per tanto che il caso più generale sia la fecondità
neir iucrociamento fra le varietà, è pur giusto il non tacere tutti
i casi d' infecondità.
Kiassumendo la questione, dirò che la varietà di una specie
nel trasformarsi può originare un'altra specie, cioè differenze si
spiccate da rendere necessario un altro nome, che questo nuovo ■
gruppo incrociandosi col primo può dare benissimo un prodotto
ibrido, il che significa che fra, loro havvi, non abisso, ma soltanto
lontananza.
Con la maggiore brevità possibile esponiamo ora alcuni prin-
cipalissimi argomenti che i monogenisti e i poligenisti recavano
a loro sostegno, prima che la dottrina dell'evoluzione venisse a
preponderare.
Secondo i monogenisti l'umanità si divide in razze e non in
specie. In fatti codesti gruppi umani ci appariscono forniti di
quei caratteri variabili che sono il contrassegno delle razze, dove
che le specie hanno caratteri più costanti. Tra le differenze
umane spicca un tipo comune, e se Bianchi e Negri ci paiono
estremamente diversi, fa mestieri considerare che nel regno vegetale
come nel regno animale, soglionsi aggruppare, sotto la medesima
specie, differenze anche maggiori, Questo argomento, che è delQuatre-
fages, anzi che una difesa dell'antropologia monogenistica, potrebbe
contenere un'accusa contro certe classificazioni della botanica e
della zoologia. Andiamo avanti. Le razze si possono collocare su
di una scala graduale, senza che in molti casi si possa dire essere
questo un effetto degl' incrociamenti. L'essere così insensibili e
graduali i passaggi dall'una all'altra razza, anzi che nettamente
scolpite le loro distinzioni, ha fatto sì che gli antropologi non
si accordino sul numero delle razze in cui partire l'umanità. Ora
26 r^E ORIGINI dell'uomo.
i naturalisti sogliono appunto riunire in una categoria specifica
le forme parimente graduali. Essendo fecondi gl'incrociamenti tra i
gruppi umani, questi sono razze, le quali non hanno potuto non
discendere da unica e ristretta origine, stando anche alla legge
del Candolle, che è la seguente: Varca media occupata dalle specie
è tanto jnn piccola, quanto piìi complesso, più sviluppato, piti
perfetto è Vorganismo della classe a cui appartengono quelle specie.
Non un solo genere di scimmie è comune a' due continenti, il
vecchio e il nuovo, aggiunge il Quatrefages. Se bene interpreto
il pensiero del monogenista, parmi si debba indurre che l'uomo,
la specie più alta, non ha potuto fare eccezione a questa re-
gola come sarebbe accaduto se esso avesse avuto origine nei
due continenti, ma che per contrario ha dovuto occupare in origine
l'area più ristretta, e di là distendersi gradatamente sulle altre,
adattandosi a tutti i climi; la quale facoltà egli solo possiede.
Giunti a questo punto i monogenisti trovansi costretti a spiegare
la possil)ilità d" immigrare dal centro dell'Asia nella Polinesia e
neir America, in tempi selvaggi e barbari, e per tanto la genea-
logia degli abitanti di questi continenti. La difficoltà non li arre-
sta, come le supposizioni non li sgomentano. 11 Quatrefages accetta
l'opinione che gli abitanti della Polinesia sieno venuti dall'Arci-
pelago indiano, procedendo da ovest ad est. La razza si è da
prima fissata negli arcipelaghi di Tonga e di Samo, donde è passata
successivamente negli altri arcipelaghi. E gli abitanti dell'America
sono venuti dall'Asia, anche dall'Europa e dall'Africa, dalie isole
del grande Oceano occupate da popolazioni più o meno nere, da
tutte le parti fuori che dall'America istessa ! Gli argomenti tratti
dalla classificazione genealogica dei linguaggi sono pure larga-
mente usufruiti.
Non minori, anzi for;e più numerosi e apparentemente più
forti, sono gli argomenti di coloro che sostengono essere specie
e non razze codesti gruppi umani. Le differenze che scorgonsi
nella struttura e nelle facoltà mentali, fra Negri, Mongoli e Caucasici
sono alle volte sì grandi che qualunque naturalista, osservandole
nei regni vegetali e animali, le dichiara di natura specifica, e lo
fa senza porre tempo in mezzo, poi che non è rattenuto da nes-
suna considerazione estranea. Tale giudizio è ribadito dal fatto
che i caratteri di quei gruppi sonosi conservati inalterabili per
migliaia e migliaia di anni, sino al punto da poter riconoscere
il tipo attuale americano nei crani umani trovati nelle caverne
del Brasile, insieme alle ossa dei mammiferi estinti. Noi adunque
LE ORIGINI dell' UOMO. 27
vediamo esistere le attuali differenze sin dai più remoti tempi,
ai quali possiamo riportare l'esistenza dell'uomo. Nei limiti della
nostra esperienza non abbiamo prove concludenti per convincerci
che l'azione della natura esterna basti a produrre mutazioni tali
da rendere spiegabili le differenze fra gli uomini, quando si
ammetta l'unità d'origine. Lo stesso cattolico d'Omalius ò convinto
elle, movendo gli uomini da unica dimora, non basterebbe l'at-
tuale periodo geologico a produrre le differenze che ora esistono
fra le razze, e però è costretto a ricorrere all' ipotesi che quelle
differenze siensi prodotte sin dall'anteriore periodo geologico. È
difficile concepire com'egli abbia potuto porre la sua ipotesi in
armonia con la credenza all'origine recente dell'uomo, e col rac-
conto dell'arca di Noè, in cui erano i tre progenitori dei Semiti,
dei Camiti e dei Giapeti. Un fatto che colpisce è quello osservato
dal professore Agassiz, cioè la rispondenza tra le diverse razze
e le diverse regioni zoologiche abitate da spe3Ìe e generi di mam-
miferi certamente distinti. I Papuesi ed i Malesi, p. e., sono separati
quasi dalla stessa linea che separa le grandi provincie zoologiche
malesi ed australi. E il Maury divide l'umana famiglia quasi in
tante razze quante sono le regioni botaniche e zoologiche. Il che
pensano i poligenisti non potersi spiegare, nei limiti della nostra
esperienza, con l'adattamento dei sopravvenuti. Sa vi sono razze
feconde, nell'incrociamento, altre se ne noverano infeconde (Broca);
né la fecondità e la sterilità costituiscono sani criteri per negare le
specifiche differenze. Quanto alla legge del Candolle, recata dal
Quatrefages in appoggio del monogenismo, si può osservare che
da essa altro non è lecito indurre se non che gli uomini hanno
dovuto nascere su zone piìi ristrette, ma non in unica sede e
molto meno da unica coppia. Inoltre se non vi ha un solo genere
di scimmie comune a' due emisferi, vi sono ne' due continenti.
, l'africano e l'asiatico, scimmie come il gibbone e il cimpanzé, le
quali probabilmente non si differenziano più di un bianco da un
negro. E intanto si penerebbe molto ad ammettere che tali varietà
scimmiesche siano emigrate da unica sede.
Abbiamo detto che il darwinismo è venuto a gittare il suo peso
nella bilancia, e, a dire il vero, lo ha gittato nella coppa del
monogenismo, con grande meraviglia e con grande gioia degli
antropologi biblici, i quali si vanno rimettendo dallo spavento in
loro destato dallo spettro darwiniano, ne accettano ciò che a loro
fa comodo, ossia l'efficacia del mezso e dell' eredità, per spiegare
la produzione delle varie razze; ma non si spingono di là, ossia
28 LE ORIGINI dell' UOMO.
sino ad ammettere la variabilità delle specie. Grià prima che il
Darwin pubblicasse la sua recente opera suìV Origine deW uomo,
gli antropologi eransi impossessati della legge della scelta natii'
rate e 1' avevano applicata alla soluzione della famosa questione
dell' origine unica o multipla. Citerò soltanto il Wallace ed il
Lubbock, il primo dei quali scoprì contemporaneamente al Darwin
la detta legge, ma non vi ha legato il suo nome, perchè non la
dimostrò con quel ricco corredo di fatti che l'altro raccolse nel
suo libro. 11 Wallace tiene per l'unità specifica dell'umanità,
quantunque riconosca che sinora, in apparenza, i migliori argo-
menti sieno in favore dei sostenitori della varietà specifica e della
diversità d'origine. Il Lubbock è della stessa opinione e fa un'af-
fermazione che ha molto valore: a spiegare le differenze tra le
razze non basta né il solo temjìo né le sole circostanze esteriori,
ma fa mestieri riunire i due fattori. À proposito dell' osservazione
di Poole, che cioè i tipi attuali dei Negri, degli Arabi e degli
Egiziani sono identici a quelli delle figure che trovatisi su' mo-
numenti egizi che rimontano a presso che 3000 anni, il Lubbock
dice che nessun etnologo vorrebbe sostenere che il tempo solo,
indipendentemente dai cambiamenti nelle condizioni esterne, possa
produrre le alterazioni del tipo. Rivolgendosi poi al Crawford,
che reca esempi di Negri africani trasportati nelle isole dell' Ame-
rica, di creoli spagnuoli stabiliti nell' America tropicale, di coloni
olandesi viventi da due secoli in mezzo a Cafri e ad Ottentotti,
e che tutti non hanno mutato colore, il Lubbock dico che qui ab-
biamo grande cambiamento nelle condizioni esteriori, ma un lasso
di tempo assai insufficiente. Né è esatto che nulla sia mutato nei
caratteri esterni degli abitanti venuti dall' Europa e dall' Africa
in America. Inoltre il Lubbock pensa, e con ragione, che il cam-
biar cielo produca minori effetti, secondo che ci alloataniamo dai
tempi primitivi, perchè l'uomo civile trasporta seco i metodi per
schermirsi dalla natura e per conservare parte de' suoi usi.
Il Darwin, ponendo da una parte gli argomenti recati per
elevare le razze umane all' altezza di specie, e dall' altra le dif-
ficoltà per defiuire le specie e per riscontrarne i caratteri nelle
razze, si decide ad adottare il nome dì sotto-specie. Nel corso dei
miei lavori seguirò l' uso e continuerò a chiamarle razze. Ma
sieno pure specie, la dottrina dell' evoluzione, che trae tutto il
mondo organico da unica cellula, non poteva incontrare difficoltà
a far discendere tutte le specie umane da unica origine, sebbene
non da unica coppia. E il Darwin tiene per questa opinione mo-
LE ORIGINI dell' UOMO. 29
nogenista. Gli è vero, egli dice, che le attuali razze umane dif-
feriscono fra loro per molti rispetti, nel colorito, nei capelli, nella
forma del cranio, nelle proporzioni del corpo, ecc.; ma se si
considera il complesso della loro organizzazione, si trovano rasso-
miglianze così singolari da doversi ritenere come poco probabile
che le a,bbiano acquistate in modo autoctono.
Come abbiamo veduto, il Darwin fa uscire 1' uomo dallo sti-
pite delle catarrine, anzi che da quello delle platirrine, fondan-
dosi sulle rassomiglianze. Nel vecchio continente adunque sarebbe
accaduta la trasformazione; ma in qual parte di esso? Il Darwin
inclina a credere nell' Africa, fondandosi sul fatto che in ogni
(, rande regione del mondo, i mammiferi esistenti sono intimamente
nffi'ii alle specie estinte della, stessa regione. L'Africa per tanto ha
dovuto essere probabilmente abitata da scimmie estinte affini al
gorilla ed al cimpanzé, e siccome queste sono le specie più pros-
sime all' uomo, così i nostri progenitori hanno do7uto nascere colA.
Il Darwin pensa che se non ancora si è trovato un avanzo fossile
che colmi la lacuna tra 1' uomo e i suoi più prossimi parenti, egli
è 2>robabilmente anche perchè la regione originaria dell' uomo è
quella meno esplorata. Non scordisi però che in Europa esisteva,
durante il periodo miocenico superiore (il più recente del medio-evo
dell'epoca terziaria), il Dry o^jifhecus delhavtet,\ìnsi scimmia grossa
quasi quanto 1' uomo, e strettamente affine agi' ilobati antropo-
morfi. L' esistenza di questo Dryopithecus dimostra puro che sino
dal periodo miocenico le scimmie più alte erano venute su, stac-
candosi dalla primigenia unità con le più basse. E non è impro-
babile che di già 1' uomo, nel periodo eocenico (quello antico Del-
l' epoca terziaria) cominciasse a divergere dalle catarrine.
Il Link è pure di. credere che il primo uomo fosse un Negro,
perchè la natura parte dalla imperfezione. Schelwer pensa che il
centro dell'Africa sia il luogo originario del genere umano. Haeckel
ci fa venire, nell'epoca terziaria, da un continente sparito, al sud
dell' Lidia, dall' inglese Sclater chiamato Lemuria.
Quando da cosiffatte supposizioni passiamo a spiegarci la for-
mazione delle razze, allora ricompaiono le difficoltà. La dottrina
dell' evoluzione non è giunta a trovare, nei limiti della nostra
esperienza, fatti che possano spiegarci con chiarezza e con cer-
tezza la genesi delle differenze caratteristiche che corrono fra le
razze. Il Darwin, che ha tutta l'onestà del vero scienziato, non
dissimula le difficoltà. E, dopo di averle esposte, dice: «Da quello
che abbiamo veduto segue che le differenze fra le razze non pos-
30 LE ORIGINI dell'uomo.
sono essere attribuite, in modo appagante, all'azione diretta del
clima, e alle differenti condizioni di vita, anche dopo di averle
sopportate per un tempo enormemente lungo ; non agli effetti
ereditati del maggiore o minore esercizio delle parti ; non al prin-
cipio di correlazione; non alla conservazione delle variazioni be-
nefiche, operata dalla scelta naturale. » Rimasto deluso nei ten-
tativi per ispiegarsi le differenze fra le razze, egli ricorre al
principio della scelta sessuale, la cui importanza credo che esa-
geri nell'opera suWOric/lne deWtiomo, come ha confessato di avere
esagerato quella della scelta naturale nelY Origine delle specie. 11
Darwin stesso dice che non pretende punto d'indicare con pre-
cisione gli effetti della scelta sessuale. E molte o1)biezioni già la
impugnano in parte.
A parer mio, la difficoltà di spiegare le differenze fra le razze
si fa maggiore, quando si ammette l'unità di origine; minore,
quando si ammette la pluralità. Egli è certamente più malagevole
spiegarsi la struttura dell' Europeo quando lo facciamo discen-
dere da un abitante dell'Africa centrale, anzi che quando lo sup-
poniamo nato nell'Europa medesima. Secondo la dottrina dell'evo-
luzione, nulla si oppone a farci considerare le razze come pro-
venienti da unico stipite, ma è difficile provare con i fatti come
le differenze abbiano potuto prodursi. Ciò posto, e ammettendo
pure la verità della detta dottrina, sarebbe egli impossibile conci-
liare con essa il poligenismo ? ISIon mi pare. L'argomento prin-
cipale del Darwin in sostegno della derivazione dell'uomo dallo
stipite delle catarrine gli è la maggior rassomiglianza che esso
ha con queste, anzi che con le platirrine ; ma sarà proprio il capo-
scuola del trasformismo quegli che si spaventerà di ammettere
che gì' indigeni americani sieno venuti da stipite platirrino e che
più di un anello intermedio siasi potuto perdere ? In una dot-
trina cosiffatta il più o il meno non dovrebbe far sgomento. L'esi-
stenza in Europa del Drì/opitheats aiuta a far credere che la tra-
sformazione di una specie inferiore nell' uomo abbia potuto ef-
fettuarsi, mediante la scelta naturale, in tutti o quasi tutti i
continenti abitati dagli affini più o meno prossimi ad esso. Ed
in tal caso le identità che scopronsi tra le razze altro non sarebbero
che identità di tipo, proveniente da antenati appartenenti alla
stessa classe, ma non occupanti una medesima e ristretta regione.
Verificatesi alcune determinate condizioni telluriche presso che
identiche, potè accadere la prima deviazione nelle regioni occu-
pate da specie simili. Non è adunque impossibile l'unità di ori-
LE ORIGINI dell'uomo. 31
ginc ; ma è forse più probabile la pluralità e molte questioni ri-
mangono certamente semplificate dalla dottrina del poligenismo.
Se la mente umana non fosse stata preoccupata dalle tradizioni
bibliche, non mai sarebbe corsa al pensiero che la bianca pelle
dell'ariano abbia acquistato il colorito dell'abitante della Nigri-
zia, mediante la semplice azione del clima, e piuttosto sarel)be
stata spontaneamente inclinata a credere che le due razze o le
due specie abbiano avuto origine diversa. Se poi i monogenisti
biblici avessero avuto sentore di quello che l'Huxley ha dimostrato
intorno al posto dell'uomo nella natura, si sarebbero spaventati
al pensare, che, procedendo in cosiffatta via di unificazione, si do-
veva finire per comprendere in un medesimo ordine eziandio le
scimmie.
Soprattutto più prudente è il confessare addirittura che sinora
la questione non è risoluta. Non è facile prendere un partito, quando
si veggono due eminenti naturalisti, l'Humboldt e il Burmeister,
il primo dei quali ha lungamente viaggiato nell' America, ed il
secondo vi dimora, sostenere opinioni diametralmente opposte.
l/Kurnholdt (Vedute delle Cordigliere e monumenti dei popoli in-
digeni dclV America) riattacca gli Americani agli Asiatici e crede
all'unità specifica e originaria dell' umanità (Cosmo), dove che il
Burmeister (Storia della creazione) si dichiara poligenista e a pro-
posito della provenienza degli Americani dagli Asiatici dice; «La
profonda differenza clie, non ostante alcuni tratti rassomiglianti,
esiste tra Mongoli ed Americani, basta a rovesciare codesta teo-
ria, a sostegno della quale non vi sono fatti positivi.» 11 Merton
con ricca copia di particolari ha dichiarata inverosimile la detta
filiazione, e possibile soltanto una primitiva immigrazione di Eschi-
mesi. E duopo convenire che sinora non sono state positivamente
studiate le cause delle differenze che distinguono le razze o le spe-
cie umane, e che basterà la scoperta di un viaggiatore intelligente
0 l'applicazione di una legge scientifica per gittare subitamente
la luce in quest'oscuro problema. Il Livingstone, p. e., ha fatto
un' osservazione che spiega in qual modo lo stato del clima in-
fluisca sul colore della pelle. L'ho trovata nel primo volume della
Sociologia dello Spencer e non posso tacere che ha fermato la mia
attenzione. Parlando delle diverse razze de' Negri, il Livingstone
dice : « Il calore solo non annerisce la pelle, ma il calore com-
binato con l'umidità sembra essere la causa incontestabile della
tinta più oscura.» Analoga osservazione fa lo Schweinfurth, nel
suo libro sul Cuore delV Africa. E lo Spencer aggiungo che tali
32 LE OEiGiNr dell' uomo.
fatti giustificano induttivamente una deduzione tratta dalla fìsio
logia. L'aria calda e umida oppone un impedimento all'uscita
dell'acqua dalla pelle e da' polmoni, e per conseguenza al movi-
mento de'fluidi attraverso i tessuti e a' mutamenti molecolari; il
che non può non esercitare un'azione su tutta la costituzione di
una razza e non distinguerla da quella che abita paesi caldi e
asciutti. Questa in fatti è più energica e di colorito più chiaro.
Senza distenderci maggiormente su di ciò, possiamo concludere
che se la scienza riesce a provare che tali cause locali possono,
sia pure in un tempo lunghissimo, mutare la costituzione esterna
ed interna di una razza, così da firla diventare altra, la causa del
monogenismo riceve un fondamento che ne assicura la vittoria.
Del resto, venga l'umanità da unica o da molteplice origine, da
questa o da quella specie inferiore, dal fango per opera di una
potenza soprannaturale o da una forma affine per opera di leggi
naturali, prendiamola qual'è, amiamola per la sua nobile missione,
e veneriamola per la sua alta antichità, di cui or ora tocclieremo.
Gli uomini vennero sulla terra per effetto di cause preesistenti:
ma, dopo esservi venuti, non possono dare alle loro azioni un fine
più alto del conoscere, amare e servire l'umanità.
HI.
Antichità dell'Uomo. '^
Il monogenismo biblico si è creato una formidabile nemica
nella cronologia parimente biblica. Secondo questa e propriamente
secondo il calcolo di Usserio, adottato dalla maggioranza degli
storici cattolici, Gesù sarebbe nato 4904 anni dopo la creazione
del mondo. Se l'uomo fosse cosi recente, sarebbe proprio impos-
sibile spiegare la diversità delle razze secondo l'ipotesi monoge-
netica. E adunque indispensabile che i seguaci delle credenze
bibliche rinunzino o al monogenismo o alla recente creazione
dell'uomo. Se vi hanno ancora forti argomenti a sostegno del
monogenismo, non ve ne sono più a sostegno della giovinezza
dell'umanità; tanto che gli stessi naturalisti che l'avevano ammessa,
come il Burmeister, oggi si dichiarano convinti dell'alta antichità
dell'uomo. Il Quatrefages, che non è certo un liberissimo pensa-
tore, ammette la esistenza deWiiOìno fossile nell'epoca quaternaria
e non è alieno dal credere che nuove scoperte, già iniziate da
LE ORIGINI dell'uomo. 33
Denise, Desnoyer, dall'abate Bourgeois, possano dimostrarlo appar-
tenente eziandio all'epoca terziaria.
Prima di procedere innanzi mi si conceda di definire alcuni
termini, che spesso ricorreranno. I gruppi di strati che appar-
tengono all'epoca terziaria si dividono, secondo il Lyell, in eoce-
nici, miocenici, pliocenici. Questi nomi vengono determinati dalla
quantità di conchiglie fossili, dell a identica specie delle attuali
ritrovate negli strati di gruppi terziari. Nel gruppo eocenico le
conchiglie fossili, identiche alle attuali, son poche; nel gruppo
miocenico sono più, ma in minor numero di quelle del gruppo
pliocenico. Il periodo eocenico può essere considerato dunque
come l'aurora (eós) della fauna de' molluschi del periodo recente
{cainos), tanto pili che nessuna specie vivente è stata scoperta
nelle rocce anteriori o secondarie; il periodo miocenico è meno
{meion) recente {cainos) e meno ricco di conchiglie identiche alle
attuali, del pliocenico, che più (pleion) di tutti quelli terziari è
recente {cainos) e ricco di conchiglie identiche alle attuali.
Alle formazioni terziarie seguono le post-terziarie. 11 Lyell
le divide in due gruppi: post-pliocenico e recente. Nel gruppo
post-pliocenico, al quale appartengono propriamente le forma-
zioni dette quaternarie, comprende gli strati in cui incontransi
bensì conchiglie e mammiferi recenti, ma associati ad un consi-
derevole numero di specie estinte di mammiferi; nel gruppo
recente comprende i depositi ne' quali così le conchiglie come
tutti i mammiferi fossili appartengono a specie viventi.
Non rifarò la storia, mille volte fatta, delle scoperte di Bou-
cher de Perthes. E ornai notissimo eh' egli sin dal 1841 trovò a
Menchecourt, presso Abbeville, nelle sabbie contenenti avanzi di
mammiferi estinti, una selce in forma d'istrumento tagliente. Le
scoperte d'indi in poi moltiplicaronsi. Accolte da prima col dub-
bio, pareva che dovessero venir dimenticate, al pari di quelle che
l'indifferenza e la scienza avevano da prima sepolte. I lettori
rammenteranno forse che sin dal 1774 l'Esper trovava o preten-
deva avere trovate ossa umane fossili nella caverna di Gailen-
reuth, e che il Cnvier dimostrava essere una salamandra VEomo
diluvii testis di Scheuchzer. Buckland, de Christol, de Serre,
Schmerling, tutti dichiararono, tra il 1823 e il 18.>3, di aver
trovato ossa umane fossili. Ma ogni cosa ha il suo momento, e
il momento di rivolgere l'attenzione degli scienziati e del pub-
blico all'uomo fossile non era ancora giunto. Boucher de Perthes
ebbe la fortuna di svegliare questa attenzione. Kiguardo alle
VoL. XIV, Serie II — 1 Marzo 18ì9. 3
34 LE ORIGINI dell'uomo.
scoperte di Bouclier de Perthes i dubbi furono fecondi, perchè
riuscirono a moltiplicare le prove e le scoperte ed a corroborarne
il valore. I. più scettici visitatori degli scavi di Abbeville e di
Amiens si convinsero che gì' istrumenti di selce erano lavorati
dalla mano dell'uomo, che essi trovavansi davvero nei terreni
postpliocenici e non vi erano stati o trasportati o trapiantati
artificialmente, e che vi stavano frammisti ad ossa di estinti
animali. L'uomo adunque è stato compagno del gruppo dei mam-
miferi quaternari, come 1' orso delle caverne, il mammuto, il
rinoceronte a pelo lanoso, 1' ippopotamo ec. Se ancora qualche
dubbio fosse rimasto, io credo che la bella monografia del Lubbock
sull'antichità dell'uomo, contenuta nell'opera su i Tempi preisto-
rici, avrebbe dovuto bastare a distruggerlo. Aggiungiamo il fatto,
recato dal Burmeister, della scoperta di una placca d'avorio sulla
quale è incisa chiaramente la figura di un elefante primigenio o
mammuto diluviano, oggidì estinto.
Non ostante ciò, havvi chi dubita persino dell'autenticità della
mascella di Moulin-Quignou e della esistenza dell'uomo fossile in
genere, mosso dalla scarsità delle ossa umane trovate nelle for-
mazioni postplioceniche, e dal sospetto che queste medesime poche
ossa abbiano potuto essere trasportate colà da rimescolamenti
prodotti da alluvioni posteriori. Toccheremo nel paragrafo se-
guente di cosiffatti avanzi trovati ne'terreni postpliocenici. Per
ora mi restringerò a dire, che l'osservatore geologo è giunto a
saper distinguere con sufficiente certezza la contemporaneità o no
dei fossili e delle formazioni, e che non pure la scarsità ma
l'assenza di ossa umane verificasi eziandio quando è innegabile
la dimora dell'uomo, come negli avanzi delle cucine danesi. In
questi le ossa umane sono rarissime, dove che gì' istrumenti di
selce sono mille volte più numerosi che non nella ghiaia di Saint-
Acheul. Codesto difetto di ossa umane può provenire dal ristretto
numero di uomini viventi nel periodo antidiluviano dell'epoca
quaternaria, e dal probabile uso di bruciare i cadaveri. Arroga
che se all'azione del tempo hanno resistito le ossa solide dei
mammiferi più grandi, quelle di animali più piccoli, come l'uomo,
è probabilissimo che sieno sparite. Il lupo, il cinghiale, il daino, ec.
esistevano nel periodo diluviano, e pur le ossa loro non si trovano.
Oltre di ciò si rifletta che appena ora noi andiamo qui e là
sbucciando la terra.
Stando ai fatti sinora bene appurati, non abbiamo prove irre-
fragabili per affermare che l'uomo sia vissuto in un'epoca anteriore
LE ORIGINI dell' UOMO. 35
a quella quaternaria; ma le analogie paleontologiclie, qualche
istrumento di selce e qualche incisione sulle ossa di animali an-
tidiluviani, ci fanno indurre che esso abbia potuto vivere nell'epoca
terziaria. Il Lyell {Antichità ddViwmo) crede che si possano
trovare avanzi dell'uomo negli strati pliocenici; il Lubbock non
sa comprendere perchè il Lyell siasi fermato lì, e pensa non essere
impossibile, anzi essere probabile che l'uomj sia vissuto nel pe-
riodo miocenico; il Darwin, come abbiamo veduto, spingesi insino
all'eocenico. Ciò che si può affermare gli è, che V uomo è più
antico di quello che non si credeva, e che il tempo necessario
alla formazione degli strati, che coprono quelli nei quali sonvi
umani vestigi, è si grande da spaventare la nostra immagina-
zione.
Rigorosi calcoli intorno all'antichità dell'uomo non era pos-
sibile fare, ma calcoli approssimativi sono stati fatti da egregi
geologi. Il Lubbock ha cercato di farsi un concetto del tempo
necessario alla formazione della valle della Somma, così ricca,
ad Abbeville e nel suo strato inferiore, d'istrumenti di selce. Di
sopra a codesto inferiore strato di ghiaia, nel quale si trovano
pure pietre focaie terziarie, sonvi tre strati di spessezza diversa.
< Se noi possiamo provare che il fiume attuale, un po' ingrossato
a cagione forse della maggiore estensione delle foreste nelle epoche
antiche, e di un clima diverso, ha scavato l'attuale valle e pro-
dotto i menzionati strati, allora il pensiero (di qui in poi la
citazione è tratta dal BlacluvoocV s Magasine^ ottobre 1860) d'una
antichità dell'umana famiglia remota in proporzione della lun-
ghezza del tempo necessario ai calmi fiumi della Francia orien-
tale per scavare una pianura intera sino al livello in cui scorrono
al presente, questo pensiero riveste una grandezza affiiscinante ;
soprattutto quando l'analogia geologica ci mena a dilatare siffatta
ipotesi e ad applicarla a tutto il complesso delle frontiere nord-
ovest del continente, e ci conduce a pensare che dalla valle della
Senna sino alle coste orientali del Mar Baltico, tutte le valli, tutti
i burroni, in una parola tutti i rilievi della superficie sono stati
modellati dalle acque da che l'uomo esiste sulla terra. » E il
Lubbock si dà a questo esame con la scorta del Prestwich, e se-
guendo il principio dell'azione lenta delle cause attuali, cioè il
principio fondamentale del sistema geologico del Lyell. Egli non
giunge ad una cifra, ma lascia solo indurre la immensità del tempo
scorso da che gli uomini assistettero ai primi conati della Somma.
Il concetto che uno si fa di questo tempo è ingrandito dalla con-
36 LE ORIGINI dell' UOMO.
siderazione dei pochi cambiamenti che in 1500 anni sono acca-
duti nella valle. « Nessun geologo può ritornare dalla visita fatta
a codesta valle, senza sentirsi schiacciato dall'idea dei cambiamenti
che hanno avuto luogo, e del tempo enorme scorso da che l'uomo
abita l'Europa. »
11 Morlot è giunto a qualche cifra approssimativa, nel calcolo
del cono di ghiaia o d'alluvione prodotto dal torrente della Ti-
nière, ove questo si versa nel lago di Ginevra presso Villeneuve.
Il Morlot comportasi in questi calcoli con estrema prudenza, e
fatte tutte le deduzioni possibili, egli attribuisce al cono un'an-
tichità di 8000 a 11,000 anni. Ma questi numeri non debbono ri-
ferirsi all'antichità dell'uomo, sibbeue a semplici e recenti forma-
zioni alluvionali. Essi, facendoci conoscere l'antichità di un cono,
la cui altezza alla massima sezione è di 32 piedi e 6 pollici, pos-
sono al più servire per darci un'approssimativa unità di misura
per valutare il lungo tempo, che la natura impiega a produrre
le sue opere. Questo dato può gittar luce sulla antichità della
valle della Somma. Dopo che questo fiume si ebbe scavato il suo
presente letto, andò deponendo negli stagni laterali una torba la
cui massa raggiunge 30 piedi di spessezza. Migliaia d'anni furono
dunque necessari per produrre un'elevazione accaduta dopo la
compiuta formazione della valle. Il Gilliéron ha voluto calcolare
la data delle abitazioni lacustri del ponte di Thièle. Questi cal-
coli insieme a quelli d'Hisely, relativi al lago di Bienne, ci prò •
vano che 6000 in 7000 anni sono la Svizzera era di già abitata
da uomini che facevano uso d'istrumenti di pietra pulita. L'Hor-
cener, calcolando che nella valle del Nilo e propriamente a Memfi,
ove trovasi la colossale statua, ogni secolo formasi un deposito
medio di 3 pollici e mezzo, ne dedusse che un pezzo di stoviglia,
trovato presso la statua ed a 39 piedi di profondità, rimontava a
13,000 anni sono.
Di sopra al cono calcolato dal Morlot havvene un altro, che
questi attribuisce al periodo diluviano. È dodici volte più grande
di quello sopra menzionato e però conta non meno di 100,000 anni.
Il Lyell calcolava essere stati necessari 67,000 anni per formare
il delta del Mississipì ; ma considerando poi che una grande quan-
tità di fango si sottrae al computo, perchè il fiume la trasporta
nel mare, finisce per credere, nel libro snìV Antichità dclVuomo,
che 100,009 anni sien pochi, ed aggiunge che Yalluvium della
Somma, contenente istrumenti di selce ed avanzi di mammuti e
di iene, non è meno antico. Infine dirò cho il Lyell, rivolgendo il
LE ORIGINI dell' UOMO, - 37
SUO studio a calcolare la durata dell'epoca glaciale, ch'egli divide
in tre periodi, due coutineiitali ed uno intermedio di abbassamento
della terra, giunge alla cifra rotonda di 224,000 anni, sulla base
di 2 1/2 piedi per secolo. Il Lubbock osserva che per denudare
la valle di Wealden ci vollero 150 milioni di anni, così lenta è
l'azione delle cause naturali. « Quando si esamina, dice Lyell, la
lunga serie di avvenimenti compiutisi durante il periodo glaciale
e postglaciale, V immaginazione si spaventa all'idea dell'immen-
sità del tempo richiesto per spiegare i monumenti di codeste epoche
nelle quali vivevano hUte le specie attualmente esistenti. » Ed è
vano volere spiegare i cangiamenti con la teoria dei cataclismi,
che è una nuova invenzione gratuita e fantastica, dalla scienza
moderna combattuta e abbandonata.
Noi possiamo benissimo continuare a credere che siffatti
calcoli non abbiano raggiunto l'esattezza matematica; ma nes-
sun uomo abituato allo studio dei fenomeni naturali può revocare
in dubbio l'immensa antichità dell'uomo. Che cosa dovremo per-
tanto dire del Cantù, il quale dà principio al capo 3" della Storia
Universale con queste parole: « Eesta dunqiie dai progressi delle
scienze confermata la sincerità del racconto mosaico, che non dà
all'uomo più di 7 in 8000 anni»? La scienza moderna ci ricon-
duce piuttosto alle larghe intuizioni indiane, che non alle ri-
strette idee semitiche, ed essa, mentre avanza nel suo viaggio di
scoperte, ritorna a commuovere la nostra fantasia, ed apparecchia
nuovi e fecondi sponsali tra il vero e l'arte. L'uomo, che gitta uno
sguardo indietro e che ha insieme il presentimento del futuro, acqui-
sta non pure la coscienza del tempo sterminato da che egli regge
la terra, ma eziandio il presentimento di quello in cui continuerà a
reggerla ed a trasformarla. Egli sentesi maturo e giovane nel
tempo istesso, e con l'orgoglio del suo alto passato sposa la fede
consolante nel suo avvenire. 11 blasone del tempo lo compensa
della perdita di quello del lignaggio, e lo compensa ad usura,
poiché la coscienza della immensa durata del suo regno gli porge
la fede che esso avrà dinanzi a sé un tempo indefinitamente
lungo, nel quale potrà continuare a sottomettere la terra e ad
emancipare il suo simile. Se nei soli tempi storici l'umanità è
passata dalla servitù di tutti alla libertà di quasi tutti, dalla as-
soluta ignoranza alla potente cultura dei nostri giorni, che cosa
non farà essa nei tempi secolari che le si stendono d'innanzi ? La-
sciamo che l'immaginazione dei lettori lavori liberamente intorno
all'avvenire dell'umanità, quale si può dedurre dalla dottrina
38 LE ORIGINI DELL UOMO.
dell'evoluzione. Certo è clie in questo campo liavvi materia per
l'arte come per la scienza, ed liavvi pure la sorgente di nuovi
sentimenti religiosi. Non si può pensare senza sentirsi atterrire
a questo eterno movimento del Tutto clie or più lentamente ed or
I)iù rapidamente, ma sempre in modo graduale e instancabile, si
evolve B produce le svariate forme dell'esistenza ; non si può con-
cepire la lunga durata dell'umanità senza provare un sentimento
di quasi immortalità, e senza attinger conforto nella speranza che
il nome di clii la servì degnamente potrà continuare a vivere o
nella storia o almeno negli affetti domestici dei propri eredi.
Vuoisi clie il principe di Bismarck abbia detto che egli nulla di
grande avrebbe operato al mondo, senza le credenze cardinali
della sua fede cristiana. Se così fosse, sarebbe questa la miglior pro-
va che anche gli uomini pii!i forti hanno un lato assai debole. Noi
preferiamo credere che il principe non conosca a pieno se stesso,
perchè siamo convinti che l'amore alla sua grande patria, l'or-
goglio del tedesco e la fede nell'immortalità del suo nome sa-
rebbero state cause più che sufficienti per spingere quell'uomo di
bronzo nella via che ha percorso. La religiosità che scaturisce da
tutto ciò che di ideale pur racchiude la terra, ha nei nostri tempi
una efficacia incomparabile per determinare la volontà degli
uomini veramente superiori.
{Coììtunia)
NiccoLA Marselli.
LORD BYRON.
III.
IL CHILDE HAROLD e il DON JUAN.'
Spiriti siderei, che vivete in seno all'armonia ed alla luce,
uno degli abitatori delle vostre case immortali è caduto. Per lui
le dita dell' Aurorr. piìi non tingono di bei zaffiri le vie del-
l' Oriente, né le sfere celesti roteando portano al suo orecchio
gli ineffabili accenti della Divinità. Egli si aggira misero sulla
terra, e il ricordo della perduta felicità della patria celeste, è per
il suo pensiero una tortura continua, uno spasimo cocente che la
vista dei mali della terra rendono anche piìi vivo e doloroso.
Ahimè ! tutta la natura si è scolorata e gilasta, e l'armonia delle
cose create si è perduta per sempre nell'abisso del suo pensiero.
Un verme immondo è entrato nella rosa, ne sugge l'etere vitale.
la scolora e la uccide. 0 vergini istinti della natura! 0 arcane
dolcezze godute nell'innocenza e nel pudore come nel primo giorno
del Creato, un alito maligno è giunto sulla terra ed ha corrotte
le vostre fonti. Più nessun conforto per lo spirito sulla terra che
di ri volare a quelle regioni d'onde gli giungono i noti indistinti
accenti di una lira altre volte sentita. Egli si prova a vivere
ancora una volta di quelle ebbrezze celestiali che furono un giorno
il suo stesso elemento. Fanciulle, il cui petto scaldò un primo pal-
pito d'amore; giovinetti, che entrate ora nei verdi sentieri della
vita avidi di sentimento e di emozioni, ascoltate il canto del nuovo
Pellegrino ; le sue gioie e i suoi dolori si sono insieme uniti a for-
mare un grido malinconico che sembra un'eco dolorosa della vita.
' Vedi Nuova Antologia, fascicolo del 1 maggio e 1 settembre 1878,
40 ■ LORD BYRON.
I.
Aroldo lascia l'Inghilterra nel fiore degli anni coll'animo de-
vastato dalle passioni, dal dolore e dai disinganni. Ancora risuona
al suo orecchio l'orgia rumorosa e l'allegro folleggiare delle fa-
cili bellezze, in compagnia delle quali cercava di spegnere le
cure precoci della vita. Dove sono gli amici d'un giorno, compa-
gni allegri e spensierati delle sue feste? Perduti, insieme alla
sua fortuna. Dove quelle donne dal riso seducente e dalle mo-
venze baldanzose? Perdute anch'esse, perocché soltanto ciò che
risplende ed abbaglia, esercita un impero sulla donna ; come la
farfalla, essa cade vittima della luce, e Mammone esce vincitore
in una lotta, dove spesso i Serafini cadono disperati. 0 sogni di
amore perduti per sempre senza lasciare in fondo al cuore che
un ricordo disgustoso ed amaro ! Pure quel volto di donna spa-
gnuola che s' anima nell' ebbre>.za delle danze e sul quale brilla
un raggio della immortale bellezza esercita ancora sopra Aroldo
una grande seduzione. Anch' egli vorrebbe mescolarsi alle danze
e vivere ancora d' obblio e di amore : ma ahimè ! un negro velo
di malinconia gli scende sul cuore e ricade nella trista solitu-
dine del suo pensiero. Quale arcano doloroso corrode i suoi gio-
vani anni e distrugge ogni sua gioia ? Non è amore, non è odio,
non sono onori perduti, non ambizione tradita. E un senso di ar-
cana avversione che prova per tutto ciò che vede ed incontra. Il
suo triste destino è come quello dell' Ebreo della favola, senza
speranza di pace mai sulla terra. Egli corre disperato per diverse
plaghe portando nel suo petto la maledizione della vita e non
confortato che dal triste pensiero di avere conosciuto il peggio di
ciò ch'essa può dare.
0 bella Spagna ! o terra del romanzo e della cavalleria !
Dov'è la tua grandezza d'un giorno? Essa è caduta, e poiché il
tempo distrugge anche le granitiche culoune e la storia è bu-
giarda, essa è oramai affidata solo al memore pensiero ed alla
tradizione popolare. Ma i figli della Spagna si risvegliano alfine;
tutta quella terra rigurgita d' armi e di armati in difesa della
libertà conculcata dallo straniero. 0 giorni gloriosi di Albuera,
di Calice e di Saragozza, dove una bella ed eroica fanciulla vide
le spalle del Gallo fuggente ! Sforzi inutili e strano destino di un
popolo combattente per la libertà senza essere mai stato libero,
di un popolo devoto a capi vigliacchi e traditori, idolatra di una
LORD BYRON. 41
terra, che non gli diede altro che la vita! L'orgoglio soltanto
insegna ad esso la via che conduce alla libertà. 0 vincitore, o
vinto, il suo grido è sempre un solo e lo stesso : guerra sempre ;
guerra fino al coltello ! Ma nuove legioni scendono dai Pirenei e
nuove prove attendono i soldati della libertà. Nessuno può preve-
dere il fine della gran lotta. Le prostrate nazioni del continente
guardano ansiose la Spagna ; è dessa vincitrice e fa ripassare, i
Pirenei all'odiato nemico? ed ecco ch'essa libera con ciò ben
più popoli che il suo barbaro Pizzarro non ne abbia un giorno
posti in catene. Ma il successo non corrisponde a tanto valore e
a tanta perseveranza. Talavera, Barossa ed Albuera non ba-
starono a conquistare i suoi conculcati diritti. Quando mai lo
straniero cesserà di maltrattare l'ulivo spagnuolo e l'albero della
libertà potrà crescere bello e rigoglioso di sua vita propria sul
terreno della Spagna ?
Dove sono, o Atene, i tuoi magnanimi figli ? Essi sono scom-
parsi dalla scena del mondo e più non vivono che come un sogno
di cose passate. Essi vinsero, trionfarono e si spensero ; ecco tutto,
una storiella da scolare, il prodigio di un'ora! Invano tu cerchi
qui la lancia del guerriero e la zimarra del sofista, e intorno alle
torri rovinate che lambì 1' alito greve del tempo è fuggita an-
che l'ombra della potenza d'un giorno. Venite, o figli dell'Oriente!
venite, ma non turbate il sacro silenzio di queste urne omai senza
difesa. Fissate lo sguardo in quest'angolo di terra; è la tomba di
un popolo ! un luogo sacro un giorno a Dei che non hanno ora
più altari. Anche gli Dei se ne vanno, ed hanno anche le religioni
il loro turno. Un giorno imperava Giove, ora Maometto è il Dio di
questi luoghi ; altre religioni sorgeranno col tempo, e l'uomo alla
perfine vedrà che invano salgono al cielo i suoi incensi, invano
sanguinano le sue vittime, povero figlio del Dubbio e della Morte
che colloca le sue speranze nelle viscere di un innocente agnello!
Figlio della terra, tu osi alzare il tuo sguardo al cielo. Non ti
basta, disgraziato, di sapere che esisti? vorresti eternare la tua
esistenza e sentirti rapito nei cieli ? tu ti ostini a riempire di
gioie e dolori l'avvenire; sta contento alla tua polvere, questa pic-
cola urna dice ben più di cento omelie. Chi piange oramai sulla
tomba dei greci eroi e chi sta a guardia di quelle ossa onorate?
Guardate quelle mura e quegli archi rovinati; questo era un giorno
il teatro delle ardenti ambizioni, il luogo sacro al Pensiero ed
alle manifestazioni dell'Anima. Ora tutto è ruderi e rovine. Ma
lasciatemi riposare su questa fredda pietra. Era questo il tuo trono
42 LORD BYRON.
favorito. 0 figlio di Saturno ; che io mi provi a tracciare nel pen-
siero la grandezza del tuo tempio. Inutile prova; non può sforzo
di fantasia ricostruire ciò clie il tempo ha lavorato a disfare.
Avanti, o Aroldo, avanti ! non è da te il fermarti a mandare
u;i lamento per cosa che gli uomini piangano. 0 bella Fiorenza!
dai grandi occhi lucenti, speranza, condanna, punizione, legge di
cento adoratori, eccomi dinanzi a te pienamente calmo e sicuro,
compreso d'ammirazione, non per anco d'amore. Ah, se mai una
donna potesse possedere questo mio incostante e desolato cuore,
esso sarebbe tuo ; ma tradito quante volte io amai, non oso in-
nalzare un povero mio voto fino a te, né chiedere che la tua
dolce anima senta per me il più leggero affanno. E pure questo
mio cuore che sembra di marmo, che non ha un accento per te,o per
orgoglio sta in difesa, non fu altre volte inesperto nelle arti di sedu-
zione e ben sapeva stendere all' ingiro le sue reti licenziose e tener
dietro con perseveranza all'agognata preda. Ma Aroldo non ama più
queste arti, e s'anche ti amasse, o Fiorenza, non vorrebbe però mai
scendere a livello della piagnucolosa turba degli amanti. E poi non
sono i sospiri che vincono quella mobilissima creatura che è la donna,
e coloro che più lo sanno, più deplorano di saperlo. Quando si è
giunti al possesso dell'oggetto ardentemente desiderato, si vede che
il premio non vale la pena che costa; dissipazione dei nostri mi-
gliori anni, avvilimento dello spirito, disonore, ecco i vostri frutti,
0 passioni fortunate ! un malanno che avvelena poi tutta la vita.
Salute, 0 Albania, madre di selvaggie e magnanime passioni!
qual è il nemico che vide mai le spalle dei prodi tuoi figli, o
chi più di essi forte nell'afifrontare i pericoli e tollerare i mali della
guerra? quanto inesorabile, mortale la loro collera ! però quanto
sicura e leale la loro amicizia! Così ad essi somigliassero i figli
della Grecia! 0 bella Grecia; trista reliquia di passate grandezze,
immortale, benché spenta, quantunque caduta, grande! Il mio spi-
rito sempre a te ritorna Chi raccoglierà le tue membra sparto per
rivolgerle contro l'esoso oppressore ? 0 genio di Libertà che ap-
paristi con Trasibulo sulle alture del File, avresti tu mii preve-
duto che sarebbe giunta un' ora di abbominazione infesta alla
bellezza dell'attica pianura? E pure i figli della Grecia non insor-
gono, ma piegano tremanti il dorso allo staffile musulmano, evirati
e schiavi sempre, dalla culla alla tomba. Tutt' al più essi invocano
sommessi e neghittosi armi straniere, che li aiutino a riconqui-
stare la perduta libertà. Non sapete, o disgraziati, che chi vuole la
libertà deve conquistarsela c^l suo proprio sangue. A che sperare
LORD BYRON. 43
nel Franco e nel Moscovita? Essi ben ])ossono schiacciare i vostri
oppressori: non per questo raggiera per voi l'albóre della libertà.
Mani degli Iloti ! voi trionfate dei vostri abborriti nemici ! 0
Grecia, i tuoi giorni di gloria sono passati, non quelli del tuo di-
sonore. Non sorgerà dunque mai un vero patriotta in Grecia, che
non chiacchieri solo di guerra, ma sia deciso a farla? Sol quando
rinascerà la fortezza spartana, quando Tebe darà la vita ad un
nuovo Epaminonda, quando i figli di Atene avranno un cuore,
quando le greche madri daranno la vita ad uomini, soltanto al-
lora tu risorgerai, o Grecia, non prima.
E pure tu sei sempre bella, o Grecia, terra di Dei e di uo-
mini divini! Il verde che rallegra le tue valli, i tuoi monti nevosi
ti proclamano anche ora la figlia favorita della natura ; bello è
sempre il tuo cielo, selvaggie le rupi, i tuoi boschi incantevoli, d'un
bel verde i tuoi campi. L'olivo cresce come al tempo di Minerva e
fabbricano anche ora le api le loro case odorose. Anche ora seguita
Apollo ad indorare i giorni estivi, splendono tuttavia al sole i
marmi di Mendeli, Son cadute la Gloria, l'Arte, la Libertà; ma
la natura è rimasta la stessa, ed è sempre bella. Il tempo ha di-
strutto le mura di Atene, ma ha risparmiato il verde campo di
Maratona. 0 giorno glorioso ! Ecco! al solo nome di Maratona ap-
parire allo sguardo il campo, l'oste, la battaglia, la fuga del con-
quistatore, il Medo fuggente, il suo arco rotto e la faretra disar-
mata, il Greco furente che insegue il nemico colla lancia rosseg-
giante ; in alto le montagne, al basso la pianura e l'Oceano, la
morte in fronte, la strage a tergo ! Era questa la scena. Ed ora
che rimane di tutto ciò? Qual trofeo ricorda questa sacra gior-
nata, e il sorriso della Libertà e il lamento dell'Asia prostrata?
Una vuota urna, e la polvere che solleva intorno a te, o barbaro
straniero, l'unghia del tuo corridore. Pure a questi resti di una
passata grandezza trarranno per 'lunghi secoli ancora pensosi e
riverenti i pellegrini; per lungo tempo ancora i tuoi annali, o
Grecia, e la tua lingua immortale riempiranno del tuo nome infi-
nite contrade, come si addice alla terra che è vanto degli antichi
ed esempio dei giovani!
II.
Passarono cinque anni, e Aroldo riprende il suo viaggio. Egli è
costretto a fuggire il suo paese con poca o nessuna speranza e vo-
lontà di rivederlo. Siatemi propizie, onde del mare! Per quanto
44 LORD BYRON.
formidabile sia il ruggito della tempesta e l'albero della nave strida
al soffio dell'aquilone, pure è destino ch'io salpi, imperocché sono
come un arbusto svelto dalla rupe e cacciato nell'oceano ; esso è
un giocattolo dei cavalloni e della tempesta! Ma rimango io a me
stesso; mi rimane la superba solitudine del mio pensiero. Quegli
che invecchiò per fatti non per anni, e passò per tutti gli abissi
della vita, in modo che nulla più può eccitare in lui il senso della
meraviglia ; né angoscio, amore, fama, ambizione, lotte possono
pili tormentare il suo cuore coi loro affilati strali, quegli sa per-
chè il pensiero cerca rifugio nella solitudine dando vita e nutren-
dosi di fantasie ed immagini impalpabili e solenni, vivendo così
una vita piìi intensa in compagnia delle creazioni del proprio
pensiero. Quanto è mutato Aroldo da quel di prima! Altro é il
suo cuore, il suo volto, altra la sua età; egli vuotò troppo rapi-
damente la coppa della vita e trovò che in fondo non v' era che
fiele ed assensio ; la riempì di nuovo attingendo a più pure fonti
in un sacro suolo, e credette quella scaturigine perenne. Invano !
che una catena invisibile e tenace gli si avvinceva sempre attorno
alla sua persona tormentandola e impedendone ogni libero mo-
vimento. Egli si era immaginato che armandosi di riserbo e di
fredda insensibilità avrebbe potuto nuovamente mescolarsi coi
suoi simili, tenendo la mente sempre ferma in sé stessa e come
coperta da uno scudo invulnerabile; e così se non poteva aspet-
tarsi gioie nel mondo, sarebbe stato almeno al sicuro dal dolore
e dalle ansie traditrici, e sarebbe vissuto inosservato in mezzo
alla folla fantasticando, come aveva fatto in straniere contrade in
mezzo alle meraviglie dell'arte e della natura. Ma chi può gettare
lo sguardo sopra la rosa vivace e non desiderare di possederla? chi
può guardare con semplice senso di curiosità una bella guancia
di donna, fresca, morbida e lucente, e non sentire che il cuore mai
non invecchia ? Chi può contemplare da lungi sopra il monte
scosceso e in mezzo ai nembi risplendere il tempio della Gloria,
e non provarsi a salire la via che vi conduce? Egli è così, che
Aroldo si trovò ancora una volta cacciato in mezzo al vortice
della vita, e pur sentendosi in petto un più nobile fine che altre
volte non aveva avuto, si trovò nuovamente nella ridda vertigi-
nosa delle passioni umane. Ma ahimé! egli conobbe ben presto
eh' era l'uomo meno adatto a vivere cogli altri uomini; egli aveva
poco 0 nulla di comune con essi, non sapeva e non voleva piegare
il suo pensiero a quello degli altri ; altero e chiuso nella sua de-
solazione gli bastava di vivere della sola sua vita e di respirare
LORD BYRON. 45
lontano dai suoi simili. Peroccliè la sua vita era nei campi aperti,
sulle montagne, sotto un cielo puro e lucente, nei deserti, nelle
foreste, in mezzo alle onde combattute del mare. Qui egli tro-
vava i suoi compagni e i suoi amici, e si sentiva liberamente re-
spirare: la sua abitazione era quella dell'aquila intrepida, i campi
sterminati del cielo; mentre in mezzo agli uomini si sentiva in-
tristire e dolorosamente sanguinare il cuore. Aroldo adunque ab-
bandona nuovamente il suo paese senza speranza nel cuore, ma
con meno tristezza, imperocché la coscienza di essere vissuto in-
vano e che tutto è finito per lui sulla terra, dà aUa disperazione
stessa una specie di sorriso che la rende meno cruda; simile in
questo al naufrago, che suole abbandonarsi ad eccessive libazioni
per rendere meno tristi gli ultimi momenti della sua vita.
0 Waterloo, campo fatale percosso dall' unghia insanguinata
della morente aquila napoleonica ! Qui cadde e andò in frantumi
il colosso innalzato dall'ambizione sterminata di un uomo! Ma
non v'inorgoglite, o potenti scettrati! È dessa forse per questo la
terra resa libera? E le nazioni collegate avrebbero insieme com-
battuto e schiacciato un uomo per raffermare i vostri dispotici
troni? E noi avremmo ucciso il leone, per poi rendere omaggio
al lupo? E chi tergerà il pianto ai congiunti dei caduti in quel
campo immortale? La tromba sola dell'Arcangelo, non già la
gloria, sveglierà i loro cari dal sonno della tomba; essi pian-
gono, ma finiranno per aprire nuovamente le labbra al sorriso,
che sarà un triste sorriso. L'albero intristisce e muore molto tempo
prima di cadere; il legno continua a muoversi, quantunque la tem-
pesta abbia fatti in pezzi l'albero e le vele ; le mura cadono, ma
rimangono a terra le imponenti macerie; e così pure il cuore si
spezza, ma spezzato continua a vivere. Vive, come uno specchio
rotto che si vede quasi moltiplicato nei suoi frammenti e rende
mille immagini per una sola che prima ne dava, e più ne darà se
più lo si spezza. E così il cuore, fatto in pezzi, moltiplica i suoi
tristi ricordi e vive d'una vita fredda e tormentata, ma pur vive,
perocché la disperazione ed il veleno hanno qualche cosa di vitale
anch'essi. Cosa sarebbe il morire? Il male é vivere accompagnati
dal frutto più detestato del dolore, che é come il pomo del Mar
Morto, che al tatto diventa cenere.
Ma bando a questa malinconia che risvegliò nel mio pensiero
la tempestosa, pazza e fatale ambizione di un uomo. L'uomo deve
vivere delle sue proprie creazioni, o nel tuo grembo, o bella Natura.
Io ti saluto, 0 Eeno maestoso, le cui sponde abbellano i prodotti
46 ■' LORD BYRON.
più varii e più squisiti, e donde si vedono qua e là sorgere veccliie
castella dall'austero aspetto, nido altra volta di feroci masnadieri,
teatro di strane leggende e di misteriosi amori. Ecco le Alpi, pa-
lazzi della Natura, che spingono fino al cielo le loro cime ne-
vose dovo si formano e cadono le valanghe, e i cui fianchi di ghiac-
cio danno come un'idea dell' eternità. Salute a te, o Morat campo
glprioso che vide schiacciata la superbia di Borgogna. Se la strage
di Waterloo gareggia con quella di Canne, Morat e Maratona
sono due nomi gemelli, due vittorie immacolate degne della più
pura gloria. E tu Giulia Alpinula, qual lode può eguagliare la
grandezza del tuo pietoso sacrifìcio, povera vittima infelice del-
l'amor figliale!
0 dolce Lemano, o bei luoghi ingentiliti dal profumo dei
fiori, resi allegri dal canto degli augelli e animati da un indis-
tinto bisbiglìo che è come la voce della bella Natura ! Anche
solitari, come ci si sente accompagnati in mezzo a tanta pro-
fusione di cose ! 11 cielo, le montagne, i campi, il ruscello, il più
umile insetto diventano parte di noi stessi e ci sentiamo vivere
della loro stessa vita. Smarrita in questa solitudine, l'anima aspira
all'infinito, sente come una musica delle cose e l'eterna armonia
del creato. Qui visse quel solitario infelice che seppe trarre dal
fondo del suo dolore stesso accenti di irresistibile eloquenza e al)
bellire di celesti colori le sue fantasie e i suoi pensieri. E come
fu ardente il suo amore! ardente come un tronco incendiato dal
fulmine. Però il suo non era amore di donna vivente, né il fan-
tasma di un amore spento, ma era amore della bellezza ideale
che si era compenetrato nella sua stessa esistenza e che trabocca
impetuoso ed irresistibile nelle sue pagine infocate. 0 Giulia, tu
sei figlia di quella passione divina,; e lo sei tu pure, o bacio me-
morabile, omaggio purissimo che il solitario rendeva ogni mat-
tino all' idolo della sua mente innamorata. 0 Clarens, o dolce
Clarens, patria dell'amore, intorno a cui spira un'aria piena di
ardenti pensieri, perfino le tue piante hanno radice nell'amore;
le nevi di quei monti e gli stessi ghiacciai si tingono de' tuoi co-
lori; le rupi, i macigni stessi parlano qui d'amore. 0 Clarens, le
tue vie sono battute da orme celesti, dalle orme dell'amore im-
mortale, che ha qui innalzato un trono al quale si sale per gra-
dini che sono montagne. Ma non è colassù soltanto e nelle pro-
fonde foreste che il Dio è signore; che ogni cosa all'intorno egli
compenetra della sua vita e della sua luce.
LOED BYRON. 47
III.
Italia, Italia, eccomi in mezzo a te. L'anima nel riguardarti
si riempie della luce dei secoli. 0 Venezia, Cibele marina che
sorgi dalle acque bella della tua tiara di torri gagliarde, i tuoi
giorni di grandezza sono iti. 0 Arquà che geloso custodisci le ce-
neri del più tenero e gentil poeta: o Ferrara, che mi presenti vivo
al pensiero il mio Tasso; o Firenze, splendida gemma incastonata
in una cintura di graziose colline! Ahimè! il mio male si fa più
grande in mezzo a tante splendide rovine ; che io pure sono una
rovina. Pure si finisce per sopportare la vita, e il dolore stesso
suol diventare il più fermo alimento dei cuori nudi o desolati. Il
cammello non fa forse silenzioso la sua via pur essendo oppresso
da grave soma? 11 lupo non muore egli in silenzio? Apprendiamo
a durare la sventura da questi animali che soffrendo non mandano
un lamento, quantunque siano di natura tanto inferiore alla no-
stra, e ci consoli il sapere che la prova non sarà lunga.
Il dolore distriiirge ojìpur distrutto
È da colui che lo sopporta; ad ogni
Modo esso ha fine. — Alcuni da novella
Speranza accesi riedono a quel punto,
Donde partir primieramente; e sempre
Alla stessa tendendo ultima meta,
Si poTigon lesti ad intrecciar l'istessa
Trama. — - Affranti e già curvi p.ltri, col crine
Incanutito, e lo squallor sul volto,
Vinti si danno innanzi tempo ; e insieme
Al bastoncel che sorreggeaue i passi,
Sprofondan nella tomba; o fiduciosi
Dio chiamano a soccorso, le fatiche,
La guerra, la virtù, perfin la colpa,
A seconda che il vario animo al cielo
Si sospinge anelando o rade il suolo;
Ma i repressi dolor tale un vestigio
Ne lascian, che .somiirlia alla puntura
Impercettibil dello scorpio ^
Ma io vaneggio. Torniamo indietro a meditare sulle cadute
grandezze. Siamo in un paese che è stato il più potente che i se-
coli abbiano mai veduto; gli ordini che emanavano un giorno i
1 Pellegrinaggio di Aroldo, traduzione di Faccioli.
48 LORD BYRON.
suoi reggitori éran ascoltati e ubbiditi da un capo all'altro del-
l'orbe conosciuto. Ma anche ora, o Italia, tu sei sempre il paese
più amabile, la più bella fattura delle divine mani della natura,
quel luogo dove nacquero e si formarono gli eroi, i gagliardi di-
fensori della libertà, i signori della terra e del mare.
O Roma, o patria mia! città dell'alma!
A te che sei la desolata madre
D'imperi estinti, gli orfani di cuore
Si rivolgon pensosi, e pongon freno
Ai lor garriti da pigmei. Che sono
Malori e angoscie onde l'umana vita
Si funesta pur tanto ? Oh ! qua venite,
Ecco il cipresso funeral: tra i sassi,
Che involge la silvestre ellera e il musco,
Beffardo ulula il gufo; incerto il piede
Noi moviam sdrucciolando in su rottami
Di troni e templi. — Voi, le cui sciagure
Son sciagure d'un dì, mirate intorno,
Fragile al par di nostra argilla, un mondo !
La Ni'obe dei popoli !... Spogliata
Di manto e serto, senza figli, muta
Ella qui sta. Colle avvizzite mani
Sorregge un'urna vota. Ahimè ! la polve
Sacra che racchiudea, volò dal soffio
Dei secoli dispersa. Indarno frughi
Nell'avel de' Scipioni e ne ricerchi
Il cener i::lorioso. Anco i sepolcri
Fur profanati. O Tevere divino,
Come scorrer puoi tu fra una marmorea
Solitudine. P or via gonfiati, e rompi
E nei biondi tuoi flutti ogni ruina
Involgi....
Ahimè ! dovunque io volga lo sguardo non vedo apparire un'arca
di rifugio per l'atterrita umanità.
.... Da questa arida vita
Qual mai frutto si tragge; e che s'apprende? —
L'odi: che angusti abbiamo i sensi, e frale
La ragion; che più ratti del baleno
Volano i nostri dì; che il vero è gemma
Giù negli abissi immersa, ed ogni cosa
Si pondera, s'apprezza in sulla falsa
LORD BYRON. "' 4i)
Lance dell'uso. Ohimè! l'opinione
Impera onnipotente, e del suo velo
Tenebroso ravvolge l'universo;
Cod che il bene e il mal meri accidenti
Riescono oggimai. L'uom si fa smorto
Temendo il senno suo troppo svegliato,
Libero troppo il suo peusier, da troppa
Luce la terra irradila, ed ecco
Perchè lenta ne affligge e vergognosa
Miseria; e perchè mai di padre in figlio
E di secolo in secolo più basso
L'umanità precipita; e superba
Dell'invilita sua natura, lega
La follìa ereditaria alla novella
Progenie degli schiavi. Allegri questi
Pugneran pei tiranni ; e come un tempo
Venduti gladiatori, e sangue e vita,
Libertà rifiutando, oguor daranno....
0 Egeria, questo tuo luogo mi fa ripensare ai sacri misteri
dell'amore. Oh dimmi, trasfuse pure l'amore nel tuo petto gaudii
immortali, e confondesti la purità del cielo colle gioie della terra ?
Ahimè! è vano, o amore, il cercarti sulla terra. Noi poniamo cieca
fede in te, ma hen presto ci lasci col martirio nel cuore. Ma peg-
giore anche del male è il guarirne :
Quando vezzo si sepai'a da vezzo
E fugge via dai cari idoli, allora
Che ci accorgiam che né virtù né dolce
Bellezza era al di fuor dell'ideale
Forma che ne creò la fantasia,
Non crediate disciolto il maledetto
Fàscino! ognor da questo attratti e avvinti
Preda al turbine siam che noi mede.smi,
Stolti 0 iirnari. destammo.
Sin dai primi anni ridenti
Di giovinezza si appassisce. Infermi
Poscia e anelanti, — senza tregua, senza
Estinguer mai l'inesorabil sete, —
Giungiamo all'orlo della fossa; — e un qualche
Fantasma, che con lunga ansia inseguimmo
Per tutto il corso della vita, innanzi
Là ne sfavilla, abbaglia, attrae. Ma è tardi !
VoL. XIV, Serie II — 1 Marzo 18Ì0.
gQ LORD BYROxX.
Siam doppiamente maledetti. Amore,
Gloria, avarizia e ambizion la cosa
Medesraa che non muta altro che nome :
Perfide e stolte vanità, fugaci
Meteore !... ed è la morte il tetro fumo,
Che raccoglie ed estingue il lor bagliore.
Pochi.... nessun s'imbatte in quella dolce
Creatura, che mesto il cor sospira
Ne'suoi deliri indefiniti. Il caso,
Un cieC') e vii contatto o la febbrile
Necessità d'amor silenzio impose
Alle più forti antipatie, che in breve
Riarsero nell'alma attossicate
Da offese irreparabili.
Che è mai la vita umana? Un' aspra e falsa
Condizion. Disarmonica riesce
Nell'armonia magnifica dei mondi.
Questa dura condanna e questo mirchio
Indelebil di colpa, questo immane
Upas, malvagio arbor che tutto strugge,
Le cui radici son terrigne, e belle,
Sì come il ciel che nitido le avvolge,
Fronde e foglie dispiega, arbor che piove.
Come rugiada, un pestifero influsso
Sull'atterrita umanità : malori, —
Morte, — servaggio, — angoscie note e ignote.
Che ne laceran l'alma. ...
E tu, vendicatrice d' ogni malvagia opera dell' uomo, ine-
sorabile Nemesi; tu che evocasti le furie anguicrinite dal più ne-
gro abisso per cacciarlo contro Oreste, tu m' ascolta. Se levo
ora la voce, non è già che io indietreggi impaurito dinanzi al do-
lore. Nessuno vide chino al suolo il mio ciglio. Io rimasi imper-
territo sotto le strette dei più atroci affanni. Solo bramo fare qui
una mia aperta confessione. Le mie parole non andranno disperse
quantunque io sia polvere, esse suonano maledizione, e ja mia
maledizione è questa : Perdono e obblio ! Non ho forse io lottato
contro un crudele destino? ne chiedo a testimonio il cielo e la
mia stessa terra materna ! Non mi furono forse lanciati incontro
sanguinosi oltraggi da labbra sorridenti ? Non ho io visto lace-
rato il mio nome e ogni mia più cara speranza distrutta ? E se
LOKD EYRON. 51
mi astenni da opere di vendetta, egli è die non sono della stessa
putrida argilla de' miei nemici. Tutto sopportai, tutto, dall'aperto
oltraggio alle piccole perfidie
Ma ecco il Pellegrino è ornai giunto al termine del suo viao-"-io :
Simile a un' ombra
Or nel nulla ritorna, se dal nulla
Pur seppe emerj^er. Lo creò l'accesa
Fantasia del poeta ; o in sulla terra
Visse e sofferse? Alcun non tia che solva
Tal enimma. Ei dispare ; e già l'avvolge
Distruzion nel lugubre suo panno
Mortuario, ove insiem vanno confuse
Vite, sostanze, ombre, follie, dolori.
Attraverso a un tal manto ogni più salda
Cosa ne appar leve fantasma. Oscura
Nube già cala, e invidiosa copre
Tutto che a' nostri lieti occhi splendea,
Perfin la gloria un'iride sbiadita
Spiega in quel fìtto tenebrori la dubbia
Sua luce oscilla e ne confonde il guardo,
E triste è più d'ogni più trista notte.
Si tenta indarno di spiar l'abisso
Che si spalanca ad ingoiarne. Indarno
Scioglier si tenta il doloroso arcano
Dell'avvenir: — quel che saremo un giorno
Quando il frale risolto in sozzi vermi
Consumerà sotterra
Il Pellegrino giunse alla meta ed è scoccata l'ora che deve
separarci. Volgiamo un ultimo sguardo al maestoso oceano. Pure
anche sul punto di immergermi nel nulla sento un dolce richiamo
alla vita.
Oh se a me stanza
Fosse un ampio deserto, ove la vita
Scorrer potessi a vaga ninfa accanto
In libertà serena, ed obbliando
Tutta la stirpe umana avessi a caro
Unico Nume, Amor ! Voi, maestosi
Elementi, nel cui vivido grembo
Esultando m'immergo, un sì leggiadro
Spirto mi componete; — o ch'io m'inganno,
0 alcun v'ha di tai spirti ; e a nostra argilla
Vederli, udirli si concede. Gaudio
52 LORD BYRON.
IneffaLil, purissimo, celeste
Io mattiiiier pregusto entro le dense
Ombrìe dei boschi o sul des-^rto lido
Del risonante mar, dove Natura
Col suo dobe idioma a me favella
Ed il passato obblio, né brama alcuna
Dell'avvenir mi punge. Ivi m'è dato
Inebbriarmi, mescermi al vivente
Universo e sentir fremiti arcani
Che a svelarvi io non valgo, e pur del t'itt-O
Tacer non posso.
IV.
Incominciando il ChiUle IlaroJd, l'autore s'era peritato a met-
tersi troppo in vista e s'era nascosto dietro un personaggio preso
ad imprestito; ma a misura ch'egli procede innanzi, quella finzione
lo infastidisce e si fa egli stesso il protagonista del poema. Il
tema è il dolore umano, l'inanità della vita, la vanità di tutte le
cose: il piacere stesso è un inganno, nessuna speranza di una vita
migliore. Andando innanzi, il Pellegrino cammina come se fosse
un' ombra, un fantasma, e sembra che gli acuti strali del dolore
abbiano avuto, come il fulmine, efletti di inaridirgli le sorgenti
stesse della vita. Piangere, ridere, versare nel grembo di un essere
amato i propri dolori e sentirne conforto, associarsi alle gioie
degli altri e sentirle nostre, faticare, riposarsi, godere di un impen-
sata fortuna, tutto ciò infine onde si compone la vita ordinaria de-
gli uomini, sembra spento in lui. Egli non ha pii!i nulla di comune
cogli altri uomini, perciò vive sempre solitario. Però la sua solitu-
dine è animata e piena di vita. Le montagne, i campi, le foreste, i
ruscelli, le onde del mare sono j suoi amici ; con essi egli conversa e
solo in loro compagnia gli par di vivere. Ma questo rifugio che la
natura gli offre dal male Uomo non è che momentaneo; è im-
possibile il vivere lungamente così mutilati, e nessuno può impu-
nemente spezzare in tal modo la propria esistenza. Quindi il ri-
torno della mente alla realtà è triste, penosissimo. Però il poeta
non si accascia sotto il peso di essa; si direbbe anzi ch'egli la
provochi e la sfidi; egli fissa gli occhi imperterriti sul suo cuore
devastato e ne fa una descrizione minuta, accurata, con una fer-
mezza di mano che mette raccapriccio. Sembra quasi ch'egli si
compiaccia di esagerare il suo male per far meglio risaltare la
sua potenza di ribellione contro il destino che lo ha percosso. In
LORD BYRON. 53
certi punti il poema è come una esposizione di immagini funerarie
clic scolpiscono dinanzi al pensiero la morte nei suoi più varii
aspetti ; vi sentite intorno come un triste concerto di gemiti stra-
zianti, di singhiozzi e di spasimi crudeli ; vedete la terra intri-
stirsi e non dar più vita ad un fiore né ad un filo d'erba.
Tutto muore dinanzi al poeta; il cuore è spezzato, è inaridita la
sorgente della vita ben prima ancora che il corpo renda alla terra
le sue misere spoglie ? Ebbene egli non manderà un lamento, re-
sisterà, vivrà del suo pensiero come in una ròcca inespugnabile;
esso sarà il suo unico amico, il suo Dio ; nessuno potrà togliergli
0 menomargli il pensiero; con esso egli osserverà, comprenderà la
vita e guarderà impavido e securo lo svolgersi delle forme e delle
cose. Byron si era assuefatto fin dai più giovani anni a combat-
tere con ogni maniera di astinenza e con esercizi corporali la
temuta pinguedine, vizio ereditario della sua famiglia, e v'era pie-
namente riuscito. Da non pochi non si è voluto attribuire questa
risoluzione che ad un sentimento di puerile vanità. Sarebbe più
giusto vedere in questo una tendenza a quell'ideale ch'egli sentì
poi prepotentemente durante tutta la sua vita. Egli voleva spiri-
tualizzare, per dir cosi, il suo corpo, e rendere così più agile e
ardita l'immaginazione. Tutto egli sacrificò a questo intento. Ecco
Aroldo piagato mortalmente e che non ha più, per così dire, in
sé che la vita che dà la disperazione, quella ch'egli chiama la
vitalità del veleno. Pure a quali altezze egli non giunge ! Le sue
piante di creta e il suo cuore di cenere sostengono una mente che
sale impavida sulle sommità più- gigantesche dove trova la sua
abitazione naturale e gli elementi della sua forte esistenza. Il
contrasto è straordinario, immenso; la morte e la vita non si sono
mai trovate a così grande distanza e a più opposti confini. Di lassù
egli manda una voce solenne che par l'eco delle cose passate, dei
dolori del mondo. Bisogna far di tutto per vincere la morte;
guerra alla morte ! è questo il grido di Aroldo. Quindi bisogna
svestirsi di questa creta caduca, spingersi nell'etere sublime e
trovarvi quelle forme gigantesche del pensiero nelle quali l'uma-
nità vive immortale. Sì, povera vita umana, tu mi hai fatto
troppo soffrire; i tuoi stessi doni non furono che inganno e tra-
dimento. Ma ora l'incanto è rotto ; ora salgo sulle cime dell'ideale,
s dove trovo la vera vita. I tuoi palazzi, o Venezia, le tue torri
cadranno un giorno ; ma vivranno eternamente Otello e Shilock.
Io pure vivrò in qualche essere immortale, creazione della mia
mente. Il pensiero dato in alimento a sé stesso si accende, s'in-
54 LORD BYROX.
fìainma e diffonde una luce che abbaglia, e stacca potentemente
gli oggetti dal fondo cupo della tela, e vedete vivi dinanzi a voi
il Gladiatore e l'Apollo del Vaticano, Sono finite le nenie sulla
caducità dell'amore e della bellezza mortale. Ora il poeta ha di-
nanzi a sé il tipo della bellezza immortale che tutto lo governa
e Io ispira e gli eccita nel pensiero una danza di idee, il cui con-
trasto manda sprazzi di una luce affascinante e sprigiona da ignote
cavità una musica divina che inebria i sensi ed il pensiero. L'amore
precipitato, violento dell'ideale è giunto al suo colmo. 11 pensiero
è diventato incandescente, e il calore e la luce che da quello escono
sono cosi vivi e forti, che quasi accendono le cose e inaridiscono
all'ingiro la vita. È l'esuberanza stessa del pensiero che attenta
alla vita e la uccide. Il poeta è dominato da una sete ardente di
vita che nulla riesce a spegnere; epperò egli accumula forze su
forze per dare alimento all'azione del pensiero che è in continuo
travaglio e che costituisce la sua suprema ed unica facoltà. Da
una mente posta in questo stato di combustione escono forme incan-
descenti che acquistano la solidità del bronzo. Data una situazione
drammatica, ne nascerà il Manfredo, un colosso di bronzo che al
tocco manda un suono cupo e solenne. Maestoso di fuori, ha di dentro
il vuoto. Solitario, impassibile, è una creazione che non ha forse
l'eguale in nessuna letteratura. Macbet e Eiccardo III sono tor-
mentati dalle furie e dal rimorso, ma Manfredo non sa che sia
rimorso. Cos'è l'ideale di Aroldo ? Non è Dio, non è la natura,
non è l'amore. Il suo ideale è lui stesso, vivente nel suo pensiero
creatore, nel quale soltanto trova la sua forza e lo scopo della sua
vita. Egli finisce la sua carriera in vista dell'Oceano. Il suo in-
finito è là. Anche là trova il mezzo di lanciare un' ultima male-
dizione all'uomo esaltando il mare che non tollera l'impero di
quello e lo sprofonda nelle sue voragini quando gli talenta di
mettere in burrasca le sue onde. Anche là gli ritorna un pensiero
di amore, ma vuole per compagno uno spirito che gli faccia di-
menticare la razza umana, e chiede quello spirito all'Oceano. Poi
si spegne in un lungo addio come spossato di forze e di pensiero.
Tale è Aroldo.
V.
Nel Cialde Harold il poeta s'innalza a sommità altissime:
egli è come sopra un' alta piramide, vicino al sole, avendo di-
nanzi a se uno sterminato orizzonte, in mezzo ai nembi ed alle
LOKD BYRON. 55
tempeste e dove può mescolarsi al cozzo ed alla lotta degli ele-
menti. Ma da quell' altezza bisogna alla fine scendere. Il Cliilde
Harold è un sogno prolungato. — lo dice il poeta stesso, — e bi-
sogna che si dilegui. Lord Byron aveva troppo vissuto nel mondo,
aveva avuto troppo da fare cogli uomini perchè il Chikìe Harold
potesse essere 1' ultima sua parola di poeta. Egli aveva avuto a
fare con letterati pedanti, con gente ingrata che si serviva dei
suoi stessi benefizi per calunniarlo, con critici maligni e beffardi,
con donne da lui non curate od offese, con politici e uomini
di Stato paurosi e formalisti, infine con tutta la società in-
glese, che con un soffio di esecrazione lo aveva cacciato sulle
spiaggie dell' Inghilterra e lo aveva costretto a prendere le
vie dell' esigilo. Ora Lord Byron era un uomo di temperamento
essenzialmente battagliero, un uomo d' azione, ed il rimanere cosi,
lungamente fuori della vita reale nel Childe Harold doveva avergli
costato uno sforzo straordinario e violento, ed averlo obbligato
ad impiegare in quel poema tutti i mezzi del suo ingegno smi-
surato. Una rivincita adunque non si poteva fare lungamente
aspettare ; 1' uomo attaccato, vilipeso, segnato all' abbominazione
dei suoi concittadini doveva farsi sentire un giorno e rispondere.
Una prova del temperamento umorista e battagliero di Lord
Byron s'era già avuta nella notissima sua satira contro i Rivistai
'di Edimburgo che pubblicò nel 1809. Quel suo poetico lavoro non
era poi stato tenuto in gran conto neanche dall'autore stesso, il
quale lo corresse e ne condannò molte parti come false ed ingiu-
ste. Però in quella prova egli aveva, per dir così, acquistato co-
scienza della sua forza e concepito simpatia per quel genere di
letteratura. Infatti nel suo viaggio in Oriente ch'egli fece pochi
mesi dopo la pubblicazione degli English Bards and Scotch Be-
viewers, Lord Byron impiegò il suo miglior tempo a fare un lavoro
di critica letteraria, quell'imitazione di Orazio ch'egli intitolò:
Hints frani Horacc. Abbiamo già notato altrove ^ quanto Lord
Byron teneva a questo suo lavoro e come di gran lunga lo pre-
ferisse ai due primi cauti del Childe Harold eh' egli aveva scritti
pure in quel viaggio, al punto da non lasciarsi indurre a pub-
blicar questi prima degli Hints froni Horace se non in seguito
alle più vive e sincere insistenze dei suoi amici, i quali in questa
circostanza — cosa non rara fra sii autori — si mostrarono di
1 V. r art. «Giorgio Byron.» Memoranda Byi-07iiana, nel fascicolo dei 1 mag-
gio 1878.
56 LORD BYEON.
gran lunga migliori giudici di Lord Byron stesso. La pubblica-
zione dei due primi canti del Chiìdc Harold incontrò, com'è noto,
un fovore straordinario nel pubblico inglese ; e possiamo con fon-
damento credere che la popolarità in cui venne l'autore e la
premura rispettosa con cui letterati e scrittori a lui venivano,
spense la collera che aveva ispirata la famosa satira e fece per
lungo tempo tacere in lui la passione dell' umorismo e delia-
critica. Fu in questo tempo che egli scrisse il Giauro. il Corsaro,
il Lara, creazioni poetiche nelle quali vedesi una parentela più
0 meno prossima col Childc Harold. Ma verso la fine del 1815
le cose erano del tutto cambiate. La popolarità del poeta se ne
era ita e in quella vece egli era perseguitato dall' invidia, dalla
indignazione e dalla ostilità coperta o palese di tutti. Egli dovette
in quella occasione per propria esperienza fare molte riflessioni
sulla mutabilità dei sentimenti umani. La sua corrispondenza re-
lativa a quel tempo è scritta in tono triste, e mostra un uomo
profondamente ferito. Ma appena giunto in Italia intervenne un
gran cambiamento nei suoi sentimenti. Lord Byron era in fondo
ciò che si dice un buon figliuolo; aveva un temperamento allegro
e vivace, non chiedeva di meglio che di espandersi e di abbando-
narsi a tutte le impressioni della sua spontanea e mobilissim.a
natura. In Italia egli si trovò come nel suo elemento in mezzo
a gente del suo stesso cuore. La vita libera, facile, spensierata
di Venezia, che era in così diretto contrapposto con quella com-
passata e formalista della società inglese, gli andava oltremodo
a sangue. Uno dei primi lavori che Lord Byron fece a Venezia
fu il Bepiìo, una storiella veneziana, in stile bernesco, nuovo ge-
nere nel quale l'autore, per evitare la ripetizione e il manieri-
smo, voleva provarsi, avendo già forse fin d' allora in pensiero di
scrivere in quel genere ben altri lavori. Un autore francese, il
signor Etienne, in un suo lavoro intitolato : Le vrai et le faiix
Byron sostiene che questo nuovo genere nel quale Lord Byron
entrò era quello suo proprio e naturale, mentre che 1' altro che
aveva ispirato il Cliilde Harold, il Corsaro e Lara non era che
una maschera. Lord Byron avrebbe avuto, secondo il citato scrit-
tore, fin da quando scrisse gli Englisli Bards and Scotch Bevieivers
il pensiero fisso di dedicare la sua vita a far la guena e demolire
la società inglese quale era al suo tempo costituita. La satira contro
i rivistai di Edimburgo, dice l'Etienne, lasciava già fin dal 1809 pre-
vedere il Don Juan. Tutto quello che Lord Byron scrisse in Inghil-
terra dal 1812 al 1816 non era che decorazione, una maschera colla
LORD BYRON. 57
quale egli si divertiva a se draper majcstueusement devant la société
anglaìsc Byron. stando sempre all' Etienne, si deve essenzialmente
riguardare come un rivoluzionario che, in mancanza di altri mezzi,
scelse la satira per abbattere la prepotenza aristocratica e la super-
stizione religiosa nel suo paese. Egli è un figlio dell' 89 e un apostolo
anche lui dei famosi immortali principii banditi dalla prima Re -
IDubblica francese.
E egli vero questo? Lord Byron era uno scrittore sponta-
neo, che non scriveva che dietro immediate impressioni personali
profondamento sentite, e si può subito credergli quando assi-
cura di non aver mai nulla scritto witlioid a personal foitn-
daiion, ed anche nelle sue opere di pura immaginazione v' è un
fondo di realtà che non sfugge a chi ne ha attentamente studiata
la vita. Tutta la sua opera poetica è adunque una fioritura spon-
tanea del suo pensiero creata e cresciuta via via col tempo senza
preoccupazione o indirizzo premeditato. Giunto in Italia nel 1816,
Lord Byron non dimenticò che egli aveva dei conti da regolare
coi suoi concittadini. Gli attacchi erano stati troppi e troppo
gravi perchè egli pensasse mai a starsene rassegnato. I primi
assalti erano stati contro il suo nome di poeta ed egli aveva ri-
sposto cogli Englisli Bnrds and Scotch Reviewers ; ora, si trattava
di ben altre cose; non v'era oltraggio con- cui il suo nome non
fosse stato coperto ; non ordine di persone che non gli avesse
scagliata la sua pietra ; la plebe lo aveva insultato in piazza, come
gli eleganti nelle salo aristocratiche ; in breve, egli aveva da fare
con tutto il suo paese e bisognava aspettarsi ad una rivincita solenne
e rumorosa. Il Don Juan è adunque stato come tutte le altre opere
del poeta un frutto spontaneo del suo ingegno, non una lontana
premeditazione contro le istituzioni del suo paese, come tenderebbe
a far credere 1' Etienne. Trovandosi libero da una società che lo
aveva per cinque anni tenuto come soffocato nelle sue strette,
nella piena libertà della vita, sotto un cielo purissimo, traspa-
rente e pieno di una luce che dà rilievo e forza agli oggetti.
Lord Byron acquistò come una comprensione più viva della realtà,
si senti corpo a corpo colle cose, ne vide meglio il giuoco e do-
vette sentirsi trascinato a procedere innanzi nella via in cui era già
entrato col Bcppo. Ecco 1' origine del Don Juan. 11 Childe Harold
è il poema della gioventù e dell'immaginazione; il Don Juan
è il poema della realtà veduta attraverso la luce abbondante dei
cieli italiani.
La satira aveva già avuto in Inghilterra prima di Byron una
58 LOPxD BYKON.
plejade di illustri cultori. Swift, Drydeu e Pope dovevano in gran
parte a questo genere di letteratura la loro celebrità letteraria.
Il primo aveva resa immortale la sua acre bile negli innumerevoli
suoi opuscoli, ma specialmente nel Racconto della hol.te {The tale
of a tuh), e gli altri duo nelle loro satire oraziano, e in particolar
modo Pope nella sua celebre Dnnciad. 11 capo dei classici inglesi
aveva fatto in questo celebrato poema una giustizia sommaria e
spietata dei poetastri imbrattacarte e pedanti del suo tempo, il
cui vuoto strepito raffigurò nei venti soffianti in un sotteraneo in
quei suoi due versi ;
Keen hollow wind.s liowl tliroiigli the bleak recess,
Embleni of ii)U:^ic, caus'd by einptiness.
Però se si fa forse eccezione dell'atrabiliare irlandese, il quale
sfogò durante tutta la sua vita il suo umor nero divertendosi a lace-
rare uomini e cose e non contentandosi se non quando vedeva sangui-
nare e fatte a pezzi le sue vittime, tanto Dryden che Pope ebbero
questo di particolare, che non solo rispettarono nelle loro satire
lo Stato, la Chiesa stabilita e la Costituzione del loro paese, ma
segnarono al vituperio ed all'odio dei loro concittadini coloro che
si erano resi in qualche modo colpevoli verso queste tre divinità
dell'Inghilterra ; e quando si arrischiano a lanciare qualche colpo
un po' ardito, lo fanno con incredibile cautela e quasi si rimpiat-
tano dietro il nome e l'autorità di Orazio. Pope aveva, come il
francese Montaigne col quale ha tanti tratti di somiglianza, un
deciso orrore per i novatori di qualunque sorta. L'autore del-
l' Essa)/ on Man fece l'apoteosi del mondo così com'è; tutto va
bene nel mondo, o^ni cosa è al suo posto ed ha quella precisa
destinazione che deve avere secondo il decreto di quella sapiente
Provvidenza che ha ordinato il tutto. Guai a chi tocca un solo
sassolino dell'edifizio del mondo; v'è pericolo che si rovesci sul-
r istante e vada in frantumi. Si direbbe ch'egli ha il presentimento
di una vicina conflagrazione sociale e che sia questo presenti-
mento che gli ispira di idolatria per ciò che esiste. Quindi la
satira di Pope è piana, regolare, compassata e soprattutto morale.
Egli è un saggio nel vero senso della parola, vede come sono
ordinate le cose nel mondo, è persuaso che non lo possono essere
diversamente, ed è quindi con piena convinzione e perfetta aggiu-
statezza che scaglia i suoi dardi satirici. Ma ai tempo di Byron,
le cose correvano diversamente; la Costituzione e la Chiesa erano
tuttavia in piedi e fermissime sulle loro fondamenta, la lotta era
LORD BTRON. 59
sempre ristretta fra tories e ivhigs, come al tempo di Pope ; .ma
in quanto diverse condizioni quella lotta aveva luogo ! C'era già
stato Eoberto Burns, il quale aveva introdotto nella poesia un
alito popolare e democratico ignoto nel tempo precedente, ed
aveva iniziato in poesia l'opera che poi continuarono al nostro
tempo Macaulay, Thackeray, Stuart Mill, Carlyle. Dickens e Ten-
nyson, quell'opera cioè che consiste a far entrare senza urti e senza
guasti nella Costituzione e nella Chiesa inglese l'alimento della
democrazia e della filosofia moderna. E poi c'era stata la rivolu-
zione francese, del cui spirito è pur penetrato qualche cosa anche
al di là della Manica. Tutto ciò creava una situazione nuova.
La nuova satira doveva avere una forma e un intento diversi da
quelli di Dryden e di Pope. Gittando lo sguardo su qualunque
pagina del Don Juan vi pare di essere in presenza di un mondo
andato in rovina. Tutto è caricatura, ipocrisia, dispotismo, falsità,
putridume nella società inglese. Quanto siamo lontani dal pensiero
di Pope !
Il signor Nisard, nel suo Byron et la sociclc angJaisc, scrive:
« Basta una dimora di poco tempo in Inghilterra per subito
accorgersi che la conversazione ordinaria non è che un formulario.
L'inglese in conversazione non parla mai di sé. Questa discrezione
straordinaria della società inglese, nella quale a molto calcolo si
unisce una disposizione naturale, non può non esserle molesta.
Non è un piccolo sacrifizio quello di non mai parlare di se.
Quanto a tacere degli altri, non è cosa quasi più agevole, essendo
un solo ed unico movente quello che ci fa parlare degli altri e
di noi. Taluno si permetterà di qualificare di ipocrisia questo
riserbo, ed altri non vi vedrà che una vanità raffinata. Checché
ne sia, non può che essere causa di una pena fastidiosa. Basta
entrare in una sala inglese per subito accorgersi che nessuno si
diverte e che tutti i presenti sono di ciò convinti. Or bene, lan-
ciate in mezzo a questa società fredda, compassata, nella quale
ognuno cerca di nascondersi agli altri e a se stesso, in mezzo
a questa gente volontariamente ecclissata, che dico ? di queste
ombre, un uomo che si mette a far loro delle confessioni brutali
sopra di se stesso e sopra di loro, che dice il bene e il male, il
bene senza entusiasmo, il male senza veli; lanciate in mezzo a
quella sala, in cui ci si diverte tanto poco, quantunque vi si rida
molto, un libro potente, provocante, nel quale i convenuti si
vedono rivelati a se stessi e denunziati gli uni agli altri, quale
sarà l'effetto ! E quest'effetto, questo scandalo che produssero le
60 LORD BYKON.
prime confessioni di Chilcle Harold. Gli eroi dei poemi che ven-
nero dopo, completarono quelle confidenze. Lord Bj^ron faceva
salire il rossore su più d'una fronte che non era inai stata turbata
che da emozioni permesse : egli suscitava dei dubbi in seno di
questa acquiescenza di abitudine o di calcolo a tutti i principii
della società stabilita; egli toglieva gli animi da quel normale
riserbo che si accettava nell' interesse della conservazione sociale
e dei eacrifizi che l'uomo fa in InghUterra. sdì' anììnale politico.»
E altrove lo stesso autore scrive: « Bisogna pur dirlo, una
certa aria di ipocrisia, di canf, per adottare la parola inglese,
può rendere sospette a prima vista le virtù stesse della società
inglese. Il dovere non vi si presenta colla grazia di un movi-
mento volontario. Esso sembra meno l' atto di un essere libero
che l'adempimento di una prescrizione d'ordine pubblico o l'imi-
tazione di un uso generale. E siccome la società è divisa in classi,
la sottomissione dell'individuo alla società somiglia un poco alla
parola d'ordine di una consorteria o alia disciplina interessata di
una casta che difende i suoi privilegi La società inglese è
naturalmente religiosa. Ora essa ha fatto i più grandi sforzi per
esserlo ancora di più: e non è già il rispetto umano che ha ras-
sodato, è la f^de; ha costrutto chiese, non per mostra, ma per
servirsene. L'uomo, in quel paese, sente l'utilità pubblica della
sua fede personale. Si crede per credere, e perchè importa alla
società che si creda ; si usano le pratiche religiosp, perchè se ne
è avuto r esempio e lo si vuol dare agli altri. Un'idea di interesse
generale si unisce anche a ciò che sembra essere il dono più in-
dividuale, la grazia. L' inglese sa che dicendo le sue preghiere
nell'interno della sua famiglia, coi servitori inginocchiati al suo
lato, egli fa qualche cosa per sé e qualche cosa per il pub-
blico. »
Sventuratamente per Lord Byron quest'ambiente sociale e re-
ligioso non poteva essere il suo. Egli s' era dato ad una vita li-
bertina sin dai più giovani anni, e il verme dello scetticismo era
nato in lui nell'età in cui l'immaginazione suol tingere il mondo
di rosei colori e l'anima s' imbeve di illusioni e di fede. E non
solo non faceva mistero del suo libertinaggio e del suo dubbio
filosofico e religioso, ma spiattellava l'uno e l'altro dinanzi alla
credente e costumata Lighilterra con un'audacia che poteva an-
che parere una sfida all'opinione pubblica. Dispiaceri, sgarbi,
punture al suo orgoglio, persecuzioni letterarie, delusioni amo-
rose, erano poi venute ad irritare anche più il suo tempera-
LORD BYRON. 61
mento irritabilissimo; ed egli invece di correggersi o moderarsi,
rese ognor più sciolto e provocante il suo contegno e la sua
penna fino a non mostrare più nessun rispetto per gli usi e i co-
stumi del suo paese. Finché la sua popolarità di poeta si man-
tenne, egli potè reggersi in Inghilterra, ma quando questa andò
scemando e cominciò invece a sorgere nell'animo dei suoi con-
cittadini il sentimento delle convenienze sociali e della religione
offesi, i giorni di Lord Byron poterono dirsi contati. Un minimo
accidente doveva bastare per rovesciarlo. Quell'incidente fu la sua
separazione da sua moglie. Fra lui ed i suoi concittadini si schiuse
un abisso che non si colmò più mai.
Disponendosi a scrivere il Don Juan non crediate eh' egli ab-
bia l'animo occupato da pensieri acerbi e che senta in sé stesso
l'impeto e la violenza che inspirarono la sua prima satira. Nean-
che per sogno. Egli è del miglior suo umore, allegro, e pieno di
grazia. Non sarà lui che si armerà dello staffile di Giovenale e
della stoica bile di Persio; egli è amabile come Orazio. Lord
Byron è un uomo di mondo e la sua arme è il ridicolo; egli non
vuole scomporsi, né turbare in verun modo la serenità olimpica
della scena sulla quale egli è il protagonista. Egli guarda le sue
vittime sorridendo e le colma di carezze e di complimenti: ma
sono carezze che graffiano, complimenti che penetrano nelle carni
come strali affilati; per lui l'essenziale é che la vittima muoia
soffocata senza mandare un lamento. Per questo 1' autore parla
sempre per sottintesi e sfumature, ha cura che i colpi non siano
vibrati e repentini, ma lenti, ripetuti e involgano la vittima per
via di rigiri e di circonlocuzioni raffinate e maliziose. Lord Byron
è crudele come il gatto che sulle prime si contenta di dare una
zampata al topo, poi lasciatagli fare una corsettina, gli è di nuovo
addosso, gli dà un' altra zanìpata, te lo stropiccia ben bene e se-
guita a maltrattarlo finché la povera bestiolina è morta più di
affanno e di paura che di percosse. Così è Byron in tutti i sedici
canti del Don Juan. Egli scrive per scrivere ; è uno spettatore che
guarda dall' alto il suo mondo e vuole spassarsela a descriverlo
così, secondo ch'egli stesso dice,' com' altri giucca a carte, tanto
per passare qualche ora a ricordare le cose passate.
Eccovene una prova. Siamo a Londra. Lady Adelina Amun-
deville, moglie di Lord Henry, uno dei più illustri patrizi dell'In-
ghilterra, è una bellissima signora, colta, elegante, istruitissima, ma
' Don Juan, canto XIV, stanza XI.
62 LORD BYRON.
ciò che vai meglio di tutto il resto, un modello di virtù, a sentire il
poeta. Essa però ha sempre intorno a sé una quantità infinita di ado-
ratori, perchè Lord Henry, occupato negli affari e nella politica del
suo paese, non ha guari tempo da perdere presso sua moglie. Ma
che perciò? la forza dell'onestà di Lady Adelina è tanta, ch'essa non
ha neanche bisogno per salvare quel tesoro di prendere quelle pic-
cole precauzioni a cui le altre creature fragili del suo sesso so-
gliono ricorrere per sfuggire ai pericoli della seduzione e del-
l'inganno. Che merito avrebbe l' onestà di Lady Adelina se per
mantenerla dovesse licenziare tutti i galanti che ha d'attorno, e
allontanare ogni occasione di cadere ? queste precauzioni si la-
sciano prendere alle donnine di cuor piccolo. Il gran merito in-
vece è di mostrarsi più forte dell'occasione e dei pericoli. Non è
egli in mezzo agli scogli che si conosce l'abilità del pilota? Don
Juan faceva egli pure parte del corteggio di Lady Adelina. Egli
aveva, nella sua qualità di diplomatico, frequentissime occasioni
di vedere Lord Henry, col quale doveva trattare gravi affari di
politica estera, epperò egli era un intimo della casa. Questo
dava occasione al mondo di' sussurrare qualche sospetto intorno
alle relazioni sue con Lady Adelina e alimentava le calunnie dei
maligni. Di che cosa non è capace il mondo ? Don Juan era l'eroe
del giorno nella società elegante di Londra, e quando egli en-
trava in qualche sala, un vivo movimento di simpatia animava
subito il volto di ogni donna presente, rej)resso naturalmente su-
bito dalla vigile virtù. Avviene che Don Juan si mostri premu-
roso e gentile più che le convenienze non permetterebbero colla
duchessa di Fitz-Eulke, una signora galante e alla moda. Ed ecco
Lady Adelina mettersi in sospetto, trovar tro]Dpo libero e ri-
prensibile il contegno della duchessa, e cercar di salvare Don
Juan dal pericolo. Naturalmente è la virtù che le ispira tutto
ciò. Essa concepisce il pensiero di dar moglie a Don Juan; è questo
l'unico mezzo di sottrarlo ai pericoli della società lubrica in mezzo
alla quale vive. Pensato e fatto, ed ecco Lady Adelina presentare
a Don Juan una lista completa di signorine della più eletta
società, tutte adatte e convenienti per lui. Però Lady Adelina,
non si sa perchè, oppure lo si sa anche troppo, aveva dimenticato
nella sua lista il nome della signorina Aurora liaby, un fiore
appena sbocciato, tutto grazia, colori e profumo, e che aveva già
chiamato su di sé più d'una occhiata tenera di Don Juan. Siamo
in villeggiatura, ed ha luogo un pranzo in casa di lord Henry.
Don Juan, che è fra gli invitati, è stato posto in mezzo a Lady
LORD BYRON. 63
Adelina ed alla signorina Aurora ; situazione oltremodo dif-
ficile ! La signorina Aurora è l'innocenza stessa. Però Lady Ade-
lina non se ne fida molto e teme un agguato per Don Juan. A
qualche attenzione di Don Juan, la signorina Aurora appena ri-
sponde con un piccolo cenno e accetta un complimento col più
grande riserbo, quasi con indifferenza, come cosa che non la ri-
guardasse; di tanto in tanto un piccolo sorriso, ma lasciato ca-
scare dall'alto. Lady Adelina, che tutto osserva, si crede vitto-
riosa. Ma procedendo innanzi il pranzo, certe maniere e certe
attenzioni di una delicatezza infinita da parte di Don Juan co-
minciano a produrre uno strano mutamento sul volto della si-
gnorina Aurora, e Lady Adelina ricomincia a temere. Comunque
sia, il pranzo è finito, e dopo un po' di conversazione ognuno va
a letto negli appartamenti destinatigli, e così pure fa Don Juan.
Ma egli non può prender sonno; tanta è l'agitazione in cui lo
posero le emozioni della sera, e specialmente certi segni e certe
occhiate femminili troppo eloquenti. Apre la porta della stanza,
e così per far del moto, si mette a passeggiare nella vicina gal-
leria le cui pareti sono coperte di arazzi e di ritratti di antenati
di Lord Henry. Tutto ciò lo fa pensare alla mutabilità delle cose
umane ed a quella delle donne — strano accoppiamento ! Ad un tratto
egli vede attraverso le ombre e lungo gli arazzi muoversi qualche
cosa. Che è, che non è? la figura è involta in una tonaca di
frate; passa e ripassa pii^i volte dinanzi a Don Juan, il quale
rimane colpito dallo sguardo vivo e sfolgorante che aveva quella
apparizione. Egli aveva sentito piìi volte parlare di uno spet-
tro che sotto le spoglie di un frate abitava quell' antico ma-
niere, nel quale soleva fare frequenti apparizioni notturne. Ma
non era uomo da credere a simili fole. Lo spettro entra nella
stanza di Don Juan. Questi vuole assolutamente venire in chiaro
della cosa. Corre verso l'essere misterioso, lo avvolge nelle sue
braccia e sente fremere in quell'amplesso delle forme tonde, piene
e resistenti. L'incanto è rotto; la figura lascia andare la veste di
frate che indossava e compare sotto le spoglie dell'adorabile con-
tessa di Fitz-Fulke.
Lord Byron si burlava in questo modo della società di Lon-
dra, che in nome della morale lo aveva cacciato dal suo seno nel
1816. Perfino la passione di far quattrini per cui tanto si contrad-
distinguono i suoi concittadini, ed alla quale si sentiva inclinato
Lord Byron stesso verso il tempo in cui scrisse il XII canto del
Don Juan, è presa di mira e sberteggiata nel suo poema. « 0 de-
64 LORD BYRON.
iiaro ! esclama il poeta; perchè cliiamare miserabile l'avaro? Il
piacere ch'egli gode non si affievolisce mai; esso è il piacere mas-
simo da cui tutti gli altri grandi e piccoli dipendono. L'amore e
le dissolutezze rovinano la salute, l'ambizione logora, e chi gioca
perde; ma il far quattrini, adagio prima, poi in fretta, questo è
il meglio di tutto. Viva i quattrini! Chi ha in mano le redini del
mondo? Chi regna nei congressi dispotici o liberali? Chi ha l'ul-
tima e decisiva parola in politica? l'ebreo Eothschild e il suo
collega* cristiano Baring. Niente di meno speculativo che un im-
prestito; esso pone in assetto una nazione, o rovescia un trono. 0
bei gruzzoli di ghinee e di dollari ! 0 sfolgoranti casse di verghe
metalliche e di monete di fresco coniato! Sì, le monete sonanti
hanno la piìi bella luce che esiste. » ' I moralisti e i satirici
d'ogni tempo hanno preso di mira la passione del far danaro.
L'avaro Ummidio di Orazio sostiene contro il moralista che non
si ha mai troi^pi quattrini in questo mondo perchè tanto vali
quanto hai :
Nil satis, esr, inquit, quia tanti, quantum habeas' sis.
La plutomania inglese aveva pure ispirato a Pope quei due versi:
There is Londoa's voice, Get money, money stili!
And tlien let virtue foUow, if slie will. ^
Lord Byron, il quale sapeva per propria esperienza che la plu-
tomania era uno dei principali agenti degli stessi liberali in-
glesi, non aveva tardato ad abbandonarsi allo scetticismo politico.
« Liberalismo e filantropia non sono che vuote e sonanti parole,
scrive egli in qualche luogo del suo giornale; e per mia parte
ho riassunta la mia fede politica in questo precetto: il denaro è
potere ; e la iJovertà. sclneivitù,'» ed aveva voluto mostrare al mondo
che su questa cruda realtà si fondava la vantata liberalità e la
grandezza dell' Lighilterra.
Del resto nel Don Jnem ce n' è per tutti. 11 poeta comincia
con un' apostrofe ironica alle sue antiche conoscenze, Southey e
Wordsworth, e fa una caricatura buffonesca di «sua moglie, che
copre appena sotto il nome di Donna Inez; si burla dei Blues
e delle Blues, cioè dei pedanti e delle conventicole letterarie del
suo paese; accusa di menzogna la vantata sicurezza pubblica del-
' Don Jua7ì, canto XII, stan-.e III, IV e XII.
- Satire, ì, I.
3 Epist. a Lord Boiinbroke.
LORD BYRON. 65
r Inghilterra facendo aggredire Don Juan da una banda di mal-
fattori appena si appressa alla capitale ; mette in canzonatura gli
usi e costumi della società inglese in cui mai non trova nulla di
spontaneo e di naturale :
Althougli it seems both prominent and pleaaant,
Tliere Ì3 a sameness iu its gem and ermine,
A dull aud faaiily likeness through ali ages,
Of no great promise for poetic pages. '
E nella seguente stanza:
With much to excite, there's little to exalt;
Notbing tbat speaks to ali men and ali times ;
A sort of varnish over every fault;
A kind of comraon-place, even in their crimes;
Factitious passiona, wit without much salt,
A want of that true nature that sublimes
Wate'er it shows with truth ; a smooth monotony
Of character, in those at least who have got any.
Ride in tutto il poema della religione, e fa passare per raffinata
ipocrisia la religiosità dei suoi concittadini; e finalmente se la
piglia anche col clima inglese che accusa di avere un inverno di
undici mesi.
È stato egli il Don Juan il semplice sfogo di un' anima ama-
reggiata da torti reali od immaginarli, oppure 1' autore ebbe in
quel poema un intento più serio, il pensiero di contribuire in
qualche parte a correggere il temperamento politico e sociale del
suo paese ? 11 temperamento di Byron non era tale da portarlo a
maturare un'opera destinata a produrre effetti lenti e lontani. Egli
era anzitutto artista ed obbediva alle sue impressioni più imme-
diate: opperò si può ritenere ch'egli abbia incominciato il Bon
Juan con nessun altro fine che quello di spassarsela, com' egli
stesso dice, e starsi contento a godere quel piacere intimo che sente
r artista nel descrivere le cose eh' egli ha vedute, piacere che è
anche più grande quando il mondo eh' egli ha dinnanzi a sé ha le
disuguaglianze e il barocchismo che Lord Byron vedeva nella
società inglese e eh' egli pose ogni cura a mettere in mag-
gior rilievo. La società inglese s' inalberò vivamente contro
Lord Byron appena comparvero i primi canti del Don Juan, spe-
cialmente per la caricatura eh' egli ad ogni passo vi fa del sen-
^ Canto XIV, stanza XV.
VoL. XIV, Serie II — 1 Marzo ISÌQ. 5
66 LORD BYRON.
timento religioso del suo paese e dei quadri a forti tinte realiste
che qua e là infiorano il poema. Però si può essere certi che il
Don Juan non ebbe un triste effetto sulla morale in Inghilterra ;
il ridicolo che è sparso a piene mani in quel poema non ebbe l' ef-
fetto che potè avere, p. e., la Pucelle (V Orleans di Voltaire in
Francia. Non si può dire lo stesso però di altre parti; la cari-
catura che il poeta fa dell' aristocrazia dominante e dei costumi
politici dell' Inghilterra, e il tono spietato con cui svela l'ipocrisia
costituzionale di quel paese devono avere non poco contribuito a
determinare quel movimento liberale che, cominciato colla emanci-
pazione dei cattolici sotto il ministero di Lord Wellington, seguitò
poi sempre senza interruzione, dando al paese la prima riforma
elettorale del 1832, 1' altra del 1867, 1' abolizione della legge sui
grani, la soppressione della chiesastabilita in Irlanda, ed altre
riforme di rilievo, per le quali la costituzione politica e sociale
dell'Inghilterra venne in mezzo secolo profondamente mutata.
L' arme del ridicolo che esautorò tanti governi in Francia, se non
produsse immediati effetti in Inghilterra; pose però in sull'avviso
queir aristocrazia, tenacissima certo dei suoi privilegi e delle sue
tradizioni, ma vigile sempre a spiare il vento che tira per non
urtare la corrente ed accomodarsele con vantaggio proprio e del
paese. È cosa facile condannare senz' altro le ingiustizie e le tirate
immorali che certamente abbondano nel Don Juan; però non sì
deve neanche togliere a quel poema il merito di avere contribuito
a dare una forte scossa alla società inglese determinandola ad
entrare anch' essa nel nuovo giro della vita politica e sociale del
continente.
YI.
Tre quarti di secolo quasi ci separano dal tempo in cui
vedevano la luce questi poemi di' lord Byron ed occupavano nel
più alto grado l'attenzione del pubblico. Quale cambiamento da
quel tempo e che diverse vie si videro l'arte e la letteratura
percorrere ! Nessuno ancora aveva veduto un simile spettacolo :
un uomo lanciato negli anni stessi dell'adolescenza in mezzo al
mondo e impegnato a sostenere una lotta ardente contro letterati
prima, poi con tutta la società del suo paese. Par di vedere un
gladiatore nel Circo, forte, generoso, impavido, risoluto a vincere
0 a morire. È stata una tensione d'animo e di pensiero che non
rimase sospesa un giorno in tutta la vita di Lord Byron. Egli
LORD BYRON. 67
l'accettò eoa intrepidezza e la proseguì senza sgomento e senza
esitare mai. Tutto egli fece servire al suo intento, e quante forze
gli riesci di scoprire nel!' interno suo, tutte egli sviluppò, rinvi-
gorì e rivolse a vantaggio suo e di quella ch'egli credeva che
fosse la sua causa personale. Le stesse incredibili astinenze alle
quali egli si sottoponeva erano rivolte a questo scopo, quello di
tener deste e non lasciare intorpidire mai le forze del suo pen-
siero. L'uomo e lo scrittore erano in lui In stessa cosa; scrivere
per lui era agire, e non si pose a scrivere se non perchè le con-
dizioni del suo paese gli impedivano di agire. Quindi egli riuscì
scrittore efficacissimo, ed il più spontaneo del suo tempo, il primo
di quelhx bella coorte di poeti che vantava fra i più illustri Walter
Scott, Kogers, Moore, Crabbe. È di moda ora il ridere dei dolori
e degli spasimi di cuore e d'intelligenza che travagliavano il
povero Aroldo e di guardare quella creazione quasi come una
anticaglia. È passato il tempo delle grida disperate di Fausto,
di Aroklo e di Obermann, manifestazioni di anime che si di-
battono nelle strette di un problema insolubile. Ora ognuno
si accom.oda alla vita qnale essa si presenta, e si pone il maggior
pensiero nel migliorarla. Ma quanto durerà questa quiete apatica
dell'anima?
Lord Byron soleva dire che non v'è nel Childe Haroìd la
decima parte di verità che e' è nel Don Juan, e traeva argomento
a conformarsi in questa opinione della preferenza che le donne
sogliono dare al primo di questi poemi. Sembra che l'autore abbia
voluto nel Don Juan fugare di proposito deliberato quelle splen-
dide larve che aveva evocato nel Childe Harold. La bellezza eterna
vestita de' suoi colori immateriali, quale figura in questo poema,
scende dal suo tripode celeste e s'incarna nella bella, ingenua
appassionata Aidea. Addio, o grandiose immagini, espressione vi-
sibile di un'idea potente e trascendentale ! Nel Don Juan tutto è
umano, splendono dapertutto i colori e i toni della realità. L'au-
tore si diverte a lacerare il velo che nasconde le nudità della
vita, e con eguale intento ma con più grazia del suo compatriotta
Swift leva la maschera di volto a tutte le ipocrisie e a tutte
le falsità mondane, a rischio anche di toccare alla veste sacra del
pudore umano, dolce e serena immagine di una innocenza di altri
tempi.
Giovanni Boglietti.
DELL! VITA E DELLE OPERE
DI SIMONE PORZIO-
{Continuazione e fine.)
Il pensiero continuo di Simone Porzio, su lo scorcio della sua
vita, fu l'avvenire de' propri figliuoli. Tra le ultime cose che ab-
bia scritto sono da annoverare due lettere, una diretta al Duca,
l'altra alla Duchessa di Firenze: al Duca sei giorni, alla Duchessa
due giorni prima di morire. A leggerle si sente la rassegnazione
del filosofo, e l'affetto profondo del padre ; si sente inoltre la piena
fiducia verso i suoi antichi protettori. Sul limitare della morte, ei,
contro il solito, si volge direttamente alla Duchessa, la quale come
donna ei stima più disposta ad accogliere l'ultimo voto di un mo-
ribondo.
« Ill.mo et Ecc.mo Signor mio Padrone osservandissimo,
» L'affettione et la servitù che io sempre ho tenuto verso la
Ecc. V. et l'amore che ho conosciuto che quella di continuo et in
assentia et in presentia mi ha portato mi sforzano ancora in que-
sti estremi di ricordarmi dell'Eoe. Sua. Parecchi dì et mesi
sono, mi trovo di diverse infermità opjDresso et ancora che que-
sti medici mi promettono qualche di di vita, nondimeno io che
ancor sono la parte mia medico conosco di non poter durar molto.
Per tanto innanzi che muoia ho voluto con questa basciar le mani
della Ecc. Sua e fargli intendere che ancor che la morte per ordi-
nario dolga a ciascheduno et a me tra gli altri, nondimeno ella mi
duole assai manco, poiché ho inteso tanti felici successi nelle cose
della Ecc. Sua, et così siguro che in quell'altro mondo babbi a
udire di mano in mano. Restami solo supplicarla che poi che Dio
DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 69
mi ha dato figliuoli, e già di età che possino in molte cose ser-
vire a.H'Ecc. Sua, si degni valersene et servirsene in tutto quello
che giudicherà che saranno atti et utili per l'Ecc. Sua; et poiché
son certo che l'Ecc. Sua adempierà questa speranza che io ho, cioè
che confermi il buon animo che ha tenuto meco in questi miei
figliuoli, me ne vo tanto più lieto et contento, et non volendola piii
fastidire humilmente gli bacio le mani.
» Da Napoli, il dì 21 di agosto 1554.
» Deditissimo Servo
» Semone Portio. » 1
E quattro giorni appresso, scriveva alla Duchessa quest'altra
lettera di consimile tenore, e più commovente ancora:
« 111. ma et Ecc.ma S. mia et Padrona osservandissima,
» Insino a mo che ho scritto all'Ecc. del Duca mio signore non
ho scritto altrimenti all'Eoe. Sua, parendomi di fargli torto se non
havessi creduto che scrivendo a Sua Eccellenza havessi ancor
scritto all'Eco. Vostra, sapendo essere una cosa medesima con esso.
Ma bora che l'infermità mie m'han condotto a nn mal essere et
in un certo dubbio della vita, ho voluto separatamente ragionare
con l'E-ic. Sua e dirgli che l'ho in modo impressa nell'anima che
in quel modo l'havrò in l'altro come l'ho havuta in questo mondo.
>■> La supplico che poiché col Duca mio Signore, mentre son
vissuto, mi ha tanto aggiutato et favorito, vogli il medesimo fare
con me. benché morto, dico meco, perchè facendolo con questi
mia figliuoli, che sono le carni mie, farà tanto quanto se in pro-
pria persona l'Eoe. Sua si adoperassi. Et perché so di dargli do-
lore perdendo un si affettionato servidore, fo fine con pregargli
lunga et felice vita insieme coi figliuoli e con la Ecc. del Ducha
suo consorte.
» Da Napoli il dì 25 di agosto 1554.
» Di V. S. Ill.ma et Ecc.ma
» Deditissimo
» Semone Pgrcio- » -
11 Porzio morì il 27 agosto, due gioi-ni dopo scritta la prece-
dente lettera; né i suoi voti furono vani, perché il Duca non mancò
de' suoi buoni uffici verso i figli del morto filosofo : il Duca, e
quelli di sua casa. Infatti Camillo, che s'era dato all'avvocheria,
' Archivio mediceo, filza 433, a e. 488.
" Archivio mediceo, filza 432 a e. 916.
70 DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE POKZIO.
ed era divenuto feudatario di Geritola, quando chiese, il 1561,
l'ufficio di Consigliere, fa raccomandato non solo dal Duca Cosi-
mo, ma dal Cardinale Griovanni suo tìglio. Similmente fu racco-
mandato l'altro figlio, Antonio, die poi fu Vescovo di Monopoli.
In certi appunti, comunicatimi gentilmente dal signor Milanesi,
e ricavati dagli Avvisi di Eoma, sotto la data del 27 luglio 1571,
si legge:
« Il luogo di Monsignor Aldobrandino Segretario si crede
che si darà all'Abate Portio gentiluomo napoletano, et amico
strettissimo del Cardinale de' Medici, di Sansererina, Sirleto et
altri. > '
I Medici adunque continuarono a proteggere quelli che Simone
con frase energica, che rivelava tutto l'amor paterno, aveva racco-
mandati come carne sua; e di ciò vanno sommamente lodati.
II.
Delle lezioni dettate dal Porzio non rimangono manoscritti,
salvo alcuni fogli conservati nella Biblioteca Nazionale di Firenze,
di cui diremo tra poco. È un fatto degno di nota, quando si con-
sideri che di altri tanto minori di lui abbiamo ancora i cartolari.
La spiegazione di questo fatto, a parer mio, si può desumere da ciò
che avvertì il Tasso, ponendo in bocca del nostro Porzio le seguenti
parole: « Io tuttavolta ho seguitata e seguito quella (l'opinione)
de' Greci, cli'è la più antica per origine, e la più salda per fon-
damento di ragione, e la più reverenda per età, ma non ho avuti
sempre seguaci i miei scolari medesimi. »
Fosse l'abitudine di seguire il commento arabo, o la difficoltà
maggiore di servirsi de' testi greci, certo è che non tutti gli scolari
erano in grado di profittare dell'insegnamento del Porzio. La via
più facile è sempre la più battuta. Anche Lelio Torelli, propo-
nendo quel poveraccio del Lapino, com'ei stesso lo chiamava, scri-
veva al Lottini un giudizio che avvalora la nostra congettura:
« Benché la filosofia mi pare non patiscili molto, se il Porzio
vorrà faticare un poco, e leggere cose utili a scholari, come non
fece l'anno passato, che lesse lezioni, si può dir da vaglia, e di
ninno profitto a chi ha bisogno d'imparai-e. » -
Questa lettera riportata dal Fabbroni è del 1548, quando il
Porzio leggeva a Pisa da due anni. Intendendo che l'utile degli
' Avvisi di Roma, filza 4027.
2 Faljbroni, pag. 335.
DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 71
scolari non consistesse nelle lezioni da vaglia, il Torelli stesso ne
concludeva, che il Porzio giovava all'Università più con la riputa-
zione e col nome, che con l'effetto. Della qual conclusione non è
da dire quanto si compiaccia il Fabbroni, che mostra contro il Por-
zio una certa parzialità e malevolenza. Egli intanto avrebbe potuto
riferire altre testimonianze, che suonano ben altrimenti, e che levano
a cielo quell'insegnamento, giudicato da lui pressoché inutile. Ecco
che cosa ne scriveva Simone Fornari di Reggio di Calabria all'ar-
civescovo Agostino Gonzaga, nella parte seconda della Esposizione
sopra Y Orlando Furioso: « Mi sono portato a Pisa per udire il dot-
tissimo, et dal mondo honoratissimo Simon Portio philosopho, et
senza contradiction veruna in questa età Principe de philosophi.
Questi avendo gli anni adietro con profitto inestimabile d'inge-
gnosi et dotti gioveni, tutte le sublimi et oscure parti della phi-
losophia esposte, et dilucidate; questo presente anno (1550) con
meraviglia, et istupore di chi l'udì, si vide con tanta certezza
et lume di verità esporre le meteore, che quelle sue dichiara-
zioni parevano non cose da pura mente umana imaginate, ma
dette da una di quelle superne intelligentie che muovono i cieli,
qua in terra discese per palesare a' mortali gl'incomparabili se-
creti della natura et di Dio. » ^
Nel giudizio di Simone Fornari c'è dell'entusiasmo meridio-
nale, come in quello di Angelo Fabbroai c'è del rigore gianse-
nistico. Vediamo ora le poche lezioni che ci rimangono manoscritte
per giudicare, come suol dirsi, ex ungue leonem.
Il breve ms. è intitolato: Domini Simonis Portii in lihrum
primum de coclo cxposìtio feìiciter incipit. Contiene cinque lezioni,
e non più; e non è autografo.
L'esordio comincia: prioribus annis Aristotelem salutavimus
pliirihus proloqiiiis; sicché accenna ad un insegnamento continuato:
dove ? A Napoli, o a Pisa ?
Per me questo frammento di corso si riferisce all'insegna-
mento dato a Napoli, dopo essere stato a Pisa la prima volta. L'au-
tore difatti si mostra informato de'codici che si trovavano a Firenze.
« Theniistius non invenitur apud nos, sed est Florentiis » (sic).
Ora il commento sul De coelo, essendo stampato la prima volta a
Venezia il 1574, il Porzio non avrebbe potuto studiarlo, se non
fosse stato in Firenze. D'altra parte adducendo alcuni esempi di
una grandezza sproporzionata, ei si serve di tali similitudini, che
' Della Esposizione sopra 1' Orlando Furioso. — Parte II, in Fiorenza l3 )0,
appresso Lorenzo Torrentino. — Nella lettera dedicatoria in data del 20 giugno 1550.
72 DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
non avrebbero potuto occorrere, se non a chi parlava dimorando in
Napoli. Eccole riportate testualmente, anche per dimostrare, come
sebbene l'insegnamento allora si facesse in latino, pure vi s'in-
tercalavano soventi non solo frasi italiane, ma anche di dialetto.
« Si faceres una nave che fosse doi miglia, porriate servire
a la navigatioiie ? No, quia ista quantitas excedit modum navi-
gandi: se fosse quanto una coccola de nocella? Manco, quia haec
quantitas non posset exire ad tale opus, ut sit determinatae quan ■
titatis, similiter in natura, sicut in arte. Se se facesse uno homo
che avesse uno dito da equa a posilipo, quoraodo posset operare ?
Similiter se havesse uno naso, che diceva messere Angustino, da
equa a lo globo de la luna, innante che soffiasse, nge vorria uno
anno, ergo res naturales determinant sibi certam materiam et
quantitatem. » ^
Farmi evidente che non può parlare di un naso fino a Posi-
lippo, se non chi discorre stando a Napoli. Ed un' altra cosa parmi
da notare pure, la menzione di aver udito messer Agostino, ch'è
il Nilo.
Stal)ilito il luogo, ed anche approssimativamente il tempo,
cui si dee riferire il frammento di manoscritto della Magi labechiana,
dico due parole intorno al metodo dell'insegnamento, cbe se ne
può argomentare.
Il Porzio si studia di commentare Aristotele con Aristotele
stesso : nielius est Aristoteleni per Aristotdem exponere. Tra i com-
mentatori poi preferisce i greci : chiama Simplicio un gran mae-
stro : loda Averroè per l'acume dell'ingegno, onde sebbene avesse
tra le mani un testo scorretto, pur nondimeno raro è che non im-
brocchi nel segno. Prevalendosi della non comune perizia della
lingua greca, il Porzio riscontra le traduzioni col testo greco :
raddrizza le false interpretazioni ; disdegna gli storcimenti cavil-
losi, e se la piglia con quel formalismo logico, ch'era invalso spe-
cialmente per colpa della scuola di Parigi.
« Vellem ridere a queste consequentiae di Strodo : mira a
chi li antichi se confidavano, et quod peius est, le hanno commen-
tate, et tutto venne da la scola de Parisi, da lo collegio Montis
acuti : ora famme questo sillogismo, o Simplicio, et vedi se con-
clude. »
Il logico a cui allude qui il Porzio ò quel Kodolfo Strodo,
autore di un' opera intitolata Consequentiae, fiorito circa il 1370,
' Vedi il ms. della Magliabechiana, che non è numeralo.
DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 73
competitore del Vicleffo in teologia, e messo in canzone dal Fo-
lengo. '
Stando a qnesto saggio che abbiamo avuto sott' occhio, le
lezioni del Porzio ci sembrano Incide, precise, e, fatta ragione
de' tempi, piene di dottrina.
Toccato dell' insegnamento orale , venghiamo alle opere
stampate.
Prima in ordine di tempo è forse 1' opuscolo : Bc pìiella ger-
manica. Veramente la prima volta fu pubblicato senza data, ma
essendo stato dedicato a Paolo III, e questi essendo stato creato
papa r ottobre del 1534, è chiaro che se ne dee riportare la pub-
blicazione dopo di quel tempo.
Il De Thou afferma che il Porzio fu richiesto del suo parere,
non dice però da chi : soggiungo, che risi30se al Pontefice : se
sia stato il Pontefice stesso a richiedernelo, non appare. Appar
certo, che il filosofo non voleva con. la spiegazione data intoppare
contro i sospetti della Chiesa, come chi s' ingegnasse di chiarire
per vie naturali, fatti che avevano del portentoso. Ei prega il
Pontefice, afiinchè il suo avviso sia ponderato nella bilancia della
verità ; e la bilancia, si sa, l'aveva in mano Paolo III. Fu pesato,
e fu trovato giusto: e fin d'allora forse il Pontefice ne concepì
stima, onde allorché lo vide a Koma, come abbiamo detto, cercò
di ritenerlo appresso di sé.
Quando l'opuscolo si ristampò a Firenze il 1551, ed il Gelli
lo tradusse in italiano, il traduttore vi premise una breve nar-
razione del fatto, che, in sostanza, dice: esserci stata l'anno 1531
una fanciulla nomata Margherita, figliuola di una Barbara e di
un Pietro, lavoratore di terra, nella villetta di Roet presso Spira,
la quale fanciulla era vissuta circa due anni senza mangiare e
senza bere. Il caso parve maraviglioso, e Ferdinando re de' Ro-
mani, quando passò per Spira, tornando dalla impresa di Unghe-
ria, volle vederla; e la fece visitare da Greraldo Bo'^coldeano
medico alemanno. Osservata per quaranta giorni, benché invitatavi.
non assaggiò cibo: il Gelli asseriva, che vivesse ancora a' tempi
suoi.
Ecco il fatto che diede origine alla dissertazione del Porzio,
narrato con più particolari dal brioso calzaiolo fiorentino.
Dopo questa prima pubblicazione, se ne dovrebbe aggiungere
' Il Folengo nell'ulfimo can^o della Macàroyiea tra quelli che formavano la
scuola de'sapientoni annovera questo Strodo :
« Illic Burleus, Strodus, Simplicius. Hermes. »
74 DELLA VITA E DELLE OPEKE D( SIMONE PORZIO,
un' altra: De coelihntu, stando alle assicurazioni de' biografi: fatto
sta che per cercare che ne avessi fatto, non mi è riuscito di rin-
venirla in nessuna biblioteca; non a Napoli, non a Firenze, dove
principalmente si sarebbe dovuta trovare. Sospetto non sia stato
stampato punto questo opuscolo, e che sia corso manoscritto ; certo
è che vi allude 1' Anisio nell' epigramma riferito, con le parole :
fu quia tantopere gaudehas coelihe vita : ma dall' averlo compo-
sto e comunicato agli amici ad averlo messo a stampa ci corre.
Debbo tuttavia avvertire che il Tafuri non dubita di accennare
perfino l'editore, e il formato, e l'anno: Be coeUbatu apud Joan-
nem Sultzhachium, 1537 in-4°; e che il Fabbrucci attesta che per
questa e per un' altra pubblicazione, di cui diremo, venne in fama
appresso Cosimo; ma parmi impossibile, che mentre di tutte lo
altre opere si ha notizia, mentre di tutte, quando ei fu a Firenze,
si fece ristampa co' tipi del Torrentino, quest' una, così ghiotta,
fosse stata trascurata.
11 27 ed il 28 di settembre del 1538, nelle vicinanze di Na-
poli, successero grandi tremuoti; il 29 sollevossi tra Monte Bar-
baro e il lago di Averno quel monte, che si dice Monte Nuovo:
sTli animi erano sbigottiti: il Porzio ne scrisse una relazione a
Don Pietro di Toledo, dove si propose di spiegare quegli avve-
nimenti con le cause naturali, mentre i più ci vedevano del por-
tento : causas naturae convenientes explicare tentabo.
La relazione è in forma di lettera al Viceré, suo Mecenate,
e porta il titolo : De conflagrai ione agri piifcolani, Simonis Portii
Neapolitani cpisfoìa. Pubblicata la prima volta a Napoli dal
Sultzbach il 1538, fu poi ripubblicata a Firenze il 1551.
Ed ecco le poche cose composte dal Porzio a Napoli, alle
quali si potrebbero aggiungere alcune dissertazioni pubblicate
molti anni dopo la sua morte dal Marta, che non sono però di
grandissima importanza; di cui alcune anzi non erano inedite.
Esse haimo i seguenti titoli: De specicbiis infeUigibilihns, una; e
l'altra: Quaestio num detur sensus agens. Le altre due erano
state pubblicate, e non sappiamo perchè il Marta le abbia messe
insieme con le inedite.' Esse sono: una De puella germanica, l'al-
tra De dolore.
Le due prime dissertazioni appartengono all' insegnamento
i « Opnscula excellentissimi Simonis Portii Neapolitani cum Jacobi Anionii
Martae phiiosophi neapolitani Apologia de Imraortalitate animae adversus opuscn-
lum De mente humana. — Ad illustrem et maximum Virum Alonsum Salazar Re-
ginm Consiliariura Lateranensem. » Ex superiorum permissu. N'eapoli apud Iloratium
Salvianum, 1518.
DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMOXE PORZIO. 75
dato a Napoli; né hanno novità, essendo le solite ad agitarsi a
proposito dei libri De anima. Il Marta stesso lo dice, confermando
ciò che con altri documenti è stato posto in sodo, cioè che il
Porzio abbia insegnato a Napoli.' E soggiunge esservi stato indotto
dalle premure degli amici, ai quali pareva non doversi lasciare
occulte quelle questioni dal Porzio con tanta esattezza trattate.
Venuto che fu a Pisa, il Porzio diessi ad alcune ricerche, le
quali pur troppo non gli fruttarono quel nome cli'ei se ne ripro-
metteva. Il Tuano racconta eh' egli a Pisa intendeva a scrivere
la storia de' pesci: che avuto ch'ebbe il libro del Rondelet, che
questi aveva composto sui commentari del Pelissier vescovo di
Montpellier, smise non sine occulto livore, perchè si vedeva tolta la
gloria che sperava da quell'opera; non giudicando opportuna la
pubblicazione del suo libro dopo quella dello scrittore francese. -
Non sarà inutile ora aggiungere i documenti che ci è venuto
fatto di raccogliere intorno al modo come il Porzio lavorava, ed
intorno al destino ch'ebbero le sue ricerche. Abitando in una
città a poca distanza dal mare, aiutato nell'impresa dal Duca, il
Porzio faceva raccolta de' pesci più rari, e ne faceva studio: tal-
volta se li faceva dipingere da Francesco Bertini, detto il Ba-
chiacca, eh' era il pittore del Duca stesso. Riscontrava le osser-
vazioni proprie con quelle fatte da Aristotile in quella storia
degli animali, che servi di modello ai naturalisti del risorgimento;
e talvolta a quelle del filosofo greco aggiungeva le sue. Ecco due
lettere che si riferiscono appunto a queste ricerche :
« Ill.mo et Ecc.mo Sig. mio,
» Viene da V. Eccellentia uno vitello marino, che è tanto
grande, se pò ben dire Bo marino, secondo Aristotile, quatrupede
imperfetto e animale ambiguo, e terrestre e aquatico, e se notri-
sce dentro 1' acqua et fuori, dorme nell' acqua, attuffase come la
ranocchio, e spesso al/a il capo for de l'acqua, perchè spira, et
partorisce nel litto. et latta come cagnia, et bave doi tette, de
li parti al più ne fa tre, et per dodici dì li tiene in terra; poi
con le mano dinanti le mena et porta ad avezarle ne l' acqua
più spesso: partorisce quando le prime capre partoriscono di gen-
naro ; usa il coito comò il cane, et sta un pezzo a staccarsi come
li cani; la pelle durissima, et dice Aristotile difficilmente s' am-
1 « Quod advertens philosophus hic insignis dum Neapoli secimdum de anima
libellum interpretabatur, quaestionern hanc (de intelligendo per species^ peregit
gravissime. » Id. eod., pag. 31.
2 Jacobi Aur,!:sTi Tiiuani, IIi.\toi\ Londiiii, 1~33, tomo I, pag. 459.
76 DELLA YITA E DELLE OPERE DI SDIOXE PORZIO.
mazza, se no a le tempie ferito, more presto, chiamasi vitello;
che quando dorme muge comò vitello, esce più delle fiate di notte
dal mare, et comò nel Nilo sono li cocrodilli, nel mare sono li
vitelli : li reni benché siano come quelli del bove, sono tanto forti
et duri più de li animali terrestri. Dice Aristotile che non have
tele, Eudemio dice farse domestico con li pescatori ; questo Ari-
stotile non dice, dice bene essere bestia malefica: le parte poste-
riore V. Eccellentia lo vederà, e corno ne le mano dinanzi è si-
mile all' orso, et li membri naturali sono grandi. Et le baso le
mano senza fine, et a la Signora mia la Signoria Duchessa, che Dio
vi prosperi come desiderate.
» De V.a Ecc.tia
» Da Pisa a dì 14 febbraio del 49.
» Servo deditissimo
->-> Simone Portio. » '
L' anno appresso, mentre egli passava le vacanze a Firenze,
ed il Duca villeggiava a Poggio a Caiano, gli scrive di altri pesci
rari, statigli portati dalla Spezia, e de' ritratti che ne aveva fatti
fare. Ecco la lettera, eh' è pure importante per un altro verso ;
perchè ci fa sapere, che, mentre attendeva alla stampa del De
niente Jmmana, il Porzio andava a chiesa per guadagnarsi le in-
dulgenze del giubileo.
« HWo et Ecc™" Sig. mio,
» Non posso difendermi da li infortunio Volendo domenica pi-
gliare il Jubileo -in la Nuntiata, tanta fola calca de le gente che
me ferno cascar in compagnia di molti altri che mi dolo il' brac-
cio. Di poi il sig. Cesaro sta male in letto sono quattro dì, et
mi ha stretto che non vengha al Pogio per doi dì, et più de la
febre have peggio, che a bocca dirrò ad V. Ecc.: per questo non
sono venuto.
«Mando tre pesci; quali sono otto giorni vennero perle po-
ste da la Spetia, ne è uno rarissimo, et sono tardato a mandarlo:
che ne ho fatto lare il ritratto al pittore di V. E. Bachiacca, et
comò quella vederrà, assai l'ha fatto simile.
» La supplico che mi li rimandi tutti, che il Cardinale di Santa
Croce per certi homori melincolici che le son venuti, me pregha li
mandi ad vedere di pesci, io non voglio mandarli quelli de la
Spezia, li manderò quelli di Firenze amarinati quando V. Ecc.
ne sia servita, altramente non li vederà né l'uno né li altri. Et
1 Archivio mediceo, filza 391 'bis) e. 856.
DELLA. VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 77
quanto posso me li l'accomando, basandole la mano et li pedi,
et a la signora mia la Signora Duchessa, che Dio li conservi.
» Da Firenze, a dì 10 di settembre del 50.
» Sen)o deditissimo
Simone Portio. » ^
Di queste ricerche il Porzio aveva preso, nota, e compostone
un catalogo, del quale si doveva essere sparsa voce anche fuori
di Firenze e di Napoli, perchè il celebre Ulisse Aldovrandi, in-
defesso ricercatore de'varii regni della natura, lo domandava al
Maranta, due anni dopo ch'era morto il Porzio. E noi siamo in
grado di dimostrare, che l'Aldovrandi il catalogo l'ebbe, e che
quindi il frutto delle osservazioni del nostro filosofo non andò
perduto per la scienza.
Nel copioso carteggio tenuto dall'Aldovrandi in tutte le re-
gioni d'Italia per la fondazione del suo celebre Museo, e con-
servato nella biblioteca di Bologna in quattro grossi volumi, ho
rinvenuto la seguente lettera del napoletano Pinelli, professore
all'università; di Padova, che tanto aiutò l'impresa dell'Ulisse fel-
sineo, come i suoi ammiratori lo chiamavano.
« Molto magnifico signore,
» M. Bartolomeo Maranta si ritrova al Campo Imperiale ap-
presso r illmo. sig. Vespasiano di Gonzaga per medico, et ha-
vendo lasciate persone trascurate a ricomperar le sue lettere,
n' è venuto che questa matina mi sono state portate a casa le
lettere vostre, di Mad. Gentile "^ sì che havete risposta tarda, pur
gliele ho mandate, et io in servitio suo vedendo che desiderate
il catalogo de' pesci del Portio, ve lo mando, qual hor bora ho
finito di copiare, et così farò in tutto quello che vedrò poter fare
per Lei, et priegola tenermi per amico, come pure la bona me-
moria di M. Luca s'ora fatto tutto mio per tal mezzo termino,
dico del nostro M. Bartolomeo; né vi curate che procediamo de
ignoto ad ignotiim, perchè introdurremo una foggia nova de sil-
logismi. State sano ed amatemi.
» Di Napoli, il 1 d'ottobre 1556.
» Servitore
» Gio. Vincenzo Pinelll ^
» Al molto Mag.co et honorando
» Signor mio M. Ulisse Aldovrandi in Bologna. »
' Archivio Mediceo, Filza 399, e. 137.
2 Madama Gentile era la vedova di M. Luca Ghini, stato professore di sem-
plici a Pisa, e poi a Bologna.
3 Carteggio di Ulisse Aldovrandi, tom. I.
78 DELLA YITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
Lo studio de' fenomeni naturali non andò scompagnato nel-
l'animo del Porzio da quel buonsenso, che non era frequente nei
naturalisti anteriori all' età del Galilei. Egli stesso nella lettera
a Don Pietro di Toledo nota l'abuso e lo biasima: « H(x€C igitur,
conclude in fin d'essa lettera, mi Moecenas, scribenda duxi; ne ha-
rioli, sonmiorumque interpretes, ac vulgares astrologi alio trahant
quae natura duce provenìimt.
Verso gli ultimi tempi della sua vita, fosse stanchezza di
mente, o che l'abuso condannato in altrui non gli pareva con-
dannevole in persona sua, scrive al duca di certe sue predizioni
intorno alle turbolenze che avevan travagliato principalmente la
Toscana per causa della guerra di Siena : va più in là, presa-
gendo una pace, la quale non si verificò per altri, che per lui^
essendo indi a pochi giorni morto. Nell'animo di Cosimo queste
l)redizioni trovavano facile accesso, tanto che nello Studio di Pisa
non aveva mancato di preporre all'insegnamento di astrologia,
con lauto stipendio,^ fra Girolamo llistori da Prato, solo per avere
presagito la morte violenta del duca Alessandro, quale poi real-
mente successe ; e per avere svelato a Cosimo stesso alcune insidie
tese contro la sua persona.
Ecco la lettera, una delle ultime del nostro Porzio, scritta,
sembra, udito eh' ebbe i lieti successi delle armi fiorentine su
l'esercito di Pietro Strozzi, nella battaglia di Marciano combattuta
il 2 agosto 1554.
« Eccellentissimo et illustrissimo signor mio, honor d'Italia,
» Non poteva Iddio benedetto mostrare il valore et delle
genti et della persona Vostra, et dell'animo vostro, se non fussero
venuti gli turbatori della quiete dell'Eccellenza Vostra a irritarla,^
che ha mostrato con quanta prudenza gli ha vinti et domati.
Et benché io scrissi due lettere, una al signor messer Lelio e
l'altra all'Eccellentia Vostra di quello che mi pareva che le stelle
promettevano, et già ho cominciato a mostrare la quiete che ha
promesso al mese di ottobre, et già è felice principio della quiete
come si ragiona, et a me ha fatto quel che tutti e medici non
poterno fare, che quattro mesi ho un esito di sangue, che mi
• Nella nota degli stanziamenti de' professori ili Pisa per Tanno 1547, si tro-
vano assegnati 200 ducati a M. Giuliano del Carmine astrologo. Il GeUìne'' Cajìricci
del Bottaio chiama questo Giuliano immagine di Dio, e dice che istruiva nella
matematica un Camerino iegi-.aiuolo.
DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 79
havea infiacchito assai, questa nuova mi lia riavuto, clie spero
nella vita star più che prima. Et più spero quanto la quiete clel-
l'Eccellentia Vostra verrà più confirmata. Et come di queste bande
io intenderò buona nuova, 1' Eccellenza Vostra sappi che sarrà
pontello della vita mia. Sì che sia rin^ratiato Iddio et le stelle
che questo ci promettono. Desidererei che la mia signora Duchessa
et l'Eccellenza Vostra mi comandassero così amalato in cosa eh' io
potessi servirgli, perchè nessuna cosa mi par impossibile in servigio
dell'Eccellenza Sua alla qual bascio i piedi et le mani et della mia
unica signora Duchessa.
» Da Napoli, a dì xi di agosto 1554.
» De Vostra Eccellentia
» Servo deditissimo
» Simone Porzio. » '
Diamo ora un'occhiata alle opere composte in Pisa, che sono
i documenti più importanti del suo ingegno non ordinario.
Il Porzio, anche a giudizio de' suoi più acri avversari, ebbe il
merito di aver vestito le dottrine filosofiche di un abito decente. Il
Papadopoli ripetè le lodi date a Simone dal Tuano, confermando ch'ei
ridusse al greco ed al latino nitore la scuola peripatetica che
grugniva co' barbari interpetri : e sì che il Papadopoli non aveva
esitato di aderire al giudizio abbastanza sordido di Conrado Gesner,
il quale bisticciando sul cognome porcum non duhitaverit appel-
lare. Era un maiale che non grugniva ; e non è poco.
Simone Porzio era versato nelle lettere greche e nelle latine ;
era al caso d' intendere Aristotele nel testo, e di voltarlo in latino
elegante; di raffrontare i codici, e di proporre delle correzioni, e
di scegliere tra una lezione ed un'altra. Di questa perizia lasciò
prova non dubbia nella traduzione, eh' ei primo fece del libro sui
colori, attribuito ad Aristotele, condotta su due codici assai im-
perfetti, e su di un esemplare a stampa mutilato anch'esso. Il suo
lavoro mira a far cosa grata non solo ai cultori della filosofia,
ma ancora agli studiosi delle lettere umane. Ed è notevole poi,
ch'ei sospetta non esser questo libro di Aristotele, ma di Teofrasto
non già dalla dottrina esposta, sì veramente dalla frase. « Phrasis
Theophrastum potius quam Aristotelein, milii sapere videtur. » '
1 Archivio mediceo. Filza 432 e. 498.
2 In lib. de coloribus, pag. 25.
80 DELLA Vn'A E DELLE OPEKE DI SIMONE PORZIO.
Quando si considera che il Franti nel 1849 ha impugnata con
ragioni, le quali anche al Zeller piiiono fondate, la genuinità del
libro de' colori; ^ non si può a meno di ammirare l'acume di Si-
mone Porzio, il quale con si scarsi mezzi, e quando la critica era
ancora sul nascere, aveva concepito lo stesso sospetto.
Questo primo lavoro pubblicato a Firenze è dedicato al duca
Cosimo, e porta la data della villa di Filettole, dove il filosofo
era solito di passare gran parte delle vacanze autunnali, fuggendo
V inclemenza dell'aere pisano.
Prima che il Porzio salisse in fama come filosofo, era stimato
assai per la perizia delle lingue, e per la maravigliosa facilità di
scrivere in più lingue nel medesimo tempo. Il Tafuri, difatti, lasciò
scritto di lui.
« Egli (il Porzio) fu filosofo, teologo, matematico e storico, ed
ebbe dalla natura un intendimento cosi grande e maraviglioso
che nella medesima città di Napoli, in presenza di molti lette-
rati e personaggi di qualità, per divertimento dettò nell' i-
stesso tempo a dieci persone sopra vari soggetti, ed in lingue
diverse. » ■
Anche a Pisa il suo giudizio fu tenuto in conto. Quando Fran-
cesco Eobortello compose per ordine del Duca l'epigrafe da scol-
pire sul monumento di Matteo da Corte, mandolla per mezzo del
nostro Porzio, non senza raccomandazione di avvalorarla con la
sua autorità; secondochè appare dalla seguente lettera:
« Sig. Jo. Francisco mio ^
» Di menti calmi darvi lo Epitafio che messer Francisco Eo-
bertello ^ me diede lo mostrasse all'Excellentia del Duca, de la
sepoltura del Corte: lo mando ad V. S. che faccia questo officio
subito, che qui lo scoltore ha fretta, et quanto al mio poco judicio
mi pare assai avere de l'antiquo, et più breve che s è possuto, et
» Zeller, Die Phil. der Griechen. Tom. 3, pag. 63.
■2 Storia degli scrittoti nati nel regno di Napoli scritta da Gio. Bernar-
dino Tafuri da Nardo. Tom. Ili, par. Il, pag. 3-2. Napoli 175-2.
3 Dev'essere Giovan Francesco Lettini, segretario del Duca per poco tempo,
che il Segni chiama giovane di grande spirito.
■* L'epiiaffio composto dal valoroso latinista Francesco Robortelio di cui si parla
in questa lettera, è il seguente:
« Matthaeo Curtio Ticinensi qui Hippocratis Gaienique vindex salutis augurium
egit medicinamque esercendo et ducendo ipse valens semper excoluit. Mouumentum
hoc amplius quam fllii T. F. I. Cosmus Medie. Floren. Dux II sere suo ponendum
curavit, MDXLVI. Vixit annos LXX. »
Il monumeato fu posto nel camposanto di Pisa.
DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 81
quando parrà che si abrevia più, se farrà; benché, come me di-
cono, el marmo è capace: et ve baso le mano sine fine.
» Da Pisa a' di 12 de aprile; et vi si manda la litera
de Filippo ' che contiene e '1 judicio de messer Lelio, et di
Firenze.
» Servitor
» Simon Portio. » -
La lettera precedente manca della data dell'anno, ma questo
si può porre tra il 1546 e il 1548, perchè il Kobortello il 1549
partì, chiamato all'Università di Padova, a succedere a Giambat-
tista Egnazio vecchio e malaticcio. Se vogliamo anzi credere al
Fabbroui, non poco adoperaronsi i Padovani ad allettarvi anche il
Porzio, e del non esservi riusciti si dispiacquero. ^
A complemento della traduzione e del commento del libro sui
colori, il Porzio stampò il 1550 un altro opuscolo sui colori degli
occhi: T)p colorihns oculormn. E una specie di appendice all'opera
di Aristotele, o di Teofrasto; stata da lui promessa nella prima
traduzione. DedicoUa ad Ercole Gonzaga, vescovo e cardinale, che
poi morì a Trento mentre presiedeva il Concilio, e che de' lavori
del nostro filosofo sommamente si dilettava. Dalla lettera di de-
dica sembra anzi che il Porzio ed il cardinal Gonzaga si fossero
conosciuti di persona, e che avessero fatto degli studi assieme; il
che, quando fosse vero, sarebbe potuto avvenire a Bologna, e sotto
la disciplina del Pomponazzi, di cui Ercole Gonzaga fu certamente
discepolo. ^ Se non che non risultandomi ciò da più stringenti
indizi, voglio soltanto averlo per accennato.
Giambattista Gelli tradusse questo libro sui colori degli occhi,
a richiesta dell'autore medesimo, come aveva tradotta la disputa
sopra quella fanciulla della Magna, di cui si è detto di sopra; e
condusse tanto bene la sua traduzione, che il Porzio se ne com-
piacque, e lo ringraziò con la seguente lettera:
^ Filippo del Migliore fu provveditore dello Studio Pisano, ed uno de' protet-
tori del Robortello (non Roberlello, com'è scritto nella lettera del Porz o). Il Lelio,
di cui si parla appresso, è Lelio Torelli, di cui si è parlato altra volta.
2 Arrhivio Mediceo, Filza 387, e. 104.
3 Fabbroni, op. cit. paa: 335.
* Ecco le parole che mi sembrano esprimere una reciproca famigli uità:
« Etsi statuerara ali quid, qnod ad nostra cnmmunia siudia pertinere videbanUir,
mea industria elaboratum ad te mittere, ut meo nomine te salutaret, et mei erga
te amoris et obsertmntiae imaginem exprimeret : quoniam aliquot abhinc a; nis,
nescio quonam meo bono fato, nostra tibi piacere a multis accepi, quem lonce et
colui, et admiratus sum semper. » — De coloribus oculorum, Firenze, 1550.
VoL. XIV, Serie II — 1 marzo 1879. 6
82 DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
« Simone Portio a M. Giambattista Gelli.
» Ho letto la vostra traduttione del mio libretto I)c ocuUs.
carissimo messer Giovanni, et due cose, oltre a lo essere stato
compiaciuto da voi di quello cbe io vi liavea ricerco, mi sono
stremamente in quella piaciute. L'una è, che e' mi pare die la filo-
sofia non è manco utile a quegli che per ispasso la desiderano in-
tendere, che a quegli che ne fanno professione. L'altra è che vedo
il buono ingegno, et ottimo giuditio vostro, haver bene inteso il
libro, et haverlo fedelmente tradotto, per il che come io deggio
haver piacere che un tanto mio caro amico sia così nelhi filosofìa
esercitato, così anchora quegli, che nell'altra lingua non l'inten-
devono, ve ne haveranno uno infinito obbligo, et vi conforto a
giovare agli huomini quando potete ; et son vostro.
» Da Pisa, addì xii febbraio mdl. » ^
Potrà sembrare strano, che il Porzio richiedesse il Gelli della
traduzione, quando sarebbe stato più semplice lo scrivere da sé
r opera in lingua italiana, alla bella prima, e senza intervento di
un altro; e non meno strano poi che si rivolgesse a tale, i cui studi
dovevan parere insufficienti a quella impresa.
Quanto alla prima di queste difficoltà, è da avvertire che la
lingua, quasi direi ufficiale, della filosofia era allora, e si conservò
per parecchio tempo, la lingua latina; uso invalso da prima per la
creduta insufficienza delle lingue volgari ad esprimere le più sot-
tili astrazioni del pensiero, e mantenuto dipoi pel concorso di
moltissimi stranieri nelle nostre Università; ritenuto finalmente,
anche dopo finita quest' altra condizione di cose, per la diffusione
più agevole de'libri scritti in una lingua che tutt' i dotti di Europa
egualmente intendevano. Così, molto più tardi, lo stesso Cartesio
fu costretto a scrivere alcune delle sue opere in latino, non ostante
la perfezione e la diffusione della sua lingua nativa.
Per tali ragioni, benché il Duca Cosimo, stando a quel che
ne dice lo stesso Gelli ne' suoi Capricci. " si fosse messo ad esaltar
la lingua italiana; benché il Gelli citasse l'esempio di Girolamo da
Ferrara, che in lingua italiana aveva espresso pensieri filosofici :
pure la latina rimase signora delle cattedre. Francesco Verino
filosofo, leggendo filosofia, quando vedeva venire ad udirlo il capi-
tano Pepe, il quale non intendeva il latino, subito cominciava a
1 Vedi Trattato de' colori degli occhi tradotto dal Gelli. Firenze, l.wl. In fine.
2 Vedi ne' Capricci del Bottaio il ragionamento quarto.
DELLA Vita e delle opere di SIMONE PORZIO. 83
leggero in vulgare, perchè potesse intendere anch'egli: così rac-
conta lo stesso Gelli, e dal lodare tanto la cortesia del Ve-
rino si scorge, quanto fosse parsa straordinaria quella eccezione.
Il Porzio adunque si trovava costretto a seguir l'usanza univer-
sale; ma appunto perchè il Golii era caldo propugnatore della
efficacia della lingua italiana nello esprimer dottrine filosofiche,
e forse per secondare il desiderio del Duca medesimo, si rivolse
al valoroso calzaiolo. Il quale non era poi tanto calzaiolo, come
si crede: di venticinque anni, per poter intendere i concetti di Dante,
si era messo a studiare il latino, e se non si sa quanto sarebbe
riuscito a scrivere in quella lingua ; certamente però nel tradurre
mostra d'intender bene il testo. E delle cose filosofiche era anche
molto pratico: no' Capricci del i:?o^/c«V?, negli arguti dialoghi che
Giusto da San Pier Maggiore fa con la sua anima, c'è tutta quanta
la psicologia di Aristotele, e per giunta le controversie degli in-
terpetri assai ingegnosamente e quasi scherzosamente insinuate.
Si vede ch'ei non faceva professione d'ignorare le ricerche filo-
sofiche dell'età sua : combattendo tutto il giorno con la forbice e
con l'ago aveva trovato tanto tempo da conversare non solo coi
poeti, ma coi filosofi: non aggiunge nulla di nuovo, ma sa abba-
stanza bene ciò che gli altri avevano escogitato.
Il Golii adunque era quegli che ci voleva pei Porzio, e questi
se ne prevalse alla diffusione delle sue opere ; se non che neppure
la veste elegante e nuova, onde comparvero adorne, bastò alla
intenzione del filosofo.
Luigi Tansillo, amico del Porzio, lodò il cortese fiorentino
della sua opera, lodollo radunando in una immagine 1' ufficio di
calzaiolo e di traduttore:
Coa ago e penna i vostri amici voi
Or d'abito adornate, ed or di gloria,
E fate veste al tempo, e veste eterna.
Di tutte le traduzioni che il Gelli fece de'libri del Porzio, que-
sta de' colori degli occhi fu la prima, conforme apparisce dalla let-
tera con cui egli dedicava la traduzione ad Alamanno Salviati,
dove dice di sé, non aver fatto prova alcuna nel tradurre, e dove
perciò mostra una certa peritanza prima di mettere i segreti della
filosofia nella nostra lingua. Poscia dovette seguire, sebbene sen-
za data, l'altra su la fanciulla di Germania, di cui s'è detto in-
nanzi. Il Porzio intanto continuava a scrivere, o forse a pubbli
care scritti composti prima: imperciocché nello stesso anno 1551
84 DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
comparvero pe' tipi di Lorenzo Torrentino altre tre opere di lui.
Lorenzo Torrentino era stato invitato dal Duca Cosimo a traspor-
tare la sua tipografia dal Belgio in Firenze, per lo spazio di do-
dici anni, con amplissimi privilegi ; e questi v'era venuto l'agosto
del 1547, non senza invidia de'Giunti. Ferveva una nobile gara tra
il tipografo e gli scrittori, affinchè le edizioni e le opere appa-
rissero degne le une delle altre. E da supporre adunque che non
senza incitamento del Duca si affrettasse il Porzio a concorrere
all'impresa, perchè egli non doveva essere troppo inclinato alle
pubblicazioni, se in tanti anni d'insegnamento sostenuto a Napoli
si era contentato di due opuscoli dati faori, piuttosto mosso dalle
richieste, e premure altrui, che dal desiderio proprio. L' occa-
sione della tipografia del Torrentino non parmi quindi estranea
alla non consueta sollecitudine, di cui die prova in questo trien-
nio. Confortano questa mia opinione le parole, con cui esso Porzio
scrive a Lelio Torelli nella lettera dedicatoria, che va innanzi al-
l'opuscolo : An ìiomo bonus vel vtaJus volens fiat, perciocché egli
confessa di aver cavato fuora quella disputazione poco elaborata, né
abbastanza diffusamente esaminata, secondochè portava la brevità
del tempo : ' dichiarazione insulsa, s'ei non avesse avuta nessuna
sollecitazione a pubblicarla.
Questa dissertazione poi parmi sia stata la prima fra quelle
che portano la stessa data del 1551, perchè dopo il Duca la prima
dedica andava fatta a Lelio Torelli, nelle cui mani si poteva dire
riposta l'amministrazione del governo fiorentino. L'autore vi si
mostra conscio della pericolosa difficoltà del tema, perchè se
l'uomo opera il bene ed il male per una cotal propensione natu-
rale, a che gioverebbero le leggi e le loro sanzioni ? 0 piuttosto con
qual ragione si promulgherebbero? E dove ne andrebbe la fede?
Con qual frutto si sarebbero ingegnati i teologi ad indicarci le vie
per propiziarci Iddio, se noi non potessimo distoglierci di là, dove
natura ci mena con la sua rapina? Parum quoque feliciter tot libro-
rum volumina, id docentia ediderinf, si alio divertere quam quo na-
tura rapit, non licet. » "
Il Porzio coglie a meraviglia tutta l'importanza della sua
ricerca, e si prepara a trattarla da filosofo : promette anzi di
tornarci sopra un'altra volta, se l'approvazione del segretario di
Cosimo gliene avesse dato animo. Il nuovo trattato che qui pro-
' Vedi op. cit. nella lettera: « Laelio Taurello Jurisconsultiss. Florentinoruiu
Duci a secretis Simon Portius S. »
°' Id. loc. cit.
DELLA Vita E DELLE OPERE DI SIMONE POEZIO. 85
mette è un lavoro sul libero arbitrio;: « Qiiod si abs te prohari
sensero, animum ad liherum arhitriiim expdendiim addideris. » '
L'opera promessa non fu pubblicata, dunque l'approvazione del
Torelli non ci fu. Da uomo di affari, il Segretario di Stato capì
forse, essergli più facile proteggere Francesco Kobortello dalle
richieste de' Lucchesi per l'omicidio quivi commesso, che non già
le dottrine del Porzio dagli assalti de' teologi. Ora il Porzio, seb-
bene fosse l'anno avanti andato alla Chiesa dell'Annunziata a go-
dervi le indulgenze del Giubileo, non dubitava di conchiudere la
dissertazione con queste parole ; « Haec sunt quae his feriis ex
Peripateticorum placitis, mdla hahita ratione nostrorum theologo-
ritm, in medio produximus. - « Non tener nessun conto de'teologi
era peggio che combatterli ; ed il Torelli sei sapeva. Invano
(Giambattista Gelli, che quell' anno stesso ne stese e ne pubblicò
la traduzione, con amichevole e cauto consiglio cercò di rimediare
all' ingenuità del filosofo, tagliando netta la sfida ai teologi ; che di
simile argomento il Porzio non pubblicò più altro.
Lisorge però qui un dubbio, come vada, cioè, che tra le opere
di lui i biografi annoverino una col titolo: De fato, la quale poi
col fatto non riesce di ripescare. Per ricerche che ne abbia fatte,
ninno me ne ha saputo dare notizie, e qualcuno mi ha espresso
l'opinione che il libro De fato sia tutt'uno con l'altro di cui stiamo
discorrendo; tratto in errore dalla somiglianza dell'argomento.
Dirò quel che ho raccolto dall'attenta lettura de' libri di Simone
Porzio, in poche parole. Il libro De fato, ed un altro De Ubero ar-
bitrio sono stati certamente composti dal nostro filosofo ; che siano
stati stampati però, non consta, né parmi credibile, non trovando-
sene esemplare né qui a Pisa, dove il Porzio insegnò, né a Firenze
né a Napoli.
Che siano stati composti risulta dalle seguenti esplicite cita-
zioni che ne fa 1' autore, senza dire della promessa scritta a Lelio
Torelli, la quale sarebbe potuta sfumare.
Nel De rerum principiis, di cui diremo tra poco, scrive : « velut
in libello de libero arbitrio ostendimus. » (pag. 47 ediz. del 1561).
E che il libro del libero arbitrio sia stato distinto da quello
sul fato, me lo induce a credere una citazione, che si rinviene una
pagina innanzi a quella testé citata, dove il Porzio dice : « multa
in hanc rem diximus in libello nostro de fato, quale modo ne pre-
lixiores (prolixiores) simus, omictimus. » Ora a me sembra che
' Id. loc. cit.
* Op. cit. in fine.
86 DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
alla distanza di una sola pagina non si sarebbe convenientemente
citata con due titoli differenti una medesima opera.
A sgombrar poi ogni dubbio cbe il libro del libero arbitrio
non solo è diverso da quello : An homo ec, ina che era già com-
posto, quando l'altro fu pubbblicato, basta il dire che nel pre-
citato libro dedicato a Lelio Torelli, quello del libero arbitrio
v'è citato ben sette volte ; citazioni, che per non esser inutilmente
. prolisso, tralascio, e di cui mi contento riportare una sola, fatta in
fine del primo capitolo: « vduf libro de hominis arhifrio disscrui-
mus » (pag. 9, ediz. del 1551).
La stessa ragione milita pel libro sul fato, che pure viene
menzionato come già composto, circa la fine del libro dedicato
al Torelli. « Sed liane omnm libro de fato copiosins et exqnisitius
decìaravimus. » (pag, Q'o ediz. del 1551).
Può darsi ancora che Simone Porzio abbia, seguendo l'esem-
pio del Pomponazzi, radunato la trattazione del libero arbitrio
e del fato in una sola opera, intitolandola: De fato et liìtero arbi-
trio : onde nelle citazioni, secondo l'occorrenza, ha potuto men-
zionare ora una parte ora l'altra della intestazione complessiva.
Di ciò mi darebbe indizio la seguente citazione che si trova nel
J)c rerum prineiiyiis :
« Simt et rationrs Fetri Pomponalii qui liane sententiam mor-
dicns defendit libro suo de Fato: veruni nos in nostro eiusdem ar-
cjumenti libello cis abunde satisfccimus : quas si quis postulai . inde
})etat licebit » (pag. 48 v., ediz. del 1561).
E la sola volta che il nostro Porzio accenna al Pomponazzi
e non a proposito della questione dell'immortalità; e lo menziona
per dire che gli ha risposto abbondevolmente. Che se il filosofo
napoletano rimane fedele ai principi! di Aristotele: se è costretto
quindi a dichiarare al suo amico Lelio, che sono stretti e piccoli i
termini del nostro arbitrio, e che molti predatori gli stanno da
torno; tuttavia ei gli fa sempre più larga parte di quel che glie
ne avesse conceduta l'audace Perotto. Il nome di Aristotile, e l'ar-
dore che ferveva di quei tempi nel tradurre i documenti della coltura
greca e latina gli erano certamente valido usbergo ; ma d' altra
parte, qualche concessione agli uomini che l'accerchiavano gli era
pure indispensabile. La stessa obblivione in cui lasciò cadere
quest'opera, o queste opere sul libero arbitrio, e sul fato, ce ne
danno un chiaro indizio.
Il Gelli, che tradusse l'opera del Porzio l'anno stesso che fu
da lui pubblicata nel testo, dedicandola al figlio di Lelio Torelli
DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 87
a nome Francesco, ci fa sapere di averlo fatto « desiderando di
tanta sua utilità far partecipe maggior numero di huomini, come
di cosa oggi forse più utile e più necessaria, che di molte al-
tre. » E poiché quell'anno egli, insieme con Pierfrancesco Giam-
buUari, con Benedetto Varchi e con Carlo Lenzoni, era stato no-
minato accademico, le lodi fatte all'eccellentissimo filosofo M. Si-
mone Porzio napoletano acquistavano maggiore autorità, N' ebbe
invidia il Fabbroni, due secoli dopo, e si mostrò meravigliato che
tanta importanza gli avesse attribuito il Creili; perchè a lui pa-
reva che dopo averne lette le opere non se ne diventava né più dotto
né più buono.
L'opuscolo De dolore, pubblicato pure il 1551 pe' tipi del Tor-
rentino, fu dedicato a Guido Guidi, ch'era stato archiatro di Fran-
cesco I; medico il quale congiuugeva gli studi della medicina e
della naturai filosofia, e che soleva leggere con avidità le cose del
Porzio. Allora la filosofia e la medicina erano molto connesse, ed
il Porzio professava, come abbiamo visto, e l'una e l'altra. Egli vi
si propone di assodare che il dolore non è spiegabile con sole
cagioni corporali: non con la dismisura del temperamento; non con
la soluzione di continuità; e conclude ch'è una contrazione del-
l'anima, come il piacere è una effusione.
A proposito di questo libro il Giovio scriveva allo stesso Porzio,
che un poeta nuovo, stato maestro di scuola a Firenze gran tempo,
quando ebbe vista l'intestazione: De dolore Simonis Portii, do-
mandò ingenuamente il Varchi: oh! gli sarà forse morto qualche
figliuolo al Porzio, che gli avrà cagionato questo dolore?
Nel catalogo riportato dal Toppi è menzionato un altro libro
De dolore ccqntis come stampato a Napoli il 1538, che niuno ha
visto, e che molto probabilmente sarà stata un'alterazione del titolo
di questo pubblicato a Firenze il 1551. Vero è che la indicazione
del Toppi è precisa a segno, da informarci perfino che il formato
era in ottavo; ma non sarebbe la prima citazione precisa che si
verificasse sbagliata, o inventata di sana pianta.
Lasciando ora queste minori publ)licazioni, trattiamo alquanto
più distesamente della opera De mente humana più importante non
solo tra quelle venute fuori questo anno 1551, in cui si pubblicò il
più gran numero de' lavori del nostro filosofo, o si ripubblicarono
i precedenti ; ma fra tutte quelle ch'egli abbia composte e prima
e dopo.
Noi sappiamo di certo che, nell'insegnamento dato a Napoli, il
Porzio si era occupato de' libri De anima : ne fa aperta testimo-
88 DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
nianza il Marta nel pubblicare i due opuscoli psicologici rimasti
inediti, come di sopra s'è detto. Sappiamo inoltre, che il Porzio
non s'era appagato del semplice commento de' libri aristotelici ;
ma aveva composto del suo un libro : De partihus animae. ' Sap-
piamo finalmente che di questo suo lavoro quasi giovanile ei tien
conto e fa menzione ancora nel libro ; An homo, ecc. '
E poiché di questa opera del Porzio non è stato fatto, ch'io
sappia, cenno da nessuno, mi preme assodare, ch'essa non è da
confondere col commento del libro aristotelico De partibiis ani-
maliiim, e ch'è una vera e propria opera del nostro filosofo. ^
Compresa con questa De partihus animi T^otvehhe essere l'altra
De motihiis animi, ch'ei menziona pure come opera sua ; e se non
compresa, certamente di argomento psicologico. ^
Tutte queste cose ho voluto ricordare, parte per richiamare
alla memoria libri del nostro autore finora ignorati, parte per
chiarire quanto, ed in che modo egli avesse, atteso agli studi psi-
cologici, principalmente quando incominciò l'insegnamento a Pisa.
E ciò perchè tutti i biografi del Porzio, fondati sopra una lettera
di Francesco Spino a Pier Vettori, hanno dato ad intendere '^che
il Porzio su le prime non avesse corrisposto alla grande aspet-
tativa che si aveva di lui. Lo Spino difatti informa cosi Pier Vet-
tori : che il dì 8 novembre il Porzio aveva cominciate le sue lezioni
con grandissimo concorso di uditori ; che la sua prelezione mi-
rava alle Ilefcore di Aristotele ; che sul finire della lezione in
molti si misero a gridare: « anima, anima: » che, sforzato, principiò
suo malgrado l'esposizione del terzo libro dell'anima ; ma che gli
scolari non ne furono molto sodisfatti. La lettera tende ad insi-
nuare che il Porzio avesse cominciato con un fiasco. Ora noi che
abbiamo sott'occhio i libri del Porzio su questo argomento, com-
posti e prima e dopo di quel tempo, incliniamo a sospettare che
' « Verum sunt aliae rationes, quas in libro meo de partibus animae di.vi. »
Opuscula Simonis Portii — Neapali, 1573, pag. 35.
2 « Velut latiìcs in libro de partibiis animi demonstrm-imìis. » V. « An homo
bonus vai malus. » etc, pag. 32 nnll'efliz. del 155).
3 Ecco difatti come nell'opera medesima cita il libro di Aristotele: « Ut prò -
lixius, cum libriim secundum d-i Partibus animaiium inteì^pretaremur, supe-
riori anno dispiitavirniis. » Op. cit., png 15.
L'opera sua è De partibus animi: l'opera di Aristotele, De partibus ani-
maiium.
* Ecco la menzione di quest'altra opera, sfuggita parimente all'attenzione di
tutti i precedenti biografi del Porzio:
« Multa de animi motu, in libello nostro, quem de animi motibus, atque in eo
quem de arbitrio inscripsimus, olim receusuimus. » Op. cit., pag. 31.
DELLA VITA E DELLE OPERE DF SIMONE PORZIO, 89
tanto chi informava, quanto il Vettori a cui le notizie si manda-
vano, nutrissero un pochino di gelosia verso del filosofo napole-
tano : il qual sentimento traluce da questo modo che usa lo Spino
nello indicare il Porzio : Portius vero ille philosophus. Pier Vet-
toii poi la pretendeva a primeggiare fra tutti nella cognizione
de' libri di Aristotele; onde non senza propria sodisfazione doveva
sentire che il nuovo competitore non fosse tanto eccellente, da
oscurare la sua fama. E che di tal fama godesse, si rileva dalle
seguenti parole, con cui parla di lui il Segni nella dedica della tra-
duzione della Rettorica aristotelica fatta a Cosimo de' Medici
l'anno 1548: /
« Né io so, scrive il Segni, se altro huorao si trovi (non pur
dico nella nostra città, quanto in tutta l'Italia) che la dottrina,
che s'appartiene per intender perfettamente questa arte, sappia
meglio che Piero Vettori nostro, huomo sopra d'ogni altro dot-
tissimo, e da me amato singularissimamente. »
Queste lodi espresse in simil forma non mi paiono scevre di
significato per rispetto al Porzio: checché sia però di ciò, egli è
certo che rivincita piìi degna non poteva pigliarsi il filosofo na-
poletano sopra de' suoi emuli : la disputazione De mente huniana
è tal prova della sua competenza in quelle controversie, quale
difficilmente avrebbe potuto dare nessun altro a' tempi suoi.
L'opera fu dedicata a Mariano Savelli, figliuolo di quel Giam-
battista che il 1548 successe a Stefano Colonna nel supremo co-
mando dell'esercito ducale. Il Porzio la dedica al figlio per l'an-
tica amicizia che lo legava al padre, e per averlo visto inclinato
agli studi filosofici. « Eccoti qua un palloa da nuoto, gli scrive, il
quale ti aiuterà a galleggiare in quel vasto gorgo, che Aristotele
ha cosperso del suo inchiostro. » Il filosofo napoletano disdegna di
misurarsi coi latini che si sono soffermati su la soglia della ve-
rità; ed entra in lizza con gl'interpreti greci, i quali, a suo av-
viso, neppure hanno colto il vero metodo d'Aristotele nella trat ■
tazione dell'anima.
Il presente libro del Porzio vince il celebre opuscolo di
Pietro Pomponazzi De immovialitate ammae, non solo per la ele-
ganza della forma, ma per maggior larghezza di dimostrazione.
Imperocché dove il Perotto si circoscrive alla funzione psichica
dell'intelletto; il Porzio ripiglia la questione dai primi principii;
la tratta come connessa con la fisica, con la fisiologia e con
l'etica aristotelica: raffronta i luoghi attinenti al proposito, chia-
risce uno con l'altro; e, prevalendosi della perizia nella lingua
90 DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
greca, discute le varie lezioni del testo non solo de'lil)ri aristo-
telici messi a stampa, ma altresì de'codici manoscritti. Kaggua-
gliata ogni cosa, questa dissertazione su la mente umana è, a
mio giudizio, il miglior libro di critica aristotelica che noi pos-
siamo vantare nel Kisorgimento.
La conclusione a cui arriva il Porzio non è nuova ; essendo
la medesima a cui era pervenuto con minor dottrina, ma non
con minore acume il Pomponazzi: con tutto questo i contempo-
ranei ne furono, o se ne mostrarono, scandolezzati come di nuova
bestemmia: i lamenti contro l'empietà dell'autore non mancarono.
Paolo Giovio difatti gli scriveva cosi: « preti riformati si sono
scandalizzati, per non dire ammutinati, del titolo del vostro libro
De ìììnifr Jiumann, dicendo che non vuol dire altro in effetto,
che Delibero animi arhitrio'. per il che è stato arenato, e poco
mancò che non a1)l)i dato a traverso. »
Le riserve usate dal Pomponazzi alibondano altresì nel Porzio;
ma non approdarono a lui meglio che al suo antecessore. Invano
entrambi protestarono, altro essere il discorso del filosofo natu-
rale, ed altra la credenza religiosa; invano entrambi si mostra-
rono ossequenti ai decreti della Chiesa; che i detrattori non se
ne contentarono. La casa de'Medici fece e verso l'uno e verso
l'altro però bella mostra di tolleranza, e se Leone X aveva la-
sciato dire il Pomponazzi, Cosimo non solo non si offese della
pubblicazione del Porzio, ma, come abbiamo visto, gli continuò
la sua benevolenza.
11 Porzio non ebbe molestie, ma smise dallo stampare i ri-
manenti suoi scritti; ed a questo o sgomento o disdegno dobbiamo
forse la perdita degli altri lavori da lui certamente composti, e
pur nondimeno lasciati inediti. Anche l'amico Creili, il volgariz-
zatore delle dottrine del nostro filosofo, lasciò inedita la tradu-
zione del De ineiìte hiimann; la qua! traduzione par che si trovi
tuttavia manoscritta nella biblioteca di Parigi, poiché il Marsand
la registra nel catalogo de'codici al numero 79. E poiché la nostra
letteratura filosofica non è molto ricca di opere scritte con pre-
cisione di linguaggio, e con eleganza di gusto, non sarebbe inutile
di pubblicare questa con tutte le altre traduzioni fatte dal Creili ;
e quanto al De mente liumana non sarebbe neppure soverchia la
ristampa del testo latino; perchè qualcosa ci si imparerebbe
anche oggidì.
Giambattista Gelli, il quale non aveva dubitato d'inserire
ne'dialoghi tra Giusto e la propria anima il grazioso e pungente
DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMOME PORZIO. 91
racconto del libro di Lazzero interpretato da'Papi ; senza dar
retta ai clamori levatisi contro il Porzio, aveva tradotto dunque
il nuovo libro come aveva fatto de'precedenti. L'opinione del
Gelli poi era die Aristotele n'era in forse egli stesso, e perciò
parlava in modo « die non si possa cbiaramente cavare da le
sue parole, s'egli la tiene immortale o mortale: ma va dando un
colpo quando in sul cercbio, e quando in su la botte; di maniera
che ci è chi tiene di mente sua che l'anima sia immortale, e chi
mortale. » ^ Capacitato di quest'ambiguitcà de'testi aristotelici,
persuaso anzi che l'ambiguità fosse usata ad arte per coprire il
difetto delle vere ragioni, il Gelli doveva trovare naturalissimo
che si potesse sostenere il prò ed il contro. 11 Porzio è più ri-
soluto: ei rifiuta addirittura ogni interpretazione che si fosse
volta a prova della immortalità. La critica moderna è andata
più oltre ancora, e non contenta di attribuire ad Aristotele la
dottrina della mortalità dell'anima individuale, l'ha estesa anche
a Platone, con cui Aristotele si troverebbe perfettamente d'accordo,
salvo il di\'ario della terminologia de'rispettivi sistemi. Così ha
fatto recentemente il Teichmiiller, j)rofessore all'università di
Dorpat. ^ Quanto ad Aristotele, nessuno de'più valorosi critici ne
dubita, onde si può dire che gli studi recenti abbian dato ra-
gione alle accurate ed ingegnose interpretazioni del filosofo na-
poletano.
11 1552 pe' tipi del Torrentino esce fuori un opuscolo inaspet-
tato: che cosa è ? L'esposizione del Pater noster: Chi n' è l'autore ?
11 Porzio; e nuova meraviglia ancora, il Gelli l'ha tradotto in
volgare; tradotto prima che fosse pubblicato il testo latino. La
traduzione, difatti, porta la data del 1551, e fa fatta ad istanza
dell'autore, come dice espressamente il traduttore nella lettera
del 15 novembre di questo anno indirizzata a Bartolomeo To-
lomei.
Perchè tanta fretta nel tradurre ? A me sembra che amici
del Porzio, a cessare i richiami contro la sua ortodossia, gli ab-
biano suggerito il consiglio di comporre un qualche lavoro di
religione; e che la traduzione, come quella che poteva correre
' Capricci del Bottaio di Giovambattista Gelli, accademico fiorentino. —
Venezia, 1550, pag. 43.
^ Noi non possiamo entrare in questo luo?o a discutere la nuova interpreta-
zione data dal Teichmiiller delia dottrina platonica. Si riscontrino le opere del
precitato filosofo: Die pla'onische Frage Bine Streitschrift ffegen Zeller, von
Gustav Teichmiiller. — Gotha, 1876, pag, 41. — Studien zur Geschichle der
Beg>-iffe, Berlin 1844, p. 343-7.
92 DELLA VITA E DELLE OPEEE DI SIMONE PORZIO.
per le mani di tutti, fu stimata di maggior urgenza, che non
l'opera stessa.
« Formae orandi cJirisf ianae enarratio Simonis Portii. Eius-
dem in EvangeUum Divi Joannis Scholion. » Eoco il titolo del-
l'opuscolo diviso in due parti, una dedicata al Cardinale di Toledo;
l'altra a Geronimo Ricci, vescovo di Pavia. Col primo il Porzio
sì duole della perturbazione religiosa avvenuta per opera della
Protesta, più dell'essersi insinuata anche in Italia, anche a Roma :
col secondo si scolpa dell'ardimento, con cui egli profano, versato
in studi naturali, osa di un tratto volare su nel cielo; quasi quasi
trapela, mal dissimulato, un fino riso d'ironia. A me non è riu-
scito aver sott'occhio questo opuscolo del Porzio nel testo latino
il quale per altro si trova nella biblioteca nazionale di Napoli;
ma nella Corsiniana di Roma ho potuto leggerne la traduzione
del Gelli dedicata al Cardinale di Ferrara con la data del 15 no-
vemlìre 1551. — L'opera ha tutta l'aria di uno scritto composto,
come si direbbe ora, con la tendenza di chiarirsi ortodosso nella
religione; e credo che l'autore riuscì nell'intento. Allora, come
forse in tutt' i tempi, appresso di noi si badava piìi alle appa-
renze che alla sostanza: si faceva più caso di una deviazione in
una data credenza, che della negazione recisa del fondamento di
ogni fede; si odiava più la Protesta, la quale cercava di mondare
qualche ramo secco, che non la dottrina aristotelica la quale sbar-
bicava l'albero dalle radici.
Il Porzio, fornita la pubblicazione del Modo di orare cristia-
namente, come traduceva il Gelli, partì di Pisa ; né si può dire
di aver patito un dolor di capo pei suoi libri filosofici; che anzi,
come abbiamo visto, si faceva valere appresso il Pontefice per be-
nemerito della Chiesa. A Napoli, il 1553, poneva per l' ultima
volta mano alla stampa dei due libri intitolati: De rerum nafu-
ralium principiis: ma l'opera era stata composta a Pisa, conforme
si raccoglie dalla lettera dedicatoria premessa all'edizione del 1553,
e tralasciata, non so perchè, nella edizione del 1561. '
1 Essendo rarissima l'edizione dei 1553, stimiamo di riferire integralmente questa
dedica, come ci è stata cortesemente ricopiata dal cav. Scij)ione Volpicelia. Essa
contiene alcuni particolari che ci sembrano importanti.
« Illustri ac reverendo Marco Antonio Columnae Simon Portius S. — Plurimum
quidem bonae artes, earumque professores tuae lamiliae, ac tuis avis. Marce An-
toni suavissirae, debent: qui illas auxerint, et studiose nutriverint; hos vero semper
amaverinl, et in primis observaverint. Verum Pompeio Columnae, cardinali amplis-
simo, mugno pairuo suo, longe amplius equidem me debere sentio; quod incredi-
bili quadam sua humanitate, Inter suos quoque familiares ascripserit. Tibi tamen
DELLA VITA. E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 93
Da questa lettera apparisce che il Porzio aveva pronti non
solo i libri, ma perfino la dedica fin da quando era ancora a
Pisa; che dunque se, scambio di pubblicar questi, diessi a chio-
sare l'orazione domenicale, un qualche motivo doveva esserci stato:
apparisce che, oltre al commento de' primi due libri della fisica
aristotelica, aveva in ordine il rimanente commento; che la po-
dagra ne lo impedì: apparisce che da giovine era stato tra i fa-
migliari del cardinale Pompeo Colonna, protettore del Nifo; che
da vecchio era stato maestro del giovinetto Marco Antonio Co-
lonna andato appositamente a Pisa per frequentare le lezioni del
nostro filosofo con ardore veramente meraviglioso per la sua età.
Marcantonio Colonna, nato a Civitalavinia il 26 febbraio 1535,
non aveva piìi di diciotto anni, quando il Porzio gli dedicava il
commento de' primi due libri della fisica: ne doveva avere ancora
meno, quando venne all'università di Pisa. Questi, che venne poi
in tanta fama per la parte presa albi battaglia di Lepanto, si for-
tificava la mente di buoni e severi studii, quali erano le lettere
greche e le latine, e di poi la filosofia. Quando poi, più tardi,
Pio V con Breve del dì 11 giugno 1570 lo nominava capitano ge-
nerale e prefetto di tutta l'armata navale che si muoveva contro
de' Turchi, era Duca di Paliano, nobile di Venezia, feudatario del
Ee di Spagna, e gran Conestabile della corona di Napoli.
Ma lasciando la parte estrinseca del libro, che il Porzio pub-
blicò ultimo, e quasi alla vigilia della sua morte, è pur necessario
dire della sua importanza.
Sebbene l' intenzione dell' autore fosse stata di fare un com-
mento, pure la trattazione procede cosi coerente, così spigliata,
che tu la crederesti opera originale, se 1' autore medesimo non
nescio qua maiori necessitudine devincior : quod te in id unum stndere, ut ne quid
raearum in philosophia lucubrationum ant fugiat, aut latear, animadvenam. Huc
accedit quod vix dum e pueritia exced-^ns, post, graecae, latinaeque linguae pei-itiam,
summo ardore ad plùlosopliiani nostrani peripateticam cont.endis ; ut et conqnisitis
undique praeceptoribns, ei diligentem operam nàves : et in Academiam pi-anam ad
me senem, atque ex pedibus laborantem mira spe, ac fide accesseris, quo quae ia
Aristotele obstrusa ac difScilia habe;itur, mea opera libi eruautur ac explicentur,
Sed quoniam studia, quae lecte, ordineque instituuntur, ab optimi? initiis, velut
omnium phiiosophorum consensus docet, sunt auspicanla ; iccirco de rerum natu-
ralium primordiis opusculum tibi mitto; ut inde quis sii primi et secundi naturalis
auscultationis libri sincerus et genuinus sensus ediscas : ea eiiira tam sunt tempora,
ut non minor sit ambages evitandi, quam veritatern sectandi, labor. InteliiLi-es autern
ex eo, quantas in naturalium principiorum explica'ione Latini quidam ineptias ef-
futiverint. Quo i si hanc tractationena tibi non di^plicere audiam; prop^-diem reli-
quam ejus commentationis Aristotelis partem, quae est de raotu, simuLvtque a raeis
doionbus quievero, accipies. Vale, ex Accademia Pisana- »
94 DELLA TITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
ti avesse posto su 1' avviso. La falsariga del testo diviene affatto-
impercettibile, perchè il commentatore non vuol ripetere noiosa-
mente le cose dette, ma, dopo tante veglie spese nello studio
della filosofia, qualche frutto vuol apportare del suo campicello ;
^< si de nostro (juoque agello. post tot tantasque vigilias, aliquid
ad/erre liceat. » ^
Fatta la distinzione tra libri essoterici, o popolari, (|uali sona
gli Etici, ed i Problemi, e libri acroamatici, il Porzio nota che
la risica ha ritenuto il nome di libro acroamatico per eccellenza,
come il più poderoso. Qui Aristotele gitta le prima fondamenta
del suo vasto edificio : qui dunque bisogna far capo per inten-
dere il resto. Con questo criterio il Porzio, come abbiamo av-
vertito di sopra, allarga sempre le questioni particolari, rime-
nandole ai principii supremi della intuizione universale del
sistema; e non ha né le esitanze degli altri espositori, né le loro
frequenti contraddizioni: egli si può dire l'aristotelico più schietto,
più fedele al testo greco, che ci sia stato in tutto il Risor-
gimento.
Tra i diversi commenti che tenevano il campo ei dispregiava
quasi il latino, come quello che più si dipartiva dalla verace
intelligenza dell'aristotelismo. Due chiose del commento latino
avevano alterato, una la fisica ; 1' altra, la psicologia di Aristo-
tele; la creazione della materia, cioè, e la immortalità dell'anima
umana. Il Porzio, pur riconoscendo che ({uesti due presupposti
sono i cardini della nostra religione; pure aderendovi come cri-
stiano ; non rifinisce dal dichiararli affatto alieni dalla mente,
e dai principii dello Stagirita: né per i|uesto verso è chi possa
dargli torto.
Da questa schiettezza del criterio usato dal nostro filosofo
proviene, che mentre il commento latino e l'arabo, sebbene il
secondo in minor misura del primo, non hanno oggidì altra im-
portanza, che per intendere lo sviluppo della Scolastica e del
Risorgimento ; il commento greco, e segnatamente quello del
Porzio, giovano ancora alla diritta interpetrazione di Aristotele.
Dico segnatamente quello del Porzio, perchè egli per lo inten-
dimento de' testi aristotelici non si giova d'altro sussidio, che de'
testi dello stesso autore ricavati da altre opere, e diligentemente
messi a riscontro : il che non sempre praticarono Temistio e
Simplicio, i quali non di rado frammischiarono alla interpetra-
' De rerum princìpiix, 1561, jiai^. 4.
BELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO. 95
zione di Aristotele dottrine raccolte o da Platone o da altri filo-
sofi. Di che nasce la preferenza concessa dal Porzio ad Alessandro
d' Afrodisia ; preferenza eh' egli ha in comune col Pomponazzi.
Non voglio qui omettere un'avvertenza, ed è, che i tre più grandi
rappresentanti del triplice commento aristotelico appartengono
all' Italia meridionale. Napoletano Tommaso di Aquino, oh' è il
più chiaro ed ordinato tra i commentatori latini: napoletano
Agostino Nifo, eh' è forse il più grande averroista: napoletano
finalmente Simone Porzio, che tornando alle fonti greche, benché
venuto dopo del Pomponazzi, gli contende e talvolta gli toglie di
mano la palma. E quando si consideri che nel torno medesimo
di tempo, che il Porzio mirava a ripresentare il genuino Ari-
stotelismo, svestendolo dell' abito disadorno e variopinto, onde lo
avevan ricoperto le scuole, Bernardino Telesio lavorava a com-
batterlo di tutta sua forza, non si può a meno di ammirare la
sempre feconda vena filosofica di quella gloriosa parte d' Italia.
Riiccogliendo ora il risultato delle nostre ricerche intorno
alle opere del Porzio, ne enumeriamo i titoli, scrivendo in cor-
sivo quelle, che sebbene menzionate dall' autore, pure non ci è
venuto fatto di vedere, o di sapere pubblicate. In questo cata-
logo non annovereremo punto il De ccelihatu. perchè né l'ab-
biamo potuto trovare, né l' abbiamo visto menzionato in altre
opere dello stesso autore. Seguiremo l' ordine cronologico, e di
quelle che sono state tradotte dal Gelli daremo, subito dopo,
r anno della traduzione.
1. De puella germanica, qiiae fere biennium vixerat sine cibo, potiique, ad
Paulura III Pontificem Maximum Simonis Portii disputatio. Senza data
di anno.
C è un' altra edizione ; Plorentiae 1551, apud Laurentium
Torrentinum, in 4.
« Disputa dello eccellentissimo filosofo Simon Portio Napoletano sopra
quella fanciulla della Mag"na, la qual visse due anni, o più, senza man-
iriare, et senza bere ; tradotta in lingua fiorentina da Giovambattista
Gelli. Con privilegio. In Firenze, iii 8. »
2. De Conflagratione Agri puteolani, Simonis Portii neapoletani Epistola,
Neapoli, apud Io. Sultzb.ichium, 15158.
C'è un'altra edizione: Florentiae 1551, in 4.
Questa lettera tradotta dal latino fu da Jacobo Antonio
Buoni inserita nel suo Dialogo del terremoto, Modena 1571,
3. Dì Coloribus libellus a Simme Portio Neapolitano latinitate donatus, et
commentariis illustratus : una cum eju^dem praefatione, qua coloris
96 DELLA VITA E DELLE OPERE DI SIMONE PORZIO.
naturaui declarat. Florentiae 1548 ev officina Laurentii Tonentiui,
curn privilegio, in 4.
Ce n'è un'altra edizione con questa variante: Aristotelis vel
Teophrasti de coloribus. Parisiis apud Yiscosanum 1549.
4. De coloribus oculorum Simonis Portii Xeupoletani. Florentiae 1550,
apud Laurentium Torrentinum, in 4.
« Trattato de' colori degli occhi dello eccellentissimo filosofo M. Simone
Portio Napoletano ec, tradotto in volgare per Giambattista Gelli. In
Fiorenza appresso Lorenzo Torrentiuo 1551, in 8. »
5. An homo bonus, vel malus volens fiat, Simonis Portii disputatio. Ad
Laelium Taurellium .Turisconsultiss. Duci flore ntinorum a Secretis. Flo-
rentiae 1551, in 4.
«Se l'homo diventa buono o cattivo volontariamente. Disputa dello eccel-
lentissimo filosofo M. Simone Portio napoletano tradotta in volgare
per Giovambattista Gelli. In Firenze appresso Lorenzo Torrentino 1551, »
6. De dolore Simonis Portii disputatio, 1551.
1. Simonis Portii Neapoletani de humana mente disputatio. Florentiae 1551,
apud Laurentium Torrentinum, in 4.
Tradotta dal Gelli, ma la traduzione è inedita.
8. Formae Grandi Christianae, enarratio Simonis Portii. Ejnsdem in Evan-
gelium Divi Jnannis Scholion. Florentiae 1552 apud Laurentium Tor-
rentinuu], in 4.
« Modo di orare christianaraente con la esposizione del Fater noster fatta
da M. Simone Portio Napoletano Tradotta in lingua fiorentina da
Giovanbattista Gelli. In Firenze 1551, in 8. »
9. De rerum naturalium principiis, Simonis Portii Neapolitani, libri duo :
quibus plnrimae, eaeque haud contemnendae quaestiones naturales expli-
cantur. Ad illustrera ac Reverendura ÌNIarcum Antonium Oolumuam.
Neapoli, Excudebat Mathias Cancer. 1553.
Ce n'è un'altra edizione: Neapoli apud Jo. Mariani Sco-
tum 1561.
10. Opuscula excellentissimi Simonis Portii neapol. cura Jacobi Antonii
Marthae philos. Neapolitani apologia etc. Neapoli 1578.
11. 7/ catalogo de'' pesci., di cui si trova menzione in una lettera del Pinelli.
12. De Fato ]
13. De libero arbitrio { di cui si trova menzione ne' libri editi dal Porzio
14. De animi partibus i stesso.
15. De animi motibus 1
Concliiudo questo catalogo col voto die più accurate ricer-
che possano farci rinvenire a Napoli questi manoscritti di Si-
mone Porzio.
F. Fiorentino.
MIO FIGLIO STUDIA.
RACCONTO.
Quell'anno nostro figlio ci aveva promesso solennemente di
studiare, di essere uno dei primi della scuola.
Evangelina ed io gli avevamo detto: « bravissimo! » sog-
giungendo però con un tacito accordo d' indiscrezione che non
doveva bastargli d' essere fra i primi, ma che bisognava mettersi
primo addirittura. Ed allora Augusto aveva spalancato gli occhioni
e ci aveva detto con una specie di terrore che il Panseri era
troppo forte.
Subito quel signor Panseri cominciò a farmi stizza; solo al
pensare che mio figlio aveva tanta paura di lui, mi venivano in
mente certe idee senza senso comune, certi propositi indeter-
minati, certe baldanze inesplicabili, come se io dovessi cacciarmi
non visto nell'ultima panca della scuola, poi, dal posto dell'asino
levarmi in piedi a un tratto e con una vocetta tremenda pro-
nunziare queste parole solenni: <^ Signor maestro, sfido l'impera-
tore romano! » E al cospetto di tutta la scolaresca sbigottita
farmi innanzi a lui, all'imperatore Panseri, e chi.anarlo sul ter-
reno dell' analisi grammaticale e logica, e tentarlo nei so^f^etti.
nei verbi e negli attributi, poi avvolgerlo in un sillogismo tra-
ditore, spingerlo in un dilemma senza uscita e fiirgli perdere
scettro e corona.
Questa singolare idea di prestare la mia scienza a mio figlio
perchè ne facesse un uso tanto fatale al signor Panseri, continuò
a trottarmi per la testa anche quando seppi che nelle scuole
comunali di Milano non usavano i tornei meravigliosi d'una
volta, e che da un pezzo, fin da quando non si studiava più il
VoL. XIV, Serie II — 1 Marzo 1879. 7
98 MIO FIGLIO STUDIA,
qui, quac, qnod in versi, e non ci era bisogno di nascondere la
fenda del signor maestro se non si sapeva la lezione, fin d'allora
nissuno aveva più inteso parlare dell' imperatore romano e del-
l' imperatore cartaginese, suo rivale.
In altri momenti, disperando di poter compiere alcuna di
quelle mie prodezze, guardavo le cose con occhio diverso ; vedevo
mio figlio, che era piccino e gracile, più gracile e piccino; pen-
savo quanto il suo corpicciuolo irrequieto dovesse trovarsi a disa-
gio fra le panche della scuola, sotto gli occhi del signor maestro,
0 me lo immaginavo per lunghe ore curvo sopra una lezione
ribelle ; allora la vantata forza del signor Panseri non mi tirava
a cimento, mi rassegnavo a permettere che quell'imperatore mi-
nuscolo si avvolgesse nella sua porpora senza provare la tenta-
zione di strappargliela di dosso e di far palesi a tutta la scola-
resca le sue vergogne grammaticali.
E dicevo ad Augusto parole riboccanti di senno :
— Tu studia la lezione per aprire la mente alla verità, fa
il compito giornaliero per esercitarti in ciò che avrai imparato:
al signor Panseri non badare neppure, come se non esistesse, e
chi sa che un giorno o l'altro non ti trovi d'essergli passato in-
nanzi senza aver patito le ansie del cimento. La scienza, figlio
mio, ha questo di divino....
Mio figlio non istava ad ascoltare che cosa avesse di divino
la scienza; l'idea di passare innanzi al signor Panseri non gli
poteva entrare per nissun verso ; bastava accennargliela di pas-
sata perchè egli vi si fermasse, sbigottito del mio coraggio, e
facesse di no col capo. Assolutamente, il signor Panseri era troppo
forte, ed io non lo poteva soffrire.
Intanto Augusto mi veniva svelando il segreto del suo nuovo e
straordinario amore allo studio ; quell'anno doveva avere dei libri
nuovi, non so quali e quanti, un'infinità, ed uno più grosso dell'al-
r altro, ma tutti grossi abbastanza !
— Costeranno un occhio del capo, diceva Evangelina, che an-
cora non era guarita del tutto dai piccoli terrori economici che la
tormentavano nei primi anni del nostro matrimonio, quando il mio
primo cliente non si voleva decidere a chiamare in tribunale la parte
avversaria.
— La scienza non costa mai troppo, rispondevo con un sorriso
da milionario; cosi rasserenavo mia moglie e mettevo in capo a mio
figlio una massima, — ed era bella e buona economia anche questa.
Ma sì, Augusto non dava retta a me, non badava a sua madre, la-
MIO FIGLIO STUDIA. 99
sciava dissipare l' interruzione e ripigliava a fare sulle dita il
conto dei suoi libri.
— Il Compendio di Storia, uno, V Aritmetica, due, i Diritti
ed i doveri del cittadino, tre, la Storici, Sacra, la Grammatica....
— Non l'hai già la Grammatica? chiedeva sua madre.
— Quella era la Gramniatichetta, rispondeva Augusto.
E bisognava vedere a che cosa si riduceva in bocca di mio
figlio quella che un tempo era la Gramniatichetta, per compren-
dere che in avvenire non poteva essere più nulla.
Veramente non era già più gran cosa; quando io volli ve-
derla, sebbene piccola ed indegna, per non so quale recondito
istinto di misericordia verso la specie grammaticale, prima Au-
gusto si schermi dicendo che l'aveva nel cassetto, e che nel cas-
setto non ce l'aveva più, e che non sapeva dov'era, poi portò a
sua madre un arnese irriconoscibile. Aveva uno o più occhi dise-
gnati e non finiti in ogni pagina, ed un numero d'orecchi incalcolabile
senza l'aiuto della piccola Aritmetica sua compagna, che non istava
meglio, come accertammo subito dopo. Con tanti occhi e tanti
orecchi, sarebbe stata una crudeltà abbandonare i due libriccini
in questo mondo di calcoli sbagliati e di sgrammaticature, ed io
vidi senza stupore che là mia Evangelina se n'andava a riporre
quegli invalidi in un cassetto.
— Farai lo stesso trattamento ai libri di quest'anno ? Do-
mandai a mio figlio senza rancore, ma con un biasimo sottinteso.
Augusto mi rispose risolutamente di no: perchè i libri di
quell'anno erano tanti, ed erano grossi, ed erano belli, perciò li
avrebbe tenuti con mille riguardi. Ed era proprio come se li
avesse dinanzi; li contemplava con amore e faceva atto di lisciarne
la coperta.
— Quando me li compri, babbo?
— Domani.
— Oggi no? insistè con quella sua civetteria a cui non sa-
pevo resistere.
— E perchè no? chiesi maliziosamente.
Allora lo sfacciatello spiccò un salto, e corse a portare alla
mamma la buona novella che il babbo andrebbe subito subito a
comperare i libri nuovi.
Non andai solo; venne anche lui, e quando ebbe tutti i suoi
libri in un fascio, non li volle più abbandonare; se li prese a
braccetto come buoni amici, e, con ansia mista di sussiego, mi
consigliò di far presto per farli vedere subito alla mamma.
100 MIO FIGLIO STUDIA.
Per via non diceva nulla; la sua testina ricciuta aveva dei
pensieri gravi. A quell'età i pensieri gravi rendono il passo leg-
giero, ed io stentava a tener dietro a mio figlio.
Quando fu alla porta di casa, Augusto spiccò un salto cosi
audace, che la nuova Grammatica, novissima agli esercizi della
scolaresca, non potè reggere, gli scivolò dal braccio e cadde. Cadde,
ma non si fece male, perchè il pianerottolo era pulito; ed io ne
resi grazia agli Eterni ed alla fantesca, pensando all'afflizione che
il piccolo bibliofilo avrebbe provato se avesse visto solo un'ombra
nell'azzurro della coperta immacolata.
In questa come in molte altre cose, Evangelina non aveva le opi-
nioni di suo figlio: essa diceva, per esempio, che si mettono troppi
libri nelle mani della gioventìi, per avere il pretesto di chiamarla
studiosa, e si permetteva di dubitare che Augusto avesse poi a
leggere tutte quelle pagine.
11 piccino era sicuro del contrario e lo affermava a viso
aperto, senza placare la mamma. La quale insisteva:
— Io invece temo che non le legger.ii nemmeno mezze; e sono
poi sicura d'una cosa.... d'una cosa....
— Di che cosa?
— Sono sicura che fra una settimana tutti questi bei libri
avranno perduto la coperta....
— Come devono fare a perderla? domandava Augusto fingendo
di non capire.
— Se non lo sai tu
Allora il piccolo furbo faceva un atto dispettosetto e minac-
ciava di andarsi a chiudere in una camera e di leggere tutti i libri
nuovi d'un fiato, per farla vedere alla mamma. Qnanto alle coperte...
quanto alle coperte... Le lisciava con delicatezza, le guardava con
amore, -- aveva ragione lui intanto.
Ed io dissi senza ridere :
— Serbala sempre questa tenerezza per le coperte dei tuoi
libri, non lasciarti vincere mai dalla tentazione di strapparle per
fartene un cappello da carabiniere, né una barca, né un'oca; bada
a non versarvi sopra il contenuto del tuo calamaio; accontentati di
scriverci il tuo nome, senza illustrarlo col ritratto dei tuoi compa-
gni di scuola e tanto meno del signor maestro. Serbala, sì serbala
sempre questa tenerezza che ora dimostri, perchè l'amore delle
coperte dei libri è il fondamento....
Avevo un' idea vaga che l'amore delle coperte dei libri fosse
il fondamento di qualche cosa, ma non sapevo bene di che, e per
ilio FIGLIO STUDIA. lOl
non dirla grossa volli tacere, sperando, un po' tardi, clie mio figlio
non mi avesse dato l'etta. Invece era là, tutt'occhi e tutt'orecclii,
e mi toccò spingere innanzi la frase ad ogni costo.
E fu cosi che quel giorno affermai solennemente in faccia a
mio figlio, il quale non ne capì una sillaba, essere l'amore delle
coperte e dei frontispizi il fondamento d'ogni dottrina vera
0 falsa.
Se riuscimmo a star seri, Evangelina ed io, dopo esserci
scambiati un'occhiata, bisogna dire che la coscienza dei nostri
doveri seppe fare un miracolo. Augusto ad ogni modo lesse qual-
che cosa nella nostra faccia, capi che ne avevo detta una grossa,
probabilmente veniva ripetendo fra sé e sé la mia frase sconclu-
sionata, ingegnandosi di vederne il fondo, — ed io, per fargli
perdere il filo delle sue idee e correggere alla meglio lo sproposito
paterno, mi affrettai a commetterne un altro.
— Fra tutti quei libri, domandai a mio figlio, quale preferisci?
Non mi capiva.
— Quale ti é più caro ? A quale vuoi più bene?
Li guardò alla sfuggita, con poca speranza di scorgere in
qualcuno delle qualità straordinarie che meritassero un affetto
speciale, — erano tutti nuovi, — non sapeva che rispondere,
voleva bene a tutti.
— E pure, insistei con malizia, ce n'é uno che non ti seccherà
mai, che non ti darà mai un dispiacere, né un affanno, né uno sgo-
mento, che ti sarà amico discreto tutto l'anno.... ed è quello li....
quello, si, proprio quello....
— Il vocabolario ! balbettò Augusto: e soggiunse pigliandolo
in mano:
— Ah! si, perchè è legato, e poi è più grosso I
— Già, è più grosso, ed è legato... per questo... Del resto biso-
gna amarli tutti i libri di scuola, che ci aprono l'intelletto e ci
spezzano il primo pane della scienza...
In fondo era l'idea di mio figlio, anzi egli andava più in là: li
amava tutti senza secondo fine, e non entrava ombra di metafora
nel suo istinto amoroso.
Augusto non era però il solo ad amare i propri libri; ci era in
casa chi li amava più di lui, e d'un amore più cieco, — era Laura,
sua sorella, una personcina alta due spanne, che si reggeva be-
nissimo sulle gambuccie e non barcollava più camminando, ma
ancora non sapeva leggere.
102 MIO FIGLIO STUDIA.
Quello era un amore sviscerato! Se vedeva da lontano un libro
d'A.ugnsto dimenticato sulla tavola, accorreva festosa, immaginan-
dosi di poterlo pigliare, ma giunta presso alla tavola non vedeva
ncanclie più il libro, e allora mandava in giro certe occbiate
smarrite, che facevano ridere il fratello maggiore.
Non rise un pezzo; nella testina di Laura germinò un'ideuzza
baldanzosa; quell'idea, coltivata con amore, crebbe rapidamente,
diventò sublime; ed un giorno la personcina alta due spanne, visto
il Compendio di storia sul tavolino, accorse a gran passi, afferrò
il tappeto, e tirò con tutte le sue forze centuplicate dalla pas-
sione. Non pensava al pericolo che correva col farsi venire ad-
dosso una valanga, o per dir meglio vi pensava, ma era prepa-
rata a tutto, perchè seguitò a tirare; solo all'ultimo momento
chiuse gli occhi, non altro. TI Cornpcmlio di storia cadde travolto
nelle pieghe dell'ampio tappeto; Laurina, rimasta incolume, rialzò
il suo caro caduto, se lo strinse al seno palpitante ancora della
prodezza compita, e venne a posaido sulle ginocchia del babbo, il
quale aveva visto ogni cosa e rideva.
— Non ridere ! mi disse Laurina.
Ammutolii. Essa mi scrutò prima attentamente in faccia per
vedere se dovesse fidarsi della mia gravità, poi apri alla rovescia
il Compendio di storia di suo fratello, e, con un seriume bizzarro,
cominciò a leggere sopprimendo le virgole: — Due più due quattro
più due sei più due otto più due ventidue più due ventiquattro
più due dodici più due quaranta....
Chiuse il libro e soggiunse gravemente: — Ecco, l'ho letto
tutto! — poi se n'andò contenta perchè il babbo era stato
serio.
Ancora la scienza dei miei figli non mi aveva fatto male, ed
io poteva crederla assolutamente innocua; delle ariuzze d'omino
saputo che pigliava Augusto al ritorno dalla scuola non avevo
diffidenza né sospetto, anzi me ne compiacevo e le incoraggiavo
con tutta la rettorica paterna.
— Studia, gli dicevo solennemente, figliuolo mio, studia con
coraggio se vuoi farti uomo.
La frase non aveva bisogno di commento, pei'chè, almeno per
mio figlio, io era un uomo fatto da un pezzo; ma la mia Evan-
gelina credeva necessario soggiungere :
— Piglia esempio dal babbo; studia, e diventerai come lui.
— Diventerò anch'io avvocato ?
MIO FIGLIO STUDIA. 103
— Senza dubbio, entravo a dire, ed avrai una magnifica clien-
tela, e sarai famoso.
— Tu sei famoso ?
— Altro che !
Questa bugia enorme è di mia moglie.
— Quanti libri bisogna studiare piar diventare avvocato famoso?
— Tanti.
— Anche il Coììipcndio di stoì'ia ?
— Anche quello.
— E bisogna saperlo tutto ?
— Sicuramente.
Senza avvedermene, io aveva commesso il più grosso spropo-
sito della mia carriera di genitore.
Augusto mi lasciò' in gran pensiero, e poco dopo l'udii can-
tare nella camera attigua la sua lezione ; ripeteva con una specie
di puntiglio insolito lo stesso periodo, si provava poi a ripeterlo
a memoria, e sbagliava, e si correggeva, e tornava da capo, can-
tando sempre.
— // re di Persia, Dario, figlio d'Istaspe, detto anche Assuero,
volle scegliere una moglie tra le piii oneste....
— // re di Persia, Dario, figlio d'Istaspe, detto anche.... detto
anche.... (pausa).
— Il re di Persia, Dario, figlio d'Istaspe, detto anche Assuero,
volle scegliere una moglie fra le piic oneste ed avvenenti....
Ed io, ignaro della mia sorte miseranda, mi fregava le mani
e non pensava nemmeno a domandarmi qual donna onesta ed av-
venente avesse poi menato in moglie quel Dario figliuolo d'Istaspe,
detto anche Assuero, che non voleva entrare in capo a mio figlio.
— Gli entrerà, pensavo: Augusto è ostinato come suo padre;
vedrai che Dario finirà col darsi vinto, ed entrerà prigioniero con
tutto il suo seguito.
Nel seguito di Dario, per mia disgrazia, ci era della gente
di cui non udivo parlare da un pezzo, e a me allora non poteva
nemmeno passare pel capo che fosse prudente rinfrescarmene la
memoria.
Il dì dopo, Augusto mi venne incontro con un'aria soddisfatta.
— La so tutta ! mi disse da lontano.
— Che cosa ?
Ed egli incominciò addirittura:
— 11 re di Persia, Dario, figlio d'Istaspe, detto anche Assttero...
Ma io aveva alle calcagna un cliente melanconico che biso-
104 MIO FIGLIO STUDIA.
gnava mandare in appello, e con tutta la buona volontà di far
felice Augusto, non gli potei dar retta.
La faccia scura del mio cliente era appena scomparsa dietro
l'uscio, quando si affacciò più sotto, nel vano, la faccetta maliziosa
di mio figlio.
— Dunque, dissi io aprendogli le braccia perchè vi si slan-
ciasse con un salto, come usava fare, dunque il re di Persia, Dario
figlio d'Istaspe, detto anclie Asstiero ..?
Augusto non si moveva, era pieno di scienza.
— Dunque, insistei spinto dal mio destino, dunque voleva sce-
gliere una moglie tra le piìi oneste e le più avvenenti...? E l'ha
poi trovata?
— Lo sai bene che l'ha trovata?
Allora soltanto vidi l'abisso su cui mi aveva spinto la mia
imprudenza; perchè ahi! non lo sapevo uè bene uè male; me ne
ero dimenticato interamente. Mi sentii in balìa di mio tìglio, il
quale poteva darmi a credere, se glie ne veniva la tentazione, che
il re di Persia avesse sposato la sua serva come il nostro vicino
dirimpetto, e feci una ginnastica prodigiosa per salvarmi. Per un
po' mi riuscì; avevo già strappato ad Augusto la confessione che
la moglie di Dario si chiamava Ester, ed era orfana, ed aveva uno
zio chiamato Mardocheo, quando venne ad Augusto la curiosità
di sapere perchè lo zio Mardocheo non si fosse dato a conoscere
al re suo parente. Un perchè ci doveva essere, tanto più, soggiun-
geva mio figlio, che se Mardocheo non avesse fatto cosi, Dario non
si sarebbe fidato tanto di q/telValtro, sai, qneW altro... aspetta...
Io sorrisi ed aspettai con una pazienza esemplare, ma (pensi
chi ha cuor di padre la mia tortura) qitcll'alfro non sapevo pro-
prio chi fosse... Aspettavo e sorridevo: queir altro non venne.
— L' ho sulla punta della lingua, diceva Augusto, e sollevava
gli occhioni al soffitto, o me li metteva in faccia alla sfuggita spe-
rando l'impossibile, cioè che io gli venissi in aiuto senza offenderlo.
Me ne piangeva il cuore, ma fui inesorabile.
— Non la sai ancora bene, dissi: una ripassatina ci vuole...
— L' ho qui... aspetta...
Questa volta uscì di corsa.
Quando egli tornò trinfante a dirmi che quell'altro si chia-
mava Amanno, io mi era tirato dinanzi un grosso volume di P(ni-
dette, e potei far credere a mio figlio d'essere immerso nella
scienza, mentre non facevo che ripetere a me stesso: — Dottore
mio, sei un asino! —
MIO FIGLIO STUDIA. 105
La natura benigna non lia permesso all'uomo, e sia pure l'a-
sino pili convinto, d'incrudelire lungamente contro so stesso. Quelle
Pandette che avevo dinanzi agli occhi e non vedevo erano mie
buone amiche da un pezzo; approfittando dello stupore che segue
ogni gran disastro dell'amor proprio, esse mi parlarono blanda-
mente così:
— Jiistiniani Institutionuìn libri quatuor .. I bei tempi passati
all'Università! Le belle notti vegliate insieme !
lo sospirava e voltava, le pagine senza interrompere.
— Capitis diminidio Iria genera sunt insistevano le dotte pti-
gine, — ed io proseguiva rialzando gli occhi dal libro con una
compiacenza istintiva: «maxima, media, minima, tria enim sunt
quae hahemiis: lihertatem, civitatem, familiam. Igiiur qimm omnia
liaec amittimus... » Omnia haec le so ancora.
Mandavo un sospiro a Mardocheo, e continuavo a sfogliare il
volume
— Fraetoris verha diclini: Infamia notatur.
Ed io sorrideva e senza avvedermeno tiravo innanzi a ripe-
tere ad occhi chiusi le parole confortatrici del pretore.
Ad ogni sentenza latina veniva dietro un codazzo di memorie
allegre; mi ricordavo in che luogo, in qual ora e in compagnia
di chi aveva imparato a distinguere le rcs mancipi dalle ncc man-
cipi, Yhereditas dalla bonornm posscssio ; mi era persino rimasto
ia mente che il vadinioninm (quel vadimomum che gli studenti
di terzo anno mandano inevitabilmente al diavolo per far ridere
i matricolini) aveva prima messo di buon umore me, poi mi aveva
servito a far lo spiritoso con altri.
Ah! Giustiniano ! quello era un gran re! Altro che Dario
figlio d'istaspe!
E mentre una voce nemica mi grid..va da lontano : « e che
ne sai tu di Dario figlio di Istaspe ?» — Giustiniano mi metteva
sotto gli occhi una sentenza che diede un altro corso ai miei
pensieri.
Nascitiirus prò jam nato hahcfitr, dicevano le Pandette, ed io
colpito da un senso nuovo che mi si rivelava in quella massima,
esclamavo: «E vero! mio figlio era vivo prima che nascesse!»
Lieto di questa chiosa che mi pareva più profonda di tutta
la dottrina del pretore, me ne andai allegramente ai tempi lontani
in cui non avevo nò un figlio né un cliente.
Ritrovando più tardi il mio re di Persia implacabile, prima
mi strinsi nelle spalle, poi lo mandai a farsi benedire.
106 MIO FIGLIO STUDIA.
— Il tuo regno è finito, gli dissi, è finito da (qui, se lo avessi
saputo avrei messo un numero preciso d'anni, di mesi e di giorni
per dar solennità al mio periodo) è finito da secoli, e ad un ga-
lantuomo dev'essere lecito vivere senza immischiarsi nei fatti tuoi.
Io poi faccio l'avvocato, e lo faccio bene ; domandane al tuo col-
lega Giustiniano; ho tante faccende io; e se a suo tempo mi sono
rotto la testa per fartici entrare, oggi sono nel mio diritto pre-
tendendo che tu n'esca tutto d'un pezzo.
E per istinto d'arte oratoria agitavo la testa come se ci fosse
davvero.
La mimica che accompagnava il mio monologo durava ancora
e il monologo era già finito, quando mi avvidi d'avere un testi-
monio — Augusto, il quale collo zaino ad armacollo veniva a darmi
il bacio prima d'andare a scuola.
Per solito quella scenetta seguiva così: « Si può? » diceva mio
figlio. Non altro, ma io intendevo: « Sono qua per il bacio, » e su-
bito, da qualunque lontananza di codice, accorrevo col pensiero,
aprivo le braccia, egli vi si slanciava facendo un tentativo per
respingere lo zaino, che entrava sempre di mezzo in quell'am-
plesso, ed i nostri tre co)"pi si aHacciavano stretti. « Mi racco-
mando » dicevo poi con solennità paterna, sprigionando Augusto
il quale se ne andava seguito dal suo zaino enorme, ed io sten-
tavo a ritrovare Valinca in cui ero rimasto, perchè mettevo bensì
gli occhi sul codice, ma il pensiero accompagnava un tratto mio
figlio.
Questa volta, baciando Augusto, sentii che qualche cosa s'era
mutato nei rapporti tra me e lui, e che il mio amore paterno,
l'unico amore in cui credevo non dovesse entrar mai la civette-
ria, aveva anch'esso le sue vanità.
Ero stato sempre per mio figlio il migliore degli uomini, e
non avevo mai rifiutata nessuna delle perfezioni che egli mi at-
tribuiva. Perchè me lo mettevo a sedere sul braccio teso e lo
portavo in giro per la camera, egli mi ammirava dicendo: « Come
sei forte ! » ed era perfino andato a dire in cucina allo spacca-
legna che il babbo era più forte di lui.
Gli era bastato vedermi curvo sopra i grossi volami, e con-
tare i palchetti della mia libreria per non dubitar più che io
fossi un 2)ortento di dottrina. « Tu sai tutto ! », mi diceva nel
tempo in cui egli non sapeva nulla, e in (juesta idea trovava un
conforto alla sua ignoranza.
«Tu sai più del maestro!» affermava qualche volta, ed io
MIO FIGLIO STUDIA. 107
capivo subito che quel giorno il signor maestro aveva abusato
della sua scienza per tormentarlo. Non dico che fossi propria-
mente in buona fede intascando tutta quella ammirazione, ma ci
trovavo gusto e sapevo di far felice mio figlio.
Ahi! Quella opinione magnifica che Augusto s'era fatta del
babbo, non poteva più durare ! Grià Dario figlio d'Istaspe aveva
dato il primo colpo alla mia grandezza bugiarda; chi sa se prima
di sera un altro personaggio famoso non sarebbe uscito dalle pa-
gine del Compendio di storia per isvergognarmi in faccia a mio
figlio !
Mi. sentii ripigliare dai miei dubbi; tutto ciò che mi ero messo
dinanzi per farne una barricata in cui la mia ignoranza si avesse
a trovare al sicuro, mi sembrò a un tratto inutile e biasimevole;
e ragionando precisamente all'opposto di poco prima, mi parve
che non mi fosse lecito vivere un'ora di più su questa terra, se
non mi fossi ficcato bene in capo tutta la storiella dello zio della
moglie del re di Persia.
>'issuno mi vedeva; frugai nella libreria, ne estr?^ssi una sto-
ria antica e vi cercai avidamente la tranquillità della mia co-
scienza turbata.
Non lo avessi mai fatto !
In capo a mezz'ora io era il più ignorante ed il più desolato de-
gli uomini; e dopo aver sfogliato il volume, leggicchiando qua e là
e trovando in ogni pagina un capo d'accusa, arrestai l'occhio atto-
nito nell'indice che pareva messo a posta in fine del libro come una
requisitoria, a dimostrarmi compendiosamente quello che io era
coli^evole di saper male o di non sapere niente alEfatto.
Era caduta la benda alla mia ignoranza! Poc'anzi mi potevo
illudere pensando che, perchè tante cose me l'ero messe in capo
in ilio tempore e non le avevo mai mandate via come Dario,
potessero esserci rimaste. M'accorgevo ora che tutta quella buona
gente ebraica, assira, persiana, se n'era andata alla chetichella,
lasciando una gran confusione di date e di regni nel mio corvello.
Non era più luogo a dubl)iezze ; mi trovavo in faccia ad un
dilemma inesorabile: o rassegnarmi a passare per un asino agli
occhi di mio figlio, o rifare coraggiosamente il mio bagaglio
storico.
— « La storia è la maestra della vita » diceva qualcuno dentro
(3i me: non ti è lecito goderti il tuo presente se non hai sulle
dita il passato dell'umanità.
— Baie ! rispondeva dentro di me un altro ; te lo sei pur
108 MIO FIGLIO STUDIA.
goduto finora il tuo tempo senza l'aiuto di alcuna gente morta;
tu continui a far cosi in avvenire e te la ridi. Che jdoì la storia
sia la maestra della vita lo vanno dicendo da un pezzo, ma ancora
non è provato; se te l'ho da dire in confidenza, questa mi pare
una bella frase, messa li come un puntello, per reggere una scienza
enorme e vana. La storia non ha mai servito ad altra gente che
agli storici, e non ha generato mai alcuna cosa al mondo, fuorché
compendi di storia e monografie storiche. Le dinastie dei Faraoni
si succedono, passano, e che cosa lasciano all'umanità ? Poche pi-
ramidi che non servono a nulla. Eccoti la storia.
Queste parole dell'anonimo, che ragionava dentro di me,
furono un raggio di luce al mio spirito rabbuiato; io aveva tro-
vata un'uscita al terribile dilemma, e quest'uscita era la filosofia.
Si sa che la filosofia serve i dotti e gl'indotti, senza guardare
in faccia a nessuno ; io vado più oltre e dico che per un ignorante
non vi ha altra via di scampo che diventar filosofo e farsi ìm sistema.
11 mio sistema filosofico doveva servirmi ad inculcare a mio
figlio la necessità di studiare tutte le cose che il babbo aveva
studiato, per aver poi il diritto di dimenticarle tutte come il babbo.
Era un'idea grande ed ardita ; da principio mi piacque, l'am-
mirai, poi mi parve d'un'arditezza impertinente, d'una grandezza
spropositata; nuovo alla ginnastica dei filosofi, ebbi vergogna, lo
confesso, e tornai a sentimenti pii^i umili.
Quel giorno invece di recarmi in tribunale colla baldanza d'un
uomo preparato a tutte le sorprese della procedura civile, vi andai
col fare dimesso d'uno scolaro che non sa bene la lezione.
E mentre l'avvocato avversario esponeva le sue ragioni e
citava non so quali Sentenze della Corte Suprema per ottenere
addirittura il sequestro della roba del mio cliente, io fissava lo
sguardo sul presidente, sui giudici, sull'avvocato, ricercando sotto
quelle toghe e quei berrettoni la mia gente persiana. Pensavo :
se ora sorgessi all'improvviso a domandare uno schiarimento sopra
Mardocheo, chi di costoro me lo darebbe ? Quel giudice che sonnec-
chia no certo; e nemmeno il presidente con tutto il suo sussiego!
Qiumdo poi toccò a me a rispondere alle enormi pretese della
parte avversaria, sorsi baldanzosamente a dire che mi opponevo
al sequestro, invocando il codice e la civiltà. — Abbiamo ancora
delle buone ragioni da esporre, esclamai, e vogliamo essere ascol-
tati! E soggiunsi eloquentemente: «Non siamo più ai tempi dei
Faraoni e dei re Persiani. Oggi Assuero non farebbe impiccare
Amanno senza dargli tempo di provvedersi in appello. »
MIO FIGLIO STUDIA. 109
Ditelo voi: die c'entrava Amaiino ? E pure la frase fece effetto,
e al mio cliente non fu sequestrata la roba; segno che la storia
può servire a qualche cosa.
Eadunai tutta la mia buona volontà, e rubando ogni sera
mezz'ora alle mie cause, e il compendio di storia a mio figlio,
mi avviai anch'io in mezzo agli Assiri ed ai Persiani. Camminavo
senza fretta, non ero punto punto assetato di scienza storica, come
potreste credere, e mi bastava precedere d'un passo mio figlio nel
suo compendio, tanto da non essere esposto a tavola a certe sorprese
che avrebbero guastato a me la digestione, a mio figlio il rispetto
ammirativo che egli doveva all'autore dei suoi giorni.
Le cose andarono bene per un po', ma venne un disgraziato
giorno in cui la scolaresca, che era rimasta meco in Persia, e pre-
cisamente al regno di Dario III Codomano, se n'andò, senza avver-
tirmi, in Assiria, e mio figlio, non immaginando quanto male mi
faceva, nominò alla mia presenza Sulmanassurre e Sennacheribbo.
Io finsi prima di non intendere, e fatto un vano tentativo
per ricondurlo in Persia, dove mi sarei trovato come in casa mia,
fui costretto a lasciarlo dire.
Poi vennero altre sorprese; la geografia, la storia sacra e
perfino l'aritmetica di mio figlio avevano conservato meco dei
segreti. Incoraggiati dall'esempio del Catechismo, che era con me
pieno di misteri, quei tre libri ccini di poche pagine mi tormen-
tarono mattina e sera, mi guastarono regolarmente il desinare per
parecchie settimane, e turbarono i miei sonni.
Io lasciavo un sacramento per seguire il corso d' un fiume
americano, che a farlo apposta non poteva essere più tortuoso ; scen-
devo da un monte dopo aver interrogato l'aspetto di un paese, e tro-
vavo la geometria piana, una geometria che mi faceva venir la tenta-
zione di rifar la salita del monte e non scendere più alla pianura.
Cieli misericordiosi ! Quanto era grande la mia ignoranza!
Non sapevo più nulla; peggio ancora: sapevo degli errori, perchè
quel po' che mi era rimasto in mente era confuso ed inesatto.
Ripigliare da bel principio tutti i miei studi, come se dovessi
ancora presentarmi agli esami, rifarmi una dottrina nuova, ecco
il rimedi-* eroico; ma io fui vile, mi accontentai di rattoppare la
mia scienza dove lasciava vedere i gomiti e le ginocchia.
E non andò molto che Augusto mi colse in fallo una volta,
due, dieci, prima con stupore, poi con dolore, da ultimo con ma-
lizia. Non mi diceva più, come nei bei tempi della sua inno-
110 MIO FIGLIO STUDIA.
cenza — tu sai tutto, — al contrario, gli accadeva di spropositare
coraggiosamente in faccia mia nelle cose piìi elementari, perfino
nei diritti e nei doveri dei cittadini che erano il mio pane quo-
tidiano, e di rifiutare, senza arroganza, ma con sicurezza, la mia
correzione, dicendomi la frase sacramentale che ha fatto impal-
lidire tanti genitori: «L'ha detto il signor maestro!»
Evangelina si provava a difendermi, metteva tutte le sue
forze centuplicate dall'affetto e dalla buona fede per sollevar me
sopra il signor maestro, — ma era inutile. Augusto non diceva
già che non fosse vero: — se non che alla prima occasione mi
lasciava intendere che sulla mia dottrina famosa non si faceva
pilli alcuna illusione, ripetendo quasi sottovoce: « L'ha detto il
maestro! »
Ed io studiava in segreto, con un disordine che dipingeva lo
stato della mia mente, le montagne, le popolazioni, il quadrato
dell'ipotenusa, l'eucaristia.
Li vano. Incalzato dal mio destino, venni finalmente in faccia
alla prova suprema.
Avevano dato a mio figlio un difficile problema da risol-
vere, e il poveretto, che non era forte nelle matematiche, non se
ne poteva cavare.
— Augusto non sa fare il compito, mi venne a dire Evange-
lina; questi maestri non so dove l'abbiano la testa. La bella ma-
niera di tormentare un povero ragazzo ! È tutta la mattina che
lo vedo curvo a tavolino, — mi fa proprio pena ; — dovresti
aiutarlo.
— Aiutarlo io! esclamai; e allora che gli giova l'andare a
scuola ? Se i problemi glie li danno, è segno che deve saperli ri-
solvere ; e se non sa, è meglio che il maestro se ne avveda e
rifaccia la spiegazione — e poi, sono tanto occupato!
Evangelina, meno scrupolosa, andò probabilmente a provarsi
lei a fare quel che non volevo far io, perchè poco dopo tornò a
dirmi :
— È un problema difficilissimo; c'entra la geometria piana
e r aritmetica. — Augusto non può risolverlo, piange...
— Piange?...
Andai subito, e nell' attraversare la soglia dello stanzino in
cui Augusto si torturava da un' ora, ebbi come il presentimento
d'una catastrofe. Ma non ero più in tempo a dare indietro; mi
accostai a mio figlio, gli accarezzai prima il visino lagrimoso, poi,
con un po' di sussiego:
MIO FIGLIO STUDIA. HI
— Dà qua, dissi... « Un fabbricante di mattoni deve conse-
gnare tanti mattoni quanti ne occorrono all' ammattonato di una
stanza di forma trapezoidale i cui lati misurano... eccetera. » Non
è difficile, dissi. E non sei buono a cavarsene?
Mio figlio non rispose; mi guardava con quell'ammirazione
ingenua di altri tempi mista ad un tantino di stupore. Ed io sog-
giunsi :
— Io non ho tempo, e poi tocca a te fare il compito; se i
tuoi compiti dovessi farli io, sarebbe inutile che tu andassi a scuola.
Ora però hai lavorato troppo; divagati; va in cortile e corri; poi
torna su, e ti sarà più falcile.
— E troppo difficile; disse lui.
— È facile; dissi io.
Egli andò in cortile a correre, ed io presi il suo posto dinanzi
al tavolino. Dio misericordioso risparmi ad ogni padre la tortura
che provai quella mattina. Ciò che mi sembrava facile da lontano
mi apparve irto di mille difficoltà appena ci volli riflettere. Evan-
gelina mi stava a guardare, indovinando anch' essa il mio imba-
razzo; io sentiva Augusto che fiiceva il chiasso in cortile, vedevo
col pensiero una comparsa urgente che avevo lasciata sulla mia
scrivania, e continuavo a star lì come inchiodato, sfogliando dispet-
tosamente la geometria piana, calcolando, cancellando, rifacendo
i calcoli sbagliati. A poco a poco la testa mi si empì siffattamente
di cifre, che non mi raccapezzai più ; sbagliavo perfino le somme,
e per ritrovare 1' errore d' un' unità perdevo un tempo prezioso.
Mi vennero a dire che un cliente mi voleva parlare ; gli feci ri-
spondere che ero occupatissimo e che non potevo dargli udienza.
Ma si fece una luce nel mio cervello ; il problema mi si affacciò
netto, ed io non istentai cinque minuti a risolverlo.
— È fatto, dissi ad Evangelina; davvero non era facile; io
poi non ci ho più pratica...
Era inutile che mendicassi delle scuse. — Evangelina mi am-
mirava, né più né meno — ed io vidi quella sua ammirazione
passare tutta d' un pezzo nello spirito smaliziato di Augusto,
quando egli venne su e trovò il problema risoluto.
E non mi parve, no, di aver perduto il mio tempo ; anzi rien-
trando nel mio Studio, avevo una certa solennità, come se vi por-
tassi la fiaccola della scienza.
A questo punto mi aspettava il mio destino. Invece di tor-
nare da scuola allegro e di far irruzione nella mia camera a
dirmi che aveva preso dieci decimi e la lode per il compito,
112 MIO FIGLIO STUDIA.
Augusto arrivò a casa come un cane ])attuto. e se ne stette in
cucina..
E quando io volli sapere che cosa avesse, mi rispose di mala
voglia che il problema era sbagliato!
— E impossibile! esclamai,
— Guarda! mi disse melanconicamente mio figlio; doveva
dare 4526 mattoni, e invece dà 3916.
Io guardai, non vidi nulla. Ss tutti quei mattoni mi fossero
caduti addosso, non mi avrelìboro fatto pili male di sicuro.
Ma accanto alle sventure il cielo mette le consolazioni, ed io
ne trovai una dinanzi alla scrivania. Era Laurina, la piccola
studiosa; essa si era arrampicata sulla poltrona e leggeva attenta-
mente il codice di procedura.
— Senti babbo, mi disse appena mi vide entrare; senti; la so
tutta: « due più due quattro più due otto più due dieci più due
ventidue più due ventiquattro più due trenta. »
Salvatore Farina.
LA VITA VEGETALE.
In UQ precedente articolo ' io ho ricordato quel vero, che
come ultima conclusione risulta da tutti gli studi comparativi
sulle forme delle piante: come cioè sotto alla mirabile varietà
delle loro apparenze esterne si nasconda una unità più mirabile
ancora. Tutte queste forme di piante, a prima vista così distinte,
così lontane le une dalle altre, si possono ricondurre a due tipi
fondamentali, che passano l'uno nell'altro, e di cui desse non sono
che modificazioni e trasformazioni.
E quel che ho detto delle forme esterne vale ancora per l'in-
terna tessitura. Ivi ancora la unità nella varietà. Per quanto di-
versissimi a primo aspetto ci si presentino i tessuti vegetali, ora
molli e quasi liquefatti come in alcuni frutti, ora consistenti ma
pure pieghevoli ed elastici come nelle foglie, ora rigidi come nei
legni, ora duri a guisa di pietra come in molti semi e frutti, ora
facilmente divisibili, ora resistenti come nelle fibre tessili, varia-
mente colorati, di odore e di sapore altrettanto svariati : pur tut-
tavia, qualunque pianta, qualunque parte di pianta ci facciamo
ad esaminare, analizzandola noi troviamo mai sempre per ultimo
termine della nostra analisi anatomica una cosa sola, un corpo
sempre sostanzialmente identico a sé stesso, poiché riveste sempre
la forma di una vescichetta chiusa da tutte le parti. Questa ve-
scichetta, organo fondamentale delle piante, è quella che dai bo-
tanici ha ricevuto il nome di cellula.
Nella cellula si compendiano tutti i fenomeni della vita vege-
' Vedi la Nuova Antologìa, 1 novembre 1878.
VoL. XIV, Serie II — 1 Marzo iS^g. 8
114 LA VITA VEGETALE.
tale. La cellula si nutrisce, si propaga, e nel proprio seno come
in un laboratorio genera tutte le sostanze atte ai bisogni dell'eco-
nomia della pianta, come le fecole, gli olii, le materie coloranti,
i sali, gli zuccheri, le gomme, le resine e via dicendo. La vita
generale della pianta non è altro, per così dire, se non la somma
e r armonia delle vite particolari delle sue cellule costituenti.
L'esame della cellula e delle sue manifestazioni vitali è adunque
indispensabile per meglio intendere le funzioni più complesse del-
l'intera pianta.
Non occorre quasi avvertire essere le cellule di piccolissime
dimensioni. Ab benché in alcuni casi eccezionali siano grandi ab-
bastanza per essere visibili all'occhio nudo, generalmeute però non
si possono affatto scorgere senza l'aiuto del microscopio, che con
mezzi ottici ne procura una immagine molte migliaia di volte su-
periore al vero. Del che uno si persuaderà facilmente, ove badi
che per lo più le cellule hanno una grandezza che varia fra un
cinquantesimo e un quinto di millimetro ; vale a dire che ne ab-
bisognano in media più di 100 mila di questi corpicciuoli per ri-
cuoprire uno spazio di un centimetro quadro, ch'è presso a poco
l'estensione dell'unghia del nostro dito mignolo.
Svariatissime sono le forme di questi minuti organismi. Pos-
sono rivestire la forma di un globo, o di un ovo, o di un diamante
faccettato, o di un tubo, o di un fuso, e molte altre ancora ; pos-
sono anche dividersi in braccia diversamente configurate. Sva-
riatissimi pure i disegni della loro superficie: la quale può mo-
strarsi segnr.ta di punti, di righe, di una rete a maglie, d'incavi,
di sporgenze in rilievo, e via dicendo. Però tutte queste diversità
si riscontrano soltanto nelle cellule adulte ; mentre nella loro pri-
ma età hanno un aspetto molto più semplice e uniforme, quando
constano di una membranella sottilissima, scolorita, diafano, molle,
omogenea, circoscrivente una cavità ripiena di una materia mu-
cilagginosa, granellosa, sospesa in una certa quantità d'acqua. Da
questa materia hanno immediata origine le nuove cellule, e molti
fra i prodotti che nella cellula trovansi; è la materia propriamente
atta alle nuove formazioni, plasmica per eccellenza, onde bene a
ragione ha ricevuto il nome di plasìna cellulare.
La massa del plasma non sta ferma; ma, animata da un con-
tinuo lavorìo intestino, si muove in correnti, che con moto len-
tissimo si portano ora qua ora là, raggirandosi entro la cavità
della cellula, ora spartendosi per dirigersi su parti opposte, ora
di bel nuovo confondendosi per procedere unite. In mezzo a
LA VITA VEGETALE. 115
questo movimento si vede spesse volte il plasma condensarsi
maggiormente in alcuni punti ; i quali da indi in poi si fanno
centri di una vitalità propria, distinta da quella del resto del
plasma stesso. Il condensamento della materia plasmica in quei
punti progredisce e si fa più sensibile a grado a grado : le masse
condensate si delimitano sempre meglio nel loro contorno : e fin
d allora possono considerarsi nuove cellule nate in seno alla cel-
lula-madre, perchè anche in quello stalo sono capaci in alcuni
casi di uscire dal suo seno e di entrare in relazione diretta col
mondo esterno, vivendo a conto proprio. Però questo non succede
generalmente cosi presto. La giovine cellula per lo più ha biso-
gno ancora del sostegno materno, fino a che non abbia acquistato
tutte le sue parti costitutive, col provvedersi di un inviluppo pro-
prio, che la separi da tutto ciò che non è lei. La quale cosa av-
viene subito che alla superficie della massa condensata, e a sue
spese, SI sia formata una sottile pellicola, in modo analo-o ^ per-
mettasi questo paragone molto grossolano - a quello con cui si for-
ma Ja pelle alla superficie di una tazza di latte caldo mentre si
va rafi-reddando. La pellicola o membrana generata in tal guisa cir-
coscrive esattamente la cellula, la trasforma in vescichetta chiusa
da tutte le parti, con tutti i caratteri perciò della cellula autonoma,
il processo di formazione e di successivo accrescimento delle
cellule qualche volta è abbastanza lento, e si lascia agevolmente
seguire nelle sue diverse fasi: altre volte invece è di una rapidità
sorprendente. Tutti hanno sentito rammentare e forse osservato il
sollecito crescere di alcune piante, del luppolo, della vite, degli spa-
ragi, massime di quella Agave oriunda del Messico, ma ora resa
cosi abbondante su tutta la costiera mediterranea, il cui stelo
fiorifero ben grosso si allunga nel massimo della vegetazione per-
fino di 3 decimetri al giorno. Ora sapendo che le piante sono com-
poste unicamente di cellule, sappiamo che ogni loro accrescimento
deve riferirsi alla formazione e all'accrescimento di questi minu-
tissimi corpi, e ci possiamo fare un'idea della celerità con cui
deve procedere il fenomeno nei casi accennati. È proverbiale la
istantanea comparsa dei funghi, i quali nella stagione autunnale
calda e umida m poche ore raggiungono il completo loro sviluppo,
anche quando sono ben grandi, come certe cosidette Boviste dei
nostri scopeti che arrivano ad avere la grossezza di una testa di
bambino, e per le quali si è calcolato che la produzione delle
loro cellule si deve fare in ragione di ventimila al minuto.
Una volta nata e organizzata con la sua membrana propria,
116 LA VITA VEGETALE.
la cellula seguita a crescere, distendendola e ingrossandola. Ma
per crescere bisogna che si nutrisca, ed ogni nutrimento non le
può venire oramai che a traverso la sua membrana, la quale ad
un tempo la segrega e la mette in relazione col mondo esterno.
Il nutrimento non le può essere somministrato che allo stato aeri-
forme 0 liquido, perchè ogni particella solida, per quanto minuta
sia e ridotta in finissima polvere, è incapace di passare a traverso
la membrana cellulare, sottilissima sì, ma continua ed impervia.
Il nutrimento aeriforme, aria atmosferica o gassi diversi che
siano, è facile comprendere come possano penetrare a traverso la
membrana, permeabile ad essi come ogni altra membrana orga-
nica; e dalla loro penetrazione, e reciproca uscita, insomma dagli
scambi di gassi fra la cellula e il suo ambiente esterno risultano
tutti i fenomeni respiratorii della cellula stessa. Agevole passaggio
hanno pure le sostanze liquide, di cui in primo luogo s'imbeve
la membrana della cellula, e che poi per diffusione passano nel-
l' interno della sua cavità. Non occorre dire cosa s' intende per
diffusione: quel miscuglio che si fa tra due li(iuidi di eguale den-
sità, fra r acqua pura, per esempio, e una soluzione gommosa,
quando che siano messi a contatto, o anche disgiunti mediante una
sottile membrana, a traverso la quale si stabilisce allora una
doppia corrente, del liquido più denso verso il meno denso, e re-
ciprocamente, con questa particolarità che la quantità del liquido
meno denso che si porta verso il più denso è maggiore di quella
del liquido più denso verso il mono denso. Nelle giovani cellule
si ha un contenuto liquido denso, il plasma; al di fuori, si
ha un liquido poco denso, qual è l'acqua della vegetazione, presente
in cellule più adulte contermini : ecco esistenti tutte le condi-
zioni perchè avvenga la diffusione fra i due liquidi a traverso
la doppia membrana, con ingresso nella cellula giovane di una
quantità di materia maggiore di quella che ne esce, e perciò nu-
trizione e conseguente accrescimento.
Nel tempo che si distende la membrana cellulare, ingrossa
per nuovo acquisto di materia, che si stacca dal contenuto della
cellula e va ad insinuarsi entro la sua parete. L' ingrossamento
della parete cellulare offre una notevole particolarità : inquanto-
chè per lo più avviene non in modo uniforme, ma al contrario
siffattamente disuguale che restano qua e là degli spazi liberi, dei
vuoti, i quali costituiscono tanti canaletti, diretti dall'interno della
cellula verso la sua membrana iniziale, e che per di più da una cel-
lula all' altra vicina si corrispondono, cosicché l' ingrossamento
LA VITA VEGETALE. 117
anche cospicuo della parete delle cellule non frappone ostacolo al
passaggio dei liquidi dall' una all' altra, a traverso quei luoghi
della loro membrana sottratti all' ingrossamento e perciò rimasti
sottilissimi. Quegli spazi vuoti variano poi per la loro configura-
zione e disposizione; e siccome lasciano passare piìi luce che gli
spazi igieni quando si guardi la cellula per trasparenza, contro
luce, segnano sulla sua superficie tanti punti luminosi, o tante
strie, 0 linee elicoidali ecc., di cui frequenti sono gli esempi nei
tessuti vegetali.
Ma il modo descritto or ora non è il solo col quale si mol-
tiplicano le cellule. Da una sola se ne possono formare due, o un
numero maggiore, per divisione conseguente alla comparsa di
tramezzi nel loro interno; i quali altro non sono che uno strato
di plasma che si rende solido dalla periferia verso l' interno della
cellula, e si converte così in membrana cellulare. Può accadere
il fenomeno inverso. Più cellule, poste l'una a capo dell'altra, vanno
assottigliando la loro membrana in quella porzione dove si toc-
cano, tanto che da ultimo viene a essere riassorbita e sparisce, la-
sciando liberala comunicazione da un estremo all'altro della serie
di cellule, e trasformandole in un corpo unico. Ecco d'onde hanno
origine i cosidetti vasi delle piante.
Mentre succedono tutti questi fatti, o 1' uno o l'altro soltanto
di essi, la divisione o fusione delle cellule, o l' ingrossamento della
loro membrana, il contenuto originario ossia il plasma si esau-
risce mano a mano, e al suo posto è sostituita l'acqua venuta
dal di fuori. In mezzo a quest' acqua vedonsi i molteplici prodotti
della vita vegetale, generati in seno alla cellula, mirabile labo-
ratorio! dalle continue combinazioni delle molteplici sostanze che
vi sono penetrate allo stato fluido, o pure da modificazioni della
sostanza plasmica. Ho già accennato i principali fra questi pro-
dotti : la fecola,, che in forma di tanti bianchi granelli sta so-
spesa nel succhio cellulare, ogni granello costituito da tanti strati
sovrapposti addosso ad un nucleo centrale; le sostanze coloranti,
sciolte, 0 condensate in minuti granellini, o la materia colorante
verde delle foglie distesa come patina sopra piccoli ammassi di
fecola 0 di plasma; i sali, sciolti, o cristallizzati; le gomme, gli
zuccheri, sempre sciolti; gli oli, fissi o volatili; e tante altre so-
stanze di cui sarebbe troppo lunga la sola enumerazione.
Svariatissimi sono pure i cambiamenti che avvengono nella
composizione chimica della membrana; la quale si mostra formata
in origine di quella materia particolare detta cellulosa, di cui i
118 LA VITA VEGETALE.
fili del cotone ci porgono un esempio a tutti noto ; ma che poi tra-
mutano spesso questa cellulosa nella sostanza del legno, del su-
ghero o altre consimili. Se domandasi poi, quale sia l'agente ge-
neratore di tutte queste sostanze, quali le influenze per cui si
formano, per parecchie fra esse la risposta è pronta, poiché le ve-
diamo prodursi anche all'infuori dell'organismo vegetale per opera
di quelle forze tisiche e chimiche, di cui ben si conoscono gli ef-
fetti sulla materia bruta. Ma per molte altre l'effetto delle sole
forze tisiche e chimiche conosciute non basta a spiegarne la for-
mazione; e per esse volentieri la si riferisce all'azione della forza
detta vitale. E così sia pure, se per forza vitale dobbiamo inten-
dere quella grande incognita dei problemi fisiologici, che sta a
rappresentare la causa o le cause di tutti i fenomeni degli esseri
viventi che non arriviamo a spiegare altrimenti e in modo più di-
retto con forze di cui l'azione ci sia conosciuta. Ma se per forza
vitale volessimo intendere un eiiuivalent-^* della gravità, del calo-
rico, dell'elettricità, dell'affiaità chimica ecc., un agente insomma
di cui l'azione fosse egualmente bene definita e precisata nei suoi
effetti; allora io non credo che possiamo ammettere la forza vi-
tale con tale signific;ito, qualora non credcosimo spiegare quel
che non comprendiamo con parole vuote di senso. Se vi siano o
no nei corpi viventi forze proprie, diverse da quelle dei corpi
morti, è quistione dalla cui soluzione la scienza è ancora troppo
lontana.
Le cellule formatesi per divisione di una preesistente possono
dissociarsi, ma restano d'ordinario unite insieme. Anche quelle
nate liberamente in seno alla cellula-madre, non di rado si
congiungono. Dall'uno e dall'altro processo vengono formati i tes-
suti vegetali.
Per la cellula vegetale come per qualunque organismo, dopo
la vita per legge inesorabile viene la morte. Il segnale è la scom-
parsa del succhio cellulare. La cellula, prosciugata che sia e
priva del suo succhio per una qualsiasi cagione, è morta, e non
torna più a vita. Bensì può servire ancora da recipiente ai gassi
0 ai liquidi che vi si riversano, ma come recipiente passivo, senza
influenza sul suo contenuto. Ho detto che la cellula morta non
torna a vita. Qu 'sta regola è vera per la generalità dei casi, ma
pur tuttavia trova le sue eccezioni in alcune pianticelle di strut-
tura più semplice, nelle quali in pari modo che in certi umili
rappresentanti del regno animale, si può ammirare la f^icoltà di
ritornare ad attività vitale dopo la morte apparente per completo
LA VITA VEGETALE. 119
prosciugamento. Quei muschi, quei licheni, quelle alghe gelatinose
che vivono sulle rupi, sui muri e in altri luoghi asciuttissimi, ivi
soffrono nella stagione estiva tutti gli ardori del sole, fino a per-
dere ogni particella di succhio e a ridursi quasi in polvere; venga
ciò nonostante una pioggia che le bagni, e in pochi momenti, a
vista d'occhio per così dire, queste pianticelle s'imbevono del-
l'acqua benefica, e riprendono tutte le loro funzioni vitali, quasi
non vi fosse stata così lunga e completa interruzione.
Così abbiamo veduto come nasce la cellula, come vive, come
muore. La sua esistenza però non è isolata, è invece intimamente
connessa a quella di tutte le compagne, comprese nell'unità di
uno stesso individuo vegetale. La somma di tutte queste singole
esistenze rappresenta la vita dell' intera pianta, a cui ora occorre
rivolgere l'attenzione.
Come la cellula, così l' intera pianta si nutrisce, e si pro-
paga.
Le piante, sprovviste (meno casi specialissimi) di organi e di
volontà di movimento da un luogo ad un altro, sono incapaci di
andare in cerca del loro nutrimento come sogliono fare gli ani-
mali. È giuocoforza che lo prendano dall' ambiente dove vivono
immobili. Le piante acquatiche trovano gli alimenti nell'acqua
che le circonda, le terrestri nell'atmosfera ad un tempo e nel
terreno in cui sprofondano le loro radici. Queste radici si allun-
gano via via per la loro estremità inferiore; e penetrando così in
strati sempre nuovi del terreno, vi prendono l' alimento ivi de-
posto, per poi procedere più innanzi. Poiché è un fatto che la estre-
mità giovane di una radice è sola capace di togliere l'alimento
del terreno, appunto perchè giovane, perchè composta di cellule
di recente formazione, di cui le più esterne venendo in contatto
immediato con le sostanze nutritive e -bistenti nel terreno allo stato
fluido, per imbibizione e diffusione se ne impossessano, e le tra-
smettono alle cellule interne; mentre le parti più vecchie della
radice non presentano alla loro superficie che cellule del pari
invecchiate, con pareti non più atte al passaggio degli alimenti.
In che cosa consistono gli alimenti delle piante tolti alla
terra? In primo luogo vi è l'aria che circola fra le zolle del ter-
reno, con i tre corpi che lo compongono, ossigeno, azoto e car-
bonio, quest'ultimo in proporzioni molto maggiori che nell'aria
atmosferica. In secondo luogo v'è l'acqua, composta d'idrogeno
e ossigeno. E poi, sciolti nell'acqua, questi medesimi quattro corpi,
ossigeno, idrogeno, carbonio e azoto, variamente combinati fra di
120 LA. VITA VEGETALE.
loro per formare sostanze diverse ; e più, quale sotto una forma,
quale sotto un'altra, lo zolfo, il fosforo, il potassio, il calcio, il ma-
gnesio ecc., insomma tutti quei corpi che poi si ritrovano nell'or-
ganismo vegetale immedesimati con esso. Cosi, a mo' d'esempio,
l'ossigeno, l'idrogeno e il carbonio combinati fra di loro in certe
determinate proporzioni danno origine nelle cellule alla fecola,
0 alla cellulosa; questi medesimi tre corpi, con l'aggiunta di una
data proporzione di azoto e di qualche altro corpo elementare,
formano il plasma, o la materia colorante verde.
In che cosa consistono gli alimenti tolti all' atmosfera ? Non
possono essere che due, l' aria e 1' acqua. In quanto all' acqua
atmosferica, il modo con cui contribuisce alla nutrizione della
pianta non è sostanzialmente diverso da quello che succede nel
terreno. L'aria si sa che penetra nell' interno dei tessuti per tante
minutissime impercettibili boccucce sparse su tutta quanta la
superficie della pianta, principalmente delle foglie; circola fra
una cellula e l'altra dell'interno delle foglie stesse, il cui tessuto
suol essere più o meno poroso; ed ivi con complicato processo
sotto l'azione della luce deposita nelle cellule fornite di materia
verde uno de' suoi corpi componenti, il carbonio, in proporzione
mao'n'iore o minore secondo le varie circostanze concomitanti del
fenomeno.
Le anzidette boccucce servono nel tempo stesso all' uscita
di gassi inutili, nonché all'esalazione allo stato di vapore acqueo
di tutta quella porzione dell'acqua assorbita dalle radici, che
non fa d'uopo altrimenti all'economia vegetale, dopo avere servito
di veicolo a traverso i tessuti a tutte le sostanze nutritive in
essa sciolte.
Questi residui della nutrizione delle piante, in forma di aria
e di acqua, rappresentano, per così dire, le loro escrezioni, mentre
d'altra sorta ne difettano, come difettano di tutto l'apparecchio di-
gerente proprio degli animali. L'animale ha bisogno di far subire
una preparazione ai suoi alimenti prima di poterli assorbire, ha
bisogno di digerirli; la pianta gli assorbisce direttamente e senza
preparazione dall'atmosfera, dall'acqua, dal suolo, con cui si trova
a contatto.
L'esalazione acquosa poi è un mezzo potentissimo per atti-
vare la vita vegetale. L'acqua esalata lascerebbe un vuoto nei
tessuti superficiali, e perciò richiama a sé i succhi delle parti
vicine, e così a mano a mano si propaga l'attrazione da un
estremo all'altro della pianta, sino alle punte delle radici, e
LA VITA VEGETALE. 121
tutti i succhi sono eccitati a muoversi, dal basso all'alto e dalle
parti interne alle periferiche. Salgono dal basso e si portano alla
periferia i succhi poco densi composti dell'acqua terrena assor-
bita con le sostanze sciolte che trascina seco; giunti colà, si con-
densano per perdita della maggiore parte della loro ac(|ua che si
va esalando, indi costretti dal giungere di nuovi succhi retroce-
dono, e si diffondono per tutti quegli organi dove sono chiamati
dall'uso cui possono servire, per contribuire cioè all'accrescimento
di parti già esistenti, o alla formazione di parti nuove. Tutto
questo movimento di succhi si fa necessariamente per passaggio
continuo da una cellula o da un vaso ad altra cellula o vaso vi-
cino. Non havvi niente nella struttura della pianta che necessiti
la direzione di quei succhi per un verso piuttostochè per un
altro, e se muovonsi, almeno in generale, a preferenza in certe
determinate direzioni, ciò dipende da cause secondarie ; cosicché
potete anche capovolgere una pianta, mettendo la sua chioma
in terra e innalzando le sue radici in aria, ed ottenere l'effetto
che dalla parte messa in terra escano radici assorbenti, e dalla
parte lasciata all'aria foglie che respirino ed esalino, e i succhi
suoi prendano senza difficoltà nuo^'o e non usato corso. Molto a
torto perciò si è chiamata circolazione il movimento dei succhi
nelle piante, poiché niente ha che si possa paragonare al corso
circolatorio del sangue negli animali, il quale, come si sa, dal
cuore è spinto per un apposito sistema di canali, le arterie, sino
a tutte le parti del corpo, da dove ritorna al cuore per altro sistema
di canali che sono le vene.
In generale, mentre nel regno animale esiste per le funzioni
un accentramento, molto energico negli animali superiori, e di
cui si scorgono tracce anche negli infimi, nel regno vegetale per
contrario é in vigore un discentramento più o meno completo.
L'abbiamo visto per le funzioni della nutrizione ; ora lo vedremo
anche per quelle della riproduzione. ,
Due sono i modi principali di riproduzione nelle piante : per
gemme superficiali, o per germi interni; tralasciando la riprodu-
zione fissipara che distrugge un individuo preesistente sciogliendolo
in tanti frammenti o individui nuovi fra loro equivalenti.
Le gemme possono svilupparsi ovunque sulla pianta. Abben-
ché più spesso e volentieri si producano in certi determiiuiti luoghi
dei fusti, nulla toglie che sorgano in qualunque parte dei fusti
stessi, 0 delle radici, o sulle foglie, o perfino nei fiori, come difatti
non di rado accade. In origine non sono altro che piccoli grup-
122 LA VITA VEGETALE.
pi di cellule, i quali per un qualche speciale impulso si svi-
luppano in modo indipendente dalle parti vicine, e costituiscono
così un organismo distinto, destinato col progresso del tempo a
rappresentare un nuovo individuo vegetale con tutti i suoi caratteri.
Spesso le gemme si distaccano più o meno presto dalla madre-
pianta, mettono radici, e vivono per conto proprio. Ma più spesso
ancora restano intimamente unite per la loro base alla pianta
sulla quale sono nate, e sviluppandosi in rami seguitano ad avere
in comune con essa la vita vegetativa. Ki guardo alla sua confor-
mazione, la pianta dotata di rami devesi adunque considerare
come un aggregato d'individui, una intiera comunità; ma, fisiolo-
gicamente parlando, è sempre un individuo unico, vivendo di una
vita comune a tutte le sue parti.
I germi invece, nati nell'interno dei tessuti della madre-pianta,
non vi oltrepassano i primi periodi del loro sviluppo, compiendolo
soltanto dopoché ne siano usciti in qualche modo.
Così, per esempio, in molte di quelle alghe acquaiole che sono
in tutti i fossi e paduli, i germi si formano nell'interno di una
qualunque cellula, per condensamento del suo plasma e produzione
di una o più nuove cellule. Queste, prima ancora di essersi fornite
di membrana propria, svolgono dalla loro superficie un certo nu-
mero di peli sottilissimi, i quali entrano in vibrazione rapidissima,
e comunicano un movimento giratorio alla cellula ossia germe,
onde questo urta contro le pareti della cellula-madre, le sfonda,
e si slancia nell'ambiente liquido esterno; dove finalmente posan-
dosi abbandona i suoi peli, e d'ora innanzi immobile cresce in
una pianta simile a quella da cui è nato.
Così ancora nelle felci, nell'interno o alla superficie del tes-
suto delle foglie si formano certe cellule, germi di nuove piante,
riunite in piccoli gruppi, e che poi trovano modo di liberarsi e di
uscire dal tessuto circostante rompendolo, per cadere sul suolo ed
ivi sviluppare un nuovo individuo della loro specie.
Altre volte la formazione dei germi riesce più complicata, per
la necessità dell'opera combinata di due cellule. Per esempio, in
qualche alga e qualche fungo, acciò si formi il germe occorre che
due cellule di parti diverse della pianta o di piante diverse siano
accostate fra di loro, quindi rigonfino la loro membrana in qual-
che punto, fino a che per effetto di questo rigonfiamento le mem-
brane si ritocchino per un certo tratto, e siano infine riassorbite
sulle superfici di contatto, e così venga attuata una libora comu-
nicazione da una cellula all'altra : allora si mescolano e si con-
LA VITA VEGETALE. 123
fondono i contenuti plasmici delle due cellule, e dalla loro reci-
proca azione si genera il germe, atto a riprodurre la specie.
11 più delle volte però la produzione del germe si effettua per
un processo ancora più intricato. Non solo havvi necessità della
cooperazione di due cellule, ma occorre eziandio che siano esse
d'indole diversa, e che luna eserciti un'azione definita sull'altra
acciò in questa si formi il germe. In una parola havvi necessità
di una vera fecondazione di una cellula per l'altra. Il modo della
fecondazione poi varia secondochè si tratti di una od un' altra
categoria di piante. Semplice abbastanza in alcune, raggiunge in
altre una complicanza estrema, segnatamente in quelle più fami-
liari a tutti noi che mostransi fornite di fiori. In questo vago or-
ganismo, nel fiore appunto, ha luogo la fecondazione. Ivi, sotto a
moki invogli di diversa natura, e racchiusi e gelosamente segre-
gati, stanno gli organi destinati al compimento del fenomeno.
Nel centro del fiore, dove sono i pistilli, in apposita cavità
trovansi certe piccolissime gemme, d'indole tutta particolare. Nel-
l'interno del tessuto di quelle gemmette, una cellula determinata
si sviluppa grandemente. Entro la sua cavità, generate a spese
del suo plasma, compariscono alcune altre cellule : sono questi i
germi, atti ad essere fecondati.
Da un' altra parte, verso la periferia del fiore, trovansi in
certe appendici (gli stami) elei rigonfiamenti di tessuto di cui le
cellule ne generano molte altre nel proprio seno, e queste, invece
di contrarre aderenza fra di loro, restano affatto libere e disgiunte;
cosicché quando in ultimo la membrana delle cellule-madri è stata
riassorbita, que'tali rigonfiamenti vengono a costituire tante specie
di borsettine, ripiene di minutissima polvere, di cui i singoli gra-
nelli, ossia cellule libere {pollini), sono gli organi atti a fecondare.
Quandoché tutte queste parti del fiore siano giunte a matu-
rità di sviluppo, le borsettine si aprono, e spandono la polvere
fecondante. Questa, aiutata spesso da cause esterne, dall'agitazione
del vento o dall'opera degli insetti, è trasportata in certa quan-
tità sulle parti centrali del fiore. Ivi trova predisposta una su-
perficie di tessuto molle, bagnato di un liquido denso. Le cellule
fecondanti s'imbevono di quel liquido, e per il nutrimento così
acquistato possono distendere la loro membrana, la quale si al-
lunga in una specie di braccio sottilissimo come un filo, che grado
a grado crescendo penetra in mezzo all'anzidetto tessuto molle e
rilassato, fino a che sia giunto alla cavità centrale del fiore ove
stanno le gemmette rammentate di sopra. Quindi ancora disten-
124 LA VITA VEGETALE.
dendosi il prolungamento della cellula fecondante, arriva ad una
geminetta, ne attraversa il tessuto, fino a che tocchi con la sua
jjunta la cellula centrale, quella che racchiude i germi. Allora, a
traverso le due membrane a contatto, l'azione fecondante esercita
la sua influenza, di cui il risultato ben presto si manifesta nello
sviluppo speciale di uno dei germi a spese di tutto 1' organismo
che lo circonda. 11 germe fecondato diventa con ciò un embrione
e poi una pianticella, prima racchiusa entro la gemmetta tramu-
tata in seme, ma che poi a tempo opportuno ne rompe gli invo-
gli, e affidata alla terra ivi sprofonda le sue radici, e all' aria
spande le sue foglie, compiendo tutte quelle funzioni vitali di cui
ho cercato dimostrare il processo e le ragioni.
In questi fenomeni principalissimi della vita vegetale quali
ci si sono manifestati nelle funzioni della nutrizione e della ripro-
duzione, abbiamo potuto accertarci della loro semplicità fonda-
mentale, col ricondurre le funzioni dell'intera pianta a quelle delle
cellule di cui si compone, e in cui, come dicevo fin da principio,
si compendiano tutti i fenomeni della vita vegetale stessa.
In questa serie di considerazioni ci siamo attenuti stretta-
mente ai risultati dell'osservazione, contenti di conoscere la ma-
nifestazione esterna delle cose, e le loro cause prossime, senza
cercare d'indagarne le cause ultime o l'essenza, di cui la ricerca
e la cognizione forse non sono concesse all'umano intelletto, e cer-
tamente stanno al di fuori del compito della scienza positiva.
T. Caruel.
L'ACCADEMIA DEI LINCEI.
Non è senza una qualche titubanza che io mi metto a scri-
vere di un'Accademia, che comprende nel suo seno tanta parte
del senno, della dottrina italiana e straniera; ma fidato alla scorta
dell'illustre Domenico Carutti, e coll'aiuto delle due comunica-
zioni di lui intorno a questo argomento, ^ procurerò di tessere
a rapidi cenni la storia di questa valorosa Compagnia, e traendo
un po' di lume da altre cose, dimostrare la sua importanza scien-
tifica e morale. Da questo scritto, cred'io, si vedrà, cora'ella fo
sempre combattuta da due grandi avversarii, che sono pure i
nemici di ogni miglioramento umano, il fanatismo, da non con-
fondersi col vero senso religioso, e la dispotica signoria. Quindi
possiamo fin da principio aspettarci questo fatto, che l'Accademia,
una volta istituita, vive e fiorisce, quando contro di Lei non insor-
gono persecuzioni religiose o politiche ; ma è oppressa e spenta,
quando infuria l'una o l'altra tirannide.
1.
Fonriatori dell'Accademia dei Lincei furono il Marchese di
Monticelli {Montis Coelii) Federico Cesi, col titolo di Princeps
et lìisiitutor, d'anni diciotto circa; Griovanni Heck, in latino HecJcius,
' « Di Giovanni Eckio e della instituzione dell'Accademia dei Lincei, con alcune
note inedite intorno a Galileo. » Comunicazione di Domrnico Carutti nella Seduta
del 21 gennaio e del 18 marzo l8n. — « Degli ultimi tempi, dell'ultima opera degli
antichi Lincei e del Risorgimento dell'Accademia. » Id. 17 marzo 1818.
126 l'accademia dei lincei.
presso noi Eckio, olandese, nativo di Deventer, laureatosi medico
a Perugia, cattolico, ricoveratosi in Italia, per sottrarsi ai furori
delle sètte religiose infestatrici dei Paesi Bassi : Francesco Stel-
luti da Fabriano, di nobile casato: Anastasio conte De Filiis di
Terni, parente dei Cesi, tutti e tre d'anni circa 26. Segna la data
della fondazione il giorno 17 agosto 1603; secondo i costumi acca-
demici di quei tempi, lasciando il proprio nome il Cesi, fu chia-
mato il Celivago (Coeììvogus), lo Stelluti il Tardigrado (Tardi-
gradus), il De Filiis l'Eclissato { Edi psahis),V Eckio l'Illuminato
{Illuminatiis) ; ma nessuno poi degli Accademici posteriori, a quel
che vedo, seguì tale caricatura. Nella distribuzione dei gradi il
Cesi fu prima Consigliere Maggiore e poi Principe; Francesco
Stelluti e Giovanui Eckio Consiglieri; Anastasio De Filiis, Segre-
tario. In un opuscolo clell'Eckio figura il titolo di Cavalur Linceo
{Disimtatio unica dodoris Joarwis HedHi, eqnitis Lìjncei I)aven-
t riensis de Peslc): pare anzi di qui, che l'Eckio fosse il primo
ad assumere per le stampe il nome di Linceo, e ciò fece nel 16u5
coll'opuscolo citato e coU'altro JJe Nova Stella. Oltre i nomi ave-
vano i Lincei emblemi proprii, che insieme coi nomi furono dagli
altri compagni lasciati in disparte; avevano pure diploma ed
anello; i presenti Lincei al diploma ed all'anello sostituirono la ta-
voletta incisa in bronzo. Come si vede, nei loro scritti, nelle cor-
rispondenze epistolari, nelle adunanze, usavano per lo più la lingua
latina, ma un po' barbara e non senza sgrammaticature. Come
la scienza e la verità, l'Accademia non aveva indole di nazione
0 popolo singolare, ma carattere universale; gli Accademici eleg-
gevansi tra i dotti di tutta l'Italia e dell'Europa ; né era neces-
sario che pigliassero stanza in Roma. L'Eckio era olandese; Gio-
vanni Demisiano, eletto nel 1612 in età di 36 anni, nel catalogo
detto Nuovo, si scrisse di sua propria mano Crphallenirnsis. Gio-
vanni Schreck si scrisse Terrcntius. eletto nel 1611 in età di anni 35,
di Costanza; tedeschi erano pure Giovanni Fabri (Fahcr^ e Teo-
filo Molitore, eletti nel medesimo anno 1611. Giusto Eycquio
fiammingo, fu eletto nel 1625; tra i francesi, fu proposto il bene-
merito Niccolò Claudio Fabrizi di Peires, e tra gl'inglesi il nostro
Cassiano Dal Pozzo raccomandò Francesco Bacone. Gli accade-
mici, e specialmente i primi quattro fondatori dicevansi fr;itelli,
e di fraternofamore veramente si amavano. Arieggiava quella
Compagnia ne'suoi primordii un non so che di sodalzio reli-
gioso; il 25 dicembre 1603, inaugurata la Società con uw discorso
del Cesi, a cui rispose l'Eckio, e giurate loro costituzioni, il Cesi
l'accademia dei lincei. 127
diede ai tre amici la collana della Lince, all'Eckio dicendo: B.icevi
questo simbolo di fraternità a te ed a me stesso comune : sia questo
non solo un segno di virtù e di fratellanza, ma un proemio ancora
delle future e delle presenti fatiche. laU)na,rono quindi il Te Deum
laudamus, e stabilirono che ogni loro tornata si aprisse colla
recita di un salmo davidico. Sulla proposta dell' Eckio fu pure
convenuto che la Società si ponesse sotto la protezione di un
Santo, e per consiglio dello stesso Eckio fu scelto S. Giovanni,
l'apostolo delle arcane visioni, e uniti visitarono S. Giovanni in
Laterano, e al Patrono sé e loro studi raccomandarono. Né in
mezzo a questi studi puramente scientifici e di scienze fisiche e
naturali taluno mancò di scrivere intorno a cose di religione.
L'Eckio infatti ha dettata tra le altre quest'opera intitolata:
Poleitia Catholica de hono et malo civili, composta a Madrid, e
scrivendo al Cesi il 2 giugno 1608 così ne parlava : est liher exi-
gims mole, sed Lipsiano modo, totus ex sententiis conflatus. Scrisse
anche un Libro contro gli Heretici, dedicato a Paolo V, forse
quel medesimo che é registrato dall'Odescalchi e dal Cancellieri
col titolo: De nostri tcmporis pravis haereticormn moribus,' ecc.:
e nel catalogo della collezione di manoscritti posseduti da D. Bal-
dassarre Boncompagni, tra i codici del nostro Olandese, trovasi
notato lo scritterello : De mundi pernicie ac haereticorum insania
quae in ìiac mundi senecta apud Belgas maxima est. Si é accen-
nato come l'Eckio, cattolico, per fuggire i furori delle sètte dei
protestanti, abbandonasse la patria e si ricoverasse in Italia. Or
bene, costretto poi, per le ragioni che diremo, a lasciar Koma e
tornatosene in Olanda, sì per viaggio e nella stessa sua patria
venne a disputa cogli eretici, e a Dieppe scampò difendendosi
colla spada; a Deventer una volta ebbe l'esilio, una seconda volta,
rimpatriato con licenza dei magistrati, ebbe l'esilio e la confisca
dei beni. Eppure il duca d'Acquasparta, padre di Federico Cesi,
non si vergognava di denunziare al Sant'Uffizio il nostro Eckio
qual eretico e propagatore della eretica nequizia.
L'Accademia, in quei principii, se non proibiva assolutamente,
avversava e sconsigliava a tutta possa il matrimonio, che al Cesi
pareva mollis et effaeminata requies: onde, quando l'Eckio, tro-
vandosi a Praga, pensava di chiedere perdono ai magistrati di
Deventer per ritornarvi, riavere i suoi beni e prender moglie, e
di tutto ciò chiedeva consiglio al Cesi, questi, principali aucto-
,ritate et fraterno amore, lo pregava di non pensare a più'^lunghi
viaggi, soggiungendogli che non gli venisse neppure l'idea di
128 l'accademia dei lincei.
nozze, dal suo petto e dalla sua mente cacciasse un tal pensiero.
Mase dell'Eckio, il quale pure nella citata lettera del 2jgiugno 1608
informando da Madrid il Cesi delle sue cose, gli notificava che
era preso d'amore, coll'intenzione di finirla o colle desiderate
nozze, 0 col consacrarsi in perpetuo alla castità, nulla però sap-
piamo intorno alla |deliberazione presa, mancandoci affatto da-1
1608 al 1614 notizie di lui; il Cesi tuttavia, che era il primoge-
nito erede dei beni e titoli paterni, :di necessità abbandonò le
sue giovanili opinioni, e contro il consiglio dato all'Eddo con
viva istanza e calda raccomandazione, mortagli la prima moglie,
passava a seconde nozze. Del resto quella Compagnia, mentre da
una parte per l'amore alla vita tranquillamente studiosa e riti-
rata, aliena dai lacci nuziali e per la religiosità dei sentimenti,
delle idee, dei riti stessi tenuti nelle adunanze, e la strenua difesa
del Cattolicismo, rassomigliava alquanto, come si è detto, ad uno
di quei sodalizi, che nei secoli andati sorgevano di tratto in tratto
nel seno della Chiesa; era per altra parte contraria ai Regolari,
i quali non vi erano ammessi; il che spiega perchè non fu nomi-
nato il Padre Benedetto Castelli, proposto da Filippo Salviati
nel 1613, e perchè Giovanni Terrenzio, resosi Gesuita, cessò dalla
Società. Avevano insomma quei primi Lincei meditato un Ordine
particolare, che, mantenendosi affatto straniero a ogni briga mon-
dana da cui la scienza non ricavasse alcun profitto, consecrasse
tutto sé stesso unicamente alla scoperta della verità, di qualunque
natura ella si fosse, od appartenesse al mondo materiale od al
morale. Perciò la Lince, animale creduto di vista acutissima, col
motto sagacius ista, fu assunta per impresa a ricordare di con-
tinuo, come avvertiva lo Stelluti, che nello studio della natura
devesi procurare di penetrare Vinterno delle cose per conoscere le
loro cause et operazioni della natura, che interiormente lavora,
come con bella similitudine dicesi clic- la Lince faccia col suo
sguardo, vednido non solo quello che è di fuori, ma anche ciò che
dentro si asconde. E il fine dei Lincei era, come sta esposto nel
Linceografo, non solo di acquistare la cognizione delle cose e la
sapienza, vivendo virtuosamente, ma eziandio di manifestarle agli
uomini colla voce e cogli scritti. Sebbene fossero curate special-
mente le scienze matematiche e naturali, pure non ne furono cac-
ciate in bando le filologiche discipline e le amene lettere, secondo
che avvertivano le Praescri-ptiones Linceae: non negl.cctis interim,
amoeniorum musarum et philologiae ornamentis. Ed invero Fran-
cesco Stelluti. uno dei quattro fondatori, commentava e tradu-
l'accademia dei lincei. 129
cova Persio; erudito e storico fu Marco Volsero, di Augusta, eletto
nel 1612; poeta e antiquario Vincenzo Mirabella, Siracusano, eletto
nel 1614; lodato verseggiatore Griovanni Ciampoli , Fiorentino,
eletto nel 1618 ; giureconsulto e filologo Giuseppe Xeri, di Pe-
rugia, eletto nel 1622; amante della filologia e dell'erudizione il
cardinal Giuseppe Barberini, clie si scrisse Caroli filius, Urbani Vili
nepos ex fratre, eletto nel 1623; versatissimo nell'antiquaria Cas-
siano Dal Pozzo, eletto nel 1622. Fino al 1630 l'Accademia con-
tava 32 soci, ai quali per la scoperta recente di un documento
fatta dal prof. Eezzi, si dovrebbe forse aggiungere anche Ales-
sandro Adimari, Fiorentino, traduttore di Pindaro, al quale il Cesi
sopraggiunto dalla morte, non fu in tempo di mandare l'anello.
II.
La sede non era fìssa; per lo più tenevansi le adunanze nel
palazzo del principe Cesi, talvolta altrove, come in casa del Ce-
sarini, di Giovanni Fabri, una volta in casa dello stesso cardinal
Cesi. Kare le tornate, i cui verbali non registrassero le discus-
sioni scientifiche, ma solamente le provvisioni ordinarie, le no-
mine dei soci, le stampe dei libri, e simili. I denari per le stampe,
per la compera degli strumenti necessari alle osservazioni ed alle
esperienze, e per ogni altro bisogno fornivali il principe Federico
Cesi, duce e anima dell'istituto. Vastissimo era il concetto di que-
sto giovane diciottenne, che lascia gli allettamenti d' una vita
mondana solita a menarsi dai baroni romani, disprezza i piaceri
propri di quella bollente età, per tutto consacrarsi al progresso
morale e scientifico del genere umano. L'Accademia doveva aver
case dette Licei, nelle quattro parti del mondo, provvedute di
rendite proprie, dove i soci menassero vita comune; in esse musei,
librerie, stamperie, specole, macchine, orti botanici, laboratorii, ogni
arredo insomma conveniente agli studi, e al culto delle scienze:
da ogni Liceo ogni osservazione, ogni scoperta fatta doveva tosto
alle altre case tutte e al principe comunicarsi. E cominciò a fon-
darsi un Liceo a Napoli, del quale Giambattista Porta napoletano,
eletto accademico di 75 anni, nel 1310, fu nominato Propincipe, e
morto lui, ebbe quel grado Fabio Colonna della stessa città,
eletto accademico linceo, nel 1612, d'anni 40. Il Cesi intendea fab-
bricare a Tivoli una villeggiatura per gli accademici e pro7ve-
dere di casa il Liceo napoletano, il quale, secondo che narra il
Bianchi, riminese, uno dei restauratori della Compagnia e del
VoL. XIV, Serie II — 1 Marzo 1879. 9
130 . l'accademia dei lincei.
nome Linceo, cessò, per ordine del viceré spaglinolo prima della
morte del Cesi. Ma il più glorioso acquisto, dice rettamente il
nostro Camiti, che il mondo potesse concedere e del qnale si onorò
l'Accademia, fu quello registrato l'anno 1611 nel catalogo con
queste parole: Ego Galilaeus Galilaeus Lyncaeus Vincenh'i fiUiis
Florentinus aetatis meae anno IIL (48) Sai. 1611, die 25 aprilis,
Boniae manu propria scripsi; ed eccolo intento alla costruzione
del Telescopio, che se non fu da lui trovato, spettando l' inven-
zione, secondo lo stesso Galileo, a un dotto fiammingo, fu senz'alcun
dubbio da lui ridotto a perfezione. La prima idea però di questo
strumento fu concepita non dall'occhialaio di Middelburgo, Gia-
como Mezio, ma dal nostro Porta napoletano, che nel trattare
delle lenti lo divinò trent'anni innanzi, e recato in Eoma dal Ga-
lileo, il Cesi lo chiamava Tckscopio, Telescopium, nome che gli ri-
mase. Aveva il Galileo già fin dal marzo del 1610 pubblicato in
Padova il suo Nuntius sidercus, e nel maggio del 1612 scriveva
tre lettere a Marco Velsero linceo sulle ]][acchie Solari in risposta
del finto Apelle, il padre Cristoforo Schei ner, il quale in un'ope-
retta intitolata Tres epistolae de ■ìnaculis solarihus si usurpava
la gloria di tale scoperta. Ma il manoscritto presentato all'iVcca-
demia da Angelo De Filiis nella tornata del 9 novembre ed ap-
provato per la stampa non uscì alla luce che al principio del se-
guente anno 1613 in Roma appresso Giacomo Mascardi coli' ag-
giunta in fine delle tre lettere e disquisizioni del finto Apelle.
Fu decretata eziandio la stampa del libro De aeris transmufa-
tionihus del Porta e delle opere di Antonio Persio, nominato
Linceo pur nel 1611. Il Cesi pose mano alle sue Tavole fdosofìche,
quasi frontispizio del Theatrum totius Naturae, che la morte gli
impedì di finire. Nel 1614 fece disegnare il tempio della Fortuna
Prenestina e il suo musaico in diciotto tavole ; nel 1618 impren-
deva l'opera del Celispicio sopra la fluidità dei Cieli. Nel 1715
lo Stelliola, Nolano, eletto d'anni 65 accademico Linceo nel 1612,
componeva il libro sul Telescopio. Il Terrenzio prima, e poi Fabio
Colonna, Giovanni Falnù, lo Stelliola e il Rycquio curavano e il-
lustravano l'edizione della Storia naturale del Messico, detta con
varii titoli Rerum Mcdicarum Novae Hispaniae Thesaurus, seu
Plantarum, Animalium, 3Iineraliwn McxicanorumHistoria, etc;
opera colossale, che per fortunose vicende non potè pubblicarsi
che nel 1651.
Nel 1622 Galileo mandò agli accademici il manoscritto del
Saggiatore, ed essi lo fecero stampare in gran fretta, per non es-
l'accademia dei lincei. 131
sere impediti (come Virginio Cesarini detto Linceo d'anni 25, nel
1618, scriveva) dai gesuiti che di già V hanno penetrato. L'opera è
appunto dedicata in forma di lettera all'llLmo e Eev.mo monsi-
gnor don Virginio Cesarini, e fece bene il prof. Augusto Conti a
inserirla nelle Prose scelte del Galileo per la lettura dei nostri
giovani studenti liceali, dividendola in 26 capitoli e rendendola
co' suoi belli e succosi argomenti più chiara e più dilettevole.
Colla data del 23 settembre 1624, da Firenze il Galileo scrive al
principe Federico Cesi sull'uso di quell' occhialino per vedere da
vicino le cose minime, da Giovanni Fabri nominato e che seguita
a nominarsi il Microscopio, della cui invenzione molto si è di-
sputato e il Tiraboschi sosterrebbe averne avuto una qualche idea
pel primo lo stesso Galileo, fin dall'anno 1612, e pare che vi al-
ludesse ne' suoi Ragguagli di Parnaso il Boccalini, che li pub-
blicò in quell'anno medesimo (cent. I, rag. 1). Ma comunque sia la
cosa, fatto sta che il Galileo perfezionavalo nel 1624, come lo di-
mostra questa lettera di lui al Cesi, inserita pur essa dal Conti
nelle Prose scelte. Intanto Giusto Rycquio scriveva opere di eru-
dizione; il Cesi occupavasi dei legni fossili trovati ad Acqua-
sparta e di un lavoro intorno alle Api {Apiarium, nel cui fron-
tespizio pare che si legga la dedica in queste parole precise:
Urhano Vili Pontifici Maximo cum Mn:A[iiorPA*[A a Lynceorum
Academia in perpettiae devotionis Symholum ipsi offeretur, etc.)Lo
Stelluti scriveva intorno a quei fossili e compieva la traduzione
di Persio, pubblicata nel 1630: Fabio Colonna proseguiva le sue
osservazioni botaniche, molto rallegrandosi che il reduce viaggia-
tore Pietro Della Valle nuovi semi e piante recasse dalle regioni
orientali. Nel 1628 il Fabri stanco dei soverchi indugi frapposti
alla pubblicazione del Tesoro Messicano, ne mandò fuori la parte,
in cui trattava degli animali, discorrendo in una sua lettera del
25 aprile al Cesi delle difficoltà incontrate presso la Censura, a
vincere le quali fu costretto ad accettare le impostegli condizioni.
Nel 1629 il Galileo conduceva a termine il suo Dialogo sopra i
due massimi sistemi del Mondo Tolomaico e Copernicano, e nel 1630
venne a Roma per ottenerne l'approvazione e vigilarne la stampa ;
e l'approvazione della Censura conseguì, ma non potè, per la s >
pravvenuta morte del principe Cesi, conseguirne la stampr da
parte dell'Accademia. Quell'opera per cui si disfogarono contro
il grande autore i mal repressi odii degli arrabbiati e fanatici
partigiani del vecchio Aristotelismo, usci alla luce due anni dopo
in Firenze dedicata al serenissimo Granduca. Da questi cenni
132 l'accademia dei lincei.
comprende ognuno quanto feconda si fosse 1' attività dei Lincei
dal 1610 al 1630; nel qual anno, al 1" agosto, morì il principe
Federico Cesi, personaggio veramente degno di memoria ; la qual
perdita non fu ultima causa del primo sbandamento di quegli
strenui campioni della verità e della virtù. Quei valorosi difen-
soi'i e propagatori della scienza miravano a fondare con forze
unite le naturali discipline sopra l'osservazione di ciò che è, sopra
l'esperienza reale e sicura dei fitti, poco ó nulla curandosi del-
l'autorità d'Aristotile e dei ciechi seguaci suoi. Il metodo inaugurato
dal Galileo di porre a base del ragionamento puro l'osservazione
e l'esperienza formava, dirò così, la divisa, l'arma e lo stromento
di tutta la società. Al grande toscano, e in genere a tutta l'Ac-
cademia dei Lincei dove il mondo civile la fonte e la cagion
prima, il primo principio motore e fattore di quel grande incre-
mento scientifico, onde l'età nostra non senza pompa retorica al-
tamente si vanta. « Quegli anni, dice il Carutti, e quegli uomini,
che furono il Cesi, il Porta, il Galilei, il Colonna, per tacer degli
altri, e le loro opere, le sventure patite per amor del vero, e
il rivolgimento scientifico, che assicurarono, e i cui effetti du-
reranno perpetui, fanno ragione, perchè in Roma il nome dei
Lincei abbia avuto sempre culto affettuoso, e perchè la rima-
nente Italia, che tutta quanta era rappresentata nella loro prima
instituzione, abbia voluto con pari ossequio conservarlo. Poco
poteasi aggiungere all'idea prima dei fondatori, larghissima e
conveniente a nazione fatta. »
III.
Dopo il Cesi veniva lo Stelluti, 1' operoso Tarcligrndo. che
aveva l'ufficio di procuratore generale; il cancelliere e segretario
della Società era Giovanni Fabri ; Giovanni Demisiano fu censore,
Angelo De Filiis bibliotecario. Ma prima di procedere oltre nel
racconto, stimo opportuno rifare la via percorsa e ritornare a quei
primi anni per esporre altre difficoltà, che dovette la nascente
Compagnia vincere, e per far conoscere meglio il carattere spe-
ciale di Giovanni Eckio, donde risalterà una maggior luce sul-
Pindole di tutta quell'Accademia in generale. Abbiamo già veduto
come si portasse 1' Eckio, quando ritornò in Olanda, con quelli
che da lui dissentivano per motivi di religione. Per quanto si vo-
glia scusare il fatto di lui coli' addurre a sua difesa la provoca-
zione e il furor settario de'suoi nemici, non si può tuttavia negare
l'accademia dei lincei. 133
ch'egli fosse d'auiiiio alquanto violento e irrequieto e battagliero.
Prima che egli stringesse col Cesi quella fraterna amicizia sovra
accennata, fu dal duca Giovanni Antonio Orsini chiamato ad
esercitare 1' arte salutare a Scandriglia nel Reatino, con provvi-
gione annua di cento scudi e quindici rubbia di grano. 11 nostro
giovane medico avea composto nello stesso anno della sua laurea,
1601, un libro col titolo : De mirahiìihus crcaturariim Bei, super
Caii PUnii Secundi Historias Naturalcs Coìììmentarium, Opus
Divo Johanni Baptistae dicatum. E 1' anno appresso un' altra
opera scrisse col titolo : Exper intenta medica hahita Scandrillae
an. 1602 praesidio Dncis S. M. Ma a Scandriglia ebbe mala
ventura ; poiché guastossi collo speziale, Raniero Casolini, il quale
per amor di guadagno, nello spedire le ricette ordinate da lui o
non dava buoni farmachi, o li alterava, e venne più d' una volta
con lui a parole; onde l'Eckio minacciato di morte ebbe a difen-
dersi, ma nella propria difesa lo feriva gravemente, sì che lo
speziale mori quindici giorni dopo la ferita ricevuta. Il nostro
dottore, presentatosi al Vicario che sedeva in Corte, e costituitosi
prigione, fu tradotto a Eoma, dove il giovane Cesi, avuta di lui
ottima informazione, prese a proteggerlo, e colla difesa presen-
tata dal suo procuratore e comprovata dalle dichiarazioni dei
testimoni essendosi dimostrata la necessità di ferire lo speziale
per salvare sé stesso, fu l'Eckio rimesso in libertà. Di qui il vin-
colo della santa amicizia fraterna tra lui e il giovane Cesi, e
l'amore alla scienza ed alla verità inspirato dal primo al secondo,
e il pensiero di fondare coU'opera degli altri due compagni quella
società, di cui parliamo.
Ma se il giovane Cesi era tutto nei generosi e sublimi senti-
menti che sollevano 1' uomo ad un mondo superiore, non si può
dire lo stesso di suo padre, il duca d'Acquasparta. Egli era uomo
di cattiva indole, sommerso nei debiti; temeva o fingeva di cre-
dere che r Olandese cercasse d' indurre il figliuolo a fuggirsene
seco nei Paesi Bassi. Perché quei giovani chiamavansi fratelli
giurati? Quale vincolo li stringeva? Non poteva capacitarsi che
il solo amore del sapere gli unisse in così fida lega ; doveva muo-
verli una qualche sinistra e nera intenzione. Ricorse ad arti basse
ed inique per far di nuovo incarcerare 1' Eckio, esortando a ciò
ed a rinfrescare il processo dell'omicidio il Governatore di Roma
con tre suppliche. E notiamo che 1' Eckio per offerta del giovane
Cesi godeva la sua ospitalità, avendo preso stanza nel suo stesso
palazzo. Fallitogli il colpo accennato, non ebbe ribrezzo di ricor-
134 l'accademia dei lincei.
rere al Santo Uffizio, dijjingenclo 1' ospite suo quale perfidissimo
eretico, il quale tentava di subornargli il figliuolo e condurlo negli
stessi errori, menando vita scostumata, esercitando negromanzia
ed altre diaboliche arti. Quell' aria di mistero, onde s' erano cir-
condati i quattro Lincei fondatori, quello studio precipuo della
natura, quel carteggiare tra loro in cifra, tutto contribuiva a dare
un'apparenza di vero alle calunnie del signor Duca. Il quale ri-
corse al cardinal Vicario, il cardinal Borghese, che fu poi Paolo V.
Costui, uditi falsi testimoni trovati dal Duca, e fatte scrivere le
loro deposizioni, ordinò che 1' Eckio fosse ricondotto in carcere.
Il che non ebbe efi'etto, perchè, abitando egli tuttavia il palazzo
ducale, il padrone, che pur gli faceva quel tiro ignominioso, ver-
gognavasi e non desiderava che fosse arrestato in casa sua. L'Eddo
stette rinchiuso negli appartamenti di Federico, in sino a che per
consiglio di lui se ne partì da Eoma, accompagnato per viaggio
da due uomini del Duca, a sorveglianza piuttosto che a guardia.
Durante questa vile persecuzione il nostro Olandese pose mano
all' opera De negìecta siderali scicnfia, di cui pare scrivesse il
primo volume e che doveva essere distesa in due, come ricavasi
dalla dissertazione De peste, che egli dettò in Olanda nel 1605,
mentre quel paese era dal morbo infestato. Lasciando il viaggio
dell' Eckio partito da Roma per Siena, Firenze, Pisa, Milano,
Torino, per la Savoia, la Francia fino alla sua patria, e non toc-
cando neppure le accoglienze oneste e liete ricevute nella corte
di Rodolfo II e le amicizie strette con Ticone Brahe, col Keplero
e con altri illustri uomini, e le lettere colle quali egli informava
il Cesi di tali conoscenze, della diffusione del nome e della fama
dei Lincei, degli acquisti fatti per l'Accademia, degli scritti da
lui composti, delle sue vicende vediamolo reduce in Italia nel 1606.
Egli si trovava, come sembra, in Parma, dove era ancora lo
Stellati, quando il Cesi gli scrisse di venirsene incognito, sostando
a Terni, donde intendeva mandarlo a Napoli. Ma l' Eckio rispose,
che non poteva ciò fare senza disonore, e pare non desse retta
all'avvertimento dell'amico, sì che nel 1606, il 10 aprile, ricom-
parve in Roma, dopo l'assenza di due anni. Di qui egli scriveva
a Giovanni Keplero, che lo salutava dalV alma città di Doma.
Parevano spente le ire del duca d'Acquasparta e sicuro l' Eckio:
onde il giovane Cesi scrivendone allo Stelluti il 17 gennaio 1607
diceva, doversi rnngyaziarc il Signor Dio che hahhia rimosso la
causa principale dei travagli et concesso principio di quiete. Ma
la era una vana lusinga: l'odissea dell'Olandese non era termi-
l'accademia dei lincei. 135
nata. Narrasi die il signor duca d' Acquasparta sempre gli nu-
trisse odio e con sue lettere lo avesse messo in sospetto al Nun-
zio in Vienna, e per la seconda volta lo costringesse a partire.
Della nuova offesa del Duca non venne fatto al Carutti di sco-
prirne traccia nei documenti. Pure egli rettamente osserva, che
le ammonizioni del Cesi di non farsi vedere in Roma e di volerlo
mandare a Napoli dimostrano che il mare, sebbene in apparente
bonaccia, tuttavia non era sicuro. Fatto sta che nel giugno del
1608 noi lo vediamo a Madrid e di qui scrivere allo Stelluti come,
scossa la protezione di un cotal marchese di Moya, si desse ad
esercitare la medicina e fuggisse la casa del Nunzio, officina
cV inganni; e tra le altre cose dirgli: (lìii nummos etiam renue-
bam, nimc studiose quacro: foctorem aveo et nummos praecipue
spero: ad mcrcimonium mea me redegit sors et scienliam foeneri
siihjiigavi: latino barbaro rivelante anima civilissima, contro le
sue aspirazioni costretta a vivere dell'esercizio della sua profes-
sione. Dal 1608 al 1614 non abbiamo notizie di lui; non sappiamo
nemmeno se egli abbia o no seguito il consiglio del Cesi riguardo
al matrimonio. 11 26 luglio 1614 ricomparve in Roma, ove fu
dallo Stelluti condotto in mezzo ai Lincei, ai quali fece per
un' ora eloquente esjiosizione dei suoi viaggi e delle sue vicende,
parlando ora latino e ora greco. Avea peregrinato tuttala Spa-
gna, la Francia, l' Inghilterra, varie parti del Belgio, veduto e
fatto un mondo di cose e tutto scritto. L'ultima volta, in cui si
fa menzione dell' Echio nelle Gesta dei Lincei, fu il 24 marzo
1616; si trovò presente a quell' adunanza, ma solo materialmente
col suo corpo; la mente era da grave offesa colpita; il povero
Echio non era più in senno. E siccome non se ne parla più, sem-
bra assai probabile che sia morto fra il 1618 e il 1621. Giovanni
Echio diffuse nelle più remote contrade il nome dell'Accademia,
che egli insieme col Cesi fondò e potè vedere, per opera dei soci
e specialmente del Galileo, lodata e di bella vita e fama fiorente.
Non v' è genere di letteratura, secondo che scrive monsignor Gae-
tano Marini, che egli non abbia toccato, ma di tanta operosità,
del suo grandissimo amore alla scienza pochissimo ci resta, da
cui non ci è lecito argomentare del valore dell' ingegno di lui.
Cassiano Dal Pazzo ne aveva raccolti i manoscritti, conservati
poi nella biblioteca Albani; i giovanili si conservano ora dal
principe D. Baldassarre Boncompagni.
136 l'accademia dei lincei.
IV.
Si è detto che l'Accademia ne' suoi primordii era aliena dal-
l'ammettervi dotti ecclesiastici regolat-i, e n' aveva ben ragione ;
l'esperienza almeno ha dimostrato che erano giusti i presenti-
menti dei fondatori. I primi a rivolgersi contro le dottrine Co-
pernicane furono i regolari; unica eccezione troviamo fare il Cam-
panella, il quale, come riferisce il D'Ancona nella sua bella e
documentata Vita, nel 1614 scriveva al Galileo : « Io fo la nuova
Teologia, dove mostro che la scrittura sacra e li rabbini piìi
antichi tutti son di questa opinione : già sono al 4' libro. — Io
sepolto fo quanto un vivo per V. S. e per l'onor comune. » Nel 26
di febbraio 1616 il Galileo aveva ricevuto dal cardinal Bellar-
mino l'ammonizione di non difendere né tenere le dottrine del
moto della terra, perchè contrarie alle Sacre Scritture, e il 5 del
marzo seguente la Congregazione dell'Indice aveva proibiti i libri
De Rivoìutioniìms Orhmm Coelestium del Copernico, donec cor-
rigantur. Credevano non di meno il Galileo ed i Lincei, che se
essa dottrina era dannata come tesi, la si potesse avere in conto
di ipotesi; ma neppur come ipotesi fu tollerata. Indarno il Galileo
medesimo, prevedendo 1' avversione prima e la persecuzione poi
mossa ai propugnatori del novello sistema, fin dal 1613 scrivendo
al celebre Padre Benedetto Castelli intoruo al sistema Coperni-
cano e all'autorità scritturale in argomento di Fisica, concludeva
con queste solenni parole : « Avendo io dunque scoperto e necessa-
riamente dimostrato il globo del sole rivolgersi in sé stesso,
facendo un' intera conversione in uà mese lunare incirca per
quel verso appunto che si fanno tutte le altre conversioni ce-
lesti; ed essendo di più molto probabile e ragionevole, che il
sole, come strumento massimo della natura, quasi cuore del
mondo, dia non solamente, com'egli chiaramente dà, la luce, ma
il moto ancora a tutti i pianeti, che intorno se gli raggirano;
se, conforme alla posizione del Copernico, noi costituissimo la
terra muoversi almeno di moto diurno, chi non vede che per
fermare tutto il sistema senza punto alterare il restante delle
scambievoli rivoluzioni dei pianeti, solo si prolungasse lo spa-
zio e il tempo della diurna illuminazione, basta, perchè fosse
fermato il sole, come appunto suonano le parole del Sacro Testo?
Ecco adunque il modo, secondo il quale senza introdurre con-
fusione alcuna delle parti del mondo e senz' alterazione delle
l'accademia dei lincei. 137
parole della Scrittura, si può con fermare il sole, allungare il
giorno intero {Prose sndte). » La qual conclusione molto pru-
dente e per quei tempi maravigliosa per la maggior parte di vero
che conteneva non fu punto accettata da quei Teologi, e tutti sanno
la cieca e furente ostinatezza, con cui negli ultimi anni della sua
vita fa perseguitato il sommo filosofo, il vero padre della filoso-
fìa esperimentale. E non solo il Gralileo, ma nella sua persona
tutti i Lincei furono perseguitati, e il primo principio, la prima
pietra dello scandalo fu porta da un socio dell'accademia, da un
amico dello stesso Galileo, Luca Valerio nominato Linceo nel 1612^
in età d'anni 60, napoletano, figlio di Giovanni. Era uomo di gran
fama e valore, massime nelle matematiche e nella teologia, tanto
che nella presentazione ai Lincei, il 7 giugno 1612 per poco non
si faceva superiore a tutti i matematici dopo Archimede, e nella
teologia e sana filosofia così eccellente, da non sapersi giudicare
in quale delle due scienze più valesse. Anche il Galileo, come
risulta dalle sue 02)cre e specialmente dalla lettera del 5 gen-
naio 16i3 al Cesi, lo stimava assai e lo venera va. Ma appena il
sommo Fiorentino fu ammonito e i libri del Copernico dalla Con-
gregazione dell'Indice proibiti finché non fossero corretti, Luca
Valerio cambiò. Era professore nell'Archiginnasio Eomano, e disse
in certo modo di non voler più appartenere ai Lincei, perchè
fautori di una dottrina riprovata dalla Chiesa, ascrivendo loro a
gran delitto e quasi a manifesto errore l'averla professata, e ne
incolpò apertamente il Galileo, sebbene l'ammonito del sant' Uf-
fizio affermasse d'averla sostenuta non come tesi, ma solo come
ipotesi. I Lincei, d'accordo col Galileo, giudicarono di dover pu-
nire esemplarmente un /■ra/c//o, che usava tali modi, escludendolo
dal commercio e dalle tornate accademiche e privandolo della voce
attiva e passiva. Nella sentenza, pronunciata nel 2-1 marzo 1616
e pubblicata colle stampe dal Carutti per la prima volta, leg-
gonsi generose parole, con cui la Compagnia nel Galileo difende
sé stessa e nell'offesa recata a lui riconosco una propria offesa.
Né questa condotta di Luca Valerio deve farci stupire; siamo in
Roma sotto Paolo V; sedici anni prima il vento aveva disperso
le ceneri del Bruno. La persecuzione aperta contro i Lincei e il
loro protetto se non incomincia subito, si macchina però occul-
tamente; dal 1618 al 1621 l'Accademia non tiene che una sola
adunanza, e questa nel 1621 in casa di Virginio Cesarini. Il ver-
bale incomincia con queste parole : « Post longam non mcnsium
modo, ned annorum etiam interccssitiidincni, consessum et collo-
138 . l'accademia dei lincei.
quinm Lyncacum, habìùmus in aedihiis iUustrissimi cìomini Vir-
ginii Cacsarini, ecc. Già si è detto, come gli Accademici faces-
sero stamimre nel 1622 il Saggiatore del Galileo in gran fretta,
per non essere impecìiti, secondo che scriveva il medesimo Cesa-
rini, dai Gesuiti, che di già Vhanno jìenetrnto. E inutile il far com-
menti; stimo più opportuno il riferire qui un brano di lettera,
che fra Paolo Sarpi scriveva ad un amico, parlandogli del Ga-
lileo e prevedendo le sue dolorose disavventure: «Ora intendo
che il Galileo è per trasferirsi a Eoma, là invitato da vari car-
dinali a far mostra de' suoi inventi nel cielo; io temo che se
in tale circostanza egli metta in vista le dotte ragioni, che lo
portano ad anteporre circa il nostro sistema solare la teoria
del Canonico Copernico, non incontrerà certamente nel genio
dei gesuiti e degli altri frati. Cambiata da costoro la questione
fisica ed astronomica in teologica, prevedo, con mio massimo
dispiacere, che per vivere in pace e senza la taccia di ei-etico
e di scomunicato dovrà ritrattare i suoi sentimenti in tale pro-
posito. Verrà però il giorno, e ne son quasi certo, che gli uomini
da studi migliori rischiarati, deploreranno la disgrazia di Ga-
lileo e l'ingiustizia usata a sì grand'uomo; ma intanto egli dovrà
soffrirla e non lagnarsene che in segreto.» E tutto ciò che il Sarpi
aveva preveduto, si è verificato. Dall'Appendice della Comunica-
zione prima dell'illustre Caratti risulta quanta stima avesse l'Ac-
cademia, e specialmente il principe Cesi, del Galileo; lo Stellati fin
dal 15 settembre 1610 scrivendo a suo fratello ricordava le po-
lemiche e la bassa invidia degli avversarli contro il grande filo-
sofo; un'altra lettera del principe Federico Cesi diretta nel 30
aprile 1611 al medesimo Stelluti riferiva le osservazioni celesti,
che i Lincei facevano col telescopio del Galileo, e toccava del si-
stema copernicano. In un' adunanza del 10 luglio 1614 domandava
il Galileo come dovesse rispondere a Simone ]\Iario, il quale si
usurpava l'onore della scoperta del sistema di Giove; se si do-
vesse trattarne col Keplero, o scriverne al Marchese di Brande-
burgo Marco Filippo; e fu deliberato essere meglio che il Galileo
dirigesse piuttosto una lettera al Keplero, come astronomo. Dai
fatti esposti noi possiamo concludere che i nemici dell' Accademia
del Galileo, del sistema astronomico dal Galileo difeso e dall'Acca-
demia sostenuto, erano i partigiani della vecchia scuola, che par-
tendo unicamente dal principio d'autorità per ignoranza e cecità
singolare confondevano l'autorità d'Aristotele con quella delle
Scritture malamente interpretate.
l'accademia dei lincei. 139
Y.
Nelle opinioni del Galileo pertanto cercavano gli avversarii
di combattere le opinioni, e più ancora i principii inquisitivi del-
l'esame, dell'osservazione, dell'esperienza professati da tutti i
Lincei. Ma 1' Accademia era capitanata da un nobile romano per
religiosità inappuntabile, per aderenze potente. S'aspettava il mo-
mento opportuno ; il Cesi, duce e vita ed anima della compagnia,
fu sopraggiunto da una febbre acuta, che in tre giorni lo spe-
gneva (1 agosto 1630), mentre volendo anche dopo di sé prolungare
ed assicurare la vita dell'accademia, intendeva legarle il museo,
la libreria e il prodotto della Storia Naturale Messicana, con-
dotta pressoché a compimento e prossima a pubblicarsi. Ma, es-
sendogli mancato il tempo di scrivere il testamento, non ebbero
effetto quelle sue buone intenzioni. Non lasciando figli maschi,
i beni della primogenitura passarono a Giovanni Cesi, fratel suo
secondogenito, e le due figliuole, Teresa ed Olimpia, nategli dalla
seconda moglie ed ancora in tenera età, ne ereditarono le sostanze
libere, passando però sotto la tutela della madre, duchessa Isa-
bella Salviati. Il patrimonio non era in buon assetto, stremato
specialmente per opera del padre di Federico, morto poche setti-
mane prima di lui; l'eredità fu accettata con benefizio d'inven-
tario, e ordinato l' inventario del museo e della libreria ne fu de-
liberata la vendita, che fu commessa allo Stelluti ed eseguita. Né
si provvide al compimento della Storia Nr.turale del ]\Iessico, cui
mancava solo, per testimonianza di Francesco Stelluti, la prefa-
zione cogl' indici e poche tavole del Cesi; e lo stesso Stelluti si
profferiva a compierla, credendo che la signora duchessa per 200
0 300 scudi, che occorrevano ancora, non avrebbe voluto rinun-
ziare all'utile di alcune migliaia di scudi per le signorine sue
figlie. Ma i tutori delle signorine Cesi posero in disparte il pen-
siero di compiere la Storia Naturale, di cui lasciarono che si di-
stribuissero alcuni esemplari portanti la data di quell' anno. Il
resto dell' edizione rimase giacente in custodia del duca Salviati
zio delle signorine, il quale aveva non so che credito verso la
successione. Ma i Lincei per bocca del medesimo Stelluti confes-
savano che le cose loro sarebbero ite in rovina, se non fossero
state da signore potente sostenute, e quindi si rivolgevano al
Cardinal Barberini, il quale era stato due anni prima da Giovanni
Fabri pubblicamente salutato praecipiius patronns dei Lincei. In-
140 l'accademia dei lincei.
tanto il Magistrato accademico secondo le Praescriptiones doveva
eleggere per /ni'e/7:>r'«ic/j;e il socio pili anziano, e questi era ap-
punto lo Stelluti, che da parecchi anni dimorava in casa Cesi.
Egli, disagiato dei beni di fortuna e in procinto di doversene ri-
tornare a Fabriano, terra natia, ben sapeva di poter nulla ope-
rare efficacemente e durevolmente per l'Accademia, e previde su-
bito che ogni speranza di salute era riposta nel cardinal Barbe-
rini, Poiché era potentissimo pel suo casato e quale ministro di
Urbano Vili ; i socii Ciampoli e Cassiano dal Pozzo erano ai ser-
vigi di lui; il socio, proposto e non ancora riconosciuto, Luca 01-
stenio, da lui dipendeva, e inoltre Pietro della Valle, e il Mar-
chese Pallavicino Sforza non erano pure stati riconosciuti soci.
Ma il cardinal Barberini, qualunque ne sia la crtusa, non accettò
il Principato linceo, né poteva accettarlo; anche il barone Carntti
accennandone le varie cagioni, vien fuori in queste parole ; «Nulla
di meno può sembrare non inverosimile che l'Inquisizione non
dormisse, né dimenticasse l'ammonito del 1616, nobilmente al-
lora difeso dai Lincei. Ed essa e i peripatetici, infensi senza
tregua al novatore, che toccava a quei di il sommo della gloria,
informati del nuovo libro che trattava nuovamente le riprovate
materie astronomiche {il Dialogo sopra i due massimi sistemi del
Mondo Tolomaico e Copernicano), poterono per avventura rap-
presentare al Cardinale non essere prudente coprire anticipa-
tamente coir autorità della Porpora istanze possibili e vicine. »
Comunque sia la cosa, fatto sta che noi troviamo questi due fe-
nomeni quasi contemporanei, od almeno con poco intervallo di
tem])o tra l'uno e l'altro. L'Accademia dei Lincei orbata dalla
morte del suo duce, stenta e alla fine non riesce a trovare un
altro suo capo, il suo principe successore del Cesi ; il Dialogo
dei Due Sistemi esce a,\ìa. luce net 1632, e nella seconda metà del
16S2 incomincia il famoso processo contro l'Autore di quel dia-
logo. Non si può, cred' io, negare un nesso tra questi due fenomeni,
Rimaste senza frutto le pratiche fatte presso il cardinal Fran-
cesco Barberini, i Lincei rimasero senza principe, senza erario
e senz'archivio, ogni cosa, che fu già appartenente' all'Accade-
mia, passata in proprietà degli eredi Cesi, e stata messa in ven-
dita. 11 cardinal Barberini comperò una ventina di volumi: il
cav. Cassiano Dal Pozzo con animo veramente principesco tolse
a scampare le preziose reliquie di quel naufragio, e con settcccìiio-
ciìtquantolto scudi in n:onda comperò tutta la libreria, meno l'ana-
tomia, e poi anche uno stucciodi diversi instrumenti d'ottone mate-
l'accademia dei lincei. 141
inatici con la sua cassa per venticinque scudi in moneta. L' Ac-
cademia fuori di Roma fu considerata come ancora vivente,
poiché il Dal Pozzo « accogliendo senza alcun riguardo di
spesa nel suo Museo le memorie e gli scritti, e nel suo cuore
i disegni e i pensieri di così dotta adunanza, prorogò ad essa
elle già languiva, pietosamente la vita ; » così dice Carlo Dati
nella sua orazione Brlle lodi del Cav. Cassiano Dal Pozzo. E per
verità dal 1632 al 1657 le stanze di Cassiano potevano chiamarsi
un'Accademia, se con tal nome vogliasi intendere un'eletta com-
pagnia d'uomini, i quali si dedicavano a letterarie ricerche per
conforto d'un uomo, che le coltivava per sé, e negli altri le proteg-
geva, in luogo delle scienze fisiche, naturali ed astronomiche, per-
seguitate nella persona del Galileo condannato appunto in quei
tempi e costretto ad abiurare, si coltivarono di preferenza l'an-
tiquaria, r erudizione e le arti belle. Cassiano incominciò e con-
dusse a termine, con larga e regale munificenza e con discerni-
mento d'uomo dottissimo, la grande raccolta disegnata e dipinta
di tutto il corpo delle Antichità Romane, la più vasta opera
sin allora compiuta di questo genere, a cui cresceva pregio la
matita di quel valoroso artista che fu Nicola Poussin. Carlo An-
tonio, degnissimo fratello di Cassiano, dopo la costui morte di-
ceva di quei volumi: « Per stamparsi ... ne si richiederebbe spesa
più che regia. Restano però comunicabili a quelli che di noti-
zie sì fatte si dilettano. » Oggi parte sono smarriti, parte in In-
ghilterra dispersi. Né qui vuoisi passare sotto silenzio un fatto de-
gnissimo di memoria, qual indizio della somma venerazione di
Cassiano per Galileo. Imperocché nella sua propria casa egli col-
locò il ritratto del cieco prigioniero d'Arcetri, con sotto questi
versi composti da Gabriele Naudè:
Non viiUum, G'itUaee, fuum viihi cura videndi est;
Ast oculata mar/is pictn tahelln jjlacet.
Naìnque oculis resf-ratn tuis qui sidera vidi
Et Coelo per te reddita jurn novo.
Nunc ocuhs cooca dudum sub nocte latente»
Aequa non j^osaem cernere mente tuos.
« L'immagine dell'infelice, osserva bene a proposito il Ca-
rutti, e quel verso Et Coelo per te reddita jnra novo, prostanti
sotto gli occhi del Santo Uffizio e di papa Barberini, rendono
più onoranda la memoria del Conservatore dei Lincei. » Cassiano
morì nel ]657: Carlo Antonio Dal Pozzo, fratello di lui ed erede,
uomo anch'esso di buone lettere, serbò con religiosa riverenza e
142 l'accademia dei lincei,
con somma ed affettuosa cura i tesori legatigli; ma nel 1703 un
suo pronipote li A'endette, e passarono poi nel 1714 nella biblio-
teca Albani. Nel 1798, proclamata la repubblica romana alla
francese, fu la biblioteca Albani dai furori plebei malamente
bistrattata, e ai tempi nostri venduta all'asta pubblica; cosi qua
e là andarono disperse le reliquie accademiche.
YI.
Ma se in quel secolo di persecuzioni di ogni genere i Lincei
furono persino nella vita di Virginio Cesarini, scritta nel 1672
da Agostino Favorito, quali audaci novatori esecrati, e si disse
la memoria loro in breve spenta del tutto e per sempre, pure
essi ebbero altrove, ed in Eoma stessa, vari periodi di risorgi-
mento, che possiamo col nostro Carutti ridurre a tre. Il primo
ebbe luogo a Eimini per opera di Giovanni Bianchi, che curio-
samente latinizzavasi per Janns Flancus; era uomo dottissimo,
valente nella medicina, autore di molte opere italiane e latine,
e in particolare scrisse sopra le conchiglie, il flusso del mare e
la botanica di Fa1)io Colonna, pubblicandone l'opera intitolata
Phytohasanos colla vita dell'autore ed una breve notizia sui
Lincei. Molti avversari trovò e molte polemiche sostenne; era
socio delle Accademie della Crusca e di Berlino; restaurò quella
dei Lincei nel 1745. Questo era il titolo che egli prese: Janns
Pìancus lìatricì'us ariniinensis philosophiae et medicinae Dodor,
et in nrhc Arimini medicns primarius. Bestìtutor pcrpetmis. Am-
mise all'Accademia specialmente gli scenziati scrutatori della na-
tura e scopritori delle sue leggi, comprendendovi però anche i
teologi, i dotti giurisperiti, gli antiquari e tutti i cultori delle
buone lettere. Così non solo il nome, ma in massima parte il
concetto dell'antica Accademia rinnovò, abbracciandovi colle
scienze naturali anche le morali e filologiche; e per verità tra
gli scritti letti e pubblicati da quella società troviamo un Discorso
in lode dell'arie comica recitato nelV Accademia dei Lincei. Ve-
nezia presso G. B. Pasquali. Le Novelle Letterarie di Firenze,
con tali parole annunziano questa restaurazione: « Il signor
Giovanni Bianchi gentiluomo riminese e professore primario di
medicina nella città di Kimini ha creduto d'essere bene e alla
sua patria molto utile e onorevole, il ristabilire quella Accademia
dei Lincei, che un secolo fa fu fondata in Koma e che fu di tanto
l'accademia dei lincei. 143
onore all'Italia, ecc. » Non sappiamo quanto durasse; le opere
pubblicate vanno dal 1745 al 1752.
Il secondo periodo incomincia dal 16 aprile 1801 e giunge
sino al 1840, dapprima col nome di Nuovi Lincei, e poi nel 1804
l'Accademia considerandosi come una continuazione, anzicliò una
rinnovazione dell'antica Komana, lasciò l'aggiunto di Nuovi e ri-
tenne il primo titolo dei Lincei. Tre furono gli autori principali
di questo secondo risorgimento : il duca Francesco Caetani di
Sermoneta, il prof. Gioacchino Pessuti, e l'abate Feliciano Scar-
pellini. L'onore della restaurazione spetta al prof. Gioacchino
Pessuti, che fu eletto presidente dell'Accademia, e al Duca Fran-
cesco Caetani di Sermoneta, nel cui palazzo convenivano quei
dotti, i quali, avendo in animo di fondare una nuova Accademia
nel principio del 1801, prima che dei Liìicei vollero denominarla
Caetani per gratitudine verso il Duca. Ma pure il vanto di con-
servatore ed ampliatore di quella Societcà si appartiene all'abate
Feliciano Scarpellini, che ne fu il segretario e poi il direttore
perpetuo ; onde l'Accademia visse tanto quanto il buon abate.
Nato costui in Foligno il 20 ottobre 1762, dopo d'avere studiato nel
collegio Umbro, entrò nel 1780 come educatore in casa del mar-
chese Frangipani e vi stette per cinque anni. Quivi egli racco-
glieva giovani studiosi in private adunanze, dove le materie in-
segnate ripeteva in compagnia di essi e quasi in forma acca-
demica. Chiamato alla direzione della gioventù del suo paese
nativo, raccolta nel collegio Umbro-Fuccioli, aperto in Koraa ai
giovani di parecchie città dell'Umbria per legati di due bene-
meriti cittadini di quella provincia, l'abate Scarpellini si consacrò
tutto, corpo ed anima, all'istruzione ed alla educazione dei gio-
vani alle suo cure affidati. Provvide a sue spese un apparato di
macchine, fabbricate quasi tutte colle sue mani; insegnò con zelo
singolare; e con opportuni esperimenti corroborava l'insegna-
mento. Essendo anche ripetitore delle facoltà filosofiche, ripigliò
quelle adunanze e conferenze inaugurate in casa Frangipani;
onde codeste sue esercitazioni furono dagl'intendenti osservate e
in tutta Roma lodate, quando un fatto particolare avvenuto nel-
l'anno 1797 contribuì non poco in appresso alla stabilità di que-
sta scientifica adunanza. Trovavasi allora in Roma uno dei lu-
minari, così lo chiamava l'abate Scarpellini, della Francia, il ce-
lebre sig. Monge, mandatovi non so per quali negozi dal governo
della sua patria. Costui, inteso per avventura parlare di quel
nascente istituto, volle un giorno all'improvviso visitarlo e vi si
144 l'accademia dei lincei.
recò appunto nel momento della ripetizione di due memorabili
esperienze dell'analisi chimica e della sintesi dell'acqua. Si fa-
cevano queste esperienze per la prima volta in Roma e senza
dubl)io coi metodi dei chimici frai;cesi; la novità della cosa
trasse al collegio più gente dell'ordinario e al certo la pili eletta
cittadinanza; e lo scienziato francese, vedendo che i giovani erano
al fatto delle cogni:':ioni e scoperte piìi recenti, si mise al en-
comiare il loro studio, la loro diligenza e il buon ingegno ed
anche le cure di chi loro impartiva quell'utile insegnamento.
V'intervenne altre volte e sempre più confortava i giovani stu-
diosi e il savio loro insegnante. Si avvicinavano i tempi grossi
ben noti: Koma, come il resto d'Italia, mutò il suo reggimento
non una volta sola. Essendo stati dalla repubblica francese de-
putati quattro commissari a dettare e promulgare in Roma la
costituzione della nuova Repubblica col suo Senato, col Tribunato
e cinque Consoli, vi tornò in qualità di commissario il sig. Monge,
il quale fece tribuno e socio dell'Istituto Nazionale l'abate Scar-
pellini. Questi in allora usò il favore dell'amico potente a inco-
lunntà del suo collegio Umbro-Fuccioli, campandolo dall'aboli-
7.ione decretata già di simili corpi morali. 11 Monge lo consigliò
a dare leggi scritte alla società scientifica ivi sedente; ed il savio
consiglio fu accettato, e gli statuti furono proposti ai soci nel 1799
con questo titolo: Lrfjr/i sullo sfahiìinicnfo e travagli dclV Acca-
demia del collegio Und)ro-Fnccioli in Roma, proposte ai mem~
òri della medesima nrlf anno V della sua fondazione e VII
delVcra repidÀIicaiìa. Questa speciale protezione del sig. Monge
€ la tutela della legge tanto contribuì al nome e alla stabilità
dell'Accademia, che altri scienziati, tra i quali alcuni membri
dell'Istituto, non ebbero a sdegno di unirsi coi giovani negli
esercizi accademici e di essere alla loro compagnia aggregati.
Il fine di quella società era piuttosto didattico che scienti-
fico, dovendo gli accademici diffondere l'istruzione e perciò pre-
sentare dei sunti ed estratti delle Memorie inserite negli Atti
delle Accademie estere, o di altre opere pubblicate e relative alle
arti ed alle industrie. J\Iiravasi insomma alla istruzione tecnica e
popolare, a profitto di (juelli che si applicavano specialmente alle
arti meccaniche, i quali, secondo le prescrizioni, potevano essere
ammessi alle sedute private dell'Accademia, e ciascun membro
doveva prendersi cura speciale fr/.s//-«iVe anche privatamente questi
iddi individui della società, dichiarandosi benemerito dell'Acca-
demia quel membro che mosso da sentimenti di fratellanza avrebbe
l'accademia dei lincei. 145
prestato Vopera sua a questo sì lodevole ufficio. Lo Scarpellini era
stato eletto presidente pel primo semestre ; e già da parecchi anni
era anche stato nominato professore di filosofia al Collegio Ro-
mano. Ma per le disfatte dei Francesi, restaurato in Italia colla
preponderanza austriaca l'antico ordinamento, lo Scarpellini, amico
del Monge, tribuno e membro dell'Istituto, accusato quale repub-
blicano e infranciosato e avuto per colpevole, fu destituito della
cattedra al Collegio romano; il Collegio Umbro-Fuccioli sog-
giacque ai furori del 1799 e fu chiuso; l'Accademia, appena sorta,
fu dispersa. Per buona ventura il duca Caetani chiamò a sé il
professore destituito, aifidògli l'educazione dei figli, e diede ri-
covero nel proprio palazzo alle macchine dello Scarpellini, som-
ministrando ampio e comodo appartamento per conservarle. Mu-
tate poco dopo le condizioni politiche in grazia della battaglia di
Marengo, successo a Pio VI, morto in esiglio, Pio VII e bandito
un generale indulto per fatti politici, gli uomini dotti ed alcuni
membri della società Umbro-Fuccioli, usi a convenire nel palazzo
Caetani stabilirono di fondare un'Accademia in principio del 1801,
la quale per gratitudine al duca fu denominata Caetani- Fu inau-
gurata con discorso del suo primo presidente, Gioacchino Pessuti,
il 16 aprile 1801; quindi sulla proposta dal presidente fatta in
questo suo discorso, e certo d'accordo col duca Caetani, fu chiamata
dei Nuovi Lincei, col qual nome compariva la prima volta nel
12 febbraio 1802; finalmente nel 1804 si depose l'aggiunta di
Nuovi e si ritornò alla primitiva denominazione. Gioacchino Pes-
suti, nato in Roma l'il aprile 1743, era non solo un valoroso ma-
tematico e professore all'Università romana, la Sapienza, ma an-
cora virtuoso ed onestissimo cittadino, amante della patria e della
sua libertà, non però della licenza, odiando fieramente la sogge-
zione alle soldatesche straniere, in nome di Bruto e Catone deva-
statrici e distruggitrici d'ogni nostra fortuna e gloria. Serbò,
finché visse, puro e dignitoso contegno, e prima di morire, nel 1814,
rispose ancora al grido d'indipendenza e d'unità levato da Gioac-
chino Murat. Ottimo augurio pertanto annunziava il concetto del
Pessuti; alla società si aggregarono provetti e celebrati uomini,
che la posero in onore ; l'abate Feliciano Scarpellini fu nominato
segretario perpetuo. Ma, appena rinata l'antica Accademia dei
Lincei, ecco ricominciare le vecchie persecuzioni; non ostante l'in-
dulto pontificio, ecco monsignor governatore di Roma chiamare
a sé il duca Caetani, segnargli con una crocetta nell'albo accade-
mico sette nomi di soci inscritti, tra i quali pel primo quello di
YoL. XIV, Serie II — 1 Marzo 1879. iO
146 l'accademia dei lincei.
Gioacchino Pessuti, e per le loro opinioni liberali intimargli di
cassarli, Francesco Caetani si rivolse tosto con una lettera al
cardinale Consalvi segretario di Stato, il quale, fatto cliiamare a
sé il Caetani, gli concesse tutto quello che con belle e sante
ragioni gli domandava, e i sette Lincei furono conservati. In ap-
presso l'abate Scarpellini fu restituito alla sua cattedra del Col-
legio Romano, e lo zelo che aveva dimostrato per la sua società
Umbro-Fuccioli, usò pure per l'Accademia dei Lincei, che egli
considerava come una continuazione della sua propria; ed anzi
ne fece una cosa sola, ponendo ai Lincei restaurati la data del 1795,
sebbene la cronologia noi consentisse.
vn.
Dal 1801 al 1807 l'Accademia dei Lincei ebbe stanza nel palazzo
del duca di Sermoneta, reggendosi dal più al meno colle leggi mede-
sime stabilite dallo Scarpellini nel 1799 per la sua propria Compa-
gnia, tralasciando però quella troppo rapida permutazione degli uf-
fici, che a nulla approdava; e di fatto, come dissi, lo Scarpellini era
stato costituito segretario perpetuo. Trovandosi poi libero il locale
già appartenente al collegio Umbro-Fuccioli, ed avendo la Società,
per suggerimento dello Scarpellini, fatto ricorso al pontefice Pio VII
per poterlo occupare essa, domandando che il governo pagasse
la pigione di dugento scudi, il pontefice acconsenti, e i Lincei
ebbero sede quasi propria, dove insieme colle altre cose traspor-
tarono il ga])inetto di fisica Scarpelliniano, Adunque il 17 ago-
sto 1807, giorno anniversario della fondazione nel 1603, l'Acca-
demia convenne nella nuova sede, lieta di avere diretta speciale
protezione del Governo; onde la sala delle adunanze fu adornata
dei busti nel tempo stesso del Pontefice, di Federico Cesi e del
duca Francesco Caetani di Sermoneta. Onorarono e si resero be-
nemeriti dell'Accademia anche Antonio Canova e il cardinale
Fesch; ecco il cenno ufficiale della nomina del grantle scultore :
« Il 15 agosto 1803 fu nominato membro d'onore il chiarissimo
cavaliere Antonio Canova marchese d'Ischia, presidente perpetuo
dell'Accademia di S. Luca, in considerazione della celebrità che
acquistò colle famose sue produzioni, del favore che accorda alle
scienze ed alle belle arti sorelle, e degli incoraggiamenti che
generosamente appresta alla nostra Accademia. » — Nell'adunanza
del 27 marzo del 1806 intervenne l'eminentissimo cardinale Giu-
seppe Fesch, ministro plenipotenziario presso la Santa Sede di
l'accademia dei lincei. 147
S. M. V imperatore dei Francesi e re tV Italia, il quale sommini-
strava i mezzi necessari per l'istruzione, che i giovani ricevevano
cogli esperimenti accademici, onde si confermavano le teorie delle
scienze fisiche e della chimica. Mutato di bel nuovo l'ordinamento
politico, il governo napoleonico non solo continuò a pagare per
l'Accademia dei Lincei l'affitto della residenza, ma le assegnò
eziandio un annuo sussidio di lire 2500, e vi furono ascritti il
generale Miollis quale socio d'onore, e Griuseppe Maria De ae-
rando socio ordinario. L'abate Scarpellini fu insignito della croce
della Legion d'onore ed eletto deputato al corpo legislativo di
Parigi, dove si condusse durante le brevi sessioni degli anni 1811,
1812, 1813, più assiduo alle tornate dell'Istituto nazionale che
alle legislative, non deponendo però mai, né in mezzo ai dotti,
né tra i deputati, il suo abito sacerdotale.
Nel 1813 si pensò alla riforma delle leggi accademiche da
parecchi anni desiderata; ma pure gli statuti di quest'anno non
aprirono le porte dell'Accademia né ai cultori dell'economia po-
litica, siccome già fin dal 1808 proponeva monsignor Nicolai, né
agli studiosi della filologia, come raccomandava Luigi Marini;
onde gli studi e le ricerche dei Lincei si restrinsero alle scienze
matematiche, fisiche e naturali e a tutte le arti che ne dipen-
dono. Fra gli altri articoli fu pure approvato quello, a forma
del quale l'Accademia doveva soddisfare alle richieste del go-
verno sopra le materie analoghe al suo istituto; ed il governo
s'obbligava da parte sua ad un sussidio per le medaglie ai soci
e per le altre spese di cancelleria. Caduto Napoleone, l'abate
Scarpellini fu privato un'altra volta della sua cattedra nel Col-
legio romano; ma due anni appresso, quasi a ricompensa dei danni
e dell'onta sofferta, era deputato a insegnare la fisica sacra nel-
l'Università. All'Accademia dei Lincei fu conservata la sua resi-
denza, ma tolto il sussidio; unico sostegno le restava il povero
abate Scarpellini. Antonio Canova poi le assegnò un'annua dote
di cento e dieci scudi, al qual legato non molto dopo rinunziò
la stessa Accademia, né s'è venuto finora a scoprirne la ragione.
Venendo meno, o non bastando gli aiuti nazionali per le espe-
rienze scientifiche e per la conservazione della Società, l'abate
Scarpellini li cercò e li trovò specialmente nei diplomatici resi-
denti presso la Santa Sede; per la qual cosa vediamo nel 1818 a
parecchi di costoro conferito il diploma di socio d'onore.
Nel 1824 a Pio VII successe Leone XII e promesso il fab-
bricato del Collegio Umbro-Fuccioli, sede dell'Accademia, al Col-
148 l'accademia dei lincei.
legio germanico diretto dai Gesuiti, per poco l'Accademia col suo
gabinetto e con tutte le altre suppellettili non rimase senza sede:
10 stesso cardinale della Somagli?,, pro-segretario di Stato, scri-
veva una lettera allo Scarpellini intimandogli lo sgombero del
locale. Si ricorse al patrocinio straniero, e in grazia dell'intervento
del conte di Funchal, ambasciatore del Portogallo, e dei buoni uf-
fici del cardinal Pacca, il Groverno, accordatosi col principe Al-
tieri, senatore di Eoraa, assegnò definitivamente all'Accademia le
stanze del secondo piano del Campidoglio, spendendovi pel riadat-
tamento la somma di tre mila scudi. La prima adunanza nella
nuova sede fu tenuta il 26 luglio 1826, inaugurata dallo Scarpel-
lini con un discorso intorno a Federico Cesi e ai doveri accademici.
11 cardinal Camerlengo era stato, secondo l'uso romano, nominato
protettore; papa Leone con rescritto del 28 luglio 1828 fece fa-
coltà all'Accademia di stampare le sue Memorie per mezzo della
stamperia Camerale; inoltre fece costruire la specola, apertasi nella
tornata del 27 luglio 1829. Morì in quest'anno medesimo papa
Leone, ed anche, dopo venti mesi di pontificato, il successore di
lui Pio Vili; ed eletto il 2 febbraio 1831 Gregorio XVI, chiuse
l'Università Romana, fece tacere il pubblico insegnamento ed abolì
tutte le scientifiche iidunanze; i Lincei non ebbero facoltà di adu-
narsi che il 28 luglio 1833. Temeva lo Scarpellini che l'Accademia,
come già colla morte del Cesi, insieme con lui si estinguesse, e
con uno scritto al Pontefice nel 1834 ed altro nel 1835 si racco-
mandò, perchè il Governo prendesse la Società sotto la sua pro-
tezione, assicurandone con un sussidio l'esistenza futura, e com-
perasse le macchine e gli strumenti suoi. Percio.'chè il gabinetto
di fisica era proprietà dello Scarpellini, e rappresentava l'unica
sua s'ostanza, che intendeva lasciare in eredità alla famiglia di un
fratello amato e non ricco. Era il frutto dei risparmi, delle priva-
zioni e perfino dei digiuni, com'egli stesso scriveva in una sua let-
tera, di un povero prete durati per lo spazio di cinquant'anni; era
anche l'opera del suo ingegno e delle sue mani, perchè, siccome si
è detto, buona parte degli strumenti erano stati da lui stesso fab-
bricati 0 perfezionati. Ed il Governo accolse per metà le pietose
istanze del vecchio benemerito; con p^tto rogato il 21 luglio 1840
comperava il gabinetto di fisica, ma all'Accademia non assegnò
alcuna provvisione. L'abate Scarpellini moriva il 29 novembre di
quest'anno medesimo 1840 e si verificarono pur troppo i suoi ti-
mori per l'Accademia, la quale in sulle prime con diversi modi
travagliata e sospesa, fu poi tenuta definitivamente chiusa.
l'accademia dei lincei. 149
Dal 1801 al 1840 l'Accademia contava 39 anni di esistenza,
e quanti valent'uomini coltivarono in quel frattempo le scienze
fisiche e matematiche vi appartennero. I loro scritti non furono
mandati alla luce in volumi accademici secondo il prescritto, e
la facoltà concessa da papa Leone; e per questa parte l'abate
Scarpellini si mostrò inferiore al principe Federico Cesi. Nel 1840
le Memorie lette nell'Accademia sommavano a più di 350; alcune
soltanto furono stampate separatamente, ed altre inserite in rac-
colte diverse. Fra gl'incarichi eseguiti dall'Accademia per com-
missione del Governo napoleonico, il principale fu quello affida-
tole nel 1809 per la introduzione del sistema metrico. Vi presero
parte gli accademici Pessuti, Monchini, Calandrelli, Oddi, Lenotte,
Folchi, Provinciali e Scarpellini; ed anzi costui immaginò pure
una bilancia di precisione, premiata con medaglia d'oro da Na-
poleone I ; le operazioni di tale Giunta per lo stabilimento del
sistema metrico furono pubblicate nel 1811. Il Governo pontificio
ricorse più d'una volta alla s'^ienza ed all'opera dei Lincei. L'abate
Scarpellini fomentò a suo potere i progressi della scienza, aiu-
tando egli stesso i suoi cultori con tutte le forze, e ricorrendo,
quando le sue forze più non gli bastassero, alla munificenza di
qualche potente signore; e così egli fece per l'inventore dei ri-
flettori ad uso dei grandi telescopi, che fu Alberto Gatti del cir-
condario d'Alba. L'abate Scarpellini lo raccomandò alla nota ge-
nerosità del principe Alessandro Torlonia, che non venne meno
né al Gatti, né al suo allievo, Pietro Belli da Voghera; onde
nelle stanze accademiche a spese del principe si condusse a fine
un riflettore di otto piedi di foco e del diametro di sedici pollici.
Con esso il principe fece costruire un telescopio catadriottico, cui
donò all'Accademia, facendo anche costruire presso la specola una
camera per collocarvelo. E nel 1835 l'abate Scarpellini leggeva
una Memoria sui riflettori del Gatti, persuadendosi che un grande
profitto ne verrebbe alla scienza e ne durerebbe l'uso. Alberto
Gatti morì di 75 anni il 14 dicembre 1840, pochi giorni dopo lo
Scarpellini; era socio corrispondente della Kegia Accademia delle
Scienze di Torino. Pietro Belli suo allievo compose altri riflet-
tori; ma dopo la morte sua il metodo dei due piemontesi non fu
più seguito.
150 l'accademia dei lincei.
vili.
Il terzo risorgimento si deve a Don Mario Massimo duca di
Rignano, al professor Paolo Volpicelli e ad altri antichi soci, i
quali si adoperarono, affinchè il Governo stesso, posto dal novello
Pontefice su nuova via, concedesse che l'Accademia fosse non solo
riaperta, ma per pubblico decreto costituita e dotata.
E la domanda sostenuta dal Cardinal Altieri, figlio del prin-
cipe Altieri senatore di Roma e già amico e difensore dell'Acca-
demia, fu accolta favorevolmente, e nel 3 luglio 1847 uscì il nuovo
statuto deW Accademia Pontificia dei nuovi Lincei; che fu resti-
tuita nella sua sede al Campidoglio, assegnandole la dotazione di
cento scudi mensili. Fu nominato presidente D. Mario Massimo,
duca di Rignano, personaggio per dottrina, liberalità di sensi e
natali cospicuo ed amato; vice -presidente il duca D. Pietro Ode-
scalchi, uomo di buone lettere ; bibliotecario il principe D. Bal-
dassarre Boncompagni, instancabile ricercatore della storia delle
scienze fisiche e matematiche; segretario il prof. Paolo Volpicelli,
già chiaro nelle discipline fisiche e principale compilatore degli
Statuti. Lasciando le vessazioni sofferte per cause politiche, io mi
restringerò a far notare col barone Carutti, che del buono anda-
mento interno della Società vuoisi saper grado ai varii Presidenti
e al prof. Paolo Volpicelli, tre volte segretario, cioè per tren-
t'anni. Notevoli doni di manoscritti e di libri furono fatti da al-
cuni soci, donde ebbe origine la biblioteca linceana. 11 principe
Boncompagni donò i busti degli antichi Lincei, il Porta e il Ga-
lileo; il duca Massimo quello dell'abate Scarpellini.
Ognuno sa come nel 1870 riunita Roma alla restante Italia
e fatta capitale del Regno, insieme con altre nazionali glorie fu
riacquistata la gloria di questa Società la quale prese il nome
di Reale Accademia de" Lincei, aggiungendovi la classe delle scienze
morali, storiche e filologiche, di cui e nel primitivo concetto dei
fondatori e nel disegno del primo restauratore, Giovanni Bianchi,
esisteva qualche traccia. Il rinnovamento deirAccademia è merito
di Quintino Sella, come è noto, e gli statuti nuovi, approvati nella
seduta del 25 gennaio 1875, furono sanciti con R. Decreto 14
febbraio dello stesso anno.
l'accademia dei lincei. 151
E qui finisco la narrazione delle vicende dell'Accademia la-
sciando che altri discorra della insolita operosità, di cui essa porge
ora documento a vantaggio della scienza e onore d'Italia. ^
Carlo Giambelli.
1 Gli atti dell' Accademia dei Lincei dal terzo suo risorgimento all'anno 181*7
constano di due serie. La prima ha XXVI volumi. I XXIII primi portano il titolo :
Atti deir Accademia poìitificia dei Nuovi Lincei ; cominciano coU'anno 1850 e fini-
scono col 1869. I tre ultimi volumi portano il titolo : Atti della R. Accademia dei
Lincei (1810-1813). Vuoisi notare che i volumi III, Vili e IX furono pubblicati sol-
tanto nel 1874.
La seconda serie comprende dieci volumi, nei quali sarà compresa la stampa
del Codex Astensis, per cura di Q. Sella.
Coiranno accademico 1816-11 fu incominciata la terza serie che d videsi in
tre parti distinte: i volumi dei Transunti, i volumi delle Memorie della classe di
scienze fisiche, tnatematiche e naturali, e i volumi delle Memorie della classe di
scienze morali, storiche e filologiche.
RASSESM DELLE LETTERATURE STRAl^IERE
L'ideale del principe malese — La religione vedica — Un nuovo poemetto filosofico
indiano — Le letture del Miiller sopra l'origine e lo svolgimento delle religioni
indiane — La Mitologia greca del Decharme — Il Dizionario delle antichità
greche e romane — Una nuova storia della Persia — Nuovi romanzi della
Bentzon, di Laura Surville, di F. Fabre, di L. Hennique, di E. Cadol.
Della letteratura malese i cultori che si contano in Europa arrivereb-
bero forse a qualche diecina; ma il maggior numero di questi cultori si
trovano in Olanda; e gli Olandesi sono buoni patrioti che scrivono volen-
tieri la loro lingua. Sebbene il tradurre dall'olandese sia certamente molto
più tacile che il tradurre dal malese, poiché il maggior numero de' lettori
ha fretta, gli scrittori olandesi che hanno scritto della INIalesia non ebbero
la fortuna di firsi leggere oltre i confini della loro patria e rimangono perciò
ignorati. Più fortunato può <lirsi ora l'egregio orientalista francese abate
Aristide Marre, il quale, avendoci ora offerta tradotta in francese la «Co-
rona dei Re» [MaJwta ragia-ragia] di Bokliàri di Giolior, ' può essere si-
curo che troverà, fra i suoi lettori, oltre ad alcuni pochi dotti che rico-
noscei^anno il pregio della sua versione, molti leltori curiosi di sapere in
qual modo i Machiavelli, del resto, molto diminutivi, della Malesia am-
maestrino i loro principi nel!' arte del regno. Il MaJwta ragia-ràgia è
un'opera che fu composta nell'anno 1603 da Bokhùridi Giohor, città la quale
divenne la capitale dei sultani malesi della penisola, dopo che, nel 1511,
l'Albuquerque ebbe conquistata Malacca. L'opera è una specie d'antologia
fatta coi brani estratti da una cinquantina d'autori arabi e persiani, con
l'intento di dimostrare quali sono i doveri dell'uomo, da prima verso sé
stesso, poi verso Dio e verso la società; i doveri reciproci de' principi e
de' popoli; i doveri de' ministri, degli ambasciatori, degli scrittori ed uffi-
ciali dello stato. Numerosi esempli derivati dalla storia de' più celebri mo-
* Paris, Maisonneuve.
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 153
narchi dell'Asia fanno del liljro una specie di « Morale en action » orien-
tale, non priva di una certa importanza. Bokhàri è un maomettano molto
ortodosso ; perciò, con una speciale venerazione, egli non solo traduce i ver-
setti del Corano, ma li riproduce nel loro testo originale. Il traduttore fran-
cese (un abate, come dissi), non avendo gli stessi scrupoli, ci ha fatta gra-
zia per queste citazioni; ed ogni lettore europeo glie ne avrà obbligo,
posto che i libri si traducano per farsi leggere. Neil' ultimo capitolo del
libro, un apologista di Bokhàri promette a quelli che leggeranno e con-
serveranno diligentemente il libro, a quelli che se lo faranno leggere, a
quelli che lo copieranno, a quelli che Io collazioneranno, a quelli che lo tra-
durranno, l'eterna beatitudine ; questa grazia è dunque ora assicurata al-
l'olandese Roorda van Eissjnga che nel 1827 traduceva dalla sua lingua
l'opera del moralista di ISIalacca e all'abate Marre che viene a rendercela
maggiormente famigliare, per mezzo della lingua francese. L' apologista
compilatore dell'opera del fachiro Bokhàri ci dà egli stesso l'enumerazione dei
ventiquattro capitoli nei quali vuoisi che l'opera originaria fosse divisa.
Il primo insegna all'uomo a conoscere sé stesso, cioè a conoscere l'origine
e la natura del proprio essere; il secondo capitolo insegna a conoscere il
Signore creatore del mondo ; il terzo capitolo a conoscere il mondo e la
vita dell'uomo nel mondo; il capitolo quarto a conoscere il fine della vita
dell' uomo e quello che si chiama 1' ultimo spiro sul punto di morte ; il
capìtolo quinto rappresenta la dignità sovrana del re, del sultano ; il capitolo
sesto la giustizia e il modo di praticarla; il capitolo settimo il carattere dei
re giusti, facendo menzione di quelli che hanno veramente praticata la giusti-
zia; il capitolo ottavo fa conoscere come alcuni re infedeli abbiano governato
con giustizia; il capitolo nono, la tirannide e gli atti de' tiranni; il capitolo de-
cimo, la dignità de' ministri; il capitolo undecime l'ufficio degli storiografi
e scrittori ufficiali ; il capitolo dodicesimo, l'ufficio di ambasciatore ; il ca-
pitolo decimoterzo, l'ufficio di agente del re ; il capitolo deeimoquarto, for-
nisce i precetti per l'educazione de' fanciulli ; il capitolo deeimoquinto de-
finisce la vera grandezza del carattere; il capitolo sedicesimo studia, un
po' diversamente dal Taine, la natura dell'intelligenza; il capitolo decimo-
settimo espone le regole alle quali è sottoposto il reggimento del prin-
cipe; il capitolo decimottavo studia gli istinti ed i gesti; il capitolo decimo-
nono prosegue lo stesso argomento con l'esame de' segni particolari carat-
teristici; il capitolo ventesimo fa conoscere quale deve essere la condotta
dei re nel governo de' sudditi; il capitolo ventesimo primo espone il reg-
gimento al quale si trovano sottoposti i sudditi non musulmani sotto il
governo di re musulmani; il capitolo ventesimo secondo definisce laverà
natura della generosità e della beneficenza; il capitolo ventesimo terzo
definisce la lealtà, ossia l'osservanza degl'impegni presi, delle promesse
date; il ventesimo quarto conchiude l'opera. Da questa semplice enume-
154 EASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
raziono degli argomenti esposti nell'opera è agevole rilevarne, ad un tempo,
il disordine come opera letteraria e la sua pretesa enciclopedica, onde si
raccomanda ai Malesi come un libro di universale, civile e morale sapienza.
A noi importa, senza dubbio, assai meno, ma non è inutile neppure, poi-
ché raccoglie insieme numerose creilenze maomettane che si trovano sparse
in diverse opere musulmane, e, oltre a questo, poiché le immagini poetiche
e popolari del fachiro Bokhàri hanno pure qualche colore di originalità.
Bokhàri parla, per lo più, in versetti aforistici, che il suo compilatore
amplifica. Citerò alcuna di queste sue sentenze; ai vanagloriosi che si
pompeggiano, egli dice: «Se lo specchio non brilla, é un pezzo di ferro,
e nulla più ; smettf3te dal glorificarvi da voi stessi, non perdetevi in vani
giuochi da fonciulli. Il rubino brilla soltanto pel suo splendore; se questo
splendore lo abbandona, che cosa diverrebbe, io ve lo domando, un rubinola
niente più che una rozza pietra inutile » Anche Bokhàri predica l'ugua-
glianza degli uomini innanzi alla miseria della vita ed alla morte « Se
tu osservi sopra la terra qual é lo stato degli uomini, tu non riconosce-
rai differenza alcuna fra il suddito ed il sultano; tutto quanto esiste è
destinato a perire ; ascolta, o uomo, la parola di Dio : tutto ciò che si trova
sopra la terra muore. » Bokhàri, come Salomone, come Giobbe, come Buddha,
sente la profonda miseria del vivere mortale, ed esclama anch'esso : « Dal
principio al fine, non vi é altro che pena e dolore » ; ma si consola nella
virtù che, praticata in questa vita mortale, assicura la beatitudine della
vita eterna. Dopo avere trovata così la soluzione de' suoi dubbi tormen-
tosi, Bokhàri esalta sé stesso con queste parole : « 0 Bokhàri, ora tu hai
detto, non aggiungere altro ; il fondamento di tutto il sapere sta, di certo,
nelle ultime parole da te proferite. »
Il Semita é monoteista; Bokhàri afferma che il mondo perirebbe se vi fos-
sero due Dei supremi. La contemplazione stessa del mondo vario persuade
Bokhàri che uno solo può essere il sovrano reggitore di tanta varietà di cose
A questo nume supremo, Bokhàr'i, come Salomone, domanda, qual dono su-
premo, la salute dell'intelletto «L'intelligenza, egli esclama, é la fonte
della bontà; la bontà é una dote dell'intelligenza. L'uomo intelligente è
ricco, luomo privo d'intelligenza é povero. Se tu possedessi anche tutti i
tesori del mondo, quando mancasse l'intelligenza, il nome tuo sarebbe mi-
serabile, e tu stesso sai*esti povero e misero Se tu vuoi dunque veramente
arricchire, chiedi a Dio che l'intelletto risplenda in te. 0 mìo Signore ! Bokhàri,
secondo il suo consueto, ti domanda la sanità del proprio intelletto » E,
con ciò, il buon fachiro s'immagina aver dichiarato la natura dell'in-
telligenza; credendo che questo saggio basti a dar la misura dell'ingegno
proprio di Bokhàri, procediamo oltre nell'esame di alcune opere relative
alla storia delle idee religiose in Oriente.
Il professore Abele Bergaigne e' introduce, in modo nuovo, nello studio
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 155
della religione vedica da lui studiata particolarmente negl'inni del Rigveda.
Tutto ciò che si è scritto fin qui sopra la religione e la mitologia vedica
Ila suo fondamento sopra questi inni: ma noi siamo ancora molto lontani
dal poter dire che la interpretazione che fu data fin qui degl' inni vedici
sia tutta intieramente sicura. Questo libro del Bergaigne, in ogni modo, viene
a provarlo; e, per quanto ci costi il confessare che una parte dell'edifìzlo
ideale che si levò sopra la base delle interpretazioni vediche della scuola te-
desca del dottissimo Roth e de' suoi seguaci si trovi minacciato dalla critica
filologica intrapresa dal Bergaigne sopita il t(>sto del Kigvoda, sebbene non
disposti ad accettare tutte le sue conclusioni, non si può negare l'evidenza
di alcune sue dimostrazioni. Il Bergaigne accusa la scuola critica tedesca
di avere troppo spesso dato, nel lessico vedico, un senso diverso alle stesse
parole unicamente per farle obbedienti ad un loro sistema preconcetto
d'interpretazione. L'accusa è molto grave; per giu!?tiflcarla, il professor
Bergaigne scrisse un libro. Ma non si può dire eh' egli medesimo sia libero
da preconcetti. Egli pure è partito da una base ideale prima di stabilire
la sua nuova classificazione di parole vediche, alle quali egli attribuisce
generalmente una grande stabilità sopra una stessa idea fondamentale, che
per lui è quasi sempre un' idea religiosa Ogni preconcetto che si fa centro
d'un sistema, porta il sistema stesso all'esagerazione. Ora, se può essere
che il Roth e i suoi compagni e discepoli abbiano ecceduto in un senso, mi
pare che talora il Bergaigne ecceda nel sistema opposto e, restringendo di
soverchio l' alto e complesso significato ideale della poesia vedica, restringa
pure di troppo e troppo sistematicamente il significato delle parole vediche.
Il modo generale di concepire l' interpretazione vedica che divenne ora
proprio del Bergaigne, fu già quello del commentatore indiano Sàyana, e
più tardi quello del traduttore francese Langlois; entrambi non vedevano
quasi altro negli inni vedici che preghiere e sacrificii; ma il Bergaigne
ebbe il merito di adoperare il rigore del metodo filologico in questo vieto
sistema d'interpretazione puramente tradizionale. Egli poi viene primo ancora
a indicare con precisione la ragione filosofica per la quale il sacrificio vedico
rinnovava in sé stesso tutta la rappresentazione mitologica de' fenomeni
celesti : « Se ora, egli scrive, si domandi quale poteva essere l' importanza
di un sacrificio concepito come una imitazione dei fenomeni celesti, vi si
riconoscerà, senza dubbio, sotto la forma particolare di un culto naturali-
stico, una di quelle pratiche che consistono nel produrre in effigie ciò che
si desidera di veder succedere in realtà, pratiche comuni alla maggior
parte de' popoli primitivi, e persistente pure in uno stato di civiltà abba-
stanza avanzata, come quella per esempio che il nostro medio-evo rappre-
sentava sotto il nome di envoùtement. Il sacrificio vedico, regolato secondo
le ore del giorno e le stagioni dell' anno, aveva per oggetto di assicurare
il mantenimento dell' ordine naturale del mondo, sia ne' fenomeni solari.
156 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
sia, particolarmente, ne' fenomeni meteorologici meno regolari, od anche
di affrettare la produzione di questi ultimi, a seconda degli umani desiderii.
In altri termini, era questo un modo di far cadere la pioggia, effettuando,
per le rappresentazioni terrestri delle acque della nuvola e del lampo, le
condizioni nelle quali questo determina nel cielo la manifestazione delle
acque celesti. L' eflìcacia di una tale operazione era, del resto, tanto meglio
assicurata che, nella credenza degli Arii vedici, essa non riducevasi ad una
imitazione pura e semplice, ma il sacrificio adempievasi col mezzo di ele-
menti flerivati dal cielo e dagli uomini che riferivano al cielo la loro propria
origine. » Questa magia sacrificale potrebbe essere dimostrata con non
minore evidenza, con lo studio degli inni dell' Atharva veda fondati in gran
parte sopra gli effetti magici delle formolo sacre e delle giaculatorie, col
'Sclmaveda consacrato per intiero ai canti che accompagnano le sacre li-
bazioni e col Yagiurveda intieramente sacrificale. La teoria del Bergaigne
ha quindi, anche senza cercare sussidio dall' analogia delle tradizioni ma-
giche babilonesi, nel solo campo vedico, molti documenti in suo fovore.
Tuttavia, per ciò che riguarda il solo Rigveda, mi par dubbio che possa
applicarsi cosi costantemente e così generalmente come il l'ergaigne ha
creduto di poter fare. Vi sono parecchi inni del Rigveda, ove la sua teoria
non l'egge; ed è poi necessario, in ogni modo, ch'egli stesso ammetta la
preesistenza di inni puramente mitologici a quegli stessi inni sacrificali
ne' quali si ripetono immagini mitologiche. 11 sacrificio potè, per via di
analogia, togliere alcune immagini per la rappresentazione di fenomeni
analoghi ai celesti, ed appropriarsele, ma non già crearle esso stesso di
sana pianta. Tanta virtù creativa il sacrificio non ebbe mai; esso prese ad
imprestito immagini che esistevano in inni mitologici più antichi. Ora, è,
per l'appunto, sopra questi inni, che hanno quasi nessuna relazione coi
riti sacrificali, che si è fondato queir edifizio d' una mitologia vedica che
servì di caposaldo a tutti gli studii di mitologia comparata. Il Bergaigne può
benissimo avere col suo libro provato che si è ecceduto nella dimostrazione
de' miti vedici; ma, per quanto siano dotte ed acute le sue indagini, per
quanto formidabile la sua critica filologica, essa non esclude che la nozione
mitologica abbia preceduto negli stessi inni vedici la nozione sacrificale e
non rovescia perciò alcun sistema precedente, se bene ne mostri, con molta
evidenza, ì difetti. Egli stesso, del resto, prima d' arrivare alla dimostra-
zione dolla sua teoria, è obbligato a ricercare le figure mitiche principali
che si manifestano nel cielo vedico indipendentemente da qualsiasi sacrificio
terrestre. Solamente, invece d' insistere, come fecero fin qui i mitologi,
sopra il primo momento mitico, preferì ricercare gli stessi miti celesti nella
loro forma riflessa del sacrificio. In questa indagine che gli appartiene,
egli fece scoperte importanti; solamente, alla sua volta, anch' egli talora
mi sembra avere voluto provar troppo, e ricercare troppo spesso gli Dei
RASSEGNA DELLE LETTERATUKE STRANIERE. 157
vedici nella loro figura secondaria sacrificale. Questa impressione si riceve
già alla lettura della prima parte del lavoro, la sola fin qui pubblicata,
ove si studiano gli elementi della mitologia vedica ne' fenomeni naturali e
nel culto; il capitolo, per esempio, relativo all' aurora è de' più istruttivi,
per mostrarci quello che vi è di giusto e quello che vi è d'eccessivo nel
sistema d' interpretazione vedica adottato dal Bergaigne. È noto che questi
inni sono tra i più poetici del Rigveda; in essi è anche un particolare mo-
vimento lirico, r impeto del quale non è stato fin qui abbastanza conside-
rato, e si sentirà forse meglio nella versione poetica degli inni all' aurora,
che prepara in Italia il nostro professor Kerbaker. Bastarono alcune allu-
sioni che vi si trovano al sacrificio, perchè il Bergaigne li comprendesse
pure nell'ordine degli inni sacrificali, sacrificando così egli stesso il più
al meno, ciò che negli inni è secondario, accidentale, ascitizio, agli elementi
assolutamente mitici e poetici che ne costituiscono la base; ed occorre un
vero sforzo anti-poetico per immaginare che la splendida immagine vedica
delle aurore tessitrici possa riferirsi ad un sacrificio celeste. Tuttavia,
l'opera del Bergaigne, qual è, vuol essere adoperata dagli studiosi della
mitologia vedica come un eccellente correttivo, non già par arrivare alla
conclusione, alla quale ripugna lo stesso buon senso del Bergaigne, che la
mitologia vedica sia un semplice giuoco della fantasia europea, ma per
avvezzarsi a una maggiore esattezza nella determinazione delle parole vc-
diche, posto che dai nomi vedici, secondo la dottrina muUeriana, siano ve-
ramente emersi i numi, posto che la base principale de' miti, secondo la
stessa dottrina, abbia ad essere, il che può venire ancora contestato, l'equi-
voco nato sulle parole.
Un curioso commento alla religione vedica, ma di un carattere molto
diverso, ci viene offerto da un moderno brahmino di Puua, Mahàdeva Mo-
reshvar, in un suo poemetto in inglese intitolato : The r'ishi ' ove si tenta
di rappresentare tutta la vita del sacro sapiente vedico. Mahàdeva Mo-
reshvar è egli stesso un dotto filosofo; nel 1877 fondò a Puna un giornale
filosofico mensile scritto in inglese ed in marathi, intitolato Saddarshana-
Chintanikd, inteso a spiegare gli aforismi delle sei scuole filosofiche in-
diane ; egli impresta pertanto facilmente al sapiente vedico i pensieri reli-
giosi e filosofici che sono propri di un'altra età. L'autore, nel poemetto stesso,
dopo avere nominato un personaggio mitico, ha la gentile e paziente cura
dì dichiararne l'essenza, per timore che il lettore non intenda il linguag-
gio figurato; ogni lettore europeo può argomentare da ciò quanto ne
rimanga avvantaggiata la poesia. Il poemetto incomincia con l' esporre il
concetto generale del rishi; seguono un'invocazione alla musa, molto singo-
lare sulle labbra d' un brahmino, un soliloquio, la rappresentazione della
' Pubblicato a Puna nel 1878.
158 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
lotta primeva fi'a InJra e Vritra nel principio della creazione, un coro ili
risili, una libazione, un inno al sole, una esposizione della fede del r'ishi,
una disputa fllosoflca, una disgrazia, le conseguenze della disgrazia sopra
il rishi^ la sua lode di Dio, un inno, le conseguenze della disgrazia sopra
i discepoli ; essi vengono confortati ; ritorno delle vacche con un Gotama
ferito; sua storia; suoi sentimenti ; visita del guerriero liberatore; la figlia
di lui; suo matrimonio con Gotama; benedizione del r'ishi; il r'ìshi in me-
ditazione; il rishi legge sui doveri dell'uomo; effetto ch'egli produce sopra
gli uditori; r ultima preghiera del r'ishl; conclusione. Per quanto simili
componimenti siano piii che altro opera di ricamo, è sempre utile il vedere
come ricami su materia antica l'ingegno di un odierno indiano. Mahàdeva
Moreshvar è certamente un uomo molto erudito ; le sue note lo provano;
alcuni dei suoi versi parrebbero anche dimostrarlo poeta; ma il male è
che la poesia e l'erudizione si succedono nel suo poemetto, senza confon-
dersi mai in una sola armonia; vi è un po' dell'una e un po' dell'altra;
ma non mi riuscì di trovarle insieme riunite ; è possibile tuttavia che io
m'inganni, se debbo giudicarne dal seguente attestato onorifico che il mae-
stro d' inglese Fraser ha rilasciato al dotto professore di Puna. « Io lessi
il Il'ishi con piacere ed ammirazione Se la poesia è arte, intendimento,
buon gusto nel presentare le cose piià elette nelle loro forme più perfette,
nei loro migliori atteggiamenti, nel loro costume più amabile, nelle loro
relazioni più seducenti, allora il ll'ishi ò un vero poema; in tutto il poema
vi è armonia, armonia di soggetto, di filosofia, di spirito, di condotta, di
illustrazione, di espressione Tutte le leggi del pensiero, del sentimento, del
linguaggio sono osservate e adempiute Quivi sono le idee migliori, nel mi-
glior ordine, espresse come si poteva meglio. L'intelligenza ne rimtine col-
pita, il cuore commosso, l'orecchio allettato. Io vedo combinate nel poema
tutte le qualità del bello che possono immaginarsi riunite in letteratura,
bellezza di pensiero, di ordine, di suono, ragione, immaginazione e senso. »
Chi direbbe mai che un tale iperbolico elogio fu scritto da un inglese ? ma
un inglese in oriente si compiace facilmente nelle immagini orientali; e
il Fraser sembra aver posto ogni cura percliè il suo complimento avesse
un profumo orientale; solamente, dopo averlo riferito, mi manca ogni co-
raggio d'aggiugnere altro, per timore di offuscarne con le mie parole il
colore intieramente locale.
Checché ne sia del valore intrinseco del poema di ]Mahàdeva Moreshvar,
non vi è dubbio che le sue note sono molto importanti e contribuiscono a
chiarire alcune parti del culto indiano. Non è pertanto meraviglia che al
dotto brahmino di Puna si rivolgesse di recente il professore Max Mùller
per completare con alcune informazioni autentiche native ciò ch'egli aveva
affermato intorno alla recitazione dei Vedi nella terza delle splendide let-
ture da lui fatte nella celebre abbazia di Westminster nello scorso anno.
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 159
I lettóri della Nuova Atitologia ebbero già un t^agglo di tali lezioni; ora
le sette lezioni vennero raccolte in un solo volume sotto il titolo di Lec-
tures on the origin and grovjth of religion. * (Letture sopra l'origine e lo
svolgimento della religione, studiata particolarmente nelle religioni del-
l'India).
La prima lezione, come sanno i lettori della Nuova Antologia, s'aggi-
rava sulla percezione dell'inflnito ; la 'seconda lezione esaminava la questione
se il feticismo sia la forma primitiva della religione, per arrivare ad una
conclusione negativa, dimostrando che la nozione del feticcio è già secon-
daria ed implica la prescienza o coscienza di un essere superiore, imme-
desimato poi, in una specie di degradazione dello spirito, in un oggetto
materiale, in un feticcio ; la terza lezione studiava la storia della lettera-
tura indiana, in quanto essa può somministrar materiali per una storia
della religione, materia in verità non intieramente nuova, che il INKiUer
stesso avea già trattata in un'opera speciale e il Muir in uno dei suoi pre-
ziosi volumi di Sanshrit 7'exis, ma ch'egli ha óra saputo rendere popolare
ed evidente, e maggiormente attrattiva, con 1 aggiunta di qualche nuovo
particolare caratteristico relativo alla tenacità della tradizione orale vedica.
La quarta delle lezioni, alla quale, come dissi in una delle mie precedenti
rassegne, ebbi l'onore d'assistere, volgeva sopra il culto degli oggetti tan-
gibili, semitangibili ed intangibili. La quinta lezione trattava della idea
vedica delF infinito e dell' ordine (legge] ossia delle voci vediche Aditi e
l'ita, che il Miiller accosta allo zendo Asha iper la mediazione di aria,
arsa). La sesta lezione considerava l'henoteismo 'ossia il culto isolato di
un oggetto, di un Dio, senza la pretesa che quello fosse 1 unico Dio assor-
bente ed universale, tali per esempio, il culto del sole, della lunaj,il poli-
teismo, il monoteismo e l'ateismo, al quale ultimo s'arri^"a già per mezzo
dello scetticismo di cui si trovano traccio in alcuni degli inni vedici ; il
Muller distingue con ragione l'ateismo volgare dall'ateismo ch'egli chiama
onesto, l'ateismo di Buddha e di Socrate che non credono agli Dei dell'India
e della Grecia ma sentono il divino, dall'ateismo di chi riconosce forse an-
cora per istinto superstizioso una parte del culto degli Dei rinnegando ogni
idealità, rinunciando ad ogni cura, ad ogni pensiero di queir infinito, col
quale soltanto può la divinità confondersi. I primi cristiani per i greci e per
i romani, secondo la testimonianza di Eusebio, erano atei. Vanini fu bru-
ciato come ateo, per aver magnificato la grandezza di Dio pur dicendo che
non è lecito il definirlo, poiché nessuno, fuor che Dio stesso, può sapere ciò
eh 'è Dio. L'ultimo stadio della relig'ione, il suo grado più perfezionato, più
elevato dovrebbe essere l'ateismo così inteso; ma quanti lo intendono cosi ?
Non è dunque ben sicuro il Muller che la sua nobile conclusione della sua
' London, Longraan and Green, 1878.
160 KASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
sesta lezione non dia motivo a malintesi, calunnie, e forse persecuzioni;
ma, dopo Buddha, Socrate, Cristo, calunnie di tal genere non fanno più
paura ad alcun uomo di mente elevata; vi è dunque solamente ragione
di compiacersi che il Mùller abbia potuto ed osato recarsi a parlare con
tanta libertà di cose religiose nella badia di Westminster, poicliè, non vi ha
dubbio che il beneficio delia sua parola generosa e intieramente liberale
sarù assai grande. L'ultima lezione metteva a riscontro la religione vedica
con la filosofia delle Upanishad e descriveva i varii stadi della vita re-
ligiosa indiana. Il Mùller conchiude finalmente con la speranza che i cre-
denti d'ogni religione lasciando nelle loro pagode, nei loro vihdrds, nelle
loro moschee, nelle loro sinagoghe, nelle loro chiese, tutto ciò che avrà
invecchiato, tutto il superfluo, conserveranno quello che la loro fede ha
di più puro e di più elevato; l'indiano il suo disprezzo di questa vita, e la
sua fiducia nella vita eterna, il buddhista la sua pietà e sottomissione
alla legge fatale che governa il mondo, il maomettano, se non altro, la sua
sobrietà, l'ebreo la sua fede nella giustizia di un Dio solo, il cristiano il
suo amore di Dio, si chiami poi questo Dio come si vuole, infinito, invi-
sibile, padre. Ente supremo, pur che si manifesti sopra ogni cosa nel-
l'amore de'vivi, nel compianto de'morti, nella carità vivente ed immortale.
Chi, rifuggendo dalla lotta, dallo strepito, riparerà con questa sua fede
viva ed ardente in qualche piccola ed oscura cripta solitaria, vi troverà
pace e riposo e vi porterà un po' di luce novella che la dilaterà, e con-
vertirà forse un giorno la modesta cripta, l' umile solitaria cella, ove
nella rovina delle singole i^eligioni i veri credenti si salveranno, nella
chiesa ideale futura! È possibile ora che alcuni lettori condannino come
vani sogni di una mente inferma questi voli lirici del maestro di Oxford.
Ma la scienza ha bisogno anch'essa di tempo in tempo d'ingegni alati che
la sollevino da cure troppo minute ed umili; e nessuno può, con maggiore
autorità del Mùller che spese tanta parte della sua vita in pazienti in-
dagini scientifiche, evocare ora la scienza alla contemplazione di più alti
e più vasti orizzonti. Egli è con l'inalzarsi sopra i pensieri e gli studi
del suo tempo ch'egli seppe divinare una nuova scienza, la mitologia
comparata; che se ora le nuove indagini critiche possono, in parte, ren-
dere vane alcune delle sue divinazioni mitologiche, non è dubbio ch'egli
ha il merito col Kuhn di avere comunicata agli studi di mitologia non
pure una maggiore vitalità, ma una molto più profonda intensità. Vi ha
di più ; con l'idee generali rese luminose dalla mitologia comparata, si
schiarirono pure le mitologie speciali che vengono ora studiate più me-
todicamente e più a fondo. Ne abbiamo ora una prova, tra l'altre, nel
nuovo cospicuo lavoro del Decharme sopra la mitologia greca. * L'opera
' Mythologie de la Grece antique; Paris, Garnier Fr. 1SÌ9.
EASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 161
del Preller aveva già ordinato molto sistematicamente il materiale mito-
logico dell'antica EUenia, distinguendo giudiziosamente le tradizioni mito-
logiche secondo la loro probabile progressione cronologica. Ma quando il
Preller incominciò a scrivere il suo lavoro, la' scienza della mitologia
comparata non era nata; e quando nel 1854 lo pubblicò, non aveva ancora
tanto favore da determinarlo a modificare l'ordine di un lavoro intrapreso
indipendentemente da essa. Ora non può dirsi che tutti gl'insegnamenti
della mitologia comparata siano sicuri ; molte delle sue scoperte meritano
ancora esame e conferma; ma le verità generali rimangono accertate e
un mitologo giudizioso può farne buon uso.
Il Decharme l'ha provato descrivendo nuovamente i miti cileni, non con
la guida ma col sussidio della mitologia comparata. Egli avrebbe potuto
estendere le comparazioni molto più che non abbia fatto ; e in qualche
opera speciale, non escluso il modesto lavoro di un italiano sopra la Mi-
tologia vedica (Firenze 1874), egli avrebbe trovato, per esempio, come
neil'Aiirora vedica si possa riconoscere non pure un'Afrodite, un'Elena,
una Cenerentola, ma ancora una Minerva ed una Valkiria. Le tradizioni
elleniche del diluvio dalle nuove opere di mitologia comparata potrebbero
derivare molta luce; così il riso di Giove tonante diede occasione ad un
lungo discorso nel primo capitolo della Mythologie zoologique, che il De-
charme ebbe alcuna volta la bontà di citare. Ma, alla sua volta, il lavoro
dell'egregio professore della facoltà di Nancy è tale non solo da aprire
un nuovo mondo ideale al maggior numero de'suoi lettori, ma ancora da
far nascere nuove idee ai mitologi, e metterli sulla via di trovar nuovi
riscontri. Precede l'opera una giudiziosa introduzione, nella quale si espon-
gono i progressi fatti dalla critica, dall'antichità Ano a noi, nelle indagini
intraprese sopra la mitologia greca. L'opera stessa è divisa in quattro
parti: La prima prende ad esame le divinità del cielo; la seconda la di-
vinità delle acque (e qui molto giustamente il Decharme osserva che i
miti ellenici hanno un loro particolare carattere etnico e sono nati per la
massima parte sul suolo d'Ellenia e meglio ancora sopra il mare, che gU
Arii, prima della loro divisione non conoscevano; se non che si può ag-
giungere che essi conoscevano un oceano nuvoloso celeste, e aveano già
concepito il cielo come un mare; ogni estensione di acqua era per essi
un sìndhu, nome col quale si denominavano ad un tempo nell'età vedica
il fiume ed il mare; vi era poi la coscienza cosmogonica di un mondo
emerso dalle acque; tutte le tradizioni cosmogoniche indiane si riferiscono
a questo mare primordiale, e le stesse tradizioni locali ancora vive nel
Kacmìra serbano memoria di un mare che occupava in origine quelle valli :
se i Greci rinfrescarono dunque, e abbellirono con nuove rappresentazioni
antropomorfiche gli antichi miti acquatici, non può dirsi che li abbiano
intieramente creati). La terza parte studia le divinità della terra (qui
VoL. XIV, Serie II — 1 Marzo 1819. H
162 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
ancora noi dobbiamo tenere gran conto delle condizioni speciali del suolo
greco ; e percorrendo l'opera di Pausania ci persuadiamo molto spesso che
numerosi miti secondari sono il prodotto di osservazioni locali; ma la
possibilità stessa di tali osservazioni basta a provare la preesistenza di
miti più larghi originari che, avendo fatto una profonda impressione nella
fantasia degli Arii, permisero poi loro di fecondarli nell'aspetto di nuovi
fenomeni che presentassero qualche analogia con le prime figure mitiche
del loro pensiero). La quarta parte tratta degli eroi definitivamente esclusi
da quel mondo storico nel quale gli evhemeristi li avevano figurati e
studiati in relazione coi loro prototipi orientali. Il Decharme ha col suo
libro fatto opera non solo di erudizione ma di buon gusto, eleggendo dalle
nozioni recentissime della mitologia comparata le più sicure per collegare
il mondo mitico elleno col mondo orientale. Per quanto poi siasi già
scritto molto sopra la mitologia ellenica, e le sue favole possano quindi
ormai sembrare sbrogliate dal loro caos, si è pur continuato a scoprir
tanto in- questi ultimi anni dai filologi e dagli archeologi, che ogni nuovo
lavoro, oltre al somministrare agli studiosi alcuni materiali poco noti,
può intraprenderne la critica e senza alterare la sostanza de'miti elioni,
rischiararli notevolmente. Questo può dirsi aver fatto il Decharme ri-
spetto a' suoi predecessori Preller, Guigniaud e Maury ; e di questa nuova
diligenza messa nel raccogliere e ordinare più luminosamente i miti
greci, ogni studioso gli dovrebbe esser girato.
Ma chi voglia veramente persuadersi come il mondo greco e romano
siano miniere inesauste ed inesauribili pel filologo, pel mitologo e per l'ar-
cheologo, deve prendere fra le mani il Dictionnaire des Antiquitcs greoques
et romaines pubblicato dalla casa Hachette di Parigi, sotto la direzione
del Saglio. Questa pubblicazione procade assai lenta; tarde sed tute; nello
spazio di sei anni, siamo appena arrivati al sesto fascicolo ; ma quali fa-
scicoli ! Io ho già annunziato, man mano che si pubblicarono, i fascicoli pre-
cadenti; al sesto collaborarono, oltre il Saglio, G. Humbert, Heuzey, E. Cail-
lemer. Oh. Em. Ruelle, Labatut, Masquelez, Bouché-Leclercq, Hunziker,
Jean Morel, E. Cougny, E. Gebhart, C de la Berge, Gaston Boissier, Ch. Chipiez,
G. Perrot, F. Baudry, A. France, Ch. Thierry, Héron de Villefosse, Fran-
cesco Lenormant; alcuno di questi nomi mi giunge nuovo, ma, poiché mi
pare di poter riconoscere sotto il Villefosse, il Lenormant, si può rimanere
tranquilli che nessun ignoto è scrittore incompetent?. Come ne' fascicoli
precedenti, parecchi articoli sono riusciti vere monografie alle quali le no-
tizie bibliografiche che sempre le accompagnano aggiungono gran pregio.
Le notizie, per esempio, relative alla calzatura, ai carri, ai candelabri degli
antichi greci, latini ed etruschi, come gli studii sopra i calendarii greco-
romani sono di una singolare importanza ed esauriscono l'argomento. Gli
architetti vi troveranno pure compendiate con molta chiarezza le princi-
EASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 163
pali notizie che si hanno intorno agli antichi capitelli; i naturalisti non
vedranno senza un vivo interesse flgurate e descritte in questo fascicolo le
. varie specie di cani antichi quali si rivelano dai monumenti. Meritano pure
di venir segnalate per la loro estensione le notizie sopra il Campidoglio,
sopra le carceri antiche, sopra gli antichi accampamenti {castra), come
pure sopra gli antichi formaggi ; anzi quest' ultima monografia firmata da
E. Cougny, oltre alla sua speciale curiosità, mi parve non solamente eru-
dita ma dotta.
Talora il dizionario fa pure qualche escursione nel vicino mondo
orientale, particolarmente in Egitto e nell'Asia minore; e non è mera-
viglia. Per quanto si vantino i progressi dell' odierna civiltà per le age-
volate vie di comunicazione, non è dubbio che I' Asia era molto più vi-
cina nell' antichità alla Grecia ed a Roma che non lo sia al presente. Mag-
gior parte dell' Asia si versava in occidente, ed i porti dell' Asia erano fre-
quentatissimi dalle navi cilene e romane. Per questa frequenza di commerci
avvenne pure che 1' arte orientale si modificasse notevolmente al contatto
dell' arte greca, come possono farne fede non solamente i monumenti del-
l' Asia minore, ma quelli della regione indiana dell' Indo e della Persia. Ciò
eh' è vero per l'arte persiana, non lo è meno per la storia della Persia,
la quale non si può bene intendere senza il sussidio che ci viene dagli storici
greci. Questo sussidio anzi fino a qui era considerato cosi importante, che
quasi fin verso la metà del nostro secolo tutta 1' antica storia persiana che
conoscevasi in Europa fondavasi sopra le sole informazioni degli storici
greci. Dopo i viaggi recenti fatti in Persia dagli Europei, dopo lo scopri-
mento delle rovine di Persepoli e di altre antichità persiane, dopo lo studio
delle iscrizioni degli Achemenidi e delle antiche monete persiane, dopo le
indagini fatte sopra la lingua e la letteratura zenda con le loro appendici
pehlviche la storia della Persia potè venire riscritta da capo e con 1' au-
torità di fonti originali. Ora possiamo dir veramente che ci è toccata una
gran buona fortuna, poiché a scrivere questa storia si accinse non già un
compilatore, ma uno de' piii dotti e geniali iranisti del nostro tempo, il
professor Ferdinando Insti di Marburgo. * Egli divide col vecchio Spiegel
e col giovine Darmesteter il primato degli studii zendici, e supera poi i
suoi dotti colleghi per la mirabile facoltà che possiede di animare col soffio
dell'arte la materia ch'egli assume a trattare. Leggendo ora questa sua
storia della Persia, una sola impressione se ne può ricevere, che non mai
alcuna storia piii dotta fu scritta più amabilmente. È consolante il persua-
dersi nel leggere un libro così attraente, che gli si può prestare intiera
fede, poiché nessuno sopra le cose dell' antica Persia potrebbe istruirci con
più sicura dottrina. 11 lusti ama evidentemente il suo mondo iranico, e lo
' Geschichte des alteri Persiens; Berlin, Grote 1819.
164 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
ama tanto che lo fa pure amare ; onde a me rimane qui un solo voto da
fare che, se vi fosse un editore italiano vago di pubblicare una buona storia
dell' Oriente, invece di far compilare il lavoro da qualche professore di
storia enciclopedica, si raccomandi alle migliori storie speciali che furono
già scritte delle grandi monarcliie o costituzioni asiatiche, e le faccia dili-
gentemente tradurre; la storia della Persia del professor lusti sarebbe, in
questo caso felice, una delle prime che mi parrebbe meritar 1' onore di una
versione italiana.
L'autore conosce naturalmente tutti i lavori più notevoli antichi e re-
centi che furono scritti sulla Persia, e se ne giova; ma, dove egli può ri-
correre alle prime fonti, specialmente per tutta quella parte che può es-
sere illustrata dall' Avesta, dà alla sua storia un carattere intieramente
originale e indipendente. Qui si opporrà forse che ogni zendista ha un suo
modo particolare d'interpretare l'A vesta e che però sarebbe a temersi che
dalla mano di tre diversi zendisti venissero fuori tre storie diverse della
Persia. È ora assai possibile che alcuna delle notizie del Insti per i più
remoti secoli della storia persiana, ne' quali è pure malagevole il distin-
guere gli elementi mitici dagli storici, possa ancora meritar conferma e
suscitare alcuna contradizione; ma, oltre che egli evitò prudentemente i
punti più controversi per attenersi, per quanto si poteva, ai soli dati più
generalmente accertati, noi siamo sicuri, in ogni caso, d'avere innanzi a noi
una buona ed onesta guida, la quale non ha nessun interesse ad ingan-
narci, neppure quel terribile interesse che per gli uomini di lettere è
l'amor proprio, il quale li rende spesso più tenaci difensori della loro opi-
nione che generosi propugnatori del vero ; quando il Insti sostiene un' opi-
nione nuova, che o fu già o crede che possa venire combattuta, pone in-
nanzi ai propri avversari le sue ragioni, perdio essi sappiano tosto con
quali armi intende difendersi e che queste armi sono oneste. Egli stesso
poi, diffidando della mano di artisti ignari dell'arte, dell'architettura, della
lingua e della storia persiana, ebbe cura di disegnare da sé a penna
dai monumenti o dai disegni dei viaggiatori tutte le illustrazioni e le
carte geografiche che accrescono il pregio dell'opera, raro esempio di un
orientalista che accoppi tanta conoscenza di disegno a tanta erudizione sto-
rica e linguistica. La storia della Persia del Insti muove dalla signoria
dei Medi e giunge fino al termine della signoria dei Sassanidi, ossia ab-
braccia tutto quel periodo di storia nel quale la Persia appartenne intie-
ramente a sé stessa, alla propria lingua, alla propria religione, alle pro-
prie leggi, ai proprii riti, ai proprii costumi; quello ch'essa sia divenuta
ora, dopo lunghi secoli di servitù, e dopo il perverso e fatale influsso della
religione maomettana, è noto, pur troppo. I Parsi, i discendenti degli anticlii
Persiani, rifugiati in un piccolo angolo dell'India, ci mostrano soli un resto di
popolo religioso, virtuoso e sapiente. Cosi venisse il giorno in cui non pure
KASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 165
l'Europa ma anche l'Asia si purgasse di quella fatale epidemia che è stala
per la umana civiltà la religione di Maometto, e ci sarebbe ancora da sperare
per la Persia come per l'india un risorgimento. Io non ho tanta fede nella
energia dei popoli orientali per isperare che essi risorgano mai più per
loro propria virtù. Ma parmi che gli scrittori europei, riappresentando gli
splendori delle antiche civiltà asiatiche, non facciano opera inutile per
l'Asia stessa; poiché essi riusciranno, in ogni modo, col tempo, a persua-
dere quella parte d'Europa, che puntella in Europa come in Asia le signorie
maomettane, come sia venuto per queste il tempo di crollare. Checché ne
sia, è importante per lo storico il conoscere quello che fu la Persia prima
di cadere tanto in basso. Il lusti non si è precisamente messo in capo di
scrivere alcun panegirico degli antichi Persiani; ma i fatti stessi parlano
a gloria loro; e tali fatti si trovano in questo libro nel modo più completo
ed evidente enumerati ed esposti. I lettori che già conoscono l'eccellente
volume dal Duncker dedicato alla storia complessiva degli Arii e che vo-
gliano riudir narrata con maggior precisione e più estesamente da una
bocca più autorevole la storia iranica, gradiranno ora il conoscere che, in
grazia del professor lusti, un tale loro desiderio può venir soddisfatto.
Io vorrei ora trovare un naturale ponte di transizione per condurre
il mio discorso da una dotta storia di Persia ai più recenti romanzi fran-
cesi de' quali ho promesso di parlare. Sperai per un momento che potesse
venire in mio soccorso un elegante volume pubblicato dal Lévy, con una
figura di donna velata e col titolo attraente di Aziyadé sul frontespizio:
ma fu vana speranza; il « lieutenant de la marine anglaise » dalle note e
lettere del quale l'autore vorrebbe che credessimo essere stato tolto il suo
insipido romanzetto turco, ama raccontare facetamente le cose più lugubri;
è un gusto come un altro, ma non è il mio, e non credo che sia quello
de' miei lettori. Da Aziyadé passai ad una Reine de Saba sperando che
questa almeno mi tratterrebbe per alcun tempo col suo romanzetto in
Oriente, ma fu breve illusione; la Begina Saba non é una regina d'Oriente
autentica; è una povera fanciulla anglo-americana impazzata che si credeva
la regina Saba, e di cui un autore americano, Tommaso Bayley Aldrich, ci ha
raccontata con molta grazia la storia, che Th. Beutzou ci ha poi, con non mi-
nor grazia, tradotta in francese. Ma autentica o no, questa regina Saba mi
interessa e mi scusa se desidero intrattenermi un momento con l'autore che
l'ha creata e, meglio ancora, col traduttore (dovrei dire traduttrice) che l'ha
divulgata in Europa. Tommaso Bayley Aldrich é un giovine poeta e roman-
ziere americano; esordì con la poesia, poi si rivelò romanziere col romanzo
Marjorie l'aio ; questo con la Regina Saba e con Prudenza l'alfrey sono
i suoi migliori lavori. Il Bayley Aldrich è un umorista di buon genere, os-
servatore fine e delicato, artista squisito; ricorda talora la maniera di
Dickens. Quanto alla Bentzon (pseudonimo di Teresa Blanc), é ben nota al
166 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
pubblico europeo, ma poiché mi trovo tra le mani il suo ultimo ' romanzo
Un remords, gioverà forse meglio dire alcune parole di esso.
L'intreccio non ne è molto nuovo; una bella giovane povera è sposata
da una vecchia zia ad un ricco fabbricante che essa non ama; amava,
prima di sposarsi, un elegante e seducente romanziere, che rivede dopo
il matrimonio; non cade, ma è vicina a cadere, quando il marito la sor-
prende e si persuade, se non altro, di non essere amato; egli impedisce,
da quel punto, a sua moglie di avere qualsiasi relazione col romanziere;
essa sfoga i suoi pensieri in un proprio giornale; in un foglietto si domanda
quando sarà liberata da quel supplizio; un operaio licenziato dalla fabbrica
trova per caso quel foglio, e risolve di uccidere il proprio padrone, im-
maginandosi di liberarne cosi la moglie infelice, dalla quale intanto si fa
raccomandare per essere l'iammesso alla ftibbrica; non ottenendo l'intento,
l'operaio compie il meditato assassinio; in fln di vita, il fabbricante può
temere che la mano dell'assassino sia stata armata dalla propria moglie;
il dolore di questa, il rimorso che ella sente non per il delitto compiuto,
ma perchè può a sé stessa apparirne complice, è vivissimo; ella se ne accora
in modo che ne muore consunta, intanto che l'amico romanziere pubblica un
nuovo romanzo pessimista, che viene molto ammirato: < ici, scrive l'autrice,
l'analyse, avait pour ol'jet le remords, Ics nuances multiples qu'il peut pren-
dre dans une àme impressionnable, delicate, terriflée soudain par ce qui lui
paraìt étre la eonséquence vengeresse de la fante qu' elle a i^évée, mais
qu'elle n'a point commise, dont elle se sent coupable cependant par l'aspi-
ration caressée, par le désir longtemps entretenu en secret. La foudre éclate,
elle ne l'a pas lancée, elle ne l'a pas apjjelée peut-étre ; mais oette circon-
stauce fortuite réalise son voeu criminel. Elle doitètre punie, elle se punirà,
elle mourra de cette tache imaginaire, qui i^our elle est réello, qu'elle volt,
qui la brftle. Il y avait dans cette étude de la plus poignante psychologie
une science de la douleur morale dans tous ses rafflnements, une cruauté
de scalpel, un mélange bizarre de sensibilité presque maladive et de
misanthropie feroce qui faisait dire: Gomme il sent toutes ces choses! Oii
les a-t-il observées? N' a-t-il pas disséqué son propre coeur? C est écrit
avec du sang, avec des larmes. Et, en effet Merton avait utilisé impi-
toyablement ses propres impressions et mème celles des autres. C'était
son droit d'artiste. »
Il soggetto, in verità, non è nuovo, ma è luiova l'arte con cui Tli.
I^ntzon ha saputo trattarlo; son nuove e bene spiccate le figure ch'egli
ci presenta, a incominciare da quella baronessa di Clairac che tiene aperto
in casa sua un salone di conversazione, e che sembra essere stata dipinta
e scolpita sul vivo. « La signora Récamier, la signora Duras, essa dice,
1 Nel tempo che lo stavo leggendo, mi giunse un altro suo volume più recente
« I/obstacle » ; colgo intanto l'occasione per annunciarlo.
RASSEGNA DELLE LETTEKATUHE STRANIERE. 167
la signora di Broglie, la signora di Boigne, la signora Swetchine, erano
i suoi tipi, le sante del suo calendario; tutta la destrezza di cui era capace
essa l'adoperava per attirar-e e trattenere presso la sua poltrona uomini
eletti de' quali sapeva assimilarsi le idee ed i convincimenti, a segno da
far loro credere che essi venivano da lei a prender dei lumi, mentrecliè,
invece di essere un'Egeria essa stessa, era solamente il loro riflesso, avendo
di proprio soltanto la scienza innata della lusinga e il rispetto della li-
bertà di ciascuno ; non occorre neppur tanto per crearsi un nome di donna
superiore e di perfetta padrona di casa. »
Sopra questo ritratto, che sembra divertirla, l'autrice stessa ritorna
dopo alcune altre pagine, con accresciuta malizia.
« La signora di Clairac procurava a ciascuno l'occasione di fav buona
figura sul proprio terreno: metafisica, filologia, storia, letteratura, ma
senza permettergli di diventare il padrone assoluto della conversazione e
di l'iuscir noioso. Essa aveva l'accorgimento particolare di fare entrare il
monologo nella conversazione generale senza urtare alcuno, senza inflam-
miarsi né prò né contro alcuna opinione, fosse pure politica. Il suo atteg-
giamento fra le varie parti era quello di conciliatrice. Fra gli ospiti di
quella sera vi era pure un accademico settuagenario ed un giovane filosofo
di cui la baronessa conosceva cosi bene gli scritti ch'esso potè supporre
che li avesse letti. Il vero é che su quei grossi volumi diligentemente ta-
gliati e messi in mostra possedeva venti opinioni diverse, le opinioni de' suoi
venti amici. » Ma, se io volessi citare le pagine spiritose e vivaci del
libro, dovrei riferirlo tutto.
La Bentzon non deve aver solamente letto molto, ma anche discorso
molto con gli uomini de' quali sorprende con tanta destrezza e delicatezza
le debolezze. Nulla sfugge al suo occhio maliziosamente indagatore, neppure
che la signora de Clairac teneva a posta sopra il suo tavolo « ces menus
objets, crayons, étuis, tablettes, dout aiment à s'emparer certains causeurs
Madame de Clairac, une des femmes rares chez lesquelles on cause encore
prenait au sérieux catte manie » Quanto al rimorso stesso, che parrebbe
essere il soggetto del romanzo, quel che si potrebbe forse osservare é
ch'esso arriva un po' tardi e quando il pentirsi non giova più ad alcuno :
ma come la Chiesa assolve i peccatori che fanno una morte edificante così
l'autrice ha voluto che il mezzo peccato fosse espiato con una mezza pe-
nitenza: e dico mezza soltanto, perché Manuela muore non solo pel suo
dolore che l'accascia, ma perchè sembra avere un male ereditario che la
condanna a morir giovine come suo padre e come sua madre. Tutto ciò
riesce a dire che il romanzo ben condotto fin verso il fine, nelle ultime
pagine si arruffa un poco ; di Manuela rimasta vedova l'autrice non seppe
troppo che cosa dovesse fare ; pensò un momento a mandarla a finire i
suoi giorni in convento ; ma questo mezzo d'espiazione le parve, oltre che
168 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
un po' abusato, insufficiente; la lasciò vivere dunque per altri due
anni fuori di convento con la propria suocera, ottima donna che le vo-
leva bene; e poi permise che « La Providence » venisse a por tìne
a' suoi mali; ma questi mali l'autrice stessa iion ebbe tanta pazienza
d'esaminarli e la « Providence » che < intervient et trancile la question, »
come dice l'autrice, è un mezzo assai pio di terminare un romanzo, ma
non parendomi un mezzo artistico, avrei sperato che il fervido ingegno
deli' autrice ne avrebbe immaginato un altro un poco più umano e un
poco più nuovo.
Di un'altra specie di provvidenza si giova la signora Laura Surville
(nata Balzac) per istruire la piccola Marianna ; ' essa, mentre dorme, e pensa
al suo compito di scuola, vede apparire una fata, la regina Mah, la quale,
di notte in notte, le viene spiegando que' misteri della scienza che possono
venir penetrati dalla mente d'una fanciulla. Io dico in verità che non ho
molta fiducia nell'opera educativa delle fate, e temo troppo che i fanciulli,
vedendo le fate, si preoccupino troppo della loro figura meravigliosa per
tener poi desta ugualmente la loro attenzione quando le fate pigliano il
posto della maestra e del maestro che insegna loro la nomenclatura scien-
tifica. Il metodo parmi piuttosto fatto per distrarre il fanciullo dalla ri-
cerca del vero che per attirarvelo. Mescolando la finzione alla verità si
complica il lavoro della mente anzi che agevolarlo; quest'obbligo in cui
è messo il fanciullo di cercare dove finisca la finzione e dove incominci
la realtiì, di separare il vero dal falso, mentre sarebbe tanto più semplice
l'insegnargli subito unicamente quella parte di vero che la sua tenera mente
può comprendere e ritenere, mi sembra pericoloso. Ogni inganno è dannoso;
il dire al fanciullo che non deve fare ciò ch'è male, per non dispiacere all'An-
gelo Custode od alla buona Fata che gli sta al fianco, è una tacita facoltà che
gli si dà di operare a suo piacere il giorno in cui non crederà più agli Angeli
Custodi ed alle Fate. I giuochi d'immaginazione possono essere innocenti ado-
perati in cose lievi e con persone libere ; ma i fanciulli, poveretti, non sono
liberi ancora; essi non hanno ancora facoltà di scelta, e mi pare perciò
quasi un sacrilegio il venir loro innanzi con qualsiasi forma d'inganno, anche
quando si creda ingannarli per fin di bene. Io non credo poi, e questo mi
pare che importi, che il làuciuUo impari meglio dandogli prima l'illusione
che tutto il mondo della scienza è un mondo fantastico; mi pare che un
tal modo di insegnare abbia lo stesso esito infelice di chi per invogliare
il fanciullo a mangiar cibi sani e sostanziosi incominci a dargli la
chicca e a rovinargli lo stomaco. Premessa tutta questa lunga dichiara-
zione che mi pareva necessaria, mi è grato il poter soggiungere che la
signora Surville ha saputo condurre molto ingegnosamente tutto il suo
* Les Hcves de Marianne. Parigi, Calmann Lery.
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 169
libro, che i sogni latti dalla sua Marianna sono graziosi e che sareb-
bero pure molto istruttivi se invece di sogni latti la notte fossero vere e
proprie lezioni fotte nel giorno innanzi al vivo e splendido spettacolo della
natura
La realtà è talora la più bella poesia, e questo ha provato, senza
dubbio, il signor Ferdinando Fabro, il quale, scrivendo la biografia del gio-
vane e valente pittore francese Gian Paolo Laurens ha potuto intitolarla « Le
Ronaan d'un peintre > e farla comprendere, senz'altro, fra i romanzi del-
l'editore Charpentier, oltre al comprenderlo egli stesso fra 1 suoi romanzi
migliori. Egli non vi ha messo, in vero, altro di suo che la simpatia, la
vivacità, la poesia del racconto; il racconto stesso è tutto veridico; il Fabre
accompagna la vita dell'artista dal suo primo uscir dall' infanzia quando
rimaneva come estatico innanzi alle sacre immagini di un « Livre des
heures » unico ricordo di sua madre, Ano agli ultimi trionfi nel Salon di
Parigi, ove espose i suoi celebri quadri « La mort du Due d'Enghien » e
« Le Pape Formose. » La vita del Laurens fu assai penosa nel principio
della sua vita artistica; egli incominciò come pittore ambulante, ed ora è uno
dei primi maestri della pittura francese. Forse il maggior numero di pit-
tori potrebbe offrire a romanzieri destri e benevoli come il Fabre materia
di un romanzo ; quasi tutti hanno, nei primi anni del loro pellegrinaggio
artistico, patito assai : ma poiché a pochi è stato concesso di arrivare, dopo
tanti contrasti, ad una meta gloriosa, è utile questo romanzo di un gran
pittore, se non altro perchè prova una volta più che nell'arte come nella
vita per gli eletti il volere è veramente potere. E il Laurens è veramente
un eletto; ma non fu neppure piccola fortuna la sua quella di trovare
come biografo uno scrittore così affettuosamente simpatico, ed un eccitatore
gentile e generoso di ogni suo nobile coraggio.
« Io penso, scrive il signor Fabre, che l'amicizia fra due cuori generosi
non conosce nulla di meschino e lascia ad entrambi l'intiera libertà del
giudizio. Di questa libertà ho profittato anch'io Io non nego, di certo, d'es-
sere stato più spesso portato ad ammirare; senza tener conto di queirtì?«
resistibile orgoglio che mi spingeva a trovar migliore quello che mi seni?-
brava buono, il privilegio dell'amico non è soltanto di vedere ciò che l'a-
mico ha saputo fare, ma poiché gli fu concesso di penetrare nel segreto
della sua anima d'artista, fucina sempre ardente, anche di prevedere quello
che l'amico saprà fare Per quanto ne pare a me, Gian Paolo Laurens, a
cui nessuno, nella nostra scuola, è superiore per la selvaggia energia del
tocco, per la fierezza della composizione, per la fluida abbondanza delle idee,
Gian Paolo Laurens compirà grandi e forti cose. Tali cose, oltre che io le
indovmo nella sua mente di continuo commossa, agitata, impaziente di pro-
durre, le tocco, si può dire, ad ogni istante col dito, sia quando, con l' e-
170 KASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
l'oica ingenuità di Masaccio, egli dipinge nel Panthéon la Morte di Santa
Genoveffa, sia quando per la casa Hachette, che ama tanto i bei libri
d'arte, egli illustra con disegni che potrebbero divenir quadri i « Récits
merovingiens » d'Agostino Thierry. Essere lodati dai giornali, amati, am-
mirati, desiderati dal pubblico è certamente una cosa assai gloriosa; ma
incontrare sopra la via un tale amico quale si rivelò pel Laurens il Fa-
bro è una gloria anche più rara e più grande, e una fortuna certamente
migliore.
Una biografia è ancor essa un romanzo realista; e il signor Zola, se
non fossero già troppe le prove recate in mezzo da' suoi avversarli ch'egli
è troppo spesso un plagiario (1' ultimo suo lavoro, come ha dimostrato
r Ulbach, con la pretesa di riuscire un romanzo contemporaneo è un plagio
delle memorie del Casanova), potrebbe stimarsi un eccellente biografo dei
rappresentanti più scorretti della moderna società parigina; ma le bio-
grafie de' malfattori si dovrebbero riserbare alle requisitorie de'i"egi pro-
curatori. Il pubblico è oramai sazio di rivedersi innanzi ne' libri figuri che
eviterebbe studiosamente se li incontrasse per via. E pure l' esempio dello
Zola è contagioso. Tra i suoi più recenti imitatori ne segnalo uno, il signor
Leon Hennique, che ha pubblicato presso il Charpenticr un così detto
roman naturaliste sotto il titolo: La Bc'vouée. Questo pare il primo d'una
serie di romanzi dello stesso genere che recherà il titolo generale: Les
Eéros Modernes. Intanto, per incominciar bene, il primo eroe è un padre
cinico e mostruoso, che avvelena una delle sue figlie, e manda la seconda
figlia alla ghigliottina lasciando che sia creduta autrice dell' avvelenamento
della sorella, e nel tempo in cui la sua figlia Michelle « la devouée » sta
nelle mani del carnefice, fa il giro de' instoratori e café-chantants parigini.
11 signor Hennique non ha nulla da invidiare allo Zola, e quar.do un tal
genere di fama lo tenti, non deve disperare d'acquistarla; ma quanto du-
rerà poi? A me pare schiettamente che l'ingegno dell' Hennique gli meriti
una fama migliore. E, dopo tutto, i buoni modelli di romanzi imitabili non
mancano neppur oggi in Francia, per chi voglia giovarsene La Berthe
Sigei in, per esempio, pubblicata di recente da Edoardo Cadol * non sa-
crifica mai la verità alla poesia, ma facendo anzi servir questa ad illu-
minare il vero, lo i^ende simpatico. Gli uomini e le donne del Cadol sono
uomini e donne del nostro tempo; gli uni fanno il loro dovere; gli altri
lo dimenticano; la simpatia dell' autore e la nostra rimane per i primi. Il
Cadol non va nelle nuvole, ma non rade neppure il suolo; Filippo e Berta
Sigelin li abbiamo conosciuti; sono migliori di noi, ma entrambi hanno
passioni umane; le domano, le vincono, e raccolgono in questa vitii stessa
1 Calmann Lévy, 18Ì8.
EASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 171
(non nell'altra) il premio di quella virtù che nessuno ha loro predicata
ma eh' essi si sono volontariamente imposta. Romanzi come Berta Sigelin
Q romanzieri come Edoardo Cadol non sono solamente innocenti, ma sanno
pure rendersi utili; e, poiché io non ho mai capito come, in un tempo oc-
cupato come il nostro, vi possano essere lettori di romanzi per solo pas-
satempo, e credo, invece, che il maggior numero di lettori, anche non con-
fessandolo, desideri imparar qualche cosa anche dai romanzi, non mi di-
spiace aver terminato la presente rassegna raccomandando la lettura di
quello che mi pare un buon romanzo.
Angelo De Gubernatis.
EASSEGNA MUSICALE.
Gli spettacoli della stagione di carnevale-quaresima. — Il teatro Apollo di Roma.
— Le opere, — Don Giovanni d'Austria del maestro Marchetti. — La Scala
di Milano. — Il Re di Lahore del maestro Massenet. — Ero e Leandro del
maestro Bottesini al Teatro Regio di Torino. — La Regina di Saba del
maestro Goldmark. — Speranze per T avvenire.
Da alcuni anni anche le antiche consuetudini teatrali vanno scompa-
rendo; la stagione di carnevale-quaresima, che un tempo era importantis-
sima per la maggior parte dei teatri musicali della Penisola, ora non lo è
più che per pochi Le opere moderne richiedono spese, che soltanto alcuni
teatri sono in grado di sostenere. La Scala di Milano, il Regio di Torino.
l'Apollo di Roma, ecco le scene nelle quali si mantengono più o meno vive
le tradizioni delle passate glorie. 11 San Carlo di Napoli è ridotto, per molti
riguardi, alle condizioni di un teatro di second'ordine ; la Pergola di Fi-
renze è chiusa; il Carlo Felice di Genova si dibatte nelle strette dell'agonia ;
i teatri maggiori di Parma e di Modena si contentano di spettacoli da pro-
vincia; la Fenice di Venezia si riapre qualche anno ed altre volte sta
chiusa. E siccome l'allestire un decente spettacolo costa assai più in car-
nevale che in altre stagioni, così poco per volta si à estesa in parecchie
città l'usanza di sacrificare ad Euterpe in primavera o nell' autunno, od
anche durante l'estate. Per verità, indipendentemente dalle nuove condi-
zioni d'Italia, basta considerare il mutamento avvenuto nella qualità degli
spettacoli per avere la spiegazione dei fatti sovraccennati. Quarant'anni fa,
tre 0 quattro artisti di prim' ordine erano su flìcien ti a costituire un teatro,
come allora lo si denominava, di cartello. Trentadue coristi, cinquanta pro-
fessori d'orchestra erano più clie sufficienti alle esigenze degli spartiti che,
in quel tempo erano in onore. Oggi le cose procedono diversamente. Non
una, ma due e qualche volta tre compagnie di canto si richiedono, e al-
meno ottanta coristi, e dagli ottanta ai cento suonatori por le opere che il
pubblico a ragione o a torto mostra di prediligere. Non parliamo della
parte coreografica che costa ancor più. In generale è aumentato anche
il prezzo d' ingresso, ma questo aumento, se è poco avvertito nei centri
più cospicui, riesce assolutamente intollerabile nelle città minori ; tanto è
RASSEGNA MUSICALE. 173
vero che in esse poco per volta si ritorna ai prezzi miti, contentandosi di
opere veccliie eseguite da artisti dozzinali.
Tutte queste cause insieme l'iunite tolgono, come abbiamo detto fin
da principio, gran parte del suo prestigio alla sera di Santo Stefano, locchè
non significa che in parecchi teatri il carnevale e la quaresima non sieno an-
cora lo stagioni nelle quali avvengono le più ragguardevoli manifestazioni
dell'arte musicale scenica, sia per le esecuzioni complessive degli spetta-
coli, sia per le novità che sono sottoposte al giudizio del pubblico. Forse
fra qualche anno si entrerà in un nuovo periodo e avremo quell'ordinamento
dei teatri a repertorio, eh' è nei desiderii di molti ; ma non è qui oppor-
tuno di rimettere in campo una questione sulla quale si è tanto scritto e
stampato, e che ormai è venuta a noia perfino a coloro che l'hanno promossa
Fermandoci allo stato presente dell' arte e senza spingere lo sguardo nel
futuro, non sarà inutile di passare brevemente in rassegna gli spettacoli
de' primarii teatri italiani dal 26 dicembre fino ad oggi. E incominceremo,
com'è giusto, dalla capitale.
L' Apollo di Roma parve dovesse aprirsi sotto lietissimi auspicii.
Certo, non si era mai vista sul manifesto del nostro massimo teatro una
schiera di artisti cosi numerosa come quella di quest'anno. Ma i fatti di-
mostrarono che se per alcune parti c'era abbondanza anche soverchia, ad
altre invece era troppo scarsamente provveduto. Le rappresentazioni fu-
rono spesso interrotte e sospese per la cattiva distribuzione del personale
artistico; di una parte della compagnia di canto fu quasi impossibile gio-
varsi; a un'altra parte fu imposto un lavoro superiore alle sue forze. Non
entreremo nei particolari dei vari spettacoli che nel corso di due mesi si
sono succeduti all'Apollo; una rassegna di questa fatta sarebbe qui fuor
di luogo e non somministrerebbe argomento ad alcuna utile considerazione.
Fino ad ora nessuna novità è stata rappresentata; V Amleto del Thomas
(mai eseguito a Roma), e l'opera nuova del maestro Marchetti, Bon Gio-
vanni d'Austria, non andranno in iscena che nella seconda metà della sta-
gione teatrale. La prima è stata occupata quasi esclusivamente àdiW Africana
e àSiWAida, opere entrambe già notissime al pubblico romano E seguendo il
mal costume di altri teatri, V Africana dopo le prime sere è stata barba-
ramente mutilata e ridotta a tre atti per far posto al ballo. È vero che
in compenso si aggiunse non meno barbaramente una coda al settimino del
secondo atto, senza alcun rispetto alla memoria del Meyerbeer, il quale,
se fosse vivo, esclamerebbe come Dante: quesfarri non vi mis' io. Assai
migliore e più commendevole è stata la riproduzione deìVAida che esercita
ancora un fascino irresistibile quando è interpretata a dovere, poiché il
Verdi è ancor vivo, e l'illustre maestro e i suoi rappresentanti non tolle-
rano facilmente che a quel capolavoro si rechi offesa.
Quindi nell'Aida si ebbe cura di riunire il buono ed il meglio della
compagnia e di far le prove necessarie, e di rispettare le intenzioni del-
l'autore senza stimarsi lecite mutilazioni ed aggiunte. Ma è veramente
spiacevole che in Italia non si abbia a sperare che un'opera sia convenien-
174 KASSEGNA MUSICALE.
temente eseguita in ogni sua parte se non interviene la ferrea volontà del
Verdi o del suo editore a ina porre gli artisti, il direttore d'orchestra, l'al-
lestimento scenico. Felice il Verdi che per la gloria acquistata è in grado
di esercitare questa salutare tirannia! Ma ben più ancora avrebbe ragione
di rallegrarsi l'arte se questo rispetto per le opere de'grandi maestri
fosse sentito dagl'impresari, dalle direzioni teatrali, dai direttori d'orche-
stra, dalla stampa, e più ancora dal pubblico, il quale spesso ne'suoi giu-
dizi non è guidato da criteri artistici e inveisce a torto contro alcuni
spettacoli 0 altri ne approva senza ragione. la Italia poi, e sovrattutto a
Roma, vediamo da qualche tempo, metter salde radici alcune usanze che
non sì potranno mai biasimare e deplorare abbastanza. La più funesta, la
più micidiale di tutte è la claque per la quale la nostra lingua non ebbe^
in passato, vocabolo corrispondente. Ora bisognerà trovarlo, inventarlo se
occorre e pregare gli accademici della Crusca di concedergli benigna
ospitalità. La claque è l'applauso prezzolato e, ci si meni buona anche
questa parola, organizzato. Chi è stato a Parigi (e chi non ci è stato?)
rammenta quella fila di plaudenti che in tutti i teatri, ad un segnale del
loro capo picchiavano le mani in mezzo allo sprezzante silenzio del pub-
blico pagante. L'arte della claque aveva raggiunto un altissimo grado di
perfezione; vi erano diverse qualità di applausi, e semplici approvazioni
e opportune esclamazioni d'ammirazione. Diciamo vi erano e non vi sono,
perchè chi oggi ritornasse a Parigi troverebbe quasi in isfacelo queir an-
tica e poco benemerita istituzione. Molti impresari e direttori dei teatri
parigini hanno approfittato dello straordinario concorso di spettatori re-
cato loro dalla Esposizione universale per sopprimere la claque e restituire
la libertà di giudizio al vero pubblico. In Italia siffatte brutture non
s'orano mai viste in passato; anzi erano tanto contrarie alle nostre abitu-
dini che, perfino a Parigi, quando la claque regnava, si può dire, padrona
del campo, il solo Teatro italiano non era infetto di quella lebbra. Ora ci
pare strano che si venga propagando in Italia una consuetudine che i
francesi stessi riconoscono pessima e ripudiano, e procurano con tutte le
loro forze di rimuovere. Fra noi la malattia è in sul nascere; forse a
Roma ha progredito un po' più, ma non tanto da non potere essere curata
con energici rimedi. Ci dovrebbero pensare il pubblico, gl'impresari stessi
nel proprio interesse, e in qualche caso anche le autorità, imperocché la
claque assume pure qualche volta i caratteri del ricatto, e al pari di
tutti gli altri ricatti dovrebbe andare soggetta alle pene minacciate dalla
legge. Un tempo si combattevano le battaglie artistiche, le quali avevano
un eerto qual carattere di elevatezza e di nobiltà, anche quando soccom-
beva la causa giusta 11 pubblico, che per un errore di giudizio fischia
il Barbiere di Rossini, o la Lucrezia Borgia del Donizetti, o la Traviata
. del Verdi, non è da confondersi con coloro che discutono e stabiliscono la
tariffa degli applausi. Di quello si compiange l'ignoranza, di questi muove
a schifo la venalità. Ma forse l'inconveniente che lamentiamo è, alla sua
volta una conseguenza diretta e quasi inevitabile dell'importanza commer-
RASSEGNA MUSICALE^ 175
ciale che sempre più vengono assumendo, non solamente in Italia ma in
tutto il mondo, le arti teatrali. Un' opera di un maestro illustre rappre-
senta un valore di qualche centinaio di migliaia di lire ; un artista di
grido guadagna, oggidì, addirittura milioni, che crescono o scemano secondo
la maggiore o minore intensità del successo. Con questi interessi se ne
collegano molti altri che hanno duopo di essere patrocinati e sostenuti.
Ed è, se non lodevole, (almeno nel caso di cui parliamo) certo naturale,
che i patrocinatori di interessi commerciali vogliano trovarci anch'essi il
loro tornaconto. Se ci provassimo ad esaminare a fondo questa delicata
questione, si aprirebbe un vasto campo alle nostre meditazioni, e ci con-
verrebbe rivelare ai lettori molte piaghe che il maggior numero di essi
ignorano. La venalità in una minima frazione del pubblico è stata prece-
duta e, per così dire, preparata dalla corruzione che si ò venuta infiltrando
nella massima parte della stampa teatrale e da questa s' è incominciata
a diffondere anche nella critica artistica dei giornali politici. Ciò non ac-
cade, ne siamo persuasi, nei giornali più autorevoli e rispettabili, ma
guai all'arte se quelle male azioni diventeranno consuetudine presso di
noi ! I critici che non si venderanno, saranno segnati a dito, come avviene
in altri paesi, dove questi peccati sono tenuti inseparabili dall' uftìcio di
giornalista.
Ma è tempo di lasciare questo spiacevole argomento e di ritornare
senz'altro agli spettacoli del teatro Apollo. Abbiamo detto che sono pro-
messi per la seconda stagione Y Amleto del maestro Thomas e 1' opera
nuova Don Giovanni d'Austria del maestro Marchetti, il simpatico au-
tore del popolare Buy Blas. DeìV Atnleto poco abbiamo a dire, trattandosi
di musica non ancora eseguita a Roma, ma già da parecchi anni giudi-
cata all'estero e nota anche in alcune città d'Italia, dove l'opera del Tho-
mas è stata favorevolmente accolta.
II Thomas, direttore del Conservatorio di Parigi, appartiene alla scuola
degli eclettici: uno de' suoi migliori lavori è il Caid specie di parodia della
musica italiana, ma che vale e piace appunto per la chiarezza delle me-
lodie quasi tutte italiane schiettamente. Non enumereremo le altre opere
di questo egregio compositore, il quale ha pi^ocurato di raccogliere in sé
le qualità del Meyerbeer, del Verdi, del Gounod, ma in fondo non ha
un' individualità propria, quantunque la sua musica vada lodata per
molti pregi d" inspirazione e di fattura. Le opere alle quali egli va prin-
cipalmente debitore della sua fama e dell'alto posto occupato in Francia,
sono la Mignon e V Amleto. La prima è lavoro più completo, fors' anche
perchè il soggetto era più adatto alla musica; nelV Amleto invece il mae-
stro si accinge ad un'impresa impossibile tentando di riprodurre musi-
calmente il profondo concetto filosofico del poeta inglese. È invece mira-
bilmente colorita la parte drammatica e poetica e in ispecie la soave
figura d'Ofelia. Qualunque abbia ad essere il giudizio del pubblico romano,
esso giungerà troppo tardi per acci'escere o scemare credito a uno spartito
che percorre da oltre dieci anni i principali teatri d'Europa. È vero però
176 RASSEGNA MUSICALE.
elle VAmleto, il quale per le sue incontrastabili qualità drammatiche
piacque in Francia e in Italia, non trovò fortuna in Inghilterra né in
Germania, appunto perchè non parve rispondere interamente al capolavoro
di Shaskespeare.
Dell'opera del Marchetti potremmo parlare a lungo, poiché per cortesia
dell'autore ne abbiamo letta tutta la musica II Marchetti ha avuto sempre
davanti agli occhi un nobile ideale: l'espressione melodica del dramma.
Ma è avvenuto a lui come ad altri artisti, che prima di raggiungere la
meta, hanno dovuto cercare lungamente la via, e moltiplicare gli sforzi
e i tentativi. Però nell'opera Giulietta e Romeo e nel Ruy Blas è già
indicato lo scopo a cui mira il compositore. Sarà esso pienamente conse-
guito nel Bon Giovanni crAusiì^iaì A noi, per quanto è lecito giudicarne
da una semplice lettura, par di sì. il Marchetti si è sovratutto preoccu-
pato di sciogliere un problema: conciliare la più ampia libertà delle forme
colla condotta regolare dei pezzi e lo sviluppo necessario delle idee mu-
sicali. Egli ci diceva non ha guari : il maggior timore eh' io mi abbia, si
è di udirmi a dire che ho fatto troppo dramma e poca musica. Or
bene, a nostro, avviso questo timore non lia fondamento, perchè nella nuova
opera la musica serve il dramma senza rinunziare a tutte le proprie ragioni,
come accade troppo spesso nelle opere moderne. La questione della forma
musicale è ormai matura; non bisogna confondere la libertà della forma
colla mancanza di una forma chiara e ordinata. Gli è come se in un di-
scorso .si lodasse il procedere a sbalzi, il menare ad ogni tratto il can
per l'aia, e 1' interrompere i ragionamenti, anzi il non conchiuderli per
progetto. Tale, è pur troppo, la novità della forma come la intendono
alcuni dei moderni maestri, i quali non sanno trovare una via dì mezzo
tra le forme, per così dire stereotijyate, di venti o trentanni fa e il di-
sprezzo di qualunque regola, di qualunque freno, di (lualunque ordine. Il
Marchetti crede che ai diritti del dramma non sia necessario di sacrificare
quelli della musica, e tutto il suo Don Giovanni d'Austria rende testi-
monianza di questa sua fede inconcussa. Qualunque abbia ad essere il
risultato (e noi portiamo ferma fiducia che sarà favorevolissimo;, il nuovo
lavoro del Marchetti ò un ardito tentativo frutto di lunghi studi e di
salde convinzioni sorrette da un grande ingegno. Un'altra delle novità
dell'opera sarà la grande semplicità. L'azione drammatica si svolge senza
il lenocinlo dei frequenti mutamenti di scena, delle danze, delle lunghe
processioni, della banda sul palco scenico, degli arredi strani o sfarzosi.
Il D'Ormeville, autore del libretto, sfuggirà diffìcilmente un rimprovero,
quello cioè di aver collocato personaggi dai nomi storici rimbombanti —
Don Giovanni d'Austria, Filippo li, Carlo V — nel piccolo quadro di un
dramma intimo. Il D'Ormeville risponderà che ha tolto il suo libretto da
una commedia del Delavigne e che d'altronde, neanche il poeta francese
inventò di pianta la favola, ma la trasse, almeno in parte, da storici do-
cumenti. Comunque sia, e anche ammesso che la critica trovi a ridire
sulla scelta del soggetto, è fuor di dubbio che il dramma per se stesso, e
RASSEGNA MUSICALE. 177
in(iipenrbnteraente dagli illustri nomi dei personaggi, è commovente e terrà
desta dal principio al tìn3 l'attenzione dagli spettatori. E questa, checché
se ne dica, è la miglior qualità di un libretto per musica.
Poiché abbiamo parlato sommariamente di alcune delle opere rappre-
sentate 0 da rappresentarsi all'Apollo di Roma, non sarebbe inopportuno
il recar un giudizio anche su taluno degli artisti che vi hanno parte. Sa-
rebbe uno studio utile, anche perché, trovandosi riuniti sul palco scenico
di quel teatro artisti appartenenti a diverse nazioni,* ci sarebbe luogo a
importanti confronti. Ma l'entrare in numerosi panicolari ci porterebbe
troppo lungi e richiederebbe soverchio spazio Una sola osservazione vo-
gliamo fere, vale a dire che l'arte r'el bel canto non è più esclusivamente
italiana. All'Apollo, per esempio, essendosi rappresentata la 1 ucrezia
Borgia, una cantante vienne.se, la Tremelli. alla quale era affldata la parte
di jMalBo Orsini, fu la sola che mostrasse di conoscere ancora e posse-
dere-le buone tradizioni di quella musica Neil'. ^fcZt/, un'altra primadonna
viennese, la Sin^ier, pronunzia più chiaramente e correttamente che non i
suoi compagni italiani e li vince ez'andio per l'eflicacia dell'accento dram-
matico. Arrogi che i cantanti stranieri sono quasi tutti più colti e più
diligenti dei nostri. E, ciò ch'è più doloroso a dirsi, gli artisti italiani
diventano migliori cantando all'estero II tenore Stagno, artista di vaglia
e applauditissimo all'Apollo, ha percorsa quasi tutta la sua carriera fuori
d'Italia. Si aprirebbe, dunque, un larghissimo campo alle nostre osserva-
zioni sulle scuole di canto, e sul pericolo che, anche per questo riguardo,
noi di entiamo fra breve tributari delle altre nazioni. Ma a che ripetere
ciò che tutti sanno? In Italia i buoni maestri di canto (diciamo buoni e
non ottimij si contano sulle diti E per alcuno di essi l'insegnamento non
è che un mazzo par cercare e reclutare b9lle voci, che poi vendono al
miglior offerente appena sono in grado di urlare il Trovatore o il Ballo
in maschera, senza curarsi punto di ripulirle, educarle. Gli antichi maestri
di canti ponevano tutta la loro gloria nel far si che il giovine artista
uscisse dalla loro scuola interamente padrone dei segreti dell'arte, e impedi-
vano ch'esordisse sulle scene prima del tempo. Oggi, invece, i maestri sono
essi i primi ad incoraggiare gli scolari a terramare prematuramente gli studi
e a slanciarsi nell'agone teatrale senz'nitro corredo di cognizioni che cinque
o sei spartiti imparati a memoria. Oli è ohe il maestro é pure impi'e.sario,
agente teatrale e qualche volta anche giornalista, e da questo cumulo
d'ufnci ritrae profitti «li varie specie
Alla Scala di Milano, quest' anno gli spettacoli camminano col vento
in poppa; e 1 è un fatto da segnarsi col carbon bianco. I Milanesi so-
glion dire che il loro teatro è il primo del mondo, ed hanno avuto
ragione in alcune grandi occasioni Certo pochi teatri dispongono di mezzi
così numerosi e ragguardevoli. Questo ebbe a confessare lealmente anche
il maestro Massanct, che pose in iscena alla Scala il suo Re di I.ahure I
lettori ^e\y Antolorjia rammenteranno che, fin dall'anno scorso, a proposito
di quest'opera abbiamo lamentata la soverchia facilità con cui in Italia si
VoL. X!V, Serie II — l Marzo l'ì9. 12
178 EASSEGNA MUSICALE.
concerie ospitalità ai lavori stranieri, mentre all'estero, e segnatamente in
Francia, i lavori italiani non sono accettati che con grandi cautele, quasi
con ripugnanza e, per usare il linguaggio parlamentare, dopo prova e
controprova. Il R( di Lahore è, senza dubbio, opera ricca di pregi, ma
non un capolavoro consacrato dal tempo; il Massenet è un valente musi-
cista, ma non superiore a parecchi che ne abbiamo in Italia. Ora è dolo-
l'oso, a cagion d'esempio, che gl'impresari italiani vadano a gara nel ripro-
durre il Re di Lahore e lascino poi in disparte i Lituani e la Gioconda
del Po.nchielli, opere, ci sia concesso il dirlo, di ben altro merito. E fu
pure opportunamente ricordato che mentre noi decretiamo gli onori del
trionfo al Massenet e all'opera sua, a Parigi furono severamente giudicati
ed esclusi dal repertorio il Don Carlos e i Vespri siciliani del Verdi.
Il cosmopoli tikmo dell'arte sarebbe un principio sacrosanto, se gli si ac-
compagnasse quello della reciprocità. Con ciò non intendiamo di bandire
dalle nostre scene le opere straniere; vorremmo soltanto ch'esse fossero
tali da far progredire l'arte e da esercitare una salutare influenza anche sugli
studi musicali nel nostro paese Nessuno negherà che una siffatta influenza
l'abbiano esercitata le opere del Meyerbeer, il Faust di Gounod, il Lohen-
grin di Wagner, ma questa non è ragione suflìciente per aprire le porte
dei nostri teatri a tutte indistintamente le opere che nascono fuori d'Italia.
Questo abbiamo dichiarato altre volte, e lo ripetiamo anche ora in
termini generali e senza alcuna intenzione di mostrarci men che benevoli
verso il maestro Massenet, il quale agli altri suoi meriti unisce quello di
una grande modestia. Del resto la fortuna del Re di Lahore in Italia si
spiega facilmente; oltre la musica in gran parte lodevole, lo raccoman-
dano la novità e la varietà dello spettac()lo. IMa è vero, del pari, che dopo
essere stato rappresentato nei principali teatri della penisola, non lascerà
traccia di sé e sparirà come una meteora. In fondo, è questo il giudizio
che ne hanno recato anche i giornali milanesi, giudizio che convien leggere
fra le righe e scoprire sotto il velame delle riserve, dei sottintesi e della
qualità stessa delle lodi, È avvenuto però a Milano un curioso fatto; la
parte coreografica del Rs di Lahore, che altrove aveva suscitato maggior
entusiasmo, alla Scala non piacque, anzi fu disapprovata con tanta insi-
stenza che convenne mutilarla sconciamente per non esser obbligati a
sopprimerla addirittura. La medesima sorte era toccata, poco prima, alle
danze del .X'o^i Carlos. La grandiosa opera del Verdi era stata accolta
con grandissimo favore, ma dopo alcune sere divenne necessario di omet-
tere i ballabili. Si è detto che la causa delle proteste del pubblico
andava ricercata non già nella musica ma nella cattiva composizione co-
reografica delle danze. Non abbiamo visto il Con Carlos e il Re di Lahore
alla Scala, ma trattandosi del primo teatro del mondo, non ci pare pos-
sibile che le danze fossero composte ed eseguite peggio che a Roma, o a
Torino o a Vicenza. Più probabilmente queste disapprovazioni sono un
principio di reazione che si viene manifestando contro Vopera-ballo, Vopera-
mastodonte, come fu bizzarramente denominata da un uomo di spirito.
RASSEGNA MUSICALE 179
Dovremmo ringraziare gli Dei se il pubblico si mettesse davvero per questa
via e domandasse il ritorno ad opere più brevi, più semplici, e incorag-
giasse i maestri a rompere il patto che hanno stretto col coreografo, col
vestiarista, con lo scenografo.
Abbiamo più sopra accennato al tentativo del Marchetti in questo
senso; ora dobbiamo far menzione di un'altra opera breve anch'essa (in
tre atti), il successo della quale va attribuito al merito intrinseco della
musica, anziché alla parte coreografica e allo splendido allestimento della
scena. E dessa il nuovo spartito del Bottesini — Ero e Leandro — testé
rappresentato al teatro Regio di Torino. Il Boito ne scrisse il libretto ed
egli stesso ne avea composta pure la musica. Ma poi si sgomentò dell'opera
propria ; gli nacque il dubbio che l'argomento fosse troppo freddo, che
gli mancasse quella impronta di grandiosità ch'è il carattere delle opere
moderne. E tra^'agliato da questi timori, distrusse la musica e cedette al
Bottesini il libretto. Alcuni pezzi dell'aro e Leandro, come il duettino:
Lontano, lontano, furono dal Boito trasportati nel Mefistofele rinnovato.
Noi, giusti estimatori dell'ingegno del Boito, crediamo ch'egli abbia avuto
torto. Il libretto dell'^'ro e Leandro è, nella sua semplicità, uno dei mi-
gliori fra quanti ne sono venuti alla luce in questi ultimi anni. La mu-
sica, giudicandola dai pochi saggi che ne abbiamo uditi nel Mefistofele,
doveva rispondere egregiamente al soggetto. Non ci. recherebbe, dunque,
meraviglia che il Boito, male inspirato e consigliato, avesse distrutto colle
proprie mani un capolavoro.
Il Bottesini, valentissimo suonatore di contrabbasso, compositore simpa-
tico, ma che finora nel campo teatrale era andato innanzi con incerto
passo, ebbe il raro accorgimento d'intendere tutto il partito che si poteva
trarre dall' idillio del Boito. Il nuovo spartito non è ancora venuto alla
luce per le stampo, ma i giornali torinesi sono stati unanimi nel!' enco-
miarlo. Ad ottenergli una cortese accoglienza giovò anche la esecuzione,
buona in complesso, ottima per parte del valente tenore Barbaccini. Ma la
buona esecuzione non é mai riuscita a render gradita la musica cattiva;
quindi dobbiamo prestar fede alla stampa torinese, la quale porta a cielo
le melodie del Bottesini e assicura che la sua nuova opera vivrà lunga-
mente nel repertorio italiano. Della qual cosa siamo lietissimi. Del resto va
detto ad onore del vero che l'impresario del Teatro Regio di Torino è forse
il solo in Italia che provveda ai propri interessi promovendo queWi dell'arte.
È uno degli impresari che più facilmente si persuadono a tentare in Italia
le opere straniere, ma d'altro canto corregge questo difetto (se pur lo si può
chiamar tale), ponendo in iscena ogni arino anche un'opera di autore italiano,
nuova di zecca. L'anno passato fu il primo a rappresentare in Italia il He di
Lahore, ma chiamò pure i torinesi a giudicare per i primi la Francesca da
Rimini del Cagnoni. Quest'anno ha divisato di rappresentare la liegina
di Saba del Goldsmark, ma l'ha fatta precedere dall'aro e Leandro del
Bottesini. E anche la scelta della liegìna di Saba, qualunque abbia da
essere la sentenza del pubblico torinese, ci pare opportuna, essendo questa
380 RASSEGNA MUSICALE.
un'opera che da più anni viene eseguita con eostante successo in tutti 1
teatri della Germania II Golilsmai'k g()de fama di eccellente musicista;
l'opera sua, della quale conosciamo la riduzione per canto e pianoforte,
appartiene anch'essa allo stile eclettico, con un po' di tendenza alla scuola
wagneriana. Non ci sentiamo in j-rado di pronosticarne le sorti a Torino,
ma ripetiamo che neppure un'accoglienza sfavorevole scemerebbe in noi
il rispetto che sentiamo per l'autore.
Abbiamo, per tal modo, p ssato rapidamente in rassegna ciò che nella
prima parte della stagioie di carnevale-quaresima è avvenuto di più im-
portante per l'arte musicale nei principali teatri della Penisola. E la colpa
non è nostra se la mèsse non è riuscita abbondante. Siamo costretti a ta-
cere del San Carlo di Napoli, dove non si ebbero che meschinissimi spet-
tacoli e opere stravecchie e gli scandali sorti per l'incredibile albagia dei
divi Patti e Niccolini, che abbandonarono il San Carlo e Napoli, perchè il
pubblico non li portava in trionfo E neppure possiamo occuparci dell'opera
nuova Cleopaira del Bonamici rappresentata alla Fenice di Venezia, perchè
la si può dire m )rtu in sul nascere. Confldiamo che la seconda parte della
stagione olirà più ampia materia alle nostre considerazioni, e con questa
speranza prendiamo commiato dal cortese lettore.
F. d'Arcais.
EASSEG^^A POLITICA
11 trattato di pace tra la Russia e la Turchia. — Il consenso dell'Austria alla
soppressione della clausola sullo Schleswig. — 11 voto sulTainnistia alla Ca-
mera francese. — La sicuiezza puliblica in Italia e le cause per cui non mi-
gliora. — I tentativi Ji conciliazione per i gruppi della Sinistra.
Finalmente il lungo e triste periodo de'guai d'Oriente, aperto dal-
l'insurrezione della Bosnia e dell'Erzegovina, fu chiuso colla firma del
trattato fra la Russia e la Turchia. Non clie con questo sieno risolte tutte
le questioni lasciate dietro di sé dal trattato di Berlino. Resta ancora da
dare soddisfazione alla Grecia, alla quale fu promessa la rettifica dei con-
fini, faccenda che procede stentatamente fra il solito schermirsi e l'indu-
giare e il tergiversare della Porta e le proteste del regno ellenico, tute-
lato segnatamente dalla Francia Resta poi anche un'altra determinazione
di confini, quella fra la Russia e la Rumenia, o più precisamente fra la
Bulgaria e la Dobruscia, per la quale i runjeni avevano poche settimane
fa occupato improvvisatiiente Arab-Tabiah, un punto forte a due miglia da
Silistria, da cui si ritrassero poi per le proteste della Russia e il voto
delle potenze, alle quali la controversia fu deferita. Oltre a questo, rimane
che la Rumenia in obbedienza al trattato di Berlino dia effetto alla pari-
ficazione degli israeliti agli altri cittatlini, se vuole che le potenze ricono-
scano la sua indipendenr'a Siccome però né la parificazione degli israeliti
in Rumenia né la determinazione dei coi.flni fra la Rumenia e la Russia,
o fra la Turchia e la (Grecia, sono faccende atte a mettere in fiamme l'Eu-
ropa, la dolorosa serie degli eccidi orientali si può dir chiusa dal trattato,
del quale non ha guari si .scambiarono le ratifiche fra la Russia e la
Porta, prima di che durando sempre l'occupazione russa della Rumelia
turca, non si sarebbe potuto aff^^rmare altrettanto.
Tutti si rammentano come l'Inghilterra vedesse alcuni mesi fa di
mal occhio le prime pratiche della Russia per indurre la Porta a una con-
venzione s «parata, sospettando che la Russia non mirasse con questo ad
altro che a ritornare per una via indiretta ai preliminari di S Stefano e a
deludere il trattato di Berlino. E for.se questo segreto pensiero entrò per
qualche cosa nel gira e rigira, in cui andò avvolgendosi la cancelleria
182 RASSEGNA POLITICA.
russa. Ma poi la politica .senza complimenti dell'Inghilterra e l'approva-
zione sempre piìi manifesta che il risoluto contegno del governo della re-
gina trovarono nell'opinione pubblica inglese, la persuasero che il tempo fe-
lice di lord Derby era passato, e il meglio, per ora tanto, era accontentarsi
di ciò che s'era ottenuto e farla Anita. Perciò il trattato separato colla
Turchia è veramente nulla più e nulla meno che un trattato complementare
di quello di Berlino, tanto che il primo articolo riconosce che il trattato di
Berlino era stato sostituito di pieno diritto ai preliminari di S Stefano, dei
quali il Congresso s'era occupato, e non rimaneva quindi se non risolvere le
questioni non tocche da quello. Questo patto, o per dir meglio questa di-
chiarazione, che in realtà non importa alcun obbligo per nessuno, appunto
perchè non muta in nulla ciò eh' era stato patLuito innanzi ed è oziosa,
dev'esser considerata come una soildisftizione data all'Inghilterra e perciò
come una guarentigia di pace. La Russia, riconosciuti i pericoli che le so-
vrastavano e da essa, e anche dall'Austria e dalla Germania, se avesse
continuato a compromettere la tranquillità dell'Europa, non solamente ha
finito col rassegnarsi j^er il momento alla volontà di qu3Sta, ma ha creduto
bene di dichiararlo.
Per tutto il resto, il trattato, com'è naturale, non ha molta importanza.
L'indennità di guerra è stabilita nella somma di 8 '-^5 'O lire, dàlie quali
sarà convenuto poi il modo e il tempo del pagamento. Gli altri articoli ri-
guardano il rimborso p^r il mantenimento dei prigionieri, l'amnistia agli
abitanti, ecc. Lo sgombaro dei Russi dalla Rumelia turca, come è fissato in
una nota annessa al trattato, avrà fine al pila tardi entro j27ì giorni dallo
scambio delle ratifiche.
I Russi se ne rivanno colla compiacenza di avere acquistato un territo-
rio considerevole, ma che appena si può riguardare come un compenso alle
spese sterminate e ai danni d'ogni genere patiti nella guerra. Ingrandendo
sé stessi essi finirono infatti a ingrandire anche l'Austria-Ungheria da una
parte e l'Inghilterra dall'altra, piantatesi a modo di due sentinelle a'suoi
fianchi per contender loro ogni altro passo in avvenire. Perciò, se si considera
che ogni potenza è relativa ed è commisurata dalla forza e dalla posizione
degli Stati che la circondano, la Ru.ssia non è oggi più poderosa di quello
che fosse prima della guerra. Ad onta del suo contine più avanzato, l'andare
più oltre le riuscirà più difficile che in altro tempo, trovandosi guardata e
invigilata da rivali desti più che mai dalle sue ambizioni e più pronti a
preparar le difese.
Tutto questo però non vuol dire, che dei disegni dell'Austria-Ungheria
sull'Oriente si sia avuta una prova nella condiscendenza di questa verso
la Prussia all' abolizione della clausola annessa all' art 5 del trattato di
Praga. La clausola era del seguente tenore: « Se le popolazioni dello
Schleswig liberamente consultate votassero per la loro riunione alla Dani-
marca, si accondiscenderebbe alla loro dimanda. » Questa clausola era stata
imposta alla Prussia da Napoleone III a modo di una piccola umiliazione
per quest'ultima potenza dopo Sadowa e di una piccola consolazione per
EASSEGNA POLITICA. 183
l'impero francese, che sa pure come un appicco, che riservasse all'av-
venire la iDossibilità di un rimedio a una politica timida e incerta che
aveva preparato l'unitìi della Germania In effetto però tredici anni passa-
rono dalla conquista dei ducati e le popolazioni non furono consultate,
forse perchè fosse apparso nel frattempo troppo evidente il loro contento
e la loro felicità. Ora la Prussia, un po' tardi invero, volendo liberarsi
anche da questo minuto spino, in una convenzione con l'Austria-Ungheria,
che porta la data dell'ottobre, stipulò che la detta clausola del trattato
del l>=G(j riguardante la retrocessione dello Schleswig settentrionale alla
Danimarca, si intendesse abolita.
È una piccola, ma intempestiva e tarda, e punto bella e gentile pun-
tura flitta alla Francia, che certo stava pensando a tutt' altro che allo
Schleswig, ma che, nondimeno, avendo accettato la politica napoleonica col
beneflcio dell'inventario, potè senza compromettere la sua dignità non te-
nersene per offesa. Ma quanto alla facile acquiescenza dell'Austria-Unghe-
ria, non sembra esservi nessun bisogno di imaginare per ispiegarla, che
la Prussia 1' abbia comperata colla promessa di lasciarle mano libera in
Oriente, secondando la politica del conte Andrassy. L'Austria non è in ne-
cessità di far concessioni perchè la Prussia non le dia incomodo s'essa s'im-
mischia sempre di piìi nelle cose orientali, avendo il principe di Bismarck
mirato a questo cominciando dall'insurrezione della Bosnia e dell'Erzego-
vina e poi via via fino al congresso di Berlino D' altra parte, oltre che
all'Austria non importa gran Mto, che lo Schleswig settentrionale appar-
tenga piuttosto alla Danimarca che alla Germania, essa sapeva benissimo
che, in onta alla clausola del trattato, quest'ultima non se lo sarebbe la-
sciato sfuggire di mano. Oltre tutto poi l'Austria non fu mai la potenza
che si riscaldasse per i plebisciti. La cosa apparisce quindi più semplice
ohe non si sia imaginato Nel bivio di offendere gravemente la Prussia,
che la richiedeva del suo consenso, ovvero leggermente la Francia, che
avrebbe taciuto, preferì questo secondo partito tutti gl'inconvenienti del
quale si riducevano a dover dare alla Francia qualche spiegazione, e ognuno
nel caso suo avrebbe fatto altrettanto.
La Francia, del resto, si vede fino da ora, ma si vedrà, pare, sempre
più in appresso, ha molto di meglio a fare che risuscitare i plebisciti dello
Schleswig. La gran questione dell'amnistia, grande per essere stata gon-
fiata ad arte dallo spirito di partito, non perchè lo fosse da sé, non es-
sendovi nulla di più naturale di lasciare che i condannati subiscano la loro
pena, la gran questione fu risolta dalla Camera dei deputati in modo più
soddisfacente che dal chiasso e dalla confusione che la precedette, non si
potesse aspettare. La Camera accolse con ;-i>i voti contro W il progetto
della Commissione parlamentare accettato dal Ministero. L'amnistia com-
prende i condannati pei fatti di insurrezione del Isti e anche i condannati
per crimini o delitti di insurrezione posteriori a quel tempo, ma esclude
tutti quelli che furono condannati, oltre che per i fatti accennati, anche
per crimini e delitti comuni. La facoltà di applicare l'amnistia è data al
184 RASSEGNA POLITICA.
presiilento della repubblica, che perù deve usarne entro tre mesi. Presun-
tivamente si considera che circa llou rimangano escludi, ma più che al-
trettanti, i più pericolosi, non per i diritti privati, ma per l'ordine pub-
blico, rientrino in Francia e quasi tutti a Parigi
Intanto fu gran fortuna che l'amnistia potesse essere cosi limitata e
in questi termini fosse accolta da tanti voti. I radicali avevano fatto ogni
possa, percliè equivalesse a un' assoluzione o a una riabilitazione della
Camera, giungendo a proporre che nella stessa amnistia fossero compresi
anche i ministri del 1'^ maggio, come se anche questi fossero stati con-
dannati, e l'accettare di far parte di un ministero per incarico del pre-
sidente della repubblica fosse tutt'uno col tirare a mitraglia sopra i fran-
cesi che non erano caduti combattendo lo straniero e col mettere il fuoco
all'Hotel de Ville, al Luxemburg e alle Tuilleries Per questa volta il mi-
nistro Leroyer, riuscì a difendere la causa della giustizia e del buon senso,
sostenendo che la Comune fu un'esplosione socialista preparata di lunga
mano eoll'aggrayante che fu f.itta sotto gli ocelli del nemico, ed era im-
possibile di perdonare a rivoltosi che glorificano gli atti pei quali furono
condannati, mostrandosi con ciò pronti a ritentarli. Ed è pure consolante
che per intanto la Camera l'abbia seguito, essendosi i repubblicani uniti ai
conservatori contro i radicali.
Ma comincia a parer molto dubbio, se rientrati a Parigi gli amnistiati,
appunto i politici, il ministero potrà far prova in ogni occasione della stessa
sicurezza e incontrare la stessa fortuna. 11 Comune di Parigi che vota
100,0iJ0 lire, per soccoirerli, appena giungano, a dimostrazjone di parte,
più che per benelica prudenza ed aiuto, e i giornali radicali, scatenati
al linguaggio più audace e più provocante, sono sintomi minacciosi per
un paese, che par destinato a trapassare periodicamente dalla reazione
alla rivolta e da questa a quella. Ora si può dire veramente che incomin-
cino le difficoltà, semprech'i almeno il voto del 20 febbraio non sia per la
Camera francese il principio di una ricostituzione dei partiti, che riosca a
mettere insieme una gi'ossa maggioranza di governo contro i radicali Senza
di questo, senza un distacco risoluto e deciso di tutti coloro che già fecero
causa comune con essi contro la reazione, ciò che suppone l'abbandono tli
ogni disegno di ristabilire la monarchia nella destra, il governo diventerà
sempre più condiscendente e più debole tino a^l essere soverchiato e tra-
volto dai più audaci.
Del rimanente è curioso e non punto edificante, che uno dei mezzi dei
quali la democrazia si serve per accrescere lo sue forze debba essere
l'indulgenza verso i colpevoli Ci guarderemo dal ricercare le cause del fatto
non bello in sé, né, a lungo andare, uiile forse a lei stessa. Il fiitto però è
indubitabile, avviene fra noi come in Francia, e sgomenta tutti quelli i
quali credono in buona fede che la convivenza sociale e civile debba avere
per suo primo line la tranquillità pubblica e la sicurezza dei diritti privati.
Se non serve a mantenere l'una e a tutelare gli altri, un governo non è che
un vivaio di impiegati e un laboratorio di scarabocchi, che i facinorosi ed
KASSEGNA^ POr.ITICA. 185
i ladri volgono a comodo loro e nel quale le vittime sono sempre i ritrosi,
i prudenti e gli onesti.
Alle cifre riferite dall'on. Rudini nel suo meditato e coraggioso discorso
alla Camera, completamente noi non crediamo ; non crediamo cioè che dal
1859 al 1875 i reati in Italia sieno cresciuti nella proporzione da 100 a 210.
Dal 1h59 ad oggi sono grandemente aum3ntate le azioni punibili, si dichia-
rarono cioè delitti azioni riprovevoli che prima passavano impunite Inol-
tre nel periodo di undici anni aumentò grandemente la vigilanza della que-
stura, ed ora si scoprono e si puniscono atti che rimanevano ignorati,
0 dei quali non si riusciva a s^^oprire gli autori. Per ciò la statistica pe-
nale nel 1875 è tutt'altra cosa da quella clie si poteva fixre e si faceva
nel 1859, ha un numero molto minore di omissioni e di lacune e s'accosta
molto più al vero. Appunto perciò, se si levano alcune provincie che rac-
colgono un amaro frutto dalla loro mitezza tradizionale, p e. quelle della
Toscana, non si può dire che la condizione della sicurezza pubblica in Italia
sia peggiorata a petto di quello ch'essa era o prima dell'anno in cui la
guerra e il trambusto politico tenne in sospeso anche i malfattori o poco
dopo Noi siamo all'incirca quello ch'eravamo in passato, continuando ad
avere i nostri 7 omicidi, ilove la Francia ne ha uno.
Ma anche senza peggioramenti è enorme, è cosa degradante e umi-
liante per tutto il paese, e alla quale, se non si cura di far riparo con
due modi opposti a quelli che si mettono in voga oggi, l'Italia non acqui-
sterà mai il rispetto che le appartiene. II primo pensiero che viene a tutti
è infatti questo, che un governo, il quale non basta neppure contro gli
assassini, è un governo impotente anche più per il resto. Certo il male
è vecchio nel paese nostro, e il governo italiano l'ha ereditato e non già
fatto nascere. Ma in venti anni, chi si fosse messo davvero sul serio a
medicare questa piaga, l'avrebbe guarita, e l'Italia potrebbe ora vantarsi
almeno per questo di andare alla pari colle altre nazioni.
Le cause del deplorabile indugio sono molte e meriterebbero di essere
studiate da una Commissione cui non mancasse il coraggio di rintracciarle
e di dirle.
Forse c'entrano per molta parte l'abitudine rassegnata e incurante delle
popolazioni di vivere mal sicure, la ripugnanza loro a denunciare i reati e
a fare testimonianza, i giurati che indebolirono l'amministrazione della
giustizia, la lentezza di questa, la esitanza dei giudici e quell'aura di
indulgenza improvvida e malsana, di cui parlavamo poco fa, che spira a
favore dei malfattori Anche la ripugnanza alle leggi eccezionali e le va-
nità e le partigianerie politiche, che tennero il governo sospeso e incerto,
0 l'impedirono, ebbero la loro parte. Ma, oltre al resto, non è senza colpa
mi codice, qual'è quello del l^.'y.i, inspirato dall'istinto, primitivo d'una se-
verità esagerata contro i reati che minacciano la proprietà, ma molle circa
tutti gli altri diritti, la sicurez-'.a della persona, la libertà, l'onore, un codice
insomma che non insegna bastevolmente il rispetto dovuto alla personalità
umana. È un codice che pensa a difendervi il paletot e l'orologio, ma non
186 EASSEGNA POLITICA.
le costole, e che unito a tutte le cause accennate sopra, in mezzo a popolazioni
rassefrnate e indolenti e a magistrature lìacche, contribuisce a fiirvi il re-
galo (li oltre a 4i;0;) omicidi all'anno, quanti non ne novellano la Francia,
la Svizzera, l'inn^hilterra e la Germania sommate insieme.
Quando si pensa a questioni così vitali per la nostra pace, il nostro
onore e la nostra considerazione e influenza nel mondo, pare un sogno il
vedere la Camera smaniare e sciuparsi in parteggiamenti personali, di-
videndosi a ogni poco in nuove chiesuole e poi affaticandosi a riunirle,
come S9 in Italia non rimanesse altro a fare che questo gioco. Sfuggiti
assai tardi alle mani di governi eh 3 ci traviarono e ci guastarono, noi
non volemmo persuailerci che avevamo in casa il medio evo da combattere
e dovevamo por mente a rifalle noi stessi, volendo che tutte le istitu-
zioni, con cui attendevamo a vestirci a nuovo, mettessero radice e dessero
frutto. Quello sarebbe stato il campo proprio di una Sinistra illuminata e
previdente, mentre la Destra indugiava; il gran disegno di guarire i no-
stri mali vecchi, di liberarci dagli assassini, di reiìimere le terre incolte,
di risanar le paludi, di accrescerei! lavoro e il risparmio, di fere insomma
quanto non avevano fatto i governi passati, che fondavano il loro domi-
nio sull'ignoranza delle popolazioni, sulla paura e sulla miseria.
Se questo proposito avesse avuto la Sinistra, in luogo di quello d'in-
grandirsi e di far seguaci accarezzando gl'istinti e le passioni popolari,
non ci troveremmo ora alla miseria di sentir pai'lare di unioni e con-
ciliazioni e coordinazioni, e, quello eh' è peggio, invano. Le scissure avvenute
nella Sinistra non sono di quelle a cui possa metter fine la semplice idea
vaga dell'interesse di partito. Il poiero.su gruppo Cairoli si elevò contro di
quelli degli on. Crispi e Nicotera a modo di vindice della pubblica moralità,
ciò che da questi non può essere dimenticato, nò può dimenticare egli stesso,
fino a mostrarsi d'accordo insieme Più tardi i gruppi Crispi e Nicotera pre-
sero la rivincita contro quello dell'on. Cairoli in nome daHordiiie pubblico,
dei principii fondamentali di governo, del rispetto alle istituzioni e alle
leggi, anche questa faccenda troppo gnwe per potere essere seppellita con
una stretta di mano. Il solo timore della Destra è poi un interesse invero
non molto grandioso, nò nobile, ma oltre a questo troppo debole per servire
di cemento a un partito andato in frantumi per effetto di dissidi profondi
e sopra questioni vitali. È la Destra così vicina al potere, che il timore
di vederla risorgere basti a risuscitare una e concorde la vecchia mag-
gioranza ?
Di questa maggioranza è avvenuto quello che da tutti si prevedeva
al tempo delle elezioni -nel I87i>, fatte senz'altro criterio che quello di
raccattare nemici contro la Destra, fossero poi di un colore o di un altro,
repubblicani o progressisti o clericali, o anche borbonici. Bastò che la
Destra si tenesse tranquilla e si limitasse a guardare, perchè i germi
delle divisioni prepai ati da opinioni e da intendimenti così diversi pul-
lulassero, e a poco a poco si producesse il tritume che si vede oggi Ciò
è come dire che il male è organico e non ammette rimedio. Pson resta
RASSEGNA POLITICA. 187
quindi che tirar via alla meglio, aspettando la sola occasione da cui possa
venire il rimedio vero, le nuove elezioni. Il ministero va innanzi con pru-
denza, evitando le grandi questioni e attendendo principalmente all'am-
ministrazioue giornaliera. É il meglio che possa fare. Continuando per
questa via a guadagnare fiducia come fece fino ad oggi, può prima o dopo
sentirsi forte abbastanza da sciogliere la Camera, unico espediente che
ormai rimanga per metter fine a'suoi dissidi e alle sue divisioni.
È anche da considerare che troppi casi avvennero dal 187(5 ad oggi,
troppe novità si fecero, troppe cose furono rimestate, perchè non convenga
di interpellare anche il paese. La guerra d'Oriente, i rapporti dell'Italia
in questo periodo colle potenze straniere, il trattato di Berlino, l'aboli-
zione del macinato, il rapido aumento delle spese, la nuova tassa sugli
zuccheri e sul petrolio, la condizione presente delle finanze, la rinnova-
zione dd trattati commerciali, i progetti di nuove costruzioni, le dispute
sorte sul diritto di associazione, la pubblica sicurezza, giustificano piena-
mente l'appello agli elettori che trovano davanti a sé anche troppo co-
piosa materia di esame e troppi criteri per il loro voto. Il tempo che
passa fra un'elezione e un'altra non va misurato solamente col calen-
dario. Gli avvenimenti politici interni ed esterni che si accumularono
negli ultimi tre annij bastarebbero a farne parere assai lunghi dieci. Giova
quindi al Governo stesso di conoscere prima o dopo come sieno stati giu-
dicati dall'opinione pubblica, per non andarne troppo lontano e non rac-
chiudersi troppo a lungo nella fittizia atnaosfera parlamentare che gli
attriti giornalieri generano di necessità nella Camera. Non lo diciamo per
oggi né per dimani, poiché per il momento le cose hanno l'aria di andare
abbastanza quiete. È facile però prevedere che non sempre potranno con-
tinuar così ; e dacché da un lato la maggioranza non si crede che ci sia
e dall'altro non si vede modo di rifarla, ognuno può prevedere dove si
volgano e debbano andar a finire.
X.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
LETTERATURA
Elementi di umane lettere coordinati secondo il programma ministeriale
dal prof. F. I). BLANCARDI. — Torino, Paravia, 1878.
Nuoto saggio di composizione italiana per le scuole primarie superiori e
le inferiori secondarie di Fkancesco GASPARRI. — Torino, Paravia, 1879.
Dando un'occhiata a questi due brevissimi Manualetti di Precetti del
dire, nessuno dei quali arriva alle IDI pagine in sedicesimo; non ostante
che intendano trattare tutta quanta l'arte di scrivere, ci siamo ingenua-
mente dimandati: a che prò? dopo tanti eccellenti libri antichi e moderni
che svolgono compiutamente questa materia e in modo da appagare tutti
i gusti, a che scopo pubblicare questi trattateili in pillola? Forse la faci-
lità maggiore? forse appunto una maggiore bt'evità? Ma in primo luogo
la brevità non deve esser troppa, perchè qui è proprio il caso di dire che
porta oscurità; specialmente negli elementi del Blancard' che spesso hanno
una forma troppo filosofica e dove quasi tutti i precetti mancano di esempi.
Onde è chiaro che si perde anche lo scopo della facilità. Più piano e me-
glio corredato d'esempi è certamente il •'^'arjgio del Gasparri, al quale
diamo lode d'avere rimesso fuori e assai chiaramente trattata la dottrina
de'luoghi topici, utile, forse più che non si crede, a'giovanetti, massime ove
sieno sforniti d'ingegno e d'inventiva. Ma nelle altre parti anche di questo
libretto, perchè voler trattare tante cose, accennandole appena, e citando
piuttostochè portando gli esempi ':' Intendiamo che il professore delti ai
suoi scolari anche pochi appunti, per supplirvi poi colla lezione orale; ma
che tali appunti si stampino così nudi e gracili e senza il dovuto corredo di
spiegazioni, siano pure succinte, e di necessari esempi, non l'intendiamo
davvero.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
189
Sintassi latina distribuita in LXXIII tavole cogli esercizi e coli' aggiunta
della Prosodia e Metrica latina del prof. D. Ltiigi MONTI, — Ditta
Paravia, 1879.
L'idea di questo Manuale non è nuova, ma non ci ricorda che altri
prima del prof. Monti abbia con semplici tavole sinottiche abbracciato
tante regole di sintassi, e così chiaramente, e con si bell'ordine. L'autore
parte dalla costruzione italiana ed a ciascuna proprietà di essa contrap-
pone il modo di volgerla in latino, aggiungendovi un piccolo esempio. Ciò
nella pagina a sinistra, mentre in quella a destra offre copia di esercizi,
consistenti in sentenze morali italiane e latine. A maggior compimento
delle regcde principali, si danno infine osservazioni particolari sull'uso di
certe particelle, sulla loro differenza di significato, sulla collocazione delle
parole nella proposizione, sulle figure grammaticali, sulle abbreviazioni
piìi comuni, oltre a un quadro dei numerali ed un altro del calendario.
Nella Prosodia le regole sulle brevi e le lunghe sono esposte nudamente in
mezzo alla pagina e poi riassunte nel margine con versetti italiani ; del
che per altro non sapremnjo dar lode all'autore, perchè, secondo il nostro
avviso, 0 conveniva sbandire affatto il sistema delle regole in versi, o. non
volendo o potendo farlo, preferire i soliti versi latini che offrono il van-
taggio di addestrare i giovani nell'uso della lingua, al tempo stesso che ne
insegnano la prosodia. E sarà sempre meglio mettersi nella memoria versi
latini poco belli, che dei versi italiani brutti e dit^armonici come sono
quelli sostituiti ai primi. Checché sia di ciò, il Manualetto del prof. Monti
ci sembra utilissimo alle scuole, si pel modo con cui è fatto, come per la
bellezza e nitidezza della stampa, e vorremmo che egli lo accompagnasse
con un trattatello di Sinonimia latina compilata col medesimo metodo.
STORIA
Estratto di Storia Sacra. — Cenni di Storii Orientale. — Lezioni di Sto-
ria della Grecia iintica di Giuseppe GHIO. — Firenze, tip. Beucini, LS78,
(png. 384).
Il sig. Ohio, capitano di fanteria nel nostro esercito, e che i lettori della
Nuova Antologìa conoscono già per qualche suo articolo, attende con
mollo amore e molta intelligenza ad istruire nella storia gli allievi del Col-
legio milicare di Firenze; e per loro uso ha compilato questo Manuale di
storia greca. Nemico, a buona ragione, di scarsi e mozzi compendi o piut-
tosto imperfetti sommari, che se danno le linee principali, non danno certo
il colorito dei fatti solo atto a lasciar profonda impressione nella mente dei
190 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
giovanetti; egli ha concesso alla sua trattazione uno spazio sufficiente a
porre nel debito lume tutti i principali avvenimenti, senza lasciare gli aned-
doti pili caratteristici, né le notizie sulle istituzioni e costituzioni de'popoli
greci. Supplendo poi a quello di che i programmi de'collegi militari difet-
tano, ha premesso alla Storia Greca un compendio della Storia Sacra; e sì
dell'Egitto come delle Monarchie asiatiche ha dato solo quanto era necessa-
rio 0 più utile per bene intendere e la stessa Storia Sacra e quella di Grecia.
Alla parte, propriamente parlando, storica va unita con giusta parsimonia,
la parte leggendaria e mitologica, divenuta essa stessa elemento indispensa-
bile di storica erudizione, sicché il giovine ha in questo libro quanto basta a
dilettarlo ed istruirlo nelle vicende anteriori alla civiltà romana Altro pre-
gio di quest'opera si è l'esposizione facile e naturale come si richiedeva per
l'età cui è destinata, senza troppe o troppo elevate riflessioni, e senza esa-
gerazione 0 parzialità di nessun genere ma con quella serenità che è più
che mai necessaria quando si insegna la storia ai giovinetti irf capaci a giu-
dicare di per sé i fatti narrati. La lingua, benché in generale sufficiente-
mente corretta, dovrebbe però essere riveduta e purgata qua e là di al-
cune espressioni non del tutto proprie né italiane, p. es. dell'uso frequente di
lo adoperato come soggetto davanti al passivo riflessivo [lo si avvisava per
era avvisato] e frasi simili a queste: subire le conseguenze di un fatto;
uomo aWaltezza della circostanza ecc., modi che chiameremmo burocra-
tici), se il soggetto ce lo permettesse.
Lezioni dì Storia moderna ad uso delle scuole normali, proposte da Sa-
vina FABRICIUS. — Firenze, Felice Faggi, 1878 (un voi. di pag. 442).
L'egregia e operosa autrice delle Biografie, già annunziate, quando
uscirono in luce, dalla nostra Rivista, sì è ora messa al più difficile assunto
di compilare un Manuale di storia scolastica da Carlo Magno al Congresso
di Vienna, periodo che dai programmi ministeriali viene assegnato al terzo
anno del corso normale. Avendo noi data una rapida scorsa a quest'ope-
reuta, ci è sembrata condotta con quel giusto metodo che accoppia i moderni
progressi degli studi storici coi riguardi dovuti alla gioventù. Primeggia,
com'era dovere, la storia d'Italia ; ma non vi mancano i principali fatti
d'Europa assai bene concatenati coi nostrani. L ordine è fedele alla crono-
logia, senza però spezzare malamente il filo della narrazione. Buone, e sulle
traccie dei migliori storici, le divisioni dei periodi principali. Non mancano
riassunti geografici e politici né riepiloghi e serie cronologiche di papi e
principi in ciascun periodo. Si vede insomma che la scrittrice é padrona
della materia da essa svolta, e che ha la pratica dell'insegnamento. Anche
le opinioni politiche non ci paiono esagerate né parziali; come si vede a pro-
posito dei Papi, dei quali con lodevole riguardo l'autrice accenna sì gli er-
rori quando ne hanno, ma senza nasconderne i meriti, né le scuse e, per
esempio, non contesta ai Borgia il diritto, benché male lo esercitassero, di
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 191
abbattere i signorotti della Romagna. In alcuni punti peraltro avremmo de-
siderato un giudizio anche più largo ed illuminato, come quando a pag. 117
si nota con una certa maraviglia che Alessandro IH pensasse più al vantag-
gio della Chiesa che a quello dei popoli confoderati, mentre ci sarebbe da
maravigliarsi che il Papa, il quale anzitutto era Papa, avesse fatto il con-
trario ; 0 quando parlandosi della riforma di Lutero oltre ad accennare la
vendita delle indulgenze {causa occasionale, come ben dice la signora Fa-
bricius) non se ne nota pure la causa fondamentale e principale, che consisto
nello spirito d'indipendenza, proprio dei tedeschi e più fjrto allora poiché
cominciavano a" incivilirsi. Quanto alla lingua, come già accennammo per le
Biografie, si desidera una maggiore accuratezza, benché dalle Biografie
stesse a questa Storia non si possa non vedere un certo progresso.
DIRITTO COSTITUZIONALE
La donna ed i nuovi tempi dell' avv. G. URTOLLETJ, insegnante di di-
ritto costituzionale all' Università di Parma. — Cesena, 1878.
È una raccolta di articoli sulle questioni principali che riguardano la
parificazione giuridica, politica e sociale della donna, e segnatamente il suo
diritto alla libera attività e il suo intervento nelle elezioni amministrative
e politiche. L'autore è contrario a ogni legge che limiti la sua operosità,
e trova poi una manifesta contraddizione che in un paese, nel quale la
donna é tutrice, proprietaria e amministratrice, ha la patria potestà e può
obbligarsi, ipotecare, alienare, contrar mutui ec. sia giudicata incapace di
un voto pensato e indipendente nelle elezioni amministrative e politiche.
Lo stesso autore però, il quale parlando in generale e in modo teoretico,
sembra propugnare la parificazione assoluta, stretto dalle necessità prati-
che accondiscende alle transazioni. Così p. e. egli vorrebbe per le donne
elettrici un censo più elevato che non per gli uomini.
Certe differenze di uffici tra gli uomini e le donne nella vita sociale
sono date dalla natura. Per quanto si faccia, né senza dubbio l'autore
pretende a questo, le donne non potranno far mai né l' ingegnere, né il
soldato, né il pompiere, né il capitano di bastimento. Ma non c'è bisogno di
leggi che determinino o limitino i loro uffici, appunto perchè questi limiti
sono assegnati dalia natura, e non c'è dubbio che in nessun tempo faranno
ciò che non possono ftxre. Basta che il legislatore si astenga dall'oppor loro
impedimenti ed inciampi in quello a cui da natura son atte, perchè in-
traprendano da sé quel tanto e non più. E fino a qui l'autore ha ragione.
Vero è che gì' impedimenti non vengono dalla natura soltanto, essendoci
oltre ad essa le abitudini e le tradizioni. Nulla é più giudizioso di quanto
in proposito dice l'autore stesso a pag. 47 : « Le leggi per riuscire efficaci
192 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
occorre sieno lo studio del carattere della nazione cui sono rivolte, tenorano
conto delle tendenze dei popoli, ne rispettino i costumi e vi porr.ino quelle
ivioilifieazioni che sono compatibili coli' indole nazionale e coi progressi
della civiltà.» Se l'autore avesse tratto tutto le conseguenze che derivano
da questa massima savia e prudente, dubitiamo che fosse riuscito alla
ooncbiusione di concedere alle donne in Italia l'elettorato politico. Posti
appunto i costumi presenti, le donne, tolte rarissime né forse le migliori,
non l'userebbero e la legge sarebbe vana. Ci si arriverà col tempo, ma
per ora la cosa sarebbe prematura, e come non siamo i primi nelle altre,
Cosi cercheremmo invano di esserlo in questa.
Gli articoli del signor Urtoller non mancano di giudiziose osservazioni,
ma lasciano desiderare uno sviluppo maggiore del pensiero, una maggiore
facilità e sicurezza nel maneggio della lingua e una maggiore proprietà.
ECONOMIA E STATISTICA
Raffaelp Mariano. — Contro il Ubero scambio. Memoria Ietta nella reale ac-
cademia dei Lincei. — Roma, coi tipi del Salviucci, 1879 (pag. 50).
Il titolo è così franco, che ci dispensa dal l'esporre il fine di quest'opu-
scolo. E il nome dell'autore è così autorevole, in un altro ordine di studi,
che richiama l'attenzione sopra questa sua escursione — la quale ad ogni
modo non è la prima — nel campo degli studi economici
Non è focile riferire per filo e segno le ragioni, delle quali il Mariano
si serve a so.stegno della sua tesi Egli non procede in via troppo sistematica;
jua armeggia contro il nemico, che s'è proposto, con una certa agilità
grave, che gli è propria, e che lo induce a moltiplicare i colpi numeiosi,
se non vigorosi, senza che gli ripugni troppo tornare ripetutamente su lo
stesso argomento, comunque l'uniformità dell'attacco sia dissimulata sotto
una certa varietà apparente di movenze. Fuor di metafora, il Mariano, il
quale, secondo egli stesso confessa, non è economista, non ha dovizia di ragioni
tecniche, più o meno buone, a sostegno della sua tesi. Tuttavia di queste
rag'.oni non rinunzia a servirsi ; e, come suole accadere a chi non ha uno
studio abbastanza completo di qualsisia disciplina, nelle generalità non esce
dai vecchiumi già da gran tempo sfruttati, e nei particolari cade in palpabili,
e relativamente numerose, inesattezze. Tra le prime è la disputa, che si
riduce in una logomachia, se debba prevalere 1' interesse dei lavoratori, o
quello dei consumatori, o, per dirla con le parole stesse del Mariano « se
interesse sommo per una nazione sia lo spender meno dai suoi consumatori,
o il rimunerare sufficientemente i suoi lavoi^atori, » (pag. 28). Eppure
sarebbe tempo d'intendere, che il battapliare per o contro l'uno di questi
due termini è tempo perso; perchè nessuno dei due, preso assolutamente.
BOLLETTINO BlBiJOGEAFICO. 193
può servir d' ideale economico. Né il buon mercato giova ai pezzenti ; né
l'aumento dei salari li arricchisce, quando le cose necessarie alla vita rin-
carano in proporzione maggiore. Non è con queste armi arrugginite, che si
risolve l'annosa contesa. E del pari poco giova cavar fuori, come il Mariano
fa con una certa solennità, un interesse del lavoro, concepito come distinto da
tutti gli altri interessi, e che non si sa bene che cosa sia. — Quanto alle ine-
sattezze nei particolari, che dimostrano una insufficiente cognizione dei pre-
cedenti economici della quistione, nell'ordine delle dottrine e nell'ordine dei
fatti, la ristrettezza dello spazio ci mette, come suol dirsi, neW embaì'ras du
cìioix. Ecco, p e., che cosa dice il Mariano a pag. 28-29: « Ora la corrente
internazionale degli scambi ha due capi, dall'un dei quali e' è la vendita,
dall'altro la compera. Se il vender molto, comprando poco o niente, é brama
al tutto insensata e irrealizzabile, rimane pure dall'altro lato a sapere, se
ci sia speranza di prospero stato per un popolo, che viva e consumi, com-
prando senza vendere, o senza vendere in proporzione eguale alla compera.»
In queste parole si rivela una inesattissima conoscenza della teoria degli
scambi internazionali; la quale è tra quelle, che hanno raggiunto un certo
grado di relativa perfezione, sebbene non si sia trovato modo finora di formu-
larla in moio facile e piano per i novizi. Or noi siamo perfettamente disposti
a concedere, che chi non è economista non sia obbligato a rendersene una
chiai-a ragione Ma siamo del pari disposti a sostenere, che chi non se ne
rende una chiara ragione, non ha il diritto di risolvere quistioni, come
quella del regime degli scambi, che sono in essa poco men che imme-
desimate.
^Maggiore apparenza di valore hanno gli argomenti dell'A., quando si
fondano sopra i fatti e le tendenze contemporanee prevalenti presso molte
nazioni. È indubitato, che spira, poco men che dappertutto, un tetro soffio
di reazione, generato specialmente dalle condizioni prolungatamente tristi
del mercato internazionale. Ma il Mariano, riconoscendo l'origine della crisi
nella produzione eccessiva, ne attribuisce la colpa al libero scambio ; e
vorrebbe rimediarvi, promovendo con i pannicelli calrii della protezione le
industrie nazionali, cioè accrescendo appunto quella produzione, che è, o
pare, esuberante. Il che potrebbe riuscir salutare nel caso che una nazione
sola, illuminata dalla novissima teoria, si circondasse di barriere doganali,
persistendo tutte le altre nell' ingenuità di lasciar libero l' ingresso ai pro-
dotti di questa fortunata. Del resto, anche la conoscenza dei fatti economici
contemporanei è abbastanza incerta nell' A, poiché lo trae a conclusioni
quasi contradilittorie; così, dopo di avere affermato, che i paesi, i quali
hanno industrie rigogliose, come l'Inghilterra e la Francia, hanno tutto da
guadagnare col regime della massima concorrenza internazionale, approva
altamente le tendenze protezioniste, che vi si rivelano, a suo vedere nelle
leggi, e nell'opinione.
L'A., com'era preve.iibile, non ci risparmia le solite tirate contro l'eco-
nomia egoistica, o atomistica, o individualistica, dalla quale, secondo lui,
sarebbe derivato tutto questo malanno del libero scambio. Egli, pur rico-
VoL. XIV. Sei'ie II — 1 marzo 18"?P. 13
194 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
noscendo che l'economia è riuscita ad appurare « gli elementi fissi, costanti,
imperituri, che concorrono nel comporsi della prosperità e del capitale
nel formarsi delle ricchezze e nel loro moto, ec. > 'pag. 7 e 34) , le nega
nella pagina seguente ogni diritto ad essere, o a rimanere «scienza a sé,
scienza speculativa e astrattamente universale > Di questa nostra economia
egli non vuol più sentirne parlare; e ne voi'rebbe un'altra, quella propria-
mente che si trova già bell'e pronta nel geschlossene Handelsstaat del
Fichte. 0 nei g§ l'^9-20R dei Grundlinien der Philosophie dea I^echts di
Hegel. La quale non sappiamo in verità di quanto riuscirebbe meno spe-
culativa, e astratta, e assoluta della vigente. Nò dimentica il Mariano Tana
tema obbligato contro «gli uomini di Manchester ;» ai quali, impenitenti
nella loro propaganda del truce egoismo della libera concorrenza, si con-
trappone il pio esempio della recente conversione del principe di Bismarck
al protezionismo. Or noi ci permettiamo dubitare , se la risurrezione del
dazio d'importazione sui grani, propugnata dal principe di Bismarck. sarà
piii benefica per i lavoratori, di quello eh' è stata la sua abolizione, propu-
gnata e conseguita da Riccardo Cobden e da quei suoi abominati seguaci della
setta manchesterriana. D'altra parte c'ò di curioso, che il Mariano, concor-
dandosi con i socialisti della cattedra nella condanna della vecchia eco-
nomia, approva poco la nuova, ch'essi le vogliono sostituire; e li tratta
d' inconseguenti, perchè osano re.'^tar seguaci e fautori della teoria del libero
scambio. Mentre in questo egli scorge una tra le precipue cagioni, e nella
sua abolizione uno tra i più efficaci rimedi, del socialismo.
Ed è abbastanza per l'esame di quest'opuscolo. Il quale certamente
non è destinato ad avere alcuna influenza nella definitiva risoluzione della
gran lite, che forse non sarà mai completamente risolala nell'un senso o
nell'altro. Parecchie altre osservazioni avremmo a fare sopra i fatti addotti
e le dottrine accennate dall'A. Ma ci preme solo soggiungere, che il Ma-
riano rimane robusto pensatore e valoroso scrittore, anche quando, come
in questo caso, piglia a sostenere una tesi assai dubbia con una inadeguata
preparazione. La sua Memoria si fa leggere con interesse da cima a fondo
per la forte tempra dell' ingegno dell'autore, ed anche per un certo calore
di leale convinzione, che vi traspare in ogni linea, e che, pur trascendendo
non di rado in un tono di dommatismo intollerante, impone una certa stima
per opinioni sostanzialmente sbagliate e correliate di poco validi argomenti.
(t. Fr. Kolb. - Ilmulbuch der ve>(/leichenden S/.atùtik — der Vdlkerzustands
und Staatenkunde — fiir den fd/yetneinen praktiachen GebrAuch. Achte auf
Grundlage der neuesteu staatlicheii Gestaltungen bearbeitete Auflage.
Leipzig, 1879. (pag. Vili, 535;.
Il Manuale di Statistica del Kolb iia conseguita una cosi grande e
meritata diffusione, che una nuova edizione è poco men che un avveni-
mento per gli studiosi e per gli uomini di Stato. 1 libri di questa natura
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 195
hanno di particolare, che ogni nuova edizione è una completa rifusione di
tutt' i dati ; e appunto per questo diminuisce, ma non distruj2:ge, il pregio
delle edizioni precedenti, le quali rimangono sempre come documento sto-
rico di grande importanza. Le otto edizioni del Manuale del Kolb formano
una collezione; la quale serve d'indispensabile complemento alle pubblica-
zioni annuali, che hanno valore poco men che ufficiale, come l'Almanacco
di Gota e lo Statesman's Yearhook di Federico Martin. In questa ultima
edizione il Kolb, oltre a sostituire i dati recenti agli antiquati, ha mutata
la forma e la disposizione delle materie, in guisa da rendere più maneg-
gevole e meno costoso il volume. Vero è che, per conseguire questa dimi-
nuzione di grossezza e di prezzo, ha dovuto sopprimere, o abbreviare, la
parte storica, della quale abbondava specialmente la penultima edizione
(7'^), del 1875. Il che toglie l'agevolezza di parecchi raffronti, tanto neces-
sari a chiunque ha bisogno di cercare non solo la statica, ma anche la
dinamica^ delle cifre ; e, costringendo a tener di continuo presente la edi-
zione precedente, rende per lo meno dubbia l'utilità della riforma apportata
in quella di quest'anno. Salvo queste osservazioni, l'abbondanza, l'accuratezza
e l'ordine delle notizie raccolte dal Kolb rimangono, com'erano, difficilmente
superabili, data l'imperfezione tuttora grande di non poche tra le fonti uffi-
ciali della statistica politica ed economica."
Prof. Fr. PROTONOTARI. Direttore
David Marchionni, Resjìonsahile.
Firenze - G. BAEBÉRA - Editore.
(Estratto dal Catalogo generale, Giugno 1875.)
storia di Roma, dai tempi più antichi
fino alla costituzione dell' Impero, per
FIneico G. LiDDELL. — Un voi. . L. 4. —
Stoi'iH «lolla Ut'enilcnzu e novitia
dell' Inipoi-u Koiiiuno, di E. Gibbon,
compendiata da G. Smith. —Un voi. 4. —
Storia di Circciu, dai tempi primitivi
fino alla conquista romana, con Cnpitoli
aggiunti, di G. Smith. Prima traduzione
italiana con una Carta. — Un voi. lì. —
Storia Antica dfll' Oriente, dai più
remoti tempi fino alla conquista d'Ales-
sandro il Grande, di G. Smith. Prima tra-
duzione italiana di 0. Carrara. — Un
volume 3 50
Conipon«ilo della Storia d^ Italia,
di L Sfiiuzosi, con una Carta Geografica
dell' Italia Moderna. — Un voi. . 3. —
Manuale di Storia Modem», (14.54-
1866) a uso delle Scuole per Celestino
Bianchi. (Quarta ediz.) — Un voi. 3.50
Manuale di fìcograda ItlodciDin,
Matematica, Fisica e Descrittiva, di
6. L. Bkvan. Prima traduzione italiana
con aggiunte e note ad uso degl'Ita-
liani. Terza edizione riveduta e corretta
dall'Autore e corredata di prospetti sta-
tistici. — Uu volume 4. —
Manuale di Geografìa /tnficn^ dì
G. L. Bevan, pubblicato da G. S?nith.
Prima traduzione italiana arricchita di
molte Carte Topografiche. (Seconda edi-
zione). — Un volume 4. —
CoHiuograna. Nozioni fondamentali sul-
r ordinamento del mondo fisico, psposte
dal dott. C. Pescatori. (Terza edizione).
— Un volume 1.20
Geografla Fisica, di Maria Somrr-
vn.LE Terza edizione italiana rivista ed
aumentata, conl'urmemcnte alla quinta
edizione inglese. — Due volumi. . 8. —
Formulario Matematico, ossia Rac-
colta di Formule relative all'Aritmetica,
all'Algebra, alla Geometria, alla Trigo-
nometria, alla Fisicn, .alla Chimica, alla
Meccanica, ec. coli' aggiunta di varie ta-
vole numeriche, per Giuseppe Coesi.
— Uu volume 4. —
L'Kuropu nel Mediu Kvo, di Enrico
Hallam, con le ultim/-. ricerche dell'Au-
tore e con aggiunte, adattate agli stu-
diosi da Gtiglieìmo Sjìuth, prima tradu-
zione italiana con note ed aggiunte di
Giuseppe Carrara. — Un voi. . L. 4. —
Vocabolario della Ungila Italiana
cnm|iiiato da Giuseppe Rigutini p'-r uso
delle Scuole, accresciuto di voci did co-
mun parlare e dogli approvati scrittori.
— Un volume legato all'inglese . 7. —
l>Ì7,ionario Fruncese-lfuliuno e
Kaliaiio-FranceNe compilato da F.
Costerò e H. Lefkbvre, arricchito delia
pronunzia delle due lingue, di un dizio-
nario geografico, e di un supplemento.
Contiene molti vocah ,ìi di Marina. — Un
volume legato all' inglese 7. —
Dizionario ltaliano-Inglc.*ic e Bn-
gle««e-ltaliano, ad uso dì ambedue le
nazioni, colla pronunzia e coli' accento
su le parole delle due lingue, di J. P.
RoBERTS. — Un volume legato all' in-
glese 7. —
Sulle Frazioni I>ecimn3i e nuì Sì-
titcma Metrico Italiano, discorso
alla buona di Angelo Gamberai —Un
volume — 80
%'ita di Cri.istoforo Colomlto scritta
da Arturo Hklps. Prima traduzione dal-
l'inglese. — Un volume 1. —
Opere complete di Galileo Galilei.
Edizione condotta sugli Autografi MSS.
per cura del prof. E. Alberi.— 16 vo-
lumi, edizione in 8° classici . . L. 150
Edizione in piccol 4" 200
Il Saggiatore, di Galileo Galilei. —
Un volume -.25
l,a Vita di Mino itixio, narrata da
Giuseppe Guerzoni, con lettere e do-
cnmenti. (Seconda ediz.) —Un voi. 4. —
fj' Uomo o la IVatiira, ossia la super-
ficie terrestre modificata per opera del-
l'uomo, di Giorgio P. JIarsh. (Seconda
edizioue), — Un volume 5. —
L,a Geometria delle Curve, del pro<
fessor Niccola Collignon. — Uu volume
in 8° con 270 incisioni 9.50
j^" Le suddette opere saranno spedite franco in tutto il Regno a chi ne rimet.
torà l'importo con Vaciìia postale all'Editore (i. BARBÈRA in Firenze. — Chi 1«
desidera raccomandate, aggiunga Cent. 30
L' ISTRIA
re IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE-
I.
S0CI6TA' n'mC0RA6G)AMfNTOJ
P€ii léSWlTé Jr MESTIERI i
Che cosa è una regione ? Quand'è, e com'è che può costituire
un tutto morale e politico?
Se gli uomini fossero così ragionevoli come amano di venire
qualificati nelle presontuose definizioni della specie, non ci sarebbe
davvero una domanda più oziosa di questa.
Iddio con immortali
Caratteri di monti o di mariue
Ha scolpito le patrie.
Così il buon Aleardi. E che l'Italiana sia stata scolpita pro-
prio ad alto rilievo, ne giudicò senza esitazioni e senza menoma-
menti colui che in questo secolo, e forse in tutti, se ne intendeva
di più. A Napoleone l'Italia parve così spiccatamente separata dalle
altre parti d'Europa che, secondo lui, un'isola non potrebbe meglio.
Sentenza la quale uno dei maggiori geografi militari del nostro
tempo, il Lavallée, fa tutta sua. « La vallata continentale, egli
dice, coll'annessa penisola lunga e stretta, le tre grandi isole a mez-
zodì e le parecchie minori a ponente, costituiscono la regione
italica, i cui limiti naturali rimangono delineati con precisione non
minore che se fossero quelli d'un' isola. »
Il Correnti, nell'annuario statistico italiano del 1864, osserva
con irrecusabile verità ed acutezza che tutti indistintamente i
geografi da Tolomeo al Balbi furono di questa opinione, e che il
mal gioco di sofisticarci i nostri confini, non cominciò che dal mo-
mento nel quale l'Italia parve divenuta qualche cosa di più che
una semplice espressione geografica.
VoL. XIV, Serie II — 15 marzo 1819. 13
194 l'istjrlv e il nostro confine orientale.
Infatti, quando essa era padrona di tanto mondo come quando
cessò anche di essere tale fin di sé stessa, la questione dei suoi
confini non era che un fatto dottrinale
Ebbene, sta in ciò la debolezza ovvero la forza delle citazioni
infinite che possono venire allegate a prova del riconoscimento dei
nostri diritti per parte di tutti ? Le citazioni remote hanno senza
dubbio tutto il grandissimo valore di fatti appurati e procla-
mati colla più completa imparzialità, vale a dire nell'assenza
di tutte le passioni e i secondi fini, dei quali nessuno potrebbe,
a cagione di esempio, accusare né Strabone, né Plinio, uè Ero-
diano, persone abbastanza lontane da ogni tentazione in proposito.
Nessuno per converso potrebbe supporre perfettamente sgombro
ed imparziale l'animo dello Schmidt, dell'Hoff", del Kohl, del
Coustein, del Mayr ' da una parte, né dell'Antonini, del Bonfiglio,
del Combi, del Fabris, del Luciani, del Marinelli né tampoco di
chi scrive dall'altra. Ma l' imparzialità degli autori citati può
sembrare nel tempo stesso un argomento di debolezza in fatto di
autorità per tutti coloro i quali opinano, che a questo mondo molte
cose si facciano anche splendidamente ma nessuna coscienziosa-
mente quando non se n'abbia un reale- e pratico bisogno, e
che le questioni meramente dottrinali, fra le quali andava pur
collocata questa del confine nel primo e nel secondo degli stadii
sopraccennati, quello cioè della potenza nazionale massima e della
nessuna, non debbano mai considerarsi risolute sul serio.
Per la quale ragione, sebbene ciò possa parere contrario al-
l'interesse della tesi, io ammetterò senza difficoltà che la cosa
possa anche riguardarsi non risoluta e discutersi come nuova,
per quanto i criterii e documenti storici ed etnografici, non meno
che geografici, militassero per colui il quale volesse invece conside-
rarla come al tutto chiara e definita nell'ordine dei fatti scien-
tifici, e soltanto controversa in quello dei politico-militari.
il.
1 patti chiari fanno, come suona il proverbio, l'amicizia lunga.
Lo stesso può dirsi dei confini, che ijuando sieno ragionevolmente
1 Schmidt, Das K. Ilbjrien, 1S40, Stutganl. — Hoff. Hist. s/at. top Gemalde
vom Hz Krain und deìnselben einverleihten Istrien, Laibach, 1808. — Kohl I. Q.
Reise im sudestischen Deutschland, v. 2, p. 442, Leipsig. — Caustein, Biucke in die
vestischen alpen, Berlin, i83T — Carta deU'Illiria, de/r/sf. ec, Vienna, 1843.—
Mayr, I. Q, Atlas der Alpenlunder, Gotha, l'erthes, 1863.
l'istria e il nostro confine orientale. 195
€ nettamente tracciati, sono altrettanti patti chiari scritti con
quei grandi caratteri che il poeta canta e dei quali soltanto la
natura dispone. Essi fanno lunga 1' amicizia fra gli Stati, sia to-
gliendo l'occasione a dispute quotidiane, come allontanando quelle
che nel linguaggio criminale si chiamerebbero spinte al delin-
quere', frase che in politica non si osa pronunziare, ma della cui
applicabilità morale, e con ragioni cento volte più forti che nei
casi individuali, nessuno, pur troppo, saprebbe oramai dubitare.
Nulla può sostituirsi ad un confine che la natura abbia per lo
meno concorso a tracciare. Lo Stato al quale venga tolto il pro-
prio, vale a dire quello la cui naturale linea difensiva si trovi ol-
trepassata di già dal vicino (e tanto piìi se questo lo soverchi di
forze), non possiede la sua autonomia che sulla carta, e proverebbe
dei grandi disinganni e dei disastri non minori in quel giorno
difficile, nel quale si credesse sul serio il padrone della propria
dignità e dei propri destini.
Taluni osservarono che ciò significa negare addirittura ogni
effetto utile alla scienza delle fortificazioni e fare troppo buon
mer'-ato di quelle linee frontiere e di quegli scacchieri sfra-
tegici che i classici dell' arte seppero levare a sì grande onore.
La guerra moderna, potrebbero anche soggiungere, presenta essa
forse risoluto il problema se i nuovi sistemi e le nuove armi tornino
più utili all'attacco o alla difesa delle piazze forti? — È a buon
conto accertato che del tiro lungo e preciso si vantaggia assai
più la difesa, mentre rimane tutt'altro che accertato che nuovi ap-
procci possano superare di efficacia gli antichi, e che i fulminati
e le dinamiti valgano a soppiantare la vecchia zappa. Ora, pos-
sono seguitare, in presenza di un vantaggio assicurato e d' uno
svantaggio assai dubbio (il quale forse per potenza di contro-
mine e di focate, che oggi possono farsi brillare anche dai rampari,
e senza l'eroismo di nessun Pietro cricca, può essere mutato an-
ch'esso in vantaggio) come si osa negare che le linee frontiere ar-
tificiali possano valere le naturali?
Non è qui il caso di riaram azzare degli uomini morti, confu-
tando le teorie del D'Argon, del Noizet e dei loro discepoli intorno
alla assurdità delle linee frontiere e degli scacchieri, che quando
anche non fossero della più completa inutilità militare, rimar-
rebbero pur sempre economicamente impossibili.
Quella fortezza la quale non ha uno di questi due scopi, chiu-
dere un passo, ovvero assicurare una base di approvvigionam?nto
od un perno di manovra, è un anacronismo. Ciò è tanto compreso
196 l'istkia e ]l nostro confine orientale.
dai militari e penetrato di già nella convinzione di tutti che, fin
da un secolo e mezzo fa, il Vauban di queste deboli piazze forti
ne fece demolire meglio che un centinaio.
È un fatto che la parte di qualsiasi specie di rifugi, ostacoli
od anche campi esclusivamente difensivi in campagna aperta o
quasi, ha perduto della sua importanza mano mano che l'arte della
guerra si è perfezionata.
Il generale Paixhans osserva che mentre prima del 1741 erano
più gli assedi che le battaglie, dal 1741 al 1783 ci furono invece
67 assedi su 100 battaglie, e durante la rivoluzione francese 26
su 100. In appresso, neanche parlarne. Non furono che 23 sotto
il Consolato e 16 sotto l'Impero.
Le piazze l'orti non sono punto quello che dice il generale
D'Argon « cioè delle mura di bronzo contro le quali venga a
spezzarsi la rabbia impotente e l'ambizione dei conquistatori.»
La sua idea, che è delle più false, diede origine alle ridicole
espressioni di catena e di barriera, le quali non debbono trovarsi
nel dizionario del generale, né in quello dell'ingegnere.
Le catene, le barriere sono il non surrogabile lavoro della
natura. Questi vocaboli appartengono alla geografia dalla quale
l'arte strategica e l'ingegneresca li ricevono semplicemente a
prestito.
III.
I principi i generali della difesa degli Stati sono cosi formu-
lati dal Brialmont :
1" Occupare i principali passi (defìles), gole di montagna,
nodi di vallate, strade attraversanti foreste o paludi, ponti desti-
nati a favorire le operazioni dell'esercito difensivo sulle due rive
di un orso d'acqua importante ;
2" Munire le grandi rade, i punti di sbarco e i principali
ancoraggi ;
3" Costruire al limite di ciascuna zona d'invasione una piazza
destinata a servire di deposito e di base di operazione all'esercito,
allorché esso dovrà portarsi al di là delle frontiere.
Tali sareblìero stati per la Francia: Lille. Metz e Strasburgo
per le operazioni in Belgio, nelle Ardenne ed in Grermania.
Del 4" e 5° principio che riguardano le piazze di rifugio ed
il grande ridotto centrale non è il caso di far qui menzione, ri-
l'istria e il nostro confine orientale. 197
mandando il lettore che volesse per altri motivi occuparsene al
capitolo delle considerazioni strategiche sulle piazze forti nella
magistrale opera di lui intorno alla difesa degli Stati.
Delle tre accennate cose essenziali per la difesa di una fron-
tiera, l'Italia di fronte all'Austria non può efficacemente fare che
la terza, cioè, tenere a grado proprio una o più piazze forti al
limite interno della zona d'invasione.
I passi alpini, ed il reale e guarentito possesso della costa adia-
cente sono al tutto fuori del suo campo d'azione difensiva.
La ragione economica non meno che la militare escludono il
disseminamonto delle forze e delle stazioni difensive.
L'Italia domanda però anche meno di ciò che il Brialmont
reputa necessario alle difese d'uno Stato.
Essa non aspira che a guardare i passi, possedere i nodi
delle valli che sono le sue porte di casa, e piantare costì dei ri-
fugi pei suoi alpini, che è quanto dire nulla più che il proprio
versante e degli sharramenti contro le invasioni.
Le sue piazze di seconda linea essa le tiene non poco di là dal
limite della zona d'invasione e rinunzia a qualsiasi baluardo o
deposito di frontiera che valga quando che sia a servirle di base
ad operazioni offensive.
A ciò, ripeto, l' Italia, non vuol pensare né può sebbene le
attuali piazze dell'Adige amendue di là del lato interno della zona,
non possano, immediatamente per la loro distanza e specie, consi-
derarsi, difensive, ma rivestano tutto al più il carattere di piazze
di deposito e primi ridotti di difesa interna anziché mezzi di
contr'offensiva. Se non che alle piazze intermedie si può anche
rinunziare, ma agli sharramenti no. Acquetarsi all'avere la fron-
tiera scavalcata di già, è come dire tenersi una guarnigione stra-
niera in casa, il che nessun paese può volere e nessun teorico,
per quanto parziale, può mai consigliare se onesto.
IV.
Sono un mille e trecento chilometri di masse alpine che co-
stituiscono il colossale semicerchio divisorio elevatosi fra il ba-
cino del Danubio, del Reno, del Rodano e questo nostro del Po.
I geografi distinguono in esso tre archi distinti, i quali fronteg-
giano per r appunto codesti tre bacini ; 1' occidentale, di 440
chilometri, dal Monte Schiavo al Monte Bianco; il settentrionale
198 • l'istria e il nostro confine orientale.
da questo al Picco dei Tre Sigiion; e l'orientale fin giù all'Adria-
tico, anicndue di estensione approssimativamente eguale al primo.
È di quest'ultimo che qui si ragiona, imperocché dal Picco dei
Tre Signori comincia la frontiera orientale d'Italia ed è da esso
che si distreccia la gran catana delle Alpi principali, e ad esso
che faimo capo le valli della Brava, della Salza e della Eienza.
Di costà si stacca ad Oriente l'Alpe Norica e a mezzodì quella
fatalmente minore che, prima Carnica e poi Giulia, seconda in
largo giro l'ultima insenatura dell'Adriatico e scende a dividere,
sebbene tanto meno di quello che si vorrebbe, l' Italia dalla Ca-
rinzia, dalla Carniola e dalla Croazia.
Nel citato annuario dei signori Correnti e Maestri e in a.ltre
pubblicazioni è, per la descrizione di questa geografica ma non
politica frontiera, lasciata la parola al Combi che la conosce e
descrive con evidenza scientifica e plastica al tutto particolare.
Io pure mi vi atterrò senza per questo staccar l'occhio dagli
studi analoghi dell'Antonini, il cui lavoro sul Friuli orientale ha
l'importanza d'un' opera maestra, e da quelli dell'Amati, del Bonfi-
lio, del Coiz, del Fabris, del Luciani, non che del geografo Marinelli
e del geologo Taramelli, dotti analizzatori e non meno vivi e
lucidi espositori dei latti.
Giammai scrittore si trovò di fronte a tanto materiale e così
sapientemente preparato.
La frontiera move quasi diretta a mezzodì per 50 chilometri
fino al Monte Bianco (p. 8902) e separa il Cantone di Bninecco
da quel di Sillian e la valle della Rienza da quella della Brava,
sebbene il giogo di Tobalch che mette dall'una all'altra non sia
più alto di Bormio (p. 3711) e presenti l'aspetto d'un varco
piano, tanto che le due valli conservano un solo nome (Pusteria,
Pusterthal). Ma sul collo di Kreutzberg che da Val Pusteria
mette nel Cadore e donde le Alpi cominciano più propriamente
a prendere il nome di Carniche, la strada passa a 5280 piedi
d'altezza. Ba Kreutzberg fino al quadrivio di Tarvis le Carniche
tirano quasiché diritte verso levante per 90 chilometri. ^ Balla
sella di Saifnitz che poco prima di Tarvis divide con un depresso
culmine, alto appena 2469 piedi, la valle carnica del Gail dal-
l'italica del Fella e riesce per una lunga cruna alla Pontehba, si
staccano lo Alpi Giulie che da Tarvis al Quarnero corrono 260
chilometri e cominciando umili s'innalzano poc'oltre intorno alle
^ Correnti e Maestri, Amiuario 1864, pag. 70.
l'istria e il nostro confine orientale. 199
alte valli della Roccolana, della Sava e dell'Isonzo fino alla re-
gione delle nevi perpetue coi picchi del Mangert (8462 p.), del
Eambon (6791 p.), del Canin (8400 p.), del Km 7005 p.) e del Tri-
corno, il principe delle Alpi orientali (10,015 p.)
Tra le falde occidentali del Tricorno e i monti di Predil,
ove s'apre il passo che mena dal Goriziano (alto mille piedi piìi
che quello di Saifnitz) serpeggia Val Trenta ove sono le prime
vene dell'Isonzo. Il muro delle Giulie benché giri a spinapesce
dintorno alle scaturigini di parecchi fiumi (la Coritenza, l'Isonzo,
il Tolmino, la Bazza, e l'Idria, il Vipacco da una parte, la Sa-
vizza, lo Zeyer, la Soura e il Liibiano dall'altra), pure scende verso
mezzodì sì continuo ed erto, che per tutti gli ottanta chilometri
correnti tra il Predil e l' Idria, non dà alcun varco.
L'Alpe Giulia pertanto può dividersi in due parti, superiore
ed inferiore, facendo cominciare questa dai monti che si elevano
sopra le sorgive dell'Idria. E infatti « fra Idria e Sayrach che le
montagne s'allargano e quasi dire affogano in un vasto altipiano
dove le cime e i risalti, chi li guardi di li, non paiono più che
uno sparso e bizzarro basso rilievo di colli petrosi.
Errano nondimeno coloro che danno all' Alpi Giulie solo
dai 2000 ai 2500 piedi di altezza, poiché da Tarvis sino ad Idria
esse fanno una diga continua dai 5 ai 7000 piedi di altezza, e più
sotto, quando sono quasi a dire murate negli altipiani, si elevano
ancora dai 2000 ai 3000 piedi, e sul largo bastione torreggiano
qua e là delle alte piramidi come il Nanos (p. 4(i98) ed il Ne-
voso (p. 5328) che è la vetta più orientale. L' altipiano è aspro,
cavernoso, disertato dai venti nordici o grecali che gli Istriani,
sincopando il borea dei latini, chiamano bora.
« La superiore è continua, alta, veramente alpina, l'inferiore
i-otta e depressa. Gira quella nel primo suo tratto per guisa da
accogliere in grembo le due orride vallate di Trenta sul versante
nostro, e di Wohein su quello della Carniola. Le più alte vette
dell'Alpe Giulia si spiegano lungo questa linea sinuosa; il Man-
gert (2675 m.), il Tricorno (3046 m), il Yagatin (2000 in.), il Mon-
tenero, quasi a giusta distanza tra loro, e segnante i termini delle
due curve, per cui si svolge la imponente giogaia. Dal Montenero ad
Idria scende essa quasi diritta al sud, dirompendosi ai fianchi nelle
valli silvestri della Bazza e del Zayer a levante, e in quelle della
Bazza e dell'Idria a ponente. Questa Giulia superiore ha il solo
passo naturale del Predil (1168 m.), quasi al suo cominciare tra
la vallicella dello Schlizza, che scorre per Tarvis nel Gailitz, os-
200 L'ISTRIA E IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE.
sia nel bacino della Drava, e quella della Coritenza, influente del-
l'alto Isonzo. I viottoli rovinosi che mettono nel Val trenta dai
ridossi del Mangert, del Presnig, del Tricorno, e nelle forre della
Bazza e dell' Idria dal Montenero e dal Plegas, non sono varclu
di cui occorra tener conto. Fra la Giulia superiore e T inleriore,
precisamente all'anzidetto limite dei gioghi d' Idria, monta la strada
che da Sayrach sulle fonti del Zayer guadagna l'altipiano della
Selva Piro (Birnbaumerwakl 840 m.), proteso poi nell' altro di
Tarnova (791 m.). Ed è questo appunto quel tratto, in cui l'Alpe
quasi a dire dilaga, perdendo naturalmente di sua elevazione. Quivi
i monti, sebbene seguano a comporre il dosso delia frontiera per
G-odovic, Velchiverch, Kaltenfeld e Adelsberga, muovono a gruppi
disordinati, e prendono forma di tumuli giganteschi in mezzo al-
l'ampia terrazza petrosa. Ad essa conducono la via già detta di Say-
rach e quella di Nauporto (Oberlaibach, .370 m.) e di Longatico
(Loitsch, 915 m.), la prima dalla valle dei Zayer, e la seconda da
quella del Lubiano. Ambedue riescono all'infossamento di Podkray
e Zoll, che da levante a ponente taglia l'altipiano e smonta sulla
valle del Vipacco o Frigido, poco più sopra di Aidussina. Se non
che la via maestra, ossia il passo principale dell'Alpe Giulia, non
valica la Selva Piro, ma, continuando l'adito di Longatico, la
gira sotto per la conca dell' Unz, e quindi per la insellatura
di Adelsberga (590 m.) e la vallicella della Piuca e della Na-
nosizza fino al piede del Nanos (1295 m.), in cui si appunta, spic-
candosi l'altipiano alla maggiore sua altezza. Più oltre di Prewald
(654 m.), che sta a cavaliere della strada che svolta questo monte,
corre essa da una parte lungo la valle del Vipacco, raggiungendo
le vie della Selva Piro tino a Gorizia, e dall'altra supera per Se-
noseccia e Sessana la seconda terraz7,a calcare dell'Alpe Giulia,
cioè il Carso dell'Istria, per poi ridiscendere a Trieste. Dalle al-
ture di Adelsberga (673 m.), dove arriva la schiena della giogaia
alpina, si alza questa verso sud-est a forma di larghissima pi-
ramide, agitandosi in moltiplici accidenti così sulle valli della
Piuca e dell'alto Timavo a ponente, come sulle acque intermit-
tenti dell' Obrech e del lago di Zirknitz a nord-est. La punta
della piramide è quel Monte Nevoso (1686 m.), che sorge ultimo
termine orientale d'Italia. Sotto di esso, verso Fiume, l'Alpe sfianca
nuovamente, sì che da Castua ad Adelsberga sale altra via per
Lippa (285 ni.), che indi tragitta le anzidette due valli del Ti-
mavo e della Piuca. Ma ben tosto si rizza maestoso al gruppo
del Planic (1268 m.), nodo dei monti dell'Istria e principio di
l'istria e il nostro confine orientale. 201
quel secondo altipiano che sovrasta a Trieste e percorso dalla
Vena (1107 m.) fascia la provincia istriana, non lungo tratto
di sotto al grosso della frontiera, da quelle sommità che domi-
nano il seno di Fiume alle foci del Tiraavo nelle lagune di
Monfalcone. Infine il nodo del Planic, chinandosi alquanto di so-
pra a Lovrana, là dove passa (950 m.) l'altra strada che da Fiume
volge nel centro dell'Istria, l'Alpe Giulia si eleva ancora più alta
al Monte Maggiore (1394 m.). Di là quasi muraglia procede verso
il mare, e spinge in esso il promontorio di Fianona. »
Il Goriziano e l'Istria sono i paesi italiani abbracciati dalla
frontiera cosi perspicacemente messaci sotto gli occhi dalla pla-
stica descrizione del Combi. Oltr' essa vi soggiace la Carniola, e
per breve spazio al settentrione la Carinzia, e a scirocco la Croa-
zia. E da queste tre regioni si schiudono i varchi nella nostra peni-
sola, vale a dire quello del Predil dalla Carinzia, l'altro di Adel-
sberga, con cui si aggruppano i due minori dell'altipiano centrale,
dal mezzo della Carniola, e il terzo di Fiume, Lippa e Monte
Maggiore dalla Croazia.
Il baluardo delle Giulie è rinterzato dal Predile, dal Man-
gert, dal Jalus, dal Tricorno ed altri. A greco dei monti Predile
e Mangert sorgono altre aspre giogaie le quali si rannodano al
Leobel nella valle della Drava.
In questi monti nascono il Savo, il Lubiano e l'Isonzo; il
Savo di Wurzeu nel piovente settentrionale del Tricorno, 1' altro
di Wohein da un piccolo lago situato alle falde del monte Cucco
e Vagatino. I due rami poi si uniscono presso Radmanustorf, Il
Lubiano nasce a pie' del monte Lublonski. Quanto alle tre fonti
dell'Isonzo, esse sono opposte a quelle del Savo perchè nelle gole
di Trenta fra il Mangert ed il Tricorno. Dalle strette di Caniza
al mare Adriatico l'Isonzo scorre la pianura del Friuli orientale
per circa 130 chilometri. ^
1 contrafforti delle pendici a greco delle Alpi Giulie si di-
stendono ora continui ed ora trarotti fino alle rive del Savo. L'An-
tonini deplora con grande ragione che queste curiose compli-
cazioni orografiche ed altre idrografiche, delle quali sarà breve-
mente ragionato in appresso, abbiano non solo fatto buon giuoco
alle sofisticaggini dei naturali avversarli dell' Italia, ma altresì
1 Per la descrizione del corso di questo fiume e dei suoi affluenti il lettore
può consultare V Annuario Statistico per la provincia di Udine, anno I, pag. 91 e
seguito. Il lavoro del prof. Marinelli intorno al territorio della provincia vi è per-
spicuo ed accuratissimo.
202 l/lSTRIA E ÌL NOSTEO CONFINE ORIENTALE.
confuse le menti di taluni tra coloro che avrebbero dovuto esserne
i campioni. Egli se la piglia, per esempio, e assai giustamente,
col Marmocchi, il quale, dopo di avere, nel suo Prodromo della
storia naturale d'Italia, divise le Alpi orientali in Noriche, Car-
niche e Giulie ed estese queste ultime da Tarvisio a Fiume, in
un' altra sua opera di geografia non si perita di assegnare alla
regione slavo-ellenica le correnti dell'Isonzo per confine.
Solo non è abbastanza chiarito se le prealpi tra il Fella e
l'Isonzo vadano considerate quali attinenze immediate della catena
carnica o quali appendici e diramazioni della Giulia.
<^ Taluni infatti sostengono, così l'Antonini, che il Monte Canino,
il Babà, il Bombone, il Nabois, il Moutasio, il Ciraone, il Monte-
maggiore sopra Cividale, il Mia ed il Mataiur con tutti i colli i
quali ad ostro ed ostro-ponente diramandosi calano verso Gemona
e Udine, Cividale e Cormousio, non possano appartenere se non
al sistema delle Giulie, comechè poste alla sinistra del Taglia-
mento e del Fella.
» Altri per contro osservarono che le valli secondarie del
Torre, del Natisene e dell' Idria, torrenti i quali affiuiscono nel-
l'Isonzo, trovansi quanto la Valle del Tagliamento rannodate ai
pendii meridionali delle Alpi Carniche, e con questi sono in certo
modo per continuità immedesimate. »
Felice Orsini, nella sua geografia militare dell' Italia, scrive
così :
« Al nord-est delle sorgenti dell'Isonzo, si stacca una seconda
diramazione delle Gamiche. Segue 1' Isonzo sul quale cade con
clivi erti, indi viene sostenuta da estese colline che coprono tutto
il terreno fra Gorizia, Gradisca e Butrio. »
E negli Studi topografici e strategici siili'' Italia di Luigi e Carlo
Mezzacapo, leggesi che questo « secondo ramo alpino assai stretto
che si stacca dalle Alpi Carniche ad occidente del Predile, pro-
cede lungo l'Isonzo e ne segue le sinuosità, discende co' suoi fian-
chi ripidi sul fiume e stacca ad occidente alcuni rami allungati
molto alti ed aspri fino a Gemona che poi verso mezzodì, presso
Udine e Cividale, divengono più dolci e vanno a perdersi nelle
pianure dell'Isonzo inferiore. »
Il punto culminante di questo ramo è il Moutemaggiore alto
1621 metri.
l'istria e il nostro confine orientale. 203
V.
Le alpi orientali dal Picco dei Tre Signori al seno Liburnico
segnano i limiti dell'Italia; nondimeno per la loro conformazione
e per essere la catena delle Giulie in più luoghi assai depressa,
voglionsi considerare siccome la parte più debole del muro alpino.
Ad afforzarlo, dice con molta verità il Combi, la natura ha prov-
veduto col dare all'Italia un antemurale nella penisola Istriana,
poi col rinterzare i contrafforti che sorgono nelle valli superiori
dell'Isonzo, del Tagliamento e del Piave, dove i valichi dell'alto
Goriziano, della Carnia e del Cadore impediti da torrenti, chiusi
da dirupi a borea prospettano verso mezzodì le lagune dell'Adria-
tico e ad occidente non si discostano per lungo spazio dalle fortis-
sime posizioni dell'Adige. La valle superiore di questo fiume ser-
randosi strettamente sopra i fianchi delle Alpi Gamiche, forma
colle sue controvallazioni quella specie di laberinto prealpino che
costituisce il fortissimo propugnacolo dell'Italia settentrionale.
L' Antonini, dal cui volume non possono facilmente staccarsi
gli jcchi di chi abbia a meditare intorno a queste materie, dopo
esposte le molteplici ragioni oro-idrografiche ed etnografiche in
prò della sua tesi nazionale, fa appello altresì alle climatologiche,
né può certamente dirsi che sia il solo.
Adriano Balbi, nel volume I della sua geografia stampata a
Torino nel 1840, afiFerma che la linea più conveniente del confine
sotto l'aspetto geografico è quella che dal Terglou volgendo a
mezzodì passa ad oriente di Idria, di Planina, di Adelsherg, tocca
la vetta dello Schnecberg e scende al mare tra Fiume ed il poggio
di Tarsato nella Reczina. L'autore dopo citatolo osserva che « la
temperie dei paesi al di là delle alture di Planina, di Zirchi-
nizza e di Longatica è senza confronto più rigida non riuscendo i
tepidi venti marini a sorpassare le giogaie che disgiungono il ba-
cino danubiano dall'Adriatico. »
Il clima dell'Istria montana e della Carsia tanto inferiore che
superiore è al paragone assai più mite di quello della Carniola,
delle regioni Saviane e della valle della Culpa.
Infatti è vero che sopra i vertici meridionali ed occidentali delle
Alpi Giulie, come su vari punti dell'altipiano Carsico, la vegetazione
è non solo precoce, ma presenta nelle Flore dell'Istria, del Friuli
e della Carsia moltissime specie, le quali non possono in modo
veruno attecchire nella Carniola tanto per l'indole diversa del
204 l'istria e il nostro confine orientale.
suolo che per la differenza delle condizioni atmosferiche lungo i
pendii montani rivolti a greco. Il Malte-Brun, accennando alle
frontiere naturali dell'Italia continentale, soggiunge : « Considérée
daus ses limites naturelles, la partie septentrionale de l'Italie cora-
prend tout le versant des Alpes depuis la branche appelée Alpes
Cotiennes jusqu'à celle que l'on appelle Alpes Juliennes.
» Mais les lignes de démarcation politique ont modifié ce
limite....
» A peine arrivés sur le- versant meridional des Alpes, nous
voyons changer tout à coup la végétation, les hommes et les usages.
Il semble qu'un climat favorable au laurier, au myrte et à l'oli-
vier. porte l'homme à l'amour de la gioire et aux bienfaits de la
civilisation. »
Qui il geografo francese è non meno poeta del Rizzi nostro
il quale ci cantò con tanto colore e calore il suolo, il cielo, le
aure mutate col mutar fianco della stessa montagna. Del resto,
anche senza passare fiumi e monti, accade a moltissimi di vedere
e provare altrettanto nella propria casa. Se in una giornata d' in-
verno passiamo da una stanza a tramontana a quella di contro a
mezzogiorno gli è a dirittura un altro vivere, un altro mondo.
A questi che forse lo Czoernig e i suoi discepoli chiamereb-
bero lirismi, si abbandonava il Malte-Brun nella sua geografia
universale stampata a Parigi nel 1828, vale a dire tutt'altro che
in un momento nel quale gli scrittori francesi di nessun partito
pensassero per nulla a far la corte all'Italia o a farsene una amica
ed un' alleata.
È naturale che se ne difenda ancora meno, sebbene vecchio
e severo, TAntonini.
«Il sole d'Italia, egli scrive, splende nelle valli del Vipaco
e dell' Idria. Chi, lasciate a tergo le fredde nebbie del Savo e del
Lubiana, si viene accostando alle alture di Postoina e del Prevrald,
vede il cielo italico tingersi del colore di orientale zaffiro e
sente aleggiarsi d'intorno i tepidi venti marini. »
E sulla unità e indivisibilità naturale di questa dalla rima-
nente regione italiana, non meno chiaro del cielo, dell'aria e della
superficie, parlano le profondità e le latebre intime del suolo.
Il Tarameli! dimostra, nel citato annuario scientifico del R. Isti-
tuto tecnico di Udine, che la struttura geologica da Tarvis a Pon-
tebba è diversissima nei due versanti della stessa montagna. Ma
quello che più importa, è l'unità geologica intuita dal Tarameli i
e in via di essere dimostrata da lui, di tutte le varie parti della
l'istria e il nostro confine orientale. 205
catena Giulia colla quale notò rispondenze e coincidenze in tutta
l'Istria. Lungo la Dragogna, presso Pinguente, ad Albona e nel
Carso Istriano gli pareva di trovarvi i colli di Biija, di Monte-
uars, di Brazzano e di Medea, tante e tali vi erano le reali ana-
logie di roccie, di fossili e di relazioni stratigrafiche.
« Tranne l'orizzonte lihurnico. egli scrive al Marinelli, che
è esclusivo alle Giulie meridionali, fino a Medea non ho tro-
vato nell'Istria alcun piano che non avesse il suo analogo nel
Friuli, e la comunanza delle relazioni stratigrafiche è tale che
l'asse di sollevamento congiunge il M. Maggiore dell'Istria col
Matajur del Friuli, e l'asse di inclinazione o disinclinale, decorre
difilato dal campo di Osopo al golfo del Quarnero. »
È un felice commento scientifico ai versi del povero Aleardi
intorno al modo nel quale Dio scoljjisce le patrie.
VI.
Però è inutile negarlo. Se la scultura è massiccia, non è do-
vunque finita. La giogaia continua bensì, ma il suolo, couìo il
Balbi deplora, « non offre che un altipiano cui sovrastanno gruppi
di montagne di varie altezze e, mancando la linea non interrotta.
manca pure la regola ovvia per segnare un confine naturale lungo
le alture. »
L' Adriatico e il Mar Nero restano quindi due alti signori ai
quali, dall'alto delle Giulie, mal si potrebbe fare l'esatto computo
dei rispettivi tributari. Quivi l' idrografia piglia a gabbo geografi
8 geoioghi. I fiumi e gli stessi rigagnoli qui scorrono placidi alla
superficie, là piombano nei pozzi e nelle tombe di sottopassaggio
0 si rimpiattano nelle grotte e fanno un cammino non esplorabile
né dall'occhio né dall'orecchio, per quindi ricomparire grandi, so-
nanti e al tutto irreconoscibili da quelli di prima.
Il corso del Piuca, per esempio, è tuttora un mistero.
Quest'ultimo rampollo della famiglia dei fiumi ha saputo di-
fendersi assai meglio del Nilo dalla indiscreta curiosità degli
scienziati moderni, anzi, se fosse ancora vivo il Bernini, egli po-
trebbe pretendere dal suo scalpello, che, strappato il velo di capo
al gigante di Piazza Navona, lo gettasse sopra il piccolo suo.
Infatti del suo viaggio chi ne sa niente? Nessun Grant, nes-
sun Beker vinse la partita a mosca cieca alla quale esso sfidò
geografi e idrologhi. Alcuni scrittori, e specialmente i Tedeschi,
sono felici dell'equivoco e non si lasciano fuggire la buona occa-
206 LÌSTRIA E IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE.
sione per sostenere che esso Piuca insieme coll'Oncia, altro corso
d'acqua del quale si dovrà forse parlare più innanzi, non sono
altro che il ramo superiore del Lubiano affluente della Sava, e
ciò giova loro ad escludere dall'Italia geografica il territorio at-
traversato da quelle correnti.
Il Timavo invece si lasciò smascherare. Scaturito dalle viscere
del Catalano ai piedi del Nevoso, egli corre alla luce del sole
per una trentina di chilometri in direzione occidentale e ri-
ceve nel suo cammino le acque del Plivnig. Fino a San Canziano
si chiama Reca ; quivi si inabissa nelle grotte e fa una marcia
nascosta di ben 25 chilometri, dopo i quali, come se il fatto non
fosse suo, si ripresenta altero e chiassoso, vasto cimi murmure
niontis, come canta Virgilio parlando proprio di lui, e con altra
fortuna, come quello che diventa largo e navigabile, ed anche con
altro nome perchè non si chiama più Reca ma Timavo, e se ne va
all'Adriatico dopo d'avere sostenuto anche l'ufficio di Porto ed es-
sere stato onorato fino dalla più remota antichità del titolo di
famoso ricovero. Malgrado i connotati e il nome cambiato dopo la
latitanza, il Fabris afferma che la sua identità venne riconosciuta e
messa in sodo. I geoioghi italiani sono con lui ; non ne mancano alcuni
anche tedeschi, ma non saranno probabilmente quelli che la pole-
mica diplomatica citerà in una eventuale discussione sugli acci-
denti dei confini.
Questi scherzi geologici ed idraulici coi quali la natura sem-
bra divertirsi a far disperare gli scienziati, sono dovuti agli av-
vallamenti carsici, i quali debbono in origine essere stati ^ « ca-
verne, le cui volte crollando si sprofondarono. Che se poi si voglia
indagare quali cause, e quali forze naturali concorressero alla
formazione dei tanti sotterranei, la. opinione più comune e pro-
babile si è avere il trabocco e lo spandimento fra strato e
strato di molte acque minerali corroso a lungo andare cogli
acidi il suolo, prima ancora che le sinuosità cavernose si amplias-
sero e modificassero in virtù del meccanico trasporto dei massi
riurtati dalle correnti. Alcune conche imbutiformi perforate alle
estremità lasciano scorgere le sottoposte profondissime voragini ;
altre sogliono periodicamente ogni anno trasformarsi quasi a un
tratto in pescosi laghetti, poi, rasciutte, consentono vi possa essere
nell'ima parte seminato qualche po' di grano, il quale giunge an-
che in breve maturanza la state. »
1 Antonini, Il Friuli Orientale, pag. -25 e seguito.
LÌSTRIA E IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE. 207
Di codesti stagni {Loque in idioma sloveno, Kali e Koliid
in lingua illirica) ove le ac(|ue zampillano rifluendo da sotterranei
canaletti foggiati a modo dei sifoni intermittenti, il più celebre
come il pili ampio è il laghetto di Zirchiuiza o di Zirknitz,
poco discosto da Planina, ben noto ai romani geografi sotto il
nome di Palus Lungea.
Parecchi naturalisti descrissero i varii fenomeni che presenta
e che tutti fanno derivare dalla cavernosa natura del suolo. Fra
le meraviglie narrate dal Valvasore, annalista carnioìico, il quale
in sullo scorcio del secolo XVil visitava lo stagno di Zirchiniza,
la pili strana si è quella di certe oche cieche ed implumi nate
sotterra, poi spinte a galla dalle acque zampillanti.
Il maresciallo Marmont, aggiustando fede a codesto racconto,
lo riportava bonariamente nelle sue memorie.
Erano per davvero dei canards codesti e non semplici ma
doppi, cioè di nome e di forma.
L'Arago per verità con altro spirito critico da quello del
duca di Kagusa, del resto in tante altre cose tanto più furbo di
lui, dedicò la sua più seria attenzione al favoleggiato lago, e lo
descrisse con interessanti particolari nell'annuario del bureau des
lùngitudes del 1834 spiegandovi il reale fenomeno della intermit-
tenza delle acque.
VII.
Quivi la natura si è pertanto assai sbizzarrita. Essa ha parlato
assai chiaro ed alto per tutti coloro i quali non hanno motivi di
passione o d'interesse per disudire, ma non ancora abbastanza
per tagliar corto con tutti coloro che vogliono o debbono servire
a quello ed a questo.
Appigli a mettere fuori delle interpretazioni bicipiti, e modi
di arruffare razze, provenienze, lingue, confondendo monti e
fiumi, concetti strategici e rivendicazioni politiche o scientifiche,
non ne mancano pur troppo. Le catene, i rinterzamenti, le rughe,
le ondulazioni, le propagini, i contrafforti più molteplici e tumul-
tuari sono tanti ibis e rcdibis del suolo cui fanno riscontro quelli
delle acque in nessun posto più misteriose e bizzarre.
L'orografia e l'idrografia realmente balenano.
Si dovrà dire per questo che il problema del tracciamento
razionale del confine sia divenuto insolubile ?
Forse che dei diplomatici e dei soldati debbono far dipendere
la statica militare e politica delle nazioni rispettive dalla colloca-
208 l'istria e il nostro confine orientale.
zione della virgola dopo Vibis ovvero dopo il redibis del Finca o
del Tiinavo? Che la Pitonessa oracoleggi finché le pare dal suo
tripode, all'uomo rimane sempre un mezzo per la ricerca della
più ardua verità e questo è l'esercizio piano della ragione.
Cos'è un confine? — Un'alpe, un fiume, un lago, un mare, un
fosso, ovvero una linea di paracarri con una stanga dipinta dai
colori nazionali, ed una garritta per la guardia?
Può essere l'una come l'altra di queste cose, ma quelle accen-
nate da ultimo e che rappresentano non dei fatti ma dei segnali
divisori! possono valere nel solo caso nel quale la sproporzione fra
i due stati sia incommensurabile, e che il debole non insista per
una garanzia che gli è impossibile trovare in altra cosa che nella
fede dei trattati e nella lealtà del vicino. Un fosso od una linea
di paracarri reggenti delle catene può bastare fra il regno d'Italia
e San Marino o il Principato di Monaco. Quando un duello è im-
possibile, la scienza cavalleresca non ha niente da prevedere né
da prevenire; ma quando è, sta a lei di curare la parità delle armi
e del terreno primo, lasciando sussistere la sola disuguaglianza
inevitabile della diversità delle forze, delle attitudini e degli umori
provenienti dalla maggiore o minore tempo degli animi e coscienza
dei diritti.
Fra due stati di primo ordine un confine non può essere dun-
que altro che un limite divisorio di fatto e non di segnalamento,
una forza e non una forma.
Un confine ha da essere una cosa la quale :
I. Non separi, che è quanto dire non spezzi, dei sentimenti
e degli interessi naturali e rispettabili ; sia una disarticolazione,
non un colpo di scure.
IL Per converso non avvinca elementi fra loro di necessità
ripugnanti, nel qual caso non sarebbe una tutela, ma una ritorta,
un capestro.
IH. Non lasci da nessuna delle due parti libertà di pronte
e non rintuzzabili iniziative di grandi operazioni di guerra, impe-
rocché l'ufficio di un confine debba in ogni caso essere quello di
una robusta porta, la (^uale, anche sfondabile, assicuri in ogni
modo il tempo a chi abita la casa di mettersi sulle difese quando
possa e sappia farne, o per lo meno di trattare senza esser già
vinto e col nemico dentro.
Chi può negare nulla di ciò? E so i caratteri di un confine
fra due potenze deve, per riposare simultaneamente sulla duplice
base della vera forza militare e del buon diritto, rispondere a
l'istria e il nostro confine orientale. 209
queste condizioni, chi vorrà poi dire che la geologia o l'idrologia
possano essere altra cosa che degli strumenti, e che la irreperi-
bilità 0 l'equivoco di uno spartiacque {divortia o divertigium
aquarum), la saltuarietà di un filone o la discontinuità di una
cresta possano tenere per dei decenni a mezz'aria molti interessi
supremi? I filoni, gli spartiacqua, le divisioni dei versanti, le in-
sellature, i boschi e va dicendo, sono stromenti di accertamento
e niente di più, e, quando non funzionano, vanno senza altro sur-
rogati.
Nel tracciamento dei confini le scienze naturali sono altrettanti
periti cui la ragione politica e la militare chiedono talora un voto
consultivo, ma riservano sempre per sé quello deliberativo. Sono
esse soltanto che possedono il concetto ed hanno la responsabilità
del fine, mentre i geoioghi, gli idroioghi e gli stessi etnologhi
non sono che altrettanti cercatori di leggi e collettori ed aggrup-
patori di fatti che la natura, per quanto seni fr ice di patrie, coor-
dinò certamente a tutt'altri fini che a quelli dell' equilibrio e
delle paci nel consorzio dei popoli, che sono invece l'unico di chi
sia chiamato a deliberare sopra una così suprema questione.
È su ciò che importa intendersi molto bene, subordinau'^lo ai
tre irrecusabili criteri surriferiti, e principalmente al terzo, quello
militare, il concetto del confine.
Vili.
Ma questa scienza così detta militare, che è il composto, avrà
essa più precisione e più sicurezza di criteri delle scien:^e sue com-
ponenti?
Del partigianesimo degli scienziati e quindi dell'uso partigiano
della scienza, l'ottimo Marinelli non sa davvera persuadersi. La
cosa gli ripugna tanto che egli per tale accusa, messa fuori più
vivamente che non si fosse mai fatto sin allora dal Correnti e dal
Maestri, se la piglia fino al punto da non rispettare abbastanza
quegli egregi uomini, e chiamarli responsabili di una insinnacione.
È un rispetto platonico che egli professa a tutti gli scienziati, e
che non poche delle stesse sue pagine forniscono il modo di tro-
vare troppo largo ed ingenuo.
In fatto di partigianesimo cominciamo anzitutto dall'accusare
noi stessi.
Imparziali non fummo e non siamo. Molto meno poi tali fu-
rono 0 sono gli stranieri.
210 l'istria e il nostro confine orientale.
La nostra carta orografica delle Alpi d'Italia pubblicata a
Torino nel 1845 rappresenta, per esempio, egualmente si)iccate le
Giulie del colle di Camporosso fino alle loro estreme diramazioni
oltre Fiume e Fortore, dove la catena alpina scende nel canale
del Mal-tempo dirimpetto all'isola di Veglia. E non è la sola.
Le carte italiane in generale segnano le vette delle Giulie
dissimulandone la discontinuità, e. reciprocamente, i Tedeschi esa-
gerandola.
Gli scaglioni di Idria, gli altipiani di Fostoina, dice l'Anto-
nini, vengono segnati in modo da farvi scomparire le traccie del
limite oltre al quale le acque si versano da un lato nel Lubiano
e nel Savo e dall' altro nell'Adriatico. Così, la linea divisoria
delle acque del colle di Camporosso, confine naturale fra la Ger-
mania e l'Italia, in parecchie carte è appena avvertita. E sog-
giunge:
« Codesti artifizi sono posti in opera per servire alle esi-
genze dell'Austria, la ouale, dacché l'Italia cessò di essere una
semplice espressione geografica, piìi che mai si va industriando
ad inframmettere dubbi su ciò che in addietro non fu soggetto
di controversia. L'Austria trapiantò nella \ alle italiana dell'Adige
il Tirolo, nella valle italiana del Fella la Carinzia, nella valle
italiana del Vipaco la Camicia, nella valle italiana dell'Isonzo la
Germania federale; però tali usurpazioni in danno dell'Italia erano
soltanto politiche. Ora si vuole coonestarle, facendone complice la
scienza geografica, ovvero puntellandosi al bisogno con certe ra
gioni dedotte dalla etnografia e stortamente applicate.
» Vi hanno scrittori moderni (tedeschi per lo più) i quali
recisamente sostengono Trieste, Gorizia, Aquileja non essere città
dell'Italia, né l'Istria potersi considerare terra italiana. E le Alpi?
Queste, secondo l'avviso di que' paradossisti, appartengono all'Eu-
ropa, non all'Italia, avvegnaché il suolo italico incominci a pie
delle Alpi, non sul vertice di esse. Né le Alpi s'inarcano a cin-
gere le ])ianure Eridanie; ma da Ciamberi vanno a Vienna, e dal
Gottardo in là sono montagne della Germania. L'Adige, il Brenta,
il Flave, il Tagliamento, l'Isonzo recano al mare tributo di acque
germaniche. Quanto alle Alpi Giulie, la fantasia dei poeti può
averle immaginate, o nel lontano orizzonte forse talvolta qualche
valligiano di Gorizia o dell'Istria sognate, scambiandole cogli orli
più elevati delle Carsiche alture, che l'Italia ad oriente è aperta,
manca di naturali frontiere, e trovasi signoreggiata dalle giogaie
alpine, le quali s'itmalzano nel cuore dell'Europa. »
l'istria e il nostro confine orientale. 211
Se poi dico she gli stranieri, o, per essere più preciso, i Te-
deschi sono in questo ancora tanto meno imparziali di noi, ciò
per verità torna ben più ad accusa nostra che loro. Imperocché
in Italia, sia povertà di studi o d'animo, (!ome dubita il Combi.
ed è forse d'amendue, all'aulico coniine dell'Isonzo molti deboli
spiriti si acquetarono, ed un generale italiano, senatore e pub-
blicista per giunta, che non aveva studiato la questione, osò chia-
mare disputabile geograficamente la questione del nostro confine
orientale. Se l'Antonini lo tratta male, io non saprei che dire, e
non posso avergli altro riguardo che quello di non lo citare.
La partigianeria fa compatti gli stranieri avversari, l'inscienza
fa sconnessi e qualche volta contradditorii i nazionali. Laonde quel
ìuoUo meno imparziali è a carico morale più nostro che loro.
Per quanto possano parere esuberanti le già date, non è inu-
tile moltiplicare le prove per mettere tutti in avviso della necessità
di aguzzare e tendere ognora il proprio senso critico, vedendo non
solo come si svisino all'uopo storia, tradizioni, ma anche fatti
naturali facendo a fidanza colla pazienza degli offesi e la inerzia
dei moltissimi rifuggenti dalla briga di ogni riscontro.
Il Marinelli stesso, l'autore che protesta contro il severo
giudizio del Correnti intorno alla mala fede degli scienziati par-
tigiani, ci fornisce, come fu annunziato più sopra, non poca parte
del materiale per le seguenti osservazioni,
È noto come sia da Giulio Cesare, o por lo meno da Augusto,
che viene alle Alpi Griulie il loro nome, il quale comparisce prima
in Tacito, poi ai tempi di Alessandro Severo nella Tavola Peutin-
geriana non che in San Girolamo, Sesto Rufo, Ammiano Marcellino.
poi nell'itinerario Jerosolimitano del quarto secolo, e nello scola-
stico Sozomeno del quinto.
Aftinché non potesse dubitarsi della comprensività di tale
denominazione la quale taluni supponevano limitata al passo di
Nauporto, che il Giambullari chiama la solita strada dei Barbari,
saltò fuori per gran ventura un famoso documento geografico, la
vita di San Martino di Venanzio Fortunato da Duplav^o vescovo di
Poitiers, del sesto secolo, dove in esametri sonanti vengono de-
scritte le Giulie. Il testo non è facile a trovare, ma i versi in
discorso sono leggibili nel lodato annuario statistico della pro-
vincia di Udine che li riporta.
Ebbene, chi lo crederebbe ? la maggior parte degli scrit-
tori e dei cartografi tedeschi non si danno per intesi, né di Cesare,
né di Tacito, né della Peutingeriana, né di Marcellino, né di San
212 l/lSTRIA E IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE.
Mari ino, e, sbattezzano per loro comodo le Giulie chiaraanrlole di
loro capo Alin calcari Meridionali (Sadliche-Kalk-Alpen) per
cedere poi il nome di monti Giulii a non importa ora precisare
quali accidenti balcanici. Ma e 'è senso né storico, né scientifico, né
critico né tampoco comune in ciò ?
L'Alpe si chiamò Giulia, é vero, anzi tutto pei lavori dei
quali attesta 1' iscrizione riportata dal Marinelli medesimo, ma
Giulia è quasi ancora più la regione. Infatti la terra dei Carui,
chiamata poi Aquileiese, si trasformò in Foro-Julese dal Forum
Juìii, fondatovi. Non vi è niente di più naturale che per ragioni
di nesso non che di analogia, anche senza la faccenda delle strade,
si ingiuliasse, dirò così, la montagna perimetrale. Laonde, prima
che all'Alpe, i geografi tedeschi avrebbero dovuto mutar nome al
Friuli.
E non si può dire che ciò non tentassero in parte, ma con
quello che i francesi chiamerebbero succfsso cVilarità, e in questo
si scoraggiarono, e si buttarono rabbiosamente alla idrografia.
« Dal San Gottardo sino alle Alpi illiriche non giunge una
goccia d'acqua nei piani italici la quale non isgorghi da sorgenti
tedesche »! ! ! Così scriveva il conte di Ficquelmont nel suo volume
intitolato Lord Pahìiersion, Vltalia e il Continente. E falsissimo:
ma quando fosse stato verissimo, e nel nostro territorio entrassero
delle acque straniere, forse che ciò in generale dà il diritto alle
truppe straniere di seguirle? forse l'avere spessissimo assunti i
fiumi come norme o come limiti, e sono, non c'è che dire, oppor-
tunissimi, ciò fa della politica e della strategia due applicazioni
pure e semplici dell' idraulica ?
E anche noi, sebbene più modestamente, si tira l'acqua al
molino.
Alla sua volta il Sacchi parlando all'Istituto lombardo nel 1864
millanta la non interrotta maestà delle Giulie, le quali invece
hanno alla cresta interruzione innegabile e maestà nessuna.
Esaurimenti che dissimulandosene gli accidenti, che si difende
la causa militare del nostro confine.
È buono che tutte le industrie della scienza si sappiano,
perchè le moltitudini le quali tante A^olte difiìdano di ciò che ha
veste eloquente e sanno mettersi anche troppo in guardia contro
le forme dialettiche, imparino cbe le scientifiche li ingannano anche
più spesso, perchè con aria più spassionata e assai minore necessità
d' ingegno, perchè la fraseologia essoterica dà sovente il colore
locale della scienza alle più avventate ed irrazionali affermazioni del
mondo.
L'ISTRIA E IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE. 213
Nessuno vorrebbe per questo dire che la scienza sia partigiana
sempre. Però, quando non si verifichi ciò, avviene la cosa opposta
— quando la scienza consultata non appartenga alla famiglia delle
esatte o delle applicate, si rimane peritosa e schiva delle ricise pro-
posizioni e si astiene dall' affermare e dal negare assoluto. Nelle
questioni etnografiche, idrografiche, orografiche, geologiche — tutta
materia rudimentale ancora, e spesso pure congetturale — la scienza
coscienziosa non può domandare che tempo per nuove osservazioni,
od accertamenti.
Né questo può essere sempre accordato, od anche potendosi,
conviene che sia.
Se i caratteri della natura non sono tosto e nettamente leg-
gibili, bisogna subito rinunziare alla applicazione della teoria geo-
grafica e idrografica dei versanti, la quale può venire assai ragio-
nevolmente surrogata.
Ebbe infinita ragione l'Amati, forse primo a sostenere ciò
coraggiosamente, e l'ebbe più tardi il Fabris facendosene l'eco.
Quali sieno i criteri da sostituire, è già stato detto più
sopra e qui si ripete: i militari anzitutto.
Grli scopi militari sono netti e diretti, e quando tali sono
gli scopi, tali riescono pure i criteri di apprezzamento.
Negare all'uno o compensare all'altro le posizioni essenzial-
mente offensive, assegnare a ciascuno le difensive, rendere, ove ci
sia modo, impossibili da amendue le parti le sorprese, assicurare
a ciascuna il tempo di mobilitarsi, e simili.
Chi ci chiedesse se questi criteri possano costantemente riu-
scire applicabili obbligherebbe chi scrive a divagare in copia in-
terminabile di ragioni e di esempli che non sono materia diretta
del presente studio.
Basterà mostrare in appresso come per la soluzione più razio-
nale del problema di questo nostro confine orientale, essi rispondano
in ogni parte, e non possano trovarsi di contro altra obbiezione
che quella delle eccitate passioni o dei male calcolati interessi.
IX.
Fu lungamente altrove che ai confini naturali dove i Komani
pensavano a difendere l' Italia.
Padroni, dopo lunghe ed ardue fazioni di guerra, di tutta
VoL. XIV, Serie 11 — 15 Marzo I8ì9. ' 13 '
214 l'istria e il nostro confine orientale.
]a grande regione che dalle falde settentrionali delle Gamiche e
dall'Ocra si stende giìi fino al Danubio, vale a dire dell'antico
Noricum (quasi tutta l'attuale Stiria, parte dell'Austria, della Car-
niola, della Baviera, del Tirolo e l'intera Carinzia), essi possede-
vano il corso superiore della Drava e della Sava, e stavano alle
frontiere della Rezia, della Vindelicia, e della Pannonia.
Essi tenevano molte forze specialmente nel così detto Norico
ripense, o riverasco. e ciò meno per difendersi dagli abitanti, quan-
tunque sempre mal dorai, che dalle tribù trans-danubiane.
Sul gran fiume essi mantenevano tre flottiglie dette l'una das-
sis Comngmensis, l'altra Arlapensis, la terza Laureacensis.
Il Norico mediterraneo, cioè fra il Danubio e le Gamiche,
era la zona interposta fra le truppe avanzate e la piazza, allora
non tanto di frontiera quanto di deposito, che era Aquileia il
massimo e centrale baluardo, la Roma seconda dalla quale s' inti-
tolava, prima di Gesare, tutta la regione dei Gami la quale prima
che di Foro Jidiense ebbe da essa nome di Aquileiese.
11 Danubio fu pertanto assai lungamente la fossa del gran
vallo romano.
Eoma ebbe prima diciassette, poi (alla morte d'Augusto)
ventinove provincie, piìi tardi (dopo quella di Traiano) quarantotto,
e da ultimo fin sessantaquattro. — E notisi che provincie voleva
dire regioni ; la Pannonia, per esempio, che era tutt'insieme la
Groazia, la Schiavonia, la Bosnia e i confini militari, era una. La
Dacia, vale a dire molta Ungheria, la Transilvania, la Valacchia,
la Bessarabbia, la Bucovina e qualche cosa ancora, era un'altra.
A qualsiasi altro popolo ciò avrebbe dato le vertigini. Infatti,
a che occuparsi dei passi alpini? Si può ben dormire tranquilli i pro-
pri sonni anche coU'uscio di casa aperto quand'esso dà sul pro-
prio giardino circondato da altissime mura, e passeggiato da in-
transigenti molossi.
Le Alpi! in quei giorni di ebbra e fastosa grandezza che cosa
erano esse? Un impaccio, un ritardo per uscire d'Italia, non tanto
per conquistare, che di mondo non ce n'era quasi più, ma per
infliggere tratto tratto delle lezioni a popoli e re meno discipli-
nati. Ma quanto a marciare per Roma,... chi mai? A cercare che
cosa? Di andarne avvinti a una biga trionfale non altrimenti che
cani al veicolo del carrettiere ? — il problema di tutto il
mondo pareva dovere oramai essere quello di sfuggirle non di
venirle a cercare le legioni.
LÌSTRIA E IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE. 215
Qualche cosa di simile a ciò si sarebbe certamente detto a
Koraa se lo spirito latino non fosse stato ancora un po' più sodo
e pratico che oggi pur troppo non sia. Per quanto fosse guardato
il Danubio, si pensava pure tratto tratto alle Alpi, e si voleva
chiuso l'uscio anche supponendo ben custodito il parco. Interrot-
tamente sì, ma pur sentivano tutti l'importanza profetica dell'
Alpibus Italiae riiptis, penetrabis ad iirbem.
Se Stilicone si fosse fatto origliere di Claudiano come Ales-
sandro di Omero, non sarebbe stato obbligato di vincere a Pol-
lenzia senza ancora salvare 1' urhem promessa a chi sapesse pre-
pararsi quell'ablativo assoluto dell' alpibus ruptis.
Il Kandler, tante volte citato nella prima parte del presente
studio, scoperse nelle sue ultime esplorazioni nella Venezia Giulia
montana un duplice vallo eretto dai Komani nell'Istria per segnare
i confini d'Italia, e di più un claustrum o chiusa delle Alpi che gli
stessi innalzarono a quello che il Sacchi, nella sua relazione in
proposito all'Istituto Lombardo (1864, volume I), chiama il loro
unico varco.
Con una cura grandissima egli scorse tutte le vette della
prima e della seconda linea delle Alpi Giulie, e lungo quelle aeree
creste rintracciò da per tutto i vestigi dell'antico vallo romano.
Egli fece all'uopo delineare sulla faccia dei luoghi tre carte espli-
cative. Nella prima volle riprodotti i contorni delle due grandi
linee del vallo. Nella seconda lo spaccato e Y alzata di quello
eretto sulle Alpi, e la pianta del clausfruni che tuttora scor-
gesi a Piro, sulla via che conduce a Lubiana, Nella terza de-
lineò egli stesso, sulle traccio dei ruderi tuttora esistenti, la ve-
duta prospettica delle chiuse delle Alpi, che presenta l'aspetto di
un alto muro merlato, afforzato da torri, da una delle quali,
innalzata presso la vetta del monte, i militi romani esploravano
collo sguardo tutta la valle. Il varco della chiusa passavasi per
una porta fortificata. ^
Il dottor Kandler donava queste carte alla Biblioteca Nazio-
nale di Milano.
Dall'esame della prima carta topografica si raccoglie, come
' Noi riscontrammo, dice il citato Sacchi, il disegno di questo muro colla veduta
prospettica degli avanzi delle mura merlate fatte erigere da Augusto a Pola, e le
trovammo identiche nella forma di costruzione. Veggasi a pag. 68 il Voyage pit-
tcn^esque et historique de l'Istrie et Dalmatie di Lavallée. Parigi, 1802. Edizione
in foglio illustrata.
216 l'istria e il nostro confine orientale,
i Komaui avessero l'avvedimento di costruire un duplice vallo, che
comincia da Fiume e spinge la prima linea avanzata sin oltre
Oberlaybacli, * e la seconda linea mettesse capo a Aidussina,
ove esisteva un castrum romano. Tra Aidussina ed Oberlaybach,
lungo il varco tortuoso dello Alpi, avevano i Romani distese altre
due linee intermedie di mura fortificate, cosicché, prima di giun-
gere a Aidussina, dovevansi prendere d'assalto tre linee di forti -
lizi. Se si riscontrano queste grandi linee di propugnacoli sulle
mappe topografiche, si scorge come vi siano state poste a segnare e
coprire i confini. Se poi si consultano le storie, i monumenti e le
stesse tradizioni etnografiche, viene ognora più comprovato il fatto,
che quando l'Italia fu autonoma, cercò e mantenne i suoi confini
orientali là dove la natura glieli aveva creati. E il Sacchi fece opera
degnissima a dimostrarlo così efficacemente all'Istituto Lombardo.
Appena, seguita egli a notare, appena Augusto rese permanenti
le milizie romane, fece inviare nell'Istria le legioni dei veterani
per custodirvi i confini, A questi vecchi soldati, che pretendevano
premi bellici, fece distribuire alcune terre dell'Istria, e li collocò
lungo il duplice vallo che la difendeva dai Barbari.
Fra le lapidi d'onore clie qua e là si rinvengono nell'Istria, ve
ne sono alcune erette ai veterani della sesta legione, detta la
Vincitrice, della ottava detta Trionfatricr^ e della undecima. Pare
credessero prezzo dell'opera tenervi le ottime. Gli Istriani eres-
sero statue anche equestri ad illustri guerrieri romani, ed ai più
valenti condottieri delle flotte che tenevano sede a Eavenna e a
Grado.
Ciò combina colla singolare forza difensiva data alla piazza
di A(iuileia, e la grandissima fixbbrica d'armi stabilita sul Le-
mene in quella Concordia Sagittaria intorno ai cui recenti tesori
archeologici trattarono così dottamente il Mommsen ed il Ber-
tolini. Il famoso saggio tedesco trovò in questo dotto quanto
modesto giureconsulto del luogo un compagno di ricerche e di
studi, del quale ebbe la non comune lealtà di proclamare l'inatteso
valore.
X.
La stessa Italia Romana, che si difendeva ad Oriente sul Da-
nubio e possedeva il litorale Illirico non che tutto quel Noricum
che Napoleone, il quale del resto amava le frasi di eifetto e le
1 Questo primo vallo venne costruito 128 anni prima dell'era volgare.
l'istria e il nostro confine orientale. 217
sorprese paradossali, chiamava strategicamente più importante
della Lombardia, malgrado l'importanza di siffatta occupazione,
co' suoi baluardi e le tre flottiglie nel gran fosso del Vallo, non
dovette nel terzo secolo la propria salvezza clie all'avere un osta-
colo sulla propria reale frontiera.
Senza Aquileia i fasti di Attila anticipavano di oltre un paio
di secoli.
Finito tragicamente Alessandro, Massimino rivestito del po-
tere supremo aveva stravolto ogni cosa. Incorso nell'odio di tutti
per quel suo repentino passaggio da vilissima condizione al più
alto stato di fortuna e peggio pei costumi in tutto affacenti alla
barbarica origine, attendeva principalissimamente, come narra
Erodiano, ad assicurarsi lo stato colla paura, solo mezzo sugge-
ritogli dalla ferocia incolta dell'animo e dalla memoria della
precedente abbietta ignobilità, la quale egli, in ciò ingiusto an-
che seco medesimo, pareva non reputare né cancellabile né com-
pensabile da opere egregie. E di queste, per vigore smisurato della
persona e, militarmente parlando, anche dell'animo, poteva certo
vantarne alcune maravigliose. Nella guerra contro i Germani, per
esempio, egli aveva inseguiti i fuggiaschi fin dentro a una palude
dove spingendo il cavallo fin sopra il petto si era avventurato primo
e lungamente solo. Se costui, dice Erodiano, che lo detesta e dis-
prezza, non fosse stato una belva, avrebbe lasciato fama imperi-
tura di sé. Ma fu invece crudelissimo prima contro i grandi e ciò,
a detta dello storico, gli nocque poco, « per quella indifferenza, colla
quale vede il volgo le disgrazie della gente ricca, anzi per quel
riguardarle che fanno i molti di perverso e maligno carattere con
occhio allegro e goditore. » Però ben presto i signori non ci fu-
rono più e mancarono i privati da spogliare. Allora toccò alle
istituzioni, le casse delle comunità e quelle dell' annona, poi le
offerte dei templi, le opere pubbliche e cittadinesche e gli og-
getti d'arte. La cosa cominciò tosto ad essere ben diversa. I po-
poli n'ebbero gli animi trafitti, come quelli che « non potevano
a viso asciutto vedere in piena pace quelle ostili devastazioni, e
ve n' ebbe alcuni che facendo petto alla difesa de' templi, elessero
prima morire e cadere innanzi ai sacri altari, che rimanersi
spettatori del saccheggio della patria. »
Costui, preceduto dalla fama dei terribili successi tedeschi ed
africani, superava senza ostacoli le Alpi, ma la vasta Aquileia
gli chiudeva in faccia le porte.
218 L'ISTRIA E IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE.
Era popolatissima. Erodiano dice die oltre il gran numero
dei cittadini (oh gli storici antichi! Si contentano di dire gran
numero come se ciò non convenisse a due come a cinquecento
mila abitanti), oltre il gran numero dei cittadini, dice, v' era
sempre una folla immensa di forestieri e di negozianti e in quel
momento più che mai, essendovisi ricoverato dai vicini castelli e
dal contado popolo infinito sperante nella grandezza della città
e nella robustezza delle sue mura, le quali però, nella beata quiete
che la grandezza romana faceva godere alle città italiane, eransi
già invecchiate e dirupate. All'accostarsi di Massimino erano state
alla meglio ristaurate e invigorite di torri e di baluardi.
Sono curiosissime le pratiche e le astuzie parlamentarie pre-
messe da Massimino ai lavori di oppugnazione.
« Trovandosi nel suo esercito un tribuno nativo di Aquileia
la cui intera famiglia era racchiusa in quella città, gli comandò
di portarvisi con alcuni altri capitani, sperando che il popolo
non avrebbe dissentito ai consigli autorevoli di un suo con-
cittadino. Accostatisi costoro alle mura, parlarono in questo
modo: Comandare il loro comune sovrano che depongano le armi
e invece di nemico, lo accolgano in piena pace ed amico, e at-
tendano piuttosto alle feste che a mischiarsi della guerra : ab-
biano pietà della patria che, se avessero persistito, vedrebbero
schiantata dai fondamenti ; essere in istato, se vogliono, di
provvedere a un medesimo tempo alla propria salvezza e a quella
di lei, promettendo il clementissimo principe perdono e dimen-
ticanza di ogni trascorso, convinto che altri e non loro avevano
colpa di quegli scandali.
» Queste e simili cose dicevano, secondo riferisce Erodiano,
ad alta voce gli ambasciatori da sotto le mura per farsi inten-
dere, se non da tutti, almeno da quelli ch'erano sui baluardi e
nelle torri ; e quasi nel più gran silenzio attendevano a quei
detti. »
I parlamentari d'allora, come gli innamorati di trenta o qua-
ranta anni fa, esponevano le loro idee e facevano i loro tentativi
dalle strade ai piani superiori.
Crispino, comandante, temendo che quelle promesse movessero
il volgo a fare la pace e aprire le porte, scorreva innanzi e
indietro tutte le mura confortando e pregando particolarmente
taluno a star forte, osservare la fede, tenersi in guardia dalle
promesse e dai lacci dell'astuto tiranno e dalle parole seduttrici
l'istria e il nostro confine orientale. 219
de'messi, né lasciarsi scai^pare la bella gloria di avere, durandola,
salvata l'Italia. Tante altre cose vere e calzanti ripeteva il bra-
v'uomo ai cittadini, che di soldati si può dire quasi non ce ne fos-
sero. Ma egli è certo che nulla servi più ad incorare i difensori e
scoraggiare gli oppugnatori che il portare che si faceva per le
torri e pei baluardi gnìude abbondanza di munizioni da bocca
delle quali si scialavano sotto gli occhi degli affamati assedianti cui
doveva parere in quel momento di vedere mutate a un tratto le
parti, e gli assediati esser loro.
Prima di questi parlamenti non passava giorno che quei di
fuori dopo irretito da ogni lato la città (come si esprime il cru-
schevole traduttore d' Erodiano che del moderno investire non
vuol saperne) più volte non si azzuffassero conducendo sotto le mura,
larghe non meno di quattro metri alla base, come si può assicu-
rarsi anche oggi, ogni specie di castelli e d'ordigni e non lasciando
indietro alcuno dei modi suggeriti dalla macchinosa poliorcetica
di allora. Ma gli Aquileiesi, chiuse le case e i templi, assistiti dalle
mogli e dai figliuoli, difendevano virilmente ogni posto, non vi
essendo nessuno il quale per età o debolezza si ricusasse a com-
battere. Freccio, sassi e appresso, quando il nemico calava nella
fossa per impostarvi le scale, olio, acqua e bitume bollenti. Ve-
nute meno le corde pegli archi, le signore diedero le treccie.
Mano a mano che le cose andavano in lungo e i soldati di
Massimino si scoraggiavano, i cittadini pigliavano ardire e di
soltanto coraggiosi e pertinaci si facevano pure canzonatori e
beffardi.
Grli ufficiali e i soldati di Massimino d' ogni razza e colore
erano oggetto oramai delle loro beffe. Quando il barbaro impe-
ratore, col suo figliuolo accanto, facevano il giro intorno alle
mura, erano caricati d' improperii e di villanie che li rendevano
furiosi. A lui davano di harharo, assassino, e traditore; al bellis-
simo figlio, di Bafillo e simili. Alle parole s'aggiungevano gli
atti sconci e le missiles, specie di proiettili con delle scritte so-
pra o dentro, tal quale i nostri confetti di carnevale. La polvere,
checché ne imprechi 1' Ariosto, ha certo il merito di avere rese
le guerre alquanto parlamentari. Co' fucili che azzeccano per
bene a 800 metri non c'è più da scambiarsi convenevoli di que-
sta specie. Se però la fonografia seguita il cammino, torneremo
forse anche a queste. Multa renascentur, ecc. Massimino crudele
quanto orgoglioso, e balordo quanto forte e prode, perdeva nel-
220 L ISTRIA E IL NOSTRO CONFINE ORIENTALE.
l'accesso della rabbia ogni temperanza, si volgeva contro ai suoi,
e faceva tratto tratto morire degli ufficiali accusandoli di molle
e timido procedere negli assalti.
Venendo così meno da una parte la pazienza e la disciplina,
dall'altra ogni specie di provvisione e di conforto pegli uomini e
pei cavalli, perchè il Senato aveva spedito in ogni luogo perso-
naggi consolari con seguito di gente scelta ed ardita per custo-
dire tutto il litorale ed i porti, l'oppugnazione perdeva ogni giorno
probabilità di riuscita. La cosa finì come doveva, colle abitudini
divenute oramai generali nell' impero. Un bel giorno i soldati
della guardia tagliarono a pezzi l'imperatore e il figlio, facendo
altresì ogni scherno e vitupero a' cadaveri innanzi di lasciarli in
pasto ai cani ed agli avoltoi. Le loro teste furono spiccate e por-
tate a Roma da un drappello di soldati a cavallo che vi giunsero
in quattro giorni — cosa la quale sfronda ahjuanto gli allori
della Leda e del capitano vSalvi.
Il Candido peraltro, nel suo Commentario delle cose aqui-
leiesi, maravigliandosi delle maraviglie degli scrittori su ciò, sog-
giunge : noi del resto riceviamo le lettere di là in u.8 ore! Ciò
per l'anno di grazia 1553 merita conferma.
Spacciato Massimino, sotto Aquileia vi furono scene di tutt'al-
tra specie. I soldati, anche quelli che non si rallegravano della
costui fine, come gli Ungheresi ed i Traci, autori della sua ele-
vazione all'impero, non volendo mettersi a nuovi sbaragli per degli
uomini morti, posate le armi si accostarono tutti allo mura, e
fatta conoscere ai cittadini la strage col mostrare i resti san-
guinosi, dimandarono si aprissero le porte e non si dovessero
più tenerli per nemici, dacché riconoscevano gV im]}eratori scnatorHi
come chiamavano per il momento senza scherno Massimo e Bal-
bino eletti del Senato. Se non che gli Aquileiesi, bravi e pra-
tici, come tuttora sono le popolazioni furlane, fraternizzarono
volentieri, ma quanto ad aprire le porte risposero picche. Stando
però sulle mura, come chi conversasse dalla finestra o dal ter-
razzo, vi portarono le imagini di essi Massimo e Balbino impe-
ratori, e le incoronarono d'alloro festeggiandole con evviva e
confortando 1' esercito a fare il medesimo, ma dal di fuori, che
tanto la voce arrivava. L'aspetto delle cose era completamente
ed nuche comicamente mutato perchè dalle mura al ciglio esterno
del fosso non si gettavano più freccie e sassi, ma commestibili, panni^
vesti, scarpe e coperte a sollievo di quell'esercito che rimaneva schie-
l'istria e il nostro confine orientale. 221
rato sotto non più a combattere ma a mendicare e a chiacchierare.
Quei baluardi di qualche giorno prima erano proprio un mercato,
così empiti di jjane, di vino, e d'ogni specie d'oggetti e com-
mestibili dei quali abbondava quella che tutti gli storici chiamano
la florida e doviziosa città. Aquileia aperse da ultimo le porte
quando l'imperatore Massimo, avute le notizie, si partì da Kavenna
passando il Po incontrato dall'esercito già assediante che gli andò in-
contro coronato d'alloro, e in abito di pace a fare riverenza, unen-
dosi alle legazioni di tutte le città d'Italia composte dei cittadini
più ragguardevoli venuti pure in veste candidissima e inghirlandata
d'alloro rec3.ndo seco le immagini dei loro dii e quante più corone
d'oro avevano nei loro templi. — Così Erodiano. —
Il senato fece grande onore ad Aquileia e segnatamente alle
sue cittadine decretando, in riconoscenza delle recise chiome, un
tempio a Venere calva. Non è facile spiegarsi come una città tanto
fornita per un assedio da scialarla, e gettare ogni ben di Dio
agli assedianti prima per canzonatura, indi per misericordia, do-
vesse poi mancare di corde pegli archi. Ma lasciamo correre e
adoriamo senza discussione Venere anche calva.
Sta intanto il fatto, che se la porta orientale d'Italia fosse
rimasta aperta, Massimino se ne andava difiUito sotto Eoma che
si sarebbe difesa forse meno e meno felicemente, di Aquileia,
perchè i barbari non avrebbero patito quivi la stessa fame che
alle radici delle alpi.
Che del resto tale porta non fosse stata interamente aperta, i
Komani ebbero ben poco merito. Giulio Cesare ed Otta.vio Augusta
avevano capito perfettamente l'importanza del Friuli, ma dopo di
loro la beata, o, meglio, ignava pace, aveva fatto obliare ogni
cosa.
Erodiano, è sempre lui qui che ci fa le spese, descrive il
senso di terrore che aveva invaso il campo di Massimino tutto
di barbari, quando da loro fu visto l'altissimo selvoso ostacolo delle
Alpi. Se gli Italiani, sclamarono, si sono appostati tra quei
gioghi per farci fronte nei posti più ardui a superarsi, riusciremo
noi a vincere, e nemmeno a salvarci? — Ma essi trovarono ogni
punto sguernito, e scesero freschi e baldi nelle pianure nostre,
Massimino allargò il cuore alla speranza e fece tra sé un ragiona-
mento cui lo storico accenna, e che è da persona giudiziosa anziché
da quella che era: Oramai la fortuna non può che arridermi;
se gli Italiani non hanno osato difendere questi accessi, meno che
meno difenderanno il resto.
222 L'ISTKIA e il nostro COìNFINE okientale.
Gli ItaHani però lo aspettavano ad Aquileia. Egli non aveva
più completamente ragione, quantunque essi avessero egualmente
avuto così gran torto non guardando i passi, che senza una ca-
tastrofe militare a quel modo, nessuno potrebbe dire se il Trace
non avesse anticipato suU' Unno, e imbarbarito fin dal secondo
secolo l'occidente.
XI.
È sempre dalla frontiera Orientale che vengono i maggiori
danni. Nel 452 Eoma aveva ancora un gran generale ma non ba-
stò. Ezio fu l'ultimo dei generali romani, come quella di Chàlons
fu l'ultima vittoria riportata in nome dell'impero occidentale.
Eimane anche da osservare con tutti che non fu una vittoria uni-
camente romana, e col Thierry e qualche altro che non fa se non
mediocremente tale. Certo non portò a conseguenze efficaci, im-
perocché il vinto Unno si rimase in cagnesco, dietro alla linea dei
propri carri. E se non poteva dirsi formidabile in modo alcuno il
trinceramento, ])isogna pure che tale fosse in qualche parte ri-
masto l'esercito, dacché vi fu lasciato rifare tranquillamente lena ed
animo, indi ritrarsi non senza ordine e non senza preda. Attila a
quella sua accozzaglia comandava ben piìi che non si pensi.
Narra infatti Candido, scrittore del principio del secolo XVI,
com'egli di quei suoi Quadi, Svevi, Eruli, Turdinii, Ruglì, Ostrogo-
ti, Valacchi, Gepidi ed Unni bianchi e neri, ne facesse quello che
gli pareva e per fino della gente, incredibile a dirsi, rispettosa della
proprietà altrui. Infatti, seguita a diro lo stesso autore contrario
al Yelsero ed al Giordano, ma tutt'altro che tenero di codesto
barbaro, com'egli passasse il Danubio e pervenisse al Eeno rite-
nendo tanto severamente i soldati dal rubare e dal soverchiare
comunque, che la cosa pareva a tutti un miracolo e le popolazioni
gli erano divenute fidenti ed amiche. Né la contraddizione è altro
che apparente, dovendo, chi consideri le ragioni e le circostanze
le quali portarono costui nelle Gallie, immediatamente persua-
dersi che la cosa aveva da andare in talune parti in un modo e in
tali altre ad un altro. Chiamato dal primogenito di Clodione
contro Meroveo, egli doveva avere mezzi Franchi con sé e mezzi
contro, e non poteva non voler risparmiare il territorio dei propri
e desolare quello degli avversi. Eimane meraviglioso che potesse
l'istria e il nostro confine orientale. 223
comunque riuscire a ciò, egli che non era, come s'è visto, a capo
di una nazione unica, né tampoco di una aggregazione messa
insieme da parecchio tempo, e consenziente in un fine determinato
od animata, checché ne dica in contrario il Gibbon, da nessuna
specie di fanatismo religioso o politico.
Attila non era nemmeno un gigante, come quell'accidentone
del Massi mino a petto al quale i più esercitati atleti greci erano
monelli, né brillava per la gloria di nessuna fazione esclusiva-
mente sua la quale lo segnalasse a tutti, come ne aveva avuto
parecchie in Germania e in Africa il Trace bestiale. Egli invece,
di persona membruta ma appena mediocre, di non comune valore
ma con mezzi non grandemente superiori al comune, traeva
l'autorità sconfinata dai molti e fidi amici come Valandro re
degli Ostrogoti ed Ardarico re dei Gepidi ai quali usava ogni
riguardo, a differenza di colui che lì per lì ordinava la morte
degli amici. Ciò spiega già assai. Il resto viene dalla astuzia molta
di lui, e soprattutto dalla efferatezza e inevitabilità delle pene in-
flitte a chiunque osasse contravvenire non a dei personali capricci,
ma a delle norme fisse ed evidentemente consentite dai singoli
capi dei diversi gruppi dell'esercito. L'efficacia delle repressioni,
checché ne possano dire alcuni ideologhi adulatori della razza
umana, è infinita sulle moltitudini fino a che rimanga in loro in-
crollata la convinzione della assoluta inevitabilità della pena. Né
il terrore potente e solo a reprimere istinti e a creare imman-
cabilmente delle virtù passive come la probità, e la castità, ma
vale talora fino a svolgere quella attiva del valore e dello slancio.
1 Quadi e gli Unni che attraversano magari un chilometro di
paese senza derubarlo provano l' onnipotenza dell'uomo sulla
natura stessa dell'uomo e delle cose.
Sidonio Apollinare enumera gli elementi dell'esercito calato
' sul nostro Friuli con Attila l'anno 452:
Subito cum rupta tuìnultu
Barba I-ras totas in te. transfuderat arctos
Gaìlia, jnif/nacem JRugum comitante Gelono,
Gepida trux sequitiir, Sei/rum Buìyundio cogit,
Chunus, Be.lUmutu?, Neurus. Basterna Turingus
Bructerus, ulvosa quem vel Nicer abluit uìida,
Prorumpit Francus
E che cosa fossero, per esempio, Franchi, e Turingi, per pre-
scindere dall'Unno del quale si ha un concetto etnografico non in-
224 l'istria e il kostro confine orientale.
terainente iDreciso, ne dà un'idea il Gil)l)on narrando come questi ul-
timi mettessero scelleratamente in pezzi per mezzo di cavalli sel-
vatici i corpi di 200 giovani fanciulle date loro in ostaggio per
indi stritolarne le ossa sotto le ruote dei carri e lasciarne in preda
ai cani ed agli avoltoi gli avanzi sminuzzati. Tali, esclama lo
storico inglese, erano quei selvaggi le cui imaginarie virtù si
sentono qualche volta lodare nei secoli inciviliti.
Se Attila trovò in Francia aiuti francesi, in Italia ne trovò
non pochi degli italiani. Gli arieti, le catapulte, le torri mobili, ogni
maniera di ingegni da lanciare sassi, freccie, fuochi ed altro, fu-
rono opera d'artisti latini. Oreste, il suo segretario, greco seconda
i pili, è da parecchi critici moderni dato anch' esso per latino.
Aquileia era l'unico ostacolo alla conquista dell'Italia.
Dentro la città pare che vi fossero parecchi alleati gotici coi
loro principi, Alarico ed Antala.
Influiva di molto sugli animi dei cittadini la memoria dell'an-
tica lezione inflitta a Massimino e dell'Italia così fieramente salvata-
dagli indomiti arcavoli. Narra l'autore della storia Misceìla che
l'assedio durasse oltre a venti mesi. Ciò manca di prove favore-
voli e ne ha moltissime di contrarie. L'assedio sarebbe stato per
tal modo contemporaneo alla campagna di Francia e perciò co-
mandato da un altro. Ipotesi dimostrata impossibile dal Muratori,
il quale jirova come egli rinnovasse sul principio dell'anno la do-
manda della mano di Onoria,
L'assedio durò tre mesi senza effetto. La mancanza delle
provvigioni, ed i clamori dell' esercito stavano per costringere
Attila ad abbandonare l' impresa e comandare con ripugnanza
che le truppe nella seguente mattina levassero le tende ed in-
cominciassero a ritirarsi. Mentre però cavalcava intorno alle
mura pensoso, tristo e sconcertato, osservò, narra Procopio, una ci-
cogna la quale preparavasi a lasciare il nido, posto in una delle
torri della città, e portare alla compagna i suoi nati. Costui, colla
pronta penetrazione d' un furbo, trasse partito prontissimo dal-
l' accidente, e chiamossi d' intorno molti, mostrando ad essi il fatto
e osservando in alto ed allegro tuono che un uccello così domestico,
e costantemente attaccato alla società e al posto, non avrebbe mai
abbandonato le sedi antiche, senza l'istintiva, presaga intuizione
che quelle torri erano condannate a rovinare. L' augurio parve
evidente, la persuasione rinnovellò il vigore, e tuttociò dette al nuovo
l'istria e il nostro confine orientale. 225
immediato attacco la pienezza del risolutivo successo. Le macchine
a un tratto avanzate verso quella parte delle mura, da cui la
cicogna aveva preso la fuga, apersero la breccia, subito irresi-
stibilmente invasa e passata.
La seguente generazione potè, scrivono gli storici quasi tutti,
appena scoprire le rovine d'Aquileia,
Per altro di codesto vix ejus vestigia del Giordano, la furia
d' Attila non è la sola spiegazione. Sono citati negli annali del
Muratori, alcuni appunti del Baronie, i quali proverebbero invece
che Aquileia ebbe poi a rialzarsi alquanto.
Distrutta piìi o meno (poco preme alla materia del presente
studio mettere in sodo se più giusto dicessero l' autore della
Miscella, il Giordano, il Dandolo, o il Baronie), Attila passò innanzi
senza venire fermato, come era ben prevedibile, e si arrestò nella
Lombardia che forse fu un po' la sua Capua. È pure con ciò
che molti s'aiutano a spiegare il fortunato successo dell'amba-
sciata di Leone papa sul Mincio, che rimane però uno dei più
bei fatti della storia del cristianesimo, anche non ammettendo
per cosa indiscutibilmente assodata l' apparizione di una riserva
a mezz'aria formata dagli apostoli Pietro e Paolo. Xon risulta
ben chiaro dalle relazioni degli storici contemporanei né il nu-
mero, né la qualità, né gli accantonamenti o le mosse delle truppe
comandate da Ezio. Esse non dovevano però mancare di una
qualche importanza, e potevano eventualmente da un giorno al-
l'altro triplicarla, che degli aiuti Valentiniano avrebbe potuto
forse ripromettersene sia dalle Alpi Galliche e Ketiche come
•dalle Orientali, conciossiachè i barbari, tanto delle razze germa-
niche come delle tartare e pannoniche, fossero la più vendereccia
gente del mondo, e l'erario dell' impero si trovasse ancora in
grado di disporre di molto oro. Alarico non aveva certamente in-
goiato il frutto dei trecento trionfi romani attraverso i secoli. Forse
il sospetto di ciò aiutò non poco l'eloquenza di Leone.
Del resto il famoso conquistatore non aveva, pare, l'animo im-
placabile e sapeva anzi, a quanto ne scrivono anche dei biografi
non barbari, impadronirsi qualche volta degli animi non meno che
degli stati e degli averi.
Prisco, andato a lui ambasciatore di Bisanzio, non dice nulla
della lingua che parlasse. Ci fu un gran bere e un gran farsi
inchini, ma i brindisi, a quanto pare, furono onninamente muti ed
anticiparono sul bellissimo attuale sistema inglese. Chi scrive, fé-
226 l'istria e il nostro confine orientale.
ce di molte ricerche intorno alla lingua parlata da Attila. Queste,
s'intende, consistono tutte nell' aver messo a torture degne dei
tempi della storia della colonna infame, quasi tutti i maggiori
glottologhi dei quali il nostro paese si onori. Gli pareva assai
importante di sapere o almeno congetturare come si fossero
passate le cose in quella conferenza. Leone, sebbene italiano,
non avrebbe egli potuto conoscere la lingua degli Unni i cui
accampamenti erano pure stati tante volte percorsi da' suoi non
pavidi missionari? Attila medesimo, il quale sotto Aquileia si
era servito di ufficiali ingegneri tutti latini, quante volte non avrà
dovuto conferire seco loro sulle cose dell' assedio ? — In tre mesi
un uomo del suo ingegao pronto ed acuto, non poteva avere ap-
preso tanto della lingua del paese occupato, da intendere e da
rispondere sopra una materia importante, anzi capitale, ma pur
semplicissima come quella di ricevere o no una fanciulla in isposa,
e la tale piuttosto che la tale altra indennità di guerra? — D'altra
parte non aveva egli un secretarlo greco, e forse latino, in Oreste,
che poteva tanto essergli stato non piii che interprete come, tratto
tratto, maestro?
Quanto alla lingua parlata dagli Unni non ce n'è stato tramanda-
to, rispose il luminare dei nostri glottologhi, l'Ascoli, alcun saggio.
I nomi propri, scarsi anch'essi, svisati forse chi sa quanto, dicono
troppo poco. Né più della lingua sono appurate le origini di costoro.
Pare a molti probabile che appartenessero all'amplissimo
sistema, che dicesi uralico o urale-altaico, e comprende anche i
Màgiari, non perciò si crede e neppur si presume che questi sieno
i diretti continuatori di quelli. I Tartari poi, qual pur sia l'esten-
sione che a questo nome si dia, ricadono sempre essi pure in
grembo al sistema uralico: ma è una denominazione vaga o
mal certa con la quale non si stringe nulla. Del ritratto di Attila
si dice che sia parlante quello di un Calmucco, e i Calmucchi
stanno nel gruppo Mongolico e sono Uralici anch'essi.
Ad ogni modo la ragione del diverso linguaggio non poteva
opporre grandi difficoltà alla relazione fra Attila o altri barbari
e i latini o i greci. Da una parte il greco era una specie di
lingua universale in quei secoli, e dall'altra i soldati barbari che
militavano o avevano militato sotto le bandiere di Roma (caval-
leria ausiliare, guardia teutonica ec.) erano pure riusciti ad
introdurre un certo numero dei loro vocaboli nel linguaggio
romano ed erano diventati una specie di uomini bilingui, par-
l'istria e il nostro confine orientale. 227
lanti cioè, oltre il proprio idioma barbarico, anche un po' di la-
tino disseminato per tutta l'estensione dell'impero.
Fatto sta che, senza che si possa ben precisare in qual lingua
Attila si lasciò svolgere da Leone, egli si ritirò in Pannonia, certo
ben pagato ma non imperialmente ammogliato come pretendeva,
ed avendo, senza saperlo, e contro tutte le proprie intenzioni, non
solo" distrutto, ma anche fondato qualche cosa di grande in Italia.
Qualche cosa anzi di molto più grande di quanto egli aveva
distrutto : Venezia.
XIT.
I profughi di Aquileia e di Aitino si sparsero a Grado, a
Malamocco, e sopratutto calarono numerosi nelle isolette venete
intorno a Rialto.
Cotesti poveri diavoli internati dal confine orientale rimasero,
anche dopo cessata l'urgenza del pericolo, nelle isole veneziane
le quali cominciarono ad essere unite tra loro da ponti che fa-
cevano tra le varie frazioni di quella sporadica topografia la parte
delle così dette gambe tra i vari fiori dei locali merletti. Così fu
cominciato a creare il reticolato, l'abbozzo d'insieme della futura
regina dei mari, divenuta da ultimo, come cantò il Mameli, la gran
mendica e un poco rimastaci.
Le origini di Venezia in particolare presentano un riscontro
molto diretto, e quasi direi combaciante, colle prime origini di-
fensive dell'umano consorzio. Venezia è l'ampliazione, la magni-
ficazione, del preistorico rifugio lacustre, il quale rimane pur
sempre la radice vera di questa, sia pure stragrande, potenza
della specie.
Venezia non fu per lunghi secoli che la patria seconda dei ve-
neziani, i quali tennero sempre con affetto e devozione infinita lo
sguardo rivolto alla terra delle loro origini. Marco, il santo che,
secondo la leggenda, aveva scritto il proprio vangelo in Aqui-
leia, ne fu proclamato patrono, il leone suo ne divenne il simbolo
e la bandiera. Come vessillo minore, Venezia ebbe quello di Er-
magora e Fortunato, due santi abbinati nel martirologio aquilese.
Fu per l'appunto con in pugno lo stendardo di sant'Erma-
gora che il doge Pietro Orseolo corse la Dalmazia ed occupò
Pola. La repubblica divenne grande, potentissima e tenne nel
mondo medioevale il posto dell'Inghilterra in questo moderno, ma
228 l'istria e il nostro confine orientale.
quando ebbe il possesso della terra delle sue origini, non la
chiamò mai, come tutte le altre, la provincia, ma bensì la putria
del Friuli. 11 Candido, l'Alberti, l'Amaseo, il Giambullari, tutti
infine, dal primo all'ultimo, gli scrittori antichi, rispettarono tale
sacra nomenclatura, che è un documento della storia ed uno
slancio del cuore, e conservarono alla intera Venezia Giulia questo
nome di patria, che oggi le ubbie o falsificazioni dell'etnografia
e della geografia straniera le vorrebbero contendere.
Ma chiudiamo ora le storie, e nella terza parte del presente
studio limitiamoci quasi' esclusivamente a guardare al territorio
da uomini politici e da soldati.
Paulo Fambri.
LE NOSTRE ORIGIiNL '
IV.
Le età preistoriche.
Quello che l'uomo si facesse nei cinquecentomila anni dell'epoca
terziaria e nei dugentocinquantamila dell' epoca quaternaria, che
tale è la minima durata assegnata a queste epoche, è curioso
a sapere ed è difficile a indovinare; il che vale anche pei tempi
preistorici dell'epoca attuale. Per saperlo, lo scienziato scava e fruga
la terra, esplora grotte e caverne, esamina tumoli, costruzioni a
palafitte, terremare, cumoli di conchiglie, e ovunque va ricercando
un utensile, un'arme, un osso, un segno infine che gli parli dell'uomo
e delle forme della sua attività. Le due scienze naturali, la geologia e
r antropologia, aiutano la paleontologia umana e l'archeologia prei-
storica nella ricerca e nella spiegazione di que' prodotti dell'attività,
che ci permettono di distinguere le età attraversate dall'uomo prima
di entrare nella vita istorica e civile. Di queste due ultime scienze,
la prima, cioè la storia delle razze umane nelle epoche geologiche
anteriori alla presente, comprende lo studio de' prodotti, delle spo-
glie, degli avanzi dell' uomo nell' epoca terziaria e nella quaternaria.
Suo dominio è il mondo dei fossili umani, seppelliti negli strati
della terra e nel fondo delle acque o trasportati da alluvioni sulla
superficie dei continenti ; ma seppelliti e trasportati in epoche geo-
1 Questo era il titolo generale del presente lavoro. Per un errore, si è dato
air articolo precedente un titolo diverso e particolare.
VoL. XIV, Serie II — 15 Marzo 1819. 14
230 LE NOSTRE ORIGINI.
logiche anteriori alla presente. A rigor di termini adunque essa
occupasi soltanto della prima fra le età, che tutte chiamo preistori-
che, l'età archeolitica o l' antica età della pietra, quella della pietra
greggia e scheggiata. A questa seguì Tetà neolitica, o la nuova età
della pietra, quella della pietra pulita o levigata, i cui oggetti tro-
vausi ne' terreni di recente formazione. Poi venne l' età del bronzo
ed infine quella del ferro, che entra nei tempi storici. L'archeologia
preistorica occupasi più specialmente delle due seconde età. Ma co-
deste età, badisi bene, si succedono e coesistono : il bronzo succede
alla pietra, ma non la discaccia.
Gettiamo un rapido sguardo ai ijrincipali fatti che contrasse-
gnano la vita dell' uomo in queste età preistoriche.
Nei tempi di mezzo dell'epoca terziaria, cioè nel periodo mio-
cenico, il clima dell'Europa era sensibilmente più caldo del pre-
sente, come attestano la fauna e la fiora. Al dire dello Schimper
{Paleontologia vegetale) la temperatura avvicinavasi alla media
subtropicale e nell' estate avevasi un caldo tropicale. Calcolasi che
la media temperatura fosse allora fra il 18 e il 19°. In quell' am-
biente caldo e umido si dischiuse una vegetazione lussureggiante,
si manifestarono le più elevate forme di mammiferi, e in Francia
viveva il gibbone, che cerca le regioni calde. Tale clima era favo-
revolissimo allo sviluppo dell' uomo, il quale potè benissimo nascere
anche in Europa e vivere accanto agli antrojjomorfi. Non è neces-
sario andarne a trovare 1' originaria sede nelle contrade attualmente
calde, come vorrebbe il Lubbock ; ma, come ben dice l' Hamy
{Paleontologia umana), l'uomo ha potuto essere originato in quelle
regioni che allora erano calde. L' apparizione della nuova specie,
per effetto della legge di trasformazione, ha potuto adunque acca-
dere in un medesimo periodo geologico e in diversi continenti. Ma
non bastano le condizioni climatologiche per produrre una determi-
nata forma in un dato periodo geologico. Eichiedesi una lunga
sequela di anni prima che le modificazioni derivanti dall' adatta-
mento e quelle provenienti dall' eredità si riequilibrino e consolidino
in una forma diversa e più alta. La nuova forma, che in un pe-
riodo si elabora, può diventare appariscente solo nel seguente.
E l'uomo, che poteva bensì vivere ne' tempi miocenici, non è certo
che vi sia vissuto. Però le ricerche del Bom-geois e del Delaunày,
e alcune analogie paleontologiche fanno credere a non pochi che i
nostri progenitori si godessero infatti i voluttuosi tepori dei tempi
miocenici. Sotto alle sabbie fluviatili dell'Orleanese, ove il Bom-geois
incontrò il gibbone fossile {Hylohates antiquus), e sotto al calcare
LE NOSTRE ORIGINI. 231
di Beauce, ove scopri il rinoceronte a quattro dita (Acerotherium),
trovò pure le prime selci lavorate, pare, dalla mano dell'uomo.
Sono raschiatoi simili a quelli dell' epoca quaternario-, ma più im-
perfetti, anzi imperfetti tanto da far pensare che essi siano semplici
ciottoli, trasformati dall' immaginazione paleontologica, la quale
scorgendoli deposti presso le sponde inclinate di un lago, già pensa
che ivi stessero le stanze dell' uomo e già vede le abitazioni lacu-
stri nei tempi miocenici. E poiché le selci di Thenay portano le
tracce del fuoco, se ne induce tosto che quelle abitazioni furono da
esso distrutte, e che l' uomo miocenico conosceva già l' arte di pro-
durlo. Il Bourgeois crede di aver provato che l'uomo adoperava
certamente il fuoco ne' tempi miocenici, e propriamente in quelli
che la cronologia preistorica del Lartet denomina da' mastodonti,
appartenenti, come si sa, alle specie estinte. Egli ha trovato nelle
sabbie dell' Orleanese un frammento pietroso, formato da una pasta
dura e grigia, mescolata col carbone ; il che gli farebbe credere che
r uomo miocenico non pui'e adoperava il fuoco, ma tentava anche
i primi saggi di ceramica. Se a questo aggiungasi che i raschiatoi
trovati ne' ten-eni rispondenti a questi tempi sono di miglior ma-
teria, se non di miglior fattura, di quelli trovati nei terreni ri-
spondenti al tempo anteriore, si ha qualche argomento per cre-
dere che r uomo miocenico contemporaneo dei mastodonti aveva
progredito sull' uomo miocenico contemporaneo de' rinoceronti. Ma
quel non trovare ossa umane insieme con gli utensili, fa sempre
dubitare molti paleontologi dell'esistenza dell'uomo. Neanche le inci-
sioni scorte sulle ossa degli animali appartenenti a specie estinte
non parvero a molti un argomento convincente, perchè possono
essere state prodotte o dal dente di altro animale o dalla zappa
dello scavatore. Quelle osservate sull' Halitheriwn fossile paiono
però davvero opera dell' uomo e richiamano alla mente i costumi
dei moderni selvaggi dell'Australia, che si cacciano a traverso il
grasso della balena e si pongono a scarnirla, producendo incisioni
sulla carcassa.
A'tempi miocenici succedettero i pliocenici, che rappresentano il
periodo moderno dell'epoca terziaria. La media temperatura dell'Eu-
ropa si abbassò di 6°, come scorgesi dallo studio della fauna : spa-
rirono gl'ilobati, i driopitechi, e furono sostituiti da'pitechi, scimmie
senza coda, ancora rappresentate dai bertuccioni. È assai probabile
che in tempi così glaciali l'uomo emigrasse verso il sud; ma la
sua esistenza in questo periodo della storia terrestre, non è ancora
pienamente accertata. 11 famoso uomo fossile di Savona, trovato
232 LE NOSTRE ORIGINI.
in un terreno chiaramente pliocenico, pare vi sia stato posterior-
mente seppellito. Forse è più probabile che sia terziario l'uomo
fossile della California, perchè il cranio del Campo degli Angeli si
è trovato a 153 ijiedi di profondità, di sotto a stratificazioni vul-
caniche prodotte da lave che il Whitney fa rimontare ai tempi
pliocenici. L'uomo pliocenico in America e l'uomo miocenico in
Europa farebbero credere alla poligenesi dell'umanità. Ben è vero
che l'uomo poteva dall'Europa e dall'Asia emigrare in America o
pel nord o anche per l'ovest, se si ammette l'esistenza dell'Atlan-
tide terziario, cioè di un continente fra la Spagna, l'Irlanda e l'Ame-
rica; ma tali spostamenti, in tempi così primitivi e quando la
popolazione doveva essere radissima, parranno forse allo scienziato
meno naturali del perfezionamento delle specie d' un medesimo
genere, ne' vari continenti da esse abitati. Le migrazioni da nord
a sud, in un medesimo continente, sono per contrario spiegabi-
lissime nel periodo glaciale, in cui l'uomo dovè combattere contro
i rigori della natura così da far credere ad alcuni che da quelle
sofferenze e dai ricordi dei tempi miocenici sia stata originata
l'idea di un paradiso terrestre, che è in antitesi con la verità del
progresso umano. Ma il progresso non è continuo, non è privo di
ritorni, e per l'uomo pliocenico del periodo glaciale erano al certo
invidiabilissimi i tepori e le verdeggianti campagne de' tempi mio-
cenici.
Se non ossa umane, sonosi però rinvenute ne' terreni plioce-
nici ossa incise di animali, utensili, armi, così da far pensare al
Desnoyers che l'uomo sia vissuto in Francia e in Val d'Arno, ove
tali avanzi furono scoperti, contemporaneamente aWElephas me-
ridionali s, appartenente ad una specie estinta, che nella cronologia
del Lartet dà il nome a (luesto periodo pliocenico. Le incisioni
sulle ossa di elefanti e di altri animali, come a dire il rinoceronte
leporino, l'ippopotamo, ecc., trovate a Saint-Prest e in Val d'Arno
fanno dire al Desnoyers che l'uomo, per difendersi e per alimen-
tarsi, lottava contro i grandi mammiferi pliocenici. E se pensiamo
che la temperatura era bassa e che difficilmente esso conosceva
l'uso del fuoco, dobbiamo convenire che l'uomo menava una vita
ben triste. Ma il Lubbock e il Lyell, due autorità eminenti, non
hanno la medesima fede del Desnoyers, e pensano che quelle inci-
sioni sulle ossa degli animali possano essere state prodotte o dal-
l'azione dei torrenti o da quella dei denti di altri animali. Se non
che è da osservare che ornai si sa distinguere l'una dall'altra in-
taccatura, e che insieme a quelle ossa sono stati rinvenuti anche
LE NOSTRE ORIGINI. 233
istrumenti di selce e punte di lance. Si può adunque dubitare del-
l'esistenza dell'uomo terziario ; ma non si può negare che le grandi
probabilità sono in favore di essa.
La paleontologia umana o paleoetuologia trova un solido fon-
damento nell'epoca postpliocenica o quaternaria. Qaella parte del-
l'età archeolitica che risponde alle formazioni quaternarie, vien
divisa in due periodi, quello degli animali appartenenti a specie
estinte, a specie emigrate e a specie viventi, e quello degli ani-
mali appartenenti solo a specie emigrate e viventi. Estinti sono
p. e. l'orso delle caverne, il mammuto, che dà il nome al primo
periodo postpliocenico ; emigrata e vivente è p. e. la renna, che
contrassegna il secondo periodo. Questa divisione paleontologica,
adottata dall'Hamy, discepolo del Lartet, implica una contraddi-
zione con la divisione geologica, creata dal Lyell, secondo il quale
le formazioni postplioceniche si distinguono dalle recenti appunto
per la esistenza di specie estinte. In quella vece, secondo l'Hamy,
avrebbesi un periodo postpliocenico senza specie estinte. Non ostante
ciò, io ho adottato la partizione paleontologica dell'Hamy, non solo
perchè conferisce alla chiarezza dell'esposizione o ad una più or-
dinata classificazione, ma anche perchè m'è parso che la contrad-
dizione sia in gran parte più apparente che reale. Lo stesso Hamy
conviene che nel periodo delle renne continuano a vivere i mam-
muti, i quali vanno disparendo a poco a poco, e che solo nel se-
condo subperiodo di quello non se ne incontra neppur uno. Ora
tale subperiodo si può considerare come un momento di transi-
zione fra i tempi poetpliocenici e i recenti.
La esistenza dell'uomo nel primo periodo di questa epoca è
un fatto ornai indiscutibile, come abbiamo veduto nel § precedente
{Aìdichifà dell' Uomo). Ed è pure ammesso che all'alba di questo
periodo continuò la dilatazione dei ghiacciai, dovuta all'azione del
freddo sul vapore acqueo diffuso dal calore nell'atmosfera (Tyudall) ;
il che fa credere ad una certa intermittenza nei tempi glaciali del-
l'Eui^opa. Questa venne in gran parte invasa da' ghiacciai, che avan-
zavano con irresistibile lentezza. La loro posteriore fusione o il loro
ritiro, prodotto forse anche da che lo stato continentale si andò
in Europa sostituendo a quello insulare, determinò la formazione
delle correnti che deposero terreni alluvionali, ove in conti'ansi, in-
sieme con gli scheletri degli animali, gli oggetti dell'industria qua-
ternaria dell'uomo preistorico. L'esame di questi avanzi ci fa in-
durre con positivo fondamento che l'Europa era abitata da giganteschi
234 LE NOSTRE ORIGINI.
animali e forse da non giganteschi uomini. Fra le specie estinte
erano il mammuto o elefante primigenio, il grande orso delle ca-
verne, il bicornuto rinoceronte dalle narici spaccate, il leone, la
tigre e la iena delle caverne, — animali diversi dai contempo-
ranei e di questi più robusti, — il bisonte europeo rimasto in Polonia,
il gi-an bue e il cervo dalle lunghe corna {Cervus megaceros), ecc.
La renna, il cervo d'Islanda, il castoro, ecc. vivevano pure al-
lora, ma in altre regioni da quelle in cui vivono adesso. In un
clima nefasto e fra aniiBiali robusti e colossali, la volontà dell'uomo
primitivo dovette essere stimolata a ricercare i mezzi per soste-
nere la lotta contro la matrigna natura, così matrigna che a chi
vuol continuare a credere in un Eden primitivo non resta altro
scampo che acconciarsi a credere all'esistenza dell'uomo mioce-
nico. Quando la volontà è stimolata, l'intelligenza si aguzza. È
per tanto credibile che in questa epoca postpliocenica l'uomo sco-
prisse il modo di produrre il fuoco, elemento essenziale per con-
servare sé e per allontanare gli animali feroci. Chi sa quante
volte avrà egli veduto uscir fumo da due pezzi di legno secco,
confricati insieme, senza badarvi più che tanto! Ci voleva il pungolo
del prepotente bisogno, una esperienza maggiore e uno spirito
di osservazione più sviluppato per produrre la prima fiamma ar-
tificiale, per trarre il primo partito utile dalla trasformazione del
moto in calore. Noi immaginiamo lo stupore e la gratitudine pel
fortunato Prometeo, di quegli uomini pe'quali il fuoco era la vita.
Qual meraviglia che ogni razza abbia divinizzato, col tempo, il
suo grande benefattore! Egli aveva la potenza della folgore, ma
non il suo genio distruttivo.
Con gli avanzi dell' industria umana si può ricostruire in parte
la vita dell'uomo in questo primo periodo dell'epoca postpliocenica. In
un lavoro sintetico come quello che offro a' lettori è impossibile
dar le prove di ogni affermazione. I paragrafi si cangerebbero in
volumi, molti de'quali risponderebbero ciascuno ad una speciale
disciplina , e però ad una particolare biblioteca. L' autore di
questo scritto deve condensare i molti volumi in poche pagine;
ma egli sente di potere assicurare che non afferma nulla che non
possa provare. La sua libera fede è in lui cosi fondata su con-
vinzioni scientifiche da renderlo non pure sdegnoso di qualunque
cosciente falsificazione di fatti, ma altresì pauroso di qualunque
falsificazione incosciente, prodotta dal desiderio o dall' immagi-
nazione. I lettori avi'anno osservato che egli dubita anche quando
altri afferma, altri meno radicale di lui nelle credenze fondamen-
LE NOSTRE ORIGINI. 235
tali, e che non si studia di celare ad alcuno la incertezza di
parecchie induzioni o deduzioni. Egli non aspetta le ossa dell'uomo
terziario per convincersi dell'alta antichità della nostra specie, né
aspetta i crani e le mascelle dell' uomo pitecoide per sorridere
all'idea che l'uomo ahhia potuto nascere d'un getto. La lealtà scien-
tifica, che per molti deriva dallo schietto desiderio di appurare la
verità vera, in lui è anche figlia della profonda convinzione che
le cose non hanno potuto evolversi che secondo leggi naturali. Se
molte prove mancano ora non importa ; non mancheranno domani.
Che se dovessero far difetto per sempre, ebhene, io rimarrei in-
crollabile nelle mie convinzioni, sino a quando le lacune non ve-
nissero colmate da prove contrarie. Ma questo è impossibile!
Per non soccombere nella lotta per l'esistenza contro la natura
inorganica, organica e sopraorganica, contro questa triade di ne-
mici, i contemporanei del mammuto dovettero trovare un riparo
contro gli eccessi della temperatura, contro la ferocia delle belve
e gl'istinti rapaci de'loro fratelli, dovettero prodm're armi e darsi
alla caccia di animali e di uomini. Asce, coltelli, raschiatoi si
trovano nelle caverne, frammisti alle ossa di animali apparte-
nenti a specie estinte e non estinte. Le caverne, covi delle bestie,
furono pure le prime abitazioni dell'uomo : l'uomo cominciò adun-
que per essere troglodita. In quegli antri si riposò, si difese, ap-
parecchiò gl'istrumenti di pietra per uscire alla caccia, cucinò
le carni animali e umane, preparò le pelli per coprir la per-
sona, e si seppellì con i suoi. La ispezione delle caverne scoperte
da'paleontologi ha fornito le prove di queste affermazioni, e fa
pensare ad alcuni che gli animali furono i primi maestri dell'uomo.
Seguendo e inseguendo gli animali, egli imparò a trarre partito
dalle caverne in cui ritiravasi l'orso, il rinoceronte, la iena, ecc.
Se così fu, l'uomo si è di poi mostrato ingrato quanto un discepolo ;
ma chi crede in una graduale evoluzione della specie, non può
concepire un primo uomo, affatto ignorante, che dall'animale im-
pari i primi elementi del vivere. La specie umana, ne'tempi in cui
acquistò la sua particolar fisonomia, trovavasi già in possesso
degli usi e costumi de'suoi predecessori. L'uomo fu ereditaria-
mente troglodita. La trasmissione ereditaria degli usi e costumi è
stata chiaramente intraweduta anche dal poeta Orazio, il quale
ispiravasi in verità alle dottrine di Lucrezio. Orazio in fatti parla
dello stato trogloditico e arboreo dell'uomo, che ancor privo della
favella articolata, disputava con le unghie, con i pugni e col ba-
stone le ghiande e il covo. L'uso del bastone, ch'è scimiesco, ha
236 , LE NOSTRE ORIGINI.
suggerito ad alcuni l'idea di far precedere all'età della pietra
un'età della clava.
La legge del progresso già si verifica nel passaggio dall'epoca
terziaria al primo periodo di ({uella quaternaria. Oltre agli utensili
e alle armi di miglior fattura, tu trovi anche un istrumento di
corno nella grotta di Aurignac, aghi di osso e conchiglie forate
da servire per monili, come quelle scoperte ne'terreni diluviali di
Amiens, L'uomo adunque nettava le pelli degli animali col ra-
schiatoio, le cuciva con l'ago e così le riduceva a vestimenta.
E'ijensava già a j)iacere e si ornava di rozzi monili, che forse
l'aiutavano a solleticare la vanità delle donne. Erano le prime se-
duzioni estetiche, provocate da quella legge che il Darwin ha
chiamato della scelta sessuale. E poiché parliamo di estetica, dirò
pure che forse forse a quei tempi postpliocenici rimontano i primi
abhozzi artistici dell'uomo, stando alla placca di cui parla il Bur-
meister e alle selci raccolte dal Boucher de Perthes a Saint-Acheul,
su di alcune delle (juali egli vorrebbe scoprire i tratti di una
testa umana, imperfetti naturalmente come quelli disegnati da'fan-
ciulli. Se vi aggiungiamo l'ossatura in legno d'una capanna, tro-
vata a Sodertelje, e qualche vago indizio che al Lyell fa credere
nell'esistenza di un popolo di pescatori scandinavi, noi possiamo
inferirne, benché con debole fondamento, che gli antichi selvaggi
quaternari cominciavano a passare, in alcune contrade d'Europa,
dallo stato di cacciatori trogloditi a quello di pescatori abitanti
delle capanne.
I caratteri anatomici degli uomini vissuti nel primo periodo
dell'epoca postpliocenica, dei contemporanei cioè del mammuto, si
possono desumere dagli avanzi ossei sinora trovati in diverse con-
trade dell'Europa; ma, oltre che tali avanzi sono pochi, è assai
difficile il determinare con esattezza a (j[uale periodo di quell'epoca
appartengano. Non trattasi già di sapere se un fossile appartenga
alle formazioni quaternarie o terziarie o recenti; ma se nelle for-
mazioni quaternarie si debba attribuire al periodo del mammuto
o a quello della renna ; il che è tanto più difricile in (juanto che al
tempo de' mammuti vivevano pure le renne, e nella prima parte del
periodo delle renne continuavano ad esistere i mammuti che si an-
darono gradatamente estinguendo. Tali periodi sono stati creati dal
semplice predominio dei fossili dell' una o dell' altra specie ; il che,
unito alla scarsità degli elementi, rende facili gli errori. Infatti
non poche contraddizioni s' incontrano negli scritti de' paleontologi
intorno alla cronologia delle razze quaternarie, massime quando si
LE NOSTRE ORIGINI. 237
vuole cou troppa esattezza determiuare la loro successione. Siamo
in un campo nel quale la confusione giustamente ripugna ad una
mente lucida e bene ordinata, e la soverchia chiarezza giustamente
spaventa un cauto e profondo osservatore. La natura non è confu-
sione, è vero : essa ha un certo suo ordine ; ma questo è assai meno
semplice e chiaro di quel che non appaia dalle sistematiche e bene
architettate classificazioni paleontologiche. Queste, appunto quando
sono più chiare, possono essere più vicine al poema che alla storia.
Dirò qualche cosa de' principali avanzi umani trovati in Eu-
ropa nelle formazioni quaternarie, contenenti ossa di mammiferi
delle specie estinte, o sia corrispondenti al periodo del mam.muto,
per ricavarne il carattere generale della razza o delle razze umane
vissute in questo periodo. Si può cominciare a indurre quel carat-
tere; ma siccome gli elementi sono pochi, così bastano poche altre
scoperte per abbattere tutto. 1' edifizio degli odierni paleoetnologi.
Dalla^ Scandinavia all'Italia pare che ne' primi tempi dell'epoca
quaternaria siasi distesa una razza dolicocefala o a cranio oblungo.
Dolicocefali sono giudicati i crani trovati a Stiingenàs, insieme ad
un robusto femore, che calcolasi essere appartenuto ad un uomo
alto 1"° 78. Tali vengono pure considerati i crani trovati a Lahr,
Maestricht, Eguisheim: le loro arcate sopraccigliari sono saglienti,
la fronte è stretta ed appiattita, la faccia è bene sviluppata e di
forma triangolare, la mascella inferiore è larga, e i denti incisivi
sono obliquamente inseriti. La medesima dolicocefalia è stata os-
servata nel cranio dell'Olmo, trovato nel 1863 presso Arezzo ne' ter-
reni postpliocenici, insieme ad avanzi dell'elefante fossile, ne' fram-
menti ossei di Denise, ne' crani di Clicliy, presso Parigi. L'incertezza
che regnò intorno a' caratteri craniologici della mascella di Moulin-
Quignon, quella scoperta da Boucher de Perthes, venne dileguata dal
cranio trovato nel 1864 nella cava di Moulin-Quignon, a 3 metri
di profondità. Esso è piuttosto dolicocefalo. Al medesimo risultato
si perviene esaminando gli avanzi umani trovati nelle caverne, che
pe'loro caratteri paleontologici e archeologici corrispondono a' ter-
reni alluvionali dei bassi livelli, in cui furono trovati gli avanzi or
citati. Dolicocefalo è p. e. il cranio del Neanderthal, riguardo al
quale ho di già fatto cenno dell'opinione dell'Huxley, con cui con-
corda lo Schaaffhausen. Se con la sua scoperta non possiamo dire
di essere in possesso di una forma dell'anello intermedio fra l'uomo
e gli antropomorfi, dobbiamo d'altra parte riconoscere che ci tro-
viamo davanti uno de' più bestiali e forse il più bestiale cranio
d'uomo. Ma lo scienziato che non voglia generalizzare un fatto par-
238 LE NOSTRE ORIGINI.
ticolare non deve considerare il cranio del Neanderthal come tipico
della razza che abitò 1' Europa ne' primi tempi quaternari, tanto
più quando altri fatti lo obbligano a temperare le sue induzioni.
E' pare che quella razza potrebbesi, così pel suo corpo come per
i prodotti della sua industria, paragonare a' moderni selvaggi del-
l'Oceania, che sono parimente dolicocefali e prognati, cioè col muso
sporgente e col mento fuggente. Questa è l'opinione dell'Haniy, il
quale crede pure che in Francia e nel Belgio sia sopravvenuta una
seconda razza, una razza brachicefala, di piccola statura, con un
cranio poco sviluppato e con la faccia più o meno prognata. Gl'in-
dizi da' quali trae questo suo pensiero sono così pochi e fragili da
impedirmi di seguirlo. Possibile che bastino poche ossa trovate a
Clichy, alla Naulette, ad Arcy-siu-Cure per piantarvi su un castello
immaginario ! Il trovare in uno strato superiore alcuni crani brachi-
cefali non è ancora un argomento sufficiente per credere ad una
nuova alluvione etnica. Nelle medesime razze che noi chiamiamo
dolicocefale, per accennare al carattere dominante, non mancano
molti e molti individui brachicefali, e cadrebbe nell'errore il paleoet-
nologo dell'avvenire se da pochi crani d'individui brachicefali, se-
polti molti secoli dopo la morte d' individui dolicocefali, volesse
indurne una successione di razze. Quello che a me pare meglio accer-
tato è solamente la esistenza di una razza dolicocefala nel periodo
del mammuto.
Seguo volentieri questa opinione anche perchè essa evita la
soluzione di continuità paleoetnologica, che altrimenti vi sarebbe
nel periodo del mammuto e nei tempi di transizione da questo a
quello della renna. Infatti nelle formazioni geologiche rispondenti
a questi tempi e contrassegnate dalla graduale disparizione de' grandi
mammiferi, da speciali selci e da particolari istrumenti di osso,
sono stati scoperti di recente gli avanzi di una razza di alta sta-
tura, piuttosto ortognata e fornita di cranio dolicocefalo e volumi-
noso, che veduto sotto un certo angolo pare di forma ogivale. Tale è
il carattere degli scheletri di Grenelle e di Cro-Magnon, a' quali po-
trebl)esi forse anche riattaccare il cranio di Engis. La razza a cui
appartengono potrebb' essere stata quella stessa della quale ab-
biamo discorso; ma perfezionata dall'evoluzione.
Stando alla descrizione del Broca, gli scheletri di Cro-Magnon
apparterrebbero ad una razza che per certi caratteri riteneva delle
scimmie e per certi altri avviciuavasi alle razze incivilite. Tali
uomini eransi adunque trasformati a mezzo, erano uomini ma non
ancora interamente separati da' progenitori di altre epoche. Chi
LE NOSTRE ORIGINI. 239
osserva il mondo che lo circonda, incontra ancora oggi, massime
presso la bella razza inglese, tipi in cui non è appieno distrutto lo
stampo ereditario delle forme anteriori. Due fatti ci colpiscono
nell'esame di questi scheletri : le dimensioni delle ossa e quelle del
cervello. Predomina fra gli scienziati un' opinione opposta a quella
del volgo intorno alle proporzioni anatomiche degli uomini primi-
tivi : si pensa eh' e' fossero piuttosto piccoli di statura e che aves-
sero il cervello poco sviluppato. Ora, la conformazione delle ossa
degli scheletri di Cro-Magnon è atletica e la capacità craniale assai
vasta. Che vuol dire ciò ? Non ci affrettiamo alle induzioni. Prudente
qual sono a indurre in prò della mia tesi, ho il dritto di esserlo
anche contila. Sarebbe per me stranissimo se tutti gli uomini dell'epoca
del mammuto fossero stati piccini o tutti altissimi, e parmi più natu-
rale che anche allora vi fossero razze di alta e razze di bassa sta-
tura. Per iscoprire il carattere predominante bisognerebbe fare un
calcolo comparativo di medie, il che è impossibile effettuare su
pochissime ossa. Kitorneremo su di ciò nel paragrafo seguente.
Per ora accennerò soltanto che, al dire del Broca medesimo, le re-
gole di proporzione mediante le quali, dalla lunghezza del femore
p. e., s'induce la statura di un uomo, sono state ottenute studiando
le razze attuali e possono non essere giuste applicate alle razze
preistoriche. Quanto alla capacità cerebrale trovo giusta una osser-
vazione dell' Hamy, il quale dice che la capacità craniale di quei
tipi primitivi è considerevole soprattutto indietro, cioè all'occipite,
il che viene considerato come un carattere d' inferiorità relativa.
D'altra parte la capacità del cranio del Neanderthal è di 1230 cen-
timetri cubici, cioè non superiore alla media de' crani degli Otten-
totti e de' Polinesiaci, e quella del cranio del Liri è di 1306 cent.,
corrispondente ad un cervello pesante 1358 grammi, cioè appena
uguale al peso medio del cervello dell' odierna donna italiana. Il
Canestrini, dal quale ho tolto quest' ultima citazione, conchiude
cosi : « lo studio de' cranii dell' epoca della pietra finora rinvenuti
in Italia ha condotto alla conclusione, che la loro capacità interna
è inferiore a quella de' cranii italici delle epoche posteriori. » Que-
sto fatto è naturalissimo : 1' esercizio delle funzioni intellettuali è
pel cervello quello che la ginnastica è per le membra.
In generale gli avanzi umani dell' epoca della pietra manife-
stano i segni delle razze inferiori e anche delle specie animali in-
feriori. I più antichi avanzi par che appartengano ad una razza
dolicocefala, ma quelli che immediatamente seguono appartengono
piuttosto alle teste rotonde. Il Pruner-Bey, che ha fatto un accu-
240 LE NOSTRE ORIGINI.
rato studio sugli scheletri di Cro-Magnon, vi ha discoperto il tipo
mongoloide, analogo a quello degli attuali Lapponi ed Eschimesi.
Faccia romboidale, mandibola sviluppata, pomelli sporgenti, ma-
scelle e denti proiettati avanti, e forse tinta bruna e capelli neri.
Se non che è da osservare che, rispetto alla forma del cranio, il
cosi detto tipo mongolico comprende popolazioni brachicefalo, come
i Finni e i Lapponi, e popolazioni dolicocefali, come gli Eschi-
mesi, i quali del resto vengono dagli antropologi considerati come
i migliori rappresentanti della maggioranza della razza gialla.
Secondo il Pruner-Bey, così fatta razza mongoloide sarebbesi di-
stesa in Europa, nell'Asia settentrionale e nell'America del Nord
11 predominare di altre razze 1' avrebbe respinta, ed oggi i suoi
avanzi s' incontrano presso i Baschi, i Liguri, i Lapponi, i Finni,
ne' monti Urali e nell'America del Nord. Le affinità del linguag-
gio confermano codesta identità primigenia. Se questa razza è
venuta dall'Asia, noi ne dobbiamo inferire che gli scheletri di Cro-
Magnon non ci hanno fatto conoscere ancora gli autoctoni del-
l'Europa, i quali a\Tanno dovuto formare un'anteriore stratificazione
etnica. Ma da' soli caratteri anatomici non si può argomentare
con sicurezza che quella razza sia venuta dall'Asia, e non è da re-
spingere l'ipotesi che essi sieno projjri non già del solo uomo asia-
tico, ma dell'uomo primitivo di certe regioni cosi europee, come asiar-
tiche ed americane. A maniera di esempio, la natura dell'alimentazione
dell'uomo primitivo ha esercitato un'azione che spiega di per sé lo svi-
luppo mandibolare, e la modificazione di quel regime, dovuta al pro-
gresso, basta essa pure a spiegare la trasformazione della mandibola.
L'Hamy, paragonando l'industria e i carcami della razza dolicocefala
dell' epoca del mammuto con l' industria e le forme anatomiche
degli odierni Oceanici, è colpito da' molti punti di somiglianza;
ma non per questo sogneremo noi una invasione oceanica in Eu-
ropa, non per questo ci reputeremo discendenti dei selvaggi della
Polinesia. Ecco un problema, che l'antropologia non basta a risol-
vere, senza il soccorso della filologia.
Dura il freddo, sebbene la temperatura dell' Europa vada ele-
vandosi, e le renne che prediligono il clima nordico, crescono e
si moltiplicano nelle regioni che oggi sono temperate e che allora
dovevano essere freddissime. Fra le argille, il limo e le sabbie che
costituiscono il terreno quaternai'io superiore abbondano infatti le
ossa delle renne, e quelle de' grandi mammiferi veggonsi andare
gradatamente scemando. Siamo nel secondo periodo dell' età della
LE NOSTRE ORIGINI. 241
pietra greggia, quello che piglia nome appunto dalle renne, indivisibili
compagne dell' uomo, i cui progressi in questo periodo sono inne-
gabili, e sono agevolati dall' aiuto che gli porgono le renne, voglio
dire dal partito eh' egli ne impara a trarre. L' uomo continuò ad
abitare le grotte: ma imparò piu*e a profittare di quelle sporgenze
delle rocce, che formano come una specie di tetto naturale, con la
veduta aperta della campagna, e si perfezionò nell'arte di fare tende
con pelli di animali e capanne con rami e foglie. E dico si per-
fezionò, perchè io non posso credere che nelle epoche anteriori
l'uomo non conoscesse j^unto l'arte di far capanne. Quantunque la
scarsa popolazione de'primi tempi quaternari dovesse sentire una
potente attrazione pe'siti montuosi e pe'loro ricoveri, perchè vi si
poteva meglio difendere e conservare, pure è da ammettere che
abitanti della pianura dovettero essercene e che questi non pote-
rono vivere che prima sugli alberi e sotto gli alberi, poi coperti
da artificiali capanne. L'uomo, in questo secondo periodo, continuò
ad essere cacciatore, ma si affidò maggiormente sulle acque e di-
ventò meno timido cacciatore di j)esce. 11 Dupont suppone che
l'uomo dei tempi della renna avesse zattere e barche, e lo argo-
menta da certi pezzi di psammite, trovati nella grotta di Chaleux,
e che non potettero essere raccolti senza passare di là dalla Lesse.
Quello che è certo si è che nelle grotte trovansi ossa di pesci,
frammiste ad altre di animali terrestri, ad armi, ad utensili. L'uomo
continuò a mangiare erbe e carni di animali, ma cominciò a raf-
finare il suo palato e a diventar ghiotto dei cervelli e del midollo
delle ossa. 11 modo con cui le ossa vedonsi spaccate indica chia-
ramente che questa usanza era generalizzata nei tempi delle renne,
e ci dimostra inoltre che gli uomini erano soprattutto ipjìofagi e
antropofagi. Oh povero diritto naturale, qual bestiale fondamento
hai tu, tu che ti scambi con l'ideale dell'imianità ! Ahimè, l'uomo
non porta di natura il diritto a votare, ma quello a mangiare
l'altro uomo ! Parlisi di un dritto degl'individui associati, di un
dritto sociale; parlisi della meta a cui la società e il suo dritto
debbono tendere ; parlisi della capacità e dello stato come condizione
al suffragio, che allora sì farà scienza vera e positiva; ma smet-
tasi di porre a fondamento del dritto e della democrazia le ugua-
glianze di natura. Eccole codeste uguaglianze ; il più forte mangia
il più debole, i genitori uccidono i loro figliuoletti, i figli uccidono
i loro vecchi genitori, e neanche la morte livella le differenze che
la natura crea.
Il progresso umano in questo periodo si rende più manifesto
242 LE NOSTRE ORIGINI.
e comincia a far sentire il suo ritmo accelerato. Le armi e gli
utensili sono più perfezionati, e insieme all'uso della selce ab-
bonda quello dell'osso e delle corna di renne. Nelle grotte riferi-
bili a questi tempi trovansi ami di osso o di corna, per pescare ;
aghi per cucire le vesti, che consistevano soprattutto nelle pelli
delle renne; seghe per lavorarne le corna; armi che a quei tro-
gloditi dovevano parer di lusso, poiché ve n'ha di quelle coi ma-
nichi scolpiti in forma di renne ; e fra le armi trovasi pure l'arco,
ignoto a'contemporanei del mammuto. L'uomo cominciò a elevarsi
di sopra alla semplice soddisfazione de' suoi materiali bisogni e
a sentire gli stimoli dell'arte, che è la potenza generatrice del-
l'ideale. Non voglio dii-e che il fischietto trovato nel Trou de
Noutons sia indizio che la musica era nata. Fatto da una tibia
di capra poteva servire solo a trarre un suono che indicasse la
chiamata a raccolta, l'avviso della scolta e simili; ma era sempre
un istrumento che mandava suono e però era una condizione pel
nascimento della prima musica pastorale. Ma che il gusto arti-
stico cominciasse a rivelarsi, e a distinguere seriamente l'uomo
dall'animale, si argomenta da certi saggi nella costruzione dei vasi
e molto più da'primi tentativi nelle arti del disegno. Il combatti-
mento delle renne inciso sulla lastra di ardesia, trovata a Lan-
gerie-Basse, e le fi.gure d'animale o d'uomo incise su qualche ma-
nico di pugnale e su qualche bastone da comando, sono una prova
di quell'affermazione. Certo noi moderni non possiamo trattenerci
dal ridere nell'osservare quei primi tentativi artistici de'nostri an-
tenati; ma che perciò? Non pigliano forse il loro posto ne'nostri
musei artistici alcune opere, che pure ci fanno sorridere ? Noi non
reclamiamo tanto per le produzioni de'trogloditi del periodo della
renna; ma chiediamo semplicemente che in quei tentativi veggasi
l'aurora di quel potere artistico che è stato così gran fattore del-
l'umanità. Traccia della esistenza di altro potere, per sollevare
l'uomo dall'animalità, noi non troviamo, dico non troviamo in modo
provabile. Il Figuier, che ha scritto avW Uomo primilivo un libro
assai popolare, ricco di fatti e di brani degli autori originali, e
non povero d'immaginarie induzioni, scorge la credenza nella vita
futura, nel costume di deporre provvigioni e altro presso il corpo
de'defunti. Tali provvigioni dovevano servire pel viaggio oltre la
tomba. Vedremo nel paragrafo seguente che gii uomini primitivi
credevano soltanto ad un risveglio del defunto da un sonno più
lungo di quello ordinario, ad un rifiorimento del corpo come quello
delle piante a primavera; e ponevano vicino alla tomba alimenti,
LE NOSTRE ORIGINI. 243
vesti, armi, e qualche volta il cavallo, affinchè l'uomo potesse o
servirsene in un viaggio, la cui prima idea era stata suggerita dai
sogni, 0 ritrovare tutto i^ronto al suo ritorno da quello. Questa
era la sua credenza, ben altra da quella che noi chiamiamo fede
nell'immortalità. N'era bensì l'origine, e se in ciò, nel vago terrore
per le misteriose forze naturali, e nel rispetto per gli uomini su-
periori e per gli antenati, vuoisi vedere un rudimento di religione,
di quella religione primitiva, che precede l'arte, come il sentii-e
sensualistico precede il turbato immaginare, di cui parla il Vico,
io lo ammetto; ma codesto polline non potrà germogliare senza
che sopravvenga a fecondarlo il potere artistico, vero organo ge-
neratore di quel mondo ideale, che il sentimento religioso crede
e adora e la ragione scientifica pensa e spiega.
Che l'adorazione dell'uomo per l'altro uomo, creduto tempo-
raneamente estinto, sia stato uno dei primi semi del sentimento
religioso, si può argomentare dall'assenjza, ne'periodi del mammuto e
della renna, di qualunque rudero ascrivibile a uso religioso e dalla
cura con cui si custodivano i morti. Questi di rado gettavansi
lungi dalla grotta o dalla capanna, come carogne di cani; ma
o seppellivansi su'focolai della grotta o si faceva loro rovinare la
capanna di sopra o si formava loro un ricovero ammassando pie-
tre. Era dunque nata la religione de'sepolcri. Ma con quale forma
bestiale ! Che pensare di quegli antri in cui l' uomo viveva con
i cadaveri de'parenti estinti, brancolando fra le ossa degli ani-
mali uccisi e aspirando gli effluvi de'putrefatti avanzi del cibo e
de'morti? Quanto poco una famiglia di trogloditi si sarebbe con-
tinuata a distinguere da una di animali, se la lotta per la esi-
stenza non le avesse stimolata la volontà, se l'esperienza non le
avesse allargato e acuito l'intelletto, e la scelta naturale non
avesse assicurato la sopravvivenza de' migliori! Queste sono le
forze primordiali e costanti che trassero l'uomo dagli antri dello
stato selvaggio e lo spinsero e spingono nelle vie del progresso
civile. Col moltiplicarsi dei rapporti fra gli uomini, si esci dall'iso-
lamento della famiglia e del gregge, e si preferì l'aria libera de'campi
e il vasto orizzonte de'mari, le cui svariate emozioni temprano la
fibra, rinsaldano il cuore e ispirano all'anima i presentimenti del-
l'infinito. Di questi rapporti già troviamo i primi segni nel periodo
della renna, a giudicarne dalle conchiglie della Sciampagna sco-
perte nel Belgio. 0 gli abitanti di Chaleux recavansi in Francia
per farne incetta o quelli della Sciampagna le esportavano nel
Belgio, ove probabilmente servivano per comporne collane e or-
244 LE NOSTRE ORIGINI-
namenti vari. Benedetta la muliebre vanità, se essa fece nascere
i primi traffici e i lontani commerci ! Ma oggi che il commercio si
è cotanto allargato, la vanità potrebbe risolversi ad ecclissarsi nei
rapporti delle società virili. Infine, se gli sgorbi scolpiti su di un
osso rinvenuto nella grotta della Vacca, ad Ariegi, fossero dav-
vero i primi segni di scrittura, noi potremmo risolverci a salutare
con lieto animo negli ultimi tempi postpliocenici i primi raggi
dorati dell'alba della civiltà.
1 caratteri anatomici della razza, in questo secondo periodo
della pietra greggia, non si differenziano da quelli degli abitanti
di Grrenelle e di Cro-Magnon ecc. 1 crani di Bruniquel sono doli-
cocefali, quelli della caverna di Furfooz debolmente brachicefali
col viso piramidale, e l'uomo di Solutrè, descritto dal Pruner Bey,
accentua sempre più i caratteri di quel tipo mongoloide, che ora
si è rincantucciato fra le popolazioni iperboree. Ma se la carcassa
ossea non ci rivela un deciso progresso antropologico, i prodotti
industriali ci dicono chiaramente che quella scatola era interior-
mente animata da più perfette funzioni.
Alla fine dell'epoca quaternaria gli scienziati biblici pongono
quel diluvio universale di cui parla la Genesi, quel diluvio che
distrusse la perfida razza umana, salvo la prediletta famiglia di
Noè, e tutto il regno animale, salvo i rappresentanti di ciascuna
specie. Naturalmente gli scienziati, per biblici che sieno, non ac-
cettano tutta la tradizione ebraica, ma si tengono paghi a quella
parte di essa che si fonda sull'idea dei cataclismi, e se non cre-
dono proprio « all'apertura delle cataratte del cielo e allo scop-
pio degli abissi » continuano bensì a credere ad un'azione delle
cause naturali diversa da quella attuale. Eglino sanno bene in
qual modo produconsi le piogge e le alluvioni, e comprendono
senza dirlo che l'apertura delle cataratte e lo scoppio degli abissi
erano spiegazioni immaginarie di genti ignoranti; ma le idee di
catastrofi e cataclismi straordinari, di rivoluzioni cosmiche, di
subitanei sollevamenti di montagne o sprofondamenti di conti-
nenti, di rapidi capovolgimenti del globo, di apparizione e dispa-
rizione istantanea delle specie animali e vegetali, insomma di ri-
volgimenti a noi ignoti e di fenomeni miracolosi, o quasi, non sono
disparite dal loro cervello, sul quale l'eredità delle primitive tra-
dizioni ha impresso un'orma incancellabile. Se non fosse così, non
si saprebbe come spiegare il permanere della loro fede nell'ori-
gine soprannaturale dell'uomo e nel diluvio universale. In un altro
LE NOSTRE ORIGINI. 245
scritto, die spero di pul)l)licare in (questa rassegna, parlerò del
punto di vista della geologia moderna, e propriamente della scuola
fondata dall'immortale Lyell, cioè quella che, spiega i passati fe-
nomeni tellurici con l'azione lenta e costante delle cause attuali.
Per ora bastami il dire che, seuL^a spingere agli estremi la teoria
dell'azione lenta di siffatte cause e quasi aggiungerei del moto
equabile dei loro effetti, e pur credendo alla loro aziono or lenta
ed or concitata e ad effetti ora tardivi ed ora più pronti, ordi-
nari e straordinari, nessun uomo che abbia un senso scientifico
esercitato e la mente sgombra di ereditati pregiudizi, può negare
la verità del seguente principio: all'intervento di cause diverse
dalle attuali, alla credenza in processi naturali sostanzialmente
'diversi dai presenti può ricorrersi solo quando vengano soddisfatte
queste due condizioni, cioè sia irremissibilmente dimostrato che
le cause e i processi attuali non bastino e non lascino alcuna spe-
ranza che possano neanche nell'avvenire bastare a spiegare i fe-
nomeni della natura, e che lo sforzo all'immaginazione richiesto
dalla ipotesi di cause e processi diversi dai presenti sia minore
di quello richiestole da questi ultimi. Tale non è il caso pel di-
luvio universale, come tale non era per l'origine dell'uomo. A co-
minciare dal fatto deUa tradizione diluviana, che presso vari po-
poli incontrasi, e a terminare a' suoi particolari eziandio favolosi,
nulla v'ha che non si possa spiegare con le leggi naturali e psi-
cologiche
È un fatto che la recente formazione geologica dell'Europa
è costituita da un'argilla rossastra o grigia, mescolata con ciot-
toli angolosi, che i geologi chiamano terreno diluviano rosso o
grigio {diluvium rosso o grigio, secondo i paesi) sul quale si è
disteso un mantello di limo, chiamato loess superiore o terra a
mattoni. Codesto deposito diluviale è proprio quello attribuito al
cataclisma che rovesciò sull'Europa i torrenti del cielo, che fuse
d'un subito i ghiacciai e fece scoppiar gli abissi, cioè sollevò il
fondo dei mari, mediante l'azione vulcanica, in guisa da lanciar
le acque sui pendii delle montagne che dagli abissi eruppero,
spinte dalla medesima causa vulcanica. Ecco il magnifico castello
pseudoscientifico, che si è voluto elevare sul fragile fondamento
di una tradizione, che ha lo stesso valore di quella di Ogige, di
Deucalione, di Samotracia, ecc. Per distruggerlo sono bastati due
soffi. L'aumento di temperatura che ha prodotto la fusione dei
ghiacciai e l'evaporazione da cui è poi derivata la pioggia, è un
fatto incontestabile, ma non peculiare alla fine dell'epoca quater-
VoL. XIV, Serie II — 15 Marzo 1819. 15
246 LE NOSTRE ORIGINI.
naiia, come si è visto precedentemente. Quella fusione, quello
piogge e i conseguenti alluvioni e straripamenti non furono dunque
un fatto nuovo e subitaneo, ma antico e graduale. La spiegazione
tratta poi dagli abissi è distrutta chiaramente dal fatto dell'esi-
stenza del terreno diluvialo a sterminata distanza dalle montagne,
come fa osservare lo stesso Figuier, che nei cataclismi crede e
nell'origine naturale dell'uomo non crede. E il Lyell, che cominciò
col non credere a' primi e finì col credere alla trasformazione e
alla serie progressiva delle specie, attribuisce il mantello limac-
cioso delle valli del Reno e del Rodano alle rocce che prima sop-
portavano i ghiacciai delle Alpi e poi si fransero e vennero tra-
sportate dalle acque che di lassù discesero. Noi possiamo adunque
ammettere che la fine dell'epoca quaternaria sia stata contrasse-
gnata da una potente invasione di acque, molto più potente di
quelle che a' nostri tempi vediamo accadere, ma della medesima
essenza di queste, cioè dovuta come queste a cause naturali, at-
tuali e spiegabilissime. Quello che è maggiormente mutato è piut-
tosto lo specchio riflettitore di quei fenomeni; esso non è più o non
è soltanto la immaginazione sbrigliata di quelle genti che erano
vittime delle parziali alluvioni, degli straripamenti e delle piogge
che allagavano il loro paese e le costringevano a fuggire sulle
colline e sulle montagne: esso non è più la immaginazione an-
tropocentrica, cioè che fa l'uomo centro dell'universo e suppone
che tutta la terra sia sommersa sotto le acque, le quali co-
prono la sua meschina capanna e penetrano nelle sue oscure
grotte ; ma accanto a questo corroso e appannato specchio havvi
oggimai quello tersissimo della ragione scientifica, che nei di-
luvi ebraici, greci, ecc. vede parziali e naturali fenomeni, che
colpirono le immaginazioni degli abitanti dell'Asia occidentale,
dell'Eliade, della Samotracia, più di quanto le inondazioni del
Po e della Bormida abbiano colpito le fantasie delle nostre classi
ignoranti, dolorosamente ancora troppo digiune per poter digerire
il pane della scienza.
Due altre cause si possono arrecare, e sono dal Lyell (Prin-
cipii di Geologia, voi. 1) tolte ad esame, per spiegare le inon-
dazioni straordinarie: lo straripamento delle acque di un gran lago
il cui livello è molto superiore a quello del mare o l'irrompere di
una corrente marina sulle terre il cui livello è molto inferiore a
quello dell'Oceano. I due fenomeni possono a loro volta avere per
causa l'abbassamento graduale o la rottura, per opera dei tre-
muoti, della barriera che separa le acque del lago da quelle del
LE NOSTRE ORIGINI. 247
mare o quelle del mare dalle basse terre. Le rive del Mare Morto
sono in media di 380 metri inferiori a quelle dei Mediterraneo;
di sorta che la rottura della barriera di separazione può far pe-
netrare le acque del Mediterraneo nella valle del Griordano e
sommergere le città costruite sulle colline a circa 380 metri di
altezza. Simili abbassamenti è assai probabile accadano e sieno
accaduti in modo graduale, così che invece di avere una subitanea
inondazione si può avere e si sarà avuto una sequela di piccoli
diluvi. Quanto la favola d'un diluvio universale ripugni al senso
scientifico si può scorgere dal calcolo che fa il Lyell ponendo
l'ipotesi di un versamento delle acque del Lago superiore nel golfo
del Messico, nella stagione in cui straripano le acque dei canali
ordinari e degli affluenti del Mississipì. In tal caso, che è fra
quelli più disastrosi, una regione contenente parecchi milioni di
abitanti potrebbe andar sommersa. Eppure, egli dice, « quest'ul-
timo avvenimento sarebbe insufficiente a produrre una violenta
irruzione delle acque e a determinare effetti pari a quelli de-
signati col nome di diluviani, perchè la differenza di livello fra
il Lago superiore e il golfo del Messico, che è di 180 metri, ri-
partita su di una superficie di 2880 chilometri, darebbe in media
10, 16 e. m. di acqua per 1600 metri. » (Voi. I, cap. VI). Lo
sforzo che la tradizione biblica richiede dalla nostra immagina-
zione è troppo grande e troppo contrasta con la esperienza perchè
la scienza indipendente possa acconsentire a sottoporsi a così fatta
tortura. La quale è per soprassello interamente inutile, perchè la
teoria de' parziali e rovinosi ma non biblici diluvi, unita con quella
dei processi dello spirito, basta a spiegare la genesi dei diluvi di
Noè, di Oxige, di Deucalione, di Samotracia ecc., cioè dei conce-
pimenti preistorici relativi ai fenomeni naturali, Erodoto, Aristo-
tile, Diodoro, Strabene, che rivolsero il loro spirito di esame a quelle
tradizioni mitologiche, come i moderni scienziati sono andati fa-
cendo verso lo non meno mitologiche tradizioni degli Ebrei, attri-
buirono 0 allo straripamento dei fiumi o ai tremuoti l'origine di
quei diluvi. È noto che i fenomeni vulcanici sono accompagnati
da forti piogge e da un radicale sconvolgimento del sistema dei
corsi d'acqua; ma è bene sapere quello che il Lyell osserva, cioè
che se i diluvi della Grecia fossero accaduti tutti contemporanea-
mente ed avessero prodotto l'inondazione delle regioni situate fra
il Ponto Bussino e il sud ovest del Peloponneso, da una parte, tra
Rodi e la Macedonia dall'altra, non sarebbero perciò riusciti a pro-
durre effetti più disastrosi di quelli che afflissero il Chili al tempo
248 LE NOSTRE ORIGINI.
delle eruzioni vulcaniche del 183ò. Intere città furono sepolte, il
suolo si sollevò in modo permanente, e vere montagne di acqua si
precipitarono dall'Oceano Pacifico nell'interno delle terre. I recenti
fenomeni, dovuti all'azione di cause naturali e attuali, hanno anche
essi il carattere grandioso, e la scienza non richiede dalla nostra
immaginazione il più piccolo tour de force per ricostruirci dinanzi
la mente i diluvi che posero fine all'epoca quaternaria e trasporta-
, rono i materiali serviti a formare il mantello stratigrafico de' recenti
terreni. Gli uomini neolitici ricevettero da quelli archeolitici le tra-
dizioni orali dei tempi anteriori, le corroborarono e le tramanda-
rono accresciute a quelli de' primissimi tempi storici, a' fondatori
delle nazioni, a' sacerdoti, a' poeti, i quali le modellarono e fissa-
rono in quelle tradizioni scritte, che la fede venera e la ragione
spiega, imbrigliando, non uccidendo, la ricostruttrice facoltà dell'im-
maginare, mutando e non distruggendo la fonte dei conforti e la
base della moralità.
Il tramonto dell'epoca quaternaria è insieme l'alba dei tempi
della pietra levigata. Non trovansi piìi specie fossili ma soltanto
di animali viventi, e noi col porre il piede su' terreni di recente
formazione usciamo dal dominio della paleoetnologia ed entriamo in
quello dell'archeologia e dell'antropologia preistorica. L'uomo, a
cui faceva ancor difetto la conoscenza dei metalli, rimase congiunto
alla rupe originaria; ma pur se ne allontanò assai più dia nella
età archeolitica. Esso continuò, ne' primordi del periodo neolitico,
ad abitare caverne e ripari sotto le rocce; ma finì con l'uscire mag-
giormente all'aria libera dei campi, de' monti, dei laghi, del mare.
Omai è provato che 1' uomo neolitico italiano abitava su' laghi e
lungo i corsi d'acqua; ma l'uso delle costruzioni su palafitte si è
altrove generalizzato, pare, nell' età del bronzo, il che potrebb'es -
sere indizio che già nei tempi preistorici gì' Italiani precedevano
gli altri popoli nelle vie dell'incivilimento, come continuarono a fare
ne' tempi storici, sino a quando furono vinti dalla stanchezza. Le
scoperte fatte in Piemonte, relativamente a questo periodo neo-
litico, si associano nella mia memoria col nome del professore
Gastaldi, il quale io voglio qui citare a titolo di onore, di com-
pianto e di gratitudine. Esso mi ricorda quei tempi felici, ne'quali
fatta la mia lezione di Storia, discendevo nell'anfiteatro chimico
della scuola superiore di guerra a udire quella di Geologia del-
l' illustre professore. E mi rallegravo nello scorgere che pari era
in noi il culto per la libera investigazione, identico il modo di con-
LE NOSTRE ORIGINI. 249
cepire egli la storia della terra, io quella dell' umanità. Venuti,
l'uno dai ghiacciai, che descriveva artisticamente, e 1' altro dai
vulcani, e' incontravamo nelle deduzioni scientifiche e nell'amore
per quella balda gioventù, che mi faceva credere nel grande av-
venire d' Italia. Ed ora, che una forte generazione di benemeriti
Italiani ci abbandona e che assisto alle povere rappresentazioni
di altro teatro, non è maraviglia se a quando a quando mi vinca
lo scoramento e se il desiderio e 1' amarezza mi spingano a far
presto ritorno all' uomo neolitico de' tempi preistorici.
Andiamocene al nord di Europa. Non pure nelle caverne, ma
anche nei KioeJcken-moeddings, cioè negli ammassi di rifinii dei
banchetti che i primitivi Danesi facevano lungo le coste, sonosi
trovati molti oggetti da' quali è stato possibile indurre gli usi
e i costumi degli uomini neolitici. Tali cumuli di conchiglie, gusci
di ostriche, ossa di animali, selci ecc., sonosi poi trovati anche in
Inghilterra, in Iscozia, in Francia, in America, ecc. Dagli oggetti
rinvenuti in essi, nelle grotte, nelle torbiere e nelle stazioni
lacustri riferibili al periodo neolitico si desume con certezza che
l'uomo di quei tempi progrediva verso l'incivilimento. Non parrà
strano, a chi bene intende, se come primo segno di codesto pro-
gredire arrecherò la maggior perfezione delle armi, soprattutto di
quelle danesi. Il perfezionamento delle armi non pure agevola la
vittoria dell'uomo nella lotta per l'esistenza, non pure assicura la
trasmissione ereditaria degli uomini più vigorosi, e di quella loro
esperienza che precede e apparecchia lo stato civile; ma è anche
un effetto della superiorità industriale e intellettuale degli arte-
fici suoi. Ed è questa medesima superiorità che, oltre alle buone
armi, produce comodi utensili e svariati oggetti o sieno utili, come
il pettine di osso, o di semplice ornamento, come le collane di
ambra. Né di sola selce fabbricaronsi armi e utensili, ma si fece
uso di altre sostanze minerali, come scorgesi dalle asce di gneiss,
fibrolite, diorite ecc., raccolte un po' dappertutto, dalle caverne di
Danimarca a quelle d'Italia. E siccome trattasi di minerali du-
rissimi, cosi è naturale che per levigarli, come per ottenere i
netti spigoli e le molteplici forme dell'istessa selce, fosse neces-
sario possedere acconci lisciatoi. Se ne sono in fatti trovati a
Pressigny-le-Grand, a Varenne-Saint-Hilaire ecc. E sonosi pure tro-
vati indizi della esistenza di officine, ove i lisciatoi adoperavansi,
ove si fabbricavano bellissime punte di lance e di frecce, armi
in genere, per venderle o farne baratto. Questo vorrebbe signifi-
care che non più un medesimo uomo faceva tutto nella medesima
250 LE NOSTRE ORIGINI.
caverna, ma che erano nati speciali offici e speciali occupazioni.
Non ogni uomo poteva essere buon armaiolo e buono stovigliaio,
né le armi più perfette e gli oggetti dell'arte ceramica, per rozzi
che sieno stati, avrebbero potuto nascere senza l'applicazione della
divisione del lavoro. A questa medesima divisione, creatrice del pro-
gresso, devesi attribuire lo sviluppo della navigazione e dell'a-
gricoltura nel periodo neolitico. L'uomo continuò a essere cacciatore
e pescatore, ma divenne più esperto marinaio e più stabile agri-
coltore e allevatore di animali domestici. Andò a caccia con
l'arco 0 con l'ascia, e a pesca con l'amo o con le reti; perfezionò
gli ami, facendoli o acuti o ricurvi ; perfezionò le prime barche
formate da grossi tronchi di alberi, riquadrati e scavati, e fece
uso di molini per macinare il grano, trovato carbonizzato presso
i focolai delle cucine neolitiche.
Se la divisione del lavoro sociale sia pervenuta sino a creare
il sacerdote, in questo periodo dell' età della pietra, è cosa che
non potrebbesi negare con ragioni deduttive, nò affermare con
prove di fatto, A priori è facile ammettere che la medesima spe-
cificazione del lavoro, la quale aveva fatto uscire dall'uomo uni-
versale dei primi tempi l' armaiolo, il marinaio, lo stovigliaio,
l'agricoltore, fosse riuscita a flir nascere il sacerdozio; ma a poste-
riori è difficile, anzi sinora impossibile, provare l'esistenza di un
culto religioso, con le forme che sogliono accompagnarlo. Sarebbe
più facile provare la esistenza di campi trincerati, e però di
una certa specificazione dell'arte della guerra, che fu la più du-
revole occupazione di tutti i validi, che non quella di altari o d'idoli,
dei quali è ministro il sacerdote e senza dei quali l'officio suo po-
teva ben essere disimpegnato dal medesimo pad refamiglia che con-
duceva i suoi alla caccia e alla pugna. In fatti l'Hannour e l'Hime-
lette pretendono di avere scoperti i campi trincerati dell' età
della pietra nel Belgio, a Furfooz, Hastedon, Poilvache. E dico
pretendono, perchè non sarei stupito se si dimostrasse che questa
loro scoperta manchi di solido fondamento, tanto più che nei primi
due siti essendosi costruiti campi romani e nel terzo un castello
medievale, è difficile giudicare quale pietra appartenga all' età
della pietra e quale all'età del ferro. Ma riguardo agli alta^ri e
agli idoli, anche gli scrittori che credono, come il Figuier, alla
miracolosa origine dell'uomo e al biblico cataclisma del diluvio,
ammettono che sinora non se ne vegga traccia né nell'età dèlia
pietra e neanche in quella seguente del bronzo. I dolmen infatti,
che furono presi per altari druidici, non sono altro che tombe,
LE NOSTRE OKIGIXI. 251
formate da una grande pietra collocata orizzontalmente su di altre
che la sostengono verticalmente e il tutto ricoperto da terra in
guisa da raffigurare un tuinolo. Caduta col tempo la terra, sono
rimaste in piedi solamente le pietre, che la fantasia degli archeo-
logi battezzò per altari druidici. Osservo qui, per non essere ob-
bligato a ritornare sul medesimo argomento, che probabilmente
anche la fantasia indusse gli archeologi ad ascrivere al culto
della luna quelle certe mezzelune di terra cotta o di pietra tro-
vate nelle abitazioni lacustri dell'età del bronzo, e che, secondo
il Vogt, erano origlieri portatili a' quali i selvaggi e i barbari
appoggiavano, durante il sonno, le loro enormi capigliature, che
era dovere il non scomporre, al pari di quello che oggi scorgesi
presso gli Abissini, i Neo-Zelandesi, i Cinesi, i Giapponesi, Chi
potrebbe ora prevedere quello che da qui a quattromila anni di-
ranno gli archeologi, i quali troveranno pietrificato nelle viscere
della terra uno di quei cuscini elastici, a forma di ciambella col
buco, che i nostri vecchi portano in ferrovia ?
Codesta assenza di oggetti concernenti il culto a me pare un
fatto spiegabile, per quello che ho detto di sopra, cioè che il na-
scimento della religione precede quello dell'arte, se per religione
intendesi soltanto il sentimento di terrore per le forze naturali e
di adorazione par gli uomini superi<n'i, massime dopo morti e so-
prattutto pe' pili forti; ma che molte sue personificazioni sono
per sé stesse un prodotto artistico e le forme del suo culto non
possono acquistare sviluppo, determinatezza e regola senza l'eser-
zio delle facoltà artistiche. Quel complesso di atti, di riti e forme
mediante cui l'uomo immagina un mondo soprannaturale e vi si
pone in riipporto, quello insomma che comunemente chiamasi culto
religioso, rappresenta già un grado ulteriore dell'evoluzione umana.
Molto tempo si richiede prima che l'uomo giunga a creai'e quel
mondo di forme e di credenze intorno al principio e al fine delle cose,
intorno a' rapporti del finito con l'infinito, del visibile con l'invisi-
bile, quel mondo che oggi noi reputiamo nato con lui, condizione im-
prescindibile della sua esistenza, contrassegno certo della verità
del regno umano. Certo che il culto pe' morti, come si dirà nel
paragrafo seguente, fu la cellula germinale del culto divino o re-
ligioso, e però era ben naturale che i monumenti funerarii fossero
i primi altari e i primi templi dell' umanità e che l'arte delle
costruzioni di tali monumenti dovesse svilupparsi prima di quella
dei monumenti religiosi propriamente detti. Nuove ricerche po-
tranno rivelarci la esistenza di templi e di altari, nell' età della
252 LE NOSTEE OKIGINI.
15ielra, ma difficilmente ijotranno dimostrare che questi abbon-
dassero più die le megalitiche costruzioni di sepolture, che
l'uomo preferisse alla tomba altro metliimi per porsi in rap-
l^orto con i suoi cari, con gli antenati della famiglia, con
i fondatori della sua tribù, con i donatori del fuoco, con gli
eroi che gli sottomisero altra tribù, insomma con gli spiriti di
coloro che gli avevano fatto o molto bene o molto male e che
furono le sue prime mezze divinità. Quelle costruzioni megalitiche
presero tale sviluppo da far ritenere con fondamento che l'uomo
neolitico conosceva i primi elementi dell'architettura. Vere strade
coperte menavano ad una vasta sala, intorno alla quale dispone-
vansi i cadaveri, e qualche volta pietre in forma di bassi obeli-
schi circondavano le tombe o formavano lunghi e allineati viali,
come a Carnac. A quelle camere mortuarie, che succedettero alle
grotte, gli uomini neolitici accompagnavano colui dalla cui bocca
era uscito un alito, che poteva far ritorno nell' esanime corpo
e risoffiargli la vita. Preparavano perciò l'occorrente così pel viag-
gio di quell'essere aereo, di che si era dipartito, come pel corpo
destinato a risvegliarsi al ritorno del viaggiatore, e a quando a
quando venivano a banchettare nella dimora dei morti, attorno
alle tombe. Così continuano a fare i presenti eredi dell'uomo
neolitico, i viventi selvaggi di alcune civilissime città di Europa!
L' esame degli avanzi ossei dei tempi neolitici dimostra che
al perfezionamento dei prodotti corrispondeva quello del produt-
tore, cioè quello anatomico della razza che predominava in Europa.
Credesi che gli Ariani si sieno allora distesi nel nostro continente.
In questa gente ortognata noi scopriamo gl'immediati proge-
nitori preistorici dei popoli istorici della nostra Europa. Essi, ve-
nendo forse dall'Asia o soltanto dall'est di Europa, sottomisero,
discacciarono, s' incrociarono con le popolazioni mongoloidi che
qui trovarono e n'uscì quel tipo armonico, lontano così dal polo
dei dolicocefali come da quello dei brachicefali. È probabile
e degno di attenzione che alle formazioni geologiche abbiano
risposto le stratificazioni etniche : agli autoctoni dell'epoca terzia-
ria si sarebbero sovrapposti gì' imigrati mongolici dell' epoca
quaternaria, e a questi gli Ariani dell'epoca contemporanea.
A 4000 anni avanti Cristo si fa rimontare il principio dell'età
del bronzo, che insieme con una parte di quella del ferro comprende
i tempi di passaggio dell'uomo dallo stato selvaggio e antistorico
a quello civile e storico, i tempi cioè di quello stato barbaro, che
LE NOSTRE ORIGINI. 253
Tacito scolpì nelle sue eterne pagine. In verità deve sembrare
pericoloso il fissare una data precisa ad origini graduali, massime
quando si pensa che trattasi di tempi preistorici, e che non regna
molto accordo persino sull'invenzione della polvere, che appartiene
a' tempi storici. A giudicarne dalla evoluzione, a cui soggiacciono
tutte le cose, l'uso del bronzo ha dovuto essere assai graduale e
così il passaggio dall'una all'altra età. Ho già avvertito che le
cose in realtà non procedono in modo così liscio come nelle
pagine degli scrittori, i quali tagliano la evoluzione della terra e
dell'uomo in periodi ben determinati. Come la pietra perdurò col
bronzo, così durante l'età di quella vi saranno stati molti e molti
oscuri tentativi per fabbricare metalli; e come lo stato selvaggio
perdura per certi rispetti in quello civile, non che in qnello bar-
baro, così in esso spuntarono già, e l'abbiamo osservato, i primi
elementi di una superiore condizione dell'uomo. Con le nostre de-
finizioni, partizioni e classificazioni si vuol cogliere il lato saliente,
il carattere prevalente delle cose, il momento in cui un'idea o un
fatto divengono appariscenti e generali; ma non si vuole esclu-
dere il carattere complesso del reale o negare la genesi succes-
siva delle cose.
A nessuno parrà strano che la scoperta e l'uso de' metalli
segnino l'elevarsi del livello umano e sociale; ma a molti non
parrà naturale che l'uso di una lega metallica, qual'è il bronzo,
abbia in Europa preceduto quello di uno dei due metalli, ossia
del rame e dello stagno, che combinati col carbone formano il
bronzo, mediante un certo lavorìo. In America di fatti l'età del
rame precedette quella del bronzo. Ma la maraviglia cessa quando
si osserva che colà abbondano le miniere di rame, e che agli
Europei preistorici dovè riuscire più facile l'alleanza fra i due
minerali, rame e stagno, che non la estrazione del metallo dall'im-
puro minerale. Se avessero trovato maggiore abbondanza di mi-
niere cuprifere, forse avrebbero aguzzato l'ingegno per trarne più
diretto partito, come se i minerali di ferro avessero richiamato
più presto la loro attenzione, forse avremmo avuto con l'uso pre-
coce del ferro un acceleramento di sviluppo verso la civiltà; ma,
checché sia di ciò, noi possiamo ben rallegrarci che i nostri an-
tenati riuscirono a conquistare uno di quei potenti istrumenti che
permettono all'uomo di sollevarsi verso l'empireo della civiltà.
I prodotti dell'industria umana durante l'età del bronzo sano
stati pur trovati negli avanzi di certe abitazioni, che ci rivelano
un altro lato della vita preistorica : accenno alle abitazioni lacu-
254 LE NOSTRE ORIGINI.
stri, alcune delle quali sono però riferibili all'età della pietra.
Codeste abitazioni, scoperte, come si sa, in Isvizzera e trovate di poi
in Italia e altrove, erano costruzioni su palafitte cbe gli uomini di
quella etcà facevano nei laglii, j)er difendersi dalle fiere, o più
probabilmente dall'uomo istesso. I nostri aborigeni erano adun-
que usciti dalle grotte e si erano dati a costruire, o sull'acqua o
in terraferma, abitazioni fondate su palafitte e consolidate con
pietre. E quando dico usciti, accenno, ripeto, al fatto dominante,
percbè ancora oggi sentiaino a parlare di firoite degli spagari in
una città come Napoli. Quelle abitazioni, die a volte raggiungono
le proporzioni di un villaggio, dimostrano non pure una certa
conoscenza de' primi elementi dell'arte delle costruzioni idrauliche,
ma anche un certo sviluppo degli aggregati sociali. E le terre-
mare italiane, in cui sonosi trovate ossa di animali accumulate
con ogni sorta di rifiuti, ci suggeriscono un'altra osservazione,
onorevole pel nostro ])aeso, cioè che la fauna domestica superava
quella selvaggia, indizio di maggior progresso verso quello stato
agricolo che fornisce alla civiltà il suo principal fondamento: la
stabilità. 11 cane, l'asino, il porco, il bue, la pecora, la capra, il
cavallo erano di già addomesticati. In generale, gli avanzi dell'età
del bronzo ci rivelano che l'uomo era più agricoltore e allevatore
che non fosse nel. passato. 11 Gastaldi raccolse qualche utensile
agricolo nelle torbiere di M(n-curago, e cereali carbonizzati ven-
nero trovati in grandi vasi, così da lasciar supporre che l'arte di
fare il pane potesse essere già nota. Ma che cosa sono gl'incerti
e pochi avanzi di agricoli isti'umenti, rispetto agli abbondanti
istrunienti con cui gli uomini si davano in fra loro la morte! A
codesti istrunienti 1' uomo preistorico rivolgeva la sua maggiore
attività, e nella loro ])roduzione e in quella degli ornamenti
otteneva i migliori risultati. Nò l'uomo storico si è voluto mo-
strare degenere: la sua attività si è diffusa su molteplici oggetti, ma
non si è distolta nemineno un istante dall' aumentare la jiotenza
distruttiva degli istrumenti bellici. Veramente ammirevoli sono
le asce, le accette, gli scalpelli, i coltelli, i martelli, gli ami, le falci,
gli aghi crinali, le auella, i braccialetti, i pendagli, insomma gli
oggetti di bronzo trovati qui e là, ma soprattutto al nord .del-
l'Europa. Gli Scandinavi eccellevano davvero nel lavoro delle else,
ben s'intende relativamente alle condizioni de' tempi. La spada
dunque nell'età del bronzo si ag'.,nuns^ alla lancia, alla freccia ed
al pugnale, e le armi di pietra gareggiarono con quelle di bronzo,
sforzandosi a diventare più varie e più perfette. Un'altra speciale
LE NOSTRE ORIGINI. 2Ó5
occupazione si rese perciò necessaria, quella del fonditore. Noi
possiamo sino a un certo punto ammettere che in su i primordi
di questa età ogni famiglia facesse la sua piccola fusione come in
Tartaria ciascuno prepara il ferro per sé ; ma la richiesta delle
armi e de' rimanenti oggetti di bronzo, doveva per necessità dare
origine all'officina del fonditore e a quella del costruttore di oggetti
di bronzo. Probabilmente il costruttore di armi la faceva pure
da gioielliere e forse il costruttore era pure fonditore; ma certa-
mente non ogni uomo poteva essere o fonditore o costruttore
e tanto meno le due cose insieme, e certamente il fabbricante
di oggetti di pietra distinguevasi da quello di oggetti di bronzo.
Cotali armi di bronzo, massime poi quelle che rivelano un fino
lavoro, non potevano essere patrimonio di tutti, e insieme ai
dischi con i quali ornavansi i cavalli ci avvertono che a quel-
l'epoca esisteva già la distinzione delle classi, e che l'aristocrazia
delhi forza coninciava a formare la prima cavalleria. Ovunque ci
volgiamo vediamo nascere quella diversità di occupazioni,, quegli
elementi eterogenei, che integrati di poi dal regolatore potere
politico, costituiranno il corpo organico della società civile, lo
Stato. Simile potere non devesi credere che mancasse affatto in
quella età, ma devesi soltanto ritenere ch'esso era affatto rudi-
mentale e che si esercitava su di una materia sociale ancora
troppo scomposta^ e in un campo di occupazioni ancora troppo
ristretto. Il suo svolgimento proceda all'unisono con la moltiplica-
zione degli uffici e col loro successivo perfezionamento : effetto e
causa insieme. Lo sviluppo delle varie attività rende necessario
il consolidamento del potere politico, unificatore e organatore, e
cosiffatto consolidamento permette a quelle attività di svolgersi
viemaggiormente. Ohe tali attività si andassero svolgendo nell'età
del bronzo lo inferiamo non pure dalle cose osservate, ma anche
da altre invenzioni, da altre scoperte, da altri prodotti e dallo
scambio di questi o dalle lontane spedizioni per la ricerca dei
materiali divenuti necessari all'esistenza. Inventossi l'arte di fare
il vetro e quella del tessere, per la quale l'uomo potè cominciare
a deporre le pelli, che ancora gli davano la parvenza dell'animale,
e a coprirsi di vesti da esso lavorate. L'incremento della ceramica
deve soprattutto fermare la nostra attenzione, perchè le svariate
forme di vasi verniciati e ornati rivelano un vero raffinamento
del gusto artistico. L'uomo si andava sollevando sulla bassa ma-
terialità del suo stato originario, e cominciava ad avere a nausea
persino quei cadaveri, ch'erano come a dire i penati, i geni tute-
256 LE NOSTKE ORIGINI.
lari delle famiglie trogloditiche. Nell'età del bronzo si seppelli-
vano i morti entro bare deposte nelle camere sepolcrali; ma, per
eccezione, si bruciarono pure i cadaveri, le cui ceneri nelle se-
guenti età si raccolsero pietosamente nelle urne familiari. L'idea
della risurrezione de' corpi trionfò di nuovo pienamente e ristorò,
con forme pii^i ampie, le dimore dei morti. La scienza ora si
dibatte tra il far ritorno alla cremazione che nacque al cadere del-
l'età del bronzo, e il ripristinare con più sapienti metodi quelli
degli Egiziani. Pensiamo a lasciare nobili esempi a'nostri figli, che
questa è la piìi bella immortalità a cui l'uomo possa aspirare !
Tutte le anzidette attività si andarono svolgendo nella seguente
età, cioè quella del ferro, il cui uso si fa con incerti calcoli
rimontare a 2000 anni a. C. Per generalizzare l'uso del metallo,
ce ne voleva uno di poco valore e facilmente lavorabile: esso fu
trovato nel ferro, la cui età segna il passaggio da tempi preisto-
rici a quelli storici, e penetra in questi. Stando a quello che ne
dice il j\!orIot, ne' primordi di co testa età non conoscevasi il
mantice, per il che il vento la faceva da mantice naturale, sof-
fiando sugli strati di legname e di minerale che si accatastavano e si
accendevano nelle buche aperte su' fianchi delle colline. Questa
operazione è sì semplice che ogni uomo può compierla ; ma quando
osserviamo gli oggetti di ferro, appartenenti a questa età, mas-
sime quelli trovati nelle tombe di Hallstadt, noi dobbiamo infe-
rirne che era nata l'arte del fabbro ed erasi aggiunta a quelle
altre che rivelano le specificazioni del lavoro nella grande età
de' metalli. Noi scorgiamo in fatti bei lavori di ornamento, come
quelli dei collari e braccialetti trovati nelle tombe or citate,
elmi, avambracci, centanni, lame damascate, foderi di spade con
figure a rilievo, che rivelano l'abilità del fabbro e il gusto del-
l'artista. E l'una e l'altro erano, al pari di ciò che usavasi dagli
operai de' tempi precedenti, posti soprattutto al servizio della
guerra e della vanità, le due più durevoli potenze dei consorzi
umani. Manco male che cresceva nel tempo istesso la benefica
potenza del commercio, usufruita ma tenuta a vile dalle aristo-
crazie politiche e ieratiche, onorata dal pensiero scientifico e dal
sentimento democratico, che in essa riconoscono un mezzo efficacis-
simo per allargare 1' intelletto e per affratellare i popoli. Ove
Jiavvi civiltà, essa l'accresce, ed ove non ancora ha preso forma,
aiuta a produrla. Per avere l'oro trausilvano e l'avorio africano
faceva mestieri che gli uomini dell'età del ferro intraprendessero
lunghi viaggi, intrecciassero lontane relazioni, e cosiffatti scambi
LE NOSTrxE ORIGINI. 257
e rapporti ricliiesero l'uso della moneta, per la quale venne ado-
perato il bronzo. Era i poteri regolatori, che insieme con la
guerra con la politica valsero a organare l'aggregato sociale,
a dare autorità ai dominatori e disciplina a' soggetti, dobbiamo
porre la religione ; ma duolci clie non possiamo ancora porla fra
le forze risolutamente addomesticatrici dell'uomo. Il potere sacer-
dotale, dopo quello militare, ha molto contribuito a sottomettere
gli uomini ad un ordine legale e stabile, e però a creare un go-
verno, un ordine, una legge, uno stato, senza cui la civiltà è nome
vano. La civiltà di fatto comincia quando le attività, che abbiamo
visto nascere e altre ancora che si produssero poi, svolgonsi nello
Stato. All' età del ferro, se dobbiamo giudicarne da quello che
conosciamo intorno allo stato degli antichi Barbari e per analogia
da quello che vediamo presso i moderni, il potere religioso do-
veva energicamente procedere in questa opera incivilitrice. Non
interamente separato dal potere politico, come questo non era dal
potere militare, il che vediamo ancora durare oggidì presso quelle
nazioni orientali in cui il re è capo del governo, dell'esercito e
della chiesa, esso concorreva per fermo ad assicurare la forza del-
l'autorità, dandole per fondamento il cielo; forza, di cui ogni civile
società ha bisogno, ma che lo spirito emancipato della nostra ci-
viltà intende a collegare con quella della libertà, dando ad en-
trambe per fondamento la terra. Ma quello che dolorosamente non
possiamo concedere è, come dicevamo, che il potere ieratico si
affermasse in questa età con amorevoli e mansueti sensi. Scoperte
fatte presso le tombe elvetiche, racconti di antichi storici, testi-
monianze di usi ancora perduranti, infondono la certezza che nell'età
del ferro la superstizione religiosa aveva generato l'uso barbaro e
crudele dei sacrifizi umani. Attorno alle tombe non troviamo sol-
tanto le armi, le vesti e le vivande pel gran viaggio e pel ritorno ai
domestici lari; ma le vesti lacere e i cadaveri delle vittime im-
molate a un pregiudizio non sapremmo dire se più scellerato o più
stolto. L'uomo non si accontentava più di andar solo nel suo pel-
legrinaggio; ma voleva la compagnia della sposa o delle spose,
dei figli, de' parenti, degli amici; e il Dio di quei Barbari aveva
induriti i suoi sensi e non si placava più col sacrifizio degli
animali : voleva sangue umano ! Ah ! la prima evidente luce che
la religione manda, fra i ruderi di quelle età preistoriche, è fosca e
sanguigna, e l'uomo virile si domanda pensoso se essa abbia più
asciugate che non spremute lagrime. Consoliamoci pensando che,
anche la religione, la quale si pretende divina e immutabile, è
258 . LE NOSTRE ORIGINI.
sottomessa alla legge di evoluzione, è mutabile e può, come ogni
umana cosa, o progredire o declinare. Essa si sprigionò infatti da
così turpi e insieme scempie costumanze e finì col predicare mercè
il Cristianesimo l'amore, la carità, la fratellanza. Non tanto la
fede nell'immortalitcà della persona, che ha per radice un egoistico
sentimento di conservazione, quanto il sentimento dell' infinito,
l'aspirazione ad un ideale formano la sua più chiara luce. Lo scien-
ziato vero toglie alla più perfetta religione la scoria che la oscura
e corrompe, e conserva gelosamente quel diamante tersissimo. An-
che esso è religioso, anzi esso è il solo uomo veramente degno
di questo sacro aggettivo, se per religione intendesi il sentimento
dell'infinito, gì' instancabili sforzi per conoscere il vero, il culto
per ogni grande idea, per ogni nobile azione, e l'amore pel prossimo.
{Continua)
NiccOLA Marselli.
L'ARTE A PARIGI.
XV.
Non vi è forse nessuna delle genti arie che non abbia nel
suo leggendario popolare una qualche gentile figliuola o sposa di
re, caduta per avversità di casi o per malìa di sortilegio in basse
fortune. Che aspri sentieri non le tocca di calcare, che erte non
le tocca d'ascendere, quante fatiche e quante prove non le sono
imposte, prima che il talismano lungamente cercato la ridoni agli
splendori natii! Ma, povera, sola ed errabonda, ella non s'è mai
persa di coraggio ; c'è stata sempre una stella, o una fiammolina,
0 un lumicino lontano lontano, che l'ha aiutata a trovare la via.
Questa fiaba, o qualcosa di somigliante, mi torna a frullar per il
capo ogni volta che mi ritrovo in uno dei più umili comparti di
Campo^Marzio, e che ci leggo, nell'idioma d'Esiodo e d'Omero,
quel magico nome di i^/.ia; tutto pieno di lusinghe e di memorie,
tutto smagliante di candore, là in fondo sulla parete, non so bene
se come un'ironia o come una promessa.
11 contrasto però tra i ricordi del passato e le sensazioni del
presente, che è, rispetto alla scultura, vivissimo, colpisce meno
nella pittura, dove il termine di confronto non si vede né si tocca
con mano, e solamente s'indovina dai libri : oltreché dei quadri
che la Grrecio, mette in mostra si può dire veramente, come di
certi versi diventati famosi, che sono pochi ma buoni. E mi pare
che avrei mancato a un debito di fratellanza, se non ne avessi
qui detto sillaba; e che il Kallis con le sue gentili reminiscenze
260 L'aKTE a PAKIGI.
femminine di Megara, e il Lytras con quelle sue bianche fan-
ciulle e col suo Indotto di Scio, e fiao il Pantazis con certe sue
nehhic ch'egli si ostina a darmi per nordiche, e dietro le quali
io mi ostino a supporre il Pindo, rimetto, o l'Olimpo, siano op-
portuni introduttori alla pittura nostra del Mezzodì, spagnuola e
italiana. Quelle poche tele del Lytras massimamente, mi si son
fitte nella memoria; l'intonazione chiara, la fattura semplice, certi
bianchi su bianco cavati ingegnosamente e senza fatica, sono ca-
parra di una bene spiccata individualità. E poi, unorfanella so-
litaria che cuce il suo povero abitino di lutto; un altra, ohe vdl-
tizza un po' di fiamma sul deserto suo focolare; una bella figliuola
di Giannina, che sembra sonnecchiare, appoggiata il capo al sar-
tiame di non so che harca di pirati barbareschi, e che invece spia,
s'io non erro, il momento in cui sonnecchieranno a loro volta i
pirati; un'altra graziosa figliuola dell'Epiro o della Tessalia, che
serrata in casa, chi sa, dalla matrigna, si rizza sulle punte dei
suoi piedi nudi per dare «n bacio, attraverso l' unico pertugio
della sua stamberga, al conteso amatore — o non dicono, senza
volerlo, assai più di quello che sta scritto sui polizzini?
Già il bisogno, anzi, se si vuole, la manìa di correre alle in-
terpretazioni e agl'indovinelli, è un vecchio peccato di cui la cri-
tica non sa guarire; e guai se ne guarisse del tutto! Che ne sa-
rebbe di lei se la si contentasse della tecnica sola, e non volesse
vedere, a costo anche di traveder qualche volta, l'intimo senso
che traspare dalle cose, il carattere morale che ne ojffre, a pi-
gliarla tutta insieme e a interpretarla per via d'induzioni e di
paralleli, la produzione artistica di un dato periodo, presso un
dato popolo, in una data temperie d'idee, d'opinioni e d'istituzioni
sociali? Dice, secondo a me pare, molto sagacemente se anche un
poco paradossasticamente l'Hamerling, « che ogni opera veramente
poetica, come ogni opera di natura, ha più significanze.... che ogni
creazione d'arte è così profondamente piena di misteri e così poco
suscettiva di spiegazione completa, come la vita medesima; e che
però non s'ha tanto da guardare a quello che l'artista o il poeta
consapevolmente ci abbia messo dentro, quanto a quello che ci
si trova. Il poeta, l'artista, sa quel che ci ha messo; ma di quel
che ci si possa trovare, egli non ne sa più d'un altro; e non tocca
a lui ne a nessuno di fissare in modo irrevocabile il senso del-
l'opera sua, e di chiudere con una spiegazione autentica la via a
tutte le esegesi ulteriori. » Eccoci, per esempio, alla penisola ibe-
rica: chi mai vorrebbe negare che una personali cà morale risulti
l'arte a PARIGI. 261
evidente dal complesso della Mostra, che una trasformazione v'ap-
parisca manifesta, cosi nei modi pittorici, come nei convincimenti
e nelle intensioni ?
Se mai vi è stato paese in cui un intenso fervore religioso,
un profondo, tetro, geloso ascetismo, sia penetrato nel midollo
dell'arte, e 1' abbia pervasa e dominata tutta quanta, questo fu
senza dubbio la Spagna. Il papato, massime quando sul soglio
pontificio sedettero degli Italiani, non conobbe mai sì fiera e per-
vicace ripulsa d'ogni sentimento e d'ogni legame mondano. L'arte
chiamata in Koma a celebrare i fasti del cattolicesimo era ascesa
fino a un concetto così vasto e cosi veramente universale del di-
vino, da potervisi adagiare persino le rideste memorie del mondo
antico, anzi da potervisi trasfondere gl'ideali medesimi di bel-
lezza, di serenità, di forza rigogliosa ed equanime, tramandati a
noi dalla civiltà greco-romana. Ma poscia che le ostilità prorup-
pero colla Riforma, e che l'ortodossìa, asserragliatasi dietro al
duplice vallo del monarcato e dell'Inquisizione, s'ebbe rivendicato
un assoluto dominio sulle volontà e sulle menti, la Spagna, appa-
recchiata già dalle diuturne sue guerre di razza e di religione
ad appassionarsi per l'unità chiesastica come per una condizione
intrinseca della unità nazionale, s'imbevve del dogma, più che
mai popolo al mondo ; gli assoggettò con devozione intera tutte
le forme dell'arte, gl'imprestò tutti gli ardori del suo sangue e
tutte le potenze del suo genio.
Ella aveva avuto, è ben vero, l'iniziazione pittorica dall'Ita-
lia, allorché sotto lo scettro di Carlo V le due stirpi si trame-
scolarono nella infelicissima vastità dell'Impero; ma, padrona che
fu, e lo fu subito, dello strumento dell'arte, essa il rivolse a tut-
t'altri propositi. Nel Nord, nella ribelle Neerlandia, 1' arte era
scesa a farsi volgare, per parlare al popolo il duro e schietto lin-
guaggio della informa; in Ispagna ella s'afferrò non meno riso-
lutamente a tutte le violenze e a tutte le crudezze del vere, ma
per temprarsene un'arme di battaglia in senso opposto, per rin-
focolare la febbre delle macerazioni e della penitenza, per ri-
specchiare l'inesorabilità dei supplizii. Il chiostro gittò sulla pit-
tura spagnuola le sue ombre più profonde. V atto-di- feci e la riempì
di flagellazioni, di calvarii e di tormenti. Juanes, il fondatore
della scuola di Valenza, non principiava quadro senza devote pra-
tiche religiose; Vargas, il fondatore della scuola di Siviglia, si
preparava all'opera coprendosi di cilizio e coricandosi nel cata-
letto. Ed Espinosa con le sue Addolorate, Ribera cogli scarni suoi
VoL. XIV, Serie II — 15 Marzo 1879. 16
262 l'arte a PARIGI.
San Girolami, Herrera con le sue anatomie, Zurbaran co' suoi teschi
e co' suoi asceti, Valdes Leal co' suoi cadaveri in decomposizione,
significarono eloquentemente l'indole di un tempo, nel quale, se-
condo ha detto un fisiologo, quando l'ultim'ora suonava, non si
finiva già di vivere, ma si fluiva di morire.
Peraltro la divina potenza del genio non soggiace mai intera
e senza lotta alla tirannia del destino, I due più grandi nomi
dell'arte spagnuola, Velasquez e Murillo, la solcano tuttodì di una
striscia di luce, che non è riverbero di roghi e neppure di fu-
nerali, ma limpido saluto di sole. Velasquez sfuggì all'ascetismo
del maestro, meno pittore che autore di dissertazioni teologiche
intorno alle estasi di Santa Teresa, e si ancorò all'umanesimo nel
ritratto; Murillo, dopo aver raspato in tutte le miserie della leb-
broseria in omaggio all'umiltà di Santa Elisabetta, ritrovò nelle
sue Madonne i sorrisi della gioventìi e gli azzurri del cielo. Ma
quando egli sparve, la luce si estinse con lui. In quella trista
Corte dell'Escuriale, dove s'era fatto di tutto per rattrappire la
pianta uomo, si apersero indarno pinacoteche ed accademie, si
largirono indarno provvisioni a maestri stranieri, a Van Loo, al
Procaccino, a Raffaello Mengs; l'arte non voleva attecchir piìi; e
bisogna scendere fino verso la metà del Settecento, per trovare,
non dirò un genio ma un ingegno bizzarro, che, piantato quasi
a cavaliere tra lo scorso secolo e il nostro, sembra ad un tempo
epilogare il passato, e gittare, se anche a vanvera e come il ca-
priccio gliene frulla, la semenza di un tutt'altro avvenire.
Chi visita la galleria storica del Trocadero, giunto che sia
alla sezione spagnuola, non può a meno di rimanere colpito da
una serie di pitture così cupe, così eteroclite, così diaboliche,
che sembrano trasportare la smarrita fantasia moderna nel più
fitto della tregenda medieva. Incubi e succubi, streghe a caval-
cioni di scope, demoni imbacuccati nella cocolla e nella pazienza
del monaco, orchi in atto di divorare bambini ; niente ci manca
di tutto quello che il farnetico potè mai generare di più spaven-
toso nei malati cervelli delle demonomaniache. Di chi sono quelle
pagine dipinte colla fuliggine del Sant'Uffizio ? Sono di Goya. Ma
se un altro giorno tu vai a riposare gli stracchi nervi nelle de-
lizie del Louvre, arrivato agli Spagnuoli t'avvieni in una sedu-
cente manola, la madamina dal galano rosso all' orecchio, dalla
nera mantilla, dal braccetto ritondo, di cui benissimo indovini
le curve perfette sotto la seta color di rosa di un giubberello a
ricami d'argento. Di chi è quel mondano demonietto ? È di Goya.
l'arte a PARIGI. 263
Allora, io ne son sicuro, tu pigli a scartabellare curiosamente le
acqueibrti di cotesto bel tomo, che fu Plntor del Rey fino allo
scoppiare del turbine rivoluzionario; e mai non ti sarà accaduto
d'imbatterti in un più strano mescuglio di reminiscenze satani-
che e di sogghigni volteriani. di spaventi e di celie, di foreros, di
mayas, di preti, di frati e di Convenzionali francesi dal cappello
piumato e dalla nappa tricolore. Groya aveva, già innanzi la ri-
voluzione, indovinato la democrazia; i suoi sarcasmi erano arditi
come quelli del Figaro di Beaumarchais; la punta con cui li scri-
veva sul rame non era più aguzza della sua lingua. Or da costui
bisogna rifarsi, chi voglia capire anche la rivoluzione della tec-
nica nell'arte spaglinola; perché lui, l'ultimo ospite della nera
tregenda, è tuttavia, quando vuole, il più ardito interprete dei
cieli sereni, dell' effetto d' aria libera, di quella che Leonardo
chiama « la luce universale dell' aria in campagna ; » e fu, come
a dire, l'anello che ricongiunse i moderni a quei due unici mae-
stri usciti incolumi dalla febbre calda dell' ascetismo, Velasquez
e Murillo. Egli menò i novatori modernissimi a ricordarsi di Ve-
lasquez, al quale attinsero la rapida semplicità e la spigliata
efficacia della pennellata, le sapienti armonie e le brillanti con-
trapposizioni, la gamma chiara e le vivacissime audacie della ta-
volozza ; egli li condusse a ricordarsi della maniera ultima di
Murillo, d'onde tolsero quelle tenerezze di colore indicibili, così
diafane, così zuccherine, così femminine, che ti fanno pensare al-
l''ewige Weibliches di Goetlie; alle grazie di Elena e alle insidie
feline della Sfinge.
Una bizzarria eloquente del caso ha posto la sala spagnuola
vicino alla austriaca; l'ha aperta proprio rimpetto a quel Carlo V
del Makart, il quale, in tutto le splendore del suo fasto, sem-
bra condurre indarno la sua gran cavalcata imperiale verso le
porte d'un regno che non è più suo, sembra sforzarsi indarno
d'uscire dalla penombra alla luce. E veramente, per magnifica
eh' ella sia, la pittura del Makart, scaturita com' è tutta quanta
dalla tradizione e dalla dottrina, s'aiuta di valori intensissimi
sui primi piani, di toni rosolati e fulvi, di generose spalmature
d'asfalto, di tutti gli spedienti che assicurano, col sacrifizio delle
luci sparse, una ponderata e prestabilita armonia. L' aspetto in-
vece della sala spagnuola è, nel suo complesso, poco men chiaro
di quello del cielo aperto; ci si respira come un' aria mattinale,
un alito di primavera, un ambiente libero ; si direbbe che, sve-
gliatasi da un sogno lungo e tormentoso, fregatasi gli occhi, e
264 l'arte a PARIGI,
ributtati nella cieca ombra dell'oblio gì' incappucciati fantasimi
della Santa Hermandad, la giovane Spagna sia corsa a pigliarsi
un bagno di rugiada, e folleggi al primo riso dell'alba in giar-
dino, tra i profumi degli aranci in fior.; e delle bianche magno-
lie, tornando, come una bella reìapsa andalusa, a' suoi primi
amori moreschi, al giocondo amplesso della proscritta natura. 0
non sarebbe lei quella che ci guarda coi grand'occhi innamorati,
fiore vivente in mezzo a'fiori. a' tappeti, a'gioielli, sotto le spoglie
leggiere della vaghissima Zaìdn del Casado ? Oramai 1' angelo
caduto è un tènia che non la spaventa più: si direbbe anzi che
ella ci si compiaccia. Dopo che il Bellver l'ha ritratto in plastica,
il Pescadur ce lo rida alla sua volta in un quadro, E già che
Lucifero s'è fatto cacciare dal cielo e che il cielo è perduto, viva
oramai in terra la luce, la letizia e la libertà ! Il coro del Don
Giovanni di Mozart pare che riecheggi qai da tutte le parti, come
scatta una molla troppo lungamente compressa.
Non voglio dire che della pittura severa e cupa non resti
nulla, o clie quello che resta non sia degno di memoria e di lode.
Come al mattino i vapori della notte aleggiano ancora sospesi in
lunghi strati, quasi a far padiglione al sole che sorge, cosi è
della vecchia tradizione pittorica nell'arte spagnuola; però que-
sti strati anch' essi già si tingono agli orli d'un riflesso d'aurora.
Il Dominguez con una Morte di Seneca, il Rosales con un Giu-
ramento di Bruto, opera condotta cosi alla brava che la si di-
rebbe piuttosto abbozzata che finita, e forse rimase in tronco per
la morte del valoroso pittore, appunto ricordano le cupezze anti-
che e gli antichi vigori: ma il pensiero dei novi tempi si sente
fremere nella scelta istessa del tèma. Due poi dei più valorosi
giovani ci raccontano i funerali di un Santo e di un Ee ; ma
nelle loro grandi tele, che sono delle più cospicue e delle più ri-
cordabili, la interpretazione nova tanto dista da quella che cento
anni sono si sarebbe inesorabilmente imposta come un obbligo,
quanto dista la critica storica dalla liturgia. C'è di mezzo nien-
t'altro che la Kivoluzione.
Il Ferrant ci fa assistere alle pietose esequie di quel capitano
del pretorio, che la Chiesa suole mostrarci trafitto dalle frecce
dei soldati mauritani, e che non sopravvisse al primo mai tirio se
non per isfidare una seconda volta il furore di Cesare con Tar-
dente zelo di un eroe della fede. Pietose donne traggono la salma
di San Sebastiano dalla cloaca del Circo a onorata sepoltura:
solenne, dolorosa e pia, siccome conviene, è la scena; ma Tese-
l'arte a PAKIGI. 265
gesi è moderna affatto ; senza punto pretendere di penetrar l'in-
tenzione dell'artista, gli è lecito dire che non è altrimenti una
pagina degli agiografi quella ch'egli traduce ; e che nella sua opera
prevale quel medesimo sentimento umano, onde siamo accostu-
mati a trovar sature le meste, pensose, ed eloquenti pagine del
più recente istorico del Cristianesimo.
Il Pradilla anche fu guidato, consapevolmente o no, poco
importa, da un acuto e modernissimo senso dell'istoria nell'ideare
quella sua grande scena funebre, dove l'apparato della podestà
regale e della pompa liturgica non è già l'obbiettivo ultimo,
anzi non pare destinato se non a mettere in risalto l'elemento
umano, intimo, fisiologico del dramma. Né un dramma più com-
plesso e più profondo si troverebbe facilmente in tutta la storia
spagnuola. Strana fortuna di cotesta superba monarchia ! Uscita
appena dal connubio di due avventurate ambizioni, alle quali
Consalvo dona un regno e Cristoforo Colombo un mondo, essa
ricade subito, come rifinita dallo sforzo, nelle mani di una pazza
e di un dissoluto: di quel Filippo d'Austria, che a ventotto anni
muore di libertinaggio, e di quella Giovanna, che, presa di costui
tanto, quant'egli è schivo di lei, s'avviticchia alla sua bara come
un cespo d'edera a una rovina. Miserabile maritaggio di due
infermità, dal quale è uscito il regale rampollo che dominerà
sui due emisferi, e che andrà poi a finire tra i cilizii del con-
vento di Yuste, lipemaniaco come la madre. Io non dico che tutto
questo si legga nel quadro del Pradilla : ma si può, quasi in
epitome, indovinarlo nella scemi ch'egli ci mette sott'occhi, cosi
triste e tuttavia cosi aliena da ogni declamazione. Quella sosta di
un funerale in aperta campagna, del funei-ale che la loca si tra-
scina dietro, suntuosa e lamentevole odissea, attraverso il suo
proprio regno; quella bara posata a terra, alla quale il fasto
araldico degli stemmi sembra contendere anche l'ultima quiete ;
quei ceri che le ardono intorno ; quella diritta e pallida figura
di donna, dal volto scombuiato e senza lagrime, che le si è pian-
tata accanto come la statua del dolore ; quell'orizzonte grigio,
quella vegetazione inaridita, quel soffio decembrino, che stringe
l'anima e intirizzisce le membra ; quelle preci salmodiate som-
messamente dai monaci col sussurro uguale, monotono, inconscio
del mulino a preghiere ; quelle cameriste accoccolate in terra,
che sentono il freddo avanti tutto, e sgranchiscono le mani a un
gran fuoco di sarmenti; quei gruppi sparsi, muti, cogitabondi, di
(jrandcs e di hidalgos — non ti mettono solamente addosso una
266 l'arte a PARIGI.
impressione profonda, ma anche un gran desiderio di raccoglierti
e di pensare. E le qualità propriamente pittoriche, una composi-
zione naturale, un colore robusto e fino, un disegno sicuro, una
rara larghezza di pennello, concorrono a fare di questa tela più
che una splendida promessa ed anche pili che un ottimo quadro.
Essa è la prova irrecusabile di un indirizzo di studii eccellente,
di un felice innesto del pensiero moderno sul buon tallo degli
antichi maestri.
Quando gli artisti spagnuoli tornano col pensiero al passato,
e' cercano volentieri nella storia patria le occasioni a vigorosi effetti
pittorici ; e niente vi si presta meglio delle smaglianti e diver-
sissime foggie del Quattrocento e del Cinquecento. Ma all'effetto
essi anche alleano volentieri un pensiero; e piace d' incontrarne
qualcuno che racconti le ardite resistenze delle borghesie all'arbi-
trio de' principi, come il Sala ha fatto col suo GitiUen de Viuafea,
un tenace difensore di quei fncros, oggi inciampo, altre volte asilo,
secondo i tempi unico, <lelle patrie libertà. Però a dire le cose
come staiino, la inclinazione dei moderni volge in Ispagna come
altrove piuttosto verso l'aneddoto, e verso Vhuiiiour, e s'industria
a scovarne fuori l'occasione persino in fondo ai secoli piiì remoti.
Nessuno ci riuscì meglio di quel povero Zamacoi's, troppo presto
rapito all'arte, il quale aveva trovato modo di ridere anche della
più cupa fra le monarchie; e co' suoi Buffoni di Corte, o sia che
gli accovacciasse come gnomi dentro agli splendori della reggia,
o che prosternasse loro innanzi un servidorame anche più servile
di loro, disse mirabilmente la protestazione perpetua della satira
contro il despotismo.
Non c'è sforzo alcuno da fare per tener dietro a questa incli-
nazione critica, gaudente, ridente, mezzo epicurea e mezzo ber-
teggiatrice in cui assai meglio del Cid Campeador troverebbe il
suo conto el Burlador de Sevilla. E d'onde mai si principierebbe
a novellare, nella patria di Cervantes, se non da qualcuno dei casi
di Don Chisciotte ? Gli è il Moreno che s'incarica di ammannircene
uno dei più gustosi dentro alle aride gole di quella Sierra, dove
tante extranas cosas y raras aventuras intervennero al buon
cavaliere della Manclia', e l'accento gaio, il giocondo riso della
commedia, che riempie fino gli echi della petrosa e riarsa Estre-
madura, sembra discendere con noi e accoinpagnarci di contrada
in contrada e di secolo in secolo. A' tempi bui, alle scene tristis-
sime che nella storia spagnuola sovrabbondano, la pittura spa-
gnuola nova non ci si ferma; e il periodo in cui ella si compiace
l'arte a PARIGI. 267
è la fine del secolo xviii, quel periodo nel quale il bel mondo
madrileno, gittata la maschera d' ipocrisia che gli aveva imposta
il regno austero e devoto di Carlo III, si dà buon tempo con una
licenza di cui l'esempio scende dall'alto; quel periodo in cui il
re s'obblìa nelle eterne sue caccie, e chi dà il tono alle eleganze
di Corte è Manuel Godoy, il favorito della regina: e le belle
duchesse d'Alba e di Benavente contendono a Maria Luisa lo
scettro della moda, degli intrighi e dei piaceri.
Gli è un mondo codesto tutto abiti ricamati, parrucche inci-
priate, innocentissimi spadini dall'else d'acciaio, dame graziosa-
mente impacciate nelle loro guaine di raso e di merletti: e la
nota locale è data dalle pittoresche cuaclrillas delle corridas de
toros, dagli espadas, dai handerilleros, dai picadores, così balda-
mente atteggiati nei loro farsetti tutti nappe e lustrini, con la
monterilla di velluto nero piantata di traverso sui bruni capelli,
coi vistosi lombi cinti dalla faja di seta del più smagliante cina-
bro. Però i pittori non ci guastano il sangue colle scene cruente
del circo; eleggono piuttosto di mostrarci, come fa nel suo qua-
dro il Casado, il matador dopo la vittoria, in atto di fare omaggio
della sua buona lama alla gentildonna del suo cuore, la quale,
durante il combattimento, gli ha buttata nell'arena quella fresca
rosa, ch'egli si stringe così cavallerescamente sul petto. Anche i
buoni religiosi trovano modo, si vede, d'acconciarsi alle dolcezze
della vita. Una dolce pasta di curato dall' immenso cappellone
tradizionale si lascia volentieri presentare dal Gonzales, insieme
col resto del corteggio, a una vezzosa puerpera; e un giocondo
frailf, al quale il Casanova mesce un gustosissimo cioccolatte,
beatamente se ne riconforta, essendosi lasciato senza fatica per-
suadere dalla dialettica del Padre Hartado che el chocolate no
qiiehranta el jejuno de la Iglrsm. liqnidum non rumpit jejunium,
beninteso sotto condizione, come savissimamente soggiunge lo
stesso reverendo Padre, che non sia adulterato con fave, con gar-
hanzos, né con altri immondi legumi. Fino quel pacifico snntero,
che, nel delizioso quadretto del Gimenes j Arando, va intorno
questuando per il mercato di Siviglia, mi pare che raccolga più
celie che quattrini, e che non se ne dia per offeso. C è bene in
una bizzarra tela del Santa Cruz una veglia dì morto in casa
patrizia; ma i servitori filosoficamente ne profittano per giuocare
a carte e fumare la sigaretta, lasciando dire il proverbio, il quale
pretende che carte e tabacco ed il resto {talaco, toros, naipes y
vino) menino l'uomo alla mala ventura. E c'è anche un esorcismo,
268 l'arte a PARIGI.
del Martinez del Kincoii; ma e' m' ha Faria di essere l'ultimo
e il più innocente degli esorcismi. Sua Eccellenza il marchese
padre, che sembra tanto disperarsi per amore della sua bella e
endemoniada figliuola, può star sicuro che la piccina non aspetta
altro se non un conte d'Almaviva per risanare in un batter d'oc-
chio; il medico di Molière non esiterebbe un momento a dirglielo.
« Voiìa iwurquoi votre fdle, est nmdtc. »
Tutta codesta cara letizia e gioventìi della odierna pittura
spagnuola si compendia poi in un triumvirato d'artisti, del quale
non si saprebbe imaginare il più lieto, se pur tropiio uno dei
tre, che n' era proprio la stella, non fosse da tre anni, nel più
vivo del suo fulgore, scomparso. Chi non conosce Eortuny? Egli
ha esercitato anche fra noi, in Italia, un prestigio, che per un
momento s'insignorì di più d'un maestro, e che fra i giovani lascia
scorgere ancora vivissimo il suo solco fosforescente. « Fortuny
— diceva anche quel Regnault, che fu la più bella speranza della
scuola francese — Fortuny mi toglie il sonno. » E la sua indole
pittorica è veramente così nova, così mobile, così iridescente, così
compenetrata a tutte le baldanze, a tutte le sorprese, a tutti i
giuochi della luce, egli ha così intero il coraggio della evidenza
e della identità, egli signoreggia con una sagacia così epicurea
r infinito spettacolo del mondo, pigliandone tutto quello che gli
dà gusto, muri incandescenti di sole, verzieri brulicanti di vita
vegetativa, armi damaschinate, maioliche, madreperle, e Beduini
e Kabili e Berberi e leggiadre donnine e umoristiche figure di
bibliotecari, di professori e di àrcadi, tutti insieme a fascio col
resto, che non c'è spettatore dalla retina un poco sensibile il quale
non si lasci rapire dall'incanto, e non lo acclami, sul primo gioire
della novissima voluttà, delizioso, nnico, incomparabile. Dalla
Fantnsht nraha e dalla Forta di Giustizia dell' Alhnì)d)ra al
Matrimonio in Vicarìa, al Giardino dei poeti, e alla Scelta della
modella. Oriente e Occidente gli tributano tutte le ricchezze del
prisma, tutte le gioie dell'arcobaleno. Una bionda carnagione di
donna su un bel grigio di sabbia, un lucco rosso pallido su un
rosso più vivo, gli bastano a trovare accordi, a deliziarsene e a
deliziare. Dopo che Rembrandt s'è tolto il capriccio di dipingere
un bove sventrato, e che Decamps ne ha dato a piluccare le ossa
al cane del suo occcaio arabo, più d'un pittore s'era arrisicato
ne'macelli, ma per lo più senza raccogliervi altro che disgusto :
Fortuny solo ti passeggia sicuro anche in mezzo alle beccherie
algerine, e n'esce con una squillante fanfara di lacche e di cinabri.
l'arte a PARIGI. 269
Ma de'suoi quadri, provati, se sei da tanto, a descriverne uno.
La Vicarìa sola forse (ed è il solo quadro che manchi alla Mo-
stra) ti dà, oltre alla delizia degli occhi, un intuito chiaro del
luogo, del tempo, dei caratteri; c'è anche un'azione semplice,
intelligihile, corretta. Le scene arabe, che appartengono alla
prima maniera, se non parlano con un' azione, parlano almeno
con un'impressione genuina, quella della figura umana còlta alla
sprovvista, nella sua sincerità e nella sua fierezza. Ma, a misura
che ti inoltri in m3zzo ai portenti del caleidoscopio fortuniano,
e t' inveschi con 1' artista nelle tentazioni infinite che assediano
il suo prodigioso pennello senza che neppur una rimanga insod-
disfatta, tu vedi la virtuosità pigliare sempre piìi il passo sul
concetto, fare signorilmente a fidanza col tèma, e finire a pren-
dere ad unico tèma sé medesima, per rifulgere, per ispecchiarsi,
per gioire in sé sola. Cosi diceva Lucrezio che gioissero gli Dei,
e così a un dipresso, io credo, ripeterono anche i teologi del
medio evo che in cielo la Intelligenza si estrinseca
Girando sé sovra sua imitate.
Ma è egli lecito all'arte di pareggiarsi all'assoluto, e di passarsi
d'cgui altro fine? A me non pare. E mi pare che, per buona
sorte, la ragione estetica collimi in questo con la ragione mo-
rale; perchè non solamente rimano qualcosa d'insoddisfatto nel
tuo r.nimo quando la virtuosità dell'artista non ti dà altro che
una squisita delizia dei sensi; ma i sensi medesimi sono, alla
lunga, ecceduti, faticati, rifiniti da uno scintillìo, il quale non per-
dona a nulla, non sagrifica nulla, non ti risparmia nessun parti-
colare e nessuna finezza; tu affoghi, alla fine, in un mare d' im-
pressioni gradevoli, dove però l'una elide l'altra, e un viso di
donna finisce a non valere più del calice di un fiore. Vedi, per
esempio, la scelta della iitodella. Quella sala di palazzo Colonna,
dove il pittore ha collocato la sua scena, è tutta un'onice, un'opale,
una gemma. Ma fra quei rilucenti accessori non ce n'è forse piìi
d'uno che ti cattiva più deW accessorio vivente? E quei professori,
0 amatori che siano, schierati in semicerchio a consulta, o non ti
danno essi questa impressione, che il pittore si sia piìi assai oc-
cupato di assortire i rasi e i broccati dei loro abiti, che non di
sindacare le loro teste e i loro cervelli?
« 11 lume universale dell'aria in campagna,» per ripetere le pro-
prie parole di Leonardo, pare che sia diventato, per questa genera-
zione di pittori, l'unico obbiettivo a cui intendono tutte le potenti
270 l'arte a PARIGI.
loro f^icoltà; ma, se in una cosa sicuramente giovarono, voglio
dire nel togliere via l'abuso del trasportare anche all'aria aperta
gli effetti ritratti « a un lume particolare nella casa, » errore
che Leonardo già condannava, credo che troppo restringano l'uf-
ficio dell'arte e l'ambizione de' valorosi loro ingegni, contentan-
dosi di questa vittoria sola. E questo sopratutto mi pare che
debba dirsi delle composizioni di figura, alle quali sta dinanzi un
così vasto campo da percorrere nella storia, nella vita, nel per-
petuo dramma dell'anima umana. Per il paese tanto, la schiet-
tezza e la valentìa del rendere compendiano già quasi tutte le
parti desiderabili, e si può dire che quando ci s'aggiunga la
scelta del sito pittoresco, non resti a dimandar altro; perchè la
poesia scaturisce spontanea da un sito pittoresco dipinto bene.
Gli è quello che ottimamente ci dimostra il Rico, un Fortuny del
paese; uno dei pochi che ci facciano innamorare della vita con
la sola e schietta imagine del vero. Egli arriva a una profondità
di verdi, che pochi osarono prima della riscossa dei veristi; a uno
smalto d'azzurri, che vince qualche volta di forza persino il ri-
lievo delle alberature; e a questi intensi valori egli ti sa mari-
tare dei grigi incredibilmente fini nei terreni e nelle fabbriche ;
e con una punta di pennello meravigliosamente agile e rapida,
ti dà risalto ai minimi accidenti nei metalli che rullano faville
al sole, nelle muraglie bianche che se ne imbevono, nei marmi su
cui la luce scivola e mareggia; e, in quadretti grandi come la
mano, ti popola le rive e le fondamenta di Veìies/a, le piazze di
Granfiti, le rovine di Roma, le vecchie porte moresche di Toledo,
le spiagge di Fontarabia, fino i mercati della vorticosa Parigi.
qualunque paese dove egli abbia serbato dne minuti fra mano il
suo libercolo di memorie, d'un mondo di macchiette vive, affac-
cendate, caratteristiche, della famiglia di quelle del Guardi.
Lasciamolo correre la campagna, in cerca di novo sempre, e
diamo posto al terzo triumviro. Raimundo Madrazo, figliuolo di
un valente pittore, del quale tutte le bellezze araldiche e tutte
le corone ducali di Spagna si disputano i signorili ritratti, ebbe
in famiglia un'altra corona; fu cognato e intrinseco del povero
Fortuny. Costui vivente, e' parve quasi volontariamente nascondersi
dentro al fraterno splendore; oggi la sua pittura si espande come
un finme di latte e di rose in ogni maniera di graziosi soggetti :
mattiniere uscite da feste di hallo, ìnsìàìosQ pierrettes, leggiadre
gnitarrere dal pie sottile, vertiginose regine della jota e del fan-
dango, aristocratiche senoritas. Per coronar l'opera, la mostra ha
l'aETE a PARIGI. 271
di suo un ritratto del Coquelin, uno degli eredi della tradizione
di Molière, alla Commedia Francese; e Molière medesimo, ne metto
pegno, ravviserebbe senza esitare in quella fina, ironica, provo-
cante, temeraria, birrichina, truffaldinesca testa, l'eroe delle Four-
bcries, l'inesauribile alleato di tutti gl'innamorati Lelii e Leandri
del vecchio Teatro,
lìelhi ijeranf alii. tu. foeli.f Anstrùi, nube,
fu detto un giorno da un poeta aulico, il quale anche nell' apo-
logia ci metteva, pare, un grano di malizia. Noi, senza una ma-
lizia al mondo, possiamo congratularci colla Spagna che a' suoi
giovani artisti basti guardare per dipingere, gustar il colore per
rapirlo sulla tela, vivere per vincere. Kesta che vogliano vincere
sempre da gagliardi, aspirare a fatiche e a vittorie virili. E quando
vorranno, detto fatto: non hanno che da battere la via del Pradilla.
È da credere, e l'opera del Pradilla appunto ce ne dà fede,
che la pittura spagnuola, dopo avere assaporato con giovanile bal-
danza tutta quanta la voluttà del sentirsi libera, dopo avere spa-
droneggiato a sua posta accumulando sulla tela le cose belle e gli
effetti pittorici per il solo gusto di pascerne gli occhi, tornerà ai
grandi intenti e alle severe tradizioni dell'arte. La sua levata di
scudi, nondimeno, la sua rivolta, si capisce senza difficoltà. Fu una
rivolta contro l'Escuriale e contro il Quemadero, contro gli spettri
di Filippo II e di Torquemada, che le avevano oscurato persino
i suoi cieli sereni e riempiuto di contrizione e di spavento per-
sino l'anime, non che l'opere, de' suoi maestri. Ma il distacco dalla
tradizione, il ripudio di un glorioso passato si capirebbe meno,
anzi non si capirebbe affatto presso di noi Italiani, in quest'altra,
come gli stranieri dicono, delle due Penisole; dove non c'è stata
libertà, né gloria, né vittoria dello spirito umano che non si sia
riflettuta e incarnata nell'arte, dove anzi l'arte tutta quanta nei
suoi migliori periodi non è stata altro che parola vivente del genio
patrio, e incarnazione di libertà. Ora, un poco per il capriccio del
caso, che ha dato alla Mostra italiana una fisonomia non al tutto
genuina e conforme alla fisonomia vera dell'arte in Italia, un poco
anche, confessiamolo, per colpa nostra, per una certa ostentazione
eccessiva di modernità, per una certa smania di proclamare ai
quattro venti che in Italia ncn si vuole affatto vivere a spese degli
avi, noi abbiamo l'aria, costì in Campo Marzio, d'essere, non dico
insorti contro i nostri vecchi, e neppure dimentichi di loro, ma,
che forse è peggio, indifferenti ; sopratutto occupati a far capire
272 l'arte a PARIGI.
al mondo che siamo al corrente di tutte le novità, di tutte le teme-
rità, di tutte le emancipazioni; e che, in quanto a emancipata e a
temeraria e a impaziente, l'Italia può venir di pari — ahimè povero
vanto! — con chi che sia.
Gli stranieri, i quali ci giudicano daUa Mostra sola, ci pigliano
in parola pur troppo; e alcuni con benevolenza, se anche un poco
con quel fare paterno che s'usa con le pecorelle smarrite, ci am-
moniscono del pericolo e dell'errore ; altri si affrettano a mettere
senza più a riscontro il presente, pieno d' incertezze, di tasteg-
giamenti e di prove, con un passato pieno di trionfi, e ci schiac-
ciano senza misericordia sotto il paragone; pochi assai, e tra i po-
chi mi giova notare quel]' autorevolissimo dei periodici d' arte
che ho già ricordato a titolo d'onore, la Gazsdhi francese delle
Belle arti, pochi s' indugiano a cercare il segreto della nostra
irrequietezza, e sanno mettere il dito sulla piaga, e in fondo a
tutte le nostre millanterie apparenti, a tutte le nostre pretensioni
di riprincipiar l'arte senza mediatori, senza esempi, senza metodi,
sforzando e saccheggiando la natura piuttosto che contentandoci
di amarla e di interrogarla, sanno ritrovare una forza viva, una
febbre di ricerca, una volontà risoluta di partecipare piuttosto
alle battaglie quotidiane che non alle commemorazioni solenni,
ripetitrici e incruente, delle battaglie passate. Principi d'azione
esagerati nell'applicazione senza dubbio, male definiti nella co-
scienza medesima della generazione che li accampa, sbagliati anche
forse nell'obbiettivo che sembrano togliere di mira; ma sintomi,
al postutto, d'una fibra che non s'accascia, che non s'allenta, che
non assonna.
Io credo che si possa, senza illusione di vanità e senza pe-
ricolo d'offesa, paragonare l'artista italiano della odierna gene-
raziojie, dico della più giovane, e naturalmente della più in(|uieta
e più rotnorosa, al figliuolo di una stirpe illustre, ma inqioverita;
che è stufo di vedere ammucchiarsi la polvere sugli stemmi corrosi,
sugli arazzi sbiaditi, sui rugginosi trofei del suo vecchio palazzo:
che a restaurarlo per bene e a rimettere in assetto tutti quei vec-
chiumi preziosi non può nemmanco pensare, il fatto suo non gli
bastando a gran pezza a vivere; e però piglia in uggia, ed an-
che affetta di avere in uggia più che non abbia in realtà, i suoi
titoli, i suoi diplorai, i suoi avi; e vuol rialzare la propria casa
e la propria fortuna come vede gli altri erigere e difender la loro,
come si può, come si usa, buttandosi nella mischia alla pari con
tutti, dando di piglio all'armi, alle idee, agli strumenti del suo
l'arte a PARIGI. 273
tempo. Se non che di maniere d'emergere, di tornar su, di salire,
ce ne hanno di varie sorta; e pur troppo quelle di cattiva lega
sono le più numerose. Si contenterà egli d'un'operosità febbrile,
ma intemerata, oppure si lascierà involontariamente, inconsape-
volmente travolgere in mazzo coi facitori, che, senza badare al
come, non mirano se non a far colpo? Questo è il punto; questa,
direbbe Amleto, è la quistione.
Inutile soggiungere che, secondo il mio convincimento, l'onestà
artistica, la sincerità, l'ardore, il vigore anche, degli animi gio-
vanili che più perdutamente si lanciano nel moto e nelle impronti-
tudini della innovazione, sono superiori ad ogni dubbio; dirò di più,
io ho ferma fede che l'arte medesima, non ostante le esagerazioni,
i traviamenti e le cadute inevitabili, non avrà da ultimo a do-
lersi di essere passata attraverso i cimenti di questo battagliero
periodo ; ma, ad una condizione : che il paese non la lasci sola; che
la coscienza pubblica non s'alieni dalle agitazioni sue, da' suoi
sforzi, dalle sue lotte, e che la pubblica azienda non si ostini a
considerarla come un fuor d'opera, a mala pena e di mala voglia
ammissibile fra gli apparati di certi giorni di gala, per ossequio
alle costumanze e a titolo di elegante superfluità. C è poi un
modo d' assicurarsi che l'arte in Italia è viva e vitale, e che il
pericolo non istà tanto nei bollori un poco tumultuari, nelle ef-
fervescenze un poco scottanti che la inquietano e la travagliano
e la trasformano, quanto, diciamolo aperto, nella diserzione del
paese. E il modo è di non fermarsi all' episodio delia Mostra, e
di percorrere, sia pure con un'occhiata rapidissima, le evoluzioni
dell'arte italiana nel nostro secolo: una serie, la mercè della
quale soltanto è possibile di afferrarne il carattere, e di presa-
girne, con qualcbe verisimiglianza, il corso ulteriore.
Non è, cred' io, un inganno dell'amore la persuasione in cui
si viene, quando si rivolge indietro lo sguardo verso i principii
di questo periodo, che ciascuna sua fase, così nell'arti plastiche
come nei resto, ci abbia trovati bensì in una costante comunione
di spirito cogli agitatori di novità di ogni contrada, e massime
coi Francesi; ma siasi inaugurata da noi con modi nostri, affini
agli altrui e non identici, informati piuttosto a una certa isotermia
naturale delle menti, che non a una impulsione meccanicamente
ricevuta. Per restare nella pittura, tutto il moto francese della
prima Eepubblica e del primo Impero fa capo a David; il nostro
all'Appiani: e quanto non è questi più vivo, più splendido, più
aggraziato! Il David non appartiene oramai che alla storia; l'Ap-
274 l'arte a PARIGI.
piani, nella pittura decorativa e solenne, è ancora, e resterà io
credo sempre, un esemplare da consultarsi non solamente cou
frutto, ma con quel piacere tranquillo che danno le cose greche.
il nostro classicismo dunque, se anche ai Palagi, ai Camuccini.
agli Agricola, ai Benvenuti, ai Bezzuoli e agli altri, non rimanga
che un poco di chiarore riflesso piuttosto che un raggio di luce
propria, e siano vissuti più di virtù dativa che nativa, il classi-
cismo nostro, io dico, avrebbe già una propria e limpida scatu-
rigine. Ma quanta virtù non gli aggiunse, e quanto recisamente
impressa del nostro proprio genio, il Sabatelli ? Se a costui mancò
il fascino del colore, egli, per la facoltà dell' invenzione, fu mag-
giore del suo tempo ; e la Peste di Firenze e le stampe àeW Apo-
calisse il ricongiungono senza intervallo alla grande generazione
del Cinquecento.
Ohe se Alfieri e Monti e Foscolo possono rivendicare a sé
l'ispirazione letteraria, il soffio animatore delle arti plastiche in
questa prima fase della nostra storia contemporanea, anche più
evidente, è rispetto a quella che immediatamente vi tenne
dietro, la ispirazione, oserei dire la paternità, del Manzoni e del
Niccolini. Il romanticismo fu da noi sì poco un frutto esotico, che
mentre in Germania, dov'ebbe le prime radici, era stato stru-
mento di restaurazione religiosa e monarchica, da noi pur ser-
bando una certa impronta di religiosità meditativa e sentimentale,
diventò segnacolo in vessillo agli spiriti più insofferenti della ser-
vitù politica, non che della vecchia falsariga letteraria. La nostra
pittura romantica, poi, fu senz'altro la incarnazione della scuola
letteraria indigena; e il nostro venerando Hayez, che vive alla
riverenza di tre generazioni, roman::eggiò in tela Shakspeare,
Scott, Manzoni o i discepoli di Manzoni, quando il Delacroix
principiava forse a combattere le sue strepitose battaglie, ma
certo l'eco di queste non aveva ancora varcato le Alpi. Dall'uno
all'altro poi corre una diversità d'indole tanto profonda, quanta
ne può correre dalla soavità alla fierezza, e dalla grazia al vi-
gore. Più affinità si troverebbe forse fra rHa3^ez e il Delaroche;
ma, dove questi nel colore fallisce la prova, quegli, se anche in una
tonalità un poco velata, ha tutte le finezze e le leggiadrie de' suoi
Veneziani, dei quali mirabilmente rivendica in luce i fasti e i nefasti.
Noi scendiamo dunque tutt'altro che da ibridi padri; e già
gl'ibridi, secondo natura, non avrebbero avuto virtù prolifica.
Quanta invece, dopo quelle due prime generazioni, non è la mol-
teplicità delle famiglie in cui ci siam venuti partendo ! Ma
l'arte a PARIGI. 275
badiamo. Molteplicità non è confusione, come ricchezza non è
sperpero, e come libertà non è anarchia. Già in diritta linea
dal Sabatelli e dall'Hayez, sospinta, incuorata da loro, nasce la
nova scuola lombarda; non solamente una maniera nova, ma,
per noi, una forma nova dell'arte, « Fate come sentite » aveva
detto il Sabatelli al più promettente de'suoi discepoli; e Dome-
nico Induno, alla memoria del quale io rendo, non senza lagrime,
questa testimonianza, suscitò (e non aveva visto allora paranco
altro cielo che il suo, né altr' arte che quella di Brera) la pit-
tura di genere italiana.' Dal buon ceppo intanto dei Bertini, a
cui l'Italia era andata debitrice della restaurata arte veti-aria,
rampollava quel maestro, che recò in dote alla pittora storica
la più limpida e tersa tavolozza. E agli Schiavoni, i quali ave-
vano serbata viva in casa la buona tradizione veneta, sottentrava
con più vario, più dotto e più potente pennello lo Zona; ed al
Coghetti e al Podesti, depositari sapienti, ancora che un poco
farraginosi e accademici, della tradizione romana, il Fracassini
dava in giovane età un glorioso continuatore. Ma una metà del-
l'Italia ancora, si può dire, ignorava l'altra. Che splendida e fe-
lice rivelazione non fu quella onde la prima volta, dopo atter-
rate le secolari barriere, il Mezzodì della penisola parve tras-
fondere nel Nord la sua vena giovanile, fervida, riboccante di
vita, di fantasia e di colore ! Morelli restituì ai Lombardi quella
rivoluzione ch'essi avevano portata a Napoli; e Pagliano e Gamba
e i più giovani che vennero sulle loro orme, apersero anche a
questa rivoluzione le porte; e rinsanguarono di più vive por-
pore le pensate e forti loro creazioni.
Dopo quei gruppi di classici e di romantici che furono, e
forse vie più ci sembrano, a cagione della distanza, compatti ed
omogenei, le scuole pittoriche in Italia si son venute, dicevamo,
moltiplicando, anzi disgregando senza posa. Il qual moto poi di
disgregazione, e, se mi passi la barbara parola, d'individualiz-
zazione, seguitò negli ultimi anni tanto rapido, che oramai pres-
soché ciascun artista, vuoi nel soggetto o vuoi nel fare od anche
in amendue, cerca di mettere un certo suo proprio sigillo, un
accento, una intenzione pittoresca, una maniera, e alla peggio
un ticchio e un capriccio suo proprio; inclinazione la quale non
meriterebbe se non lode, quando sempre emanasse da un con-
vincimento meditato ed intimo, e qualche volta invece non fosse
0 male dissimulata primizia d'alcuna moda recente e forestiera,
oppure ostentazione più che coscienza d'originalità. Ma bisogna
276 l'arte a PARIGI.
confessare anche che codesto sbizzarrir del pennello in creazioni
più sin,2;olari che nuove e più eccentriche che originali ha un'al-
tra causa, la quale non può affatto apporsi all'artista, anzi in
qualclie modo lo discolpa e lo scusa; dico quell'abbandono, quella
solitudine morale, che gli s'è andata facendo intorno, proprio
quando la rivendicata indipendenza pareva promettere alla patria
coltura, se non la partecipazione nppassionata dell'universale,
almeno l'aifetto di più numerosi e di più caldi amici, e un più
diffuso e ])iù limpido senso di quella solidarietà che intrecoia
tutti fra loro gli studi, e tutti insieme gl'immedesima col decoro,
colla reputazione e colla prosperità del paese.
E tristo a dirsi, ma è necessario. 0 fosse l'irrompere degli
interessi materiali nell' arringo lungamente conteso della vita
pubblica; o lo svampare delle volontà nelle effervescenze parolaie
di quella che chiamano, forse per antitesi, politica, e, lunge che
edifichi la città, spesse volte è un'arte malsana, che la sbriciola
e la disperde; o fosse la tirannia ineluttabile delle esaurite finanze,
quell'anatema della povertà, che ne sigilla dentro al circolo vi-
zioso di una produzione insufficiente a sti])endiare il lusso del-
l'intelligenza, e di una fiscalità eccedente le forze della produ-
zione; 0 un poco di tutte insieme queste cagioni, e di quell'altre
che il giudizio di ciascuno ])uò facilmente presumere: fatto è che
l'arte non si è sentita mai più sola, più negletta, più derelitta
dalla coscienza pul)blica, non che dalla prJjblica munificenza. Ke-
secazioni di sussidi male dissimulate sotto apparenze di riforma;
riforme imjiernate al criterio unico del risparmio; balzelli get-
tati fino sull'ospitalità antica di quei Muspi e di quelle Pinaco-
teche, die sono fattori del gusto e corredo efficacissimo della
istruzione popolare, e ciò nell'atto a])punto che l'istruzione po-
polare si proclama obbligata e gratuita; sminuzzamento infinite-
simo anche della picciol'offa buttata all'arte, più per pudore che
per amore: cospirazioni del silenzio e invasioni della partigia-
neria fili dentro alla critica; le grand; liberalità in dileguo in-
sieme con le fortune patrizie, e poco e male supplite dalle nuove
fortune: tutta questa sequela di guai non avrà fine se prima il
paese non respiri da quella contenzione ii'razionale, inumana e
infeconda, a cui la irresoluta Europa si condanna da sé, non sa-
pendo essere né in pace né in guerra: e tutta questa sequela di
guai non fi alle arti un letto di rose: laonde al critico che si
lamenti può bene il pittore, come il martoriato Messicano al suo
Ministro, rinviar la rampogna.
l'arte a rAKiGi. 277
Con tutto questo, noi siamo in arte, e in pittura anche, assai
msn poveri, che non ci hisci credere la Mostra di Campo Marzio.
L'affresco non è una memoria soltanto, nel paese dove il Fracas-
sini ha istoriata con larghezza antica di mente e di mano una
delle più antiche fra le romane basiliche, e dove il Bertiui venne
degnamente commemorando sulle pareti di una splendida sede
gentilizia le invenzioni del genio italiano; uè la pittura filosofico-
religiosa accenna a perire dove il Gastaldi osa, da quel pensatore
ch'egli è, la gran macchina del Simon M(igo, e il Morelli con la
vivacità e la gentilezza greca del suo genio, trova, dopo la divi-
nissima Salve JRcgina e VAssunta, quelle traduzioni sue, così
nuove e così profonde, della leggenda evangelica; né la pittura
storica è morta dove sono ricordi ancora recenti le Donne vcne-
sianc dello Zona (cito esempi a rifascio come mi soccorrono alla
memoria), il Duca (V Atene dell'Ussi, il Bujardo e il Maramaldo
del Pagliano, il Borgia del Faruffini, il Carlo Emanuele del Fo- ,
cosi, il Biirharossa a Susa del Giuliano, i Funerali di Tiziano
del Gamba; né giace inonorata l'epopea contemporanea dove il
Pagliano col passo del Ticino, col Solferino e colla fazione di
Seriale, il Fattori con un ciclo intero di haitaglie, Girolamo In-
duno coi fasti di Roma e di Crimea, con Magenta, con Aspromonte,
con Quarto, con Villaglori, ne celebrano, da artisti, da patrioti e
da soldati, gli episodi diversamente memorabili. Ma di tutti codesti
maestri, a quali fra i morti s'è pensato, quanti dei vivi sono com-
parsi, e con quali opere, alla tenzone mondiale di Campo Marzio?
Quale sprone s'è aggiunto ai ritrosi, quale fastidio s' è alleviato,
quale dolce violenza s'è imposta? Diciamolo e ridiciamolo prima
di correre la breve rassegna di questi nostri piuttosto assaggi e
scampoli che prodotti: tutta non è degli artisti la colpa se costà
dentro si vive, mi guardi Iddio dal dire senza speme come nel
limbo dantesco, ma certo e non lietamente in desio.
L'arte, anche questo giova ridirlo, si priva da sé di una infi-
nita ricchezza, lasciando cadere i soggetti attinti al ciclo cristiano.
Erano soggetti bene definiti nella mente d'ognuno; e, appunto
perchè avevano nella intelligenza universale un substrato di no-
zioni già acquisite e perspicue, e proscioglievano l'artista dal fa-
stidio di una esposizione complicata o malagevole sempre ad in-
tendersi, gli lasciavano una duplice e preziosa libertà: libertà di
trovare quelle varianti delicate, sottili, qualche volta profonde,
che l'intimo sentimento solo sa suggerire, e nelle quali veramente
risiede il bello e il novo dell'arte: e libertà sopratutto di consa-
VoL. X!V, Serie II — 15 Marzo 1819. IT
278 L'AETE a PARIGI.
orare alla potenza e alla finezza della fattura tutte quelle forze
che da noi moderni, più letterati sempre che artisti, si sciupano
nel tormento del tèma. Chi non vede quanta varietà e ricchezza
d'invenzioni non comporti una semplice Nalhntà o una Adora-
zione de' Magi, secondo che ciascun jiittore vi reca l'esegesi del
suo tempo e del suo ingegno? Se dagli incunaboli del Trecento
fino alle prodigalità della decadenza tu consideri la scala che uno
solo di codesti soggetti ha percorsa, sei sicuro di leggervi, insieme
con la storia delle opinioni e dei costumi, poco meno che la fisio-
logia comparata di tutti quei cervelli, attraverso ai quali un me-
desimo germe è passato, per diventar nucleo a una formazione
sempre nova e sempre diversa; tanto ai due estremi, diversa, quanto
l'interpretazione di Giotto. può esserlo dall'interpretazione di Ru-
bens, (jli è dunque già da parte dell'artista moderno una prova
di addottrinato e fino ingegno l'accostarsi volontariamente a tèmi
di questa sorta, dove la mente volgare non vede che ripetizione, e
la mente istrutta per lo contrario sa di possedere una riposta mi-
niera. Ed è lodevole che nno almeno dei nostri si sia affacciato a
questo cimento, l'Altamura, il quale nel suo Cristo al Pretorio
parve incontrarsi d'intenzioni con l'Antokolski; se non che, vo-
lendo dare alle caratteristiche di costume e di razza tutta quella
prevalenza che loro assegna la critica odierna, lasciò un poco ge-
mere sotto il peso dell'etnografia l'ideale. Fu ad ogni modo una
ricerca da pensatore la sua; mentrechè non mi j^are che di un
consimile travaglio ci sia traccia molto profonda nella aggrade-
vole fattura di una Mater amabilis del Fontana; la quale a tutti
riuscirà amabile senza dubbio, ma forse più amabile che madre,
e sopratutto più donna che Madonna.
L'antichità greco-romana, considerata rispetto all'arte, ha in
una certa misura comuni col ciclo cristiano questi vantaggi, che,
sebbene in una sfera un poco più ristretta, è però altrettanto
certa di trovare animi apparecchiati a intenderla ed a gustarla ;
e che i sussidi di una ermeneutica più addottrinata e più acuta
di quella che per lo addietro prevalse, le permettono di innovare
e quasi di riuverginare l'interpretazione dei vecchi tèmi. Non
altrimenti si spiega il prestigio, di cui il Gérome e più recente-
mente l'Alma Tadórna seppero circondare il loro mondo neo-clas-
sico; e giova che anche da noi, tanto più vicini alle fonti, questa
via non rimanga inesplorata e negletta. In essa si è di buona
lena avventurato il Simoni, cimentandosi a un soggetto nobilis-
simo, Bruto a Filippi; e dalla sua tela spira un senso grave e
l'arte a PARIGI. 27&
solenne, che non disdice al tramonto della romana repubblica.
Vero è bene che quando Bruto, uscito in salvo per la generosa
abnegazione di Lucilio dagli stracorridori barbari che l'inseguivano,
ristette in mezzo ai pochi suoi capitani ed amici, e pronunzia
quelle parole che la posterità non si stanca di ripetere, era già
notte; ed egli, prima d'uscire in quella desolata professione di
scetticismo che tutti sanno, guardò, secondo Plutarco, il cielo,
che tutto era stellato. Onde l'artista che avesse osato di staccarsi
dalle invenzioni mezzane, e, piuttosto di un incerto crepuscolo,
avesse fatto una notte di Grecia stellata e fredda (poiché anche
si ha dagli storici che il verno era tanto rigido, da esserne ge-
lata l'acqua sotto le tende), avrebbe, io credo, ottenuto uno di
quegli effetti spiccanti, a cui appunto i pittori neo-classici rac-
comandano i novi loro successi. Né anche avrebbero costoro om-
messo di lasciar intendere dal picciolo ed ultimo drappello dei
vinti il carattere appariscente e signorile di quelle milizie, che
si davano bene per tutrici della libertà, ma in realtà erano fa-
lange ultima della oligarchia senatoria; di che la Vittoria d'oro
di Cassio, e gli elmi e gli scudi d'argento de' soldati suoi, pote-
vano rendere anche materiale testimonianza. Ma troppo più facile
è, lo so bene, il dimandare, che il fare.
Della utilità peraltro di questi accorgimenti sottili mi pare
che si sia bene penetrato il Campi, il quale, a ringiovanire con
un aspetto novo un vecchissimo tèma, non volle già metterci in-
nanzi lo strazio dei martiri, ma piuttosto l'angoscia delle loro
famiglie, vaganti intorno a quelle carceri del Circo, dove essi
aspettano l'ultima sera. Il pensiero era eccellente ; e accennava a
proseguire per quella ingegnosa via che il Boschetti aperse anni
sono, quando dij)inse la folla intenta a leggere nel fòro le tavole
sillane di proscrizione. Ma perchè i vecchi interpreti delle nostre
istorie greche e romane hanno ecceduto nell'apparato scenico e
in un artificiale calore, i giovani appunto pare che si credano in
debito di eccedere nell'estremo contrario; e fanno queste turbe
di dolorosi così tacite e cosi fredde, come non mi pare probabile
che siano state mai neppure le piìi accasciate e misere moltitu-
dini. Checché ne sia, di questi quadri d'antico tèma uno solo ce
n'ha che mi contenti pienissimamente, Y Orazio in villa del Miola,.
D'una intonazione chiara e limpida, così da dare già solo per la
macchia il gusto di un piccolo affresco pompeiano, questa genti-
lissima cosuccia spira tutta quanta la grazia del Venosino. Gli
è come se tu riudissi dalla sua bocca medesima l'Epodo a Me-
280 l'arte a PARIGI.
cenate o l'Epistola ad Vdlicuìii. Questo propriamente è il pode-
retto, questo il verziere, questa la casa piccina ma adatta; e corre
il giorno degli onesti tripudi, quando si spilla il primo sugo di
quella bell'uva porporina,
Cerùnitem et uiam i^wpiu-ae
Qua muneretur te Priaj>e, et te pater
Silvane, tufo)- Jiiiìuin ;
e anche i pochi servi del poeta, servi si vede di un buon padrone
e non punto diversi da' moderni famigli, partecipano allegri alla
festicciuola rurale. Egli, da una finestretta, vigila il piccolo stuolo
operoso :
Cuncta festlnat nianus : huc et illuc
Cursitant mixtae puerir, puellae ;
e dietro al poeta ride un leggiadro viso di fanciulla; non Cinara
rapace, io credo, e neppure Neera, di braccia tenacissima piìi che
di fede; ma Fillide forse, l'invitata a deli!)are, in onor di Mece-
nate, il botticino d'Albano quasi bilustre. Chi a quest'aurea me-
diocrità non s'acconcerebbe di cuore! Chi, a questi patti, non da-
rebbe ragione al sorcio campagnuolo, che preferisce agli insidiati
intingoli cittadini la sua selva, il suo buco e i suoi legumi! Io
metto pegno che non favoleggia d'altro, a due passi di qua, quel-
V Esopo del Fontana, cinto di così gioconda corona d'ascoltatrici ;
e ringrazio il Napoletano ed il Loml)ardo che, in mezzo a tante
melanconie medieve.e moderne, si sian voluti ricordare un poco
dei nostri' antichi ; dei soli, oramai, ai quali pare che ancora a])-
partenga il privilegio della letizia.
Tuttavia anche nel medio evo nostro, a voler esserne sufficien-
temente curiosi, non avrebbero i nostri pittori trovato soltanto le
quattromilacinquecentoquarantotto guerre fraterne, segnate con sì
gran nembo di frecce da.ll'istorico delle rivoluzioni d'Italia; anzi
vi avrebbero potuto attingere esempi mirabili di virtù patrie
e di senno. Ma di una tanta età non mi pare che s'incontri da
noi in Campo Marzio altro testimonio ricordabile che il Bonifa-
cio Vili del Gastaldi, il quale nella poderosa e tragica testa
viene rimuginando l'affronto di Anagni. È vero che la scelta iu
tanta ricchezza di patrimonio non era facile; e non gli è per
nulla un contraddire a quello che affermavo dianzi della inesau-
ribilità di certi tèmi, il confessare che ve ne hanno altri d'esau-
riti affatto ; i quali, per lo più, sono quelli recati già a non su-
l'arte a PARIGI. 281
perabili altezze dall'arte della parola. Potè il Flaxman. per esem-
pio, dar forma condegna agli spiriti offensi di Paolo e di Fran-
cesca, perchè si contentò di un semplice contorno scultorio; ma se
Ary Sclieffer e Giuseppe Bertini, traducendo sulla tela e sul vetro la
pietosa visione dei duo cognati, credettero di non si dover disco-
stare più die tanto dalla prima trovata dell'Inglese, neppur dovrà
troppo dolere, io credo, al colto ingegno del Cefali, che né a lui né
ad altri sia facilmente concesso di oltrepassarla. La difficoltà mas-
sima, Yomne puìicfiini nella elezione del tèma, precisamente sta.
s'io non erro, nel trovarne uno in cui bene si contemperino l'idea e
la forma, in cui venga di pari coll'efficacia di un concetto potente
l'occasione a un vigoroso effetto pittorico. Gl'ingegni letterari!, e
certo non sono i più numerosi, pendono, anche nelle arti plasti-
che, verso le seduzioni dell'idea ; gl'ingegni pittorici facilmente
corrono invece, e questa è oramai la via più battuta, al solo allet-
tamento dei sensi. Or io non voglio dire per nulla che d'idea siano
vuote quelle splendide scene della Rer/aia in Canal Grande e degli
Apparecchi d'nn torneo, onde ci deliziano il Delleani e il Marchetti.
Di lusinghe certamente riboccano. Da una parte ne allieta l'accordo
squisitissimo che fanno con le acque glauche e con le architetture
di varia materia gli arazzi e le vesti signorili, dai toni vellutati,
cangianti, iridescenti come il collo dei colombi di San Marco ; dal-
l'altra parte un brulichìo di dame, di cavalieri, di araldi, di mu-
sici, di buffoni, di servi, che si mescolano e pompeggiano e bril-
lano come uccelli tropicali in una, dorata uccelliera. E poiché
ciascun'arte deve parlare il proprio linguaggio, e la pittura vuol
essere avanti tutto pittorica, non vi ha dubbio che queste aggra-
devoli scene non rechino per via de' sensi alla mente una più ade-
guata idea delle età a cui ci richiamano, che non farebbe, se
poveramente dipinta, la tesi più astrusa e più filosofica. Ma non è
raen vero che, senza uscire dal regno dei pennelli e della tavolozza,'
qualche più sottile indagine dei tipi e qualche più manifesta inten-
zione 0 storica o fisiologica non farebbe danno. Cercò l'una e
l'altra l'Altamura nel suo Carnevale di Firenze ; se non che la me-
lanconia pensosa dei Piagnoni gli riuscì, s'io non fallo, più della
monellerìa dei Palleschi, che carnescialano poco. E all'obbiettivo
dell'epigramma nella storia anche mirarono (e colpiron vicino, se
non proprio nel segno) il Venturi col suo Fanfidla e il Zuliani
co' suoi principeschi sponsali. Questi sponsali massimamente, dove
la scritta si celebra, in mezzo a due solenni e tronfii corteggi, fra
due bimbi da cercine e da carruccio. erano un'idea felice, da cui
282 l'arte a PARIGI.
poteva uscire un capo d'opera.... che n'uscirà, giova credere, un'al-
tra volta. E lo stesso dicasi di un 3Idton del Bianchi da Lodi, che
vende, per cinque lire di sterlini, il suo manoscritto.
Le comitive signorili, le lettiere giocose, le monf errine, i batte-
simi, le vecchie dimore invase da giovani eredi, tutte le occasioni di
mettere in risalto costumanze pittoresche, contrasti piccanti, foggie
vistose, ricche, bizzarre, piacciono agli odierni pittori; e non si rac-
conta cosa nova a nessuno dicendo che il Castiglione, il Quadro-
ne, il Vannutelli,il Pastoris, n'escono vittoriosi ; che il Jacovacci e il
Pagliano vi fanno, qui alla Mostra, miracoli. C'è del primo una visito
alla puerpera, del secondo mmcredità, dove l'eleganza del disegno, la
scioltezza e la finezza del pennello, il brio del colorire, non lasciano
desiderii. Ma s'io ho a dire proprio tutto il mio pensiero, incomin-
cio un pochette a dubitare che del mondo incipriato, e forse an-
cora più di quell'altro mondo in brache, abito di spada, mani-
chini a crespe, cappello arricciato e mazza di tralcio di vite, il
qual mondo va dalla prima Kepubblica francese al primo Impe-
ro, e fu dal Fortuny tirato su in una sterminatissima voga, se ne
abbia oramai abbastanza. E non vorrei essere tacciato di temerario
se osassi buttare un poco sulla coscienza di questa moda anche l'ele-
zione di un certo tèma, che gradì a un maestro provetto e a un altro
in via di formarsi, e che tuttavia a parecchi non parve un tèma
felice: dico quel ripudio di Giuseppiìia, dove ha ben potuto il Pa-
gliano spiegare tutta la bravura che gli è consueta, e il Didioni
tutta quella di che si va sempre più impossessando; ma non hanno
potuto né l'uno nò l'altro evitare che un grand'uomo, avendo torto,
0 se ne rimanga interdetto e corto a ragioni, o volti le spalle.
Se tant'è che ingegni provati e sicuri abbiano un momento
sentito, e non sempre con indisputabile beneficio, l'influsso del For-
tuny, è facile imaginare che sèguito costui conservi fra i giovani.
Né certi nostri vivacissimi e originalissimi ingegni avevano guari
bisogno d'imbattersi nel mirabile Spagnuolo per aUingere a lui
una baldanza pittorica, la quale già sussulta spontanea, rigogliosa
e pronta nel loro fervido sangue. Ma il Fortuny ha aggiunto an-
cora, io credo, un po' di rincalzo ; e in un tempo in cui tutta
Parigi volentieri attinge ispirazioni alla freschezza dell'arte orien-
tale, si può dire senz'ombra d'epigramma che il Giappone an-
ch'esso non rimase estraneo a certi atteggiamenti della nostra
più giovane generazione. Bisognerebbe in effetto essere chiusi ad
ogni istinto di colorista per non sentire che la novità di certi
motivi, che la felicità di certi accordi, che la ingenuità dell'inten-
l'AKTE a PARIGI. 283
dere e del fare (vengano anche dal Mar Giallo se occorre) non sono
meno accettabili di quei suggerimenti che Leonardo medesimo
raccomandava si pigliassero fin dalle macchie dei muri. Si ascolti
dunque, io no '1 contrasto, l'ispirazione, si osi, si scriva liberamente
per impresa sul cavalletto
Ogni viltà couvien che qui sia morta.
Ma non si disconosca al postutto che 1' arte, anche cercando la
novità e accettando l'audacia, deve sapere essa medesima bene e
dire chiaro altrui che cosa si voglia. Ora io non so se dinanzi al
quadro del Michetti s' intenda altro, se non che egli ha venti
anni e un talento grandissimo. Un mare infinito, placido, splen-
dido, a strie d'azzurro sopra azzurro: una ripa verde, un pesco
in fiore ; bimbi e adolescenti, fanciulli e fanciulle, seminudi come
figliuoli d'eroi, che fioriscono al sole anch'essi, in un paese ignoto,
in una più ignota libertà, come boccinoli di rose; un così inna-
morato soffio neir aria, che tutti amoreggiano, persino le bestie
e gl'insetti usciti a vagal)ondare sulla cornice; tutto codesto è
gaio, è fresco, ride, folleggia, ha un nome ehe gli scende bene-
detto fin dal Petrarca e che Vittor Hugo gli ribenedice:
O primavera, gioventù dell'anno,
Gioventù, primavera della vita !
Ma la gioventù non dura eterna; e l'anno anch'esso ha bisogno
d'uscir dall'aprile per maturare i suoi frutti. E il rilievo, la pro-
fondità,. la sostanza delle cose, anche a cielo aperto, hanno i di-
ritti loro ; e la ragionevolezza, anche, i suoi.
Se però il capriccio pittorico, e un pochette la moda, hanno
usurpato il posto alle composizioni longanimi, saviamente medi-
tate e nudrite col gagliardo midollo dell'istoria, ci ha un altro
fatto, e questo è consolante per ventura nostra, che emerge chiaro
dal complesso della Mostra italiana. Come in ogni campo della
umana operosità, cosi anche nell'arte, anzi nella pittura sopra-
tutto, la nova Italia va assiduamente, ansiosamente cercando sé
stessa. Quante volte non si è egli detto che la rinnovazione ma-
teriale e morale di un paese deve incominciare dalla nitida co-
scienza di sé, dal socratico ^•/o')' aaaÒTiv ! Quante volte non s' è au-
gurato che, invece di avventurarsi alle sintesi premature ed alle
induzioni temerarie, si desse opera paziente a raccogliere la te-
stimonianza dei fatti, a riconoscere le condizioni, il carattere, la
fisonomia di ciascuna contrada ! In questa patria così grande e così
lungamente divisa, le sue più discoste regioni hanno bene istinti-
284 l'akte a pakigi.
vamente anelato sempre a riunirsi, come anelano alle nozze le
palme lontane, nutant ad mutua iialmae foederd; ma eziandio si
sono, come queste, prima amate che conosciute. Ora, quella inda-
gine che faticosamente s' è venuta iniziando, e adagio adagio si
mena innanzi nel campo degli interessi economici e delle condi-
zioni morali, l'arto, di proprio moto, d'istinto, e per quella incli-
nazione che dagli ideali lontani la l^x rivolgersi verso la realtà
prossima e odierna, l'arte l'applica agli aspetti del paese e dei
molteplici abitatori. Onde a un'Italia stereotipa che da troppo
tempo seguitava ad aver corso, come una vecchia moneta di cui
s'accetta il conio senza indagarne la lega, viene a poco a poco
sottentrando una meno pittoresca ma più pittorica Italia, e so-
pratutto una Italia tanto pii^i curiosa e più degna di studio, quanto
è più vera, più viva, e più varia.
Chi muove, anche senza alcun preconcetto giudizio, attraverso
la Mostra italiana di pittura, può facilmente accorgersi che quello
ch'egli dall'Alpi alla Sicilia a mano a mano percorre, non è
più l'adulato, commiserato, e fittizio paese d'un tempo. Non si
usciva, un tempo, dagli epici orizzonti della campagna roiuana,
dai ruderi d' acquedotto, dal hùttcro e dalla ciociara, artistica-
mente postati a fregio di quelle superbe e meste rovine. Oggi i
nostri pittori ci dipingono meno estetici e meno solenni, ma lode
a Dio più forti e più desti ; e sanno, per avervi sparato le loro
carabine, d'onde l'Italia incominci. Sono le Alpi, quelle, che tutte
ammantate di bianco, si pèrdono corno una visione nei magici
lontani che sa dipingere Girolamo Induno ; e quella nota che
abbiamo chiesta indarno agli Svizzeri, quella patetica nota della
emigrazione dalle alte Alpi, ce la ripercote fino al cuore un par-
lante gruppo di belle e forti Anzaschinc ; le (juali, cariche il
dorso, come usano, di tutti i rustici loro penati, volgono ancora
indietro uno sguardo alla bianca e muta, eppure rimpianta con-
valle natia. Non s' ha poi che a scendere un poco di conserva
con l'artista e con loro, per ritrovarsi in mezzo a quello che ha
di'più tipico la vita nova del nostro paese, in mezzo a un villag-
gio dove i nostri giovani s' adunano, pronti alla chiamata e fe-
stosi, intorno alla bandiera nazionale, tra gli al)l)racci e gli addii
delle madri, delle amanti e delle sorelle. I matrimoni ne saranno
un pochetto indui^iati, s'intende: ma che feste al ritorno, e che
allegre e splendide nozze! La cura degli apparecchi, si può la-
sciarla fidatamente al Mantegazza; un giovanotto che sa fare le
coso a modo, e mostra di voler continuare degnamente questa
l'arte a pakigi. 285
pittura induniana ; alla quale se qualcosa vesta da raccomandare,
gli è di mettere nella indagine dei caratteri altrettanta penetra-
zione, quanta sicurezza già possiede nel rendere ogni aspetto delle
cose esteriori. Un poco meno di grazia, ma un poco più di vigore,
ci mettono, mi pare, in Piemonte : e gli è davvero un virilo paese
questa terra aspra e gagliarda, che 1' aratro del Pittara viene fa-
ticosamente solcando, e bravamente dissoda e feconda. Con un
pochetto di fantasia, l' onesto quadro potrebbe passare per un
simbolo della patriottica vigilia, durante la quale questa zolla
subalpina ha maturato all' Italia i germi delle sue presenti
fortune. »
Due passi soli, ed eccoci in Lombardia. Le Brimisole di Luigi
Bianchi escono sulla soglia a vederci passare ; e « Guarda, guarda! »
dicono, accennando con mano, e ridendo di tutta la gaiezza d'una
gioventù, che per loro, poverine, come per tutte le fanciulle del
contado, non dura che un giorno. Ma questo poco di luce e di
letizia che traversa anche la più dura giornata delle plebi, è
buona opera il non lasciare che dilegui senza imprimerne una
qualche traccia nell'arte; e non è da credere che per ciò attuti-
sca e sia per farsi in noi meno acuto il senso di quelle loro penose
angustie di vita. Tutt'altro. Noi siamo tutti quanti cosi fatti, che
ci vuole, per commoverci sulla sorte degli altri, una certa quale
corrente d'intelligenza e di sentimento fra gli altri e noi. Avvi-
lisci, abbrutisci la donna, come qualche volta ha fatto il Courbet,
e, per miserabile che tu la dipinga, non ci toccherà punto: ma
chi invece potrà non sentirsi commosso all'aspetto della povertà,
se tu la illumini di bellezza e d'amore? Questo ha dilicatissima-
mente compreso il Giuliano; e le sue fanciulle lif/uri, che, sul far
della sera, lungo una di quello chiare, serene, limpide marine,
tornano dall'opificio o dai campi, e sciolgono la voce a una di
quelle melodìe che nessuno sa chi l'abbia trovate, ma che tutti
sentono in cuore, quelle fanciullo, a capo scoperto, a piedi nudi, a
mala pena ravvolte d'una camiciuola e d'un gonnellino, così vere
e insieme così gentili, ci fanno pensare a tutti i fiori viventi che
lasciamo bruttare di fango e di polvere, o che qualcuno anche di
noi, senza ricordarsene, senza addarsene forse, calpesta.
Ma la Liguria ci ha fatto uscire di strada. Eravamo avviati
a Milano; e gli è un peccato che non ci aspetti laggiù quella pit-
tura caratteristica, che più avremmo desiderata. Milano ha bene
avuto il pittor vero delle sue classi popolari in Domenico Induno,
il quale, nato egli stesso di popolo, e altero di esserne, lo cono-
286 l'arte a PARKil.
sceva bene, lo capiva, lo amava. La Mostra lia di lui un quadro
solenne, Vittorio Emanuele che pone la prima pietra della Galleria
intitolata nel suo nome: un quadro pieno di difficoltà superate, e
di curiosità clie un giorno saranno storiche; ma del dramma cit-
tadino e del dramma domestico, che meglio rispondevano al genio
del pittore, non ha proprio nulla. Dov'è il Bollettino della pace
di Vdlafranca? Dove il Cader delle foglie, Pane e lagrime, il Cat-
tivo amico, il Monte di Pietà, il Trovatello? Ricordi e rammarichi:
e rammarico più acuto questo, che la mano che li ha creati, la
mano dell'amico e del maestro, si sfa nella terra. Soldato succede
a soldato, nell'arte come nell'altre battaglie; e Mosè Bianchi
avrebbe potuto anch'egli dirci egregiamente la vita nostra; ma
Tatti al campo e la Benedizione delle case, la commedia e la tra-
gedia domestica, anche ci mancano; e non ci resta che la saynete,
la nota comica dei chierici in processione.
Tiriamo via per Venezia; e non dimentichiamo, cammiu fa-
cendo, il Cadore. E un paese di pittori e di valorosi; è anche un
paese di tarchiate e floride alpigianine, dai poderosi lombi e dal-
l'agile piede; e a vederle, sprofondate il capo entro enormi fasci
di fieno e fastelli di legno, inerpicare sugli orli delle balze più
trarupate, ti mettono i griccioli. Ma oggi è festa; è Sagra, come
dicono; hanno cinto il vezzo di granate o di coralli, messa al collo
la pezzuola più vistosa, infilzalo il garofano silvestre all'orecchio
od al cappello; hanno calzato le scarpette di feltro, e non punto
parenti del Silenzio per questo, riempiono di un giocondo pigolìo
il piazzale della Pieve, dove i forti e rusticamente azzimati gar-
zoni rinnovano in più esigui termini, a dolciumi, a ghiottornìe, a
chiappolerìe di stringhe, di similori e di trapunti, ({wqW assalto
delle belle Trivigiane, che un giorno costò sì caro a Padova e a
Venezia. Ringraziamo, passando, il Nono e il sUo rapido e fiero
pennello d'averci convitati anche a questo gustosissimo spasso, e
scendiamo in compagnia del Ciardi in riva alla sua bella, splen-
dida, opalina, dorata laguna.
Che mare di luce, che limpidità, che nitidezza d'atmosfera!
Rare volte, dopo il Canaletto, s'è visto tanto. Ed ecco Venezia. E
a Venezia le memorie del secolo scorso sono ancora così fresche,
il Goldoni e il Gozzi sembrano ancora tanto nostri contemporanei,
per non dire famigliari ed amici nostri, che il costume del loro
tempo non ha l'aria, costì come altrove, d'un vecchiume o d'una
finzione, anzi ci par cosa di ieri appena. Niente di più giovane e
di più geniale di quelle gentildonne in rasi e merletti — un vero
l'arte a PARIGI. 287
mazzolino d'odorosissimi fiori di serra — che scendono da uno
scolpito e storiato palazzo nella gondola del Jacovacci. E codesto
popolino anch'esso, per mutato e incupito un poco che sia, è an-
cora la più geniale, la più simpatica plebe del mondo. Si ride
ancora in quella botteguccia del Favretto; e chi sa quali arguzie
scoppiettano dalle labbra di quel sartore, e fanno mettere in
mostra sì belle chiostre di bianchissimi denti a quelle sguaiatelle
di cucitrici! I bimbi anch'essi del Mion, sebbene, a gusto mio, un
poco troppo carezzati e lisci, sono pur le graziose creaturine, in
quel loro allegro rincorrersi a mosca cieca/ Ed è pure la buona,
aperta, dolcemente romanzesca faccia di vecchierella quella che
Antonio Kotta ci ha dipinta, in atto di rammaricare il buon tempo
antico .imbattendosi nel suo antico farsetto di sposa! Egli ce la
vuol sgabellare per la GrancVmère del Béranger; ma io mi pro-
testo ch'ell'è la venezianissima nonna, alla quale un dì o l'altro
il Gallina ricondurrà il suo moroso. E dell'istessa famiglia sono
tutte le mamme, e le fanciulle ed i bimbi che un altro Kotta,
figliuolo del precedente, ci schiera innanzi in un suo preziosis-
simo acquerello; un acquerello, che, insieme con qualche altro del
Cabianca e del Gaudi, non ci lascia in verità temere confronti.
La è una povera cale, codesta del Rotta; dove, secondo il
solito dei poveretti, si vive più sulla soglia di casa che in casa,
pigliando a pretesto il commercio di certi fronzuti cavoli, e maz-
zuoli d'agli e raperonzoli e citrioli e cipolle, che sono tutt'insieme
la mostra e la mercanzia. Infrattanto una bella grassoccia di co-
mare, da provetta velettaia ch'ell'è. sta tutta intesa a trapungere
non so che magnifica sciarpa ; un bel pezzo di figliuola, vero tipo
di putta onorata (le parole del Goldoni . scivolano costì di bocca
senza volerlo), dipana la sua scarmigliata matassa ; la nonnetta
si trastulla con un marmocchio ancora in benduccio e bavaglio,
al quale fa da cestino un resto di seggiola, che fu, nel tempo dei
tempi, impagliata ; e un' altra di queste vecchierelle rubizze e
serene, di cui Venezia ha il privilegio, rimenda uno strappo nella
gonna d'un'altra fanciulla. Il quale strappo, e' è da scommettere,
non è stato per la furbacchiotta altro che un pretesto a sgat-
taiolarsela dal suo sgabello, e a buttarvi su per un poco a giacere
il tombolo dalle eterno uggiosissime trine. 0 che pensi tu ch'ella
si crucci di cotesti sbrendoli della sua vesticciuola ? Manco per
ombra. Al varco della vanità giovanile ella ancora non è giunta,
per fortuna sua ; e allegramente si volta a fare il chiasso con una
sorellina più piccola, che, ruzzolando per le terre e imbrandendo
288 l'arte a PARIGI.
ìq maniera d'esca un suo bocconcello di polenta, si tira tutta la
nidiata dei pulcini intorno, a bezzicare il prezioso manicaretto.
Inezie, lo so 1)ene, che risicano di parere, in carta, stucchevoli:
ma che, a vedertele innanzi, genuine, schiette, parlanti come il
vero, sono un incanto ; perchè dentro ci leggi la fisiologia intera
di quella brava gente, quella gaiezza foderata di tristezza, che è
la nota dominante nella vita del popolino di Venezia.
La Toscana — e parrà incredibile a chi la conosca soltanto
attraverso i poeti, non a chi sappia le sue profonde e inciprignite
doglianze — la Toscana è forse delle regioni italiane quella che,
anclie in arte, in pittura almeno, si mostra più annuvolata, più
infestata dall' incubo della questione sociale. Saresti per dire clie
ella pencoli incerta tra le consolazioni della fede e le disperanze
del pessimismo; tra quella divozione piuttosto elegiaca che equa-
nime, onde paion compresi i bifolchi e le contadine del Gioii,
inginocchiati laggiù nei crepuscoli di Val d' Elsa sul passaggio
del Vidtico, e quell'asprezza sconsolata e un poco selvaggia della
hoscaiaola del Ferroni, che, sentendosi fremere il temporale sul
capo, ha buttata in terra la sua fascina, e si piega sopra di sé ad
allacciare certe sue enormi scarpacce, tanto da camminare più
franca per sassi e per bronchi, in mezzo ai sibili del vento e al
rombare minaccioso del tuono. Forse in questa ermeneutica di
quadri noi ci mettiamo senza volerlo, un poco delle nostre im-
maginazioni : ma un fatto almanco risulta chiaro, e, piaccia o non
l)iaccia, bisogna dirlo : in tutta codesta pittura di popolo la fa-
miglia e' entra assai poco. C'entra, dicerto, l'amore ; vago per lo
più, e adombrato appena nelle fantasticherie desiose della fan-
ciulla; corrisposto anche qualche volta, e lasciato intendere o dai
vagheggiamenti rusticani, o, come nel graziosissimo quadretto del
Moradei, dai sorrisi e dai silenzii, da quel corteggiare un po' fur-
besco del buio da taverna, e da queir accivettare un poco ingenuo
della birrichina forese, che accarezza per tutta risposta il suo
micio: personaggi, sia detto di passo, vivi come quei carrettieri
e quelle risaiuole, che una valente scrittrice ha còlti dianzi dal
vero in una sua novella. Tutt'al più fino alla soglia della chiesa,
fino alle porte del municipio la pittura ci va; mi dov' è poi la
casa, con le sue melanconie e con le sue gioie ? Bisogna, per la-
sciarcene intravedere un qualche spiraglio, che -il Busi con le gen-
tilezze di un aristocratico pennello c'intrometta nelle confidenze
della famiglia signoriir, accanto alla culla drappeggiata di veli
G di merletti, tra i soffici cuscini dello spogliatoio e le poltrone
l'arte a PARIGI. 289
del salotto ; e ancora il l)abbo, il più sovente, non c'è. Il che non
vuol ""ià dire che i babbi amino da noi meno che in Germania o
in Inghilterra i loro figliuoli, o che i mariti amino meno le loro
spose, Dio guardi ! vuol dire che in casa ci vivono meno. Ed è
un' induzione, del resto, che la critica francese ha già fatta, non
a nostro carico e nelle nostre sale, ma nelle sale sue, e ragio-
nando del suo proprio paese. Il guaio, dunque, se guaio c'è, di-
vidiamcolo tra noi Latini; e insieme anche, quando la politicaci
darà requie, pensiamoci. Gli è quello che insieme col Busi ha già
principiato a fare, s' io non erro, un gentilissimo e meditabondo
ingegno, Edoardo Tofano, il quale anch' egli non crede che una
mano abile ad ogni più squisita industria di pennello sia una
buona scusa per non pensare : e, a protestazione quasi contro la
sfidata noncuranza del grande binomio maritale, ne ha voluto tòr
via tutta quanta la prosa, e indovinare tutta quanta la poesia. Il
suo leggiadrissimo quadretto « Soli ! » manca alla Mostra italiana.
E pur troppo non alla Mostra soltanto, ma all'arte ed alla patria
è mancato un altro finissimo ingegno, il Cremona, infaticabile cer-
catore di tutte le finezze del sentimento e dell'espressione.
Da noi però, bisogna dirlo, il non vivere in casa non vuol
sempre dire viver divisi; e a vivere in casa per la gente povera,
massime del Mezzodì, col confronto tra il purgatorio di dentro,
e il paradiso di fuori, ci vorrebbe un singolare eroismo. Tutta la
pittura popolaresca dal Tronto in giù ci fa toccar con mano
questo contrasto. La via è il ristoro del popolino; ei ci si sente
rinascere, ci respira, ci si raddirizza; il j)iù guitto fannullone ci
ritrova il suo buon umore, le sue spacconate, la sua baldanza; la
più grama pigionante vi piglia, sotto un raggio di sole, daccanto
a una fontana, non so che aria di venustà e di alterezza. 0 non
ti pare, per esempio, in quella Via Flaminia del Joris, di riudir
le comari del Belli:
Ma cche ppassioue avete, sor Ularia,
De tene ssempre sta finestra chiusa ?
Ai'ia e ssole sce vòuuo : io ve lo predico,
Dov'entra er zole, fia, min entra er inedico.
S'iutenne: ttutto sta une la perzona;
Chi è svérta com'è nnoi, la peggio robba
Je s'adatta e jje sta ccome la bbóna.
290 l'aKTE a PARIGI.
'. . Vedete SaraHna ?
Co'cquella bbella su' disinvoltura,
Lei un straccio eh 'è un straccio je figura :
Se mette un corno, e pare una reggina.
E più tu scendi, verso il Mezzodì, più la natura impresta
sorriso anche ai cenci; e più l'istinto di mescolarsi al sorriso e
al saluto della natura diventa bisogno, e in certi giorni febbre,
febbre di baldoria, di strepito, di esultanza. Il Joris, di un haffc-
siìììo popolano in riva alle magiche marine d'Ischia fa una co-
setta rara, che ha la grazia di un'antica Panatenea: i pittori na-
poletani poi, s'intende, gareggiano nel riprodurre quelle loro fe-
stività così caratteristiche; e il Mancini e la signora Sindici
Stuart nei ritorni dalla Madonna dei l'Arco e da Montcvcrginc,
rendono al vivo il tramestìo della folla, il tumulto delle grida e
delle canzoni, la furia olimpica di quelle gare, di quelle corse,
di quelle scarrozzate a carriera, in cui pare che sino la magra
rozza ed il ciuco sentano la vanità dei fronzoli, dei talchi e
delle penne, e partecipino di gusto alla mattana universale. È
una specie di fraternità panteista, che non ha dimenticata il De
Nigris, quando, con una punta d'ironìa che i meridionali maneg-
giano finissimamente, ha piantato un buon asinelio alla porta
della Chiesa, dove pacatamente aspetta il suo contadino, che se
n'è ito dentro un poco in ritardo a sgranocchiarsi V idthna
messa.
Ma gV interni? Di lieto io ne conosco uno solo; quel deli-
zioso chilo, che, accanto alle cinigie del suo braserò, colle pal-
pebre dolcemente calate, colla presa di tabacco serrata ancora
tra il pollice e l'indice, se ne sta facendo un buon j)astricciano
di prete, il prete del Volpe. Fuor di lì, non vedo altro che tri-
stezza. Dimandane al Mancini e a que' suoi fanciidli che ascen-
dono la corda del funambolo, che si smezzano una crosta di pane,
che, precoci d'ingegno e rachitici di fibra, cercano ingannar la
fame tra gli scartafacci della scuola; dimandane al Tedesco e a
quel suo figlinolo delV amore, allattato di furto in mezzo a un
pruneto, al Thoma e a quella veglia, anzi a quell' ebete letargo,
delle sue vecchie custodi di ospizio, a cui il ifo?"?io sta per recare
sulle braccia un povero trovatello: tutte pagine piene di j^ene-
trazione e di sentimento, ma insieme d'una profonda melanconia.
Ed io non vo' esagerare affatto quel che può anche essere giuoco
del caso; butto però questa osservazione in pascolo a quei
cercatori assidui del vero, per i quali la fisiologia delle classi
l'AKTE a PARIGI. 291
popolari, più ancora che uno studio, è nn apostolato fervido, ge-
neroso, sapiente. Per il filosofo e per il filantropo nessuna orma
va perduta, nessun indizio è puerile. E concludo che la pittura
popolare, senza pretenderlo, senza saperlo forse, ha hravaniente
fatta la sua indasjine, la sua inchiesta come dicono, e non la
meno schietta e la meno efficace, sulle condizioni del popola
italiano.
La fisiologia, o la fisonomia per lo meno, delle classi agiate,
potrebbe esserci offerta dal ritratto ; e gli è appunto questa sorta
di rivelazione quotidiana ed intima che ci rende così preziose le
semplici tele e tavole iconiche, nelle quali i nostri vecchi maestri
ci hanno trasmesso, meglio che la memoria, la vita del loro tempo.
Qualcosa di non dissimile si vede apparecchiarsi a' dì nostri an-
che in Francia, dove — già non tralasciai di notarlo — il ritratto
seguita ad essere in onore, ed esercita in larga misura i pen-
nelli più illustri. Da noi pure era così non sono molt' anni : ma
l'industria fotografica è venuta a cacciare di nido il ritratto ar-
tistico, o per lo meno a contendergli sempre più quel terreno
delle classi medie, dove riusciva meno difficile d'imbattersi nella
verità schietta. Qualche volta ancora il ritratto trova appicco
nella intimità della casa borghese, per lo meno nella famiglia
medesima dell'artista; e gli è di lì che si vede scaturire, tratto
tratto, poco importa se sbozzata di colpi, qualche testa vi-
gorosa e potente, come quella effige paterna che Mosè Bian-
chi ha regalmente donata a sé stesso. Ma, nel più dei casi,
il ritratto è freddo, pettoruto, solenne, vincolato per lo meno a
tutte le consuetudini della high life\ e ne porta la pena. Il che
non vuol dire che anche in alto elegantissimi ed efficacissimi
tipi non si troverebbero; ma e' sarebbe mestieri che i ritrattisti
di grido, il Desanctis, il Gordigiani, il Bompiani e gli altri, po-
tessero più sovente accompagnare alla squisita loro maestria la
libertà dei Keynolds e dei Lawrence, i quali seppero' darci e lords
e ladies e rampolli baronali, ducali e principeschi, senza lo stra-
scico e l'inamidatura di Corte. Passi tutt' al più per i sovrani;
sebbene, anche per loro, quando chi porta una corona ha insieme
il vanto di essere il più leale degli uomini o la più gentile delle
donne gentili, gli è peccato che non possa mostrarsi così semplice
e così alla mano in pittura, com'è nella vita. Per tutto il resto
del mondo, a ogni modo, toccherebbe all'arte di disimpacciare
dal fasto la espressione del carattere, e di porla in cima d'ogni
desiderio e d'ogni pensiero.
292 l'akte a pakigi.
II ritratto è. al postutto, forse la sola forma dell'arte in Ita-
lia, che, jDer le ragioni dette dianzi, non partecipi a quella in-
clinazione universale onde l'arte è portata, e troppo in fretta
anche, verso una sincerità così ruvida, da toccar la crudezza
od il pessimismo. Non solamente si vuol vedere oramai co' pro-
pri occhi e non punto con quelli della dottrina e della scuola;
ma degli occhiali s'iia tanta paura, che si preferisce veder tor-
bido e sporco, oppure strillante e stridente, per orror<? di veder
lucido, e di cascare nel levigato. Il paese anch'esso subisce que-
sta trasformazione. Al paese leggendario e solenne restano tut-
tavia fedeli alcune tenaci tempre d'artisti ; e il Vertunni fa an-
cora discendere i rutilanti soli della Magna Grecia a indorare
le Bovine di Pesto, fa ancora fremere il rombo dei tuoni augu-
rali dentro a quei grandi cumuli che sovrinconibono, gravidi di
febbre, alla stesa lugubre delle paludi pontiìie', e ancora l'Alla-
son poeteggia le sue notti ossianesche, e il Cavalle i suoi tramonti ;
ma la corrente mena l'arte per un'altra china; la giovine gene-
razione non vuol essere epica più né anacreontica a nessun patto ;
e il Carcano, per farsi perdonare lo splendido scintillìo del suo
viale, ci ha dovuto mettere una coppia d'amanti del secolo scorso.
Cavoli vogliono essere ora, e tacchini ; e davvero quando si sa
dipingere come il Michetti, la poesia, volere o no, sboccia fuori
anche solo da quelle esuberanze di vita vegetale e animale, delle
quali pare ch'egli possegga il segreto, e ami di circondare come
d'un' atmosfera vibrante e fremebonda l'erotico hacio de' suoi abo-
rigeni. Il Lojacono piacque, quando rapì alla nativa Sicilia il
polverìo e la caldura e l'afa tormentosa e greve di un giorno di
luglio', i sorrisi invece della sua Conca d'oro, inverosimili a fu-
ria d'essere paradisiaci, hanno minore fortuna. Piace il Calde-
rini, che ha il coraggio di far verde come il verde vero, sotto un
cielo di profondissimo azzurro; gli è insomma un ars poetica a
rovescio, quella che corre; e, non che tollerar volentieri, pare che
si desideri qualche strappo alla prosodia, tanto s'è stufi di Begia
Parnassi.
Ma siamo schietti. Se da qualcuno la prossimità, l'intimità
del vero è accettata, così nuda e cruda, come protestazione con-
tro il vecchio andazzo accademico, altri non dispettano i vecchi
effetti pittoreschi e scenografici se non perchè la finezza dei loro
sensi li rende capaci di più sottili e riposte armonie, e la dili-
catezza del loro ordigno pittorico può scendere, per dir così, fin
nelle crespe del vero, a tesoreggiarvi quei rapporti sottili, che,
l'arte a PARIGI. 293
per la comune degli osservatori, anche artisti, o passano trascu-
rati 0 non saprebbero essere efficacemente raggiunti. Da' soltanto
un cespo d'alcee rosee, in un orticello di monache, al Gignous, e
te ne caverà fuori variazioni deliziose; accampa il De Tivoli sulle
rive piatte della Senna, e ti farà gustare le armonie delicate di
un cielo grigio d'oro sopra azzurrino; poni il Kossano in faccia
ad una mèsse, a uno di quei campi che si soglion fare d' oro
schietto, non li sapendo fare di spiche, e vedrai indefinibile in-
canto di toni, mareggianti, alternanti, secondo l'alito d'aria che
spira; conduci sulla strada di Brindisi il De Nittis, e, dov'altri
non vedrebbe che polvere e barbaglio, egli ti farà sentire, ar-
monizzati nell'unità del tono locale, semitoni, trasparenze, tran-
sizioni così fine, come l'iride di un'ala di libellula che palpiti
al sole.
Ho pronunziato il nome d'un artista, che, giovane ancora, ha
saputo occupare Parigi e Londra di sé, e rapidamente salirvi in
grandissima reputazione ; né a tanto è pervenuto coll'ostentare ef-
fetti bizzarri e macchine farraginose, ma semplicemente coll'ap-
plicare la sua arguta interpretazione a quello che ha di più mu-
tevole il vero, agli aspetti quotidiani dei più grandi e più popo-
losi centri del mondo. Avvezzo a guardare in faccia la realtà e
a tradurla senz'ombra di pregiudizi persino dove la tradizione
conserva più indisputato il suo regno, persino nella terra clas-
sica dove sono ancora cosa viva gl'itinerari di Orazio e di Vir-
gilio, il De Nittis non s'è spaurito affatto delle grandi capitali
moderne; anzi, come uno di quei giovani venturieri delle fiabe,
che se ne vanno sorridendo a combatter giganti, s'è tranquilla-
mente affacciato a un'impresa audacissima: afferrare e fermar
sulla tela il dramma vivente della piazza, l'imagine esteriore più
completa che forse esista della società moderna, il solo poema,
forse, possibile alla democrazia. Quando taluni voglion dare come
precursori al De Nittis il Van der Meer, il Van der Heyden, il
Barckeyden, quei pazientissimi olandesi, che hanno con infinita
minuziosità cesellato ad uno ad uno i particolari delle loro
fabbriche, e lavorato alla lente quadri che soltanto l'occhio ar-
mato di lente può ammirare, quadri che la fotografia è venuta
oramai spogliando anche del vanto dell'esattezza, io credo che
scambino, sotto un'identità meramente nominale, un proposito
sostanzialmente diverso. Ci fu nel Seicento un ingegno facile e
bizzarro, che s'accostò un poco più alla vita viva della piazza.
Quel curiosissimo Ponte Nuovo di Parigi che l'Accademia di Ve-
VoL. XIV, Serie II — 15 Marzo 1819. ^^
294 l'arte a PARIGI.
nezia possiede, mostra che il Callot e1)be di questo genere un
qualche barlume; se non che il pennello gli fu troppo meno fa-
migliare che non la punta dell'acquafortista. La sapiente inter-
pretazione dei valori, il sentimento dell'ambiente, la divinazione
di quel genius loci, che, trasfuso nello spettatore, gli reca qual-
cosa meglio dell'imagine, l'idea, la percezione storica, etnografica,
oserei quasi dire fisiologica della scena, balenarono piuttosto al
Canaletto ed al Guardi; e qualche continuatore di questi inge-
gnosi prospettici v'ebbe in Italia sempre; il Giganti a Napoli,
il Mazzola a Milano, per dirne qualcuno, non lasciarono che al
tutto si spezzasse il filo della tradizione. Ma il De Nittis può ri-
vendicare a sé il vanto d'avere fatto una cosa sola dell' aspetto
materiale dei luoghi con la fisonomia dei ceti, con la storia delle
consuetudini, con la ricerca dei tipi, che tutti insieme ne costi-
tuiscono l'aspetto morale ; d'averci dato non Vurbs solamente, ma
la civitas dell'età moderna.
Parigi ! Chi proferisce questo magico nome non evoca già una
muta sequela d'edifizì; nella sua mente la città materiale non
riapparisce se non come teatro del dramma e della commedia
quotidiana. Una riva della Senna, per chiunque 1' abbia vista,
rimane una visione animata d' infinita varietà di moti e di
caratteri. L' incrociarsi delle vetture sotto la pioggia, sotto il
sole, che in un batter d'occhio s'alternano come un capriccio di
donna o di popolo; il palpitare dei pennacchi di fumo, sospinti
dalle piccole e rapide vaporiere a ravvolgersi in globi azzurri su
quel fondo d'oro cesellato, in cui si trasforma la facciata del
Louvre al primo raggio che trapeli fra le nuvole; l'onda per-
petua dei passeggieri — spigliate e rapide figure di donna, stormi
di fanciulli sotto l'ala della bambinaia, mercanti girovaghi, che
s'imbattono con la aristocratica dama, uscita per un momento,
come alla Parigina qualche volta piace, fuor dal tedio signorile
della carrozza alle tentazioni avventurose del lastrico; politicanti
in cerca del loro pane quotidiano, il giornale : eterni, incrolla-
bili frugatori, che anelano a riscattare i vecchi librattoli dal
limbo de' muricciuoli; monelli che lanciano a dritta e a manca,
dove loro capita, il razzo de' loro epigrammi — tutto codesto
riempie appena una pagina di quel libro aperto e parlante, che
non ha segreti per il De Nittis. Un'altra volta ei ti dirà lo sfarzo
aristocratico e gli sciali mondani di un riforno dalle corse; un sd-
irsi, la eleganza fiera, nervosa, elettissima, di qualcuna di quelle
gentildonne, che, anche pedestri, conservano il profumo e il por-
l'arte a PARIGI. 295
tamento di un superbo fiore di serra. E quando, dal Bosco di
Boulogne al Ponte Reale, da Fiazsa delle Piramidi al Teatro del-
l'Opera, gli parrà d' aver foraggiato per il suo alveare abba-
stanza, varcherà a volo lo stretto, e si farà, in un attimo, concit-
tadino dei duchi del West-End e dei banchieri della City.
Londra ha tutt' altra fisonomia da quella di Parigi ; e tut-
t'altra te la rende il De Nittis. C'è in quell'aspro clima, in quelle
alte e rigide e fuligginose fronti di palazzi, in quel padiglione
di nebbia, attraverso il quale gli ottusi contorni danno ai mo-
numenti qualcosa di fantastico e di spettrale; c'è nell'ingombro,
nell'arruffìo, nell'intrico dei veicoli, nel vertiginoso moto dei vian-
danti, nessuno dei quali ti pare attorno per ispasso, anzi ciascuno
è tutto al suo affare, e tanto abitualmente è all'affar suo, da
portarne inalterabile sul viso l'impronta; c'è nelle epiche pro-
porzioni a cui arriva ogni cosa, nella vastità dogli empori, nella
grandiosità dei parchi, nella farragine dei mercati, nella cupezza
medesima di certe note dissonanti, che, attraverso al tintinnire
perpetuo dell'oro, paiono ascendere dall'umido acciottolato de' tri-
vi, dove il cencioso Irlandese trascina la sua greve ubbriachezza,
e il pitocco indiano i suoi brividi, c'è in tutto questo una forte
e rude poesia, che il De Nittis benissimo afferra. Quel suo Westmin-
ster perduto in una nebbia ossianesca, su cui non istaccano che
le buie e caratteristiche facce dei roughs, postati al parapetto del
ponte con la coscienza di sovrani dell'avvenire, mette superba-
mente in contrasto col fantasma oligarchico del Parlamento la
dura prosa del popolo. E qualcosa di dantesco emana da quella
anche più buia visione di Canonhridge, dove il pittore ci porta ad
asfissiare sottesso il ponte medesimo, in mezzo ài fumo che vi
gorgoglia come in una bolgia, e che lascia a mala pena indovi-
nare per qualche spiraglio la folla muta, continua, avviata a salire
in lunga riga dalla spiaggia tenebrosa alla città trista del danaro
e del lavoro. Però quest' istesso Tamigi che dentro Londra pare
un gigante in servitù, poco prima di giungervi è ancora un gen-
tile fiumicello. tra due ripe verdi e gioconde; e lì il De Nittis va
a rifarsi dall' incubo cittadino, e con una deliziosa chiarezza di
toni, della quale è tutto suo il magistero, ci racconta anche l'idil-
lio caro ai lakists, i poetici diporti della miss, che, sola, in mezzo
a un corteggio di cigni e d'anitrocoli, scende in battello il corso
limpido delle acque, e la china de' propri pensieri.
Rimproverano a noi altri Italiani, e rimproverano partico-
larmente al De Nittis, in mancanza d' altro, di andar cercando
296 l'arte a PARIGI.
fuor di casa i soggetti. Ma la Via di Brindisi risponde per lui ;
e vie meglio risponderanno un di o 1' altro, io spero, i suoi studi
di Venezia e di Koina ; per gli altri risponde la lunga serie di
cose nostrali che dianzi ho ricordate. Così fossimo ancora, del
resto, come siamo stati e come in arte tuttavia siamo, un popolo
d'audaci, di forti, d'infaticabili viaggiatori! Quest'essere aperti
alle impressioni d'ogni paese e parati sempre a transustanziarle
nel nostro sangue, non è punto tale attitudine che occorra giu-
stificarcene come d' una colpa. Da Dante uditor di Sorbona
sino a Ferrari professore d' Università francese, da quel milanese
Surigoni, contemporaneo del Chaucer, del quale il nostro Maggi
ha rivendicato la fama e deterso dalla polvere il vecchio epi-
taffio in Westminster, sino a Foscolo, a Mazzihi, a Ruflini, i no-
stri fuorusciti hanno facilmente e sempre dottrineggiato e poe-
tato in lingue straniere : quasi la natura avesse voluto a questi
poveri errabondi della patria e del pensiero concedere in com-
penso il dono di pascersi d'ogni semente e di fare il nido sotto
ogni cielo. In Levante poi, e in ogni più remota e favolosa terra
d' Africa e d' Asia, il nome dei nostri viaggiatori letterati è le-
gione. E quante volte, raccogliendo dalle ingenue pagine di Marco
Polo quelle sue notizie piene di sagacia e d'evidenza, o cernendo,
per dire come un istorico, i granelli d'oro nella sabbia di Giosafatte
Barbaro, o ammirando nel Sassetti le ultime industrie di una
operosità in guerra colla fortuna, quante, volte non abbiamo noi
augurato anche alla più provetta arte della parola qualcosa di
quella un poco rude ma pittoresca efficacia! Di pittori randagi
poi, in terra, come dicevano, d'infedeli, da Filippo Lippi che si
redime di schiavitù grazie all'agile suo schizzar di carbone, a
Gentil Bellino che riconcilia con le imagini persino il secondo
Maometto, e da Gentile giù scendendo sino a' nostri tempi, e' ci
sarebbe da narrare una intera, bizzarra, gloriosa odissea. Che se
questa ha ancora chi la continui, ce ne dobbiamo dunque tenere,
non solamente come altri farebbe di nova conquista, ma come
ogni casa ricca di belle e nobili tradizioni dovrebbe tenersi delle
sue, lungo che lasciarle vituperosamente cadere.
1 più recenti nostri pittori orientalisti, l'Ussi, il Biseo, non
hanno potuto forse rispondere alla chiamata. Doppia lode per il
Pasini r aver sostenuto solo, in questo arringo, l'onore del suo
paese. Che bella, eletta e serena arte è la sua! Davanti ai suoi
quadri si dimentica il doloroso strazio che nel nome dell'umanità
s'è fatto pur dianzi di quelle infelici terre orientali, preda an-
l'arte a PARIGI. 297
Cora prima manomessa che ghermita dal furore dei contendenti ;
e si rivive in quell' Oriente dei nostri sogni, dai cieli azzurri,
dagl' infiniti orizzonti, dalle architetture fantastiche, dai silenzi
pieni di voluttà e di poesia. Ha detto celiando un critico francese
che il Pasini è troppo islamita da poter sfuggire al foco pennace ;
ma che a cavarlo di laggiù scenderà Maometto in persona, e lo
trasporterà fra le sue uri e i suoi corsieri di guerra, a vivere
cogli eroi dell' Islam, sotto quelle fresche ombre di sicomori e
di palmizi, di ch'egli ha sì ben compreso i dolci misteri. La ce-
lia è buona e può correre; ma non dice intiera l'indole della
pittura pasiniana. Non è tutto letizia il suo Oriente ; anzi ne'suoi
quadri, come è carattere appunto di quelle regioni e di quella ci-
viltà, una calma pensosa e austera attesta la presenza dell'uomo
in mezzo ai sorrisi della natura. 11 Pasini poi non s' è fermato
alle rive del Bosforo sole: egli sa le mestizie solenni dell'Arme-
nia e le maestose selvatichezze del Libano, quanto le delizie del
Corno d' oro.
Su un altipiano di quel Libano, non più chiomato, come ai
tempi di San Girolamo, di densissime foreste, ma ancora verde e
ferace dentro alle apriche convalli, fertiUssimus et virens, in un
breve spazio a' pie di alte rupi calcari, tutto seminato di bian-
che tende, da cui salgono verticali nell'aria morta sottilissimi fili
di fumo, il nostro pittore ha visto schierarsi due di quelle splen-
dide e variopinte cavalcate di metualis, che, da un dì all'altro,
danno alla chiamata degli emiri, formidabili eserciti: sono militi
di due capitani costoro, ma sembrano capitani tutti ; immobili
in arcione, colla lancia sulla coscia, piuttosto in aria di altret-
tanti re che ricevano l'omaggio, di quello che in aspetto di sol-
dati, fanno pensare alle epiche rassegne del Tasso. E con questi
magnifici guerrieri anche s'è mescolato il nostro Bussetano, at-
traverso i rocciosi greti e i palmizi nani della costa siriaca; e ha
cacciato con loro al falcone, poco altrimenti da quello che Marco
Polo col Khan Kubilai nel secolo sui. Altre cavalcate, altre
schiere superbe ha viste in quell' Asia minore, dove le antiche
magnificenze della Frigia, della Lidia e della Caria pare che uni-
camente gettino di sé qualche lampo nel fasto dei Begler-beghi ;
e di tutta codesta solennità di vita eroica e grandiosità di scene
naturali ha plasmato alla pittura sua un fondo severo e grave, che
dà risalto a' più geniali ricordi turcheschi.
Anche però in mezzo agli splendori di Scutari e di Stambul
egli non dimentica la nota pensosa; e ne conduce a meditare
298 LARTE A PARIGI.
presso a quei melanconici e poetici tarhe, dove i morti lianuo una
ospitalità poco meno fiorita dei vivi ; e ci fa sedere accanto a lui
tra stormi di colombi, presso a qualche curioso pozzo, in qualche
vecchio cortile di conak, dalle pareti nude e grigie, rilevate d'al-
cun tocco di colore grazie alle maioliche verdi e turchine, agli
nzulejos, che incorniciano una qualche finestretta bifora e bianca ;
e ci mostra le nefande soglie di qualcuna di quelle prigioni, dove
le picche de' cancelli sono perpetuamente rugginose di sangue.
Poi, non so con qual talismano, ei penetra fin dentro a' verdi orti
del serraglio, tutti un profumo d'aranci, d'oleandri e di rose, tutti
un fruscio di broccati, di sciamiti, di damaschi; e quelle odalische
sue non sono affatto le solite comparse da scena ; quella vera-
mente è la cadina, preceduta dalla bruna senatrice di liuto, cir-
condata dalle sue schiave, che recano il narghilè, l'ombrello, il
tappeto ; e l'aria del volto di quelle povere recluse dice i tedii
profondi che nessuna dolcezza di vita può consolare, le tetre ge-
losie che armarono di stiletto più di una candida mano. Ma
quando 1' harem, il conak e il turbe cedono il posto, come siparii
che SI levino suU' aperto orizzonte, alla vita libera dei bazar,
delle piazze, delle rive gremite di popolo, allora la gioconda sin-
fonia del colore prorompe con tutte le sonorità, con tutti i clan-
gori della sua gamma ; e si vive davvero sulle incantate spiagge
del golfo di Bujukderé e del Mar di Mannara, a' giorni in cui
si conoscevano ancora le liete scarrozzate in araba delle hanuin
curiose come bimbe sotto i loro veli, e il lieto gi'idio dei vendi-
tori di dolci, di sorbetti, di cocomeri, e il tramescolarsi pacifico
di Turchi, di Greci, d'Armeni, di Circassi, di Zingari; e tutto è
un fulgore, un luccichio, un occhibagliolo.
Le facoltà pittoriche, s' è visto bene anche da questa Mostra
imperfetta, in Italia non mancano; non manca una indagine acuta
del vero, e neppure una irrequieta sollecitudine dei grandi pro-
blemi del tempo, se anche poco certa del proprio obbietto, anzi
poco o punto consapevole a sé medesima. La fattura poi è in-
contrastabilmente d'assai progredita ; e, se anche a volte burbera,
trarotta, spezzata, è fuor di confronto piìi abile che venti o tren-
t'anni addietro non fosse. Bisogna avere sott' occhi quello che
allora è bastato a riputazioni solidissime, e confrontarlo con
quello che oggi si dimanda, a titolo di primo ingresso, agli esor-
dienti, per capire i passi giganteschi che si son dati innanzi, la
via rapidiosima che s' è percorsa. E con tutto questo c'è un disa-
gio, un senso di vuoto, una mala contentatura che spiccia fuori
l'arte a PARIGI, 299
da tutti i meati dell'opinione pubblica, da tutti gli sfiatatoi della
critica, da tutte le bocche stesse dell' arte. Che cosa, in nome di
Dio, le manca? Io ho procurato di dirlo tante volte e in tante
maniere, che, anche qui, sul chiudere, dove il tirar la somma è
permesso, io dubito che a ripeterlo mi tirerò invece addosso cen-
sure, non soltanto d'importunità, ma di cocciuta arroganza. E
nondimeno, passi anche questo; e ancora dirò, sia pure per l'ul-
tima volta, quello che ho in cuore.
L' artista, l' italiano massime, a cui pesa la sua nobiltà e cuoce
il suo isolamento, patisce più degli altri d'una malattia che è
quasi congenita all'uomo moderno: dubita, cerca, sottilizza troppo;
non si lascia abbastanza andare alla schiettezza dell' ispirazione,
non confida abbastanza nella sincerità e nella semplicità, queste
divine pronube di tutti i capi d'opera. L'antico, perchè gli è stato
guasto dall'imitazione dei pedanti e fatto uggioso dal precetto
delle scuole, gli sembra una cosa morta, un passato senza ap-
picco col presente, un libro bene rilegato e prezioso, da lasciar
dormire negli scaffali. E non gli viene in mente quasi mai che
non è già d'imitare 1' antico che gli si dimanda: ma di guar-
dare il vero colla schiettezza d'intenzioni, colla serenità di mente,
coir abbondanza di cuore, che ci mettevano, a interrogarlo, gli
antichi. Deh come lo persuaderebbe meglio della mia inutile e
frantesa giaculatoria un'oretta sola eh' egli consentisse a passare,
dopo il tumulto intellettuale e la pletora artistica di Parigi mo-
derna, nei deliziosi silenzi del Louvre! Laddentro è impossibile
non capire come la molteplicità, la triturazione, Io sparpiglia-
mento infinito del mondo artistico moderno sia sopratutto quello
che lo snerva, lo stempera, lo sfa ; come la fibra dello spettatore
sia tesa, sforzata, esaurita dalla fatica istessa che l'artista mo-
derno sostiene per riuscire novo, inaspettato, bizzarro.
Asserto paradossale, ma vero : la ripetizione — e ripetizione
non c'è mai in arte se non in apparenza — la ripetizione stanca
assai meno di quella che vuol essere e non è novità. Presso gli
antichi un profilo di vergine tu lo rivedi dieci volte, attraverso
dieci visioni differenti d'anime diversamente innamorate; e cia-
scuna ti dà una voluttà nova, ti fa salire in una nova sfera nella
divinizzazione del tuo desiderio. L'oro biondo di Tiziano, l'argento
oltremarato di Paolo, il profumo primaverile di Murillo, i pro-
fondi e transumani crepuscoli di Leonardo, l'ambra diafana di
Andrea del Sarto, i purissimi sereni di Raffaello, sono come al-
trettanti ambienti in cui diversamente si colora un' istessa ima-
300 l'arte a PARIGI.
gine, in cui si trasfigura un'istessa idea: ma tu passi dall'uno
all'altro come portato da ali invisibili, senza urtarti contro nes-
suno spigolo, senza dar del capo in nessun impalcato, che ti rompa
la dolce illusione del volo: quelle innamorate anime si sono im-
padronite ciascuna della tua, e tu remeggi nell'azzurro con loro.
Eibelle, impersuasibile, ostile quanto tu voglia essere e sia, non
c'è verso, tu le segui, tu le abbracci, tu con loro ti indii.
Solamente quando, come diceva Zaverio De Maistre, la bestia ti
tira daccapo in terra, tu fai uno sforzo per negare, per prote-
stare, per analizzare almanco, il paradiso; e dimandi: 0 che po-
vertà di spirito è questa di basire, di sdilinquire, di dar la volta,
per tutte queste sbagliate invenzioni? Vedi stoltezze ! Che ci hanno
a fare nella Cena in Emaus di Paolo i figliuoletti del patrizio
che si trastullano coi cani, e la gentildonna, e tutta la famiglia?
Che c'entra quel signore armeno, e quel dilettante di contrab-
basso, e quel cavalier di Malta, nelle Nozze di Cana ? Che sugo
c'è a far riscaldare i pannilini della bimba di Sant'Anna davanti
a una gran caminata firentina del xv secolo, e a celebrare lo
sposalizio di Maria in vista d'un tempietto bramantesco? Né ti
fermeresti così presto, se non t'accorgessi che è la bestia che di-
scorre cosi. Gli è il momento quello, di cui 1' iu profitta, e ri-
sponde: Che importa! Tu senti, tu ami, tu speri; tutto questo è
fresco come l'alito dell'alba, è sereno come l'innocenza, è lieto
come la luce, e più vero del vero. E tu vuoi, indocilissimo, sapere
perchè ti sei goduto il paradiso ? Ecco qua. Perchè tutti costoro
che non hanno pensato alla veste, alla camera, ai parati, alle sa-
pienti fatture del sartore, del tappezziere e del capomastro dei
tempi di Ottaviano Augusto (e non ci hanno pensato i^erchè —
fortunati loro! — non ne sapevano abbastanza — pensaci pure tu,
che ne sai) hanno sentito, invece, la sovrumana dolcezza d'amare.
Semplicità e sincerità, figliuol mio, ecco tutto il talismano. Inter-
rogare il cuore col cuore, tutto l'incantesimo dei vecchi maestri
sta qui. Per questo gli atti più ingenui acquistano nelle inven-
zioni loro non so che fragranza ambrosia, non so che finezza at-
tica, non so che euritmia di movenze e dolcezza d'accento che
scendono all'anima, tornando là d'onde sono venute. Per questo
un putto che tocca la viola, una mamma che apre le braccia alla
sua creatura, una testolina che si ripiega, vinta dal sonno, sull'o-
mero materno, un bimbo che poppa, che si piglia il piedino fra
mani, che gioca colla bilancia di San Michele o inanella per
ispasso Santa Caterina, t' hanno aperto, ingrato, il paradiso.
L'aETE a PARIGI, 301
Quell'altra, allora, che non si vorrebbe dare, niente di meno,
per vinta — Bellissime cose, — perfidia — ma cose finite. C è un
proverbio... — E tu non la lasci finir lei. Si, c'è un proverbio che
anche a un gran valentuomo è scivolato, in un momento di stan-
chezza e di malumore, dalle labbra: « 7Z morto giace e il vivo si
dà pace. » Ma chi è, di grazia, che è morto? Non l'amore, non il
sentimento, non il culto del bello, dell'onesto e del grande; le
quali cose tutte, fino a quando anima umana resti per accoglierle
e riscaldarsele in grembo, non muoiono. E chi si dà pace? Non
l'uomo moderno davvero: il quale, pasciuto d'ogni vanità, satollo
d'ogni cupidigia, trionfante d'ogni resistenza, ancora, quando non
riesca a fermar per il lembo della veste quelle ospiti divine, si
sente gelido, inutile, uggioso a sé stesso: s'agita, si cruccia, e fa
come il malato
Che non può trovar posa iu su le piume
E per dar volta suo dolore scherma.
E buon per lui : che quel suo non trovar posa, appunto è il suo
sigillo d'onest'uomo e d'artista.
No, se a tutto il magnifico spettacolo delle arti e delle indu-
strie moderne s'ha a dare una conclusione che ne riconforti, che
ne inciti a bene sperare e a ben fare, la conclusione non può es-
sere se non questa: che il presente non deve ripetere, ma nep-
pur dimenticare il passato; che deve invece continuarlo. Per
questo un grande artista ha detto: « tornate all'antico; » che non
voleva sicuramente dire tornate indietro, ma tornate a tutto quello
che ricrea, che eleva, che raggentilisce, che edùca l'anima umana.
Quanto al proverbio poi, non c'è, nel caso nostro, che una cosa
da fare; pigliarlo a rovescio. No — il morto non giace, e il vivo
non si dà pace.
TuLLO Massarani.
GUSTAVO FLAUBERT.
V'ha un momento nella vita di certi scrittori nel quale essi
hanno raggiunto il compimento della propria operosità letteraria
in tutte quelle parti che costituiscono complessivamente la loro
individualità. È quello un momento in cui l'individualità appare
più evidente, perchè non essendo ancora uscita dalla vita del pro-
prio tempo e non avendo ancora spezzato nessun legame che a questo
l'unisce, porta in sé piìi viva e chiara l'impronta di esso. Se oggi,
senza il pretesto di un libro nuovo (l'opera più recente del Flau-
bert porta la data della fine del 1877) prendiamo ad argomento
di queste pagine il celebre autore di Madame Bovary, è precisa-
mente perchè ci sembra vederlo in quel momento in cui tutta
la sua figura letteraria appare più compiuta, perchè ci sembra
che precisamente ora, analizzandolo e studiandolo, si possa ritro-
vare in esso quella rassomiglianza col proprio tempo che accre-
sce sempre in noi il desiderio di conoscere a fondo i nostri con-
temporanei e ci fa svolgere dall'analisi della loro individualità
una pagina viva della storia d'oggi, di quella storia più dif-
ficile a sapersi di tutte l'altre, perchè comunque si svolga è sem-
pre una parte di noi stessi.
Senza che l'individuo trovi fuori di sé un aiuto continuo, senza
che il proprio tempo l'alimenti compiutamente, non può crearsi
quel tipo eccezionale, più vigoroso e perfetto degli altri, il quale,
staccandosi dalle grandi masse vive che ogni secolo trae dietro di
sé, può starsene solo, e riflettere in sé stesso sia una sia molte ten-
denze della propria età. Studiare dunque una individualità lettera-
GUSTAVO FLAUBERT. 303
ria ili quel modo che ci permetta anche di cercare in essa una
parte di storia morale e intellettuale della società in cui viviamo,
cercare il tipo non il letterato soltanto, ecco lo scopo che ci siamo
prefìssi, scegliendo oggi ad argomento di questo breve articolo,
Gustavo Flaubert
Sebbene sia scorso più di un anno e mezzo dacché il Flau-
bert pubblicò i suoi Trois contes, e ventidue dal giorno in cui
stampò il suo primo lavoro Mddame Bovary, pure vi ha sempre
qualcosa di cosi nuovo, di così fresco, di (permetteteci la pa-
rola) sempre recente, intorno alla individualità letteraria di questo
autore, è sempre così viva ed efficace la sua influenza nelle let-
tere, che, comunque possa riescire incompiuto il nostro tentativo
di critica, non mancherà per altro certamente di opportunità.
Non si creda che, quando si parla di una individualità,
s' intenda con questa parola raffigurarci un essere vivente fatto
tutto di un pezzo, nel quale la stabilità di certe linee non s' al-
tera mai , la cui rigidità costante lotta e contrasta con tutto
ciò che l'avvicina. No, l'individualità letteraria così come appare
a noi e come vorremmo studiarla, si svolge a poco a poco, pieghe-
vole e docile, seguendo l'impulso che le vien dato dalla società
che la circonda, e mutando con essa e per essa forma e colore :
piena d'elasticità intelligente che la trasforma a tempo e in ar-
monia col tempo; e per quanto apparentemente contrasti e lotti,
liure non crediamo che vi sia mai stata individualità la quale
non si sia sentita, intimamente e fortemente in accordo con una
tendenza forse nascosta, ma certamente matura e vigorosa, della
propria età, e che non abbia seguito flessibile e docile l'evoluzione
di quella tendenza.
Se del Flaubert si volesse fare un ritratto, non si farebbe di lui
che una immagine, i tratti della quale dovrebbero mutare come
mutano per opera degli anni i tratti di tutti gli esseri viventi ; bi-
sognerebbe fare molti Flauberts, in molte epoche diverse, per
avere un Flaubert solo, ammettendo che coll'ultimo fosse esaurita
la vita intellettuale di esso: altrimenti s'egli durasse sempre, quel
ritratto unico che riassume tutti gli altri non s'avrebbe mai. Per-
chè è col mutare costantemente, col modificarsi di certe tendenze
generali che l'essere intellettuale più perfetto dura e prospera.
Così nell'individualità, quel tratto costante che si cerca sempre e
che traverso tante modificazioni è così difficile ritrovare, non
appare realmente, e si riduce a non essere che la pieghevolezza
sottile e armonica dell'intelletto nel seguire l'evoluzione e l'in-
304 GUSTAVO FLAUBERT.
dole di UH tempo, e nel trovare il modo di intuirlo. Questo modo
di sentire, questo punto di contatto col mondo esteriore crediamo
sia il solo tratto costante, anzi la vera, unica nota fondamentale
delle individualità. Nel Flaubert questa nota qual è? Ma, qui ci
si presenta la prima e maggiore delle difficoltà, v'ha in esso real-
mente quella nota che cerchiamo?
Se esaminiamo le sue opere, sorprendiamo nella sua vita let-
teraria dei periodi interi nei quali egli sembra mutare a un
tratto la natura della sua fantasia. Nei inigliori suoi scritti,
Madame Bovary e La Teidation de Saint Anioine, il contrasto
appare vivissimo. Nel primo è una descrizione dell'amore nelle
sue manifestazioni meno elevate, nella sua influenza più dannosa,
che l'autore analizza e svolge nella storia di una donna la cui
vivisezione morale è un'oj^era piena di verità maravigliosa; nel
secondo invece, egli si trasporta in un mondo ideale, religioso,
fantasticamente lontano. La diversità fra quelle due opere appare
così grande, che nell'ultima sembra davvero spezzato il vincolo
intellettuale fra l'autore di Madame Bovary e quello della Tenta-
tion; sembra che abbandonando improvvisamente un certo ordine
di cose e d'idee, il Flaubert abbia lasciato dietro di sé una parte
di sé stesso, per farsi trasportare dalla potenza della mente e
della fantasia, lontano da tutto ciò che lo aveva prima ispirato.
È sorprendente davvero la dissimiglianza nelle opere del Flaubert;
tutte differenti una dall' altra nella forma e nella sostanza,
quasi non fossero dello stesso autore. In ognuna di esse è sempre
qualcosa di essenzialmente differente dalle altre; qualcosa che
non appare nella scena, nei caratteri o nell'argomento soltanto,
ma nella natura stessa di chi scrive. Direbbesi che Flaubert pren-
desse a vivere di una vita nuova ogni volta scriveva una nuova
opera; che la sazietà della prima generasse in lui la necessità del
contrasto; che finita l'analisi di un periodo di tempo moderno lo
tormentasse un desiderio pungente d'altri tempi, d'altre genti, e
che la fantasìa lo trascinasse disordinatamente e lo spingesse ad
escire più volte dal proprio campo. Eppure, malgrado tanto svariato
e scompigliato mietere in campi diversi, il valore letterario delle
opere del Flaubert si mantiene costantemente al disopra di un
certo livello; questi audaci tentativi della fantasia non lo fanno
mai cadere, esso non pone mai il piede in fallo, e comunque vada,
ardito e lontano, si sente che egli ha in sé o fuori di sé un appoggio
sicuro. Nella città di provincia moderna come a Cartagine, a Parigi
come nella Tebaide del deserto, il Flaubert non si perde mai.
GUSTAVO FLAUBERT. 3U5
Di questa salvezza va egli debitore alla sua ricca fantasia o
agli artificii sapienti del romanziere furbo e acuto? Non crediamo
che la fantasia sola né le perfezioni dell'arte bastino a spiegare
il valore costante che l'autore ha saputo conservare alle sue opere,
qualunque ne fosse l'argomento.
Come potè il Elaubert, ideare prima un romanzo qual è Ma-
dame Bovary, in cui la vita di una provinciale isterica è scritta
con una finitezza di analisi, con una verità psicologica e fisiolo-
gica quasi ributtante, nel quale si vede l'autore tanto compene-
trato dell'opera sua, che sembra proprio aver trovato in essa la
rivelazione delle proprie attitudini intellettuali, come potè, ripe-
tiamo, il Flaubert, dopo aver fatto quel romanzo e averlo fatto a
quel modo, abbandonare a un tratto la via così felicemente per-
corsa per avventurarsi in tutt' altra direzione senza perdercisi o
nuocere alla fama già acquistata? Perchè, intendiamoci, se il
Flaubert ha i pregi delle individualità non ha quelli delle in-
telligenze veramente eccezionali. Nel suo secondo lavoro non più
analisi psicologica, non più descrizioni della vita moderna, trat-
teggiate con sì squisita verità nella JfofZawe Bovary; il psicologo
e fisiologo si è fatto a un tratto archeologo; abbandona i tempi
moderni per la vita antica; a Mach une Bovary succede inaspetta-
tamente la sorella di Annibale, alla città di provincia francese si
sostituisce la vecchia Cartagine. La nuova opera di Flaubert era
fatta tanto bene, che quando Salanibò esci dalle stampe, forse alcuni
che non avevano letto Madame Bovary (in Francia pochi assai)
potettero credere che nelle grandi descrizioni della vita antica stesse
il segreto del genio letterario del Flaubert, che nel romanziere
ci fosse uno storico il quale chiedesse alla fantasia del novelliere
una immagine più viva dei tempi passati ; ma chi, avendo letto
Madame Bovary, avrebbe potuto dimenticarla, e dimenticarla al
punto da non aver sentito nell'autore, in tutta la sua potenza,
r intuizione della vita presente ? del presente, non soltanto nelle
sue manifestazioni più nascoste, ma nell'intuizione del come era
fatto nei più intimi recessi della sensazione e percezione, un tipj
del proprio tempo ? Perchè se Madame Bovary, è un tipo che ora
già declina e incomincia a trasformarsi, pure ella porta in sé
l'impronta indelebile d'un' epoca: quella in cui fu sentita e pen-
sata da Flaubert. E dopo questi due romanzi ne scrisse altri an-
cora, e approfondì e indagò nuovi diversissimi argomenti, e an-
dando a sbalzi, pareva battesse inquieto e insanziabile a tutte le
porte della fantasia.
306 GUSTAVO FLAUBERT.
Era instabilità e incertezza dell'intelletto ? mancava forse in esso
quella nota fondamentale della individualità, di cui parlammo? No,
anzi questa sua apparente instabilità era, ne siamo sinceramente
convinti, una necessità contro la quale, anche volendo, il Flaubert
non avrebl)e potuto lottare; e pochi sono stati gli autori che
■ abbiano seguito, come ha fatto lui, un impulso costante, inva-
riabile e non interrotto che lo eccitava e dominava in tutta la
sua operosità. Pochi hanno potuto fare più compiutamente del
■ Flaubert, tutto ciò eh' egli ha ideato ; in mezzo a tanta prodigalità
apparente esso non ha mai perduto nulla per via; ha raccolto per-
fino le briciole della sua intelligenza. E se lo ha potuto fare, fu per-
chè ogni sua' nuova opera era una parte sua intellettuale compiuta e
intera, cbe egli esauriva compenetraudosene e scrivendola; e allorché
quella era finita, non avrebbe più potuto rifare nessun lavoro che la
rassomigliasse perchè non aveva più in sé materia a crearlo.
Ogni opera di Flaulìcrt rappresenta un senso soddisfatto in
tutte le sue manifestazioni. E quando alcuni critici fanno le ma-
raviglie dello spazio di tempo cbe egli lascia sempre trascorrere
fra un lavoro e l'altro, spazio di circa sei o sette anni, noi non pos-
siamo né maravigliarcene con essi, né attribuire (juesta lentezza alle
accurate indagini cbe l'autore ha bisogno di fare a fine di compiere
i suoi lavori con quella precisione di fatti e descrizioni che gli è
propria. Esso non ha bisogno di tempo né per pigrizia della mente
né per pedanteria; tutta la sua natura ne ha bisogno per rifai'si
di quella parte di se stessa perduta nell'opera precedente, e matu-
rare in sé l'altra, la nuova, quella che in forma affatto diversa si
fai'à viva col tempo.
Nel Flaubert ha luogo uno di quei fatti naturali più facili
a intendersi che non lo sieno generalmente i fatti cbe riguardano
l'intelletto. Per cercare di conoscere che cosa lo fa operare in quel
modo tutto suo, die cosa lo fa essere in alcune opere superiore e
inferiore a molti, bisogna, come d'ogni essere vivente che si vuol
conoscere bene, ricercare quella parte di esso cbe dura e domina
ognora costante nella sua operosità. E quel movente continuo che
varia, ma è pur sempre lo stesso, quello che feconda e domina
l'intelligenza del Flaubert, é la sensualità; sono i suoi sensi per-
■ fetti, sempre sicuri della chiarezza di percezione con la quale
tutta la sua fantasia può rendersi conto della pienezza della loro
vita nei più minuti particolari.
La nota fondamentale della sua individualità è il sensualismo.
È un sensualismo raaraviglioso, cbe ba percorso tutta la scala
GUSTAVO FLAUBERT. 307
delle sensazioni, ed è arrivato così in alto che talvolta sembra
rinnegare la stessa sua origine se non l'esaltasse. Ogni opera
del -Flaubert rappresenta una forma nuova di sensualità, e
porta con sé le perfezioni della verità e di un fatto intel-
lettuale per sé stesso completo, mentre nel medesimo tempo
soggiace all'inevitabile esaurimento della cosa la cui origine
si trae tutta da un ordine di fatti che finisce necessaria-
mente entro certi limiti. Le sue opere sono piaceri della sua
fantasia, la quale s'alimenta tutta in una festa splendida dei sensi,
ed è perfetta soltanto, perchè i suoi sensi lo sono, e perchè il piacere
che essi fanno provare alla sua intelligenza diventa una forza che
la domina, che essa non può arrestare, che deve in certe sue parti
esaurirla tutta prima di finire ; e per ciò, quando un' opera del
Flaubert è compiuta, è finita anche la forza che la creò, e non
potrebbe piti con quelle stesse forze farne altre; e questo solo basta
a spiegarci le dissomiglianze strane dei suoi lavori e la necessità
che egli prova d'aspettare fra un'opera e l'altra che rinasca nella
sua natura un nuovo modo di sentire e godere, che esso poi
narrerà a suo tempo come narrò la forma già esaurita.
11 sensualismo del Flaubert è un sensualismo accorto e de-
licato, che ha troppa dimestichezza con l'intelligenza per non cer-
car sempre la propria rivelazione fuori del campo basso e tri-
viale entro il quale si rivela la sensualità altrui. Esso ha trovato
il segreto di tormentare la propria mente con tutte le febbri dei
suoi sensi, ed a quel modo, inscientemente, le ha portate in alto,
così in alto che talvolta sembra aver lasciato in disparte nelle
sue creazioni appunto quella parte di esse che a molti parrebbe
la più sensuale ; ma la sapiente fibra sensitiva del Flaubert sa
sempre intuire quanto c'è di meglio, e sa andare cercando sottil-
mente nelle inesplorate regioni della fantasia le ultime rivelazioni
della vita dei sensi. E le trova sempre senza mai sbagliare.
Nella Tentation de Saint Anioinc, vediamo in tutta la sua po-
tenza questa gagliarda forza intuitiva, che sembra perduta fra le
nebbie lontane dell'ascetismo, e che pur vi; cammina sicura e trion-
fante, forse ancor più di quando ci narrava con tanta perfezione
i nevrosici amori di una donnina di provincia.
Ma il Flaubert quando scriveva la Tentation era già lontano
dai tempi della Bovary : aveva già fatto un passo avanti. Aveva
già abbandonato da un pezzo la vita presente con tutti quei suoi
particolari che egli conosceva tanto bene, aveva già finito con
quella, e s'era già potuto trasportare nella Salanibò in mezzo alle
308 GUSTATO FLAUBERT.
grandi scene dell'antichità senza perdercisi mai. Ormai era sicuro
di portare in sé ciò che lo avrebbe salvato certamente dallo smarrirsi
neir ignoto. Egli sapeva di giungere sicuro sempre laddove erano
giunti tutti i sensualismi umani, fossero pure lontani, o sepolti
dal passato o dissimili affatto dai nostri ; esso li riconosceva sempre,
li intuiva, sentiva di poterli descrivere tutti, e fin dove questa
fibra viva serpeggiava nascosta nel mondo più alto delle idee, fin
dove s'insinuava nelle più astratte percezioni, fin là ma non più
in là, Flaubert sapeva di poter giungere con sicurezza.
Nella Salamhò la fantasia dello scrittore del secolo decimo-
nono fece un' orgia splendida di colori e di vita, in mezzo alle più
sanguinose scene della vecchia Cartagine. L' Autore mise tutta
l'accuratezza di un archeologo insigne per provarci la verità di
quello che descrive, per provarla anche a sé stesso a fine di sentir
meglio la propria opera. Flaubert si fece archeologo per rifare Car-
tagine con esattezza e precisione, per descriverla tutta, per rievo-
carla senza lacune, per rifarla viva e bella, e tale, che, per un
periodo di vita della sua fantasia, essa potesse essere un nido degno
dei suoi amori. L'Autore andò in Affrica, studiò le rovine del-
l'antica città, ci visse, e il risultato fu quale lo meritavano le sue
fatiche. Rifatta Cartagine, il Flaubert la popolò. Quella barbara
civiltà lo esaltò in modo veramente straordinario, le sue fibre
moderne indovinarono con intuizione morbosa ciò che i deliri
dei sensi avevano provocato in quel mondo così lontano e dis-
simile dal nostro. Quel mondo raffinato e barbaro, gretto e splen-
dido, osceno e superstizioso, pareva fatto apposta per essere de-
scritto da lui. Era un giorno di vita antica che corrispondeva
mirabilmente con l'insensata follia sensuale dello scrittore del
nostro secolo. Era un angoscioso desiderio retrospettivo d'oggi che
s'incontrava con una grande immagine del passato : che la vagheggiò
lungamente, la volle, e infine la fece sua. Quelle nudità di bar-
bari ebbero le sue carezze, quei supplizi atroci, orgie di sangue
e dolore, accontentarono le momentanee morbose crudeltà della
sua fantasia; la religione oscena fu intuita da esso con serietà
pagana. E la serietà del Flaubert in tutte le sue opere è per noi
una garanzia sicura dell'intensità con la quale le ha ideate. Le sue
gioie non hanno sorrisi, perché le grandi sensualità ridono talvolta,
ma non sorridono mai; il sorriso incomincia soltanto laddove la
percezione s'innalza sola, lontano dalla sensazione, e ne contempla
serenamente il ricordo; ma fintanto che quella dura, si compie
in noi un fatto che é severo perchè inevitabile e che non ha nulla
GUSTAVO FLAUBEKT. 309
di comune con la natura del sorriso, il quale segna ed è forse in
noi, il punto più lontano dei nostri sensi. Questo forse ci spiega
la costante serietà del Flaubert la cui sensualità è troppo perfetta
per essere volgare, cosicché egli sta quasi solo fra la volgarità che
ride e le intelligenze che sanno sorridere, sicuro di non abbassarsi
verso l'una e incapace forse di salire verso le altre.
Se vogliamo giudicare la Salanibò come un complesso di
quadri della vita antica a Cartagine, non si può che lodare quale
opera letteraria di gran valore; ma se la prendiamo a conside-
rare come romanzo, non solo è inferiore assai a Madame Bovary,
ma non ha superato nessuna delle difficoltà che si presentano ine-
vitabilmente a chiunque vuol intessere un romanzo nella vita antica.
La narrazione psicologica e fisiologica dell'individuo a quei
tempi riesce sempre impossibile, perchè la moltiplicità d'incrocia-
menti con razze diverse, le differenze enormi fra gli uni e gli altri,
non di civiltà soltanto, ma di consuetudini, credenze, anzi aberra-
zioni religiose dovevano dar luogo a tali e tante diversità di tipi
morali e fisici da non poter farsene a' tempi nostri un concetto
•esatto. 11 giovane mondo barbaro, sempre cosi vicino a quello vec-
chio e civile, civile sino alle piìi astruse raffinatezze della civiltà,
dava luogo necessariamente a contatti frequenti dai quali nascevano
connubi e miscele di razze ; tutto ciò produceva infine in ogni in-
dividuo dei risultati quasi impossibili a studiarsi ora da uno
scrittore del nostro tempo, e ne veniva un impasto organico equi-
librato così diversamente dal nostro, che l'analisi psicologica di esso
non può farsi in nessun modo. 0 se riesce, riesce a sbalzi, perchè
si afferra soltanto un momento di vita che il tempo ha trasmesso
a noi chiaro e vivo, e poi vi è di nuovo una lacuna, uno spazio
buio, e l'individuo psicologico scompare per noi nelle tenebre di
un mondo finito e morto per sempre; e così quella figura del pas-
sato va e viene, appare e scompare, e la storia di essa rimane
inevitabilmente sconnessa. E così è stato della Salanibò.
Gli autori più mediocri di romanzi moderni hanno talvolta
in questa parte una immeritata superiorità di fronte agli autori
migliori, i quali vollero cercare in tempi troppo lontani i tipi
delle loro epere. Perfino gli scrittori più schivi di realismo, più
superstiziosamente paurosi di esso, hanno senza volerlo, spesso
senza meritarlo e in quelle parti che i realisti sogliono meglio
trattare, una singolare superiorità sopra tutto quello che dai
realisti stessi è stato fatto o tentato di fare al di là dei limiti se-
gnati dal cristianesimo alla storia psicologica dell'umanità. Mentre
VoL. XIV, Serie II — 15 Marzo 1879. 19
310 GUSTAVO FLAUBERT.
invece, lo scrittore dì romanzi della vita antica, per quanto con
la potenza della mente ricerchi il vero e se lo faccia sentire
presente, non potrà mai intuirlo con quella verità e chiarezza con
la quale ne abbiamo quell' intuizione nel presente, che sola ci dà
il vigore necessario per osservare e approfondire fuori di noi i
fatti psicologici. Checché ne sembri, questo presente del quale ab-
biamo sì gagliarda l' intuizione, noi non 1' abbandoniamo mai, per
quanto il nostro pensiero vada ad indagare nell' ignoto cose lon-
tane e nascoste. Inscientemente ci teniamo aggrappati ad esso, e
con maggior forza quanto più crediamo di dovercene allontanare.
Ma poteva l'autore di un romanzo come la Salambò, tenersi stretto
a questa intuizione del presente? No; esso doveva abbandonarla
coraggiosamente oppure sentire dentro di sé un contrasto continuo
che sarebbe apparso nella sua opera. E quel contrasto non vi pap-
pare : ma vi si scorge invece l' abbandono necessario di quell' in-
tuizione del presente, abbandono che non fu compensato, come
era impossibile lo fosse, dall' intuizione di un altro tempo che
nessuno potrà mai rievocare. Il compenso invece, l'autore lo ha
trovato per sé e per noi nelle splendide descrizioni della vita
antica, quando agita e muove delle grandi masse umane, quando
prodiga colori così vivi e smaglianti sopra ogni cosa, che quella
vecchia Cartagine, scintilla sotto al sole d'Africa, dinanzi agli
occhi di chi legge, come s'egli la vedesse; e tripudia e grida e
freme con una verità intensa, che mette quasi i brividi addosso
a chi, trasportato dall'eloquenza della narrazione, crede udirla
davvero.
Nella Tentation de Saint Antoìnc, sebbene la stranezza del-
l'argomento e la distanza dei tempi sia ancora grandissima, pure
la continuità dello studio psicologico si ritrova perfettamente;
perchè in quell'opera 1' autore ha ritrovato il suo punto d' appoggio,
e non naviga più nell'ignoto. Fra il mondo antico che tramonta
e l'alba di quello moderno, s'incontra in una figura che non può
sfuggire alle sue osservazioni, perchè in essa riconosce un tipo
sempre vivo, il solo tipo che lo scrittore di romanzi conosca dav-
vero: il tipo cristiano.
Col cristianesimo soltanto si fa vivo l'uomo che conosciamo
a fondo, che possiamo analizzare psicologicamente, la cui vivise-
zione ci è possibile. Dai primi secoli del cristianesimo sino ad
oggi, chiunque sia stato analizzato psicologicamente dalla penna
0 dalla parola viva, chiunque ha servito di studio al romanziere
anche il più realista, il più ateo, il più innamorato del pagane-
GUSTAVO FLAUBERT. 311
simo, è sempre stato e non poteva essere altro che un cristiano :
perchè, si dica o si speri pure il contrario, ma da Carlomagno
in poi non abbiamo avuto nel mondo che cristiani, eccettuato i
selvaggi che non contano, e quei popoli come i chinesi e i mu-
sulmani che con altro nome ed altre consuetudini sono stati sog-
getti allo spirito di una legge rassomigliante assai alla nostra,
e nelle cui scritture sacre abbiamo attinto i nostri migliori inse-
gnamenti, cosicché possiamo dire che vissero una parte di vita
cristiana prima di noi. E da Carlomagno in poi, lo ripetiamo, non
vi fu altro tipo nel mondo morale; e i chiamati eretici, atei a
pagani, erano pur tutti cristiani ; accessibili tutti alle nostre ana-
lisi psicologiche più minute, fossero pure l' analizzatore e 1' ana-
lizzato increduli affatto nel cristianesimo. Perchè l'influenza dello
spirito cristiano, che ha compenetrato ogni cosa nel mondo nostro
civile, ci assicura quella continuità logica delle nostre ricerche,
le quali vanno sempre indagando prima i sentimenti, poi le idee :
prima la sensazione e poi la percezione che è provocata da essa. Ed
è precisamente nel sentimento, che dai primi secoli del cristia-
nesimo sino ad oggi noi siamo ancor tutti cristiani. Le nostre
sensazioni, di qualunque natura sieno, sono essenzialmente cri-
stiane; ed è con fatica, con spreco di forza intellettuale, che in
taluni la percezione si libera violentemente da quei vincoli mo-
rali; e non è se non per opera di un ultimo ed elevato processo
mentale che alcuni se ne staccano affatto, senza essere per altro
in grado di attingere poi in sé stessi nuove sensazioni che non sieno
in contradizione con il risultato finale dei loro ragionamenti. Le
cose pensate ed elaborate da questi pochi non bastano che di
rado, e forse a pochissimi, per stabilire un equilibrio costante
fra il modo di sentire e il modo di pensare, pel quale la sen-
sazione nasca così come vorrebbe la percezione; e quand'anche
ciò fosse, e l'equilibrio fosse ritrovato pienamente, questo tipo
nuovissimo sarebbe forse tanto difficile ad analizzarsi psicologi
camente dallo scrittore moderno, quanto lo sarebbe per esso una
Saìamhò pagana e cartaginese.
È la natura e l'aspirazione del sentimento che sole ci per-
mettono di conoscere il tipo morale che vogliamo studiare; se
quel movente interno di tutte le manifestazioni ci è ignoto o im-
perfettamente noto, r essere umano diventa per noi un indovi-
nello strano, complicato, che non sapremo mai risolvere; e la
Salambò di Flaubert è rimasta ad esso e a noi un indovinello
insoluto, perchè ci mancava la chiave che apriva la porta segreta.
312 GUSTAVO FLAUBERT.
dei suoi sentimenti. L'uomo dell'antichità ci sfugge così sempre,
allorché vogliamo studiarlo compiutamente; noi non siamo sicuri
di sapere come e perchè sente; mentre l'uomo moderno invece ci
rivela tutti i suoi segreti, e la chiave di quei segreti è il cristia-
nesimo che ha modellato e compeuetrato tutti i suoi sentiraenti.
E se una Salambò, miracolosamente risuscitata, ci apparisse oggi
e ci vivesse accanto, e ci fosse ognora presente, pure non sapremmo
conoscerla meglio di quello che la conobl^e il Flaubert, quando essa
gli apparve luminosa sotto al sole affricano, in mezzo alle ora
deserte rovine della sua Cartagine.
Ma sant'Antonio, invece, chi non lo conosce? Chi non ha sentito
narrare le istorie delle sue tentazioni? Chi non ha sentito in sé
quel fatto cristiano, e non ha afferrato con la propria mente l'im-
magine di un diavolo tentatore, sia pure un diabolo astratto quanto
si vuole, che appare nelle febbri delle nostre fantasie? K così,
quando finita quell'orgia antica di supplizi e di sangue, finita da
un pezzo, il Flaubert sentì rinascere nella sua fantasia sensuale
un nuovo dramma, una nuova febbre, e che ideò la Tentation. ri-
trovò il filo perduto dell'analisi psicologica.
Nella Salaìììhò, egli si era sentito potentemente artista, ma
ora voleva essere qualcosa di più. T suoi sensi, fatti pili acuti,
vollero qualcosa di più elevato ancora di tutto ciò che avevano
provato nel dar vita alle opere precedenti; vollero andare più
lontano che non fossero mai andati, più vicino alle regioni ideali
che non fossero mai stati; e vi riuscirono; vi riuscirono così
bene, che forse la Tcntation de Saint Antoine è la migliore opera
del Flaubert.
Credete forse che il sensualismo dello scrittore francese va-
gheggiasse una tentazione volgare, una tribolazione dei sensi
qualunque, un diavolo da medioevo? No, la tentazione scritta
dal Flaubert è così squisitamente elevata, va a ricercare desideni
cosi delicati, che il sensualismo dell'autore sembra perdersi e di-
leguarsi nell'immensità del sogno grandioso e fantastico del santo
cristiano. Eppure non fu mai così intenso, né così acuto come nella
storia della tentazione.
Sant'Antonio è visitato e tentato, nel deserto, da tutte le^ re-
ligioni dell'anticbità. Con ardore febbrile, con un'impazienza piena
di commozioni Flaubert spoglia dinanzi a lui le religioni della
loro vita ideale e la fantasia ardita di esso va a toccarne, trion-
fante, il nòcciolo vivo, sensuale, riboccante di sentimenti umani,
intorno al quale, fantasia e idea rivestirono poi infinite e svariate
GUSTAVO FLAUBERT. 313
le forme religiose. Le spoglia tutte; e nude appaiono più vive, e
si vede allora in esse, come nelle opere del Flaubert, lo svolgersi
della storia di una sensualità umana grandiosa e collettiva: la
storia di ciò che ha dominato nei sensi di certi popoli ed il cui
dominio è divenuto un culto. E tutti quei sensualismi di popoli
sconosciuti, 0 sepolti nelle nebbie del passato, o morti da un
pezzo, ballano una ridda fantastica nella solitudine silenziosa
di una notte del deserto, dinanzi agli occhi del santo cri-
stiano ; e degli idoli • fiitti vivi proiettano ombre strane sulle
calde sabbie, dinanzi alla sua grotta, e animali stravaganti e crea-
ture mostruose raccontano le istorie audaci di aberrazioni dei
loro- istinti. Donne che appaiono come fiabe, femmine che sono
religioni, intemperanze mostruose che hanno forma e vita, ten-
tano il santo e lo tormentano in ogni modo. Poi lo tentano le ar-
guzie dello spirito, lo tentano le vanità della fantasia, lo tenta
l'amore della verità per paura d'aver fatto soffrire inutilmente i
sensi, e nella speranza colpevole di poterli soddisfare senza pec-
cato. Esso è tentato, in tutte le parti vive della sua natura, da
tutto ciò che è stato vivo e vive sempre nella natura intera. Fi-
nisce, addormentandosi stanco e travagliato nel riposo delle spe-
ranze cristiane ; e l'opera più elevata dell'autore di Madame Bo-
vary è compiuta.
Per un momento, con intuizione grandiosa, Flaubert ha sen-
tito nelle più remote e svariate manifestazioni di vita collettiva,
la rassomiglianza con ciò che provava egli stesso nella piccola
sfera della sua individualità; ha intuito che in certi tipi umana-
mente più perfetti, la storia della umanità si riflette maravi-
gliosamente, ed ha avuto l'audacia di servirsi di un periodo di
vita propria, per spiegare a sé stesso, quelli più lontani e col-
lettivi che fanno parte della storia umana; e indovinò il momento
in cui un'impazienza e un'aspirazione dei propri sensi combinavasi
perfettamente con l'argomento che prendeva a studiare.
l^eWÉducafìon sentimentale, Flaubert ha invece esaurito tutta
la storia del sentimentalismo sensuale, e l'ha fatto con grande
sottigliezza d'analisi e verità di descrizioni, ma quell'opera è rie-
scita troppo lunga ed in alcune sue parti anche noiosa, malgrado
sia in alcune altre perfettissima.
Dei Trois contes, che sono la sua ultima e più recente pub-
blicazione, non parleremo, perchè l'argomento di questo studio non
lu specialmente quello di fare la critica delle opere del Flaubert,
quanto del ricercare in esse il tipo letterario dell'autore nei suoi
314 GUSTAA^O FLAUBERT.
vari modi di manifestazione; e nei Trois conies egli non si pre-
senta a noi sotto nessuna forma nuova, anzi vi ritroviamo delle
ripetizioni, non nei racconti stessi, ma nel modo in cui furono
creati, che ci sembrano affievolite manifestazioni di ciò che provò
scrivendo altri lavori.
I Trois conies, sono fatti con la potenza della memoria, non
sono stati intuiti e non hanno vissuto nelle sue fibre prima di
nascere, come hanno fatto Madame Bovary, Salamhò, YÉduca-
tion sentimentale e la Tentation de Saint Antoine, opere fatte tutte
di un pezzo, vive tutte di una parte di vita sua.
Flaubert volle anche provarsi a scrivere una commediola, Le
Candidat, ma non gli riuscì che mediocremente.
Ed ora, prima di finire, guardando questa bella figura let-
teraria del nostro tempo cerchiamo di trovare in essa quel ri-
flesso dell' etcà in cui siamo, quella parte di vita nostra collet-
tiva, che s'è incarnata nella sua individualità; e domandiamo a
noi stessi se il Flaubert del secolo decimonono potrel}be rasso-
migliare ad uno stesso Flaubert nato e cresciuto in un altro tempo.
Osiamo affermare che un tipo letterario come il suo non poteva
essere che ai giorni nostri, ne' quali le tendenze materialiste e
le scoperte della scienza, risvegliando vivamente in molti la
coscienza della propria solidarietà con tutto il mondo orgauico,
provocano una intuizione di esso, nuova, speciale, ora grandissima,
ora puerile ma compiuta più che non lo sia mai stata.
Nei primi tempi del cristianesimo, Flaubert avrebbe dato
i suoi sensi all'ascetismo e si sarebbe fatto grande lottando contro
di essi, eppure traendo inscientemente dalla loro potenza le aspi-
razioni per le quali doveva poi combatterli. Nell'epoca del rina-
scimento avrebbe forse potuto essere artista, e modellare le im-
magini della sua fantasia nella creta o nel marmo; nel nostro
secolo invece, egli si trova in perfetta armonia con l'evoluzione di
una grande tendenza della società. Il punto di contatto col proprio
tempo l'ha trovato senza neppure cercarlo. Mentre il sensualismo
artistico e letterario del Flaubert cresceva e maturava, cresce-
vano e maturavano anche intorno ad esso, nella società cui ap-
parteneva, delle convinzioni nuove e profonde, che riallacciavano
potentemente fra loro sensazione e idea, e infondevano in molti
un sentimento nuovissimo della natura; e mentre da un lato si
spezzavano dei legami, se ne riannodavano mille dall' altro ; fili
sottilissimi e vivi, che tengono strette e unite fra loro tutte le cose
che sono intorno a noi. Inscientemente il Flaubert, via via che
GUSTAVO FLAUBERT. 315
s'affermava nel mondo questa nuova fede, si avvicinava sempre più
ad una tendenza del suo tempo e affidava ad essa tutta la forza
produttrice della sua individualità letteraria. E in questa fede
ristretta ad un solo punto, quello della vita dei sensi nelle loro
più alte manifestazioni, in questa fede per la quale il Flaubert
attingeva nelle idee del nostro secolo una garanzia nel valore e
nella continuità della propria operosità letteraria, sta il segreto
della sua individualità. È il punto di contatto fra essa e la vita
collettiva che la circonda.
Ma questo punto di contatto se è per esso una forza, di-
venta a volte anche un vincolo ; e l'uniformità del punto di con-
tatto, ma più di tutto la sua natura, per quanto svariate ne sieno
le manifestazioni, porta in sé un limite che non permetterà mai
all' intelligenza, che in esso si rinchiude, di conseguire i grandi
scopi del genio. È un vincolo dell'intelligenza che la tiene ferma,
stretta alla vita contemponanea quasi in quel modo nel quale vi
stanno necessariamente ferme e chiuse le manifestazioni materiali
di essa. È da questo stesso vincolo col tempo presente che noi
crediamo sia sorta la scuola realista d'oggi; ricca e viva di tutto
ciò che può dare la moltiplicità e ricchezza di vita reale che le
sta d'attorno, ma che dovrà sempre rinnovarsi per durare, morire
per rinascere, e che nessun altro tempo ammirerà nei suoi meriti
maggiori fuorché quello presente che la crea.
Il genio solo vive oltre il proprio tempo, in quel modo speciale
che te lo fa sentire vicino con tutta la potenza della verità anche
quando dei secoli ti separano materialmente da esso. Dante, Shake-
speare, Goethe sono oggi per noi ciò che furono nel passato e sa-
ranno neir avvenire ; il momento di vita e di verità che ha toccato
le loro fibre intellettuali, è un momento che dura sempre nell'uma-
nità. Ma queste grandi eccezioni non si potrebbero giudicare e
studiare così come ci è dato analizzare le individualità minori.
Esse sono tanto lontane da noi che non possiamo indagare com-
piutamente la loro natura, mentre le sentiamo d'altra parte così
vicine per la giusta intuizione che hanno della natura nostra, che,
quando il genio parla di noi, ci sembra descriva di noi stessi sempre
quella parte che, per essere più intimamente ed essenzialmente
nostra, non abbiamo mai potuto afferrare compiutamente con la
percezione ; e la verità e semplicità delle cose dette da esso
sorprende tutti ugualmente, mediocri o grandi; onde alla po-
tenza sua del veder lontano con la mente, e afferrare e collegare
grandi masse d'idee, sembra andare unita una straordinaria pò-
316 GUSTAVO FLAUBERT.
tenza del veder meglio e più da vicino che tutti gli altri, e così
strappare sicuramente alla vita dello spirito il suo segreto di
vita stessa.
Fra queste due grandi attitudini della mente del vedere con
straordinaria chiarezza le cose vicine e quelle lontane, vi sono
molte categorie d'intelligenze diverse, le quali cercano la perfe-
zione ora in una di queste attitudini dell' intelletto , ora nel-
l'altra; ma troppo difficile sarebbe indagare a quale fra tante e
diversissime categorie possa ascriversi il Flaubert.
È indubitato che esso non aspira al conseguimento di un fine
veramente ideale e lontano, ma non è neppure vincolato alla
stretta e sola indagine e osservazione delle cose vicine. Appar-
tiene in un certo qual modo alla scuola realista d'oggi, poiché
egli va debitore della potenza del proprio intelletto alla stessa
fonte dalla quale il realismo attinge la sua forza, eppure non si
può chiamarlo realista.
La scuola dei realisti dovrebbe sconfessarlo. La verità cosi
come la descrive e la vuole il Flaubert, non è quella verità sol-
tanto quale appare all'evidenza dei sensi senza interpretazione
alcuna, così come la vediamo fuori di noi ; quella verità che il
realismo non crede possibile di osservare con chiarezza se non
raggiunge la miiturità di una manifestazione materiale compiuta.
No, la verità del Flaubert è molto diversa da quella che ricerca lo
Zola, e nella quale lo Zola raggiunge una perfezione assai mag-
giore, non per il metodo dell'indagine, ma per vigore di mente r
il vero, il realismo, il Flaubert lo trae tutto da sé stesso. 11
vero cosi come é stato ed è nel mondo esterno, il Flaubert lo deve
sentire a jiassare come traverso un vaglio nel sensualismo della
sua fantasia prima di poterlo descrivere. Se non lo trae prima a
vivere nei suoi sensi, se non lo sente prima dentro di sé, non lo
può manifestare. Esso ha bisogno di una interpretazione per af-
ferrarlo compiutamente; dunque non è interamente realista, e
non importa che gì' istrumenti della sua interpretazione sieno
i sensi.
Ma se questo fatto basta a provarci che egli non è veramente
realista, ci proverà peraltro che in esso s'incarna uno dei tij)i più no-
tevoli e meritevoli di studio del tempo nostro, più rassomigliante ad
esso di qualsiasi altro, nei suoi pregi e nei suoi difetti, e più di
tutto in questa stessa contradizione con la scuola cui dovrebbe
appartenere. Questa contradizione costante, questa necessità di
effettuare con un vecchio sistema un'opera nuova in evidente con;
GUSTATO FLAUBERT. 317
tradizione col sistema stesso che l'ha creata; questo modo di
stare fra l'antico e il moderno, fra il realismo e l'interpretazione
della verità; di starvi senza ipocrisia s'intende, ma con la natu-
ralezza spontanea di chi obbedisce al modo d'essere della pro-
pria natura, raffigura meglio di qualsiasi storia morale contem-
poranea, un tratto notevolissimo della società nostra.
Nella bella e robusta individualità dell'autore di Madame
Bovary, troviamo quasi idealizzata questa fase morale della no-
stra età; soltanto in essa non vediamo né il dubbio, né l'ipocrisia,
né l'incerto fluttuare che agita realmente il mondo moderno e
sembra che egli sia stato creato da tutti questi contrasti in un
momento nel quale speravano forse rappacificarsi.
E in un certo qual modo, nella sana e vigorosa natura del
Flaubert, quelle contraddizioni si sono rappacificate fra loro; nel
suo fecondo sensualismo si sono annidate tutte, quasi fosse un
grande focolare che aveva luce e calore per ognuna di esse ; e
la sua fantasia le ha accolte compiacente, le ha guardate tutte con
amore e le lia fatte sue ad una ad una senza lotta e senza dolore.
Ma nel Flaubert era, ed è sempre, ciò che manca all'età nostra ;
una forza nascosta che domina nel contrasto e nella lotta, uno
scopo forse quasi inscientemente vivo nella sua fantasia, ma co-
stantemente presente. Esso é il segreto del vigore e dell'armonia
nelle sue opere; e forse ci spiega perchè il vigore e l'armonia
non sieno in questo tempo quanto sono nella sua individualità,
che pure é opera dell'età nostra.
11 Flaubert trae bensì tutto dalla vita dei sensi e ci descrive
dal vero ciò che prova ; ma quella sua fantasia sensuale non erra
senza guida nel torbido agitarsi delle sensazioni ; non é il piacere
di dire senza scopo ciò che esso hanno provato, che eccita la sua
fantasia, è il piacere di farci vedere che lo svolgersi di quelle
sensazioni ha per risultato un' opera d'arte ; e dentro a quelle
fibre vi è un ideale artistico sempre vivo, che domina sopra ogni
lotta ed ogni contrasto, e questo ideale é il segreto del vigore
e dell'armonia nelle opere di Flaubert.
È un segreto vecchio come il mondo, é il segreto d'ogni bel-
lezza, è il segreto d'ogni sforzo potente per farci migliori, ed è,
dovunque si compia, checché ne dica il realismo, un'opera bella;
perchè un' opera bella non si fa senza un desiderio di crearla a
quel modo, e l'aspirazione a far meglio è e sarà sempre un'aspi-
razione ideale. E anche se a taluno riescisse d'effettuare insciente-
mente un'opera grande, vi sarebbe pur sempre un momento, quello
318 GUSTATO FLAUBERT.
in cui l'autore contempla il proprio lavoro compiuto, in cui l'evi-
denza della bellezza di esso lo porterebbe a contatto col concetto
ideale. E l'amore della verità nel realismo è anch' esso un' aspi-
razione, un fatto ideale, qualsiasi il fine che si vuol conseguire;
e la fede nei propri sensi, ai quali soli i realisti affidano la
ricerca della verità, è una fede anch'essa, una fede che è parte
della stessa aspirazione intellettuale ; e comunque l'umanità si
tormenti e si affanni, troverà in ogni nuovo tormento e in ogni
nuovo affanno un nuovo ideale, e finché progredirà j^er le vie
dell'intelletto sarà spinta e animata da esso. Non è la tendenza
stessa del volersene liberare un fatto ideale?
Ma il Flaubert non lotta né contro l'ideale vecchio né in
favore del nuovo. Mentre cercava la verità, la prese laddove si
manifestava con maggiore chiarezza, dove la trovò più bella; la
prese in sé stesso; e forse a questo modo è stato più realista di
quello non lo sieno generalmente i realisti più ortodossi, perché
ebbe maggior fede in ciò che sentiva dentro di sé che in quello
che vedeva soltanto fuori di sé, e indovinò, forse meglio di tant'altri,
quel punto tra noi e il vero, in cui questo si vede più compiuta-
mente.
Emma.
IL DOMINIO DEL CANADA.
APPUNTI DI TIAGGIO.
VII.
Quasi nello stesso punto in cui m'imbarcava a Pictou per l'isola
del Principe Edoardo, salpava a quella direzione anche un bat-
tello a vapore con qualche centinaio di Scozzesi, i quali si eran
dato convegno colà per celebrare una loro festa annuale: « Annual
Highlancl Gathermg» dicevano gli avvisi. 11 comitato promotore
è un club Caledonia che ha lo scopo di mantenere le tradizioni na-
zionali, e il carattere della festa è quello di una gita di piacere
con corse a piedi, ballo ed altro. Siffatte partite sono colà in gran
voga e tutto basta per offrirne pretesto ; talvolta si fanno solo in
famiglia, tal'altra in larga compagnia, spesso anche dietro l'ini-
ziativa di qualche speculatore ; nel basso Canada le tante isole del
S. Lorenzo ne sono il preferito teatro.
L'isola del Principe Edoardo nell'inverno può comunicare senza
navigazione colla Nova Scozia, grazie ad una immensa via di solido
ghiaccio che si forma da Capo Traversa a Capo Tormentine i due
punti dell'isola e del continente, posti in comunicazione dal tele-
grafo sottomarino : nondimeno la mia traversata, mi ricondusse
invece col pensiero alle zone tropicali, tale era in quel giorno la
sferza del sole, e tanta l'oppressura del caldo. Mentre ci avvicina-
vamo all'isola ho notato come una strana singolarità che il sotto
suolo ha un colore rossiccio, pel quale le alte spiaggie si vede-
vano spiccare con lunghe strisce rosee sopra il ceruleo dell'onde
e sotto il verde pallidissimo dei prati. Geologicamente questo fe-
nomeno è spiegato colla presenza in quelle sabbie del perossido
320 IL DO.MINIO DEL CANADA.
di ferro che il mare nelle sue invasioni toglie alle roccie e poi
deposita nei momenti di calma. Se ne trovano anche altri esempi
nella Nova Scozia, specialmente nella baia di Fundy, dove intere
paludi, formate dall' alte maree hanno il loro fango tinto in ros-
siccio come altre lo hanno di un color giallognolo, a spiegazione
di che fu detto che il ferro esiste colà nello stato di solforato : in-
fatti esponendo al fuoco un po' di quel fango, ne esala un forte
odore solforoso e il color rosso ritorna. ^ I terreni di sedimento,
di color rosso, per quanto variino spesso in grado di bontà, sono
in generale eccellenti per l'agricoltura, e potrebbero vincere al
confronto i più celebri sedimenti alluvionali del vecchio e del
nuovo mondo. Quanto al terreno azzurrognolo, invece, accade che
il solforato di ferro, rimanendo esposto all'ossigeno dell'aria, diventa
solfato di ferro o vetriolo verde, sostanza fatale a molte colture.
L'isola del Pi-incijie Edoardo fu una delle ultime Provincie ad.
entrare nella Federazione del Canada. Fin dal 1" settembre 1864
si era tenuta a Charlottetown, sua capitale, una conferenza per
discutere sulla convenienza di congiungere insieme con vincolo
federale l'isola del Principe Edoardo, la Nova Scozia ed il Novo
Brunswick, ma si voleva evitare ogni legame col Canada, il cui
enorme debito pul)blico faceva disperare delle sue condizioni fi-
nanziarie, e che, per la propria importanza, non avrebbe po-
tuto a meno di esercitare una preponderanza allarmante sulle
Provincie sorelle. Invece il Canada offrì esso stesso il pro-
prio intervento col mezzo d' una deputazione inviata alla Con-
ferenza, la quale allora decise di continuare le sedute nell'ottobre
a Quebec, per discutere invece il piano più vasto dell'attuale Fe-
derazione ; ma quando questo fu concretato, l' isola del Principe
Edoardo pose per condizione del proprio assenso che si costruisse
a spese della Federazione una ferrovia la quale attraversasse l'isola
in tutta la sua maggior lunghezza; e la ferrovia fu di recente
costruita, ma non si può dire che serva molto né al traffico, né
ai passeggieri.
L' isola misura 5439 chilometri quadrati e la popolazione
conta 94,021 abitanti, la cui maggioranza è d'origine irlandese.
Come ogni altra Provincia della Federazione, essa conserva il suo
governo locale, ma molti degli abitanti di Carlottetown rimpian-
gono sempre i tempi in cui vantavano per ospite un governatore
coloniale, nominato direttamente dalla regina, il quale soleva
1 Dawson, Accadian Geology., London 1868, Macmillan, pag. 24.
IL DOMINIO DEL CANADA, 321
circondarsi di quel fasto che non è permesso al vice-governatore
attuale. La vita politica è però sempre agitatissima, e nella sola
capitale dell'isola si pubblicano sei giornali settimanali assai bat-
taglieri. Il palazzo per le camere legislative è un grandioso edi-
fizio di tre piani : una torre quadrata spicca nel centro come
avancorpo, le finestre son lungbe e strette, e sopra ogni coppia
abbinata s' incurva un sol arco ; il tetto ha ampi abbaini ed è
sormontato da eleganti cancellate ; la facciata trae da una pietra
arenaria un bel color rosso vivo la cui monotonia è rotta dal tufo
delle modanature delle finestre. La cattedrale cattolica è forse
ancora più imponente ; è un rozzo tentativo di stile gotico a cui
fa contrasto l'elegante palazzo del vescovo che le sta di fronte. Quel
monsignore, con cui avevo viaggiato da Pictou, mi disse eh era
stato in Italia pel concilio, ma non aveva tanta pienezza d' ire
contro i nostri empi attentati da sfogarsene subito con me, come
molti preti che avevo incontrato sul Saguenay ed in ferrovia fra
Cacouna e Rimoski. Egli mi mostrò un altro libro di preghiere
per gl'Indiani stampato a Vienna in lingua Micmack, con carat-
teri speciali e fantastici, a cui si ricorse invece che agli alfabeti
europei per cercare che quelli fra loro che imparano a leggere
e scrivere si tengano soltanto al vestibolo della nostra civiltà, ne
abbian in mano nessuna chiave di quelle nostre letterature, nelle
quali tanto loglio è commisto al grano. Sempre eguale a sé stesso
l'esclusivismo clericale !
L'albergo a cui discesi, che era la perla frai molti di Carlotte-
town, aveva anche una perla di direttrice, di molto talento musi-
cale, elegantissima, e che tuttavia disimpegnava le sue incom-
benze con zelo, sollecitudine e naturalezza. Dopo ch'ebbi scritto
il mio nome sul registro, un signore che per caso erami a fianco
mi disse in mediocre italiano eh' era lieto di vedere in me un
compatriotta, giacché egli era nato in Italia. Sua madre era
di Siena, e sposatasi ad un inglese, l'aveva amorosamente se-
guito in tutti i suoi pellegrin figgi; ma finché visse coltivò
nei figliuoli la conoscenza della nostra dolce favella. Simile
è il caso di molti degli emigrati italiani al Canada : vi fu-
rono portati da condizioni di famiglia piìi che dal proprio
determinato volere : non mancano per altro gl'insegnanti di
musica, i marmisti, i figurinai, ed altri mestieranti. '
' Il censo del 1810 per sei Provincie dà la cifra di 1035 abitanti, di naziona-
lità Italiana, ma di essi 416 soltanto figurano come nati veramente in Italia. Sui 1035
ben 414 abitavano le città; in nessun distretto di campagna ve n'ha più di 35.
322 IL DOMINIO DEL CANADA.
Nell'isola non si sente il bisogno di fare speciale appello al-
l'emigrazione. I proprietari sanno far fruttare a dovere i loro cento
0 duecento acri, e le loro case sono ammobigliate e provvedute
meglio di quelle di qualsiasi nostro benestante, né solo è assai
diffusa l'agiatezza, ma proprio può dirsi che non vi sia miseria.
Nel gennaio del 1876 si fece a Charlottetown una questua per i
poveri che fruttò cento dollari : al momento della mia visita, cioè
già sette mesi dopo, ne rimanevano ancora trenta da erogare perchè
non si sapeva trovare chi ne avesse bisogno.
Dormii la notte a bordo del vapore che doveva ricondurmi
a Pictou e la mattina, mentre già avevamo salpato, mi svegliò
<•< col domestico suon la cornamusa » e precisamente il suono e la
musica di quella cornamusa con cui gli Abbruzzesi girano le nostre
città confusi sotto il nome di pifferari. Dapprima provai un senti-
mento di dispetto contro 1' importunità di questi semi-mendicanti
per cui non v'è orecchio sacro né terra abbastanza lontana ; tuttavia
cedendo ad una debolezza patriottica, mi vestii in fretta e corsi
per vederli ; ma uscito che fui di cabina notai con sorpresa che
il suonatore aveva la fisonomia tipicamente nordica, che il ventre
del suo strumento era ricoperto di lana di un disegno scozzese
e che dal portafiato e dalle canne ben affusolate pendevano nastri
anch'essi a mille riquadri a colore. Nel salone v' era una gran
folla di persone venute a bordo nella notte, molto probabilmente
gli attardati dell' « Annual Highland Gathering. » Quando il suo-
natore di cornamusa ci die pace, subentrarono i violini, e la danza
si fé cosi generale come lo spazio consentiva. Era bello ve-
dere la gravità del primo violino che mentre suonava doveva
anche comandare le quadriglie, e nei lancieri, ad ogni nuova cop-
pia che doveva uscire, ne gridava il numero con un' intonazione
militare, la quale stuonava stranamente colla gaiezza delle danze
e della stessa sua musica.
Vili.
Come lo fa pensare il nome, nella Provincia della Nova Scozia
gli abitanti d'origine scozzese formano la maggioranza della po-
polazione. ' Nel 1625 Ee Carlo I fondò l'ordine dei baroni della
* Secondo il censo del 1870, la Nova Scozia su una popolazione totale di
387,800 abitanti conta 130,741 Scozzesi, 113,5-20 Inglesi, G2,851 Irlandesi, 32,853 Fran-
cesi, 31,942 Tedesciii, 6,212 Africani, 2,868 Olandesi, 1,665 Selvassi, 1,775 Svizzeri
283 Scandinavi e 152 Italiani. — Per rapporto alla religione la popolazione si di-
IL DOMINIO DEL CANADA. 323
Nova Scozia a cui diede 18 miglia quadrate di terra per ciascuno,
e nel 1827 Kiclielieu concedeva la stessa contrada alla compagnia
dei cento associati ; i Francesi la colonizzarono prima che gli scoz-
zesi; se non che, dopo molte varie vicende di guerra tra Francia
ed Inghilterra per la difesa o rivendicazione di quel possesso, ac-
cadde finalmente nel 1755 quella dispersione della popolazione fran-
cese che è fra le più brutte pagine della storia inglese e che
Longfallow ha tanto poeticamente cantato nella sua Evangelina,
Da qualche tempo l'Inghilterra aveva già ridotta in suo potere
r Acadia, ma invano richiese il giuramento di fedeltà ai coloni
d'origine francese; essi che colla singoiar loro industria avevano
sparso in breve tempo di floridi villaggi le selvaggie terre del
bacino di Minas offrirono d'essere considerati come neutrali nella
trepidanza di potere essere chiamati a combattere contro la madre-
patria. Parve di dubbia fede la domanda e nei reali consigli fu
reputato opportuno di sequestrarne i beni e di tradurli fino al-
l'ultimo uomo sul suolo della Nova Inghilterra. Essi in tutto
contavano appena 7000 anime, ma si trovò prudente di tener se-
greta la decisione, e di coglierli alla sprovvista. Donne, vecchi,
fanciulli furono imbarcati a viva forza del pari che i vigorosi
sostegni della famiglia, né sempre furono rispettati i sacri vincoli
dell'affetto: le mogli ebbero diversa destinazione che i mariti, i
figli diversa che i genitori ; sicché abbandonati su terre a loro
sconosciute, in mezzo a gente di costume e di lingua straniera,
senza mezzi, coli' animo affranto dall'orrenda sciagura, finirono
per la maggior parte col vendersi in schiavitù. Soltanto molto più
tardi, alcuni riuscivano a ripatriare e tornarono a crearsi una pro-
prietà laddove tutto il loro era stato distrutto o confiscato.
Fu a Capo Bréton, isola le cui sorti sono ora legate alla
Nova Scozia^ che io trovai il primo nucleo d'Acadiani francesi,
10,000 circa in una popolazione di 50,000. Da Pictou con un bat-
tello a vapore passai lo stretto di Causo, che i naviganti chia-
mano porta d'oro dell'Atlantico, poetico nome che pure non può
dare se non una pallida idea della poetica natura di quei luoghi.
Dalla baia di S. Griorgio colle sue cento barche peschereccie ai
dolci pendii che coronan le rive dello stretto, é tutto un incanto
di placide marine, di azzurre coste sparse di isolati casolari
circondati dai sempreverdi, o di piccoli approdi con bittjJJi
vide in 103,539 Presbiteriani, 10^,001 Cattolici, 73,430 Battisti, 55,124 delia Chiesa
d'Inghilterra, 40,886 Metodisti. 30,120 abitanti appartengono ad altre diverse cre-
denze e fra essi son da notare 15 Marinoni.
324 IL DOMINIO DEL CANADA.
e reti stese al sole. — Port Hawksbury si vede in fondo ad un
piccolo bacino, dentro lo stretto, il quale è corso da sei ore in
sei ore da due opposte correnti che hanno la velocità di 12 nodi
all'ora. Il villaggio non conta più di un migliaio di abitanti
ed è già uno dei più importanti dell'isola; Arichat, la città
principale, ne conta 6000. A Port Hawksbury del pari che a
Sidney vi sono importanti miniere di carbone, ma gli operai
al momento della mia visita erano in isciopero. A Sidney eran
seguiti dei disordini e un certo numero di operai che s'eran ac-
comodati colle compagnie proprietarie delle mine dovettero di-
fendersi dagli assalti degli altri. A Port Hawksbury poi, gli
scioperanti s'eran rifiutati d'abbandonare, come ne avevan rice-
vuto intimazione, le case di proprietà della compagnia che essi te-
nevanin affitto, e alla notizia di arrivi di truppe le disertarono sì, ma
per demolirle la notte. I salari eran di oltre cinque lire al giorno
le due compagnie s'erano impegnate ad aumentarli per quest'anno,
ma poi mancarono alla promessa pretestando la crisi commerciale
ed industriale degli Stati Uniti. Degli Acadiani francesi, tutti mi
dissero che l'infelice razza non s'è potuta ancora sollevare dal-
l'abbattimento in cui l'ha gettata l'antica dispersione. Essi hanno
perduto del pari ogni fiducia in sé stessi ed ogni franchezza verso
gli altri. Poche sono le famiglie d' Acadiani dove non si viva in
continuo sospetto d'ogni estraneo, e dove non regni una certa
diffidenza anche nella cerchia dei vincoli dèi sangue: sono entrati
nel triste convincimento d'esser una razza inferiore e credono che
per loro oggimai non vi sia miglior avvenire dell' anglizzarsi;
quindi hanno già incominciato dal bandire la lingua ed ogni inti-
mità di rapporti nazionali.
Posto di nuovo il piede sulla penisola mi fermai al villaggio di
Stellarton per visitarvi le miniere di carbone della società Alhion
Mincs. Il pozzo da cui discesi (ve ne sono parecchi) ha la pro-
fondità di 400 metri che percorsi con un ascensore idraulico, ap-
pollaiato in una piccola cassa senza poter sedere né rizzarmi in piedi.
Le gallerie si stendono alte ed ampie in molte direzioni; gli strati
di carbone, di uno spessore considerevole, si prolungano per pa-
recchie miglia. I rinforzi alle gallerie sono fatti con numerosi
e robustissimi tronchi d' albero, i quali, dacché il legname co-
minciò a farsi caro, costano 1 fr. 25 l'uno alla compagnia. Ogni gal-
leria ha parecchie porte per impedire la fuga dell'aria, che viene
introdotta da appositi congegni. Il carbone viene trasportato in
carri tirati da cavalli su rotaie di ferro ; la sua gravità specifica è
IL DOMINIO DEL CANADA. 325
di 1.318 e una libbra di carbone può convertire in vapore sette
libbre e mezzo d'acqua. Non mi sarei mai stancato di veder la-
vorare i picconieri; a mano a mano die il loro colpo vigoroso
si ripete e s' approfonda, gli strati di carbone crepitano come
se prendessero fuoco, e par sempre che possa svilupparsi un in-
cendio. I minatori son complessivamente oltre 200 e son pagati
ad opera, ma la media del loro salario può calcolarsi di lire 6
al giorno: vi son anche circa 80 ragazzi col soldo di lire 3 al
giorno, e il loro ufficio è di condurre i cavalli per le grandi
gallerie, e spingere i carri per brevi traverse di connessione
fra una galleria e l'altra. Era importantissima l'esportazione di
carbone che la società Albion Mines faceva in addietro per gli
Stati Uniti, ma nel 1865 questi hanno denunziato il trattato di
commercio che avevano colle diverse Provincie del Canada pre-
tendendo di vendicarsi così delle simpatie addimostrate agli Stati
ribelli del Sud. Forse lo stesso commercio americano ha più sof-
ferto di questa inconsulta ed appassionata misura, a diminuire
il cui rigore, già molti espedienti furono addottati d'accordo dal
governo di Washington e da quello del Dominio del Canada.
Da Stellarton ad Halifax, la ferrovia, dopo aver attraversato
nuove foreste costeggia il lago di Bedford. La velocità con cui si
correva era la massima, cioè circa 60 chilometri l'ora; ed io sulla
piattaforma dell'ultima carrozza, mentre ad ogni nuova scossa ci
sparivan dinanzi lunghi tratti di binario, girava lo sguardo ra-
pito da quello specchio d'acque argentine, intorno e dentro al
quale la nostra strada serpeggiava, sulle colline e sulle isole che
ci lasciavamo a manca e sull'alternarsi a dritta dei poggi colla
piana vezzura, e dell'orrido dei nudi macigni colle ville eleganti.
Intanto il crepuscolo andava stendendo dovunque le sue ombre;
qualche barca faceva forza di rem.i per toccar terra e la luna
sorgeva con un disco gigantesco, infuocato dai riflessi del tramonto,
disegnando sulle acque un largo nastro dorato. Pochi minuti dopo
eravamo ad Halifax.
Passai nella graziosa città i due giorni successivi. Essa è la
capitale della Nova Scozia, e come tale, sede del governo locale,
che, al solito, è composto di due Camere e d'un potere esecutivo
concentrato in un ufficiale della regina, il quale in suo nome
esercita il diritto di i^eto. Variano del resto da quelle della Pro-
vincia di Quebec, le leggi elettorali del parlamento locale ; le
quali valgono pure a regolare le elezioni dei membri del Par-
lamento federale. È elettore ogni cittadino di 21 anno, che
VuL. XIV, Serie II — 15 Marzo 1819. 20
326 IL DOMINIO DEL CANADA.
abbia un valore censito in immobili, di 150 dollari, o in mobili
di 400.
La città di Halifax è principalmente popolata da oriundi
irlandesi che non sono né i piìi costumati né i più puliti fra i
cittadini. ^
La questione che più divide gli animi é quella delle scuole,
a cagione dell'intolleranza religiosa che domina i membri di tutte
■ le confessioni, e che viene principalmente spiegata coU'ardore del
proselitismo. Poco prima del mio arrivo una giovane di famiglia
presbiteriana, fatta educare in un convento cattolico dalla fami-
glia, perchè tenuissima la spesa, fini col convertirsi, e i suoi ge-
nitori quando rientrò presso di loro, la trattarono sì duramente
che ella ne moriva di crepacuore; al letto di morte essi perfino le
impedirono a forza di ricevere altri conforti religiosi che quelli
del ministro presbiteriano.
Anche la Nova Scozia é Provincia assai prosperosa, ma molto
spera dall'emigrazione europea.
Un'immigrazione notevole è quella di alcuni Islandesi i quali
si sono stabiliti all'est di Halifax. Questi discendenti da una razza
di guerrieri hanno vissuto per parecchi secoli isolati dall' altre
nazioni e come rinserrati entro i loro confini di ghiaccio. Ho detto
isolati ma la corrente del golfo Stream li aveva messi in co-
municazione coll'America prima ancora della sua scoperta por-
tando in copia a quelle coste legnami che avevan disceso i fiumi
dell'ignorato continente, e che essi consideravano come un dono della
provvidenza la quale si pentisse dell'ironia di così rigorosi freddi
all'ombra del più irrequieto vulcano. Orgogliosi delle glorie dei loro
padri, rassegnati all'ingratitudine del loro suolo, vivevano di pesca
e dei pochi pascoli, ben lontani da ogni pensiero di emigrazione;
ora impararono d'un tratto a conoscere un'altra più benigna na-
tura ed a fruirne i doni; possano essere fra suoi più fortunati
figli adottivi.
L'emigrazione è anche promossa sotto una forma nuova e
singolare da Mistress Birt, una signora, la quale, fino dal 1873,
dietro invito del sig. Laurie di Oakwille, colonnello nell' armata
inglese e aiutante generale nella Provincia della Nova Scozia, in-
1 Essi ascendono a 11,665; dopo loro vengono gl'Inglesi in numero di QtìG
quindi gli Scozzesi, i Tedeschi, gli Africani ed i Francesi; gl'Italiani sono 42 II
maggior numero di seguaci è vantato dalla confessione cattolica (1-2,431) e per
ordine si schierano successivamente la chiesa Anglicana, la Battista, la Presbiteriana
e la Metodista.
IL DOMINIO DEL CANADA. 327
viava dall'Inghilterra un buon numero di fanciulli quivi raccolti
coll'assenso dei genitori, tenuti pochi giorni in una scuola speciale,
eppoi fatti emigrare per essere confidati ai vari proprietari della
Provincia. Al marzo 1876 il numero di codesti fanciulli emigrati
nel corso dei tre anni precedenti, superava i trecento. Prima
dell'arrivo dei vapori che li trasportano è fatto appello a coloro
che intendono di prenderne al servizio qualcuno, di farne la domanda
in scritto su un modulo nel quale il parroco od il ministro della
parrocchia deve dare poi le informazioni sul carattere del ri-
chiedente ; informazioni che il colonnello Laurie pretende di essere
in grado, per le sue estese relazioni nella Provincia, di poter con-
frontare anche con quelle di altre persone. È egli che destina dove il
fanciullo debba essere collocato, dietro le necessarie considera-
zioni sul temperamento, sulla costituzione, od altro, in rapporto
agli uffici a cui lo si vuol destinato. 11 richiedente può non ac-
cettarlo, ma non mai fare un'altra scelta. È pur necessario il con-
senso del fanciullo, ed entrambi devono sottoscrivere un secondo
modulo in presenza di un giudice di pace, obbligandosi ad os-
servare gli accordi ivi descritti. Il ministro che ha date le infor-
mazioni sul richiedente ha poi l'ufficio di esercitare una certa
tutela a favore del fanciullo facendone un rapporto trimestrale.
Il fanciullo sa che deve ricorrere al ministro come ad un amico
e in ogni caso scrivere o far scrivere al colonnello Laurie del
modo con cui viene trattato; e il colonnello, se riceve qualche
lagnanza, scrive o al ministro o a qualche altra persona auto-
revole del distretto, con preghiera di appurare le cose, e se si tratta
di leggiere difficoltà, di tentar d'appianarle ; se invece sono dif-
ficoltà gravi, egli stesso pensa ad impiegar altrove il fanciullo.
Finora 42 fanciulli furono ritirati, e di essi 24 per cattivo trat-
tamento, dovuto però piìi a manco di tatto che a vera crudeltà ;
18 per rapporti sulla stessa loro mala condotta. Io non so se non
fosse ora da promuovere nelle provinole napoletane una simile
emigrazione di fanciulli per i paesi dove vi sono colonie italiane,
piuttosto che lasciarli vendere ad impresari che esercitano poi su
di loro ogni sorta di tirannie e di sevizie.
In Halifax, e in generale nella Nova Scozia, le opere sono
piuttosto alte : sei lire guadagna giornalmente sia il muratore,
sia il colono, dieci un falegname, fino a venti il carpentiere. ^
* Il totale degli operai impiegati nel 1810 nelle varie fattorie industriali della
nova Scozia fu di 15,595 (25,000 abitanti), e la media del ioro annuo salario fu di
dollari 203.67 cioè oltre mille lire.
328 IL DOMINIO DEL CANADA.
La penisola trae le sue maggiori risorse dalle foreste, dalla pesca,
dal commercio e dalle miniere; di miniere oltre quelle di car-
bone, ve n'ha parecchie d'oro e d'altri metalli. Nel marzo del 1860
un uomo, fermatosi a bere ad una sorgente, trovò un pezzo d'oro
che risplendeva fra i ciottoli del torrente sottostante. Lo rac-
colse, ne cercò ancora, e potè trovarne dell'altro. Quello era il
. Tangier Eiver, che nasce non molto lontano dalle origini del
Musquodoboit; scorre attraverso una catena di laghi, bagnando
per parecchie miglia una terra rocciosa e selvaggia, e poi si getta
nell'Atlantico circa 70 chilometri all'est di Halifax. Quella sco-
perta venne presto seguita da altre a Musquodoboit, Laurencetown,
Lunenbourg e Vine Harbour. Le miniere d'oro della Nova Scozia
non sono certo rimunerative come quelle della California, ma
tuttavia il distretto di Waverley ha dato qualche cosa di più che
un'oncia d'oro per tonnellata di quarzo, e 895 dollari all'anno
per ogni minatore.
Lasciato Halifax, mi diressi ad Annapolis, attraverso il poe-
tico paese di Evangelina. Il treno fa sosta ad una stazione chia-
mata Gran Pré, ma
Naught biit tradition remains of the beautiful villane,
eppure prima della dispersione, v'erano là le agiate case come
vi sono ancora i floridi campi, come vi sono le traccio delle dighe
innalzate dagli industri Acadiani, i quali potevano si por freno
all'ira del mare, non già all'odio degli uomini. Seguii a lungo
cogli occhi le rive del bacino di Minas, dove
away to the northward
Blomidou rose aud the forests old ;
poi giunto ad Annapoli, rimasi a contemplare per poco quella baia
di Fundy, le cui maree, le più alte del mondo, hanno resa tanto
celebre. A mano a mano che le coste del Novo Brunswick e
della Nova Scozia si fanno l'una all'altra più vicine, per riu-
nirsi poi colla terra di Cumberland, appiedi dei Monti Cobequid,
la marea si fa così violenta e così grossa, sino a raggiungere la
velocità di sette miglia all'ora, e l'altezza di 20 metri.
■ IX.
Traversai la baia di Fundy a bordo del battello a vapore VEm-
press, e mentre conversavo con alcuni passeggieri, notai, non senza
qualche inquietudine, che l'aria, nella direzione di jsrora si faceva
IL DOMINIO DEL CANADA. 329
assai fosca, e come un immenso cono rovesciato discendeva dal
cielo sul mare : si sarebbe detto che fosse una tromba marina.
Presto però corse la voce che era invece un incendio sulle coste
del Novo Brunswick, e questa parve più plausibile spiegazione
di quel nero lembo isolato in mezzo al sereno del cielo, e di
quell'aspetto truce del sole che traspariva a stento senza raggi
e senza luce, tra il fumo, come un disco di ferro infuocato
che va rafireddandosi tra il fosco aere della bottega di un fabbro
ferraio. Un odore di legname in combustione giungeva sino a noi,
e il mare, che prima per breve tratto sotto il bacio del sole aveva
alcune onde splendenti come l'oro piìi fulgido, s'agitava allora
irrequieto, mescolando ad un cupo verdastro riflessi cremisini.
L'incendio era un po'sulla sinistra della nostra rotta, e fu detto
anzi nella direzione del torrente Musquash. Il vento portava il
fumo sempre più a sinistra: a destra pallide nubi dal bianco profilo
si alzavano dietro le colline della costa a cui ci dirigevamo raf-
figurando gigantesche montagne di neve colle vette irregolari, colle
anguste gole, cogli scoscesi contrafforti : poi al nostro avanzarci
quelle nubi si dissiparono, e dinanzi a noi, in una stessa penombra,,
come una magica apparizione, vedemmo gli edifizi di S. John tor-
reggiare sopra il meraviglioso bacino del suo porto. Chi mi avrebbe
detto allora che in breve quella città dovesse in gran parte rimaner
preda di un altro ben più terribile incendio?
Due giorni dopo risalivo il fiume S. John sopra il battello
a vapore The City of Federicton, e al momento dell'imbarcarci
temeva, al pari degli altri passeggieri, che il fumo deirincendio,
di cui l'aria era sempre ingombra, ci guastasse la gita: ma nelle
mille tortuosità del cammino, il vento lo allontanava spesso da
noi, e allora erano continue esclamazioni di sorpresa e di ammi-
razione. Le bellezze del S. John, specialmente perchè varie assai,
sono fuori di ogni dubbio superiori a quelle del Saguenay, che hanno
pur tanta maggiore rinomanza. Nessuna descrizione può dare
un'idea di quell'improvviso allargarsi, restringersi e avvolgersi del
fiume, che circonda vaghe isole dalla rigogliosa vegetazione, s'in-
terna a bagnare sponde animate frequentemente da casuccie e
chiesuole, o scherza fra alti banchi di grigie sabbie, rotte appena da
gruppi d'alberi d'un cupissimo verde.
Fredericton conta appena 8000 anime, ed è città di poco in-
teresse quantunque capitale del Novo Brunswick; il governo
locale si ostina a mantenerle quella dignità, nella speranza che
1 esser essa centro politico, la conduca ad incremento e prospe-
330 IL DOMINIO DEL CANADA.
rità ; ma forse con questo sforzare il corso naturale delle cose,
non trionfa l'arte, e rimane combattuta la natura. Anche qui le
leggi sul diritto dell'elettore sancirono limiti di censo diversi
dalle altre Provincie, ^ e per giunta vi è la novità del voto se-
greto. Di fronte a Fredericton vi sono le foci del fiume Nashvaak,
e due miglia al disopra visitai le vaste segherie di legname del
signor Alessandro Gibson. Quest'uomo di veramente straordinaria
iniziativa ha fondato tutto un piccolo villaggio chiamato Marys-
ville, dove non so se ammirai più le macchine, la superba e ric-
chissima chiesa o le umili ma pulite case degli operai. Queste eran
tutte costrutte sullo stesso disegno; così identiche auzi che non
so se non debba talora accadere agli abitanti di sbagliarle l'una
coll'altra. Il signor Gibson deve tutto al proprio lavoro, e Marys-
ville deve tutto a lui. Quanto bene non può fare un uomo che
dedichi l'ingegno e l'energia in servigio dei proprii simili, ed
anche avvantaggiando sé stesso, migliori l'altrui condizione ma-
teriale e morale !
Da Fredericton a Woodstock vi è una ferrovia a binario ri-
dotto e di legno; è costruzione immensamente economica.
Di ritorno a Saint John, ebbi una conversazione con quel-
l'agente governativo di emigrazione. Egli mi assicurò che l'emi-
grazione dall'Europa, la quale nel 1875 era stata di molto inferiore
ai due anni precedenti, poteva dirsi di nuovo in aumento, e che
un gran numero di antichi coloni del Novo Bruns^vick. i quali
s'erano stabiliti negli Stati Uniti, venivano ora indotti a rimpa-
triare dalla crisi industriale e commerciale di quella Eepubblica ;
tuttavia non seppe dirmi quanta potesse reputarsi l'importanza
di questo movimento, giacché le strade che prendono i reduci
sono varie, e ve n'ha che scelgono i vapori della linea internazio-
nale che fa il servizio tra Boston e S. John; altri che si valgono
della ferrovia, e finalmente molti che traversano a piedi la fron-
tiera dello Stato del Maine, stabilendosi nella parte superiore
della contea di S. John. Per altro, siccome nei tre ultimi anni,
solo per l'emigrazione europea la popolazione rurale fu accre-
sciuta di 250 giornalieri agricoli, il bisogno di braccia è molto
diminuito. Quanto agli emigranti coltivatori, la Provincia ha desti-
nato per ogni nazionalità colonie diverse, e i contingenti princi-
pali son dati dagli Inglesi e dagli Scozzesi, dopo i quali vengono
' Il voto è accordato a chi nell'età di 21 anno posseda un' annua rendita di
100 dollari, se proveniente da proprietà fondiaria, di 400 se provenga da proprietà
mobiliare.
IL DOMINIO DEL CANADA. 331
i Danesi e gli Svedesi ; sempre però i maschi superano d'un terzo
circa le femmine. Se gli emigranti recano seco loro un piccolo
capitale^ hanno molta probabilità di riescire. ^
Una delle mie belle gite nei dintorni di S. John fu al luogo
One Mile House, dove trovasi una fonderia di ferro. Il fabbricato
non è molto appariscente, ma son grandiose le macchine, e attivo
il lavoro. Si fonde il ferro vecchio che si acquista per tre cente-
simi la libbra e si vende a dodici. Il carbone costava allora tre
dollari e mezzo la tonnellata di 1000 libbre, posto alla fabbrica.
X.
Il 17 agosto ero di nuovo nella Provincia di Quebec, a Mon-
treal, '^ la più importante città di tutto il Dominio. Molti sono
i fabbricati d'imponenti dimensioni, e i loro marmi si trovan
talora disposti anche con buone linee architettoniche. La catte-
drale cattolica, Notre Dame, va superba della sua vastità e d'una
campana di dimensioni fenomenali, ma l'interno, pareti, terrazze,
pilastri, tutto è di legno, e non v'ha un sol dipinto che meriti
d'esser considerato. Bello è l'edifizio appartenente alla Young's men
Association, società formata dalle sètte dissidenti dell' ansrli-
canismo, per la discussione di problemi di religione e di morale, e
per la diffusione delle bibbie, le quali, grazie a loro, si trovano
dappertutto, perfino nei carri ferroviari, entro appositi eleganti
scaffali su cui è scritto: «Leggete e rimettete al posto. » Anche
il palazzo dei tribunali è davvero cospicuo colle sue colonne ioni-
che e le sue grandiose dimensioni. Il cimitero protestante, a Mon-
treal come ad Halifax ed a S. John, ha i suoi monumenti sparsi
per la collina e invece che all'ombra dei cipressi, sotto gli ontani,
gli aceri ed i pini. Poco lungi dall'ingresso v'è una camera mor-
tuaria, che quei nativi francesi chiamano col nome volgare di
' I 318,000 abitatiti della Nuova Scozia appartengono a 6184 famiglie. Gli oc-
cupanti di terre sono 46,6l6 e 43,820 figurano come proprietari, 2314 come af-
fittuari, appena \12 come impiegati. Le terre occupate comprendono acri 5,031,217
sopra nna superfìcie totale di 13,382.003. Le terre sottoposte a lavoro comprendono
acri 1,6;1,071 ; quelle a coltura 190,155, quelle a prato 823,322, quelle ad orto 13,614.
Sono 4428 le proprietà superiori ai 200 acri, 10,401 le inferiori ai 200 e superiori
ai 104; 1 (,138 le altre non minori di 50; 11,401 non minori di 10; 1148 di 10 o
anche meno.
- La popolazione era nel 1811 di 101,225 abitanti, di cui 56,856 di origine fran-
cese, 48,156 di origine inglese, 191 italiani. — 11,980 son cattolici.
332 IL DOMINIO DEL CANADA.
charnière, dove vengono tenuti i morti nell'inverno, quando la neve
è tanto alta da render impossibile il dar loro sepoltura.
Nei giorni in cui rimasi a Montreal si tenne un meeting impor-
tante a proposito della ripartizione e dell'entità delle tasse comu-
nali, e io ne presi occasione d'informarmi un po'meglio sul bilancio
della città. Coll'aprile del 1876 si è fatto un nuovo regolamento,
col quale, sono decretate anzitutto due tasse generali ; 1. Una tassa
annuale di un per cento sul capitale di ogni proprietà immobiliare,
rustica od urbana, inclusa nel territorio del municipio; 2. Una tassa
annuale, detta tassa d'affari del sette e mezzo per cento sul valore
annualmente determinato dei luoghi occupati per le loro industrie
o professioni da commercianti, industriali, impresari, società fer-
roviarie ed assicuratrici, artisti, avvocati, medici ed ingegneri.
Vengono appresso molte tasse annuali speciali pei vari istituti
che fanno affari nella città, e cioè, per le banche: dollari 400 se
il capitale versato è di un milione, 500 se è di due, 600 se
è maggiore; per le compagnie di assicurazioni : 400 dollari se
assicurano dal fuoco, 200 se assicurano la vita od altro; perle
compagnie ferroviarie: 12,000 dollari; perle compagnie del gas :
5,000 dollari. Gli albergatori devon pagare la licenza dai 27 ai
175 dollari; coloro che vendono per asta pubblica dai 160 ai 200;
200 chi presta su pegno e 50 ogni sensale o commissionario. I
proprietari di distillerie di spiriti devon pagare 80 dollari all'anno
(e i proprietari di fabbrica di birra 60) per ogni 40 J dollari del
valore annualmente determinato dei luoghi ed aree che occupano
per la loro industria. Ogni teatro permanente è colpito d'una tassa
annua di 120 dollari; pei circoli equestri, i serragli e le esposi-
zioni si devono pagare fino a 250 dollari per ottenerne l'apertu-
ra, e fino a 100 per ogni giorno di rappresentazione, secondo
l'importanza che viene riconosciuta allo spettacolo: per le sale
di bigliardo, 100 dollari annui pel primo tavolo, 50 per il secondo,
20 per ogni altro. 1 carri e le vetture dei particolari pagano da 6 a
20 dollari, e i cavalli di lusso 6 dollari ciascuno; le vetture da
fitto invece son tassate da 3 a 4 dollari e i cavalli da lavoro 2 dol-
lari e mezzo. La tassa sui fycchini è di 8 dollari, e di 20 se si ser-
vono di carretto. Finalmente nel regohaiiento v'ha un articolo 22
che suona come appresso : « Le montant de la contribution per-
sonnelle payable chaque année par chaque personne sujette à
la corvée sur les grands chemins dans la dite ci té est par le
présent fixée à la somme d'une piastre ; et toute telle personne
palerà la dite somme d'une piastre chaque année, sans qu'il
IL DOMINIO DEL CANADA. 333
lui soit permis d'offrir son travail personnel sur les dits grauds
chemius au lieu d'icelle. » Molto probabilmente è una tassa che
colpisce un numero limitato di persone perchè nel bilancio del 1875
sono iscritti solo 184 dollari come suo provento. L'autorità comu-
nale è investita dalla legge del diritto di stabilire delle pena-
lità forti, come per esempio il carcere per due mesi, in caso di
contravvenzione ai regolamenti sulle tasse, ma poi è soggetta
alla repressione dei tribunali ordinari se si rendesse colpe-
vole d' infrazione al codice civile, o di abuso ed usurpazione di
potere.
L'esame del bilancio del 1875 è indispensabile per compren-
dere più facilmente l'importanza del sistema di tasse, e il modo
con cui è organizzato il servizio municipale ; comincerò dall'enu
merare le varie rendite.
Ogni anno è fatta una stima del valore della proprietà fondiaria
che si trova nella circoscrizione del municipio : nel 1875 il valore
totale fu stimato in dollari 92,915,175,00, ma in seguito ad esen-
zioni e correzioni fu ridotto a dollari 79,253,565,00, su cui dovevano
pagarsi dollari 751,000.00, ma in causa delle negligenze furono
riscossi soltanto dollari 556,791,06; quanto all' insieme delle tasse
personali fra cui è da comprendere anche la tassa per le scuole,
la cifra dei pagamenti fatti dai cittadini giunge a dollari 145,282.
Ponendo ora la parte attiva del bilancio sotto i suoi vari titoli,
avremo ;
Attivo. — Tassa sulla proprietà riscossa
nel 1875. ....... doli. 556,791 06
Tassa degli affari, tasse perso-
nali e tassa per le scuole . » 145,282 55
Arretrati di queste tasse del-
l'esercizio 1876 .... » 78,547 48
Diritto sull'acqua degli acque-
dotti pubblici » 328,748 38
Tasse e licenze » 56,431 —
Tasse sui mercati .... » 66,959 56
Multe inflitte dalla corte del
Recorder » 16.^59 22
Interessi e affari attivi . . » 69,302 52
Diverse » 5,779 39
Totale doli. 1,324,301 16
334 IL DOMINIO DEL CANADA.
Passivo. — Interessi ed ammortamento di
prestiti contratti in passato, doli. 652,192 35
Impiegati e spese d'Ammin. » 68,299 02
Concorso per l'educazione ele-
mentare » 130,405 20
Perle strade(opere 181,617 08)» 200,457 54
Servizio degli acquedotti
(molti lavori sono straor-
dinari) » 107,924 89
Servizio di polizia (salari alla
forza 100,491 55) ...» 124.17893
Servizio dei pompieri (salari
L. 537,621 33) » 55,945 07
Servizio di illuminazione . » 35,155 04
Servizio degli ospedali e di
vaccinazione » 29,670 02
Manutenzione dei mercati. » 24,036 34
Passeggiate pubbliche ed altri
lavori » 12,063 81
Corte del Recorder * (salari
L. 12,500) » 13,990 59
Spese diverse » 21,741 39
Totale doli. 1,476,06019
In Montreal hanno la loro sede quasi tutte le bancne della
provincia fli Quebec, che sono circa 20, con un capitale medio
di 3 milioni di dollari per ciascuna. Il dividendo annuo che pagano
s'aggira generalmente dal 6 all'S per cento, e fra questi medesimi
limiti varia l'interesse dei mutui ipotecari. Le casse di risparmio
postali che sono molto sparse per le campagne pagano un interesse
del quattro per cento. Indizio in parte della prosperità del com-
mercio interno della Confederazione, mi parve il fatto che i noli
dalla Nova Scozia a Montreal erano molto piìi cari che dall'In-
ghilterra, sicché conveniva piìi ritirare il carbone dall'Europa,
che dalle miniere di Pictou e di Sidney.
In tutte le città del Canada, e i protestanti e i cattolici
osservano la domenica col maggior rigore; nei negozi per lo piìi
' Anticamente in Inghilterra molti funzionapii municipali erano investiti di
attribuzioni giudiziali; la legge del 1835 le abolì, ma invece la regina può accor-
dare alle città, che per certe materie civili e criminali in cui la loro amministra-
zione è interessata, decida un giudice speciale che il governo elegge e che esse
pagano. Codesto giudice si chiama Recorder.
IL DOMINIO DEL CANADA. 335
le vetrine son lasciate esposte allo sguardo dei rari passeggieri,
ma l'interno è deserto e gli antiporti son cliiusi a chiave; quella
mostra silenziosa fa uno strano effetto in mezzo alle strade spopo-
late. Son chiuse tutte le hiblioteche, non corrono treni, né parton
vapori, e non v'è altro modo di passar il tempo se non in chiesa
0 nelle passeggiate. La domenica del 20 agosto io spinsi i miei
passi lungo il fiume sulla cui riva la città si stende per oltre
quattro chilometri, e dove pure son begli edifizi come il Bon
Secours Market, e il Castoni House, e belle piazze come quelle
su cui sorge la statua di Nelson. In questo monumento la colonna
e il piedistallo sono di una pietra grigia, dei terreni siluriani,
adoperata moltissimo, anche negli edifizi più cospicui ; si trova
nelle vicinanze, e, a giudicarne dallo stato del monumento la cui
erezione data dal 1808, se è di bell'apparenza non ha lunga du-
rata. Kisalendo sempre il San Lorenzo, giunsi all'imboccatura
del canale di Lachine. 11 San Lorenzo da quel punto non
è più navigabile perchè il suo letto è ostruito qua e là da
vari ostacoli natui'ali che ne trattengono le acque, dando loro
una maggior espansione tutto intorno, e ne fanno dei veri laghi.
Perchè le navi potessero raggiungere il lago Ontario si do-
vettero costruire 70 miglia di canali con cinquantaquattro chiuse
vincendo una massima altezza di ^^56 piedi. Il grandioso lavoro
fu eseguito durante l' unione delle due Provincie del Basso e
dell'Alto Canada e costò circa quaranta milioni di lire nostre; il
prezzo di trasporto, che prima si calcolava il 100 per 100 del
valore, oggi è ridotto al 15 o 20.
Poco lungi notai l'elevatore dei grani o granaio meccanico,
un immenso fabbricato tanto alto che la sola vista esterna mi
mise paura. Il grano, dalla stiva delle navi, è sollevato ai piani
superiori per esservi custodito, da una serie di secchi di ferro
legati fra loro da una enorme catena e mossi a vapore. Oltre-
passato l'elevatore giunsi al Ponte Vittoria, una delle meraviglie
dell' ingegneria moderna. Il ponte è tubulare e riposa sopra 24
pile distanti circa 90 metri l'una dall'altra : altri 500 metri son
misurati dalle due teste ; in tutto una lunghezza di quasi tre
chilometri (9194 piedi); la travata di mezzo è alta 20 metri sul
pelo d'acqua estivo. L' intero ponte ha quattro milioni di chi-
logrammi di ferro, centoventicinque milioni di chilogrammi di
pietra, ed è costato trentun milioni e cinquecentomila lire.
Dalle imboccature non si vede se non un' immensa e nuda gal-
leria, ma se non v'ha nessun effetto artistico né all' interno né
336 IL DOMINIO DEL CANADA.
all'esterno, non manca certo l' impressione del grandioso: e quei
giganteschi tubi posti a contatto immediato fra loro, con soltanto
una piccola distanza fra pila e pila per le dilatazioni del ferro,
quello spessore delle loro pareti, quella vasta estensione dell'area
delia galleria, danno una ben alta idea della potenza del ge-
nio umano. Applicando l'occhio ad un piccolissimo foro praticato
espressamente ad una delle pareti, si ha poi una stupenda vista
del San Lorenzo ; nella direzione di Quebec 1' isola di Sant' Elena
nel mezzo, a sinistra la città di Montreal, a destra il villaggio
d'Hochelaga e le sue arboree vicinanze: dalla parte opposta in-
vece, parevami che il iiume fosse rinchiuso tutto in giro dalla
gigantesca curva d'una verde riva.
XI.
All'estremo ovest dell' isola, sbocca il fiume Ottawa. Esso
divide la Provincia d'Ontario da quella di Quebec scorrendo per
1300 chilometri in una direzione obbli([ua al S. Lorenzo con cui
forma un angolo di 45 gradi ; sulla dritta lo costeggiano i monti
Laurenziani, i quali al punto di quella confluenza si staccano dal
gran fiume per dirigersi attraverso il nord-ovest, e raggiungere
le montagne Eocciose nella loro parte settentrionale. L' isola di
Montreal saluta le acque dell'Ottawa con un grazioso villagio, il
villaggio di S. Anna, dove Tomaso Moor scrisse il suo Canadian
Boat Song. ^ Le cime delle colline, i prossimi gorghi di Lachine
e la Chiesa del villaggio hanno egualmente ispirato il poeta.
Un piccolo steamer su cui ci eravamo imbarcati a Lachine
ci faceva rimontare il fiume : pochissimi erano i passeggieri, e fra
loro parlavan tutti inglese al pari dell'equipaggio; a un tratto
mi sentii timidamente dimandare se parlavo francese. Era una
giovane donna dall'aspetto assai malato eppure sempre bella nel
f « Faintly as toUs the eveiiing chime
Our voiijes keep tiiiie and our oars keep lime,
Soon as the woods on shote look ilim
We'll sing at St Aniie's our evening' hymn.
Row, brothers, rovv, the stream ruiis fast ;
The rapids are near and the daylighi's past.
Uttawas'tide ! This trembling moon
Shall see us float oVr thy surges soon.
Saint of this green isle I liear our prayers,
Oh, grant us cool heavens and. favoring airs !
Blow breezes, blo , the stream runs fast,
The rapids are near and the daylight's past. »
IL DOIUNIO DEL CANADA. 337
SUO pallore e ne' suoi affilati lineamenti. Si trovava troppo sola,
mi disse, in mezzo a quella gente di cui non comprendeva la
lingua e s'annoiava di non aver un libro per le mani e di non
poter scambiare una parola ; ingenuamente mi raccontò di sé, del
marito da cui le doleva allontanarsi, di suo padre e della sua
matrigna da cui andava a passar qualche giorno per vedere se
l'aure natie le potesser riuscire più benefiche che quelle di Mon-
treal. — Suo marito era inglese e protestante, ella cattolica : il
curato non avrebbe voluto quelle nozze, ma il marito era così buon
giovane ! Egli le promise che tutti i loro figliuoli sarebbero stati
allevati nel cattolicismo, e recavasi sempre a prenderla in Chiesa
dopo messa. Forse potevasi rimproverargli che fosse framassone ;
ciò non voleva dire che potesse mai agire tristamente, ma non-
dimeno ella si diceva ben afflitta di questo suo legame.... Ecco i
dolori ignoti di questa terra, dove il benessere materiale è così
diffuso. Trovarsi soli ed estranei in mezzo ai vicini dello stesso
villaggio nativo, ed anche nel seno della propria famiglia perchè
si parla una lingua diversa, perchè diversa la fede e le pratiche
religiose !
A Carillon prendemmo la ferrovia per un breve tratto per
evitare delle forti correnti formate dal fiume ; imbarcatici quindi
a bordo d'un altro vapore, il Peerless, incontravamo ad ogni
istante vastissime zattere con carichi di legname tagliato nei bo-
schi superiori, e fatto così discendere ai cantieri del S. Lorenzo.
I primi coloni della valle dell'Ottawa sono stati i mercanti
di legname, i quali improvvisavano qua e là in piena foresta
qualche coltura di terra, che trascuravano ed abbandonavano ap-
pena tagliato tutto il legno dei dintorni. Là si formarono i cen-
tri della popolazione attuale, che non è numerosa ma ben agiata,
specialmente nelle contee d' Ottawa e di Pontac che occupano la
riva dritta del fiume. Per ottenere del legname da alberatura
per le navi, raro oggi anche in Svezia ed in Norvegia, il dibosca-
mento è spinto fino a cento leghe oltre Ottawa, il che vuol dire al-
l'estremità delle regioni vegetali. È vero che si computa che al
Canada la foresta si rinnova nello spazio di 25 anni; ma forse
l'ascia del boscaiuolo vi reca una distruzione già allarmante.
In una delle piccole soste ai villaggi lungo il fiume abbiamo
raccolto a bordo la lieta e numerosa brigata di un picnic.
È impossibile dir l'efletto esilarante che fa il veder quelle
ondate di giovani, di vecchi e di fanciulli, ciascuno con una cesta
di piatti, di bottiglie, o di tazze e bicchieri, tutti in gaia fami-
338 IL DOMINIO DEL CANADA.
gliarità fi-a di loro, scherzosi, loriuaci, precipitare in mezzo
al taciturno sussiego di viaggiatori l'uno all'altro sconosciuti. E
fra essi v'è sempre chi corre al pianoforte che inìuiaucabilmente
si trova a bordo, e chi arrischia una canzone il cui ritornello è
ripetuto in coro dagli altri,
Uiungemmo ad Ottawa verso le tre. Vent' anni prima non
era se non un povero villaggio, ed io la trovai una prosperosa
città ' alla quale il movimento dei tramways, del pari che la feb-
brile attività dei lavori sempre in corso, eran promesse di uno
splendido avvenire.
Nel quartiere più elevato vi è una larga piazza di 30 acri,
sulla quale sorgono gli edilizi del Governo e del Parlamento :
Non è ancora compiuta l'elegante terrazza che deve chiuderla
tutto intorno e vi posano già minacciosi alcuni cannoni. Sono tre
i palazzi, uno in fondo, e due ai fianchi della piazza, tutti in
quello stile italiano del secolo XIII di cui il Palazzo Vecchio è così
gran saggio, non senza però qualche linea del rinascimento.
Dietro al palazzo principale vi ha un fabbricato circolare desti-
nato ad uso di libreria. La sua sala a poligono di sedici lati,
è costruita sul disegno di quella del British Museum a Londra,
e dovrebbe contenere 200,000 volumi. Le proporzioni di tutti e
tre i palazzi sono colossali e senza vederli non se ne può avere
un' idea adeguata. Finora vi furono spesi 20 milioni, quantunque
l'interno sia meschino, e le aule del Parlamento e del Senato sieno
ancor meno belle e meno ricche di quella della libreria.
Io aveva già percorso tre delle Provincie della Confederazione
informandomi delle condizioni loro e del governo locale ; poiché
mi trovavo alla sede del governo centrale, parevami giunto ormai il
tempo d'occuparmi di esso, studiandolo in sé medesimo e nei suoi
rapporti colle Provincie. Agli Stati Uniti la sovranità degli Stati è
la regola, la sovranità federale l'eccezione. Nel Dominio del Canada
forse gli ordinatori della Costituzione ebbero presente lo stesso
principio, ma le condizioni storiche delle Provincie, e la neces-
sità di conservare alla monarchia le sue prerogative portarono a
conseguenze diverse. Mentre nella costituzione degli Stati Uniti
sono enumerati i poteri del Congresso, e non quelli delle legisla-
ture degli Stati, che si suppone debbano esser tutti gli altri, nel-
' Già il censo del 1871 le dh una popolazione di •21,54") abitanti, di cui 8021
Irlandesi, 2285 Scozzesi, 7214 Francesi, 3721 Inglesi, 23 Italiani. I cattolici erano 12,734
e 4274 appartenevano alla Chiesa d'Inghilterra.
IL DOMINIO DEL CANADA. 339
l'Atto di Federazione (30 Vlctoriae, Gap. 3) sono anche questi
singolarmente specificati.
E il matrimonio e il divorzio son di competenza del Parla-
mento federale, ma quanto alle leggi civili in generale si sanci-
scono quelle già in vigore in ciascuna Provincia, rimanendo
soltanto in facoltà del Parlamento federale di renderle tutte uni-
formi se vi fosse l'assenso delle legislature locali. Il diritto poi
alla separazione delle scuole secondo le diverse confessioni religiose
è messo al coperto da ogni arbitrio per parte delle autorità pro-
vinciali, colla salvaguardia di un appello al Governator generale.
Cosi, malgrado il diverso esempio della grande Eepubblica, sono
riservati al Parlamento in Ottawa tutti i lavori pubblici concer-
nenti ferrovie, canali, telegrafi e linee di navigazione a vapore,
quando tali vie di comunicazione pongano il Dominio in rap-
porto colla madre patria o coll'estero, o congiungano una Pro-
vincia ad un altra; viene insomma ad essere creato in Ottawa
quel Ministero federale dei lavori pubblici, che a noi Euro-
pei par quasi una lacuna nel governo di Washington. Tutto
quanto riguarda la milizia, il servizio navale, il servizio mi-
litare e la difesa del paese, è di competenza del Parlamento
federale, ma il comando supremo continua ad essero investito nella
Kegina: e circa il diritto di pace e di guerra, nulla è preveduto
ma certo lo eserciterebbe la Regina d'accordo col Parlamento fe-
derale, perchè nessuna delle sue prerogative è tolta alla corona
e perchè nel governo del Dominio, il Parlamento d'Ottawa è so-
stituito a quello di Londra. Diversamente dagli Stati Uniti, ogni
maniera di suffragio od elezione è esclusa nella nomina dei ma-
gistrati giudiziari che spetta al Governatore generale, tanto pei
giudici delle corti superiori quanto per quelli di distretto e di
contea ; gl'impiegati civili poi, invece d'essere cambiati in massa
ad ogni nuovo avvenimento di partito, hanno serie garanzie di
permanenza, e perfino i luogotenenti governatori nominati dopo
l'apertura della prima sessione del Parlamento, non posson es-
sere rimossi o richiamati se non dopo cinque anni, a meno che
non vi sia un legittimo titolo, e venga comunicato del pari a lui
ed al Parlamento.
Due sono le Camere. I membri del Senato devon avere 30 anni,
e possedere in mobili od immobili una rendita di 4000 dollari, nella
Provincia per la cui rappresentanza il Governatore generale li no-
mina. La Provincia di Quebec è rappresentata da 22 senatori,
quella d'Ontario da 24, da 12 la Nova Scozia e il Novo Bruns-
340 IL DOMINIO DEL CANADA.
wick rispettivamente, da 3 la Colombia Inglese, da 3 l'Isola del
Principe Edoardo, da 2 il Manitoba. In Inghilterra, è la Kegina
che decide sulle questioni intorno alla qualificazione d'un Pari,
e la Camera dei Pari se ne occupa soltanto ove ne abbia incarico
dalla Corona; qui tale facoltà spetta sempre al Senato. I membri
della Camera dei deputati sono eletti nella proporzione di uno per
ogni 17 mila abitanti e la loro eleggibilità dipende dalle stesse
condizioni che le singole Provincie impongono per la elezione dei
deputati alla loro Camera locale. Il presidente ha un assegno di 4000
dollari all'anno, e ciascun membro, se la sessione dura un mese, ha
10 dollari al giorno ; se più, un' indennità complessiva di 1000
dollari, e in ogni caso un dollaro ogni dieci miglia per spese di
viaggio.
Ho già accennato a casi di corruzione nelle elezioni del Canada
prima della Federazione : pur troppo benché la storia del Dominio
non abbia ancora oltrepassato il' decennio, furono molti gli scan-
dali per questo titolo. Nel 1872 il ministero Macdonald trattava
per la costituzione di una grande società nazionale per pro-
muovere la costruzione di una ferrovia che corresse dall' Atlan-
tico al Pacifico: intanto si fecero le elezioni generali. Dopo qual-
che mese che le nuove Camere erano state aperte, M. Huntington,
uno dei deputati dell'opposizione, accusò i ministri d'aver ricevuto
da sir Hugh Allan, il presidente di una delle società che si di-
sputavano il contratto di costruzione, forti somme di den;iro, allo
scopo di pagare certe spese elettorali. ^ Fu subito votata un'inchie-
sta parlamentare, ma i membri che ne avevan ricevuto l'incarico,
tre della maggioranza e due dell'opposizione, dovettero declinarlo
1 Frai docuraeati prodotti v'erano la seguente lettera e il seguente telegramma
del ministro dei lavori pubblici e del presidente del Consiglio.
(Lettera) * Monreal, 24 agosto 1872.
Caro sig, Abbott.
Nell'assenza di sir Hugh Allan, vi sarò grato se farete tenere al Conitato
centrale un ulteriore somma di 20 mila dollari alle stesse condizioni che scrissi a
piedi della mia lettera a sir Hugh Allan il 30 ultimo.
Georgk e. Cartier.
P.S. — Favorite mandare anche a sir John Macdonald 10 mila dollari come
sopra. »
{Telegraìnma} "■' Toronto 96 agosto l872.
Onorevole J. J. C. Abbott, St Anna,
{Urgente privato)
Dovete darmi altri 10 mila dollari: sarà l'ultima volta; non mancate. Rispon-
detemi oggi. John A. Macdonald. »
IL DOMINIO DEL CANADA. Sii
per le difficoltà loro sollevate dal ministero. Il Governatore invece
decretò un inchiesta giudiziaria, e i suoi risultati furono tali da
provare pienamente i fatti addotti, e da indurre il ministero a
dimettersi senza nemmeno attendere il voto di quella Camera
sulla cai maggioranza poco prima poteva riposare tranquillo.
Ma non solo non vi fu nessun processo contro i dimissionari, ma
a dimostrare quanta radice la corruzione elettorale abbia preso
nel paese, giova riportare le parole con cui lo scandaloso fatto
viene spiegato in una pubblicazione semi-ufficiale recentemente
uscita alla luce: « Quantunque non vi sia giustificazione possi-
bile, molto può esser detto in via di attenuante. Il vizio di cor-
ruzione è inseparabile dalle istituzioni rappresentative: non fu
creato nel Canada né dai conservatori né dai liberali, ma nacque
col governo rappresentativo, del quale è un triste, ma inse-
parabile, elemento. Crebbe col crescer del paese, entrambe le parti
lo nutrirono, entrambe ne furon colpevoli: e se i conservatori
ne furon più da rimproverare che i liberali, cosa dubbia assai
egli è che i liberali avevano minori mezzi di ricorrervi. La misura
del loro peccato dipendeva da quella delle loro borse: prova ne
sono i casi di elezioni contestate prodotti davanti alle Corti. Il
vizio aveva penetrato fino nel focolare dell'agiato possidente e
dopo aver contaminato le popolazioni bisognose delle larghe
città, aveva invaso i precinti di una classe di popolo che non jduò
allegare la povertà a scusa del proprio delitto. Era ormai pra-
ticato da entrambi i partiti l' organizzare Comitati elettorali,
incaricati anche di raccoglier fondi per influire sulle elezioni:
le ramificazioni di queste organizzazioni erano enormi, si estende-
vano in ogni capanna del Dominio, ed ogni uomo di partito era posto
nella convenienza di contribuire a questo fondo coi propri mezzi....
Migliaia di partigiani àccordavan le centinaia di dollari, sir Hugh
Allan, eccezionalmente ricco ne diede centinaia di migliaia. La
differenza fra l'umile giornaliero che contribuiva il suo dollaro
e il millionario che contribuiva un terzo di milione, era solo di
quantità, e la pratica sembrava un'autorizzazione della corru-
zione universale. ^
La Camera dei deputati non può adottare nessuna risoluzione
o legge che implichi imposte o spese del pubblico denaro, se l'og-
getto non sia stato prima ad essa raccomandato, durante la ses-
sione, da un messaggio del Governator generale; ed il Governa-
1 Leggo, Hiitory of the administration of the Earl of Duffevin in Canada
— Montreal, Lovell 181S, pag. 192.
VoL. XIV, Serie 11 — 15 Marzo 18T9. 2l
342 IL DOMINIO DEL CANADA.
ter generale dopo che una legge è votata, può apporvi il suo veta
in nome della Kegina o riservarsi la sottoposizione della legge
al veto della liegina. ^ Tuttavia se queste misure fanno supporre
per un momento che l'azione legislativa delle Camere sia alquanto
vincolata, e che il governator generale possa abusare de' suoi po-
teri da altro lato vi sono molte considerazioni atte a dimostrare
che speciali vantaggi nella organizzazione del governo canadese
sono accordati agli interessi della popolazione e forse la stessa
persona del Governator generale deve riconoscersi come un ele-
mento di equilibrio introdotto nel sistema costituzionale. Negli
Stati dove la Corona esercita il suo potere direttamente, se ac-
cade che insorga una differenza fra il Re ed i rappresentanti del
popolo, essa può degenerare in un conflitto di ben grave carat-
tere che nemmeno il sagrifìcio di più ministeri o lo scioglimento
della Camera oppositrice varrebbe ad appianare ; invece al Ca-
nada la Corona può non riconoscersi compromessa dall' operato
del suo governatore, e per dirla colle parole di Lord DufFerin, la
differenza è rimessa al Governo della madre patria come ad un
amicus curiae, ed esso non può non intervenire con benevolenza
ed imparzialità, per dar libero corso alle istituzioni parlamentari
della colonia, per surrogare il funzionario impopolare con un
altro pili idoneo, senza la menoma scossa, e senza nessun inter-
ruzione 0 disguido nell'ordinario corso degli affari.
Comunque ciò sia, è fuor d'ogni dubbio che il modo con cui
l'Inghilterra governa queste sue colonie è il più liberale che im-
maginare si possa, e nello stesso tempo assicura alle colonie i be-
neficii d'una vera autonomia, e garantisce la madre patria da ogni
pericolo di sacrificio, giacché essa non spende un solo scellino per
la loro amministrazione, non invia un solo soldato per la loro difesa,
e i rapporti più cordiali corrono fra le due contrade, e i più spi-
nosi problemi sono risolti con un'ammirabile spirito d'equità. Se
non die se è facile il convenire che siffatta maniera di regime co-
loniale prevenga i casi d'attrito e di contrasto, qualcuno potrebbe
1 Nel 26 agosto 1873 il Presidente del Consiglio dei Ministri l'ederali spiegava
in un rapporto del Governatore l'importanza del diritto di voto dicendo che è do-
vere de! Ministero locale o federale di opporsi nelle Camere all'adesione delle mi-
sure che disapprovano, ma se vengano tuttavia votate, o devono ritirarsi o accon-
ciarvisi. — Soltanto il Governatore generale e il luogotenente Govei-natore, secondo
i casi, può vedere se la legge si trovi in conflitto colle sue istruzioni a i suoi do-
veri di funzionario della Regina, perchè « the provision to reserve a bill for the
significance of Iler Majesiy's pleasure was solely raaJe with the view to the pro-
tection of Imperiai interests, and the maintenance of Imperiai pohcy. »
IL domìnio del CANADA. 343
peraltro dimandare quali siano i vantaggi che rispettivamente ne
ritraggono i due popoli. Quello della protezione dall'un lato ac-
cordata, ricevuta dall'altro, quello della soddisfazione orgogliosa
della nazione che si sente più grande nella vita dei suoi figli, o
dei figli che si sentono superbi di tanta madre patria, quello in-
fine delle facilità dei rapj)orti commerciali, non basterebbero certo
di per sé soli, e nemmeno basterebbero tutti insieme riuniti, se
non ne ingigantisse l'importanza l'essere vivo in tutti il senti-
mento di una medesima nazionalità, e per quei coloni che non lo
nutrono per ragion di sangue, l'esserne però penetrati per debito di
riconoscenza. È il vero caso della propagazione spontanea del vin-
colo politico ; j)ropagazione che è tanto forte da vincere la separa-
zione dell'onde sterminate dell'Atlantico. Quando è solo una di-
stanza materiale che divide gli uomini, tutto basta a farne bat-
tere i cuori all'unisono, o a farne incontrare i pensieri in una stessa
meta. Se invece li separasse l'antagonismo degli interessi od un
sistema d'oppressioni forse facilmente esercitate, non mai tolle-
rate, nascerebbe la ribellione o la secessione anche nel seno della
pili omogenea famiglia nazionale. L'Inghilterra non piange la
partenza dei suoi emigranti per il Canada, ed essi, poiché vi si
sono fissati non si vergognano del loro suolo natio. Ciò valga ad
insegnare a coloro che fra noi consigliano di rivolgere gli sforzi
comuni alla colonizzazione, a quali condizioni essa potrebbe rie-
scire una risorsa e non un imbarazzo : veggano poi essi se queste
sieno facilmente conseguibili dall'Italia.
Certo che si può obbiettare che il sentimento della comu-
nanza d'origine potrebbe anche gettare piìi facilmente i Canadesi
nelle braccia dei loro germani al di là del S. Lorenzo; ma la vita,
i costumi e le istituzioni del Canada rivelano ancora troppo di-
rettamente la figliazione inglese perché quei popoli possano ob-
bedire ad un impulso di più lontana parentela cogli Americani
finché seguiteranno a godere di buon governo e di buona ammi-
nistrazione, 0 finché il progresso economico non manifesti 1' esi-
stenza d' una rivalità naturale d' interessi fra continente e con-
tinente.
Per ora convien pur riconoscere che fu alto concetto politico
il legare insieme Provincie così lontane, di interessi cosi diversi, e
opporre alla forza d'assorbimento che potevan su ciascuna di esse
singolarmente esercitare la grandezza e la libertà degli Stati
Uniti, il sentimento di una grandezza propria fin allora impen-
sata, la soddisfazione di istituzioni altrettanto libere e saggio,
344 If' DOMINIO DEL CANADA.
che s'erano poi migliorate, diffuse e radicate colla stessa loro sto-
ria. La Nova Scozia, il Novo Brunswick, l'isola del Principe
Edoardo die erano tributarie degli Stati Uniti pel mercato dei
grani, poiché la Federazione fu fatta, hanno imparato che nelle
Provincie di Ontario e di Quebec, in una parte cioè del medesimo
loro territorio, esisteva un granaio nazionale con cui poter sopperire
agli annuali bisogni, e in cambio delle cui riserve esitare il proprio
carbone: l'oro della Colomlna inglese non dovè più essere inviato
fino in Inghilterra perchè valesse a dar sussistenza ed agiatezza
a quei minatori indipendentemente dal mercato della vicina Ca-
lifornia, e il Manitolja cessò di sentirsi isolato. È vero che alle
Provincie d'Ontario e di Quebec conviene ancora più, per ragione di
prezzo di nolo, di fornirsi di carbone dagli Stati Uniti e dal-
l'Inghilterra che non dalla Nova Scozia e dal Novo Brunswick;
è vero che i rappresentanti della Colombia inglese devono cor-
rere 2000 miglia per poter giungere ad Ottawa, sede del go-
verno, ma le nuove linee ferroviarie abbrevieranno presto le
enormi distanze, e un intelligente sistema di dazi riparerà agli
inconvenienti geografici.
Nei brevi anni di vita del Dominio 1' importazione crebbe
da 75 a 100 milioni di dollari e l'esportazione da 60 a 80. Il
debito federale è grave assai, e alla fine del giugno 1877 s'av-
vicinava a 140 milioni di dollari, ma vennero compiuti impor-
tanti lavori pubblici, e le forze, produttive della nazione sono
molto cresciute. ' Il bilancio federale dal luglio 1875 al giugno 1878
può riassumersi così : l'attivo fu circa di 18 milioni di dollari
di cui otto per redditi delle dogane, quattro per le tasse sugli
spiriti e sul petrolio, quattro per prodotti delle privative (ta-
bacchi, poste, canali, pésche, ecc.) e due per redditi diversi
1 Nel Journal of the Statistica! Society [december 1878) il signor Bateman
fa l'osservazione che il debito pubblico dei Dominio è sempre minore di quello
delle colonie di Vittoria e South Wales insieme riunite, che pure hanno poco più
di un terzo delia popolazione del Dominio. — Il censo del ISTI dice che gli acri col-
tivati a cereali e legumi eran 12 milioni e diedero l.^ milioni d'ettolitri di cereali.
e 15 d'altri prodotti; 5 milioni erano gli acri coltivati a pascolo e si computavano
a oltre 5 milioni i capi di bestiame grosso e minuto : ma queste cifre sarebbero ora
molto più cospicue. Le casse di risparmio che col fondarsi del Dominio avevan un
milione e mezzo di dollari di depositi, hanno oggi triplicata quella somma. Però
le ferrovie, nel Dominio come negli Stati Uniti, offrirono poco brillanti risultati a
chi vi rivolgeva i capitali. La lunghezza totale delle varie linee è di miglia 5346;
fra azioni, prestiti e sovvenzioni vi si investirono circa 340 milioni di dollari: gli
introiti lordi ascendotio a 20 milioni, e a 16 milioni le spese: sicché ap[)ena rimane
un 4 o 5 per cento per le obbligazioni, ma le azioni e le anticipazioni governative
e provinciali sono per lo meno un impiego sterile.
IL DOMINIO DEL CANADA. 345
(bollo, terre iDubbliclie, diritto di tonnellaggio, multe, ecc.) ; —
il passivo fu di circa 20 milioni di dollari di cui otto per inte-
ressi ed ammortamento del debito pubblico, quattro per sovven-
zioni alle Provincie, due per lavori pubblici, uno e mezzo per
impiegati civili e amministrazione della giustizia, uno e mezzo
per la milizia. '
Lord Dufferin, allora Governatore generale, e cbe io non ebbi
la fortuna di vedere, percliè in quel momento trovavasi in giro
per la Colombia inglese, disse in uno dei suoi discorsi: « The
only thing we shall want is to man the sliip with a more nume-
rous crew. » Ma davvero non poteva essere più attiva la propa-
ganda fatta prima dall'Alto Canadcà, poi dal gover-no del Dominio
per richiamare l'emigrazione europea. Dal 1829 al 1875 sbarca-
rono a Quebec pel Canada, 1,364,655 emigranti di cui 1,134.747
provenivano dall'Inghilterr?, 205.255 dalla Germania o dalla Nor-
vegia, e poco più di 20,000 da altri paesi: U media annuale fu
quindi di circa 30 mila immigranti. Lo spirito intraprendente con
cui si va a predicare ed organizzare l'emigrazione nei centri più
lontani, dall'Islanda alla Russia, trova le sue spiegazioni nella somi-
glianza climatologica di quelle contrade alla regione del Canada,
ma ciò che più sorprende, e fa davvero pensare che in fondo al
loro cuore gli agenti di emigrazione debbano avere una certa sin-
cerità di convincimento, è l'ingegnosità con cui danno al proprio
lavoro apparenza e ragioni di apostolato filantropico o di sforzi
pel miglior ordinamento del sistema sociale. Ho già accennato al-
l'immigrazione dei fanciulli organizzata per Halifax dal colon-
nello Laurie e da mistress Birt; aggiungerò di volo, che in pre-
cedenza la si faceva per altre parti del Dominio anche di fan-
ciulli raccolti nelle tvorlhouses e nelle case di correzione ; ma ad
Ottawa ebbi occasione d'essere informato di esempi ben più sin-
golari dell'attività degli agenti. M'' Jenkins, membro del Par-
lamento Inglese ed agente generale d'emigrazione a Londra, nel-
l'ottobre del 1875 si recò in Svizzera, e col dottor Joos, dell'As-
semblea federale, ebbe a formulare un progetto, le cui basi erano
le seguenti: Che il governo del Canada, o di alcuna delle sue Pro-
1 È una legge del marzo 1868 che regola TobLligo della milizia: possono essere
chiamati a farne parte tutti i cittalini .lai iS ai 60 anni, ma la sua prima cate-
goria è composta di 30 mila uomini circa volontariamente arruolatisi per il servizio
di due o di tre anni. La riserva che comprenderebbe 655 mila uomini con 30 mila
ufficiali (circa ilsestodella popolazione) viene soltanto in parte chiamata ad annuali
esercizi che durano circa 15 giorni.
346 Ili DOMINIO DEL CANADA.
vincie, offrissero al governo della Confederazione Svizzera una
cessione incondizionata di 300 mila acri di terra, liberi per 10
anni da imposta fondiaria, e che il governo di Berna avesse un
anno di tempo per le sue determinazioni, e frattanto potesse in-
viare propri emissari a studiare la località, e le prospettive
che vi potrebbero trovare gli emigranti. Il dottor Joos. che pel
passato era uno degli avversari dell'emigrazione, dichiarò al signor
Jenkins che oramai la giudicava una inevitabile necessità morale
e politica e che il cercar di regolarla e di impedirne le tristi
conseguenze era una questione d'interesse pubblico e di filantropia,
per la quale rischiava volentieri la propria riputazione. Il dottor
Jenkins nel raccomandare il progetto al governo canadese ne
descrisse i vantaggi e gli svantaggi. Vide l'obbiezione dell'incom-
patibilità che poteva incontrare colla sovranità legittima del ter-
ritorio canadese, l'esercizio di quel nucleo di proprietà accordate
cosi in massa ad un governo estero. Ma gli parve che ogni incon-
veniente sarebbe stato scongiurato col ben chiarire la natura dei
rapporti che dovevansi creare; d'altronde egli considerava come
una grande arra di riescita l'impegnare il governo svizzero a fare
cosa sua quel tentativo di colonizzazione. Perchè il progetto non
abbia avuto seguito io non ho potuto saperlo, ma eboi subito a no-
tare che il signor Jenkins rivolgeva i suoi sguardi anche all'Italia
settentrionale, ch'egli diceva parergli « en ce moment le champ
d'exploitation le plus vaste pour l'éinigration en Europe. ^ La
population y est extréinement vigoureuse. Elle émigre en grands
nombres dans les différentes parties de l'Europe où les hommes
sont principalement emplojés comme ouvriers et raanoeuvres.
Ceux que j'ai vu travailler dans les rues de Berne étaient cor-
pulents et robustes. Un climat chaud ne peut les affaiblir et
je crois qu'ils s'accommoderaient bien dans quelques parties
du Canada. Les colonies australiennes travaillent fort pour avoir
quelques uns de ces émigrants précieux, et je vous conseille
fortement de tàcher de vous en procurer Si vous étes d'avis,
d'après l'expérience qu'ont fournie les manoeuvres italiens qui
ont été employés sur 'les chemins de ter du Canada, que ces
gens-là feraient de bons émigrants pour Ontario ou Manitoba,
il ne sera pas difficile de s'en procurer; il est méme possible
qu'en raison des privations que le nombre immense des émi-
grants partis de ce pays pour les républiques de l'Amérique du
' Rapportdu ministre de V AgrirAilture du Canada, Annèe de Calendrier 1875.
— Ottawa, Maclean and Comp., 1876.
IL DOMINIO DEL CANADA. 347
sud ont endurées, il soit facile de faire avec le gouvernement italien
des arrangemeats qui faciliteront considérablement rémigration. »
Una signora, Elisa di Koerber, nei suoi rapporti al governo
federale diede saggio dal canto suo di non minore immagina-
zione ed attività. 11 suo programma è che la sovrabbondanza nu-
merica del sesso femminile in confronto al maschile, e la condi-
zione delle donne in varie parti d'Europa, sono tali fatti da
fra credere desiderabile la emigrazione, circondata di cautele, delle
indigenti; quindi essa propone di organizzare una vasta società
di patronato, la cui opera dovrebbe avere il suo primo campo in
Germania per essere poi continuata in Francia ed in Inghilterra.
La Germania conta già due associazioni di dame numerose ed
ammirabilmente organizzate che consacrano i loro sforzi e la loro
energia a migliorare la condizione della donna: una è l'Alleanza
universale, sotto il patronato di S. M. l' Imperatrice Augusta,
l'altra l'associazione Lette Bereire, di cui è capo il Principe Ere-
ditario; la signora di Koerber sperava di ottenere d'entrambe
l'appoggio, e quanto al Canada, essa contava sulle promesse delle
due associazioni di Montreal e di Toronto delle Giovani Donne
Cristiane; e così la tutela combinata di coloro che meglio pote-
vano rappresentare gl'interessi della morale e della umanità tanto
nel paese di provenienza come in quello di destinazione, doveva
ispirare alle emigranti un sentimento di maggior fiducia nel
proprio avvenire.
XII.
Nella notte del 26 agosto ho lasciato Ottawa per Prescott, e
quivi mi sono imbarcato per rimontare il S. Lorenzo attraverso le
mille isole.
Le mille isole ! Nome affascinante che temevo sempre non fosse
iustificato dalla realtà, e mi chiedevo ripetutamente : ma saranno
proprio mille, od è un'espressione iperbolica? Ma questa volta non
v'era iperbole, e sono anzi 1800 che formano l'arcipelago del
S. Lorenzo che s'incontra fra Kingston e Brockville.
Nulla di più incantevole che il vedere emergere in mezzo alle
onde tutti quei tratti di terra, ora vasti e collinosi, ora piani ed
angusti, nei quali il verde della vegetazione interrotto talvolta dai
nudi piani di qualche roccia, nascondeva fra il ricco fogliame gra-
ziosissime ville. E le onde in cui quelle isole si specchiano le cin-
gono tutto intorno di una rilucente fascia, e mentre procedevano
348 IL DOMINIO DEL CANADA.
prima raccolte, torbide e miuacciose, prendono tersi cristallini
riflessi, e s umiliano in lento corso ed in modesti canali, quasi vo-
lessero mansuefarsi e rendersi più pure nella dolcezza di quegli
abbracci.
Entrando fra i loro meandri, la mia curiosità rimaneva sempre
tesa e toglieva forza all'ammirazione: ma poi questa, a misura che
le isole aumentavano di numero e di bellezza, si convertì in entu-
siasmo. Ad ogni istante la vista cambiava come all'agitarsi di un
caleidoscopio o al cenno di una flxta, e il fresco smeraldo della
vegetazione e il limpido zaffiro delle onde, luccicando come grandi
distese di gemme abbagliavano l'occhio:
« The tbousaud ìsles, the thousand isles !
Dimpled, the wave around them siuiles
Kissed by a thousaud redlipped flowers
Gemmed b}^ a thousand emerald bowers.
A thousand birds iheir praises wake
By rocky ghide and pluniy brake ;
A thousand cedars' fragrant shade
Falls where the Indians' children played,
And fancj^'s dream luy heart beguiles
While siuging you the thousand isles !
There Saint Lawrence gentlest fiows,
There the South wiud softest blows,
There the lilies whitest blonm,
t
There the birch hath leafiest glnora ;
There the red deer feed in spring,
There doth glitter wood-duck's wing,
There leaps the muscalonge at inorn,
Thei'e the loon's night song is boru,
There is the fishenuan's paradise-
"With troUing skiff at red sunrise. »
Molte di quelle isole hanno anche poetici nomi; poco più su
dell'isola dei pini v'è Garden Island e Cedar Island. Nel 1875
alcuni membri di una setta dissidente del protestantismo acquista-
rono 100 acri di terreno poco più su di Wells Island, per erigervi
in mezzo ad ameni viali e giardini una chiesa ove sempre si
celebra il servizio religioso: essi con quella pace, e con tanto
incantevole natura, sperano di potere attirare maggiori proseliti.
Verso sera il vento si mise a soffiar gagliardo e nel bel mezzo
del lago Ontario avemmo tutto il trambusto di una piccola bur-
rasca; ma la mattina seguente il vento tornò a mutarsi in brezze
carezzevoli, e le onde eran già assai calme quando toccai le
bocche del fiume Niagara. Da una riva all'altra i forti ameri-
IL DOMINIO DEL CANADA. 349
cani e canadesi si guardavano accigliati, e il nostro battello pro-
cedeva tranquilamente sotto le minacele dei loro fuochi. Sbarcai
al villaggio di Niagara e mentre attendevo il treno mi divertii ad
osservare un gruppo di tre persone, una donna e due uomini, tutti
intenti a leggere nella relazione del Lyell sul suo primo viaggio
in America, il capitolo dove parla della formazione geologica del
bacino del Niagara. Il più vecchio leggeva forte, l'altro compagno
e la signora lo interrompevano spesso con parole d'ammirazione e
con domande di schiarimenti : più d'una volta gli ho visto svol-
gere la nota litografia che sta in fronte all'edizione inglese del 1845,
dove è data una veduta del fiume in prospettiva e son distinti con
diverso colore i vari strati geologici. Ma era già inoltrato il po-
meriggio e il treno non tardò a chiamarci per la partenza. Attra-
versammo celeremente prima alcune pianure, poi alcune forti ondu-
lazioni di terreno che sembravano nei loro accidenti volere pre-
parare i sensi e l'animo alla vista della gran meraviglia. Vi fu una
prima sosta a Queenston: già il sole calava cinto di aureole d'oro,
di contro al vano interposto fra due folte boscaglie, le quali, nelle
tinte del riflesso, partecipavano del cinereo e del ceruleo appunto
come sponde lontane in fondo al mare; mentre, vicino a noi,
alberi, cespugli e pascoli mostravano un verde più cupo del ■ olito.
Oltrepassammo in breve un'altra stazione, ed ecco che incominciò a
giungerci all'orecchio il rumor sordo delle cascate. « Niagara
Falls, > gridavano i conduttori, ed io in luogo di scendere cogli
altri, rimasi sul pianerottolo della carrozza ad ammirare il fanta-
stico ponte sospeso, e dopo di esso l'immenso volume delle acque
precipitanti. Quando mi riscossi il treno aveva già ripreso la corsa
e mi fu forza continuare fino a Welland dove però non ebbi lungo
attendere, che un altro treno mi riportò presto a Niagara Falls.
fra i tanti alberghi la mia scelta non poteva esser dubbia, per-
chè sapevo che da Clifton House si gode la miglior vista delle ca-
scate, e colà scesi; ma dopo breve istante ne uscii attraversando
il salotto, e fatti pochi passi mi trovai sulla sponda del fiume. Le
linee del paesaggio rimanevano incerte nelle ombre, ma dove la
luna batteva, si vedeva benissimo il precipitare delle acque, il
sollevarsi dei vortici spumeggianti, e più su le aure inondate
dai bianchi vapori. Solo in mezzo ad un gruppo di pini, io me
ne sono stato contemplando a lungo quello spettacolo a cui la
notte e la luna davano anche maggior fascino. Non era se non
il diluviare d'alcune onde a cui d'improvviso manca il letto, ma
quelle onde portavano in sé la storia dei secoli, e in quella loro
350 IL DOMINIO DEL CANADA.
fuga io fantasticava la fuga del tempo. L'acqua, il vapore e
l'aria erano colà fasi quasi simultanee d'un incessante fenomeno,
e vedevo aperti a me dinanzi il libro della fisica, e sotto di esso
l'altro della geologia: perchè iion v'era lì presso anche l'arpa del
poeta? Chi avverte misteriose voci nel sospiro delle aure, nel gemito
dei ruscelli e nei susurri della foresta, quali ispirazioni non avrebbe
mai trovato in quel momento! Forse quel cupo fragore poteva
parergli il palpito d'un grande e nuovo eroe leggendario che
recasse in seno le sorti dell'umanità; forse la voce straziante
della natura data in balìa ad un inesorabile destino, forse la mi-
naccia di lividi gnomi, forse un angelico appello alla devota pre-
ghiera. Son laghi immensi, son mari che s'incalzano l'un l'altro
e si rovescian finalmente colà: ma dalle originarie oceaniche di-
stese a quelle sottili goccio di vapore, dalla nordica estremità del
Lago Superiore alle rive romantiche dcll'Erie, quante distanze,
e quante trasformazioni ! No, il mio occhio non si stancava
mai di mirare quei vortici scintillanti, e al mio orecchio non
jncresceva punto quel fragore assordante, che ricordava quello
del mare in burrasca, ma parevami ancor più poderoso e più
pieno di grida e di echi. Il mare ha vaste dimore che corre e
ricorre irrequieto: quelle acque non ne hanno nessuna. Tengono,
si incalzano, si sconvolgono e s'infrangono, ma non ritornano.
Il grandioso immenso spettacolo è offerto da sempre nuovi ele-
menti.
Dopo una lunga sosta, mi tolsi ancora a malincuore al mio
gruppo d'alberi, e me ne andai nella mia stanza, mezzo ebbro
d'entusiasmi, e nonostante bisognevole di riposo : ma come sedotto
da un' arcana malia, aprii la finestra per ritornare alle mie con-
templazioni. Mi trovai su una larga e lunghissima terrazza: rami
e foglie tutto intorno, perfino sulle grosse colonne fra cui sten-
devasi il parapetto e in fondo all'una estremità, di nuovo la
vista delle cascate e del ponte sospeso. La luna era scomparsa e,
senza i suoi allucinanti chiarori, la scena appariva in una luce
più fosca ma più veritiera. Eiconobbi Goat Island e da un lato
la cascata che dalla sua forma trae il nome di Horse Shoe e che
pareva da sola sbarrare ogni passo; dall'altro lato la cascata ame-
ricana che precipitava a breve distanza sul lontano sfondo di due
alture dalle dolci curve; l'aria mi avvolgeva rugiadosa, il cielo
era malinconico, e il fragore delle cascate sempre egualmente
solenne.
L'indomani mattina mi posi in giro di buon'ora per una visita
IL DOMINIO DEL CANADA. 351
più accurata delle due cascate. In vicinanza di quella di Horse
Slioe sostai a rivestirmi da capo a piedi di un costume di stoffa
impenetrabile, e poi discesi al Table Rock, che è un vano formato
insieme e dalla curva delle acque precipitanti dall'alto, e dal rien-
trare della roccia sottostante, la quale fa sopra il capo di chi
scende colà un nudo e terribile arco. Il sentiero per cui si è gui-
dati è scavato ad un quarto dell'altezza della roccia, e non solo
è pericolosissimo perchè angusto e sdrucciolevole, ma è reso anche
malagevole da quella furia di pulviscoli d'acqua che vi toglie quasi
la vista. Nei brevi istanti nei quali è dato agli occhi di rimanere
aperti fra goccia e goccia, io travidi il sole al di là delle cristalline
masse delle onde prorompenti di sopra e rimasi abbagliato da una
nuova iridescenza di splendori.
Il rumore assordante, la desolante vista della roccia flagellata,
l'incanto di quegli effetti di luce colpiscono vivamente la fantasia:
qualche cosa d'arcano simpatizza dentro di voi con quella furia
implacabile e pare che cercando la morte laggiù, vi si debba
prima incontrare una suprema gioia. Francesco Abbot, 1' ere-
mita delle cascate, per due anni dimorò sulle rive del fiume ad
amarle e cantarle, poi nel giugno del 1831 si slanciò nei loro
vortici per non più comparire nemmeno cadavere. Qual talamo e
qual bara in quei bianchi vapori ! in nessun altro luogo si com-
prenderebbe meglio il mito di Venere, la Dea della bellezza e
della felicità che nasce dalle spume marine; e, correndo da quelle
rimembranze mitologiche al romanzo di novelli sijosi che qui
cercano un'umida tomba alla soverchiante ebbrezza dei loro amori,
si pensa con un fremito al fatale vacillare dell'idea umana fra la
sublimità e gli abissi, fra il paradiso e l'inferno, fra l'eternità e
l'annientamento.
A crescer poi l'impressione di quel tremendo conflitto di forze
inanimate, si aggiunge l'aggirarsi nelle vicinanze dei vari curiosi
che vengono o ritornano nello strano costume dell'impenetrabile
il quale ha generalmente un color giallo carico, e il di cui cap-
puccio è staccato, ma finisce con un largo collare che copre gran
parte delle spalle ; quel colore, quella foggia, quel procedere lento
e muto dà a tutti sembianza di altrettante ombre che vadano
errando per regioni soprannaturali ; no, non v'è finzione poetica di
Virgilio o di Dante che m'abbia raffigurato così vivamente i regni
d'oltretomba.
Le rapide correnti poco più su della cascata americana ; Goat
Island, l'isola rinchiusa dalle due cascate: Whirlpool, i vorticosi
352 IL DOMINIO DEL CANADA.
gorghi del tratto più stretto del fiume ; sono altrettanti luoghi
che ho visitato con molto interesse e sempre udendo pietose storie :
nel 1850 franò un intero tratto di sponda trascinando nel preci-
pizio una carrozza col cocchiere e i cavalli : nel 1871 tre visitatori
remavano molto superiormente attraverso il fiume, ma la corrente
trascinò la barca e perirono poi miseramente. Nel 1873 la stessa
sorte toccò ad una coppia di novelli sposi che furon visti passar
sopra le cascate 1' un nelle braccia dell'altro. Ma v'hanno anche
storie meno triste : nel 1827 fu lasciato andare sopra la cascata Horse
Shoe un barcone carico di animali, ma un orso sagace abbandonò
il barcone quand'era ancora fra le correnti superiori, e raggiunse
a nuoto la riva. 11 15 giugno 1867 l'intrepido capitano iiobinson
diresse il vaporino « Maid of the Mist » eh' egli voleva condurre
nel lago Ontario, frai gorghi di Whirlpool : per un momento il
vaporino scomparve affatto sotto le onde, poi ritornò a galla con il
tubo del camino spezzato, e parte della «Wheel House» perduta.
Nessun altro sfidò mai il terribile cimento.
Della formazione geologica delle cascate del Niagara oltre il
Lyell e l'Hall ha parlato un autorevole italiano, il professore Cap-
pellini nei suoi « Bicordi di uu viaggio scientifico nell' America
Settentrionale nel 1863. » ' Il fiume è l'emissario delle acque dei
laghi Winnipeg, Winnebago, Superiore, Michigan, Huron, S. Clair
ed Erie, i quali hanno tutti un livello molto superiore a quello
dell' Ontario, attraverso il quale, e attraverso il S. Lorenzo, si
scaricano poi nel mare. Un tempo il lago Erie occupava un'esten-
sione maggiore e giungeva quasi alla riva dell'Ontario fra le al-
ture di Queenston e Lewiston declinando con una serie di rapide;
ma queste poi, col loro impeto nell'estate, coi loro ghiacci nell'in-
verno, si sono scavate in mezzo agli schisti ed al calcare il letto
che oggi è corso dal fiume dando luogo alle attuali cascate, se
non anche ad una serie di cascate successive, poscia ristrettesi alle
due attuali. Alcuni geologi hanno preteso riconoscere che dall'epoca
della catastrofe, le cascate devon aver retroceduto di sette miglia,
e il processo della retrocessione si spiega molto naturalmente colla
disgregazione degli schisti, i quali una volta che vengono a
mancare lasciano senza base il calcare sovrastante, che frana
anch'esso man mano. Da 32 anni che il Lyelè emise per il primo
questa teoria, il fatto è venuto già a conqjrovarla e le linee del-
l'Horse Shoe Fall hanno sensibilmente cambiato, nò presentano
' Bologna, 1867. Tip. di Giuseppe Vitali,
IT; DOMINIO DEL CANADA. 353
ornai più la forma di un ferro di cavallo ma bensì quella di un
Y rovesciato.
Un'altra meraviglia del Niagara sono i due ponti sospesi.
11 primo in ordine di data (1852) è quello dovuto alla direzione
dell' ingegnere John. Roebling di Trenton. È a due piani, il su-
periore per la ferrovia, l'inferiore per le carrozze ed i pedoni:
lungo duecentocinquanta metri, largo oltre sette, ed alto settan-
tacinque sul livello dell'acqua, pesa 800 tonnellate inglesi, e può
sostenere un massimo peso di circa il decuplo. Esso rimane so-
speso su quattro gomene di ferro, ciascheduna composta di 3684
fili: le torri di sostegno hanno l'altezza di 25 a 28 metri; è co-
stato 500,000 dollari. Il secondo ponte fu inaugurato il 1° gen-
naio 1869 e costa appena 175,000 dollari, perchè serve soltanto
per pedoni e carrozze, ma è celebre per il suo disegno leggiero,
elegante e, direi quasi, aereo. Da torre a torre conta 375 metri.
Le gomene di sostegno son due e ciascuna è composta di sette
corde di 133 fili.
Poiché sono in via d'infilzar cifre, noterò che le cascate del Nia-
gara son più basse di quella del iVlontmorency : nelle prime la
difi"erenza di livello fra i due piani è di metri 52,70, nella se-
conda di 73, però la larghezza in questa si calcola di 15 metri,
in quelle di 320; sicché il volume d' acqua delle cascate del
Niagara è senza confronto maggiore. Ljell lo calcolò in 90 mi-
liardi di piedi inglesi cubici per ogni ora, e Dwight in cento mi-
lioni di tonnellate inglesi di 1000 libbre ciascuna.
{Continua).
Enea Cavalieri.
LE NUOVE COSTRIZIONI FEIiROVIARIR
E LE FERROVIE ECONOMICHE.
I.
Imminente la discussione parlamentare intorno alle nuove
costruzioni ferroviarie, che potranno importare una spesa, forse,
di un miliardo, uno sguardo sulle condizioni econòmiche del paese
non parrà ad alcuno opera inutile; perchè non è tanto l'ingente
somma di questa spesa che richiama la più seria attenzione, quanto
la necessità di indagare se per non inaridire le fonti della ric-
chezza nazionale non sia miglior consiglio destinare ad esse una
parte dei capitali che si vogliono ora impiegare nella costruzione
rli nuove ferrovie.
Gli avvenimenti dell'ultimo hiennio accrescendo le controversie
politiche ebbero altresì per effetto di rendere piii grave la crisi
economica che già da qualche tempo minacciava l'Europa. Quando
si vede da un lato il Kegno Unito, inquieto per l'esuberanza dei
suoi prodotti, tentar le porte di nuovi mercati in Asia ed in
Africa, e la Germania, dall'altro, spaventata della concorrenza,
inalzar la bandiera del protezionismo con la tenacità e l'energia
che le sono proprie, non è più lecito dubitare che si navighi in
un mare ignoto e pericoloso.
Certamente all'Italia non toccarono i disastri economici che
colpirono altre nazioni, ma non le fu possibile però evitarne il
contraccolpo nello stato di malessere in cui si trovava, e che per
essere latente non era perciò meno diffuso in tutte le classi della
società attiva. Né fa duopo lo sguardo molto acuto per abbracciare
la vera situazione nostra. Si guardi all'agricoltura o all'industria,
LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIARIE. 355
s'interroghi il commercio o la popolazione, una sola è la nota: il
languore.
Per l'agricoltura basta notare che soli quattro quinti del nostro
suolo è in coltivazione e rimangono ancora intatti dall' aratro
pressoché 40 mila chilometri quadrati, dei quali circa 12 mila in
terreni paludosi- Per la parte coltivata vi sono eccezioni lodevo-
lissime, ma in generale non v'ha di che esserne lieti : la potenza
produttiva delle terre non è in proporzione alle nostre cognizioni
agricole che sono scarse e poco diffuse, perchè i valorosi ingegni
dei quali è ricca l'Italia, anco in materia agraria, né hanno
mezzi, né attribuzioni sufficienti a sviluppare convenientemente
l'istruzione agricola. D'altra parto le condizioni materiali ed in-
tellettuali dei coloni, i vecchi modi di coltura, il problema fore-
stale tuttora insoluto, il poco o nessuno sviluppo del credito agra-
rio mantengono la nostra agricoltura in tale stato da far dire agli
Inglesi che un metro quadrato del loro ingrato terreno dà tanto
come quattro metri del nostro.
Non ci consola di queste condizioni agricole lo stato delle
nostre industrie manifatturiere. La lavorazione delle lane e dei
cotoni, per esempio, diminuisce per la concorrenza formidabile che
loro può fare l'industria straniera, nonostante i dazi d'entrata non
leggieri, e le sete anche esse nel 1878 hanno patito un sensibilis-
simo ribasso di produzione, incerti i produttori sui dazi che sa-
rebbero risultati dalla rinnovazione dei trattati di commercio in
iscadenza.
La situazione del nostro commercio ci é bastantemente de-
scritta con poche cifre. Il bollettino dei fallimenti che si pubblica
dal Ministero d' agricoltura e commercio, segna nei primi otto
mesi del 1878, 581 sentenze di dichiarazioni di fallimenti, e il
maggior numero di queste dichiarazioni riguardano appunto i ne-
gozianti in tessuti e in manifatture; mentre il minor numero ri-
guarda i negozianti di materie prime, E davvero se all' Italia è
dato fare una concorrenza rilevante al commercio delle altre na-
zioni, ciò non può accadere che sulle materie prime per uno sviluppo
maggiore dell' industria agricola. Né deve dimenticarsi che i canali
marittimi e le Alpi traforate hanno accumulato sui mercati di un
popolo giovane il prodotto delle ricchezze straniere, alle quali le
industrie nascenti non presentano resistenza.
La popolazione non appare in condizioni migliori dell'agricol-
tura, dell'industria, dei commerci. Se si vuole anco lasciare da
parte la cifra che rappresenta l'emigrazione come quella che, pur
356 LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIARIE,
facendo testimonianza di un aumento, riguarda un fatto pur
troppo divenuto ordinario; non si può passar sopra ai fenomeni
che ]a società ci presenta da qualche tempo. Mentre da un lato
le idee sovvertitrici si diffondono sempre più fra le masse, onde
poi le classi operaie sono tratte agli scioperi ed ai tumulti, dal-
l'altro le classi colte non spiegano tutta l'operosità che da loro
si attende la società moderna. Né vi ha cosa forse pii!i vera che,
chi è pigro nei proprii doveri lo diventa anche nei diritti e nei
bisogni. Tutto ciò dimostra chiaramente che nella vita italiana la
produzione, tanto dal lato materiale che dal lato morale, non cor-
risponde ai bisogni del paese. Fa mestieri dunque ravvivare le
fonti della produttività nazionale; soccorrerle con tutte le risorse
possibili; bisogna, in una parola, volgere l'attenzione subito là
dove prima è stato colpito l'organismo economico.
Per quanto riguarda i capitali necessari alle costruzioni, lo
stato, che ha raggiunto il pareggio nel suo bilancio, non si tro-
verà certo a gran disagio per realizzarli: ma ciò ammesso, par-
rebbe poco prudente e poco equo il non impiegare gran parte
di questi capitali in aiuto dell'agricoltura, dell'industria e del
commercio nazionale. So bene che anco le ferrovie si possono
considerare come industrie, e in un ordinato movimento econo-
mico sono come in Francia e in Inghilterra fonte di pubblica ric-
chezza. Non è così pur troppo in Italia ove i primordi del 1879
già segnano sul 1878 un aumento di perdita. Non sembra quindi
che le condizioni generali d'Europa e quelle d'Italia in ispecie
rendano questo il momento più opportuno per azzardare in
tante costruzioni ferroviarie una somma che toccherebbe, se forse
noi superasse, il miliardo ; mentre al contrario e al governo e
ai privati non è più concesso chiudere pietosamente gli occhi
sulle condizioni agricole industriali e commerciali, sulle condizioni
delle popolazioni, le quali attendono un sollievo alle gravezze che
le fanno irrequiete, e se questo sollievo non può risolversi in di-
minuzione d'imposte, si risolva almeno in uno impulso potente a
quelle forze della natura, che non sono lusinghiere illusioni, ma
un vero benessere, h'S mamclles de VEtaf, come le chiamava, in
\\n secolo povero di risorse e pregno di pregiudizi, il grande
Sully.
LE NUOVE COSTKUZIONI FERROVIARIE. 357
II.
Veggasi ora in quali condizioni economiche e finanziarie tro-
vansi le provinole ed i comuni che secondo il progetto di legge
debbono concorrere per 180 milioni nella spesa preveduta per le
nuove costruzioni, e secondo la Commissione parlamentare con
aumento di 29 milioni in 209 milioni di lire.
Noi siamo giunti all'equilibrio delle entrate colle spese oel
Bilancio dello Stato ma se il disavanzo ivi è finito, questo perdura
ancora nei bilanci provinciali e comunali. Vi è dunque un secondo
pareggio che bisogna compiere, ed è quello delle entrate colle spese
nei comuni e nelle provincie.
Consultando le statistiche, esse inesorabilmente ci dicono che
siamo ben lungi dal poter conseguire un risultato così benefico,
e che ogni dì vieppiii questi Enti locali s'incamminano in una via
perigliosa ove le funeste conseguenze non tarderanno a farsi
sentire.
10 leggo infatti, in una recente pubblicazione ufficiale intorno
ai debiti dei Comuni, che nel quinquennio 1873-1877 il numero
dei comuni indebitati si accrebbe di 95, e la somma dei debiti
aumentò di 166 milioni, elevando per tal modo a 40 milioni l'au-
mento annuale del deficit. Al 31 dicembre 1877 su 8297 comuni,
con una popolazione di 27,769,475 abitanti, si trovarono 3510 co-
muni in debito, con una popolazione corrispondente di 16,175,842
abitanti, e un debito complessivo di 701.263,144.
11 debito delle provincie, fino al 31 dicembre 1877, è rap-
presentato dalla somma rilevante di 90,059,503. Aggiungendo a
questo importo dei debiti comunali e provinciali i redditi straor-
dinari che i comuni si sono procurati alienando od assottigliando
il loro Asse patrimoniale, si ha che il bilancio dei comuni e pro-
vincie preso complessivamente presentava un deficit dai 40 ai 45
milioni.
Il 1878 non ci dà occasione di rallegrarci, né l'anno in corso
tende a migliorare, che le fila dei comuni che invocano ed otten-
gono soccorsi dalla Cassa Depositi e Prestiti, si vanno ingros-
sando per tal modo da destare viva apprensione.
Queste cifre, di per sé stesse eloquenti, segnano un doloroso
stato di cose e danno ragione dell'indugio frapposto dai comuni
e Provincie nello sviluppare le opere produttive e soprattutto ad
VoL. XIV, Serie II — 15 Marzo 18ì9. %%
358 LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIARIE.
accelerare il compimento della viabilità ordinaria che a sua volta
diviene l'elemento necessario del movimento nelle ferrovie.
Quando poi si vede che quasi tutti i Comuni del Regno, poche
eccezioni fatte, non hanno compiuta la loro rete stradale, e appena
due terzi hanno costruite le strade più importanti, il pensiero che
primo sorge nella mente di ognuno si è che già in questo fatto
istesso si racchiude una quistione a risolvere bastantemente ar-
dua da assorbire tutta l'attenzione e tutte le risorse possibili.
Con più ragione mi chiedo se, date le condizioni economiche
generali del nostro paese, date queste condizioni finanziarie della
Provincie e dei Comuni, si possa sperare il concorso di questi Enti
per r ingente somma di 209,623,817 che la Commissione Parla-
mentare chiede per le nuove costruzioni ferroviarie?
E bensì vero che il periodo entro il quale dovranno prov-
vedere la somma necessaria è fissato in anni 18, ma le difficoltà
che incontrano nell' adempiere all' obbligo di costruire le loro
strade ordinarie non essendo certamente di tempo, le stesse dif-
ficoltà, se non maggiori, incontreranno per il concorso alle costru-
zioni ferroviarie.
Non è certo a nuove imposte che gli Enti locali potranno
ricorrere, espediente di difficile esecuzione perchè arduo e poco
prudente trovare nuova materia da colpire, né puranco sarebbe
saggia cosa operare delle prelevazioni sui loro bilanci, avvegnaché
ne soffrirebbe anche la parte destinata alla viabilità ordinaria.
Al complesso di queste obbiezioni ed a molte altre, ritengo
per certo, abbiano voluto rispondere il Ministro e la Commissione
unendo al progetto l' istituzione delle Casse ferroviarie.
Queste Casse sarebbero come un intermedio fra i capitalisti che
verserebbero in esse i loro fondi, e i Comuni che prenderebbero
le somme a prestito dalle Casse predette. Sembrami che potreb-
bero paragonarsi agli Istituti di Credito Fondiario che sono anche
essi un intermedio fra i capitalisti ed i possessori dei fondi che
hanno bisogno di creare mutui ammortizzabili a lunghe sca-
denze.
Ma si avverta però come gli Istituti di Credito Fondiario siano
appoggiati a Casse di Eisparmio che hanno già una forte po-
tenza economica come nell'Alta Italia, oa Banchi di Emissione
come a Napoli ed in Sicilia, i quali hanno una estesa circolazione
fiduci9,ria. Si noti inoltre che l'ipoteca dei possessori dei fondi é
una garanzia maggiore di quella che sia il credito dei Comuni,
oggi sopratutto che 1' esperienza dimostra che alcuni di questi
LE NUOVE COSTKUZIONI FERROVIARIE. 359
sono insolvibili. Non sembra dunque sperabile che queste nuove
Casse possano fare operazioni così estese come quelle degli Istituti
Fondiari. E se si considera che gli affari fatti da tali Istituti in
un periodo di ben dodici anni non oltrepassano i 218 milioni,
non è egli lecito dubitare che le nuove Casse possano essere
un organo veramente efficace e pronto allo scopo che si desidera?
Per il concorso di tutte le circostanze fin qui esposte io veggo
adunque dileguarsi la speranza che i Comuni e le Provincie pos-
sano in realtà concorrere nella spesa delle nuove costruzioni fer-
roviarie col progetto ministeriale, e tanto meno poi colle ag-
giunte della Commissione Parlamentare.
III.
All'atto di por mano e su vasta scala alla costruzione di nuove
linee ferroviarie un fatto eloquentissimo di per sé stesso deve con-
durci a profonde riflessioni. Quello cioè di vedere che coli' ac-
crescersi del numero dei chilometri in esercizio il reddito chilo-
metrico diminuisce. Su questo fatto le opinioni divergono, alcuni
vogliono che ciò addivenga dal non essere completata l'intera rete
e non allacciate fra loro le linee esercitate. Altri trovano ragione
di tale avvenimento nelle condizioni economiche generali del paese
e vi scorgono un avviso salutare a procedere colla massima cau-
tela e moderazione nell'attuare nuove linee ferroviarie, cosicché
queste non abbiano mai a soverchiare il reale e sentito bisogno
delle popolazioni, dei commerci e delle industrie.
I primi sono mossi dai confronti fatti fra il nostro e gli altri
paesi d'Europa, e ciò che si manifesta altrove credono debba es-
sere possibile in Italia. Io non esito a schierarmi con i secondi,
imperocché in ordine alle ferrovie i paragoni non sempre reg-
gono, e da un fatto medesimo ed in paesi diversi ne conseguono
effetti contrari; e ciò che ora é per noi un fatto incontestato, cioè
che il reddito chilometrico diminuisce in ragione dell'allargarsi
della rete, se potrebbe non realizzarsi più allorquando il progresso
economico in luogo di procedere lentamente come fa tuttora, avan-
zasse con passi rapidi nella via della prosperità, non è men vero
che oggi sussiste, che bisogna rintracciare le cause che lo deter-
minano e provvedere ai mezzi efficaci ad attenuarne gli effetti.
Le nostre condizioni topografiche che elevano sensibilmente
la spesa di costruzione: talune necessità politiche che creano al-
lungamento 0 spostamento dei tracciati aumentandone il costo;
360 LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIAEIE.
le condizioni economiche del paese in generale che danno poco
alimento all'industria locomotrice; la concorrenza^ che le linee si
fanno a vicenda, onde per la stazionarietà o lentezza dello svi-
luppo industriale e commerciale, s'aumentano le spese di eserci-
zio, sono tante cause per cui le ferrovie non riescono in Italia
rimuneratrici. Una pur ve n'ha le di cui conseguenze si possono
scongiurare in avvenire: l'attuale sistema di costruzione pel quale
vengono costruite con gli stessi tipi ed esercitate nell'identico
modo tanto le grandi arterie, internazionali, di grande comuni-
cazione, quanto (|uelle d'interesse locale. Se un radicale muta-
mento non sopravviene in questo sistema, non sono lungi dal
credere, che i lamenti cresceranno e le conseguenze che ne de-
riveranno saranno anco più gravi.
Le ferrovie ordinarie all'oneroso costo di costruzione fanno
seguire ingenti spese per l'esercizio, dalle quali cose poi, com'è
naturale, risultano le tariffe elevate. Se a queste possono accedere
l'alto commercio e le grandi industrie, è facile comprendere che
il piccolo traffico- non ha grande incentivo a servirsene; e dap-
poiché l'esperienza ci addimostra che le ferrovie ordinarie non
ritraggono sufficiente vita dal movimento economico del paese,
non sarehbe utile, come si è fatto altrove, di promuovere il pic-
colo traffico e portare un'agitazione salutare nei centri sprovvisti
di ferrovie con le costruzioni così dette economiche?
Altri Stati, alcuni di essi in condizioni topografiche anche
migliori delle nostre, dove lo svolgimento della pubblica ricchezza
è in continuo progredimento, ove le industrie ed i commerci fio-
riscono assai più che in Italia, hanno già adottato, e largamente,
nn sistema di costruzione e di esercizio più economico per le fer-
revie locali, dopo avere stabilito la rete di grande interesse ge-
nerale ed internazionale, col sistema delle linee a grande velocità.
Nell'Italia, anchp indipendentemente dalla buona prova fatta
altrove delle costruzioni delle ferrovie economiche, sembrami di
scorgere tutto il complesso di quelle circostan'_'e necessarie a bene
' In Inghilterra le linee ferroviarie hanno lottato le une contro le altre. Da
questa abbondanza di linee di cui una parte era superflua è resultato subito uno
sperpero enorme di capitale e una serie di crisi finanziarie delle quali la Borsa
di Londra serba il ricordo.
2 « La rapidiie des transports perraet anjourd'hui de (ionner au capital employé
dans le commerce de détail un emploi plus fréquent et plus fructueux. Ce pro-
grès que l'on doit aux voies ferrées n'a certainement pus dlt son dernier mot. »
— Chakles Lavollée. — Les Chemins de fer depuis la Guerre à propos de
l'Enquéte Parlementaire 1872.
LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIARIE. 361
accogliere una tale innovazione, a ricavarne tutti quei benefici
effetti, i>er i quali sarebbero in gran parte rimosse le cause che
Oggi impediscono alle ferrovie di essere rimuneratrici.
IV.
Una seria economia nel costo chilometrico di una ferrovia da
costruirsi non si può ottenere se non quando si riduca la larghezza
del binario adottata dalle ferrovie ordinarie per tal modo che si
possano sviluppare curve di piccolo raggio, e salire con forti
pendenze.
La riduzione dello scartamento se ha fatto buona prova in
altri paesi di Europa, incontra tuttora in Italia dell'opposizione,
ed in ispecial modo per il fatto inevitabile del trasbordo delle
merci. A tal uopo giova osservare, che le società attuali per le
ferrovie ordinarie operano spesso il trasbordo delle merci per
loro interesse, sia per completare il carico dei vagoni di una
data destinazione utilizzando così maggiormente il peso morto
del veicolo, sia per avere pronti i vagoni vuoti in previsione di
nuovi carichi. Se così praticano le società per le ferrovie ordina-
rie, che volendo potrebbero farne a meno, non sembra fuor di
ragione l'argomentare che, attuate le ferrovie a scarto ridotto,
tale inconveniente sarebbe per manifestarsi in grado minore di
quello che in oggi si pensa.
Lo scartamento delle ferrovie a sezione ridotta non è ancora
definitivamente stabilito, varie essendo le larghezze del binario
adottate nei diversi paesi; ' però il tipo va oggidì uniformandosi
come lo dimostrarono le varie locomotive-tender per ferrovie
economiche prodotte da Case Inglesi, Svizzere e Belghe alla Espo-
sizione di Parigi ed eseguite per lo scartamento di 1 metro.
Anzi a convalidare un tal fatto citerò le parole del chiaris-
simo ing. Comm. E,ivera. *
« In tutti i paesi è riconosciuto che la larghezza di m. 1 è
» la più conveniente per le ferrovie d' interesse pubblico, e che
» abbia a considerarsi come la sezione normale delle ferrovie
» ridotte. >
' Il signor Baum ingegnere dei ponti e strade di Francia, nel suo pregiato
lavoro del novembre 1818 intitolato : Études sur les chemins de fer d'ir\te'rét locai
trova conveniente limitare la lari^hezza del binario a mptri 0,80
2 V. Giornale del Genio Civile n. 10-11 pa-te ufficiale ottobre e novembre 1818
pag. 616. Relazione sulle ferrovie aormali e ferrovie a sezione ridotta dal Comm.
lag. A. II. Rivera a S. E. il Ministro dei lavori pubblici.
362 ■ LE NUOVE COSTRUZIONI FEKROVIARIE.
In quanto alle curve ed alle pendenze, il fatto ci dimostra
luminosamente che oggi si percorrono curve di raggio di m. 18
(linea di Chantilly), e si superano pendenze fino al 75 per mille
(Linea Tavaux-Pontséricourt), nelle quali la locomotiva-tender,
oltre a sé stessa, rimorchia coil facilità un peso uguale al proprio
con una velocità di 15 chilom. all'ora.
Premessi i fatti accennati e volendo mantenere una velocità
mìnima di 20 chilometri all' ora, ammettiamo, per ipotesi, che in
Italia s' imprenda la costruzione delle ferrovie a Scarto ridotto
e ad un metro di larghezza con pendenze del 40 o 45 per mille,
e curve di un raggio minimo di m. 35. Tali ferrovie non possono
costare più di 50 mila lire al chilom. in media, ed è quanto mi
accingo a dimostrare succintamente.
Le strade provinciali costruite nel 1877 costarono allo Stato
L. 23,078 al chilometro ed hanno 5 metri di larghezza.
Per la nostra ferrovia alla quale non occorrono che 3 m. si
dovrebbe verificare una rilevante economia sul costo delle vie
provinciali : ed ove si consideri che tale ferrovia nella maggior
parte dei casi potrà occupare una parte della stessa strada pro-
vinciale, senz'altro lavoro che qualche correzione di pendenza o
di curva, è facile il persuadersi che la spesa chilometrica del
corpo stradale delle ferrovie in questione si manterrebbe molto
al disotto delle 23,078 delle strade provinciali suddette, anzi p:-
trebbe in .qualche caso diventare pressoché nulla. Però in previ-
sione delle rettifiche probabili tanto nelle curve che nelle pen-
denze, in seguito alle quali si potrebbe essere obbligati ad ab-
bandonare per diversi tratti il tracciato della strada esistente,
per prudenza, riterremo nella sua integrità la cifra sj^esa realmente
in media di lire 23,000 al chilometro, quantunque in ragione di
larghezza il detto costo dovrebbe diminuirsi dei /^.
Stabilito così all'evidenza il costo chilometrico del corpo stra-
dale della nostra ferrovia a scarto ridotto, passiamo a determi-
U'^.re quello dell'armamento e del materiale mobile occorrente al-
l'esercizio.
Le rotaie d'acciaio Bsssemer hanno oggi la preferenza sulle
rotaie di ferro; potremo quindi adottare senz'altro un tipo di ro-
taia in acciaio di 20 chilogrammi per metro il cui pre::/;^ non sarà
certo superiore a L. 150 la tonnellata compreso il materiale minuto. '
* In questi giorni la Società delle Ferrovie Romane ha stipulato un contratta
con una Casa inglese per una fornitura di rotaie in acciaio Bessemer al prezzo
di lire 131 la tonnellata.
LE NUOVE COSTRUZIONI FEEROVIARIE. 363
Instituendo il calcolo sopra sei metri di binario, avremo :
Eotaie vignolles in acciaio con stecche, piastre, viti e
chiodi relativi (20 X 6) 2 X 150 L. 36,00
Traversine di quercia N. 7 X 4,00 » 28,00
Ghaia 2,00 X 0,40 X 6,00 X L. 4,00 » 19.20
Posa dell'armamento e trasporto materiale m.6 X IjSO » 9,00
Consumo attrezzi ed imprevviste » 3,80
Totale L. 96,00
E per metro L. 16, e quindi per chilometro L. 16,000
Il materiale mobile può venire stabilito per un tronco di 20
chilometri come segue ;
N, 3 locomotive di 12 a 14 tonnellate di cui 2 in
servizio a L. 1,50 il chilogramma ^ . . . . L. 58,500
» 8 vagoni viaggiatori a L. 3,500 » 28,000
» 4 vagoni merci . . » » 2,500 » 10,000
Totale L. 96,500
e per chilometro L. 4,900.
Aggiungendo V'g dell'importo dell'armamento e stabilendo un
fondo per lavori accessorii ed imprevvisti, avremo che il costo
di una ferrovia a scarto ridotto entro i limiti sopra esposti sarà
di lire 50,000 al chilometro così ripartito ;
1. Per espropriazione e costruzione del corpo stradale
esclusa la massicciata L. 23,000
2. Armamento sistema Vignolle di acciaio Bessemer
di 20 chil. con 7 traversine, due rotaie con accessorii, com-
presa la massicciata e la posa » 16,000
3. Maggiore sviluppo dell'armamento e materiale fisso
nelle stazioni .' » 3,200
4. Materiale mobile, cioè locomotive-tender, carrozze,
viaggiatori e vagoni merci » 4,900
5. Per fabbriche accessorie ed imprevisti ...» 2,900
Totale costo chilometrico L. 50,000
Resterebbe ora a concretare la spesa dell'esercizio, in fun-
zione delle resistenze passive dei treni, delle curve e delle pendenze,
del carico e della velocità, della manutenzione, illuminazione, am-
1 La Società delle Ferrovie Romane ha stipulato un contratto con una Casa
Belga per fornitura di locomotive al prezzo medio di lire 1.30 il chilogramma.
364 LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIARIE.
ministrazioue, ec, elementi tutti il cui sviluppo ci porterebbe ad
un dettai:flio di calcoli minuziosi non consentiti dalla brevità im-
postami del presente scritto; mi limiterò dunque a dare il risul-
tato dei calcoli fatti che è di L. 3500 al chilometro, conservando
piena fiducia che all'atto pratico non al)bia la detta somma a
soffrire aumento.
Ora se è vero come alcuni affermano, ed in particolare l'in-
gegnere Michel dei Ponti e Strade di Francia; che col me-
todo dei confronti fra gli abitanti di una data regione con altre
consimili e col numero dei biglietti e delle tonnellate di merci
arrivate e partite, si abbia potuto stabilire che in un paese suffi-
cientemente agricolo ogni abitante faccia in media 6. 50 viaggi
all'anno, e il movimento di merce per abitante sia di tonn. 2. 10,
ne deriverebbe che 5830 abitanti sparsi lungo un tratto di ferrovia
a scartamento ridotto darebbero un introito sufficiente a coprire
tutte le spese di esercizio. Ed una popolazione di 10,000 abitanti,
che non potrebbe mancare lungo un percorso di 25 chilometri,
produrrebbe L. 6000 per ogni chilometro all'anno, la quale somma
sarebbe sufficiente a rendere la ferrovia rimuneratrice del capitale
d'impianto che sarebtie così investito al 5 7o con aumento progres-
sivo in ragione dello sviluppo agricolo e industriale.
Dalle quali cose tutte si può concludere che, attuando le fer-
rovie complementari a scartamento ridotto nella sistemazione
generale della rete italiana, e il Governo concorrendo in misura
equa alle spese di costruzione, l'industria privata si offrirebbe
spontanea a costruirle e ad esercitarle, liberando le provincie ed
i comuni dal gravame che fa loro pesare il progetto ministeriale
a titolo di concorso, offrendo in pari tempo allo Stato il modo di
fare un notevole risparmio sulla spesa totale in oggi dal progetto
medesimo preventivata.
V.
Il lungo indugio posto nel provvedere al completamento della
rete ferroviaria è forse una delle maggiori cause per le quali i
desideri! e le speranze delle popolazioni non hanno avuto più
alcun freno, cosicché oltre le ferrovie contemplate nei progetti
del Governo e della Commissione parlamentare, v'ha tuttora un
numero rilevante di domande rimaste inesaudite. La staziona-
rietà della crisi industriale e commerciale e l'idea che le ferrovie
siano di per sé stesse, nonostante la insufficienza di attività eco-
LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIARIE. 365
nomica, come il tocca e sana del malessere in clie si trovano la
più gran parte delle popolazioni, valgono a spiegarci l'insistenza
che esse pongono nel chiedere allo Stato nuove costruzioni ferro-
viarie. È lo stesso motivo pel quale si comprende, come Governo e
Commissione ^ abbiano dovuto in parte lasciarsi vincere da que-
sta insistenza, imperocché ninno certamente vorrà nascondersi la
ingrata situazione nella quale si sarebbe messo lo Stato di fronte
alle Provincie e ai comuni se, dopo aver lasciato nutrire le più
indeterminate speranze, le avesse ])ruscamente trascurate e avesse
pensato soltanto alle costruzioni che lo interessano più diretta-
mente. Tutto dunque induce nella persuasione che le popolazioni
desiderano le ferrovie, tenendo conto soltanto dell'effetto che a
queste è proprio, senza preoccuparsi delle condizioni necessarie
a produrre questo effetto; ed è chiaro che l'ottenere tali condi-
zioni è in ultimo il vero oggetto dei loro bisogni e dei loro de-
siderii. '
È qui adunque che si racchiude il nodo della questione.
Trovare un modo che permetta di costruire le ferrovie senza
distrarre i capitali dall'impiego che è più necessario nelle attuali
condizioni economiche d'Italia. A questo proposito io trovo che
molti anni or sono, al momento in cui la Francia si preparava
alle sue grandi costruzioni ferroviarie, le quali importavano una
ingentissima spesa (1 miliardo e mezzo). Michele Chevalier così
opinava sullo storno dei capitali: « Distraire de propos deliberà
une pareille masse de fonds des autres usages auxquels l'industrie
applique le capital national, ce serait vouloir pianger le pays
dans une pertiirhation commerciale semblable à celle dont l'Amé-
rique à récemment été la victime. En fait de capitaux, quoique
ce soit une matière naturellement douée d'une certaine élasticité,
tout déplacement qui n'est pas ménage est da.ngereux. Là aussi
se vérifie cette loi de la mécanique rationnelle que tout choc
brusque occasionne une porte de forces vives. »■
Per le condizioni dell' Italia in generale, e quelle dei Comuni
e delle Provincie in particolare, il modo per costruire le ferrovie
1 « Coniraeat obtenir le vote de la Chambre des députés, en faveur des che-
mins de fer, si l'on ne fait jouir à peu près simulcanément de la cólérité mrtgique
qui les distingue, toutes les grandes divisions du tei-ritoire, le centre et Ics extré-
mités, l'Est et l'Ouest, le Nord et le Sud ? » — M. C. Chemin de fer en France, 1838.
* Michel Chevalier: Du re'seau des chemins de fer tei qiiil pourrait étrc
étdbli aujourd'hui en France. Mérnoires à l'Académie des scieiices morales et po-
litiques, 1838.
366 LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIARIE.
senza distrazioni dannose di capitali dalle industrie e dai com-
merci ritengo non si possa ottenere che adottando il doppio
sistema di costruzione, e cioè costruire a sistema ordinario tutte
quelle linee ohe sono indispensabili al completamento della rete
nel concetto degli interessi internazionali e degli interessi gene-
rali dello Stato ; in quanto agli interessi locali, entro i quali sta,
io direi quasi, nascosto il principio di quel maggiore incremento
economico che si desidera, e che non può essere prodotto altri-
menti se non per effetto di un moto bene ordinato di una atti-
vità a cui possano prendere parte tutte le forze possibili della
natura e dell'uomo, per questi interessi locali, io dico, voglionsi
piuttosto le ferrovie economiche.
Completata adunque la rete generale a sistema ordinario ed al-
lacciate le linee principali con numerose ferrovie complementari ed
economiche, si avrà un complesso di locomozione atto a tener vivo
il calore della vita industriale in tutta la nazione, in quella- stessa
guisa che il calore della vita fisica è dato dalle grandi arterie pei
piccoli vasi, a tutte le parti del corpo umano. E così distribuita in
modo più assimilato alle condizioni economiche del paese, la in-
dustria locomotrice, mentre per effetto della stessa richiesta di-
verrà oggetto di produttiva speculazione, potrà anche trovare
numerosi capitali esteri che vi si impieghino ; e più facilmente
i capitali indigeni potranno rimanere impiegati nell' agricoltura
e nella industria nostra, perchè, se altrove è una speculazione,
in Italia l'impiego dei capitali alla produzione di materie prime è
tale necessità, da considerarsi quasi una seconda natura.
Mi sia lecito una volta ancora invocare l'autorità dello Cheva-
lier. Egli, che vedeva come le condizioni economiche della Francia
non permettessero di por mano ad una estesa costruzione di fer-
rovie, propugnò l'idea di costruire soltanto le grandi linee d'in-
teresse generale, e per gli interessi locali di far servire alle co-
municazioni i fiumi ed i canali. Era l'anno 1838; se a quell'epoca
si fossero già conosciute le ferrovie economiche, può credersi che
r illustre economista ne avrebbe consigliata la costruzione per gli
interessi locali.
Oggi la questione delle nuove costruzioni ferroviarie sta di-
nanzi alla Camera.
Io confido che la Rappresentanza Nazionale ispirandosi ai
bisogni reali del paese, ed elevandosi al di sopra degli interessi
locali, che sovente offuscano la serenità del pensiero e l'impar-
zialità dei giudizi, saprà, approvate le grandi linee più urgenti
LE NUOVE COSTRUZIONI FERROVIARIE. 367
proposte nel progetto di legge, conciliare per tutte le altre i voti
delle provinole colle condizioni economiche e finanziarie di esse.
A questo intento nulla può più efficacemente contribuire del-
l'accettare, come abbiamo dimostrato, il sistema delle ferro-
vie economiche, insegnatoci dalla scienza moderna, e dall'espe-
rienza di quei popoli che ci hanno preceduto nel cammino della
civiltà.
Alfonso Audinot.
368
Sicuri di lare cosa gradita ai nostri lettori, diamo tradotta dall'illu-
stre G. B. Giorgini la seguente elegia del prof. Domenico Gnoli puijbli-
cata già nell' Illustrazione italiana.
IL PIIIMO CAPELLO BIANCO.
Davvero se' bianco ? e t'ho dal capo divelto
Dal nero mio capo? se' veramente mio?
Ahi, sento una nova stanchezza, e come di piombo
Cade sugli antichi libri la fronte grave.
All'ilare festa la prima lampada è spenta.
La prima; poi l'altre mancano ad una ad una:
E dove formose volgean le vergini i balli,
Empie l'atra notte le fragorose sale.
Ahi, la prima foglia nel denso bosco virente
Ingiallita al freddo soffio d'autuinio cade;
Poi segue una pioggia di gialle foglie, e distende
L'albero pel morto aere gli stecchi nudi.
Addio, troppo cari fantasmi ! 11 bianco capello
E l'anel che tutti fuga gl'incantesimi.
Stamane mi scosse la Giovinezza dal sonno,
E aprendo le imposte. Vivi, mi disse, e spera.
E già questa sera la sconsolata Vecchiezza
Me al freddo letto, nova compagna, guida:
E nella lucerna soffiando. Dormi, mi dice,
Avvezzati al buio cui nessun'alba segue.
369
AD CAOTM CAPILLUM.
Fallor an hic meus est, nigris e crinibus album,
Unco quem nuper pollice diripui ?
Deserit heu notus vigor artus: plumbea tamquam
In veteres libros frons mihi fessa cadit.
Festis prima jocis extincta est lampas : ad unara
Heu post hanc omnes ordine deficiunt:
Et qua ducebat virgo formosa choreas,
Nox late vacuas occupat atra domos.
Jam folium, primis silvara torquentibus Euris,
Decidit autumni frigore pallidulum:
Turbine post alia heu volitant, exutaque tendit
Arbos ad pigrum bracliia sicca jovera.
Aeternum mihi cara nimis simulacra valete !
Annulus hic magicae dissipat artis opus.
Me placido excussit somno, reseransque fenestram
« Vive et spera >•> inquit mane Juventa mihi.
Jamque meis hospes succedens vespere tectis,
Ostendit gelidum moesta Senecta torum.
Lumen dehinc afflans « Soranum disce, inquit, et umbras
Quas remeante nitens non fugat bora die. »
G. B. GlORGINI.
RASSEGNA LETTERARIA
Teodora, l'i A. Ricci. — Firenze, Tipografia Successori Le Monnier.
Mentre la pioggia batteva i vetri ilelle imposte con eguale cadenza e
il vento strideva giù per la cappa del caminetto, davanti al quale io me
ne stavo sdraiato su d'un seggiolone a contemplare i tizzoni che ardevano
divampando e cigolando in mille guise ; una grande uggia m'aveva assalito
lo spirito, e dicevo trame e me: la leggerò o non la leggerò questa Teodora?
un romanzo italiano! oibò! sarà una dello solite novelle che si scrivono in
Italia con titolo di romanzo, perchè si dice che l'Italia è una nazione fanciulla,
e ai fanciulli si raccontano a sollazzo i fattarelli; si vuole tenere in loro desta
la fantasia, mentre il cuore e la mente stanno li immoti come a guardare da
una finestra lo sfilare dei soldati o delle maschere : sarà, in somma, una
delle solite tisi di cuore, nelle quali forse l'autore ci si ritrova, ma chi legge
cerca e non trova nulla, né meno il medico.
Così dicevo a me stesso, sogghignando al libro ; ma poi il nome del-
l'amico che stava accanto al nome del romanzo, vinse questa stanchezza del
mio animo, e mi misi a leggei'e.
Leggevo; e pian piano i fogli cominciarono a voltarsi nello mie dita
pili e più veloci, e non sentivo più la pioggia nei vetri, né m'accorgevo che
il fuoco s' andava smorzando : tutto il mio animo era a Teodora, quella
donna che sulle rovine dei sentimenti puri e nobili che la sua bellissima
persona suscitava negli animi generosi ed elevati de' suoi adoratori, e sulla
bassa e vile passione di un vecchio perverso, edificava e un trono d'oro alla
sua cupidigia e un letto di porpora alla sola Deità, alla quale credesse: il
culto e il piacere di sé stessa. Da Teodora a Maurizio, da Teodora alCornaro,
da Teodora a Gisella, che mondi, che orizzonti, che influito: quanto ne corre
da un baratro all'azzurro de' cieli, dal cupo fondo di un astro alla lucente
atmosfera !
E pian piano leggendo, io riandavo sulla mia vita, sui ricordi del pas-
RASSEGNA LETTERARIA. 371
sato, sulle impressioni del presente; e il romanzo si faceva vivente, e il secolo
nostro così com'era, nel quale ogni sentimento e ogni pensiero si riflet-
tono nella coscienza matura come in uno specchio terso, appariva all'oc-
chio della mia mente. E tanto era viva e potente questa impressione, eh' io
m'andavo dicendo: ma che avessi conosciuta questa Teodora; fossi stato
l'amico di Cipriano Cornaro; amassi, per caso, anch'io una Gisella,
quella Gisella, dall' amore puro e fedele, senza gelosie e senza rancori
sicura di sé, ma rassegnata a morire amando e incompresa ? E m'adiravo
e gioivo e speravo e credevo e amavo con loro !
Ma questa è la virtù di chi intrapende oggi a scrivere sulle orme del
Feuillet e de' grandi romanzieri moderni: egli diventa pittore, scultore, poeta
del suo tempo, nel quale la forma eccellente della letteratura è il romanzo,
cioè la società moderna medesima. Rotte dalla rivoluzione francese con
grande fracasso e strage d'uomini le barriere delle caste, le classi si sono mi-
schiate, i ceti posticci sono caduti coi pregiudizi e le astrazioni vuote, e la
società dei salotti è diventata realmente l' immagine più sincera dei senti-
menti del tempo, poiché tutto il sentire delicato vi si è liberamente concen-
trato; e nel bene o nel male tutto vi si è venuto raffinando e assottigliando
con l'educazione e la coltura di tutto e di tutti e lo studio di sé stessi e
degli altri.
Nel XYIII secolo un salotto era forse la cattedra, dove un Voltaire o un
Rousseau raccontavano le meraviglie della nuova speculazione; ma la na-
tura coperta di belletto e di trine non s'agitava pe' moti del core; e l'eco
più viva se ne ripercoteva lontanamente nel tugurio umile e derelitto. Che
Iddio, che l'anima immortale fosseroo no, era l'ignoto d'un problema d'algebra,
che tra una barzelletta e l'altra faceva pensare questo o quello; ma non il
misterioso segreto che nel XIX secolo rode più il cuore che non faccia la-
vorare la mente. Quelli erano gaudenti che a volte pensavano; questi del
secolo nostro sono pensatori che amano ed odiano, sperano o disperano,
perchè il dubbio della mente è diventato il sospetto del cuore. Il salotto
del XMII secolo era un teatro; quello del .secolo XIX è diventato un campo
d'azione.
Tra i due è corso una tragedia viva e non rappresentata : il 93 ! Di
qui il. nuovo romanzo.
Il conte di Camors e Sybille sono l'uomo e la donna che il secolo
frutta ; sono i tipi che dovevano nascere dopo l'epopea del medio-evo e il
desolante dubbio che l'ha seguito nel pensiero umano, venutosi a cono-
scere più addentro e meglio in relazione col mondo fisico che lo riveste
tutto, e del quale egli si chiede pauroso se è l'effetto o la causa.
Il moderno Atlante cade schiacciato sotto la mole che l'altro Atlante
de' nostri padri aniichi teneva baldanzoso sugli omeri suoi!
Il romanzo, ultima espressione della fantasia scossa da una così cruda
riflessione, doveva abbandonare e abbandonò il mondo leggendario delle
372 KASSEGNA LETTERARIA.
azioni esteriori e rientrò nell'ignoto della coscienza. Se dallo studio del
filosofo e del matematico l'uomo nuovo veniva fuori pieno di titubanza e
scettico ; il cuore e la fantasia in lotta con quella reagivano ; e nel con-
trasto del pensiero e del sentimento, del cuore e della mente, specchio vi-
vente dell'antitesi, sorgeva il romanzo moderno. Il Camors non credeva;
ma amò !
In Italia ragioni storiche, che non saranno qui da me analizzate e che
pure trovano un raffronto nel torpore che ha invaso da più e più anni le
menti, ci dettero il romanzo storico per eccellenza col Manzoni, ma non ci
hanno dato il romanzo intimo, la storia della coscienza, il romanzo mo-
derno.
Si voleva lare la pitiura della società; ma o quelli che v'andavano
erano ignari o quelli che avevano mente e cuore non v' andavano ; così che,
a cagione delle condizioni del tempo che tenevano divise regioni da regioni,
ceti da ceti, e segregavano gli uomini colti tra i fossi e le mura delle bi-
blioteche, baluardi del sapere, ma non campo della operosità che sola fa
scaturire la vera passione; il romanzo era di là da venire, com'era di là
da venire la società italiana.
Come rappresentare ciò che non esisteva ? come l'uomo del secolo po-
teva muoversi e pensare ed operare, quando ad ogni pie sospinto, e la
sua azione e il suo pensiero si trovavano legati, intralciati, compressi ?
E non essendo libertà, nasceva l'albero sterile non fecondo di frutti belli
alla vista e al sapore ; erano tisici nudriti e allevati tra le pareti di mura
cittadine, non uomini robusti e vegeti avvezzi a correre i campi di libere
terre : la mente opprimeva il cuore, il dubbio vinceva il sentimento, non
c'era lotta, ma il torpore del cinismo.
Fra l'Italia antica e la nuova in luogo del 03 corse il 00; in luogo
del sangue che ritempra, le dimostrazioni che snervano.
Tale essendo la vita letteraria degli ultimi anni in Italia, non è a dire
con quanto stupore io mi trovassi al fine di Teodora agitato da mille pen-
sieri diversi, che mi rivelavano l'alba d'una nuova èra intellettuale : quella,
nella quale la società moderna italiana, rifatti e rifusi, per dir così, gli
elementi della sua nuova unità, cominciasse ad avere di sé stessa una
coscienza adeguata, e dalla fanciullezza posticcia che le volevano imporre
i nostri dottrinarli economisti, tornasse alla maturità che spetta in I^uropa
alla più vecchia delle nazioni; vecchia pel tempo, vecchia per la storia
del suo pensiero, che compendia la vita intellettuale di tutto il mondo.
Io ho dunque salutato in Teodora, più che una opera d'arte di bella
forma e un dramma che tiene l'animo sospeso sino in fondo, uno dei primi
romanzi moderni scritti in Italia con caratteri italiani e lingua italiana.
Ma che cos'è Teodora 'r quale l'intreccio?
Eccone un brevissimo schema.
La prima parte ha luogo in Napoli, sulle sponde [di quel bel golfo,
EASSEGNA LETTERARIA. 373
dove la natura si fa quasi eterea tanto clie l'A. non sapendo come dipin-
gerla, esclama : « che un bacio del Creatore al Creato non si stemperò
nemmeno sulla tavolozza del Sanzio. » Quivi, dunque, viveva Teodora,
figliuola del marchese di Collaprico, stato derubato di tutto il suo in un
fallimento apparecchiato ad arte dal suo socio, uà tale Remolli, che col
frutto del furto arricchisce in America, e poi torna in patria milionario
e amico della casa ch'egli aveva spogliata. La bellissima Teodora aveva
intanto fatto nascere un santo e purissimo culto nel cuore di Maurizio, che
da misero orfano di poveri pescatori per la protezione d'un mecenate e il
fuoco dell'arte che ne scaldava le vene, era salito a pittore di grido. Ma
sia perchè, come dice il Leopardi:
« ... Ciò che inspira ai generosi amanti
La sua stessa beltà, donna non pensa,
Né comprender potria ; »
sia, e più di tutto, perchè l'animo di lei non si commoveva che per gì' im-
pulsi della ambizione e della cupidigia, Teodora sacriflca l'amore alla sete
dell'apparire, la gioventù e i suoi affetti alle voglie della ricchezza e del
lusso, sogno costante delle sue notti, e uccide nel giovane Maurizio la fede
nata dall'arte e dall'amore, per vendersi al vecchio Remolli, che per la
vista abbagliante dell'oro nascondeva l'animo suo turpe e affascinava
l'altrui vista : spettacolo d'ogni tempo e d'ogni giorno ! Il giovane Maurizio
impazzisce e Teodora sposa Remolli.
In questa prima parte tu assisti alla notte buia che man mano si
stende sull'animo del giovane per opera di quella stessa donna ch'era per
lui il sole dun giorno splendidissimo ; e in quella donna, che rischiarava
di tanta luce l'altrui fantasia, tu veili crescere e dilatarsi le tenebre di un
egoismo senza confine che si confondono poi con le voglie d'un uomo cre-
sciuto con l'inganno del padre di lei. Il tessuto, direi, psicologico del fatto
è poi avvivato qua e là da scene pittoresche quanto mai di popolani che,
con 1' intuizione innata della coscienza retta, si fanno una ragione de'tatti,
ignorata dagli altri, e pigliano le parti e consolano i derelitti della sorte.
Sono quadretti di genere; e ti pare di scorgere quegli acquarelli a tinte
calde, dove si dipinge o un corricolo o si vedono i pescatori cenare sulla
spiaggia del mare dopo d'aver tirata la rete.
Nella seconda parta, Teodora, riavutasi alquanto dall'ebbrezza che
l'aveva invasa nel sentirsi da un povero tugurio sollevata a un sontuoso
palazzo, comincia a cercare sé stessa ; e la noia profonda dell' isolamento
che ella da sé aveva fatto nel suo animo, la prende a un tratto.
Ma chi ha distrutto, non riedifica in quel mondo che vive dentro
dell'uomo: è legge inesorabile. Dentro di sé ella aveva fatto il vuoto;
necessariamente doveva cercare fuori delle gioie intime del sentimento lo
sfogo d'una natura bollente e insaziabile.
"VoL. XIV, Serie 11—15 Marzo 1819. 23
374 RASSEGNA LETTERARIA.
Eccola a S. Moritz, lontana dal Remolli, del quale ella si è momentanea-
mente liberata; ed ecco altresì a S. Moritz una contessa Duppeldorf con la
sua figliuola Gisella, accompagnate da un principe Gabrianine amante del-
l'una e padre ignorato dell'altra. Con questi all' Hotel Badrutt si trova
una sera Teoilora, la quale ebbe allora a conoscere Cipriano Cornaro, di
antica famiglia patrizia veneziana, amato senza saperlo da Gisella e amante,
da quella sera, di Teodora. Durante ([uesta parte del romanzo la figura di
Gisella è come una angelica visione che apparisce e scomparisce sulla
scena, dove lottano le passioni violente del Cornaro, affascinato e fatto
schiavo dalle arti e seduzioni di Teodora; mentre il ^iabrianine vuole salvare
l'amico Cornaro dalla inevitabile rovina della nobiltà e sincerità de' suoi
sentimenti che non potevano essere né compresi uè contraccambiati da una
Teodora; e vorrebbe anzi destinarli alla sua tìgliuola Gisella che nel tacito
suo amore si va spegnendo ed è vicina a morirne, se non la sostenesse la
lontana speranza che il Gabrianine tiene in lei viva.
Intanto il fuoco latente prorompe, e il Cornaro dichiara l' amor suo a
Teodora; ma alla melodia che vien fuori dall'animo di lui non risponde
la lira rotta di Teodora, che crede di salire con esso nel cielo del senti-
mento additandogli un'alcova e i piaceri della Venere girovaga. Il Cornaro
incosciente rimane perplesso dinanzi alla porta socchiusa, invito ch'egli era
lontano ilallo sperare, e Teodora delusa nella espettativa rompe con lui.
E mentre l'una di repente porta sul lago di Como il suo disinganno,
l'altro pensa al suicidio, l'oblio senza speranza, la notte senza alba, il nulla
assoluto, nel quale si abbandona l'uomo che nella vita ha cercato il bene
e trovato il male, ha amato ed è stato disamato: contrasto dell'ideale che
abbiamo in noi, il quale violentemente si urta e si spezza con la realtà
che è fuori di noi: contrasto, nel quale le anime elette a volt^ sog-
giacciono.
Ma l'opera soccorritrice dell'amico Io salva e richiama a sé stesso,
cioè alla lotta, per la quale l'uomo a traverso i secoli è destinato a vin-
cere contro so stesso e far trionfare l'iflea sulla materia.
Intanto il Gabrianine, messo il Cornaro la passione del quale né meno il
tentato suicidio potò domare) in relazione a Parigi con un tale Rutenef che
ha comune con lui il pensiero di una grande opera commerciale nell'Au-
stralia, viene sul lago di Como, e fattosi l'amico di Teodora, ne diventa
poi l'amante, per uno strano avvicendarsi di casi, in parte da lui appa-
recchiali e in parte più forti d'ogni volere ; soggetto di dialoghi e descri-
zioni dell'A. che fanno palpitare l'animo di chi legge, vedendo alle prese
la potenza e l'arte di una donna bellissima, ma senza cuore, e lo studio e
l'affetto d'un uomo ilominato dal pensiero dell'amore paterno.
Aveva indovinato qual donna ella fosse e con l'armi sue proprie la
voleva abbattere e ricondurre il cuore di Cipriano a Gisella Ma in (luei
giorni passati sul lago di Como accanto a quella Teodora, che gli confi-
RASSEGNA LETTERARIA. 375
dava il suo ribrezzo di dover convivere col ladro di suo padre, dappoi-
ché questi era venuto a sapere tardi il fatto e ingiungeva a sua figlia
di separarsi da quello o l'avrebbe maledetta; quante volte egli, il fedele
Gabrianlne, pensò di aver da fare con un povero cuoi'e esulcerato e ingan-
nato, come l'A. si domanda a volte: Teodora ha amato mai? Per perfido
che sia l'animo umano, degli sprazzi di luce rompono qua e là le tenebre e
l'ultimo atto d'una vita buona o malvagia non è che la soluzione d'una
catena di dubbi, della quale l'ultima maglia dice bene o male secondo che
questo 0 quello siede signorilmente sulla vetta del lungo cammino.
Però, il bisogno del lusso potè più che l'amore dell' amante, più che
il rispetto al padre, e Teodora china l'altera fronte sotto lo sguardo bieco
del marito furfante. E allora il Gabrianine non ha più esitanze, e, prima di
separarsi, persuade Teodora di accettare in deposito un finimento di sme-
raldi, che poi diventa il prezzo del loro fuggitivo amore.
Difatti, eccoci alla terza parte; a Nizza.
Qui il Gabrianine, titubante e incerto dell'avvenire né sapendo come
dipanare a' suoi fini la matassa filata sul lago di Como, si reca a trovare
Teodora, la quale é invasa da quell'altra passione che d'un angelo farebbe
della donna una vipera: la passione del giuoco. Teodora butta sul tap-
peto verde l'oro che aveva ottenuto da suo marito per ricomprare il fini-
mento di smeraldi ch'ella non aveva mai restituito, e non sapendosene
staccare accetta l'offerta del Gabrianine di diventare sua debitrice a tempo
indeterminato.
Teodora era nelle mani del Gabrianine, il suo lato era scritto.
E qui si accelera la soluzione del romanzo. Il Gabrianine a un tratto
racconta a Teodora il lungo e costante amore del Cornaro, la disperazione,
il tentato suicidio di lui; e Teodora che s'era creduta umiliata dall' esi-
tanza del giovane a S Moritz, si ridesta tutta nel pensiero del suo trionfo
e riarde delle antiche brame che ci^edette non corrisposte. E la bellissima
donna corre a Venezia ad abbandonarsi nelle braccia dell' amante ; impe-
rocché anche la donna meno capace di amore si compiace dell'amore più
nobile del suo amante, che mette tutto l'animo ai piedi di chi non gli offre
che una persona spoglia d' ogni affetto ideale. Ma, spettro della sua co-
scienza, comparisce il Gabrianine.
In un'antica stanza del vecchio palazzo dei Cornaro, dove pareva che
nella notte il silenzio del luogo dovesse, al cospetto delle mura auguste,
farne agitare ogni ricordo, il Gabrianine si presenta e chiede a Teodora con
che dritto la donna dell'amore prezzolato, del quale ella portava refl3gie
sul capo, fruisse dell'amore purissimo d'un Cornaro. Quella vista e quelle
parole incutono tale terrore in Teodora ch'ella fugge, e perseguitata dal
Cornaro che riscosso dal lungo sonno vuole darle l'oro che fu l'unico Dio
di quella vita disamorata, inconscia di sé, cade nella Laguna, nel punto
che voleva saltare su d'una gondola. Allora il Gabrianine ritiene il Cornaro
376 RASSEGNA LETTERARIA.
che si voleva precipitare in suo aiuto, con queste parole, compendio del
libro :
« Cipriano, raccogli l'oro che offi-isti a Teodora, e gittalo tra l'acque
alla ventura. Esso sia come il flore più gradito che si possa spargere
sulla tomba di una donna malvagia. La sua morte è la tua vita. »
Questo lo schema di Teodora; è senza pecche? è perfetto? tutti i ca-
ratteri son quali dovrebbero essere?
Io dico che son quali l'A. voleva che fossero; e che di Teodoro e Gi-
selle e Cornare io, per conto mio, ne ho incontrati e conosciuti, se non tali
e quali, poiché quelli sono tipi, certo in gran parte somiglianti E viva
Iddio che in questi opposti ci fa navigare tr^^ la speranza e il disinganno,
tra la lede e il dubbio, tra il piacere e il dolore; perchè se non incon-
trassimo gli uni, saremmo incapaci d'amare gli altri, e dalla melma che
ci copre i piedi, fissare gli occhi alla volta stellata del cielo!
E quanto alle pecche, scagli una pietra chi si sente tale da scrivere
le scene finissime tra Teodora e il Gabrianine sul lago di Como e a Nizza,
e tra il Gabrianine e il Cornaro a S. Moritz; gl'impulsi momentanei
di Teodora verso il bene che l' istinto predominante vien tosto a soffo-
care; il vuoto e la miseria di quell'animo, che nell'amore di sé non
trovò mai posa, e all'amore puro e nobile volle fare inganno con la sen-
sualità più brutale Ma allora, nel cozzare dei due mondi, una vittima vi
doveva essere: o Teodora o Gisella; e in quell'attimo die fu il suggello
della vita del giovane fòrte e onesto, la luce serena dell'ideale spunta sul-
r orizzonte del Cornaro, e irraggia quella cupa parte della Laguna, dove
annega con una borsa la vile meretrice.
Tutto il romanzo si compendia, si aggruppa, s'incentra in quel mo-
mento; e questa è la loile maggiore del libro che trova la sua sintesi nel
fatto che lo termina.
Io dico : scriva chi sa meglio e lo loderò ; ma quanto a me, scor-
gendo tanti pregi in quel libro, e quello singolare d'un nuovo indirizzo dato
alla letteratura romantica italiana, epilogo il mio pensiero in queste pa-
role: il Ricci é artista; e il suo romanzo è il romanzo del tempo.
,1. De Martino.
RASSEGNA POLITICA
I radicali in Francia. — Strana caduta dei ministro Marcère. — La proposta di
accusa contro i ministri del 16 maggio. — Quella di trasferire le Camere a
Parigi. — Se la situazione ammetta rimedio. — Alcune analogie con noi. — Il
disegno del ministro Magliani di salvare una parte del Macinato. — La di-
scussione sul bilancio dell'istruzione pubblica.
Le cose di Francia peggiorano di giorno in giorno, lasciando perplessi
gli amici dell'ordine e della pace tanto dentro che fuori. Perchè debbano
peggiorare non apparisce abbastanza chiaro, non essendo facile scorgere
il fondo a tante ire, a tante invidie, a tante cieche passioni, che tornano
a rimescolarsi e ribollono disprezzando il buon senso, l'esperienza e la tran-
quillità del paese. Certo è che le passioni ribollono, e non si può assistere
a cosi melanconico spettacolo di una gran nazione senza inquieta maravi-
glia, considerando quanto vicine sieno ancora le sue sventure e come mi-
nacci di sparir presto l'unico frutto che si potesse raccogliere dal dolore.
La repubblica esce, per il miracolo di un voto, dalla prima Assem-
blea; n'esce come una transazione, una tregua, un simbolo di pace fra i
partiti già infocati in modo, che paiono preparare una seconda guerra
civile ; a forza di prudenza, rassicurando i timidi, persuadendo gì' incerti,
mantenendo fermamente l'ordine, guadagna fautori e amici, supera il ci-
mento cui la sottopone il suo stesso presidente, meno disposto degli altri
a credervi; vince nelle elezioni della Camera; torna a vincere in quelle
del Senato; Analmente coll'abdicazione del Maresciallo, la si dice confer-
mata, stabilita, sicura, e proprio il dì dopo, quando dovrebbe cominciare a
godere del suo trionfo, quando le sarebbe dischiusa innanzi una vita senza
contrasti e senza inquietudini, ecco che tutto vacilla di nuovo, non più per
opera di monarchici ormai debellati, ma degli stessi repubblicani. Liberi
appena dal timore dei partiti contrari, non sanno tenersi in cuore la gioia
della vittoria, e irrompono senza freno in tutte le stranezze immaginabili,
purché servano a manifestare la loro audacia e la loro prepotenza.
378 EASSEGNA POLITICA.
Un caso simile a quello che rovesciò non ha g-uari il ministro Mar-
cère non si riesce a capire. Come mai un ministro così importante, un
uomo poco fa tanto riputato e stimato, possa ridursi a cadere in una Ca-
mera con quattro voti, non si spiega, se non supponendo, che il sentimento
delle necessità di governo vi sia in tutti più debole delle proprie passioni,
e gli stessi monarchici abbiano badato a votare contro il repubblicano,
senza riflettere ad altro.
Sarà infatti che il Ministro si fosse difeso male contro l'interpellanza
del sig. Clemenceau, ch'egli non avesse dovuto cercar di interrompere
l'inchiesta sulla Prefettura di polizia, che questa, come l'interpellante af-
fermò, sia piena di bonapartisti, e non a torto le si rimproverino certi
abusi. Ma è il tempo di intimorire e di indebolire la polizia quello in cui
stanno per irrompere in Parigi tutti gli amnistiati della Comune, pieni
di baldanza per l'assoluzione imposta, più che propugnata, da un partito
in lega con loro, forte in parte per loro, e che accenna a diventare pre-
dominante? È il tempo in cui un ]\Iinistro dell'interno che difende la po-
lizia, una dolorosa, ma inevitabile necessità, contro la ({uale si grida un
giorno per domandarle aiuto il giorno successivo, debba rimanere con quat-
tro voti, senza che vi si scorga il sintomo d'una condizione di cose grave?
Né ciò che avvenne sarebbe ancora il peggio, in paragone di quello che
parrebbe sovrastare, se non fosse sperabile ancora un rimedio. Il processo
contro i ministri del IG maggio appariva da so tanto inopportuno ed irragio-
nevole, da doversi credere che la Commissione cui era stata deferita l'inchie-
sta, lasciasse cadere la cosa in dimenticanza, o la eludesse con un voto con-
trario. Oltreché infatti un processo simile basta da sé a risuscitare i monar-
chici e a ri.spingere la Francia in tutte le ire di parte con tanto stento sopite,
la colpa maggiore del 16 maggio ricade sul presidente, proprio quello che
dalla costituzione è dichiarato irresponsabile e non potrebbe neppure essere
interrogato Poi quello del 16 maggio è forse l'unico tentativo commesso in
Francia contro -la costituzione e le leggi politiche? E perchè fermarsi a
quest'ultimo, in luogo di rimontare anche agli altri? Queste e molte altre ra-
gioni davano non poco a sperare, quando la Commissione, contro le dissua-
sioni ripetute più volte e assai fermamente dal presidente del Consiglio, signor
Waddington, deliberò con 21 voti contro 7 che i ministri del 16 maggio fos-
sero posti in accusa.
Ora è fuori d'ogni dubbio clie la Camera respingerà cosi matta idea,
la quale, sempreché fosse accolta, basterebbe a far cadere il ministero
Waddington, un mese o poco più dacché venne al mondo, a mettere il go-
verno in mano dei radicali e a scompigliare tutta la Francia. Per quanto
sia stato grande 1' errore commesso verso il ministro Marcerò, questo se-
condo sarebbe doppio, poiché genererebbe una serie di turbamenti, dei quali
nessuno potrebbe prevedere l'ultimo. Ma il solo aver potuto essere da prima
lungamente e seriamente esaminata e poi portata alla Camera una prò-
RASSEGNA POLITICA. 379
posta COSÌ ripugnante alla quieta pubblica, e della quale nessun frutto si
attende fiiorcliè il disor.line, mostra a che punto sieno precipitate le cose
di Francia in un tempo relativamente brevissimo e quanto sieno ragione-
voli i timori, coi quali si attende l'avvenire, benché nulla sia accaduto
fin qui di grave, 11 governo, così quello del signor Waddington ora, come
quello del signor Dutaure prima, fa ogni opera per contenere il torrente
che s'avvalla e Io trascina seco minacciando altrimenti di rovesciare lui
per il primo e tutto il resto di mano in mano. Ma appunto in questo
continuo moto, nel quale il governo perde terreno e chi l' insegue e lo
preme ne acquista, non si sa dove le cose potranno giungere, se almeno
uno di quegli scatti di saviezza, che in vero non furono rari in Francia
dal 1871 in qua, non torni a dominarle e a riporlo in via.
Anche la proposta di trasferire la Camera a Parigi, a cui il presi-
dente del Consiglio si oppose, se prima non si fosse deliberato suU' altra
intorno al processo dei ministri del !•■ maggio, ragionevole e giusta se
la si considera separatamente, diventa improvvida e inopportuna collegata
con tutto il resto, col ritorno dei comunardi, colla guerra alla polizia,
con una stampa che soffia nelle invidie del volgo, colle accuse al ministro
Say, che tengono dietro a quelle delle quali fu vittima il signor Carcere.
Che r indugio di un ministro a smentir la voce della riduzione della rendita,
una di quelle voci che alla borsa rinascono ad ogni momento, debba bastare a
gridarlo complice degli speculatori e dei banchieri ? Tale è il pretesto ; ma il
movente è che si vorrebbe un nuovo sistema di economia, che assicurasse al
lavoro più pronto e sicuro spaccio dei suoi prodotti, cioè in ultimo desse spe-
ranza di ai'ricchire presto, la suprema e terribile brama del nostro tempo.
Ora con quest' aria che spira, le Camere si dovrebbero da Parigi tra-
sportare a Versailles, se qui gii\ non fossero, invece che da Versailles ri-
condurle a Parigi, dove più materia s'accumula e più è facile che divampi
r incendio. Dal 1872 ad oggi non c'è stato un tempo, in cui stessero così bene
fuori della babilonia parigina, come oggi, mostrando di aver in sé suffi-
cienti semi di discordie e di intemperanze, senza riportarle in un'atmo-
sfera, la quale servirebbe maravigliosamente a far sì che questi ger-
mogliassero e dessero il frutto che si aspettano i radicali.
In verità, vedendoli accumulare tante ardue questioni, e suscitare al
governo tante difficoltà, e premerlo e perseguitarlo con tanta violenza, che
ne rimangono attoniti perfino i presidenti Grévy e Gambetta, non si può
credere che lo facciano a caso e senza saper dove vanno « 11 governo, disse
la l^evue des deuor Mondes, cede a impegni pericolosi, alla pressione di
vecchie e compromettenti amicizie. » Di queste antiche aderenze, dalle quali
il ministero non può sciogliersi, di questo passato, che l'impaccia e l' irretisce,
ma al quale non può abdicare senza cadere in contraddizione con sé me-
desimo e indebolirsi anche più, i radicali profittano e si prevalgono spieta-
tamente Il pae.?e, la sua tranquillità al di dentro, il suo credito e la sua
380 EASSEGNA POLITICA.
influenza al ili fuori, sou per essi nomi vani; ciò che loro imi^orta è la
soddisfazione dei loro rancori e delle loro ambizioni, è farsi largo, è il
potere. Il mezzo poi è la popolarità ad ogni costo, il secondare tutte le
I)a£sioni, le ambizioni, le vanità e le intolleranze del volgo, seminando l'odio e
parlando d'amore. Non comincia egli il tempo di dire, che se a Versailles
stanno deliberando sul processo da fare ai ministri del 16 maggio, questi
ed il maresciallo ne hanno già fatto un altro, illegale bensì ed improv-
vido, alla repubblica, ma che questa sembra proporsi di giustificare?
Un rimedio, come dicemmo la quindicina passata, potrebbe venire al-
meno momentaneamente da una ricomposizione dei partiti, dallo staccarsi
del Centro sinistro e la formazione per mezzo suo di una maggioranza
conservativa Ma ciò supporrebbe nel Centro destro l'oblio della gran que-
stione, che l'ha fuorviato per tanto tempo, sulla forma di governo, di quella
per cui la Camera delibera ora, se convenga o no porre i principali ade-
renti suoi in accusa, supporrebbe cioè una virtù e uno spirito di sacrifi-
cio, che qualche rarissima volta può avere un individuo, ma non ha mai
un partito. Non resta quindi che lo scioglimento della Camera, a cui s'è
pensato e si pensa; un rimedio, clie tornerà a parere esagerato e prema-
turo, quando la Camera avrà respinto la proposta di accusa contro i mi-
nistri del 16 maggio e per qualche temilo si rifarà un po' di calma, ma
che prima o dopo riuscirà inevitabile Senza di esso le co.se continuereb-
bero a scendere per una china fatale trascinate da! loro proprio peso,
essendo troppo forte T impulso che già ricevettero per fermarsi da sé
medesime.
C,;me si vede, la situazione parlamentare francese non è gran fatto
dissimile dalla nostra, tolto però un solo punto, che in vero ha conse-
guenze molto notabili, e tutte a nostro vantaggio. Anche da noi è al potere
la Sinistra, anche da noi la Sinistra è divisa in tre o quattro gruppi ; anche
da noi antiche aderenze e solidarietà poco è mancato che non traessero
fuori di strada il governo, compromettendo la quiete dello Stato; anche
da noi si sente il bisogno di una maggioranza governativa, tranquilla e
solida, che non almanacchi tanto sul da fare, contentandosi piià facilmente
di quello che può essere fatto. La differenza però è questa, che i radicali
fra noi non sono nò così numerosi, nò così accesi, come alla Camera fran-
cese, non avendo dietro di sé gli operai delle grandi città industriali, né
una capitale come Parigi, o in altri termini, non trovando sostegno e se-
guito nel paese, cli'è per natura, per inclinazione, per tradizioni storiche
e per condizioni sociali, conservatore. Ciò spiega come ad ogni crisi che
succede in Francia sorga un ministero più avanzato, mentre fra noi, come
appena s'è visto qualche cosa che accennava a un correre precipitoso e
senza freno, ne sorse uno più temperato.
Resta però la gran questione, se questo abbia la maggioranza; e noa
avendola, come possa formarsela e rendersela fida e sicura. I modi imma-
RASSEGNA POLITICA. 381
ginati son molti, ma nessuno finora molto efiBcace. Nella quindicina s'è
parlato un po' meno di accordi tra i vari gruppi della maggioranza, e invece
un po' più di rilacimenti ministeriali. Non riuscendogli, pare, di mutar
gli altri, il ministero si rassegnerebbe a mutar sé stesso. Ma tutto si ri-
duce finora anche per questa parte a discorsi ; come a discorsi si riduce
r intenzione attribuita al ministero di premettere all' esposizione finanzia-
ria la legge sulle nuove costruzioni ferroviarie; una legge che soddisfa-
cendo ai desiderii di molti, accaparrerebbe pur molti, e dalla quale il mi-
nistero potrebbe uscire dalle angustiose incertezze presenti con una mag-
gioranza riunita momentaneamente dall' interesse, ma in fine battezzato da
un cimento e quindi fortificato.
La fortificazione però non durerebbe che un giorno, poiché all'espo-
sizione finanziaria si dovrebbe pur venire e la maggioranza effimera ot-
tenuta colle ferrovie potrebbe sciogliersi un' altra volta. Questa prova,
eh' è la sola vera e la sola seria, non è evitabile. Senza soggiungere che
nella discussione stessa della legge sulle nuove costruzioni, che impegna
il bilancio per tanti anni, verrebbe da sé che si domandasse, se lo Stato
sia in condizione da poter addossarsi il gravissimo carico, se le nuove spese
saranno coperte dai redditi, se si può o non si può tutto quello che si vor-
rebbe. Chi potrebbe infatti dare la sua approvazione all'enorme spesa
che trattasi di incontrare senza averlo saputo ? Da un anno in qua s' è
fatto un tal discorrere delle nostre finanze, si son sollevati tanti dubbi,
si intesero tanti pareri, che il ministero, nonché poter ingollarsi legger-
mente in altre spese, non può trovare una base tanto o quanto durevole
nella Camera senza rassicurare innanzi tutto su questa parte e la Camera
e il paese. Si può senza il macinato assumersi il carico delle nuove costru-
zioni ? Ecco il quesito semplice, che s'impone da sé a tutti, che sta al di sopra
di qualunque partito, e al quale, né il ministero presente, né un altro po-
trebbe sottrarsi con giocherelli politici e con furberie.
Il miglioramento economico è la ragione di tutti gli altri. Senza di
esso è vano sperarne in cosa nessuna, perchè tutto a questo mondo si fa
coi danari. Perciò, se è vero che il ministro INIagliani s'adopera a salvare
in parte la tassa sul macinato, non si può se non professargli riconoscenza
ed ammirazione.
Il procacciare allo Stato più di ottanta milioni all'anno con nuove
tasse, è cosa impossibile senza schiacciare industrie che nascono appena
e senza far nascere un malcontento molto maggiore di quello che ormai
generi il macinato. Perciò, o la Sinistra non lo farà mai, com'è più proba-
bile, e cadrà sopra di lei la responsabilità delle finanze dissestate, o si
rassegnei^à a farlo, e collo scompiglio e i lamenti che susciteranno le nuove
imposte, perderà nel paese gran parte de' suoi fautori. Di ([ui non s'esce.
Perciò il ministro delle finanze, mirando a salvare almeno in parte una
tassa abolita frettolo.^amente, per impeto e senza pensarvi ma di cui si
382 . KASSEGNA POLITICA.
vede ogni dì più chiaro che non si può fare a meno, rende un servigio
segnalato, non solamente al paese stesso, ma anche al partito, che, mercè
il suo coraggio, viene sollevato da una grandissima responsabilità. L'abo-
lizione completa del macinato unita alle nuove spese che si assumono
farebbe un buco nelle nostre finanze, che venti anni di pensieri, di inquie-
tudini, di lamenti non basterebbero a riempire, e nulla è più ragionevole,
più provido, diremmo quasi, più umano del rifletterci finché e' è ancora
tempo, preservandoci da fatali illusioni.
Quanto al partito, non vogliamo dire ch'esso non avesse un modo di
salvarsi e di reggersi, o ad onta del dissesto delle finanze, o ad onta del-
l'odiosità che trarrebbe seco il sopracaricare di imposte l' industria e il
commercio. Sarebbe quello di buttarsi da un lato, per ciò che riguarda la
finanza, allo imposte progressive, e dall'altro, per quanto si attiene alla poli-
tica, al suffragio universale, formandosi una base nel proletariato e istigandolo
e scatenandolo contro di quelli che hanno qualche cosa. Sarebbe il disegno di
molti radicali francesi e di alcuni pochissimi anche dei nostri. Ma il pro-
vocare e promuovere la baraonda sociale non è un espediente di governo,
non è cosa a cui possa mettere mano la gente savia ed onesta, e rimane
poi le mille miglia lontana dal pensiero degli uomini che ci reggono, il cui
patriottismo non ha bisogno di prove e che, se vanno acquistando aderenti
e amici, lo devono al governare con prudenza e al mantenere l'ordine,
guardandosi da esagerazioni e da utopie.
Il supremo )jisogno nostro è quello di imparare a star fermi in qual-
che cosa, ad aspettare molti miglioramenti dal tempo, a persuaderci che
alcuni mali sono inevitabili; né giova lo sconvolgere ogni poco quello che
esiste, fimtasticando ilietro agli esempi di popoli più di noi fortunati, o, pog-
gio ancora, dietro a ideali impossibili a conseguire. Di questa verità porse
testimonianza la discussione sul bilancio dell'istruzione pubblica, della quale,
se il ministro e la Camera ascoltassero i desiderii che furono manifestati,
non resterebbe più nulla di ciò che esiste a cominciare dagli asili e finire
colle università. È che di istruzione pubblica tutti ne sanno, perdio tutti
sono stati a scuola? È inquietudine, leggerezza, diletto di disfare por ri-
fare? Probabilmente un poco di tutto questo, mentre puro non è difficile
di capire che, se le scuole nostre non sono perfette, sono però quali le
può dare un paese, figlio di una rivoluzione recente, nel quale si mandò
sottosopra ogni cosa, tutt'altro che ricco, nò tutto acceso di uno smisurato
amore per il sapere. Ad onta di questo, nell'istruzione, so la si lascia
tranquilla, tutto migliora; i giovani sapranno un po' mono il latino, unico
studio e cura dei nostri anni giovanili; ma in compenso sanno molte altre
cose, delle quali a noi noppur si parlava, e hanno testa più chiara e giu-
dizio più retto e più pratico di quello, che, a parte le eccezioni, solessero
avere al nostro tempo. ÌNIigliorarc via via ogni cosa, senza rimescolamenti
rivoluzionari, senza iilealità audaci, senza credere nell'onnipotenza di un
RASSEGNA POLITICA, 383
regolamento anziché di un altro, è tutto quello che «i può fare, [n questo
metodo c'è, non foss'altro, il vantaggio di non far credere che tutto vada
alla peggio, e l'istruzione che la gioventù riceve nelle scuole non serva se
non a guastarle il ben dell'intelletto. A generare un'opinione siffatta nelle
famiglie bastano già gli esami e le tasse, senza che vi si aggiunga la voce
di persone autorevoli, che, cominciando per desiderio del bene dal dire il
male, trovano subito gli orecchi aperti ad ascoltarli e gli animi pronti
alla fede.
X.
BOLLETTIA^O BIBLIOGRAFICO
■ LETTERATURA E POESIA
D' Anton Francesco Grazzìuì detto il Lasica, e delle sue opere in prosa e
in rima, per G. B. Dott. MAGRINI. — Imola, Galeati, 1879 (pag. 59).
Sarebbe importantissimo uno studio profondo sopra questo lepido spe-
ziale fiorentino, clie trattò quasi tutti i generi della letteratura amena, ed
ebbe cosi strette relazioni coll'accademia degli Umidi e con quella, che poi
ne derivò, della Crusca. Ma nulla d' importante né di nuovo trovasi in
questo libretto, che superficialmente scorre le varie opere del Lasca, dan-
done di tanto in tanto gli argomenti, e qualche brano per saggio ; poco
più di quello che si legga nel Ginguené o in altri lavori simili. Discor-
rendo del Grazzini bisognava studiarne meglio la vita, e valersi a ciò degli
epistolari, della storia di quelle accademie, e di documenti inediti o rari;
ritrarre in succinto ma con vivaci colori la vita di Firenze ai tempi di
Cosimo I quando il Lasca fiorì ; e nelle sue opere ricercar meglio la parte
originale, come le imitazioni e le somiglianze che esser vi possono rispetto
ad altri scrittori. Il Novelliere specialmente richiedeva un serio studio, per
determinare a quali Ibnti il Lasca abbia attinto, e quanto vi sia di storico
in alcune delle sue novelle, per esempio in quella bizzarrissima di maestro
Manente. Vogliamo dire che questo libro del signor Magrini se può riuscire
utile a chi punto non conosca il Novellatore da lui preso a soggetto, non
ha però, nel suo genere, quella importanza che trovammo e notammo nel-
l'altro suo libro Carlo Gozzi e le Fiabe.
Rime e lettere di Veronica Grànibara, nuovamente pubblicate per cura di
Pia mestica CHIAPPETTI. - Firenze, G. Barbèra, 1879. fCollez.
Diamante, pag. xLiv-407).
Questo volumetto viene a chiudere, nella collezione Diamante, la glo-
riosa triade delle più illustri poetesse del secolo XVI, la Colonna, la Stampa.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 385
la Gàmbara. Quest' ultima, nata in quel di Brescia e sposata a Giberto
signore di Coreggio, fu dotta in italiano e in latino, in lettere e in filosofia,
ebbe amicizia coi più sommi scrittori del secolo, ed ospitò nel suo castello
lo stesso imperatore Carlo Y. Chi vuole conoscerla ed apprezzarla, legga
l'elegantissima vita premessa a questa edizione dalla valente editrice Pia
Mestica Chiappetti la quale, dopo aver curato le rime della Stampa, ha
qui raccolto tutti i versi e le lettere della Gàmbara seguendo l'edizione
Bresciana del 1~59, ma aggiungendovi alcune cose inedite che sono accen-
nate nella prefazione. I versi si riducono a trentasette sonetti, una bal-
lata ed alcune stanze ; non hanno l'affetto profondo di quelli della Stampa,
ma neppure la ricercatezza e lo splendore artificioso di quelli della Colonna,
e dagli uni e dagli altri si distinguono per 1' aura classica che vi spira,
perchè vi si sentono essere qua e là imitazioni felici dai poeti latini di cui
l'autrice fu studiosissima, come si vede anche da un'ode in quella lingua,
pubblicata qui per la prima volta. Fra le molte lettere, sono un modello
di stile epistolare, e spesso anche un bel ritratto dell'animo di chi scrive,
quelle indirizzate a m3sser Lodovico Rosso e a messer Lodovico Ercolani.
Né può far maraviglia che fra le altre se ne leggano alcune, davvero
troppo benevole, a Pietro Aretino; ove si pensi al prestigio che quell'in-
fausto nome esercitava indebitamente sopra ogni genere di persone, ed an-
che, in generale, alla soverchia indulgenza che allora si aveva per i co-
stumi degli uomini, quando fossero sorretti dall'ingegno e dalla eleganza.
A compimento delle opere di Veronica Gàmbara sono, anche qui, riportate
le rime di vari autori (Vittoria Colonna, il Bembo, il Varchi, il Sannazzaro,
ed altri) indirizzate alla poetessa, e un estratto delle note con cui Felice
Rizzardi illustrò l'edizione Bresciana; onde può dirsi che nulla manchi di»
quanto è più necessario ad intendere il testo, se non fosse per avventura
qualche maggior notizia sopra le persone alle quali vengono indirizzate le
lettere.
Conversazioni di Leoxe FORTIS [Dottore Yeritas) — Seconda Serie. —
Milano, Treves, 1879.
Due anni fa furono raccolte in un bel volume le Conversazioni, ossia
gli articoli di critica letteraria e teatrale che il dottore Veriias (Leone
Fortis) pubblica settimanalmente neW Illustrazione italiana. La fortuna
incontrata dal primo fece nascere questo secondo, fors'anche più ricco, più
vario, più bello dell'altro.
C'è tanta roba in questo volume da divertircisi per un mese È una
galleria di ritratti, una raccolta di costumi e di ane'ldoti, un emporio di
riflessioni morali, una storia della letteratura degli ultimi anni, una pittura
del tempo, senza nessuna prosopopea dottoresca, ad onta del pseudononimo
scelto dall'autore, ma con quella disinvoltura naturale e l'andare saltuario
386 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
e lefr^rero ohe pif;lia appunto la conversazione Ed ò poi un esempio raris-
simo di critica franca e veridica senza malignità, di quella schiettezza
urbana e cirtese che adorna la conversazione delle persone ben nate e
dabbene che non credono necessario di mordere per dar prova di si)irito,
un esempio di sincerità abbellita dal buon garljo e di giustizia temperata
dalla benevolenza e dal soitìso.
Il dottore, si sa, ama qualche volta un po' il rliscorrere Ma anche qui
non si può disconoscere ch'ò fatta cosi la conversazione, nella quale, se si
pesano, non però si numerano le parole. E pai'la poi cosi bene, con tanta
varietà e tanto brio, che gli si va dietro, senza avvedersi anche talvolta
per il solo gusto di sentirlo parlare. La sua lingua è varia, copiosa, co-
lorita, ma usuale e senza fiorentinerie di seconda mano, senza gemme
ripescate, quantunque eletta, colta e gentile. Per dir tutto in una parola,
il grosso volumi.' finisce assai prima che incominci la voglia di metterlo
a riposare.
STORIA
Baldassarre Castiglione: articolo inediio dell'operi del C. Giammaria Maz-
ziichelli intitolati Gli Scrittori d Ttalin, pubblicato da Enrico NARDUCCI
lìonia, tip. delle Scienze niateniaticlie, 1879.
A tutti è noto come la grand'opera del Mazzuchelli, dopo pubblicati
sei volumi in foglio, rimanesse interroùta, compiute scdtanto le due prime
lettere dell'alfabeto: non tutti sanno che i materiali per la susseguente
lettera erano già prónti o quasi, e che dal nipote dell'autore furono nel ls6G
depositati nella biblioteca Vaticana Comprendono essi ben (!( 4S articoli
dei quali 1518 già pronti per la pubblicazione; e il sig. Narducci, quando
il dono pervenne a Roma, diede una descrizione dei 35 volumi mazzuche-
liani, coirindice di tutti i nomi in essi contenuti. Sarà egli mai possibile
che un giorno questi manoscritti così preziosi per la storia letteraria e
per la letteraria biografia vengano pubblicati? A dir vero non lo crediamo;
benché possa desiderarsi che una società di dotti come furono i Benedet-
tila francesi e i loro presenti continuatori dieW Histoire Utti'ìutire de la
Frmice, ci diano un compiuto repertorio, o per secoli od alfabetico, degli
scrittori italiani Intanto contentiamoci di poco, e auguriamo che questo
primo saggio olTertoci dal Carducci, estraendo dalla ricca miniera la bio-
grafia e bibliografia del Castiglione, non rimanga senza continuazione. Nò
il Narducci si è limitato al mero ufficio di pubblicatore: ma ci ha dato
importanti aggiunto bibliografiche tratte tutte dalle biblioteche romane,
e riguardanti l'articolo del Cortigiano che è la maggior gloria del Casti-
glione Notiamo soltanto che uguali aggiunte, sebbene assai minori pel
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 387
numero, sarebbersi potute fare rispetto alle Lettere del Castiglione stesso,
delle quali non poche sparsamente vennero pubblicate dopo l'edizione del
Serassi, del IMortara, del Ferrato e da altri. Ad ogni modo la pubblica-
zione di questo piccolo saggio della grand'opera, è una ottima idea del
sig. Narducci: e noi la vogliamo prendere come arra di altre pubblicazioni
avvenire, fidando soprattutto nell'operosità del valente bibliotecario romano.
Statuto dei Mercanti drappieri della città di Vicenza. — Vicen/.a, Du-
rato, JS7SJ.
Questo Statuto scritto in volgare nel 1348, e pubblicato adesso per
cura dell'egregio bibliotecario vicentino, l'ab. Capparozzo, c'invita a formare
il voto che di simili Statuti, o matricole o mariegoLe, delle arti e delle indu-
strie italiane nell'età dei Comuni, si facciano edizioni che rispondano ai
bisogni della scienza, della storia e della filologia. Qua e là, e il più spesso
per fuggevoli occasioni, se ne pubblica taluno; ma ben sarebbe desidera-
bile che si riunissero in un corpo, almeno città per città o regione per
regione, opportunamente annotandoli e fra loro raffrontandoli. L'ordina-
mento delle Corporazioni artigiana nell'età media e nella successiva ognun
sa di quanta importanza sia, così rispetto alla storia dell'industria, come
a quella politica. Ad ogni modo accettiamo quel che ci vien porto volta
per volta, come adesso in Vicenza per nozze illustri, sperando che in seguito
il pensiero che abbiamo esposto trovi taluno o meglio qualclie corpo scien-
tifico, a cui sembri utile ed attuabile. Questo Statuto della « frataglia » vi-
centina dei mercadanti serve intanto a chi non ne avesse altra maggior
notizia, per dare una idea di ciò che fossero in quei tempi le corporazioni,
quali gli intenti comuni, quali gli obblighi degli ascritti. Ci piace riferirne, a
titolo di curiosità, la rubrica contenente il giuramento del capo o gastaldo
della fraternità — « lo gastaldo zuro a li sancti evangelii de Idio con bona
fede e senza inganno fare, trattar e ordenare quello che cognoscerò esser a
mazor utilità del < omun de Mcenza e della frataglia delli mercadante: e
che tutti gli statuti e ordeni della frataglia osserverò e farò osservare a
tutto mio podere, e quelli che faranno contra gli statuti et ordini della ditta
frataglia condonerò, e farò scoder li bandi o pene, et le farò scriver in libro
e nissuno offenderò per odio né subleverò per amicitia. » Il dettato, come
si vede, è italiano leggermente intinto di forme venete; ma vi si trovano
per entro alcune parole particolari, illustrate saviamente dall' editore,
talune delle quali mancanti e ai dizionari volgari e al Ducange.
388 BOLLETTINO BIBLIOGKAFICO.
ECONOMIA E STATISTICA
Gerolamo Boccardo. — Il dottor Schiiffle e il problema econoìnico e sociale
in Germania — (Prefazione al voliimtì V. della Biblioteca dell' Econoiuista.
Torino, Unione tipogralico-editrice, 187i), pag. xxxij.
Dopo un breve cenno della vita e delle opere dello Scliafnc, l'illustre
direttore della terza serie della Biblioteca dell' Economista si fò a carat-
terizzare, dai suoi lati più nuovi e salienti, il grande lavoro tradotto ia
questo volume : il Sistema sociale della economia umana. Dimostra,,
prima di tutto, come lo Schàffle abbia, più e meglio di ogni altro dei
precedenti trattatisti, rannodata l'economia politica agli altri rami del
grande albero delle scienze, tenuto conto dei più recenti progresfi di tutte ;^
e acutamente rileva l' influenza, che su quell'opera ha avuto l' indi-
rizzo filosofico del pensiero germanico. Quindi mette in luce i due più
o-randi meriti dello Schàffle: l'aver tenuto il debito conto dell'eleniento
sociale, il quale, sotto la forma di associazione libbra o forzosa, va sempre
più prevalendo nel mondo moderno, anche nei rapporti economici, sopra
l'elemento individuale; e l'avere accentuato l'intimo legame tra l'economia
e la morale, scagionando definitivamente la scienza economica dalla vecchia
e ripetuta accusa di scetticismo morale. Del resto, l'on Boccardo è tutt'altro
che incondizionato ammiratore dell'economista wurtemberghese. Poiché
molto opportunamente gli rimprovera la redazione i.spida, intralciata, tal-
volta oscura; il difetto dell'arte, tanto necessaria, di fare il libro; sopra
tutto il vizio gravissimo di trascendere troppo spesso i limiti della propria
trattazione, divagando lungamente in campi più o meno limitrofi II
Boccardo qualifica di ecletismo economico la posizione media assunta dallo-
Schàffle tra il socialismo e l'individualismo; ma nota pure, che, trovata
nella scienza una prevalenza eccessiva dell'elemento individuale, l'autore
del Sistema sociale non di rado, per reazione, esagera nel senso opposto.
E da queste osservazioni il Boccardo è condotto ad esporre una serie di
considerazioni generali sopra la ineltìeacia della mutualità, o della coope-
razione come soluzione finale del problema sociale, sopra il movimento
socialista tedesco, tanto nell'ordine dei fatti, quanto nell" ordine delle
dottrine, e sopra l'eco, che questo movimento trova presso le altre nazioni
di Europa
È inutile soggiungere, che queste considerazioni, insieme alle precedenti,
che sono di natura essenzialmente critica formano un saggio notevolissimo,,
nel quale, come in tutti i lavori delTonor senatore, una erudizione straordi-
naria è subordinata a un pensiero originale e sintetico, espresso in forma
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 389
rapida, vivacissima, che attira e mantiene potentemente l'attenzione. Anche
il Boccai\Io si chiarisce, se non erriamo, foutore di un sapiente eeletismo
economico, ma evidentemente lontanissimo dalle propensioni al socialismo,
che il dotLor Schiiflle palesava nel suo Sistema sociale^ ed ha poi più
apertamente accentuate nei suoi lavori più recenti. Solo qualche riserva
nei particolari avremmo a fore in ordine a questa splendida introduzione :
p. e , dove è accennato a una « forma esclusivamente individualistica della
proprietà primitiva » (pag. vii) ; e dove si annovera lo Schulze-Delitsch
tra i socialisti della cattedra (pag. xxii) ; e dove pare che l'A. ponga il
movimento scientitìco di questa scuola quasi come precedente di quella dei
Lassai le e dei Marx (pag. xxvi). Ma è molto probabile, che anche queste,
che a prima vista sembrano inesattezze, non sieno se non conseguenze solo
apparenti della soverchia rapidità dell'esposizione, che rende per avventura
men chiaro il concetto dell'autore.
Ad ogni modo, ci corre l'obbligo di congratularci con la scienza italiana
per questa nobile persistenza, con la quale il direttore e l'editore della
terza serie della Biblioteca delV Fconomista si adoperano a diffondere
presso di noi le opere più notevoli della letteratura economica contem-
poranea di Germania e d'Inghilterra, aggiungendo a ciascun volume una
introduzione, che ne accresce singolarmente l'importanza scientifica.
C. F. Ferraris. — Saggi di scienza ileiramìninistr azione e di economia poli-
tica I. — Torino, Loescher, 1879 (pag. 7-''.).
Sono due prolusioni al corso di Scienza dell'Amministrazione nell'Uni-
versità di Pavia. Nella prima — La scienza delV Amministrazione; Oggetto,
limiti ed ufficio — è chiarito in primo luogo il significato del titolo, che
si dà a questo nuovo ramo di recente isolato dall'albero delle scienze
giuridiche e sociali, dimostrando in che si distingue e in che si collega
con le scienze sorelle, e da qual punto d'aspetto la scienza dell'ammini-
strazione studi i rapporti tra la società e lo Stato. Quindi si fa a deter-
minare somma'iamente la natura e i limiti di talune categorie, nelle quali
si possono classiflcare le svariate azioni amministrative dello Stato. La
seconda — Le relazioni della scienza deW amministra zione col diritto
amministrativo e la sua sede nel sistema delle scienze politiche — è quasi
una difesa della scienza insegnata dal valoroso professore contro coloro,
che vogliono negarle il diritto a una esistenza autonoma, ritenendola com-
presa nel Diritto Amministrativo, che già s'insegna nelle nostre univer-
sità. L'A. cerea distinguere nettamente i due campi, assegnando al diritto
amministrativo la parte formale, lo studio dell'organismo e del contenzioso
amministrativo, e rivendicando per la scienza dell'amministrazione la parte
sostanziale: il determinare l'estensione e i modi dell'azione amministrativa
dello Stato.
390 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
Noi crediamo, che il prof. Ferraris aljbia fatto opera utiiissiiua, insl-
sterulo nel dileguare i dubbi, che una coltura tenacemente limitata solleva
contro un insegnamento, il quale è destinato a occupale un posto d'ira-
portanza sempre crescente nel quadro degli studi giuridico-politici. Era
un nobile ufficio, che incombeva a lui, il quale ha avuto l'onore d' inau-
gurare nelle università italiane l'insegnamento della scienza dell'ammini-
strazione. Ed egli l'ha compiuto da par suo, cioè disponendo con grande
ordine e vigore di concetti una massa, forse esuberante relativamente allo
spazio, di conoscenze e di studi. Ma, dopo questo franco riconoscimento
dell'alto merito delle due prolusioni del Ferraris, ci sarà concesso fare
alcune x'iserve sopra certe sue classificazioni, forse non abbastanza ben de-
finite, delle scienze giuridiche e sociali; e più sopra certe dottrine scien-
tifiche, le quali, in verità, in questi discorsi di scopo principalmente for-
niale, sono accennate assai sommariamente. Alludiamo sopra tutto alla
teoria dell'azione economica dello Stato, la quale, da quanto se ne può
desumere da qualclie cenno, ci pare intesa dal Ferraris con eccessiva
larghezza. E ci sarà pure concesso significare il desiderio di una forma ])ìii
propria e ben determinata, se non più elegante. Anche noi riteniamo in-
dispensabile attingere principalmente in questi studi alle fonti germaniche;
ma ci pare che il Ferraris vi si attenga troppo esclusivamente, trascu-
rando troppo quello die di pregevole hanno pure le altre nazioni. E ci
pare altresì che, oltre allassimilazione del pensiero scientifico tedesco, sia
indispensabile elaborarlo in guisa, che lo scrittore italiano si trovi in grado
di riprodurlo in una forma nuova e consentanea all'indole nostra. Solo
dopo questa elaborazione, sarà possibile lavorare con efficacia a quel fe-
condo maritaggio tra le due colture, del quale l'A. si fa prode propugna-
tore (pag. iì(3), ma che non deve risolversi in un assorbimento, da cui riesca
totalmente cancellata l'impronta originale della coltura nostra. Sappiamo
di chieder molto; ma sappiamo di chiedere a chi può dare.
Dello stesso autore ci è pervenuto in pari tempo un più ampio lavoro
— La Moneta e il corso forzoso ; — e ci riserviamo renderne conto in un
fascicolo prossimo.
Il sistema tributario del Comune e <lclle Provincie, dell'avv. Carmine
SOIIO-DELITALA. — Roma, 1879.
È un'esposizione concisa (in 12G pagine) della maggior parte delle
questioni che riguardano l'ordinamento amministrativo dei Comuni e delle
provinole in Italia. 11 soggetto non ha per noi disgraziatamente se non troppa
opportunità, ed è trattato dall'autore, che apparisce non solo esperto, ma
colto in materia amministrativa, con semplicità, con chiarezza, con una
indipendenza che non sente il bisogno di manifestarsi col furore, ma tran-
quillamente, imparzialmente, da uomo pratico e serio.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 391
Posta in chiaro la condizione miseranda della maggior parte dei nostri
Comuni, egli Unisce naturalmente col cercarne i rimedi, e li troverebbe in
un nuovo sistema, nella limitazione dei loro redditi alla sovraimposta dei
contributi diretti. Siccome poi questa non sarebbe bastante, oggi segnata-
mente, vorrebbe da un lato sollevati i Comuni dal mantenimento di tanti
servigi che non hanno indole comunale, e dall'altro vorrebbe che alcune
istituzioni fossero a carico di quelli che ne approfittano e venissero quindi
mantenuti con fondi speciali. È questa un'idea utile, che già si fa luogo
praticamente, come si vede, per esempio, dall'abolizione delle sovvenzioni
per i teatri e dall'istituzione delle scuole a pagamento. Quanto alle Pro-
vincie, l'autore proporrebbe ch'esse non avessero imposte proprie, ma as-
segni di contributi sui bilanci di tutti i Comuni in ragione composta della
superficie, della popolazione e dell'imposta diretta di ciascheduno.
E tutto questo, meno il criterio della superficie che trarrebbe seco
conseguenze erronee ed ingiuste, sta bene. Ma quello che l'autore non dice,
0 dice troppo poco, è che per amministrare con qualunque sistema ci vo-
gliono teste amministrative e che i Comuni sprecarono e sprecano ancora
oggi i loro redditi in spese di lusso, o peggio in spese dì scialacquo e di
dissipazione, in costruzioni di teatri, in sovvenzioni per il carnovale, in
corse di barberi, in processioni e feste ecclesiastiche, e cose simili. Di ciò
hanno la colpa non le leggi, ma gli uomini, i Consigli comunali che fanno
male e le Prefetture che lasciano fare.
Certo la legge può essere modificata e migliorata. Ma se intanto la
si fosse da tutti osservata qual è, il bisogno di riformarla non ci sembre-
rebbe cosi urgente, poiché gl'inconvenienti che si deplorano sarebbero molto
minori. Se bastasse far leggi e disforie e tornare a farle, e non occorresse
altro, noi saremmo la prima nazione di questo mondo. Se se ne potesse fare
una sola, che insegnasse a osservare quelle che ci sono ! Che bella legge,
che santa legge ! E che immenso risparmio di inquietutiini, di tempo e di
fatiche !
Prof. Fr. PKOTONOTARI, Direttore
David Marchionni, Responsabile.
^^.
Firenze - G. BARBERA - Editore.
E pubblicato :
ALFONSO LA MARMORA
COMMEMORAZIONE
(5 Gennaio 1879).
Un Tol. in-8° dì pag. 200. — Lire 3.
Si vende a profitto dei Monumenti da inalzarsi in Torino ed in Biella
alla memoria del g-enerale La Marmerà.
Dirigere le domande all'Editore G. BARBÈRA, Firenze.
ì
ve^iS^
ptt? U ARTI k f/=HSTim
ALFONSO LA MARMORA
Con questo titolo è stato iDubblicato iu Firenze un melanco-
nico li}3ro iu un triste anniversario. L'autore non si nomina; ma
vi appare l'amico costante e fidissimo d'un uomo eccellente, già
morto da un anno. Ora, questa qualità suole spettare a pochi ; ed
è facile tra' pochi riconoscere e ricordare chi l'autore possa essere.
Un segreto, però, così facile a rivelare, mi par l^ene di rispettarlo.
Anche l'affetto e la devozione ha la sua verecondia ; e l'autore, che
più che parlar egli stesso dell'uomo di cui narra il cuore e lo spi-
rito, ha raccolto con una diligenza sagace e amorosa, dalle lettere
e dagli scritti di lui, i tratti più opportuni a disegnarlo e colorirlo,
ci avrà maggior grado, se noi lo teniamo nascoso dietro l'ombra
dell' amico suo, come egli già vi si è nascoso da sé.
Non si ripensa ad Alfonso La Marmora senza rimorso. Egli ha
vissuto 73 anni ; ma il forte ordito, con cui l'aveva tessuto Iddio,
sarebbe durato ancora più a lungo, se il dolore non gliel' avesse
consumato. E di questi 73, si può dire, che gli ultimi dodici, egli
li vivesse quasi del tutto inutile, se non a sé e alla storia, alla
vita pubblica del suo paese, cui pure aveva, con tanto frutto, con-
sacrato tutto sé stesso, insin quasi, son per dire, da fanciullo.
Il La Marmora scriveva il 12 agosto 1866 da Padova :
« I tormenti morali di questi due ultimi mesi logorarono il
mio fisico. Feci uno sforzo supremo per sollevare il paese da que-
st'ultima orrenda posizione. Ora, non ne posso più. Se continuassi,
tradirei, colle sorti dell'esercito, quelle d'Italia. Ora, abbiamo ar-
mistizio. Una sola cosa io chiedo, la mia dimissione da ministro
VoL. XIV, Serie II — 1 Aprile 1819. 24
394 ALFONSO LA MARMORA.
e da capo di stato maggiore; non desidero né altro comando ne
altra posizione. » Parole sconsolate, e che mostrano quanto pro-
fonde dovessero essere le ragioni d' abbattimento, perchè si sen-
tisse così prostrato d'animo un uomo pure fortissimo. E le ragioni
v'erano.
Più si studia quell'angoscioso periodo della storia nostra, che
corre dal 24 giugno 1866, giorno della battaglia perduta di Cu-
stoza, al 12 agosto, giorno dell'armistizio angoscioso di Cormons; e
più s' intende perchè la tempra d'un uomo, che l'aveva pure ada-
mantina, si dovesse sentire spezzata. Un immenso peso aveva gra-
vato, durante quel tempo, le spalle di lui. Egli era caduto, a
principio della campagna, in un errore, dal quale la natura del
suo spirito l'avrebbe, per sé, tenuto lontano, ma in cui lo trascinò
una cotal bontà d'animo, molta devozione al Ee, uno schietto e
semplice affetto del suo paese, la coscienza che l'autorità sua mi-
litare non avrebbe trovato, come prima d'allora, animi abba-
stanza docili e volonterosi in quegli i quali v' avrebbero dovuto
sottostare, e forse ancora, una non sufficiente sicurezza di sé me-
desimo. Egli accettò un'organizzazione del comando dell'esercito,
nella quale la responsabilità principale era sua, ma pure siffatta,
che in quella stessa lettera citata più su, egli potette dire : « Nel
48, al campo di Carlo Alberto, essendo prima maggiore e poi co-
lonnello, ero più ascoltato che non lo fui in questa campagna, »
dove pur era stato sin da principio, e tra infinite ambiguità e male
voglie e sospetti e dinieghi e vanità non sue, era rimasto capo
di stato maggiore.
La battaglia del 24 giugno non era stata perduta senza qual-
che parte non di colpa, ma d'errore suo. Egli annotò a un mio
scritto : * « Chi non è militare, non si vuol persuadere, che i nove
decimi delle battaglie avvennero per sorpresa. Ilarengo, Magen-
ta, Solferino, Sadoiva ; e gli Austriaci furono sorpresi a Custo-
za. » Il che è vero ; ma non impedisce che l'abilità del generale
è nel volgere la sorpresa a proprio vantaggio, e nell'averue pronti
i mezzi per riuscirvi. L'esempio appunto degli Austriaci a Custoza,
come dei Prussiani a Sadowa e dei Francesi nelle altre tre bat-
taglie citate, prova che si può essere sorpresi e vincere. Non serve
aggiungere che è tutt'altra cosa l'essere sorpresi e perdere. Nella
battaglia stessa mostrò, in genere, molta chiarezza d' intuito e
* Al capo III del mio lavoro « Siili' alleanza prussiana e V acquisto della
Venezia, » pubblicato nel fascicolo della Nuova Antologia dell' aprile 1869, vi fece
parecchie note manoscritte a lapis, come soleva, e me le mandò.
ALFONSO LA MARMORA. 395
molta prontezza di risoluzioue sul campo, da per tutto dov' egli
fu e potette essere; ma non aveva ordinato il modo di portare
la volontà dov'egli non poteva essere di persona e comunicare l'im-
pressione che facevano in lui, a cui dovevano metter capo, le
vicende diverse della battaglia. Ma qui finiscono le censure, quanto
minori e quanto diverse da quelle colle quali fu con tanta slealtà
amareggiato, perseguitato più anni !
Fu detto ch'egli perdesse il capo, biasimo che lo pungeva più.
d'ogni altro. « Devo passare (scriv' egli non ricordo ben dove) per
un generale che ha perso il capo » quando davvero tutta la sua
condotta militare, a Genova, nella campagna del 1859, in Crimea,
a Custoza stessa, avevan provato eh' egli aveva conservata lu-
cidissima la mente, così prima che la battaglia s'appiccasse, come
nel fervore di questa. Fu detto che disperasse dell'esercito, e lo
calunniasse egli, che il giorno stesso della battaglia scriveva da
Cer lungo al ministro della guerra, che due corpi, il V e il 2",
erano rimasti quasi intatti, e avrebbe cercato di trarne il mag-
gior partito possibile ; (^)* e il 25 già presentiva, chs gli Austriaci
non avrebbero inseguito e si apparecchiava, in ogni caso, ad im-
pedirglielo, quantunque gli paresse deplorabile la condizione di
quella parte dell'esercito, che s'era battuta, ed era stata disfatta ; (^).
e risolveva d'indietreggiare alquanto non per eseguire una ritirata,
ma per mutare il piano di guerra, poiché il primo era fallito ; (^)
più speranzoso di ripigliare la guerra subito, che non si mostrasse
il Cialdini, il cui corpo era pure intatto ; (^) e il 27 assicurava Bre-
scia che nessun assalto imminente avesse a temere ; (^) e raccolte
più esatte informazioni della condotta delle truppe nella batta-
glia, ne scriveva al ministro della guerra parole di grandissima
lode; (^) e il 28 ne diceva eccellente lo spirito. (^)
Ma se uè nella battaglia del 24, né nei giorni che seguirono^
il La Marmerà si smarrì, fece assai maggiore e più difficile prova
non ismarrendosi nei due mesi che seguirono.
Durante questi, mentre la condizione del comando dell'esercito,
come potrebbesi provare con documenti, non solo era rimasta cat-
tiva, ma s' era peggiorata, e l'autorità sua era di soppiatto e aperta-
mente più contrastata di prima in mezzo a una confusione grandis-
sima dello spirito pubblico, che faceva vacillare la testa quasi d'ogni
altro uomo di stato o generale in Italia, egli dalla coscienza chiara
* Le note segnate con numero progressivo trovansi in fine di questo scritto,
pag. 412 e seg.
396 ALFONSO LA MARMORA.
del suo dovere, dalla persuasione semplice, che ciò che solo importava
fosse il compierlo, fu manodotto ad assumere sopra di sé le responsa-
bilità le più grandi, affrontandole con un coraggio civile tanto più
raro ed ammirevole, che nessuno aveva più diritto di chiederlo a lui.
Verso la metà del luglio, noi ci trovavamo nella posizione
militare la più disadatta ad effettuare l'ideale politico di restau-
razione nazionale che s'era andato maturando nel ^cuore della
parte più ardente del paese e nel suo governo. Noi avevamo ri-
pigliata la guerra il giorno dopo che la Prussia aveva, si può
dire, finita la sua; ed eravamo costretti a farlo entrando in un
territorio, che il giorno innanzi di principiare ad occuparlo era
già, si può dire, diventato nostro. Al generale Cialdini, che do-
veva condurre la seconda campagna, questa pareva oramai una
« buffonata. » Pure, al generale La Marmora, che da molti giorni
premeva, perchè quegli rompesse gl'indugi, ed [invadesse, vali-
cando il Po, la Venezia, doleva che questa dovesse essere ricevuta
oramai in dono dalla Francia, al cui imperatore l'Austria, disfatta
in Boemia e disperata di mantenersela, l'aveva ceduta. Egli, {ami-
cissimo di Napoleone III, reputava un'umiliazione ricevere in dono
da lui la Venezia ; « tutti crederanno che noi tradiamo la Prussia;
non si potrà più governare in Italia, Vescrcito non avrà jnù
prestigio. » Di fatti, gli Austriaci abbandonavano a gran fretta
r Italia ; (^) e a noi pareva di suprema importanza, creare prima
che l'armistizio si cominciasse a trattare, una posizione militare
vantaggiosa per noi. (^) Il 16 luglio, il generale Cialdini asseriva
che occorressero ancora otto o dieci giorni per averla tale. ('") In-
tanto il principe di Bismarck, a cui premeva mantenerci in que-
st'ardore di speranze e in questo solletico di guerra, sino a che
non si fosse risoluto egli stesso sull'opportunità di sospendere le
ostilità da parte sua e di far la pace coll'Austria, e' induceva a
credere che niente fosse più alieno dal suo animo del dar tregua
all'Austria sconfitta. (") Ma fu altrimenti, quando egli ebbe preso
il suo partito; il 21 Juglio ci voleva ancora decisi a combattere; ('^)
il 26, giorno [in cui firmò l'armistizio e i preliminari di pace a
Nikolsburg, non ci accordò di ritardarne la conclusione d' un'ora
sola. ('^) E intanto, a noi la perdita della battaglia di Lissa (20
luglio) aveva accresciuto lo stimolo di ricuperare la riputazione
del valore e dell'armi italiane; e la principiata occupazione del
Tirolo aveva sollevato le ambizioni ed acceso i desiderii. ('^) Il
generale Lamarmora, sinché la Prussia era parsa inclinata a con-
tinuare la guerra, aveva creduto che si dovesse continuarla anche
ALFONSO LA. MARMORA. 397
noi ; ma intese subito che, soli, era una follìa il tentarlo. * L' eser-
cito, che aveva inteso correre dietro gli Austriaci, per congiungersi
coi Prussiani sotto le mura di Vienna, si trovava ora in i^ericolo,
sparso per la Venezia, di avere ad affrontar solo gli Austriaci, che
sicuri, sciolti d'ogni paura per parte de'Prussiani, accennavano a tor-
nare da ogni parte. Il generale Cialdini non osava retrocedere ; non
poteva avanzare; disperava di vincere. (^^) Il Ministero, prevenuto da
quella che si chiama opinione pubblica, ma che talora è il clamore
dei più petulanti e dei meno compromessi, non cessava di esprimere
desiderii, e di affacciare pretensioni, che non potevano trovare nes-
suna soddisfazione. ('^) Finché il generale La Marmora prese tutta
sopra di sé la responsabilità della decisione, che tutti schivavano,
e tutti pure credevano urgente. L'8 agosto dette al generale Ga-
ribaldi e al generale Medici 1' ordine di ritirare le truppe dal
Tirolo ; e il 12 fu concluso 1' armistizio di Cormons, non un' ora
prima del bisogno.
Ho cominciato dal ricordare queste due date della vita del
generale La Marmora, il 24 giugno, e il 12 agosto, perchè, se la
prima non aveva accresciuto i suoi meriti col paese, la seconda
segna il più gran servigio che gli si sia reso. Se il generale non
aveva risposto a Custoza all' aspettazione che s' era concepita di
lui, il seguito della campagna provò che di nessun altro dei ge-
nerali nostri noi avremmo potuto desiderare che avesse tenuto il
suo posto; e tutto il suo contegno, nel tratto di tempo trascorso
tra il giugno e l' agosto, mostrò quanta fosse la lealtà sua nel vo-
lere, proseguendo la guerra, tenere tutta la promessa fatta alla
Prussia, e come sapesse far tacere nell' animo suo, il più ingenua-
mente e interamente, ogni sentimento di rivalità, di gelosia, di
presunzione, ('■) parendogli naturale, ovvia, doverosa ogni maggiore
abnegazione; ** e infine, quando la Prussia, dopo averci spronato
a continuare con ardore la guerra, ci ebbe lasciati soli, egli fu
* Scrive COSI in una di quelle note delle quali ho discorso altrove: « Finche
la Prussia stava con noi, io era perfettamente d'accordo col barone Ricasoli di
continuare la guerra, e lo prova il mio contegno e la mia immediata adesione di
ffidare 14 divisioni al gpnerale Cialdini come comandante indipendente. Ma quando
era chiaro che la PnisMa ci abbandonava, me ne andai a Rovigo, e mi tenni in
disparte, finché, abbandonato e dalla Prussia e dalia Francia, e che il Ministero
troppo comprome^-so non osava pigliare risoluzioni, ordinai io il ritiro di Medici
e di Garibaldi dal Tirolo. »
" Un giorno egli k spinse al punto che Vittorio Emanuele, abbracciandolo, gli
disse: •« Oh! no; caro La Marmora, questo è troppo. => Commemor. p. 11". Cita:
Un po' più di luce; 2^^ parte (inedita).
398 ALFONSO LA MARMOKA.
quello, che intese cou fermezza il solo partito che riraaneva, e come
la dignità consistesse nel prenderlo con quella semplicità e dirit-
tura, che sono la miglior prova ed il più chiaro segno della for-
tezza d' animo così in ciascuna singola persona, come in un popolo.
E in questa qualità il La Marmora è tutto. Il risorgimento ita-
liano ha avuto maggiori uomini di lui ; ma e' e' era nella sua indole
qualcosa, che dà all'immagine sua un rilievo e un significato, che la
rende preziosa e salutifera a riguardare. Il suo genio è un senti-
mento; un sentimento scevro d'ogni affettazione, che ogni atto
umano abbia una regola, facile a percepire, e cui bisogna seguire.
Nessuna utilità può distogliere dal seguirla; anzi nessuna utilità è
possibile di ritrovare nel non seguirla. Avanti a questa regola, che
sovraneggia, scompare l' interesse della persona. La lode o il bia-
simo hanno piccolo valore, fuori che in quanto servano a confor-
mare l'atto umano a quella regola, o a castigarlo se ne devia.
Cotesti ideali di uomini non sono sempre i più abbaglianti, ma sono
i più puri ; non mirano a mete molto sublimi e spettacolose, non
muovono o commuovono troppo intorno a sé, ma il complesso delle
idee ed affetti che li costituiscono, è il più adatto ad un andamento
della società umana tranquillo, onesto, sano, sicuro. Sono i veri
ideali proi^rii ad educare le generazioni delle società, che non vo-
gliono essere rimescolate e messe sossopra. Il general La Marmora
dovrebb'essere imparato a cuore, così per dire, nelle scuole italiane.
Un altro uomo dabbene, che fu molto amico di lui, e che è
ancora uno di quegli, la cui immagine serena è utile a contem-
plare, il generale Dabormida, scriveva in alcuni consigli al suo
figliuolo : « Position, honneurs, richesses méme ne peuvent garantir
une existence tranquille. Cette garantie ne peut ètre donnée que
par les qualités personnelles, et encore cette garantie ne peut-elle
pas s'étendre à la tranquillité matérielle, mais seulement à la paix
de la conscience. Fais ce que dois, advienne ce que pourra, doit
ètre la maxime de l'homme honnéte et de caractère, c'est la maxime
de notre cher La Marmora dont le dévouement à son pays et à
son roi ne connaìt pas de bornes, et qui est toujours prét à se
sacrifier au bien public, parce qu'il a la forte et admirable convic-
tion que le premier devoir du citoyen est de faire taire son propre
intèret devant l'intéret general. Il n'y a pas de doute, qu'il est
méconnu et mal compensé. Mais si tu pouvais lire au fond de son
coeur, tu trouverais qu'il ne se trouve pas malheureux. * » Ci aveva
* Nuptialia. Pubblicazione (di cento esemplari) l'alta uel giugno del 1878 da
L. Ghiaia ; p. 46.
ALFONSO LA MARMORA. 399
ad essere molto di moralmente salubre e vigoroso in un paese,
nel quale la vena del sentimento morale durava così limpida nel-
l'animo di persone cui erano spettate le principali parti nelle milizie
e nel governo ; ed è brutto segno di decadenza, se uomini sifiatti
muoiono, e nessuno appare a surrogarli. Ma checché sia di ciò?
non ha dubbio che nelle parole citate un uomo buono dipinse un
uomo buono ; e la dipintura che muove dal cuore, raffigura, nella
verità sua, un cuore eccellente.
In questa semplice ricerca e nel naturale adempimento del
dovere il La Marmora era tutto. Allievo a 12 anni della E. Ac-
cademia militare, a 18 sottotenente d' artiglieria, a 19 luogote-
nente, a 27 capitano, a 41 maggiore, in ciascuno di questi gradi,
dall'uno all'altro dei quali passa all'ora sua, non solo senza chie-
dere 0 desiderar favori, ma pronto a respingerli, se gli si offris-
sero, * ha studiato per prima cosa quale fosse il mezzo di com-
piere bene 1' ufficio suo, e, o gli s' approvasse o no dagli altri, o
ci trovasse o no compenso di lode, praticarlo. Egli ha ingegno,
sottile, curioso. Non gli basta fare, ma vuol le cagioni del fare.
Non gli basta sapere come si fa in sua casa; vuol sapere come
si fa in casa altrui. Il suo spirito non è audace, ma non è mogio.
Non ama il muovere senza sapere dove si posa il piede ; ma ama
anche meno lo stare. Innanzi di potere, ha già i fini nobili del
potere davanti agli occhi. Non ha fretta, non lo muove speranza di
dover salire o prima o poi ad un posto donde potrà dirigere gli altri
a sua posta, od attuare con autorità qualche concetto di riordi-
namento militare o civile ; ma intanto forma nel suo spirito dili-
gente e paziente concetti adatti ad introdurre migliori e più efficaci
ordini nell'esercito, quando che sia. 11 giorno che gli occorreranno
per agire, gli saranno stati maturati da uno schietto e lungo studio
delle cose, non gli sorgeranno tumultuarli, scompigliati, dalla
smania di fare o di parer di fare, stantechè uno, bene o male, di
sbalzo, senza riputazione, senza preparazione, si trovi pure giunto
dove è un amor proprio oramai, una passione egoista, il motivo
necessario dell'agire anche a caso.
Ebbe poi promozioni rapide; colonnello in tre anni, mag-
giore generale in sei mesi, luogotenente generale in altri sei; **
generale d'armata dopo altri sei. Ma a nessuno parvero troppo
* Commemor., p. 84. « Vidi Pei itti, scrive da Milano, il 4 giugno, che va per
alcuni giorni in Alessandria. Pare che potrà anche venire qui destinalo invece di
Mollerd. Come ti puoi immaginare, mi farebbe piacere. Ma non intendo di chie-
derlo, come non chiedo mai nulla che possa sembrare un favore qualsiasi.
** Copio dalla bella Comìnemorazione di Paulo Fambri. Padova, 1878, p. 6-
400 ALFONSO LA MARMORA.
rapide eccetto che a lui. lu effetti, di alcuna delle ultime scrive
che : « non sembrandogli avere meritato quel posto » che gli
si conferiva nello stesso tempo dell'ufficio di commissario straor-
dinario a Genova il 1 aprile del 1849, innanzi d' aver domata
r insurrezione, « egli ne tenne nascoso il decreto » sin dopo
presa la città. E già l'aveva rifiutato una volta. La « sete di avan-
zamento » pareva a lui una delle maggiori pesti d'un esercito, e
r impensieriva per quello di Francia. La teneva quindi lontana
da sé. Quando nel luglio del 1860 furon fatte molte promozioni
nell'esercito, pur giustificate e necessarie, egli scrisse a un suo
amico: « Le ultime promozioni hanno portato una immensa per-
turbazione, che il piacere di avere con me Petitti non mi fa meno
deplorare Tale è lo stato dell' esercito nel quale non si parla
più che di promozioni, stipendi ed altri vantaggi; e si può star
di buon umore ? » Che direbbe oggi ? Più d'un ufficiale m'ha detto
che la malattia nell' esercito più che mai ferve ; e se è naturale
che vi s' inoculi dopo una guerra, sarebbe stato naturale altresì
che una lunga pace l'avesse risanata. Se non che l'umore dei par-
titi politici ha operato in contrario; e, se non sono informato
male, l'ha esacerbata e la esacerba tuttora.
Dovremmo ricordarci davvero della vita costituzionale del
Piemonte, assai più che non facciamo. Non i^i può dire che. per
essersi il Piemonte piccolo convertito in un' Italia grande, gli
uomini, e di quella e d'ogni altra regione d'Italia, sieno diventati
0 migliori 0 maggiori. Anzi, si può dire che scemino nella mi-
sura stessa nella quale ci allontaniamo dai primi tempi della pro-
mulgazione dello Statuto o della formazione del Regno. Anzi ab-
biamo avuto a disdegno i pochi che eran rimasti, e ci siamo
affrettati a gittarli, come ciarpe vecchie, da banda. Frettolosi e
poco scrupolosi j)o/vY/c/r/«5, a chiamarli col loro nome americano,
che per fortuna manca l' italiano ancora, non hanno avuta pace,
sinché vedessero tolti di mezzo uomini avanti a' quali il rossore
montava loro sul viso. E sia; ma conserviamone la memoria, la
memoria non dei maggiori soltanto, ma dei minori ; poiché que-
sti ultimi possono soli essere esempio ai più, che v'ha virtù, delle
quali tutti possono essere capaci, se ve n'ha altre delle quali
possono essere capaci soltanto pochi. Nelle lettere del La Mar-
mora noi incontriamo parecchi di questi uomini, nei quali ap-
pare spiccato im tipo che va venendo meno, il tipo dell'uomo, che
comanda senza orgoglio ed obbedisce senza bassezza; devoto al
Ee, allo Stato; non i)resuntuoso, non turbolento, non invidioso;
ALFONSO LA MARMORA. 401
che all'ufficio pubblico si sobbarca, se chiamato, non si affretta,
impaziente; che rispetta gli ordini politici che trova, e non im-
magina che la prima cosa, la cosa necessaria, è di mutarli, ed
egli sia destinato a mutarli; che non misura i doveri suoi dalla
soddisfazione che prova ad adempierli, e dall'utilità che gli pro-
cura l'adempierli; che crede quelli sempre maggiori che i suoi
diritti, e pensa che il sentimento del dovere è la vera radice
della dignità, quello del diritto è la più ordinaria scaturigine
della petulanza, per usare una parola del La Marmora appunto.
Il Balbo, lo Sclopis, il Collegno, il Moffa di Lisio, il Dabor-
mida, il Vegezzi, il Cassinis e tanti altri, che sono già usciti
di mente alla generazione nostra, dovrebbero esserle ricordati
di nuovo. Ma voglio qui nominarne due, poiché il La Mar-
mora me ne dà 1' occasione, che la più pazza e la più abbietta
delle politiche ha ucciso prima che morissero, il Valfrè e il
Petitti. Del primo il Dabormida scriveva al La Marmora di
averlo suggerito al conte Cavour nel 1857 per ministro della
guerra ; e che il conte Cavour n'avesse proposta la nomina al Re,,
del quale non dubitava che 1' avrebbe aggradito ; sicché non ve-
deva difficoltà che nella modestia del suo amico ; e questa appunta
fu provata invincibile, cosa la quale oggi parrebbe impossibile l
Del Petitti voglio ricordare, come, suo malgrado, non chiama-
tovi dall'ufficio suo, più premuroso di adempiere un dovere diffi-
cile, che di sofisticare sulla convenienza di commetterlo a lui,
andasse l'il agosto del 1866, richiesto dal La Marmora, a chie-
dere all'Austria l'armistizio a Cormons. ('^) Questa pareva al La
Marmora fosse prova e suggello d' amicizia vera, il far sempre
minor conto di sé che della patria. E al Petitti si dovette so-
prattutto che l'armistizio fosse concluso in maniera onorevole per
r Italia.
Però, quando nel maggio del 1877, il Petitti, il Cadorna, il
Valfrè furono mandati via dall' esercito, ed il Ministro della guerra,
che osò farlo, osò anche dire nella Camera, eh' egli aveva reso un
gran servigio all' esercito, il La Marmora non si seppe dar pace.
Non era più deputato, poiché aveva rinunciato, né era senatore,
poiché non aveva mai voluto essere. Ma si vede, nelle sue lettere,
che se avesse avuto modo di affrontare il ministro in Parlamento,
non vi avrebbe mancato. Ma che ! « diss' egli, Valfrè, Petitti, Ca-
dorna, erano, dunque, secondo il Ministro, o pericolosi o incapaci ?» *
* Commemoraz., p. 80.
402 ALFONSO LA MARMOKA.
Ed aggiunge : « Io nou so cosa uè penseranno i tre generali, ma
io certamente nou inghiottirei un insulto simile ! » E ricorda, come
il Petitti ministro avesse ritrovato « il Mezzacapo in dispouibilità,
e, quel che è peggio, iu poco buon concetto per qualità militari,
perchè si diceva che nel 1859 e dopo avesse fatto poco buona prova
nel comando di truppe; e, nou ostante ciò, l'avesse richiamato
dalla disponibilità, e destinato alla Presidenza del Consiglio su-
periore degl' Istituti militari, parendogli un ufficio cotesto, che
quegli potrebbe « coprire opportunamente ed onorevolmente. » Ed
esclama: « Che dirà Ricotti? se è vero che il Ministero rispondesse
alla sua domanda di dispouibilità, dandogli 1' ordine di partire per
Piacenza. Ma mai, neppure col governo assoluto, si trattavano così
brutalmente i generali Cadorna, rispondendo ad una lettera di
rammarico che io gli scrivevo, pel modo indegno con cui l'hanno
trattato, mi rammenta che poco prima si andasse in Crimea, egli
fece alla Camera un lungo discorso contro alcune mie disposizioni,
e che ciò malgrado gli facilitai la sua carriera. E Menabrea, che
per 10 anni votò contro il Ministero, e mi fece opjiosizione sin per
la Crimea!...» E in un' altra lettera: « Ella ha ragione di scrivermi
a proposito della condotta di Mezzacapo con Petitti: C'est à ne
l)as y croire! Ma che in Senato nessuno alzerà la voce? Se io fossi
0 Valfrè o Petitti o Cadorna, protesterei energicamente contro al-
l' impudente dichiarazione del Ministro ; e se il Senato non la
biasimasse, non ci metterei più il piede. »
Come vibra il sentimento dell' uomo offeso dall' ingiustizia e
dall' iudignità ! Qui non si tratta di nulla che concerne lui. Egli
è già fuori d'ogni operosità politica. Si può dire, che se non ama gli
uomini giunti gli ultimi al governo, non amava però più quelli
che sono stati sbalzati da questi. Ciò che lo muove, è il danno
fatto all' esercito ; è lo spettacolo dato al paese ; è il torto inflitto
a persone egregie. Ci ha qualcosa nel cittadino, eh' egli non per-
mette a' poteri pubblici di violare ; anzi, crede, che sia dell'inte-
resse pubblico, che gli uomini, nelle cui mani sta il governo, non
isperino mai che, nel caso eh' essi osino offenderlo, il cittadino
paia cosi umiliato e rassegnato da non insorgere contro di loro,
da non levarsi a combatterli con tutte quelle armi che la costitu-
zione dello Stato ammannisce e permette.
Ebbene, questo sentimento spiega tutt'una j^arte della vita pub-
blica del La Marmerà. Esso è stato causa, che nel marzo del 1861
egli combattesse con tanto vigore le riforme minori, che il Fanti in-
troduceva neir ordinamento dell'esercito fatto da lui ne'varii suoi
ALFONSO L.V MARMORA. 403
Ministeri dal 1848 al 1860; e nel 1871 e nel 1872 combattesse il più
che potesse e sapesse, collo scritto e colla parola, quelle maggiori
che v' introdusse il Kicotti. A me non può appartenere di giudicare
chi avesse ragione ; ma avrebbe torto chi ascrivesse l'opposizione ri-
soluta del La Marmora a vanità offesa. La vanità è meno convinta
e più rabbiosa. Il La Marmora non era mosso da questa, di cui
non era capace, bensì dalla molta chiarezza e precisione delle idee,
donde moveva la critica sua. Egli era stato novatore, ma misu-
rato; né nel giudizio dell' esercito Piemontese, né in quello degli
eserciti forestieri aveva seguito la corrente, senza fermarla e di-
mandarle le sue ragioni. L' esercito Prussiano era stato studiato
per il primo da lui nel 1860, e sin d' allora n' aveva avvertito i
pregi tuttora nascosi agli occhi volgari ; nel 1861, aveva sostenuto
pubblicamente alla Camera contro il Fanti « non esser tutto per-
fetto nell'esercito Francese ; quella parte del meccanismo che ri-
flette la disciplina e le istruzioni pratiche esser molto più semplice
neir esercito Prussiano, il quale poteva servir di modello a qua-
lunque altro; » anzi, nel ritorno da un suo viaggio a Berlino, aveva
scritto al Cavour, che in una guerra tra la Francia e la Prussia,
niente assicurava, che la vittoria sarebbe rimasta alla prima. Ma,
l)ronto ad ogni esame accurato, non amava gli entusiasmi facili,
e le imitazioni frettolose. E ragione o torto eh' egli avesse in taluni
particolari, aveva certamente ragione circa i modi, e i temperamenti
coi quali qual sia riforma, pur necessaria, si doveva introdurre
in un ordinamento militare, macchina delicatissima e piena di con-
gegni difficili. Oltreché aveva delle disposizioni morali che fanno
le virtù d' un esercito, un concetto più vero, più vivace di chi si
si sia, sicché non so se da altri discorsi o da altri libri se ne trar-
rebbero nozioni più chiare e profonde che da' suoi. Sicché 1' oppo-
sizione fatta da lui a provvedimenti militari che gli parvero in
uno od altro rispetto dannosi, ebbe per sola ragione la profonda
convinzione sua che si noceva all' esercito, e che, (Quando un danno
pubblico era per intervenire, nessun rispetto privato, nessuna mi-
nore considerazione dovesse trattenere, chi poteva, dal tentare di
stornarlo od impedirlo.
L'io, come complesso di persuasioni, era potente nel La Mar-
mora ; ma come complesso d' interessi o di vanità, egli stesso non
avvertiva d'averlo dentro di sé, se non per dirgli di starsi zitto
e tranquillo. Non ha fatto mai differenza nella sua condotta la
qualità del posto che occupava. Nella campagna del 1859 egli non
ebbe nessun ufficio militare. Non accettò il comando d' una parte
404 ALFONSO LA MARxMORA.
dell' esercito, né fu capo dello stato maggiore. Seguì il Re, coman-
dante supremo, come ministro. Uno, che non gli era punto benevolo,
scriveva di lui : « È un atto di eroico patriottismo dal canto di La
Marmerà il sopportare con rassegnazione e pel bene della cosa pub-
l^lica la posizione che gli è fatta all' esercito. Ieri ne piangeva di
rabbia, e non potei trattenermi dal dirglielo. » * Pure, egli non av-
vertì 0 non parve avvertire, che in questa posizione egli ci stesse
male ; egli avvertì soltanto, che anche in quella egli aveva doveri,
che non diminuivano punto, solo i^erchè non si sarebbe potuto censu-
rarlo se non gli avesse adempiuti. Nel maggio del 1859, mentre
l'esercito Sardo era già accampato tra Alessandria e Valenza, e gli
Austriaci minacciavano d' impedirne la congiunzione coli' esercito
«Francese che doveva venire in buona parte da Genova, fu risoluto
dal Comando supremo dell' esercito Sardo, di ritirarsi sull' Appen-
nino. Questa risoluzione si sapeva, che il generale La Marmora
l'avrebbe combattuta; sicché parve miglior consiglio il nascon-
dergliela. Pure, egli n' entrò in qualche sospetto ; e quantunque
nessuno avrebbe potuto accusar lui delle conseguenze, a lui parve
dover suo l' impedirlo, poiché gli pareva nocivo. Corre a San Sal-
vatore dov' era il Re, che aveva appunto dato 1' ordine della riti-
rata, persuaso che fosse necessaria. Quando il La Marmora vi giunse,
il Re era già chiuso; v'era ordine che non fosse lasciato entrare
nessuno. » Ma il La Marmora, quantunque gii s'impedisse la via
non ebbe pace, sinché il Re non l' ebbe udito, e gridato all' usciere
Lascialo entrare. Doveva distogliere il sovrano da un partito che
questi aveva già preso, con ragioni, come gli era parso, buone, e
col consenso non solo dei suoi generali, ma del maresciallo Can-
robert. Non venne meno alla difficile impresa; e quando il Re gli
disse, che era vano oramai il discutere un ordine già eseguito,
rispose fieramente : « Quand' anche si ritirassero tutti, non sarà
mai che mi ritiri io ; preferisco mille volte essere fatto prigioniero
dagli Austriaci, anziché lasciarmi sputare in viso da' Francesi. »
Il maresciallo Canrobert, presente, finì, interrogato dal Re, col
dare ragione al generale La Marmora; e il Re finì col mutarsi
di parere egli stesso e col dare ordine, che la ritirata si sospen-
desse, e le truppe ripigliassero i loro posti di prima. Poiché Vit-
torio Emanuele, delle due qualità che possono avere i principi:
— seguire i consigli buoni quantunque sgradevoli, e prediligere chi
ne gli dà — aveva certamente la prima.
* Commemorai, p. 82.
ALFONSO LA. MARMORA. 405
Chi corre così difilato al dovere suo, né bada, se gli accidenti
del posto in cui egli è, gli levano l' obbligo di compierlo, ma guarda
solo alla sostanza dell' atto suo, e alle relazioni in cui esso è col
concetto eh' ei s' è formato del bene, è adatto a mettere da banda
nella sua condotta molte considerazioni, le quali non conservano
più in sé e a' suoi occhi, se non un valor secondario. Davvero,
questa é vera natura di uomo politico in uno Stato libero. Negli
Italiani non abbonda ; la smania del compromesso, dell' espediente,
dell'intrigo l'uccide. Questa smania é morbosa, e si può dire la
più profonda radice della visibile e palpabile debolezza della no-
stra vita pubblica. Giova avere avanti agli occhi, per medicarla,
gli uomini che ne sono stati del tutto liberi; e il La Marmora
fu certo di quelli. Una tale franchezza schietta, aperta, balda egli
mise a difendersi da un'accusa, falsa, scipita, assurda, che gli ama-
reggiò tutti gli anni della sua vita dal 1866 in poi. L' accusa, — chi
l'avrebbe immaginato — fu questa, eh' egli il quale era stato autore
e negoziatore dell'alleanza colla Prussia, avesse perduta a bella
posta la battaglia del 24 giugno, e soprattutto indugiato a bella
posta la ripresa delle ostilità dopo quella, per ossequio a' consigli,
anzi a' voleri della Francia. Non e' è virgola di un' acqusa siffatta
che non fosse bugiarda. Né la Francia aveva dato siffatti consigli ;
e si può non solo affermare, ma provare che il La Marmora non era
adatto a seguire nessun consiglio che offendesse non diciamo l'onor
suo, ma quello del paese. Ci bisogna una vera perversità mentale
per pensare, che un generale volesse perdere una battaglia a posta;
ed un' ignoranza presuntuosa per asserire, che fosse colpa di lui,
se la ripresa delle ostilità indugiò più di cinque giorni. Pure, una
cosi lampante menzogna trovò chi la pronunciasse; ed una igno-
ranza così presimtuosa trovò chi se ne rendesse colpevole. E ciò
fu peggio, che quegli i quali pronunciarono la menzogna, e si pro-
varono così presuntuosamente ignoranti, non solo erano i più potenti
ma, e di quegli ancora che colla potenza accoppiano una suprema
burbanza. I Tedeschi, così ostinati nella ricerca del fatto vero, sono
altrettanto industriosi e pertinaci nel voler convincere altrui di un
fatto falso, se una volta ne son persuasi essi stessi. La mente loro,
eh' è delle più elette, è soggetta a prendere storte, che non si riesce
più, per nessuno sforzo, a raddirizzare. E, favorita da espressioni
o non vere o dubbiose, sia scritte in documenti ufficiali, sia uscite
di bocca con gran petulanza a persone ufficiali, si diffuse, si con-
fermò, si dilatò per tutta Germania la voce, che il generale La
Marmora fosse stato infido all'alleanza prussiana stipulata da lui.
406 ALFONSO LA MAKMOKA.
Questa voce fu nutrita, gonfiata da scrittori d' ogni qualità e ca-
libro, e un nugolo di scrittorelli vi danzò sopra per un gran tempo.
Persino una parola fu inventata: lamarmorizein; e voleva dire
essere di mala fede. Quando più tardi il generale viaggiò in Ger-
mania, si vide indicato a dito, come traditore, lui, e scansato
dalle persone di rilievo ed in grado. E nella sua patria, da pochi
in fuori, non si pareva risentire 1' afironto che gli era fatto. Nes-
suno pareva accorgersi, che un uomo, il quale aveva occupato così
alti posti, non poteva essere offeso, senza offendere anche il paese
del quale aveva goduto così spesso e così meritatamente la fiducia.
Né le accorte frasi del governo prussiano erano ribattute dal go-
verno nostro, né i racconti falsi autorevolmente contradetti.
All'interno le accuse contro l'incapacità del generale, all'estero
quelle contro la mala fede dell'uomo di Stato si lasciavano accu-
mulare senza smentita. Egli non rifiniva di chiedere, che i fatti
della campagna italiana del 1866 fossero ufficialmente accertati,
per sceverare la parte di responsabilità, che potesse spettare a
lui, nelle sventure occorse; non se ne veniva a capo. Il partito
suo stesso, nella Camera, lo difendeva mollemente. Era lasciato
insultare da deputati di nessun valore e ci edito, a' quali pareva,
coU'oltraggiare lui, acquistar merito e fede presso ministri fore-
stieri, il cui favore gli avrebbe aiutati prima o poi a salire.
Quanta amarezza doveva essere da tanto malanimo ed obblio get^
tata in quell'animo ! Che schianto il sentirsi accusare, senza quasi
difesa, di esser venuto meno a' piìi semplici e più facili doveri
d'un galantuomo! Non è meraviglia, quindi, che il La Marmora
prorompesse; e poiché nessuno bastava a far tacere così acerbe
calunnie, ci si provasse a riuscirvi lui. E lo fece in uno scritto
celebre, il cui rumore fu tanto, e tanto lo scandalo, che, dovendo
essere di due volumi, il secondo non é stato anche creduto bene
dì pubblicarlo, e tutto scritto e litografato, aspetta l'ora di venir
fuori, e di diventar noto oltre la cerchia piccola d'amici, cui è
stato dato di leggerlo.
Unpo'2)ÌH di luce sugli eventi politici e militari delVanno 1866,
così s'intitolò il libro. Fu davvero luce meridiana; ma l'autore,
che era stato l'attore principale dei fatti che raccontava, ebbe
necessità, per diffonderne tanta che tutti oramai ci vedessero, di
venir meno a troppi riguardi, e a taluni, anche — bisogna dirlo —
che gli uffici stessi rivestiti da lui gli rendevano doveroso di ri-
spettare. Qui non voglio tornare sopra una quistione già dibat-
tuta più volte; poiché in questo scritto non mi sono proposto se
ALFONSO LA MAKMORA. 407
non di dipingere l'uomo quale è stato. Yu una molla che scattò
nel generale La Marmora, lungamente, dolorosamente compressa ;
ed è facile predicare e provare, che sarebbe stato più degno di
un uomo di Stato il lasciarla pure comprimere, e 1' impedirne
lo scatto; ma è necessario confessare altresì, che a tanta inso-
lenza d'accuse crudeli da una parte, a tanta negligenza di difesa
dall'altra, non v'è cuore che avrebbe retto in silenzio. D'altronde,
non s'intende bene la pubblicazione a cui si risolvette il La Mar-
mora, se se ne ascrive il motivo tutto e solo alla difesa della sua per-
sona. Gli era — e si vede nelle sue lettere — estremamente pe-
nosa la nube di calunnie e d'ingratitudini, dalla quale si vedeva
attorniato e coperto; ma gli era più penosa l'ofFesa fatta in lui
alla verità, alla giustizia ed all'onore dell'esercito e della patria.
Parlò per sé, ma non era soprattutto impensierito di sé. Parlò,
con quella vivacità, con quella franchezza che avrebbe fatto, se
fosse dovuto venire a difendere il Petitti e il Valfrè, sbanditi
dall'esercito, in Parlamento.
E le censure, pur necessarie, lo aspreggiarono peggio. I docu-
menti venuti fuori, offesero vanità e presunzioni, al di qua e al
di là dell'Alpi; né sempre a ragione. Sicché di fuori vennero
premure, perchè la legge italiana vietasse la pubblicazione di
documenti governativi, e di dentro, gli animi erano bene disposti
a consentire a siffatte premure. Del disfavore, che veniva al ge-
nerale La Marmora dalle pubblicazioni fatte, si giovavano contro
lui i partiti democratici, desiderosi da una parte d'ingraziarsi
colla Prussia, dall'altra di abbatter lui, che riputavano loro prin-
cipale e più costante nemico. Il generale La Marmora, a cui il
paese tutto doveva più volte la sua salvezza, si sentì allora nel
suo paese poco meno che solo. Anche quegli i quali lo difende-
vano, non lo facevano, secondo lui, come e quanto abbisognasse; e
all'animo esulcerato, pareva che gli si desse torto in ogni cosa se non
gli si dava in tutto ragione. Il calice traboccò, quando il Governo,
nel Codice penale, propose un articolo, tutto inteso contro di lui.
Ed egli allora prese di nuovo la penna, a dimostrare che quella
disposizione che già il Senato aveva votata, era assurda, dannosa;
e i ministri, nel presentarla avevan fatto prova di debolezza e
lesa la dignità dello Stato, perché vi s'eran lasciati indurre dalla
dimanda imperiosa d'un governo forestiero.
Il Generale non aveva torto in tutto, né in tutto ragione.
Neanche è qui il luogo di sceverare la parte di quella e di que-
sto; poiché è quistione morta, e che non giova risuscitare. Ma»
408 ALFONSO LA MARMORA.
se v'ha qualche eccesso, è eccesso nella difesa; e ad ogni modo,
(luest'uomo, che leva contro tutti la fronte alta e sicura, e nella
coscienza dell'integrità sua combatte senza odio, ma risoluto a
non desistere, sino a che non sia riconosciuto il vero, è un'alta
figura. Un giorno, fu il 2 giugno 1870, parecchi deputati di Sini-
stra presentarono, i dissennati, una proposta intesa a cacciar via
dall'esercito attivo il generale La Marmora come incapace al ser-
vigio militare. Con quelli che si levarono a votarla, si levò il
Generale, anche lui. Qui si trattava dell'attitudine sua, e qualun-
que opinione egli ne avesse, poteva mostrar di consentire con
quelli che gliela negavano, o almeno abbandonarne ad essi il
giudizio come cosa che non lo riguardasse. Ma avanti alla storia,
al suo cognome, alla sua coscienza, egli non poteva a nessun
patto consentire di non alzarsi anche solo contro quelli, i quali
gli parevano risoluti ad annientare la sua riputazione di onesto
uomo e di buon cittadino. Un altro giorno, nella Camera, il 17 di-
cembre 1877, egli aveva detto di sé : « lo non ho nessuna smania di
salire all'Olimpo, di passare alla posterità come un grand'uomo,
«ome un gran capitano, uè come diplomatico; ed ancora meno
come rivoluzionario; ma io tengo a vivere e morire come un
onesto cittadino, come un soldato senza macchia. -> Ed era questa
meta appunto di tutta la sua vita, verso la quale l'aveva diretto
il sentimento più intimo del suo cuore, (]uesta meta era appunto
(piella, che gli si voleva ostinatamente negare di avere raggiunto,
quella dalla quale si voleva pervicacemente pretendere ch'egli
si fosse, di proposito deliberato, e con abbiettezza d'animo, al-
lontanato !
Una lotta, combattuta per più anni poco meno che da solo,
e contro tanti, gli rese più agile l'ingegno e più sensitiva la fibra.
I criterii morali, che l'avevano retto sino da giovine, li andò
applicando come] la sola norma di giudizio in ogni cosa. Già era
stato così prima. « Il modo, col quale si è aggredito il Borbone» non
pare a lui adatto a produrre buon effetto in Europa. È di quelli che
ammira il Cavour, ma non sa approvare tutto ciò ch'egli fa,le sue fur-
òerie. A' suoi elettori di Biella, nel 1867, dice: « Impegnato, o signori,
per circa tre anni nella ingrata lotta del brigantaggio, non ho
mai permesso si ricorresse ad inganni, nemmeno coi briganti....
Kifiutai sempre di portare la guerra civile in casa altrui, anche
degli stessi nemici. » Militare, non ama la guerra; il fatto, di cui
si gloria di più, è l'avere nel 1859, salvata la vita a molti sol-
dati austriaci ; e a' nemici sul campo, vincitori o vinti, è, fuori di
ALFONSO LA MAKMORA. 409
quello, amico caldissimo. Non si risolve a procurare d'ottenere la
Venezia per forza d'armi, se non quando ogni speranza d'ottenerla
per negoziati pacifici gli è venuta meno. Allontanato dalla vita poli-
tica attiva, allarga l'uso dei criterii morali, che l'avevan diretto
in quella. Attende a migliorare la sua coltura, rileggendo le
storie antiche, e studiando le vicende sociali dei popoli. La sua
mente non è pigra ; i libri ch'egli legge, li riempie nel margine
di note sue. Verità ed onestà va cercando attraverso i secoli, con
ischiettezza e semplicità di sentimento. Vi porta uno spirito libe-
rissimo. Legge e rilegge la Bibbia ; e nella storia che vi racconta,
discerne soprattutto chi vi si conduce da uomo dabbene e chi no ; e
non v'ha aureola di gloria, che salvi quest'ultimo dalla sua censura.
Davide gli appare un uomo cattivo, e in ogni aspetto biasimevole;
tra gli uomini di quel tempo, non ha stima se non a Gionata.
Cristiano, cattolico per tradizione di famiglia e per convinzione
propria, legge gli scritti del Renan, non una volta ma più; e li
compara colle fonti; vuol sapere, se dica vero, non giudica a priori
ch'egli deva dir falso. Il Manuale d'Epitteto gli va grandemente
a genio. Ristudia la Storia romana; e gli si spoglia d'ogni gran-
dezza, in tutte le sue parti, nelle quali la grandezza par frutto
d'ingiustizia e violenza. A ciascun uomo, chiamato grande, dimanda
se è stato virtuoso. Questa storia, rifatta al punto di veduta del ga-
lantuomo non è senza novità ; e talora, alla buona, persino nei di-
scorsi alla Camera, s'è sentita rammentare a tratti da lui, ma
gioverebbe forse raccoglierla sui fogli nei quali l'ha sparsa. I
suoi giudizii forse servirebbero anche a temperarne o migliorarne
molti altri, e certo a dipingere lui.
V'ha qualcosa d'angusto nello sguardo del Generale. Troppi
lati delle cose gli sfuggono ; e gli atti altrui gli si colorano tutti
a un modo. Abituato da giovine ad un delicato ed uno scrupo-
loso esame di sé, in ogni suo passo, sconfortato più tardi dal
vedere tanti o in contraddizione rispetto a lui colla testimonianza
sicura della sua coscienza o indifferenti a raccoglierla, acquista
senza volere, senza sapere, un'opinione di sé, non troppo alta, ma
troppo esclusiva, e diventa ingiusto, severo più del bisogno con
troppi. Il mondo gli si circoscrive ; e il consorzio di quelli coi
quali gli par possibile vivere, gli diventa via via più piccolo. E
anche prima che muoia, le fonti dell' operosità politica e civile gli
si diseccano ; perché quelle le nutre, le vivifica soltanto una larga
simpatia, un'intima, una profonda, una continua intelligenza collo
spirito pubblico del paese, sia per seguirlo, sia per correggerlo.
VoL. XIV, Serie II. — 1 Aprile 1819. 25
410 ALFONSO LA MARMOEA.
Io non ho voluto scrivere la vita del generale La Marniora,
né raccogliere nuovi fatti di lui. Quest'opera ha già chi la deve
compiere, e la compirà di certo assai bene. Uno scrittore, che ha
mente e cuore, che ha il sentimento del retto e l'ardore delbene,
narrerà all'Italia ciò che il La Marmora è stato per essa, si nella
preparazione giovanile degli studi, e sì a Genova nel 1849, quando
compresse in un attimo un'insurrezione pazza e sleale; e poi
ministro della guerra a piìi riprese circa undici anni dal 1849 al
1860, nel quale ufficio rinnovò gli ordini e rifece lo spirito del-
l' esercito ; e generale delle truppe piemontesi in Crimea nel 1855,
dove ne ristorò la riputazione scemata dalle sventure delle cam-
pagne di sette anni innanzi; e ministro al campo nel 1859, dove
giovò col consiglio, in momenti angosciosi e perplessi, e s'ado-
però al successo, come se non fosse stato lasciato fuori d' ogni
posto efficace a tutelarlo; e Presidente del Consiglio per breve
tempo in quell' anno stesso al finire improvviso della guerra,
quando, al credito suo, tenne l' Italia attenta e tranquilla in un
difficile momento di sosta; e luogotenente del Re a Napoli,
nel 1861, dove per il primo riuscì a migliorare una condizione
diventata pericolosa perchè il disordine vi era fomentato dalle
voglie sfrenate della reazione e della rivoluzione insieme; e
di nuovo presidente del Consiglio nel 1864, allorché riuscì, nel
principio, a mantenere intatto il patto concluso colla Francia ri-
spetto allo sgombero di Koma, malgrado 1' opinione sua propria,
e il sentimento del suo paese natio, e nella fine a concludere colla
Prussia l'alleanza che ci ha data la Venezia; e capo di stato mag-
giore nel 1866, quando riparò il danno fatto, malgrado suo, al
paese, per non essere stata vinta la battaglia di Custoza conclu-
dendo quasi d'arbitrio suo, e mentre ogni altra volontà era con-
fusa e falliva, l'armistizio di Cormons ; e in fine luogotenente del
Re a Roma, dove assicurò col nome suo all'Europa la temperanza
della politica del governo italiano, e non venne meno a nessuno
dei doveri estremamente difficili d'un ufficio accettato solo per
devozione al Re ed alla patria.
Pure non è in tutta questa sua azione pubblica, ufficiale,
che sta il merito principale del generale La Marmora. Il me-
rito principale suo è nell'esempio lasciato ad uno Stato, che se è
nuovo, é oramai stabilito, d'una vita intemerata, pura, d'una co-
scienza sicura, impavida, d'un cuore leale, benefico, generoso ; che
disceso di stirpe antica e nobilissima, non si giovò della nascita sua
che per negarne a sé ed altrui ogni privilegio ; nell' esempio d' un
ALFONSO LA MAKMORA, 411
uomo, che, odiando la rivoluzione, non ha mai disdegnato, contra-
stato il moto ; che, o gliene venisse favore o disfavore, ha detto alta-
mente sempre e fieramente il vero ; cui nessun'oblio o dispregio ha
fatto mutare via, quantunque sentisse vivamente i torti che gli si fa-
cevano ; che non s'è piegato mai a mostrar di stimare quelli che
disistimava, e a patteggiare cogl'intriganti politici, che credeva
dannosi, perniciosi all'Italia. Questa purità di coscienza si con-
verte in lui in chiarezza di sguardo. Possono esservi stati nella
storia italiana di questi ultimi anni molti di più larga intelli-
genza della sua; ma la sua perspicacia, aiutata dalla sincerità
dell'animo, è arrivata talora più lontano di quelli, ed ha dato alla
sua condotta una maggiore costanza e fermezza. Q^) In una di quelle
note citate più sopra egli scrive : « Cade pur troppo anche il Bonghi
nell'errore comune a tutti gl'Italiani, che la sottigliezza dell'in-
gegno sia principal pregio di un generale, mentre la storia prova
chiaro come il sole, che anche in guerra i gran caratteri sono
assai più pregevoli dei grand' ingegni, e che la fermezza di ca-
rattere è prima d'ogni altra cosa necessaria in guerra. » Vera-
mente io uè cadeva, nel luogo a cui il La Marmora annota così,
nell'errore ch'egli mi appone, né vi son caduto mai. Anzi, a me
è parso sempre, che l'ingegno non giovi, se il carattere non l'ac-
compagna, non solo nella condotta degli eserciti, ma neanche in
quella degli aifari politici e civili. E se appunto ho scritto spesso
del generale La Marmora ed ora, con ammirazione ed affetto,
non è già perchè n'avessi nessuna cagione d'amicizia o di fami-
liarità; ma perchè, compreso ogni cosa, e pur lasciando ad altri
di averlo superato in altre parti, egli è stato il più forte carat-
tere che abbia preso parte al risorgimento d'Italia, e merita, come
tale, di rimanere in cima alla mente e al cuore d'ogni italiano. (^'')
R. BONGHL
412 ALFONSO LA MARMORA.
NOTE.
{') Cerlungo, 2^- (jinf/no i8G6, ore 10 3/ 4 jyom. — Al Ministro della Guerra.
Oggi accanito combattimento che durò dall'alba quasi fino al cadere della
notte. Il primo Corpo d'armata che doveva occupare posizioni tra Peschiera
e Verona non riuscì nell'attacco. Il secondo e terzo corpo non poterono liberare
il primo dall'assalto che questo ebbe a sostenere di forze preponderanti ; essi
sono quasi intatti e cercherò di trarne il magiifior partito possibile.
La Mabmoka.
{*) Cerlunf/o, 25 giugno 1866. — Al Ministro della Guerra.
Austriaci gettatisi ieri con tutte loro forze contro corpi Generale Durando
e Della Rocca verso Valleggio e Villafranca li hanno rovesciati. Stanotte tene-
vano ancora Valleggio, Pozzolo, Goito, ma stato armata deplorabile, incapace
agire per qualche tempo; cinque Divisioni, Generale Cerale, Generale Bri-
gnone, Generale Govone, Generale Cugia, essendo disordinate. Non sembra
per ora Austriaci vogliano inseguire — si dispone per energica difesa di Goito,
Volta, Cavriana, Solferino. — Abbiamo forti perdite che non si possono finora
valutare. — Generale Cerale, Generale Dho, Generale Gozzani, Principe Ame-
deo feriti. — Generale Villarey morto. — Principe Umberto ha fatto prodigi
. y^Joi'^ — ;8ua Divisione quantunque abbia sotierto assai è in buon ordine. —
Divisioni Pianell, Longoni ed Angioletti ancora intatte. La Marmora.
(*) Cerlungo, 23 giugno 1866, ore 6.13. — Al Ministro della Guerra.
Stante 1' insuccesso della giornata di ieri, presentando gravi difficoltà
eseguire ulteriormente piano strategico adottato presente campagna, si è perciò
deciso fare movimento addietro, non per eseguire ritirata, ma per adottare altro
piano di^ guerra. La prego concertarsi Ministro Interni perchè fuggiaschi terzo
Corpo d'armata sieno diretti Cremona, quelli altri corpi armata per Piacenza.
La Marmoka.
Redondesco, 26 giugno 1866. — Al Ministro della Guerra.
Oggi esercito comincia ritirata su Cremona, Piacenza, Pizziirhettone per
collegarsi con Generale Cialdini. — Vi giungerà circa 1" luglio.'— Quartiere
Generale principale domani Redondesco, dopo domani Piadena, dopo Cremona.
— Austriaci Valleggio e ma poco numerosi. La M.ì.rmora.
( } IJa Ferrara, 26 giugno 1866. — Al Ministro della Guerra.
Dopo giornata 24 e ritirata su Cremona sarebbe pericolosa mia perma-
nenza sul Po, potendo nemico sbucare dai distretti Mantovani. Domani a
mezzogiorno quattro mie Divisioni saranno presso Modena, Nonantola e Ba-
stiglia con brigata Cavalleria a Mirandola e cordone degli avamposti sul Po
da Borgoforte alla Mescla. Nel mattino del 29 tutto qu^irto Corpo d'armata
sarà concentrato fra Rubiera, Modena e IrJastiglia colla Divisione Franzini a
Bologna. lu simile posizione osservo sbocchi distretti Mantovani e Pontelago-
scuro senza abbandonare Bologna e Firenze. Informati S. M. e generale La
Marmora. — Per ora attitudine difensiva indispensabile. Cialdini.
(^) Redondesco, 27 giugno 1866. — Al Ministro della Guerra.
Scrivo prefetto Brescia e comando divisione secondare Garibaldi se di-
sposizioni popolazioni sono favorevoli difesa. Io ritengo attacco di Brescia
poco probabile od almeno non imminente. La Marmora.
C") Redondesco, 27 giugno 1866. — Al Ministro della Guerra.
Ora che si chiariscono i fatti, il combattimento del 24 ci fa assai più
onore di quello che sembrasse dapprincipio. Il campo di battaglia rimase m
ALFONSO LA MARMORA. 413
parte agli Austriaci, ma in parte anclie a noi, e se noi ci ritirammo, essi pure
il fecero, sicché 24 ore dopo i nostri feriti poterono liberamente raggiungerci:
le nostre perdite furono sensibili, ma quelle del nemico lo furono pui-e. La
maggior parte delle truppe fece prodigi di valore, e gli Austriaci si sono si-
curamente persuasi n quest'ora che l'esercito italiano non è inferiore all'an-
tico esercito piemontese. La. Makmoea.
C) Piadena, 28 giugno fS66, — Al Ministro della Guerra,
Partecipo V. S. modificazione movimento ritirata — esercito prende posi-
zione suirOglio : 1° Cgrpo d'armata Ponte Vico, 2° Bozzolo, 3° Piadena. Quar-
tiere generale Cremona — Divisione cavalleria Linea lega esercito Garibaldi. Tutti
capi hanno ordine spingere frequenti ricognizioni su zona terreno che li se-
para dal Mincio. — Marcie questi giorni fatte con grandissimo ordine. —
Spirito delle truppe, salute, eccellente. — Dispersi rientrano volentieri. — Corpi
austriaci non hanno passato Mincio. La Maemora.
(*) /2 luglio. — Il Ricasoli scrive per telegrafo al ministro degli esteri:
« Les Autrichiens abandonnent en grandes marches l'Italie pour courir au nord.
Vous voyez l'impression que Qa produira en Prusse, où l'on a raison de n'étre
pas content de nous. Il faut empécher que cela arrive à tout prix. Il est urgent
occuper le Tyrol avec troupes régulières, envoyer Garibaldi en Croatie, en-
voyer la flotte avec troupes de débarquement en Istrie et l'occuper. »
(') 12 luglio. — Dello stesso alio stesso. Questione nostre frontiere è vitale
per noi ; come l'accomoderemo se non si pensa occupare Trento e Trieste?
L'Italia deve terminarsi Quarnero. La guerra deve condursi in modo da rag-
giungere questo segno.
('•) /6 luglio. — Il Ministro degli affari esteri scrive da Ferraraal bar. Ricasoli :
< Tàchez de voir Usedom D'après ce que Cialdini euvoie dire, il faut
ab.solnment gagner huit ou dix jours; on peut y réussir si le gouvernement
prussien fait valoir la necessitò de se mettre directement d'accord avec nous
avant que Empereur notifie par télégraphe la réponse de la Pra.sse comme
fait accompli. Veuillez engager Usedom à télégraphier tout de suite à Berlin. »
Florence. /7 juillet 1 866. — « Comte Usedom a re^u l'ordre du comte
Bismarck déjà en date du 11 courant de Zwittau, d'insister que le gouvernement
italien envoie au quartier general prussien une personne capable et munie d'in-
structions suftisantes pour cunclure un arrangement entre les denx Puissances
alliées sur un programme commun pour la paix ou l'armistice qui la devrait
préparer. (Expédié au chevalier Visconti le 27 juillet 1HG6, 1 30 soir).
« Depuis corate Bismarck m'a télégi-aphié avant-hier, come je l'ai écrit hier,
à M. Visconti. La Prusse compte que l'Italie n'accepte pas l'armistice, et dans
ce cas elle (la Prusse) continuerà la guerre avec tonte energie. Si au contraire
l'Italie acceptait néanmoins, la Prusse y verrait la preuve qu'elle n'a plus rien
à attendre de l'Italie dans aucime circon.«itance, et elle aviserait en conséquence
Monsieur Visconti verrà par cela, que mon gouvernement tient les mémes
vues que le gouvernement italien quant à enterite jjréalable entre les alliés,
laquelle ayant trait aux conditions de paix (qui ne peuvent se séparer des
conditions de l'armistice) ne saurait se trailer par télégrammes, par écrit et
encore par des personnes munies d'instructions. »
(") 16 luglio — Il Ricasoli telegrafava al Ministro degli esteri:
« Ricevuti suoi due telegrammi — conferito subito Usedom. Questi mi
comunica averlo avvertito Bismarck notte decorsa: 1" avere concesso tre giorni
sospensione armi, perchè armata prussiana aveva bisogno di riposo e di scarpe,
vitto, che l'intendenza restata indietro. ^ — 2° Che Prussia non desidera armi-
stizio; e se Italia non accetta armistizio. Prussia continuerà guerra con ener-
gia, e se V Italie accepte arttiistice (proprie parole Bismarck), ce sera pour
nous la preuve, que nous en tonte circonstance ne pouvons plus compter
avec elle. »
1 Questa sospensione fa proposta dalla Prussia, ma non po.uta concludere, stante le condi-
zioni poste dall'Austria.
414 ALFONSO LA MARMORA.
(12) Kikuhbury, 21 luf/lio i866. — Dispaccio del conte di BisììiarcJc al ìiiini-
Siro prussiano presso il Re d Italia.
Nous n'avons pas accordé d'arruistice ; méme en génóial nous uè traitons
nullemerit avec l'Autriche et avecla Fraiice; seulemeut en y adniettant le comte
Barrai; je voiis renvoid à ce siijet à luou tólégramme u* 8 d'hier.
Sur la représentation de la rrunce que. si l'Etalia accède, il pniirrait ótre
désirable d avi'ir préveiui tonte effusion de sang, qui aurait précède sou adhésion,
nous avons déclaré à la France que nous n'attaquerions pas pendant cinq jnurs,
si nous n'étions pas attaqués; nous l' avons fait, parce que iiotre armée avait
besoiu d'un peu de repos. Mais méme à ce sujet nous n'avons en aucune
manière traité avec l'Autriche. • Signé Bisjtarck.
Instruction poùr la Conseiller de Légatiou Monsieur de Bernhardi.
Après reception de la présente dópéche vous voudrez bien, Monsieur, vous
présBTiter chez S. M. le Roi pour porter à sa connaissance ce qui suit:
J'ai re9u do Bei'lin les ordres les plus précis d'insister sur une action
immediate et r^ipide de l'arniée itilienne. Si au lieu d'altaquer et de détruire
l'armée autricliienne, on lui permettait de se retirer du quadrilatere intacte
et sans étre poursuivie, pour nous ètre opposée sous Vienne, nous pourrions
éviderament nous voir forcés de conciare une mauvaise paix. Cette paix
ne nous offrirait certainement pas eu Alleniagne ce que nous devons dési-
rer, mais il en serait sans aucun doute de mème relativement aux intéréts de
l'Italie.
La guerre continuée de deux cótés avec la méme energie et una méme
bonne foi, peut et doit seule assurer pour tous les deux des résultats égalemeut
heureux. Siyné Usedom.
(") Nikohburg, 26 luglio. — Dispaccio del general Govone al Ministro de-
gli Esteri.
« ri ni 'a été irapossible d'arriver ici avant aujourd'hui, 2f5. J'ai vu comte
Bismarek deux fois. .Te lui ai expliqné pression de la Friiuce, la résistance du
roi, l'offre de la Vénétie refusée pur nous avant la guerre; la nócessité du
Trentin; n<itre droit à une égale loyauté de la part de la Prusise de ne pas
trailer sans nous armistice et paix. Comte de Bismarek m'a répondu que l'ar-
mée prussienne est très affaiblie par l'éloignement de sa base; le choléra écla-
tant partout; le climat de la Ilongrie mortel en aoiit pour l'armée, si l'on y
portait la guerre; 100 m. hommes déjà arrivós de l'Italie. Il reconnait aussi
la part que la fortune a eue aux victoires passées et les dangers d'une conti-
nuation de la guerre. On désire donc ici et l'on croit nécessaire armistice et
paix. Comte de Bismarek dit que d'après la condition de l'intégrité du terri-
toire autricliienne pi-oposée comme condition par la France et acceptée en
principe par la Prnsse, il est impossible d'appnyer uotre demande pour Tyrol. —
Que l'on avait signé aujourd'hui avec Autriclae (comme comte de Biirral l'a
rapporté en détail à V. E.) l'armistice à commencer du 2 aoùt. et qu'on
avait pris cette date pour avoir le cnuaentement de l'Italie. J'ai demandé à
S. E. ce que la Prnsse ferait si notre consentement ótait refusé. — Il a ré-
pondu qu'il se rapporterait à l'article 4 du traité, d'apvès lequel l'Italie ne peut
pas refuser son consentement aj'ant la Vénétie. Il a dit que si l'Autriche
poussée par la Russie et l'Angleterre refusait plus tard à la Prusse certaines
annexions telles que le Hinovre, la guerre pourrait continuer; dans ce cas plus
l'Italie prétendrait, mienx il vaudrait. Sur ma demande, il m'a autorisé à le
déclarer à V. E. Mon avis est qu'il n'y a pas possibilité d'article additiounel
quant à nous; que tonte opposi tion de notre part serait inutile.
» GOVONE. >
('*) Ferrara^ 22 luglio ore 3/2 poni. - Al Ministro Affari Esteri.
Les bases de l'armistice paraissant convenues entre la France, la Prusse
et l'Autriche, nous serons bientót en deineure de préciser nos propres con-
ditions envers la Prusse et la France. Voici celles que je vous propnserais:
1' La réunion de la Vénétie déjà en voie d'accomplissement militaire-
ment et politiquement pourra étre cuusacree par plebiscite sans que l'Italie
ALFONSO LA MARMOEA. 415
ait à prendve acte de la substitution d'une tierce puissance dans l'état de pos-
sessioii de l'Autriche. Oession directe ou iiidirecte n'est pas nécessaire pour
cette réuuion, la Vér.étie d«vetiant de plein di-oit maitresse d'elle-méiue, mais
il fauiira pom- rétablissemeiit de la paix que la situation snit ré'>-ularisée di-
recteiueut eutre rAutriche et l'Italie dans le Traile ù intervenir, où l'Italie
figurerà en complète parité avec la Prusse.
2' Verone, au nioins, sera remise lors de la conclusion de l'armistice:
cet acte militaire plutót que politique sera concerté entre les chefs bellio'érants
daus les foriues d'usage et de convenance militaire dans leur entière liberté
d'action. L"x\utrichH laissera intactes les autres fortifications, ponts, routes etc...
sur le thécàtre de la guerre et ne frapperà paa les populations de taxes ex-
traordinaires.
3" Le territoire à réuiiir, sans oompensation ou indemnité, sera déter-
miné par la doublé conditimi de nationalité et de sécurité du R'iyaume. Le
Trentin y sera compris. L'Italie reserverait expressément les droità des popu-
lations de ristrie, et exprimerait l'avis que l'Isirie, corame située dans nos fron-
tières naturelles et peuplée d'Italiens, devrait étre au moins ueutralisée et
Trieste devenir ville libre avec des lieus éganx envers l'AUemagne et l'Italie.
Un accord devrait avoii' lieu sur la substance de ce qui précède avec la
Prusse et la France, après quoi l'acceptation de ces bases par l'Autriche dé-
ciderait de l'armistice qui serait conclu pour uous dans la méme forme que
pour la Prusse. RiCASOLi.
(*•) A S. E. il General La Mannara, Padova.
Dal Quartier Generale di Udine, 3 agosto 1866.
(Riservata)
Quanto io argomentava da un cumulo d" indizi resta confermato dal fatto.
L'Austria desidera rifarsi su noi dei disastri sofferti dalla Prussia e rifiuta
quindi l'armistizio, ponendovi condizioni, a parer mio, inaccettabili.
Ciò vuol dire che il giorno 10 potremo ripigliare la guerra coH'x^ustria
ed avere sulle nostre braccia tutte le sue forze disponibili.
L' E. V. non ignora che il Ministero.... mi lascia tuttora senza viveri e
senza scarpe....
Se si dovesse far la guerra ragionevolmente, io dovrei partire domani
con tutte le mie forze per Treviso e là manovrare rapidamente ora sull'Adige,
ora sulla Piave riunendo tutta le nostre forze disseminate.
Ma confesso all' E. V. che in vista dello stato di esaltazione in cui tro-
vasi il piese, un movimento retrogrado parrebbe oggidì se non tradimento
certamente viltà. D'altronde si direbbe che non avendo io scarpe per andare
avanti, ho saputo trovarne per andare indietro. Subisco adunque la sorte
singolare in cui fui posto dalle circostanze e mi decido a rimanere ed a com-
battere risolutamente, persuaso però di commettere un irrave errore militare.
Poiché, se la fortuna mi fosse propizia, io non potrei trar partito al-
cuno dalla vittoria, non potendo inseguire il nemico per la nota mancanza
di viveri, di scarpe e di riserve.
Se poi la sorte delle armi mi fosse nemica, il passaggio del prossimo
Tagliamento potrebbe divenire un vero disastro che rovinerebbe l'Italia....
Il dado è tratto, come dissi, e seriamente pensandoci altro non resta
fuorché combattere il meglio che si possa, non consentendo le condizioni po-
litiche del paese altro consiglio....
Pi'ego l'È. V. di dar conoscenza di questa mia lettera a S. M. e a S. E.
il Presidente del Consiglio dei Ministri....
Il General d'armata
(firmato) Cialdini.
Padova, 6 agosto, ore 10 pom. — Dispaccio del generale La Marmora al Presi-
dente del Consiglio.
« Se l'Imperatore de' Francesi non riesce a fare accettare all'Austria le
condizioni d'armistizio, nostra posizione diventa gravissima. Io tradirei se la-
416 ALFONSO LA MARMORA.
sciassi credere al Ministero che noi abbiamo probabilità di successo se comin-
ciamo ostilità il 10. Generale Cialdini dice avere a fronte 100 mila uomini.
Generale della liocca riferisce che 60,000 uomini sono entrati in Tirolo. No-
stre forze sono divise senza unità di comando. Provveda almeno il governo a
questo gravissimo inconveniente, affidando supremo comando al general Cial-
dini. Se per l'insuccesso del 24 giugno l'Italia si commosse, pensi quali sa-
rebbero le conseguenze di un disastro non solo per la Venezia, ma per l'Italia
tutta. » La. Marmora. »
(^®) Ne citerò delle ultime:
Il Ministro invita il LaJMarmora a ottenere dal Comando Austriaco di
lasciar occupare alcune località zona neutra (coU'impegno beninteso di abban-
donarle se i negoziati falliscono) onde poter noeglio far accampare le truppe
ammassate in località insalubri.
La Marmora telegrafa 5 agosto ore 11, minuti 15 ant.
« La domanda contenuta nel dispaccio N*. 359 equivale chiedere carità
austriaca. Io non mi sento. »
Il Ministro insiste. La Marmora telegr.ifa lo stesso giorno alle 2. 10 pom.
, . . . « fermo nella mia opinione che nelle trattative d' armistizio non
convenga chiedere favori all'Austria »
(") Telegramma (senza cifra)
Cialdini a La Marmora.
Treviso, 25 luglio 66.
Avendo io comando indipendente, V. E. non dovea stabilire decorrenza
sospensiva senza prender meco gli opportuni concerti, onde non mettermi in
condizioni impossibili, ed espormi a passare per mancatore ai patti conchiusi.
Protesto adunque contro l'operato di V. E. Cialdini.
La Marmora a Cialdini.
Padova, 26 luglio (in cifra)
Ho agito dietro ordini precisi del Re e del Presidente del Consiglio. Se
ha poi rimproveri a farmi, non sono certamente di aver mancato di riguardi
a V. E. ma.ssime in questa campagna. Io l'aveva invitato ad un appunta-
mento per metterla appunto al corrente delle cose politiche e concertarsi ;
Ella si allontanò da Padova senza accordarmelo. Austriaci sono prevenuti
che ordini non potranno arrivare in tempo da per tutto. La Marmora.
(") Udine, il agosto, ore 1 1 antim. — Telegramma del generale Petitti [coman-
dante il 4" corpo d'armata nell'esercito di spedizione comandato dal gene-
rale Cialdini) al generale La Marmora, Padova
Per ubbidienza militare parto per Cormons.
Non posso a meno di lagnarmi di essere stato scelto per una sì ingrata
ed um liante missione. Se questa mi fosse spettata per la mia posizione, mi
sarei tignato meco stesso della mia sorte ma non avrei fatto parola. Ma io
comandante di corpo d'armata essere mandato invece dal sotto-capo di stato
maggi"re a trattare anzi a subire le ingiunzioni di un semplice brigadiere ^ in
una questione di cui ero perf tuttamente ignaro e senza una parola d'istruzione,
questo mi è profondamente doloroso.
Sono mortificato per me e pel Governo italiano della figura che ho fatto
ieri a Cormons.^ È deplorabile che co.«e paese sieno state condotte in guisa
da dover subire un armistizio cosi umiliante che per mia disgrazia si chiamerà
armistizio Petitti. Petitti.
' Móring.
,,, " '^.'""•^^^t" PS"" negoziare 1" armistizio, Móring dichiarò eh» non av va ricevuto istruzioni
(ili I Arciduca, e '.he fra poco più di et o ore gli Austriaci avrebbero ripreso le ostilità.
ALFONSO LA. MARMORA. 417
Per l'abilità del generale Petitti l'Arciduca desistette da pretese umilianti.
Padova^ /2 agosto. — Telegramma La Mar7nora a Petitti, Udine.
Ti ringrazio particolarmente per le migliori condizioni ottenute. Ieri
anche prima di ricevere tuo telegramma ero dolentissimo che tu fossi fatal-
mente destinato a quella missione. Oggi me ne congratulo, poiché ho la co-
scienza che abbiamo reso segnalato servigio all'Italia. La Marmora.
(*') Mi piace raccogliere qui alcune prove della sagacìtà di congettura po-
litica del La Marmora. Le lettere sue da Napoli del febbraio e del marzo 1862
paiono scritte per raccontare i procedimenti ed atti del g'^verno italiano negli
ultimi tre anni. Egli era amico del Rattazzi e l'aveva avuto a collega nel mi-
nistero del 17 luglio 1859. Pui-e, quando nel 1862 il Rattazzi compose un
ministero, egli previde male. Scriveva il 14 marzo al Daborraida : « Quanto
si passò e si passa tuttora a Torino è oltre modo deplorabile, e può essere fa-
tale per le nostre sorti... » Ed il 28: « Sono pochi giorni che il Ratta/zi mi
interpellava sulla necessità di mandare commissari straordinari ; io gli rappre-
sentai i molti inconvenienti che ne sarebbero derivati, ed ora i giornali danno
come certo che tutti del partito d'azione sono nominati Sono dunque
questi i commissari straordinari che Rattazzi voleva mandare '^ Ma questi
signori hanno fatto tutti le loro* prove, e che prove ! Le loro prepotenze
e vendette hanno, forse più d'ogni altro, contribuito a prolungare il brigan-
taggio ed a crear nemici al governo Il Ministero mandò qui due agenti....
Sono gente di cui non mi fido né punto né poco, che imbarazzano ogni
operazione.. . » E il Dabormida gli rispondeva, il 3 aprile, che, avendo discorso
col Rattazzi. questi gli confessò « che i due agenti non sono veramente di-
fendibili e che egli non intende difenderli, anzi li conosce per..., ma che egli
fu obbligato di mandarli con una missione costì per allontanarli da Torino....»
Ed aggiungeva: « Egli non ha coraggio Dio voglia che ciò non ci riesca
fatale. » E al 6 aprile, il La Marmora, ritornando su cotesti agenti : « Il bello
è che al Ministero interno (Fontana), quando videro che io aveva subito co-
nosciuto, che cosa era il.... mi raccomandarono di sorvegliarlo come capace a
sconvolgerci tutta la nostra questura! E si mandano a Napoli tali individui!-'
Venendo al nuovo prefetto il Rattazzi ammette che è del partito d'azione....
Io so benissimo che sbagli di persone tutti ne fanno, ma quel che di Rat-
tazzi mi rincresce è che.... per contentare la Sinistra si appoggia su uomini
che comprometteranno il paese Riguardo alla venuta di Garibaldi, io ho
dichiarato a Rattazzi che non intendevo fare il benché menomo atto che sem-
brar potesse debolezza o adulazione. Ciò vuol dire che io mi terrò dignitosa-
mente in disparte da qualunque siasi funzione o festa che gli si voglia dare...»
E dopo caduto il Ministero Rattazzi, il 31 dicembre scriveva: « Ti rammen-
terai come fin dal principio del Ministero Rattazzi io ti dicessi come quel no-
stro antico collega battesse una falsa via. Ed è appunto quella via che ci con-
dusse a Sarnico e poi ad Aspromonte. La colpa al certo non é tutta sua, an-
che il forte Barone colle sue tolleranze verso le società emancipatrici vi er)be
una buona parte. » E saltando più anni, così scriveva il 3 luglio 1873 : « Pen-
sare che .siamo stati alla vigilia di avere un Ministero Minghetti, Depretis e
compagni ! Però Lei vedrà, che Minghetti genererà Depì-etis.... finirà per ab-
bandonarci in mano alla Sinistra...» E l'il giugno 1875: « Una trista discus-
sione si sta continuando alla Caraei-a sulla sicurezza pubblica! Il Miui.stero
ricava quel che merita, mettendo nelle alte cariche i.... e simili. Vedrà dove
ci porterà.... dando importanza a uomini come Depretis... »
C^") Mi si permetta di prendere la parola per un fatto personale. In queste
lettere del generale La Marmora, pubblicate nella Commemorazione, io sono
nominato più volte. Io non ho avuto la fortuna di conoscere molto il Generale;
non mi posso contare tra gli amici di lui; credo ch'egli ave.sse poca bene-
volenza per me, anzi son sicuro che n'aveva poca, soprattutto perchè non gli
andavano a genio gli uomini politici dei quali ero più amico; sicché, se son;i
stato, come anche 1' autore della Commemorazione afferma, quello tra gli scrit-
tori Italiani che 1' ha più ostinatamente difeso, quando si eccettui lo lacini col-
518 ALFONSO LA MARMORA.
lega di lui, l' lio fatto per amore del vero, e non per nessuna passione di parte
od amicizia. Pure le mie difese imn son > mai state scevre di qualche censura;
poiché mi pareva che anche a questa vi fosse luogo, e mi pare tuttora. Ora,
nessuna delle censure mie od altr i parve giusta al Generale; sicché s'è molto
più dispiaciuto meco di queste, che non fosse contento o grato di quelle, E di
ciò appunto le citazioni, che son fatte del mio nome, nella Comiìicmurazione,
mi danno prova. Ora, anche nei Segreti di Stato il Generale si applicò soprat-
tutto a confutar me, non senza qualche vivacità soverchia qui e là Io non me
ne detti per inteso; nella Perseveranza scusai e lodai il libro; e il Generale
scrive il 13 febbraio del 1877, che io C ito jjresn da uomo di spirito (p. 177). Dav-
vero, io non aveva fatto soprattutto prova di spinto, ma di molto rispetto per
lui. Però vi sono casi, che di spirito se ne può aver troppo, e sarebbe appunto
uno di questi, se io mi tacessi di due accuse che mi sou fatte in questa pub-
blicazione, le quali mi hanno molto maravigliato, e mi sarebbe parso bene, se
r Editore le avesse surrogate con tanti puntini. L'una é questa: « Anche questa
lettera progettata al Bonghi la manderò prima al laciui, che potrà anche mo-
diticarla. Ma temo che mi dirà di non farne niente. Infatti come convincere,
chi pretende a pag. 286 che un trattito offensivo e difensivo non obl)liga alla
reciproci:à d'una difesa reciproca? » Ora, a me qui non duole che il Generale
non si volesse persuadere, che se il trattato di Berlino dell' 8 aprile, così come
era scritto, obbligava l' Italia a dichiarare guerra all' Austria, quando le fosse
stata dichiarata dalla Prussia (art. 1), e d' allora in poi a proced^'re nella guerra
d'accordo e a non fare pace se non insieme (art. 2), non obbligava punto la
Prussia a dichiarare la guerra all'Austria, quando e sempre che questa l'avesse
dichiarata a noi. S'intende, che l'utilità sua e la necessità, una volta l'I trat-
tato conchiuso, 1' avrebbero forzata a muoversi, ma l'obbligo nel testo non c'era.
Del rimanente, qui il Generale poteva pur credere ciò che meglio gli piacesse;
ma non mi pare che mi compensasse bene del molto che io ho scritto in favor
suo, trattandomi da uomo, che, per qualsia chush, non volesse, non potesse
intendere ragione. L'altra accusa è peggiore : « Quanto al Bonghi, sciive in una
lettera del 14 ottobre, chi crederebbe che il medesimo pubblicista abbia potuto
scrivere l'articolo^ della Perseveranza (credo del 6 settembre) e quello nell'ul-
tima Antoluyia? È vero che uno era scritto prima, e l'altro dopo che il J^onghi
si recasse a Berlino. » Davvero, non mi risolvo senza rincrescimento r scolparmi
dalla censura, confusa, ma disaggradevole, che. ad ogni modo, è in queste parole;
né se altri che il generale La Manno) a le avesse scritte, condiscenderei a farlo.
L'articolo della Perseveranza del quale egli parla, fu pubblicato appu"t.o il
i\ settembre; e quello della Auova Antologia è nel fascicolo di questa del 1" ot-
tobre. Il re Vitt(nio Emanuele partì da Torino il 16 settembre e vi tornò il 28.
Io lo seguii privatamente, e fui a Firenze, credo, il 29. Ebbi tempo a scrivere
la Rassegna del fascicolo, ma l'articolo pubblicato in questo, l'aveva scritto
innanzi che partissi. Sicché il mio viaggio a Berlino non potette avere nessuna
influenza sul tuono di quello; e chi lo legge e lo confronta coli' articolo della
Perseveranza, vede che non ci corre altra differenza tra es,«i, se non quella sola
che passa tra la trattazione breve d' un soggetto in due colonne d' un giornale
quotidiano, e quella più lunga, complessa e compiuta, che ne può esser fatta
in lino scritto di diciassette pagine in ottavo. Scrissi bensì dopo il viaggio di
Berlino un secondo articolo sul libro Un pò più di luce, che fu pubblicato
nel fascicolo del dicembre; e di questo il Generale scrive il 19 dicembre,
« ch'esso è meno feroce del primo, e che in sostanza mi difende più che non
mi offende. » Del resto, mi piace dichiarare due cose: l'una, che, essendo io
conosciuto in Germania, anche più del vero, per uno scrittore punto inclinato
ad adularne le pretensioni o a solleticarne le ambizioni, anzi passandovi per
più amico a' Francesi che non a' Tede.schi, non m'accorsi punto, che l'opinione
che s' aveva de' miei sentimenti mi facesse accogliere men bene, poiché anzi
non ci potevo ricevere più cortesie di quelle che mi si fecero; l'altra, che nes-
suno m' aprì bocca sul generale La Marmora, solo i giornali_ popolari mi fecero
avvertire, e me ne dolse, quanta poca riverenza ed amicizia s' avesse per lui.
BEATRICE CENCI
DOPO LE ULTIMK PUBBLICAZIONI.
I.
Inauguratore Roderigo de' Borgia, non poteva il secolo deci-
mosesto riuscire altrimenti di quello che fu; stupendo per ec-
cellenza e raoltiplicità di tenebrosi misfatti. Se i delitti pure sono
prova, giusta l'apotegma dell'Alfieri, che la pianta uomo nasce più
robusta in Italia che altrove, non mai essa crebbe cosi rigogliosa
quanto in quel secolo, in cui a conseguire il primato d'infamia
parve che, insieme con l'aperta brutalità di assassini di strada,
gareggiasse la profonda malvagità di animi educati al culto del
bello e l'impavida violenza di coronati malfattori. Io non so se
le selve in cui scorazzavano Marco di Sciarra e' suoi truculenti
seguaci vedessero mai niente di più sconcio e di più turpemente
crudele di quello che videro i sontuosi palazzi dei Borgia, dei
Farnesi, dei Medici, ove pure si accoglieva quanto v'era in Italia
di più squisito nelle arti, di più eletto negl'ingegni, di più leg-
giadro e gentile in palpitanti figure di donne.
Dei tanti casi miserandi che funestarono l'Italia dall' osceno
strazio del giovinetto Astorre Manfredi fino allo scempio dei
Cenci, col primo de' quali principiò e con l'altro ebbe termine la
lunga sequela di scelleraggini onde fu così sciaguratamente fe-
condo quel secolo malaugurato, nessuno quanto quell'ultimo durò
sì lungamente nella memoria del popolo, e nessuno fu mai con
tanta varietà di forme e d'intenti rappresentato e descritto. Esso
atteggiato da drammaturghi ; esso cantato da poeti ; esso narrato
420 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
da novellieri: esso argomento di studi storici, in cui peraltro,
non meno che nelle opere d'immaginazione, troppo evidente si
dimostra la parzialità dei propositi. Sì per questa ragione, ed
anche perchè troppo scarsi e di poca importanza i documenti
scoperti, la cupa tragedia rimase e rimane pur sempre avvolta
nell'oscurità del dubbio; e credo che nessuno, che si faccia a stu-
diarla sgombro l'animo da preconcetta opinione, possa darne in
coscienza un sicuro giudizio. Peraltro in tanta diversità di pareri
esposti con linguaggio, nonché aspro ed acerbo, ingiurioso e vio-
lento, parve, e fu veramente, molto mirabile cosa, che tanto co-
loro i quali tenevano innocenti gli uccisi, quanto quelli che li
giudicavano rei, convenissero tutti nell'esprimere un sentimento
di profonda pietà per la giovinetta infelice, protagonista del dramma
tenebroso, riguardata dagli uni come vittima dell'altrui avidità,
dagli altri come martire del verginale pudore. Quindi è che non
sapremmo dire se con più di meraviglia ovvero di rincrescimento
abbiamo testé veduto sollevarsi una mano, ancora aspersa della
polvere degli archivi da essa frugati, e, in nome della verità,
procacciarsi a strappare dalla fronte di quella povera morta la
corona o di vittima o di martire che da trecent'anni la ricinge, per
imprimervi in quella vece un marchio d'infamin,.
Chi ha tenuto appresso alla controversia sui Cenci, avrà fa-
cilmente capito come io accenni ad una recente pubblicazione
intitolata Francesco Cenci e la sua famiglia, notisi e e documenti rac-
colti per A. Bertolotti. nome già noto agli studiosi delle patrie me-
morie per parecchi altri documenti storici da lui dati alla luce.
Ultimo per tempo a far indagini intorno ai casi di quella scia-
gurata famiglia, il signor Bertolotti può a buona ragione inti-
tolarsi primo di tutti per la copia dei documenti da lui ritrovati, e
che sono chiarissima prova non solo della sua molta pazienza nel
sostenere le noie di così difficili ricerche, ma anche dell'ottimo
metodo con cui ha saputo condurle. Forse taluno potrà avere de-
siderato una maggiore correzione tipografica in questa pubblica-
zione, dacché di alcuni passi dei documenti, come per esempio di
qualche periodo della sentenza de' Cenci, non si riesce che a
grande stento a capire il significato. Sarebbe pure stato deside-
rabile che l'egregio raccoglitore non avesse trascurato tanto spesso
di notare il mese ed il giorno degli atti da lui recati, poiché la
precisione delle date è cosa di molta importanza in sifi'atte que-
stioni, e può talvolta fornire efficaci argomenti alla critica storica.
Ma queste ed anche talune altre mende, facilmente visibili
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 421
airocchio del critico, non tolgono però che i documenti pubblicati
dal signor Bertolotti sieno molto curiosi e fino ad un certo punto
importanti, e che del suo lavoro gli debbano sapere assai grado
coloro che ancora vorranno prendere a scopo dei loro studi questo
soggetto di secolare pietà. Imperocché io credo che il signor Ber-
tolotti, malgrado la sua buona volontà e le sue stesse speranze,
non abbia detto l'ultima parola sopra il caso funesto ; giacché le
sue scoperte, se in qualche parte rettificano l'opinione comune
intorno a certe poco rilevanti particolarità del fatto, non chia-
riscono punto la questione principale, la quale, checché egli ne
creda, resta pur sempre nella medesima condizione in cui la trovò.
Difatti, che importa alla questione principale che la prima figlia
di Francesco Cenci si chiamasse Antonina e non Olimpia, e che
si sposasse al signor Lucio Savelli barone romano anziché al
signor Carlo Gabrielli gentiluomo d'Agubbio? Quando sappiamo
che Rocco Cenci, altro figlio di Francesco, fu ucciso da un ba-
stardo del conte di Pitigliano e non da un norcino; ^ quando ab-
biamo la prova che l'infame Francesco si sottrasse alla pena do-
vuta alle sue nefandità pagando non cinquecentomila scudi, ma
soltanto centomila ; quando siamo assicurati che il giovinetto Ber-
nardo non fu subito liberato dalla prigionia, come n'era corsa la
voce, ma penò per ben sei anni nelle galere papali; siamo noi
in grado di vedere più chiaramente entro il fitto buio che avvi-
luppa quella sanguinosa catastrofe? Non intendiamo mica farne
una colpa al signor Bertolotti ; egli ci ha dato quanto gli é stato
possibile, e se non ha potuto presentarci anche quello che solo
forse potrebbe risolvere la questione e assicurarci a pronunziare
un considerato giudizio, intendiamo dire il processo, non per
questo sono meno degne di lode le sue fatiche, né meno gliene
dovrà avere obbligo quegli, qualunque e' sarà, che vorrà e potrà
essere il futuro storico della tragedia de' Cenci.
Dove peraltro non credo che il lavoro del signor Bertolotti
possa meritargli eguale misura di lode, gli è quando egli, sti-
mando che l'aver avuto alle mani più carte di tutti gli dia
autorità di giudicare meglio di tutti, non si contenta più, come
si aveva proposto in principio, d'essere soltanto archivista, ma
lasciasi trascinare dal desiderio, pur troppo comune a tutti i
raccoglitori di documenti, di sentenziare assolutamente, tirannica-
mente sui fatti. Egli ha creduto che il mettere insieme una copiosa
' Alcune memorie dicono da un Orsino, e Orsino era difatti il conte di Pi-
tigliano,
422 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONL
quantità di materiali possa bastare a farci divenire anche archi-
tetti; ed eccolo subito attorno ad innalzare un edificio il quale a
lui, che n'è l'autore, può sembrare di tale una solidità da reggere
invitto all'urto del più violento uragano; ma che agli occhi di chi
lo consideri spassionatamente debbe parere affatto poggiato sulla
mobile arena, e da dovere precipitare a rovina al primo spiro di
vento che lo percuota. E vaglia il vero, per poco che si prendano
ad esame le sue asserzioni ponendole a riscontro dei documenti
da lui stesso pubblicati, apparirà manifesto come sovente i suoi
giudizi non solo non si fondino punto sui fatti, ma sieno anzi in
aperta coittraddizione con essi. Alcune parole qua e colà raccolte,
e che potrebbero a pena a pena far nascere qualche sospetto
assai vago ed incerto, gli sem])rano sufficienti per dargli ragione
di gravissime accuse, affermate con tanta sicurezza e sostenute
con tanta insistenza, come se fossero necessarie conseguenze di
precise dimostrazioni matematiche. Uno dei punti più controversi
della questione, cioè il dubbio che nell'uccisione dei Cenci avesse
0 no parte l'avida brama di chi cercò poi di appropriarsi le loro
sostanze, è da lui risoluto negativamente senza punto prenderlo
ad esame, e però, com'è ben naturale, senza minimamente dile-
guare i gravi sospetti addensati da circa trecent'anni sul capo
di chi alla potestà di fare e misfare non aveva allora altro limite
che il proprio talento.
Perchè non s'abbia a supporre che noi, favellando di questa
guisa, piuttosto che difendere le ragioni della verità, che fu e
sarà sempre ispiratrice de' nostri studi, cediamo all' influenza di
qualche preconcetta opinione, riporteremo, esaminandole ad una
ad una, le principali conclusioni del signor Bertolotti, aftinché
chiunque vorrà seguirci in questa controversia, possa da sé stesso
giudicare se e quanto sieno esse conformi all' inconfutabile testi-
monianza de' fatti.
II.
S'era fin qui generalmente creduto che Francesco Cenci fosse
di quegli uomini profondamente malvagi, i quali anche in tempi
di corrotti costumi si segnalano nelle opere più abbominose d'ini-
quità. Tale lo avevano rappresentato le memorie contemporanee ;
tale giudicato storici insigni e di sincerissima fede; ^ tale ripu-
' Vedi, tra gli altri, il Muratori, Avnali, an. 1599.
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 423
tato il concorde parere di molte generazioni, ch'avevano maledetto
e ricoperto d'infamia la sua memoria. Ora però non può più dirsi
essere questo l'universale giudizio ; dacché vi ha pure un qual-
cheduno che tiene assai diversa opinione; e questo qualcheduno
è il signor A, Bertolotti, il quale è d'avviso che « Francesco
Cenci fosse un buon padre e capo di famiglia ; avaro sì, ma cu-
rante della prosperità della famiglia di cui era il rappresentante;
e non ateo, non misantropo, bensì credente nella religione de'suoi
padri e largitore ne' suoi testamenti ad opere pie ed a' poveri »
(pag. 11 e 109). Sarebbe senza dubbio da credere che il giudizio
di tale che ha « letto e studiato un ammasso enorme di carte
riguardanti la famiglia Cenci » (pag. 109) dovess'essere davvero
assai ben fondato, e perfettamente concorde con la « miriade di
documenti ch'egli si dovette ingoiare » (pag. 109). Peraltro noi
abbiamo preso da gran tempo l'abito — altri giudichi se buono
0 cattivo — di credere piuttosto ai fatti che alle parole ; ed è per
ciò che prima di ricrederci dell'opinione fino ad ora generalmente
ricevuta intorno al Cenci, e di porre il suo nome nell'elenco dei
personaggi, com'ora si dice, riabilitati, chiediamo ci sìa permesso
di riassumere brevissimamente i principali fatti della vita di lui,
tali quali essi risultano dai documenti pubblicati dal signor
Bertolotti, per vedere s'egli abbia veramente meritato gli onore-
voli epiteti di cui gli è stato così cortese l'egregio suo difensore.
Come tutti coloro che poi riuscirono famosi in opere di virtù
0 di scelleraggini, Francesco Cenci dette ben presto motivo di
far parlare di sé. Non aveva ancora undici anni, ancora tenevasi
al fianco del pedagogo, e già mostravasi degno che si prendesse
durevole ricordo del nome suo. Ma non mica nei libri di qualche
pia sodalizio dedicato al soccorso dei poveri, come sarebbe a
supporre s'ei fosse stato davvero quell'uomo caritatevole e reli-
gioso che il signor Bertolotti ci vorrebbe far credere, bensì nei
registri del tribunale criminale, imputato di avere trascorso a
fatti violenti. Secondate da attitudine fisica straordinariamente
precoce, le malvage passioni che agitavano l'animo di lui presto
proruppero in atti vituperosi, sicché non era ancora trilustre, e
già aveva dato prova d'essere capace a contaminare l'onestà di
fanciulle e a procreare bastardi. Nel 1567 s'era già da qualche
anno sposato ad Ersilia Santacroce, forse giovane e bella; certo
di nobilissima e ricca famiglia romana. Pareva ch'egli l'amasse ;
con lei come marito conviveva; se ne riprometteva, e n'ebbe pur
troppo, ricchezza di prole. Eppure mirate la cupa, la profonda
424 BEATKICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
malignità di questo giovinetto di dioiott' anni. Nel testamento da
lui fatto in quell'anno lasciava eredi i figli nascituri ; ma ferendo
in antecedenza la moglie nell'affetto piìi caro e più sacro per una
donna, l'amore materno; antiveggendo l'avvenire per vietarle anche
quello che le sarebbe stato suprema gioia e conforto, l'aspetto
e il sorriso de' figli ; non solo proibiva che le si lasciasse alcuna
parte nella tutela di essi, ma neppure voleva ch'ella avesse con
loro abitazione comune. L'animo scellerato di lui è qui già tutto
palese; non potendo ancora recare l'ultimo vituperoso oltraggio
alle leggi della natura, s'adopra a sua possa per contrariarle ed
offenderle. Un anno innanzi, quando cioè contava appena diciassette
anni, insieme con un suo sgherro tende un aguato a un parente,
Cesare Cenci, e lo ferisce. Incarcerato per ben due volte per de-
litti di sangue, si libera dalla pena la prima volta con cinque-
mila scudi, la seconda con ventimila. Ciò gli dà ansa a maggiori
misfatti : ormai conosce quanto costa la giustizia, e sa qual è il
prezzo di ogni delitto. A chi lo ammonisce di guardarsi dal tra-
scorrere a violenze, risponde: die imporla? non ci sono buoni
quattrini da pagare ? (pag. 12). Che ve ne pare di « questo buon
padre e capo di famiglia, di quest'uomo molto curante della pro-
sperità della famiglia » che va continuamente consumando il re-
taggio dei figli per comprare l'impunità delle sue scelleraggini?
Accusato di crimine pessimo al tribunale del senatore, egli in sul
principio nega reciso; ma le prove lo stringono da ogni parte;
le testimonianze concorrono tutte a suo danno. Allora che fa? Sa
di aver Imoni quattrini, e da essi si ripromette la sua salvezza.
Udite com'ei conclude un suo costituto : « Io supplico con ogni
humiltà Sua Santità a farmi gratia come principe benigno et
misericordioso di supporre (sic. ma forse comporre) et fornire
questo mio negotio et causa in quel modo che più sarà vero et
piacerà a Sua Santità, perchè come ho detto più volte et di nuovo
io mi (sic, ma forse dovrà dire noìi) domando giustizia ma mise-
ricordia di Sua Santità et in tutto et per tutto mi rimetto alla mi-
sericordia et benignità di Sua Santità et non voglio preterire
una vita {sic, forse un iota) dì quello che ordinerà Sua Santità et
per questo io vorrei la pubblica per poter trattare con gli amici
et parenti miei per trattare con N. S. tutto quello che sarà bi-
sogno in questa mia causa, et se mai si troverà che io voglia
diffondermi in questa causa mi tenghi per infame, non avendo
altra mira se non di rimettermi alla benignità di N. S. » (pa-
gina 23). E difatti l'invocata benignità e misericordia non tardò
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 425
guari a manifestarsi. Indi a poco Illmus senator ex ordine S.mi
D. N. lo rilasciava in libertà. E vero che gli costò cara: cento-
mila scudi di moneta sonante; ma ne cavò fuori la testa, che a
tenore delle leggi di allora avrebbe dovuto lasciare sul patibolo,
e n'acquistò la certezza che, finché gli durassero i quattrini,
avrebbe potuto ciò che voleva.
Da quel processo apprendiamo altre sconcie e turpi ed infami
azioni di lui. I servi di casa sollecitava a prestarsi a' suoi nefandi
piaceri (pag. 17, 18, 20, 21); ed uno di essi, incaricato a governare i
cavalli, deponeva di averlo veduto chiamare dellì ragazzi nella
stalla ove io slava et in mia presenza li baciava, poi mi mandava
a far qualche servizio; ma egli dalle fessure della porta vide
cose che non si possono ridire. Un dì chiama una pigionale che
andasse a lui; e le si mette a narrare non so che di Jesù Na-
zareno che non so dire quello che si abbia detto, ma diceva ch'era
nato di re et altre cose che io non intendeva. Di che sorta fossero
queste altre cose, ce lo spiega una sua druda, presente al turpe
ed empio colloquio, la quale racconta che ragionavano di cose
grasse intorno alle donne (pag. 12 e 13). Un'altra volta mentre fa
racconciare una sua casa alla dogana, vede una donna di perduta
fama che scopava per i muratori ch'ivi lavoravano, e preso da su-
bito impeto libidinoso, se la trae nello studio, e n'usa e n'abusa
(pag. 22). Violento pure in quelli che non si possono chiamare
amori, una certa Maria detta la Spoletina che per lungo tempo
tenne appresso di sé e dormiva quasi continuamente con lui bat-
teva spessissimo a sangue, talvolta per gelosia, talvolta perchè
quella lo rimproverava che si menasse in casa altre donne con-
taminate da brutto male (pag, 12, 13, 24)- La moglie e la figlia
teneva sempre chiuse in casa (pag. 49) : e le faceva custodire da
un ladruncolo di un suo bagascione chiamato Sergietto, poiché
non voleva che gli altri servitori comunicassero con loro.
Ai figli dimostrò sempre animo avverso e nemico; sicché
eglino, mancando affatto d'ogni modo per vivere, furono obbligati
a muovergli lite per avere gli alimenti, i quali difatti ottennero
per decreto del papa (pag, 27). 11 primogenito, Giacomo, fu da lui
diseredato nel testamento che fece nel 1586, quando quegli aveva
forse appena quindici anni, e però non poteva, come crede il signor
Bertolotti, avere abusato della fiducia del padre come ammini-
stratore de' suoi beni, officio del resto che non risulta punto es-
sergli stato giammai confidato. Quando nel 94 fu egli carcerato
per sodomia, Giacomo, che aveva assunto il governo della fami-
VoL. XIV, Serie II — 1 Aprile 18ì9. 26
426 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
glia, curò affinchè fosse meno molestato, ed in compenso ebbe dopo
una querela per tentato parricidio (pag. 50). Però dal processo
venne in chiaro che il preteso tentativo era stato inventato ad
arte da Francesco di concerto con un suo bardassone, quel Ser-
gietto che teneva a custodia delle donne, ed una sua bagascia
detta la Secondina, a fine di far capitar male il misero Giacomo.
E qui, presa a insuperabile nausea la sconcia materia, ces-
siamo con l'animo ingombro di sdegno e di orrore dal riferire
altri misfatti di quello schifoso malvagio. Quelli che abbiamo ri-
cordato basteranno senza dubbio, e forse ce n'ha pure d'avanzo,
per darci fondato argomento di giudicare se Francesco Cenci fu
davvero, come piacque di rappresentarcelo al signor Bertolotti, un
buon padre di famiglia ed un pio e caritatevole uomo, ovvero
quello scellerato, quel mostro, quel violatore d'ogni umana ragione
e delle più sacre leggi della natura, quale per quasi trecent'anni
è stato universalmente tenuto. Avviene pur troppo qualche volta
che anche dopo aver letto e studiato un ammasso enorme di docu-
menti, si formino dei giudizi che sono in manifesta opposizione
con essi; e, se mal non mi avviso, mi sembra che da quest'errore
non abbia saputo guardarsi neppure il signor Bertolotti ; il quale,
in quella appunto che taccia risolutamente di falso la comune
opinione intorno al Cenci, fornisce le più splendide e sicure prove
della sua verità.
III.
Ma più assai che la difesa del turpe Francesco, invano ten-
tata dal signor Bertolotti, ci sembra grave e importante l'accusa
ch'egli lancia a Beatrice, e che, se fosse provata, noi, dolendoci
come di una colpa di averla presa a difendere, anziché più ricor-
darla alla compassione degli uomini gentili, su lei invocheremmo
implacabile lo sdegno di Dio e l'esecrazione degli nomini. Però
alta una voce ci parla nella coscienza, e ci assicura che quella
pietà di cui ci accesero i casi della giovinetta infelice, non fu, no,
immeritata. Laonde ricingendo le armi già da tempo depositate,
riprendiamo volenterosi un'altra volta le sue difese, affidandoci
non tanto alle nostre deboli forze, quanto nella romorosa vanità
dei colpi avversari.
« Erano ormai trentacinque anni — narra il signor Berto-
lotti — che Beatrice giaceva nella chiesa di S. Pietro in Montorio,
quando l'Ill.mo et Ecc.mo Giulio Lanciano, Procuratore fiscale della
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 427
venerabile fabbrica di S. Pietro, si portò dal notaio Colonna, as-
serendogli che aveva avuto notizia dell'esistenza di un codicillo,
fatto a dì 8 settembre 1599, dall'Ili. ma Beatrice Cenci, e che per-
ciò cercasse ne'suoi protocolli notarili detto codicillo, consistente
in un foglio sigillato, il quale fu aperto con tutte le debite for-
malità....
» Sul dosso del sigillato piego stava scritto:
« In nomine Domine amen. Die 8 septerabre 1599. Coram
testibus meique notarli etc. personaliter constituti 111. ma D"^ Bea-
trice Cenci romana affirmans suum ultimum condidisse testa-
mentum et nunc velie illi addere propterea sponte etc. conse-
gnavit mihi notarlo hoc folium clausum et suo sigillo ut asseruit
sigillatum in quo- dixit continere suos codicillos, quos se ulva
secretos esse uoluit sed post eius obitum mandauit aperiri etc. —
Actum Kome in carceribus curiae de Sabellis presentibus etc.
» Io Beatrice Cenci o fato fare li entro scritti codicilli.
» Io Girolamo Spampano fui presente quanto sopra.
» Io Gio. Francesco Hormezano fui testimonio.
» Io Jacopo Cenci fui id.
» Io Enrico Massari id.
» Io Bernardino Cernecchio id. »
Ciò che in questo codicillo attrae ed assorbe intieramente
l'attenzione del signore Bertolotti, sono i due seguenti legati,
ne'quali egli, per poco non gridando Eureka come Archimede, si
avvisa di aver trovato il bandolo della matassa, il Deus ex machina
della tragedia de'Cenci.
« Lascio per ragione di legato et in ogni altro miglior modo
alla signora Margherita Sarocchi-Birago scudi cinquecento de
moneta acciò preghi Dio per l'anima mia godendosi però li frutti,
ma non levando sorte principale et venendo detta signora a
morte ricada la sorte principale a M.'^ Caterina De Santis vedova
overo ad altri nominati da essa M."" Caterina con l'obbligo che
dirò di sotto.
» Lascio nell'istessa maniera a M.* Caterina De Santis vedova
la quale bora si ritrova in compagnia di detta signora Marghe-
rita altri scudi cinquecento di moneta con obbligo di porli in
sustentar un povero fanciullo pupillo come gli ho conferito a
bocca, et mentre vive detto fanciullo sia sempre obbligata con li
frutti di sustentarlo; et venendo a morte la signora Margherita
sia anco obbligata di spendere i frutti di quelli altri cinquecento
scudi nell'istessa opera di carità, et morendo detta M.^ Caterina
428 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
avanti di esso fanciullo debba las-^-iare tutta la somma di detti
danari ad altre persone con l'obbligo sopra detto ; ma morendo
il fanciullo avanti di lei sieno semplicemente li suoi. Et venendo
caso la signora Margberita et M.^ Caterina fossero morte, et che
il fanciullo fosse in età di venti anni, resti in tal caso esso fan-
ciullo nominato da ì.!." Caterina libero padrone così delli frutti
come di tutta la sorte principale con obbligo di pregare l'ani-
ma sua.^ »
« 11 lettore — aggiunge il signor Bertolotti — avrà già ca-
pito perchè Beatrice usasse tanta segretezza nel passare questo
codicillo ad un altro notaio con proibizione di aprirlo prima della
sua morte. Ripugnava alla nobile donzella far conoscere questo
fallo; pure, a consiglio ed ordine forse del confessore stesso, pensò
alla sorte del figlio, in modo però riservatissimo, afiinchè, se
fosse stato possibile, non mai alcuno giungesse a capire lo scopo
del lascito. »
Prima di muovere qualche osservazione sulle conseguenze che
il signor Bertolotti trae da queste disposizioni della povera Bea-
trice, mi sia permesso di chiedere talune spiegazioni intorno a
certe particolarità intrinseche del codicillo, le quali, a dire il
vero, non mi riescono prefettamente intelligibili.
Come lo manifesta il suo stesso nome di codicillo, fa esso
seguito al testamento di Beatrice e ad un suo primo codicillo
consegnati entrambo al Jacobillo, notare della confraternita delle
Stimmate. Di questi antecedenti suoi atti fa in esso menzione la
testatrice dicendo : Io Beatrice Cenci doppo il mio testamento e co-
dicillo dato in mano delV Jacohillo dichiaro etc. Ora si vuol notare
" La Margherita Sarocchi, di cui qui si paria, fu poetessa a quei tempi molto
lodata Era nata in Napoli nel 1569, ma da giovinetta trasferitasi a Roma, come
si rileva da una lettera del Tasso al Cataneo in data del 24 agosto 1583: « Stu-
diò (scrive la Canonichi Facilini nel suo Prospetto biografico delle donne ita-
liane rinomate in poesia) filosofìa, teologia e fu di mente fervidissima. Più ce-
lebre si rese incontrando lo sdegno del Marini e dello Stigliani, per aver avuto il
sano discernimento di sprezzarli quali corruttori del buon gusto. Aldo Manuzio il
giovane, l'Eritreo, il Tassoni ed altri come donna assai valente la commendarono.
Lasciò moltissime poesie, ed un poema eroico intitolato Scandebreide in dodici
canti. » Nella raccolta delle rime del Tasso si leggono tre sonetti in risposta di
uno che la Sarocchi gl'invio nel detto anno 1583 quando quel grande infelice lan-
guiva in S. Anna. Eppure questa donna, che meritò fin da giovinetta le lodi del
Tasso, e che fu avuta in pregio ed in istima da'maggiori letterati di quei di, il
signor Bertolotti (pag. 69) la crede una della mezzane del fallo da lui gratuita-
mente attribuito alla povera Beatrice. Del resto, l'amicizia di questa povera fan-
ciulla con la Sarocchi può forse dimostrare com'ella pure avesse l'animo disposto
all'amore delle arti gentili.
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 429
che il testamento fu rogato il 27 agosto 1599, ed il primo codi-
cillo tre giorni dopo, di esso. Come dunque il secondo codicillo,
eh' è quello dei lasciti testé riferiti, benché, come abbiamo ve-
duto, consegnato al notaio l'S settembre, porta la data dell' 8
febbraio, cioè di oltre a sei mesi prima che fosse fatto il testa-
mento di cui doveva essere una prosecuzione? Che Minosse giu-
dicasse con la coda, sapevamcelo ; ma che essa, la coda, non più
contentandosi di essere un' appendice del corpo, occupasse superba
il luogo della testa, non l'avevamo hno ad ora potuto credere ;
e però non ci si tacci d'indiscreta curiosità, se chiediamo che ci
venga chiarito come sia potuta avvenire una cosi strana metatesi.
È noto che i Cenci negli ultimi mesi della loro prigionia
erano rinchiusi le donne in Corte Savella, gli uomini in Tordi-
nona. Difatti da Tordinona, Giacomo il 27 agosto fece anch'egli
testamento, al quale, pure da Tordinona, aggiunse il 10 settembre
un codicillo. Ci pare quindi di non poter essere incolpati neppure
qui d'indiscretezza, se dimandiamo come mai poteva esso Giacomo
trovarsi l'S settembre in Corte Bavella a far da testimonio alla
consegna del secondo codicillo di Beatrice ?
Quando la compagnia della Misericordia andò a levare dalle
carceri di Corte Savella la disgraziata fanciulla per condurla alla
morte, ella, come si ha dal registro di quella confraternita, dopo
rassegnatasi con grande pietà degli astanti all'infelice sua sorte,
disse volere « che il suo testamento già fatto per atti del notaro
della compagnia delle sacrate stimate sia interamente eseguito,
e prega Sua Santità che per amor di Dio gli faccia gratia del
detto testamento che abbia effetto, contentandosi che lei abbia fa-
coltà di testare la sua dote di scudi 20 mila, acciò non sia defrau-
data la sua volontà di sovvenire a quei luoghi pii ai quali è las-
sata questa sua robba. » Del codicillo consegnato all'altro notaro
non fece punto parola; eppure perché non avrebbe ella fatto men-
zione anche di questo, e pregato perchè questo pure fosse eseguito,
tanto più che, a lei madre, doveva importare assai più che avesse
effetto la sua volontà in quanto provvedeva alla sorte del figlio
che in quanto beneficava alcuni luoghi pii? Forse si risponderà
essere sua intenzione che rimanesse secreto, appunto perchè non
si venisse a sapere il suo fallo. Ma se voleva che il codicillo re-
stasse ignorato, perchè l'aveva fatto ? Ma nel consegnarlo al no-
taio non aveva espresso la sua volontà che fosse dopo la sua morte
aperto : Seti post eiiis ohitum mandavit aperiri? E non era ella già
per morire, già sulle mosse per la dolorosa via del patibolo ?
430 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
Crede il signor Bertolotti eh' ella pensasse alla sorte del figlio
per consiglio ed ordine forse del confessore. Ma perchè questi non
si curò poi che le disposizioni eh' egli aveva consigliato, o forse
ordinato, avessero il loro effetto, e lasciò che il codicillo rima-
nesse ignorato per tanto tempo, e che il povero fanciullo punto
non conseguisse ciò che la testatriee gli aveva assegnato ?
Queste elie ci piace chiamare piuttosto dimando che osserva-
zioni, non si fanno già con animo di negare l'autenticità del co-
dicillo pubblicato dal signor Bertolotti. Per pronunciarsi sicu-
ramente intorno ad esso sarebbe d'uopo vederlo, confrontarlo con
il testamento, esaminare diligentemente i caratteri estrinseci, se-
condo le norme date dai diplomatici per accertarsi della legit-
timità degli atti ; cose tutte che io non ho potuto fare, non aven-
doci detto il signor Bertolotti presso quale notaro esso si trovi, e
neppure se quello veduto da lui sia l'originale o una copia.
Non sappiamo se il signor Bertolotti vorrà esserci di tanto
cortese da rispondere a queste nostre dimande, che pure non ci
sembrano affatto immeritevoli di risposta. Ma anche presuppo-
nendo eh' egli ci voglia di ciò contentare, e che dalle sue spiega-
zioni sia splendidamente confermata l' autenticità del codicillo,
non per questo ci parranno meno avventate le conseguenze ch'egli
si assicurò di ritrarne, e che, a nostro avviso, tornano di assai
maggior danno alla sua fama di critico savio e discreto, che alla
memoria della sventurata Beatrice. E veramente, perchè ella, ce-
dendo ai consigli del confessore, si contentò di lasciare una tenue
somma di denaro per sostentamento di un povero fanciullo pu-
pillo, se ne dovrà necessariamente inferire che questi fosse nato
di lei ? Ella, che soltanto per la sua dote era ricca di ventimila
scudi, ella, così generosa largitrice del suo, che regalò qualche
amica di ben cinquecento scudi, e una chiesa, quella di S. Pietro
in Montorio, di oltre a tremila; che ne lasciò più di mille per
sole messe, e quasi dodicimila per dotare povere giovinette ; ad
un figlio, ad un misero abbandonato fanciullo, da cui avrebbe
dovuto farsi perdonare la colpa di avergli dato la vita senza po-
tergli dare il nome e 1' affetto di un padre, avrebbe ella lasciato
per tutto retaggio il meschino fruttato di soli cinquecento scudi
e r incerta speranza di ereditarne altrettanti alla morte di due
altre legatario? Oh veramente poteva ella chiamarsi generosa ed
amorevole madre ; ben poteva ella consolarsi in sul morire di aver
largamente provveduto alla sorte del figlio! Lontana appena di
poche ore dal momento che doveva cosi bruscamente separarla
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 431
da Ogni cosa più caramente diletta, quando in quel cuore già vi-
cino a tacersi per sempre avrebbe dovuto fremere più fervente
che mai l'amore materno, ella, con animo tranquillo e sereno, ri-
corda e compensa pure taluni lievi servizi prestatile in carcere ;
e se ancora la stringe qualche premura di ciò che lascia quaggiù,
se ancora rivolge una preghiera ai potenti sulla terra, n' è ca-
gione il testamento da lei consegnato ri notaio della compagnia
delle stimmate, il quale implora che abbia efifetto, ^erc/iè non sia
defraudata la sua volontà di sovvenire a quei luoghi pii acquali ha
lasciato la sua roba. Ma di quell'atto in cui aveva disposto a favore
del povero fanciullo pupillo, neppure una parola, neppure un fug-
gevole ricordo, neppure una lontana allusione. Avrebbe una ma-
dre dimenticato così?
Ma se anche il signor Bertolotti, anziché innalzare arditis-
sime supposizioni sopra così deboli fondamenti, fosse riuscito a
provare che il fanciullo menzionato da Beatrice fu veramente
figlio di lei, come ciò potrebbe menomare la pietà che ci desta
la sua misera sorte? Perchè farle una colpa della sventura? Con
che ragione, con che giustizia accagionare alla fanciulla violata
gli effetti della patita violenza? Anzi, non dovremmo farla og-
getto di più viva e profonda compassione, e riverire quasi come
sacra la sua sventura di donzella, circondata dall'aureola di una
non consentita infelicissima maternità? Ma il signor Bertolotti,
compassionando al nostro sentimentalismo, ci fa sapere ch'ella
non andò reluttante agli amorosi congressi dai quali uscì madre.
Ingiustamente — assicura il signor Bertolotti — essere stato in-
colpato Francesco Cenci di sì abbominevole misfatto. Tenere egli
rinchiusa la figlia non già, padre snaturato, per obbligarla a con-
discendere a desiderii nefandi; bensì, giudice severo, per punirla
dell'onta da lei recata alla sua famiglia, abbandonandosi nelle
braccia di chi sa quale amante. Non tengono qui testimonianze
contrarie; invano si adducono le parole del Farinaccio. « Fu ap-
punto il Farinaccio il primo a lanciare questa taccia al Cenci
per salvare Beatrice dalla morte; ma egli tacciava pure d'im-
becillità Bernardo per lo stesso scopo, e abbiamo veduto che non
era vero. » Si concede che il Farinaccio reputasse poco sincero
di mente Bernardo; non però che questa asserzione fosse affatto
priva di fondamento. Ecco il costituto di un tal Mario da Fano,
il quale così parla di lui: « non è saggio come dovrebbero essere
li giovani, et quando l'ho praticato più presto l'ho avuto per lescio,
che altrimenti, perchè mi parlava et non concludeva niente, et
432 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
non ne cavavo costrutto alcuno; » e quindi aggiungeva: « l'ho
tenuto per isciocco, et di poco cervello come si dice nell'arti-
colo. » A provare il contrario non seml)ra che sieno sufficienti le
istanze e le lettere di affari scritte in suo nome che il signor Ber-
tolotti ha stampato, giacché quelle possono benissimo essergli state
fatte da qualche avvocato che aveva preso a curare le cose sue
Difatti, lo stesso signor Bertolotti porta un memoriale di un tal
Siila Morico procurator et defensor^ (pag. 86), il quale dice di « aver
procurato sei anni continui per il signor Bernardo Cenci con ogni
diligentia et sollecitudine, di maniera tale che l'ha fatto liberare di
galera, come pubblicamente si vede, ed introdottagli una causa civile
a Ruota dell'eredità paterna, che sino al presente giorno non ha
fatto mai altro che star vigilante alli negotii di esso Bernardo. »
Del resto l'imbecillità di Bernardo non fu l'argomento prin-
cipale addotto dall'avvocato per iscusarlo; bensì affatto secondario
e toccato appena di passaggio. Non così rispetto a Beatrice. L'in-
fame attentato del padre è per lei come il perno della difesa, la
quale interamente si sostiene su di esso e intorno ad esso si aggira.
E sarà verisimile che il Farinaccio, il primo giureconsulto della
curia romana, stabilisse un intero sistema di difesa sopra una vaga
sua idea, sopra un'arbitraria supposizione, sopra una menzognera
taccia ch'egli sarebbe stato il primo, dice il signore Bertolotti,
ad affibbiare al padre della sua cliente? E questa difesa intera-
mente fondata sopra un'asserzione gratuita e da niente giustifi-
cata, avrebbe egli avuto la temerità di proferirla al cospetto del
papa, anch'egli molto valente giureconsulto, il quale, anziché ri-
dere di tanta insania del celebre avvocato, ovvero imporgli che
cessasse dall'insultare senza ragione alla memoria dell'estinto, si
sarebbe lasciato indurre, stretto dagli argomenti di lui, ad esa-
minare egli stesso la causa per un'intera nottata? Se il turpe ol-
traggio recato da Francesco Cenci alla figlia non avesse avuto con-
ferma nella coscienza universale; se il crederlo non fosse stata
una necessaria conseguenza di fatti inconfutabili, poteva egli, il
Farinaccio, assicurarsi di affermare « essere vero (com'è creduto
verissimo) che lo stesso Francesco col tenere entro stanze oscure
e chiuse a maniera di carcere la detta Beatrice, e mal trattandola,
abbia cercato di violarne la pudicizia? » E pare che il fatto in-
fame fosse ammesso se non come compiuto, almeno come tentato,
dal Fisco stesso ; il quale, per quanto apparisce dalle parole del
Farinaccio, sembra obbiettasse che Beatrice dovea non fare uc-
cidere, ma soltanto accusare il suo oltraggiatore.
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 433
Di fronte a queste testimonianze di un contemporaneo, che
aveva avuto tutto l'agio di esaminare il processo e di raccogliere
informazioni e notizie dai famigliari della casa, e il quale, per
quanto fosse interessato, non mai avrebbe potuto avventurarsi a
portar fino al trono del principe un'accusa fondata sulla sua sola
immaginazione senza mostrarsi non quel dotto e riputato giure-
consulto ch'egli era, ma un uomo affatto manchevole del più vol-
gare buon senso; di fronte alle concordi asserzioni di sincrone
memorie, da insigni storici accettate per vere ; di fronte alla con-
tinuata tradizione ancora vivente tra noi, che non ha mai cessato
di riguardare la povera Beatrice come una vittima della paterna
nequizia; che valore si potrà mai attribuire alle contrarie affer-
mazioni del sig. Bertolotti, destituite come sono nonché di alcuna
prova, ma di qualsiasi anche apparente argomento? Ecco: il sig. Ber-
tolotti continui nelle sue pazienti ricerche ; rovisti a suo senno,
egli che n'ha si bell'agio, le carte dell'archivio di Stato ; e quando
sarà riuscito a trovare chi fosse l'incognito amante da lui attri-
buito a Beatrice, od anche a provare soltanto ch'ella fosse sospet-
tata di aver preso amorose confidenze con qualche persona estra-
nea alla casa, noi non esiteremo punto di confessarci in errore e
di scusarci con lui di averlo combattuto. Ma finché egli non sarà
giunto a tanto, noi, ci perdoni il sig. Bertolotti, se abbiamo po-
tuto spingere la nostra compiacenza sino a secondarlo per un
breve momento nel suo sospetto che il fanciullo pupillo nascesse
di quella sventurata giovanotta, non possiamo però riferire ad
esso altro padre fuorché colui che la testimonianza de'contempo-
ranei, l'autorità della storia e la continuata voce della tradizione
concordemente accusano di aver violentato la, madre.
Benché la memoria di Francesco Cenci sia pur troppo ese-
cranda, pure non senza molta ripugnanza io mi sono indotto a
mostrare l'inanità degli sforzi tentati per iscolparlo del suo più
brutto delitto, mossovi dal vedere come sifiatti poco caritatevoli
tentativi mentre non giovavano punto alla fama di lui tornavano
interamente a danno della sua vittima. E se tra le anime che di
lassù son cittadine tu pure ora siedi, o fanciulla tanto infelice
qui in terra, come ne danno certa speranza la vita tua tanto do-
lorosa e l'infinita misericordia divina, alla quale così pietosamente
ti rimettesti ne'tuoi ultimi momenti di dolore, deh, non ti spiaccia
ch'io, per respingere dalla tua povera testa recisa il marchio d'in-
famia di cui si voleva vituperarla, per conservarti integra quella
che ti fu forse unico conforto nel morire — la compassione degli
434 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONL
uomini — abbia dovuto ricordare l'atroce ingiuria da te sofferta,
e di cui tanto nel secreto del tuo cuore ti dolesti da preferire la
morte alla vergogna di confessarla. Se essa, non voluta da te far
palese, non ti valse a sottrarti al patibolo, ora ti varrà, lo spero,
a mantenerti nella tua fama di vittima e nel compianto degli
uomini. Che se allora ti stava conti'o l'avara avidità di un fiscale,
bramoso di raccattare tra '1 tuo sangue la ventesima parte delle
tue sostanze ; il tuo avversario d'adesso è un buono e bravo ar-
chivista, il cui noto amore per la verità c'è garante che non tar-
derà a ritirare la sua accusa, erronea sì, ma non interessata. Se
allora avevi a giudice tale, cui la tua giovane testa fu gradino a
più splendida servitù, ora tuo giudice è la libera opinione degli
uomini che alla mente illuminata accoppiano il cuore naturato a
gentilezza: ed essa, cui non seduce lusinghe, non corrompe pecu-
nia, non isforza potere, te assolvendo dell'accusa novella, confer-
merà il giudizio che di te e de'tuoi casi infelici portarono i tuoi
contemporanei, ed approvò la pietà delle successive generazioni.
IV.
11 processo dei Cenci parve al Guerrazzi grassazione a mano
armata di corda e di aspersorio di acqua benedetta nella curia ro-
mana ; e questo fiero giudizio, ripetutamente espresso sì nel ro-
manzo e sì in altri scritti che a quello aggiunse per ribadirne le
conclusioni, confermò anche tre anni prima di morire nell' epi-
grafe che dettò per Beatrice, e che, non essendo guari conosciuta,
non riuscirà forse sgradito il pubblicarla di nuovo:
Beatrice Cenci — Morte acerba — Fiore di giovinezza per-
(liifQ — G-ioie di amore negate — Censo, unica colpa, rapito —
Sepolcro disperso — Tanto non me dolsero — Quanto la fama
per lumjo secolo contaminata — Ora che per voi si può — Sorelle
romane — Rendete alle ossa il sepolcro — Alla memoria la fama
— Ciò facendo gioverete — Alla giustizia eterna — Alla patria
— A me! ed anco a voi.
il signor Bertolotti, com'era da prevedersi, dopo i suoi ten-
tativi di reintegrare la memoria di Francesco Cenci a danno del-
l'onore di Beatrice, porta anche in ciò opisiione a quella del
Guerrazzi affatto contraria. Egli afferma che il papa « temporeg-
giò ondeggiando tra la giustizia del sovrano e la bontà del rap-
presentante di chi, morendo, aveva perdonato a' suoi carnefici ;
quando un'altra tragedia in lari gentilizi, prossimi parenti dei
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 435
Cenci medesimi, lo spinse a dar un esempio di giustizia. » A pa-
rer SUO, le molte e principali famiglie di Roma, alle quali quella
dei Cenci era congiunta di parentela, « vedendosi disonorate dal-
l'esecuzione, cercarono di attenuare prima il delitto, poscia pas-
sarono ad invertire i fatti, facendo dei rei le vittime, del giudice
un delinquente. Morto il papa che aveva fatto eseguire la giustizia,
si cominciò a gridare : Il hanno spogliati ! E di questo passo,
sempre andando di esagerazione in esagerazione, siamo venuti
all'apoteosi di Beatrice Cenci ed alla daimazione dello stupratore
Francesco e di Clemente VIU spogliatore de'Cenci. » E finalmente
conclude che « indarno chi non ha idee preconcette spera di trovar
appiglio per segnalare l'ingiustizia papale, e tanto meno l'inerente
scopo di spogliare la famiglia de'Cenci. y>
Esprimendo un'opinione tanto favorevole per la memoria di
personaggi principalissimi nella curia romana, e che è affatto
conforme a quella di scrittori palesemente e schiettamente cleri-
cali, il sig. Bertolotti dubitò non avessero a sospettarlo anche lui
clericale. Ma il timore di questo sospetto non lo tenne dal dire
apertamente l'animo suo, bastandogli, a buona ragione, che la sua
coscienza lo assicurasse di non meritarlo. Teneri quanto altri mai
dell'indipendenza de' giudizi, non possiamo non lodare la franca
schiettezza del sig. Bertolotti ; e ben volentieri crediamo che egli,
ufficiale di un libero governo, non sia, né possa essere un clericale.
Altra ed assai diversa, a parer nostro, la vera ragione di quel
suo giudizio.
Yi ha degli uomini in cui il sentimento dell' imparzialità è
tanto profondamente radicato, eh' eglino, per timore di parere
passionati, si lasciano andare, senza pure avvedersene, all'estremo
contrario, cioè a far quasi le difese e 1' apologia del partito av-
versario e di coloro che lo hanno rappresentato o lo rappresen-
tano. Ciò spiega, a mio avviso, perchè in taluni storici protestanti,
il Leo, per esempio, e l'Hurter, si trovino di tali ritratti di qual-
che pontefice, che neppure gli scrittori più svisceratamente cat-
tolici ne fecero mai di cosi belli e piacenti. E senza dubbio un
errore anche questo ; ma un errore che procede da tale uno
squisito sentimento dellci giustizia, che non può non tornare a
lode e ad onore grandissimo di colui che vi cade.
Peraltro io credo che nel fatto dei Cenci debba tenersi in-
teramente lontana qualunque considerazione di partito; e però
non posso partecipare all'opinione di chi avvisò di servirsene come
di arma per ferire il papato. Concesso pure per vero ciò che finora
436 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
non può essere che un grave sospetto, cioè che l'uccisione di
quella famiglia fosse promossa dalla brama di spogliarli delle
loro sostanze, tale delitto, tale crudele e, se volete, scellerato
abuso di autorità, come quello ch'era in quei tempi egualmente
possibile anche in un principato laico, non può addursi come
prova della necessaria malvagità del principato ecclesiastico. A mio
avviso, in quel dramma sanguinoso debbe essere studiato il fatto
storico e psicologico, non quello politico; 1' individuo, non il
principio. L'aver fatto 1' opposto è stato appunto cagione che il
caso funesto rimanesse e rimanga tuttora oscurissimo; giacché
trasportato l'interesse da certe persone a certi principii, le pas-
sioni che avrebbero dovuto cessare con quelle, si sono con questi
perpetuate; e di qui la diuturnità delle accuse esagerate e delle
non meno esagerate difese ; ed il vigilare continuo e sospettoso
perchè non fossero resi pubblici quei documenti del fatto, che
soli, forse, potrebbero chiarire le ragioni vere di esso.
Sebbene dunque io sia molto lontano dall'approvare la troppo
generale accusa del Guerrazzi, tuttavia non credo neppure do-
ver accettare la piena assoluzione che, forse con poca maturità
di giudizio, è stata testé proferita dal signor Bertolotti ; pa-
rendomi invece che appunto chi prenda ad esame senza idee
preconcette il caso de' Cenci, non possa non concepire de' dubbi
assai gravi sulla imparzialità dei loro condannatori. Già scrissi
in altra occasione, e adesso mi torna a taglio ripeterlo, che con
il despotismo che allora regnava arbitro di vita e di morte, e
faceva spesso che il giudice fosse piuttosto provveditore del car-
nefice che ministro di giustizia; e con il sistema di procedura
di quei di, tanto involuto ancora di barbarie, né le confessioni
degli accusati né le sentenze dei tribunali mi certificano della
reità. Anche le maliarde del secolo decimosesto e decimosettimo
furono processate e condannate con tutte le debite formalità; e
confessarono anch'esse le colpe di cui si volevano ree. Gli untori
nella pestilenza di Milano del 1630 ebbero pur essi il loro pro-
cesso in piena regola; e anch'essi, da bravi e coscienziosi mal-
fattori, fecero ampia confessione del loro delitto. Eppure chi crede
adesso che quelle sventurate donne e quei poveri malcapitati fos-
sero rei? E s'ingannerebbe all'ingrosso chi supponesse che nei
giudici di allora fosse soltanto ignoranza, e obbedissero solamente
a false opinioni; che troppi esempi occorrono per mostrare come
eglino a molta dose di malizia accoppiassero abbietta e feroce
servilità. A sfogo di vendetta politica il parlamento di Francia
BEATKICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 437
nel 1617 condannava al rogo come strega Maddalena Galli gai, ve-
dova dell'assassinato Concini. A chi non è nota le miserabile fine
di Urbano Grandier curato di Laudon, bruciato vivo per delitto
di negromanzia sull'accusa delle monache del suo paese, che ave-
vano creduto, od a cui era stato fatto credere, d'essere diventate
ossesse per opera sua? Ma la sua vera colpa « stava nell'avere
scritto contro Richelieu, giacché allora e in ogni tempo i processi
secreti diventarono strumenti ai rancori, all' avarizia, all' ambi-
zione. ^ » E che stima facessero non pure la gente, ma i principi
stessi dei processi criminali di quei tempi, valga a pienamente
dimostrarlo il fatto seguente. Ranuccio Farnese, duca di Parma,
fece condannare nel capo parecchi gentiluomini delle principali
famiglie di quella città, imputati di aver congiurato contro la
vita di lui. Fu opinione dei piìi che la congiura fosse stata una
finzione del Farnese sì per togliersi dattorno quei troppo po-
tenti feudatari e sì per impadronirsi de' beni eh' eglino estesis-
simi possedevano. Premendogli scagionarsi di quest'accusa, il duca
mandò in giro per tutta l'Italia il sommario del processo; e a
Cosimo de' Medici, che, come quegli ch'era più addentro in queste
arti, era forse più degli altri sospettante, inviò un ambasciatore
a posta con copia di tutto il processo, affinchè si persuadesse della
reità dei condannati e della rettitudine sua. Il Medici non fece
risposta; ma quando l'ambasciatore di Ranuccio si accomiatò da
lui per ritornarsene a casa, gli consegnò, perchè lo recasse al suo
padrone, un altro processo; dal quale con tutte le formole della
giustizia era evidentemente provato ch'egli, l'ambasciatore, aveva
commesso un omicidio a Livorno, dove il pover uomo non era
mai stato. Aggiunge il Botta, dal quale ho compendiato questo
fatto, che « divulgatasi la cosa, i popoli esclamavano : oh va' e
credi ai processi de' principi! »
Inoltre nella causa de' Cenci pare non fossero neppure osser-
vate le formalità volute dalla procedura di allora. Alcuni anni
dopo la morte loro il Farinaccio fu richiesto del suo parere in-
torno alle istanze mosse da Bernardo per esser posto in possesso
dei beni paterni. Era già morto Clemente Vili ; gli Aldobrandini
guardati con occhio piuttosto irato che benevolo dal nuovo ponte-
fice; quindi la verità meno pavida di palesarsi. Riprendendo ad
esame la causa, il Farinaccio oltre a mostrare che la confessione di
Bernardo fu estorta dolosamente, mise pure iu chiaro un'altra
1 Cantù, Stor. Univ., lib. XV, cap, 15.
438 BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
grave irregolarità del giudice; il quale, contrariamente a tutte
le regole della pratica criminale, procede alla condanna degl'im-
putati, appoggiato sopra il semplice processo informativo, 2>crc7«p
non fu provato che Francesco restasse morto in virtù del misfatto, e
così mancò il corpo del delitto.
A chi meravigliasse perchè di questa gravissima irregolarità
non toccasse punto il Farinaccio nella difesa, ricorderemmo come
in tempi di dispotismo sia cosa assai difficile e di non lieve pe-
ricolo difendere liberamente coloro che il principe o i suoi mini-
stri vogliono 0 tengono rei. E che tali fossero i Cenci nella mente
del papa, hen lo dimostrano quelle terribili parole ch'egli rivolse
ai difensori: Dunque in Roma si trova gente che uccide il padre, e
si trova ancora citi li difende? Un avvocato che, forse ancora no-
vellino del suo mestiere e delhi corte, volle parlare con maggiore
libertà ciie non comportassero i delicati nervi del sovrano, appena
uscito del palazzo pontifìcio, fu tratto in carcere ; e per ottenere la
libertà dovè molto raccomandarsi e chiamarsi in colpa di avere con
poca pruden sa offeso le oreccìiie di Sua Beatitndine. ^ Ammonito da
quest'esempio, il Farinaccio, che sapeva di non essere veduto troppo di
buon occhio dal papa, il quale chiamavalo un buon sacco di cattiva
farina, e che inoltre con la sua vita sregolata aveva dato e fa-
cilmente poteva dare giustificata cagione alla vendetta de' potenti,
cercò prudentemente di tenersi in un giusto mezzo ciie gli per-
mettesse di adempiere al suo ufficio di difensore, senza dispia-
cere a chi regolava a suo senno la corte romana ; e di qui venne
che la sua difesa parve, e fu veramente, assai minore della sua
fama e della gravità della causa.
Del resto, il sospetto che nel supplizio dei Cenci non rima-
nesse estranea la prepotente volontà dei nepoti del papa, e special-
mente del cardinale Pietro Aldobrandini, in grembo al quale il
vecchio pontefice aveva finito col mettere il capo ; il sospetto, dicia-
mo, che il maggiore delitto di quei miseri fossero le loro immense
ricchezze, e la nativa povertà della famiglia ascesa per subita
fortuna a potere quanto avesse voluto: questo sospetto non data
mica da ieri, e non fu già il primo il Guerrazzi a metterlo fuori.
11 capo degl'infelici condannati non era peranco stato troncato
dal ferro infame del carnefice, e già se ne levavano per la nostra
città alte voci di sdegno e di corruccio. 11 giorno innanzi all'ese-
cuzione il rappresentante toscano in Koma scriveva al suo go-
' Bertolotti, op. cit.. pag. 60.
■ BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 439
verno di aver saputo come la dimane si dovessero far morire i
Cenci, « per li quali S. S. pare non abbia trovato nessun altro
temperamento fuori il detto supplizio. La quale deliberazione è
opinione fosse presa dalla S. S. senza punto esitare dopo il fatto
del matricidio successo in casa Santacroce, per la quale ai detti
Cenci si è a stento la difesa permessa. Non conosco in che termini
fu concepita e proferita la sentenza, né se e come avrà il suo
effetto, essendo die assai voci corrono di malumori in città, e
Koma è tutta piena d'ire e di corrucci. » ^ Eseguita fra il com-
pianto del popolo la ferale sentenza, il cavaliere Giovanni Moce-
nigo, ambasciatore della Eepubblica Veneta in Eoma, così ne in-
formava la serenissima: « Questa mattina hanno fatto morire i
Cenci convenuti di aver fatto aramazzare il padre. » Queste ulti-
me parole, convenuti di aver fatto ammassare il padre, il canonico
Torreggiani, strenuo difensore degli Aldobrandini, le riportava
stampate in carattere corsivo, parendogli ch'esse fossero la più
sicura, piena e convincente dimostrazione che il veneto ambascia-
tore era al tutto persuaso della regolarità del processo e della
giustizia della condanna. Questa peraltro, con buona pace dell'ot-
timo canonico, non mi seml)ra molto logica conclusione. Poiché se
l'accorto e prudente diplomatico, uso a pesare diligentemente le
sue parole, si ostinava a chiamare convenuti coloro che, come rei,
erano già stati condannati ed uccisi, gli è forse a sospettare ch'egli
avesse sul processo della curia romana gli stessi dubbi di Cosimo
de' Medici intorno a quello dei giudici parmegiani.
Subito dopo l'esecuzione di quella che molto dubitiamo di
poter chiamare giustizia, ne corsero per tutta Italia numerose
relazioni, dove il fatto era narrato in guisa da destare grandi so-
spetti sulla vera cagione della miserabile fine di quegl'infelici: la
quale, più che a loro colpa, attribuivasi alla nota avidità dei
nepoti del papa. Abbiamo veduto di sopra come, per provare la
falsità di un'accusa assai simile a questa, Ranuccio Farnese non
si peritasse di mandare in giro i processi fatti istruire da lui.
Questo peraltro non fu creduto buono espediente dalla curia pa-
pale ; la quale mentre anzi ordinava che del processo dei Cenci
non si potesse servire altrove che nella corte romana, e riteneva an-
che le copie che di esso avevano fatto fare gli accusati per alle-
stire le difese, comandava a tutti i legati, vice-legafi, presidenti,
governatori, pretori e a qualunque altro ufficiale dello Stato eccle-
* Documento pubblicato dal Dal Bono.
440 BEATKICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLIC4.ZI0NI.
siastico di sequestrare tutte le relazioni della funesta storia che loro
fosse riuscito di ritrovare. ^ Se questi argomenti valessero a far
cessare od aumentare i sospetti, torna vano discutere.
I difensori degli Aldobrandini, tra' quali principalissimi lo
Scolari e il Torreggiani, ne' testamenti fatti dai Cenci alcuni giorni
prima di morire, s'avvisarono di aver trovato una buona ragione
per provare che non vi fu volontà di spogliarli delle loro sostan-
ze. Non meraviglia che lo Scolari e il Torrigiani argomentassero
così; eglino negarono pure che i beni dei Cenci fossero confiscati:
partigiani furono e lo dimostrarono. Bensì n'è cagione di non poco
stupore il vedere che anche il signor Bertolotti abbia creduto di
potersi servire di questo stesso argomento; giacché avendo egli
pubblicato tanto i testamenti quanto la condanna, avrebbe dovuto
avvertire che i primi precederono di alquanti giorni la seconda ;
e però considerare come niente vietasse che gl'inquisiti dispones-
sero di quella roba, di cui nessuna sentenza li aveva ancora pri-
vati. Del resto, anche se il testamento avesse seguito e non pre-
ceduto la condanna, che importava al Fisco, o a chi era dietro al
Fisco, che i Cenci testassero ? lìimaneva forse impedito con ciò che
la sentenza avesse egualmente il suo pienissimo effetto?
Mentre dunque l'aver lasciato che i morituri testassero, non
prova punto che non si avesse 1' intenzione di prendersi le loro
' « Cleraens P.P. Vili. — Pastoralibus Romani.... etc. Diim itaqus etc. Mulia
soripta cuiTunt, sic venit ad aures nosiras, super domestica facta Ciiiciura et scri-
jitores, jaiii in odium Sanctae Roinanae Ecclesiae, non soium adversare et vitupe
rare praesumunt Pontifices Romanos, sed etiam Sacrae Romiiaae Rotae Decisiones
in hac alma urbe, totaque Statu nostro Ecclesiastico celebratissimae incriminare
volunt et de.spicere. Et sicut nobis nuper exponi fecerunt dilecti filli Praesidens et
Officiales nostri, ex libello praedicto et impio labore querunt lucrum et secreto
curant imprimi (sine licentia in scriptis ohtinenda) ipsorum jusiitiae praejudicium
et libellurn impressum vendere in dieta nostra alma urbe quam in Universo Stato
Ecclesiastico, inhibimus et prohibimus propterea universis Christi fideiibus prae-
sertim librorum Impressoribus et Bibliopolis in dictione nostra Ecclesiastica con-
sistentibiis sub indignationis nostrae. Et motu proprio, et ex certa scientia matu-
raque deliberatione declaramus (ut non dare materia funestam historiam repetendi)
libelliim praedictiim, aut aliquam illius pariem, lam in magno quam in parvo folio
in odium auctoris et manlamus dilecto filio nostro nunc et prò ^tempore existenti
in Urbe Vicario et ejus Ofticialibus in dieta Urbe et ejus districtu etc. dileclis filiis
aostris seilibus Apostolicae Legalis, seu eorum Vice Legatis, aut Praesideutibus,
Gubernatoribbs, Praetoribus et aliis Stati nostri Ecclesiastici Officialibus ; quatenus
iisdem praesi leut et Oftìcialibus per firaesentes injuagimus ac respective manda-
mus ut poenas praedictas in contravenientes quando et quoties requisiti fuerint,
irremisibiliter exqua-tur. Ds^cernentes etc.
Datum Romae sub anulo Piscatoris die 11 sept. 1600 Pontificatus nostri anno
decimo. » (Documento pubblicato dal Dal Bono, Storia di Beatrice Cenci e dei suoi
tempi.)
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 441
ricchezze; questa intenzione, se non evidentemente manifesta, è
fatta però assai credibile dall'averli condannati alla confisca dei
beni anche fìdeicommessi, dei quali a tenore di tutti gli statuti
e di tutte le consuetudini di quei tempi non poteva il Fisco
impossessarsi giammai. ^ E qui è curioso osservare come gli scrit-
tori, che hanno preso a scusare i nepoti del Papa dall' incolpa-
zione loro data fin da allora dalla pubblica voce, si trovino per
siffatta guisa discordi tra loro da confutarsi pienamente gli uni
con gli altri: il che, se non prendo errore, sembrami possa essere
una chiara dimostrazione della scarsità e insufficienza delle loro
ragioni. Difatti, mentre lo Scolari e il Torreggiani si arrabattano
per provare calunniosa « l'accusa data dal Guerrazzi a Papa
Clemente, d'avere cioè fatto morire i Cenci per impadronirsi delle
loro ricchezze, essendo un tal fatto giuridicamente impossibile
in quanto che la legislazione criminale di Ironia teneva la mas-
sima legale che nel delitto di parricidio non aveva luogo la pena
della confìscazione de beni: » il signor Bertolotti recando la
sentenza dei Cenci, ove la crnfisca dei beni è amplissimamente
dichiarata, non solo senza volerlo, e forse senza saperlo, distrugge
interamente l'edifizio di difesa innalzato con non poca fatica dai
citati scrittori, ma rafforza anche di molto le ragioni dell'accusa,
dando la prova di un fatto che dagli stessi apologisti degli Aldo-
brandini era riputato giuridicamente impossibile. Quando poi il
signor Bertolotti si fa a sentenziare che stava allora legalmente
la confisca al delitto de' Cenci, egli o non sa o non ricorda di
essere già stato confutato da quei due suoi predecessori, i quali,
come abbiamo veduto, con la legge criminale alla mano poterono
provare proprio l'opposto dell'opinione di lui. Il che o non sapesse
il signor Bertolotti o non ricordasse, in ogni modo dimostra
com'egli sia entrato con molta leggerezza nella presente questione,
non avendo non solo presa esatta conoscenza del diritto di quei
tempi, ma neppure letto o tornato a leggere gli autori che ne
avevano trattato prima di lui.
Aumentano poi di non poco il sospetto i compensi che, quasi
prezzo del sangue, furono accordati con inusitata larghezza ai
due principali compilatori del processo, il fiscale ed il giudice.
Nelle avide canne di quello fu versata la vigesima parte degli
averi degli uccisi; l'altro fu insignito di un cavalierato, onore
che allora tenevasi in maggior conto che non adesso, e si conce-
deva solo a coloro che con particolari servigi s'erano resi assai
1 Farinaccio, Praxis, Quaest. 25, n. 69.
VoL. XIV, Serie II — 1 Aprile 18Ì9. 2T
442 BEATRICE CENCI DOPO LE L'LTIME PUBBLICAZIONI.
benemeriti del padrone. E quando consideriamo come il maggiore
tenimento di casa Cenci, il vastissimo casale di Torre Nova,
andasse ad accrescere le possidenze de' nepoti del Papa, quando"
vediamo che la vedova di Giacomo, se volle ricuperare a' suoi
figli parte delle rapite sostanze, fu obbligata a riconoscere la
vendita che del detto tenimento aveva fatto il Fisco a Giovanni
Francesco Aldobrandini, il dubbio che nella morte di quegl'infelici
non fosse estraneo il desiderio d'impossessarsi delle loro ricchezze
assume sempre maggiore gravità, e si viene talmente estendendo
da toccare quasi i limiti della certezza.
Non consentendo le mutate condizioni de' tempi d' innalzare
la loro casa a sovrana potenza, a cui un più propizio concorso
di eventi aveva sollevato altri germogli papali, i nepoti di Cle-
mente Vili volgevano assidui tutte le loro sollecitudini a far
procaccio di beni, affinchè quel nuovo splendore di fortuna cui
erano così subitamente saliti non isparisse con -loro, ma si con-
servasse con lustro punto minore anche nei secoli avvenire. Noti
erano questi intenti e queste arti loro ai popoli che ne sofferi-
vano il peso ; note agli altri governi, soliti ad osservare con vigile
sguardo gli andamenti ed i personaggi principali della corte
romana. ^ Singolarmente il cardinale Pietro, del quale si disse
che mai alcun nipote di papa fu altrettanto potente, adoperava
l'autorità che intera gli aveva concessa il favore dello zio ad
accrescere la grandezza della casa, non solo aumentandola di
ricchezze e di onori, ma decorandola di edifizi magnifici tanto
da emulare le roggie più sontuose ; e se per condurre a fine opere
di così grave dispendio non aveva talora pronto il denaro, punto
non peritavasi di prenderne alla scoperta nell'erario di quello
stato, cui egli sotto il nome dello zio con assoluta potestà gover-
nava. - E poiché dell'eccidio dei Cenci lui principalmente si dubita
1 « Attendono l'uno e l'altro dì questi nepoti ad accumulare danari et arricchire
quanto più si possa credere.» — (Relazione di Giovanni Delfini, ambasciatore della Re-
pubblica di Vene/.ia, recitala in Senato l'anno 1598).
2 « Aveva egli intrapreso a far edificare una sontuosissima villa nel Tuscolo che
per la varietà e la ricchezza degli ornamenti fu chiamata la meraviglia delle de-
lizie umane. Volendovi condurre grande copia di acqua, e mancandogli il danaro
sufficiente a quest'opera, la quale, per essere la villa a pie' de' monti tusculani,
portava gravissima spesa, fece che lo zio ordinasse che i grandi lavori che a
quell'effetto si avevano ad eseguire, tutti coi denari della camera apostolica fossero
condotti, mentre con ispeciale chirografo dichiarava che di tutte quelle somme,
quante mai ne potessero occorrere, faceva al cardinale una piena e irrevocabile
donazione. » — (ViscoNxr, Città e famiglie nobili dello S^ato pontificio, fam. Aldo-
brandini). Sembra che per i signori Aldobrandini il tesoro della camera aposto-
lica, cioè dello Stato, fosse una succursale dello scrigno di casa loro.
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 443
autore, non sarà superfluo riportare il ritratto che di lui ci lasciò
il cardinale Guido Bentivoglio, il quale ne' principii della sua
carriera cortigiana ebbe occasione di conoscerlo assai da presso ;
ed a questo aggiungeremo altresì il racconto di taluni fatti che
la pubblica fama gli apponeva, imperocché potendo da essi for-
marci un giusto concetto del carattere suo, dello smisurato potere
da lui esercitato, e dell'uso ch'ei ne faceva, potremo anche giudi-
care s'abbia avuto la jnalvagità d'animo e l'autorità sufficiente
per commettere pure il delitto di cui viene accusato.
« Aveva Aldobrandino (scrive il Bentivoglio) allora intorno
a trent'anni. Eragli stata poco favorevole là natura in formarlo, e
di piccolo corpo e di poco nobile aspetto. Kestavagli molto se-
gnata la faccia dal vainolo, e aveva molto offeso il petto ancora
dall'asma; e l'imperfezione di questa parte ne cagionava un'altra
alla voce, che nasceva torbida per tal cagione in vece di uscir
chiara, e faceva che si avessero da indovinare molte parole in
vece d'intenderle. Quindi ancora nasceva l'accendersi in lui di
maniera alle volte la tosse, che tutto il volto se gli infiammava^
e notabilmente l'anelito ne pativa; ma nondimeno godeva egli
tutta quella sanità che bastava per sostenere il peso delle fa-
tiche, le quali non potevano quasi essere maggiori, né gli man-
cavano l'altre qualità per un sì gran ministero più necessarie ;
vigilanza, industria, consiglio, vigore d'ingegno, e costanza di
animo. Procurava d'apparire anco zelante ecclesiastico: ma per
comune giudizio prevalevano però in lui di gran lunga le cu-
pidità temporali. Vedevasi ch'egli troppo amava le dipendenze
assolute; e che non favoriva se non chi le professava; cupido
sopra modo ne' sensi, avido sempre più dell' autorità, e di ma-
niera poi accecato negli ultimi anni dal desiderio di posse-
derla, che usandola non come prestata, ma come propria, e
confusi troppo nel resto anco i termini del governo, pareva che
egli, a favor della sua casa e di sé medesimo, si considerasse mi-
nistro supremo di un principato temporale e non ecclesiastico,
ereditario e non elettivo, di lunga e stabile, e non di transitoria
e breve durata. »
Ora ecco i fatti che abbiamo di sopra citato, e che varranno
a farci conoscere il cardinale Pietro Aldobrandino forse anche
meglio dello stesso ritratto del Bentivoglio.
Girolamo Longobardi, di ricca e nobilissima famiglia romana,
teneva a sua posta una cortigiana a quei tempi famosa per ec-
cellente bellezza. Invaghì fieramente di costei il cardinale Aldo-
44:i BEATKICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI.
brandino, che le memorie di allora dicono essere stato fin da
fanciullo effeminatissimo, e col passare di frequente sotto la casa
di lei, coU'usare spesso nella cliiesa ov'ella recavasi, ed ivi amo-
rosamente guardandola e salutandola, cercava di farle noto il suo
animo e di condurla ai suoi desiderii. Venne a sapere il Longo-
bardi di queste premure del cardinale per la donna, e come
questa punto non si mostrasse schiva di compiacerlo. Il perchè
sia che Jo movesse amore per la giovane, o che al suo orgoglio
di gentiluomo sapesse male che altri cercasse di soverchiarlo,
montato in grandissimo sdegno avvisò la donna che s'ella non
cessasse dal coltivare le speranze del cardinale mostrando di
l^render piacere della sua corte, egli l'avrebbe sicuramente am-
mazzata. Non si sa se la mala femmina facesse sapere all'Aldo-
brandino ciò ch'era passato tra lei e il Longobardi: fatto è che
un bel giorno il capo del misero giovane fu ritrovato confitto in
un piccone sulla piazza di S. Pietro. « Con la morte di questo
cavaliere (dicono le memorie contemporanee) il cardinale potè
esigere dalla donna il suo bramato desiderio. »
Il secondo fatto è così raccontato nello stesso manoscritto
dal quale compendiamo il miserando caso del Longobardi:
« Il signor Onofrio Santacroce, cavaliere di meriti impareg-
giabili, s'era parimenti invaghito di una dama di qualità e di
sfera principale, dalla quale esigeva anche il suo amore il car-'
dinale Aldobrandino. Fu questa dama regalata dal cardinale
di un diamante di valuta di scudi 3000; ne foce lo sborso
il Santacroce alla dama per avere l'anello e portarlo a scorno et
onta dell'Aldobrandino, e per gloriarsi così di haver avuto (come
per boria si usa tra cavalieri) li regali di una sua intrinseca,
faceva pompa il Santacroce di quest'anello per essere venuto dalle
mani del cardinale. Si sparse anco questa fama per Roma, e si
sarebbe il cardinale vendicato ancora di lui; ma temendo gran-
demente dello sdegno del Papa, che faceva fare diligenze per avere
gl'indizi dell'omicidio del Longobardi, faceva forza a se. stesso di
trattenere il colpo, ma haveva però dato ordine alla corte che
ogni peccato veniale che si fosse potuto attribuire al signor Onofrio
si facesse convertire in sacrilegio, per fargli purgare il peccato di
ambizione che haveva esso propalato a scorno del cardinale. »
» Eiuscì assai bene il caso a' suoi disegni per la morte della
Santacroce; che saltato fuori il Fisco con esatte diligenze inter-
rogato il signor Onofrio fu convinto d'omicidio e stiracchiata la
legge più che si potè per farlo decapitare. Il governatore di
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME prjBBLICAZIONI. 445
Roma sul mezzogioriio nelle liore più calde andava in Torre Sa-
vella ad esaminarlo con falsi interrogatori per poterlo convin-
cere. 11 cardinale Aldobrandino doppo la cattura del Santacroce
ad ogni ora et ogni momento voleva sapere ciò ch'era passato
nell'esame facendosi portare avanti se le scritture e l'interroga-
torio, e non si vergognò di dire al governatore che col sangue
del Santacroce si sarebbe tessuta una veste, toccando gli suoi
abiti. Il delitto era facilmente scusabile quando il Santacroce non
avesse avuto questi persecutori. Furono falsificati gli esami, e mo-
strato al papa la falsità del processo dalli avvocati difensori del
Santacroce; ma perchè questi vedevano che al cardinale premeva
grandemente questa morte, non volsero tirarsi addosso l'odio di
uno che il tutto poteva in quel pontificato; onde molti avvocati
avvisati di ciò abbandonarono la difesa del Santacroce, e lasciarono
di votare nella Congregazione. Doppo avere il fiscale rappresen-
tato al papa tutto il processo, e mostrati gli esami, disse : Santo
Padre, vi sarebbe da fabbricare altri processi sopra le ribalderie
di questo cavaliere, perchè non solo di questo, ma consta ed è stato
convinto di aver commesso altri delitti. Inteso questo il papa,
con la conferma del governatore e del cardinale Aldobrandino
che lo molestava acciò dovesse morire, risolse in un chirografo,
e lo sentenziò al taglio della testa; fu eseguita la giustizia, e
nella prima promozione fu fatto il governatore cardinale del titolo
di Santa Prassede; onde fu detto per tutta Roma che aveva tinto
la porpora nel sangue del Santacroce. Cosi vinse la forza la
verità. ■ »
Questi l'uomo alle cui voglie stava la vita e le sostanze dei
Cenci, questi colui che la pubblica voce incolpava della loro ro-
vina. Dopo quanto abbiamo narrato di lui, confessiamo schietta-
mente di stare in gran dubbio se suonino piuttosto ironiche che
vere queste parole del signor Bertolotti: « Temporeggiò (parla
del papa che interamente si governava col consiglio di quel suo
prediletto nepote) ondeggiando tra la giustizia del sovrano e la
bontà del rappresentante di chi, morendo, aveva perdonato a' suoi
carnefici, quando un'altra tragedia in lari gentilizi, prossimi pa-
renti dei Cenci medesimi, lo spinse a dare un esempio di giusti-
zia. » Ma forse ad altra cagione altri potrebbe attribuire l'indugio.
Grave correva per Roma il dubbio sulla colpa degli accusati;
' Memoria dell'origine dell'odio che il cardinale Aldobrandino portò a Giro-
lamo Loiii^obardi et Onofrio Sauiacroce (Archivio Capitolinu, cred. XIV, voi. 9>
pag r25 e seg.)
446 BEATKIOE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICiZIONI.
grave il sospetto sulle intenzioni de' governanti, già troppo noti
per insaziata ed insaziabile avidità di ricchezze. Ricordavano eglino,
ricordava la gente essersi lasciato impunito Francesco Cenci la
mercè di molta pecunia: ora, lui morto, lo sterminio della sua
casa poteva forse parere simile al colpo die abbatte l'albero di
cui più non si giunga a cogliere i frutti residui. Di qui per av-
ventura la peritanza a ferire; questa la probabile ragione che
tratteneva ancora la mannaia sul capo degl'infelici carcerati. Ac-
cadeva intanto il matricidio di Paolo Santacroce, Certo, il fatto
scelleratissimo dovè commuovere Roma, raccapricciarne ogni one-
sto. Molti i parlari e forse non senz'arte promossi. Ecco a che
condurre la soverchia indulgenza: lasciare impunito un delitto,
subito commettersene altri. Non essere tempo quello di pietà; la
frequenza de' misfatti volere pronti e terribili esempi di giustizia:
la comune sicurezza pericolante, le oltraggiate leggi della natura
esigere ormai la troppo tardata vendetta. Ottima l'occasione, né
fu lasciata sfuggire. La sospesa sentenza era, rapidissimamente,
pubblicata, eseguita.
Non si assicura che fosse proprio così ; bensì si suppone, e
quei tempi, quegli uomini danno pur troppo a credere che la sup-
posizione non sia temeraria. Certo, viscere di pietà nel cardinale
Pietro Aldobrandino non furono mai sospettate ; e né tampoco in
papa Clemente Vili, del quale il ferocissimo Sisto V, promoven-
dolo al cardinalato, diceva aver analmente trovato un uomo secondo
il cuor suo ! Se in lui fossero stati quei pietosi sentimenti che il
signor Bertolotti cortesemente gli presta, avrebbe dovuto consi-
derare, troppo diverso essere il caso di Paolo Santacroce da quello
della donzella de' Cenci. Là un giovane, rotto da lungo tempo ad
ogni vizio, micidiale della madre per sola libidine di danaro;
qua una fanciulla la cui breve vita era stata una continuata se-
quela di dolori, difenditrice o vindice dell'onore pericolante o
perduto. Se nel primo caso, la giustizia aveva a procedere armata
di tutto rigore; nel secondo però, non doveva mai scompagnarsi
dalla clemenza: e tanto più poi se il supremo moderatore di essa,
interrogata la propria coscienza, avesse considerato come, innanzi
agli occhi del giudice eterno, egli pure era reo ; dacché del sup-
posto delitto si dovesse in gran parte accagionare la sua colpe-
vole e interessata indulgenza verso il padre degli accusati. E qui
cadono molto bene in acconcio le seguenti parole del Muratori,
che, a parer mio, esprimono assai più di quello che dicono: « E
se fosse stata fatta giustizia di lui (Francesco Cenci), allorché per
BEATRICE CENCI DOPO LE ULTIME PUBBLICAZIONI. 447
tre volte fu messo in prigione a cagione del vizio nefando, per
cui si compose in duecentomila scudi, non sarebbero incorsi in sì
lacrimevole disavventura i figli suoi. »
Fatta adunque la debita stima dei processi di allora, e spe-
cialmente di quello dei Cenci, notato di gravissimi difetti da in-
signi giureconsulti; e a ciò aggiungendo la costante cura di
tenerlo secreto, la poca o nessuna libertà delle difese concesse
agl'imputati, i rigorosi divieti con cui si cercò di soffocare la
pubblica voce protestante controia giustizia di quella condanna;
la confìsca dei beni anche fide-commessi ordinata in onta di tutti
gli statuti e le consuetudini di quei tempi; la vendita fatta dal
Fisco agli Aldobrandini di considerevole parte di essi beni con
lesione enormissima di prezzo ; e finalmente il carattere cupa-
mente malvagio del più stretto parente e onnipotente ministro e
favorito del principe, ambizioso, vendicativo, avidissimo; io di-
mando se non sia da altamente meravigliare, vedendo che taluno
assicuri di avere studiato diligentemente, profondamente la que-
stione, e poi concluda con 1' asserire che : « indarno chi non ha
idee preconcette spera di trovar appiglio per segnalare l' ingiu-
stizia papale, e tanto meno l' inerente scopo di spogliare la fa-
miglia de' Cenci ? » Quanto a me, dopo le cose testé discorse, se
posso ammirare la profonda capacità della sua buona fede, nonché
acconciarmi a così diversa opinione, sento più che mai ingagliar-
dirsi il sospetto; e più che mai insistenti e sonore come rintocchi
di squilla mi percuotono la mente quelle terribili parole con le
quali il Guerrazzi poneva fine al suo racconto della cupa tra-
gedia : « Quando l'oro del condannato si versa nell'arca del giu-
dice, a questo sta con prove limpidissime chiarire le genti, ch'egli
non fece causa comune col boia. »
Francesco Labruzzi di Nexima.
LE NOSTRE OIIIGINL
V.
I NOSTRI PkOGENITORI.
Con questo titolo non voglio alludere ad alcuna specie in-
feriore all'uomo, e neanche a quel certo tipo intermedio, del
quale il Darwin e 1' Haeckel ci hanno dato lo schizzo. Non è mia
mente il far ritorno sul campo di quelle induzioni, ma piuttosto far
conoscere meglio un essere antichissimo sì, ma interamente umano :
l'uomo primitivo. Studiandolo, troveremo 1' origine di molte nostre
idee, delle quali andiamo orgogliosi perchè le reputiamo alta-
mente civili, e così impareremo a conoscere meglio noi stessi.
Se non è facile, è almeno possibile penetrare sino alla pre-
senza di codesto indiscutibile nostro progenitore, sebbene esso sia
vissuto migliaia e migliaia d'anni sono. Oltre agli avanzi del suo
lavoro, che ci parlano delle credenze, degli usi, de' costumi suoi,
e che formano il contenuto della paleoetnologia, noi abbiamo
i rappresentanti viventi degli estinti progenitori, noi troviamo
oggi, nello spazio geografico, quelle forme inferiori che predo-
minarono nei tempi originari dell'umanità. Lo studio degli odierni
selvaggi è il miglior modo per indurre i caratteri dell' uomo pri-
mitivo. Questo è il concetto che informa il libro del Lubbock
sulle Origini delV incivilimento. Pel Lubbock i selvaggi in gene-
rale non sono i discendenti di civiltà decadute, ma gì' immobili
rappresentanti degli uomini preistorici. Eglino non potrebbero es-
sere quali sono, se fossero gli eredi di antiche civiltà, perchè vi
LE NOSTRE OlilGINI. 449
Lamio cognizioni utili alla propria conservazione che una volta
acquistate nello stato civile, non si perdono più quand'anche un po-
polo decada. Ora molte popolazioni selvaggie mancano interamente
0 quasi di quelle cognizioni, senza cui la civiltà è un nome vuoto di
senso. Predomina in esse qualcosa di così chiarameute rudimentale,
da fare accettare piuttosto l'idea d'una fermata ne' primi gradini
dell' evoluzione, che non quella di una discesa da piìi alti seggi.
Anche in questa particolare questione la dottrina del progresso
deve sostituirsi a quella della decadenza, ispirata dai pregiudizi
biblici.
Che lo studio accurato degli odierni selvaggi possa fornire
una ricca congerie di dati per indurne i caratteri fisici, morali,
intellettuali, sociali de' nostri progenitori, mi par chiaro ed in-
negabile ; ma è duopo aggiungere che quello studio va fatto con
molta intelligenza e dirò anche con molta circospezione. In primo
è da tener conto che gli odierni selvaggi in generale, per la du-
rata del tempo da che esistono, hanno raggiunto un grado mag-
giore di sviluppo ; poi è da stare in guardia contro il facile ge-
neralizzare, imperocché se molte popolazioni selvagge esprimono
una fermata, di altre si sa con certezza che sono eredi di un più
alto stato sociale. Ora altro è una fermata, altro una caduta, o
dicasi pure una retrocessione. In questa si portano tracce delle
qualità e cognizioni acquisite, e mal s'indurrebbero i primissimi
uomini da tali rimaoinate popolazioni. Così guardingo mostrasi lo
Spencer nel suo primo volume su' Principii di Sociologia, non ha
guari pubblicato. L' illustre scrittore, che più di ogni altro si è
adoperato a rendere scientifica la teoria della evoluzione, dimostra
appunto in quali errori può trarre l'idea del progresso, quando è
presa in una forma assoluta. In questo volume, volendo egli ri-
suscitare tutto il mondo delle uZee j}rz/^/27it'e per costruirne infine
la teoria primitiva delle cose, premette (capitolo Vili) alcune osser-
vazioni sulle difficoltà d'indurre quel mondo mediante l'esame delle
idee de' più bassi e semplici gruppi sociali oggi viventi, e di tra-
sferirsi in esso per coloro il cui cervello è modellato dalle idee
complesse della nostra progredita società. La teoria del continuo
progredire gli sembra così insostenibile come quella della de-
gradazione, perchè un attento esame dei fatti deve farci conclu-
dere che il progresso noli' evoluzione di alcuni tipi non esclude
la stazionarietà e la retrocessione di altri, anzi molto spesso il
progresso di certi tipi implica la retrocessione di altri, perchè
la vittoria del tipo più sviluppato sposta i tipi rivali e li riduce a
450 LE NOSTRE ORIGINI.
vivere in coudizioni inadatte, che fanno loro perdere l'acquistato
grado di superiorità. Questa verità si verifica tanto nel mondo
organico quanto in quello sopraorganico o sociale, e nella lotta per
la vita che fra i vari popoli si combatte, noi vediamo infatti civiltà
splendere ed ecclissarsi, società divenir potenti e decadere o spa-
rire, perchè vinte o conquistate o disperse e schiacciate da altre
civiltà, da altre società, Grli esempi son tanti da render pallida
qualsiasi citazione di fatti. Da ciò segue la difficoltà di sceverare
le idee veramente primitive e rudimentali da quelle che sono
state trasmesse dalle tradizioni e che hanno preso nasci-
mento in uno stato sociale superiore. Per riuscirvi l' indu-
zione non basta, ma ci vuole il concorso della deduzione, cioè
dobbiamo partire da alcune premesse o postulati che esprimano
i caratteri logici delle idee primitive. La psicologia deve venire
al soccorso della sociologia, V a-priori daWa-posicriori. La psi-
cologia e' insegna a distinguere le idee semplici dalle complesse,
i rapporti apparenti da quelli sostanziali e reali, e la legge di
evoluzione sociale e mentale ci avverte che l'uomo parte da' primi
per muovere verso i secondi. I concetti reali che scaturiscono
da rapporti complessi non possono appartenere al mondo primi-
tivo. E quello che diciamo delle idee si può applicare ad ogni
fatto, ad ogni foi'ma dell' attività umana, poiché tali fatti e forme
non sono che manifestazioni del modo di concepire, e però vivono
con questo in perfetta consonanza, ossia obbediscono alle medesime
leggi.
Codesto metodo scientifico e armonico è servito allo Spencer
per ricostruire il sistema delle idee primitive, e gli è dovuto ser-
vire, sebbene non lo dica, per fare quella descrizione dell'uomo
IDrimitivo fisico, affettivo e intellettuale, che ci ha dato ne'primi
capitoli della sociologia. Darò un cenno tanto di questa descri-
zione dell' uomo primitivo, quanto di quella ricostruzione delle
idee primitive, perchè sono studi che rientrano nel quadro del
mio lavoro, ma fermandomi piuttosto su'risultati che non su'pro-
cessi per ottenerli e su gli esempi per dimostrarli.
Ordinariamente si crede che 1' uomo primitivo sia stato di
alta statura, che le prime razze umane abbiano avuto gigantesche
proporzioni. Né l'induzione né la deduzione, dice lo Spencer, con-
fermano questa ipotesi. Le misure eseguite su di parecchie po-
polazioni selvagge e barbare e l'esame delle ossa di razze spa-
rite lasciano indurre, egli soggiunge, che se l'uomo primitivo
LE NOSTRE ORIGINI. 451
non era molto più basso dell' uomo civile, non era neanche più
alto, anzi in media era di statura inferiore. L'esame delle ossa,
come si è detto, non conferma ancora tale opinione, e come fac-
cia lo Spencer a calcolare la media, io non potrei dire. Farmi
chiaro che in alcune condizioni l'alta statura abbia potuto essere
favorita, dove che in altre le razze di piccola statura abbiano po-
tuto facilmente moltiplicarsi e dilatarsi, perchè l'alta statura non
era necessaria per la loro conservazione. La induzione però ci
mantiene nell' incertezza, e solo la deduzione ci spiana la via per
giungere ad una conclusione netta. Gli è certo che, in generale,
la superiorità della statura porge un vantaggio nella lotta per
l'esistenza, ond'è naturale che la statura dell'uomo primitivo
debba avere obbedito piuttosto alla tendenza verso l' aumento,
che non a quella verso il decrescere. Gli abiti sedentari d'una
sviluppata civiltà possono solo contrastare quella tendenza, ma
difiicilmente riescono a fare indietreggiare la statura sino a quello
che era nei tempi primitivi, cosi perchè nella medesima civiltà vi
sono occupazioni fisicamente attive, come anche perchè il regime
alimentare è più nutriente.
Al minore sviluppo della statura è compagno, presso 1' uomo
primitivo, lo sviluppo difettoso delle membra inferiori. È quest'ul-
timo un fatto osservato da' viaggiatori che hanno visitato con-
trade abitate da razze diverse, senza legame di parentela. Anche
i vestigi delle razze estinte dimostrano che l'uomo primitivo do-
veva avere gambe corte e sottili. Questo suo carattere scimiesco
si comprende agevolmente, a cagione delle abitudini da rampicante
che hanno dovuto pòrgere alle braccia una forza e uno sviluppo
sproporzionato a quello delle membra inferiori, come si comprende il
successivo perfezionamento di queste, pensando a' vantaggi che nella
lotta fra le razze davano le gambe più sviluppate. Gli uomini forniti
di gambe più forti hanno potuto non pure sottrarsi più facil-
mente a' pericoli e trasferirsi più prontamente da un punto al-
l'altro; ma anche trionfare più agevolmente nella lotta corpo
a corpo. Eglino hanno dovuto tendere a predoujinare, e anche in
questo la evoluzione si effettua col progredire dal tipo piuttosto
scimiesco a quello dell'agile e robusto alpinista. La deduzione,
come è palese, lascia prevedere quello che la induzione d'altra
parte suggerisce e suggella.
Altro carattere anatomico dell'uomo primitivo è quello con-
sistente nello sviluppo delle mascelle e de' denti, derivante pro-
babilmente dall'abito di masticare alimenti grossolani, duri e
452 LE NOSTRE ORIGINI.
Spesso crudi, e di servirsi de' denti come istruinenti. Grande del pari
è la capacità dello stomaco e lo sviluppo dell'addome. Il Thompson,
parlando de' boschimaui, dice cbe essi hanno « lo stomaco simile
a quello delle bestie feroci tanto per la voracità, quanto per l'at-
titudine a sopportar la fame. » Né può essere diversamente. I
pasti dell'uomo primitivo non potevano aver luogo con la regola-
rità con cui si succedono quelli dell'uomo civile: ora egli poteva
riempire il sacco ed ora doveva per necessità trascinarsi con
la pancia vuota. Aggiungasi che i suoi alimenti erano poco
nutritivi, così che se ne richiedeva molta quantità per fornirgli
le sostanze necessarie alla propria conservazione. Per il che
il grande sviluppo addominale, come quello che osservasi, p. e.,
presso gli Akkà, era un carattere derivante necessariamente dalle
condizioni in cui viveva l'uomo primitivo. Tali proprietà ana-
tomiche e fisiologiche dovevano renderlo in generale meno forte
dell'uomo civile, sebbene per certi rispetti i selvaggi, che in parte
ne sono la riproduzione, manifestino maggiore vigore corpo-
rale. Il difetto di una sana e corroborante alimentazione non po-
teva ingenerar la forza, né produrre lo sviluppo del sistema ner-
voso e delle facoltà mentali, del che scorgonsi molte riprove fra
i selvaggi visitati da' viaggiatori. Il Galton e l' Anderson hanno,
p. e., osservato che fra i Da mari non riuscì loro di trovare al-
cuno che si potesse, per la forza, comparare alla media de' loro
vigorosi Inglesi.
Quando dalle indagini su i caratteri fisici dell'uomo primi-
tivo passiamo a quelle concernenti le sue emozioni, noi vediamo
mancarci un elemento dell'analisi, qual é quello fornitoci dagli
avanzi ossei, ma vediamo sorgerne un altro, che, interpetrato per
bene, può esserci di molto aiuto. Dicesi che il selvaggio abbia lo
spirito di un fanciullo con le passioni di un uomo. Lo studio
psicologico del fanciullo ci può dire qualche cosa intorno alle
emozioni del selvaggio o dell'uomo primitivo, e la legge di evo-
luzione conferma che l'individuo civile attraversi fasi rappresen-
tanti quelle percorse dalla razza. La sua fanciullezza, psicologi-
camente considerata, è in gran parte immagine della infimzia
dell'umanità. Connettendo adunque quello che negli odierni sel-
vaggi si osserva con quello che si osserva ne' nostri fanciulli facendo
la dovuta parte alle emozioni che si ricevono per accumulata tra-
smissione ereditaria, in una parola interrogando i fatti con la legge
dell'evoluzione, é possibile farsi un'idea abbastanza esatta dell'uomo
preistorico affettivo e anche dell'uomo primitivo intellettuale.
LE NOSTRE ORTGINI. 453
Le emozioni dell'uomo piiinitivo limino dovuto somigliare
molto non pure a quelle de' selvaggi e de' fanciulli, ma anche a
quelle delle scimmie e di altri animali. Eiporterò il ritratto che
il Lichtenstein ha fatto di un hoschimano, cioè di un individuo
appartenente appunto a quella razza che rappresenta uno de' più
bassi gradini dell'umanità e che perciò ricorda meglio il primi-
tivo tipo dell'uomo. La mobilità fisica e affettiva vi si trovano
scolpite. Dopo aver detto che quel boschiinano somiglia a una
scimmia, continua così: «Ciò che rende maggiormente vero un
tal paragone è la vivacità de' suoi occhi e la mobilità delle sue
sopracciglia, le quali egli inarcava o abbassava ogni volta che
mutava posa. Parimente movevansi in modo involontario le sue
narici, gli angoli della bocca, gli orecchi, ed esprimevano così il
rapido passare da un desiderio ardente ad una diffidenza so-
spettosa... Allorché gli si dava una cosa da mangiare e' si levava
a metà, stendeva la mano con diffidenza, se ne impadroniva solle-
citamente e la gettava nel fuoco, volgendo intorno i suoi piccoli
occhi penetranti, come se temesse che non glie la togliessero di
nuovo. Codesti atti erano accompagnati da sguardi e da gesti che
voi avreste giurato essere interamente copiati dalle scimmie. »
(Capo VI).
L'indagine, fatta nel modo detto di sopra, conduce lo Spencer
a concludere che l'uomo primitivo era di primo moto, impre-
vidente, insofferente di freni, infantile nelle manifestazioni della
sua gioia. Il suo sentimento della proprietà era molto rudi-
mentale, nuova prova che chi spinge la società verso il comu-
nismo la risospinge inconsapevolmente verso lo stato selvag-
gio e primitivo delle razze umane. Fra i sentimenti che lo
Spencer chiama ego-altruisti , cioè intermedi fra l' egoismo e
l'amore del prossimo o altruismo, troviamo la smania di piacere
agli altri e di ottenerne l'approvazione, onde l'opinione pubblica
predominava in guisa da tener le veci di legge e di tribuna e,
il che presuppone invero che l'uomo primitivo sia già uscito
dallo stato eslege ed entrato in quello della solidarietà sociale.
Il Wallace, che è vissuto fra le società selvagge dell'America
meridionale e orientale, conferma quella indagine, secondo la
quale lo stato civilissimo si differenzierebbe da quello barbaro
non mica perchè nell'uno predomini un sentimento ego-altruista
e nell'altro l'assoluto egoismo arbitrario, ma per la natura dei
costumi e delle idee che la sociabilità ispira e impone all'indi-
viduo. Vedendo che ancora nel nostro secolo uomini e donne si
454 LE NOSTRE ORIGINI.
tingono baffi, capelli, guance, ocelli, la1)bra, si potrebbe credere
che neanche questa differenza esista fra il nostro stato civile e
quello selvaggio; ma pensando che l'opinione pubblica non im-
pone pili l'omicidio come riparazione individuale, la mutilazione
come religione, il suicidio come dovere coniugale e simili, noi ci
riduciamo a credere che, quanto a' sentimenti, un qualche pro-
gresso r uomo abbia pur fatto e che gli abitanti della civilis-
sima Europa non siano poi tanto vicini allo stato bestiale del-
l' umanità.
Mentre alcuni fatti lasciano credere che appresso i selvaggi
l'amore alla prole sia grande, altri debbono farci pensare che sif-
fatto amore sia una così strana passione da rendersi, pe' suoi ef-
fetti, non distinguibile dal piìi feroce odio. Ammirevole quella loro
tenerezza che conduce così facilmente all'infanticidio! 11 padre
ammazza il figlio solo perchè questi si è lasciato cadere un oggetto
dalle mani. Lo Spencer vi scopre un effetto dell'impeto, connaturale
a' selvaggi; ma vi si potrebbe eziandio scoprire l'effetto del più
freddo egoismo. L'infanticidio di fatto incontrasi nello stato selvag-
gio quando i genitori non hanno come alimentare o come trasportare
i fanciulli, e persino quando hanno bisogno di grasso per aescar
l'amo. Non parliamo neanche della facilità con cui li vendono per
procacciarsi qualche bazzecola. Oh quanto le più feroci bestie sono
per questo rispetto superiori all'uomo, a questo re della creazione,
a questo semideo pel quale l'universo nacque e si evolve ! Ma lo
Spencer, che in questi fatti non ha riconosciuto che una manife-
stazione irregolare dei sentimenti altruisti, che una delle mol-
teplici contraddizioni in cui muovonsi gli affetti de' selvaggi, trova
nel cattivo trattamento della donna la prova risolutiva che in essi,
e però nell'uomo primitivo, la tendenza altruista è fiacchissima.
Ed ha ragione: il principale indizio del sentimento umanitario è
l'affetto rispettoso per la donna.
Una osservazione che parrà curiosa agli uomini politici è
questa: l'uomo primitivo è altamente conservatore. Peccato che
nella Camera italiana non vi siano parecchi uomini primitivi !
Tale carattere è conseguenza del precoce sviluppo fisico» a cui
succede una rapida sosta, perchè il sistema nervoso non ha più
la plasticità necessaria per modificarsi e adattarsi a nuovi usi.
Il medesimo carattere incontrasi presso gli uomini non inciviliti,
presso le nostre classi ignoranti e anche presso una parte della
gente colta. Che direbbero coloro i quali si rifiutano ad ogni pro-
gresso nella religione de' loro padri, se sapessero che i negri
LE NOSTRE ORIGINI, 455
Hiissa dicono per l'appunto « questa cosa conviene a me perchè
conviene a mio padre ? »
L'induzione e la deduzione concorrono a farci pensare che
l'uomo primitivo, considerato in rapporto all'intelletto, non aveva
e non poteva avere che idee particolari rispondenti al ristretto
giro della sua esperienza, ma non idee astratte e sintetiche, la cui
elaborazione è correlativa alla conoscenza di fatti generali. I suoi
sensi erano acuti e il suo percepire pronto, come gli odierni selvaggi
attestano ; ma il loro spirito era conficcato nel particolare. Quello
che il Palgrave dice de' Beduini, cioè che sono « eccellenti osser-
vatori superficiali » si può dire dell'uomo primitivo, ed anche dei
nostri contemporanei, dediti a quel genere di scienza rudimentale
che consisto nella esteriore cognizione del puro fatto particolare.
In quella vece l'intelligenza veramente sviluppata e superiore pog-
gia alla cognizione di quelle verità cardinali che dominano i fatti
particolari. La medesima ristrettezza dell'esperienza e della mento
produceva la nessuna previsione de' risultati lontani e la nessuna
mutabilità nelle credenze acquisite. Fa duopo abbracciare una
lunga serie di fatti antecedenti e conseguenti, e un vasto campo
di esperienze eterogenee e contradditorie per diventare preveggente
del lontano futuro e progressivo nelle modificabili credenze. È
in verità molto naturale, ma poco provvidenziale questo spirito
conservatore dell'uomo primitivo e del selvaggio : l'uomo è più
incatenato quando avrebbe maggior bisogno di camminar libero !
E quando la locomotiva corre e fa sessanta chilometri all'ora, l'uo-
mo si affatica a darle una velocità vertiginosa che può gittarlo
nell'abisso !
La incapacità di astrarre dai fatti particolari l'idea gene-
rale toglie all'uomo primitivo la cognizione delle cause reali
de'fenomenr, ed apre la porta a tutti quei fantasmi de' tempi origi-
nari, i quali sono appunto prodotti, come vedremo, dalla falsa
estensione data ad un fatto particolare malamente interpretato.
Non progredendo esso nella via della generalizzazione, o meglio
progredendovi in modo lento e insensibile, non poteva scoprire
l'uniformità dell'ordine naturale, di sotto alla variabile successione
dei fenomeni. Ci volevano le misure comparative per constatare
l'uniformità dell'ordine naturale e ci volevano molti risultati misu-
rati per elevarsi all'idea della legge. Il pensiero dell'uomo primi-
tivo era dunque debole, come il suo cervello era più piccolo di quello
dell'uomo civile, e mancandogli la forza di segregare nuove idee
non poteva non avere il genio imitativo simile a quello delle scira-
456 LE NOSTRE ORIGINI.
mie. La tendenza a sciniraiottare è osservabile non solo presso i sel-
vaggi odierni, ma anche presso le nostre classi inferiori e presso
i dappoco delle classi superiori. Non avendo l'uomo primitivo la
nozione dell'ordine naturale, non poteva avere quella antitetica del
disordine. Inetto a distinguere l'ordine dal disordine, esso, al pari
del fanciullo, non si sorprendeva alla vista di ciò che esce dall'or-
dine naturale, prestava facile credenza a qualsiasi impossibile fin-
zione e si formava un mondo di assurde credenze, che poi si fissarono
si trasmisero ereditariamente e vivono ostinatamente anche nel cer-
vello di molti uomini odierni, che si reputano colti e illuminati.
Non maravigliandosi di ciò che è innaturale, non poteva avere la
curiosità degli intelligenti, e accettando come buona qualunque as-
surda spiegazione, non poteva avere quello spirito critico e scettico
che è la condizione preliminare per scoprire il vero. Molti esempi at-
testano che la curiosità e lo spirito di esame incontransi pure ap-
presso i selvaggi ; ma, se ben si osserva, scorgesi che gli esempi
riferisconsi in buona parte a razze meno inferiori, come per es. quelle
maleso-polinesiache. 1 boschimani, che riproducono molto i carat-
teri dell'uomo primitivo, non mostrano alcuna curiosità di sapere
come accada uno de' fatti che per essi deve essere immensamente
strano, cioè la riflessione di sé nello specchio. Ne ridono, ma non
più che tanto, come soglion pure fare, in casi simili, gli indi-
vidui stolidi delle razze civili. Del resto quella viva curiosità che
mostrano i selvaggi e i fanciulli potrebbe essere un effetto dell'ere-
dità, ed uno dei casi da' quali mal s'indurrebbe il carattere intellet-
tuale dell'uomo primitivo. Onde è un vero assurdo il credere che
l'uomo, sin dai primissimi tempi della sua esistenza, sia soggia-
ciuto all'anelito di risolvere i grandi problemi religiosi.
Le poche cose che ho esposte sull'intelletto dell'uomo primi-
tivo ci aprono la via a parlare del sistema delle idee da codesto
intelletto generate. Tale sistema è diametralmente opposto a quello
della scienza, ma è pienamente consono a quello della religione, .
anzi è la religione stessa, come è stata sinora generalmente in-
tesa. La sua razionalità consiste solo in questo : le conclusioni
che l'uomo primitivo traeva dalle premesse erano necessarie, cioè
conformi al ristretto giro della sua esperienza e al rudimentale
sviluppo della sua intelligenza. L'idea della passeggiata del sole
attorno alla terra era una deduzione necessaria e però razionale,
poste le cognizioni astronomiche dei tempi in cui nacque. Con la
consapevolezza di questa identità delle leggi del pensiero, e della
LE NOSTRE ORIGINI. 467
differenza fra quello che è razionale e reale per lo scienziato e
quello che è razionale e reale per l'uomo primitivo, lo Spencer si
pone ad analizzare, a spiegare e coordinare il sistema delle idee
primitivo. Egli vi si adopera con raro acume ; ma non si accorge
che la ricerca della genesi di tutte le idee religiose e la spiega-
zione naturale che ne dà, è la negazione di quella teoria sull'ar-
monia fra la scienza e la religione, che egli premise ai suoi Primi
Frincìpii e che io ho combattuto nello scritto intorno oXV Azione
della natura sulV incivilimento, pubblicato in questo periodico.
La piccola nube che comparisce su di un cielo purissimo e
a mano a mano s' ingrandisce, e la grande nube che a poco a
poco svanisce, destano nel selvaggio l'idea di qualcosa d'invisibile
che divien visibile e viceversa. Egli non ne comprende la causa,
né sa d'onde sia venuto quello che prima non vedeva, né ove la
corsa abbia trasportato la nube che vedeva; ma ciò che gli par
certo si è che le cose si trasformano, ora appaiono ed ora scom-
paiono, in somma ch'esse hanno due stati, il visibile e l'invisibile,
0, in altri termini, che nelle cose esiste una dualità. Le stelle che
brillano nella notte, poi impallidiscono e scompaiono all'alba per
ricomparire a sera, il sole che sorge e tramonta, la luna che cre-
sce e poi diminuisce e scompare, le comete, le meteore, l'aurora,
il lampo, l'arcobaleno, l'alone, il piccolo stagno formato da acqua
piovana che poi evapora, la nebbia che viene ad avviluppar la
campagna, poi si dilegua e l'indomani ritorna per ricominciar la
sua alterna vicenda, e molti altri fenomeni del medesimo genere
confermano quella credenza nella dualità, cioè nel doppio stato
di ciascuna cosa. Né egli crede che il cambiamento sia solo for-
male, ma molti fatti lo spingono a credere che sia benanche so-
stanziale, vale a dire che il passaggio dal visibile all'invisibile
rechi seco la metamorfosi della sostanza o che ogni cosa possa
esistere in due modi o stati sostanzialmente diversi. E come po-
trebbe non crederlo, quando la conchiglia fossile eh' egli vede
abbarbicata alla roccia, gli alberi petrificati e simili non gli sve-
gliano altra idea se non quella di una tramutazione della sostanza
organica in pietra? Nessuna metamorfosi, per radicale che sia,
può parergli strana e incredibile, a lui che nulla sa, che tutto
crede e che accetta per migliore la spiegazione più immediata.
Le esperienze che fa il selvaggio dell'ombra che i corpi proiet-
tano, della loro immagine riflessa nell'acqua d'un lago, di un
fiume, del mare, e dell'eco che ripete il suono, vengono a con-
fermare l'idea di quel dopino, originata come si é detto. Pel sel-
VoL. XIV, Serie II — 1 aprile 1879. 28
458 LE NOSTRE ORIGINI.
raggio 0 per l'uomo primitivo, come pel fonciullo, l'ombra è un
essere, che accompagna la persona, anzi le appartiene, ma che
in alcune circostanze se ne separa per ritornare. Non conoscendo
il modo con cui opera la luce, essi non possono avere altro con-
cetto dell'ombra, e per essi è razionale il considerarla come un
altro sé, come un oscuro essere o spirito che ci spia di giorno e
ci lascia di notte. I negri di Benin, gli [Janiki, i Groenlandesi, i
Figi forniscono esempi che riprovano tali deduzioni. Lingue di
famiglia diversa attestano appunto il significato comune delle
parole ombra e spirito, e corroborano l'ipotesi che da tali espe-
rienze abbia avuto origine l'idea del nostro duplice essere. Pa-
rimente un altro essere, visibile ma non tangibile, appare al
selvaggio r immagine che si specchia nell' acqua, e la sua idea
d'un duplicato gli si ribadisce, poiché vede persino riprodotti
i colori e le contrazioni del viso. Oltre di ciò l'immagine delle
stelle e di altri oggetti naturali nelle acque non lascia essa
credere che tali oggetti abbiano due dimore e non fa supporre
che, quando divengono invisibili, siano discesi nel profondo delle
acque? L'eco infine, che il selvaggio non può interpetrare come
la riflessione dell'onda sonora, viene da lui considerata in prima
come la voce di un'altra persona, e poi come il grido di un essere
invisibile, quando l'esperienza gli ha dimostrato che non havvi
persona visibile colà ove l'eco si fece udire. Non trovo difficoltà
a pensare che la identità delle parole ripetute dall'eco induca il
selvaggio 0 l'uomo primitivo a pensare che l'eco emani dall'altro
sé ; ma quello che soprattutto importa constatare é che l'eco con-
ferma il selvaggio nella credenza in uno stato invisibile della
persona. L'idea di questo duplice stato delle cose è, nel modo con
cui l'ignorante selvaggio la concepisce, un'aberrazione mentale:
ma, non ostante ciò, é per lui il solo razionale possibile ed è l'idea
cardinale e organatrice di tutto il sistema delle sue credenze.
L'idea della dualità, suggerita dai fenomeni del mondo este-
riore, viene anche nell'uomo primitivo risvegliata da fenomeni più
personali e a lui famigliari, come a dire i sogni, il sonnambulismo,
la sincope, l'apoplessia, la catalessia. Per l'uomo primitivo e pel
selvaggio, privo di qualunque nozione dello spirito umano, che
non può considerarlo come un'interna attività inseparabile dagli
organi, i fenomeni relativi a' sogni e al sonnambulismo debbono
venire considerati come prodotti da un altro sé, che durante
la notte abbandona il corpo e va davvero ad operare quello che
il dormiente sogna. Trattar le ombre come corpi e i personaggi
LE NOSTRE ORIGINI. 459
de'sogni come persone vive è un abito mentale ciie perdura nelle
credenze delle razze incivilite, di cui troviamo esempli nei poemi
come quello àelVIliade, negli scritti biblici degli Ebrei e nelle
allucinazioni o nelle furfanterie de'moderni spiritisti. In verità se
l'uomo primitivo, che nulla sapeva dello spirito, non si fosse spiegato
il sonno, il sogno e il risveglio con l'idea che l'altro sé, fors' anche
quell'ombra che di giorno lo accompagnava, quella immagine che
nell'acqua gli si affacciava, abbandonava la persona e poi le si
ricongiungeva, sarebbe rimasto privo di qualsiasi spiegazione
conforme alla sua esperienza e noi non potremmo trovare alcuna
ragione naturale delle sue credenze. In quella vece l'idea del
doppio, svegliata da tutte le sue esperienze, spiega la credenza
nella temporanea migrazione dell'altro sé e la fede nella realtà
de'fatti che si compiono e delle persone che si veggono in sogno.
Tali fatti e tali persone corroborano a loro volta l'idea della
dualità, anzi io inclino a pensare che questa idea sia stata con-
temporaneamente generata da'fenomeni del mondo esterno e da
quelli dell' attività interiore dell' uomo. Le malattie infine, che
abbiamo enumerate di sopra, vennero sj^iegate allo stesso modo,
cioè come la insensibilità prodotta dal temporaneo distacco del-
l'altro sé, e la sola differenza con i sogni stette e sta nella durata
di questo distacco, il quale non parve definitivo neanche nella
morte, donde l'idea della risurrezione. Fissatasi cosi nel cervello
l'idea del doppio, l'evoluzione mentale andò gradatamente deter-
minando la natura dell'altro sé. Da prima questo venne conside-
rato come identico all'altro, cioè visibile, appetitoso, assetato e
non sempre di acqua, fornito insomma de'medesimi sensi e delle
medesime passioni ; ma a poco a poco esso si modificò, divenne
meno materiale, e l'esperienza istessa aiutò l'uomo a progredire
verso il concetto di uno stato etereo dell'altro sé o sia dello spi-
rito, I lettori rammenteranno che l'anima di Patroclo si dileguò,
quando Achille volle afferrarla. Essa non era dunque tangibile. E
se rifletteranno poi che i fatti de'sogni s'intrecciano senza rego-
lare nesso e che i personaggi che li compiono non operano secondo
le leggi del mondo naturale, entrano p. e. in una camera che ha
le porte chiuse a chiavi, percorrono in un attimo distanze enormi ec ,
si persuaderanno agevolmente come nasca l'idea di un'altra natura
piuttosto immateriale.
Ecco aperta la porta di tutto quel mondo di fantasmi in cui
viveva l'uomo primitivo, e vive ancora una gran parte degli uomini
civili del secolo XIX !
460 LE NOSTRE ORIGINI.
Le idee primitive di anima, di spettro, di spiriti, di demoni,
di angeli, e per conseguenza le credenze nell'ispirazione, la divi-
nazione, l'esorcismo, la magia, la stregoneria, che si fondano su
di un rapporto fra il visibile e l'invisibile, fra l'uomo e gli spiriti,
hanno per radice l'illusione di un doppio etereo, che va e viene,
ed ora entra nel corpo umano ed or ne esce, mediante magiche
parole e bizzarri scongiuri. Ma per eterea che si supponga la
sostanza di codesto doppio, l'uomo non può altrimenti concepirne
la esistenza che trasportando in essa le idee del mondo che lo
circonda. E qui ci torna innanzi il Feuerl)ach, il quale già diceva
e dimostrava che l'uomo crea gli dèi ad immagine propria. Lo
studio delle credenze non pure de'selvaggi, ma anche de'popoli
inciviliti dimostra positivamente così fatta concordanza di occu-
pazioni individuali e di rapporti sociali fra l'uomo e il suo dop-
pio, 0 fra la prima e la seconda vita. Le anime dei popoli pastori e
agricoltori fanno l'idillio, quelle dei popoli cacciatori inseguono la
preda e quelle dei guerrieri combattono ferocemente. E, quando
per un processo spiegabilissimo e provabilissimo, le anime degli
antenati e degli uomini superiori si sollevano cotanto dinanzi alla
memoria e all'immaginazione de' popoli primitivi da originare le
divinità e il loro culto, le passioni e le idee che a queste si attri-
buiscono non sono che le passioni e le idee di coloro che le venerano.
Nessun sistema religioso o mitologico fa eccezione a questa regola.
E quanto al sito in cui dimorano le anime dei morti, esso è pure
in rapporto con le credenze e i ricordi di una determinata razza.
Esse or popolano la vicina foresta e vi consumano le offerte ali-
mentari, che vi depongono la pietà o la paura dei fedeli ; ora emi
grano in un altro mondo, che spesso è l'originaria dimora da cui
la razza è venuta, e siccome nel viaggio di ritorno esse debbono pas-
sare il mare, tragittare fiumi, valicare monti, così i viventi la-
sciano presso la tomba canotti, cavalli, armi, danari e persino
passaporti. L'abito infine di seppellire i morti sulla vetta delle
montagne o di vederle occupate da popoli conquistatori, fa con-
siderare il cielo, col quale le alte cime si confondono, come uno
degli altri mondi, in cui menano la loro vita le anime dei
morti e quelle degli dèi. Di là esse si mantengono in rapporto
col mondo di qua, e non v'ha fenomeno inesplicabile per l'uomo
primitivo, che non sia attribuito al loro intervento. Naturalmente
sorge allora il desiderio di rendersi propizi codesti agenti so-
prannaturali mediante offerte e sacrifizi d'ogni maniera. Di qui
LE NOSTRE ORIGINI. 461
il culto con le sue forme svariatissime e rispondenti agli usi etl
ai costumi dei popoli. E come gli spiriti incominciano per essere
il duplicato de' viventi e finiscono per diventare celesti divinità,
cosi il culto comincia per essere un rito funebre e finisce per
diventare un rito divino. La tomba diviene altare; il suo rico-
vero, tempio; le provvigioni, obblazioni; le mutilazioni e immo-
lazioni sulla tomba, omicidi a pie dell'altare; l'astinenza per ri-
spetto a' morti, digiuno per timor degli dèi; le visite alle tombe,
pellegrinaggi ai templi; gl'inni in onore dei valorosi estinti,
omaggi e preghiere agl'iddìi, i quali, fatti a immagine dell'uomo,
non potevano essere naturalmente disposti alla carità, ma dove-
vano essere piegati e rammolliti con le preghiere, con le lagrime
e col sangue d'innocenti vittime.
Come l'ombra, l'immagine e il sogno, insieme con le parvenze
fenomenali del mondo esteriore, furono la causa della primitiva
e fantastica creazione d'un mondo di spiriti, così il culto degli
antenati, cioè degli spiriti de' morti, del duplicato degli uomini,
fu il cardine di quel lavorio di divinizzazione, che creò, molti-
plicò, ordinò gli dèi a società e li sottopose ad un capo. Questo
concetto, che si può dedurre con la teoria dell'evoluzione, si po-
trebbe induttivamente dimostrare con migliaia di esempi e di fatti
ricavati dallo studio delle credenze e de' linguaggi. Tipico è quello
che si osserva presso i Tannesi, cioè che la parola che designa,
un dio vuol dire letteralmente un uomo morto. L'ombra d'un
nemico diviene un diavolo, quella di un amico un dio, e qualche
volta il dio non è altra cosa che il diavolo ; il che dinota
che i due concetti tardi sonosi specializzati. In America, dice lo
Spencer, i missionari furono costretti a servirsi della parola dia-
volo come la sola acconcia a designare dio. Nel greco, egli ag-
giunge, tali parole sono equivalenti. E che la radice delle divi-
nità stia nella credenza agli spiriti degli antenati, agli spiriti in
genere, si scorge anche dai classici esempi dell'antichità greco-
romana. I figli di Agamennone veggonsi nella tragedia di Eschilo
invocare lo spirito del padre loro come un dio, e i Komani si
servivano della parola deus per indicare indistintamente o un dio
o uno spirito. Anclie presso gli Ebrei la parola eloliim significava
dio e spirito, e il Kuenen osserva non esservi alcun dubbio che
in origine gli esseri superiori, gli oggetti che incutevano paura
all'uomo (eloah) erano chiamati eloliim.
Dal culto per lo spirito degli antenati, dalla venerazione pei
462 LE NOSTRE ORIGINI.
loro corpi, i quali si cercò di conservare affinchè i loro eterei du-
plicati potessero al loro ritorno trovarli intatti, al culto per le
loro immagini e per tutto ciò che loro apparteneva o ch'eglino
potevano prohabilmente frequentare, il passo è breve. Anche noi
moderni, se siamo dominati da spiritiche credenze, crediamo in
alcune circostanze di veder muovere e rivivere il ritratto d'un
nostro antenato. Pensate un po' quel che doveva accadere quando
le fantasie erano gagliardamente agitate e commosse! Le imma-
gini più imperfette e rudimentali dovevano parere animate dallo
spinto della persona rappresentata, e l'uomo doveva religiosa-
mente adorarle e prostrarsi dinanzi ad esse, se la credenza nello spi-
rito di un uomo superiore erasi in lui trasformata in quella di
un dio soprannaturale. Parimente con religioso terrore doveva
l'uomo guardare ogni oggetto, il quale, o per avere appartenuto
al morto o pel suo carattere straordinario o per qualsiasi acci-
dentale somiglianza e strano rapporto, era presumibile fosse vi-
sitato dallo spirito di un morto, od ospitasse un dio. Di qui
l'idolatria e il feticismo, che non sono così primitivi come in ge-
nerale si crede, poi che non possono esistere senza che l'uomo sia
assediato e conquistato da' fantasmi spiritici. Or se il culto per
un oggetto inorganico, per la più orrida pietra trova una spie-
gazione cosi naturale, che cosa non accadrà per i prodotti del
mondo organico, per le piante e gli animali ? Il loro culto ha la
medesima genesi, aiutata dalla facile credenza nelle metamorfosi
e dagli errori derivanti da un linguaggio imperfetto. Noi moderni,
i quali nella fcirfalla che ci gira intorno e persino nella schifosa
mosca che ostinatamente ci tormenta, immaginiamo esista l'anima
di un estinto, non possiamo rifiutarci a concepire la facilità con
cui l'uomo primitivo vedeva negli animali che frequentavano le
dimore de' vivi e de' morti la trasmigrazione delle anime nel
■ trarautamento delle forme. Oh quanto il vecchio uomo vive ancora
in certi nostri abiti psicologici ! Volendo citare un esempio
fra migliaia, scegliamo quello del famoso serpente, che più
di ogni altro animale s'insinua nelle abitazioni degli uomini
in Asia, in Africa, in America, e che perciò quei popoli con-
siaerano a preferenza come la forma prescelta dallo spirito
del morto per visitare e anche per mordere i vivi. La divi-
nizzazione dello spirito di un antenato reca seco, per logica
conseguenza, quella dell' animale in cui ha preso forma no-
vella. Oltre di ciò, i soprannomi di toro, leone, gran leone, ti-
gre, ecc. che agli eroi si davano, confondevansi a poco a poco con
LE NOSTRE ORIGINI. 463
l'antenato da lunga pezza disparito, e quelle genti che da lui
discendevano finirono per stimarsi progenie di l^oni, di tori, di tigri.
Chiarissima diviene così l'origine degli animaleschi iddii, di tutte
quelle variazioni del medesimo motivo che furono gli dèi mezzo
uomini e mezzo bestie. Nella stessa confusione delle menti pri-
mitive sta il bandolo per dipanar la matassa. La genealogia dei
re ascianti ci dice che il loro progenitore era i;n serpente vele-
noso chiamato Bora; ma Bora era pure un legislatore, un capo,
una persona umana. La leggenda passa con questo doppio Bora
a' posteri, i quali non potranno non pensare che Bora fosse ser-
pente e uomo, e se dovranno raffigurarlo graficamente non è me-
raviglia che ce lo rappresenteranno come un essere mezzo uomo e
mezzo rettile. Il vittorioso Eadama in fatti, che ora è chiamato toro
potente, ora uomo ed ora dio, diviene il dio Kadama, rappre-
sentato or come un uomo con la testa di toro ed or come un toro
con la testa di uomo. La spiegazione di questi fatti è per lo
Spencer assai più chiara, più semplice, più naturale di quel che
non pensino i mitologi con il loro raffinato, complicato e conven-
zionale simbolismo. Il simbolo si rattrova soltanto nel nome del-
l'animale che all'uomo si dà, perchè la forza, il coraggio, la fe-
rocia, l'astuzia di questo risponde ai caratteri di certi animali ;
ma non in tutti quei sistemi naturali troppo sottili che la moderna
sapienza inventa e trasporta nei tempi primitivi.
Ciò che si è detto del culto per gli animali vale pel culto
di qualsiasi obbietto e di qualsiasi forza della natura. Il culto
per gli antenati è sempre il perno del culto pe' monti, pel mare,
per le stelle, per la luna e pel sole, e gli avvenimenti che si at-
tribuiscono a questi oggetti personificati hanno per causa la con-
fusione delle idee e gli errori del linguaggio. Le genti che ve-
nivano da un sito montuoso o silvano eran chiamate « figli dei
monti 0 delle selve > e anche figli di quella particolar montagna
0 di quella particolare selva; i conquistatori che movevano dal-
l'oriente, cioè dal paese ove il sole si leva, furono chiamati « figli
del sole. » Oltre di ciò, il capo di una tribù, l'illustre guerriero,
la regina da' dorati capelli, la fanciulla dagli occhi vividi, ecc. ri-
cevettero i nomi di sole, di aurora, di stella e simili. Se abbiamo
la facoltà di trasportarci in quei primitivi tempi, ne' quali ogni
stranezza ed ogni confusione diventavano possibili, noi non pene-
remo ad ammettere che la venerazione prima e il culto poi per
gli antenati e pel loro spirito si confondeva e identificava con
quello degli oggetti naturali di cui riportavano i nomi, e che la
464 LE NOSTRE OEIGINI.
leggenda tessuta intorno all' avo si trasportava e applicava alle
vicende della terra e de' cieli. Questo modo di spiegare il culto
della natura rende evidente la differenza che corre fra il punto
di vista de' mitologi e quello dello Spencer. Secondo i mitologi
l'uomo adora prima le forze della natura come impersonali, le
personifica poi applicando ad esse alcuni caratteri inerenti alle
parole con cui le designa, e infine crea le leggende sulle persone
identificate con le forze. Secondo lo Spencer la personalità umana è
l'elemento primitivo, l' identità del nome fra la persona e 1' og-
getto che glielo ha imprestato produce la confusione e la iden-
tificazione infra loro, e di poi nasce il culto per la forza o per
l'obbietto personificato. Il sistema dello Spencer è adunque un
evemerismo rinnovato, corredato della grande quantità di fatti
che le odierne ricerche forniscono, e illustrato da una mente
perspicacissima. Col rigettare interamente le spiegazioni dei mi-
tologi, col negare che la tendenza personificatrice dell'uomo pri-
mitivo funzionò pure in modo indipendente dal culto per gli an-
tenati, col non riconoscere che i miti non sono stati prodotti
solamente mediante il trasporto delle gesto umane dall'antenato
agli oggetti naturali, ma anche con un processo opposto e con la
confusione de' due processi, lo Spencer ha guardato il mondo mi-
tologico da un punto di vista esclusivo. Non ostante ciò, il suo
sistema contiene la maggior parte del vero, e comprende le spie-
gazioni pili chiare, più plausibili e più provabili intorno alle
origini del mondo delle idee primitive. Movendo dal nostro altra
viaggiatore, passando pel medesimo doppio che ci abbandona con
la morte e che gradatamente diviene uno spirito prima tempo-
raneo e poi indistruttibile, egli perviene a quella società sempre
più numerosa di esseri soprannaturali che riempiono lo spazio e
sono gli autori di tutte le cose inesplicabili, di tutti i fenonemi
non fiimiliari alla rudimentale intelligenza dell'uomo primitivo.
« Poiché il divino e il superiore sono idee equivalenti per 1' uomo
primitivo, poiché 1' uomo che vive e lo spirito che ritorna non
formano da principio che una medesima cosa nelle sue credenze ^
poiché le parole spirito di un morto e dio sono alle origini ter-
mini sinonimi, é facile comprendere come il dio venga fuori, per
insensibili gradi, dall' uomo potente e dallo spirito dell' uomo
morto. » (Capo XXVI)
Dinanzi al libero e positivo esame della scienza si rende
chiara ed elidente non pure la genesi di ciascuna parte del
LE NOSTRE ORIGINI. 465-
sistema delle primitive superstizioni, ma anche il modo con
cui svolgesi così fatto sistema. La teoria dell'evoluzione verificasi
qui come in ogni altro ramo dell' attività mondiale. Il sistema
delle credenze o superstizioni passa, al pari della materia, al
pari della società, da un certo stato caotico, incoerente, o-
mogeneo, indefinito, allo stato integrato, coerente, eterogeneo,
definito, o, in altri termini, dalla semplicità indeterminata e con-
fusa alla complessità specificata, armonica, organica. Abbiamo
osservato che il numero degli spiriti, da prima stazionario, andò
crescendo continuatamente, quando la credenza alla loro immorta-
lità impedì di sottrarre gli uni mentre si aggiungevano gli altri.
Secondo che un popolo avanza verso la civiltà, ed anche sino a
un certo punto nella civiltà, il mondo degli spiriti si popola e il
panteon degli dèi o il regno dei santi si arricchisce di adorabili
persone. Non fa mestieri ricorrere all'esempio del Messico per
osservare come gli dèi crescano a migliaia: noi abbiamo l'esempio
de' Romani, che conquistavano popoli e divinità, e quello piìi
prossimo dei cristiani che santificarono un numero sempre cre-
scente di uomini. In questo semplice accrescimento della massa,
lo Spencer riconosce il fatto della integrazione ; la qual cosa
gli si può mandar buona, quando insieme all'aumento nume-
rico si verifica il processo di consolidamento e di aggruppa-
menti più coerenti delle molteplici e cozzanti superstizioni. Al-
trimenti col numero non si aumenterebbe che il caos. Le cre-
denze dell' uomo primitivo sono in fatti contraddittorie, cosi
che a noi pare inesplicabile la fede in simili assurdità; ma
con l'esperienza e col progresso, lo spirito logico le va elaborando
in guisa da farne uscire un sistema più coerente, ed anche più
differenziato, più definito. Ed è naturale sia cosi: lo svolgimento
delle credenze di un popolo non può essere che correlativo a
quello della sua vita pratica e del suo cervello. Secondo che la
società si ordina moltiplicando le sue funzioni, ma in pari tempo
assegnando a ciascuna il suo posto, secondo che la gerarchia si
forma e le attribuzioni si chiariscono, il sistema delle credenze
diviene più coerente, più specificato, più definito. Il principio della
divisione e dell'armonia del lavoro sopraintende alla evoluzione
della vita pratica e a quella della vita mentale. Se presso i popoli
più selvaggi 0 non incontriamo idee di spiriti e di divinità,
0 incontrandole, non vi scopriamo altra discinzione che quella
di buoni e di cattivi, presso i popoli più sviluppati vediamo alla
gerarchia sociale corrispondere quella soprannaturale. Con la pie-
466 LE NOSTRE ORIGINI.
cola nobiltà nascono i semidei, con la grande aristocrazia gli
dèi, e col monarcato il dio supremo. Lo Spencer, che così scruta
la genesi delle prime credenze e così discopre la legge di evolu-
zione nel processo di formazione del sistema loro, è egli quel
desso che ne' Primi Principii voleva segnare la pace a pie del-
l'altare dell'Inconoscibile, fra la scienza e la religione? Io osservai
che le religioni — almeno quelle che sinora abbiamo conosciute —
non si restringono ad ammettere la causa prima dell' universo,
non si arrestano dinanzi all'inconoscibile; ma con le loro creazioni
intendono a rivelarcelo, facendoci conoscere i particolari della sua
esistenza, quali sono a modo loro le cause dei fenomeni naturali
e sociali, e che la scienza, pure ammettendo l' Ignoto, scopre la
falsità delle superstizioni religiose. Di questo, ella dice alla reli-
gione, io non so il vero, ma so di certo cbe quello tu dici non
è il vero. Il primo volume della Sociologia dello Spencer è la ri-
prova della verità della mia osservazione ed è per tanto la ne-
gazione della possibilità di conciliare la scienza e la religione,
vagheggiata nei Primi Principii. Certo se la religione restringesse
il campo suo ove la scienza non penetra e forse non mai potrà
penetrare con i suoi istruraenti e con le sue evidenti prove, una
pacifica convivenza, se non una piena pace, sarebbe possibile; ma
le religioni non sono mai state così modeste e non accennano a
volerlo diventare. Esse pretendono creare tutto un mondo di sog-
gettive credenze, con le quali vogliono governare la vita pratica
e regnare su di questo mondo. Nessuno meglio dello Spencer ha
saputo ricostruire l'uomo primitivo e il sistema delle sue credenze,
e nessuno è stato più di lui ardito nel ricercare la genesi natu-
rale di quel sistema, che tuttavia domina sullo spirito dell'uomo.
Ora, scoprirne 1' origine gli è dimostrarne in modo irresistibile
la falsità. La religione ci dice che la sua origine è soprannatu-
rale, ma la scienza ci dimostra che quel soprannaturale è il na-
turale, interpetrato dal vuoto cervello dell'uomo primitivo e poetiz-
zato dalla sua eccitata fantasia. La forza dell'eredità e dell'abi-
tudine ci fa continaare a credere alla realtà de' sogni, ci preclude
la vista della verità e ci toglie le virili consolazioni che derivano
dal ricercare in essa il sostegno contro le traversìe della vita.
Solo ricercandolo in essa 1' uomo si rialza e si rassegna, perchè
la conoscenza delle leggi naturali lo invita alla calma e alla pa-
zienza, dove che il sistema delle superstizioni non può che gettare
la disperazione nel cuore di chiunque abbia un cervello logico.
LE NOSTKE ORIGINI. 467
VI.
Epilogo intokno allo stato antistorico.
Kiepilogando quello che si è detto intoi-no airuoino preisto-
rico, mi studierò di aggiungere qualche altra osservazione, sotto
forma di risultati dell'analisi, per rendere meno incompiuto lo
schizzo di quei tempi, che non si possono conoscere appieno senza
un esame critico più diffuso di tutti gli usi, costumi e credenze
degli attuali selvaggi e harbari, e senza il minuto esame delle
tradizioni leggendarie de' vari popoli storici. Questo ultimo esame
oltrepassa la soglia de' preliminari generali della scienza istorica,
a' quali mi voglio arrestare in questi articoli, e forma oggetto
degli speciali capitoli che precedono la storia di ciascun popolo.
Lo stato antistorico è, come si è veduto, medesimamente an-
ticivile, e distinguesi in brutale, selvaggio e barbaro, i primi due
più vicini allo stato così detto di natura, il terzo allo stato civile,
ma separati da minor distanza che non interceda fra lo stato
barbaro e il civile. Graduale è la transizione dall'uno all'altro
stato, del pari che la evoluzione dal comune stipite dei pri-
mati all'uomo; ma come lo specificarsi della forma umana segna
nell'ordine dei primati il passaggio dalle famiglie inferiori a quelle
superiori, così il nascimento dello stato civile segna nella vita
dell'umanità il passaggio da' gradi inferiori a quelli superiori, a
quelli che sovranamente contraddistinguono la nostra specie dalle
altre specie animali. I rami dell'albero, che simboleggia l'ordine
dei primati, andavano divergendo con gli stati preistorici e si allonta-
nano incommensurabilmente Hallo stato civile. Fra l'animale e l'uomo
civile, senza più esservi l'infinito, permane l'immensa distanza.
È adunque il complesso delle attività coscienti e progressive, orga-
nate e svolgentisi nello Stato, e non la semplice religiosità, come
pensa il Quatrefages, quello che costituisce davvero il regno
umano. Negli stati preistorici possiamo dire che questo regno
sorga e si elabori ; ma esso non ancora è. Sono stati che tramez-
zano fra due regni, e però mentre non sono più interamente l'uno,
non sono ancora interamente l'altro. Le differenze naturali che
distinguono la famiglia umana dalle rimanenti famiglie de' pri-
mati, non grandi o almeno non tali pei nostri limitati mezzi di os-
servazione, divengono grandissime ne' prodotti derivanti dall'eser-
468 LE NOSTRE ORIGINI.
cizio delle loro funzioni ; e però non ci consentono di affermare la
esistenza di un vero e proprio regno umano, se prima tali pro-
dotti non si accumulino e coordinino nell'organesimo civile. In breve,
se l'uomo fosse rinìasto confitto nello stato antistorico, non avrebbe
neppur sognata l'esistenza di un regno umano : il sole della ci-
viltà gli ha fritto sentire, e giustamente sentire, la dignità del-
l'esser suo.
Quanto alla religiosità, di cui il Quatrefages, con la scuola
teologica, vorrebbe fare il contrassegno peculiare della umanità,
noi abbiamo già osservato che tale contrassegno non sempre esi-
ste 0 non sempre è bastevole ad assicurare all'uomo un posto da
sovrano. Sonvi animali idolatri come vi sono selvaggi sforniti di
religione. Dei primi ci ha recato un esempio il Purchas, che nel
suo Pellegrinaggio, e propriamente nella sesta parte del capitolo
sulle avventure di Andrea Battei, parla delle idolatrie delle
scimmie, dette Pongo. Dei secondi abbondano gli esempi, fra i
quali ricorderò quello degli abitanti della Nuova Olanda. Ecco
come li descrive il Bory de Saint- Vincent: « Senza religione, senza
leggi, senz'arte, essi vivono a coppie, nel più misero stato e privi
di qualunque legame sociale. Non hanno coscienza della loro nu-
dità, non case e neanche rudimentali capanne: a mala pena sanno
costruire una specie di paravento contro la pioggia, che del resto
sopportano con istupida indifferenza: a mala pena sanno accen-
dere il fuoco per cuocere le loro lucertole o i loro datteri ma-
rini, unica loro caccia, perchè, per semplice che sia l'arco, persin
d' esso ignorano l'uso e non hanno altra arme che la lancia, la
clava e il ben noto giavellotto. » Ed ecco genti selvagge, che il
Quatrefages o deve porre nel regno umano, quantunque non ab-
biano la religiosità, o, non potendolo fare, dovrebbe porre addirit-
tura in altra famiglia non umana deW'ordine dei primati, quan-
tunque abbiano ben diversi caratteri anatomici e fisiologici. Per
chi non voglia fondarsi sopra un carattere esclusivo e non gene-
rale, qual è la religiosità, selvaggi come quelli appartengono già
alla famiglia umana dell'ordine de' primati; ma non appartengono
a quelle razze superiori e civili, che costituiscono il regno umano
altamente inteso, a quelle razze superiori e civili che sono il pro-
dotto di una trasformazione secolare e profonda, per opera della
quale si potrebbe dire che l'uomo civile non pure si spicca dal-
l'ordine dei primati e l'oltrepassa, ma perviene a costituire nella
storia il regno propriamente umano della Cultura. Stato e Cultura
sono per me le due forze essenziali dell'umanità, le due manife-
LE NOSTRE ORIGINI. 469
stazioni, oggettiva e soggettiva, pubblica e individuale, della co-
scienza progressiva della società e dell'individuo; le due forze
fondamentali intorno a cui tutte le attività si aggruppano; le due
forze costituenti il regno umano della Civiltà. L'uomo emana dalla
natura, vi appartiene, continua ad appartenervi persino quando
diviene civile e storico; ma nello Stato e con la Cultura perviene
a crearsi una propria sfera di azione, un proprio mondo, un pro-
prio regno. Il concetto die io espongo è la sola e vera àncora di
salvezza della dignità umana. Se è falso, a noi non resta che ripiom-
bare negli abissi dell'animalità, perchè le altre àncore o sono spez-
zate o sono fragili. Ma esso non è falso, per fortuna, e gli stessi uomini
nobilmente religiosi potrebbero finire per acconciarvisi, perchè io,
senza vagheggiare, come lo Spencer, impossibili conciliazioni fon-
date sull'equivoco, considero la religione come una prima forma
di rudimentale cultura, come una potenza che lavora a trarre lo
spirito fuori della bassa materialità, come una forza che si svolge
con l'arte e con la scienza, dalle quali ritrae il personificare imma-
ginoso, i templi, le svariate creazioni del culto, la bellezza in
somma delle forme e la idealizzazione del contenuto, ed alle quali
porge il sentimento del bello e dell'infinito. La religione, in fatti,
che come terrore per le forze naturali e umane, come culto pei
morti, come indistinto e timido sentimento del mistero delle selve
e degli astri, della natura astronomica, vegetale, animale nasce
prima dell'arte, si accompagna poi con questa, e infine con l'arte
e col pensiero scientifico procede per linee, la cui direzione ge-
nerale è parallela, ma che ciò non ostante ad ogni momento s'in-
contrano, si urtano, si compenetrano, per ripigliar di nuovo la
loro rotta indipendente. Così l'una forza opera sull'altra e tutte
e tre costituiscono le svariate forme della cultura, le forme pro-
dotte dal sentire, dall'immaginare, dal pensare dell'umanità. I
primi sentimenti e anche le prime soluzioni dell'umanità, il con-
tenuto cioè delle religioni originarie, riceve dall'arte il potere di
svilupparsi con le sue forme plastiche e all'arte fornisce un ma-
teriale che questa rielabora, e riceve dalla scienza il potere di
sollevarsi nella regione di più ideali concetti e di più umanitari
sentimenti. Un profondo esame del Cristianesimo ci deve rendere
accorti che non pure il sentimento spontaneo, ma anche l'azione
del sapere indiano e alessandrino contribuirono a far salire la
religione ad un grado più alto della sua evoluzione storica. Que-
sto fatto, mentre invita tutti, sacerdoti, artisti, letterati, scien-
ziati, alla tolleranza ed al rispetto reciproco, e ci fa presentire
470 LE NOSTRE ORIGINI.
quello che la medesima religione ritrarrà dal presente movimento
scientifico, pel quale sinora non ha che stolte bestemmie, d'altra
parte ci fa persuasi che la idealizzazione e la spiritualizzazione
della religione accadono ne' tempi storici e civili, accadono cioè
per opera dello sviluppo artistico e scientifico in uno Stato or-
dinato e progressivo. La religiosità, adunque, veramente degna
dell'uomo, quella che si vorrebbe considerare come il suo pecu-
liare contrassegno, è un prodotto dello stato civile, la cui idea
complessa contiene il modo più razionale per affermare il nobile
carattere dell'umanità.
Come all'esclusivo fattore della religiosità va sostituita la
potenza della cultura per contraddistinguere il regno umano, cosi
alla sociabilità, altro fattore escogitato al medesimo fine, deve
andar sostituito lo Stato. La sociabilità è l'attitudine a vivere in
società ed è riputata una dote speciale dell'uomo. Nella sociabi-
lità lo Spencer riconosce la distinzione fra i fenomeni della
evoluzione organica, cioè della vita individuale fisiologica e psico-
logica, e i fenomeni della evoluzione sopraorganica, com'egli la
chiama, cioè quella in cui non si tratta più della nascita, sviluppo
e decadenza dell'organismo individuale, ma delle azioni coordinate
di molti individui. Lo Spencer però non ciide nell'errore di cre-
dere che i fenomeni sopraorganici comincino con l'uomo. A lui,
che tutto sa, non potevano sfuggire e non sono sfuggiti i fenomeni
sociali della vita degli animali, che omai sono noti anche a coloro
che non sono addentro nella storia naturale. Vi sono specie di
animali che menano vita solitaria, specie in cui la vita sociale è
rudimentale, e specie infine che formano società con rapporti
molto definiti, con abitazioni fisse e stabili relazioni. Si sa che
presso le formiche la divisione delle occupazioni sociali è molto
avanzata, e che esse costituiscono società diverse secondo che ana-
tomicamente diversi sono gl'individui. Le formiche bianche hanno
operai e soldati, altre formiche hanno operai sedentanei ed operai
attivi, e molte dividonsi in padroni e schiavi. Oltre di ciò, fra i
membri di queste società regna un sistema di segnali, che può
venire paragonato a informe linguaggio, e da essi eseguonsi
lavori e costruzioni da superare, per metodica abilità, quelli degli
abitanti del paese. Così dice il Tuckey del villaggio di formiche,
trovato al Congo. E lo Schweinfurth aggiunge che ci vorrebbe un
volume per descrivere i magazzini, le camere, i ponti contenuti
in una accolta di termiti. Né questo è il più alto grado di
evoluzione sopraorganica, a cui gli animali pervengano. È piut-
LE NOSTRE ORIGINI. ^'^^
tosto la forma della vita patriarcale, perchè le associazioni delle
formiche sono formate da una o più generazioni di rampolli di
una medesima madre, che fa da regina, di guisa che le diverse
classi e funzioni derivano soltanto da differenze nella struttura.
Se si vogliono esempi di più sviluppato coordinamento sociale, è
duopo andarli a cercare nella vita degli uccelli e de' mammiferi.
« Presso alcuni primati, dice lo Spencer, non si trova soltanto
la vita a branchi, ma osservasi pure un certo coordinamento, una
certa coalizione, una certa espressione di sentimenti sociali. Essi
obbediscono a capi, combinano i loro sforzi, pongono sentinelle
per dare l'allarme, hanno qualche idea di proprietà, praticano un
po' lo scambio de' servigi, adottano ortani, infine l' inquietudine
che s'impadronisce della società la spinge a soccorre i suoi membri
pericolanti. »
L'evoluzione sopraorganica è adunque cominciata nel regno
animale, e però la sociabilità non basta a creare un regno umano,
se non è intesa in ispecial modo. La società dei tempi preistorici,
sebbene raggiunga un grado assai più alto dell'evoluzione sopra-
organica a cui possa giungere il più perfetto fra i primati inferiori
all'uomo, pure, a parer mio, è ancora troppo eslege per costituire
davvero il regno umano. Per riuscirvi è necessario che le attività
individuali operino, si coordinino e si svolgano in quell'organesimo
legale, che si chiama Stato. Trovo maggior differenza fra la so-
cietà preistorica e quella civile, che non fra la prima e quella
de' più alti vertebrati. Solo nella società civile i rapporti si fis-
sano stabilmente, le attribuzioni si distinguono nettamente, la
cooperazione si esplica ordinatamente, in somma la legalità e
l'ordine fortemente prevalgono. E solo in essa si fa evidente e
irresistibile il progresso delle istituzioni e della cultura. Gli studi
fatti intorno a' moderni selvaggi e barbari dimostrano che molte
e potenti forze di resistenza si oppongono al loro progredire, al
loro innalzarsi dallo stato antistorico a quello storico e civile ;
segno che l'uomo in quello stato è fieramente sbattuto dalla tem-
pesta della vita, e che non può esser sicuro di camminare verso i
suoi alti destini, se non tocca il porto degli ordini civili. Affer-
ratosi a' primi gradini di questi ordini egli può dire che, uscito
fuori del pelago alla riva, dovrà sostenere nuove battaglie nel-
l'eterno dramma della vita, ma che le sosterrà con tutti i mezzi
che sono a disposizione degli eserciti regolari. Anche questa
regolarità avrà la sua evoluzione, è vero, ma 1' uomo ha posto il
piede sul solido terreno della civiltà: esso può con buoni auspicii
472 LE NOSTRE ORIGINI.
combattere coutro la natura esteriore, contro le razze inferiori,
contro se stesso. Cultura e Stato, ripeto, sono le forze essenziali
della Civiltà, le forze costituenti il regno umano. Unificate dalla
coscienza progressiva, esse trasportano l'uomo dalla servitù alla
libertà, dalla cieca fede alla illuminata ragione, da'brutali istinti
alla conoscenza e alla jiadronanza di sé. E allora che cosa ha più
da fare il migliore edifizio costruito da' castori col Colosseo
de' nostri padri, con le gotiche cattedrali, e soprattutto con la
meccanica applicata alle costruzioni ? Il castoro ha pur dovuto
progredire, per giungere a costruire la sua mirabile dimora; ma
esso si è arrestato là, e non fa che ripetere meccanicamente le
raeclesime forme. L'uomo civile è perennemente trascinato dalla
fiumana del progresso, procede di forma in forma, e, quello ch'è
più, ha coscienza di ciò che fa e scopre le leggi dell'Universo.
Lo stato preistorico e anticivile o eslege comprende, come si
■è detto, tre forme: quella dell'uomo bruto, quella dell'uomo sel-
vaggio, quella dell'uomo barbaro ; corrispondenti alle età del ba-
stone, della pietra, dei metalli. A quel modo che con la prima
forma, rappresentata dall'uomo ferino del Vico, dall' uomo pite-
coide del Darwin, dall' Aìalus dell' Haeckel, lo stato preistorico
penetra addentro nel regno animale, parimente dalla sua ul-
tima forma si spicca un particolare modo di essere, che penetra
nello stato civile e che ha conquistato il suo proprio nome di
stato eroico. Lo stato eroico infatti, quello che ci viene descritto
tìqW Iliade, non è lo stato barbaro, oltrepassa persino le svilup-
pate forme di questo stato quale ci venne dipinto, con amorevole
cura, da Tacito; ma non è ancora un vero stato storico e legale.
« Assai noto è, dice Tacito, che i Germani non abitano in città; né
pur vogliono case a muro comune. Una qui, una qua, presso a
quel fonte, in quel campo, in quel bosco secondo aggrada. » Per
contrario i Greci dell'età eroica abitavano già in città murate,
dentro alle quali sorgevano splendidi palagi. Ammettiamo che
prima i rapsodi e poi il poeta unificatore abbiano dipinto quella
età con ideali colori; ma, oltre che qualcosa pure é tratto dal
vero, non vuoisi dimenticare che anche Tacito idealizzò i Ger-
mani, per contrapporne le vergini virtù a' corrotti costumi della
sua patria decaduta. Non volendo qui descrivere e porre a con-
fronto lo stato barbaro dei Germani con quello eroico de' Greci,
ho preso soltanto l'esempio dell'abitare, perché m' é parso deci-
sivo: da città, mediante civitas, viene civiltà, e, stando al greco,
LE NOSTRE ORIGINI, 473
da TzoXiz (città), viene anclie politica (Tr/AtTsia). Lo stato eroico era
adunque più cittadino e civile di quello barbaro: ma pur non-
dimeno non era ancora materia da storia, sì bene da poema, non
era ancora fondato su rapporti legili. Sebbene Agamennone fosse
il duce della spedizione contro Troia, Achille e i suoi compagni
facevano un po' troppo il piacer loro. Era quello stato ancor più
eslege del periodo eroico o cavalleresco della storia europea,
dopo la caduta dell'impero romano; il che è naturalissimo, per-
chè l'eroismo de' Greci precedeva i tempi storici, dove che quello
de' Germano-Latini si manifestò nella storia, fu un ricorso del
fondo eroico, ma nella cornice delle esistenti forme istoriche,
anzi con la miscela del fondo civile e cristiano,
Eifacendo l'opera del Vico, a traverso le ricerche positive
della scienza contemporanea, noi abbiamo ritrovato quello stato
silvano e ferino in cui l'uomo menava vita solitaria e in sua fa-
vella mandava informi suoni ; ma non l'abbiamo al certo ritro-
vato come caduta derivante dal peccato originale, sibbene come
un perfezionamento nella evoluzione 'del regno animale, di che
dovremmo piuttosto compiacerci che dolerci, se le ubbìe non ci
perturbassero la mente. Ed abbiamo pur ritrovata, nel vesti-
bolo della storia, la sua età eroica, e nel tempio l'età umana;
ma non ci è riuscito punto di trovare, almeno con i colori suoi,
quella età divina con cui il Vico apre il corso delle nazioni.
Prima di tutto il corso delle nazioni, — badisi, di quegli organesi-
rai che di tal nome sono degni, — si apre con le vicende dell'età uma-
na 0 legale o storica o civile che si voglia, ne' primordi della quale si
fa sentire, è vero, l'eco de' tempi preistorici, ma non per questo
a' medesimi cessano di appartenere il monarcato patriarcale e il
monarcato con l'aristocrazia eroica. Col dimenticare il carattere
preistorico e però vago di quelle prime età e coli' adoperarsi a
dipingerle trasportandovi i colori dei ricorsi, nel mondo romano
e nel mondo cristiano, noi ci formiamo molte illusioni, che non
resistono alla prova dei fatti. È necessario rinunziare a descri-
vere con particolarità e precisione i tempi preistorici dell' uma-
nità, è necessario smettere la tendenza a costruire edifizi troppo
architettonici. Che cosa è mai codesta età divina? Con un po' di
buona voglia si riesce a trovare tutto, come col cattivo volere
nulla si rinviene. Nei tempi eroici, che sono così prossimi al lume
della storia, ci riesce di scorgere con evidenza il dominio della
religione e più dell'arte, il predominio del monarcato e del con-
siglio de' padri, de' forti, de' capi, de' nobili nella vita cittadina o
VoL. XIV, Serie II — 1 Aprile 1879. 29
474 LE NOSTRE ORIGINI.
politica; ma riguardo a' precedenti tempi preistorici, gli sforzi
prodigiosi che facciamo per ricostruirli urtano contro la preva-
lenza della dissoluzione sulla integrazione sociale, donde la diffi-
coltà di scorgere nettamente qualche principio organatore nella
confusa elaborazione di tutti gli elementi sociali. Ho tentato di
ficcar lo sguardo in quell'oscura notte, e quando ho visto un rag-
gio di luna brillare e sparire, sono corso alla matita ansi che
allo scalpello ed ho preferito gli schizzi della scienza alle sta-
tue del Vico.
Ma in quella medesima materia disciolta e confusa deve
pure esservi calato qualche principio organatore, senza di che
la vita dell'umanità non sarebbe passata dallo stato eslege a
quello legale. La integrazione di questo ultimo stato altamente
sociale, non è potuta accadere se non gradatamente, comin-
ciando nella notte dei tempi preistorici. Qual' è dunque stato
codesto principio integrante ? Prima di ogni altro, la forza.
Che questa costituisca i primi aggregati umani, e ad essi
presieda, così nell' unione tra i sessi come in quella tra fa-
miglie, è cosa che non accade neanche dimostrare. Nel pri-
mitivo stato degli uomini non vi potrebbe essere altro prin-
cipio aggregatore che la forza, con tutte le virtù che in essa
s'imperniano, come a dire il coraggio, il valore e simili. E quello
un principio ereditato dalla vita sopraorganica delle anteriori
specie animali, e che con l'evoluzione va mano mano attraendo a
sé la compagnia dell'astuzia e della destrezza. Ed è un principio
che nel corso preistorico e storico si accompagna bensì ad altri prin-
cipii regolatori della vita pratica ed anche vi si sottomette; ma senza
mai smettere dalla sua azione. Non io, ma il Bagehot, nelle
Leggi di svolgimento delle nazioni, ha detto che il fatto piìi rile-
vante della storia è che l'arte militare è in progresso, perchè
siccome nella storia regna la legge della selezione e le nazioni
più forti prevalgono, così è naturale che ogni nazione la quale
voglia prevalere s'adoperi a progredire nell'arte militare. Non è
qui il luogo acconcio per esaminare se sia davvero quello il fatto più
rilevante della storia, e porre in luce qual genere di forza assicuri
la vittoria in tempi di sviluppata civiltà; ma m'importa conclu-
dere, con l'autorità del Bagehot, che fu primo a vincere quell'ag-
gregato che primo conseguì un ordine, e che questo ordine venne
in origine conseguito mediante la forza. La donna venne tolta con la
forza, oltre che con la scelta sessuale di cui ragiona il Darwin, e con
la forza una famiglia più robusta ne sottomise una meno robusta^
LE NOSTRE ORIGINI. 475
la tribù più potente, quella che era meno. Così e non altrimenti
cominciarono a nascere le certe donne, i certi figliuoli, le certe fa-
miglie, di cui parla il Vico.
Sarebbe un far torto alla religione il discorrerne come di un
primo regolatore della vita pratica. Essa è stata certamente nei
tempi preistorici, ed anche per molta parte dei tempi storici, una
forza organatrice delle società, un potere piuttosto di formazione
0 conservazione sociale che non di progresso ; ma, come si è ve-
duto, è stata un potere che ha richiesto un certo tempo per manife-
starsi e un maggior tempo per assumere le forme sviluppate del
culto divino, amministrato da una speciale classe di sacerdoti.
1 primi uomini avevano potentissimi alcuni sensi, come l'udito,
l'odorato, il tatto, e potentissimi certi sentimenti rudimentali, come
l'impeto, in certi casi la paura, in certi altri la non curanza
della propria vita; ma non potevano ancora avere esercitata
la fantasia alle carole generatrici del mondo religioso. Quan-
tunque io vegga nella facoltà artistica l'organo fecondatore del
seme religioso; quantunque io non sappia scindere nell'esercizio
dell'attività psicologica l'unità dell'immaginare e del sentire; quan-
tunque io non concepisca religione senza fantastiche o artistiche
personificazioni d'idee e di cose, senza la immaginaria proiezione
dalla terra sul cielo, pure io considero la religione come il
potere organatore, che immediatamente segue la forza, perchè
le riconosco sull'arte, massime nei tempi primitivi, il vantaggio
di rivolgersi direttamente alla direzione della vita pratica del-
l'uomo. E se il Vico con la sua età divina, messa a capo del
corso delle nazioni, non avesse voluto intendere che questo, noi,
con le debite riserve, potremmo acconciarci a seguirlo, come 'ad
ammettere che lo stato eroico segua e sino a un certo punto
si differenzi per un più evidente sviluppo dell'arte e pel predo-
minio dei nobili e dei poeti nella vita pratica. Della scienza
non parlo nemmeno, perchè ne'tempi preistorici essa non solo
non può svilupparsi come tale, ma neanche avere quella rudi-
mentale determinazione che hanno il culto e le leggende. Essa
manda le sue prime vibrazioni sotto la forma della logica in-
fantile. Ma il Vico non si accontentò di così poco, e si abban-
donò a descrivere l'età divina con colori tanto ideali da ren-
derci assolutamente impossibile il seguirlo, anche avendone molta
voglia. Dirò infine quale potrebb' essere l'età divina, secondo
la scienza. Per ora basti osservare che la definizione di un'età
con un semplice aggettivo è sempre pericolosa, e che, volendo
476 LE NOSTRE ORIGINI.
stare sul terreno positivo dei fatti bene appurati, vai meglio
attenersi alla distinzione di tempi preistorici o eslegi o anti-
civili e istorici o legali o civili, frammezzati al più da quelli
eroici, che sono come gli anfibi. Il porre in fronte a ciascuno dei
tre tempi l'etichetta di religione o di arte o di scienza può essere
in un certo senso esatto; ma può anche distrarre le menti dal
l'intreccio reale delle umane attività.
È tempo di concludere, ma non senza riassumere lo stato an-
tistorico.
L'uomo primitivo ereditò dagli antenati l'istinto organico della
conservazione e quello sopraorganico della socievolezza. Paiono due
motori, ma hanno unica radice, perchè l'associarsi giova a vincere
nella lotta per la vita, che la conservazione rende necessaria.
E 1 unica radice è l'egoismo, sviluppatissimo presso l'uomo primi-
tivo. Dalla radice dell'egoismo germoglia l'albero della società.
La necessità del combattere contro uomini e contro altri animali,
per alimentarsi e propagarsi, creò quella di avere armi, che furono
prima di legno, poi di pietra, in fine di metallo, bronzo e ferro.
Con le pelli degli animali uccisi, imparò l'uomo a fare vestimenta
por coprire dalle intemperie una nudità, che l'assenza del pudore
non rendeva vergognosa, e la frequenza della sua vista non ren-
deva seducente. Dall'esempio degli altri animali, soprattutto dei
primati, trasse il suo modo di abitare, che migliorò con la sua
intelligente esperienza. Furonvi genti che dormirono distese su
pe' campi o che fra i rami degli alberi fecero il loro nido: ma
altre trovarono nelle grotte le loro tane. I nomadi pastori costrui-
rono capanne con quattro pertiche, sulle quali deposero rami
d'alberi o stesero pelli di animali; gli stabili pescatori e agricol-
tori elevarono a poco a poco villaggi o sulle acque o in terra-
ferma. Quando le sparse case di tali villaggi si serrarono in fra
loro e si cinsero di mura, cominciarono quei rapporti, che dovendo
essere più stretti vollero essere più definiti. Ed ebbe origine, con
la civiltà, la storia delle grandezze e delle miserie umane. L'uo-
mo si andò sempre più addomesticando ; ma senza rompere inte-
ramente la catena che lo lega, non che allo stato selvaggio, a
quello bestiale.
Gli uomini vissero pria di frutta e di erbe, poi di caccia e
di pesca. Cominciarono per mangiare cruda la carne e finirono
col cuocerla al sole e al fuoco, procacciandosi questo con attrito
di legna o urto di pirite sulla selce, e il combustibile con le me-
LE NOSTRE ORIGINI. 477
desime legna o con sterco di animali. I popoli più selvaggi man-
giarono rettili e insetti, i cacciatori il prodotto della loro caccia,
i pescatori della loro pesca, gli agricoltori e selvaggina e vege-
tali, propagando maggiormente quelli reputati o più utili o più
piacevoli. Prima che i traffici consentissero gli scambi, il genere
dell'alimentazione era affatto subordinato al suolo e al clima. In
generale esso era uniforme e il regime disordinato: il primo ri-
chiedeva, e però tendeva a produrre forti organi per la mastica-
zione; il secondo un grosso stomaco per insaccare in una volta
un enorme volume di erbe, frutta con la buccia, noci, e forse non
pure di carne ma persino di ossa. È da credere che gli uomini
primitivi, al pari dei selvaggi e de' barbari odierni, abbiano avuto
mestieri cosi di eccitanti come di stupefacienti, per occupar lo
stomaco e il tempo, ed ingannar la fame e l'ozio ; onde l'uso di
narcotici e di bevande spiritose, che gl'inciviliti trafficanti hanno di
poi moltiplicato a dismisura, producendo per amore al proprio
lucro il logoramento dell'altrui fibra. Alcuni, fra quei popoli,
mangiarono pure l'uomo come l'animale mangia l'altro animale,
e non mai più che allora valse l'adagio che il grosso pesce divora
il piccolo. L'antropofagia, generata da difetto di carne nella con-
trada abitata, diventò mezzo per procacciarsi un prelibato mani-
caretto, 0 per assorbire le virtù della vittima, o segno di ven-
detta e di religiosa onoranza.
Nudrirsi, distruggersi, riprodursi era la principale occupa-
zione degli uomini preistorici, i quali avevano un fiuto, che par
maraviglioso, ma era frutto di accumulata esperienza, per scoprire
quello che poteva loro giovare, per intravvedere quello che poteva
loro nuocere. Così potettero sottrarsi all'assoluta schiavitù verso
la natura, da questa schermirsi piuttosto che dominarla, e cam-
minare verso lo stato civile, a cui non tutti pervennero. Ma come
quel fiuto non fu ingenito, cosi quella emancipazione non fu ra-
pida, anzi fu oltremodo lenta: la lotta dell'uomo preistorico contro
la natura costò più vittime che non tutte le guerre fra' popoli
civili. È noto che le genti selvagge e barbare hanno una grande
tendenza all'immobilismo conservativo, che li configgerebbe eter-
namente nel loro stato, se il pungolo della medesima conser-
vazione di sé e l'esperienza non aiutassero a trarneli fuori. L'uomo
ha minore forza progressiva appunto quando ne avrebbe maggior
bisogno, perchè alla tirannide della natura risponde la poca espe-
rienza e il grado basso delle sue facoltà intellettuali. Onde la
difficoltà di sollevarsi dallo stato preistorico a quello isterico,
478 LE NOSTRE ORIGINI.
difficoltà che si supera solo mediante la somma di piccoli passi
in lunj];hissiraa distesa di tempo. Gli uomini preistorici comin-
ciarono per essere quali le circostanze li fecero, e poi variarono
secondo che queste richiesero. Figli della terra che abitavano,
furono simili ad essa: immigrati, divennero un prodotto di sé,
dell'adattamento e, quando ne fu il caso, dell' incrociamento. Clima,
suolo, alimenti, la natura geograficainsorama, la fauna, la flora di una
regione determinarono il genere di vita dei suoi abitanti, e questo
sviluppò attitudini acconce e favorevoli, che l'eredità trasmise, ac-
cumulò e fissò. Perirono coloro i cui organi non potettero variare
in modo conforme alle circostanze, si salvarono queglino che riu-
scirono ad adattarsi, e col trionfo dei migliori si assicurò il pro-
gresso umano. Presso i selvaggi e i barl)ari, che in parte rappre-
sentano gli uomini preistorici, la selezione opera in modo più
favorevole allo sviluppo delle qualità fisiche che non a quello delle
qualità ideali. Tra le prime tendono più a crescere la forza e la
bellezza, fra le seconde l'astuzia e la eloquenza. Quanto alla mo-
rale, le religioni tramandano con pertinacia un buon precetto,
favorevole al progresso civile: ma con pari pertinacia tramandano
massime e pratiche favorevoli alla debolezza ed alla ferocia.
Dicemmo che la forza presiede a' primi rapporti umani, così
a quelli sessuali come agli altri. Alla forza, che non esclude la
scelta sessuale, dobbiamo aggiungere la promiscuità. In origine
non aravi costanza e specificazione di rap[)orti famigliari, come
non eravi distinzione di classi sociali. La donna si toglieva e si
abbandonava, né da essa facevasi distinzione fra marito o geni-
' tore 0 figliuolo: come nei bassi fondi delle nostre città e campagne
vediamo, pur troppo! giacere confusamente in un medesimo letto
l'intera famiglia, ludibrio della nostra civiltà! Lo stato anima-
lesco, naturale nei tempi preistorici e presso i selvaggi, diviene
vergognoso quando si perpetua in mezzo alle conquiste dell'uomo
civile. Ma non pare che quello stato di cose durasse molto a lungo,
così che, stabiliti i primi rapporti sociali, forme più regolari pre-
siedettero a matrimoni più certi. La donna però venne in gene-
rale considerata come cosa e continuò ad essere reputata come
alienabile proprietà. Sappiamo bene che vi sono popolazioiii sel-
vagge, anche nella nuova Gruinea, presso cui la donna è tenuta in
onore ; ma questo potrebbe essere un portato del progresso di certi
selvaggi odierni rispetto a quelli preistorici ; e del resto noi
siamo obbligati in questo schizzo a cogliere le linee saglienti e a
non lasciarci distrarre dalle svariate particolarità dello stato prei-
LE NOSTRE ORIGINI. 479
storico. Che, per grande sia stata allora l'uniforniitcà delle cou-
dizioni e de' rapporti umani, le differenze esistevano pure come
non mai spariranno: e in questo è il pericolo delle descrizioni
sintetiche; riescono o troppo generiche o molto inesatte. Ritor-
nando alla promiscuità famigliare, inclino a credere ch'essa andò
cessando così per effetto dell'istinto venereo dell'uomo, attratto
più verso le donne estranee a cui è assuefatto meno, come per
opera della mala prova fatta dall'unione fra stretti consanguinei.
La morale venne in ultimo a consacrare i risultati dell'istinto e
dell'esperienza, poiché la morale, come il diritto, non è che la
formula ideale di quei fatti fisiologici, patologici, economici, ci-
vili, politici che assicurano la conservazione e lo sviluppo dell'in-
dividuo e della società. 11 sentimento, in questo campo, non pre-
cedette la ragione ; ma questa venne svegliata dalla esperienza
e finì col trapassare nel sentimento. Gli uomini in fatti comin-
ciarono col combattersi ferocemente e col non amare che i com-
pagni nelle prede e nelle pugne; poi conobbero i vantaggi del-
l'amore sull'odio, della pace sulla guerra, ed infine uscì, sebbene
ancora indarno, dal labbro di Gesù quel sublime precetto: amate
il prossimo vostro come voi stessi! Così la promiscuità famigliare
venne innanzi, con la poliandria e la poligamia, al costante le-
game e al solido affetto della monogamia, che, nata presso popoli
sobri dimoranti in regioni fredde, diventò istituzione di popoli
civili e cristiani in qualsiasi regione della terra. Dei Germani,
in fatti, dice Tacito: « Perchè soli questi barbari si contentano
d'una moglie, se non qualche nobilissimo, che, non per libidine, ma
per esser bramato da molte. » Le mogli erano adunque oggetti
di lusso, che potevano possedere solo le classi superiori, cioè quelle
che meno avrebbero dovuto; indizio che il costume non era di-
ventato ancora istituzione e moralità. Richiedevasi perciò l'azione
di popoli più civili e di una religione spirituale ed elevata, la
(juale, nata in contrade calde, conosceva tutti i mali derivanti
dalla poliandria e dalla poligamia.
Al padre, ch'è l'attivo potere generatore e protettore, appar-
teneva non pure la moglie, ma anche la prole, su cui aveva dritto
di vita e di morte. I vincoli di parentela e di affetto duravano
quanto quelli degli animali, cioè sino a che i figliuoli erano deboli
ed avevano mestieri di protezione; poi si allentavano e proscioglie-
vano, ciascun essere andando per la sua via. Ma le popolazioni
0 molto erranti o assai povere facevano per astuto egoismo quello
che l'animale non fa per istinto: uccidevano i vecchi che non pò-
480 LE NOSTRE ORIGJNI.
tevano trasportare, esponevano i fanciulli clie non potevano al-
levare, vendevanli per averne in cambio qualcosa utile all'esi-
stenza, uccidevanli persino o per impeto d'ira o per bisogno di
grasso. Superfluo è aggiungere che questo raffinato e crudele
egoismo non era qualità generica, ma bruttura di razze peggio
che bestiali. Era, del resto, e continua ad essere, come cosa dav-
vero naturale, più forte l'affetto dei genitori per la prole che non
l'affetto di questa per essi. I genitori si specchiano e compiacciono
nella prole, che li riproduce e fa rivivere, più che questa in quelli:
chi dona la vita ama l'opera sua più che non faccia la creatura
verso il creatore. E la vecchiaia non poteva non ispirare noia e
disprezzo in tempi ne' quali la forza era sovrana. 11 rispetto per
essa surse col rispetto pel senno e con la compassione per la debo-
lezza, cioè col senno e con la generosità, epperò tardi.
Nello stato selvaggio la famiglia e la tribù erano le forme
rudimentali della vita sociale; nello stato barbaro predominavano
le leghe fra tribù; in quello eroico nacque la vita cittadina, che
con la civiltà si ordino sotto la disciplina della legge e si allargò
mediante la lega e l'assorbimento delle città nell'unità della na-
zione. Le famiglie, le tribù e le loro leghe vivevano in perenne
guerra con gli aggregati simili, che giacevano presso la^ zona da
esse occupata o sulla zona che esse volevano occupare. Non mai,
come a' primordi della vita sociale, la concorrenza vitale prese
forma di lotta brutale. La devozione alla tribù e l'odio allo stra-
niero, origini del patriottismo, furono qualità necessarie così per
costituire 1' individualità dei popoli, come per conservarla ed
imporla. E da quella utile devozione scaturirono le virtù del-
l'almegazione: l'uomo imparò a vivere negli altri, a godere del-
l'altrui salute, a soffrire con rassegnazione e con gioia per la vit-
toria dell'associazione di cui faceva parte. Allarghisi col processo
evolutivo la sfera di tale aggregato e si vedrà che l'albero della
società, il quale ha per radice l'egoismo, avrà per fiore l'abnega-
zione. Questo nobilissimo fiore si farà splendido e rigoglioso non
pure mediante l'esperienza dell'utile individuale derivante d^sd-
l'esercizio delle virtù sociali; ma anche per opera di più dome-
stici costumi e della cultura. Ritornando alla barbarie, da cui la
civiltà ci stava per distogliere, diremo che essa mostrossi amore-
vole e ospitale verso lo straniero che si fece alla porta di casa,
debole, disarmato, supplicante. La corda dell'umanità, silenziosa
e dominata da quella dell'egoismo e del morboso patriottismo,
mandava pure a quando a quando i suoi flebili suoni.
LE NOSTRE ORIGINI. 481
Le differenze sociali nacquero sino dal giorno in cui i più
forti sottoposero i piìi deboli, e la tribìi si ebbe la sua coda. La
soggezione dei vinti ai vincitori, produsse le classi, le caste, la
servitù, la schiavitù. Con l'evoluzione le differenze mutarono di
origine e crebbero di numero: nuovi mestieri o professioni crea-
rono nuove occupazioni, nuove classi. Il capo della famiglia di-
ventò capo della tribù, quando la famiglia si ampliò con i di-
scendenti suoi ; e il più valoroso capotribù divenne sovrano di quello
aggregato che nacque dalla sottomissione di una all'altra tribù.
Nello stato selvaggio i legami fra il capo e i suoi seguaci furono
più lenti, le differenze appena incipienti, l'universalità delle poche
occupazioni, maggiore. Vera banda di briganti, che procede ar-
mata e vive di rapina: come prima il capo non piace, lo depongono
o lo ammazzano : procedere sommario che ad alcuni è parso ugua-
glianza democratica e sovranità del popolo ! Nel fatto esso indica
assenza di governo, sovranità dell'arbitrio. Nello stato barbaro le
funzioni si specificano di più, i rapporti si precisano meglio, i le-
gami si cominciano a serrare, e però l'autorità del capo tende a
diventare assoluta, non senza essere circondata da un consiglio di
anziani, o di padri o di nobili, che poco consiglia, e accompagnata
da una parvenza di appello al popolo, che spesso approva, piac-
ciagli 0 no. Se volessimo distenderci a paragonare i barbari Ger-
mani di Tacito con gli eroi ài Omero, troveremmo appresso i
primi più popolari usi di governo, appresso i secondi un potere
monarchico più assoluto, appena consigliato dal sommesso Bah. In
quei tempi di caotica elaborazione sociale, i tre elementi, monar-
chico, aristocratico, democratico, si confondevano e si contendevano
il predominio; per il che tu trovi svariate e anche contraddittorie
società politiche; ma, giudicando secondo la natura delle cose e
dai fatti meno particolari, noi potremmo inferirne che il governo
prevalente era quello dell'uno.
E quest'uno fu re, guerriero, magistrato, sacerdote, e, persino
nello stato eroico, da sé fabbricossi la casa e si arrosti il vitello.
Qu'ando si generò e fissò la credenza in Dio, egli fu di questi
interpetre, rappresent inte, personificazione, e quando nacque la
classe sacerdotale, egli continuò ad essere il sommo pontefice e
quella cominciò per essere ministra di lui. I suoi soggetti furono
guerrieri, cacciatori, pescatori, agricoltori anche, nelle stabili sedi,
in breve furono tutto prima di essere o questo o quello. I legami
che l'utile produsse, la religione suggellò e il vate abbellì, can-
tando il valore dei capi, la devozione de'seguaci, le gesta eroiche
482 LE NOSTRE ORIGINI.
di tutti. La religione, cominciata per essere paura della incom-
prensibilità, adorazione pei forti, culto per lo spirito degli ante-
nati, per gli oggetti e le forze della natura, divenne culto d'iddii
clie la fantasia fece personali; cominciata per essere terrestre,
divenne celeste mediante l'opera di una facoltà artistica, che
prima creò le immaginarie persone e poi le tragittò dalla terra
al cielo. E il culto passò dalle tombe agli altari, conservando i
suoi pii costumi e i suoi riti sanguinosi. Non si possono senza
orrore leggere queste parole da Giulio Cesare scritte ne' Com-
v.ientari. parlando de' Galli: «Alcuni hanno simulacri di smisu-
rata grandezza, le cui membra mteste di vinchi riempiono d'uomini
vivi, i quali, circondati ed arsi dalle fiamme che vi si appiccano,
esalano lo spirito. » L'arte, che cominciò per essere la spontanea
canzone del pastore, la modellatura di utili oggetti, l'ascosa po-
tenza plastica del sentimento religioso, divenne conservatrice,
mediante i rapsodi, elaboratrice, mediante i poeti, del confuso e
mobile contenuto delle leggende. Ma quando le orali tradizioni
finirono, e vennero i poemi scritti, la preistoria aveva ceduto il
posto alla storia.
11 nomadismo in prima, i traffici in ultimo, posero in relazione
tribù e popoli ; donde o la lotta o lo scambio per l'esistenza, più
sovente la prima che non il secondo nei tempi preistorici. E il
nomadismo suggerì l'uso di mezzi di trasporto, animali, carri,
carri con tenda, zattere, barche, che il commercio perfezionò.
Agi' Indo-Europei la gloria di avere inventata la ruota, che fu
pe' tempi preistorici quello che la locomotiva per i tempi di svi-
lupi3ata civiltà. Negli scarabi il valore fu rappresentato prima da
un oggetto ricercato, poi dal peso dei metalli, infine dalla mo-
neta. E con i contatti l'uomo andò perdendo la natia selvatichezza
ed acquistando quel sentimento di tolleranza, che è il fondamento
e il coronamento del vivere civile e del progresso sociale. Che,
ricordiamolo bene, vergini erano quelle fibre ma feroci i loro
costumi, e se la franchezza sovrastava all'astuzia., mancava quasi
del tutto la preveggenza lontana, la fredda prudenza, la bene-
vola e illuminata tolleranza ; mancavano cioè le virtù, che crescono
solo col lungo svolgimento civile. Sono desse le forze calcolatrici
e umanitarie, che si sviluppano con detrimento dei vigorosi ma
meschini e ciechi sentimenti spontanei, con vantaggio dei larghi
e profittevoli sentimenti riflessi. Delle due corde che vibrano
nell'anima umana, egoismo e altruismo. (Quella manda suoni stra-
zianti e assordanti nello stato preistorico. Non che tali suoni
LE NOSTRE ORIGINI. 483
cessino nello stato civile, oibò ! ma si armonizzano meglio, o meno
23eggio, con quelli dolcissimi dell'altruismo, così nella vita fami-
gliare e nazionale come in quella internazionale. E una società
progredisce quando una tale consonanza cresce, decade quando la
dissonanza si riproduce con l'accentuarsi dell'egoismo.
Per via abbiamo veduto alcuni sprazzi di luce dell'età di-
vina, che il Vico pone alle origini del corso delle nazioni, e che
io non oso neanche porre nell'avvenire di esso. E non oso. piìi
perchè temo che non perchè disperi Mi spiegherò. L'età divina
è r Ideale dell' umanità. Considerandolo per poco, al modo co-
mune degli uomini mezzo pensanti, cioè come la somma di tutte le
perfezioni, senz' alcun contrapposto che limiti il vero, il bello, il
buono, noi dobbiamo dire che ogni progresso ne realizza una
parte; ma che esso non mai si effettuerà interamente, e se potesse
calare tutto in terra, distruggerebbe il moto, la vita, la storia.
L' età divina sarebbe pertanto 1' età ultrastorica. Se la terrestre
evoluzione degli esseri organici non ha ancor toccato il suo
ultimo confine e riuscirà a far derivare dall'umanità una specie
superiore, la vita di questa non potrà esistere senza moto,
senza lotta e senza storia. Se la età divina è quella ultrastorica, e
se questa è la, morte, qual meraviglia adunque ch'io tremi? Ma
se la sua pienezza mi spaventa, la sua successiva conquista mi
rallegra, massime quando la ragione mi avverte che il regno da
conquistare non ha confini o almeno essa non arriva a concepirli, per
isforzi che faccia, aiutata dall'ancella, da cui invano tentasi se-
pararla : l'immaginazione. E veggo in quella successiva conqui-
sta l'umanità volgere sempre più le spalle alla età preistorica, e in-
cedere, con passo lento e a traverso lotte perenni, verso un Ideale,
che è l'opposto del reale colà dominante, che è diverso da quello
comunemente vagheggiato, al quale or ora ho fatto allusione, ed
è l'esplicamento delle buone tendenze che nelle età storiche si ma-
nifestano, e ne' tempi democratici e scientifici si fanno rilevanti.
Importa studiare i tep:pi preistorici, non per farvi ritorno come
pensa una falsa scuola democratica, ma per fuggirli; importa stu-
diarli per comprendere la evoluzione dell' umanità, e per isco-
prirvi e conoscere la piccola parte di natura eterna dell' umanità.
Voi ci troverete bensì la brutale disuguaglianza, ma non mai
l'uguaglianza che cercate, inventando un idillio che è un raggio
di quell'Eden, a cui credete di non credere: voi ci troverete
una maggiore uniformità di occupazioni, un livellamento, che può
484 LE NOSTRE ORIGINI.
sedurre la selvaggia demagogia, ma che non deve essere l'aspira-
zione di una civile democrazia, la quale intenda che l'uguaglianza
civile non è sinonimo di uniformità delle funzioni, e che la varietà
di queste è l'essenza della vita sociale, è la condizione del progres-
so : voi ci troverete non la libertà, che vive con la legge, ma l'ar-
bitrio e la tirannide che si nutrono di licenza e di schiavitù; voi ci
troverete infine la superstizione e non la ragione. Se il fiume tem-
pestoso della storia muterà le sue acque in olio e scorrerà lento
lento e ristagnerà infine, allora o 1' assenza di circolazione della
vita produrrà anemia e decomposizione, o lo sprigionarsi di forze
ascose e non più rattenute da alcun limite potrà produrre un ri-
torno, che dia ragione al Vico; ma la rinselvatichita umanità si
accorgerebbe che Kousseau aveva torto. La dissoluzione sociale ri-
condurrebbela allo stato bestiale, e l' idillio riceverebbe una ter-
ribile smentita. Ma togliamo la mente da così tristi pensieri e ri-
volgiamola ad un avvenire possibile e desiderabile, quello in cui
l'altruismo precìomiyii sull' egoismo : quello in cui l'individuo, an-
dando, come è sua natura, alla ricerca della propria felicità, la
ritrovi maggiormente nel benessere materiale, morale, intellettuale
dell' Umanità.
È innegabile che la civiltà fiorisce ne' periodi in cui regna
la consonanza fra l'individuo e la società, fra la nobile sponta-
neità e lo studiato calcolo, e decade quando vengono a galla l'im-
pudente egoismo, il sordido interesse, l'ammantato gesuitesimo,
(quando ogni sentimento de'doveri sociali impallidisce e muore, e
l'uomo non vede nell'altro uomo che una vittima da uccidere o da in-
gannare. Ora in che cosa meglio che nel predominio del sentimento
di umanità e nella signoriadella ragione scientifica potremmo vedere
noi il migliore avvenire di quelle nazioni, che, non logore fisiolo-
gicamente e non corrotte socialmente, dimostrano avere ancora la
potenza di progredire instancabilmente? Non volendo abbando-
narci a fantastici sogni, noi dovremo contentarci di affrettare
con i voti e con l'opera la venuta di un tempo in cui l'uomo, con
la cultura e con l'educazione morale, si renda degno di maggior
libertà; i popoli, costituiti a nazioni indipendenti, si considerino
più come fratelli che non come nemici ; gli operai della materia
abbiano tutti una salubre casetta ed una alimentazione azotata :
gli operai del pensiero insieme agli uomini di Stato sieno i veri
sacerdoti del popolo, e in questo maggioreggino i cittadini che
sappiano porre la moralità sotto il solo e adamantino usbergo
della propria coscienza, gli uomini la cui nobiltà consista nell'eman-
LE NOSTRE ORIGINI. 485
cipazione da'pregiudizi e da qualsiasi irragionevole tirannide e nella
sottomissione alla moralità e alla ragione. Ma anche in questa più
felice età perdureranno i mali, i vizi, i delitti, i dolori, le sofferenze,
le guerre, i pregiudizi, in una parola i limiti, e guai se così non
fosse ! Toglieteli affatto, e voi che credevate di abbracciare l'Ideale,
stringerete invece un'ombra; voi, che credevate di spingere in-
nanzi la società, la vedrete cadere nella atonìa e nella dissoluzione,
e far ritorno a quelle origini, donde erasi allontanata conqui-
stando col sudore e col sangue ogni tappa del suo progresso.
Gli uomini partono dall'uniformità dello stato selvaggio, passano
per le differenze dello stato civile e debbono tendere a coordinare
e attenuare codeste differenze, ma non a distruggerle. Chi a queste
toglie ogni limite, risospinge la società ai tempi preistorici e
meriterebbe il supplizio che Dante inventò per gì' indovini :
Mira c'ha fatto petto delle spalle :
Percliè volle veder troppo davante,
Dirietro guarda, e fa ritroso calle.
11 limite è la condizione per l'esistenza di ogni cosa, anche
per quella dell'Ideale. Sottraete, se potete, i contrari dal mondo,
e voi avrete distrutto col reale l'ideale, il quale li armonizza sot-
toponendo il male, il dolore, l'ignoranza, ma non distruggendo
uno dei combattenti. Se questo facesse, distruggerebbe con la lotta
sé medesimo. Ecco laverà nozione dell'Ideale scientifico e pratico.
del dio che concilia gli uomini di Scienza con gli uomini di Stato,
che può ispirare l'artista e che dovrebbe ricevere il rispetto per-
sino dal sacerdote del sensibile culto. Qualunque altro Ideale, per
diversa via. ci riconduce alla stessa meta, ci rimena cioè alle no-
stre origini.
NiccoLA Marselli.
INI^IIILTERHA ^ELL'AFUICA AUSTRALE.
« Così, uel breve giro di un anno, pacificarono tre con-
tinenti. Senza trarre spada dal fodero nella guerra d'oriente ebbero
in soggezione Cipro, e da quell'isola, come dal più adatto degli os-
servatorii militari, si posero in grado di seguire con occhio vigile
i movimenti delia Eussia e dei giovani Stati creati dalle sue vit-
torie, (j[uasi sangue del suo sangue, sulla riva europea dell'Eusino
e dell'Egeo. Ampliarono in Asia i confini dell'impero, debellando
gli infidi vicini dell'Afganistan, ai (|uali tolsero di mano per
forza d'armi le chiavi delle storiche vie dell'India, quando si mo-
stravano disposti a consegnarle al rivale, cui s'erano rivolti per
protezione ed aiuti, che la politica dei vincitori seppe a tempo
impedire. In Africa poi, se anche da poco avessero guerreggiato
contro l'Etiopia ad oriente e ad occidente contro gli Ascianti sel-
vaggi, furono costretti a scendere in campo per assicurare recenti
conquiste, le quali, compiute nel silenzio, non erano loro costate
una goccia di sangue. E sebbene l'esercito fosse dapprima rotto
ed arrestato per via, senza perdersi d'animo armarono nuove spe-
dizioni, colle quali, debellati e distrutti i nemici, assicurarono al
soverchio delle popolazioni una federazione di colonie sterminate,
messe oramai in grado di provvedere alla propria difesa. »
Lo si direbbe, scritto nella lingua di Livio e di Tacito, e mu-
tati i nomi, un periodo di storia romana. Nella moderna Inghil-
terra, in quella di Beaconsfield più che in quella di Gladstone,
è infatti assai del romano, cosa avvertita da molti e dimostrata
nello sviluppo delle istituzioni, nella genesi del diritto patrio, nella
L'INGHILTERRA NELL' AFRICA AUSTRALE. 487
diplomazia, nelle armi, ma giammai evidente come in quest'ul-
timo periodo. Sulle buone qualità, e sulle cattive anche, dell'ebreo
di Venezia, si innestarono così mirabilmente in Beniamino Disraeli
conte di Beaconsfield le idee, la coscienza e l'attitudine dei grandi
uomini di Stato inglesi, ch'egli è riuscito ad elevare il suo paese
a tale un grado di potenza e d'influenza, come non ebbe mai,
neanche quando a Ledru-Rollin appariva cosi insuperabile da leg-
gervi i segni della decadenza.
Chiunque vanti animo generoso e serbi fede alle idee libe-
rali è tratto necessariamente a deplorare lo sconfinato egoismo
della politica dei conservatori inglesi, le loro tendenze autorita-
rie e quegli eccessi di utilitarianism, per dirlo con una parola
loro, che non giovano, di certo, ad accrescere e confermare gli
amici, ed a guadagnare quelle simpatie che accompagnavano la
politica liberale, umana, generosa, piena d'alti e nobili intendi-
menti di Gladstone e dei suoi amici. Ma non si può trattenere,
per quello che hanno fatto e fanno i tories della presente ammi-
nistrazione, un sentimento di vivissima ammirazione. Per essi e
con essi il governo britannico tiene fisso lo sguardo a tutti i punti
del mondo, dove ha interessi, e dovunque dimostra la sua potenza.
Alle volte pare quasi che la terra quanto è vasta sia piccola alle
sue ambizioni; certo nessuno ha superati sino ad ora gli In-
glesi nello scoprire nuove isole, nel ricercare gli abissi oceanici,
nel penetrare le ghiacciaie del polo. Cosi, mentre in Europa sor-
reggono sulle braccia poderose il gran malato, dettandogli a modo
loro il testamento, e parrebbe ufficio abbastanza arduo, esso solo.
ad una grande potenza, provvedono a dare alla federazione del Ca-
nada più larghi e stabili ordinamenti ; studiano in creazione d'una
marina coloniale per la difesa delle coste d'Australia: tengono
d'occhio il Giappone perchè non sfugga, con artifici di tarifle.
a' loro mercanti; spiano l'occasione favorevole, che adesso sem-
bra lor porta dalle immani stragi fraterne del nuovo imperatore,
per insignorirsi della Birmania ; provvedono l' India di nuovi e
più sicuri confini, accrescendo colla pompa del cerimoniale, col
prestigio delle vittorie, coi benefizi, la devozione e l'affetto di
que' dugenquaranta milioni di sudditi ; vigilano tutto intorno alle
coste d'Africa, come fosse un loro piccolo feudo, e s' apprestano ad
allontanare dalle colonie del Capo, decimandole, le selvaggie tribù
che le premono a minaccia, mentre stringono i freni della tutela
egiziana così da metter in sospetto dei veri intendimenti loro la
Francia compagna sinora, ma domani forse, rivale nella delicata
488 l' INGHILTERKA
missione. Fu mai al mondo potenza, la quale nutrisse concepi-
menti più vasti, 0 dovesse volgere il pensiero a cure maggiori ?
Nessun poeta per fermo, può cantare d' un popolo, né solo de' suoi
morti, quello che Felicia Hemans dell'inglese:
« Wave 711(11/ notfuatii, nor wild ivind siceep,
W/iere rest not Enykmd's dead. »
Così anche le utopie diventano presto realtà. Non pareva uto-
pia quella di Camerou, quando, reduce dalla sua meravigliosa
traversata equatoriale, diceva con sicurezza ai suoi uomini di Stato,
ai suoi mercatanti preoccupati della crisi economica, a' suoi con-
cittadini pensierosi dell'avvenire del Canada, e dubbiosi persino
dell'India, quando diceva « abbiamo in Africa un altro impero
più vasto, pm ricco, più utile di quello dell'India, sul quale ci basta
stendere la mano a ghermirlo ? ->> Or ecco che l'utopia è ben avviata
a realtà: la colonia del Capo ci cresce sotto agli occhi cosi che
vivremo tutti a vederla trasformata in impero. Nel 1871 il paese
diamantifero dei Griqua, una vera Golconda; nel 1874 il Griqua
occidentale ; nel 1875 il Nomausland ed il Fingoland : nel 1877
il Transvaal, e adesso, per arrotondarlo e assicurarlo, il paese
degli Zulù. Dal Capo Frio sull'Atlantico, ai confini della baia di
Delagoo sull'oceano Indiano, tutta la cuspide australe dell'Africa
è dominio britannico, e già ai Portoghesi impigriti intorno alle
foci dello Zambesi come sulle opposte marine, tocca provve-
dere ne quid respuhlica detrimenti capiat. Ieri il governo bri-
tannico assoggettava definitivamente i turbolenti Boeri ; oggi as-
sicura dalle minacele degli Zulù gli sconfinati domimi; domani
forse contenderà al Portogallo le invidiate marine, che daranno
il più facile accesso agli estremi empori di una confederazione
di colonie australi, alla quale è certamente serbato il più splen-
dido avvenire di ricchezza e di potenza, il più forte e decisivo
influsso sulla civiltà del continente africano. *
1 Fra i piv"! importanti documenti ufficiali sulle Colonie del Capo si vedano :
Cape of Good Hope Blue lìook for 1877. '^■apetown, 18T7. — Ceìisus ofthe Colony
taken on ihe night of march 7, 1875. Capetown, 18~1. — Correspon dence re-
garding the establishment of responsible govemment at the Cape and the ivìth-
drawal of tra >ps from that colony. London, 1870. Per gli ultimi avvenimenti, si
vedano poi, nei Parliamentary Papers, i Blue Books, presentati in quesii ultimi
anni sugli affari dei Capo, e specialmente i rapporti di l;artle Frère, di Wolselej,
di J. Sheusioiie, e quelli recenti del gt-nerale Chelmslbrd, e del Governatore del Natal.
Fra le pubblicazioni non ufficiali, e cito appena i lavori più notevoli, chi voglia cono-
scere il paese: Anderson C. J , Notes of Travet. London, I8ì5. — Hall H., Manual of
South African geography. Capetown, 1866. — Neveu C, Re'publiques de VAfrique
nell'africa australe. 489
I.
Chi guarda, su d'uu mappamondo, la felice posizione del Capo
di Buona Speranza è tratto a credere che, discoperto appena, si
accendesse tra le potenze coloniali viva contesa per insignorirsene.
Fu quella, e lo ricordiamo bene noi, italiani, le cui repubbliche
marinare e commercianti n' ebbero le maggiori jatture, fu quella
una delle più grandi rivoluzioni economiche della storia. La s'era
trovata, alla fine, questa via sospirata, la cui ricerca aveva ar-
mate le paranzelle di Colombo, e le spedizioni numerose e per-
severanti d'Enrico il navigatore e dei successori. Bartolomeo Diaz
che, solo a girare il Capo, durò una fiera tempesta, lo chiamò il
Cabo de los l'ormentos; ma il Ke di Portogallo don Joaò II re-
spinse con felice ispirazione il nome malaugurato. « Quel pro-
montorio ci apre la via dell'Asia; sia dunque chiamato il Capo
di Buona Speranza. » E infatti non passarono anni, che Vasco
di Gama prendendo terra a Calicut, vi fondava quel grande im-
pero che Albu(iuerque doveva consolidare perchè al Portogallo
ne rimanessero appena gli avanzi.
Si compiva la memorabile scoperta nel 1486, e 166 anni pas-
sarono prima che al Capo 'sorgesse uno stabilimento europeo.
Diffidavano gli avventurieri di quella costa africana, dove veni-
vano i pingui Ottentotti, miserabili e nudi, quasi testimoni di un
nudo e miserabile paese, di 'magri pascoli, di sterili lande, di
deserti. Che seduzione poteva trattenere colà uno di quegli avidi
coloni europei, che muovevano all'India attratti dai tesori dei
suoi sultani, dalle docili popolazioni cresciute fra le spezie e gli
aromi, dalla speranza di lucri rapidi e smisurati? Scambiavano
dunque nella baja della Tavola, quando non lo potevano rubare,
^meridionale, nella Revue mar. et colon. Paris, 18T2. — Chase J. and A. Wilmot
History of the colony of the Cajìe of Good Hope, front its discoveìy to the year
1868. London, ISIO. — Fritsch Dr. A., Dret Jahre in Siid-Afrika. Breslau, l^^GS
— Pos N., Bene stem uit Zuid-Afrika. Breda, 1868. - Trollope A , South Africa,
1 voi 8. London, 1878. — Meidinger PL, Die sudnfrikani sher Colonien Englands,
imd die Freistuaten der hollandischen B'ere». Frankfurt a. M, 1861. — Blerzy H,
Lescolons de VAfrique australe, nella Rfvne des deuxMondes, 18~8, voL 25, p. 167-
196, 346-311.— 'Hoìii.^Sonvi, South Africa, post and present. Capetown, 1811. —
Campbell-Johnston a. R., South Africa: its difficulties and present state. Lon-
don, 1811. — Hall H., Southern Africa. London, 1816. — Gehre, Die europaische
Colonisation in der sudlichen Halfte d's trnpischen Afrika. Leipzig, 1817. —
Frikdkrichsen L., Die britischen Besitzungen SUd-Afrihas. Hambourg, 1811. —
Altri studi speciali citerò a suo luogo.
VoL. XIV, Serie II — 1 Aprile 1819. 30
490 l' inghilterka
il bestiame, si provvedevano d'acqua potabile, deponevano sotto
una nota pietra la posta per la via che avevano percorsa, e pro-
seguivano la navigazione già troppo lenta al desiderio di far for-
tuna 0 goderla.
Soltanto quando la Compagnia olandese per le Indie orien-
tali crebbe a smisurata potenza ed ebbe frequenza di comunica-
zioni co' suoi domini parve di qualche pregio la sicurezza di trovare
al Capo viveri freschi, notizie, ed all'uopo aiuti. Così mandarono
nel 1652 un chirurgo loro, Jan A. van Riebeck, con cento soldati
e funzionari, a fondarvi una stazione. Costruirono un forte, col-
tivarono la terra intorno intorno, e non tardarono ad avvedersi,
che su quel suolo ferace, nel delizioso e saluberrimo clima, iu
quella posizione impareggiabile, conveniva all'Olanda una sicura
e forte colonia. Così gli europei andarono aumentando cogli anni:
erano fra essi Danesi e Tedeschi, Portoghesi ed Olandesi, questi
ultimi quasi sempre con lor donne e figlioli, ma, iu que'primi
tempi rari gl'Inglesi. Più tardi, quando la revoca dell'editto di
Nantes e le guerre delle Alpi costrinsero Ugonotti e Valdesi a
cercare rifugio iu quell'unica oasi della libertà di coscienza
ch'era allora l'Olanda, incresciosi delle nordiche brume mossero
per più lungo esilio. Li animava anche la fede di trovare ^al Capo
una libera patria come quella che offriva loro generosa l'Olanda,
e invece furono costretti a rinunciare persino alla cara lingua
materna, imprigionati tra le maglie fitte di quel monopolio cie-
camente assoluto, sul quale era fondata tutta la potenza colo-
niale dell'Olanda, e per poco non toccò loro rinunciare anche a
quanto avevano di più caro al mondo, la libertà di coscienza.
Chiunque prendeva ferma stanza al Capo aveva buon tratto
di terra, con anticipazioni di grano, di utensili, e di bestiame.
Il governo della Compagnia ebbe cura non mancassero le donne,
e rivolse cure minuziose ed assidue perchè la colonia avesse ra-
pido incremento. Un piano saggio e prudente, quanto fallaci ed
assurdi i criteri economici coi quali fu tradotto in atto. La Com-
pagnia impacciava con regolamenti e divieti ogni sviluppo del
commercio e dell'agricoltura. Soltanto per mezzo dei suoi agenti
era lecito ai coloni di vendere e comprare checchefosse dagli
stessi nativi; vietato loro persino di recarsi a far legna nei bo-
schi per costruire le capanne. Un regime, che Merivale de-
scrive e condanna con coscienza di storico, minutamente, e si
crederebbe una parodia di Bastiat o di Franldin in azione,
tanto è assurdo. Riguardo ai nativi, poi, nessuno scrupolo o pietà
nell'africa australe. 491
li tratteneva, come in tutte le altre colonie loro, dal trattarli
peggio che bestie da soma. « Io non riesco a comprendere —
scriveva il primo governatore del Capo, — come mai la Provvi-
denza abbia largito a qiie'pagani tante dovizie! E pensare che
potremmo prendere loro, senza fatica o pericolo, solo che la Com-
pagnia ce ne accordasse facoltà, diecimila capi di bestiame! Spero
bene l'occasione ci si presenterà di nuovo, e sarà più facile, per-
chè avranno maggior fiducia in noi. »
Così l'Olanda mite, liberale, generosa fra le brume dei suoi
fiumi e delle sue dighe, mostravasi anche al Capo di Buona Spe-
ranza ingiusta, intollerante, disumana, crudele. Nessuna meravi-
glia, se, dopo i primi entusiasmi, il numero dei coloni si accrebbe
assai lentamente e la provincia visse poveramente per più d'un
secolo, turbata dalle sanguinose rappresaglie degli Ottentotti e
dei Cafri, onde non era sempre in grado di difendersi. Imperoc-
ché i coloni vivevano isolati fra loro; il governo olandese, per
prevenire il soverchio aumento della popolazione concedeva la
terra a tratti isolati l'uno dall'altro, od uniti a guisa di
cerchi tangenti, per modo che nel mezzo rimanessero sempre
vasti spazi non occupati. * Quando un distretto era minacciato
dai nativi, il veld-comef, un capo riconosciuto appena nei supremi
pericoli, proclamava il commando, e alla testa dei coloni accor-
renti a codesto bando di medioevo respingeva gli invasori, ven-
dicando su di loro ad usura di terre, di bestiame, di vite umane,
le patite offese.
In questa indipendenza poco men che selvaggia, con un go-
verno il quale si manifestava soltanto negli impacci onde era li-
mitata la libertà economica, si formò tuttavia una razza energica
di pastori, di allevatori di bestiame, di Boeri, nome che fu dato
loro in que'tempi e rimase [in tutto l' esodo lungo al quale fu- ^
rono poi ridotti. Avevano pur sempre i pregi della nazione olan-
dese: laboriosi, economi, perseveranti, tenaci. A queste popo-
lazioni presto alquanto scadute dalla civiltà europea, aveva gio-
vato l'intromissione degli industriosi ugonotti, alcuni dei quali
avevano nelle vene il nobilissimo sangue dei Roubaix, dei Du Plessis^
dei De Yillers de la Eochelle, e d' altre grandi famiglie : elemento
raffinato, ingegnoso, che recò nella colonia uno spirito di pro-
gresso. Per opera di questi coloni furono impiantati nella valle-
1 Merivale: On Colonies. Voi. I, pag, ll5.
492 L' INGHILTERRA
della Perla i vigneti di Provenza e del Eeuo, e diedero quel
vino di Costanza, che per qualche tempo salì in fama nel mondo.
Ma già l'Inghilterra incominciava a preoccuparsi di quel pen-
siero che inspirò tanta parte della sua politica, la sicurezza della
via per le Indie. Mei 1795 lo Slatolder dell'Olanda vinta ed invasa
consentì di buon grado al governo britannico di mandare al Capo
navi e soldati, per occupare e difendere la colonia, minacciata dai
francesi, vincitori in Europa dei re congiurati. Una facile impresa;
senonchè, dopo la pace di Amiens, l'Inghilterra dovette rinunciare
a quelle terre, e soltanto nel 1806 le venne fatto di fondarvi
definitivamente la sua signoria.
Era tempo. Il governo olandese aveva perduta ogni autorità
sulla colonia del Capo, e vi regnava la più assoluta anarchia.
I nativi, che avevano imparato a viver di rapina, minacciavano i
più sicuri stabilimenti ; alcuni erano riusciti ad avere armi e mu-
nizioni, e già chiese e scuole e interi villaggi erano scomparsi
sotto r irruente barbarie. Nei distretti di Grraaf Keynet e di
Zwellendam erano scoppiate fiere rivolte contro il monopolio della
Compagnia, e in questo si era anzi proclamata una forma di re-
pubblica. Gli Inglesi vennero adunque quasi necessari tutori, re-
cando in quella, come nelle altre colonie loro, l'amore dell'ordine e
del progresso, l'istinto delle libertà locali, ed una cura assidua
per affezionarsi le popolazioni, e vantaggiarsi, senza nessuno arti-
ficio di divieti e monopoli, del loro stesso benessere. Il seco-
lo XVIII aveva lasciato, è vero, anche sulla colonizzazione inglese
un'ombra fnnesta; ma il gran colpo avuto colla separazione delle
tredici provincie americane era stato efficace lezione. La razza
anglosassone non tardò a mostrare, nel più splendido modo, le
impareggiabili qualità che la chiamavano, a preferenza delle altre,
a fondare ed accrescere colonie, e le valsero il più vasto e vario
e potente impero del mondo.
Dapprima gli abitanti del Capo accettarono contenti il reg-
gimento inglese, che abolì i monopoli, consentì libertà di commercio
coi nativi, e provvide alla difesa. Ma d'altra parte la nuova Am-
ministrazione vietò subito di trattare gli Ottentotti peggio che
cose, di maltrattarli e toglier loro terre e bestiami ed ucciderli ;
che anzi voleva affezionarli agli europei, educarli a civiltà, pro-
curare loro un relativo benessere. Il malcontento, dapprima trat-
tenuto dei Boeri per coteste, che sembravano loro, fisime umani-
tarie, scoppiò nel 1815 ad aperta rivolta. La rivolta fu subito doma,
ed i promotori s'ebbero il capestro; ma i più insofferenti di un
nell'africa australe. 493
domiuio che parea loro non tollerabile servitù, lasciarono la co-
lonia per cercare verso ponente più libera e selvaggia vita. Inco-
minciava cosi quell'esodo miserabile cbe continua tuttodì, come
se i Boeri avessero la missione provvidenziale di precorrere la
civiltà sin nel cuore dell'Africa selvaggia, o fossero, come si cre-
dono, a somiglianza dei Mormoni, l'eletto popolo biblico vagante
in cerca della nuova Gerusalemme.
Presto il vuoto lasciato fu largamente coperto, perchè nel
1820 quattromila emigranti inglesi e scozzesi, girando il Capo,
si stabilirono intorno alla baia di Algoa, dove fondarono Port
Elizabeth, una colonia britannica dalle origini, che per qualche
tempo minacciò il primato di Capetown. Anzi tra le due parti
della colonia, tra le provinole occidentali dove prevaleva sempre
l'elemento olandese e le orientali che mettevano Capo a Port
Elizabeth, si manifestò una rivalità che preoccupò per molti anni
le autorità della colonia e il governo britannico, e per poco non
condusse alla definitiva separazione. Seuouchè, continuando ad ar-
rivare numerosi i coloni, chiamati dal più liberale reggimento
incominciavano a prevalere anche nelle provincie occidentali la
lingua e l'influenza inglese. Intorno al 1825 si potè far uso pro-
miscuo delle due lingue nei pubblici uffici! ; nel 1828 il governo
mandò i suoi dispacci in inglese ed alle antiche Corti olandesi dei
Landdrosts e dei Neemraden sostituì una magistratura mista
stabile e bene ordinata. Tre anni innanzi il potere militare del
governatore era stato temperato da im consiglio dei sette, il primo
embrione delle istituzioni parlamentari della colonia.
Nuova cagione di contrasti fra le due nazionalità europee
s'aggiunse nel 183d, quando, come in tutti i possedimenti inglesi,
anche nell'Africa australe, furono coronate coli' abolizione della
schiavitù le cure assidue usate alle razze di colore. Si pagarono
per 35,745 schiavi ch'erano al Capo 28 milioni di lire nostre, ma
la somma andò in parte malamente dispersa, ed i Boeri, specie
sui confini, già depauperati dalle devastazioni dei Cafri, privi
d'un tratto dei loro schiavi, si trovarono nella miseria e lasciarono
l'ingrata colonia in gran numero. Né per umanità di governo
cessavano le scorrerie dei nativi, e porgevano al governo di Londra
argomento di fiere rampogne contro l'incerta politica dei go-
vernatori. « Scacciati dalle terre che possedevano legittimamente
da secoli, confinati in limiti angusti, dove non hanno pascoli suf-
ficenti alla greggia, spinti alla disperazione dalle sistematiche
ingiustizie, avevano il pieno diritto di tentare, come hanno fatto.
494 l' INGHILTERRA
l'uso della forza per ottenere quello che non potevano altrimenti. » ^
Cosi scriveva lord Glenelg, segretario di stato per le colonie ; un
linguaggio, che si trova sovente nel Blue hooJc, e concorre a spie-
gare la grandezza coloniale di quel popolo meraviglioso,
Senonchè più che quelli dei governatori mutavano troppo so-
vente i criteri direttivi del Governo della metropoli e la colonia
ne pativa danni considerevoli. La condotta umana di uomini come
lo Stockenstrom verso le razze africane esasperava vieppiù i Boeri :
e quando al contrario il Durbau faceva qualche ragione ai co-
storo lamenti prorompevano i Cafri accendendo terribili guerre.
Quella ch'ebbe termine nel 1847, assicurò i confini orientali della
colonia e vi aggiunse il vasto territorio che si distende fra il Keis-
kamme ed ii Kei e diventò una patria inglese pei Cafri {British
Kafrarla), ai quali fa pur data facoltà di cercare oltre il Kei una
libertà più selvaggia. Nuova guerra scoppiò nel 1850 e fu la più
sanguinosa, perchè i Cafri, insorti alla voce di] un loro profeta,
massacrarono interi villaggi. Appena dopo due anni, con una per-
dita di 4000 uomini e di 50 milioni fu domata quella fiera
rivolta. E, fino quasi a' di nostri, fu l'ultima. Nel 1857, un altro
profeta fece credere a quei selvaggi, che un nuovo e grande av-
venire di libertà e di potenza li aspettava; sarebbero diventati
tutti giovani, beili, invincibili, e sarebbero tornati dai mondi lon-
tani i loro antichi guerrieri; avrebbero trovato mandre innume-
revoli, e sterminati campi ondeggianti di mèssi mature. Ma do-
vevano distruggere tutto il loro grano, uccidere il bestiame, ed
astenersi per un anno dal seminare. Morirono cinquantamila di
fame, e lo storico, memore dell' /s fecit cui prodest, sospetta a
buona ragione che quel falso profeta fosse un astuto stromento
della politica inglese. - Frattanto il memorabile disinganno e la
strage domarono gli spiriti ribelli dei Cafri, e da quell'epoca fu
ristabilito anche al Capo il regno del l'ordine.
La prevalenza morale dell'elemento inglese nella colonia aveva
però creato un nuovo bisogno, quello delle libertà politiche. Gli
anglosassoni, se anche lontani dalla patria, non sanno rinunciarvi ;
hanno bisogno di amministrarsi da sé : vogliono consentire le tasse
che pagano, avere l'influenza che loro spetta sul governo. Tengono
in gran conto i vincoli che li stringono alla madre patria, e ne
invocano il braccio; ma non ammettono che gli affari della co-
' Parliamentary Papers, 1829, C. 181.
^Trollope, Sonth Afr-ica. I, p. 45. — Si rammenti che a quell'epoca gli In-
glesi si trovarono sulle spalle la rivolta imliana.
nell'africa australe, 495
Ionia possano essere meglio condotti ne' loro particolari sulle rive
del Tamigi, di quello che sul luogo, per cura degli interessati.
Le difficoltà che impacciavano la trasformazione del Capo, da
colonia, ch'era, della Corona, in colonia parlamentare, erano molte
e gravi. Come assegnare a ciascuna razza la giusta parte d'in-
fluenza? Come accordare il potere politico ai Cafri, che erano
pure liberi cittadini, al pari degli europei, soggetti com'essi alla
legge ed alle imposte? E come provvedere alle elezioni in così
vasto e spezzato territorio, e credere che uomini abbastanza agiati
e capaci, avrebbero lasciate le remote masserie alla diuturna mi-
naccia dei selvaggi, e le cure assidue della pastorizia e dell'agri-
coltura, per recarsi a dettar leggi nell'Assemblea del Capo ? Que-
sti ed altri argomenti prolungarono le esitanze del governo di
Londra; si aggiunsero poi le tendenze separatiste dell' Grange e
del Natal, le guerre coi Cafri, ed un tentativo malaugurato di
trasformare l'Africa australe in una colonia penale, che vi man-
tenne per due anni una pericolosa agitazione, sì che parve che i
coloni dovessero deporre ogni speranza di vedere accolti i loro voti.
11 modo come fu condotta qaesta campagna contro la depor-
tazione dimostrò tuttavia, che la colonia era in grado di ammi-
nistrarsi da se. Furono esaminati i progetti messi innanzi dalle
autorità locali, ed un Order in council dell'I! marzo 1853 largì al
Capo una costituzione poco diversa dalle altre britanniche e mo-
dellata come queste sulle istituzioni della madre patria. ' V'era
però una ditferenza semplice a primo aspetto, eppur bastevole a
dare al governo parlamentare del Capo un carattere essenzial-
mente diverso. La colonia aveva una Assemblea eletta dai citta-
dini che possedevano 25 sterline di reddito annuo; un corpo le-
gislativo più ristretto, ed un Consiglio esecutivo ; ma i membri di
questo non riconoscevano la loro autorità dal voto delle Camere,
bensì dal governatore, per modo che le Camere non avevano mezzo
di esercitare sulla politica generale alcuna efficace influenza, tanto
peggio, che gli affari militari, e le questioni cogli indigeni, erano
sottratte alla loro competenza. Tuttavia la colonia possedeva or-
mai una rappresentanza legale, come dire una libera arena dove
discutere dei propri interessi, ed era una grande conquista. Con
essa terminava il primo periodo della sua storia, e il costante
progresso economico che s'era compiuto ad onta delle guerre
' Sta'Kte lato of the Cape of Good Hope. C&'^&iown. 1862. — e Cape of Good
Hope Stalutes. Capetown, 18G3.
496 l' inghilteera
cogli indigeni, delle emigrazioni, e delle frequenti contraddizioni
del governo metropolitano, poteva trarre dalle nuove e liberali
istituzioni più vigoroso alimento.
II.
La storia coloniale non ha forse un esodo più commovente
di quello dei Boeri dell'Africa australe. Dalle prime emigrazioni,
quando fuggirono la signoria inglese appena stabilita nel paese,
sino alle recenti fortune per cui lasciarono il Transvaal dopo
l'annessione, questi pionieri della civiltà europea si inoltrarono
sempre verso l'interno, vieppiù intolleranti dei vincoli che ogni
civile convivenza domanda, e come inselvatichiti nell'isolamento
della loro vita pastorale. Quando l'abolizione della schiavitù tolse
loro gli strumenti del lavoro, e ne scompigliò le masserie, ven-
dute le terre « per un uovo e una patata » caricarono ogni
aver loro sui carri trascinati da sette coppie di buoi, e caccian-
dosi innanzi le mandre s'avviarono verso il nord. Dove, noi sa-
pevano essi medesimi: l'Africa era grande, le leggi inglesi odiate,
tanto più che temevano d'essere violentati ad abbracciare il cat-
tolicismo; ed essi lasciavano le dolci case, e i memori altari, e
muovevano verso il deserto, in cerca d'erba e di libertà. L'Olanda
avrebbe commesso a' suoi governatori di trattenerli a forza; ma
i giureconsulti della colonia, interpellati dal governatore, lord
Durban, affermarono che la legge inglese non gliene consentiva
il diritto.
I primi emigranti erano comandati da Reuzenburg e Lewis
Trichard. Vivevano di caccia; si arrestavano dove erano pingui
pascoli per le greggie, e disposti i carri in quadrato ne chiudevano
con rami spinosi gli interstizi e vi raccoglievano come in un for-
tilizio le donne, i fanciulli, ed ogni cosa loro. Poi, dall'alto di co-
teste trincee, col fucile in mano e le cariche in bocca, respingevano
gli assalti dei selvaggi, che alle volte, sorpresili alla spicciolata, ne
facevano orrendo macello. Nel passaggio delle montagne del Dra-
gone perdettero buona parte del bestiame. Poi si divisero : gli uni
discesero verso il sud ; gli altri proseguirono la marcia faticosa
traverso un paese infestato da tribù feroci. Nubi di mosche, la
terribile tsetsé uccisero loro il bestiame, rimasto, ultima risorsa, e i
poveretti, perduta ogni speranza, fra non credibili patimenti, dovet-
tero quasi tutti soccombere; i pochi superstiti, che arrivarono alla
baja di Delagoa, furono ivi raccolti dalla pietà dei Portoghesi-
nell'africa australe. 497
Più tardi un' altra carovana raggiunse la prima nel Natal, la
Terra natnlis, scoperta da Gama nel suo primo viaggio alle
Indie. Ma anche là ebbero a soffrire perdite sanguinose, e fu
quando gli Zulù ricominciarono a salire in fama di ferocia. A
Cbaka. un Attila africano cbe aveva esteso il suo dominio su
tutto il paese fra la Cafreria ed il Limpopo. era succeduto nel-
l'impero il fratello Dingaan, cbe si mostrò dapprima fautore de-
gli Europei. Assentì infatti alla domanda dei Boeri, quando gli
domandarono terre, ed il loro capo Retief con 70 de' suoi andò
a stringere il contratto, pieno di fiducia, senz'armi. Gli Zulù die-
dero loro una gran festa, durante la quale li trucidarono senza
pietà ; poi si in'ecipitarono sugli attoniti coloni cbe avevano pre-
ceduto il grosso della carovana, e ne misero a morte oltre a 600.
Gli altri, mossi alla vendetta dei compagni, furono dapprima
battuti ; ma poi, indettatisi con un fratello di Dingaan, e trovato
in Andrea Pretorius un capo vigoroso ed audace, tornarono alla
prova e vinsero. Così ebbero quella cbe dalle vette delle monta-
gne del Dragone era loro sembrata quasi una terra promessa, e vi
fondarono la città di Pietermaritzburg, in memoria dei duci morti
innanzi di giungervi.
Costituivasi così nel Natal una libera repubblica, o piuttosto
una federazione di famiglie unite appena per la necessità della
difesa. L'occhio vigile e il braccio potente dell'Inghilterra non tar-
darono però a raggiungere i Boeri anche nelle nuove dimore ; sicché
messi nel bivio di riconoscere la signoria britannica o sgombrare
da un paese che l' Inghilterra teneva per suo, resisterono fiera-
mente colle armi. Ma ben presto, perduta la capitale, invocata
indarno la protezione dell' Olanda, lasciarono anche le nuove di-
more, pensando, ^colla Bibbia che leggevano ogni sera, di non
essere ancora abbastanza provati dalla sventura per raggiungere
la loro Gerusalemme, e godervi i benefici promessi.
Gli esuli s'arrestarono dapprima sulle rive del Vaal e fon-
darono la città di Potchefstroom ; poi, appena seppero che in
una ordinanza del Governo del Capo si consideravano siccome
estese a tutti gli Europei a sud del 25° di lat. le leggi inglesi,
si inoltrarono ancra più a ponente, negli estremi stabilimenti
di Zutpansberg e di I eydenburg. 11 loro capo, Pretorius, non li
aveva seguiti in quest'ultima migrazione. S'adoperò invece ad ot-
tenere dal governatore del Capo l' indipendenza del paese tra
]' Grange ed il Yaal, dove s'era raccolto il maggior numero dei
Boeri, e quando già stavano per consentire a riconoscere di buon
498 L' INGHILTERRA
grado le leggi inglesi, eccitò il poi^olo alla rivolta, costrinse a
cai^itolare il comandante di Bloemfontaiu, e proclamò l'indipen-
denza di tutto il paese. L'Onmge frij State durò appena sei set-
timane, perchè giunsero presto i rinforzi inglesi, i Griqua si uni-
rono loro ed ai ribelli non rimase altro scarnilo che la fuga.
Intanto il governo inglese, ch'era allora in mano dei tvJiigs,
essendo ministro delle colonie lord Grey, richiamava l'attenzione
del governo del Capo sulla convenienza di non allargare più ol-
tre i confini della colonia. Perchè consumare uomini e danaro,
per contxuistare e mantenere territori vastissimi e deserti, quando
già la colonia aveva una così grande estensione ? Protegger le razze
afi-icane dagli Europei, difendere gli stabilimenti di questi, por-
tare fra i selvaggi la civiltà, aprire al commercio nuovi sbocchi,
erano buoni ed utili ]3i"opositi ; ma non dovevano essere, compiuti
per forza d'armi. Infatti nel 1852, colla Sancì Uiver Convention,
il governo britannico riconobbe l'indipendenza dei Boeri, che ave-
vano fondata oltre i confini inglesi la repubblica del Transvaal,
e l'anno appresso consenti anche a quelli dell'Orange facoltà di
darsi libero reggimento, rinunciando alla sua sovranità sul jmese,
dove fu del pari proclamata la reimbblica.
11 lìoyal order in coimcil, col quale la Kegina dichiarò the
ubandoncìnent and renunciallon of our doìuiniou and sovercignty
over tìie said territonj and the inahitants thereof, fu severamente
censurato in quel tempo ed alimentò una viva polemica. Dubita-
vano molti se la Corona avesse facoltà di rinunciare ad un ter-
ritorio britannico, senza alcuna coazione di guerra o di trattato ;
se potesse togliere lo status di sudditi inglesi agli abitanti di
quel territorio, perciò solo che non vi era ancora applicata la
legislazione parlamentare. ' La disputa ha piuttosto natura poli-
tica, ma la ricordo, perchè gioverà a spiegare più tardi la poli-
tica dei toryes e l'annessione del Transvaal. Intanto colla procla-
mazione delle repubbliche dell'Orange e del Vaal i Boeri pote-
rono godere vent'anni di libertà e di pace, e più l'avrebbero
goduta se avessero continuato a prevalere nel governo inglese i
principii dai quali quelle due repubbliche ripetevano la loro in-
dijjendeuza.
' FoRSYTH, Cases and opiyiions on constitutional lato. London, 1860.
nell'africa australe. 499
III.
Così, accanto alle colonie inglesi del Capo di Buona Speranza
e di Natal, nascevano le repubbliche olandoidi dell'Orange e del
Transvaal. La loro storia, da questo momento, vuol essere rias-
sunta a parte a parte, prima di descriverne la situazione presente
e di narrare gli ultimi avvenimenti che precedettero la guerra
cogli Zulù, e condurranno alla fondazione della confederazione
australe africana vagheggiata da lord Carnarvon. '■
Per qualche tempo la repubblica dell' Grange visse in pace
coi vicini. Ad occidente i Griqua, che obbedivano allora a due
capi, Waterboer e Adamo Kok, nati da unioni tra i Boeri ed i
loro schiavi africani, non esitarono a vender alla repubblica lor
terre; ad oriente i Basutos, raccolti sotto un sovrano accorto, ri-
soluto, di nome Moshesh, li tennero in conto di alleati. Ma nella
costituzione stessa della repubblica erano i germi di inevitabili
conflitti, né i Boeri avevano rinunciato alla loro antica politica
contro i nativi. Il potere esecutivo venne commesso ad un pre-
sidente eletto dal popolo per 5 anni ; il legislativo ad una As-
semblea di 50 membri, il Volhsraad, alla cui elezione concor-
revano tutti i cittadini bianchi, con limitate condizioni di censo
e di capacità. Il territorio venne suddiviso in 13 distretti, go-
vernati da un Landdrost, nominato dal Presidente e confermato
dall'Assemblea. Il fondo della legislazione fu costituito dal diritto
consuetudinario olando-romano ; le leggi dovevano essere sanzio-
nate dal popolo.
1 Anche i due Stati dei Boeri hanno oramai una ricchissima letteratura. Cito
fra altre opere, che mi corrono S'->tto la penna, le seguenti: Silver S. W. : Hand-
bnok to the Trniisvaal, its naturai featurex, industries, population and gold
fields. London, 181". — P. Gillmore : The great Thirst Land, A Rìde thro^igh
Grange free State, Transvaal, and Kaluhari Desert, London, 1818. — Gap.
Ei.TON : Special Report itpon the Gold Field at Marabastadt and upon the
Transvaal liejDublic, Durban, 1872. Chesson F. W : The dutch republic in
So'ilh Africa, London, 18T1. — Jacquenin -.Le Transvaal, nel Bull, de la soc.
belge de géngr. 1816, pag. 451-468, 491-539. — Ravenstkin : The South-African
Republic-; nel Geogr. Magas., t'ebbr. 1811. — Maelen, G. van der : Bibliographie
speciale du Ti^atìsvaàl, nel Bulletin de la Société belge de ge'ographie, 1871,
p. 122-13Ì, 371-316. — Jkpp-: Frid: Transvaal Bonk-Almanac and Directory
far 1877, un voi. in-12, Pietermariizburg, 1811. — Russell M. ile: The republics
of South- Africa, nel Bull, of the Americ. geogr. Society, p. 30-44. New York,
1871. — Merbnsky a.: Eine nene Karte der sùd-afrihanisch en Repitblik, nella
Zeitschrift dèr Gesellschafc filr Erdkiinde, X, Berlin, 1815. — Reks \y. A
van.: Naar de Transvaal, in 8, Amsterdam, ISlS. — De Zuid Afrikannsche
republieken met de diamant velden, Amsterdam, 1811.
500 L INGHILTERRA
Erauo le istituzioni d'ima democrazia elvetica, trapiautate
fra popolazioni costrette a combattere una continua lotta per la
vita cogli antichi signori della terra, una lotta che si manifestava
cogli assassini isolati, con scaramuccie di confine presto chetate
0 punite, quando non prorompevano a vere guerre, con tutte le
abitudini del comwando tradizionale. Per ben tre volte interven-
nero pacieri gli Inglesi ; ma i Basutos, sebbene avessero la ragione
di chi vince, erano sempre costretti a cedere ai Boeri qualche
loro terra. E quando nell' angusto spazio loro restato si trova-
rono a disagio, domandarono di essere annessi ai domini inglesi.
Dopo brevi esitanze convenne pur accettare la dedizione, perchè
non si gettassero disperati alla macchia sui declivi delle montagne
del Dragone a minacciare i coloni. Così si abbandonava nel 1867,
la politica 'proclamata tre anni innanzi, ed il territorio dei Ba^
sutos veniva incorporato al Capo, quasi anello di congiunzione
colla minor colonia di Natal. Vane tornarono le proteste del Volks-
raad di Bloomfontein contro una così aperta violazione della
convenzione del 1854; l'Orange dovette rassegnarsi alla perdita
di un territorio sul quale già volgeva i cupidi sguardi, perdita
ben lieve a paragone di quella che dovette subire j)oco appresso
in sugli opposti confini.
In principio 'del 1868 alcuni fanciulli, che si trastullavano
non lungi dal confluente del Vaal nell'Orango, tornarono con le
mani piene di pietruzze del più vago splendore. Un pastore olandese
vendeva in quel torno alcune pietre ad un colono del Capo, e
questi lavorandole, fu colpito dallo stesso splendore. Avevano
scoperto una miniera di diamanti, ed è facile immaginare come
rapida si diffuse la notizia. Fu un movimento generale di emi-
grazione, un entusiasmo, un delirio ; i mercatanti delle città del
littorale abbandonavano i bandii; i pastori le masserie; gli ar-
tigiani le officine; ufficiali e soldati domandavano un congedo o
disertavano ; e persino un alto funzionario del Transvaal, un pre-
fetto, armato della sua zappa e del vaglio mosse per alla volta
della nuova Golconda. Poi vennero emigranti dall' Europa, dagli
Stati Uniti, persino dall' Australia, sedotti dai racconti esagerati
di bocca in bocca delle prime scoperte. Un indovino cafro, di
quelli che hanno grande autorità fra i selvaggi, avea rinvenuto
la stdia dell'Africa australe, un diamante di dugentottanta ca-
rati, e l'avea ceduto in cambio d'un fucile; un diamante di 75
carati era stato trovato nei rifiuti delle terre vagliate in fretta
dai primi minatori, che badavano alle pietre di maggiore evi-
nell'africa australe. 501
denza ; un cavallo graffiando il suolo colle zampe, aveva scoperta
una miniera, e più d'un cuoco, sventrando con premura ignota
sino allora i grossi uccelli del paese, avea trovato nel gozzo una
fortuna. Mai paese al mondo fu trasformato più rapidamente di
questo, dove si trovarono tali ricchezze. Un commercio animato,
una vita quasi vertiginosa si svilupparono in pochi mesi, dove
avevano vagato sino allora branchi d'antilopi, e regnato libera-
mente sciacalli e leoni. Da tutte le direzioni muovevano a quella
volta, carri pesanti con munizioni d'ogni specie, stromenti di la-
voro, tende, e tutto quanto era necessario alle nascenti colonie.
E fortune più sicure e rapide dei minatori fecero coloro che prov-
videro ad ajjpagarne i primi bisogni, e qualchevolta tenevano il
sacco ai nativi, che rubavano i diamanti ai padroni, pei quali
attendevano a frugarli in seno alla terra.
Nel 1870 erano arrivati 5000 bianchi; l'anno dopo se ne con-
tavano 35,000. A New-Kush, la più ricca di queste miniere, nel
1872, pel corso di otto mesi, si trovarono in media 3000 diamanti
al giorno, molti di cospicua grossezza. Ma a chi apparteneva co-
testa vera Golconda ? Era proprietà di Waterboer, il capo super-
stite dei Griqua, o compresa nel territorio lasciato dall'Inghil-
terra airOrange ? A qual legge dovevano obbedienza i minatori ?
chi doveva mantenere fra loro almeno quel tanto d'ordine neces-
sario ad ogni civile convivenza? Da principio i nuovi arrivati si
organizzarono ad esempio delle società fondate in modo non dis-
simile in California, in Australia, nel Nevada, dovunque l'im-
provvisa scoperta di ricchi giacimenti aveva chiamata folla di
coloni in \m paese deserto. Deputarono alcuni fra loro ad am-
ministrare la giustizia, se così jjotevasi chiamare un processo
sommarissimo, che riusciva di solito alla frusta o alla forca. Vie-
tato severamente agli uomini di colore di lavorare per proprio
conto nelle miniere e possedere diamanti; i)uniti coll'incendio di
ogni aver loro i cantinieri, che ne ricettavano i farti. Si proclamò
una « repubblica diamantina, » che ebbe per qualche giorno a
presidente un garzone di caffè. Intanto l'Orange proponeva al go-
vernatore del Capo di chiamare arbitro della proprietà della
terra l'imperatore di Germania, e il signor Brand, che da quin-
dici anni si trova alla testa della repubblica, pubblicava un pro-
clama e mandava fra i minatori un governatore incaricato del-
l'amministrazione. Per colmo di confusione il Transvaal fece al-
trettanto sull'opposta riva del Yaal, di guisa che, quando sir
H. Barkiy, governatore del Capo, venne sul luogo, si trovò davanti
502 l' INGHILTERRA
ad una delle più ingarbugliate questioni si potessero immagi-
nare. Dritti d'uso creati da un lungo possesso, concessioni di terre
accordate da chi non ne aveva la proprietà, frasi a doppio senso,
carte geografiche erronee, lettere scritte da un capo, che non sa-
peva leggere, e peggio. Il Barkly neanche vi pose mente: non
aveva fatto 1200 chilometri, quanti corrono da Capetown a Kilf-
drift, per fare un processo, sibhene per affermare la sovranità in-
glese sul territorio, e vi innalzò la sua bandiera. Il Transvaal
non fiatò; ma l'Orange continuò a protestare, a lamentarsi, ad
invocare arbitrati. Anzi, sebbene il Parlamento del Capo provve-
desse subito all'amministrazione del nuovo territorio, ch'ebbe
nome di Griqualand occidentale, la disputa continuò sino al 1876,
quando lord Caruarvon fece pagare al presidente Brand, recatosi
a Londra, una indennità di ceutoquindicimila sterline, per ter-
minare la lite e cattivarsene, sperava, il favore, per il suo pro-
getto di federazione australe. Tornato che fu a Bloemfontain, il
Brand attese con tutto lo zelo a compiervi il riordinamento delle
finanze e il buon assetto dell'amministrazione, ed istituì una forza
armata pel mantenimento dell'ordine. Cosi l'Orange gode tuttora
di una prosperità relativa, e conserva la sua indipendenza poli-
tica, sebbene stretto tutto intorno dai possedimenti britannici.
Al Griqualand occidentale, dopo che il Parlamento del Capo
ne ricusò l'annessione immediata, il governatore mandò tre com-
missarii per l'amministrazione, la difesa e la giustizia. Ma come
non avevano sufficiente autorità su quell'accolta di avventurieri
d'ogni nazione, nei quali era cresciuto un fiero spirito d'indipen-
denza, mancò loro la forza di impedire le sanguinose repressioni
contro i nativi, le contese fra i proprietari del suolo ed i mina-
tori, e le turbolenze naturali in cosiffatto paese. Così il governa^
tore al principio del 1873 mandò a reggere la provincia un luo-
gotenente, con un Consiglio di otto persone, metà eletto dagli
abitanti, ed una piccola forza armata, ed allora fu possibile man-
tenere l'ordine, riscuotere qualche tributo, ed avviare nel cuore
dell'Africa selvaggia un altro embrione di governo parlamentare.
Diversa sorte ebbe la repubblica del Transvaal, come ebbe
diverse dall' Grange le origini. 1 Boeri rimasti in quella, si ri-
corda, eransi dapprima acconciati al reggimento britannico, [poi
secondarono i civili intendimenti del Brand, quando, ad un rag-
gruppamento di monadi scompigliate, volle sostituire una orga-
nizzazione liberissima sì, ma pur tale da compatire una suffi-
ciente autorità di governo. Invece nel Transvaal si erano rifu-
nell'africa australe. ^^^
giati i Boeri più intolleranti d'ogni disciplina, che non volevano
riconoscere aiitoritcà fuor del loro volere, e nessuna forma di go-
verno fuor della pastorale, che la Bibbia aveva loro imparato a
preferire ad ogni altra. Quando si legge in Jeppe, in Merensky, in
Trollope, od in qualche altro degli scrittori che visitarono il Trans-
vaal il semplice racconto della vita de' suoi abitanti, ci tornano,
alla mente le ingenue narrazioni di Robinson Crosuè.
I Boeri odiano il progresso ; eppure hanno eccellenti qualità,
come un ricordo dei pacifici ed industriosi progenitori dell'Olanda.
Cercano un terreno ondulato, grande da sei a ventimila arpenti,
arrestano il carro presso ad una fonte, a quindici chilometri, se
non oltre, dallo stabilimento più vicino, e vi costruiscono una ca-
panna. La terra bagnata e cementata colla sabbia porge semplici
materiali di costruzione; gli interstizi si coprono col fango sino
a che tutto il ^muro presenti una tal quale solidità. Seminano
buon tratto di terra presso alla capanna a frumento ed a gran-
turco; dall'altra parte preparano l'orto e il giardino, poco oltre
le chiuse dove custodiscono la greggia. Presto il suolo ferace lar-
gisce copia d'aranci, limoni, fichi, pèsche, pere e d'ogni ben di
Dio. Chi vuol presto arricchire vi aggiunge un parco di struzzi,
e sanno l'arte di ridurli come dentro ad un imbuto, per strap-
par loro intatte le preziose penne, e mandarle a Delagoa od a
Port Natal, insieme alle lane, e al sopravanzo dei prodotti agri-
coli. Così vivono nell'abbondanza, con pochi utensili, colla Bibbia
unica lettura, fra i figliuoli e le mandre, hmgi da ogni contatto
civile. Ad ogni matrimonio si costruisce una capanna, a due tiri
di fucile dalla prima, e si mette a coltura un tratto di terreno
intorno intorno; e formano un villaggio patriarcale, dove il
paterfamilias è re, sacerdote, giudice, tutto. La mattina rac-
coglie i suoi alla recita di un salmo; la sera siedono al comun
desco e fanno la preghiera. Nessun bisogno, che non possano su-
bito appagare ; un orizzonte chiuso, limitato ; una stima assai me-
diocre della ricchezza; un dispregio assoluto per le raffinatezze
della civiltà. Alimentano il focolare cogli escrementi animali, per-
chè è scarso il combustibile, e s'abituano presto al cattivo gusto
che ne ritraggono le semplici vivande. Vestono all'europea, e mai
si spogliano la notte, per l'abitudine contratta [nelle lunghe
emigrazioni, o piuttosto per essere pronti alla difesa. Le capanne
presentano dentro una tal quale grossolana eleganza, che ricorda
l'Olanda; qualche volta le seggiole sono ricoperte di spoglie fe-
line e leonine, trofei di omeriche caccie alle quali i coloni sono
50 i L' INGHILTERRA
-costretti per preservare sé e la greggia. Parlano un olandese cor-
rotto con qualche parola di inglese e molte dei dialetti africani,
conosciuti nei loro contatti. Non pagano imposte e s'adattano a
fatica a riconoscere appena quel tanto di autorità che basta ad
assicurare loro la fiera indipendenza e il possesso delle terre.
Pretorius, ch'era il degno capo di questa gente, aveva appunto
ima autorità effimera, appena sufficeute a firmare la convenzione
del Sand River, colla quale il governo inglese aveva riconosciuta
l'indipendenza del Trausvaal. Alla sua morte, nel 1753, nessun
legame univa tra loro i tre stabilimenti di Potchefstroom, Leiden-
biu'g e Zutpansberg, nei quali si erano raccolti i Boeri, e questi
rimanevano esposti alle minacele dei selvaggi, sì che la storia breve
del Trausvaal è piena di massacri, di incendi e di sanguinose trage-
die. Né, a dir vero, il torto maggiore era dei selvaggi. Anzitutto i Boeri,
con evidente malafede, mantenevano la schiavitù, che si erano impe-
gnati nel trattato del 1852 ad abolire di netto. Uccidevano i guer-
rieri e le donne, ed allevavano i fanciulli che poi vendevano ai
Portoghesi della baia di Delagoa ed agli Arabi che vi ancoravano
le barche, quando non ^preferivano mantenerli in ischiavitù nelle
masserie, facile impresa dacché avevano perduto ogni ricordo della
patria e fin della lingua. Quando il figlio di Pretorius tentò di unire
i Boeri del Trausvaal per la difesa comune, non trovò ascolto ed egli
lasciò la presidenza e il paese, che precipitò nell'anarchia. Ridottosi
nell'Orauge, vi fu eletto presidente, e tentò di unire le due repub-
bliche ; ma vi si oppose il Voìksrad di Blomfoutain, che aveva una
stima assai mediocre de' connazionali d'oltre Vaal. Dal cauto suo il
governatore del Capo dichiarò, che non avrebbe consentito l'unione,
nello stesso modo che più tardi, quando Pretorius lasciò l'Orange
e ristabilì l'ordine nel Trausvaal, che lo rielesse presidente, non
gli consentì di trattare con gli Zulù per avere uno sbocco sul mare.
La mancanza di questo sbocco era per il Trausvaal, a dir poco, una
rovina; ma gli Inglesi, che già invidiavano ai Portoghesi la baia
di Delagoa, e l'avrebbero loro tolta, se il presidente della repub-
blica francese, chiamato arbitro della contesa, non avesse trovato
comprovate le ragioni di possesso del governo di Lisbona,' gli In-
glesi non potevano riconoscere altra autorità fuor della loro, su
tutto il litorale australe dell'Africa sino ai possedimenti lusitani.
' Con cotesto giudizio arbitramentale il maresciallo Mac-Mahon tenne per de-
bitamente comprovate le pretese del governo poi-toghese sui territorii di Tembe e
<li Majuito, sulla penisola d' Inyaok, e sulle isole d' Inyack e degli Elefanti, —
V. Journal Officiel 30 luglio 1875.
nell'africa australe. 505
Intanto si era fondata nel Transvaal la nuova città di Pre-
toria, scelta a capitale, e vi si era proclamata una costituzione
democratica. Il potere esecutivo fu affidato al presidente eletto
ogni cinque anni a suffragio universale, ed a quattro consiglieri; il
legislativo ad una Assemblea di 30 deputati eletti pure a suffragio
universale. Nei primi anni l'Assemblea fu tutta occupata a ratificare
le annessioni clie la repubblica andava facendo continuamente sulle
tribù del confine. Quando insorgeva una contesa, e le autorità del
Transvaal erano chiamate a pacificarla, si appropriavano inva-
riabilmente le terre del più debole; ed i coloni imitavano la pro-
cedura svelta del governo. Alle volte compravano da un capo per
somme da burla un territorio non suo, e lo scrivevano nel ca-
tasto della repubblica. A lungo andare cotesti usurpatori si fe-
cero tanti nemici, che cominciarono a rimetterci del loro; anzi, in-
torno al 1865 perdettero d'un tratto parecchi villaggi, con masserie
chiese e scuole, e furono costretti a dispendiose spedizioni. Il com-
mercio languiva, la moneta era scarsa, gli Inglesi imponevano al loro
confine gabelle esorbitanti, e Pretorius si vide costretto a decretare
il corso forzoso di certi biglietti di banca, che precipitarono su-
bito ad un corso rimesso assai. Una rovina, se giusto in quell'epoca
non si fossero scoperte miniere di diamanti sul Vaal e ricchi
filoni di quarzo aurifero nel Zutpansberg, due avvenimenti che
chiamarono nel paese nuove frotte d'emigranti, ravvivarono il com-
mercio, e fecero rinascere speranze di miglior avvenire. Vedemmo
però come il Pretorius fosse costretto a rinunciare alle sue pre-
tese sulla regione diamantifera, senza neanche ^il compenso che
ottenne, litigando anni ed anni come un leguleio, il suo collega
deirOrange. La politica del presidente aveva subito troppe scon-
fitte per continuare ad avere le grazie di quella rozza gente,
laonde lo deposero senz'altro, ed elessero in sua vece F. Burgers.
Il rev. Francesco Burgers, educato nelle missioni olandesi al
Capo, era uomo di tutt' altra tempra. Mite ed energico ad un tempo,
dotato di un sicuro colpo d' occhio, convinto dei benefici della ci-
viltà, egli vide nel Transvaal un paese da rigenerare. Le condi-
zioni sue non potevano essere peggiori; eppure il suolo era un
paradiso terrestre, le miniere abbondanti, laboriosi e frugali gli
abitanti, e relativamente vicino uno sbocco magnifico, sebbene nelle
mani dei Portoghesi. Adottò dunque saggie ed energiche misure
per la buona amministrazione dello Stato; contrasse a Capetown
un prestito di 63 mila Ls. per ritirare la carta moneta ; riformò
la legislazione; pacificò i nativi, stringendo con essi trattati di
VoL. XIV, Serie II — 1 Aprile 18^9. 31
506 l' inghilterka.
pace e d'amicizia, e si dedicò tutto a sviluppare la ricchezza del
paese. Lo percorse in tutti i sensi, fondò chiese e scuole, costruì
strade, istituì un corpo di polizia per il mantenimento dell' or-
dine, specie nei distretti auriferi, dove erano convenuti in folla
nuovi emigranti. Ma il suo pensiero dominante era la costruzione di
una ferrovia tra Pretoria e Delagoa. La repubblica pagava agli
inglesi, di soli diritti di esportazione, 54 mila Ls. l' anno, e basta-
vano a contrarre un prestito per costruire, d'accordo col Porto-
gallo, la nuova linea. Il Burgers sapeva bene che al Capo non
avrebbe trovato, con tali propositi, capitali e simpatie, per lo che
nel 1876 venne in Europa. Ebbe in Olanda splendide accoglienze ;
negoziò un prestito, convenne col Portogallo i patti necessari per
costruire e mantenere di comune accordo l' importantissima linea.
E tardandogli il momento di iniziare un lavoro dal quale gli pareva
che la sua repubblica potesse aspettarsi ogni bene, accattò mate-
riali, condusse seco ingegneri ed operai, e tornò il 15 aprile 1877
a Pretoria.
Quivi però lo aspettavano amare delusioni. Aveva fatto i conti
senza i suoi Boeri, cedendo troppo facilmente ad un nobile entu-
siasmo, che essi punto non dividevano. La legislatura ed il popolo
si opposero ai suoi disegni, per volgere tutte le forze alla guerra
coi nativi, una guerra incominciata con somma imprudenza du-
rante r assenza di lui, e che doveva terminare colla più terribile
e completa sconfìtta. Il Transvaal vi perdette la sua indipendenza,
e gli Inglesi, occupando il territorio della repubblica ed assu-
mendone la difficile eredità, si trovarono alla lor volta trascinati
alla guerra presente.
IV.
Prima di proseguire questo racconto -è necessario conoscere
con qualche particolare le popolazioni indigene, con le quali i
Boeri dapprima e poi gli Inglesi si trovarono a contatto nel-
l'Africa australe. ^ Due grandi razze, essenzialmente diverse fra
' Sui nativi dell' Africa australe si veda specialmente V opera magistrale del
Fritsch : SUd-Afrika's ethnographisch imd artatomisch beschr eben. Bresiau, 1874.
— Aggiun^'o: Hamy Dr., Un 7-e'ce>it voyng" eh" z les Cafres Zoulous nel {Nature,
6 janvier, 19,11. - Holub E., A few words on the Native questùm, ecc. ecc.
Kiniberiey, 1816-11. — Adler N.. lieber di Kafjlren 7ind deren jetzige Slellung
zuden Sv da fr ikanischen Republiken, r\e:\\?i Oesterr. Monatschrift fur den Orient.
Wien, 1877.— Bezoek van den Leer E.: Brunnfr van het npperhofd d/'r Zoeloe-
Kaffers Cetswayo, nei Tijdschrift van het aardrijkskundige. Genootschap. Ams-
terdam, 1877. p. 35-2-357).
nell'africa australe. 507
loro, si dividono il paese, gli Ottentotti ed i Cafri, a non par-
lare dei Boschimani, i quali ricacciati nell' interno, e ridotti a
scarso numero, vanno oggimai scomparendo.
Gli Ottentotti, che si chiamano in loro lingua Koi-hoin (plu-
rale Ko-koi-koin) hanno capelli assai crespi ed arruffati, fronte
bassa, zigomi sporgenti, mento aguzzo, mani e piedi piccolissimi,
cranio platistenocefalo. Non sono aitanti della persona, ma forti ;
la pelle è d' un tanè alquanto sbiadito. Le donne hanno una pin-
guedine straordinaria, come una ipertrofia benigna (sicaiopigia)
della membrana adiposa in tutte le sporgenze del tronco. Si sud-
dividono in molte tribù, alcune quasi scomparse, altre ancora
abbastanza numerose, che si possono ridurre a tre tipi principali :
i Namaqua, nella valle dell' Orange ed oltre, fra il deserto di
Kalahari e la baia della Balena; i Coranna, lungo l' Orange su-
periore ed il Vaal, co' loro affini i Griqua, ed i pochi Gonachi
superstiti nella provincia di Stockenstrom ; e gli Ottentotti veri,
che errano intorno al Capo, sino a confondersi coi Cafri. All' epoca
di Van Riebeck potevano essere 150,000; adesso, secondo l'ultimo
censimento, non superano i centomila. ^ La lingua, del genere delle
suffisso-pronominali, è ricca di suoni scoppiettanti, e si suddivide
in quattro dialetti, uno dei quali, il Nama, dopo gli studi di Le-
psius e di Max Miiller, fu creduto, per qualche tempo, affine all' an-
tico egizio, affinità confutata specialmente da Bleek e T. Hann.
Gli Ottentotti precipitano a rovina, come poche altre razze
africane. Il Fritsch lo attribuisce al temperamento sanguigno, alla
sconfinata leggerezza loro, alla facilità colla quale si assimilarono
le buone qualità, ma più i difetti dei coloni europei. Sensuali ed
ubbriaconi, sono spietatamente mietuti dalla sifilide e dall' acqua-
vite, ed i missionari hanno cercato indarno di educarli a senti-
menti morali, alla coscienza delle loro azioni, alla fede in una
vita futura. Non hanno senso di nazionalità; sono servili, e con-
siderano i bianchi come padroni naturali, che possono derubare,
non disobbedire. È difficile che la civiltà riesca a farne altro che
schiavi ; i tentativi degli Liglesi, per quanto onesti e perseveranti,
non hanno avuto alcun importante successo.
I Cafri^ che è più esatto chiamare Bantu, ^ formano, come
' 81,000 al Capo ; 15,000 nel grande Namaqualand, poche centinaia nei dne
Oriqiialand.
* Il nome di Cafii, deriva dall'arabo ka/ir (miscredente) e fu dato loro per
dispregio.
508 l' INGHILTERRA
dissi, una razza completamente diversa. Hanno pelle fra il nero
cupo di seppia ed il nero azzurrognolo, capelli alquanto cre-
spi, cranio dolicocefalo piuttosto alto, corpo robustamente svilup-
pato. Parlano una lingua prefisso-preuominale ^ che si suddivide
in iin gran numero di dialetti. I Cafri appartengono a quella
grande razza nera, che dall'Africa centrale, dalle regioni dei
grandi laghi, si spinse sino alla costa orientale, e discese verso
il Capo di Buona Speranza frammettendosi alle razze j^iù deboli
che incontrava nelle sue invasioni. Appunto in quella che gli Euro-
pei occupavano la baja della Tavola, i Cafri j^assavano il Kei, ed
invadevano il paese degli Ottentotti. Si suddividono propriamente
in [quattro (grandi famiglie]: i veri Cafri, gli Zulù, i Besciuani,
ed i Damara. I veri Cafri si chiamano Ama-Xosa, come ^dire
figliuoli di Xosa, l'eroe dal quale si vantano usciti, e si suddivi-
dono alla lor volta, forse dal nome dei figliuoli di lui, in Galechi,
Cìaichi, Tslambi, e Tambuchi. Vivono questi nelle locations, o sta-
bilimenti, che si trovano fra il fiume Keiskamma, ad oriente del
Bashee, e l'Oceano indiano a ponente delle montagne del Dra-
gone. Quasi tutte queste tribù furono a poco a poco assoggettate
dal governo del Capo. Così il censo del 1874 ci dà 29,200 Gaichi
nel distretto di King's William Town; 25,000 Tslambi nel Tama-
cha e distretti finitimi, e 47,375 Tambuchi nei distretti di Queen-
stown e Wodehouse. Si aggiungano le altre tribù, che accettarono
spontanee jla signoria britannica, e sono i Fingoes, circa 73,500, i
Tembi, in sul confine dei Basutos, mescolati ai Fingoes ed ai Basutos
medesimi, (circa 25,000, ed i Tembi ad oriente del Kei, che ri-
conoscono a loro capo Gangelizne, un suddito inglese, in numero
di circa 70,000. Fra queste tribù ed i confini del Natal si tro-
vano ancora intorno a 70,000 Galechi, 20,000 Bomuaui, e 200,000
Pondos.
I Besciuani, che comprendono varie tribù, quasi tutte assai
ben conosciute dopo gli scritti di Livingstone, che passò fra i
Besciuani parecchi anni della sua vita gloriosa, si estendono molto
addentro nell'Africa australe. Appartengono a questa famiglia i
Basutos, circa 128,000, che si mostrarono i più adatti alla vita
civile, ed hanno già fatto in dieci anni progressi assai considere-
voli; vi appartengono del pari le numerose tribù, che vivono, con
nomi diversi, nel Trausvaal. I Damara, che si chiamano Ova-herero,
• Cosi il plurale di Bantu è, nella loro lingua, A-Bàntu.
nell'africa australe. 509
hanno qualche legame coi Besciuani, e costituiscono propriamente
l'anello di congiunzione fra i Neri ed i Cafri. Circa 85,000 sono
nel paese cui danno il nome, annesso, se anche non ordinato an-
cora, al dominio britannico, e s'allarga fra la baja della Balena ed
i fiumi di Cunene ed Okavanga. Coi veri Damara non bisogna
confondere quelli che i geografi chiamano i Damara della mon-
tagna, ed i loro vicini, i Ghou-damap, quasi uomini fatti di fango,
che ,sono sempre in guerra con quelli, e vivono di preda. Il rev. H.
Hahn fondò fra essi una missione, ma non ne ha colto, che si
sappia, successi importanti, fuorché per la scienza. '
Alla quarta tribù dei Cafri appartengono gli Zulù, che si
difi"erenziano ben poco dai veri Cafri, ed a proposito dei quali,
poiché sono adesso i più feroci avversari dei coloni europei, dirò
dei caratteri generali della razza. Anzitutto gli Zulù stessi vanno
divisi come in due grandi famiglie, d'indole alquanto diversa.
Vivono gli uni nel Natal, dove si sono acconciati di buon grado
al dominio britannico; gli altri sul littorale che s'appoggia ai
monti del Transvaal e si estende dalla baja di Delagoa ai con-
fini del Natal lunghesso il fiume Tugela. Quando gli Inglesi oc-
cuparono la colonia, nel 1843, vi erano forse ottanta o centomila
Zulù; adesso sono trecentomila. Altrettanti, se non più, vivono
liberi e selvaggi oltre il Tugela sotto l'impero di Cetywayo, che
ha sui suoi sudditi potere assoluto, conclude i matrimoni a suo
talento, e può mettere in campo da venticinque a trentamila
soldati. - Le donne nubili formano una] specie di esercito di ri-
serva, ed i viaggiatori narrano di una guardia reale di giovani
amazzoni, armate di archibugi, e tiratrici eccellenti. Gli Zulù non
rappresentano, come li descrissero alcuni, quasi un'ideale del-
l'umana bellezza. Non sono statue viventi, ^levusàve l'espressione del
Moher, sebbene aitanti della persona, di statura vantaggiata,
belli d' aspetto come pochi Neri ; dotati d'una forza di resistenza
contro gl'influssi nocivi proprio ammirabile, e d'acutissima vista.
Sono piuttosto vantatori che eroi, e non di rado basta la paura
di perdere la greggia a farli vili. Non hanno idea di religione,
non sanno comprendere altra legge morale fuor di quella del
* CoATES Palgrawe W. : Report of a mission to Damara Land and great
Namaqua land in 1876. Capetown, 18T7.
* Le forze di questo corpo sono variamente calcolate nei diarii inglesi. SirT
Shepstone, che deve intendersene, non crede possa mettere in campo più di 30,000
nomini. Il Sanderson dice 36,550. Certo nell'ultima guerra furono più, perchè dopo
la battaglia di Tsandula una parte dell'esercito si mandò a casa perchè attendesse
ai raccolti*
510 L'INGHILTERRA
vantaggio individuale. Sono ipocriti, mentitori, ladri : sui confini
del Natal l'abigeato è tanto comune da assumere una vera im-
])ortanza politica. Quando si vedono trattati con affetto, sono ospi-
tali, manierosi, incuranti della dimane, e coprono come d'una
vernice di bontà la naturale selvatichezza. *
Y.
La colonizzazione europea occupa nell'Africa australe una su-
perficie di 1,587,000 chilometri quadrati, sui quali vive appena
una popolazione di due milioni d'abitanti, come chi dicesse gli
abitanti della Toscana sparsi sopra meglio che cinque volte l'Ita-
lia. La gran maggioranza della popolazione è di razza africana,
ma la prosperità del paese e la sua presente civiltà debbonsi
esclusivamente ai coloni europei. Sotto l'aspetto politico il paese
si divide in tre parti distinte: i possedimenti inglesi, i territori
soggetti alla giurisdizione britannica ma non ancora ufficialmente
annessi ed organizzati, e la repubblica deirOrange.
La colonia del Capo è compresa tra i fiumi Grange e Kei
e il litorale dell'Oceano atlantico e dell'Indiano; però stanno come
a' suoi cenni il paese dei Basutos, il Griqua occidentale (Dior
monds' fields) ed il Transvaal ; tutta la costa occidentale fino al
Capo Frio, il paese dei Gran Namaqua, e il paese dei Damara
sono pure virtualmente sotto la giurisdizione coloniale, sebbene
non ancora incorporati colla sanzione della corona. Anche il ter-
ritorio fra il Kei ed i confini del Natal è stato in gran parte
annesso. I censimenti del 1875 e del 1877 ed i calcoli più accu-
rati dell'ufficio coloniale danno per la superficie e la popolazione
di questi territori le cifre seguenti :
Cape Colony. . Chilomet. 517,819 abitanti 720,984
Basutoland » 21.886 » 127,701
Griqualand West. . » 43,076 » 45,277
Transkei Districts . » 32.250 » 254,500
Natal » 48,560 » 325,512
Transvaal » 296,175 » 315,000
Namaqualand. ...» 258,800 » 16,850
Damaraland » 258,9 JO > 21,150
Tutta l'Africa australe è come orlata da una grande catena
di montagne, che segue a distanza il profilo della costa, e so-
' Trollope, I, pag. 125, e ce
nell'africa australe. 511
stiene l' altopiano australe del continente. Varii i nomi ; dove si
estolle a maggior altezza troviamo le montagne del Dragone. Chi
muove dal litorale, prima di questa catena, ne incontra un' altra
minore, sebbene nel piovente meridionale, col nome di Montagna
Nera, presenti rigidi orli e s'innalzi a 1670 metri. Fra le due si
estende una vasta pianura, in gran parte arida, coperta di un
terreno durissimo, color d'ocre, sotto il quale si trova subito la
roccia. Gli alvei fluviali che la traversano sono privi d'acqua per
nove mesi; ma pochi giorni dopo le pioggie il deserto si veste
d'una pompa di fiori e di verzura: alofìti, mesembriantemi, gi-
gli, amarillidi, iridi, ed altre piante, ed erbe. Le mandre scen-
dono ai nuovi pascoli, e si raccolgono intorno ai radi stabilimenti
che sorgono nelle oasi.
Il clima, grazie all'atmosfera pura ed asciutta ed alla asso-
luta mancanza di paludi, è molto sano « uno dei più adatti alla
costituzione umana in generale, ed uno dei più deliziosi della
terra. » ' Come si procede nell'interno si trovano però due fatti,
i quali costituiscono una seria preoccupazione per l'avvenire del-
l'Africa australe: mancano le foreste, e va scemando la copia
delle acque correnti. Come alla punta australe dell'America an-
che a quella dell'Africa i primi navigatori avevano dato il nome
di Terra do fumé, a cagione dei frequenti incendi provocati dai
nativi in cerca di pascoli e di facili caccie, e colle foreste scom-
parvero 0 scemarono le acque. Già da parecchi anni H. Wilson
lo notò nella valle dell'Orango, e il valente botanico di Capetown,
J. Croumbie Brown, ha raccolto mezzo secolo di documenti dai
quali risulta, che il progresso di questa aridità del suolo ben po-
trebbe turbare i sogni di Cameron, dove non si proceda a vasti
imboschimenti, per trattenere i sottili strati di terra vegetale ed
accrescere la quantità delle pioggie. ^ Così cesserebbero le inon-
dazioni e gli incendi delle erbe e dei boschi, cui le colonie euro-
pee dovettero nel periodo corso fra il 1865 e il 1873 una per-
dita annua di due milioni e mezzo di nostre lire, e solo nel 1874
di nove milioni.
Oltre ai coloni europei ed ai nativi, dei quali abbiamo par-
lato, vivono al Capo e ne' suoi dominii parecchi neri di Mozam-
bico e malesi, i quali professano l'islamismo, con una parte della
' Merivale, On Colonies, I. 116.
* Hydrologie of South Africa, or details of the former hydrographic condi-
tion of the Capi', of Good Hope, and the cauxes of its present ariddy, uith sug-
gestions of appropriate reìnedies for this aridity. London 1875.
512 l' inghilterka
popolazione indigena. Crii Europei, nel Capo proprio, sono 236,783;
10,817 i Malesi, gli altri Africani. La maggior parte della popo-
lazione (209,136) attende alla coltura del suolo o degli animali,
e dà al paese il carattere prevalente che ha, di colonia agricola.
Appena 7736 persone attendono alle arti, e men che due volte
tante alle industrie tessili che cominciarono da qualche anno ad
introdursi nella colonia ; 4535 persone fanno parte del governo e
dell'amministrazione o provvedono alla difesa; e 3381 alle arti e
professioni liberali. V'ha tutte sorta di religioni, dall' ultramon-
tanismo al paganesimo, dal giudaismo alle ultime forme della
dottrina mussulmana e alle bizzarre credenze dei tremanti e de-
gli svedeniborgiani.
La colonia è ricca d'animali, ed esporta lane, penne di struzzo,
avorio, e svariati prodotti del suolo e delle miniere. Il suo commercio,
per naturale consuetudine e per interesse piuttosto che per violenza di
dogane, si fa quasi esclusivamente colla Gran Bretagna ; dove i na-
vigli recano dal Capo per 3,330,353 sterline d'esportazioni sopra un
totale di 3,542,694, traendone per appagare i bisogni dei coloni per
3,560,499 sterline di valore sulle 5,158,348, che costituirono nel
1877, -^ e sono cifre poco men che costanti da cinque anni, — la loro
importazione totale. Il prodotto col quale saldano precipuamente i
loro scambi è la lana, e ne vendettero nell'anno medesimo oltre
a 36 milioni di libbre inglesi, contro un equivalente di 2,232,755
sterline. Cotesta industria pastorale, che nel 1850 rendeva appena
trecentomila sterline, era già riuscita a dare nel 1872 per 49 mi-
lioni e più di libre di lana un reddito di tre milioni e un quarto
di lire. Gli altri cespiti precipui dell'esportazione sono : le penne
di struzzo, che procurano un' entrata di 393,406 ; l' oro scavato
nelle miniere,per 303,645 ; e le pelli di animali diversi, per 249,552,
oltre a 116,382 lire sterline di crini. Cotesto sviluppo di commercio,
tanto più ammirabile, che rappresenta, a vantaggio della colonia,
anche la produzione delle altre, che le stanno a tergo, prive di sbocchi,
data, si può dire, principalmente dal 1870, poco dopo che il Capo
si era abituato a non vedere più ne'suoi porti grosse navi volte al-
l'Asia e ai nostri antipodi. Nell'anteriore quinquennio il commercio
era rappresentato complessivamente da una somma di 4,453,374,
mentre nei cinque anni appresso, con un aumento che si raggua-
glia quasi al cento per cento, ascese a 8,691,301 sterline. Uno svi-
luppo, il quale non accenna ad arrestarsi, ma piuttosto assume
andamenti più rapidi e sicuri. Aumentano infatti i centri di pro-
duzione, del pari che i capitali e le braccia, e si sviluppano i
nell'africa australe. 513
mezzi di coniimicazioue ai quali il governo del Capo volge le più
sollecite cure. Appena si possono immaginare i vantaggi di una
gran linea ferroviaria, che dalla baia della Tavola, su per l'al-
tipiano, traverso le più fiorenti colonie, collegasse i campi de' dia-
manti alle più estreme miniere transvaaliche, per scendere alla baia
di Delagoa, ferrovia che si aggiungerà fra pochi anni agli 846 chi-
lometri sui quali già fischia il vapore, mentre alla costruzione d'al-
trettanti attendono gli ingegneri del governo. E sono ordinate mi-
rabilmente le poste, così che nessun'altra regione aù'icana offre più
agevoli e piane comunicazioni. Nulla di più primitivo, so bene,
di quelle diligenze, tratte per vie appena segnate da sette cop-
pie di cavalli, o di buoi, o d'asini (quesf ultimo è il solo qua-
drupede che la puntura velenosa della tsetsé non offende) ; i po-
veri viaggiatori, seduti sulle panche di legno fra un imgombro di
bagagli, che sono qualche volta diamanti, non possono muovere le
gambe, danno del capo dovunque ad ogni scossa, soffrono il caldo,
il freddo, qualche volta la fame, sempre il sonno, ed arrivano dopo
otto o dieci giorni sui campi diamantiferi, o nell'altre regioni sino
a dove mette la posta, colle ossa rotte, gli occhi infossati, inca-
paci di muoversi. Eppure che cosa non sarebbe l'Africa, se dalle
due marine di Guinea e del Zanzibar potessero muovere verso l'in-
terno di cosifatti congegni primitivi ! Ben è vero che a cotesti pro-
gressi non bastano, nell'Africa australe, le risorse presenti delle
colonie, perchè il Capo contro una entrata di 2,631,602 lire sterline
ebbe nel 1877 una spesa di 3,428,392, ed al 31 decembre 1877 era
aggravato da un po' più di 5 milioni di debiti, ai quali si ^ag-
giunse poi, nell'ottobre del 1878, un altro milione. Ma che ^cosa
sono queste cifre a paragone delle più modeste previsione dell'av-
venire ?
Le altre colonie, già dissi, sono dominate da quella del Capo
anche nella loro vita economica. Natal, the garden colony of South
Africa, come la chiamano, ha una popolazione di 307,501 abitanti.
ma fuor di 19,990 bianchi e 9147 Malesi, sono indigeni della pro-
vincia. Digrtidasi in terrazze dalle montagne del Dragone, fra il
fiume Umtamfuna e il Tugela, ed è adatta ad ogni genere di col-
tura. Gli abitanti vivono dispersi nelle masserie, nelle piantagioni,
nelle stazioni dei missionari; appena 9136 si raccolgono nelle
due città di Pietermaritzburg, capitale, e di Durban, porto della
colonia. Le colture tropicali le procurano jun diecimila tonnellate
di zucchero, oltre al caffè, allo zenzero, ed a minori prodotti. Il
cespite maggiore dell'entrata sono anche qui le lane; nel 1877,
514 l' inghilterka
8,695,553 libbre furono vendute per 518,379 Ls. ; ma accennano a cre-
scente importanza il tabacco e il carbone, che già una ferrovia
avviata da Durban a Verulamio ed a Zipingo andrà a cercare
nei vasti giacimenti del fiume Klip. Il valore complessivo delle
importazioni, colle quali il Natal provvede anche a molti bisogni
dell' Grange, ammontò nel 1877 a 1,268,838 Ls., contro 835,643 di
esportazione. Ai bisogni dell' amministrazione e delle opere pub-
bliche il governo della colonia provvede coi prodotti delle dogane,
d'una specie di tassa di famiglia e di alcune tasse sugli affari,
che gli procurano una entrata di 472,473 Ls. sufficiente anche a
pagare gli interessi di un debito di 331,60 ) Ls. Il governo è di
forma parlamentare mista ; vi è un luogotenente, con alcuni segre-
tari esecutivi o ministri, ed una legislatura di 28 membri, 13 nomi-
nati dal governatore, 15 eletti dagli abitanti.
Il Transvaal confina colle montagne di Lobombo e del Dra-
gone, che lo separano dai dominii del Portogallo e dalle terre degli
Zulù; col Limpopo, sul quale s'adagia a ponente, col Pogola,
oltre al quale abitano i Batlapi, e coi possedimenti dell' Grange
e del Capo. Non vivono nella colonia più di 40,000 europei, e v'è
chi fa ascendere i nativi ad 800,000, ^ fra i quali sono Mata-
beli, Basuti, Besciuani, Zulù, ed altre tribù nere, colle quali ha
famigliarità chiunque ha seguito nei loro viaggi il Livingstone,
il Jeppe, il Merenski, l' Erskiue, e gli altri che frequentarono quel
vago giardino di natura. A 320 chilometri dall' Gceano, sopra un
altopiano di 1800 metri sorge Pretoria, il capoluogo, colle sue vie
bene allineate, con tutti i suoi embrioni di civiltà europea. Il clima
è dolce, il cielo quasi sempre sereno, le pioggie brevi, ma fre-
quenti, come si domandano per 1' agricoltura, per modo che in
pochi altri paesi del mondo la terra risponde con maggior sicu-
rezza alle fatiche del colono. Non sono, è vero, lontane, le deso-
late solitudini del Kalahari, ma i venti dell' Gceano indiano le
recano una sufficiente umidità. Così oltre ai cereali d' Europa,
frumento, orzo, avena, che danno due raccolti 1' anno, oltre la vite,
il tabacco, 1' arancio, e i frutti più ricercati, e i più utili legumi
del nostro clima, vi allignano la canna da zucchero, il caffè, il
cotone e le altre produzioni del tropico. Lunghesso i corsi del
Limpopo e del Vaal abbondano spesse foreste, e già si conoscono
1 Cosi F. Noble; ma il Transvaal Bo'ik Almanac dice da 250 a 300,000;
anche il Lauen, console di Francia al Capo, dopo raaiure ricerche, s' arresta a
questa cifra.
nell'africa australe. 515
immensi giacimenti carboniferi, che porgeranno alle ferrovie del-
l'avvenire facile alimento. Dagli hooge-veld, o terreni di monta-
gna, il suolo digrada dolcemente pei banken-vdd, dove sono le più
fiorenti masserie, sino ai hash-veld delle rive dei fiumi. Quivi si na-
scondono ancora d' ogni sorta fiere, pachidermi enormi, mandre nu-
merosissime di antilopi ed altre ricercate cacciagioni in così gran
copia, che fu chiamato 1' eldorado dei nembroddi a' quali sono
venute in uggia le modeste prede che può ojffrire l'Europa. Laonde
scemano i pericoli che gli animali feroci minacciavano ai coloni,
i quali vorrebbero ugualmente distruggere il flagello non raro
delle cavallette, cotesta peste alata, che i Boeri contemplano so-
vente, rassegnati come turchi, distruggere in un batter d' occhio
le loro fatiche e le speranze di tre raccolti, ed i nativi reputano
arrostite o risecche, un cibo prelibato.' Aveva la repubblica, quando
fu annessa al Capo, una entrata di 86,496 sterline ed una spesa di
86,045 con un debito di 82,000. Il reddito traevasi principalmente
dalle dogane e da una imposta diretta sulla fondiaria e sui redditi
personali. La città principale Potchefstrom aveva non più di 2000
abitanti ; Pretoria 1500 ; e Lydenburg appena sette od ottocento.
Gli abitanti esportavano penne di struzzo, lana, avorio, bestiame,
cereali, pelli, frutta, tabacco, burro, e minerali, dall' oro e dai
diamanti sino al carbone. L' annessione gioverà, già dissi, alla
colonia, che racchiude tutti gli elementi di un grande e prospero
stato africano.
Chiusa afiatto oramai nei possedimenti inglesi è la repubblica
deU'Orange, della quale ho narrato l'origine e le democratiche isti-
tuzioni. La moderazione degli abitanti, il senno del Presidente,
e la posizione sua, che la rende pur sempre sotto l' aspetto
economico suddita degli Inglesi, la preservarono sino ad ora dalla
sorte dei fratelli d' oltre il Vaal. Del resto la civiltà vi è più in
onore, e il governo attende con più assidua cura allo sviluppo del-
l' istruzione, all' amministrazione della giustizia, all' incremento
delle pubbliche risorse, né lo tormenta V assidua cura delle guerre
coi nativi. Le condizioni finanziarie dello Stato sono eccellenti, e
le sue entrate, sufficienti alla spesa, s'aggirano in sulle 120,000 Ls.,
tratte alcune da tasse sugli atfari, e da una mite imposta fondia-
ria, e consentiranno presto di ritirare le 33 mila Ls. di carta, che
sono ancora in circolazione per impero di legge. La capitale, Bloen-
fontain. non ha più di 1500 abitanti, ed il commercio si fa esclu-
' MoHR, Zu der Wasserf alien der Zambesi, voi. i, 115.
516 l' inghiltekra.
sivamente colle vicine colonie inglesi, che ne registrano come
cosa loro i risultati. La lana ne è il principale alimento, perchè se
ne esportarono nel 1875, 787,279 Ls. contro 743,604 di altre merci,
in cambio delle quali entrarono nella repubblica 20,000 Ls. in
denaro e 677,732 in prodotti europei, anzi quasi esclusivamente
inglesi.
VL
Questi gli Stati e le provincie che lord Carnarvon meditava
intorno al 1875 stringere in una confederazione. La prova gli era
riuscita, otto anni innanzi, nel Canada; nell'Africa australe le
difficoltà erano maggiori, ma l'abile ministro per le colonie del
gabinetto di Gladstone non intendeva di imporre le sue idee
colla forza. In un dispaccio ch'egli mandò a sir H. Barkly, governa-
tore del Capo, in principio di quell'anno sviluppò il suo progetto ;
un governatore generale, un ministero responsabile in faccia al
Parlamento, due Camere elettive in diverso modo, ecco il governo
nel quale dovevano liberamente convenire, dopo matura riflessione,
coll'assenso delle rispettive legislature, i capi delle varie colonie
europee. Il Capland, il Natal, il West Griqualand, la repubblica
del Transvaal e lo stato libero d'Orange dovevano mandare a Londra
i loro delegati, per risolvere le' questioni locali, specie quella dei
rapporti coi nativi, e determinare la forma e la competenza della
nuova federazione la quale doveva accrescere la forza, non sce-
mare la libertà dei singoli Stati. Una condotta uniforme nei rap-
porti coi nativi avrebbe giovato ad evitare le guerre, che sole
impacciavano la crescente prosperità dei possedimenti europei.
L'idea di lord Carnarvon non fu accolta comesi credette dap-
prima in Europa. La legislatura del Transvaal dichiarò netto, che
neanche voleva sentir parlare di cotesto progetto, e vietava al
suo presidente, ch'era in Olanda, perfino di recarsi a Londra. Il
Volksraad dell'Orange accoglieva l'idea d'una confederazione, ma
poneva la condizione preliminare che l'Inghilterra non vi avesse
alcuna ingerenza. I Boeri non dimenticavano gli antichi torti, e
non potevano far tacere il risentimento contro i più forti, che li
avevano costretti a lasciare le prime colonie, e ad esulare più
volte verso l'interno. Al Capo fu peggio, perchè temettero subito
che la loro città avrebbe perduto, causa la posizione sua, il grado
di metropoli, e i nuovi distretti avrebbero contrastata loro l'in-
fluenza preponderante che possedevano nell'Africa australe. A tutti
nell'africa australe. 517
pareva ardua sovra le altre la questione dei nativi ; qual potere
politico sarebbe loro riconosciuto? dovevano forse contare come
cittadini, o mandare al Parlamento federale alcuni delegati, ovvero
vivere soggetti agli europei ? I Cafri, già vedemmo, non indietreg-
giano davanti alla conquista europea, non soccombono nella lotta
per la vita contro la razza più civile, ma si mostrano capaci di
progresso. Piuttosto che agli Indi dell'America, ai Maori ed alle
altre razze della Polinesia, somigliano ai Numidi, le cui cavallerie
ben conobbero gli eserciti di Eoma, ai Mauri, uno dei terrori del-
l'età di mezzo, ai Turcos, che noi abbiamo carezzati trionfatori a
Magenta e Solferino.
Così alla conferenza tenuta a Londra il 5 agosto 1876 lord
Carnarvon si trovò quasi solo. Il Griqualand aveva delegato il
Froude, un alleato fido, entusiasta del ministro delle colonie; il
Natal aveva pur condisceso a parlare di confederazione. Ma
quando si venne ai poteri che ciascuno stato o provincia doveva
pur mettere insieme, per farne la dote di un governo comune, si
dovette abbandonare ogni trattativa, e quasi direi ogni speranza.
Ben presto però i fatti vennero a dar ragione al Carnarvon, e in
pochi anni, dimostrarono con tanta evidenza e cosi prontamente
il vantaggio del di lui concepimento, che possiamo contare ora-
mai di vederlo assai vicino ad essere accolto.
Mentre si consultava a Boma, il nemico espugnava Sagunto.
Una bene agguerrita tribù di Basutos, provocata dai coloni di
Lydenburg, disputava loro quei campi auriferi e tutto il territorio
della provincia. Il Transvaal trattò la pretesa col disprezzo con-
sueto, ignorando come negli ultimi anni si fossero armati ed or-
dinati gli ereditari nemici dei Boeri. Intimò dapprima a Secocoeni
il capo dei Basutos, di rispettare una tribù alleata, gli Suazi, e lo
provocò siffattamente che lord Carnarvon dovette subito interve-
nire, avvertendo i Boeri del pericolo al quale esponevano sé, e
tutti i coloni europei delle provincie orientali. ]\Ia indarno ; che
quelli primi assalirono Secocoeni, il quale con ventimila armati
invase il Transvaal, minacciò in men di due mesi la capitale,
e se non lo avessero assalito alle spalle gli Suazi, sarebbe stato
uno sterminio. ' Subito il Volksraad si perdette d'animo, ed invocò
1 V. nei Parlamentari/ Papers, C. 1148, p. 22, 49, 198, 216 ecc. e C. 1961,
passim varii documenti sui contrasti fra i Boeri del Transvaal e gli Zulù a cagione
delle terre che quelli reclamavano. A pag. 49 vi è una lettera, scritta in nome di
Cetywayoda Zulù Dunn il 20 aprile 1816, dove il Re espone le sue ragioni contro
i Boeri.
518 l' INGHILTERRA
quella protezione inglese, che aveva sempre aborrita, eppur si
presentava adesso come la sola via di salvezza. Il disperato ap-
pello del Parlamento transvaalico trovò insensibile la stampa in-
glese, ma non il governo. Era necessario evitare che i nativi, vinti
i Boeri, scendessero anche contro gli Inglesi, e poi parve una
buona occasione per riprendere il progetto della federazione, che
in Inghilterra era stato accolto nel frattempo con molto favore.
Lord Carnarvon ave\'a un uomo adatto alla bisogna in sir Teofìlo
Shepstone, il quale, vissuti vent'anni nel Natal, avea acquistato
qualche influenza fra gli Zulù, e conosceva come niun altro la loro
lingua ed i costumi. Contemporaneamente veniva mandato governa-
tore al Capo quell'illustre Bartle Frère, che aveva j)assata la sua vita
neir India, e sapeva il segreto di conquistare alla metropoli l'affetto
delle razze di colore. Ebbe il Bartle Frère istruzioni di secondare
l'idea della federazione; ed allo Shepstone si commise di andare
nel Transvaal, esaminare lo stato delle cose e degli animi, ed
annettere, se lo credeva opportuno, ai dominii britannici tutto
il paese. Dopo un viaggio penoso di trent'otto giorni arrivò a
Pretoria con 25 soldati ed altrettanti ufficiali di stato maggiore,
ma fu accolto con maggior freddezza di quello aveva preveduto. La
popolazione era divisa, il tesoro vuoto, il commercio sospeso;
minacciavano i nativi, e il paese era vicino a cadere nell'anar-
chia. Secocoeui aveva fatto la pace, ma il partito della guerra ac-
cennava a prevalere fra i Boeri; Burgers tornato dall'Europa
co' suoi ingegneri e i suoi maestri di scuola aveva perduta ogni
autorità. 11 Volksraad non aveva la forza di pigliare alcuna
decisione, e intanto i distretti minerari, ed alcuni villaggi, abitati
dai coloni più tranquilli e pacifici, domandavano l'annessione. Biso-
gnava decidersi, e il 12 aprile 1877 Shepstone innalzò il vessillo
britannico, proclamando che la repubblica del Transvaal aveva
cessato di esistere. Così l'Inghilterra conquistava senza goccia di
sangue un paese grande giusto quanto 1' Italia. Si chiamò un
reggimento britannico dal Natal piuttosto per farne pompa, che
per necessità di difesa, che giammai uno Stato rinunciò con
maggior buona grazia alla propria indipendenza.
Cosi in tutta 1' Africa australe il Governo inglese potè adot-
tare verso i nativi una politica umana, costante ed uguale. Ma
era tardi. I Boeri avevano seminato fra i Cafri inesauribili sor-
genti di odio ; e grazie alla trascuraggine loro e delle autorità bri-
tanniche, i nativi avevan potuto metter su a poco a poco un esercito
armato di fucili, bene agguerrito, e disposto a contendere agli
nell'africa austeale. 519
europei invasori le loro terre. Lo Shepstone quando aveva assistito
all' incoronazione di Cetywayo, il re degli Zulù, aveva già avvertita
cotesta trasformazione. Il re si mostrò in quella festa alla testa
di ottomila armati, e rinunciò, per cortesia o per astuta politica,
alle sanguinose cerimonie e alle stragi, che appo ogni selvaggia
corte africana sogliono adornare una incoronazione. E l'inviato
inglese scriveva al suo governo « che sarebbe un brutto giorno
quello in cui gli Zulù, memori della potenza degli avi, provocati
dagli europei, fossero discesi dalle loro montagne a combatterli.» ^
Cotesti ed altri avvertimenti furono tenuti a Londra nel conto
che meritavano, ma il governatore del Capo intendeva la que-
stione sotto un punto di vista diverso. Non era possibile con-
sentire, che gli Zulù aumentassero di potenza e di forza; una
lotta con Cetywayo era questione di tempo. Cosi negli ultimi
dispacci di Bartle Frère, come in quelli di sir H. Bulwer, del
signor Shepstone medesimo, e del generale Garnett Wolseley, che fu
inviato ad esaminare la situazione, si parla della guerra contro
gli Zulù come di una necessità imposta dalla self-preservation. I
documenti del Blue Booch presentato alla Camera in principio di
questo mese dimostrano chiaramente, che se il governo di Londra
ha cercato d'impedire la guerra, non poteva riuscirvi, perchè si
presentava come una necessità. Sui confini del Natal si succede-
vano con crescente frequenza gli abigeati, le incursioni, le ribel-
lioni di piccole tribù, e cresceva negli Zulù la baldanza, mentre
i loro profeti preconizzavano vicino lo sterminio dei bianchi. « De-
ploro — scriveva il ministro delle colonie a sir Bartle Frère, quando
già non era più in tempo, l' indomani della battaglia di Isandula
— deploro, che la necessità di una azione immediata sia sembrata
a vossignoria così imperiosa, da non consentirle di aspettare che
il governo centrale esprimesse il suo parere intorno all'ultimato
mandato al re degli Zulù. » ^ Cause e complici di tutti i disordini
della colonia del Natal, una delle più tranquille sino a questi ul-
timi anni, gli Zulù dovevano essere ridotti all'obbedienza, e poiché
Cetywayo non si arrese alle intimazioni britanniche, si mandarono
contro di lui tutte le forze raccolte a Natal ed al Capo, che si
reputavano sufficienti ad averne ragione.
Fu questo il grave errore del governatore, e di quelli che si
accinsero all'impresa. Laonde i dispacci di lord Chelmsford, che
' Paì'larnentary Papers. C. 1748, p. 79.
* Pari. Papers, Citati nel Times del 12 mario.
520 L' INGHILTEREA
narrano della rotta di Isandula e della ritirata di qua del
Tugela, per proteggere la colonia del Natal, sono pieni di sor-
presa e di meraviglia. Come in Abissinia, come fra gli Asolanti,
come sempre e dovunque, gli Inglesi disprezzavano il nemico. Non
spetta a noi narrare i particolari della guerra onde si conoscono
adesso le cagioni ed è facile presagire 1' esito finale. Il quale avrà
duplice natura, perchè da un lato si darà ai Cafri tale un colpo,
dal quale non potranno rialzarsi più mai, dall' altro i coloni del-
l' Africa australe comprenderanno che la madre-patria viene in
loro aiuto per l'ultima volta. «Hanno respinto — dice il Times —
i nostri consigli; accolsero il progetto di una confederazione che
non avrebbero fatto peggio se messo innanzi da avversari, nel
proprio interesse. È duro per noi, dopo il poco conto che si
è fatto dei nostri consigli, dopo essere stati trattati in cotal modo,
è duro pagare due milioni di sterline, per salvare i nostri coloni
da un pericolo, che noi volevamo prevenire, e bisogna che essi prov-
vedano definitivamente alla propria salvezza. ^ »
Così si pensa e si scrive nella libera Inghilterra, così si fon-
dano, si accrescono, si consolidano colonie dalle quali la madre
patria trae tanta parte della propria potenza. Altri metodi, altri
criteri di governo si usano pel Canada, altri per l' Australia
e per l' Africa , e sempre e dovunque si governa con larghi
e sicuri criteri di libertà, serbando fede ai savi principi econo-
mici, provvedendo non solo allo sviluppo del dominio britannico,
ma ai progressi della civiltà generale. Noi, sangue latino, abbiamo
una salutare paura delle colonie, perchè ci vediamo davanti l'Al-
geria, la Nuova Caledonia, le sciagurate o impotenti repubbliche
spagnuole. Cuba sempre ribelle, e i Portoghesi sulla soglia del-
l' Africa centrale da tre secoli, senza penetrarvi con frutto. Invece
l'Inghilterra alleva le colonie sue come figliuoli, seguendone le
inclinazioni, ed emancipandoli appena è possibile. Ed è il segreto
principale della sua jDotenza e della sua influenza civile.
Attilio Brunialti.
• Times del 4 corrente marzo. I giornali liberali, Daily News specialmente
insistono ancora più sulla necessita di dare alle Colonie del Capo un ordinamento
simile a quello del Canada.
DEL CREDITO POPOLARE. '
li.
Nel precedente articolo obbligammo i nostri cortesi lettori
a passare una selva di cifre; dovremo pur troppo tornarci ancora
prima di compiere lo studio intrapreso. 11 quale ci ha, per cosi
dire, trascinati e sorpresi a misura che ci approfondammo,
tanto la questione del credito popolare si avvingliia e confonde,
come abbiamo già annunciato, colla questione sociale. Ci affret-
tiamo di assicurare che siamo ben lungi dal voler descrivere
tutta l'innumerevole serie degli istituti di credito popolare, sorti
all'estero, e sui quali non tanto per lettura di libri quanto per
visite personali si affaticarono i nostri occhi e il nostro spirito.
Ma non volendo procedere per via di semplici raziocini o di
sillogismi, sibbene persuadere, com' è nostro proposito ed uso,
colle cifre ed i fatti, non potremo esonerare i lettori da un po'di
logismografia bancaria e dalle relative statistiche.
Speriamo di escirne per la più breve, ed intanto, ricordandoci
che scriviamo nella Nuova Antologia, ci concediamo, una sosta
col ritrattare brevemente due personaggi, a nostro avviso, le due
più grandi intelligenze che alla questione complessa, che discu-
tiamo, posero mente: Schulze-Delitzsch e Lassalle; poi col di-
pingerli stretti in formidabile lotta fra di essi. Chi ebbe la
fortuna di vedere quella grande figura di uomo che è Schulze-
Delitzsch nel suo romantico villino di Potsdam, e quella mag-
giore di udire di viva bocca narrare la lunga e travagliata car-
' Vedi fascicolo del 15 dicembre l8^8.
VoL. XIV, Serie II — 1 aprile I8ì9, 32
522 DEL CREDITO POPOLARE.
riera di apostolo della cooperazione, ne riporta le più dolci me-
morie nell'animo.
Un pubblicista eminente, il sig. Nefiftzer, recatosi, pochi anni
sono, in Germania, per studiare più davvicino la persona e l'opera
evangelizzatrice del nostro Schulze, ne riportava un giudizio ol-
tremudo espressivo e caratteristico della figura di quest' uomo.
Scriveva costui al Temps : « Questo economista, non saprei meglio
descrivervelo, che dicendovi che vi è in esso del Bastiat e del
Lutero ; e che dopo Bistnarck rappresenta la più grande influenza
ed individualità della Germania moderna. »
Ermanno Schulze è nato il 29 agosto 1808 a Delitzsch, pic-
cola città della Sassonia prussiana, di cui egli aggiunse il nome
al suo nome di famiglia. Figlio di un magistrato distinto, rice-
vette la sua prima istruzione all'Università di Lipsia, d'onde poi
passò a completare gli studi di diritto a quella di Halle e a
Naumburg, dove la sua carriera scolastica fu coronata da così
splendidi risultati di esami, che gli aprirono l'accesso ai più alti,
uffici della magistratura tedesca.
Nominato giudice assessore presso la Corte di Naumburg,
poscia alla Camera di giustizia di Berlino, lasciò nel 1841 l'alta
magistratura per divenire amministratore del Consiglio di giu-
stizia di Delitzsch, di cui il buon vecchio si ricorda ancora con
immensa tenerezza; la gloria e i trionfi, di cui a guisa di au-
reola si cinse poscia il suo nome, non gli affievolirono punto la
memoria dei lieti, tranquilli ed operosi giorni della sua giovi-
nezza, passata in mezzo alla semplicità e candore dei costumi
veramente patriarcali di quell'industre popolazione del suo luogo
nativo, che fu il focolare da cui partì la prima favilla del gran
movimento cooperativo, al quale dovette la sua prosperità e la
gloria del suo illustre cittadino, come vedremo più oltre.
Schulze-Delitzsch non tardò molto a guadagnarsi la simpatia,
stima ed affetto dei suoi concittadini. Già fin dal 1848 la capa-
cità di cui esso avea dato prova ed i pubblici servigi resi nel-
l'esercizio delle sue funzioni di magistrato, lo designarono ai voti
della sua città natale, che lo nominò suo rappresentante all' as-
semblea nazionale di Berlino, dove egli fu eletto presidente della
commissione speciale istituita pollo studio della questione operaia.
E tale distinzione convien dire che non fosse puramente onorifica,
poiché il numero delle petizioni inviategli da tutte le parti del
Kegno ascesero a non meno di mille seicento.
Come si vede, 1' agitazione operaia fermentava fin d' allora.
DEL CREDITO POPOLARE. 523
Rieletto, dopo lo scioglimento di qiiest* assemblea, dallo stesso
distretto, membro della Camera dei deputati, egli siede al centro
sinistro di cui diviene uno dei capi, e prende parte a tutte le
grandi questioni.
Nel corso del 1849 Schulze fu accusato, insieme a quaran-
tun altri suoi colleghi della precedente assemblea, di delitto di
lesa maestà per avere votato, come membro della maggioranza, il
rigetto dell' imposta. Fu assolto del pari che i suoi compagni
dalla giurìa di Berlino, il cui verdetto fu inspirato non meno dal
rispetto pel diritto parlamentare che dall'ingiuria arrecata alle
leggi pell'invasione a mano armata dell'aula legislativa, eseguita .
per ordine del ministero Brandenburg-Manteuffel.
Schulze che avea capitanato eroicamente la difesa, in seguito
a tal successo giudiziario, divenne oggetto di ripetute ovazioni.
Gli furono offerti banchetti a Berlino e a Potsdam. E i suoi elet-
tori di Delitzsch, saputo l'avvenimento, celebrarono questo suo
trionfo con cavalcate e processioni di fiaccole, regalandolo inoltre,
a memoria della cosa, di una magnifica tazza d'onore, che l'illu-
stre uomo gode di poter mostrare anche oggi ai suoi visitatori
insieme a molti altri doni preziosi, che formano un piccolo mu-
seo in seno alla famiglia.
Ma questa popolarità lo esponeva ai rigori del potere. E la
nuova organizzazione giudiziaria offerse al Governo l'occasione di
sfogare e soddisfare i suoi mal celati rancori. Il nostro Schulze
si vide relegato a Wreschen, piccola città polacca del ducato di
Posen, sulle frontiere della Russia. Egli dovette recarvisi a ma-
lincuore colla sua giovane Berta, che avea sposato da poco tempo
a Berlino. Isolato così dal centro del movimento politico-sociale,
e bisognoso nulladimeno di operosità, si dedicò tutto all'esercizio
delle sue funzioni di magistrato, dando novelle prove della sua
riconosciuta capacità. Disseppellì e svolse un processo che rimon-
tava a più di mezzo secolo, e che aveva rapporto con una que-
stione di credito fondiario piena di complicazioni.
Malgrado i nuovi meriti acquistatisi nel disbrigo di questa
lite secolare, dove rivelò qualità e cognizioni giuridiche non co-
muni, gli venne ricusato un congedo in occasione delle ferie della
magistratura, quantunque avesse dimostrato di avere bisogno di
riposo. Tutt'al più gli si sarebbe concessa una qualche escursione
sulle rive della Vistola, ma lungo le sponde della Sprea o del-
l'Elba non era senza inconveniente pel Governo di quel tempo.
Che cosa fa allora il nostro esiliato ? Si mette in viaggio
524 DEL CREDITO POPOLARE.
senza autorizzazione, appellandosi al diritto, che ha ogni magi-
strato di godere le vacanze ordinarie. Di ritorno a Wreschen,
gli si fa sapere che era stata ordinata dal governo una ritenuta
sul suo stipendio. Egli, sdegnatone, invia tosto al ministro la sua
dimissione e si ritira nel 1851 a Delitzsch, presso i suoi cari pa-
renti ed amici.
Schulze avea tempo innanzi fondato ad Eulenburg e nella
sua città natale due società per la compra e vendita delle ma-
terie prime, ciò che non era stato visto di buon occhio dal go-
verno. Libero adesso di ogni rapporto coU'amministrazione gover-
• nativa, si consacra a quella propaganda di riforma economica, che
oramai proseguirà senza arrestarsi un momento.
Gli esordi furono lenti, sia che le circostanze gli imponessero
una riserva e precauzione particolari, dirimpetto alle autorità,
sia che egli sentisse la necessità di preparare gli spiriti, pel ti-
more che una prematura applicazione dei suoi nuovi principii
economici non portasse con sé qualche insuccesso, o degli sco-
raggiamenti e dubbi intorno alla bontà ed efficacia di essi. Dal
1852 al 1855 vennero fondate sette unioni di anticipazioni {Vor-
schussrereine). Nel 1859 il movimento economico, di cui Schulze
si era fatto il promotore, avea acquistato uno sviluppo abbastanza
importante da permettergli di pubblicare i rendiconti annuali
col mezzo delle informazioni e scritti che avea potuto riunire. E
finalmente nel 1861 si constatava nei diversi Stati della confede-
razione germanica l'esistenza di 340 Unioni di credito e di an-
ticipazioni. Eletto verso questa epoca alla Camera dei deputati
dalla città di Berlino, Schulze rientrò nella vita pubblica col
doppio prestigio di scrittore e di riformatore nell'ordine econo-
mico. In questo tempo la popolarità di Schulze in tutta la Prus-
sia, ma specialmente a Berlino, è tale, che tanto le classi borghesi
quanto quelle operaie lo riguardano come il loro vero ed unico
rappresentante. All'indomani di un grande, successo riportato da
un suo discorso alla Camera, 1' entusiasmo della popolazione di
Berlino per Schulze fu così grande, che si vuole che lo stesso re
Guglielmo rivoltosi ai suoi ministri esclamasse: «Vedremo eh!
miei Signori, chi di noi due trionferà, se il signor Scliulze
0 io! »
Vedi potenza dello spirito! un figlio del magistrato di una
piccola città acquista un tale ascendente sulle popolazioni tede-
sche da bilanciare il suo potere al potere reale di una monarchia
essenzialmente militare. Sintomo evidente del movimento democra-
BEL CREDITO POPOLARE. 525
tico che fin d'allora invadeva le nazioni d'Europa. Pascal osservava
nell'uomo tre specie di grandezza: quella della fortuna o della
nascita ; quella dell'intelletto ; e quella morale. La trasformazione
politica e sociale, a cui assistiamo tutti, consci od inconsci operai,
assegna all'avvenire di queste tre specie di grandezza un ordine
inverso a quello occupato fino a poco fa.
Le testimonianze dell' immensa popolarità, di cui godeva
Schulze, si manifestavano tutte le volte che si trovava in pre-
senza del pubblico, e specialmente nelle conferenze, in cui espo-
neva agli operai i principii che devono presiedere alle Unioni
cooperative, ed i mezzi pratici per realizzarle. Qui principia il
vero apostolato di Schulze. Anche in Germania le idee sociali-
stiche della Francia avevano trovato molti fautori, che si erano
schierati formidabilmente contro le dottrine economiche del nostro
riformatore, che ebbe a sostenere infinite lotte prima di poter
assicurare loro il successo e la popolarità di cui godono oggi.
Come sono sorte in Glermania tali lotte; che cosa si combatte;
che cosa si vuole dai fieri contendenti di ambe le parti discordi?
Rispondere a queste domande è spiegare la genesi delle nume-
rose istituzioni cooperative, di cui più oltre dovremo esporre
l'indole, gli scopi ed i risultati ottenuti a tutt'oggi. Le principali
cause che crearono il movimento politico sociale, ed afirettarono
il trionfo delle nuove dottrine economiche e del principio dèlia
cooperazione tedesca in special modo, sono da ricercare, a nostro
avviso, nelle fasi per cui passò l'economia politica a partire dalla
sua origine, o ciò che è lo stesso, nelle seguite evoluzioni dei
rapporti tra capitale e lavoro. A misura che questi variano e
creano coli' inesorabile linguaggio dei fatti un nuovo ordine di
cose, anche l'eccnomia deve cambiare o modificare il suo conte-
nuto, poiché è essa che dà e riceve legge dallo sviluppo dei fe-
nomeni sociali. Quando le industrie dormivano ancora nell'infan-
zia della produ.'^ione, e che un sistema fiscale, grave oltre ogni
dire, le opprimeva per tutta l'Europa, si gridò contro le pastoie
ed i vincoli della produzione, riguardandoli come violazione
dell'ordine naturale insito negli uomini e nelle cose. E la scuola
fisiocratica concepì un sistema di dottrine basato sulle pretese
leggi della natura, ed affidò soprattutto la ricchezza delle nazioni
allo svolgimento o sviluppo dei germi di produzione contenuti
nel gran seno della madre terra. Lasciate che la natura e l'uomo
operino liberamente; la prima è governata da leggi divine; il
secondo ha per norma l' idea del giusto, del bene e del male,
526 DEL CREDITO POPOLARE.
che lo guiderà nella scelta dei mezzi migliori al conseguimento
del proprio scopo.
Ma in realtà le cose procedevano ben diversamente. Dopo
la grande rivoluzione meccanica che alterò e modificò sostan-
zialmente gli antichi rapporti del capitale e del lavoro, alla con-
cepita armonia dei fenomeni del mondo economico successe, nel-
r ordine dei fatti, un immenso spostamento delle ricchezze sociali,
un disquilibrio enorme tra le forze di produzione e quelle del
consumo, infine un attrito ed antagonismo degli interessi materiali
a danno dei principii morali. Le classi lavoratrici ne risentirono
svantaggi non piccoli; e gli economisti, commossi delle loro sorti,
gridarono all' ingiustizia sociale.
Alla voce degli economisti si unì quella degli scrittori più o
meno sentimentali; avemmo l'èra dei romanzi, dove si adoprarono
tutte le tinte della tavolozza pittorica per dipingere al vivo sotto
gli occhi dei lettori le piaghe della moderna società, spesso anche
esagerandone i contorni e le sfumature, pur di commovere ed
eccitare i popoli a scuotere il giogo della nuova situazione sociale.
Ma con quali mezzi? Tutti accusano l'insopportabilità di un
tale stato di cose ; tutti oramai convengono che c'è una questione
sociale imperiosa, e che bisogna trovare il modo di sciogliere
polla salvezza degli stati, pel bene dell'umanità, ed in omaggio
soprattutto alla giustizia sociale. Luigi Blanc e Fourier si pre-
sentano come i redentori dell'umanità sofferente, ed additano corno
panacea dei mali e disordini sociali gli Ateliers nationaux. Ad
essi come corollario fa seguito la Banca universale di Proudhon.
Alle utopie di questi socialisti sa ognuno la triste sorte che toccò.
Non avevano che un lato sano, ed era quello di riconoscere il bi-
sogno delle associazioni per scongiurare molti dei mali, di cui è
gravido il presente e l'avvenire dei popoli.
Questo bisogno si fece riconoscere e sentire più efiicacemente
al di là del Keno. La soluzione del nuovo problema sociale agita
tutta la Germania, ed a Berlino è oggetto di discussioni calorose
e di lotte accanite da parto principalmente di due uomini che
si mostrano profondamente preoccupati del pauperismo delle mol-
titudini, e delle condizioni antieconomiche create loro dal mo-
derno industrialismo. Le loro vedute circa i modi ed i mezzi di
pervenire a sciogliere la questione sociale, ed assicurare un
migliore avvenire al proletariato, appariscono affatto differenti
e discordi. Questi due uomini sono Schulze e Lassalle che
adesso dobbiamo vedere in lotta a Berlino, dove si contendono
DEL CREDITO POPOLARE. ^27
a palmo a palmo il terreno della vittoria, la quale finalmente ve-
dremo arridere al nostro venerato amico di Potsdam. Si può dire
che in tal tempo la Germania si dividesse in due campi sul ter-
reno economico, e che la questione sociale vi fosse discussa col
più grnnde ardore e con molto successo tanto nell' un campo che
nell'altro, sebbene sotto punti di vista affatto contrari.
Intorno al nostro riformatore si ajijgruppavano gli economisti
Huber, Max Wirth, Bohmert, Michaelis. Huber, il più influente
dei suoi aderenti, non differisce da Schulze che per una propen-
sione maggiore per le forme cooperative dell'Inghilterra, che
egli si sforza d'introdurre in Germania, e di cui egli è promotore
eminente ed infaticabile.
Alla testa invece del partito socialista spicca sopra tutti
Ferdinando Lassalle, che aveva l'appoggio del professore Wutke,
dei sigg. Hess, Robertus, Bucher Dammer, del poeta politico
Giorgio Herwegh, del colonnello Becker, e di molti altri illustri
e potenti ausiliari.
Ferdinando Lassalle, che fu il capitano di questa scuola,
nacque 1' 11 aprile 1825 a Breslavia (Slesia) di una famiglia di
ricchi negozianti israeliti. Inviato alla scuola di commercio di
Lipsia allo scopo di prepararlo a seguire la carriera paterna,
Lassalle ne esce un anno dopo, per andare a fare i suoi studi
di diritto e di filosofia a Breslavia e poi a Berlino. Lassalle entrò
nel gran mondo politico nel 1846. Enrico Heine, meravigliato
della sua attitudine sulla dialettica, lo raccomandò a Varnhagen
d' Ensa, che lo mise in relazione con celebri personaggi.
E interessante il giudizio che il poeta dell'umorismo e della
tristezza dà fin d' allora sul futuro demagogo: « Il mio amico, cosi
scrive Heine a Varnhagen, che vi consegnerà questa lettera, Las-
salle, è un giovane dotato di distinta intelligenza. Alla coltura la
più profonda, alle conoscenze le più vaste, alla penetrazione la più
acuta, unisce una forza di volontà ed una abilità, che mi fanno me-
raviglia. È un vero figlio dei nuovi tempi che non conosce nulla di
quella annegazione e modestia, di cui noi abbiamo fatto professione
con più 0 meno ipocrisia. Appartiene ad una generazione che vuol
godere e dominare. » In queste parole c'è la personificazione non
solo del carattere di Lassalle, ma della rivoluzione che picchiava
alle porte degli Stati.
All' università si scaldò d' entusiasmo per Fichte e sopratutto
per Hegel, che fu il suo maestro nelle alte regioni del pensiero
metafisico. In politica adottò le idee della giovane Alemagna, e
528 DEL CREDITO POPOLARE.
si schierò nelle file i^iù radicali, clie fin d'allora si chiamarono'
« le file dei rivoluzionari. » Aveva concepito il progetto di scri-
vere la storia dell'antica scuola della filosofia ionica. Per racco-
gliere i materiali necessari ed anche per respirare 1' ambiente
della grande città, si recò nel 1845 a Parigi, dove allora fermen-
tavano tutte le idee del nuovo verbo socialistico e dove si trovava-
da qualche tempo il poeta atrabiliare Enrico Heine.
Kitornato a Berlino dove Lassalle voleva stabilirsi come
lirivat-docent. entrò in relazione con tutto il mondo letterario &
scientifico, che gli fece grande accoglienza. Ed Humboldt, l'illu-
stre naturalista, lo ebbe in grande amicizia; lo chiamava il
fanciullo prodigioso das Wundcrkind, e lo raccomandò ai suoi
colleglli dell'Istituto di Francia, allorquando Lassalle si recò pella
seconda volta a Parigi. Nel 1845 principiano le sue relazioni ed
avventure celebri colla contessa Sofia di Hatzfeldt, separata da
suo marito, il cui divorzio dette luogo ad un processo dove Las-
salle prese le difese della contessa, colla quale si recò anche in
Italia, e vi conobbe Garibaldi, che lo invitò a tentare una spe-
dizione sopra Vienna affinchè l'unità italiana e tedesca potes-
sero stabilirsi sulle ruine dell'Austria. Tali idee erano anche-
quelle di Bismarck, ma i tempi non erano maturi e ci volle il 1866
per eff"ettuare il programma italo-tedesco.
Finito il processo, che resultò favorevole alla sua contessa,
si dette tutto al movimento politico-sociale del tempo. Scrisse
allora nella Neue PJieinische Zeiiiing, dove collaboravano anche-
Engels, Freiligrath, Schapper, Wolff ed altri scrittori meno cono-
sciuti.
Nel 1861 pubblicò uno studio letterario sopra Lessing, come
prima avea pubblicato una dotta dissertazione sulla filosofia di
Eraclito {Die Fhilosophie Herncleitos des Diinkeln von Epìiesos,
Leipzig 1858, 2 volumi). Questo lavoro gli meritò la nomina a
membro della Società di Filosofia, che lo incaricò anche di pro-
nunziare dei discorsi in occasione delle feste in onore di Fichte, il
filosofo che avea profetizzato l' unità germanica ed annunziato
che il popolo tedesco godrebbe un giorno della libertà ed ugua-
glianza proclamate dalla rivoluzione francese. Di qui anzi la sim-
patia di Lassalle per questo filosofo, ed il culto suo per certi
uomini compatrioti e contemporanei di Robespierre.
Ma ancora siamo nel campo delle astrattezze filosofiche, dove
pare che si bei l'ingegno trascendentale e potente di Lassalle.
Verso questo stesso tempo pubblicò il « Sistema dei diritti acqui-
DEL CREDITO POPOLARE. 523
siti » (System der erworhenen Rechie). È una specie di concilia-
zione « Versohnung, » osserva giustamente Adolfo Wagner, ^ del
diritto positivo col diritto filosofico. Fra mezzo a dissertazioni
puramente scientifiche fanno a capolino di tanto in tanto delle
idee di riforma radicale, come si può vedere laddove parla dei
regime attuale della proprietà e della eredità, che sottopone a
vivissima critica. .In due opuscoli politici pubblicati poco tempo
dopo « l'Essenza di una costituzione » {Uber Verfassungsweseri}
e « Forza e Diritto » [Macht und Rechf) egli riprende la sua
favorita idea, che negli affari umani tutto ciò che decide in ul-
tima istanza è sempre la forza.
Ma non è che verso il 1862 che Lassalle si fa il campione del
socialismo. Era l'epoca di lotta tra i liberali prussiani e JBismarck
a motivo della riorganizzazione dell' esercito e del bilancio della
guerra, che la Camera rigettò ostinatamente per parecchi anni di
seguito. I liberali si sforzavano di guadagnare l'appoggio delle
classi operaie, gli uni con Schulze Delitzsch alla testa, gli altri
con Lassalle, che principiò allora a gettarsi nella mischia per
esporre e difendere le idee socialiste. La sua attività di propaganda
fu meravigliosa. Durante i tre anni che durò il suo apostolato
attivo, non ebbe un istante di riposo; organizzava dei meetingSy
pronunziava dei discorsi, o pubblicava degli opuscoli. In un tempo
cosi breve pervenne a fare del socialismo un partito politico mili-
tante col suo posto riservato nell' arena elettorale. Fece in Ger-
mania da sé solo ciò che in Francia avea fatto la rivoluzione di
febbraio. ì^elV Arbeiter Prograrnm (Programma degli operai) si
adopra a dimostrare che nel modo stesso che la borghesia è suc-
ceduta all'aristocrazia territoriale, così anche il « quarto stato »
la classe operaia, deve diventare il potere dominante nella società
per mezzo del suffragio universale. Processato per avere provocato
r odio delle classi sociali le une contro le altre, egli si difende
con grande abilità nell' opuscolo intitolato DU Wissenschaft und
die Arbeiter (La Scienza e gli operai). «Nel 1848, diceva costui,,
gli operai erano alla mercè di agitatori ignoranti. Bisogna met-
tere la scienza alla loro portata ed istruirli; cosi comprende-
ranno qual è il loro vero interesse, e sapranno condursi come
conviene. »
Egli dimostra in fondo, che l' evoluzione storica deve mettere-
' V. Briffe von Ferdinand Lassalle an Cari Rodbertus-Jagetzoiv. Mit eìner-
FAnleitung von A. Wagner; Berliu 1878. Pattkammer,
530 DEL CREDITO POPOLARE.
capo al trionfo della democrazia, e dice di non aver fatto altro
che sviluppare una tesi, che può benissimo incorrere nei rigori
della critica, ma non in quelli del codice penale. E in occasione
di un'assemblea di operai a Lipsia espone mediante lettera aperta
al suo amico Rodbertus le stesse idee, che poi svolge anche in
una seduta del Congresso. 1 processi e le persecuzioni continuano,
ed egli, lungi dal ritrattarsi, conferma le sue idee precisandole
ancora di più cogli scritti Der Lassalle sche Criminal Process, 1863.
Der Hochverraths Frocess loidcr F. Lassalle. Verihcidigungsrcde
vom 12 nuirz 1864. Ma è tempo di vederlo alle prese con Schulze^
Lassalle, come tutti gli spiriti troppo assoluti, non conosceva
temperamenti. Non pensava che al mezzo di impossessarsi dello
Stato, e con esso, di trasformare la società. Il suo libro « il
Giuliano dell' Economia Politica » {Herr Bastiat-SclmUe von
Delitzsch, der Oeconomisclie Jidian. Berlin, Schlingmann, 1864)
è una violenta protesta contro il partito liberale, che egli ac-
cusa di disertare gli interessi popolari, ed una confutazione di-
retta dei mezzi con cui Schulze propone e si adopra di riformare i
pubblici poteri e lo stato sociale. Riassumiamone le idee. Sotto
il regime sociale attuale, l' operaio può coi suoi propri sforzi
migliorare la sua condizione come pretende Schulze-Delitzsch ?
No, risponde Lassalle, « la legge ferrea » del salario vi si op-
pone. Che cosa è questa legge ferrea {das eherne Lohngesetz)
che è la base di tutte le sue deduzioni? E quelhx legge in virtù
della quale nella società, quale è attualmente sotto l'azione del-
l' offerta e della domanda, il salario in media è ridotto a ciò che
è puramente indispensabile per permettere all'operaio di vivere
e di procreare. E il livello verso il quale gravita, nelle sue varie
oscillazioni il salario reale, senza che possa mantenersi lungo
tempo né al disopra, né al disotto di tal misura. Non può restare
per molto spazio al disopra di quel livello, perché appunto pel
fatto di una maggiore agiatezza e prosperità che porterebbe un
tal rialzo, crescerebbe il numero dei matrimoni e delle nascite
nella classe operaia; e così il numero delle braccia cercanti im-
piego non tarderebbe ad aumentare, ed offrendosi a gara, la con-
correnza ricondurrebbe alla stregua fatale. Non può del pari
cadere al disotto di quel livello, poiché altrimenti la miseria e
la fame produrrebbero la mortalità, 1' emigrazione, là diminuzione
dei matrimoni e delle nascite, e per conseguenza una riduzione
nel numero delle braccia. L' offerta di queste essendo minore, il
prezzo alzerebbe per la concorrenza dei padroni nel disputarsi gli
DEL CREDITO POPOLARE. 531
operai ed il salario si troverebbe cosi ricondotto alla stregua nor-
male, l periodi di prosperità e di crisi, cbe attraversa continuamente
r industria, producono queste oscillazioni, ma « la logge ferrea »
è là pronta a ricondurre sempre la retribuzione dell' operaio al
minimo di ciò che gli è indispensabile.
Può avvenire che in seguito dei progressi industriali, questo
miniìHum si modifichi. Lo standard oflife. la maniera cioè di vivere
ed i bisogni di prima necessità hanno cambiato. Difatti nel medio-
evo non si portava biancheria, si andava spesso scalzi, mentre che
oggi le scarpe e le camicie si considerano come indispensabili. Si
tratta dunque di un minimum ad un' epoca determinata, che sarà
sempre quello, al disotto del quale 1' operaio cesserà di maritarsi,
di procreare, o di potere allevare i propri figli.
La « legge ferrea » del salario non è che una applicazione
della legge generale che regge e governa il prezzo delle mer-
canzie, e che è uno dei luoghi comuni della economia politica.
Sotto questo rapporto bisogna distinguere tre specie di oggetti.
Dapprima quelli che non si possono creare a volontà, come le
statue antiche e i quadri di antichi autori, il cui prezzo si deter-
mina non dalle spese della produzione, poiché non si possono ripro-
durre, ma da ciò che gli acquirenti o dilettanti vogliono pagare. Poi
altri oggetti che possono aumentare il loro prezzo in certi limiti, ma
con una difficoltà crescente. Per questi le spese di produzione di altri
che si ottengono in condizioni le più onerose, determinano il prezzo
generale; tali sono, ad esempio, le derrate agricole. E finalmente
vi è una terza specie di cose che si può moltiplicare quasi quanto
si vuole, come appunto sono tutti gli oggetti manifatturati. Il
prezzo n' è regolato dalle spese di produzione delle merci fabbri-
cate in condizioni le più favorevoli, cioè a dire con minore sacri-
ficio. Il lavoro considerato come merce appartiene appunto a questa
terza categoria, poiché il numero delle braccia aumenta in ragione
della domanda; il prezzo della mano d'opera, cioè il salario, sarà
dunque determinato dal minimo del costo di mantenimento del-
l'operaio, minimo che risponde qui alle minori spese di produ-
zione di questa specie di merce particolare, che è la forza pro-
duttiva dell' operaio.
Se tale è la legge generale, le istituzioni preconizzate da
Schulze-Delitzsch, nonché le antiche opere di beneficenza e di
patronato, non possono conseguire l'effetto di migliorare la sorte
delle classi operaie in generale. La ragione ne è semplice: fin-
ché non si tratta che di un certo numero di operai, questi avranno
532 I>EL CREDITO POPOLARE.
evidentemente un vantaggio ad ottenere da una Società di consumo
a più buon mercato ed a migliore qualità i commestibili e prov-
vigioni di cui abbisognano; ma se la maggior parte degli ope-
rai profittassero di tali istituzioni, ne seguirebbe che essi vivreb-
bero come oggi stesso ma con minori spese; il ".ninimvm delle
loro spese di campamento, cioè le spese di produzione del lavoro
diminuirebbero ; e come questo minimum è il livello al quale la
concorrenza finisce col ricondurre il salario, ne seguirebbe che
questo abbasserebbe a misura che il mantenimento dell'operaio
divenisse meno costoso.
Così Lassalle credeva mostrare l'inanità degli sforzi di Schulze-
Delitzsch e dei borghesi filantropi che insieme ad esso vogliono
migliorare la sorte dell'operaio senza cambiare l' organazione
attuale della società. Tutti i tentativi che il loro buon cuore gli
ispira vengono a rompersi contro la « Irggr ferrea. »
Tali ragionamenti fondati sui principii generalmente accettati
dalla scienza ortodossa gli valsero gli assalti i più vivi del gior-
nalismo liberale. Lassalle rispose con non minore veemenza {Zur
Arhcifcrfrage. — Rcdc zu Lripzir/ ani 16avril 1863. — Redes/i Fran-
furt am 17 und 19 mai 1863). Egli non esitò a dimostrare che la
teoria del salario quale aveva es-posto, per quanto desolante po-
tesse apparire, pure è conforme alla realtà, e riceve conferma
anche dagli scritti di economisti come Stuart Mill, Roscher, Say
Eicardo e via dicendo. Anche la scuola fisiocratica adombrò una
tal legge. « Le simple ouvrier, disse Turgot, qui n'a que ses bras,
n'a rien qu'autant qu'il parvient à vendre à d'autres sa peine.
Il la vend plus ou moins chère, mais ce prix plus ou moins haut
ne dépend pas de lui seul : il résulte de 1' accord qu'il fait avec
celui qui paie son travail. Celui-ci le pale le moins cher qu'il
peut, et comme il a le choix entro un grand nombre, il préfère
celui qui travaille à meilleur marche. Les ouvriers sont dono
obligés de baisser leur prix à l'envi les uns des autres. En tout
genre de travail, il doit arriver, et il arrivo en efiet, que le salaire
de l'ouvrier se homo à ce qui lui est nécessaire pour lui pro-
curer sa snhsistance. »
Queste poche linee adombrano tutto il sistema di Lassalle.
Del resto, a parte i temperamenti di cui è suscettibile una tal
legge a seconda dei progressi morali e civili di un popolo, e che
il Socialista di Breslavia tenne troppo poco in conto, per non
dire escluse quasi affatto, il fondo di essa è in buona parte vero
e vi è stato un tempo in cui lo fu interamente. Quando la scuola
DEL CREDITO POPOLARE. 533
inglese indica e formula la legge che presiede allo sviluppo ed
aumento della i^roduzione, vi ripete in altre parole la stessa cosa;
il massimo di produzione col minimo mezzo non significa altro
che produrre al minimo costo, e quindi col più basso salario pos-
sibile.
Ed il perchè è facile a capirsi. Il prezzo delle merci sale e
scende, ma tende continuamente, a motivo della concorrenza, ad
avvicinarsi sempre più al livello delle spese di produzione. Per
vincerla sovra i suoi concorrenti, il fabbricante è dunque costretto
a ridurre più che può le sue spese di produzione onde potere
offrire i suoi prodotti a miglior mercato degli altri. E queste spese
di produzione della merce-lavoro (Arbeit-Waare), per usare la
frase già nota, non sono, in più dei casi, che il nutrimento, al-
loggio e vestiario dell' operaio.
Lassalle avea in qualche modo ragione quando ai discepoli
di Smith, che j)arvero scandalizzati delle afiermazioni sue, si fece
a provare che la sua legge è la conseguenza naturale e necessa-
ria delle deduzioni assolute del loro maestro.
Ma Lassalle ha torto quando alla sua legge ferrea dà lo stesso
carattere assoluto della scuola inglese. Se la domanda e l'offerta
è una di quelle leggi reali che fanno sentire i suoi effetti in molte
operazioni del mondo economico, non è a dimenticare però che
nel salario essa opera sempre diversa e sempre modificata dalle
circostanze di luogo e di tempo, dallo sviluppo maggiore o mi-
nore della coscienza morrle e giuridica di un popolo, in una pa-
rola dal grado di civiltà di esso. Tenuto debito conto di tutti i
mobili coefficienti del salario, allora la pretesa legge ferrea si
spoglia di quel suo carattere crudelmente rigido ed assoluto, e •
diviene una legge umana come tante altre che gli uomini fanno
e disfanno a seconda dei propri bisogni.
Lassalle che pare rimproverare al sistema inglese il suo ma-
terialismo, non si avvede poi di cadere colla formulazione della
cliernes Gesetzes nello stesso difetto della scuola inglese, cioè nel
fatalismo delle leggi immobili ed eterne credute presiedere allo
sviluppo e governo di tutti i fenomeni del mondo economico. Oggi
questo, dopo le esperienze di quasi un secolo, si intuisce in modo
assai differente dall'assolutismo fatale e materiale della vecchia
scuola, che considerò le influenze che regolano il salario come
leggi naturali, che s' impongono ineluttabilmente come quelle che
governano i fenomeni del mondo fisico, e che è inutile ed anche
assurdo volere cambiare. Ma, come abbiamo detto, questa ma-
534 DEL CREDITO POPOLARE.
niera di vedere è affatto erronea. Certo, data 1' organizzazione
sociale, i costumi e le abitudini attuali, come resultato della no-
stra civiltà, i fattori che regolano il salario saranno una conse-
guenza naturale di questi rapporti e circostanze ; ma questi fat-
tori, queste islituzioni, di cui essi sono un portato, non formano
delle leggi, ma sono dei fatti contingenti, prodotti dal libero ar-
bitrio dell'uomo, e capaci di variare ali* infinito, come la libera
potenza intellettuale di esso, che li modifica e rinnova continua-
mente.
Gli uomini che ne sono gli autori, possono quindi cambiare
questi rapporti, come lo hanno fatto parecchie volte nel corso dei
secoli. Neil' economia politica non esistono catene di fatti neces-
sari come ne presenta il mondo fisico, su cui non abbiamo potere.
Si subiscono le leggi cosmiche, si fanno quelle sociali. Le une
sono immutabili ed hanno la loro radice nella costituzione del-
l'universo ; le altre cambiano di secolo in secolo a misura che lo
svolgimento e progresso della storia creano altri tipi di civiltà.
La legge ferrea ha un lato vero tuttavia, quello in cui Las-
salle afferma che il salario ha un livello minimo oltre il quale
non si può andare, poiché ne seguirebbe l'annientamento fisico e
morale dell'uomo. Ma non è vero del pari, che non sia possibile
sorpassare di molto questo minimo livello e restarvici anche
normalmente o almeno per lungo tempo. A ciò è contraria, dice
Lassalle, la prosperità che ne segue nelle classi operaie, per cui
si aumenta la popolazione, e quindi l'offerta delle braccia, che
riduce di nuovo il salario. Ma è assolutamente vero questo? Le
statistiche non ci mostrano il contrario, in molti casi almeno ?
Mille esempi abbiamo in cui la popolazione aumenta in ragione
diretta dell'aumento della miseria: ed invece diminuisce in ra-
gione diretta dell' aumento della prosperità e ricchezza. Non
ne abbiamo una prova nell' Irlanda dove la popolazione trenta
anni sono pullulava in seno alla piìi abbietta miseria, e nella
parola stessa di proletario che significa miserabile e generatore
di prole in pari tempo ? E la prospera Francia oggi non prova
il caso contrario, cioè della diminuzione della sua popolazione,
mentre l'Inghilterra travagliata dagli scioperi e dalla miseria
delle sue falangi operaie, si vede aumentare la sua popolazione
fino ad allarmare i suoi economisti? Dunque, bando all' assoluti-
smo dei giudizi nei fenomeni del mondo economico, e stiamo
fermi al linguaggio dei fatti. La libertà morale ed intellettuale
dell'uomo, i progressi della civiltà, gli sforzi dei filantropi, e
DEL CREDITO POPOLARE. 535'
soprattutto le sane tendenze dell'odierna democrazia e della nuova
scuola economica ; ecco i modificatori sostanziali della legge fer-
rea di Lassalle.
Non staremo a riferire tutte le considerazioni che Lassalle
espone sulla odierna organizzazione industriale, sulle differenze
tra la piccola e la grande industria, per cui egli viene a conclu-
dere che l'operaio è mancipio del capitale, e nell'assoluta impos-
sibilità, se non si emancipa, di migliorare la sua sorte, e di per-
venire ad un certo grado d'indipendenza. Altrove noi, trattando
dell'odierna questione sociale, esponemmo queste stesse obiezioni
mosse all'odierno industrialismo, e dimostrammo come sono inu-
tili, e come occorra rimediare agl'inconvenienti e mali di que-
st'ultima. Chi fosse desideroso di approfondire la questione, legga,
oltre i numerosi scritti di Lassalle, Die hedrohliclie Eativicheìung
(ics Socialismus (Il minacciante sviluppo del socialismo) di Rodolfo
Meyer, scritto in un modo chiaro, e di un contenuto pieno di sostanza
Der moderne Socialismus (il Socialismo moderno) del D.r Eugenio
Jager; Bie Lehrcn des hcutigen Socialismus (Le dottrine del so-
cialismo contemporaneo) diH. von Sybel ; Die Theorie dcr Sosialen
Frage (La teoria della questione sociale) di H. von Scheel. Ma in
realtà Lassalle non ha che poco di originalità nelle sue obbiezioni ;
le dottrine socialistiche erano già nate e formate prima di lui.
I piani di riforma sociale di Lassalle non implicavano una
rivoluzione violenta. E in realtà le sue idee sono presso a poco
quelle sviluppate da Luigi Blanc nel libro V Organisation du trn-
vail nel 1841 con questa differenza, che il riformatore tedesco, in-
vece di opporsi ai principii di economia, li invocava per conse-
guire la trasformazione del regime attuale. E tutte le sue mire
consistevano nel moltiplicare le società cooperative di produzione,
in cui vedeva non solo la sospirata pace ed eguaglianza tra ca-
pitale e lavoro, ma la vera e sola panacea di tutti i mali che
affliggono l'età nostra. Le dolorose esperienze fatte di queste idee
ci dispensano dalla critica, ma non possiamo negare che siffatte
utopie non esercitassero ed esercitino tutt'oggi un gran fascino
tra le classi operaie, e sulle menti di chi le guida, e di chi in
buona fede vuole il loro bene.
Questo ci spieghi come tra gli illustri aderenti di Lassalle
ci potesse essere oltre a Bismarck ^ anche un personaggio del
1 È noto il discorso di Bismarck al Reichstag del IT settembre ultimo, dove a
proposito delle sue simpatie con questo socialista esclamava:
« Io mi .sono in realtà unito a Lassalle per ottenere l'appoggio da parte del
536 DEL CREDITO POPOLARE.
ceto ecclesiastico, che fece le jneraviglie di tatti i puritani reli-
giosi della Germania, vogliamo dire di monsignor Ketteler ve-
scovo di Magonza. Grazie a questo ambiente, De Ketteler pub-
blicava La questione del lavoro e il cristianesimo — q Libertà,
Autorità e Chiesa. Quest'ultimo scritto si ritenne in Germania
come il manifesto del partito cattolico sulla questione sociale.
Insigne letterato, abile scrittore, il cui stile vigoroso e conciso
pare un riflesso della professione militare che fu quella della sua
giovinezza, Monsig. de Ketteler aderisce alla dottrina di Lassalle,
pell'adozione del suo principio di partenza, che consiste nel rim-
proverare al salario di essere nelle condizioni attuali stretta-
mente commisurato e proporzionato ai bisogni della vita, ed inol-
tre pel suo ideale di governo, specie di teocrazia socialista, il cui
-spirito sarebbe essenzialmente contrario ad ogni libertà econo-
mica. Anch'esso per distinguere i mali della società attuale prende
a prestito da Lassalle i colori e perfino le espressioni. Come lui
ne rende responsabile il liberalismo e l'economia politica di Man-
chester {Bas Marchesterthum). Una volta, dice il vescovo di Ma-
gonza, la sorte dell'operaio era garantita, ed assicurata dalle cor-
porazioni di arti e mestieri. Il lavoro costituiva una proprietà,
che i regolamenti preservavano dalle oscillazioni del mercato e
dalle lotte della concorrenza. Oggi non è piìi la stessa cosa: il
lavoro è una merce {die arheit ist eine Woare) ; e come tale è sot-
toposto alle leggi che regolano il prezzo delle mercanzie. Mons.
de Ketteler toglie pur da Lassalle in prestito l'idea delle società
cooperative di produzione, per mezzo delle quali si ripromette di
governo alle società cooperative, ed oggi ancora non credo che sarebbe cosa inu-
tile. Non so se fu l'effetto dei ragionanaenii di Lassalle o il frullo della mia pro-
pria esperienza, acquistata durante il mio soggiorno in Inghilterra nel 1862, ma io
ho sempre creduto che organizzando le socieià cooperative come funzionano in
Inghilterra, si potrebbe seriamente migliorare la condizione degli operai.
» Io ne conferii con Sua Maestà, che s'interessa vivamente delle classi operaie,
■ed il Re mi donò una somma assai importante per fare uno esperimento. .Mi me-
raviglio che mi si faccia un rimprovero d'essermi occupato della soluzione della
questione sociale. Il vero rim[.irovero da farmi sarebbe di non avere perseverato e
condotto a buon fine quest'opera. Ma non era affare del mio dipartimento miui-
steriale ed il tempo necessario mi è mancato. La guerra, la politica estera, mi
hanno totalmente assorbito. La prova delle società cooperative non è riuscita,
per mancanza di una buona organizzazione. Fella produzione ogni cosa procedeva
bene; pella parte commerciale, la cosa era ben differente, e le difficoltà tanto nu-
merose da non potere esser vinte. Forse la causa è anche nella mancanza di
fiducia negli operai verso gli amministratori e i superiori. In Inghilterra questa
confidenza esiste e le socieià cooperative sono floride. Io non comprendo, in oo-ni
caso, elle mi si faccia un rimprovero di aver tentato delle prove a spese dello
scrigno particolare di Sua Maestà. » V. Allg. Zeitung del 19 seti. 1S7S.
DEL CREDITO POPOLARE. 537
trasformare completamente l'organizzazione sociale. « Bisogna, dice
esso, far passare gli strumenti di produzione nelle mani degli
operai; e per far questo il self-help di Schulze-Delitzsch, cioè il
risparmio fatto dagli stessi operai, non basta. » Ma mentre che il
socialista di Breslavia domanda per riformare l'ordine attuale 100
milioni di talleri allo Stato, il prelato cattolico si rivolge alla
carità cristiana. ^ E così la dottrina di Monsignor Ketteler è pur
essa l'esagerazione di un principio, che abbiamo dimostrato esser
falso; ha poco di nuovo per noi, come per tutti coloro che studia-
rono l'origine, fasi e sviluppo del socialismo antecedente ai tempi
di Ketteler e di Lassalle, il quale, alla fine, lo ripetiamo, non fa
che divulgare le dottrine socialiste già formate prima di lui.
Il merito di Lassalle (se pure può chiamarsi tale la propa-
gazione di errori), la originalità di Lassalle, consistono nell'aver
rese accessibili tali dottrine alle più incolte intelligenze. Sono
il suo stile vivacissimo, il vigore della sua polemica e più ancora
la sua eloquenza ed influenza personale che fanno escire il so-
cialismo dalla regione dei sogni e delle ombre dei libri poco
letti ed incompresi, per gettarlo in preda alle discussioni ed alle
lotte, sulle pubbliche piazze, nei cortili degli opifici, delle officine
e delle fabbriche. In soli due anni la sua parola e la sua penna
infiammate sollevarono tutta la Germania e crearono il partito
democratico socialista, che poi divenne potente e formidabile.
Un illustre scrittore diceva che Lassalle esercitava lo stesso fa-
scino di Abelardo, e come questi, sapeva tanto incantare le
donne quanto sedurre e trascinare le moltitudini. Percorreva,
dice un suo critico, tutte le città « giovane, bello ed eloquente,
trascinando con sé tutti i cuori sentimentali, e dappertutto la
sciando degli ammiratori e dei discepoli entusiasti, che forma-
vano il nucleo delle società operaie. » Non havvi un secondo
esempio di una influenza così grande esercitata così estesamente,
ed acquistata in così poco tempo. Del pari tutta la sua vita è
un vero romanzo.
Eiassumendola, si può dire che la sua vita pubblica si distin-
gue fin da principio per un'agitazione continua, che lo toglie
' Il programma cristiano-socialist,a (c/iri5fZéc/i-,socjafó) tracciato da Ketteler per
venire ia aiuto, mediante la religione, allo scioglimento della questione sociale,
trovò e ha anc'oggi moltissimi aderenti nelle file del cattolicismo tedesco. I vari
gruppi in cui si divide quest'ultimo di fronte alla questione sociale, si possono ve-
dere nell'opera di Rodolfo Meyer, Ber Emancipations-Kampf des vierten Standes
(La lotta peir emancipazione del quarto stato), e nel recente articolo Le socialisme
contemporain en Allemagne del De Laveleye nella Revue des deu-v Mondes.
VoL. XIV, Serie li — 1 Aprile 1819. 33
538 DEL CREDITO POPOLARE.
spesso allo studio. Processi privati e processi politici si alternano,
come vedemmo colla pubblicazione di lavori di filosofia generale
0 giuridica. Dopo poco, la rivoluzione del 1848 lo trascina nella
politica di azione dove egli si schiera sotto le file del radica-
lismo. Le condanne e persecuzioni che incorre ne fanno l'idolo
del popolo, ed è lui che il nostro Sohulze incontra come avver-
sario il più formidabile. Ci sarebbe da scrivere più d'una pagina
interessante al sommo grado se volessimo dipingere la situazione
degli animi a Berlino, durante la lotta di questi due potentissimi
avversari, ciascuno dei quali cercava di distruggere a vicenda
giorno per giorno gli effetti prodotti sulle moltitudini dai discorsi
dell'altro. Qua si grida viva Schulze, là viva Lassalle; oggi trionfa
l'uno, domani l'altro, e così per vario tempo. Tutti e due ardono
di zelo apostolico, e a somiglianza di Socrate usano della più fina
dialettica per persuadere le moltitudini. Schulze in opposizione
ai meetings dell'avversario organizza delle conferenze.
L'economista di Delitzsch si mostra abilissimo a trattare la
scienza pura del pari che la scienza applicata. Queste due atti-
tudini, che d'ordinario si escludono, acquistano riunite un'impor-
tanza unica nell'ordine dei fatti ed idee, a cui le rivolse Schulze.
Trattando dei mezzi propri a risolvere la questione sociale,
passa in rivista i diversi sistemi proposti e dichiara subito che
la questione non è politica, ma puramente economica, e che perciò
essa attende la soluzione unicamente dall' individuo e non dallo
Stato che rappresenta la collettività. Ei respinge in prima linea
la carità sistematica organizzata, sia dagli individui sia dallo
Stato. La respinge come impotente a disseccare le sorgenti della
miseria, ed a migliorare le condizioni delle classi povere, come de
moralizzante e distruggitrice dell' iniziativa individuale. Schulze
confida soltanto nell' iniziativa personale fecondata dall'associa-
zione come il solo mezzo di sollievo e progresso pelle classi
operaie.
Riandando le origini dell'associazione presso i popoli moderni,
Schulze espone come nel medioevo si formarono le corporazioni
neir imploro germanico, e come esse si costituirono in unioni o
corporazioni di mestieri, donde è escita la borghesia. Egli mostra,
come a quest'epoca, i diritti non essendo riconosciuti che sotto
forma di privilegi, queste corporazioni non potevano essere aperte
che a quelli che adempivano certe condizioni, e dovevano quindi
avere per legge la costrizione e l'obbedienza passiva. Ed aggiunge,
che sòrte come mezzo di lotta per sottrarsi al servaggio feodale,
DEL CREDITO POPOLARE. 539
le corporazioni hanno poscia perduto la loro ragione di essere
mediante il trionfo dell'eguaglianza dei diritti civili, donde con-
clude, che esse devono d'ora innanzi trasformarsi in associazioni
libere ed accessibili a tutti. Rende omaggio nel passato come nel
presente al genio particolare della schiatta tedesca, alle sue qua-
lità tali come la confidenza e fiducia nelle proprie forze, lo spirito
d' iniziativa, ed altre qualità in cui è riposta l'attitudine della
nazione ad associare le sue fatiche ed i suoi lavori. Raccomanda
ed insiste che si proceda gradualmente nello spirito di associa-
zione ; che non si aspiri alle società di produzione, termine supe-
riore della cooperazione, se non dopo aver percorsi i gradi inter-
medi. Dimostra perchè l'operaio francese non sia riuscito nelle
società di produzione per averle volute organizzare senza vie di
mezzo invece di cominciare colle società elementari di credito
mutuo.
Esamina con grande profondità di studio l'enorme quantità
di cognizioni, lavori, opere, procedimenti e metodi industriali,
trasmessici dalle generazioni che ci hanno preceduto. Egli defi-
nisce tutto questo assieme di fatti ed idee col nome di fondo o
di patrimonio comune dell'umanità, e stabilisce il diritto che ha
ciascuno di partecipare a questa eredità collettiva, che consiste
nell'istruzione, la quale soltanto può darci la chiave del grande
arsenale delle conoscenze umane. E sebbene le società operaie
abbiano fondato delle scuole, Schulze non le riconosce suffi-
cienti: fa di questo diritto individuale un dovere dello Stato, pro-
tettore naturale dei minorenni, per una eccezione ai suoi principii
generali, sì sfavorevoli all'intervento del Governo o dello Stato,
base dei sistemi sociali. In tutto il resto sostiene la neutralità
assoluta dello Stato come principio necessario del progresso. Las-
calle chiede la sicurezza e protezione dell'agente manuale del-
l'industria ad un potere assoluto sorto dalle viscere della nazione,
e dispensatore supremo del credito alle classi operaie. Schulze
non attende questa sicurezza che dall'iniziativa individuale, ba-
sata sulla cooperazione: vuole che l'operaio sia l'autore del suo de-
stino, come lo fu a sé stessa la borghesia attraverso le istituzioni
e gli ostacoli del medio-evo.
Tale è con qualche variante il carattere generale delle idee,
che combatte Schulze in risposta a Lassalle. Vede nei concepi-
menti di questo una nuova specie di despotismo, delle caserme,
0 conventi industriali, incompatibili col grado di civiltà, a cui è
pervenuta oggi l'Europa. È dunque soltanto dallo sviluppo ed
540 DEL CREDITO POPOLARE.
estensione delle istituzioni cooperative, e non dalla carità pub-
blica 0 privata, che Sculze si ripromette di distruggere il pau-
perismo sociale.
Nessuno oserebbe negare che la carità non è né di diritto eco-
nomico, né di diritto politico e che, sotto il punto di vista legale,
essa deve restringersi ai casi di rigorosa necessità. Non è meno con-
testabile che l'elemosina deprava ed abbassa colui che senz'altro ne
fa il mezzo permanente della sua esistenza, invece di dimandarlo
all'impiego delle sue facoltà. È evidente che l'elemosina praticata
su larga scala ed elevata, come in Inghilterra e nel Belgio, all'altezza
di istituzione legale, non nuoce soltanto alla moralità ed intelligenza
dell'individuo, ma danneggia ancora la fortuna pubblica nelle sue
sorgenti principali coll'assorbimento improduttivo di capitali consi-
derevoli, ed impedendo lo sviluppo delle forze produttive presso
coloro che vivono del lavoro. Noi siamo anche convinti, che la
propagazione delle diverse forme cooperative, e la solidarietà
che conseguentemente si stabilirà di più in più tra gli uo-
mini, limiteranno gradualmente il terreno oggi sì vasto, in cui
si esercita la beneficenza pubblica e privata. Ma non bisogna
perder d'occhio gli ostacoli che incontrano i progressi dell'uomo,
nelle imperfezioni native della propria intelligenza, nello stato
attuale della società, e nelle lente e difficili movenze verso la di-
minuzione 0 soppressione dei mali che la travagliano. In attesa
sempre di un avvenire migliore, non sono frattanto da rigettare
tutte quelle transazioni tra lo Stato e l'individuo, capaci di af-
frettare il morale e materiale benessere di quest'ultimo. Non ci
illudiamo, vi saranno sempre degl'invalidi nell'elemento umano,
sempre dei naufraghi nell'oceano burrascoso della vita sociale.
Donde la necessità permanente di una assistenza che potrà essere
limitata, ma soppressa mai, e per cui, in mancanza di una suf-
ficiente iniziativa dei cittadini e dei comuni, lo Stato dovrà in-
tervenire in modo però da impedire che i suoi aiuti divengano
un premio al vizio o alla pigrizia.
Schulze, anima altamente cristiana, e piena di sentimento
religioso pel prossimo, qualità che gli danno una certa superiorità
sull'ebreo Lassalle, conviene di quanto diciamo più sopra, e cerca
di temperare le rigide asperità delle dottrine sistematiche, colla
considerazione dei doveri imposti ad ognuno verso il proprio si-
mile dalla religione. Uno anzi dei lati del carattere di Schulze,
restati più nell'ombra, e che noi crediamo interessante di far co-
noscere ai lettori, é quello filosofico e religioso dei suoi insegna-
DEL CREDITO POPOLARE. 541
menti, lato che dona al suo talento oratorio quel carattere parti-
colare che resulta dalla felice armonia del pensiero col sentimento,
per cui a buona ragione lo si è paragonato a Lutero del pari
che a Bastiat.
In una delle sue conferenze, Schulze, dopo avere esposto il
cammino della civiltà nelle sue diverse epoche, segnala agli operai
l'influenza esercitata sur essa dal cristianesimo, il cui principio fon-
damentale è nella qualità, dice Schulze, di figli di Dio, data a tutti
gli uomini ; donde deriva per tutti il diritto di partecipare al pa-
trimonio comune, alfine di crescere in moralità, di progredire in
cognizioni, e di cooperare al compimento dei destini della umanità.
Quanta differenza nel modo di concepire le relazioni dell'uomo col
proprio simile esista tra Schulze e Lassalle, ci è resa evidente dal
seguente brano di una conferenza del primo, che traduciamo alla
lettera. ^ Direbbesi uno squarcio di eloquenza sacra alla Bossuet,
' « In questa preghiera (l'orazione domenicale), esente e scevra di
ogni dommatismo, e veramente universale, i cristiani tanto numerosi delle diffe-
renti confessioni si sentono dopo due mila anni animati da uno stesso spirito, e il
senso sublime di essa, che sfugge all'irreliessione dei dotti, è sempre compreso dai
cuori semplici ed onesti. Ecco una preghiera per tutti ed in tutte le situazioni, sia
che si cerchi una più chiara intelligenza dei misteri della nostra religione, sia che
si provi il bisogno di raccogliersi dopo una grande crisi, sia infine che s'implori
l'aiuto di Dio nei dolori morali e materiali. Nei momenti di gioia e di riconoscenza,
del pari che nella tristezza e nell'ora della morte, ci sgorga dalle labbra; poiché
simile alla vita stessa, ella ab'oraccra tutto, unisce il celeste al terrestre, l'ideale
al reale, riassumendo cosi in sé l'umanità sotto i suoi diversi aspetti, e nei suoi
rapporti colla missione sociale del cristianesimo. Questa preghiera fa derivare
l'umano dal divino, e li confonde nel sentimento àe\\3. paternità e àeWa. figliazione
poiché comincia con queste parole : Nostro padre e ci trascina tosto verso il
mondo dell'ideale. Difatti ci suggerisce di rendere omaggio al Creatore nei suoi
decreti e nelle sue opere ; risveglia in noi il presentimento di un avvenire migliore,
evocandoci l'immagine di un regno celeste, conformemente al linguaggio simbolico
dell'epoca.
» Ma tale immagine non è presentata al nostro spirito che per invitarci a
realizzarla nelle condizioni sociali, poiché tale è lo scopo finale prefisso da Dio ai
nostri sforzi: Che questo regno venga nei nostri gioiti, che la volontà di Dio
sia fatta sulla terra e possano le condizioni della nostra esistenza elevarsi e no-
bilitarsi nel sentimento delle aspirazioni ideali dell'umanità ! E ciò che più attira
la nostra attenzione in questa preghiera, è che passando dall'ideale celeste alle
realtà di questo mondo, il primo voto che essa esprime dopo le parole: Che la
volontà di Dio sia fatta cosi in Cielo come in terra, è quello di domandare il
nostro pane quotidiano. Ecco l'idea madre, il punto essenziale di tutta questa
preghiera, il punto dove si forma il nodo tra l'ideale e la vita mediante il senti-
mento dei nostri rapporti necessari colla materia, ed è l'opera preliminare che fa
d'uopo subito adempire per giungere all'effettuazione dei nostri alti destini. E quanto
non è profonda e vera l'irresistibile tendenza che sorge allora in noi, e che non
'e altro che l'imperioso bisogno di un appoggio morale e materiale nel conflitto di
ogni giorno tra le aspirazioni ideali e la cruda realtà che ci circonda ! Da ciò la
necessità dell'indulgenza pelle imperfezioni della natura umana che fanno im ob-
542 DEL CREDITO POPOLARE.
0 di Lacordaire. Schulze esorta gli operai alla fede in Dio e alla
preghiera, pur non cessando di lottare per vincere gli ostacoli che
si frappongono al miglioramento delle condizioni della propria esi-
stenza, e dimostra loro quanta grandezza di sentimenti, quanta ge-
nerosità di pensieri rampollino da una meditazione sull'intimo senso
dell'orazione dominicale, simbolo di unione, di fede e speranza tra
le genti cristiane, che egli contrappone al crudele e spietato fata-
lismo della legge ferrea di Lassalle.
Ecco come tra l'economico e il mistico, tra il politico e reli-
gioso, poteva il nostro Schulze far pendere per intere ore dalle
sue labbra eloquenti tutto il numeroso pubblico delle sue confe-
renze; al contrario di Lassalle che non sapeva eccitare che la ima-
ginazione e le cupidigie.
Tali conferenze principiarono nell'inverno del 1862 nella
grande sala della Friedricstrasse a Berlino. Questa immensa aula,
narrano testimoni oculari, era ogni sera stipata di gente fino
nelle gallerie; e il nostro Schulze parlava dalla cattedra in mezzo
al silenzio e alla calma più perfetta. Si sarebbe detta una grande
moltitudine di persone riunite in un edificio religioso pell'eser-
cizio del loro culto. È là, in mezzo a questo uditorio, composto
di operai, e di uomini anche cospicui nella scienza, nella poli-
tica e nell'industria, che Schulze espone le sue vedute sulla que-
stione sociale, sulla situazione delle classi operaie e sopra i mezzi
di migliorarla. La sua vigorosa intelligenza, applicata a questioni
così difiicili, prodiga del tesoro delle sue meditazioni mostra le
vie per le quali gl'interessi opposti si possono conciliare in seno
della civiltà.
Tale è l'origine dei discorsi, il cui immenso successo costrinse
il loro autore a farne un'edizione a parte sotto i seguenti titoli:
« Capitolo d'un catechismo degli operai tedeschi » {Kapitel su
einem cìeidschen Arheiterhatccìiismiis. Leipzig, bei C. Keil 1863)
e l'altro « L'abolizione dei rischi industriali e commerciali se-
bli^o del perdono alle ofifese, della tolleranza ed assistenza reciproche, condizioni
indispensabili pel mantenimento di una comunione morale tra gli uomini. Da ciò
anche l'umile confessione delle nostre debolezze mediante la domanda, che noi vol-
giamo a Dio, di non essere indotti nella tentazione, visto che l'individuo, abban-
donato alle sue proprie forze, non saprebbe resistervi. La conclusione : liberateci
dal ma?<?, riassume in sé l'idea generale ed abbracciando tutto l'assieme dei feno-
meni storici della civiltà, domanda la soppressione di tutti gli ostacoli che potreb-
bero arrestare o impedire nel suo corso lo sviluppo benefico della vita individuale,
e della vita sociale, ed opporsi al miglioramento delle nostre condizioni. E ap-
punto lo scopo finale delia civiltà, il compimento dei destini del genere umano, che
ci presenta in tutta la sua sublimità quest'ultima conclusione. »
DEL CREDITO POPOLARE. 543
condo il signor Lassiille » {Die Ahscliaffumj des gcscMftliclicn
Risics durcli Hemi Lassallc. Berlin, bei F, Duncker 1865), che
Scliulze considera come un capitolo da aggiungersi al catechismo
degli operai.
L'insegnamento impartito nel 1862 con tanto contrastato suc-
cesso dall'eminente oratore, non potè fare a meno di risollevare
vive contraddizioni da parte del partito socialista e autoritario,
le cui dottrine erano diametralmente opposte a quelle di Schulze,
che predicava lo sviluppo dei progressi economici e civili della
società mediante la libertà ed iniziativa individuale. È il periodo
più agitato della vita del grande apostolo tedesco e dei suoi
amici. Lassalle gli sguinzaglia contro le frecce velenose dei suoi
scritti e discorsi con cui minaccia di ribellargli le classi operaie
e il popolo fino allora affezionatamente e sinceramente devoto alla
persona e alla dottrina di Schulze. Sono appunto di questo tempo
i seguenti scritti:
^< Libro di lettura pegli operai » {Arheiterlesehuch. Franco-
forte a M. 1853, Reinh. Baist).
* Agli operai di Berlino » {An die Àbeiter Berlins E ine Aus-
prache in Neanien der Arheiier. Berlin, 1853. R. Schlingmann).
« Le imposte indirette e la situazione degli operai » {Die
indir ecte Siener und die Luze der arheitenden Klassen. Zlirich, 1863,
Meyer).
A ben comprendere la genesi di questi ed altri scritti di
Lassalle giova leggere le lettere che quest'ultimo scrisse al suo
intimo amico Carlo Rodbertus-Jagetzow, che per la prima volta
sono state raccolte e pubblicate da Adolfo Wagner. ^ Queste ed altre
opere ricevono da quelle lettere commenti. ed illustrazioni op-
portune alla intelligenza degli errori e verità del celebre demagogo
di Breslavia, di cui molto si parla, ma pochi sono in grado di ap-
prezzarne con cognizione di causa le virtù e i difetti.
Per quanto il nostro Schulze ribattesse valorosamente molte
delle obbiezioni del sao avversario, non poche di esse restarono
e restano anc' oggi indistruttibilmente vere, e servirono e servono
ancora di arma formidabile in bocca degli allievi del celebre
maestro, come ne può far fede lo spettacolo odierno del movi-
mento sociale tedesco. La lotta tra i due illustri campioni, con-
siderata l'audacia, versatilità e fecondità dello spirito, spesso pa-
radossale di Lassalle, non si sarebbe sospesa tanto presto, senza
' V. opera citata.
544 I>EL CREDITO POPOLARE.
la morte prematura di quest'ultimo, sopravvenuta il 31 agosto 1864.
Com'è noto Lassalle era innamorato fortemente di una giovane figlia
di un diplomatico bavarese, la signorina Elena De Doenniges, da
cui era anche riamato. Ma il progetto di matrimonio riuscì un
inganno per parte del padre di Elena, il quale non poteva con-
ciliare la propria carica di diplomatico coi nuovi legami di un
genero socialista, la bète noire di tutti gli Stati della confedera-
zione. Lassalle, sdegnatosene, lo sfidò al duello, ma invano. Ac-
cettò la sfida per il padre, un amico di questo, il signor Eacko
witz, che al giorno ed ora fissata si presentò sul terreno per
rispondere della provocazione. Il duello fu alla pistola ed ebbe
luogo nei dintorni di Carouge. Al primo colpo di pistola Lassalle
cadde ferito mortalmente e spirò all'Hotel Vittoria a Ginevra
dopo tre giorni.
La sparizione di questo capo del partito ebbe per resultato
una certa tregua nell'agitazione; tregua, che la guerra del 1866,
ed i cambiamenti profondi che ne seguirono, prolungarono ancora
di più in Germania. Ma i dissensi economici, rappresentati dalle
due differenti scuole, tornarono a galla più minacciosi che mai
verso il 1868. Lassalle aveva avuto per successore Schweizer '
deputato al parlamento di Berlino per Elberfeld, ^città industriale
molto importante delle provincie Renane, redattore del Giornale
Democratico Socialista e presidente generale delle associazioni
operaie che aderiscono alle idee di Lassalle. Si tenne da esso un con-
gresso a Berlino, ove furono convocati tutti i delegati di queste
associazioni.
La lotta ricominciò dunque ed essa fu di nuovo sostenuta
dall'illustre Schulze, aiutato dai suoi amici ; esso mostrò una per-
severanza così tenace, che non trae radici che da profonde con-
vinzioni. Conferenze di città in città, di giorno e di notte: perio-
dici, riviste e pubblicazioni di ogni genere portano la luce del
nuovo verbo della cooperazione in ogni angolo della terra tede-
sca. A qualunque avvisaglia di guerra Schulze è pronto sulla
breccia; sono sue armi invincibili l'eloquenza della sua parola,
la dialettica del suo spirito, e gli eserciti delle associazioni coo-
perative che tutti i giorni si moltiplicano dall'uno all'altro capo
della Prussia e della Germania, e che finalmente gli formano una
di quelle trincee che resistono a tutti gli assalti, e dietro alla
' V. il suo libro Ber tod- Schulze gegen den lebenden Lassalle (Il morto
Schulze contro Lassalle vivente).
DEL CREDITO POPOLARE. 545
quale riposa tranquillo oggi lo spirito ancora operosissimo del
venerando vecchio di Potsdam.
A testimoniare al nostro Scliulze la gratitudine della sua
patria per là benefica opera compita colle sue istituzioni, nel 1864
il D. Lette, presidente della Corte dei conti, gli faceva, a nome
della Democrasia Tedesca, un dono di 50,000 talleri proveniente da
volontarie sottoscrizioni.
A Parigi, in occasione dell'Esposizione del 1867, si era con-
venuto di tenere un Congresso internazionale per trattare delle
istituzioni basate sul principio della cooperazione, nel quale l'opera
meravigliosa del nostro Scliulze dovea ricevere la sanzione e l'in-
coronamento da parte degli economisti i più eminenti di Europa,
che espressamente vennero invitati a recarsi a Parigi. Si citava
fra essi, John Bright e Stuart Mill per l'Inghilterra, il D"" Boh-
mert, ed il D"" Hirsch, nonché Schulze medesimo pella Germania.
Tutti credevano che l'autorizzazione di riunirsi in tal Congresso
sarebbe stata facilmente accordata dal governo, che nell' anno
precedente aveva messo a disposizione della Società dei tessitori
di Lione parecchie migliaia di franchi; che verso la stessa epoca,
aveva stabilito a Parigi, Place Royale, una cassa di prestiti ed
anticipazioni jier i cooperatori, ed aveva inoltre fatto fare delle
offerte ai diversi gerenti delle società parigine di operai ; e che
finalmente aveva sollecitato un'inchiesta pubblica su queste asso-
ciazioni, e fatto presentare e votare dal Corpo Legislativo una
legge in proposito. In tutto questo però si era dimenticato una
cosa; ed è che il cesarismo napoleonico non avea per principio
di condotta di servire la democrazia, ma di servirsene ; si era
dimenticato che dopo il colpo di Stato politico del 2 dicembre 1851
r imperatore avea fatto circondare dalla polizia le associazioni
operaie fondate nel 1848, e che nel 1860 era successo il secondo
colpo di Stato nell'ordine economico col trattato di Cobden.
A dir breve, insomma il Congresso fu proibito, e gli orga-
nizzatori dopo un palleggiamento derisorio, tra il prefetto di po-
lizia e il ministro dell'interno, ne dovettero, con grande loro in-
dignazione, abbandonare l'esecuzione. Schulze in questa occasione
scrisse contro il governo imperiale a guisa di manifesto una vio-
lenta e legittimissima protesta, che fece tutto il giro della stampa
europea. ^
' Rivolgendosi agli organizzatori, diceva: « Nou scendiamo a patti con tal po-
litica I Trasferite il congresso nel Belgio, o meglio ancora in Germania ad Hei-
delberg, Mannheim, Coblentz, Cologna e ovunque vi piace meglio ! E la migliore
546 DEL CREDITO POPOLAKE.
Non entra nel piano di questo schizzo biografico di far per-
correre al lettore tutte le fasi in particolare della vita politica
di Scliulze, Diremo solo che fedele alla divisa dei suoi principii
economici, egli si è mostrato strenuo difensore delle libertà po-
litiche, che non vorrebbe separate da quelle economiche, come
ne fan fede i suoi scritti, in cui si professa discepolo di Bastiat
e di Carey in pari tempo ; il che però non gli fu dare a queste
ultime il valore assoluto che possono reclamare le prime. Come
uomo politico, il nostro Schulze ha seguito sempre le fortune di-
verse dell'opposizione, di cui è restato uno dei capi. Fin dai pri-
mordi della sua carriera parlamentare, lo vediamo contendere
palmo a palmo il terreno alla reazione, che seguì lo scioglimento
del parlamento di Francoforte, e sforzarsi a riconquistare le li-
bertà perdute e a lottare senza interruzione contro lo usurpazioni
del governo personale e dell'autocrazia ministeriale.
Dopo avere, negli anni che precedettero le ultime guerre,
vanamente tentato di opporre ostacoli ai progetti di Bismarck,
furono lui e i suoi amici costretti a dimettere l'antica acrimonia
dinanzi al suo doppio trionfo del 1866 e del 1870, poiché si tro-
risposta al regime arbitrario e dispoiico. Nessuno presso noi, in Germania, oserà
disiurbarvi ; ve lo garantisco sul mio onore. »
E altrove... « Io mi trovava in viaggio per Parigi, dove mi proponeva, in qua-
lità d'adente ilell'Unione delle associazioni tedesche, di assistere al congresso delle
istituzioni cooperative, convocato per la metà di agosto, quando ricevetti la notizia
che il governo francese si opponeva alla riunione di esso. Io ho rigettato come
compromettente per la libertà e dignità del congresso ogni concessione fatta in
vista del ritiro di quella proibizione, ed ho tosto deliberato di ritornare indietro....
11 presente manifesto ha per scopo di protestare dinanzi al mondo civile contro la
esclusione di cui è oggetto il movimento sociale cooperativo. Colla proibizione del
congresso internazionale, l'Esposizione universale di Parigi ha perduto uno dei suoi
titoli più importanti alla sua universalità, e visto menoraai'si il suo valore inter-
nazionale. Qualunque cosa possano dire le associazioni degli altri paesi di questa
ingiuria alla dignità ed al diritto sociale della nostra causa, non sarà mai abba-
stanza pelle unioni cooperative tedesche, il cui agente perciò si crede in dovere di
fare sentire la sua voce in tal circostanza. Noi rappresentiamo un' organizzazione
completa, dove ci siamo riuniti per la difesa della nostra causa e la tutela e sal-
vezza dei nostri comuni interessi. Noi siamo una potenza; abbiamo obbligato lo
Stato a riconoscerci nel nostro paese; siamo una potenza economica e morale, fon-
dala su tutto ciò che è buono, giusto e veramente umano. A questo titolo noi ri-
gettiamo un tal atto arbitrario.
» Il governo francese, che altre volte ha preso per divisa « L'empire, c'est la
paia;» ha respinto colla sua proibizione uno degli elementi più preziosi della pace
interna ed esterna dei popoli. Le associazioni ne prendano atto.
» In nome della Unione generale delle associazioni cooperative tedesche,
» L'Agente attuale
» Segnato: SchnUe-Delitsich. »
DEL CREDITO POPOLARE. 547
varono di fronte alla maggioranza della nazione, ebbra d'entusia-
smo pella vittoriosa politica del gran Cancelliere. Ma adesso la,
lotta riprincipia dopo gli ultimi atti della politica interna di
quest'ultimo, che ha il torto di volersi un po'troppo imporre al-
l'autorità di uomini che colle loro opere gli crearono la nazione,
e gli prepararono il cammino ai trionfi di Sadowa e Sédan.
Schulze è un uomo di alta statura, e di buona costituzione fisica:
fisonomia energica, dolce e simpatica in pari tempo ; fronte spaziosa
e prominente : sguardo vivacissimo ed espressivo. La sua voce è
oltremodo sonora, e parla davvero col tuono, il gesto, il calore
dell'uomo inspirato. Quando poi l'argomento cade su questioni che
lo toccano davvicino, la sua parola è d'una eloquenza che tra
scina e affascina; ha tutte le nobili indignazioni del moralista e
tutti gli slanci dell'entusiasmo, e si comprende allora come abbia
potuto com movere ed indurre una nazione tutta quanta all'osser-
vanza e pratica dei nuovi principii economici, di cui si fece pro-
motore ed apostolo fin dalla sua giovinezza. L'eloquenza di Schulze
non è però di quelle che solleticano e lusingano le passioni delle
plebi; ma s'impone col linguaggio che va dritto all'intelligenza
e al cuore. La sua elocuzione è esente di ornamenti superflui
di frasi alla francese; semplice e conforme sempre alle leggi di
una logica rigorosa, istruisce senza pedanteria, persuade colla
sola forza della verità e senza mai adulare le plebi e tanto meno
i suoi interlocutori (indizio di animo debole o preoccupato), e
tuttavia sa rendersi oltremodo popolare.
Tale è l'uomo che andiamo a conoscere qual fondatore delle
Banche popolari in Germania e sul quale un dotto tedesco, amico
intimo e collega di Schulze, pubblicherà quanto prima un'ampia
e particolareggiata biografia.
Ed ora venendo alla terza parte del nostro articolo, dopo di
avere assistito alle travagliate lotte dell'origine della cooperazione
tedesca, passiamo allo studio delle istituzioni create da essa, esa-
miniamone di volo l'esistenza e i vantaggi che nel disbrigo delle
loro molteplici e svariate operazioni arrecano alle classi popolari
tedesche.
in.
Le Istituzioni di Cooperazione {Genossenscliaften) sparse nel
Regno ed Impero Alemanno ammontano a tutt' oggi a 3123 contro
3080 nel 1877. L'aumento rapido e progressivo di anno in anno pò-
548 DEL CREDITO POPOLARE.
Irebbe offrirci prova sufficiente della bontà ed efficacia del prin-
cipio che le governa, e della utilità dei servizi che rendono alle classi
bisognose delle popolazioni tedesche. Ma a tale dimostrazione con-
vincente è duopo lo studio del poderoso organamento che le abbrac-
cia ed affratella insieme tutte quante, organamento che non ha
riscontro in nessun altro paese di Europa, e che troppo poco si è
studiato anche da noi, dove, sia per l'indole delle popolazioni, sia
per la diversa legislazione, ma più che altro pel loro diverso orga-
namento, le nostre imitazioni riuscirono vere miniature.
Le Unioni {Vereine) alemanne di cooperazione si fondano,
come ognuno sa, sul gran principio della responsabilità illimitata
( TJnheschranlde Haft) di uno per tutti e di tutti per uno ; prin-
cipio altamente democratico ed il più efficace ad aprire le sor-
genti del credito ai nullatenenti, siccome quello che ricerca e san-
ziona le garanzie delle persone accreditate non tanto nelle loro
sostanze, quanto nella loro onestà, nelle loro opere quotidiane,
nel loro onore. Qualunque povertà onorata, i cui mezzi di sussi-
stenza dipendono dal solo lavoro, si potrebbe e dovrebbe, secondo
questo principio, aggregare in Germania alle falangi della coope-
razione, e divenire tosto una potenza capace per sé stessa di dare
e di ricever credito.
Mentre altrove il principio della cooperazione o ebbe altra base
0 si sviluppò sotto un solo aspetto, sotto l'aspetto bancario, tra le
popolazioni tedesche invece trovò la più feconda applicazione in
quei rami principali della operosità umana, dalla cui prosperità
dipendono il lavoro, il sostentamento e l'agiatezza delle classi
operaie in particola!* modo. E singolare a prima vista che la
schiatta teutonica, il cui passato storico è la personificazione del-
l'individualismo il più accentuato sia nelle lettere che nelle arti,
tanto nella religione che nella filosofia, ci offra oggi il più perfetto
modello, nelle sue associazioni cooperative, di quello spirito solidale
e collettivo, che parrebbe dovesse essere dote esclusiva delle
schiatte latine, alntuate da secoli a piegarsi sotto il giogo della
Koma dei Cesari, ed educate dipoi allo spirito accentratore, cui
s'informò il governo della Chiesa, nonché la politica degli Stati da
essa particolarmente influenzati e sorretti, come furono appunto
l'Italia e la Francia, per tacere di altri: ^ tuttavia il principio soli-
1 E tra questi il Belgio, che fu del resto il più pronto e fedele imitatore della
cooperazione tedesca, e non ci ha dato ancora le varie ramificazioni, che osser-
viamo nella Germania; ed anche la forma delle sue Unioni di credito fu in que-
sti ultimi tempi, come vedremo, molto allerata dalla originale, che prese a modello.
DEL CREDITO POPOLARE. 549
dale della cooperazione tedesca non trovò finora in essi il terreno
acconcio che ha potuto trovare nell'odierna Germania, che nelle
sue tante istituzioni cooperative può dire di preparare, per gli uo-
mini di buona volontà, i germi per la migliore e pacifica soluzione
di ogni questione sociale.
A ben comprendere i resultati ed effetti del principio coope-
rativo tra le popolazioni tedesche, fa d'uopo studiarlo non solo
nelle sue singole e principali manifestazioni, ma anche e segnata-
mente nei rapporti esistenti tra le varie forme di applicazione
dello stesso principio, forme che mirano a scopi diversi, ma coor-
dinati tutti nel comune intento, come a mèta ideale di ogni Unione,
quale sarebbe di collegare insieme tutte le classi lavoratrici, tutti
i privi di mezzi di fortuna, onde porli in condizioni di bastare a sé
stessi, più che coi propri averi, col capitale del proprio lavoro e
della propria onestà.
Tutte le varie applicazioni che di tal principio si sono fatte, si
possono riassumere e comprendere in quattro grandi categorie;
esse corrispondono appunto in pratica ai bisogni principali e più
comprensivi delle classi operaie, e si possono enumerare e classifi-
care nel seguente modo fino a tutt'oggi :
1^ Forma — Unioni Cooperative di Credito 1827
2^ » » di Comra. e Produzione 622
3"" » » di Consumo .... 624
4^ » » di Costruzione ... 50
Totale 3123
Ognuna di queste forme di associazioni (Vcreine) porge uno
speciale aiuto al membro che ne fa parte, aiuto che trova il suo
compimento in quello somministrato dalle altre. Nella prima l'ope-
raio mediante il suo credito può ottenere il denaro; nella seconda
le materie prime e gli strumenti pel lavoro ; nella terza il vitto
saluberrimo e a buon mercato pel suo sostentamento ; nella quarta
finalmente può avere come farsi la propria casa. Prima di stu-
diarne i rapporti e la poderosa organizzazione che le collega e
rafforza nell'unità degl'intenti morali ed economici, e della quale
è anima, vita e mente il venerando vecchio di Potsdam, credia-
mo opportuno di premettere un rapido esame del patrimonio e
stato sociale di ciascuna di queste quattro categorie.
550 DEL CREDITO POPOLARE.
Unioni Cooperative di Credito.
( Volkshimke Vvì'schuss-vereine].
11 primo ramo della cooperazione, che come abbiamo visto è il
più sviluppato, annoverando in sé 1827 unioni, si può considerare
come il ceppo, da cui rampollarono le serie delle altre istitu-
zioni. Difatti una volta costituita l'organizzazione del credito
popolare, questo a guisa di leva dovea sollevare di un tratto le
classi operaie, e somministrar loro i mezzi di soddisfare alle pro-
prie tendenze ed ai propri bisogni, clie d' indi in poi si tradussero
nelle unioni di consumo, di produzione e via dicendo, e che oggi
si possono considerare come gli sbocchi principali, in cui in ul-
tima analisi si risolve in realtà il credito popolare tedesco.
Delle unioni di quest'ultimo sole 929 pubblicarono quest'anno
i loro bilanci, e di cui giova qui riassumere il contenuto in com-
parazione con quello dei bilanci passati. ( Vedi pag. seg.)
Da questa stessa tabella comparativa risulta che il numero
■delle banche e la relativa partecipazione della popolazione sono
più grandi nei piccoli principati della Turingia, nell'Assia-Nassau.
nel Baden e nel Wùrtemberg. Questo fatto si spiega con ragioni
locali — che possono valere anche per altre nazioni. In quei paesi
e comuni della Prussia e Germania dove la piccola industria e
i piccoli possedimenti predominano ancora, ivi la popolazione è
più interessata alle Unioni, e i soci di queste sono più numerosi;
mentre negli stati e provincie, dove prevalgono la grande indu-
stria ed i latifondi, il numero delle unioni di credito è assai più
scarso, e la media dei soci minore. Il ceto medio o la borghesia
che coltiva le terre o esercita un traffico per proprio conto, è più
rappresentata nelle piccole che nelle grandi città.
I commenti alle cifre dei rendiconti, sopratutto a quelle del-
l'ultimo bilancio ci riserbiamo più oltre. Frattanto amiamo notare
la media micrografica e democratica dei capitali propri di ogni
banca in 119,161 marchi (il marco equivale a L. 1,25 di moneta
decimale), nonché quella dei depositi a risparmio nel valore di
377,846, e l'altra nelle anticipazioni, sconti e prestiti nella somma
di 1,668,894 marchi. Dato il numero dei soci nel totale di 468,652,
è facile ai lettori scorgere le microscopiche medie rappresentate
da ogni socio e da ogni singola operazione di credito.
DEL CREDITO POPOLARE.
551
o
Cd
•pos uon pp
o-ro^o -^o«o-"cc^'f-o■. Meno
oiian
3 aoo oudoad 'iideD
3
o
Ói —
[ap oiJoddBJ [sp Bip^K
(M(N^?l(M!MrNe<5e^C^CO?;c>lC^-M5QlQ
d co
oi^^r-csoL-or^CiTrr/D — ~oi-^:cr~
o
X co
1 ^ S
r~«'-rtc— loiricì — — o^or^TT— '"Nrc
r- -^
o oj_o Tj^r-^o_-* cr^r;__«o o — ^o -o_o cj^o^
CO^X_
_«
ci t-^-T \-?':£r£\!^x~n^r£'>!\n l-Tcj ■^'^irT
LO
■v"c-"
ri
.-i'-(ne>»cioiccco'«rLToor-ci--'>'io
o
— r-
S CQ
1— 1 f-H
"T
•«< co
e
i^r-t- oocJ-^ooJt-ccT'iO'-^o'-o
d
— co
Ttoit^ — -*QOr-'Mr3ccoo-^xcccir:o
o
00 o
•5 's
^ 00 T- -o e 1.-: 1- !-•;, c> o r^^ — _ e», r; — ^ '^^ 03_
Ci^
w
m £
9
rr"o5 cTro «"co 'O i.-i"o Ci -N ci rf oc o ^TsT
Ci oT
9 « «
^ C5 ce CD IO o lt Ci Ci o e a» o oc o — J.-^
co
t~ —
"rt
o r; -^ -^o i- "ar^cc o i-;i-;^cv_oo ^-r_x_c
^^c^
a.. X
r-' cTtt o cT ci r^ cri ^«■Ni'Toor^c-f—o
o
H
Q z-
*-
^^^c'OT'^-VL.-r^oO'H
co
co LO
o
#-" .—
co
_jo co
o•r^^-Ol':^-aoO'^l~"^--^>x-!'cl
LO
d d
^
2
i.-D OS c^ i^ CI -o C5 -- i- CI -^ rr t^ t~ o r- r-
co
d co
0-.^ rr_ o I-C cj. Ci, — ^'-■5_ L-^L-;^ ^ "^ "^ ^ ""., "^i,^
o
Ci -X
•^
cTcf crp" 'S IO cr-.i"ar— TrTcTo r-^— TcTr-"
o"
Cj"-i~
H
"7 " « S
— d rr -T -^ lO o CS r- o 1-: o ^ LO C5 ^ X
co
co Ci
i M S
L- ot_ o r;^ ■* co lO r^ r;^ cJ =,i-o__ co^— x^ -t>_^ o
co^
Ci LO
" ^ <
L^
"' ci CI J^ lo" o od" — " to .-'" co -*" — " cf X o"
CJ^
— •^
r-r-cJcicirjccri-T
d
ci CI
1—*
^- 9-*
t- C5 r- — o o e r~ CI IO
co
iO Ci
^ o 'o -.r ^ -o r^' t- t- o
ci LO
o r-^ co^ TD_ o_ — ^ -^^ —, '•"^, ' ";.
■^ co
w rt
o:
ci lo^oo" oTo^io rT ci'trcT
Ci
o" —
M •— >
c»r-t-a;?ocoGOcooco
co T
"5
.o « - co o r- e. ""- -^^ "^. °l".-7.^L« S-'^.
51
-^"^
H
osco-^ccci — j— ^— ciH-n-TC^-q"
co
— ^
r; x Tp_c^aq_:o io_^
1— «
_' ^-^ '^ — -^ _- ■^
0<^X^-5"OiOtOX—. CJrcr-XrT'S"
^^
■^ d
i i? 1
L0OCJ-3"'^-*'-'CiOi— irat^TfcJ'^xx
IO
co X
"C
1— h' — rf~LO r^— I^'V"^.,* '-^.."^ ^ f* ^'-'^
r;.
Cl^lO^
e
>— «"lo^r-rr' «o -jr-^ ió~--c"oo
LO
oT lo*^
S 1 1
o - e
^
•«- r: o LO ~ Ci -* •^ 00 IO
l^
TJ. X
C3
o ?^,K,-^ — <= r-,— o X
LO^
co d
C/. _,
^
O cf co" cT o C5 — " :r" 0> 'r'
-a-"
x"cr
cz
^^^„Clr;r3<LOLOtD
Ci
o o
— d
e o LO ce d X -* r- o c> cj lo lo l- x c «o
r-
^ -—
■S . ■;: 2
or-OJccoTTTCsr-occ cix — ci —
•<j"
Ci co
-T_0 OC__-T C5_— t^X_— _CO^O^X O^ ■*_ /-0_L-_^'-D_
00
1 - Il
~
CO cq^t^lo LO~r^cr.-r jD^L-fotTc?— ^ o"-q^r-"
cT
d CT.
,_,wr- — — Cdcocceo
d —
S m
E^
'"'
— —
co t~ ?; X o (^ X -* LO i~ CI t~ Ci Ci 10 CI co
oo
co co
« <Il o
-r" LO — co LO IO IO O X LO o d o ci — r- o
co
co Ci
^
• —
ccxc'-a"dr-iOLOo-<r«or:coLOOCcocD
Ci
-Ci
^ T J ''^
o;
coxr-d~c3d05r- — cocococo — — co
<£
— o"
2i
s ^ -^ §■
t- d O co CI LO IO ci e et LO O co 1- co Ci IO
co
Ci o
C^
"^
CQ LO o> co^o d^X' co_io d d eq o co io — o
Ci
COI-^
c
^/- 5 ^
H
•-^cf co'"'^-<r~i7^o~ot"'^ r-'— Tio^of o~
^
oo'gT
^
r-,— — .^ciddco
Ci
Ci —
e.
fi
LO 1- X et r ^ e 00 r- LO X LO Ci ci i< re r^
co
r- o
>
^ ^ e; Ci ■* co i~ Ci LO LO co t~ X -o X X d
oo
d —
Hi
«
X OD d^co o Tf o co o Ci — — o t^ CI r^co_
o co r^ci'^' co" cr -.o~ o LO r-T-r lo'r- — ^crcT
Ci,
L'f ló*
EH
eoooco — ciOLOcocot- — CLOxr-o
d
— CO
^
C ''%^
j;
r-,-<dd-!3"LOcox — dioxd-^x
"^
o o
^
N^
^
■-I — ^ ,_i c« d d
oc"
Od
Ò
^
— dLOiococooico — d-^cict^—ciO
~~cc^
r^ co
e — t~ T3< — Ci £-• o co o 1- LO ci co co X co
e
co OD
C^O C0_LO d_CJ X_— O^^L- -- — co C~ LO LO co
o_
— IO
c
Q
_o
co" ci oTci cf cT cT co' i-^ ló x" cì s" l-T cT^'r^
d"
co lo"
■^COCiCi010'»t~-3'C01~TCO— IO— tK
r- co
*S
"ci
d^^t" — cxj_Ci^^t-xco c-T^io^LOdt-oo
LO
oc co
<:
— " — " ci ■>«<" uó" co cf d" co IO cT co" lo" r^
co*
x"x"
^ ^^^ ^Q^ 1^
oc
X OJ
Ci so co LO co o d co co o X LO co IO — 00 r-
^^
d ■^
-2
-o- — co d IO — X Ci Ci X 1^ co Ci e LO .X — <
in
Tf Ci
co^t- r^^"^ ■'v'-^H-^ì '^.'^^'v '-'ì.^'-s "^ t~
LO X
fO
niea jad ■Bni9j\[
-:f co cf r-^o )o" lo" cTx* crt-"o o cTlo"-*"^
lo"
ci od"
LO co X Ci O O co LO t~ O Tj< X — co ce LO —
co
Ci io
rt— ,^.^^ddcJco-*LOir:co
Vì^
oc co^
co Ci Ci — X LO co LO Ci co Ci r- — o LO Tf Ci
co
cri co
co X O co T Ci O "S* LO' Ci O X LO' O — Ci 1-
co
— X
•^ lO^ O C'^Ci^ -^ Ci — — t- — C5 r- d e: co -#
•^
Ci TlJ^
TU0I2
Bdfonny 8 ijnoog
'2
— " x" -^ ^" r^ r-" ci e co' r-' c>' x" — ci co" x" cr
x"
cfcT
0)
cor-t~r-_Trco^d'3<o — co — eoo-»
^
X o
-^Tj-^GC^CD ^^lO O O Cj^CO co co LO r-__Ci lo__
co
co Ti"
03
Eh
'{1
epjOODTJ T1IJS9JJ
■tr'ocrco"có có~x"r- ifTcf cT— r- ^ '5>~cr'-^x"
— dC0TJ<cS00OC0XOT»>L0-^l0 0i
lÓ~
Oi
IO o"
d o
— 1— ir-c^dco-n'^'^
LO^^LO^
co co O CI LO co IO CI « t~ d --o ce oi — co _
co d
r-ccooi~ — Ci — lOcoi-ioco-^rrTrr:;
^- IO
P
OS pp 0J8tun\^
o
Ci, co
oc — X Ci" cr lo" ci" co" ci co" — " T^ o' d" cT — " ^?
— COtTCOCìCOCOCì- lO= — — t~'Ci— ^
---cidcococococoTT-^;
5
T^rr'
s
co co
O co 00 co Ci LO X Ci O O LO O C~ t~ •* IO LO
co Ci
aqoc
iRg a[[3p ojatnn»^
xcox-^coLocicoi^cocoT-r-cco- —
— — d co ■* ■* LO LO co 1- f r~ X X 00 X
co d
oo -o
CiO— CICOtJ'LOCDI-XCìO — dC0'1<LO
co t-
nnaiZB ip onuv
Loco«ococococococococot~r-r-i^t~t^
r- t-
XXX XX>- xxxxxxooxxxx
X X
^- r^
552
DEL CKEDITO POPOLAEE.
Si trovano distribuite nel seguente modo rispetto ai singoli
stati in cui si divide l' Impero tedesco.
STATI
(Escluso il Lussembergo con 1
unione di credito avente n. 221
soci).
'a
o
o
•X3
a
3
a>
ai
o
0)
ai
£
Q
0)
«3
s
3
"5
r-
00
O
.
c
es
a>
12 «
ai e
SD
s'b
Abitanti
a =
o <1>
— ' ai
._ o
e =
o te
a. s
Prussia
Braiiiieiiburg. ...
Pomraerania ....
Posen
Slesia
Sassonia
Schleswig-Holstein
Hannover
Vestfalia
Nassau
Province Renane .
I. Prussia
Totale
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
Vili.
IX.
X.
XI.
XII.
XIII
Baviera
Sassonia
Wùrttemberg
Badea
Assia
jVIeckleniburg
Brauuschweig, Oldenburg .
Granducati di Sassonia e
Turingia
Lippe, Waldeck, Schaura-
burg-Lippe
Città Anseatiche
Anhalt , .
Alsazia-Lorena
Totale. Prussia e Germania
Senza la Prussia ,
G8
16
36
24
92
IQ
29
16
14
50
34
il8
61
51
28
2T
15
11
1
5
1
928
410
29,140
32,8^1
16,:s44
10,018
51,004
33,091
14 929
9,351
4,238
40,651
12,332
260,149
33,036
29,131
31,344
35,63T
11,64T
12,299
4,546
35,890
"ifill
895
234
468,425
20S.276
429
433
454
4n
620
419
515
.596
308
813
303
502
542
511
434
614
416
456
303
505
1,088
179
234
505
508
3,i9p,ni
3,126,411
1,462,290
1,606,084
3,843,699
2,168,988
1,025,156
2,011,393
1,905,691
1,461,898
3,804,381
25,742,404
5,022,390
2,860,586
1,881,505
1,501,119
884,218
649,458
841,135
1,099,386
581,130
213,565
41,041
41,131
40,619
66,920
41,119
21,456
35,350
126.081
136,121
29,358
111,894
49,696
42,334
54,129
21,818
25,986
31,519
24,054
51,416
15,484
83,961
42,713
1,531,804|1,531,804
42,727,360 46,042
16,984,956 41,427
9-1
10 '5
11-2
6 '2
14.8
15-3
14,'G
4)7
2>2
21
3.2
10,
6-6
11,
20.0
23,6
13,2
19:0
5.6
32.
13,0
4,2
0,2
Ilo
12
DEL CREDITO POPOLARE. 553
Malgrado la guerra orientale e la crisi che da più anrà pesa
funestamente anche sul commercio della Germania, in questo
ultimo anno il numero delle banche si accrebbe di 74 contro 40 che
si sciolsero. Di queste circa 20 non sono Unioni registrate {Ein-
getragene V creine), cioè comprese nella nuova legge, di cui par-
leremo più innanzi; da vario tempo queste unioni, vedendosi in
perdita avevano dismesso parte dei loro ajffari, senza darne notizia
^lla direzione centrale. Le altre vennero alla liquidazione, parte
per motivi di discordia tra il consiglio di amministrazione ed i
soci, parte per furti e falsificazione da lato degli am ministratori,
e finalmente 4 vi furono trascinate dal fallimento della banca
di Dusseldorf, che a guif^a di pianeta precipitò nella sua caduta
anche i satelliti delle piccole banche. Ma se sono da notare le
sparizioni in ben piccolo numero nelle province Eenane, e nella
Sassonia, non è da tacere che in Posen vi fu un aumento di 9
unioni di credito. Dal che si vede che questo ramo di coopera-
zione segue il suo corso naturale, spiegando la sua rigogliosa
vita nell'antagonismo delle forze, che periscono e si rinnovano a
vicenda.
La ristrettezza dello spazio ci costringe a sopprimere per
ora un ampio prospetto sinottico di tutte le operazioni bancarie
compiute dalle numerose associazioni di credito tedesche durante
l'amio del loro ultimo bilancio. Esso è la più minuta ed analitica
fisiologia delle forze organiche della cooperazione; i nostri cor-
tesi lettori lo leggeranno altrove.
Frattanto bastino a dare una idea della loro indole e potenza
i resoconti già citati, e passiamo ad esaminare la qualità dei soci.
Quale sia la natura della clientela di queste Unioni di cre-
flito, si può vedere dal seguente altro prospetto in cui si trovano
tutti i soci delle banche classati in dodici categorie a seconda
dello stato e professione, cui ciascun socio appartiene.
VoL. XIV, Serie II — 1 Aprile 1819. 34
554
DEL CREDITO POPOLARE.
Tabella, contenente il numero
Luògo di residenza
dell'Unione
MOVIMENTO DEI SOCI
e
Usciti nell'anno
13
'a
o
Is
s
«
s
'.e
o
<a
«
ri
■*-'
a
1)
~~'
<v
e
~j — <
3
S
ri
aj
o
•s
-n
ri
"o
>
e
o
Numero
cipio de
o
S
u
a.
_3
o
ai
a
3
ri
d
J
-5
co
ri r-^
Cl. 1*
U D
1
Cl.
2"
ri
«ì
<o
a
ri
>
o
ai
VI
ri
' ^
'^
Hi
^T^
a>
Si
^
O
u
D
C]
^ fc,
1—81 Slesia
82 — 155 Sassonia ....
156-224 Brandenburg .
225—282 Prussia
283- 322 Hessen-Nassau
323- 353|Pommerania
354 — 3821 Province Renane.
383—408 Schleswig-Holstein
409— 432lPosen
433 — 444 1 Hannover,
445 -458! Vestfalia
459 — 462;Wurtemberg
4G3 — 528:Sassonia e TuriuKia
j (granducati)
529— 583 Baviera
t— 635lBaden
636— tì~6 Sassonia
Qll — 1()4 Hessen
105— 728jMecklemburg ....
129—141 Braunschweig, Olde
I burg, Lippe e
j Waldect
142— 141jCittà Anseatiche . .
148— 152JUnba]t
153,Strasbur
Totale Generale . 3420n'38010'lin3 4816'll40 26129 1618l'4846 3o3418,'l6526 3030 9858 635 1324
E computando il numero totale dei soci secondo le medie
percentuali di ciascuna classe si ha;
Alla l"* classe- appartengono il 18,94:
» 2^ classe » 3.03
» 3"" classe » 3.45
» 4^ classe » 29.67
» 5^ classe » 11,30
» 6*^ classe » 8.99
» 7* classe » 0.89
» 8'' classe » 4jl
DEL CREDITO POPOLARE.
555
ILITÀ DEI SOCI FINO AlL'aNNO 1877-78.
L. 4"
Ul. .-»"
Cl. 6"
Cl. 7*
Cl. 8'
Cl. 'J'
Cl. 10'
Cl. 11"
Cl. 12'
5/
ti
<
1
■l's
0
s
e 5
03 -a
(u a.
0
Q) ce
0 •;:
bCC <»
(U O) "
?^^
- *
"S> ^
(U D "c5
0 -^ e*
015 ■?;
<=^ 0 •-; 5
0 e- »-
e S -'^
è i a) ■*
0 Oì "o
«= i; 2
0
"C
0
">
VI
Hi
t£ 0 > _:
^ " '3 'o
■00 = "
.S ■£ % A
«=i '/) beo
. - a,
03 si
0 a
§ a;
^-£
~ ai a»
Totale
(E
a
■5
Si
0
p
s
s
] D
U D
U D
U D
U D
U D
U D
U D
U D
U
D
Z
741
529
2009
101
1
3859 366
320'
14
2612
1
151 1001
15
342
88
3383
133
1486 1429
41623
3496
1 — 81
252
202
1995
10
2288 138
111
—
145S
64 651
4
162
21
14-0
26
911; 811
28500
1518
82-155
012
214
1636
45
3636 no
140
6
1816
10
515
3
103
30
1842
51
1052 1434
21526
2280
156-224
1-14
211
240
18
2351 151
88
6
856
59
356
4
58
33
2350
120
692
839
21460
1888
225—282
636
341
1914
11
2151 124
198
9
1160
&à
635
'4
331
156
2101
80
661
2323
26511
3108
283—322
901
91
344
1
1319 83
13
2
128
26
143
1
85
5
1021
28
491
395
11412
146
323—353
109
62
840
11
1598 93
81
1
621
49
190
3
46
31
511
8
243
264
9811
601
354 - 382
-36
111
468
1
1951
14
162
5
1005
42
225
—
102
41
914
28
611
459
12148
849
383-408
252
64
186
2
1356
68
49
3
390
11
211
2
62
4
995
12
393, 145
9615
403
409—432
258
99
133
1
405
16
38
2
181
1
38
1
33
—
189
8
92 11
3229
320
433—444
413
24
2026
54
238
213
1
no
13
84
1356
24
48
2
117
6
560
12
4169
81
31
1
21
1345
3
3
424
6
301
3
491
112
6159
96
8280
101
4082
156
445—458
459—462
544
10003
21696 1296
285 19
11004
225
15143
201989
16031
114
101
230
6
28
2822
222
184
302
2651
61
1719 161
113
5
1084
59
412
1
303
56
2232
85
818
1551
29115
2600
463—528
962
4.S4
491
51
2812' 280
191
38
1053 61
411
11
231
112
1.^69
124
601
898
19326
•2407
529—583
101
113
933
111
2331 138
200
4
2026 53
164
2
341
189
1165
33
558
664
29216
1619
584—635
298
314
1115
84
1154' 156
243
28
835 50
300
16
114
26
1339
120
i 664
942
, 16581
1944
636-616
013
98
403
25
1019| 45
13
—
408 25
166
1
44
23
693
8
1 289
253
9208
621
611-104
110
114
584
9
820
55
39
—
563
28
216
1
231
59
841
54
293
596
9420
1059
105-128
030
53
114
3
341
27
11
126
5
41
1 4
1
281
9
111
69
2685
195
129-141
160
53
23
—
816: 82
156
2
232
5
116
—
—
—
256
22
125
283
i 4118
391,142-141
449
21
44
1
90, 5
4
—
38
2
24
—
6
■ —
66
2
20
12
845
44,148—152
36
—
1
—
24' 2
1
—
13
—
93
—
—
—
43
—
1
2
, 230
4
153
827
3812
16-180
1
565
338212216
2411
12-
11601
861
6919
82
2634
962
24451960
10321
13651
326215
i
21203
Alla 9" classe appartengono il 2,82
» 10' classe 1,19
» 11' classe 8,13
» 12° classe 6.88
Totale
100,00
Kispetto poi al sesso la proporzione percentuale degli uomini
col totale dei soci è del 92,3; quella delle donne del 7,7. La ma-
niera con cui ciascuna classe partecipa ai vantaggi dell'Unione
è, come si capisce da sé, molto difìerente. Cosi abbiamo che le
556 DEL CREDITO POPOLARE.
classi I, III, IV, VI e Vili, le quali comprendono i piccoli indu-
striali, i negozianti, i commercianti a dettaglio, i Selhstst aneli gè
Handtverker (lavoranti ed artigiani indipendenti) e vari altri
operai che esercitano qualche ramo d'industria manuale, o col-
tivano terreni per conto proprio, sono quelle che addimandano il
credito dell'Unione; mentre le classi li, V, VII, IX, X, XI, XII
sono quelle che procurano, mediante il deposito dei propri risparmi,
i capitali necessari all'esercizio delle operazioni di credito delle
Unioni.
Distribuzione dell' Unione di credito
Comun
i di 100,000
e
Comuni
da 100,000
a
Comun
da 50.000 a
STATI
pie
abitanti
50,000 abitanti
20,000 abitanti
Numero
Numero
'S j,
•« a
. o
Numero
■Ss
"H
•s
m A
1
.o
H
0)
'S o
'o
o
o
'5
D
a;
— a
<o .ti
*3
o
o
'e
1.2
<
-o
"2
£ s
Oh
<
'XS
£ °
<
TS
"3
£ °
1
2 3
4
5
6
7
8
9
10 11
li.'
2,9;
Prussia
I,6l3,-i28
11,862
28
1>06
1,028,300
11,521
10
1,<2
1,134,524
33,520
21
Baviera
193,024
164
2
0,49
148,231
10,531
2
1.11
153,458
1.086
2
O,-'
Sassonia
324,6-^2
8,282
4
2,55
18,209
3.012
2
3,n.'?
141,243
4,3.->4
6
2,6.1
Wiirdemberg ....
1 01,213
2,50S
1
2.34
—
—
—
—
51,430
3,006
3
5.»;
—
—
—
-
56,421
152.769
1,941
234
1
1
3,44
0„5
165,969
62,904
69,846
4,193
1,311
4
2
2,0:
Alsazia -Lorena . . .
Restante Germania.
36'7,20T
1,438
0
'-ì,o.^
65,938
—
—
112,615
1,815
5
4,5
Totale . .
2,665,914
36,8.54
40
1,3S
1,529,868
21,305
16
1,78
1,951,989
55,345
49
2,8
Prussia
1,613.128
11,8 ;2
28
1,06
1,028,300
11,521
10
Li2
1,134,524
33,520
21
2,9!
Germania
992,186
18,992
12
1,01
348,199
1.5,544
5
4,46
153,619
21,825
22
2,s
Alsazia e Lorena . .
—
—
—
—
152,169
234
1
0,15
69,846
—
—
Totale . .
2,665,914
36,854
40
1,38
1,529,868
21,305
16
1,78
1,951,989
55,345
49
2,?
Col Lussemburgo . .
—
—
-
-
—
—
—
—
—
—
—
-
Totale . .
—
—
— ■
—
—
—
—
—
—
— •
—
^l
DEL CKEDITO POPOLARE. 557
È poi sommamente interessante vedere come si propaghino
tra le popolazioni tedesche le Unioni di credito ; in quali rap-
porti stieno col numero degli abitanti, e quali differenze e pro-
porzioni passino tra i grandi, i medi e i piccoli comuni di fronte
al numero e sviluppo di esse nelle singole regioni. Il seguente pro-
spetto, che togliamo dall'opuscolo Die neuesfe Eniwickeìung der
d. linde. Enverbsgenosse7ischaft del D"". K. Jannasch, offrirà ai lettori
una comparazione interessante di quanto più sopra diciamo.
IN RAPPORTO COLLA QUANTITÀ DELLA POPOLAZIONE
Comuni da 20.000 a
Comuni da 5000 a
Comun
1 non meno di
Totale:
5000 abitanti
2000 abitanti
2000 abitanti
Numero
1^1
e 'S
il
Numero
Numero
■ 2
Numero
-^ .9
» -e
S 0^
! ._,
'a
'S
•s
io «
.2
0^
0
0
C Ti
c ^
0) :li
'0
0
0
'e
p
0^
4J .^
0
0
ce
0
P
?_2
T3 ^
■3 a>
i^ ^
T3 ^
'S
IV
'S s
-0 _=
"^
_2
*N 0
T3 ^
.-•
" "ò
<
1 -«
0 _
e-
<
-0
"33
-3
0 _
<
"O
-<
13
-a
I.-3
0 0
Ih oq
i3 1 14 j 15
16
17
IS
19
20
21
22
23
24
25
26 1 27
2S
3,338,182 100,014
184
3,00
3.168,884
76,581
187
2,42
15 350,016
20,645
82 0.1 3
i 25,693,634
260,149 518
1,0»
401,206 12,155
20
3,03
410,078
4,763
15
1,16
3,716,393
3,737
20 0,10
5,022,390
33.036 61
0,66
441,412 6,559
16
1,49
463,572
3.028
13
0,78
1,305,468
3,236
10 0,£5
2,760,586
29,131| 51
1,06
198,090; 10,414
19; 5,?6
276,501
16,310
49
5.9o
1.248,211
5,106
14
0,41
1,881,505
37,344' 86
1,98
91,689 5,139
9, 5,60
272,611
16,402
25
6,02
976,910
9,903
20
1."'
1,507,179
35,637' 58
2,36
64.163
1,682
4: 2,60
157,599
5,602
15
3,55
542,531
1,111
6
0,20
884,218 1 1,647 i 28
1,32
132,2n
—
— —
212,948
—
—
—
964,024
—
~
—
1,531,804
234
1
0,02
451,278
n,28i
30
3)83
366,015
17,791
4S
4>86
1,974,221
10,862
37
0)55
3,397,274
61,481
126
1,81
5,118,83'7j 153,244
282
2»99
5,328,208
141,077
352
2,65
26,077,774
54,600
189
0,21
' 42,678,590
468,425
928
1,10
3,338,182 100,014
184
3,00
3,168,884
76,581
187
2,42
15,350,016
20,645
82
0,13
25,693,634
260,149
518
1,01
1,648,438
53,230; 98
3,23
1,946.376
64,496 165
3,31
9,763,731
33,955
107
0,35
15.453,152
208,042
409
1,35
I3-2,2n
i
—
212,948
—
—
—
964,024
—
—
—
1,531,804
234
1
0,2
),118,83T 153,244' 282
2,99
5,328,208
141,077
352
2,65
26,077,774
54,600
189
0.21
' 42,678,590
468,425
928
1,1»
21,595 22T
1
0,82
51,531
—
—
—
126,032
—
—
—
205,158
227
1
0,n
— —
—
— 5,379,739,'
141,077 352
2,62
26,203,806
54,600
189
0,21
* 42,883,748
468,652' 929!
1,(9
^ Escluso Lauenburg con 48,770 abitanti.
558 DEL CREDITO POPOLARE.
Dai due precedenti prospetti resulta una conferma di quanto
più sopra abbiamo detto della differenza tra le piccole e le grandi
città. Difatti vediamo come i comuni che hanno maggior numero
di Unioni di credito e di soci, sono appunto quelli che hanno
una popolazione che va da 20,000 a 5000 abitanti, che è quanto
dire, i più piccoli comuni. E appunto in questi che si trova la
clientela occorrente a tali Unioni; il ceto delle persone che la-
vorano per conto proprio vi è più rappresentato. Così nelle
piccole città da 5000 a 20(i0 abitanti i cosidetti Handwcrlcer, che
costituiscono il numero maggiore dei soci del mutuo credito te-
desco, rappresentano il nerbo dell'Unione. Essi formano la classe
degli artigiani indipendenti, che attendono a coltivare qualche
piccolo possedimento di propria pertinenza, o qualche traffico o
ramo della piccola industria per proprio conto, e sono quelli che
più abbisognano del credito delle Unioni, e che in pari tempo ne
possono trarre profitto, e lo traggono in realtà, meglio di tutti.
Grandissimo è in Germania il numero delle piccole e mezzane
città, i cui abitanti sono esclusivamente dediti a mestieri ed in-
dustrie manuali per proprio conto, ed attingono con imperioso
bisogno i mezzi necessari ai loro lavori alle sorgenti del credito
cooperativo, per cui in molti casi hanno potuto, se non arrestare,
neutralizzare l'invaditrice influenza della grande industria. Nelle
grandi città al contrario, gì' istituti di credito ordinario essen-
dovi numerosi, il capitale abbondevole, e la grande industria pre-
valente, r interesse per la Unione non è così vivo come altrove
fu visto.
Il compito di tali Unioni è diverso a seconda della gran-
dezza del comune, in cui ciascuna di esse si trova, e generalmente si
può dire che dove la proprietà agricola è molto divisa, dove il
traffico e lavoro manuale sono molto estesi, ivi è l'ambiente vero
dell'Unione e i risultati benefici di questa sono infiniti.
Gli è quanto osservammo nel nostro primo articolo passando
in rivista le banche italiane e paragonando quelle dei grandie dei
piccoli centri. Non è poi che manchino in Italia le piccole città
o borgate dove si esercitino le piccole industrie a somiglianza
della Germania. La fabbricazione dei cappelli di paglia, e di
cappelli in genere, l' industria del canape nella corderìa e nelle
tele casalinghe, quella dei coltellinai, il mobilio, le basse cera-
miche, gli stromenti agricoli ed altri rami di lavoro si raggrup-
pano e si celebrano nei piccoli centri. V hanno in Italia delle
Provincie agricole dove la proprietà è così suddivisa come la
DEL CREDITO POPOLARE. 5^^
piccola industria, e dove parecchi sono i coloni indipendenti. E
se nelle banche fondate nei piccoli centri abbiamo potuto rile-
vare quanta inclinazione anche da noi ci sarebbe per la coope-
razione, è vivamente a deplorarsi che il loro vizioso organamento
impedisca che si rendano schiettamente popolari. Infatti gli e
sempre il gran principio della responsabilità illimitata che solo
può giungere ad una efficace cooperazione, sia fra i meno agiati
consorziati tra di loro, sia fra i più ed i meno agiati. Che im-
porta vantare certi gratuiti servigi che son fuori dalla natura
delle cose, o certe esteriorità che non trapassano la credenza
dei semplici? La cooperazione a fondarsi nell'ordine morale deve
trovar la sua base nell'ordine fisico, e la responsabilità individuale
è la gran molla della responsabilità collettiva e quindi dell'or-
dine sociale.
In attesa però che, dopo questo secolo, gravido di tempeste, il
mondo sociale trovi i suoi germi di salute e di vita rompendo
le parti ingiuste fra chi gode e chi lavora, frazionandosi, e vor-
remmo quasi dire, impiccolendosi come le banche tedesche e
stringendosi insieme quant' esse coi vincoli della onestà e della
operosità, verremo noi a condannare le banche delle grandi
città e le grandi industrie? Tale non è certo il nostro pensiero.
Benché possa dirsi che diverso sia il mondo civile ed intellettuale
fra i grandi e i piccoli cei tri, perchè diversa ne è la natura,
non è che il popolo manchi nelle grandi città o che queste al
popolo precludano la via della cooperazione. Anche nello più
grandi città della Germania esiste un numero non scarso di
Unioni. Così a Berlino se ne contano 18 con 4628 soci, in Am-
burgo 3 con 3537 soci, in Breslavia 4 con 5123, in Dresda 2
con 918, in Monaco 2 con 764, in Konigsberga 2 con 1185, in
Lipsia 2 con 7364, in Brema 2 con 3901. Ma i risultati che
l'Unione dà nelle grandi città sono ben differenti da quelli che
danno le altre dei piccoli comuni; mentre in questi è quasi esclu-
sivamente l'operaio indipendente che trae i vantaggi del credito
pel suo mestiere, nelle grandi sono gli industriali ed il commer-
ciante anche alquanto riguardevoli che scontano le proprie cam-
biali, che chieggono anticipazioni e prestiti dalle Unioni; la clien-
tela di esse è più intelligente ed istruita, e la borghesia vi pre-
domina. Le operazioni tuttavia hanno in rari casi la natura di quelle
delle grandi banche, come più volte ci venne fatto di vedere nelle
pretese banche popolari italiane. Ad esempio, in Berlino la Unione
più colossale è quella dello Stralaurer {Gen. B. des Stralaurer)
560 DEL CREDITO POPOLARE.
con 790 soci; poi viene quella della Fnedrichstrasse {Credit
Verein) con 736. Or bene la prima impiegò in sconti durante
tutto il 1877 marchi 11,428,041 sopra cambiali 15,562, delle
quali molte rappresentano un valore che è il minimo di 25
marchi.
La seconda pure in sconti impiega 2,797,378 marchi sopra
cambiali 5516.
Dopo queste due maggiori vengono la Voìkshanh in Louisen-
strasse con 374 soci, la Volks Verein {Alt Berlin) con 368 soci,
la Aelteste D. Bank con 305 soci e varie altre più piccole.
La prima di queste tre ultime impiegò in sconti nel 1877
marchi 2,176,579 sopra cambi:di 4860.
La seconda impiegò in sconti e obbligazioni 237,791 marchi
sopra operazioni 981, di cui non poche nel valore minimo di 15
marchi.
La terza impiegò in sconti e cambiali m. 636,755 sopra
operazioni 2350, il cui massimo valore è rappresentato da 3000
marchi.
Le medie che si possono derivare da queste cifre devono
essere istruttive anche per noi, ma una delle ragioni per cui
il credito cooperativo si è più diffuso e meglio organizzato in
Germania che altrove, è appunto che in molte città piccole
e mezzane si conserva ancora il tipo della piccola industria su
vast'1. scala, e l'esercito degli artigiani indipendenti {selhststdndige
Hanìiverlier) è numeroso oltre ogni dire.
Giova a questo proposito avere una prova in un recente la-
voro di statistica industriale di quel dotto e beneraerio scienziato
che è il Dr. Ernesto Engel, direttore dell' officio di statistica di
Berlino. Nel suo « Gewerbestalisiik im deutschen Reich » le pro-
porzioni tra la piccola e la grande industria appariscono in tal
modo :
Esistono in Prussia 1,799,600 fabbriche ed opifici. Di questa
somma 1,623,591 appartegono alla piccola industria {Kleinhetriehe).
e sono opifici con 5 e meno operai; 45,513 sono fabbriche eser-
citanti la grande industria {Grosshctriehc.) E queste ultime si
dividono precisamente in tal modo:
Fabbriche 17,685 con meno di 11 operai
» 20,474 da 11 a 50 operai
» 4,362 da 51 a 200 *
» 905 da 201 a 1000 *
» 87 da 1000 e più oltre.
DEL CREDITO POPOLARE. 561
Un altro simile esempio 1' abbiamo nella Baviera, dove anche
oggi la piccola industria predomina e le unioni di credito fun-
zionano e prosperano a meraviglia. La « Zeitschrift des K. haye-
risch statistiscli. Bureau » constatava nel seguente modo 1' esi-
stenza delle fabbriche in Baviera dentro l'anno 1877 :
Fabbriche 14,533 con meno di 5 operai,
munite di motore,
aventi 30,906 uomini
1,094 donne
» 340,057 con meno di 5 operai,
non munite di motore,
aventi 440,321 uomini
86,883 donne
» 6,191 grandi con 120,570 uomini
32,550 donne
Se in luogo delle medie professionali artefatte che ci pre-
sentano in Italia alcune relazioni di Banche popolari, noi potes-
simo avere un eguale prospetto dal nostro K. Ufficio di Stati-
stica, e come certo speriamo di averlo tra breve dal benemerita
Direttore attuale. Prof. Bodio, si vedrebbe che anche in Italia la
piccola industria è molto numerosa. Intanto nelle esposte cifre^
che esprimono le peculiari condizioni della Germania in fatta
d' industrialismo, è da ricercare anche la cagione principale del-
l'estensione e prosperità delle Unioni di credito tedesche.
Ma non è soltanto nell'Impero tedesco, come ognuno sa, che-
si può ammirare una robusta e democratica organizzazione del
credito cooperativo. L'apostolato di Schulze si estese oltre i con-
fini della propria patria, e trovò alla propagazione dei suoi prin-
cipii economici un terreno oltremodo acconcio e fruttifero nei
•paesi del Danubio e della Leita e un amico devotissimo, uno
strenuo propugnatore dei medesimi, nella persona dell' egregio
Dr. Ermanno Ziller. Il Dottor Ziller collaborò per lunghi anni
insieme a Schulze alla diffusione delle Unioni cooperative tra
le popolazioni austro-ungheresi, ed oggi, stante il numero sem-
pre crescente di queste ultime, si separa amichevolmente dalla
direzione generale di Potsdam onde potere egli stesso assumerne
una sorveglianza più immediata ed una direzione a parte. E come
è avvenuto nella Germania e Prussia, così alle stesse cause può
ascriversi anche il movimento ed estensione che presero in questi
ultimi anni le Unioni cooperative in Austria ed Ungheria, di cui
-562 DEL CREDITO POPOLARE,
non sarà discaro conoscere il progressivo sviluppo, quale ci è
ofierto dalla seguente rassegua.
Fino a tutto il 1876, anno in cui data il loro ultimo bilancio,
esistevano in Austria-Ungheria N. 1037 Unioni di Credito, così
-divise rispetto alle singole provincie:
In Boemia Unioni 463
» Moravia » 318
» Austria Inferiore » 134
» Slesia Austriaca » 32
» Stiria » 30
» Carinzia » 21
» Austria Superiore » 16
» Litorale Austriaco » 9
» Tirolo » 4
» Yoralberga » 4
» Carniola » 4
» Salisburgo » 2
Totale . . . 1037
A queste sono da aggiungere le altre specie di associazioni
^cooperative, già mentovate, cioè le Unioni di vendita di materie
prime 143, di costruzione 10, di produzione e consumo; il quale
ultimo ramo ha pure in Austria ricevuto un grande sviluppo
■come lo dimostra il seguente prospetto.
Fino a tutto il 1876 esistevano:
In Boemia ...... Unioni di Consumo 215
» Moravia » » 116
» Austria Inferiore. . . » » 27
» Stiria » » 19
» Austria Superiore . . » » 13
» Tirolo » » 8
» Slesia * » 6
» Carinzia ...... » » 5
» Yoralberga » » 3
» Litorale Austriaco . . > » 2
» Salisburgo * » 1
> Carniola ...... * » 1
Totale ... 416
DEL CREDITO POPOLARE. 5£3
Da ciò si comprende la necessità di costituire d'ora innanzi
di tutte le Unioni coopei-ative austro-ungheresi una federazione
a parte a somiglianza di quanto si è fatto da Schulze per quelle
tedesche. A questo intento mirano da vari anni gli sforzi del
chinro e benemerito Dr. Ermanno Ziller, a cui in principal modo
si deve il rapido estendersi di esse. Egli è come Schulze un apo-
stolo istancabile delle associazioni cooperative, e in pari tempo
strenuo sostenitore del principio della responsabilità illimitata co-
me base della loro organizzazione. Egli è la personificazione del-
l'elemento sano dell'odierna democrazia; prese parte attiva a tutti
i movimenti politici della Germania in prò della libertà ed indi-
pendenza politica tedesca, per cui anche sofferse asprissimi esilii.
Fu redattore in capo di pregiati periodici, austriaci e tedeschi,
dove, cessato il tempo dell'azione, difese con la penna valentemente
le stesse idee e gli stessi principii, per cui più volte avea esposto
la vita.
Si contano di esso vari scritti sulla cooperazione. Fra questi
interessante è « Das Gtnossenschaftgesets^s und die Organisation
der Vorschussvcrcine » dove difende a spada tratta il principio
summenzionato, e * Die Bedeutung dcr Erwerbs-und Wirthschafts-
genosscnschaften » dove dimostra l' importanza e grandezza dei
bencficii prodotti alle popolazioni dalla cooperazione, e finalmente
« Die Erwerbs-und W/rfhschaft-genossenschaflen und deren Bcste-
iierimg » in cui a buon diritto si lagna dell' oppressione, cui sog-
giacciono le Unioni cooperative a cagione delle gravi e multiformi
tasse ed imposte che il fisco austriaco senza pietà né misericordia
impone loro perfino nelle più frivole ed inconcludenti operazioni.
Noi vorremmo che questo libro si leggesse da chi in Italia indica
le banche popolari come vittime predilette dal fisco.
Questo illustre uomo ha oggi quasi la stessa età di Schulze.
Al pari di questo è di una eloquenza e d'una modestia che sor-
prendono. Vive adesso di memorie e di speranze; è celibe e con-
sacra tutte le ore della giornata con ardore serafico al sostenimento
ed aiuto delle sue tante Unioni cooperative, che egli cura, consiglia
e dirige con amore di padre, e come un uomo che si è interamente
consacrato al benessere e prosperità delle numerose classi che vi-
vono soltanto del lavoro delle proprie braccia.
Fino a poco fa egli inviava i propri rendiconti alla Direzione
generale di Potsdam, e Schulze gli inseriva insieme a quelli delle
Unioni tedesche nell'annuale Kelazione. Ma per le ragioni anzidette
d' ora innanzi le Kelazioni esciranno separate dalle due Direzioni
564 DEL CREDITO POPOLARE,
di Potsdam e di Vienna. Ed a tale uopo il solertissimo Dr. Ziller
ha già raccolto i rendiconti statistici di tutte le Unioni austro-
ungheresi ; tali rendiconti dentro quest' anno vedranno la luce,
inaugurando così la serie delle relazioni annuali come si fa dal-
l' agenzia di Potsdam per quelle della Prussia e della Germania,
Il dott. Ziller poi ha compilalo uno statuto organico per la fonda-
zione dell' agenzia generale {Anwaltschaft), ed altri regolamenti
e disposizioni concernenti gli uffici della medesima, e che quanta
prima riceveranno la sanzione dall' assemblea generale di tutti i
delegati delle Unioni. Già esiste da qualche tempo un periodico
ebdomadario, redatto per la maggior parte dal signor Ziller « Die
Genossenschaft » che è l'eco ed organo di tutte le associazioni, e'
tratta argomenti e questioni concernenti esclusivamente gl'interessi
ed andamento di queste ultime ; ufficio questo che ha in comune
anche coli' altro periodico « BUUler filr Genossenschaftsivesen »
pubblicato da Schulze e diffuso a cura della Direzione generale di
Potsdam per tutto l'impero tedesco.
Non piccole sono le difficoltà che il D^ Ziller incontra a mo-
tivo delle diflferenti nazionalità, a cui appartengono le sue tante
Unioni. E ci vuole davvero tutta la sua indefessa ed affiitto di-
sinteressata operosità per vincere gli antagonismi, differenze e
rancori politici che si oppongono alla unione delle associazioni
cooperative czeche e tedesche, slave e ungheresi, boeme e magiare,
in una federazione generale che soddisfi ai comuni interessi ed
alle comuni aspirazioni. Ma come ha saputo abilmente trionfare
delle difficoltà delle diverse favelle, per cui parla e scrive a
tutte secondo la rispettiva lingua, così gli auguriamo di cuore
che pervenga anche ad intendere i lati delle simpatie reciproche,
dei comuni interessi, delle aspirazioni affini, per poi persua-
derle dei vantaggi provenienti da una loro confederazione, dove
le divisioni politiche cedono di gran lunga all' unità degli intenti
economici ; dove se le nazionalità sono diverse, una sola e comune
è la mèta da raggiungere ; e dove finalmente la fusione degli in-
teressi economici può preparare la via all' armonia e concordia
delle aspirazioni politiche.
(Continua)
Alessandro Bossi
UN VIAGGIATORE FILOLOGO.
GABRIELE BALINT.
Piccola nazione, ma non oscura, è 1' ungherese : e 1' amore
tìvo alle cose sue, alle leggi, alle lettere, alla lingua, le accresce
forza e nobiltà. Senza toccare di altri pregi, vi abbiamo da ara-
miria-e quegli industriosi viaggiatori che, per lunghe vie selvagge,
animati anzi tutto dal desiderio di illustrare, collegandole a
quelle di lontane genti, le origini del popolo magiaro, vi logo-
rano in gloriose fatiche la vita. A questo zelo che non ha posa
dobbiamo, nel secolo nostro, molti incrementi al sapere. Un uomo
ingegnoso e intrepido, Alessandro Csoma, invoglia 1' Europa dei
tesori accumulati ne' monasteri tibetani e ne dà la chiave : An-
tonio Reguly fra oscuri popoli trova fratelli a' suoi paesani, e
torna di là con innumerabili scritti che non ha la fortuna di or-
dinare ma che arrivano a un divulgatore fedele: Arminio Vàm-
béry, fra' turchi quasi turco, cerca nuovi congiunti e con le ar-
dite ricerche sveglia e nutrisce la critica che spesso vorrebbe
frenarlo. Cose che tutti sanno che è inutile ripetere; ma alle
quali mi fa ripensare con piacere vero un breve scritto, che mi
«ade nelle mani, e che ci conduce innanzi agli occhi un altro di
codesti eroi. Un conquistatore che non si getta con arme e con
fuoco su' popoli, ma va loro predando la favella che hanno sulle
labbra ; e di terra in terra passa, non alle feste e a' chiassi e ai
guadagni, ma di scuola in scuola come giovanetto modesto e ope-
roso; e dopo tre anni di viaggi e di studi, egli magiaro, a' suoi
^QQ UN VIAGGIATOKE FILOLOGO.
magiari che lo aiutarono, con animo grato, e con parole semplici
racconta le sue vittorie. Parlo di Gabriele Bàlint. ^
Noi lo verremo seguendo e con brevità mostreremo come egli
rispondesse alla fiducia che ponevano in lui i dotti del suo paese.
11 Bàlint incomincia da Casan, ove rivolge le sue cure al bulga-
ro-tatarico di quella regione : e, suU' autorevole consiglio del
s. Il'minskij, lasciati da banda i mussulmani, s'addestra nel par-
lare di que'tatari che, dopo la conquista di Giovanni il crudele,
si aveva cominciato a convertire alla chiesa ortodossa. Tardi e
pochi furono i maestri : cosi che, più lontani dalla civiltà assimi-
gliatrice, con maggiore purezza serbano la lingua nazionale ; e
grande aiuto a insignorirsene è la nuova versione della bibbia.
Così por i tatari, come per altre genti soggette ai russi, ce-
remissi, votiachi, morduini, amavano i preti che le parole "delle
scritture, e le immagini del santo libro, fossero con religiosa cura
conservate ; ne uscirono traduzioni che non può con facilità com-
prendere gente semplice e alla poesia degli ebrei, antica e solenne,
non usa.
Ma il dotto Il'minskij lottò contro alle paurose tradizioni del
sacerdozio, e vinse. Andava con infinita pazienza spiegando ai
tatari luogo a luogo la bibbia; e badava che, ripensando le idee
dei semiti alla tatarica, dessero loro veste semplice, e delle ver-
sioni fatte non si contentava, se altri tatari, ascoltando e spiegando,
non avessero dimostrato che non v' era pericolo di fraintendere
una sillaba sola. E ancora fece sì l' Il'minskij, che, abbandonata
la scrittura degli arabi, la cirilliana si accostasse tanto ai suoni
stranieri da non svisarli. L'opera dell'ardimentoso innovatore frut-
tò. Non s'ebbe solo la bibbia, ma via via, d'anno in anno, si pub-
blicarono, in schietta lingua, certi scritterelli che disseminavano
gli elementi della fede. Anche con le librettino, se possiamo dire
così, si comincia una nuova letteratura, e deve avere premio di
gratitudine il s. Il'minskij che tanto si travaglia per la fede in-
sieme e per la coltura de'casanesi.
11 Bàlint, abita fuori della città, daccosto alla scuola tatara
e due volte per giorno vi sta di molte ore, domandando parole
' Il discorso dal quale tolgo queste notizie fu letto all'accademia di Pest il
2 marzo 1874: e ha il titolo: « Relazione di G. B. sopra il suo viaggio fatto in
Russia e nell'Asia e sopra i suoi studiì dì Vmgua.. * Bdlinth Gàborjeleìit^se Orosz-
orszcìg~és Azsiàban tett iitazdsàról és nyelvészeti tanulmdnyairól. Budapest
1814.
Scrivo « Bàlint » e non « Bàlinth,-> perchè nelle altre opere sue trovo che il nostro-
viaggiatore presceglie questa grafia.
UN VIAGGIATOEE FILOLOGO. 567
e scrivendo. Presto dal russo passa al casanese anche nel discorso
famigliare, egli esperto già nel turco osmaniano : e aduna attorno
a sé i giovanetti e li provoca al canto, e i versi raccoglie che poi
si fa con ogni diligenza interpretare ; senza dimenticare e indo-
vinelli e proverbi. Maestro gli è un prete tataro, il Timothejev.
e un altro tataro, Simone Boriss, scrive per lui le novelline, e le
tradizioni che del samanesimo durano ancora tra'cristiani ; quelle
specialmente sugli spiriti che guardano le case, le stalle, le acque
e le foreste.
Poi, col Timothejev, si pone alla grammatica casanese: duro
lavoro, che alle altre difficoltà si aggiunge il dovere alle voci
tenniche provvedere creando. Ma nulla arresta il focoso filosofo ;
ogni cosa è a lui stromento e soccorso. Nella scuola accorrono
giovani di molte parti, e con quelli, e coi genitori loro, ha l'op-
portunità di apprendere ; va al villaggio vicino e da un calzolaio
ha le parole che al suo mestiere si attengono ; s'accosta a chi ara,
a chi miete, a chi batte il grano; sono tutti precettori: precet-
tore anche il servo, un maomettano di là, che sente e intende e
spiega le cose raccolte dal suo padrone. Nuova prova che mus-
sulmani e cristiani parlano sempre ad un modo.
Ricco di tanta preda, non sazio, il Bàlint lascia la famiglia
turca e va in traccia di nuove cognizioni in Astracan, tra i cal-
mucchi, 0, se vogliamo dire, tra i mongoli di ponente. Trova un
altro maestro, Samba, trova un'altra scuola. Anche qui vi passa
giorni e mesi, tra' giovani e libri, interrogando, studiando, no-
tando: lo aiuta un chirurgo calmucco, Manzin Sabghar, e anche
da'giuochi dei ragazzi guadagna frasi e parole, e le loro canzoni
dalla scrittura mongola trasporta nell'alfcibeto magiaro, che egli
cambia leggermente: e si aifatica ad afferrarne il significato e,
tra'calmucchi meravigliati e lieti, alla loro unisce la sua voce nel
canto. Poi novelline e proverbi e indovinelli e lettere e carte
di tribunale, noiose ad altre genti, amore e trastullo degli astra-
canesi ; trascrive, serbando la pronuncia del popolo, tutto un les-
sico russo e calmucco, e infine si pone a cercare le leggi, e a or-
dinarle, della morfologia. Per lui lavorano Mac'ka Baldir e il
bravo chirurgo, e descrivono la vita de'loro tatari per ricompen-
sare il Bàlint dello zelo posto a insegnare ai loro paesani il greco^
il latino, il francese. Oltre agli astracanesi poi il nostro unghe-
rese vede spesso altri calmucchi che per ragioni di commercio ac-
correvano a un bazar che è a un miglio dalla città, sopra il Volga,
e dove hanno ancora e chiesa e preti. Quanto si meravigliavano
568 UN VIAGGIATORE FILOLOGO.
que'seinplici mercanti che, fuori di Eussia, ci fosse terra iu terra!
che un nomo di altro re ilell' occidente studiasse il calmucco ! E
il Bàlint acquetarli e consolarli affermando che di quella lingua
non può far senza un uomo dotto, un erdem hilitke.
Di Ica esce e rimane tra gente affine, tra' mongoli ; che al suo
calmucco lo credono un torgot, un mongolo di Zungaria, e arriva
ad Urga (o Khuren, se si vuole). Per la via paragona e impara,
e appena giunto trova un lama, celebrato per la eloquenza tra
i suoi, e che non scrive che il tibetano. Solo la lingua santa è
degna che altri ci si affatichi a farla durare sulle carte! Anche
di questa mezza ignoranza si rallegra il Bàlint e profitta ; uomo
non corrotto dalla lingua letteraria parla più schietto e vivo il
mongolo del popolo. Col suo lama va dunque girando il magiaro,
e di quante cose vede domanda il nome, e ne fa lunghe liste, e
i racconti del suo compagno serba con fedeltà. Il quale lo aiuta
ancora a ritradurre nel mongolo dei Khalkha la Leggenda di
Ghesscr Khan, libro ben conosciuto e studiato in Europa; poi gli
narra, come nella memoria popolare si conserva, parte del libro
nero di Cinghiz Khan, e gli detta la maniera di fare le profezie
usando una scapola di pecora, e finalmente una pittura dei costumi
di Mongolia. Per i canti nazionali non può bastare il prete, il quale
a idee sacre travolge la parola del popolo; ma invece egli con-
duce al Bàlint un cherico mongolo che più canti gli dice e gl'in-
rsegna; benché quegli sperasse trovare più ricca vena presso a' suc-
■cessori di Cinghiz. Non basta ; a Mai-mai-cin e a Khuren vengono
spesso mongoli di mezzodì (i Ciakhar) e, poiché il viaggio tra-
verso il Gobi è penoso e lungo, cercano sbrigarsi presto delle
merci cinesi e del grano loro che portano sopra carri a due ruote
sa. quali attaccano un bue.
Ma se il Bàlint non ha il modo di studiarne, nelle brevi sue
visite, la lingua, gode sentirli e s' accorge che dal parlare occi-
dentale li distingue il rammollimento di poche consonanti. A Urga
il mongolo non basta all'insaziabile; e' è nella scuola, presso al
consolato, un maestro di mangese, Vainté, e alle prime lezioni
questi si accorge che di quella lingua ringegnoso scolare si oc-
•cupò già molto in Europa e che non può fargli servigio che nel-
l'avviarlo a più esatta pronuncia. Invece degli uomini, il Bàlint
pensa a' libri; e da Pechino gliene provvedono, anche per il
mangese, e parte li studia, parte si addestra a cavarne più tardi
maggiori vantaggi.
Finiscono i tre aimi e gli studii, e badiamo che, parlando agli
UN VIAGGIATOKE FILOLOGO. 569
accademici, il Bàlint saltò via tutte le ricerche fatte a Pietroburgo
sulle lingue finniche; così che di questo albero fronzuto egli si
arrampicò a quattro rami, il finnico, il tatarico, il mangese, il mon-
golo, da tutti spiccò frutta, e vediamo che non sono immature.
Non avessimo nelle mani le prove sicure, molto sarebbe da
augurare di bene quando un uomo, cosi preparato dalla natura
e dagli studii, va a interrogare la voce viva degli uomini, a cre-
scere 0 scemare forza alle testimonianze dei libri e a farne. Forse
altri scritti, sfuggiti a me, diede fuori il s. Bàlint; ma intanto
annovererò gli Studi sul tataro casanese nei quali abbiamo l'an-
tologia, con versione magiara, la grammatica, il dizionario {Bu-
dapest, 1875-77) la Breve relazione sul dialetto dei mongoli-huriati
di settentrione (nel decimo terzo volume del giornale di Hunfalvy)
e il discorso sopra un libro mangese intorno ai riti sacri, cioè il
Manjusai vecere metere Jcooli bithe, che è nelle Dissertazioni filo-
logiche pubblicate per cura dell'Accademia di Pest (1876).
Molti sono i chiamati e pochi gli eletti : molti quelli che,
aiutati dai governi, vanno a girare il mondo, pochi quelli che mo-
strino di aver meritata tanta grazia.
E. Teza.
VoL. XIV, Serie II — 1 aprile 1879. 35
RASSEGNA POLITICA
Il voto della ('amera francese sui ministri del 16 maggio. — La proposta di tra-
sferire la Camera a Parigi. — Come la Russia si destreggi nel lasciare la
Rumelia. — La nota di lord Salisbnry e le disposizioni delle potenze verso la
Russia. — Quanto sia difficile la rettificazione del confine greco. — I tumulti
di Milano e di Genova. — La discussione finanziaria alla Camera.
Come tutti prevedevano, la proposta di mettere in accusa i ministri
del 16 maggio e del 23 novembre 1877, fu dalla Camera francese respinta
a una grandissima maggioranza, essendo stati i voti contrari 317 e i fa-
vorevoli 159, E se alla Camera ci fosse stata quella serenità di spirito e
quella tranquillità, che non c'erano, perchè in tal caso una questione
simile, nonché esser risolta in un modo o in un altro, non sarebbe nem-
meno nata, la cosa avrebbe dovuto fermarsi qui. Ma, come suole accadere
in mezzo ad animi affannati ed accesi, si volle a questa disgraziata fac-
cenda vedere il fondo, cogliere l'occasione, per quanto poca adatta, di mi-
surare le forze dei partiti e quelle del nuovo Ministero e, mescolato inop-
portunamente il presente col passato, la Camera fu trascinata al di là del
fine al quale avrebbe dovuto arrestarsi col suo voto.
I ministri, e segnatamente il presidente Waddington, pure professan-
dosi per ragioni di opportunità risolutamente avversi alla proposta di
accusa, avevano dichiarato i ministri del 16 maggio e del 23 novembre
colpevoli di un reo disegno contro la Repubblica e di atti che miravano
a compierlo, accostandosi con ciò non solamente alla maggior parte della
Sinistra, ma anche ai radicali. Senza di questo, se il signor Waddington
cioè avesse lasciato sospettare che per lui il duca di Broglio e il generale
De Rochebonet erano innocenti, il Ministero sarebbe rimasto soffocato dalla
tempesta che si sarebbe sollevata nella Camera. Siccome però la reità
dei vecchi ministri era la premessa teorica, nel discorso del presidente
Waddington, mentre la conchiusione pratica era l'assoluzione, ne segui
RASSEGNA POLITICA. 571
che Ogni partito s'accalorasse per trar profìtto di quella parte del ragio-
namento elle gli giovava. La destra si attenne alla concliiusione e unen-
dosi con l'S7> voti alla sinistra, contribuì a clie la proposta fosse respinta ;
la sinistra s'appigliò invece alla premessa e per bocca del signor Rameau
propose poi un ordine del giorno di biasimo, che venne accolto natural-
mente da una maggioranza molto minore, da soli -'17 voti.
Riferiamo questo lungo ordine del giorno per intero, servendo esso
coll'asprezza e durezza sua, tanto insolita in Francia, dove almeno si vo-
gliono rispettare molto le forme, a dare un concetto chiaro delle disposi-
zioni degli animi :
« La Camelea dei deputati prima di ripigliare il suo ordine del
giorno :
» Constata una volta di più che i ministri del 16 maggio e del 23 no-
vembre hanno, mercè la loro colpevole impresa contro la Repubblica,
tradito il Governo che servivano, calpestate le leggi e le libertà pubbli-
che, e non retrocessero, dopo di aver condotta la Francia alla vigilia
della guerra civile, se non di fronte alla indignazione ed alle virili riso-
luzioni del paese;
T> Ma, convinta che Io stato di discredito in cui essi sono in oggi
caduti, permette alla Repubblica vittoriosa di non perdere tempo in un
processo contro nemici ormai colpiti d'impotenza;
» Considerando che. a porre riparo al male che hanno fatto, la Francia
ha bisogno di ealma e di tranquillità e che è giunta l'ora pel Parlamento
repubblicano di consacrarsi esclusivamente alla elaborazione delle grandi
leggi economiche industriali e finanziarie dal paese reclamate, e dalle
quali attende lo sviluppo della sua ricchezza e della sua prosperità;
» Abbandona al giudizio della coscienza nazionale, che li ha di già
solennemente respinti, i disegni e gli atti criminosi dei ministri del \('> mag-
gio e del 23 novembre.
» Invita il Ministro degli interni a fare affiggere la presente risolu-
zione in tutti i comuni della Francia. *
L'accogliere la proposta di accusa sarebbe stata una grande impru-
denza, poiché avrebbe risollevato tutte le passioni politiche, sopite colle
ultime elezioni. Ad ogni modo una risoluzione di questo genere, per quanto
inopportuna ed improvvida, sarebbe riuscita almeno logica, sebbene la
logica si fosse fatta valere assai tardi presentandosi sotto le spoglie d'una
vendetta anche più che sotto di quelle della giustizia. Una logica rigorosa
avrebbe voluto infatti che il primo atto della Camera dopo le elezioni,
con cui la Francia aveva condannato il maresciallo e i suoi consiglieri,
fosse stata appunto quell'accusa, che meditata e indugiata per due anni,
veniva a perdere ogni valore morale e a parere piuttosto Io sfogo di un
rancore partigiano, che la soddisfazione richiesta dalla legge Nondimeno
la Camera anche dopo il lungo ritardo, sarebbe stata nei termini del suo
572 RASSEGNA POLITICA.
diritto accogliendo l'accusa, e se non avesse meritato lode di prudenza,
non sarebbe incorsa in contraddizione con sé medesima. Ma così che è
avvenuto? Che i ministri del 16 maggio e del 2i novembre fossero prima
assolti dall'accusa di un tentativo colpevole contro la costituzione e tosto
dopo per questo stesso titolo condannati; condannati per giunta senza pro-
cesso, senza sentirne la difesa, senza nessuna delle formalità e delle gua-
rentigie che si concedono anche ai rei più manifesti e più noti L'ordine
del giorno votato dalla Camera si risolve infatti, né più né meno, in una
sentenza di condanna, nulla o poco importando che la pena inflitta sia
piuttosto un biasimo, cne una multa, o l'esilio, o il carcere. A ciò si ag-
giunga che la sentanza era data da un tribunale, che non aveva compe-
tenza, e si arrogava un potere spettante ad altri.
Queste contraddizioni furono rilevate in due proteste separate tanto dai
ministri del 16 maggio quanto da quelli del 23 novembre, indirizzate al
presidente della repubblica. E con questo si va dicendo che tutto è finito,
e gli stessi condannati hanno di che andarne paghi, essendo loro riuscito
di trarsi d'impiccio a buon mercato. Ma apparentemente son voci messe
fuori dai più savi, per bisogno e desiderio di pace, più che per convinci-
mento di averla ottenuta, e per prevenire maggiori mali L'inutile offesa
recata alla maggior parte dei conservatori, mentre dall'altro lato strepi-
tano e picchiano così furiosamente alle porte i radicali, lascia una traccia
fra i primi ed è un nuovo incoraggiamento per questi ultimi, i quali non
ometteranno sicuramente di prevalersene. Ciò è come dire che il centro
sinistro resta sempre più legato colle sue condiscendenze e colla sua de-
bolezza a quelli che lo minano, e per troppa prudenza perde l'autorità,
rendendo sempre più diffìcile quella conciliazione tra gli uomini di governo,
senza la quale il ministero non potrà vivere se non a forza di condiscen-
denze e concessioni.
Un altro indizio di questa verità fu anche la deliberazione presa con
•3S0 voti contro 131 di riunire il Congresso per rivedere l'articolo della
Costituzione, che pone a Versailles la sede delle Camere, e trasferirle a
Parigi. Per quanto la cosa si riduca fin qui all'esame della proposta, si
vede già a che fine sia volta. Esaminare la proposta vuol dire verosimil-
mente accettarla, essendo diffìcile che quelli che non trovarono il coraggio
di resisere all'amnistia e di opporsi all'ordine del giorno Rameau trovino
ora quello molto maggiore di contrastare a una risoluzione in apparenza
più ragionevole, qual è quella che le Camere abbiano sede nella capitale.
Il ministero non vi è favorevole, ma forse si troverà costretto a fingere
di esserlo; il centro sinistro non saprà far di meglio, e i radicali, vin-
cendo ancora e vincendo sempre, non si risolveranno a fermarsi da sé
medesimi finché, di vittoria in vittoria, non sieno giunti al potere.
Intanto le cose d'Oriente accennano ad avvilupparsi un'altra volta. La
Russia, dopo aver dichiarato nel trattato separato colla Turchia, senza
RASSEGNA POLITICA. 573
necessità e col bonario intento di dare una soddisfazione spontanea all'In-
ghilterra e all'Europa, di volere adempiere al trattato di Berlino, rinun-
ciando ai preliminari di S. Stefano, torna a lavorare sottomano co' suoi
eterni va e vieni per farli rivivere, o almeno per mostrare la necessità
che rivivano e quanto torto abbiano avuto quelli che non li vollero. Le
voci messe in giro con una lunga e lenta costanza dai giornali russi e
devoti alla Russia, e ora affermate, ora smentite, un giorno di congressi
che debbano rivedere il trattato di Berlino, un altro di convegni di am-
basciatori incaricati di riesaminare certi punti tuttavia dubbi, un terzo
di nuove e inopinate difficoltà che sorgono in Romelia, mirano evidente-
mente ad abituare l'opinione pubblica a quest'idea, che la questione d Oriente
non è finita, essendo stata dall'Europa recisa a mezzo e finita male. Il
gabinetto di Pietroburgo naturalmente non apre bocca per lagnarsi di nulla.
Tutt'altro; il governo russo ha assunto di recente degli impegni formali
dinanzi all'Europa e non si propone che di soddisfarvi lealmente. Le lagnanze
però escono da altre bocche, nelle quali egli ha l'incomodo di mettere il
flato; per esempio dall'assemblea costituente della Bulgaria radunata a
Timova sotto la sua protezione, che in luogo di attendere seriamente al
suo ufficio di ordinare il paese, vota indirizzi di ringraziamento al prin-
cipe Dondukofi'-Korsakoff, il suo ispiratore, e si duole che il paese i^ap-
presentato da lui sia piccolo, aggravato di immense spese, sotto la conti-
nua minaccia dei Turchi, che avranno diritto di tener guarnigione nei passi
dei Balkan, tale insomma che gli manca il respiro, nonché possa prepa-
rarsi a una vita alacre ed operosa, quale parrebbe doverle promettere la
sua gioventù.
Tutto questo però non basta. I Russi, sapendo pure di dovere abban-
donare la Romelia orientale e restituirla alla Porta, alimentarono fino
all'ultimo fra le popolazioni per mezzo dei loro agenti l'illusione, ch'esse
avrebbero potuto essere unite alla Bulgaria, come la Russia aveva otte-
nuto nei preliminari di Santo Stefano. Con ciò la Russia parlando a un
modo e operando a un altro, nutrendo speranze e seminando odi, pre-
para al ritorno dei Turchi difficoltà, che possono diventare insuperabili e
dare origine a nuovi moti rivoluzionari e nuovi massacri, a maggior
gloria della sua mal paga ambizione. Ciò per non dire che la Russia ha
conseguito il suo scopo e la rivoluzione è già incominciata coi tumulti,
coi quali viene accolto dovunque il signor Schmidt, il disgraziato agente
europeo per l'assestamento delle finanze, in cui i Bulgari della Romelia,
come disse il Journal des Débats, vedono persoìiificato il trattato di
Berlino.
Ciò posto, è duro a capire, come perfino da ultimo si sia dato voce
di accordi, o almeno di intelligenze amichevoli, fra l'Inghilterra e la Rus-
sia. Voci di questo genere, in mezzo ai fotti sopraccennati, non possono
essere se non un'eco tardiva e smarrita del trattato della Russia colla
574 KASSEGNA POLITICA.
Turchia, o più probabilmente, far parte di quel lavorìo poco onesto, con
cui i giornali al servizio del gabinetto di Pietroburgo s'arrabattano a far
confusione riferendo ogni cosa a rovescio di quel che è. La situazione vera
apparisce infatti in modo manifesto dalla Nota di lord Salisbury all'am-
basciatore inglese a Pietroburgo, fatta pubblicare dal conte Andrassy nella
Politische Correspondenz di Vienna col proposito di tor via gli equivoci.
Nota a cui potrebbero servir di commento, ss ci fosse bisogno, le parole
di sir Elliot, ambasciatore inglese a Vienna: « Al bisogno noi sapremo
mostrarci più Turchi della Turchia e più Europei dell'Europa. »
La Nota di lord Salisbury riguarda le difficoltà incontrate dalla Com-
missione internazionale per l'esecuzione del trattato di Berlino in Bulga-
ria e le spiega coli' opposizione fatta dai delegati russi a quelli di tutte
le altre potenze, i quali invece si trovarono d' accordo insieme. Ma la
parte più conclusiva del documento è quella clie si riferisce alforganiz-
zazione della milizia lucale che, secondo lord Salisbury, accenna chiara-
mente alla segreta intenzione di eccitar le popolazioni a un'opposizione
attiva all'adempimento del trattato di Berlino. Queste milizie vengono
infatti istruite con ardore da ufficiali russi, mentre non si vede qualj uti-
lità lecita la Russia aspetti da quest'esercito, dovendo tra poco lasciare
il paese. Inoltre lord Salisbury deplora che il governo della Romelia sia
ancora oggi tutt'uno con quello della Bulgaria, quando dovrebb' esserne
separato, e conchiude chiedendo che le reggenza provvisoria dell'una venga
separata dalla stabile e duratura dellaltra, e l'ordinamento delle milizie
sia fatto in modo, da preparare l'adempimento degli impegni assunti dalle
potenze a Berlino, in luogo di contrastarvi.
La risposta del principe Gortciakoff fu, quale si poteva aspettare, la
conferma della sua politica diplomatica e ufficiale Egli dichiarò che nella
Nota di lord Salisbury non c'era cosa che non convenisse colle vedute
della politica russa, la quale voleva apputo come Tlngliilterra l'adempi-
mento del trattato di Berlino. Qualche discrepanza possibile non sarebbe
derivati se non dalla sua interpretazione, la quale al principio sembra
tale da consentirgli di chiedere protezione per le popolazioni liberate. Per
modo che si ritornerebbe ora, dopo una gran guerra e un congresso so-
lenne e due trattati di pace, al punto di circa quattro anni fa, quando
tutte queste cose non c'erano state, alle garanzie contro la malafede e i
soprusi turchi, che la Russia chiedeva per gli Slavi all'Europa.
Buon per tutti però, che se la Russia non apparisce farsi un gran
carico di ciò che avvenne, ne tengono conto per lei tutti gli altri, dietro
l'esempio e la guida dell'Inghilterra. Colla pubblicazione della Nota di
lord Salisbury, che svela la doppia polìtica del gabinetto di Pietroburgo,
r Austria ha mostrato di uscire dalle sue affannose perplessità, per ac-
costarsi alla politica inglese. A questo suo passo molto meditato e tar-
divo contribuirono certamente non poco le migliori disposizioni de' suoi
RASSEGNA POLITICA. 575
due parlamenti acconciatisi via via alla politica spettatrice da prima e
poi invasiva del conte Andrassy. Ma ciò stesso non basterebbe a dare
spiegazione del suo coraggio che proviene evidentemente da un altro fatto,
dalla sicurezza che dietro di lui sta la Germania. La quale, per quanto
benevola verso la Russia e legata a lei da moltiplici necessità prima
e dopo la guerra colla Francia, non è, né potrebbe essere in nessun caso
disposta a seguirla nelle sue ambizioni illimitate, senza commettersi a
una politica sentimentale ed imprevidente, che le scemerebbe autorità ed
influenza.
Ciò è come dire che vien disegnandosi, non già un'alleanza, non un
accordo, che in caso diventerebbe più intimo. Ira l' Inghilterra, l'Austria e
la Germania, e da cui la pace d' Europa è assicurata meglio che non dalle
Note del principe Gortciakoff. Contribuiscono a rassodarla le condizioni delle
finanze russe, le sue sètte di socialisti e di nihilisti, le sue congiure, la
sua stanchezza finta in parte per quel suo gusto istintivo di fare il morto
per addormentare l'Europa, ma in parte anche vera. Però la rafferma
anche più il risoluto contegno dell' Inghilterra, a cui s'accostano visibil-
mente l'Austria e la Germania. È questa la ragione principale per cui
appena si parla di documenti diplomatici, che in altri tempi sarebbero
sembrati minacciosi, e il mondo ad onta di essi riposa fidente e tranquillo.
Le cose d'Oriente non sono assestate in modo definitivo; altri moti di
popoli e tumulti e sanguinose vendette sono sempre possibili, dove co-
vano antichi odi istigati e rinfocolati da artifizi nuovi. Ma ad onta di
questo, si può presumere che le passioni che s'agitano in questo disgra-
ziato paese non comprometteranno per molti anni la tranquillità dell'Eu-
ropa, la quale avendo veduto nella prova fatta dall' Inghilterra, gli effetti
di due opposte politiche verso la Russia, sa ormai delle due quale sia più
efficace.
Lo strascico più grave ormai, finite le questioni del Montenegro,
delia Serbia e della Rumenia, la più grave difficoltà, diciamo, dopo di quella
dello sgombero dei Russi dalla Rumelia e della restituzione di questa provincia
alla Porta, è la famosa rettifica della frontiera fra la Turchia e la Grecia.
La povera Grecia è la figlia derelitta delle potenze, le quali, l' Inghilterra
segnatamente, dopo di averla tenuta a bada con grandi promesse nella
migliore occasione che avesse mai di soddisfare a' suoi lunghi voti, la pa-
garono nel trattato di Berlino con un' altra promessa, che al bisogno
potrà essere un'altra volta prorogata. Da più di due mesi le potenze no-
minarono una Commissione per conferire coi delegati della Turchia, ma
questi prima non giunsero a Janina in tempo, poi giunsero, al solito, senza
istruzioni, e in fine le cose rimasero come prima. Una difficoltà delle più
semplici e gravi insieme, è che la Grecia vorrebbe ottenere molto e la
Porta conceder poco. Ma il peggio è ancora che nessuna delle potenze,
tolta la Francia, prende la cosa sul serio. La Russia non ha interesse di
576 RASSEGNA POLITICA.
tirar su la Grecia dove un giorno potrebbe mettere il piede lei, né diver-
samente apparisce all'Austria, dopoché la politica del conte Andrassy fini
coU'essere approvata dai parlamenti ed è conforme agli intendimenti della
Germania. All'Inghilterra poi parrebbe di lavorare contro sé stessa ado-
perandosi a indebolire la Turchia. Di qui le fortunate tergiversazioni della
Porta, e il vano sperare e piccLiare della Grecia, che avrà molto, ma molto
a fare per ottenere qualche cosa, e a lagnarsi e dolersi per un gran
pezzo, senza che i suoi lamenti commuovano la sorda Europa.
Del rimanente la quindicina fu riempita dai cementi sulla poco com-
presa crisi spagnuola e sul contemporaneo scioglimento della Camera ; dalla
crisi ministeriale dell'Egitto, dove il viceré vorrebbe liberarsi dal prodo-
minio dei ministri inglesi e francesi e riacquistare la sua indipendenza
sostituendo loro ministri nazionali ; devoti alla sua persona, e ripigliando
il pagamento degli interessi; e in fine dalle novelle delTAfganistan, dove
parvero dileguarsi le speranze di pace concepite dagli Inglesi, dei quali
l'emiro non si mostrerebbe disposto ad accettare le condizioni. Tutte que-
ste faccende però, molto notabili per altri, non importano gran fatto all'Ita-
lia, intenta da mesi ormai a due sole cose sue proprie; alle sue finanze
■e al crescei'e, ora palese, ora nascosto, al dileguarsi momentaneo e all'im-
provviso riapparire di gente torbida, che con un nome o con un altro co-
glie tutti i pretesti per far chiasso e imporsi, se fosse possibile, colla vio-
lenza alla immensa maggioranza del paese che la ripudia.
Non fu prova di molta imparzialità e tranquillità di spirito 1' asser-
zione che la causa dei tumulti di Milano, di Genova e di altre città minori
si debba cercare nel compromesso conchiuso da ultimo fra il ministero e
il gruppo dell'on. Cairoli, tanto per salvare nella discussione sulle finanze
il partito. Che persone come quelle che tumultuano per la strada e si bat-
tono coi carabinieri per portare intorno una bandiera, odorino così presto
le sottili combinazioni dei partiti alla Camera, é una supposizione troppo
arrischiata per essere vera. Ma ben è vero che disordini di questo genere
non possono se non indebolire un ministero già per sé poco forte e che
deve 'a pi'opria vita precisamente alla volontà della Camera e del paese,
ch'essi fossero non solamente repressi, ma prevenuti. Il ministero Depretis
é sorto precisamente con questo mandato, si resse fino ad ora perché parve
risoluto a soddisfarvi, e non potrebbe cominciare comunque a venirvi
meno, senza che gli crollasse sotto la sua base. Far rispettare la legge e
le istituzioni dello Stato e mantenere l'ordine pubblico é il primo di tutti
i doveri per qualunque governo; ma é il primissimo per un Ministero,
che, per un insieme di accidenti inutili a ricordare, ha in questo ufficio le
ragioni speciali della sua origine e della sua vita
Certo é ingiusto il rovesciare sopra il governo la responsabilità di
tutto quello che accade. Il Ministero Depretis non desidera i chiassi e i
tumulti più che qualunque altra persona la più ragionevole e tranquilla.
K ASSEGNA POLITICA. 577
Anche questo però non basta, essendo opinione troppo comune clie certi
fatti non avvengano, quando si sappia come il governo l'intende e non si
presuma, o non si speri, che possano esser tollerati. E lo si sa poi chia-
ramente, quando esso faccia il debito uso del suo diritto e del suo dovere
di prevenire, sia convinto che questo diritto gli spetta e questo dovere
gl'incombe, e adoperi l'uno e adempia all'altro, senza esagerazioni di zelo,
ma con quella fermezza, che toglie gli equivoci e non consente illusioni. E
queste e quelli invece pullulano e s'alimentano, quando il governo si limita
a dire a chi ha intenzione di compromettere la quiete pubblica, che li
denuncerà all'autorità giudiziaria, una frase che non ha chiaro senso,
poiché l'autorità giudiziaria, nei reati d'ordine pubblico appunto, procede
da sé senza bisogno di denunzia, e fa credere che il governo, per mante-
ner l'ordine, abbia bisogno di diventare un querelante privato.
Quanto alle finanze, la discussione é proceduta Ano a qui assai calma
in virtù dei preventivi accordi passati fra il Ministero, la maggioranza
della Commissione e il gruppo Cairoli, accordi che servendo molto al par-
tito, non serviranno altrettanto ad accrescere la fiducia del pubblico verso
le conclusioni. Due fatti però furono posti in chiaro dal Ministro delle
finanze, per quanto egli si sia sforzato di accostarsi alla maggioranza.
della Commissione e di dispiacere il meno possibile al gruppo Cairoli. Il
primo che i 60 milioni di avanzo, preveduti dall'on, Seismit-Doila restat<i
passata, si riducono a 14; il secondo che, data l'abolizione del macinato,
volendo sopperire all' immenso vuoto che questa lascia nelle nostre fi-
nanze, sarà inevitabile di ricorrere a nuove imposte, alcune delle quali
furono anche da lui, con poca soddisfazione della maggioranza, annunciate.
I più vorrebbero manifestamente abolire le imposte, aumentare le spese,
conservare il pareggio e avere anche degli avanzi; ma il santo ministro
operatore di questi miracoli ancora non s' è trovato. E perciò nulla
apparisce più lagrimevole dal vedere abolire per pura ostinazione di parte
quei 1"> milioni di macinato sul grano, che tutti pagano senza avvedersene
e che, per giunta dopo l'abolizione pagheranno ugualmente ai fornai invece
che al governo, per ispremerli dagli zuccheri, dagli alcool e dai dazi,
opprimendo i fabbricatori e aumentando il malcontento delle città. Non si
intende poi come annunciandosi sempre avanzi, si sieno alienati da tre
anni in qua 124 milioni di rendita, o in altri termini si sieno fatti 12-1
milioni di debiti. Ne abbiamo ad esuberanza, ma viceversa poi ce ne mancano.
Tale è l'effetto della comoda usanza di inscrivere certe spese fuori del
bilancio!
Tutto considerato, la discussione di questi giorni non è sufficiente a
dissipare i dubbi sorti sulle condizioni della nostra finanza da un anno in
qua. Alcun che di meno impreciso, quantunque anche di meno lusin-
ghiero, si seppe, ma non abbastanza, per vedere chiaro dove siamo e dove
andiamo coU'abolizione del macinato e le nuove imposte. Perciò nulla di più
578 RASSEGNA POLITICA.
ragionevole della proposta di riservare il giudizio al tempo in cui si po-
tranno valutare questi ed altri elementi ancora ignoti, fra gli altri le spese
per le nuove costruzioni ferroviarie. Senza di questo , approvando o
disapprovando una conchiusione qualunque, la Camera verrebbe a dire di
saper ciò che ignora, di conoscere la somma ma non le cifre che entrano
a formarla, pronunciando un voto politico di nessun valore per la
finanza.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
LETTERATURA
Raccolta di proverbi veneti, fatta da Cristoforo PASQUALIGO. —
Venezia, Istituto Colletti, 1879.
I proverbi, come dice l'autore, sono documenti storici della vita
fisica, morale e intellettuale di un popolo; sono la pittura che un popolo
fa, di se stesso, e la più esatta e fedele, perchè vi si rivela e vi si di-
pinge senza proporselo e senza avvedersene. Nei proverbi esso vi fa sa-
pere com' egli la intenda circa i costumi e le usanze sue e degli altri,
circa le virtù, i vizi, i difetti, le passioni e le atfezioni, e circa le donne,
il matrimonio, la famiglia, gli amici, e l' arte e la prudenza del vive-
re, giudicando di tutto coli' esperienza, e mostrandosi filosofo e pensa-
tore. Che se anche i proverbi, come i canti popolari, dovettero uscire
la prima volta dalla bocca di un individuo, il popolo coll'adottarli, col
farli suoi e col conservarli mostrò che li giudicava corrispondenti alla
sua coscienza e vi si sentiva rappresentato. Di qui il loro valore di espe-
rienza universale, di esperienza dei secoli e l' importanza delle raccolte
ormai numerose in Italia e fuori simili a questa dell'onor. Pasqualigo per
i proverbi della Venezia.
La raccolta di cui parliamo è già alla sua seconda edizione, ed esce
arricchita di molti proverbi e di note sagaci e preziose. Fra note illu-
strative e proverbi è un libro che si legge con piacere e con frutto, fa-
cendo conoscenza intima con popolazioni sveglie e argute, coi suoi dialetti
briosi, col suo modo non molto ideale, ma pratico, di considerare gli uo-
mini e le cose umane. Per quanto sia vero, che l'esperienza degli altri
non giova, si impara da questo libro più che da un trattato di filosofia,
e più che da una storia. Di una sola cosa esso ci lascia desiderio, dei
proverbi friulani, che non sappiamo perchè il diligente Autore non abbia
580 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
cercato di unire agli altri, per dare un'idea più completa delle provincia
venete. Ci sono i trentini e i bellunesi, e perchè non anche i friulani?
Forse l'autore ne fu distolto o dal timore delle ripetizioni, o dalle dif-
ficoltà del dialetto per la maggior parte degli stessi Veneti.
Sull'inseguamento delle ling'ue classiche, di F. G. FUMI, prof, di glottolo-
gia all'Università di Palermo.
« Il lagnarsi a torto o a ragione di tutto e di tutti è un vezzo gene-
rale e fra noi una seconda natura; sicché appena uno dall'occhio fino ha
veduto il pelo nell'uovo e strombazzato colla voce grossa la magagna sco-
perta, è sicuro di tirarsi dietro il coro dei plaudenti, i quali, alla loro volta
si fanno banditori del nuovo guaio e tanto sbraitano e s'affannano, che il
volgo s'induce in buona fede a schiamazzare con essi. » Questa poco felice
inclinazione nostra dà origine, secondo 1' Autore, a due opposti ordini di
detrattori degli studi classici come sono ordinati al presente: ai detrattori
del latino e del greco, a quelli che considerano queste lingue come inutili
e non vorrebbero nei giovani altre cognizioni che quelle per mezzo delle
quali possano poi guadagnarsi il pane; e ai fanatici loro fautori, che ban-
direbbero dalle scuole la matematica, le scienze naturali, la geografia, cau-
se, secondo loro, di i^ervertìmento, o almeno di distrazione; quelli troppo
teorici, troppo moderni, troppo grettamente e ciecamente utilitari, questi
ligi alla tradizione, innamorati delle loro reminiscenze giovanili, figli troppo
devoti dei Barnabiti, degli Scolopi e dei Gesuiti.
Ma il peggio è, secondo l'autore, che in due classi consimili si divi-
dono anche gii insegnanti. I quali naturalmente non sono in vero o amici
0 nemici degli studi classici, ma amici o troppo moilerni o troppo vec-
chi; quelli tutta filologia, tutta erudizione linguistica, e discussioni sui te-
sti, ecc , questi tutta grammatichetta pedantesca e noiosa ed esercizi in-
terminabili e peggio, regole mal comprese e male applicate, che rendono
odiose, non solamente le lingue classiche, ma molte volte qualunque studio.
L'autore scstiene la necessità delle lingue classiche come fondamento di
qualumiue solida coltura, e solamente desidererebbe tale conciliazione nei
metodi di insegnarle, che non rivelasse un profondo dissidio tra il vecchio
e il nuovo, non desse origine a così opposte lagnanze e permettesse di
sperar dagli studi maggior profitto.
E fin qui niente a dire. Ma quello che ci sorprese e ci parve non accor-
darsi punto con tutto il resto, fu il veder l'autore buttarsi anche lui, per
amore di conciliazione, alla proposta indarno vecchia e indarno sperimen-
tata dannosa in Francia, della scuola unica di tre anni dopo l'elemen-
tare e quindi della biforcazione; senza considerare che in tal modo sarebbe
dato un colpo mortale agli studi classici, dei quali egli è pur fautore, che
andrebbero perduti, per gli alunni che s'avviassero poi al ginnasio, appunto
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 581
quei tre primi anni, nei quali egli stesso confessa che imparano qualche
cosa più che negli altri, che si toglierebbe loro quella preziosa ginnastica
intellettuale ch"è lo studio della grammatica d'una lingua antica. Aggiun-
gasi che gli alunni che vanno al ginnasio, appartengono a una classe so-
ciale diversa da quelli che vanno alla tecnica, e l'amalgamarli servirebbe a
farne fuggire una parte, che si riceverebbe nelle scuole private, produ-
cendo per gli altri una miscela, dalla quale non si sa che vantaggio o
che frutto si potesse aspettare. Se ora gli alunni di ginnasio imparano poco,
levati tre anni al latino imparerebbero molto meno, e i nemici di questa
lingua avrebbero vinta la loro causa contro gli stessi desideri! e i propositi
dell'Autore. Allora potrebbero dire davvero che questa è uno studio inutile,
e poiché avrebbero ragione, bisognerebbe finire col dire loro che l'hanno.
In questa parte dell'ordinamento o della riforma degli studi classici, il
lavoro del prof Fumi zoppica alquanto, non essendo cosa da risolvere così
alla spiccia com'egli fece. Per tutto il resto, e singolarmente per quanto
riguarda il metodo, è un'esposizione esatta, e piena di verità E poi tanto
ordinata e lucida, che non si può esimersi da una certa maraviglia nel ve-
dere un uomo di testa chiara, come si mostra l' autore, trattai'e, a dire
la parola, con leggerezza il soggetto principale risolvendo una questione
importantissima con così pochi argomenti contro le sue inclinazioni e
contro sé stesso.
POLITICA
Pensieri politici, di GirsEPPE FERRARELLI. — Napoli, De Angelis. 1879.
Di rado ci è accaduto di vedere un libro tanto piccolo e che contenesse
tante verità, offerendo in poche pagine la prova indubitabile di una dot-
trina non comune e di una testa molto chiara. L' autore comincia dal ricer-
care la libertà che ci manca, dopo le tante che abbiamo, e vede venirci menu
quella dell' intelligenza, l' abitudine cioè del dubbio , e V inclinazione a
esaminare e a pensare, piuttosto che a credere. Ciò premesso, considera la
politica dei Romani, quella dei Veneziani, quella del Machiavelli, e gli
appariscono tutte guidate dal sentimento della necessità del conservare
derivata dallo studio dei fatti, o piuttosto da una vita sotto il continuo do-
minio dei fatti, e dalla persuasione profonda e quasi istintiva, che le muta-
zioni sociali avvengono assai lentamente, come quelle della natura. Perciò
chiunque si sforza a produrvi dei cangiamenti rapidi per mezzo di leggi
che non s' accordano colle tradizioni storiche e ispirate da principii teoretici
e ideali, non solamente fa opera vana, ma incontra una resistenza, che ri-
cade sopra di lui.
< La moderna scienza politica, dice 1' autore a pag. 34, ha visti gl'in-
582 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
timi legami che ci sono fra essa e le scienze naturali. Appuntx) perciò,
come in tali scienze si è proceduto, rispetta i fatti e li assume per punto
di partenza delle sue investigazioni. Da tali investigazioni ha desunto che
le trasformazioni nella società accadono costantemente, ma anche lentissi-
mamente, e per conseguenza ha veduto i limiti della potenza degli statisti,
delle leggi e degli organismi politici. La moderna scienza politica non spegne
la fede nel progresso .. ma la sua fede è temperata dal dubbio, è la fede
circoscritta di chi pensa... La moderna scienza poUtica non è radicale, perchè
il radicalismo è il passato .. e il radicalismo è il passato, perchè è l'indagine
primitiva e superflciale, è l' indagine arrestata alle forme e non penetrata
ancora nella sostanza. La moderna scienza politica non è astratta, visio-
naria, dottrinaria, ideologa, metafisica, giacobina. »
Dalle considerazioni generali l' autore viene poi alle applicazioni, pren-
dendo in esame la politica seguita in Italia dal 1860 ad oggi, e trova che
troppi cangiamenti si fecero e con troppa impazienza, perchè avessero potuto
non turbare profondamente il paese, e dare copiosi frutti.
Egli deplora il dispiezzo mostrato a tutte le istituzioni regionali e la
violenza usata per conseguire una unificazione alla francese che non va
oltre alla forma, le improvvide e audaci teorie indarno tramutate in leggi
e la mancanza di senso pratico, con cui si rimescola di continuo ogni cosa,
sempre coll'animo di far meglio, ma impedendo che questo meglio nasca
appunto colle interminabili mutazioni. Accennato a ciò che fu fatto di
troppo, considera poi dall'altra parte quanto si sarebbe potuto tare e non
si fece, e conchiude augurando al nostro paese una scuola di politici pratici
e istrutti, in grado di rendersi conto delle leggi che governano la vita dei
popoli e di dominarne con un pensiero netto e con animo imparziale le con-
dizioni prendendo dal passato lume per l'avvenire. « Tocca "all'Italia,
scrive il signor Ferrarelli a pag 72, colla potenza dell'esempio di guarire
il morbo politico che travaglia le nazioni latine; vale a dire credere che
le forme politiche abbiano una potenza magica; credere che un grand'uomo
sia più che un grand'uomo e possa essere grande senza l'aiuto dei piti;
credere che tutto il bane debba nascere da una carta costituzionale la quale
possa far accadere prontamente ciò che deve accadere lentamente ; credere
che la libertà di un paese si valuti dal numero degli uomini proclamati li-
beri, anziché da quelli veramente liberi e dai fatti liberi che si compiono. »
A molte cose accenna l'Autore, ma appunto vi accenna più che non
le dica. Ed è un guaio, perchè il suo libro non potila essere inteso, se non
da chi sia già nell'ordine de' suoi pensieri, ed abbia dentro di sé almeno
qualcuna delle sue opinioni, che gli dia in certa maniera la chiave delle
rimanenti. A tutti gli altri, che non saimo storia, che fanno l politici per
non sapere far meglio, e parlano di politica per la stessa ragione per cui
le donnicciole parlano di medicina, il suo prezioso lavoro parrà uno spro-
loquio simile ai tanti che genera l'ozio, più che il sapere e la riflessione.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 583
In conchiusione la sola cosa che ci dispiace è ch'esso sia troppo breve,
per potere essere capito e apprezzato come merita da un considerevole
numero di lettori. Il momento storico per libri di questo genere, dove si
sottintende più che non si dica, s'accosta, forse, ma non è ancora giunto.
I Meridionali alla Camera, di Micrele TORRA.CA. — Napoli, De An-
gelis, 1879.
È uno scritto che serve di illustrazione e di cemento al programma
delV Associazione nazionale di Napoli, pubblicato in gennaio dai deputati
Abignente, Sorrentino ed altri, sulle condizioni presenti della Rappresen-
tanza napoletana e sui criteri che dovrebbero guidare i Meridionali nelle
prossime elezioni; uno scritto in cui si dicono con urbana franchezza molte
verità e che si legge con profitto e con piacere. Ma esso non va esente da
esagerazioni e qualche volta anche da contraddizioni. Così, per esempio, a
pag. 12, parlando delle accuse fatte ai Meridionali, l'autore dice: « Certe
brutte cose che qui non si conoscevano, sono state apprese fuori ; alla
scuola non demmo maestri, ma discepoli. » E a pag. 22, a proposito delle
disposizioni che c'erano nel Mezzogiorno tosto dopo il 1860, si legge: «La
censura si esercitava severissima sugli uominiesullecose.il passato triste
serviva di esempio al presente pel contrasto che doveva fare con esso.
Non più frodi, non più arbitrii, non più corruzione. Bisognava esser tutti
modelli. » Di queste due proposizioni, se è vera l'uiia, non è più vera
l'altra o in altri termini, se i Meridionali ne sapevano, benché senza loz'o
colpa, già tanto da sé, non restava loro gran che ad apprendere da altri.
Ma prescindendo da alcune pecche, del resto scusabili in uno scritto po-
litico, resta verissima la storia delle cause, per le quali la deputazione
napoletana, fatte le debite eccezioni, venne via via guastandosi e deca-
dendo, come pure è savio, pratico, utile l'intento dell'autore, ch'è quello
di avere una Sinistra, non moderata o spinta, non rossa o azzurra, non
vecchia o giovane, non storica o nuova, ma una Sinistra rispettabile.
< La rispettabilità, dice l'autore, che viene dal carattere morale e dalle
doti intelettuali, è garanzia sufficiente per tutto. » Ciò però suppone negli
elettori un patriotismo illuminato e sincero, e, SQ si vuole, la virtù di an-
teporre il bene generale agli interessi locali, in luogo dello sforzo perchè
questi prevalgano a quello. È questa la parte più difficile e intorno a
questa avremmo desiderato che Fautore si trattenesse più lungamente pa-
rendoci il nodo della questione specialmente per un uomo che si professa
di sinistra.
584 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
filosofìa
Problema fondamentale della scienza, pel canonico prevosto prof. Pieteo
TARINO dottore in teologia, in filosofìa ed in metodo. — Biella 1879: un
voi. di pag. xs:xii-502.
Non sappiamo perchè il dotto prof. Tarino abbia voluto apporre al
suo libro un titolo così strepitoso ed equivoco, e non preferitone alcun
altro più modesto, e meglio appropriato; avvenga che il suo scopo è di.
commentare e difendere la dottrina tomistica intorno alla umana cono-
scenza. Egli si è posto in ischiera con quella parte del clero italiano, la
quale armeggia da qualche tempo affine di ricondurre nelle scuole mo-
derne la filosofia scolastica sotto l'autorità di San Tommaso, reputando
che dove riesca ad insinuar nuovamente negl' intelletti cotal complesso
di dottrine, avrà ben tosto allontanata la peste degli errori serpeggianti
nel seno della società religiosa e civile, e restituita la tranquillità del-
l'ordine universalmente sconvolto.
Se non che il proposto rimedio viene stimato dalla maggior parte
peggiore del male; e non mai, quanto oggidì, essere una restaurazione di
metodi e sistemi dogmatici avversa all'avviamento critico e sperimentale
che tutte le scienze hanno preso per ogni sempre.
Ma quel che voglia essere degl' intendimenti del nostro A., certo è
ch'egli a torto si scusa di avere abbozzata soltanto la soluzione del pro-
blema ideologico secondo la filosofia delle scuole; e non l'accuseranno per
fermo di soverchia concisione sintetica i lettori del suo grosso volu-
me. Nel quale dopo aver deplorata l'apostasia di Cartesio dal vecchio
metodo degli scolastici, e attribuitole le funeste conseguenze teoriche e
pratiche dell' idealismo trascendentale, del materialismo, dello scetticismo,
e simili, applica in un capitolo preliminare il rinnovato metodo logico a
confutar gli errori moderni de' positivisti, degli atomici , e de' trasfor-
misti (pag. 3-102). Di poi tratta della natura dell' idea, cui dice essere
« una rappresentazione della cosa conosciuta, fatta ed impressa nella
mente ; » e circa la quistione dell'origine della conoscenza, premesso un
esame confutativo delle soluzioni proposte da' sensisti, dagli idealisti auto-
matici e dinamici, dai tradizionalisti e dagli ontologi, spone il sistema
scolastico, e l'applica sì nell'ordine puramente ideale, sì nel reale. Quindi
conferma la predetta teorica nel triplice ordine teologico, cosmologico, e
psicologico; e da ultimo ne cerca il riscontro nell'ordine morale o politico.
L'essere oggimai conosciutissima la dottrina scolastica sulla natura e
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 585
l'origine delle idee, ci dispensa dal riepilogare la esposizione fattane dal
Tarino, la quale peraltro ne sembra chiara, esatta e concepita. Non ugual-
mente felice però giudichiamo la deduzione delle conseguenze di tal dot-
trina, cui l'A. presume tirare fino ad ammettere l'onnipotenza teocratica
della Chiesa sopra lo Stato.
E finalmente non doveva egli passar con silenzio il sistema ontologico
del nostro Mamiani circa la obbiettività e la natura peculiarniente rappre-
sentativa delle idee, uè pretermettere le capitali obbiezioni fatte da questi
a' nuovi peripatetici nella Filosofia delle scuole italiane (voi. X, pag. 189;
XVI, 216 segg.) ed in parecchi luoghi delle sue opere. Il Mamiani disse
a ragione che la noologia tomistica cambia il contingente nell'assoluto, il
creato nelP increato, il finito nell'infinito, né rispondersi a ciò col trarre
in mezzo le essenze. Or come non parve al Tarino di spendere almeno una
mezza pagina del suo libro a ribattere siffatte istanze ?
Cenni storici e critici sull'origine e sulla natura della fllosofla sco-
lastica, di Andrea CAPELLO. — Torino, Eredi Botta, 1879. Pag. 6,
in 8° grande.
Ecco un lavoro di poca mole e assai pregio, utile soprattutto al pre-
sente, in cui tentasi da una parte del nostro clero di risuscitar nelle
scuole il Tomismo per la salvezza delle anime e la maggior gloria di
Dio. Un bel saggio sopra V aristotelismo della scolastica nella storia della
filosofia venne pubblicato, ha pochi anni, con intendimento apologetico da
Salvatore Talamo, uno de'piil valorosi difensori delle dottrine tomistiche.
L'attuale studio di Andrea Capello al contrario è scevro d'ogni preoccu-
pazione dogmatica, e merita d'essere raccomandato, perchè contiene la
soluzione di un importantissimo problema fatta col doppio presidio della
storia e della pura speculazione. Vi si descrive dapprima con larghi tratti
il sorgere e lo svolgersi successivo delle scuole medio-evali, in cui la
scolastica si andò lentamente costituendo. Segue un breve ragguaglio, e
come dire un inventario dei tesori della scienza antica, dei quali i dottori
delle scuole, ne'vari periodi del medio evo, ebbero conoscenza, e che pote-
vano costituire il fondo materiale del loro insegnamento. Né sono dimen-
ticate le condizioni di varia natura, in mezzo alle quali si andarono svilup-
pando le scuole, e sopratutto lo stato materiale de'tempi, i documenti del
sapere tradizionale, e l'idea religiosa. Da'vari gradi poi della reazione delle
menti verso questa idea religiosa vengono dal Capello considerate due
principali forme e periodi della scolastica, il primo che durò dal secolo VII
a tutto il secolo XI, e corse da Rabano Mauro a S. Anselmo; e l'altro
definitivo e compiuto dal XIII secolo in poi, che ebbe per massimi rap-
presentanti Alberto Magno e S. Tommaso. La scolastica del primo periodo
è una forma di filosofia della religione e confondesi colla teologia, atteso
VoL. XIV, Serie II.— 1 Aprile 1819. 36
586 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
che la fede vien riiiuardata come una condizione all'intendere: « Credo ut
intelligam. »
Nel secondo periodo la filosofìa tende a costituirsi come scienza auto-
noma, e distinta dalla teologia, sebben concorde con essa nel principio e
nel termine : e allora la scolastica diviene un « prodotto del pensiero filo-
sofico cristiano, svolgentesi principalmente sotto l'azione dell'antica filo-
sofia pagana, soprattutto aristotelica, armonizzata, al possibile, colle dot-
trine del cristianesimo. >
Di ciascuno dei due mentovati periodi è fatto dal Capello un esame
assai diligente, e posti in rilievo i principali elementi che entrarono a
comporre il contenuto dello scolasticismo in entrambi. Da ultimo il lavoro
vien chiuso con una descrizione rapida dello svolgimento del pensiero
filosofico dal punto in cui la seconda forma della scolastica si fé' padrona
deo-l'intelletti, alle prime lotte combattute dagli umanisti contro di essa, e
al crollo finale datole da Bacone, da Galileo e da Cartesio.
<i II periodo della filosofia scolastica del secolo XIII, cosi conchiude il
Capello, noi crediamo e storicamente e dottrinalmente assai importante.
Mediano fra i due momenti principali del nuovo pensiero suscitato dal
cristianesimo, cioè la filosofia patristica e la moderna, esso ne porge il
punto pii^i alto e meglio opportuno per osservare e per istudiare il costi-
tuirsi e lo svolgersi graduale di esso nuovo pensiero lungo il corso dei
tempi. Riguardare la scolastica da questo punto di vista, a noi parve, fosse
appunto il riporla al luogo, che nella storia della filosofia, a ogni buon
dritto, ella deve occupare. »
Princìpii dì Filosofia Prima, esposti ai giovani italiani per Vincenzo DI
GIOVANNI, professore di Filosofia nel R. Liceo Nazionale di Palermo.
Seconda edizione nuovamente curata e riordinata dall'autore. — Volumi 3.
Palermo, 1878.
Il nome dell'abate Di Giovanni suona oramai chiaro in Italia e fuori
pe'suoi molti e pregiati volumi di letteratura, di erudizione, di Filosofia
speculativa, e di storia della Filosofia siciliana. Si può dire che dal 1854
ad oggi il prof. Di Giovanni, in mezzo alle cure quotidiane del suo inse-
gnamento nelle scuole secondarie di Palermo, non abbia mai cessato di
rovistare negli archivi e nelle biblioteche della sua prediletta Sicilia e
segnatamente nelle biblioteche di Palermo e di Monreale, per illustrare il
pensiero filosofico e l' opere de' suoi concittadini ; nò gli ha fatto mai di-
fetto, in ogni congiuntura della vita privata e pubblica, la fermezza dei
propositi e il vigore intellettuale proseguendo alacremente ne" suoi studi
severi e ne' suoi scritti mai sempre eruditi, chiari, ordinati, non senza ele-
ganza ed efficacia, talvolta profondi e ingegnosi.
Seguace temperato delle dottrine del Gioberti, nel 1863 il Di Giovanni
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 587
pubblicò i suoi rrincipii di Filosofia prima, eh' ebbero degna e larga
diffusione nelle scuole di Sicilia. Nei due anni successivi la pubblicazione
de' suoi bellissimi Dialoghi sul Miceli o sull' E/ite uno e reale, e più tardi
la Storia della Filosofia in Sicilia dai tempi antichi al secolo X/A' fecero
acquistare al valente professore palermitano fama novella e più alta nella
Penisola, e specialmente in Francia, ed un posto segnalato fra gli eruditi
e gli storici della filosofìa in Sicilia.
Ma, considerato pure come filosofo e scrittore, al Di Giovanni non
può negarsi vigore speculativo sia nell' esporre le proprie dottrine,
sia nel far la critica de' sistemi altrui, come rilevasi particolarmente
dalle opere Sofismi e buon senso e rrincipii di Filosofia prima.
La seconda edizione di quest'ultimo trattato è sostanzialmente iden-
tica alla prima, contenendo le stesse dottrine professate dall' autore,
conformi alla scuola ontologica. Tuttavia non le manca un certo
aspetto di novità per le numerose aggiunte (oltre l'appendice al primo
volume, la quale contiene un saggio logico sulle categorie e su' giu-
dizi) fondate sempre sull' autorità de' più rinomati filosofi antichi e mo-
derni, e per i non pochi cenni delle più note dottrine contemporanee
di mano in mano che lo svolgimento del soggetto ne forniva 1' oppor-
tunità.
La scienza dell'essere, del conoscere e dell'operare umano sono trat-
tate successivamente nella Filosofia prima dal professore siciliano Quindi
la seconda edizione di quest' opera abbraccia tre volumi. Il primo, dopo tre
lezioni su' Preliminari intprno alla scienza e alla filosofia, tratta della
logica in sé stessa e qual propedeutica della scienza. Il secondo volume
parla dell'Ontologia, della Teologia razionale e della Cosmologia; il terzo
contiene la Psicologia e la Neologia, o scienza del conoscere, l'Etica e un
cenno sulla Teleologia universale, o scienza de'fini.
Senza qui scendere ai particolari sulle dottrine del chiarissimo Di Gio-
vanni, noi>eremo che fra i criteri del conoscere umano e della verità egli
ripone anche la rivelazione ; bensì vuole l'accordo de' vari criteri, cioè
della natura, del senso comune e della rivelazione. Difatti egli esce in
questi pronunziati : « L' autorità è argomento e aiuto alla certezza, ma
non il principio o il criterio esclusivo di essa. Il negare alla ragione la
facoltà di giungere per sé al certo, è gettar l'uomo nello scetticismo.
La ragione pertanto che ha facoltà di concepire il vero e di potere esser
certa, si fa capace di fede; e la fede nella sua esteriorità si rende acces-
sibile alla ragione, accordandosi così il razionalismo e il sovrarazionali-
smo, per l'accordo che e' è interiore e dialettico tra il vero razionale e il so-
vrarazionale, l'evidenzae il mistero ». (Voi. 1, Logica, pag. 260-61). Ed altrove
soggiunge : « La rivelazione è criterio di certezza nell'ordine sovraintelli-
gibile e sovrarazionale, e malamente si vuol porre come principio di scienza
che ha per materia gì' intelligibili e il naturale (pag. 279) ». Ciò nondi-
ggg BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO,
meno, sarebbe stato miglior partito distinguere più accuratamente la
scienza dalla fede, la parte scientifica dalla teologica o tradizionale in
alcuni quisiti supremi della filosofla; e, se mai, considerare sempre la
fede, 0 le tradizioni universali religiose, qual criterio secondario ed aiuto
alla ragione umana. Comunque il Di Giovanni è un filosofo che adopera
il metodo comprensivo, e indi non può dirsi tradizionalista.
Quanto alla Morale, sia confrontando questa parte con le altre del-
l'Opera intera, sia considerando l' Etica in se stessa e nella sua grande
importanza pratica, avremmo desiderato che nella seconda edizione le
fosse stato dato più largo svolgimento, affinchè i giovani (ai quali segna-
tamente venne destinata quest' opera) vi avessero attinto una compiuta
instituzione morale.
Del resto, la Filosofia prima del valoroso professore palermitano è
meditata profondamente e saviamente condotta ; perocché in ogni argo-
mento ivi trattato, alla parte spositiva e dimostrativa 1' autore ha unito
con eletta erudizione la parte storica, senza confondere il suo trattato
speculativo di Filosofia razionale e morale con la storia della Filosofla pro-
priamente detta.
ECONOMIA E STATISTICA
Teoria generale dei prestiti pubblici, di G. Ricca-Salerno. — Mi-
lano, 1879. (Pa!,^ xvii-141).
Questo notevole lavoro comincia con una introduzione, nella quale
l'A. passa a rassegna le varie dottrine professate da economisti e da
finanzieri, nel secolo passato e nel nostro, in argomento di prestiti pub-
blici. Vivacemente criticate le vecchie opinioni, spesso contraddittorie,
l'A. accenna a fondarsi più specialmente su le indagini recenti, compiute
in Germania dal Dietzel, dal Nasse, dal Wagner, dal Laspeyres, dal
Soesbeer e da altri. Tuttavia nemmeno i risultati di queste accetta senza
riserva; e pare s' imprometta di dare per la prima volta alla scienza
una teorica veramente compiuta dei prestiti pubblici. A conseguire il suo
fine egli non sceglie la via dell' induzione, o, come impropriamente suol
dirsi in fatto di scienze sociali, il metodo sperimentale. Gli pare più op-
portuno dedurre tutta la sua dottrina da una duplice serie di premesse,
che si trovano esposte nei due primi capitoli del libro: il primo dei quali
tratta dei Principii fondamentali della scienza finanziaria, e contiene
considerazioni generali sopra la natura e la ragione dolle spese degli
Stati moderni, sopra i loro rapporti con le entrate, e sopra la finanza
considerata in relazione a una certa triplice categoria di economie : l'eco-
BOLLETTINO BIBLIOGKAFICO. 589
nomia dello Stato, l'economia nazionale, e le economie private; e il secondo,
su le orme di un recente libro del Knies, è un riassunto della teoria ge-
nerale economica del credito, con poche osservazioni finali sopra il credito
pubblico in ispecie. — E qui potrebbe osservarsi, in via di parentesi, che
a molti sembrerà per avventura superfluo, in un lavoro d' indole mono-
grafica, venir ripetendo le definizioni più elementari su Io scambio, la
circolazione, il credito in generale e simili, per le quali bastava un rinvio
a un buon manuale di economia, o, al più, al libro stesso del Knies. Ma non è a
far gran caso di un peccato d' abbondanza. — Le ricerche propriamente
attinenti all'argomento del lavoro sono comprese nei capitoli IIl-V. — I prestiti
pubblici vi sono prima considerati in relazione all' economia dello Stato.
Dalla distinzione delle spese dello Stato in ordinarie e straordinarie, fatta
specialmente con la guida del Wagner, salvo qualche lieve modificazione
alle dottrine di questo, 1' Autore desume un certo limite massimo, e un
certo limite minimo all' uso del credito pubblico. I prestiti pubblici sono
studiati di poi in relazione con V Economia nazionale, ponendo special-
mente in luce la considerazione, che, nei paesi ricchi, si traggono dal
fondo disponibile, e, nei poveri, per lo più dai capitali esteri, e in amen-
due i casi son preferibili alle imposte troppo gravose. Da ultimo si
tratta delle relazioni tra i prestiti pubblici e le econotnie private tor-
nando sull'osservazione, che essi si desumono dai capitali disponibili o di-
spensabili, come dice l'A.; e quindi fermandosi a difenderli contro co-
loro, che ritengono aver essi effetti nocivi alle classi lavoratrici e alla
miglior possibile distribuzione della ricchezza in generale. In fine al ca-
pitolo V, l'A. riassume la sua dottrina, concludendo, che « l'averne
(dei prestiti pubblici) dimostrato la corrispondenza con alcune opere pub-
bliche e le tendenze generali per rispetto al patrimonio e al reddito della
nazione e dei privati, e l'averne assegnato i limiti assoluti e relativi di
competenza (.'') nella economia dello Stato e del popolo equivale a stabi-
lirne la legge ed apprestare i principii direttivi all' arte finanziaria e
alle indagini storiche e statistiche particolari. » In un ultimo capitolo
sono raccolti alcuni fatti economici e finanziari relativi al periodo delle
guerre napoleoniche per l'Inghilterra, al periodo successivo alle guerre
del 1870-71 per la Francia, e all'era dei grossi disavanzi e dei grossi de-
biti, nei primi anni dopo la costituzione del regno, per l'Italia: in essi
l'A. cerca la riprova delle sue teorie.
Molte e gravi obiezioni si potrebbero fare a questo scritto del profes-
sore Ricca-Salerno. È assai discutibile, se il metodo prettamente deduttivo
da lui seguito, possa condurre à conclusioni di qualche valore in questo
argomento, tuttora tanto dibattuto, dei prestiti pubblici. Né basta a ri-
mediarvi quella mingherlina e unilaterale raccolta di fatti, che è nel ca-
pitolo VI. E a molti sembrerà sproporzionata la parte del lavoro, che di-
vaga in considerazioni generali, non di rado ripetute, di fronte a quella,
590 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
che si attiene proprio all'argomento speciale del prestiti pubblici. La quale
in vece è assai lontana dal costituire una teorica, come che sia, completa ;
poicliè vi è affatto trasandata ogni distinzione di effetti economici e finanziari,
secondo le varie categorie di prestiti pul)blici, e insufficientemente stu-
diata l'importanza grandissima della distinzione tra prestiti contratti al-
l'estero, e prestiti contratti all'interno. La teoria generale, che non tien conto
di queste distinzioni, rimane campata nel vuoto. Ed è pure deplorevole, che
i prestiti pubblici siano studiati quasi esclusivamente nel primo momento,
all'atto della emissione, e non se ne ricerchino, salvo qualche accenno, le
conseguenze economiche e finanziarie rilevantissime, in quanto rimangono a
gravare col peso annuo degl' interessi l'economia dello Stato e quella della
nazione. Mentre, per contro, la distinzione, tanto spiccatamente fatta dall'A .,
tra economia nazionale ed economie private, riesce oltremodo sottile, poco
rispondente alla realtà; e lo costringe a ripetersi, o a distribuire in due parti
l'esame di fenomeni, che in fondo sono identici. Come si fa, p. e., a intendere,
che la sottrazione, o meno, del capitale alle industrie, sia fenomeno attenente
alla economia nazionale, e la migliore o peggiore distribuzione della ric-
chezza, e l'aumento o la diminuzione dei salari, siano fenomeni da riferirsi
alle economie private ? Da cotesto lusso di distinzioni un po'bizantine, prodi-
gate in alcune opere tedesche, sarebbe utile guardarci. Quanto poi alla so-
stanza della dottrina del Ricca- Salerno, pure riconoscendogli molta potenza
speculativa e molto acume critico, dobbiamo fare ampie riserve sopra il
valore pratico delle sue conclusioni, troppo favorevoli all'uso e secondo noi
all'abuso del credito pubblico. Si provi egli stesso a imaginare, che cosa di-
verrebbe, in breve tempo, una finanza, la quale fosse governata, applicando le
sue dottrine. 0 si provi, dopo uno studio minuto dei fatti, a spiegare con le
sue dottrine la recente pratica finanziaria del governo inglese — del governo
cioè del paese, che, avendo il massimo dei capitali disponibili, si trova, secondo
r A. nella condizione di contrarre prestiti pubblici a iosa. Di certo egli
dovrà fieramente condannare la diminuzione del capitale del debito conso-
lidato, che da 781 milione nel 1^4 è sceso a 710 milioni di sterline nel 1878,
e la recente assegnazione di 28 milioni di sterline all'anno per il fondo di
ammortamento. E dire, che tutto questo è prelevato dalle imposte; le
quali hanno pure sopperito a molte di quelle spese straordinarie, che l'au-
tore vorrebbe fatte con l'aiuto del credito pubblico. Del resto, tenuto conto
del punto d'aspetto troppo parziale, non mancano nel lavoro in esame
utili osservazioni; ed è specialmente a lodarsi per essere il primo studio,
nel quale si sono fatti conoscere in Italia gli scrittori tedeschi contempo-
ranei, che si sono occupati dell'importantissimo tema.
Da ultimo ci corre l'obbligo di riconoscere in questo lavoro un grande
pregio, e di notare due gravi difetti. Il pregio è l'erudizione dottrinale copiosa,
sicura, completa, in ispecie per gli scrittori taleschi : ne son documento le nu-
merose note, nelle quali, forse con esuberanza, si può riscontrare tutta quella.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 591
che Oggi barbaramente suol dirsi la letteratura della questione. I difetti sono
la mancanza poco men che completa di quel vivace senso della realtà, senza
del quale gli studi economici e finanziari restano, a nostro vedere, vacue
esercitazioni teoretiche; e la forma che, trascendendo l'ineleganza, pecca
troppo spesso d'improprietà, d'indeterminazione, e riesce, con gran detri-
mento dell'etlicacia dei concetti, ad annebbiare non di rado ciò che è chiaro
ad intralciare e a mostrare asti'uso ciò che di per sé è facile e piano.
Non vogliamo addurre esempi; ma osserviamo soltanto, che non à impos-
sibile, che l'un difetto sia intimamente connesso coll'altro.
Relazione statistica dei lavori compiuti nel distretto della Corte di
Appello di Genova nelPanno 1878, del counu. G. G. COSTA Pro-
curatore gegnerale
È un chiaro e molto accurato resoconto dell'amministrazione della giu-
stizia civile e penale nel distretto della Corte d'Appello di Genova nel
18"8, illustrato da opportuni confronti colle cifre degli anni precedenti nel
distretto stesso e talora anche con quelle di tutto il Regno e della Francia,
nell'intento di riconoscere, se si va innanzi od indietro e che cosa, a lume
del passato e del presente, possiamo attenderci dall'avvenire. Ma, oltreché,
coi confronti frequenti, le cifre vengono interpretate e spiegate colle que-
stioni giuridiche a cui si collegano, e che l'autore accenna assai brevemente,
come gli era imposto dai limiti del suo lavoro, ma con evidenza ed ef-
ficacia da maestro, e poi con quell'autorità che gli deriva dalla molta
dottrina, dalla lunga esperienza e dall' indipendenza del carattere. Egli
infatti, accennando ai mali, non dissimula punto la sua opinione sulla qua-
lità dei rimedi, ciò che trasforma una relazione statistica in un lavoro giu-
ridico meritevole dello studio più diligente.
Così, per esempio, nella parte clie riguarda la giustizia civile, è molto
notabile che in tutto il 1878 furono istituiti 4 soli nuovi consigli di fa-
miglia e 7 ne furono convocati. Nel 1874 i nuovi consigli erano stati 3 e
le convocazioni 4; nel 1875, 4 i primi e 5 le seconde. Il che significa in
conchiusione che i consigli di famiglia sono un'istituzione che esiste sol-
tanto di nome, e lascia la tutela indipendente da qualunque vigilanza, con
ohe si riesce non di rado alla trascuranza dell'educazione dei pupilli e allo
sperpero del loro patrimonio. Si pretese di sostituire i consigli di famiglia
al giudice pupillare, gl'interessati alla burocrazia, il cuore al dovere di
uflicio, ma con questi bellissimi discorsi si distrusse una vigilanza efficace
per sostituirgliene una che si risolve in parole. Il comm. Costa lo dice
in una forma più temperata, ma senza dissimulare i pericoli e i danni.
Importantissime sono poi le osservazioni dell'autore sul continuo cre-
scere dei fallimenti, che da 44 ch'erano, sempre nel distretto della corte di
592 BOLLETTINO BIBLIOGKAFICO.
Appello di Genova, nel 1867, si elevarono a 92 nel 1S77, giungendo a ben
64") negli undici anni compresi fra questi due estremi. Né ha punto minor
valore quant'egli dice sul diritto di prevenzione, che la legge « interpre-
tata con senso umano e liberale » attribuisce allo Stato, perchè essa col-
pisce gli atti preparatori! costituenti reati speciali, la provocazione a de-
linquere, l'associazione di malfattori, il porto e il possesso delle armi, ecc.,
azioni tutte che per sé sole non recano nessun danno e sono proibite e pu-
nite soltanto in vista di un possibile danno a venire.
Ma principalmente notabili sono le considerazioni a cui gli danno ma-
teria le cifre delle denuncie, dei processi, dei rinvìi, delle assoluzioni e
delle condanne, della qualità dei reati e delle pene. Da questa relazione,
come dalle precedenti del comm. Costa, risulta che i reati nel distretto di
Genova continuano a crescere. Certe specie di crimini fanno eccezione. Ma
dal 1877 al 1878 aumentarono i reati di ribellione da 185 a 302, gli omi-
cidi volontari da 38 a ó9, le ferite e percosse da 1857 a 2000, le grassa-
zioni da yo a luO, i furti qualificati da 1097 a lól3. Le cagioni di questo
fatto doloroso sono, benché fuggevolmente, accennate dall'autore, e ciò ac-
cresce non poco 1" importanza e l' opportunità di questo lavoro. Si parla
tanto da qualche tempo dellaumento dei reati e delle cause da cui dipende,
che un giudizio del comm. Costa in proposito non può non destare l'atten-
zione di quanti si occupano di faccende giuridiche e sociali.
Prof. Fr. PKOTONOTARI, Direttore
David Marchionni, Responsabile.
LA POLITICA
NELLA LETTERATURA CO^^TEMPORANEA DELLA FRANCIA.
LA LEGGENDA NAPOLEONICA.
Chi segue con occhio attento e diligente il corso di una grande
idea attraverso un lungo periodo storico non può non rimanere
colpito dal vario avventuroso destino ch'essa sul suo cammino suole
incontrare. Le soste, i contrasti, le trasformazioni ch'essa subisce,
sono l'accompagnamento ordinario di un' idea quando entra, per
dir così, nel crogiuolo della realtà e tende ad acquistare con que-
sta uno stesso impulso e una stessa vita: e quei fatti confonde-
rebbero inutilmente l'occhio di un osservatore superficiale che
non avesse sempre dinanzi alla mente l'idea madre intorno alla
quale essi, siccome intorno a proprio centro, si aggirano. Epperò
un dato periodo storico si può considerare come la somma degli
sforzi che l' idea fa per accomodare a se stessa la realtà e, in
certo modo, soggiogarla, creando così quel connubio fra l'idea e
la realtà che è il momento più potente e solenne dell'attività
umana, e che suole avere, secondo i tempi e i casi, più o meno lunga
durata.
In questo rispetto è oltremodo interessante quel periodo di
storia che s'inaugura coli' idea delle due unità mondiali: il Papato
e l'Impero, ora discordi, ora uniti, sempre però animati da mutua
gelosia, e tuttedue ambiziosi di una dominazione esclusiva ed
universale. Non mai spenta nel pensiero comune e nella tradizione
popolare, l'idea dell'unità imperiale, come eredità di Roma antica,
' V. Nuova Antologia, fascicoli del settembre e novembre 18TI.
VoL. XIV, Serie II — 15 Aprile 1879. 31
594 LA POLITICA
si rifece viva e gigante sotto Carlomagno, quando i Saraceni in Spagna
e in tutte le regioni meridionali dell' Europa da una parte, e le
stirpi ariane della Grermania dall'altra, tendevano per vie diverse
a creare uno stato» di cose nel quale quell' idea avrebbe trovata la
sua rovina e la sua morte. L'idea dell'unità non ha soltanto va-
lore per certe sue relazioni esteriori; essa è inerente all' indole
ed alla costituzione stessa del pensiero umano, ed è la prima ed
essenzialissima coudizione di ogni e qualsiasi organismo. Quando
si pensi allo stato di confusione in cui era caduto il mondo ro-
mano al tempo di Carlomagno, si comprende facilmente come il
pensiero di ricostituire l'antica unità imperiale fosse ravvisato
come una imperiosa necessità. Da Carlomagno adunque si inau-
gurano ed hanno principio le due unità imperiale e pontificia
che animano la storia del medio evo. Intorno ad esse, siccome in-
torno a due astri maggiori, si aggirano a guisa di costellazioni
minori tutte le altre consociazioni politiche minori; però senza
una fede costante e sicura: una città, un borgo oggi è imperiale,
domani papale, e a rovescio, a seconda dell' interesse e del suo
speciale fine politico ; ed è stato uno dei più bei capitoli di storia
scritto da Giuseppe Ferrari, ' quello nel quale questo scrittore mo-
stra che intento precipuo e generale di tutte le consociazioni poli-
tiche italiane del medio evo era di contenere il Papato coli' Im-
pero, e a vicenda questo con quello, impedendo cosi la domina-
zione esclusiva di uno dei due, che avrebbe prodotto la servitù
di tutti. L' idea dell'unità imperiale continuò a vivere e farsi
sentire nel pensiero inconsapevole del popolo anche quando era
da essa fuggito, od almeno si era grandemente afiievolito, lo spirito
che l'aveva dapprima animata. Quando venne in Firenze Carlo Vili,
i Fiorentini lo grìàsirono Ri.sfaiiratore della libertà italiana e padre
della patria; e Gino Capponi avverte con ragione che ciò proveniva
da questo, che al tempo di Carlo Vili l' Italia si regolava ancora
politicamente secondo le idee politiche medievali. Carlomagno era
stato il restauratore dell' impero d'occidente, e tutti i successori
di lui ereditarono con più o meno autorità il concetto medievale
dell'unità politica del mondo, unità nella quale si vedevano,
come tutti gli altri popoli, fusi anche i Fiorentini.
Però chi avrebbe mai potuto prevedere che l'idea dell'impero
d'occidente e dell'unità mondiale sarebbe risorta nel nostro secolo
ed avrebbe dato luogo ad un ciclo storico che per la mente gi-
' Histoire des Revolittions d'Italie, tom. I, cap. XII.
NELLA LEITERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 595
gantesca che lo occupò e per l'ampiezza dei disegni da essa con-
cepiti non è certo inferiore a quello di Carlomagno ? 11 mondo
vide a Parigi un nuovo imperatore d'occidente consacrato dalle
mani di un papa, come era stato Carlomagno da Leone HI.
L'autorità di quest'uomo era anche più estesa di quella dell'im-
peratore franco; essa si estendeva dal Tago alla Vistola, dalla
Sprea all'Adriatico; e un poeta epico che si disponesse a cantarne
le gesta, dovrebbe, nel fare la rassegna dei suoi eserciti essere
forse, in questa parte, anche più diffuso dei cantori di Carlomagno.
Il mondo vide ancora una volta il lusso, la pompa e gli usi delle
corti imperiali del medio evo; vide un re di Koma, un esercito
di dignitari, una nuova aristocrazia bellica capace di far ri-
scontro senza sfigurare allato dei paladini di Carlomagno. Per
giungere a tanto apogeo di gloria e di potenza ci voleva un genio
e un'ambizione sterminati, e queste qualità certamente non man-
carono né a Napoleone né a Carlomagno. Però intorno a questo
ultimo ed alle sue gesta si formarono le più curiose e strane leg-
gende, le quali, diedero poi origine ai poemi più illustri che
vantino le letterature europee. Cosa s' è fatto, o cosa si farà, per
questo riguardo, intorno a Napoleone ed al ciclo storico che
in lui si compendia? La scarsa suppellettile leggendaria che finora
quel ciclo ci ha tramandato mostra la diversità dei tempi ; e a
meno della sopravvenienza di una nuova barbarie in mezzo alle
cui tenebre suole la leggenda fecondarsi, quella scarsa suppel-
lettile non avrà assai probabilmente la fortuna della cronaca at-
tribuita all'arcivescovo Turpino.
E pure quanta materia epica nella vita di Napoleone! La
sua carriera è vasta come il mondo ; straordinaria per gli umili
principi che ha avuti, non meno che per la tragica sua fine, essa
è di una grandezza che sbalordisce per le imprese ond' essa si com-
pone. Eccolo questo figlio di un nobiluzzo còrso. Egli si reca in Fran-
cia e chiede alla vecchia monarchia 1' educazione che s' impartisce
nelle scuole militari alla nobiltà decaduta. Appena escito dalle
scuole, si guadagna in una sanguinosa sommossa il titolo di generale
incapo; in seguito passa dall'esercito di Parigi a quello d'Italia,
conquista in poche settimane questo paese, richiama sopra di sé
e distrugge una dopo 1' altra tutte le forze della coalizione eu-
ropea, impone la pace di Campo Formio all' Austria, e già troppa
grande per vivere allato del governo della Repubblica, va a cer-
care un nuovo destino in Oriente ; passa con cinquecento vele at-
traverso le flotte inglesi, conquista 1' Egitto a passo di corsa, con-
596 LA POLITICA
cepisce r idea di invadere l' India seguendo la strada di Alessan-
dro; poi richiamato ad un tratto in Occidente dalla guerra europea
nuovamente scoppiata, dopo di aver cercato di imitare Alessandro,
imita Aimibale col passaggio delle Alpi, schiaccia di nuovo la
coalizione europea e le impone la pace di Luneville. Fin qui questo
figlio di un povero gentiluomo corso ha già percorso a trent'anni
una straordinaria carriera! Ma non è che a' suoi principii. Di-
ventato per qualche tempo pacifico, egli rafferma colle sue leggi
su nuove basi la società moderna; poi, abbandonandosi agli impeti
del suo bollente genio, è di nuovo alle prese coli' Europa, la
schiaccia in tre giornate immortali: Austerlitz, Jena, Friedland;
crea e rovescia imperi, pone sul suo capo la corona di Carlomagno,
vede i re offrirgli a gara la loro figlia per isposa, sceglie quella
dei Cesari, dalla quale ha un figlio che sembra destinato a por-
tare la più splendida corona che sia mai esistita; da Cadice vola
a Mosca, dqve soccombe in una catastrofe, di cui i secoli non regi-
strano l'eguale; rifa la sua fortuna, la distrugge un' altra volta ;
è relegato in una piccola isola del Mediterraneo, ne esce ad un
tratto con poche centinaia di soldati fedeli, ridesta nuovamente
il prestigio del suo nome, riconquista la Francia in venti giorni,
si pone nuovamente a fronte dell' Europa esasperata, soccombe per
r ultima volta a Waterloo, e dopo di aver sostenuto delle guerre
più colossali che non siano quelle stesse dell' impero romano, è
costretto, lui nato in un'isola del Mediterraneo, a morire in un'isola
dell' Oceano, legato come Prometeo ad una rocca dall' odio e dalla
paura dei regnanti. Ebbene questo figlio di un povero gentiluomo
córso ha certo fatta nel mondo la figura di Alessandro, di Anni-
bale, di Cesare, di Carlomagno!
Qual carriera più vasta, quale più strepitosa successione di
avvenimenti straordinari ha mai potuto scuotere più fortemente
r immaginazione di un popolo, e qual nome più meritevole di vi-
vere eternamente nella leggenda popolare ? Finché 1' eroe visse, i
Francesi passavano di ammirazione in ammirazione; ogni altro
sentimento era come spento in essi; ogni altra facoltà sospesa; si
era tutti intenti a seguire coll'occhio quell'uomo straordinario sulla
scena del mondo; si cercava di indovinare i suoi pensieri, si am-
miravano i suoi scritti, si portavano al cielo le sue gesta. Pareva
che non vi fosse più posto per altra attività intellettuale che per
la sua; com' egli era il primo capitano, cosi era pure il primo
scrittore del suo tempo, cantore egli stesso delle sue proprie ge-
sta nei suoi famosi dispacci. Siéyès, sentendosi un giorno doman-
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 597
dare. da qualcuno che cosa stesse pensando, rispose: Je ne pense
plus. Egli esprimeva con questo il pensiero di tutta la Francia.
Tutto il pensiero, la vita e la speranza di essa era nel suo capo
e nel suo esercito che le avevano dato la calma, la prosperità, la
gloria, una grandezza inaudita. Questo stesso stato di assorbimento
di tutto un popolo in un pensiero unico, in un sentimento esclu-
sivo di ammirazione impediva alla poesia di prendere uno slancio
degno dell'uomo e dell'argomento: le muse si nascondevano ge-
lose di tanto fulgore e di tanta gloria. Né la leggenda poteva
ancora nascere. La leggenda è l'ammirazione popolare concentrata
nel fuoco della memoria: essa ha bisogno di vedere a qualche di-
stanza il suo eroe, perchè la distanza lo ingrandisce. In quella vece
abbiamo i discorsi e le allocuzioni chiare, corrette, eleganti e fredde
di Cambacérès e di Fontanes; poi una quantità innumerevole di
commedie, vaudevilles, drammi, dove è fatta l'apoteosi imperiale, e
dovuti alla penna di scrittori ora andati pressoché tutti in dimen-
ticanza.
Però in questo concerto di inni all'eroe del giorno va fatta
particolare menzione di un poeta di carattere rispettabile e di vero
merito letterario, il quale non potè egli neppure resistere alle
seduzioni dell'astro napoleonico. È questi il Viennet. Egli poi
diventò, sotto la monarchia di Luglio, il poeta dei dottrinari,
ma ebbe il merito di fermarsi lì e di fare del dottrinarismo
di Thiers e di Guizot l'ultima sua fede politica; cosa che non
può dirsi di Lamartine, di Victor Hugo e di quasi tutti gli
altri poeti del suo tempo, i quali seguirono a capo chino la Fran-
cia nelle variazioni più repentine e piìj scapigliate della sua
atmosfera politica.
L'epistola del Viennet À Vempereur Napolcon P'' ha da cima
a fondo la piìi spiegata intonazione cesarea; ma è scritta con di-
gnità e senza ampollose adulazioni. 11 poeta felicita l'imperatore
per gli abbellimenti da lui fatti nella città di Parigi, e si ferma
con predilezione sui monumenti che ricordano le vittorie napo-
leoniche e la gloria della Francia.
Là des jours des Fleurus, d'Arcole et d'Aboukir,
Des pahnes dii Helder vivrà le souvenir;
lei de Rivoli les superbes portiques
Rediront les affront? des aigles germaniques.
Du lion de la Sprée, en sept jours terrassé,
Sur le pont de Jena l'opprobre est retracé.
Cet autre d'Austerlitz rappelle la journée,
598 LA POLITICA
Où, de vingt potentats fixant la destiuée,
Nous t'avons vu, le glaive et l'olive à la main,
Abattre et relever le tróue du Gennai n,
Et, frappant de terreur l'orgueilleux Moscovite,
Pardonner à soa maitre et protéger sa fuite.
Plus loin de Marengo le Forum ppacieux
Redit du Ooiisulat les exploits glorieux.
Ailleurs le nom d'Erfurth nous ramène à ces féteg
Où le czar dans tea bras oublia ses défaites,
Quand aux màles accenta de sa magique voix
Talma fit tressaillir un parterre de rois.
De plus grands monuments diront aux fils des hommes
Quel règne fut le tien et quel peuple nous sommes:
Oui, cet are élégant, orgueil du Carrousel,
Qu'enrichit de Saint-Marc le quadi-ige immortel ;
Oette colonne altière, où se roule eii spirale
Des vainqueurs d'Austerlitz la course triompbale;
Sur ce bronze captif des foudres ennemis,
Qu'à traverà mille feux leur audace a conquis;
Ce tempie, qui, gardant les fastes de leur gioire,
Sera pour les Fran^ais le tempie de mómoire;
Ce portail colossal, dont le large fronton
De ton palais au loin diminue Tborizon,
Semblent, par leur grandeur et leur magnificence,
D'un peuple de géauts retracer la vaillance.
(1809).
Napoleone ebbe, anche morendo, un destino straordinario.
Dopo, di essere salito ad una altezza non inferiore forse a quella
raggiunta da Alessandro, Cesare e Carloinagno, ne cadde mi-
seramente e finì i suoi giorni esigliato e prigioniero sopra un
orrido ed inclemente scoglio. Egli aveva abusato della fortuna,
delle forze e della fiducia del suo paese, stancata 1' Europa
col suo despotismo e colla sua sfrenata ambizione, ripieni d'odio
i liberali di tutti i paesi per avere tradito quella rivoluzione
in nome della quale era salito tanto alto, e reso in ultimo
malcontento l'esercito stesso, che non scorgeva un fine alle eterne
guerre, e che si vedeva ridotto a non più essere altro che
un cieco stromento di un egoismo sconfinato; Egli doveva ca-
dere e cadde, e quando la Nouvelle Espérance. con a bordo
r eroe e pochi seguaci partì per Sant'Elena, la Francia e l'Eu-
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 599
ropa tutta mandarono un gran sospiro di soddisfazione e si
sentirono liberate da un peso insopportabile. Ma questa sod-
disfazione doveva durar poco. In luogo dell' uomo dal genio
ardente e battagliero che per venti anni aveva tenuto in agi-
tazione il mondo, era venuto ad assidersi sul trono della Fran-
cia un rampollo degli odiati Borboni, il quale doveva la sua co-
rona all'intervento straniero. Di più, gli atti del nuovo governo
parevano escogitati a posta per togliergli la fiducia e la simpatia
del paese. In luogo di un governo di conciliazione e saggiamente
liberale tendeva a prevalere fin dal principio una politica di
odio, di combattimento e di vendetta. All'estero, il nuovo go-
verno borbonico significava sommessione assoluta alle potenze vin-
citrici ; all'interno, significava guerra a tutto ciò che la rivolu-
zione aveva creato. Ai tristi indizi tennero presto dietro gli atti;
fu introdotta la censura, limitatala libertà della stampa, ristretto
il diritto elettorale, ristabiliti i maggioraschi, creata una legge
di religione, infine fu posto il paese in balìa dell' aristocrazia e
del clero. A queste novità reazionarie facevano fedele riscontro
novità di simil genere negli altri stati d' Europa, e appai-ve su-
bito evidente a tutti che intento comune dei governi d'allora era
di ricondurre un po' alla volta le cose allo stato in cui si trova-
vano al buon tempo antico. Una viva reazione non tardò a ma-
nifestarsi dovunque contro le idee dominanti, ma specialmente in
Francia, la quale orgogliosa della sua rivoluzione era ben risoluta
a non lasciarla disonorare e seppellire senza dar battaglia ai ne-
mici di essa.
Fin da quando il governo della Eestaurazione mosse i primi
passi in questa via antiliberale si poteva con certezza prevedere
che avrebbe in essa trovato la sua rovina. Egli si andava in tal
modo alienando la parte più viva del paese, quella che, per dir così,
conteneva in sé l'avvenire. 1 liberali, che avevano a capi più auto-
revoli e popolari Lafayette, Manuel e Koyer-Collard, denunziavano
dalla tribuna parlamentare gli arbitrii e la politica reazionaria del
governo, e minacciavano ad ogni istante di scendere in piazza per
rovesciarlo. Ma v'era un' altra potenza che sorgeva contro quel go-
verno, potenza che si era creduta spenta, o almeno grandemente in-
debolita dopo Waterloo, la quale però cominciava da qualche tempo
a farsi sentire e minacciava di diventare un altro terribile avver-
sario del governo della Restaurazione. Questa potenza era il nome
del Grand' Uomo. Ed è qui che cominciano a notarsi i primi al-
bóri della leggenda napoleonica. Essa ad ogni modo sarebbe
600 LA POLITICA
sorta sull'orizzonte politico e letterario della Francia; ma gli er-
rori del governo di Luigi XVIII ne affrettarono la nascita e le
diedero presto forza e vigore. Il bonapartismo sotto la Restau-
razione non si può veramente chiamare un partito politico par-
lamentare; la sua influenza non si concentra fra le mura di un
parlamento per spandersi di là nel paese ed acquistarvi forza ed
influenza; egli ha una base piìi vasta, ha le sue radici negli strati
più dispersi del popolo, ed è impossibile non riconoscere in esso
un largo carattere nazionale. Esso ha i suoi partigiani fra gli
operai e nel popolo delle campagne, in particolar modo, gente
questa di aspirazioni indefinite, di immaginazione facilmente ec-
citabile, che poco 0 nulla capisce di equilibrio dei poteri e di
garanzie parlamentari, mentre la memoria del Grand' Uomo fa-
cilmente la seduce ed infiamma.
Bisogna rinunziare a dare una lista anche incompleta delle
opere aventi ad argomento 1' epopea napoleonica, che comincia-
rono a pubblicarsi poco dopo restaurato il governo borbonico.
Esse furono innumerevoli. Dopo di averle viste od udite, il po-
polo amava ora di veder narrate quelle gesta straordinarie che
avevano portato tanto alto il nome della Francia; e l'influenza
che questa grande produzione letteraria ebbe nel mantener viva
la leggenda napoleonica è stata senza dubbio grandissima. Ma
egli è nella poesia che la fonte leggendaria appare più viva
e genuina e nella veste sua più propria e naturale.
Nei Souvenirs du peuple, il Béranger cosi canta dei tempi
napoleonici :
Oa parlerà de sa gloii'e
Sons le chauiue bien longtenips;
L'iiumble toit, dans cinquaute aus,
Ne connaìtra pas d'aiitre liistoire.
Là viendrout les villageois
Dire alors à quelque vieille:
Par des récits d'autrefoip,
Mère, abrégez notre veille.
Bien, dit-on, qu'il nous ait nui,
Le peuple encore le révère,
Olii, le révère ;
Parlez-nous de lui, grande-mère,
Parlez-nous de lui.
Lui, qu'un pape a couronné,
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 601
Est mort dans une ile deserte,
Longtemps aucim ne l'a cru;
Oa disait: il va parai tre;
Par ruer il est accouru;
L'étraiiger va voir son maitre ;
Quand d'erreur on nous tira
Ma douleur flit biea amère,
Flit bieii amère !
E nel Cinq Mai il genio napoleonico torna a rifulgere del suo
più grande splendore sul vedovo scoglio di Sant'Elena:
Bien aii dessiis des tróues de la terre
Il apparaìt brillant sur cet écueil ;
Sa gioire est là cornine le phare immense
D'un nouveau monde et d'un monde trop vieux,
Pauvre soldat, je reverrai la Trance,
La mala d'un lìls me fermerà les yeiix.
Pagò pure un largo tributo alla leggenda napoleonica il
Barthélemy nel suo Napolcon en Égypte, come pure il Delavigne
in qualcuna delle sue Messéniennes. lì Laraartine, nell' ode Bo-
naparte, così tratteggia la carriera epica dell'eroe:
S'élancer d'un seul bond au char de la victoire ;
Foudroyer l'univers des splendeurs de sa gioire;
Fouler d'un méme pied des tribuns et des rois;
Forger un joug trempé dans l'amour et la baine,
Et faire frissonner sous le frein qui l'enchaìne
Un peuple écbappé de ses lois.
Etre d'un siede eutier la pensée et l'envie,
Emou?ser le poignnrd, décourager l'envie,
Ébranler, raffenuir l'univers incertain ;
Aux sinistres clartós de la foudre qui gronde,
Vingt fois contre les Dieux jouer le sort du monde.
Quel réve!!! et ce fut ton destia!...
Victor Hugo stesso, il quale nel 1827 non aveva ancora ab-
bandonata la fede borbonica, dopo di avere, nell'ode À Bonaparte
scritta in quell'anno, chiamato l'uomo del secolo uno di quei tristi
eredi dello spirito di Nembrod che Dio manda a punizione degli
uomini, nella prima sua ode À la Colonne, scritta nello stesso
torno di tempo, accetta con orgoglio l'eredità napoleonica e dice
che le aquile dellaColonna saranno d'or innanzi difese dalla bandiera
bianca. E poi esce in questa intemerata contro lo straniero, ispi-
602 LA POLITICA
rata dalla gloria che versò sulla Francia l'epopea bellica dell'lin-
pero:
Prenez garde, étrangers ; uous ne savons que faìre !
La paix nou3 berce ea vain dans sou oisive sphère,
L'arène de la guerre a poiir nous tant d'attrait !
Nous froissons dans nos mains, hélas ! inoccupées,
Des lyres, à défaut d'épées !
Nous chantons comme on combattrait!
L'étranger briserait le blasoii de la France !
On verrait, enbardi par notre indififórence,
Sur nos fiers écussons toiuber son vii marteau!
Ob ! comme ce Romain qui remuait la terre,
Vons portez, ó Fran^^iis! et la paix et la guerre
Daus le pli de votre manteau.
Votre aile en un moment toucbe, à sa fantaisio,
L'Afrique par Cadix, et par Moscou l'Asie;
Vous cbassez en courant Anglais, Russes, Geruiains;
Les tours croulent devant vos trompettes f atales ;
Et de toutes les capit;iles
Vos drapeaux savent le chemin.
in.
La rivoluzione del Luglio 1830 presenta un aspetto oltremodo
curioso ed interessante. Essa era stata fatta per rivendicare le
libertà costituzionali violate dal governo di Carlo X. Ogni rivo-
luzione perturba naturalmente le acque di una nazione; se non
che quella del 1830, in luogo di quetare, raggiunto che ebbe il
fine per cui era stata fatta, continuò ad esistere in paese ora allo
stato latente, ora palese; in modo che sotto quest'aspetto i mini-
stri di Luigi Filippo si potevano paragonare a quelli di Carlo X;
essi avevano contro di sé tutte quelle classi, alle quali la rivo-
luzione non aveva profittato, che è quanto dire pressoché tutto il
paese, ad eccezione dei borghesi grassi, nelle cui mani il governo
era caduto. Era malcontenta ed ostile l'aristocrazia, la quale si
vedeva minacciata in quell'effìinero olimpo che la Ristorazione le
aveva creato; ostili più che mai, e decisi ad agire i repubblicani,
per i quali le libertà arrecate dalle giornate di Luglio non erano
che un' arma per meglio proseguire nella loro agitazione, ed i
quali avevano per sé i bassi strati del popolo e molta parte della
borghesia che sentiva indebolite o spente forse per sempre le
tradizioni monarchiche in Francia.
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 603
Il grand'affare dei ministri di Luigi Filippo fu sin dal prin-
cipio di contenere questi elementi avversi che erano risoluti a
non quetare a nessun costo e di continuare in quella politica così
detta di resistenza che ebbe a campioni più autorevoli Casimiro
Périer e Guizot. Ma la monarchia di Luglio aveva a lottare
finche con un altro avversario forse più terribile dei repubbli-
cani, quantunque come partito politico parlamentare esso non
avesse guadagnato molto da quello che era sotto la Kistora-
zione. Già si è indovinato che questo avversario era il bonapar-
tismo. Napoleone negli ultimi giorni di Sant'Elena aveva detto a
Las Cases: « Ce n'est pas mon fils qui profitera le premier
des fautes des Bourbons ; la maison d'Orléans passera avant lui ;
mais à la suite de celle-ci le tour des Bonaparte pourra bien
venir. » E le cose erano diffatti succedute come aveva con occhio
sicuro previsto il prigioniero di Sant'Elena; era venuto il turno
degli Orléans, ma già si vedeva in lontananza l'astro napoleonico.
e si poteva con certezza prevedere che sarebbe venuto anche il
turno di lui. Quell'astro era il simbolo della gloria e della gran-
dezza della Francia; esso accecò tutti. Tendeva a diventare sempre
più generale il pensiero che se lo spirito liberale era nella rivo-
luzione, nell'impero soltanto era lo spirito veramente nazionale;
quindi quell'associazione innaturale di liberali, repubblicani, so-
cialisti e bonapartisti, aventi idee cozzanti fra di loro, però con-
cordi tutti nell'intento di rovesciare la Monarchia di Luglio.
Egli è verso questo tempo che la leggenda napoleonica ha il
suo punto più splendido e culminante. Il nome di Napoleone di-
ventò espressione della grandezza e della gloria della Francia, e
si fece di esso una specie di divinità soldatesca e popolare alla
quale non mancava che il complemento di un culto pubblico.
Cosa valevano le meschine libertà politiche conquistate nella Ri-
voluzione di Luglio se esse erano scompagnate dalla gloria e dalla
potenza esterna della Francia? Ecco quindi tornare a farsi vive
quelle tendenze ad una politica di conquista e di propaganda
che avevano animato la prima repubblica e l'Impero. E come
nutrire questo pensiero senza divinizzare l'Uomo che aveva posta
l'Europa a' piedi della Francia? Tutti furono verso questo tempo
presi dalla vertigine napoleonica : repubblicani e monarchici,
l'aristocrazia, la borgesia e la plebe minuta, perocché tutti più o
meno sentivano che al suono di quel gran nome si risveglia-
vano le memorie più splendide e gloriose della nazione. E non
fu certo una cosa che manchi di singolarità quella di essere stato
604 LA POLITICA
il Thiers, cioè uno dei più illustri ministri di Luigi Filippo,
che scrisse la più splendida epopea napoleonica che si conosca,
e di avere con ciò, inconsciamente certo, contribuito non poco
ad esautorare quella monarchia eh' egli serviva e che credeva
realmente utile e necessaria al bene della Francia.
Una prova luminosa della verità di ciò che ho detto si ha
nel poema di Edgardo Quinet, intitolato Napoléon, da lui scritto
verso il 1835. E un poema leggendario, nel quale vengono date
a Napoleone proporzioni gigantesche ed una fisionomia quasi so-
vrannaturale. 11 poeta incomincia invitando la Francia e il mondo
a sentire il suo canto meraviglioso. La culla del gigante era
predestinata. Perchè l'irrequieto popolo francese in giorni di
tremenda collera scosse nella loro tomba le ossa dei suoi vecchi
monarchi e dovunque egli passò rovesciò istituzioni, eserciti, troni?
Per procurarsi un giuocattolo che divertisse il gigante nella
sua culla. La madre del gigante, Letizia, tiene consiglio con suo
marito sull'educazione da dare al figlio portentoso. Egli non sarà
paggio di corte, perchè i re sono in pericolo; non sarà diacono
del papa, perchè la sua casa è battuta dai venti e i turiboli non
hanno più incenso. Egli sarà il figlio delle tempeste e degli ura-
gani; sarà il pilota di un regno combattuto dalle onde. Ma l'oceano
non ha un'isola abbastanza vasta per un tal pilota; i suoi occhi
sono di un'aquila, il suo braccio è fortissimo, il suo cuore batte
rapidissimo; egli sarà cacciatore nei boschi, ma cacciatore di
leopardi e di leoni.
Ci voleva una fata che predicesse l'avvenire del gigante. Un tal
personaggio è necessario in un poema epico; ed ecco la fata ap-
parire nel terzo Canto sotto le volgari spoglie di una zingara
(Bolle mi enne), la quale legge nelle mani di Letizia la buona
ventura, non di lei, ma del figlio. La zingara prevede tutto il ciclo
napoleonico; si vedon passare nel suo caleidoscopio cimieri, elmi
scintillanti, trombe, cannoni, masse interminabili di soldati afi'a-
ticati a correre il mondo all'appello del gigante; si vedon le gesta
dell'eroe sull'Adige, sul Nilo, alle Piramidi, sull'Eridano. Napo-
leone vede un trono sulla sua via, se ne impossessa, ed i popoli
hanno nuovamente un Cesare. Il gigante stanca la vittoria stessa;
ma viene il giorno del disastro; i cavalli dell' Ukrania riempiono
il mondo dei loro forti nitriti, e il gigante cade. Ecco la buona
ventura della zingara.
11 poeta segue Napoleone in tutti i suoi campi di battaglia.
All'approssimarsi dell'eroe, Venezia si sente compresa di alto spa-
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 605
vento e tristamente esclama: la mia ora è venuta. Il leone di
san Marco cerca invano i suoi deserti libici e la sabbia affricana;
egli muore in fondo al mare scuotendo invano la sua criniera,
scherno delle onde.
Giuseppina scrive a Napoleone lamentandosi ch'egli la lasci
sempre sola e che piuttosto che mettere nelle dita di lei l'anello nu-
ziale lo abbia messo in quelle sanguinose delle battaglie. Napoleone
risponde che pensa a lei tutti i giorni, ma soggiunge che si cre-
derebbe indegno di lei e che temerebbe d'essere un giorno rin-
negato dai suoi figli se non mettesse ai loro piedi la terra tutta.
Intanto andrà in Oriente, che è il luogo del suo pensiero; colà
la sua aquila farà il suo nido.
In Egitto era stato predetto dalle sfingi ed aspettato da tutti
il leone dell'occidente che doveva schiacciare tutti i leoni del
deserto.
Napoleone è primo console. Egli è tutto, gli altri nulla; egli
ha fatto il male e il bene; mille nomi sono periti per far grande
il suo; un sol uomo ha occupato il posto dei popoli mentre questi
dormivano. E dormano pure! Il giovane console sarà vigile sen-
tinella j)er loro tutti. Armato del suo compasso, egli farà una
nuova spartizione del mondo. Con un sol cenno farà scomparire
dalla faccia della terra un popolo superbo; traccerà con un tratto
di penna una nuova via attraverso le Alpi come Annibale, e la sua
lampada nel rinnovarsi illuminerà un universo sempre nuovo. Egli
unirà i miracoli della pace a quelli della guerra, creerà un nuovo
codice, e di mille consuetudini diverse farà una sola legge che
sarà immortale come il suo nome.
Vengono il passaggio del san Bernardo e Marengo. Ma l'erba
cresce troppo presto sui campi di Marengo; troppo presto il de-
serto disperde persin l'eco di questo nome. Viene Austerlitz. Ecco
il grande imperatore! Egli veglia su un letto di paglia. Egli ve-
glia, e, pieno il cuore di un grande o.vvenire, costruisce nel suo
pensiero una via di bronzo. Egli sente nel suo bivacco flagellato dal
vento e dalla pioggia ruggire la battaglia nell'abisso del suo genio.
E la battaglia viene sanguinosa, orrenda, immortale:
Et lui, comme un géant, debout dans son domarne,
Il attise à ses pieds son foj'er dans la plaiae.
Comme un ftìuillage mort qu'on ramasse en janvier,
Il jette à pleines mains ses peuples aii brasier;
Et crénelaut leurs toits d'ime fiamme rougeàtre
Les hameaux, alentour, pétillent dans sou atre.
606 LA POLITICA
Un messager survient, puis un autre après lui.
Et puis un autre encor. — L'arrière-garde a fui !
— Sire, couvrez vos flancs! — Sire, votre aile ploie!
— Sire, tout est perdu! — Lanne en son sang se noie!
— C'est assez, compte Rapp ! ils sont à nous, marchez !
La bataille est là-bas au pied de ces clocbers.
Puis, comme un serpent d'eau qui sous l'berbe s'agite
Il foule aux pieds des lacs le serpent moscovite.
Son ópée a fremì sans sortir du fourreau,
Et cent villes déjà se creuseut le tombeau.
Que serait-ce, raon Dieu! si devant leurs niurailles
Elle eùt lui tonte mie au soleil des batailles?
Ma i fami della superbia salgono alla testa dell'eroe; egli è
preso da vertigine; egli vede al suo lato l'abisso spalancato pronto
a divorare la sua ombra e la sua fortuna. Attendimi, o abisso, che io,
nel mio accecamento, non tarderò a venire a te, lasciami su questa
sommità un'ora soltanto, un'ora! il più vile insetto ha una vita
più lunga. Che? nemmeno un'ora, tanto tempo per scrivere qui il
mio nome e spiegare la mia tenda ! Ahimè ! io non giunsi quassù
se non per sentirmi vacillare i piedi, e il mio impero non è giunto
a tanta altezza se non per cadere con più fracasso, lo chiusi le
porte del Caos e spensi la sua notte profonda, ho ricollocato il
mondo sui suoi vecchi cardini; ho fatti e disfatti re per diver-
tirlo. Io mi credevo il padrone di tutti, e non era che uno stru-
mento; la mia stessa potenza volgeva in favore di un altro, e io non
ero che il Caso che si chiama Provvidenza. Ebbene, diamo libero
sfogo ad ogni nostro desiderio, che la nostra volontà sia nostra legge
suprema ; diamoci il piacere di vivere per noi stessi e per noi soli,
e siamo anche per un giorno solo la nostra divinità. Che ci si
abbrucino gl'incensi, il resto è nulla. 0 anima mia, colloca la tua .
sede nel regno dell'impossibile; e tu stessa, se lo puoi, cerca di
divertirti rovesciando sopra di me la mia stessa opera di gigante.
Al postutto, questa felicità monotona mi è venuta a noia, e voglio
provare il gusto del male. Voglio scendere di tanto di quanto mi
sono innalzato, per poter meglio conoscere il bene e il male. E
chissà se, giunti alla cima agognata, sia meglio salire o scendere,
stare in alto o cadere nell'abisso ? Ma che sarà del mondo quando
io non sarò più? Esso temerà di perdersi come un fanciullo ab-
bandonato a sé solo; potrà esso camminare quando più non bril-
lerà sull'orizzonte il mio astro tutelare? — Io regnerò nella mia.
NELLA LETTEKATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 607
assenza stessa, ed anche più che non abbia regnato colla mia on-
nipotenza; il mio stesso nulla riempirà il vuoto immenso meglio
che non abbiano fatto la mia stessa gloria e la mia prosperità.
E deciso; ho bevuto il vino del mio orgoglio e mi ha colto la
vertigine. Voglio mettere su una carta il mio impero; la sorte
deciderà. — Dio! ho perduto!
Ed ecco che in Roma il Papa prepara i suoi fulmini e i suoi
anatemi contro il reprobo accecato dall'orgoglio; egli fa sentire
al mondo queste tremende parole: « In nome dello Spirito Santo,
fonte di ogni luce, in nome del Padre e del Figlio ! 0 Napoleone
còrso, che ieri fosti incoronato dalle nostre stesse mani e fatto re
più grande di tutti i re, e il padrone del mondo ; o flagello di
Dio, idolo della terra che un giorno eri polvere, ridiventa pol-
vere! La tua ora è suonata, finita ogni tua gioia; rovesciati da te
stesso dalla superba Babele che hai costruito ! Hai tu mai pòrto
l'orecchio ai lamenti del mondo, o figlio della collera ? Non più san-
gue ; il braccio dell'Onnipotente ti abb andona. Tu innalzasti un al-
tare alla tua stessa iniquità e nella tua prosperità hai veduto te
solo. Tu non ami il popolo, tu non ami nulla fuorché lo squillo
delle tue trombe e le tue belliche tende; tu non avesti nessuna
pietà del mondo tremante a' tuoi piedi; tu sei il flagello dei
popoli che compongono il tuo impero, silenzioso ormai come una
tomba. Tu hai voltato le spalle al cielo e disdegni come un' arme
spuntata il solo ferro che eternamente dura: lo spirito, l'anima,
il pensiero. Ed è per questo che noi, servi di Dio, ti interdiciamo
il pane, il sale, il fuoco. L'Eterno nella sua collera ti toglie la si-
gnoria del tuo popolo. Anatema su di te, sul tuo trono, sulla tua
tenda di lino come sull'oro del tuo palazzo! Anatema sul tuo
letto, sui sogni che ti agitano, sul tuo pallido volto, sul tuo scet-
tro, sul tuo nome, sulla tua successione, sulla tua spada spezzata,
sul tuo tetto, e infine sulla tua tomba! »
Ma altre gesta strepitose, altre vittorie spengono il fuoco dei
fulmini sacerdotali. Nasce il re di Roma, il figlio dell'aquila. Suo
padre aveva sognato per lui una culla cento volte più bella ancora,
un palazzo di rubini con cento porte d'oro, decine di re proni a
terra, e un trono più sublime di quello di suo padre. L'aqui-
lotto chiede all'aquila che lo porti sulle più alte cime dei monti,
e che per cibo gli dia il sangue dell'agnello, la carne delle pecore
e i nati delle vipere.
608 LA POLITICA
L'enfant dit au hérns : nion pére, donnez-moi
Des sceptres d'eiiipereur et des raanteaux de roi;
Qiiand je serai plus grand, sous un dais qui rayonne,
Aurai-je corame vous une lourde couronne ?
Anrai-j'ì corame vous tout entière d'airain,
Une épée aussi grande et qui brille en raa maìn ?
Et si je faÌ3 un paa, les peuples de la terre
Cacheront-ils aussi leur front dans la poussière ?
Aurai-je dans la mer où la vague s'endort
Une ile tonte blene avec des sables d'or?
Et la monde à raes pieds qui pleure el qui soupire
Sera-t-il assez grand pour rae faire un erapire ?
L'eroe mostra al popolo il figlio, e così gli parla: « Fate bene
la guardia alla culla di mio figlio, come suol farla il leone presso
i suoi leoncelli; quando io più non sarò sulla terra, la mia corona
e il mio raggiante trono saranno suoi. I sudditi sono sgomentati. »
Essi così parlano all'aquila temuta:
Sire, il est notre roi, noua veillerons sur lui,
A votre grand combat retournez anjourd'hui,
Gomme l'aiglon à l'aigle, il resserable à son pèrej
Il a son pale front et sa fauve paupière.
Comraent nourrirons-nous l'enfant de vos sueurs ?
Que faut-il lui donner pour apaiser ses pleura ?
— Les petits des vautours dans les cliamps homicides,
Et la chair des lions aux pieds des pyramides.
Commeut vétirons-nous cet enfant d'un héros ?
Du lin de la moisson ? des toisons des tronpeaux ?
— Non pas de vos toisons, ou du lin de vos quenouilles,
Mais du lin des corabats trouvó dans leurs dépouilles.
De quoi reraplirons-nous sa coupé de rubis?
Du viu de notre vigne ? où du lait des bróbis ?
— Non du lait des agneanx que la louve épouvante,
— Mais du vin de l'ópée eii sa vigne sanglante.
Ma ecco l'eroe che si appressa all'abisso; vengono Mosca,
Waterloo, Sant'Elena; il gigante è incatenato sopra un nudo scoglio
percosso dall'ira degli uomini e di Dio; un giorno il mondo sente
la spaventosa notizia ch'egli ha cessato di vivere. Però il gigante
non è morto; no, non è morto.
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 609
Non ! le cercueil est vide et la tombe a menti ;
Non ! l'écho du n-laat a trop tòt retenti !
Non ! le ver a trop tòt convoité sa pàture,
Trop tòt le fossoyeur a fait la sépulture.
Il n'est pas mort ! il n'est pas mort ! De son sommeil
Le géant va sortir plus grand à son ré^^eil !
Car lui n'était pas fait comme les morts vulgaires
Que couvre tout entiers l'herbe dea cimetières,
Ceux-là lieurtent en vaiu le sépulcre du front,
Se creusent de leur main un néant plus profond;
Ils ne reverront pas avant l'anbe éternella
Leur toit, ni leur foyer, ni leur veuve fidèle,
Mais lui ne s"était pas de sable et de limon
Bàti son espérauce et compose son nom ;
Il n'avait rien fonde sur l'amour ou la baine,
Sur les vents, sur l'écume ou sur la vague humaine ;
Rien sur un réve ailé qui meurt en seveillant,
Rien sur les vains regrets qui rampent en fuyant.
Il n'avait pas non plus établi sa demenre
Farmi les faiix héros qui ne durent qu'une heure,
Du moindre de ses jours, dans l'ombre enseveli,
Il ne redevait rien à la cendre, à l'oubli.
Il ne s'était pas fait du lin de son empire
Une tente d'un jour que le chevreau déchire ;
Mais en mille combats ramassant son butin,
Toujours il revenait les bras chargés d'airain;
Puis il avait d'avance, au coeur de son royaume,
Comme un bon forgeron sur la place Vendóme,
Bàti sa tour de fer en la grande cité,
Pour y passer les jours de llmmortalité.
Cadranno popoli, re, imperi, leggi, religioni;
Mais, comme un souvenir que se gardait l'abime
Lui demeurait debout sur son altière cime ;
Lui Seul il survivait en sa forte cité ;
Car ses soldats d'airain sans fermer la paupière,
Le défendaient encore, ainsi qu'une barrière,
Des morsures du temps et de l'éternité !
Così finisce il poema di Edgardo Quinet. Napoleone non è morto ;
egli è vivente nel suo popolo e com'esso immortale ! L'astro na-
poleonico non era mai apparso così vivo e sfolgorante come verso
VoL. XIV, Serie II.— 15 Aprile iSig. 38
610 LA POLITICA.
il 1835, epoca in cui quel poema fu scritto, né la leggenda im-
periale erasi mai come allora mostrata cosi calda di vita ed ec-
citatrice di più potenti ispirazioni.
Verso questo stesso tempo, un poeta di ben altro valore
del Quinet prese ad accendere ne' suoi versi immortali 1' animo
dei Francesi per le glorie napoleoniche e ravvivare anche più la
leggenda imperiale. Questo poeta è Victor Hugo. Certo nessuna in-
telligenza era più della sua atta a concepire grandi pensieri e a com-
prendere quindi in tutta la sua ampiezza il genio napoleonico e
colorire l'epopea imperiale con tutta la pompa e la magnificenza
del suo gran genio poetico. Victor Hugo era uno di quegli uomini
politici pei quali il reale ha sempre in sé molte parti inaccetta-
bili e odiose, e che per conseguenza presto lo abbandonano per
correre dietro ad un ideale politico dotato di ogni purezza e perfe-
zione. In questo Victor Hugo si può considerare come il rappre-
sentante più genuino del genio della nazione francese. La facoltà di
spingersi fino alle più alte cime dell'ideale, pur restando fermamente
attaccati al reale, non sembra essere una dote particolare dei france-
si. Nel 1830, Victor Hugo, come tutti gli uomini politici, i quali non
appartenevano al presente governo e non facevano parte della con-
sorteria dei borghesi grassi dominanti, che è quanto dire quasi tutta
la Francia liberale, la Francia dell' avvenire, per usare una frase
corrente, dimenticarono subito le conquiste che il paese aveva fatto
colla rivoluzione di Luglio. Parve a tutti che quelle conquiste fossero
una meschina cosa e che si doveva andare in cerca di ben altri ideali
politici. In luogo di porsi all'opera, di raffermare il trono popolare
di Luigi Filippo e consolidare nelle leggi e nei costumi le libertà con-
quistate nelle famose giornate, tutti corsero dietro all'idolo della
gloria e della grandezza nazionale. Nella seduta del 7 ottobre del
1830, la Camera francese, che era dominata dai borghesi grassi,
pei quali la rivoluzione di Luglio doveva essere l' ultima pa-
rola, e sui quali aveva poca presa la vertigine napoleonica che
cominciava ad infiammare il cervello dei Francesi, aveva votato
r ondine del giorno sopra una petizione, la quale chiedeva che
la Camera intervenisse per far trasportare le ceneri di Napoleone
sotto la Colonna della Piazza Vandòme. Ed ecco Victor Hugo
scrivere due giorni dopo quella sua stupenda ode A la Colonne :
Non, s'ils ont repou3sé la relique iiumortelle,
O'est qu'ils eu sout jaloux! qu'ils trembleut devant elle!
Qu'ils en sont tous palisi
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 611
C'est qu'ils OQt peur d'avoir l'empereur sur leur téte,
Et de voir s'éclipser leurs lampions de féte
Au soleil d'Austerlitz !
Pourtant, c'eùt óté beau! lorsque, sous la colonne,
On eùt senti présents dans notre Babylone
Ces ossements vainqueurs.
Qui pourrait dire, au jour d'une guerre civile,
Ce qu'une si grande ombre, hótesse de la ville,
Eùt mis dans tous les cceurs!
O merveille! 0 néant! tenir cette dépouille!
Compter et mesurer ces os que de sa rouille
Rongea le flot marin ;
Ce genou qui jamais n'a ployé sous la craint»,
Ce pouce de géant dont tu portes l'empreinte
Partout sur tnn airain !
Conteiupler le bras fort, la poitrine feconde,
Le talon qui, douze ans, éperonna le monde,
Et, d'un oeil filial,
L'orbite du regard qui fascinait la foule,
Ce front prodigieux, ce cràne fait au moule
Du globe imperiai !
Et croire entendre en baut dans tes noires entraillea.
Sortir du cliquetis des confuses batailles,
Des bouches du canon,
Des chevaux hennissants, des villes crénelées,
Des clairons, des tambours, du soufflé des mélées.
Le bruit: Napoleoni
Gemello della Colouna è 1' Arco di Trionfo, destinati tutti e
due a portare alla più lontana posterità il nome napoleonico e a
sopravvivere essi soli a tutti gli altri monumenti della gran città.
0 Arco, tu sarai eterno, e la tua esistenza sarà allora soltanto
veramente completa quando tutto ciò che le acque defila Senna
ora riflettono sarà ridotto in polvere; quando di questa città che
fu eguale a Koma, non resterà più che un angelo, un' aquila, un
uomo torreggianti su tre cime: Notre-Dame, la Colonna, l'Arco!
Tu sarai allora più che mai vivo accanto a Parigi seppellito. Che
più ? verrà un giorno, un giorno molto lontano in cui l' Arco
stesso si animerà e le figure che in esso sono scolpite parleranno
e manderanno un grido solenne :
Débout!
Ceux de quatre-vingt-seize et de mil huit cent onze,
Ceux que conduit au ciel la spirale de bronzo,
612 LA POLITICA
Ceux que scelle à la terre im socie de granit,
Toiis, poiissant au combat le cheval qui hennit,
Le drapeau qui se gonfie et le canon qui roule,
À l'immense mélée ils se rùront en foule !
Alors on entendra sur tou raur lea clairons,
Les bombes, les tanibours, le choc des escadrons,
Les cris et le bruit sourd dea plaines ébraulées,
Sortir confusémeat des pierres ciselée.«,
Et du pied au sommet du pilier souveraia
Cent batailles rugir avec des voix d'airain !
Tout à coup écrasant l'ennemi qui s'effare,
La victoire aux cent voix sonnera sa fanfare.
De la colonne à toi les cris se répondront.
Et puis tout se taira sur votre doublé front;
Une rumeur de féte emplira la vallee,
Et Notre-Dame a.u loia, aux téuèbres mélée,
Illuniinant sa croix ainsi qu'un labarum,
Vous chautera dans l'ombre un vaj^ue Te Deum!
Tutti erano ornai invasi da un pensiero dominatore e tiranno
Gli autori drammatici continuavano in teatro 1' opera dei poeti ;
Thiers, pur essendo ministro di Luigi Filippo, faceva una immensa
propaganda napoleonica in quella Histoire de VEmpire che il conte
di Cavour chiamò a ragione la plus eclatante apologie du succès.
Pareva che la Francia tutta sentisse che aveva qualche cosa da
espiare verso l'uomo di Sant'Elena. Lo stesso Luigi Filippo, o che
fosse un senso di ammirazione in lui pure, o che sentisse di non po-
ter urtare la dominante corrente napoleonica senza vedere andar di
mezzo il suo prestigio e la sua popolarità, aveva con tutta buona
grazia accondisceso a che fosse riposta sulla colonna Vendòme la
statua del Grand' Uomo. Più tardi acconsentì, senza esitare, che
fosse fatta richiesta all'Inghilterra di lasciar trasportare in Fran-
cia le ceneri che riposavano nell' isola immortale. Fu Thiers il
principale fautore del trasporto in Francia delle ceneri di Napo-
leone. Quando il Guizot, che era ia quel tempo ambasciatore
francese a Londra, ricevette dal Thiers informazione della cosa
e l'incarico di trattarla col governo inglese colla raccomandazione
di mettere in opera ogni suo mezzo per condurla a buon fine, ne
risenti, com'egli stesso confessa, ^ una grande e poco gradita sor-
presa. Quell'ingegno temperato, sobrio, severo e positivo dei Gui-
zot non s'era lasciato prendere da quella vertigine da cui tutti
\ Mémoires jpour servir à l'kistoire de mon temps ; tomo V, pag. lOT
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 6^^
si sentivano dominati. Ma egli non aveva mezzo di fare osserva-
zione e di opporsi ; il governo inglese acconsentì di cedere alla
Francia le ceneri del Grand'Uomo, le quali arrivarono a Cherbourg
il 30 novembre del 1840, e a Parigi il 14 decembre successivo.
Il giorno dopo, 15, si celebrò nella chiesa degli Invalidi un solenne
servizio funebre in suffragio dell'anima di Napoleone restituito
alla Francia. Tutta Parigi era per le vie ; ognuno aveva l'animo
come soverchiato da ìin sentimento di rispetto, di ammirazione e
di profondo rimpianto. Quante memorie quelle ceneri non susci-
tavano nel pensiero, quanto grandi avvenimenti, quale tumulto
d'uomini e di cose, quanta gloria, quanta grandezza ! Strana in-
coerenza degli uomini! Come non vedere che Napoleone I a
Parigi significava l'amnistia di Strasburgo e di Boulogne ? che
anzi quest'apoteosi 'napoleonica non poteva non incoraggiare
più tardi altri simili tentativi ? Nel discorso del trono pro-
nunziato da Napoleone III nell'apertura della sessione del 1867
del Corpo legislativo, l'imperatore alludendo al Thiers, lo quali-
ficò accortamente Vhistorien illustre et national. Era un compli-
mento ben meritato, perocché non si può negare che lo storico
del Consolato e dell'Impero abbia grandemente contribuito a porre
le basi del secondo Impero.
Però qualche isolata individualità si tenne in lontananza e
non prese parte a questo concerto di inni al risorto astro napo-
leonico. Vogliono qui essere notati due poeti di valore, Egesippo
Moreau e Augusto Barbier, Nel luglio del 1833, quando il par-
tito bonapartista si agitava esso pure, come i socialisti e i repub-
blicani, contro la Monarchia di Luglio, l'infelice poeta di Provins
scrisse la sua poesia À Joseph Bonaparte, dove si scaglia contro
l'Impero, sventura e maledizione della Francia.
Non, Joseph, tu n'es pas Banaparte, et quaud mème!....
Quand méme il reviendrait gigantesque, celui
Devant qui peuples, rois, empereurs, tout a fui;
Quand méme du tombeau le uouvel Encelade
Boiidirait, et des cicux teaterait l'escalade,
Pense-t-ou qua la soif de l'aigle reuaissant
La Fi'ance-Promethée irait livrer son sauor?
Mutilez par le fer, brùlez par les acides
La bouche qui vomit les sons liberticides ;
Car, si l'on évoquait l'ombre du soldat-roi,
La liberto feconde avorterait defifroi.
614 LA POLITICA
Mentre per Victor Hugo il gigante dell'Impero è risorto,
per Moreau è morto e chiuso per sempre nella sua bara, e la
Francia
En vieillissant, confond dans son indifférence
Sa race tricolore et ses blancs souverains,
L'huile de Notre-Dame et l'ampoule de Reims.
Anche più veemente è Augusto Barbier nel suo celebre Idole.
11 poeta si mostra tutto rattristato che i suoi compatriotti si siano
fatto un idolo del dispotico e sanguinario Córso. Stupendamente bella
è la sua invettiva contro l' uomo fatale :
0 Corse à cheveux plats, que la France était belle
Au grand soleil de messidor !
C'était une cavale iadomptable et rebelle,
Sans frein d "acier ni rénes d'or.
Une jument sauvage à la croupe rustique,
Fumante encore du sang des rois ;
Mais fière, et d'un pied fort heurtant le sol antique,
Libre pour la première fois ;
Jamais aucune main n'avait passe sur elle
Pour la flétrir ou Foutrager;
Jamais ses larges flancs n'avaient porte la selle
Et le harnais de l'étrauger;
Tout son poil reluisait, et, belle vagabonde,
L'oeil liaut, la croupe en mouvement.
Sur ses jarrets dressée, elle effroyait le monde
Du bruit de son henuissement.
Tu parus, et sitót que tu vis son allure,
Ses reins si soiiples et dispos,
Centaure impétueux, tu pris sa chevelure,
Tu montas botto sur son dns.
Alors, comme elle aimait les rumeurs de la guerre,
La poiidre, les tambours battants,
Pour champ de course, clos, tu lui donnas la terre,
Et des combats pour passe-temps;
Alors, plus de repos, plus de nuit, plus de sommeil ;
Toujours l'air, toujours le travail,
Toujours corame du sable écraser des corps d'homiues,
Toujours du sang Jasqu'au poitrail.
Quìnze ans son dur sabot, dans sa course rapide,
Broya des générations;
Quinze ans elle passa, fumante, à tonte bride,
Sur le ventre des nations.
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 615
Eutin, lasse d'aller sans finir sa carrière,
Et d'aller sana user son cheiuiu,
De pétrir l'Univera, et, corame une poussière,
De soulever le genre liuiuain ;
Les jarrets épuìsés, haletante et aans force,
Près de fléchir à chaque pas,
Elle demanda gràce à son chevalier corse ;
Mais, bourreau, tu ne l'écoutaa pas!
Tu la pressas plus fort de ta cuisae nerveuse
Pour étouffer ses cris ardente,
Tu retournas le mors dans sa bouche baveuse.
De fureur tu brisas ses dents;
Elle se releva; mais un jour de bataille,
Ne pouvant plus mordre ses freins,
Mourante elle tomba sur un lit de mitraille
Et du coup te cassa les reins,
L' anima del poeta si sente amareggiata da quel concerto
d' inni a Napoleone che intorno a lui risuona, e vede con dolore
l'aborrita aquila riprendere il suo volo pei cieli della Francia:
Napoléon n'est plus ce voleur de couronne,
Cet usurpateur effrontó,
Qui serra sans pitie, sous les coussins du tróne
La gorge de la liberté;
Ce triste et vieux forgat de la Sainte-Alliance
Qui mnurut sur un noir rocher,
Traìnant comme un boulet l'image de la Franca
Sous le bàton de l'étranger.
Non, non, Napoléon n'est plus souillé de fange;
Gràce aux flatteurs mélodieux,
Aux poètes menteurs, aux sonneurs de louange,
Cesar est mis au raiig des Dieux.
Son image reluit à toutes les murailles,
Son nom dans tous les carrefours
Rósonne incessamment, comme au fort des batailles
Il résonnait sur les tambours.
Puis de ces hauts quartiers, où le peuple foisonue,
Paris comme un vieux pélerin,
Redescend tous les jours au pied de la colonne
Abaisser son front souverain ;
Et là, les bras chargés de palmes éphómères,
Inondant de bouquets de fieurs
Ce bronze que jamais ne regardent les mères.
Ce bronze grandi sous leurs pleura,
616 LA POLITICA
Ea veste d'ouvrier, ciana son ivresse folle,
Au bruit du fifre et du clairon,
Paris, d'un pas joyeux, danse la Carmagnole
Autour du grand Napoléon !
lY.
Griunti a questo punto, siamo indotti a ripetere l'osservazione
fatta in principio di quest'articolo, e rilevare le soprese singola-
rissime che talvolta la storia ci prepara col lanciare un'idea che
in altri secoli ha tenuto agitato il mondo e che diede ad essi
vita e carattere, in epoche da quelli lontanissime e in mezzo a
società, che, per il progresso avvenuto e per gli elementi che le
compongono, non sono più atte a ricevere nel loro grembo quel-
l'idea e fecondarla. Tale è stato il destino dell'idea dell'impero
d'Occidente, idea essenzialmente medievale, lanciata in pien secolo
decimonono dal genio napoleonico. Quale differenza di tempi, di
cose, di civiltà, di indirizzo delle idee! Al tempo di Carlomagno
la società si reggeva sul concetto dell'unità mondiale rappresen-
tata dalla persona dell'Imperatore, e quel concetto compendiava
tutta intiera la civiltà di quei secoli. Ma come noi ci allon-
taniamo da Carlomagno e scendiamo verso i tempi moderni, quel-
l'idea va via via perdendo vigore ed intensità. Gli Ottoni, gli
Svevi, i principi della Casa d'Absburgo non sono piìi che pallide
ombre della grande figura di Carlomagno; in quella vece nasce,
cresce ed acquista forza un' altra idea che è in diretta opposizione
di quella, l'idea, per chiamarla con una parola tedesca, partico-
larista. Questo movimento di disgregazione delle parti che com-
pongono l'unità medievale è visibile fin dai primi secoli del
presente millenio, riceve un impulso rapido e precipitatissimo
nel secolo XVI, e nel principio del presente secolo quel movi-
mento si poteva dire interamente compiuto. Com'è naturale, quel
movimento non ha luogo soltanto rispetto al principio fonda-
mentale che regola tutto il mondo medievale, ma anche nella
struttura interna di tutte le varie società che compongono quel
mondo. È un' intera rivoluzione quella che si è operata, è il concetto
della personalità che viene a sostituirsi a quello della collettività
medievale; il centro di gravità dell'unità non è più in un uomo
solo, ma ognuno lo porta, per dir così, dentro di sé stesso. Eppure
l'impero occidentale fu ristabilito e il più illustre storico di esso
registra quella data con parole di entusiasmo, quantunque egli
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCA. 617
timidamente osservi clie a suo giudizio quell' impero per avere
delle garanzie di solidità e di durata avrebbe dovuto limitarsi a
comprendere i paesi di razza latina ed escludere quelli di stirpe
germanica.
Ma l'immane colosso aveva le piante di creta e cadde. Tutta-
via abbiamo veduto che il pensiero napoleonico non rimase sepolto
a Waterloo. Il Guizot scrive che nessuno ha posseduto più del-
l'imperatore Napoleone il dono di ispirare una devozione piena
ed assoluta alla sua persona e alle sue idee : « Il mourait —
così quello scrittore — en ce moment méme sur le rocher de
Sainte-Hélène; il ne pouvait plus rien pour ses partisans; il n'en
trouvait pas moins, dans le peuple comme dans l'armée, des coeurs
et des bras préts à tout faire et à tout risquer pour son nom :
généreux aveuglement, dont je ne sais s'il faut s'attrister ou
s'enorgueillir pour l'humanité. »^ Lo stesso scrittore, sulla cui
precisa, sobria e corretta intelligenza le glorie dell'Impero non
avevano mai esercitato una seduzione pericolosa, ricordando più
oltre che il governo del ISSO aveva dovuto lottare fin dal prin-
cipio contro la passione postuma di avventure e di conquiste,
nota con ragione che non può immaginarsi un'idea più radi-
calmente falsa e funesta, più smentita dall'esperienza, più con-
traria alle vere tendenze del nostro tempo e alla grandezza
della Francia, come al progresso generale dell' Europa, quanto
quella di un impero conquistatore come fu il napoleonico; e
soggiunge che le massime essenziali più incontestate del diritto
pubblico europeo moderno sono in diretta opposizione con quel-
l'idea.^ Ma egli era solo, o pressoché solo, a vedere le cose in
questo modo, e mal poteva resistere alla corrente che trasci-
nava uomini e cose sopra una via. nella quale la Monarchia di
Luigi Filippo doveva inabissarsi per sempre.
Ed è appunto per questo vizio fondamentale, che abbiamo
sopra notato, dell'epopea napoleonica, che la leggenda che si è
venuta formando intorno al nome di Napoleone doveva presto
perdere di vivacità e di forza, e la predizione di Béranger,
che fra cinquant'anni la Francia non avrebbe avuto amore per
altra storia che per quella napoleonica, si può dire del tutto
fallita. Perocché qua! risultato si era infine ottenuto da tante
guerre sanguinosissime e da quello scombussolamento generale
' Guizot, Mémoires pour servir à l'histoire de mon temps, tom. I, p. 237.
2 Loco cit, tomo IV, cap. XXH, pag. 5.
618 LA POLITICA
di uomini e di cose che aveva durato quindici anni? E c'era
anche questo di peggio, che quel risultato negativo, se così
è lecito esprimerci, era stato accompagnato dalla sospensione
di ogni libertà ; tutte le garanzie politiche che formano la
gloria e l'appendice necessaria della vita della società del nostro
tempo, i diritti del pensiero e della scianza, l'indipendenza dei
popoli e degli individui, il progresso sociale stesso infine avevano
subito una sosta ed erano state come messe al bando per non far
luogo ad altro che all' egoismo insaziabile di un uomo. Però la
spinta all'immaginazione popolare, e diciamo pure anche agli inte-
ressi, era stata data e non mancava certo chi era tutto intento
a profittare dell'occasione per far rivivere sul trono quel nome
che gli sciittori ed i poeti avevano cinto di una così splendida
aureola. I tentativi di Strasburgo e di Boulogne non sarebbero
stati possibili se non fossero stati preceduti da quella elabo-
razione leggendaria intorno alla quale siamo venuti fin qui
intrattenendo il lettore, e che certo doveva avere esaltata anche
r immaginazione dell'autore di essi. Tutti, non esclusi neanche i
repubblicani, avevano lavorato ad appianare la via del trono al
principe Luigi Napoleone. E pure, fatale inconseguenza degli uo-
mini! quanto non combatterono poi il secondo Impero quegli
stessi che coi loro scritti gli avevano dato maggiore argomento
di vita! Basta citare tre nomi: Victor Hugo, Thiers, Quinet;
proscritti tutt'e tre, per tempo più o meno lungo; ironia del
destino !
Edgardo Quinet, ripubblicando nel 1857 le sue opere, non
volle sopprimere il poema Napoléon da lui scritto ventidue anni
prima, quantunque egli stesso confessi che il suo eroe leggendario
gli è in quel frattempo caduto a' piedi e che lo schiacciò coi suoi
frantumi. Egli si scusa di averlo scritto quando le ceneri stesse
dell'eroe erano proscritte da tutti, ed aggiunge di averne denun-
ziata la memoria quando quel nome era ridiventato una potenza.
Ma perchè evocarla quella potenza? L'epoca della critica e del
giudizio della storia è arrivata per Napoleone molto prima
che non si aspettasse. Non si può negare ch'egli è sceso rapi-
damente dalle poetiche cime su cui era stato innalzato per en-
trare nel dominio della storia, la quale chiede a ognuno un
conto esatto, rigoroso delle sue opere; è sceso dalle regioni
dorate della leggenda, della favola e dell'immaginazione; egli
appartiene per sempre al dominio severo della realtà e della
prosa. Per fare un personaggio poetico e leggendario di Giulio
NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 619
Cesare ci volle il cataclisma della barbarie e il medio evo.
E cosi pure sarà di Napoleone. Perchè esso riprenda una forma
esclusivamente poetica e leggendaria bisognerebbe supporre l'av-
veniiiiento di una nuova barbarie che ottenebri nuovamente il
pensiero e la ragione e cancelli ogni ricordo della vita moderna.
Per quanti scrittori, i quali, oltre al Quinet, esaltarono un
tempo il nome napoleonico, è venuta poi, presto o tardi, l'epoca
della critica e della fredda ragione! Non pochi, dopo di avere
ammirato senza restrizioni e senza confine, andarono poi all'ec-
cesso opposto, alla denigrazione ed all'ingiustizia. Per citare
uno dei nomi più noti, il Michelet è stato de' più accaniti de-
molitori del nome napoleonico.' Egli è tutto intento ad avvilire
il carattere e a togliere ogni serietà politica al primo Napo-
leone. Lo fa realista, robespierriano, marattista, cattolico, vol-
terriano, di tutti i colori, sempre secondo che l'interesse gli detta.
Contraddicendo il Thiers, il quale non crede che Napoleone avesse
nei primordi della sua carriera alcuna coscienza dell'altezza a
cui sarebbe giunto, il Michelet non esita ad accreditare l' opi-
nione eh' egli sia sempre stato sotto 1' influenza dell' oroscopo
di una zingara, la quale aveva predetto a Giuseppina che sa-
rebbe salita su un trono.^ Più oltre, fa quasi una colpa a Napo-
leone di essersi tutto occupato, prima di intraprendere la cam-
pagna d'Italia, a farsi amici i fornitori dell'esercito e di essersi
quasi esclusivamente occupato del servizio dei viveri delle truppe,
tutto ciò nell'intento di far supporre che l'esito di quella cam-
pagna non sia stato che una questione di epe ben pasciute. Cri-
tica la condotta di Bonaparte a Lodi e a Castiglione, delle quali
giornate gli toglie ogni merito, e lo mostra tutto intento a sempre
travisare il vero in suo favore per mezzo dei giornalisti che egli
accortamente seppe collocare accanto a sua moglie Giuseppina in
Parigi. E su questo tòno e con questo metodo prosegue il Mi-
chelet la sua critica di Napoleone, uomo politico e capitano.
V'è molto a dubitare che vi sia della serietà storica in tutto
questo. Anche senza questi mezzi di una critica animata da un
deplorabile odio politico, il grande Imperatore non si sarebbe
potuto lungamente reggere sul piedestallo sul quale lo aveva
collocato la leggenda del 1830. Come tutte le cose umane che
nella loro origine portano 1' impronta della purità e della schiet-
^ Orìgine des BonaparU.
» Origine des Boìiaparte, tom. I, cap. VI.
620 LA POLITICA
tezza, quella leggenda rispondeva ad un sentimento lodevole e
nobilissimo, senza ombra di idee volgari ed interessate ; essa
rimetteva in onore il genio caduto e consacrava il culto della
grandezza nazionale. Ogni memoria sua passata deve essere cara
ad un popolo, specialmente quando ricorda avvenimenti così
solenni e gloriosi come quelli dell' Impero : le nazioni come gli
individui non vivono di solo pane ; l'onore e la gloria è per
quelle come per questi il patrimonio più prezioso e quel raggio
di luce che li guida pei sentieri spesso tenebrosi e infidi della
vita. Se non che quella smania di glorificazione di un uomo e di
un' epoca aveva il suo lato pericoloso. Napoleone potè col suo
genio straordinario ispirare una devozione illimitata agli uomini
del suo tempo e trascinarli dietro di sé per tutta l'Europa obbe-
dienti ai suoi cenni ed ai suoi voleri : ma fu uno sforzo immenso
che uccise l'uomo stesso che lo aveva tentato ; l'idea di racco-
gliere pochi lustri dopo la Francia tutta riverente e china a' piedi
della Colonna Vendome non poteva a lungo andare non riuscire
molesta ad una società, qual'è la presente, che non si lascia più
così facilmente come in passato prendere all'amo delle ambizioni
tiranniche di un capitano. In fondo, malgrado quella temporanea
vertigine napoleonica, il popolo francese era dello stesso senti-
mento del Béranger, il quale avrebbe volato veder sulla bandiera
francese sostituito all'aquila napoleonica il vecchio gallo nazionale:
Sou aigle est re-*té daiis la poudre,
Fatiorué de loiutains exploits;
Reiidoiis-lui le coq des Gaulois ;
Il sHt aussi lancer la f(>udre !
La France oubliant ses douleur.*,
Le rebóiiira libre et fière.
[Le vieux Drapeou).
Da quella leggenda però è nato il secondo Impero. Essa dopo
di avere acceso per qualche tempo l'entusiasmo di un popolo
immaginoso e ricordevole, ed ispirati i canti più disinteressati
dei poeti, aveva poi finito per cadere nelle mani di un par-
tito che la fece servire ai suoi propri fini ed alle sue mire
particolari. Era venuto il turno dei Bunaparte come aveva jDre-
detto il proscritto di Sant' Elena. Ma quanto diverso il secondo
Impero dal primo! Si vide subito che mancava all' Impero rinno-
vato quella larga base nazionale che aveva fatto la forza del
primo; esso venne a formare un nuovo partito politico in mezzo
NELLA LETTEKATURA CONTEMPORANEA DELLA FRANCIA. 621
agli altri che tenevano e tengono tuttora divisa la Francia, cir-
costanza questa che rende la vera pacificazione di quel paese
tanto difficile e penosa. Senza associarsi a tutti i sentimenti che
ispirarono la musa collerica e violenta dei Chàfiments, non si può
negare che in essi non ci fosse un fondo di verità. È noto il para-
gone che in un suo libro famoso Victor Hugo fa del secondo Ira-
pero. Ecco laNeva è gelata; sul suo dorso si costruiscono delle case:
sovr'esso passano uomini, carri, come sulla terraferma; il fiume non
è più acqua, è diventato roccia: la gente va e viene su quel marmo
che poco prima era un fiume, si improvvisa una città, si fanno
strade, si aprono botteghe, si vende, si compra, si beve, si mangia,
si dorme, si accende il fuoco su quell' acqua, si può fare ogni cosa.
Ognuno fa ciò che vuole, si ride, si danza senza il minimo timore ;
il pavimento risuona come se fosse di granito. Ma ecco, ad un
tratto si sente un rumore sordo, poi un fragore immenso, formi-
dabile! È lo scoscendimento di tutto queir edifizio; èia Nevache si
inabissa. E questo è pure il destino del secondo Impero. L'avve-
nire solo potrà dire se quella inaudita catastrofe avrà contribuito
a toglierle il prestigio e a definitivamente spezzare la tradizione
napoleonica.
Giovanni Boglietti.
RITRATTI CONTEMPORANEI.
CAVOUR, BISMARCK, THIKES.
È vezzo comune oggidì, fra gli vioiniiii ca cui la vanità del
sentenziare sorride piìi facile che la serietà del pensare, ftir getto,
con mirabile disinvoltura, dei tipi umani moderni; asserir bur-
banzosi che le grandi personalità son finite : calunniare la ci-
viltà contemporanea come essic^atrice di atleti, baloccandosi invece
con ingenua ammirazione dinanzi a qualunque simulacro, che i
secoli abbiano annerito, o che compiacenti cronisti abbiano rive-
stito di arabeschi dorati.
Noi non siamo così irriverenti col tempo nostro. Non pensiamo
punto che la natura abbia rotto io stampo né dei grandi caratteri,
né dei grandi ingegni. Pensiamo soltanto che il molto orgoglio
nostro ci renda ora non piìi difficile lo scernerli, ma piìi penoso
il confessarli. Nel turbinìo di abitudini e di interessi che oggi
serra, mescola, confonde e raggruppa tutte le esistenze, tutte le
classi umane, la grandezza ha forse maggiori ostacoli a vincere
per dirsi tale, ma ha nel tempo stesso molto maggiori diritti ad
essere come tale riconosciuta da molta piìi gente e da molto mag-
giore consenso. Solamente la minore distanza che i tempi e i co-
stumi hanno posto fra i grandi e i piccoli acuisce, a dannq dei
primi, la suscettibilità dei secondi ; ai quali non può parer vero
' Ritratti contemporanei. Cavour, Bismarck, Thiers, perR. Bonghi. — Tre-
ves, Milano 1819.
RITRATTI CONTEMPORANEI. 623
né giusto che tanta ala li separi da gente che urtano del gomito
tutti i giorni o a cui si sono avvezzi a dare del tu.
Noi non siamo del resto neanche sicuri che il fenomeno dei
giorni nostri non sia lo stesso fenomeno dei tempi antichi. Dal
sentire la grandezza al confessarla c'è sempre stato, crediamo, un
salto pauroso anche fra gl'ipocriti delle vecchie età. E ciò ch'è
accaduto a Temistocle, a Socrate, ad Annibale, a Dante, a Colombo
dimostra che fin d'allora il genio non si negava, ma si persegui-
tava; segno evidente che si riconosceva.
Ruggero Bonghi, che non è un uomo né piccolo né ipocrita,
deve aver pensato qualche cosa di simile, quando scrisse le bio-
grafie che oggi, con opportuno pensiero, il Treves riunisce e ripub-
blica insieme.
È difficile infatti accogliere come discutibile la teoria del-
l'esaurimento morale del tipo umano, allorché si consideri che
azione hanno esercitata e che influenza hanno avuto nel mondo,
in una brevissima distesa di tempo, i tre uomini di Stato che co-
prono della loro ombra la seconda metà del secolo decimonono.
Forse, per trovare al governo di tre nazioni europee tre pa-
triottismi egualmente alti e operosi, bisogna risalire a ducent'anni
innanzi, quando, contemporanei di vita, se non tutti di potere.
Gustavo Adolfo, Richelieu e Cromwell riempivano l'Europa di cosi
novi pensieri.
II.
Da quasi diciott'anni noi abbiamo perduto il conte di Cavour;
non sono ancora due anni che s'è spento ilThiers; Dio. solo sa
quanti anni e quante prove aspettino ancora il principe di Bismarck.
È a dirsi perciò che il giudizio su questi tre uomini sia pre-
maturo? noi non lo crediamo, e ha fatto bene il Bonghi a non
crederlo.
Può darsi che la posterità non sia ancora cominciata per le
opere a cui quei tre uomini posero mano; ma é certo incominciata
per gli artefici; giacché dall'italiano e dal francese pur troppo
non si può più attendere nulla, e il tedesco ha già fatto tanto e
s'è tanto rivelato, che è impossibile pensare situazioni od eventi,
in cui sappia fare o rivelarsi di più. Se v'è dunque chi voglia dir
grandi questi tre uomini — e noi siamo del numero, — ha gli
elementi per giustificare l'opinione propria. Giacché noi non con-
sentiamo in tutto col Bonghi, laddove dice che « nelle storie dei
624 RITRATTI CONTEMPORANEI.
popoli non resta grande se non quegli la cui opera dura e si
mostra feconda » (pag. 205). Quante glorie pure e severe dovrebbe
l'umanità raschiare dal suo prezioso elenco, se questa dura sen-
tenza fosse destinata ad applicarsi nella sua rigidità! Né Catone
avrebbe avuto diritto di inspirare uno de'più nobili versi dell'an-
tichità classica, né Farinata avrebbe tratto sì alta riputazione dal
pensato omaggio del suo divino cantore. La grandezza ha in sé,
come la bellezza, qualcosa di tipico e di assoluto. Non discute le
sue forze, ma le espone. È psichica, se così ci è lecito esprimerci;
e le circostanze possono talvolta impedirle di agire, non possono
impedirle di essere. È ingiusto, crediamo noi, il criterio che rende
responsabili i creatori dei fatti degl'imitatori. Il successo durevole
aggiunge alla grandezza, ma non la scema l'insuccesso, che tal-
volta può essere torto di avversa fortuna. E in ciò la posterità è
più mite dell'austero scrittore ; essa, che non ha ancora ritolto
ad Alessandro ed a Carlo il predicato di Magno, malgrado che i
generali del primo e gli eredi del secondo abbiano in pochi anni
sciupato, a furia d'incapacità e di gelosie, l'opera smisurata di
quelle due smisurate attività.
Eccoci davvero ben lungi dal nostro argomento. Ma è questo
il privilegio degl'intelletti superiori; che. quando s'affisano, vi
forzano a levarvi nei loro orizzonti e a trovare con altre supe-
riorità di cose e di uomini vincoli naturali e legittimi. Come ac-
cade a quei valenti passeggiatori delle Alpi; che, giunti sulla
cima di un elevato picco, ne scorgono intorno a sé cento altri di
eguale altezza o maggiore, legati a quel primo per valli e spe-
roni e pareti e contrafforti, che prima e da più basso né si vede-
vano né SI potevano indovinare.
Torniamo dunque al Bismarck, al Thiers, al conte di Cavour.
Torniamo anzi più addietro, torniamo al loro biografo, al quale
vorremmo esporre un rimprovero od un lamento. Perchè egli che
ha avuto da Domineddio un ingegno così largamente operoso, s'è
lasciato questa volta sopraffare dalla pigrizia; sicché il suo studio
s'è fermato pel Cavour all'aprile 1861, pel Bismarck all'aprile 1866,
pel solo Thiers è arrivato alla fine della vita e dell'azione poli-
tica? Vuol dire che del Cavour non ha potuto scrivere né il gran
dissidio parlamentare ch'ebbe col Garibaldi, né la pagina nobi-
lissima della sua morte ; vuol dire che del Bismarck non ha trat-
teggiato né l'epopea germanica del 1866 né il dramma francese
del 1870.
Il Bonghi s'è bene accorto di questa offesa della sua insolita
RITRATTI CONTEMPORANEI. 625
pigrizia, e ha cercato sviarne la responsabilità con due noticine
di dieci righe l'una, apposte alle due biografie interrotte. Ma
queste noticine di magra scusa, se possono valere presso gli edi-
tori, non valgono presso i lettori ; i quali argomentano dal resto
del libro di che eletto cibo avrebbero potuto saziarsi, se il pro-
fondo ed agile pensiero dell'egregio statista si fosse soffermato a
dirci gli effetti che sentì la politica nazionale italiana dalla scom-
parsa del suo audace pilota, a descriverci le procellose emozioni
di quelle due guerre straordinarie che gettarono ai piedi del
principe di Bismarck la più legittima e la più rivoluzionaria fra
le corone imperiali europee.
Questa è veramente l'unica lacuna del libro ; il quale è letto
0, secondo i casi, riletto, con quell'interesse che nasce ad un tempo
dalla qualità delle cose narrate e dalle qualità dello scrittore che
narra.
III.
Fu destino comune a tutti tre i personaggi, dei quali stiamo
occupandoci, che i loro titoli alla gloria perenne dovessero acqui-
starli soltanto assai tardi nella loro vita. A quarant'anni, di nes-
suno di loro si sarebbe osato dire che fossero grandi ; oggi biso-
gna osare altrettanto per contrastarlo.
Chi conosceva sul principio del 1850 quel giornalista italiano
che scriveva nel Risorgimento, e a cui gli elettori politici di Torino
avevano un anno prima preferito un Pansoya ? Chi conosceva, al
di fuori d'una stretta camarilla feudale germanica, Carlo Ottone
di Bismarck-Schonhausen ? Adolfo Thiers era conosciuto bensì, e
aveva fatto parlar molto di se; ma, Dio buono! quale riputa-
zione! uno scrittore brillante di storie, nelle quali ogni diritto
era sacrificato al successo; un oratore meraviglioso che combat-
teva le ferrovie e sosteneva il potere temporale dei papi ; un uomo
di Stato che aveva dato il gambetto a due dinastie, che s'era mo-
strato tenero di nuU'altro che di serbarsi il potere, che aveva per-
ciò carezzato il Gruizot contro il Mole, poi l'Odillon-Barrot contro
il Guizot, poi Luigi Bonaparte contro Cavaignac, poi Changarnier
contro Luigi Bonaparte, poi Luigi Bonaparte e Changarnier e Ca-
vaignac contro l'Italia ed a favore del Papa!
Ed ecco questi tre uomini che si slanciano, l'uno dopo l'altro,
verso la fama, e che la conquistano a forza d'ingegno, di volere,
di patriottismo. Dopo il 1850, vi sono decenni e quinquenni, nei
VoL. XIV, Serie II — 15 Aprile 1819. 39
626 RITRATTI CONTEMPORANEI.
quali l'Europa non fa che star a vedere un uomo. Dal 1850 al 1860^
è Cavour che lavora a creare l'Italia, e l'Europa lo sta a vedere ;
dal 1860 al 1870 il principe di Bismarck crea la Germania, e
l'Europa lo sta a vedere ; dal 1870 al 1875 tocca al Thiers rifare
la Francia ; e l'Europa lo sta ancora a vedere, persuasa che que-
st'opera compiuta da un vegliardo di quasi ottant'anni è appena
meno meravigliosa dell'opera compiuta a cinquant'anni dai due
emuli suoi-
Vediamo da qui i contorcimenti filosofo-umanitari che pro-
durrà su qualche lettore — se questo articolo sarà letto — una pa-
rola che ci è caduta dalle labbra; Creare ! — ecco, si dirà, il teorista
degli uomini provvidenziali ! come se l' Italia, la Germania, la
Francia potessero impersonarsi in un uomo, e sparire o non es-
sere senza di lui !
Se una latitudine siffatta fosse necessariamente congiunta
colla parola che abbiamo adoperata, non v' ha dubbio che questa
avrebbe ecceduto di molto il nostro pensiero, e in omaggio alla
filologia non esiteremmo a ritirarla. Ma dubitiamo anche si possa
celare sotto così dottrinaria vernice uno dei pregiudizi più vol-
gari e più illiberali di una falsa democrazia ; e se così fosse, non
sarebbero male spese alcune parole a combatterlo.
Gli uomini provvidenziali ! e che sono essi mai se non quegli
eletti organismi che la provvidenza, il caso, la legge sto^'ica, Dio,
suscita tratto tratto nel mondo, per dare, con un complesso di
facoltà squisite e potenti, impulsi et avviamenti nuovi allo spi-
rito umano ? che e' è egli di umiliante per V umanità nel pensiero
che V uomo, questo generatore e prototipo suo, sia talvolta
fornito in dosi straordinarie ed esuberanti di quelle prerogative
morali per cui esso si distingue dalla materia e dai bruti ? e
come potrebb'essere altrimenti? e non ridonda a suo vantaggio
e ad onor suo questa prova dell'eccellenza a cui può giungere
in certi casi questo strumento di azione e di vittoria che è
r uomo ?
La falsa democrazia che noi deploriamo vorrebbe sostituire
all'uomo la massa d' uomini. Ma non è evidente che il tentativo è
assurdo ? Le facoltà morali non nascono in una massa, ma in uno
spirito ; e lo spirito guida la massa, ma non si trasfonde in essa
e non se ne lascia assorbire. Mille facoltà volgari insieme coa-
lizzate non s' eleveranno mai alle altezze d'un solo ingegno emi-
nente; non sarà mai dagli uomini, ma dalV uomo che le scienze
e le arti trarranno vigore di progressi e ardimenti di novità.
KITRATTI CONTEMPORANEI. 627
Che cosa fu Galileo ? un uomo provvidenziale. Dante, Raf-
faello, Volta furono uomini provvidenziali. Forse i consequentiarii
della collettività diranno che se la Divina Commedia, la Tras-
figurazione e la Pila erano opere necessarie all' umana civiltà,
qualche altro le avrebbe tratte dal nulla, pur non chiamandosi
Volta, Raffaello o Dante. Ammettiamolo, come si ammettono tutte
le cose, contro le quali non c'è la possibilità della prova. Ma
ne segue perciò che noi non dobbiamo gratitudine agli uomini
che a queste opere hanno sposato il loro genio ? Può dirsi che
Volta non sia il creatore della pila, per ciò solo che gli elementi
onde la pila fu costituita esistevano nel mondo anche prima di
lui ? Quanti anni, quanti secoli avrebbero potuto trascorrere, se
Volta non avesse esistito, prima che i beneficii del telegrafo elet-
trico aiutassero di mirabili impulsi la santa opera del progresso
civile ? Giacché nessuno oserebbe, per es. , sostenere che, in man-
canza d'un uomo, l' Istituto di scienze o la Facoltà matematica
avrebbero prodotto la pila. E nessuno sa quante e quali insigni
verità, quanti e quali mezzi di benessere sociale stiano nascosti,
forse a due passi da noi, nell'aria o nella terra, aspettando Yuomo,
che la provvidenza, il fato, la legge storica. Dio, ci darà fra
vent' anni, fra un secolo, forse mai !
E ciò che è vero nelle scienze e nelle arti, non potrà, non do-
vrà esser vero nella politica, nell'arte di Stato ? 0 che v' è meno
bisogno di menti superiori e vigorose in queste discipline, che rac-
chiudono le maggiori difficoltà e i più paurosi problemi del vivere
sociale ? Ebbene, succede dei fatti politici come dei fatti scienti-
fici. Gli elementi dei progressi sociali, delle unità nazionali, pree-
sistono; ma, come le forze della natura, aspettano Vuomo che li
indovini, che li armonizzi, che li cementi. Noi non diciamo che
l' Italia non si sarebbe fatta senza il conte di Cavour ; diciamo
che s' è fatta col conte di Cavour. A chi si farebbe torto nello as-
serirlo ? Vuol dire che dopo tanti secoli d'infecondità, dopo tanti
conati d'indipendenza, dal re Arduino a Gioachino Murat, s' è
finalmente trovato un uomo, un italiano, che, fornito di grandi
qualità e giunto nell' ora della fortuna, ha saputo raccogliere e
fondere in isalda compagine gli elementi preparati dai secoli, ha
saputo trovare i cooperatori, disanimare i nemici, dare finalmente
suggello d'esistenza e forma di pratica verità a ciò ch'era stato
prima di lui aspirazione di pensatori o istinto di moltitudini.
Volete sopprimere l'uomo provvidenziale in nome della col-
lettività ? Padroni ; ma allora bisogna reimprimere sulla col-
628 RITRATTI CONTEMPORANEI.
lettività quello stigma d'impotenza che dieci secoli di storia vi
hanno pur troppo lasciato; bisogna rassegnarsi ad aspettare che
altri secoli passino, come vi si rassegnano pur troppo altre stirpi,
altri popoli, ai quali parrebbe una crudele ironia il sentirsi dire
che sono fortunati di non aver posseduto uomini provvidenziali.
È forse priva la Polonia di collettività e di tradizioni? No;
non la mancanza di uomini, la mancanza di «oi ?^o»io l'ha lasciata
perire e non la lascia risorgere. E chi non vede che il problema più
minaccioso dei giorni nostri, il problema orientale sarebbe presto
risoluto, se la razza greca o la ra,zza bulgara avessero prodotto a
quest'ora V uomo provvidenziale, che traesse dalle agitazioni popo-
lari e dalle contraddizioni dell' Europa quello che seppero trarne
per la Germania e per l'Italia il Bismarck e il Cavour ?
Cessiamo dunque dallo attribuire dignità di filosofici veri alle
miserabili intolleranze del nostro orgoglio o della nostra invidia.
Eiconosciamo che nella lotta per l'umano miglioramento, se è
compito delie moltitudini la preparazione e la cooperazione, è
compito dell' uomo il pensiero e la volontà. E, italiani, tedeschi e
francesi, ringraziamo la sorte che ci ha fatto incontrare, nell'ora
del pericolo o in quella della fortuna, tre personalità assorbenti
come quelle del Cavour, del Bismarck e del Thiers. Che se pro-
prio la parola creare urta troppo i puristi, pel suo richiamo agli
attributi della divinità, via, mettiamo ricomporre, e sia finita.
IV.
Nella vita pubblica del conte di Cavour si notano tre periodi
nettamente distinti.
A trent'anni ha già tracciata nella sua mente la via che deve
percorrere: libertà, indipendenza, Italia; e dal 1810 al 1850,
viaggia, studia, scrive, promove associazioni, dirige istituti, fonda
giornali, parla nei comizi e alla Camera. È il periodo dell'apo-
stolato delle idee liberali. Dal 1850 al 1859 è ministro: riforma
i partiti, conchiude alleanze, rimuta e riordina gli organismi
amministrativi del governo e l'economia del paese; si assicura e
disciplina le forze morali e gli stromenti materiali che dovranno
aiutarlo nel gran disegno. È il periodo della preparazione. Dal
1859 al 1861, due anni, ahimè, troppo brevi, il conte afferra e
precipita il periodo dell'azione; è l'epoca delle guerre, delle
annessioni, dei plebisciti, della diplomazia novatrice e nazionale.
Non è già che il periodo dell'apostolato non implichi in sé una
RIIRATTI CONTEMPORANEI. 629
vera e propria preparazione morale; né che il periodo della
preparazione sia scompagnato da un'attitudine, anche gagliarda,
d'azione. La guerra di Crimea è lì a provarlo. Pure i tre periodi
sono, come dicemmo, ben chiari ; e Camillo Cavour li percorse
tutti, misurandoli e prevedendoli, con un crescendo di inspira-
zioni e di audacie da rendere stupefatti quelli che più avevano
creduto e più avevano presagito del vigore e dell'elasticità del
suo genio.
Lo scrittore degli articoli SiilV Irlanda e sui Mezzi rivolu-
zionari denuncia già una mente di prima riga fra i contemporanei
italiani. La politica ecclesiastica e la politica economica del
ministro del 1852 rivelano uno statista riformatore, a cui sono
familiari cosi i più alti pinacoli delle quis tieni morali come le
più difficili e più complicate disquisizioni d'affari. Lo stipula-
tore del trattato 10 gennaio 1855 si posa innanzi all'Europa come
un atleta già consumato nelle lotte e negli avvedimenti della
politica estera. La campagna del 1859, 1' invasione delle Mar-
che, i plebisciti del 1860, i discorsi dell'll ottobre 1860 e del 25
marzo 1861 intorno a Koma e a Venezia finiscono di additare
nel grande ministro di un piccolo Stato il più ardimentoso consi-
gliere di sovrani che la storia contemporanea avesse veduto.
E in questa energica e tenace evoluzione del suo pensiero
politico, Cavour non si lascia mai dominare che da un solo
sentimento: il bene della patria. Istinti, educazione, abitudini,
amicizie, tutto egli sottopone a un concetto elevato del suo dovere
di ministro patriota. Tratto da' suoi studi e da' suoi concetti di
governo verso la dottrina e l'influenza inglese, non esita a sco-
starsene e ad avvicinarsi alla Francia, appena vede che di lì
parte la più vicina e più sicura speranza di un aiuto efficace.
Cresciuto nell' intimità dell'aristocrazia più conservativa del Pie-
monte, rompe senza livore i suoi vincoli politici con essa, e cerca
nella borghesia liberale italiana un perno d'azione più largo e più
agile per la politica nazionale, di cui si fa duce e moderatore.
Amico, per convinzioni politiche, piuttosto dei parlamentari fran-
cesi che degli autoritari napoleonici, ^a'iuta nel capo di questi il
partigiano volonteroso delle nazionalità europee, e lo seconda e
lo seduce e talvolta lo domina, a servigio delle proprie idee e del
proprio paese. Non si lascia però mai trar fuori dall'orbita sua
0 lontano da' suoi principii di governo libero ; e in questa lotta,
necessariamente sostenuta fra due uomini che avevano alcuni
intenti comuni ma governavano con indirizzi diversi, non è il
g30 KITRATTI COMTEMPORANEL
ministro del piccolo Stato che cede o transige, è il capo assoluto
del grande impero. Così, nel dissidio d'Oriente, l'imperatore cerca
e spera attrarre l'Austria nell'alleanza sua ; e il Cavour tergiversa
questa politica, provoca l'Austria, l'avviluppa abilmente nelle sue
stesse contraddizioni, e finisce col mettere sé e l' Italia al posto
cui non osa occupare il gabinetto di Vienna
A Dio spiacente ed a' nimici sui.
Circa l'assetto italiano, l'imperatore preferisce la forma fede-
rativa, e stipula a questo intento la pace di Villafranca. Il Cavour
lascia passare la pace di Villafranca e lavora bravamente all'Ita-
lia unitaria. E quando la Francia accenna un istante a rendere
meno passiva la sua opposizione, discutendo se convenga impedire
a Garibaldi di passare dall'isola al continente, il ministro di Vit-
torio Emanuele lascia il braccio della Francia per prendere quello
dell' Inghilterra. E così, non ritraendosi mai, non affrettandosi
troppo, discutendo tutto, nulla accordando, il Conte avvince al
proprio carro la fortuna napoleonica, restando avversario del na-
poleonismo in Italia, e personale estimatore dell' uomo che ne
rappresenta in Francia il sistema e l'idea.
Poiché fu scomparso, e dopo diciotto anni dacché scomparve,
s'ode ancora a quando a quando discutere, se, vivo lui, avrebbe
saputo sormontare, con più successo dei suoi continuatori, le dif-
ficoltà del riordinamento italiano. La disputa é delle più oziose
che si possano affacciare, e ha fatto bene il Bonghi a non soffer-
marvisi. Non é solo compito degl'intelletti superiori l'essere alle
prese coi fatti, ma 1' appuntarli prima eh' ei siano palesi agli
sguardi comuni, e fermarli o mutarli o dirigerli a bene. Non bi-
sognerebbe soltanto discutere se, risuscitato, p. es., nel 1865 o nel
1876, il conte di Cavour avrebbe potuto trarre dagli elementi
allora dominanti in Italia trionfi rimasti sconosciuti ai ministeri
d'allora ; bisognerebbe discutere altresì se, continuando a vivere,
non avrebbe visto nascere ed ingrossare questi elementi assai
prima, e non avrebbe saputo, con influenze o con iniziative sue,
sviarne i danni o temprare gli elementi stessi a migliore indi-
rizzo. Anche Anteo può esser vinto dalla brutalità di una forza ;
ma l'accorto domatore di belve studia l'istinto del leone prima
che si manifesti ; lo batte, lo accarezza, lo attira ; e s'impadroni-
sce del suo vigore e della sua volontà al punto da renderlo per-
suaso che nel debole sta la forza, nel forte la debolezza.
RITRATTI CONTEMPORANEI. 631
V.
Il principe di Bismarck parte da tutt'altre origini e affronta
tutt'altre difficoltà.
Nulla di liberale in lui. Nulla di irremovibile quanto ai prin-
€ipii, nulla di determinato circa i mezzi. Anche lui vuol fare la
patria, ma si getta nell'impresa a capo fitto, come un guerriero
dell'Ariosto svegliatosi in mezzo alla verbosa modernità. Non si
cura gran fatto di studiare o di scrivere. Non ha periodi di apo-
stolato 0 di preparazione. E solo e sempre un uomo d' azione e
in questo solo periodo si sente audace e gagliardo. Ha due pas-
sioni, che diventeranno poi due propositi : odia l'Austria ed ama
la Russia, Del resto del mondo non si cura se non quando lo
toccano ; si burla della Francia, tartassa l'Inghilterra, carezza o
abbandona l'Italia, secondo gl'importa. All'Austria tira il primo
colpo nella questione dello Schleswig-Holstein ; riuscitogli, ne tira
un secondo nella questione dell'ordinamento federale-germanico ;
fattasi la mano, lancia il colpo finale, la sconfigge a Sadowa, la
caccia dalla Germania. Contemporaneamente affronta, in un senso
contrario a tutta l'Europa civile, la questione della Polonia ; non
teme di dare addosso al debole in compagnia del forte; seconda
la Kussia nella sua politica di compressione, l'aiuta a sgominare
le saltellanti iniziative della timida diplomazia occidentale, e si
fa così del colosso moscovita un amico devoto, la cui minacciosa
neutralità gli servirà così bene nel 1866 e nel 1870.
La sua politica parlamentare non è di diverso metro o di
diversa essenza della sua politica estera. Ai rappresentanti del
paese ch'egli medita di aggrandire dice le cose più dure sotto la
forma più aspra. Contraddetto, inveisce ; dissolve tre o quattro
Camere, che non si prestano senza mormorio ai disegni eh' egli
matura e che a nessuno vuol dire. Tratta liberali, feudali, pro-
gressisti nella stessa misura, benevolmente se s'acconciano a ciò
ch'egli vuole, brutalmente se gli si oppongono. Quando si move,
ha contro di sé lo spirito del paese, trascina a stento e riluttante
il Re. Non ha quasi con sé che due uomini : Moltke e Roon. Ma
questi due uomini gli rappresentano la vittoria ; e allora lo spi-
rito tedesco ritorna a lui, il Re gli accorda intera la sua fiducia ;
dopo Sadowa è padrone della Germania, dopo Sédan è padrone
dell'Europa.
632 KITRATTI CONTEMPORANEI.
Yincitore di tutti, non sa vincere sé stesso ; non modifica né
linguaggio, né istinti ; abusa della vittoria. Ha per la forza lo
stesso culto di prima, ha la stessa alterigia pei rappresentanti del
paese che ha fatto grande e dominante. Ora si afferma Vuomo
j^iù odiato cV Europa, ora si vanta d'essere Vuomo meno sentimen-
tale che esista. I suoi discorsi parlamentari sono modelli di logica
e di serietà di governo, ma acri, mordaci, implacabili per ogni
amor proprio, per ogni debolezza. Quando trova un ostacolo, non
si ferma a esaminarlo, a discuterlo ; gli salta addosso. Se l'ostacolo
si chiama la Curia romana, escogita ed applica le leggi di ma^--
gio; se si chiama il socialismo, gli si stringe ai panni e a mala
pena gli accorda l'acqua e il fuoco ; se si chiama il parlamentari-
smo, non esita a proporgli una legge di m-useniola. Non tratta la
finanza con maggiore rispetto a principii; propone monopoli! e
s'irrita perchè glieli negano; è libero-scambista nel 1865, perchè
ciò lo aiuta ad avvicinare all'Italia lo Zollverein ; diventa ultra-
protezionista nel 1878, perchè crede così di poter forzare la natura
e l'industria a fare per la Prussia e per la Germania ciò che gli
parrebbe utile fosse fatto.
Tale è l'uomo; i cui difetti sono grandi come le sue qualità,
e che in diciassette anni di ministero può dire d' essere riuscito
quasi in ogni cosa che abbia tentata; e ne ha tentate di molte
e temerarie assai.
Nel momento in cui scriviamo, sta ornai bruciando le sue ul-
time cartuccie contro i liberali parlamentari, contro cui s'era pure
avventato appena giunto al potere, e che poi l'avevano tanto aiu-
tato a vincere, così dentro come fuori del Parlamento. In un
paese come l'Inghilterra, come la Francia o come l'Italia, un
ministro che avesse proposto la metà di ciò che ha proposto lui,
0 che avesse detto la metà delle impertinenze da lui lanciate
contro uomini parlamentari, non sarebbe rimasto al governo ven-
tiquattr'ore di più. In Germania, rimane ed è sicuro di rimanere,
forse sin che vorrà; giacché in quel paese, in cui gl'individui sono
così indisciplinati, le masse sono tanto assetate di disciplina elio
non si meravigliano né s'offendono d' una situazione siffatta. Il
Bismarck rimane l'uomo che ha fatta la patria così com'essa oggi
si trova; e nessuno dei molti a cui egli è antipatico oserebbe
discutergli questo merito e questa gloria. Gli basterà, al bisogno,,
riagitare leggermente lo spauracchio francese, perchè tutto il
paese ritorni a lui e il Parlamento sia obbligato a fare come il
paese. Ed egli lo farà, se gli giova; giacché di scrupoli ha mo-
RITRATTI CONTEMPOR.\NEI. 633
strato non averne soverchi, e del popolo ch'egli governa conosce
tutte, fino all'ultima, le passioni e le tentazioni.
L'edificio innalzato dal principe di Bisraarck può non essere
in tutte le sue parti perfetto e può anche non essere più dure-
vole di molti altri edifici politici. Certo però, se v'ha popolo in
Europa atto a perfezionare i particolari d'un gran disegno e ad
aspettare dalla coesione del tempo i beneficii di un'istituzione
politica affrettatamente compiuta, è quel forte e intelligente e
tenace popolo tedesco, per cui il Bismarck ha pensato e lavorato.
E ad ogni modo, v'è in questa moderna creazione d'un impero
germanico, e nella stessa rapidità, pur violenta, con cui s'è co-
stituito, tal carattere di grandezza e di fierezza, che basterà da
solo a lasciare per un pezzo impronte efficaci su tutta la storia
contemporanea. È inutile soggiungere che sovrabbonda per la fama
di un uomo.
YI.
Non è agevole trovare al principe di Bismarck un contrap
posto più spiccato di Adolfo Thiers.
Il Thiers è la Erancia; colle sue mobilità, colle sue seduzioni,
col suo spirito, colla sua coltura, colla sua fabbrica di costituzioni
e di poteri esecutivi, col suo genio egoista e accentratore, colia
sua maschera volteriana appiccicata sul volto di un sottoscrittore
all'obolo di S. Pietro.
Che cosa non ha fatto a questo mondo il signor Thiers? Di
ottant'anni della sua vita ne ha consacrati sessanta alla politica :
ha rovesciato governi e ne ha fondati; ha scritto opere colossali
ed opuscoli; ha fondato giornali ; è stato membro dell'Accademia
francese, deputato, ministro, diplomatico, carcerato, esule, presi-
dente di una repubblica che non osava chiamarsi tale. Una cosa
sola non ha fatta mai, né s'è mai trovato a doverla ordinare: la
guerra. E questa è forse la cagione che rende difficile paragonarlo
al Bismarck o al Cavour. Giacché la guerra, fra tutte le artifi-
ciose combinazioni della politica umana, è certo, come la più
disastrosa, quella altresì che svolge e acuisce la maggior somma
di facoltà morali in chi la dirige e in chi ne assume la responsa-
bilità. Se il Bismarck e il Cavour non avessero trattato e diretto
combinazioni guerresche, avrebbero forse potuto essere egual-
mente benemeriti dei loro paesi, ma non sarebbero apparsi com-
pleti in faccia alla posterità. È nel preparare, nel compiere e nel
^Bi KITRATTI CONTEMPORANEI.
trarre i risultati di queste imprese che l'uomo di Stato si trova
veramente nel mezzo di tutte le passioni, di tutte le molle, di
tutte le difficoltà, di tutti i fenomeni della vita; e se ne esce con
onore, sia in caso di fortuna che di sciagura, potrà dirsi vera-
mente di lui che ha la mente temprata alle grandi cose, l'animo
atto a sopportare lo sforzo dei grandi doveri.
Ora, il Thiers, come dicemmo, non ha fatto la guerra; giac-
ché guerra non osiamo chiamare quella repressione che s'è tro-
vato a dover fare negli ultimi anni della sua vita contro l'insur-
rezione comunista di Parigi; repressione, che, se ha forse avuto
della guerra le ansie e la carnificina, fu ben lontana dallo
iiverne avuto, e ne'suoi primordi e nella sua fine, la nobiltà e la
gloria.
La guerra è la conseguenza di una politica estera; e in que-
sta ebbe il signor Thiers così poca fortuna, che di lui sarà co-
stretta la storia a ricordare solamente due grandi insuccessi: la
quadruplice alleanza del 1840 sugli affari d'Oriente, da cui egli,
ministro degli aifari esteri di Francia, fu tenuto estraneo ed al
buio: il giro diplomatico del 1870 per le corti d'Europa, da cui
tornò con un sacco di compianti e neanche una briciola di soc-
corsi. È vero che in quest'ultima occasione nessuno al mondo
avrebbe potuto ottenere nulla di più, e pochi avrebbero saputo
dar prova di un'a1)negazione così altamente patriottica.
L'opera di Adolfo Thiers fu essenzialmente un'opera di poli-
tica interna. Ed anche in questa, le due pagine più memorabili
non le scrisse da ministro costituzionale, ma da semplice citta-
dino 0 da capo del potere esecutivo. La sua stella brilla della
luce più fulgida ai due estremi della sua carriera politica. A
trent'anni, giornalista di opposizione, impersona in sé stesso la
resistenza liberale al ministero Polignac, trascina gli animi esi-
tanti, scrive la famosa protesta del giornalismo, e dà con essa il
segnale della lotta che tre giorni dopo scrollerà un trono e darà
la corona al candidato di Thiers. A settantaquattro anni assume
la responsabilità di reggere, quasi dittatore, la Francia, mentre
una metà di essa é invasa dal vincitore, l'altra metà immersa
nell'anarchia, e tutta intera spossata da un tal cumulo di rovine
e di umiliazioni, quali non si sarebbe creduto che un paese civile
potesse sopportare senza morirne. E in poco più di due anni
rifa ogni cosa: un esercito, un'amministrazione, una politica;
vince l'anarchia; sgombra di nemici il territorio nazionale j)ri ma
-dell'epoca stabilita ; paga, prima dell'epoca stabilita, una favolosa
RITRATTI CONTEMPORANEI. 635
indennità di guerra; placa gli spiriti, riconduce la patria alle
arti della pace, agli affari, all'eloquenza, agli studi ; e, sopraffatto
da un risveglio di ostilità partigiane, abbandona il primo posto
dello Stato con una grandiosa semplicità, che, per essere quasi
nuova in Francia ed esempio di future rassegnazioni, lo tiene più
alto di prima nella riputazione e nella influenza.
Fra questi due poli della sua vita politica, ondeggia con minore
larghezza di mente e minor copia di effetti. Pare un uomo che
abbia bisogno, per rivelarsi intero, delle emozioni delle grandi
catastrofi. Allora il suo patriottismo sfavilla da tutti i pori ; la
sua audacia sale ad ogni altezza di casi ; il suo intelletto assume
il tono del genio. Nelle situazioni ordinarie, la vanità e la dialet-
tica ne turbano l'iniziativa : agita senza posa intorno a sé, ma è
più atto a distruggere che a ricostruire ; indebolisce ogni avver-
sario che tocca, seduce ogni moltitudine a cui discorre ; ma non
appare necessario in nessun luogo ; non lascia in nessuna istituzio-
ne, in nessuna disciplina di Stato, orma potente di sé.
Alla effettiva responsabilità del governo è durato pochi anni ;
un quinquennio ministro colla dinastia orleanese ; un triennio pre-
sidente del governo innominato del 1871. Il Cavour era stato mi-
nistro, con pochissimi intervalli, per dieci anni di seguito, e sol-
tanto la morte gli tolse di continuare ad esserlo. Il Bismarck è
al potere da diciassette anni, e non accenna a scenderne. Pure,
nel Thiers v' è una meravigliosa attitudine al governo ; talché,
uscitone nel 1840, e rimasto d'allora in poi in opposizione più o
meno decisa contro tutti i regimi che mutarono per tanti anni
da capo a fondo leggi, istituzioni ed uomini, rientra nelle sommità
del governo trent' anni dopo, e vi si move fin dal primo istante con
una facilità e con una competenza cosi sicura, come se un' espe-
rienza d'ogni giorno l'avesse fino allora in ogni cosa sorretto.
Ciò che soprattutto rende eccezionale la personalità di Adolfo
Thiers é quella sua eccellenza in ogni disciplina dello spirito, che
ne ha fatto veramente il più splendido rappresentante della civiltà
moderna. E un eclettico, come esige l'epoca sua, ma il più profondo
e nel tempo stesso il più amabile degli eclettici. La Francia troverà
forse, ancora degli uomini che sappiano scrivere nella sua storia
qualche pagina più memorabile di quelle che vi ha scritto Adolfo
Thiers. L' Europa non troverà facilmente cosi presto un uomo, a
cui riesca, come é riuscito al Thiers, di tenere, per cinquant'anni
di seguito, tanto posto nella sua attenzione, nelle sue abitudini,
nella sua simpatia.
636 RITRATTI CONTEMPORANEI.
VII.
Ciò che abbiamo detto di questi tre uomini mostra die noi
saremmo ben lungi dallo intraprendere o dal favorire uno studio
comparativo fra loro. Ci pare che esigerebbe sforzi d'ingegno più
che serietà di criterio; tanto dissimili ce li ha dati la natura e
ce li ha mantenuti l'indole della loro azione !
Hanno sì alcune qualità comuni, come necessariamente ne deb-
bono avere gli uomini che s'innalzano sopra gli altri. Una grande
volontà; che però nel Cavour s'atteggia a energia, nel Bismarck
prorompe a violenza, nel Thiers si accosta a caparbietà. Un pa-
triottismo sincero, ma che si fonda sopra apprezzamenti assai di-
versi dei patriottismi altrui : dacché il Cavour li rispetta, il Thiers
li nega, il Bismarck li calpesta. Una singolare lucidità d'intel-
letto; ma che nel Bismarck si lascia governare dall'istinto, anzi-
ché cercare di governarlo ; nel Thiers discorre su tutti i problemi
umani, accettandone soltanto le soluzioni conformi all' orgoglio
suo ; nel Cavour si matura con profondità ed imparzialità di espe-
rienze, fino a diventare propriamente scienza ed arte di Stato.
Hanno tutti e tre la passione e l'ambizione del potere ; ma la
diversità dei criteri costituzionali é in loro siffatta, che il Cavour
non avrebbe consentito a restare ministro un giorno solo, se non
avesse sentito comune in sé la fiducia del paese e quella del Prin-
cipe ; il Bismarck durò ministro parecchi anni, sapendo di avere
schiettamente contraria tutta quanta l'opinione del paese ; il Thiers
non si fece il menomo scrupolo di governare col più manifesto
disfavore di un re pur fatto tale da lui, e appoggiandosi ad una
espressione affatto incompleta e fittizia di favor popolare.
Del resto, l'analogia più vera fra quei tre uomini consiste in
ciò, che essi rappresentarono nei loro periodi nazionali più cul-
minanti i tre popoli che hanno mosso più cose in Europa, durante
la seconda metà del nostro secolo. Vuol dire che hanno tutti tre
identificato il loro nome e la loro storia col nome e colla storia
della loro patria, nel momento in cui questa patria aveva mag-
giore bisogno di servitori fedeli e intelligenti.
È un elogio, che ne può valer mille ; chi pensi di quanti no-
mi serbi illustre memoria il mondo, che non avrebbero a ciò al-
tro titolo, fuor quello di avere conculcata o tradita la patria !
RITRATTI CONTEMPORANEI. 637
Vili.
Un articolo bibliografico mancherebbe al cosiddetto suo scopo,
se, dopo essersi occupato delle cose descritte, evitasse di occu-
parsi del modo con cui sono descritte. Un po' di critica debb' es-
sere necessariamente la salsa del piatto, anche quando il critico
è magro e il criticato ne sa da vendere.
Abbiamo dunque cercato, colla coscienza del mestiere, che
cosa vi fosse da dire contro l'autore, giacché questa lingua no-
stra è talvolta riuscita nell'uso della parola a storpiarne cosi bene
l'idea, che ormai criticare uno significa parlarne male. Lo pos-
siamo fare tanto più agevolmente col Bonghi, perchè siamo certi,
dalla sua larghezza d'ingegno e di cuore, che dopo averlo criti-
cato, la sua benevolenza pel critico sarà piuttosto cresciuta che
diminuita.
Quando s'è detto del Bonghi che scrive troppo, e troppo in
fretta , s'è, ci pare, riassunta in una sola frase quel po' di cen-
sura che agli scritti suoi si può movere. Certo è maraviglioso
che ad uno scrittore così fecondo riesca di mettere assieme, tutte
ricche di pensiero, tutte alte d'intento, tante pagine di così varia
materia. Pure questa stessa fecondità sua è cagione, temiamo, che
egli non si rilegga; e basterebbe il più delle volte ch'egli si ri-
leggesse, perchè non restasse più modo a chi lo legge di tro-
vargli nessuna menda. Ma come la sua pigrizia gli serve talvolta
per non aggiungere nulla a ciò che ha scritto, così la sua atti-
vità gli serve sempre per non mutar nulla, dopo che ha scritto ;
sicché le mende restano e nessuno le toglie.
Nel libro di cui discorriamo, queste mende ci paiono essen-
zialmente due: una facilità, forse soverchia, a trarre afi'ermazioni
e sentenze di lunga portata da singoli fatti che vorrebbero essere
studiati ed apprezzati con maggiore prudenza; una vivace seve-
rità di giudizi che, pur dettata dal giusto concetto di tenere alta
la dignità dell'elogio, trascende qualche volta ad ingiusto mot-
teggio. Queste due mende potrebbero anzi concentrarsi in una
sola, quando la dicessimo in genere una eccessiva e quasi dog-
matica rigidezza di affermazioni. Meno apparente nei due ritratti
di Cavour e di Bismarck, perchè fatti da più tempo e con mag-
gior agio, questa menda si scorge più nel ritratto di Thiers, la-
voro fatto con maggior fretta e con una abbondanza di fregi ed
ombre assai maggiori del primitivo disegno. Vogliamo citare due
638 RITRATTI CONTEMPORANEI.
soli esempi, da cui speriamo giustificata la nostra opinione; e ci
parrebbe di essere pedanti a prolungare le citazioni.
Siamo al periodo della monarchia di Luglio; e in una pagi-
netta piena di senso (p. 276-277) lo scrittore fa una succosa dia-
gnosi del male onde fu travagliata per diciott'anni, fino ad an-
darne spenta, la dinastia orleanese. E conchiude : « Nuova prova,
che le classi nobili e le popolari vincono le borghesi, le prime
nQWahilità a reggere i moti politici, le seconde nell'attitudine,
se non a nutrirli d'idee, ad insinuare in essi l'istinto di ricer-
carle, e la lena a trovarle. »
Qui, è chiaro che la sovrabbondanza di pensiero in cui nuota
il Bonghi e la voluttà, naturale in uno spirito così pensoso, di
salir sempre dal fatto alla dottrina, non gli hanno lasciato trovare
il giusto equilibrio fra la premessa e la conseguenza.
Lo scrittore aveva ricordato due pagine addietro come si fosse
miseramente sciupato quel moto politico della ristorazione, che le
classi nohili guidate dai Villèle e dai Polignac avevano condotto
con tanta abilità, da provocare le tre giornate del luglio ISSO.
Avrebbe potuto ricordare due pagine innanzi come il moto politica
del 1848, agitato furiosamente dalle classi popolari, non abbia
nutrito, in fatto d'idee, che quella grande vanità degli opifici na-
zionali, dovutasi poi dissipare sulle barricate di giugno, con tanto
strascico d'odj, di sangue e di disastri. Ebbene, questi due esempi,,
di così fresca eloquenza, non hanno bastato a fermare sulla penna
dello scrittore una così fiera condanna delle classi borghesi, che
pure, traverso a molti errori, avevano mantenuto in Francia il
regime politico di maggior durata che si fosse ancor visto dal
1789 in poi.
Un po' più che ci avesse pensato, il Bonghi avrebbe certa-
mente detto, — e sarebbe stato più vero, sebbene non nuovo,— che
le sole classi borghesi non valgono, più che le soie nobili o le
sole popolari, a creare in uno Stato moderno nulla che sia nel
tempo stesso durevole e liberale; e che soltanto negando a qua-
lunque classe sociale una predominanza di diritti sulle altre e
contemperando in equa misura gl'interessi legittimi di tutte, può
un governo trovare la sua formola di esistenza e la sua guaren-
tigia di ragionevole stabilità.
Altrove (333), il Bonghi cerca a quale fra gli oratori italiani
potesse paragonare il Thiers. E ne vaglia tre, che gli paiono pa-
ragonabili per vari rispetti : il Sella, il Cavour, il Minghetti. Poi
soggiunge: « Può essere che vi siano altri nel Parlamento ita-
RITRATTI CONTEMPORANEI. 639-
liane, i quali hanno dato saggio d'una facondia, non da curiali,
non da demagoghi, ma da uomini di Stato avanti ad un'assemblea ;
se non che, e me ne duole, in questo momento non me li ri-
cordo. »
0 non ti pare, ripensandoci, carissimo Bonghi, che l'amore^
del frizzo (irresistibile se contro amici) abbia questa volta lan-
ciata la frase bene al di là del pensiero?
Noi dobbiamo reprimere sulle labbra, per non essere ingiusti
a nostra volta, alcuni nomi e di morti e di vivi, a cui quel disin-
volto oblìo dello scrittore potrebbe ragionevolmente sembrare
un'amabile impertinenza. Ma siamo certi che a rimettergli li sotto
lo sguardo quel suo periodo, il Bonghi stesso lo trova scorretto ed
ingiusto. Può essere bensì, ed è liberissimo uno scrittore di dirlo,
che di quei tre soli illustri uomini parlamentari riesca possibile
e sensato il paragone col Thiers. Ma lì, ci pare, avrebbe dovuto
fermarsi l'austerità critica dello scrittore. Di oratori, né curiali,-
nè demagoghi, se n'è uditi alcuni, la Dio mercè, anche nel Parla-
mento italiano, e l'unica giustificazione del fine oblìo è certamente
questa, che, deliberato a dare addosso barbaramente a' suoi amici,
il Bonghi non ha punto cercato di sottrarre sé stesso all'impeto
delle sue mazzolate.
Sicché l'unico nostro consiglio al Bonghi scrittore, è ch'egli
mediti un po' più talora i suoi giudizii prima di metterli
fuori, 0 almeno prima di ristamparli. Faccia una volta lui quello
che tanti altri fanno cinquanta volte, e colla sola soddisfazione
del loro amor proprio! Del resto, il nostro è consiglio d'amico; e
può bene accettarne egli uno da noi, se Molière ne accettava dalla
sua serva, ed Apelle dal suo calzolaio.
1 Ritratti contemporanei di Ruggero Bonghi resteranno, mal-
grado queste piccole mende, uno dei libri italiani, pubblicati in
quest'ultimo decennio, la cui lettura torni di maggiore aiuto agli
spiriti sitibondi di pensiero e di verità. E lo avere scritto un tal
libro sarà per sé sola una prova, che se, tratti da precoce seni-
lità, gli italiani vorranno sviarsi dalle buone tradizioni e dalle
buone dottrine di Stato, non sarà perchè ne manchino anche oggi
i cultori, atti e tenaci a confessarle e a difenderle.
Romualdo Bonfadini.
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONyV.
Nel mondo archeologico levano attualmente gran rumore gli
oggetti in ])ronzo raccolti dal sig. Costantino Carapanos nei suoi
scavi di Dodona. Alla recente esposizione di Parigi spiccavano in
splendida mostra fra le altre scoperte delle scienze moderne, ed
i periodici francesi, inglesi e tedeschi ne hanno rilevato a più
riprese l'importanza con belli articoli dovuti alle penne più au-
torevoli di quelle nazioni. In Italia la conoscenza di cotesti bronzi
tanto singolari non è ancor fatta così generale come dovrebbe.
In conseguenza, spero, vorrà tornare gradito ai lettori dell' Anto-
logia il breve cenno che mi sono proposto di porgere intorno ad
essi ed alla località da cui furono scavati. Per coloro che pi-
gliano interesse alle quistioui archeologiche aggiungerò pure al-
cune considerazioni sul merito intrinseco di questi bronzi e sul
posto che occupano nella storia dell'arte e della civiltà greca.
Il signor Costantino Carapanos, banchiere di Costantinopoli,
è oriundo di Epiro. Uno spirito indagatore ed un intenso amore
per la storia del suo paese natio l'aveano condotto a ricercare il
sito dell' antico tempio di Giove Dodoneo, il quale, in onta alla
sua celebrità, era sempre rimasto sconosciuto. Già molti viaggia-
tori si erano accinti a tale impresa, ma sempre senza frutto, per-
chè ne aveau cercato altrove le tracce. Quasi tutti aveano identi-
ficato Dodona con le ruine di Castritza, situata a quattro kilom.
incirca al sud di Giannina. Il signor Carapanos, per arrivare ad
un risultato certo, non si limitò ad esplorare un punto solo del-
l' Epiro, ma quante località presentavano ruine. altrettante ven-
nero da lui esaminate.
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 641
Fu nel corso di siffatte indagini preliminari, ch'egli giunse
a cognizione di considerevoli ruine esistenti a Tchar acovi sta, ruine
abbastanza importanti, e che consistevano di un teatro, di una
cinta , fortificata, di alcuni tronchi di colonne e di resti di mu-
raglia dell'altezza di circa tre metri sopra suolo. Anche queste
ruine erano già note a parecchi viaggiatori, che concordemente
le attribuivano a Passarono, l'antica capitale della Molossia. Ca-
rapanos però non poteva persuadersi che i Molossi tenessero la
capitale in un luogo così separato per via di montagne dal loro
vero paese, e già fin d'allora inclinava a credere che quelle ruine
spettassero piuttosto all'antica Dodona. Deliberò adunque di
aprirvi degli scavi per trovar qualche docuniento in appoggio
della sua ipotesi, ed ebbe la soddisfazione di ottenerne la con-
ferma più splendida e più piena. Fra la massa di oggetti votivi
usciti in luce, vennero anche raccolte numerose iscrizioni relative
al Giove pelasgico ed alla sua compagna Dione, iscrizioni che at-
testarono in modo inappuntabile essere quello veramente il sito
del venerando sacrario di Dodona.
•È facile comprendere con quanta alacrità vennero allora con-
dotti gli scavi. Incominciati fin dal 1875, continuarono per più di
dieci mesi occupando una superficie di 20,000 metri quadrati e pe-
netrando ad una profondità media di metri 2,50. I risultati fu-
rono preziosissimi. Non solo restò definitivamente fissata l' ubica-
zione dell'antico tempio dodoneo, primo centro religioso delle razze
pelasgo-elleuiche, ma furono riposti in luce molti avanzi di edi-
tìzi connessi col tempio e molti voti dedicati a Giove ed a Dione ;
vennero chiariti molti particolari inerenti al culto di Giove, alla
maniera come gli si rivolgevano le domande, non che ai rapporti
che passavano fra sacerdoti e profani. Infine fu raccolto un ma-
teriale imponente sia per ricostruire la storia della località dai
suoi tempi più remoti fino ai più recenti, sia per avere un'idea
sufficiente dell'arte della Grecia settentrionale, di cui Dodona era
divenuta la più ricca rappresentante, e che sembra aver avuto
uno sviluppo proprio ed indipendente dal resto dell'arte ellenica.
Taluni fra i più curiosi oggetti raccolti dal Carapanos erano
stati prontamente divulgati per il mondo scientifico, ed i perio-
dici esteri, specialmente francesi, la lievue Archeolo(jique, la Ga-
iette de Beaux-Arts, la Gaiette Archéologique, i Monuments
Grecs, ne aveano già tatto gustare dei saggi. Ma era un ecci-
tare anziché soddisfare la curiosità, era un accendere vieppiù il
desiderio della pubblicazione completa di tutte le scoperte. Ed a
VÒL. XIV, Serie 11—15 Aprile 1819. 40
642 LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
tale desiderio ha soddisfatto appunto di recente lo stesso bene-
merito scopritore con una grande pubblicazione con testo in 4"
grande e corredata di un atlante di 63 tavole. L'opera ha otte-
nuto un favore immenso. Poiché senza abbandonarsi a difficili elu-
cubrazioni archeologiche, espone con molta chiarezza la storia
dello scavo e delle singole scoperte, contiene dotte spiegazioni
dei monumenti artistici ed epigrafici, dovute le prime al Nestore
degli archeologi francesi il barone De-Witte, ed al Heuzey il
dotto esploratore della Macedonia, le seconde al filologo Egger
membro dell' instituto, ed al prof. Foucart il commentatore delle
iscrizioni di Delphi. L'atlante offre, disposti in bell'ordine, ripro-
dotti con molta esattezza ed anche con lusso, tutti gli oggetti per
qualche riguardo meritevoli di essere conosciuti, ed in tal modo
presenta tutto il materiale per risolvere le varie quistioui stori-
che ed artistiche eh' era da attendersi veder sollevate da scoperte
così vaste, così nuove e così importanti.
Circondata a nord-est dalla catena delle colline di Manoliassa
e di Cosmira, ad est, sud ed ovest dalle gigantesche montagne
di Olitzica, il Tomaros degli antichi, irrigata da ruscelli nume-
rosi che affluiscono ad un torrente il quale tutta la traversa per
la sua lunghezza, la valle di Dodona offre l'aspetto di un recesso
separato dal resto del mondo, un luogo sacro e venerando, stu-
pendamente adatto per la sede di un Dio misterioso. Per molti
rispetti la sua postura ricorda quella di Olimpia, circondata da
colline e dalle robuste giogaie dell'Arcadia e chiusa in mezzo alle
due correnti dell' Alfeo e del Cladeo, come fosse la sede terrestre
riserbata unicamente al Sommo Giove.
E difatti, al pari di Olimpia ed anche di Delphi, Dodona non
era una città, ma soltanto un centro religioso, un luogo consa-
crato unicamente agli Dei, ove governi e privati convenivano in
circostanze supreme per interrogare la loro volontà, per cele-
brarvi delle feste e dei giuochi, per offrire voti e ringraziamenti
di favori e vittorie ottenute. Era il luogo ove avea sede un Dio
venerato in comune da gente della medesima razza, epperciò era
una specie di anello religioso che univa fra loro Stati diversi.
Nei tempi primitivi e presso popoli gelosissimi della propria au-
tonomia, quando le alleanze politiche erano ributtate dalla fie-
rezza egoistica del comune, il culto religioso di un Dio ricono-
sciuto da tutti diventava l'unico legame fra gli Stati. Per cui non
mai come nell'antichità il significato filologico della religione cor-
LE BUINE E GLI SCAYI DI DODONA. 643
rispose cosi perfettamente a quello storico. Di qui sorsero le prime
anfizionìe, le prime confederazioni, a chiamarle con nome odierno,
di cui la più antica fu Dodona, la più celebre Delphi, la più
universale, quella che abbracciò poi non solo taluni, ma tutti
quanti gli Stati della Grecia, Olimpia. Merita ancora di essere ri-
levato che la creazione di tutti tre quei centri religiosi della
Grecia sembra essere dovuta all' iniziativa delle razze settentrio-
nali della Grecia, alle razze doriche, pratiche e conservatrici.
Delphi venne senza dubbio fondato da esse, perchè prima
ancora che occupassero la Focide possedevano le sacre anfizionìe
in Tessaglia che trasportarono in seguito a Delphi. Oltre a ciò
il nume venerato in questa località, quantunque nei tempi sto-
rici fosse Apollo, in origine sembra essere stato Giove, il Dio
pelasgico; e ciò è provato dalle tradizioni poetiche, secondo cui
Apollo comunicava i responsi per bocca di Giove. In seguito suc-
cedette Apollo, ma solo più tardi e probabilmente con l'esten-
sione delle razze ioniche che veneravano in Apollo, padre di Ione,
il loro patrono.
Dell'oracolo di Olimpia si fa rimontare l'origine a tempi
remotissimi; ma uè i poemi omerici ne fanno menzione, né della
sua esistenza si hanno notizie prima dell' emigrazione dorica. E
certo poi che la potenza di quel luogo fu stabilita solamente al-
l' epoca di Licurgo, quando gli Spartani aiutarono efficacemente
gli Elei contro i Pisati, quando, per la lega strettasi fra Sparta ed
Elide, il territorio di Olimpia fu dichiarato sacro e venne promul-
gato un editto simile a quello che regolava 1' anfizionìa di Delphi.
Quanto a Dodona, se l'antichità dell'oracolo e l'oscurità dei
tempi non ci permettono di constatare da qual popolo venne fon-
dato, si hanno però molte ragioni per credere che ne siano stati autori
similmente i Dori. Essi infatti appartengono alle razze tessali-
che che abitavano le contrade circostanti all'oracolo, ed i riti, le
cerimonie ed il culto connesso col Giove di Dodona, e la natura
stessa del nume venerato, tutto trova il più vivo riscontro con
r oracolo delfico, la cui origine dorica non può essere soggetto
di dubbio.
In ogni caso l'oracolo di Dodona era d'ogni altro il più an-
tico. Sotto le mura di Troia il tessalo Achille invoca, a proteg-
gere il suo amato compagno Patroclo, la potenza del Giove pe-
lasgico: Ulisse si reca espressamente a Dodona per conoscere dalla
fatidica quercia come dovrà far ritorno ad Itaca. L'età eroica è
piena di leggende di personaggi. Ercole, Creonte, Oreste, Enea,
644 LE KUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
che nelle supreme circostanze ricorsero all' oracolo dodoneo, il
che prova come allora dominava padrone assoluto su tutta la
Grecia.
Nei tempi storici invece, da una parte Delphi con la sua in-
fluenza politica, dall'altra Olimpia col suo carattere panellenico
riuscirono ad affievolire l'importanza di Dodona. Cionondimeno
essa fu sempre tenuta in altissima venerazione, e se perdette dal
lato politico e legislativo, acquistò invece sotto il rispetto, per
dirla così, famigliare. Non solo negli antichi scrittori abbondano
le prove che pur nell' epoca storica Dodona venne consultata da
popoli, da Stati e da privati, ma e le iscrizioni raccolte dal si-
gnor Carapanos nei suoi scavi ed i numerosi ex voto, e gl'impo-
nenti piedistalli che sorreggevano grandiosi doni votivi, e la cinta
della città ed il teatro, e le costruzioni tuttodì superstiti le quali
spettano ai tempi più floridi dell' arte, e le monete di tutte le
età fino a quella di Costantino, che vi furono raccolte, dimostrano
che r oracolo di Dodona venne consultato fino ad epoca tardis-
sima, cioè fino alla sua distruzione. Questo avvenne al principio
del quarto secolo, quando sotteutrato il Cristianesimo al politeismo
ellenico, il tempio di Giove fu trasformato in chiesa cristiana.
Dodona non era una città nello stretto significato della pa-
rola, ma era luogo frequentatissimo, ed in alcune circostanze, per
esempio nelle rappresentazioni teatrali, nella celebrazione dei
giuochi, anche assai popolata. Oltre a ciò le cerimonie relative
al culto, il servizio del tempio, la collocazione dei doni votivi esi-
gevano la presenza continua ed immediata di un discreto personale.
Era quindi naturale che non dovesse mancare un sobborgo, un
luogo per abitazione. Con ciò si spiega la presenza a Dodona di
talune costruzioni profane, circontanti al tempio, ma interamente
segregate da esso. Le più importanti sono un grande recinto qua-
drato, che racchiudeva la parte abitata, ed il teatro.
11 recinto, conservatosi ancora quasi intatto, ha una sola porta
d'ingresso fiancheggiata da torri. Similmente per tutta la sua
estensione è seminato di torri collocate ad intervalli pressoché
uguali fra loro. La sua costruzione risale con molta probabilità
ai tempi più remoti di Dodona, all' epoca pelasgica, giacché ai
fianchi nord ed ovest, i blocchi presentano quel taglio irregolare
e poligonale che riscontrasi a Tirinto e Micene ed è indizio di
un'altissima antichità. Gli altri due fianchi invece vennero rifatti
all'epoca ellenica, epperciò presentano la costruzione quadrata
propria dei bei tempi.
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 645
Ai tempi migliori dell'architettura greca spetta pure il teatro,
che trovasi non molto discosto dall'abitato, a sud-est di esso. Ca-
rapanos lo dice il più grande ed il meglio conservato fra i teatri
greci. Ma il diseguo che ne porge non mi trae al suo parere.
Finora, a mio avviso, il teatro di Dioniso in Atene è il più grande
ed il meglio conservato fra tutti i teatri ellenici. Non voglio dire
con ciò che quello di Dodona sia in cattivo stato. Le gradinate,
originariamente in numero di quarantanove, la galleria superiore
che corona l'edifizio, la costruzione della cavea, tutto è sufficiente-
mente conservato. Cionondimeno non possono gareggiare con l' in-
tattezza, per dirla così, dei gradini, della cavea, e dei sedili sa-
cerdotali del teatro ateniese. Non parliamo degli ornati. A
Dodona perfino il teatro conserva la severità pelasgica, mentre ad
Atene lussureggia l'eleganza ionica.
Veniamo ora alla parte più importante delle mine, cioè al
tempio. Il tempio ed i suoi annessi erano chiusi tutto all'intorno
e separati da ogni edifizio profano, mediante un vasto recinto di
muro molto irregolare, atteggiato alla forma di un quadrangolo.
Un fianco era costituito dallo stesso muro meridionale di cinta
dell' abitato : un secondo dal prolungamento di quello orientale,
il quale girava poi anche a nord, per venire poscia a raggiun-
gere ad ovest mediante alcuni serpeggiamenti la precinzione
superiore del teatro. Con molto giudizio il sig. Carapanos ravvisa
nella vasta area compresa entro questo recinto due parti distinte:
quella del tempio propriamente detta e quella del temenos o pe-
ribolo. Erano due sezioni separate anche naturalmente fra loro
per via di una lunga schiena di terra che a guisa di contrafforte
stava a cavaliere del tempio. Perfino gì' ingressi riserbati al tempio
ed al temenos erano distinti. Quello che conduceva al tempio
trovasi ad oriente ed è fiancheggiato da due elevazioni di terra
distanti fra loro cinquanta metri. Nello spazio racchiuso fra queste
due elevazioni, in quella valle, per dirla così, giaceva il tempio
di Giove trasformato oggidì in chiesa cristiana.
La trasformazione è stata proprio completa. Adesso non riesce
più possibile determinare la pianta primitiva e neppure l'ordine
architettonico del tempio. Cionondimeno non può cader dubbio
che questo non fosse il suo vero sito. Lo hanno posto fuori di
contestazione le numerose statuette votive in bronzo, e più ancora
le iscrizioni su lamine di bronzo e di piombo contenenti domande
rivolte dai devoti al Giove Dodoneo, oggetti tutti che si raccolsero
dagli scavi praticati ivi alla profondità di tre metri.
646 LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
Eimettendo l'esame delle statuette a più oltre, quando trat-
terò dell'arte nel settentrione della Grecia, trovo opportuno di
riferir qui un saggio delle principali domande e preghiere che
i credenti rivolgevano all'oracolo di Giove. Queste domande e
preghiere venivano dal postulante stesso, o da altri in sua vece,
scritte sopra laminette rettangolari di piombo, consegnate ai sa-
cerdoti e deposte poscia nell' interno del tempio. Le domande
sono scritte quasi sempre con lettere molto chiare, profonde, ed
assai nette. Ci si vede una certa cura posta dallo scrivente af-
finchè il Dio potesse leggere esattamente e non fraintendesse il
senso della domanda. Epperciò le lettere sono tutte in carattere
epigrafico ; di scritte in corsivo non ve n'ha che una sola epperciò
maggiormente preziosa. Quantunque la scrittura delle lamine sia
sempre netta e non contenga ordinariamente che una sola di-
manda, si osserva tuttavia che spesso alle prime lettere altre ne
vennero sovrapposte sia più fine e minute, sia più grandi e pro-
fonde. Sono per lo più poche lettere, ora il nome del postulante
che aveva omesso di apporvelo, ora aggiunte di pensieri dimen-
ticati. L' irregolarità con cui sono tracciate queste correzioni ed
aggiunte rivelano la fretta dello scrittore, e fauno pensare che
siano state scritte nel momento stesso in cui dovevano consegnarsi
al sacerdote ; forse l'omissione e la dimenticanza era stata sola-
mente avvertita da esso, e le aggiunte vennero fatte in presenza
sua. Tutto questo dovea turbare quella fiduciosa tranquillità ser-
bata fino allora dal postulante ed infondergli un sacro sgomento
che non avesse omesso anche altre cose, od espresso bene la do-
manda, 0 che questa finisse per riuscire oscura al Dio stesso.
Perchè contemplando queste laminette mi traversa la mente
un' idea che, senza mancar di rispetto al Giove Dodoneo, comu-
nico ai lettori. Ed è che queste omissioni, pentimenti ed aggiunte
venissero a bello studio suscitate dai sacerdoti allo scopo quasi
di preparare il postulante a giustificare egli stesso l'oscurità della
risposta che l'oracolo avrebbe pronunziato.
Intanto codesti intralci di difìerente scrittura, queste sovrap-
posizioni di lettere, congiunte con la superficie opaca del piombo,
le cui screpolature bizzarre assumono spesso la forma di lettere, con-
fondendo e guastando le lettere vere rendono la lettura di queste
iscrizioni difficilissima. Per convincersene basta gettare uno sguardo
sulla tavola LX dell'atlante di Carapanos in cui sono riprodotte
con la fotografia quattro di siffatte laminette plumbee. 11 rica-
vare qualche senso da quell' intreccio di linee e di segni, sembra
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 647
impresa disperata. Tuttavia il valente ellenista francese profes-
sore Foucart è riuscito a decifrarle e sempre assai felicemente,
ed è in grazia alla sua fatica che ora ci è dato di conoscere il
contenuto di queste laminette, le quali nel campo pur cosi uber-
toso dell'epigrafia sono una vera novità. Esse riescono di sommo
interesse non solo per la lingua greca, ma anche per la conoscenza
del sentimento religioso o meglio superstizioso del popolo greco,
di cui ci rivelano un lato fin qui quasi interamente sconosciuto.
Gli oggetti delle domande presentano la più grande varietà :
talune hanno uno scopo politico, altre riguardano affari privati
0 religiosi o commerciali : non mancano i delicati segreti di fa-
miglia, e neppure le consultazioni mediche.
La popolazione di uD,a città il cui nome non è conosciuto,
chiede all'oracolo se potrà conservare la propria sicurezza allean-
dosi con i Molossi.
I Corciresi domandano quali voti e quali sacrifizi debbonsi
fare per ottenere i benefizi della concordia.
Parecchi consulenti domandano all'oracolo d'indicare a quale
partito dei tre fra cui sono in dubbio debbono appigliarsi.
Una donna vuol sapere dall'oracolo se la sua copertura del
capo ed i suoi orecchini furono perduti o rubati.
Una donna domanda le si indichino i sacrifizi da fare per
guarire da una malattia.
Lisanias, il quale ha qualche dubbio sulla fedeltà di Nila,
domanda se il bambino ch'essa porta in grembo è di lui.
Un altro, il quale per prudenza non declina il proprio nome,
chiede all'oracolo se gli convenga occuparsi in persona della pro-
pria villa e dei propri campi.
Un altro, il quale vuol conoscere dall'oracolo se egli riuscirà
nella sua impresa commerciale, con precauzione anche maggiore non
dichiara né il proprio nome né l'impresa a cui si vuol dedicare.
Un abitante di Ambracia vuol conoscere il Dio da cui potrà
ottenere salute e fortuna.
Ma vi sono anche delle domande molto affettuose, come la
seguente :
Una madre domanda all'oracolo, se facendo una data cosa per
il suo bambino, questo ne avrà giovamento.
In generale però le domande sono materiali ed egoistiche :
valga ad esempio la seguente :
Un pastore promette riconoscenza all'oracolo, se gli riuscirà
un'operazione che sta facendo sul suo gregge.
648 " LE BUINE E GLI SCAVI DI D0D0N4..
Molte altre domande vi erano il cui contesto, per la frattura
0 per la soverchia corrosione del piombo, non è più intelligibile.
Ma mentre le iscrizioni dei postulanti sono così numerose ed
abbastanza chiare e perfino verbose, le risposte dell' oracolo si
fanno molto desiderare, e quelle poche, tre o quattro in tutto, che
si posseggono, brillano per brevità di linguaggio, per oscurità ed
ambiguità di senso. Il che d' altra parte ben conviene all' indole
dell'oracolo, e conferma la fama poco onorevole di cui nell' an-
tichità stessa fra le persone intelligenti godevano siffatti responsi.
Non ostante l'ambiguità della risposta che lasciava il cliente
iù un'incertezza anche maggiore di prima, uè l'intensa fede si af-
fievoliva uè veniva meno la sui^erstizione. Che anzi con più calore
si rendevano grazie al Dio e Ja riconoscenza veniva significata per
mezzo di doni e di voti. I privati e le persone di censo limitato
restringevansi ad offerte di esiguo valore, per lo più ad utensili
della vita domestica sui quali peraltro facevano incidere imman-
cabilmente il nome dell' offerente e quello della divinità a cui
l'oggetto veniva consacrato. Gli scavi eseguiti dal sig. Carapanos
nell'interno del tempio hanno dato in luce una serie considerevole
di piccoli vasi, treppiedi, patere, fiale, specchi, nastri, passatoi, can-
delabri, dischi, cerchi, anelli, oggetti tutti di bronzo, e la mag-
gior parte frammentati. Le iscrizioni tracciate anche qui in ca-
rattere epigrafico sono fatte a puntini e situate all' orlo oppure
sui manichi degli oggetti, talvolta anche ai piedi. Spesso il voto
non è fatto solamente a Giove, ma anche alla sua compagna Dione,
e ve n'ha pur uno alla dea Afrodite che in epoca posteriore venne
identificata con Dione e ne occupò il posto.
Le domande all' oracolo e le iscrizioni sui doni votivi costi-
tuiscono la parte più originale e curiosa delle scoperte di Cara-
panos. Ma non sono esse che attestano la grande e vera impor-
tanza storica e morale del santuario di Dodona. La superstizione,
riflesso dell'anima volgare, fu in ogni tempo accarezzata e lusin-
gata dal sacerdozio, ma non diventò mai fondamento stabile di
nessuna istituzione. Col culto di Giove erano connessi riti di un
ideale civile assai più nobile ed elevato che non fosse la tenta-
zione dell'oscuro avvenire. La presenza del Nume supremo veniva
invocata dai sacerdoti come garanzia di atti solenni così politici
come morali che venivano conchiusi fra Stato e Stato, fra Stato
e cittadini, fra padroni e schiavi. Voglio alludere specialmente
alla cerimonia dell' affrancazione degli schiavi. Per la coudizione
veramente deplorevole in cui nella società antica trovavasi lo schia-
LE KUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 649
vo, esso, anche dopo quando con sforzi inauditi, spesso con il sa-
crifizio di tutta la sua vita, era riuscito ad acquistarsi la libertà,
poteva, da un momento all'altro, vedersi ritolto questo dono pre-
zioso, sia dal padrone stesso o dai parenti e discendenti di lui,
se all' atto della liberazione non avesse presieduto un Dio che si
assumeva sopra di sé la tutela dello schiavo liberato. Perciò l'af-
francazione dello schiavo veniva, nei tempi più antichi, conside-
rata come una vendita dell'uomo alla divinità.
Siffatta forma di affrancazione degli schiavi fu per la prima
volta rivelata all' archeologia in modo veramente solenne dalle
iscrizioni scolpite sui blocchi del muro pelasgico che forma il
basamento del tempio di Apollo a Delphi. Il primo a copiarle fu
il celebre Ottofredo Miiller che colpito dai raggi esiziali del sole
di Delj^hi espiò con la vita quell' ultima sua fatica. Lo scolaro ed
amico suo Ernesto Curtius, fra le cui braccia il Miiller era spirato,
pubblicò quelle iscrizioni nel 1844 e le dedicò alla pietosa memo-
ria del maestro. 11 Lebas le ripubblicò nel suo viaggio archeologico
in Grecia e nell'Asia Minore, ed il Wallon se ne valse per la sua
dotta opera Histoire de Vesclavage. Ma nel 1863 i signori Foucart
e Wescher, della scuola francese di Atene, eseguirono a Delphi,
intorno al basamento del tempio di Apollo, aijpositi scavi dai quali
ritrassero quattrocento ed ottanta iscrizioni, delle quali quattro-
cento trentadue contenevano atti di affrancazione di schiavi. Con
un materiale così imponente fu conosciuta una serie di partico-
lari precisi e cimosi intorno a quella cerimonia a cui presso la
società antica era annessa tanta importanza.
L'affrancazione avea luogo mediante un doppio contratto che
stipulavasi tra il padrone ed il Dio, e fra il Dio e lo schiavo. La
formola adibita pel contratto era incirca sempre la medesima
quindi tipica, ed il Foucart ne propone come modello la seguen-
te : « Cleoue, figlio di Cleosseno, ha venduto ad Apollo un corpo
maschio, che ha nome Hystieo, di Siria, per il prezzo di quattro
mine, affinchè Hystieo sia libero, e nessuno possa porre le mani
sopra di lui per tutta la sua vita. » Il contratto era preceduto
dal nome dell'arconte delfico, dai nomi dei tre senatori in carica
durante il semestre e dal nome del mese per la data, e terminava
con i nomi dei testimoni che avean presenziato l'atto. Una copia
del contratto veniva poscia scolpita sopra il muro del Santuario
del Dio nel cui nome esso erasi stipulato. Ed era questa inci-
sione sul muro, che equivaleva ad un deposito della copia negli
archivi del tempio che dava all'atto un carattere religioso e che
650 LE KUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
più ancor della scrittura era ima garanzia per l'esecuzione. Fir-
mato il contratto, avea luogo la cerimonia dell' affrancazione. 11
padrone accompagnato dallo schiavo si presentava davanti la so-
glia del tempio, che non era lecito a nessun profano di varcare.
I sacerdoti venivano ad incontrare lo schiavo che si conduceva al
Pio, ed in presenza dei senatori e dei testimoni rimettevano il
prezzo convenuto e ricevevano il giuramento da ambe le parti.
In certa guisa aduu(|ue era il Dio stesso che comperava lo schiavo
per mezzo dei suoi sacerdoti e gli faceva dono della sua libertà.
Ma ciò avveniva solamente nelle epoche più remote, quando lo
schiavo liberato veniva adetto al servizio materiale del tempio.
In seguito però, siccome non era il tesoro sacro del tempio che
forniva la somma della compera, ma lo schiavo stesso che se la
era procurata con le fatiche e con i risparmi, cosi la compera
della sua libertà per mezzo dei sacerdoti non era più che una
formalità, la quale valeva soltanto come garanzia per l'esecuzione
del contratto da parte del padrone.
Queste brevi notizie intorno alla formola ed alle cerimonie
che accompagnavano l'affrancazione a Delphi erano necessarie, sia
per comprendere le analoghe iscrizioni che furono raccolte dal
sig. Carapanos nell'interno del tempio di Giove Dodoneo, sia per
chiarire la destinazione di alcuni edifizi contigui al tempio e di-
pendenti da esso.
Le iscrizioni di Dodona non sono scolpite sai muri che for-
mano la sostruzione del tempio, ma sopra lamierette di piombo
e di bronzo, depositate poi nell'interno del santuario come in un
archivio sacro. Le laminette raccolte dal Carapanos sono in nu-
mero di 37, di cui solo cinque intere e le altre più o meno fram-
mentate.
Tutte quante sono scritte in caratteri epigrafici, e la mag-
gior parte punterellate, il qual genere di scrittura si vede che
a Dodona era il predominante. Anche la formola di affrancazione
è molto più breve e sobria che non sulle iscrizioni delfiche. Co-
mincia quasi sempre con l' invocazione alla buona fortuna, segue
la dichiarazione del padrone di vendere il servo per un prezzo
determinato che è molto più esiguo che non a Delphi, limitan-
dosi per lo più ad una mina, mentre a Delphi il prezzo medio
di uno schiavo erano quattro mine. Ciò prova che nel settentrione
della Grecia erano meno ricercati ed usati. La dichiarazione ter-
minava col nome dei testimoni quasi sempre in numero di
quattro.
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA. G51
La data del contratto si rileva dal nome del naiarco e del
prostata dei molossi. Il naiarco di Dodona corrisponde all'arconte
delfico ed indica il gran sacerdote di Giove Naios, epiteto che
Delle iscrizioni dodonee viene spesso aggiunto al Giove pelasgico.
Le funzioni invece che i senatori compivano a Delphi erano a
Dodona esercitate dal prostata, cioè protettore dei Molossi, un
capo eponimo, un magistrato supremo, il quale fino dall'epoca
dei re di Epiro stava a fianco del re e quasi ne controllava il
potere.
Se r atto era preceduto o seguito dalla cerimonia della con-
segna del servo liberato al sacerdote, come usavasi a Delphi, è ciò
che le iscrizioni dodonee non ci fauno conoscere, e che neppure
può dedursi dall' esame delle costruzioni circostanti al tempio.
Queste invece potranno giovare per chiarir meglio le cerimonie
eh' erano connesse con il responso dell'oracolo.
A dieci metri incirca dal sacrario dodoneo sono gli avanzi
di una costruzione quasi quadrata di m. 19,50 su 18, i cui quat-
tro muri interni suddividonsi in diversi ambienti dall'aspetto di
corridori e camere rettangolari. Circa 48 metri più avanti no-
tansi i resti di un' altra costruzione di forma trapezoidale con me-
tri 42,50 sopra 32. Nell'interno punti muri di divisione. Solamente,
addossata ad un fianco di essa, una scala di cui gli scavi hanno
posto allo scoperto quattro gradini la cui ellenica fattura è resa
evidente dalla diligenza del lavoro. All' esterno di questo muro
a cui la scala appoggiava, osservansi sette contraflbrti che altro
scopo non sembra abbiano avuto fuorché quello di un più valido
sostegno.
A ragione il Carapanos, nell'incertezza d'indicare la destina-
zione di queste costruzioni, congettura che venissero adibite per i
differenti sistemi di divinazione praticati dall'oracolo. L' ipotesi
appoggia anche sul fatto che nel primo edifizio venne raccolto
un gran numero di monete in bronzo ed in tutti due numerosi
oggetti di bronzo figurato. Ma la natura dell' oracolo di Dodoua
spiegherà meglio il motivo di quelle costruzioni.
L' oracolo di Dodona era Ieratico, vale a dire di quelli in cui
il Dio invocato manifestava la propria volontà per mezzo di se-
gni, la cui spiegazione peraltro era riserbata soltanto a persone
rivestite di carattere sacro, ed ispirate dal Dio stesso.
È chiaro che tali persone non erano altro che i sacerdoti.
Questi sono chiamati da Omero Selli, e detti dai piedi non la-
vati e dormienti sul terreno. La loro presenza però, come con
652 LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
rao-ione lia già latto osservare Scliomaun, nou esclude cxuella delle
sacerdotesse, le quali, come la pitonessa di Delphi, erano più fa-
cili ad essere inspirate ad aprir l'animo alle rivelazioni del
nume, e quindi venivano dagli antichi assomigliate alle sibille.
I responsi peraltro non venivano direttamente comunicati ai
profani dalla sacerdotessa chiamata a Dodona « Peliade » ed a
Delphi, « Pitonessa, » ma venivano rivelati e spiegati per mezzo
di segni dai sacerdoti. Ora già in questo fatto della comunica-
zione dei responsi per via di segni si ha una prova che i pro-
fani ed i sacerdoti non trovavansi per questa circostanza a con-
tatto fra loro, ma stavano a distanza gli uni dagli altri.
In coteste pratiche di comunicare i responsi per via di se-
gni possono trovare spiegazione le due fabbriche più sopra de-
scritte. La prima situata a solo otto metri di distanza dal tem-
pio era forse destinata ad accogliere i sacerdoti perchè potessero
più agevolmente udire dalla bocca della Peliade i responsi fa-
tidici, e comunicarli immediatamente, senza moversi dal posto, ai
consultanti. La seconda poi poteva essere riserbata ai consulenti
stessi situati a maggior distanza affinchè i segni riuscissero cir-
condati di maggior solennità e mistero. Trasportiamoci un mo-
mento con r immaginazione a quei tempi remoti pieni d'ignoranza
e di superstizione allorquando 1' uomo colpito da sventura, o cu-
pido di conoscere il futuro, movea da lontani paesi, per recarsi
ad interrogare la volontà del nume a Dodona. Allora quel sito
ove sorgeva, severo e maestoso, il sacrario del Dio era tuttoquanto
attorniato da foreste e specialmente di querele. Una di queste,
la più sacra, fiancheggiava il tempio, vale a dire si trovava quasi
sullo sbocco dell' ingresso del recinto. 11 vento vi soffiava quasi
sempre e fortissimo, perchè Dodona è situata 500 metri sopra il
livello del mare e l' inverno vi è rigorosissimo. Oltre ciò la ven-
tilazione potevasi ottenere anche artificialmente, procurando una
forte corrente d'aria dall'apertura dell'ingresso a nord^est. Allora
lo stormir delle fronde, il sacro silenzio del luogo, l'apparato tea-
trale in cui i sacerdoti non doveano dimenticare di avvolgere la
cerimonia, il rumor della fonte che cadeva, tutto questo non po-
teva a meno che produrre nell'animo del credente un'impressione
di terrore ; ed in tale stato, qualsivoglia responso, qualsivoglia se-
gno, qualsivoglia spiegazione non poteva a meno che credersi di
origine divina.
Per ciò che riguarda adunque le pratiche con cui i sacer-
doti ottenevano e comunicavano i responsi, pratiche che dalle
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 653
sole notizie degli scrittori non si potevano determinare, gli scavi
del sig. Carapanos hanno permesso di formarci un'idea se non
perfettamente esatta, almeno molto simile al vero, in grazia
appunto di codeste costruzioni che sorgevano in prossimità del
tempio e ne dipendevano.
Ma la costruzione più considerevole annessa al recinto del
tempio è quella che Carapanos chiama il fcmenos, che vorrebbe
dire propriamente la parte segregata dal tempio. Esso infatti è
chiuso tutto all'intorno da un muro che vorrebbe descrivere una
figura quadrata, ma che è riuscito ad una forma moltissimo ir-
regolare a causa dell'ineguaglianza del terreno. Come ho detto
più sopra l'area del temenos era separata da quella del tempio
per via di una forte elevazione di terra che segna il limite sud
del tempio e quello nord del temenos. Oltre ciò, mentre l' ingresso
del tempio apresi ad est, quello del temenos trovasi a sud-ovest
in mezzo a due specie di torri quadrangolari, di cui, una forma
il termine del lato ovest del muro, l'altra quello del sud. Queste
due torri sono distanti fra loro quasi 12 metri e nello spazio fra
esse compreso trovansi in piedi due tamburi di colonne in tufo.
L'opinione del Carapanos che qui fosse l'ingresso principale al
temenos mi sembra molto probabile, formandovi appunto le torri
e le colonne intermedie una specie di propilei.
L'interno del temenos dovea essere altravolta la parte più
sontuosa, più ricca di Dodona. Vi si trovavano raccolti le statue
in bronzo, i doni votivi più grandiosi, i monumenti più insigni
per arte che governi e privati aveano inviato per testimoniare la
loro venerazione al Dio di Dodona. Ora quella vasta area è de-
serta, e dell'antica sontuosità e grandezza non avanza altro ve-
stigio all'iufuori dei muri presso cui i monumenti erano allineati,
ed i piedistalli che li sorreggevano. I muri formano due specie di
corridoi, l'uno al fianco orientale, l'altro a quello occidentale del
recinto. Dall'estremità di quest'ultimo si distacca un edifizio qua-
drangolare di 26 metri per 10,60 chiuso da ogni parte e col pa-
vimento coperto di pietre. Proprio nel mezzo vi dovea sorgere una
grande statua, della quale rimane ancora oggidì al posto il pie-
distallo rotondo formato da tre gradini di pietre sovrapposte. Da
una ruota in bronzo con iscrizione dedicatoria ad Afrodite, rac-
coltavi in vicinanza, il Carapanos è indotto a credere che ivi fosse
un sacrario di quella Dea.
I piedistalli che sorreggevano i monumenti sono di forme e
grandezze svariatissime, ma in generale si mostrano capaci di
654 LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
moli cousiderevoli. Per quanto si può giudicare dalle basi super-
stiti ancora al posto, anche i monumenti doveano essere assai
variati. Predominanti erano forse le statue isolate, perchè i piedi-
stalli a pianta quadrata e di modeste proporzioni sono i più nu-
merosi. Ma abbastanza frequenti sono pur quelli di pianta ret-
tangolare e di dimensioni assai maggiori in modo da poter ricevere
non solo due ma anche tre statue e perfino statue equestri. Me-
ritano speciale ricordo per la loro forma peculiare e per le stra-
grandi dimensioni quattro basamenti, tre dei quali di forma se-
micircolare e terminanti a ciascun corno in una base quadrata da
colonna. Su ciascuno di questi basamenti potevano disporsi più
statue costituenti un solo e grandioso dono votivo, secondo il prin-
cipio di comporre prevalente nelle scuole artistiche del Pelopon-
neso ed in generale delle scuole doriche. Le statue doveano essere
per maggior parte di bronzo, sia perchè sono tutte lavorate in
questo metallo quelle raccolte dagli scavi e sfuggite alla distru-
zione, sia pure perchè pochissimi e proprio insignificanti sono i
frammenti di opere marmoree riposti in luce dai lavori. Il ma-
teriale di bronzo in cui le statue erano lavorate ne ha favorito
sia il rubamento sia la fusione. In ogni caso la spogliazione è av-
venuta in modo completo ed accompagnata da incendio. Ciò è
provato dagli strati di terra che ricoprono adesso l'area del te-
menos. Lo strato più superficiale è una terra d'alluvione : un metro
più basso comincia un secondo strato composto in gran parte di
frammenti di mattoni e di terra nerastra con molti avanzi di legno
bruciato e di carbone in polvere. Questo strato, come dice Ca-
rapanos, è il predominante e si ritrova 'anche attorno ai piedi-
stalli dei monumenti votivi. Queste traccie d'incendio e più la
mancanza assoluta di qualsivoglia costruzione nell'interno del te-
menos fanno credere che vi fossero edifizi in legno, divorati com-
pletamente dalle fiamme al tempo della distruzione e spoglia-
zione del tempio. Cosi in un'ora sola la barbarie degli uomini e
la voracità degli elementi hanno violato i luoghi rispettati e ve-
nerati per tanti secoli ed hanno consumato tante stupende crea-
zioni del severo genio artistico dei Dori.
Certo che ove le nobili fatiche di Carapauos fossero state
compensate dall'acquisto di alcune almeno fra quelle scolture mo-
numentali, le nostre conoscenze intorno all'arte della Grecia set-
tentrionale, tuttora così deficienti ed incomplete, avrebbero im-
mensamente guadagnato. Ciò nondimeno anche con i piccoli lavori
d'arte ed industria raccolti qua e là dagli scavi si può tentare
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 655
di definire approssimativamente il carattere e le vicende principali
di quest'arte. Per far ciò dobbiamo procedere con ordine, inco-
minciando dai monumenti più antichi.
Come ho già avuto occasione di accennare altravolta, l'industria
umana più antica è quella dei vasi in terracotta. Nell'opera di
Carapanos però si cerca invano il diseguo di un solo di tali vasi.
Certo essi non erano i più propri per offrirsi alla divinità, ma
almeno non dovevano mancare fra gli utensili del culto. Perciò
la loro assenza è molto sorprendente e deve avere la sua ragione.
Questa sarà forse da cercarsi nell'esuberante abbondanza del bronzo.
Il bronzo di Dodona era così celebre nell'antichità, che passò in
proverbio. Esso si distingueva da tutti gli altri per la sua patina
verde tendente al bleu che già gli antichi paragonavano con la
tinta del mare. Noi crediamo di aver trovato la vera spiegazione
di tale patina, quando la supponiamo prodotta dal lungo deposito
del bronzo sotterra. Ma giustamente il signor Heuzey fa notare
che questo è un errore. Difatti gli antichi stessi ammiravano una
identica patina sopra a' bronzi di Dodona che erano sempre ri-
masti all'aperto: epperciò con molto più giudizio essi la spiega-
vano come effetto dell'aria e del clima, e meglio ancora come ri-
sultato di speciali processi adoperati dai primitivi artisti nella
fusione e lavorazione dei metalli.
Ma i raffinamenti dei processi tecnici non si ottengono che
dalla lunga pratica: epperciò trovandoli a Dodona in epoca così
remota, si è quasi indotti a credere che ivi l'industria più antica,
anziché dei vasi in terra cotta, la fosse dei lavori in bronzo. Gli
oggetti stessi raccolti dal Carapanos sembrano appoggiare l'ipo-
tesi. Molti fra quei vasi di bronzo hanno un carattere arcaicissimo,
il quale e per le forme e per gli ornati trova riscontro solamente
nei monumenti di Micene, nei vasi primitivi dell'isola di Santo-
rino ed in quelli di Spata presso Atene, lì signor Heuzey è stato
il primo a stabilire questi raffronti. Io posso aggiungere che ta-
luni oggetti di Dodona, specialmente il Lebete designato sotto il
numero 2 della tavola XLII, trovano un perfetto riscontro in al-
cuni utensili usciti dalle nostre tombe più antiche del Bolognese
e specialmente dagli scavi Arnoaldi e Benacci. La somiglianza
non concerne soltanto la forma ma persino il processo tecnico
degli utensili, non esclusa la famosa patina verde bluastra. Oltreciò
gli esemplari bolognesi per avere i manici conservati fanno meglio
comprendere come i lebeti stavano in piedi, ciò che dal solo esem-
plare di Dodona non può dedursi. Gli ornamenti di questi vasi
656 LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
antichissimi consistono di linee parallele, di triangoli, di circoli
concentrici, di spirali semplici, di spirali intrecciate, ecc., disposte
con un certo gusto severo per lo più intorno al collo. Gli ornati
adunque appartengono al più antico sistema ornamentale che è
la decorazione geometrica, epperciò la loro importanza storica è
grandissima. Perchè provano ancora una volta come la decorazione
geometrica, lungi dall'essere un portato dell'arte fenicia che con
Dodona centro continentale non ebbe mai rapporti, è un prodotto
originale ed organico dell'arte j^elasgica, come già i monumenti
antichissimi di Atene e di Micene aveano fatto supporre. Se la de-
corazione geometrica a Dodona non ha ricevuto tutta quella esu-
beranza di sviluppo che ci colpisce negli ori di Micene, vi ha
però ottenuto im grandissimo progresso e, ciò che più monta, si è
mano mano allargata sulle medesime basi, sui medesimi principii
che informano gli ornati di Micene. Sulla tavola XLIX dell'atlante
di Carapanos sono riprodotte alcune laminette di bronzo che pre-
sentano un intreccio di linee e di spirali così grazioso, che invo-
lontariamente ci ricordano i bizzarri ornati usciti di recente dalle
tombe di Micene.
Passando ai monumenti a figura umana dobbiamo segnalare
come spettante al periodo più arcaico una testina in bronzo di
un giovane con lunga capigliatura. E tutto ciò che si possiede di
più primitivo in fatto di arte greca. L'insieme della faccia ed i
tratti del volto sono sbagliati affatto, la fronte è depressa, il
mento acuto ed esagerato, bocca e naso affatto informi. Invece gli
occhi hanno una certa espressione aumentata dalla pupilla che
l'artista non ha mancato di segnarvi. I capelli sono trattati a guisa
di una pezzuola a strie orizzontali che cade dietro l'occipite, e
con cui l'artista volea significare la zazzera. In tutto l'insieme
domina senza dubbio il principio dell'arte greca, perchè quella
testa vista di profilo e di dietro ci ricorda quelle analoghe del-
l'Apollo di Thera e di Orcomenos, quantunque sia ancor più an-
tica di esse. E quindi un pezzo importantissimo per le origini
dell'arte greca e specialmente dell'arte dorica. Rimonta al set-
timo secolo avanti Cristo.
Pure al periodo arcaico, ma già ad imo stadio successivo,
spetta una statuina di Satiro in atto di danzare. Senza tema di
sbagliarmi, la posso definire la figura più curiosa e più originale
di Satiro che abbia prodotto l'arte greca. Il Satiro è barbato, ha
orecchie cavalline, una capigliatura più propria della criniera dei
cavalli che non dei capelli umani, piedi fatti ad unghia di ca-
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 657
vallo. Al fondo della schiena rimane un foro in cui era immessa
una coda da cavallo, trovata staccata. 11 resto del corpo invece è
d'uomo, ma non posso a meno, di rilevare la curva tagliente della
schiena che anch'essa ricorda l'elastico dorso cavallino. Il Satiro
con la mano destra sul fianco con la sinistra alzata solleva, come
fanno i cavalli, per danzare, la gamba destra accompagnandone il
movimento con un' inclinazione della testa pieno di espressione,
abbassando l'orecchio come se in quel momento udisse il suono e
volesse assecondarlo con la scossa del capo. È un monumentino
interessante anche per il rispetto mitologico. Finora il tipo sati-
resco si faceva derivare dalla fusione delle forme umane con quelle
caprine. Ora dobbiamo conchiudere che il tipo più antico dei
Satiri fosse, come quello dei Centauri, un misto di forme umane
e cavalline. Quanto allo stile, si nota il predominio dell'arcaismo,
tanto nella durezza dei contorni, quanto nel trattamento dei ca-
pelli e della barba, i cui peli hanno la forma strana di tanti
quadrettini. Per continuare il confronto dei bronzi di Dodona
con quelli antichissimi di Bologna, osservo che una cista rotonda
uscita dalla Certosa ha i sostegni formati appunto da figure di
Satiri accovacciati con piedi cavallini anziché caprini.
Alla stessa epoca del Satiro spettano due statuine di donzelle
di cui l'una suona le tibie e l'altra è seduta. In amendue le teste
i capelli^ cadono dietro le spalle in tanti piccoli quadrettini, e
nella prima formano per di più dei ricci sopra la fronte, in modo
che la loro disposizione presenta una viva analogia con le teste
degli Apòllini di Orcomenos e di Thera. Senonchè nelle statuette
di Dodona lo stile vi è già meno rigido e le forme del volto più
regolari, ragione per cui possono assegnarsi al sesto anziché al
settimo secolo avanti Cristo.
Siccome poi tutti questi bronzi lasciano riconoscere una certa
parentela ed affinità di scuola la quale ha il suo prototipo nelle
scuole doriche, cosi dobbiamo conchiudere, o che nell'Epiro esistesse
una scuola artistica a cui erano famigliari i principii delle altre
scuole doriche, oppure che i doni inviati al santuario dodoneo
fossero esclusivamente lavorati da artisti dorici.
Fra i pezzi di età relativamente più recente dobbiamo anno-
verare una figura di donzella in atto di correre, ed un' altra di
cavaliere. La donzella ha lunghi capelli scendenti a masse dietro
l'occipite ed a trecce sul petto. Vestita di corta tunica senza ma-
niche fa un passo enorme avanzando con la gamba sinistra, mentre
il braccio destro si protende all' indietro, quasi per equilibrare il
VoL. XIV, Serie II — 15 Aprile 1819. 41
658 LE EUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
peso del corpo. Il barone De-Witte interpretò la figura per Ata-
laute. Io la credo o un ritratto, specialmente a cagione del naso
aquilino, o una figura di genere pel confronto che ne trovo con
la corritrice del JVIuseo Vaticano, la prima volta esattamente
interpretata dal Visconti per una donzella che corre allo stadio,
secondo l'uso delle vergini spartane. Niente di più probabile che
anche in Epiro le fanciulle si esercitassero alla corsa. Nella nostra
figurina vuol essere notato ancora il trattamento della carne, il
cui insieme fa l'impressione di gran forza, in ispecie alle gambe,
dove i muscoli sono fortemente accusati e quasi curvi, indizio di
robustezza straordinaria.
Anche il cavaliere è coperto di corta e stretta tunica con le
gambe nude ed arcuate, perchè stava sopra il cavallo, la cui figura
più non si rinvenne. Vi si nota una certa ricercatezza di orna-
menti ed una mollezza nel vestire, perchè porta monili al collo e
fregi alla tunica, mentre abbondanti e fluidi capelli gli scendono
dietro l'occipite. Anche il volto di questo giovane dal naso aquilino
mi sembra un ritratto, e sarà forse un ricordo di monumento più
grande innalzato a qualche vincitore nella corsa dei cavalli. Tanto
la corritrice quanto il cavaliere mostrano uno stile proprio al-
l'arte greca del quinto secolo.
Alla stessa epoca vuol essere riportato un gruppo di un gio-
vanetto a cavallo, pieno di movimento e di vita. Il giovanetto è
interamente nudo : lunghi capelli gli fluiscono dietro le orecchie ;
e mentre con la sinistra regge le redini del focoso destriero, nella
destra stringe lo stimolo. Il cavallo è slanciato a gran carriera,
ed il giovane vi siede impavido sul dorso.
Come ho detto, l' insieme del gruppo è pieno di movimento
ed anche di naturalezza: le proporzioni fra il giovane ed il cavallo
sono rigorosamente osservate, ciò che non fu fatto neppure sul
fregio del Partenone, in cui i cavalli sono troppo piccoli in con-
fronto delle figure. La difièrenza proviene da ciò, che l'arte dorica
era realistica, quella attica idealizzava e cercava di mitigare lo
sgradevole contrasto delle proporzioni fra l'uomo ed il cavallo.
Prima di scendere all'esame delle statue dell'epoca grandiosa
di Policleto, completiamo le nostre cognizioni sull'arte arcaica
con la rassegna dei lavori a rilievo del medesimo periodo. Il pezzo
più antico è senza dubbio una lastretta di bronzo con la figura
di un centauro le cui gambe anteriori sono umane e le posteriori
cavalline. La testa manca, e tutto il corpo è seminato di puntini
per indicare la pelosità del mostro. Sotto il Centauro notansi due
LE EUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 659
file di spirali di tipo molto primitivo, ciò che conferma l'alto
arcaismo del lavoro.
Seguono, in ordine di tempo, due piastre, una quasi intera e
l'altra frammentata, ognuna con rappresentazione in prospetto di
una quadriga, dentro cui stava una Vittoria. L'artista fu abba-
stanza ardito da tentare quattro cavalli ed il carro in iscorcio,
ma non ha potuto evitare gravi errori. Gambe, collo e petto dei
cavalli sono mostruosità, le teste più che di cavallo sembrano di
grifo, mentre la criniera svolazza in maniera impossibile. Non è
a mia cognizione che l'arte attica nel periodo arcaico, abbia mai
tentato figure in scorcio, e sarà questo un altro fenomeno proprio
all'arte dorica del sesto secolo.
Ad uno stadio subito successivo vuol essere riferito un fram-
mento di lastra di bronzo ove rimane la parte inferiore di un
guerriero la cui spalla è trapassata da parte a parte da un'asta.
Quantunque l'occhio sia ancora segnato di prospetto mentre il
volto è di profilo, e benché le orecchie siano troppo grosse e troppo
in alto, tuttavia nell' insieme si ravvisa più correttezza di disegno,
indizio di un'arte progredita.
Gli scavi di Dodona non hanno fornito monumenti che spet-
tino al periodo di transizione dall'epoca arcaica al libero sviluppo.
Dobbiamo quindi subito esaminare alcuni monumenti da riferirsi
alla scuola peloponnesiaca che piglia nome da Policleto. Sono tre
statuette di giovani, il primo con manto gettato con certa disin-
voltura sopra la spalla sinistra e con in mano pare una mazza.
Il secondo con un tridente nella sinistra e col braccio destro man-
cante: il terzo con la mano destra distesa e la sinistra chiusa,
con cui impugnava un arnese, ora perduto. L'azione di questi
giovani non ha nulla di speciale, i concetti sono poveri, le figure
plasmate quasi sul medesimo stampo: le teste non si distinguono
né per leggiadria né per eleganza od idealità. Ciò nondimeno
l'insieme é soddisfacente: sono la bellezza delle proporzioni, la
naturalezza della posa, la correttezza del disegno che meritano
altissima lode. Ci si vede uno studio accurato del modello, una
gran pratica nel trattare il nudo, e più di tutto si sente l'appli-
cazione delle norme impartite da Policleto sulle proporzioni del
corpo umano, norme ch'egli stesso avea applicato sopra una statua
chiamata perciò il canone.
Tra gli oggetti finora esaminati si nota un certo legame arti-
stico, una tradizione progressiva di disegno e di stile che li dimo-
stra quali prodotti dello sviluppo naturale ed organico di una sola
660 LE KUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
e medesima arte senza la più leggera influenza di arte forestiera.
I soggetti sempre tolti dalla vita reale, le forme del corpo umano
non mai idealizzate, lo stile sempre un po' forte e severo, le faccie
prive di espressione. Abbiamo dunque ogni ragione per mantenere
l'opinione emessa più sopra, che i monumenti di Dodona finora
esaminati sono tutti prodotti genuini del severo genio artistico
dei Dori.
Ora invece ci occorre una serie di monumenti in cui i carat-
teri artistici or ora esposti non sono più così puri.
11 realismo è temperato con un po' d'idealismo ; le proporzioni
troppo massiccie, e le forme troppo rudi vengono ingentilite: i
soggetti stessi escono dalla cerchia ristretta della vita reale e
s'inspirano anche al campo fecondo della mitologia: infine il lavoro
a tutta scoltura cede il posto al rilievo che diventa un genere quasi
predominante.
E di lavori in rilievo gli scavi di Dodona hanno fornito pezzi
veramente di prim'ordine. Accennerò anzi tutto una lastra di
forma ovoidale, i cui fori seminati presso l'orlo provano che ser-
viva di rivestimento a qualche utensile, forse ad un guanciale di
elmo. Vi è rappresentata la lotta di Ercole e di Apollo per la
conquista del tripode delfico, gruppo, il cui prototipo si riporta
concordemente alla scuola corinzia. Ma qui nella nostra lastra il
volto nobile ed espressivo di Ercole, attesta l'influenza di un'altra
scuola più fina, senza dubbio, della scuola attica. Lo stesso deve dirsi
per la testa di Ajjollo, i cui capelli ricordano le teste apollinee
dopo Scopa e Prassitele. Invece il trattamento del nudo, e proprio
allo stile dell'arte peloponnesiaca, e le pieghe a zig-zag nella
clamide di Apollo affettano la maniera arcaica. Per cui in que-
sto gruppo abbiamo una miscela di tre stili, il ieratico in sito col
soggetto del culto, lo stile attico, conseguenza del predominio che
l'arte attica a quest'epoca esercitava su tutta la Grecia, infine lo
stile peloponnesiaco, che indica la località in cui fu lavorato il
monumento.
Lo stesso fenomeno di stile misto appare sopra altre tre la-
stre, di cui una con Ercole che combatte il toro di Gnosso e le
altre due con lotte di guerrieri. Anzi in queste ultime si riconosce
già una più decisa influenza dell'arte attica, sia nella scelta dei
soggetti, sia nelle proporzioni slanciate e nella varietà e ricchezza
delle mosse delle figure.
Ma il monumento che porge la più alta idea della fusione
che dopo Fidia e Policleto si operò nel Peloponneso delle maniere
LE RUINE E GLI SCAVI DI DODONA. 661
proprie a quei due grandi maestri, è una lastra di bronzo, an-
ch'essa guanciale di elmo, con la rappresentazione di due guer-
rieri combattenti. L'un d'essi, con elmo aguzzo in capo, lo scudo
al braccio sinistro, innalzava il braccio destro ora perduto, la cui
mano stringeva forse l'asta con cui nel momento ha percosso l'av-
versario. Qaesto è in una posizione che mostra avere, per il colpo
ricevuto, perduto l'equilibrio. Perciò la gamba sinistra piegata è
ancora in alto, quella destra già tocca col ginocchio il suolo, a
cui si appoggia anche la mano che ancor stringe il pugnale. 11
braccio sinistro lo eleva per parare il secondo colpo che il nemico
gli vibra. Il gruppo non solo è pieno di slancio e di vita, ma anche
di nobiltà e di grandezza. Le teste dei due giovani sono meravi-
gliose per purezza di linee, per verità di espressione. Senza essere
né ricercati né eleganti, i capelli sono trattati con la massima nar-
turalezza, ed il nudo rivela in ogni parte una finezza e maestria
straordinarie. Tutto ciò si vede dall'incisione, ma quanto più
effetto non dovrà produrre l'originale se il D e- Witte riferisce che
la planche, (luoUiuc gravee atee le plus grand soin, ne peut donner
qiiune idée Iniparfaite du niodèle des chairs et de Vélégance dea
draperies? Il De- Witte riporta questo bronzo all'epoca di Lisippo:
ma non è possibile essere del suo parere. Né tipi né proporzioni
sono lisippee, né il trattamento del nudo, e neppure il concetto.
Senza nulla detrarre al merito di Lisippo, questi non ha prodotto
nessuna figura cosi elegante e così j^iena di espressione. Non è lo
spirito freddo e realistico della scuola di Sidone che anima que-
sto gruppo. Qui vi é l'entusiasmo, la grandezza, l'idealismo del-
l'arte di Fidia, fuso e congiunto con la purezza e la finezza della
forma propria dell'arte di Policleto. Questa fusione dell'arte attica
con quella peloponnesiaca ci era già nota sia pel fregio del tem-
pio di Apollo a Basse di Figalia, sia per le opere di Damofonte
di Messene, il quale trapiantò, per dir così, l'arte attica nella sua
patria. Ma tale fusione non ci avea mostrato finora neppur un
prodotto che potesse reggere per eleganza e finezza, un confronto
con la lastra di Dodona.
Un altro insigne bronzo, rappresentante Scylla, spetta alla
scuola di un grande maestro che educato allo studio dei capola-
vori fidiaci, trovò sorgenti affatto nuove di creazioni artistiche.
Intendo parlare di Scopa, che primo fra gli scultori greci trattò
l'elemento marino popolato di divinità e di nereidi, di pesci e
d'ippocampi, di tritoni e di mostri. La Scylla appartiene a questo
ciclo di figure marine, e la maniera grandiosa com'essa è trattata
662 LE RUINE E GLI SCAVI DI PODONA.
sul bronzo di Dodona è veramente degna di Scopa. Scylla presen-
tata di fronte, con uno stupendo petto di donna, ha un volto di
una beltà grandiosa, pieno di sentimento e di melanconia profonda
espressa ancor meglio nella inclinazione della testa. Tenendo nella
destra un remo innalza la sinistra. Figura sì bella termina in due
grandi code di tritone ed in due cani che abbaiando si slanciano
in parte opposta scivolando sulle onde marine. Il terrore che in-
spira la parte inferiore del suo corpo è accresciuto dalla presenza
di due larghe ali che le si distendono alle spalle ed hanno la
forma di ali da pipistrello. Il De-Witte le ha scambiate con foglie
di acanto. Ma che si tratti di una parte del corpo della Scylla
risulta dal fatto che queste ali hanno la stessa forma, gli stessi
puntini che osservansi sul velo che ricopre la parte anteriore ove
il corpo femminile si confonde con quello dei cani. Tutto in que-
sta figura, stile, disegno, esecuzione ed espressione, è degno della
grand'arte sentimentale di Scopa, alla quale senza esitazione la
riporto.
Ad un altro indirizzo invece della Scuola di Scopa dev'essere
riportata una bellissima statuetta di Baccante. Fra le numerose
figure di Menadi che popolano i Musei non ne conosco alcuna ove
l'ebbrezza del furore bacchico sia espressa con piìi forza, con più
energia che in questa statuetta di Dodona. La Baccante, gittata
attraverso del petto una disordinata pelle di pantera, agita con
tanta violenza amendue le braccia, che una parte del seno si scopre
e ne traballa la mammella. Il sinistro braccio ha disteso in basso
con la mano che stringeva convulsa un pugnale : il braccio destro
in alto, la cui mano, ora perduta, afferrava probabilmente lo scan-
nato capretto. La baccante saliva. Con uno sforzo straordinario
punta il nudo e delicato piede sulla roccia, dandovi forza col gi-
nocchio, mentre il pie sinistro trovasi al basso. La testa inclinata
in avanti sembra voler aiutare lo sforzo del corpo, e l'agitazione, la
fui'ia, da cui è compresa, sjaicca fuori anche dagli occhi, larghi,
aperti, vibranti. Qua e là vi sono delle incrostazioni d'argento :
gli occhi stessi forse erano riempiti di una pietra lucente, ed allora
r effetto che la statua dovea produrre era completo. Dinanzi a questa
figura il pensiero corre rapidissimo alla Menade di Scopa descritta
da Callistrato. Ma quanto più si capisce con un solo sguardo
su questa statuetta, che non da tutta la pallida ed artifiziosa de-
scrizione del retore.
In un campo così ubertoso e così ricco di monumenti arti-
stici non ho scelto che i cimelii. Ma potrei ancora menzionare la
LE EUINE E GLI SCAVI DI DODONA. ' 663
statuetta di un istrione in atto di danza, pregevolissima per il co-
stume e per il tipo; una maschera di Giove che segua un ulte-
riore ma più ricercato sviluppo del Giove di Otricoli, una sta-
tuetta di Vittoria, un' altra di Minerva, una statuetta di Giove
in atto di scagliare il fulmine, due figure arcaiche adoperate
come manichi di specchi, ed un' infinità di rappresentazioni di
animali, cavalli, capri, serpi, aquile, colombe, cervi, pegasi,
leoni, conigli, tori, ecc. Ma sorpasserei i limiti concessi ad un
articolo, perchè molti di quei pezzi meriterebbero una particolare
descrizione dal punto di vista della storia dell'arte, per supplire
a lacune lasciate dalla descrizione sommaria datane dal De-Witte
ed inserita nell'opera di Carapanos. Perciò mi sono limitato a
descrivere con qualche larghezza i pezzi più cospicui, allo scopo
di avere una base più sicura per giudicare della loro importanza
per la storia dell'arte e per le vicende del santuario stesso di
Dodona.
Si può dire, che tutti i periodi principali dell'arte greca sono
rappresentati a Dodona da uno o più pezzi, il che prova come in
ogni età quell'oracolo venne consultato e venerato. 1 monumenti
più antichi sono di esclusiva scuola peloponnesiaca, perchè questa
fino quasi all'epoca di Fidia ebbe il primato non solo sulla Gre-
cia propria, ma anche nella Sicilia e nella Magna Grecia. Dopo
Policleto, invece, avviene una fusione delle scuole attica e pelopon-
nesiaca, fusione, della quale anche a Dodona si sono trovati splendi-
dissimi documenti. Di modo che senza notevoli interruzioni si arriva
fino all'epoca di Lisippo.
Ma ciò che sorprende è la mancanza di monumenti dell'età
di Alessandro Magno. Il Giove Dodoneo dovea allora aver gua-
dagnato d'importanza, perchè era il Dio patrio del gran monarca
macedone. Ma non dobbiamo neppur dimenticare che tutte le
statue grandiose e monumentali che un giorno riempivano il te-
menos di Dodona ebbero a sofi'rire una rapina completa, e fra
esse non potevano mancare quelle dell'epoca di Alessandro. Ciò
almeno si può congetturare da alcuni resti di statue colossali
raccolti nel temenos, avanzi per lo più di armature ed il cui stile
ben conviene all'arte di Lisippo e dei suoi successori. Che la ve-
nerazione poi della stirpe guerriera dei Macedoni verso il Giove
Dodoneo non sia mai venuta meno ci è attestata anche da notizie
storiche. E forse può anche provarsi col fatto dei numerosi arredi
guerreschi che si raccolsero in vicinanza dei piedestalli del te-
menos. I principali fra questi sono vari guanciali di elmo, taluni
664 LE EUINE E GLI SCAVI DI DODONA.
senza ornato, altri con la sola indicazione dei baffi dell'individuo
che li portava, un altro assai più finito e con bellissimo lavoro
di una barba folta e ricciuta : un ultimo infìue, appartenuto forse
a qualche comandante supremo, con un' incisione quasi impercet-
tibile di un fulmine. Tra gli arnesi guerreschi raccolti in gran
numero dallo scavo debbono pur menzionarsi elmi, archi, spade,
speroni, morsi di cavallo, ascie, coltelli, oggetti tutti che attestano
il culto e la venerazione verso il Giove di Dodona di stirpi guer-
riere e cavalleresche.
Ma non meno intensa dovea essere la fede e la venerazione
che vi professavano le donne, le quali la testimoniavano con l'of-
ferta dei loro stessi ornamenti. Epperciò anche questi si sono
trovati in numero straordinario, braccialetti, orecchini , spilloni,
anelli, fibule di forme svariatissime, aghi crinali, pinzette, pen-
nellini, ecc.
Ma ciò che maggiormente attesta la venerazione secolare in
cui da tutta la Grecia fu tenuto l'oracolo di Dodona, sono le mo-
nete che i credenti venuti a consultare il Dio deponevano come
offerta nel tesoro del tempio. Le monete raccolte dal Carai)anos
sono in numero di 662, di cui sole l-± in argento e 648 in rame,
trovate la maggior parte nel tempio di Giove e nei due editìzi da
esso dipendenti. Le monete d'oro mancano afl'atto e così pure
quelle in argento di maggior valore.
11 fenomeno è spiegato molto bene dal Carapanos. supponendo
che sieuo state rubate al tempo della spogliazione dell' oracolo.
Le monete di rame, il vile metallo, non sedussero l'avidità degli
spogliatori, e vennero disperse fra le ruine degli editìzi incen-
diati. Siccome fra le monete di rame ve ne sono di Costantino e
di Crispo suo figlio, cosi è certo che la distruzione di Dodona av-
venne dopo questi imperatori.
Ecco adunque come l'oggetto anche meno pregioso uscito in
luce da quello scavo concorre per chiarire la storia di quel gran
centro religioso greco che fu Dodona, il cui tempio fu la prima
affermazione dell' ellenica religione e si mantenne in piedi e si
conciliò la venerazione fino all'ultimo momento in cui il politei-
smo greco scompariva dal numero delle religioni, per lasciar po-
sto al Cristianesimo.
F. Brizio.
IL DOMINIO DEL CANADA.
APPUNTI DI VIAGGIO.
XIII.
Dal Niagara a Toronto non v'ha se non una breve traversata
sul lago Ontario. Toronto, che è la capitale della Provincia d' On-
tario, è città popolosa, ^ dalle strade larghe e diritte; ma, toltone
i principali edifizi, può dirsi che le sue case sien tutte d' un me-
desimo tipo, e che annunciano subito quella sua condizione di citta
interamente nuova, delineata quando il terreno costava poco, e fab-
bricata ad un dipresso tutta nello stesso tempo, colla stessa dire-
zione, e sotto r impulso di bisogni perfettamente consimili. Però
essa ha una salvaguardia contro la monotonia, negli alberi che
liancheggiano i marciapiedi delle strade. Gli alberi, sieno pure
d'un medesimo seme, non sono mai uniformi, e mentre cogli om-
briferi rezzi proteggono il cittadino dalla sferza del sole che la nuda
ampiezza delle vie renderebbe insopportabile, gì' ispirano anche un
sentimento di pace e di riposo ognora salutare dove tante son le
preoccupazioni della vita degli affari. Quella profusione d'alberi
per le vie di Toronto giustifica altresì il significato del nome in-
diano della città, che suona « Alberi sull'acqua. »
Il valore della proprietà a Toronto è stimato di 36 milioni di
dollari, sicché in proporzione di popolazione è di pocd inferiore a
quello della proprietà di Montreal. A quel municipio, come ad
ogni altro dell' Ontario, la legislazione provinciale prescrive un li-
1 Gli abitaati souo 56,092 lii cui 21,101 Inglesi, 24,010 Irlandesi, 8,2Tl Scoz-
zesi, 985 Tedeschi, 5Ì2 Francesi, 34 Itali. mi. Per rapporto alla religione, 11,881 son
cattolici ; gli altri, delle varie sètte del protestantesimo.
666 IL DOMINIO DEL CANADA.
mite sia nell' imposizione delle tasse, sia nella facoltà di contrar pre-
stiti: esso non potrebbe mai incorrere un debito del quale gl'interessi
ed il fondo d'ammortamento, insieme colle tasse dell' anno prece-
dente, superassero la cifra del due per cento del valore della pro-
prietà fondiaria e mobile dei contribuenti.
Ciò che v'ha di più saliente nella struttura del reggimento
della Provincia di Ontario, è che la sua rappresentanza legislativa
è costituita da una sola camera elettiva. Ciò è contrario intera-
mente alle tradizioni dello stesso Canada, dove la costituzione
del 1791 e l'atto d' unione del 1841 sancivano del pari un Con-
siglio legislativo come Camera alta, ed un'Assemblea come Ca-
mera bassa ; nonostante, nel 1866 gli uomini al potere credet-
tero bene, nella formulazione del progetto di quella parte di co-
stituzione che doveva ordinare le legislature locali, di proporre
codesta innovazione, che, secondo loro, era giustificata dal fatto che
la popolazione del Canada francese era più conservatrice e mo-
narchica.
Dopo aver letto su molti libri inglesi 1' accusa mossa alla
razza francese di esser poco atta alla coltura intensiva, non fu
senza sorpresa che udii confessarmi che non se ne fa nemmeno
nella Provincia d'Ont;irio ; tutti quei pochi i quali ci si sono pro-
vati finirono col rovinarsi. Ciò che è possibile e conveniente in
Europa, non lo è più qui, perchè le distanze ed altre difficoltà
scematio talmente il valore del prodotto, da rendere il benefizio
della coltura intensiva sproporzionato al valore del capitale che
essa richiede; inoltre colle sensibilissime differenze di tempera-
tura, i risultati della coltivazione son troppo incerti per consi-
gliare di rischiare in essa l'investimento di grandi capitali. Co-
loro che qui ebbero ad ammassare ricchezze, le debbono alla col-
tura estensiva, e sul lago Simcoe, al nord ovest dell'Ontario, una
società d'ufficiali inglesi in ritiro che erasi appunto formata,
coll'appoggio di grandi capitali, allo scopo di tentare la col-
tura intensiva, dovette disciogliersi e rinunciare all'impresa.
Anche a Toronto fui ricevuto in varie case con molta ospi-
talità, ed oramai le varie occasioni di contatto che avevo infino
allora avuto colla popolazione canadese mi ponevano in grado di
rispondere ad una domanda che s'era affacciata di continuo al
mio pensiero sin da quando avevo posto il piede a Quebec; e cioè,
qual fosse il carattere dei rapporti che intercedevano fra classe
e classe, sia dal punto di vista della forma che assumevano,
sia da quello dei sentimenti respettivi che potevano animarli. E
IL DOMINIO DEL CANADA. 667
fuor (li dubbio che su questo campo le differenze fra l'America e
l'Europa son tuttavia molto accentuate, e devono esserlo state
assai più nei tempi addietro ; infatti è la necessità del mutuo
servizio che influisce più specialmente a determinare la socievo-
lezza degli uomini e a consigliar loro l'amicizia vicendevole o l'au-
torità ed il rispetto, la soggezione gerarchica o la fratellanza;
ora siffatta necessità è sentita in America presso a poco da tutti
in egual grado, mentre invece in Europa è impossibile sottrarsi
alla considerazione della diseguaglianza di potere che si nasconde
sempre dietro le differenze di nome, di educazione o di ricchezza.
Fin dal primo sbarcare degli emigranti europei al Canada, il ba-
rone potè trovarsi improvvisamente obbligato allo stesso lavoro
del vassallo. L'intendente La Fouquiè re, nel 1750, riceveva dal Re
uno stipendio di sei mila franchi con cui doveva anche pagare e
vestire una guardia di 26 soldati. ^ Più tardi ancora, il governa-
tore inglese Siracoe mancava della possibilità di tenere al proprio
servizio un solo uomo. ' Ciò non toglie per altro che se le circo-
stanze sforzano gli animi a sentir l'eguaglianza, essi non sieno
naturalmente aperti ad altre aspirazioni. È una suprema preoc-
cupazione dei canadesi francesi il persuadersi della nobiltà del-
l'origine della colonia, e mi fu mostrata con grande compiacenza
la pagina del Rameau, dove egli conclude che « la population du
Canada n'a pas eu pour origine quelques aventuriers, quelques
hommes de hasard, quelques individus déclassés et enrolés par
l'Etat; ce fut l'émigration réelle d'un éléraent integrai de la
nation frangaise, paysans, soldats et seigneurs ; une colonie dans
le sens romain du mot, qu'a emporté la patrie tonte entière
avec elle.» ^ Gl'intendenti scrivevano infatti al governo di Francia,
nel chiedere donne per la colonia, cbe fossero inviate « des demoi-
selles bien choisies, » ma quando i vascelli giungevano, v'eran del
pari le ingenue figlie della Normandia e le esperte, troppo esperte,
parigine, e fu lamentato ch'essi ricevevano « une marchandise mè-
lée.» Dopo la conquista inglese i pochi nobili che v'erano al Canada
ritornarono in Francia, sicché il nucleo della colonia rimase for-
mato di coltivatori, d'origine contadini, e di pochi cadetti. Nonostante
ciò, questi abitanti avevano sempre abbastanza orgoglio per guar-
dare con disprezzo gl'immigrati inglesi, e, vedendoli arrivare spesso
' Hezot's, Travels in Canada, pag. 78. — Smith, Histoire du Canada, v. 1,
pag. 219.
' John Macmullen, The history of Canada, p. 2*5.
^ Rameau, La France au.v colonies.
668 IL DOMINIO DEL CANADA.
laceri e s.^.alzi, quando le navi entravano in jDorto, solevan escla-
mare: « Tiens, voilà une cargaison de bas de soie qui arrive. »
Ma anche negli inglesi si formò presto una classe di persone che
Hspiravan a primeggiare, e intanto si consideravano già esseri
superiori agli altri. Per la maggior parte ufficiali a metà paga,
o cadetti rimasti con poco o nulla, venivano a tentare la fortuna
al Canada, e sentendosi incapaci di lavorare altrimenti, facevan
la caccia agli impieghi. Eran essi che si studiavano di persua-
dere la Corona e i suoi rappresentanti della necessità di tenere
molto soggetta la popolazione francese ; dimostrandosi arrabbiati
partigiani del governo e difendendolo anche quando non era as-
salito, speravau di crearsi un diritto alle sue dimostrazioni di ri-
conoscenza. Essi giunsero persino a collegarsi in una specie di
casta, impegnandosi fra loro a che i matrimoni seguissero sempre
nella cerchia delle loro famiglie. Tale fu l'origine del <^ Family
compact », il partito di conservatori che predominò dal 1810
al 1850.
Nella Provincia d'Ontario ricorre frequentemente il tipo del
rougli., di cui gli Stati Uniti hanno ancor più triste abbondanza.
Il rough è r uomo di straordinaria volgarità e prepotenza; come
tutti i prepotenti, pone ogni merito nello sviluppo delle forze fisi-
che e trae ogni maggior ardire dalla compagnia dei suoi pari.
Le h(ir rooiìis e le case di giuoco, sono il teatro naturale delle
sue imprese, ma talora disturba anche le pubbliche vie e le cam-
pagne imponendosi a chi meglio a lui talenta, e se alcuno osa risen-
tirsene aggiungendo le villanie allo scherno. I roughs sono coloro che
danno il maggior contingente d' ubbriachi, ed i roughs e gli ub-
briachi sono i futuri delinquenti. Una statistica generale della
criminalità non è stata ancora tenuta, ma par cosa certa che la
Provincia d' Ontario, sotto questo rapporto, rimanga addietro a
quella di Quebec. All'eccellenza morale dei discendenti dell'antica
Normandia giova molto l'essere tanto disseminati per le campa-
gne: i maggiori delitti poi avvengono nella città di Montreal, dove
v' ha anche piìi forte proporzione di abitanti inglesi; infatti Mont-
real sola, dà un contingente del 75 per cento sul totale dei de-
linquenti della Provincia.
Un' altra città dell' Ontario in, cui feci sosta fu Hamilton.
Venne fondata nel 1813 ed ha oggi circa 30 mila abitanti, bei
fabbricati e superbe strade e piazze. Certo non fu senza grandi
sforzi che il municipio la condusse alla sua attuale prosperità, e
nella storia di quegli sforzi v' ha un episodio piuttosto comico.
IL DOMINIO DEL CANADA. 669
Il 21 ottobre 1862 lo sceriffo col suo usciere dovè procedere all'in-
canto della proprietà comunale suU' istanza dei creditori ; e per-
chè i municipi di queste città nascenti non possiedono né terre
né ville o altro cespite di rendita che non sia la facoltà d'imporre,
il sequestro e l'asta caddero sui pochi mobili, e molti ne furono
deliberati, prima che con un eroico spirito cittadino, alcuni si
determinassero a raggranellare la somma necessaria a togliere il
sequestro. '
La campagna da Hamilton e Dandas, e più oltre per altre
quaranta miglia nella direzione di Parigi, è alquanto ondulata,
ed il suolo è fertilissimo. Vi si coltiva un po' il granturco, ma
per le terre migliori si preferisce il grano che si alterna col tri-
foglio, il quale migliora le condizioni del suolo per la produ-
zione del grano ; pel trifoglio si prepara il terreno con un'aratura
profonda nel cuor dell'estate, acciò possano venir estirpate l'erbe
nocive con minore spesa. Il prezzo elevato della mano d'opera
regola tutte le colture, e il supremo principio dell'agricoltore è
d'appigliarsi a quel raccolto che oltre al buon prezzo intrinseco
può essere ottenuto con minor numero d'opere. I campi a grano
producono da 600 a 900 litri per acro.^
Dopo un paio d'ore attraverso quella contrada, che è anche
chiamata « the grain district of Canada » giunsi a London, il
centro del distretto del petrolio. Il primo pozzo fu scoperto il 16
gennaio 1862 scavando ad una profondità di 60 metri nei ripiani
di Black Creek Valley, e tosto gli speculatori vi corsero in folla.
Un italiano che abita Peoria, e si occupa appunto del commercio
del petrolio, ebbe a darmi dei particolari importantissimi che
dimostrano quali artifiziose vie possa facilmente prendere anche
nel nuovo mondo la speculazione. Cinque dei più grossi raffinatori
hanno preso in affitto tutte le altre raffinerie del Canada, e com-
binarono coi produttori di pagar loro due dollari ogni barile di
quarantatre galloni d'olio crudo, quantunque il prezzo rimuneratore
del costo di produzione sarebbe soltanto dollari 1,20 il barile, e
ciò all'espressa condizione ch'esci non dovessero pompare oltre
una determinata quantità. Il Canada consuma per lo meno 250,000
barili all'anno di petrolio crudo; può quindi calcolarsi che i pro-
duttori tolgono senza titolo un milione di lire alle tasche dei consu-
matori, ma poi questi vengono posti a dura contribuzione anche
' S. Philipp. Day, lo scrittore àeWEnglish America (Londra 1864), narra nel
voi. II, pag. 199 d'aver assistito alla vendita.
2 Vedi anche Cairo, Prairie farming in America, New-York, Appletoa, p. 20.
670 IL DOMINIO DEL CANADA.
dai raffinatori i quali, com'è naturale, non si son posti d'accordo
pel solo beneficio dei propri contraenti. Partiamo ancora dal-
l'ipotesi che la quantità di olio crudo pompato sia di barili 2 .0,000,
ossia galloni 10,750,000; il processo di raffinamento la ridurrà
del 60 per cento, e poi vi sarà la spesa relativa, più quelle per la
costruzione dei barili e per le tasse, più infine gli affitti morti
per le raffinerie che non lavorano, i compensi ai dead heads, ed al-
tro; ma quel petrolio che, tenuto conto di tutto ciò, potrebbe sem-
pre vendersi 30 soldi il gallone, è posto invece sul mercato a 40,
e la concorrenza dei petroli americani viene scongiurata con un
dazio protettore di 15 soldi al gallone. Questi sono gì' interessi
fittizi che tante volte il protezionismo finisce col favorire.
Oltrepassata London, il suolo diventa paludoso; il clima del-
l'Ontario è più favorevole all'agricoltura che non quello della Pro-
vincia di Quebe<c, ma è assai meno salubre, e vi regna fatale con-
sovrana la malaria. Giunsi di notte sull'acque del canale che
giunge il lago Eric col lago di Saint Claire, e poiché dalle fine-
stre ebbi dato uno sguardo d'ammirazione alle mille luci onde
scintilLivano, rimpetto l'una all'altra, le città di Windsor e Detroit,
m'accorsi che il treno veniva diviso in due, e lo si imbarcava in
doppia fila a bordo d'un gigantesco vapore per farlo raggiungere
la riva degli Stati Uniti.
XIV.
Dal 30 agosto al 5 settembre attraversai successivamente parte
degli Stati dell'Ohio, dell' Indiana, dell' Illinois, del Wisconsin e
del Minnesota, per un percorso di circa 2000 chilometri. Trala-
scio di riportare gli appunti che si riferiscono a quei giorni,
perchè troveranno più opportuna inserzione fra le impressioni del
mio viaggio negli Stati-Uniti; nondimeno non voglio riprendere
esattamente dal confine, ma bensì un po' prima.
Da Saint Paul a Thomson corrono i treni della compagnia
Lac Superior and Mississipi Kiver; da Thomson a Glyndon, e
poi fino a Fisher Landing, quelli del North Pacific Kahvay, e
sono esclusivamente adattati al passaggio degli immigranti al
Canada, i quali, giunti a Duluth per la via dei Laghi, proseguono
il viaggio attraverso il territorio degli Stati Uniti. Due carrozze,
e la macchina formano tutto il treno; una per la posta e per i
bagagli, l'altra pei passeggieri. Subito oltrepassato Thomson, comin-
ciano le solitudini di paludi e praterie. A Sikotte, la prima stazione
IL DOMINIO DEL CANADA. 671
vedo appena un cantoniere, e il treno neramanco si ferma. A Brai-
nerd si costeggia il Mississipi che colà è povero di letto e d'acque,
né più lontano d'un centinaio di miglia dalle sue sorgenti del lago
Itasca: e sulle sponde e nei dintorni si stende folto il bosco. Pas-
sammo il fiume sovra un ponte senza ripari, né senza qualche tre-
pidanza, perchè l'anno prima, nello stesso punto, un altro ponte
di simil fattura era rovinato mentre un treno lo passava, e non
poche furono le vittime; ma noi fummo più fortunati.
Dopo Brainerd la prateria si stende senza confini, piana, pa-
ludosa talvolta, e sempre disabitata: non una capanna, non armenti
ina fieni o canneti. I canadesi che eran nel treno guardavan con
molto interesse al suolo e valutavan le probabilità della coloniz-
zazione, le quali, per vero dire, lungo quella linea son poco sor-
ridenti. Non vi sono alberi da abbattere, ma in confronto di questa
prospettiva di minori fatiche conviene impensierirsi dei prezzi
che costerà il legname da costruzione, e delle sfuriate che potranno
fare i venti. Il Comitato per la colonizzazione del Minnesota, se
ne è pure preoccupato, ed ha ottenuto dal Governo dello Stato una
legge che incoraggia le nuove piantagioni; vi sono dei lotti che
i nuovi coloni possono destinare esclusivamente a coltura boschiva ;
hanno l'estensione di 160 acri, e chi li ottiene, al primo entrarvi,
deve cominciare i piantamenti, coprendo un quarto del suolo
entro due anni, un quarto entro i tre successivi e l'altra metà
entro il quarto anno; né le patenti della proprietà son accordate
se gli alberi non sono piantati alla distanza di tre metri in ogni
senso, e curati a dovere almeno per otto anni. Queste condizioni
erano state fino allora accettate per un estensione di 180 mila
acri, e gli alberi raccomandati e preferiti erano il salice, il
popithis lomhardus e il populus grandidentatus.
A Glynwood cambiammo di treno, ma lungi dal trovarcene me-
glio, si marciò più a rilento e con peggiori scosse: si vedeva che i bi-
nari erano stati posti in fretta e senza cura affatto. Nemmeno s' incon-
travano più, come poco prima, quei luoghi dove un nome pomposo
ingrandiva le proporzioni dell'abitato, e, vedendo scritto, per esem-
pio : « Frasen's city » si era indotti ad immaginare una futura città
all' intorno di quel solitario ma decente fabbricato; invece, sostando
al luogo « The Ada > per rifocillarci con un po' di cena, non po-
tremmo dire che quella capannuccia recasse in sé alcuna promessa
d'avvenire : le mosche coprivano ogni pollice di spazio, anche i nostri
piatti, su cui già erano state disposte le vivande a noi destinate,
pur troppo già di mediocre qualità e di meschine proporzioni.
672 IL DOMINIO DEL CANADA.
Era quasi la mezzanotte quando siamo giunti a Fisher's-
landing, e subito scendemmo a bordo del Manitoba. Tutto il
giorno aveva piovuto, ma poiché allora il cielo s'era rasserenato, e
la luna quasi piena l'illuminava malinconicamente, mi trattenni
per qualche tempo sul ponte, a mirare gli archi frondosi formati
sul nostro capo dai pioppi e dai salici delle sponde del Ked Lake Ri-
ver, un tìumicello conjfluente del Red River, che il nostro vapore nel
procedere ostruiva quasi. L'indomani, a Grand Fork incominciammo
a montare il Red River, ma la scena non era punto cambiata;
le acque disegnavano mille serpeggiamenti, e ad ogni svolta, da
poppa e da prora, potevamo strappare colle mani il fogliame delle
sponde.
Il nostro vapore non era più lungo di 45 metri, ed aveva una
sola ruota sul di dietro. Era stato fabbricato a Moorhead, nel
Minnesota, un villaggio di poche centinaia d'abitanti, ed era un
curioso saggio di ciò che possa lo spirito intraprendente degli
Americani; certo non vi vedevi lusso e nemmeno vi trovavi molte co-
modità, ma non era da dimenticarsi che è da pochissimo tempo che
il Red River venne navigato. 11 primo battello a vapore che ne
abbia solcato le acque fu l' An^on Northup portatovi nel 1869
dal fiume St. Pierre, approfittando di uno straripamento. « Le
bateau arriva (scrive monsignor Taché ') à l'improviste au milieu
de la colonie au commencement de juin. Personne ne l'attendait,
SOn arrivée prit les proportions d'un événement et, à la surprise
publique, le canon gronda et les cloches carillonnèrent en signe
d'allégresse. Le sifflement de la vapeur se promenant sur les eaux
de notre rivière disait aux échos du désert qu'une ère nouvelle
allait luire pour ce pays. Chaque revolution de l'engin semblait
diminuer d'autant la distance qui nous séparé du monde civilisé. >
Questo battello fu presto seguito àa.\V Internazionale, un vapore
molto più grande e quasi splendido al confronto, che nel 1870
rappresentò una parte importante nelle avventure del maggiore
Butler ' ; ed ora, oltre di essi, v'è un altra numerosa linea dei cui
vapori formava appunto parte il Manitoha.
La navigazione continuò ancora tutto il giorno successivo. Il
Red River aveva le stesse curve e le stesse sponde, e il Mani-
toha si strascinava sempre dietro un barcone carico di barili di
petrolio, di trebbiatrici, e di altre macchine agricole. Fra i passeg-
' Esguisse sur le nord ovest de VAmérique, Quebec 1869, pag. 27.
' Major Butler, The Great Lone Land, London.
IL DOMINIO DEL CANADA. 673
•gieri v'era una vecchia coppia di nascita irlandese; andavano a rag-
giungere tre figliuoli stabilitisi a Winnipeg, e n'avevano lasciato
un altro nella Provincia d'Ontario, sui terreni ch'essi stessi avevano
diboscato. Era toccante il vedere le mille cure del marito per
la vecchia moglie a cui aveva procurata una cabina, con grave
spesa, mentre egli poi se ne stava coi passeggieri di terza
classe. Non era la prima volta che mi era accaduto di ammirare una
certa squisitezza di riguardi nei mariti per le mogli, ed anche in
più giovani coppie. Spesso aveva dapprima supposto che certe mie
compagne di ferrovia fossero donne che viaggiavano sole, ma poi
avevo visto anche il loro marito, che, preso un posto di classe
inferiore, veniva visitandole quasi ad ogni sosta.
Come nella coppia irlandese, il marito era pieno di riguardi
per la moglie, così a bordo tutti avevan molte deferenze per l'età
d'entrambi : e a me pure tutti mostravano la pili schietta cordia-
lità quantunque due giorni prima fossi loro straniero, non solo
perchè di patria diversa, ma perchè essi, figli del lavoro, non sa-
pevano capacitarsi che si viaggiasse per quei luoghi solo per di-
vertimento 0 per istudio.
11 viaggio era tanto più lungo, giacché ad ogni tratto ci fer-
mavamo per far le legna (to vooden tip) onde, per economia, s' ali-
mentavano le due caldaie del Manitoba. Dapprincipio eran gli
stessi uomini dell'equipaggio che si gettavano sulle sponde a ta-
gliarle coll'ascia, ma poi le si comprarono da alcuni coloni che si
trovavano sul nostro passaggio, colle cataste già pronte. Presso
Pembina, ov'è la frontiera Canadese, ce la vendè un Indiano Chip-
peway dalla capigliatura folta, dai mocassini giallognoli, dal ber-
retto di pelo di lontra, il quale incassò con superba indifferenza
i suoi sedici dollari per le otto corde vendute, cioè sedici grossi
metri cubi. Alla sosta di West Lynn, mentre noi pranzavamo,
entrò nel salone un' indiana vestita stranamente che il capitano ci
disse esser la regina dei Chippeway, la quale talvolta gli faceva
l'onore d'una visita perchè le offrisse un po' di brandy. Ci strinse
la mano, ci parlò a lungo nella sua lingua senza che naturalmente
nessuno di noi la comprendesse, e ci mostrò un curioso collare
d'oro e due medaglie d'argento. Una delle medaglie era di vec-
chio conio, grandissima, e portava l'effigie di Giorgio ILI, l'altra,
più piccola, commemorava il ricevimento che il principe di Wal-
les nel 1868 aveva fatto alla regina. Non ho potuto capire quali
ricordi si collegassero al collare d'oro quantunque la regina vo-
lesse pur spiegarcelo con molti discorsi nei quali ripetè spesso
VoL. XIV, Serie II.— 15 Aprile 18~9. 42
674 IL DOMINIO DEL CANADA.
la parola Manitou o « Grande spirito * la sola elio non mi suonasse
nuova.
Verso sera eravamo a Selkirk, e l' indomani mattina sul far
del giorno, giungemmo sotto Fort Garry. il centro di quel com-
mercio delle pelliccie che rende così interessante la Provincia
di Manitoba ed il territorio circostante. Il forte prospetta l'As-
siniboin con un lungo muro e due torri circolari, a pochi metri
dal punto in cui quel fiume si getta nel Kod River : l' ingresso
era custodito da un cannone, e altri se ne vedevan più indietro,
nel centro di un vasto piazzale circondato da varie costruzioni di
legno ad uso di amministrazione e di magazzeni. Una guardia, che
mi avrebbe forse altrimenti interdetto il passaggio, dormiva pla-
cidamente, e io compii senza difficoltà quella mia visita mattu-
tina, correndo ad ogni tratto colla mente alle pagine della storia
dei rapporti che gli Europei ebbero cogli Indiani.
La prima concessione del territorio della Baja d' Hudson venne
fatta da Luigi XII L alla Compagnia della Nova Francia insieme
a] privilegio di fare il traffico esclusivo delle pelliccie cogli Indiani;
ma alla sua volta Carlo II d'Inghilterra accordava qualche anno
dopo lo stesso territorio ad una truppa di avventurieri inglesi,
la quale lo esplorò ardita e lo chiamò col nome del principe Rupert
che la guidava. Dopo che la Francia ebbe rinunciato al Canada,
si formò nel 1783 una Compagnia, detta del Nord Ovest, che si
propose di far suo proprio ed esercitare il privilegio che già go-
devano gli antichi sudditi francesi, ma presto si trovò di fronte
ad una fiera lotta per parte di un' altra, che aveva acquistato le
ragioni concesse da Carlo li al principe di Rupert, assumendo il
poi celebre nome di Compagnia della Baja d' Hudson. Mentre
infierivano le rivalità, il conto Selkirk fondò una colonia presso la
confluenza dell'Assiniboin col Red River su terre in parte com-
prate dagli Indiani ed in parte dalla seconda Compagnia; però
i colonisti ebbero ad incontrare molte traversie, e poco dopo molti
di essi emigravano pel Minnesota. Nel -1821 la Compagnia del
Nord Ovest dovette riconoscersi vinta e disciogliersi; soltanto al-
cuni associati ottennero di essere ricevuti nella Compagnia ri-
vale, alla quale il governo inglese diede nuova vita col concederle
di poter esercitare esclusivamente per vont'anni ogni commercio,
anche all' ovest della terra di Rupert. Questa concessione, più e più
volte rinnovata, fu revocata nel 1859, e allora il commercio delle
pelliccie divenne libero di diritto.
Il capitale della Compagnia della Baja d'Hudson da principio
IL DOMINIO DEL CANADA. 675
era tutt' altro che cosi:)icuo, ma fu aumentato a poco per volta, e nel
1863 ammontava a 12,800,000 lire nostre, indipendentemente dai ti-
toli alla proprietà del territorio, e dai numerosi stabilimenti sparsi
qua e colà; in quello stesso anno poi, si formò una nuova società,
che, pagata complessivamente una somma di lire 27,500,000 per
sostituirsi ai vecchi azionisti, lanciò alla sua volta sul mercato
l'affare, ponendo in vendita i suoi capitali ed i suoi titoli cui aveva
assegnato un valore di 50 milioni di lire. L'operazione riesci, e
agli acquirenti si offrì presto una larga risorsa per rifarsi del
prezzo forse esagerato che avevan dovuto pagare.
Sorto il progetto della Federazione del Canada, fu rivolto il
j)ensiero anche al territorio del Nord Ovest. Fin allora esso era
considerato siccome terr torio inglese, ma l'Inghilterra se ne dava
ben poca cura: ogni giurisdizione civile e criminale era lasciata
alla Compagnia della Baja d'Hudson, la quale l'esercitava subor-
dinatamente allo scopo di assicurare la riescita delle sue opera-
zioni commerciali. Inoltre la Compagnia, come ereditaria dei di-
ritti del principe Kupert e di quelli della Società del Nord Ovest,
vantava dei titoli di proprietà sul paese novellamente esplorato.
Invero, nella loro lotta per la supremazia, le due Compagnie ave-
vano spinto su tutte le direzioni dei viaggiatori, a cui dovevansi
le principali scoperte geografiche, e così si eran fatte le spedi-
zioni di Hearne, di Mackenzie e di Franklin; ora la carta di
Carlo II accordava al principe Rupert ed ai suoi compagni l'intero
ed assoluto possesso del territorio che entro certi conlini essi
avrebbero esplorato. Davanti a queste difficoltà il Governo del
Dominio preferi di venire a trattative, e pagò quei soli titoli di
proprietà e di giurisdizione con una somma di 7,500,000 lire
nostre. Ma finite quelle trattative, sorsero nuovi inciampi: mal-
grado le molte peripezie, la colonia detta del Red River o del-
l'Assiniboin non s'era interamente disciolta; quei pochi i quali
rimasero sul suolo, dopo gli anni più critici, divennero alla loro
volta nucleo di nuovi coloni, reclutati per lo più fra gl'impiegati
in ritiro della Compagnia. Una popolazione di 10,000 anime,
imparentata in mille guise cogli Indiani ed anzi in gran parte
meticcia, viveva colà sotto il protettorato della Compagnia ma
nella persuasione d'avere un' esistenza propria. Talvolta il Go-
vernatore era stato scelto dal Governo inglese senza che nem-
meno fosse membro della Compagnia, e se questa aveva il di-
ritto di nominare i consiglieri che la dovevano assistere, l'eser-
citava per altro con riguardo ai desideri! generali della Colonia.
676 IL DOMINIO DEL CANADA.
Sorsero pertanto da quella piccola popolazione mille proteste
contro ogni posizione di dipendenza che potesse averle fatta la
vendita che la Compagnia aveva concluso dei propri titoli: il Go-
vernatore inviato da Ottawa dovè tornarsene indietro e si costituì un
governo provvisorio sotto la presidenza di Luigi Kiel, un meticcio
francese. I nativi scozzesi ed inglesi tentarono di rovesciarlo, ma
esso, costrettili al silenzio, spadroneggiò ancor piìi tirannicamente
fino che una spedizione di truppe, inviata dal Governo del Dominio,
non rel)be sopraffatto. Il Kiel ed i suoi compagni furono sottoposti
a processo per il titolo di omicidio politico, ed io viddi il Da Peine,
il suo più fido, nelle carceri di Winnipeg.
Sedata quella rivolta, gl'ingegneri della Federazione comin-
ciarono subito a trac-ciare strade e a misurare il terreno. Il
Manitoba fu dichiarato una Provincia della Pederazione, e a due
chilometri da Fort Garry venne fondata Winnipeg perchè ne fosse
la capitale. La colonizzazione fu promossa e spinta colla mag-
giore attività. In Russia viveva una setta chiamata dei Menoniti,
da Menone, prete riformatore quasi contemporaneo a Lutero, fra
i cui principi! religiosi v'era quello di considerare la guerra un
delitto, e l'omicidio in guerra la stessa cosa che un omicidio co-
mune; il governo del Dominio profittò del malcontento sorto nel
loro seno perchè nuove leggi non consentivano più loro l' esclu-
sione dalla coscrizione, e gli invitò ad emigrare in massa. Nel 1876,
oltre 4000 avevano già risposto all'appello, e perchè d'indole
laboriosissima, e avevan portato seco non pochi capitali, forma-
rono tosto uno de'migliori elementi della popolazione della nuova
Provincia. Così, era corsa voce di un'eruzione disastrosissima nel-
l'Islanda che aveva abbruciato i fieni e distrutto i prati, e vari
agenti furono inviati colà a consigliare quei danneggiati a vendere
il loro bestiame e cercarsi una seconda patria al Manitoba. Questo
modo di popolare una contrada con genti così raccogliticcie ha
certo i suoi inconvenienti, e, per esempio, riguardo agli Islandesi
il governo fu costretto a sovvenirli di un prestito a causa dell'im-
mensa loro povertà, e riguaixlo ai Menoniti, poiché, come essi ri-
pugnavano dalla coscrizione, così non intendevano concorrere alla
formazione delle milizie, si dovette assicurarne loro l'esenzione
non senza qualche mormorio di un'alti-a parte della popolazione ;
eppure il Governo non dubita della 1)uona riuscita dopo l' esempio
degli Stati Uniti, nei quali Inglesi, Francesi e Tedeschi, Europei ed
Asiatici, uomini bianchi, pelli rosse e negri, continuarono per lungo
tempo e continuano sempre a sovrapporsi quasi senza perturbazioni.
IL DOMINIO DEL CANADA. 677
Ebbi presto girato Winnipeg. Come città nascente, mi parve mi-
racolo che si fosse fatto tanto. Ciascun abitante, capo di famiglia, o
che faceva ftimiglia a sé, possedeva un'abitazione propria. Acqui-
stato il terreno, si suole erigere anzitutto nel suo centro un piccolo
gruppo di stanze, anche di legno, come può appena bastare per
i primi bisogni ; col tempo, sulla linea che fronteggia la strada,
si fabbrica una vera casa di uno o due piani, e i locali prima
abitati ne diventano le adiacenze. Notai che la via principale
(Main Street) era sempre da sistemare, ma vi si vedevano già
alcuni magazzeni ben decorati e provveduti ; nelle costruzioni più
cospicue è molto adoperato il ferro galvanizzato sia pel tetto, sia
per le cornici. Poiché quelli son luoghi classici del commercio
delle pelliccie, è naturale che vi sia un certo amore agli animali
che le forniscono, e in qualche cortile mi è accaduto di vedere volpi
legate alle corde, e piccoli orsi in catene ; in ogni casa poi v'ha
un vero museo zoologico, tante sono le varie pelli, le teste a più
palchi di corna, e le bestie imbalsamate. Fra i cani che vagano
per le strade, è facile riconoscere alle scorticature della pelle, e
al passo affaticato, quelli da traino, che all'inverno, appena cade
la neve, vengono imprigionati in certi loro finimenti (shagynappi)
ed attaccati, a quattro, a sei od a otto, al tohagan, che è una
specie di slitta destinata al trasporto della farina, del tabacco,
del pemmican, del brandy, le indispensabili provviste del viag-
giatore.
Molto terreno fabbricativo attende ancora gli acquirenti e su
quell'area, dove son già disegnate e strade e piazze, ma non sorge
una sol pietra, s'erano intanto accampati alcune centinaia d'emi-
grati ; sui loro carri e intorno alle loro tende era una gran con-
fusione di strumenti agricoli, di masserizie e di stoviglie. Più
lungi, nel recarmi alla Missione, incontrai parecchi selvaggi e al-
cuni dall'aspetto assai feroce. Il viso bronzino avevano strana-
mente macchiato di rosse pitture, la folta capigliatura lascia van
discendere sciolta od in treccie sulle spalle, od anche tenevano
stretta intorno al capo con un fazzoletto attorcigliato a guisa di
turbante. Vestivano una camicia di lana a colori, pantaloni di
panno scuro che dal ginocchio in giù piovevan sui gialli mocas-
sini con due gambali a vivaci e curiosi ricami ; poi intorno al corpo,
a guisa di manto, una coperta rossa od azzurra che cadeva ta-
lora dalle loro spalle con classici panneggiamenti. Alla cintura
avevano, in un fodero elegante, il largo coltellaccio che sogliono
adoperare per scalpare le capigliature dei nemici, una borsa da
678 IL DOMINIO DEL CANADA.
tabacco di pelle di daino, anch'essa curiosamente ricamata, ed un
cahtmct, o pipa, di singoiar pietra e fattura, colla canna rico-
perta di paglia leggiadramente intrecciata e colorita. Meno strano
era il costume delle donne, vaghe soprattutto, a quanto sembrava,
d' ornamenti, di qualsiasi metallo, al collo od alle braccia ; si re-
cavano i bambini dietro le spalle, o entro un piccolo fusto di le-
gno che ne proteggeva il corjiicino, o sciolti le tenere membra
entro le pieghe degli scialli, le cui estremità esse avevano anno-
date sul proprio grembo. Winnipeg è città dove di selvaggi se
ne incontrano sempre, anche se il territorio delle tribù cui ap-
partengono giace molto più al nord, perchè si spingono a Fort
Garrj per la vendita del prodotto della loro caccia o per farvi
acquisto di armi ed altro dalla compagnia della J3aja d'Hudson.
Nel 1870, appena il governo del Dominio si fu instaurato nella
nuova Provincia, subito accordò alla colonia una rappresentanza
locale di due Camere, elettiva la prima, di nomina del governa-
tore la seconda, ma nel febbraio 1876 fu chiesta l'abolizione del
Senato, perchè giudicato un'inutile spesa e il governatore diede
la sanzione al voto della Camera che lo sopprimeva. La popola-
zione della Provincia, che secondo il censo del 1870 non giungeva
ai 12,000 abitanti, * era già triplicata nel 1876. La popolazione di
Winnipeg si fece ascendere pel 1875 ad oltre 5000 anime, fra
cui 2000 uomini e 1000 donne avevano una proprietà loro: il valore
della proprietà fondiaria sui ruoli municipali era stimato dol-
lari 1,808,567, quello della proprietà personale doli. 801,212.
La Provincia di Manitoba giace nel cuore del continente ame-
ricano quasi ad eguale distanza dal Polo e dall'Equatore, dal-
l'Atlantico e dal Pacifico. La sua elevazione media è di circa
200 metri sul livello del mare, minore cioè che nel Minnesota, ma
tuttavia gl'inverni sono rigidissimi e per lungo tempo fu creduto
che l'agricoltura non potesse prosperarvi: ora per altro fu rico-
nosciuto che è anzi contrada assai adatta pel grano. Il suolo è un de-
posito alluvionale di circa quaranta centimetri di profondità. Lo si
ara nell'autunno, e si semina appena comincia il disgelo della
crosta esterna a primavera: coll'avanzarsi della stagione, il disgelo
degli strati inferiori continua, e mantiene la necessaria umidità
alla radice : la mèsse per altro è molto tardiva. Malgrado il freddo
intenso delle notti d'inverno, i cavalli indiani possono fare a meno
» Meticci francesi 5964, meticci inglesi 401n, indiani cristiani 581, diversi 1614.
I egli indiani pagani il censo non tenne conto.
IL DOMINIO DEL CANADA. 679
di stalle, e poiché la neve non si rammollisce, scoprendola colle
loro zampe, cibano l'erba die essa ricopre.
Ma la grande disgrazia della Provincia fu ed è la ripetuta
invasione delle cavallette : il danno che essa ne soffrì nel 1875 si
calcola di due milioni di dollari. Non v'è raccolto su cui si possa
sperare in un anno di cavallette : pure esse trascuran più facilmente
fave e piselli mentre poi preferiscono i cereali immaturi e le
verdi erbe. Tre sono le specie che si trovano in America: la Ca-
lopteniis Siìreiiis distinta dalla lunghezza delle sue ali, che, chiuse
lungo il c(?rpo, passan l'addome d'oltre un terzo della loro lun-
ghezza; la Calo2)iemis femor nihrum o cavalletta di aU corte e
gambe rosse; VOedipoda a^rox, rara all'est delle montagne Koc-
ciose, che ha parecchi punti neri sulle ali e sul dorso, ed una
macchia scura dietro l'occhio. È la Calopfenus Sprctus che di-
strusse finora i raccolti del Manitoba; la femmina suole scavare
nel suolo il posto per le sue uova che depone ravvolte in un sacco
nella quantità di 30 a 100 per volta. Per buona sorte v'ha 1' Icneu-
mone Pimpìa instiyator che depone le proprie uova in quello stesso
sacco, e le larve escono in tempo per succhiare le uova della ca-
valletta; anche una mosca, la Tachina o Sarcophaga, fa alla caval-
letta una guerra micidiale deponendo le proprie larve distruttrici
fra la sua testa ed il suo corpo. Né gli uomini rimangon sempre
inerti a contemplarne e piangerne le invasioni: con bastoni, con
pertiche al cui capo furon legati dei cenci, cercano spesso di
farle convenire su un letto di paglia, dove il riposo par loro assai
grato ; e poiché vi son raccolte, danno fuoco alla paglia. Si suol
anche dar loro la caccia in altre maniere, e il governo paga un
tanto per litro le cavallette morte.
XV.
Colla Provincia di Manitoba non va confuso il resto del ter-
ritorio del Nord-Ovest e se il governatore del Manitoba aveva,
mentre io era colà, l'incarico di comprenderlo pure sotto la sua
sorveglianza, era già atteso a Fort Carlton, futura capitale di
quella futura Provincia, un altro governatore, il quale doveva poi
venire coadiuvato da un consiglio locale, per metà di nomina go-
vernativa e per metà elettivo. Forse però quella nuova Provincia
non potrà mai diventare un elemento di prosperità o di potenza per
la Federazione, mentre non è probabile che sotto quel clima ghiac-
ciale si possa stabilire nessuna seria e fiorente colonia. Già a
680 IL DOMINIO DEL CANADA.
Winnipeg la mèsse si fa ai primi di settembre : laggiù poi dove
il mercurio rimane gelato per interi mesi, appena s'indurrà a
fissar la propria dimora qualche altro mercante di pellicce. Molto
si spera dalla effettuazione del progetto della ferrovia intercolo-
niale che dovrebbe collegare la Provincia d'Ontario con quella
della Columbia, e passando a giusta metà fra le latitudini di
Fort Carlton e di Fort Garry, valicherebbe le montagne Roc-
ciose per il passo Cache de la Tète-Jaune, o per quello Leather,
0 per quello Howe, ad un'altezza che varia fra i 3760 e i 4000
piedi, mentre sulla ferrovia Union and Centrai la più grande
elevazione è di 8240 piedi e su quella North Pacific è di 5000
piedi. Non so per altro se, quando anche il progetto di questa
grandiosa costruzione ferroviaria fosse tradotto in atto, il traffico
diventerebbe molto attivo e se potrebbe dar vita a luoghi da cui
il viaggiatore passerà a gran distanza e solo di sfuggita e per
altre necessità.
Comunque, non è poco per l'europeo l'interesse di quelle re-
gioni ancora dominio naturale dei selvaggi, i quali vi dividon la no-
made vita col bufalo, coll'antilope, col martoro, coll'orso e colla
lontra; e io fui a lungo tormentato dal desiderio di percorrerli
e visitarli meglio: ma monsignor Taché, vescovo di Saint-Boniface
(la diocesi di Manitoba), al quale mi diressi per consiglio, mi di-
stolse dal mio piano di raggiungere Fort Union sul Missouri ri-
montando l'Assiniboin; egli aveva fondate notizie che su quella,
strada si trovavano vari drappelli degli Indiani Sioux , dispersi
recentemente dalle truppe americane dopo i combattimenti san-
guinosi del Yellowstone River; se fossi arrivato prima, m'osservò
egli, avrei potuto con grande soddisfazione recarmi ad assistere
ad una conclusione dei trattati, che doveva aver luogo nella en-
trante settimana, sulla grande Saskatchewan, fra moltissimi In-
diani e la rappresentanza del governo del Dominio, ma per giun-
gervi occorrevano almeno quaranta giorni di viaggio da Winnipeg ;
e quanto a grossa caccia, non v'era speranza di farne se non in-
ternandosi per un 400 chilometri più al nord, e, poiché intanto
sarebbero sopraggiunte le nevi, rassegnandosi a svernare nella,
foresta.
Non mi doleva di rinunziare al bisonte (Bison Americamis)
che sapevo che avrei ritrovato negli Stati Uniti, ma certo rim-
piansi amaramente l'occasione di poter far mie le spoglie di altri
ruminanti e specialmente di qualche alce. L' alccs amcricanus,
noto ai meticci col nome à'orignaì, non ha né l'armonia nò l'eie-
IL DOMINIO DEL CANADA. 681
ganza di forme del cervo ordinario, ma è assai più grande e
vince forse la statura del cavallo ; ha così fine 1' olfato e l'udito,
che in estate è quasi impossibile di averlo a tiro di fucile, ma
quando la neve è alta, il cacciatore riesce ad avvicinarlo perchè
le sue immense racchette lo salvano da quello sprofondarsi che
fa l'animale ad ogni passo men cauto. Un altro cervo molto ap-
prezzato è il Wapiti {stroìKjijloceros) : è molto più facile preda
giacché vive in numerose bande, e quantunque si nutra anche di
rami d'albero, ama le aperte praterie, dove, come il bisonte, migra
l'inverno verso il sud, e l'estate verso il nord. Quanto alle pel-
liccio di valore, son fornite specialmente dalla volpe delle regioni
artiche e dalla divisione delle martore che trovansi anche esse molto
al nord ; ^ dell'ermellino, che ha fra noi cosi splendide tradizioni,
si fa tuttavia poco caso perchè la sua pelliccia è troppo minuta,
e non ricompensa il cacciatore.
Poiché non seppi decidermi a svernare nel nord-ovest, volli
almeno prima di far ritorno, fare qualche escursione, nella dire-
zione del lago Winnipeg, e in canotto suU'Assiniboin, e a cavallo
per le praterie ; ebbi così occasione di vedere molti accampamenti
d' indiani di varie tribù, dagli assiniboini ai piedi-neri, ai crees
ed ai chippewayans,- e mi mescolai spesso famigliarmente con loro.
Benché naturalmente non potessi fare uno studio sul loro lin-
guaggio, la mia attenzione si fermò subito al fatto che anche in-
diani appartenenti a tribù diverse ma della stessa razza, non
riescivano a comprendersi a vicenda, sicché nei loro rapporti si
servivano specialmente della gesticolazione, la quale sembra aver
raggiunto un alto grado di perfezionamento e risponder quasi
alla condizione di un linguaggio inarticolato. La diversità delle
voci e dei suoni non esclude per altro che tutti quei linguaggi
' Canis Vulpes argentata, Mustela Ermina, Mustela Viilgaris, Mustela Vi-
sori, Mustela Canadensis, Mephitis Americana Hudsonica. L' Hamilton, nel suo
volume The prairie province (Toronto, Belford Brothers) pag. 218, dice che nel
1815 la Compagnia della baja d'Hudson vendette 2,419,886 pelliccie, fra cui di orso
12,102, di castoro 183,200, di volpe 131,382 (solo 1515 argentate), di lince 14,833, di
martoro 166,512, di lontre 20,101, di topi muschiati 1,835,593.
- E ben diftìcilc il dare un'idea chiara della parentela delle varie tribù, tut-
tavia si può dire che tutti gli aborigeni delle regioni nordiche dsll' America si
raggruppano in quattro famiglie, cioè gli Esquimesi o Innock, i Dené Dindjé, gli
Algici, gli Huroni Jroquois. I Pieiii-neri, i Crees appartengono alla razza Algica, i
Chippewayans alla Dené Dindjé, gli Assiniboini a quella degli Huroni Jroquois
Quanto al loro numero, il censimento ufficiale del 1811, pel Cana dà (voi. 4, p. xri)
li porta complessivamente a circa centomila, di cui un quarto all' ovest delle mon-
tagne rocciose e tre quarti all'est.
682 IL DOMINIO DEL CANADA.
abbiano delle caratteristiche comuni, ed una, per esempio, è quella
di riunire in un solo vocabolo non soltanto le modificazioni del-
l' oggetto 0 dell' azione, ma oggetto ed azione insieme, concen-
trando così in una singola espressione un complesso d'idee fra cui
corra una connessione. ISissitaweijiltam, in lingua crisa significa
« egli riconosce ciò nel suo pensiero, » nissitawiìiam, « egli rico-
nosce ciò dalla vista, .> nìssitonam, « egli riconosce ciò toccandolo
colla mano, » nissitoskam, « egli riconosce ciò toccandolo col pie-
de. » Nella stessa lingua con una sola parola : KisMnoivàtacìia-
kiveiv è espresso il pensiero « egli si dirige verso le stelle,» e solo
che quella stessa parola sia pronunziata rendendo lunga anche
la terza a vorrà diro invece « egli ha 1' anima con una impres-
sione, ^ » I missionari ammirano assai questa particolarità di
struttura, e lamentano che fino ad oggi i filologi abbiano riguar-
dato i linguaggi degli indiani come un'accozzaglia di suoni dis-
armoniosi ed inintelligibili. Invero tutte quelle frasi che udii mi
giunsero dolcemente all' orecchio. Quasi sempre alla consonante
i:)recede o fa seguito una vocale, e frequentissime sono le ripeti-
zioni di sillabe. Alcune delle caratteristiche comuni ai linguaggi
indiani possono essere riscontrate anche in alcuni linguaggi del
vecchio continente, specialmente in quelli delle famiglie turaniane,
ma se ne possono indurre cosi disparate parentele che è meglio
rinunziar-e all'argomentare. M. Kand - ha notato molte somiglian-
ze fra il micmac ed il greco ; per esempio, j«f?e5 Selcia piccione,
agie jr, terra,, pegoon •^^u-^o-i piuma, o^^a/i iy.iy^r.; mare, kaloos -làX'.^
buono ; ma non è possibile dare una seria importanza ad isolate
consuonanze che traggono forse, più che altro, l'origine dalla di-
sposizione naturale dell'uomo di dare alle cose ed ai loro modi
di essere dei nomi onomatopeici ; per le conseguenze etnologiche,
di fronte alla sana filologia avrebbe forse molto più peso il fatto,
anche se riguardi una sol tribù, che gli Otomì, i quali abitano
il Messico centrale, parlano un linguaggio monosillabico come i
Cinesi. ^
Non pochi degli indiani, con cui ebbi ari incontrarmi, reca-
vano sul capo parecchie piume come segno del numero dei ne-
mici da essi scalpati ed alcuni anche lasciavano pendere dalla
loro cintura, orribile vista, le stesse capigliature. Ciò non m'im-
1 Bictionnaire de la langue des Crìs, par le rev. pére Albert Lacombe,
Oblat de M. I., Montreal, Beauchemin et Valois, 1874.
- Micmac Version of -S. John, Halifax, 1868.
' Manuel Crisostomo Naxera, Dwerf. so&re Za Zen^im Oiomz, Meijco, 1865.
IL DOMINIO DEL CANADA. 683
pedi tuttavia di rimontare solo a solo in canotto con due di essi
un buon tratto dell'Assiniboin. 1 canotti che vidi eran tutti di
larghi brani di scorza della hctula painjracea, ricuciti insieme od
altrimenti calafatati, su una leggerissima armatura interna; i re-
mi erano assai corti e dalla larga estremità.
11 canotto può dirsi la abitazione naturale di quei selvaggi ^ e
mi pareva di dover essere, in ragione della nozione dell'ospitalità,
più sacro per loro là dentro che nei loro campi. In alcuni di
questi trovai le tende di tela, ma più spesso di pelle di bufalo
o di scorza d'albero, che avevan assicurato alla meglio su alcune
j)ertiche incrociate alla sommità. Una volta ho passeggiato a sera
fatta fra un campo e l'altro, ma non senza una certa emozione. Ad
ogni tratto mi trovavo di fianco l'alta statura di un qualche in-
diano che, grazie ai suoi moccassini, mi aveva raggiunto senza che
me n'accorgessi. Mi guardava e procedeva, ma in me s'agitavano
le fosche rimembranze del romanzo / cacciatori di capigliature
del Mayne Eeid.
Sotto il rapporto della maniera con cui si procurano il vitto,
il censimento ufficiale, che ho citato più volte, distingue fra gli
Indiani del Dominio 23,000 che vivono in caverne e capanne, prin-
cipalmente di pesca, e sono gli Esquimesi, 18,000 che vivono nei
campi della caccia e delie praterie, 44,000 che vivono in famiglia
e della caccia delle foreste, e infine 15,000 che si sono rac-
colti in villaggi nel seno stesso della civiltà, come a Lorette e
Mission Poiut, e che coltivano la terra. I confini dei territori di
cui ciascuna tribù pretende riservarsi la caccia non son delineati
dalla natura, ma soltanto immaginari, e ciò è causa principale
che esse abbiano vissuto finora e vivano tuttavia in quasi costante
antagonismo : quindi quelle guerre feroci dove la rinomanza del
guerriero dipende dal numero delle capigliature che ha potuto
scalpare, non importa se di uomini o di donne o di fanciulli, e nem-
meno se dovuta all'astuzia od alla sorpresa più che ad una sfida
leale ed aperta. Codesto stato di lotta e la diversità dei linguaggi
^ And the forest life is in it
AH its mistery and its nnagic,
AH the lightness of the birch-tree,
AH the toughness of the cedar,
AH the larch's sùpple sinews.
And it floated on the river
Like a yeHow leaf in autumn,
Like a yellow water lily.
LONGFELLOW, HlAWATHA.
68-é IL DOMINIO DEL CANADA.
fanno sì che ogni tribù abbia riti e costumi propri : vi sono per
altro fra loro non pochi tratti comuni, e oltre le eguali necessità
create da un tenore di vita quasi per tutto il medesimo, non v'ha
tribù che prima d'abbracciare il cristianesimo non pratichi la
poligamia, ed anche, benché più raramente, l'unione contro na-
tura. Adorano tutte uno spirito superiore, ma il politeismo che
pure professano, in alcune tribù si manifesta col culto del sole
e delle stelle, ed in altre con superstizioni verso i mani dei morti
0 con una zoologia mitologica fatta intervenire anche a spiega-
zione della cosmogonìa. Talune sacrificano animali, ed altre pre-
feriscono il farsi varie sorta d'incisioni : nessuna si dà ordinaria-
mente all'antropofagìa, ma ve n'ha che vi ricorrono, quando le
dure privazioni con cui li prova l'avventurosa vita della caccia,
ne offre loro la sinistra occasione.
Il missionario padre Lacombe, autore del Dizionario di lingua
Crisa che ho citato, ebbe in quei giorni la bontà di farmi spesso
da interprete. Egli ha passato oltre vent'anni della sua vita in
mezzo ai selvaggi giungendo spesso là dove non avrebbero osato
di farsi vedere i trafficanti di pelliccio, e subendo le più dure
privazioni e i più severi sacrifici, per recare in mezzo a loro la
rivelazione di una religione d'amore e di pace. Come non ammi-
rare tanto zelo, tanta abnegazione, tanto eroismo? 11 missionario
può affidarsi forse in generale alla ospitalità degli Indiani, ed
alla buon'indole dell'animo loro: ma troppo spesso la guerra in-
fierisce fra tribù e tribù, e al missionario sorpreso dai Piedi-neri
nel campo dei Crees non si farebbe grazia facilmente, né nei san-
guinosi combattimenti con cui si distruggono fra loro, la vittoria
rimane sempre da una stessa parte. Padre Lacombe al suo giun-
gere presso una nuova tribù cominciava subito a predicare le
principali massime del cattolicismo, e soggiungeva che se finora
essi erano scevri di colpa perché Dio non si era peranco a loro
rivelato, ora che egli si faceva apostolo della sua sacra parola
si sarebbero resi peccatori ed empi nel ricusare di udirla. In ge-
nerale i selvaggi non oppongono obbiezioni al dover essi addot-
tare la religione dei « bianchi » perchè più vera: la nostra stessa
civiltà giudicano una testimonianza di predilezione divina: ma
rispondono sovente che il Grande Spirito ha dato loro una ma-
niera di adorarlo più addatto alla vita che conducono ed egual-
mente gradita; temono, essi dicono, di non poter facilmente seguire
tutte le prescrizioni, tutti i riti, i costumi e le leggi della vera
credenza. Invero devono d'un tratto rinunziare alla poligamia, al
IL DOMINIO DEL CANADA. 685
diritto di vita e di morte sulla moglie die comprano e sui figli
che mettono alla luce, e devono sentirsi continuamente rimpro-
verare come delitto capitale la loro barbara e prediletta costu-
manza di scalpare i nemici. Qualche volta, ma di rado, espon-
gono anclie al missionario qualche dubbio ch'egli non sia un im-
postore: ed egli si trincera dietro il proprio disinteressamento e
li fa persuasi^ con poca insistenza, che non può essere se non in
buona fede e per sincero zelo ch'egli rinunzi agli agi della vita
che lascia dietro sé, e che si rassegni alla stessa loro povertà,
agli stessi loro stenti.
Il padre Lacorabe m'ha cortesemente accompagnato a visitare
anche le prigioni di Winnipeg. Ivi abbiam veduto in una stessa
camera un selvaggio della tribù dei Blood-Indians {Genf; de sang
dei francesi) e un altro della tribù dei Piedi-neri. Tutti due
erano accusati d'aver ucciso la moglie adultera, ed erano stati
arrestati dai soldati del Dominio che si trovano ora nei forti
della Compagnia della Baja d'Hudson. Il governo del Dominio
aveva già stretto dei trattati coi Black-feet o Piedi-neri e s'era
su essi riservata la competenza giudiziaria: quanto ai Blood-Indians,
nessun trattato ancora esisteva e appena può argomentarsi che
il governo del Dominio intendesse d'esercitare i diritti già con-
cessi alla Compagnia della Baja d'Hudson da Carlo II e da essa
ben fiaccamente fatti valere. Ma qua,lunque sia la giustificazione
di questo caso particolare in cui un uomo che ha agito come consen-
tono le leggi della propria comunanza è trascinato in catene at-
traverso 900 miglia per sentirsi giudicare da uomini d'altra razza,
d'altra fede e d'altra legge, tutta la condotta che si è finora tenuta
nell'America settentrionale verso gl'Indiani, merita davvero l'in-
dignazione dell'europeo disinteressato.
Ninno può porre in dubbio che la civiltà nostra sia di gran
lunga superiore, e che la vita nomade degli aborigini sia la ne-
gazione d'ogni principio di sana morale e di benintesa economia.
Tutte le memorie dei missionari e dei viaggiatori, e gli stessi dati
ottenuti da più recenti investigazioni limitano ad una importanza
numerica molto piccola, la popolazione aborigena sia dei tempi pas-
sati sia dei presenti ; e infatti per vivere esclusivamente di caccia
e di pesca si richiede un'estensione straordinaria di territorio in
confronto ad una ben meschina popolazione; ' tutte le volte che
' Sempre secondo le stesse statistiche, la superficie territoriale occupata dai
centomila Indiani del Dominio per caccia e per pesca è di 3,498,000 miglia qua-
drate, cioè 34 miglia quadrate per individuo.
686 IL DOMINIO DEL CANADA.
la proporzione di questi due termini parve alterarsi, la fame, le
epidemie o la guerra, questi funesti agenti della teoria di Maltus,
intervennero a ristabilirle. D'altronde la stessa vita delle tribù
selvaggie, indipendentemente dalla fatale impossibilità in cui si
trovano di moltiplicarsi e prosperare, non è tale da rappresentare
un ideale di missione umana. Ma da questa verità alla sentenza
di distruggerle corre non poco. È vero che i suoli piìi fertili,
prescelti per la coltura, in generale non sono quelli che offrireb-
bero la maggior quantità di caccia, e che la pesca delle coste
marittime, risorsa più naturale e più abbondante dell'uomo allo
stato selvaggio, non gli è tolta ancora interamente; ma malgrado
queste meschine giustificazioni rimangono sempre una grande
vergogna l'usurpazioni costanti di suolo fatte dal governo degli
Stati Uniti 0 da quello del Dominio del (Janadà sotto l'egida della
bandiera inglese. Oggi queste usurpazioni si mascherano sotto il
nome di trattati, ma non occorre grande sforzo per rompere il
velame della parola.
L'isola Manitoulin sul lago Huron era tutta occupata da In-
diani Chippewayans ed Ottawa. Sir Francesco Head, governatore
inglese, nel 1835 ne aveva loro confermato il possesso e la pro-
prietà, quasiché avesse il diritto di farlo, e quasiché il suolo anche
senza di ciò non avesse appartenuto legalmente a coloro che ne
erano i primi ed esclusivi occupanti. In ogni modo nell'assenso
di sir Head essi ebbero un titolo ulteriore che non poteva invali-
dare il vecchio. Nel 1861 il governo pretestò che la concessione
di sir Head era vincolata al concentramento nell'isola di altri
indiani che poi non v'erano mai apparsi, e mandò una commissione,
che M. Samuel Philipps Day autore àeWEnglish America ebbe
la sorte di accompagnare, coU'incarico di distribuire agli indiani
là residenti tanto suolo in ragione di 24 acri per ciascuno, con
una sufficiente estensione di bosco da potervi far legna l'inverno,
poi di pigliar possesso del resto per la Corona. Com'era naturale,
gl'indiani si opposero: « Dio v'ha dato ogni ricchezza, diceva un
loro capo, ed a noi ha dato questa povera terra. Io non posso spo-
gliare i miei figliuoli di ciò che loro appartiene, » La distribu-
zione di un po' di denaro a titolo di prezzo del terreno che la
Corona voleva appropriarsi (3,500 lire per 350 mila ettari !) fece
che alcuni fra gli indiani si dichiarassero per l'accettazione del
trattato, e allora il capo dovette persuadersi a firmarlo: ma il
Day, che pure sottoscrisse come testimonio, soggiunge nel suo rac-
conto, di non poter a meno di esprimerò il suo sdegno per questa
IL DOMINIO DEL CANADA. 687
spogliazione fatta senza rimorso. E disordini ne seguirono; e vi
furono vittime e repressioni per parte del governo, ma di chi prima-
mente era la colpa ?
Nel 1873 M. Morris, luogotenente governatore del Manitoba,
trattò con circa 800 Indiani per 1' acquisto di 55 mila miglia
quadrate del piìi ferace terreno della nuova Provincia: le condi-
zioni furono, che per ogni famiglia di cinque persone sarebbe stato
riservato un miglio quadrato perchè vi potesse cacciare, e che
pel resto del terreno, a ciascun indiano sarebbe pagato in quel-
l'anno dodici dollari, e cinque per ogni altro anno di sua vita;
più, munizioni e reti per l'intera tribi!i, pel valsente di 1500 lire
l'anno: i capi poi dovevano avere trenta dollari all'anno finché vive-
vano ed una medaglia d'argento, A proposito delle medaglie, il capo
Ma-ni-to-ba-sis (capo di forte Francesco) osservò al governatore:
« Vi mostrerò ora una medaglia che fa data a coloro che fir-
marono il trattato a Red River col commissario del governo. Egli
disse che era d'argento, ma io non lo credo: mi vergognerei di
portarla sopra il mio petto, sopra il mio cuore. Io credo che
deve umiliar la Regina, mia Madre, il recare la sua immagine
su cosi basso metallo. » E qui, segue la relazione inglese delle trat-
tative, il capo levò alto la medaglia, la percosse colla costa del
suo coltello, e ne risultò un suono tutt'altro che argentino, che
fece vergognare ogni spettatore della vile bassezza a cui si era
ricorso. « Fate, aggiunse il capo, che le medaglie che ci darete
sieno d'argento, medaglie degne dell'alta posizione della nostra
Gran Madre la Regina. » Tutto ciò che il governatore rispose,
fu che avrebbe reso noto ad Ottawa ciò che il capo aveva detto
e come V aveva detto. *
Simile condotta del Governo non può non essere un triste
esempio per la popolazione, e infatti il presidente Wood, nel-
r indirizzarsi al giurì radunato a Winnipeg nell'ottobre 1875, ebbe
a dire che egli avrebbe dovuto senz'altro congedarli, poiché tutte
le infrazioni alla legge verificatesi nella Provincia erano di sola
competenza dei tribunali inferiori, se non vi fossero stati quattro
casi nel territorio del Nord Ovest di uomini bianchi accusati
d'aver trucidati parecchi indiani colle loro donne e fanciulli mentre
stavano pacificamente accampati. - Il processo provò che i col-
1 « To Ihe Indians the first intimation of danger was the sharp rattle of
the deadly repeating rifle from a treacherous and conceaied foe. »
2 Leggo, History of the administration of the Earl of Bufferin in Canada,
Montreal, Lovell 1818, pag. 536.
688 IL DOMINIO PEL CANADA.
pevoli erano originari degli Stati Uniti, ma gli stessi Cana-
desi avrebbero i rapporti molto più difficili cogli Indiani se
non fosse l'interposizione dei numerosissimi meticci, i quali, per
usare le parole pronunziate da Lord Dufferin in un suo discorso,
« combinando la attitudine alle fatiche, la resistenza e lo spirito
d'intrapendenza ch'ereditarono col sangue indiano, colla civiltà,
l'istruzione e la capacità intellettuale che devono ai loro padri,
predicarono il vangelo della pace, del buon volere e del vicende-
vole rispetto, con pari benefici risultati, al capo indiano nella sua
tenda e all'emigrante inglese nella sua capanna: essi furono gl'in-
termediari fra r Occidente e 1' Oriente, gì' interpreti della civiltà
e delle sue esigenze ai nomadi delle praterie, ed esposero pure
al bianco quanto riguardo era dovuto alle suscettibilità, alla di-
gnità, ai pregiudizi, all' innato scrupolo per la giustizia della
razza indiana. » ^
xvr.
Il Dominio del Canada conta ormai oltre un decennio di vita.
Al suo sorgere non ebbe certo propizi tutti gli auspicii. Nella di-
scussione davanti al Parlamento di Quebec, un Deputato propose
sarcasticamente che dovesse scegliersi l'iride per suo emblema.
« Quella varietà di colori, diceva egli, darà una fedele idea della
diversità delle razze, delle religioni, dei sentimenti e degli inte-
ressi delle diverse Provincie; quel sottile e prolungato arco ne
rappresenterà benissimo la configurazione geografica; e final-
mente la natura ingannevole di pr.rvenza che ha il celeste fe-
nomeno, risponderà giustamente alla fragilità del nuovo edifizio
1 A compire la mia visita del Dominio mi rimaneva ancora da vedere la Co-
lombia inglese: se avessi deciso di passar l' inverno nel territorio del nord-ovest,
potevo recarmivi a piccole tappe presso a poco per quella medesima strada che
dovrà poi essere percorsa dalla ferrovia del Canadian Pacific, ripetendo dal più
al meno il viHggio che hanno coraggiosamente intrapreso, e tanto iiitei'essan-
temente descritto, il visconte Milton e il dott. Cheadle nel 18G2 : ma il desiderio di
far economia di tempo mi persuase invece ad attendere l'occasione in cui mi
sarei trovato a San Francisco. Pur troppo ai progetti differiti troppo sovente ac-
cade di rinunciare, e tale fu il mio caso; mi è forza dunque ora di contentarmi
di notare a complemento delle notizie che ho dato sulle altre Provincie del Do-
minio che nella Colombia inglese la popolazione nel 1810 era di circa 10 mila
anime, di cui un quinto fra neri e chinesi, e che quel territorio ha grande im-
jìortanza forestale od aurifera. L' oro si trova quasi seguitamente sopra una esten-
sione di cento o duecento miglia a partire dalla frontiera degli Stali Uniti tino
al 53° grado di latitu line nord; nel 1869 ne fu esportato per 3 milioni e mezzo
di dollari, e dal 1862 al 18T7 per circa 22 milioni.
IL DOMINIO DEL CANADA. 689
politico. ->> Ma il pungente sarcasmo non venne finora giusti-
ficato , e gli sfavorevoli vaticinii si spersero al vento. Oggi se
il Dominio vive una vita tranquilla e quasi ignorata non è
meno per questo il nucleo politico più prospero dell'America, dopo
la repubblica degli Stati Uniti.
La diversità delle confessioni religiose porta alla sola conse-
guenza di rendere più sincero e più puro l'esercizio di ciascuna
di esse: la diversità delle razze assicura una più versatile indole
alla comune civiltà : i sentimenti, gl'interessi son rivali ma non
opposti, anzi facilmente conciliabili. Per oltre duemila miglia si
stende l'indifesa frontiera, e in qualunque suo punto, gli abitanti
del Dominio, nel guardare i potenti vicini, s'accendono di un'am-
mirazione sincera e provano anche gli eccitamenti di una nobile e viva
emulazione, ma sentono nello stesso tempo la fierezza della loro
individualità. Sudditi immediati e passivi dell'Inghilterra, avreb-
bero dovuto vergognare davanti al limitrofo illimitato esercizio
d'indipendenza, ed essere attratti verso di esso: autonomi anch'essi,
considerano le proprie istituzioni come eccellenti ed infinitamente
superiori a tutte le altre. Non si fanno scrupolo, no, di accettare
e riprodurre dai loro germani le preziose invenzioni e i preziosi
spedienti con cui essi così ingegnosamente provvedono alle neces-
sità di quella peculiar vita, assediata di continuo dalle difficoltà
della solitudine e della scarsità dell'opera mercenaria: ma si stu-
diano accuratamente di sfuggire al rimprovero di poca riguardo-
sita nei vicendevoli rapporti, o di trascurata educazione, che tanto
sovente l'Inghilterra e l'Europa infliggono ai colonisti.
Ora se l'Inghilterra regge in maniera così liberale il Dominio
del Canada gli è senza dubbio per la dolorosa esperienza de're-
sultati a cui nel secolo scorso riesciva col sistema delle oppressioni
e delle concussioni; ma reggendolo nel modo attuale, qual è il van-
taggio che ne ritrae? Ho già accennato più sopra a questa do
manda, ma allora mi sono contentato di osservare che il senti-
mento della comune nazionalità era così vivo, da vincere l'enorme
distanza interposta dall'Atlantico. La risposta non è facile davvero,
ed anzi alcuni anni or sono la pubblica opinione in Inghilterra s'era
messa in sospetto che le sue colonie del Nord dell' America fossero
invece un danno nazionale, e la forma federativa sotto cui vennero
raggruppate, fu escogitata anche nell'interesse della madre patria,
la quale era stanca di spendere per esse ; ma la separazione delle
finanze e la concessione di istituzioni autonome, se possono avere
scemato le ragioni ed il pericolo di esborsi, non lasciano per
VoL. XIV, Serie II — 15 aprile I8l9. 43
690 IL DOMINIO DEL CANADA.
questo meno problematica la convenienza per l' Inghilterra del
conservare siffatte appendici della sua potenza.
Non fermiamoci troppo alla soddisfazione die un popolo può
provare nel sapere che le sue leggi imperano anche fuori dei e
confini naturali tra cui nacque che i suoi figli vivono ossequiosi
memori di lui nelle nuove dimore che si sono elette, che la sua
bandiera sventola sopra piìi largo tratto di territorio che niun' al-
tra potenza al mondo; il positivismo dell'epoca, e piìi special-
mente della politica inglese, se non ha offuscato del tutto lo
splendore di questi argomenti, ne ha assai sminuita la luce. Il
vantaggio che la madre patria può trarre da colonie che si go-
vernano da sé, perchè sia riconosciuto e sentito reale ed indi-
scutibile, oggi deve potersi accertare egualmente dal lato poli-
tico e dal lato economico.
Economicamente, il Dominio del Canada è per l'Inghilterra
un mercato che le condizioni del libero scambio rendono favo-
revole al suo commercio. La maggior parte delle importazioni
del Dominio son ritirate dagli Stati Uniti, la maggior parte delle
esportazioni son dirette all'Inghilterra. L'Inghilterra nel 1876 ha
ritirato dal Dominio per circa L5 milioni di dollari di cereali e
per 26 milioni di dollari di legname, e appena inviò in cambio
un valore di 16 milioni di dollari, per un terzo in ferro lavorato
e per due terzi in tessuti di lana e di cotone. Ora è facile accor-
gersi che se pure cessasse il vincolo politico, il Dominio non
colpirebbe le proprie esportazioni, né sarebbe di gran momento
per l'Inghilterra se esso si decidesse a tassare i pochi articoli di
importazione. Recentemente il partito conservatore, impadronitosi
del potere federale, ha spiegato la bandiera del protezionismo
contro le importazioni dagli Stati Uniti; ma lo scopo da esso
vasjhesfffiato é di far rivivere l'industria locale e il commercio
fra le varie Provincie, non già quello di porre in miglior condi-
zioni la madre patria, contro la quale un giorno, se le necessità
lo volessero, sarebbe anche aperta una campagna finanziaria,
come lo insegna l'esempio dell'agitazione che nel 1849 seguì la
proclamazione delle dottrine del libero scambio.
Politicamente, nella situazione che l'Inghilterra occupa verso
l'altre nazioni continentali, il Dominio del Canada non può riu-
scirle di nessuna risorsa: se mai, le sarà di grave imbarazzo il
dover concorrere a difenderlo, e anche negli ultimi tempi, la
Russia, alla prima minaccia di una guerra, erasi subito posta in
posizione di attaccare intanto l' isola di Vancouver. Rispetto a
IL DOMINIO DEL CANADÌ. 691
-continente americano il problema è più complesso e la sua so-
luzione dipende dall'importanza a cui il Dominio può crescere.
Esso possiede un territorio quasi altrettanto vasto che quello
degli Stati Uniti, e conta appena un decimo della loro popola-
zione, la quale per altro, al principio del secolo, era appunto
dieci volte minoro. Potrà esso pure sperare in un incremento al-
trettanto rapido e cospicuo? Per quanto è dato di prevedere,
^onvien rispondere negativamente. Anzitutto gran parte del ter-
ritorio del Dominio giace in infelici condizioni climatologiche, ep-
poi quasi un terzo dell' emigrazione totale (circa 10 milioni di
anime) che si gettò sugli Stati Uniti nel periodo che corse dalla
loro fondazione a tutt'oggi, proveniva dall'Irlanda, un altro terzo
dalla Germania; ora è difficile che coloro che vorranno emigrare
in avvenire da quelle contrade, non accorrano a preferenza dove
vivono già tanti loro connazionali, e forse fra essi i loro amici o i
loro congiunti. Ora la risorsa che l'emigrazione europea può ar-
recare ad un paese, è molto più importante che non appare a
prima vista. È facile convincersi per esampio, che il contributo di
popolazione portato da essa agli Stati Uniti dal principio del
secolo infino ad oggi, tenendo conto dell'aumento naturale dovuto
alla riproduzione, non fu solo di dieci milioni di anime ma bensì di
trenta. Inoltre gli economisti, calcolando il valore che ogni emi-
grante rappresenta come coefficiente di lavoro, e pel capitale in
esso accumulato col suo primo nutrimento e colla sua educazione,
hanno concluso che il suo contributo alla ricchezza nazionale
del paese a cui vanno è dei più considerevoli. ^ Ma se in causa della
minore emigrazione, il progresso del Dominio sarà meno rapido,
non per questo deve tenersi meno sicuro, e questa nascente potenza,
anche se rivendichi ogni indipendenza maggiore, ma soprattutto se
continui ad obbedire all'Inghilterra, non potrà a meno di esercitare
un giorno un'influenza sulla vita politica degli Stati Uniti. Fintanto
che essi si terranno strettamente collegati fra loro, ne potranno
con ragione disprezzare il pericolo, ma se per caso l'idea della
secessione non fosse stata per sempre sepolta dopo i sanguinosi
combattimenti della guerra dei quattro anni, o se fosso possibile
un giorno un accordo fra il Messico e l'Inghilterra od il Domi-
nio, la dottrina di Monroe non potrebbe più essere il baldanzoso
programma della politica internazionale del governo di Washing-
1 Fredrich Kapp, Aìis und ùber Amerika, Berlin, Julius Springer, 1876, voi. I
capitolo TJber Ausivanderung.
692 II- DOMINIO DEL CANADA.
ton. Tale fu il segreto pensiero di Napoleone III nel suo ten-
tativo di creare l'Impero del Messico, tale fu la lontana mira
dell'Inghilterra nel soffiare dentro le discordie della gran guerra di
secessione. Ma checché sia per avvenire dei rapporti fra l'Inghil-
terra e gli Stati Uniti, le altre nazioni non possono se non veder
con simpatia che le straordinarie risorse naturali dell'America
settentrionale non sieno poi in mano ad un solo ente politico, il
quale ne faccia esclusivo monopolio, e possa approfittarne per scal-
zare colla sua assorbente concorrezza le basi del sistema indu-
striale e commerciale europeo.
Enea Cavalieri.
NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO
SCHIZZO DI COSTUMI.
Due famiglie delle più antiche e delle piìi reputate della villa,
coloni dello stesso padrone, avevan da poco concluso il parentado.
Il padre dello sposo, lo zio, e il nonno, un vecchio rubizzo di
quasi ottant'anni, cogli abiti di festa eran scesi solennemente giù
dalla china, ed erano entrati in casa della sposa, dove erano
aspettati/Il padre della sposa, un contadino svegliato, fattore di
campagna, e quindi uno de' maggiorenti del luogo, li aveva at-
tesi sulla soglia e li aveva fatti entrare come se ospitasse dei pel-
legrini, fingendo ignorare completamente il motivo della visita.
Era solo; la famiglia numerosa era nei campi o fingeva di es-
serci; e mancava la mamma perchè era morta da otto anni. I
parenti dello sposo si erano seduti in tre sedie vicino al focolare,
sotto l'immensa cappa annerita dal fumo, regnatore secolare di
quella cucina modesta e pulita ; il padre della sposa in un an-
golo solo contro tre, perchè quando si conclude il parentado si
combatte una vera tenzone e si osservano strane etichette e di-
plomazie incomprensibili, che la tradizione gelosa ha tramandato
fino a noi e che rivelano la trasformazione incessante della ci-
viltà che si svolge, prendendo le mosse da que' nostri progenitori
che facevano il ratto delle Sabine.
Che dicessero in quel lungo colloquio non è facile a sapersi,
perchè non e' erano né ci potevano essere testimoni : solo si sa
che dopo aver parlato del nuvolo e del sereno, della speranza di
un buon raccolto, delle mucche che avevan figliato, e del gen-
naio che era freddo secondo il mantello delle pecorelle, le quali
belavano nella capanna di contro alla fattoria, il padre della sposa
ruppe gl'indugi e in omaggio alle prammatiche ufficiali saltò di
694 NOZZE NELL'APPENNINO MAECHIGIANO.
botto nel discorso del perchè di quel viaggio de' suoi compari. I
quali lasciando la parola al nonno dello sposo, che è anche il capoccio
della famiglia, dissero e spiegarono come e qualmente intendessero
di concludere un parentado fra le due famiglie, chiedendo in isposa
la fantella che aveva nome Anastasia, figlia maggiore di lui, con
Giovannino il pili grande dei maschi di casa loro, a cui spettava
di diritto il primato nel matrimonio. Il padre della sposa aveva
accordato la donna co' suoi patti e le sue riserve, enumerando-
quel po' di roheffa delV acconcio, che era proprio e civile come
si conveniva a fanciulla costumata e virtuosa, promettendo una
piccola dote in iscudi da pagarsi dopo un anno di matrimonio,
e desiderando di sapere quel che si assicurava allo sposo per ri-
cambio, al quale poi si accordava come un supremo beneficio da
quel momento 1' entrata libera in casa a veglia, il che in tanti
anni non si era mai permesso.
Stabiliti cosi i preliminari di quel parentado che fu ed è l'am-
mirazione di tutta la popolazione del monte, di lì a pochi giorni
si eran fatte le spese che spettavano allo sposo: i coralli, che en-
trano per una parte importantissima nelle nozze campagnole delle
Marche, i pendenti, gli anelli, la veste di lana stoff'ata, lo sciallo
di seta a larghe strisele rasate e a fiori di colori smaglianti, gli
stivaletti a doppia suola e il collare all'uncinetto coi relativi pol-
sini: e la sposa aveva regalato allo sposo la camicia centinata
col largo solino e la cravatta scozzese.
Si eran promessi davanti al curato che aveva battezzato l'Ana-
stasia e che le aveva fatto la conocchia di dieci lire, perchè, ri-
masta orfana a sedici anni della madre, la benedett'anima di Ma-
rianna la più bella e virtuosa contadina della villa, era stata la
mamma de' suoi fratelli e delle sue sorelle, che erano sette altri,
di cui due di coppia, Sabbatino e Albina lasciati quasi in fasce,
e si era mantenuta cosi costumata e onesta. Fare la conocchia
vuol dire fare il dono delle nozze, la conocchia essendo fortuna-
tamente ancora lo stemma di ogni donna che va a marito in que-
ste montagne, uso latino che ricorda l'antico motto: casta vixit,
lanam fccit, domum servai- it. E dopo la conocchia del curato, che
l'aveva benedetta il giorno di Sant'Antonio, quando era stato chia-
mato a benedire gli armenti, mille altre conocchie erano arri-
vate da tutte le comari, le vicine e le parenti alla sposa, la quale
era la vera JRosière ^ di quella casta e vereconda cerimonia nuziale.
1 Vedi II vero paest dei Miliardi di Max Nardau (Milano, fratelli Treves)
sulla Rasière.
NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO. 695
Il giorno prima delle nozze il fratello cugino dello sposo
(che di fratelli carnali non ne ha nessuno) aveva ripulito ben
bene il carro, chiamato biroccio, ci aveva aggiogato i due buoi
più belli della stalla, lucidi come specchi e infioccati di mille co-
lori, ci aveva posto le campane del raccolto e della vendemmia, e,
vestito di saglia nuova fatta in casa come quella dello sposo, col
cappello a larghe falde, era sceso a prendere la Camera.
La Camera, per chi noi sapesse, è la dote che si porta la
sposa: le casse col corredo, le coperte, i cuscini e la materassina
per i piedi.
Si caricano le casse sul carro in forma di letto, si coprono
colle due o tre o quattro coperte che la donna si è tessute da
sé: ci si pongono soprai cuscini e la materassina e sul davanti
si appende come un trofeo una larga ciambella ornata di con-
fetti a tanti colori con pochi metri di panno o di mussalo per
fare una camicia, ornata di piccole fettuccie bianche e rosse. La
faccenda di accomodare la Camera sul carro è una delle bisogne
più gravi e più importanti delle nozze, e ci vien chiamata la più
paina ^ delle contadine del vicinato, perchè tutto sia posto in
evidenza con maestria e garbo, perchè né una frangia, né un fiocco,
né un solo colore delle coperte sia sottratto all'occhio vigile del
pubblico, perché in una parola si possa far comprendere che la
sposa porta in casa un po' di grazia di Dio.
Nel passato anno, negli ultimi di aprile, altre nozze s'eran
celebrate poco lungi di lì, fra contadini possidenti di due diverse
ville.
Un mattino per tempissimo io salii l'erta e mi condussi a
Valle San Martino, un paesetto di montanari verso ponente. Mi
ricordo che il parentado era in grandi faccende e che mi avan-
zavano coppie di invitati che s'affrettavano alla festa. La campana
suonava a distesa, la gente era lieta e festante, il passo leggero
e celere, proprio di chi va a nozze.
Mi conduceva un contadinello sui quattordici anni e ci se-
guiva il suo cane di guardia, che in quel tramestio di gente com-
prendeva doveva accadere alcun che di straordinario. La strada
era lunga e faticosa e s'arrampicava a svolte sul monte e qual-
che volta si sfondava giù come un letto di fiume. Querele seco-
lari la ombreggiavano, e cantava l'usignolo, e dalla valle ci sa-
liva il cupo verso del cuccolo. Il mio contadinello aveva nome
' Paina vale donna elegante e civile.
696 NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO.
Ferdinando in omaggio al Re di Napoli, perchè la sua famiglia
era pochissimo lìrogrcsslsta, e lo chiamavano tutti Fiore o Fio-
rino per vezzeggiativo: la sua nonna Agnoletta era la cuoca che
preparava la colazione m casa della sposa, ed egli poi era pa-
rente dei parenti e compare della famiglia.
— Sentite, signora, l'usignolo canta gli amori e il cucco canta
il caldo che s'approssima. Perchè nell'inverno tutti questi uccelli
se ne van via lontano e ritornano soltanto la primavera.
— Oh! e dove vanno?
— L'usignolo non lo so: il cucco va in Cuccumania, un paese
lontano, a svernare, poi ritorna qui quando là ci vien freddo: come
la rondolella che fa su per i tetti delle case.
— E chi ti ha detto tutte queste belle cose?
— Me r ha dette babbo.
E allora alle mie domande rispondeva e seguitava i suoi
racconti sulla sposa :
— Vedrete che festa: ci son du' coppie di sposi, una ricca e
una povera. Prima si sposeranno quelli poveri che butteranno i
lupini invece dei confetti : poi verranno gli altri, e vedrete la ca-
mora. Dice che non si sarà veduto piìi un sì bell'acconcio !
E intanto salivamo sempre e costeggiavamo un ruscello dove
correva rumorosamente nel profondo un' acqua lucente e limpi-
dissima.
— Vi fa specie 1' acqua, che è tanta qui. E davvero questo
paese l'acqua non la paté: l'hanno nella porta di casa, e sta
vena non si risecca mai nemmeno per lo caldo.
Salita la spianata e fermatami suU' altura, vidi difatti ad
accomodare nell'aia la camera della sposa. Là c'erano invece i
comò e lo specchio perchè gli sposi eran possidenti : sul carro
stava una parente che stendeva coperte, piantava spilli e legava
nastri alla ciambella o roccia. Le vicine eran tutte fuori di casa ;
chi era salito sui muricciuoli, chi sulle panche ; la monellerìa si
era arrampicata sulle piante, e tutti facevano commenti. Cina vecchia
mia conoscente mi era venuta da presso e mi raccontava la storia.
— Lo sposo è vedovo ma è ancora frese' omo, eppoi è molto
ricco e ha la catena d'oro all'orologio; ha tre fratelli: lo calzo-
laro, lo fornaro e un altro che sa sonare il violino e tutti gl'istro-
menti. Sto matrimonio l'ha fatto il ruffiano: vedetelo là che aiuta
Mariuccia ad accomodare la camera. Eh ! lui se n'intende, perchè
di matrimonii n'ha fatti parecchi e di maledizioni glie ne son
toccate tante !
NOZZE NELL'APPENNINO MAKCHIGIANO. 697
— Di maledizioni ?
— Si vede che voi sei forestiera; è un gran peccato a fare
lo ruffiano, ma per li matrimoni come questi ce li vuol sempre,
€ gli si dona l'agnello e li confetti in pubblico, poi quando gli
sposi non son contenti la prima maledizione è sempre la sua ; capisci ?
— E, seguitavo io a dire, queste nozze piacciono molto alle
due famiglie ?
— Sei matto ! ? mi rispondeva la mia interlocutrice, frase cbe
dicon sempre quando vogliono affermare con ammirazione ; Se
son contenti ? Che ti pare ? È venuto perfino lo romano, perchè
capisci? lo fornaro sta a Roma ed è venuto a casa per questo.
È quello biondo, civile civile: si vede, che viene dalla città!
Sei matto! È un gran parentado; alla Valle non se ne vedrà mai
più uno compagno. Portano via la sposa colla cavalcata. E ci do-
vreste andare anche voi che ti toccherebbe di stare da presso
alla sposa. Vedrai che t'invitano a colazione. Sei matto! Avere
Vossignoria gli saprà un gran onore. Me l'ha detto l'Amalia, la
figlia mia, che è andata a vestire la sposa, perchè è una fan-
tella ^ civile che se n' intende. Se tu sapessi l'invidia delle altre !
Vedi come stan brutte e come fanno le ciarle! Ma capisci? chi
gran pena paté, gran voce mena.
E poco stante vidi uscire dalla chiesa la prima coppia degli
sposi più poveri, vestiti alla meglio con piccolo parentado che li
seguiva e che non buttarono né lupini né confetti, ma si teuevan
modesti e quatti per quello struggimento di veder dopo di loro
una coppia più ricca e quindi più invidiata.
— Oh ! che nozze, mi diceva la vecchia, fanno compassione,
povera gente ! E proprio oggi ci hanno a capitare : ma capisci ?
non hanno voluto aspettar maggio, perchè il mondo se ne fa
beffe degli sposi di quel mese, capisci ? (e intanto ammiccava ma-
liziosamente con un suo piglio particolare stringendosi il nodo
del fazzoletto). E prima le nozze non si son fatte, perché era
tempo proibito dalla Chiesa. E pronunciava proìltito sdrucciolo
alla latina.
Divisi in fatti con quei montanari il pasto di quella mattina
che era succolento e interminabile e vidi la sposa rapita dai pa-
renti sulla mula e circondata da una miriade di donne vestite a
mille colori vivissimi, e li accompagnai coU'occhio fino che scom-
parvero tra il fitto della boscaglia.
' Vale giovanetta.
698 NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGLVNO.
Tutte le nozze si assomigliano nella montagna, e le ultime
die vidi furono le più belle, le più serene, le più conformi alla
tradizione dei padri della villa.
Era la Candelora, e io montata sulla bestia più paziente e
docile della fattoria, aveva lasciata la città di prima mattina.
Quando giunsi sul ponte del fiumicello che scorre lungo la casa
della sposa, vidi venir giù da una ripida stradetta il parentado
con lo sposo alla testa, vestito di gala e con un cotal piglio da
ricordarmi il buon Eenzo, quando quella mattina il povero Don
Abbondio stava cercando la scusa per mandarlo via a bocca asciutta.
Erano molte coppie di parenti senza contarci lo sposo, le donne
a sinistra gli uomini a destra, che venivano per fare il rapimento.
Eeci toccar via la bestia dal mio piccolo palafreniere, e arrivai
in tempo per vedere l'entrata di questa buona gente, che doveva
rapire la sposa e condurla alla Chiesa.
L' Anastasia usciva allora dalle mani della sarta del villag-
gio, con la veste guernita a frastagli di velluto nero, il filo dei
coralli e i pendenti, la cintura di copale lucida a fibbia d'acciaio
e lo sciallo in testa. Aveva gli occhi rossi, e piangeva davvero tra
le sorelle e le donne che le davan animo. Il padre era in cucina
ritto al camino, e le molte faccende gli toglievano l'apparenza
del gran dolore che pur aveva per quella figlia che gli scappava
dagli occhi, che era stato fino allora il suo bastone, la capoccia di
casa, la mamma dei figli suoi.
Quando il parentado entrò, il capoccio diede a tutti il buon
dì e il buon anno e offrì certe ciambelle dolci e vino bianco che
era disposto in bella simetria sul lungo desco già preparato per
la colazione di prammatica. In casa era già pronto il parentado
della sposa in numero uguale di donne e di uomini, una coppia
per ogni famiglia di parenti; eran tutti vestiti nella maggior
pompa e non vi si vedea neppure una giovanotta.
— Oggi non è dì da fantelle, mi diceva una zia della sposa,
che ha nome di essere una delle dottoresse del suo vicinato. Gli
omini vi possono venire, le femmine no, se non son maritate.
— E perchè ? chiesi.
— E che ci sai ? son costumanze. Si è sempre fatto così e così
s' ha da fare. E la legge.
E perchè io la guardava per la gala che essa aveva fatto in
quel dì:
— Non ci badare, signora mia tanta cara, se mi vedi così bella:
r abito e lo sciallo son di figlima che me l' ha prestati per oggi.
NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO. 699'
E difatti la maggior parte avevano l' abito tolto a prestanza ;
gli uomini s'avevan prestata quasi tutti la camicia coi bottoni
di similoro a larghe centinature e ricami sul davanti : le donne,
gli abiti, gli scialli, gli orecchini, i coralli che avran fatto il giro
di non so quante nozze. Ond' è che una vecchia comare e parente
sentendo questo mio ragionamento coli' altra, volle interloquire e
avvicinandosi con un'aria di chi vuol farsi comprendere senza
dire, mi sussurrò all'orecchio :
— ■ Signora mia, chi si veste delli panni altrui presto si spoglia.
Lo sposo aveva bussato colle nocche delle dita alla camera
dove era la sposa, ed era entrato. Erano commossi, e non si guar-
darono in viso.
— Anastasia, figlia, sei pronta? Queste furono le sue uniche
parole ; ed avendo essa risposto 5}, tutti si mossero in bell'ordine.
La sposa era avanti condotta da suo fratello minore: questa
è la legge. Io ne cercava il motivo tra me, e mi parve di averlo
trovato in ciò, che tutta la cerimonia avendo impresso il carat-
tere d'un ratto, il fratello più giovane è certamente quello che
può prestar minor difesa alla sposa. Egli stava a destra ed essa
a sinistra, cogli occhi bassi e tremante ; venivan dopo i parenti
più prossimi della sposa a due a due, un uomo e una donna, av-
vertendo ciascuno di pigliare la donna della propria casa: poi ve-
nivano i parenti dello sposo in ordine inverso del grado della
parentela, cioè i meno i)arenti prima, poi i più, e finalmente lo
sposo solo. Salimmo lentamente l'erta del monte per andare alla
chiesa della parrocchia. Giunti all'alto tra le querele e gli olivi,,
io scorsi sulla strada uno spagliuccolio, misto a certi gambi di
una pianta che chiamano mercarella, e guardai l'Anastasia che
si era fatta rossa un po' per piacere, un po' per confusione.
— Che è questo ?
E il fratello sorridendo alla sua maniera aperta e franca:
— Oh ! Signora, è qualcuno che ci si è voluto spassare. Si
chiama l' impaglicciata ed è per fare rabbia a qualcuno che la
pretendeva a sorima e che essa non ha volsuto. La raercurella
ce l'hanno messa per uno sprezzo; ma potevano fare a meno.
Uno solo se ne poi sposare : e anche lui, quello a chi l'hanno fatta
r impaglicciata, che tanto si capisce chi è, è una persona onesta che
non se la meritava.
— Oh ! e chi l'abbia fatta ?
L'Anastasia sorrideva e il fratello, un giovanotto intelligente
e aperto, mi rispose francamente :
700 NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO.
— Non si può sapere, ma poderia darsi che fosse un altro che
])retendeva a sorima lui pure. Per paura non la facessero a lui
s'è dato le mani avanti.
E così s'arrivò alla chiesa che era affollata di popolo. Il cu-
rato li attendeva ed entrò nel confessionale : prima si confessò lo
sposo, eppoi l'Anastasia, indi lo sposo si recò al banco pronto
per la cerimonia e che era nudo d'ornamento, perchè i parenti
dello sposo avevan pregato non si mettesse il tappeto d'uso affin-
chè il popolo potesse vedere gli abiti. L' uomo ha dappertutto e
sempre gli stessi istinti : solamente si estrinsecano in modo di-
verso, ma in fondo egli è sempre il medesimo. La pompa gli è
necessaria sia egli un gran monarca, sia egli un manovale: la cerca,
la studia, la desidera, la vuole, e le nozze poi, tanto ricche quanto
povero, la pompa la esigono, perchè amore e nozze non vogliono
avari. È vero, come mi diceva il padre della sposa, che i pazzi
fan ìe nozze e i savi se le mangiano, ma senza nessuna solen-
nità né pompa sarebbe tolta l'unica poesia di quel giorno festoso.
La cognata condusse la sposa all'altare, dove fu finalmente con-
cluso questo desiderato maritaggio, e gli sposi furono benedetti dal
curato e fecero divotamente la Comunione; poi lo sposo portò dietro
l'altare i confetti, il fazzoletto e le propine al Curato; poi, quando
la chiesa fu un po' sfollata, uscimmo tutti noi collo stesso ordine
e furon buttati al popolo festante pugni di confetti fini e vario-
pinti. Le donne erano sfilate nel crocicchio della via e in gran
folla piangendo perchè il pianto ci va vollero baciare l'Anasta-
sia, che le fece regalare di confetti dal fratello che le stava accanto.
E siccome io mi arrischiai ad asciugare quelle lagrime dicendo:
— Voialtre piangete perchè non vi tocca a voi un paino sì
bello ! — mi si fecero attorno baciandomi la mano e dicendo :
— La signora è troppo cara! tiene allegra la sposa!
Mi svincolai e raggiunsi il corteo che m'avea avanzata, e lo
sposo mi servì del braccio per discendere la china e ritox'nare in
casa: il sole ci dardeggiava e gli uccelli garrivano tra i rami delle
quercie. .Lo sposo rideva contento e mi accarezzava le mani.
— La Candelora, diceva, dall'inverno senio fuora. Sentite, le
merle cantano la primavera ; e anche il tempo s'è rimesso a buono.
E una benedizione ! Tutto mi sarìa creduto che voi fossi venuta :
ma me l'avevi promesso sempre : è tanto tempo che io la tratto
quella fantella, e mi pareva mill'anoi che queste nozze si faces-
sero. C'era ancora al mondo la benedett' anima di Marianna che io
ci giva: e poi parve che non se ne facesse più cosa, e anch'io
NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO. 701
m'ero buttato da un'altra parte : ma se gira se gira eppoi se ri-
torna sempre alla prima. La ragazza è bona : niuno del vicinato
ne ha mai potuto dire una parola: così costumata non ce n'è
nissuna ed è un gran tempo che non si son fatte nozze tanto
oneste !
Io lo lasciava parlare e anzi ce lo spingevo: l'animo s'innal-
zava in quella semplice e casta storia del suo amore. Erano cose
tanto vecchie, eppure mi parevano nuove; erano tanto naturali,
eppure mi parevano straordinarie. Quel non so che di semplice,
di verecondo, di casto in quel dì, in cui si rivelavano a loro mi-
steri di gioie indelibate e sconosciute, quel non so che di poetico,
in quella stradetta, sotto quelle querele nude, che stendevano le
loro enormi braccia verso il cielo e da cui fuggivano gli uccel-
lini impauriti dalla numerosa comitiva; fra quegli ulivi col loro
verde cenerognolo che dicevano pace; quel tutto insieme di semplice.
di felice, di soddisfatto che brillava in quei visi arsi dal sole, mi dava
un insolito sentimento di allegria buona, cordiale, affettuosa, senza
beffa e senza sottintesi, di quella allegria quasi infantile che ci
fa voltare indietro a considerare la nostra prima giovinezza e ci
sussurra parole misteriose di giorni sfumati che non ritorneran
più e il cui ricordo è ancora la più bella cosa della nostra vita.
— Il Curato non ci ha fatto baciare la jìace, seguitava G-io-
vannino (là j:>ace è una specie di reliquia che si dà a baciare
agli sposi dopo i sacramenti), ma speramo che la pace l'avremo
sempre tale e quale : e non ti credere che non è una necessitcà ;
e' è chi la dà a baciare e chi non la dà, secondo l'avvezzo della
Chiesa e della gente. Vuol dire che qui non ci sarà questa co-
stumanza.
E intanto s'era giunti a casa, dove si trovava per opera e
cura della solita Agnoletta, mia vecchia conoscenza di altre nozze,
già imbandito il pasto. Le donne si levarono lo sciallo che ave-
vano in testa e si posero un fazzoletto, poi ci sedemmo tutti
al lungo desco. I due sposi in capo di tavola, poi i padroni della
fattoria, poi i parenti della sposa in ordine di grado, poi i pa-
renti dello sposo in fondo. E questa era la prima tavola. Nella
seconda dovevano mangiare le donne di casa e gli altri, appena
noi fossimo partiti. Uso latino anche questo che ricorda il po-
sita secunda mensa dei Komani.
Prima di mangiare i due sposi fecero la purificazione.
Giovannino prese un bicchiere e versò da bere del vino puro
all'Anastasia che bevette: poi alla sua volta l'Anastasia nello stesso
702 NOZZE NELL'APPENNINO MAKCHIQIANO.
bicchiere versò da bere a Giovannino, poi fu servito un gran
pranzo a cui è di costume d'imporre l'ingannevole titolo di co-
lazione. Sarebbe di prammatica che i due sposi dovessero man-
giare nello stesso piatto, ma per rispetto a noialtri personaggi,
in quel giorno mangiarono in due piatti e si contentarono di avere
soltanto comune il bicchiere.
— Mangia, disse una vecchia comare alla sposa, mangia figlia,
■cbè giovinetta così non ci mangi piìi !!
E l'esclamazione lunga che segui questa esortazione mi fece
comprendere che la frase era di rito. Di fatti l'aveva sentita alle
nozze dove mi condusse Plorino, e la sentii più tardi dal nonno
di Giovannino, quando s'andò a pranzare un'ora dopo.
C'è il costume di far dei brindisi e quìilche volta di improv-
visarli, poiché questi montanini sono anzi tutto poeti, sul fare di
quelli del contado pistoiese e di tutta la Toscana. Nella piccola
raccolta dei Canti poi)olarl dell' Apiìennino Marchlr/iano da me
pubblicata non figurava nessuno dei canti per nozze, per ciò solo,
che essendomi io rivolta alle donne, le quali di canzoni ne sanno in
maggior copia degli uomini, e non potendo esse pantare nel dì
delle nozze, di questo genere non ne conoscevano neppure una.
In quel mattino però il saper presenti i padroni tolse a più d'un
poeta il coraggio di presentarsi. E uno di essi mi diceva due o
tre giorni dopo: «Signora, quando seppi che c'era Vossignoria
mi mancò il core, perchè mi sarìa piaciuto di venire a fare la
conocchia all'Anastasia, che figurati! la conosco da un pezzo, e
a cantare i hrin,zi. E non ci son venuto per rispetto. E quando
mi hanno detto che tu cercavi lo poeta, io figurati! t'avria vo-
luto far nascere per farteli sentire, che ne so tanti, e la voce
è bona. »
Ma in quella mattina nessuno osò di cantare. E appena finita
la colazione, dove per rito i confetti non si hanno a mangiare, ci
alzammo per prendere la via della casa dello sposo. Questo è il
momento più solenne delle nozze; quello che più raffigura il ratto
e che nel suo silenzio eloquente rivela tutti i sentimenti che si
agitano in quei semplici cuori.
Le donne si rimisero in fretta gli scialli sul capo e l'Anasta-
sia rientrò in camera a piangere e ad ammonire le sorelle e i
fratelli.
— « Statete boni, curate lo monello e non fate inquietar
babbo: non lipigate, aggiate il timor di Dio, ubbidite alli più
grandi. » E piangeva forte e con lei in coro singhiozzavano tutti
NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO. 703
di casa, ad eccezioue del padre che non aveva abbandonato il suo
posto di sotto al camino e che si teneva le mani dietro la schiena
e guardava per terra cogli occhi gonfi di lagrime.
— « Kicordatevi di quelle povere bestiole, di tenere iiichia-
vato lo gamazzino, e assestata casa: dite lo rosario: vi racco-
mando tanto babbo! avete capito? Statete boni non fatelo in-
quietare ! »
E lo sposo volle cominciare un gran discorso per consolarli,
e che 2)01 miga andava in cajjìo al mondo, e che miga andava a star
male e che eoli' aiuto di Dio si jìotevan riveder sempre, ma il di-
scorso fini nel pianto : proprio come Renzo né più né meno, colla
stessa apparente baldanza e colla stessa eloquenza semplice e
montanina.
Finalmente l'Anastasia si presentò al padre che la benedisse :
essa gli baciò la mano e lui la baciò su ambo le guancie dicendo
in mezzo al silenzio generale: — Dio ti benedica, o figlia — poi
benedisse il figliastro: ' e allora il parentado cominciò un'onda
rumorosa come di lotta per combattere la tenerezza paterna; tutti
esclamarono forte e disordinatamente :
— Andiamo, finiamola! la sposa fa spinta fuori, il fratello più
giovane riprese il suo posto e col solito ordine si riparti.
— Coglie male, signora, mi diceva il fratello di Anastasia,
che non ci si incontra nessuna casa fra quella nostra e quella
dello sposo, che se no, vedereste ! Ci farebbero la sbarra. Mamma,
bona memoria, con babbo ne ebbe due prima d'arrivare a casa ;
ma quella fu una gran combinazione!
— E che è la sbarra ? chiesi.
— La sbarra vuol dire che da dove debbono passare gli
sposi, dalle case saltan fuori tutti l'amici vestiti da festa, e por-
tano una canestra di ciamì)elle e del vino; non si passa se non
si è mangiato e bevuto : qualche volta hanno il tamburello e si
balla il salterello; ma questo è raro. Finite le ciambelle e be-
vuto lo vino, gli sposi mettono nella canestra li confetti, e qual-
che volta, secondo la sbarra come è fatta più o meno bella, miga
basta una libbra. Babbo dice che gli convenne rimandare a Ca-
merino a ricomprarne altri assai, perchè non gli bastavano pel
pranzo. Per le nozze più ricche e' è la cavalcata ; ma noi senio
poveri e questi sfarzi non se fauno. L'avrai veduta quella che
da Sant'Ermine andò a Sorte. Ma essi eran possidenti e avevan
I Figliastro si chiama il genero, e figliastra la nuora.
704 NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO.
l'abiti di seta di Camerino. Le ricche in quel giorno si mettono
anche il cappellino con li fiori sopra lo sciallo; ma che t'ho da
dire ? Me pare che stian brutto tanto. Non è roba da contadini
e un fiore d'un quattrino non sta bene a tutti.
Quando fummo a metà strada circa tra le due case, sempre
salendo l'erta, si udì la voce dello sposo che gridò con allegra
impazienza :
— Spianate, eppoi fermatevi.
È la legge che a metà strada i parenti della sposa debbono la-
sciare il posto a quelli dello sposo. E difatto tutta la comitiva si
fermò. Il fratello di Anastasia baciò la sorella con nuovi e sinceri
pianti, poi la consegnò al fratello cugino di Giovannino, il quale
la baciò alla sua volta e la prese per mano, tenendola così fino al
limitare della nuova casa ; il parentado di Anastasia in ordine di
grado si ritirò indietro e al posto de' primi si trovarono gli al-
tri, baldanzosi di essere finalmente arrivati.
Quando si entrò, la cucina era vuota ; soltanto fumavano nel
focolare vivande numerose e abbondanti preparate dal cuoco, fatto
espressamente venire da una villa vicina.
Una giovanetta sorella di Giovannino comparve finalmente a
fare il ricevimento e aprì la porta della camera nuziale, dove
r Anastasia entrò e dove la raggiunse il nonno che le diede il
benvenuto e la benedisse con nuove lagrime.
— Io so' vecchio, figlia, diceva, ma ancora laoro : sono un
po' sordo, ma ce vedo bene, e colle recchie poi non se laora. A
me me piace che tutti me obbediscano e lavorino e stiano in
pace, che guardino quelle bestiole, e che s'abbia il timor di Dio.
Se tu sarai bona, io ti vorrò bene : ma che sei bona lo so, e spera
in Maria Vergine, che oggi è la Candelora, che saremo tutti con-
tenti.
La camera nuziale aveva le due casse variopinte, il letto
colla coperta piil bella, i cuscini ricamati, la materassina da piedi,
molti santi appiccati alle pareti, la croce e il ramo d'olivo; era
linda e imbiancata di fresco, coi vetri a piombo alla finestra che
dominava la vallata pittoresca, e dove si vedeva il comignolo
della casa paterna di Anastasia.
All'invito premuroso del cuoco si ritornò a tavola e si riman-
giò, il che può parere incredibile, ma ciò non toglie che non sia
vero. Nessuna variante nel cerimoniale se ne leviamo che il pa-
rentado della sposa fu relegato al fondo della tavola, mentre gli
altri s'erau portati vicini.
NOZZE NELT/aPPENNINO MARCHIGIANO. 705
Il nonno non si presentò se non per cantare un brindisi il
cui senso non potei afferrare, e questo fu il segnale perchè la
sorella dello sposo, che sarà la prima a maritarsi in quella fa-
miglia, una bella contadinella cogli occhi neri e i denti bianchi
e splendenti e i capelli ricciuti composti in lunghe treccie, colla
bustina allacciata e la camicia candida e il fazzoletto incrociato
sul seno, girasse intorno al desco regalando a tutti una cucchiaiata
di confetti cannellini che fanno odorar lo fiato, e perchè sbucasse
di non so dove il mio piccolo Fiorino a cantare i brindisi agli
sposi.
Fiorino promette di doventare un gran poeta e già lo chia-
mano con questo nome e già è il delirio delle mense del vicinato.
Si cavò il cappello, si pose in posizione di trovatore, e, tenendo in
una mano alto il bicchiere, intonò festosamente e in gran fretta
le seguenti canzoncine:
Biùnzo, brinzo ti fo cara donzella
Che sei tanto prudente e virtuosa:
Siete una meraviglia tanto bella
E altrettanto e mille graziosa :
E sulla fronte una lucente stella,
Guancia per guancia una vermiglia rosa,
Le labbra son coralli, gli occhi brillanti,
Siete lo rubacore degli amanti.
Con virtù di questa comitiva
Degna d'ogni rispetto e riverenza,
In prima faccio a tutti un alto evviva,
Spiegando del mio cor la gioia immensa,
Quindi con chiari accenti lusinghieri
Canto di una donzella i pregi veri.
Non mi vanto poeta e mi diletto
Or che vi ho visto così rara e bella,
Modesta, prudentina in dolce aspetto
Più risplendente d'una vaga stella :
Sposa, parlo di voi che avete il vanto
Sopra tutte le belle, ed io vi canto.
Canto i pregi infiniti che gentili
Oltrepassan del mar le fitte arene ;
Non caccian tante foglie mille aprili
Quante bellezze stanno intorno a tene,
Quante virtù vi splendono dal viso,
Angioletto dell'alto paradiso.
VoL. XIV, Serie II — 15 Aprile 1879 . , 44
706 NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO.
Siete un candido giglio e pili vermiglia
D'una rosa serbata nel giardino,
Siete una gemma quale rassomiglia
Il diamante, le perle ed il rubino,
Onde a parlarvi come ch"io la sento
Siete di questa mensa l'ornamento.
Sposina e col bicchiere nella mano
Io gradirei da voi un po' di vino.
Per prendere coraggio piano piano
Vi prego anche a darmi un confettino.
Scusatemi l'ardire, o bella Diva,
A voi e a tutti quanti un novo evviva,
Evviva il confetto, evviva il bicchiere, evviva il vino-
Evviva gli sposi, evviva eppoi m' inchino.
Due belle foglie che sta alla finestra
Pare che uno ce l'abbia messe apposta,
Prima saluto a chi mi sta alla destra
Chi mi sta alla sinistra mi s'accosta,
Col mio cantar vi faccio un bell'inchino
Voi padroni del brinzo, ed io del vino.
Sposa, vi voglio fare un argomento
E col mio dire vi saluto tanto,
Con una mano sto cristallo prendo
E colla mente mia vado pensando ;
Felice sposa, sarete contenta
Oggi che avete lo tuo spo«io accanto.
Iddio vi benedica in alto cielo
Da voi aspetto confetti nel bicchiere.
Sposa li tui confetti ho ricevuti
E colle vostre mani me l'hai dati,
E tanto e poi tanto mi son piaciuti;
Venirà un giorno e vi sarac ridati.
Delli vostri confetti io son sazio.
Mille volte di core io vi ringrazio.
Fora Noè dell'Arca del Diluvio
Pel Cristiano fabbricò una vigna,
Per una spugna [shorgna) ognuno ci s'infrasca^
Sbeffeggiato restò dalla famiglia.
Quello era un vino che le pietre pacca,
Ancora questo gli si rassomiglia ;
Quello era un vino bono e delicato,
Di farvi un brinzo me n'era scordato.
NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO. 707
Mi pare di vedere im bel gioiello
Come Giacobbe ritrovò il suo figlio,
Questo è quel frutto delicato e bello
Appuntamente gli voglio dar di piglio,
Me lo voglio mandar giù per la gola;
Così la panza mia ci si consola.
Per rinfrescar le labbra il vino piglio,
Alzando gli occhi al cielo il canto scioglie,
Saluto il caro Padre e il Divin Figlio
Che ci conduca al suo stellato soglio :
Io colle mani lo ripiglio
Eppoi tutti quanti salutar vi voglio,
Bevo lo vino colli labbri asciutti
Viva Maria, Gesù, saluto a tutti.
Vi contentate ch'io prenda la via
Di farvi un brinzo come fossi Dea,
Lo primo sposo fu Gesù e Maria
Ohe celebrò le nozze in Galilea;
Lo vino in acqua che si convertìa
Questo è il miracol che Gesù facìa.
Primo arrivato saluto il bicchiere
Eppoi saluto chi ci ha messo il vino,
Saluto il paesano e il forestiere
E tutti quanti in conversazione
E se si burla o sì dice davvero
Vi voglio salutar ch'è di ragione ;
Con sto brinzo saluto tutti quanti,
Viva Maria, Gesù e tutti li Santi.
Prima arrivato saluto il bicchiere,
Eppoi saluto chi ci ha messo il vino,
Vorresti aver la sorte ch'ebbe Adamo
A mezzo la luna lo portò il destino,
Noè che lo teneva per la mano
Lo condusse in mezzo d'un giardino;
Così faresti voi, bellina tanto.
Sempre vorresti lo tuo amante accanto.
Romolo e suo fratello fecer Roma,
Numa Pompilio la fece romana ;
Io ne beverebbe anche 'na soma,
Ci metterebbe una giornata sana,
Questo è quel vino che a nessun perdona
Che fa sgrullare come 'na campana,
708 KOZZE KELL APPENNINO MARCHIGIANO.
Si appoggia per le fratte e per le mura,
Che le ginoccliia non bau più giuntura ;
S'appoggia per le mura e per le fratte,
Che le ginocchia s'è stuccate affatto.
Bella che vieni qua col fiasco in mauo,
Ditelo se portate del pomino,
Ne viene dalla Riccia o di Gensano
Ovveramente dal Pian di Spoletino ?
Io ti saluto da caro germano ;
E quanti qua ne state a tavolino
Saluto giovinette e figlie belle,
Giovani, vecchie, vedove e zitelle.
Cara sposina vi sono obbligato,
D'esto bicchiere che m'hai favorito.
Siete pili bella che un giglio nel vaso,
, Io meno il brinzo e vi sono obbligato.
Bella che delle belle hai pieno il viso,
Quando t'ho veduto io son rimaso
E nella bocca ti vedo un gran riso
Accompagnato dal profilato naso :
Guancie vermiglie, occhi di paradiso
Dell'esser sposa voi siete stata al caso.
Pili bella di voi non vide il sole
Sarà sempre felice chi ti porta amore.
Non ho potuto resistere al desiderio di porre questi brindisi
qui, che io ricoj)iai nella sera di quel giorno con ogni cura. Il
mio Fiorino mi diceva che ne sapeva molti altri, ma che erano
più brutti, e che poi ne avrebbe detto un altro solo se la sposa
avesse avuto la mamma.
— Ma figurati, so ott'anni che mori d'una j)^n?Yrt, e non saria
stata prudenza e educazione a mettere dei mortorii nelle nozze.
E avendolo io pregato a dirla a me, egli si mise in posizione
e cantò:
Brinzo, brinzo ti fo cara donzella.
Ricordati una volta di tua mamma.
Eri fanciulla e ti ha fatta zitella,
Oggi collo tuo sposo ti accompagna.
Dategli un bacio delle tue partenze,
Che ti perdona delle tue mancanze :
Dategli un bacio e buttati cortese,
Sappi che t ha portato nove mesi.
NOZZE NELL'APPENNINO MAECHIGLANO. 709
A nessuno potrà sfiiggii'e la candida delicatezza di questo con-
tadinello che non volle parlare della madre per non affligger la
sposa, come a nessuno potrà sfuggire l'importanza che hanno ta-
lune di queste canzoni, in cui si sposano le fantasie dolcissime
d'un'arte primitiva con delle notizie di storia sacra e profana e
con delle considerazioni morali d' un' altezza che mi par mera-
vigliosa.
Il modo dei loro parlari poi, che io riportai scrupolosamente
ne'brevi dialoghi che ho accennato alla sfuggita, parmi non si
discosti troppo da quelli che il Giuliani ha illustrato con sì soave
cura e diligenza, come i canti non si discostan punto da quelli
raccolti così sapientemente dal Tigri. Si direbbe che nelle vene
di questa gente scorra il sangue di quel sangue e palpiti lo stesso
cuore: si direbbe che un pezzo di Toscana si sia staccata da quella
plaga fortunata per rifugiarsi qui in questo contado dell' Alta
Marca, dove anche i costumi son sì miti e gentili e dove l'inge-
gno è sì sottile e versatile.
E davvero è singolare di sentire un contadinello illetterato
a cantare che Komolo fece Eoma ma che solo Numa la fece ro-
Dtana: nessuna filosofia della storia studiata potrà mai esprimere
con maggiore efficacia l' incremento che ebbe la civiltà romana,
quando le leggi di Numa vennero in aiuto alla forza brutale di
quei Eomani che rapivano le Sabine. E forse un recondito legame
c'è tra questa canzone e la cerimonia nuziale dei montanini mar-
chigiani, a cui per tradizioni vennero gli usi e i costumi e le
prammatiche degli sponsali.
Già^ un' altra volta io nel pubblicare i canti innamorati del
contado, ebbi occasione di notare che il contadino marchigiano
sente del latino nel fare, nel pensare, nell' oprare, nel favellare.
Mentre ha dimenticato perfettamente l'età di mezzo, quando i
contadini eran servi e gli altri eran vassalli, egli è rimasto at-
taccato con una specie di religione agli usi pagani dei Romani
antichi: a quando a quando si scorge un richiamo della sepolta
religione degli Dei. C'è qualche cosa di classico che appena si
sente, ma si respira, e che è connaturato col suolo, coli' alito
delle prime ricordanze e delle antiche tradizioni. Né si potrebbe
dire che sia come una striscia di reminiscenze lasciate dagli Ar-
cadi e dai secentisti, in quanto noi vediamo che la Bibbia ha in
queste canzoni una parte maggiore. Ciò proverebbe che l'indole
artistica e portata al soprannaturale di questa buona gente si as-
simila tutte le nozioni, tutte le ricordanze, tutte le impressioni
710 NOZZE NELL'APPENNINO MAKCHIGIANO.
da cui può trar giovamento, e li riveste di forma nuova a seconda
dei tempi e delle circostanze.
La città marchigiana invece generalmente non conserva nulla
di antico: la lingua è meno pura e più convenzionale, le
immagini sono meno vive e meno artistiche, la semplicità è
scomparsa, i costumi, le cerimonie sono suppergiù quelle di
tutte le altre città d'Italia, dove sono uguali gì' interessi e le
];>assioni. Questo prova una volta di più che l'arte del contado è
schietta e pura e spontanea, e che tutte le sue immagini come
tutte le cerimonie gli son passate lentamente in eredità trasfor-
mandosi bensì, ma conservando intatto e scolpito il tipo primi-
tivo di origine.
Questa breve digressione non mi allontana punto dalla ce-
rimonia nuziale di cui fui testimone. La quale mantenne sino alla
fine il carattere antico e patriarcale. Finiti i canti e levate le mense,
si apprestò la seconda tavola in cui dovevano assidersi le fantelle
di casa, una sorella della sposa e suo padre, il cuoco della gior-
nata, i garzoni, infine l'altra classe che fino allora aveva digiunato.
Per la solita legge il padre non può né deve sedersi in quel
giorno a mensa colla figlia: e questa cerimonia deve rappresen-
tare certamente che essendogli essa stata rapita, egli va a cer-
carla in quella casa dove suppone sia, e la nuova famiglia gliela
nasconde. Gli etnografi potranno comparare questi usi e costumi
con quelli dei popoli che si chiamano primitivi e che oggi sono
ancora sul primo gradino nella scala della civiljià; certo è che a
chi studia con diligenza queste ingenue costumanze appare chia-
ramente che esse non sono il frutto del solo caso, e che si colle-
gano a culti e a usi sepolti nei secoli che hanno di lungo pre-
ceduto il nòstro.
Il padre di Anastasia, benché svegliato assai, e in continuo
commercio per la sua qualità di fattore con ogni classe di per-
sone, restò scrupolosamente attaccato al cerimoniale: egli non
volle sciogliere i vincoli di quella legge sotto di cui balbo e
mamma si erano maritati e s'era maritato lui pure,
— L'uomo, disse sentenziosamente con piglio sicuro, che non
ha educazione per capire quello che si può fare, deve avere re-
ligione, signora mia. Mi farla scrupolo se mancassi alla legge.
E mandato ripetutamente a chiamare dal padrone durant
la mensa fece rispondere dall'ambasciatore :
— Dite al sor Antonio che appena avrò consolato la famiglia
gli farò l'ubbidienza come gli ho sempre fatto.
NOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGIANO. 711
Ma questa resistenza passiva voleva dire di guadagnar tempo
per arrivare dopo die la prima tavola fosse levata.
Ci raccogliemmo poi con tutto il parentado in cucina e nel
cortile, e si finì colle donne nella camera degli sposi, il sancta
sanctorum dei loro ingenui amori ; e tutte le comari racconta-
rono il loro matrimonio e i doni e le feste di quei giorni della
loro età più bella, e la sartrice, che era venuta insieme agli al-
tri per la seconda tavola, parlò di mode contadinesche con una
superiorità da modista convinta e sentenziosa. Poi tutto il paren-
tado interprete dei voti degli sposi mi pregò di gradire la ciam-
bella 0 roccia della Camera, che stava appiccata nel luogo dove
si era pranzato e che certamente deve significare quella specie
di rotella che le contadino si fanno sul capo con un pannolino
per portare la canestra o altro, e che si chiama appunto roccia^
forse per indicare che la donna è robusta e sa lavorare e por-
tare il carico. E alla preghiera, aggiunsero la scusa:
— Aggerete pazienza; semo villanacci e non sapemo fare
meglio.
E avendola io accettata, la staccarono con una gran solen-
nità ; il fratello cugino dello sposo, che come abbiam detto ne
era il legittimo possessore, levò il mussolo e i nastri e me la
presentò in un largo piatto fiorato.
Intanto s'era fatto tardi, già il bel sole della Candelora si
era nascosto dietro al monte, e il primo crepuscolo velato del-
l'inverno fuggitivo scendeva nella vallata. Lo sposo mi s'accostò,
tra riderello, come dicono qui, e pensoso, e mi disse piano e con
una malizia bonaria e ingenua come il suo viso:
■ — Oh! non vi parerla ora, signora mia, che il parentado sene
gisse via? Ce n'è di questi che stan tanto lontano!
Io risi a mezza bocca, e lui:
' — Oh ! t' ho capito, signora mia, ma non t' ho voluto fare offesa.
Tu sei sempre la padrona di restare, e guarda! ti cederla perfino
la camera ! !
Io gli battei sulla spalla a quel buon Giovannino e lo com-
piacqui. Riunii il parentado e fui la prima a congedarmi: e allora
tutti si mossero e fecero lunghi e interminabili saluti e augurii
A tutti. Anastasia volle mescere del vino e regalare una ciam-
bella di ova e zucchero, scusandosi perchè se le aveva figliate
iì forno. '
' Il pane, le ciambelle ecc. pigliato o pigliate dal forno vale : essere un tan-
<ttBO abbrucjaticcio al di fuori.
712 KOZZE NELL'APPENNINO MARCHIGLiNO.
La nebbiolina fìtta si cominciava a mutare in sottilissima
jnoggia e il nonno volle darmi il suo ombrello di tela incerata
verde pisello, che non io daria a nessuno per tatto Toro del mondo,
lo ripigliai la via del monte a braccio del padre di Anastasia
che andava sospirando.
Era finita pei due sposi la giornata più bella e più faticosa^
della vita.
JDa Camerino, Febbraio 1879.
Caterina Pigorini Beri
DEL CREDITO POPOLARE. '
lY.
Esaminato succintamente lo stato e lo sviluppo delle Unioni
di credito tedesche, non possiamo passare all' esame degli altri
rami della cooperazione senza fermarci nello studio di una delle
più difficili ed importanti funzioni della medesima, intendiamo
dire le operazioni di credito agrario, il che serva a dare al cre-
dito popolare quel significato che il titolo esprime.
Infatti potevamo noi dimenticare i coltivatori della terra ?
Attorno alle grandi industrie, soccorse liberalmente dal credito,
fiorenti per grandi capitali, si agitano, per le classi operaie, dei
problemi astrusi e spesso controversi tanto nell'ordine economico
che nell'ordine sociale. Se non che la violenza stessa e la rapi-
dità della grande evoluzione industriale valsero a produrre uni-
versalmente, 0 quasi, una salutare reazione mediante la poli-
tica internazionale degli scambi onde non trascendere negli eccessi
e potere più tranquillamente indagare come il capitale e il la-
voro possano vivere insieme, come dal male stesso possa germo-
gliare il bene senza far retrocedere il progresso umano, ma anzi
spanderlo e distribuirlo sovra un maggior numero d'individui.
E abbiamo visto qual molla potente nel nuovo ordine di cose
sarà per riuscire il credito popolare, onde impedire e correggere
gli accentramenti del capitale e farlo scorrere come una benefica
irrigazione pei fondi popolari che, privati delle antiche sorgenti,
andrebbero altrimenti a disseccarsi.
' Vedi fascicolo del 1 aprile 1879.
714 DEL CEEDITO POPOLAKE.
Più calma, più pura è l'aria dei campi, ma la questione so-
■ciale per esservi meno latente non è che più profonda. Ivi pure
il capitale è il grande fattore, dove risiede e impera, e sotto pena
di rimanerne distrutto, al capitale agricolo è necessario oggi l'ac-
coppiamento della scienza. La ingegneria, la meccanica, la chi-
mica servono il grande proprietario, né all' uopo gli manca il
soccorso del credito onde possa la sua terra arricchirsi dei nuovi
trovati a decuplicare la produzione e a sostenere la concorrenza
delle terre privilegiate più o meno lontane del nuovo e del vec-
chio mondo. Ecco quanto esige ed affretta la crisi anche negli
interessi agricoli sì tardi a muoversi, a scomporsi; quegl'interessi
«he secondo le promesse dei dottrinari dovevano trovare in una
libertà sconfinata il buon regno di Saturno.
0 dovrà il piccolo proprietario, il piccolo colono veder lan-
guire la sua coltura come l'artigiano dovette chiudere la sua of-
ficina ? Come gli è possibile concorrere nei prodotti col suo ricco
vicino, mentre questi deve già misurarsi coi prodotti della Kussia
e degli Stati Uniti ?
Così anche per gì' interessi agricoli si maturano i tempi.
Bismarck, che ha intuizioni profonde, non sa né può scindere dalle
economiche le questioni politico-sociali; e mentre i suoi avversari
disputano sui centesimi di rincaro che i nuovi dazi agricoli porte-
ranno sul pane, sul formaggio e sulla lattuga, egli guarda l'agi-
tazione crescente delle provincie agrarie, riceve le petizioni che
gli si fanno dalle numerose Unioni agricole dell' impero ^ per la
nuova riforma doganale e i giornali ne riproducono le lunghe
risposte che oggi si tratterebbe di raccogliere sotto il titolo di
« Die Bauerne Brlefe des ReicJis'kanzìers » (Le lettere del Cancel-
liere del Eegno ai contadini tedeschi).
Se restano meno vulnerati i grandi proprietari, {grossgrnnd-
hesitser) si tratta del minacciante fallimento dei piccoli (Jclei)i-
grundhesitzer).
Ma se la riforma doganale proposta da Bisraarck può in qual-
che modo migliorare il mercato interno per le produzioni agricole,
ben più necessario si rende il preparare e svolgere dei mezzi ef-
ficaci per migliorare le condizioni dei produttori medesimi, dei
piccoli e più numerosi in ispecie.
' Nella sola Baviera fecero istanza 6T Unioni agricole [Landwirthschaftliche
Vereine) rappresentanti 1,400,000 anime, senza parlare della Sassonia, della Prus-
sia e specialmente delle provinole Renane,
DEL CREDITO POPOLARE. 715
Laonde date le mosse dal gran Cancelliere, venne a galla
quanto in proposito era già allo studio, ed anche in esperimento,
e a poco a poco in tutte le regioni agricole dell'impero si vennero
costituendo dei comitati collo speciale incarico di studiare i modi
di porre i piccoli possessori, contadini e fittaiuoli indipendenti,
in grado di lottare non solo colla concorrenza dei grandi agri-
coltori interni, ma anche coi possessori dei lati-fondi nelle scon-
finate terre della Russia e dell' America che mina celano, come si
è già detto, la proprietà dell' agricoltura europea. Influito è il
numero degli scritti, libri, opuscoli ed opere voluminose che vi-
dero la luce per cura ed a spese di que'comitati, che non a torto
si preoccupPvUO della soluzione della questione agraria, in egual
modo che la borghesia delle grandi città si preoccupa oggi del
modus vivendi tra la piccola e la grande industria. Desiderio ci
incolse di leggerne parecchi, ^ e d'informarci dei fatti e consultare
fin anco taluni di quei benemeriti comitati. Occorre dire che da
ogni lato ci si presenta, ritorna in campo la cooperazione. Essa
forma la base fondamentale degli studi dei comitati agricoli.
Come può andarvi incontro il credito popolare, come possono ac-
cordarsi fra di loro i depositi a corso indeterminato, variabile ed
i prestiti a lungo corso? Gli è questo il problema che non fu
dato ancora di sciogliere all' illustre fondatore delle Unioni di
credito tedesche. Schulze Delitzsch avea adottato la seguente
massima : « Brevi credenze e buona garanzia pel credito accor-
dato alle persone » che in tedesco suona come aforisma nel « Kurze
Creditfristen, gate Burgschaft far den gewdhrten persunìichen
Credit. » Laonde non è a meravigliare se una delle difficoltà,
contro cui lottano anche queste Unioni, è la costituzione di una
buona e solida fonte di credito agrario. Le più tra esse non ne
fanno un ramo speciale, ma ammettono le operazioni di esso sullo
stesso piede, fatte poche eccezioni, delle altre operazioni commer-
ciali. Laonde avviene che il rimborso dei capitali prestati per
usi agricoli, si faccia in più dei casi assai prima del tempo in
cui il colono, il fittaiuolo o piccolo proprietario suole raccogliere
i frutti del suo lavoro, o del capitale immobilizzato nelle rispet-
tive terre. In via ordinaria le Unioni di credito accordano pre-
1 Notevoli ci parvero fra questi per praticabilità di concetti e di iJee i se-
guenti :
« Die Landwirthschaft der Gegemvart und das Genossenschafts princip » del
dott. "W. ScHVENBERG. Berlino.
« K. voN Langsdorff, Lcindliche Credit und Consumvereine. » Seconda edi-
zione, Neuvied.
716 DEL CREDITO POPOLARE.
siiti a scadenza fissa, e a un lasso di tempo non maggiore di tre
mesi. ' È vero che si concedono proroghe fino alla rinnovazione
di altri tre mesi e in qualche caso si arriva fino a 9 e 12 mesi
' Tre sono i principali Statuti, a cui dobbiamo ricorrere per conoscerne la
vera natura:
1. Lo Statuto normale dell'Unione di prestito di Berlino compiuto colia coope-
razione della direzione dell'Associazione generale, introdottivi alcuni pochi muta-
menti adatti all'ordine delle cose.
2. Lo Statuto e l'ordinamento di affari dell'Unione di Credito di Meissen.
3. Lo Statuto modello compilato dallo stesso Schuize nella sua qualità di
direttore dell'associazione generale per quelle Unioni che vogliono adottare le nor-
me della legge prussiana sulle associazioni.
Il primo di questi statuti è adattato in particolar modo pelle piccole Unioni,^
o che sono allo Stato d'incipienza, e non tiene conto delle norme prescritte dalla
nuova legge prussiana.
11 secondo corrisponde a quelle Unioni che vogliono ottenere i diritti di cor-
porazione, e vige in special modo tra le Unioni di Sassonia a cagione delle con-
cessioni accordate loro da quel governo.
Il terzo serve di modello per tutte le Unioni (e che oggi formano un cospicuo
numero come si è visto) sottomesse alle norme della legge prussiana sulle asso-
ciazioni. Oltreacciò si acconcia alle condizioni delle Unioni che giunsero a mag-
giore svolgimento e si estesero a grande traffico bancario; laonde in esso si è an-
che avuto riguardo ai principii del codice generale di commercio germanico, sui
quali appunto si fonda quella legge.
Premessi questi cenni a semplice schiarimento diamo qui le disposizioni del
primo statuto.
§ 11. — DeW importo dei prestiti e dei termini delia restituzione.
L'importo dell'imprestiti che si concedono ai soci dipende dal rapporto
che passa fra lo stato di cassa e i bisogni dell' Unione e la determinazione re-
lativa è lasciata al coscienzioso giudizio del Comitato. Se il fondo di cassa
noa basta a soddisfare a tutti i bisog'ni le domande anteriori hanno la prefe-
renza sulle più recenti, quelle dì j)restiti minori sopra quelle di prestiti maggiori.
Né si concedono prestiti a termine più lungo di tre mesi ; però il Comitato
ha facoltà di prolungare questo termine ad altri mesi.
§ 12. — Delle condizioni che devono soddisfarsi da chi domanda iìniirestiti.
Perchè una persona abbia diritto ad un imprestito dalla Cassa dell'Unione
è necessario :
a) Che non sia rimasto in arretrato verso la cassa per mancata resti-
tuzione di prestiti anteriori, e che non abbia in precedenza recato danni ad un
fideiussore senza risarcirlo ;
Ìj) Che le sue condizioni economiche offrano l'assicurazione necessaria
pella restituzione dell'imprestito.
L'imprestito si concede soltanto verso obbligazione cambiaria del socio.
Pella concessione di un prestito è necessaria una deliberazione del Comitato,
sopra la cui domanda deve essere dal socio costituita una sicurtà per mezzo
di fideiussore oppure di pegno. Dell'accettabilità della fideiussione (malleve-
ria) o del pegno giudica il Comitato.
Il fideiussore risponde qual debitore secondo le norme della legge cam-
biaria germanica: ed egli e il socio che ricevono prestiti dall'Unione dovranno
pagare alla Cassa dell'Unione im interesse da determinarsi con particolari pre-
PEL CREDITO POPOLARE. 717
di prolungazione. Ma allora si esigono da chi fa tali concessioni
maggiori garanzie e maggiori guadagni, il che non è spesso nel-
l'interesse del colono.
scrizioni deiradiiiianza generale, il cui importo sarà trattenuto dal cassiere al
momento di consegnare le somme degl'imprestiti.
II. — Statuto di Meisse:^.
§ 9. — Dei jìrestiti.
\j& proporzione esistente tra le condizioni della cassa della Società e le
istanze per prestiti determina fino a qual importo possono questi concedersi.
Il giudizio si abbandona allo scrupoloso esame del direttore. Devono però os-
servarsi le nonne seguenti:
1" Se il denaro esistente nella cassa non basta a soddisfare tutte le do-
mande, le istanze anteriori hanno la preferenza sulle posteriori, e quelle che
chiedono somme minori in confronto di quelle per somme maggiori.
2' Un prestito che non superi l'iuiporto del credito determinato per
il socio che lo chiede, può esser dato verso semplice sottoscrizione di una quie-
tanza o cambiale.
3" Per imprestiti maggiori il debitore deve offrire assicurazione per mezzo
<li fideiussione o pegno.
4' Se la solvenza di chi chiede l'imprestito sia superiore ad ogni ecce-
zione il direttore può anche nei prestiti maggiori omettere di chiedere assi-
curazioni mediante pegno o fideiussione e può concederli sopra semplice cam-
biale o quietanza, sempre che però osservi le norme del regolamento dell'a-
zienda per tali casi.
5'' Il direttore, in concorso del cassiere, deve esaminare il pegno o la
malleveria offerta, e deve nella deliberazione osservare le norme date in argo-
mento dal Regolamento dell' azienda.
6' Chi riceve un prestito deve pagarne il relativo interesse nella ra-
gione annua determinata dalla presidenza ed inoltre al momento del ricevi-
mento del prestito medesimo deve pagare alla cassa quale provvigione una
somma proporzionata all'importo e al tempo del prestito ricevuto.
'7" I prestiti non saranno mai concessi a termine piiì lungo di 3 mesi
d'accordo con chi riceve il prestito, il termine sarà espresso nella quietanza.
8" Non si diranno le ragioni per le quali sono respinte le istanze dei pre-
stiti ; tuttavia i richiedenti hanno diritto di presentarne rimostranza alla pros-
sima adunanza generale.
III. — Statuto in analogia alle disposizioni della legge pkussiana
SULLE associazioni COOPERATIVE.
§ 64. — Imprestiti.
I prestiti si concedono di regola sopra cambiale propria o tratta e sol-
tanto in via di eccezione per piccole partite sopra quietanza ordinaria.
Perchè sia aperto il credito a conto corrente è necessaria l' adesione
dell'adunanza generale. Un tal credito non può concedersi senza conveniente
assicurazione.
L'importo, fino al quale l'Unione può concedere crediti nei singoli casi,
dipende in generale dal rapporto che passa tra la potenza della cassa ed i bi-
sogni prevalenti ed è rimesso al giudizio coscienzioso della presidenza e del
comitato. Nella fissazione dei termini di restituzione, che TUnione può accor-
dare ai suoi debitori, si ha riguardo ai termini, dei quali gode l'Unione stessa
per la restituzione dei denari, ch'essa stessa toglie a prestito. Di regola per-
tanto non si apre credito al di là di 3 mesi; tuttavia trascorso tal termine,
il credito può coll'adesione del mallevadore, prolungarsi per un altro periodo
718 DEL CREDITO POPOLARE.
Il più beiresempio di quanto si fece in Germania per aiutare
efficacemente gl'interessi compromessi dei piccoli coloni lo abbiamo
nelle Unioni agricole della Slesia, e nelle Banche, ancora più fa-
mose di queste, di RaifFeisen nei paesi Renani, che attirarono sovfa
di sé Tattenzione di tutti gli economisti della Germania, e del
Governo medesimo.
Ad Oppeln nella Slesia fin dal 1868 venne formata dall' As-
sociazione cooperativa ivi residente, una commissione e le venne
affidato il seguente compito :
« Di sottoporre ad un profondo studio la questione della Coo-
perazione, l'applicazione ed importanza di essa pell'agricoltura e
particolarmente per i piccoli possessi: — Die Genossenschafts-fra-
ge, ihre Anwendbar/ce/t und Bedeatiing far die Landivirscìiaft in-
shesondere filr den landìichen Kìeigrimd hesitz, einem eingeJiendeti
Stiidium zu imterziehcn. » La commissione composta di ragguar-
devoli personaggi siedette parecchi mesi. Fra i membri ci piace
citare anche a titolo di riconoscenza il chiarissimo dott. Rodolfo
Jannasch, nostro amico personale, che ci forni ampie informa-
zioni sulle Unioni agricole della Germania, e di cui si hanno im-
portanti lavori a stampa sulla questione agraria; il dott. von Scheel
di Proskau, il Barone Von Richhofen di Brechelsdorf, il segretaria
tutt'al più eguale al primo, ma solo colla premessa che ciò non serva mai a
nascondere un impiego permanente del capitale.
Condizioni.
Si concede credito soltanto ai soci dell'Unione e solo in quanto la loro
persona e i loro rapporti economici offrono la necessaria sicurtà. I membri
della presidenza finché durano nel loro ufficio sono esclusi affatto dal credito.
Per tenui importi, che si restringono alla metà dell'azione dei singoli soci
chiedenti prestiti, si può prescindere da ulteriore assicurazione in quanto non
vi si oppongano circostanze particolari. Per prestiti di magginre entità deve ot-
tenersi assicurazione per mezzo di fideiussione o di pegno, sulla cui accettabi-
lità si darà in ogni caso il giudizio più coscienzioso. Si sconteranno cambiali
Solo quando sieno munite di due firme senza eccezione.
Per credito continuato si può in certe circostanze sostituire una cauzione
ipotecaria sopra proprietà fondiaria del debitore, ma in tal caso occorre sem-
pre una deliberazione concorde della presidenza e del Comitato.
Sopra ipoteca speciale invece non saranno mai prestati denari, ma piutto-
sto a tale genere di cauzione si ricorrerà soltanto in via di eccezione per cre-
diti periclitanti verso i debitori ed i garanti in mancanza di altro modo di as-
sicurazione. Del resto ad uno stesso debitore si possono contemporaneamente
concedere parecchi prestiti, ma sempre entro la cerchia della sua capacità di
credito e verso proporzionata assicurazione. In quanto però sieno interessati
fideiussori nei prestiti anteriormente conceduti, sarà necessario dare loro avviso
del nuovo credito accordato prima dell'effettivo pagamento.
I gravami sul licenziamento d'istanze per sovvenzioni si presentano innanzi
alla prossima adunanza generale.
(V. Statuti, Vnioni di Credito, pag. 363 e seg.)
DEL CREDITO POrOLARE. 719
Generale ^ Korn di Breslavia ed altri. Nell'aprile del 1874 la Com-
missione comunicò in cinque distinti lavori ^ i risultati delle sue
ricerche, e le proposte relative alla presidenza dell'Unione Coope-
rativa centrale della Slesia. — Nel 1" si tratta del modo di eri-
gere delle casse di risparmio a vantaggio della piccola agricol-
tura; nel 2° si fanno proposte pell'introduzione tra i contadini delle
istituzioni di mutuo soccorso in caso di malattia; nel 3° si get-
tano le fondamenta ad uno statuto per la formazione di un' as-
sociazione contro l'epizoozia; nel 4° si fa la statistica della coopc-
razione agricola nella Slesia; e nel 5" si formula uno statuto-
per una Unione di consumo tra i contadini. Mediante questi ed
altri lavori riuscì al Comitato Slesiano di eccitare al sommo grado
l'attenzione ed interesse delle classi agricole della Slesia; si ten-
nero ripetute conferenze ai contadini dei vari distretti da emi-
nenti personaggi, onde propagare gli ammaestramenti intorno alla
necessità della cooperazione come rimedio alla concorrenza dei
grandi capitali nella coltura dei piccoli possessi. Si stamparono
questi discorsi e se ne diffuse lo spaccio gratuitamente nel con-
tado a spese del Comitato, e degli stessi autori dott. Friedentbal,
prof. Blomeyer, dott. Schoenberg ed altri benemeriti.
Ma se nessuno più dubitava dei vantaggi della cooperazione
applicata agl'interessi dell'agricoltura, restava a dimostrarsi come
fosse possibile conciliare le esigenze di quest'ultima che abbiso-
gna di capitali a lungo corso, colle prescrizioni e consuetudini
delle Unioni di Schulze, che, come abbiamo visto, esigono il rim-
borso dei capitali imprestati dopo la decorrenza di un tempo re-
lativamente breve. — Il credito a 3 e 6 mesi può essere efficace al
piccolo industriale e commerciante della città, i quali pel rapido
movimento degli affari, pel continuo cambiamento delle loro ope-
razioni traggono presto il dovuto frutto dalle ricevuto antici-
pazioni, e al tempo della scadenza del debito possono benissimo
soddisfare ai loro obblighi verso la Banca. Ma peli' agricoltore
' Direttore della benemerita Rivista Agricola « Der Landwirth > che vede la
luce due volte per settimana, il venerdì e martedì a Breslavia.
2 Nel testo portano i seguenti titoli :
1° « Die Kreissparkassen und das landwirthschaftliche Genossenschaftswe.'en,.
nebst einem Statut filr diezu begrilndenden Sparvereine, »
2° < Vorschlàge l'ilr Einfilhrung der Kranken-Vèrsicherung un ter dem làndli-
chen Arbiter. »
30 « Grundlagen zu einem Statut der Schlesischen Provinzial Viehversiche-
rungs Gesellschaft gegen Langensenche. »
4° « Statistik des landwirthschaftlichen Genossenchaftswesen in Schlesien. »
5° « Statut filr Kohlenconsumverein. »
720 DEL CREDITO POPOLARE.
la cosa è ben differente: il capitale imprestatogli s'immedesima
e fonde colla terra; si converte spesso in alberi, piante, vigneti
ed altri immobili aderenti al terreno, di cui è possessore. Prima
che il processo della transustanziazione, per così dire, del capitale
sia terminato, e ritorni in forma di rendita coi relativi interessi
nelle mani del coltivatore, passano spesso degli anni, delle die-
cine di anni; e quindi la necessità da parte del colono di resti-
tuirlo al creditore dopo un più lungo periodo ed a rate annuali;
ciò che non permettono i Kiirzecreditfristcìi degli statuti delle
banche popolari tedesche. Si trattò dunque di modificare alquanto
l'organismo di quest'ultime nel seguente modo:
Si organizzarono nuove Siiarlcassevereine ^ (Casse di risparmio)
tra i contadini della Slesia a brevissima distanza le une dalle altre
onde facilitare anche ai paesani distanti dai centri popolati il
deposito dei propri risparmi ; e nelle varie Unioni cooperative di
credito già esistenti ^'introdusse una divisione {AhthcilitìKj) tra i
^ Non è a dire come i depositi delle casse di risparmio possano somministrare
1 capitali più adatti ad un tale impiego. Dalla qui annessa Tabella apparisce come
il capitale di dette casse a lungo deposito vada sempre aumentando.
CASSE DI RISPARMIO DELLA PRUSSIA
o
z
z
<
Depositi
Vehsamenti
iNTh RESSI
non riscossi
Rimborsi
1863
1872
1813
1814
1815
1816
Media per Anno
451,140,343
633,889,618
162,809,661
911.932.234
1,049 961,010
1,110,881,815
160,110,498
26>*,311,594
324,119,881
3.59.619.333
359,833,439
361,835,316
11,501,742
1 6,612,245
20,.Ò00,431
24,152,661
28,814,944
32,20.5,154
1 30,168,143
114810,204
191,991,231
233,162,103
264,421,588
293,165,984
PROPORZIONE PERCENTUALE DELLE TRE SEGUENTI OPERAZIONI
COL CAPITALE TOTALE DELLE CASSE DURANTE GLI STESSI ANNI.
Anno
Versamenti
Interessi
R.1MB0RSI
1869
35.3
25
29.0
1812
42.3
2.6
21.6
1813
42.5
2.1
. 26.0
1814
39.4
2.1
25,6
1815
34.3
2.1
25.2
1816
30.4
2.8
25,0
V. Zùr Geschichte und Statistik der offentUchen Sparcassen im preus-
•sischen Staatte von Dr Engel und Hedelmann: Berlin 1818.
DEL CREDITO POPOLARE. 721
depositi destinati ad operazioni civili e commerciali e quelli ri-
serbati in modo speciale ad usi e scopi agrari. Per ottenere que-
sto ultimo fondo si accordò un maggiore interesse ai depositi
rimborsabili dopo un tempo maggiore del consueto, e si pervenne
così tanto nelle Casse di risparmio come nelle Unioni ad accumu-
lare forti capitali, il cui prolungato rimborso permise d'impiegarli
ad esclusivo vantaggio dei piccoli agricoltori.
Fino a tutto il 1877 le Unioni di credito slesiane, che pochi
anni prima erano pochissime, salirono a 92 con una partecipazione
di soci ammontanti a 57,004. I crediti accordati durante quell'anno
ai soci raggiunsero la cifra di 135,857,648 marchi.
Ma non basta, abbiamo sempre detto, aprire le sorgenti del
credito, bisogna anche suggerire al popolo i modi onde meglio
sfruttarlo. Ed il Comitato slesiano si dette pena di diffondere tra
le popolazioni rurali i precetti di una buona economia di esso
mediante la cooperazione nell'uso dei piccoli capitali presi ad
imprestito. ' In poco tempo i depositi a lungo corso, grazie all'esca
del maggior interesse e sopratutto delle raccomandazioni ed istanze
da parte dei promotori del credito agrario, presero il disopra sugli
altri depositi, e si costituì in tal modo una solida sorgente di esso
tra gli agricoltori, che permise loro di organizzare anche i canali
e le arterie per cui meglio servirsene.
Si sono costituite tra i contadini accreditati alle Unioni o alle
Casse di risparmio associazioni cooperative pel conseguimento di
uno scopo comune, quale sarebbe l'irrigazione, il prosciugamento
{Entwdsseri(ng) dei terreni di propria pertinenza dei soci ; l'uso
degli strumenti agricoli in comune; l'assicurazione mutua dai danni
degl'incendi, dei temporali, della epizoozia e via dicendo. Così si
ebbero piccole associazioni di tal natura. (V, pag. seg.).
Nel 1870 di queste associazioni non se ne contava che una a
Weigelsdorf. Oggi esiste quasi una mania per la bonificazione dei
terreni, e sopratutto pella coltura dei prati ( WieìisecuUare.) A tal
uopo si fecero venire dalla Westfalia degli espertissimi ingegneri
agronomi ( WiesenhautecJiniJcer) e si affidò loro nell'interesse co-
mune dei soci la sorveglianza e direzione dei lavori di bonifica-
mento. Occorrevano però buoni strumenti e macchine per otte-
nere gli stessi intenti dei grandi agricoltori. La Commissione
surricordata studiò anche questo bisogno, e si accinse a suddi-
1 Vedi il libro della Commissione: Anleitung zur Grilndung von Làndicirt-
schàftlichen Credit: und Sparvereinen.
VoL. XIV, Serie II — 15 aprile 1819. 45
722 DEL CREDITO POPOLARE.
sfarlo mettendosi in diretta relazione coi rappresentanti delle
fabbriche di macchine e strumenti pell'agricoltura in Inghilterra,
e radunando i necessari capitali pell'acquisto ed uso in comune
di essi. Si fecero venire degli aratri a vapore, delle mietitrici nuovo
modello, delle macchine pelle irrigazioni e prosciugamento, e
molti altri strumenti di siffatto genere.
Associazioni pell' irrigazione [Drainage Genossenschaften).
Anno 1877.
NOME DELLA SOCIETÀ
Numero
dei
Soci
Superficie
irrigata
Capitale
preso
a prestito
1
9,
Cross "W'eigelsdorf
Cross Peikerau
5
15
5
1
5
3
5
6
15
16
19
31
Morgen
268
sn
403
364
404
3Ì2
380
1,062
412
1,500
412
840
Marchi
3,000
8,400
4,100
3,800
5,000
5,269
4,600
12,163
3
4
5
6
Klein Peikerau und Radlowitz. . .
Unkristen, Sambowitz ù Sillraenau.
Wilkowitz ù Sillmenau
Sliauer ù Mandelbern
7
^Klnchwitz
a
Bischwitz ù Malfen
q
ScbSnau . •
5,400
20,590
5,500
8,400
10
11
19,
Soft ù Zarchargowitz
Weigwitz
Domsiau
Totale. . . .
132
1,294
86,622
Tutto questo venne ottenuto mediante la riunione di piccoli
capitali presi a prestito dai contadini, che si costituirono sotto il
nome di MascMnengenossenschaften in società di acquisto, uso
e consumo in comune degli strumenti di lavoro. Per lo più sono
di 8, 10 come a Liebau, o di 20 e 30 soci al massimo. In si-
mile modo si sono formate le ZucJitvich Vcreinc o associazioni
peli' allevamento in comune del bestiame: le VersìcJierungsve-
rcine o associazioni di mutuo soccorso contro gli incendi, i danni
dell'atmosfera e la peste bovina, e finalmente le società di con-
sumo Distribufion-Genossenschaften per l' approvvigionamento
in comune delle sementi, dei concimi e dei foraggi. Alcune di
esse come a Thiemendorf, Oppeln, Grotthau, Constadt, non cu-
rano che la compra degl'ingrassi naturali ed artificiali. Altre poi
estendono gli acquisti a tutto ciò che è materiale di prima ne-
cessità per l'agricoltura; tali sono quelle di
Anno di fondazione Soci
Brenndstadt .... 1871 19
Augsdorf 1869
73
DEL CREDITO POPOLARE. 723
Anno di fondazione Soci
Gorlitz 1870 84
Rosenberg 1872 40
Liebau 1870 56
Ltiben 1871 18
Leobschutz 1869 110
Lossen 1870 158
Proskau 1872 45
Munita di tutti questi sostegni l'agricoltura della provincia
di Slesia non potè fare a meno di migliorare le sue condizioni,
e di assicurare le sorti del piccolo proprietario contro la concor-
renza del grande agricoltore. Questa trasformazione operata in
seno alle Unioni Slesiane, per cui si ottennero cosi buoni risul-
tati pella coltura dei terreni, è dovuta principalmente alle cure
del dottor Rodolfo Jannasch, che la difese nelle adunanze, e pro-
pagò cogli scritti. ' Oggi si è operata anche altrove; ma in nes-
sun luogo raggiunse uno sviluppo perfetto come nei paesi renani
per opera dell'illustre Raiffeisen, che delle operazioni di credito
agrario volle fare il solo scopo ed ufficio delle sue banche di pre-
stiti Barlehnskassenvereine che da due o tre anni danno luogo
ad aspre contese tra gli avversari e i fautori di esse. I primi,
forti dell'appoggio di Schulze-Delitzsch ^ osteggiano la loro dif-
fusione come dannosa e non corrispondente ai principii da cui è
retto il commercio bancario; gli altri, e non sono pochi, visti i
risultati fin qui abbastanza buoni, ed appoggiati anche dalla re-
cente inchiesta per parte del Governo ^ si adoperano a tutta possa
per propagarne colla parola e cogli scritti l'imitazione anche nelle
altre provinole dell'Impero tedesco, ripromettendosene i più splen-
didi vantaggi per l'agricoltura in generale e pei piccoli proprie-
tari in particolarissimo modo.
F. Guglielmo Raiffeisen è oriundo di Heddesdorf presso
Coblenz nella Prussia Renana, di cui fu per lungo tempo Burg-'
meister. Pino dalla sua giovinezza, sull'esempio di Schulze, si dette
' Bericht nber die Entwickelung des Landwirthschdftlicheìi Genossen-
schaftswesens in Schlesien. Voa Dott. R Jannasch, Bresiau l8^8.
* V. Die Raiffeisen' schen Darlehencassen in der Rheinprovinz und die
Grund creditfrage fiir den landlichen kleinbesit. Von Dott. H. Schulze-Delitzsch.
Leipsig 1815.
' V. Bericht des Enquéte Commissioti ilbet^ die Rai ffeisen' schen Barlehncas-
sen. Berlin 1815, presso Unger in 4 volumi. — E inoUre: Die landlichen Darlehn-
cassenverein in der Rjieinprovinz und ihre Beziehiing zur Arbeiterfrage del
Dott. Ad. Held di Bonn.
724 DEL CREDITO POPOLARE.
a propagare tra i suoi compaesani lo spirito di associazione, e
raccomandò loro in special modo l'imitazione delle nascenti isti-
tuzioni cooperative. Ma le condizioni essenzialmente agricole dei
paesi che erano oggetto della sua propaganda, gli fecero presto
sentire la necessità di venire in aiuto mediante il credito coope-
rativo ai bisogni speciali dell'agricoltura, in modo più diretto ed
efficace che non facciano le Unioni fedeli ai principii rigorosi degli
statuti di Schulze.
Pur rimanendo fedele a quest'ultimo nel principio della re-
sponsabilità illimitata {nnheschrdnJcte Haft) come base della coo-
perazione, egli credette di doversi allontanare per quanto concerne
il modo di ripartire il credito ai soci delle sue banche, che orga-
nizzò in modo da servire quasi esclusivamente agli interessi dei
Kleingrund hesitser ' o piccoli proprietari di terre, di cui son
fitti i paesi lungo la riva destra del Reno. Kaiffeisen conosceva
la misera situazione di migliaia di essi per mancanza di capitali
al miglioramento agricolo dei loro fondi. Vi erano numerosi vil-
laggi, in cui la metà della popolazione possidente non avea neppure
un giumento di suo proprio ; nel Westerwald, nell'Eifel, in Altwied,
in Feldkirchen ed altri paesi Renani la povertà dei contadini
faceva pietà. Il bisogno di credito tutti i giorni diveniva più
imperioso; né oramai restava che l'usuraio a rovinare e dissan-
guare del tutto famiglie intere di contadini. "
Sorse Raiffeisen e concepì il suo tipo di Banca di prestiti,
Darlelinshassen, di cui ci piace trattenere i nostri lettori, perchè
se non vuol dirsi perfetto, ritrae almeno il concetto di ciò che
dovrebbe essere un siffatto credito. Poche istituzioni in Germania
ebbero la soddisfazione di suscitare vive polemiche da farne una
vera letteratura, come le Darlehnskasse di Raiffeisen. E dire che
da noi a giudicare dal silenzio che se n'è fatto fin qui, parreb-
bero ignote, quasiché gl'interessi agricoli prevaler possano meno
in Italia che in Germania.
La nota caratteristica e fino ad un certo punto contraddito-
ria di queste banche consiste nell'accordare dei prestiti fino a
1 V. Die Liindlichen Darlehncassen, dello stesso Raiffeisen. Neuvied, seconda
edizione.
^ ScHWERZ, Rheinisch ivestfdlisclie Landu-irthschaft, l. pag. 396. Anche Er-
leumeyer parlando della sorte di questi contadini osserva: Inder Regel muss der
Bauer hangen 101 d bmigen zwìschen Leben iind Tod, dann ist er filr der Wii-
cherer das tanglichst Objecte der Aussagung.
Vorsckuss-icnd Credit Vereine, pag. 18.
DEL CREDITO POPOLARE. 725
dieci anni di tempo, mediante depositi che possono essere loro
richiesti dai depositanti da un momento all'altro. È vero, come
vedremo più oltre, che si ricevono a preferenza i depositi a lungo
corso, ma è lasciata la facoltà a chi vuole di deporre i propri
risparmi a breve denunzia. Laonde gli amministratori di esse sono
costretti per qualunque imprestito che facciano ai propri soci, a
riserbarsi il diritto del rimborso, previo l'avviso di quattro set-
timane in ogni caso di mancanza di capitale. Questa riserva, seb-
bene nei più dei casi si sia dimostrata inutile, è imposta loro
dal fatto che pei lunghi imprestiti usano ogni sorta di depositi,
a corta e lunga scadenza. Questo è il lato debole principale
delle banche di Kaiffeisen, e che costituisce il punto critico e
bersagliato dai loro avversari, i quali non hanno torto quan-
do asseriscono che un tal modo di procedere è contrario alle
leggi che presieggono ad una sana organizzazione del credito.
Principio fondamentale di un solido commercio bancario è di non
accordare altro credito che quello che i creditori o depositanti
accordano alla Banca. Questo principio osservano ajipunto gli isti-
tuti di credito ordinario, non escluse le banche di Schulze, ed è
il sano fondamento di ogni banca. Kaiffeisen al contrario, pur
riconoscendo la verità del principio enunciato, intese di modifi-
carlo a seconda del luogo e del tempo, senza per ciò far correre
pericolo alle sue istituzioni, o diminuirne la fiducia da parte dei
numerosi clienti. Viste le misere condizioni in cui versavano molti
degli agricoltori della sua patria, egli fece della condizione del
lungo credito una questione di essere o non essere pelle sue
banche, e pel fine che dovea raggiungere ; coi prestiti limitati a
mesi ed anche a un anno o poco più di rimborso, il desiderato
miglioramento delle condizioni agricole dei suoi compaesani non
potersi conseguire. Dunque o rinunziare a questa speranza o met-
tersi per una via nuova ed arrischiata. Prescelse egli quest'ultimo
partito, e foggiò il tipo delle sue banche in modo da ovviare il
più possibile ai pericoli minacciati dal disequilibrio deirofi"erta
e della domanda del credito di esse. Un cenno sulla loro indole
chiarirà meglio il concetto.
Carattere essenziale delle Barlehncassen è di essere una im-
mediata emanazione delle condizioni e circostanze locali, dell'am-
biente, in una parola, del villaggio in cui sono sorte; la loro
sfera di azione è piccola, e limitata esclusivamenle agli affari e
bisogni dei vicini abitanti. Il modo con cui si sono formate è
patriarcale e popolare al più alto grado. Kaiffeisen non richiedeva
726 DEL CREDITO POPOLARE.
neppure il contributo dell'azione da parte dei soci, come si usa
nelle Unioni di Schulze. Venti, trenta, quaranta contadini, fittaioli,
0 proprietari, che coltivassero le terre per conto proprio si asso-
ciavano, e in nome e sotto pegno della responsabilità morale e
materiale di tutti in solido illimitatamente, si presentavano al
pubblico per chiedergli i capitali necessari ai loro bisogni. For-
mato cosi un fondo di esercizio, si accordano prestiti ai soci
solidali, che ne fanno richiesta ; e dal semplice interesse e prov-
vigione percepiti per tali prestiti, si pagano gl'interessi sui depo-
siti, e le spese di amministrazione; il resto va come fondo di
riserva non accordandosi, per statuto, nessun dividendo.
Questo fu l'esordio umilissimo di molte banche di Eaiffeisen;
anch'oggi esse conservano, come vedremo, un organismo che le
rende le più democratiche e popolari di quante ne esistono in
simil genere.
Nella limitazione locale della banca di RaifPeisen è uno dei
principali requisiti della sua garanzia; tanto ai soci che ai cre-
ditori di essa è facile assicurarsi del suo stato quotidiano e della
natura delle sue operazioni. La presidenza ed il consiglio di am-
ministrazione sono gente nata e cresciuta nel distretto della banca:
dimodoché ogni persona che desidera un imprestito è noto agli
amministratori sotto tutti i rapporti. Si concedono prestiti ai soci,
dai quali l'LTnione è certa che non si mancherà all'impegno. Inoltre
ad epoche determinate, di ogni debitore si riesamina la solvibi-
lità e si agisce a seconda dei risultati. Da ciò si capisce come
possano essere tanto poche e tanto piccole le perdite di queste
banche, come vedremo più oltre. Ad esempio di quanto diciamo,
vogliamo citare la Banca di Steimel ( Wohltlìàtigheitsverein Stei-
mel) la più florida di tutte quelle di Raiffeisen, la quale durante
tutto il suo tempo di esercizio non ebbe perdite se non una di
m. 1. 30, che in moneta nostra equivalgono a L. 1. 66. Avviene
tuttavia, come dappertutto, che alcuni debitori restino in mora,
e si debba procedere in via legale contro essi, ma in rarissimi
casi è occorso di dovere spingere la procedura fino ai mallevadori. ^
Alla limitazione loccile e ristrettezza della sfera di azione
queste banche possedono un'altra qualità, non comune a nessuna
istituzione di pari scopo. Ed è la gratuità, a fatti e non a parole,^
dell'amministrazione. Tanto il Consiglio di quest'ultima, quanto
1 Aber in den seltensten Fàllen braucht man bis auf die Bilrger zuriick-
zugreifen.
V. Die Raiffeisen schen Darlehnskassen, di Teodoro Kraus, pag.14.Bonn, IS'Je .
DEL CREDITO POPOLARE. 727
la Presidenza, e in una parola tutte le persone che sono vita e
anima dell'Unione, devono assumere la loro carica a norma dello
statuto, cioè come ufficio onorifico e non lucroso ilir And aìs
Ehrenamt fiihren. Soltanto il contabile o ragioniere (Veremsre-
chner) percepisce una retribuzione delle sue fatiche: ma questa
è così tenue ne' più dei luoghi, che non si può chiamare stipen-
dio. Chi direbbe tale la microscopica somma di 15 marchi? Ep-
pure tali sono gli onorari di non poche banche. ^
I capitali nei primordi di esercizio sono presi a credito; pro-
prietà dei terzi anziché dei soci dell' Unione. E come abbiamo
accennato, si tiene molto a che il deposito sia fatto a lungo corso.
Favorevole occasione a ciò, si è offerta a queste banche nell'am-
mettere nelle proprie casse, come deposito fruttifero, i denari di
manomorta, i capitali di figli minorenni o pupilli, e quelli in ge-
nerale di pubblici istituti o corporazioni, che, dando una rendita
sicura, offrono il vantaggio di non venire tanto presto ritirati
dalle casse delle banche. La maggior parte di queste si è impos-
sessata di questi capitali, e ne trae cospicui vantaggi economici
pei soci.
Questo ci spiega in qualche modo la ragione per cui le Dar-
lehncassen malgrado i loro lunghi prestiti ai soci in mezzo anche
a crisi fortissime, restassero non solo incolumi, ma continuassero
l'andamento regolare dei loro affari con crescente prosperità. Come
abbiamo detto, le banche s'impegnano anche a restituire i propri
depositi dopo 4 settimane dalla loro denunzia, e ciò per attirare
la maggiore quantità di capitale possibile; ma questa specie di
depositi costituisce la minor parte ; e quando avviene che una
banca in un dato momento debba rimborsarli, se non ha abba-
stanza capitale nelle proprie casse, invece d'intimare ai propri
soci la restituzione dei prestiti accordati loro, ricorre all'aiuto
delle banche congeneri situate nello stesso distretto, dove tra esse
si è stabilito una specie di mutuo soccorso nei casi di bisogno.
Per tal modo si è fin qui ovviato ai pericoli provenienti dal-
l'uso di depositi promiscui per i prestiti a lungo rimborso; per
tal modo si è potuto attraversare senza imbarazzi le due ultime
grandi crisi del 1866 e 1870 ^ quando le denunzie dei creditori,
'«.... Wie soli mann z. B. eine VergUtung von 15 Mark fur dea Rechner
ansehen? »
V. Die Raiffeisen' schen Darlehnhasser. , di Teodoro Kraus, pag. 17. Bonn 1876
2 « sogar wahrend der Kriegsjahre 1866 und 1870 niemals in Geldver-
legenheit gekommen. »
Ibidem.
728 DEL CREDITO POPOLARE.
se le banche non avessero saputo a tempo ispirare fiducia nel
pubblico, minacciavano di ritorre loro tutti i capitali; poiché nella
maggioranza della popolazione renana si temeva nell'ultima guerra
di vedere i francesi far man bassa di tutto e di tutti nella destra
sponda dello storico fiume; e se queste giovani istituzioni resi-
stettero a tale scossa, non sappiamo davvero quale uragano eco-
nomico potrà sradicarle ed abbatterle.
Oltre alla severa censura, cui vengono sottoposti coloro tra
i soci che ricercano il credito della Banca, per cui i depositi sono
sicuri di ricevere un solido impiego, vi è da aggiungere che il
personale alla testa della amministrazione è formato in quasi tutte
le Unioni da cittadini e paesani che ispirano per il loro carattere
del pari che per la loro posizione sociale la più grande simpatia
e fiducia nel pubblico. Sono per lo più presidenti di esse i Burg-
meister, i parroci ed altre notabilità, che in più d'un caso misero
fuori i propri capitali per costituire il fondo di esercizio della
banca; alcuni fecero dono di forti somme a tal uopo; altri ne im-
piegarono delle vistose a lungo deposito contentandosi di un qua-
lunque interesse, quale poteva dare il bilancio annuale. ^ Dopo il
finqui detto e ben ponderate tutte queste circostanze locali, l'or-
ganismo speciale delle banche, e la severa e scrupolosa ammini-
strazione dei capitali ivi apportati, il pericolo, che gli avversari
di esse scorgono nell'impiego di questi ultimi ad un lasso di tempo
anche maggiore che non comporti la natura di certi depositi, è
molto diminuito ; e si spiega quindi l'affluire del denaro alle JDar-
ìeJincassen in modo da generare qualche volta un po' di pletora
di capitali, pel cui sgravio servirono spesso le Unioni di Schulze,
malgrado che questi si adoperi in buona fede a screditarle. Un
esempio di quanto sia forte la pubblica fiducia sulle Banche di
Kaiffeisen, malgrado il modo patriarcale e popolarissimo con cui
esordiscono, si ha in quella di S. Caterina presso Linz sul Beno.
Questa banca in origine ebbe soci senza denari, tranne uno,
che è il parroco Krux, che vi apportò una buona somma per il
primo giro di operazioni; tuttavia il pubblico accorse a deporre
i propri capitali e si ebbe fin dal primo anno di fondazione una
bella proporzione tra il capitale dei soci, rappresentato in questo
caso da un solo socio, il già menzionato parroco, ed il capitale dei
non soci; cioè, il 64 per cento apparteneva a questi ultimi ed il
' Fra questi filanìropi occupa il primo posto il principe di Wied clie tiene da
lungo tempo in queste banche forti somme ii tenue interesse. (V. Opera citata.)
DEL CREDITO POPOLARE. 729
36 per cento ai primi. Poi le proporzioni, cambiarono fincliè il ca-
pitale dei soci prevale sovra quello dei non soci. Anzi a misura che
i fondi propri dell'Unione di Eaiffeisen aumentano, come già è il
caso per molte, la possibilità di una insolvenza da parte di essa
in occasione di denunzie in massa dei creditori o depositanti, di-
.viene sempre più rara. E qui c'imbattiamo in un'altra speciale
qualità delle JDarlehncassen. Presso le Unioni di Sclmlze il ca-
pitale proprio consiste di due parti differenti tra loro; del fondo
di riserva e delle azioni. Pel fondo di riserva servono le tasse di
entrata ed una determinata quota del guadagno netto annuale.
Queste due parti nelle banche di Eaiffeisen consistono in una sola
che si forma in modo ben differente dal suaccennato. Grande im-
portanza pongono anche le Darlehncasseu nella formazione di
un fondo di capitali proprio dell'Unione; ma questo si ottiene
complessivamente, non mediante azioni all'individuo, ma col gua-
dagno della banca, prelevate le spese di amministrazione e gl'inte-
ressi da pagarsi a depositi, non accordandoli, come si è già ac-
cennato, dividendo a sorte. Un tal patrimonio collettivo serve in
seguito a coprire eventuali perdite dell'Unione, e si lascia au-
mentare tanto, sino a che queste sieno in grado di fare tutte le
operazioni di credito occorrenti ai bisogni dei rispettivi soci coi
propri capitali. Questa è la meta ideale cui mirano, e non poche
vi si sono avvicinate. Inoltre, per statuto, ogni Unione si obbliga
a diminuire l'interesse e le spese di provvisione, tostochè il pa-
trimonio collettivo della banca avrà raggiunto una sufficiente ele-
vatezza. ' E gl'interessi e guadagni ulteriori di tal patrim onio
devono per statuto non distribuirsi ai singoli soci, ma impiegarli
a scopi di comune utilità, ed in prima linea polla fondazione di
scuole d'istruzione reciproca. ^ Nessun socio ha quindi diritto ad
una personale partecipazione dei capitali propri dell'Unione. An-
che in caso di scioglimento di questa, il patrimonio non si di-
stribuisce, ma deve sempre servire a scopi, che risultino di e guai
vantaggio per tutti i soci. Si considera, com'è in realtà, il frutto
dell'industria e previdenza di tutti; e solo il credito e l'onestà
dei soci sono il suo fattore. Tali, fatte le debite eccezioni, sono
le principali e più comuni qualità delle Darlehncassen di Eaif-
feisen, vediamone ora i risultati.
' Nach hinreichender Ansammlung eines Vereinskapital ist to bald als mò-
glich auf herabsetzung der zerisen und der Provision Bedacht zu nehemen.
V. § 29 dello statuto delle banche.
* «... In erster linie durch GrùnJung von Fortbildungsschulen. » Ibidem, § 34.
730 I^EL CREDITO POPOLARE.
La prima di queste banche venne fondata nel 1855 a Hed-
dersdorf per opera dello stesso Kaiffeisen con un capitale di
6798 marchi, di cui 5475 tutti in prestito. Questo capitale a forza
d'interessi, aumenta anno per anno fino a permettere la forma-
zione d'un fondo proprio dell'Unione nella somma di 9480 marchi.
Giunta a questo punto, Raififeisen credè bene decentrare l'azione
della sua banca, che egli voleva in tutto e per tutto simile come
il modello, che si era creato in mente; e da quel piccolo patri-
monio che altrove servirebbe pei bidelli e i portieri, Raiffeisen
ne fece scaturire i fondi necessari alla costituzione di altre tre
banche, cioè Bieber, Altivied e Feldkirchen, con cui volle divi-
dere i capitali dell'Unione d'Heddersdorf. Quindi toccò per cia-
scuna 2270 marchi. D' allora in poi le Darlehncassen aumenta-
rono rapidamente, e fino a tutto il 1876, anno a cui rimontano
gli ultimi bilanci di esse, salivano a circa 100.
Di sole 66 fu possibile avere il bilancio fin qui: alcune non
si permettono neppur la spesa per la stampa di esso. Il numero
totale dei soci è 10,765: in media per banca 174. La più grande
delle Darlehncassen è quella d'Antweiler con 450 soci: la più
piccola di Bell con 43 soci. Per 48 unioni è dato anche il nu-
mero degli abitanti compresi nel distretto occupato da ciascuna
di esse; la somma della popolazione di questi 48 distretti era di
115,826 anime. Se computiamo, considerata la prolificità dei con-
tadini renani, 5 persone per ogni famiglia di tal popolazione cam-
pagnuola, si ha in media che il 36 Yo di tutti i paterfamilias di essa
fa parte delle banche. Il più grande distretto di queste Unioni è
Losheim con 6725, il più piccolo Bodendorf con 544 abitanti.
Alla fine dell' anno suddetto vennero accordati prestiti ai
rispettivi soci nella somma di 1,381,400 marchi; in media per
ognuna delle 66 unioni 238,408. L'importo del più piccolo prestito
ascende a 2 marchi, il più grosso a 6000. Prestiti fino a soli
3 anni si accordano da una sola Unione; fino a 5 da 24. Le re-
stanti Unioni concedono prestiti fino anche a 10 anni. Anzi di 55
di esse, vien dato anche il numero dei prestiti dentro un anno,
da 1 a 5 anni, da 5 a 10 anni, e via dicendo. Il totale di essi
per queste 55 unioni ammontò nell'anno accennato a 848,338 mare,
così distribuiti :
Per 1 anno e meno Da 1 a 5 anni Da 5 a 10 anni
274,218 M. 439,403 M. 134,717 M.
Del totale 32 °/„ 52 Vo 16 V»
N. dei prestiti 718 1946 234
Media di essi 382 M. 226 M. 474 M.
DEL CREDITO POPOLARE. 731
I denari ricevuti a fido dalle banche ammontarono a 961,690;
i piccoli depositi dei risparmi a 80,559 marchi. In totale I,0i2,249,
che danno una media per ogni banca di 15,792.
La somma di capitali che le Unioni hanno ancora da rim-
borsare per parte dei soci debitori, ascendeva in quell'anno a
3,039,401 dando in media 46,052 marchi per ogni Unione. Delle
66 Unioni di cui si posseggono i bilanci, 9 soltanto formarono
un capitale proprio mediante azioni calcolato nella cifra di
66,429 marchi. Il totale dei fondi propri di esse si computava in
tal modo;
Guadagno netto durante il 1876. . . Marchi 52,398
In azioni » 66,429
Capitale accumulato pel passato . . » 126,756
Totale Marchi 245,583
E poiché i prestiti, come abbiamo visto, ammontano a mar-
chi 2,928,149, così si ha relativamente al fondo di riserva o pro-
prio delle banche, che circa 1*8 Vj % di tali prestiti venne coperta
mediante quest'ultimo.
II tasso dell'interesse oscillò tra il 5 e il 3 Voi e colle spese
di provvisione tra il 5 '/g e 7 %. Raiffeisen a somiglianza della
Banca centrale di Berlino per le unioni tedesche, aveva istituito
per le sue Darlehncassen una banca centrale a Neu-Wied ,
la quale curava gl'interessi delle altre banche strette in confe-
derazione con essa, pel reciproco soccorso di capitali. Questa
banca {NeuWieder Genossenscìiaftshanlc) che si prefiggeva il
risconto delle cambiali, tra le altre sue operazioni, mancando
del necessario alimento, poiché il credito agrario ha pochi cor-
rispondenti nello strumento della cambiale commerciale, si è sciolta,
e si sta adesso studiando il modo di sostituirla con un grande
istituto di credito ipotecario, il quale pesca mediante i suoi ca-
pitali venire in aiuto di tanto in tanto alle banche più biso-
gnose.
Al moto che va crescendo via via rassomigliano i risultati
della maggior parte delle Darlehncassen di Raiffeisen, Dopo
essere pervenuti ad una certa potenza di credito, hanno potuta
figliare anch'esse altre istituzioni cooperative, con cui si tengono
in intimo rapporto. La Zeitschrift pegli interessi agricoli delle
Provincie renane faceva non a guari a tal proposito le seguenti
riflessioni :
« Le Unioni Darlehncassen dettero luogo in questi ultimi
732 DEL CREDITO POPOLARE.
tempi a dei ciixoli sociali, detti casini, comodi ed eleganti, i quali
servono a meraviglia come luoghi di ritrovo polla popolazione
campagnuola, soci e non soci, e sopratutto come centro di propa-
ganda pegl' interessi delle banche e dell' agricoltura. Il casino è
divenuto la succursale morale di ogni banca, che con esso mira
ad informarsi mediante serali conversazioni delle condizioni e
stato dei piccoli possidenti e contadini, e procura di avvisare ai
mezzi di migliorarli sotto ogni rapporto. Di qui la partecipazione
numerosa dei contadini a queste banche, e l'aumento quotidiano
del loro credito. Di settimana in settimana coll'aiuto e prestanza
dei parrochi, borgomastri, medici, speziali, e via dicendo, si ten-
gono letture sopra argomenti d'interesse e vantaggio per le classi
rurali ; cosi si parla del modo di alimentare i diversi generi di
bestiame, degli strumenti da lavoro più economici, dei vari generi
d'ingrassi del terreno, e via dicendo. Si fanno inoltre progetti pel
conseguimento di scopi utili a certe regioni agricole ; si sotto-
pongono a discussione pubblica, e se vengono approvati, se ne
raccomanda l'effettuazione. Altrove la mancanza dei denari, po-
trebbe costituire il più insuperabile ostacolo a quest'ultimo; ma
il casino ha dietro di sé la banca, e quando una proposta è rico-
nosciuta buona, i soci di quest' ultima si adoprano perdi' essa
sborsi i denari pell'applicazione. » E per tal modo si fanno delle
vistose compre di materie prime, strumenti, commestibili ed altri
oggetti di uso comune. A tale scopo nell'anno economico da noi
esaminato si impiegarono dalle banche 13,221 marchi. In Arthal
ed altri luoghi lungo il Eeno, le Darlehncassen stanno in in-
timi rapporti colle società pella viticoltura, e ne proteggono
gl'interessi e sviluppano la produzione coll'anticipazione dei loro
capitali a lontano rimborso.
Visti i beneficii provenienti da queste banche sotto 1' aspetto
morale e materiale alle popolazioni che ne fanno parte, e mercè
soprattutto la severità e illuminatezza degli amministratori, non è
a meravigliare che i capitali vi accorrano in abbondanza. Le casse
di mutuo soccorso di ogni distretto {Hiìfscassen) hanno i propri
capitali depositati a lungo corso presso di esse, che ne traggono
vantaggi non piccoli peli' agricoltura. Anzi dovrebbe essere prin-
cipalmente coi depositi delle casse di risparmio in generale, che
si dovrebbe organizzare una solida sorgente di credito agrario.
Già in tutta la Germania sorgono in questo senso di tanto in tanto
delle voci e degli scritti, e non andrà molto che i denari depo-
DEL CREDITO POPOLARE. 733'
sitati dal popolo presso tali istituzioni, riusciranno di nuovo per
fecondare i lavori e fatiche di esso. ^
Fino a qual punto sarebbe possibile in Italia trasferire certi
depositi delle casse pubbliche del Governo in quelle delle Unioni
che potessero sorgere a guisa delle Slesiane e Renane è difficile
oggi e qui il risolvere. Certo la proposta sembrerà strana a coloro
i quali usano dare alle garanzie legali, non sempre da noi fortu-
nate, un peso e riguardo eccessivi in confronto delle garanzie mo-
rali, non sempre tenute nel debito pregio. Si potrebbe intanto stu-
diare se e con quali temperamenti potessero rendere quei servigi
di natura locale le casse di risparmio postali. Intanto noi ci siamo
limitati ad offrire de'modelli, coll'indicare dei fatti a creare i quali
e a farli prosperare in Germania, non è da credere che fossero
scarse le malleverie tanto morali quanto materiali. Una delle
' II già menzionato lavoro di Engel ed Hedelraann sulle Casse di Risparmio
prussiane contiene anche le seguenti notizie intorno all'impiego dei capitali de-
positati in esse.
Anno 1876.
PROVINCIE
Russia
Brandeburgo ....
Pomerania
Posnania
Slesia
Sassonia
Schleswig Holstein
Annover
"Westfalia
Assia-Nassau. . . .
Paesi del Reno . .
Sa 100 marchi delle Casse di Risparmio
si misero ad interesse
In fondi
"o
13
J3
In obbligaz.
CAPITALE
.^
=3
a»
>
o
.-H
te
<D
'S
C6
'o
a.
-2
j:
«J
>
o
a
o
H
^
tó
o
O
O
milioni
20,196,196
89,155,816
59,036,010
7.301,001
87,4 !4,446
133,492,273
149.012,810
154.502.218
280,538 603
38,044.-08
158,289,133
Anche per le Casse di Pùsparmio
positi in ipoteche su fondi rustici ed ui
Sopra 100 di capitale impiegarono
91,02' 31,01
97,99 21,56
96,51 23,09
96,24 24,13
14,97 31,31
19,12 38,65
22,38 34,62
10,66 32,05
91,03 26.03| 17,58: 38,04
96,94,26.41134,89', 28,08|
96,59 28.21 i 29,26| 5,551
96.95 14.21' 34,25 22,59'
93,22 33,45' 24,')!' 10,51!
91,11 18,51] 20,18, 26,42;
96,39 25,11l 13,15, 30,63,
della Baviera è notevole ì
rbani.
le Casse di Risparmio :
9,14
4,86
6,80
2632!
0,91
2,03
21,83
124
11,03
23,11
12,15
7,81
2,46
5,99
0,58
1,23
2,81
2,24
5,45
2,18
4,14
3,63
2,50
6,88
2,12
3,34
1315
2,24 11,32
3.68 4,68
3,68.11,61
impiego dei de-
Delle Città . . .
Di altri Comuni
» Distretti
» Privati .
Sopra ipoteche
51,23
62,92
82,17
88,42
Presso Comuni della Provincia In valori pubblici
17,38
8,75
1,05
0,03
25,36
21,96
10.80
5,28
734 DEL CREDITO POPOLARE.
prime è certo la resjjonsabilità illimitata e solidale dei soci tra di
loro, e il credito come lo accorda il tipo delle banche di Raiffeisen
riesce un vero stimolo di progresso morale, efficace quanto mai
a guarire l' e per aio da certi vizi. Raiffeisen pose per statuto delle
sue banche di non accordare credito alcuno agi' individui in fama
■di giuocatori o bevitori eccessivi. ^ Laonde l'operaio vizioso si vede
astretto a dismettere le sue prave abitudini onde poter usufruire
dei vantaggi accordati agli altri suoi compagni più morigerati
di lui. Nulla è più efficace della virtù dell' esempio, e a questo
mirano in sommo grado i benemeriti amministratori delle banche
renane. G-ià in questi ultimi anni si è estesa di molto la loro in-
fluenza nel principato di Wied, a Treviri, Aquisgrana, Dusseldorf;
e perfino nella Westfalia e nel Granducato d' Assia si annoverano
oggi non poche di tali Darlehncassen. Egli è a questo punto che
il movimento d' invasione dà nell' occhio a Schulze e ai suoi nume-
rosi fautori ed amici, che gli movono colle loro critiche nel Par-
lamento e nella stampa asprissima guerra.
Nel 1874 la crisi pesava su tutta la Germania dopo le spe-
culazioni degli anni precedenti. Il ristagno del commercio interno
si fece sentire anche nei piccoli comuni. E alla fine di detto anno
alcune banche presentarono un bilancio carico di passività, for-
mate per lo più da proroghe e dilazioni più o meno dannose dei
rimborsi dei capitali prestati ai soci, impotenti a far fronte ai
propri obblighi verso la rispettiva banca. L' occasione parve pro-
pizia agli avversari di esse. Schulze e Noll,^ consiglieri di Stato,
si affrettarono a fare un' interpellanza in proposito nel Reichstag,
onde assicurare le sorti dei creditori, i quali alla loro volta inti-
moriti, che la cosa avesse destato l'attenzione del Parlamento, si
recarono in massa a denunziare i propri crediti. L' imbarazzo non
poteva essere più compromettente e fatale per quelle poche ban-
che. Tuttavia lo superarono ; e specie la banca di Hammersfeld
la quale aveva 33,609 marchi di passività, che potè coprire, senza
costringere nessuno dei soci, come ne avrebbe avuto il diritto, ad
un rimborso prematuro dei denari dati loro in prestito. Il governo
promise agli interpellanti di studiare la questione, e al principio
del 1875 si nominò dal Ministero d' agricoltura una commissione
' Grundsdtzlich stàndigen Wirthhaitsbesxichern, Kartenspilern ic. s. w. Kein
Gela gel'tehen wird. Ibidem.
' Sì l'uno che l'altro si erano già pronunziati contro queste banche in varie
occasioni. Schulze all'assemblea generale delle Unioni Cooperative tenuta a Neustadt
nel 1369: NoU col suo libro Die landlichen Darlehncassen-Vereine. Berlin, 18^3.
DEL CREDITO POPOLARE. 735
incaricata di procedere ad un' inchiesta ed esame sullo stato, con-
dizioni e qualità delle Darlchncassen-Vereine di Raiifeisen. Essa
venne composta dai signori professor Nasse, dal direttore della
BeichshanJc dottor Siemens, e dal signor Sclimidt di Francoforte,
i quali dopo un lungo studio ed ispezione sul luogo, vennero in
queste conclusioni: « Che le singole Unioni di Raiffeisen riescono
di grande beneficio alla popolazione agricola dei rispettivi distretti
{SeJir segensreich wirJcen) sebbene alcune di esse appariscano bi-
sognose di miglioramenti. » Il deputato Noli tornò alla carica sot-
toponendo ad una severa critica i risultati dell' inchiesta, per cui
volle dimostrare che il parere della Commissione era troppo roseo,
e che se questa avesse spinto indagini più accurate ed estese, i
risultati sarebbero stati differenti. A queste obbiezioni, che rive-
lano nel signor Noli un ^9ar/« 2^ris, anziché un critico impar-
ziale, rispose a nome della Commissione il signor Nasse nei Land-
wirthsclidftliclie Jahrliicher, di Berlino, e che poi tirò a stampa
separatamente. ^ Il signor Nasse ha il merito d' aver posto la que-
stione di queste banche nei suoi veri termini; tanto gli avversari
quanto i fautori di esse, riconoscono i meriti e pregi delle Darlehn-
cassen; però questi ultimi hanno il torto, dice esso, di credere
che tutti i loro procedimenti sieno regolari, e basati solidamente;
e i primi invece quello di vedere troppi pericoli che in realtà non
ci sono, e di fare delle obbiezioni non attinte all'esame partico-
lareggiato dei fatti e circostanze a cui devono il nascere e crescere
cotali istituzioni. La critica del dottor Nasse propose anche i ri-
medi a certi inconvenienti coingeniti all' organizzazione patriar-
cale di queste banche, e quindi preparò il terreno ad una conci-
liazione fra i due partiti. Intanto la questione si diffondeva, e la
esposizione recente di Bruxelles offrì occasione al partito fautore
di compilare una statistica coi relativi bilanci delle principali
banche di Raiffeisen, e d'inviarlo alla mostra universale del Belgio.
11 governo sovvenne le spese necessarie a tal uopo, e scelse la per-
sona competente a tal officio nel professor Teodoro Kraus, su pro-
posta del prof. Held di Bonn, che era stato suo maestro, mentre
Kraus studiava agricoltura all' università di quella città.
Costui intraprese un viaggio espressamente per i paesi renani ;
visitò ad una ad una quasi tutte le banche di Raiffeisen, e potè
compilare un' accurata statistica di 46 tra esse, che fece seguire
' V. Der Bericht der Untersuchungs-Commission iiher di: D. K. V. und
die Kritik des Regìerungsrath Nòli. Von Dr. C. Nasse. Berlin, 1876.
736 DEL CREDITO POPOLARE,
dei rispettivi bilanci fino a tutto l' anno 1875, e di considerazioni
storico-critiche interessanti. ^ Il tutto poi fu stampato in modo
chiaro ed elegante ed inviato, come si è detto, all' esposizione del
Belgio, dove al suo fianco figurava anche un voluminoso e splen-
dido repertorio di tutti gli ultimi bilanci, progressi, e beneficii
morali e materiali delle numerose Unioni cooperative di Schulze-
Deìitzsch.
Il prof. Teodoro Kraus continuò anche dopo la detta esposi-
zione le sue ricerche; e alla fine del 1877 potè dare alle stampe
la seconda ed ultima parte dei risultati dei suoi studi e ricerche
in proposito. ^ Egli ci dà la statistica di altre 20 Darlchncassen
seguita dai singoli bilanci e da una critica molto particolareg-
giata delle obbiezioni mosse alle banche di Raiffeisen, concludendo
però quasi nello stesso modo del dottor Nasse. Egli riduce tutta
la sua critica alle due principali obbiezioni mosse loro da Schulze ;
cioè 1° sui pericoli provenienti ai creditori dall' abusivo impiego
promiscuo di tutte le specie di depositi e prestiti a lontano rim-
borso; 2° sui danni temibili da una mancanza di capitale propria
in azioni a garanzia delle operazioni della banca e da quella di
uno speciale fondo di riserva.
Noi abbiamo visto nella descrizione che abbiamo fatto più
sopra di queste banche, come esse intendono e possono ovviare
agi' inconvenienti eventuali della loro speciale organizzazione. Il
signor Kraus ha dovuto venire in questa stessa persuasione dopo
l'esame dei resultati ottenuti sin qui da esse, e termina la sua
dotta ed ampia monografia coli' invocare da parte degli ammi-
nistratori alcune riforme nello statuto organico delle banche, ma
tali che non distruggono punto l' indole fondamentale e lo spirito
di esse. Delle critiche che venimmo fin qui esponendo ^ trasse il
1 Questa è l'opera che abbiamo citata più avanti; e forma la prima parte.
I Heft : Statistik und Beschreibung.
^ II Heft : Kntische Bemerkungen della stessa opera di Teodor Kraus.
3 A chi fosse desideroso di più particolareggiati ragguagli e notizie su queste
Banche, offri imo qui, anche a complemento della loro ampia letteratura, le opere
che più direttamente e diffusamente ne parlarono, oltre alle già citate nel testo e
margine di quesco scritto.
J. N. C. Thilmany, Die Lilndlichen Barlelincassen Vereine in der Rheinprovinz
(Sog. Sistam Raiffeisen). Bonn. 1815. Il sig. Thjdmany è il segretario generale di
queste Banche e tutti i fatti e prova che cita nella confuta/ione, che fa delle obbie-
zioni di Noli, sono di una autenticità ed efficacia incontrastabili.
Capaun-Kari.owa, Die Ldndlichen Darlelnicassen- Vereine, Eine Entgegmaig.
anf die iinter gleìchem Titel erschienem Sclirift des Regierungsra'hs Nòli.
Neuwied, 18Ì3.
Dr Weidenrammer, Der Kampf gegen die Darlehncassen, Assia 1815.
Dr Prof. STEnGEh, Dreioehn Thesen aher die J,dndlichen Kleiìibesitze {System
DEL CREDITO POPOLARE. 737
massimo profitto Kaiffeisen, il quale da qualche tempo si adopra
ad introdurre tutte quelle innovazioni nel suo organismo bancario,
che l'esperienza ha riconosciute indispensabili per la sicura è
durevole prosperità di tali istituzioni. Egli, fra le altre, permette,
anche per quelle banche che vogliono essere registrate nella nuova
legge prussiana, di costituire il capitale proprio mediante azioni
dei soci individualmente, ma prescrive anche che il dividendo non
oltrepassi il 6 per cento, che le singole azioni sieno di 60 marchi,
che ogni socio non ne possegga più d'una, propriamente una.
Laonde lo spirito altamente democratico e popolare di queste
banche non muterà, pur mutando la parte formale di più di una
tra esse.
E questo appunto è ciò che intende fare il prof. Gustavo
Marchet di Vienna, del quale faremo fare la conoscenza a
quei lettori cui fosse ignoto. Non solo lungo i paesi del Reno,
nell'Assia e nella Westfalia, ma anche nell' Austro-Ungheria la
questione del Credito Agrario s' impose ai governanti in tutta la
sua gravità ed estensione. I piccoli possedimenti pelle ragioni già
espresse, vanno anche là subendo gravi perdite, e nella concorrenza
della Russia appena resistono i grandi coltivatori. Laonde da più «^
anni si discute nelle accademie e nei circoli d'economia agricola,
sui modi onde venire in aiuto al piccolo proprietario, e guaren-
tirne l'esistenza di fronte alla minaccia di assorbimento da parte
della grande industria agricola.
11 prof. Marchet è da più anni un caldo apostolo della que-
stione agraria; versato profondamente in agronomia, di cui pro-
fessa r insegnamento all'accademia di Vienna, e praticissimo
delle condizioni delle classi agricole austriache, ha avuto più
d'una occasione di pronunziarsi circa i mezzi atti a risolvere il
problema in discorso. Ma tra i molti suoi scritti in proposito,
quello che meglio riassume i suoi concetti è il recente libro
« Dell'Organizzazione del Credito Agrario in Austria. » Zur orrja-
ìiisation des landwirthschaftlichin Credifs fur Oesterreich, che
fu oggetto di lunghe discussioni in seno ai circoli e comitati
Raiffeisen) als grùndlage eines in der Sitzung des Centralansschusses des landio :
Vereins, in Baden fur 1874, zu erstattenden Referatis Karlsruhe, 1845.
M. Marklin, Vber vorschuss Vereine und Darlehnscassen fur Landwirthe^
Karlsruhe, 18~4.
Rheinische Wochenschrift fnr Land-Volksicirthschaft, redigirt von Capaiin-
Karloica, Jahrgang 1814, N. 9, 10, 35, 36, 44, 48, 50, 51, 52.
Zeitschrift des Landwirthschfdtlichen Vereins fitr Rheinpreussen. Tutta
Tannata, 1868.
VoL. XIV, Serie II — 15 Aprile 1819. 46
738 I>EL CREDITO POPOLARE.
pegl' interessi agricoli, e che ebbe finalmente l'appoggio del go-
verno. Il concetto da cui partono le proposte della nuova orga-
nizzazione del Credito Agrario, è informato essenzialmente ai
principii fondamentali delle Banche di Kaiffeisen, e si allontana
soltanto in quelle parti di esse che egli crede suscettive di una
più sicura base, che egli stesso s'appresta ad erigere nelle varie
innovazioni che suggerisce
Il prof. Marchet si recò nel 1872 a studiare sul luogo le asso-
ciazioni Eenane e di ritorno in Austria si fé' caldo propugnatore
delle idee di Kaiffeisen. La prima occasione di successo gli venne
offerta dal Congresso Agrario del 1873 in cui vi erano i rappre-
sentanti di tutte le Società Agricole {Landwirthscììaftliche Ge-
sellschaften) dell'Austria e dell'Ungheria, ed inoltre molti rag-
guardevoli personaggi inviativi espressamente dai governi dei
due paesi.
Il Congresso mise in rilievo 1' importanza ed urgenza della
questione del Credito Agrario, e soprattutto della sua organiz-
zazione sovra la base della responsabilità solidale dei soci che
ne abbisognano ; e fece voti in modo particolare per la costituzione
anche per le classi agricole dell'Austria, delle istituzioni Kenane,
di cui il prof. Marchet si era curato di spiegare l'organismo e
funzioni relative ai numerosi membri del Congresso.
Di tal voto si adombrarono anche nell'Austria-Ungheria i
fautori delle Unioni Cooperative a sistema di Schulze Delitzsch
che, come vedemmo, sono ivi rappresentati dal dott. Ermanno Ziller,
noto ai nostri lettori, il quale fedele com'è ai principii del suo
Maestro, ripetè contro Marchet le censure che Schulze aveva
propalate contro Kaiffeisen. E fattasi vivace la disputa, i parti-
giani delle Unioni di Ziller, adunatisi in assemblea generale,
emisero un voto di biasimo contro la deliberazione del congresso
del 1873 \
La questione mise capo al Ministero d' Agricoltura per ve-
nire all'organizzazione del credito agrario, che pure è una lacuna
nelle Unioni cooperative, e presero parte alle discussioni vari
personaggi eminenti, fra cui l'istesso professor Marchet che for-
mulò proposte ed anche uno statuto che il Ministero discusse.
Anzi il Marchet volle stendere la mano ai suoi avversari e pre-
parare il terreno alla conciliazione con un suo dotto scritto pub-
• V. Die Raiffetsen, Schen Dariehncassen Vereine auf dem vierten Allge-
*neìnen-Vereinstaffe. Von Hermann Ziller, Wien, 1876.
DEL CREDITO POPOLARE. 739
blicato nei {Landesjahrhiicher) Rivista delV Agricoltura Scien-
tifica diretta dal chiarissimo von Natliasius, dove, dopo avere
lungamente insistito sulla necessità del credito ai piccoli proprie-
tari agricoli, enumera e critica i principali tentativi fatti fin
qui per venire in loro aiuto. Dimostra come la sua organizza-
zione ha per base i principii di Schulze Delitzsh, ma ha duopo,
in vista degli scopi speciali da conseguire, d'allontanarsi alquanto
nell'applicazione, specialmente pella prescrizione dei tre mesi sa-
cramentali nella concessione dei prestiti, che non corrisponde punto
alle esigenze dell'agricoltura.
Noi desideriamo vivamente che questi uomini altamente one-
sti e benemeriti della cooperazione Schulze e Kaifi^isen, Ziller e
Marchet finiscano per intendersi ad armonizzare quanto havvi di
buono nei due tipi di banche per raggiungere lo scopo, che senza
•dubbio è nella mente di tutti essi. Intanto il mondo economico
prosegue il suo cammino, e pe'piccoli agricoltori i fatti danno di
più in più ragione alle Darlelmcassen come in Germania, così
nell'Austria- Ungheria.
Nell'Ungheria, malgrado le sue tante Unioni Cooperative di
credito, si è dovuto costituire Der Landes VolJcs-Bodencredit
Verhand per venire in aiuto al bisogno di credito dei piccoli
proprietari Kleingrundhesitzer. È una vasta associazione di pic-
cole Unioni sparse nei vari paesi e villaggi del regno allo scopo
esclusivo di diffondere il credito tra le classi agricole^ ed ha la
sua sede centrale a Budapest. Grli statuti hanno un fondo orga-
nico che si può considerare come il Trait-d' union tra le asso-
ciazioni sostenute da Schulze, e le Darleìmcassen di Eaiffeisen.
E già prossima la presentazione al Eeichsrath di un progetto
di legge concernente l'ordinamento e giuridicità degli atti ed ope-
razioni di questa grande organizzazione di credito agrario. Go-
verno e Parlamento si adoprarono fin dalla sua origine a conso-
lidarne le basi con sovvenzioni non fruttanti interesse, e non è a
dnbitare delle sollecitudini che si porranno dai Deputati Unghe-
resi per assicurare a tale istituzione mediante il nuovo progetto,
una esistenza tanto solida quanto duratura e benefica per le condi-
zioni economiche della piccola agricoltura dell' Impero Austriaco
e dell'Ungheria in specialissimo modo.
E qui il nostro pensiero, come lo scopo di questo modesto
scritto, si porta all'Italia, cosi eminentemente agricola, ma scarsa
di spirito di associazione nel bene, scarsa d'istruzione, specie nelle
campagne, onde più che a giovare allo Stato le popolazioni son
740 DEL CREDITO POPOLARE.
tratte a giovarsene, e scarsa pur anco di legislazione in fatto di
credito popolare, ma più particolarmente di credito agrario. 11
nostro clima privilegiato, ci fa sentir meno la concorrenza agri-
cola della importazione, tranne sulle sete dove i salari agricoli
vanno equiparandosi coi salari chinesi e giapponesi, e né anche
i grandi proprietarii s'impongono ai piccoli, se tuttora lamentiamo
l'ozio dei latifondi, senza dire che un sistema disuguale d'imposte
muta da provincia a provincia le condizioni dell'agricoltura. Ma di
quanto non potrebbero migliorarsi le sorti dei piccoli possidenti,
e dei piccoli affittuari ! E i contadini non potranno aspirare mai
alla proprietà come gli operai industriali vi aspirano per via d'una
migliore distribuzione del capitale? In queste gravi considera-
zioni ci confortp. l'inchiesta agraria votata e rinforzata con tanto
patriottismo dai due rami del Parlamento; ci conforta il vederne
alla testa il senatore Jacini, un senatore campagnolo all'inglese,
ed altri benemeriti membri delle due Camere. Lodiamo il con-
corso aperto agli studii, e vorremmo che un eguale concorso si
aprisse per le iniziative locali nel campo di azione. L'aristocrazia
non saprebbe trovarne uno migliore per mantenere il posto de-
gno ed elevato che può competerle nella società moderna, e la
borghesia compirebbe nel campo economico, la parte grandissima
che essa sostenne nella nostra redenzione politica.
(Continua)
Alessandro Rossi.
RASSEfiM DELLE LETTERATURE STRANIERE
Il Canzoniere di Heine rifatto per la terza volta italiano da B. Zendrini. — Goethe
e Schiller. — Poesie dell'Uruguay. — Racconti andalusi. — Studi sugli idiomi
de' Pirenei. — Studi biografici del Lovenjoul, dell" Haussonville, del Cuvillier
Fleury; Memorie della duchessa di Chateauroux ; La Corrispondenza del Ber-
lioz. — I discorsi del Thiers. — II ^arto volume della Storia di Firenze del
Perrens. — Storia d'ell'Austro-Ungheria.
« A Tulio Massarani che primo rivelava Enrico Heine all' Italia » il
professor Zendrini volle che fosse dedicato il monumento piil sicuro ch'egli,
traducendolo, eresse alla gloria del poeta umoristico tedesco. L'esempio
dello Zendrini poi non rimase infecondo; altri tre o quattro nostri poeti
e de' migliori entrarono nell'arringo e vi colsero qualche alloro, riuscendo
talora a dimostrare che il meglio a chi vuole è possibile sempre. Ma cia-
scuno si limitò a un piccolo saggio di versioni. Nessuno, come lo Zendrhii,
misurò tutto il campo ; nessuno s' immedesimò quanto lui ne' pensieri,
ne' sentimenti, nella vita dell' Heine ; nessuno lo intese meglio, se pure
alcuna volta la forma italiana gli si è alquanto ribellata. Ma egli ha fatto
quanto potè per domarla, e vi è spesso riuscito. La prima versione ci
aveva dato un Heine fedele, ma un po' disuguale, talora leccato, talora
volgare e disarmonico; la seconda edizione ebbe de' ritocchi felici; la terza
che ci è venuta tra le mani, senza che possa dirsi perfetta, segna ancora
uu notevole progresso. Lo Zendrini, sebbene ei l'abbia quasi tutto in mente,
rimeditò pagina per pagina il suo difficilissimo testo, per coglierne il
senso più preciso; ha poi studiato molto nella Valdinievole e nella Mon-
tagna Pistoiese e sui libri del valente Giuliani la maniera insieme naturale
ed elegante di significare un pensiero poetico. Di questo studio utilissimo
si vedono traccio luminose qua e là nel nuovo suo libro, il quale è tanto
più heiniano, quanto meglio combina insieme le due qualità poetiche pro-
prie dell'Heine : la brevità elegante e la limpida naturalezza. Chi s' è
provato a tradurre le poesie dell' Heine sa quanto è difficile riuscirvi
meglio dello Zendrini; il che non vuol dire che lo Zendrini stesso creda
742 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE,
già compiuta l'opera sua, alla quale egli viene anzi prodigando nuove
carezze ad ogni nuova edizione. Se lo Zendrini non ci ha dato ancora tutto
Heine, la miglior parie di lui, quella che più ci preme conoscere, è in questa
sua versione italiana, che l'acume ed il buon gusto del traduttore perfe-
zioneranno sempre senza guastarla. L'Heine ha nelle sue brevi strofette
rappresentati tutti i dolori, tutte le illusioni, tutte le malizie, tutte le
ipocrisie del nostro tempo ; il suo scherzo non è mai lieve ; egli stesso lo
ha detto:
« Mio Dio ! senza saperlo ho detto
In via di scherzo ciò che avea nel core. »
Vivo, potè farsi odiare per la sua sincerità, alcuna volta un po' cinica;
morto, la sua poesia assume innanzi alla nostra mente un carattere più
grave, più solenne, e quasi tragico; in questo senso può sempre ripetersi
il bel verso scultorio dello Zendrini :
« Il morto Enrico poetava ancora. »
Le scimie dell'Heine sono insopportabili, perchè si sono ridotte a far la
caricatura d'un solo uomo; l'Heine invece ha fatto, piangendo, la carica-
tura di tutto il suo secolo. La sua gran commedia lirica fa piangere
quanto il dramma più lacrimoso. Voltare in modo preciso, in lingua poe-
tica, ogni motto di quella commedia è lavoro arduo; ma lo Zendrini è
riuscito il più delle volte a provare che non è impossibile, e che anche
la lima può talora far miracoli.
Dissi che il momento comico-dramm'atico della poesia tedesca mi pare
sia rappresentato dall' Heine; così il periodo epico è segnalato dalla gloria
del Goethe e dello Schiller. Questi due giganti della letteratura tedesca,
la testa ed il cuore della Germania ideale, sono divenuti oggetti di culto
da oltre un mezzo secolo. Lo studiare il Goethe e lo Schiller è divenuto
in Germania una professione, come lo studiar Dante in Italia, Shakespeare
in Inghilterra, e Omero in tutto il mondo civile. Dopo tanto studiare
che se ne fa, dopo tanto rifrugare d' archivi pubblici e privati e di
biblioteche, dopo tanto meditar sopra le opere del Goethe, dello Schil-
ler e de' loro contemporanei, è malagevole, nell'anno 18~9, lo scrivere
intorno a que' due grandi scrittori, con la speranza di dir qualclie cosa
di nuovo. Ma la loro vita ideale fu così varia e così originale, che
l'esporla in modo ordinato, semplice e fedele è opera non facile e però
non poco meritoria a chi la intraprende. Dopo tutto, quando amiamo
assai uno scrittore, ce ne formiamo un tipo che non vorremmo veder più
diminuito od alterato da alcuna critica; le novità demolitrici irritano inu-
tilmente il lettore che s'è avvezzato ad ammirare nel Goethe una specie
di titano che ha data veramente la scalata a Giove Olimpico, e nello
Schiller un angelo. Vi può essere un grado diverso nell'ammirazione ; ma
il consenso ammirativo è unanime. Nessuna meraviglia pertanto che un.
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 713
nuovo libro sul Goethe e sullo Schiller, anche fatto da un professore d'uni-
versità, si astenga quasi intieramente dalla critica, per esporre soltanto,
con accento animato ed entusiastico la vita dei due genii che compirono
in sé stessi non tanto il tipo ideale dell'uomo tedesco, quanto il tipo ideale
dell'uomo moderno. Il professor Boyesen, che ha pubblicato or ora presso
l'editore Scribner di Nuova- York un nuovo libro sul Goethe e lo Schiller,^
è un giovine norvegiano che incomincia a contare fra i primi scrittori
degli Stati Uniti. Le sue novelle Gunnar; A Norseman's Filgrimage;
Tales from two Hemìspheres gli aprirono le porte della Cornell Univer-
sity, ove egli insegna la letteratura tedesca, dopo avere studiato per alcuni
anni in Germania. Egli ebbe tosto cura di procacciare alla biblioteca di
quella università tutti i libri e articoli che da un secolo in qua furono
scritti sopra Goethe e Schiller, o quelli almeno ch'egli riusci a raccogliere;
egli ebbe pertanto nell' intraprendere il suo lavoro, per dire il vero più
narrativo ed espositivo che critico, fra le mani tutti i documenti più im-
portanti che gli permisero di scrivere una biografia compiuta de' due poeti
e di conoscere tutte le principali interpretazioni alle quali il poema dram-
matico del Faust diede occasione.
Dico biografia compiuta; ma debbo aggiungere molto compendiosa, e
in alcuni casi, soverchiamente. Cosi, per esempio, in un'opera speciale sul
Goethe, è troppo scarsa la menzione ch'egli fa delle sue relazioni col Manzoni
e con l'Italia: « Con l'Italia pure, egli scrive, Goethe mantenne una re-
lazione intermittente [desultonj) per mezzo del poeta Manzoni, della tra-
gedia del quale Conte Carmagnola egli scrisse una rassegna, come crede
il Goedeke, più con l'intento d'ammaestrare l'autore che per edificare il
pubblico; » giudizio incompiuto ed inesatto, essendo ben noto che il Goethe
esaminò la tragedia del Manzoni, senza saper nulla dell'autore, col quale
entrò soltanto in relazione, dopo che il Manzoni ebbe letto quel magni-
fico articolo e scrisse al Goethe la famosa lettera della quale il professor
Boyesen non sembra aver conoscenza.
Dall'America del Nord ove mi trattenne un istante il prof. Boyesen
siami lecito fare una breve escursione nell'America meridionale, a Monte-
video, ove, a beneficio del monumento dell'Indipendenza della Repubblica
dell'Uruguay s'è pubblicato un bell'Albo di poesie uruguayane. Mancavano
alcune migliaia di lire per coprire le spese del monumento, non s'aveva
coraggio di cercar nuovi soscrittori o di molestare una seconda volta gli
antichi; si ricorse pertanto ad un mezzo indiretto di far danaro, si aflJdò
ad un egregio scrittore dell'Uruguay, Alexandro Magarihos Cervantes, autore
di versi lodati (tra i quali specialmente quelli raccolti sotto il titolo: Las
Brisas del Piata), e di un volume importante di studi storici, politici e
' Goethe and Schiller, Their lives and works, includmg coinmentary on Goe-
the's Faust; 1879.
744 RASSEGNA DELLE LETTEKATURE STRANIERE,
sociali sopra il Rio della Piata, l'incarico di mettere insieme un'antologia
poetica degli scrittori dell'Uruguay. Il Magarinos Cervantes vi ha pure
meritamente fatto posto a sé stesso, e ch'egli non vi sia un intruso ba-
sterebbero a provarlo le due brevi graziose strofe seguenti intitolate: Il
Dubbio (Duda) :
Donde acaba la vida ?.... do la muerte ?
Al morir viaja el houibre peregrino,
Y mejorando ea ser, eu forma, y suerte,
De astro en astro prosigue su camino ?
0 sin romper el misterioso lazo,
Que encadena a la tierra al alma humaaa,
Reuace de la tumba ea el regazo,
Ayer fior, ave boy, miiier mariana ?
che il giovine poeta italo-americano Giovacchino Odicini Sagra ha tra-
dotto cosi:
Dove la vita ha fin ? dove la morte ?
Viaggia, morendo, l'uomo peregrino,
E migliora, nell'easer, forma e sorte,
D'astro in astro seguendo il suo cammino ?
O, sempre avvinto al laccio misterioso
Che incatena alla terra l'alme umane,
Della tomba rinasce nel riposo,
Ieri augello, oggi fior, donna dimane?
Sono oltre sessanta i poeti uruguaiani chiamati a contribuire a questa
raccolta e ben SSó le poesie che vi furono accolte, hi tutte si può dire
esservi un sentimento elevato, e la massima parte di esse è consacrata a
celebrare la libertà e la grandezza della patria; ma l'originalità vi è
scarsa, e la dizione che dovrebbe essere poetica riesce spesso volgare; i
Juan Cruz Varela, autori delle belle ed inspirate strofe intitolate America
sono rari pur troppo. Da una regione del mezzogiorno parrebbe lecito at-
tendersi maggior ricchezza d'immagini colorate; tuttavia, e per lo scopo
al quale fu destinato e che venne già felicemente raggiunto, del che si
deve particolarissima lode allo zelo del Magarinos Cervantes, e per l'af-
fetto che quella splendida terra americana inspirò sempre agli Italiani, un
albo di poesie dell'Uruguay dev'esser il benvenuto fra noi; che, se non può
darci un'idea superlativa di quel Parnaso, ci dimostra un forte consenso
di quei poeti in un pensiero dominante che inspirò il canto del Magarinos
Cervantes con cui la raccolta si chiude: Educar es redimir.
Ma, tra gli scrittori moralisti i più morali riescono ancora sempre
quelli che, invece di recitar sermoni ai viziosi, si contentano di pungere
lievemente i vizi. Queste lievi punture sono pur sempre le più efficaci.
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 745
Come non si può riformare il mondo in un giorno, così è quasi pena per-
duta l'assalto che si dà in certi scritti all'umana nequizia ed all'umana
corruttela. INIa una satira discreta che ferisca in ogni lettore una sua par-
ticolar debolezza e lo inviti a riderne seco stesso è spesso grandemente
benefica. Chi potrebbe, per un esempio, immaginarsi" un Don Chisciotte
scx'itto sul serio, ove, invece d'una piacevole rappresentazione umoristica
del cavaliere, si venisse con una severità magniloquente di linguaggio di-
mostrando gli errori ed i torti della cavalleria? Noi ridiamo volentieri leg-
gendo il racconto immortale del Cervantes; ma, dopo avere ben riso, chi
oserebbe ancora darsi aria di paladino? A questa grande scuola del Cer-
vantes sembra pure essersi educato uno dei migliori scrittori spagnuoli
contemporanei, il novelliere, critico, storico e uomo politico Giovanni Va-
lera, uno degli otto spagnuoli eminenti che vennero in Italia a recar l'in-
felice dono della corona di Spagna al nostro duca d'Aosta. L'editore Cal-
maun Levy ha ora dato alle stampe una versione francese dei due bellissimi
racconti andalusi del Yalera, il quale ebbe già la fortuna di esser compreso
e gustato da quel perfetto buongustaio e fine conoscitore della letteratura
spagnuola ch'era l'autore del Teatro di Clara Gazul e della Colomba.,
Prospero Mérimée, ed ora, tradotto in francese, rendiirà tosto popolare il
noma del Valora a tutti 1 lettori europei Quanta malizia nella ingenuità,
quanta ingenuità nella malizia delle lettere che Don Luis De Varga, il
quale crede avere una forte vocazione pel sacerdozio, scrive al proprio
zio-prete! Quanta destrezza nel descrivere i progressi della passione del
giovine seminarista in pericolo di dannarsi per la bella vedova Pepita
Ximenes ! Quanta semplicità e naturalezza nel racconto ! E qual eccellente
argomento per una bella commedia di costumi e di caratteri! L'autore ha
un'arte così fine nel mostrarci i vezzi della bella Pepita, che il lettore non
solo assolve il giovine santo fallito che cede alle grazie della bella anda-
lusa, ma quasi sente d'amarla per proprio conto. Nelle Illusioni di Don
Faustino vogliono che l'autore abbia rilevato alcuna delle impressioni ed
avventure della sua gioventù ; checché ne sia, vi è un'analisi profonda di
sentimenti, che può cosi bene l'appresentare soltanto chi li ha bene stu-
diati e forse sperimentati in sé stesso.
Molta parte della nostra miseria é nei nostri propri sogni, e l'obbligarsi
qualche volta a non sognare é uno de' mezzi più sicuri per procurarsi
uno stato di tranquillità relativa che può scambiarsi con la felicità e in
alcuni casi divenire felicità perfetta. 11 sognatore Faustino è il migliore tra
i personaggi del secondo racconto del Valera; ma ciò non toglie che egli
riceva una palla nel cuore, e che gli sopravvivano, invece, quelli che piglia-
no il mondo qual è senza curarsi troppo di quello che potrebbe o dovrebbe
divenire. Ma, come avvertiva già il Mérimée, anche al di là de'Pirenei gli
uomini son divenuti più seri, le passioni si sono calmate, e si è quasi disim-
parato a far l'amore ; la poesia della vita se ne va, e in breve non si troverà
746 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
sopra la terra, altro che Parnaso ed Elicona, un solo rifugio domestico, un
solo asilo pietoso per ricoverarla. Manco male quando e dove si compensa la
povertà del sentimento con la poesia sovrana del pensiero, dove, nel difetto
della foga irrompente, degli ardori simpatici, della simpatica baldanza de'gio-
vani si mostra almeno una gioventù studiosa! Questa gioventù si trova ora
dove parrebbe che fosse meno da ricercarsi, nella parte più meridionale della
Francia, ove, da alcuni anni in qua, si promuovono con una singolare alacrità
le indagini linguistiche, ben guidate da eccellenti maestri. Uno di questi mae-
stri è Achille Luchaire « maitre de conférences d'histoire et de langues de la
Franco meridionale », presso la facoltà letteraria di Bordeaux. La sola esi-
stenza di una cattedra speciale come quella che copre il Luchaire a Bordeaux
ci mostra come l'indirizzo di quegli insegnamenti sia pratico. Mentre che il pro-
fessor Combes espone la storia della Francia e della Germania nel secolo deci-
motta vo, e spiega gli storici antichi, il Luchaire narra la storia della riunione
dei paesi di lingua d'Oc al dominio regio, prepara i giovani all'aggregazione
di storia, e studia con essi gì idiomi parlati ne Pirenei Frutto di questi studi
è ora un bel volume pubblicato a Parigi dal Maisonneuve sotto il titolo di :
Études sur les idiomes pyrénéens de la rcgion frangaise. Precede una
dotta introduzione sopra le antiche popolazioni dell'Aquitania, le quali,
secondo l'opinione autorevole del Luchaire, avrebbero, prima dell invasione
romana, parlato la lingua basca, ad eccezione dei Biturigi Vivischi fondatori
della città di Bordeaux, i quali, com'egli ha dimostrato in una nuova recen-
tissima dissertazioncella inserita nel primo fascicolo degli importanti An-
nales de la Faculté des lettres de Bordeaux, appartennero certamente, pel
loro tipo e pel loro linguaggio, alla stirpe celtica Segue una nota di ben 241
nomi di uomini, donne e divinità delle antiche popolazioni aquitane tolti dalle
iscrizioni romane, che diviene base d'uno studio importante fonetico-gram-
maticale, scopo del quale è principalmente distinguere gli elementi aquitani
dai gallici, per arrivare, dove è possibile, alla conclusione che nella maggior
parte di que' nomi domina l'elemento aquilano; ma, nel maggior numero
di casi, lo stesso dotto autore è obbligato a convenire che ritrovandosi gli ele-
menti medesimi nei due gruppi linguistici, ogni sentenza definitiva riesce
prematura. Il Luchaire ci spiega tuttavia questo fenomeno, che non gli paro
pregiudicar punto la sua tesi principale; « È innegabile, egli scrive, che i
nomi indigeni de'marmi pirenaici appartengano, nella loro gran maggioranza,
all'antico gallico Questo risultato si spiega in parte ove si pensi che il mag-
gior numero delle iscrizioni studiate proviene dalle valli del Comminges, ove
l'elemento tectosagio dominò, come vi prevalse più tardi l'elemento romano
a motivo delle vicine acque minerali e delle grandi cave di marmo. L'assen-
za 0 povertà delle iscrizioni funebri nel maggior numero delle valli pirenai-
che dipende dagli usi de' primitivi aquitani, i quali non seguirono il costume
romano o gallo-romano d'incidere sul marmo un ricordo del trapassato o i
loro voti agli Dei. Gl'indigeni aquitani de' quali le iscrizioni ci rivelano i
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 747
nomi erano in diretto contatto coi grandi centri gallo-romani e avevano adot-
tato i costumi de' conquistatori. Per un altro verso, dobbiamo riconoscere
che il predominio de' nomi gallici può essere indizio d'un fatto che abbiamo
già esaminato: la celtiflcazione già molto spinta dell'Aquitania quando i
Romani se no impadronirono. Tuttavia la presenza su questi marmi di uno
scarso numero di nomi di origine ibero-euscarica attesta la persistenza della
nazionalità aquitanica, la quale tante altre testimonianze ci mostrano aver
soprav\'issuto alla conquista latina e conservato, in certo modo, la sua esi-
stenza particolare in mezzo ai paesi gallo-romani. » Checché ne sia del basco
delle antiche iscrizioni, la sua vitalità e originalità spiccata è indiscutibile.
Esso è ancora parlato in Francia da 140,000 persone. Il Broca da prima e
poi con molto maggior precisione il principe Luciano Bonaparte hanno trac-
ciata la carta linguistica dei Baschi. Il Luchaire ci dà oggi i risultati delle
ultime indagini etnografiche, geografiche e linguistiche sopra i Baschi, dalle
quali si rende manifesto che essi hanno forse guadagnato in intensità ciò
che perdettero in estensione, e che se la loro zona è assai ristretta, su
quella zona vivono con fisionomia propria molto indipendente. Il Luchaire
esordisce con una specie di bibliografia della lingua euskara o basca, nel
secolo XVI; quindi intraprende la classificazione ed una breve analisi fone-
tica, grammaticale e lessicale di quella lingua. « L'euskara, scrive il
Luchaire, deve essere classificato, per un verso, fra le lingue agglutinanti;
per l'altro, si colloca particolarmente nel gruppo delle lingue uralo-altai-
che ed in quello delle lingue americane. Il processo de' suffissi nominali
e della composizione verbale che fanno del basco un idioma isolato fra le
lingue a flessione che lo circondano e gli sottraggono, a grado a grado,
qualche cosa, costituiscono pure il carattere delle lingue dell'Indostan me-
ridionale, delle lingue della Sib3ria, della Russia del nord, dell'Africa e
dell'America settentrionale. Si potrebbe dunque dire che il basco è isolato
geograficamente, ma non linguisticamente, come lo si può dire dell'un-
gherese. » Io non credo che siasi mai con maggior brevità definito più
chiaramente e più scientificamente il vero carattere del basco, il quale, a
malgrado de' suoi caratteri speciali storici, merita oramai di essere stu-
diato in armonia con le altre lingue agglutinanti, il che venne già fatto
in parte dal principe Bonaparte che comparò il basco con le lingue fin-
niche, dall'Hovelacque che lo riscontrò col magiaro, dal Chareucey che
lo pose in raffronto con l'algonchino e con le lingue americane in genere,
dal Yinson che lo studiò con le lingue dravidiche. I turanisti, altaisti, ame-
ricanisti avranno ora dunque nel volume del Luchaire un nuovo eccita-
mento ad approfondire le loro indagini sul basco, il quale cessa di essere
un' isola linguistica per entrare e far parte anch'esso di una numerosa
famiglia di lingue.
Nella seconda parte dell'opera del dotto filologo di Bordeaux, ove si
studia distesamente la lingua guascona, e i dialetti speciali del Béarn,
748 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE,
del Bigorre, del Commi nges, del Couserans, della Linguadocca e della
Catalogna, troveranno nuovo pascolo a importanti osservazioni i romani-
sti, non solo perchè il Luchaire stesso può esser loro un'ottima guida, ma
perchè matte loro sott'occliio molti documenti di letteratura dialettale i
quali li mettono in condizione di intraprendere nuove e proprie indagini,
che ci avvicineranno sempre più al sentimento di quell'unità linguistica
cli'è una delle conquiste come delle consolazioni del nostro tempo, in cui,
per opera della scienza va man mano cadendo alcuna di quelle antiche
barriere che tenevano fin qui divisa 1' umanità; del che si sentiranno
col tempo, i beneflcii anche nella politica. Ne vogliamo indicare un esem-
pio. Per quanto considerata sotto l'aspetto slavo la simpatìa nata in
questo secolo fra Turchi ed Ungheresi possa sembrare un danno e quasi
uu regresso, contemplata da una maggiore altezza ideale è, invece, un
vantaggio, un trionfo umano. Due famiglie d'una stessa stirpe erano vicine
e rimasero per molti secoli senza avere alcuna coscienza della loro paren^
tela; gli studi linguistici hanno nel secolo nostro provato che Turchi
e Magiari appartengono alla stessa stirpe; il popolo ancora non lo sa,
né in Turchia né in Ungheria ; ma le persone colte ne' due paesi non
ignorano questa scoperta linguistica, e, poiché sono esse che fanno la poli-
tica, le due politiche si sono avvicinate e ne hanno quasi formata una
sola. Tempo verrà forse in cui fra Turchi e Slavi si stabilirà quell'accordo
che già esiste fra Slavi e Finni, e che sarà possibile fra le due grandi
stirpi una perfetta intelligenza e convivenza Non é inutile frattanto che
siasi distrutto, per opera della scienza, se non tutti, almeno uno dei prin-
cipali motivi di odio che dividevano due popoli, i quali avvicmandosi e
conoscendosi di più, si odieranno meno, e avranno minori ragioni o pre-
testi di entrare in nuove guerre.
Come le lingue vanno man mano legandosi fra loro in una specie di
catena armonica, così le letterature; noi diffidammo gran tempo, per igno-
ranza, degli scrittori stranieri; ora che incominciamo a conoscerli ci me-
ravigliamo quasi nel vedere che essi sentono cosi spesso e talora pure si
esprimono come noi. Perciò vanno diminuendo sempre più nelle lettera-
ture i tipi nazionali; o, per lo meno, sotto la sottile parvenza del tipo
nazionale troviamo una salda compagine d'afìetti umani conformi, l'unità
fondamentale e universale del vero. Così avviene che ci sentiamo concit-
tadini del tedesco Goethe che concepisce la letteratura universale, e al
tempo stesso, con minore alterigia, ma forse con maggior persuasione
dell'autore della Comc'die humaine, di Onorato Balzac, che dedicava alcuni
desuoi lavori ad italiani, come il marchese Gian Carlo Di Negro '18:50,
V Elude de femme), il Puttinati 1830, La Vendetta , la marchesa Clara
Maffei (184-', La Fausse Maitresse'^, la contessa Bolognini nata Vimer-
cati (1838, Une fille d'Ève), il marchese Damaso Pareto (I8:f2, Le mes-
sage), Achille Deveria (1843, Honorine), Gio vacchino Rossini (1835, Le
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 74&'
contrai de mariage), il principe Alfonso Serafino di Porcifi (1838, SpZm-
deurs et misères des cowtisanes, etc), Michelangelo Caetani allora prin-
cipe di Teano ora duca di Sermoneta (1846-47, Les parents pauvres,
La cousine Bette, Le cousin Fons), la principessa Cristina di Bel gioioso
(1844, Gaudissart), la contessa Seraflna Sanse verino nata Porci a (1830,
Les employés). Questa curiosa notizia sopra le dediche del Balzac non ho
durato molta fatica a metterla insieme; ne ha tutto il merito un libro
bibliografico di Carlo di Lovenjoul pubblicato di recente dall'editore Lévy
e intitolato: Histoire des oeuvres de H. de Patóflc; si tratta niente meno
che d'un volume in 8° grande di ben quattrocento pagine, degno comple-
mento di tutta l'edizione delle opere del Balzac, scritte fra il 1822 e il
i850 e che formano ora ventiquattro grossi volumi. Scrittore più fecondo
del Balzac il secolo nostro non ebbe ; che, se può citarsi alcun autore che
abbia messo insieme un maggior numero di volumi di lui, quando si
pensi che tutto ciò che il Balzac scriveva gli usciva proprio dalla testa
e dal cuore, si comprenderà facilmente che la vera miniera inesauribile
era veramente il suo prodigioso intelletto. Niente dunque di più istruttivo
e di più attraente che questo catalogo in apparenza così arido de'nume-
rosi lavori del Balzac, ove son notati i suoi primi passi, i suoi pentimenti,.
i suoi ritorni, tutta la varia vicenda e fortuna de'suoi libri, e i nomi dei
principali critici che ne scrissero. Quanta parte di storia letteraria fran-
cese contemporanea si può studiare nella sola figura del Balzac. il quale,
sebbene fosse solito a far parte da sé, si versò pur tanto al di fuori e
interpretò tanta parte de'costumi e vizi del nostro tempo, che, con la sola
guida de'suoi libri, si è veramente iniziati alla parte più viva della com-
media borghese contemporanea.
I Francesi, che passarono per tanto tempo come il popolo più chauvin
dell'Europa, sono pur quelli che han fatto e fanno di più per divulgare, col
mezzo della loro lingua facile e chiara, ciò che vi ha di meglio nelle let-
terature straniere; e si potrebbe quasi dire che nessuno scrittore acquista
veramente fama europea s'egli non viene, in qualche modo, battezzato a
Parigi. È in tal modo che noi possiamo quasi dire d'aver conosciuto lord
Brougham e Guglielmo Prescott, dopo che il visconte D'Haussonville ne
parlò distesamente nella Revue des Deux Mondes. Gli Stati Uniti d'Ame-
rica possono vantarsi d'avere prodotto tre de' migliori storici del nostro
tempo, il vivente Bancroft, Guglielmo Prescott e Giorgio Ticknor. Il Ticknor
visse ancora tanto da poterci lasciare un prezioso ricordo del suo celebre
amico Prescott, e da questo ricordo il visconte d'Hausson ville derivò prin-
cipalmente lume per raffigurarci l'insigne storico di Ferdinando ed Isa-
bella, di Filippo li e della Conquista del Messico, morto or sono vent'anni,
morto sulla soglia della sua stanza di lavoro, ove desiderò che il suo ca-
davere fosse lasciato alcun tempo prima che venisse recato alla sua
estrema dimora. « Circondato, scrive il D'Haussonville, dalla sua moglie^.
750 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE,
dai suoi figli, dalla sorella prediletta che era stata la compagna e la con-
fidente dei suoi primi anni, dal suo vecchio amico Ticknor accorso al suo
capezzale, egli rese 1' ultimo spiro. Morire in mezzo a quelli eh' egli
amava, era una delie cose ch'egli aveva maggiormente desiderato. Nel
suo testamento si trovò l'espressione d'un voto singolare. Egli richiedeva
con insistenza che prima di essere trasportato al suo ultimo riposo, il pro-
prio corpo rimanesse alcun tempo deposto in quel gabinetto di lavoro,
ov'egli avea passato le ore più dolci della sua vita. La sua ultima
volontà fu religiosamente compiuta. Nello stesso giorno, la sua bara
veniva portata in chiesa e calata nel sotterraneo ove dormivano già
i suoi parenti e la flgliuoletta ch'egli aveva tanto amata, fra i sin-
ghiozzi degli amici e la commozione generale del pubblico, numeroso
più che sia possibile immaginarselo. Parecchie persone che avevano ve-
duto una 0 due volte soltanto nella loro vita il Prescott o che lo cono-
scevano soltanto di nome, aveano seguito fino all' ultimo il funebre cor-
teggio. » La tristezza era dipinta sopra ogni volto, ed era facile il vedere,
soggiunge qui il fedele biografo (Ticknor) al quale spetta qui l'ultima pa-
rola « che tutti avevano perduto assai e che una luce cosi benefica come
splendida era stata spenta dalla mano della morte. » Morire cosi vai meglio
di tutte le clamorose dimostrazioni, di tutte le orazioni, di tutte le decla-
mazioni che sogliono accompagnare il trapasso degli uomini stimati grandi,
e il visconte d'Haussonville, che, oltre alla biografia del Prescott e del
Brougham, inserì pure in questo volume quelle molto attraenti della Sand
e del Michelet, ebbe ragione a trovare soverchio il rumore che si fece sul
sepolcro di quest'ultimo, del quale ci sembra tuttavia ch'egli siasi mostrato
critico troppo acerbo. È sempre ingiusta la critica biografica, quando im-
prendiamo a studiare gli uomini secondo un nostro tipo ideale, e non per
quello che essi sono e vogliono essere. L'indole del Michelet, la sua ma-
niera di scrivere poteva riuscire più o meno simpatica, secondo il vario
temperamento del lettore; ma egli scriveva troppo scopertamente, si ab-
•bandonava troppo ai propri sentimenti, perchè gli si possa far carico di
non avere avuto sempre queila temperanza, quel buon gusto, ch'è indizio
bensì di un'arte consumata, ma molto più spesso di una consumata ma-
lizia, della quale non parmi che il Michelet fosse capace. È evidente che
al D'Haussonville il Michelet non piaceva ; ma sarebbe egli giusto il rim-
proverare a lui il difetto di buon gusto, per aver detto con piena since-
rità e qualche volta con asprezza del Michelet ciò ch'egli pensava? Sta
bene che ad uno scrittoz^e si domandi sempre di scrivere com'egli sente e
che non si risparmi, quando egli, per ignobili ragioni, si allontani da questa
regola; la sincerità dev'essere la prima qualità di ogni scrittore; ora questa
qualità al Michelet non si poteva negare, e la critica dovrebbe solo es-
sergli severa per que' pochi casi ne' quali egli l'abbia tradita. Più impar-
ziale e più equo si mostrò invece il D'Haussonville nello studio biografico
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 751
ch'egli dedicò alla Sand; anzi la sua biografìa è riuscita intieramente af-
fettuosa e simpatica; lo amiamo meglio così, e lo troviamo, in quest'at-
titudine, molto più naturale e molto più eloquente.
11 Michelet definiva la bontà humble mot, grande cìiose; è cosa sin-
golare che tutti, anche i maligni, amano sentirne gli effetti, e pochi si
curano d'incoraggiarla, nessuno forse d'ammirarla. Uno scrittore profon-
damente buono corre spesso il rischio di non trovare chi lo legga; quindi
accade che tanti scrittori mettano un serio impegno nella malizia, e che
i più maliziosi siano per lo più i più fortunati. Tra questi può sicuramente
pigliar posto l'accademico francese Cuvillier-Fleury, il quale in un recente
volume pubblicato dal Lévy e intitolato T'osthurnes et Bevenanis ha raccolto
i vari suoi scritti pubblicati in questi ultimi anni, a proposito degli epi-
stolari e ricordi della Sabran e del Boufflers, della Geoffrin e del Ponia-
towski, della marescialla di Beauveau, del Lamartine, del Barrot, del
Doudan, di Daniel Stern, della Récamier e dell'Ampère, del Mérimée e delle
sue due inconnues. Egli danza in qualche modo e ride sopra le tombe.
Questo riso, quantunque fine ed elegante, non può essere sempre simpatico.
« J'ai donne, scrive l'autore, à ce recueil de quelques unes de mes études
de critique les plus récentes, un titre qui ne serait pas fait pour leur at-
tirer beaucoup de lecteurs, si les seerets d'outre -tombe n'avaient, par bon-
heur, un certain attrait de curiosité maligne et de plaisir défendu qui
leur procure très-vite la faveur du public. C'est mon humble confìance, en
dépit de mon titre et de mon épigraphe. » Questa sfida heiniana al lettore
si perdona all'Heine, ma non si giustifica in un membro dell'Accademia
francese che, a volte, s'è atteggiato anch'esso a scrittore grave, discreto,
prudente, e che se ha fama di uomo di spirito non è poi obbligato a spen-
derlo tutto a carico del suo prossimo, specialmente d'un prossimo che non
può più difendersi. È possibile che a molti lettori un po' cinici il modo con
cui il Cuvillier-Fleury discorre degli ultimi segreti de' morti possa parere
esilarante; ma sono persuaso che molti lettori avranno trovato nelle let-
tere, nelle memorie della Shabran, della Geoffrin. della Récamier, di Daniel
Stern qualche cosa di meglio di quello che vi ha cercato lo spiritoso,
senza dubbio, ma assai troppo maligno accademico francese.
Manco male quando la malignità de' commenti si esercita sopra lettere
e ricordi simili a quelli che troviamo nelle Memorie della duchessa di Cha-
teauroux e delle sue sorelle, esumate e rifuse in una nuova pittoresca nar-
razione dai fratelli Goncourt (Paris, Charpentier). Questi due ben noti illu-
stratori della storia segreta francese del secolo decimottavo ci fanno par-
lare con tutta la maggior sincerità i personaggi di cui ci raccontano le
gesta, gesta amorose e intrighi di corte per la massima parte; ma la storia
francese di quel tempo, la storia almeno delle corti, non ci saprebbe quasi
dar altro. Io ho già annunziato nelle precedenti rassegne le biografie della
Dubarry e della Pompadour; con la presente biografia si compie la trilo-
752 EASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE,
già storica che, col regno di tre donne, definisce e rappresenta tutto il lungo
e funesto regno di Luigi XV. I fratelli Goncourt intendono avere, con l'opera
loro, fatto qualche cosa di meglio che saziare una vana curiosità ; essi credono,
e certamente non s'ingannano, aver coi loro tre libri data una grande lezione
di storia. «La lezione, scrivono essi stessi, di questo lungo e rumoroso scan-
dalo sarà un avvertimento che la Provvidenza (veramente qui la Provvi-
denza è di troppo, e non si capisce, in verità, come scrittori credenti si com-
piacciano così spesso nel rendere la Provvidenza divina complice, per i suoi
alti fini, delle nostre azioni più basse e più vili; se il machiavellismo che
per i fini giustifica i mezzi è odioso sulla terra, quanto più non lo deve
essere nel cielo!) volle dare all'avvenire, con l'incontro in un solo regno di
tre regni di donne, e con la dominazione successiva della donna delle tre
classi sociali, della donna aristocratica: madame de la Tournelle; della
donna borghese: la Pompadour; della popolana: la Du Barry. Il libro che
lacconterà la storia di queste donne mostrerà come la cortigiana uscita
dall'alto, dal medio, dall' infimo ceto della società, come la donna col suo
sesso, le sue vanità, le sue illusioni, i suoi dirizzoni, le sue debolezze, le
sue bassezze, le sue fragilità, le sue tirannie e i suoi capricci, uccise la
monarchia compromettendo la volontà od abbassando la persona del re. 11
libro convincerà ancora le belle del secolo XVIII come autrici di un'altr'opera
di distruzione, dell'abbassamento e della rovina della nobiltà francese. Ri-
corderà come, per le loro pretese all'onnipotenza, per le viltà che richie-
sero ad una piccola parte di questa nobiltà, quelle tre donne annientarono
nella monarchia dei Borboni quello che il Montesquieu cliiamava giusta-
mente la molla delle monarchie : l'onore ; com'esse condussero alla rovina
la base d'ogni stato durevole, l'aristocrazia ; com' esse furono cagione che
la nobiltà francese, quella che le avvicinava come quella che moriva sui
campi di battaglia o dava esempio in provincia di virtù domestiche, in-
volta nella pubblica calunnia, nel pubblico disprezzo, arrivasse, al pari
della monarchia, disarmata e priva di corona, innanzi alla rivoluzione del
1789.5» Queste parole scrivevano insieme nel l«f)0 i fratelli Edmondo e
Giulio Goncourt; ora il solo fratello Edmondo le mantiene ristampando il
libro assai migliorato quanto alla forma e all'ordine della narrazione. Una
sola cosa essenziale mi sembra che il Goncourt abbia dimenticato di no-
tare, ed è che la più nobile delle tre grandi cortigiane di Luigi XV, la Mailly,
è finalmente stata la più volgarmente procace, la meno artista, la più in-
significante delle tre, se pure la men rovinosa e la meno rapace, quan-
tunque la più povera '. Delle sorelle di lei < madame de Vintimille »
e « de la Tournelle * si può dire soltanto che non valevano molto meglio
1 « Madame de Mailly, scrive il Goncourt, pprdant cinq écus au quadrille, ne
pouvait ies payer. Et ses amis s'entretenaient de ses chemises élimées et trouées,
de la tenue de pauvresse de sa femme de chambre, et plaignaient du fond de leur
coeur cette maitresse de Roi moins payée que la maitresse d'uà sous-fermier. »
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 753
di essa a malgrado del sentimentalismo della prima e della sua maggior
coltura letteraria che la faceva notare tra le cinque sorelle Nesle, e della de-
strezza della seconda, venuta a soppiantare, con la più fredda e cinica indiffe-
renza, la propria sorella Mailly. «11 semble, scrivono i Goncourt, qu'elle
pousse sa soeur par les deux épaules avec ces mots qui ont la basse ener-
gie des expressions du peuple » ; il suo egoismo la fece Duchessa di Cha-
teauroux ; il disinteresse della Mailly la fece esigliare dalla corte di Luigi XV;
ma la Touruelle doveva essere bellissima, a giudicarne dai ritratti e dalle
poesie del tempo, come dalla descrizione che ce ne fanno, con una diligenza
forse soverchia, i fratelli Goncourt.
Nel 1831 , il Mendelssolm, dopo avere conosciuto il giovine ar-
monista Berlioz, scrivendo ad un amico, lo definiva cosi: « Berlioz
è una vera caricatura, senz'ombra d'ingegno, che cerca a tentoni nelle
tenebre e che si crede il creatore d'un mondo nuovo; mi sentirei, ta-
lora, la voglia di divorarlo. » In queste parole si volle riconoscere la
malevolenza del rivale. Del Berlioz vivo fu già detto, ed io ripeto
sopra la parola di Daniele Bernard che ora si è fatto editore presso il
Lévy della sua Correspondance: « Il n'a pas le succès, mais il a la gioire »
E non sarebbe di certo piccola gloria per un giovine compositore l'avere
destata l'invidia (se fosse invidia e non disgusto) del Mendelssohn. Ora il
Bernard trova che il Berlioz morto ha pure, oltre la gloria, una parte di
quel succès che s'era negata al vivo, solamente perchè era un vivo : « Ber-
lioz vivo, egli scrive, aveva tutti gl'inconvenienti di quello stato di vivo ;
quantunque, per le sue frequenti malattie, egli desse molte speranze a
quelli che attendevano la sua scomparsa, egli occupava un posto nella
stampa, una poltrona all'Istituto, un palco in teatro, un certo spazio d'aria
spirabile ; e poi egli aveva un gran prestigio musicale, quantunque alcuni
critici s immaginassero di averlo distrutto per sempre, o, sebbene non ne
fossero essi stessi ben sicuri, si dessero aria di crederlo. Esistevano dunque
altre ragioni perchè Berlioz fosse assalito, discusso, calunniato da' suoi com-
pagni, che, avendo ingegno, non gli permettevano d'aver genio, o che, non
avendo né ingegno né genio si buttavano ad assalire indifferentemente
ogni seria riputazione pel solo infelice piacere di recarle danno Coronato
di veri allori all'estero, il Berlioz s'irritava nel sentir fra le foglie delle
sue corone trionfali le punture delle zanzare parigine, » Ora egli viene am-
piamente rivendicato; purché non sia troppo, purché lo zelo apologetico
non nuoccia alla giustizia stessa della causa che il Bernard imprese a di-
fendere, ma che vuol essere difesa con molta prudenza, studiando di evi-
tare sopra ogni cosa qualsiasi ombra di esagerazione; ora questo rischio
non ci pare che sia stato evitato sempre dall'autore della Notice sur Ber-
lioz., che mi sembra, se io non m'inganno, avere esagerato un poco, sul-
l'autorità sospetta della Gazzette musicale, al pubblico francese l'opinione
che l'Europa musicale aveva dell'insigne armonista francese. Ma, non te-
VoL. XIV, Serie li — 15 Aprile 1879. 47
754 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
nuto conto di ciò, o, per dir meglio, tenutone conto per leggerlo con mag-
gior profitto, la notizia sul Berlioz è piena di cose istruttive. Anche la nota
delle spese fatte dal Berlioz a Parigi per l'anno 1820 che fu il ventesima
terzo della sua vita, a fine di continuarvi i suoi studii in compagnia di un
amico farmacista, acquista importanza e potrebbe insegnar qualche cosa ai
nostri giovani d'adesso che a vent'anni sognano prebende e portafogli : < Certi
giorni sembrano essere stati terribili, in specie verso il fine del mese. 11 '29 set-
tembre, per esempio, i due studenti vissero con alcuni grappoli d'uva ; il 30,.
la loro spesa fu questa: pane 0 fr. 43 e sale u fr. 25 e; somma <i fr. 68 e.
Il primo di gennaio, giorno in cui tutti sono in festa, il Charbonnel, che
aveva senza dubbio, qualche amico in città, pranzò fuori ; Ettore lontano
dai parenti, privo d'amici, rimase solo innanzi ai tizzoni spenti del sua
triste focolare. In quel giorno ei rosicchiò quaranta centesimi di pan secco,
in attesa della gloria, e recitando alcuni versi di Tommaso Moore. »
Nel i83R, ossia dodici anni dopo, lo ritroviamo ancora poverissimo;
egli mostrò sempre il più sui^erbo disprezzo per la musica italiana ; e
pure, in quell'anno stesso, un musico italiano, Niccolò Paganini, fu il solo
che l'abbia compreso, ammirato e salvato dalla miseria, con la seguente
breve lettera, degna di un gran re.
« Mio caro amico, Beethoven estinto, non c'era che Berlioz che potesse
fìirlo rivivere, ed io che ho gustata le vostre divine composizioni degne di
un genio qual siete, credo mio dovere di pregarvi a voler accettare in
segno del mio omaggio venti mila franchi, i quali vi saranno rimessi dal
signor baron deRothschild dopo che gli avrete presentato 1' a^'clusa Cre-
detemi sempre il vostro aflfezionatissimo amico, Niccolò Paganini. (Parigi
il 18 dicembre 1838). »
Il Berlioz accettò lo splendido dono, e dedicò al < digne et grand ar-
tiste » italiano la sua sinfonia di liomi'o et Juliette e musicò l'ode del
Romani in onore del Paganini. Ma un altro italiano, Pietro Scudo, che fu
critico acerbo del Berlioz, pel biografo di quest'ultimo diviene un uomo
da nulla « un italien désagréable, qui avait échoué dans la carrière de la
composition et qui avait réussi dans la specialité du dénigrement de
Fècole francaise. » È evidente che il biografo segue nel proprio studia
tutti i sentimenti del Berlioz e li fa suoi; lo studio biografico è, in qual-
che modo, un compendio senza critica delle Memorie autobiografiche
dello stesso compositore ; convien dunque leggerlo, a malgrado della sim-
patia che desta o, più tosto, che vuol destare, con una certa diffidenza.
Quanto alle lettere stesse del Berlioz, che vanno dal 181 'J al 1808, sono tra
le più singolari che siansi mai scritte, ma forse più bizzarre e grottesche
che veramente originali.
Quanto a noi italiani, occorre molta pazienza per avvezzarci alle im-
pertinenze del Berlioz e parlarne ancora con moderazione, e non ripetere
per conto nostro le severe parole del Mendelssohn. dopo aver letto questa
EASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 755
apostrofe (p. 83) ; « 0 Italiens, misérables que vous étes, singes, orangs-
outangs, pantins toujours ricanauts, qui faites des opéras cornine ceux
de BeUini, de Pacini, de Rossini, de Vaccai, de Mercadante, quejouezdes
airs gais aux funérailles, qui pour un paolo... » Il Berlioz fa qui allusione
ad un caso successogli a Firenze, ove un becchino, per un paolo lo lasciò
entrare nella stanza mortuaria, e gli permise di toccar la mano d'una
bella donna morta, mentre che suo marito se ne stava in casa a piangere.
Di certo il marito non poteva immaginarsi l' impertinenza del forestiero
profanatore de'morti ; che se lo avesse potuto immaginare, qualunque italia-
no egli fosse, avrebbe assai probabilmente fatto provare allo strano visita-
tore qualche emozione di genere diverso. Io non ho qui per fortuna da dare
alcun parere sopra il Berlioz come compositore di musica ; ma l'armoni-
sta, che i suoi partigiani dicono uomo di genio, non ebbe di certo mai il
senso dell'armonia ne' suoi pensieri, ne" suoi sentimenti, nella sua vita Le
lettere gli conciliano tutt'altro che simpatia, ce lo mostrano un uomo
sempre nervoso, sempre eccitato, sempre agitato, sempre scontento, sempre
occupato di sé, facile ad irritarsi e a lasciarsi trasportare da un' imma-
ginazione fervida, vivace, ma disordinata, disuguale ed intemperante.
L'editore Levy ha pubblicato in tre grossi volumi in ottavo la prima
parte dei Discours parlementaires del Thiers. Questi discorsi messi in-
sieme dal senatore A. Calmon risalgono agli anni 18^0-'36, ossia al periodo
più splendido e più originale della vita politica del Thiers, Intorno a
quest'uomo insigne discorse qui distesamente e da pari suo il Bonghi. I
lettori di quella eccellente monografìa critica e biografica non avranno ora
discaro di sapere che s'è intrapresa una edizione completa de' discorsi del
celebre oratore politico. Il Calmon divide la vita politica del Thiers in
cinque periodi; l'uno va dal 1830 al 1836 (in esso il Thiers combatte per
difendere la nuova monarchia sorta dalla rivoluzione del 1830) ; il secondo
dal 1837 al 1848 (nel quale il Thiers vuol dirigere, ora come ministro, ora
come deputato, il governo del re, che deve regnare e non governare); il
terzo dal 1848 al 1«51 (il Thiers vi prevede il colpo di stato e mette
invano la Francia sull'avviso); il quarto dal 1863 al 1870 (anni ne' quali
il Thiers come deputato dell'opposizione rivelò, man mano, alcuni dei
grandi errori dell' Impero) ; l'ultimo periodo è il più noto e arriva fino
alla morte del Thiers. In questi discorsi avremo dunque senza dubbio,
una gran parte della storia contemporanea francese; sarà la voce ora
d'un testimonio, ora d'un attore, non sempre sincera ; ma le stesse malizie
oratorie gioveranno a colorire la storia de' nostri tempi. « I discorsi che
noi pubblichiamo ora, scrive il Calmon, furono pronunciati nel primo
periodo dal 1830 al 1836 inclusi vamente, fino al giorno in cui il Thiers,
allora primo ministro, trovandosi in disaccordo col re Luigi-Filippo sulla
politica da seguirsi per rispetto alla Spagna, si dimise. In nessun tempo,
salvo forse il tempo in cui presiedette la repubblica, il Thiers fu più
756 RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE.
spesso sulla breccia. Qual deputato, egli è il primo puntello del gabinetto ;
qual ministro, ne è il principale oratore, e non discute soltanto le materie
relative al proprio ministero, ma egli prende parte a tutte le discussioni
importanti sulla politica interna ed esterna, sulle finanze, l'amministra-
zione municipale e dipartimentale, i lavori pubblici, l'esercito, sulle que-
stioni commerciali, su quelle di diritto pubblico e di diritto internazionale.
I suoi discorsi sono modelli di chiarezza, di metodo, di sapere teorico e
pratico, di buon senso onde ogni giorno s'accrebbe la sua autorità come
oratore e come uomo di stato E i suoi emuli si chiamavano Guizot, Du-
pin, Broglio, Odilon Barrot, Berryer, Royer CoUard, di cui la palmola ma-
gistrale e venerata si faceva ancora di tempo in tempo sentire. Kon mai
la tribuna francese brillò di tanto splendore. In certi giorni, sopra una
questione particolare, quegli oratori eminenti possono uguagliare il Thiers,
ma nessuno lo supera, e il suo discorso sopra la legge delle associazioni
nel maggio 1834, quello recitato in occasione della interpellanza di gen-
naio, nel dicembre dello stesso anno, la sua risposta ai duca di Fi tz- James
e quella al Berryer nella discussione dell' indennità americana nell'aprile
1835, il suo discorso improvviso sull'alleanza inglese nel giugno 1836,
rimarranno fra i capolavori dell'eloquenza francese. » Ogni discorso è pre-
ceduto da una succosa notizia storica sopra l'occasione in cui nacque, il
modo con cui fu accolto dalla Camera, l'effetto che produsse e la sua
relativa importanza. Queste notizie non sono, di certo, il minor pregio di
questa importante pubblicazione storica.
È noto che il Thiers lavorava ad una storia della repubblica fioren-
tina, che non potè comlurre a compimento. L'opera da lui interrotta fu
ripresa con più largo disegno da un altro egregio francese, da un uomo
di molta erudizione, da un grave professore, che ama molto il nostro paese,
che conosce benissimo e scrive e parla la nostra lingua, con un certo sapore
di classicismo che si potrebbe desiderare in parecchi de' nostri scrittori. La
Nuova Antologìa annunciò già i tre primi volumi della sua Storia di Fi-
renze; ora è comparso il quarto che muove dall'anno 1313 ossia dalle
guerre contro Uguccione e Castruccio, e ci conduce Ano al 1358, ossia Ano
alla logge terroristica dei guelfi contro i ghibellini. Più il Perrens s'avanza
nel suo racconto, e più s' allontana da quella terra un po' incognita delle
origini fiorentine nelle quali era molto facile lo smarrirsi. Aiutato da più
copiosi e sicuri documenti, il suo racconto può camminare più spedito e
più disinvolto, quantunque la copia infinita di minuti particolari gli impe-
disca d' innalzarsi e di allargarsi in una storia artistica come potrebbe
desiderarsi.
La ricchezza de' particolari fa talora ingombro allo storico, e rende
alquanto grave la lettura continuata di questo lavoro d' erudizione. Ma era
lavoro necessario e da farsi, e il Perrens ha il merito d' averlo per il primo
tentato, per il primo accostando e mettendo in ordine cronologico tanta
RASSEGNA DELLE LETTERATURE STRANIERE. 757
copia di materiale storico sopra Firenze. Quando l'opera sua sarà compiuta,
e la critica storica avrà vagliato in un' ampia discussione tutti i materiali
adoperati dal Perrens, sarà agevole a lui stesso o ad altri il compendiar
tutta la storia di Firenze, in modo da animarla come un solo organismo
vivente. Intanto questo lavoro stesso rimane molto agevolato da parecchie
osservazioni critiche piene di finezza e vivacità con le quali 1' autore stesso
rompe di tratto in tratto l' aridità di una sterile enumerazione di fatti sin-
golari. Certe parti del racconto sono finite e potrebbero stare da sé come
un'ottima monografia; anche la peste di Firenze enarrata con destrezza,
se non con ampiezza, che non era richiesta dalla qualità dell' opera ; ed è
perciò più da felicitarsi che da rimproverarsi il Perrens per avere resistito
alla tentazione di aggiungere anch' esso un brano eloquente alla sua sto-
ria, emulando Tucidide, il Boccaccio ed il Manzoni ; egli non ha voluto
dare a queir episodio un'importanza maggiore di quella che abbia avuto
in realtà, e di ciò merita lode; il quarto volume si termina con alcune pa-
role simpatiche per 1' antica Firenze, le quali non possiamo ricordare, senza
che si svegli pure in noi un sentimento di gratitudine per le parole ge-
nerose in difesa della nuova Firenze che scrisse nell' ultima sua Chronique
italienne il nostro illustre amico Marco Monnier presso la Biblioihèqne
Universelle et Revue Suisse di Losanna.
Se la storia di Firenze repubblicana è difflcile a scriversi per la lunga
serie di mutazioni alle quali andò soggetta, molto più arduo era l'assunto
del prof. Luigi Leger, il chiaro slavista che insegna nella scuola superiore
delle lingue orientali viventi, il quale imprese per la importante l'accolta
di opere storiche diretta dal Duruy e pubblicata dall' Hachette, a scrivere
la storia dell' Austro-Ungheria, ossia di quel gran mostro politico protei-
forme che porta un tal nome.
Gli storici ufficiali austriaci, per lo più, escono di briga col darci
semplicemente la storia della dinastia d' Asburgo, dominatrice antica e più
o meno gloriosa e fortunata di popolazioni diverse. Ma poiché le ragioni
del principe furono quasi sempre in discordia con quelle de' popoli, quando
si sono bene rappresentate le ragioni e le vicende della dinastia dominante
non s'è ancora fatta la metà della storia dell'Austro-Unglieria, ove anche
il solo nome dello stato è indizio di una esclusione ingiusta. Ov'è una
Boemia, una Gallizia, una Croazia, una Dalmazia, un'Istria, una Transil-
vania in parte rumana, perchè mai l'impero deve chiamarsi Austro- Unga-
rico? Tutti vorrebbero vedere grandi e indipendenti gli Austriaci, i Ma-
giari, i Boemi, i Croati, i Polacchi, i Ruteni, i Rumani; e gli Italiani
vorrebbero molto naturalmente vedere rientrare in famiglia i loro fratelli
Istinani ; ma questa grandezza e indipendenza sono impossibili col dualismo
egemonico, che se prevale ora nella vicina monarchia non promette riuscir
durevole perchè contrario a natura. La stessa difficoltà che si troverà
sempre a mettere in accordo elementi così disparati, rende difficilissimo
758 RASSEGNA DE^^LE LETTERATURE STRANIERE,
allo storico dell'Austro-Ungheria il serbare unità di racconto. Il Legar su-
però o, per dir meglio, evitò questa difficoltà convertendo il suo libro in
una specie di trilogia storica, ove se la Polonia, la Croazia, la Romania e le po-
polazioni italiane dell'Austria rimangono sacrificate e neglette, noi troviamo
riunite tre storie speciali importanti, quella della Boemia, quella dell'Au-
stria, e quella deirUngheria. Non recherà meraviglia a nessuno che il dotto
slavista francese mostri maggiore simpatia per gli slavi che per i magiari,
e maggiore simpatia per i magiari che per gli austriaci rappresentati dalla
dinastia di Absburgo; se la causa dei vinti piaceva a Catone, le simpa-
tie del Leger si comprenderanno, anche senza tener conto del maggior af-
fetto che si pone a persone, cose, lingue, istituzioni che meglio si cono-
scono. Un italiano o un ungherese che avesse scritta la storia dell'Austria,
l'avrebbe forse concepita in modo alquanto diverso da quella del Leger;
tuttavia, poiché una simile storia in Italia non esiste ancora, e nessuna
storia straniera, oltre quella di Francia, ci tocca più dappresso, noi fac-
ciamo voti perchè alcun editore italiano ce la dia presto tradotta, in ita-
liano, con un supplemento di note per la parte che può riguardare par-
ticolarmente il nostro paese.
Angelo De Gubernatis.
RASSEGNA SCIENTIFICA.
La vita iatìma dei ragni e dei pipistrelli — Studi sugli stambecchi — Ricerche di
Bert e di Siragusa sull'anestesia chirurgica e sull'anestesia delle piante — Il
caffè di girasole -«- La psicologia tedesca moderna secondo il R.ibot — Lavori
recenti dell'Herzen.
Oggi il microfono ci permette di ascoltare il rumore profomlo della
circolazione del sangue fino nei piccoli vasi delle nostre dita ; vediamo di
applicarlo all'organismo della scienza per scoprirne i fremiti più celati, i
segni più nascosti del suo lavorìo interiore. Quando s'è fatta la somma di
tutte le unità organiche che formano la vita, si trova una cifra colossale
di milioni e di miliardi, ma l'energia palpita in ogni molecola di proto-
plasma, e gli atomi della vita son cosi piccini che nessun microscopio non li
ha ancora potuti scorgere.
Un atomo di scienza è l'opuscolo del prof Francesco Albanesi « Os-
servazioni sui ragni, Venezia, 1879 ; » ma pure quanto è interessante ! La
granata impertinente del nostro servo distrugge, senza saperlo, molti pic-
coli mondi di viventi, dove la morfologia e la psicologia troverebbero te-
sori di osservazioni. Amerei che le signore, quasi tutte nemiche mortali
dei ragni, avessero d'ora innanzi un po'di piet;\ per queste creaturine quasi
sempre innocentissime e che sono tanto curiose per le loro forme e i loro
costumi Ad esse anche noi uomini potremmo invidiare parecchie cose. Vi
sono ragni, che hanno due giri d'occhi sulla testa come tanti brillantini ;
altri ne hanno sei, quattro o due, ed ora son fissi come quelli delle mo-
sche, ora invece son mobili. I ragni filano tutti, ma ora riuniscono dieci
fili in un filo solo, ora tessono le loro tele con pochissimi elementi. Un
intiero volume non basterebbe di certo per descrivere tutte le forme dei
■loro tessuti. Col filo essi si difendono e col filo offendono, con esso scen-
dono, salgono 0 si portano orizzontalmente da un punto all'altro ; fanno la
casa e custodiscono le loro uova; e in questo superiori ai migliori tessitori
umani, portano sempre seco i loro telai e il filo con cui tessere le loro
stoffe.
Il ragno a gambe lunghe e corpo piccino e allungato non fa tela tes-
760 KASSEGNA SCIENTIFICA.
suta ma passa e ripassa il suo filo per tutte le ilirezioiii, in un angolo di
muro 0 dovunque e, forma cosi un intreccio, un zig-zag per prendere gli
insetti che vi capitano. Terminato il lavoro, si pone nel centro della sua
trappola, sostenuta da quattro gambe, talvolta anche da due. Quando passa
e s'intoppa nella rete una mosca o un altro insetto qualunque, il ragno vi
corre precipitoso, e collocandosi di faccia alla preda, comincia sottilmente
un doppio lavoro, cioè muove prima le due gambe posteriori, successiva-
mente, in modo da formare un'infinità di semicerchi lasciati dall' indietro
all'avanti per prendere il Alo e portarlo sulla preda, a cui si attacca Colla
bocca fa un secondo lavoro, rompendo una quantità di tìli e di nodi, allo
scopo di aver piti liberi i movimenti delle due gambe posteriori. Anche
l'insetto resti attaccato ad un solo Alo pendente. Raggiunto questo scopo,
il ragno Anisce questo secondo lavoro e riprende sollecitamente il primo,
Anche la preda sia tutta ravvolta in una specie di sacchetto, che pare
fatto di bambagia. Allora il ragno si ferma un istante, si avvicina all'in-
volto, lo morde, si attacca alla gamba destra posteriore il Alo su cui è
sospeso, e facendosi strada con la bocca, rompendo e molte volte distrug-
gendo la fatica del giorno innanzi, se ne va in un angolo a godersi il
frutto della vittoria.
Il prof. Albanese vide una volta uno di questi ragni che faceva il suo
solito mestiere di avviluppare una mosca tra i suoi Ali insidiosi, e parec-
chi ragnolini appena nati a pochi centimetri di distanza dalla loro madre,
si arrabattavano colle loro gambucce posteriori e con la loro bocca ad
imitare i movimenti del ragno adulto (pag. 9).
■ Altri ragni a gambe corte, a corpo tondo e grosso o leggermente al-
lungato abitano in piccoli buchi nei muri, o nel legno e formano col loro
Alo, esteriormente e intorno alla loro dimora, un intreccio più o meno am-
pio, che presenta la forma raggiata d'un poligono stellato. Quando un in-
setto cammina su quel muro o su quel legno e s'impiglia in uno di quei
raggi, il ragno sempre attento, salta sopra in un baleno, lo afferra e la
trascina nella sua tana.
Tutti conoscono i magniAci rosoni composti di poligoni concentrici, nel
cui mezzo stanno alcuni ragni; e alcuni naturalisti hanno creduto fin qui
che in quelle ragnatele il numero dei raggi varii secondo la specie e la
grandezza dei ragni. L'Albanese invece ha osservato che due ragni della
stessa specie e della stessa gramlezza non fecero egual numero di raggi,
ma uno ne fece ventisei e un altro trentadue. Xugae acadeynicae ! escla-
merà alcuno dei miei lettori : nugae Anche volete ; ma nello studio della
natura nulla è indifferente, nulla è inutile, e le prime linee della psicologia
comparata possono trovarsi nelle ragnatele d'un ragno così come nell' al-
veare d'un'ape. Fatemi l'analisi del perchè di quei due numeri 2(1 e 32, e
troverete le prime origini dell'individualità, che si afferma anche in orga-
nismi semplicissimi.
RASSEGNA SCIENTIFICA. 761
Tiriamo dunque avanti colle nostre nugae e vediamo se un generale
d'armata non potesse imparare un po' di strategia e magari un po' di tattica
da questi altri ragni.
Essi son girovaghi, vagabondi, e aiutati da una bella corona d'occhi,
affrontano la preda direttamente, usando però un' arte di raffinatissima
ipocrisia. Si vedono ne' muri delle case, nei telai delle finestre adocchiare
da tutti i lati e sollevarsi quanto più possono sulle gambe per veder più
lontano e per veder meglio. Se scorgono da lungi una mosca, usano la
furberia di non mai andarle di faccia e perciò, se la mosca è rivolta dalla
parte loro, essi si rimpiccioliscono, fanno un po' di passi indietro lenta-
mente, finché abbiano trovato una sboccatura nel muro, o nel legno, che
li nasconda e allora affrettano il passo, e poi, rimpicciolendosi ancora,
affacciano la testa insensibilmente per osservar meglio la posizione della
mosca. Continuano queste gherminelle, finché le arrivano vicinissimo sen-
z'essere scoperti. Allora, facendosi quanto più possono piccini piccini e
rattrappandosi sulle gambe prendono la spinta, fauno un salto in men ch'io
dica e la mosca è presa e poco dopo divorata.
Succede talvolta, che uno di questi ragni cammini lento lento verso
una mosca, dalla parte di fianco e la mosca, che coi suoi ventimila occhi
lo vede benissimo, si prepara imprudentemente a deludere l'aspettativa del
suo avversario. E che fa ? Si alza quanto più può sulle gambe e come se
fosse sospesa in aria, si volta con la faccia a) ragno : questo si ferma un
istante, si restringe in sé stesso fino a sembrare un pallottoline e moven-
dosi insensibilmente cerca di girarle sempre intorno per afferrarla di dietro.
Ma la mosca par che comprenda ogni cosa e, tenendosi sempre alla debita
distanza, e sollevandosi sempre quanto più può sulle gambe, segue il giro
del ragno e mostra chiaramente che si prende beffe di lui, finché stanca
del giuoco vola via, lasciando il ragno in asso.
Una lezione di diplomazia potrebbero prendere i nostri uomini di Stato^
leggendo quest'altra pagina dell'Albanese :
Grazioso è vedere due di questi ragni quando s'incontrano nella caccia.
Appena si scorgono in distanza, si fermano e sollevano il corpo sulle gambe
tese e dritte. Se uno di loro sia più piccolo, fa un front' indietro e va per
altra via. Se sono tutti e due della stessa grandezza, allora si guardano
e tosto sollevano con forza le due gambe davanti come due antenne e si
avanzano a zig-zag. Arrivati l'uno di faccia all'altro, si fermano e comin-
ciano una spacie di linguaggio del telegrafo ad asta; cioè si toccano in
tutte le direzioni con le quattro gambe sollevate in alto e devono certa-
mente significare qualche cosa, perché dopo un mezzo minuto di questo
movimento, si vede il più debole allontanarsi precipitosamente e tante volte
sbalzar dal muro e cader giù trattenuto dal filo Se sono della stessa forza,
allora nessuno dei due si affretta di allontanarsi e seguono entrambi tran-
quilli la loro via, come se nulla fosse (pag. 14). — S' io non m' inganno^
762 RASSEGNA SCIENTIFICA.
in questi insetti io trovo gli stessi priacipii diplomatici, che governano
l'equilibrio europeo e le relazioni fra popoli e popoli, e le alleanze e le
guerre.
Studii minuti di zoologia trovansi in due recenti lavori del Canestrini.
■€ Intorno ad alcuni acari parassiti, Padova, 1879. — Nuove specie
del Genere Dermaleichus, Venezia, 1878. » — Altre osservazioni finis-
sime di morfologia e di psicologia troviamo in diverse memorie di Ettore
■Regalia sui pipistrelli. ' Anche questi animalucci, poco simpatici e che pure
nella loro anatomìa sono dopo le scimmie fra i nostri più vicini parenti,
■offrono materia di studio al zoologo e al psicologo ; e nello studiarli si può
mostrare tanta acutezza di osservazione e tantti sana filosofia, quanta ne
manca in molte opere in quarto e in folio e che sono scritte da autoroni
<;he vanno per la maggiore. Tutto è grande per un grande ingegno ; tutto
è piccolo per un pìccolo ingegno e molti poi mostrano di essere sempre
in minimis maximi e in maximis minimi.
L'egregio Dottor Forsyth Major, che, grazie all'operosità efficace del
nostro illustre Stoppani, appartiene oggi al Museo fiorentino, ha pubblicato
da poco un importante lavoro sugli stambecchi {Materiali per servire ad
una storia degli stambecchi, Pisa, 1879) che deve riuscir simpatico a tutti
gli italiani anche non zoologi, perchè parla di un animale grazioso ed
«legante, che faceva la delizia di Re ^'ittorio, e che senza di lui sarebbe
già scomparso per sempre dalle vette delle nostre Alpi. Benché il Major
abbia dato al suo lavoro un titolo molto modesto, pure può chiamarsi
una vera monografia dello stambecco, scritta con quella sana filosofia
zoologica moderna, che fa della descrizione di un animale una pagina della
storia dell'evoluzione. Il Blasius, che fu l'ultimo autore che abbia trattato
questo argomento, sembra disposto ad ammettere una forma sola di stam-
!becco, giudicando che le varietà non differiscono fra loro che per il colore
del pelo 0 la direzione delle corna 11 Major, invece, dai suoi dilìgenti studu
craniologici fu tratto a trovare differenze più essenziali fra le diverse
forme, ed egli pensa che all'epoca quaternaria esistevano già varie forme
di stambecchi in Italia, e queste forme quaternarie non sono completa-
mente identiche ad alcune di quelle che vivono oggi nel nostro paese.
« 1. Contributa alio studio dei Chirotteri italiani. Alcune variazioni e partico-
larità osservate nel Vespurugo Savii, Bonap. sp. (Major). Nota di E. Regalia,
presentata da M E. Paolo Maategazza, letta nel R. Istituto Lombardo nella seduta
del 25 aprile 1878.
2. Contributo allo studio ec, Vibrissae, e osservazioni intorno agli arti di tre
Rinolofi. Nota di E. Regalia. (Estratto dalla Rivista Scientifico-industriale, fase.
di giugno, Firenze, 1878).
3. Contributo allo studio ec. Sull'esistenza di terze falangi nella mano. Nota
di E. Regalia. (Estratto dalla Rivinta Scientilìcolndustriale, fase, di agosto, Fi-
renze, 1878.
KASSEGNA. SCIENTIFICA. 763
Questo ultimo fatto è rimarchevole, perchè conferma i risultati ai quali
l'autore era giunto nello studio di altri generi, cioè, che ogni volta che
gli si offrirono avanzi poco completi di mammiferi quaternari, l'identità
fra le forme quaternarie e quell'attuale corrispondente potè sempre essere
negata. Le tavole del lavoro di Major sono stupende, e specialmente quelle
che ritraggono le forme dentarie sono degne in tutto di stare accanto alle
migliori pubblicate oltralpi.
Di stambecchi e di Re Vittorio come sommo cacciatore si occupa an-
che Zilliken nel bellissimo giornale di caccia, che si pubblica due volte al
mese in Germania sotto il titolo di l)er Waidmann, Blàlter fv.r Jàger
vnd Jagdfreunde e che è ornato di molti e graziosi disegni.
Passando dalla zoologia alla biologia, ci troviamo qui dinanzi due lavori
di piccola mole, ma di molta importanza e che trattano entrambi, ma su
diverso terreno, la questione dell'anestesia.
Il primo è di Paolo Bert, uno dei pochi uomini che dimostrano la possi-
bilità di essere in una volta sola grandi scienziati e sommi politici. Egli è
oggi uno dei deputati più influenti della sinistra moderata nel Parlamento
francese ed occupa con molto lustro la cattedra di fisiologia alla Facoltà
delle scienze di Parigi. Amico personale di Gambetta, relatore di quasi tutte
le leggi che riguardano la pubblica istruzione in questi ultimi tempi, ha dato
alla scienza più di cento memorie ; e le sue scoperte sugl'innesti animali, sui
movimenti della sensitiva, sull'influenza della pressione barometrica negli
esseri vivi e tante altre gli assicurano un posto eminente nella storia della
biologia. I suoi lavori si distinguono tutti per un rigoroso metodo speri-
mentale e per una costante e saggia preoccupazione di far servire la scienza
alle applicazioni dell'arte, dell'industria e della medicina.
Ultimamente egli si occupò del modo di ottenere col protossido d'azoto
senza pericolo un'insensibilità di lunga durata. Oggi molti dentisti adoperano
il gas esilarante per ottenere l'anestesia nell'operazione di strappare i denti,
ma conviene far presto e usare infinite precauzioni, perchè fino ad ora
l'insensibilità non si otteneva che a patto di far respirare il protossido
d'azoto puro, e in questo caso l'asfissia camminava di pari passo coll'ane-
stesia. Questo gas deve essere respirato puro, cioè la sua tensione deve
essere eguale ad un'atmosfera per poter penetrare in quantità suftìciente
nell'organismo; ma se noi supponiamo il malato in un apparecchio in cui
la pressione sia portata a due atmosfere, si potrà sottoporlo alla voluta
tensione, facendogli respirare una miscela di 50 per cento di gas esilarante
e di 50 per cento di aria, per cui si potrà ottenere l'anestesia completa,
pur conservando nel sangue la quantità normale di ossigeno, che è necessa-
ria ad una perfetta respirazione Questa scoperta fu fatta dal Bert teorica-
mente, ma confermata poi da lui con molte esperienze praticate sugli ani-
mali. L'unica difficoltà pratica sarà quella di potere avere in ogni luogo un
764 RASSEGNA SCIENTIFICA.
apparecchio ad aria compressa; ma la cosa sarà sempre possibile nei
grandi ospedali e nelle grandi città, e chi sa che la respirazione del protos-
sido d'azoto diluito coll'aria non debba sostituirsi alla inalazione di cloro-
formio che mette spesso la vita in pericolo, sopprimendo la sensibilità mi-
dollare, dai cui moti riflessi dipendono 1 fenomeni più fondamentali del
cuore e del polmone
Il Siragusa invece ha studiato L'anestesia nel regno vegetale (Pa-
lermo, 1879), argomento, che era stato illustrato già altra volta dal Bert,
da Heckel, da Darwin e da Bernard.
Il Siragusa, ripetendo l'esperienza di Bernard, di mettere cioè i corpi,
che vogliamo esaminare immersi in un'acqua anestetizzante, osservò che gli
effetti erano identici, tanto negli animali quanto nelle piante superiori e infe-
riori. Infatti un pezzo di carne e alcuni semi di frumento pestati, posti nel-
l'acqua eterizzata e chiusi in due tubi, si conservarono inalterati per il
lungo spazio di tre mesi Usando invece dell'etere sotto forma di vapore,
il risultato riesce diverso secondo che le piante sono di struttura semplice o
complessa. Non è qui il luogo di ripetere tutte le ingegnose esperienze im-
maginate dal giovane botanico siciliano, ma daremo solo i risultati più
importanti delle sue ricerche :
1° L'anestesia agisce ugualmente sai regno animale e sul vegetale,
e presenta l'istessa differenza, secondo che gli organismi sono più o meno
elevati nella scala organica, qualunque sia il regno a cui appartengono.
2° Gli esseri inferiori, come Mucedinee, L'acteri, Vibrioni, ecc non
risentono l'anestesia, né gli efletti mortali del prolungamento di azione
degli anestetici.
8" Delle principali funzioni vegetative delle piante superiori, la ger-
minazione, la respirazione cloroflllica, la produzione di clorofilla, la fecon-
dazione, i movimenti, tanto spontanei che eccitati, sono influenzati dagli
anestetici ; l'assorbimento,, la traspirazione, la respirazione ordinaria non
lo sono.
4° I semi non perdono la facoltà di germinare se per un dato
tempo sono stati sottoposti all'azione anestetica.
5' Le piante non resistono ugualmente, e i diversi organi secondo che
abbiano o no il colorito verde, presentano modificazioni diverse.
(>° Il cambiamento di colorito della clorofilla dal giallo al rosso non
sembra influenzato dagli anestetici.
GììAnnali della stazAone agi-aria di Forlì, dei quali abbiamo già pub-
blicati sei fascicoli, ci dimostrano l'operosità del valente prof. Alessandro
Pasqualini, il quale la dirige. L'ultimo dei pubblicati è quello del 77 e com-
prende molti lavori, fra i quali alcune analisi di piante da foraggio, ana-
lisi di acque potabili, di concimi, d'un formaggio; non che saggi ampelogra-
RASSEGNA SCIENTIFICA. 765
flci d'otto vitigni romagnoli, norme per la falciatura delle leguminose
foraggiere, studii suH'alimentaziono del soldato e sulla polvere di gira-
sole e di cicoria adoperata come succedaneo al caffo.
Ci fermeremo su queste ultime ricerche, perdio riguardano da vicino
l'igiene e l'economia domestica. Pochi alimenti ebbero l'onore di tante
falsificazioni e di tante alterazioni quanto il caffè, e nella civile Europa
chiamasi con questo nome qualunque bevanda di colore oscuro, che da
vicino 0 da lontano rammenti il divino grano torrefatto della Coffea ara-
bica. Lo zucchero, l'orzo, il grano turco, i fagiuoli, moltissimi semi di le-
guminose, la radice di cicoria, i semi del girasole, i fichi secchi e infinite
altre sostanze, purché abbiano subito un certo grado di torrefazione, hanno
l'onore di sostituirsi in tutto o in parte al vero caffè, e in molti paesi il
palato dei consumatori ha talmente perduto ogni criterio da ignorare af-
fatto ciò che sia la vera Coffea. Anche in questi ultimi giorni la egregia
signora Caterina Botto, moglie dellillustre scultore Tassara, chiamava la
mia attenzione sopra il coloramento artificiale di molte varietà inferiori
del caffè onde farlo credere di una gerarchia assai più alta, tatto che mi
propongo di studiare fra breve.
Per ora fermiamoci soltanto sull'analisi comparativa fatta nel labo-
ratorio della stazione agraria di Forlì degli acheni di girasole tritati e
macinati e di un caffè di cicoria di qualità superiore della fabbrica Woel-
ker. Ecco l'analogia dei due prodotti dimostrata dall'analisi:
Girasole Caffè di cicoria
Acqua 6,322 8,525
Sostanze proteiche solubili . . 3,818 4,6-23
Sostanze proteiche insolubili . . 7,405 5,017
Grasso estratto dall'etere . . 24,400 18,622
Sostanze estrattive non azotate 20,'i80 85,637
Zucchero 0,'.r23 2,015
Tannino 1,510 0,6:i6
Fibre S0,017 17,312
Cenere 4,688 7,510
Perdite 0,437 0,093
Il Pasqualini amerebbe veder sostituiti i semi torrefatti del girasole
alla cicoria per allungare il vero caffè, essendo i primi di sapore più gra-
devole e di azione del tutto innocente. Egli ci dice che il caffè ottenuto
dalle miscele seguenti: Torto Ricco, parti 9; semi di girasole torrefatti,
parti 30; acqua, parti 200, avea un colore bruno chiaro e un pretto
sapore di caffè ; mentre il caffè di cicoria preparata colle stesse dosi
conservava l'odore disgustoso della melassa e il sapore della liquirizia. Il
Pasqualini però non giunge all'entusiasmo di Vitman e di Fumagalli perii
•caffè di girasole; ma soltanto lo trova una delle falsificazioni meno spia-
cevoli.
766 KASSEGNA SCIENTIFICA.
Ma lasciamo ragni e acari, pipistrelli e semi di girasole, e dopo aver
ascoltato col microfono il mormorio operoso e utile delle api scientifiche,
innalziamoci ai larghi e sereni orizzonti della sintesi.
Uno dei libri più rimarchevoli pubbUcati in questi ultimi giorni è di
certo la Psychologie allemande contemporaine de Bihot (Baillière, Pa-
ris, lf^^9), il dotto direttore della Revue philosophique, che da quattro anni
tiene alta in Francia la bandiera della scuola sperimentale sul terreno della
filosofia. 11 Ribot è uno degli ingegni più simpatici e più con temperati di
molte e diverse virtù e che riesce sommamente raro il trovare riunite in
un sol uomo. Egli ha innanzi tutto uno spirito acuto di osservazione, per cui
legge chiaro e legge profondo nel pensiero umano e nelle sue evoluzioni
storiche: anche quando critica sembra sempre ch'egli abbia pensato col-
l'autore che combatte ; per cui mette ogni errore a suo luogo e nella sua
genesi naturale. Per di più, egli ha una tale giusta misura della critica
da non essere mai affascinato dalle seduzioni del bello o inasprito dalle
battaglie della scuola; e così ad amici e a nemici assegna con mirabile
giustizia il dare e l'avere delle colpe e delle virtù; mentre poi tutto ab-
bellisce e tutto rende trasparente con quella finezza di tocco, che è uno
dei privilegi più invidiabili dell'ingegno francese, quando non passi troppo
in furia sulla superficie delle cose. Egli ha poi la fortuna di collaborare
con Espinas, che gli fu compagno nella traduzione dei Frincipii di psi-
cologia di Herbert Spencer, e che è uno dei critici più profondi e più
incisivi ch'io mi conosca.
Si può dire, che il Ribot nel suo libro abbia reso trasparenti le te-
nebre, tanto ha schiarito i cupi abissi del pensiero germanico, che è cosi
spesso metafisico, anche quando combatte la metafisica. Quanto è fino il
raffronto fra la psicologia inglese e la tedesca e come egli ci fa toccare
con mano maestra che l'una è sistematica e l'altra tecnica; una vive di
lavoro sintetico, l'altra abbonda di lavoro minuto! La psicologia inglese
contemporanea è uno studio descrittivo: in Germania invece coloro, che
lavorano all'edifizio d'una psicologia empirica, accordano piccolo spazio alle
descrizioni. Sono pressoché tutti fisiologi, che colla loro abitudine e i me-
todi propri alla biologia hanno abbordato alcuni punti di psicologia, dando
quindi a questa scienza il battesimo di fisiologica; quasi la psicologia
non fosse altro e non potesse esser altro che una fisiologia dei centri
nervosi.
Ogni metodo sperimentale si appoggia alla fin dei conti sulla base tetra-
gona della causalità, per cui anche la psicologia fisiologica non ha a sua
disposizione che due mezzi: determinare gli effetti dalle loro cause (per
esempio la sensazione coU'eccitazione) e determinare le cause dai loro effetti
(gli stati interni dagli atti che li esprimono). Conviene inoltre che almeno
uno di questi due termini sia posto fuori di noi, fuori della coscienza; sia
cioè un fatto fisico e come tale accessibile all'esperimento. Senza questa.
KASSEGNA SCIENTIFICA. 767
coadizione il metodo sperimentale è impossibile. Nell'ordine di quei feno-
meni, che si chiamano interni (riproduzione delle idee, loro associazioni, ecc.)
la causa e l'effetto rimangono in noi. E benché si debba pensare, che anche
in questi fatti debba regnare la legge di causalità, benché in taluni casi
sì possa anche determhiare la causa con certezza; siccome le cause e gli
effetti sono in noi e non ci danno alcuna presa estei-iore, essendo mal co-
nosciuti 0 per ora inaccessibili i loro concomitanti fisici, ogni ricerca spe-
rimentale che li riguardi deve essere eliminata.
Alcuni rappresentanti della psicologia tedesca hanno pensato, che anche
dove l'esperimento è impossibile, noi non dobbiamo limitarci ad osservare
e a descrivere, ma possiamo raggiungere determinazioni più precise ricor-
rendo al calcolo. Essi hanno quindi trattato i problemi psicologici col me-
todo matematico. Appoggiandosi al principio, che ogni fenomeno interno è
una grandezza e che per conseguenza racchiude in sé un carattere mate-
matico, hanno tentato di fare per la psicologia ciò che si è fatto in alcuni-
rami della fisica matematica. Si parte da principii posti come ipotesi pro-
babili; se ne deducono conseguenze per mezzo del ragionamento e del
calcolo e si confrontano poi i risultati ottenuti coi dati dell' esperienza.
Perchè questo metodo possa essere accettato, bastano due condizioni; con-
viene cioè che i principii ipotetici siano preparati dall'induzione e presen-
tino un carattere incontrastabile di verosimiglianza, e conviene poi che le
deduzioni che se ne ricavano siano sempre sottoposte al cimento della realtà.
Tutto ciò è nuovo, è ingegnoso, ma non costituisce per Ribot la parte più
solida della psicologia tedesca.
Essa ha invece per caratteri salienti una tendenza costante alla preci-
sione, l'appello all'esperimento, un campo di studi ristretto, una pre-
ferenza per le monografie invece della simpatia per i lavori di assieme.
Accanto a questa psicologia fisiologica vi é poi anche in Germania una
psicologia spiritualistica, che passa sotto i nomi pomposi, ma vuoti, di
antropologia o di scienza dell'uomo e che ha il ticchio di appellarsi alle
esperienze dei fisiologi per ricavarne conclusioni metafisiche. 11 Ribot non
si è occupato di questi anfibi del mondo filosofico, come non ha voluto,
trattare della scuola critica ; egli ha ristretto le frontiere del suo campo
d'osservazione a tutto ciò, che può cadere sotto l'esame della nostra coscienza
o degli strumenti dei nostri laboratori. È questa una psicologia che può
considerarsi come una scienza naturale, pura d'ogni contagio metafisico e
che si appoggia sulla base sicura delle scienze biologiche. Tutte le scoperte
psicologiche della Germania moderna non si devono a filosofi, a speculatori^
come avviene in Inghilterra; ma bensì a naturalisti o a fisiologi. Mentre in
Inghilterra una tradizione continua, partendo da Locke e passando per Ber-
keley, Hume, Hartley, James Mill, giunge fino ai contemporanei ; in Ger-
mania non si può trovare traccia di una scuola o di una tradizione psico-
logica. Qui tutto è nuovo Kant ebb^ per successori dei metafisici, che alla.
768 RASSEGNA SCIENTIFICA.
lor volta genoraTOiio dei critici. Solo forse fra i suoi numerosi discepoli, Her-
bavt può essere contato fra i psicologi. Egli parte da principii a priori,
dù piccola parte ai fatti, molta parte al ragionamento e alla matematica ;
ma ha concetti giusti e nuovi ed esei'cita un'intluenza marcata sul pensiero
germanico. La sua dottrina trasformata da Beneke e continuata da altri
tende a perdersi nelle speculazioni alquanto vaghe dell'antropologia e del-
l'etnologia. Nello stesso tempo però quasi inconsciamente la vera psicologia
empirica si andava plasmando e gettava le prime radici nelle memorie
e nei libri di fisiologia. Per Ribut, il fondatore della nuova scuola psicolo-
gica tedesca sarebbe Giovanni Mùller, il quale nei suoi libri assegna una
larga parte alle questioni psicologiche, e le tratta con savia larghezza ; e
discepolo di Kant a modo suo tentò di dare una base fisiologica alla teoria
delle forme soggettive dell'intuizione. Ad ogni specie di nervo sensorio egli
attribuì un'energia specifica, per la quale ogni organo reagisce in un modo
che gli è proprio, qualunque sia poi la natura dell'eccitamento che riceve.
jMiiller fece subire inoltre alla dottrina Kantiana dello spazio una trasfor-
mazione fisiologica, ammettendo che la retina abbiali sentimento innato della
propria estensione. Quest'ipotesi ripresa, modificata, respinta, ha dato luogo
ad una polemica vivissima, che dura ancora e che tocca i più alti pro-
blemi della psicologia.
Dopo il Mùller ogni ordine di sensazioni divenne argomento di
profonde ricerche. Se ne studiarono le differenze qualitative e inten-
sive, si penetrò sempre più nella conoscenza del meccanismo anatomico
e fisiologico, e si potè così determinare meglio ciò che nella sensazione è
semplice e immediato e ciò che viene aggiunto poi con un lavorio ulte-
riore (induzioni, deduzioni, associazioni d'invenzioni, ecc.). Helmholtz, an-
dando più innanzi, ci fece vedere nello studio dei suoni, come una sensa-
zione giudicata assolutamente semplice si decomponesse in sensazioni
elementari e le sue esperienze servirono di base alle ingegnose interpre-
tazioni di Taine e di Herbert Spencer.
Lo stesso fisiologo, preceduto in questa via da Dubois-Reymond e se-
guito più tardi da Donders, da Esener, da Wundt e da altri, tentò di
determinare la durata degli atti psichici, e quelle ricerche che durano
tuttora gettarono una nuova luce sul meccanismo e le condizioni della
<30scienza. All'infuori delle scienze fisiologiche, il Fechner intraprese una
lunga serie di ricerche onde misurare l'intensità delle sensazioni nel loro
rapporto col l'eccitamento che le produce. Egli si è appoggiato sulla fisica
e sulle matematiche, fondando quasi una sottoscuola di psicofisica
Questo movimento filosofico, che dura in Germania da forse trent'anni,
oltre il Mùller ebbe a promotori principali il Weber, il Volkmann, il
Dubois Keymond. l'Helmholtz, THering, il Donders, il Fechner, il Lotze, il
Wundt.
Accanto a questi nomi avremmo voluto, che il Ribot non avesse dimen-
RASSEGNA SCIENTIFICA. 769
ticato il Burdaeb, il quale, nato a Koenisberga, ora è già più d'un secolo,
cioè nel 177(', e professore a Lipsia fin dal 180(), innalzò la fisiologia fino
alle più alte regioni della psicologia. Lodato fino all'adulazione dai con-
temporanei, nel rapido e febbrile progresso delle scienze biologiche, il
Burdach è oggi troppo dimenticato: eppure chi togliesse dal suo grande
Trattato di fisiologia quanto riguarda i fenomeni psichici dell'uomo e lo
studio antropologico inteso in senso largo, troverebbe materia sempre fresca
di studio e di ammirazione.
Vorremmo poter accompagnare il Ribot nell'esame particolare, ch'egli
fa dei più illustri rappresentanti della scuola psicologica tedesca, ma la cerchia
angusta della nostra rivistacelo impedisce. Per persuadere 'quanto egli sia
diligente ed esatto nello studio dei particolari, cosi come è largo e Incido
espositore degli indirizzi e dei metodi generali, basterebbe a provarlo la
lettura del Capitolo VII, in cui viene esposta la storia di tutte le scoperte
moderne, che si riferiscono alla durata degli atti psichici, argomento
prediletto di tanti fisiologi tedeschi, dal Donders allo Schiff.
Di queste stesse ricerche interessantissime si sta occupando nel suo
laboz^atorio di Firenze il prof Herzen, il quale, dacché ebbe l'onore di suc-
cedere allo Schiff, ha centuplicata la sua attività scientifica, dandoci le
più lusinghiere promesse, ch'egli potrà essere esperimentatore egregio cosi
come si era mostrato fin qui psicologo acuto. Delle sue esperienze sulla
diversa velocità di trasmissione della ì^olontà secondo il sesso e l'età non
vogliamo parlare ancora, perchè le sue recenti osservazioni non furono
comunicate che in un modo molto sommario alla Società antro^Mlogica di
Firenze, ma accenneremo alla sua bella traduzione francese che ci ha dato
dell'opera di Maudslej {l'hysiologie de Vesprit Paris, 1879), e alla terza
edizione che ha pubblicato in questi ultimi giorni'del suo libro sul libero
arbitrio {Analisi psicologica del libero arbitrio umano. Edizione terza.
Firenze. Bottini, 1879). Questa edizione può dirsi un libro nuovo, per-
chè r autore vi aggiunse un' appendice ricca di tre studi nuovi, che
mancavano alle altre edizioni, cioè: Polemica contro lo spiritualismo —
IH alcune modificazioni della coscienza individuale — Teoria delVim-
putabilifà fondata sulla reazione del libero arbitrio. Questo libro, che,
oltre le tre edizioni italiane, ne ebbe una francese, meritava quest'onore;
tanta è la perspicuità con cui è scritto; tanto stringente e incalzante è
l'argomentazione.
In una delle ulthne sedute della R. Accademia dei Lincei lo stesso
Herzen comunicava un suo scritto Sulla condizione fisica della coscienza,
nel quale egli espone una nuova teoria per spiegare i fatti di coscienza.
La teoria è originale, è ingegnosissima e ci sembra segnare linee precise,
dove fino ad ora non avevamo potuto scorgere clie nebbia o crepuscoli
vaghi di luce. Se lo spazio ce lo consentisse, vorremmo fare un lungo ed
accuratx) esame delle teorie dell'Herzen, da cui dissentiamo in qualche par-
VoL. XIV, Serie 11—15 Aprile 18-9. 48
770 KA.SSEGNA. SCIENTIFICA.
ticolare Però anche dove non possiamo seguirlo, noi Io ammiriamo : è uno
dei privilegi più invidiabili dei grandi ingegni l'essere utile tanto coi loro
errori come colle verità nuove che ci vanno rivelando; mentre i cervelli
corti e piccini, anche quando azzeccano per fortuna del caso qualche ve-
rità, i;e la porgono cosi confusa, così incerta, cosi incrostata di scorie da
renderci quasi odiosa perfino la verità; che è pur sempre la sfinge immor-
tale che tutti affascina e tutti innamora.
Paolo Mantegazza.
RASSEGNA POLITICA
Il voto del 4 aprile. — Il maggior cimento pel Ministero è sempre quello delle
finanze. — Il voto del Senato francese sul trasferimento delle Camere a Pa-
rigi. — Le elezioni parziali in Francia. — L'occupazione mista della Romelia.—
La crisi ministeriale in Egitto.
Più volte ci occorse di avvertire in questa rassegna, che il ministero
Depretis, venuto al mondo collo speciale ufficio di ristorare e di guaren-
tire l'ordine pubblico, non avrebbe potuto acquistare vigore, se non nel-
l'adempimento più esatto e più scrupoloso di questo mandato, ch'era la
ragione della sua vita. Se cosi fosse, s'è visto nel voto del 4 aprile con
cui la Camera confermò nel modo più solenne quello dell' 1 1 dicembre.
Tanto era erroneo ciò che allora non pochi affermarono, che quest'ultimo
si riducesse a una congiura di passioni contro il ministero Cairoli, da
cui nessuna amministrazione nuova avrebbe potuto sorger vitale! Con
una violenza molto minore e con effetti senza paragone meno funesti
dopo un intervallo di alcuni mesi si rinnovarono a Genova, a Milano,
ad Anghiari chiassi e tumulti, che rammentarono lontanamente quelli di
Firenze e di Pisa, e la Camera, ad onta che i fatti fossero assai meno
gravi, fu più concorde e più risoluta della prima volta nel riprovarli.
Tanto era vera la coalizione di allora, che nel giro di pochi mesi la
maggioranza nata improvisamente, dicevasi dal solo intento di abbattere
il ministero Cairoli, è diventata poco meno che unanimità, per sostenere
invece il ministero Depretis sopra una questione pressoché identica; e il
primo era simpatico a tutti, aveva a capo un uomo pieno di autorità per
sé, ingrandito dal prestigio del coraggio mostrato nell'attentato, e pro-
pugnava una tesi audace, ma generosa e ideale, mentre il secondo era
sorto meschino, era vissuto di aspettazione, se non di indulgenza, aveva
un seguito di pochi amici, non aveva nulla di grandioso, né di poetico
e difendeva quelle necessità di governo, che, per quanto innegabili, non
sono però intese da tutti e non diventano mai piacevoli e popolari. Una
772 RASSEGNA POLITICA.
prova più manifesa della forza che un governo può trarre dal solo man-
tener l'ordine, non si sarebbe potuta vedere.
Se fra il voto dell'I! dicembre a quello del 4 aprile corre una diffe-
renza, è tutta a favore di quest'ultima verità. S' è visto infatti da una
volta all'altra un fenomeno inaspettato, che cioè quasi tutto il gruppo
Cairoli, rimasto in minoranza nella prima occasione, si unisse a ingran-
dire la maggioranza nella seconda, votando in certa maniera contro sé
stesso. C'.è invero la scusa che la questione, per .quanto simile, non si
poteva dire del tutto identica, perchè da ultimo non vi entrava se non
per una parte assai piccola quel diritta) di associazione, che interpretato
così largamente dal ministero Cairoli ne aveva invece fatto le spese la
prima volta. Trattavasi però sempre di sapere, se al governo spetti o
no il diritto e incomba il dovere di prevenire manifestazioni contrarie alle
istituzioni del paese, se cioè possa e debba impedirle, o abbia l'obbligo di
starle a guardare impassibile, per denunciare poi il fatto all'autorità giu-
diziaria, riducendo l'azione sua a quella di qualunque querelante privato.
Ora il presidente del Consiglio dichiarò nettamente che il governo è il
governo, che ha l'obbligo di tutelare la quiete pubblica, perchè il paese
la vuole, e in particolare non crede che in uno stato monarchico si possa
lare pubblica dimostrazione di emblemi repubblicani. Queste proposizioni
riassunte, benché nel modo più generale e più vago, per evitare, come
dovevasi, asprezze gratuite e pericolose, furono votate il -1 aprile da quasi
tutto il gruppo Cairoli; il quale potrà credere di non essere caduto in
contraddizione con sé medesimo, ma in fine, voglia o no, si trova aver fatto
un gran passo verso quei principii e quelle necessità di governo, delle
quali non era apparso altrettanto convinto 1' 11 dicembre.
E che il gruppo Cairoli, e segnatamente il suo capo, avvertito dalla
sua propria esperienza, si sia persuaso, che, sciolta la disciplina sociale
e cominciato a scendere sul pendìo di lasciar fare, non si sa più quando,
uè dove si possa fermarcisi? Oppure, fu un atto di rassegnazione per
non rimanere in minoranza senza prò una seconda volta, un sacrifizio alla
concordia e all'unità della Sinistra, un espediente, se non per chiudere il
passo, per scemare influenza ed autorità all' opposizione, fra le braccia
della quale sarebbe andato a trovarsi il INIinistero? Probabilmente tutte
queste cause ebbero la loro parte nella mutazione del gruppo Cairoli. Se
poi a questi s'aggiunge una certa apparenza, che la questione non fosse
la stessa del dicembre, perciiè ora trattavasi di emblemi repubblicani
portati in piazza e non del diritto di associazione, e s'aggiungono ancora
le pudiche riserve, dalle quali fu preceduto il voto, affinchè non avesse
avuto a significare fiducia nel Ministero, senza per questo mostrare di
mancare di un certo sentimento della necessità di governo e di rispetto
alla monarchia, si ottiene il complesso delle ragioni per le quali quasi
tutto il gruppo Cairoli si trovò unito alla maggioranza.
RASSEGNA POLITICA. 773
Ora r importante l'imaue questo, che, ad onta di tutte le riserve dei
vari gruppi, la Camera fu quasi unanime nel riconoscere clie non si può
consentire di portare in giro emblemi repubblicani, e il Governo ha il diritto
e il dovere di impedire e di prevenire fatti di questo genere. S' è ottenuta
finalmente su questo punto una risoluzione netta e precisa, e tanto più de-
cisiva e solenne, quanto più la si volle esente da significato politico e da
spirito di partito. Gli emblemi repubblicani non sono tollerabili più di
quello che potessero esserlo la bandiera borbonica o quella del papa, signi-
ficando tutte del pari l' intendimento di sostituii'e uu' altra forma di go-
verno a quella voluta dalla immensa maggioranza del paese, stabilita dalla
legge e a cui l' Italia deve la sua esistenza. Né è punto lecito di fare i
repubblicani oggi in considerazione che ci sarà la repubblica in avvenire.
1 repubblicani colti, i pochissimi, credono di impancarsi tra i profeti ap-
poggiandosi alla teoria dell' evoluzione e annunciando che alla monarchia
costituzionale succederà la repubblica. Tutti sanno che nulla sulla terra è
etei-no, e quando quella succederà, essi pure saranno a posto. Ma 1" atteg-
giarsi a repubblicani ora in grazia della repubblica che verrà poi, è come
andare in giro coli' ombrello aperto quando il cielo è sereno, perchè al
buon tempo prima o dopo deve tener dietro la pioggia. A questo mondo
bisogna imparar dal passato, prevedere il futuro, ma vivere del presente.
Ecco infine la significazione più semplice del voto della Camera.
11 quale, del resto, quanto più fu immune di partigianeria, tanto meno
può valere come segno della formazione di una nuova maggioranza. Il
Ministero può pur esso tenersi sicuro di un'' approvazione concorde e am-
plissima, ogniqualvolta faccia osservare la legge per mantenere 1' ordine
pubblico. Ma su tutto il resto- durano le discrepanze di prima, e 1 dissidi
e le divisioni possono rinascere in qualunque occasione e quando s' aspet-
tino meno. Ciò è come dii-e che, se il INIinistero uscì dalla passata discus-
sione accresciuto e ingrandito dal prestigio morale che dà sempre una
gran maggioranza anche occasionale ed effìmera, non per questo la posi-
zione sua è divenuta molto più stabile e ferma di prima. Lo è abbastanza,
perchè non abbiano più alcun senso le voci rimesse in giro dopo il 4 aprile,
che voglia ricomporsi e modificarsi, poiché se mai ci fu un tempo in cui
di simili rifacimenti dovesse sentire svanito il bisogno, è appunto il pre-
sente. Ed è forza pur dire, che il terzo ministero Depreiis fa una prova
senza paragone più felice di tutti gli altri usciti dalla sinistra, sia che
molto abbia imparato da sé, sia che quelli, che l' istigavano a correre più
sbrigliato, siano divenuti pei loro propri casi più temperati, sia che la
coscienza di non aver grandi forze gli sia provvida consigliera di ocula-
tezza e di misura. Comunque però, gli gioverà sempre il non dipartirsi
da quella prudenza avveduta, con cui si governò fino ad oggi e che fece
la sua fortuna evitando le grandi questioni politiche.
Il cimento più grave e il meno evitabile che 1" aspetta, è sempre quello
774 RASSEGNA POLITICA.
della finanza, nella quale gli tocca di liquidare 1' eredità infausta lascia-
tagli dal ministero Cairoli. L' eredità è infausta per più ragioni : 1' una,
r abolizione del macinato, che il ministero presente non avrebbe fatta a
nessun patto, e che, se il Senato non ci metterà la sua santa mano, lascerà
un vuoto irrimediabile; l'altra, quell'aria riscaldata e malsana che, intorno
a questa faccenda e in generale alla finanza, venne formandosi nella Camera,
quando se ce n'è una che richiedesse calma di spirito e assenza d'ogni
partigianeria, dovrebbe appunto esser questa Così lo difficoltà che il Mi-
nistero ha da vincere sono di doppia natura, delle cose in sé avviate in
modo poco rassicurante dall' amministrazione passata e della disposiziono
degli animi accesi fuor di proposito e fuor di misura che rassicura anche
meno.
L'ordine del giorno Cairoli, che mise fine a una discussione lunga e
tuttavia incompleta, poiché il paese rilevò assai poco di quello che più
gli importava di capire, accolto da 241 voti contro 88, aveva parecchi
peccati: quello di ritornare sopra una risoluzione presa altra volta, quello
di aver l'aria di premere sopra il Senato, di non tenere abbastanza conto
della necessità di riempire con tasse nuove il buco che si farà nelle no-
stre finanze allo scomparire del macinato. La frase « scompaia il macinato
avvenga quello che può, » non è un programma di finanza Tuttavia il Mi-
nistero dovette accettare l'ordine del giorno Cairoli inspirato per ra-
gione di partito e astrettovi dalla politica, pur vedendosi trascinato oltre
il limite a cui s'era proposto di arrivare. Ciò apparve chiarissimamente
dalle dichiarazioni del ministro delle finanze, a seguire il quale s'indusse,
benché dopo una certa riluttanza, anche il presidente del Consiglio.
L'ordine del giorno naturale, ovvio, conforme alla situazione, era la so-
spensiva proposta dall'on. Minghetti, alla quale ci parve accostarsi molto
dentro il suo animo lo stesso ministro Magliani, essendo stati troppi i pa-
reri sull'avanzo e perfino sul punto se avanzo ci fosse, e troppi elementi
di computo rimanendo ignoti, perché la Camera avesse potuto deliberare
con fondamento nulla. Ma che poteva fare il Ministero, fuorché lasciarsi
trascinare, suo malgrado, dalla corrente, senza di che avrebbe perduto i
voti del gruppo più numeroso e con quelli la maggioranza ?
Ne segui una deliberazione di natura esclusivamente politica, nella
quale la finanza andò travolta e seppellita, una deliberazione figlia della
solita necessità di salvare il partito, ma non di quella di salvare il paese.
Noi speriamo ancora che il Senato venga in aiuto del Ministero, usando-
gli una violenza a cui questo si rassegnerà senza gran dolore, col sospen-
dere l'abolizione, almeno di una parte, del macinato, fino a che la Camera
non abbia discusso e approvato le nuove tasse, che secondo i disegni del
Ministero stesso dovrebbero tenerne luogo. Abolire le tasse che ci sono
sotto la vaga e nebulosa riserva di metterne poi, come che sia, delle al-
tre, quando si sa in pratica che riluttanza c'è a questo, e quando bastò
RASSEGNA POLITICA. 775
che il presidente del Consiglio le annunciasse, anche così vagamente, pei-
sentirsi disapprovato, non è cosa che rassicuri so non la gente avvezza
a pascersi di parole andando avanti colla testa nel sacco. Se bastasse far
politica, per aver danari, noi saremmo oramai straricchi. Ma cosi non
essendo, se il Senato non fa riparo, apparisce fino da ora evidente 1' una
0 l'altra di queste due conseguenze : o la Sinistra dissesterà le finanze ri-
storate con tanti anni di sacrifici e con tanta pena e s'imputeranno a lei
i danni ; o essa si risolverà a riempire il vuoto che il macinato lascia con
tasse nuove, e il malcontento suscitato da queste le reciderà le radici nel
paese ; tanto è lontano che le sortì di questo si possano dividere dalle sue 1
Ora, quale delle due, o assumersi l' odiosità di molte e gravissime tasse
nuove, 0 lasciar le finanze sdruscite, abbandonando l' incomodo di rattop-
parle a chi verrà dopo, quale delle due sia più nell'indole della Sinistra,
noi non vogliamo dire. Ma ben si può e deve dire, che essendo ora il Mi-
nistero alquanto più forte, può farsi animo a parlar più chiaro, e se esso
sapesse per le finanze prendere quel contegno netto, risoluto e deciso, che
prese da ultimo con effetti così fortunati per la politica interna, non sa-
rebbe impossibile che il convincimento suo facesse seguito e gli riuscisse
trascinare in luogo di esser trascinato.
Nel gruppo Cairoli il patriottismo può sempre assaissimo, può a
volte più del paiHito, e quando il Ministero stia fermo e il Senato lo aiuti,
non sono neppur alla Camera impossibili quei compromessi e quelle tran-
sazioni, che, come accadde felicemente il 4 aprile, salvando il partito, sal-
vano anche il paese. Il Ministro delle Finanze ha già acquistato tanta
autorità, da poter osare più che in passato, da poter seguire il pensiero
suo proprio, piuttosto che quello degli altri, senza troppi riguardi poli-
tici, e colla certezza che attribuendosi al suo ingegno e al suo carattere
il valore che hanno, il giudizio suo arresta e fa pensare. Di questo pre-
stigio meritato egli deve prevalersi per il bene del partito stesso a cui
dedicò i suoi servigi, e che, dopo alcune resistenze inevitabili, finirà
coir acconciarvisi e col restargli obbligato. Il momento è decisivo per
lui non meno che per gli altri, e nulla è più prezioso d'un uomo dello
stesso partito che gli riveli netta e lampante la verità, poiché egli solo
può sperare di essere ascoltato.
Quanto possa un'opinione confortata da buone ragioni e sostenuta con
fermezza, sì vide a questi giorni in Francia, dove le cose pubbliche, in
forza del continuo cedere del Centro sinistro e del Ministero, avevano preso
assai mala piega. Non che oggi si possano dir ravviate, poiché un moto
così precipitoso, come quello che i radicali impressero alla Repubblica,
non s'arresta da un giorno all' altro. Ma fu ventura che in questo scen-
dere così avventato, il Ministero prendesse ardire di fermarsi e far ar-
gine, opponendosi in Senato alla revisione dell' articolo della costituzione
che fissa a Versailles la sede delle Camere, e domandando che 1' esame
776 EASSEGNA POLITICA.
della proposta Peyrat per il trasferimeuto di queste a Parigi fosse diffe-
rito a dopo le vacanze. Ciò col pretesto messo innanzi dal ministro Say,
che i Senatori avessero agio di recarsi nei loro dipartimenti e di indagare
le disposizioni delllopinione pubblica. Il Centro sinistro, seguendo la Com-
missione, di cui era capo il signor Laboulaye, tenne fermo col AUnistero,
e la dilazione fu accolta da l-"7 voti contro 1"2(;. Una maggioranza invero
per il Senato abbastanza tenue e dalla quale si rivela chiaramente dove
le cose sieno volte, ma che per intanto ha servito a procacciare al go-
verno il tempo di rifiatare. La resistenza fortunata gli valse il ricupero
di una parte di quell'autorità, che aveva perduto a forza cU cedere e di
lasciar fare e rimise un po' di animo nel partito che lo sostiene.
Intanto un altro avvenimento buono a guadagnar tempo furono le
elezioni parziali della Camera, dalle quali uscirono per grandissima parte
repubblicani moderati. È veramente mirabile il buon senso con cui le popola-
zioni francesi fanno chiaro in ogni occasione il lor bisogno e il loro desi-
derio di pace. Se questa è posta a pericolo dal governo, che miri a di-
struggere la costituzione, esse votano contro di lui; se invece il pericolo
viene da un partito, eccole cercare. di far contrappeso col gettarsi dall'al-
tra parte e coU'accorrere in aiuto al governo. Ala non si direbbe che an-
che in I^ rancia, come in qualche altro paese, la vita costipata in un' at-
mosfera artificiale e chiusa, quale diventa a poco a poco quella delle Camere,
e la necessità dei campar parteggiando, guastino in breve e sciupino quel
naturale e schietto buon senso, che ad ogni nuova occasione sgorga come,
da lente inesausta dal paese? Certo il nemico suo più terribile è la pas-
sione, e questa s' accende più facilmente e divampa dove maggiori sono
gli attriti, dove un animo agitato ne agita intorno a so molti altri, dove
per i contatti e i confronti giornalieri 1' amor proprio si mescola a tutto,
facenlo velo a ciò che apparisce chiaro ad occhi anche meno acuti, ma
più tranquilli.
Circa le cose d'Oriente l'attenzione pubblica è venuta sempre più
raccogliendosi e concentrandosi sull'occupazione mista della Romelia orien-
tale; un progetto messo innanzi dalla Russia colla sua solita fina astu-
zia, per levarsi ogni responsabilità di tutto quello che può accadere
al ritiro del suo e.sereito, e affinchè non s'avesse a ripetere, allo scoppiare
di un'altra rivolta contro dei Turchi, ai quali il paese dovrà tra breve es-
sere restituito, che fu preparata da lei. La Russia, si vede, attribuisce un
gran pregio alla sua riputazione di lealtà e s'adopera a custodirla ge-
losamente. Perciò, come apparve che l'Europa dubitasse del suo contegno,
credendo ch'ella volesse mostrarle coi fatti l'impossibilità di eseguii-e il
trattato di Berlino, e quanto savi e utili sarebbero stati invece i prelimi-
nari di S. Stefano, non seppe meglio che volgersi alle potenze e dire loro :
Ebbene, poiché sospettate di me, in luogo di me e dei Turchi, o con me
e coi Turchi insieme, veniteci voi. L'Inghilterra non esitò a prendere la
RASSEGNA POLITICA. 777
Russia in parola, traendosi uaturalmente dietro l'Austria, da tempo in qua
fatta coraggiosa nel seguire 1 passi della politica inglese; ma nò alla Ger-
mania, uè, meno ancora, alla Francia e all'Italia, in conchiusione ai meno
interessati nelle cose d'Oriente, il disegno andò a' versi, ed anzi, per ciò
elle riguarda queste potenze, pare oggidì poco meno che disperato.
Dicono che l'Inghilterra abbia fatto ogni cosa per indurvi la Francia,
e l'Austria altrettanto per persuadere l' Italia, ma nò l' una uè l'aUra ap-
parisce si sieuo lasciate muovere, e, a dire il vero, molto a ragione Non
consideriamo, se la proposta della Russia sia stata sincera, se cioò deside-
rasse più che venisse accettata o respinta; ciò che doveva pure avere
qualche peso nelle risoluzioni di due potenze trattate a Berlino assai male.
Parlando di noi se la Francia avesse acconsentito e con lei avessero preso
parte all'occupazione tutte le altre, anche l'Italia si sarebbe trovata nella
necessità di intervenire, per far vedere la sua bandiera e non parere di-
menticata. Ma in caso diverso, ricusandosi di qua la Francia, e di là la
tìermania, che ragione avrebbe l'Italia di andar incontro ad inimicizie gra-
tuite e di addossarsi incomodi e spese, per aiutare la politica del conte
Andrassy ? L' Austria, col mostrarsi diffidente e gelosa verso di noi du-
rante tutta la guerra d'Oriente e anche al congresso di Berlino, non ha
acquistato nessun tliritto alla gratitudine dell'Italia, la quale deve lasciarla
sbrigare da sola le sue faccende. E questa l'opinione dominante nel nostro
paese troppo occupato dai bisogni propri, per attendere più che tanto a
quelli degli altri dopo esperienze aoiorose e recenti. L'Italia, e così anche
la Francia, apparirebbero di natura troppo arrendevole, se dopo quello che
avvenne, accondiscendessero a compiacimenti, ai quali nessuno si prese cura
di pi^epararla almeno con quei riguardi che non sarebbero costati nulla.
A ciò che avverrà dopo il 3 maggio, il giorno in cui i Russi dovranno
abbandonare la Romelia, ci pensi chi ha già pensato senza la Francia e
senza l'Italia a tante altre cose.
Intanto la questione della rettifica dei confini fra la Turchia e la Grecia
sembra presso ad essere accomodata per via di una transazione proposta,
od imposta dall' Inghilterra, giusta la quale il regno ellenico otteri^ebbe
né tanto quanto avrebbe voluto la Francia, né tanto poco quanto le con-
cedeva la Turchia. Ma appena, sotto la pressione dell'Inghilterra, cui sta
a cuore di finirla presto con tutti questi strascichi del congresso di Ber-
lino, uno sdruscio viene rattoppato da una parte, ecco un nuovo strappo
apparire da un'altra, oome in una veste che non tenga più insieme.
Accomodata o presso a poco la vertenza greca, viene la crisi egiziana,
una ribellione palese e aperta del viceré contro la tutela straniera dopo
le molte nascoste e dissimulate.
Il Kedive ha congedato da un punto all'altro i ilue Ministri inglese e
francese, signori Wilson e Bliguières, sostituendo a questi e a tutto il Mi-
nistero più 0 meno devoto alle potenze occidentali un Ministero composto
778 KASSEGNA POLITICA.
esclusivamente di indigeni. Siccome a giustificare l'ingerenza dell'Ingliil-
terra e della Francia nell'amministrazione egiziana e la nomina dei due mi-
nistri ora licenziati, s'erano invocati i debiti dell'Egitto e i diritti dei credi-
tori inglesi e francesi, così il Kedive crede di rispondere a tutte le obbiezioni
assumendo sopra la sua responsabilità il pagamento degli interessi. In pari
tempo egli offrirebbe all'Europa la garanzia di un'assemblea di notabili, ai
quali si sottoporrebbe spontaneamente con una specie di costituzione. Ma
è assai dubbio, se queste soddisfazioni mezzo finanziarie e mezzo politiche
potranno acquietare l'Inghilterra e la Francia, che per adesso senza tanti
complimenti si vedono licenziate. 0 piuttosto non c'è dubbio nessuno che le
due potenze tutrici, l'Inghilterra segnatamente, dopo i tanti anni di lento
lavoro per acquistare un'ingerenza nelle cose d'Egitto, non si rassegneranno
cosi facilmente al colpo di stato del viceré. Di ciò danno segno i giornali
inglesi irritati al punto da proporre che si domandi al Sultano la sua de-
posizione. Ed è veramente affrettarsi un po' troppo ; perchè, nello stato di
cose presente, nulla fuorché le convenienze diplomatiche vietava al viceré
di licenziare un Ministero, fosse pur composto di inglesi, di francesi o di
egiziani; e airinglunzione del Sultano egli potrebbe ribellarsi, donde ver-
rebbe poi la necessità di un'occupazione armata dell'Egitto, con che effetti
nei rapporti ilell'Inghllterra e della Francia colle altre potenze, nessuno è
in grado di prevedere. L'Inghilterra è la Russia dell'Egitto e le gelosie su-
scitate da questa al di qua del Danubio si esacerberebbero contro dell'altra
pel suo contegno sul Nilo. È vero che l'Iughilterra fa intendere di voler pro-
cedere in tutto d'accordo colla Francia e da quell'accordo si ripromette di
restar coperta; ed è vero dall'altro lato che d' Inghilterre al mondo ce n'è una
.sola e non si vede donde potesse sorgerle incontro un'opposizione efficace.
Ma, por non dir altro, la Russia si troverebbe incoraggiata nel suoi disegni.
In ogni caso la faccenda è assai grave e tiene a ragione in pensiero quanti
attendono alle cose di questo mondo tanto restie a trovare riposo e pace.
X.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
LETTERATURA E POESÌA
Compendìo della storia della letteratura italiana ad uso de' Licei,
scritto dal prof. Cablo Maria TALLAEIGO. — Parte prima. Napoli,
Morano, 1879 (png. 459).
È un'opera (a giudicarne da questa prima parte che comprende i primi
tre secoli della letteratura) ispirata principalmente dai libri del Settem-
brini e del De Sanctis, e in alcuni luoghi ancora dalla storia di Adolfo
Bartoli. Anche qui, come ne' due scrittori napoletani, prevale l'estetica alla
critica, e negli affetti quel naturalismo spiritualizzato che è proprio sin-
golarmente dei meridionali. Quando l'Autore si imbatte in opere, la cui
autenticità è messa in dubbio (come certe famose cronache), accenna sì la
questione, ma non manifesta per proprio conto opinione alcuna, parendogli
che i giovanetti, pei quali scrive, non debbano occuparsene. Era forse
meglio, scrivendo appunto per giovinetti, o non affacciare il dubbio o darne
nettamente il proprio parere. Ma questo passi. Quello che non passa è
l'avere risuscitato la Nina Siciliana, cui già il D'Ancona e il Borgognoni
aveano fatto gli onori funebri; e attribuito anch'agli a Fra Jacopone la
canzone Maria Yergine bella ecc. che ormai si ritiene come un'imitazione
dal Petrarca e forse opera d'un quattrocentista. Ci pare anche oziosa, se
nvjn puerile, per chi conosce le idee cavalleresche e platoniche del se-
colo XllI, la quistioncella sollevata a pag. 144, perchè Dante non isposasse
Beatrice che amava pur tanto; e falsa oramai l'opinione delle due Bea-
trici, quella della Vita nuova e quella del Convito, avendo mostrato, fra
gli altri, il Carducci che la donna gentile non è Beatrice, ma qualche cosa
di opposto alla figlia del Portinari. E il dare come dantesca la canzone
O patria degna, ecc., dopo le giuste osservazioni del Carducci medesimo e
del D'Ovidio, è da tollerarsi? E come si può dire che la Laura del Pe-
trarca è certissimamente la figlia di Audebert De Noves maritata ad
780 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
Ugo (le Sade? Non ha veduto il prof. Tallarigo quanto se ne è disputato
recentemente? E donde ricava egli, per darlo come sicuro, che la Biogra-
fia di Dante scritta dal Boccaccio appartenga all'ultimo periodo della vita
di lui, e sia posteriore alla conversione? E chiunque abbia letto il Bur-
chiello, come potrà ammettere che egli scrisse in purissimo Haliano
poesie noii poche, delle quali se talvse sHntendono a stento, altre,
massime certi sonetti, sono ammirevolissime per festevolezza, ecc., men-
tre queste ultime sono soltanto una scarsa eccezione? Ma, lasciando di tali
cose, il lavoro presente difetta anche di simmetria, tenuto conto special-
mente dello scopo a cui mira: certe parti sono svolte troppo ampiamente
'p. es. le opere minori del Boccaccio, e le opere latine uel Pontano) ; mentre
altre lasciano troppo a desiderare, come jj. es. la Divina Commedia, e i
cronisti fiorentini, i quali hanno appena un cautuccuio fra i prosatori mi-
nori. Eppure la materia stessa e le opinioni tlegli scrittori, per tacere del-
l'arte loro, meritavano qualche cosa di più. Infine non possiamo tacere di
un inconveniente assai grave per tutti coloro, e fra questi poniamo cer-
tamente l'Autore medesimo, che nell'istruzione de' giovani vogliono salva,
per quanto sta alla scuola, la loro morale. Ed è il poco rispetto serbato
al buon costume, non solo riportando luoghi di poeti che parlano troppo
chiaro .come a pag. 53 e 38.^'-, ma anche analizzando in tutta la loro nu-
dità poemetti amorosi (vedi i capitoli sul Boccaccio e sul Fontano. Siamo
certi che l'Autore lo ha fatto innocentemente; egli che in più luoghi rac-
comanda ed onora il buon costume; se pure non è stato mosso dall'idea,
che gli studenti del Liceo non sono ormai più bambini ÌNIa, ad ogni mo lo,
come si potranno leggere tali cose in una scuola senza destare il riso, e
senza che le mobili fantasie de' giovani trascorrano troppo facilmente dal-
l'ideale al reale? La è, per lo meno, una seria questione di convenienza.
L'odierno realismo iu poesia, di Aetuko LINAKER. — Firenze, Cellioi,
187y (pag. .5t'.).
Le poesie del Guerrini sotto il falso nome di Lorenzo Stecchetti, e le
prose con cui egli non tanto cerca difendersi dai suoi avversari quanto
piuttosto ride delle loro paure, e si mostra risoluto a seguire per la sua
via, furono il motivo di questo libretto. Il dott. Linaker, scolare del pro-
fessore Conti a cui dedica il suo scritto, comincia dal provare: quanto sia
scarso e parziale il realismo in arte, dovendo esso o ritrarre esclusiva-
mente il brutto, od altrimenti rinnegare sé stesso, come spesso ha fatto
nelle opere di valenti poeti detti pure realisti. Venendo poi al Guerrini,
considera appunto in lui il cantore del brutto morale, e l'esageratore della
maniera tenuta dai poeti tedeschi e francesi della medesima scuola : mo-
stra, per le parole stesse del poeta, che il suo ideale in politica è la ri-
voluzione sociale. Ma cogliendo certe contradizioni che qua e là si affac-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 781
ciano nel suo canzoniere, gli augura che i buoni sentimenti possano rivi-
vere in lui, e fare che la moi'ta 2Mesia risurga. 11 dott. Linaker ha lo
svantaggio di chi parla sul serio contro uno che inde; ma la sua causa
è giusta, ed egli è profondamente convinto di quello che afferma, come ap-
parisce dal calore di alcune pagine. Se egli però avesse dato a' suoi pen-
sieri maggior connessione, ed una veste un po' più ricca, crediamo che
l'efficacia delle sue parole sarebbe stata maggiore.
Epigrafi e prose edite ed inedite, del conte Oaklo LEONI, con piefaziui.e
e note di Gitjseppk GxjiìKzoki — Fiieiii:e, G. Barbèra editore, IS'O
(pag. xcix, 595).
Con questa pubblicazione il prof. Guerzoni ha reso un ragguardevole
servigio e un tributo d'onore alla illustre città ed Università di Padova
nella quale egli ammaestra la gioventù in lettere italiane. 11 conte Leoni
padovano (1S12-1S7-1) fu un egregio pagnotta del vecchio stampo, onesto,
credente, largo del proprio per ogni causa generosa, dilettante di lette-
ratura, scrittore mediocre, ma felice epigrafista di genere storico: lasciò
ordine agli eredi di pubblicare il meglio de' suoi scritti editi e inediti,
determinando puntualmente la scelta; l'ordine e la distribuzione della ma-
teria. Gli eredi ne affidarono ultimamente l'incarico al prof. Guerzoni, il
quale con amorosa diligenza ha dettato, in forma di prefazione, la vita
dell'autore, e, col doppio proposito di rispettare per un lato la volontà di
"lui, e provvedere insieme il meglio che potesse alla fama del medesimo,
ha compreso nel presente volume le Epigrafi distribuite* in varie classi;
quei pensieri diversi che vanno sotto il nome di: li hello nel vero; la
Storia aneddotica delV arte e del teatro di Padova; e delle Cronache Ae\
1848 e 49 quella parte soltanto che si riferisce a Padova ed a Venezia, e
che è scevra di certe personalità pericolose, troppo frequenti nelle altre.
Le Epigrafi, non sempre forbite abbastanza ma spesso ingegnose ed inci-
sive, meritano d'esser conosciute, anche perchè appartengono ad una specie
di cui il Giordani e il Muzzi ed altri epigratìsti più lodati non danno clie
pochi esempi. Le altre prose sono in forma di pensieri sciolti, e non hanno
pregio di eleganza ; ma leggonsi volentieri per le tante curiose partico-
larità che forniscono, specialmente rispetto alla vita padovana; ed anche
per la bontà d'animo che vi trasparisce, e sovente pure per una acutezza
di pensiero che dà novità e forza all'espressione. E la storia può trovare
di che giovarsi nei ricordi del 48 durante l'assedio di Venezia, scritti da
un testimonio oculare. Accresce poi grandemente il pregio del volume la
bella prefazione del prof. Guerzoni, che, oltre a ritrarre vivamente il ca-
rattere e la vita del Leoni, abbozza come una storia della Lnivesità di
Padova, e ci fa rivivere nei tempi che precedettero l'ultima rivoluzione
782 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
italiana. A nostro avviso, è questa una dello più belle scritture del Guer-
zoni, e quel suo stile facile insieme e vivace procede più puro e più ita-
liano che in parecchie delle opere precedenti.
Pietro Maggi snatematico e poeta veronese, di Giambattista BIADEGO.
-— VeroDa, Muubter, 1879 (pa<,^ 176).
Verona, madre di molti eletti ingegni che unirono alle scienze od alla
erudizione storica una fina letteraria coltura, diede ne' tempi a noi vicini
questo matematico, fisico e poeta, scolare dell'abate Giuseppe Zamboni, e
professore di matematica applicata nella Università di Padova dal 1850 al
18o:-t, anno della sua morte. La presente operetta si divide in tre parti:
Biografia di P. Moggi: P. Maggi scienz-iato: P. Maggi poeta, delle quali
l'ultima è opera di Giuseppe Biadego. Segue una bibliografia degli scritti
editi ed inediti, alcune lettere famigliari, ed un elogio dettato dal prolès-
sore Minich. I pochi sagji di poesia portati dal Biadego porgono una fe-
lice idea del valore poetico del Maggi; ma più assai è importante la no-
tizia che lo considera come tìsico e specialmente come scrittore di mate-
matica pura, facendo rilevare l'abilità singolare che egli aveva nel maneggio
dell'analisi.
La Vita Jìfuoya di Daute Alighieri, discorso di Giammaria CATTANEO,
Trieste Hermauusteufer, 1878.
Buone e sensate cose contiene questo discorso, Ietto già dal prof. Cat-
taneo nelle sale del gabinetto di Minerva, ed ora messo a stampa. Se non
che, potremmo rimproverargli di non conoscere a fondo e tutt'intera quella
che i tedeschi chiamano la «letteratura » del soggetto: cioò gli scritti
anteriormente pubblicati sull'argomento da lui prescelto. Se ciascuno po-
nendosi a scrivere su determinata materia curasse di conoscere ciò che fu
detto dai suoi antecessori, si eviterebbero inutili ripetizioni, si saprebbe
ciò che è stato risposto a certe obiezioni, e quali obiezioni anticipata-
mente siensi fatte a nuove congetture. Il signor Cattaneo conosce i lavori
del Fraticelli, del Torri, e del Giuliani, ed anche l'elegante edizione M'it-
tiana della Yifa Nuova (Lipsia, 1870j, ma ignora affatto l'edizione pisana
del 187-5, fatta dal prof. d'Ancona, con note di lui e del prof. Carducci ;
né la cita se non per quel che ne è detto nell'edizione del Witte. Ma
poiché il Witte si dolse che l'edizione pisa^ia troppo tardi gli giungesse
alle mani per trarne pieno profitto, e d'altra parte scrisse che «poche
opere di scrittori classici ebber la sorte di esser commentate in un modo
così distinto, » poteva il signor Cattaneo sentir la voglia di gettarvi sopra
un' occhiata. Avrebbe ivi visto a pag. xv-xvi trattata la controversia del
tempo in che fu scritta la Vita Nuova, o a dir meglio furono composte
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 783
le varie parti ond'essa consta: il che gli sarebbe stuto non inutile per la
nota apposta a pag. ò. Né poi, riferendo (p. 12) non bene dall'edizione
del Witte, avrebbe al prof. d'Ancona appropriato una opinione sul vero
valore della locuzione Vita Nuova, che spetta invece al prof Carducci.
Anche un errore d' interpretazione del Giuliani e d'altri in un passo del
libretto dantesco :§ XI V) è stato già trionfalmente ribattuto dal Carducci,
ed era opportuno riferire ciò nella nota alla pag. 21. Sui versi della can-
zone dantesca in che sembra accennarsi a un primo concetto, diverso da
quello che fu poi eseguito, del viaggio ai tre mondi invisibili, il signor
Cattaneo avrebbe dovuto conoscere i dubbi esposti in proposito dal prof.
Todeschini nel voi. II, pag. 2S1 dei suoi Scritti danteschi. Il sig. Cattaneo
non sembra credere che il passaggio di Pellegrini ricordato nel § XLI
della V. N. si riferisca al giubileo del 1300; ma non avrebbe dovuto igno-
rare ciò che ne scrisse con bontà d'argomenti il prof Lubin di Gratz 'e
Trieste non è da Gratz molto lontana), e ciò che soggiunse il prof. Car-
ducci a rincalzo della stessa opinione.
Insomma, se pari al buon giudizio, che in più luoghi mostra l'autore,
fosse stata l'erudizione, questo opuscolo, per altri aspetti pregevole, avrebbe
fatto fare un passo, riassumendole, a certe questioni di non poca impor-
tanza, tuttavia dibattute fra i cultori della poesia dantesca.
I dialoghi di Eschiue Socratico, per la prima volta recati in italiano da
Demetrio LIVIDATI. — Milauo, Battezzati, 1879.
Fra i dialoghi che si trovano mescolati a quelli di Platone ve ne
sono tre intitolati : Della virtù, L'elle ricchezze, e Assioco o Della
morte, i quali vengono attribuiti ad Esehine scolare di Socrate, ma sono
probabilmente, come oramai la critica ha stabilito, un lavoro di tempi
molto posteriori. Si può dire che non siano mai stati tradotti in nostra
lingua, perchè il solo Assioco ha una versione antica ed assai imper-
fetta; e d'altra parte, a qualunque età essi appartengano, non man-
cano di pregi, specialmente V Assioco stesso, che è una difesa della moi'te
con una notizia dell'altro mondo, secondo le idee platoniche. Venutaci a
mano la recente versione del Livaditi, abbiamo riscontrato col testo questo
ultimo dialogo, e sol di esso intendiamo dar giudizio, argomentando da
questo il rimanente. Tal versione, in generale, non difetta di chiarezza né
di buona lingua; ha però qua e là una certa durezza e difficoltà, che di
rado mancano a simili lavori come si sogliono fare in Italia. Inoltre vi
sono de' luoghi frantesi o in parte alterati o resi freddamente e prolissa-
mente, se pure alcuni non si debbano riferire al testo seguito dal Tradut-
tore (Vienna, 1814) diverso da quello che noi abbiamo tenuto sott'occhio
(ediz. curata dall'Hermann, Lipsiae, 18.38). Vorremmo insomma piìi fedeltà,
784 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
più franchezza, più vivacità. Il tradurre dalle lingue classiche è, o^gì
specialmente, opera difficilissima, e richiede cognizioni, pazienza ed arte in
tal misura quale trovasi di rado in un solo individuo.
Morbo sociale. — Mììia di L. A. MICHELANGELI. — Bologna, presso
N. Zanichelli, 1870. (Oollezione elzeviriana, pag-. 14).
Se la collezione elzeviriana ha dei peccati da scontare per le poesie,
scapigliate anzi che no. di cui è stata ed iiriee, può dirsi che ne abbia fatto
ammenda con altre di principii diversi od opposti. Ecco qui due liriche,
assai belle, di un liberale conservatore, che a giusta ragione s'impaurisce
del minacciante socialismo e del nissun riparo che vi prendono i ricchi.
Nella prima ode vediamo un sogno lusinghiero sulla sperata prosperità
d'Italia, paragonato col tristo presente. Nella seconda, poveri affamati e
ricchi spietati sono dipinti con vivi colori, e la conclusione tratteggia, pur
vivamente, la rivoluzione sociale. Ad alcuni versi che contengono un buon
augurio, segue una prosetta, dove l'autore rammenta di nuovo alla società
il dovere che ha di provvedere, percliè non iscoppino mali peggiori. La
strofa del Michelangeli è franca, rapida, animata, e nello stesso tempo con-
serva il sapore dello stile classico. Uu bravo di cuore.
SCIENZE POLITICHE
I liiogiii piì riuniti di Verona e il loro riordinamento. Relazione del
ciiUJiiiis.-.iiria guveriuitivo FiùilRARI Bernardo Carlo. — Verona, tipo-
gratìa Eraucbiui, 1878.
La questione dello opare pie in Italia è delle più gravi ; d'ogni parte
si invocano provvedimenù, ma a quelli specialmente d'mdole legislativa
contrastano grandemente le incertezze sulle condizioni di fatto di esse e
sugli effetti della legislazione esistente. In Verona è stato incaricato di
un'accurata investigazione in proposito, il consigliere di prefettura Fer-
rari Bernardo Carlo; risultato della sua inchiesta si è la pubblicazione di
cui discorriamo.
L'indole di questo cenno bibliografico non ci permette 1' esame mi-
nuto delle questioni che vi sono annesse. Stimiamo soltanto dire che l'au-
tore prende le mosse dalla condizione della carità collettiva in \'erona
prima del 18'Ji,e dell'attuazione della legge italiana del 18l;2 esaminale
questioni delle amministrazioni caritative locali, studia la storia, l'anda-
mento e le condizioni delie singole opere pie che era stato chiamato a
investigare : la casa di ricovero, la casa di ritiro, l'orfanotrofio femminile,
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 785
il collegio degli Artigianelli, l'ospedale civile, la commissione di benefi-
cenza, la casa d'industria, ecc.
Fa in ultimo un riassunto sullo stato delle cose, sulle proposte del
municipio e sulle sue-
L'ampio volume non è di ordine generale né scentifico, propriamente
detto, pure è un tesoro di studi diligenti e intelligenti; ci fa perciò viva-
mente desiderare che i più solerti e capaci funzionari della nostra ammi-
nistrazione pensino e ne pubblichino degli altri simili sulle opere pie delle
altre nostre città e provinole Le questioni si potrebbero studiare e risol-
vere molto meglio.
Le elezioni e il broglio nella Repubblica romana. Studio di storia del
prof. iGi^fio GENTILE. — Milano, Hoepli, 1879.
È un piccol libro di 311 pagine che siamo veramente lieti di segna-
lare all'attenzione del pubblico. Generalmente gli studiosi di questa parte
così fondamentale del diritto politico, quale si è il diritto elettorale, stu-
diano le leggi e l'andamento delle elezioni pubbliche nei popoli moderni
o meglio nel mondo contemporaneo Eppure gli antichi e in particolare il
popolo politico più eminente dell'antichità il Romano, se non avevano il
sistema rappresentativo odierno, componevano il potere pubblico in virtù
delle pubbliche elezioni ; e i problemi che affaticano noi oggidì, in fatto di
elettorato, di eleggibilità, di procedimento, di brogli, affaticarono anche loro;
ed è sommamente istruttivo e intei'essante vedere come i Romani li ab-
biano trattati risoluti o affrontati.
L'autore dunque studia dapprima nella loro composizione le assem-
blee elettorali romane, ossia i loro famosi comizi curiati, centuriati e tri-
buti ; si occupa poscia in particolare, e questa ci sembra la parte più
interessante, di ciò che si riferisce ai candidati ed ai brogli elettorali, alle
forme che assunsero in Roma, ai modi tentati per prevenirli e reprimerli.
In tutto ciò fa capo sempre agli scrittori antichi, segnatamente Livio
e Cicerone, e ai più illustri interpreti moderni. L'autore fa pruova di non
comuni qualità, acume e diligenza d'investigazione, dottrina, criterio ; e se
non mancano delle ripetizioni, non si può dire che 1- esposizione manchi
di attrattiva, è per lo meno ordinata e chiara. In conclusione è un piccol
libro degno schiettamente di molta lode, e ci fa vivamente desiderare che
l'autore ci dia ancora dei simili studi su quelle nostre antiche assemblee
popolari nelle due altre loro funzioni, la legislativa e la giudiziaria.
VoL. XIV, Serie li — 15 Aprile 18T9. 4&
786 BOLLETTINO BIBLIGGRAFiCO.
GEOGRiFlA
AyYiameuto allo studio della geografìa, ovvero, Descrizione delln città e
■pruni, tcia di Roma, di Elena BALLIO. — Roma, IV ediz., 1879.
I pedanfogistL in Italia inculcarono p'^r mezzo secolo i celebri aforismi
dal nolo aiV ignoto e dal facile al difficile senza per questo abbando-
nar punio il vecchio metodo di insegnare geografia cominciando dai pianeti
e dalle stelle; come se le stelle ci fossero più note della terra dove te-
niamo i piedi, e fosse più facile capire i circoli celesti e i moti apparenti
del Sole, di Giove, di Marte e di Venere, clie le strade per cui camminiamo.
Tanto si cade senza avvedersi a imitare il padre Zappata parlando bene
e razzolando male, tanto è ovvia la contraddizione fra il dire come si faccia
e il fare, e tanto l' abitudine del fare a un modo prevale alla teoria che
dovrebbe condurre al modo opposto !
Questo contrasto fi-a gì' insegnamenti della teoria pedagogica, la quale
del resto non ha mai avuto la compiacenza di fermarsi a indagare quale
sia il noto per la testa di un bambino, s'era cominciato a notare anche
in Italia e in questa stessa Rivista, allorché l'esposizione di Vienna, rive-
lando il metodo delle scuole della Germania e parlando coli' autorità del-
l'esimpio, ci mostrò, meglio di tutti i ragionamenti e tutti i discorsi, la
contraddizione in cui eravamo con noi medesimi Fra i primi ad avvertirlo
fu ancora la Nuova Aniulogia Venne poi il prezioso libro del Bréal sul-
j 1 insegnamento in Francia e da quel tempo la rivoluzione nel metodo di
insegnare la geografia non s è più arrestata.
Come farebbe un uomo che nel modo più semplice e più naturale vo-
lesse conoscere la terra ? Farebbe come fecero i prirai uomini, partirebbe
dal suo paese, eh è il vero ed il solo noto, per visitare via via gli altri,
traversando fiumi, superando montagne, fino a formarsi un" idea «li tutto.
È questo il processo storico con cui la terra fu conosciuta nel corso dei
secoli e da questo non giova scostarsi neppure idealmente volendo fare
acquistare agli alunni la cognizione medesima, senza che escano di casa
loro Disegnando sulla lavagna le vie più note del paese dove abitano, si
destano nella loro mente imagini di cose da essi vedute e si mostra loro
la rei zione che passa fra queste e il disegno, ciò che li prepara ad in-
tendere chiaramente le carte geografiche e a cavar poi da esse la co-
gnizione di tutte quelle che non videro e non vedranno. Ecco il segreto
del metodo seguito molto a ragione dalla signora Ballio nel giudizioso e
bene ordinato libretto nel quale, dalla discrizione della stanza in cui si tro-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 787
vano, gli alunni finiscono ad acquistare una qualche idea dell Italia La
stanza però, perchè serva a muovere il primo passo, non deve porgere
materia a una semplice descrizione, ma ad un disegno sulla lavagna. Sic-
come poi la sola stanza che tutti gli alunni conoscono è quella della scuola,
il meglio è in pratica partire da questa, mostrando loi'o come le linee dise-
gnate sulla lavagna rappresentino quelle delle pareti, servendosi della espo-
sizione delle finestre per orientarsi, ecc. 11 maestro a questo modo lavora
in luogo di predicare e gli alunni fanno altrettanto con lui, s condo le
idee moderne, giusta le quali la scuola dev* essere un coniinuo esercizio
di misurare, computare, disegnare ecc. in modo che lo spirito dello sco-
lare sia sempre attivo.
Molti ridono di queste cose, parendo loro minuzie, ma sono di quelle
che formano le teste chiare, che avvezzano a osservare, a riflettere a prov-
vedere, che mettono la scienza in relazione colla vita, che educano uomini
pratici e atti non solamente a dire come una cosa si faccia, ma a farla.
ECONOMIA
La legge di periodicità delle crisi. Perturbazioni economiche e macchie
solari di Girolamo BOCCARDO. Estratto da WArchmo di Staùxtka. —
Tipografia Elzeviriana, 1879.
Il soggetto di questa memoria non è che una ipotesi, che il chiaro au-
tore studia sull'orme di alcuni statisti inglesi e principalmente del prof.
Stanley-Jevons ; una di quelle ipotesi, alle quali la scienza, concepito il so-
spetto, comincia prima col fermare la sua attenzione, delle quali raccoglie
poi con diligente e assidua costanza le prove e che non rare volte fingono,
contro quello che i più s'aspettavano, a poter essere dimostrate. Il quesito
del curioso scritto di cui parliamo, è il seguente : Se le crisi commerciali,
che appariscono soggette a un periodo, ossia rinnovansi ogni dieci o un-
dici anni, coincidano col periodo pressoché eguale che sembrano avere le
macchie solari, o più precisamente col ritorno del minimo di queste
macchie.
A primo aspetto è cosa da strabiliare, non apparendo fra le crisi com-
merciali e le macchie del sole alcun nesso di causa a effetto, supposto pure
che si potesse mettere fuori di dubbio, ciò che è già difficile, la loro coin-
cidenza. Il nesso però, o se si vuole, l'anello di congiunzione consisterebbe
nella scarsa produzione agricola, che, per l'influenza del sole sulla vege-
tazione, deriverebbe dal minimo delle sue macchie. « La costante corri-
spondenza, dice l'autore, dei rapporti fra due serie di fenomeni è, in buona
logica, un forte argomento a favore della presunzione di un nesso di cau-
788 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
salita. E se fosse provalo che il periodo solare eserciti un'influenza deter-
minante sulle raccolte, e fosse dimostrato inoltre che le grandi crisi com-
merciali e finanziarie prendono sempre origine da una crisi agraria, la
catena dei ragionamenti del prof. Jevons perderebbe ogni carattere ipote-
tico, per entrare realmente nel numero delle induzioni rigorosamente scien-
tifiche » Allora poi il commercio potrebbe leggere dieci anni prima il li-
stino di borsa nelle macchie del sole!
È inutile dire che l'autore per ora è lontano dal credere a questo ar-
dito concetto, ch'egli chiama anzi seducenLe, ma paradossale. Egli accenna
alla periodicità delle crisi commerciali, alla coincidenza loro, del resto
assai naturale, colla scarsezza dei prodotti agricoli, considera la periodi-
cità delle maccliie solari, ravvicina tutti questi fatti, ma insieme ha cura
d'avvertire, quanto manchi in tutto questo a un'argomeutazione serrata e
conclusiva. Dalle lacune poi che trova nella scienza oggi, passa agli studi
che si richiederebbero per colmarle, studi meteorologici e fisici in parte,
in parte statistici, che riuscirebbero, non foss'altro, a un risultamento ne-
gativo, ciò eh' è pur molto, perchè lo scoprire che una data cosa non si
può sapere serve almeno a distogliere da ricerche inutili e a risparmiare
tempo e fatiche.
Ma intanto, fino a che le indagini suggerite dal prof. Boccardo non
sieno state fatte, non sarebbe lecito di sostituire un' ipotesi a un' altra ?
La periodicità delle crisi commerciali ogni dieci, undici, o dodici anni par
poco meno che certa, almeno secondo la storia del nostro secolo e quella
del precedente. Ipotesi per ipotesi, non si potrebbe spiegare il fatto colle
disposizioni della natura umana, o eolla psicologia, anziché colle macchie
solari ?
Si sa che al mondo si impara assai poco dall' esperienza degli al-
tri, ossia che l'esperienza, per essere fruttifera a noi, vuol essere fatta da
noi medesimi. Ora ogni dieci o dodici anni, in uno Stato si rinnova circa
il terzo della popolazione. Questo terzo poi è composto di giovani, vale
a dire dei più operosi, ma anche dei più appassionati e dei più audaci.
Sarebb'egli strano il supporre che questa parte della popolazione che en-
tra ingenua ed ignara nelle faccende del mondo, che non fu ammaestrata
dai disinganni e dalle sventure proprie e non bada a quelle' patite prima
di lei dagli altri, sia. se non più, una delle cau.se della periodicità delle
crisi ? Resterebbe a spiegare, perchè il periodo di queste debba essere ap-
punto di dieci 0 dodici anni, piuttosto che di cinque o di quattro, oppure
di venti o di ventidue. Ma la spiegazione non par difticile, se si considera
che passato, suppongasi, un periodo di quattro anni da una crisi, le cose
sono ancora quasi esclusivamente in mano della generazione, che n'ha patito
le conseguenze e se le rammenta, mentre invece dopo venti o ventidue la ge-
nerazione nuova e in parte nata prima di questo periodo, è già matura e, se
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. 789
avesse avuto bisogno di aiMottrinarsi a sue spese, avrebbe subito le sue prove
prima. Perciò il periodo di dieci o dodici anni apparisce il più naturale, in
quanto combina il massimo numero di giovani, che s'affacciano alla vita, col
minimo di quel corredo di ammaestramenti che si raccolgono dalla propria
esperienza, e condensa il più possibile di vigore senza ritegno e di fiducia bal-
danzosa e disavveduta Dopoché questo concorso naturale di cause produsse
il suo effetto, e il credito senza limiti, le speculazioni esagerate, il gioco che
non guarda al di là del domani, rimasero puniti da una crisi econojiaica,
la diffidenza che ne nasce genera di nuovo il risparmio, la prudenza, l' ocu-
latezza, fino a che col miglioramento delle condizioni private e pubbliche,
ì mali passati cadono in dimenti^^anza e si prepara il ritorno di un feno-
meno simile . In altri teimini il periodo di dieci o dodici anni sarebbe il
periodo, che, data la durata media della vita umana, si richiederebbe perchè
cadessei'o in obblìo presso una parte della popolazione gli ammaestramenti
dell'esperienza o a questa non si prestasse più fede senza rifarla.
È vero che, essendo questa la causa, dovrebbero avere un periodo come
le crisi commerciali anche le sociali e le politiche. Ma chi può dire che
non avvenga così ? I moti sociali dipendono in molta parte dalle pertur-
bazioni economiche, e coincidendo con queste vengono per ciò solo ad avere
un periodo anch'esse. Che se non si può dire altrettanto delle politiche,
delle rivoluzioni, p. e., e "delle guerre, egli è che in queste entra di fre-
quente la volontà di pochi o anche la volontà individuale, più che la collet-
tiva, la quale sola è soggetta a una legge. I rivolgimenti politici sono
quasi sempre promossi da alcuni, i moti sociali da molti più, ma le crisi
economiche da un numero anche maggiore e in un certo senso da tutti,
e quindi in queste la legge si manifesterebbe più chiaramente che nelle
altre.
Dato il passo alle ipotesi, ci parve lecito di arrischiare anche questa
delle generazioni, che si rinnovano per un terzo nel perioilo sopraindicato
e, non avendo esperienza propria, ricadono negli errori di quelle che le
precedettero. Sarebbe come una vasca che richieda un certo tempo per
riempirsi di acqua, e questa col suo peso apra una valvola la quale da sé si
richiuda, e impieghi poi lo stesso tempo a ritornar piena e a rivuotarsi colla
stessa vicenda interminabile. Con un effetto però un poco differente, poiché
r acqua scendendo non impara nulla, mentre T umanità qualche cosa rac-
coglie dalle sue cadute ; il più si perde, ma qualche poco rimane. Senza di
questo non ci sarebbe progresso dell'umanità; quel progresso al quale ad
onta dei periodi e dei ritorni, la storia costringe a credere, ma che rende
tanti così dubbiosi dell' esser suo, appunto perchè è vero insieme con questi
ritorni stessi coi quali apparisce in contraddizione.
Vedrà il prof. Boccardo se ci sia nulla almeno di verosimile in questa
presunzione. Tornando alla sua memoria, non sapremmo meglio qualiflcarla
790 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.
che come uno scritto che fa pensare. È uno di quei lavori che svegUano tante
idee, che mettono, per così dire, in tumulto la mente e il cuore, che si sente
battere di compiacenza nel vedere fin dove si levi col suo volo audace l'in-
gegno umano È buttato giù alla brava, secondo 1' usanza dell' autore, né
va esente da qualche ripetizione, ma è chiaro e lucido, quantunque ricco
di dottrina, e piacevole a leggere, pari insomma al nome del suo illustre
autore.
Prof. Fr. PKOTONOTARI, Direttore
David Marchionni, Responsabile.
INDICE DEL VOLUME DECIMOQUARTO.
(seconda serie).
Fascicolo V — (1 marzo 181^9).
Le ori^'ini dell'Uomo.— Niccola Marselli Pag. 3
Lord Byroii - Il Childe Harold e il Don Juan. — Giovanni Boglietti . 39
Della vita e delle opere di Simone Porzio - ( Continuazione e fine). —
F. Fiorentino BS
Mio figlio studia (Racconto).— Salvatore Farina 97
La vita vegetale.— T. Caruel 113
L'Accademia dei Lincei.— 0. Giambelli 125
Rassegna delle letterature straniere. — L' ideale del principe malese - La
religione vedica - Un nuovo poemetto filosofico indiano - Le letture
del Miiller sopra 1' origine e lo svolgimento delle religioni indiane -
La Mitologia greca del Decliarme - Il Dizionario delle antirhità gre-
che e romane - Una nuova storia della Persia - Nuovi romanzi dr-lla
Bentzon, di Laura Surville, di F. Fabre, di L. Heunique, di E. Cadol.
- Angelo De Gubernatis 152
Rassegna musicale. — Gli spettacoli della stagione di carnevale-quare^^ima
- Il teatro Apollo di Roma - Le opere - Don Giovanni cV Austria del
maestro Marchetti - La Scala di Milano - Il Re di Lahore del maestro
Massenet - Ero e Leandro del maestro Bottesini al Teatro Regio di
Torino - La Regina di Saba del maestro Goldmark - Speranze per
1 avvenire. — F. D' Arcais 172
Rassegna politica. — Il trattato di pace tra la Russia e la Turchia - Il
consenso dell'Austria alla soppressione della clausola sullo Schleswig
- Il voto suir amnistia alla Camera francese - La sicurezza pubblica
in Italia e le cause per cui non migliora - I tentativi di conciliazione
per i gruppi della Sinistra. — X. . . • 181
Bollettino bibliografico. — Letteratura - Storia - Diritto costituzionale -
Economia e Statistica 188
Fascicolo VI — (15 marzo 18»»).
L'Istria e il nostro confine orientale - (II). — Paulo Fambri . . . 193
Le nostre origini - [Continua). — Niccola Marselli 221)
L' arte a Parigi - [Fine). — Tullo Massarani 259
Gustavo Flaubert. — Emma 302
Il Dominio del Canada (Appunti di viaggio) - [Continua). — Enea Ca-
valieri 319
Le nuove costruzioni ferroviarie e le ferrovie economiche. — Alfonso
Audinot o . . 354
Il primo capello bianco. Elegia, [Traduzione), — G. B. Giorgini . . . 3(58
Rassegna letteraria - [Teodora., di A. Ricci.- Firenze, tipografia Succes-
sori Le Mounier). — J. De Martino 370
792 INDICE DEL VOLUME DECIMOQUARTO.
Hassegna politica. — I radicali in Francia - Strana caduta del ministro
Marcère - La proposta di accusa contro 1 ministri del 16 mairgio -
Quella di trasferire le Camere a Parigi - Se la situazione ammetta
rimedio - Alcune analogie con noi - Il disegno del ministro M;igliani
di salvare una parte del Macinato - La discussione sul bilancio del-
l' istruzione pubblica. — X Piig- 377
Bollettino bibliografico. — Letteratura e Poesia - Storia - Economia e
Statistica 384
Fascicolo VII — (I aprile iS-Y!»).
Alfonso La Marmora - (Commemorazione, 5 gennaio 1879, Firenze, G. Bar-
bèra editore). — E,. Bonghi 393
Beatrice Cenci dopo le ultime pubblicazioni. — Francesco Labrtjzzi . 419
Le nostre ongini - {Fine). — NICCOLA Marsellt 448
L'Inghilterra nell'Africa australe. — .Attilio Brunialti 48G
Del credito popolare - (II). — Alessandro Rossi 521
Un viaggiatore filologo - Gabriele B dint. — E. Teza 565
Rassegna politica. — Il voto della Camera francese sui ministri del 16
maggio - La proposta di trasferire la Camera a Parigi - Come la
Russia si destreggi nel lasciare la Rumelia - La nota di lord Salisbury
e. le disposizioni delle potenze verso la Russia - Quanto sia difficile
la rettificazione del contine greco - I tumulti di Milano e di Genova
- La discussione finanziaria alla Camera. — X 570
Bollettino bibliografico. — Letteratura - Politica - Filosofia - Economia
e Statistica 579
Fascicolo Vili — (15 aprile 1S79).
La politica nella letteratura contemporanea della Francia - La leggenda
napoleonica. — GIOVANNI Boglietti 593
Ritratti contemporanei - Cavour, B.smarck, Thiers. — Romualdo Bon-
tadini • 622
Le ruine e gli scavi di Dodona. — F. Rrizio ■ . 640
Il dominio del Canada (Appunti di viaggio) - {Fine). — Enea Cavalieri 665
Nozze neir appenuino marchigiano (Schizzo di costumi). — Caterina Pigo-
RiNi Beri 693
Del credito popolare - (III). — Alessandro Rossi 713
Rassegna delle letterature straniere. — Il Canzoniere di Heine rifatto per
la terza volta italiano da B Zendrini - Goethe e Schiller - Poesie
dell' Uruguay - Racconti andalusi - Studi sugli idiomi de' Pirenei -
Studi biografici del Lovenjoul, dell' Hausson vii le, del Cuvillier Fleury;
Memorie della duchessa di Chateatiroux; La Corrispondenza del Ber-
lioz - I discorsi del Thiers - Il quarto volume della Storia di Firenze
del Perrens - Storia dell'Austro-Ungheria. — Angelo De Gubernatis 741
Rassegna scientifica. — La vita intima dei ragni e dei pipistrelli - Studi
sugli stambecchi - Ricerche di Berte di Siragusa suil' anestesia chi-
rurgica e suir anestesia delle piante - Il caffè di girasole - La psico-
logia tedesca moderna secondo il Ribot - Lavori recenti dell' Herzen.
— Paolo Maniegazza 759
Rassegna politica. — Il voto del 4 aprile - Il maggior cimento pel Mini-
stero è sempre quello delie finanze — Il voto del Senato francese sul
trasferimento delle Camere a Parigi - Le elezioni parziali in Francia -
L'occup;izione mista della Rumelia-La crisi ministeriale in Egitto. — X. 771
Bollettino bibliogiafìco. — Letteratura e Poesia - Scienze politiche - Geo-
grafia - Economia '^^
AP
37
N«
Nuova antologia
PLEASE DO NOT REMOVE
CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET
UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY
.t^--^.^*«v-?