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Full text of "Nuova rivista storica"

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NUOVA  RIVISTA  STORIjC.^^-^ 

V 

Fasc.  1.  —  Gennaio-febbraio.         ^^^^.ììo 

Ottardando  innanzi  (La  Redazione) 

QiUPEPPE  Fraccaroli,  Filologia  e  letteratura .........  »         ^T) 

Giosuè  Maliandi,  La  fase  attuale  degli  studii  di  storia  religiosa.     .  »        29   -i^ 
Guido  Porzio,  La  piii  antica  aristocrazia  corintiaca  :  I  Bacchiadi  {Con-                      | 

tinuazione).    . »        48 

Note;  Questioni  storiche;  Discussioni;  Recensioni: 

Intorno  all'opera  storica  di  Pasquale  Villari  (C.  B.) » 

Una  storia  del  Belgio  (G.  Lazzeri) » 

Studi   italiani  di   storia   religiosa  (Ficarra;    Bonaiuti;   Geminiani) 

(G.  Maliandi)     .    . »       91 

Problemi  della  guerra  e  del  dopo-guerra  (Prato  ;  Carli)  (E.  Corbino)  »       96 

Una  iniziativa  della  Scuola  papirologica  milanese  (C.  B.) .    .    .    .  »        97 

Un  processo  filologico-storiografico...  (F.  Guglielmino)    ....  »      100 

La  pubblicazione  degli  Atti  delle  Costituzioni  italiane »       107 

Bollettino  bibliografico:  Si  paria  di:  C.   Barbagallo;  A.  Solari; 

V.  Cannizzo;  G.  Patroni;  L  Del  Lungo;  P.  Preda;  R.  Marcucci.  »      108 

Libri  ricevuti »      110 

Fasc.  il  —  Marzo-aprile. 

Gaetano  Salvemini,  Pasquale  vinari Pag.   113 

Giuseppe  Rensi,  Il  concetto  di  storia  della  filosofia    ......  »      140 

Ettore  Rota,  Razionalismo  e  storicismo  ecc.  {Continuazione)     .    .  »      190 
Note;  Questioni  storiche;  Discussioni;  Recensioni: 

I.  Storiografia  integrale  :  tra  critico  e  autore  (L.  Halphen  ;  C.  B.) .  »      209 
II.  Un  libro  di  storia  economica  (E.  Corbino) »213 

Bollettino  bibliografico:  Si  paria  di:  V.  Pareto;  F.  Sarappa; 
A.  Cossu;  A.  Ottolini;  E.  Melchiori;  H.  Delbriick;  V.  Garretto; 
J.  Miller  Seake;    W.   O.   Weyforth;  A.  Debidour;  F.  Paolini; 

F.  Momigliano »      218 

Fasc.  III.  —  Maggio-giugno. 

Ettore  Ciccotti,  L'enigma  della  Guerra  e  i  suoi  interpreti.    .    .    .  Pag.   225 
Alessandro  Chiappelli,  La  mente  di  Domenico  Comparetti    ...»      239 

Ettore  Romagnoli,  I  personaggi  di  Eschilo »      253 

Angelo  Ottolini,  La  seconda  Repubblica  Cisalpina  {Fine) ....  »      267 

Guido  Porzio,  La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  :  i  Bacchiadi  {Fine)  »      292 
Note;  Questioni  storiche;  Discussioni;  Recensioni: 

I.  Storia  e  politica:  Italia  e  Francia  (C.  B.) -  »      319 

II.  La  cattedra  di  storia  antica  nella  R.  Università  di  Roma  (Gu.  P.  ; 
C.  B.)    .    . .  »      325 

La  «Voce  dei  popoli»  (E.  R.)   .    . '  .    .    .    .  *      327 


Fasc.  IV.  —  Laglto^agosto. 

Aldo  Ferrari,  L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari Pag.  329 

Giuseppe  Pardi,  Un  bilancio  preventivo  dello  Stato  fiorentino  nel  1544  »  349 

Guido  Santini,  Storiografia  elementare *  363 

Note;  Questioni  storiche;  Discussioni;  Recensioni: 

I.  L'enigma  del  Settecento  italiano  e  il  problema  delle  origini 

del  nostro  Risorgimento  (E.  ROTA) »  '^81 

IL  Spagna  e  Italia  nel  periodo  della  Rinascenza  (P.  Negri)  .    .  » 

III.  Giacomo  Burckhardt  (C.  B.) »  406 

IV.  Un'impresa  italiana  nel  campo  della  storia  economica  (C.  B.).  »  409 
V.  Un  nuovo  libro  sul  materialismo  storico  (C.  B.) »  413 

VI.  Philologica  ,•  antiphilologica  ;  extraphilologica  (C.  B.).    ...  »  419 
VII.  Ancora  una  parola  intorno  alla  cattedra  di  storia  antica  nella 

R.  Università  di  Roma  (Gu.  P.  ;  C.  B.) »  423 

Vili.  Riviste  nuove »  425 

Bibliografia  italiana  sulla  guerra  europea.        »  426 

Libri  ricevuti : »  435 

Fasc.  V-VI.  —  Settembre-dicembre. 

Corrado  Barbagallo,  Giuseppe  Fraccaroli Pag.  437 

Georges  Platon,  Un  Le  Play  ateniese  o  !'«  Economia  politica  »  di 

Senofonte  {Continuazione) »  450 

Umberto  Ricci,  Sulla  opportunità  di  una  storia  della  economia  po- 
litica italiana »  471 

Italo  Pizzi,  Origine  e  natura  della  civiltà  orientale  nel  Medio  Evo  .  »  484 
Ettore  de  Ruggiero,  Lo  Stato  e  la  città  capitale  nel  mondo  romano.  »  498 
Francesco  Paolo  Giordani,  L'umanitarismo  razionalistico,  e  l'impe- 
rialismo romantico  in  Germania »  508 

Ettore  Bota,  Razionalismo  e  storicismo  ecc.  {Fine) »  523 

Corrado  Barbagallo,  Francia  e  Germania  dal  1848  al  1871   (leg- 
gendo Enrica  von  Treitsckhe)  {Continuazione) »  554 

Rassegne:  V.  Piccoli,  Per  la  storia   della  filosofia   italiana:  Studi 

giobertiani »  565 

Note;  Questioni  storiche;  Discussioni;  Recensioni: 

I.  La  questione  ucraina  (Y.  Gr.) »  578 

II.  Tra  il  primato   di  un  popolo  e  la  missione   universale   delle 

nazioni  (Rodolfo  Mondolfo) »  582 

in.  Dopo  la  guerra:   Meditazioni   storiche:    considerazioni  e  raf- 
fronti (G.  Cassi) »  595 

IV.  Le  democrazie  medievali  italiane  (G.  LuzzattO) »  600 

V.  Nota   archeologica:   Un   nuovo   studio   sulla   campagna   ro- 

mana (E.  DE  R.) »  603 

VI.  Una  nuova  traduzione  dei  dialoghi  Platonici  (E.  Bignone)   .  »  605 

VII.  La  Poetica  di  Aristotele  (E.  BiGNONE) >  607 

Vili.  Una  storia  della  filosofia  greca  (V.  Piccoli) »  611 

Bollettino  bibliografico  .        »  621 

Libri  ricevuti »  639 


Anno  II.  Gennaio- Febbraio  1918,  Fasc.  1. 


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GUARDANDO  INNANZI 


Nel  varcare  la  soglia  del  secondo  anno  di  vita,  la  Nuova  Ri- 
vista Storica  —  non  più  trimestrale,  ma  bimestrale  —  procede 
con  lo  stesso  indirizzo,  dal  quale  prese  le  mosse,  ma  fortificata 
da  un  largo  consenso  di  spiriti,  umili  ed  eletti,  donde  essa  attinge 
la  prova  sicura  di  non  esistere  inutilmente. 

Certo,  non  è  mancata,  fra  le  molie  voci  unisone,  qualcuna 
fuori  di  chiave  ;  ma  sarebbe  follìa  pretendere  che,  nelle  cose  in 
cui  entra  il  pensare  degli  uomini,  i  pareri  fossero  sempre  iden- 
tici. Se  questa  è  la  regola  comune,  nel  nostro  caso  essa  con- 
ferma la  necessità  di  persistere,  e  con  maggiore  ardimento, 
poiché  faremmo  opera  vana  se  la  Nuova  Rivista  Storica  incar- 
nasse un'idea  universalmente  accettata  e  condivisa. 

Intanto  ci  basta  di  avere,  dietro  a  noi  e  con  noi,  una  falange 
di  studiosi  e  di  compagni,  che  hanno  sorretto  Topera  nostra  con 
assiduo  testimonio  di  simpatia  e  di  fede.  L'accoglienza  cortese 
e  benevola  della  stampa,  quotidiana  e  periodica,  nazionale  ed 
estera,  ci  è  stata  convalidata  da  manifestazioni  private,  attraverso 
lettere  di  ignoti  e  di  illustri,  le  quali  appunto  perchè  private, 
esprimevano  senza  veli  l'animo  di  coloro  che  le  dettarono.  Noi 
scorriamo  ancora  in  questo  momento,  con  vera  commozione, 
quegli  scritti  che  già  ci  furono  di  tanto  conforto;  non  ne  ren- 
diamo conto  al  pubblico  perchè  essi  erano  destinati  a  noi  —  a  noi 
soli  —  ma,  iniziando  il  nuovo  anno,  vogliamo  da  queste  pagine 
dichiarare  a  quei  cortesi  la  nostra  profonda  riconoscenza. 

^  —  Nuova  Rivista  Storica. 


La  Redazione 


Quali  le  ragioni  della  fortuna  della  Nuova  Rivista  Storica, 
che  pure  nacque  ed  è  vissuta  attraverso  le  circostanze  storiche 
meno  favorevoli? 

In  primo  luogo,  pensiamo  che  trenta  o  più  anni  di  contor- 
sione del  pensiero  e  delle  attitudini  nostre  sul  terreno  della  sto- 
riografia, in  nome  di  una  scienza,  che  si  diceva  più  severa,  es- 
sendo invece  una  brutale  contraffazione  deirideale  medesimo,  che 
essa  intendeva  raggiungere,  non  hanno  potuto  spegnere  le  nostre 
virtù  congenite,  e  quanto  di  eterno  o  di  vivo  rifulge  nella  nostra 
disciplina.  Lo  snaturamento'  del  nostro  pensiero,  la  deviazione 
dal  fine  e  dai  metodi  di  quella  cosa  sacra,  che  è  la  storia,  erano 
stati  compiuti  con  tutti  i  mezzi  —  lusinghieri  e  brutali  —  di  cui 
l'autorità  scientifica  dispone.  Eppure,  è  bastato  il  richiamo  di 
poche  voci,  nel  mezzo  di  una  crisi  generale,  perchè  una  folla 
di  gente  assetata  tornasse  verso  le  antiche  fonti  della  coltura 
storiografica  italiana. 

In  secondo  luogo,  noi  pensiamo,  il  nostro  successo  si  deve 
al  fatto  che  troppo,  da  due  o  tre  anni,  si  è  chiacchierato  in  Italia 
di  tedeschismo  e  di  antitedeschismo,  di  vassallaggio  e  di  eman- 
cipazione della  nostra  coltura;  ma  assai  poco,  almeno  nel  campo* 
delle  scienze  morali,  si  è  tentato  allò  scopo  di  accordare  i  fatti 
alle  sovrabbondanti  parole.  Vezzo  deplorevole,  a  cui  ha  voluto 
riparare  la  nostra  iniziativa.  Noi  intendemmo  con  essa  dire  e 
provare  che,  mentre  una  propaganda  teorica,  diretta  a  rafforzare 
la  nostra  nuova  coscienza,  può  essere  utile,  assai  più  utile  è 
cominciare  a  fare,  sforzarsi  ili  fare,  incamminarsi  sulle  vie  nuove, 
che  sono  per  altro  le  secolari  strade  maestre  del  mondo  latino, 
e  di  questa  volontà  di  azione  abbiamo  tentato  di  dare  una  prova 
positiva.  Infine  —  e  su  quest'ultimo  punto  chiediamo  che  special- 
mente si  soffermi  Fattenzione  dei  lettori  —  noi  pensiamo  che  ad 
un  altro  fatto,  ad  un  altro  oscuro  sentimento  si  debba  il  successo 
dell'opera  nostra.  Questa  guerra  universale,  che  incendia  l'Europa, 
non  è  soltanto  un  conflitto  d'armi  e  d'armati,  in  cui  sarà  vin- 
citore solo  colui  che  avrà  trionfato  per  la  sua  forza  materiale 
sui  campi  di  battaglia.  È  altresì  una  grande  prova  spirituale,  e 
vincitore  sarà  quegli,  se  non  oggi,  in  un  prossimo  avvenire, 
che  da  tale  prova  uscirà  libero  o  liberato,  perchè  in  questa 
prova  avrà  ritrovato  la  sua  personalità,  nazionale,  culturale,  in- 
tellettuale. Costui  vincerà  in  proporzione  del  suo  stesso  sforzo^ 


Guardando  innanzi 


anche  se  la  sorte  sui  campi  di  battaglia  gli  sia  contraria.  Noi  perciò 
credemmo  (e  pare  che  il  nostro  pubblico  ci  abbia  intesi)  di  porre 
nel  nostro  paese  uno  degli  elementi,  di  accendere  una  delle  fiac- 
cole di  questa  nuova  potenza  spirituale;  credemmo  che  la  nostra 
fosse  una  forma  di  lotta  non  meno  utile  delle  altre,  perchè 
quesfoperà  contribuisce  in  modo  eminente  alla  vittoria,  che 
solo,  se  sapremo  ottenerla  su  questo  terreno  dello  spirito,  ninno 
potrà  mai  ritoglierci  colle  armi. 

Perciò  volemmo  venire  alla  luce  ieri  e  non  domani;  perciò 
abbiamo  dato  vita  a  questo  nostro  amato  organo  di  coltura,  nel- 
l'istante più  difficile  della  nostra  storia  e  della  nostra  vita;  perciò 
parecchi  di  noi  —  redattori  e  collaboratori  —  vi  hanno  atteso, 
vi  hanno  voluto  attendere,  pure  essendo  impegnati  in  più  gra- 
vosi e  materiali  servizi,  che  il  paese  richiedeva. 

Il  nostro  programma  rimane  pertanto  immutato:  fare  in  modo, 
con  Popera,  con  Fesempio,  col  richiamo  continuo,  che  Io  scri- 
vere di  storia  torni  ad  essere  in  Italia,  non  già  tediosa  eserci- 
tazione critica  su  questioni  minute  e  disorganiche,  non  già  il- 
lustrazione spicciola  di  testi  e  di  documenti,  ma,  essenzialmente, 
«  interpretazione  e  intelligenza  dei  fatti  sociali,  specie  di  quelli 
politici,  nel  senso  pili  ampio  e  comprensivo  della  parola  » .  Tutto 
questo  non  significa,  non  può  significare  (ogni  nostro  articolo 
ha  dato  di  ciò  prova  palmare)  che  noi  disdegniamo  la  erudi- 
zione, le  ricerche,  la  disciplina  scientifica;  che  noi  amiamo,  come 
taluno  vorrebbe  dire,  abbandonarci  alla  faciloneria  e  a  una  così 
detta  oziosa  (chi  sa  mai  perchè?)  «genialità  latina».  Significa 
invece  credere  che  le  ricerche,  Terudizione,  le  discussioni  sui 
testi  debbono  non  esser  mai  fine  a  se  stesse,  ma  mezzo  contin- 
gente a  uno  scopo  più  alto  e  diverso:  la  vera  e  propria  pene- 
trazione storica.  La  quale  si  può  raggiungere  non  solo  facendo 
ricerche,  accumulando  notizie,  discutendo  fonti,  ma  sforzandosi 
d'intendere  il  significato  delle  cose,  e  si  raggiunge  di  fatto,  allor- 
ché la  storico  si  pone  in  intima  comunione  col  contenuto  del  ma- 
teriale raccolto,  e  con  tutte  le  discipline,  e  con  quel  senso  della 
vita  storica,  che  soli  sono  in  grado  di  illuminare  il  suo  spirito. 

Dopo  un  anno  di  esperienza  noi  conosciamo  ancor  meglio 
che  non  in  passato  quanto  sia  difficile  raggiungere  il  nostro 
ideale,  quanti  ostacoli  occorre  superare  per  rendere  veramente 
fattiva  l'opera  nostra.  Taluni  dì   questi  ostacoli  derivano  da  ra- 


La  Redazione 


gioni  puramente  materiali:  Io  spazio  che  ogni  giorno  ci  manca 
perchè  non  possiamo  oHrepassare  gì'  invalicabili  confini  tipogra- 
fici; Fopera  di  collaborazione,  che  ci  vien  meno  improvvisamente, 
per  forza  maggiore;  la  impossibilità  di  scegliere  coloro,  che  pur 
avremmo  bramato  di  adoperare  ;  la  nostra  cruda,  incorreggibile 
povertà!...  Ma  la  prova  durata  c'insegna  anche  questo:  che  per 
riuscire  bisogna  agire;  che  gli  ostacoli  bisogna  tentarli,  non 
accrescerli  per  farne  ombra  alla  propria  pusillanimità,  e  che  molti 
dei  più  gravi  problemi  della  nostra  ora  presente  non  si  risolvono 
con  la  preordinata  abbondanza  dei  mezzi  materiali,  ma  con  la 
saldezza  della  volontà,  con  Fabnegazione  del  lavoro,  con  lo 
sforzo  tenace  e  quotidiano,  con  la  passione  disinteressata  che 
nello  sforzo  si  prodiga,  checché  il  sacrificio  abbia  a  costare. 

Queste  furono  le  virtù  che  mancarono  a  gran  parte,  della  vec- 
chia Italia  di  ieri  ;  queste  sono  le  virtù  che  debbono  scaldare  i 
cuori  delle  generazioni  di  oggi  e  di  domani. 


La  Redazione 


FILOLOGIA  E  LETTERATURA* 


1 Ma  siamo  giusti:  se  la  retorica*  è  nata  effettivamente  con 

lo  scopo  preciso  e  confessato  di  ingannare,  ciò  non  impedisce  che  per 
altri  rispetti  possa  essere,  e  qualche  volta  anche  sia,  una  disciplina 
onesta  e  nobilissima.  In  quanto  infatti  essa  studi  a  posteriori  la  veste 
del  pensiero,  è  ricerca  psicologica,  come  la  grammatica;  e  il  notare, 
catalogare  e  coordinare  i  vari  atteggiamenti  dell'espressione  non  è  certo 
meno  capitale  per  il  filosofo,  di  quello  che  sia  il  diriger  l'attenzione 
sopra  alcun'altra  più  appariscente  specie  di  fenomeni.  Studiare,  per 
esempio,  come  il  parlar  proprio  e  il  figurato  si  corrispondano,  si  so- 
stituiscano e  si  intreccino  tra  loro,  è  studiare  come  si  associno  le  idee, 
è  cercare  di  conoscere  l'umana  natura  in  ciò  che  ha  di  più  proprio 
e  più  caratteristico,  è  cercare  di  conoscerci  noi  stessi,  che  è  precisa- 
mente lo  scopo  della  nostra  esistenza.  Fino  a  qui  nessuno  può  non 
lodare  la  retorica,  e  Aristotele  può  stare  sicuro  di  tutta  la  nostra  am- 
mirazione. Ma  insegnare  a  far  metafore  e  metonimie  è  proprio  come 
insegnare  agli  uccelli  a  cantare  ;  ma  invece  di  studiare  il  pensiero  nella 
forma  sua  spontanea,  considerar  la  forma  come  indipendente  da  esso, 
e  trasportarla  di  qua  e  di  là  come  un  abito  fatto  per  andar  bene,  o 
piuttosto  per  andar  male,  a  tutti  i  corpi  ;  ma  formular  precetti  di  ne? 
cessità  arbitrari,  manchevoli  e  falsi,  —  questa  è  educare  alla  menzo- 
gna e  alla  sciocchezza;  e  questa  è  la  retorica  che  noi  detestiamo  e 
combattiamo. 

Ma  la  retorica  ha  una  sorella  minore;  ed  è  la  filologia.  Non  inar- 
cate le  ciglia,  che  ora  ve  lo  spiego.  Anche  la  filologia  infatti  studia  la 


*  Da  un  volume  di  iraminentc  pubblicazione  :  L'educazione  nazionale,  Bologna, 
Zanichelli. 

1  Della  retorica  come  falsificazione  si  parla  nel  capitolo  precedente. 


Giuseppe  Fraccaroli 


veste  del  pensiero,  però  con  questa  differenza,  che  la  retorica  la  studia 
nella  sua  convenienza  con  la  cosa  rivestita,  e  la  filologia  la  studia 
meramente  in  quanto  è  veste,  di  che  materia  sia  ìntessuta,  come  sia 
intessuta,  come  sia  tinta,  e  se  sia  tarlata,  e  se  si  possa  rammendare, 
e  vìa  discorrendo.  In  altre  parole,  la  retorica,  quella  buona,  studia  la 
forma  per  giungere  al  pensiero  ;  e  la  filologia,  quella  buona,  studia  la 
materia  per  giungere  alla  forma;  e  se  è  funzione  modesta  in  apparenza, 
è  però  altrettanto  utile  ed  indispensabile.  Un  manicaretto,  per  quanto 
saporito,  vi  ripugna  e  vi  stomaca,  se  presentato  su  di  un  piatto  che 
sa  di  lezzo;  di  dove  si  vede  quanto  sia  utile  saper  lavare  i  piatti  bene. 
E  così  la  filologia  a  questo  deve  attendere,  a  darci  i  piatti,  cioè  i  testi 
puliti,  quindi  a  ridurli  possibilmente  come  gli  autori  li  hanno  scritti, 
o,  se  questo  non  può  farsi,  a  conformarli  almeno  alla  tradizione  più 
attendibile,  a  corredarli  di  tutti  i  dati  di  fatto  che  meglio  giovino  alla 
loro  intelligenza,  a  purgarli  dei  guasti  che  siano  loro  capitati;  e  poi- 
ché a  tale  bisogna  attendo  anchMo  professionalmente,  non  può  essere 
affatto  intenzione  mia  di  screditarla. 

2.  Precisiamo  meglio.  Filologia  è  vocabolo  di  uso  moderno  :  i  no- 
stri vecchi  l'avrebbero  chiamata  grammatica  ;  ma  questa  parve  parola 
troppo  frusta,  e  ne  occorreva  una  nuova.  Or  se  con  ciò  si  fosse  ot- 
tenuto di  definire  anche  con  maggior  precisione  il  contenuto  della 
nuova  disciplina,  sarebbe  già  un  guadagno  :  se  grammatica  nel  senso 
classico  comprendeva  anche  e  principalmente  la  letteratura  e  quindi  il 
pensiero,  e  con  filologia  si  voleva  intendere  che  la  letteratura  veniva 
eliminata,  fin  qui,  padronissimi.  Gli  è  che  invertivano  anche  le  parti, 
e  la  letteratura  intendevano  con  ciò  di  padrona  farla  serva,  e  la  filo- 
logia di  serva  padrona:  la  materia  diventava  la  sostanza,  lo  spirito  e 
la  vita  un  accidente.  E  così  la  letteratura  nella  filologia  ce  la  facevano 
entrare  a  parole  quando  tornava  comodo,  ma  c'entrava  per  mera  tolle- 
ranza; e  quando  si  veniva  alla  resa  dei  conti,  una  collazione  o  un  cata- 
logo di  codici  la  vinceva  sempre  in  confronto  di  qualsiasi  piti  meditato 
lavoro,  ove  oltre  la  preparazione  strettamente  filologica  facesse  capolino 
un  qualche  sospetto  di  pensiero.  Questa  è  storia  ben  documentata. 

Or  questa  concezione  è  essenzialmente  materialistica,  come  è  essen- 
zialmente tedesca.  Da  quando  fu  detto  cogito^  ergo  sam,  pareva  dovesse 
essere  fuori  di  discussione  la  precedenza  del  soggetto  sull'oggetto; 
qui  invece,  non  che  posposto,  il  soggetto  è  presso  che  eliminato.  Es- 
sere oggettivi  è  la  prima  raccomandazione  che  si  fece:  la  letteratura 
poteva  essere  arte  o  filosofia;  la  filologia  volle  esser  scienza,  e  con 
essa  le  ventiquattro  discipline,  che  secondo  il  Wolf  ne  dipendono.  Ma 
oggetto  della  scienza  non  può  essere  che  il  fatto,  cioè  ciò  che  si  pesa, 
novera  e  misura:  l'apparato  pertanto  era  solenne,  il  corteggio  splen- 


Filologia  e  Letteratura 


dido,  ma  la  sua  meta  è  un  tempio  senza  Dio:  la  vostra  filologia  esclude 
lo  spirito.  Una  pittura  storica  del  Carlyle  o  del  Michelet,  per  rubare 
un  esempio  al  Romagnoli,  un'analisi  artistica  del  Taine,  una  sintesi 
estetica  del  De  Sanctis,  per  il  filologo  sono  mere  fantasie,  per  ciò  che 
non  si  pesano  e  non  si  misurano,  e  non  sono  perciò  scienza;  per  noi 
sono  invece  al  di  là  della  scienza,  sono  filosofia.  Voi  ci  date  i  fatti,  e 
sta  bene,  e  ve  ne  ringraziamo  :  la  vostra  è  anatomia  ;  siete  contenti  ? 
Noi  ne  inferiamo  e  ne  riviviamo  lo  spirito:  la  nostra  è  biologia.  Se 
poi  mi  insistete  a  dire  che  è  sciocco  chi  si  immagina  di  poter  capirne 
di  biologia,  se  d'anatomia  non  capisce,  e  che  più  sciocco  ancora  è  il 
discorrere  d'estetica  senza  aver  prima  suffieentemente  accertato  dì  che 
cosa  si  discorre,  io  vi  darò  non  una  ma  dieci  ragioni.*  Soltanto  io 
vi  aggiungo  che  accertare  i  fatti  è  presso  che  inutile,  se  poi  non  c'è 
chi  ne  cavi  alcun  costrutto. 

Né  si  può  cavamelo  improvvisando,  come  certuni  si  figurano. 
Discutendo  una  volta  di  certi  titoli  paleografici  d'un  candidato  in  un 
concorso,  e  notando  io  che  questi  non  costituivano  alcuna  prova  che 
il  loro  autore  di  letteratura  o  d'arte  capisse  un  corno,  mi  sono  sentito 
rispondere  :  —  O  che  credete  che  costui,  che  ha  saputo  far  questo,  non 
saprebbe  facilmente,  quando  occorra,  anche  dire  chi  era  Sofocle,  cosa 
ha  scritto,  e  via  via?  —  E  dinanzi  a  tanta  innocenza  che  vogliamo  rispon- 
dere alla  nostra  volta?  Che  il  professore  di  letteratura  non  deve  rifi- 
schiare ciò  che  è  su  tutti  i  manuali,  ma  presentare  l'autore  e  l'opera 
nella  luce  del  suo  spirito?  che  deve  essere  maèstro  di  vita?  Saper  fare 
la  Sippe  dei  codici  d'Aristofane  non  prova  nfente  affatto  che  quello 
capisca  Aristofane:  provò  di  capirlo  invece  il  Romagnoli  con  la  sua 
eccellente  traduzione;  e  poiché  lo  capì,  seppe  riprodurne  anche  lo  spi- 
rito, e  ridestandone  l'amore  e  il  desiderio  giovò  così  agli  studi  clas- 
sici e  alla  loro  vita  vera  attuale  e  perenne,  più  che  non  avrebbero 
potuto  fare  mai  più  generazioni  di  filologi  puri,  per  quanto  accurati 
e  diligenti.  Or  poiché  noi  crediamo  che  l'arte,  l'estetica,  la  psicologia, 
la  filosofia,  tutti  gli  studi  del  pensiero  richiedano  sensazione  chiara  e 
precisa,  osservazione  acuta  e  delicata,  riflessione  continuata,  esercizio 
appassionato,  e  speciale  abito  mentale,  riteniamo  altresì  che  chi  crede 
queste  cose  poterle  improvvisare,  con  questa  stessa  sua  credenza  dimo- 
stra che  la  sua  filologia  non  la  ha  ajutato  a  capir  niente:  la  filologia,  il 
cui  vero  merito  era  stato  quello  di  combatter  la  retorica,  l'ha  ricon- 
dotto in  grembo  a  una  retorica  peggiore. 


1  Io  non  loderò  mai,  per  esempio,  la  disinvoltura  di  coloro  che  traducono  una 
opera  d'alta  arte  o  di  pensiero  senza  rendere  ragione  del  testo  onde  traducono,  quando 
«luesto  testo  sia  effettivamente,  e  non  immaginariamente,  incerto  e  discutibile. 


Giuseppe  FraccaroV 


Ma  sempre  che  la  filologia  sia  sana  veramente,  e  riconosca  che 
ai  mondo  c'è  anche  qualcos'altro  che  non  e  di  suo  dominio,  nessuno 
si  immagini  che  a  chi  preferisce  studiar  filologia  noi  vogliamo  imporre 
la  letteratura  ad  ogni  costo.  Ciascuno  scelga  ciò  che  gli  si  attaglia;  e 
posto  che  i  Tedeschi  fossero  contenti  delle  discipline  filologiche,  do- 
vremmo anche  riconoscere  che  ciò  è  ragionevole  per  loro  e  sufficente 
e  consentaneo.  Il  pensiero  greco  e  latino,  come  non  nella  storia,  così 
neppur  nelle  lettere  è  il  pensiero  loro  né  la  vita  loro:  è  una  cosa 
straniera,  di  cui  vorrebbero  informarsi,  un  ornamento,  una  cultura,  ma 
di  cui  strettamente  parlando  potrebbero  fare,  e  nella  sostanza,  si  è 
visto  adesso,  fanno  anche  a  meno:  per  loro  è  erudizione,  jroXvfiaOia. 
Ci  fu  bensì  un  tempo  in  cui  i  maggiori  loro  filologi  non  disdegnarono 
di  essere  anche  esteti  (Carlo  Ottofredo  Mueller,  per  tacer  d'altri,  ne  è 
un  esempio  luminoso);  e  se  tale  indirizzo  è  tra  loro  oggidì  sempre 
più  pretermesso,  non  vorremo  di  ciò  congratularci;  ma  per  lo  meno 
sono  consentanei.  Alla  filologia  nel  senso  più  ristretto  il  loro  raziona- 
lismo e  positivismo  dispone  i  Tedeschi  egregiamente  :  facciano  dunque 
ciò  che  sanno  fare.  Ciò  che  la  filologia  tedesca  ha  di  grande  vera- 
mente è  infatti  tutto  peso,  numero  e  misura.  Le  raccolte  delle  epigrafi, 
dei  documenti,  dei  monumenti,  i  lessici,  le  enciclopedie,  i  repertori,  1 
manuali,  tutto  ciò  che  ha  carattere  di  compilazione,  tutto  che  ha  o 
può  avere  il  nome  di  corpus^  è  eseguito  spesso  dai  Tedeschi  con  me- 
raviglioso acume  e  diligenza  e  con  un  vero  e  grande  vantaggio  delln. 
scienza  e  degli  studi:  io  perciò  continuo  a  servirmi  con  grato  animo 
dei  loro  repertori  anche  durante  la  guerra,  e  continuerò  anche  dopo 
la  guerra,  tanto  più  che  con  repertori  di  filologi  italiani  sostituire  non 
li  posso,  perchè  non  ve  ne  sono.  Per  tutto  ciò  invece  che  in  contrap- 
posizione al  corpus-  potrebbe  dirsi  spiritas,  la  faccenda  è  parecchio 
diversa.  Dacché  la  filologia  tedesca  cominciò  a  presumere  di  affinarsi 
in  scienza  pura  (o  così  credono)  e  sempre  più  positiva,  lo  spirito  co- 
minciò a  perder  d'interesse,  e  finì  col  perderlo  del  tutto.  I  filologi 
della  storia,  innocentissimi  (è  una  constatazione  del  Croce),'  ebbero 
l'ardimento  di  respingere  addirittura  l'intromissione  del  pensiero  nella 
storia;  e  peggio  fecero  i  filologi  delle  lettere.  E  ciò  si  spiega.  Non 
vediamo  noi  molti  medici  negare  l'anima,  perchè  sotto  il  bisturi  non 
è  mai  capitato  loro  di  trovarla?  Così  quelli  hanno  finito  a  non  trovare 
più  lo  spirito.  E  quando  non  c'è  più  spirito,  non  c'è  più  vita,  e  quando 
non  c'è  più  vita,  non  c'è  più  interesse  r  e  così  la  critica  tedesca  ha 
assunto  il  carattere  scientifico  del  disinteresse,  con  tutte  le  belle  con- 
seguenze che  di  sopra  abbiamo  deplorate. 


1  Teoria  e  storia  della  storiografia  (Bari,  Laterza,  1917),  p.  268. 


Filologia  e  Letteratura 


Ma  perchè  nel  mondo  morale  gli  effetti  di  questo  indirizzo  non 
siano  per  noi  invidiabili,  non  bisogna  per  questo  disconoscere  i  suoi 
ìrutti  nel  campo  razionale.  La  filologia  per  i  Tedeschi  non  fu  sterile. 
Se  dagli  studi  classici  furono  incapaci  di  apprendere  l'umanità  e  la 
bontà,  ne  hanno  appreso,  ho  detto  già,  la  disciplina.  E  da  questi  studi 
più  che  da  alcun  altro.  Se  infatti  la  matematica  ed  ogni  altra  scienza 
educa  della  mente  la  parte  razionale  nei  limiti  cui  giunge  quella  scienza, 
e  un  matematico  fuori  della  matematica  può  essere  innocente  come  un 
fanciullo,  gli  studi  classici  invece,  quando  siano  intesi  e  protessati  lar- 
gamente, per  il  loro  contenuto  svariatissimo,  questa  parte  razionale 
la  educano  tutta  e  la  dispongono  altresì  indirettamente  a  pesare  e  mi- 
surare tutte  le  manifestazioni  della  vita.  Or  limitateli  pure  all'analisi, 
nessuno  potrà  a  ogni  modo  negare  che  anche  così  non  debba  da  essi 
derivarsi  un  abito  non  più  parziale  ma  generale  di  ordine  e  di  pre- 
cisione, che  diventa  poi  una  forma  dello  spirito.  La  freddezza,  del  resto, 
di  questa  disciplina,  se  può  tarpare  le  ali  alle  ascensioni,  impedisce 
per  altro  i  voli  d'Icaro;  se  non  ti  permette  più  l'entusiasmo  della  con- 
templazione dei  c^eli,  ti  assicura  la  terra  sotto  i  piedi.  E  se  da  ogni 
altra  disciplina  e  instituto  di  vita  in  generale,  dagli  studi  classici  sopra 
tutto,  ridotti  meramente  razionali,  i  Tedeschi  questo  appresero  appunto, 
questo,  che  abbiam  riconosciuto  esser  la  loro  vera  forza,  a  sapere  ciò 
che  si  vogliono,  a  determinarlo,  a  preparare  e  misurare  i  mezzi  per 
raggiungere  il  fine,  a  considerar  le  cose  sotto  tutti  gli  aspetti,  a  non 
trascurar  nulla  di  ciò  che  può  giovare  a  un  dato  scopo,  a  far  la  critica 
e  poi  la  critica  della  critica.  Essi  si  esercitarono,  o  s'illusero,  a  demo- 
lire la  nostra  arte  e  la  nostra  storia;  e  poiché  di  quell'arte  e  di  quella 
istoria  l'anima  era  la  nostra  morale  cristiana'ed  umana,  questa  pure 
un  bel  giorno  credettero  di  aver  distrutta,  e  le  opere  loro  furono  con- 
formi a  questa  loro  persuasione.  Levato  via  infatti  dagli  studi  classici 
tutto  ciò  che  non  si  misura  e  non  si  pesa,  levato  via  ogni  significato 
morale,  ritenuto  superfetazione  e  falsità  tutto  ciò  che  non  si  può  ri- 
durre a  freddo  calcolo  e  a  fredda  logica,  la  parte  razionale  ne  riten- 
nero e  la  irrazionale,  come  debolezza,  ne  esclusero;  superarono  cioè 
i  nostri  aviti  pregiudizi  della  giustizia,  del  diritto,  dell'onore,  dell'uma- 
nità, tutti  elementi  turbativi  della  logica  assoluta.  Il  Nietzsche,  prima 
d'essere  filosofo  era  stato  filologo  e  aveva  conosciuto  perciò  le  teorit 
di  Trasimaco  e  di  Callide,  che  la  giustizia  è  danno  di  chi  la  pratica  ; 
e  il  Nietzsche  negò  dritto  dritto  la  morale,  la  negò  e  la  combattè.  Egli 
teorizzò  e  gli  altri  praticarono.  I  Tedeschi  perciò  aggredirono  il  mondo 
civile  con  scientifica  freddezza,  quando  i  loro  provvedimenti  precisi, 
cauti,  minuti,  analitici  diedero  loro  buono  affidamento  e  presso  che 
certezza  di  soverchiare,  ben  sapendo  d'altra  parte  che  le  vittime  loro 


IO  Giuseppe  Fraccaroli 


SÌ  baloccavano  ancora  nelle  ubbie  da  lor  derise,  e  si  fidavano  perciò 
ancora  ingenuamente  e  con  un  abbandono  così  fanciullesco,  da  lasciarsi 
cogliere  prima  affatto  impreparati,  e  da  farsi  menar  poi  per  il  naso 
mesi  ed  anni  dalle  grossolane  astuzie  dei  principi  balcanici.  Questo 
fu  il  vantaggio  che  ritrassero  i  Tedeschi  dagli  studi  classici,  ancorché 
potati  e  sconciati  al  modo  loro,  e  questo  è  il  danno  che  raccogliamo 
adesso  noi  deiraverli  in  tutti  i  modi  pretermessi.* 

Noi  non  ci  sogniamo  dunque  di  impugnare  il  valore  che  lo  studio 
razionale  dei  classici  per  molti  rispetti,  anche  di  gran  momento,  può 
avere  ed  effettivamente  ha;  e  poiché  i  Tedeschi  la  filologìa  la  colti- 
vano sul  serio  infinitamente  meglio  della  letteratura,  hanno  dunque 
ragione  se  nelle  università  loro  le  cattedre  che  da  noi  hanno  questo 
titolo  le  chiamano  col  titolo  di  filologia:  questo  risponde  bene  al  loro 
programma  ed  al  loro  scopo.  Non  hanno  invece  ragione  per  questo 
i  nostri  pappagalli,  quando  vorrebbero  sostituire  anche  da  noi  «  filo- 
logia ».  Nel  progetto  infatti  di  riforma  universitaria,  che  da  noi  pende 
sempre  e  un  giorno  o  Taltro  si  spera  che  caschi,  la  sostituzione  è  stata 
già  proposta:  poiché  la  scienza  ci  viene  di  Germania  e  noi  corriamo 
a  farcene  imboccare,  poiché  in  Germania  dicono  filologia,  è  giusto 
che  il  Mitarbeiter  (si  chiamano  così)  parli  come  parla  il  principale, 
com*è  doveroso  che  chi  si  fa  papero  si  faccia  menare  a  bere  dalle  oche. 
Gli  è  che  se  in  Germania  il  mondo  classico  può  essere  oggetto  di  uno 
studio  scientifico,  cioè  amorale  (quando  con  le  sue  denegazioni  non 
è  anzi  immorale),  disinteressato  e  demolitore,  da  noi  lo  studio  scien- 
tifico, se  mai,  non  dev'essere  che  un  mezzo  per  risalire  più  sicura- 
mente non  solo  alla  filosofia  ma  anche  alla  vita:  noi  di  quell'antica 
civiltà  nostra  non  ci  contentiamo  di  informarci,  ma  vogliamo  intenderla 
e  goderla,  e  non  soltanto  goderla,  ma  continuarla;  dobbiamo  perciò 
studiarla  tutta  intera,  come  ragione,  come  arte  e  come  idea. 

La  filologia  e  la  critica  storica  sono  certo  qualche  cosa,  e  come 
fondamento  e  substrato  del  filosofare  e  del  conoscere  possono  essere, 
e  sono  in  moltissimi  casi,  indispensabili.  Tu  devi  sapere  che  Platone 
nacque  in  Atene,  Aristotele  a  Stagira,  Dante  a  Firenze,  il  Petrarca  in 
Arezzo,  e  se  non  lo  sai,  sei  un  asino:  ma  il  saper  questo  solo  non 
ti  fa  migliore  né  intellettualmente  né  moralmente;  e  nemmeno  il  co- 
noscere la  prosodia  di  Dante  e  del  Petrarca  o  la  stilometria  di  Pla- 


1  Chi  vuol  confrontare  la  serietà  del  Gymnasium  prussiano  con  l'allegria  del 
liceo-ginnasio  nostro  che  gli  corrisponde,  non  ha  che  da  badare  a  queste  cifre.  In 
Prussia  il  latino  ha  in  tutto  il  corso  68  ore  d'insegnamento,  e  in  Italia  40;  il  greco 
in  Prussia  36,  in  Italia  21.  Viceversa  perla  lingua  nazionale  sono  assegnate  in  Prussia 
ore  24  e  in  Italia  49.  O  patria  delle  chiacchiere  ! 


Filologia  e  Letteratura  ii 


tohe,  che  pure  sonò  cose  utilissime  a  sapersi,  se  questo  non  ti  serve 
a  vivere  con  Dante,  col  Petrarca,  con  Platone.*  Noi  non  disconosciamo 
niente  affatto  che  ci  son  delle  notizie  e  dei  dati,  senza  avere  i  quali 
questa  comunione  di  vita  non  si  dà:  per  intender,  per  esempio, 

Nel  mezzo  del  cammin  di  nostra  vita, 

occorre  sapere  che  questo  mezzo  Dante  lo  poneva  ai  trentacinque 
anni,  e  sarà  utile  anche  persuaderci  che  questa  determinazione  non 
era  cervellotica.  Qui  l'erudizione,  se  anche  non  educa  la  mente,  è 
però  condizione  perché  essa  possa  intendere;  se  non  è  la  vita,  agevola 
la  vita;  tu  devi  quindi  cercarla  e  averla  cara:  questa  è  la  funzione 
che  riconosciamo  alla  filologia,  quale  ora  la  si  intende;  questa,  e  basta, 
cioè  di  chiarire,  e  non  già  di  turbare  la  visione. 

Se  infatti  invece  il  pedante,  spiegandoti,  per  esempio, 

Chiare,  fresche  e  dolci  acque 

con  tutti  gli  accidenti  della  sua  pedanteria,  ti  pianta  la  questione, 
poniamo,  se  Laura  si  sia  bagnata  in  una  vasca,  o  in  una  pozza,  o 
in  un  fosso,  o  in  un  lago,  o  in  un  fiume,  e  se  questo  fiume  losse  il 
Sorga,  e  disserta  sull'uso  dei  bagni  nel  medio  evo  in  Francia  o  in 
Italia,  tu  potrai  con  queste  notizie  occupar  gustosamente  i  fuoi  ozi 
eruditi,  e  te  ne  gioverai  forse  per  altri  rispetti,  ma  se  credi  con  ciò 
di  intender  meglio  la  canzone  del  poeta,  credi  pure  che  credi  una 
grande  sciocchezza.  Né  sono  curiosità  sempre  innocenti  :  se,  per  esem- 
pio, frugando  e  rifrugando,  ci  dovesse  risultare  che  Laura  si  bagnò 
in  una  tinozza,  ne  otterremmo  il  bel  costrutto  di  perdere  la  visione 
ideale  del  poeta  per  assistere  ad  un  fatto  di  toeletta  intima  poco  o 
punto  attraente.  Queste  misurazioni  insomma,  quando  si  vogliono 
applicare  a  ciò  che  non  è  misurabile,  invece  di  riconoscere  la  impo- 
tenza propria,  finiscono  col  negare  la  còsa  stessa  in  cui  servigio  si 
adoperano  :  avviene  per  Tarte  quello  stesso  che  avviene  per  la  reli- 
gione, per  ia  morale  e  per  la  patria.  E  non  potrebbe  essere  altrimenti. 
Dice  benissimo  Manara  Valgimigli  in  un  aureo  suo  scritto,*  che 
mi  piace  qui  di  segnalare  ai  giovani  (e  perché  non  anche  ai  vecchi?), 
quando  parlando  della  visione  soggettiva  dell'opera  d'arte,  determina 
insieme  la  funzione  ed  i  limiti  della  filologia  e  della  critica  :  <  Dire  che 


1  Cfr.  Gentile,  Sommario  di  Pedagogia,  I,  p.  172,  e  tutto  il  Capitolo  intito- 
lato //  metodo  vivo. 

s  Poesia  e  traduzioni  di  poesia,  prefazione  alle  Ecloghe  di  Virgilio  tradotte  da 
Socrate  Topi  (Palermo,  Sandron,  1916). 


Giuseppe  Fraccaroli 


l'interpretazione  che  noi  possiamo  dare  oggi  di  Omero  è  più  compiuta 
di   quella  che  potevano  darci  i  nostri   maggiori   cento   anni  fa  solo 
perchè  più  perfetti  sono  e  più  numerosi  gli  strumenti  ermeneutici  che 
possediamo,  è  su  per  giù  come  dire  che  la  impressione  ch'io  posso 
ricevere  da  questo  limpido  mattino  di  primavera  è  più  compiuta  di 
quella  che  poteva  riceverne  alcun  altro  qualche  secolo  fa,  solo  perchè 
io  sono  in  grado  oggi  di  possedere  più  precìse  conoscenze  sulla  vi- 
cenda delle  correnti  atmosferiche  e  sulla  loro  composizione  fisica  o 
chimica  ».  E  poco  più  oltre:  «  Nessuno  nega  come  e  quanto  di  fronte 
a  uno  scrittore  sia  utile  mettersi  nelle  condizioni  migliori  per   inten- 
derlo pienamente,  valendoci  di  tutti  quei  sussidi  che  la  scienza  ci  of- 
fre e  che  la  nostra  posizione  mentale  e  spirituale  e  lo  special  fine  a 
cui  intendiamo  ci  indicano  come  migliori;   ma  sopra  tutto  e  innanzi 
tutto  sarà  utile  e  necessario  che  cotesti  elementi  diversi  siano  di  volta 
in  volta  come  riassorbiti  dalla  nostra  unità  spirituale  fino  a  spogliarsi 
ciascuno  del  suo  valore  di  elemento  singolo  e  fondersi  tutti  e  quasi 
annullarsi  in  una  disposizione  di  più  schietta  semplicità  e  in  un  mo- 
vimento di  più  viva  energia  creatrice:  sarà  necessario  rinverdire  di 
volta  in  volta  la  nostra  freschezza  di  sensazioni,  purgare  l'anima  di  ogni 
ingombro  torbido  e  greve,  rifarci  immediati  e  leggeri  e  tersi...  Finché 
perduri  e  valga  la  impacciante  soma  degli  elementi  analitici  e  non  si 
sia  tornati  agili  e  spediti,  noi  potremo  fare  un  elenco  o  una  cronaca 
d'interpretazioni,  ma   non   potremo  né  sentire  né  dare  la  interpreta- 
zione nostra,  che  è  luce  di  contatto  diretto  e  sintesi  suprema  della 
nostra  anima  con  l'anima  dello  scrittore».  L'erudizione  insomma  di 
per  sé  sola  (e  la  filologia  è  appunto  erudizione)  non  educa  la  mente  ; 
e  che  un  individuo  o  un  popolo  coltissimo  possa  essere  insieme  inci- 
vilissimo, non  deve  fare  meraviglia.  Essa  infatti  studia  di  preferenza  la 
capacità  dell'oggetto  ad  esser  conosciuto  e  trascura  di  mantenere  b  di 
educare  nel  soggetto  la  potenza  di  conoscere.  Eppure  è  il  soggetto  quello 
che  più  importa  :  il  Petrarca  è  tutt'altra  cosa  per  l'artista  da  quella  che 
possa  essere  per  il  filologo,  come  la  chioma  di  Madonna  Laura  era 
ben  diversa  per  il  suo  amante  e  rispettivamente  per  il  suo  parrucchiere. 
3.  Ma  anche  i  parrucchieri  servono  a  qualcosa;  e  a  sbrogliar  le 
parrucche  male  pettinate  nessuno  nega  che  occorra  una  certa  abilità. 
E  così  la  filologia,  poiché  tira  i  nodi  al  pettine,  è  una  tecnica  utile, 
la  quale  va  studiata:  va  studiata,  come  va  studiato  l'alfabeto.  Io  non 
intendo  affatto  perciò  la  filologia  di  distruggerla,  come  augurò  un  amico 
mio  in  un  impeto  di  zelo  contro  le  male  fatte  dei  filologi;  io  sono 
invece  piuttosto  d'accordo  col   Croce,'   che  giudica  i  filologi   «  veri 


l  Op,  cit.,  p.  23. 


Filologia  e  Letteratura  13 


animaletti  innocui  e  benefici,  i  quali  se  venissero  distrutti,  come  nella 
concitazione  polemica  talora  si  augura,  la  fertilità  dei  campi  dello 
spirito  non  solo  ne  sarebbe  sminuita  ma  addirittura  rovinata,  e  biso- 
gnerebbe promuovere  d'urgenza  la  reintroduzione  e  l'accrescimento 
di  quei  coefficenti  dì  cultura:  press'a  poco  come  dicono  che  sia  acca- 
duto di  recente  nell'agricoltura  francese,  dopo  l'improvvida  caccia  data 
per  più  anni  agli  innocui  e  benefici  rospi».  E  sta  bene,  aggiungo  io; 
ma  se  questi  benefici  rospi  ti  vengono  a  saltar  sulla  tovaglia,  o  che 
allora  non  pigli  la  scopa? 

Io  la  filologia  non  rhi  sogno  dunque  di  distruggerla,  soltanto  voglio 
netterla  al  suo  posto.  E  tutte  le  cose  al  posto  loro  sono  belle  e  buone, 
anche  le  ciabatte  e  le  pignatte,  come  spiegava  Iscomaco  ateniese  alla 
sua  sposa:  e  quando  sono  fuori  di  posto  pajono  anche  più  brutte  che 
non  sono  e  corron  qualche  volta  dei  brutti  pericoli.  Io,  per  esempio, 
davanti  a  un  matematico,  a  un  chirnico,  a  un  naturalista,  a  un  giurista, 
a  un  filosofo  mi  periterei  molto,  e  starei  ben  attento  ai  moti  dei  suoi 
piedi,  quando  avessi  ad  affermarmi  suo  collega  nel  sacerdozio  della 
scienza  soltanto  perchè  io  sappia,  forse  che  sì  e  forse  che  no,  leggere 
un'antica  scrittura,  copiarla,  collazionarla  e  registrarne  le  varianti.  Gli 
è  che  il  naturalista,  il  matematico,  il  chimico  non  hanno  per  fortuna 
alcuna  idea  di  questa  così  détta  scienza  nostra,  e  poiché  la  senton 
chiamar  scienza, , credono  che  sia,  e  ci  pigliano  sul  serio.  In  realtà  la 
si  direbbe  meglio  tecnica,  tecnica  utile  per  certo  e  necessaria:  una 
tipografia  deve  avere  buoni  compositori  e  buoni  correttori  ;  e  un  notajo, 
se  ha  da  essere  notajo  (e  io  lo  so,  perchè  ne  ho  fatta  la  pratica), 
deve  eseguire  le  copie  degli  atti  conformi  esattamente  al  loro  origi- 
nale. O  la  diremo  scienza  perchè  è  ordine?  Anche  i  più  umili  mestieri 
allora  sono  scienza  :  o  perchè  il  ciabattino,  che  pianta  in  ordine  i  suoi 
punti  nella  suola,  non  potrebbe  anche  lui  fregiarsi  di  tal  nome?  Ma 
il  primo  ordine,  come  ho  detto  da  principio,  è  quello  di  stare  ciascuno 
al  posto  suo:  è  il  filologo  che  resta  al  posto  suo  e  presta  la  sua  opera 
diligente  e  coscienziosa  e  faticosa,  è  perciò  una  persona  rispettabi- 
lissima come  uno  scienziato,  e  forse  di  più,  in  quanto  che  creato  da 
Dio  con  un  cervello  che  poteva  ascendere  forse  alle  altezze  del  pensiero, 
si  contenta  invece  per  il  bene  comune  di  strisciare  terra  terra  prepa- 
rando con  pazienza  i  fondamenti  su  cui  altri  dovrà  edificare.  Io  non 
lesino  afflitto  la  mia  ammirazione  a  questo  martire,  come  non  la  lesino 
a  chi  insegna  quella. cosa  anche  tanto  più  utile  che  è  l'alfabeto,  sempre 
che  né  l'uno  né  l'altro  imbizzarriscano  al  punto  di  credere  che,  oltre 
quelle  parole  e  quelle  lettere  delle  quali  studiano  le  forme,  non  ci  sia 
altro  di  più  importante  da  vedere. 

E  acciocché  nessuno  pensi  ch'io  esageri,  o  che  parli  male  della 


Giuseppe  Fraccaroli 


filologia  solo  perchè  è  roba  che  viene  di  Germania,  e  questo  è  ora 
l'andazzo,  sentiremo  ancora  a  rincalzo  Benedetto  Croce,  che  non  è 
mangiatedeschi  certamente.  Dopo  aver  detto  ^  che  in  Germania  «  la 
mutria  pedantesca  fiorisce  meglio  che  altrove  e...,  per  effetto  dello 
stesso  abito  ammirevolissimo  della  serietà  scientifica,  la  scientificità  è 
assai  idoleggiata,  e  questa  parola  viene  ambiziosamente  adoperata  per 
ogni  cosa  che  concerna  i  contorni  e  gli  strumenti  della  scienza  vera  e 
propria»,  egli  soggiunge:  «Ma  in  Germania  ogni  meschino  copiatore 
di  testi  e  collettore  di  varianti  e  scrutatore  di  dipendenze  tra  i  testi 
e  congetturista  del  testo  genuino,  si  eresse  a  uomo  di  scienza  e  di 
critica,  e  osò  non  solo  guardare  a  faccia  a  faccia,  ma  con  superiorità 
e  dispregio,  come  uomini  antimetodici,  uno  Schelling  o  un  Hegel,  un 
Herder  o  uno  Schlegel.  Dalla  Germania  si  diffuse  questa  mutria 
pseudo-scientifica  negli  altri  paesi  d'Europa,  e  ora  anche  in  America  : 
sebbene  in  altri  paesi  incontrasse  con  più  frequenza  spiriti  irriverenti 
che  ne  risero».  E  ridiamone  dunque  anche  noi. 

Ad  ogni  modo,  anche  se  è  tecnica,  io  non  disconosco  che  la  filologia 
per  apprendersi  a  dovere  chieda  studio  lungo,  disciplina  ed  esercizio, 
e  a  farsene  padroni  veramente  non  sia  da  prendere  a  gabbo.  Io  non 
nego  dunque  ma  affermo  che  la  si  ha  perciò  da  insegnare  e  si  ha  da 
obbligare  gli  scolari  ad  impararla,  per  quel  tanto  almeno  che  è  loro 
indispensabile.  Ebbene,  nelle  università  nostre  c'è  già  una  cattedra  di 
grammatica  latina  e  greca,  sul  cui  contenuto  ancora  si  discute,  e  che 
fino  ad  ora  non  ha  servito  ad  altro  in  generale  che  ad  arrotondare  lo 
stipendio  a  parecchi  professori  o  ad  esser  come  un  premio  di  conso- 
lazione a  chi  a  vincere  la  corsa  non  sarebbe  mai  riuscito  altrimenti: 
perchè  non  potremo  noi  questa,  determinandone  meglio  la  materia, 
chiamarla  filologia  nel  senso  che  s'è  detto,  e  far  tutti  contenti?  No,  non 
vogliono.  È  la  letteratura  quella  che  dà  noja  ai  Tedeschi  d'Ualia.  Se 
mai  si  degnano  dì  curarsene,  vi  appiccicano  graziosamente  l'epiteto 
di  amena,  e  se  con  questo  intendono  di  serbare  per  la  filologia  quello 
di  nojosa,  faccian  pure.  Ma  che  amena  d'Egitto?  Letteratura  vuol 
essere  arte  e  pensiero  vivo;  e  in  una  cattedra  di  letteratura,  fino  a 
che  serbava  questo  nome,  c'era  sempre  il  pericolo,  scongiurato  per 
vero  molte  volte,  che  si  intrufolasse  qualcheduno  che  valesse  di  più 
per  le  doti  del  cervello  che  per  quelle  del  filo  della  schiena,  qualche 
aruspice  che  non  fosse  allenato  a  tenersi  dal  ridere  incontrando  un 
altro  aruspice;  non  hanno  torto  perciò,  se  corrono  ai  ripari.  Cos'è 
questo  scandalo  d'un  insegnamento  che  presume  d'esser  vivo?  Cos'è 
quest'ambizione  di  voler   capire   qualche  cosa  di  ciò   che   le  lettere 


1  Op.  cit,  pp.  268-69. 


J 


Filologia  le  Letteratura  15 


dell'alfabeto  significano?  In  una  certa  relazione  ufficiale  di  concorso 
mi  si  assicura  si  trovi  affermato,  non  essere  necessario  per  un  filologo 
avere  ingegno;  e  questo  credo  anch'io:  ma  quando,  e  non  ci  vorrà 
molto,  si  avrà  il  coraggio  necessario  a  fare  un  passo  di  più,  sentiremo 
dire  che  per  un  filologo  l'ingegno  è  anzi  dannoso.  E  allora  da  maestri 
senza  ingegno  impareremo  davvero  delle  bièlle  cose! 

Per  tal  modo  quel  dissenso  tra  la  scuola  e  la  vita,  che  si  lamenta 
nelle  scuole  secondarie,  non  che  attenuarsi,  anzi  si  aggrava  e  si  fa 
insanabile  nelle  università:  la  scienza  e  la  pratica  infatti,  invece  di 
collaborare,  molte  volte  si  ignorano  tra  di  loro,  e  ignorandosi  si  disisti- 
mano a  vicenda.  Di  chi  è  la  colpa?  Non  vi  ha  dubbio  che  i  pratici  ne 
hanno  la  lor  parte,  ma  non  si  potrebbe  affermare  per  altro  che  ne 
abbiano  di  più  dei  teorici.  Io  non  so  degli  altri  studi,  ma  dei  miei 
posso  ben  dire.  Che  cosa  c'è  di  più  vicino  alla  vita  di  un  popolo  della 
sua  letteratura?  E  a  noi  che  cos'era  più  vicino  della  letteratura  dei 
nostri  avi?  E  adesso  che  cosa  è  più  lontano?  Dire  che  la  scienza  ha 
ucciso  l'arte,  è  una  risposta  che  qui  non  può  aver  luogo.  Anche  con- 
cesso che  questa  la  sia  scienza,  dove  sono  i  suoi  prodotti?  Dove  sono 
le  sue  costruzioni?  Dove  sono  gli  autori,  i  fatti,  le  cose,  i  pensieri 
dell'antichità,  alla  ciii  conoscenza  e  intelligenza  abbia  contribuito  vera- 
mente? Qual  è,  o  signori  filologi  dal  metodo  dei  metodi,  il  cibo  spirituale 
di  che  abbiate  nutrito  il  popolo  nostro,  o  per  esso  coloro  che  dovevano 
esserne  i  maestri  ?  In  questo  nuovo  risorgimento,  per  esempio,  di  tanti 
testi  classici,  e  parecchi  pieni  d'interesse,  pubblicati  di  sui  papiri  spe- 
cialmente in  Germania  e  in  Inghilterra,  quali  e  quanti  sono  quelli  che 
abbiate  illustrato,  integrato,  emendato,  di  cui  abbiate  cercato  di  deter- 
minare il  valore  letterario,  storico,  filosofico,  che  abbiate  collocato 
al  posto  loro  nello  svolgimento  dell'arte  o  del  pensiero?  Bacchilide? 
Non  sarei  scortese  da  ricordarvelo,  se  con  cotesto  bagaglio  e  cotesti 
precedenti  non  v'atteggiaste,  proprio  voi,  a  tutori  e  detentori  esclusivi 
della  serietà  della  scienza  e  degli  studi.  Che  vis  de  dal  che  devi  avegh  ! 
diceva  quel  Milanese,  quando  sentiva  smargiassate  di  tal  fatta.  Inten- 
diamoci bene  :  io  non  li  metto  tutti  in  un  mazzo  ;  e  anche  tra  i  filologi 
nostri,  non  ostante  i  disaccordi  totali  o  parziali,  ne  riconosco  di  seri, 
dai  quali  so  bene  che  potrei  imparar  molto  :  il  lavoro  infine,  purché 
onesto,  qual  ch'esso  sia,  non  fa  torto  ;  è  l'inerzia  quella  che  fa  torto. 
Non  è  perciò  di  loro  né  per  loro  ch'io  parlo  ; 

Io  parlo  per  ver  dire, 

Non  per  odio  d'altrui  né  per  disprezzo; 

lo  parlo  per  amor  di  questa  nostra  Italia,  cui  in  buona  fede  o  in  mala 
fede,  per  ignoranza  o  per  leggerezza,  per  vanità  o  per  mancanza  di 


i6  Giuseppe  Fraccaroli 


carattere,  si  vengono  essiccando  le  fonti  della  vita  ;  io  parlo  perchè  è 
ora  di  finirla  con  cotesta  ciarlataneria  cosciente  o  incosciente,  che  ti 
riempie  la  bocca  di  paroloni,  di  scienza,  di  metodo,  di  ragù  di  lepre 
senza  lepre,  e  ti  vuota  il  cervello.  Tutto  ciò  che  non  corrisponde  alla 
nostra  natura  riesce  male  :  noi  potremmo  diventare  filologi  solo  comin- 
ciando ad  essere  artisti  ;  noi  abbiamo  bisogno  di  amare  per  sentire  il 
bisogno  di  conoscere;  noi  dobbiamo  commuoverci  alla  passione  di  Saffo 
(e  per  qualche  cosa  di  più  alto  e  di  meglio  che  per  andar  la  sera  al 
bordello,  come  qualche  filologo  ha  senza  richiesta  sui  giornali  confes- 
sato), dobbiamo  esaltarci  al  volo  di  Pindaro,  dobbiamo  ridere  alle  beffe 
d'Aristofane,  perchè  ci  venga  voglia  di  indagare  le  particolarità  della 
loro  lingua,  della  loro  ortografia,  della  loro  metrica:  questo  è  l'ordine 
naturale  delle  còse;  e  se  noi. seguiamo  quest'ordine,  è  segno  che  siamo 
ancora  vivi.  Il  processo  contrario  infatti  da  noi  ha  dato  frutti  mise- 
randi, appunto  perchè  per  noi  è  contro  natura,  e  tutto  ciò  che  si  fa 
contro  natura  affatica  ed  accascia:  filologia  e  nevrastenia  si  corrispon- 
dono da  noi  ben  più  che  non  sì  creda.  Grandi  propositi,  grande  pre- 
sunzione, grandi  progetti,  grandi  programmi,  grande  fumo;  ma  in 
sostanza,  in  confronto  dell'operosità  tedesca,  cui  sommariamente  ho 
testé  accennato,  la  scuola  filologica  tedeschizzante  da  noi  non  ha  pro- 
dotto che  qualche  trascrizione,  qualche  collazione  e  qualche  catalogo 
di  codici.  E  così  avviene  che  per  gli  studi  classici  manchino  in  Italia 
i  libri  anche  più  elementari,  o  se  c'è  qualche  cosa,  non  sia  merito  né 
opera  dei  filologi  puri.  Essi  hanno  scelto  per  impresa  una  comoda  sen- 
tenza di  Callimaco,  néya  pipXiov  fiéva  xaxóv,  cioè  *  libro  grande  porche- 
ria grande*;  e  preferiscono  perciò  fare  porcherie  piccole,  almeno  in 
estensione.  Si  è  lamentato  e  ancora  si  lamenta  che  i  testi  che  si  adope-. 
rano  nelle  nostre  scuole  siano  tedeschi  in  massima  parte,  e  ci  si  grida 
a  gran  voce  di  sostituirli.  Con  che?  È  perfettamente  inutile,  ci  ha  am- 
monito a  ragione  qualcuno  di  costoro,  tentar  la  concorrenza  con  le  ditte, 
germaniche,  quando  non  abbiamo  intanto  niente  di  niente.  Ma  se  que- 
sto fosse  vero,  come  rispetto  a  voi  è  vero  certo,  si  può  rispondere  e 
fu  già  risposto,  —  che  ci  stavate  voi  a  fare?  O  eravate  incapaci,  o 
avevate  un  osso  nella  schiena,  o  l'intesa  era  di  non  far  concorrenza 
alla  Germania:  scegliete  voi.  E  così  per  quasi  mezzo  secolo  questi  bei 
signori  non  hanno  cercato  altro  che  d'imporci  la  roba  tedesca  e  la 
mentalità  tedesca  ;  sapere  il  tedesco  prima  del  greco  e  del  latino,  scri- 
vere in  tedesco,  mettersi  in  coda  dei  Tedeschi,  farsi  corregger  dai 
Tedeschi,  esser  bene  quotati  in  Germania,  disconoscere  e  finger  d'igno- 
rare le  produzioni  del  pensiero  nostro  che  non  sian  compilazioni  da 
libri  tedeschi,  compatirle  al  più  come  dilettantismo  (perfino  il  Compa- 
retti,  il  grande  maestro,  ci  sono  or  certuni  che  lo  compatiscono);  — 


Filologia  e  Letteratura  17 


e  tutto  questo  tedescume  che  Italiani  volete  che  ci  educhi?  Questa  è 
la  bella  educazione  nazionale  a  cui  si  collabora  in  certi  nostri  atenei  ; 
poi  i  più  promettenti  di  saperla  diffondere  si  mandano  a  perfezionarsi. 
Dove?  In  Germania,  sempre  in  Gerniania,i  dove  sovrapponendo  alla 
mentalità  propria,  se  ne  conservavano  ancora  quafche  traccia,  la  men- 
talità altrui  con  danno  dell'una  e  dell'altra,  ci  ritornan  poi  giù  col  cer- 
vello ridotto  una  ciabatta,  e  scrivono  cose,  se  mai  ne  scrivono,  dove 
non  c'è  più  neanche  il  senso  comune.  Questa  è  la  mortificazione  intel- 
lettuale, a  cui  vogliono  condurci,  e  per  quanto  fu  in  loro  ci  hanno  già 
condotto,  i  banditori  del  verbo  germanico.  Non  ci  sarà  malizia  certa- 
mente, perchè  tra  loro  vi  sono  anche  di  quelli  che  non  si  fanno  affatto 
pregare  a  gridare  adesso  —  viva  l'Italia  !  —  occorra  o  non  occorra. 
Meglio  assai  però  farebbero  costoro  a  lasciar  stare  le  vociferazioni,  e 
a  procacciare  invece  di  modificarsi  loro  nel  loro  spirito,  nei  loro  atti, 
nei  loro  abiti,  di  riscattare  la  loro  e  la  nostra  mentalità,  che  vale  molto 
più  della  terra  irredenta.  Badiamo  ai  fatti,  amici  miei.  Lo  spionaggio 
culturale  tedesco  bollato  da  Ezio  Maria  Gray  nel  suo  santo  libro  Viti- 
vasione  Tedesca  in  Italia,  c'è  chi  crede  che  continui  anche  adesso.  Siete 
voi  vigili  abbastanza?  Avete  respinto  le  transazioni,  le  raccomandazioni, 
le  sollecitazioni,  le  imposizioni  che  vengono  direttamente  o  indiretta- 
mente dai  nemici  nostri?  Siete  sicuri  che  i  perfezionati  sappiano  edu- 
care nelle  vostre  scuole  anime  italiane,  o  non  propaghino  invece  il 
contagfo  onde  sono  infetti  essi  medesimi?  Non  si  dovrebbe  veramente 
dubitarne:  o  che  gli  altri  starebbero  a  ridere  e  a  guardare? 

4.  Mi  si  perdoni  questo  sfogo  che  non  è  che  risposta  a  recenti 
improntitudini,  e  ritorniamo  in  carreggiata. 

La  filologia,  ho  detto,  è  sorella  minore  della  retorica,  e 'degenera 
perciò  con  analogo  processo:  degenera  anch'essa,  e  più  della  reto- 
rica, quando  dallo  studio  dei  fatti  e  dalla  constatazione  dei  pesi, 
numeri  e  misure  presurne  tirare  conseguenze  e  fissare  leggi  che  vanno 
al  di  là  di  questi  limiti.  Un  esempio:  quando  la  filologia  riesce  a 
dimostrare,  se  pur  ci  riesca,  che  il  dialetto  di  Pindaro  è  differente 
in  questo  e  questo  dal  dialetto  dei  poeti  a  lui  più  affini,  quando  se- 
gnala certe  forme  sue  speciali  di  sintassi,  essa  accerta  dei  fatti  inte- 
ressantissimi, che  possono  aprirci  notevoli  spiragli  per  veder  dentro 
alla  sua  anima:  quando  ne  inferisce  che  Pindaro  dunque  non  sapeva 


1  De'  miei  scolari  in  Germania  non  ne  ho  mandato  mai  nessuno,  né  ho  mai  pro- 
posto di  mandarne:  non  sono  un  convertito.  E  se  anche  lo  fossi?  Ricredersi  d'una 
sciocchezza  o  d' un  errore  è  stato  sempre,  è  e  sarà  sempre  indizio  di  serietà  e  ragio- 
nevolezza. Si  è  convertito  anche  S.  Paolo  :  e  nessuno  mai  lo  ha  accusato  d' incoerenza 
o  di  mancanza  di  carattere. 

2  —  Nuova  Rivista  Storica.  * 


i8  Giuseppe  Fraccaroli 


bene  la  lingua  che  scriveva,  fa  delle  chiacchiere.  Vi  capacita?  E 
che  la  filologia  su  questa  china  sia  disposta  a  scivolare  più  assai 
della  retorica,  è  anche  facilmente  spiegabile  :  la  retorica,  l'abbiamo  già 
detto,  movendo  dalle  forme  della  vita,  ti  vuol  rifare  almeno  una  larva 
di  vita;  falsificando  il  pensiero  te  ne  fabbrica  almeno  un,  sia  pur 
cattivo,  surrogato:  la  filologia  movendo  dalla  materia,  a  furia  di  tra- 
scurare il  pensiero  e  di  eliminarlo,  finisce  a  disprezzarlo:  èssa  si  limita 
a  dissecare  e  a  ricomporre  dei  cadaveri,  e  poi  se  li  ammira  e  se 
li  gode. 

Il  vaniloquio  filologico  poi  è  piti  pericoloso  di  quello  retorico  ap- 
punto per  il  suo  substrato  di  oggettività.  Se  uno  stampa  una  disserta- 
zione, poniamo,  sulle  unità  della  tragedia,  io  posso  facilmente  dispen- 
sarmi dal  leggerla;  ma  quando  si  tratta  di  fatti,  non  si  sa  mai,  se  in 
quella  piccola  o  grande  porcheria  non  ne  sian  segnalati  uno  o  due 
nuovi,  o  se  per  lo  meno  non  siano  ordinati  in  modo  nuovo,  o  messi  in 
qualche  nuova  relazione.  Il  più  delle  volte  non  c*è  niente;  ma  intanto 
bisogna  leggere  e  perdere  il  tempo  e  confondersi  la  testa.  E  così  il  vani- 
loquio dilaga  sempre  più  ;  e  T  infatuazione  della  filologia  per  la  filologia 
trova  più  facile  esca  di  quella  della  retorica  per  la  retorica  :  la  critica 
positiva  traligna  in  critica  avvocatesca  :  si  cerca  la  tesi  per  la  tesi,  la  que- 
stione per  la  questione,  la  disputa  per  la  disputa;  ci  si  mette  di  punta  per 
dire  diverso  dagli  altri,  per  essere  più  acuti,  per  mostrarsi  più  scettici, 
per  sbalordire  con  l'erudizione,  le  citazioni,  la  sicumera.  E  così  adesso 
per  leggere  una  pagina  di  un  classico  bisogna  acconciarsi  al  bel  diver- 
timento di  leccar  via  le  allumacature  di  un  centinajo  di  semi-idioti  che 
vi  han  strisciato  sopra  la  loro  impurità  ;  ed  è  un  miracolo  di  Dio  se  non 
se  ne  resta  infettati.  Se  non  lo  fai,  ti  senti  dire  che  non  sei  al  corrente 
della  scienza,  che  non  hai  preparazione  bibliografica,  che  non  tieni 
conto  dei  più  recenti  risultati.  Ma  se  per  arrivare  al  banchetto  della 
ambrosia  devo  scavarmi  il  passo  in  mezzo  a  una  montagna  di  guano, 
ne  avrò  lo  stomaco  tanto  sconcertato,  da  non  sentir  più  tra  guano  e 
ambrosia  differenza.  Accade  infatti  che  non  si  faccia  ora  più  caso  se 
non  si  arriva  a  leggere  per  disteso  Omero,  Pindaro,  Eschilo,  e  conosco 
di  quelli  che  si  professano  filologi  e  verisimilmente  non  li  hanno  letti 
ancora  ;  adesso  importa  raccogliere  e  ammirare  e  ribiasciare  le  cache- 
relle che  hanno  evacuato  in  lor  dispregio  coloro  che  non  ne  hanno 
mai  capito  niènte.  E  ci  son  dei  disgraziati  che  passano  la  vita  in  co- 
teste  sporche  occupazioni. 

Non  c'è  schiavitù  peggiore  di  quella  dello  spirito.  Noi  dobbiamo 
bensì  avere  l'anima  aperta  ad  apprendere,  se  c'è  cosa  utile  a  sapersi, 
da  qualunque  parte  essa  venga  :  sissignori,  ma  dobbiamo  per  altro  anche 
guardare  che  merce  è  quella  che  ci  si  vuol  vendere,  ma  non  dobbiamo 


Filologia  e  Letteratura  19 


mutare  la  nostra  forma  mentis,  né  rinunciare  al  nostro  senso  d*arte. 
È  critica  poi  anciie  questa,  anzi  è  critica  di  critica.  Così  potremo,  per 
addurre  un  altro  esempio,  accettare  le  constatazioni  che  fa  il  Wilamowitz 
sulla  poesia  narrativa  delle  donne  di  Beozia,  ancorché  la  via  più  corta 
e  più  sicura  sarebbe  chiederle  ai  frammenti  stessi  di  Corinna,  dai 
quali  egli  le  attinse  e  derivò;  ma  non  abbiamo  nessun  obbligo  al 
mondo,  né  convenienza,  né  scusa  di  affrettarci  a  raccogliere  insieoie 
l'idiosincrasia  di  cotesto  signore,  e  ripetere  con  lui,  che  la  produzione 
poetica  delle  donne  di  Beozia  a  noi  piace  moHo  pia  che  non  le  stuc- 
chevoli opere  rapsodiche  attribuite  ad  Omero  e  ad  Esiodo,^  Queste  parole 


1  Questa  bella  facezia  è  stata  bollata  già  in  Minerva  e  lo  Scimmione  dal  Roma- 
gnoli, cui  l'avevo  indicata  io  (e  lo  dico  per  assumerne  la  responsabilità),  come  a  me 
era  stata  indicata  già  da  altri.  E  hanno  avuto  il  coraggio  di  difenderla!  L'autore  degli 
Appunti  sullo  Scimmione,  risponde  con  aria  quasi  di  pietà  :  «  Le  sganasciate  opere 
dei  rapsodi  che  vanno  sotto  i  nomi  di  Omero  e  di  Esiodo...  «  non  sono  n^  V Iliade 
NÉ  VOdissea  ».  Il  maiuscoletto  e  i  puntini  sono  suoi.  E  l'amico  che  gli  ha  aggiunto 
le  postille  ribadisce  con  altrettanta  sufficenza  :  «  Del  resto  è  chiaro  come  il  sole 
che  le  sganasciate  opere  sono  roba  ciclica».  Ma  benone!  Limitiamoci  a  Omero:  il 
Wilamowitz  parla  in  tempo  presente  :  a  noi  piacciono  molto  di  più  (uns  sehr  viel 
tesser  behagen)  delle  opere"  rapsodiche  che  vanno  (treten,  tempo  presente)  sotto 
il  nome  di  Omero.  Quali  sono  le  opere  che  vanno,  tempo  presente,  sotto  il  nome  di 
Omero?  L'Iliade  e  l'Odissea;  e  punto  e  basta.  Andavano,  sì  o  no,  sotto  il  suo  nome 
i  poemi  ciclici,  o  alcuni  di  essi,  ma  per  lo  meno  dagli  Alessandrini  in  qua  non  vanno 
più.  Andassero  pure,  dove  sono  le  rapsodie  cicliche  che  a  noi  (uns)  non  piacciono? 
Sapete  cosa  sono  i  poemi  ciclici?  Sapete  che  cosa  ne  rimane,  da  poter  dire  se  a  noi 
piacciono  o  non  piacciono?  Opere  rapsodiche  neanche  una,  neanche  mezza,  ma  solo 
pochissimi  e  miserabili  frammenti,  il  più  lungo  dei  quali  giunge  appena  a  dodici 
versi  (e  non  si  vede  poi  perchè  dovrebbe  dirsi  sganasciato).  Questo  è  il  metodo  critico 
che  imperversa  ancora  a  Firenze:  o  come  non  c'è  chi  senta  il  bisogno  di  respingere 
il  ridicolo  di  una  presumibile  acquiescenza  o  connivenza?  Ha  parlato  un  Tedesco? 
Venite,  adoremus!  Si  curassero  almeno  d'intenderlo  !  Le  parole  del  Wilamowitz  hanno 
un  senso  solo,  chiaro,  lampante  (altro  che  il  sole!),  brutale,  indiscutibile  :  /^  opere  che 
vanno  sotto  il  nome  di  Omero  e  che  a  noi  piacciono  o  dispiacciono,  sono  l'Iliade  e 
l'Odissea  ;  e  non  gli  piacciono.  Non  gli  piace  neanche  Pindaro  ;  non  c'è  dunque  di 
che  meravigliarci.  Volete  cambiargli  la  testa?  A  me  però  vien  quasi  voglia  di  difen- 
derlo contro  i  suoi  stessi  difensori,  che  giustizia  è  dovuta  anche  ai  nemici.  Il  Wila- 
mowitz infatti  sa  benissimo  ciò  che  resta  a  noi  dei  poemi  ciclici,  e  sa  che  nessuno  li 
attribuisce  più  ad  Omero  ;  egli  sa  altresì,  e  non  possiamo  fargli  l'ingiuria  di  4>unto 
dubitarne,  che  quando  si  vuole  per  mezzo  di  un  confronto  lodare  checchessia,  il  con- 
fronto dev'essere  con  cosa  o  persona  che  vale  o  comunemente  si  crede  valga  molto. 
Io  potrò  dire  che  mi  piace  più  Dante  di  Virgilio,  e  intendere  con  questo  di  lodarlo  : 
non  lo  loderei  punto  se  dicessi  che  mi  piace  di  più  di  fra  Giacomino  ;  e  soltanto  direi 
una  sciocchezza.  Il  confronto  perciò  di  Corinna  coi  poemi  omerici,  che  tutti  ammirano, 
a  Corinna  faceva  onore;  non  gliene  avrebbe  fatto  invece  quello  con  poetastri  (posto 
che  fossero)  che  si  soglion  citare  come  poveri  di  spirito.  Il  Wilamowitz  infatti  mostra 
altrove  di  avere  d'Omero  un  buon  concetto,  non  però  del  nostro  Omero,  ma  di  quello 
ch'egli  rabbercia  e  pota  a  modo  suo,  con  quel  buon   gusto  di  che  abbiamo  ormai 


20  Giuseppe  Fraccaroli 


le  copio  da  un  lavoro  filologicamente  non  mal  compilato  intorno  a 
Corinna,  opera  d*uno  studioso  che  probabilmente  fu  perfezionato  in 
Germania,  come  ci  pare  dalla  riverenza  religiosa  con  cui  riferisce  tali 
espettorazioni.  È  vero  che  de  gustibus  non  est  dlspatandum,  come  diceva 
quel  gatto  ;,  ma  bada,  figliuolo,  vorrei  dirgli,  che  dopo  di  questo  non 
c'è  più  che  il  manicomio.  Altro  che  futurismo!  Questo  è  ciò  che  si 
importa  ora  di  Germania;  e  ho  citato  questo  esempio,  solo  perchè 
è  Tultimo  che  mi  è  occorso  di  trovare,  e  perchè  chi  lo  riferisce  non 
ha  affatto  Tarla  di  un  vanesio  che  parli  a  caso,  ma  sembra  che  vera- 
mente intenda  di  esprimere  una  sua  scientifica  e  meditata  persuasione: 
thoagh  this  he  madness,  yet  there  is  method  in*t\  l'ho  citato  perchè  le 
affermazioni  generiche  lasciano  il  tempo  che  trovano,  e  i  fatti  parlano 
più  chiaro  al  nostro  ingegno. 

Però  che  solo  da  sensato  apprende 
Ciò  che  fa  poscia  d'intelletto  degno; 

sebbene  questa  volta  si  potrebbe  correggere,  e  dire  che  apprende  da 
insensato. 

La  filologia  insomma  e  la  scienza  tedesca  (s'ha  da  metterlo  in 
musica?),  in  ciò  che  hanno  di  buono,  che  non  è  poco,  noi  non  ci 
sogniamo  né  di  rigettarle  né  di  disprezzarle  :  ciò  che  i  Tedeschi  hanno 
pesato  bene,  è  pesato  bene  anche  per  noi.  Quanto  invece  al  pensare, 
che  è  per  lo  spirito  ciò  che  il  pesare  è  per  la  materia,  non  possiamo 
delegarlo  né  ai  Tedeschi,  né  ai  Francesi,  né  a  chi  che  sia.  Non  è  una 
rinuncia  che  ci  convenga  in  alcun  modo,  e  ,gli  esempi  di  essa  che  ora 
abbiam  citato  non  pajono  davvero  incoraggiarci  a  questo  passo. 

Ancora:  ciò  che  le  altre  nazioni  hanno  di  buono,  se  è  buono  per 
quelle,  può  essere  meno  buono,  o  anche  cattivo  per  noi.  Una  pelliccia 
è  eccellente  a  Pietrogrado  ;  ma  io  ho  veduto  dei  disgraziati  grondar 
di  sudore  indossandola  sotto  il  sole  di  Palermo,  forse  perchè  nella 
loro  testa  (e  testa  non  vuol  dire  altro  che  pignatta)  pareva  loro  questa 
un'eleganza.  Ciascuna  cosa  a  posto,  amici  miei  ;  e  sei  per  esempio,  il 
Wagner  ha  scritto  delle  opere  che  durano  intere  giornate,  egli  sapeva 
di  poter  contare  sulla  costanza,  sulla  pazienza  e  sulla  deferenza  del 


tante  prove:  ciò  che  d'Omero  non  gli^ piace,  ed  è  una  buona  parte,  son  per  lui  rapsodie 
male  attribuitegli  (ma  attribuitegli  però  sempre  veramente,  perchè  la  sentenza  d'espro- 
prio non  diventerà  mai  esecutiva),  roba  famosa  e  lodata  generalmente,  ma  per  lui  roba 
sganasciata:  a  questa  perciò,  alle  presunte  interpolazioni  dei  rapsodi,  con  tutto  che 
altri  le  ammirino,  egli  intendeva  forse  dire  che  Corinna  è  preferibile.  Le  sue  parole 
non  dicono  cosi,  ma  l'intenzione  può  esser  stata  questa:  è  un  giudizio  che  non  divi- 
deremmo ;  ma  sarebbe  per  lo  meno  un  discorso  che  fila. 


Filologia  e  Letteratura  21 


SUO  pubblico  ;  mentre  da  noi  chi  facesse  altrettanto  lo  si  manderebbe 
a  farsi  benedire.  Conoscere  perciò  quello  che  fanno  gli  altri  non  c'è 
dubbio  che  sia  utile;  ma  precipitarsi  ad  imitarlo  è  piuttosto  da  scimie 
che  da  uomini.  Né  solo  quando,  come  negli  esempi  ora  addotti,  la 
imitazione  è  per  sé  stessa  insensata,  ma  anche  quando  potesse  parere 
in  sé  indifferente.  Una  casa  di  stile  francese  o  tedesco,  per  esempio, 
può  essere  tanto  e  più  comoda  ad  abitarvi  di  una  casa  di  stile  italiano, 
e  vogliamo  anche  ammettere  per  un  momento  che  esteticamente  sia 
altrettanto  decorosa;  ebbene,  ma  da  noi  è  fuori  di  posto,  non  ha  storia, 
non  ha  ragione,  non  ha  continuità,  non  s'intona.  Un  capriccio?  I  capricci 
ammissibili  sono  quelli  che  non  escono  dal  nostro  carattere,  dalla  nostra 
indole;  quelli  invece  che  n'escono,  non  sono  altro  che  sciocchezze. 
Se  la  bionda  ci  tiene  a  conservare  la  sua  biondezza,  e  rispettivamente 
la  bruna,  o  che  crederemo  che  il  colore  dell'anima  importi  meno  che 
sia  conservato  del  colore  dei  capelli  ?  Or  quanto  più  noi  siamo  disformi 
da  un  altro  popolo,  meno  ci  si  adatta  ciò  che  per  quel  popolo  sta 
bene:  se  la  bionda  può  cercar  di  spandere  riflessi  d'oro,  la  bruna  cerchi 
invece  lucentezza  d'ebano  o  carezza  di  viole:  se  l'anima  tedesca  è 
più  razionale,  la  nostra  é  più  appassionata  ;  se  quella  è  grave  'e  com- 
passata, la  nostra  ride;  se  quella  dissolve,  la  nostra  rifonde ;...  lasciamo 
stare  le  bizze  dei  fanciulli,  che  vorrebbero  ciascuno  essere  il  più  bello: 
siamo  belli  tutti,  purché  ciascuno  s'accontenti  di  essere  quello  che  è, 
si  educhi  conforme  a  cotesta  sua  propria  natura,  e  faccia  quello  che 
sa  fare. 

5.  Certamente  colui  che  studia  lo  spirito,  tratta  un'essenza  che  a 
non  stare  bene  attenti  si  volatilizza  facilmente,  e  chi  tratta  i  corpi, 
ha  r  impressione  di  avere  sempre  qualche  cosa  salda  tra  le  mani.  Mi 
diceva  una  volta  un  valente  grammatico  :  la  differenza  è,  che  noi  filologi 
sappiamo  di  un  poeta  dare  delle  spiegazioni  positive,  e  voi  esteti  non 
sapete  dir  altro  che  bello  !  magnifico  !  —  Ebbene  ;  è  vero  che  noi  non 
sapremo  forse  pigliare  il  toro  per  le  corna;  voi  invece  lo  pigliate  per 
la  coda,  e  vi  pare  di  averlo  già,  se  ve  ne  resta  in  mano  qualche  pelo. 
Sta  in  fatto  che  l'estetica  e  la  filosofia  procedono  di  sintesi  in  sintesi, 
e  la  filologia  di  analisi  in  analisi  :  l'estetica,  per  esempio,  nega  i  generi 
letterari,  la  filologia  li  moltiplica;  e  si  ignorano  a  vicenda:  ora  è 
consentaneo  che  chi  discende  alla  pluralità  della  materia  trovi  più 
occasioni  di  chiacchierare,  che  non  chi  risale  all'unità  dello  spirito. 
Del  resto  non  è  del  tutto  vero  che  ci  riduciamo  solo  a  dir  bello! 
magnifico!  Francesco  De  Sanctis  disse  dì  meglio.  L'estetica,  se  mai, 
si  arrischia  anzi  troppo  spesso  a  dir  molte  più  cose  che  la  prudenza 
non  le  consiglierebbe  :  essa  si  dimentica  qualche  volta  che  l'oggetto  suo 
è  la  conoscenza  intuitiva,  e  si  dà  a  ragionare,  come  si  trattasse  di 


22  Giuseppe  Fraccaroli 


conoscenza  logica.  Ad  ogni  modo,  poiché  essa  investe  tutto  intero  il 
fenomeno  sensibile  nella  sua  essenza  e  non,  come  la  filologia,  soltanto 
nei  suoi  accidenti,  le  sue  conclusioni  sono,  anche  così,  ben  più  sostan- 
ziali e  probative  che  non  le  constatazioni  preparatorie  e  particolari 
della  scienza  presunta  sua  rivale. 

Ma,  per  non  divagar  troppo,  poniamo  per  un  momento  che  ci  ridu- 
ciamo a  un*esclamazione,  —  come  del  resto  fanno  anche  i  vostri 
Tedeschi,  più  o  meno  filologi,  quando  ci  ruzzolano  giù  dalle  Alpi,  che 
non  sanno  dir  altro  che  kolossal!  kolossal!  --  e  che  perciò?  Voi  cre- 
dete, sì  vede,  che  uno  stato  d'animo  non  si  possa  comunicare  agli  altri, 
se  non  formulandolo  in  un  discorso  razionale  ben  diviso  e  ordinato'  in 
soggetto,  predicato  e  complementi.*  Povera  umanità  se  la  fosse  così, 
e  disgraziato  quel  popolo  nel  quale  un  sì  misero  modo  di  comunicazione 
è  prevalente  !  Non  vi  siete  mai  trovati  in  una  folla,  in  un  teatro,  in 
•un  tempio,  in  una  battaglia,  a  una  festa,  a  un  funerale?  Non  avete 
mai  amato  ?  E  in  iscuola  ai  vostri  scolari  non  avete  mai  parlato  anche 
con  gli  occhi?  e  gli  scolari  a  voi  coi  loro?  Se  leggendo,  per  esempio, 
l'ultimo  libro  deWIllade  potremo  esercitare  la  nostra  diligenza  filolo- 
gica esaminando  i  fatti  linguistici  e  storici  e  le  altre  Realien,  se  potremo 
aguzzare  il  nostro  acume  artistico  osservando  con  quanta  sapienza  e 
con  quanta  umanità  vera  la  chiusa  del  poema  si  collega  col  principio,* 
e  i  due  riscatti  di  Criseide  e  di  Ettore,  non  solo  segnalino  la  diffe- 
renza profonda  tra  il  carattere  d'Achille  e  quello  d'Agamennone,  ma 
ci  rappresentino  in  atto  il  valor  morale  di  tutta  la  favola;  quando 
finalmente  assisteremo  al  pianto  concorde  e  irrefrenabile  di  Priamo 
e  di  Achille,  il  vecchio  e  il  giovane  uguagliati  dal  dolore,  quale  formula 
logica  vorreste  voi  trovare  per  esprimere  questo  estremo  di  poesia? 
O  davanti  alla  Pietà  di  Giovanni  Bellini  come  vi  pensereste  di  signi- 
ficare con  parole  questo  estremo  dell'arte?  Non  v'è  che  cercare  una 
altr'anima  sensibile  ed  amata  a  cui  stringerci,  con  cui  fonderci  insieme 
nella  visione,  nella  commozione,  nell'esaltazione,  nel  silenzio,  al  di  là 
di  ogni  ragione  e  di  ogni  logica.  Non  vi  pare  che  basti  ?  Se  non  avete 
mai  amato,  se  siete  incapaci  di  amare,  ci  farete  per  altro  anche  il 
famoso  piacere  di  credere  che  ci  sia  al  mondo  pure  chi  ama,  e  perciò 
nella  cosa  o  persona  amata  trovi  altri  diletti  e  compiacimenti  maggiori 
dì  quello  di  fare  la  statìstica  degli  elementi  che  la  costituiscono.  La- 
sciateci vivere,  questo  è  ciò  che  vi  chiediamo;  lasciateci  esercitare 


i  Osserva  acutamente  e  a  proposito  il  Bergson  {Les  Honnée  immédiates  de  la 
conscience,  XX»  ed.,  p.  103)  che  «  celles-là  seules  de  nos  idées  qui  nous  appartiennent 
le  moins  sont  adéquatement  exprimables  par  de  mots  ». 

«  Di  ciò  ho  discorso  nel  mio  libro  L'Irrazionale  nella  Letteratura,  pp.  184  sgg. 


Filologia  e  Letteratura  23 


tutte  le  nostre  facoltà.  Agli  affetti  sani  conculcati  si  possono,  se 
no,  sostituire  delle  degenerazioni  patologiche.  Dice  la  leggenda  che 
Sant'Antonio,  che  aveva  in  sé  represso  ogni  spirito  d'amore,  terminò 
a  innamorarsi  d'un  majale;  e  qualcosa  di  simile  accade  a  quei  filologi, 
o  aspiranti  a  filologi,  che  vanno  in  estasi  davanti  ai  frammenti  di  Co- 
rinna o  alla  Cldlppe  di  Callimaco,  o  che  pigliano  Timoteo  per  un 
grandissimo  poeta. 

Ma,  rispondono,  anche  la  vostra  ammirazione  per  Omero  non  si 
può  dimostrare  sia  più  legittima.  Non  si  pilo  dimostrare  razional- 
mente; non  solo  lo  concedo,  ma  lo  affermo:  noi  però  abbiamo  con 
noi  il  consenso  di  tutto  il  genere  umano;  e  questo  vuol  dire  che  se 
le  rapsodie  attribaite  ad  Omero  per  voi  sono  stucchevoli^  ciò  avviene 
non  perchè  Omero  ne  abbia  colpa,  ma  per  un  vostro  traviamento  pato- 
logico. L'estetica  è,  si  o  no  ?,  lo  studio  del  bello  sensibile?  E  se  è  sen- 
sibile, ci  può  essere  di  esso  un  giudice  più  competente  del  senso?  E 
il  senso  normale  credete  voi  sia  il  vostro  proprio,  o  quello  di  tutta 
la  specie?  E  Omero  fu  ritenuto  sommo  poeta  forse  da  una  cricca 
di  compari,  che  gli  abbian  battuto  intorno  la  gran  cassa?  o  da  un 
cenacolo  d'intellettuali,  che  abbiano  lanciato  la  sua  moda?  o  da  una 
scuola  di  dotti,  che  avessero  interesse  professionale  di  lodarlo  ?  o  non 
piuttosto  da  tutta  la  grecità,  da  tutta  la  romanità,  da  tutta  la  civiltà, 
da  tutta  l'umanità  spregiudicata?  Voi  dimenticate,  cari  signori,  due 
verità  importantissime:  l'una  è  che,  nelle  cose  che  non  si  possono 
matematicamente  dimostrare,  il  senso  sano  della  specie  e  il  relativo 
consenso  generale  costituiscono  una  presunzione  di  cui  si  deve  tenere 
molto  conto,  e  che  perciò  se  a  voi  piacciono  più  i  calcinacci  che  lo 
zucchero,  non  vuol  dire  affatto  <!he  voi  abbiate  ragione  e  gli  altri  torto. 
Quando  dunque  il  lodato  signor  di  Wilàmowitz  vi  dice  in  un  altro 
luogo  *  che  «  il  parlare  di  un  carattere  unico  dell'Achille  o  dell'Ulisse 
omerico  è  una  pazzia  »,  io  non  dirò  che  questa  sia  l'ultima  parola 
della  scienza,  ma  penserò  piuttosto  malinconicamente  quanta  prudenza 
anche  l'uomo  più  dotto,  giunto  che  sia  a  una  certa  età,  dovrebbe  avere 
prima  di  contraddire  il  giudizio  concorde  di  tutto  il  genere  umano  sen- 
ziente e  pensante,  quando  più  facilmente  che  questo  il  pazzo  rischia 
invece  lui  di  parere  l'involuto.  Sono  disgrazie  che  succedono.  Né  il  per- 
ché ch'egli  vi  appulcra  lo  scagiona  :  «  perchè  »,  dice,  «  poeti  diversi 
concepiscono  l'eroe  medesimo  in  modo  diverso  ».  Arcibenissimo  ;  que- 
sta però,  se  mai,  sarà  la  prova  che  lì  non  ci  sono  poeti  diversi.  — 
L'altra  verità  è  questa  appunto,  che  non  nel  ragionamento  ma  nella 
ammirazione  contemplativa  la  ricerca  del  bello  ha  il  suo  termine,  e 


i  Die  griechische  Liti,  und  Sprache^  p.  12. 


24  Giuseppe  Frac  caroli 


che  per  conseguenza  l'artista  potrà  nella  scuola  comunicare  agli  altri 
il  suo  sentimento  anche  senza  parlare,  come  facea,  per  esempio,  Gia- 
como Zanella  mio  maestro,  mentre  il  retore  e  il  filologo,  in  quanto 
retore  e  filologo,  non  possono  neanche  parlando,  per  la  semplice  ragione 
che  non  si  comunica  altrui  ciò  che  non  si  ha. 

6.  Filologia  insomma  sta  a  letteratura  come  la  materia  allo  spirito, 
la  veste  alla  persona,  il  fiasco  al  vino,  ciò  che  è  accessorio  a  ciò  che 
è  sostanziale.  Certo  le  belle  vesti  e  i  buoni  fiaschi  non  sono  cose  indif- 
ferenti per  il  buon  vino  e  i  bei  corpi  ;  soltanto  crediamo  che  i  fiaschi 
e  le  vesti  normalmente  sian  fatti  per  contenere  il  vino  e  i  corpi,  e 
non  già  il  vino  ed  i  corpi  per  riempire  le  vesti  e  i  fiaschi  vuoti  ;  e 
perciò  la  vostra  indifferenza  e  sufficenza  per  il  contenuto  e  chi  se  ne 
occupa  è...  come  potrei  dire? 

Per  lo  meno  si  potrebbe  ritenere  che  il  lavare  i  fiaschi  e  raccon- 
ciare le  vesti  sia  un'occupazione  che  debba  avere  poi  un  termine  ;  e 
quando,  poniamo,  a  Sofocle  avremo  accomodato  il  tabarro  com'è  nella 
statua  in  Laterano,  non  c'è  nessun  bisogno  di  tornare  da  capo:  c'è 
bisogno  solamente  di  sentirlo  parlare.  Non  facciamo  così  forse  anche 
noi  ?  Quando  il  sarto  ci  ha  già  preso  le  misure,  se  non  siamo  poi  ingras- 
sati o  dimagriti,  come  a  Sofocle  è  un  po'  difficile  che  accada,  è  inu- 
tile che  ce  le  prenda  un'altra  volta.  Invece  no  ;  è  anzi  allora  il  bello 
di  cominciare.  Si  sa  bene;  non  c'è  che  Dio  che  non  sia  passibile  di 
miglioramento,  e  per  tutto  il  resto  il  campo  è  aperto  ed  infinito  ;  e  così 
tutti  vogliono  provareisi  :  quel  tabarro  così  pende  bene  ;  ma  io  crederei 
che  penderebbe  meglio  a  tirarlo  un  ditino  più  su,  e  tu  a  tirarlo  un 
ditino  più  giù:  tiriamo  dunque;  e  tira  che  ti  tiro,  e  il  divertimento  può 
continuare  per  tutti  i  secoli  de*  secoli,' —  ne  siamo  persuasissimi  anche 
noi.  Così,  con  la  solita  scusa  del  solito  famoso  sassolino,  ciascuno  vi 
schicchera  il  suo  componimento,  e  appiccica  sempre  nuove  incrosta- 
zioni, e  dàlie  una  e  due  e  tre  e  cento,  si  seppellisce  non  solo  il  tabarro, 
ma  anche  la  figura.  Quando  uno  per  intendere  Sofocle  debba  consu- 
mare prima  una  notevole  parte  della  vita  intorno  alla  sua  bibliografia, 
ha  anche  ragione  di  pensarci  due  volte  prima  di  accingersi  all'impresa. 
Questo  è  il  bel  risultato  di  sì  fatta  retorica  della  filologia. 

Checché  sia  di  ciò,  questo  almeno  è  certo,  che  in  quanto  la  filologia 
presume  di  esser  scienza  e  ne  assunse  il  metodo  e  gli  scopi,  in  tanto 
dovette  essa  perdere,  se  mai  l'avesse  avuta,  anche  ogni  funzione  sociale. 
L'arte  è  di  tutti,  la  scienza  non  può  essere  che  di  pochi  e  facilmente 
numerabili,  e  la  filologia  perciò,  posto  che  sia  tale,  deve  essere  trattata 
come  le  altre  sue  sorelle.  Se  però  non  sarà  pane  per  tutti,  potrà  essere 
companatico  per  pochi  ;  e  che  si  cerchi,  con  un  po'  più  di  studio,  un 
po'  più  di  buon  lavoro  e  un  po'  meno  di  ciarlataneria,  di  mettere  in-^ 


Filologia  e  Letteratura  25 


sieme  anche  da  noi  un  manipolo  meno  sparuto  di  filologi  veri  per  dav- 
vero, che  anche  in  questo  campo  rappresentino  non  risibilmente  né  mi- 
serevolmente l'operosità  nostra,  è  un  onesto  e  lodevolissimo  desiderio 
ed  è  ufficio  e  parte  anche  questa  non  trascurabile  dell'insegnamento 
universitario,  come  di  sopra  abbiam  riconosciuto.  Ma  non  potrebbe 
questo  aver  che  fare  con  l'educazione  né  universale  né  nazionale,  più 
che  non  ci  abbia  che  fare  la  chimica,  la  fisica,  l'astronomia,  anzi  infini- 
tamente di  meno.  Se  diventassimo  infatti  tutti  astronomi,  la  disgrazia 
sarebbe  molto  minore  che  a  diventar  tutti  filologi  ;  poiché  il  misurare 
la  distanza  delle  stelle  ci  può  far  meditare  utilmente  sulla  nostra  nul- 
lità, mentre  il  conoscere  la  gerarchia  dei  codici  di  Eliano,  che  effetto 
morale  possa  avere,  aspetto  ancora  uno  che  me  Io  dica.  Se  mai,  come 
scienza  o  pratica  tediosa,  meticolosa  e  minuta,  la  filologia,  presa  da 
sola  e  senza  alcun  contravveleno,  non  può  che  immiserire  e  invilire  e 
rimminchionire  chi  la  professa  ;  e  pur  troppo  ho  notato  dei  casi  dolo- 
rosi di  tali  fenomeni,  che  nort  saprei  spiegare  plausibilmente  in  altro 
modo. 

Il  fabbricare  dei  filologi  perciò  dev'essere  uno  scopo,  ma  non  per 
altro  lo  scopo  principale  neppure  dell'università  :  prima,  anche  all'uni- 
versità ce  ne  sono  due  altri  piti  generali  e  più  santi,  il  fare  dei  maestri 
e  il  far  degli  Italiani. 

Se  le  scuole,  così  dette,  secondarie  più  che  l'erudizione  e  la  cultura 
devono  aver  per  fine  la  civiltà  e  l'educazione,  un.  professore  secondario, 
cui  non  sia  stato  insegnato  altro  che  azzeccar  varianti,  far  collazioni 
e  mortificare  lo  spirito,  che  bella  civiltà  volete  che  insegni  ?  ^   Per  la 


»  Sugli  effetti  perniciosi  che  l'intrusione  delle  materie  e  degli  abiti  scientifici  ha 
prodotti  nelle  nostre  scuole  medie,  scrisse  pagine  eloquenti  e  degne  di  essere  medi- 
tate il  Gentile  in  Scuola  e  filosofia,  pp.  185  sgg.  —  Cfr.  pure  Sommario  di  Pedagogia^ 
\y  pp.  256-57.  Il  metodo  filologico  è,  quando  è  buono,  metodo  scientifico,  e  perciò  nel 
liceo  fatto  apposta  per  guastare  il  valore  educativo  di  quelli  studi  che  dovrebbero  essere 
anzi  il  suo  contravveleno.  La  scuola  media,  dice  bene  il  Gentile,  non  è  scuola  di 
scienza,  ipa  di  preparazione  alla  scienza  ;  e  se  questa  anticipazione  della  scienza  in 
altri  casi  non  solo  torna  a  danno  intellettuale  ma  anche  a  corruzione  morale,  tanto 
più  rovinosa  sarà  in  questo.  Non  sono  invece  più  d'accordo  con  lui,  quando  in  altro 
luogo  per  le  università  egli  vorrebbe  appunto  ciò  che  per  i  licei  trova  dannoso  :  ma 
forse  il  dissenso  è  meno  profondò  che  non  paja.  Certo  l'insegnamento  universitario 
dev'essere  dal  liceale  assai  diverso  ;  certo  dal  liceo  la  filologia  dev'essere  esclusa  e 
nell'università  deve  avere  il  suo  posto  ;  certo  nel  liceo  si  deve  accendere  la  fede  e 
nell'università  proporre  i  dubbi:  ma  da  una  parte  io  credo  che  un  distacco  totale 
tra  i  due  gradi  di  insegnamento  non  sia  praticamente  possibile  dato  il  fatto,  che  nes- 
suna teoria  può  disconoscere,  della  in  moltissimi  casi  mancata  preparazione  liceale, 
per  la  quale  avviene  che  all'università  non  si  possa  insegnare  ciò  che  si  vorrebbe, 
ma  solo  ciò  che  l'alunno  nelle  sue  condizioni  mentali  può  utilmente  intendere  e  ap- 
prendere :  dall'altra  parte  io  accetto  bensì  tutto  ciò  che  il  Gentile  domanda,  soltanto 


26  Giuseppe  Fraccaroli 


filologìa  pura  e  razionalistica  il  mare  è  acqua  e  il  bosco  è  legna. 
Non  ci  ha  che  fare  né  il  bello  !  né  il  magnifico  !  È  legna,  soltanto 
legna,  e  nient'altro  che  legna.  E  se  mai  un  giovinetto  inesperto  ed 
illuso,  entrando  in  quel  bosco,  vinto  da  quel  verde  e  da  quella  frescura, 
s'immagina  di  trovarvi  un  refrigerio  o  una  sensazione  che  la  legna,  in 
quanto  è  legna,  non  gli  ha  mai  dato,  il  maestro  filologo  deve  disingan- 
narlo .  Vuoi  sapere  cos'è  il  bosco  veramente  ?  Comincia  a  contarne  le 
foglie;  poi  conterai  gli  sterpi  ;  poi  non  c'è  altro.  E  che  vuoi  che  ci  sia? 
Quando  avrai  contato  e  registrato  tutto,  puoi  anche  bruciarlo,  che  non 
ci  perdi  niente,  anzi  ci  guadagni,  poiché  togli  di  mezzo  un'occasione 
d'ingannarti.  Questo  fa  per  instituto  suo  il  maestro  filologo  puro.  Egli 
i  libri  antichi  non  li  legge  più  per  quello  che  vi  può  essere  di  vivo, 
per  l'aria  sana  che  si  può  in  essi  respirare,  per  rinfrescarsi  alle  fonti 
della  nostra  civiltà,  per  conoscere  il  germe  e  l'evoluzione  del  nostro 
pensiero;  questo  lo  lascia  ai  dilettanti:  egli  invece  li  cincischia  per 
scoprirvi  delle  preziosità  ;  e  si  sente  andare  in  fregola  quando  ne  trova 
di  ghiotte,  come,  per  esempio,  che  si  deve  scrivere  Vergilius  e  non 
VìrgiliuSf  KXvraifiìjaTQa  e  non  KÀuTaifxvriaTQa  :  sul  padre  di  Tucidide 
invece  perdura  ancora  il  dubbio  atroce  se  si  chiamasse  Oloro  oppure 
Orolo.  E  si  fan  collezioni  di  coteste  sciocchezzuole  con  la  stessa  serietà 
con  cui  si  raccolgono  scatole  di  cerini,  pipe,  figurine  del  Liebig,  così, 
non  per  ornamento  né  per  uso,  ma  per  ingombro  della  casa.  Or  noi 
vogliamo  nei  nostri  ginnasi  dei  maestri  che  scrivano  bensì  in  latino 
Vergilius,  ma  che  non  ne  facciano  più  caso  che  di  saper  l'ortografia  di 
qualsiasi  altra  parola  :  noi  vogliamo  dei  maestri  che  sentano  e  sappiano 
cosa  vale  Virgilio,  cosa  vale  Tucidide,  e  sian  perciò  persuasi  che  le 
parole  si  studiano  meramente  in  servigio  delle  cose  e  del  pensiero.  Io 
posso  perciò  essere  benissimo  d'accordo  che  la  pedagogia  e  la  didattica 
all'università,  in  un  certo  senso,  non  ci  abbian  molto  che  vedere;  ma 
se  non  il  metodo  dei  licei,  le  cose  almeno  l'università  deve  insegnarle, 
e  sopra  tutto  deve  evitar  bene  che  il  culto  della  materia  danneggi  quello 
dello  spirito,  che  la  critica  diventi  disinteresse,  e  il  disinteresse  indiffe- 


esigo  che  la  filologia  non  debba  essere  solo  distruttiva,  e  che  anche  dopo  la  critica 
gii  autori  conservino  per  lo  studioso  tutto  il  loro  valore  reale,  che  siano  anche  dopo 
l'università  stimati  degni  di  esser  letti  per  il  contenuto.  Adesso  invece  il  laureato  che 
vada  a  insegnare  in  una  sede  che  non  si^  Roma  o  Torino  o  Firenze,  lo  sentirete 
spesso  lagnarsi  di  non  poter  concluder  nulla,  perchè  gli  mancano  i  mezzi  di  studio  ; 
e  se  voi  gli  dite  —  eh  via,  comperati  un  Tucidide,  e  se  non  l'hai  letto  ancora,  leg- 
gilo, che  ti  ajuterà  ad  esser  uomo,  —  quello  vi  sgrana  tanto  d'occhi  in  faccia,  quasi 
per  dire:  —  oh  che  adesso  Tucidide  s'ha  da  leggere?  —  Una  filologia  che  conduca 
a  questi  risultati  io  non  mi  sento  di  raccomandarla  ne  per  l'università  né  per  verun 
altro  luogo. 


Filologia  e  Letteratura  27 


renza,  che  si  mortifichino  quelle  anime  che  devono  accendere  negli  altri 
la  vita.  Dicono  che  il  joduro  sia  un  buon  epurativo,  ma  non  ho  sentito 
dire  mai  che  di  joduro  solo  si  viva.  Non  bisogna  mai  dimenticare  che 
i  pensatori  ed  i  poeti  scrivevano  per  comunicare  non  ai  grammatici 
ma  al  mondo  il  loro  pensiero,  il  loro  sentimento,  la  loro  passione.  Non 
per  il  filologo  poetò  Giacomo  Leopardi,  che  pur  era  un  gran  filologo, 
ma  per  le  anime  appassionate  e  doloranti.  E  queste  anime  appassio- 
nate e  doloranti  che  aderiscono  alla  sua  anima  e  piangono  la  sua 
passiione  e  il  suo  dolore,  queste  e  non  già  il  freddo  critico  e  il  filo- 
logo intendono  e  senton  veramente  la  poesia  di  Giacomo  Leopardi. 
Così  per  Dante,  così  per  Omero,  così  per  tutti.  Or  sentite  voi  questa 
passione,  questo  dolore,  questa  esaltazione?  Avete  l'anima  accordata 
con  quella  del  poeta  in  modo  da  vibrare  insieme  con  la  sua?  Allora 
potete  essere  suoi  interpreti;- allora  potete  essere  maestri.  L'esperienza 
che  è  nei  vostri  sensi  e  nella  vostra  anima  può  integrare  e  correg- 
gere le  impressioni  incerte  degli  scolari,  può  accendere  al  contatto 
il  fuoco  nelle  loro  anime,  non  solo  renderle  ricettive  ma  attive.  Ma 
se  siete  impastati  di  filologia  e  poi  filologia  e  di  nient'altro  che  filo- 
logia, allora  l'opera  vostra  sarà  quella  di  spegnere,  anzi  che  d'infiam- 
mare. L'arte,  appunto  perchè  non  è  razionale,  non  può  essere  intesa 
se  non  da  chi  abbia  anima  d'artista. 

Ma  oltre  che  fare  i  maestri,  neanche  l'università  deve  mai  dimen- 
ticare lo  scopo  più  generale  e  piti  vitale  di  fare  gli  Italiani.  La  matema- 
tica, è  vero,  non  è  né  italiana  né  tedesca,  ma  le  lettere  e  le  arti  per  noi 
devono  essere  italiane,  devono  di  necessità,  se  han  da  avere  un'anima; 
se  no,  non  saran  niente.  E  anima  italiana  deve  avere  chi  ha  da  inse- 
gnare queste  lettere.  Non  sceglieremmo  un  Turco  per  educarci  l'anima 
cristiana,  e  non  dobbiamo  scegliere  un  barbaro  per  educarcela  latina. 
L'università  deve  mettere  in  mostra  e  in  onore  le  forme  e  gli  spiriti 
delle  lettere  nostre  non  solo  per  uso  di  una  classe  facilmente  nume- 
rabile di  tecnici,  ma  per  vantaggio  del  pubblico  tutto  e  della  nazione  ; 
deve  insegnare  la  vita;  e  chi  vuol  questa  vita  trasfonderla  in  altri, 
deve  avere  esuberante  la  propria,  deve  essere  lui  il  tipo  intellettuale 
della  specie  che  ha  da  educare.  Questo  dev'essere  il  requisito  primo 
da  richiedergli.  La  Facoltà  di  Lettere  alla  sua  volta  dovrebb'essere  la 
prima  e  naturale  custode  della  nostra  civiltà,  e  ad  essa  in  primo  luogo 
dovrebbero  accorrere  coloro  che  non  studiano  per  lo  scopo  di  esercitare 
una  professione,  ma  per  il  godimento  spirituale  di  farsi  una  coscienza. 
Naturalmente  per  giungere  a  ciò  bisogna  che  invitiamo  a  bere  il  vino 
e  non  solamente  a  lavare  i  fiaschi,  a  bere  il  nostro  vino  e  a  inebriar- 
cene. Gli  spiriti  infatti  e  le  forme  classiche  sono  spiriti  e  forme  nostre, 
vita  nostra,  grandezza  nostra,  anche  attuale:  Leopardi,  Foscolo,  Car- 


i 


28  Giuseppe  Frac  caro  li 


ducei,  Pascoli,  D'Annunzio  sono  classicisti.  Lo  studio  di  quel  pensiero 
non  è  per  noi  una  curiosità,  né  ci  fregia  solo  di  un'erudizione,  né  ci 
dà  la  vernice  di  una  cultura,  ma  ci  risveglia  una  consapevolezza,  ci 
fa  vivere  la  vita  della  nostra  stirpe  nel  suo  passato  glorioso,  ce  la  fa 
affermare  e  integrare  nel  presente,  ce  ne  fa  trasmettere  la  lampada 
accesa  nei  secoli  futuri.  Le  Facoltà  di  Lettere  dovrebbero  essere  pertanto 
non  cimitero  di  morti,  come  adesso,  ma  palestra  di  vivi:  la  filologia 
dev'essere  sussidio,  utile  di  regola,  indispensabile  spesso:  la  sostanza 
dev'essere  la  letteratura,  l'arte,  il  pensiero,  l'idea,  la  civiltà  nostra,  quella 
civiltà  che  ci  differenzia  dai  barbari  intellettualmente  e  moralmente,  che 
è  creazione  nostra  e  nostro  vanto.  Se  a  questo  ufficio  esse  Facoltà 
rispondan  ora,  chiunque  può  vedere.  Quindi  l'atrofia  anche  di  tutte  le 
altre  scuole,  dove  i  nostri  filologi  tedeschizzanti  non  educano  ma 
scoccian  gli  scolari.  Essi  rifischian  fuor  di  proposito  e  male  al  gin- 
nasio e  al  liceo  quelle  quattro  inezie  e  quei  quattro  versi  che  hanno 
sentito  screditare  all'ateneo;  e  questo  é  tutto  il  costrutto.  Per  questo 
gli  studi  classici  vanno  a  rotoli.  Otto  anni  di  latino  per  non  saperlo 
intendere,  e  cinque  anni  di  greco  per  non  saperlo  leggere,  bene 
impiegati,  affé  di  Dio  !  Questo  è  il  bel  vantaggio  che  ci  hanno  portato 
l'indirizzo,  così  detto,  scientifico  e  il  metodo  tedesco  :  han  cancellato 
la  nostra  coscienza,  han  guasta  la  nostra  mentalità,  e  han  finito  a  far 
credere  che  il  greco  e  il  latino  siano  stati  inventati  per  rompere  le 
scatole  alla  gente;  e,  ridotti  così,  non  si  può  negare  che  sia  vero. 


Giuseppe  Fraccaroli. 


e^ 


U  FIIS[  ITIOniE  DEGLI  STI  DI  SIOIII  REIIMSI 


I 


I.  —  Natura  e  posizione  del  problema  religioso. 

La  scienza  delle  religioni  data,  può  ben  dirsi,  da  cinquantanni,  ed 
è  solo  nel  1880,  con  la  fondazione  in  Francia  della  nobile  Reme  de 
VHistoire  des  Religions^  che  s'inizia  una  vera  e  propria  ricerca  scien- 
tifica su  tutto  il  vastissimo  dominio  della  storia  delle  formazioni  reli- 
giose attraverso  l'umaniià. 

Il  concetto  che  la  storia  delle  religioni  potesse  essere  trattata  con 
gli  stessi  metodi  e  con  lo  stesso  rigore  analitico,  come  qualunque 
altro  campo  dell'attività  umana;  che,  accanto  alla  storia  civile  e  mili- 
tare,, per  esempio,  potesse  esistere  una  vera  e  propria,  paleopsicologia 
(formazione  dei  primitivi  concetti  valutativi  religiosi)  ed  una  ierologia, 
concetto  questo  che  pur  non  offriva  insormontabile  difficoltà,  è  tardato 
ad  entrare  nella  coscienza  comune,  degli  studiosi,  ed  è  tutt'altro  che 
universalmente  accettato  e  compreso  ai  giorni  nostri.  Ciò  è  avvenuto 
perchè  il  «  problema  religioso  »  è  il  problema  umano  per  eccellenza  : 
la  religione  (e  intendo  significare  con  questa  l'educazione  religiosa 
dell'Occidente  cristiano,  in  generale)  non  voleva  soltanto  essere  un 
corpus  di  credenze,  più  o  meno  fissate  teologicamente,  né  solo  un 
mezzo  di  catarsis  pei  credenti  ed  un  climax,  ossia  una  scala  per  un 
mondo  superiore,  ma  ha  preteso,  quasi  in  tutti  i  tempi,  in  cui  le  caste 
sacerdotali  hanno  potuto  organizzarsi,  di  regolare  essa  sola  i  destini 
dell'  uomo,  accompagnandolo  pietosamente  dalla  nascita  fino  alla 
morte,  ed  iniziandolo  allora  ad  una  società  ultramondana.  Con  quelli 
dell'uomo,  essa  ha  inteso  regolare  i  destini  del  mondo:  ha  voluto,  cioè, 
essere  una  vera  sistemazione  cosmica,  che  non  lasciasse  senza  sanzione 


30  Giosuè  Maliandi 


quasi  alcun  lato  della  vita  umana,  e  del  mondo  affermava  l'origine  e  la 
finalità  da  un  punto  di  vista  esclusivamente  antropico. 

Ogni  scienza,  per  quanto  lontana  possa  parere  dal  campo  reli- 
gioso, spesso  urta  contro  questa  inevitabile  barriera,  eretta  e  cristal- 
lizzata da  millenni  nell'animo  umano.  La  metafisica  e  l'etica  poi,  l'una, 
nella  trattazione  del  problema  dell'assoluto,  l'altra  in  quella  del  pro- 
blema valutativo  od  axiologico,  sono  storicamente  obbligate  alla  discus- 
sione del  problema  religioso.  Filosofia,  scienza,  teologia,  si  sono  tra- 
vagliate dolorosamente  e  si  travagliano  intorno  al  tragico  problema, 
che  ha  funestato  per  secoli  la  storia  dell'umanità  con  lunga  teoria  di 
martini  e  d'incubi,  con  fulgori  di  fede  e  di  negazioni,  con  austerità 
di  vite  ed  opere,  e  con  ignobili  mercature  di  caste. 

Si  potrebbe  ad  esso  applicare,  seguendo  una  volta  tanto  il  metodo 
dell'esegesi  rabbinica,  e  con  significato  puramente  storico,  il  detto  del- 
l'Evangelo: <^positus  est  in  ruinam  et  in  signum  cai  contradicetur  ^ 
(Luca,  II,  34).  Però  la  «  posizione  del  problema  »  può  variare  di  molto, 
poiché  qualunque  esegesi  e  qualunque  ricerca  storica  non  possono  pre- 
scindere, anche  per  il  puro  e  semplice  riconoscimento  del  «fatto 
religioso  »,  da  un  minimum  concettuale  proprio  del  fatto  stesso.  La 
stessa  scuola  sociologica  del  Durkeim  lo  riconosce,  e  non  è  possibile 
analizzare  alcun  fenomeno  religioso  senza  una  qualche  teoria  apprezza- 
tiva  sulla  religiosità  o  (meno  propriamente)  religione.  Ma  è  strano  che 
questo  minimum  concettuale  indispensabile  cambi  non  soltanto  (il  che 
si  spiega)  secondo  la  scuola  o  la  mentalità  del  ierologo,  ma  sopratutto 
secondo  i  sistemi  religiosi  che  si  studiano  :  constatazione  di  grande  impor- 
tanza per  caratterizzare  una  delle  moderne  correnti  esegetiche  e  storiche. 

11  Lammens,  per  esempio,  che  è  un  gesuita  della  scuola  teologica  con 
pretese  scientifiche,  può  trovarsi  d'accordo  col  Vollers  e  collo  Snouck 
Hurgronje  sulla  valutazione  delle  fonti  del  Corano;  raggiunge  i  limiti  di 
una  vera  ipercritica  nei  suoi  studi  su  Fatima  e  sui  primordi  dell'Isiàm  ; 
il  Cheikho,  valentissimo  arabista,  non  è  imbarazzato  da  alcun  sillogi- 
smo teologico  nella  discussione  del  periodo  storico  degli  Ummiadi; 
il  Deimel  e  lo  Strassmayer  non  dimostrano  |ina  mentalità  teologale 
cristiana  nella  ricerca  delle  fonti  Assiro-Babilonési,  come  del  pari  lo 
Scheill  nella  pubblicazione  dei  testi  sumero-accadìci  ed  elamito-semi- 
tici.  Ma  i  medesimi  scrittori  resterebbero  atterriti  se  dovessero  usare 
gli  stessi  metodi  di  ricerca  per  la  storia  ebraica  e  cristiana.  Qui  sottentra 
il  piano  teologico  tradizionale,  ed  ogni  discussione  è  impossibile.  Non 
è  da  molti  anni  che  lo  stesso  Chantepie  de  la  Saussaye,  nella  sua  edi- 
zione del  Manuel  d*Histoire  dea  Religions,^  ne  escludeva  il  Cristiane- 


i  Paris,  1904. 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  31 

Simo,  per  il  «  carattere  precipuo  e  specialissimo  della  rivelazione  cri- 
stiana»; carattere  che  egli  negava,  evidentemente,  alla  rivelazione 
coranica  ed  avestica  ;  il  che  poteva  essergli  contestato,  con  le  stesse  sue 
ragioni  teologiche,  da  ogni  buon  Mobed  o  Dastur  persiano  e  da  ogni 
mediocre  Sufi  arabo. 

È  noto  del  resto  che,  nel  1905,  nel  Congresso  degli  Orientalisti 
ad  Algeri,  il  dotto  arabo  Muhammad  ben  Cheneb,  a  proposito  della 
discussione  della  nota  teoria  del  Vollers  sulla  redazione  delle  sitre  co- 
raniche, rivendicò  fieramente  contro  gl'infedeli  lo  studio  del  libro 
sacro,  e  il  presidente,  prof.  Montet,  scriveva  poi  malinconicamente: 
«  Questo  dimostra  l'abisso  che  separa  la  mentalità  musulmana  dal- 
l'europea...». Avrebbe  detto  meglio:  la  mentalità  teologica  da  quella 
scientifica. 

Il  fatto  che  l'evoluzione  religiosa,  lunghissima,  quasi  inafferrabile 
nei  suoi  inizi,  confusi  ed  indistinti  con  altre  pratiche  sociali,  abbia  con- 
cretato, attraverso  i  tempi,  una  quantità  di  concetti-dommi,  come  Dio, 
\ anima,  Vlnferno,  il  Paradiso  e  —  di  formazione  posteriore  a  Gesù  — 
il  Purgatorio,  il  Giudizio,  ecc.  —  ha  spostato,  obbiettivandosi,  la 
natura  stessa  dei  fatti.  E  come  la  credenza  neWEvangelium  Christi 
divenne  col  tempo  la  credenza  neWEvangelium  de  Christo,  e  la  persona 
di  colui  che  fu  il  banditore  divenne,  del  pari  che  nelle  altre  religioni,  il 
centro  del  sistema  e  delle  credenze,  così,  per  un  fenomeno  di  ottica 
mentale,  la  ricerca  della  formazione  delle  credenze  su  Dio  e  sugli  altri 
simboli  dell'anima  religiosa  è  divenuta  la  ricerca  affannosa  di  Dio,  come 
\xn* entità  a  sé  e  di  cui  si  possa,  con  un  processo  critico,  stabilire  la 
reale  esistenza,  trasformando  spesso  la  storia  religiosa  in  un  vero  Cursus 
Theologiae  dogmaticae  triplex.  Accettata  tradizionalmente  senza  alcuna 
disamina  1*  idea  che  la  religione  si  concreti  nella  credenza  in  uno  o 
più  Dei,  e  in  un  corpo  determinato  di  dottrina,  imposta  ai  fedeli  come 
rivelazione  appunto  della  divinità,  il  problema  di  Dio  è  divenuto,  col 
tempo  e  con  gli  elaborati  successivi  dell'anima  religiosa,  il  problema 
dell'Assoluto  e  della  Causa  prima,  e,  come  tale,  pur  essendo  un  t)ro- 
dotto  esclusivo  del  pensiero  religioso  —  e  non  teologico  — ,  è  passato 
in  filosofia  ed  ha  confuso  le  menti  e  i  cuori  con  la  sua  straordinaria 
potènza  ed  antichità. 

La  prima  e  grande  constatazione  da  farsi,  dunque,  è  la  risoluta  posi- 
zione dei  vari  problemi  nei  loro  veri  elementi  :  il  problema,  che  può 
dirsi  teofanico  e  teoforico,  non  ha  nulla  che  vedere  con  quello  cosmo- 
gonico: la  storia  di  Dio  non  è  affatto  da  confondersi  con  la  storia  del 
mondo.  Del  primo  si  occupa  e  si  deve  occupare  la  ierologia;  del  secondo, 
la  scienza.  Ma  è  soltanto  la  scuola  sociologica  francese  quella  che  ha 
posto  oggi  il  problema  nella  sua  vera  luce.  Né  la  scuola  storica,  né  Fan- 


32  Giosuè  Maliandi 


tropologica,  e  molto  meno  l'esegesi  protestante,  potevano  proporselo, 
impigliate  com'erano  neWarrière-plan  di  idee  filosofiche  e  confessiona- 
listiche.  Dio,  come  problema  ontologico,  è  uno  pseudo-problema,  e, 
come  nessuno  storico  ha  cercato  mai  di  stabilire  la  reale  esistenza  dei 
centauri,  delle  sirene,  o  dei  mostri  infernali,  così  è  vano  proporsi,  con 
le  sòlite  pseudo-prove  anselmiane  e  tomistiche  o  con  i  tentativi  filosofici 
del  Green,  del  Royce,  e,  in  Italia,  del  nostro  benemerito  Chiappelli, 
di  foggiare  e  creare  una  divinità,  la  cui  motivazione  antropica  è  troppo 
evidente.  //  problema  di  Dio  non  può  essere  che  la  storia  della  forma- 
zione del  complicatissimo  ciclo  di  credenze  e  di  pratiche,  che  hanno  con- 
dotto gli  uomini  a  crearlo. 

Elaborato  di  millenni,  a  cui  tutte  le  generazioni  hanno  contribuito, 
esso  è  invece,  talora,  preso  come  un  concetto  primitivo,  insolubile,  dato 
ab  origine  nel  contenuto  di  tutte  le  religioni.  Così  opinano,  infatti, 
il  padre  Schmidt,  nei  suoi  studi  sull'Idea  di  Dio  (in  Anthropos^  1908 
e  segg.)  ;  così  la  quasi  totalità  della  teologia  tedesca  ;  così  il  pietismo 
anglo-americano;  così  il  Tiele,  il  Pfleidsrer,  il  Sabatier,  il  TrumbuU- 
Ladd,  il  Galloway,  l'Hòffding,  e,  finalmente,  il  Troeltsch,  nel  suo 
libro  dal  titolo  assai  significativo  :  Die  Absolutheit  des  Christentum  ! 
Ma  tutti  questi  rispettabili  autori,  pure  appartenendo  a  tendenze  di- 
verse, non  hanno  potuto  porsi  il  problema  storico  dell'origine  dei  fe- 
nomeni religiosi  in  termini  veramente  scientifici,  perchè  tutti  si  sono 
foggiati  della  religione  una  idea  preconcetta,  dedotta  esclusivamente 
da  una  delle  più  imponenti  manifestazioni  storiche  religiose:  il  Cri- 
stianesimo. La  storia  delle  formazioni  religiose,  per  questi  autori,  cul- 
mina di  necessità  nell'avvento  del  Cristo  ;  le  religioni  precedenti,  quale 
più  e  quale  meno,  si  dispongono  in  un  piano  prestabilito  di  prepara- 
zione per  il  «  Desiderato  dalle  genti  ».  La  storia  mondiale  della  reli- 
gione è  stata  così  trasformata  in  una  dimostrazione,  che  già  Agostino 
e  Bossuet  avevano  tentata,  ùé\V Assolutezza  del  Cristianesimo,  come 
afferma  risolutamente  il  teologo  Troeltsch,  e  non  egli  soltanto. 

Ma  come  nessun  zoologo  ha  cercato  mai  di  dimostrare  che  i  pro- 
tozoi, per  esempio,  dovevano  preparare  l'avvento  dei  metazoi,  e  nessun 
botanico,  che  le  briofite  e  le  rodoficee  dovevano,  nella  notte  dei  tempi, 
preparare  la  venuta  delle  cormofite,  così  è  semplicemente  assurdo  e 
privo  d'ogni  senso  storico  il  «  piano  di  sviluppo  della  religiosità  »,  che 
s'è  preteso  di  far  passare  per  «  Filosofia  della  Religione  ».  Si  potrebbe, 
con  lo  stesso  metodo  e  criterio  finalistico,  dimostrare  che  l'uomo  è 
stato  fatto  pel  completo  sviluppo  del  Laverania  malaria  o  del  Tripa- 
nosoma gambienscy  perchè  esso  è  un  anello  indispensabile  nel  ciclo 
di  vita  di  questi  emosporidi,  o  che  i  denti  dell'uomo  sono  stati  fatti  per 
gì' ifomiceti,  e  l'epidermide,  per  il  sarcc/?^^  sca/>/V/...  Il  processo  logico 


I 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  33 


delle  seriazione  dei  termini  è  perfettamente  lo  stesso  :  post  hoc,  ergo 
propter  hoc.  Questa  concezione  teologica  del  mondo  culmina  nell'opera 
di  Vito  Fornari  su  «  Gesù  Cristo  »  :  tutto  il  processo  cosmico  essere  una 
preparazione  air«  avvento  di  Gesù  »,  per  la  «  manifestazione  di  Dio  at- 
traverso la  carne  ».  Ma  è  anche  un'idea  antichissima:  essa  era  stata  già 
elaborata  e  sviluppata  potentemente  dal  grande  teologo,  Massimo  il 
Confessore,  nella  sua  dottrina  della  odQxtooig  (=  incarnazione  di  Dio)' e 
della  6éa)at(;  (=^  processo  di  divinizzazione  deiruomo).i 

Per  questo  il  problema  capitale  della  ierologia,  la  ricerca  cioè 
dell'origine  dei  primitivi  fenomeni  religiosi,  è  diversamente  inteso  a 
seconda  che  si  tratti  della  scuola  antropologica  inglese  (Tylor,  Lang,^ 
Clodd,  Frazer,3  ecc.),  della  sociologia  francese  (L'<siAnnee  Sociologique-* 
del  Durkheim,  specialmente  il  Mauss  e  l'Hubert),  o  di  una  certa  scuola, 
che  diremmo  dei  neo-mitologi  (Gunkel,  Jeremias,  Vòlter,*  ecc.,  per 
quanto  si  possa  argomentarlo  d{ii  loro  scritti  quasi  esclusivamente 
biblici),  per  non  parlare  di  alcuni  orientalisti  isolati,  come  l'Hommel,  ^ 
il  Nielsen  e  qualche  altro,  che  farebbero  derivare  ogni  forma  di  reli- 
giosità da  un  arcaico  culto  astrale  o  da  un  più  ipotetico  culto  dei 
morti  {necrolatrla)  :  ipotesi  ormai  superate  dal  pensiero  contemporaneo, 
e  destituite  d'ogni  base  storica  ed  etnografica. 


II.  —  La  scuola  teologica  e  gli  psicologi  individualisti. 
L'antropologia,  la  sociologia  e  gli  studi  religiosi. 

Lo  studio  dei  primordiali  fenomeni  religiosi,  oltre  ad  essere  impor- 
tantissimo per  se  stesso,  ha  ancora  un  grande  valore  per  il  riconosci- 
mento e  la  valutazione  dell'intero  dominio  religioso:  è  da  esso  in- 
fatti che  divergono  e  si  caratterizzano  le  due  prime  scuole  b  tendenze 
di  studi  su  nominate  ed  una  terza,  che  diremmo  degli  psicologi  indi- 
vidualisti, i  quali  affermano  recisamente  che  il  problema  dell'origine 
della  religione  (come  non  senza  improprietà  essi  dicono)  non  è  affatto 
di  natura  storica,  ma  psicologica  (Rauvvenhoff,  Caird,  Tiele,  Sabatier). 
Essi  ammettono  in  fondo  che  il  fieri  della  religiosità  sia  immanente 
allo  spirito  umano,  che  il  fatto  si  ripeta  per  interna  dinamica,  e  non 
per  motivazioni  esteriori,  e  che  si  possa  quindi  ricercarne  l'origine 
nella  stessa  anima  moderna,  forse  nella  sola  anima  moderna. 


1  Cfr.  Patr.  gr.  XCI,  48. 

«  Myth,  Ritual  and  Religìon.,  2*  ed.,  1901. 

3  u.  The  Golden  Bough^,  3^  ed.,  London,  1910-11,  7  voli. 

-*  D.  VÒLTER,  Aegypten  und  Bibel,  3*  ed!,  Leiden,  1908. 

5  Der  Gestir ndienst  der  alien  Araber,  Munich,  1901. 

3  —  Nuova  Rivista  Storica. 


34  Giosuè  Maliandi 


Tutto  questo  presuppone  un  altro  gratuito  postulato  :  che  il  concetto 
della  religione  debba  essere  tratto,  non  più  dalle  sue  prime  ed  incerte 
(essi  dicono)  manifestazioni,  ma  dalle  sue  forme  più  alte  ed  evo- 
lute, dai  grandi  sistemi  religiosi,  cioè  precisamente  dal  Cristianesimo. 
Essi  così  imaginano  un  vero  dramma  romantico-mistico,  che  si. svolga 
senza  spettatori  attraverso  la  storia,  e  di  cui  Tunica  dramaiis  persona 
sia  soltanto  Fautore  stesso.  Questa  teoria  può  condurre  all'hege- 
lismo, come  al  tomismo  cristiano;  al  protestantesimo,  come  al  misti- 
cismo di  nuova  fattura  pragmatistica.  L' interna  dinamica  spirituale, 
che  rOmodeo  per  esempio  (nel  suo  volume  su  Gesà  di  Nazaret  e 
le  Origini  del  Cristianesimo,  Messina,  Principato,  1913)  imagina  per  ispie- 
gare  Tevoluzione  del  Giudaismo  nel  Cristianesimo  e  il  Cristianesimo 
stesso,  è  sullo  stesso  piano  della  teoria  teologica  della  Rivelazione  : 
dinamismo  interno  di  un  elemento  ignoto,  che  è  proprio  la  cosa  da 
spiegare,  cominciando  dalla  sua  posizione  iniziale.  Ciò  significa  ripetere 
in  parole  diverse  la  dottrina  patristica  di€iX economia  della  rivelazione 
delle  verità  dommatiche  illustrata  da  Gregorio  Nazianzeno.^ 

Or  bene,  V  intera  storia  delle  religioni  e  tutta  l'etnografia  contem- 
poranea smentiscono  completamente  questa  teoria  od  ipotesi  che  dir  si 
voglia.  Qual'è  l' interna  dinamica  della  religione  dei  Dakota,  per  esempio, 
e  degli  Ovambo?  Ed  è  forse  dimostrata  l' identità  dello  spirito  umano 
sotto  tutte  le  latitudini  ed  in  tutti  i  tempi  ?  Non  si  spiegherebbe  altri- 
menti, dice  rOmodeo,  perchè  la  religione  di  Mitra  non  sia  divenuta  reli- 
gione universale  in  luogQ  del  Cristianesimo  ;  ma  egli  non  si  accorge  che 
questa  è  la  stessa  ingenua  proposizione,  che  i  teologi  cristiani  enuncia- 
vano per  indurre  gli  altri  ad  ammettere  il  miracolo.  Si  può  ripetere 
la  medesima  domanda  per  tutti  i  sistemi  religiosi..  Ogni  religione  ha 
un'area  ed  un  limite,  oltre  i  quali  la  sua  diffusione  è  impossibile  o 
minima,  perchè  non  tutte  le  credenze  si  possono  adattare  indifferen- 
temente a  gruppi  sociali  diversi.  Il  Cristianesimo  non  si  è  mai  diffuso 
in  Cina  o  nell'arcipelago  Malese,  laddove  l'Islamismo  vi  fa  continui 
progressi  e  si  propaga  anche  rapidamente  in  Africa  ;  né  lo  Scintoismo 
è  uscito  fuor  del  Giappone,  come  scarsissimi  sono  stati  i  risultati 
della  propaganda  protestante  in  Italia.  La  religione  di  Mitra  non 
soppiantò  il  Cristianesimo,  pur  avendo  avuto  una  vasta  diffusione 
in  Asia,  a  Roma  stessa,  a  Nersa,  nel  cuore  dell'Appennino,  in  Sicilia, 
nell'Africa  Settentrionale  e  nell'Europa  centrale,^  e  ciò,  per  gli  stessi 
motivi,  per  cui  la  religione  de'  Nosairi  e  dei  Mandei  non  divenne  pre- 


1  Patr.  gr.  XXXVI,  161. 

*  Cfr.  Fr.  Cumont,  Textes  et  monuments  figurés^  rélatifs  aux  mystères  de  Mi- 
hra,  Paris,  1899,  I,  pp.  279  segg. 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  35 


valente  in  Palestina  ;  per  le  stesse  ragioni  sociali  e  storiche,  per  cui  non 
è  prevalsa  in  Asia  quella  di  Kongtsè  o  di  Mani.  Queste  obbiezioni 
non  hanno  valore  e  dimostrano  soltanto  il  brevissimo  orizzonte  visuale 
de*  vari  autori,  e,  quel  ch'è  peggio,  i  soliti  pregiudizi  e  le  solite  pre- 
ferenze etniche. 

Come  si  spiega  in  questa  teoria  dell'Omodeo  la  redazione  degli 
Evangeli?  Episodi  come  quello  della  vestizione  di  Gesù  da  re,  Bar-Abas, 
il  Cireneo,  la  stessa  Crocefìssione  non  si  spiegano  con  nessuna  esegesi 
psicologica  o  puramente  storica,  senza  la  luce  che  viene  dell'etnografia  ; 
come  non  si  spiegano  la  nascita  miracolosa  di  Gesù  da  una  vergine 
(Lucina  sine  concubitu),  ch'è  concezione  arunta,^  o  l'istituzione  della 
comunione,  vera  e  propria  teofagia,  la  quale  ricorda  ad  evidenza  il 
sacramento  totemico  delle  tribù  primitive.  Se  lo  stesso  Girolamo 
e  Firmico  Materno  si  meravigliavano  di  trovare  proprio  a  Betleem  il 
culto  di  Adone  (Tammaz)  innanzi  la  storia  di  Gesù,  vuol  dire  che 
questa  ha  intimi  rapporti  con  l'ambiente,  in  cui  si  svolse. 

Il  Sabatìer,  nel  suo  saggio,  tra  francescano  e  mistico,  sulla  ^Phi- 
losophie  de  la  Religlon  »,  imagina  di  poter  trovare  proprio  nell'anima 
moderna  la  motivazione  più  sicura  del  ^frisson primitive  ^^  che  avrebbe 
iniziato  la  religione.  Il  processo  è  dunque  eminentemente  dialettico  ; 
esso  si  può  sviluppare  in  ogni  tempo,  in  ogni  luogo,  perennandosi; 
il  che  suppone  un  concetto  sai  generis  della  religiosità  e  la  trascuranza 
di  qualunque  dato  fferto  dall'archeologia  e  dalla  storia.  Ma  è  evi- 
dente l'errore  di  metodo  :  lo  stabilire  l'essenza  intima  della  religione  è 
proprio  il  compito  ultimo  della  ierologia^  come  sintesi  finale  di  sempre 
più  vaste  ricerche  su  tutto  il  dominio  religioso,  nessuno  escluso  ;  e 
l'obbiezione,  a  cui  abbiamo  accennato,  che  solo  le  forme  più  evolute  ne 
contengano  veramente  l'essenza  è  fatta  in  base  al  solito  circolo  vizioso  e 
ad  una  sintesi  personale  delle  possibili  caratteristiche  della  religiosità,  e 
si  riferisce  al  più  noto  piano  storico,  che  subordina  le  varie  religio  ni 
all'ultima  grande  manifestazione  del  Divino,  il  Cristianesimo.  Ma  come 
in  filogenia  animale  e  in  botanica  la  storia  delle  vertebre,  per  esempio, 
non  si  fa  sólo  nei  vertebrati,  né  la  storia  del  fiore  nelle  sole  fanerogame, 
ma  gli  zoologi  vanno  a  ricercarla  nei  procordoni  e  nelle  crittogame  ; 
così  il  concetto  di  religione,  essendo  eminentemente  appreziativo-sub- 
biettivo,  non  può  essere  preso  in  blocco,  come  primitivo  ed  originario, 
poiché  é  invece  il  prodotto  di  lunghissima  evoluzione,  e  perciò  è  neces- 
sario risolverlo  nei  suoi  veri  elementi.  Operare  diversamente  equivale 
altresì  a  commettere  un  errore  di  metodo,  poiché  da  un  solo  dominio 


1  Spencer  and  Gillen,  Tlie  Native  Tribes  of  Central  Australia  ^  The  Northern 
Tribes  of  Central  Australia,  London,   1904. 


36  Giosuè  Maliandi 


religioso,  scelto  ad  arbitrio,  noti  può  ricavarsi  mai  alcuna  definizione 
valevole  per  la  totalità;  tanto  altrimenti  varrebbe  ricavare  l'essenza 
intima  della  religione  dall'analisi  del  Kangiur  tibetano,  dai  Sutta  buddici, 
dalla  religione  de'  Zuni  o  dei  Weddas,  o  dall'archeologia  del  Messico 
precolombiano. 

Ma,  al  pari  di  quella  psicologica,  neanche  la  scuola  puramente  sto- 
rica ha  potuto  del  tutto  liberarsi  da  preconcetti  ed  incertezze  nella 
posizione  dei  due  principali  problemi  ierologici:  V origine  e  V essenza 
della  religiosità.  La  ricerca  storica  ha  un  limite  insuperabile  nella  esi- 
guità dei  documenti  ;  la  religione  delle  tribù  ebraiche  in  Palestina  non 
può  essere  intesa  nella  sua  vera  essenza  e  nella  sua  origine  col  solo 
studio  della  Bibbia  o  dell'archeologia  palestinica.  Jahwè  ed  Elohim, 
come  Baal  è  Melkart,  Kemosc  e  Beelzebub,  figli  d'una  mentalità  unica, 
sono  già  abbastanza  evoluti  e  definiti  come  divinità  quando  entrano 
per  noi  nella  storia;  ma  la  loro  composizione  concettuale  dev'essere 
ricercata  molto  prima  di  essi.  Jahwè  di  Habaqqua  o  di  Amos  non  è  più 
quello  del  Pentateuco;  come  il  dio  d'Ireneo  o  di  Valentino  non  è 
quello  di  Anselmo  d'Aosta  o  di  Raimondo  Lullo.  Quale  di  questi  è  più 
«  vero  »  o  più  «  falso  »  ?  Ontologismo  inutile,  poiché  è  vera  psicologica- 
mente soltanto  la  credenza  in  essi,  la  cui  formazione  storica  interessa  la 
scienza.  I  documenti  religiosi  di  tutte  le  epoche  —  fondamento  indispen- 
sabile per  ogni  ricerca,  senza  dubbio  —  hanno  questo  di  comune  che 
codificano  e  fissano  credenze  e  dommij  già  molt/'  sviluppati  e  spesso 
non  più  in  accordo  col  gruppo  sociale  che  per  primo  li  foggiò  e  visse. 
I  residui  ancestrali  ed  aberranti,  i  precipitati  etnici  antichissimi,  le  forme 
teratologiche  ne  sono  una  prova.  In  biologia  avviene  lo  stesso:  i  re- 
sidui delle  glandole  mammarie  nell'uomo,  la  caruncola  lacrimale  (ri- 
cordo paleozoico  della  membrana  nictitante  dei  sauropsidi?),  la  famosa 
glandola  pineale,  l'intestino  cieco,  non  si  spiegherebbero  affatto,  se 
noi  ci  fermassimo  alla  loro  anatomia  normale,  come  non  si  spieghe- 
rebbero i  cosidetti  teratomi  (gl'individui-mostri).  Precisamente  come  nel 
campo  delle  formazioni  religiose  i  concetti,  o,  meglio,  i  pseudo-concetti 
A^Vuomo-diOf  della  vergine- nìadre,  della  partecipazione  alla  divinità  con 
la  comunione  (teofagia)  sono  impossibili  ed  assurdi  dal  punto  di  vista 
della  psicologia  individuale.  Essi  suppongono  categorie  mentali,  che 
escono  dal  campo  della  psiche  singola;  con  essi  le  formazioni  comuni 
del  pensiero  logico  individuale  —  causa-effetto,  identità ,  persona- 
lità, ecc.  —  sono  oltrepassate,  negate,  interconfuse  ed  elaborate  dal- 
l'anima religiosa  in  maniera  del  tutto  differente;  lo  stesso  concetto 
dell'^ss^r^  è  inteso  spesso  variamente,  in  modo  da  distruggerne  la 
fissità,  da  liquefarlo  quasi  in  una  strana  ed  indistinta  fluttuazione,  in 
una   (come  dire?)  depersonalizzazione,  senza  cessare  per  questo   dì 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  37 

essere  una  realtà  vìva  e  vissuta  potentemente.  Forme  abnormi  ed  as- 
surde pel  pensiero  individuale,  esse  trovano  la  loro  ragione  d'essere 
soltanto  nella  psicologia  collettiva,  nella  società. 

L'avere  stabilito  indiscutibilmente  questo  fatto  capitale  per  l'inter- 
pretazione dei  fenomeni  religiosi  è  merito  insigne  della  sociologia  con- 
temporanea; e,  come  i  grandi  etnologi  Spencer  e  Gillen  dichiaravano 
d'essere  abbastanza  compensati  delle  loro  lunghe  e  penose  ricerche  tra 
gl'indigeni  del  centro  e  del  Nord-Australia,  con  la  scoperta  della  conce- 
zione d'una  Lucina  sine  concahltu,  così  la  constatazione  che  le  «  forme  » 
del  pensiero  religioso  sono  di  tutt'altra  natura  di  quelle  del  pensiero 
logico  è  molto  più  importante  della  scoperta  del  famoso  codice  Syrus 
sinaiticus  o  della  redazione  non  ninivita  del   Diluvio.^ 

La  religione  era  stata  intesa  per  lo  più  come  un  sistema  di  cre- 
denze e  di  dottrine  avente  uno  scopo  conoscitivo  e  sistemativo  della 
realtà;  lo  stesso  Tylor*-^  parlava  dell'animismo  come  d'una  specie  di 
filosofia  primitiva  dei  selvaggi,  poiché  non  si  pensava  (o  non  si  sa- 
peva) che  la  parte  conoscitiva  o  speculativa  in  tutte  le  religioni  è 
sempre,  e  di  molto,  posteriore,  e  si  ritrova  solo  nei  grandi  sistemi  re- 
ligiosi, e  in  epoca  assai  tarda,  quando  già  la  teologia  e  la  filosofia 
hanno  lavorato  a  sufficienza  sui  primitivi  concetti  magico-liturgici. 
Dopo  che  la  divinità  è  divenuta  il  centro  d'attrazione  del  sistema,  la 
religione  si  accresce,  per  necessità  teoriche,  d'una  parte  puramente 
cosmologica.  Qual'è  infatti  la  cosmologia  di  Gesù?  Buddo,  ad  un 
discepolo,  che  gli  chiedeva  qual  fosse  il  destino  dell'anima  dopo  la 
morte,  rispose:  «  Noi  vedremo  tutto  ciò  insieme;  per  ora  occupiamoci 
della  liberazione!  »  La  religione  non  è  mai  per  sé  stessa  conoscenza 
della  realtà,  perché  solo  incidentalmente,  e  per  quel  lato  soltanto  che 
può  riguardarla,  si  occupa  di  sistemare  la  realtà  esterna  e  d'inquadrarla, 
bene  o  male,  nelle  sue  categorie.  Essa  è  essenzialmente  il  dominio  del 
sacer  nozione  primitiva,  indistinta,  che  significa  qualcosa  di  separato, 
di  diverso  dal  cotidiano  dominio,  e  contiene  anche  la  nota  della  intan- 
gibilità; nozione,  che  trova  il  suo  perfetto  riscontro  in  quella  del  Mana 
melanesico,  del  Hasina  nialgascio,  deWarungquilta  australiano,  del- 
i'orenda  algonquino,  del  qodesc  ebraico,  e  la  cui  origine  é  del  tutto 
sociale.  Essa  opera  sur  un  mondo  a  parte,  sur  una  realtà  vissuta  e 
valutata,  ma  non  indipendente;  i  suoi  giudizi  non  sono  affatto  onto- 
logici, ma  puramente  valutativi.  Alla  base  di  ogni  concezione  religiosa 
noi  intravediamo  le  categorie  sociali,  la  conoscenza  della  stessa  realtà 
esterna  espressa  sotto  forma  di  giudizi  e  valori  sociali;  ma  nei  grandi 


»  Cfr.  HiLPRECHT,  The  earliest  relation  of  the  Deluge  Story,  Philadelphia,  1910. 
t  Cfr.  TiELE,  Philosophy  of  religìon,  1893,  p.  71. 


38  Giosuè  Maliandi 


sistemi  religiosi  questi  si  sono  confusi  o  sono  stati  rielaborati  dalla 
teologia  e  dalla  filosofia,  ed  hanno  per  questo  perduto  in  gran  parte  il 
loro  carattere  primitivo.  È  avvenuto  lo  stesso  di  molte  pratiche  litur- 
gico-magiche,  rimaste  come  massi  erratici  fìnanco  nel  Cristianesimo,  e 
che  poi  sono  state  spiegate  con  ipotesi  assurde  o  pretesi  comandi  della 
divinità.  Come  intendere,  ad  esempio,  la  scelta  dell'olio  nelle  diverse 
funzioni  sacre,  anziché  dell'acqua  o  di  un  altro  liquido,  dato  che  questo, 
per  se  stesso,  senza  la  benedizione,  non  avrebbe  alcuna  virtù  propria? 
E  che  cosa  significa  ora  Taccompagnare  i  defunti  coi  ceri  accesi  di 
pieno  giorno,  e  Tuso  dei  funerali  nel  3%  7<»,  10<>  e  SO"  giorno,  anche 
nel  Cristianesimo?  Le  spiegazioni  dei  Padri  sono  così  puerili  come  le 
altre  ipotesi  (quella  d'Alenino  p.  es.  nel  «  De  divinis  Officiis  »)  sulla 
scelta  ^é[Vagnus  nell'Antico  Testamento  e  nel  Nuovo,  mentre  è  chiaro 
invece  che  simili  cerimonie  ci  riportano  al  ciclo  arcaico  delle  idee 
magiche  (oggetti  catartici,  puri  ed  impuri)  e  funerarie. 

in.  —  I  neohegeliani;  le  teorie  del  James,  e  del  Myers: 
il  pragmatismo  e  la  storia  religiosa. 

L'obbiezione  teorica  dell'Omodeo  che  la  ricerca  regressiva,  con- 
dotta fino  alle  primissime  origini  delle  religioni,  diventa  una  vera  ato- 
mistica, e  rarefa  la  storia  religiosa  senza  nulla  spiegare,  non  ha  una 
seria  base  logica.  Essa  deriva  innanzi  tutto  dal  solito  presupposto  di 
fermarsi  ad  una  sola  delle  manifestazioni  religiose  dell'umanità,  da 
cui  poi  si  foggiano  i  concetti  astratti  e  generali  per  giudicare  del- 
l'intero dominio;  deriva  dal  non  ammettere  che  la  ricerca  causale  è 
l'unica  via  scientifica  che  ci  sia  dato  seguire  ;  ma  proviene  anche  dal- 
l'aver  confuso  la  spiegazione  delle  personalità  religiose  con  la  storia 
anonima  della  feligione.  Certo,  non  si  spiega  Paolo,  soltanto  notomiz- 
zandolo,  e  rendendo  ai  Giudei  ed  ai  Greci,  o,  magari,  ai  Persiani,  ciò 
che  loro  appartiene;  ma  noi  non  sapremmo  nulla  di  lui,  come  di  Gesù, 
di  Maometto,  di  Mani,di  Nestorio,  se  non  avessimo  dei  documenti  scritti, 
la  cui  interpretazione,  evidentemente,  è  sempre  nostra.  La  storia,  checché 
se  ne  possa  dire,  ha  sempre  dei  caratteri  frammentari,  direi  quasi  osteolo- 
gia; io  spirito  che  animava  Paolo,  Gesù,  Sakiamuni,  è  morto  da  tempo, 
né  è  supponibile  che  l'Omodeo  pretenda  veramente  di  far  rivivere  Paolo, 
o  Gesù.  Queste  galvanizzazioni  storiche  sono  caduche  e  fallaci:  alla 
personalità  religiosa  di  Paolo,  come  di  qualunque  altro,  noi  ci  acco- 
stiamo soltanto  attraverso  i  documenti  e  l'opera  loro.  Così  di  Mani 
(e  di  Westorio)  si  sapeva  Solo  quello  che  gli  ereseologi  cristiani  ave- 
vano detto,  e  ben  altra  é  risultata  la  figura  del  profeta  persiano  dopo 
la  scoperta  delle  fonti  dirette  ed  autentiche  :  basta  confrontare  i  vecchi 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  39 

libri  di  Mattar,  di  Beausobre  con  quelli  di  Kessler,  De  Rochat,i  Cu- 
mont.  La  ricostruzione  delle  personalità  storiche  è  sempre  la  più  diffi- 
cile: le  numerose  Vite  di  Gesù  (come  di  Maometto,  di  Buddo,  di 
Zarathustra)  ne  sono  una  prova;  in  questo  campo  le  affermazioni  nega- 
tive, pur  troppo,  sono  le  più  vere,  lo  riconosce  chiaramente  il  Goguel, 
nel  suo  studio  sulla  moderna  posizione  del  Problema  Sinottico  (in  Reviie 
de  l'Hist.  des  Religions,  1909  seg.),  là  dove  dice  che  di  Gesù  noi 
possiamo  affermare  poco  più  di  quattro  o  cinque  cose ...  ;  il  che  per 
verità  non  è  un  lieto  risultato,  se  si  pensa  all'enorme  lavoro  critico 
degli  ultimi  cinquanta  anni  ! 

Ma,  se  la  ricerca  per  cause  dovesse  essere  abbandonata,  quale  altro 
metodo  si  dovrebbe  usare?  È  possibile  forse  un  apprendimento  (come 
dire?)  diretto  dei  fatti,  un  quid  simile  deW ispirazione  cattolica  e  deW in- 
tuizione dei  mistici?  La  mistica,  è  vero,  si  propone  di  entrare  in  diretta 
comunione  con  la  divinità  mediante  le  tre  forme  di  «  conceritramento 
dello  spirito  »  :  meditazione,  ascesi,  contemplazione.  Essa  s'illude  d'ap- 
propriarsi del  divino  perchè  lo  sente  (avendolo  creato)  fortemente  in  sé, 
e  per  essa  la  realtà  di  Dio  non  ha  alcun  dubbio;  ma  la  scienza  si  pro- 
pone appunto,  come  già  abbiamo  detto,  di  spiegare  proprio  questa  tale 
posizione  o  proiezione  spirituale,  cioè  lo  status  animae  religiosus,  il  cona- 
tus  animae,  e  non  l'obbietto  del  conato  e  del  desiderio.  Per  contro,  la 
critica  deirOmodeo  rivela  una  concezione  prettamente  hegeliana  della 
storia  religiosa.  «  Ricondurre  alle  cause,  egli  scrive,^  significa  negare  la 
logicità  e  la  necessità  dello  sviluppo  dell'effetto  fuor  della  causa...  ».  Ed 
aggiunge:  «  Se  io  trovo  delle  analogie  tra  il  codice  di  Hamurabi  e  la  legge 
mosaica,  mi  rimane  da  intendere  perchè  mai  la  legge  mosaica  fu  il  lievito 
d'una  grande  religione  (quale?  non  è  stata  anche  grande,  anzi  grandis- 
sima la  religione  degli  Assiri?),  e  il  codice  di  Hamurabi  ha  dormito 
per  millenni  tra  le  macerie  della  Mesopotamia.  Con  interpretazione  per 
cause  estrinseche  mi  lascerei  sfuggire  come  sabbia  dal  pugno  la  vita 
stessa,  cioè  la  storia.  Con  l'aggregazione  atomistica  delle  credenze  non 
posso  ricostruirne  la  storia...  ».  Indubbiamente!  Ma  l'evoluzione  e  il 
dinamismo  di  uno  spirito  religioso  fuori  del  ciclo  sociale,  che  lo  vive 
e  lo  foggia,  sono  assurdi,  poiché  non  si  riesce  a  comprendere  per  quali 
ragioni  interne  esso  si  trasformerebbe  e  il  perchè  di  questa  trasforma- 
zione. La  religione  d'oggi  non  è  più  quella  di  Paolo,  non  perchè  il 
suo  dinamismo  interno  (quale?)  l'abbia  condotta  necessariamente  a 
quest'ultima  fase,  ma  perchè  la  società  moderna  non  è  più  quella  di 
Paolo.  Che,  se  di  dinamica  interna  si  vuol  parlare,  essa  è  la  stessa  di- 


1  Essai  sur  Mani,  Genève,  1897.  Su  Nestorio,  cfr.  Loofs,  Nestoriana,  Halle,  1905; 
Revue  d'hist.  eccles.,  1907,  t.  VII  e  ìXLiber  Heraclidis^  pubblicato  nel  testo  siriaco  da 
M.  Bedjan. 

»  Op,  cit.,  p.  XXIII. 


40  Giosuè  Maliandi 


namica  della  società:  la  società  vive,  e  vive  la  religione;  si  trasforma 
la  società,  e  si  trasforma  la  sua  religione.  Dove  sarebbe  e  che  cosa 
sarebbe  uno  «  spirito  religioso  »,  che  pervada  l'umanità  e  la  superi? 
Una  teoria  siffatta  presuppone  un  concetto  speciale  dello  «  spirito 
umano  »,  che  noi  purtroppo  non  possiamo  qui  esaminare,  perchè  ci 
condurrebbe  in  piena  metafisica  ed  in  biologia,  ma  si  capisce  che  è 
sullo  stesso  piano  della  vecchia  teoria  —  essa  stessa  d'origine  reli- 
giosa —  della  «  creazione  separata  dell'anima  da  parte  d'uno  'spirito 
superiore,  Dio  ».  È  il  solito  comune  spostamento  di  visione:  noi  tro- 
viamo nel  mondo  una  quantità  di  fenomeni,  che  qualifichiamo  per  re- 
ligiosi; essi  possono  essere  omologhi  ma  non  identici,  né  presuppon- 
gono un  quid  metafisico  e  trascendentale  da  cui  deriverebbero;  l'unica 
realtà  viva,  ch'è  alla  loro  base  e  che  c'illumina  appunto  sulle  loro  dif- 
ferenze, è  la  società.  Ma  questa  storia,  per  la  sua  millenaria  evoluzione, 
per  le  sue  origini,  che  certo  non  sono  chiare  né  facilmente  accessibili, 
diviene  una  serie  unica  e  continua,  qualcosa  di  autonomo  e  d'indipen- 
dente, che  si  proietta  al  di  fuori  ed  al  di  sopra  dell'ambiente  sociale, 
che  a  mano  a  mano  l'ha  foggiato  e  vissuto. 

Non  possiamo  fermarci  a  discutere  un'altra  tendenza  moderna  di 
studi  religiosi  (o,  meglio  di  pseudo-studi  reh'giosi),  la  quale,  partendo 
dalle  ricerche  del  Myers,  del  Podmore  e  di  una  folla  di  occultisti, 
pretende  ricollegare  o  giustificare  .la  religione  con  la  telepatia,  l'ocal-- 
tismo,  la  psicomistlca,  ecc.  Non  giudichiamo  il  fine,  perchè  il  nostro 
articolo  non  è  polemico,  né,  molto  meno,  confessionalistico;  diremo 
solo  che  essi  lavorano  sur  un  terreno  già  elaborato  dalla  coscienza 
religiosa,  e  che  le  ingenue  affermazioni  ontologiche  sono  proprio  quelle 
che  devono  essere  spiegate  dalla  storia  delle  formazioni  religiose. 

Maggior  valore,  certo,  avrebbero  le  moderne  dottrine  pragmatisti- 
che, se  non  fossero  viziate  dal  secreto  pensiero  di  rimettere  a  tutti  i  costi 
in  valore  la  religione  dal  punto  di  vista  della  vita  e  della  prassi-etica. 
Hanno  tentato  alcuni,  specialmente  il  James,  un'analisi  dei  presuppost 
metafisici  del  pensiero  religioso,  ed  hanno  cercato  di  foggiare  una  dot- 
trina della  «  religione  »  con  elementi  psicologici  tratti  per  lo  più  da 
relatori  recenti  di  così  dette  «  conversioni  spirituali  ».  Così  il  Coe,  lo 
Stàrbuch,  ecc.  ecc.  More-americano,  essi  hanno  tentato  anche  delle 
inchieste  sa  di  un  formulario  unico,  distribuito  ai  credenti  :  ma  le  ri- 
sposte, si  capisce,  non  hanno  alcun  valore,  dal  punto  di  vista  della 
scienza  delle  religioni.  La  dottrina  del  James  sul  «  Me  più  grande  », 
che  sarebbe  alla  base  della  credenza,  è  assurda  dal  punto  di  vista  della 
psicologia  e  dell'etnografia.  Essa  riposa  sulle  solite,  ingenue  afferma- 
zioni dell'anima  religiosa,  che  ignora  la  sua  storia  e  che  attribuisce  un 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  41 

valore  ontologico  alla  sua  cre'clenza.  II  «  Me  più  grande  »  è  un  po' 
come  la  e  pontificai  celi  »  della  psicologia  del  James,  la  cellula  ponti- 
ficale del  cervello  umano,  un  po'  come  la  teoria  del  Meyers  sulla  «  co- 
scienza subliminale  »,  ed  un  poco  (forse  più  che  poco)  come  la  dot- 
trina cattolica  della  «  rivelazione  ».  Non  qualifichiamo  qui  il  tentativo 
filosofico  del  James;  esso  non  interessa  la  ierologia;  diremo  solo  che 
«n  Daiaco  di  Borneo  ed  un  australiano  Arunta  avrebbero,  dal  punto  di 
vista  del  pragmatismo,  tutto  il  diritto  di  rimettere  in  valore  l'antro- 
pofagia funeraria  e  il  sacramento  totemico  della  comunione... 

IV.  —  Gli  studi  religiosi  in  Italia. 

In  Italia  gli  studi  di  storia  religiosa  sono  stati,  fino  a  questi  ultimi 
tempi,  assai  negletti,  per  varie  ragioni  politiche  e  sociali;  ma  la  reli- 
giosità o  rirreligiosità  non  hanno  nulla  a  vedere  con  essi.  Prima  del- 
l'unità italiana  non  era  certo  possibile  un  insegnamento  non  confes- 
sionalistico  della  storia  religiosa,  né  esisteva  tra  noi  una  tradizione  di 
studi  biblici,  come  nei  paesi  protestanti,  in  cui,  pur  nell'ambito  del 
domma,  la  filologia  e  la  storia  avevano^  campo,  se  non  altro,  di  pre- 
parare il  terreno  a  studi  ulteriori,  liberi  da  ogni  imposizione  ecclesia- 
stica. Nelle  università  italiane  esistevano  solo  delle  cattedre  di  teologia 
e  qualche  raro  insegnante  d'ebraico  ;  ma  non  avevano  alcuna  ripercus- 
sione nella  cultura  nazionale,  né  alcun  carattere  scientifico.  Bisogna 
forse  dire  che  sia  mancato  in  Italia  un  senso  vivo  della  religiosità,  intesa 
come  problema  angoscioso  ed  imminente  dello  spirito,  o  che,  non  es- 
sendo tra  noi  neppur  l'ombra  di  contrasti  e  di  lotte  religiose,  il  terreno 
non  era  preparato  a  ricerche  e  studi  intorno  alla  religiosità  ed  alle 
religioni?  Il  clero,  certo,  non  ha  mai  studiato  la  religione  scientifica- 
mente: per  esso,  infatti,  ciò  sarebbe  un  non  senso  od  un  sacrilegio;  ma 
neppure  i  dotti  laici  se  ne  sono  gran  che  preoccupati.  La  grande  mag- 
gioranza degli  Italiani,  del  resto,  è  religiosa  più  che  per  altro  per  tra- 
dizione, senza  aver  mai  approfondito  le  ragioni  della  propria  credenza, 
e,  peggio,  senza  sentire  la  necessità  di  ricercarle.  Per  questo  non  è 
difficile  trovare  degli  uomini,  anche  dotti  in  alcuni  rami  dello  scibile, 
che  partecipano  pietosamente  delle  superstizioni  più  comuni;  medici 
che  si  raffigurano  ancora  l'inferno  e  il  paradiso,  come  se  si  fosse  ai 
primordi  dell'era  cristiana;  scienziati  che  intingono  divotamente  la 
mano  nella  pila  dell'acqua  benedetta.  Cervelli  asindetici,  senza  dubbio, 
che  ricordano  molto  da  vicino  i  Giapponesi,  presso  cui  spesso  si  nota 
il  miscuglio  più  curioso  di  pratiche  buddiste  e  scintoiste  senza  il 
senso  di  alcuna  contraddizione.  Ciò  avviene  perchè  le  dottrine  scien- 
tifiche alle  volte  non  hanno  alcuna  ripercussione  sulla  totalità  dello  spi- 


I 


42  Giosuè  Maliandi 


rito;  è  come  se  una  parte  deiranima  non  abbia  alcun  contatto  con 
l'altra  ;  si  può  vivere  così  tutta  una  vita,  senza  sentire  questo  profondo 
contrasto,  e  senza  che  l'analisi  venga  a  turbare  la  placida  vita  quoti- 
diana. Ma  il  problema  religioso  è  puramente  conoscitivo,  cóme  qua- 
lunque altro  problema  storico  e  filosofico.  Si  può  essere  del  tutto  fuori 
d'ogni  forma  di  religione  ed  appassionarsi  al  problema  cristiano,  come 
airisUmico,  all'avestico,  allo  scintoistico,  ecc.  ;  si  può  esserci  dentro  e 
non  sentirne  il  valore  e  la  necessità  conoscitiva.  Ma,  poiché  questi 
studi  sembrano  alla  maggioranza  completamente  sterili,  il  credente  ne 
diffida,  o  ne  ha  grande  spavento,  perchè  potrebbero  rubargli  il  suo 
tesoro  dottrinario;  l'areligioso  non  se  ne  cura,  bastandogli  di  non 
sentirne  la  necessità  emotiva  od  intellettiva;  l'irreligioso  o  non  li  co- 
nosce o  li  apprezza  poco,  perchè  crede  che  la  sola  scienza  possa  spazzar 
via  dall'animo  la  nebbia  religiosa  o  ne  fa  una  macchina  di  guerra 
contro  la  religione.  Pochissimi  invece  sono  quelli  che,  forniti  della  ne- 
cessaria preparazione,  ne  comprendono  l'importanza  filosofica  e  ne  ri- 
vivono tutto  il  fascino  interiore. 

Certo,  la  scienza  delle  religioni  è  una  scienza  eminèntemente 
aristocratica,  che  richiede  una  conoscenza  non  comune  di  lingue,  di 
storia,  d'etnografia.  Non  si  può  studiare  il  Cristianesimo,  senza  cono- 
scere l'ebraismo  e  le  altre  religioni  palestiniche  ;  né  seguirne  l'evolu- 
zione, senza  una  nozione  diretta  dell'immensa  letteratura  patristica 
e  conciliare.  Non  si  studia  l' islamismo  o  il  parsismo,  senza  una  sicura 
conoscenza  dei  testi  orientali;  né  la  storia  religiosa  della  Cina  o  del 
Tibet,  senza  avere  appreso  il  cinese  e  il  tibetano.  I  pochi  cultori  seri  di 
studi  religiosi  in  Italia  si  sono  occupati  più  spesso  di  filologia  e  di 
pura  archeologia,  e,  soltanto  in  brevi  saggi,  di  questioni  ierologiche, 
rattenuti  non  si  sa  da  qual  pensiero  o  da  qual  timore.  Certo,  man- 
cano in  Italia  i  mezzi  di  studio:  anche  nelle  grandi  biblioteche  non 
è  facile  trovare  i  periodici  esteri  di  storia  religiosa,  e  poche  opere  fon- 
damentali vi  sono  contenute.  A  Napoli,  per  esempio,  dove  pure  è  un 
Istituto  Orientale,  mancava  fino  a  qualche  anno  addietro  quasi  ogni  libro 
per  lo  studio  dell'armeno  e  del  copto;  né  vi  si  trova  nulla  che  age- 
voli la  conoscenza  delle  lingue  e  delle  religioni  dell'Africa  e  della 
Polinesia;  non  esiste  un  dizionario  malgascio...  Non  parlo  poi  di 
bibliografia  e  di  materiale  etnografico.  Tuttavia  ci  sono  presso  di  noi 
alcuni  conoscitori  dell'oriente  semitico  ed  ario,  i  quali,  certo  meglio 
di  altri,  avrebbero  potuto  occuparsi  di  storia  religiosa,  come  il  Guidi,  il 
Nallino,  lo  Schiaparelli,  (mi  sia  lecito  anche  ricordare  il  mio  maestro  di 
arabo  a  Napoli,  Lupo  Buonazia,  valente  arabista,  d' una  modestia  quasi 
inverisimile,  morto  tre  anni  addietro),  notissimi  in  tutto  il  mondo  scien- 
tifico, non  meno  del  Pizzi,  del  Conti  Rossini  del  Formichi,  ecc. 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  43 

I  lavori  dello  Scerbo  sull'Antico  Testamento  dimostrano  la  sua 
profonda  conoscenza  della  filologia  semitica  e  l'esatta  valutazione  dei 
lavori  critici  moderni,  dal  punto  di  vista  della  pura  filologia;  ma 
l'autore  s'interdice  quasi  ogni  discussione  ed  ogni  apprezzamento 
religioso.  Eppure  è  certo  che  molti  lavori  di  filologia  dipendono  da 
valutazioni  storiche  diverse  dei  vari  libri  biblici  presi  in  esame.  L'edi- 
zione dell' Haupt,  per  esempio,  non  è  stata  fatta  in  base  a  criteri  di 
pura  filologia  (è  mai  possibile  un'edizione  simile?),  come  quella  del 
Baer-Delitzsch,  ma  sur  una  concezione  storica  ben  definita,  la  quale, 
partendo  dalla  conoscenza,  possibilmente  completa,  del  mondo  se- 
mitico, si  riflette  poi  nella  critica  testuale  della  Bibbia.  Così  la  divi- 
sione delle  fonti  (jahvista,  elohista,  codice  sacerdotale)  non  è  fatta, 
checché  se  ne  dica,  in  base  a  criteri  grammaticali,  ma  parte  da  una  con- 
cezione speciale  della  religione  d' Israele  nei  vari  periodi  della  sua 
storia.  Non  si  fa,  del  resto,  un'edizione  critica  di  Job  o  di  Gregorio  di 
Narek,  senza  una  conoscenza,  la  più  esatta  possibile,  del  periodo  storico  in 
cui  vissero  ;  com'è  certo  che  la  lingua  e  la  sintassi  di  Jona  non  sono  gran 
che  differenti  da  quelle  di  Haggai,  per  esempio,  o  di  Amos,  come 
potrebbe  esserlo  l'ebraico  del  cantico  di  Debora  da  quello  d'Ibn 
Tibbon  o  dello  Sciur  Komah.  In  tali  casi  il  puro  criterio  filologico  è 
del  tutto  insufficiente. 

Importanti  senza  dubbio  sono  i  vari  scritti  del  Minocchi,  e  può 
dirsi  ormai  classica  la  sua  traduzione  dei  Salmi  ;  come  i  saggi  di  filo- 
logia neo-testamentaria  del  Buonaiuti  dimostrano  la  sua  grande  pre- 
parazione a  questo  genere  di  studi.  Maggior  valore  forse  ha  il  suo  libro 
su  lo  Gnosticismo,  che,  pur  servendosi  dei  lavori  del  De  Fayé,  del- 
TAmélineau,  dello  Schmidt,  è  un'esposizione  abbastanza  esatta  di  quel 
complicato  ed  importantissimo  argomento.  Non  parliamo  degli  scritti 
del  Mariano  e  del  Labanca,  perchè  essi  dimostrano  una  mentalità, 
liberale  bensì,  ma  religiosa,  ed  alcuni  loro  scritti  (il  libro  sul  Papato 
del  Labanca)  sono  pieni  di  errori  storici.  Maggior  valore  ebbe  il  libro 
di  Gaetano  Negri  su  Giuliano  V Apostata,  specialmente  quando  lo  si 
paragoni  all'opera,  molto  più  ampia  certo,  ma  partigiana,  di  Paolo 
Allard  sullo  stesso  argomento. 

II  Salvatorelli  ha  di  recente  pubblicato  in  volume  (Città  di  Ca- 
stello, 1914)  diversi  articoli  di  storia  religiosa.  I  due  più  importanti 
sono  forse  il  VII  (Gli  Apologeti  Greci  del  II  secolo)  e  il  XVIII  su 
Baldassarre  Labanca.  Però  il  Salvatorelli  espone  soltanto  e  non  prende 
mai  posizione  nel  dibattito  dei  vari  problemi  suscitati  dalla  critica 
recente.  Pare  che  egli  abbia  un  certo  ritegno  nel  pronunziarsi,  e 
chi  legge,  alla  fine,  si  domanda  perplesso:  —  Qual'è  il  pensiero  del- 
l'autore?—. 


Giosuè  Maliandi 


Il  saggio  ultimo  della  raccolta,  Filosofia  e  Religione  nell'Italia  con- 
temporanea, avrebbe  potuto  essere,  oltre  che  un'esposizione,  una  critica 
analitica  di  qualcuno  almeno  dei  massimi  problemi  della  storia  religiosa. 
Ma  quel  che  si  rileva  da  varii  accenni  è  l'assunzione,  senz'ombra  di  prova, 
che  la  filosofia  religiosa  sia  una  parte^  un  aspetto  della  filosofia  gene- 
rale. Invece  il  risultato  proprio  della  ierologia,  qual'è  veramente  intesa 
dai  sociologi  contempoi^anei,  ed  a  cui  si  vanno  convertendo  i  filologi 
orientalisti  (basterebbe  nominare  tra  questi  il  Meillet,  il  grande  arme- 
nìsta)  è  che  le  entificazioni  dell'anima  religiosa  non  hanno  nulla  che 
vedere  coi  problemi  della  filosofia,  e  che  solo  tardivamente,  come 
abbiamo  ripetuto,  essi  divengono  per  il  pensiero,  jgià  più  evoluto  e 
più  sicuro  di  sé,  un  problema  ontologico.  Non  si  esclude  che  la 
filosofia  possa  proporsi  i  problemi  e  i  simboli  dell'anima  religiosa 
come  proprio  oggetto  di  ricerca,  ma  lo  stabilirne  prima  la  natura  sto- 
rica (meglio,  «  valutativa»,  e  non  ontologica)  li  pone  in  una  luce  total- 
mente diversa. 

L'altro  volume  dei  Salvatorelli,  Introduzione  bibliografica  alla  storia 
delle  religioni^  non  contiene  che  della  bibliografia  con  qualche  piccolis- 
sima nota  critica.  Eppure  un  libro  simile;,  potentemente  pensato  e  non 
ridotto  ad  un  nudo  elenco  di  opere,  o  almeno  preceduto  da  una  parte 
generale,  che  avesse  esposto  criticamente  le  posizioni  della  scienza 
storica  contemporanea  di  fronte  alle  affermazioni  dell'anima. religiosa, 
sarebbe  stato  importante  ed  utilissimo  in  Italia,  ove  manca  un'elabora- 
zione originale  —  per  quanto  possa  essere  anch'essa  discutibile  —  dei 
risultati  della  storia  religiosa  degH  ultimi  venti  anni.  Le  soluzioni,  date 
dal  Croce  e  dal  Gentile  al  «  problema  religioso  »,  e  che  il  Salvatorelli 
dice  non  confutate  *  e  superate,  senza  però  spiegare  se  egli  le  accetti  o  no,* 
non  possono  essere  discusse  qui  ;  ma  è  chiaro  che  i  due  illustri  autori 
ignorano  completamente  le  ricerche  storiche  sulle  varie  religioni,  i  dati 
etnografici  indispensabili  per  chi  non  voglia  fare  opera  del  tutto  fanta- 
stica, e  non  conoscono  né  le  lingue,  né  le  letterature  dell'Oriente.  Defi- 
nire la  religione  come  un2i  filosofia  inferiore  è  affermazione  destituita 
d'ogni  riguardo  storico-etnografico,  paragonabile  a  quella  di  un  patologo 
moderno,  il  quale  affermasse  che  i  neoplasmi  sono  dei  lusus  naturae  o 
volesse  rinnovare  le  fantastiche  teorie  di  Paracelso  sulla  febbre...  La  reli- 
gione non  é  mai,  «  fatto  teoretico  »,  in  quanto  religione  ;  gli  elementi  af- 
fermativi si  aggiungono  solo  in  tempi  posteriori  e  in  costruzioni  filoso- 
fico-teologiche. Né  più  vera  é  l'altra  proposizione  del  Salvatorelli  (che  ri- 
sente del  vecchio  Protestantesimo),  per  cui  soltanto  nelle  ^ra/^rf/  religioni 
(perché  non  dire  esplicitamente:  nel  Cristianesimo?)  la  vita  religiosa 


1  Saggi  di  storia  e  politica  religiosa,  p.  278. 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  45 

si  mostra  in  tutta  la  sua  complessità  e  profondità,  e  chi  ha  passato 
t'itta  la  sua  esistenza  a  studiare  la  religione  australiana  o  quella  dei 
Pelli  Rosse  assai  difficilmente  potrebbe  arrivare  a  comprendere  che  cosa 
sia  «  religione».  Si  potrebbe  domandare:  —  E  chi  ha  studiato  l'Islamismo 
o  il  Parsismo,  riuscirà  a  comprendere?  —  È  il  solito  pregiudizio  cpnfes- 
sionalistico  od  etnico,  la  solita  assunzione  arbitraria  delle  note  concet- 
tuali della  religiosità  da  un  campo  solo. del  dominio  storico  religioso. 
Un  discorso  a  parte  meritano  gli  studi  del  grande  orientalista  e 
scienziato  Leone  Caetani:  ì  suoi  lavori  sull'Isiàm  valicano  il  puro 
campo  orientale  semitico  ed  entrano  in  quello  più  vasto  della  scienza 
in  senso  generale  (geologia,  storia  universale).  Il  merito  grandissimo 
del  Caetani  è  di  aver  ricondotto  alla  sua  vera  base  geo-biologica  lo  studio 
delle  migrazioni. dei  popoli  semitici,  sino  air  ultimo  grande  fatto  storico 
che  è  r  Isiàm.  L'oscurissimo  problema  dell'origine  e  della  sede  primi- 
tiva dei  popoli  semiti,  inintelligibile  alla  pura  filologia,  acquista,  con 
le  dimostrazioni,  ormai  inoppugnabili,  del  Caetani,  una  spiegazione 
logica  e  scientifica.  Il  Lammens  può  ben  dichiarare  la  sua  incompe- 
tenza in  materia  geologica  ;  può  sbrigarsi  in  due  righi  degli  argomenti 
del  Caetani;  ma  ciò  dimostra  fino  all'evidenza  l'invincibile  mentalità 
sacerdotale  e  l'atroce  paura  del  credente,  che  resta  a  distanze  astrono- 
miche dalla  scienza.  La  vita  d' un  popolo  non  s' intende,  distaccata  dalla 
terra  in  cui  è  vissuto  e  vive:  la  storia  o  è  mesologia,  o  è  raccolta  di 
fatti  slegati,  senz'ombra  di  spiegazione.  Le  emigrazioni  del  popoli  se- 
mitici sarebbero  del  tutto  enigmatiche,  se  non  si  sapesse  ormai  quali 
siano  state  le  vicende  della  penisola  arabica.  Tutte  le  altre  ipotesi  pos- 
sono dirsi  definitivamente  superate. 

Ma  la  geniale  teoria  del  Caetani  ha  una  applicazione  innegabil- 
mente felice  anche  nel  campo  ierologico.  Le  religioni  semitiche  più 
antiche  hanno  indubbi  caratteri  arabici,  che  si  sono  tenacemente  con- 
servati fino  in  tempi  assai  più  tardi,  quando  la  religione  aveva  già 
potuto  organizzarsi  in  un  mondo  autonomo.  Si  sente  in  essa  perspi- 
cuamente il  deserto,  la  maligna  influenza  della  miseria  e  della  selvagia 
aridità  del  suòlo.  Feroci  e  sanguinari  erano  Jahvè  e  Dagòn,  perchè 
tali  erano  le  tribù,  che  li  avevano  foggiati,  e  tale  la  vita  durissima, 
ch'esse  avevano  condotta  nel  deserto.  Si  potrebbe  immaginare  un 
Buddo  arabo  o  un  Maometto  ellenico?  L'influenza  dell'ambiente  non 
deve  essere  più  intesa,  come  facevano  i  vecchi  mitologi,  nel  senso  che  la  re- 
ligiosità sia  nata  dalla  paurosa  osservazione  dei  grandi  fenomeni  naturali; 
ma  bensì  nel  senso  che  qualunque  società  umana  reca  in  sé  le  stigmate 
del  luogo  in  cui  vive:  la  ricchezza  e  la  fertilità  si  riflettono  nella  trascri- 
zione spirituale  e  nella  vita  d' un  popolo  ;  come  la  povertà  del  contenuto 
psichico  non  è  che  il  riflesso  della  tristizia  e  della  malignità  del  suolo. 


46  Giosuè  Maliandi 


La  religione  dei  Fuegini  non  può  esser  confusa  con  quella  dei  Bantu; 
il  Dio  Tlaloc  o  Huitzilopochtli  non  si  può  scambiare  con  Mitra  o 
con  la  figura  semi-totemica  del  serpente  Wollunqua  d'Australia.  La 
storia  dei  dommi,  che  è  la  codificazione  più  completa  degli  assurdi 
dal  punto  di  vista  della  psicologia  individuale,  contiene  innegabili 
prove  deir  influenza  dell'ambiente  sulla  concezione  di  alcune  figurazioni 
simboliche  di  luoghi  o  di  eventi  storici  od  extrastorici.  La  figura  del- 
l' Inferno,  per  esempio,  a  cui  pure  hanno  contribuito  tante  società  e 
tante  generazioni  diverse,  è  d'innegabile  origine  orientale  semitica.  In 
essa  la  Oehinnon,  concezione  moabito- fenicia,  s'è  fusa  con  un  concetto 
strettamente  arabo,  derivato  dall'esperienza  dei  grandi  ardori  del  de- 
serto (processo  parallelo  di  simbolizzazione  del  giudizio  universale 
nella  valle  di  Jahvè  sciaphaf).  Tanto  è  ciò  vero  che  nella  traduzione 
slava  del  libro  d'Enoch,  l'Inferno  è  situato  nel  nord,  in  ana  regione 
di  ghiaccio  e  di  freddo  intenso^  mentre  nel  testo  etiopico  la  prigione 
infernale  è  piena  di  fuoco  ed  è  situata  nelV estremo  sud,»  Lo  stesso  è 
avvenuto  nella  concezione  del  Paradiso,  il  quale,  se  avesse  avuto  or- 
gine  tra  gli  Esquimesi  della  Groenlandia  o  tra  i  Daiachi  di  Borneo, 
probabilmente  sarebbe  stato  concepito  in  modo  diverso,  e  certo  non 
si  chiamerebbe  nemmeno  col  nome  persiano  di  Paradiso.  Il  Requiem 
babilonese  per  i  morti,  che  si  avviano  all'Aràlu,  non  era  che  un  ango- 
scioso appello  dell'anima  beduina,  martirizzata  dalla  sete  del  deserto: 
<  Che  Ninib  ti  faccia  bere  acqua  pura  !  ». 

Le  origini  del  monachismo  cristiano  forniscono  un'altra  prova, 
forse  un  po'  meno  evidente,  della  profonda  influenza  dell'ambiente.  Il 
monachismo  è  nato  in  Egitto  all'epoca  copta,  e  della  terra  d'Egitto  e 
dei  Copti  ha  conservato  traccie  indelebili  nella  sua  stessa  concezione» 
nelle  regole,  fin  nell'abito.  Per  un  periodo  lunghissimo  il  monachismo 
cristiano  si  considerò  come  una  storia  meravigliosa,  vera  ascesi  spi- 
rituale, e  i  cenobiti  di  Scete  e  della  Nitria,  come  eroi  perfetti,  e  e 
Girolamo  e  Palladio  di  Elenopoli  avevano  rivelati  alla  venerazione 
entusiasta  della  cristianità  occidentale.  Le  Vitae  Patrum  e  gli  Apo- 
phtegmata  Patrum  sono  stati  il  viatico  spirituale  di  molte  anime  e 
di  parecchie  generazioni.  Ma  un  bel  giorno,  o  un  brutto  giorno,  si 
rintracciano  in  Egitto  (nei  vari  dialetti  copti)  le  vite  autentiche  dei 
famosi  anacoreti  (Pacomio,  Scenute,  Macario,  Giovanni  Kolobos,  ecc.) 
e  l'aureola  meravigliosa  che  li  illuminava  comincia  a  impallidire... 

Pregiudizii  e  difficoltà  tecniche  di  vario  genere  hanno  impedito 
in  Italia  la  creazione  di  un  vero  insegnamento  universitario  della  storia 
religiosa,  come  si  ritrova  in  quasi  tutti  i  paesi  d'Europa  e  negli  Stati 
Uniti  ;  ma  la  Facoltà  orientale  in  Roma  e  l' Istituto  Superiore  di  Firenze 
sarebbero  certe  le  due  sedi  più  indicate  per  lo  sviluppo  di  uno  studia 


La  fase  attuale  degli  studi  di  storia  religiosa  47 

veramente  scientifico  delle  religioni.  Perchè  queste  sono  la  conclusione 
del  nostro  articolo  (che  non  poteva  certo  essere  né  completo  né  esau- 
riente) e  la  linea  secondo  cui  si  orientano  le  ricerche  moderne:  il  pro- 
blema religioso  non  essere  di  natura  trascendente  o  diversa  da  quella 
di  tutti  gli  altri  problemi  storici  del  mondo  umano;  la  storia  del 
Cristianesimo  doversi  studiare  con  gli  stessi  criterii  e  con  lo  stesso 
metodo  con  cui  si  studia  1*  Isiàm  o  la  religione  degli  Hovas,  che  i  libri 
cristiani  si^  trovano  sullo  stesso  piano  logico  e  metafisico  del  Mi 
cinese,  del  Kuastuanift  manicheo,  del  Sidrà  de  Niscmata  mandaico. 

Giosuè  Maliandi. 


^ 


LA  PIO  ÌNTICA  aristocrazia  CORINTIACA 

(I  Bacchiadi  :  ?  -  610  circa  a.  C.) 


(Continuaz.;  cfr.  A.  /,  fase.  I-II). 

Nuiperose  testimonianze  inducono  qualsivoglia  più  cauto  indaga- 
tore della  storia  greca  a  porre  tra  Corinto  e  la  Beozia,  negli  anni  del- 
l'aristocrazia, una  non  turbata  serenità.  Cantava  la  leggenda,  che  è 
poi,  in  questo  caso»  il  raggio  ideale  innalzato  sovra  il  terreno  solido 
dei  fatti:  Poseidon,  dominatore  delle  acque^  generò  Eolo  e  Beoto:  dal 
primo  i  corinzi  Sisifidi,  dall'altro  gli  abitanti  della  Beozia  ebbero  na- 
scimento.^ Inoltre,  Sisifo,  il  monarca  favoloso  dell'istmo,  attraverso  la 
nepote  Crisogene,  fecondata  da  Poseidon,  dava  i  natali  a  Minia  fon- 
datore della  beotica  Orcomeno.'-^  E  finalmente  l'Edipo  tebano,  intorno 
al  quale  ascese  così  sublime  l'ululato  della  tragedia  greca,  venne  rac- 
colto —  così  suona  il  mito  —  dai  pastori  sovra  i  declivii  del  Citerone 
e  crebbe  nella  reggia  di  Polibo  corinzio,  forse  entro  il  villaggio  di  Te 
nea  situato  a  mezzogiorno  della  città  di  Sisifo  e  celebre  perchè  da 
quel  punto  numerosi  coloni  avrebbero  prese  le  mosse  a  gettar  le  basi 
della  lontana  Siracusa.3  Si  aggiunga  cheil  instino  di  Atteone  corin- 
tìaco assassinato  da  Archia  (il  quale   poi  scontava  la  colpa  abbando- 


1  Prellfr,  Griech.  MythoL,  ed.  e.  I,  469. 

«  Scholia  in  Apollon.  Rhod.  argonaut.   Ili,  1094. 

8  SOPHOCL.,  Oed.  rex,  771-834,  909  910.  924  1182;  EuRiP.,  Phoenis.,  100-1007; 
Pherecyd.,  ap.  Sclwl.  in  Eurip.,  P/ioenis.,  53;  Nic.  Damasc,  /rag.  15  in  FMG., 
Ili,  pp.  366-367;  Strab.,  Vili,  6,  22;  Paus.,  IX,  26,  2,  X,  5,  2;  Plut.,  de  euriosit., 
523  A.  C.  ;  Hygin.,  fab.  67  (ed.  Schmid),  1872,  pp.  73-74;  Apollod.,  Bibiioth.,  Ili, 
48-56  e  sgg.,  Sehol.  recent,  in  Aeschyl.  sept.  coni.  T/ieb.,  ed.  Dindorff  Oxon.,  1851, 
p.  297,  SchoL  in  Eurip.  Phoen.  argutnent.  V  e  poi  28,  29;  44,  71. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  49 

nando  la  patria  e  facendo  vela  verso  la  Sfcilìa)  sembra  trovar  riscon- 
tro nei  casi  miserandi  delle  figliuole  di  Scedaso  di  Leuttra;  i  due 
racconti  favolosi,  quello  corinzio  e  quello  beotico,  sono  l'uno  sull'al- 
tro ricalcati.! 

Se  dalle  brume  leggendarie  drizziamo,  a  grado,  i  passi  verso  le 
prime  luci  tremebonde  ed  i  fulgori  meridiani  della  storia,  sempre  ci 
muoveranno  incontro  i  segni  d'una  perenne  amicizia  tra  la  regione 
beotica  e  la  terra  dell'istmo.  Che  Anfione  di  Tebe,  ammaestrato  da 
Ermes,  costruisse  la  cetra  al  cui  suono  traevan  dietro  le  fiere  man- 
suefatte, apparisce  dalle  reliquie  del  poema  Europa  dovuto  alla  fanta- 
sia del  Bacchiade  Eumelo,^  il  quale  poi  a  una  delle  Muse  poneva  il 
nome  di  Cefiso,  lago  noto  dolla  Beozia.^  Di  più  :  fra  i  Corinzi,  come 
tra  i  Beoti,  fumavano  gl'incensi  innanzi  all'ara  delle  Qariti,*  e  dall'istmo 
—  insistendo  sovra  le  vestigia  dell'amico  Diocle  che  fuggiva  la  geni- 
trice accesa  per  lui  di  fiamme  impure  —  giunse  a  Tebe  il  Bacchiade 
Filolao  a  dettar  leggi  intorno  all'adozione  e  all'immutabilità,  dei  beni 
da  trasmettere  intatti  al  lungo  ordine  dei  nepoti.  ^  Chi  poi  fosse  punto 
dal 'desiderio  di  seguire  il  prolungarsi  negli  anni  di  tali  vincoli  d'af- 
fetto troverebbe  che  Chersia,  epico  poeta  di  Orcomeno,  intuonò  i  suoi 
canti  nella  reggia  dei  Cìpselidi  ;  ^  che  sopra  le  monete  di  Coronea  e  di 
Cope  nella  Beozia  spiccava  la  lettera  corinzia  Kof  incisa  per  ordinario 
soltanto  sovra  i  nummi  usciti  dalle  zecche  dell'istmo  '^  che,  allo  scate- 
narsi della  lotta  peloponnesiaca  e  per  tutto' il  prolungarsi  dei  sussulti 


i  Plut.,  Maral,  amator.  narrai.,  lU-  Le  vicende  di  Atteone  corinzio  formaqo  oggetto 
del  racconto  che  precede  {ibid.,  li):  da  aggiungere  poi  clie  lo  slesso  Scedaso  di  Leut- 
tra, in  cammino  verso  Sparta,  ode  da  un  cittadino  dell'euboica  Oreo  narrata  la  fine 
di  un  figliò  suo  perito  tragicamente  come  Atteone  e  per  l'identico  sferrarsi  di  tor- 
bide passioni  d'amore  {ibid..  111). 

2  EuMELOS  ap.  Paus.,  IX,  5,  8. 

3  iD.,  ap.  TzETZ.,  in  Hesiod.,  25;  epic.  graec.  fragni,  (ed.  Kinkel,  p.  195);  Wi- 
LISCH,. //A.  die  Fragni,  d.  Epik.  Euniel.,  38;  Io.,  Spiir.  altk.  Dicht.  ausa.  Euniel.  in 
lahrbucb  f.  class.  P/u!olog.,B.  123  (1881),  p.  163;  Curtius,  Stud.,  z.  Gescli.  v.  Kor, 

—in  Hermes,  X  (1876),  p.,217. 

Hi       4  WiLiscH,  Spuren  n.  s.  w,,  /.  e,  p.  163. 

^  5  Aristot.,  Polli.,  \Tl\  a  30-42,  1274  b,  1-5.  La  data  del  soggiorno  di  Filolao 
in  Tebe,  si  ricava,  giusta  il  Duncker,  considerando  che  Diocle  fu  vincitore  dei  ludi 
in  Olimpia  verso  il  728:  poco  tempo  dopo  i  due  amici  avrebbero  cercato  rifugio 
fra  i  Tebani  (Duncker,  op.  e,  V  3Q7  nota  2*).  11  ragionamento  sarebbe  accettabile 
qualora  fosse  concesso  di  giurare  sovra  l'autenticità  degli  anni  segnati  nei  più  an- 
tichi elenchi  olimpiaci:  ma  ciò  non  è.  A  noi  basta  sapere  da  Aristotele  che  Filolao  era 
Bacchiade  ('t>iXóXuo5  xò  nèv  y^vo?  toóv  BaxxiaSiòv,  Poi.  1274  a,  32,  33). 

6  Paus.,  IX,  39,  9;  IX  29,  2. 

7  RAOUL-RocHETTe,  Un  vase  peint  d.  fabriq.  corinihien.  in  Annal  d.  Inst.  ar~ 
cheolog.  49  (1847),  p.  250,  nota  2*. 

4  —  Nuova  Rivista  Storica, 


50  Guido  Porzio 


della  guerra  sino  al  trionfo  di  Lisandro  spartano,  le   milizie  di  Tebe 
a  fianco  di  quelle  corinzie  caricarono  il  nemico  comune.^ 

Quale  fosse  Tenergia  operatrice  del  diuturno  accordo  tra  le  due 
terre  mal  si  ricava  dalle  congetture  degli  eruditi  che,  come  il  Wilisch, 
invocarono,  a  spiegare  Tunione  dei  due  popoli,  la  voce  del  sangue.^ 
La  comunanza  delle  origini  non  è  mai  stata,  per  sé  stessa,  cagione 
d*amicizia  :  ha  porto,  anzi,  molto  spesso,  cogli  attriti  quotidiani,  esca 
potente  al  divampare  degli  odi.  La  veemenza  dei  rancori,  qualche  volta 
inestinguibili,  alimenta  le  sue  fiamme  più  rutilanti  proprio  dove  la 
comunione  della  schiatta  farebbe  attendere  una  pace  di  spiriti  fraterni  : 
questa  legge  vale  così  per  le  famiglie  come  pet  i  popoli.  Anche  nel 
caso  nostro  la  storia  si  spiega,  non  col  dar  ascolto  ai  battiti  del  cuore 
e  col  mirare  in  alto  le  luci  iridate  dei  così  detti  ideali,  ma  abbassan- 
doci a  scrutare  l'opera  occulta  delle  radici  profondantisi  nella  nera 
terra.  Si  pensi  che  la  Beozia,  a  motivo  delle  acque  copiose,  era  una 
delle  regioni  più  feraci  dell'Eliade  antica  ^  e  che,  mentre  da  un  lato 
acque  siffatte  —  o  mormoranti  libere  negli  alvei  naturali,  o  frenate,  nei 
costruiti  condotti,  dall'opera  umana  —  irrigavano  i  pingui  orti  e  li 
rendevano  superbi  di  erbe  nutritive  più  che  in  qualunque  paese  della 
Grecia,*  d'altra  parte  le  reti  dei  pescatori  gettavano  sopra  le  sponde 
delle  lacustri  cavità  cumuli  di  anguille  mescolate  a  pesci  varii,^  e  le 
praterie  verdeggianti  erano  alimentatrici  di  destrieri  focosi,^  e  nei  campi 
ondeggiavan  le  messi  feconde  di  grano  la  cui  potenza  nutritiva  vin- 
ceva di  gran  tratto  —  come  fanno  ricordo  Teofrasto  e  Plinio  —  quella 
del  frumento  maturato  nelle  terre  attiche.'^  Inoltre,  a  saziare  le  voglie 
dei  facoltosi  buongustai,  pernici  in  gran  copia  e  altre  specie  di  pen- 
nuti e  di  varia  selvaggina  eran  nutrite  dalla  terra  fertile  e  s'innalza- 
vano a  stuoli  o  veloci  trascorrevano,  fatte  segno  ai  colpi  degli  esperti 
cacciatori.8  Era,  dunque,  la  Beozia  un  paese  che  poteva  largire  a  Co- 


1  Thucyd.,  I,  27,  2;  II,  9,  2;  Diodor.,  XIII,  8. 

*  Wilisch,  Spnr.  altkor,  u.  s.  w.  /.  e,  p.  163.. 

*  Thucyd.,  I,  2,  3-4  (appunto  a  cagione  di  siffatta  fertilità  la  Beozia  fu  una  delle 
terre -maggiormente  funestata  dalle  invasioni),  Eustath,  comment.  in  lliad.^.  189  (il 
popolo  beota  è  detto  pingue  ed  opimo  dal  cantore  epico  per  la  fertilità  delle  sue  terre). 

4  DiCAEARCHi  vel  potius  Athenaei  descript.  Graec,  13,  20,  21  in  Geograph.  Graec. 
Minor.,  I,  pp.  102-103:  è  giunta  a  noi  memoria  della  magnificenza  dei  cocomeri  e 
dei  superbi  napi,  Athen.,  epitom.  I,  4  d;  Io.,  Ili,  74  a. 

5  DoRioN  ap.  Athen.,  VII,  297  e;  feuBULUS  ap.  Athen.,  Vili  300  d;  Aristophan., 
ap.  Athen.,  VII,  302,  d. 

«  Herodot.,  V.  77;  Dicaearchi,  vel  potius  Athen.,  descript.  Graec,  13,20,21 
in  Geog.  Graec.  Min.,  I,  pp.  102-103. 

7  Theophrast.,  hist.  piantar..  Vili,  4,  5  ;  Plin.,  n.  h.,  XVIII,  12,  3. 

8  Athen.,  IX,  390  b  :  ricordiamo  che  l'essersi  i  congiurati,  amici  di  Pelopida,  na- 
scosti sotto  le  spoglie  di  cacciatori  per  aver  più  facilmente  libero   il  passo  a  rove- 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  51 


rinto  abbondanza  di  frutti  agricoli  e  altri  prodotti  della  terra  e  delle 
acque:  paese  nel  quale  l'industria  suonava,  tutt'al  più,  entro  le  dome- 
stiche pareti  per  l'appagamento  dei  bisogni  più  semplici  dell'uomo: 
ben  lontana,  quindi,  dal  desiderio  inquieto  d'una  conquista  di  mer- 
cati stranieri.  E  ciò  significa  che  i  Beoti,  mentre  sulle  navi  corinzie 
caricavano  l'eccesso  della  loro  produzione  agricola  e  gli  splendidi  ortaggi 
e  gli  animali  o  vivi  o  uccìsi,  erano  poi  tributari  dei  Bacchiadi  in  quel 
che  riguarda  una  parte  cospicua  dei  manufatti  usciti  dalle  officine  del- 
l'istmo. Non  basta.  Scriveva  Eforo  che  nelle  acque  del  golfo  Criseo  1 
—  ivi  s'incurvava  un  porto  beotico  nel  lato  del  seno  corinzio  che 
più  volge  al  sol  levante  2  —  venivano  ad  ancorarsi  le  navi  cariche 
dei  prodotti  della  Sicilia  della  Libia  e  d'Italia.  Se  anche  tale  testi- 
monianza è  pervenuta  a  noi  mutila,  quasi  reliquia  sovranuotante 
dopo  la  deplorata  dispersione  delle  opere  del  narratore,  tuttavia  ap- 
pare manifesto  che  la  maggior  parte  dei  legni  ingombri  di  merci 
e  solcanti  le  acque  del  Criseo  erano  proprietà  di  mercatori  corin- 
tiaci. Tebe  e  i  Beoti  solo  molto  tardi. ebbero  navi  proprie,  e  sup- 
porre che  altri  legni  di  repubbliche  navigatrici  osassero  veleggiare  in 
quelle  acque,  ch'erano,  allora,  mobile  palestra  all'esclusiva  attività  co- 
rinzia, significherebbe  abbandonarsi  a  temerarie  congetture.  In  tal 
guisa  l'accordo  dei  due  popoli  scaturiva  da  vicendevoli  utilità  e  in 
esse  trovava  il  suo  saldo  fondamento  ;  possedeva,  cioè,  quella  forza 
di  coesione  che  dev'essere,  per  ordinario,  reputata  massima  nel  regno 
degli  umani. 

Per  quel  che  s'attiene  all'isola  di  Samo,  essa  dette  inizio  alla 
propria  ascensione  industriale  e  mercantile  forse  quando  ancora  i  re 
splendevano  sul  trono,  s'agitò  vivace  negli  anni  dell'aristocrazia  per  fol- 
gorare poi  lontano,  come  un  grande  centro  di  luce  e  di  vita,  al  tempo 
di  Policrate.3  Dalle  officine  samiote  uscivano  tappeti  di  tinte  varie,^  e 
squisiti  lavori  di  orefici,^  e  bronzi  colati  magistralmente,^  e  ferrei  ar- 


sciare  l'oligarchia  dimostra  abituale  lo  spettacolo  di  tali  comitive  venatorie  e  perciò 
non  atto  a  richiamare  l'attenzione  delle  sentinelle  che  stavano  a  guardia  delle  porte 
di  Tebe  (Plut.,  Pelop.,  8,  3). 

1  Ephor.,  ap.  Strab.,  !X,  2,  2. 

«  PsEUDi-ScYLAC.  perlp.  in  Geogr.  Graec.  Min.,  I,  p.  38,  Chrestom.  ex  Strab. 
lib..  Vili,  31  in  /.  r.,  II,  p.  584  ;  anche  un  passo  deiri4^^5//flo  di  Senofonte  (II,  If  19) 
dimostra  abituali  i  viaggi  nelle  acque  del  Criseo. 

*  Per  la  potenza  e  la  magnificenza  di  Policrate  cfr.  Herodot.,  Ili,  125. 

-*  ATHeN.,  X,  540  d  ;  Theocrit.,  XV,  125. 

5  Opera  dell'artefice.  Teodoro  fu  l'anello  di  Policrate,  Herodot.,  III,  41  :  gioielliere 
era  il  padre  di  Pitagora  di  Samo,  Suid.  s.  v.  nvdayóQag;  Tzetz.,  Chillad.,  VI,  369; 
Apulei.,  Florid.j  p.  129  (ed.  Bipont.). 

6  Plin.,  n.  A.,  XXXV,  152  :  Reco  e  Teodoro  inventarono  la  fusione  dei  metalli 
(passo  gigantesco  nel  metodo  di  saldatura,  come  s'esprime  il  Blumner,  Uattiv.  industr. 


52  Guido  Porzio 


iiesi  con  saldature  non  frangibili,  fi  cantore  Asio  nei  frammenti  della  sua 
perduta  epopea  descrive  gl'isolani  esultanti  negli  agi  e  molto  vaghi  di 
morbidi  piaceri.^  In  tali  condizioni  tra  l'isola  industre  e  la  terra  del- 
l'istmo, agitate  da  identica  operosità  produttrice,  v'era  materia  copiosa 
all'accendersi  degli  odi.  Ma  Samo,  quantunque  per  testimonianza  di 
Erodoto  2  drizzasse  talora  le  prore  audaci  sino  alle  colonne  d'Ercole, 
recava  tuttavia,  in  maniera  precipua,  i  suoi  prodotti  ai  sovrani  della 
Lidia,  ai  gran  re  persiani  e  ai  loro  popoli  -?  procedeva,  adunque,  alla 
conquista  di  paesi  nei  quali  la  penetrazione  dei  Corinzi,  volta  piut- 
tosto al  dominio  mercantile  dell'occidente,  giungeva,  se  mai,  fievole  e 
scarsa.  Si  comprende  cosi  che  in  anni  remoti,  quantunque  non  se- 
gnati con  storica  esattezza,  il  re  dei  Samii  Amficrate  muovesse  guerra 
ad  Egina,*  mortale  nemica  dei  Bacchiadi.  Tra  gl'impulsi  varii  determi- 
nanti lo  scatenarsi  della  guerra  è  necessario  far  una  parte  cospicua 
all'accorta  diplomazia  dei  mercatori  corintiaci.  Èssi,  fuor  d'ogni  dub- 
bio, dovettero  soffiare  nelle  ire  perseguendo  lo  scopo  di  servirsi  delle 
mani  altrui  per  vibrar  la  percossa  ai  proprii  nemici.  Del  resto  la  cor- 
dialità delle  relazioni  tra  Samo  e  Corinto,  mentre  la  più  antica  ari- 
stocrazia dominava  sopra  l'istmo,  ha  il  suo  piti  cospicuo  assertore  in 
Tucidide,  il  quale  narra  che  Ameinocle  armatore  corinzio,  verso  l'anno 
704,  apprestò  ai  Samioti  quattro  navi  annunzianti  già,  nella  lor  forma 
più  perfetta,  l'agile  trireme.^ 

Invece  il  contrasto  degl'interessi  sopra  i  mercati  d'Italia  suscitava 
gli  odi  tra  Corinto  e  la  ionica  Mileto.  Nelle  reliquie  di  Timeo  s'in- 
travede la  tenacia  invitta  spiegata  dai  Milesii  nello  spingere  attraverso 
Sìbari  sino  al  paese  degli  Etruschi  coperte  di  lana  e  molte  specie  di 
stoffe  intessute.  Chiusa  era  la  via  più  agevole  dello  stretto  di  Messina: 
chiusa,  secondo  un'assennata  congettura,^  dalla  rivalità  dei  Calcidesi 
e  dei  Corinzi  che,  dominando  da  tempo  Coi  loro  prodotti  sovra  le 
terre  dell'Etruria,  mal  tolleravano  la  concorrenza  degli  arditi  abitatori 
della  Ionia  asiatica.  I  pochi  cenni  a  noi  pervenuti  coll'integramento  di 


dei  popol.  dell'ani,  class,  in  Bib.  distar,  econom.  ed.  e.  v.  II,  part.  1*,  p.  548)  «multo 
anto  Bacchiadas  Corintho  pulsos  ». 

1  Asius  in  epic.  graec.  fragm.,  ed.  Kìnkel,  Leipz.  1877,  p,  206. 

«  Herodot.,  IV,  152. 

3  ID.,  E,  51,  3;  Athen.,  XII,  514  f,  515  a. 

*  Id.,  ifi,  59:  la  congettura  del  Duncker  {op.  cit.,  V5,  p.  406),  che  la  guerra  non 
potè  essere  combattuta  più  tardi  della  fine  dell'ottavo  secolo  perchè  verso  il  700  a 
Samo  non  v'erano  più  re,  si  presenta  ragionevole. 

6  Thucyd.,  I,  13. 

«.  TiMAEUS,  fragm.  60  in  /7/G,  I,  p.  205  ;  Meyer  Ed.,  Gesch.  d.  Alt^  II, 
(1892),  p.  539. 


La  più  antica  aristocrazia  corhitiaca  53 


naturali  supposizioni  bastano  a  porci  innanzi  la  rabbia  sorda  dei  ne- 
goziatori che,  dopo  aver  cupamente  rumoreggiato  nei  solchi  aperti 
dalle  navi  e  lungo  le  vie  terrestri  battute  dai  carri  ingombri  di  pro- 
dotti, si  rovesciava  di  bel  nuovo  dai  paesi  occidui  sui  campi  e  sui 
mari  ellenici  con  nembi  di  guerra.  Mileto  ostacolava  alle  mercanzie  dei 
Samioti  le  vie  dell'Asia:  premeva,  inoltre,  co'  suoi  manufatti  verso  i 
paesi  dell'Esperia  sulle  traccie  dei  venditori  corinzi:  valida  spinta, -adun- 
que, per  indurre  Corinto  e  Samo  a  congiungere  le  destre  nei  medi- 
tati assalti  e  nelle  difese  opportune.  Così  la  concordia  aveva  suo  te- 
nace cemento  nell'odio  comune.  Era  poi  naturale  che,  quando  il 
groviglio  degl'interessi  e  degli  odi  si  arruffava  di  soverchio,  esso  fosse 
reciso  a  colpi  di  spada.  Fu  questo  il  caso  della  guerra  lelantea.  Le 
ire  concepite  nel  trascorrere  di  molte  generazioni  e  avvelenate  ogni 
giorno  dall'urto  dei  mercatori  affrettanti,  a  prova,  il  passo  sopra  le 
vie  del  traffico,  le  guerre  prima  accese  come  vampe  solitarie  nella  va- 
stità del  mondo  greco,  i  cupi  rancori  e  le  proteste  clamorose,  in  una 
parola,  tutti  i  singeli  contrasti  confluirono,  dopo  una  serie  di  sussulti 
parziali,  in  una  spaventosa  conflagrazione  che  rapinò  ne'  suoi  vortici 
quasi  tutto  il  mondò  greco.  A  porgere  ai  lettori  un'idea  del  vasto  con- 
flitto Tucidide  sente  la  necessità  di  ricordare  lo  sforzo  degli  Elleni 
intorno  alla  città  priameia.i  I  popoli  nemici  da  lunghi  anni  (Eretrii, 
Calcidesi,  Samioti,  Milesii  e  forse  Corinzi,  Megaresi,  Corciresi,  Egineti) 
convennero  nell'Eubea  e  lungamente  s'aggirarono  in  una  ridda  armata 
e  tnffaronsi  nel  sangue,  non  per  stabilire  se  le  quattro  zolle  dei  campi 
di  Lelanto  dovessero  cadere  sotto  il  dominio  dell'una  o  dell'altra  città 
euboica,  ma  per  risolvere  colle  armi  in  pugno  la  secolare  contesa  della 
conquista  dei  mercati.  Vedremo  tra  breve  quale  densità  di  caligini  av- 
volga tuttora  la  partecipazione  dei  Corinzi  a  guerra  siffatta  ;  notiamo, 
intanto,  che  nelle  impalcature  delle  alleanze  greche,  in  cui  la  chiave 
di  volta  era  costituita  dagl'interessi  convergenti  delle  città  unite  ad  un 
patto,  bastava  la  più  leggera  deviazione  per  produrre  un  crollo  dis- 
solvitore  d'ogni  architettato  edifizio  diplomatico.  Il  tornaconto,  a  volta 
a  volta,  dettava  e  lacerava  i  patti  stabiliti.  Quando,  ad  esempio,  il  ti- 
ranno Periandro  si  congiunse  d'amicizia  al  milesio  Trasibulo,^  subito 
tra  Samo  e  Corinto,  prima  così  avvinte  di  fraterna  concordia,  pro- 
ruppero i  crucci  3  annunziatori  di  prossime  tempeste. 


i  Thucyd.,  XV,  1-3  (è  chiaro  nel  pensiero  del  narratore  il  confronto  tra  la  guerra 
di  Troia  e  quella  lelantea,  le  due  più' grandi  imprese  dei  tempi  antichissimi). 

«  Herodot.,  V,  92,  14. 

3  Id.,  Ili,  48:  nemici  dei  Corinzi,  i  Samii  diventano,  al  tempo  di  Periandro, 
amici  dei  Corciresi,  come  appare  alla  fine  del  citato  capitolo  erodoteo  (III,  48,  4). 


54  Guido  Porzio 


Una  guerra  commerciale  e  le  varie  ipotesi 

INTORNO    all'intervento  CORINTIACO. 

Vili. 

Dubbiosa,  com'abbiam  detto,  è  la  partecipazione  di  Corinto  alla 
catastrofe  che  chiuse  nella  Grecia  la  rivalità  delle  più  antiche  repub- 
bliche navigatrici.  Il  problema  della  guerra  lelantea  sorge  irto  di  non 
lievi  difficoltà,  e  se  è  vero  che  i  critici  han  per  uso  di  far  uscire  in 
gran  parte  la  piii  vetusta  storia  greca  da  battaglie  di  parole  e  da  ar- 
tifiziose  combinazioni  di  ipotesi  infeconde,  è  vero  anche  che  neirac- 
canito  abbaruffarsi  intorno  all'accennato  problema  meglio  rifulge,  con 
fastidio  degli  ascoltanti,  la  loro  nobilitade.  Basti  dire  che  per  tale 
guerra  gli  anni  delle  ostilità  oscillano  entro  il  giro  di  più  che  cento 
anni,  dalla  fine  del  secolo  VIII  al  terzo  decennio  del  secolo  VI  (704-570 
a.  C).  Anzi  in  questo  caso  la  cronologia  possiede  la  natura  dei  mo- 
bili banchi  di  arena  viaggianti  nel  deserto;  che  se  il  Belòch  nella 
prima  edizione  della  sua  Storia  Greca  poneva  il  600  come  data  pre- 
sumibile della  lotta  tra  Calcide  ed  Eretria,  nella  second.a  ristampa  per 
lo  stesso  urto  delle  due  città  euboiche  stabilì  il  570  quale  segnacolo 
nel  tempo.i  Camminano  le  date,  come  si  vede:  e  se  il  Beloch  farà 
della  sua  storia  una  terza  impressione,  egli  è  ben  capace,  pur  di  tenere 
in  bilico  qualche  nuovo  architettato  sistema  cronologico,  di  far  scen- 
dere la  guerra  per  i  campi  di  Lelanto  fino  alla  vigilia  delle  battaglie 
combattute  contro  il  re  dei  Persiani,  Dario  d'Istaspe.^ 

A  nostro  avviso  giova  impostare  i  termini  del  problema  così  :  S'è 
Corinto  gettata  nella  conflagrazione  della  guerra  lelantea  ?  In  caso  af- 
fermativo, ha  essa  combattuto  a  fianco  di  Calcide  o  di  Eretria? 

Alla  prima  domanda  rispondiamo  che  i  dotti  possono,  a  loro  posta, 
frugare  nelle  memorie  dell'antichità  alla  ricerca  di  un  passo  da  cui  la 
parte  presa  dai  Corinzi  nella  guerra  pei  campi  di  Lelanto  salti  fuori 
anche  solo  per  accenni. 


1  Cfr.  perla  cronologia  Curtius,  Stad.  x.  Gesch.  v.  Kor.  in  Hermes  (1871),  220-222; 
BusoLT,oyt;.  aV.,  I«,456;  Meyer,  op.  cit.,  II,  539;  Pohlmann,  op.  cit.,  46;  Beloch, 
op.  ci.,  I»,  289,  I«  !•  Abt.  338. 

*  Il  motivo  di  questa  semovente  cronologia  belochiana  è  che  l'a.  nella  2*  edìz. 
della  Star.  Grec,  rese  alquanto  più  prossimo  a  noi  il  tiranno  Perìandro  :  ora  questi, 
stando  al  Beloch,  intervenne  nella  lotta  lelantea  :  quindi  spostamento  nella  data  della 
guerra. 


La  piU  antica  aristocrazia  corintiaca  55 

Questo  passo  non  c'è.^  Che,  adunque,  Corinto,  in  tale  frangente, 
abbia  tratto  dal  fodero  la  spada  è  una  pura  supposizione  dei  moderni 
investigatori  della  storia  greca,  supposizione  espressa,  diremmo  quasi 
ricalcata,  con  un  identico  giro  di  frasi  convenzionali.  «  Innanzi  a  così 
grande  eccidio  di  guerra  ai  Corinzi,  che  guidavano  i  destini  d*una 
repubblica  potente,  non  era  dato  di  «  rimanere  semplici  spettatori  > 
scrive  il  Busolt.  «  Se  tutto  il  mondo  greco  si  schierò  o  con  1*  uno  o 
con  Taltro  dei  contendenti,  Corinto  dovette  certo  gettarsi  nella  mischia  », 
annuisce  Edoardo  Meyer.  Dominatrice  delle  acque,  «  Corinto  non  po- 
teva non  prender  parte  alla  guerra  »  tra  Calcide  ed  Eretria,  suona  la 
conferma  di  Erick  Wilisch.  «A  una  potenza  navale  come  quella  di 
Corinto  non  era  concesso,  durante  guerra  siffatta,  di  chiudersi  nella 
neutralità  »,  sentenzia  Giulio  Beloch.^  Si  tratta,  dunque,  d*un' ipotesi  che 
potrebbe  colpire  giusto,  ma  anche  errar  molto  lungi  dal  prefisso  segno. 
Confessiamo  che  la  superba  solitudine  della  più  antica  aristocrazia 
corintiaca,  durante  una  guerra  in  cui  tutti  i  nodi  arruffati  nel  giro  di 
molti  anni  venivano  al  pettine,  cioè  al  filo  tagliente  delle  spade  greche  : 
confessiamo  che  una  tale  supposta  solitudine  non  ha  per  noi  nessuna 
seduzione.  Ma  è  certo,  d'altra  parte,  che  in  un  caso  solo  potremmo 
ben  apporci  ;  se  il  groviglio  delle  vicende  elleniche  dall' Vili  al  VI  se- 
colo ci  si  dipanasse  innanzi  compiutamente  chiaro,  senza  velami  mi- 
steriosi. È  così?  Folgorata  da  dimanda  siffatta  il  Beloch  non  potrebbe 
torsi  d'impaccio  neppure  con  uno  de'  suoi  disinvolti  naturalmente. 

Ma  ammettiamo  pure  siccome  certa  la  partecipazione  dei  Corinzi 
alla  guerra  tra  Calcide  ed  Eretria.  Da  qual  parte  avranno  essi  schierato 


1  Non  in  Tucidide  e  nelle  chiose  de'  suoi  scoliasti  (I,  15,  3  e  Schol.  in  Thucyd.t 
I,  15,  3),  non  in  Erodoto  (v.  99, 1),  non  in  Strabone  (X,  1,  12;  3,  6),  non  nei  frammenti 
aristotelici  (Aristotel.,  fragni.^  98,  Rose,  p.  96),  non  nei  versi  intercalati  nelle  opere 
esiodee  ("Bey.,  650  e  sgg.),  non  in  Plutarccj  {sept.  sap.  conviv.,  10:  op.  mar.,  153),  non 
nelle  relique  di  Archiloco  (fragm.  3  in  P.  Lyr.  GraeCy  Bergk,  II*  383)  :  vedreqjo  che  i 
pretesi  distici  di  Teognide  (Theoon.,  891  :  ed.  Berghk,  IH,  p.  195)  non  hanno  valore, 
né  per  stabilire  la  parte  presa  dai  Corinzi  nella  guerra,  né  per  fissare  la  cronologia. 

«  Busolt,  op.  cit.t  I«,  456;  Meyer,  op.  cit.,  II,  539;  Whilisch,  Beitr.  z.  Gesch. 
V.  Kor.y  9,  Beloch,  I»,  X*  Abt.  339  nota  1*  :  la  recisa  affermazione  del  Meyer  parrebbe 
trarre  il  suo  vigore  dalle  parole  di  Tucidide,  che,  cioè,  alla  antichissima  guerra  tra  i 
Calcidesi  e  gli  Eretrii  »eol  xò  àXXo  'EX-X-nutòv  èg  |v|j,(i.axtav  éxaTéQoov  òiéorr),  l,  15.  Ma  s'an- 
drebbe certo  oltre  il  pensiero  dello  storico,  il  quale  volle  significare  la  partecipazione 
alla  lotta,  non  di  tutta  V Eliade ^  ma  di  una  parte  più  o  meno  cospicua  di  essa.  Così 
il  passo  fu  inteso  da  tutti  gli  storici  moderni.  Diremo  poi  che  lo  scoliaste  tucidideo 
(Schol.  in  Thucyd.y  I,  15)  si  trovò  in  tale  impiccio  nel  chiosare  la  frase  dello  storico 
(evidentemente  che  tutto  il  mondo  greco  fosse  travolto  nella  guerra  gli  parve  un'esa- 
gerazione intollerabile)  che  egli  ammise,  si,  una  specie  di  alleanza  platonica  universale 
dell'Eliade  per  l' una  e  per  l'altra  città  lottatrice  :  ma  queste,  dopo  tutto,  fecero  da  sé 
<e  la  loro  si  ridusse  ad  una  monomachia. 


56  Guido  Porzio 


i  loro  eserciti?  La  risposta  suonerà  diversa  secondo  due  diversi  casi: 
o  che  il  furore  delle  armi  siasi  abbattuto  sovra  l'Eubea  al  tempo  dei 
Bacchiadi,  ovvero  durante  la  tirannia  di  Cipselo  e  dei  discendenti.  A 
suffragare  la  prima  supposizione  soccorrono  molti  indizi  suggestivi  che 
ognuno  può  leggere  nelle  pagine  di  Giorgio  Busolt.  Ad  esempio,  i 
Samii,  durante  la  guerra  lelantea,  furon  larghi  di  so:corso  ai  Calci- 
desi. Lo  dice  Erodoto  e  non  v'è  dubbio.^  Ora,  poiché  Tucidide  afferma 
che  nel  704  Ameinocle  corinzio  costruì  ai  Samioti  quattro  navi,  il  Busolt, 
insieme  con  altri,  vide  in  tale  fatto  un  apprestamento  a  quel  cozzo 
d'armi  in  cui  vennero  ad  urtarsi  le  due  precipue  città  dell'Eubea  ed 
altri  stati  greci.  No,  rimbrotta  G.  Beloch,  la  piti  antica  battaglia  sulle 
acque,  giusta  il  ricordo  di  Tucidide,  fu  combattuta  nel  664,  vale  a  dire 
40  anni  dopo  che  Ameinocle  aveva  atteso  in  Samo  a  costruire  le  quattro 
navi  ricordate.  Or  chi  ha  detto  al  Beloch  che  costruire  quattro  navi  e 
interpretare  un  tale  affaccendarsi  come  preparazione  ad  una  guerra 
imminente  significhino,  nel  Busolt  e  negli  altri,  la  certezza  di  un  grande 
scóntro  sulle  acque  al  tempo  della  guerra  lelantea?  Questo  il  Busolt 
—  che  ammette,  anzi,  aver  i  Calcidesi  e  i  loro  amici  vibrato  per  terra 
contro  gli  Eretrii  il  colpo  decisivo  —  ne  ha  espresso,  né  mai  s'è  so- 
gnato di  esprimere.  Già  il  numero  esiguo  delle  navi  costruite  esclude, 
per  sé  stesso,  ogni  impeto  di  battaglia  sul  mare:  ma  ben  potevano  i 
quattro  legni  somministrare  aiuto  prezioso  nella  difesa  dei  trasporti  di 
uomini  e  di  armi  dalle  spiagge  di  Samo  a  quelle  dell'Eubea.  Così  pure 
il  Busolt  invoca  quale  indizio  il  frammento  di  Archiloco,  poeta  che  fiorì 
verso  il  650  a  C.  La  reliquia  archilochea  fa  cenno  dei  signori  delVEubea 
famosi  nel  palleggiar  la  lancia?'  A  diventar  illustri  per  tale  ragione  oc- 
corre una  guerra  che  dev'esser  stata  quella  di  Lelanto,  e  gli  anni  in 
cui  fioriva  il  cantore  (650  à.  C.)  ^  saran  pure  gli  anni  delle  battaglie 
combattute  tra  gli  Eretrii  e  i  Calcidesi.  Ma  anche  qui  il  Beloch  fa  con- 
trasto affermando  che  in  molte  guerre,  durante  il  secolo  VII,  dovettero 
pugnare  i  dominatori  della  grande  isola  e  che  non  v'è  proprio  bisogno 
di  tirare  in  Ballo  la  lotta  lelantea. 

Ora,  a  farlo  apposta,  Strabone  ci  fa  sapere  che  tali  perpetui  sussulti 
di  ostilità  tra  le  due  terre  euboiche  più  importanti  non  ebbero  luogo, 
che,  anzi,  quasi  sempre  esse  vissero  senza  guerra,  eccezion  fatta  per 
quella  che  da  Lelanto  prese  il  nome.*  Non  basta:  ma  i  dominatori  glo- 
riosi per  le  palleggiate  aste  richiamano  al  pensiero  i  patti  sanciti, 


1  Herodot.,  V,  99,  1. 

«  Archi LOCH.,  fragm.  3  in  Poet.  Lyr.  Graec.  (Bergk),  II<,  386. 

3  Beloch,  op.  cit,  I«,  1«  Abt.  313,  2«  Abt.  349  e  sgg. 

*  Strab.,  X,  1,  12. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca,  57 

giusta  la  testimonianza  straboniana,  tra  gli  Eretrii  e  quei  di  Calcide 
mentre  imperversava  la  lotta  dì  Lelanto,  patti  incisi  sovra  una  stele  in 
Amarintio  che  stabilivano  dover  le  avverse  milizie  far  rinunzia  negli 
scontri  alle  armi  da  getto.*  Tal  divieto  includeva  implicito  il  consenso 
di  servirsi  della  protesa  lancia  come  usarono,  del  resto,  gli  Eubei  anche 
sotto  i  propugnacoli  di  Troia,  durante  la  lotta  decennale:  ^  e  una  guerra 
combattuta  con  tanta  lealtà  serena,  pure  in  mezzo  ai  fumi  delPodio 
che  nel  contrasto  dovettero  sprigionarsi,  e  la  circostanza  che  detta 
guerra  esplicavasi  tra  i  principali  contendenti  a  soli  colpi  di  lancia: 
tutto  questo,  dico,  poteva  bene  far  risuonare  la  fama  tra  i  Greci  e 
meritare  l'erezione  di  una  stele  a  perenne  ricordo  e  l'onore  dei  versi 
di  Archiloco. 

Si  aggiunge  il  ricordo  del  sovrano  Amfidamante  di  Calcide  caduto 
colle  armi  in  pugno  combattendo  contro  gli  Eretrii  nella  guerra  di 
Lelanto.  Del  guerriero  è  fatta  menzione  nel  convito  plutarcheo  dei  sette 
savi  e  da  Prode  nel  commento  alle  opere  del  cantore  Esiodo,  più  in 
un  episodio  intercalato  negli  Erga  del  poeta  ascreo.^  11  Beloch  ha  sen- 
tito il  bisogno  di  insistere  sull'interpolazione  dei  versi  esiodei:  ciò  che 
anche  il  Busolt  ammetteva.^  Ma  poi  lo  stesso  Beloch  riconosce  pro- 
babile che  la  notizia  di  Plutarco  sia  tratta  da  buona  fonte.  E  questo 
ci  fa  paghi.  Se  un  re  di  Calcide  lasciò  la  vita  nella  guerra  lelantea 
vuol  dire  che  a  questa  guerra  è  duopo  assegnare  una  più  alta  antichità 
che  non  sia  quella  dei  Cipselidi. 

Però  i  barbassori  della  critica  non  fan  parola  di  due  indizi,  i  quali 
con  più  suaditrice  eloquenza  c'indurrebbero  a  porre  la  guerra  per  1 
campi  lelantei  negli  anni  della  più  antica  aristocrazia  corintiaca. 

Primo  indizio  è  l'espressione  tucididea  che  battezza  la  lotta  sic- 
come antica  e  perciò  oscillante  con  mal  certi  contorni  nella  memoria 
degli  uojnini.5  Ora  se  l'urto  dei  popoli  avesse  insanguinato  le  terre 
euboiche  nell'età  dei  tiranni  —  cioè,  un  cento  e  quaranta  anni  in- 
nanzi che  nel  pensiero  di  Tucidide  germinasse  il  disegno  delle  storie 
meravigliose  —  certo  al  narriltore  di  Atene  non  sarebbe  caduco  nel 


»  Strab.,  ibid.,  X,  1,  12. 
«  HoM.,  ap.  Strab.,  X,  448. 

3  Plut.,  sept.  sap.  conv.,  10;  Hesiod.  Eqy-,  648-652,  Procl.,  in  Hesiod.  "'Eqy.,  6550. 

4  Beloch.,  op.  cit.,  I«,  1»  Abt.  339  nota  1»,  312  nota  1%  Busolt,  I«,  459,  nota  1». 

5  Thucyd.,  I,  15,  3  :  per  l'antichità  della  lotta  tutti,  commentatori  e  traduttori,  son 
concordi  (cfr.  Hass,  versione  latina  dell'ed.  Didot  «in  ilio  bello  pervetusto  » 'p.  7, 
Am.  Peyron.,  trad.  italiana,  Torino,  Stamp.  Reale,  1861,  I,  p.  65):  del  resto  l'ès  xòv 
nàXai  jtoxè  vevófievov  3tóA,ejjiov  tucìdideo  non  SÌ  può  intendere  altrimenti.  A  ragione  poi 
Alfred  Cf^oiset  iJ)\\5C\i3.j  texte  grec  etc,  Paris,  Hachette,  1886,  p.  168,  nota  alla 
linea  6^)  ammonisce  che  il  Jtoxé  «  lascia  nell'  indeterminatezza  la  data  (Vili,  o  VII  se- 
colo) di  questa  antica  guerra». 


58  Guido  Porzio 


pensiero  di  attenersi  al  modo  di  esprimersi  di  cui  invece  fece  uso. 
Nessuno  che  respiri  nel  secolo  XX  le  aure  vitali  reputa  venerande  per 
antichità  e  fluttuanti  nelle  brume  del  passato  le  battaglie  di  Federico  II 
degli  Hohenzollern.  L'altro  indizio  è  dato  da  Strabone  che,  sorretto 
dalla  testimonionza  dì  Archemaco  euboico,  presenta  la  guerra  tra  Cal- 
ci de  ed  Eretria-  come  una  serie  continua  di  scontri  armati  prolungatisi 
nel  tempo.i  In  tal  guisa,  ponendo  nell'epoca  della  tirannia  lo  scatenarsi 
delle  prime  ire  guerresche,  ci  vedremmo  costretti  a  far  vibrare  gli 
ultimi  echi  della  lotta  negli  anni  postremi  del  secol  sesto,  quando  la 
Ionia  meditava  V  insurrezione  contro  il  Gran  Re.  Ma  allora,  trattandosi, 
si  può  dire,  d' un  avveninento  della  vigilia,  la  frase  di  Tucidide  appa- 
rirebbe più  che  mai  vuota  di  senso.  Si  faccia  invece  indietreggiare  il 
conflitto  negli  anni  più  remoti  dei  Bacchiadi  e  ogni  incongruenza  sparirà. 

Se  al  Beloch,  nella  parte  negativa  della  sua  tesi,  non  arrise  la 
gloria  del  trionfo,  peggio  gì'  intervenne  allorché  s'accinse  a  dimostrare 
molto  a  noi  prossima  quella  lotta  di  Lelanto  cui  anche  il  tiranno  Pe- 
riandro  avrebbe  recato  il  vigore  de'  suoi  eserciti.  E  prima  d'ogni  altra 
cosa,  l'impossibilità  agli  inizi  del  secolo  VII  di  un  aggruppamento  d'al- 
leanze intorno  ai  Calcidesi  e  agli  Eretrii  scesi  In  armi  (Tessali,  Samìi 
e  forse  Corinzi  a  Iato  dei  primi,  Mileto  a  fianco  dei  secondi)  si  riduce, 
dopo  tutto,  a  un  vano  sogno  belochiano.  Bisognerebbe  immaginare 
paurosamente  chiusi  entro  i  proprii  confini,  afflitti  dalla  miopia  d' un 
particolarismo  egoistico  quei  Greci  che  correvano  a  gara  a  piantar 
colonie  sulle  spiagge  dell'  Italia  e  delja  Sicilia,  che  recavano  tra  i  re- 
moti Etruschi  i  loro  manufatti,  che  spandev?nsi  intorno  con  una  specie 
di  febbrile  irradiazione  feconda  di  opere. e  di  contatti  quotidiani.  Nello 
sferrarsi  di  tante  energie  la  concordia  e  la  discordanza  degli  interessi 
venivano  a  gravitare  verso  le  constellazioni  di  alleanze  opposte. 

Ma  la  cavalleria  tessalica,  lanciata  dai  Calcidesi  all'inseguimento 
dei  vinti  Eretrii,  lascia  supporre  che  la  Tessaglia  già  facesse  sentire  la 
sua  preminenza  nella  Grecia  centrale  e  un  tal  fatto  ci  porta  all'. poca 
di  Periandro,  scrive  il  Beloch. 

Ecco:  questo  nuovo  peregrino  argomenta  riuscirebbe  a  dimostrare 
qualcosa  se  all'autore  venisse  fatto  di  provarci  che  ai  Calcidesi  —  primi 
colonizzatori  della  Sicilia  e  quindi,  insieme  coi  Corinzi,  navigatori  tra 
i  più  audaci  alla  fine  del  secolo  Vili  —  mancassero  i  legni  per  il  tra- 
sporto di  poche  centurie  di  cavalli  e  di  cavalieri  sulle  spiagge  dell'  isola 
nativa.  Il  Beloch  ritiene  che  i  cavalieri  dovessero  giungere  per  terra 


i  Archemaco  Euboico  —  autore  di  età  incerta,  /7/0.,  IV,  pp.  314  e  sgg.  — 
presentò  (ap.  Strab.,  X,  3,  6)  i  Cureti  abitatori  di  Calcide  sempre  (cwvqtas)  in  guerra 
a  cagione  della  pianura  lelantea. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  59 

sulle  rive  del  canale  aperto  tra  l'Eubea  e  il  paese  dei  Beoti:  quindi  la 
necessità  di  una  politica  preponderanza  della  Tessaglia  (fatto  che  s'av- 
vera nel  VI  secolo)  a  spiegare  come  cavalli  e  cavalieri  potessero  avere 
libero  il  passo.  Ora,  poiché  i  Calcidesi  —  certo  nel  tempo  della  loro 
pili  gagliarda  operosità,  al  tramonto  deirVIII  e  all'alba  del  secolo  VII  — 
inviavano  le  loro  mercanzie  per  una  strada  che  attraverso  il  Pindo  e 
la  Tessaglia  sbucava  nel  golfo  Maliaco,i  non  è  proprio  necessario 
attendere  più  di  cento  anni  per  spiegare  il  trasporto  della  cavalleria 
sui  campi  di  Lelanto.  La  via  percorsa  un  secolo  innanzi  dai  carri  in- 
gombri di  mercanzie  ben  poteva  esser  battuta  dagli  zoccoli  dei  destrieri 
tessalici:  poi  quelle  navi  calcidesi  che  prima  del  700  trasportavano  a 
fondar  Nasso  i  pionieri  ardimentosi  potevano  anche  servire  al  tragitto 
dei  cavalli  e  degli  armigeri  dal  seno  Maliaco  alle  sponde  euboiche.  E 
non  ci  attarderemo  troppo  a  ripudiare,  come  argomento  probatorio  per 
la  cronologia,  i  versi  ascritti  a  Teognide  e  che  il  Beloch,  a  dire  il  vero, 
invoca  dubitoso:  «O  viltà!  Cerinto  è  distrutto,  il  fertile  piano  di  Le- 
lanto messo  a  viti  viene  devastato,  di  nuovo  i  cattivi  han  Tesercizio 
del  potere:  possa  Giove  recare  lo  sterminio  nella  schiatta  dei  Cipse- 
lidi».2  Non  solo  i  distici  non  vanno  attribuiti  a  Teognide  ^  (e  ciò  ha 
lieve  importanza  perchè  rimarrebbe  sempre  il  cenno  alla  stirpe  dei  ti- 
ranni corinzi,  da  qualunque  cantore  la  maledizione  sia  uscita),  ma  essi 
hanno  un  così  dubbio  significato  che  il  Duncker  ben  potè  applicarli 
alla  guerra  che  verso  il  507  arse  fra  Calcide  ed  Atene.*  E  Tultimo  verso 
suonante  dopo  Taccenno  al  lamentato  dominio  delle  plebi  (esso  servi- 
rebbe, unico,  ai  fini  di  O.  Beloch)  non  è  che  una  zeppa:  una  specie 
di  delenda  Carthago  in  cui  proruppe  Todio  di  tutta  Taristocrazia  greca 
contro  il  popolo  e  i  tiranni  guidatori  :5  cosi  vero  che  la  stessa  male- 
dizione chiudeva  Tepi^rafe  incisa,  secondo  il  racconto  tradizionale,  sopra 
Taureo  colosso  sacrato  da  Cipselo  all'olimpio  Giove.® 

E  dopo  questo  '  diremo  che  la  parte  presa  dai  Corinzi  alla  guerra 
lelantea  non  è  sicuramente  accertata  ;  che  se  poi  la  città  dell'  istmo  fu 


1  Cfr.  questa  stessa  Rivista,  anno  I,  fase.  II,  apr.-giug.,  1917,  pp.  224-225. 

«  Theoqn.,  891;  ed.  Bergk,  IH,  p.  195. 

«  Berok  in  Poet.  Lyr.  graec,  1.  e.  :  «  haec  duo  disticha  Theognide  aliena  ». 

<  Duncker,  op,  cit.y  Vis,  575. 

B  Del  resto  anche  il  Beloch  ammette  la  possibilità  che  i  distici  citati  non  abbiano 
tra  loro  connessione,  I«,  1*  Abt.  339,  nota  1*. 

«  Apell.  Pontic,  ap.  Phot.,  s.  v.  Kvt|>8A,t8ffiv  &vddT][ta,  Suid.  (sotto  la  stessa  pa- 
rola): cfr.  FHQ.,  IV,  pp.  288,  307. 

7  Per.  gli  argomenti  recati  dal  Busolt  e  dal  Beloch  in  tale  questione  cfr.  Busolt, 
op.  clt.,  I«,  456-457  (testo  e  note),  650  nota  6*  ;  Beloch,  op.  cit.,  H,  289,  P,  !•  Abt. 
389  e  nota  1*;  si  vegga  anche  Costanzi,  la  guerra  lelantea  in  Atene  e  Roma,  1902, 
anno  V,  n.  48,  pp.  769-790.  Non  c4ndugieremo  intorno  agli  argomenti  —   del  resto 


6o  Guido  Porzio 


anch'essa  attratta  nel  vortice  entro  cui  vennero  a  cozzare  molti  stati 
greci  (ecoccorrono  a  questo  gravi  indizi),  ciò  dovette  accadere  al  tempo 
della  più  antica  aristocrazia  corintiaca,  la  quale  nell'ora  dei  dubbiosi 
cimenti  mantenne,  così,  inalterata  l'amicizia  antica:  che  se,  infine,  la 
guerra  lelantea,  protrattasi  senza  dubbio  per  lunghi  anni,  ardeva 
tuttavia  all'epoca  di  Periandro,  è  da  credere  che  il  più  bellicoso  dei 
tiranni  corinzi  —  ch'era  amico  di  Trasibulo  signore  dei  Milesii  stretti 
d'alleanza  agli  Eretrii  —  portasse  ànch'egli  a  questi  ultimi  soccorso. 
Ma  la  supposizione,  nei  riguardi  di  Periandro,  è  dannata  veramente: 
essa  si  libra  a  mezz'aria  sovra  il  sostegno  di  fisime  repugnanti. 

Chiaro  è,  ad  ogni  modo,  che  per  i  Corinzi  le  ipotetiche  alleanze 
ed  ostilità  durante  l' imperversare  della  guerra  lelantea  germogliarono 
sotto  l'impulso  di  motivi  non  diversi  da  quelli  spingenti  Corinto  e 
Calcide  à  unire  le  destre  nelle  opere  di  pace,  cioè  sempre  per  la  forza 
trascinatrice  dei  concordi  o  dissonanti  interessi  economici. 


Odii  coloniali  e  il  più  a'ntico  cozzo  d'armi 

SOPRA    LE   ACQUE    D'OCCIDENTE. 

IX. 

Splendente  invece  di  luce  meridiana  è  la  guerra  contro  l'isola  di 
Corcira,  sia  in  quel  che  s'attiene  alla  cagione  generatrice,  sia  per  ciò 
che  riguarda  la  cronologia  e  le  scaturite  conseguenze. 


acuti  —  recati  dal  Costanzi  perchè  il  Beloch,  10  anni  più  tardi,  dagli  argomenti  stessi 
ha  tratto  il  fior  fiore  :  si  combatte  il  Beloch,  ergo...  con  quel  che  segue.  Questo  solo 
aggiungiamo.  Poiché,  Erodoto  (V,  99)  narra  che  quelli  d'Eretria  prestarono  volonteroso 
soccorso  ai  Milesii  insorti  contro  il  Gran  Re  (erano  gli  anni  delle  rivolte  precorrenti 
le  guerre  persiane)  —  e  ciò  a  compensare  Mileto  dell'aiuto  porto  mentre  ferveva  la 
guerra  lelantea  —,  il  Beloch  afferma  che  tal  maniera  di  esprimersi  dimostra  come  il 
ricordo  di  detta  guerra  serbasse  ancora  tutta  la  sua  freschezza  nel  pensiero  degli  El- 
leni  viventi  verso  il  500  a.  C:  che,  dunque,  il  cozzo  tra  le  due  città  dell' Eubea  aveva 
avuto  luogo  non  molto  prima.  Canone  nuovo  e  peregrino  per  fissare  la  cronologia 
degli  avvenimenti!  I  ricordi  si- ravvivano. quando  se  ne  pre^nta  il  bisogno  e  ser- 
vono spesso  come  giustificazione,  come  spiegazione  e  anche  come  spinta  ad  operare. 
Allorché  l' Italia  andò  a  Tripoli  udimmo  evocata  la  memoria  della  dominazione  romana 
sull'Africa  del  nord  durante  l' impero.  Quando  era  imminente  il  cozzo  tra  l'Europa  e 
l'Asia  destinate  a  scontrarsi  sopra  i  campi  di  Maratona  e  nelle  acque  di  Salamina 
balzò  viva  tra  i  Greci  la  rimembranza  della  guerra  combattuta  intorno  a  Troia.  Testi- 
mone Erodpto  che  con  tal  ricordo,  mescolato  ad  altri,  dà  inizio  alle  sue  storie.  Vor- 
remmo vedere  se  dalla  freschezza  delle  memorie  qualche  rabberciatore  di  date  saltasse 
fuori  a  ditci  che,  putacaso,  il  dominio  di  Roma  sulle  spiaggie  dell'Africa  settentrionale 
è  per  noi  un  avvenimento  della  vigilia. . 


La  più  antica  aristocrazia  corintìaca  6i 


Pingui  eran  le  zolle  corciresi  e  sovr'esse  molti  prodotti  maturavano 
al.sole.i  La  fama  dei  vini  spremuti  suonò  ampia  per  le  terre  greche: 
di  questi  vini  erano  sovra  tutto  esaltate  la  squisita  soavità  e  Tabbon- 
danza.2  In  ogni  tempo  gli  ellenici  buongustai  —  com'è  ricordo  nei 
commediografi  —  furon  usi  di  centellinare  con  grande  letizia  nelle 
coppe  eleganti  il  vino  vecchio  di  Corcira.  Infatti,  più  gli  anni  trascor- 
revano sovra  i  colmi  vasi,  più  ai  ragni  industri  era  concesso  d' intes- 
sere intorno  molti  strati  delle  mirabili  tele,  e  più  il  vino  spandeva 
lontano  il  fascino  delle  sue  fragranze  e  solleticava  voluttuosamente  i 
palati  dei  bevitori.^  S'aggiungano  lo  stormir  dei  boschi  e  lo  svariare 
degli  olivi  da  cui  era  tratto  l'olio  dagl'aurei  riflessi  :  *  s'aggiunga  il 
pescoso  mare  fremente  tutt'  in  giro.  Le  reti  calate  e  innalzate  getta- 
vano sovra  le  arene  del  lieto  gran  copia  di  polipi  di  grandezza  non 
comune.^  Isola  beata  nei  vetusti  tempii  si  legge  nella  geografia  strabo- 
niana  :  ^  isola  bella,  sentenziavano  i  supposti  vaticini  della  Sibilla.'^  I 
cuori  dei  mercanti  corintiaci  dovettero  sulle  prime  gonfiare  d'esultanza. 
La  terra  dei  Feaci  con  la  fulgente  gloria  epica  che  sovr'essa  irradiava 
dai  versi  dell'Odissea  e  colla  prosaica  utilità  dei  ricavati  molteplici  pro- 
dotti molceva  l'orgoglio  dell'aristocrazia  fondatrice  ed  arrecava  nel 
tempo  stesso  guadagni  cospicui. 

Ma  il  conquistato  possesso  appariva  prezioso,  più  che  per  sé  me- 
desimo, a  causa  della  posizione  sua  perchè,  insistendo  sopra  quelle 
terre  con  ben  saldo  piede,  potevano  i  cittac^ini  della  metropoli  a  gara 
coi  pionieri  drizzar  le  prore  verso  le  spiaggie  d'Italia,  toccare  le  op- 
poste sponde  dell'Adriatico,  coi  loro  carichi  di  mercanzie  insinuarsi 
tra  i  barbari.  Le  transazioni  commerciali  ebbero  inizio,  naturalmente, 
coi  più  vicini  paesi  della  penisola  greca  verso  la  quale  i  due  precipui 
porti  di  Corcira  —  quello  d'Alcinoo  e  l'Illaico  ~  s'aprivano  per  dar 
ricetto  ai  giungenti  legni  o  porgevano  l'augurale  saluto  a  quelli  che 
partivano. 

L'Epiro  e  le  terre  prossime  davan  legna  a  costruire  le  veloci  navi, 
metalli,  bestiame  in  gran  copia,  uomini  trascinati  in  servitù,  erbe  da 
cui  la  solèrzia  dei  mercanti  dell'istmo  distillava  odorose  essenze.  L'Epiro 
e  le  terre  prossime  ricevevano   in  cambio   tutte  le  mercanzie    uscite 


1  Anonymi  paraphrasis  492-497  in  Geog.  Graec.  Minor..,  II,  p.  416  ;  HY0iN.,/fl6tt/., 
276  (ed.  Schmid!),  1872,  p.  152. 
«  Geopon.,  V,  2. 

3  Alexis,  ap.  Athen.,  epit.  I,  33  b;  Eustathius,  Comm.in  Odyss.t  H,  122. 

4  DUNCKER,  Gesch.  d.  Alt.,  V»,  404. 

5  Archestratus  ap.  Athen.,  VII,  318  f. 

6  Strab.,  vii,  fragm.  7. 

7  Orac.  Siby/l.,  V,  317. 


62  Guido  Porzio 


dalle  officine  dell'istmo  e  Corcira  appariva  qome  un  enorme  depo- 
sito corinzio  ove  il  flusso  e  il  reflusso  dei  prodotti  venivano  a  po- 
sarsi per  volgere  poi  il  corso  verso  opposte  direzioni.  I  mercatori 
della  metropoli  imprimevano  impulsi  febbrili  a  siffatto  movimento  è 
ben  presto  eran  pingui  dei  ricavati  guadagni  ;  invece  i  Corciresi,  tra- 
volti in  quel  turbine  di  affari  ma  sfruttati  solamente,  dovevano  star 
paghi  di  accattare  le  briciole  cadute  dalle  sontuose  mense  corintiache. 
Senonchè  questa  condizione  di  cose  trascorse  con  tanta  precipitosa 
rapidità  che  nei  ricordi  erodotei  e  in  quelli  di  Tucidide  i  suoni  del- 
Tidilio  tra  la  colonia  e  Ia  madre  patria  eran  già  cancellati  del  tutto. 
I  due  scrittori  ricordavan  solo  l'anelito  degli  odi  e  l'ansimare  delle 
battaglie:  ci  presentarono,  perciò,  la  figliuola  che,  quasi  nell'atto  stesso 
di  balzar  tra  i  vivi,  lacera  il  seno  della  genitrice.^  Come  si  spiega 
questo  precoce  irrompere  di  ire? 

Innanzi  tutto,  qualunque  fosse  la  cagione  dell'esodo  dei  coloni 
—  o  l'urto  delle  fazioni  politiche  contrastanti  o  la  scarsa  fecondità 
del  suolo  —  certo  è  che  i  pionieri  formavano  la  parte  più  audace 
delle  moltitudini  greche,  quella  che  sentiva  pulsare  così  forte  in  sé 
stéssa  il  vigore  d' indomite  energie  da  poter  guardare,  senza  batter 
ciglio,  verso  il  pauroso  avvenire.  Dire  addio  ad  una  vita  che  addor- 
mentava colla  pigra  soavità  dell'abitudine,  abbracciare  per  1*  ultima 
volta  i  sepolcri  degli  avi  e  muovere  lontano  tra  i  barbari  a  ricostruire 
il  proprio  nido,  gettarsi  in.  un  mondo  selvaggio  ove  tutto  era  da  fare 
e  quivi,  fra  gli  assalti  degli  indigeni  urlanti  tutt' intorno,  roteare  con 
una  mano  la  spada  e  far  sorgere  coU'altra  l'edifizio  d'una  novella  so- 
cietà, tutto  questo  era  dimostrazione  di  saldezza  d'animi  invitti  e 
quotidiana  palestra  di  virtii.  La  colonia  diveniva  la  patria  degli  eletti 
e  questo  spiega  come  spesso  i  suoi  fulgori  abbiano  oscurato  la  gloria 
della  metropoli.  Così  accadde  per  i  Corciresi.  Essi,  infranti  gli  assalti 
dei  primitivi  occupatori,  spremettero  dal  suolo  ì  frutti  dell'agricoltura 
sì  che  i  giardini  di  Alcinoo  parevano  verdeggiare  un'altra  volta  tra  i 
murmuri  delle  acque  e  ostentare  in  mezzo  alle  frondi  i  pomi  delicati. 
Poi,  invece  di  adempiere  al  non  gradito  ufficio  di  puri  intermediari 
dei  guadagni  altrui,  gli  isolani,  afferrati  dal  desiderio  tormentatore 
delle  ricchezze,  s'adersero  innanzi  ai  mercanti  corinzi  come  rivali  for- 
midabili. Il  dolce  vino  in  ogni  tempo  solleticatore  di  voluttà  e  addor- 
mentatore  di  resistenze  fra  le  barbare  nazioni  aprì,  a  vantaggio  di 
Corcira,  sopra  le  sponde  della  vicina  penisola,  i  cuori  alla  gioia  e  le 


1  Herodot.,  Ili,  49  (da  che  i  Corinzi  hain  fondato  nell'isola  la  colonia  sempre 
—  aUl  —  hanno  avuto  coi  Corinzi  dissensione);  Thucyd.,  I,  38,  1  (dicono  i  Corinzi r 
pur  essendo  coloni  nostri  sempre  —  6tà  navrój  —  defezionarono). 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  63 


vie  agli  scambi.  E  non  sola  il  liquore  maturato  sopra  i  tralci  corei- 
resi  era  oggetto  di  traffico  in  mezzo  agli  Epiroti,  agli  Illirii  e,  via 
via,  alle  molte  tribù  dimoranti  sopra  le  due  sponde  delFAdriatico  :  che 
ai  molti  compratori  sitibondi  era  concesso  di  ornare  i  loro  deschi  con 
molte  specie  di  vini  squisitissimi.  Soave  il  vinetto  di  Issa  isola  del- 
TAdriatico:  messo  con  altri  a  paragone  chiaro  appariva  come  tutti  li 
vincesse  in  eccellenza.^  Centellinando  quel  di  Taso  ogni  vampa  in- 
terna laceratrice  dei  precordi  si  spegneva  quasi  tuffata  in  un  balsamo 
incantatore:  Esculapio  dei  vini  lo  salutava  un  commediografo.^  Così 
pure  gli  acini  giunti  a  maturità  sopra  ì  vitigni  di  Chio  e  di  Lesbo,  ove 
il  sole  sfavilla  con  tutti  gli  ardori  e  i  fascini  deiroriente,  canticchiavano 
nei  vasi  di  creta  per  zampillare  poi  in  vini  nei  quali  eran  dolcezze  di 
stillato  miele.3  Ebbene,  è  certo  che  quei  di  Corcira  eran  venditori  di 
tutto  quel  bene  degli  dei,*  come  pure,  fuor  di  dubbio,  d'altre  specie  di 
vini  adriatici  famosi  per  squisitezza  di  profumi  e  facilità  di  digestione.^ 
Non  basta.  Quanto  vigore  d'industria  s'accumulasse  rapido  tra  i 
Corciresi  non  è  dato  stabilire  con  ampiezza  sufficiente.  Sappiamo  che 
i  figuli  isolani  apprestavano  vasi  di  terra  cotta  barattati  coi  dolci  vini 
di  Lesbo,  di  Taso  e  di  Chio.®  Sappiamo  anche  che  sferze  metalliche, 
cospicue  per  grandezza  per  il  candore  dei  manichi  d'avorio  e  pei  dadi 
appesi  alle  oscillanti  estremità,  uscivano  dalle  manifatture  di  Corcira. 
L' uso  s' indovina  :  quei  flagelli  duplicati  e  rinterzati  eran  fatti  a  posta 
per  scendere  con  sibili  sinistri  sovra  le  nude  schiene  dei  servi  riottosi.'' 
Tuttavia,  sebbene  infiniti  fossero  i  dorsi  dei  miseri  costretti  a  pagare 
tributi  di  sangue  ed  a  contorcersi  sotto  gli  spasimi  dilaniatori,  l'atti- 
vità manifatturiera  non  fu  chiusa  certo  entro  limiti  così  angusti.  Dalle 
mani  dei  Corciresi  altre  materie,  senza  dubbio,  venivano  trasformate  ^ 


I  Athen.,  I,  epit.  28  d-e. 

«  Epilycus  ap.  Athen.,  I,  epit.  28,  e:  preferito  tale  vino  a  tutti  gli  unguenti  con 
cui  le  donne  eleganti  solevano  irrorare  la  chioma  —  dice  un'ancèlla  nelle  Eccles.  ari- 
stofanesche —  perchè  aveva  la  proprietà  di  rimanere  nel  capo  per  più  lungo  tempo  : 
ben  inteso  colla  dolce  ebbrezza  suscitata;  Aristoph.,  Eccles.^  1119. 

3  EuBULUS  ap.  Athen.,  I,  28  f  :  cfr.  anche,  per  le  molte  lodi  tributate  ai  vini  di 
Taso,  di  Chio  e  di  Lesbo,  Aristoph.  ap.  Athen.,  I,  epit.,  29,  a;  Archestrat.,  ap. 
Athen.,  I,  epit.,  29  b,  e;  Alexis  ap.  Athen.,  I,  epit.y2&,  e;  Athen.,  I,fjt;zY.  28  e,  f. 

<  Aristot.,  de  mirab.  aascaltat.,  104. 

5  Athen.,  I,  epit.,  33  a-b. 

6  Aristot.,  op.  cit.,  104. 

■^  Strab.,  vii  fragm.  3,  [Plut.]  vii,.,  X,  orai.,  Lycurgus  in  vita  script,  graec, 
min,  ed  Westermann,  p.  274;  Hesychius  s.  v.  xeQxvcal»  h<ìoti|.  Schei,  in  Aristoph, 
Aves,  1463. 

8  Congettura  naturale  che  si  affaccia  alla  mente  del  Bliimner  {op.  cit.,  in  Bibl.  di 
stor.  econ.,  v.  II,  parte  1*,  p.  602),  il  quale  crede,  a  buon  diritto,  che  i  Corciresi  abbiano 
fabbricato  oggetti  tali  che  convenissero  il  pia  possibile  alle  popolazioni  barbare  vicine. 


64  Guido  Porzio 


e  il  silenzio  della  storia  —  allorché  si  tratta  del  lavoro  spregevol  troppo 
rispetto  al  fulminare  della  spada  guerriera  contro  i  nemici  e  alle  agi- 
tazioni cittadine  sulla  piazza  pubblica  —  non  può  essere  addotto  come 
una  prova.  Certo  è,  ad  ogni  modo,  che  ai  mercatori  dell*  isola  perve- 
niva, insieme  con  i  vini,  grande  copia  di  manufatti  dalle  citate  isole 
rìdenti  in  mezzo  alla  lucida  distesa  dell'Egeo  e  del  mare  Tracico,^  e 
2erto  è  pure  che  tanta  febbre  di  attività  mercantile  gravitava  come 
un^  minaccia  di  morte  sul  commercio  della  metropoli.  Ai  Corciresi 
era  dato  di  spacciare  i  prodotti  proprii  ed  altrui  ad  un  prezzo  tanto 
più  mite,  quanto  più  tenui,  a  cagione  della  maggiore  vicinanza,  eran 
per  essi  le  spese  di  trasporto.  Perciò  con  audace  penetrazione  con- 
quistaron  essi  di  balzo  i  mercati  del  Ionio  e  dell'Adriatico  e  in  cambio 
delle  merci  proprie  ed  altrui  ebbero  i  bovi,^  i  grani,^  i  metalli  *  e  i 
legni  epirotici,^  il  frumento,^  i  suini  e  i  latticinii'^  della  Sicilia,  i  pro- 
dotti della  fertile  Etruria:^  avviarono,  inoltre,  lucrose  transazioni  con 
tutti  gli  indigeni  attendati  sulle  spiaggie  dell'Adriatico,  dalle  moltitu- 
dini erranti  sovra  i  piani  della  futura  Brindisi  ^  a  quelle  attendate  sulle 
spiaggie  della  penisola  istriana.!^ 


1  Sopra  il  mercato  del  quale  è  cenno  in  Aristotele  {de  mirab.  anscutt.  104)  per- 
venivano, per  lo  scambio  colle  anfore  corciresi,  mercanzie  di  Taso,  di  Chio  e  di 
Lesbo  {xà  Aéapia  xal  Xia  nal  Odaio),  e  non  soltanto  vino  come  molti  han  creduto  :  da 
supporre,  quindi,  che  giungessero  ai  mercanti  corciresi  —  oltre  ai  Vasi  tasii  (Aristoph., 
Lys.j  196,  Eccles.,  1119,  in  SchoL  Aristoph.  Lys.,  196;  Pollux,  X,  72:  Teopompo  scri- 
veva che  vini  tasii  si  trovavano  in  Narona  ap.  Strab.,  VII,  5,  9  e  manichi  di  detti 
vasi  con  sovra  epigrafi  furon  scoperti  in  Si9ilia,  senza  parlare  di  altri  luoghi  C.  /.  O., 
IH,  p.  XVII,  tav.  HI)  di  Chio  (notevoli  sojiratutto  per  la  loro  capacità,  Plin.,  n.  //., 
XXXVI,  12,  19  ;  LuciAN.,  var.  hisi.,  II,  40)  e  di  Lesbo  pieni  di  vino  —  aifche  i  calici 
chioti  (Athen.,  XI,  480  e),  quelli  vitrei  di  Lesbo  con  colori  smaglianti  di  porpora,  e, 
pure  da  Lesbo,  oggetti  di  metallurgia  (Blììmner,  (>/;.  cit.t  in  Bil)L  di  star,  econ.y  v.  II, 
parte  1*,  544,  545,  nota  1»  e  2*). 

*  COLUMELLA,  de  re  rustica,  VI,  1. 

3  Lycurqus,  cont.  Leocr.y  26,  27. 

^  Percy  Gardner,  7>yt7^s  of  greek  coins  (ed.  cit.),  p.  6;  Guiraud,  La  main 
d'oeuvre  dans  l'ancie/tne  Grece,  pp.  203-204  :  si  comprende  così  il  dono  delle  sferze 
metalliche  corciresi  offerte  a  Giove  nel  tempio  di  Dodona;  Strab.,  VII,  frag/n.  3. 

5  DURUY,  fiist.  d.  Grecs,  I,  pp.  554-557  (ed.  cit.). 

6  Thucyd.,  hi,  86,  4;  Thbopomp.  ap.  Athen.,  VI,  231  /,  232  a,  b  ;  Moschion  ap. 
Athen.,  V,  209  a;  Plin.,  n.  h.,  XVIH,  12,  3. 

7  Hermipp.,  ap.  Athen.,  epist.,  I,  27  /;  Clytus  ap.  Athen.,  XII,  540  c-d  : 
naturale,  quindi,  l'aiuto  recato  anche  dai  Corciresi  a  Siracusa  sconfitta  sul  fiume  Eloro 
dal  tiranno  di  Gela  Ippocrate  all'inizio  del  V  secolo;  Herodot.,  VII,  154. 

8  Solo  in  tal  modo  si  spiega  come  in  seguito  il  sistema  monetario  eginetico  abbia 
potuto  da  Corcira  venir  diffuso  fra  gli  Etruschi  attraverso  i  porti  deirAdriatico  e  le 
bocche  del  Po  come  opina  I'Head,  tiist.  num.,  p.  LIV. 

9  Di  qui  la  leggenda  dell'eroe  Diomede  venuto  in  soccorso  dei  Corciresi  iiì  guerra 
contro  Brindisi,  Pseud.  Heraclid.  Pont.,  fragm.  27  in  F  ff  G.,  II,  p.  220. 

10  È  provato  il  .commercio  corcirese,  non  solo  a  Narona  (Theopomp.  ap.  Strab., 
VU,  5,  9),  ma  nell'  Istria  ove  i  mercanti  di  Corcira  diffusero  la  leggenda  corinzia  in- 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  65 

Ben  s'intende  che  una  tale  irradiazione  vigorosa  di  traffico  corei- 
rese  aveva  come  mezzo  necessario  una  flotta  mercantile  rinforzata  da 
navi  da  battaglia,^  e  ben  s' intende  anche  che  il  numero  moltiplicato  di 
dette  navi  in  corsa  per  i  mari  imprimeva,  a  sua  volta,  nel  traffico  un 
quotidiano  e  non  consueto  vigore.  È  ricordo  negli  antichi  di  una  nuova 
specie  di  nave  che,  uscita  dai  cantieri  dell'isola,  dovette  guizzar  veloce 
sulle  onde  e  possedere  nella  corsa  e  negli  assalti  un  impeto  speciale. 
I  Corciresi  eran  così  lieti  di  questo  nuovo  strumento  aumentatofe 
di  lor  ricchezze  che  v'  impressero  sopra  il  suggello  proprio  battezzan- 
dolo col  nome  della  terra  da  essi  abitata.^  E  più  le  navi  filavano  lungo 
le  spiaggie  e  insinuavansi  negli  aperti  seni  e  risalivano  le  correnti  del- 
l'Eridano  e  attorcevano  il  corso  serpentino  nel  labirinto  delle  isole 
verso  le  coste  orientali  del  seno  Adriatico,  e  più  —  siccome  fiamma 
esultante  dalle  sferrate  energie  —  uno  smisurato  orgoglio  scuoteva  gli 
animi  degli  audaci  marinai.  Dalle  rapsodie  omeriche  consacrate  al- 
l'errar lungo  di  Odisseo,  l'eroe  dai  numerosi  accorgimenti,  una  grande 
luce  di  gloria  saliva  ad  avviluppare  i  nuovi  coloni  dorici.  Non  eran 
essi  i  discendenti  dei  Feaci  cui  dilettavan,  non  l'arco  e  la  faretra,  ma 
gli  alberi  delle  navi  ed  i  remi  stillanti  ed  i  ben  equilibrati  legni  spinti 
a  corsa  pel  canuto  mare?^ 

Innanzi  a  così  superba  attività  i  Corinzi  dovettero  sentire  le  loro 
anime  agitate  da  angoscie  di  morte.  Ah  !  non  per  questo  —  per  veder 
chiusi  gli  orizzonti  mercantili  da  quelle  stesse  mani  ch'essi  speravano 
coadiutricinell'aprirli  sempre  più  vasti,  per  esser  spinti  proprio  fuori 
delle  terre  ch'essi  erano  più  ansiosi  di  assaltare  coi  loro  traffici  —  ah! 
non  per  questo  i  mercatori  oligarchi  avevan  dato  il  fuoco  sacro  e  una 
guida  ai  partenti  !  Tra  la  metropioli  e  la  colonia  s'elevò  ben  tosto  la  con- 
citazione di  un  dialogo  iroso,  ritornello  eterno  che  le  patrie  fondatrici  e 
sfruttatrici  scambiano  colle  figliuole  tratte  fatalmente  da  naturale  svi- 


torno  ai  Colchi,  Medea  e  gli  Argonauti:  anche  il  passo  citato  di  Aristotele  conduce 
alla  stessa  conclusione. 

1  Tranne  il  periodo  necessario  di  preparazione  {Schol.  in  Thucyd,,  1,25,  4:  non 
sempre  ebbero  gli  isolani  abbondanza  di  navi  e  perciò  Tucidide  fa  uso  dell'espressione 
èaxiv  OTE,  chiosa  il  glossatore),  che  del  resto  passò  rapido,  Corcira  —  dagli  anni  piìi 
antichi  fino  al  tempo  che  tenne  dietro  alla  guerra  del  Peloponneso  —  poteva  menar 
vantodi  una  flotta  polente  Thucyd.,  I,  14,  l  ;  25,  4;  31,  2;  I,  68  ;  Herodot.,  VII,  145; 
Xenoph.,  fiellen.,  VjI,  2,  9;  Strab.,  VII,  fragm.  7;  Chrestotn.  ex  Strab.  lib.  vii,  62 
in  Geog.  graec.  Min.^  //,  p.  577;  Eustath.,  comin,  492  in  Geog.  Graec.  Min.,  II t 
pp.  309-310. 

«  Etymolog.  M.,  S.  V.   Kéqxouq.  SuiD.,  S.  V.   Na^iouQyìlS  xdvftaQOS. 

3  Odyss.  VI,  268-272,  VII,  32-36,  108-109  :  per  l'orgoglio  dei  Corciresi  che  van- 
tavano sè  stessi  quali  eredi  dei  Feaci  cfr.  Thucyd.,  I,  25,  4,  Schol.  in  Thucyd. ^  I, 
25,  4. 

5  —  Nuova  Rivista  Storica. 


66  Guido  Porzio 


Juppo  a  infrangere  i  ceppi,  prima  del  servaggio  economico,  e  poi  d'ogni 
politica  soggezione.  Eran  lampi  corruschi  di  idee  dardeggiati  in  una 
atmosfera  grave  di  tempesta  da  opposte  direzioni  dell'orizzonte  :'  era 
l'urto  di  due  programmi  —  del  servaggio  e  della  libertà —  che  sem- 
bravano cozzare  a  mezz'aria  in  una  specie  di  cielo  metafisico.^  Sem- 
bravano?  ma  così  non  era.  Tutto  quel  balenio  di  idee  scintillava  sotto 
r  impulso  di  contrastanti  cupidigie,  e  più  il  tuono  delle  voci  corintiache 
s'alzava  minaccioso  e  più  si  sferrava  di  rimbalzo,  rapida  e  lacerante, 
la  risposta  corcirese.  I  coloni  negano  all'  inviato  della  metropoli  i  primi 
seggi  €  gli  onori  del  sacrifizio  allorché  le  moltitudini  son  convocate 
a  bruciare  gì'  incensi  e  ad  offrire  agi'  immortali  i  prescritti  olocausti  :  ^ 
i  coloni  traccian  sui  flutti  spumosi  una  linea  divisoria,  confine  dei  loro 
costituiti  dominii*  e  intimano  che  nessuno  ardisca  di  varcare  quel 
segno  ove  da  essi  non  sia  espressamente  consentito  :  ^  i  coloni  dai 
loro  porti  come  da  sicuri  recessi  di  corsari  piombano  addosso  ai  tra- 
sgressori delle  lor  voglie  prepotenti  :  ^  i  coloni  chiudono,  a  loro  posta, 


1  I  programmi  dei  Corinzi  e  dei  Corcfresi  sono  espressi  in  Tucidide  I,  34,  1 :  38,  2-3 
(«  ogni  Stabilimento  coloniale,  se  beneficato,  reca  .tributo  di  onori  alla  madre  patria, 
ma  ove  patisca  ingiustizia  si  strania:  infatti  i  coloni  son  spediti  fuori,  non  per  essere 
schiavi,  ma  eguali  agli  altri  rimasti  in  patria  »,  così  i  Cprciresi  :  «  noi  affermiamo  di 
averli  costituiti  (/  Corciresi)  in  colonia,  non  per  esser  bersaglio  dell'insolenza  loro, 
ma  per  esercitare  predominio  e  ottenere  congrue  onoranze  »,  (cosi  i  Corinzi). 

»  Il  Freeman  {Histor.  of  Sicily  Oxford,  1891,  I,  340-341  ed.  cit.)  sembra  scam- 
biare per  un  puro  urto  di  regole  programmatiche  quello  ch'era  invece  conflitto  di 
interessi  :  idee  e  passioni  traevano  lor  vigore  dal  terreno  della  realtà. 

3  Thucyd.,  I,  25,  4. 

4  Che  Corcira  avesse  un  dominio  proprio  poco  innanzi  che  scoppiasse  la  guerra 
peloponnesiaca,  è  evidente;  essa,  infatti,  conchiuse  con  Atene  tma  lega  difensiva  colla 
clausola  che  le  due  città  dovessero  recarsi  aiuto  vicendevole  nel  caso  che  qualcuno 
muovesse  contro  Corcira^  contro  Atene  o  contro  iloro  alleati;  Thucyd.,  I,  44,  1-2;  si 
pensi  che  ne^  lingnaggio  dell'Atene  di  quel  tempo  alleato  suona  come  suddito,  -he, 
inoltre,  il  comandante  della  flotta  attica  negli  stessi  anni  ordinò  alla  flotta  corinzia  di 
non  navigare,  né  verso  Corcira,  né  verso  qualche  sua  terra;  Id.,  I,  53,  4.  Ora  siffatta 
condizione  non  era  che  il  prolungarsi  di  uno  stato  di  cose  molto  antico. 

5  L'araldo  corcirese,  che  poco  prima  della  conflagrazione  peloponnesiaca  intima 
alle  navi  corìnzie  di  non  procedere  più  a  nord  di  Azio  situato  alle  fauci  del  seno 
Ambracico,  indica  in  qual  punto  —  allora  e  prima  —  fosse  tracciata  la  linea  divisoria 
(Thucyd.,  I,  29,  3-4).  Appena  Corcira  cominciò  a  battere  moneta  (verso  il  583  a.  C. 
come  pare,  Head.,  hist.  num.,  p.  275)  subito  ebbe  cura  dì  farla  adottare  dalle  città 
formanti  il  suo  dominio  (Qardner,  Types  of  greek  coins,  ed.  cit.,  p.  39-40).  Questo 
sul  mare:  per  terra  i  Corinzi,  pigliando  le  mosse  da  Ambracia,  potevan  giungere 
molto  più  a  nord  e  così  recare  aiuto  a  quelli  d'Epidamno,  Thucyd.,  I,  26,  2.  Ma 
delle  acque  i  Corciresi  erano  dominatori  e  per  andare  verso  nord,  oltre  la  linea^^e- 
gnata,  occorreva  una  flotta  (Tucidide  lo  dice  /.  e.  :  che,  cioè,  i  Corinzi  mossero  pe- 
doni per  paura  d'essere  impediti  dalle  forze  corciresi  durante  la  traversata  marittima). 

«  I  Corciresi  sono  descrìtti  quali  pirati  in  Thucyd    I,  37,  2-5. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  67 


le  vie  marittime  verso  la  Sicilia,  verso  tutto  l'occidente,  verso  le  acque 
dell'Adriatico  ;  1  i  coloni,  chiusi  in  una  selvaggia  indipendenza,  pro- 
clamano che  tutti  han  di  loro  bisogno  ed  essi  di  nessuno.^  E  non 
v'era  rimedio  :  la  loro  insolenza  era  alimentata  dai  grassi  affari,  no- 
tava Tucidide  e  sentenziava  il  genio  d'Aristotele.^  Contro  tanta  audacia 
di  programma  e,  sopratutto,  contro  la  travolgente  realtà,  non  restava 
ai  Corinzi  che  trar  dal  fodero  la  spada  e  tentare  la  sorte  delle  armi. 
Lo  scontro  tuonò  nel  664  circa  a.  C.,*  come  la  tempesta  più  formida- 
bile che,  a  ricordo  d'  uomo,  si  fosse  scatenata  fino  allora  sulle  acque 
greche.  Con  quali  risultati?  Venne  fatto  ai  Corinzi  di  por  le  briglie 
ai  coloni  riottosi  ?  Trionfò  il  programma  del  servaggio  coloniale  ov- 
vero quello  della  libertà?  Invano  si  frugherebbe  in  Tucidide,  auto- 
revole testimone,  per  trovare  alla  domanda  una  qualsiasi  risposta.  Ma 
poiché  sempre  esultante  di  forze  era  la  metropoli  ed  a  Corcira,  sebbene 
a  sua  volta  gagliarda  e  non  domabile,  non  ancora  era  dato  di  prostrare 
il  vigore  dell'aristocrazia  dei  Bacchiadi,  così  è  da  credere  che  lo 
scontro  seminasse  molte  rovine  e  molti  cadaveri  travolgesse  nelle  pro- 
fondità del  mare  senza  tuttavia  dar  in  pugno  all'  uno  o  all'altro  po- 
polo contendente  la  vittoria  agognata.  Corcira  assicurò  la  propria  in- 
dipendenza resa  più  sacra  dal  sangue  versato,  ma,  d'altra  parte,  dovette 
acconsentire  che  le  navi  di  Corinto,  varcando  i  limiti  prescritti,  giun- 
gessero nei  porti  adriatici  e  sopra  le  spiaggie  della  Sicilia.  Non  in 
altra  guisa  si  spiega  che  Corinto  e  Corcira,  dopo  la  mischia  sangui- 
nosa, abbiano  insieme,  e  perfino  negli  anni  del  tiranno  Cipselo,  con- 
giunte le  destre  nel  gettare  le  fondamenta  di  Epidamno,  di  Apollonia, 
di  Leucade  e  di  Anattorio.^  I  colpi  inferii  e  ricevuti  avevano  gravato 
negl'animi  dei  lottatori  un  rispetto  vicendevole.®  Tuttavia  la  pace  con- 


1  Quanto  all'Adriatico  —  già  lo  notammo  —  serviva  l'accennata  linea  divisoria  : 
per  la  Sicilia  e  l'occidente  cfr.  Thucyd.,  I,  36,  2;  44,  3. 
«  Thucid.,  I,  37,  2. 
3  Id.,  I,  38,  6;  Aristotel.,  ap.  Zenob.,   IV,  49,   ap.   Hesych.,   s.   v.  xeQKvcala 

*  Thucyd.,  I,"  13,  4  :  è  palese  l'errore  dello  scoliaste  che  pone  tale  battaglia  al 
tempo  di  Periandro  {Schol.  in  Thucyd. ^  I,  13,  1). 

5  Colonie  comuni  di  Corinto  e  di  Corcira  furono  Epidamno  (Thucyd.,  I,  24,  2) 
fondata,  giusta  Eusebio,  nell'  Ol  38,  4,  625  a.  C,  cioè  39  anni  dopo  la  battaglia  na- 
vale accennata':  Apollonia  (Strab.,  VII,  5,  8)  sorta,  a  quanto  pare,  prima  dei  tiranni 
(Beloch,  Griech.  Gesch.,  I»  ed.  cit.,  231)  :  Anattorio  (Thucyd.,  I,  55,  1)  e  Leu- 
CÀDB  (Plut.,  Them.,  V\  24,  1)  dedotte  per  iniziativa  dì  Cipselo  (Nic.  Damasc, 
frag/n.  58  in  /=■  //  O.,  Ili,  p.  392). 

6  Questa  nostra  nuova  ipotesi  scaturisce  dai  fatti  e  dalla  natura  delle  cose:  il 
Lutz  sembra,  a  tal  proposito,  giuocare  a  mosca  cieca  in  una  di  quelle  cantafere  in  cui 

gli  eruditi  si  danno  quasi  l'aria  di  ragionare  perchè,  tratto  tratto,  lanciano  un  testo 


68  Guido  Porzia 


chiusa  costituiva,  più  che  altro,  una  tregua  d*armi  :  come  il  riposo  di 
due  atleti  che  attendono  a  medicare  le  ferite  per  avvinghiarsi  un'altra 
volta  con  uno  sforzo  disperato  di  mutua  distruzione.  Corinto  conservò 
il  resto  del  suo  dominio  coloniale  :i  ma  la  più  bella  tra  le  figliuole, 
la  più  vivacemente  baldanzosa  non  fece  più  ritorno  al  materno  seno. 
La  gara  per  la  conquista  delle  ricchezze  aveva  scavato  tra  loro  un 
abisso  che  niente,  nel  giro  di  molti  anni,  valse  a  colmare. 


Le  altre  molteplici  manifestazioni  della  vita  materiale 
E  spirituale  in  Corinto. 


I  conforti  ciie  facevan  lieti  oli  accorsi  stranierl 


Una  ferra  designata  dalla  natura  quale  campo  aperto  alle  transa- 
zioni degli  uomini  manifesta  subito  la  tendenza  a  profondere  soprai 
giungenti  molte  lusinghe  allettatrici.  L'ospite  che  arriva  —  scosso  ap- 
pena dalle  vesti  il  polverone  della  strada  o  sgranchite  le  gambe  rese 
torpide  dal  difetto  di  movimento  durante  un  viaggio  lungo  sulle  acque 
—  dovrà  subire  il  fascino  come  di  un  luogo  d' incantesimi,  ove  le  ca- 
rezze d'infiniti  piaceri  gli  facciano  vibrare  l'anima  soavemente.  Più 
gli  stranieri,  nell'esultanza  dei  loro  cuori,  faran  soggiorno  in  mezzo  al 
tumulto  del  mercato,  e  più  grassi  saranno  gli  affari  conchiusi,  più  lauti 
i  guadagni  degli  albergatori  e  di  chi  ha  presentato  in  mostre  superbe 
i  suoi  cumuli  di  mercanzie.  Perciò  i  grandiosi  empori  del  traffico 
odierno  appaion  tutti  sfolgoranti  d' irresistibili  seduzioni. 

Lo  stesso  accadde  nella  Corinto  più  antica. 


Lo  straniero  —  calato  dall'altipiano  dell'Arcadia,  sceso  dalle  al- 
ture dell'Eliade  centrale,  oppure  stanco  di  un  lungo  cammino  sopra 
i  liquidi  sentieri  —  appena  messo  il  piede  nella  città  industre  era  ac- 
colto dal  mormorio  confortatore  di  acque  zampillanti  da  pubbliche  fon- 
tane. La  polla  scaturita,  come  suonava  la  leggenda,  sopra  la  cima 
dell' Acrocorinto  per  la  percossa  dello  zoccolo  di  Pegaso,  divino  de- 


greco al  capo  del  lettore.  Attardarci  a  combattere  il  Lutz  sarebbe  tempo  perso  :  Heinr. 
LUTZ.,    Z.  Gesch.  Korcyras  in  Philolog.  B.  LVI,  Heft.,  I,  1867,  p.  72  e  sgg. 
1  ThuCyd.,  I,  38,  2-3. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  69 


striero,  fluiva  a  valle  per  nascoste  vie^e  sprizzava  poi  limpida  sulle 
piazze  pubbliche  della  città  e  nei  quadrivii  affollati/^  Quell'acqua  vin- 
ceva in  leggerezza  le  altre  della  Grecia,^  Era  lieve  e  cristallina,  gelida 
e  copiosa:  per  gli  animali  da  trasporto,  per  i  cavalli  piè-veloci  e  per 
altri  usi  più  vili  s'apriva,  inóltre,  in  Corinto  un  gran  numero  di  pozzi.* 
Dopo  il  saluto  delle  acque  mormoranti  s' illuminava,  a  conforto  dei 
peregrini,  il  sorriso  degli  uomini.  In  Corinto  —  come  accadde  in  altre 
terre  greche  tormentate  da  senofobia  —  non  brillarono  mai  di  luce 
sinistra  gli  occhi  dei  cittadini  contro  chi  vestisse  abiti  di  altre  fogge 
e  sfringuellasse  un  dialetto  un  poco  diverso  da  quello  parlato  sopra 
l'istmo.  Il  viatore  straniero  incontrava  solo  volti  benigni  e  aperte  braccia, 
udiva  nelle  voci  paesane  tremare,  uniche,  le  vibrazioni  della  benevolenza 
e  della  gentilezza.  «  Rifugio  comune  di  tutti,  via  e  transito  per  qual- 
sivoglia mortale,  città  degli  Elleni  quanti  sono,  loro  metropoli,  e 
madre  »  :  queste  le  lodi  di  un  tardo  scrittore  che  riassumeva  la  pra- 
tica dei  Corinzi  da  che  essi  eran  balzati  sopra  la  scena  della  storia.^ 
«  Accarezzatrice  degli  ospiti  e  pronta  a  servirli  »  :  tale  l'encomio  univer- 
sale squillato  poi  da  PI  darò  colla  sua  voce  di  bronzo  a  onore  delle 
famiglie  e  della  città,  ;  i^etuto  da  altri  senza  fine.®  Un  certo  Cidone,  in 
grazia  della  generosità  con  cui  dava  ai  viandanti  il  benvenuto  sotto 
il  suo  tetto,  ebbe  con  un  proverbio  la  consacrazione  di  un  nome 
eterno.''  Chi  sentiva  alle  reni  la  furia  degli  inseguitori,  chi  sentiva, 
come  più  tardi  Senofonte,  scottare  sotto  i  piedi  il  suolo  della  patria, 
correva  a  piantar  le  tende  sull'istmo  ospitale.^  Chi  nelle  tempeste  po- 


1  Sembra  che  al  tempo  di  Euripide  (ap.  Strab,  p.  379)  le  acque  si  spandessero, 
allo  scoperto,  giù  per  il  declivio  :  non  così  in  altri  anni  e  in  quelli  del  geografo 
Strabone. 

«  Herodot.,  V.  92,  2;  Simonid,  ap.  Plut.,  de  Herodot.  malign.,  870  B-F,  871 
A-B;  EuRiP.  ap.  Strab.,  p.  261;  Plaut.,  AulaL,  557-559;  Strab.,  8,  p.  379;  Paus., 
II,  3,  5  (osserva  il  periegeta:  che  v'erano  xQfjvai  6è  noXXal  jièv  àvà  TTjvjtóXiv...  jifioav); 
Athen.,  II,  53  b,  IV,  156  e,  XIII  588  e;  Eustathius,  comment.  in  II.,  B.  59;  com- 
ment.  in  Odyss.,  I,  146  ;  per  le  figurazioni  della  fontana  di  Pirene  sopra  le  monete 
cfr.  Du  Mersan  in  Rev.  Numismat.  1843  p.  17;  Babelon,  Trait.  d.  mona.  grec.  et 
rom.  Part.,  I,  tom.  I,  p.  40  (ed.  cit.)  ;  Head,  hist,  num.  (ed.  cit.),  pp.  334-335. 

3  Athen.,  epit.,  lib.  II,  43b:  l'a.  contradice  aU'opi*»'one  di  Antifane,  che  l'acqua 
più  leggera  della  Grecia  fosse  nelle  terre  attiche. 

*  Strab.,  8,  p.  379;  Eustath.,  comment.  in  II.,  B.  59  (da  confrontare  sovra 
questo  punto  le  chiose  del  Politi  nell'edizione  di  Eustazio  da  lui  curata). 

5  Aristid.,  /5//t/n.  ad  Nept,  tom.  I,  p.  22,  ed.  lebb. 

«  PiNDAR.,  O/.,  XIII,  1-3:  amante  degli  stranieri  è  chiamata  Corinto  nella  sup- 
posta epigrafe  sovra  le  ceneri  di  Senofonte  riferita  da  Diogene  Laerzio,  II,  58. 

7  Proverbia  e  codice  bisleriano  in  paroemiograph.  graec,  p.  5,  113  (Oxonii)  1836  ; 
Crusius,  Wochenschrif.  f.  xlass.  Philolog.,  1889,  n.  13,  p.  344. 

8  DiOQ.  Laert.,  II,  6,  14,  Antholog.  Palai.,  c&p.,  VII  epigram,  sepulcral.,  n.  98. 


70  Guido  Porzio 


litiche  vedeva  travolti  il  diadema  e  il  trono  si  rifugiava,  come  Dionisio 
siracusano,  a  cercar  pace  e  oblio  sopra  il  suolo  corintiaco.^  La  terra 
dei  mercanti  —  appunto  perchè  tale  —  dava  amorevole  ricetto,  così 
ai  negoziatori,  come  ai  naufraghi  della  vita.  E  così  Corinto  appariva, 
in  ógni  tempo,^  sotto  l'impulso  d'una  identica  cagione  — Tanelito  alla 
ricchezza  procacdata  mediante  l'attività  industriale  e  commerciale  — 
coU'augusto  carattere  di  un  asilo  della  libertà,  non  in  altra  guisa  di 
Venezia  ove  nei  secoli  XVI  e  XVII  venivano  a  posarsi  i  superstiti  del- 
l'indipendenza  politica  e  gli  eroici  assertori  del  libero  pensiero,  non 
in  altra  guisa  dell'Inghilterra  contemporanea  rifugio  comune  ai  per- 
seguitati da  molteplici  vendette  :  dalle  vendette  dei  padroni  offesi,  dalle 
vendette  sacerdotali,  dalle  vendette  del  despotismo. 

Di  più  :  al  peregrino  che,  dopo  un  giorno  di  mercato  —  tra  1*  urlio 
tonante  dei  venditori  e  il  frastuono  degli  animali  e  degli  uomini  tra- 
scorrenti con  perenne  moto  come  un  fiume  in  piena  —  era  colto  da 
una  specie  di  vertigine:  al  peregrino  che,  nel  far  le  compre  e  nello 
spacciare  le  proprie  mercanzie,  aveva  dovuto  per  molte  ore  tener  ben 
teso  l'arco  dell'intelletto  e  sferzare  all'attenzione,  con  volere  tenace, 
verso  il  prefisso  scopo,  i  fasci  dei  nervi  in  sussulto:  a  questo  pere- 
grino anelante  al  riposo  dell'anima  e  del  corpo  Corinto  offriva,  sul 
calare  dei  rosei  tramonti  e  al  posarsi  del  turbine  della  fiera,  tutto 
quello  che  può  recar  conforto  all'organismo  umano  affaticato.  Innanzi 
tutto  la  letizia  di  una  mensa  sulla  quale  trionfava  la  squisitezza  di  vini 
e  di  cibi  giunti  dalle  regioni  più  lontane.^  Poi,  quando  era  sazia  l'avi- 
dità del  cibo  e  dagli  spiriti  voluttuosamente  eccitati  dal  vigore  del 
vino  s'effondeva  lo  scintillìo  degli  aurei  fantasmi,  lo  straniero,  a  braccio 
cogli  amici  e  cogli  ospiti,  poteva  recasi  a  diporto  sotto  i  boschi  dei 
cipressi  che  dentro  e  fuori  della  cinta  corintiaca  fremevano  al  soffio 
ristoratore  della  brezza  di  terra  e  di  mare.*  Inoltre,  raro  accadeva  che 
la  celebrazione  di  qualche  pubblica  solennità  colle  lusinghe  delle  spe- 
rate gioie  non  trattenesse  a  lungo  il  frequentatore  dell'emporio.  Eran 


1  Plut.,  num  seni  sit  gerenda  respub.  in  F.  Philos.  Qraec,  II,  p.  233. 

*  Da  ricordare  la  ospitalità  concessa  ad  Abrone  argivo,  la  cui  storia  e  quella  del 
figlio  Melisso  e  di  Atteone  s' intrecciano  con  le  vicende  di  Archia  fondatore  di  Siracusa 
al  tempo  dei  Bacchiadi,  Plut.,  amator  narrati  II. 

»  Corinto  in  ogni  tempo  ebbe  fama  «  propter  opportunitatem  loci  per  duo  di- 
versa maria  omnium  rerum  usus  ministrantis  humailo  generi»,  Liv.,  XXXIII,  31,  1-3: 
cfr.  anche  Cic,  de  re  pubi.,  II,  4,  7-9. 

4  Di  uno  di  questi  boschi  nereggianti  sopra  la  via  che  dal  Cenchreo  conduceva 
a  Corinto  é  avente  inizio  proprio  sotto  le  mura  della  città  (il  bosco  Craneo)  fa  parola 
Pausania  (li,  2,  4)  :  ma  refrigerio  d'ombre  offrì  certo  la  città  di  Sisifo  da  tempo  non 
memorabile,  non  appena  s'apri  in  essa  l'emporio  mondiale. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  71 

COSÌ  numerosi  sopra  T istmo  i  giorni  d'esultanza!  O  che  le  etère,  ven- 
ditrici dei  voluttuosi  spasimi  sensuali,  bruciassero  gì*  incensi  e  allineas- 
sero i  cortei  in  onore  di  Afrodite  dagli  occhi  ladri  :  ^  o  che  le  candide 
fanciulle,  durante  le  feste  Ellotie  sacre  ad  Atena,  si  lanciassero  a  gara 
nelle  corse  stringendo  le  lampade  colle  manine  delicate:'^  o  che  le 
donne,  ornate  di  casti  costumi  entro  il  santuario  delle  domestiche  pa- 
reti, si  raccogliessero  intorno  agli  altari  di  Venere  pudica  ^  (in  Corinto, 
come  ben  si  vede,  v'erano  Afroditi  per  tutti  i  gusti):  o  che  nelle  vie 
della  città  suonasse  la  gioia  delle  feste  euclee  delle  quali  è  cenno  in 
Senofonte:  *  o  che  le  tenzoni  del  corpo  e  dello  spirito  nei  ludi  istmici 
triennali,  consacrati  a  Poseidon,  avessero  spettatore  plaudente  tutto  il 
mondo  greco,^  certo  è  che  molto  spesso  lo  straniero,^  dopo  le  compre  e 
le  vendite  effettuate,  si  sentiva  come  da  fili  invisibili  trattenuto  sopra 
r  istmo  molto  più  a  lungo  di  quel  che  egli  innanzi  s'attendesse. 

Del  resto  se  l'allettamento  dei  pubblici  spettacoli  qualche  volta  po- 
teva far  difetto,  non  mancavano  però  mai  le  benemerite  meretrici* 

In  tempi  a  noi  più  vicini  la  storia  della  prostituzione  ha  scritto 


1  ALtxis  ap.  Athen.,  XIII,  574  h-c  =  Fragm.,  Cam.  Graec.  (ed.  Didot),  p.  372. 

«  PiND.,  O/.,  XIII,  39,  SchoL  vet.  in  Pindaro 01. ,  XIII,  56,  Schol.  ree.  in  Pindar. 
Ol.t  XII  48;  ScH^EiQYikE\3S.,  animadvers.  in  Athen.,  p.  678  a,  tom.  Vili  p.  97;  per 
r  intrigo  dei  miti  intrecciati  intorno  a}la  festa  e  per  la  spiegazione  della  festa  stessa 
(Atena  Ellotia  sarebbe  la  luna)  cfr.  Bocekh,  explication.  ad  Pind,  OL,  XIII,  tom.  II, 
p.  216. 

3  Alexis  ap.  Athen.,  XIII,  574  b-c. 

*  Xenophont,  Meilen,,  IV,  4,  2. 

5  FiHD.,  fragm.  ap.  Apollod.  Dyscob.,  desyntaxl,  II,  21,  p.  153  Sylb;  Hellanic. 
et.  Andron  ap.  Plut.,  Thes.»  25,  6;  Strab.,  Vili,  pp.  334-335;  Plin.,  n.  A.,  VII,  57; 
Pompon.  Melas,  chorograph.,  II,  3,  48;  Musaeus  ap.  Schol.  in  Apollon.,  Rhod.  ar- 
gonaut.y  III,  1240. 

<  Quanto  agli  altri  spettacoli  non  abbiamo  prove  esplicite  per  stabilire  l'esatta 
cronologia:  è  però  a  supporre  che  siano  antichi  almeno  quanto  le  persone  celebra- 
trici  :  per  esempio,  la  festa  all'oscena  Afrodite  dovette  essere  coeva  all'affluire  'delle 
prostitute  sopra  l'istmo  e  ciò  avvenne  —  come  vedremo  —  fin  dal  tempo  dei  Bac- 
chiadi.  Negli  anni  in  cui  questi  ultimi  reggevano  il  timone  dello  stato  i  cosi  detti  ludi 
istmici  già  attraevano,  senza  dubbio.  Greci  d'ogni  parte.  Per  tacere  delle  testimonianze, 
che  fanno  risalire  siffatti  ludi  a  Sisifo  (Schol.  in  Aristotel.  Panai.,  p.  323  ed.  Din- 
dorff)  ;  Aeschyli,  fragm.,  ed.  Didot,  p.  232  ;  Musaeus  ap.  Schol.  in  Apollon.  Rhod., 
III,  1240;  Tzetz,  in  Lycophron,  107)  od  a  Teseo  (Hellan.  et  Andron  Halicarnas. 
ap.  Plut.,  Thes.,  25;  Aeschyli /ra^/w.  ed.  cit.  p.  232),  e  perciò  ad  un  alta  antichità  (te- 
stimonianze il  cui  valore  è  nullo  senz'altro),  è  certo  che  i  ludi  stessi  già  al  tempo  di 
Solone,  e  quindi  verso  il  594,  godevano  di  alta  fama  (DiOG.  Laert.,  I,  2,  8,  55):  e 
se  anche,  come  vogliono  Gerolamo  Eusebio  «  Solino,  solo  verso  il  580,  581  (Hiero- 
NYMUS,  580;  EusEB.,  581  ;  584  Solin.,  7,  14  ed.  Mommsen)  i  ludi  assunsero  un'im- 
portanza nazionale,  non  v'ha  dubbio  ch'essi  ottenessero  tale  onore  soltanto  dopo  un 
lungo  e  splendido  svolgimento  'molto  anteriore  all'epoca  soloniana.  Si  cade  così  negli 
anni  dei  Bacchiadi. 


72  Guido  Porzio 


in  Corinto,  a  seconda  dei  gusti  vari,  pagine  d'oro  o  pagine  d'infamia. 
Le  amabili  etère  dalle  forme  divinamente  belici  e  procaci  e  coi  lor 
visetti  birichini  incorniciati  entro  il  volume  delle  treccie  disposte  ed 
attorte  in  acconciature  di  squisita  eleganza  (quei  volti  incisi  sopra  le 
monete  sono  anche  oggi  miracolo  a  vedersi), 2  le  amabili  etère,  dico, 
volteggiavano,  omnipresenti,^  tra  la  calca  dei  mercatori,  e  col  fruscio 
delle  vesti,  con  gli  squilli  delle  risate  argentine,  con  l'irritazione  dei 
profumi  acutissimi  suscitavano  sui  loro  passi  e  lasciavano  fremente 
alle  spalle  una  tempesta  di  desideri  che  trovava  quiete  solo  tra  le  ombre 
dei  lupanari.  Dire  xoQivOid^Eiv  significava  l'abitudine  triste  di  trasci- 
narsi pei  bordelli:*  recarsi  in  Corinto  era  come  esporsi  al  pericolo  di 
far  ritorno  con  tutte  le  nausee  dei  piaceri  abusati  e  colle  tasche  piene 
di  ragnateli,  perchè  le  femmine,  dispensatrici  delle  gioie  sensuali,  eran 
use  di  levare  ai  clienti  le  penne  maestre.  Non  è  da  tutti  V andare 
in  Corinto,  suonava  un  adagio  ch'era  come  un  memento  funereo 
contro  i  rischi  della  bancarotta  sospesi  sovra  il  capo  degl' incauti.^  Il 
pervertimento  e  lo  sfrenato  prorompere  dei  sensi  ottenevano  sopra 
l'istmo,  non  solo  la  consacrazione  del  sentimento  religioso  (che  più  di 
mille  etère  osannavano,  sacerdotesse  oscene,  intorno  agli  altari  di  Afro- 
dite),^  ma  anche  il  canto  di  poeti  dei  quali  la  divina  armonia  appare 
vincitrice  dei  secoli.  «  O  giovinette  ospitali,  ancelle  della  persuasione 
in  Corinto  doviziosa  (questo  l'esordio  d'uno  scolio  pindarico  composto 
per  il  corinzio  Senofonte),  o  voi  che  bruciate  le  bionde  lacrime  dell'  in- 
censo verde  spesso  sollevando  l'anima  ad  Afrodite  celeste  madre  degli 
amori...  »  E  così  di  seguito.''  Se  ai  piedi  delle  mura  veniva  a  cozzare  la  mi- 


1  Theocrit.,  IdyL,  18,  Anacreont.,  13.  Poet.  lyr.  graec,  p.  1053;  Anacreont., 
XXXII,  10  sgg. 

«  Oardner,  Types  of  greek  coins  (ed.  cit.),  London,  1883,  p.  139. 

3  Plat.,  de  re  pub.  404  D;  Io.  ap.  Athen.,  XII,  527  d-f;  Euripid.,  ap.  Polluc, 
IX,  76;  Aristophan.,  Plat.y  149-152;  Io.,  Lysistrat.,  90-92,  Schol.  in  Aristoph.  Lysist, 
90-92,  Schol.  in  Aristoph.,  Equit.,  608  ;  Strattis  ap.  Athen.,  13,  p.  589  a;  Terent., 
Hecyra,  I,  2,  85-86;  DiON.  Crysost.  ap.  Eustath.,  comm.  in  II.  B.  59,  Proverbia  Ze- 
nob.  in  paroetn.  graec,  p.  354  (Oxonii,  1836);  Proverbia  e  codice  Bodleiano,  374  in 
paroem.  graec,  (ed.  cit.),  p.  89,  ibid.,  195;  proverbine  codice  coilisniano  in  paroem. 
graec.y  pp.  121,  153;  Hesychius  in  Fragm.  Coni.  Graec.  (ed.  Meineke)  p.  738  n.  141  ; 
Steph.  Byzant.,  s.  V.  KóQivdos;  EusTATHius,  comm.  in  IL,  B.  59. 

*  Phileteros  ap.  Athen.,  XIII,  559  a;  Steph.  Byzant.,  s.  v.  kóqiv^os ;  Eustath., 
comm.  in  II.  B.  59. 

5  Aristophan.,  Plat.,  149-152  ;  Theopomp.  ap.  Polluc,  9,  59,  (cfr.  anche  Fragm. 
Com.  Graec,  p.  307);  Strab.,  Vili,  6,  20,  XII,  3,  36;  Hesychius  et.  Photius,  s.  v. 

©0  jsovTÒg  àv5QÒs  èg  KóqivO'ov  IoO''  ó  nkovq. 

«  PiND.  ap.  Athen.,  XIII,  373  /,  574  a-c,  Euripid.  ap.  Strab.  VIII;  21,  p.  379; 
Strab.,  Vili,  6,  20;  Oeoqraph.  ap.  Eust.  comm.  /»//.,  B.  59,  Athen.,  XIII,  573  c-e. 
7  PiND.,  ap.  Athem.,  XIII,  573  e-f,  574  a-b. 


La  più  antica  aristocrazia  corintìaca  73 

naccia  nemica,  se  l'Eliade,  muta  di  pavida  meraviglia,  tendeva  l'orecchio 
al  gran  fragore  delle  orde  di  Serse  che  svegliavano  nel  loro  cammino  gli 
echi  di  tutte  le  caverne,  se,  it>una  parola,  l'aria  era  scossa  da  fantasimi 
di  guerra,  subito  Corinto  —  mentre  s'affrettava  a  trascinare  nelle  acque 
le  triremi  e  ad  eccitare  all'assalto  le  proprie  fanterie  —  chiedeva  il  soc- 
corso di  Afrodite  servendosi  del  ministero  delle  meretrici  ad  essa  con- 
sacrate. Tuonava  la  mischia  sulle  acque  e  intanto  le  prostitute  corin- 
tìache, supplici  innanzi  agli  altari,  imploravano  da  Venere  la  vittoria. 
Le  meretrici  coli' aiuto  divino  avevano  sprofondate  le  navi  di  Serse 
negli  abissi  del  golfo  Saronico.  E  così,  allorché  i  mercanti,  a  memoria 
perenne  dell'ottenuto  trionfo,  consacrarono  un  quadro  alla  dea  ausi- 
liatrice  e  in  mezzo  alla  tavola  dipinta  avevan  risalto  le  immagini  delle 
etère  supplichevoli,  il  poeta  Simonide  —  come  fan  ricordo  Teopompo 
e  Timeo  —  avrebbe  dettato  i  distici  seguenti  :  «  Coteste  donne  quivi 
rimasero  per  drizzare  le  loro  preghiere  alla  dea  di  Cipro  a  vantaggio 
degli  Elleni  e  dei  cittadini  usi  a  gettarsi  corpo  a  corpo  nel  turbine 
della  mischia:  che  la  divina  Afrodite  non  volle  consegnare  la  rocca 
degli  Elleni  nelle  mani  dei  Medi  portatori  di  arco  ».i  Le  prostitute  erano, 
dunque,  per  i  Corinzi  una  salìJtare  istituzione  e  l'ultima  speranza 
quando  l'ora  dei  cimenti  supremi  \  batteva  alle  porte  della  patria.  E 
fin  qui  ci  siamo  avvolti  in  mezzo  ad  una  folla  muliebre  senza  nome. 
Ma,  come  era  ad  attendersi,  sovra  la  grigia  uniformità  delle  genera- 
zioni delle  etère  correnti,  una  dopo  l'altra,  negli  abissi  della  morte  si 
sollevavano  alcune  prostitute  cui  venne  fatto,  colla  loro  venustà  e  colle 
lubriche  prodezze,  di  salvare  il  nome  dall'oblio  eterno.  Sono  esse  le 
eroine  del  meretricio.  Non  troppo  e'  indugieremo  a  far  parola  di  Cirene, 
di  Leena,  di  Sinope,  di  Mirrine,  di  Schione,  di  Antea,  di  Lagisca,  di 
Teolite,  di  Cleobulina,  di  Aristagora  2  e  di  Ocimo,  quest'  ultima  colla 
graziosa  particolarità  del  suo  nome  vegetale  (e  chi  brucava  di  quel- 
l'erba era  ridotto  al  verde  e  perdeva  anche  la  camicia).^  Si  può  dire  di 
queste  e  di  altre  che  tutte  assaporarono,  più  o  meno  a  lungo,  la  so- 
vranità della  bellezza,  che  furono  regine  perchè  —  osserva  Stobeo  — 
un  gran  numero  di  maschi  inuzzoliti  si  precipitò  all'ubbidienza  dei 
loro  comandi  significati  anche  per  accenni.  *  Ma  più  vasta  di  gran  tratto 


1  Theopomp.,  Timaeus  et.  Camaleon.  Heracl.  ap.  Athen.,  XIII,  573  c-e:  Si- 
MONiD.,  ap.  Athen.,  XIII  573  c-e  e  ap.  Schei,  veter.  in  Pind.  OL,  XIII,  32. 

*  Anaxandrides  ap.  Athen.,  XIII,  570  d,  Schol.  in  Aristoph.  Plut.^  149;  Plut., 
de  Pythiae  arac,  401  A-B  ;  Athen.,  IV,  167  d,  e,  XIII    590  e. 

3  EuBUL.,  ap.  Athen.,  XIII,  567  e;  Nicostrat.,  ap.  Athen.,  XIII  587  d;  per 
il  nome  di  altre  etère  che  ebbero  in  Corinto  il  loro  campo  d'operazioni  cfr.  Theoph., 
fragm.  ap.  Athen;,  XIII,  587  /  [Demosthen.],  LIX,  18-23. 

*  Stob.,  fior  §  E,  15.  * 


74  Guido  Porzio 


suonò  e  suona  tuttavia  la  fama  della  corinzia  Laide,  meretrice  degna 
dell'epopea.  Notava  il  Casaubono:  «Era  ignoto  agli  antichi  il  luogo 
natale  di  Laide  come  quello  di  Omero  e  di  altri  uomini  illustri  poiché 
—  scrive  Solino  —  essa  volle  piuttosto  fare  la  scelta  della  patria  che 
confessare  la  vera  ».i  Se  del  cantore  di  Achille  e  di  Odisseo  ben  sette 
città  si  contendevano  i  natali  poco  meno  accadde  in  quel  che  s'at- 
tiene a  Laide  meretrice.  Era  essa  di  Iccara  o  di  Eucarpia  castelli  sice- 
Ubti  ?  Era  di  Crasto  ?  Oppure  aveva  volti  i  suoi  primi  sorrisi  infantili  al 
sole  folgorante  sovra  la  città  accovacciata  alle  radici  dell' Acrocorinto  ? 
Mistero  !  Per  tutte  le  diverse  opinioni  si  presentavano  sostenitori 
gagliardi.2  Così  pure  il  fascino  dell'ignoto  circondava  la  tomba  con- 
servatrice dei  resti  mortali  di  quella  donna  che  aveva,  a  suo  modo, 
conquistato  il  mondo.  Dormiva  essa  il  sonno  eterno  in  Corinto  sotto 
le  ombre  del  Craneo,  oppure  il  funebre  monumento  era  eretto  tra  i  Tes- 
sali nella  valle  di  Tempe  bagnata  dal  Penco?  Anche  qui  mistero  im- 
penetrabile. Gli  antichi  serbavano  ricordo  dì  un'epigrafe  mortuaria  che 
poneva  come  non  dubbioso  il  sotterramento  in  Tessaglia  della  donna 
terribile.  «  L'altera  ed  invitta  Eliade  fu  trascinata  in  servitù  dalla  bel- 
lezza di  Laide,  pari  a  quella  d'una  dea:  generolla  Amore,  Corinto  la 
itutrì:  ora  giace  nelle  illustri  tessaliche  pianure  ».3  Tale  l'epigrafe  mor- 
tuaria: Ma  chi  dei  Corinzi  dava  retta?  Per  essi  l'ombra  di  Laide  er- 
rava, notturna  larva,  sotto  i  cipressi  piantati  dagli  avi  e  al  tempo  di 
Pausania  periegeta  ognuno  segnava  con  compiacenza  fuòri  della  città 
il  sepolcro  della  meretrice  recante  l'effigie  di  una  fiera  leonessa  nel- 
l'atto di  acciuffare  un  ariete  colle  zampe  anteriori.*  E  a  conforto  della 
loro  opinione  citavano  essi  l'epigrafe  ^  (potremmo  dire  le  epigrafi)  ®  del 
sepolcro  corinzio  nella  quale  si  leggeva  che  esso  conteneva  Laide,  più 
delicata  d'Afrodite,  fulgente  d'oro  e  di  purpuree  vesti,  cittadina  di  Co- 


1  Casaubonus  ap.  Schweiohaeus.,  animad.  in  Athen.,  p.  570  e  v.  VII,  pp.  83-84. 

t  Timeo,  Polemone,  Nirafodoro(ap.  Atheh.,  XIII,  588  f,  589  a),  Iperide  (ap.  AtHen., 
XIII,  557  e  =  Fragm.  Orai.  Att,  p.  384  ed.  Didot),  Pausania  (II,  2,  5)  e  Plutarco  (Alcib., 
39)  la  fanno  di  Iccara:  Strattis,  Macone  ed  altri,  di  Corinto  (ap.  Athen.,  XIII,  589  a, 
582  e,  585  d). 

«  TiMAEUS  ap.  Athen.,  XIII,  589  b-c:  stavano  per  la  sepoltura  di  Laide  tra  i 
Tessali  —  senza  parlare  di  Timeo  da  cui  (1,  e.)  è  tolta  l'epigrafe  —  anche  altri  dei 
quali  con  parole  vaghe  è  cenno  in  Ateneo,  XIII,  589  e.  Anche  Pausania  cita  un  monu- 
mento sepolcrale  di  Laide  in  Tessaglia;  ma  poiché  lo  stesso  autore  fa  parola  di  un'altra 
tomba  in  Corinto,  cosi  non  è  chiaro  quale  dei  due  fosse  per  lui  nn  cenotafio  (Paus., 
II.  3,  5). 

4  f  AUS.,  II,  2,  4  ;  altri  cui  accenna  vagamente  Ateneo,  XIII,  589  a,  589  e, 

5  Antipatri  SiooNii  in  Antholog.  Palai. y  e.  VII,  218. 

«  Altre  inscrizioni  per  il  sepolcro  di  Laide  in  Corinto  furono  dettate  da  Pompeo 
il  giovane  e  Agazia  scolastico,  AnthoL  Palai.,  VII,  219-220. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  75 

rìnto  cìnta  dal  mare...  E  via  di  questo  passo  coirenumerazione  dei 
molti  amatori  che  bruciarono  per  lei  di  sfrenati  desideri  e  colFaggiunta. 
che,  se  Laide  non  avesse  prostituite  le  gioie  dell'amore,  una  nuova 
guerra  si  sarebbe  accesa  per  cagion  sua  non  meno  famosa  dell'altra 
combattuta  sotto  le  mura  del  superbo  Ilion.  In  mezzo  ai  due  misteri 
della  culla  e  della  sepoltura  cantava  poi,  sonora,  la  leggenda.^  A  co- 
minciare da  Timandra,  la  genitrice  che  avrebbe  consolato  l'esilio 
di  Alcibiadej2  tutto  nella  vita  di  Laide  appariva  fantasiosamente  poe- 
tico e  favoloso.  Essa,  bambina  di  sette  anni,  avrebbe  visto  gli  opliti 
di  Nicia  muovere  alla  volta  di  Siracusa  per  seguire  poi,  vecchia,  il  passo 
cadenzato  delle  falangi  d'Alessandro  in  cammino  verso  l'Asia.  L'età 
di  più  che  130  anni  sembrerà  forse  soverchia:  ma  la  leggenda  ignora 
i  confini  del  possibile.  Con  130  primavere  Laide  era  ancora  tale  da 
sommuovere  nelle  donne  tessale  le  trafitture  acute  della  gelosia.^  Ove  tro- 
vare un  tramonto  piti  luminoso?  Se  ad  Epicrate*  era  piaciuto  di  pre- 
sentare la  donha  umilmente  curva  sotto  il  peso  degli  anni  —  simile 
all'aquila  usa  a  trasportare  nella  sua  giovinezza,  roteando  per  i  Cieli, 
lepri  ed  agnelli,  e  posantesi  poi,  vecchia  spennachiata  e  immota,  sopra 
i  vertici  dei  templi  —  Epicrate  tra  una  mala  lingua,  Epicrate  mentiva. 
Nei  lunghi  giorni  dei  fulgidi  meriggi  sopra  il  corpo  di  quella  donna 
era  passata  tutta  l'Eliade.  Allora  dal  calice  delle  sue  labbra  avevano 
succhiato  il  veleno  dei  baci  inebrianti  gli  uomini  illustri  di  quattro 
o  cinque  generazioni,  e  Filonide  ateniese  bersaglio  agli  strali  di  Ari- 
stofane,^  e  Aristippo  di  Cirene,®  e  Diogene  il  cinico,  e  il  divino  Apelle  "^ 
e  Demostene  l'oratore.^  Perfin  le  dee,  come  Venere  Melainis,  abban- 
donavano i  seggi  dell'olimpo  immortale  per  svelare  negli  aurei  sogni 
i  tiomi  dei  facoltosi  amatori  che  sarebbero  calati  a  posarsi  nel  grembo 
ospitale  dell'etèra.^  Ripetiamo  che  quella  di  Laide  è  la  leggenda  del 


1  Un  curioso  riassunto  della  leggenda  troviamo  negli  scolii  d'Aristofane  {Schol. 
in  Aristoph.  Plat.^  179);  oltre  alle  notizie  che  diamo  più  sotto*,  anche  questa:  chela 
prostituta  sarebbe  stata  concessa  in  dono  al  poeta  Filosseno  da  Dionisio  tiranno  di 
Siracusa. 

«  Plut.,  Alcib.,  39;  Athen.,  XII,  535  b,  e. 

8  Paus.,  II,  2,  5:  Scholia  in  Aristhoph.  Pluf.,  179:  Laide  dopo  la  sua  ultima  cam- 
pagna nell'Asia  fu  uccisa  dalle  donne  gelose  in  Tessaglia  ov'essa  avrebbe,  seguito  il 
suo  amante  Ippostrato,  Io.,  ibid,  e  Tim.,  ap.  Athen.,  XIII,  589  a. 

4  Epicrat.,  ap,  Athen,  XIII,  570.  c-d. 

5  Aristoph.,  Plut,  302-306. 

«  Hermesianact.  ap.  Athen.,  XIII,  599,  b;  Qell.,  N.  Att.,  I,  8;  Dioo.  Laert., 
IL  71,  II,  83-85;  Clem.  Alex.,  II,  20;  Athen.,  XII,  544  d,  XIII,  588  f. 

7  Athen.,  XIII,  588  d-e. 

«  Qell.,  N.  Att.,  I,  8,  Valerio  Ruffinio  ne  dacat  uxorent  in  Op,  Divi  Hieronymi, 
V.  IV,  p.  172  (ed.  di. Frankfurt  au  Mein,  senza  data). 

9  Athen.,  XIII,  588  e. 


76  Guido  Porzio 


meretricio  e  sapete  perchè?  Perchè  Laide  era  bella  divinamente,^ 
perchè  essa  formava  la  gloria  dell'Eliade,  lo  stupore  della  Sicilia  e 
l'ornamento  di  Corinto,  perchè  —  come  cantava  Properzio  —  tutta  la 
Grecia  si  era  prostrata,  adorando,  innanzi  alla  sua  porta.'-^ 

È  questa,  come  ognun  vede,  l'apoteosi  ^  della  prostituzione  co- 
rinzia negli  anni  più  prossimi  all'era  nostra.  Ma  la  stessa  oscena  realtà 
cogli  identici  clangori  della  fama  e  colle  medesime  tinte  iridate  della 
poetica  tavolozza  dobbiamo  immaginare  al  tempo  dei  Bacchiadi.  Ci 
basti  far  ricordo  di  Periandro  che  volle  sommerse  nelle  acque  del  golfo 
tutte  le  mezzane  degli  illeciti  amori,*  le  quali,  giusta  l'avviso  del  ti- 
ranno, erano  apportatrici  di  contagli  nei  costumi  della  città  di  Si- 
sifo. Col  ferro  e  col  fuoco  la  mano  del  despota  s'accinse  a  guarire 
la  piaga  della  prostituzione  ch'erasi  fatta  purulenta  negli  anni  del  go- 
verno aristocratico. 

È  inutile  dire  che  tutte  le  accennate  manifestazioni  —  e  gli  zam- 
pilli delle  fontane  d'acqua  viva,  e  il  brusìo  dei  cipressi  stormeggianti 
tra  i  fulgori  dei  vespri  purpurei,  e  la  dovizia  delle  mense,  e  il  gaio 
turbinare  delle  feste,  e  i  lacci  soavi  tesi  dalle  bellissime  meretrìci  — 
erano  predisposte  al  consueto  e  immancabile  scopo  commerciale.  La 
città  dell'istmo  diveniva* la  terra  degli  incanti  ove  ognuno,  nella  fre- 
nesia dei  perseguiti  piaceri,  dimenticava  anche  il  vacillare  non  infre- 
quente del  suolo  percosso  da  Poseidon  enosigeo.^  Quando  poi  lo 
straniero  aveva  scosso  dal  capo  lo  stupore  delle  torbide  ebbrezze,  tro- 
vava nel  marsupio  l'abbominio  della  desolazione.  Dietro  la  capricciosa 
voluttà,  che  galoppava  innanzi,  divorando  la  via,  seguiva  tosto  l'orrido 
pentimento. 

{Continua)  Guido  Porzio. 


i  Paus.,  II,  2,  5;  STOb.,  Fior:,  58;  Athen.,  XIII,  588  e,  Schol.  in  Aristoph. 
Lysistr.,  91. 

«  Strattis  ap.  Athen.,  XIII,  589  a,  Propert.,  2,  6,  2. 

3  Tralasciamo,  per  non  dilungarci  troppo,  le  altre  notizie  e  le  argute  risposte  della 
prostituta  (Athen.,  XII,  585  d)  e  i  suoi  ragionari  con  Euripide  (Machon  ap.  Athen., 
XIII,  582  c-d)  e  l'effigie  della  donna  impressa  sopra  le  monete  (Eckhel,  Doct.  num.  vet., 
pars.  I,  V.  Ili,  p.  240),  etc.  etc. 

*  [Heraclid.  Pont.]  de  rep.  pub.  V  Corinth.  in  /7/G.,  II,  p.  213. 

6  Dei  terremoti,  che  devastavano  le  terre  corinzie,  è  cenno  in  Macrob.,  Saturn.^ 
II,  6;  Serv.,  comm,  in  Virg.,  Aen.,  Ili,  84;  Procop.,  stor.  seg.,  cap.  20. 


e^ 


noli!,  pÉni  ME,  IMonl  lemoni 


Intorno  all'opera  storica  di  Pasquale  Villari.^ 

Circa  diciassette  anni  or  sono,  allorché  Pasquale  Villari  non  era,  come 
adesso,  l'annoso  vegliardo,  che  attende  stanco  l'ora  sua,  ma  si  trovava 
ancora  nel  pieno  dell'autorità  e  della  potenza  e  udiva  sotto  la  sua  casa  squittire 

da  torno 
i  pappagalli  lusingatori, 

un  giovane  oscuro, .  uscito  appena  da  uno  dei  maggiori  istituti  superiori  ita- 
liani, con  l'animo  pieno  di  febbrile  interessamento,  non  per  la  cattedra 
di  ginnasio  o  liceo  da  occupare,  ma  per  tutte  le  idee  che  egli  aveva  apprese, 
che  aveva  meditate,  o  che  invano  aveva  ricercate  e  sperato  di  attingere,  det- 
tava sull'uomo,  universalmente  considerato  quale  il  principe  della  storiografia 
italiana,  un  breve  studio  critico,  non  precisamente  un'apologia.  Quel  giovane, 
che  troppo  intimi  rapporti  conserva  con  l'autore  di  questi  righi,  aveva  il 
torto  di  credere  che  in  questo  basso  mondo  le  idee  dovessero,  agli  occhi 
degli  uomini,  serbare  il  valore  che  reca  il  loro  contenuto  medesimo  e  non  già 
quello  che  loro  conferiscono  i  riguardi  mondani  ;  quell'  ingenuo  aveva  il  torto 
di  pensare  che  la  repubblica  delle  lettere  in  Italia  fosse  qualcosa  di  somi- 
gliante, poniamo,  alla  repubblica  filosofica  hegeliana,  di  cui  egli  allora  an- 
siosamente leggeva,  con  la  sua  destra  e  con  la  sua  sinistra,  coi  discepoli 
sempre  vigili,  sempre  animati  dal  fuoco  sacro,  pronti  a  battersi  al  primo 
richiamo  dell'Idea.  Egli  credeva  in  tutte  queste  cose,  e  altre  moltissime 
restavano  ancora  a  lui  ignote.  Ragione  per  cui  accadde  che  quel  suo  scritto, 
giovanile  di  diciassette  anni  or  sona  non  dovesse  mai  essergli  perdonato... 
Dietro  quello  studio  critico,  e  quale  suo  precedente,  non  v'erano  allora 
n  sostanza  che  radi  cenni  iconoclasti,  contenuti  specialmente  nei  primi  scritti 


»  P.  Villari,  L'Italia^  la  civiltà,  Milano,  Hoepli,  1916,  pp.  XXXIII-45I.  Questa  «Nota»  £a 
scritta  nell'ottobre  scorso.  La  riproduco  tal  quale.  P.  Villari  è  morto  il  7  dicembre  1917  (G,  B.). 


78  Note,  questioni  storiche ^  ecc. 


di  un  uomo,  che  ci  fu  per  anni,  veramente  Maestro,  e  che  ora  è  dileguato 
troppo  lungi  da  se  stesso  e  da  noi,  voglio  dire  Benedetto  Croce.  Da  quegli 
accenni  e  dalle  dottrine,  che  li  ispiravano,  pigliava  infatti  le  mosse  lo  studio 
in  parola.  Solo  più  tardi  dovevano,  intorno  all'opera  di  Pasquale  Villari, 
fiorire  altri  studi  critici,  forse  meno  completi,  certo  taluno  più  vivacemente 
demolitore.*  Or  bene,  io  scorrendo  ora  il  volume,  nel  quale  la  benemerita 
casa  Hoepli,  nell'imminenza  del  90»  compleanno  di  Pasquale  Villari,  ch'è 
ricorso  proprio  in  questi  giorni,  volle  raccogliere  sistematicamente,  secondo 
l'ordine  cronologico  dei  fatti  narrati,  il  meglio  del  pensiero  storico  di  lui,  e 
riguardando  di  nuovo,  dopo  gran  tempo,  quelle  mie  pagine  morte,  trovo 
che  al  puro  lume  della  logica  ben  poco  avrei  da  mutare  all'obliato  giudizio. 
Esso  si  riassume  in  due  parole,  nelle  quali  io  voglio  qui  deliberatamente 
confinarlo:  le  vedute  teoriche  e  metodiche  sulla  storia  del  Villari  essere 
deboli  o  fallaci  ;  la  sua  intelligenza  dei  fatti  storici,  superficiale,  incerta,  o 
artificiosa.  Eppure  —  questo  è  ciò  che  adesso  voglio  mettere  in  rilievo  —, 
se  quel  giudizio,  entro  i  suoi  precisi  limiti,  era  esatto;  se  esattamente  giu- 
dicata ne  riesciva  l'opera  storica  del  V.,  ove  la  si  confronti  al  tipo  ideale 
di  storico,  che  il  critico  dovea  proporsi  alla  mente,  la  raffigurazione  comples- 
siva, che  ne  discendeva,  deve  dirsi  non  completamente  verace  perchè  he 
teneva  conto  del  valor  relativo  dell'opera  del  V.,  nel  tempo  in  cui  essa  si 
svolse,  e  perchè  trascurava  gli  elementi  imponderabili,  e  tendenziali,  che  in 
quell'opera  sono  pure  cosi  numerosi  e  così  interessanti.  In  altre  parole,  quella 
raffigurazione  diceva  il  vero,  ma  non  la  verità  in  tutta  quella  compiutezza, 
che  solo  la  fa  veramente  tale;  onde  essa  potrebbe  paragonarsi  a  una  foto- 
grafia che  renda  solo  alcuni  tratti  della  persona  a  noi  cara,  ma  tutti  gli 
altri  o  l'insieme  di  quel  volto,  per  sempre  rapito  alla  nostra  vista  sensibile, 
sia  stata  impotente  a  riprodurre.  Siffatta  completazione  e  correzione  critica  è 
l'unica  cosa  che  io  voglio  ritentare  nel  corso  delle  poche  pagine  che  seguono. 


Pasquale  Villari  visse  e  scrisse  in  quel  cinquantennio  della  nostra  storia 
nazionale,  in  cui,  per  l'opera  di  |:alune  avverse  circostanze,  non  riuscì  possibile 
il  fiorire  di  una  grande  storiografìa.  La  storiografia  del  nostro  Risorgimento 
—  buona  sotto  parecchi  aspetti,  deficiente  in  molti  altri  —  accennava  ad 
evolvere  a  forme  superiori,  allorché  fu  come  sorpresa  e  paralizzata  nel  suo 
sviluppo  ideale.  A  tale  effetto  contribuì  in  primo  luogo  la  reazione  d'indole 
affatto  politica  seguita  a  quell'età  eroica.  Le  generazioni,  che  vennero  dopo 
il  compimento  della  nostra  unità  nazionale,  furono  come  prese  da  un  senso 
profondo  di  reazione  e  di  scetticismo  verso  il  passato.  Si  era  troppo  batta- 
gliato, troppo  discorso  e  cantato  di  patria;  si  era  fatta  troppa  politica.  Re- 
sultato n'  era  stata  l' unità  nazionale,   ma  ànphe  il  trionfo  e  l'avvento  al 


«  Cito  per  tutti  i^  brillante  studio  critico  di  Giuliano  il  sofista  [Gius.  Prkzzolini]  sul 
Leonardo  dell'aprile  1905  e  l'altro,  in  apparenza  più  posato,  di  G.  Gentile,  Pasquale  ViUaH,  in 
Critica,  1908,  pp.  349  sgg. 


Note^  questioni  storiche^  ecc,  79 


proscenio  della  nostra  storia  di  una  classe  sociale,  cupida,  ingorda,  senza 
scrupoli,  talora  volgare,  o  che  tale  agli  ideologhi  appariva,  la  quale  aveva 
confiscato,  e  andava  confiscando,  a  proprio  vantaggio  tutta  l'eredità  di  storia, 
che  le  stava  dietro.  No:  l'esercizio  della  vita  pubblica  non  valeva  né  una 
messa,  né  una  diuturna  sollecitudine.  Meglio  occuparsi  di  altro,  di  cose  più 
utili  o  più  dilettevoli,  o  affatto  remote  dalle  contaminazioni  della  politica! 
Cosi  le  nuove  generazioni  crebbero  apolitiche  fin  nel  profondo  della  coscienza. 
Ora  una  storiografia,  vuotata  dalla  passione  politica,  non  può  essere  che 
fredda  e  inintelligente  curiosità  erudita,  priva  della  favilla  della  passione. 
Che  solo  la  vita  è  capace  di  infondervi. 

In  pari  tempo  scompariva  dalia  mentalità  degli  studiosi  nostri  quel  senso 
filosofico,  quell'amor  dello  speculare  sui  fatti  e  sulle  idee,  che  era  stato 
tanta  parte  della  passione  dei  nostri  giovani  del  Risorgimento,  e  che  fu,  fra 
l'altro,  il  lievito  della  grande  storiografia  della  prima  metà  del  secolo  XIX 
in  Francia  e  in  Germania.  Storia  non  è  soltanto  l'accertamento  e  la  ripro- 
duzione del  fatto;  é  il  fatto  illuminato  da  un'aureola  di  idee,  è  il  fatto 
trasfigurato  in  segno  di  un'idèa;  è  il  fatto  collocato  nei  suoi  rapporti  di 
causalità  e  di  dipendenza;  è  il  fatto  o  tutta  una  serie  di  fatti  considerati 
dall'alto,  sub  specie  aeternitatis.  Per  ciò  la  mentalità  filosofica  è  elemento, 
non  di  lusso,  ma  necessario,  indispensàbile  alla  storia. 

Insieme  con  l'abito  filosofico  spariva  dalla  mentalità  storica  italiana  quello 
che  potrebbe  dirsi  il  senso  artistico,  che  non  è,  come  volgarmente  si  é  cre- 
duto, qualcosa  di  posticcio,  ma  fa  tutt'uno  con  l'essenza  della  storiografia. 
Esso  consiste  infatti  nell'arte  di  risuscitare  il  passato  col  suo  grande  dramma, 
con  i  suoi  contrasti,  con  i  suoi  minuti  particolari,  con  i  suoi  sfondi,  con  i  suoi 
personaggi  viventi  e  operanti,  senza  di  che  non  può  neanche  esistere  la  pos- 
sibilità dell'idea  o  della  realtà  della  storia. 

Orbene,  mentre  questa  crisi  si  svolgeva  negli  animi  delle  nostre  giovani 
generazioni,  discendeva  dal  nord  il  così  detto  metodo  storico-critico  tedesco, 
o,  meglio,  quel  tanto  di  metodo  tedesco,  che  veniva  esportato  e  fanatica- 
mente accolto  in  Italia,  quale  merce  preziosa.  Questo  pseudo  metodo  storico 
conquistava  di  botto  le  Università  e  gli  istituti  superiori  italiani;  imponeva 
il  suo  giogo  all'indirizzo  degli  studii  storici,  onde,  appena  i  primi  neofiti 
ebbero  occupato  i  posti  officiali  piìl  elevatf  della  coltura,  le  sorti  della  storio- 
grafia italiana  furono  decise.  Gli  altri,  i  concorrenti,  gli  aspiranti,  gli  arrivisti 
non  si  studiarono  che  di  conformarsi  a  quel  rhodello,  non  cercarono  che  di 
adattarsi  a  quel  letto  di  Procuste,  incoronarsi,  come  di  lauro,  di  quella 
corona  di  spine,  e  tutti  gareggiare  per  imporre  altrui  una  servitù  troppe  volte 
incresciosa  ed  opprimente. 

Tra  questo  indirizzo  di  spiriti  e  di  tendenze  culturali  si  svolse  l'opero- 
sità storica  del  Viliari.  E  fu  opera  inconsapevolmente  ribelle.  Discepolo  di 
Francesco  De  Sanctis,  egli  non  potè  mai  far  getto  degli  insegnamenti  e  delle 
aspirazioni  del  maestro.  Per  lui,  come  pel  Maestro,  narrar  di  storia  era  com- 
piere un  grande  processo  spirituale,  era  lavorar  con  delle  idee  e  sulle  idee 
Q.   meglio,  lavorare  sui  fattL   in  quanto  generatori  d'idee  e  segno  d^idee* 


8o  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


D'altro  canto,  forte  della  conquista  d'una  cattedra  superiore,  occupata  in- 
nanzi il  tempo,  nel  quale  quella  cattedra  a  lui  sarebbe  stata  sicuramente 
negata,  egli  potè  svolgere  il  suo  indirizzo  di  studi  al  coperto  di  qualun- 
que materiale  preoccupazione.  Fu  perciò  un  erudito  modesto,  .un  debole 
erudito,  anzi  ;  non  fu  alfatto  un  erudito  alla  tedesca,  non  un  discutitore  di 
testi  o  di  documenti,  non  un  esumatore  o  un  collezionista  o  un  coUaziona- 
tore;  ma  tutte  queste  deficienze  gli  furono  perdonate,  o,  in  grazia  dell'alta 
posizione  ufficiale,  non  furono  in  lui  volute  scorgere.  Del  resto  egli  si  occu- 
pava di  problemi  storici  ideali  :  del  problema  delle  origini  del  Comune  di 
Firenze,  del  fenomeno  Savonarola,  del  fenomeno  Machiavelli. 

Per  altro  —  e  fu  suo  merito  insigne,  che  risalta  in  modo  singolare  in 
queste  pagine,  dove,  a  dispetto  dell'  imperizia  del  compilatore,  ci  è  concesso 
avere  sott'occhio,  di  un  solo  sguardo,  molti  pezzi  principali  dell'opera  sua 
—  per  il  V.,  storia  non  fu  soltanto  trattazione  di  singoli  fatti  politici.  In  u» 
periodo  di  cieco  e  ringhioso  specialismo,  quest'uomo  s'occupò  anche  di  pro- 
blemi filosofici,  studiò  l'opera  di  grandi  sociologi.  In  tempi,  in  cui  il  divorzio 
fra  storia  politica  e, storia  dell'arte  si  faceva  profondissimo,  egli  s'occupò 
di  critica  d'arte  e  di  critica  letteraria.  Discorse  infine  largamente  di  problemi 
politici  e  sociali  contemporanei,  cercando  di  illuminare  il  presente  col  ricordo 
e  con  la  luce  del  passato. 

Tutte  queste  trattazioni  (è  indispensabile  dissimularlo.?),  prese  una  per 
una,  singolarme7ite,  presentano  difetti  organici:  al  confronto  del  Machiavelli  ^\ 
Francesco  de  Sanctis,  che  tuttavia  ne  rimane  il  modello  ideale,  il  Machiavelli 
del  V.  è  cosa  mediocre,  incerta,  annebbiata.  La  sua  famosa  discussione  sulla 
natura  della  storia  —  scienza  o  arte  —  manca  di  precisione  e  di  profondità  ; 
le  sue  spiegazioni  sulle  origini  dei  Comuni  sono  affatto  esteriori  ;  nei  suoi  due 
grossi  volumi  la  personalità  di  Girolamo  Savonarola  non  è  bene  spiegata.  Ma 
su  ciò  io  non  voglio  antipaticamente  indugiare.  Voglio  invece  dire  che,  consi- 
derata come  si  può  adesso,  nel  suo  insieme,  dall'alto,  quell'opera  reca  ih  sé 
medesinia  tendenze  ideali,  veramente  preziose;  è  come  l'ultimo  grande  fiotto 
di  un  fiume  superbo,  che  si  smarrisce  tra  scogliere  infeste  e  sotto  un  cielo 
grigio.  Debbo  dire  di  più  :  quello  storico,  che,  senza  saperlo  è,  in  mezzo  al 
suo  mondo,  un  eretico  ;  quello  storico,  che  non  ebbe  mai  il  coraggio  di  fare, 
e  contrapporla  a  tanti  altri,  la  teoria  del  proprio  lavoro  ;  questo  desailctisiano, 
che  fiorisce  e  attinge  gli  estremi  culmini  degli  onori  in  un  tempo  e  in  un 
luogo,  riél  quale  il  suo  inimitabile  maestro  veniva  rovesciato  nella  polvere,. 
è  anche  un  precursore  inconsapevole. 

L'opera  del  V.,  considerata  attentamente  e  giudicata  con  criteri  severi, 
varrà  quello  che  vale;  ma  da  essa  è  nata  quella  così  detta  Collezione  Vii- 
lari,  che  sola  ha  reso  possibile  parecchie  delle  produzioni  migliori  dell'ultimo 
decennio.  Ma  da  quell'insegnamento —  solo  da  esso!  —  sono  potuti  uscire 
studiosi  di  storia  della  tempra  di  Gaetano  Salvemini,  Gennaro  Mondaini, 
Romolo  Caggese,  Nicolò  Rodolico  (per  citare  questi  soli),  che  in  altri  magi- 
Steri  sarebbero  stati  soffocati  in  sul  nascere,  come  altri  di  non  minor  valore  lo 
furono.  E  chi  di  noi  potrebbe  negare  che  alla  linea  ideale  di  quelle  tradizioni 
si  ricolleghi  oggi  l'indirizzo  propugnato  dalla  Nuova  Rivista  Storica? 


Note,  questioni  storiche,  ecc,  8i 


Gli  uomini  non  valg^ono  solo  per  quello  che  in  concreto  producono,  ma 
altresì  per  quello  che  essi  —  consapevoli  o  meno  —  accennano  ;  talora,  per 
quello  che  finiscono,  renitenti,  col  fare.  Le  mistiche  visioni  di  Giovanna  d'Arco 
creano  l'unità  della  Francia;  l'ignoto  uccisore  dell'insolente  francese  dei 
Vespri  siciliani  suscita  parecchi  secoli  di  nuova  storia  italiana  ;  l'errore  di 
Paolo  Toscanelli  e  di  Cristoforo  Colombo  dona  un  nuovo  mondo  all'umanità; 
gl'innominati  eroi  della  Rivoluzione  fanno  la  gloria  del  primo  e  del  secondo 
Impero.  Analoga  è  la  situazione  dell'opera  di  P.  Villari  nella  storia  della 
coltura  italiana.  Noi  possiamo  rilevarla  e  misurarla  oggi  assai  più  che  ieri,  e 

chi  ieri  giudicò  severamente,  allorché  severamente  giudicare  costituiva  una 

ingenuità,  è  oggi  il  meglio  adatto  a  comprendere  benevolmente,  nell'istante 
in  cui  la  benevolenza  è  solo  un  atto  di  sana  e  di  onesta  coscienza. 

C.  B. 


^  ^  è  ^ 


Una  storia  del  Belgio.^ 

Molti  studiosi  si  soh  posti,  nel  corso  del  secalo  ^scorso  e  nei  comincia- 
menti  del  presente,  più  o  meno  nettamente,  il  problema  della  storia  del 
Belgio.  Esiste  o  non  esiste  una  storia  del  Belgio?  Si  sono  avute  risposte  atte 
a  soddisfare  tutti  i  gusti,  e  tutte  le  tendenze  storiche:  si  sono  fatte  molte 
confusioni  tra  storia  ed  elementi  storici  ;  si  è  affermato  che  una  storia  del 
Belgio  esiste,  ma  che  essa  s'è  iniziata  soltanto  con  il  i33o  ;  e,  in  opposto 
senso,  si  è  anche  affermato  che  esiste  una  storia  del  Belgio,  che  risale  alle 
più  remote  origini.  Ancora  recentemente,  coh  parecchia  confusione,  Jules 
Destrée  scriveva  :  «  Sarebbe  cosa  eccessiva  parlare  di  una  storia  del  Belgio 
«  nel  medesimo  senso  che  di  una  storia  di  Francia  o  di  una  storia  d' Inghil- 
«  terra.  Il  nostro  passato  non  ha  ifnitàl  I  nostri  annali  somigliano  piuttosto 
«  a  quelli  dell'  Italia,  che  sono  costituiti  da  evoluzioni  separate  :  come  in  quella 
<  penisola  si  trovano  una  Repubblica  di  Venezia,  gli  Stati  Pontifici,  il  Regno 
«  di  Napoli  e  diversi  altri  principati,  cosi  esisterono  nel  Belgio  le  Contee  di 
«  Fiandra,  di  Hainaut,  i  Marchesati  di  Anversa  e  di  Namur,  il  Principato  di 
«Liegi,  ecc.  ».2  Queste  parole  del  Destrée  non  risolvono  nulla;  confondono, 
anzi,  la  storia  con  i  fenomeni  storici  di  unità  e  di  pluralità.  Non  esiste  forse 
una  storia  d' Italia,  perché  sino  al  1860  l' Italia  poteva  dirsi  mera  espressione 
geografica?  La  storia  é  una  cosa,  e  i  fenomeni  storici  sono  un'altra.  Non  esiste 
una  storia  unitaria  e  una  storia  multipla:  c'è  la  storia,  la  quale  può  essere 
rappresentazione  di  fenomeni  unitarii  o  di  fenomeni  diversi.  Compito  della 


»  Mario  Tortonesk:  Storia  del  Belgio,  Genova,  Libreria  Editrice  Moderna,  1917  (in-8*, 
pp.  XVI 11-260). 

'  Cfr.  Jules  Destrée  :  //  Principio  delle  nazionalità  e  il  Belgio  (n.  3  degli  Opuscoli  della 
n  Giovine  £wro/a»),  Catania,  Battiate,  1916,  p.  19. 

6  —  Nuova  Rivista  Storica. 


82  Note»  questioni  storiche y  ecc. 


storia  d'Italia  è  rappresentare,  nei  suoi  molteplici  aspetti,  nel  complesso  della 
sua  vita,  della  sua  evoluzione  e  così  via,  i  fenomeni  varii  verificatisi,  nel  corso 
dei  tempi,  entro  quei  limiti  geografici  che  dall'  Italia  prendono  il  nome.  Ma 
una  storia  d' Italia  esisteva  anche  prima  che  la  nazione  avesse  raggiunta 
l'unità  nazionale,  così  come  esiste  una  storia  del  Belgio,  non  dal  1830,  ma  dai 
tempi  di  Roma.  Quando  l'unità  di  una  nazione  è  politicamente  raggiunta, 
non  ne  deriva  un  mutamento  della  storia  (la  quale  muta  e  progredisce,  sì,  ma 
col  mutare  e  progredire  della  scienza)  :  ne  deriva  un  mutamento  negli  ele- 
menti che  danno  vita  e  permettono  alla  storia  di  essere. 

La  questione  è  tanto  semplice  e  di  così  meridiana  evidenza,  che  potrebbe 
sembrare  ozioso  anche  il  solo  prospettarla,  se  non  abbondassero  ancora  in 
Italia  certi  storici,  i  quali  sarebbero  capaci  d'oppormi,  ad  esempio,  che,  se 
l'Italia  nel  passato  non  ebbe  un  organismo  unitario,  ebbe  tuttavia  quasi 
costantemente  aspirazioni  unitarie,  tali  da  giustificare  una  storia  sua  come 
rappresentazione*  di  nazionalità,  tanto  più  che  la  popolazione  delle  antiche 
repubbliche,  dei  vecchi  regni,  ducati  e  granducati  rappresentavano  già  di  per 
se  stesse  un'  unità  etnografica.  Il  Belgio,  invece  (seguiterebbero  ad  oppormi 
cotesti  storici)  mostrò,  non  solo  e  sempre,  uno  scarso  senso  unitario,  ma  non 
ebbe  mai,  né  ha  ancora,  una  popolazione  etnograficamente  unitaria.  Il  che 
non  distrugge  affatto  il  concetto  da  me  accennato;  perchè  —  a  parte  la 
molto  discutibile  affermazione  di  una  costante  tendenza  unitaria  manife- 
statasi nella  nostra  penisola  —  ragionare  nel  modo  sopra  indicato  è  seguitare 
a  confondere  un  singolo  fenomeno  storico  con  la  storia.  Lo  storico  può  assu- 
mersi r  impegno  di  dimostrare  che  il  processo  dialettico  dello  sviluppo  del- 
l' Italia  ha  per  pernio  un  concetto  d' unità  ;  ma  la  storia  non  ha  davvero  vita 
da  simil  fatto.  Né  maggior  valore  ha,  nel  suo  fondo,  il  criterio  etnografico: 
se  avesse  valore,  non  sarebbe  possibile,  ad  esempio,  una  storia  dell' Austria- 
Ungheria,  poiché  questa  nazione  è  un  vero  caos  etnografico.  Ma,  se  anche 
il  criterio  etnografico  avesse  il  valore  che  gli  attribuisce  il  semplicismo  di 
molti  democratici  italiani  e  stranieri,  ciò  non  escluderebbe  l'esistenza  di  una 
vera  e  propria  storia  del  Belgio,  ma  potrebbe  soltanto  negare  l'esistenza  d'una 
nazionalità,  belga.  Per  nostra  fortuna,  però,  il  concetto  di  nazionalità  non  è 
un  puro  concetto  etnografico  e  linguistico  :  mai,  forse,  quanto  per  il  Belgio, 
é  viva  ancora  la  lapidaria  definizione  di  Renan  :  <  Ce  qui  constitue  une  nation, 
ce  n'est  pas  de  parler  la  mème  langue  ou  d'appartenir  au  méme  g^oupe  etno- 
graphique  ;  e* est  (Vavoir  fait  ensemble  de  grandes  choses  dans  le  passe  et  de 
vouloir  en  fair  e  encore  dans  Vavenir  ». 

A  parte  tutto,  poi,  e  a  parte  anche  il  fatto  che  i  Belgi  sono  i  soli  in 
Europa  che  non  abbiano  cambiato  nome  fin  dai  tempi  storici, ^  la  più  bella 
prova  che  esiste  una  storia  del  Belgio  é  stata  data  dall'ottima  Histoire  de 
Belgique  di  Henry  Pirenne,*  vero  monumento,  elevato  dall'illustre  storico 
a  gloria  della  propria  patria. 


»  Questo  fatto  è  riconosciuto  anclie  dal  Destréb  {Op.  cit.,  p.  19):  «...i  Belgi  sono  i  soli  in 
Europa,  i  quali  non  abbiano  cambiato  nome  fino  dai  tempi  storici,  e  questo  particolare  è  di  tal 
natura  da  far  presumere  una  certa  continuità  storica,  malgrado  lo  sbocconcellamento  feudale». 

*  Bruxelles,  Lamertin,  1902  e  segg.  (ancora  in  corso  di  pubblicazione). 


Note^  questioni  storiche,  ecc.  83 


È  naturale  che,  dopo  quanto  sopra  ho  detto,  salutassi  con  vivo  piacere 
l'apparire  di  quella  Storia  del  Belgio,  che  mi  porge  l'argomento  per  questa 
«  Nota  »,  e  che  si  deve  alle  fatiche  di  Mario  Tortonese,  un  giovane  studioso 
nostro  che  con  un  suo  primo  lavoro  aveva  destato  buone  speranze. ^  Mi  sembrava 
bello  che  un  giovine  rompesse  l'andazzo  consuetudinario,  che  imponeva  da 
lungo  tempo  agli  storici  nostri  un  àmbito  di  studii  puramente  italiani,  e 
affrontasse,  memore  della  nostra  gloriosa  tradizione  storiografica,  un  argomento 
straniero  di  non  lieve  difficoltà,  quale  è  appunto  quello  di  una  storia  del  Belgio. 
Fatica  tanto  più  lodevole,  in  quanto  la  sventura  del  Belgio  ha  suscitato  vuote, 
se  pur  commosse,  divagazioni,  ma  ha  prodotto  ben  poco  di  serio  e  di  vera- 
mente utile  a  far  conoscere  il  piccolo  Stato  nella  sua  storia  e  nella  sua  vita. 

Le  mie  buone  disposizioni,  però,  e  la  mia  attesa  sono  state  assai  deluse 
e  per  la  (come  dire?)  leggerezza,  con  la  quale  il  Tortonese  ha  svolto  il  suo 
lavoro,  e  per  la  superficialità  che  in  esso  si  nota  e,  soprattutto,  per  la  man- 
canza di  serie  e  adeguate  preparazione  e  conoscenza  dell'argomento.  L'A. 
dichiara  nella  prefazione  di  ritenere  «  opportuno  tessere  brevemente  la  storia 
del  Belgio,  per  offrire  alle  persone  colte  in  una  rapida  sintesi  le  vicende 
di  codesto  nobile  popolo,  e  spiegarne  il  dualismo  etnico  e  \'  unità  politica  ». 
E  ancora  dichiara  :  «  Questi  modesti  cènni  [la  sua  storia,  cioè]  vogliono  essere 
una  volgarizzazione  dei  precipui  avvenimenti  belgi  ;  ne  valuto  io  per  il  primo 
le  manchevolezze,  che  troppe  volte  essi  si  appagano  degli  elementi  mecca- 
nici, esteriori  della  vita  belga,  pur  lumeggiando  quelle  essenziali  caratteri- 
stiche del  Belgio  che  bastano  a  mostrarcene  il  ritmo  dello  spirito  e  della 
civiltà  ». 

L'A.,  dunque,  non  ha  avuto  intenzione  di  far  opera  originale,  di  darci 
una  sua  rappresentazione  storica  della  vita  belga  traverso  i  secoli  :  ha  inteso 
soltanto  dare  alle  persone  colte  uua  sintesi  della  storia  del  Belgio,  compiere 
opera  di  divulgazione  e  di  volgarizzazione.  Intendimenti  in  apparenza  modesti, 
ma  tutt'altro  che  privi  di  difficoltà,  quando  si  voglia  far  cosa  diligente  e 
fedelmente  costringere  nel  breve  giro  di  tapide  pagine  la  complessa  storia 
di  tutto  un  popolo.  Tanto  più  che  i  propositi  manifestati  dall'A.  mostrano 
implicitamente  che,  pur  facendo  opera  di  volgarizzazione,  egli  intendeva  fare 
anche  e  specialmente  opera  storica  nel  pieno  senso  della  parola.  Che  signifìca 
—  del  resto  —  «  volgarizzazione  »  ?  Volgarizzare  è  indubbiamente  cosa  assai 
più  difficile  dello  scrivere  piccole  o  grosse  monografie  erudite.  Queste  possono 
appagarsi  di  sciorinare  tutti  gli  elementi  possibili  dell'argomento  impreso  a 
trattare,  mentre  «  volgarizzare  »  significa  rendere  altrui  facile  tma  materia  che 
completamente  si  domina,  anche  se  non  si  è  preso  contatto  con  tutti  i  suoi 
materiali  eruditi.  In  qual  modo  il  Tortonese  ha  realizzato  i  suoi  propositi? 


*  Cfr.  la  mia  recensione  all'opera  dello  stesso' M.  Tortonese,  La  politica  ecclesiastica  di 
Carlo  Emanuele  III  nella  soppressione  della  Nunziatura  e  verso  i  Gesuiti  (Firenze,  Libreria 
della  Voce,  1912),  apparsa  ne  La  Nuova  Cultura,  a.  I  (i9i3)>  fase.  3. 


84  Note^  questioni  storiche^  ecc. 


Basta  scorrere  T  indice  della  Storia  per  accorgerci  che  l'A.  ha  obbedito 
a  procedimenti  puramente  scolastici.  Nel  dividere  in  capitolili  suo  volume, 
l'A.  non  ha  avuto  presente  il  dialettico  sviluppo  interno  del  popolo  belga, 
ma  la  pura  apparenza  del  fatto  esterno.  Le  sue  divisioni,  in  altre  parole,  non 
obbediscono  ad  una  necessità  storica^  non  segnano,  cioè,  le  varie  fasi  del- 
l'evoluzione intima,  culturale  e  politica,  del  popolo  belga;  ma  obbediscono 
ad  un  criterio  cronologico,  ad  un  puro  criterio  scolastico,  intesa  la  parola  nel 
senso  di  riferimento  a  quegli  scandalosi  manuali,  sui  quali  fino  a  non  molto 
tempo  a  dietro  (e  ancora  ai  dì  nostri  !)  s' insegnava  la  storia  nelle  scuole.  Si 
capisce  che  da  questo  procedimento  puramente  meccanico  venga  a  soffrire, 
non  solo  l'esterna  architettura  dell'opera,  ma  anche  larhiarezza  comprensiva 
dei  varii  fatti  storici.  Per  questo,  il  volume  del  Tortonese  non  è  una  storia, 
sia  pure  divulgaltiva,  del  popolo  Belga;  ma  una  cronologia  della  storia  di 
qbesto  pòpolo... 

Si  capisce,  dopo  ciò,  come  l'A.  non  si  preoccupi  di  comprendere  e  di 
far  comprendere  al  lettore  l'intimo  ritmo  della  storia  del  popolo  belga. 
Egli  s'accontenta  di  stendere  il  racconto  dei  fatti,  senza  minimamente  pensare 
ad  indagarne  le  origini  e  le  conseguenze.  Dimentica  di  scrivere  una  storia  del 
Belgio  ad  uso  delle  «  persone  colte  »  (tale  abbiam  visto  essere  stato  il  proposito 
dell'A.),  per  abbandonarsi  ad  esemplificazioni  o  definizioni,  puerili  ormai  anche 
per  un  giovinetto.  Dichiara  che  anche  il  Belgio  subì  lo  sminuzzamento  feudale. 
Qual'è  la  persona  mediocremente  colta  che  non  sappia  cosa  sia  cotesto  smi- 
nuzzamento? L'A.  opina,  evidentemente,  che  s'abbia  spiegarlo,  e  soggiunge  : 
«  Se  la  Fiandra  si  mantenne  compatta,  la  Lotaringia  invece  si  spezzettò  in 
«varie  signorie,  rette  dal  principe,  o  duca,  o  conte  che  n'aveva  il  dominio,, 
«  e  che  dettava  leggi,  imponeva  taglie  e  tributi,  rendeva  giustizia,  chiamava 
«  valvassori  e  sudditi  a  raccolta  nelle  terre  private,  concludeva  paci  e  alleanze 
«  per  proprio  conto,  e  produzione  e  commercio  inceppava  con  restrizioni  arbi- 
«trarie  e  monopoli.  La  nobiltà  germanica  e  quella  latina,  ormai  affratellate 
«dalla  comunanza  degli  Interessi,  si  adagiarono  negli  ordini  feudali,  appar- 
*  tandosi  dalla  plebe  e  costituendo  quella  particolare  società,  della  quale  furono 
«  elementi  preziosi  la  cavalleria  e  la  cortesia  »  (p.  23).  E  potrei  citare  tanti 
e  tanti  altri  tratti  identici  o  quasi,  a  dimostrazione  dell'alto  concetto  che  l'A. 
mostra  d'avere  delle  «  persone  colte  »,  cui  la  sua  storia  è  diretta  •  me  ne 
dispenso  per  brevità  e  per  evitar  noia  a  chi  mi  legge.* 

Per  converso,  se  abbondano  coteste  divagazioni  è  definizioni  inutili,  man- 
cano, sempre  o  quasi  sempre,  le  cose  veramente  utili  alla  intelligenza  dello 
svolgersi  degli  avvenimenti  storici  belgi.  Eccone  alcuni  esempi.  Nella  prefazione 
alla  sua  storia  l'A.  scrive:  «  ...forse  Henry  Pirenne  nella  sua  pregevole  opera, 
La  Nation  Belge^  andò  troppo  oltre  nel  voler  dimostrare  l'esistenza  d'un'anima 
belga  sin  dai  tempi  del  dominio  borgognone»  (p.  XIII).  Dopo  una  simile,  sia 
pur  vaga,  affermazione,  il  lettore  s'attende  che  nel  capitolo  dedicato  ai  duchi 


»  Non  voglio,  però,  defraudare  il  lettore  di  un'amenità  che  si  legge  a  p.  173:  «Odiosi  ai 
Belgi  parvero  sovra  tutti,  i  balzelli  sul  macinato  e  sulle  carni  macellate,  cioè  sul  pane  e  sulla 
carne ». 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  85 


di  Borgogna  l'A.  discuta  se  il  Pirenne  andò  troppo  oltre  nel  dimostrare  l'esi- 
stenza d' un'anima  belga,  o  se  pure  interpretò  esattamente  la  realtà  storica. 
Vana  attesa!  L'A.  ha  completamente  dimenticato  non  solo  il  proprio  dubbio, 
ma  anche  il  problema  della  realtà  o  meno  di  qu.est'anima  belga  dell'epoca  bor- 
gognona.  Egli  regala  al  lettore  un  albero  genealogico  della  casa  di  Borgogna, 
e  in  otto  paginette  si  sbriga  d'ogni  cosa,  con  una  filza  di  nomi  e  di  date.  La 
figura  di  Carlo  il  Temerario,  il  duca  ch'ebbe  più  Jimpida  la  visione  dell'unità 
belga,  l'uomo  che  —  come  lapidariamente  cantò  Émile  Verhaeren  — 

Avant  de  s'écrouler,  comme  un  pan  de  montagne, 
Avait,  quand  méme,  à  coups  de  volente,  bàti 
Entra  la  Franca  ardente  et  la  rude  AUemagne, 
Jusques  à  fleur  da  sol,  notre  pays,  1 

la  figura  di  Carlo  il  Temerario,  dico,  è  relegata  in  una  rapida  paginetta,  e 
dell'opera  sua  non  appare  che  il  prospetto  cronologico,  e  perciò  esterno.  Il 
lettore,  che  non  conosca  l'opera  del  Pirenne  e  che,  sopratutto,  ignori  le 
pp.  157  e  segg.  della  sua  Histoire  de  la  Belgique  (le  ha  lette  il  Tortonese 
e  le  ha  ben  meditate?)  rimane  contrariato  verso  l'A.,  che  ha  sollevato  un 
dubbio  e  non  l'ha  né  risolto,  né  ha  posto  elementi  sufficienti  a  risolverlo. 

Altrove,  narrando  la  storia  del  Belgio  sotto  il  dominio  spagnuolo,  ed 
esponendo  1^  vicende  della  rivolta  dei  «  Gueux  »,  l'A.  trova  modo,,  ad  esempio, 
di  regalare  al  lettore  una  nota  per  ricordargli  che  «Felice  Cavallotti  alle 
vicende  dei  Gueux  ispirò  il  suo  dramma  storico,  I pezzenti  »  (p.  100)  ;  ma  ben 
si  guarda  dal  penetrare  le  cause  vere  dell'epica  rivolta,  ben  si  guarda  dal 
prospettarne  le  orìgini  eie  conseguenze  profonde.  Anche  qui  la  meccanicità 
dell'esterno  fatto,  la  cronologia  dell'avvenimento  preoccupa  l'A.,  che  d'altro 
non  si  cura,  o  sa  curarsi.  Invano  si  cerca  una  rappresentazione  degli  eroici 
avvenimenti,  invano  si  attende  che  l'A.  sappia  ravvisare,  nell'  intimo  degli 
uomini  che  capeggiano  la  rivolta,  la  chiara  visione  d' un'anima  belga  già 
inconsciamente  formata,  viva  e  reale.  Pallida  e  sparuta  appare  nelle  sue 
pagine  la  figura  gigantesca  di  Guglielmo  d'Orange,  il  Taciturno,  cui  piat- 
tamente e  senza  rilievo  spirituale  d'opposizione  fa  riscontro  quella  sangui- 
naria e  atroce  del  duca  d'Alba.  Invano  il  lettore  cerca  d'aver  chiara  l'idea 
del  dramma,  che  nasce  dall'  urto  della  volontà  spagnuola,  che  vuol  dire  tiran- 
nia, e  della  volontà  belga,  che  significa  libertà. 

Altrettanto  si  deve  dire  delle  brevissime  pagine  dedicate  alla  storia  del 
Belgio  durante  la  Rivoluzione  francese,  di  quelle  dedicate  al  periodo  del- 
l' unione  con  l'Olanda,  e  di  quelle  che  dovrebbero  lumeggiare  il  risorgimento 
e  la  conquista  dell'indipendenza.  C'è  sempre  una  meccanica,  più  o  meno 
chiara,  esposizione  del  fatto  storico;  non  è  mai  possibile  trovare  una  com- 
pressione di  esso.  Eppure  la  storia  non  è  esposizione,  ma  rappresentazione, 
e  perciò  comprensione  del  fatto  storico.  Quando,  ad  eàempio,  l'A.  si  ostina 
per  parecchie  pagine  a  narrare  l'urto  dei  partiti  nel  Belgio  indipendente,  e 


»  Cfr.   ÉMiLE   Verhabrks,  Poèmesiég^endaires  de  diandre   et  de   ^rabant,   Paris,   Société 
Littéraire  de  Franca,  1916,  p.  40. 


86  Note,  questioni  storiche,  eoe. 


Io  narra  sulla  cronaca  degli  avvenimenti,  elencando  i  vari  attriti  tra  clericali 
e  liberali,  senza  preoccuparsi  di  penetrare  il  fondo  delle  ideologie  di  questi 
partiti,  farà  della  cronaca,  esporrà  dei  fatti,  ma  non  farà  mai  della  storia. 
Liberalismo  e  clericalismo  non  barino  in  Belgio  il  significato  politico  che 
hanno  da  noi  :  sono  etichette,  sotto  le  quali  si  nascondono  partiti  prettamente 
economici,  che  pongono  al  fondo  delle  loro  lotte,  costanteinente,  una  con- 
quista o  una  conservazione  di  carattere  economico.  Così  pure  il  T.  tratta  la 
questione  linguistica,. che  tanta  parte  ha  nella  vita  politica  belga,  alla  pura 
stregua  del  fatto  eisterno,  della  data,  in  cui  un'adunanza  di  fiamminghi  si  è 
raccolta,  o  in  cui  è  loro  stata  fatta  una  concessione.  Ne  deriva  che  l' impor- 
tanza fondamentale  della  questione  sfugge  al  lettore  che  non  abbia  una  pre- 
cisa conoscenza  della  vita  belga.  Pure,  non  era  per  l'A.  difficile  far  cosa  com- 
piuta e  penetrativa  :  bastava  avesse  riprodotto  alcuni  dati  statistici  e  li  avesse 
discussi  con  chiarezza.  Avrebbe,  allora,  chiarito  al  lettore  la  necessità  del 
bilinguismo  per  un  popolò  che  conta  il  41,47  "/,  d'individui  parlanti  il  solo 
francese,  e  il  41,01  »/•  di  parlanti  il  solo  fiammingo;  avrebbe  mostrato  che 
la  fortuna  delle  lettere  francesi  in  Fiandra  era  determinata,  non  soltanto  da 
simpatie  culturali  e  politiche  (intese  come  tendenza  democratica),  ma  anche 
dall'esistenza  di  un  nucleo  di  673.554  abitanti  che  parlavano  il  fiammingo  e  il 
francese,  contro  un  nucleo  di  6.251  abitanti  che  parlavano  il  fiammingo  e  il  te- 
desco. La  quale  ultima  cifra,  tra  parentesi,  sta  a  dimostrare  la  follia  di  quei  fiam- 
minghi, che  gridavan  per  le  piazze  :  «  Madre  Germania  !  »,  giungendo  ad  in- 
vocare la  loro  annessione  ad  essa.  Ma  l'A.  di  tutto  questo  si  è  dimenticato. 
Così  come  si  è  dimenticato  —  nel  tracciare  la  storia  di  un  popolo  la  cui 
politica  internazionale,  dal  giorno  che  ebbe  l'indipendenza,  fu  di  stretta  neutra- 
lità e  tale  doveva  essere  per  forza  e  virtù  d' internazionali  trattati  —  d' illu- 
minare il  lettore  sulla  precisa  portata  di  questa  neutralità,  sulle  sue  premesse 
e  sulle  sue  conseguenze.  Accenna  l'A.  al  famoso  trattato  dei  ventiquattro 
articoli,  ma  ben  si  guarda  di  studiarlo  e  di  discuterlo,  non  ostante  su  di  esso 
sia  basata  tutta  la  vita  politica  internazionale  del  Belgio  indipendente.  C'è 
da  sospettare  che  l'A.  conosca  solo  il  trattato  per  sentita  a  dire,  e  gli  siano 
sfuggite  tutte  le  discussioni  e  le  esegesi,  che  su  di  esso  sono  apparse  in 
non  lieve  numero  di  pubblicazioni,  dallo  scoppio  della  conflagrazione  europea 
in  poi.* 


Il  sospetto  sorge  spontaneo  perchè,  se  il  volume  del  Tortonese  non  brilla 
come  storia,  non  brilla  nemmeno  per  sicurezza  e  larghezza  d'informazione,  la 
quale  dovrebbe  essere  necessarissima  in  chi  pretende  far  opera  divulgativa  : 
è  égli  possibile  volgarizzare  ciò  che  non  si  conosce? 

L'A.  premette  alla  sua  storia  una  bibliografia,  dove,  ad  esempio,  a 
fianco  della  storia  del  Pirenne,  è  elencato  il  volume  di  Ezio  M.  Gray  :  //  Bel- 


*  Eppure,  ano  studioso  di  storia  belga,  se  può  ignorare  le  molte  pubblicazioni  occasionali 
apparse'  dopo  lo  scoppio  della  guerra,  deve  assolutamente  conoscere,  almeno  il  fondamentale 
volume  di  Edouard  De  Camps:  La  neutralità  de  la  Belgique  au  point  de  vue  historique,  di- 
piomatique,  juridique  et  politique,  Bruxelles,  1902. 


Note,  questioni  storiche^  ecc.  87 


gio  sotto  la  spada  tedesca  (edito  non  a  Milano,  come  è  sfuggitto  al  Tortonese, 
ma  a  Firenze)  :  il  che  dovrebbe  dire  che  la  bibliografìa  premessa  dall'A.  sia 
cosa  minutissima,  poiché,  a  fìanco  di  opere  scientifiche,  sono  citate  opere  occa- 
sionali o  di  mera  cronaca  contemporanea.  Né  men  per  sogno,  che  l'A.  dichiara 
di  elencare  «  soltanto  le  opere  principali  consultate  ».  Non  si  capisce  allora 
perchè  egli  abbia  posto  una  pagina  di  bibliografia,  quando  poi  le  opere 
elencate  sono  tutte  quante  citate  nel  testo,  con  rimandi  a  pie  di  pagina. 
Ma  il  criterio  delle  «  opere  principali  consultate  »,  come  prova  il  raccosta- 
mento  che  sopra  ho  fatto,  é  semplicimente  edificante,  e  vien  fatto  di  doman- 
dare se  l'A.  conosca  quella  Bibliographie  de  V  histoire  de  Belgique,  che  è  uno 
dei  volumi  della  più  volte  citata  Histoire  de  Belgique  di  Henry  Pirenne. 

Intanto,  per  dimostrare'  la  sua  sicurezza  d' informazione,  il  T.,  che  per 
parecchie  pagine  si  occupa  della  rivolta  dei  €  Gueux  »  e  del  Belgio  sotto 
Carlo  V  e  Filippo  II,  si  guarda  bene  dal  citare,  sia  pure  una  sol  volta,  quella 
Storia  dei  Paesi  Bassi  dello  Schiller,  che  é  sostanziale  per  la  intelligenza 
dell'epoca  ora  accennata  dèlia  storia  belga.  Né  egli  può  accampare  la  scusa 
di  non  conoscere  il  tedesco,  non  solo  perché  vedo  citati  i  volumi  del  Dahn, 
del  Prutz,  di  von  Betzold,  ecc.,  apparsi  nella  Storia  universale  illustrata 
deirOnken;  ma  anche  perchè,  se  ciò  fosse,  non  dovrebbe  ignorare  la  tra- 
duzione francese  dell'opera  dello  Schiller,  pubblicata  a  Bruxelles  sino  dal 
1820  o  22.  Altrove,  parlando  della  questione  fiamminga,  o,  meglio,  del  pro- 
blema linguistico  belga,  l'A.  cita  bensì  il  volume  dello  Hamelius  {Histoire 
politique  et  littéraire  du  mouvement  flamand^  Bruxelles,  1890);  ma  mostra 
d'ignorare  quello  del  Destrée  sulla  Wallonie  (Paris,  Messein,  1913),  impor- 
tantissimo esso  pure  sull'argomento  :  chiunque  abbia  qualche  pratica  di  cose 
bel'ghe  sa  benissimo  che,  mancando  la  questione  linguistica  (altrimenti  detta 
famminga- vallone)  d'  uno  studio  organico,  è  necessario  ricorrere,  oltre  che 
ai  varii  giornali  e  periodici,  ai  due  volumi  ora  citati.  Chi  sì  basa  soltanto 
sullo  Hamelius  corre  il  rischio  di  non  intendere  veramente  la  questione,  e 
di  riuscire  parziale. 

Se  però  'io  dovessi  qui  elencare  tutto  ciò  che  l'A.  ignora,  sarei  obbligato 
a  empire,  pagine  e  pagine  d'indicazioni  bibliografiche,  sarei  costretto  a 
stendere  una  bibliografìa  vera  e  propria  della  storia  del  Belgio  :  cosa  che 
non  può  rientrare  nei  ristretti  limiti,  in  cui  è  necessità  costringere  queste 
rapide  note.  Bastino,  perciò,  i  due  esempi  ora  citati.  M'accontenterò  di  ag- 
giungere solo  qualche  appunto,  per  segnalare  altre  defìcenze,  non  solamente 
bibliografìche.  Questa)  ad  esempio:  l'A.  introduce  nella  sua  storia  due  capitoli, 
uno  sulla  Fede^  arte  e  cultura  nel  Medio-Evo^  l'altro  sulla  Cultura  ed  arte 
nei  secoli  XVI  e  XVH,  Segno  che  ha  intuito  la  necessità  d' indagare,  non 
solo  il  puro  avvenimento  storico,  ma  anche  gli  elementi  culturali  del  Belgio  : 
una  storia  che  dimenticasse  le  manifestazioni  di  fede,  di  cultura  e  di  arte  non 
potrebbe  mai  essere  veramente  storia,  perchè  non  abbraccerebbe  nella  sua 
rappresentazione  tutti  gli  elementi  che  indicano  i  segni  evolutivi  della  vita  di 
una  nazione.  Ma  i  due  capitoli  ora  accennati  non  sono  dall'A.  collegati  con 
lo  sviluppo  dei  vari  avvenimenti  storici:  stanno  di  {)er  sé  soli,  come  morti 
tronchi,  elenco  puro  e  semplice  essi  pure   di   nomi  e  di  fatti.  Anche  in 


ho  No  fé,  quesHoni  storiche,  ecc. 


essi  si  rivela  la  solita  mancanza  d'informazione,*  unitamente  alla  più  impres- 
sionante superficialità.  D'altra  parte,  dopo  il  1880,  l'arte,  la  letteratura  e  la 
poesia  vengono  ad  assumere  nel  Belgio  una  vera  importanza  nazionale,  rial- 
zano il  tono  spirituale  della  vita^  rinnovano  e  nobilitano  l'ambiente.  Non  è 
possibile  tracciare  un  quadro  della  vita  belga  dell'epoca,  Senza  tener  conto 
di  esse,  e  il  lettore  logicamente  si  attende  che  il  Tortonese  —  dopo  avere 
scritto  i  due  capitoli  sopra  accennati  —  pensi  anche  a  scriverne  uno  intorno 
al  periodo  in  cui  letteratura  e  cultura  sono  floride  nel  Belgio,  come  mai  non 
lo  furono  pel  passato.  Attesa  vana  !  L'A.  se  ne  sbriga  in  fin  della  sua 
storia  con  sole  dodici  righe,  sufficenti,  però,  a  dimostrare  che  di  lettera- 
tura belga  egli  conosce  assai  poco.  Vi  trova  modo  di  dire  che  Georges  Ro- 
dembach  rappresentava -le  lettere  belghe  a  fianco  di  Camille  Lemonnier  e 
e  di  Edmond  Picard,  e  ricorda  il  Rodembach  come  autore  di  Bruges-la-morte, 
e  cioè  come  romanziere.  Subito  dopo  aggiunge  che  la  poesia  «  vantava 
nomi  di  Alberto  Giraud  »,  ecc.  ecc.  Ma  sa  l'autore  che  il  nome  del  Rodembach 
è  legato  soprattutto  alla  sua  opera  poetica,  e  che  poeta  rimane  sempre  anche 
nelle  sue  prose  ?  Ha  egli  mai  letto  un  rigo  di  Rodembach  ?  Ha  egli  mai 
saputo  che  in  Belgio,  contemporaneo  al  Rodembach,  al  Maeterlinck,  ai 
Verhaeren,  ecc.,  è  vissuto  anche  un  poeta  che.  si  chiamava  Charles  van 
Lerberghe,  che  ha  un  posto  di  prim'ordine.  nella  storia  della  poesia  belga, 
non  ostante  l'A.  non  lo  nomini  mai  ? 

A  quali  fonti  attinge  l'A.  le  sue  notizie  letterarie?  In  fóndo  alle  sue 
dodici  righe  c'è  un  richiamo  a  pie  pagina,  ove  si  legge  «  Remy  db  GoUr- 
mont:  La  Belgique  littéraire  ».  Per  edificazione  del  lettore  debbo  riprodurre 
alcune  delle  parole  con  le  quali  il  De  Gourmont  presenta  il  proprio  volu 
metto  (Paris,  Georges  Grès  &  C.*^,  1915,  in.  32®,  di  pp.  132):  «  Ce  petit  livre 
«  improvisé  avec  des  connaissances  pas  absolument  cotnplètes  du  sujet  porte  la 
«  date  de  sa  composition  presquea  chaque  page...  Je  l'aurais  voulu  plus  court. 
«  mais  j'aurais  dù  negliger  encore  plus  de  nonis  que  je  n'aifait  et  j'en  aurais 
«  eu  du  chagrin...  ».  Bastano  queste  parole  per  caratterizzare  la  brillante  im- 
provvisazione del  De  Gourmont,  che  per  la  sua  incompiutezza  (come  mo- 
strano le  parole  che  ho  sottolineate)  può  esser  utilmente  adoperata  soltanto 
da  chi  abbia  una  precisa  conoscenza  della  letteratura  belga  :  conoscenza  che 
il  Tortonese  non  ha  e  che  ha  mostrato  di  non  voler  possedere,  perchè  il 
libretto  stesso  del  De  Gourmont  gli  dava  un'  indicazione,  che  l' avrebbe 
posto  sulla  retta  via  di  proficue  letture.  A  p.  8  del  suo  volumetto,  infatti, 
il  De  Gourmont  rinvia  il  lettore  ad  un  volume  di  Albert  Heumann,  Le 
mouvement  littéraire  Belge  d' expression  frangaise  depuis  1880  (Paf  is,  Mer- 
cure  de  France,  19 13),  avvertendolo  che  in  questo  volume  è  contenuta  una 
«  bibHographie  très  sérieuse  »,  Ora,  se  il  Tortonese  si  fosse  data  la  pena  di 
leggere  il  volume  dello  Heumann  (lavoro  incompleto,  ma  di  grande  impor- 


•  Per  amor  di  brevità  non  sto  qui  a  segnalare  le  molte  opere,  che  l'A.  ignora  completamente 
e  nemmeno  ha  il  sospetto  che  esistano,  come,  per  non  dire  che  di  alcune  tra  le  più  recenti  : 
H.  Fikrens-Gevakrt,  La  renaissance  septentrionaìe  et  les  premières  tnaìtres  des  Flandres 
(Bruxelles,  1905)  ;  G.  Geffroy,  La  Belgique  (Paris,  s.  a.)  ;  L.  Hourticq,  Rubens  (Paris,  s.  a.); 
E.  FrombntiNj  Les  mattres  d'autre  fots,  Belgique 'HoUande  (Paris,  s.^  a.),  ecc.  ecc. 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  89 


tanza  critica  per  l'acutezza  di  molti  giudizi),  vi  avrebbe  trovato  citatq  a 
p.  39  l'ancor  buona  Histoire  des  Lettres  bélges  d'expressionfrangaise  (Bruxelles, 
1892,  voli.  2)  di  Francis  Nautet,  e  nella  pagina  seguente  avrebbe  trovata 
citati  i  lavori,  tutti  variamente  importanti,  di  Eugène  Gilbert  {Les  lettres 
frangaises  dans  la  Belgique  d'aujourà'  hui,  Paris,  Sansot,  1906),  di  Henri 
Liebrecht  {Histoire  de  la  Littérature  belge  d'expression  frangaise,  Bruxelles, 
Vanderbriden,  1910),  e  di  Hubert  Effer  {Beitràge  zur  Geschichte  der  fran- 
zòsischen  Literatur  in  Belgien,  Dusseldorf,  1909).  Alle  pp.  303-333,  poi, 
il  Tortonese  avrebbe  trovato  un'ampia  bibliografia,  non  completa,  ma  suffi- 
cente,  nella  prima  parte,  per  conoscere  i  più  importanti  lavori  critici  rela- 
tivi alla  letteratura  belga  contemporanea,  e  nella  seconda  parte  per  indicare 
le  letture  dei  singoli  scrittori ^ 

Il  nostro  A.,  però,  si  è  ben  guardato  dal  procurarsi  una  simile  cono- 
scenza, così  come  non  ha  pensato  (egli  che  s'era  occupato  dall'antica  arte 
fiamminga,  ignorando  persino  quanto  ne  Lcrisse  Ippolito  Taine  nel  i*^  tomo, 
3*  parte,  della  Philosophie  de  Vari)  che^dal  1830  in  poi  erano  magnificamente 
rifiorite  nel  Belgio  le  arti  figurative.  Ha  nominato  Camille  Lemonnier,  ma,  se 
veramente  conosce  l'opera  del  Lemonnier,  come  ma,'  ha  dimenticato  di  par- 
lare anche  degli  artisti  belgi,  quando  proprio  al  Lemonnier  si  deve  una 
insuperata  Histoire  des  beaux-arts  en  Belgique  {^830-1887),  che  ancor  si  può 
leggere  nella  seconda  edizione,  pubblicata  dal  Weissenbruch,  a  Bruxelles, 
nel  1887?  Eppure  i  nomi  di  Alfred  Stevens  e  di  Félicien  Rops,  di  Costantin 
Meunier  e  di  James  Ensor,  ecc.  ecc.  non  significano  soltanto  qualcosa  nella 
storia  dell'arte  belga,  ma  anche  in  quella  dell'arte  europea,  che  ogni  persona 
colta  conosce  e  deve  conoscere. 

Ma  pretendere  dal  Tortonese  ampiezza  d'informazione  e  solidità  di  cul- 
tura è  forse  troppo.  Egli  trova  modo,  ad  esempio,  di  citare  un  paio  di 
volte  VEgmont  di  Wolfango  Goethe,  e  lo  cita  sulla  rievocazione  fattane  da 
Paolo  Savj-Lopez  nelle  pp.  11-16  del  suo  opuscolo,  L'anima  del  Belgio  {M\- 
lano,  Treves,  1915,  n.  11  dei  Quaderni  della  guerra)...  Ora  io  posso  ammet- 
tere che  una  persona  colta  —  dato  il  caso  che  ignori  il  tedesco  —  non 
conosca  la  bella  traduzione  italiana  in  prosa  che  fu  pubblicata  a  Firenze 
dal  Le  Monnier,  nel  1853;  ma  non  posso,  ammettere  che  una  personar,  anche 
mediocremente  colta,  non  conosca  almeno  di  nome  la  traduzione  di  Giu- 
seppe Rota,  che  si  legge  in  fine  del  i»  voi.  del  Teatro  scelto  di  Wolfaugo 
Goethe;  recato  in  versi  italiani  da  G.  R.  (Milano,  Gnocchi,  1860,  voli.  2)  : 
chi  ha  letto  Carducci,  conosce  almeno  una  gustosa  recensione  di  questa 
traduzione,  e  1'  ha  letta  alle  pp.  197-200  del  voi.  V  delle  Opere.  Il  Tortonese, 
non  si  dà  pensiero  di  tutto  ciò... 


Il  nostro  A.  chiude  la  sua  storia  con  un   capitolo  intitolato  :  Nel  secolo 
ventesimo.  Il  lettóre  spera  di  trovare,  qui  almeno,  notizie  dirette,  sicure,  pre- 
cise. S'illude:  l'informatore  del  Tortonese  per  la  maggior  parte  del  capi 
tolo  è  Ezio  M.  Gray,  o  meglio  il  secondo  capitolo  del  volume  di  quest'ul- 
timo: //  Belgio  sotto  la  spada  tedesca.   Ci   sì  trova  dì   fronte  non  solo  alla 


90 


Note^  questioni  storiche,  ecc. 


volgarizzazione,  ma  spesso  anche  al  plagio  più  o  meno  larvato.  In  molti 
punti  del  volume  ho  scoperto  delle  parafrasi,  senza  richiamo  alle  fonti,  di 
passi  del  Pirenne  e  d'altri  ;  son  passato  e  passo  oltre,  perchè  in  quei  punti 
per  lo  meno  si  parafrasavano  opere  che  non  sono  di  divulgazione.  Debbo 
però  mostrare  al  lettore  come  il  Tortonese  si  serve  del  citato  capitolo  del 
Gray.  L'opera  di  quest'ultimo  è  citata  dal  nostro  autore  soltanto  in  fine 
all'a  capo,  che  va  dalla  riga  7*  alla  24*  della  p.  253.  Si  deve,  perciò,  supporre 
che  soltanto  quest'a  capo  h.  attinto  dal  Gray. 
Si  confrontino  invece  i  due  passi  seguenti: 


TORTONESE  (p.  255). 
Pieno  di  significato  fu,  nel  1908,  un 
articolo  ufficioso  dcWdi  Kolnische  Zeitung^ 
in  cui  si  proponeva  al  Belgio  l'adozione 
del  tedesco  come  lingua  ufficiale,  pro- 
mettendo in  compenso  la  cessione  del 
territorio  Morésnet-Neutre,  alla  frontiera 
belga-tedesca.  Era  una  baldanzosa  ipo- 
teca sull'avvenire,  contro  la  quale  prote- 
stò sdegnosamente  l' Indépéndance  Belge. 


Gray  (p.  52). 
Signifìcatissimo  fu  nel  1908  un  arti- 
colo ufficioso  della  Kolnische  Zeitung, 
in  cui  si  proponeva  al  Belgio  l'adozione 
del  tedesco  come  lingua  ufficiale,  pro- 
mettendo in  compenso  la  cessione  del 
territorio  Morésnet-Neutre  alla  frontiera 
belgo-tedesca.  V Indépéndance  Belge  pro- 
testò furiosamente.  Tale  progetto  era 
niente  altro  che  un'audace  ipoteca  sul- 
l'avvenire aperto  alle  mire  tedesche  dalla 
proposta  del  deputato  Coremans  (di  An- 
versa) di  rendere  obbligatoria  la  lingua 
fiamminga  nelle  scuole. 

Qui  il  Gray  non  è  citato,  e  il  plagio  è  evidente,  tanto  più    che  la  sop- 
pressione di  una  parte  dell'  ultimo  periodo  del  Gray  mostra   che  il    Torto 
nese  non  sa  plagiare  con  efficacia,  perchè  senza  questa  parte  del  periodo  la 
«  baldanzosa  ipoteca  »  o  l'«  audace  ipoteca  »  sull'avvenire  non  dice    nulla. 
Ancora  un  esempio,  tra  i  tanti,  prima  di  finire  : 


TORTONESE  (p..235). 
l'avvocato  Emilio  Vandervelde,  de- 
finito <  un  Robespierre  senza  Rousseau, 
su  cui  fossero  passati  cento  anni  di  espe- 
rienza parlamentare  » 

(p.  256) 
(sebbene  il  Vandervelde  nella  Na- 
tional Review  proclamasse  con  soddi- 
sfazione che  ormai  si  vedevano  gli  sforzi 
proletari  di  tutto  il  mondo  raggiungere  a 
poco  a  poco  il  bando  della  guerra  dalle 
società  civili,  e  che  ci  si  avvicinava  agli 
Stati  Uniti  d'Europa!)... 


Gray  (p.  34>. 

il  Vandervelde...,  «  un  Robespierre 

senza  Rousseau  »  —  qualcuno  disse  — 
e  sul  quale  fossero  passati  cento  anni  di 
esperienza  parlamentare»... 

(p.  35) 

il  Vandervelde  néiluNatlonal  Review 

candidamente  proclamava  ancora  che 
con  soddisfazione  si  vedevano  gli  sforzi 
proletari  di  tutto  il  mondo  raggiungere 
a  poco  a  poco  il  bando  della  guerra 
dalle  società  civili  e  che  «  ormai  ci  si  av- 
vicinava agli  Stati  Uniti  d' Europa  ». 


E  basta,  per  carità,  che  già  troppo  tempo  e  troppo  spazio  ho  occupato 
per  quest'opera  di  sedicente  storia  belga  :  con  simili  metodi  non  si  scrive  |a 
storia,  ma  solo  si  tradisce  la  buona  fede  dei  lettori. 

Gerolamo  Lazzeri. 


Note,  questioni  storiche^  ecc.  91 


Studi  italiani  di  storia  religiosa. 

È. raro  che  si  pubblichino  in  Italia  libri  di  storia  religiosa  o  di  studii 
patristici  :  libri,  dico,  che  abbiano  un  qualche  valore  scientifico,  perchè  non 
è  il  caso  di  parlare  di  opere  e  di  opuscoli  di  edificazione  o  di  apologetica 
più  o  meno  pueriji.  Perciò  ho  letto  con  vero  interesse  e  con  tutta  l'atten- 
zione possibile  il  libro  del  Ficarra  su  Girolamo'  e  la  sua  posizione  nella 
storia  della  coltura.  Il  Ficarra  ha  fatto  senza  dubbio  uno  studio  assai  accu- 
rato della  vasta  opera  ieronimiana  ;  ha  diviso  il  suo  libro  (il  solo  pubblicato 
finora)  in  due  parti,  e  studia  nella  prima  la  formazione  della  coltura,  nella 
seconda,  «il  pensiero  di  Girolamo».  Questa  seconda  parte  è  incompleta  è 
bisognerà  attendere  il  secondo  volume.  A  me  sembra  che  l'autore  sia  stato 
molto  più  felice  nell'esposizione  della  prima,  che  riguarda  i  varii  elementi 
della  coltura  di  Girolamo  e  l'ambiente  dove  essa  si  formò  :  le  scuole  dei 
retori,  i  classici,  lo  studio  dei  Padri,  i  viaggi,  ecc.  Ma  non  si  sa  per  qual 
ragione  in  questa  parte,  che  è  pura  analisi  storica  dell'ambiente  in  cui  Giro- 
lamo nacque  e  crebbe,  sia  capitato  in  ultimo  un  capitolo,  che  doveva  essere 
il  centro  di  tutta  l'opera  :  il  sesto,  «  L'anima  di  S.  Girolamo  »»  È  evidente 
che  all'autore  è  mancata  una  chiara  prospettiva  della  sua  stessa  opera,  la 
quale  è  cominciata  con  una  raccolta,  o  meglio  un  centone,  di  passi  geroni- 
miani,  che  si  è  andato  mano  mano  inquadrando  in  rubriche  più  o  meno 
scolastiche  s,  più  o  meno  schematiche,  le  quali  tradiscono  indubbiamente 
il  lavoro  di  un  principiante.  L'autore  ha  percorso  tutta  l'immensa  opera  di 
Girolamo,  traendone,  non  senza  fatica  ed  acume,  i  passi  più  caratteristici 
e  significativi,  ma  la  figura  dj  Girolamo  non  s'intravede  per  nulla,  almeno  in 
questo  primo  volume,  che  pur  contiene  il  capitolo  sull'anima  di  Girolamo. 

Due  sono,  indiscutibilmente,  le  attività  fondamentali  e  gli  aspetti  del 
pensiero  del  monaco  dalmata  :  il  traduttore  e  l'asceta  ;  anzi  si  può  dire  che 
tutta  l'importanza  di  Girolamo  è  nel  valore  che  possono  avere  i  suoi  studi 
biblico-orientali.  Girolamo,  più  che  un  omilata  ed  esegeta,  nel  senso  pro- 
prio della  parola,  più  che  scrittore  agiografico,  è  essenzialmente  traduttore. 
Ma  nell'illustrazione  di  questa  parte  appunto  il  Ficarra  è  deficiente:  egli  non 
conosce  le  lingue  d'Oriente,  e  meno  che  mai  la  moderna  esegesi;  altrimenti 
non  avrebbe  scritto  che  «  non  vi  ha  autore  che  ci  possa  istruire  più  a  fondo 
nella  critica  dei   libri  sacri,  quanto  le  opere  di  questo  padre  »  (p.  131),  né 

direbbe,  per  es.  :  «  S.  Girolamo,  come  tutti  i  grandi  genii »  (p.    106)  ; 

esagerazioni  che  si  spiegano  solo  in  un  principiante.  In  verità,  Girolamo 
non  ha  mai  cessato  di  essere  retore,  retore  nella  lingua  e  nell'anima;  e,  in 
quanto  al  suo  valore  come  esegeta,  esso  non  è  mica  molto  brillante  ;  baste- 
rebbe confrontare  i  suoi  lavori  critico-esegetici,  non  dico  con  i  moderni,  il 
che  sarebbe  ingiusto,  ma  con  qualcuno  degli  antichi,  per  es.,  coi  frammenti 
di  Teodoro  di  Mopsuesta.  IÌ  Ficarra  ignora  che  all'epoca  di  Girolamo  era 


*  A.  Ficarra,  La  posizione  di  S.  Girolamo  nella  storia  della  cultura,  voi.  I,  iii-8»  (pp.  VIÌI-216), 
Palermo,  R.  Sandron,  1916. 


92  Note,  questioni  storiche,  eco. 


impossibile  proporsi  il  vero  problema  storico-esegetico  della  formazione  degli 
scritti  biblici;  ma  il  merito  di  Girolamo,  consistette  innanzi  tutto  nell'aver 
capito,  a  differenza  di  molti  ecclesiasici,  che  il  fondamento  di  ogni  studio 
sulla  Bibbia  era  la  conoscenza,  quanto  più  profonda  possibile,  dell'ebraico  e 
del  caldaico. 

Uno  dei  capitoli,  singolarmente  imperfetto  ed  errato,  è  quello  sulle  «  Idee 
ascetiche  e  pedagogiche  in  S.  Girolamo»,  mentre  avrebbe  dovuto  essere 
uno  dei  più  importanti.  Lasciando  da  parte  le  idee  pedagogiche,  l'ascetismo 
di  Girolamo  è  interessantissimo  perchè  rivela  tutto  un  dramma  interiore, 
che  pochi  hanno  intravisto  ed  esaminato  scentificamente.  Girolamo  è  una 
delle  più  illustri  vittime  di  questo  dramma:  partito  in  battaglia  contro  la 
mondanità  e  contro  la  donna,  «  l'eterno  e  peggior  nemico  »,  come  s'esprime 
anche  un  hadith  musulmano,  questa  entrava  di  nuovo,  furtivamente,  a  riem- 
pirgli l'anima,  il  cuore  ^d  il  pensiero,  attraverso  la  pretesa  scuola  d'ese- 
gesi biblica,  in  casa  della  nobile  romana  Marcella.  Gran  parte  delle  lettere 
di  Girolamo  sono  indirizzate  alle  famose  vergini  Paola,  Eustochio,  Asella 
An«he  alcune  sue  traduzioni  ed  alcuni  trattati  esegetici  sono  dedicati,  non 
si  sa  per  quali  motivi  mistici  (se  non  vi  fosse  \ina  ragione  puramente 
umana),  alle  stesse  vergini.  Tipiche  senza  dubbio  e  caratteristiche,  dal  punto 
di  vista  scientifico,  sono  le  parole  della  lettera  ad  Asella  (^>.  45,7)  «Saluta 
Paulum  et  Eustochium:  velit,  nolit  mundus,  in  Chris to  meae  sunt...  »  kSubti- 
liter  fornicantur^,  avrebbe  detto  Agostino.  Il  Ficarra  si  appaga  di  citare 
una  pagina,  alquanto  barocca,  di  Amedeo  Thierry,  senza  indagare  più  in 
là.  Il  problema  del  resto  è  più  complesso  di  quello  che  non  abbia  visto 
il  Ficarra:  solo  un  grande  vescovo  dell'antichità,  Sinesio  di  Cirene,  ha 
trattato  del  celibato  ecclesiastico  nei  suoi  vari  termini,  chiamando  le  cose 
con  ì  loro  nomi,  ed  ispirandosi,  con  sicura  scienza,  al  vero  spirito  del  cri- 
stianesimo. Ma  una  storia  veramente  scientifica  dell'ascetismo,  nella  iUc. 
genesi  psicologica  e  storica,  nelle  sue  vere  motivazioni  ed  aberazioni,  è  ancora 
un  pium  desiderium,  anche  dopo  i  lavori  dello  Zockler,  del  Dott.  Leuba, 
del  Delacroix. 

Un  passo,  citato  dal  Ficarra  {Comment.  in  Ezechiel.,  Vili,  13),  avrebbe 
potuto  dar  luogo  ad  un'interessante  excursus  sul  carattere  sincretico  della 
figura  storica  del  Cristo.  Il  passo  riguarda  il  culto  di  Adone,  in  Palestina  e 
propriamente  a  Betlem,  del  quale  si  celebrava  la  nascita  miracolosa,  la  morte 
e  la  risurrezione,  con  strana,  e,  al  dire  di  Girolamo,  scandalosa  somiglianza 
colla  storia  di  Gesù,  mentre  è  questa  una  prova  in  più  che  la  leggenda  cri- 
stiana trova  nel  terreno  semitico  la  sua  preistoria,  e  che  gli  elementi,  che 
hanno  composto  la  figura  di  Gesù  nelle  sue  varie  fasi  (nascita  miracolosa 
da  una  vergine,  tentazione,  crocifissione  e  risurrezione),  si  ritrovano  già  nella 
leggenda  di  Sargani-Sar-ali,  di  Mosé,  di  Zaratustra,  e  financo  in  quella  di 
Romolo.  Ma,  nel  libro  del  F.,  Vexursus.  manca,  ed  è  un  peccato  perchè  gli 
stessi  studi  patristici  acquisterebbero  ben  altro  valore,  e  noi  saremmo  molto 
più  avanti  nella  conoscenza  scentifica  dei  fenomeni  religiosi,  se  fosse.o  intra- 
presi da  un  punto  di  vista  largamente  comparativo,  e  con  indispensabile 
preparazione  etnografica  ed  antropologica. 


Note,  questioni  storiche y  ecc.  93 


Un'ultima  osservazione.  In  un  libro  di  carattere  scientifico,  come  quello 
del  Ficarra,  dovrebbero  scomparire,  come  del  tutto  inutili,  le  tradizionali  .V 
maiuscole  dinanzi  ai  nomi  degli  scrittori  ecclesiastici  ;  non  si  comprede  allora 
perchè,  nominando  dei  santi  musulmani,  non  si  debbano  adoperare  anche, 
per  loro,  le  note  formule  abbreviate,  che  presso  di  noi  si  tradurrebbero  in 
<i  Abbia  Allah  pietà  di  luif^y  oppure  «  5m  lui  la  pacete. 

Il  «  profilo  »  del  Buonaiuti  su  Agostino  *  è  certo  il  meno  riuscito  di  tutti 
i  suoi  lavori  :  sembra  una  conferenza  di  carattere  generale  su  Agostino  ed  i  suoi 
tempi  ;  e  della  conferenza  ha  l'intonazione  e  lo  stile.  Vi  si  trova  un  po'  di  tutto  : 
la  vita  romana  del  secolo  IV,  il  possibile  incontro  di  Agostino  «  gomito  a 
3;omito  »,  dice  l'autore  (chi  sa  perchè  ?),  con  Girolamo  ;  un'esposizione,  {)er 
quanto  breve,  del  Manicheismo  ;  un'altra,  più  breve  ancora,  del  Donatismo  ; 
e  financo  un  accenno  agli  attacchi  dì  Verdun,  a  proposito  del  Babut.  La 
figura  d'Agostino  è  naufragata  nel  pelago  dei  fatti  storici  del  suo  secolo: 
la  sua  storia  intima  e  il  dramma  profondo,  iche  si  svolse  per  lunghi  anni 
nell'anima  sua,  appaiono  appena  nel  «profilo».  Questo  voleva  essere  appunto 
una  vigorosa  raffigurazione  o,  meglio,  rievocazione  della  nobilissima  perso- 
nalità di  Agostino:  un  ritratto  che  dall'analisi  vasta  e  paziente  àéWopus 
agostiniano,  e  dalla  molteplice  letteratura  dell'argomento,  facesse  risorgere, 
al  modo  di  cui  parla  Izchiel,  col  soffio  vivificatore  del  pensiero  e  con  Vefflatus 
dell'arte,  l'anima  grande  del  Vescovo  d'Ippona.  Il  Buonaiuti  ha  disseccato 
nell'ambiente  ciò  che  doveva  essere  l'unità  spirituale  d'Agostino,  illuden- 
dosi di  resuscitare  un'anima,  cercandone  le  vestigia  nel  mondo  esterno.  Pre- 
cisamente come  alouni  pretesi  storici  della  nostra  letteratura  hanno  cercato 
di  ricostruire  la  figura  di  Dante,  per  es.,  attraverso  i  documenti  dei  notai  di 
Firenze,  appassionandosi  al  problema,  eminentemente  spirituale,  di  sapere 
se  un  fico  dell'orto  di  Dante  fu  sradicato  o  no  per  pagare  un  certo  debito..., 
e  sei  Giullari,  quando  mangiavano,  facevano  molto  rumore...:  questioni,  come 
ognun  sa,  di  capitale  importanza... 

Non  mancano,  anche  in  un  libro  cosi  breve,  delle  sviste  e  qualche  apprez- 
zamento arbitrario.  Non  è  vero  che  i  Canones  ad  Galles^  attribuiti  al  Papa 
Damaso,  contengano  la  più  antica  formulazione  canonica  della  legge  celiba- 
taria  per  il  clero,  poiché  è  noto  che  fu  il  concilio  di  Elvira  (del  300)  in  Ispa- 
gna,  sotto  l'influenza  del  fanatico  Osio,  a  formulare  i  primi  canoni  relativi  al 
celibato.  Il  Buonaiuti  chiama  concezione  mistica  quella  che  è  alla  base  della 
grande  opera  di  Agostino  «  De  Civitate  Dei  »,  confondendo  la  concezione 
mistica  del  mondo  con  quella  religiosa^  che  è  propria  di  Agostino.  Non  è 
possibile,  si  capisce,  darne  qui  le-  prove,  ma  si  può  affermare  recisamente 
che  l'opera  De  Civitate  Dei  non  si  basa  affatto  su  di  una  concezione  mi- 
stica del  mondo.  Mistica  è  là  cosmologia,  diciamo  così,  sebbene  impro- 
priamente, dello  Pseudo-Dioriigi  Areopagita,  di  Bernardo,  di  Ugo  da  S.  Vit- 
tore, presso  i  Cristiani  ;  di  Sahrawardi  Maktul,  Di  Giami,  di  Hallàgi,  di 
Ibn  Arabi,   presso  i  Musulmani  ;  di  Moise  ben  Scemtob  (alcune  parti  dello 


E.  BoNAiUTi,  5.  Agostino,  Roma,  Fornjigginl,  «  Profili  »,  n,  44,  1917. 


94  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


Zohar),  presso  gli  Ebrei,  pejr  nominare  solo  alcuni  dei  grandi  mistici.  Ma  la 
concezione  di  Agostino  è  prettamente  religiosa.  Il  Buonaiuti  crede  che  «Ago- 
stino abbia  ricavato  dallo  spirito  del  Vangelo  una  filosofìa  della  storia,  di 
cui  può  essere  caduca  la  formulazione  verbale,  non  già  V  intima  essenza  » 
(p.  66).  Ciò  può  riuscire  ammissibile  in  un  «  Cursus  theologiae  dogmaticae 
triplex'»^  non  già  in  uno  studio,  che  ha  l'intenzione  di  essere  scientifico. 
Attendiamo  con  fiducia  gli  Studii  agostiniani  annunciati  dal   Buonaiuti, 

Ed  eccoci  ad  un  altro  lavoro  dello  stesso  autore  :  La  prima  coppia  umana 
nel  sistema  Manicheo  (estr.  dalla  Rivista  degli  Studi  orientali^  voi.  VII,  Roma). 
La  scoperta  dei  manoscritti  cinesi  di  Tun-huang  e  di  Turian  (Pelliot  e  Cha- 
vannes)  ha  rinnovato,  può  dirsi,  gli  studi  sul  Manicheismo.  L'autore,  dopo 
aver  accennato  all' importanza  dei  testi  cinesi  per  confermare  l'interpretazione 
di  alcuni  passi  importanti  degli  Ada  Archelai,  che  restanio  sempre  documento 
fondamentale  per  la  conoscenza  del  sistema  di  Mani,  studia  un  punto  impor- 
tante della  complicatissima  religione  manichea  :  la  formazione  della  prima 
coppia  umana.  Le  tradizioni  non  erano  concordi  :  Agostino,  gli  Scolii  di  Teo- 
doro Bar  Khoni,  e  lo  stesso  Fihtist  riferivano,  come  dottrina  di  Mani,  che  la 
prima  coppia  umana  era  nata  dal  rapporto  sessuale  del  Re  delle  tenebre  e 
sua  moglie,  o,  come  dice  il  Fihrist,  Adamo  ed  Eva  er^no  il  frutto  di  due 
successivi  rapporti  di  un  Arconte  maschio  con  Arconti  femmine.  Invece  il  trat- 
tato manicheo,  scoperto  dal  Pelliot  nel  1908  a  Tun-huang,  è  nettamente 
favorevole  alla  diversa  tradizione  riferita  negli  Ada  Archelai  e  toglie,  come 
dice  il  B.,  ogni  dubbio  sull'argomento.  Secondo  questo  testo,  la  prima  coppia 
umana  costituirebbe  l'antitesi  perfetta  del  sole  e  della  luna,  vascelli  della 
luce  purificata,  e  «  i  due  sessi  sono  i  demoniaci  veicoli  e  i  perversi  stru- 
menti, mediante  i  quali  il  re  delle  tenebre  riesce  a  tener  vincolata  nel  mondo 
la  luce,  sua  prigioniera  »  (p.  13). 

Qualche  osservazione  non  sarà  inutile.  Il  passo  di  Girolamo  {Contra 
Ruf.,  III,  22),  citato  dal  Buonaiuti  come  allusivo  ai  monaci  della  Nitria,  im 
bevuti  di  manicheismo,  non  contiene  alcuna  indicazione  precisa  («  inter  sancto- 
rum  choros  aspides  làtere  perspexi»).  L'antropologia  di  Mani,  con  tutti  gli 
scolii  di  'Teodoro  Bar  Khoni,  i  testi  di  Efrem  e  gli  scritti  cinesi,  rimane 
oscura  in  sé  e  come  campata  in  aria.  Ripeterò  ancora  una  volta:  non  credo 
che  il  metodo,  seguito  da  troppi  studiosi,  di  riferirsi  solo  ai  testi  ed  ai  docu- 
menti religiosi  per  interpretarli  e  spiegarli,  dia  molti  risultati.  Non  si  spie- 
gano gli  oscuri  motivi  della  manducazione  degli  aborti  nel  sistema  di  Mani, 
né  l'orrore  per  la  generazione  sessuale,  senza  ricorrere  necessariamente  ad 
un  ciclo  d' idee  molto  più  antico  ed  arcaico  :  al  ciclo  magico-totemico,  che  ha 
preceduto  di  gran  lunga  ogni  sistema  teologico.  Nel  Cristianesimo  nessun 
teologo  riuscirà  a  spiegar  mai  il  perché  dei  funerali  al  III,  VII,  XXX  giorno  e 
l' uso  delle  candele  nei  servizi  funebri  ;  come  nessun  rabbino  é  riuscito  a 
intendere  la  proibizione  delle  carni  suine  presso  gli  Ebrei,  come  nessuna 
teologia  potrebbe  spiegare  le  fantasiose  stravaganze  del  libro  di  Jeù  (scritti 
copti  del  ciclo  della  «  Pistis  Sophia  »)  e  le  meravigliose  costruzioni  del  Se- 
der Qoldstà  mandeo.  Solo  l'etnografia  e  lo  studio  accurato  delle  primitive  tra- 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  95 


dizioni  palestino-iraniche  potranno  spiegarci  molti  tratti  oscurissimi,  che  ri- 
mangono  ancora  come   massi    erratici  in   tutti    i   grandi    sistemi    religiosi. 

L'autore  di  quest'articolo  sul  pensiero  di  S.  Paolo*  ha  cercato  di  rile- 
vare la  dottrina  di  Paolo  di  fronte  alla  Chiesa  cristiana  nascente,  e  di  coglierne 
i  più  vivi  atteggiamenti  e  le  più  risolute  proteste  innanzi  la  formazione  del 
dommatismo  tradizionale  ecclesiastico.  Naturalmente  la  complessa  personalità 
di  Paolo  si  presta  a  molte  interpretazioni,  egualmente  unilaterali,  del  suo 
pensiero  e  dell'opera  sua,  sol  che  si  esageri,  col  solito  processo  dell'in- 
grandimento macroscopico,  questo  o  quel  passo  delle  sue  epistole,  così  ricche 
di  problemi  e  di  controversie.  Il  Geminiani  tiene  proprio  a  dimostrare  che 
la  dottrina  di  Paolo  è  in  aperta  opposizione  alla  Chiesa  nascente,  che  preten- 
deva quasi  monopolizzare  il  Cristianesimo,  con  la  pretesa  di  essere  1'  unica 
interprete  del  pensiero  di.  Gesù,  e  si  sforza  di  provare  (con  passi  tutt'altro 
che  probativi,  come  ad  es.  Ad  Galat.,  Ili,  i)  il  contrasto  stridente,  che  Paolo 
avrebbe  affermato,  tra  il  Vangelo  del  Cristo  e  la  Chiesa,  che  tendeva  ad  alte- 
rarlo. PaoJo  avrebbe  predicato  il  Vangelo  della  Verità,  cioè  che  le  anime 
formano  una  comunità  simbolica,  un  insieme  di  membra  egualmente  vivifi- 
cate dal  Cristo;  ed  inoltre  egli  avrebbe  posto  come  fondamento  della  fede 
nientemeno  che  «  la  libertà  dello  spirito  »!  «  La  Chiesa  irreggimenta,  ufficia- 
lizza ;  Paolo  invece  vede  dei  cristiani  dovunque  c'è  il  fervore  dell'  idea,  il 
fuoco  della  libertà,  dove  si  lavora  a  rompere  dei  vincoli,  a  liberare  delle 
coscienze»  (p.  53).  Ma  la  trasfigurazione  di  Paolo  non  è  finita  ;  ecco  un  altro 
passo  caratteristico  :  «  Ogni  uomo,  che  al  di  sopra  delle  cose  della  vita  sa 
porre  un  ideale,  eccolo  con  lui,  con  Paolo,  fuori  é  contro  la  Chiesa  per  af- 
fermare la  definitiva  liberazione  dello  spirito  umano  da  ogni  vincolo,  che 
avrebbe  potuto  farlo  prigioniero  della  terra,  nel  nome  di  Gesù  »  (p.  54).  Ecco 
Paolo  completamente  rammodernato  ed  interpretato  attraverso  le  aspirazioni 
religiose  aell'autore  !  Poiché  il  Geminiani  in  verità  non  sembra  che  abbia 
inteso  sul  serio  le  linee  reali  del  complesso  pensiero  paulino  ;  non  fa  un  cenno 
delle  controversie  recentissime  sulle  Epistole  (cfr.  Jkanmaire,  \\\Rev.  Hist.  des 
Religions,  1913,  e  M.  Goguel,  Cronologia  di  Paolo,  ivi,  1912,  pp.  338  segg.), 
e  si  vale  dei  testi  in  modo  affatto  impreciso  e  saltuario,  come  gli  era  indispen- 
sabile per  poter  dare  un  certo  qual  fondamento  alla  sua  «  tesi  »,  che  termina 
con  queste  notevoli  parole  :  «  Il  pensiero  pauliano  può  fornirci  il  modo  di 
ritrovare  ancora,  attraverso  i  libri  evangelici,  che  le  Chiese  ci  offrono,  il  puro 
Vangelo  del  Cristo»  (P..59).  Per  contro  tutti  gli  studiosi  di  esegesi  cristiana 
sanno  che  fu  proprio  Paolo  colui  che  trasformò  completamente  (cfr.  Loisy, 
L'Evang.  de  Jesus  et  l'Evang.  de  Paul,  in  Rev.  d'Hist.  et  de  Litt.  relig.^  1914) 
la  dottrina,  contenuta  neW Evangelium  Christi,  nell'altra  deW Eva7rgelium  de 
Christo  :  ciò  ch'è  divenuto  col  tempo  il  domma  fondamentale  del  Cristiane- 
simo, sino  a  fissarsi  nel  classico  simbolo  «  Quicumque  »  del  secolo  Vili». 

G.  Maliandi. 


>  A.  Geminiani,  Cristianesimo  e  Chiesa  nel  pensiero  di  S.  Paolo  (estr.  dal  Bollettino  della 
Società  Teosofica  Italiana,  marzo,  1917,  pp.  46-59). 


96  NotCy  questioni  storiche,  ecc. 


Problemi  della  guerra  e  del  dopo-guerra. 

Mentre,  nel  campo  letterario  e  storico,  si  va  combattendo  un'aspra  bat- 
taglia per  affrancare  la  nostra  cultura  da  tutto  quello  che  he  aveva  fatto 
un  feudo  della  Kultur^  merita  di  essere  segnalato  all'attenzione  dei  lettori 
della  N,  R.  S.  il  discorso  pronunciato  a  Torino,  all'inaugurazione  dell'anno 
accademico  1916-17  del  R.  Istituto  Superiore  di  Studi  Commerciali,  da  Giu- 
seppe Prato  :  Forze  economiche  e  forze  tnorcUì  ^^lla  restaurazione  post-bellica 
(in  Ri/orma  sociale,  dicembre  1916). 

Nell'imperversare  di  una  legislazione  di  guerra,  che  pretende  sovvertire 
i  canoni  più  elementari  della  scienza  economica  e  di  cui  ancora  non  si  può 
valutare  il  danno  non  lieve,  e,  di  più,  nella  visione  di  un'Italia,  in  cui  lo  Stato 
debba  diventar  tutto  e  l'attività  individuale  debba  essere  letteralmente  sof- 
focata dalla  regolamentazione  burocratica,  dà  un  vero  senso  di  conforto  la 
lettura  di  queste  pagine,  nelle  quali  alla  serenità  dello  studioso  ^  pari  la  chia- 
rezza dell'esposizione.  Il  contrasto  fra  i  due  principii,  in  lotta  nella  guerra  at- 
tuale :  quello  della  libertà  civile  ed  economica,  proprio  del  mondo  anglo-latino, 
e  l'altro,  incarnato  nella  enorme  macchina  statale  tedesca,  pur  nella  brevità 
del  discorso,  convince  del  gran  pericolo,  cui  andrebbe  incontro  il  nostro 
paese  se  il  sistema  tedesco  dovesse  ispirare  la  futura  vita  economica  della 
nazione.  Sarebbe  questa,  dice  giustamente  il  Prato,  la  più  grande  delle  vit- 
torie^ la  massima  delle  vendette  del  germanesimo  in  quanto  è  spirito  e  idea. 
Purtroppo,  non  soltanto  la  maniera  con  cui  oggi  si  svolge  l'attività  dello 
Statp,  ma  le  manifestazioni  di  quei  gruppi  politici,  che  più  godono  della  po- 
polarità, lasciano  temere  che  la  voce  della  scienza  debba  restare  inascoltata 
e  che  l'empirismo  dovrà  ancora  per  molto  tempo  ispirare  l'azione  dei  governi: 
danno,  questo,  incalcolabile  e  doloroso,  se  si  pensi  che  è  già  tanto  grande 
quello  recato  dalla  guerra,  e  che  potrebbe  essere  accettato  con  rassegna- 
zione soltanto  quale  prezzo  necessario  per  comprovare  a  tutti  la  inanità 
degli  sforzi  dei  politicanti  nel  sovrapporsi  alle  leggi  economiche. 

Quanto  sia  difficile,  ad  esempio,  lo  svolgimento  dell'attività  statale 
in  materia  economica,  e  come  possano  esserne  gravi  gli  effetti,  il  Prato  di- 
mostra in  un  altro  breve,  ma  interessante,  studio  sul  Nazionalismo  economico 
e  rincaro  del  capitale  (in  Giornale  de^li  Economisti,  dicembre  1916).  Deve, 
infatti,  giudicarsi  perniciosa  e  nociva  agl'interessi  della  nostra  economia  tutta 
quell'attività  statale,  che  per  esigenze  politiche  ostacola  l'affluire  del  capi- 
tale straniero,  necessario  a  sistemare  il  nostro  giovane  organismo,  con  prov- 
vedimenti, che  ci  fanno  tornare  ad  epoche  storiche  sorpassate  e  che  urtarlo 
con  lo  spirito  liberale  della  nostra  legislazione.  Constata,  ad  esempio,  il  P.  che 
proprio  da  quei  gruppi,  i  quali  vorrebbero  veder  finita  la  nostra  emigra- 
zione, mediante  una  politica  di  lavori  pubblici  grande  stile,  sono  (per  una  pe- 
ricolosa esaltazione  dello  spirito  di  nazionalismo)  più  insistentemente  re- 
clamate le  disposizioni  più  vessatorie  a  carico  del  capitale  straniero... 

Dinanzi  a  tali  difficoltà,  in  cui  necessariamente  viene  ad  urtare  l'esercizio 
dell'attività  politica  ed  economica  dello  Stato,  mi  pare  straordinaria  l'invo- 


Note,  questioni  storiche^  ecc.  97 

cazione,  che  ne  fa  Filippo  Carli  in  due  recenti  (e  per  altro  assai  interessanti  e 
suggestivi)  stuelli  :  Le  leggi  della  poj>olàzione  ed  il  problema  della  pace  (in  Ri- 
vista II.  di  Sociologia y  191 7,  fase.  \)  ^  La  guerra  e  la  civiltà  occidentale  (in 
Nuova  Antologia,  16  aprile  191 7). 

Che  lo  Stato  possa  favorire  lo  sviluppo  economico  del  paese  con  l'ap- 
plicazione di  quei  princìpi  di  libertà,  che  altrove  hanno  dato  così  buoni  frutti, 
è  cosa  che  riconosco  volentieri,  così  come  riconosco  che  qualsiasi  altro  in- 
dirizzo dovrà  necessariamente  promuovere  un  artificioso,  e  perciò  instabile, 
sviluppo  dell'economia  nazionale,  o  creare  situazioni  analoghe  a  quella  della 
Germania  nel  1914.  Ma  che  possa  esserci  uno  Stato,  il  quale  abbia  la  «  capa- 
cità di  disciplinare  le  correnti  .demografiche  »,  mediante  «un  potere  poli- 
tico il  quale  conosca  talmente  le  leggi  demografiche  ed  economiche,  ed 
abbia  un  così  squisito  senso  della  psicologia  sociale,  da  saper  temperare  nella 
giusta  misura  la  fede  nelle  possibilità  della  propria  nazione  »,  come  il  C.  dice 
nel  primo  studio,  è  cosa  che  può  rappresentare  un  bellissimo  desiderio,  ma 
nella  quale,  malgrado  la  migliore  buona  volontà,  io  non  trovo  la  forza  di 
credere.  Non  vede  il  Carli,  nell'esame  di  quelle  che  chiama  le  leggi  della 
popolazione,  che  si  tratta  di  leggi  naturali  tanto  complesse  che  mal  si  pre- 
stano a  subire  la  regola  di  un  potere  politico?  E  non  vede  egli,  nel  suo  secondo 
studio,  le  enormi  difficoltà,  che  dovrebbe  superare  «  un  Governo  »  per  cercare 
una  migliore  distribuzione  della  ricchezza,  una  distribuzione  «  più  conforme 
agl'interessi  nazionali  »?  Egli  parla  del  danno  della  concentrazione  di  redditi 
in  poche  mani.  Ma  quando  un  reddito  si  dirà  concentrato  f  Quale  dovrà 
essere  il  limite  minimo  di  conce ntrazioìie? 

Il  Carli  subordina  a  questa  ed  altre  condizioni  dello  stesso  valore  la 
salvezza  della  civiltà  occidentale,  altrimenti  minacciata  dal  fallimento  a  van- 
taggio di  altre  civiltà  e  di  altri  continenti.  Io  credo  che  egli  esageri  nel  suo 
pessimismo,  e  che  la  civiltà  occidentale  non  corra  veramente  un  rischio  così 
grave.  In  ogni  caso,  credo  che  essa  troverà  rimedi  efficaci  nella  reazione  na- 
turale che  deriverebbe  dal  pericolo.  Che,  se  dovessi  unicamente  sperare  nel- 
l'opera degli  Stati,  svolta  attraverso  poteri  politici^  tratti  a  sacrificare  il  prin- 
cipio dell&  libertà  individuale,  io,  me  lo  consenta  il  Carli,  andrei  anche  più 
in  là  di  lui,  e  alla  nostra  civiltà  canterei  senz'altro  il  De  profundis! 

Epicarmo  Corbino. 

Una  iniziativa  della  Scuola  papirologica  milanese. 

Torniamo,  come  già  promettemmo  (A.  i»,  fase.  3»,  pp.  538-59),  su  questo 
interessante  argomento. 

La  Scuola  papirologica  milanese  è  uno  degli  esémpi  più  significativi  di 
quello  che,  nei  nostri  Atenei,  possa  la  libera  iniziativa  degli  insegnanti,  allor- 
ché essi  non  si  lascino  vincolare  da  viete  regolamentazioni  o,  ciò  ch'è  peggio, 
non  si  lascino  addormentare   da  quella  Circe   incantatrice  ch'è  il  cosi  detto 

7  —  Nuova  Rivista  Storica. 


98  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


ordinariato.  Nel  1912,  un  insegnante  —  il  prof.  Aristide  Calderini  —  allora 
incaricato  di  letteratura  greca  —  con  l'aiuto  del  preside-rettore  dell'Acca- 
demia scientifico-milanese  —  il  compianto  Attilio  De  Marchi  —  e  di  qualche 
altro  studioso,  e  insieme  con  alcuni  giovani  studenti,  si  accinse  ^  leggere  e 
a  studiare  determinati  gruppi  di  papiri  editi  e  inediti  e  a  impratichirsi  di 
quel  difficile  materiale.  Cosi  nacque  là  Scuola  papirologica  milanese.  Dal  1912 
ad  oggi  la  scuola,  continuando  nell'opera  iniziata,  vide  affratellarsi  insieme 
nel  lavoro  maestri  e  scolari,  laureandi  e  laureati,  e,  se  ciò  può  aver  valore, 
ottenne,  nello  scorso  anno  scolastico,  il  riconoscimento  ufficiale  del  Mini- 
stero della  P.  I. 

Frutto  del  lavoro  comune,  uscirono  due  volumi  di  «  Studi  »  eruditi,  per 
cui  i  fondi  occorrenti  vennero  forniti  dalla  munificenza  di  singoli  privati, 
da  enti  commerciali,  da  amici  della  cultura  milanese.  Man  mano  però  che 
i  collaboratori  procedevano  nel  difficile  cammino,  avveniva  tra  essi  una  tal 
quale  specializzazione  del  lavoro.  Essi  si  ripartivano  lo  studio  dei  singoli  ar- 
gomenti, offerti  dai  papiri:  alcuni  studiavano  questioni  di  diritto,  altri  di 
economia,  altri  collazionavano  testi  poetici;  altri  testi  filosofici,  e  così  via: 
chi  ispirava  quello  studio  mirava  sopra  tutto  a  che  ciascuno  non  ripetesse, 
ma  completasse  il  lavoro  degli  altri.  In  pari  tempo,  essi  curavano  di  diffon- 
dere tra  il  gran  pubblico  l'interessamento  alle  Scoperte  e  ai  resultati  della 
papirologia,  e  parecchie  conferenze  in  proposito  erano  tenute  nei  circoli  mi- 
lanesi di  coltura:  il  Lyceum  femminile,  V Atene  e  Roma,  ecc. 

Tutto  ciò,  ripeto,  veniva  fatto,  senza  che  occorressero  regolamenti,  ri- 
forme universitarie,  diplomi  e  simili,  così  come  moltissime  altre  cose  potreb- 
bero farsi  nel  mondo  universitario  et  extra,  se  gli  Italiani  volessero  una 
buona  volta  convincersi  che  non  le  regolamentazioni,  astratte  creano  la  realtà, 
ma  è  invece  la  realtà  concreta  a  determinare,  talora,  il  bisogno  di  rego- 
lamenti, e  volessero  smettere  dal  vezzo  —  oggi  rincrudito  —  di  sognare  mille 
cose,  discutere  di  altre  mille  con  abbondanti  parole  in  circoli  ed  ih  accade- 
mie, per  poi  non  attuarne  nessuna. 

Oggi,  dicevo,  pervenuta  alla  sua  maturità,  la  Scuola  papirologica  milanese 
intende  stabilire  una  serie  continua  e,  in  certo  modo  originale,  di  pubbli- 
cazioni; intende  pubblicare  continuatamente  quelli  che  una  sua  circolare 
chiama  :  «  Testi  papiracei  »,  cioè  libretti  di  piccola  mole  e  di  jirezzo  tenue, 
in  cui  si  accolga  tutto  quanto  si  può  dire  intorno  a  un  determinato  gruppo 
di  papiri  opportunamente  trascelti  e  raccolti,  per  interessare  di  èssi,  non  solo 
gli  studiosi,  ma  anche  il  pubblico  colto.  Si  avrebbero  così,  in  questi  libretti, 
pubblicazioni  di  opere  poetiche,  drammatiche,  atti  privati,  documenti  della 
vita  antica,  preceduti  da  ampie  introduzioni  illustrative,  e  accompagnati  da 
osservazioni  complessive,  da  annotazioni,  indicazioni  bibliografiche  e,  ove  oc- 
corra, anche  da  lessici. 

Questa  è  forse  là  innovazione  maggiore,  che  la  scuola  si  propone.  Ma  a 
contribuire  alla  migliore  organizzazione  degli  studi  papirologici  in  Italia,  essa 
vorrebbe  anche  dare  regolare  continuità  alla  collezione  degli  <.  Studi  »,  i 
quali  dovrebbero  avere  un  carattere  più  severo  dei  «  Tesd  »  e  contenere 
testi  inediti,  memorie,  note  critiche,  repertori,  bibliografie,  ecc. 


Note^  questioni  storiche,  ecc.  99 


Per  runa  e  per  l'altra  impresa  la  Scuola  ha  calcolato  il  fabbisogno 
iniziale  in  circa  venti  mila  lire.  Per  questo  fondo  essa  si  è  rivolta  alla  mu- 
nificenza milanese,  e  chi  conosce  fino  a  che  punto  questa  sia  illuminata  e 
generosa  può  sicuramente  affermare  che  l'appello  non  resterà  vano.  Non  lo 
è  anzi  rimasto  :  la  pubblicazione  dei  primi  quindici  volumi  è  assicurata  ;  edi- 
trice ne  sarà  la  Casa  Bemporad  di  Firenze. 


Per  nostro  conto  non  possiamo  non  far  plauso  alla  iniziativa.  Non  ce 
ne  nascondiamo  le  enormi  difficoltà:  prima,  anzi  tutto,  quella  di  stringere 
intorno  a  chi  dirigerà  le  due  collezioni  una  schiera  di  studiosi,  che  non 
si  sciolga  coir  imbrunire  di  ogni  giorno  e  che  sia  tanto  volonterosa,  quanto 
provetta,  quanto  (come  l'economia  impone)  interamente  disinteressata;  poi 
l'altra,  di  poter  offrire,  veramente,  dei  testi  che  non  siano  frammenti  disutili, 
come  moltissima  parte  delle  collezioni  inglesi  e  tedesche,  al  quale  scopo  gli 
editori  non  dovranno  appagarsi  del  solo  materiale  papirologico,  ma  di  molto 
altro  materiale,  che  i  papiri  non  danno.  Non  ci  nascondiamo  neanche  il  pe- 
ricolo di  una  sopravalutazione  del  materiale  papirologico,  per  cui  qualunque 
frammento  dei  rifiuti  di  Oxyrynchus  o  del  Fajùm  può  rischiar  di  assurgere 
a  documento-principe  o  a  capolavoro  d'arte,  e  la  papirologia,  ch'è  solo  mezzo 
al  fine  superiore  della  storia,  dell'arte,  della  filosofia,  assumere  una  perico- 
losa finalità  (oltre  che  una  personalità)  propria,  come  di  tante  altre  cose 
nella  filologia  classica  e  nell'antiquaria  è  avvenuto. 

Ma  indubbiamente,  salvo  queste  riserve  e  queste  necessarie  preveggenze, 
e  salvo,  s' intende,  il  giudizio  concreto  alle  sue  prime  prove,  l'opera  deve 
riscuotere  tutto  il  nostro  plauso  anticipato.  Dirò  di  più  :  se  anche  l' idea  dei 
Testi  papiracei  fallisse  e  la  collezione  ideata  dovesse  limitarsi  all'ordinata,  in- 
telligente, continua  e  periodica  pubblicazione  degli  Studi,  la  Scuola  farebbe 
sempre  opera  meritoria,  giacché  l' unica  rivista  del  genere,  VArchiv  fiìr 
Payrusforschungen  del  Wilcken,  è  ormai,  forse  per  sempre,  interrotta.  Che 
l'Italia,  la  quale, fu  patria  dei  Petrettini  *e  dei  Peyron»  cioè  dei  fondatori 
della  papirologìa,  ne  assuma  idealmente  la  continuazione  non  può  essere  cosa 
estranea  al  nòstro  compiacimento. 

Ma,  giacché  sono  venuto  su  questo  soggetto,  é  necessario  che  io  chiuda 
con  un'osservazione  che  mi  pare  di  molto  rilievo.  Quale  fu,  in  fondo,  il  se- 
greto delle  grandi  imprese  e  dejle  grandi  collezioni  tedesche  nel  secolo  XIX  ? 
Fu  certamente  questo  :  che  non  soltanto  i  loro  ideatori  trovarono  subito  ben 
120  milioni  di  acquirenti  parlanti  una  lingua  unica,  ma  ch'essi  altresì  riuscirono 
a  internazionalizzarne  la  diffusione.  Ora  noi  italiani,  francesi  e  inglesi  non  po- 
tremo a  nessun  patto  sottrarci  al  monopolio  della  coltura  tedesca,  se  non 
smettiamo  l'idea  delle  collezioni  esclusivamente  nazionali.  In  questo  momento 
in  Italia,  in  Francia  e  in  Inghilterra,  si  stanno  facendo  per  lo  meno  tre  di- 
stinte collezioni  di  classici.  È  possibile  che  intraprese  cosi  frazionate  resistano 
ai  grandi  mezzi,  che  una  impresa  unica  tedesca  potrà  adottare  contro  di  esse? 
Nella  vita  industriale  moderna  il  grande  segreto  é  la  distribuzione  del  lavoro, 
quanto  alla  specie,  e  la  universalità  del  prodotto,  quanto  al  mercato.  La 
produzione  scientifica,   se  vuol  vivere,  non  può,   nei   rispetti  commerciali, 


loo  NoU^  questioni  storiche,  ecc. 


seguire  criteri  differenti.  Or  bene,  io  chiedo,  anche  a  proposito  dei  Testi  pa- 
piracei: —  Ha  la  Scuola  papirologica  milanese  preso  accordi,  prenderà  essa 
accordi,  con  la  scienza  francese,  e  specie  con  quella  inglese,  che  sul  terreno 
papirologie©  ha  un'  importanza  di  prim'ordine,  perchè  le  sue  speciali  pubbli- 
cazioni penetrino  altrove,  impegnandosi  viceversa  ad  accogliere  dal  di  fuori 
altre  speciali  pubblicazioni,  e  ciò  allo  scopo  ch'essa,  alla  dimane  della  pace, 
non  sia  spazzata  o  cacciata  in  un  angolo  oscuro  da  un  colpo  di  concorrenza 
tedesca,  che  vi  arrechi  merce  meno  buona,  ma  industrialmente  e  commer 
ciàlmente  assai  meglio  organizzata?  — . 

Ecco  un  problema,  un  grosso  problema!.....  Per  il  momento,  ripeto,  per  la 
sola  ragione  che  la  Scuola  ha  fatto,  e  non  ha  aspettato  autorizzazioni,  conferme 
o  ratifiche  ;  per  la  sola  ragione  che  ha  fatto,  e  non  perduto  il  suo  tempo  in  vane 
logomachie  o  in  vanitose  e  perniciose  competizioni,  essa  ha  diritto  alla  ri- 
conoscenza di  tutte  le  persone,  che  veramente  amano  la  nostra  coltura. 

C.  B. 


Un  processo  filologico-storiografico...* 

Una  vivace  polemica  filologico-storiografica  fu  dibattuta  in  parecchi  nu- 
meri di  un  grande  giornale  romano  (in  verità  assai  amico  delle  polemiche), 
dal  giugno  al  luglio  u.  s.,  ed  ha  avuto  un'eco  in  altri  minori  periodici  italiani 
e  perfino  in  taluno  dei  più,  famosi  giornali  francesi,  quali  l'antico  Journal  dea 
Débats.*  Essa  assunse  l'aspetto  di  un  processo  vero  e  proprio^  nel  quale  glt 
accusati  furono  Ettore  Romagnoli  e  Corrado  Batbagallo;  querelanti,  i  filologi 
della  scuola  fiorentina.  Di  questo  processo,  a  beneficio  dei  lettori  distratti,  io^ 

usurpando  per  poco  l'ufficio  di  redattore  giudiziario ,  mi  son  proposto  di  fare 

il  resoconto  sintetico,  ma  veridico.  Forse  gioverà  al  lettore,  a  formarsi  una  sua 
chiara  idea,  avere  sott'occhio  tutti  gli  elementi  deista  causa. 

U accusa  era  duplice:  si  imputava  ai  querelati  di  calunniare  di  tiepido 
patriottismo  o  peggio  i  filologi  e  gli  storiografi  della  scuola  fiorentina  e  di 
voler  rimettere  in  onore,  a  detrimento^  e  vergogna  della  cultura  italiana,  V 
dilettantismo,  la  superficialità,  la  leggerezza 

La  prima  accusa  cadde  subito  perchè  insussistente  :  gli  accusati  lealment 
dichiararono  di  non  aver  mai  pensato  o  scritto  la  brutta  cosa  a  carico,  dello 


•  Da  un  volume  di  prossima  pubblicazione:  Per  V italianità  della  coltura  nostra:  discussion 
•e  battaglici*:  scritti  di  C.  Barbagallo,  E.  Bignonk,  E.  Ciccotti,  G.  Fragcaroli,  ecc.  ecc. 

*  Un  interessante  riassunto  critico  della  polemica  e  dei  suoi  precedenti  ideali,  è  contenuto  nr 
numeri  del  i^  agosto  e  /*  settembre  del  Bulletin  périodique  de  la  presse   italienne,  edito  dall' Iti 
stitut  francais  di  Milano  per  opera  della  signora  Sofia  Ravasio.  Dopo  la  pubblicazione  di  quel  boi 
lettino,  i  soli  scritti  degni  dinota,  relativi  alla  polemica,  sono  stati  un  articolo  di  R.  Mondolfo. 
Per  l'autonomia  spirituale  nel  Giornale  d'Italia  del  /"  settembre  ;  due  di  Niter  (N.  Terzaghij. 
Pro  domo...  (a  proposito  di  recenti  polemiche)  su  II  Vomere  <fe/ 5  e  12  agosto;  due  di  C.  Baj 
BAGALLO,  Un  istante  critico  della  cultura  italiana/  in  Idea  democratica  dell'8  settembre  e  Gè 
manesimo  intellettuale  in  Popolo  d'Italia,  j/    ottobre;  uno  di  J.   Luchairb,  Scienza  tedesca 
scienza  italiana  e  francese,  in  Rivista  delle  Nazioni  latine,  /*  settembre  1917. 


Note,  questioni  storiche,  ecc. 


persona  (Girolamo  Vitelli),  a  cui  la  pretesa  calunnia  si  voleva  indirizzata.  Il 
processo  si  svolse  tutto  sulla  seconda  accusa  e  divenne  notevole  davvero  ed 
interessante,  perchè,  cessando  di  essere  quistione  di  persone,  assurse  a  quistione 
di  principii.  In  verità  stavano  di  fronte  a  contendere,  da  una  parte  i  filologi^ 
seguaci  di  un  metodo  critico  rigoroso  e  «  scientifico  »,  che,  tanto  per  intenderci, 
chiamereìno  di  stampo  tedesco,  e,  dall'altra,  i  fautori  di  un  metodo  meno  pe- 
dantesco e  rigido,  ma  tale  pur  sempre  che,  seìiza  nulla  detrarre  alla  serietà 
degli  intenti  e  dei  risultati,  potesse  meno  sentire  di  tanfo  accademico  e  meglio 
diffondere  questi  risultati  nel  così  detto  pubblico  colto,  in  modo  che  essi  non 
fossero  patrimonio  riservato  e  chiuso  di  pochi  iniziati,  ma  circolassero  come 
dinfa  viva  nelV organismo  CQltur ale  della  nazione.  I  primi  7iel  campo  delle  lin- 
gue classiche  mettono  capo  to/  Vitelli,  reputato  maestro  dell'  Ateneo  fiorentino, 
gli  altri  al  Fraccaroli  e  al  Romagnoli,  i  quali,  da  anni,  con  non  interrotta 
propaganda,  affermano  che  anche  a  questi  studi  si  debba  imprimere  il  carat- 
tere nazionale,  restituire  l' impronta  specifica  della  tradiziofte  italiana,  dell*  in- 
dole e  del  genio  della  nostra  stirpe.  Occasione  immediata  alla  querela  fu  la 
pubblicazione  di  un  libro  battagliero  del  Romagnoli  dal  titolo  Minerva  e  lo 
scimmione,  e  il  sorgere  della  Nuova  Rivista  Storica,  promossa  da  Corrado  Bar- 
bàgallo  e  da  parecchi  suoi  amici,  egregi  cultori  di  studii  storici,  coli'  intendi- 
mento di  suscitare,  anche  nel  campo  della  storiografia,  la  stessa  riscossa  dai 
metodi  tedeschi  e  pseudo-tedeschi,  che  41  Fraccaroli  e  il  Romagnoli  avevano  da 
tempo  iniziata  e  propugnata  in  quello  della  filologia  classica. 

Il ...  pubblico  assisteva  al...  processo  con  evidente  interessamento,  poiché 
si  intuì  subito  che  esso  si  riconnetteva,  molto  più,  che  a  prima  vista  non  sem- 
brasse, con  la  guerra  che  combattiamo  :  giacché  la  guerra,  che  l'Italia  combatte, 
non  è  soltanto  contro  l'Austria  per  Trento  e  Trieste,  per  la  rettifica  dei 
confini  o  pel  predominio  nell'Adriatico,  ma  é  soprattutto  —  come  pochi  forse 
ebbero  il  gran  merito  di  capire  fin  da  principio  —  guerra  in  difesa  della  civiltà 
latina  contro  la  cultura  tedesca.  Del  resto,  questo  stesso  avevano  apertamente 
confessato  i  Tedeschi,  giacché  von  Bernhardi  aveva  scritto  a  chiare  lettere: 
«  Gli  interessi  della  cultura  tedesca  sono  superiori  a  quelli  di  qualunque  altro 
interesse  umano  e  di  qualunque  Considerazione  cot^unemente  detta  morale  "i^y  e 
aveva  soggiunto  che  la  Germania  si  batte  <per  mantenere  la  superiorità  dei 
professori  tedeschi  sopra  tutti  gli  altri  professori  ...  ».  Ora  appunto.  Contro 
questa  egemonica  pretesa  di  superiorità,  per  quel  che  riguarda  gli  studi  classici, 
avevano  lottato  il  Fraccaroli,  il  Romagnoli,  e,  per  quel  che  riguarda  la  storia^ 
il  Barbagallo,  Ettore  Rota,  Giacinto  Romano,  Guglielmo  Ferrerò  e  parecchi 
altri  redattori  o  collaboratori  della  Nuova  Rivista  Storica,  da  molto  tempo  prima 
che  scoppiasse  la  guerra,  e  l'opera  loro  é  stata,  per  questo  rispetto,  antiveggente 
e  patriotticamente  benemerita. 

Il  ...  processo  acquistò  poi,  durante  il  dibattito,  maggiore  importanza  per 
la  dignità  e  l'autorità  dei  testimoni  di  parte  civile,  i  quali,  furono  costretti 
dalla  loro  coscienza  a  fare  tali  concessioni  in  favore  della  tesi  degli  avversari, 
che  questi  ebbero  presto  causa  vinta,  senza  dovere  insistere  nell'escussione 
di  loro  propri  testimoni,  che,  del  resto,  per  un  singolare...  criterio  del  gior- 
nale (pardon,  del...  giudice  istruttore)  non  poterono  far  valere  la  loro  autorità 
e  la  loro  parola.  Giova  riassumere  pertanto  alcune  deposizioni  piti  notevoli. 

Uno  dei  primi  interrogati  fu  Giovanni  Calò,  giovane  e  valente  cultore 
di  filosofia,  il  quale  disse  testualmente  (e  san  parole  che  sollevano  l'anima)  che 


102  ì^oie,  questioni  storiche,  ecc. 


«  è  difficile  trovare  oggi  in  Italia  altrettanto  odio  contro  i  Tedeschi,  altret- 
41.  tanto  sincero  desiderio  ch'essi  rimangano  schiacciati  e  che  V  Italia  divenga, 
«  attraverso  la  guerra,  veramente  e  completamente  libera  e  autonoma  nel  la- 
<kVoro,  nella  scienza  e  nelld  vita  tutta,  quanto  è  quello  che  egli  ha  sentito  fre- 
«  fnere  intorno  a  sé  nei  colleghi  più,  autorevoli  della  scuola  fiorentina  ».  Da 
canto  suo,  il  testimone  dichiarò  che  non  credeva  di  essere  capace  di  tanto  odio 
quanto  gliene  inspira  la  Germania.  Udito  ciò,  uno  degli  avvocati  difensori  si 
alza  ed  in  nome  degli  imputati  lealmente  proclama  che  i  suoi  difesi  non  ave- 
vano mai  voluto  elevare  sospetto  alcuno  sul  patriottismo  di  Girolamo  Vitelli, 
ma  che  dubitavano  che  V  indirizzo,  da  lui  caldeggiato  negli  studi,  potesse  per- 
petuare quella  soggezione  verso  la  cultura  germanica,  dalla  quale  egli  per  il 
primo  dichiara  di  aborrire.  Il  testimone  allora  ammette  anche  lui  che  tutti 
siamo  convinti  come  «  non  basti  tutto  quel  complesso  li  sottili  ricerche  melo- 
«  diche,  che  costituisce  il  lavoro  filologico^  per  gustare  e  intendere  pienamente 
<knel  loro  spirito  gli  autori  antichi  e  tutte  le  espressioni  della  loro  civiltà... 
«  Lo  stesso  è  per  la  storia...  È  un  pezzo  che  si  sente  la  necessità  di  mirare  alle 
k  idee,  ai  problemi  sostanziali  dello  sviluppo  storico  delle  società,  delle  civiltà, 
<L  degli  Stati  ..."».  Tale  deposizione  preziosa  si  consacra  in  verbale.  Se  non  che 
egli  soggiunse  :  —  Però  ^non  vogliamo  che  con  la  scusa  delV  antigetmanismo 
41,  si  instauri  il  culto  dell'ignoranza  e  della  leggerezza  r>.  Qui  gli  accusati  si 
levano  in  piedi  e  furiosamente  protestano:  invocano  dal  Presidente,  che  richiami 
il  testimone,  il  quale  li  ingiuria  gratuitamepte...  Si  fa  un  po'  di  chiasso,  ma 
rimedia  lo  stesso  testimone,  affrettandosi  à  dire:  4(.  Molte  cose  faremo  anche 
«  tneglio  dei  Tedeschi,  ne  son  convinto.  In  tutto  doi^remo  cercare  di  essere  noi. 
«  Assorbire  dobbiamo  e  assimilare  l'altrui  per  essere  meglio  noi,  non  rinunziare 
«  ad  esser  meglio  noi  per  odio  cieco  di  tutto  ciò  che  è  altrui  ».  —  Benissimo!  — 
grida  uno  del  pubblico;  il  Presidente  finge  di  sdegnarsi,  ma  non  riesce  a  repri- 
mere i  commenti  anim,ati;  gli  stessi  imputati  sono  soddisfatti.  L'usciere  senza 
indugio  chiama  a  troncare  i  bisbigli  Gaetano  Salvemini. 

Il  pubblico  si  dispone  ad  ascoltare  attentamente  :  si  tratta  del  successore 
degno  di  Pasquale  Villarp.  Gli  si  domanda  se  l'influenza  germanica  abbia 
determinato  qualche  servilismo  scientifico.  Senza  esitazione ,  da  galantuomo, 
risponde  :  *  È  vero  :  negli  ultimi  treni' anni  del  secolo  XIX  molti  studiosi  ita- 
«  liani  e  francesi,  suggestionati  dai  trionfi  militari  tedeschi  del  1870  e  dalla 
«  conseguente  egemonia  politica  della  Germania  sul  contincfite  europeo,  hanno 
«  esagerato  brutalmente  nell'ossequio  all'autorità,  anche  scientifica,  dei  Tede- 
<  schi>.  —  Ma  allora,  gli  si  chiede,  è  salutare  una  reazione?  —  «  Si,  risponde, 
«  é  legittima  ed  anzi  necessaria,  purché  non  degeneri  in  un  disprezzo  sistema- 
4i.tico  di  qualunque  metodo,  in  una  rivolta  scapestrata  contro  qualunque  forma  di 
«  disciplina  intellettuale  ».  Gli  accusati  sono  proprio  d'accordo  col  testimonio, 
anzi,  perché  V accordo  risulti  più,  completo,  e  divenga  lampante  la  vanità  della 
riserva  del  teste,  il  Barbagallo  lo  invita  a  uscire  dalle  generali  e  a  denunziare, 
a  carico  degli  imputati,  un  solo  «  esempio  concreto  di  esagerazioni,  di  errori  », 
di  «  rivolte  »  del  genere  da  lui  accennato.  Ma  il  Salvemini  fa  un  gesto  vago 
e  non  risponde... 

Quindi  é  licenziato;  resta  nel  pubblico  V impressione  che  egli,  che  pure  ha 
fama  di  brillante  parlatore,  sia  stato  un  po'  a  disagio  nelle  vesti  di  testimone 
di  parte  civile. . . 

Viene  chiamato  il  prof .  Ernesto  Parodi,  il  quale  la  sa  lunga  ed  imposta 


Note»  questioni  storiche,  ecc.  103 


subito  abilmente  la  quistione.  Comincia  col  dichiarare  vano  il  volere  abbattere 
in  un  giorno  il  lavoro  asprissimo  e  tenacissimo  di  cento  e  piti  anni,  col 
quale  la  Germania  ha  fondato  e  assicurato  il  suo  dominio  anche  sugi'  intelletti. 
Gli  accusati  ne  convengono  ;  ma  osservano  che  cominciare  una  buona  volta 
bisogna  e  che  essi  credono  non  ci  sia  da  perder  tempo,  e  che  anzi  si  sarebbe 
dovuto  cominciare  da  un  pezzo. 

Continua  il  Parodi  nella  sua  ben  meditata  deposizione  e  ad  un  certo  punto 
affer^na  che  <lun  gran  popolo  deve  pensare  per  conto  suo;  che  le  giovani 
<i  generazioni,  conquistando  V  indipendenza  del  pensiero,  faranno  opera  non 
«  minore  di  quelle  che  ci  conquistarono  V  hidipendenza  politica  ».  Un  mormorio 
di  approvazioTie  sottolinea  tali  parole  ;  qualcuno  del  pubblico  arrischia  un  ten- 
tativo di  applauso,  che  il  Presidente  reprime.  Uno  dei  difensori  grida:  —  A 
verbale!  a  verbale!  —  La  deposizione  prosegue,  e  si  fa  più  interessante.  A  pro- 
posito del  metodo,  il  testimone  dice  cose  assai  sennàte,  in  cui  tutti,  gli  accu- 
sati per  i  primi,  consentono  ;  riconosce  che  l'Italia  ha  dovuto  subire  nella  poli- 
tica, nell'  industria  ed  anche  nella  cultura  l' influenza  tedesca  e  che  ha  dovuto 
imparare  a  far  come  gli  altri  per  potere  di  nuovo  imparare  a  far  da  sé.  — 
Bravo!  Bravo!  —  esclamano  gli  imputati  —  Noi  proprio  ci  scalmaniamo  da 
un  pezzo  perchè  cotninci  a  fare  da  sé,  ma  il  Vitelli  vorrebbe  che  officina  e 
struìnenti  di  lavoro,  per  lungo  tempo  ancora,  fossero  tedeschi^  e  noi  non  lo 
vogliamo.  —  Un  avvocato  della  difesa  gli  domanda  se  crede  che  questi  strumenti 
siano  sempre  solidi  e  di  buon  metallo,  oppure  talvolta  con  certi  difetti,  propri 
della  lavorazione  germanica... ^  e  un  po'  deteriorati  dall'uso...  Il  testimone  di- 
chiara: «  Si,  hanno  quei  difetti:  il  popolo  tedesco  ha  una  logicità  dura  e  intratisi- 
<k  gente,  e,  a  dispetto  delle  sue  pretese  poetiche,  ha  pigra  e  lenta  l'intuizione  : 
«  di  qui  la  sua  tendenza  a  portar  la  logica  fino  all'estremo  limite  della  possi- 
le bilitày  restringendo  con  ansia  alquanto  peda?itesca  i  confini  dell*  intuizione. 
<  Perciò  sono  di  solito  mediocri  critici  dell'opera  d'arte,  e  la  giudicano  piut- 
M.  tosto  secondo  il  contenuto  che  se  condola  forma;  infine,  vogliono  introdurre 
«  dovunque  più,  logica  che  non  sia  necessario,  nella  storia  come  nell'arte,  e 
a  perciò  sono  i  più  proclivi  ad  «  emendare  »,  a  re  secar  e,, a  rimanipolare.  C'è  poi 
«  un  altro  carattere  della  loro  indole,  che  a  queste  tendenze  e  a  questi  espedienti, 
«  dai  quali,  contenuti  nei  loro  limiti,  possono  anche  venire  buoni  frutti,  tende 
«  a  dare  mio  sviluppo  eccessivo  e  parassitario.  I  Tedeschi,  nonostante  le  loro 
<i  famose  pretese  all' individualismo  y  sono  poco  individuali,  e  perciò  sono  sempre  in 
«  vena  di  organizzare:  Ogni  menomo  proceditnento  diventa  uno  sforzo  collettivo  ». 
//  pubblico,  che  nella  grande  maggioranza  è  orinai  favorevole  agli  accusati , 
scatta:  non  si  tratta  più  di  un  mortnorio,  ma  di  approvazioni  a  gran  voce.  Il 
Presidente  minaccia  di  fare  sgombrare  Paula...  ;  qualcuno  degli  avvocati  a  difesa 
grida  che  la  parte  civile  può  ritirare  V accusa.  Il  testimone,  visto  che  ha  già 
molto  favorito  gli  accusati^  dice  che  bisogna  però  distinguere  tra  persone  varia- 
mente e  umanisticamente  colte  e  persone  versate  nello  studio  assiduo  e  profondo 
dell'antichità,  tra  le  quali  ultitne  sono  da  scegliere  i  professori  universitari,  ed 
insinua  un  inciso  malizioso  per  isfiorare  anche  lui,  di  un  suo  colpo,  un  bersa- 
glio, già  troppo  preso  di  mira,  e  già  troppo  fallito,  in  questi  giorni.  Sta  per 
sollevarsi  un  putiferio,  ma  il  testimone  avvedutamente  salta  con  agile  mossa 
sur  un  terreno  più  solido:  volendo  mettere  in  rilievo  le  benemerenze  della  parte 
civile,  fa  un'esposizione  efficace  di  quel  che  fosse  la  cultura  italiana  fino  a 
qualche  tempo  addietro,  per  concludere  che  fu  merito  del  metodo  <  scientifico  »  se 


I04  ^ote,  questioni  storiche,  ecc. 


l'Italia  potè  far  sentire  la  sua  voce  nel  grande  coro  della  scienza  mondiale. 
Gli  accusati  non  contestano  ;  soltanto  dichiarano  esser  loro  desiderio  che  quella 
voce  si  distingua  nel  coro  come  piti  acuta  e  piti  armonica,  e  magari  possa  ten- 
tare un  a  solo.  //  testimone  non  replica,  ma  gli  occhi  gli  brillano  di  gioia: 
in  fondo  in  fondo,  questo  sarebbe  anche  il  desiderio  suo!...  È  licenziato;  ma 
qualcuno  degli  avvocati  difensori  soddisfatto  mormora  :  -^  Lo  ha  fatto  citare 
la  parte  civile,'  ed  ha  agevolato  il  compito  alla  difesa/...  — . 

A  questo  punto  il  Tribunale  toglie  la  seduta  per  interrogare  a  domicilio 
un  testimone  privilegiato  :  Benedetto  Croce!  Questi  è  un  formidabile  dialet- 
tico; ha  la  rispettabile  abitudine  di  cominciale  sempre  ab  ovo,  vuol  vedere  le 
cose  non  già  nella  fugace  parvenza  del  contingente  e  temporaneo,  ma  quanto 
è  possibile  sub  s'j)ecie  aeternitatis.  Ama  piantare  nel  suolo  certe  travi  maestre 
di  sostegno,  che  diconsi  basi  logiche,  e  a  quelle  travi  attacca  tutto  un  parato  di 
stoffe  e  mussole  e  di  festoni,  che  però  svolazzano  rumorosamente,  facendo 
oscillare  anche  le  travi,  se  il  vento  soffia  un  po'  impetuoso...  Tutti  ad  ogni 
modo  lo  rispettano  ;  il  Tribunale  gli  usa  deferenza  speciale  perchè  si  sa  che  è 
rigidamente  conseguenziario  sino  ad  affrontare  la  lapidazione  pubblica  e  non 
guarda  in  faccia  né  ad  amici  né  a  nemici.  Al  ritorno  della  Corte,  si  legge 
la  rogatoria.  Ad  un  certo  punto  il  testimone  ha  detto:  <i  L'ardimento  di  respin- 
gere addirittura  l' intromissione  del  pensiero  nella  storia,  che  era  mancato  agli 
storici  diplomatici  {perchè  mancava  loro  la  necessaria  innocenza  a  tale  ardi- 
mento),  l'ebbero  invece  i  filologi,  innocentissimi...  E  l'ebbero  tanto  piic  facil- 
mente in  jquanto  l'opinione  di  sé  medesimi,  anteriorm,ente  modesta,  si  era 
assai  accresciuta  e  aveva  gonfiato  i  loro  petti,  per  il  grado  di  perfezione  a 
cui  era  pervenuta  l'indagine  delle .  cronache  e  dei  documenti  e  per  V accaduta 
fondazione,  che  {non  fu,  a  dir  vero,  creazióne  ex  nihilo)  del  metodo  critico  o  sto- 
rico, che  si  esplicava  nella  sottile  e  accurata  genealogia  e  riduzione  delle  fonti, 
e  nella  critica  interna  dei  testi,  E  tanto  piti  facilmente  codesto  orgoglio  di 
filologi  prevalse,  in  quanto  il  perfezionamento  del  metodo  accadeva  in  un  paese 
come  la  Germania,  dove  la  mutria  pedantesca  fiorisce  meglio  che  altrove,  e 
dove,  per  effetto  dello,  stesso  abito  ammirevolissimo  della  serietà  scientifica,  la 
«  scientificità  »  è  assai  idoleggiata^  e  questa  parola  viene  am,biziosamente  ado- 
perata per  ogni  cosa  che  concerna  %  contorni  e  gli  strumenti  della  scienza  vera 
e  propria,  come  è  il  caso  della  raccolta  e  critica  delle  narrazioni  e  documenti. 
I  vecchi  eruditi  italiani  e  francesi,  che  al  loro  tempo  fecero  compiere  al  «  me- 
todo »  avanzamenti  non  minori  di  quelli  che  si  ebbero  poi  nel  secolo  decimo- 
nono in  Germania,  non  sognavano  di  produrre  così  m scienza»,  e  molto  meno 
di  gareggiare  con  la  filosofia. e  la  teologia,  e  di  poterle  scacciare  e  surrogare 
col  loro  metodo  documentario  >. 

E  il  teste  illustre  ha  continuato:  —  Invece,  nei  secoli  XIX e  XX,  in  Ger- 
mania, e,  sull'esempio  della  Germania,  anche  altrove,  ^per  la  prima  volta  si 
manifestò  in  grado  insigne  quel  modo  di  storiografia,  che  ho  denominato 
€  storia  filologica  »  <?  «  erudita  »  .•  cioè  si  presentarono  camuffate  come  storie, 
e  come  sole  degne  e  scientifiche  storie,  le  più,  o  meno  giudiziose  compilazioni 
di  fonti,  che  pél  passato  si  dicevano  Antiquìtates,  Annales,  Thesauri,  e  simili. 
La  fede  di  quegli  storici  era  riposta  in  un  racconto,  del  quale  ogni  parola 
potesse  appoggiarsi  a  un  testo,  e  nient* altro  ci  fosse  che  quanto  era  nei 
testi,  sceverati  e  ripetuti,  ma  non  pensati  dal  filologo  narratore;  la  loro 
speranza,  nel  poter  assurgere  a  poco  a  poco,  movendo  da  compilazioni  circa 
sìngoli  tempi,  regioni  ed  avvenimenti,,  a  compilazioni  comprensive,  riassumenti 


Note^  questioni  storiche,  ecc,  105 


di  grado  in  grado  le  meno  comprensive,  sino  a  ordinare  V  intero  sapere  sto- 
rico in  grandi  enciclopedie,  delle  quali  forniscono  saggi  quelle,  ora  sistema- 
tiche,  ora  lessicali,  che  sono  state  messe  insieme  da  gruppi  di  specialisti,  guidati 
da  un  direttore  specialista,  per  la  filologia  classica,  romanza,  germanica,  in- 
doeuropea e  semitica  ». 

Ed  egli  ha  concluso:  —  Allora  <iin  Germania  ogni  meschino  copiatore 
4L  di  testi  e  collettore  di  varianti  e  scrutatore  di  dipendenze  tra  i  testi  e 
«  congetturista  del  testo  genuino  si  eresse  ad  uomo  di  scienza  e  di  critica, 
«  e  osò  non  solo  guardare  faccia  a  faccia,  tna  con  superiorità  e  dispregio,  come 
IL  uomini  4k  antimetodici  if^  anche  pensatori  sommi.  <i.  Dalla  Germania  si  diffuse 
«  questa  mutria  pseudoscientifica  negli  altri  paesi  di  Europa  ed  ora  anche 
«  in  America,  sebbene  in  altri  paesi  incontrasse  con  piti  frequenza  spiriti  irri- 
€verenti  che  ne  risero...  ».  A  siffatta  lettura,  uno  degli  avvocati  a  difesa 
esclama  :  —  Veda,  sig.  Presidente,  è  proprio  questo  il  gran  torto  degli  accu- 
sati! Essi  sono  stati  tra  questi  <k  spiriti  irriverenti  »  ^  che  primi  in  Italia  si 
accorsero  del  lato  ridicolo  deHa  cosa,  e  arditamente,  liberamente,  ne  risero.  — 

Qui  sorge  mio  degli...  imputati,  il  Romagnoli,  e  reclama  che  si  leggano  certi 
scritti  di  un  morto,  il  quale  rise  prima  di  loro  di  certi  metodi  del  suo  tempo, 
che  molto  si  assomigliavano  a  quelli  dei  Tedeschi.  La  parte  civile  si  oppone  : 
non  si  ammettono  intrusioni  di  morti  in  un  processo  fra  vivi:  qualcuno  osserva 
che  peto  quel  m.orto  dopo  morto  è  piic  vivo  di  prima.  Gl'incidenti  si  fanno  vi- 
vacissimi: il  Presidente  con  lodevole  imparzialità  ordina  la  lettura,  che  manda 
in  visibilio  il  pubblico.  Si  tratta  di  un  tale  Ugo  Foscolo,  che  doveva  essere  ai 
suoi  tempi  uomo  di  spirito.  Pare  l'abbia  a  morte  con  i  pedanti,  contro  i  quali 
volta  a  volta  è  caustico,  mordace,  insolente.  Il  pubblico  si  diverte  un  mondo, 
gli  accusati  non  dissimulano  la  loro  soddisfazione,  gli  occhietti  del  Romagnoli 
sfavillano.  Gli  avvocati  di  paHe  civile  si  guardano  in  viso  evidentemente  con- 
trariati: quel  morto  tra  i  piedi  li  imbarazza...  Qualcuno  vorrebbe  attaccarlo 
di  falso,  ma  come  si  fa  ad  incriminare  un  morto  ?  Uno  grida  :■  —  Tutto  ciò 
non  ci  riguarda  :  il  morto  parlava  di  pedanti^  e  nella  parte  civile  non  ci  sono 
pedanti,  ma  uomini  di  gusto,  di  dottrina  e  di  cervello  — .  —  Va  bene,  ammet- 
tiamo anche  questo,  obbietta  un  difensore,  ma  la  parte  civile  si  comporta  spesso 
in  modo  da  autorizzare  a  confonderla  con  i  pedanti  o  con  chi  li  porta  su. ..,  e 
troppo  disconosce  quelli  che  dalla  pedanteria  aborriscono:  lo  proveremo  ad 
esuberanza,  se  la  Corte  eccellentissima  lo  consente.  —  Il  Presidente,  che  è  calvo, 
si  porta  le  htani  ai  capelli...;  prevede  che  si  scatenerà  una  tempesta:  certo  si 
parlerà  di  concorsi;  verranno  fuori  scandali  sopiti.  Agita  violentemente  il  carne- 
panello  e^ chiama  un  altro  testimone:  Alfredo  Galletti. 

Movimento  di  intensa  curiosità  :  è  il  successore  del  Carducci  e  del  Pascoli 
a  Bologna,  ha  fama  di  critico  acuto  e  di  uomo  di  ingegno.  Si  fa  un  religioso 
silenzio.  Egli  incomificia  col  dire  qualcosa  che  dimostra  come  Girolamo  Vitelli, 
il  quale,  pur  troppo,  è  sofferente  di  occhi,  ebbe  acutissima  la  vista  della  mente 
piii  di  dieci  anni  fa.  Previde  che  ^  affarismo  e  militarismo  lavoravano  d'accordo 
ad  abbrutire  la  «  Germania,  tirandola  giù,  verso  una  idea  cinicamente  materia- 
«  Ustica  della  vita  e  che  il  nuovo  Impero,  nato  dalla  forza  e  cupido  di  ricchezza, 
<k  accennava,  come  il  Nabucodònosor  della  Bibbia,  a  tramutarsi  in  bestia  e  in 
«  bestia  da  preda  ».  Poi  il  testimone  improvvisa  una  bella  tirata  sui  preconcetti 
nazionalistici  della  storiografia  tedesca  e  sulla  cristallizzazione  delle  idee,  fe- 
nomeno frequentissimo  in  Germania,  a  segno  da  diventare  un  pericolo  sociale. 
Si  apprende  che  certe  viziose  abitudini  in  quel  paese  rimontano  per  lo  meno  a 


io6  NoUt  quisHoni  storiche ^  ecc. 


Federico  il  grande!  Il  Presidente  non  lo  interrompe  perchè  le  cose  che  dice  sono 
giuste  ed  interessanti»  ma  alla  fine  gli  fa  garbatamente  osservare  che  molto  di 
quel  che  ha  detto  non  era  pertinente  alla  causa...  Il  testimone  sorride  malizio- 
samente :  egli  lo  sapeva  già  prima,  ma  così  gli  è  riuscito  di  evitare  di  entrare  in 
marito...  A  questo  punto,  di  comune  accordo,  si  rinunzia  a  lutti  gli  altri  testi- 
fnoni  ;  tanto ^  Ermenegildo  Pis tetti  non  ha  da  dir  nulla  a  questo  proposito,  e 
Giorgio  Pasquali,  incaricato  di  letteratura  greca  nel  R.  Istituto  di  Studi  supe- 
riori di  Firenze y  la  parte  civile  {chi  sa  mai  perchè?)  non  l' ha  fatto  citare... 
Il  Presidènte  sospende  la  seduta  per  l'esperimento  della  conciliazione.  Egli 
crede  che  dal  dibattimento  sia  risultato  che  tra  la  parte  civile  e  l'accusa  non 
ci  sia  poi  l'abisso  di  mezzo.  Gli  uni,  osserva  tra  sé,  non  sonò  stati  e  non 
sono,  nemmeno  per  ipotesi,  fautori  di  superficialità  e  dilettantismo  ;  gli  altri 
vogliono,  come  loro,  che  la  scienza  italiana  abbia  impronta  efisonomia  propria; 
dunque  gli  avversari  si  possono  stringere  la  mano...  Ma  il  Pubblico  Ministero, 
che  fino  a  questo  momento  aveva  taciuto,  vuol  presentare  le  sue  conclusioni: 
—  Signor  Presidente,  incomincia,  io  smi  d'avviso  che  non  sia  il  caso  della  con- 
ciliazione, ma  luti' al  piti  della  compensazione  delle  ingiurie.  L'accordo  tra 
le  idee  delle  due  parti  è  formale  e  non  sostanziale:  la  discordia  riapparirà 
piit  aspra  alla  prima  occasione  (intendeva  dire  al  primo  concorso  di  letteratura 
greca  o  di  storia) ^  perchè  gli  uni,  per  istudio  assiduo  e  profondo  del  passato, 
intendono  soltanto  collazione  di  codici,  discussione  di  varianti,  ricerca  di 
oscure  fonti,  qualche  volta  anche  entomologia  scientifica  per  arrivare,  come 
a  mèta  suprema,  all'edizione  critica.  Non  ammettono  che  sia  buon  conoscitore 
delC antichità  chi  tenta  opere  organiche  o  costruttive.  Per  questo  rispetto ^  anzi, 
essi  sono  piit  ostinati  e  rigidi  dei  Tedeschi  stessi.  Se  ne  vuole  una  prova? 
Il  Vitelli  aveva  tutti  %  numeri  per  dare  air  Italia  opere  di  questo  genere,  e 
non  le  ha  mai  volute  intraprendere.  È  benemerito  quanto  si  vuole,  ma  si  è 
dato  a  quel  solo  genere  di  lavoro,  e  quello  ha  imposto  ai  suoi  discepoli  come 
il  solo  che  valga.  La  scuola  del  Fraccaroli  e  del  suo. eccellente  secondino,  il 
Romagnoli,  ha  dato,  è  giustizia  riconoscerlo,  ben  altri  frutti.  Del  resto  il 
Fraccaroli  ha  sempre  inculcato  ai  stwi  discepoli:  «  informazione  precisa,  ri- 
«  spetto  per  chi  se  lo  merita,  adorazione  cieca  per  nessuno,  senso  di  arte,  senza 
«  di  che  non  si  fa  critica,  e  un  pò*  di  sale  in  zucca  >.  Non  si  condensano 
forse  in  queste  parole  tutte  le  lezioni  di  metodo?  Gli  accusati,  pertanto,  hanno 
ragione  da  vendere,  a  mio  giudizio,  se  diventano  a  lor  volta  accusatori,  in 
nome  appunto  di  quella  originalità  ed  indipendenza  delle  lettere  nostre,  che 
teoricaf nenie,  ovvero  a  parole,  si  vuol  salvare  da  tutti.  Gli  accusati,  non  si 
dimentichi,  al  di  là  dell'edizione  critica  vedono  qualche  altra  cosa,  cotne 
sarebbe  a  dire  lo  studio  delibarle  e  del  pensiero  di  uno  scrittore,  dei  suoi 
problemi  spirituali,  dei  suoi  tempi,  della  sua  posiziofie  morale  rispetto  ai 
tempi  in  cui  visse,  e  di  quanto  di  sé,  della  sua  arte,  del  suo  pensiero  abbia 
trasmesso  alle  generazioni  susseguenti.  Essi  vanno  anche  piti  in  là  :  non  cofi- 
siderano  il  mondo  antico  come  separato  dal  nostro  da  una  barriera  insor- 
montabile. Cercano  di  intenderlo  {e  dico,  si  badi,  intenderlo,  non  frainten- 
derlo), avvicinandolo  in  certo  qual  modo  a  noi;  cercano  di  mettersi,  vorrei  dir 
quasi,  tn  sintonia  morale,  con  quegli  spiriti.  In  una  parola,  gli  accusati  non 
vogliono  anatomizzare  cadaveri,  ma  rintracciare  ansiosamente  aliti  di  vita,  ma 
rinvenire,  sotto  le  scorie,  il  pietrame  e  i  calcinacci,  il  metallo  terso  e  lucido 
che  possa  ancora  brillare  al  sole.  È  dello  stesso  avviso  anche  la  parte  civile?, 
E  allora  la  querela  era  inutile,  l'avrebbe  fatta  a  se  stessa...  Pensa  invece  che  si 


Note^  questioni  storiche^  ecc.  107 


debba  giungere  solo  e  sempre  aW edizione  critica  o  alla  ricerca  e  discussione 
dei  documenti,  e  che  ogni  altro  lavoro  sia  superfluo  o  pericoloso  o,  per  fatale 
decreto  degli  dèi  superi,  inibito  a  noi?  Ed  in  questo  caso  ha  torto.  Gli  stessi 
Tedeschi,  che  sono  i  Tedeschi,  come  avvertivano  nel  loro  programma  i  redat- 
tori della  Nuova  Rivista  Storica,  jz  sono  dati  da  un  pezzo  a  queste  opere  costrut- 
tive e  d*  insieme j  e  sono  arrivati  perfino  ai  commenti  estetici.  Chi  è  del  mestiere 
sa  bene  a  quali  opere  io  alluda,  e  converrà  altresì  che  essi  però  maneggiano 
spesso  con  ruvida  ma  io  seriche  stoffe,  mentre  a  noi  riesce  piti  facile  sfiorarle 
con  delicatezza  senza  gualcire  o  macchiare.  Contludo  che  la  parte  civile  sia 
condannata  alle  spese...  — 

//  Tribunale,  il  gran  Tribunale  dell'opinione  pubblica,  si  ritira  per  delibe- 
rare... 

Francesco  Guolielmino. 

la  pubblicazione  degli  Atti  delle  Costituzioni  italiane.^ 

La  R.  Accademia  dei  Lincei  ha  iniziato  un'impresa  grandiosa  e  vera- 
mente benemerita:  la  pubblicazioni  degli  Atti  dei  Parlamenti  e  delle  Diete, 
regionali  e  comunali  italiane.  La  prima  parte  della  raccolta  conterrà  gli  Atti 
dei  Parlamenti  o  Stati  generali  e  provinciali  del  Medio-Evo  e  dell'età  mo- 
derna fino  alla  fine  del  secolo  XVIII  ;  la  seconda  conterrà  le  assemblee  par- 
lamentari dal  1797  al  1821  ;  la  terza,  gli  Atti  delle  maggiori  assemblee .  dei 
Comuni  medievali. 

La  prima  iniziativa  dèlia  grande  opera  si  deve  a  proposta,  che,  in  data 
16  febbraio  1913,  Luigi  Luzzatti  fece  all'Accademia  dei  Lincei.  L'attua- 
zione ne  fu  più  tardi  assicurata  da  un  disegno  di  legge,  votato  dal  nostro 
Parlamento,  su  proposta  dei  ministri  Credaro  (Istruzione  pubblica)  e- Tede- 
sco (Tesoro),  il  quale  metteva  a  disposizione  dell'Accademia  i  fondi  neces- 
sarii.  Dopo  di  che  l'edizione  venne  assunta  dalla  Casa  editrice  Zanichelli  di 
Bologna,  Attualmente  la  raccolta  degli  Atti  degli  Stati  provinciali  delle  Mar- 
che è  affidata  al  prof.  Zdekauer;  di  quelli  piemontesi,  al  prof.  Buraggi;  di 
quelli  friulani,  al  Leicht  ;  di  quelli  siciliani,  al  Lamantia  ;  di  quelli  sardi,  al 
dott.  Lippi.  La  seconda  sezione  della  raccolta  è  affidata  ai  dottori  Montal- 
cini  e  Alberti.  Della  terza  parte  si  pubblicheranno  per  ora  solo  che  gli  Atti 
del  maggior  Consiglio  di  Venezia  per  cura  del  prof.  Nino  Tamassia. 

Sono  già  usciti  i  due  primi  Bollettini,  che  contengono  gli  Atti  relativi  al 
Parlamento  di  Montolmo  del  15  gennaio  1306,  ei  seguenti  articoli:  P.  S.  Leicht, 
Il  piti  antico  documento  del  Parlamento  friulano;  E.  Gentile,  La  <k  Curia 
generale  »  del  regno  di  Carlo  I  d*Angid  ;  A.  Alberti,  //  contributo  militare 
imposto  da  Bonaparte  alla  Lombardia  nel  1796.  Noi  discorreremo  più  ampia- 
mente e  particolareggiatamente  della  grande  raccolta,  appena  la  sua  pubblica- 
zione ci  fornirà  un  sufficiente  materiale  di  analisi;  per  ora  ci  limitiamo  a 
segnalarne  l' inizio  e  1*  importanza  non  comune. 


*  R.  Accademia  dei  Lincei,  Atti  delle  Assemblee  costituzionali  italiane  dal  Medioevo  al  rSjl, 
Boll.  nn.  I ;  2,  Bologna,  Zanichelli  1916-17. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


Metodica  e  teorica  della  storia:  C.  Barbagallo,  Il  materialismo  sto- 
rico, Milano,  Federazione  itaL  delle  Biblioteche  popolari,  19 17.  —  È  un  rias- 
sùnto critico  della  tanto  discussa  dottrina  del  ttiaterialismo  storico,  accom- 
pagnato da  esemplificazioni  storiografiche,  tratte  dalle  principali  opere  italiane, 
che  a  quella  dottrina  si  sono  ispirante.  Esso  colma  perciò  una  lacuna  della 
nostra  produzione  filosofico-storica.  L'A.,  anziché  limitarsi  ai  pochi  fi-ammenti 
del  Marx  o  dell'Engels,  relativi  al  materialismo  storico,  ha  preferito  desumere 
e  lumeggiare  questa  interessantissima  concezione  cori  gli  scritti,  storici  e  filo- 
sofici, dei  due  autori. 

Antichità  e  archeologia  classiche  :  A.  Solari,"  Delle  antiche  relazioni 
commerciali  fra  la  Siria  e  V  Occidente  :,  In  Roma  e  in  Gullia  (estr.  dagli 
Annali  delle  università  toscane,  1916,  fase.  VI).  —  È  uno  studio  erudito  sui 
Sirii,  che  nell'età  classica  abitarono  in  Roma  e  in  Gallia,  sulle  loro  occupa- 
zioni e  sulle  loro  immigrazioni.  È  assai  utile  come  raccolta  di  fatti,  sebbene 
l'A.  non  abbia  sfruttato  completamente  il  materiale  cosi  detto   epigràfico. 

V.  Cannizzo,  Sommario  delle  scoperte  archeologiche  dal  igoj  al  19 14 
nella  Sicilia  orientale  (estr.  da  Sicania,  a.  IV,  1916,  pp.  57).  —  Come  dice 
il  titolo,  si  tratta  di  un'esposizione  riassuntiva  delle  scoperte  archeologiche 
nel  territorio  dell'antica  Ibla,  nei  dintórni  di  Grammichele  (prov.  di  Cata- 
nia), presso  Licodia  Eubea  (Catania),  presso  Chiaramonte  Gulfi  (Siracusa), 
e  nel  centro  dell'isola.  L'esposizione  descrittiva  è  seguita  da  un  saggio 
sulle  età  preistoriche  in  Licodia  Eubea.  Il  lavoro  è  utile  agli  studiosi  sia  per 
le  notizie,  ch'esso  fornisce  raccolte  in  un  corpo  unico,  sia  perchè  i  suoi  re- 
sultati sono  stati  controllati  e  approvati  da  uno  dei  più  valenti  archeologi 
italiani,  Pietro  Orsi,  ch'è  altresì  l'unico  vero  conoscitore  della  Sicilia  antichis- 
sitàa. 

G.  Patroni,  Enea  svelato  al  cospetto  di  Bidone  (estr.  dagli  Atti  della 
R.  Accademia  di  Archeologia,  lettere  e  Belle  arti  di  Napoli^  1917,  pp.  105-14).  — 
U  illustre  archeologo  offre  in  questa  memoria  un  saggio  d' interpretazione 
di  una  pittura  pompeiana.  Ma  più  importante  è  l'idea,  che  le  sue  mterpre- 
tazioni  e  il  suo   esame  copfermano  :   essere   cioè   erronea  la  credenza  che 


Bollettino  bibliografico  109 


l'arte  e  l'architettura  pompeiana  abbiano  un  mero  carattere  ellenistico,  an- 
ziché romano.  Contro  questo  pregiudizio,  nato  dalla  sopravalutazione  che 
l'archeologia  e  la  critica  tedesca  fecero  deirellenismo  per  isvalutare  il  roma- 
nesimo,  egli  aveva  più  volte  battagliato.  La  sua  idea  riceveva  più  tardi 
nuove  conferme  in  campi  diversi.  Un'altra  conferma  è  in  questa  pittura  o, 
meglio,  nella  suggestiva  interpretazione,  che  il  P.  dà  della  pittura,  e  il  cui 
primo  merito  egli  giustamente  attribuisce  all'  illustre  pompeianista  e  nostro 
collaboratore,  Antonio  Sogliano. 

Storiografia  italiana  :  I.  Del  Lungo,  Per  la  nuova  autentica  edizione  della 
Storia  d'Italia  di  F.  Guicciardini  (estr.  dalla  Nuova  Antologia,  16  luglio 
-1917),  pp.  7.  —  È  una  «  Comunicazione»,  che  il  D.  L.  fece  alla  R.  Accademia 
dei  Lincei  intorno  alla  imminente  pubblicazione  della  Storia  d'Italia  del  Guic- 
ciardini. La  pubblicazione  era  stata  caldeggiata  dal  conte  on.  F.  Guicciardini 
e  dal  defunto  Alessandro  Gherardi  dell'Archivio  di  Stato  di  Firenze.  Nella 
comunicazione,  il  D.  L.  si  indugia  a  rilevare  l'importanza  del  nuovo  testo 
della  Storia,  Sarebbe  assai  desiderabile  che,  nella  imminenza  di  una  così 
grande  rievocazione,  qualcuno  dei  nostri  studiosi  volesse  mettere  in  evidenza 
il  carattere  e  1'  importanza  storiografica  dell'opera  di  quel  nostro  grande 
antenato. 

Italia  e  Francia:  P.  Preda,  Pour  Vamitié  italo-franqaise,  Livourne, 
1917.  —  È  la  confutazione,  che  un  italiano  ha  con  lodevoli  intendimenti  voluto 
tentare  del  volume  di  G.  Curatolo,  Italia  e  Francia  (di  cui  forse  ci  oc- 
cuperemo in  questa  stessa  Rivista)^  apparso  alla  vigilia  della  nostra  guerra. 
La  confutazione  è  condotta  con  assai  buon  garbo.  Pur  troppo,  nell'accerta- 
mento dei  fatti  e  nella  loro  interpretazione,  il  P.,  si  lascia  interamente  do- 
minare dall'autorità  del  C,  onde  il  suo  libro  dà  l'impressione  di  ricercare 
le  attenuanti  di  una  causa  difficile,  anziché  di  trattare  una  causa  indubbia- 
mente buona. 

Storia  regionale  italiana  :  R.  Marcucci,  La  fiera  di  Senigallia  }  contri- 
buto alla  storia  economica  del  bacino  Adriatico,  in  Atti  e  Memorie  della  R.  De- 
putazione di  storia  patria  per  le  Marche,  voi.  Vili),  pp.  300.  —  In  questa 
monografia,  dettata  con  acume,  spirito  critico  e  sulla  scorta  di  numerosissimi 
docurhenti  inediti,  l'A.  tràccia  la  storia  della  Fiera  di  Senigallia  dalle  sue 
lontane  e  incerte  origini  fino  alla  metà  del  secolo  XIX.  La  diligente  e  in- 
telligente ricerca  mira  a  illustrare,  attraverso  la  fiera  di  Senigallia,  tutta  la 
storia  economica  del  bacino  adriatico.  Ed  invero,  durante  i  lunghi  anni,  in 
cui,  dopo  il  dominio  dei  DellaNRovere,  Senigallia  rimase  annessa  allo  Stato 
pontificio,  essa  fu  il  principale  emporio  commerciale  di  tutto  lo  Stato.  Ma, 
nel  XIX  secolo,  con  l' importanza  assunta  da  altri  porti  dell'Adriatico,  Seni- 
gallia andò  decadendo,  fin  tanto  che  nel  1861  il  Regno  d'Italia  decretò  la 
soppressione  della  storica  Fiera.  Tuttavia  questa  continuò  per  altri  otto  anni, 
sino  al  1869.  Lo  studio  è  altresì  importante  per  la  competenza,  che  l'A.  vi 
dimostra,  dei  problemi  economici  che  l'argomento  involgeva^ 

{Continua), 


t^ 


LIBRI  RICEVUTI 


A.  Dbbidour,  Histoire  diplomatique  de  l'Europe  depuis  le  Congrès  de  Berlin 
jusqu'à  nos  jours  (1878- 1904  ;  1904-1916),  Paris,  Alcan,  1917,  2  voli., 
pp.  xii-359  ;  379. 

V.  Gioberti,  Ultima  replica  ai  municipali t  pubblicata  per  la  prima  volta  e 
con  documenti  inediti  da  G.  Balsamo-Crivelli,  Torino,  Bocca,  1917, 
pp.  204. 

V.  Piccoli,  L'Estetica  di  V,  Gioberti^  Milano-Roma-Napoli,  Albrighi,  Se- 
gati &  C,  1917,  pp.  173- 

G.  Parenti,  N.  Machiavelli  e  il  Trentino^  Firenze,  Stabil.  tipografico  Al- 
dino, 1917,  pp.  76. 

F.  Ercole,  Studi  sulla  dottrina  politica  e  sul  diritto  politico  di  Bartolo  :  Im- 

pero universale  e  Stati  particolari  (estr.  dalla  Rivista  italiana  di  scienze 
giuridiche^  gennaio   1917). 

G.  Sforza,  //  dittatore  di  Modena,  Biagio  Nardi  e.  il  suo  nepote  Anacarsi, 

in  Bibliot.  stor.  del  Risorg.  italiano y  Albrighi,  Segati  &  C,  19 16, 
pp.  CLi-344. 

A.  Renaùdet,  Préréforme  et  humanisme  à  Paris  pendant  les  pref.nères  guerres 
d'Italie  (1514-1517),  Paris,  E.  Champion,  1916,  pp.  739. 

A.  Ferrari,  Giuseppe  Ferrari:  saggio  critico,  Genova,  Formiggini,  1914. 
pp.  xii-329. 

A.  D'Amato,  Lorenzo  de  Concilj  con  le  <k  Decisioni  della  Gran  Corte  spe- 
ciale di  Napolii^  (estr.  dalla  Rivista  storica  del  Sannio,  a.  II,  n.  i,  1916, 
pp.  22). 

E.  B1GNONE,  Sopra  un  frammento  del  comico  Damosseno  (estr.  dai  Rendi- 

conti del  R.  Istituto  lombardo  di  scienze,  e  lettere,    i*»  febbraio  191 7). 
A.  CODARA,  La  persecuzione  in  casa  Flavia  e  la  congiura  contro  Domiziano, 
Torino,  Scuola  tip.  Salesiana,  1917,  pp.   44- 

F.  Ravaisson,  Saggi  filosofici:  prefazione,   trad.,  note,   cenni  bio-bibliogra- 

fici di  A.  TiLGHER,  Roma,  «  Tiber  »,  1917,  pp.  xv-236. 

A.  D'Amato,  /  movitnenti  politici  del  1870  nelV Irpinia  e  le  decisioni  della 
Gran  Corte  criminale  di  Avellino  (estr.  dalla  Riv.  Stor.  del  Sannio,  A.  Ili, 
n.  2,  1917),  pp.  8. 

A.  De  Marchi,  Le  antiche  epigrafi  di  Milano  (pubbl.  déiV  Atene  e  Roma,  Se- 
zione milanese,  Milano,  Paravia,  1917),  pp.  322. 


Libri  ricevuti 


Brunetto  Latini,  /  libri  naturali  del  «  Tesoro  »,  emendati,  commentati  e  il- 
lustrati da  Guido  Battelli,  Firenze,  Le  Monnier,   1917,.  pp.  xiii-219. 

Alessandro  Poerio,  //  viaggio  in  Germania;  il  carteggio  letterario  ed  altre 
prose,  a  cura  di  B.  Croce,  Firenze,  Le  Monnier,  pp.  277. 

A.  Renaudet,  Les  sources  Vhistoire  de  France  aux  archives  d'État  de  Flo- 
rence, des  guerres  d'Italie  à  la  Revolution  {1494-1789)  :  essai  d'inventaire 
méthodique  publié  par  les  soins  de  la  Société  d' histoire  moderne  et  de 
/'Institut  fran9ais»de  Florence,  Paris,  Rieder-Champion,  1916. 

C.  Pascal,  Per  la  resurrezione  del  latino  come  lingua  scientifica  internazio- 

nale (ili  Rendic.  del  R.  Ist.  lomb.  di  scienze  e  lettere,  1917,  pp.  608-12). 
A.  Calderini,  La  questione   del  pane   nelV antichità,  Milano,    ParaWa,  1917, 

pp.  33. 
L.  T0NELLI,  Z<?  spirito  francese  contemporaneo,  Milano,  Treves,  pp.  xvi-353. 

D.  Urbano,  Scritti  scelti,  con  prefazione  e  note  di  G.  Urbano,  Milanò- 
Roma-Napoli,  Albrighi,  Segati  &  C,  1917,  pp.  210. 

F.  TuLLO,  Degli  elementi  e  degli  echi  storici  virgiliani:  considerazioni  storico- 

letterarie.  Palo  del  Colle,  1917,  pp.  86. 
A.  Chester  Millspaugh,  Partyorganisation  and  màchinary  in  Michigan  since 

i8go,  Baltimore,  The  Johns  Hopkins  Press,  1917,  pp.  viii-189. 
R.  MoNDOLFO,  Le  materialismi  historique  d'après  Fréderic  Engels  (trad.  fr.), 

Paris,  Giard  et  Brière,  1917,  pp.  426. 
M.  A.  Gabellini,  La  questione  del  greco  e  del  latino  (estr.  da  La   Coltura 

popolare,  A.  VII  (1917).  "•  7).  PP-  i5- 

G.  Ferrerò,    Le  genie   latin   et  le   monde   moderne,    Paris,  Grasset,    1917, 

PP-  335. 
P.  Fedele,  La  coscienza  delle  nazionalità  in  Italia  nel  Medio  Eva  (estr.  dalla 

Nuova  Antologia),  1915,  pp.   16: 
G.  Cassi,  //  mare  Adriatico,  Milano,  Hoepli,  1915,  pp.  xix-532. 
I.  Del  Lungo,  Storia  esterna  d'un  piccol  libro  dei  tempi  di  Dante,  Milano- 

Roma-Napoli,  Albrighi  Segati  &  C,  1917,  I,  p.  420. 
R.  Cessi,  //  probtema  bancario  a  Venizia  nel  sec.  XIV  (estr.  dagli  Atti  della 

R.  Accad.  delle  scienze  di  Torino,  voi.  52,  1916-17),  pp.  781-99. 
A.  Gemelli,  Folklore  di  guerra:  per  uno  studio  della  psicologia  del  soldato 

(estr.  da  Vita  e  pensiero,  i*  gennaio  1917),  pp.  11. 
Idem,  Il  principio  di  nazionalità,  Milano,  191 7,  pp.  42. 
G.  Tracconaglia,  Une  page  de  i' histoire  de  V italianisrne  à  Lyon  :  contributo 

allo  studio  dell'italianismo  in  Francia,  Lodi,  1915-17. 
L.  Cappelletti,  Austria  e  Toscana  (1824-59),  Torino,  Bocca,  1917,  pp.  ix-456. 
G.  Pardi,  Lo  sviluppo  demografico  di  una  città  siciliana  {Caltagirone)  (estr» 

dalVArch.  stor,  siciliano,  191 7,  pp.  201-221). 
F.  P.  Giordani,  Storia  della  Russia  secondo  gli   studi  piò,  recenti,  Milano, 

Treves,  1916,  2  voli.,  pp.  viJi-427  ;  374. 
A.  PiNGAUD,  Bonaparte  président   de  la  République  italienne,  Paris,  Perrin 

et  C««;  1917,  2  voli.,  pp.  xxix-490;  529.  {Continua). 


Articoli  che  vedranno  la  luce  nei  prossimi  numeri: 

Corrado  Barbaoallo,  L'Oriente  e  l'Occidente  nell'Impero  romano. 

Idem,  Problemi  di  storia  romana. 

Carlo  Paladini,  Un  invito  dell'  Inghilterra  all'Italia  in  Egitto. 

Aldo  Ffrrari,  L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari. 

Giuseppe  Rensi,  //  concetto  di  storia  della  filosofia. 

Anna  Vera  Eisenstadt,  La  preistoria  della  rivoluzione  russa. 

Vito  Garretto,  Un  precedente  storico  :  La  guerra  frc^  Stati  Uniti  e 

Inghilterra  del  1812. 
Guido  Santini,  Storiografia  elementare. 
Paolo  Terruzzi,  Un'obliata  discussione  sui  <fini  della  guerra  >   in 

Francia. 
Giuseppe  Pardi,  Un  bilancio  preventivo  dello  Stato  fiorentino  nel  1544. 
Gellio  Cassi,  Meditazioni  storiche:  considerazioni  e  raffronti. 
Gerolamo  Lazzeri,  Le  teorie  storiografiche  di  B.  Croce. 
Amedeo  Mazzotti,  La  ^.filosofia  della  storia  »  di  Guglielmo  Ferrerò. 
*:picarmo  Corbìno,  //  progresso  economico  della  Sicilia  negli  ultimi 

decenni. 
Alessandro  Chiappelli,  Domenico  Coniparetti  e  Vopera  sua. 
I  nuovi  programmi  di  storia  per  le  scuole  medie  (C.  B). 
Antonio  Sooliano,  La  bandiera  dell'ellenismo. 
Ivan  Grinenko,  Le  correnti  federaliste  nella  storia  della  Russia  e  nella 

lotta  politica  odierna. 
Gaetano  Salvemini,  Pasquale  Villari  e  l'opera  sua. 

Di  prossima  pubblicazione: 

Per  i'ilaHlà  Iella  [olia  nostia:  inni  e  lallaglie 

Scritti  di  C.  Barbaoallo  ;  E.  BignoneiE.  Ciccottij  A.  Ferrari;  G.  Ferrerò; 
G.  Fraccaroli;  F.  Guglielmino;  R.  Mondolfo;  E.  Pancrazio;  A.  So- 
oliano ;  P.  Terruzzi,  ecc.  ecc. 

—  Anche  questa  volta,  come  il  lettore  avrà  notato,  abbiamo  dovuto,  per 
motivi  di  spazio,  rimandare  la  massima  parte  del  Bollettino  bibliografico.  Nel  pros- 
simo fascicolo  (marzo-aprile  1918)  speriamo  completare  la  pubblicazione  delle 
due  monografie  del  Rota  {Razionalismo  e  storicismo^  ecc.)  e  dell'OTTOLiNi  (Z,a 
Seconda  Cisalpina), 

—  In  rapporto  a  una  Nota  critica  di  C.  B.,  pubblicata  nello  scorso  numero, 
riceviamo  una  lettera,  assai  interessante,  di  Louis  Halphen,  che  daremo  nel 
prossimo  fascicolo. 


A.  Medici,  Gerente  responsabile. 


Città  di  Castello,  Tipografia  della  Casa  Editrice  S.  Lapi^  1918. 


Anno  11.  Marzo- Aprile  1918.  Fasc.  II. 


^uo>/a    ^\>/\s\a    ^\ov\ca 


PASQUALE  VILLARI. 


I.  —  Erudizione,  storia,  politica. 

Nella  seconda  metà  del  secolo  XIX,  gli  studi  storici  sono  stati 
attraversati  da  una  generale  vivacissima  reazione  «  positiva  »  contro  i 
sistemi  a  priori  della  così  detta  «  filosofia  della  storia»  e  contro  gli 
appassionati  preconcetti  politici  e  patriottici,  che  avevano  dominato  e 
turbato  la  istoriografia  durante  le  grandi  crisi  costituzionali  e  nazio- 
nali della  prima  metà  del  secolo.  Messo  al  bando,  come  privo  di  se- 
rietà, ogni  «  soggettivismo  »  di  «  idee  generali  »,  la  storia  della  lette- 
ratura si  ridusse  a  catalogo  di  nomi,  di  date,  di  biografie,  di  riassunti 
d'opere  ;  derisa  come  indizio  di  leggerezza  intellettuale  ogni  velleità 
di  valutazione  estetica,  lo  studio  degli  autori  non  fu  piìi  che  analisi  delle 
fonti,  commento  erudito,  filologico,  grammaticale;  dannato  senz'altro 
come  avventato  e  arbitrario  ogni  tentativo  di  ricostruzione  sintetica  dei 
fatti  passati,  la  storia  politica  si  ridusse  alla  ricerca,  alla  critica,  alla  recen- 
sione dei  testi,  all'esame  di  piccole  questioncelle  accuratamente  isolate 
le  une  dalle  altre,  tutt'al  più  alla  compilazione  di  enciclopedie,  più  o 
meno  corpulente,  in  cui  i  resultati  della  erudizione  frammentaria  veni- 
vano raccolti  senza  idee  direttive,  senza  legami  logici,  senza  premesse 
e  senza  conclusioni.  I  fatti,  i  soli  fatti,  nudi  e  crudi  e  disarticolati  tro- 
neggiarono despoti  del  pensiero.  Fu  sistema  non  aver  sistema. 

I  benefici  arrecati  alla  serietà  scientifica  da  questa  corrente  di  lavoro 
sono  innegabili,  e  sono  stati  grandissimi:  perchè  senza  una  scrupo- 
losa raccolta  di  fatti  criticamente  accertati,  non  vi  ha  né  solidità  né 
probità  di  pensiero,  ma  preconcetto  arbitrario  o  dilettantismo  da  ciar- 
latani. Ma  imponendo  quasi  la  rinuncia  all'uso  della  ragione  per  paura 
di  quegli  errori,  in  cui  può  incorrere  certamente  chi  sente  il  bisogno 

8  —  Nuova  Rivista  Storica. 


114  Gaetano  Salvemini 


di  ragionare,  questa  negazione  di  ogni  sforzo  sintetico  e  di  ogni 
preoccupazione  pratica  ha  prodotto  conseguenze  veramente  funeste 
nella  coltura  storica  e  politica,  specialmente  dell'Italia,  dove  più  arre- 
trate erano  le  condizioni  intellettuali  delle  classi  dirigenti,  e  più  generale 
e  più  fanatico  fu  l'abbandono  dell'antica  e  l'ossequio  alla  nuova  moda. 

Si  ruppe  ogni  circolazione  di  pensiero  fra  gli  studi  storici  e  la 
pratica  politica.  Mentre  gli  storici  accumulavano  fatti  senza  estrarne 
nessuna  idea,  le  persone  colte  non  sapevano  che  farsi  di  quei  fatti,  e 
rimanevano  senza  idee.  I  giovani  non  lessero  più  i  libri  di  storia,  in 
cui  nulla  più  li  interessava,  e  rimasero  abbandonati  nella  loro  educa- 
zione politica  alle  sole  improntitudini  dei  giornali  quotidiani.  Spentasi 
quella  luce,  che  viene  .dalla  conoscenza  delle  tradizioni  nazionali  del 
proprio  paese  e  degli  altri,  l'azione  di  Governo  si  ridusse  ad  un  em- 
pirismo inintelligente  e  incoordinato,  ad  una  imitazione  brutale  di 
iniziative  altrui,  a  un  continuo  fare  e  disfare  di  politicanti  e  di  burò- 
crati improvvisatori  e  maldestri. 

In  questo  generale  inaridimento  degli  studi  storici  e  impoveri- 
mento del  pensiero  politico,  Pasquale  Villari  continuò,  correggendola 
e  adattandola  ai  nuovi  tempi,  la  tradizione  degli  storici  moralisti  del 
nostro  Risorgimento. 

Avendo  sentito  in  Napoli,  proprio  sui  venti  anni,  nel  momento  de- 
cisivo della  formazione  intellettuale,  durante  la  crisi  del  *48,  la  influenza 
d'un  grande  maestro  di  pensiero  e  di  vita  —  Francesco  De  Sanctis  — ; 
orientatosi  definitivamente  versogli  studi  storici,  fra  il  1849 e  il  1859, 
in  Toscana,  in  un  ambiente  cioè  tutto  imbevuto  di  realismo  prudente 
e  metodico,  ma  fervido  anche  esso  delle  preoccupazioni  morali  della 
nostra  formazione  patriottica;  —  il  Villari  accettò  e  predicò  costante- 
mente la  necessità  di  sottoporsi  alla  rigida  disciplina  dei  nuovi  me- 
todi: i  quali,  del  resto,  erano  nuovi  solo  per  modo  di  dire,  perchè 
erano  i  metodi  di  tutti  i  grandi  eruditi  italiani  dei  secoli  XV  e  XVI, 
perfezionati  in  Italia  e  fuori  d'Italia  nei  secoli  successivi,  e  applicati 
più  sistematicamente  nelle  università  germaniche  del  secolo  XIX.  Ma 
anche  nei  momenti  in  cui  la  cosiddetta  «  scuola  storica  »  aveva  per 
sé  la  quasi  unanimità  degli  studiosi  italiani,  il  Villari  si  rifiutò  sempre 
di  accettarne  i  criteri  angusti  ed  esclusivi. 

Certi  eccessi  ed  errori  —  egli  ripeteva  —  che  sono  occorsi  finora 
nel  lavoro  della  sìntesi  storica,  lungi  dal  rendere  necessario  l'abban- 
dono di  ogni  tentativo  di  sintesi,  sono  una  prova  manifesta  del  bi- 
sogno incoercibile,  che  sospinge  il  nostro  spirito  a  unificare  i  dati 
della  ricerca  storica,  sia  pure  con  ipotesi  provvisorie  e  magari  fallaci. 

Questo  bisogno  nasce  in  noi  dal  fatto  che  la  conoscenza  sintetica 
del  passato  è  il  solo   mezzo,  che  abbiamo  per  renderci  conto  della 


Pasquale   Vii  tari  115 


nostra  genesi  intellettuale  e  morale,  e  dell'indole  delle  grandi  forze, 
che  muovono  la  società  in  cui  viviamo.  Noi  non  possiamo  spiegare 
l'uomo,  se  non  conosciamo  i  suoi  tempi;  e  non  possiamo  conoscere 
i  suoi  tempi,  senza  conoscere  la  storia  del  passato:  perchè  questo 
passato  vive  trasformato  nei  suoi  tempi,  i  quali  vivono  in  lui.  Noi  non 
saremmo  quello  che  siamo,  se  non  fossero  stati  i  Greci  da  cui  abbiamo 
avuto  tante  idee  artistiche  e  filosofiche  ;  se  non  fossero  stati  i  Romani 
dai  quali  abbiamo  avute  tante  idee  giuridiche  e  politiche  ;  non  saremmo 
quello  che  siamo,  se  non  fosse  stata  la  Rivoluzione  francese,  la  Rivo- 
luzione italiana,  tutta  la  storia  del  passato.  Se,  per  ipotesi,  ci  proviamo 
a  cancellare  dalla  storia  i  Greci  e  i  Romani,  che  cosa  facciamo  ?  Non 
solamente  lasciamo  una  lacuna  nel  corso  degli  avvenimenti;  non  so- 
lamente rendiamo  difficile,  impossibile  il  comprendere  i  fatti  poste- 
riori ;  ma  per  cancellare  dalla  storia  quei  due  popoli,  quelle  due  ci- 
viltà, dobbiamo  cancellare  anche  una  parte  della  nostra  coscienza, 
della  nostra  personalità.  Se,  invece,  attraverso  gli  studi  storici,  noi  ci 
sforziamo  di  determinare  il  punto  di  partenza  delle  singole  forze,  che 
hanno  contribuito  a  creare  la  nostra  società  e  il  nostro  spirito,  le  di- 
rezioni seguite  da  ciascuna  di  esse,  il  momento  ed  il  modo  d'incro- 
ciarsi delle  une  con  le  altre,  noi  impariamo  così  ad  analizzare  il  mondo 
in  cui  viviamo  e  gli  elementi  costitutivi  della  nostra  personalità,  impa- 
riamo a  conoscere  nell'equilibrio  presente  della  vita  sociale  e  della  no- 
stra vita  psichica,  quali  fattori  sono  primitivi  e  permanenti,  quali  se- 
condari e  variabili  ;  raccogliamo  i  presupposti  indispensabili,  non  solo 
per  una  conoscenza  scientifica  del  presente,  ma  anche  per  qualunque 
azione  politica  voglia  riuscire  davvero  intelligente  ed  efficace. 

Non  v'ha  errore  più  pericoloso  alla  coltura  politica  di  un  paese, 
che  negare  la  storia  per  la  erudizione,  e  rompere  così  ogni  ponte  di 
passaggio  fra  lo  studio  del  passato  e  la  vita  presente.  Un  nostro 
alunno  —  egli  raccontava  —  valoroso  davvero,  aveva  speso  due  anni 
nello  studio  d'una  pessima  poesia  in  dialetto  del  secolo  XVIH,  ed  aveva 
finito  con  lo  scoprirne  le  fonti  in  due  pessime  poesie  francesi.  Tutta 
questa  ricerca  era  fatta  con  tanta  dottrina,  con  un  metodo  così  rigo- 
roso, con  tale  ingegno,  che  bisognò  addottorarlo  con  lode.  Ma  a  che 
così  grande  dottrina  ?  non  sarebbe  stato  meglio  occuparsi  d'altro  ?  Qua- 
lunque soggetto  di  studio  può  essere  trattato  con  lo  stesso  metodo 
critico  e  condurre  a  resultati  positivi.  Ma  fra  gli  infiniti  possibili  sog- 
getti di  studio,  lo  storico  deve  scegliere  di  preferenza  quelli,  i  cui  re- 
sultati possano  meglio  contribuire  al  progresso  della  coltura  politica 
del  proprio  paese. 

Questa  preoccupazione  pratica,  ereditata  dal  pensiero  del  Risor- 
gimento, mentre,  associata  alle  innate  attitudini  sintetiche,  salvò  il  Vii- 


ii6  Gaetano  Salvemini 


lari  dal  pericolo  di  diventare,  anche  lui,  come  tanti  suoi  contempo- 
ranei, un  semplice  erudito,  non  poteva  non  costituire  una  insidia  assai 
pericolosa  per  l'opera  dello  storico. 

Lo  storico  deve  certamente  essere  guidato,  nella  scelta  degli  ar- 
gomenti, a  cui  vuole  applicare  la  sua  curiosità,  da  un  saldo  sentimento 
della  funzione  dei  suoi  studi  neir  insieme  delle  scienze  morali,  e  della 
funzione  delle  scienze  morali  nella  coltura  politica  moderna:  ed  è 
merito  del  Villari  aver  mantenuto  alto  questo  principio  con  la  teoria 
e  con  la  pratica,  quando  era  generalmente  discreditato.  Ma  non  appena 
lo  storico  sia  stato  condotto,  dalle  preoccupazioni  morali  del  suo  tempo, 
a  scegliere  un  determinato  soggetto  per  le  sue  ricerche,  da  quel  mo- 
mento in  poi  i  doveri  del  metodo  critico  devono  dominare  sovrani,  e 
non  consentono  più  T  intervento  di  nessun  principio  morale,  salvo 
quello  del  più  assoluto  ossequio  alla  verità.  Lo  storico  non  deve  né 
condannare  né  assolvere,  deve  semplicemente  spiegare;  il  suo  ufficio 
si  riduce  tutto  a  risolvere  il  problema,  dicìam  così,  quantitativo,  di 
incatenare  logicamente  i  fatti  in  un  sistema  di  concomitanze  e  di  causa- 
lità. Se  non  avrà  risoluto  obbiettivamente  questo  problema,  il  suo 
lavoro  non  raggiungerà  né  un  valore  scientifico  né  una  utilità  pratica. 

Se  non  che  quello  stesso  interesse  politico,  o  religioso,  o  sociale, 
che  ha  orientato  lo  storico  nella  scelta  deirargomento,  e  ne  sostiene 
il  fervore  nella  fatica  della  ricerca,  dell'esame,  del  coordinamento  e 
della  elaborazione  letteraria  del  materiale,  quello  stesso  interesse  mi- 
naccia continuamente  di  sviarlo  dal  freddo  lavoro  critico,  lo  tenta  a 
sostituire  la  valutazione  morale  alla  spiegazione  storica,  può  turbare 
più  o  meno  profondamente  la  stessa  spiegazione  storica. 

Il  Villari  sa  benissimo  anche  lui  che  il  lavoro  critico  non  tollera 
pregiudiziali  morali,  che  Io  storico  non  è  un  professore  di  costumi, 
addetto  a  ricercare  nel  passato  esempi  buoni  o  cattivi  da  raccoman- 
dare alla  ammirazione  o  alla  esecrazione  dei  posteri.  Ma  la  teoria  non 
è  così  penetrata  nel  suo  spirito,  da  imprimere  costantemente  al  suo 
lavoro  un  indirizzo  risoluto  e  rettilineo. 


II.  —  Le  opere  storiche. 

Osserviamolo,  infatti,  nella  Storia  di  Gerolamo  Savonarola.^  Di- 
nanzi alle  tragica  figura  di  questo  mistico  medioevale  e  moralista 
eroico,  sbalestrato  nell'Italia  della  fine  del  secolo  XV,  a  lottare  contro 
tutte  le  correnti  intellettuali  e  morali  del  Rinascimento  e  a  naufragarvi 


i  L'ottimo  profilo  dì  Francesco  Baldasseroni,  Pasquale  Villari,  Tip.  Galileiana, 
1907,  mi  dispensa  da  ogni  necessità  di  sistematiche  notizie  biografiche  e  bibliografiche. 


Pasquale   Villari  117 


miseramente,  il  Yillari  resta  affascinato  e  interdetto.  Nell'Italia  del- Ri- 
nascimento, che  dà  Leonardo  e  Michelangiolo,  Machiavelli  e  Ariosto, 
e  prepara  Giordano  Bruno  e  Galileo,  il  Savonarola  è  un  ritardatario 
e  uno  spostato:  quell'Italia  egli  la  maledice  e  ne  viene  stritolato.  Ma 
quest'  Italia  è  anche  il  paese  di  Alessandro  VI  e  di  Ludovico  il  Moro, 
moralmente  pervertito  e  politicamente  disorganizzato,  fatto  preda  e 
ludibrio  alla  prepotenza  straniera:  è  veramente  la  bolgia  d'inconti- 
nenza e  di  scetticismo,  maledetta  dal  frate  di  S.  Marco.  Chi  ha  dun- 
que ragione,  fra  il  frate  mistico  e  moralista,  e  V  Italia  razionalista  ed 
esteta  del  Rinascimento?  La  riforma  morale  predicata  dal  frate,  era 
un'impresa  ragionevole,  per  quanto  sventurata,  oppure  il  sogno,  sia 
pure  eroico,  di  un  allucinato? 

II  problema,  per  lo  storico,  non  esiste  :  questa  era  la  società,  que- 
sto era  l'uomo,  così  scoppiò  il  contrasto,  così  ebbe  termine  il  dramma: 
esaurite  queste  domande,  lo  storico  ha  esaurito  il  suo  compito.  Il 
Villari  è,  invece,  continuamente  assillato  nel  suo  studio  dalla  inquie- 
tudine dì  questo  problema.  La  coscienza  morale  lo  spinge  all'entusia- 
smo pel  martire;  le  abitudini  critiche  gli  vietano  di  disconoscere  la 
povertà  infantile  di  quel  pensiero.  In  qualche  punto  accenna  a  voler 
superare  la  contraddizione,  inserendo  il  Savonarola  nella  corrente  in- 
tellettuale del  Rinascimento,  e  facendone  un  precursore  della  libertà 
di  pensiero,  uno  spirito  della  famiglia  di  Telesìo,  di  Campanella,  di 
Bruno,  un  uomo  insomma  che  conciliava  la  fede  religiosa  del  Medio 
Evo  e  la  libertà  intellettuale  dell'età  nuova.  Ma  la  dimostrazione  è  ap- 
pena accennata;  né  potrebbe  riuscire  vittoriosa. 

Fortunatamente,  nella  seconda  metà  dell'opera,  via  via  che  l'astu- 
zia diabolica  di  Alessandro  VI  e  dei  Priori  di  Firenze  stende  i  suoi 
tentacoli  intorno  al  povero  frate  dalla  cappa  lacera,  e  questi  se  ne 
lascia  avvolgere  più  per  il  fanatismo  dei  seguaci  che  per  volontà  pro- 
pria; —  e  noi  vediamo  delinearsi  il  contrasto  irreducibile  fra  il  frate,  che 
aspira  ad  una  riforma  religiosa  e  morale,  e  i  suoi  stessi  seguaci,  che 
si  preoccupano  soprattutto  del  problema  politico  di  difendere  la  Re- 
pubblica contro  una  reazione  medicea;  —  e  da  un  lato  cresce  la  esalta- 
zione mistica  del  frate  e  dei  suoi  più  intimi  seguaci,  dall'altro  la  stan- 
chezza e  la  paura  invade  i  borghesi  fiorentini,  che  non  sanno  più 
dove  vendere  il  vino  e  la  lana,  se  Firenze  è  interdetta  dal  Papa;  — 
il  popolo  esaltato  da  quattro  anni  di  prediche  e  penitenze,  di  flagelli 
che  arrivano  e  di  .flagelli  che  gli  .si  preannunciano,  è  condotto  alla 
fine  ad  esigere  che  il  profeta  faccia  un  miracolo  per  confermare 
la  fede  che  vacilla;  —  e  in  Piazza  della  Signoria  noi  aspettiamo  col 
popolo  che  il  miracolo  avvenga,  mentre  in  Palazzo  i  Signori,  d'ac- 
cordo coi  nemici  del  frate,  mandano  le  cose  per  le  lunghe,  affinchè  la 


ii8  Gaetano  Salvemini 


prova  non  avvenga,  e  la  folla  si  stanchi;  —  il  piano  perfidissimo  riesce 
alla  perfezione;  i  fedeli  del  profeta  si  sbandano  delusi;  il  convento  è 
assalito  ;  il  frate  e  due  compagni  di  sventura  sono  processati  fra  tor- 
menti atroci  e  falsità  infami  ;  finalmente  i  tre  cadaveri  penzolano  sul 
rogo,  grondanti  viscere  e  sangue,  lapidati  dalla  folla;  —  via  via  insomma 
che  la  tragedia  con  logica  spietata  precipita  alla  catastrofe,  e  l'argo- 
mento consente  alla  simpatia  morale  di  darsi  libero  sfogo  senza  tur- 
bare la  ricerca  critica,  anzi  la  simpatia  acuisce  la  penetrazione  dello 
studioso  e  ne  sferza  le  attitudini  artistiche;  allora  l'opera  del  Villari  non 
solo  riesce  magnifica  come  opera  di  scienza^e  come  opera  d'arte,  ma 
rende  partecipe  scrittore  e  lettore  della  medesima  esaltazione  morale. 
In  uno  stato  d'animo  assolutamente  opposto  il  Villari  si  trova, 
allorché  studia  Niccolò  Machiavelli  e  i  suoi  tempi.  Il  segretario  fioren- 
tino non  è  un  mistico  medioevale:  discorre  e  parla  come  noi;  pos- 
siede un  potente  spirito  realista,  osservatore  ed  indagatore;  riduce 
tutti  i  fatti  della  storia  e  della  politica  a  cause  naturali;  al  disopra  della 
piccola  patria  fiorentina,  sente  l'esistenza  della  universale  nazionalità 
italiana,  e  vede  chiaramente  la  necessità  di  riunire  l' Italia  in  un  unico 
Stato  per  garantirne  la  indipendenza  contro  ogni  straniero  ;  ha  predi- 
cato con  ardore  disinteressato  e  con  fedie  non  mai  indebolita  la  neces- 
sità di  sostituire  il  servizio  militare  obbligatorio  alle  milizie  mercenarie  ; 
presenta,  insomma,  il  perfetto  tipo  intellettuale  dello  scienziato  e  del 
politico  moderno. 

Ma  il  primo  scritto,  che  ci  è  pervenuto  di  lui,  è  una  lettera  dì 
scherno  sulle  «  bugie  »  del  Savonarola  ;  ama  le  allegre  compagnie,  scrive 
lettere  e  comn^edie  oscene;  serve  il  partito  repubblicano,  quando  i 
Medici  sono  espulsi  da  Firenze,  e  si  offre  di  servire  i  Medici,  non  ap- 
pena è  caduto  il  regime  repubblicano  ;  l'arte  del  governare  è,  nel  suo 
spirito,  del  tutto  indipendente  dai  precetti  morali;  le  azioni  politiche 
non  sono  per  lui  oneste  o  disoneste,  ma  utili  o  dannose,  e  perciò  lode- 
voli o  biasimevoli,  secondo  che  sì  propongono  e  raggiungono  o  no 
il  fine  della  potenza  dello  Stato  ;  del  Principe,  che  deve  unificare 
l'Italia,  fa  un  mostro  di  perfidia  e  dì  crudeltà,  a  cui  insegna  quando  e 
come  deve  mentire,  ingannare,  tradire  ;  sopra  tutti  gli  uomini  del  suo 
tempo  ammira  proprio  Cesare  Borgia:  esiste  fra  lui  e  il  suo  storico 
un  abisso  di  repugnanza  morale. 

E  per  quanto  il  Villari  si  sforzi  di  comprenderlo  e  spiegarlo,  e 
ripeta  che  un  uomo  non  può  essere  compreso  fuori  del  suo  tempo, 
che  il  secolo  XVI  non  deve  essere  giudicato  con  i  criteri  morali  dei 
giorni  nostri,  che  il  Machiavelli  discute  problemi  dì  tecnica  polìtica  e 
non  di  morale  privata,  —  pure  la  insoddisfazione  morale  finisce  sempre 
col  prevalere  sui  canoni  astratti  della  curiosità  disinteressata.  A  che 


Pasquale   Villari  119 


vale  allo  studioso  ripetere  cofi  fa  ragione  che  un  secolo  non  può  essere 
giudicato  con  le  idee  morali  di  altri  secoli,  se  nel  contrasto  fra  la 
prodigiosa  attività  intellettuale  ed  artistica  del  Rinascimento  e  i  vizi 
osceni  e  i  delitti  freddi  e  spietati,  fra  il  progresso  intellettuale  e  la 
disorganizzazione  morale,  il  suo  cuore  sente  maturarsi  la  prossima 
catastrofe  della  patria,  se  tutta  la  vita  del  suo  spirito  si  fonda  sulla 
convinzione  assoluta,  che  le  Società  più  prospere,  più  forti,  che  eser- 
citano una  più  grande  e  generale  azione  sulla  civiltà  del  mondo,  sono 
le  società  più  oneste  ?  Quella  atroce  mescolanza  di  razionalismo,  di 
estetismo  e  di  putredine  morale  lo  disgusta  e  lo  sgomenta;  la  rovina 
politica  dell'Italia,  in  tanto  splendore  di  arti  e  di  scienze,  lo  colpisce  di 
tragico  terrore.  Quel  secolo  lo  descrive  nelle  sue  molteplici  attività, 
raggiungendo  spesso  una  grande  efficacia  di  rappresentazione  ;  ma  ogni 
unità  in  quelle  manifestazioni  contraddittorie  gli  sfugge:  non  può  com- 
prendere, perchè  non  può  amare.  E  la  unità  nazionale,  costituita  coi 
metodi  preconizzati  dal  Machiavelli,  non  sa  né  respingerla,  né  accet- 
tarla. Egli  é  continuamente  a  domandarsi:  fu  un  uomo  onesto,  fu  un 
disonesto  ?  questo  gigante  del  pensiero  fu,  dunque,  un  mostro  morale  ? 

Siffatta  inquietudine  —  non  storica  —  lo  paralizza  anche  nella  so- 
luzione del  problema  storico.  Gli  sfugge,  per  esempio,  quello  che  è 
il  nodo  centrale  del  pensiero  politico  del  Machiavelli:  la  distinzione 
fra  lo  «  stato  sano  »,  in  cui  le  istituzioni  domano  e  disciplinano  la 
perversità  naturale  degli  individui,  e  la  legge  morale  può  essere  norma 
di  condotta  a  governanti  e  governati;  e  lo  «stato  corrotto»,  in  cui 
gli  egoismi  indfviduali  hanno  rotto  ogni  freno  di  legge,  e  nello  sfacelo 
di  tutte  le  istituzioni  lo  Stato  diviene  incapace  di  difendere  la  sua  indi- 
pendenza contro  gli  Stati  vicini  ;  e  allora  —  e  T  Italia  del  500  è  il  più 
miserabilmente  corrotto  di  tutti  gli  Stati  —  unica  via  di  salvezza  é  per  la 
Nazione  la  comparsa  di  un  uomo,  che  ricostituisca  il  vigore  della  orga- 
nizzazione politica,  con  quei  mezzi,  che  la  corruzione  e  la  perfidia  uni- 
versale consentono,  affinché  la  Nazione  si  salvi  e  nello  Stato,  ridive- 
nuto «  sano  »,  possano  riprendere  dominio  su  governanti  e  governati 
le  norme  della  legge  morale.^  ' 

E  la  insoddisfazione,  che  lo  turba  per  la  mancata  soluzione  e 
del  problema  storico  e  del  problema  morale,  si  manifesta  anche  nella 
struttura  letteraria  del  libro,  in  cui  la  cornice  della  storia  dei  tempi  non  è 
né  proporzionata  né  coordinata  con  quello,  che  dovrebbe  essere  il  vero  e 
proprio  quadro,  la  vita  e  il  pensiero  del  Machiavelli.  L'opera,  insomma, 
è  mancata,  non  sala  come  opera  di  storia,  ma  anche  come  opera  d'arte. 


»  Ercole,  Lo  «  Stato  »   nel  pensiero  di  N.  Machiavelli,  negli  Studi  economici  e 
giuridici  della  R.  Università  di  Cagliari,  sol.  Vili  (1916),  e  voi.  DC  (1917). 


Gaetano  Salvemini 


Felicissima,  invece,  è  la  posizione  intellettuale  e  morale  del  Villani 
innanzi  ai  Primi  due  secoli  della  Storia  di  Firenze.  Per  studiare  questo 
argomento,  il  Villari  non  aveva  che  un  materiale  frammentario  e  po- 
verissimo di  cronache  e  documenti.  Ma  alle  lacune  delle  fonti  storiche 
suppliva  l'alta  attitudine  sintetica  dell'ingegno.  E  l'ingegno  era  sor- 
retto e  quasi  moltiplicato  da  una  simpatia  calda,  incondizionata.  Si 
trattava  qui  di  comprendere  l'ascensione  del  popolo  nostro  dalla  bar- 
bara disorganizzazione  feudale  a  quella  potente  civiltà  artigiana  e  de- 
mocratica dei  nostri  comuni,  forte  e  gentile  primavera  dello  spirito, 
che  vide  pensatori  come  S.  Tommaso,^  e  poeti  come  Dante  ;  produsse 
il  «Cantico  delle  creature»  e  gli  «Ordinamenti  di  giustizia»;  elevò 
le  navate  di  S.  Maria  del  Fiore  e  la  mole  del  Palazzo  della  Signoria. 
L'ammirazione  non  si  elideva,  in  questo  caso,  con  la  curiosità  :  la  cu- 
riosità soddisfatta  rendeva  più  viva  l'ammirazione. 

E  in  un  magnificò  slancio  di  pensiero  e  di  simpatia,  il  Villari 
creò  quasi  dal  niente  la  storia  sociale  e  politica  del  Comune  di  Fi- 
renze, riducendo  a  luminosa  unità  i  dati  scarsi  e  discontinui  delle 
fonti,  scoprendo  una  successione  necessaria  di  lotte  di  classe  al  disotto 
di  quelle,  che  erano  state  raccontate  fino  allora  come  capricciose  risse 
personali  e  rivalità  di  famiglie:  opera  veramente  ammirabile,  soprat- 
tutto se  viene  messa  in  relazione  con  lo  stato  degli  studi  in  Italia 
prima  del  1870,  e  col  movimento  di  ricerche  da  essa  determinato  : 
perchè  le  parti  più  originali  e  più  solide  furono  pubblicate  nel  1866 
e  1867;  e  se  gli  studiosi,  che  sono  venuti  dopo,  hanno  visto  talvolta 
più  lontano,  lo  debbono  al  fatto  di  aver  potuto  salire  sulle  sue  spalle  ; 
e  con  tutto  questo,  anche  oggi,  le  linee  generali  della  storia  comunale 
fiorentina  restano  quelle  che  il  Villari  tracciò  mezzo  secolo  fa. 

III.  —  L'insegnamento  universitario. 

Quelle  stesse  attitudini  sintetiche  e  quello  stesso  fervore  morale, 
che  spiegano  l'indirizzo  e  le  debolezze  e  le  forze  dell'opera  storica 
del  Villari,  dovevano  fare  di  lui  un  grande  insegnante  universitario  e 
preparatore  d'insegnanti  di  storia  per  le  scuole  secondarie. 

Se  Io  storico  deve  essere  non  un  erudito  indifferente  ai  problemi 
morali  e  politici  del  suo  tempo,  ma  un  politico  e  un  moralista,  che 
con  la  disciplina  della  erudizione  deve  cercare  nel  passato  la  origine 
della  società,  in  cui  deve  vivere  ed  operare,  —  l'insegnante  di  storia 
deve,  più  ancora  dello  storico,  guardarsi  bene  dalla  pura  erudizione 
gelida  e  incoordinata;  perchè  nella  società  moderna  egli  ha  il  compito  di 
educare,  con  l'aiuto  della  storia,  gli  alunni  ad  esercitare  con  intelligenza 
le  future  funzioni  politiche,  e  adempiere  con  coscienza  i  doveri  sociali. 


Pasquale  Villari  121 


Di  questa  verità  il  Villari  ebbe  una  visione  lucidissima.  L*  insegna- 
mento della  storia  —  egli  insegnava  — ,  come  qualunque  altro  insegna- 
mento, non  è  fine  a  sé  stesso.  È  un  mezzo,  con  cui  dobbiamo  rag- 
giungere un  determinato  fine  intellettuale  e  morale,  e  questo  fine  ci 
è  indicato  dai  bisogni  della  società  democratica  moderna,  in  cui  la 
scuola  vive  e  per  cui  deve  preparare  la  gioventù.  Non  già  che  l' inse- 
gnante di  storia  debba  modellare  i  suoi  alunni  secondo  la  propria  fede 
politica  o  religiosa,  o  secondo  indirizzi  ufficiali  imposti  dal  governo. 
Non  v'ha  illusione  più  inetta,  oltre  che  immorale,  di  quella  che  pre- 
tende far  servire  la  scuola  al  trionfo  o  al  consolidamento  di  determi- 
nati principi  politici  o  religiosi  :  le  grandi  correnti  intellettuali  e  morali 
si  formano  sempre  fuori  della  scuola,  e  gli  uomini  le  creano  e  se  ne 
lasciano  trascinare  indipendentemente  dagli  impulsi  ricevuti  dalla  scuola: 
dai  licei  gesuitici  uscirono  quasi  tutti  i  liberi  pensatori  e -Rivoluzionari 
dei  secoli  XVIII  e  XIX.  Ma  l'alunno,  che  nello  studio  della  storia  abbia 
imparato  la  propria  discendenza  intellettuale  e  morale,  e  confrontando 
il  passato  col  presente,  abbia  preso  l'abitudine  di  cercare  nel  passato 
gli  embrioni  del  presente,  e  in  questo  uno  sviluppo  perenne  del  pas- 
sato; e  si  sia  reso  conto  in  questo  modo  della  complessità  della  struttura 
sociale,  della  relatività  delle  istituzioni  e  delle  idee,  dei  rapporti  di  inter- 
dipendenza e  di  causalità,  che  stringono  fra  loro  i  fenomeni  sociali 
consecutivi  e  contemporanei  ;  —  quell'alunno,  quale  che  sia  il  suo  grado 
sociale,  quali  che  siano  le  sue  idee  politiche  e  religiose,  qualunque  posto 
di  combattimento  gli  avranno  assegnato  le  tradizioni  di  famiglia,  gì'  in- 
teressi, la  suggestione  dell'ambiente,  il  temperamento  individuale;  — 
quell'alunno  non  sarà  né  un  semplicista,  né  un  intollerante,  né  un  cieco  ; 
?  non  crederà  che  il  jnondo  non  debba  più  mutare  o  possa  mutare  ad 
un  tratto;  saprà  osservare,  criticare,  valutare  i  fatti  con  pensiero,  se 
non  assolutamente  sereno,  certo  meno  esclusivo  e  meno  nebbioso  di 
chi  sia  privo  di  ogni  punto  di  vista  storico,  di  chi  non  abbia  mai 
esercitato  e  raffinato  il  suo  pensiero  nella  osservazione  dei  fatti  del  pas- 
sato. Ed  é  appunto  questa  maggiore  agilità  intellettuale,  questo  pensiero 
più  spregiudicato,  più  plastico,  più  largo,  il  frutto  prezioso-  di  una 
buona  coltura  storica,  che  l'alunno  porterà  seco  nella  vita,  dopo  la 
scuola,  anche  se  col  passare  degli  anni  dimenticherà  tutti  i  singoli 
fatti  storici,  che  avrà  imparato  nella  scuola.  Di  questa  propria  specifica 
funzione  educativa  l'insegnante  deve  sentire  la  coscienza,  e  i  doveri, 
e  l'orgoglio,  nella  moderna  società. 

Ora  questa  funzione  non  si  può  compiere  senza  la  guida  di  idee 
generali  sui  problemi  della  vita  presente  e  sulla  evoluzione  della  vita 
passata.  Il  valore  del  professore  di  storia  —  Egli  insegnava  —  si  misura 
non  tanto  da  ciò  che  dice  quanto  da  ciò  che  sa  tacere  ;  traspare  dal- 


Gaetano  Salvemini 


l'arte,  con  cui,  nel  cumulo  dei  dati  e  delle  notizie,  sa  discernere  e  met- 
tere in  rilievo  il  fatto  essenziale  e  il  concetto  semplice,  sacrificando 
alla  chiarezza  e  al  fine  educativo  ogni  erudizione  superflua:  idee  poche, 
ma  chiare.  Ma  senza  idee  generali,  voi  sarete  incapaci  di  adattarvi  alle 
necessità  dell' insegnamento  :  il  vostro  occhio  non  avrà  il  senso  della 
prospettiva  e  della  misura  :  voi  non  saprete  isolare  dalle  altre  la  nozione, 
che  merita  l'attenzione  dello  spirito,  e  presentarla  in  maniera  che  l' in- 
telligenza dell'alunno  nel  cogliere  il  dato  nuovo  percepisca  le  relazioni, 
che  r  uniscono  ai  dati  antichi,  e  componga  con  esso  un  tutto.  Lo  studio 
si  ridurrà  per  i  vostri  alunni  ad  uno  sforzo  di  memoria  inutile  e 
disperato. 

Le  idee  generali,  il  Maestro  non  ce  le  dava  belle  e  fatte,  perchè 
le  ripetessimo  a  pappagallo  ai  nostri  alunni,  e  le  usassimo  come  guan- 
ciali alla  nostra  pigrizia  mentale.  Ne  suscitava  in  noi  il  bisogno,  espo- 
nendoci le  principali  teorie  storiche,  elaborate  via  via  dai  grandi  spiriti 
dell'umanità.  E  poiché  sentiva  che  a  noi,  appena  venuti  dal  liceo, 
mancava  la  preparazione  necessaria  per  seguire  una  vera  e  propria 
anàlisi  di  sistemi,  spesso  eccessivamente  astrusi,  aveva  l'abilità  istintiva 
di  rappresentare  volentieri  la  idea  centrale  di  ciascun  sistema  con  una 
imagine  plastica,  magari  umoristica.  —  Per  esempio,  spiegandoci  la 
teoria  di  S.  Agostino  e  di  Bossuet,  dopo  averci  detto  che  base  di  essa 
è  un  Dio  creatore  e  guidatore  del  mondo,  che  conduce  l'Umanità  verso 
un  fine  che  le  è  ignoto,  e  che  questa  concezione,  facendo  dell'uomo 
uno  strumento  di  una  mente  superiore,  è  la  negazione  di  ogni  impulso 
per  lo  studio  storico,  riassumeva  la  esposfzione  e  la  critica  in  un'  ima- 
gine :  in  questa  teoria  la  provvidenza  guida  i  popoli,  come  un  cocchiere 
guida  i  cavalli.  —  Voleva  spiegarci  che  la  mancanza  del  sentimento 
delia  relatività  storica  è  una  delle  caratteristiche  fondamentali  della 
coltura  dei  secoli  anteriori  al  secolo  XIX?  —  Vi  è  in  una  delle  Biblio- 
teche di  Firenze  un  manoscritto  prezioso,  un  Virgilio  illustrato,  si  dice, 
da  Benozzo  Gozzoli.  L'artista  ha  rappresentato  le  scene  déWEneide. 
Si  vede,  fra  le  altre  cose,  il  cavallo  di  legno,  in  cui  sono  nascosti  i 
Greci,  introdotto  nella  città  di  Troia,  I  Greci  ne  escono,  e  che  cosa 
vedono  nella  città  di  Troia  ?  Il  palazzo  Riccardi,  la  Loggia  dei  Lanzi, 
il  Palazzo  Vecchio,  e  i  Troiani  sono  vestiti  con  le  vesti  dei  cittadini 
fiorentini  del  secolo  XV.  Ora  immaginate  un  poco,  che  oggi  un  artista 
volesse  rappresentarci  il  Padre  degli  Dei  con  la  giubba  e  la  cravatta 
bianca,  il  cappello  a  tuba  e  la  sciarpa  tricolore  del  Sindaco.  —  Voleva 
darci  una  impressione  delle  differenti  abitudini  intellettuali  degli  studiosi 
inglesi,  francesi,  tedeschi?  —  Un'Accademia  propose  un  premio  alla 
più  completa  monografia  sul  cammello  :  un  francese  andò  a  studiarlo 
al  giardino  pubblico;  un  inglese  fece  i  suoi  bauli  e  parti  per  i  paesi 


Pasquale  Villari  123 


dove  il  cammello  vive  libero;  un  tedesco  se  lo  levò  dalla  propria 
coscienza.^ 

Così  nella  parola  di  quel  piccolo  uomo,  che  spariva  quasi  nella 
cattedra,  mostrandoci  solo  al  di  là  una  grande  fronte  luminosa,  sfila- 
vano innanzi  al  nostro  spirito  S.  Agostino  e  Dante,  Machiavelli  e  Vico, 
Montesquieu  e  Kant,  Herder  ed  Hegel,  Buckle  e  Tocqueville.  Così  fummo 
spinti  a  leggere  Guizot  e  Thierry,  Macaulay  e  Sainte  Beuve,  Taine  e 
Sorel,  Bryce  e  Laveley.  E  così  eravamo  costretti  anche  ad  elaborarci 
una  coscienza  nuova,  con  l'anelito  del  nostro  lavoro,  attraverso  crisi 
giovanili,  dolorose  e  benefiche. 

Che  le  sue  fossero  proprio  lezioni  di  storia  e  di  metodo  storico, 
non  si  può  dire.  Provvedevano  a  questo  gli  altri  insegnanti  dell*  Istituto. 
Concordi,  puntuali,  inflessibili,  ognuno  di  essi,  in  quella  casa  smobi- 
liata o  male  anmiobìliata  che  era  la  nostra  coltura,  si  prendeva  una 
stanza,  e  ci  insegnava  a  tenerla  in  ordine,  a  restaurare  i  mobili  scian- 
cati, a  trasformare  o  eliminare  quelli  di  cattivo  gusto.  Lui  entrava  in 
tutte  le  stanza,  spalancava  porte  e  finestre,  faceva  circolare  ovunque 
l'aria  e  la  luce,  disfaceva  magari  l'ordine  degli  altri.  Ufficialmente, 
insegnava  storia  moderna.  In  realtà  ci  insegnava  una  infinità  di  cose, 
compresa  la  storia  moderna  :  ci  insegnava  soprattutto  a  non  essere 
mummie,  ad  essere  uomini. 

E  non  solamente  era  il  nostro  maestro  :  era  il  nostro  grande  amico. 
Faceva  con  noi  lunghe  passeggiate,  interrogatore  pertinace,  critico 
imbarazzante,  discutendo  i  nostri  lavori,  indicandoci  libri  da  leggere, 
informandosi  delle  nostre  famiglie,  aiutandoci  nelle  nostre  ristrettezze, 
disputando  di  politica,  rimproverandoci  per  le  nostre  scappatelle  gio- 
vanili. Io,  per  esempio,  —  mi  sia  consentito  questo  piccolo  accenno 
personale,  dolce  nella  memoria  — ,  a  causa  delle  mie  idee  politiche, 
Io  preoccupavo,  come  il  pulcino  che  sfugge  alla  chioccia:  una  volta 
mi  disse  che  sarei  finito  male:  e  non  è  detto  che  il  vaticinio  non  abbia 
ancora  il  tempo  di  avverarsi;  ma  quando,  nel  terzo  anno  degli  studi, 
mi  ammalai,  pel  troppo  lavoro  e  per  via  di  quella  certa  abitudine  a 
vivere  di  niente,  che  si  assume  quando  scarseggiano  i  rifornimenti, 
egli  mi  raccomandò  ad  una  famiglia  a  lui  amica,  mi  fece  andare  in 
campagna,  e  mi  aiutò  così  a  riavermi  e  a  tornare  al  lavoro. 


1  Sul  Giornale  d'Italia  del  14  dicembre  1917,  il  senatore  Chiappelli  ha  rivelato 
che  quest'  immagine  del  cammello  è  stata  usata,  prima  che  dal  Villari,  dal  Villemain. 
Ecco,  dunque,  che  l'«  analisi  delle  fonti  ^  comincia  ad  esercitarsi  anche  sul  Villari  !  Ma 
le  lezioni  di  un  insegnante  non  hanno  nessun  obbligo  di  originalità:  l'insegnante  può 
e  deve  dire  con  Seneca  :  meuni  est  quod  bonum  est  :  quel  che  importa,  non  è  la  pro- 
venienza delle  idee,  ma  l'uso  che  egli  sa  farne  ai  fini  dell'insegnamento. 


124  Gaetano  Salvemini 


«  Ogni  volta  —  egli  ha  detto  nel  1899,  durante  la  cerimonia,  con  cui  colleghi, 
scolari  e  ammiratori,  festeggiarono  il  quarantesimo  anno  del  suo  insegnamento  — 
ogni  volta  che  uno  di  noi  percorre  l'Italia,  dovunque  sì  fermi,  da  Sondrio  a 
Caltanissetta,  vede  dai  Ginnasi,  dai  Licei,  dagli  Istituti  tecnici,  sbucar  fuori  qual- 
cuno di  questi  giovani,  e  cercare  ansiosi  di  noi.  Spesso  sono  uomini  già  maturi, 
calvi  o  canuti,  affaticati  dalle  molte  ore  di  lavoro,  con  magri  stipendi.  Ma  appena 
si  trovano  dinanzi  a  noi,  intorno  al  loro  volto  apparisce  come  un'aureola  d'in- 
genua giovinezza,  e  ricordano  i  tempi,  essi  dicono  felici,  nei  quali  li  facevamo 
lavorare.  E  sono  sempre  a  combattere  per  mantenere  nell' insegnamento  i  buoni 
metodi,  la  disciplina,  il  sentimento  del  dovere,  la  giusta  severità.  Chi  può  dirvi 
con  che  forza  si  ridesta  in  noi  l'antico  affetto?  Chi  non  è  stato  nell'insegna- 
mento, non  potrà  mai  formarsi  un'idea  del  sentimento  che  stringe  il  professore 
ai  suoi  scolari.  Si  comincia  a  prendere  un  vivo  interesse  al  loro  avvenire;  e 
quando  se  ne  incontra  qualcuno,  che  dimostri  eccezionali  doti  d'intelletto,  si 
desidera,  si  spera  per  lui  la  gloria.  Noi  cerchiamo  allora  di  spronarlo,  di  spin- 
gerlo innanzi,  ci  sforziamo  di  infondere  nelle  sue  vene  il  sangue  stesso  del  nostro 
spirito.  Ci  par  già  di  vedere  il  suo  nome  risplendere  di  una  luce  che  lascerà  in 
ombra,  farà  dimenticare  il  nostro,  il  che  ci  sorride  come  speranza  di  lieto  avve- 
nire. Il  lavoro  intellettuale  si  trasforma  allora  in  un  trionfo  morale  sopra  noi 
medesimi.  E  questa  è  la  mèta  più  ambiziosa  che  un  insegnante  possa  proporre- 
a  sé  stesso». 

Fortunata  queir  insegnante,  che  può,  come  Pasquale  Villari,  dire 
di  sé  stesso,  con  verità,  queste  parole. 

IV.  —  L'azione  politica. 

Un  uomo  di  quel  temperamento  morale  e  di  quella. ricchezza  intel- 
lettuale doveva  essere  tentato  spesso  dalla  politica. 

Cominciò  nel  1848,  con  gli  altri  scolari  di  Francesco  De  Sanctis, 
partecipando  al  movimento  liberale  di  Napoli;  e  il  15  maggio,  mentre 
l'amico  diletto.  Luigi  La  Vista,  era  ucciso  dagli  Svizzeri,  fu  imprigio- 
nato, come  il  maestro,  —  particolare  della  sua  vita,  che  egli  non  ha 
mai  raccontato,  e  che  sarebbe  rimasto  sempre  ignoto  se  non  ne  fosse 
stata  scoperta  e  rivelata,  dopo  la  sua  morte,  la  notizia  dalle  carte  dell' Ar- 
chivio di  Stato  di  Napoli.! 


1  II  prof.  Giuseppe  Paladino,  che  prepara  una  poderosa  opera  sul  regno  di  Fer- 
dinando II,  ha  dato  notizia  del  fatto  sul  Giornale  d' Italia  dei  15  dicembre  1917,  e  mi 
comunica  gentilmente  i  seguenti  particolari.  —  In  un  «  Notamente  di  tutti  gì'  individui 
arrestati  nelle  giornate  de'  15  e  16  maggio  1848  e  posti  su  diversi  legni  da  guerra  in 
Darsena»  (Arch.  di  Stato  di  Napoli,  Sez.  Giustizia.  Proc.  per  i  fatti  del  15  maggio 
1848,  fascio  4969)  figura  —  fra  gli  altri  —  il  nome  di  Pasquale  Villari.  Il  luogo  e  il 
modo  dell'arresto  non  mi  sono  noti,  ma  è  certo  che  egli,  al  pari  di  tutti  coloro  che 
furono  catturati  dagli  Svizzeri  e  dalle  truppe  regolari,  venne  condotto  alla  Gran  Guardia 


Pasquale  Villari  125 


Nel  settembre  del  1860  è  in  Napoli,  durante  la  crisi  di  transizione 
fra  l'entrata  di  Garibaldi  e  l'arrivo  dell'esercito  regolare. 

«In  questi  giorni  —  scrive  il  17  settembre  a  persona  amica  di  Firenze  — 
ho  provato  delle  strane  vicende.  Vi  scrissi  nell'altra  mia  che  ero  stato  nominato 
Segretario  di  Legazione  a  Torino.  Sul  primo  avevo  accettato;  ma  poi,  avendo 
parlato  con  Bertani  e  con  Leopardi  più  volte,  mi  avvidi  che  eravamo  in  una 
falsa  posizione,  che  non  era  possibile  conciliare  Bertani  con  Cavour,  e  che  molto 
meno  ciò  si  poteva  fare  da  un  Leopardi,  uomo  onesto,  ma  di  corto  vederej 
caparbio.  Mi  dimisi.  C'era  una  ragione  ancora  più  grave,  che  mi  obbligava  a  dimet- 
termi. Il  sig.  Bertani  faceva  certi  strani  discorsi,  da  cui  si  vedeva  che  egH  avrebbe 
desiderato  che  io  controllassi  Leopardi.  Questo  fu  quello  che  propriamente  mi 
decise.  Io  dissi  a  Bertani  che  non  volevo  far  nulla  da  nascondere  a  Leopardi, 
e  mi  faceva  meraviglia  come  egli,  che  accusava  dì  slealtà  la  politica  piemontese, 
potesse  e  volesse  propormi  di  essere  cosi  poco  leale  contro  uno  che  mi  era  amico 
e  che  esso  faceva  mio  superiore.  Fu  tutto  finito.  —  Vidi  Bertani  il  giorno 
seguente;  a  un  tratto  mi  propose  di  essere  alla  direzione  del  Ministero  degli 
Affari  Esteri,  giacché  (Jui  i  Ministri  han  quasi  tutti  il  titolo  di  Direttori.  Bertani 
aveva  discusso  più  volte  con  me,  aveva  voluto  essere  scritte  alcune  istruzioni 
diplomatiche  e  sembrava  avere  acquistato  qualche  stima  del  mio  ingegno.  Ad 
una  domanda  cosi  improvvisa  io  restai  sbalordito,  risposi  però  di  si.  Mi  disse  di 
ritornare  la  sera.  —  lo  intanto  parlai  col  Direttore  della  Pubblica  Istruzione,  per 
sapere  se  gli  altri  Ministri  mi  avrebbero  accolto  volentieri.  Rispose:  —  Sarai 
ricevuto  con  le  braccia  aperte,  con  quell'affezione  e  stima  che  meriti  e  che  hai 
sempre  avuta  da  tutti  noi.  Io  credo  che  devi  subito  accettare,  farai  bene  per  te 
ed  anche  per  noi.  In  questo  momento  noi  temiamo  di  avere  tra  noi  qualche 
nemico,  puoi  figurarti  se  ti  accoglieremo  volentieri.  —  Domandai  a  due  o  tre  altri, 
ebbi  la  stessa  risposta.  Andai  la  sera  per  accettare  ;  il  Bertani  era  tutto  mutato, 
era  un  altro  uomo,  parlò  sulle  generali,  non  determinava  mai  nulla.  Io  restai 
sbalordito.  Gli  dissi  però:  Mi  pare  che  oggi  mi  avete  fatto  questo  discorso,  e 
glielo  ripetei.  —  Sì.  —  Ebbene,  se  per  caso  avete  mutato  la  vostra  idea,  sappiate  che 
non  fa  bisogno  esitare  a  dirlo,  perchè  io  non  ambisco  per  nulla  entrare  al  Mini- 
stero in  momenti  sì  difficili  e  pericolosi;  anzi  il  vostro  mutamento  mi  farebbe 
piuttosto  piacere.  —  Ma  io  non  ho  per  nulla  mutato.  Anzi  persisto.  —  E  qui  di 
nuovo  diceva  mille  e  mille  parole  incomprensibili.  Vi  assicuro  che  io  non  potevo 


(sede  del  Comando  della  Piazza  presso  Castelnuovo)  e  di  là  nella  Darsena,  su  alcuni 
legni  da  guerra,  dove  i  prigionieri  rimasero  tre  giorni  circa.  Col  Villari  era  anche  il 
De  Sanctis,  il  cui  nome  fifjura  nel  medesimo  elenco.  Il  17  maggio  il  Consiglio  dei 
Ministri,  riunitosi  in  Consiglio  di  Stato,  sotto  la  presidenza  delire,  decise  dimettere 
in  libertà  tutti  gli  arrestati.  Si  disse  che,  essendo  stati  essi  catturati  tumultuariamente 
nelle  perquisizioni  che  i  soldati  avevano  operate  nelle  case  donde  si  era  fatto  fuoco, 
non  era  possibile  accertare  con  sicurezza  la  reità  di  ognuno.  Per  non  colpire  quindi 
gli  innocenti,  si  concesse  il  perdono  anche  ai  colpevoli,  molti  dei  quali  erano  stati 
sorpresi  con  le  armi  alla  mano.  Col  Villari  e  col  De  Sanctis  fu  imprigionato  quel  giorno 
anche  Domenico  Morelli,  il  quale,  ferito,  venne  condotto  all'Ospedale  anziché  alla 
Darsena  ». 


126  Gaetano  Salvemini 


capire  nulla.  Ma  in  fine  la  sostanza  pare  che  fosse  questa:  egli  aveva  creduto 
di  poter  mettere  fra  i  Ministri  un  uomo  sleale  che  avesse  fatto  due  parti,  si  era 
avveduto  di  essersi  ingannato,  e  non  poteva  spiegare  tutto  questo  perchè  offen- 
deva me  e  scopriva  sé  stesso...  Insomma,  a  farla  breve,  noi  ci  separammo  sciolti 
da  ogni  vicendevole  impegno,  ed  io  non  salirò  più  quelle  scale  dove  andai  chia- 
mato. Sicché  yerrò  forse  a  rivedervi  ben  presto  per  uscire  da  questa  che  minaccia 
di  divenire  putredine  morale  ». 

Ma  rimane  in  quella  tumultuosa  anarchia  finché  dura  il  perìcolo 
di  un  immediato  sfacelo. 

«  I  Regi  —  scrive  il  30  settembre  —  ingrossano,  pigliano  ardire  dietro  le 
mura  di  Capua...  Il  Piemonte  non  par  deciso  a  entrare.  Le  cose  si  possono  com- 
plicare terribilmente  da  un  momento  all'altro  ;  possiamo  avere  delle  reazioni  pro- 
vocate dal  mal  governo,  possiamo  avere  orrori  dai  Regi,  che  si  stendono  negli 
Abruzzi  saccheggiando  e  bruciando.  La  questione  di  Napoli  può  perdere  l' Italia, 
se  non  si  fa  presto.  Io  bramerei  partir  subito,  perchè  qui  sono  veramente  dispe- 
rato. Ma  se  questo  partire  sembrasse  un  disertare...  allora  esiterei,  perchè  se 
veramente  può  tornare  un  pericolo  grave,  bisogna  restare  ».* 

Sopravvenuta  una  relativa  sicurezza  con  l'intervento  piemontese, 
ritornò  agli  studi  e  alle  lezioni,  fino  al  1867,  in  cui  accettò  la  candi- 
datura del  Collegio  di  Bozzolo.  E  fu  piìi  volte,  tra  il  '67  e  1*80,  deputato, 
e,  fra  il  febbraio  del  '91  e  il  maggio  del  '95,  ministro  della  Pubblica 
Istruzione. 

Ma  gli  mancavano  molte  di  quelle  attitudini,  che  sono  indispen- 
sabili a  riuscire  nel  mondo  parlamentare.  Tutte  le  qualità  caratteristiche 
del  suo  spirito:  la  preoccupazione  perenne  del  problema  nazionale, 
inteso  come  problema  di  progresso  intellettuale  e  di  più  rigida  disci- 
plina morale;  il  senso  squisito  delle  realtà  concrete,  ribelli  alle  formule 
semplici  e  facili;  il  bisogno  inquieto  di  criticare  gli  altri  e  se  stesso, 
guardando  i  problemi  da  tutti  i  Iati,  anche  a  costo  dì  non  risolverli, 
nella  insistenza  di  analizzarne  tutti  gli  elementi  cercando  i  punti  deboli 
di  ogni  soluzione;  —  non  potevano  non  riuscirgli  doti  sfavorevoli  nelle 
fortune  politiche. 

L' uomo,  che  vuole  operare  politicamente,  anche  se  gli  avviene  dì 
essere  fornito  di  larga  coltura,  ed  è  animato  dal  desiderio  sincero  di 
porre  il  bene  del  paese  al  disopra  degli  interessi  personali  propri  e  degli 
amici,  ha  bisogno,  per  riuscire,  di  portare  in  sé  tutte  le  superiorità  e 
tutte  le  inferiorità  della  passione  e  della  volontà  di  domìnio  :  la  lealtà, 
la  coltura,  il  disinteresse,  debbono  aiutarlo  nella  scelta  dei  problemi 


1  Debbo  la  comunicazione  di  queste  lettere  al  collega  e  amico,  prof.  E.  Pistelli, 
che  ne  possiede  gli  originali. 


Pasquale  Villari  \^f 


da  agitare  e  delle  soluzioni  da  preferire  —  e  solo  chi  procede  in  questa 
scelta  con  larga  preparazione  tecnica  e  salda  probità,  riesce  grande 
uomo  di  Stato;  gli  altri  sono  abili  politicanti.  —  Ma,  fatta  la  scelta, 
r  uomo  politico  deve  entrare  risolutamente  nella  lotta,  far  tacere  in  sé 
ogni  spirito  critico,  andare  avanti  a  passo  serrato,  confondendo  sé  col 
partito,  confondendo  il  partito  col  paese,  dividendo  gli  uomini  in  eletti 
e  in  reprobi,  eletti  gli  amici,  reprobi  gli  avversari:  lo  stesso  genio  lim- 
pido ed  equilibrato  di  Cavour  non  sarebbe  stato  un  genio  politico,  se 
non  fosse  stato  attraversato,  per  così  dire,  da  una  vena  di  irrazionale 
fanatismo  mazziniano. 

Di  siffatto  genere  di  esaltazione,  il  Villari  era  del  tutto  privo. 
Ingegno  felicissimo  nell'analizzare  e  spiegare  gli  avvenimenti,  si  trovava 
paralizzato  neirazione  politica  dalle  sue  stesse  tendenze  critiche. 

Osserviamolo,  per  esempio,  nel  settembre  del  1866,  all'indomani 
delle  sconfitte  di  Custoza  e  di  Lissa,  in  quella  tempesta  di  accuse  recì- 
proche e  di  recrimazioni  irritate,  che  non  manca  mai  di  scatenarsi 
dopo  un  grande  infortunio  nazionale.  Mentre  tutti  si  domandavano: 
di  chi  è  la  colpa?,  anche  il  Villari  pubblicò  sul  Politecnico  di  Milano 
uno  scritto  intitolato:  Di  chi  è  la  colpa? 

«  La  guerra  —  egli  dice  —  è  cessata,  e  noi  abbiamo  ottenuto  la  Venezia, 
ma  niuno  è  contento.  Questa  guerra  ci  ha  fatto  perdere  molte  illusioni,  ci  ha 
tolto  quella  infinita  fiducia,  che  avevamo  in  noi  stessi.  Tutti  ripetono  in  coro: 
la  colpa  è  dei  capi;  in  un  punto  mancò  il  cibo,  in  un  altro  la  munizione,  un 
ordine  non  giunse  a  tempo,  un  altro  non  fu  eseguito.  —  Ma  allora,  come  mai 
si  commisero  tanti  errori?  Di  chi  è  la  colpa?  —  La  colpa,  si  risponde,  è  del 
sistema,  che  ci  ha  governati  finora;  sono  gli  uomini,  che  hanno  sempre  tenuto 
il  mestolo  in  mano.  —  Ma  come  mai  l' Italia  si  è  lasciata  così  lungamente  gover- 
nare da  tali  uomini?  Il  governo  fu  sostenuto  dai  deputati,  questi  furono  eletti 
dal  paese.  —  SI,  ma  le  nostre  moltitudini  sono  ignoranti,  la  pubblica  opinione 
non  ha  indirizzo;  e  noi  manchiamo  di  uomini.  —  Allora,  voi  siete  scontenti  dei 
generali,  dei  ministri,  dei  deputati,  degli  impiegati,  e  per  giunta  anche  del  paese. 
E  allora,  è  giusto  accumulare  le  responsabilità  dei  nostri  mali,  tutte  sul  capo  di 
due  0  tre  uomini,  che  potrebbero  essere  facilmente  rimossi,  per  chiuder  poi  gli 
occhi  a  quegli  errori,  assai  più  pericolosi  e  più  diffìcili  a  rimediarsi,  perchè  furono 
gli  errori  di  tutto  il  paese?  —  Nella  guerra  si  misurano  tutte  quante  le  forze 
delle  Nazioni.  La  Nazione  che  vince  è  la  Nazione  più  civile.  Non  è  possibile 
supporre,  che  la  Nazione  più  debole  nella  pace  riesca  nella  guerra  più  forte. 
Quando  le  ciurme  della  nave  americana  o  inglese  sono  in  riposo,  voi  trovate  i 
marinari  occupati  a  leggere;  noi  abbiamo  17  miHoni  di  analfabeti.  Se  la  coltura 
delle  nostre  plebi  è  cosi  bassa,  credete  voi  che  nessun  grave  danno  risenta 
l'esercito?  La  Nazione  più  dotta  riesce  la  prima  anche  nel  campo  di  battaglia 
E  se  la  coltura  scientifica  è  così  bassa  nel  paese,  e  il  pubblico  insegnamento 
cosi  abbandonato,  dove  troveranno  le  scuole  militari  tutto  il  gran  capitale  scien- 
tifico d   cui  hanno  bisogno  ?  L'esercito  può  ordinare  e  migliorare,  non  può  creare, 


128  Gaetano  Salvemini 


tutte  le  forze,  che  mancano  nella  Nazione  ».  — Che  cosa  allora  bisogna  fare  ?  — 
«  Il  primo  passo  è  quello  di  mettere  noi  stessi  a  nudo  le  nostre  piaghe,  e  distrug- 
gere le  illusioni  e  i  pregiudizi  nazionali.  Se  voi  pigliate  ad  uno  ad  uno  tutti  i 
rami  della  civiltà  umana,  ninno  vi  pone  in  dubbio  che  le  scienze,  le  lettere,  l' in- 
dustria, il  commercio,,  l' istruzione,  la  disciplina,  l'energia  del  lavoro  siano  in  Italia 
assai  inferiori  a  quel  che  sono  in  tutte  le  altre  Nazioni  civili.  Ma  quando  si 
viene  a  tirare  la  somma,  vi  è  sempre  una  certa  cosa,  per  cui  vogliamo  persua- 
derci di  essere  superiori  agli  altri.  Ebbene  questa  certa  cosa  o  non  c'è,  o  bisogna 
dimostrarla  coi  fatti.  —  V'è  nel  seno  della  Nazione  stessa  un  nemico  piìi  potente 
dell'Austria;  ed  è  la  nostra  colossale  ignoranza,  sono  le  moltitudini  analfabete, 
i  burocratici-macchina,  i  professori  ignoranti,  i  politici  bambini,  i  diplomatici 
impossibili,  i  generali  incapaci,  l'operaio  inesperto,  l'agricoltore  patriarcale,  e  la 
rettorica  che  ci  rode  le  ossa.  Vi  è  in  Italia  un  gran  colpevole:  e  quest'uno 
siamo  tutti  noi  ».  —  E  l'opera,  che  ci  è  necessaria  per  correggere  noi  stessi, 
non  si  può  improvvisare  con  una  legge,  con  un  regolamento,  con  un  nuovo 
sistema  scritto  sulla  carta.  Ci  occorre  un  lungo,  penoso  sforzo  di  «  modestia, 
volontà,  lavoro  »,  perchè  ci  occorre  creare  «  una  generazione  di  gran  lunga  supe- 
riore a  noi,  perchè  la  scienza,  l'industria,  l'esperienza,  in  una  parola  gli  uomini, 
che  r  Italia  possiede,  non  sono  ancora  quelli,  che  costituiscono  le  grandi  Nazioni.  — 
Che  cosa  abbiano  noi  fatto  di  tutto  ciò  ?  Nulla.  E  perchè  noi  soli  dobbiamo  senza 
lavoro  e  senza  sacrifici,  presumere  di  raccogliere  il  frutto  della  civiltà,  a  cui  altri 
arrivarono  solo  col  sudore  della  propria  fronte?  E  vogliamo  noi  ridurre  a  que- 
stione di  partito  una  questione,  che  riguarda  la  nostra  esistenza  e  il  nostro  avve- 
nire, in  un  momento  in  cui  ci  troviamo  a  esperimentare  cosi  dolorosamente  la 
incapacità,  gli  errori  e  la  mancanza  d'uomini  in  tutti  i  partiti?» 

Ecco  un  uomo  destinato  ad  avere  scarsa  fortuna  nella  politica, 
perchè  non  sa  semplificare  i  problemi;  non  sa  proporre  rimedi  sicuri, 
immediati,  facili,  soprattutto  facili;  non  sa  spremere  neanche  da  una 
guerra  disgraziata  un  solo  argomento  elettorale  contro  il  partito  avver- 
sario e  a  favore  dei  propri  amici. 

«  Guardate  un  poco  i  nostri  partiti  —  scrive  nel  1870  —  come  sono  in- 
dulgenti su  ciò  che  costituisce  la  sostanza  stessa  dell'  umana  coscienza  e  anche 
sull'ingegno,  purché  le  loro  convinzioni  e  le  loro  convenzioni  siano  rispettate. 
Vogliono  il  colore,  vogliono  il  voto  e  transigono  snW'uotno.  Una  volta  entrato  in 
questa  Chiesa,  voi  dovete  giurare  il  Sillabo,  e  rispettarne  le  regole.  Se  un  mo- 
mento d'impazienza  vi  piglia,  guai  I  Udite  subito  sussurrare  la  parola  immorale l 
tanto  più  facile  a  pronunziarsi,  quanto  minore  importanza  si  pone  sul  valore 
della  condanna.  Ma  se  avete  l'arte  finissima  di  serbare  intatto  il  colore,  e  mutare 
ogni  giorno  avviso  sulle  centomila  questioni  di  morale  o  politica,  che  non  sono 
nel  Sillabo,  ma  sono  nella  vita,  e,  avendo  l'aria  di  proteggere  o  far  paura  a 
tutti  i  ministri  presenti,  passati  o  futuri,  vi  costituite  pianeta  errante  intorno  ad 
essi,  e  ne  cavate  invisibili  favori  e  potere;  voi  potete  essere  un  uomo  sprege- 
vole agli  occhi  dei  più  modesti  mortali  ;  ma  sarete  puro  d'ogni  macchia  in  faccia 
agli   amici   polìtici.   Che   se   nelle   vostre  continue  mutazioni  saprete  lusingar 


Pasquale  Villari  129 


sempre  le  mutabili  passioni  del  partito,  voi  sarete  insino  alla  fine  portati  in 
palma  di  mano,  sebbene  non  riiisciate  ad  altro  che  a  discreditarlo  e  scomporlo. 
Voi  potete  anche  essere  una  specie,  direi  quasi,  di  honne  à  tout  faire,  metter  le 
mani  in  tutto,  mescolarvi  di  tutto  quel  che  sapete  e  che  non  sapete,  sciupando 
cosi,  con  gli  affari  del  paese,  le  vostre  forze,  l' ingegno  e  il  cuore.  Non  monta 
nulla,  ciò  non  vi  nuoce.  Vi  nuocerà  piuttosto  l'esservi  occupato  d'una  cosa  sola 
e  mirare  a  quello...  Pure  è  strano  davvero,  che  questi  partiti,  ì  quali  circondano 
i  loro  adepti  dì  tanti  vincoli  e  sono  così  rigidi,  non  sanno  precisamente  quello 
che  essi  vogliono,  o  almeno,  mutano  assai  spesso  le  loro  idee,  bredendosi  obbli- 
gati a  dire  sempre  i'  contrario  di  ciò  che  dicono  gli  avversari.  Se  la  Destra 
vuole  armare,  è  di  regola  che  la  Sinistra  citi  l'America;  ma  se  vuole  armare 
la  Sinistra,  allora  la  Destra  deve  avere  urgente  bisogno  di  economie.  E  cosi 
andate  discorrendo.  Io  non  voglio  gli  ordini  religiosi  e  per  certi  politici  sarò  un 
matto  ;  ma  se  domani  il  partito  decide  di  votarne  l'abolizione,  toccherà  al- 
lora a  voi  che  li  volevate  salvare,  di  votare  con  me;  altrimenti  il  partito  si 
esautora.  Se  vi  viene  voglia  di  tener  duro,  v'abbandonano  anche  gli  amici  che  pen- 
sano come  voi,  e  vi  deridono  i  nemici.  Nessuno  piìi  di  me  comprende  la  necessità 
della  disciplina,  che  manca  purtroppo  agl'Italiani.  Ma  v'è  negli  eserciti  una  di- 
sciplina, che  nasce  solo  dai  regolamenti,  e  ve  n'è  un'altra  che  nasce  principalmente 
dal  patriottismo.  Così  v'è  nei  partiti  una  disciplina,  che  ci  guida  sopra  un  pro- 
gramma netto  e  chiaro  di  principii  in  cui  si  ha  fede,  che  si  sostengono  in  comune, 
e  a  questa  io  credo.  L'obbedienza  cieca  è  allora  libertà  piena,  che  forma  i  ca- 
ratteri, promuove  e  non  sopprime  l' indipendenza  personale,  forza  vera  dei  popoli 
liberi.  Ma  che  debbo  io  pensare,  quando  vedo  che  voi  vi  combattete  con  tanto 
ardore,  anche  se  volete  la  stessa  cosa,  e  discutete  solamente  per  sapere  chi  di 
voi  è  stato  il  primo  a  volerla  ?  Può  crescere  il  numero,  può  crescere  l'automatica 
disciplina;  ma  scemerà  la  forza;  questa  può  esser  rettorica  politica,  può  essere 
guerra  civile;  non  è  lotta  parlamentare,  non  è  lotta  feconda  di  libertà  ».* 

Chi  parla  così  dei  partiti,  è  condannato  a  trovarsi  isolato  e  in- 
quieto in  qualunque  partito.  I  suoi  amici  vedranno  in  lui  piuttosto  un 
ingombro  che  un  aiuto.  Gli  sarà  più  facile  essere  onorato  che  ascol- 
tato. Non  è  un  uomo  politico.  Può  essere  uno  scrittore  politico. 

V.  —  Il  problema  meridionale  e  il  problema  sociale. 

E  fu  senza  dubbio  un  nobilissimo  scrittore  politico,  continuando, 
anche  in  questa  forma  dì  attività,  durante  la  seconda  metà  del  se- 
colo XIX,  e  adattandola  ai  nuovi  tempi,  la  tradizione  del  nostro  Ri- 
sorgitnento. 

Le  nostre  classi  dominanti  —  sono  queste  le  idee  centrali  della 
sua  propaganda  —  credono  che  risoluto  il  problema  politico,  non  ci 
sìa  per  esse  da  fare  oramai  altro,  che  godere  del  nuovo  stato  di  cose. 


1  La  guerra  presente  e  Vltalia^  Firenze,  Barbèra,  1870,  p.  36-40. 
9  —  Nuova  Rivista  Storica. 


I30  Gaetano  Salvemini 


badare  ai  propri  interessi,  arricchirsi.  È  questo  un  grande  e  pericoloso 
errore.  Il  nostro  paese  non  possiede  ancora  queir  unità  morale,  che 
forma  veramente  una  Nazione  ;  è  ben  lontano  dall'aver  raggiunto  quel 
livello  di  civilt|i,  che  forma  veramente  una  grande  Nazione;  la  nostra 
libertà  minaccia  di  trasformarsi  in  una  fonte  di  mali  assai  maggiori  di 
quelli  del  dispotismo,  se  non  sapremo  adoperarla  come  mezzo  di 
progresso  e  dì  giustizia  sociale. 

«  Io  torno  a  Napoli  —  scrive  nel  1875  —  :  il  mondo  è  mutato  per  me  e  per 
i  miei  amici:  la  parola  è  libera,  la  stampa  è  libera,  molte  vie  sono  aperte  avanti 
a  me.  La  differenza  è  come  dalla  notte  al  giorno  ;  se  dovessi  tornare  al  pas- 
sato, mi  parrebbe  di  scendere  nella  tomba.  Abbandono  le  strade  centrali,  vado 
nei  quartieri  bassi  e  ritrovo  le  cose  come  le  lasciarono  i  Borboni.  I  fondaci 
Scannasorci,  Tentella,  San  Crispino,  Pisciavino,  del  Pozzillo,  sono  là,  sempre  gli 
stessi,  coi  medesimi  infelici,  forse  ancora  più  oppressi,  più  affamati  di  prima.  A 
che  cosa  serve  a  costoro ia  nostra  libertà,  la  nostra  unità,  la  nostra  grandezza? 
Ah  I  Dunque  la  libertà  che  io  volevo  era  una  libertà  per  mio  uso  e  consumo 
solamente  ?  »  * 

E  nelle  Provincie  napoletane,  in  Sicilia,  nella  Campagna  romana, 
ovunque  nuovi  tormenti  e  nuovi  tormentati.  —  I  contadini  abru  zzesi, 
per  sfuggire  alla  miseria,  scendono  a  lavorare  nella  Campagna  romana  : 

«  Fanno  otto  ore  di  viaggio,  chiusi  e  stipati  nei  vagoni  delle  merci,  in  piedi 
sempre,  uomini,  donne  e  bambini,  col  patto  stipulato  che  a  nessuno  sia  permesso 
scendere  per  via,  neppure  una  sola  volta;  in  mezzo  alla  malaria,  accanto  ai 
pantani,  lavorano  tutto  il  giorno  ;  discendono,  per  dormire,  in  tane  da  lupi,  dove 
pigliano  le  febbri;  fra  non  molto  saranno  ridotti  a  pochi,  perchè  vengono  qui  a 
seminare  le  loro  ossa.  Se  questa  è  la  vita  che  preferiscono,  quale  sarà  quella 
che  fuggono  ?  »  (Z,). 

La  sottomissione  del  contadino  meridionale  al  padrone  è  immensa. 
Ma  non  illudiamoci.  Questa  obbedienza  non  nasce  da  affetto  e  da  stima. 

«  È  fondata  solo  sull'antica  persuasione  che  il  proprietario  può  tutto,  che  il 
Governo,  i  Tribunali,  la  Polizia  dipendono  da  lui,  o  sono  una  cosa  sola  con  lui. 
Il  contadino  si  potrebbe  inginocchiare  dinanzi  al  padrone,  con  lo  stesso  senti- 
mento con  cui  l'indiano  adora  la  tempesta  e  il  fulmine.  Il  giorno  in  cui  questo 
incanto  fosse  sciolto,  il  contadino  sorgerebbe  a  vendicarsi  ferocemente,  con  l'odio 
lungamente  represso,  con  le  sue  brutali  passioni  »  (Z,). 

Un  paese,  che  presenta  in  tanta  parte  delle  sue  classi  inferiori 
questa  condizione  intellettuale  e  morale,  può  pretendere  di  essere  una 
grande  Nazione?  Può  illudersi  anzi  di  essere  una  Nazione? 


1  Lettere  meridionali  al  Direttore  dell'  «  Opinione  »,  marzo  1875,  pp.  18-19.  Ci- 
terò da  ora  in  poi  questo  scritto  con  la  sigla  L. 


Pasquale   Villari  131 


E  non  si  dica  che  questi  malanni  si  trovano  solo  nel  Mezzogiorno 
d'Italia. 

«  L'Italiano  d'una  provincia,  quando  nota  con  calma  il  male  che  germoglia 
in  un'altra,  e  soddisfatto  che  ne  sia  innnune  il  suo  luogo  nativo,  non  crede* 
di  dover  pensare  ad  altro,  quasi  abbia  messo  al  sicuro  la  propria  coscienza, 
non  s'accorge  che  dimostra  di  non  avere  la  moralità  politica  necessaria  a  far 
parte  di  un  popolo  libero.  La  cinica  indifferenza,  che  alcuni  dimostrano  verso  i 
mali  che  travagliano  il  Mezzogiorno,  non  è  solo  una  condanna  delle  condizioni 
di  moralità  politica  in  cui  si  trova  il  resto  d'Italia;  ma  ha  seminato  nel  Mezzo- 
giorno germi  di  rancore  e  di  malcontento  infinitamente  più  gravi  che  non  si 
crede  ».* 

D'altra  parte  non  ci  illudiamo  troppo  che  quassù  le  cose  vadano 
meglio  che  laggiù.^  In  Lombardia 

«  ...  intorno  alla  ricca  intelligente  e  patriottica  Milano,  vivono  i  più  miseri 
contadini,  tra  i  quali  le  febbri  e  la  pellagra  fanno  stragi  crudeli,  dov'è  risoluto 
il  singolare  problema  d'avere  la  più  ricca  produzione  con  la  massima  miseria 
del  coltivatore.  È  una  tale  iniquità  che  la  sola  giustizia  umana  non  basterebbe 
a  punirla  »  {L). 

«  La  nostra  gloriosa  rivoluzione  non  ha  avuto  il  tempo  di  pen- 
sare a  questi  piccoli  problemi  ».3 

«L'indifferenza  sulle  miserie  dei  milioni  di  uomini  che  lavorano  le  terre  in 
campagna  e  delle  migliaia  che  si  abbrutiscono  nelle  città,  è  incredibile.  La  nostra 
letteratura,  la  nostra  scienza,  e  la  nostra  politica  sembrano  del  pari  indifferenti 
su  questo  problema  che  racchiude  il  nostro  avvenire  economico  e  morale  »  (Z,). 
—  ^Abbiamoaperto  le  Scuole  elementari,  tecniche,  di  disegno,  gli  asili  infantili. 
Questa  è  una  vera  ironia.  Che  volete  che  faccia  dell'alfabeto,  colui  a  cui  mancano 
l'aria  e  la  luce,  che  vive  nell'umido  e  nel  fetore?  E  se  un  giorno  vi  riuscisse 
d'insegnare  a  leggere  e  scrivere  a  quella  moltitudine  lasciandola  nelle  condizioni 
in  cui  si  trova,  voi  apparecchiereste  una  delle  più  tremende  rivoluzioni  sociali. 
Non  è  possibile,  che  comprendendo  il  loro  stato  restino  tranquilli  »  (5). 

In  Inghilterra,  in  Germania,  in  Francia,  in  Svizzera,  già  gli  operai 
delle  industrie  si  muovono  per  conquistarsi  un  avvenire  migliore.  In 
Itaha  il  pericolo  non  appare  ancora  imminente,  perchè  non  abbiamo 
un  grande  sviluppo  industriale,  e  molta  gente  si  compiace  dell'ordine 
interno,  della  pace  sociale  in  cui  godiamo.  Ma  è  pace,  questa  che  noi 
abbiamo  ? 


1  U  Italia  giudicata  da  un  meridionale y  1882. 
*  Ibidem. 

3  La  scuola  e  la  questione  sociale  in  Italia^  1827.  Indicherò  questo  scritto  con  la 
la  5. 


132  Gaetano  Salvemini 


«  Sono  segni  di  ordine  la  camorra,  la  mafia,  il  brigantaggio  ?  A  Zurigo,  a 
Ginevra,  in  molte  città  della  Svizzera,  si  sono  più  volte  agitate  le  moltitudini 
con  teorie  sovversive;  ma  nella  Svizzera  voi  potete  traversare  di  giorno  e  di 
notte  monti,  valli  e  boschi,  senza  quasi  mai  trovare  un  gendarme,  e  senza  mai 
temere  della  vita,  anche  se  siete  carico  d'oro.  Potremo  proprio  dire  che  ivi  la 
pace  sociale  sia  turbata,  e  che  fra  noi  invece  sia  perfetta,  quando  pensiamo  che 
in  alcune  nostre  provinciè  non  si  può  camminare  senza  essere  circondati  da 
guardie  armate,  e  vi  sono  uomini  che,  in  mezzo  alla  libertà,  sono  poco  meno  che 
schiavi?  »  (/,).  —  «La  insurrezione  è  un  pericolo;  ma  l'ozio,  l'inerzia,  il  vaga- 
bondaggio, e  l'abrutimento  sono  forse  un  pericolo  meno  grave  specialmente  per 
un  popolo  che  vuol  essere  libero  ?  »  (L).  —  «  La  resistenza  è  almeno  segno  di 
energia  e  di  forza;  l'abbattimento  e  l'abbandono  possono  esser  segno  d'un  male 
anche  maggiore  ».* 

Quella  plebe,  delle  cui  miserie  non  ci  diamo  carico,  forma  il  nostro 
esercito,  la  nostra  marina  militare. 

«  Se  un  giorno  fossimo  trascinati  in  una  guerra,  la  sorte  delle  battaglie 
dipenderebbe  assai  meno  dal  buon  ordinamento  militare,  che  dalla  "forza  intel- 
lettuale e  morale  che  avremmo  saputo  infondere  nelle  nostre  .campagne  »  (5). 
—  «  Or  se  dura  la  nostra  indolenza,  durerà  in  eterno  la  pacifica  sottomissione 
delle  nostre  plebi  ?  C'è  bisogno  di  dimostrare  a  quali  pericoli  andrebbe  incontro 
l'Italia,  quando  i  nostri  contadini,  che  sono  pure  la  grande  maggioranza  del  paese, 
fatti  consapevoli  della  loro  forza,  dalla  istruzione  obbligatoria,  dal  suffragio  uni- 
versale e  dai  tribuni,  si  organizzassero  per  insorgere  ?  C'è  poco  da  ridere  e  da 
ghignare  ».2 

La  questione,  fra  non  molto,  diverrà  gravissima  e  s'imporrà  a 
tutte.  Ed  è  necessario  che  «  le  riforme  vengano  dall'alto,  prima  che 
siano  richieste  dalle  moltitudini  ».  Non  c'è  altra  via  per  evitare  una 
catastrofe,  «  la  quale  può  nascere  non  solo  da  sommosse  sfrenate,  ma 
anche  da  inerzia  ed  abbandono  prolungato  »  (Z.). 

«  Il  Governo  costituzionale*  è,  in  sostanza,  il  Governo  della  borghesia.  La 
classe  dei  proprietari  è  divenuta  la  classe  governante;  i  Municipi,  le  Provincie» 
le  Opere  pie,  la  Polizia  rurale,  sono  nelle  nostre  mani  »  (Z,).  —  «  Abbiamo 
creduto  e  sostenuto  in  faccia  al  mondo  d'essere  più  onesti  dei  tiranni  che  ci 
opprimevano  :  possiamo  noi  pretendere  d'essere  più  onesti  di  coloro  che  oppri- 
miamo, solo  perchè  essi  non  si  ribellano?  »  (5).  —  «  Il  giorno  in  cui  l'Italia 
si  dichiarasse  impotente  a  rispettare  e  far  rispettare  le  leggi  più  elementari  della 
giustizia,  essa  avrebbe  pronunziata  la  propria  condanna  di  morte  ;  avrebbe  in 
faccia  all'umanità  confessato  che  non  ha  il  diritto  di  esistere.  Che  importerebbe, 
infatti,  all'umanità  che  ci  sia  un'Italia  unita  e  lìbera,  piuttosto  che  divisa  ed 
oppressa,  se  la  nostra  libertà  dichiarasse  che  per  esistere  dev.e  permettere  che 


1  U  Italia  giudicata  da  un  meridionale. 
*  Ibidem. 


Pasquale  Villari  133 


i  sacri  diritti  dei  deboli  vengano  oi^ni  giorno  violati  ?  »  {L).  —  «  Popolo  libero 
è  quello  solamente,  in  cui  i  potenti  e  i  ricchi  fanno  un  perenne  sacrificio  di  sé 
ai  poveri  e  ai  deboli  »  {L). 

W  primo  passo  consiste  neir«  illuminare  la  pubblica  opinione,  ri- 
velando le  nostre  piaghe  e  le  nostre  vergogne,  senza  paura  del  ridì- 
colo e  del  discredito,  che  sì  cercherà  di  versare  su  quelli  che  oseranno 
parlare.  Senza  il  coraggio  di  affrontare  il  ridicolo,  o  di  esporsi  alla 
taccia  di  visionari,  molti  progressi  sarebbero  stati  impossibili,  e  molte 
calamità  non  si  sarebbero  evitate  »  (L).  Occuparsi  di  questo  problema 
avrebbe  sul  paese  intero,  e*  principalmente  su  noi  stessi,  un  effetto 
benefico:  il  bene  giova  più  a  chi  lo  fa,  che  a  chi  lo  riceve. 

«  Due  cose  fanno  ai  popoli  operare  grandi  imprese  :  la  religione  e  il  patriot- 
tismo. La  religione  si  può  dire  quasi  spenta  in  Italia.;  dove  non  è  superstizione, 
è  abito  tradizionale,  non  è  fede  viva.  E  quanto  al  patriottismo,  che  forma  esso 
deve  prendere  ora  ?  A  quale  nobile  scopo  indirizzarsi  ?  L' Italia  è  unita,  è  libera, 
è  indipendente.  Che  cosa  dunque  vogliamo?  Occorre  che  un  nuovo  spirito  ci 
animi,  che  un  nuovo  ideale  baleni  innanzi  a  noi.  E  questo  ideale  è  la  giustizia 
sociale,  che  dobbiamo  compiere  prima  che  ci  sia  domandata  »  (A).  —  «  L'uomo^ 
che  vive  in  mezzo  agli  schiavi,  accanto  agli  oppressi  e  corrotti,  senza  resistere, 
senza  reagire,  senza  combattere,  è  un  uomo  immorale  che  ogni  giorno  de- 
cade »  {L).  —  Negli  anni  della  redenzione  nazionale,  «  c'era  una  guerra,  una  spe- 
ranza, un  sacrificio  ed  un  pericolo  contìnuo,  che  sollevava  lo  spirito  nostro.  Oggi 
è  invece  una  lotta  di  partiti,  e  qualche  volta  d'interèssi,  senza  un  Dio  a  cui 
sacrificare  la  nostra  esistenza.  Questo  Dio  era  allora  la  Patria,  che  oggi  sembra 
divenuta  libera  per  toglierci  il  nostro  ideale.  A  noi  manca  come  l'aria  da  respi- 
rare, perchè  non  troviamo  più  nulla  a  cui  sacrificarci.  Eppure  l'aiutare  coloro 
che  soffrono  vicino  a  noi,  è  il  nostro  dovere,  è  il  nostro  interesse,  supremo» 
urgente;  e  ci  restituirebbe  l'ideale  perduto  »  (A). 

Queste  idee  non  sono  di  oggi.  Le  ho  prese,  senza  mutarne  la 
forma,  da  uno  scritto  del  1882,  dalle  Lettere  meridionali  del  1875,  dallo 
studio  su  La  scuola  e  la  questione  sociale  del  1872.  Ed  è  stata  questa 
la  predicazione  continua,  si  può  dire  la  fissazione  insistente,  di  tutta  la 
sua  vita,  fino  agli  ultimi  momenti.  Non  ha  lasciato  senza  un  grido 
di  allarme  nessuna  delle  nòstre  malattie  nazionali:  la  camorra,  la  mafia, 
il  brigantaggio,  i  contratti  agrari,  V  usura  rurale,  le  amministrazioni 
locali,  l'igiene  di  Napoli,  il  lavoro  dei  carusi  nelle  zollare,  la  miseria 
delle  trecciaiuole  toscane,  il  domicilio  coatto,  la  tratta  dei  fanciulli,  i 
tumulti  universitari,  la  disorganizzazione  della  scuola  media,  le  conti- 
nue facilitazioni  negli  studi  e  negli  esami,  la  campagna  contro  gli 
studi  classici  di  una  borghesia  che  vuole  godere  dei  privilegi  sociali 
ma  rifiuta  di  compiere  qualunque  sforzo  intellettuale  per  meritarli, 
remigrazione.  Ci  è  ritornato  sopra  senza  tregua,  ora  in  una  forma,  ora 


134  Gaetano  Salvemini 

in  un'altra,  approfittando  di  ogni  circostanza,  ammonendo  il  paese 
smemorato,  nei  periodi  di  bonaccia,  che  la  calma  era  ingannatrice, 
se  non  ne  approfittava  per  scongiurare  le  tempeste;  ritornando  ad 
ammonirlo  nei  momenti  di  crisi,  quando  il  terrore  violento  succedeva 
ad  un  tratto  alla  indifferenza  flaccida,  che  le  repressioni,  i  tribunali 
militari,  le  condanne  potevano  essere  una  triste  necessità  immediata, 
ma  non  guarivano  la  cancrena,  e  aumentavano  la  colpa  di  chi,  aven- 
dola lasciata  crescere,  era  costretto  ora  così  a  combatterla.  La  voce 
sua  è  stata  nell'  Italia  della  seconda  metà  del  secolo  XIX  e  degli  inizii 
del  secolo  XX  la  voce  della  nostra  coscienza  morale,  severa,  sincera, 
importuna.  Questo  Cavaliere  delFAnnunziata  ha  continuato  la  propa- 
ganda sociale  di  Mazzini,  e  la  sua  parola  è  riuscita  spesso  cruda  e 
squillante  come  quella  di  un  rivoluzionario.  Non  ha  avuto  mai  paura 
di  dire  tutta  la  verità.  Non  ha  risparmiato  nessun  giusto  rimprovero 
ai  suoi  amici  politici. 
Con  quali  resultati? 

«  Il  sog'^etto  delle  questioni  sociali,  —  diceva  egli  con  amarezza  nel  1899  — 
desta  molt'j  simpatia.  Sfortunatamente,  in  Italia,  è  più  che  altro  una  simpatia 
letteraria.  QuCiHdo  voi  avete  descritto  la  misera  vita  di  coloro  che  vanno  a  prèn- 
dere le  febbri  neiia  Campagna  romana,  che  abitano  in  capanne  da  ottentotti,  che 
dopo  una  lunga  giornata  di  lavoro  non  hanno  abbastanza  da  sfamarsi,  quando 
avete  descritto  tutto  ciò,  assai  spesso  vi  sentite  dire:  bell'articolo!  —  Punto  e 
basta  ».* 

Era  un  pessimismo  non  del  tutto  giustificato.  La  sua  opera  qual- 
che frutto  jia  pure  arrecato  ;  parecchi  spiriti  ha  svegliati  dall'alto  sonno  : 
per  esempio,  la  legge  per  il  risanamento  della  città  di  Napoli,  se  fu  il 
resultato  immediato  del  terrore,  che  nacque  in  tutta  Italia  dopo  il  co- 
lera del  1884,  non  si  sarebbe  probabilmente  avuta,  se  da  tanti  anni  il 
Villari  non  avesse  insistito  nel  denunciare  le  spaventevoli  condizioni 
igieniche  della  città  :  e  si  deve  a  quella  legge,  se  Napoli,  pur  non  es- 
sendo ancora  una  città  tale  da  non  farci  arrossire,  non  è  più  quel- 
l'insulto obbrobrioso  alla  civiltà  e  alla  umanità,  che  era  cinquant'anni 
or  sono.  E  le  Lettere  meridionali  sono  state  il  capostipite  di  tutta  una 
nobile  tradizione  di  studi  e  di  ricerche  sociali,  da  quelle  del  Fran- 
chetti  e  del  Sonnino  sulla  Sicilia  del  1876,  a  quelle  del  Taruffi,  del 
De  Nobili  e  del  Lori  sulla  Calabria  del  1906. 

Ma  sta  il  fatto  che  le  nostre  classi  dirigenti  sono  state  terreno 
troppo  ingrato  a  un  così  buon  seminatore.  Gli  scritti  di  questo  con- 
servatore hanno  servito  più  spesso  come  miniera  di  argomenti  auto- 


»  Fondazione  Villari,  Firenze,  Barbèra,  1900,  p.  43. 


Pasquale  Villari  135 


revoli  alla  propaganda  socialista,  che  come  aculeo  alla  inerzia  plum- 
bea dei  partiti  del  così  detto  ordine.  Molte  volte  è  avvenuto  al 
Maestro  di  vedere  i  suoi  discepoli,  condotti  proprio  dai  suoi  scritti, 
perdere  ogni  speranza  in  una  riforma  spontanea,  che  parta  dalla  bor- 
ghesia, e  passare  al  socialismo.  «  Seminiamo  malva,  e  nascono  rosa- 
lacci  »  —  soleva  dire.  Ma  rosalacci  o  malve  che  siano,  contribuiranno 
tutti,  per  diverse  vie,  al  progresso  del  paese,  finché  rimanga  nella  loro 
coscienza  un'eco  dì  quella  voce  a  tener  desto  il  sentimento  della  giu- 
stizia, il  bisogno  della  bontà. 

VI.  —  La  guerra  europea. 

Leggendo  i  suoi  più  antichi  scritti,  storici  o  politici  che  siano,  noi 
dobbiamo  fare  uno  sforzo  curioso  per  renderci  conto  che  apparten- 
gono proprio  al  1875,  al  18Ó7,  al  1860,  sono  cioè  vecchi  di  quaranta, 
di  cinquanta,  di  circa  sessant'anni.  I  primi  lavori  e  gli  ultimi  sembrano 
sgorgati  tutti,  oggi,  senza  differenza  di  tempo,  sotto  i  nostri  occhi, 
dalla  stessa  vena  di  pensiero  limpido  e  spontaneo,  che  si  riflette  nella 
semplicità  cristallina  della  forma.  Dagli  anni  della  adolescenza,  quando 
il  buon  marchese  Puoti  lo  rimproverava  sdegnatissimo  di  violare  le 
regole  della  retorica,  perchè  descriveva  un  giovane  in  modo  «  che  gli 
pareva  di  vederlo,  gli  pareva  di  avergli  proprio  parlato  »,i  fino  all'ul- 
timo della  sua  vita  quasi  centenaria,  ebbe  il  privilegio  di  una  perenne 
freschezza  dello  spirito,  di  una  vivacità  inquieta  e  arguta,  che  faceva 
di  lui,  nato  nel  1827,  contemporaneo  dei  nostri  nonni,  un  coetaneo 
nostro,  partecipe  di  tutte  le  nostre  idee,  di  tutti  i  nostri  dolori,  di  tutte 
le  nostre  speranze. 

Proprio  nel  giugno  del  1914  notava,  con  la  solita  chiarezza  di 
idee,  i  prodromi  della  grande^  tragedia,  che  sovrastava  al  mondo. 

«  Il  maraviglioso  progresso,  dell'industria  e  del  commercio  ha  profondamente 
trasformato  la  società  moderna.  Essa  sembra  divenuta  come  unagrande  officina 
industriale,  con  l'unico  scopo  di  moltiplicare  sempre  più  la  sua  produzione...  Si 
tratta  di  una  società,  che  non  è  mai  esistita  e  nella  quale,  per  mezzo  del  suffragio 
universale,  il  quarto  Stato  deve  salire  al  potere.  L'operaio,  che  principalmente 
costituisce  questo  quarto  Stato,  s'apparecchia  a  prendere  in  mano  il  timone,  senza 
ancora  avere  ricevuta  la  necessaria  educazione  e  coltura.  Tutte  le  antiche  demo- 
crazie, a  coniiroiito  di  questa,  furono  vere  e  proprie  oligarchie.  Il  passato  non 
può  quindi  servirci  di  guida,  la  sua  esperienza  non  può  riuscirci  di  alcun  pratico 
ammaestramento.  Noi  infatti  restiamo  assai  spesso  come  al  buio,  dinanzi  ai  nuovi 
pericoli  che  si  presentano...  Ed  intanto  ai  pericoli  interni  si  aggiungono  i  peri- 


La/^/  La  Vista,  in  Scritti  varii,  Bologna,  ZanicheUi,  19>2,  p.  205. 


136  Gaetano  Salvemini 


coli  esterni,  che  sono  conseguenza  anche  essi  del  grande  rivolgimento  econo- 
mico industriale  delle  Nazioni  moderne...  Dichiarando  di  voler  solo  difendere  i 
propri  interessi,  l'Inghilterra  e  la  Germania  procedono  da  una  parte  e  dall'altra 
ad  armamenti,  sempre  pili  formidabili  di  terra  e  di  mare,  obbligando  tutte  le 
altre  Nazioni  a  fare  altrettanto.  L'Europa  si  è  così  trasformata  in  un  vero  campo 
militare,  nel  quale  si  profondono  miliardi,  per  esser  pronti  ad  una  prossima 
guerra,  che  per  ora  è  solo  ipotetica,  ma  che,  col  continuo  pensarci  e  continuo 
apparecchiarvisi,  può  divenire  una  realtà.  È  inutile  farsi  illusioni.  Noi  stiamo 
creando  uno  stato  di  cose,  sempre  più  anormale,  che  non  può  durare  a  lungo. 
Sotto  questa  continua  pressione  di  armi,  di  armati  e  d'imposte,  per  apparec- 
chiarsi alla  lotta,  che  dovrà  decidere  chi  è  il  più  forte,  potrà  venire  Km  giorno, 
in  cui  la  guerra  apparirà  come  un  sollievo,  perchè,  una  volta  deciso  chi  avrà 
la  vittoria,  sarà  possibile  aver  per  qualche  tempo  tregua  e  riposo.  E  non  c'illuda 
la  tranquilla  serenità,  con  cui  i  più  sembrano  guardare  lo  stato  presente  delle 
cose  aenza  temere  la  più  lontana  possibilità  di  una  catastrofe,  persuasi  che  il 
progresso  crescente  della  civiltà  rende  impossibili  i  fatti  sanguinari  di  altri  tempi. 
Nessun  avvenimento,  più  grande,  e  meglio  da  lungo  tempo  preparato,  fu  meno 
preveduto  della  Rivoluzione  francese.  —  In  "mezzo  a  questo  grande  tumulto  di 
avvenimenti,  in  quali  condizioni  si  trova  l'Italia?  Essa  è  venuta  ultima  fra  le 
grandi  Nazioni,  improvvisamente.  Tutti  i  più  difficili  problemi,  che  agitano  le  più 
civili  Nazioni,  le  si  son  presentati  a  un  tratto,  quando  essa  era  meno  delle  altre 
preparata  a  risolverli.  La  nostra  rivoluzione  è  stata  fatta,  si  può  dire,  dalla  sola 
borghesia,  senza  che  il  popolo  delle  città  e  delle  campagne  vi  prendesse  una 
parte  veramente  efficace,  oltre  di  che  venne  affrettata  e  condotta  con  grande 
rapidità  al  suo  compimento  dall'aiuto  straniero.  E  cosi  l'Italia  si  trovò  costituita 
prima  che  il  suo  nuovo  spirito  fosse  interamente,  definiti vanìente  formato,  e  si 
trovò  fra  le  grandi  Potenze,  dominata  da  un  alto  e  grande  sentimento  nazionale, 
ma  senza  avere  ancora  una  chiara  e  precisa  coscienza  della  sua  vera  missione 
nella  storia  e  nella  civiltà  generale  del  mondo  ». 

In  questa  situazione  pericolosa,  Egli  avrebbe  voluto  che  l'Italia 
facesse  la  parte  di  conciliatrice  e  di  paciera. 

«  Nessuna  Nazione  meglio  dell'Italia  può  comprendere  e  far  comprendere 
che  la  civiltà  delle  une  è  necessaria  a  quella  delle  altre,  che  la  disfatta  e  la 
demolizione  di  una  di  esse  sarebbe  un  danno  universale  per  tutte.  E  potrebbe 
del  pari  capire  e  far  capire,  che  i  pericoli  da  cui  è  minacciata  la  Società  mo- 
derna, sono  pur  tali  che  a  combatterli  efficacemente,  le  forze  riunite  di  tutte  le 
Nazioni  civili  non  sarebbero  troppe.  In  questo  modo,  l'Italia  riuscirebbe  un  nuovo 
elemento  di  pace  e  di  progresso  bella  civiltà  del  mondo  ».^ 

Gli  anni  non  lo  avevano  sbiadito;  non  lo  avevano  reso  ne  scet- 
tico, né  «realista»,  come  si  sogliono  chiamare  coloro  che  ritengono      ì 
sole  forze  reali  della  storia  essere  i  sentimenti  cinici  e  brutali.  La  fede 


1  Leggendo  un  libro  di  ti.  G.  Wells,  nella  Nuova  Antologia  del  l"  giugno  1914. 


Pasquale  Villari  137 


liberale  e  umanitaria  della  prima  giovinezza  lo  accompagnò  durante 
tutta  la  vita. 

«  Ogni  secolo  ha  i  suoi  grandi  problemi  da  risolvere.  Il  XIX  ebbe  quello  di 
dar  forma  determinata  alle  nazionalità,  e  di  sollevare  a  di<Tnità  nuova  le  classi 
lavoratrici,  riconoscendo  il  rispetto  dovuto  al  lavoro  manuale.  Il  secolo  XX  deve 
non  solo  condurre  a  compimento  quest'opera,  ma  deve  ancora,  accanto  al  con- 
cetto di  nazionalità,  promuovere  quello  di  solidarietà  internazionale.»^ 

Sorpreso  dal  rapido  scatenarsi  della  fanatica  e  atroce  rapina  te- 
desca, quel  vecchio  di  87  anni  non  esitò  a  scegliere  la  sua  via:  non 
indugiò  mai,  in  quella  aspettazione,  mezzo  pavida  e  mezzo  ricattatrice, 
che  gli  abili  e  i  saggi  chiamavano  neutralità  ;  non  pensò  mai,  neanche 
per  ipotesi,  che  l'Italia  potesse  rimanere  indifferente  fra  aggrediti  e  ag- 
gressori. 

Nella  Germania  egli  aveva  sempre  ammirato  assai  il  potente  sen- 
timento nazionale,  la  tenacia  nel  lavoro,  la  salda  disciplina,  la  serietà 
di  ogni  iniziativa,  la  risolutezza  maschia  e  conseguente  di  ogni  attività, 
la  perfetta  organizzazione  scientifica.  Ma  aveva  sempre  sospettato  e 
temuto  lo  spirito  d'ingiustìzia  e  di  prepotenza  nazionale. 

«  Insieme  col  sentimento  patriottico  della  unità  e  della  grandezza  nazionale 
—  così  egli  descriveva  lo  stato  d'animo  dei  Tedeschi  nel  1865,  dopo  il  primo 
viaggio  in  Germania  —  ne  è  cresciuto  un  altro,  assai  singolare,  per  cui  si  son 
persuasi  jche  tutto  il  mondo  moderno,  come  essi  dicono,  sarà  germanico.  L'uma- 
nità ha  percorso  il  suo  hmgo  cammino  attraverso  l'India,  la  Grecia  e  Roma  per 
divenire  finalmente  tedesca.  L'uomo  moderno  ùiiv^t  geniuinizzarsi.  Ecco  tutto. 
Le  Nazioni  più  civili,  esse  vi  dicono,  assorbotio  sempre  le  meno  civili.  Ed  a  ciò 
bisogna  poi  aggiungere,  quel  che  non  osano  dire  apertamente,  ma  che  pure  pen- 
sano, cioè  che  nulla  può  seguire  di  meglio  ad  una  nazione,  che  d'essere  quanto 
prima  germanizzata.  Uno  dei  più  illustri  scienziati  tedeschi  mi  diceva  :  —  SI, 
l'Austria  dovrebbe  persuadersi  a  lasciare  la  Venezia.  Però  se  la  Germania  fosse 
unita,  la  cosa  sarebbe  diversa  ;  allora  potrebbe  forse  discutersi,  se  la  Venezia 
non  le  sia  necessaria  e  far  valere  gli  antichi  diritti  dell'Impero.  —  Bisogna  andare 
a  sentire  il  processo  dei  Polacchi,  mi  diceva  a  Beriino  un  giovane  dottore:  era 
istruito,  educato  e  gentile.  —  Vedrete  più  di  100  gentiluomini  in  giubba  e  guanti 
bianchi  sedere  al  banco  degli  accusati.  Il  Pubblico  Ministero  domanda  la  morte; 
forse  ne  eseguiranno  solo  una  ventina.  —  E  vi  par  poco,  venti  condanne  a  morte, 
per  causa  politica?  —  Ah!  ma  badate,  non  sono  tedeschi!  —  Il  non  sono  tede- 
sciti  ha  un  grande  significato  in  Germania,  La  Francia  è  mal  veduta,  la  Polonia 
ap.che,  la  Danimarca,  ognuno  sa  che  ne  dicono,  e  l'Italia?  I  Tedeschi  sono  quasi 
meravigliati,  quando  non  possono  disprezzarci.  Vi  è  sempie  qualcosa  di  acre  e 
ili  acido,  quando  parlano  di  noi.  Sembrano  cosi  persuasi  della  impossibilità  asso- 
luta, che  in  Italia  si  possa  fare  qualche  cosa  di  grande  per  la  scienza,  che  quando 

1  Dove  andiamo?,  nella  Nuova  Antolosia  del  1"  novembre  1893. 


138  Gaetano  Salveviini 


non  lo  dicono  apertamente,  dimosti;-ano  di  fare  un  cosi  grande  sforzo  per  credere 
alla  nostra  capacità,  che  ò  anche  pegfjio  ».* 

E  nel  1870,  quando  la  Francia  era  prostrata: 

«La  Oerinajiia  —  scriveva  —  non  s'ilhidae  non  c'iUiida  troppo  snl  suo 
spirito  di  pace,  di  oinstizia  e  di  libertà,  mentre  ora  il  demone  della  guerra  la 
invade  tutta,  e  la  storia  del  suo  passato  ò  piena  di  lunghe  guerre,  di  conquiste 
crudeli.  Non  dica:  —  Si;iiiore,  ti  ringrazio  che  io  non  sono  cotiie  gli  altri  uomini, 
rapaci,  ingiusti,  adulteri.  -—  I  mali  della  guerra  ricadono  spesso  sul  vinto  e  snl 
vincitore,  e  la  Germania  potrebbe  sentir  più  grave  il  peso  di  quella  aristocrazia, 
che  ora  combatte  con  tanto  valore  alla  testa  de'  suoi  eserciti  ;  potrebbe  vedere 
scemata  la  libertà  e  l'uguaglianza,  e  sentire  il  bisogno  di  chiamare  in  suo  aiuto 
i  principi  deir89  ».2 

Assai  più  ammirava  l'Inghilterra  —  continuando,  anche  in  questo, 
la  tradizione  liberale  del  Risorgimento  —  per  la  lenta,  pacifica  evolu- 
zione democratica  delle  sue  istituzioni  nel  secolo  XIX,  per  la  sapienza 
romana  con  cui  ha  creato  e  mantiene  il  più  grande  impero  della  sto- 
ria, per  le  sue  classi  dirigenti  così  profondamente  dominate  dal  sen- 
timento della  responsabilità  e  della  solidarietà  sociale,  per  quella 
fusione  completa,  che  si  manifesta  nella  sua  vita  pubblica,  fra  i  diritti 
della  libertà  individuale  e  le  imposizioni  di  una  disciplina  tanto  più 
ferrea,  quanto  più  spontaneamente  accettata. 

Una  vittoria  della  Germania,  in  questo  grande  naufragio  del  vec- 
chio mondo,  gli  apparve  come  un  perìcolo  mortale  per  la  umanità, 
che  Tumanità  intera  dovesse  rompere  in  uno  sforzo  solidale  dì  difesa 
e  di  giustizia;  e,  pur  oppresso  da  un  grande  dolore,  volle,  risoluta- 
mente, incrollabilmente,  volle  che  Tltalia  partecipasse  a  questa  nuova 
guerra  d'indipendenza  per  sé  e  per  il  mondo. 

La  vita  gli  è  mancata  nell'ora  triste  del  disastro  dell'Isonzo.  Non 
è  giunto  a  superar  quel  dolore.  Non  vedrà  l'alba  del  nuovo  giorno. 
—  Dì  chi  è  la  colpa?  dev'essersi  domandato  più  volte,  sotto  il  peso 
della  grande  angoscia,  in  attesa  del  supremo  viaggio.  —  Di  chi  è  la 
colpa?  —  E  la  risposta  deve  essere  stata  quella  di  cinquant'anni 
or  sono  :  —  Non  riduciamo  a  questione  di  partito  una  questione,  che 
riguarda  la  nostra  esistenza  e  il  nostro  avvenire,  in  un  momento  in 
cui  ci  troviamo  a  esperimentare  così  dolorosamente  la  incapacità,  gli 
errori  e  la  mancanza  d'uomini  in  tutti  i  partiti.  Vi  è  in  Italia  un  gran 
colpevole:  e  quest'uno,  siamo  tutti  noi.  Si  trova  in  guerra  quel  che  si 


>  Uistruzione  secondaria  in  Germania  e  in  Italia^  in  Scritti  pedagogici^  1868, 
pp.  338-342. 

*  La  guerra  europea  e  l'Italia,  p.  21. 


Pasquale  Villari  139 


era  preparato  in  pace.  Questo  popolo,  che  un  bel  giorno  abbiamo 
inviato  in  trincea,  rivelandogli  che  per  la  Patria,  per  la  libertà,  per  la 
civiltà,  ha  il  dovere  di  sopportare,  non  per  un  giorno,  non  per  un 
mese,  ma  per  anni,  un  inaudito  martirio  ;  —  questo  popolo  si  era  mai 
sentito  considerato,  protetto,  amato,  nella  patria  nostra,  come  in  una 
patria,  che  fosse  anche  la  patria  sua  ?  Che  cosa  abbiamo  fatto  per  ren- 
derlo partecipe,  in  giusta  misura,  di  quella  libertà,  di  quella  civiltà, 
per  cui  oggi  gli  ingiungiamo  di  morire?  A  compiere  oggi  con  anima 
eroica  il  suo  dovere,  l'avevamo  forse  preparato,  adempiendo,  prima 
noi,  verso  di  lui,  negli  anni  della  lunga  pace,  i  nostri,  tanto  più  age- 
voli e  meno  penosi,  doveri?  E  se  noi  —  classe  dirigente  —  abbiamo 
sempre  avuto,  se  finanche  mentre  infuria  la  tempesta,  continuiamo  ad 
avere  un  così  debole  sentimento  della  giustizia  sociale  e  della  solida- 
rietà nazionale,  abbiamo  noi  il  diritto  di  pretendere  dal  nostro  popolo 
quello  che  da  tutti  i  popoli  esige  questa  immensa  guerra?  —  Per  no- 
stra immeritata  fortuna,  in  cinquant*anni  di  unità  nazionale  e  di  pro- 
gresso generale,  il  mondo  ha  camminato  coi  suoi  piedi  anche  fra  noi  : 
la  forza  delle  cose  ha  supplito  in  parte  alla  imprevidenza  e  all'egoismo 
degli  uomini.  Nel  18Ó6,  l'Italia  si  sentì  vìnta ^  (\o\)0  la  sola  battaglia  di 
Custoza,  con  soli  736  morti.  Oggi  il  nostro  popolo,  sebbene  combatta 
da  due  anni  e  mezzo  la  guerra  più  micidiale  della  storia,  si  è  ripreso 
dopo  un  attimo  di  funesto  abbandono,  è  tornato  ad  affermare  la  sua 
volontà  di  resistenza  e  di  vita,  grida  di  nuovo  in  faccia  al  nemico  la 
coscienza  del  suo  onore.  Esso  è  assai  migliore  di  noi.  Ha  in  se  tutti 
gli  elementi  per  divenire  un  nobile  popolo  libero,  purché  trovi  alfine 
una  classe  dirigente,  capace  intellettualmente  di  comprenderlo,  degna 
moralmente  di  governarlo.  Perchè  «  popolo  libero  è  quello  solamente, 
in  cui  i  potenti  e  ricchi  fanno  un  perenne  sacrificio  di  sé  ai  poveri  e  ai 
deboli.  Aiutare  coloro  che  soffrono,  vicino  a  noi,  è  il  nostro  dovere, 
è  il  nostro  interesse,  supremo,  urgente  ;  e  ci  restituirebbe  l'ideale  per- 
duto ». 

Gaetano  Salvemini. 


IL  COIICETTQ  DI  STOIIR  WM  FlLOSOFiH 


t^ 


"Made  in  Germany„ 

Non  è  soltanto  la  storia  civile  e  politica  che  soffre  presso  di  noi 
sotto  la  grave  mora  delle  concezioni  e  dei  metodi  tedeschi,  ma  altresì, 
e  forse  più,  la  storia  della  filosofia.  Essa  è,  infatti,  per  buona  parte 
—  sopratutto  presso  Croce,  Gentile  e  i  loro  seguaci  —  di  pretta  marca 
tedesca.  Porta,  cioè,  tenace  e  ostinata,  l'impronta  hegeliana,  appena 
un  po'  rispolverata  e  rammodernata  nella  forma.  E  Tartificio  e  la  fal- 
sità di  questo  indirizzo,  verso  cui  non  pochi  tra  i  giovani  sMncammi- 
nano  (o  forse  si  può  oggi  già  dire  si  incamminavano  ?)  attratti 
dalla  moda  ridatagli  e  dalla  facilità  che  esso  offre  loro  di  prendere 
atteggiamenti  di  superiorità  e  di  sentenziare  con  solennità  o  con  di- 
spregio su  uomini  e  sistemi  —  l'artificio  e  la  falsità  di  questo  indi- 
rizzo tedesco  nella  storia  della  filosofia,  è  un'altra  di  quelle  nostre 
tendenze  culturali  contro  cui  non  è  inutile  ora  dire  una  parola. 

L^  **  assolutismo  „ 

E  dogma  essenziale  per  gli  araldi  della  dottrina  dello  spirito  asso- 
luto, che  la  ragione  speculativa  —  ossia  la  ragione  opposta  al  mise- 
rello  intendimento  comune,  ossia  ancora  il  pensiero  umano  in  quanto 
sa  liberarsi  dai  pregiudizi,  dalle  passioni  e  dai  sofismi  ed  errori  che 
ne  nascono,  e  convenientemente  elevarsi,  ed  essere  veramente  pensiero 
o  ragione  —  deve  poter  senza  fallo  colpire  il  vero,  deve  cogliere  indifet- 
tibilmente  la  verità  eterna  e  infallibile  e  farla  posare  in  se  senza  pos- 
sibilità dì  errore.  Se  così  non  fosse,  se  la  ragione  umana,  anche  nel 
suo  esercizio  più  schietto,  spassionato  ed  alto,  potesse  non  afferrare 
la  verità  ed  essere  suscettibile  di  errore,  la  sua  assoluteza,  Tassolu- 


//  concetto  dì  storia  della  filosofia  14 1 

lezza  dello  spirito,  se  ne  andrebbe  in  fumo.  Se  ciò  che  la  ragione 
umana,  nelle  condizioni  accennate,  scorge  sicuramente  come  vero,  po- 
tesse non  essere  vero  ed  essa  dovesse  pensare  che  può  semplicemente 
apparirle  come  tale,  allora  i  suoi  responsi  non  sarebbero  più  assoluti» 
ma  essenzialmente  relativi.  Essa  non  potrebbe  più  mai  dire  «  ciò  è  ». 
Potrebbe  bensì  vedere  con  perfetta  sicurezza  che  qualche  cosa  è.  Ma 
non  avendo  altro  criterio  che  sé  e  questa  sua  sicurezza,  una  volta  insi- 
nuatosele il  pensiero  che  la  sua  certezza  più  evidente  può  essere  illusoria, 
che  essa  ragione,  pur  nella  sua  visione  più  precisa  e  limpida,  può 
avere  una  rivelazione  errata  della  realtà,  non  potrebbe  più  lasciarsi 
andare  ad  affermare  che  quel  qualche  cosa  che  le  risulta  essere,  è. 
Essa  lo  scorge,  sì,  come  alcunché  che  è.  Ma  sa  oramai  che  tale  suo  scor- 
gimento, per  quanto  puro  e  alto,  può  errare.  Allora  sarà  sospinta  a  dire 
non  più  «  ciò  è  »,  ma  «  ciò  mi  appare  »,  «  ciò  è  per  me,  e  potrebbe 
non  essere  per  ragioni  diversamente  costituite  o  colorite  »  :  ad  usare  in- 
somma le  formule  proprie  del  relativismo.  E  con  ciò  la  filosofia  «  asso- 
lutista »  sarebbe  morta  prima  di  nascere. 

È  essenziale,  adunque,  a  questa  filosofia  il  concetto  che  il  pensiero 
umano,  in  quanto  non  deviato  o  inquinato  da  qualche  cosa  che  non 
è  veramente  pensiero,  non  può  che  cogliere  sempre  e  infallante- 
mente la  verità  una,  immutabile,  eterna,  e  eternamente  identica'  a 
sé  stessa. 

Tale  concetto,  senza  del  quale  l'assolutismo  filosofico  cade  in 
frantumi,  cozza  contro  tre  principali  ostacoli  che  i  dogmatici  assolu- 
tisti, non  ostante  i  più  arditi  salti  mortali,  non  sono  mai  riusciti  a 
superare.  E  sono:  l'errore  teorico,  il  male  morale  e  le  varie  formula- 
zioni del  pensiero  speculativo,  le  varie  soluzioni  date  ai  «  massimi 
problemi  »,  cioè  la  storia  della  filosofia. 

Lasciamo  andare  i  due  primi,  e  fermiamoci  su  quest'ultimo. 

Hegel   Cuor  Contento 

Se  il  pensiero  umano,  in  quanto  propriamente  e  puramente  pen- 
siero, coglie  sempre  e  con  sicurezza  la  verità,  come  avviene  che  i  si- 
stemi filosofici  sono  vari,  che  la  loro  diversità,  anziché  sparire,  continua 
attraverso  i  secoli,  la  loro  opposizione  perdura  e  s'accentua,  e  non 
v'è  una  questione  sola  in  cui  l'accordo  si  sia  stabilito  ?  Come  avviene 
che  quanto  é  maggiore  lo  sforzo  d' un  sistema  per  costringere  la  con- 
vinzione e  coartare  logicamente  le  ragioni  di  tutti  ad  accettarlo  e  quanto 
più  orgogliosa  la  persuasione  di  esservi  riuscito,  tanto  più  pronta  e 
violenta  é  l' insurrezione  delle  ragioni  che  lo  demoliscono  quasi  prima 
ancora  che  esso  sia  finito  di  costruire? 


142  Giuseppe  Rensi 


Qui  si  tratta  dei  più  alti  e  nobili  pensatori  che  T  umanità  abbia 
avuto,  cioè  appunto  del  pensiero,  per  eccellenza,  più  propriamente  e 
veramente  pensiero.  Eppure  le  manifestazioni  di  questo  pensiero  sono 
contraddittorie.  Essa  ha  visto  la  verità  in  varie  guise.  Non  ha  cioè 
visto  una  verità.  Ma  allora  non  ha  visto  la  verità.  La  filosofia  insomma 
ha  una  storia;  il  che  vuol  dire  appunto  che  i  sistemi  sono  diversi, 
che  la  convinzione  circa  la  verità  muta,  che  il  pensiero  scorge  la  ve- 
rità variamente.  Ora  come  si  concilia  questo  col  caposaldo  dell'assolu- 
tismo che  la  ragione  umana,  in  quanto  essenzialmente  ragione,  è  in 
indissolubile  coniugio  con  la  verità,  che  il  pensiero  si  identifica  con 
Tessere?  Uno  solo  dei  molti  sistemi  diversi  può  contenere  la  verità. 
Ma  allora,  la  ragione  che  ha  pensato  gli  altri  è  in  istato  di  divorzio 
dal  vero,  né  in  questi  altri  il  pensiero  si  identifica  all'essere.  E  quale 
è  quello,  il  solo  che  può  essere  vero  ?  Ognuno  lo  afferma  di  sé,  e  af- 
fermi! che  tutti  gli  altri  sono  falsi.  Ma  ci  è  facile  di  estendere  quest'  ul- 
tima affermazione.  Basta  che  ci  collochiamo  sul  terreno  di  uno  di 
questi  altri  che  affermano  falso  quello  facendo  centro  nel  quale  si  di- 
chiarano falsi  tutti  gli  altri.  Allora  vediamo  che  la  sentenza  di  falsità  li 
colpisce,  con  pari  autorità,  tutti  deipari. 

Di  fronte  a  ciò  due  vie  sono  aperte?  O  si  ammette  che  nessuno 
dei  sistemi  filosofici  contenga  un  insieme  di  idee  che  si  possa  affermar 
costituire  la  verità  obbiettiva,  valevole  necessariamente  per  tutti,  tale 
che  le  ragioni  di  tutti  siano  logicamente  costrette  ad  accettarla;  che 
la  filosofia,  insomma,  non  sia  scienza  (se  alla  scienza  si  attribuisce 
questo  carattere  di  verità  obbiettiva),  ma  possegga  invece  un  in- 
dole essenzialmente  diversa.  Ovvero  ci  si  appiglia  all'espediente  di 
Hegel. 

Per  grido  unanime  dei  supj  seguaci,  Hegel  fu  il  primo  che  stabilì 
e  formulò  il  concetto  scientifico  della  storia  della  filosofia.  E  a  ciò 
egli  riuscì  applicando  ad  essa  storia  uno  dei  capisaldi  della  sua  logica  ; 
la  soppressione  del  principio  di  contraddizione,  la  negazione  cioè  che 
due  elementi  contraddittori  si  escludano  e  l'affermazione  che  essi  pos- 
sono insieme  coesistere  nel  pensiero. 

Che  cosa  dice  il  pensiero  comune?  Che  un  oggetto  qualsivoglia 
o  è  «  così  »  o  non  è  «  così  »  :  o  è  bianco  o  è  non  bianco,  per  esempio. 
Donde  le  note  formule  della  logica  comune,  le  cosiddette  «  leggi  del 
pensiero  ^  \  A  t.  A,  A  non  è  non-i4,  i4  o  è  B  o  è  non-R  Mal  queste 
sono  le  formule  e  le  leggi  del  pensiero  triviale,  per  Hegel.  Chi  vi  si  solleva 
un  po'  al  di  sopra  e  guarda  la  questione  dall'alto  scorge  che  le  cose  sono 
«  così  »  e  anche  non  sono  «  così  »,  che  sono  bianche  e  non  bianche, 
per  esempio:  che  il  bianco  e  il  non  bianco  —  questi  elementi  con- 
traddittori —  coesistono  e  devono  coesistere  per  rendersi  reciproca- 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  143 


mente  possibili,  e  la  loro  superficiale  contraddizione  si  sopisce  nel 
concetto  di  colore  che  entrambi  li  abbraccia  e  li  rappacifica.  Il  triviale 
pensiero  comune,  l' intendimento  astratto,  si  ferma  alle  contraddizioni 
e  vi  naufraga.  Esso  dice  :  ecco  la  vita,  e  tosto  la  morte  la  contraddice 
e  la  nega;  ecco  il  bene,  e  subito  il  male  lo  insidia,  lo  mina,  lo  corrode. 
In  quale  rete  di  assurdi  viviamo!  Così  dice  l'intelligenza  triviale.^  Ma 
la  ragione,  il  filosofo-sole  che  dal  suo  speculativo  «  Occhio  di  Bue  »  vede 

il  mondo  picciolo  ai  suoi  pie* 

risponde:  di  che  assurdi  andate  parlando?  Tutto  si  spiega,  tutto  corre 
bene,  tutto  si  coordina,  se  riguardate  di  qui.  La  vita  è  già  in  sé  morte 
e  la  morte  è  necessaria  alla  vita;  il  male  è  necessario  al  bene  che 
per  essere  bene  ha  bisogno  d' un  male  da  superare  e  solo  è  bene 
quando  lo  supera.  Libertà  e  necessità  non  si  escludono,  come  voi  pensate 
ponendo  male  il  problema,  bensì  fanno  un  tutto  unico;  e  poiché  ogni 
azione  opera  su  di  una  situazione  di  fatto  preesistente,  ma  su  questa 
crea  alcunché  di  nuovo,  ogni  atto  è  necessitato  e  libero  insieme 
(Croce).  Gli  elementi  insomma  che  vi  sembrano  irriducibilmente  con- 
traddittori, perché  vi  ostinate  a  isolarli  e  continuate  a  fissarli  nel 
loro  isolamento,  si  articolano  perfettamente  l' un  con  Taltro,  e  si  scor- 
gono benissimo  così  articolati  se  si  ha  la  forza  mentale  di  sollevarsi 
ad  abbracciarli  d*  un  guardo  nel  loro  insieme.  Le  contraddizioni  che 
appaiono  insormontabili  nei  singoli  elementi  finché  questi  si  tengono 
separati  Tuno  di  fronte  all'altro,  sfumano  nel  tutto;  ossia,  in  questo 
restano  bensì  i  contrasti,  esso  è  bensì  un  insieme  di  contrasti,  ma 
di  contrasti,  che,  pur  rimanendo  tali,  sono  organizzati  in  una  più 
ampia  unità  e  sono  anzi  necessari  a  questa  unità  se  essa  ha  da  essere 
non  un  vuoto  uniforme  nulla,  ma  un  mondo. 

Così  parla  il  disgustoso  ottimismo  hegeliano,  che  ha  in  sé  tutto 
il  sapore  delle  vecchia  teodicea  da  un  predicatore  sputasentenze  scio- 
rinata con  sicura  baldanza  dal  pulpito,  e  tutta  l' impronta  del  pacifico 
e  indifferente  egoismo  d'un  grosso  rentier  campagnuolo  che  appren- 
dendo nel  periodo  digestivo  miserie  o  tragedie,  conclude  facilmente  e 
beatamente  che  il  mondo  nel  suo  insieme  va  però  bene  lo  stesso. 
Ma  intanto  che  la  prestigiditazione  accademica  e  professorale  fa  sparire 
dall'alto  della  cattedra  le  contraddizioni  e  i  contrasti,  e  mostra  che 
r  identità  é  differenza  e  la  differenza  identità  e  che  le  cose  che  si 
urtano  non  si  urtano  ma  si  sorreggono  reciprocamente  —  come  il  ciar- 
latano mostra  che  la  fiamma  é  stoppa  e  la  stoppa  carta  —nella  vita, 
dove  la  ragione  assoluta  non  v'é  ed  esìstono  solo  gli  spiriti  umani, 
la  gente  di  carne  e  d'ossa  per  le  contraddizioni,  gli  urti  e  ì  contrasti 
—  per  queste  cose  pretese  apparenti  e  "transeunti  —  dolora  e  muore.  Le 


144  Giuseppe  Retisi 


tragedie  deiramore  spezzano  i  cuori  ;  i  conflitti  dei  popoli  infrangono 
le  vite  a  milioni  ;  la  miseria  economica  fa  languire  lo  spirito  e  il  corpo 
di  intiere  classi  e  generazioni  ;  ciò  che  pareva  in  ogni  ieri  verità  scien- 
tifica inconcussa,  continua  senza  fine  in  ogni  oggi  ad  essere  dimo- 
strato errore.  Non  è  già  smussando  con  la  lima  delle  formulette 
cattedratiche  gli  angoli  crudi  e  sporgenti  che  non  vogliono  rientrare 
nel  quadro,  ripetendo  solennemente  proposizioni  di  cui  si  sa  quale 
sarebbe  confutazione  che  però  superbamente  si  sottace,  mettendosi 
dinanzi  il  mondo  come  i  fanciulli  si  mettono  dinanzi  quei  dadi  su 
cui  sono  incollati  i  pezzi  d*  un  dipinto  o  quei  multiformi  ritagli  d*2is- 
sicella  su  cui  sono  fissati  i  frammenti  d*  una  carta  geografica,  come, 
cioè,  si  trattasse  di  qualcosa  le  cui  parti  si  è  sicuri  in  precedenza  che 
col  tempo,  la  pazienza  e  l'abilità  si  deve  riuscire  a  far  combaciare  in 
modo  da  dare  un  bel  disegno  regolare  e  completo  -r-  non  è  già  così, 
ma  collocandosi  in  presenza  alle  giovani  vite  che  si  spengono,  al  pensiero 
che  la  malattia  uccide  prima  della  vita,  alla  corrutela  che  circostanze 
estrinseche  insinuano  fatalmente  in  animi  puri,  all'  uomo  che  morendo 
o  vedendo  morire  rinnova  nell'angoscia  la  domanda,  che  par  banale 
agli  onnisapìenti  :  «  perchè  si  viene  al  mondo,  se  poi  si  muore  ?»  ;  è  po- 
nendoci in  faccia  di  codesta  nuda  realtà  che  bisogna  saggiare  la  verità 
della  frase  dottorale:  «  questi  contrasti  si  coordinano  se  considerati 
nel  tutto  »!  La  morte  occorre  per  la  vita,  spiega  l'assolutista.  E  che  ci 
importa?  Questo  appunto  si  domanda:  perchè  V assurdo  che  la  morte 
occorra  per  la  vita  e  che  la  concatenazione  dell'esistenza  sia  tale 
che  per  la  vita  abbisogni  la  reciproca  distruzione  universale  delle 
vite.  Il  male  occorre  pel  bene,  ricalza  il  cattedratico.  E  tutte  le  innu- 
merevoli volte  che  in  una  persona  umana  o  nella  storia  dei  popoli 
il  male  soverchia  definitivamente  e  senza  riparo  il  bene,  tutte  le  volte 
che  invece  è  il  bene  che  ha  servito  al  male,  dove  il  compenso  e  la 
sintesi  ?  La  libertà  e  la  necessità  si  conciliano,  giudica  e  manda  il  don 
Ferrante  dell'assoluto  che  conosce  e  soppesa  tutti  i  sistemi,  sa  a  me- 
nadito sin  dove  ciascuno  abbia  ragione  e  torto,  ed  ha  trasformato  in 
succo  e  sàngue  la  quintessenza  dei  più  scelti  di  essi.  Ma  quello  che 
fuori  d'equivoci  si  chiede,  e  che  solo  è  importante,  è  non  già  se  nel- 
l'uomo che  ha  ceduto  ad  una  tentazione  si  è  combinata  la  necessità 
d'uno  stato  di  fatto  preesistente  che  costituiva  la  materia  della  ten- 
tazione con  la  libertà  di  certe  nuove  direzioni  nel  cedervi,  ma  se 
l'uomo  ha  la  possibilità  e  la  libertà  di  resistere,  di  operare  diversa- 
mente da  quel  che  vuole,  e  più  ancora,  come  già  il  Galluppi  aveva 
acutamente  posta  la  questione,  «  di  non  volere  ciocché  vuole  »  ;i  se,  per 


1  Filosofia  della  Volontà  (Milano,  SUvestri,  1855,  voi.  H,  p.  81). 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  T45 


usare  il  linguaggio  del  James,^  dipende  da  noi  riuscire  a  matitenre 
terma  nella  coscienza  un*  idea  difficile  e  buona  o  ad  allontanarne  una 
insinuante  e  cattiva,  vale  a  dire  se  lo  sforza  a  ciò  necessario  è  una 
funzione  determinata,  da  dati  fissi  (il  carattere,  i  motivi)  ovvero  una 
«  variabile  indipendente  »  e  noi  possiamo  iniziarlo  ed  aumentarlo  in 
modo  indeterminato  e  autonomo;  se  infine  davanti  a  cèrte  tragiche 
soccombenze,  deprecate  e  maledette  da  colui  che  soccombe,  la  conci- 
liazione della  necessità  con  la  libertà  sia  qualche  cosa  di  più  d'  un 
castello  di  parole  o  d'uno  di  quei  bilanci  che  gli  accorti  manipo- 
latori di  cifre  sanno  far  chiudere  in  perfetto  pareggio,  ma  sulla  carta. 

Così  a  chi  fissi  senza  le  lenti  accademiche  lo  sguardo  nella  realtà 
cruda  appare  chiaro  che  non  già  le  disarmonie  sono  una  fase  preli- 
minare e  un  momento  parziale  d*una  sintesi  più  ampia  che  accoglien- 
dole in  sé  le  risolve,  ma  che  invece  ogni  sintesi  e  soluzione  è  un 
momento  essenzialmente  passeggero,  Tattimo  di  sosta  d*  un  equilibrio 
instabile,  e  che  ciò  che  è  davvero  permanente  e  dominante  è  Furto 
delle  negazioni  e  delle  contraddizioni  che  rompe  quella  effimera  sintesi, 
rovescia  quella  apparente  soluzione,  spezza  quel  falso  e  momentaneo 
equilibrio,  per  precipitarlo  di  continuo  nel  turbine  del  conflitto  dell*  in- 
solubilità e  deirautonomia.  Non  è  sulla  sintesi  e  sulla  soluzione,  ma 
sulla  contraddizione  e  sul  contrasto  che  il  processo  del  mondo  e 
quello  del  pensiero  costringono  a  mettere  Taccento.  Non  l'accordo, 
la  sintesi,  la  vita,  ma  l*  urto,  la  scissione,  la  mòrte  è  ciò  che  soprastà 
e  perdura. 

Mortalem  vitam  mors.,.  immortalis  ademit,^ 

Uidentità  hegeliana  di  filosofia  e  storia 

Comunque,  questo  criterio  appunto,  cioè  la  tesi  che  le  contraddizioni 
non  si  negano  né  si  distruggono  a  vicenda,  che  due  elementi  contraddit- 
tori non  necessitano  da  parte  della  nostra  mente  un*esclusione  e  una 
scelta,  ma  che  possono  entrambi  essere  accolti  insieme  e  coesistere  nel 


1  Precis  de  Psychologie,  p.  606;  Principi  di  Psicologia,  p.  824. 

«  De  rer.  Nat,  III,  867.  —  Si  potrà  obbiettare  che  con  ciò,  per  combattere  la 
soppressione  del  principio  di  contraddizione,  si  sopprime  il  principio  di  identità; 
mentre,  senza  riconoscere  che  l' identità  persiste  nelle  differenze,  non  potremmo  avere 
il  concetto  d'alcunché  nemmeno  del  movimento,  in  cui  una  cosa  è  la  stessa  attraverso 
differenti  tempi  e  spazi;  e  mentre,  se  non  si  ammette  che  le  cose  per  essere  diffe- 
renti devono  essere  le  stesse,  non  c'è  neppur  modo  di  paragonarle  e  di  dire  «  sono 
differenti  »  perchè  mancherebbe  ogni  elemento  di  relazione,  il  quale  è  solo  possibile 
sulla  base  d'  una  identità.  —  Ad  evitare  lunghe  discussioni  la  nostra  risposta  sarà 
semplicissima  :  e  cioè  che  pure  ammesso  t[uel  tanto  di  identità  che  il  ragionamento  ora 
riferito  richiede,  resta  un  margine  di  differenza  e  di  contraddizione  piti  che  sufficiente 
per  giustificare  quanto  sopra  è  detto. 

H)  —  Nuova  Rivista  Storica, 


tj6  Giuseppe  Rensi 


pensiero,  ma  che  stanno  in  questo  a  loro  pieno  agio  l'uno  accanto  all'al- 
tro, ma  che  si  armonizzano  a  meraviglia  insieme  quando  collocati  in 
tutto  più  largo  —  questo  è  il  criterio  che  Hegel  ha  introdotto  per 
sostenere,  in  presenza  della  diversità  delle  filosofie,  l'assolutezza  della 
Verità  filosofici. 

Ognuno  ricorda  come  proceda  l'applicazione  di  questo  criterio 
alla  filosofia  e  alla  sua  storia.  Storia  e  filosofia  —  dice  Hegel  —  sem- 
brano concetti  antitetici.  La  filosofia  mira  ad  intendere  ciò  che  è  uni- 
versalmente vero  e  immutabile,  cioè  la  verità  che  è  eterna,  non  cade 
nella  sfera  del  transeunte  e  per  conseguenza  non  ha  storia.  La  storia 
ci  parla  di  ciò  che  in  un  dato  momento  esiste  e  in  un  dato  altro 
scompare,  soppiantato  da  alcunché  di  diverso.  In  tale  antitesi  restiamo 
finché  consideriamo  la  storia  della  filosofia  come  un  cumulo  di  opi- 
nioni contingenti,  manifestantesi  casualmente  nel  tempo,  che,  in  questo 
caso,  sarebbbe  già  tròppo  onore  denominare  opinioni  e  andrebbero 
meglio  chiamate  insensatezze.  Ma  il  vero  concetto  é  quello  che  sostiene 
che  la  verità  é  una,  eppure  mette  in  luce,  non  solo  la  possibilità,  ma 
l'assoluta  necessità,  di  filosofie  diverse. 

A  questo  concetto  ci  permettono  di  salire  due  idee:  quella  di  svi- 
luppo e  quella  di  concretezza. 

Quella  di  sviluppo  consiste  nel  fatto  che  qualche  cosa  esiste  dap- 
prima implicito  e  poi  diventa  esplicito;  è  dapprima  potenza,  capacità 
(essere-in-sè)  e  diventa  poi  attualità,  atto  (essere-per-sè).  Ora,  ciò  che 
in  un  dato  momento  é  in  atto,  in  piena  espansione  ed  efflorescenza, 
è  certo  diverso  da  quel  che  era  quando  si  trovava  ancora  implicito  o 
in  germe:  eppure,  sebbene  diverso,  é  la  medesima  cosa.  Così,  se 
r  uomo  è  per  natura  razionale,  egli  possiede  la  ragione  già  nel  ventre 
della  madre.  Ma  la  ragione  che  egli  allora  jDossiede  è  soltanto  implicita, 
e  cos?  diversa  dal  come  è  quando  diventa  esplicita  nell'uomo  adulto, 
che  allora  è  come  egli  non  possedesse  ragione.  Pure,  non  ostante 
questa  diversità,  quella  ragione  embrionale  od  implicita  e  questa  ra- 
gione matura  od  esplicita  sono  pur  sempre  la  medesima  ragione. 
Così  ancora:  la  pianta  è,  in  un  certo  senso,  qualcosa  d'assai  diverso 
dal  seme;  pure  é  anche  la  stessa  cosa  del  seme  poiché  non  é  che  lo 
sviluppo  di  ciò  che  era  .nascosto  e  idealmente  contenuto  nel  seme. 

L'idea  di  «concreto  »  consiste  nel  fatto  che  ciò  che  si  sviluppa, 
fin  dal  suo  germe,  non  é  qualcosa  di  vacuamente  e  astrattamente  uni- 
forme, di  assolutamente  identico,  di  indifferenziato;  ma  é  un'unità  di 
differènze,  racchiude  un  complesso  di  distinzioni,  costituisce  un'unione 
di  determinazioni  diverse.  Se  il  seme  non  comprendesse  già  un  insieme 
di  differenziazioni  potenziali  non  ne  potrebbero  scaturire  le  varie  parti 
della  pianta. 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  147 

Combinando  le  due  idee  di  sviluppo  e  di  «  concreto  »  che  cosa 
otteniamo  ?  Otteniamo  la  conclusione  che  il  «  concreto  »  che  si  svi- 
luppa mette  fuori  a  poco  a  poco  le  differenze  o  diverse  determi- 
nazioni che  conteneva  implicitamente  fin  dal  principio;  e  le  mette 
fuori  in  un  certo  ordine,  voluto  dalla  sua  natura;  e  ciascuna  di  que- 
ste determinazioni  differenti,  sebbene  sia  diversa,  contrastante,  con- 
traddittoria a  ciascun' altra,  pure  non  esclude  mica  quest'altra,  ma 
sta  a  perfetto  suo  agio  accanto  ad  essa  nel  processo  di  sviluppo  del 
tutto,  anzi  richiede  indispensabilmente  |a  presenza  di  queste  determi- 
nazioni diverse  da  sé  affinchè  il  tutto  e  il  suo  sviluppo  possa  esservi, 
giacché  esso  esiste  solo  per  il  concorso  di  tutte  quelle  determinazioni 
contrastanti. 

Così,  il  seme  della  pianta  sviluppandosi  metterà  fuori  prima  le  radici, 
poi  il  tronco,  poi  i  rami,  poi  le  foglie,  poi  ì  fiori,  poi  il  frutto.  Ognuno 
di  questi  elementi  non  é  l'altro,  è  diverso  dall'altro,  é  la  negazione 
dell'altro.  Pure  essi  non  si  escludono  a  vicenda,  ma  si  armonizzano, 
anzi  si  esigono  reciprocamente,  se  li  consideriamo  nello  sviluppo  del 
tutto.  Se  quando  vediamo  comparire  le  radici  noi  ci  arrestassimo  ad 
esse  e  dicessimo  «  le  radici  sono  //  vero  della  pianta  »,  quando  poi 
compare  il  tronco  dovremmo  rinnegare  quel  che  credevamo  prima 
d'aver  visto  come  vero  e  dire  «  il  tronco  è  //  vero  della  pianta  ».  E 
anche  questo  vero  dovremmo  rinnegarlo  quando  poi  compaiono  le 
foglie  e  così  via.  Fissiamo  lo  sguardo  su  ciascuno  di  questi  elementi 
—  radici,  tronco,  foglie,  ecc.  —  isolatamente  e  man  mano  che  appaiono. 
E  ciascuno  ci  risulterà  come  una  contraddizione  e  una  negazione  del- 
l'altro, come  ciò  che  fa  dell'altro  alcunché  di  falso.  Ma  fissiamo  invece 
lo  sguardo  sullo  sviluppo  totale  della  pianta  e  scorgeremo  che  il  vero 
della  pianta  non  è  né  le  radici,  né  il  tronco,  né  le  foglie,  non  questi 
elementi  considerati  isolatamente  al  loro  successivo  presentarsi,  ma  lo 
sviluppo  stesso  del  tutto,  nel  quale  questi  elementi,  sebbene,  in  quanto 
considerati  isolatamente,  negantisi  a  vicenda,  hanno  tutti  il  loro  posto, 
e  per  costituire  il  quale  la  loro  presenza  e  la  loro  successione  e  con- 
catenazione è  necessaria.  —  Questo  é  ciò  che  Hegel  esprime  anche 
dicendo  che  il  principio  di  diversità  non  è  qualcosa  d'assolutamente 
fisso,  ma  é  in  istato  di  flusso  e  deve  èssere  concepito  nel  processo  di 
sviluppo  e  come  un  momento  di  passaggio. 

Orbene,  così  appunto,  secondo  Hegel,  deve  considerarsi  la  filo- 
sofia nella  sua  storia. 

Se  voi  fissate  isolatamente  i  sistemi  e  osservate  che  uno  fiorito 
in  una  data  epoca  venne  contradetto  e  abbattuto  da  quello  dell'epoca 
successiva,  fate  come  chi  vedendo  comparire  le  radici  e  poi  il  tronco 
dice  che  il  tronco  contraddice  e  nega  le  radici.  Ma  fissate  invece  lo  svi- 


148  Giuseppe  Retisi 


luppo  dell'  insieme.  Allóra  comprenderete  che  anche  la  verità  nel  campo 
della  filosofia,  anche  V  idea  filosofica,  è  un  «  concreto  »  che  già  nel 
suo  germe  iniziale  contiene  implicita  un'unità  di  differenze  o  deter- 
minazioni o  elementi  diversi,  e  che  sviluppandosi  mette  in  luce  pro- 
gressivamente queste  sue  parti  o  articolazioni  differenti,  le  quali  tutte 
insieme  costituiscono  e  sono  necessarie  a  costituire  l'idea  filosofica 
medesima  nel  suo  sviluppo,  come  il  progressivo  prodursi  delle  radici, 
del  tronco,  delle  foglie  fa  della  pianta.  E  come  nel  caso  della  pianta, 
così  nel  caso  dell'idea  filosofica,  l'apparizione  dì  questi  diversi  membri 
o  momenti  dell'  idea  che  si  sviluppa,  avviene,  non  a  caso,  ma  con  un 
cert'ordine  proprio  della  sua  natura:  e  cioè  l'ordine  delle  determina- 
zioni concettuali,  ossi^  delle  categorie,  di  cui,  secondo  la  logica  hege- 
liana, consta  il  pensiero,  quest'ordine  è  lo  stesso  di  quello  con  cui  i 
sistemi  di  filosofia  compariscono  nella  storia.  Quindi  la  storia  della 
filosofia  va  considerata  come  il  sistema  di  sviluppo  dell'idea  filosofica. 
Quindi,  è  possibile  non  solo  spiegare  così  la  comparsa  nella  storia  di 
sistemi  diversi,  perchè  r  insieme  della  storia  della  filosofia  non  è  che 
un  progresso  messo  in  moto  da  un'  inerente  necessità,  ma  altresì  con- 
cludere che  ogni  diversa  filosofia  è  stata  necessaria  e  lo  è  ancora  per- 
chè ognuna  è  contenuta  come  elemento  nel  tutto.  Quindi  ogni  filosofia 
è  vera  ed  inconfutabile,  confutabile  essendo  solo  il  fatto  che  si  consi- 
deri il  principio  che  la  informa  come  definitivo  e  assoluto.  Quindi, 
infine,  le  prime  filosofie  sono  le  più  povere  ed  astratte,  ed  è  invece  la 
filosofia  moderna,  nuova,  «  del  nostro  tempo  ^  quella  che  è  più  svilup- 
pata, ricca  e  profonda. 

Si  può  dire,  insomma,  che  il  concetto  hegeliano  della  filosofia  e 
della  sua  storia  trova  la  propria  illustrazione  nell'immagine  del  Levia- 
tano come  ce  lo  rappresenta  il  frontespizio  del  libro  di  Hobbès.  A 
quella  guisa  che  questo  è  l'uomo-gigante  il  cui  corpo  è  costituito  di 
tanti  uomini  ordinari,  così  la  filosofia  —  la  filosofia  nella  sua  vita,  nel 
suo  sviluppo,  nella  sua  storia,  cioè  la  filosofia  integrale,  quella  sola  che 
da  un  punto  di  vista  onnicomprensivo  può  chiamarsi  la  filosofia  — 
è  r  unica,  eterna,  immensa,  inesauribile  idea  filosofica,  la  cui  struttura 
è  costituita  di  tanti  sistemi,  e  che  tutti  i  sistemi  filosofici  concor- 
rono e  devono  concorrere  ad  articolare.  E  quindi  è  che,  se  la  storia 
della  filosofia  non  è  che  la  stessa  idea  filosofica  nel  suo  processo,  se 
non  ci  presenta  che  lo  sviluppo  dell'idea  filosofica  secondo  l'ordine 
delle  sue  fasi  quale  è  posto  dalla  interiore  costituzione  logica  di  essa, 
gli  elementi  personali  non  possono  avere  alcuna  importanza  per  tale 
storia.  Quanto  minor  rilevanza  si  attribuisce  agli  individui  particolari 
—  giunge  a  dire  Hegel  —  e  tanto  meglio  è  per  la  storia.  Più  ci  si 
occupa  del  pensiero  come  libero,  del  carattere  universale  dell'uomo 


//  concetta  di  storia  della  filosofia  149 


come  uomo,  e  più  questo  pensiero,  spogliato  così  d'ogni  caratteristica 
speciale,  apparisce  essere  il  soggetto  che  crea.^ 

Riecheggiatori  tedeschi  delF  identità  hegeliana 

Questa  concezione  della  storia  della  filosofìa,  foggiata  adunque 
per  primo  da  Hegel,  e  che  restò  dominante  in  Germania,  è  quella  per 
cui  sdilinquiscono  tutti  i  dogmjitici  dell'assoluto.  E  ogni  volta  che  in  un 
libro  filosofico  ci  si  imbatte  nelle  parole,  di  colore  hegeh'ano  e  asso- 
lutista, «  spirito  »,  «  spirito  assoluto  »,  «  spirito  del  mondo  »  si  può  esser 
certi  che  la  concezione  della  filosofia  e  della  sua  storia,  che  informa 
quel  libro,  è  suppergiù  codesta  dello  Hegel. 


1  Vorlesungen  ìiber  die  Geschichte  der  Philosophìe.  Einleìtuug  (in  iVerke,  Bexììno, 
1840,  voi.  13).  Quando  più  oltre  nel  corso  della  sua  storia  Hegel  si  trova  in  presenza 
dello  scetticismo  greco  e  delle  contraddizioni  mortali  che  esso  rileva  nel  pensiero 
umano,  fa  un  nuovo  analogo  sforzo  per  liberarsene  col  suo  solito  espediente,  addu- 
cendo  cioè  che  lo  scetticismo,  efficace  contro  la  conoscenza  sensibile  e  l' intendimento 
comune,  è  impotente  contro  l'Idea  speculativa  (gegen  das  wahrhaft  Unentliche  der 
speculativen  Idee)  la  quale  rende  ragione  della  negatività  dell'  idea  senza  fermarsi 
sul  risultato  negativo  che  è  solo  unilaterale,  comprende  già  in  sé  ogni  determinazione 
e  il  suo  opposto,  risolve  in  sé  l'urto  d'ogni  finito  e  del  suo  altro  già  prima  e  senza 
bisogno  che  lo  scetticismo  lo  metta  in  luce,  adempie  dunque  contro  ogni  determinato 
la  stessa  funzione  dello  scetticismo  (das  gegen  das  Eestimmte  thut,  was  der  Skeptici- 
smus  thun  will)  sfuggendo  nello  stesso  tempo  alle  prese  di  questo  {Ibidem,  voi.  14, 
pp.  474,  488,  511-2).  Quasiché  nel  mondo,  nella  vita,  nella  conoscenza  reale,  viva  ed  at- 
tiva che  si  pone  veramente  dinanzi  il  mondo  e  la  vita,  esistesse  qualche  altra  cosa  dal 
cosiddetto  «  intendimento  ordinario  »  pel  quale  le  contraddizioni  hanno  una  realtà  incan- 
cellabile, che  vi  si  dibatte  in  vano,  che  ne  è  spesso  straziato.  Quasiché  l'Idea  specu- 
lativa che  sa  mettere  tutto  a  suo  luogo,  per  la  quale  tutto  è  a  posto,  esistesse  ed  ope- 
rasse davvero  in  qualche  sito  tranne  che  sulle  cattedre  delle  pacifiche  dottrinarie 
oche  filosofiche  e  fosse  veramente  altra  cosa  che  la  favola  escogitata  da  quelli  che 
Schopenhauer  chiama,  nel  proemio  alla  seconda  edizione  della  sua  opera  principale,  i 
professori  di  filosofia  (tra  i  quali,  in  senso  schopenhauriano,  tiene  presso  di  noi  il 
posto  più  eminente  qualche  non  professore  in  senso  ordinario).  —  Questo  scaricare 
il  compito  di  far  mostra  di  riparare  i  guai  che  ci  affliggono,  di  cancellare  le  contrad- 
dizioni che  stanno  davanti  ai  nostri  occhi,  sulla  mitica  Idea  speculativa,  che  esiste  non 
si  sa  dove,  mentre  quaggiù  si  pensa,  si  agisce,  si  conosce  solo  mediante  l' intendimento 
ordinario  che  tali  contraddizioni  avverte  e  subisce,  è  un  po'  il  procedimento  rinnovato 
dal  Bradley  pel  quale  tutto  qui  é  contraddizione  e  quindi  apparenza,  ma  la  Realtà 
dev'essere  armonica,  dunque  le  contraddizioni  qui  visibili  saranno  tolte  «  in  qualche 
modo»  fsornehow),  non  possiamo  saper  come,  nell'Assoluto  (Appearance  and  Reality), 
C  é  però  tra  Hegel  e  Bradley  una  differenza  :  che  per  il  primo  l'Idea  speculativa  pos- 
siede tutta  la  più  corpulenta  e  pesante  serietà  teutonica,  per  il  secondo  il  suo  Assoluto 
sembra  qualche  cosa  di  fuggevolmente  ironico  e  tutta  la  cura,  l'attenzione,  l'acutezza  della 
ricerca  sta  nel  mettere  in  luce  le  disperate  contraddizioni  che  su  ogni  punto  ci  avvolgono. 
La  filosofia  del  Bradley  ha  dunque  un  colore  spiccatamente  scettico,  ed  egli  stesso 
definisce  infatti  il  suo  libro  «  a  sceptical  study  of  first  principles  >  (Ibidem  Prefazione), 


I50  Giuseppe  Rensi 

Così  pedissequamente  hegeliano  ci  sì  rivela  subito  l'Erdmann. 
Come  un  popolo  o  un  paese  —  egli  sentenzia  i  —  esprime  la  sua  sapienza 
e  la  sua  volontà  per  la  bocca  dei  suoi  savi  e  dei  suoi  legislatori,  allo 
stesso  modo  lo  spirito  del  mondo  (ossia  l'umanità  collettiva)  esprime 
la  sua  sapienza  e  la  sua  volontà  mediante  i  filosofi.  E  come  l' individuo 
passa  per  i  vari  stadii  della  sua  vita  senza  detrimento  della  sua  unità, 
così  lo  spirito  del  mondo  è  in  successione  lo  spirito  dei  vari  tempi. 
E  vero  che  ogni  tempo  ha  la  sua  filosofia,  e  che  solo  pel  tempo  di 
cui  è  il  prodotto  questa  rappresenta  la  verità  definitiva.  Ma  ciò  non 
distrugge  la  sua  assolutezza  più  che  il  fatto  che  le  diverse  età  della 
vita  hanno  diversi  doveri  tolga  al  dovere  il  carattere  di  incondiziona- 
lità.  La  storia  della  filosofia  non  consiste  dunque  se  non  nel  fatto  che, 
come  lo  spirito  del  mondo  passa  attraverso  i  differenti  spiriti  delle 
epoche  per  formare  la  storia  del  mondo,  così  la  sua  coscienza,  o  la 
sapienza  del  mondo,  passa  attraverso  le  diverse  coscienze  dei  tempi. 
Niente  quindi  va  perduto,  perchè  i  risultati  d'un'età  e  d'una  filosofia 
offrono  il  materiale  e  il  punto  di  partenza  per  le  elaborazioni  succes- 
sive. Perciò  la  diversità  e  anche  il  conflitto  dei  sistemi  filosofici  non 
solo  non  infirmano  l'asserzione  che  tutti  sono  soltanto  lo  sviluppo 
d'una  singola  filosofia,  ma  piuttosto  la  confermano,  poiché  tanto  l'appa- 
rire nella  storia  d'un  sistema  filosofico  quanto  il  suo  spodestamento 
per  opera  d'un  altro  che  lo  incalza  e  lo  sorpassa,  si  manifestano  deri- 
vare da  una  necessità  razionale. 

Meno  unilaterale  sembra  voler  essere  lo  Zeller,  che,  col  più  pret- 
tamente tedesco  dottissimo  dire  nulla  per  voler  tener  conto  di  tutto, 
riconosce  che  le  cause  e  condizioni  della  storia  della  filosofia  sono 
di  tre  classi,  lo  stato  generale  della  cultura,  l'influsso  dei  sistemi  pre- 
cedenti sui  successivi,  le  particolarità  dei  singoli  filosofi.  Se  ci  limitiamo 
a  queste  ultime  (prosegue)  abbiamo  un  pragmatismo  biografico  e 
psicologico;  se  prendiamo  in  considerazione  lo  stato  generale  della 
cultura  allora  si  cercherà  di  comprendere  la  filosofia  mediante  le  con- 
dizioni universali  della  storia  della  cultura  medesima;  ma  se  si  dà  il 
peso  decisivo  all'  interna  concatenazione  e  alla  storica  azione  recìproca 
dei  sistemi  filosofici,  allora  ^  apparisce  la  storia  della  filosofia  come  un 
corso  in  sé  conchiuso  procedente  da  un  determinato  punto  di  partenza 
in  avanti  con  leggi  interiori,  che  si  comprende  tanto  più  profonda- 
mente quanto  più  completamente  si  riesce  a  mostrare  in  ogni  succes- 
siva manifestazione  la  logica  conseguenza  di  quella  immediatamente 
precedente,  e  quindi  nel  tutto,  come  fece  Hegel,  uno  sviluppo  che  si 
completa  con  dialettica  necessità  ».  Ma  tuttavia,  subito  avverte,  la  dire- 


»  Grundriss  der  Geschichte  der  Phiiosophie,  §  2-12. 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  151 

zione  e  la  forma  del  pensiero  filosofico  è  determinata  anche  dalle  altra 
condizioni.  E  tutti  questi  influssi,  la  personalità,  la  concatenazione 
storica  dei  sistemi,  lo  stato  generale  della  coltura  non  stanno  sempre 
nella  medesima  relazione:  sicché  allo  storico  incombe  stabiUre  quale 
di  essi  sia  preponderante  in  una  data  fase  del  corso  storico  della 
filosofia.^ 

Infine  anche  il  Windebband,  pure  ammettendo  che  l'ordine  delle 
determinazioni  concettuali  del  pensiero  non  sia  quello  con  cui  i  sistemi 
successivamente  appariscono  nella  storia,  e  che  in  questa  conti  qual- 
cosa anche  la  personalità  del  filosofo,  dichiara  che  solo  con  Hegel  la 
storia  della  filosofia  acquista  valore  di  scienza  e  insiste  nel  ravvisarla 
come  un  processo  complessivo,  come  un  insieme  unitario  delle  crea- 
zioni spirituali.'^ 

Parola  più  parola  meno,  adunque,  con  una  od  un'altra  formula- 
zione, la  concezione  hegeliana  della  storia  della  filosofia  come  sviluppo 
unitario  e  perpetuo,  questa  concezione  che  pretende  «  giudicare  le  prò 
duzioni  filosofiche  in  nome  dell'idea  più  o  meno  mistica  d'una  filo- 
sofia eterna  »,3  è  rimasta  il  patrimonio  gelosamente  conservato  e  amo- 
rosamente trasmesso  di  padre  in  figlio,  da  tutti  gli  storici  della  filosofia 
in  Germania,  la  patria  moderna  del  dogmatismo  assolutistico,  nonché 
il  nutrimento  devotamente  assorbito  anche  altrove  da  ogni  uomo-bu- 
della  della  filosofia,  che,  come  quello  celebrato  dal  Fusinato,  voglia 
rigonfiarsi  a  buon  mercato  di  gas  speculativo  per  elevarsi  facilmente 
sui  tetti  degli  umili  mortali. 

L^hegelianismo  cousiniano 

Tale  concezione,  a  tempo  suo,  fece  capolino  anche  in  Francia.  E 
ciò  per  opera  del  Cousin  in  una  certa  fase  del  suo  pensiero,  nella  quale 
egli  però  non  rimase  costantemente. 

Quando  si  osa  ravvicinare  Cousin  ad  Hegel,  gli  hegeliani  vedono 
rosso  e  schiattano  del  loro  più  superno  disprezzo  per  quegli  che  non 
sa  distinguere  la  superficiale  ricucitura  operata  dal  Cousin  e  la  pro- 
fonda organica  comprensione  hegeliana  del  momento  di  verità  di  ogni 
sistema.  Frottole.  Sia  pure  che  si  possa  dire  che  il  Cousin  diluì  e 
confettò  in  pillole  digeribili  per  i  salotti  parigini  gli  aspri  ed  oscuri 
concetti  di  Hegel,  sta  il  fatto  che  il  suo  ecclettismo  è  hegelianismo  e 
che  l'hegelianismo  in  materia  di  storia  della  filosofia  non  è  che  ecclet- 


1  Gnindriss  der  Geschichte  der  Griechischen  Phiiosophie  {Lipsia,  1907,  Vili  ediz., 
Einkitung,  §  1,  pp.   1-4). 

«  Storia  della  Filos.  (trad.  it.,  Palermo,  Sandron,  Introduzione). 
3  BouTROUx,  Etudes  d'Hist.  de  la  Philosophie  (Alcan,  1897,  pp.  2-3). 


152  Giuseppe  Rensi 


tismo  cousiniano,  per  quanto  redimito  di  trascendentalismo  e  paludato 
di  frasi  e  gesti  da  monte  Sinai.  Si  legga  in  Cousin  che  la  filosofia  ac- 
cetta tutte  le  idee,  «  le  combina  e  le  riconcilia  nel  seno  d*  una  vasta 
sintesi  ove  ciascuna  trova  il  suo  posto  »  e  che  così  fa  pure  la  storia 
«con  l'aiuto  dei  secoli,  nel  suo  movimento  universale  e  nell'ampio 
sistema  che  essa  genera  e  svolge  successivamente  ».  Vi  si  legga  che 
l'ecclettismo  è  la  filosofia  «  il  cui  solo  scopo  è  di  comprendere  tutto 
e  che  per  conseguenza  accetta  tutto  e  tutto  concilia  ».  Vi  si  apprenda, 
dopo  constatato  esservi  nei  sistemi  «  da  ogni  lato  opposizione  e  con- 
traddizione, errore  e  verità  insieme  »,  che  «  Tunica  soluzióne  possibile 
di  queste  opposizioni  sta  nell'armonia  dei  contrari,  l'unico  mezzo  di 
sfuggire  all'errore  nell'accettare  tutte  le  verità  ».  Si  riscontri  affermato 
che  «  non  si  deve  nella  storia  proscrìvere  alcuno  dei  grandi  sistemi 
che  la  dividono  e  che  per  quanto  esclusivi  e  difettosi  provengono  ne- 
cessariamente da  qualche  elemento  reale  ».  Vi  si  vegga  difeso  l'ecclet- 
tismo con  l'argomento  che  «  tutto  attorno  a  noi  è  misto,  complesso, 
mescolato  e  tutti  i  contrari  vivono,  e  benìssimo,  insieme  ».  Lo  si  ascolti 
proclamare  che  «  egli  non  appartiene  ad  alcun  sistema  particolare,  ma 
a  tutti,  e  per  così  dire  allo  spirito  comune  che  li  domina  tutti  e  che 
non  si  sviluppa  completamente  se  non  mediante  la  stessa  lotta  di  tutti 
i  principi  incompleti,  esclusivi  e  nemici  ».i  Sì  ricordino  infine  le  ultime 
parole  pronunciate  da  lui  alla  Sorbona  :  «  La  filosofìa  non  è  questa  o 
quella  scuola,  ma  il  fondo  comune  e  quasi  a  dire  l'anima  di  tutte  le 
scuole.  Essa  è  distinta  da  tutti  ì  sistemi,  ma  è  commista  a  ciascuno 
di  essi,  perchè  non  si  manifesta,  non  sì  sviluppa,  non  avanza  che  per 
mezzo  dì  essi  ;  la  sua  unità  è  la  loro  stessa  unità,  tanto  discordante  in 
apparenza,  tanto  profondamente  armonica  in  realtà;  il  suo  progresso 
e  la  sua  gloria  è  il  loro  perfezionamento  reciproco  mediante  la  lotta 
pacifica...  Ciò  che  io  professo  innanzi  tutto  non  è  questa  o  quest'altra 
filosofia,  ma  la  filosofìa  stessa;  non  è  l'attaccamento  ad  un  sistema, 
ma  lo  spirito  filosofico  superiore  a  tutti  i  sistemi...  La  missione  della 
critica...  è  di  distrigare  di  tra  gli  errori  le  verità  che  possono  e  devono 
esservi  commiste  e  con  ciò  dì  rivelare  la  ragione  umana  ai  suoi  propri 
occhi,  d'assolvere  la  filosofia  del  passato,  dì  incoraggiarla  e  rischia- 
rarla nell'avvenire  ».2  Sì  rilegga  e  si  ricordi  tutto  ciò,  e,  a  parte  i  soliti 
arzigogoli  solenni  e  i  grotteschi  atteggiamenti  di  superiorità  di  com- 
prensione, si  dovrà  convenire  che  in  materia  di  storia  della  filosofia 
l'ecclettismo  cousiniano  è  un'esatta  e  chiara  trascrizione  dell'hege- 
lianismo. 


1  Introdttction  à  PHist.  de  la  Philos.^  Lez.  IX  e  XIII. 
t  Cit.  da  Janet,  Revue  des  Deax  Mondes,  feb.  1884. 


Il  concetto  di  storia  della  filosofia  153 

Anche  del  concetto  hegeliano  che  «  ciò  che  è  razionale  è  reale  e 
ciò  che.  è  reale  è  razionale  »  di  questa  (checché  se  ne  voglia  dire)  su- 
pina giustificazione  del  fatto  compiuto  qualunque  sia,^  di  questa  pro- 
fonda scoperta  delle  ragioni  che  rendono  necessarie  precisamente  certe 
cose  e  non  altre,  fatta  dopo  che  si  sono  viste  queste  cose  e  non  altre 
prodursi,  Cousin  ci  offre  una  traduzione  che  appunto  per  essere  ba- 
nalmente diluita  rende  quel  concetto  trasparente  e  la  sua  portata  af- 
ferrabile senza  equivoci.  Basta  ricordare  i  pensieri  che  egli  espone 
intorno  alla  storia  considerata  come  incarnazione  e  svolgimento  d' un 
piano  divino,  nella  quale  «  tutto  ha  la  sua  ragione  d'  essere,  tutto  ha 
la  sua  idea,  il  suo  principio,  la  sua  legge,  niente  è  insignificante,  tutto 
ha  un  senso  »  e  «  il  mondo  delle  idee  è  nascosto  nel  mondo  dei  fatti  -»?• 
Basta  ricordare  il  suo  concetto  di  popolo,  il  quale  esiste  secondo  lui 
perchè  è  chiamato  a  rappresentare  una  delle  idee  d'un'epoca,^  e  a  svolgere 
progressivamente  l'idea  che  egli  è  stata  affidata».*  Basta  ricordare  il 
suo  concetto  della  guerra,  scaturente  da  quello  di  popolo:  perchè  la 
guerra  (secondo  Cousin)  «  ha  la  sua  radice  nelle  idee  dei  diversi  po- 
poli, che  essendo  necessariamente  parziali,  limitate  ed  esclusive,  sono 
necessariamente  ostili,  agggressive,  tiranniche  »5;  sicché  essa  è  neces- 
saria: necessaria  perchè  non  è  altro  che  l'urto  inevitabile  delle  idee 
unilaterali  da  ciascun  popolo  incarnate,  necessaria  perchè  «  ogni  po- 
polo veramente  storico  ha  un'idea  da  realizzare;  la  realizza  in  sé,  e 
quando  l'ha  sufficientemente  in  sé  realizzata,  le  fa  fare  il  giro  del  mondo  ; 
esso  è  conquistatore,  inevitabilmente  conquistatore;  ogni  civiltà  che 
avanza,  avanza  mediante  la  conquista  ».6  Basta  ricordare  la  sua  giusti- 
ficazione della  vittoria  nelle  guerre.  La  vittoria  è  sempre  giusta  perché 
«tutto  è  perfettamente  giusto  in  questo  mondo,  e  la  felicità  e  l'infe- 
licità sono  distribuite  come  devono  esserlo  ».'7  La  sconfitta  dimostra 
sempre  che  un  popolo,  e  la  sua  idea,  «  ha  fatto  il  suo  tempo  »,8  almeno 
in  quanto  quel  popolo  s' è  infiacchito  dì  fronte  alla  preparazione  mili- 


1  La  storia  infatti  per  Hegel  e  Cousin  riesce  esattamente  a  ciò  che  il  Bovio  (seb- 
bene anche  lui  alquanto  impeciato  in  questa  metafisica)  deprecava  scrivendo  :  «  Triste 
giuoco  sarebbe  veramente  la  storia,  se  con  là  panacea  della  sintesi  potessimo  guarire 
tutte  le  sozzure,  menzogne  e  contraddizioni  della  vita  »  {Saggio  critico  del  dir.  pen., 
Napoli,  1877,  p.  24) 

«  Introd.  à  ì'Hist.  de  la  Phil.  (Bruxelles,  1836,  p.  228). 

3  /rf.,  pp.  266,  269. 

4  !d.,  p.  247. 

5  /rf.,  p.  263. 
«  Id.,  p.  278. 
7  Id.,  p.  271. 

«  Id„  p.  264.  ^ 


154  Giuseppe  Retisi 


tare  necessaria  per  superare  gli  avversari,  cioè  per  sostenere  la  vitalità 
della  propria  idea.^  Nella  guerra  non  domina  il  caso,  come  si  pensa; 
nessuna  guerra  fu  mai  perduta  per  l'umanità,  perchè  il  suo  risultato 
segnò  sempre  il  vantaggio  dello  spirito  dell'avvenire  su  quello  del 
passato.2  Quindi  il  Cousin  «  assolve  la  vittoria  »^  e  afferma,  «  la  mora- 
lità del  successo  ».*  Infatti,  egli  proclama,  «  il  vinto  dev'essere  vinto  e 
merita  di  esserlo  ;  il  vincitore  non  solo  serve  alla  civiltà,  ma  è  migliore, 
più  morale  ed  è  perciò  che  è  vincitore  ».'>  Basta  infine  ricordare  il  suo 
concetto  di  grand'uomo:  il  quale  «  viene  per  rappresentare  un'idea  »*' 
ed  è  «  stromento  del  destino  »;7  sicché,  specie  quando  il  grand'uomo 
è  guerriero,  «  se  è  grande,  bisogna  assolverlo  e  assolvere  in  massa 
tutto  ciò  che  ha  fatto  ».8 

Si  abbandonino  i  devoti  di  Hegel  alle  contorsioni  che  vogliono, 
ma  tutto  questo  è  pretto  hegelianismo,  reso  chiaro,  nitido,  spoglio 
dalle  nebulose  ambiguità  che  permettono  le  scappatoie  e  gli  equivoci. 
Si  potrà  forse  dire  che  Cousin  è  la  caricatura  di  Hegel.  Ma  la  cari- 
catura è  riproduzione  dell'originale,  e  solo  ne  accentua  i  difetti.  Cousin 
è  Hegel  messo  in  luce,  Hegel  senza  vesti  a  pieghe  per  mascherare  le 
storture  e  le  gobbe.  Perciò  la  lettura  di  Cousin  guarisce  da  Hegel, 
poiché  tolta  l'oscurità  di  quest'ultimo  che  par  nascondere  inaccesse  ed 
incerte  profondità,  e  diventatone  in  Cousin  il  pensiero  superficialmente 
chiaro,  vengono  altresì  alla  superficie  il  luogo  comune,  i  mezzucci  e  l'ar- 
tificiosità di  quello  che  è  pure  pensiero  hegeliano. 

Identità  di  *'  spirito  „  e  storia  in  Cousin 

Ma,  allo  stesso  modo,  la  concezione  cousiniana  della  storia  della 
filosofia  è  di  colorito  prettamente  hegeliano,  ed  è  tutta  contessuta  di 
quelle  varie  «  identità  »  a  cui  ci  hanno  abituato,  come  a  loro  nuove 
e  supeciori  posizioni  di  pensiero,  gli  odierni  seguaci  italiani  di  Hegel. 
Identità  di  partenza  «  della  psicologia  e  della  storia  »,9  perchè  (stabi- 
lisce il  Cousin)  non  è  col  metodo  sperimentale  soltanto  che  si  può 
trattare  la  storia  filosofica:  per  chi,  .infatti,  pretende  di  trattarla  solo 


1  Introd.  à  VHist,  de  la  PhiL,  p.  273  e  seg. 
«  Id.,  p.  269. 
»  Id.,  p.  270. 

4  Id.,  p.  270. 

5  Id.,  p.  271. 
«  Id.,  p.  290. 

7  Id.,  p.  292. 

8  Id.,  p.  293. 

»  Op.  cit.,  p.  61. 


//  coti  ce  t lo  di  storia  della  filosofia  155 


con  questo  metodo  non  possono  esservi  epoche  filosofiche,  poiché 
l'epoca  filosofica  è  un  certo  numero  di  sistemi  ricondotto  a  un  punto 
sS\  vista  generale,  il  quale  manca  all'empirista,  perchè  suppone  distin- 
zioni e  classificazioni  da  cui  l'empirista  non  ha  il  diritto  di  partire. 
Per  la  medesima  ragione  non  possono,  per  l'empirista,  esistere  scuole; 
egli  è  ridotto  a  prendere  e  a  studiare  tutti  i  singoli  sistemi,  grandi  e 
piccoli,  importanti  o  no,  senza  discernimento;  e  quando  pure,  in 
tal  modo,  sia  riuscito  ad  approdare  ad  una  grossolana  cronologia,  gli 
111  inca  ancora  il  più,  gli  manca  la  possibilità  di  sapere  «  perchè  ciò 
C!ie  ha  preceduto'  ha  preceduto  e  ciò  che  ha  seguito  ha  seguito  »,  gli 
manca  la  possibilità  di  sapere  ciò  che  sa  «  in  un  ordine  che  sia  quello 
della  ragione  ».i 

Bisogna  dunque  far  capo  al  metodo  speculativo.  E  cioè  «  ricer- 
care gli  elementi  essenziali  dell'umanità;  poi  dalla  natura  di  questi 
elementi  ricavare  i  loro  rapporti  fondamentali,  da  questi  rapporti  le 
leggi  del  loro  sviluppo,  e  quindi  passando  alla  storia  domandarsi  se, 
essa  conferma  o  ripudia  questi  risultati  ».2  In  tal  modo  la  storia  della 
filosofia  ci  apparirà  non  più  un  seguito  di  parole  incoerenti,  ma  «  una 
frase  intelligibile  in  cui  tutte  le  parole  presentando  un'idea  formereb- 
bero un  insieme  che  rappresenterebbe  un  pensiero  completo  ».3  Infatti, 
la  ragione  umana  dev:  svilupparsi  conformemente  alla  sua  natura  e 
alle  sue  leggi  ;  ma  la  ragione  (la  quale  è  essenzialmente,  non  già  al- 
cunché di  individuale,  di  soggettivo,  di  nostra  privata  proprietà,  ma 
di  impersonale,  di  assoluto,  di  distinto  dalla  nostra  particolarità  per- 
sonale) è  l'elemento  filosofico  ;  la  filosofia  non  è  dunque  che  «  i 
diversi  elementi  della  ragione  umana  coi  loro  rapporti  e  con  le  loro 
leggi  ».* 

Perciò  il  Cousin  all'identità,  così  stabilita  di  psicologia  e  storia 
(il  che,  nel  suo  linguaggio  significa,  come  si  vede,  quello  che  gli 
hegeliani  nostrani  direbbero  ora  identità  di  spirito  e  storia)  approda 
«all'identità  della  filosofia  e  della  storia  della  filosofia».  Infatti  la 
storia  della  filosofia  o  storia  della  ragione  umana  risulta  in  tal  guisa 
essere  «  la  filosofia  stessa  con  tutti  i  suoi  elementi,  con  tutti  i  loro  rap- 
porti, con  tutte  le  loro,  leggi,  cioè  la  filosofia  nel  suo  sviluppo  interno, 
rappresentata  in  grande  e  in  caratteri  vistosi  dalle  mani  del  tempo  e 
della  storia,  nel  cammino  visibile  della  specie  umana  ».^ 


»  Op.  cii.y  p.  98. 
8  /rf.,  p.  101. 
s  /rf.,  p.  102. 

*  /rf.,  p.  124,  164,  167. 
5  /</.,  103. 


J56  Giuseppe  Retisi 


Ed  ecco  adunque  come  quella  «  indentìtà  »  che  per  molti  sono 
stati  gli  hegeliani  italiani  del  1900  a  tornar  a  rivelarci  dopo  un  labo- 
riosissimo viaggio  di  scoperta,  non  è  altro  che  V  «  identità  »  che  Cousin 
già  nel  1830  aveva  riprodotta  da  Hegel.  «  L'identità  della  filosofia  e 
della  sua  storia  è  certa;  non  si  tratta  che  di  scoprirla  e  metterla 
in  luce  ».^ 

Per  questa  messa  in  luce  Cousin  procede  esattamente  sulla  falsariga 
di  Hegel.  Abbiamo  detto  che  quella  psicologia  con  cui  Cousin  iden- 
tifica la  storia  non  è  altro  che  ciò  che  i  crocio-hegeliani  odierni  chia- 
merebbero filosofia  dello  spirito,  la  determinazione  cioè  degli  elementi 
fondamentali  dello  spirito  stesso.  Ed  ecco,  infatti,  Cousin  passare  a 
dirci  che  ciò  che  Aristotele  e  Kant  chiamano  «  categorie  »,  ciò  che 
la  scuola  inglese  chiama  «  principi  della  natura  umana  »,  sono  ap- 
punto quelli,  da  lui  così  chiamati,  «  elementi  della  ragione  »  sulla 
base  dei  quali  soltanto  si  può  costruire  una  storia  razionale  della 
filosofia.^  Precisamente  come  per  Hegel  questa  riproduce  nel  suo  svol- 
gimento il  processo  e  la  dialettica  delle  categorie  che  la  logica  aveva 
scoperto  nello  spirito,  così  per  Cousin  la  storia  della  filosofia  riproduce 
la  serie  degli  «  elementi  »  che  la  sua  «  psicologia  »  scopre  nella  ragione. 

Quanto  a  questi  elementi,  dopo  Aristotele  e  Kant  non  c'è  (se- 
condo Cousin)  altra  possibilità  al  riguardo  che  quella  di  operarne  una 
riduzione.  Tutto  ciò  che  pensiamo,  lo  pensiamo  sotto  una  o  l'altra  di 
due  forme  mentali,  o  categorie,  o  idee:  l'idea  dell'uno  e  del  molte- 
plice, dell'essere  e  dell'apparire,  della  sostanza  e  del  fenomeno,  della 
causa  assoluta  e  delle  cause  seconde,  dell'assoluto  e  del  relativo,  del 
necessario  e  del  contingente,  dell'  immensità  e  dello  spazio  (circoscritto), 
dell'eternità  e  del  tempo  (limitato),  ecc.  1  primi  termini  di  tutte  queste 
proposizioni  si  possono  identificare  fra  loro,  e  così  fra  loro  i  secondi. 
Ne  risultano  in  tal  modo  due  termini  comprensivi,  l' infinito  e  il  finito, 
a  cui  va  aggiunto  (poiché  essi  non  costituiscono  un  dualismo  insupe- 
rabile e  irreconciliabile,  ma  anzi  sono  posti  dalla  mente  in  reciproca 
relazione  essenziale)  il  rapporto  tra  di  essi.^  Il  finito,  l' infinito  e  il  loro 
rapporto  sono  dunque  le  «  categorie  »  cousiniane.  E,  precisamente 
come  Hegel,  Cousin,  dopo  averle  rintracciate  nello  spirito  umano, 
intesse  su  di  esse  il  corso  della  storia  della  filosofia. 

Quindi  nella  storia  generale  dell'  umanità,  e  in  quella  della  filosofia, 
vi  possono  e  vi  devono  essere  solo  tre  epoche,  «  né  più  né  meno  *, 
come  egli  si  compiace  di  ripetere:  giacché,  secondo  avviene  sempre  in 


1  Op.  eli.,  p.  104. 

»  Id.,  p.  107. 

8  W..  p.  103  e  seg.,  1?0. 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  157 

queste  costruzioni  fantastiche  e  romanzesche,  quando  Fautore  annuncia 
di  voler  verificare  se  il  corso  degli  eventi  che  egli  ha  in  precedenza 
speculativamente  scoperto,  trovi  la  sua  conferma  nella  realtà,  questa 
manco  a  dirlo,  lo  conferma  infallantemente  e  con  tutta  precisione,  e 
ì  fatti  appariscono  ai  nostri  occhi  meravigliati  come  se  obbedis- 
sero docilmente  al  cenno  del  tamuaturgo  che  li  ha  divinati  e  venis- 
sero alla  luce  a  bella  posta  per  riempire  e  avverare  la  sua  sagoma 
teorica. 

E  perciò  vi  dev'essere  e  v*è  un'epoca  destinata  allo  sviluppo  del- 
l' idea  del  finito  :  in  essa  troveremo  l' industria  progressiva  ;  il  com- 
mercio che  si  svolge  su  larga  scala  e  per  via  del  mare,  questo  «  im- 
pero del  finito  »  ;i  la  religione  che  avrà  la  forma  politeistica,  ed  una 
filosofia  che  sarà  tutta  fisica  e  psicologia.  Vi  dev'essere  e  v'è  un'epoca 
destinata  allo  sviluppo  dell'idea  dell'infinito:  e  vi  vedremo,  con  un'in- 
dustria ed  un  commercio  stazionari,  con  uno  Stato  assolutista  ed  im- 
mobile, con  manifestazioni  artistiche  gigantesche  e  smisurate,  con  una 
religione  assorta  nell'invisibile  e  piuttosto  nella  morte  che  nella  vita, 
una  filosofia  che  sarà  la  contemplazione  dell'  unità  assoluta.  Final- 
mente bisogna  pure  che  il  rapporto  tra  il  finito  e  l'infinito  abbia  la 
sua  epoca  e  il  suo  sviluppo  :  e  allora^  con  un'  industria,  uno  Stato, 
un'arte,  in  cui  i  due  elementi  saranno  contemperati,  riscontreremo 
una  religione  in  cui  la  vita  presente  pur  essendo  riferita  a  Dio,  con- 
serva la  sua  serietà  e  il  suo  valore,  ed  una  filosofia  caratterizzata  dal- 
l' unione  della  psicologia  con  l'ontologia.^  E  queste  tre  epoche  —  le 
uniche  e  necessarie  epoche  della  storia  della  filosofia,  perchè  tre  sono 
le  fondamentali  categorie  dello  spirito  a  cui  le  epoche  storiche  devono 
corrispondere  —  hanno  tra  di  loro  non  solo  un  rapporto  di  succes- 
sione, ma  altresì  un  rapporto  più  intimo,  quello  di  generazione,  «  per 
modo  che  la  storia  intera  dell'umanità  si  risolve  in  un  gran  movi- 
mento composto  di  tre  momenti,  che  non  solo  si  succedono,  ma  che 
si  generano  l'uno  dall'altro».'** 

Ecco  rhegelianismo  storico-filosofico  del  Gousin.  Hegelianismo, 
bensì,  debonnaire  e  in  veste  da  camera,  facilone  e  da  buon  figliuolo,  e 
quasi  diremmo  un  pochino  «  tarasconese  »  perchè  si  colloca  con  Dio, 
col  mondo  e  con  gli  eventi  umani  su  quel  medesimo  piede  di  sem- 
plice, chiara  e  alquanto  incosciente  confidenza  con  cui  Tartarin  si 
collocava  coi  ghiacciai  delle  Alpi.  Ma  non  per  questo,  meno  hegelia- 
nismo nella  concezione  intrinseca  e  nel  movimento  essenziale.  Più 


i  Op.  cit.,  p.  198. 

«  /rf.,  p.  202  e  tutta  la  Sez.  VII. 

»  /</.,  p.  221. 


i58  Giuseppe  Rensi 


simpatico  anzi,  appunto  per  la  sua  faciloneria  senza  complessi  e  stu- 
diati artifici,  di  quello  originale.  Il  quale  ultimo,  non  ostante  la  sua 
posa  di  complicazione  profonda  e  di  faticosa  penetrazione,  non  ci 
offre  in  sostanza  niente  di  meglio  e  niente  di  più.^ 

L*** identità,,  hegelo-cousiniana  in  Italia 

V'è  appena  bisogno  di  ricordare  come  questa  tedesca  concezione 
assolutista  della  filosofia  e  della  sua  storia  sia  stata  rinnovata  oggidì  tra 
noi  d.-ii  Croce  e  dal  Gentile.  Il  leit-motiv  d^Wdi  dottrina  d'entrambi  è  il 
vangelo  liegelo-cousiniano  dell'  identità  della  filosofia  con  la  storia  della 
filosofia,  allargato  a  diventare  identità  della  filosofia  con  la  storia  sen- 
z'altro; identità  quest'ultima  che  si  presenta  nei  due  con  qualche  sfu- 
matura diversa. 

Pel  Croce  tale  identità  è  stabilita  per  la  ragione  che  il  concetto 
puro  non  si  può  pensare  fuori  dalle  rappresentazioni  ;  e  sulla  scorta 
della  identificazione  di  verità  di  ragione  con  verità  di  fatto,  di  verità 
a-priori  con  verità  a-posteriori.  Quella  identità  sembra  dunque  in  lui 
voler  dire  che  la  filosofia  è  il  pensamento  di  ciò  che  è  reale,  vero,  e 
cioè  «  storico  »;  l'universalità  concreta  dei  fatti  stessi  in  quanto  pen- 
sati, avvolti  nell'atmosfera  del  pensiero,  intellettualmente  percepiti;  il 
combaciare,  quindi,  del  pensiero  con  l'essere.  Sembra  dunque  in  lui 
quell'identità  accennare  ad  una  direzione  speciale:  quella  di  stabilire 
che  la  filosofia  è  questa  sintesi  del  concetto  coi  fatti,  fatti  investiti  dal 
concetto,  fatti  pensati,  e  che  appunto  perciò  è  identica,  non  già  alla 
scienza,  che  si  pasce  di  «  pseudoconcetti  »,  ma  alla  storia  che  pensa 
r  insieme  degli  eventi  individuali  e  concreti.^ 

Per  il  Gentile,  l'identità  di  storia  e  filosofia  sembra  essere  pili 
circoscritta  e  limitarsi  a  questo  che  la  storia  del  pensiero  «  in  quanto 
riflessione  morale,  credenza  religiosa,  opinione  politica,  pregiudizio 
tradizionale»  è  quella  che  esprime  veramente  l'animo  di  un  popolo; 
sembra  ridursi  insomma  al  concetto  «  che  nella  storia  della  filosofia 
si  riassume  tutta  la  storia  de  l' umanità  ».3  Anzi  su  questo  punto  il 
Gentile  sembra  voler  temperare  e  correggere  la  troppo  lata  identità 
stabilità  dal  Croce,  osservando  contro  di  lui  «  che  la  storia,  in  cui  si 
compie  la  filosofia  strido  sensu,  è  la  storia  della  filosofia».*  In  ciò  la 


1  È  significante  che  lo  Zeller,  sostanzialmente  hegeliano,  tra  i  due  soli  scrittori 
non  tedesclii  che  egli  ritiene  opporturno  ricordare  nel  Grundriss  (p.  14)  perchè  hanno 
ben  meritato  per  la  storia  della  filosofia  greca,  menzioni  in  prima  linea  il  Cousin, 
e  precisamente  in  grazia  anche  AtW  Introduction.  —  L'altro  è  il  Grote. 

*  Logica,  Parte  II,  Gap.  Ili  e  IV. 

s  La  Rif.  della  DiaL  Hegel.,  pp.  130-3. 

<  Ibidem,  p.  163. 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  159 


posizione  del  Gentile  è  identica  a  quella  di  Hegel  e  di  Cousin,  il 
quale  ultimo  proclama:  «Percorrete  gli  annali  dell' incivilimento,  e 
troverete  che  è  sempre  la  filosofia  d' un'epoca  quella  che  ne  racchiude 
il  pensiero  compiuto,  lo  libera  dai  suoi  veli  politici  e  religiosi  e  s'incarica, 
per  così  dire,  di  tradurlo  in  una  formula  astratta,  netta  e  precisa». ^ 

Ma  per  quanto  riguarda  il  rapporto  tra  filosofia  e  storia  della 
filosofia  i  due  sono  in  perfetto  accordo  e  camminano  entrambi  a 
braccetto  sulla  vecchia  direttiva  assolutista  hegelocousiniana. 

«  Io  sono,  e  credo  che  bisogni  essere,  hegeliano  ;  ma  nello  stesso 
senso  in  cui  chiunque  abbia  ai  tempi  nostri  mente  e  coltura  filosofica 
è,  e  si  sente,  tutt' insieme,  eleatico,  eracHteo,  socratico,  platonico,  aristo- 
telico, stoico,  scettico,  neoplatonico,  cristiano,  buddista,  cartesiano,  spi- 
nozista,  leibniziano,  vichiano,  kantiano;  e  via  dicendo.  Nel  senso  cioè 
che  ogni  pensatore,  e  ogni  movimento  storico  di  pensiero,,  non  può 
esser  passato  senza  frutto,  senza  deporre  un  elemento  di  verità,  che 
fa  .parte,  consapevole  o  no,  del  pensiero  vivo  e  moderno  ».2  Questo 
periodo,  che  contiene  più  falsità  che  parole;  queste  affermazioni  che 
urtano  insuperabilmente  contro  il  senso  di  violenta  opposizione  o  di 
esclusiva  adesione  che  ogni  pensatore  anche  del  giorno  d'oggi  sente 
per  le  une  o  per  le  altre  di  quelle  filosofie  del  passato  a  seconda  che 
le  sue  credenze  o  il  suo  temperamento  lo  avvicinano  alle  une  o  alle 
altre:  l'adesione  del  kantiano  allo  stoicismo  e  la  sua  avversione  per 
l'epicureismo,  la  simpatia  del  materialista  per  ir  democritismo  e  la  sua 
reiezione  del  leibnizismo,  l'ostilità  del  deista  per  lo  spinozismo  e  il  suo 
amore  pel  platonismo  —  opposizione  e  adesione  che  dimostrano  l'im- 
possibilità di  conciliare  i  contrasti  dei  sistemi  filosofici  e  di  assumere 
di  fronte  a  questi  la  parte  di  Padreterno  che  mette  pace  fra  gli  elementi  ; 
queste  proposizioni,  in  cui  riecheggiano  tutti  i  motivi  che  vedemmo 
formulati  dal  Cousin,  sebbene,  come  abbiamo  avvertito  essere  di  pram- 
matica, il  Croce  trovi  che  l'ecclettismo  cousiniàno  «  è  la  falsificazione 
e  la  caricatura  della  vastità  del  pensiero,  che  abbraccia  in  se  tutti  i 
pensieri,  apparentemente  più  diversi  e  inconciliabili  »  '^  queste  proposi- 


»  Op.  cit.,  p.  08. 

*  Ciò  che  è  vivo,  ecc.  in  Hegel,  1907,  pp.  207-8.  Non  è  possìbile  sottrarsi  alla 
tentazione  di  porre  a  raffronto  questa  posa  onnisciente  di  chi  ha  tutto  capito,  tutto 
digerito,  tutto  padroneggiato,  tutto  sistemato  e  messo  a  posto  nella  stia  niente  vasta, 
con  l'attitudine  riservata  e  modesta  d'altri  pensatori,  e  ben  più  grandi,  pure  di  tendenza 
hegeliana.  P.  es.  del  Bradley:  «  Quanto  ad  Hegel,  io  penso  certo  che  egli  sia  un  grande 
filosofo;  ma  non  avrei  mai  potuto  chiamarmi  hegeliano,  in  parte  perchè  non  posso 
dire  dì  essermi  impadronito  del  suo  sistema  »  {Principles  of  Logic,  ed.  amer.  Pref., 
p.  IV). 

5  Logica^  II  ediz.,  p.  342.  ^ 


i6o  Giuseppe  Reitsi 


zioni,  diciamo,  ci  offrono  la  quintessenza  del  pensiero  del  Croce  in 
argomento  e  ce  lo  mostrano  lancia  spezzata  di  quell'assolutismo,  il 
quale  —  per  poter  sostenere  che  il  pensiero  filosofico  afferra  sempre 
il  vero,  che  la  verità  non  è  qualcosa  di  irrimediabilmente  cangiante  e 
diverso  secondo  i  vari  pensatori,  che  queste  millenarie  contraddizioni 
dei  sistemi  sempre  insuperate  e  viventi  e  cozzanti  nelle  nostre  menti 
oggi  come  al  tempo  in  cui  essi  furono  escogitati,  non  implicano  che 
il  preteso  vero  assoluto  ci  ondeggi  dinanzi  sotto  le  faccie  più  oppo- 
ste e  inconciliabili  —  identifica  la  filosofia  con  la  sua  storia,  la  fa 
una  cosa  sola  con  l'insieme  dei  sistemi  considerati  come  il  preteso 
svolgimento  dell'  unica  e  globale  verità. 

È  vero  che  il  Croce  non  accetta  il  concetto  hegeliano  «  di  una 
storia  della  filosofia  come  storia  del  successivo  apparire  delle  cate- 
gorie »  ;  è  vero  che  riconosce  che  una  siffatta  storia  filosofica  dovrebbe 
«  logicamente,  nell'ultimo  suo  termine  (che  è  quello  rappresentato  da 
colui  che  costruisce  tale  storia  dellji  filosofia)  porre  una  filosofia  defini- 
tiva »  ;  è  vero  che  trova  assurda  la  pretesa  di  questa  filosofia  definitiva 
dopo  la  quale  «  non  resterebbe  altro  se  non  eternamente  danzare,  come 
danzano  le  stelle  nelle  immagini  dei  poeti,  senza  mai  più  necessità  di 
fare  tentativi,  e  rischio  dì  cadere  in  errori  »i  (ed  è  naturale  che,  sebbene 
l'idea  d'una  filosofia  definitiva  raccolta  nella  mente  cajpace  che  ha 
messo  a  posto  in  sé  tutti  i  sistemi  anteriori  e  li  ha  ravvisati  come 
sviluppo  dell'unica  idea,  sistemata  da  questo  spirito  che  superiore  a 
tutti  e  giudice  di  tutti  diviene  così  una  cosa  sola  con  lo  spirito  asso- 
luto, col  pensiero  filosofico  stesso,  sia  l' unica  confacente  col  concetto 
di  storia  della  filosofia  come  svolgimento  progressivo  d'una  pretesa 
totale  e  unica  verità  filosofica,  è  naturale,  diciamo,  che,  ciò  non  ostante, 
i  neohegeliani  respingano  questa  idea:  occorre,  infatti,  fare  un  posti- 
cino al  sole  ai  loro  sistemi,  che  senza  di  ciò  non  vi  rimarrebbe  più). 
Ma  se  1  vero  che  il  Croce  non  accetta  da  Hegel  il  concetto  di  filo- 
sofia definitiva,  sta  il  fatto  che  egli  fa  suo  quello  che  è  il  più  presun- 
tuosamente arbitrario  caposaldo  dell'assolutismo  hegeliano,  il  concetto 
della  filosofia  come  «  perpetuo  svolgimento  »  nella  storia  della  fnte- 
grale  e  una  verità  filosofica. 

E  identica  è  al  riguardo  la  posizione  del  Gentile.  Questi  (come  è 
consuetudine  costante  degli  assolutisti)  si  rifiuta  di  porre  il  suo  con- 
cetto della  filosofia  e  della  storia  di  questa  in  serie  e  in  fila  tra  gli 
altri,  come  uno  tra  altri,  come  uno  che  può  essere  discusso  e  negato 
al  par  degli  altri.  Ciò  è  precisamente  quello  che  ogni  assolutista  di 
buona  lega  non  può  ammettere.  Appunto  perchè  essi  vogliono  pre- 


1  Logica,  pp.  337-8. 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  i6i 

sentarsi  come  la  sintasi  in  cui  le  contraddizioni  dei  sistemi  posano, 
trovano  pace  e  ognuna  s' invera,  il  loro  sistema  dev'essere  fuori  della 
contraddizione,  superiore  ad  essa,  non  soggetto  al  suo  urto.  11  loro 
sistema,  che  tutto  sa,  tutto  comprende  e  tutto  mette  a  posto,  che  è 
giudice  e  sistematore  di  tutti  gli  altri,  non  può  essere  pari  ad  uno  di 
questi.  Esso  non  può  essere  contraddetto.  Se  lo  potesse  non  sarebbe 
più  il  sistema  che  si  eleva  sui  contrasti  di  tutti  i  sistemi  a  conciliarli 
nel  suo  seno  ove  si  deve  formare  l' unità  superiore  e  assoluta  di  tutti 
E  se  è  contradetto  di  fatto  ciò  avviene  illegittimamente,  per  incom- 
prensione e  ignoranza,  ma,  secondo  le  buone  regole  del  giuoco  del 
pensiero,  contradetto  esso  non  deve  essere.  Quindi  l'opinione  del 
Gentile  rappresenta  «  non  uno  tra  i  concetti,  ma  l'unico  possibile 
concetto  della  storia  della  filosofia  »  e  la  sua  storia  non  soltanto  la 
sua  ma  la  storiai  Questa  opinione  poi  sta  in  ciò  che  la  possibi- 
lità della  storia  della  filosofia,  inesistente  nel  mondo  antico  quando 
la  verità  veniva  concepita  come  un  insieme  di  idee  eterne  e  immobili 
poste  fuori  e  indipendentemente  dalla  mente  e  puro  oggetto  di  questa, 
è  cominciata  quando  nel  mondo  moderno  venne  immedesimato  l'es- 
sere e  il  pensiero  e  mostrata  la  verità  quale  una  creazione  dell'atto 
della  mente  o  sintesi  a  priori.  Da  questo  momento  ecco  la  possibilità 
d' una  «  progressiva  formazione  »  ;  ecco  che  «  la  scienza  fatta  cede  il 
luogo  alla  scienza  in  fieri,  in  perpetuo  fieri  »  ;  ecco  che  la  filosofia,  la 
verità  filosofica,  anziché  essere  qualche  cosa  di  bell'e  fatto  che  si  coglie 
o  non  si  coglie,  cadendo  fatalmente  nell'errore  nel  secondo  caso,  co- 
gliendo fatalmente  il  vero  nel  primo,  diventa  una  costruzione  progres- 
siva nel  cui  corso  totale  la  verità  fluisce  e  circola  eternamente,  «  si 
viene  realizzando  in  una  vita  infinita  »  di  cui  però  «  la  conclusione  non 
verrà  mai  ».  Si  obbietterà  :  non  vi  son  forse  gli  errori  ?  Ma  l'errore 
«  è  un'astrazione  ».  Esso  non  diventa  errore  se  non  quando  è  veduto 
come  tale,  se  non  «  in  quanto  "si  corregge  e  dà  luogo,  perciò,  a  una 
verità  ».  Non  si  tratta  di  errori,  si  tratta  di  verità  inferiori.  E  «  il  pro- 
cesso eterno  dello  spirito  »  è  appunto  questo:  «  da  una  verità  a 
una  verità  superiore  ;  raggiunta  la  quale  la  prima  non  ha  più  valore  ».2 

L'assolutismo  e  Terrore 

Ma,  e  la  seconda?  Questa  è  la  domanda  che  annichila  tale  petto- 
ruto dogmatismo.  La  seconda  non  ha  maggior  valore  della  prima 
perchè  un  minuto  dopo  viene  una  terza  verità  ancora  superiore,  che  la 


*  La  Rif.  della  Dial.  Hegel.,  Messina,  1913,  pp.  109-110. 

*  Op.  cit.,  p.  140. 

1  —  Nuova  Rivista  Storica. 


i62  Giuseppe  Retisi 


soppianta,  e  a  cui,  del  resto,  è  imminente  il  medesimo  destino.  Bisogna 
essersi  straordinariamente  bene  otturate  le  orecchie  con  la  bambagia 
dogmatica  per  non   udire  il  grido   trionfale   della   confutazione  che 
sorge  dalle  stesse  parole  con  cui  questa  teoria  si  espone.  Bisogna  che 
l'impertubabilità  accademica  raggiunga  un  grado  inverosimile  per  pre- 
tendere si  possa  attribuire  un'esclusiva  attenzione  al  momento  imper- 
cettibile del   raggiungimento  d'una  verità   che  è   subito   rovesciata, 
onde  rappresentare  questo  processo  —  processo  di  proposizioni  non  più 
presto  asserite  che  negate  e  travolte  —  come  il  processo   lungo  il 
quale  si  esplicherebbe  la  vita  immortale  del  vero  eterno  e  assoluto;  e 
per  rifiutarsi  di  vedere  invece  che  ciò  che  e  veramente  da  questa  stessa 
concezione  messo  in  luce  come  dominante,  perenne,  permanente,  onni- 
presente, unico,  è   il  processo  del   perpetuo   rovesciamento  e  della 
negazione   incessantemente   sopravveniente.   Non   è   il   tenue   monti- 
colo  di  sabbia  che  rirnane  un  istante  sul  lido,  ma  l'cwida  del  mare  che 
sopraggiunge  senza  posa  a  sconvolgerlo  e  a  sostituirlo,  ciò  che  costi- 
tuisce l'elemento  saliente  della  realtà. 

Trattasi  allora  —  si  chiederà  —  d'un  processo  di  errori?  No, 
nemmeno  questo.  Dove  non  trova  applicazione  la  qualifica  «  verità  », 
non  trova  neppure  applicazione  la  qualifica  «  errore  ».  Qui  siamo  in 
presenza  di  fatti  d'un  ordine  diverso.  L'errore,  voi  dite,  è  un'astra- 
zione :  diviene  errore  in  quanto  è  visto  come  tale.  Visto  da  chi,  si  do- 
manda? Basta,  perchè  una  proposizione  sia  errore,  che  venga  vista 
come  tale  da  altri,  o  occorre  che  la  veda  come  errore  colui  che  la 
professa?  Nel  primo  caso,  qualunque  proposizione  filosofica  è  sempre 
errore,  perchè  tutte  trovano  contraddittori,  perchè  vi  sono  cioè  sempre 
persone  che  le  scorgono  come  errori.  Nel  secondo  caso,  nessuna  pro- 
posizione filosofica  è  errore  —  o  almeno  ogni  proposizione  filosofica 
può  non  esserlo  mai  —  perchè  taluno  può  rimanere  in  una  credenza 
filosofica  che  non  sa  essere  stata  combattuta  o  confutata,  o  alla  cui 
confutazione  si  rifiuta  di  prestar  fede  e  di  arrendersi.  L'errore  non 
esiste,  dite,  perchè  in  chi  corregge  l'errore  proprio  ed  altrui  è  pre- 
sente la  verità,  e  in  chi  rimane  in  errore  questo  non  ha  il  carattere 
di  errore  che  tale  carattere  presuppone  la  presenza  della  verità  cor- 
relativa la  quale  toglierebbe  l'errore.^  Ma,  chiediamo,  se  taluno  man- 
tiene una  proposizione  che  altri  reputa  erronea,  od  è  certo  essere  er- 
ronea (poniamo,  la  credenza  nelle  streghe  o  nella  transustanziazione) 
siffatta  i^roposizione,  per  il  fatto  che  in  quello  spirito  non  ha  il  «  di- 
svolare »  di  errore  ed  è  ravvisata  come  verità,  si  dovrà  dire  verità  ? 
O  si  dovrà  dire  errore  perchè,  sebbene  quégli  la  vegga  come  verità,. 


»  La  Rif,  della  Dial.  Hegel.,  p.  137. 


//  concetto  di  storia  delia  filosofia  163 


altri  spiriti  sono  certi  che  essa  è  errore  ?  O  si  dovrà  dire  verità  per 
questo,  errore  per  questo,  nel  qual  caso  il  vostro  dogmatismo  sarebbe 
colpito  a  morte  ?  Oppure  si  potrà  ridurci  a  dire  che  una  proposizione 
diviene  erronea  quando  nello  spirito  di  chi  la  professava  penetra  un'op- 
posta verità  che  la  rende  tale  ?  E  perchè,  se  quella  proposizione  dive- 
nuta erronea  in  lui,  sta  forse  ancora  senza  correzione,  cioè  come  verità, 
nello  spirito  di  altri,  se  forse  precisamente  quando  chi  la  professava 
viene  a  scorgerla  come  errore,  ecco  che  chi  la  combatteva  compie  la 
correzione  inversa  e  viene  a  scorgerla  come  verità  ? 

Affinchè,  adunque,  tale  teoria  potesse  servir  di  fondamento  all'asso- 
lutismo, bisognerebbe  che  il  passaggio  dall'errore  (verità  inferiore)  alla 
verità  (superiore)  avvenisse  per  fasi  storiche  compatte,  definitivamente, 
senza  incroci  e  ritorni.  Bisognerebbe,  cioè,  che  tutti  gli  uomini  d' un  pe- 
riodo storico  (ossia,  per  usare  il  linguaggio  assolutista,  lo  «  spirito  »  in 
una  sua  fase)  scorgessero  la  verità  in  una  proposizione,  e  tutti  quelli  d'un 
secolo  successivo  (lo  «  spirito  >  in  una  sua  fase  ulteriore)  ne  scorges- 
sero l'erroneità  di  fronte  ad  una  verità  superiore.  Ma. ciò  non  avviene. 
Ogni  proposizione  è  nel  medesimo  periodo  ed  istante  verità  per  chi  la 
professa,  errore  per  chi  la  combatte.  È  vista,  dunque,  nel  medesimo  mo- 
mento dallo  «  spirito  »  come  errore  e  verità.  Non  avviene  già  che  lo 
«  spirito  »  passi  da  una  proposizione  ad  un'altra  lasciandosi  indietro 
definitivamente  la  prima  come  errore  o  verità  inferiore.  Ma  avviene 
invece  che  gli  uomini,  gli  «  spiriti  »  (plurali)  incrociano  nel  medesimo 
momento  le  loro  opinioni  circa  la  verità  e  l'errore  e  ritornano  ad 
ogni  istante  a  proposizioni  del  passato  —  basti  ricordare  il  ritorno  dei 
positivisti  a  Democrito,  Epicuro,  Lucrezio,  e  degli  odierni  «  realisti  » 
a  Platone  —  ritenute  prima  verità,  poscia  errore,  poi  ancora  verità  e 
domani  nuovamente  errore,  e  dagli  uni  e  dagli  altri  nel  medesimo  mo- 
mento errore  e  verità.  E  ciò  basta  a  dimostrare  che  le  proposizioni 
filosofiche  fondamentali  sfuggono  alla  presa  della  categoria  «  errore^ 
verità  »  ed  appartengono  ad  un'attività  di  natura  siffatta  che  ad  esse 
tale  categoria  non  si  applica. 

Il  concetto  assolutista  della  filosofia  come  sviluppo  progressivo 
delia  verità,  cioè  l' identificazione  della  filosofia  con  la  sua  storia,  ha, 
ancora,  qualche  barlume  almeno  di  sensatezza  solo  in  Hegel,  solo  in 
chi  cioè  audacemente  sì  posa  come  la  conclusione  di  quel  moto  e 
offre  la  sua  filosofia  come  il  punto  d'arrivo,  il  punto  fermo,  la  «  filo- 
sofia definitiva  ».  Assurdo,  certo,  in  quanto  toglie  la  possibilità  di  pen- 
sare ulteriormente,  ma  sensatezza  almeno  in  questo  che,  così,  la  verità 
filosofica  che  pur  si  sostiene  essere  ciò  che  progressivamente  si  svolge 
lungo  il  corso  del  pensiero,  non  ci  viene  rappresentata,  proprio  nell'atto 
in  cui  se  ne  afferma  l'assolutezza,  come  destinata  ad  aggirarsi  e  muli- 


i64  Giuseppe  Rensi 


nare  eternamente  invano,  ma  giunge  ad  una  meta.  Ma  costoro,  che  han 
fatto  ?  Rompendo  il  cerchio  mediante  il  quale  in  Hegel  il  percorso  del 
pensiero  filosofico  si  chiudeva  e  si  saldava  in  sé,  abbattendo  il  termine 
fisso  del  percorso,  ostinandosi  a  parlare  di  verità  filosofica  assoluta,  e 
nell'istesso  tempo  rappresentandola  come  sviluppo  perpetuo  e  senza 
conclusione,  hanno  fatto  di  questa  —  della  quale  pure  essi  si  atteggiano 
ad  essere  gli  unici  seri  e  degni  sacerdoti  —  una  parodia  dell'opera  di 
Sisifo,  il  lavoro  d'un  Sisifo  non  più  tragico  ma  comico,  che  è  sempre 
certo  dì  spingere  il  sasso  del  pensiero  verso  la  cima  della  verità  e  certo 
nel  medesimo  tempo  che  appena  toccata  quella  cima  il  sasso  ricadrà 
a  valle  perchè  la  cima  non  sarà  più  la  verità.  Ecco  il  miserando  spetta- 
colo che  ci  offre  in  loro  la  phllosophia  perennis  ! 

E  in  tal  modo  costoro,  ostinati  avversari  come  sono  della  filosofia 
della  storia,  fanno,  nell'atto  in  cui  negano  di  farla,i  la  peggiore  delle 
filosofie  della  storia,  là  filosofia  della  storia  della  filosofia,  che  tale  e 
non  altro,  checché  ne  dicano,  è  questo  pretendere  di  costringere  il 
complesso  delle  concezioni  filosofiche  —  all'uopo,  mediante  l'arbitrario 
elevamento  d'alcune  di  esse  a  rappresentare  il  corso  tipico  del  pen- 
siero, e  il  corrispondente  arbitrario  degradamento  di  altre  '^  —  a  signi- 
ficare lo  svolgimento  perpetuo  d'  un'  ùnica  verità  progressivamente 
costruita;  questo  volere  insomma  costringere  a  tutta  forza  la  storia 
della  filosofia  ad  essere  una  cosa  sola  con  la  presunta  fantastica  una 
verità  filosofica  in  eterno  sviluppo.^ 


1  Croce,  Logica,  p.  338  e  seg. 

2  Mediante  ciò,  e  mediante  opportuni  ritocchi  alla  cronologia.  Tipico,  per  esem- 
pio, è  il  fatto  che  quasi  tutte  le  storie  della  filosofia  trattano  di  Pirrone  coi  Nuovi 
Accademici,  con  Arcesilao  e  Cameade,  lasciando  così  surrettiziamente  credere  che  la 
sua  filosofia  si  presenti  un  secolo  più  tardi.  Hegel,  per  esempio,  la  cui  tesi  è  che  lo 
scetticismo  appartiene  alla  decadenza  della  filosofia  e  del  mondo  {De  Skcpticismus 
gehort  so  dem  Verfall  der  Philosophie  tind  dcr  Welt  ati.  —  Werke,  voi.  14,  ed.  cit., 
p.  516),  la  suffraga  parlando  di  Pirrone  dopo  Cameade!  [Ibid.,  p.  479).  E  invece  Pir- 
rone è  contemporaneo  di  Aristotile.  Ma  Hegel  (come  dice  Lang,  St.  del  Aìater.  trad. 
frane.  I,  337,  che  dà  quivi  interessanti  esempi  di  queste  alterazioni  di  cronologia) 
«  si  lavava  le  mani,  come  Ponzio  Pilato,  quando  la  natura  s'era  ingannata  nel  far 
nascere  un  uomo  od  un  libro  qualche  anno  più  presto  o  più  tardi  ». 

3  Gli  artifici  che  gli  storici  di  questa  scuola  fanno  per  stabilire  la  perpetua  con- 
catenazione sono  spesso  addirittura  acrobatici.  Quando  per  es.  lo  Zeller  {Die  Philos. 
d.  Griechen,  IV  ediz..  Ili,  2,  p.  82)  si  trova  davanti  alla  difficile  impresa  di  conca- 
tenare i  neoplatonici  con  gli  ultimi  scettici,  la  tenta  dicendo  che  «  quanto  meno  la 
scienza  aveva  in  sé  stessa  fermi  fondamenti,  tanto  più  doveva  nascere  pel  pensiero  il 
bisogno  di  cercare  la  verità,  del  cui  possesso  non  sentiva  sicuro,  esteriormente  a  se, 
in  una  rivelazione  superiore  ».  E  come  mai,  se  gli  scettici  avevano  tolti  i  «  fermi  fonda- 
menti »  in  ugual  misura  alla  scienza  e  alla  credenza  nella  divinità  ?  —  In  generale, 
poi,  questi  scrittori  pretendono  rappresentare  il  corso  della  filosofia  greca  cosi  :  1°)  i 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  165 


La  molteplicità  degli  "  spiriti  „  filosofici 

Ora,  questa  concezione  assolutista  di  marca  tedesca  della  filosofia 
e  della  sua  storia  non  è  altro  che  un  insieme  di  bubbole  altisonanti, 
che  possono  abbagliare  e  piacere  nei  momenti  di  ingenuità;  non  altro 
che  una  trovata  da  Verne  o  da  Wells  trasportata  nel  campo  della  spe- 
culazione ;  non  altro  che  virtuosismo  o  manierismo  filosofico,  mediante 
cui,  come  un  artefice  che  conosce  gli  espedienti  e  i  segreti  del  mestiere 
sa  sempre  fare  il  suo  quadro,  così,  nel  suo  tranquillo  Pensatoio,  il 
filosofo  di  maniera  tira  a  pulimento  il  sistema  palliandone  con  pennel- 
late artificiose  i  punti  che  sa  insostenibili. 

C'è  anzitutto  appena  bisogno  di  rilevare  che  quand'anche  questa 
tesi  del  perpetuo  sviluppo  avesse  un'ombra  di  verità,  essa  dovrebbe 
subire  un'importante  restrizione,  la  quale  basta  a  distruggere  il  po- 
stulato che  ad  essa  tesi  sta  sotto  e  che  mediante  essa  si  tende  diret- 
tamente o  indirettamente  a  suffragare:  quello  dell'esistenza  rf^/Zi?  «spi- 
rito »,  d'un  unico  spirito,  cioè,  di  cui  ogni  pensiero  speculativo  apparso 
nel  mondo,  tutte  le  filosofie  della  terra  sarebbero  la  manifestazione  e 
l'esplicazione  progressiva. 

Tale  restrizione  è  questa,  che,  a  ogni  modo,  siffatto  sviluppo  si 
racchiude  e  si  circoscrive  entro  sfere  separate  di  spazio,  neh'  interno  dì 
ciascuna  delle  quali  forse  si  avvertirebbe,  ma  non  già  tra  le  une  e  le 
altre  come  vincolo  continuativo  che  connetta  queste  con  quelle.  Lo  «  spi- 
rito »  non  volteggia  nell'aria;  risiede  nei  cervelli  umani,  e  quando 
questi  non  hanno  contatto,  ogni  continuità  è  mitologica.  Quale  conti- 
nuità di  sviluppo  tra  il  pensiero  filosofico  indiano  e  quello  greco?  Non 
sono  questi  veramente  due  mondi  indipendenti  ?  «  Quanto  più  lo  studio 
approfondisce  le  credenze  (osserva  il  Renouvier)  e  permette  di  risalire 
nella  serie  delle,  età,  tanto  più  si  vede  accentuarsi  sotto   certi  aspetti 


dogmatici  presocratici;  2'')  da  tale  dogmatismo  è  eccitato  il  movimento  dì  pensiero 
sofistico  che  afferma  contro  quel  dogmatismo  la  subbiettività  ;  30)  contro  i  sofisti,  So- 
crate, Platone,  Aristotile  ristabiliscono  la  certezza  con  la  filosofia  dei  concetti  e  del- 
l'universale (Zeller,  Grundriss,  pp.  89,  93  e  seg.  ;  Windelband,  St.  della  filos.,  trad. 
it.,  voi.  I,  pp.  116,  147,  178-9).  Concezione  artificiosa  e  convenzionale  se  pur  ve  n'è 
una.  I  sofisti,  infatti,  non  si  erano  limitati  a  ricavare  la  subbiettività  dalla  conoscenza 
sensibile,  ma  avevano  fatto  anche  la  critica  del  concetto,  e  mostrato  che  anche  questo 
è  variabile  per  ognuno,  cioè  non  universale  (e  non  solo  i  sofisti,  che  di  Senofane  ci 
informa  Eusebio,  Praep.  Ev.  I,  8,  che  egli  rigettava  come  fallaci  non  solo  i  sensi,  ma 
la  ragione  stessa).  Socrate,  Platone,  Aristotile,  senza  poter  su  ciò  direttamente  confu- 
tarli, non  fanno  altro  che  ripresentare  come  cosa  che  vada  da  sé  il  dogmatismo  che  il 
concetto  sia  l'universale,  l'essenza  permanente  e  obbiettiva  delle  cose.  Con  ciò,  in 
sostanza^  riproducono  la  precedente  antecritica  (cioè  antesofistica)  posizione  dogmatica. 


i66  Giuseppe  Retisi 


l'originalità  di  ogni  grande  nazione;  e,  tanto  più  divengono  dubbie 
le  comunicazioni  tra  i  popoli  antichi,  oltre  quelle  che  si  possono  rigo- 
rosamente provare.  Il  vecchio  ponte  dell'asino  della  filosofia  della  storia, 
che  conduceva  gli-  scolari  dall'India  all'Egitto,  dall'Egitto  alla  Grecia, 
dalla  Grecia  a  Roma,  trascina  nella  sua  rovina  tutti  i  sistemi  fondati 
sull'ipotesi  d' un'evoluzione  unica  dello  spirito  umano.i  Lo  spirito  uni- 
tario e  il  suo  unitario  sviluppo  sono  dunque  assunzioni  arbitrarie.  E  il 
tentativo  di  puntellare,  mediante  la  filosofia  come  «  perpètuo  sviluppo  » 
il  monismo  dello  spirito,  s'infrange  una  nuova  volta  a  beneficio  di 
quella  frammentarietà  e  discontinuità  di  questo,  anzi  della  moltiplicità 
degli  spiriti,  brillantemente  rivendicata  dal  James.  ^ 

Subito  dopo  questa  un'altra  restrizione  si  impone.  Non  solo  lo 
sviluppo,  se  mai,  va  così  circoscritto  a  spazi  separati,  ma  anche  nel- 
l'interno di  questi,  esso  va  limitato  a  tratti  separati  di  tempo  durante 
ciascuno  dei  quali  esso  forse  si  prosegue,  ma  tra  gli  uni  e  gli  altri 
dei  quali  esiste  un  hiatus  e  un  distacco  più  o  meno  profondi.  Sono, 
per  quanto  riguarda  il  mondo  occidentale  quei  tratti  di  tempo  su  cui 
si  dividono  tradizionalmente  i  periodi  della  storia  della  filosofia.  Ogni 
tentativo  per  riconnettere  evolutivamente  Descartes  allo  scolasticismo 
è  artificioso,  come  è  falso  ogni  sforzo  onde  ricucire  per  via  di  sviluppo 
il  pensiero  fondamentale  del  cristianesimo  con  la  filosofia  greca.  Il 
monoteismo  cristiano,  l'idea  d'un  «  creatore   non   creato,   non  gene- 


1  Introd.  à  la  Pkilos.  Analyt.  de  l'Hist,  p.  576.  L'indipendenza  del  pensiero 
greco  dell'orientale  è  stabilita  anche  da  Zeller  (cfr.  Gnindriss,  §  5).  Ma  egli  ne  adduce 
anche  delle  cattive  ragioni  Col  solito  sistema  tedesco  di  «  congetturare  »  erigendo  ca- 
stelli su  una  pagliuzza.  Una  di  queste  ragioni  (//;.,  p.  17)  e  che  le  testimonianze  della 
derivazione  della  filosofia  greca  dall'oriente  diventano  numerose  nei  tempi  più  tardi 
(quando  il  contatto  dei  greci  coi  popoli  orientali  s'era  fatto  più  intimo)  e  mancano 
invece  nei  tempi  precedenti,  cioè  quanto  più  ci  avviciniamo  all'epoca  in^cui  la  pretesa 
derivazione  si  sarebbe  operata.  Quasiché  non  fosse  la  cosa  più  normale  del  mondo  che 
solò  in  uno  stadio  avanzato  e  tardo  di  civiltà  e  di  cultura  un  popolo  si  renda  consa- 
pevole delle  origini  della  sua  civiltà  e  di  doverla  all'influsso  d'un'altra  civiltà  e  della 
misura  in  cui  a  questa  la  deve,  mentre  di  tutto  ciò  nel  suo  stato  primitivo  e  di  civiltà 
appena  incipiento  non  si  può  render  conto. 

*  L'assolutista  potrebbe  dire  :  appunto  questo  fatto  —  cioè  le  coincidenze  di  pen- 
siero filosofico  tra  popolo  e  popolo  che  non  hanno  avuto  comunicazione  materiale  — 
mostra  che  lo  spirito  è  uno  nella  sua  essenza  profonda  e  al  di  fuori  e  al  di  sopra 
d'ogni  unità  empirica.  Ma  che  il  pensiero  umano  riproduca  sempre  le  poche  medesime 
concezioni  filosofiche  e  s'aggiri  senza  uscita  in  esse,  è  appunto  anche  il  nostro  assunto. 
L'asininto  dell'assolutista  è  quello"  che  lo  spirito  cogliendo  nella  totalità  del  suo  svi- 
luppo la  verità,  presenta  un  graduale  eterno  sviluppo  filosofico.  Ora  il  fatto  della 
coincidenza  tra  popolo  e  popolo  che  non  hanno  avuto  contatto,  non  prova  questo  as 
sunto,  ma  il  contrario.  L'India  antica  comincia  d'un  tratto  con  concezioni  per  trovare 
le  analoghe  delle  quali  bisogna  discendere  al  neoplatonismo  o  a  Schopenhaner. 


Hi 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  167 


rato,  creante  con  la  sua  volontà  e  con  la  sua  parola  »,  questa  «  dot- 
trina eminentemente  eccezionale  d'un  popolo  eccezionale  e  isolato  tra 
tutte  le  nazioni  dell'antichità  »  entrò  nella  religione  e  nella  filosofia 
per  rivoluzione  e  non  per  evoluzione  storica.^-- 

Infine,  una  terza  restrizione  si  affaccia.  La  tesi  assolutista  trascura 
il  fatto  dell'enorme  influenza  che  hanno  sulla  filosofia  certi  elementi 
del  carattere  nazionale  dei  vari  popoli,  i  quali  fanno  sì  che  una  deter- 
minata linea  di  sviluppo  del  pensiero  filosofico  sia  propria  esclusiva- 
mente d'un  dato  popolo,  che  quel  pensiero  assuma  lungamente  iiì 
questo  un  colorito  e  caratteristiche  speciali,  che  insomma  lo  sviluppo 
si  manifesti  barricato  e  incanalato  dalle  frontiere  nazionali.  Ce  ne  offre 
un  ottimo  esempio  l' indole  «  insulare  »  delia  filosofia  inglese  fin  quasi 
al  secolo  XIX,  della  quale  il  metodo  sperimentale  e  induttivo  contro 
quello  razionalistico  e  deduttivo,  la  tendenza  epistemologica  contro 
quella  ontologica,  le  preoccupazioni  pratiche  o  etiche  contro  quelle 
speculative,  sono  le  fattezze  che  la  distinguono  nettamente  dalla  filo- 
sofia continentale,^  e  che  trasmettendosi  dall'uno  all'altro  pensatore 
inglese  creano  uno  sviluppo  specialmente  inglese  del  pensiero  filoso- 
fico, il  quale  non  si  può  sommergere  e  far  sparire  nel  preteso  sviluppo 
universale  e  unitario  dello  spirito  speculativo.  Le  fasi  dello  sviluppo 
di  questo,  adunque,  non  sono  rappresentabili  come  se  fossero  sempre 
momenti  del  pensiero  puro,  e  momenti  prodotti  dalla  necessità  che 
il  dinamismo  interiore  di  esso,  in  quanto  puro,  presenta,  anziché  spesso 
momenti  non  affatto  necessari  a  questo  dinamismo  del  pensiero  pnro^ 
e  dovuti  invece  a  mere  accidentalità  locali  e  nazionali. 

La  filosofia  definitiva  o  "  dell'epoca  „ 

Queste  osi»crvazioni  infirmano  già  grandemente  la  tesi  tedesco- 
assolutista.  Ma  più  importante  ancora  sono  le  obbiezioni  che  tendono 
non  più  a  limitarla,  ma  investirla  nella  sua  stessa  sostanza.  Prima 
questa  che,  sotto  l'una  o  sotto  l'altra  forma,  la  concezione  del  «  per- 
petuo sviluppo  »  è  sempre  quella  della  «  filosofia  definitiva  ».  Se  non 
definitiva  per  l'eternità,  come  in  Hegel,  definitiva  per  l'epoca. 


1  Cfr.  Renouvier,  Philos.  Analyt.  de  VHist.,  voi.  IV,  p.  653.  Confutando  l'at- 
tribuzione del  monoteismo  a  Senofene  (che  invece  continua  ad  ammettere  Zeller,  Gru/j- 
driss,  p,  55)  il  Gomperz  scrive  :  «  Il  monoteismo  puro,  assoluto,  è  sempre  apparso  agli 
spiriti  ellenici  come  un'empietà  »  [Les  Penseurs  de  le  Grece,  trad.  frane.  I,  p.  174). 

2  V.  su  ciò  l'agile  e  interessante  libro  recente  di  James  Seth,  English  PhilO' 
sophers  and  Schools  of  Philosophy  (Londra,  Dent)  specialmente  Introduzione  e 
p.  237  e  seg. 


i68  Giuseppe  Rensi 


Colui  che  pensa,  infatti,  che  la  storia  della  filosofia  sia  il  perpetuo 
sviluppo  della  verità  filosofica  nel  tempo,  pone  necessariamente  il  suo 
sistema  come  quello  verso  cui  si  è  diretto  il  corso  di  questa  verità, 
come  quello  che  di  questa  verità  rappresenta  ineluttabilmente  la  fase 
odierna,  come  quello  che  il  flusso  secolare  della  verità  stessa  ha  in 
questo  momento,  superiormente  a  voleri  e  pensieri  individuali,  formato 
e  portato  alla  superficie.  Il  suo  sistema  non  è,  adunque,  una  conce- 
zione filosofica  tra  le  altre,  l'affermazione  d' un  punto  di  vista  che  può 
essere  contradetto  ;  è  l' unico  sistema  «  adeguato  al  momento  storico 
a  cui  egli  appartiene  »,  mentre  è  falso  ogni  altro  «  derivante  da  un 
criterio  di  giudizio  inferiore  a  parte  dei  punti  di  vista  già  conquistati 
dalla  ragione  nella  storia,  incapace,  perciò,  di  render  ragione  di  tutti 
i  sistemi  già  apparsi  ».i  Naturalmente,  la  propria  adeguazione  al  mo- 
mento storico  e  la  decisione  che  gli  altri  che  gli  contendono  il  campo 
partono  da  un  «  criterio  inferiore  »,  sono  sentenze  che  nel  sistema  che 
le  pronuncia  non  hanno  per  fondamento  se  non  la  più  arbitraria 
arroganza. 

Da  ciò  deriva  che  in  siffatta  concezione,  è  implicita  la  tendenza  a 
negare  la  libertà  di  pensare.  Già  questa  ^<  filosofia  definitiva  »  dell'eter- 
nità o  del  «  momento  storico  »  non  dovrebbe  nemmeno  poter  dirsi 
l'opera  personale  di  colui  che  la  formula  e  l'asserisce.  Se  fosse  sua  opera 
personale  sarebbe  soggetta  alle  vicissitudini,  alle  fallacie,  agli  errori  del 
pensiero  soggettivo  e  individuale  e  alla  concomitante  possibilità  di  impu- 
gnative e  controversie.  Non  sarebbe  più,  come  vuol  essere,  la  verità 
obbiettiva,  assoluta,  indiscutibile,  necessaria.  Essa  non  è  quindi  opera 
personale  del  pensatore,  non  fu  fatta  a  rigore  da  lui.  Fu  fatta  dallo 
«  spirito  »  in  lui,  che  dello  «  spirito  »  fu  soltanto  lo  stromento.  Fu  fatta 
dallo  stesso  corso  della  storia,  dallo  stesso  processo  del  pensiero  nel 
tempo,  che  il  pensatore  non  fece  che  raccogliere  e  interpretare.  Nep- 
pur  egli,  adunque,  aveva  la  possibilità  di  formularne  un'altra,  di  fer- 
marsi in  credenze  diverse,  ma  la  ferrea  fatalità  del  «  perpetuo  sviluppo  > 
gli  imponeva  di  affermare  e  accettare  la  verità  che  era  destinata  a  ve- 
nire in  tale  sviluppo  a  galla  in  quest'ora,  a  cui  lo  sviluppo  precedente 
da  tutta  l'eternità  metteva  oggi  fatalmente  capo.  Si  tratta  veramente 
(per  usare  parole  del  Renouvier)  d' una  verità  «  arrecata  dal  di  fuori  e 
che  si  scopre  spontaneamente  mediante  il  progresso  necessario  delle 
idee  nel  corso  dei  tempi  »,  d'una  verità^  quindi  «  che  una  ragione  im- 
personale sarebbe  costretta  a  subire  ».2 


i  Gentile,  op.  cit.,  p.  147. 

«  Philos.  Analytique  de  l'Hist.,  voi.  IV,  p.  463. 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  169 


Se,  in  tale  concezione,  la  libertà  di  pensare  è  a  rigore  soppressa 
per  chi  formula  il  sistema,  tanto  più  per  gli  altri.  I  contemporanei  di 
colui  che  ha  redatto,  non  la  sua  filosofia,  ma  la  filosofia  che  lo  «  svi- 
luppo perpetuo  »  prescriveva  a  quel  dato  tempo,  sono  obbligati  ad 
accettarla,  sotto  pena  di  trovarsi  fuori  dal  campo  del  pensiero.  Il  sistema 
di  Hegel,  o  di  Croce,  o  di  Gentile  non  può  essere  contraddetto,  lo  non 
posso  farmi  una  mia  convinzione  personale,  conforme  alle  mie  credenze, 
determinata  dal  mio  temperamento  intellettuale  e  a  questo  confacente. 
Non  ho  diritto  (senza  essere  un  intellettualmente  «  arretrato  »,  uno  che 
si  è  arrestato  a  un  «  giudizio  inferiore  »)  di  liberamente  fermarmi  ad 
una  delle  filosofie  del  passato,  a  Tommaso  d'Aquino,  a  Spinoza,  allo 
Spencer,  e  farla  mia  con  un'adesione  che  sorge  dalle  viscere  stesse  della 
mia  natura.  Non  mi  è  lecito  arrestarmi  ad  un  antico  dogma  religioso  e 
credere,  per  esempio,  «  che  Dìo  padre  mandò  Gesù  suo  figliuolo  a 
redimere  gli  uomini  dalla  perdizione,  in  cui  erano  caduti  pel  peccato 
d'Adamo  ».iNo:  io  vedo,  se  voglio  essere  individuo  pensante,  accettare 
il  sistema  di  Hegel  ieri  o  di  Croce  oggi  perchè  è  quello  che  incorpora 
tutti  i  «  punti  di  vista  già  conquistati  dalla  ragione  nella  storia  »,  e, 
centro  di  convergenza  di  tutto  il  pensiero  anteriore  e  quindi  espres- 
sione dell'assoluta  e  indiscutibile  verità  dell'oggi,  si  impone  fatalmente 
e  uniformemente  a  tutti  gli  uomini  venuti  alla  luce  in  quest'ora.  Esso 
non  può  essere  negato  più  che  si  possa  negare  che  due  più  due  vai 
quattro.'-^ 

Eppure  negato  lo  è.  E  quanto  più  il  sistema  altezzosamente  si 
posa  come  l'infallibile  e  necessaria  verità  sia  dell'eternità  sia  del  mo- 
mento, tanto  più  l'insurrezione  è  violenta.  Ora,  che  vuol  dire  clie  un 
tale  sistema,  che  non  può  e  non  deve  essere  negato,  pure  lo  sia  ?  Si 
badi:  il  semplice. fatto  che  uno  solo  lo  neghi,  basta  ad  annientarlo. 
Basta,  appunto  perchè  esso  afferma  che  essere  negato  e  contraddetto 
non  può  e  non  deve,  e  in  tale  affermazione  sta  la  sua  essenza.   Esso 


1  Croce,  Logica,  p.  274. 

2  «  La  storia  della  filosofia,  così  considerata  come  una  evoluzione  di  cui  sarebbe 
possibile  definire  la  legge  e  che  non  dovrebbe  più  permettere  alla  libertà  del  pensa- 
tore di  ritornare  ad  uno  dei  momenti  passati  dello  sviluppo  generale  dello  spirito  e 
di  fissarvisi  mediante  la  franca  esclusione  dei  momenti  contraddittori,  è  l'eliminazione 
del  suo  soggetto,  lo  spirito  individuale  nelle  sue  libere  determinazioni,  poiché  ne  fa 
un  semplice  anello  di  una  concatenazione  necessaria.  Gli  rifiuta  la  facoltà  d'affermare 
e  credere  alcuna  verità  pura,  e  la  potenza  correlativa  di  errare,  poiché  affermazione 
e  negazione  non  hanno  valore  che  messe  al  loro  posto,  spiegate,  bilanciate  e  final- 
mente cancellate  dall'evoluzione,  cioè  dal  filosofo  che  viene,  come  alla  fine  dei  tempi, 
a  posarsi  interprete  della  legge  e  conciliatore  universale  ».  Renouv.'ER,  Esquisse  d^ une 
claisìfìcation  des  systemes,  vói.  II,  parte  VII,  p.  127  e  seg. 


I70  Giuseppe  Rensi 


dice  che  nessuna  contraddizione  o  negazione  Io  può  tangere  pò:  ::!iè 
rende  «  ragione  di  tutti  i  sistemi  già  apparsi  »,  perchè  cioè  tutte  le 
contraddizioni  del  pensiero  filosofico  sono  in  esso  sistemate  ad  unità. 
Ma  taluno  lo  nega  e  lo  respinge.  Che  significa?  Che  esso  non  fa 
ragione  a  tutti  i  sistemi;  che  non  li  accoglie  e  non  li  assorbe  in  sé 
se  non  a  parole  e  senza  la  loro  adesione  ;  che  mentre  esso  si  atteggia 
ad  essere  il  mare  ampio  in  cui  le  acque  degli  opposti  versanti  tro- 
vano stanza  concorde,  a  coordinare  insomma  in  sé  tutti  i  punti  di 
vista  apparentemente  contraddittori,  non  è  altro  che  uno  di  questi 
punti  di  vista,  come  scorge  bene  colui  che,  precisamente  perchè  quel 
sistema  non  risponde  al  punto  di  visto  suo,  lo  respinge. 

E,  in  verità,  che  cos'è  questa  sua  pretesa  sistemazione  ad  unità 
superiore  di  tutte  le  opposizioni,  affermate  apparenti?  Soltanto  lustra, 
giuoco  di  parole  e  sotterfugio.  Può  bene  Hegel  o  Croce  proclamare 
d'aver  conciliato  il  determinismo  con  la  libertà:  il  credente  nel  libero 
arbitrio  troverà  che  questa  conciliazione  è  meramente  verbale  e  clas- 
sificherà quei  sistemi  sotto  uno  dei  due  punti  di  vista  eternamente 
pugnanti,  sotto  il  determinismo.  Possono  bene  proclamare  d'aver  con- 
ciliato il  male  col  bene;  colui  che  crede  che  per  la  morale  si  richieda 
la  libertà  dello  spinto  personale  contro  il  male,  li  classificherà  tra  i 
sistemi  immoralisti.  E,  per  esemplificare  ancora,  dell'antitesi  somma, 
quella  consistente  nel  problema  se  la  realtà  suprema  sia  la  coscienza 
o  il  mondo  esteriore,  la  cosa  o  la  persona,  lo  spirito  o  la  natura,  se 
questa  formi  quello  o  quello  questa,  dov'è  che  quei  sistemi  rendono 
ragione  delle  opposte  concezioni?  Essi  si  classificano  apertamente  tra 
una  serie  di  sistemi  storici  o  punti  di  vista  contro  l'altra  serie,  e  qui  tutto 
il  loro  «  render  ragione  »  sta  nel  dire  che  la  filosofia  è  solo  e  sempre 
idealismo.  Ma  poiché  l'orgogliosa  asserzione  non  basta  a  cancellare 
dalla  storia  e  dagli  animi  la  visuale  contraria,  essi  sono  legittimamente 
negati  da  chi  questa  visuale  professa.  Insomma,  un  sistema  di  siffatta 
indole  pretende  (per  usare  ancora  parole  del  Renouvier)  «  attribuirsi 
un  posto  interamente  a  parte  dagli  altri  e  una  situazione  superiore 
di  neutralità  circa  le  dottrine  contrarie;  invece,  sì  classifica  in  com- 
pagnia di  alcune  di  queste  sui  punti  decisivi,  né  gode  alcun  privilegio 
per  far  accettare,  sotto  pretesto  di  sintesi,  asserzioni  che  i  vecchi  me- 
todi di  dimostrazione  non  hanno  potuto  sottrarre  alle  divergenze  e 
mettere  al  di  sopra  del  dibattito  ».i  Dopo,  come  prima,  di  quéste  co- 
struzioni, in  cui  la  superbia  pareggia  V  insincerità,  i  punti  di  vista  fon- 
damentali ed  opposti,  ne*  quali  si  è  sempre  diviso  il  pensiero  filosofico, 
e  i  quali  non  si  «  sviluppano»,  ma  permangono  e  si  riproducono  eterna- 


Esquisse  d' une  classification  des  systèmes,  voi.  I.  n.  1. 


Il  concetto  di  storia  della  filosofia  171 

mente  gli  stessi  nel  fondo,  e  solo  con  altre  parole  e  con  altro  materiale, 
restano  tuttora  di  fronte,  non  conciliati,  non  ridotti  ad  unità,  ed  anzi, 
nella  loro  appassionata  chiaroveggenza,  lincei  nel  vedere  e  qualificare 
esattamente  come  uno  od  altro  di  sé  medesimi  il  sistema  che  preten- 
deva sopirli,  ridurli  ad  unità  ed  elevarsi  in  tal  modo  sovrano  su 
di  essi. 

Perchè  la  tesi  tedesco-assolutista  avesse  una  parvenza  di  vero 
bisognerebbe  che  esistesse  sul  serio  una  «  filosofia  dell'epoca  ».  Biso- 
gnerebbe che,  come  asseriva  Cousin,  «  in  ogni  epoca,  con  la  varietà 
necessaria  alla  realtà  dell'unità,  con  un'abbastanza  grande  diversità 
di  scuole  filosofiche  »  non  vi  potesse  essere  «  che  un  solo  e  medesimo 
spirito  filosofico,  poiché  non  v'è  che  un  solo  e  medesimo  spirito  in 
ogni  epoca  ».i  Bisognerebbe  che  questa  «  filosofia  dell'epoca»  fosse 
data  non  già  soltanto  nell'olimpica  baldanzosa  asserzione  che  fa  uno 
di  tali  sistemi  assolutisti  di  essere  esso  tale  filosofia,  ma  che  esistesse 
nel  fatto,  nel  fatto  cioè  che  tutti  gli  spiriti  d' un'epoca  aderissero  a 
una  sola  filosofia.  Allora  solo  si  potrebbe  con  qualche  verosimiglianza 
parlare  d'una  continuità  di  sviluppo  dello  spirito  filosofico,  d'un  uni- 
tario processo  e  svolgimento  d*  un'eterna  verità,  ossia  d' un'identità 
della  filosofia  con  la  sua  storia,  sia  nel  senso  hegeliano  che  ciascuna 
delle  fasi  storiche  filosofeggi  una  delle  categorie  dello  spirito  dalle 
più  povere  alfe  più  complesse  secondo  l'ordine  in  cui  nello  spirito 
appariscono,  sia  nel  senso  crocio-gentiliano  che  la  filosofia  di  ogni 
fase  storica  sia  quella  e  solamente  quella  che  eleva  un  piano  di  una 
certa  speciale  architettura  sul  fondamento  della  incorporazione  che 
ha  fatto  ih  sé  di  tutte  le  filosofie  del  passato.  Ma  tale  filosofia  del- 
l'epoca è  una  chimera.  Si  può,  bensì,  dar  ad  intendere  che  ci  sia 
sopprimendo  o  degradando  le  manifestazioni  filosofiche  che  non  vi 
quadrano  :  cioè  facendo  della  filosofia  della  storia  (nel  senso  peggio- 
rativo) applicata  alla  storia  della  filosofia  —  proprio  mentre  si  grida  che 
di  filosofia  della  storia  non  si  vuol  sentire  parlare  —  se  filosofia  della 
storia  é  quella  che  opera  alterando,  manipolando  ad  arbitrio,  «  re- 
cidendo i  documenti  ».2  Vale  a  dire:  scrivendo  delle  storie  della  filo- 
sofia che  sono  puri  e  semplici  pamphlets,'^  qualificando  un  importante 
indirizzo  di  pensiero  filosofico,  le  cui  traccie  nel  campo  della  filo- 
sofia saranno  a  ogni  modo  incancellabili,  di  «  andazzo  positivistico  »,* 


1  Op.  cit,  p.  258. 

*  Croce,  Logica,  p.  295. 

3  Tipici  gli  studi  pubblicati  dal  Gentile  sulla  Critica  intorno  alla  filosofia  in 
Atalia  dopo  il  1850. 

*  Gentile,  La  Rif.  della  Dial.  MegeL,  p.  122. 


72  Giuseppe  Re  usi 


o  di  «  non  già  filosofia,  ma  ibrido  guazzabuglio  di  scienze  naturali  e 
metaiisica  »  ;i  chiamando  il  sistema  d*  uno  dei  piC;,  grandi  pensatori 
moderni,  il  Mill,  «  concezione  infantile  »,2  la  sua  Logica  «  nefasta  »  e 
«  uno  di  quei  libri  che  non  fannno  onore  all'intelletto  umano  »,3  e 
non  peritandosi  di  issarsi  sui  trampoli  della  propria  presunzione  per 
arrivare  fino  alla  sua  altezza  e  poter  sentenziare  la  sua  «  inconclu- 
denza mentale  »*  e  definirlo  «  men  che  mediocre  razìocinatore  ».6  Così 
sì,  con  siffatta  filosofia  della  storia  della  filosofia,  si  riesce  a  far  appa- 
rire che  ci  sia  una  «  filosofia  dell'epoca  »,  che  cioè  il  pensiero  filoso- 
fico abbia  avuto  uno  svolgimento  unitario,  abbia  sviluppato  nella  storia 
i  momenti  d'un' unica  verità  lungo  una  linea  costante,  metta  capo 
oggi  come  al  momento  predestinato  a  quest'epoca  ad  una  certa  esclu- 
siva concezione,  e  che  tale  momento  dell'  unica  verità  spettante  alla 
fase  storica  odierna  sia,  naturalmente,  il  proprio  sistema.^ 

Ma  chiunque  guardi  spregiudicatamente  alle  cose,  scorge  subito 
l'enorme'  falsificazione  che  v'è  in  tutto  ciò.  «  Egli  pensò  (così  già  il 
nostro  Cattaneo  esattamente  confutava  tale  idea  in  Cousin)  che  le 
filosofie  rappresentassero  i  tempi,  mentre  è  ben  rara  quell'età  in  cui 
le  più  opposte  dottrine  non  sì  affrontino  nella  stessa  lingua  e  sullo 
stesso  terreno;  come  vediamo  con  quelle  di  Saint-Simon  e  Deniaistre, 
di  Schelling  e  Gali».''  E  infatti  se  il  fantastico  «spirito  del  mondo» 
sgomitola  il  suo   unico  filo   attraverso    il    tempo,   come  avviene  che 


1  Croce,  Filos.  della  Pratica,  p.  177. 

*  Croce,  Logica^  p.  167. 

3  Ibidem,  p.  382. 

<  Filos.  della  Pratica,  p.  291. 

5  Logica,  p.  382. 

6  Nemmeno  del  resto,  se  esistesse  davvero  una  €  filosofia  dell'epoca  »  questa  po- 
trebbe razionalmente  costringere  l'assenso.  C'è  oggi,  poniamo,  una  filosofia  dominante, 
in  cui  tutti  giurano,  per  cui  tutti  si  entusiasmano,  che  trascina  tutti.  Ma  non  so  già 
fin  d'ora  che  questa  non  sarà  la  filosofia  definitiva,  che  verrà  fra  qualche  anno  rove- 
sciuta  e  riconosciuta  falsa  ?  Non  è  avvenuto  forse  così  sotto  i  miei  occhi  per  qualche 
altro  sistema  che  l'ha  preceduta,  e  che  sovraneggiava  ugualmente  ieri  su  tutte  le  menti? 
Dunque  basta  che'io  mi  trasporti  nello  spirita  del  temjpo  in  cui  la  filosofia  oggi  do- 
minante sarà  confutata,  per  saperla  falsa.  —  È  questa  l'applicazione  del  profondo  con- 
siglio di  Sesto  Empirico:  «Alla  stessa  guisa  che  ci  si  domanda  d'aggiustar  fede  a  cui 
sì  dica  più  sennato  di  quanti  esistano  o  furono,  e  ciò  per  la  prudenza  sua,  così  ad 
uno  più  assennato  s'avrebbe  a  credere  meglio  che  a  lui  :  e  se  questi  ci  fosse,  un  altro 
incora  più  prudente  di  lui  avrebbesi  a  sperar  che  sorgesse,  e  poi  un  altro  più  di  co- 
desto e  sino  all'infinito  »  {Istit.  Pirron.,  L.  II,  5,  trad.  S.  Bissolati,  Le  Mounier,  1917, 
p.  194). 

7  Su  la  Scienza  Nuova  di  Vico  in  Opere  Edite  ed  Inedite,  ed.  Le  Mounier,  voi.  VI, 
p.  105.  Il  Cattaneo  prosegue  ribattendo  vigorosamente  il  piatto  ottimismo  hegelo-cou- 
siniano  e  la  sua  razionalistica  giustificazione  del  successo. 


//  con  celio  di  si  orla  della  filosofia  173 


ad  ogni  momento  vi  sono  sistemi  pugnanti,  e,  quel  che  è  più,  che  i 
medesimi  fondamentali  punti  di  vista  opposti  sono  sempre  quelli  che, 
con  diverse  parole  e  diverso  materiale,  si  trovano  in  ogni  e  medesimo 
istante  a  cozzare  tra  di  loro  ?  In  quale  di  questi  punti  di  vista,  sempre 
rinnovanti  il  loro  urto,  si  esprime  lo  «  spirito  del  mondo  »,  l'autentico 
e  legittimo  momento  del  preteso  «  perpetuo  svolgimento  »  dell'unica 
verità  e  dell'  integrale  pensiero  ?  Kant,  Fichte,  Schelling,  Hegel...  Croce. 
Chi  autorizza,  fissando  arbitrariamente  lo  sguardo  su  questa  serie  e 
cancellando  dal  pensiero  le  contrastanti  serie  parallele,  a  ritenere  che 
sia  questo  il  filone  garantito  dove  si  trova  un  tratto  del  «  perpetuo 
svolgimento  »  dello  «  spirito  del  mondo  »,  e  non,  per  esempio,  il  filone 
Democrito-Pomponazzi-Ardigò?  Chi  autorizza  a  dire  che  il  filone  d'oro 
puro  sia  quello  che  mette  capo  al  Gentile  anziché  quello  che  mette 
capo  a  Le  Dantec  ?  Chi  autorizza  farle  viste  di  dimenticare  che  Cabanis 
è  contemporaneo  di  Fichte,  che  Schopenhauer,  Mill  e  Taine  sono 
postkantiani  come  Hegel,  che  Spencer  e  Rosmini  sono  pressoché  degli 
stessi  anni,  che  tutte  queste  intuizioni  opposte  della  verità  che  si  asse- 
risce convogliata  sempre  innanzi  dal  medesimo  corso  d'acqua  si  eri- 
gono le  une  contro  le  altre  nello  stesso  momento,  sfidando  qualsiasi 
tentativo  di  riduzione  ad  una  pretesa  unità  superiore  la  quale  possa 
dar  da  credere  in  uno  svolgimento  unico  e  continuo,  e  permetta  di  par- 
lare di  «filosofia  dell'epoca»  o  di  «filosofia  adeguata  al  momento 
storico  »?  1  Chi,  invece,  guardando  spassionatarhente  a  tutto  ciò,  non 
scorge  che  il  preteso  unico  spirito  filosofico  in  eterno  sviluppo  unico 
ci  si  spezza  dinanzi  in  molteplici  spiriti  filosofici,  ciascuno  sempre 
identico  a  sé  e  irriducibilmente  opposto  agli  altri,  cioè  che  non  sono 
soggetti  né  ad  evoluzione  in  sé  medesimi  né  a  derivazione  e  a  conca- 
tenamento tra  di  essi  ? 

Il  processo  per  antitesi 

Che  anche  quando  sembra  che  taluno  di  questi  spiriti  o  punti 
di  vista  filosofici  sia  diventato  un  momento  dominante  e  possa  rap- 
presentare la  «  filosofia  dell'epoca  »  non  è  affatto  vero  che  ci  sia  un 
rapporto  di  filiazione  di  esso   con   la  filosofia  precedente,   che  esso 


1  «  Nel  pensiero  del  filosofo  degno  del  secoio  XX  dev'essere  pensato  il  pensiero 
di  tutti  i  filosofi  della  nostra  civiltà;  pensato  e  corretto»  (Gentile,  (7/7.  cit.,  p.  130). 
Ma  chi  è  giudice  del  degnai  chi  è  giudice  dei  tutti  (di  quali  cioè  nella  dizione  «tutti 
i  filosofi  »  debbano  essere  compresi  come  veramente  filosofi)  ?  chi  è  giudice  della  cor- 
rezione ?  Si  erige  arbitrariamente  a  giudice  di  tutto  ciò  la  cieca  albagia  del  cattedra- 
lieo  che  si  ritiene  sicuro  che  soli  i  filosofi  che  egli  ripensa  siano  tutti  i  filosofi  e  il 
modo  con  cui  egli  li  pensa  sia  quel  «  correggerli  »  che  fa  di  un  filosofo  il  filosofo 
degno. 


174  Giuseppe  Retisi 


costituisca  un  prolungamento  operato  sull'incorporazione  di  tutta 
questa  anteriore  filosofia.  Il  vero  è  che  «  le  dottrine  non  si  susseguano 
soltanto  per  trasmissioni  o  similitudini,  ma  si  succedono  altresì  per 
opposizioni  e  reazioni,  od  anche  come  delle  eresie  suscitate,  pur  con- 
servando ordinariamente  un  andamento  comune,  relativo  ai  tempi  ».i 
Il  vero  è  che  se  v'è  una  legge  che  domina  qui  essa  è  quella  stessa 
unica  legge  che,  secondo  il  Faguet,  impera  nel  campo  della  lettera- 
tura: «poiché  la  sola  legge  di  storia  letteraria  che  io  conosca  è  che 
dopo  qualche  tempo  ci  si  stanca  di  una  certa  mentalità  letteraria,  e  si 
desidera,  si  spera,  si  sollecita,  si  fa  nascere,  si  incoraggia,  si  sostiene, 
si  applaudisce  la  mentatità  contraria».''^  I  punti  di  vista  filosofici  son 
sempre  quelli,  ma  se  vi  è  un  moto  di  successione  tra  di  essi,  se  uno 
torna  a  succedere  all'altro,  e  a  cacciar  quest'altro  di  nido,  e  a  ridiventar 
dominante,  ciò  avviene  spesso  non  per  filiazione,  ma  per  opposizione 
ed  antitesi.  È  Hegel  che,  destando  la  nausea  per  la  metafisica  produce 
il  materialismo  di  Vogt,  Moleschott,  Buchner,  il  quale  è  pur  presente 
sulla  scena  filosofica,  non  si  può  cancellamelo  che  arbitrariamente, 
eppure  nulla  incorpora  e  tutto  respinge  della  filosofia  immediatamente 
precedente,  e  se  incorpora  qualcosa  del  passato  è  un  certo  filo  di 
pensiero  scelto  da  esso  saltando  via  gli  immediati  predecessori  e  da 
esso  eretto  ad  esclusione  di  tutto  il  resto  in  sana  filosofia.  È  Ardigò 
e  l'ardigoismo  che  producono  e  incrementano  per  reazione  Croce  e  il 
crocismo  (come  questo  darà  certo  fra  poco  origine  al  suo  opposto);  ma 
la  filosofia  del  Croce  non  incorpora  la  filosofia  precedente  di  Ardigò; 
non  la  incorpora,  perchè  per  quella  questa  non  è  filosofia;  tutta  la  filo- 
sofia antecedente  che  il  crocismo  incorpora  è  una  certa  piccola  parte  di 
questa  che  esso  di  sua  autorità  erige  in  vera  filosofia  ;  anche  qui  esso 
salta  via  l'immediato  predecessore  per  cominciare  «  l'incorporazione  > 
ad  un  momento  più  lontano  che  del  pensiero  immediatamente  prece- 
dente costituisce  l'antitesi  assoluta.  «  Così  la  storia  ci  getta  d'anti- 
tesi in  antitesi  dagli  Stoici  a  Plutarco,  dagli  Scolastici  a  Montaigne, 
da  questo  a  Descartes  ».3  E  molte  volte  un  sistema  sorge  null'altro 
che  per  questo,  che  un  pensatore  è, vivamente  eccitato  a  pensare  con- 
tradditoriamente dal  sistema  che  gli  sta  davanti,  che  domina  alla  sua 
epoca,  e  che  ripugna  profondamente  al  suo  temperamento.  «  Senza 
Crisippo  non  sarei  ciò  che  sono  »  dice  Cameade  presso  Laerzio.* 


i  Renouvier,  P/iìlos.  Analyt.  de  l'Hist.,  IV,  p.  682. 
«  Petite  Nist.  de  la  Litter,  frangaise  (Grès),  p.  281. 

3  JANET  et  Séailles,  Hist.  de  la  Philos.  (IX  cdiz.,  p.  51).  Le  antitesi  a  cui  qui 
si  allude  riguardano  la  questione  dell'istinto. 
*  IV.  9. 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  175 


Ora,  che  significa  tutto  ciò?  Che  significa  questo  procedere  per 
opposizioni,  per  antitesi,  per  contraddizioni,  questa  incorporazione  solo 
parziale  e  d'un  certo  ramo  della  filosofia  precedente  anche  da  parte  di 
chi  pretende  di  comprendere  tutto,  abbracciar  tutto  ed  essere  tutto, 
dagli  eleati  in  giù?  Che  significa  che  questa  incorporazione  sia  sem- 
pre necessariamente  parziale,  giacché  «  bisognerebbe,  affinchè  i  nuovi 
sistemi  assimilassero  veramente  tutti  gli  elementi  del  passato,  che 
assimilassero  il  determinismo  e  il  libero  arbitrio,  il  dio  creatore  e 
Teterno  Proteo  Forza-Materia,  la  ragione  giudice  universale  e  l'espe- 
rienza unica  regola,  l' imperativo  categorico  e  l'utile  solo  mobile  della 
condotta  »i?  Significa,  una  volta  di  più,  che  i  punti  di  vista  sono  sem- 
pre quelli,  che  sono  irriducibili,  che  non  si  lasciano  permeare  da  nes- 
suna pretesa  unità  superiore,  né  avviluppare  in  nessun  corso  evolu- 
tivo unitario.  E  lo  stesso  fatto  che  la  medesima  violenta  opposizione 
o  il  medesimo  ardente  attaccamento  che  proviamo  per  un  sistema  dei 
nostro  tempo,  per  un  sistema  che  vive  e  agisce  con  noi  —  per  esempio 
per  l'ardigoismo  o  il  crocismo  —  proprio  quell'istessa  opposizione  o 
attaccamento  e  della  medesima  natura  e  per  i  medesimi  motivi,  lo 
proviamo  per  tutte  le  filosofie  d'un  cert'ordine  apparso  lungo  il  corso 
storico  —  hegeliano,  spinozismo,  plotinismo,  ovvero  spencerismo,  baco- 
nismo,  epicureismo,  democritismo  —  dimostra  che,  nella  serie  rispet- 
tiva, ciascuna  di  esse  ci  dice  su  i  punti  che  ci  stanno  più  a  cuore  la 
stessa  cosa,  che  esse  rappresentano  tutte,  nella  propria  serie,  alcune 
delle  medesime  visuali  riaffacciatesi  lungo  il  tempo,  e  che  quelle  d'una 
serie  sono  inconglomerabili  .con  quelle  dell'altra.  L'istinto  con  cui 
conglobiamo  nella  medesima  ripugnanza  o  simpatia  filosofie  presenti 
con  altre  remote  e  fuori  della  vita  attuale  non  e'  inganna  :  e  —  mentre 
accenna  al  fatto  che  le  nostre  credenze  filosofiche  sono  dettate  dal 
modo  di  essere  fondamentale  del  nostro  temperamento  —  questa 
istintiva  identità  di  ripugnanza  e  identità  di  simpatia  è  rivelatrice 
dell'immutabile  identità  di  sostanza  dei  diversi  punti  di  vista  filoso- 
fici raccolti,  nelle  loro  varie  espressioni,  entro  lo  stesso  cerchio  o  di 
ripugnanza  o  di  simpatia  —  e  della  loro  reciproca  impermeabilità. 

11  concetto  di  classificazione 

«Filosofia  che  è  storia,  storia  che  é  filosofia».  A  questo  ormai 
ritornello  da  organetto  di  Barberia,  a  questo  falso  concetto  teutonico- 
assolutistico  della  filosofia  come  svolgimento,  è  ora  di  opporre  riso- 
lutamente il  concetto  vero,  cioè  quello  di  classificazione. 


Renouvier,  Esqaisse  d'une  classification,  II,  p.  149. 


176  Giuseppe  Rensi 


Già  il  Cousin,  in  una  fase  di  pensiero,  a  nostro  avviso  difficil- 
mente conciliabile  con  quella  suesposta,  adottava  il  criterio  di  clas- 
sificazione e  ne  proponeva  varie  forme.  Una  volta  sembra  incline  a 
classificare  tutti  i  sistemi  sotto  due  capi,  secondo  cioè  che  prendono^ 
la  ragione  o  l'esperienza  come  principio  delle  conoscenze  umane.^ 
Un'altra  volta  sembra  ammettere  cinque  tipi  di  questioni  sotto  cui 
classificare  tutte  le  scuole:  due  riferentesi  all'obbietto,  e  cioè  il  pro- 
blema dell'assoluto  e  quello  della  realtà  dell'esistenza  degli  oggetti 
particolari;  tre  riferentesi  al  soggetto:  l'origine  delle  conoscenze,  il 
loro  carattere  nell'intelligenza  sviluppata,  il  passaggio  dal  soggetto 
airoggetto.2  Finalmente  propone  una  terza  classificazione,  la  sua  più 
notoria,  quella  cioè,  assai  attendibile,  che  ordina  i  sistemi  filosofici 
d'ogni  tempo  in  quattro  classi,  sensualismo,  idealismo,  scetticismo  e 
misticismo,  e  che  egli  ha  brillantemente  svolta,  mostrandola  a  grandi 
tratti  applicabile  a  tutta  la  storia  della  filosofia,  daU"India  antica 
all'Europa  del  secolo  XVIH.^  —  Anche  lo  Schopenhauer,  che,  con 
Nietzsche,  è  il  meno  appartenente  al  tipo  tedesco  del  filosofo,  accenna 
ad  adottare  il  concetto  classificatorio,  col  dividere  tutti  i  sistemi  in 
due  ordini,  secondo  prendono  le  mosse  dall'oggetto  o  dal  soggetto,  e 
suddistinguendo  i  primi  secondo  che  l'oggetto  è  il  mondo  reale  (Talete 
e  gli  lonii,  Democrito,  Epicuro,  Bruno,  i  materialisti  francesi)  o  un 
concetto  astratto  (gli  Eleati  e  Spinoza)  o  il  tempo  (Pitagora  e  Y-King) 
o  l'atto  di  volontà  motivato  dalla  conoscenza  (gli  Scolastici).*  —  Del 
pari,  il  Royce  mette  a  fondamento  della  sua  opera  principale  la  clas- 
sificazione di  tutti  i  sistemi  in  quattro  specie,  realismo,  misticismo, 
razionalismo  critico,  volontarismo  assoluto.^  —  Ma  colui  che  ha  più 
sistematicamente  e  con  maggior  consapevolezza  sostenuto  ed  elabo- 
rato il  principio  della  classificazione  contro  quello  dello  sviluppo  è 
stato  il  Renouvier. 

Fin.  dai  primordi  del  pensiero  noi  vediamo  che  si  sono  prodotte 
nel  campo  della  filosofia  vedute  reciprocamente  contraddittorie:  l'em- 
pirismo e  il  razionalismo,  il  vitalismo  e  il  meccanismo,  il  finitismo  e 
l'ìnfinitismo,  l'individualismo  sensazionista  e  l'universalismo  astratto, 
l'evoluzionismo  della  materia  e  il  demiuigismo  dello  spirito,  e,  poco 
dopo,  l'opposizione  del  libero  arbitrio  e  della  necessità,  del  dovere  e 
della  felicità.   Queste  vedute,  non  ostante  che  le  variazioni  di  termi- 


1  De  Vfiist.  de  la  Philos.  in  Fragments  Philos.,  voi.  I. 

«  Es^ai  d'una  class ification  dea  questions  et  des  écoles  philosophiqties  in  Frag-' 
ments  Philos.,  voi.  II. 

3  Cours  de  Pliilosophie.  Hist.  de  la  Philos.  da  XVIII  siede.  Lezioni  IV-XII. 

<  //  Mondo,  ecc.,  §  7. 

6  //  Mondo  e  l'Individuo  (trad.  ital.,  parte  I,  voli.  I  e  II). 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  177 

nologia  e  la  diversità  di  rapporti  sotto  cui  o^;ni  problema  può  essere 
considerato,  permettessero  di  dar  espressioni  nuove  ad  opinioni  anti- 
che, sono  rimaste  immutabilmente  di  fronte  da  venticinque  secoli,  e 
sono  tuttavia  in  presenza  in  istato  di  rivalità  assolutamente  irriduci- 
bile ad  una  superiore  unificazione.  Se  noi  sceveriamo  così  un  certo 
numero  di  questioni  fondamentali,  quelle  relative  alle  eterne  interroga- 
zioni e  alle  eterne  più  vitali  esigenze  dello  spirito  umano,  vediamo  che 
le  risposte  ad  esse  offerteci  da  tutti  i  sistemi  venuti  alla  luce  lungo  i 
secoli  costituiscono  delle  coppie  contraddittorie  a  due  a  due,  tra  le 
quali  la  conciliazione  è  impossibile.  L'affermazione  o  la  negazione  di 
fronte  ad  esse  è  ciò  che  caratterizza  essenzialmente  i  sistemi.  Questi 
devono  pronunciarsi,  e  si  pronunciano  effettivamente,  con  un  sì  o 
con  un  no. 

Ognuna  di  queste  questioni  fondamentali  apre  dunque,  quasi  a 
dire,  sotto  di  se  due  colonne:  quella  del  sì  e  quella  del  no.  Ora  tutti 
i  sistemi,  da  Talete  a  Croce  ed  a  Bergson,  si  classificano  insieme,  questi 
nell'una,  quelli  nell'altra,  delle  due  colonne  del  sì  e  del  no  proprie  di 
ciascuna  questione.  O  in  altri  termini:  le  soluzioni  date,  lungo  il 
corso  dei  tempi,  da  tutti  i  sistemi,  delle  principali  questioni  metafisiche, 
costituiscono  binomi  antitetici;  e  tali  antitesi,  come  sostanza  o  coscienza, 
infinito  o  finito,  evoluzione  o  creazione,  determinismo  o  libertà,  evi- 
denza o  credenza,  dovere  o  felicità,  non  solo  permettono,  ma  costrin- 
gono, a  cumulare  insieme,  sotto  l'uno  o  l'altro  capo,  sistemi  in  qua- 
lunque epoca  apparsi  (Spencer,  per  esempio,  con  taluno  dei  preso- 
cratici, Hegel  con  gli  alessandrini)  mostrando  così  che  queste  risposte 
o  soluzioni  antitetiche  del  medesimo  problema,  e  che  sì  presentano 
così  per  tutti  i  problemi  essenziali,  sono  di  continuo  le  medesime, 
ritornano  incessantemente  ad  affacciarsi,  sono  sempre  possibili,  e  non 
v'è  per  esse,  che  costituiscono  la  sostanza  stessa  della  metafisica,  né 
sviluppo  né  incorporazione.^ 

Tale,  in  brevi  parole,  il  concetto  renouvieriano.  Ed  è  appunto  in 
presenza  della  netta  posizione  delle  perenni  alternative  ed  irriducibili 
antitesi,  ora  accennate,  che  si  scorge  quanto  sia  serio  ricantare,  come 
fa  Hegel  che  «  la  vera  differenza  non  è  sostanziale,  ma  una  differenza 
nei  differenti  stadi  dello  sviluppo;  e  se  la  differenza  implica  l'unila- 
teralità come  presso  gli  Stoici,  Epicuro  e  la  Scepsi,  è  pur  veramente 
in  primo  luogo  la  totalità  che  costituisce  la  verità  i^.'^  Sì  davvero:  tota- 
lità costituita  dalla  risposta  affermativa  e    negativa   data  dagli  uni   e 


1  Cfr.  Renouvisr,  Esquisse,  ecc.  cit.  e  Les  Oileinmes  de  la  Métaphyssique  pure 
(Alcani. 

«  0/J.  cit.,  voi.  14,  p.  502. 

12  —  Nuova  Rivista  Storica. 


i;^  Giuseppe  Rensi 


dacfli  altri  alla  medesima  questione,  totalità  del  «  sì  »  e  del  «no»  tra 
cui  ogni  problema  filosofico  importante  esige  categoricamente  che 
rispondendo  si  scelga,  totalità,  insomma,  di  proposizioni  che  si  esclu- 
dono a  vicenda.  E  quando  lo  stesso  Hegel  avverte  che  «  contro  l'as- 
soluta affermazione  dell* idealismo:  l'assoluto  è  l'Io,  si  afferma  con  pre- 
cisamente ugual  diritto  che  l'assoluto  è  l'Essere»;  quando  riconosce 
che  «l'uno  nell'immediata  certezza  di  sé  stesso  dice:  io  sono  per  me 
l'assòluto,  e  l'altro  del  pari  nella. certezza  di  sé  stQ^so:  questo  mi  è 
assolutamente  certo  che  le  cose  esistono  »;  quando  conviene  che  «poi- 
ché rio  è  assoluto,  non  può  altresì  il  Non-io  essere  assoluto  »,  ma 
«viceversa  si  può  altrettanto  giustamente  dire:  poiché  la  cosa  é  l'as- 
soluto, allora  non  è  assoluto  l'Io  »;i  —  quando  dice  tutto  questo,  può 
poi  bene  Hegel  aggiungere  che  qui  si  ha  a  che  fare  con  unmittelbaren 
Wissen  (quasi  che  quando  tale  sapere  è  mediato  e  ragionato  diven- 
tasse divèrso  e  non  rimanesse  precisamente  così):  in  realtà,  egli  viene 
a  porre  in  luce  Tirreducibilità  di  due  delle  opposte  posizioni  fonda- 
mentali stabilite  dal  Renouvter,  quelle  che  costui  indica  colle  parole 
«Coscienza-Cosa»,  e  il  fatto  che  ciascuna  delle  due  si  regge  sovra- 
namente sul  proprio  principio,  non  s'arrende  all'altra  e  che  dall'una 
o  dall'altra  soltanto  si  può  prendere  le  mosse,  l'una  o  l'altra  soltanto 
si  può  accogliere  per  vera. 

Mentre,  adunque,  il  canone  fondamentale  degli  assolutisti,  di  cui 
essi  hanno  bisogno  per  sorreggere  il  loro  concetto  di  identità  della 
filosofia  con  la  sua  storia  e  di  questa  come  perpetuo  svolgimento,  è 
che  non  sia  lecito  compiere  alcun  ravvicinamento  tra  filosofie  di  periodi 
storici  diversi  a  che  ognuno  di  tali  ravvicinamenti  sia  frutto  d' igno- 
ranza e  dilettantismo,^  sta  il  fatto  invece  che  siffatti  raccostamenti  o 
raprgruppamenti  o  classificazioni  sono  l' unica  Cosa  seria  e  feconda  che 
la  storia  della  filosofia  possa  compiere,  e  che  é  per  contro  la  continuità 
del  pensiero  filosofico  asserita  dagli  hegeliani  che  costituisce  una  men- 
zogna e  una  parvenza. 

Tale  parvenza  sorge  per  il  fatto  che  ogni  pensatore  naturalmente 
usufruisce  del  materiale  che  nell'ambiente  intellettuale  in  cui  viene  alla 
luce  trova  davanti  a  sé,  e  su  di  esso  fonda  la  sua  costruzione.  Sembra 
quindi  che  egli  incorpori  e  prosegua  una  filosofia  precedente.  Invece  si 
tratta  sempre  soltanto  di  uno  degli  immutabili  punti  di  vista,  di  una 
delle  immobili  intuizioni  filosofiche  che  tira  e  travolge  a  sé  un  certo 


1  L.  cit.,  voi.  14,  p.  506. 

«  Già  l'Erdinann  {Op.  cit.,  §  13)  biasimava  solennemente  gli  storici  della  scuola 
kantiana  e  specialmente  il  Tennemann  per  il  raffronto  «  dei  sistemi  anche  più  antichi 
con  dottrine  che  potevano  solo  essere  proposte  nel  diciottesimo  secolo  ». 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  179 


materiale  e  linguaggio  filosofico  esistente  e  si  esplica  e  manifesta  con 
questo,  come  potrebbe  fare  (e  fece  nel  passato)  con  qualsiasi  altro. 
Malebranche  e  Spinoza  non  costituiscono  uno  sviluppo  e  un  pro- 
lungamento del  cartesìanesinjo.  Solo  le  menti  fumose  degli  assolutisti 
possono  pensare  che  l'idea  filosofica,  impersonale,  da  sé,  per  forza 
propria,  per  opera  del  suo  dinamismo  interiore,  giunta  in  Cartesio 
abbia  sentito  la  necessità  d' un  determinato  suo  ulteriore  sviluppo  pel 
quale  s'è  servita  dei  cervelli  di  Malebranche  e  Spinoza  come  di  suoi 
stromenti.  Fichte,  Schelling,  Hegel  non  costituiscono  una  continuazione 
del  kantismo.  E  ci  vuole  un  bel  coraggio  per  ripetere  il  luogo  comune 
della  scuola  hegeliana  che  cioè  Kant  ripudiando  Fichte  fosse  inconscio 
della  vera  portata  del  suo  stesso  pensiero  e  che  questa  sia  stata  messa 
in  luce  soltanto  da  quei  suoi  successori.  La  verità  è  che  Fichte,  Schel- 
ling, Hegel  sono  per  molti  e  principali  rispetti  l'antitesi  di  Kant,  e  che 
questi  sapeva  benissimo  al  riguardo  quello  che  si  diceva.  La  verità  è 
che  né  nel  primo  caso  si  ha  uno  sviluppo  del  cartesianesimo,  né  nel 
secondo  del  kantismo.  La  verità  è,  invece,  che  in  entrambi  i  casi,  è 
l'eterno  momento  del  panteismo,  dell' infinitismo,  del  demiurgismo  della 
sostanza  (estesa  o  pensante),  della  sommersione  dell'  individualità  in  uno 
spinto  universale,  che  si  afferma  là  col  materiale  e  il  linguaggio  carte- 
siano, qui  col  materiale  e  il  linguaggio  kantiano,  come  poc'anzi,  tra 
gli  alessandrini,  s'era  affermata  col  materiale  e  il  linguaggio  platonico.^ 
Oli  scettici  odièrni,  come  il  Ferrari  nella  Filosofia  della  Rivoluzione, 
e  il  Bradley  (i  due  nomi  vanno  ravvicinati)  nei  suoi  lati  scettici  tanto 
dei  Principles  of  Logic  quanto  di  Appearance  and  Reality  rinnovano 
in  sostanza  le  tesi  essenziali  di  Sesto  Empirico,  riguardo  al  quale  del 
pari  lo  Zeller  rileva,  non  senza  aria  di  disprezzo,  che  egli  si  affatica 
molto  per  raggiungere  Idngst  bekannten  Ergebnisse:^  quasi  che  ciò 
appunto  non  fosse  una  prova  che  non  v'è  Entwickelung  !  Gli  antichi 
ionici  ponendo  come  origine  del  mondo  la  materia  allo  stato  liquido, 
la  materia  senza  qualificazioni  o  «  indistinto  »,  la  materia  allo  stato 
aeriforme,  in  ogni  caso  sospinta  nelle  sue  trasformazioni  da  una  forza 
ad  essa  inerente  e  che  la  anima  ab  intas,  hanno  stabilito  (ed  ogni 
pensatore  non  abbacinato  dalla  mania  del  sistema  lo  avverte  3)  propo- 


1  «Quel  nuovo  eleatico  che  fu  B.  Spinoza».  Bertini,  La  Filosof.  greca  di  So- 
crate, p.  119). 

*  Grundrìss,  p.  271..  E  io  stesso  in  Die  Philos.  der  Griechen,  III,  2,  p.  43:  «  die 
alten  skeptischen  Sàtze  ». 

3  Renouvier,  Philos.  Anal.  de  VHistoire,  voi.  I,  p.  429  e  seg.  —  Admason, 
The  Developnient  ofGreek  Philosophy  {p.  12  «  Anaximander's  cosmical  wiew  presents 
a  curious  if  distant  analogy  to  the  very  much  later  conception  called  technically  the 
Nebular  Theory  »).  Altre  analogie  rileva  Allievo,  //  Problema  Metafisico,  ecc.,  pp.  55, 61. 


I 


i8o  Giuseppe  Kensi 


sizioni  che  abbiamo  visto  rinnovare  quasi  sotto  i  nostri  occln*  coi  nomi 
di  «  forza  e  materia  »,  «  evoluzionismo  ^>,  «  trasformismo  >,  «  teorìa  della 
nebulosa  >.  Bergson  non  si  concatena  in  nessun  modo  (come  sì  è  ten- 
tato di  mostrare)  a  Kant,  né  gli  si  può  assegnare  come  posto  un 
aneilo  qualsiasi  in  una  pretesa  Entwlckclung  o  Ziisammenhang  della 
filosofia  postkantiana.  Egli  riproduce  invece  in  tutta  la  sua  pienezza  e 
sino  al  limite  estremo  l'intuizione  eraclitea.  Se  ne  vuole  la  sensazione 
quasi  tangibile  ?  «  Io  non  vedo  che  divenire.  Non  lasciatevi  ingannare  ! 
Sta  nel  vostro  breve  sguardo,  non  nell'essenza  delle  cose,  che  voi  cre- 
diate vedere  dovechessia  terra  ferma  nel  mare  del  divenire  e  del  trascor- 
rere. Voi  avete  bisogno  di  nomi  per  le  cose  come  se  esse  possedessero 
una  rigida  durata...  La  gente  crede  veramente  di  conoscere  qualcosa 
di  rigido,  terminato,  consistente...  Le  cose  stesse,  nella  cui  fissità  e 
permanenza  crede  il  ristretto  intelletto  degli  uomini  e  degli  animali, 
sono  soltanto  il  lampeggiare  e  lo  sfavillare  delle  spade  impugnate,  sono 
i  punti  luminosi  della  vittoria  nella  lotta  delle  qualità  contrastanti». 
—  «Ciò  che  il  senso  non  corretto  presenta  è  una  falsa  impressione 
di  permanenza  o  fissità  nelle  cose,  le  quali  in  realtà  hanno  cangiato 
la  loro  natura  nello  stesso  momento  in  cui  le  vediamo  e  le  tocchiamo. 
E  il  radicale  difetto  nel  modo  abituale  di  pensare  starebbe  in  ciò,  che 
riflettendo  questa  falsa  o  non  corretta  sensazione,  esso  attribuisce  ai 
fenomeni  dell'esperienza  una  durabilità  che  loro  realmente  non  appar- 
tiene. Traendo  da  queste  fluide  impressioni  un  mondo  di  oggetti  ferma- 
mente delineati,  esso  conduce  a  riguardare  come  una  cosa  rigida  e 
morta  ciò  che  è  in  realtà  pieno  di  animazione,  di  vigore,  di  fuoco  di 
vita  ».  In  questo  schizzo  che  il  Nietzsche  ^  e  il  Pater  2  danno  della  filo- 
sofia di  Eraclito,  è  il  pensiero  di  Eraclito  o  quello  del  Bergson  che 
vien  tratteggiato? 3 

Così,  sono  i  pochi  temi  fondamentati  che   n'appariscono  sempre. 
Ma  siccome  usufruiscano  sempre  d'un  materiale  nella  forma  nuova  e 


1  Die  Philosophie  ini  tragischen  Zeitaiter  der  GriecUen,  §  5  {Werke,  Taschcnan- 
sgabe,  voi.  I,  p.  433-8). 

i  Marius  the  Epicurean  (Londra,  1917,  voi.  I,  p.  129). 

3  La  filosofia  del  Bergson,  appunto  perchè  è  la  filosofia  del  flusso  e  non  dell'ir- 
rigidimento di  questo  nel  concetto,  non  può  a  rigore  esprimersi  in  parole,  che  que- 
ste non  sono  che  traduzione  verbale  di  concetti.  La  intui/.ione  bergsoniana  non  è  che 
ciò  che  con  la  frase  mistica  di  S.  Agostino  si  potrebbe  chiamare  ictus  cordis.  «  Celles-Ià 
seules  de  nos  idées  (egli  dice,  Les  Donnccs  immédiates,  etc,  XV  ed.,  p.  103)  qui 
nous  appartiennent  le  moins  sont  adéquatement  exprimables  par  de  mots  ».  Ora, 
è  interessante  notare  che  l'eracliteo  Cratilo  rigettava  appunto  l'uso  del  linguaggio 
adoperando  per  esprimersi  sblo  i  cenni,  come  meno  affermativi  (Aristot.,  Metaf. 
p.  1010,  7). 


Il  concetto  di  storia  della  filosofia  i8i 

di  posizioni  dei  problemi  diverse  non  nel  fondo  ma  nelle  linee  super- 
ficiali, ne  sorge  quella  illusoria  apparenza  di  sviluppo  perpetuo,  di  cui 
si  giovano,  come  di  un  giuoco  di  specchi  magici,  gli  assolutisti,  per 
dare  parvenza  di  corpo  al  fantasma  vuoto  del  loro  concetto  di  filo- 
sofia e  storia  della  filosofia.^ 

La  filosofia  come  lirica 

Vano  è  dunque  lo  sforzo  degli  assolutisti  per  girare  l'insupera- 
bile ostacolo  che  le  contraddizioni  dei  sistemi  oppongono  alla  loro 
tesi  temeraria  che  il  pensiero  filosofico  sia  costantemente  in  contatto 
e  in  fusione  con  la  verità  una  ed  assoluta;  sforzo  compiuto  col  tentar 
di  rappresentare  queste  contraddizioni  come  i  momenti  d'un  unico 
vero  in  isviluppo,  i  quali  nella  totalità  di  questo  troverebbero  la  loro 
conciliazione  e  la  loro  integrazione  vicendevole.  Invece,  i  punti  di  vista 
filosofici  opposti  restano  eternamente  gli  stessi,  restano  eternamente 
contraddittori,  si  rifiutano  eternamente  di  sopire  il  loro  conflitto  in 
una  fantastica  unità  superiore.  Nessuno  di  essi  si  può  mai,  mediante 
una  dimostrazione  logicamente  costringente,  ne  cacciar  fuori  dal  campo 
della  ragione,  né  imporre  esclusivamente  alla  ragione.  Essi  si  ripresen- 
tano sempre:  cioè  sono  sempre  tutti  razionalmente  possibili.  Tra  di 
essi,  per  quanto  riguarda  gli  argomenti  strettamente  razionali,  noi 
abbiamo  libera  la  scelta. 

Che  significa  ciò  ?  Quello  che  abbiamo  espresso  dicendo  che  alle 
proposizioni  filosofiche  non  sì  applica  la  categoria  «  verità-errore  ». 
Vale  a  dire  che  la  filosofia  non  è  scienza,  che  la  filosofia  non  è  la 
verità. 

Che  si  direbbe  sé  la  geometria  invece  di  essere  da  Euclide  in  poi 
sempre  quella  medesima  dottrina,  le  cui  modificazioni  consistono  sol- 
tanto nella  perfezione  di  qualche  particolare  o  in  una  qualche  esten- 
sione della  sua  area,  si  presentasse  con  andamento  diverso  e  con  con- 
clusioni opposte  in  ogni  suo  cultore?  Se  vi  fosse  non  una  sola  e 
identica  geometria  per  tutti  i  pensatori,  ma  se  ogni  pensatore  potesse 


i  «  Riguardo  alla  religione  naturale  non  è  facile  trovare  che  un  filosofo  d'oggidì 
sia  in  posizione  più  favorevole  di  Talete  e  Simonide  ;  egli  ha  preeisamente  dinanzi  a 
sé  le  stesse  prove  di  disegno  della  struttura  dell'universo  che  avevano  i  primi  greci. 
Il  ragionamento  con  cui  Socrate,  nell'arringa  di  Senofonte,  confutò  l'aleo  Aristodemo, 
è  esattamente  quello  della  Teologia  Naturale  di  Paley.  Irf*  quanto  all'altra  grande  que- 
stione su  ciò  che  avviene  dell'uomo  dopo  la  morte,  non  iscorgiamo  che  un  europeo 
finamente  educato  abbia  maggior  probabilità  d'un  indiano  di  essere  nel  vero...  Inoltre 
tutti  i  grandi  enigmi  che  confondono  il  teologo  naturale  sono  i  medesimi  in  tutti  i 
secoli...  Dunque  la  filosofia  naturale  non  è  una  scienza  progressiva  »  (Macaulay  nel 
saggio  /  Papi  nei  Secoli  XVI  e  XVll,  trad.  Rovighi). 


i82  Giuseppe  Retisi 


fare  una  sua  geometria  incompatibile  con  quella  d'ogni  altro,  o  se  vi 
fossero  otto  o  dieci  geometrie  differenti  dai  punto  di  partenza  al 
punto  d'arrivo,  che  i  pensatori  sì  palleggiassero,  altercando  continua- 
mente con  l'affermare  «  la  vera  geometria  è  questa  »  e  rispondere 
«  no,  la  vera  geometria  è  quest'altra  »,  lungo  il  corso  di  tutti  i  secoli  ? 
A  chi  verrebbe  in  mente  di  attribuire  in  questo  caso  alla  geometria 
il  carattere  di  scienza  e  di  verità?  Ma  ciò  che  si  scorge  chiaro  in  tale 
ipotetica  circostanza  per  la  geometria,  non  si  vuol  scorgere  per  la  filo- 
sofia. E  mentre  questa  si  trova  esattamente  nel  caso  era  supposto  per 
la  geometria,  si  pretende,  mediante  enormi  stiracchiature  di  pensiero 
e  grosse  sofistificazioni,  di  conservarle  tuttavia  il  carattere  di  scienza  e 
di  verità. 

La  filosofia  non  è  la  verità.  Né  ciò  la  diminuisce.  Nemmeno  l'ai  te 
è  la  verità,  in  questo  senso  che  essa  ci  presenti  e  si  proponga  di  pre- 
sentarci nozioni  obbieUive  universalmente  vere,  valeypli  per  tutti,  sul- 
l'essenza del  mondo  o  dell'uomo.  L'arte  non  ci  presenta  se  non  la 
visuale  personale  che  del  mondo  e  dell'uomo  ha  l'artista,  quella  visuale 
che  il  temperamento  e  la  passione  gli  forniscono,  e  l'unica  sua  verità 
consiste  nella  sincerità  con  cui  tale  visuale  è  colta  e  presentata.  Ora, 
questa  appunto  è  la  natura  della  filosofia. 

1  professori  di  filosofia  in  senso  scopenhauriano  considerano  bensì 
questo  modo  di  vedere  come  ciò  che  vi  può  essere  di  più  profano, 
dilettantesco  e  «  letterario  ».  Ma  a  provare  come  esso  invece  abbia  pieno 
diritto  di  cittadinanza  proprio  nel  campo  filosofico,  basterà  addurre 
l'autorità  d'un  così  autentico  filosofo  come  il  Boutroux,  il  quale  nella 
prefazione  alla  traduzione  francese  dello  Zeller  dimostra  che  il  concetto 
di  filosofia  non  si  sostiene  se  non  ricondotto  a  quello  di  arte  (e,  insieme, 
pel  Boutroux,  di  religione)  e  precisamente  a  quello  di  creazione  arti- 
stica personale.  Basterà  addurre  l'autorità  d' uno  dei  più  sobri  e  pene- 
tranti nostri  pensatori,  il  Cantoni,  il  quale  dal  suo  magistrale  studio 
su  Kant  (forse  il  più  ricco  di  senno  che  sia  stato  scritto)  approda  alla 
conclusione  che  la  sintesi  filosofica  ha  «del  soggettivo  e  dell'indivi- 
duale, perchè  il  filosofo  nel  formarla  non  compie  un  lavoro  puramente 
logico,  ma  un  Ir/oro  nel  quale  hanno  anche  larghissima  parte  le  sue 
stesse  condizioni  subbiettive  »  ;  che  «  a  conseguire  tale  veduta  sintetica 
e  interpretativa  si  richiede  un  volo  della  mente,  un'intuizione^  un'ope- 
razione che  ha  qualche  cosa  di  poetico  e  di  geniale  »  ;  che  «  come  nella 
poesia,  l'uomo,  fondandosi  pur  sempre  sulle  percezioni  primitive  del 
senso  esterno  ed  interno,  colorisce  e  rappresenta  sensibilmente  il  mondo, 
mosso  da  un  estro  particolare  che  dicesi  appunto  poetico,  così  nella 
metafisica  egli  deve  fondarsi  bensì  sui  principi  razionali  e  sui  dati  delie 
scienze,  ma  da  questi  deve  salire,  con  un  estro  che  chiamerei  appunto 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  1S3 


metafisico,  ad  una  spiegazione  sintetica  del  mondo  ».  Quindi  pel  Can- 
toni, «la  metafisica  potrebbe  chiamarsi  una  poesia  razionale;  e  varia 
naturalmente,  come  la  vera  poesia,  secondo  le  tendenze  particolari 
degli  individui,  pur  essendo  identico  per  tutti  il  fondamento  da  cui  le 
fantasie  poetiche  o  le  spiegazioni  razionali  sono  o  debbono  essere 
tratte».  E  quindi  la  ragione  per  cui  la  metafisica  non  è  «  concorde  e 
uniforme  come  è  la  matematica  »  è  la  stessa  per  cui  ciò  non  si  può 
chiedere  «  alla  poesia  e  all'arte  in  generale  »  :  perchè  cioè  se  «  si  trova 
giusto  che  ogni  poeta  come  detta  dentro  vada  significando  »  così  si  deve 
permettere  «  al  filosofo,  quando  abbia  genio  ed  ali  poderose,  di  rap- 
presentarsi il  mondo  come  vuole  il  suo  modo  di  pensare  e  di  sentire  ».i 

La  metafisica  è  dunque  lirica.  Come  la  lirica  esprime  non  una 
pretesa  verità  obbiettiva,  ma  un  certo  modo  personale  dì  sentire  la 
vita,  di  provare  la  passione,  di  scorgere  il  mondo;  come  le  note  fon- 
damentali che  in  essa  echeggiano  non  subiscono  né  evoluzione  né 
incorporazione,  ma  sono  rimaste  sempre  sostanzialmente  le  stesse 
attraverso  il  corso  dei  tempi  e  riappariscono  di  continuo  insonmier- 
gibili  l'una  accanto  all'altra;  così  la  metafisica  adempie,  con  diverso 
linguaggio  e  con  rispondenza  a  una  diversa  e  più  complessa  natura 
intellettuale,  la  medesima  funzione,  e  i  sistemi  metafisici  esprimono  le 
varie  visioni,  i  vari  punti  di  vista  inconciliabili  e  irriducibili  ad  unità, 
con  cui  si  presenta  all'umanità  nel  suo  complesso,  e  ai  diversi  uomini 
secondo  i  loro  temperamenti  intellettuali,  anche  ad  ogni  singolo  uomo 
in  diversi  momenti  della  sua  esistenza  —  ed  eziandio  nello  stesso 
momento,  se  sappia  ripercorrere  con  accurata  imparzialità  gli  argo- 
menti opposti  —  l'essere  e  il  processo  del  mondo  e  della  vita. 

Essi,  per  quanto  contraddittori  e  dìbattentisi  in  un  reciproco  con- 
flitto non  risolubile  in  alcuna  unificazione,  sono  tutti  veri,  in  ciò  che 
ciascuno  è  la  verità  per  colui  che  lo  fa  suo,  per  quegli  cui  lo  rende 
vero  l'irremovibile  credenza  profonda,  per  chi  lo  ha  foggialo  o  vi  ha 


i  C.  Cantoni,  Emanuele  Kant  (Milano,  1884,  voi.  Ili,  pp.  422-4).  Anche  nel  suo 
Corso  Elementare  di  filosofia  (Milano,  1884,  voi.  I,  p.  7)  il  Cantoni  esprime  il  medesimo 
concetto  e  cioè  che  nella  formazione  dei  sistemi  filosofici  concorrono  «  1*  immaginazione, 
il  sentimento  e  certe  tendenze  soggettive  della  mente  e  dell'animo,  variabili  secondo 
le  età,  i  popoli  e  gli  individui  »,  per  cui  se  i  sistemi  variano  è  perchè  i  concetti  meta- 
fisici che  li  costituiscono  hanno  «  sempre  un  carattere  individuale  e  storico,  come 
l'hanno  i  prodotti  dell'immaginazione  e  del  sentimento».  (Ciò  però  non  bene  si  coor- 
dina con  la  tesi  evolutiva  cui  il  Cantoni  sembra  aderire  nella  prefazione  al  III  volume 
del  Corso  Elementare^  cioè  alla  sua  Storia  compendiata  della  filosofia).  Queste  due 
autorità  del  Bontroux  e  del  Cantoni  potrebbero  bastare  a  far  ragione  dell'atteggia- 
mento che  il  Croce  nella  sua  Logica  prende  verso  l'«  estetismo  »  filosofico:  atteggia- 
mento, al  solito,  d'un  pedagogo  che  con  la  ferula  scolastica  lo  fa  definitivamente 
stare  a  posto  sul  banco  dell'asino. 


i84  Giuseppe  Rensi 


ardentemente  aderito  con  la  passionale  e  imperiosa  necessità  che  prova 
il  suo  spìrito  di  vedere  le  cose  in  un  certo  modo.  Ma  per  il  pensatore 
che  lì  considera  tutti  nel  loro  insieme,  appunto  a  cagione  di  questa 
verità  che  ciascuno  presenta  a  chi  lo  ha  fatto  veicolo  della  propria 
visuale  del  mondo  e  a  cagione  insieme  della  loro  irriducibile  oppo- 
sizione, nessuno  di  essi  (e  tanto  meno  il  loro  logicamente  ineffettua- 
bile insieme  organico)  è  vero  nel  senso  che  rispecchi  una  verità  ob- 
biettiva, impersonale,  universale,  uguale  per  tutti  e  che  debba  e  possa 
imporsi  a  tutti.  Essi,  adunque,  non  possono  dirsi  né  veri  né  falsi,  per- 
chè qui  la  categoria  «  vero-falso  »  non  trova  presa,  perché  qui  si  tratta 
del  modo  con  cui  il  prisma  del  nostro  spirito  costruisce  e  colora  in 
noi  rerum  nataram,  perchè  si  tratta  del  riflesso  che  ripercuote  in  noi 
una  realtà  il  cui  obbiettivo  in  sé  o  non  esiste  od  è  inafferrabile.^ 

Non  v*è  piti  grande  bizzarria  (sebbene  la  sua  stranezza  sia  atte- 
nuata dalla  frequenza  ton  cui  la  vediamo  ripetersi)  di  quella  del  filosofo 
il  quale  esplicitamente  o  implitamente  afferma  la  pretensione  che  il  suo 
sistema  sia  la  verità.  Basta  riflettere  alla  semplicissima  circostanza  che 
con  ciò  quel  pensatore  nega  agli  altri  il  diritto  e  la  possibilità  di  pensare, 
perchè  se  il  suo  sistema  fosse  la  verità,  non  ci  sarebbe  più  che  da 
ripeterlo  e  mandarlo  a  memoria,  o  tutt'al  più  da  darne  un^esposizione 
migliore.  Eppure  il  filosofo,  nelPatto  che  pretende  presentare  il  pro- 
prio sistema  come  la  verità,  sa  perfettamente  che,  non  ostante  ogni 
voga  che  tale  suo  sistema  possa  conquistare,  esso  sarà  sempre  soltanto 
verità  per  una  piccola  parte  degli  uomini,  che  altri  opporranno  altri 
sistemi  con  la  stessa  pretesa  che  questi  siano  la  verità,  e  che  né  i  suoi 
argomenti  potranno  porre  quest'altri  sistemi  fuori  dal  campo  della  pos- 
sibile ragionevolezza,  né  gli  argomenti  degli  altri  il  suo.  Così  avviene 
appunto,  ad  esempio,  della  maniera  ovidiana  e  di  quella  petrarchesca 
di  sentire  e  liricizzare  l'amore:  esse  sono  incompatibili,  si  negano  a 
vicenda,  son  inassimilabili,  nessuna  si^^ascia  assorbire  con  l'altra  in  una 
unicità  dMspirazione  lirica  e  nessuna  può  espungere  l'altra  fuori  del 
campo  deirarte,  della  verità,  della  vita  —  sebbene  anche  qui  (e  la  ma- 
nifesta linvalidità  di  questa  pretesa  in  un  campo  illumina  la  medesima 
invalidità  che  esiste  nell'altro)  ciascuna  affermi  di  essere  la  sola  vera 
e  guardi,  con  irrisione  e  disprezzo,  all'altra  come  ad  alcunché  di  falso. 
Per  chi  non  è  cieco,  per  colui  nel  quale  la  più  pedantesca  aridità  sco- 


>  «  Tutte  le  teorie,  qualunque  sia  la  leale  coscienza  che  faticosamente  le  elabora, 
sono  e  dovono  essere,  per  le  condizioni  medesime  che  sono  in  esse,  incomplete,  pro- 
blematiche ed  anche  false.  Sappi  dunque  ciò  che  questo  universo  è  e  ciò  che  professa 
di  essere  :  un  infinito.  Non  tentar  di  farne  il  pasto  della  tua  digestione  logica  » 
(Carlyle,  RivoL  frane.,  trad.  frane,  voi.  I,  p.  71). 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  185 


lastica  non  abbia  ucciso  la  possibilità  d'ogni  agile  accorgimento  e  vi- 
tale interpretazione  dei  fatti,  ciò  vuol  dire  che  i  sistemi  filosofici  sono 
ripercussioni  personali  interiori  come  le  creazioni  artistiche,  che  sono 
in  fondo  «  impressioni  »  come  quelle  che  producono  e  costituiscono 
la  lirica,  per  quanto  elaborate  su  scala  e  con  processi  diversi.  Né  è 
senza  significato  il  fatto  che  i  primi  metafisici  siano  stati  poeti-filosofi 
e  che  anche  oggi  riguardo  ad  una  certa  lirica,  come  quella  del  Leo- 
pardi e  del  Browning,  sia  manifestamente  del  tutto  impossibile,  nonf 
ostante  ogni  sforzo  e  sottigliezza,  di  stabilire  dei  consistenti  e  precisi 
caratteri  che  la  differenzino  dalla  filosofia. 

Risulta  quindi,  innegabile  che  «  un  sistema  di  metafisica,  qualun- 
que sia  la  pretesa  al  puro  pensiero  e  all'assoluta  razionalità  da  cui 
prende  le  mosse,  è  sempre  alla  fine  la  visione  personale  d'un  uomo 
circa  l'universo,  e  che  l'anelito  metafisico,  spesso  così  forte  nei  gio- 
vani, non  è  altro  che  il  desideriodi  raccontare  l'universo  come  taluno 
lo  pensa;  racconto  che  può  meritare  d'esser  narrato,  se  è  narrato 
bene  ».i  Risulta,  cioè  che  la  metafisica  è  della  medesima  natura  della 
lirica,  ed  anche  in  ciò  che  nasce,  al  pari  di  questa,  dal  potente  e  in- 
vincibile bisogno  di  dar  corpo  alla  propria  intuizione.  E  infatti,  se  il  filo- 
sofo esamina  sinceramente  sé  stesso  scorge  tosto  che  non  è  tanto 
perchè  mosso  dalla  convinzione  di  esprimere  una  verità  obbiettiva, 
di  dominio  comune,  quasi  a  dire  pubblica,  che  egli  scrive  (perchè,  al- 
lora, scriverebbero  gli  scettici  i  quali  a  rigore  non  hanno  da  dire  al- 
tro che  a  loro  appare  non  esserci  verità?);  ma  unicamente  per  il  gusto 
di  formulare  per  sé  e  manifestare  agli  altri  il  suo  pensiero,  per  espri- 
mere la  propria  impressione,  il  che  è  appunto  il  movente  fondamen- 
tale della  produzione  artistica:  e  di  qui  anche  deriva  che  per  ogni 
filosofo  il  proprio  sistema  è  un'intuizione,  è  evidente  per  sé  stesso, 
tanto  che,  in  fondo,  oghi  filosofo,  più  che  dimostrarlo,  lo  espone.^  Né 
v'è  a  temere  (come  teme  il  Renouvier^)  che  con  ciò  la  filosofia  fini- 
sca per  essere  un  semplice  dilettantismo.  Giacché  la  lirica,  cui  la  filo- 
sofia viene  assimilata,  non  é  dilettantismo.  È  cosa  seria   e  grave;   e. 


1  F.  T.  S.  Schiller,  Riddles  of  the  Sphinx  (Londra,  1910.  Pref.,  p.  VII). 

2  «  L'Ontologia  (mi  diceva  il  Rosmini)  darà  compimento  al  Sistema.  Mi  pare 
impossibile,  che  chi  la  intenda  e  non  voglia  cavillare,  trovi  più  nessuna  difficoltà  ad 
ammetterlo  per  intero  ».  {Aristotile  esposto  ed  esaminato,  Avvertenza).  Questo  è  pre- 
cisamente ciò  che,  quando  non  rifletta  addentro,  pare  ad  ogni  filosofo.  Se  ci  pensa, 
il  filosofo  sa  bene  che  non  esprime  che  una  verità  sua  ;  ma  se  non  s'arresta  a  consi- 
derare la  cosa  (a  considerare,  per  esempio,  che  a  tutti  pare  così)  sdrucciola  facilmente 
a  credere  che  la  verità  sua  che  egli  scorge,  mediante  la  sua  intuizione,  evidente,  debba 
essere  verità,  per  tutti,  cioè  anche  per  intuizioni  diverse. 

3  Esquisse,  ecc.,  II,  142. 


i 


i86  Giuseppe  Rensi 


come  quella  con  cui  diamo  veste  e  voce  ai  moti  più  vitali  e  profondi 
dei  nostro  spirito,  ha  per  noi  la  stesra  importanza  di  questi,  vaio  a 
dire  la  stessa  importanza  della  nostra  vita,  poiché  è  in  fondo  questi 
stessi  nostri  più  vitali  moti  ed  impulsi  che  si  prolungano,  si  infervorano, 
assumono  un'esistenza  più  tenace,  calda,  imperiosa,  dominante,  e  quindi 
gridano  sé  stessi  al  mondo.  Essa  è  materiata  delle  nostre  tragedie  e 
delle  nostre  esultanze,  delle  nostre  lagrime  e  delle  nostre  ebbrezze,  di 
tutto  ciò  che  costituisce  per  eccellenza  il  nostro  io\  è  tagliata  ndla 
stessa  stoffa  della  nostra  anima  e  la  sua  tinta  è  quella  che  le  dà  il 
nostro  stesso  sangue.  Come  potrà  ritenersi  dilettatitismo  la  filosofia 
se  si  dice  che  è  questa  medesima  cosa  e  adempie  a  questa  medesima 
funzione?  Come  potrà  perdere  d'interesse  la  filosofia  se  si  dice  che 
essa  non  è  la  verità,  né  come  un  sistema  né  come  l'insieme  storico  dei 
sistemi,  che  la  sua  attrattiva  sta  appunto  non  nel  dare  delle  conclusioni, 
ma  nel  presentarci  dei  problemi,  che  se  questi  divenissero  soluzioni 
la  cosa  sarebbe  finita,  l'interesse  terminato  —  precisamente  come  l'iu- 
teresse  dell'arte  sta  nel  darci,  non  soluzioni  di  problemi,  ma  esposi- 
zioni di  situazioni  ?i 

La  filosofia  e  Fistinto 

Ma  se  la  metafisica  è  lirica,  se  i  sistemi  filosofici  sono  la  riper- 
cussione che  le  cose  danno  negli  animi  nostri,  l'espressione  dell'im- 
pressione che  ci  fanno  —  esattamente  come  l'arte,  e  solo  con  forme 
speciali  di  elaborazione  concettuale,  le  quali  non  la  differenziano  per 
natura  della  lirica^  più  che  la  forma  della  canzone  differenzi  questa 
dal  sonetto,  o  quella  della  novella  separi  questa  dal  romanzo,  o,^anche, 
più  che  la  forma  del  romanzo  faccia  di  questo  un  prodotto  di  natura 
così  diversa  dalla  lirica  come  è  rispetto  a  questa  un  trattato  di  ma- 
tematica —  allora,  ne  consegue  che  il  più  massiccio  degli  errori  hege- 
liani è  la  proposizione  che  tanto  più  la  storia  della  filosofia  sia  vera 
storia  (per  il  che  Hegel  intende  storia  del  movimento  del  pensiero  puro) 
quanta  minor  importanza  attribuisce  agli  individui  particolari.^  Preci- 


»  «L'Essere,  il  Pensiero,  la  Verità,  il  Bene,  questi  sono  i  problemi  religiosi,  e 
di  questi  è  da  vedere  se  la  filosofia  sia  in  grado  di  risolverli  :  solo  quando  li  abbia 
risoluti,  si  potrà  decidere  se  per  la  conoscenza  irrazionale  sia  finita  —  o  se  non  finirà 
insieme  anche  la  filosofia.  Quando  infatti  sapremo,  di  che  potremo  noi  filosofare?» 
(Fraccaroli,  V Edacazione  Nazionale^  p.  93). 

«  «  Die  Hervorbringungen  um  so  vortrefflicher  sind,  je  weniger  auf  das  besondere 
Individuum  die  Zurechnung  und  das  Verdienst  fàllt,  je  mehr  sie  dagegen  deni  freier 
Denken,  dem  allegemeinen  Charakter  des  Menschen  als  Menschen  angehòren,  je  mehr 
dies  eingeiithumlichkeitslose  Denken  selbst  das  producirende  Subject  ist  »  {Op.  clt., 
ìVerke,  voi.  13,  p.  12). 


//  concetto  di  storia  della  filosofia  187 


samehte  il  contrario  è  vero.  «  AI  presente  (osservava  già  giustissima- 
mente il  Credaro  ^)  non  è  chi  possa  scientificamente  sostenere  l'opi- 
nione dell'Hegel  che  un  sistema  filosofico  scenda  dai  precedenti  uni- 
camente per  una  necessità  logica,  e  che  quindi  la  storia  della  filosofia 
si  possa  e  debba  costruire  con  un  procedimento  speculativo  e  dialet- 
tico. Ogni  sistema  di  scienza  speculativa  ha,  nelle  disposizioni  e  qualità 
intellettuali  e  morali  dell'uomo  che  l'ha  concepito,  un  fattore  individuale 
assai  forte,  in  generale  non  bastevolmente  apprezzato.  Se  questo  non 
fosse,  come  si  potrebbero  spiegare  le  tanti  differenti  direzioni  nel  campo 
della  speculazione  che  si  hanno  e  si  ebbero  fra  pensatori  nati  e  vissuti  in 
condizioni  esterne  fra  loro  non  molto  disuguali?  Tutti  hanno  studiato 
le  opere  principali  dei  più  grandi  filosofi;  ma  quale  diverso  frutto 
ne  hanno  tratto?  A  quanta  varietà  e  differenza  di  concepimenti  non 
furono  essi  condotti?  ».  Ciò,  insomma,  che,  al  contrario  di  quanto 
vuole  Hegel,  ha  mag^i^iore  importanza  per  la  storia  della  filosofia  è  la 
personalità,  appunto  perchè  il  sistema  metafisico,  essendo  lirica,  non  può 
essere,  come  questa,  che  l'espressione  d'un  temperamento  personale. ^ 
Czolbe  pensava  che  «  il  materialismo  e  il  sistema  contrario  na- 
scono entrambi  non  dalla  scienza  e  dall'intelligenza,  ma  dalla  fede  e 
dal  temperainenfo  morale  »  e  che  «  una  certa  composizione  chimica 
e  fisica  della  materia  cerebrale  potrebbe  èssere  appropriata  al  bisogno 
religioso,  un'altra  al  bisogno  ateo».'»  A  parte  la  forma  paradossalmente 
materialistica,  il  concetto  è  vero.  Se  i  punti  di  vista  filosofici  fonda- 
mentali sono  sempre  gli  stessi,  ciò  che  spiega  il  ripresentarsi  di  que- 
sto o  di  quello,  la  ricostruzione  che  questo  o  quel  filosofo  nel  suo 
sistema  presenta  dell'uno  o  dell'altro,  l'adesione  infine  che  all'uno  e 
all'altro  dà  ognuno  di  noi,  è  unicamente  il  nostro  temperamento,  la 
nostra  natura  profonda  con  le  sue  visuali  irriducìbili  e  i  suoi  bisogni 
che  non  nascono  da  ragioni  ma  che  creano  essi  le  proprie  ragioni,  è 
insomma  il  «  fondamento  che  natura  pone  ».  La  visuale  e  il  tempe- 
ramento ottimistico  crea  e  accetta  sistemi  che  travolgono  a  buon  fine 

«  Lo  Scetticismo  degli  Accademici  (Milatio,  1893,  voi.  I,  p.  96). 

«  Anche  in  qualcuno  dei  nostri  più  recenti  e  intelligenti  storici  della  filosofìa 
questo  concetto  comincia  a  riprendere  piede  presso  di  noi.  «  Sotto  un  sistema  filoso- 
fico vi  è  sempre  un  temperamento»  (scrive  il  Bignone),  e  «  nel  passato  noi  cerchiamo 
un'anima  e  una  coscienza,  con  i  suoi  tratti  personali,  con  le  sue  attitudini,  a  sentire, 
a  giudicare  la  vita  in  gioia  e  in  dolore  ;  cerchiamo  insomma  un  temperamento ^  un  tipo 
umano  da  aggiungere  alle  nostre  esperienze  spirituali  »  {Empedocle,  Torino,  1916,  pp.  23 
e  28).  Anche  il  Bodrero  nella  prefazione  al  suo  Eraclito  (Torino,  1910)  ci  sembra  af- 
fermare questo  concetto  della  filosofia  come  «  emanazione  personale  »,  come  «  creazione 
dell'uomo  »  non  sottoposta'  alla  coazione  intellettuale  che  deriva  dal  ritenere  «  che  la 
verità  è   identificata  con   la  realtà  ». 

s  Citato  da  Lance,  op.  cit.,  ed.  cit.,  II,  136. 


i88  Giuseppe  Rensi 


i  fatti  più  tristi  e  fanno  del  mondo  una  teofonìa,  con  una  tenacia  che 
urta  profondamente  e  sembra  insipienza  e  menzogna  al  temperamento 
e  alla  visuale  pessimistica  che  invece  costruisce  o  accetta  sistemi  in 
cui  ogni  evento  più  lieto  è  interpretato  sotto  una  luce  disperante.  Co- 
lui nel  quale  è  imperioso  il  bisogno  di  credere  in  un  ordine  del  mondo, 
creerà  o  farà  suoi  sistemi  teistici,  mentre  trionferà  la  concezione  atea 
nel  temperamento  in  cui  predomina  una  visione  della  vita  più  arida 
e  sconfortata,  colpita'  e  signoreggiata  sopratutto  dagli  clementi  del- 
r«  assurdo  »  e  del  «  caso  ».  Uocchio  di  costui  vede  e  dà  rilievo  sol- 
tanto a  ciò  che  v'è  di  stridente  e  mal  connesso  e  ne  ricava  che  il  cosid- 
detto ordine  del  mondo  è  un  grossolano  press*a  poco,  un  adattamento 
eretto  da  noi  come  meglio  si  poteva  su  di  un  fondo  di  cieca  casua- 
lità. All'occhio  di  colui  le  sconnessioni  appariscono  saltuarie  e  acciden- 
tali, sfumate  nella  lontananza  e  nello  sfondo  del  quadro,  ed  egli  non 
scorge  che  le  regolarità  che  persistono  nella  solida  impalcatura  essen- 
ziale delle  cose.  È  sempre  la  struttura  deirocchio  che  fa  vedere  posi  o 
così,  «  o  gli  atomi  o  la  provvidenza  »,  secondo  il  dilemma  che  si  pre- 
sentava ad  ogni  momento  allo  spirito  di  Marco  Aurelio;^  che  fa  quindi 
costruire  od  accettare  Tuno  o  Taltro  dei  motivi  fondamentali  della  spe- 
culazione. Se  sarà  occhio  virgiliano  vedrà 

Esse  apibus  partem  divinae  mentis  ;  * 

ma  se  sarà  occhio  lucreziano  scorgerà 

Nequaquam  nobis  divinitus  esse  paratam 
Naturam  rerum:  tanta  stat  praedita  culpa.3 

E  questi  appunto  —  poiché  rispetto  alle  quattro  concezioni  ora  ac- 
cennate, ognuno  è  costretto  a  scorgere  ciò  che  si  rilutta  a  scorgere  rìlpetto 
ad  altre,  vale  a  dire  che  né  l'ottimismo  né  il  pessimismo,  né  il  deismo 
né  l'ateìsmo,  si  possono  conciliare  in  una  sintesi  unica,  ovvero  imporre 
o  ridurre  al  silenzio  per  ragioni,  come  una  verità  o  un  errore  d'astro- 
nomia o  di  fisica  (da  quanto  tempo  ciò  sarebbe  avvenuto,  se  fosse 
possibile,  nel  dibattito  millenario!)  e  che  qtiindi  se  essi  ripullulano 
sempre  di  nuovo  è  perchè  sgorgano' non  dalla  «  scienza  »,  non  dalla 
«  verità  »,  non  dal  «  pensiero  puro  »,  ma  da  forme  irriducibili  di  tem- 
peramento *  —  questi  appunto,  diciamo,  sono  gli  esempi  più  ovvi  per 


I  IV,  3;  VI,  10;  X,  6. 

«  Geog.,  IV,  226. 

3  De  R.  N.  V,  198. 

*  Si  rifletta  alla  giusta  osservazione  del  Boutroux  (nella  pref.  alla  traduz.  francese 
dello  Zeller)  :  «  Chi  oserebbe  preargomentare  (préjuger)  le  opinioni  filosofiche  d'un 
uomo  dalle  sue  conoscenze  scientifiche  ?  » 


//  concetto  di  storia   della  filosofia  189 


dimostrare  che  i  sistemi  metafisici  e  il  loro  incrociarsi  ed  alternarsi 
sono  dovnti  al  modo  fondamentale  di  vedere  e  interpretare  le  cose,  il 
quale  non  si  forma  per  ragioni  né  per  ragioni  si  riduce,  ma,  irragio- 
nato in  se  e  nel  suo  profondo,  fa  germinare  le  sue  ragioni;  sono  do- 
vute all'indole  in  se  immotivata  che  motiva  e  determina  il  senso  di 
importanza  maggiore  che  diamo  a  questo  o  a  quell'elemento  della 
realtà;  sono  dovuti,  per  usare  la  nota  espressione  di  Nietzsche,  al- 
r«  ordine  in  cui  sono  collocate  le  intime  tendenze»  del  nostro  essere;^ 
o,  in  altre  parole,  alle  tendenze  istintive  della  nostra  natura. 

All'istinto.  Non  può  più  apparire  anacronismo,  stonatura  o  igno- 
ranza dell'ultimo  figurino,  il  riaffermare  ciò,  se  il  più  sottile  metafisico 
dei  nostri  giorni  poco  tempo  fa  confessava  d'essere  venuto  nel  segreto 
dei  suoi  appunti  personali  alla  conclusione  che  «  la  metafisica  è  la 
scoperta  di  cattive  ragioni  a  sostegno  di  ciò  che  crediamo  per  istinto, 
e  lo  scoprire  quelle  ragioni  è  esso  stesso  un  istinto  ».2 

Giuseppe  Rensi. 


1  Al  di  là   del  Bene  e  del  Male.  —  Vedine  il  commento  in  De   Oaultier,  De 
Kant  à  Nietzsche,  p.  251  e  scg.  e  in  Riehl,  Nietzsche  (it.,  p,  15  e  seg.)- 
«  F.  H.  Bradley,  Ap/jcarance  and  Reality  (Pref.,  p.  XIV). 


^.C^ 


HRZIQHaySMQ  E  STOHiCISMO 

(Rapporti  di  pensiero  fra  Italia  e  Francia  avanti  e  dopo  la  Rivoluzione  francese) 

{Continuazione;  cfr.  A.  /,  fase.  I,  II  e  IV) 


Il  problema  della  scuola  e  delia  libertà  nazionale 
alla  luce  del  positivismo  storico. 

Queste  idee,  che  si  aggirano  nell*  umile  recinto  delle  possibilità 
umane,  e  che  vogliono  promuovere  le  energie  dell'umanità,  senza  af- 
faticarla neiransia  inutile  di  una  età  dell'oro  inattuabile,  penetrano 
nella  coscienza  italiana  attraverso  i  nuovi  giornali  e  i  nuovi  testi  di  filo- 
sofia, scritti  di  proposito  per  le  scuole. 

Sì  inizia  una  fratellanza  ideale  fra  scrittori  e  popolo.  Si  comprende 
che  la  scuola  ha  una  funzione  non  ancora  messa  a  profitto,  che  anzi  ha 
la  funzione  precipua  nell'opera  di  rifacimento  sociale.  La  rivoluzione  è 
un  cattivo  metodo;  appartiene  agli  spiriti  troppo  impazienti  e  frettolosi. 
In  tre  anni,  dice  il  Coco,  la  Francia  ha  voluto  passare  dall'età  di  Menenio 
Agrippa  a  quella  dei  Gracchi  ;i  anzi,  le  idee  sono  corse  molto  più  avanti, 
un  secolo  più  innanzi  di  quelle  dei  Gracchi;  e  perciò  la  repubblica 
francese  ha  avuto  un  secolo  meno  di  vita  della  romana!  Ma  ne  seguì 
anche  lo  spossamento,  perchè  «  un  eccesso  di  energia  ne  produce  un 
altro  di  rilasciatezza  »  ;  2  e  accanto  a  questa,  l'anarchia,  che  è  sempre 
l'effetto  dei  rapidi  cangiamenti.  Troppa  fretta.  «  Urgenza!  nome  funesto 
che  distrugge  tutte  le  repubbliche  ».3  L'errore  fondamentale  è  di  non 
avere  fatto  calcolo  sull'azione  delle  forze  collettive  nel  tempo;  ossia,  di 


*  Saggio  storico,  p.  193. 

*  Ibid.,  p.  197 

*  Fram.  op.  cit.^  p.  483. 


Razionalismo  e  Storicismo  191 


avere  dimenticato  il  popolo.  Rousseau  ha  detto  che  il  popolo  non  ha  bi- 
sogno di  educazione.  E  il  popolo  non  fu  educato  ;  e  si  parlò  un  linguaggio 
astratto,  che  esso  non  intende.  Eppure  è  in  mezzo  al  popolo  che  viviamo, 
è  desso  che  forma  la  parte  più  grande  della  nostra  patria,  e  che  provvede 
alla  sua  difesa  e  sussistenza.*  E  mentre  si  è  tanto  discusso  sui  prodigi  del- 
l'educazione, si  è  lasciata  la  scuola  in  balia  d'una  rettorica  insensata,  e 
di  regole  insipide.  Dalle  nostre  aule  vediamo  ogni  giorno  uscire  dei  grandi 
pedanti  e  dei  piccoli  uomini.  Ma  se  il  progresso  è  l'effetto  di  una  lenta 
evoluzione,  la  nostra  opera  deve  cominciare  dalla  scuola,  in  cui  l'anima 
dell'uomo  apre  le  sue  prime  corolle  e  le  tinge  dei  primi  colori;  purché 
la  scuola  guardi  alla  vita,  e  senta  in  sé  rifluire  lo  spirito  dei  tempi, 
cjie  é  spirito  popolare.  Bisogna  discendere  verso  la  folla,  studiare  i 
vizi  e  le  sue  virtù,  per  poterle  dirigere  al  bene.  Ce  ancora  troppa 
aristocrazia  negli  ambienti  scolastici:  o  libri  superiori  alla  mentalità 
dei  semplici,  o  catechismi;  insufficenti  gli  uni  e  gli  altri  per  insegnare 
le  regole  della  vita  agli  artigiani  e  agli  agricoltori  delle  nostre  terre, 
che  sono  la  prima  ricchezza  nazionale.  L' Italia  deve  conoscere  il  suo 
popolo,  se  vuole  utilizzare  le  sue  forze  ;  solo  così  potrà  formarsi  una 
propria  filosofia,  che  é  la  condizione  della  sua  grandezza  e  della  sua 
indipendenza.  L'educatore,  non  deve  proporsi  di  formare  un  uomo  di 
qualità,  ma  un  uomo  del  popolo.  L'amor  di  patria  «  nasce  dalla  pub- 
blica educazione  ».2  Ecco  le  nuove  idee  che  indirizzano  il  secolo  alla 
vera  democrazia:  sono  idee  imbevute  di  senso  nazionale. 

Vincenzo  Coco,  che  per  il  primo  le  ha  chiaramente  espresse  e 
divulgate,  é  il  più  italiano  dei  nostri  pensatori.  Nessuna  preoccupa- 
zione é  in  lui  maggiore,  che  di  resistere  agli  eccessi  dell'influenza 
francese  e  di  avvezzare  l'Italia,  proprio  durante  i  fasti  dell'età  napo- 
leonica, si  badi  bene,  a  pensare  col  proprio  cervello,  a  sentire  col 
proprio  cuore  ;  ad  amare  le  sue  glorie,  ad  aver  stima  di  sé,  fiducia  nei 
suoi  destini  ;  nessuno  più  di  lui,  fino  all'epoca  del  Mazzini,  cercò  con 
tanto  fervore  di  studi  e  di  opere  il  risveglio  della  coscienza  storica  d'Italia, 
che  nel  suo  pensiero  voleva  dire  coscienza  popolare,  perché,  é  questa 
secondo  il  Coco,  l'operatrice  sovrana  delle  vere  e  durature  trasforma- 
zioni. A  questo  mirava  la  sua  attività  giornalistica;  a  questo  voleva 
indirizzata  la  scuola. 

Interprete  sapiente,  ne  fu  Melchiorre  Gioia:  modello  insigne,  quale 
pedagogista,  del  cangiamento  profondo  che  ha  subito  ogni  patriota 
cisalpino,  attraverso  l'esperienza  del  dominio  francese:  nell'ora  vibrante 


1  Oneste  idee  sono  svolte  negli  articoli  del  Giornale  italiano  del  1804  e  nel  Pla- 
tone. Cfr.  Hazard,  op.  cit.,  p.  239  e  segg.,  251  e  segg. 
«  Saggio,  p.  174. 


192  Ettore  Rota 


di  sogni,  era  cosmopolita,  francofilo,  utopista;  adesso  è  sopratutto 
italiano,  equilibrato,  metodico,   positivista. 

Melchiorre  Gioia  non  domanda  alla  educazione  che  essa  formi  dei 
filosofi  visionari,  ma  dei  saggi  artigiani,  dei  prudenti  commercianti;  non 
vuole  più  il  filosofo  fabbricante  di  repubbliche,  ma  un  uomo  attivo 
e  produttivo,  consapevole  di  tutte  le  difficoltà  della  vita,  di  tutti  gli 
inganni:  capace  di  superarle  e  di  causarli.  L'Italia  una,  dovrà  uscire  dal 
suo  lavoro  e  dalla  sua  abilità;  mediocremente  dotta,  ma  sufficentemente 
addestrata  negli  affari  del  mondo,  nella  «  lotteria  sociale  »,  nei  rag- 
giri del  mercato.  Un'  Italia  forte  nel  campo  agricolo-industrìale,  e  cogli 
occhi  bene  aperti  su  tutte  le  cose  del  giorno  che  toccano  i  suoi  per- 
sonali interessi,  diffidente  di  tutto  e  di  tutti,  ma  piena  di  fiducia  in 
se  stessa:  ecco  l'idea  che  anima  gli  Elementi  di  filosofia  che  il  pia- 
centino ha  steso  per  le  scuole  italiane. 

V'è  un  po'  dell'anima  chiaroveggente  e  franca  di  chi  ha  scritto 
il  Prìncipe;  e  l'opera  si  direbbe  un  Prìncipe  a  rovescio,  in  quanto  è  di- 
retta al  popolo,  e  coli' intendimento  di  dargli  le  norme  pratiche  per 
bene  condursi  nella  vita  e  per  guardarsi  dalle  truffe,  sia  dei  governi 
che  dei  loro  mestatori. 

Eppure,  nelle  pagine  del  Gioia,  vi  sono  proprio  i  precedenti  più 
prossimi  di  quel  programma  moderatp  che  è  riuscito  a  cucire  insieme 
il  nostro  vecchio  stivale.  Il  giudizio  può  sembrare  esagerato.  Ma  la  gene- 
razione di  uomini  che  va  dal  D'Azeglio  al  Cavour,  ha  vissuto  di  questa 
educazione  schiettamente  borghese,  che  non  risente  più  dell'enciclope- 
dia, ma  della  realtà  quotidiana;  non  del  diritto  naturale,  ma  del  diritto 
positivo;  non  della  felicità  ginevrina,  ma  della  più  modesta  felicità  che 
nasce  dal  compimento  di  un  dovere;  educazione  che  sa  di  lavoro,  dì 
contratti,  di  operazioni  finanziarie  bene  riuscite;  amor  di  libertà  disci- 
plinata e  prudente;  precetti  e  dettami  d'esperienza,  più  che  principi 
dotirinaj'i. 

Educare  l'uomo,  per  il  Gioia,  non  significa  prepararlo  ad  una  vita 
ideale,  che  non  esiste,  o  dargli  una  certa  somma  di  idee  universali, 
che  egli  non  comprende  e  che  lo  esaltano  di  un  falso  orgoglio;  significa 
renderlo  alto  a  vivere  entro  l'organismo  della  società,  veramente  con- 
siderata nelle  sue  virtù  come  nei  suoi  difetti;  significa  dare  al  popolo 
gli  strumenti  necessari  per  comprendere  i  fatti  del  giorno  nella  loro 
giusta  entità,  per  guardarsi  dai  molti  ciarlatani  in  abito  di  gentiluomo. 
Egli  acconsente  con  Bacone,  che  «  all'intelletto  umano  bisogna  aggiun- 
gere non  ali,  ma  pesi».  E  dice  chiaro:  «non  tutti  i  cittadini  devono 
possedere  idee  scientifiche  e  profonde,  ma  tutti  devono  possederne 
delle  pratiche  e  sane  »  ;  bisogna  calcolare  sopra  le  energie  della  intera 
gioventù,  al  fine  «  d'abituarla  a  sperare  più  nella  proprìa  attività  che 


Razionalismo  e  Storicismo  193 

neW altrui  favore  »  ;  «  primo  dovere  è  di  accrescere  le  proprie  facoltà  ; 
secondo  dovere  è  d'impiegare  le  proprie  facoltà  »i;  oggi  la  filosofia 
ha  l'obbligo  di  rendere  ogni  individuo  capace  di  compiere  «  i  doveri 
che  la  patria  ha  diritto  d'esigere  da  tutti  »,  «  a  riguardare  come  propri 
nemici  coloro  che  ingannano  i  popoli  e  i  sovrani  ».''^  Non  è  «  scopo 
della  filosofia  di  formare  alcuni  pochi  geni  in  mezzo  di  una  moltitu- 
dine ignorante  e  stupidamente  ammiratrice,  ma  di  rendere  comuni 
alla  moltitudine  gli  utili  concetti  del  genio,  e  sopratutto  di  svolgere  in 
essa  la  capacità  di  Intenderli  e  l'abitudine  di  applicarli  ».3  Ecco  la  verità 
fondamentale  dell'educazione  popolare  :  curare  nell'alunno  lo  sviluppo 
del  cittadino,  dargli  \2i  forma  mentis  per  la  vita;  fare  che  la  voce  della 
scuola  risuoni  nell'animo,  come  l'esempio  della  madre  accompagna  il 
figlio  che  lascia  la  vecchia  casa  per  farne  una  propria.  Ma  la  scuola 
è  fuori  della  vita,  o  vi  tende  con  mezzi  incapaci  :  rettorica,  pedanteria 
filologica,  o  idee  troppo  universali  ;  vi  sono  manuali  di  filosofia,  «  come 
per  es.  quelli  dell'ab.  Soave,  che  fanno  morire  assiderato  qualunque  più 
coraggioso  lettore  »  ;  altri,  come  «  la  logica  del  senatore  Destutt-Tracy  » 
il  quale  «  impiega  671  pagine  in^  carattere  minuto  per  far  sapere  che 
giudicare  è  sentire  »  ;  non  badano  «  alla  capacità  e  ai  bisogni  dei  gio- 
vani lettori»,  i  quali,  «passati  i  primi  anni  dell' infanzia,  vengono  co- 
stretti a  studiare  la  teoria  metafisica  della  grammatica,  assolutamente 
superiore  alla  loro  cognizione,  una  lingua  morta  non  bene  intesa  dagli 
stessi  loro  maestri,  applicata  non  a  cose  sensibili  e  comuni,  ma  talora 
ad  affari  politici,  stranieri  alle  idee  dei  fanciulli,  talora  ad  oggetti  mito- 
logici che  tendono  a  falsificare  il  loro  giudizio  »>  La  barbarie  del  me- 
todo che  comunemente  si  adopera  produce  questo  effetto  :  «  che  il 
frutto  di  lunghissima  insopportabile  noia  si  riduce  a  pochissime  idee 
confuse  ed  indigeste  accompagnate  o  seguite  per  lo  più  da  fortissima 
avversione  allo  studio  »  ;  e  pare  che  le  famiglie  oggi  si  siano  propo- 
ste questo  problema:  «trovare  il  mezzo  più  sicuro  per  formare  degli 
imbecilli  »  ;  ^  o  che  «  vogliano  fare  dei  filosofi,  quando  la  natura  vuole 
che  siano,  quasi  direi,  bricconcelli  ».^  Questi  nostri  giovani  che  vanno 
a  scuola  per  insaccare  indigesta  materia,  assomigliano,  dice  il  Gioia,  a 
certi  viaggiatori  che,  per  strettezza  di  -tempo,  devono  conoscere  una 


1  Melchiorre  Gioia,  Elementi  di  filosofia^  Milano,  1818,  T.  Il,  p.  250  e  segg. 
t  Ibid.,  I,  XV. 
»  Ibid.,  I,  XIX.  3 

4  Ibid.,  II,  61. 

5  Ibid.,  l.  cit. 

«  Melchiorre  Gioia,  Del  merito  e  delle  ricompense^  Lugano,  1810,  T.  I,  p.  231, 
nota  9. 

13  —  Nuova  Rivista  Storica. 


194  Ettore  Rota 


grande  città  in   una  sola  giornata.   «  Troppo  rumore,  troppe  cose, 
troppa  gente»  direbbe  un  esquimese  a  Londra!^ 

Allo  stesso  modo,  danneggia   «  una  eccessiva  generalizzazione  »  ; 
Ir.   fantasia  accoglie  volentieri  i  principi  astratti;  ma  compiacendosi 
spesso  di  prestare  ad  essi  «  un'  impero  senza  limiti  ed  assoluto,  sforza 
la  natura  a  piegarsi  »  ;   ond'è  che  «  i  filosofi,  per  generalizzare  sover- 
chiamente un  principio,  misero  alla  tortura  i  fenomeni  come  il  gi- 
gante della   favola,  che   voleva   adattare   tutti    i   suoi   ospiti   al   suo 
Ietto  ».2  Con  tale  metodo,  esemplifica  il  Gioia,  Talete  vede  nell'ac- 
qua il  principio  di  tutte  le  cose,  come  Eraclito  lo  pone  nel  fuoco; 
e  collo  stesso  metodo  Lucrezio  fa  nascere  dal  timore  le  religioni,  e 
Crizia  dalla  forza  fa  nascere  le  società;  così  Elvezio  spiega  tutte  le 
opinioni  coll'interesse,  e  Malebranche  attribuisce  ai  soli  sensi  i  nostri 
errori.  Di  questo  passo,  la  Rivoluzione  francese  ha  posto  il  dogma 
dell'uniformità  delle  léggi  sulla  base  dell'uniformità  ^elle  genti.  «  Per- 
suasi che  l'umanità  è  una,  che  la  sensibilità  fa  di  tutti  i  popoli  una  sola 
famiglia,  che  tutti  gli  uomini  sono  diretti  dal  dolore  o  dal  piacere,  ten- 
tarono alcuni  di  stendere  uno  stesso  codice  penale  ai  diversi  popoli...; 
colla  stessa  logica  si  vollero  innestare  su  tutti  i  popoli  moderni  le  isti- 
tuzioni greche  e  romane,  il  che  si  riduceva  a  pretendere  da  tutti  gli 
uccelli  lo  stesso  canto,  da  tutti  i  quadrupedi  la  stessa  celerità,  per  tutti 
i  pesci  la  stessa  acqua,  per  tutte  le  corporature  lo  stesso  abito  ».3  Le 
idee  universali  non  corrispondono  ai  bisogni  della  vita,  soddisfano  un 
intelletto  giovane  «come  le  palle  di  sapone  piacciono  ai  ragazzi  per  la 
loro  forma  sferica  e  pei  colori  brillanti  »  ;  ma  spesso  determinano  delle 
«  combinazioni  ideali,  false  e  frivole  »  ;  e  non  danno  una  soda  istruzione  ; 
fanno  il  rivoluzionario,  non  l'uomo;  rispondono  ad  una  necessità  del 
momento,  non  alle  necessità  perenni  «  di  cui  facciamo  uso  giornaliero  ». 
Il  complesso  sociale,  dice  il  Gioia,  è  fatto  in  gran  parte  di  false  apparenze  ; 
e  sono  queste  che  deve  illuminare  il  filosofo,  l'educatore.  Talvolta,  e  spe- 
cie in  Francia,  osserva  il  piacentino,  si  legge  l'iscrizione  Grand  magazine 
sopra  la  più  miserabile  bottega  di  rigattiere.^  Ma  quanti  aspetti  della  vita 
ricordano  quest'iscrizione!  «Quasi  dappertutto  sono  aperti  banchi  di 
lotto  ;  l'insegna  e  l'iscrizione  delle  botteghe  sono  diverse,  ma  la  sostanza 
è  la  stessa:  vendere  speranze  chimeriche  in  cambio  di  cose  o  di  servizi  ».5 
Quale  la  causa,  e  quale  il  rimedio?  «  La  vendita  delle  false  speranze 


1  Elementi  di  filosofia,  II,  110. 

«  Op.  cit.,  II,  159. 

»  Elementi  di  filosofia,  II,  160. 

4  Ibid.,  II,  133,  nota  1. 

»  Ibid.,  II,  135, 


Razionalismo  e  Storicismo  195 


riesce  più  o  meno  pronta,  più  o  meno  lucrosa,  in  ragione  dell'  igno- 
ranza dei  popoli...  ;  l'ignoranza  dava  pregio  a  quelle  merci  che  la  scienza 
ha  screditate;  e  gli  astrologi  hanno  diritto  di  lagnarsi  dei  progressi  del- 
l'astronomia, come  i  ciarlatani  della  fisica,  gli  alchimisti  della  chimica...  e 
così  dite  di  ogni  altra  specie  di  scroccatori  ».i  L'educazione  ha  il  suo 
compito  tracciato  dalla  fisiologia  e  dalla  patologia  della  società,  non 
dalle  aberrazioni  di  un  pensiero  filosofico  individuale,  E  Melchiorre 
Gioia  pazientemente  districa  al  suo  Emillio  la  trama  complessa  del 
mondo  borghese,  e  gli  addita  tutte  le  false  apparenze  della  sua  facciata 
umanitaria;  gli  dà  la  regola  pratica  per  distinguere  gli  onesti  e  i  traf- 
ficanti, gli  ingenui  ed  i  simulatori;  e  gli  fa  anche  vedere  come  debbasi 
studiare  il  passato,  e  come  si  possa  riconoscere  il  vero  dal  falso  nelle 
testimonianze  storiche  come  in  quelle  di  un  processo  criminale;  le 
fallaci  parvenze  di  grandezza  nei  popoli  e  nei  governi;  e  scende  giù 
giù,  nei  piani  inferiori  della  vita  sociale,  e  indica  al  suo  Emilio  le 
«  false  apparenze  »  nelle  arti  e  nel  commercio,  i  trucchi  dei  mercanti 
che  vogliono  mascherare  un  fallimento  o  spacciare  una  merce  guasta...  ; 
lo  mette  in  guardia  dagli  scritti  dei  parolai,  dai  gazzettieri  venduti, 
dai  falsi  annunci,  dagli  affissi  ingannevoli  sulle  contrade... 

Questa  singolare  pedagogia,  che  pare  proprio  fatta  per  una  stirpe 
d' ingenui-nati,  non  dà  una  giusta  idea  della  sua  importanza  a  chi  non 
rifletta  che  il  Gioia  parlava  a  un  popolo  deluso,  ma  ancora  e  sempre 
credulone,  e  facile  a  lasciarsi  sedurre  o  raggirare;  la  sua  pedagogia 
umile  e  piana,  ha  un  retroscena  politico  che  la  giustifica,  ha  un  fine 
eminentemente  nazionale;  e  infatti,  Pietro  Giordani  ammirava  assai 
questi  Elementi  di  filosofia,  «  non  per  alcun  pregio  di  stile,  non  per 
straordinaria  acutezza  d'ingegno,  ma  come  ottimo  sistema  di  educa- 
zione »  scòrgendo  in  essi  «  un  Emilio  più  praticabile,  adattatisslmo  alla 
vita  e  al  tempi  correnti  ».2 

Fu  r  incubo  del  Gioia  :  fare  intendere  al  suo  popolo  in  che  mondo 
viveva,  svegliare  gl'ingegni  umili  per  battere  i  potenti,  portare  in  su 
le  folle  per  deprimere  il  facile  credito  dei  ciarlatani.  A  tale  scopo  avea 
scritto  un'altra  opera,  la  sua  prediletta  fra  tutte,  Dei  meriti  e  delle  ricom- 
pense, che  sembra  di  erudizione  storica,  ma  è  di  rivoluzione  sociale;^ 


1  l.  ciL 

«  Pietro  Giordani,  Epistolario  edito  per  Antonio  Gussalli,  Milano,  1854,  voi.  V, 
p.  152  e  seg. 

3  II  Gioia  propugna  in  quest'opera  la  ribellione  ai  governi  che  condannano  i 
novatori,  e  dice  che  Socrate  doveva  fuggire,  sottrarsi  all'impero  della  legge  per  recare 
utile  ai  Greci  col  lume  della  sua  sapienza  (I,  Ì59  e  seg.)  ;  «  qualunque  infatti  sia  l'ori- 
gine della  società,  gli  obblighi  sociali  suppongono  la  garanzia  di  maggiori  vantaggi, 
e  se  la  patria  ci  assicura  i  secondi  noi  siamo  sciolti  dai  primi  ». 


196  Ettore  Rota 


intendendo  con  essa  di  muover  battaglia  non  solo  all'ignoranza,  alleata 
delle  tirannidi,  ma  a  quelli  che,  per  giovarsi  di  essa,  comprimono  i  liberi 
ingegni  e  negano  al  merito  la  ricompensa  adeguata. 

A  suo  giudizio,  Gian  Giacomo  Rousseau,  coll'elogìo  della  soli- 
tudine e  dell'ignoranza,  favorisce,  pur  non  volendo,  il  persistere  dei 
vecchi  titoli  e  privilegi  e  la  loro  fortunata  speculazione  nella  grande  «  lot- 
teria sociale  ».  Ma  il  filosofo  ginevrino  «  aspirava  più  a  far  rumore  che 
ad  essere  utile »,i  poiché  «la  solitudine  non  è  il  teatro  della  virtù..,  e 
l'uomo,  anche  volendo  supporlo  naturalmente  buono,  sarebbe  in  quella 
condizione  un  gomitolo  che  nessuno  svolgerebbe  »  ;  2  ma  giacché  la 
società  esiste  e  non  si  può  sopprimere,  è  meglio  farla  conoscere  in  tutti  i 
suoi  più  minuti  e  più  riposti  congegni,  affinché  ognuno,  dal  più  povero 
al  più  ricco,  dal  più  dotto  al  meno,  sappia  condursi  coi  propri  occhi 
e  non  sì  lasci  rimorchiare.  «  11  popolo  più  ignorante  é  il  più  espo- 
sto alle  seduzioni  »  ;  *  e  fra  gli  stati,  «  anche  in  dispari  circostanze 
quello  é  più  forte  che  ha  un  popolo  più  istruito  »,*  potendosi  sempre 
provare,  «  con  calcoli  statistici,  che  la  durata  media  dei  regni  é  più  corta 
nei  secoli  ignoranti  che  nei  secoli  illuminati  ».  Ed  il  Gioia  stupisce 
assai  che  del  parere  di  Rousseau  fosse  Napoleone  quando  affidava  alle 
Memorie  di.  S,  Elena  questo  strano  pensiero:  «Je  n'ai  jamais  com- 
pris  quel  serait  le  parti  que  je  pourrais  tirer  des  études,-  et  dans  le 
fait  elles  ne  m'ont  servi  qu'a  m'apprendre  des  méthodes.  Je  n'ai  retirè 
quelque  fruit  que  des  mathematiques.  Le  reste  ne  m'a  été  utile  à  rien  »  ! 
Il  Gioia  vede  la  causa  di  questa  indifferenza  air«  azione  delle  forze 
intellettuali  »,  nella  manchevolezza  generale  del  senso  della  continuità. 
Il  lavoro  dell'intelligenza,  dice,  agisce  in  modo  lento, ma  d'ora  in  ora; 
e  avviene  di  esso  come  della  luce,  «  che  agisce  senza  strepito  e 
senza  interruzione »;  e  «in  generale,  allorché  le  cose  camminano  len- 
tamente col  tempo...  sfugge  all'animo  umano  l'azione  delle  loro  cause 
costanti  »  ;  l'indole  dell'  uomo  é  tale  «  che  finisce  per  esser  insensìbile  alle 
sensazioni  divenute  abituali  »  ;  «  gli  uomini  che  resterebbero  sorpresi 
della  loro  mancanza,  non  si  avveggono  della  loro  esistenza  »,  proprio 
come  «  il  passeggero  sceso  in  un  vascello,  non  accorgendosi  di  essere  tra- 


i  Del  merito,  ecc.,  I,  136.  —  Il  Gioia  combatte  anche  le  teorie  del  Rousseau  sul 
disprezzo  della  ricchezza;  e  osserva  che  «la  ricchezza  può  bilanciare  la  forza»  e  un 
popolo  ricco  può  sfidare  e  il  cieco  coraggio  delle  nazioni  barbare  »  (1,^148);  la  ricchezza 
è  quindi  intesa  dal  Gioia  come  garanzia  di  indipendenza  nazionale,  la  povertà  come 
l'antiporio  della  servitù. 

«  Elementi  di  filosofia^  II,  255. 

3  Elementi,  ecc.,  I,  XV. 

*  Ibid.,  I,  XVI. 


Razionalismo  e  Storicismo  197 


sportato,  è  insensil)ile  al  vascello  clie  lo  trasporta  ».i  Ma  ognuno  porta  in 
sé  il  deposito  di  tutto  il  lavorio  storico  precedente  :  «  lo  spirito  umano 
è  la  somma  dei  pensieri  di  tutti  gii  uomini  istruiti,  è  il  genio  aggiiuito 
al  genio,  dal  principio  dei  secoli  siuo  al  presente.  Esso  cammina  in 
coinpai>nia  del  tempo;  e  mentre  questi  distrugge  le  opere  materiali, 
quegli  raccoglie  i  metodi  con  cui  furono  costrutte...;  le  generazioni 
non  scendono  nel  sepolcro  tutte  in  un  istante,  per  riprodursi  in  un 
istante  dopo  ;  ma  mentre  uua  parte  sparisce,  un'altra  si  rinnova,  e  tra 
i  padri  e  i  figli  si  forma  una  catena  ideale,  dalla  quale  non  è  tolto  un 
anello  debole,  se  pria  non  è  formato  uno  più  forte  >  :^ 

Questa  concezione  evolutiva  dello  spirito  umano,  uno  nella  conti- 
nuità del  tempo,  continuo  nella  sua  unità  di  azione,  come  un  fiume 
del  quale  si  utilizzano  le  acque,  quantunque  non  sì  vedano  le  sorgenti, 
presuppone  in  ogni  individuo  e  in  ogni  età  il  dovere  di  collabo- 
rare cogli  altri  individui  e  con  le  altre  età;  e  pertanto  eleva  la  fede  nel- 
l'educazione, al  di  sopra  dello  stesso  ottimismo  pedagogico  di  Cartesio, 
di  Leibnitz,  di  Helvetius,  di  Condillac;  poiché,  a  rigore,  la  dottrina  del 
nulla  mentale  primitivo,  legittima  questo  assurdo  anti-storico:  che  la 
civiltà  può  interrompere  in  qualunque  momento  la  sua  marcia  faticosa, 
sia  per  concedersi  qualche  sosta  che  per  rifare  altrimenti  la  via,  senza 
pregiudizio  dell'avvenire.  È  la  teorica  rivoluzionaria  dell'SO  che  in  realtà, 
slegando  un  secolo  dall'altra),  ed  il  presente  da  tutto  il  passato,  con- 
traddice ai  suoi  proprositi  di  fratellanza  universale  ;  della  quale  meglio 
persuade  la  dottrina  storica  del  Gioia  che  vuol  affermare  «  la  re- 
ciproca dipendenza  dei  popoli  ».^  Infatti,  se  fosse  possibile,  con  un  qua- 
dro storico  comparativo,  convincere  l' umanità  intera  che  il  primato  non 
spetta  a  nessun  popolo  e  a  nessuna  razza,  che  la  civiltà  è  opera  di  tutti 
e  proprietà  di  nessuno,  che  essa  è  la  risultanza  di  una  legge  di  eredi- 
tarietà universale  continua  ed  eterna,  che  tutti  i  popoli  hanno  debolezze 
uguali  e  abbisognano  di  uguali  sostegni,  che  insomma  nessuna  stirpe 
può  vantarsi  di  non  dovere  proprio  nulla  ad  altri  e  di  avere  fabbricato 
sempre  da  sé  il  proprio  avvenire,  che  infine,  un  dovere  di  mutua 
obbligatorietà  unisce  tutti  i  membri  dell'universo  civile,  nello  stesso 
modo  che  la  legge  di  attrazione  universale  tiene  sospeso  ogni  corpo 
nello  spazio,  donde  il  dovere  supremo  di  un  vicendevole  rispetto  e 


1  Dsl  merito,  I,  138.  Sovente  il  Gioia,  nei  suoi  Eiemsnti  di  filosofia,  rimanda  il 
lettore  all'opera  sua  Del  merito,  ecc.;  è  perciò  che  ci  serviamo  anche  di  questa  per 
l'analisi  di  quella.  Ambedue  le  opere  sono  una  propaganda  popolare  dei  pregi  del- 
l'istruzione considerati  da  ogni  punto  di  vista,  individuale  e  sociale,  morale  ed  eco- 
nomico, civile  e  politico. 

2  Del  merito,  ecc.,  I,  144. 

3  Ibid.,  I,  143. 


198  Ettore  Rota 


amore»  —  noi  avremmo,  io  credo,  dimostrato  storicamente  il  principio 
dell'uguaglianza  di  natura,  e  anche  risolto  il  problema  della  pace 
universale. 

Adunque:  non  un  postulato  di  pura  ragione,  suscettibile  di  contrap- 
posti negativi  e  ugualmente  razionali,  ma  la  storia,  insolubile  intreccio 
di  forze  ideali,  può  dettare  le  leggi  di  una  democratica  convivenza. 

Così  il  problema  dell'educazione,  ispiratosi  al  concetto  della  pro- 
gressività storica,  diventa  un  corollario  del  nazionalismo  italiano:  ogni 
popolo  ha  diritto  a  vivere  liberamente,  quando,  liberamente  e  nel  limite 
massimo  delle  proprie  attitudini,  contribuisca  al  benessere  universale. 

Riepiloghiamo:  durante  il  triennio  cisalpino,  il  problema  nazio- 
zionale  fu  concepito  in  una  forma  eteronoma:  la  libertà  doveva  ba- 
stare senza  l'indipendenza:  doveva  piovere  dal  cielo  di  Parigi,  doveva 
essere  un  miracolo  delja  mistica  trinità  francese,  consacrato  dalla  Ri- 
voluzione. Dominava  l'astrattismo.  Nel  periodo  che  succede  alla  battaglia 
di  Marengo,  il  problema  nazionale  è  posto  in  una  forma  autonoma 
e  autoctona:  la  libertà  è  concepita  con  l'indipendenza  ed  il  suo  luogo 
d'origine  dev'essere  il  suo  luogo  di  sviluppo;  la  libertà  politica  è  in- 
tesa come  un- succedaneo  dell'indipendenza  culturale.  La  nuova  Italia 
deve  uscire  dall'intimità  del  suo  pensiero,  del  suo  lavoro,  della  sua 
tradizione;  pensare  da  sé,  e  fare  da  sé;  con  l'animo  pieno  della  propria 
storia,  goduta  e  sofferta;  resistere  alla  corruzione  di  ogni  influsso  in- 
tellettuale straniero,  accrescere  la  produttività  agricola  e  industriale  dèi 
proprio  paese;  col  cuore  pronto  alla  ribellione;  questi  i  primi  doveri 
dell'Italia,  secondo  il  Coco  ed  il  Gioia.  Domina  il  positivismo. 

È  una  filosofia  che  può  scriversi  sulla  facciata  politica  di  tutta  l'Eu- 
ropa contemporanea:  vale  per  il  periodo  dell'Impero  napoleonico,  come 
per  il  recente,  ma  già  morituro,  risveglio  di  napoleonismo  prussiano! 

È  dessa  il  vero  punto  di  partenza  dell'epoca  nazionale. 

Il  romanticismo  nel  conflitto  fra  storia  e  ragione. 

In  queste  idee  del  Coco  vi  è  l'essenza  letteraria  e  politica  del  ro- 
manticismo. E  poiché  esprimono  un  bisogno  largamente  sentito  dì 
reagire  contro  la  dittatura  intellettuale  di  un  secolo  che  aveva  lasciato 
il  vuoto  nei  cuori  e  nelle  menti,  circolano  in  tutta  Europa.  Si  ritrovano 
nella  requisitoria  di  Madame  de  Staél  contro  l'abitudine  di  imitare  la 
Francia,  si  rileggono  nelle  pagine  giornalistiche  del  Foscolo  e  del 
Berchet  come  nelle  pagine  filosofiche  di  Fichte. 

Imitare,  é  opera  contraria  a  natura,  perchè  nell' imitazione  non  vi 
è  nulla  di  naturale;,  questo  il  principio  semplice  e  chiaro  che  illumina 
le  prime  albe  del  secolo  XIX.  Senza  individualità  di  pensiero,  non  vi 


Razionalismo  e  Storicismo  199 


può  essere  individualità  di  nazione:  libertà  significa  rimanere  fedeli 
alle  proprie  tradizioni,  risolvere  le  questioni  indipendentemente  e  origi- 
nalmente, secondo  il  proprio  spirito;  queste  le  conseguenze  del  principio. 
Qui  la  nazione  non  è  più  concepita  come  opera  d*arte,  non  di  coltura  ; 
non  di  coercizione  esteriore,  ma  di  libero  pensiero  ;  ma  involontario 
effetto  di  un  fato  geografico,  ma  conquista  e  conseguimento  di  auto- 
nomìa intellettuale.  E  poiché  il  pensiero  che  astrae  dal  mondo  si  perde 
dentro  vie  che  non  hanno  sbocco  nella  realtà,  per  apprendere  le  leggi 
del  mondo  sociale  bisogna  acquistare  conoscenza  della  sua  struttura  e 
del  suo  funzionamento,  ossia  bisogna  rifarsi  airesperienza  del  passato. 
La  nazione  è  dunque  intesa  come  un  complesso- di  valori  spirituali 
maturati  nel  tempo  e  trasmessi  dall'una  all'altra  generazione. 

La  storia  si  riabilita.  L'insuccesso  pratico  della  filosofia  dell'illu- 
minismo dimostrava  per  se  stessa  l'errore  di  avere  messo  a  fronte 
ostilmente  il  vecchio  e  il  nuovo,  nella  stessa  antitesi  di  barbarie  e  di 
civiltà,  l'errore  di  avere  considerato  come  condannevole  tutta  la  storia 
precedente  e  come  ottimo  soltanto  ciò  che  doveva  scaturire  dalle  nuove 
dottrine  ;  gli  uomini  che  si  trovarono  ancora  dinnanzi  all'angoscia  del- 
l' insoluto,  presero  a  concepire  la  realtà  non  più  nella  forma  dualista 
di  male  e  di  bene,  di  crolli  subitanei  e  di  nascite  miracolose,  ma  nel- 
r  idea  di  graduale  e  continuo  svolgimento  :  ossia  che  ogni  età  ha  un 
proprio  compito  da  eseguire,  e  nell'esecuzione  di  questo,  collabora  al 
progresso  universale,  che  non  è  improvvisa  risurrezione,  ma  la  somma 
di  eredità  parziali,  integrate  dall'interesse  di  ogni  epoca  successiva.^ 

11  concetto  di  sviluppo,  che  domina  la  storiografia  del  romanti- 
cismo, accresce  fiducia  nei  miglioramenti  futuri.  Il  desiderio  di  libertà 
che  per  Rousseau  e  gli  individualisti  francesi,  era  un'aspirazione  senti- 
mentale di  un  ideale  razionale,  una  passione  sorretta  dalla  convinzione, 
è  ora  inteso  quale  necessità  storica  inevitabile,  con  l'appoggio  giurì- 
dico dei  precedenti  tradizionali.  A  nessuno  piaceva  più  di  costruire  con 
elementi  di  astratta  ragione,  e  il  materialismo  stesso  non  voleva  più 
essere  naturalistico,  ma  storico.^  Si  principiava  a  vedere  la  storia  in 
armonia  con  la  natura,  ed  il  suo  processo  dialettico  in  corrispondenza 
con  la  dialettica  del  pensiero.  Tutto  mostrasi  pervaso  dallo  spirito  della 
storia  :  storicità  non  solo  è  naturalezza,  ma  verità  :  il  Manzoni  si  serve 
dell'  idea  di  sviluppo,  applicata  alle  passioni  degli  uomini,  per  dimostrare 
che  da  essa  deriva  una  maggiore  veridicità  sulle  scene,  e  quindi  un  certo 
contenuto  morale  del  dramma  storico;  la  rappresentazione  di  un  delitto, 


1  Cfr.  Benedetto  Croce,  Teoria  e  storia  dilla  storiografia,  Bari,  Laterza,  1917, 
Capit.  VI. 

«  Ibid.,  p.  246.  ^ 


20O  Ettore  Rota 


liberata  da  limitazioni  di  tempo  e  dì  luogo,  e  svolgentesi  in  tutte  le 
sue  gradazioni,  dalle  cause  lontane  sino  all'azione  finale  con  le  lotte 
interiori  che  l'accompagnano,  acquista  un  valore  etico  che  difficilmente 
può  avere  in  una  rappresentazione  serrata,  precipitosa  e  convenzionaleJ 

Questa  guerra  dei  romantici  contro  le  norme  aristoteliche,  con- 
tribuisce a  sua  volta  allo  sviluppo  della  storiografia. 

La  lotta  letteraria  contro  l'unità  di  tempo,  e  la  nuova  abitudine 
di  vedere  il  fatto  attraverso  una  larga  distesa  e  concatenazione  di 
eventi,  fanno  meglio  apprendere  la  diversità  dei  tempi  ed  il  loro  valore, 
o  individuale  o  in  rapporto  all'universale;  danno  il  concetto  del  rela- 
tivismo storico  che  è  la  chiave  di  volta  per  una  interpretazione  del 
mondo  politico,  piìi  rispettosa  verso  i  diritti  di  ciascun  popolo  alla 
propria  libertà  di  vita  e  di   sviluppo. 

Ma  varie  forze  impedivano  ancora  che  questa  idea  di  svolgimento 
potesse  diventare  il  pùnto  di  partenza  di  una  visione  positivista  della 
storia,  quelle  appunto  per  cui  l'epoca  del  romanticismo  si  distingue 
da  quella  più  scientifica  che  è  legata  ai  nostri  giorni. 

L'ora  che  passava  sull'Europa  echeggiava  di  rintocchi  funebri  e  di 
ricordi  mistici;  dapprima  le  guerre  di  Napoleone,  spargendo  dovunque 
il  terrore,  avevano  risospinto  i  popoli  vèrso  i  porti  abbandonati  della 
fede;  di  poi  il  saliscendere  della  sua  fortuna,  da  ultimo  il  tonfo  nel 
vuoto  di  S.  Elena,  avvicendavano  l'idea  della  vendetta. divina,  nei  vinti 
di  ieri,  con  l'impressione  della  fragilità  delle  cose  umane,  nei  popoli 
o  nei  partiti  che  erano  stati  vincitori.  Una  diversa  e  antitetica  filosofia 
della  storia  doveva  scaturire  dalle  due  opposte  parti:  la  soggettivazione 
della  divinità,  dall'  una,  insieme  con  l'orgogliosa  idea  di  popolo  eletto  e 
destinato  alla  rigenerazione  universale;  dall'altra  invece,  l'impotenza 
dell'  uomo  a  superare  i  limiti  della  sua  umanità  senza  l' intervento  di 
una  grazia  divina  redentrice,  insieme  con  la  visione  dolorosa  dell'esi- 
stenza, e  la  sua  finalità  posta  fuori  del  mondo. 

Il  presupposto  religioso  era  insito  nella  stessa  idea  di  sviluppo, 
che  faceva  derivare  il  bene  dal  male,  e  che  in  quest'ultimo  lasciava 
vedere  un  elemento  provvidenziale.  Senonchè,  al  problema  di  Dio  do- 
vevano mettere  capo  le  due  immancabili  soluzioni  :  Dio  in  noi,  o  Dio 
fuori  di  noi.  All'una  si  apprese  la  Germania  di  Fichte,  il  quale  voleva 
esercitare  la  più  terribile  suggestione  nell'anima  di  un  popolo  abbat- 
tuto e  dormiente  ;  l'altra  fu  l'espressione  più  romantica  dell'  Italia  di 
Silvio  Pellico,  di  Alessandro  Manzoni,  dei  carbonari,  dello  stesso  Maz- 
zini, che  sapevano  di  parlare  a  un  popolo  meno   lontano   che  quello 


1  Cfr.  Alpredo  Galletti,  Manzoni^  Shakespeare  e  Bossuet/\n  Studi  di  filologia 
moderna,  anno  IV,  fase.  3-4  (1911),  p.  227. 


Razionalismo  e  Storicismo 


tedesco  dagli  ideali  di  libertà,  e  meglio  educato  alla  paziente,  rasse- 
gnata, ma  fiduciosa  attesa. 

Così  nel  tempo  stesso  che  sì  forma  l'auto-coscienza  nazionale, 
questa,  nell'  idolatria  del  proprio  io,  nel  delirio  del  proprio  potere,  già 
trabocca  in  aspirazioni  imperialiste  che  invaderanno,  a  non  lungo  an- 
dare, le  zone  di  nazionalità  etnica  e  vi  si  sovraporranno  in  nome  di  un 
altro  concetto,  quello  di  universalità,  che  dovrà  alimentare  a  poco  a  poco 
un  più  pericoloso  napoleonismo.  Un'altra  volta  la  filosofia  vuole  tra- 
dursi in  istoria,  e  con  ambizioni  più  avventate  perchè  non  procede 
solo  in  nome  di  un  principio  astratto,  ma  di  un  principio  che  pretende 
dì  avere  le  sue  giustificazioni  nella  logica  del  divenire.  Per  la  Germa- 
nia che  dopo  il  disastro  di  Jena  si  è  vista  riabilitata  dal  congresso  di 
Vienna,  Vessere  e  il  pensare  si  sono  trovati  d'accordo  in  un  ritmo 
dialettico  comune  ;  Videa  può  dunque  camminare  alla  conquista  del 
mondo,  avendo  Dio  con  sé.  Il  romanticismo  tedesco  elabora  nell'  Uni- 
versità di  Jena  i  più  arbitrari  sistemi,  in  cui  il  metodo  storico-psicolo- 
gico, che  pareva"  dispensare  ai  popoli  i  loro  diritti  nazionali,  viene  tra- 
viato per  dare  libero  slancio  all'imaginazione  nei  regni  dell'assoluto. 
Spogliarsi  dell'umanità  e  salire  fino  a  Dio  ;  questo  il  sogno  dei  filosofi 
romantici  tedeschi,  Era  la  dottrina  di  Plotino  e  della  scuola  Alessandrina 
che  Novalis  tentava  di  restaurare;  la  statua  della  deessa  di  Sa'is  por- 
tava questa  iscrizione:  «  Nessun  mortale  può  togliere  il  mio  velo»  ; 
uno  dei  discepoli  aveva  detto  :  «  Se  nessun  mortale  può  togliere  il  velo 
della  Dea,  dobbiamo  noi  stessi  divenire  immortali  ».  Novalis  ripetè  la 
stessa  frase  e  ne  fece  il  programma  superbo  della  nuova  Germania, 
che  gridò  con  lui:  «  È  necessario  che  io  diventi  Dio  ».  E  la  storia, 
insieme  con  la  natura  furono  invocate  a  sostegno  di  questo  presuntuoso 
ideale.  Fichte  e  Hegel  videro  la  storia  in  marcia  verso  l'assoluto,  e 
questo  venire  incontro  all'umanità  per  il  tramite  della  razza  bionda; 
Stahl  vide  il  cosmo  popolato  di  fluidi  imponderabili  che  di  sé  com- 
penetravano l'uman  genere,  specie  di  rapporti  inconsci  fra  le  cose  e 
lo  spirito,  ma  più  propriamente  fra  l'essere  divina  e  il  popolo  eletto 
di  Dio.  Natura  e  storia  parvero  associate:  ma  per  esiliarsi  in  un  mondo 
metafisico,  dove  una  grande  follìa  egemonica  nutriva  la  pretesa  di 
ricostrurre  in  terra  l'universale. 

Dì  fronte  al  concetto  dell'immanenza  di  Dio,  riservata  e  privile- 
giata al  popolo  tedesco,^  il  principio  originario  di  svolgimento  perdette 
ogni  ragion  d'essere  ;  ma  già  lo  si  vede  spodestato  nei  famosi  Discorsi 
del  Fichte;  il  quale  lo  nega  implicitamente  quando  determina  uno  svl- 


1  V.  Balbino  Giuliano,  //  primato  di  un  popolo,  ed.  Battiate,  Catania,  1916, 
pp.  79e  segg.  ;  e  Erminio  Troilo,  La  filosofia  e  la  guerra,  Milano,  Treves,  1916,  p.  71. 


J02  Ettore  Rota 


luppo-Iìmìte  alle  razze  latine  e  le  rappresenta  come  spoglie  di  spirito 
sovrano,  esauste  di  vita,  per  trasferire  al  suo  popolo  il  diritto  di  gui- 
dare il  mondo  con  la  consapevolezza  della  propria  superiorità.  Ma 
ancora  meglio  contraddice  al  principio  di  sviluppo,  quando  vuol  attin- 
gere questa  superiorità  non  più  dal  fattore  tempo,  come  aveva  fatto 
nella  esposizione  delle  tre  epoche  del  mondo,  ma  dalla  verginità  lin- 
guistica dei  tedeschi,  dal  loro  stato  di  purezza  primitiva,  dalla  conser- 
vazione di  tutti  gli  attributi  divini,  in  forza  di  questa  esistenza  incon- 
taminata dagli  incroci  della  storia.^ 

Questa  concezione  rappresenta  lo  sforzo  più  formidabile  per  con- 
ciliare insieme  l'ideale  e  il  reale,  la  filosofia  e  la  storia;  ma  il  suo 
razionalismo  idealista  è  la  maggiore  negazione  della  storia  perchè  mira 
a  negar  il  genio  di  tutti  i  popoli,  tranne  uno,  per  affidare  a. quest'ul- 
timo la  direzione  spirituale  del  mondo  ;  sforza  la  trascendenza  ad  essere 
realtà,  riconsacra  il  diritto  divino  nell'  io  umano,  vuol  realizzare  l'asso- 
luto, che  è  r  irrealizzabile  eterno  ;  arriva  ad  una  forma  peggiorata  di 
napoleonismo,  contro  il  quale  era  primamente  insorta;  vuole  ridurre 
l'uomo  tutto  a  spirito,  come  il  secolo  XVIH  lo  voleva  ridurre  tutto  a 
ragione,  ma  in  realtà  materializza  questo  spirito  sovrano  nella  concu- 
piscenza di  egemonie  terrene  ;  vuole  attuare  il  processo  dialettico  del- 
l' idea,  ma  isolando  l'attuazione  di  questa  idea  in  un  popolo,  la  spoglia 
della  sua  universalità,  che  poteva  invece  affermarsi  nel  concetto  di 
cooperazione  e  di  solidarietà  umana. 

È  quindi  una  veduta  anti-storica,  anti-sociale,  anti-naturale,  nono- 
stante il  suo  sfoggio  di  storicità  di  filantropia  e  di  naturalismo. 

Lo  spirito  romantico  dei  popoli  latini  è  più  prossimo  a  Cristo  che 
a  Napoleone,  ed  è  anche  meno  lontano  dallo  spirito  liberale  della 
Rivoluzione,  che  può  considerarsi  essenzialmente  cristiana  nelle  sue 
aspirazioni  di  umanità  e  di  fratellanza.  Anch'esso  vuole  conciliare  la 
società  con  la  natura  e  con  la  storia,  ma  assegna  ad  ognuna  una  propria 
sfera  di  attività  e  di  poteri,  meno  discordi  dalle  possibilità  reali. 

L*  uomo  è  concepito  a  distanza  da  Dio  ;  non  l' universo  preordi- 
nato a  profitto  di  pochi,  ma  sede  di  impenetrabile  mistero,  ammoni- 
mento perenne  della  inferiorità  mortale;  non  fantastica  e  sfrenata 
tendenza  del  finito  a  perdersi  nell'  infinito,  ma  moderato  senso  di  lon- 
tane cose,  salutare  richiamo  della  terra  al  cielo,  e  più  che  altro,  dolore 
d'anima  in  esilio,  rimpianto  di  una  patria  ancora  in  sogno. 

Nel  romanticismo  tedesco  la  tendenza  razionalista  dell'  illuminismo 
francese  diventa  una  morbosa  ed  egoistica  idolatria  del  proprio  pen- 


»  O.  Fichte,  /  discorsi  alla  nazione  tedesca,  trad.  di  E.  Burich,  Ed.  Remo  Sai.» 
^ron,  Capp.  IV  e  VII. 


Razionalismo  e  Storicismo  2o3 

siero  e  del  proprio  volere  in  contrapposto  a  quello  di  altri  ;  e  finisce 
per  razionalizzare  T immanenza  divina;  in  quello  occidentale  T infalli- 
bilità della  ragione  viene  sottoposta  a  duro  processo  coi  raffronti  del 
mondo  biologico,  dominato  dalla  legge  di  continuità,  che  sconsiglia 
dai  procedimenti  rivoluzionari,  dai  mezzi  di  violenza,  dai  deliri  del- 
l'orgoglio personale  e  nazionale;  oppure  viene  controllato  dall'espe- 
rienza  storica,    in   cui   il   sogno    dell'ideale   si  risolve    tragicamente. 

L' uno  è  panteista  e  guarda  all'evoluzione  dello  spirito  libero  e  sca- 
pigliato, l'altro  è  cristiano  e  bada  all'evoluzione  del  fenomeno  vita, 
soggiogata  da  una  tragica  fatalità,  spesse  volte*  anzi  a  ritroso  della  lo- 
gica astratta.  Da  questa  apparenza  d' irrazionale,  il  romanticismo  latino 
deduce  la  conferma,  che  il  fine  umano  è  al  di  là  della  esistenza  sen- 
sibile e  si  raccoglie  nell'intimità  della  fede  senza  rinunciare  all'azione. 

Permangono  in  esso  gli  ideali  di  umanità,  di  giustizia,  temperati 
da  una  più  modesta  e  reale  interpretazione  delle  forze  umane,  corretti 
da  un  più  saggio  equilibrio  fra  idea  e  sentimento. 

Il  romanticismo  latino  cammina  sulla  via  della  psicologia  storica, 
della  storia  che  cerca  di  avere  una  importanza  scientifica,  acquistando 
conoscenza  dell'  uomo  mediante  lo  studio  del  suo  passato,  con  l' inda- 
gine del  suo  mondo  interiore  messo  in  rapporto  con  le  variazioni  del 
complesso  sociale,  e  mediante  l'analisi  comparativa  dell'uomo  con  i 
vari  esseri  e  fenomeni  di  tutto  il  mondo  organico  e  naturale. 

Qual'è  r  idea  nuova,  il  valore  pratico,  che  il  romanticismo  contrap- 
pone all'illuminismo  in  seguito  a  questo  suo  amplesso  con  la  storia  e 
con  la  natura  ?  La  filosofia  del  secolo  XVIII  aveva  posto  nel  benessere 
il  fine  ultimo  dell'uomo,  ed  il  suo  angustiante  problema  era  la  ricerca 
dei  mezzi  per  attuare  la  felicità  universale.  Alessandro  Manzoni  risponde 
che  la  felicità  non  si.  può  raggiungere,  che  la  storia  di  tutti  i  tempi 
e  di  tutti  gli  uomini  ne  è  la  tonferma,  che  i  suoi  drammi  si  chiudono 
con  la  rovina  dei  protagonisti;  ed  anche  le  individualità  più  rappre- 
sentative che  hanno  goduto  di  una  vita  più  intensa,  muoiono  inquieti 
e  insoddisfatti,  sgomenti  dei  loro  stessi  ideali.  La  storia,  dice  il  Man- 
zoni, ci  fa  sentire  «  quel  fondo  comune  di  miseria  e  di  debolezza  che 
dispone  ad  un'  indulgenza  fatta...  di  ragione  e  d'amore  ».i 

La  storia  è  dunque  lo  specchio  della  natura  umana,  intessuta  di 
amarezze  e  di  fragilità  ;  essa  è  pertanto  la  buona  educatrice,  che  rivela 
il  senso  giusto  della  vita,  che  dà  la  misura  delle  nostre  capacità,  che 
chiama  a  raccolta  tutti  gli  uomini  dietro  la  voce  di  un  dolore,  dovunque 
diffuso.  Le  leggi  dell'incremento  sociale  non  si  potranno  determinare 
per  via  di  puro  interesse,  perchè  nella  natura  la  parte  più  nobile  è 


1  A.  Galletti,  op,  cit,  p.  231. 


204  Ettore  Rota 


occupata  dal  sentimento;  e  un'idea  potrà  essere  attiva  solo  quando  sia 
ewuaia  nel  cerchio  magico  delie  passioni. 

È  forse  questa  filosofia  di  tanto  deprimente  di  quanto  era  stimo- 
lante la  filosofia  del  romanticismo  germanico?  È  questa  la  parola  nuova 
per  le  generazioni  dell'Occidente  che  hanno  assistito  al  crollo  di  Wa- 
terloo? Questa  filosofia  non  edonistica,  che  educava  alla  scuola  del 
soffrire,  delle  pazienti  attese,  della  rasse[>nazione  operosa,  era  la  piìi 
adatta  per  un  popolo  al  quale  si  dovevano  chiedere  i  più  grandi  sacri- 
fici ed  i  più  generosi  eroismi:  è  dessa  che  prepara  la  dottrina  mazzi- 
niana del  dovere  e  della  vita-missione  attraverso  la  quule  doveva  iniziarsi 
la  nostra  emancipazione.  Si  riattacca  a  quella  del  Coco  e  la  completa: 
indipendenza  intellettuale,  vita  di  pensiero  tutto  nostro,  fino  al  sacri- 
ficio dell'esistenza  per  la  sua  individualità  e  nazionalità. 

I  residui  del  razionalismo  e  i  fattori  dell' iucivilidiento 
in  G.  D.  Romagnosi. 

Ma  un  pensiero  che  ha  percorso  il  mondo  alimentando  gli  spiriti 
per  tre  quarti  di  secolo,  non  improvvisamente  può  scomparire.  Nel  tra- 
passo da  una  ad  altra  idea,  vi  è  sempre  chi  tenta  la  sintesi  del  passato  a 
profitto  dei  nuovi  bisogni  che  pure  determinano  nuove  correnti  ideali. 

L'ingegno  poderoso  che  riassume  la  sociologia  razionalista  con 
una  mentalità  che  sarebbe  difficile  definire  se  più  francese  o  più  ita- 
liana, e  con  la  vecchia  illusione  dì  poter  svilu()pare  ad  arte  i  fattori  del- 
l'incivilimento,  tenendo  calcolo  di  tutte  le  voci  moderne,  è  Gian  Do- 
menico Romagnosi. 

Tra  le  prime  raffiche  rosminiane  contro  il  sensismo  (che  è  già 
barcollante  in  un  sensista,  il  padre  Soave),  e  le  prime  fortunate  ac- 
coglienze al  kantismo  (che  si  apre  uno  spiraglio  con  Adolfo  Testa)  il 
Romagnosi  è  ancora  indeciso,  a  tal  punto  che  sembra  essere  di  nes- 
suno e  di  ambedue  nello  stesso  tempo  ;  i  seguace  di  Condillac,  rico- 
nosce nella  formazione  delle  idee  la  presenza  di  elementi  estranei  al 
senso  che  egli  denomina  cpn  oscuri  neologismi,  derivandoli  da  un 
senso  lògico  e  razionale,  il  quale  accenna  senz'altro  al  principio  della 
spontaneità  del  pensiero;  ma  disdegna  ogni  accordo  con  la  scuola 
trascendentale;  e  del  resto  è  separato  nettamente  da  Kant  in  quanto 
non  assegna  ai  principi  razionali  un  carattere  di  universalità  e  di  ne- 
cessità conferiti  dalla  «  Critica  della  ragione  pura  ». 

Ma  nel  metodo  col  quale  elabora  i  problemi  del  mondo,  e  nel 
fine  a  cui  subordina   la  sua  elaborazione,  il   Romagnosi  è  già  tutto 


1  L.  Credaro,  //  kantismo  in  Romagnosi  in  Boll.  It.  di  filos.,  anno  2",  voi.  II. 


Razionalismo  e  Storicismo  205 

francese.!  II  Mazzini  disse  di  lui  che  nessuna  via  nuova  aprì  all'  intel- 
letto italiano,  e  che  il  merito  suo  è  di  avere  mirabilmente  riassunte  le 
idee  e  le  discussioni  del  secolo  enciclopedista.^  Questo  giudizio  fu 
confermato  dal  grande  discepolo  Giuseppe  Ferrari.^ 

La  mentalità  geometrica  del  Romagnosi  lo  pose  in  antitesi  con 
Vico  e  lo  accostò  all'indirizzo  cartesiano;  Io  fece  essere  meno  audace 
neir  intuire  nuove  verità,  ma  più  atto  a  schiarire  e  ordinare  in  un  com- 
plesso sistema  le  verità  già  intuite  da  altri. 

Col  Romagnosi  riacquista  fortuna  il  metodo  anti-storico  della 
scuola  sensista  che  egli  apprese  a  conoscere  attraverso  il  «  Saggio  ana- 
litico »  del  Bonnet.  A  simiglianza  di  Rousseau,  egli  non  studia  la 
psicologia  dei  popoli  sulla  trama  del  passato  ;  anzi  muove  a  Vico  Tap- 
punto  di  essersi  sperduto  nelle  tradizioni  storiche  e  di  aver  preteso 
di  fissare  sulla  loro  base  i  principi  della  vita  e  delle  genti.  Il  Roma- 
gnosi  non  interpella  la  storia  per  uno  studio  contemplativo  sulle  orì- 
gini e  sui  progressi  di  un  dato  fenomeno  sociale,  ma  per  chiarirne  la 
loro  efficacia  pratica  e  per  indicare  allo  statista  il  mezzo  onde  ridurlo 
in  valori  reali. 

È  la  stessa  concezione  e  Io  stesso  uso  che  della  storia  avevano 
fatto  il  Montesquieu  e  Voltaire.  II  Romagnosi  recinge  in  teoria  «  le 
zotiche  e  materiali  metafore  di  orme  impresse  su  di  una  tavola  rasa  »  ; 
proclama  che  «  la  suscettività  energica  dello  spirito  »  non  è  una  morta 
capacità  come  quella  di  un  vaso...  bensì  la  potenza  di  agire  in  un 
modo  determinato  dall'indole  propria,  in  conseguenza  di  dati  im- 
pulsi ;  *  ma  la  psicologìa  del  Romagnosi,  e  quindi  la  sua  filosofia  ci- 
vile, prediligono  lo  stùdio  dell'individuo  singolo,  isolato,  astratto;  ossia 
immaginario  e  artificiale  come  le  metafore  da  lui  riprovate.  Nella  «  Ge- 
nesi del  diritto  »  muove  dall'  ipotesi  dell'  individuo  nella  condizione  di 
selvaggio  per  trovare  la  base  della  teorica  sociale  sulle  pene.  Ripete 
il  metodo  di  Rousseau  di  rintracciare  una  base  ai  diritti  e  ai  doveri 
sociali  in  uno  stato  che  è  negazione  della  società;  nel  quale  per- 
tanto, come  diceva  il  Alazzini,  «  esistono  necessità  individuali,  diritti 
non  mai  ».5 

11  Romagnosi  argomenta  così  :  l'uomo  ha  diritto  alla  propria  coil- 


»  La  prima  opera  del  Romagnosi  {Genesi  del  diritto  penale)  h  del  1791.  Ma  poiché 
le  altre  sono  applicazioni  dei  principi  esposti  in  essa  e  poiché  tutta  la  sua  filosofia  è 
una  veduta  retrospettiva  del  secolo  XVIII,  abbiamo  preferito  trattare  di  lui  ora  in  com- 
plesso, sebbene  queste  pagine  già  abbiano  toccato  del  segolo  XIX. 

«  Mazzini,  Scritti,  voi.  IV,  Roma,  1881,  p.  227. 

8  La  niente  di  G.  D.  Romagnosi. 

*  Romagnosi,  Opere,  I,  262. 

5  Mazzini,  voi.  cit.,  p.  325. 


2o6  Ettore  Rota 


servazione,  sia  nello  stato  di  natura  che  nella  società  ;  se  in  quello  usa 
la  forza  contro  la  forza,  in  questa  può  usare  di  ogni  mezzo  necessario 
alla  sua  difesa  ;  e  come  usa  della  guerra  contro  i  nemici  esterni  ;  così 
può  usare  delle  pene,  adeguate  ai  delitti,  per  reprimere  con  l'esempio 
la  spinta  criminosa,  ossia  per  eliminare  i  perturbatori  dell'ordine 
sociale. 

Il  Romagnosi  qui  si  ritrova  con  Rousseau,  che  ha  considerato  la 
pena  quale  conseguenza  del  diritto  di  difesa,  ossia  una  necessità  alla 
conservazione;  e  come  Rousseau  difende  pure  la  pena  di  morte. 

Dalla  tendenza  naturale  dell'  uomo  alla  propria  conservazione  e 
al  proprio  benessere,  e  dalla  necessità  di  usare  certi  mezzi  per  un 
dato  fine,  necessità  ricavata  dai  rapporti  reali  delle  cose  (Montesquieu), 
il  Romagnosi  deriva  la  nozione  pratica  del  diritto  e  del  dovere,^  ricol- 
legandosi alle  teorie  edonistiche  di  Helvetius  e  alla  psicologia  determi- 
nista del  Bonnet. 

Helvetius  ha  detto  che  il  giusto  e  l'ingiusto,  come  il  bene  ed  il 
male,  non  sono  che  modificazioni  dell'amor  proprio  ;  tradotte  in  forma 
di  leggi  per  la  massima  utilità;  Bonnet  ha  dimostrato  che  i  movimenti 
intellettuali  sono  prodotti  da  movimenti  fisici  della  macchina  umana, 
impressi  dal  monda  esterno.  Il  Romagnosi  inverte  questa  veduta,  e 
dice  che  i  diritti  e  i  doveri  sono  mezzi  razionali,  necessari  al  funzio- 
namento della  macchina  sociale  e  determinati  dall'attrazione  della  fe- 
licità ;  regolati  in  modo  da  riuscire  sempre  forze  utili  all'  umano  con- 
sorzio; quindi  il  diritto  criminale  deve  misurare  i  provvedimenti  sopra 
il  massimo  tornaconto  comune. 

Il  Romagnosi,  dominato  nel  diritto  e  nella  morale  dall'  utilitarismo 
pratico  della  scuola  francese,  identifica  il  benessere  sociale  colla  giu- 
stizia, l'economia  pubblica  con  le  finalità  dell'etica. 

Qui  appare  a  viva  luce  la  distanza  del  Romagnosi  dal  Vico  ;  questi 
assegna,  all'  umanità  un  fine  morale  e  religioso,  e  lo  fa  procedere  in 
armonia  con  le  leggi  della  Provvidenza  ;  quegli  assegna  all'  umanità  lo 
scopo  di  effettuare  le  condizioni  di  una  piacevole  convivenza.  Il  giusto 
e  l'ingiusto  non  hanno  un  valore  di  fronte  al  sentimento,  sono  la 
conformità  o  difformità  dalla  norma  propostasi  dall'  uomo  stesso  ;  di- 
ritto o  dovere  solo  valgono  come  elementi   del   meccanismo  sociale.^ 

Ma  la  spiegazione  sensista  della  coscienza  è  connessa  in  modo  più 
stretto  con  le  teorie  sull'incivilimento. 

Bonnet  ha  detto  che  nel  potere  dell'anima  di  accogliere  impres- 
sioni e  di  reagirvi  accrescendo  così  i  propri  moti,  è  la  sorgente  della 


i  Ferrari,  La  mante  di  G.  D.  Romagnosi,  Milano,  1913,  p.  14. 
*  Cantoni,  O.  B.  Vico,  ecc.,  op.  cit.,  pp.  295. 


Razionalismo  e  Storicismo  207 


perfettibilità  della  specie;  la  civiltà  dunque  è  opera  del  mondo  esterno, 
e  sarà  più  intensa  in  quanto  saprà  disporre  di  un  numero  maggiore 
di  mezzi  per  produrre  nella  psiche  umana  impressioni  e  movimenti  ; 
Helvetius  aveva  ricavato  dal  sensismo  una  spiegazione  più  bizzarra 
del  progresso,  che  definì  opera  delle  circostanze  esterne  felicemente 
combinate  dal  caso. 

Il  Romagnosi  non  esce  dall'ambito  segnato  da  queste  idee  e  ri- 
pete l'inutile  fatica  del  secolo  XVIII  di  ricercare  quale  sia  il  governo 
più  adatto  a  perfezionare  la  legislazione  civile  e  quali  siano  i  fattori 
dell'  incivilimento.  Egli  considera  quest'  ultimo  come  un  complesso  di 
funzioni  razionalmente  ordinate,  e  la  perfettibilità  come  un'attitudine 
a  ricevere  l'educazione  artificiale  dell'incivilimento.  Non  ammette  con 
Vico  che  sia  l'effetto  spontaneo  delle  facoltà  di  ogni  nazione,  perchè, 
a  suo  avviso,  la  storia  mostra  la  più  alta  ripugnanza  delle  genti  ad 
abbandonare  lo  stato  selvaggio;  non  è  vero  per  Romagnosi  che  tutte 
le  nazioni  possano  elevarsi  in  forza  di  un  interno  impulso  ;  ma  per  il 
concorso  fortuito  di  circostanze  particolari  :  religione,  agricoltura,  go- 
verno, opinione,  concepite  come  potenze  che  agiscono  in  tempi  diversi, 
in  modo  separato,  esteriormente  allo  spirito  umano;  non  già  riunite 
nella  sintesi  dello  spirito  umano,  attivo  e  passivo  nel  medesimo  tempo.^ 

Ne  viene  di  conseguenza  che  lo  stato  può  giovarsi  di  tutti  gli 
elementi  costitutivi  della  civiltà  per  raggiungere  un  fine  di  benessere; 
allo  stesso  modo  che  il  pilota  può  giovarsi  del  vento  e  del  timone  per 
spingere  la  nave  in  una  data  direzione. 

E  come  i  filosofi  di  Francia  amavano  di  porre  in  armonia  i  fe- 
nomeni dell'  universo  fisico  coi  fenomeni  dell'  universo  morale,  così  il 
Romagnosi  tenta  di  definirne  le  leggi  comuni  ;  vede  nella  natura  e 
nell'umanità  una  forza  di  inerzia  ed  una  d'impulso,  una  tendenza  al 
completo  pareggio  dei  bisogni  e  delle  soddisfazioni,  una  gravitazione 
costante  verso  questo  equilibrio  ;  e  quindi  «  una  meccanica  intellettuale 
e  politica  delle  nazioni  ;  »  che  fa  della  «  filosofia  civile,  una  fisiologia 
degli  stati  ». 

Tutte  le  tendenze  del  filosofismo  francese  si  collegano  in  un  ampio 
sistema  logicamente  costrutto:  la  critica  filosofica,  che  trova  fatica  ad 
estendere  il  concetto  dell'esperienza  dall'  individuo  alla  società,  dal  pre- 
sente a  tutto  il  passato  ;  la  storia,  abbassata  a  rice.ttario  dei  governi  ; 
r  incivilimento,  ridotto  a  produzione  artificiale,  come  un  fiore  di  serra  ; 
le  crisi  storiche,  stati  morbosi  in  balia  dei  governi,  come  ammalati  in 
balia  di  medici  ;  il  mondo  morale,  semplice  congegno  in  funzione  della 
macchina  fisica  ;  e  questa,  moventesi  con  gli  stessi  ordigni  dell'  universo 


1  Cantoni,  G.  B.  Vico,  op.  cit.,  p.  290. 


2o8  Ettore  Rota 


cosmico;  il  bene  ed  il  male,  forme  soggettive  della  convivenza,  ima- 
ginate  a  utilità  del  genere  umano.  E  tutto  questo  incardinato  sopra 
il  sensismo  condillacchiano,  poiché  (giova  ripeterlo)  la  spiegazione  sen- 
sista della  conoscenza  presuppone  una  data  filosofia  civile,  in  quanto 
che,  posti  air  infuori  dello  spirito  umano  gli  agenti  dello  sviluppo 
psichico,  rimangono  esteriori  anche  gli  impulsi  del  meccanismo  sociale  ; 
e  allora  tutto  ciò  che  si  attiene  ad  esso,  governo,  politica,  religione 
legge...,  costituiscono  altrettanti  mezzi  dell'incivilimento  medesimo  ;  sono 
vie  scorciatoie  del  percorso  umano  per  l'attuazione  sollecita  del  suo 
benessere,  segni  di  abbreviazione  coi  quali  l'artefice-stato  può  indicare 
sulle  tavole  del  mondo  le  direttive  dei  popoli  e. delle  nazioni. 

Ne  deriva  che  è  possibile  trasformare  la  società,  trasformando  le 
leggi;  e  in  pochi  anni  affrettare  l'opera  dei  secoli;  ne  deriva  che  la 
religione  può  essere  modificata  per  convenienza  ;  X  uguagUanza  ottenuta 
con  la  forza;  il  diritto  imposto  con  le  armi;  e  la  libertà  può  diventare 
sconfinata,  e  sconfinato  può  essere  il  potere  politico,  poiché  un  fine 
ha  dei  limiti,  ma  i  mezzi  sono  illimitati  ;  ne  deriva  insomma  che  lo 
stato  non  è  un  mezzo  all'  individuo,  ma  l' individuo  un  mezzo  allo  stato  : 
ed  ecco  gli  eccessi  della  Rivoluzione  ed  il  programma  di  Robespierre: 
per  conquistare  la  libertà,  bisogna  sopprimere  la  libertà  ;  espressione 
pratica  di  tutta  la  filosofia  dell'enciclopedismo.  Ed  ecco  le  imposizioni 
violenti  in  Italia  di  un  codice  e  di  principi  nati  sotto  altro  cielo.  Ecco 
gli  errori  dei  primi  patrioti  repubblicani  :  confondere  l'esterno  con 
l'interno,  credere  che  la  legge  ed  il  diritto  e  la  libertà  siano  merci  di 
importazione  anziché  fenomeni  nativi;  il  fine  col  mezzo:  modellare 
tutta  la  civiltà  sopra  un  tipo  unico,  farne  tante  copie  conformi  e  dira- 
marle pel  mondo,  come  un  disegno  a  stampa;  anziché  vedere  in  essa 
un  pensiero  gelosamente  personale  dei  singoli  popoli  ;  tentare  di  agire 
col  governo  sulla  società,  anziché  fare  che  questa  agisca  sul  governo; 
infine  servirsi  della  libertà  stessa  per  uccidere  la  libertà.  Il  razionalismo 
era  diventato  una  dottrina  dì  conquista.  La  reazione  doveva  essere 
necessariamente  in  senso  nazionale. 

Era  dunque  necessario  tornare  a  Vico  :  questi  aveva  dato  la  filo- 
sofia vera  per  la  costituzione  di  un'  Italia  italiana,  di  una  libertà  liberale, 
di  un  diritto  nazionale.  E  per  questa  via  si  era  già  incamminato  il 
romanticismo:  il  primo  che  realmente  comprende,  con  esagerazione 
in  Germania,  con  più  sano  equilibrio  in  Italia,  la  forza  dello  spirito 
nel  mondo  e  i  suoi  diritti  nella  civiltà. 

{Continua)  Ettore  Rota, 


i  lem 


^ 


I.  —  storiografia  integrale  :  tra  critico  e  autore. 

In  relazione  alla  mia  «  Nota  »  (L'eloquenza  di  un  insegnamento  :  cento 
anni  di  storiografia  in  Francia)  pubblicata  nel  fase.  IV  del  jgij  (pp.  6§s-à6o), 
Luigi  Halphen  mi  dirige  la  lettera  seguente: 


Caro  Signore, 


Bordeaux,  9  novembre  1917. 


Un  autore  è  sempre  male  ispirato  a  voler  presentare  la  sua  difesa,  specie 
quando  le  critiche  a  lui  dirette  sono  espresse  in  termini  cosi  lusinghieri  e 
cortesi  come  quelli  che  avete  adoperato  nel  vostro  ultimo  articolo  della 
N.  R.  S.,  e,  s'egli  ritiene  che  il  suo  pensiero  è  stato  malamente  compreso, 
si  può  sempre  rispondergli  che  il  torto  è  suo.  Ma  voi  avete  sollevato  una 
questione  di  principio  così  importante  e  che  impegna  la  mia  coscienza  a  tal 
segno,  che  non  posso  astenermi  dal  darvi  alcune  spiegazioni. 

È  proprio  vero  che  dall'agosto  19 14,  nel  mio  pensiero  e  in  quello  del 
miei  compatriotti,  si  sia  prodotto  un  cambiamento  decisivo  di  orientazione, 
concernente  lo  spirito  storico  e  che  noi  siamo  ormai  tratti  a  rinnegare  il  me- 
todo, secondo  cui  avevamo  fin  allora  condotto  le  nostre  ricerche?  Io  non  vedo 
traccia  di  un  tal  fenomeno  presso  di  noi,  e  per  conto  mio  affermo  altamente 
che  ciò  non  mi  è  accaduto. 

Nel  mio  volumetto  su  L'Histoire  en  Frafice  depuis  cent  ans,  esponendo 
i  metodi  storiografici  francesi,  io  scrissi  che,  in  sui  primi  del  secolo  XIX,  le 
tradizioni  critiche,  che  avevano  fatto  la  gloria  dei  nostri  grandi  eruditi  dei 
due  secoli  precedenti,  si  erano  a  poco  a  poco  perdute  in  Francia,  laddove, 
dall'altra  riva  del  Reno,  lavoratori,  meno  profondi  forse  e  sempre  meno  bril- 
lanti, al  paragone  dei  nostri  ;  storici  coscienziosi,  ma  sprovvisti  di  quella  fiamma 

14  —  Nuova  Rivista  Storica. 


Note,  questioni  storiche,  ecc. 


del  genio,  che  illumina  l'opera  d'un  Michelet,  riuscivano  a  furia  di  pazienza 
e  di  cura  meticolosa,  a  perfezionare  i  procedimenti  d'investigazione,  che 
non  bisogna  mai  confondere  con  la  storia,  ma  che  sono  la  condizione  della 
storia. 

Io  non  ho  detto  mai  e  non  ho  mai  pensato  che  la  critica  dei  testi  rap- 
presenti la  parola  ultima  del  lavoro  storico  ;  ma  ho  detto  e  ripeto  volen- 
tieri ancora  una  volta  che  V opera  storica  più  brillante  non  è  che  un  giuoco 
vano  dello  spirito  se  i  documenti  su  cui  essa  riposa  non  sono  stati  in  prece- 
denza vagliati.  Con  materiali  fragili,  senza  consistenza,  il  più  geniale  archi- 
tetto non  farà  mai  uh  edificio  durevole.  Ora  è  certo  che  nel  lavoro  di  pre- 
parazione dei  materiali  storiografici  gli  storici  francesi,  durante  il  secolo  XIX, 
si  1  asciarono ^^r  ««  momento  {ó\co :  per  un  momento)  sorpassare  dagli  sto- 
rici tedeschi,  e  dovettero,  poi  transitoriamente  riporsi  alla  scuola  tedesca  per 
riguadagnare  il  tempo  perduto.  Questo  fatto,  le  cui  prove  sono  cosi  patenti, 
e  che  uno  storico  del  valore  del  Renan  non  arrossiva  di  confessare,  noi  dob- 
biamo oggi  confessare,  non  ostante  il  nostro  patriottismo. 

Significa  questo  forse  che,  innanzi  il  1914,  lo  storico-tipo  fosse  ai  nostri 
occhi  lo  storico  tedesco?  Io  non  credo  di  aver  mai  scritto  cosa  alcuna  che 
possa  farmi  attribuire  un'opinione  così  lontana  dal  mio  pensiero.  Io  pensavo 
come  voi,  innanzi  il  mese  d'agosto  del  1914  —  e  il  mio  punto  di  vista  non 
è  mutato  —  che  i  Tedeschi  hanno  da  un  mezzo  secolo  fatto  un  cattivo  e 
strano  uso  del  metodo  critico,  ed  ebbi  più  d'una  volta,  innanzi  la  guerra, 
l'occasione  di  protestare  contro  gli  eccessi  e  gli  errori,  ai  quali,  in  nome  di 
questo  metodo,  cento  eruditi  d'oltre  Reno  si  sono  lasciati  troppo  spesso  tra- 
scinare. Il  torto  di  gran  parte  di  loro  —  non  di  tutti  —  è  stato  di  conside- 
rare la  discussione  critica  come  fine,  e  non  come  mezzo,  e  di  compiacersi 
a  questo  proposito  di  costruzioni  ipercritiche,  di  cui  solo  l'apparenza  è  sa- 
piente e  in  cui  il  buon  senso  è  troppo  spesso  calpestato...  In  Francia,  al- 
cuni di  noi  hanno  dovuto,  per  gli  argomenti  che  trattavano  e  per  le  difficoltà 
che  loro  occorreva  vincere,  consacrarsi  lungamente  a  discussioni  critiche  ta- 
lora assai  aride,  ma  che  sono  indispensabili  e  che  nessuno,  che  io  sappia,  ha 
1*  intenzione  di  rinnegare.  La  Germania  in  questo  non  c'entra  punto,  e  noi 
non  abbiamo,  in  Francia  almeno,  a  liberarci  da  una  tutela,  che  da  gran  tempo 
non  subiamo  più. 

Vogliate  gradire,  con  gli  augurii  che  io  faccio  per  il  successo  della  Nuova 
Rivista  Storica,  i  miei  più  cordiali  saluti. 

Luigi  Halphen 

professore  nella  Università  di  Bordeaux. 

Sono  lieto  di  avere  provocato  questa  lettera  di  Luigi  Halphen,  la  quale  ri- 
solve, con  elementi  ch'egli  solo  poteva  fornire,  il  quesito  che  mi  ero  posto 
nella  precedente  nota:  quale  sia  il  pensiero  attuale  del  critico  francese  sul  com- 
pito della  storiografia  latina  di  fronte  al  «  regno  della  critica  »,  che  si  dice 
inaugurato  dalla  storiografia  tedesca.  E  Luigi  Halphen,  severo  studioso  di 
storia  medioevale,  collaboratore  della  dotta  Revue  historique,  autore  di  quel 
libro,  pieno  di  grazia,  di  dottrina  e  di  ingegno,  che  è  la  sua  Histoire  en  Franca, 


Note,  questioni  storiche^  ecc. 


nel  quale  ei;li  aveva  fatto  omais^gio  a^li  studi  critici  germanici  di  tutta  la  sto- 
riografia francese  del  secolo  XIX,  accusando  questa  di  una  critica.  «  affatto  este- 
riore e  superficiale  »,  ove  «i  veri  problemi  sono  esclusi  o  piuttosto  tion  sono 
neanche  scorti  »,  e  nella  quale  «  si  può  quasi  dire  che  il  metodo  sia  ancorci 
di  là  da  venire»  {p,  113):  VA.,  dicOy  di 'questo  interessantissimo  volumetto, 
in  cui  pure  si  legge  che  «  la  storiografia  francese  va  rigenerata  co7i  l' ispirar s ir 
all'esempio  'delle  Università  tedesche  »  {p.  144)  e  «  col  dar^  senz'altro  battaglia 
ai  suoi  ultimi  rappresentanti,  con  l'  attaccar  li  corpo  a  corpo,  abbat- 
terli o  squalificarli»  {p.  147),  avverte  ora,  chiarendo  e  completando  il  suo 
pensiero,  «  che  i  Tedeschi  hatmo  da  un  mezzo  secolo  fatto  un  cattivo  e  strano 
uso  del  metodo  critico»',  che,  in  nome  di  questo  metodo,  «  gran  parte  di  loro 
hanno  voluto  considerare  la  discussione  critica  come  fine,  e  non  come  mezzo, 
e  si  sono  compiaciuti  di  costruzioni  ipercritiche,  di  cui  solo  V apparenza  è  sa- 
piente e  in  cui  il  buon  senso  è  troppo  spesso  calpestato...». 

Chiarendo  e  completando  il  suo  pensiero,  egli  biella  sua  lettera  ci  dice  che,  in 
questo  secolo  XIX,  il  torto  della  storiografia  francese  è  stato  solo  «  di  perdere  al- 
quanto il  contatto  con  le  tradizioni  critiche,  che  avevano  fatto  la  gloria  degli  eru- 
diti francesi  dei  due  secoli  precedenti»  e  «.di  lasciarsi  per  un  momento 
sorpassare  dagli  storici  tedeschi»  <nel  lavoro  di  preparazione  dei  materiali 
storiografici  »  ;  lavoro,  per  altro,  che  «  non  bisogna  mai  confondere  con  la 
storia».  Le  quali  affermazioni  non  fanno  che  tradurre  in  termini  più.  elevati 
quello  che  anche  io  devo  avere  scritto,  che  cioè  «  la  ricerca  e  la  pubblicazione 
dei  documenti,  la  loro  collezione  e  collazione  e  le  mille  sensate  cautele  neW usarne 
erano  scienza  vecchia  del  mondo  francese  e  latino  in  genere»  (N.  R.  S.,  A.  T, 
fase,  IV,  p.  659), 

Con  questi  chiarimenti  l'H.  ha  ben  il  diritto  di  concludere  che  ^se,  in 
Francia  \come  anche  altrove^,  alcuni  hanno  dovuto,  per  gli  argomenti  che- 
trattavano  e  per  le  difficoltà  che  loro  occorreva  vincere,  consacrarsi  lungamente 
a  discussioni  critiche,  talora  aride,  ma  indispensabili,  la  Germania  in  questo 
non  c'entra  punto  »,  e  che  la  storiografia  francese  non  ha  a  mutar  rotta,  né 
a  «  liberarsi  da  una  tutela  che  da  gran  tempo  essa  più  non  subisce  ».  Pen- 
siero veratnente  consolatore  e  che  altra  volta  io  stesso  esprèssi  a  proposito 
della  Francia  ;  ma  la  serenità  di  quei  nostri  fratelli  latini  noA  può  (ahimè  /) 
venire  condivisa  e  adottata  da  chi  studia  e  lavora  nello  squallido  campo 
della  storiografia  italiana...  L'Italia  è  il  paese,  ove  ieri  i  rappresentanti 
piti  illustri  della  coltura  tedesca  di  esportazione  erano  applauditi,  allorché  ripe- 
tevano trionfanti  che  ciò  che  nella  storia  v'  ha  di  «  oggettivo  e  di  «  scien- 
tifico »,  ciò  che  v'ha  di  nobile  e  degno  di  essere  insegnato  nelle  Università,  è 
solo  V <é.  accertamento  dei  fallii,  e  che  il  resto  è  semplice  ^roynanzo...  ».  Qui 
i  maestri  di  storia  antica  apponevano  questo  sacro  nome  a  volumi  indigesti  e 
sesquipedali,  in  cui  di  storia  non  v'era  l'ombra  o  che  piuttosto  erano  centoni 
di  discussioni  e  costruzioni  ipercritiche  dall'apparenza  sapiente,  ma  in  cui  «  il 
buon  senso  era  affatto  calpestato».  Nel  Giostro  paese  {ahimè!')  ^  buona  parte» 
dei  professori  di  storia  medioevale  hanno  insegnato  che  storia  è  il  saper  leggere 
i  documenti  paleografici,  e  gli  studiosi  di  storia  moderna  hanno,  con  la  loro 
pratica,  inculcato  il  convincimento  che  occuparsi  di  questo  ramo  di  studi  signi- 


212  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


fichi  andare  in  traccia  di  documenti  speciosi  per  poi  inserirli  negli  archivi. 
Qui,  nel  campo  della  storia  civile,  religiosa,  letteraria,  ecc.,  si  è  ben  lungi 
dal  credere  che  i  procedimenti  della  investigazione  siano  appena  una  parte  del 
lavoro  di  ricostruzione  storica,  e  «  che  la  critica  dei  testi  non  rappresenti  la 
parola  ultima  del  lavoro  storico  ».  Qui  l'uomo,  lo  studioso  italiano,  che  una 
polemica  recente  descrisse  come  rappresentante  del  piii  puro  pensiero  e  della 
più  pura  scienza  italiana,  uno  €  stimatissimo  filologo  e  maestro  »,  ha  per  tren- 
ta anni,  costantemente  e  vittoriosamente  inculcato  che,  prima  di  questi  ultimi 
decenni  (t  decenni  dell'influenza  germanica),  in  Italia,  negli  studii,  poniamo, 
di  storia  letteraria  greca,  c'era  solo  {citerò  testualmente)  dilettantismo  perico- 
loso, che  li  sviava,  li  rendeva  vani,  non  altro  che  vaporose  generalità  pseudo- 
estetiche e  pseudo-critiche,  niente  altro  che  melensaggini  e  sdilinqui- 
ménti pseudoartistici  da  accogliere  col  riso  e  col  disprezzo...  Qui, 
dico,  egli  ha  potuto  sostenere  che  un  progresso  è  stato  compiuto,  perchè  si  è 
capito  che  il  fondamento  di  tutto  sono  il  maneggio  {sic!)  la  manipolazione  [sic!) 
dei  testi....  e  la  critica  metodica  della  tradizione  verbale  e  delle  fonti  storico- 
letterarie;  che,  se  si  vuole,  ad  esempio,  avere  una  scuola  italiana  di  storia 
antica  e  di  storia  dell'arte,  occorre  solo  che  Tucidide,  Erodoto,  Polibio,  Livio, 
Pausania,  siano  manipolati  {sic!)  da  mani  italiane...  Che  tutto  il  resto  è  vano 
tessuto  di  parole,  formule  vuote,  inconcludenti,  e  chi  accanto  all'  indirizzo 
puramente  filologico,  diplomatico  e  cnX.\co  favorisse  quello  filosofico  ed 
estetico  non  farebbe  altro  che  porgere  omaggio  a  delle  qualità  retoriche  e 
fantastiche,  niente  altro  che  riconoscere  a  torto  come  legittimo  un  indirizzo 
.poco  scrupoloso  della  ragione  positiva  dei  fatti,  donde  deriverebbe  una  grave 
a  t  tur  a  e  quasi  un  regresso  alle  sorti  avvenire  dei  nostri  studi...* 

Così  essendo,  in  Italia,  lo  studioso  di  storia  —  civile,  religiosa,  artistica  — 
del  mondo  antico  e  moderno  ;  lo  studioso,  dico,  il  quale  discorre  di  tendenze  e 
di  metodi  storiografici,  non  può  adagiarsi  nel  soddisfatto  quietismo,  a  cui, 
secondo  l'H.,  ha  diritto  il  critico  contemporaneo  di  storiografia  francese,  giac- 
ché egli  deve,  pur  troppo,  ancora,  concepire  il  suo  ufficio  come  una  dura  militia 
hominis  super  terram... 

Rimane  forse  da  osservare  qualche  altra  cosa  alla  lettera  dell' H.  V^ha 
da  richiamare  un  problema  non  puramente  teorico,  ed  assai  pieno  d' interesse, 
che  io  sono  dolente  di  dover  qui  accennare  solo  di  fuga.  Con  frase  popo- 
lare e  riassuntiva  V  H.  distitigue  gli  elementi  della  storiografia  in  due 
parti:  i  m^ateriali  storici  e  lo  spirito  dello  storico.  UH.  sa  benissimo  {e  non 
è  a  lui  quindi  che  mi  rivolgo)  che  questa  classificazione  o  distinzione  non  regge. 
L'opera  dello  storico  è  tutta  nel  suo  spirito.  //  così  detto  materiale  storiografico 
non  è  un  elemento  obbiettivo,  esteriore,  di  contro  all'elemento  subbiettivo  dello 
spirito  dello  storico;  né  l'  uno  parla  pianamente  da  sé,  né  l'altro  sta  a  regi- 
strarlo obbediente.  Quel  materiale  ha  vita,  significato,  valore,  solo  in  quanto 
v'ha  nello  storico  uno  spirito  capace  di  cofnprensione  e  di  reviviscenza  ;  solo 
in  quanto  lo  storico  esiste.  La  storiografia  quindi  progredisce  solo  col  progre- 


»  Per  una  più  precisa  ed  ampia  documentazione,  si  cfr.  «  Per  l' italianità  della  coltura  ita- 
liana: Discussioni  e  battaglie»,    Roma,    Società   editrice  Albrighi,  Segati  &  C,  19x8,   APP.  II. 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  213 


dire  dello  spirito  di  quest'ultimo...  Né  i  materiali  san  le  fondamenta,  e  il  la- 
voro dello  spìrito,  l'edificio,  che,  all'  incontro,  nello  spirito  dello  storico  è 
tutto:  costruzione  e  fondamenta. 

Vi  sarebbe  ancora  da  mostrare  l'errore  di  un  altro  pregiudizio  comune  : 
che,  cioè,  la  via  che  conduce  alla  sintesi  storica  passa  per  il  punto  morto  del- 
l'analisi. L'analisi  storica  è  necessaria,  indispensabile...  Ma  dall'analisi  alla 
sintesi  non  v'ha" passaggio...:  Se  noti  che  —  vii  accorgo  —  tali  questioni,  così 
semplici  a  enunciare  iti  fortna  schematica  e  così  facilttietite  ititelligibili  per  chi 
già  ne  possedeva  iti  atiticipaziotie  gli  elementi,  meriterebbero  ben  piit  atnpio 
sviluppo,  e  io  cotifido  che  altri,  all'itifuori  di  me,  vorrà  un  qualche  giorno 
discorrerne  più  degnatnetite  su  queste  stesse  pagine. 

Non  mi  resta  che  ritigraziare  l'illustre  atnico  d'olir' Alpe,  per  avermi 
pòrto  una  nuova  occasione  di  ribadire  e  precisare  ancora  una  volta  il  nostro 
pensiero. 

C.  B. 

II.  —  Un  libro  di  storia  economica.^ 

Una  serie  di  contrarietà,  dovute  in  massima  parte  alla  guerra,  non  ci 
ha  consentito  di  parlare  fin  ora  di  questo  poderoso  lavoro  di  Giuseppe 
Prato,  che  forma  il  IIP  volume  della  Serie  i*  {Illustrazioni  sloriche  e  Docu- 
metiti)  della  raccolta  dei  Docuttienti  finatiziari  degli  Stati  della  motiarchia 
pietnontese.  A  questa  collezione,  che  si  annunzia  ormai  piena  di  buone  pro- 
messe, il  volume  del  P.  apporta  un  contributo  notevolissimo,  sì  da  renderla 
indispensabile  a  quanti,  attraverso  lo  studio  dell'economia,  vogliano  giovare 
alla  loro  coltura  storica,  e,  attraverso  lo  studio  del  passato,  dare  salde  fon- 
damenta alla  loro  coltura  economica.  Mai  forse,  come  nell'ora  tragica 
attuale,  è  stata  così  evidente  l'ignoranza  delle  cose  economiche  in  quelle 
classi,  così  dette  colte,  che  vogliono  presentarci,  qual  parto  della  loro  ine- 
sauribile ingegnosità,  sistemi  economici  e  provvedimenti,  che  una  severa 
indagine  storica  dimostra  essere  stati  adottati  da  altre  generazioni,  e  che 
sono  caduti  dalla  stima  universale  dopo  che  una  costosa  esperienza  ha  finito 
con  l'averne  ragione.  Se  in  Italia  non  ci  fosse  il  malo  vezzo,  per  cui  ognuno, 
il  quale  copre  una  qualsiasi  carica  o  un  qualsiasi  impiego  pubblico,  si  sente 
in  diritto  di  legiferare  in  materia  economica,  senza  peraltro  conoscerne  i 
canoni  fondamentali,  il  volume  del  Prato  dovrebbe  trovare  un'accoglienza 
degna  delle  fatiche,  che  deve  essere  costato  al  suo  A.,  ed  i  vantaggi  ne  sareb- 
bero notevolissimi.  Pur  troppo,  l'attività  scientifica  dei  nostri  studiosi,  anche 
(juando  investe  problemi  di  utilità  immediata  e  di  importanza  nazionale,  non 
ha  pregio  all' infuori  della  stretta  cerchia  di   coloro  che,  nonostante  l'empi- 


»  Giuseppe  Prato,  Problemi  monetari  e  bancari  nei  secoli  Xyjl  e  XVIII,  Torino,  S.  T.  E.  N., 
1916,  pp.  VIII-310. 


214  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


ristno  trionfante,   e  spesso   con   sommo   loro   danno    personale,    non   sanno 
allontanarsi*  dagli  studi  sereni. 

10  confido  che  questa  sorte  non  debba  toccare  al  lavoro  del  P.,  ma,  in 
ogni  caso,  deve  a  lui  essere  di  grande  sodisfazione  la  certezza  di  aver 
portato  un  forte  contributo  allo  studio  di  importa»i^?f4tr.:  p'-oblemi  economici 
e  storici. 

L'A.  aveva  due  gravi  questioni  da  risolvere  :  l'una  di  metodo,  l'altra  di 
estensione.  Egli  si  era  proposto  di  «  studiare  in  un  tipico  ambiente  la  strut- 
tura, gli  organi,  le  manifestazioni  del  credito,  nei  molteplici  aspetti  e  nella 
crescente  importanza  inerente  alla  ognora  dilatata  sua  funzione  »,  e,  precisa- 
mente, «  quel  segreto,  tacito  lavorìo  di  oscure  ed  anonime  opinioni,  attraverso 
le  quali  maturano  le  grandi  rivoluzioni  ».  La  questione  di  metodo  era  diffi- 
cile perchè,  com'egli  dice,  è  sensibilissima  nella  storia  economica  la  discor- 
danza dei  metodi  d'indagine.  È  necessaria  infatti  una  profonda  conoscenza 
delie  questioni  economiche  ed  una  solida  cognizione  delle  difficoltà  del  me- 
todo storico,  perchè  i  lavori  non  portino  «a  costruzioni  arbitrarie  o  fanta- 
stiche o  ad  ammassi  disorganici  di  materiale  ».  Il  P.  si  è  servito  di  un  co- 
pioso, anzi  immenso,  materiale,  tratto  da  biblioteche  e  da  archivi,  e  lo  ha 
esaminato  con  attenta  cura,  con  grande  obiettività,  mettendolo  a  raffronto 
con  il  progresso  della  dottrma,  senza  d'altra  parte  reciderne  il  legame 
con  l'ambiente  dal  quale  era  ricavato  o  a  cui  si  riferiva,  cosicché  noi  ora 
non  ci  -troviamo  dinanzi  ad  una  semplice  esposizione  di  documenti,  ma  ve- 
diamo il  lento  e  costante  evolversi  delle  istituzioni  economiche  studiate  man 
mano  che  l'esperienza  ed  il  progresso  della  dottrina  consentivano  di  arrivare 
a  migliori  risultati. 

Ma  in  rapporto  alla  questione  di  metodo  c'era  un'altra  difficoltà  da  su- 
perare. I  fatti  economici,  di  cui  il  P.  si  occupa,  non  erano  nei  secc.  XVII- 
XVIII  così  ben  definiti  come  sono  oggi.  Inoltre  nello  stesso  periodo  fatti 
prima  confusi  cominciano  ad  acquistare  fisonomia  propria  fino  quasi  a  distin- 
guersi nettamente  dagli  altri  e  tra  loro.  I  fatti  insomma,  tanto  nelle  memorie 
pubblicate,  quanto  nei  lavori  inediti  da  lui  esumati,  si  presentavano  in  con- 
dizioni tali  da  renderne  assai  difficile  una  distribuzione  sistematica  secondo 
i  dettami  della  scienza  economica,  sopratutto  per  la  grave  possibilità  di  incor- 
rere in  ripetizioni. 

11  P.  ha  saputo  superare  quest'ostacolo  con  vera  maestria  mediante  uno 
studio  paziente,  minuto,  esauriente,  di  tutto  il  materiale  adoperato,  sicché, 
mentre  noi  possiamo  seguire  benissimo  lo  svolgimento  dei  vari  istituti  eco- 
nomici nella  sua  portata  pratica  e  teorica,  secondo  una  precisa  divisione  siste- 
matica, pochissime  sono  le  ripetizioni  che  occorrono  ed  assai  rari  i  riferi- 
menti. Il  P.  dice  che  il  metodo  scelto  per  la  sua  analisi  documentaria  vuole 
essere  riguardato  «piuttosto  come  un  tentativo  sperimentale,  che  come  la 
risultante  ultima  di  una  elaborazione  definitiva  che  egli  ritenga  e  giudichi 
pienamente  sodisfacente  ».  Ma,  dopo  aver  letto  con  attenzione  il  suo  volume, 
si  deve  concludere  che  il  «  tentativo  sperimentale  »  è  perfettamente  riuscito, 
e  merita  di  essere  seguito  da  coloro  che  volessero  tentare  studi  analoghi 
per  altri  ambienti  o  per  altri  aspetti  della  vita  economica. 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  315 


Ho  detto  che  l'A.,  aveva  anche  un  problema  di  estensione  da  risolvere. 
Per  quanto  l'importanza  dei  contributi  della  monarchia  piemontese  nei  feno- 
meni studiati  non  fosse  trascurabile  (ed  il  P.  lo  dimostra  benissimo),  pure  lo 
studioso  non  poteva  prescindere  dal  dare  uno  sguardo  alle  condizioni  della 
dottrina  ed  allo  stato  dei  fatti  degli  altri  paesi,  la  cui  influenza  poteva  essere 
sensibile  in  Piemonte.  I  richiami  e  l'esame  di  tali  condizioni  e  di  tale  stato 
di  cose  non  potevano  dunque  mancare,  tanto  più  che,  se  è  in  genere  assai 
scarsa  la  conoscenza  delle  sane  norme  economiche,  altrettanto  è  notevole  la 
comune  ignoranza  delle  vicende  storiche,  per  le  quali  i  vari  istituti  sono 
passati.  Tuttavia  i  richiami  stessi  non  potevano  essere  così  importanti  da  far 
passare  in  seconda  linea  l'obietto  principale  del  lavoro,  che  era  la  società 
piemontese.  Ma  anche  questa  difficoltà  è  stata  superata  dall'A.  in  iiiodo 
che,  senza  togliere  importanza  a  quanto  forma  il  tema  principale,  la  esposi- 
zione delle  vicende  storiche  degl'  istituti,  studiati  negli  altri  paesi  e  condotta 
con  grande  precisione  e  serenità,  procede  armonicamente  con  quella  speciale 
del  Piemonte,  e  costituisce  una  storia  sommaria,  chiara  e  spesso  originale, 
delle  vicende  stesse.  Qualche  volta  ci  si  trova  dinanzi  ad  una  ricostruzione, 
addirittura  nuova,  di  alcuni  fatti  economici,  mentre  la  coscenziosa  indagine 
della  non  piccola  bibliografia  ci  mostra  su  quali  fondamenta  granitiche  stiano 
assisi  i  giudizi  riassuntivi,  che  non  sono  propri  dell'A.  Per  questa  parte, 
anzi,  il  lavoro  del  P.  varca  i  limiti  della  monografia  regionale  ed  acquista  il 
pieno  diritto  di  entrare  nella  categoria  degli  studi  storici  generali  dell'eco- 
nomia politica. 

Ed  ora  qualche  cenno  più  speciale  dell'opera. 

Il  lavoro  è  diviso  in  cinque  parti.  La  prima  si  occupa  delle  banche  e 
dei  banchieri  a  mezzo  il  seicento  ;  la  seconda,  del  Piemonte  nella  storia 
bancaria;  la  terza,  dei  cameralisti  piemontesi  e  delle  dottrine  della  cir- 
colazione ;  la  quarta,  del  problema  bancario  ;  la  quinta,  degl'istituti  acces- 
sori. Riassumere  il  contenuto  di  ciascuna  è  impossibile.  Tutti  i  problemi, 
attinenti  all'evoluzione  del  credito,  alla  distinzione  del  problema  monetario 
da  quello  bancario,  alle  condizioni  del  mercato  monetario,  alla  funzione  del 
credito  nella  economia  nazionale,  ai  rapporti  fra  la  banca  e  lo  Stato,  alla 
struttura  economica,  alla  gestione  tecnica  ed  alle  funzioni  della  banca,  ecc.  ecc., 
sono  esaminati,  col  metodo  già  esposto,  nelle  loro  svariate  manifestazioni, 
si  che  la  vita  economica  del  Piemonte  ci  si  schiude  intera  dinanzi  agli 
occhi.  E,  mentre  sarebbe  stato  facile  cadere  in  esagerazioni  di  carattere  na- 
zionalista, è  più  che  notevole  l'imparzialità  del  giudizio,  sia  che  esso  si  rife- 
risca alle  deformazioni,  che  i  sistemi  stranieri  subivano  nelle  applicazioni, 
che  n'erano  fatte  nella  .Monarchia,  sia  che  si  riferisca  al  contributo  non 
indifferente,  che  uomini  e  sistemi  piemontesi  portarono  alla  risoluzione  dei 
problemi  discussi.  Dobbiamo  infatti  essere  grati,  fra  l'altro,  al  P.  per  il  modo 
sereno,  con  cui  mette  in  evidenza  l'opera  finora  ignorata  di  G.  B.  Vasco, 
il  quale,  nel  suo  Saggio  politico  della  carta  moneta  (dal  P.  altrove  pubblicato 
integralmente),  «  adombrava  con  mente  lucida  più  di  un  problema  che  da 
molti  si  ritiene  scaturito  dalla  sottigliezza  di  <.  laborazione  analitica  delle  re- 
centissime scuole  », 


2i6  Note^  questioni  sloriche,  ecc. 


È  notevole,  poi,  a  tanta  distanza  di  tempo,  il  ricorrere  degli  stessi  feno- 
meni economici,  di  che,  nel  lavoro  del  P.,  notiamo  gran  numero  di  esempi. 
Troviamo  così  un  esempio  di  coalizione  d'industriali  (i  setaiuoli)  contro  i 
coltivatori  di  bozzoli,  che  si  è  ripetuta  in  forma  identica,  recentemente,  nella 
industria  degli  zuccheri.  Troviamo  numerosissimi  accenni  al  danno  enorme 
che  deriva  alla  vita  economica  dei  paesi  da  un  eccessivo  intervento  dello 
Stato,  al  quale  riguardo  il  P.  riproduce  delle  pagine,  che,  nella  loro  freschezza, 
ci  mostrano  al  vivo  il  male  che,  in  tutti  i  tempi  e  in  tutti  i  luoghi,  ha  prodotto 
uni  ingombrante  burocrazia.  Egli  cita  una  strofa  popolare,  cantata  in  Francia 
in  sugl'inizi  della  Reggenza,  la  quale  si  adatta  mirabilmente  allo  immoderato 
ed  ingiustificabile  aumento  di  ministeri,  che  contrassegna  gli  ultimi  anni  della 
nostra  vita  parlamentare.  E  leggendo  di  un  episodio  relativo  ad  una  fabbrica 
di  Madrid,  che,  affidata  ad  un  provetto  mercante  di  panni,  si  trovò  tosto  in 
perdita  per  il  gran  numero  di  impiegati  che  vi  erano  stati  assegnati,  riesce 
più  facile  comprendere  le  ragioni  dell'insuccesso  di  tutte  le  imprese  di  Stato, 
e  si  è  indotti  a  disperai;e  che  in  avvenire  le  cose  possano  andare  diver- 
samente. 

Della  odierna  partecipazione  dello  Stato  in  industrie  di  carattere  nazio- 
nale troviamo  un'anticipazione  in  un  progetto  di  certo  signor  Des  Roches, 
che  vorrebbe  acquistate  dal  Sovrano  la  metà  delle  4000  azioni  di  una  sua 
Compagnia,  mentre  in  altro  progetto  troviamo  esempio  di  una  semiespropri?.- 
zione  dei  beni  delle  corporazioni  religiose.  Né  mancano  i  casi  in  cui  il  P.  sa 
dimostrare  la  priorità  d'idee,  discese  poi  da  altre  fonti  o  apparse  addirittura 
nuove,  come,  per  esempio,  quando  mette  in  evidenza  la  grande  importanza 
che,  nella  storia  del  credito  agrario,  hanno  avuto  i  Monti  frumentari  di  Sar- 
degna, vere  e  proprie  Casse  rurali,  o  come  quando  discorre  di  risparmio  e 
di  assicurazione.  Altrove  noi  troviamo  esposto  un  progetto  per  la  formazione 
di  una  Cassa  di  risparmio  e  pensioni,  che  ha  molti  punti  di  contatto  con  la 
famosa  Cassa  Pensioni  di  Torino  e  nel  quale  sono  accennate  delle  condizioni, 
come  questa:  che  la  Cassa  sia  in  grado  di  preventivare,  con  esatti  calcoli, 
che.  cosa  possa  promettere,  in  base  a  quanto  riceve.  Le  quali,  se  nel  nostro  caso 
fossero  state  tenute  presenti,  troppe  delusioni  si  sarebbero  evitate...  Poco 
dopo  il  P.  ci  informa  di  un  disegno,  clje  è  un  vero  e  proprio  schema  di 
assicurazione  mutua  obbligatoria  per  invalidità,  vecchiaia,  malattie,  disoccupa- 
zione, ecc.,  e  che  molti  anni  dopo  sarà  fra  noi  importato  di  Germania...  Non 
mancano  neppure  i  tentativi  di  mobilizzare  il  valore  ipotecario  delle  terre,  il 
cui  studio,  per  certi  stravaganti  disegni  venuti  su  in  questo  periodo  di 
guerra,  ha,  come  ben  dice  il  P.,  qualcosa  di  più  di  un  interesse  puramente 
archeologico... 

La  parte  più  interessante  del  lavoro  è  però  quella  che  non  si  può  riassu- 
mere, e  nemmeno  chiarire  con  un  tratto  reso  più  vivo  dalla  rasspmiglianza 
con  fatti  analoghi  dell'epoca  attuale.  Lo  svolgimento  dell'  idea  bancaria 
all'estero  e  in  Italia,  lo  sviluppo  delle  società  anonime  in  Inghilterra,  la  se- 
parazione dei  concetti  di  banca  e  industria  e  del  carattere  pubblico  e  privato 
di  una  banca,  la  nascita  e  lo  sviluppo  dei  titoli  ai  portatore,  le  relazioni  fra 
banca  e  depositi,  la  lotta  per  isfuggire  al  monopolio  dei  banchieri,  le  funzioni 


Note t  questioni  storiche y  ecc.  217 


della  banca,  la  determinazione  del  rapporto  fra  sconto  e  circolazione  cartacea, 
la  formazione  delle  riserve,  i  progetti  del  Law,  tutti  questi  ed  altri  aspetti 
importantissimi  dei  fenomeni  monetari  e  bancari  sono  esaminati  in  pagine 
veramente  magistrali,  in  cui  alla  serenità  dello  storico  è  unito  il  senso  cri- 
tico di  chi  mostra  di  conoscere  a  fondo  i  problemi  trattati  e  che  danno  al 
lavoro  un  rilievo  che  va  al  di  là  di  ciò  che  non  faccia  supporre  il  titolo  della 
raccolta  di  cui  fa  parte. 

L'A.  non  viene  a  conclusioni  determinate,  e  si  limita  a  raccogliere  qualcuna 
delle  impressioni  culminanti,  che  gli  sembrano  emergere  dalla  sua  esposi- 
zione, solo  per  dedurne  qualche  risultato  concreto  relativamente  a  taluno 
dei  fatti  studiati  o  dei  problemi  discussi.  Questi  fatti  egli  raggruppa  in  due 
campi,  di  cui  l'uno  è  riferibile  solo  alla  storia  locale,  l'altro  è  di  più  larga  por- 
tata. Rispetto  al  primo,  egli  conferma  quanto  in  altra  sede  aveva  asserito 
circa  il  notevole  sviluppo  della  scienza  economica  in  Piemonte  nel  periodo 
presmithiano.  Rispetto  al  secondo,  l'A.  constata  l'intima  somiglianza  fra 
molti  dei  problemi  allora  dibattuti  o  tnolti  dei  fenomeni  che  le  provocarono, 
e  quelli  che  ancor  oggi  occupano  ed  appassionano  i  dibattiti  del  pubblico. 
Tale  connessione  appunto  io  mi  sono  studiato  di  porre  in  evidenza,  e  perciò 
auguro  all'A.  e  al  nostro  paese  che  il  libro  abbia  fortuna  assai  maggiore  di 
quella  che,  pur  troppo,    suole  accompagnare  i  lavori  scientifici  italiani. 

Epicarmo  Cordino. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


Sociologia  generale  :  V.  Pareto,  Trattato  di  sociologia  generale,  Firenze, 
Barbèra,  1916,  2  voli.,  pp.  LXXVii-757  ;  887.  —  Delle  teorie  sociologiche  di 
V.  Pareto  discorrerà  a  suo  tempo  ex  professo  uno  dei  collaboratori  della  Ri- 
vista. Qui  ci  limitiamo  a  esporre  oggettivamente  la  tesi  fondamentale  di  que- 
st'opera voluminosa,  una  delle  più  colossali  (comunque  si  giudichi)  nel  campo 
della  sociologia  moderna.  Organizzando  teorie  ch'egli  avea  accennate  in  altri 
suoi  scritti  precedenti  di  carattere  non  precisamente  sociologico,  il  P.  vuole 
adesso  ricercare  le  leggi  generali  sul  dinamismo  della  società  umana.  Egli 
nota  che  le  azioni  umane,  fondamento  del  fatto  sociale,  sono  parte  azioni 
logiche  e  parte  azioni  non  logiche,  derivate  cioè  dal  sentimento  e  dall'istinto, 
sebbene  gli  uomini  se  le  figurino  dettate  da  ragione,  e  tali  vogliano  dimo- 
strarle. Il  P.  chiama  residui  gli  istinti  e  quei  sentimenti  originari,  che  muovono 
e  determinano  le  varie  società.  Di  questi  residui  una  prima  categoria  è  costi- 
tuita di  tendenze  rinnovatrici  {Classe  /)  ;  una  seconda  categoria,  di  tendenze 
conservatrici  {Classe  II).  Una  società  vive  e  prospera  in  quanto,  e  fino  a 
quando,  i  residui  della  Classe  Ivi  si  equilibrano  con  quelli  delia  Classe  II. 
Allorché,  fra  le  due  Classi,  si  inizia  un  pericoloso  squilibrio,  interviene  a  ri- 
mediare un  riflusso  compensatore  degli  elementi  della  classe  momentanea- 
mente più  debole.  Praticamente,  nelle  varie  società,  i  residui  della  Classe  I 
sono  specialmente  impersonati  negli  strati  sociali  superiori;  quelli  della 
Classe  II,  negli  strati  inferiori  ;  e  ogni  volta  l'equilibrio  è  turbato  dalle  ten- 
denze novatrici  di  una  frazione  dei  ceti  superiori  e  ristabilito  dall'intervento 
di  una  frazione  dei  ceti  inferiori,  che  entra  così  a  far  parte  di  quella  che  si 
dice  classe  superiore  dominante. 

Questo  schema  generalissimo  è  svolto  dal  P.  diffusamente  nelle  nume- 
rose pagine  dei  due  volumi,  attraverso  una  esemplificazione  vastissima  di 
fatti  storici,  antichi,  moderni,  modernissimi.  Può  dirsi  anzi  che,  se  la  teoria  è 
un'ipotesi,  la  parte  viva  dell'opera  è  la  copia  sterminata  delle  analisi  di  fe- 
nomeni sociali  che  essa  contiene. 


Bollettino  bibliografico  219 


Ma,  caso  strano,  è  stato  appunto  tale  fondamento  quello  che  ha  mag- 
giormente e  non  favorevolmente  colpito  i  sociologi  critici  del  P.  Avvezzi  a 
baloccarsi  con  le  teorie  e  con  le  vuote  generalità  ;  assai  deficienti  molte  volte 
di  senso  storico,  essi  sono  rimasti  urtati  da  una  osservazione  storica  difficile 
a  inseguire  in  tutte  le  sue  arguzie  e  in  tutti  i  suoi  particolari  e  da  ravvici- 
lìamenti,  che  una  superficiale  canonica  storica  o  sociologica  non  consentiva. 
Eppure,  ripetiftmo,  è  questa  la  parte  più  suggestiva  e  migliore  dell'opera  del  P. 
Egli  può  avere  errato  nelP  interpretare  questo  o  quel  fatto  storico,  nello  sta- 
bilire questo  o  quel  ravvicinamento,  ma  egli  ha  veramente  sentito  la  storia 
come  fatto  vivo  ed  ha  conferito  alla  cronaca  di  oggi  la  dignità  storica,  che 
si  doveva,  e  che  quanti,  pur  troppo,  sono  abituati  a  separale  nettamente 
l'oggi  dall' ieri,  la  solenne  storia  dalla  vile  politica  attuale,  non  vi  riconoscono. 
Un  altro  elemento  ha  nociuto  al  P.  nel  giudizio  di  molti  suoi  critici  :  la  ten- 
denza conservatrice  dei  suoi  apprezzamenti  storici  e  politici.  Questa  è,  come 
direbbe  il  P.  stesso,  una  tendenza  non  logica;  ma  essa  non  riguarda,  come 
si  è  creduto,  singoli  giudizi  storici  o  politici,  sibbene  l'essenza  stessa  della 
teoria.  Come  abbiamo  visto,  se  il  perfetto  stato  sociale  è  pel  P.  quello,  in 
cui  le  tendenze  novatrici  si  equilibrano  con  le  tendenze  di  carattere  opposto, 
ne  consegne  che,  per  lui,  ogni  eccesso  delle  prime  deve  necessariamente  co- 
stituire un  pericolo  sociale,  deve  cioè  essere  considerato  come  un  male. 

Ma  con  queste  considerazioni  noi  entriamo  in  un  campo  critico  da  cui 
volevamo  astenerci.  Noi  intendevamo  per  ora  limitarci  esclusivamente  a  dare 
un'idea  dell'opera,  anzi,  meglio  ancora,  delsistema  sociologico  del  Pareto. 

Storia  regionale  italiana:  Nella  Collana  Scolastica  per  le  Provincie  d'Ita- 
lia, edita  a  cura  dei  sigg.  Federico  e  Ardia  di  Napoli,  è  stato  pubblicato  il 
volume  Terra  di  Lavoro  del  prof.  F.  Sarappa,  contenente  nozioni  geo- 
grafiche, storiche  e  sociologiche  della  Provincia  di  Caserta.  Questo .  lavoro 
risponde  esattamente  agl'intenti  che  si  prefiggono  gli  editori,  che  son  quelli 
di  far  conoscere  le  notizie  più  importanti  di  ciascuna  regione  d'Italia.  Ed  in- 
fatti della  provincia  di  Caserta  si  ha  nel  volume  del  Sarappa  una  buona 
descrizione  geografica,  sufficienti  cenni  storici,  notizie  statistiche  e  cenni 
biografici  delle  persone  più  illustri.  Il  libro  poteva  avere  certamente  un  mag- 
gior rigore  nella  parte  storica  :  si  poteva,  ad  esempio,  non  parlare  à^V esa- 
crato governo  borbonico,  subito  dopo  aver  detto  che  per  opera  di  Ferdi- 
nando IV  s'iniziò  la  vita  industriale  della  provincia;  potevasi  inoltre,  parlando 
di  Itri,  ricordare  Michele  Pezza,  ecc.;  potevansi  anche  non  notare,  dopo  la 
Conclusione,  in  appendice,  certi  canti  popolari  ed  alcuni  cunte,  che  non  hanno 
alcun  valore  Storico,  e  tanto  meno  letterario  e  demografico,  ma  ad  ogni 
modo  il  lavoro,  come  studio  regionale,  non  manca  d' importanza  e  risponde 
allo  scopo,  per  cui  è  stato  scritto  (C.  Carucci). 

—  A.  Cossu,  L'isola  di  Sardegna,  saggio  monografico  di  geografia  fisica 
e  di  antropogeografia,  Milano-Roma-NapoH,  Albrighi,  Segati  &  C,  1916.  ~ 
È  uno  studio  condotto  con  rigore  scientifico  e  con  conoscenza  precisa  de 
moderni  indirizzi  degli  studi  geografici.  L'isola  è  studiata  ampiamente  sotto 
l'aspetto  fisico,  ma  la  parte  più  importante  del  lavoro  è  quella  che  he  riguarda 


Bollettino  b ihlioi»rafico 


l'aiitropoj^^éojjrafia.  L'origine  degli  abitatori  della  .Sardegna,  la  loro  storia  e 
le  diilerenze  dialettologiche  sono  studiate  con  competenza  profonda.  Interes- 
santissimo è  poi  lo  studio  sulla  distribuzione  della  popolazione  in  rapporto 
alla  distanza  dal  mare,  alla  costituzione  geologica  del  suolo,  all'altitudine  e 
quello  sulla  somatologia  e  demografia  della  popolazione  stessa.  È  merito  del- 
l'opera una  ricca  bibliografia  (C.  Carucci). 

Terre  italiane  irredente:  A.  Ottolini,  Irredentismo  veneto  e  proclami 
nazionali {i86o- 1866),  in  Archivio  veneto,  1916.  —  L'A.,  sulla  fede  di  documenti 
e  di  narrazioni  assai  interessanti,  espone  le  diverse  manifestazioni  dell'  irre- 
dentismo veneto  e  l'accanita  opposizione,  che  vi  fece  l'Austria  dal  1860  al  1866. 
In  appendice  trovansi  poesie  e  proclami  inediti  tratti  dal  Museo  del  Risor- 
gimento di  Milano. 

—  E.  MHLCfiiORi,  La  lotta  peri*  italianità  delle  Terre  Irredente  (1797-1915), 
Firenze,  Bemporad,  1917,  pp.  196.  —  L'A.,  dopo  aver  accennato  alle  ragioni, 
a  suo  giudizio  fondamentali,  dell'odio  degli  Italiani  contro  l'Austria,  prosegue 
narrando  la  storia  del  Trentino,  dell'Istria  e  della  Dalmazia  dal  1798  al  1815. 
Mette  quindi  in  rilievo  le  varie  manifestazioni  d'italianità  in  quelle  regioni, 
durante  i  rivolgimenti  del  1848-49,  il  nobile  entusiasmo  degli  Irredenti  du- 
rante la  campagna  del  '59,  la  spedizione  garibaldina  del  '60  e  i  tentativi 
del  '66.  Continua  illustrando  le  agitazioni  irredentistiche,  in  Italia  e  nella 
Venezia  Giulia  e  Tridentina,  dal  1867  fino  al  1914.  Passa  quindi  ad  indagare 
le  cause  della  guerra  italiana  presente,  i  motivi  della  nostra  neutralità  al 
principio  di  essa,  poi  della  denunzia  della  Triplice  e  infine  della  nostra  entrata 
in  guerra.  Il  lavoro  ha  carattere  più  apologetico  che  storico.  Di  qui  i  suoi 
pregi  e  i  suoi  difetti,  assai  facilissimi  a  intuire  e  a  rilevare. 

Napoleone  I  e  la  Germania:  Hans  Dklbrùck,  L'exemple  de  Napo- 
léonl*^'',  in  Revue  Politique  Internationale,  gennaio-febbraio  1917.  —  L'A.,  par- 
tendo dalla  premessa  che  ciò  che  oggi  muove  l' Inghilterra  nel  suo  colossale 
sforzo  contro  la  Germania  è  il  ricordo  del  pericolo  napoleonico,  si  propone 
di  indagare  storicamente  quanto  sia  di  vero  e  di  falso  in  questo  ravvici- 
namento, Egli,  per  una  parte,  riabilita  Napoleone,  «calunniato»  dall'odio 
inglese,  e  sostiene  che,  contrariamente  :al  desideirio  del  Primo  Console,  ch'era 
quello  di  mantenere  la  pace,  l' Inghilterra  ruppe  il  trattato  di  Amiens  e  ri- 
prese la  lotta  nel  i8o3  perchè  temeva  lo  sviluppo  e  l'accrescimento  della 
Francia.  Indagando  le  cause,  che  possono  aver  sospinto  l' Inghilterra  a  formu- 
lare V  ultimatum y  che  imponeva  la  cessione  dell'isola  di  Malta  e  che  fu  da 
Napoleone  giudicato  intollerabile  per  il  prestigio  e  la  gloria  della  Francia, 
l'A.,  ispirandosi  ad  una  recente  monografia  di  Otto  Brandt  {England  und 
die  Napoleonische  Weltpolitik  1800-1803,  Winter,  Heidelberg),  opina  che  sia 
stata  la  Russia  ad  incoraggiare  1*  Inghilterra  in  una  politica,  la  quale  doveva 
necessariamente  condurre  alla  continuazione  della  lotta. 

Passando  a  discorrere  della  guerra  europea  attuale,  l'A.  afferma  che  è  un 
errore  politico  credere  che  tutto  il  popolo  tedesco  sogni  l'egemonia  mon- 
diale, come  è  errore  storico  credere  che  la  Francia  dei  primi  anni  del  se- 


Bollettino  bibliografico  221 


colo  XIX  pensasse  fare  altrettanto  in  Europa.  Si  tratterebbe  invece,  per  la  Ger- 
mania d'oggi,  come  per  la  Francia  di  allora,  di  acquistare  una  forza  navale, 
un'industria  d'esportazione,  un  grande  commercio  d'oltre  mare,  e  ammette 
che  questo  programma  costituisce  una  minaccia  per  la  potenza  dell'Inghilterra, 
Lo  studio  termina  con  un  raffronto  tra  le  condizioni  di  pace,  offerte  dalla 
Germania  alla  fine  del  1916,  l'appellò  rivolto  dal  Bonaparte  all'Arciduca  Carlo 
nel  1797  e  la  sua  lettera  del  Natale  di  quell'anno  inviata  al  re  d'Inghilterra 
e  all'  Imperatore  d'Austria.  Questo  raffronto  vuol  provare  come,  nell'  un  caso 
e  nell'altro,  le  offerte  del  vincitore  siano  state  sincere.  Dal  punto  di  vista 
storico,  l'articolo  è  significantissimo  per  due  fatti  :  obbiettivo  l' uno,  soggettivo 
l'altro.  Quello  obbiettivo  è  la  revisione,  che  gli  eredi  del  Blùcher  hanno  ini- 
ziata del  loro  tradizionale  giudizio  sull'opera  di  Napoleone  ;  quello  soggettivo 
è  r  ingenua  e  sincera  identificazione,  ch'essi  lietamente  fanno  della  Germania 
ai  primi  del  secolo  XX  con  la  Francia  in  sui  primi  del  secolo  XIX  ;  di  Gu- 
glielmo li  con  Napoleone  I 

Stati  Uniti  :  Vito  Garretto,  Storia  degli  Stati  Uniti  delV  America  del 
Nord  (1497-1914),  Milano,  Hoepli,  1916,  pp.  xix-500.  —  Sulla  storia  degli 
Stati  Uniti  d'America  noi  italiani  possediamo  due  eccellenti  lavori,  dovuti  a 
due  nostri  collaboratori  :  l'uno,  quello  del  Moi^daini  {Origini degli  Stati  Uniti. 
Milano,  Hoepli,  1914)  ;  l'altro,  questo  recentissimo  dei  Garretto.  Sono  lavori 
egualmente  buoni,  sebbene  forniti  di  caratteri  diversi  :  quello  del  M.  più 
ampio  e  meditativo;  questo,  più  succinto,  ma  d'informazione  p)iù  ricca  e  più 
immediata,  poiché  elaborato  nel  paese  stesso  di  cui  l'A.  discorre,  e  di  una 
esposizione  piana  e  semplice,  che  pur  conosce  il  segreto  di  destare  nel  let- 
tore un  interesse  sempre  crescente.  È  uno  dei  volumi  migliori  della  Collezione 
Villari,  la  quale,  benché  conti  nella  sua  serie  dei  saggi  scadenti,  ha  avuto 
il  raro  merito  di  donare  al  nostro  paese  qualche  libro  di  vera  storia.. 

—  Jambs  Miller  Leake,  Ph.  D.,  l^he  Virginia  Committee  System  and  the 
American  Revolution  {Johns  Hopkins  Univcrsily  Studies  in  Historical  and 
Politicai  Science),  Baltimora,  The  Johns  Hopkins  Press,  1917,  Series  XXXV, 
No.  I.  —  Questo  studio  del  dott.  Leake  riesamina  un  punto  importantissimo 
di  storia  americana:  quello  che  si  riferisce  alla  istituzione  dei  Comitati  di 
Corrispondenza,  i  quali  furono  gli  organi  regolatori  dell'azione  americana, 
durante  il  periodo  critico,  che  sta  tra  i  primi  movimenti  rivoluzionari  delle 
Tredici  Colonie  e  l'apertura  del  primo  Congresso  continentale.  Siccome  il 
sistema  di  affidare  a  Comitati  speciali  la  trattazione  delle  varie  questioni,  po- 
litiche e  amministrative,  ha  avuto  nel  Parlamento  americano  una  stabile^  con- 
tinua e  ininterrotta  applicazione,  tanto  da  costituire  la  caratteristica  precipua 
della  organizzazione  parlamentare  americana,  é  chiaro  che  non  è  vano  stu- 
diare i  precedenti  di  quel  sistema  e  seguirne  le  vicende,  sopratutto  là  dove 
esso  ebbe  la  più  ampia  applicazione.  Ciò  avvenne  nella  Colonia  della  Vir- 
ginia, nella  quale  il  sistema  dei  Comitati  parlamentari  venne  applicato  fin  dal 
prostituirsi  della  famosa  Camera  dei  Borghesi,  che  fu  la  prima  Assemblea  del 
genere  in  America  ed  ha  perciò  un  posto  glorioso  nella  storia  della  demo- 
-crazia  di  tutto  il  mondo. 


I 


222  bollettino  bibliografico 


La  Camera  dei  Borghesi,  nata  nel  1619,  fu  modellata  sulla  Camera  dei 
Comuni  della  madre-patria  ;  ma  in  quella  il  sistema  dei  Comitati  si  affermò 
e  consolidò  sempre  più  ;  laddove  in  Inghilterra,  col  sorgere  del  Gabinetto  re- 
sponsabile, il  sistema  decadde.  Ciò  spiega  perchè  Comitati  parlamentari 
permanenti  siano  stati  generalmente  riguardati  come  un'  invenzione  pura- 
mente americana.  Ma  v'ha  di  più  :  siccome  codesto  sistema  non  ebbe  larga 
applicazione  nelle  Assemblee  del  New  England,  gli  scrittori  di  storia  ame- 
ricana, per  lo  più  uomini  del  New  England,  hanno  sorvolato  sul  fatto  che, 
prima  del  1789,  anno  in  cui  la  Costituzione  federale  degli  Stati  Uniti  fu 
promulgata,  il  sistema  era  stato  largamente  applicato  e  da  lungo  tempo 
praticato  in  Virginia.  Ora  il  Leake  si  è  proposto  di  dimostrare  la  continuità,' 
di  spiegare  la  organizzazione  dei  Comitati  nella  Camera  dei  Borghesi,  e  di 
mettere  in  luce  la  parte  che  tali  Comitati  ebbero  nella  convocazione  del 
Primo  Congresso  Continentale. 

I  materiali,  su  cui  il  lavoro  del  Leake  è  condotto,  sono  noti  agli  studiosi 
di  storia  americana  ;  ma  l'autore  con  nuova  diligenza  li  ha  investigati  e 
scrutati  e  ne  ha  ricavato  prove  convincenti  per  la  sua  tesi,  che  a  me  pare 
giustissima.  Ed  è  bene  che  gli  studiosi  italiani  prendano  nota  di  questo  la- 
voro e  non  lo  trascurino,  quando  vogliano  occuparsi  dell'  interessante  argo- 
mento, non  solo  per  la  storia,  ma  anche  per  la  vita (V.  Garretto.) 

—  William  O.  Weyfroth,  The  organizability  of  Labour  {Johns  Hopkins 
University  Studies),  Baltimora,  The  Johns  Hopkins  Press,  1917  (pp.  277),  Se- 
ries  XXXV,  No.  2.  —  È  un'accurata  ed  interessante  monografia  sull'organiz- 
zazione del  lavoro  negli  Stati  Uniti  in  base  ai  dati  forniti  dalle  pubblicazioni 
delle  Trade-unions  e  dalle  pubblicazioni  ufficiali  o  ricercati  direttamente 
dall'A.  in  numerose  interviste  con  i  segretari  delle  varie  associazioni.  L'orga- 
nizzazione delle  forze  lavoratrici  vi  è  esaminata  sotto  tutti  gli  aspetti  :  i  me- 
todi, le  persone  e  le  agenzie  di  propaganda,  la  lotta  con  gl'industriali  e  le 
armi  relative  (lo  sciopero  sopra  tutto),  i  mezzi  per  mantenere  i  lavoratori 
inscritti  alle  leghe  il  più  a  lungo  possibile,  le  diverse  probabilità  di  costi- 
tuzione di  una  lega  a  seconda  che  si  tratti  di  lavoratori  addetti  a  piccole 
imprese  o  a  grandi  industrie  riunite  in  formidabili  organizzazioni  (trusts), 
le  ripercussioni,  che  lo  stato  generale  dell'economia  esercita  sulla  forza 
numerica  e  finanziaria  delle  leghe,  ecc.  ecc.  Ognuno  di  questi  aspetti  è  poi  a 
sua  volta  studiato  nelle  sue  caratteristiche  più  minute.  Lo  studio  racchiude 
anche  una  misurata  esposizigrie  di  dati  statistici,  ed  è  convalidato  da  molte 
prove  tratte  dall'esperienza  del  trade-umonismo  americano. 

Alcune  pagine  del  libro  hanno  per  noi  qualche  interesse  immediato  per- 
chè vi  si  studia  l'atteggiamento  degl*  immigranti  di  fronte  all'organizzazione 
del  lavoro.  Qui  l'A.,  polemizzando,  con  altro  scrittore  che  aveva  attaccato  le 
conclusioni  della  Immigration  Commissione  conferma  anche  lui  che  l'immi- 
grante in  genere  è  restio  ad  inscriversi  nelle  leghe,  e,  se  lo  fa,  non  vi  resta  a 
lungo.  L'A.  attribuisce  tale  fatto  alla  qualità  di  lavoratore  non  specializzato 
dell'immigrante,  alla  brevità  del  suo  soffermarsi  sul  mercato  di  lavoro  e  alla 
scarsa  fiducia  nei  vantaggi  lontani,  che  gli  potrebbero  derivare  da  una  per- 
manenza neljia  lega.  In  tutto  il  volume  è  messa,  assai  bene  in  evidenza  l'im- 


Bollettino  bibliografico  223 


portanza  che  il  favore  dell'opinione  pubblica  ha  nella  decisione  delle  lotte 
fra  lavoratori  e  industriali  e  gli  effetti  che,  sulla  vitalità  delle  organizzazioni, 
esercita  l'esito  degli  scioperi.  Da  numerosi  esempi  citati  appare  poi  chiaris- 
simo l'insuccesso  degli  scioperi  così  detti  di  solidarietà,  divenuti  ormai  troppo 
frequenti. 

Nel  periodo  che  si  attraversa,  e  in  vista  delle  future  competizioni  fra  lavo- 
ratori ed  industriali,  il  lavoro  del  Weyforth  —  a  motivo  della  serietà  con  cui 
sono  condotte  le  indagini  e  la  notevole  serenità  di  giudizio  —  può  riuscire 
assai  utile  a  consultarsi  anche  per  il  nostro  mercato  di  lavoro,  nonostante 
la  sua  non  perfetta  corrispondenza  con  quello  americano.  Un  indice  per  ma- 
teria rende  agevoli  le  ricerche  (E.  C). 

Storia  contemporanea:  A.  Debidour,  Histoire  diplomatique  de  l'Europe, 
depuis  le  Congrès  de  Berlin  jusqu'à  nosjours,  Paris,  Alcan,  1917:  I  (2*  edi- 
tion),  pp.  xii-359  ;  II,  pp.  379.  —  Il  compianto  A.  Debidour,  professore  nella 
Università  di  Parigi,  era  già  noto  nel  mondo  degli  studiosi  per  la  sua  Histoire 
diplomatique  de  l'Europe  ù^X  Congresso  di  Vienna  al  Congresso  di  Berlino. 
Or  bene,  nei  due  volumi  che  abbiamo  sott'occhio  egli  continuò  l'opera  sua 
fino  ai  nostri  gioì-ni  ;  svolgendo  per  tal  guisa,  esattamente,  un  secolo  di  storia 
diplomatica  europea.  L'opera  è  scritta  con  ammirevole  imparzialità,  e  mai 
una  tesi  patriottica  o  partigiana  fa  velo  allo  spirito  dell'A.  Essa  è  fondamen- 
tale per  la  storia  della  politica  estera  europea  di  questi  ultimi  quarant'anni. 
Tuttavia  pecca  dell'inevitabile  difetto  di  tutte  le  storie,  che  esaminano  uno 
solo  dei  fenomeni,  politici  e  sociali,  del  tempo.  La  storia  esterna  europea  è 
qui  narrata  coqie  avulsa  dalle  restanti  istorie  interne  (politica,  economica,  cul- 
turale) di  ciascun  paese;  sì  che  noi  scorgiamo  il  tracciato  del  disegno,  ma 
non  le  forze  retrostanti  che  lo  determinarono  è  configurarono.  Questo  non 
vuol  dire  che  non  si  possa  scrivere  di  un  fenomeno  solo  della  vita  di  un 
popolo,  ma,  perchè. quel  racconto  sia  vivo  e  vero,  occorre  non  reciderlo  mai 
completamente  dall'insieme  di  tutti  gli  altri  fenomeni  storici. 

—  F.  Paoloni,  /  sudekumizzati  del  socialismo,  Milano,  ed.  del  Popolo 
d'Italia,  1917,  pp.  366.  ~  È  un  libro  di  battaglia,  ma,  è  sopra' tutto  un  libro 
di  storia.  L'A.  si  è  proposto  di  fare  la  storia  dell'atteggiamento  o,  piuttosto, 
dei  successivi  atteggiamenti  del  partito  socialista  italiano,  durante  l'attuale 
guerra  europea  e  rispetto  alla  guerra.  A  tale  scopo  egli  ha  avuto  presente 
tutta  la  sterminata  letteratura,  periodica  e  occasionale,  del  socialismo  italiano 
e  tutti  gli  atti  ufficiali  e  semiufficiali  da  esso  compiuti  od  emanati.  Ne  con- 
segue che  il  libro  risulta  una  storia  documentata,  efficacissima  e  indispenv 
sabile,  dell'azione  del  socialismo  italiano  rispetto  alla  guerra.  Il  titolo,  che 
sembra  un'ingiuria  rivoltaalPavversario,  non  è  in  realtà  tale.  La  tesi  delPA. 
—  lucidissimamente  dimostrata  —  è  appunto  questa:  che  il  P.  S.  U.  I.  sia 
a  poco  a  poco  passato  da  un  atteggiamento  antiaustriaco  e  antitedesco  a  una 
neutralità  benevola  verso  Austria  e  Germania  :  ciò  che  era  appunto  lo  scopo 
della  famigerata  missione  Sudekum. 

—  Felice  Momigliamo,  Amedeo  Fichte  e  le  caratteristiche  del  naziona- 
lismo tedesco,  in  Nuova  Antologia,  8  settembre  1916.  —  \\  geniale  autore 
studia  in  quali  modi,  in  tempi  gravi  per  la  Germania,  il  Fichte,  abbia,  con 
la  propria  opera,  saputo  influire  sulla  coscienza  nazionale  dei  suoi  compa- 
trioti. Conclude,  confrontando  il  patriottismo  del  Fichte  col  nazionalismo 
tedesco  dopo  il  1870. 


Articoli  che  vedranno  la  luce  nei  prossimi  numeri: 

Corrado  Barbagallo,  L'Italia  dal  1870  ad  oggi:  saggio  storico. 

Idem,  VOriente  e  l'Occidente  nell'Impero  romano, 

Carlo  Paladini,  Un  invito  dell'Inghilterra  all'Italia  in  Egitto, 

Aldo  Ferrari,  L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari. 

Anna  Vera  Eisenstadt,  La  preistoria  della  rivoluzione  russa, 

Alberto  De  Stefani,  Le  ^idee  madri*  di  Vilfredo  Pareto. 

Guido  Santini,  Storiografia  elementare. 

Giuseppe  Pardi,  Un  bilancio  preventivo  dello  Stato  fiorentino  nel  1544, 

Gellio  Cassi,  Meditazioni  storiche:  considerazioni  e  raffronti, 

Gerolamo  Lazzeri,  Le  teorie  storiografiche  di  B.  Croce. 

Amedeo  Mazzotti,  La  €  filosofia  della  storia*  di  Guglielmo  Ferrerò, 

Epicarmo  Corbino,  //  progresso  economico  della  Sicilia  negli  ultimi  decenni. 

Alessandro  Chiappelli,  Domenico  Comparetti  e  l'opera  sua, 

Antonio  Sogli  a  no,  La  bandiera  dell'ellenismo. 

Ivan  Grinenko,  Le  correnti  federaliste  nella  storia  della  Russia  e  nella  Iqtta  pJtitiéM 

odierna. 
Ettore  Ciccotti,  La  guerra  e  i  suoi  interpreti. 

Umberto  Ricci,  Sulla  opportunità  della  storia  della  economia  politica  itafiana. 
Italo  Pizzi,  Della  così  detta  civiltà  degli  Arabi. 
Valentino  Piccoli,  Rassegna  giobertiana, 

È    già    pubblicato  : 

Per  l'ilaUlà  della  (olliira  oostia:  Dimoili  e  Batlaglle 

.  ♦  >  ^ . __ 

Milano-Roma-Napoli  -   Società  Editrice  Dante  Alighie^-i   di  Albrighi, 
Segati  &  C,  pp.  viii-137,  Lire  2,50,  di, cut  qui  dianio  il  Sommario: 

PREFAZIONE  (Gli  Editori);  INTRODUZIONE  (C.  Barbaoallo);  In  che  consiste  Veman 
Cipazione  della  coltura  nazionale  (E,  Ciccorri);  Per  l'emancipazione  della  coltura  italiana  (A 
proposito  di  un  articolo  di  G.  Vitelli)  (C.  B.);  Filologia  e  Storia  (A.  Ferrari);  Per  l'autonomia 
letteraria  e  spirituale  (R.  Mondolfo);  Filologia  italiana  e  filologia  tedesca  (G.  Fraccaroli)  ; 
Filologia  e.letteraiura  :  coltura  tedesca  e  coltura  italiana  (G.  Fraccaroli);  A  proposito  di  una 
polemica  di  coltura  (P.  Ter  ruzzi);  Storia,  coltura  e  metodo  storico:  lettera  aperta  a  O.  Salve- 
mini (C.  Barbaoallo);  Le  discipline  storiche  e  l'ora  presente  (E.  Bignone);  La  bandiera  del' 

l'ellenismo  (A.  Sogliano);  Un  processo  filologico-storiografico (F.  Guglielmino);  EPILOGO 

(C.  Barbagallo).  —  APPENDICE:  I.  Per  la  serietà' della  scuola  italiana:  la  questione  dui 
libri  scolastici  del  Barbagallo  (E.  Pancrazio)  ;  U.  L'indirizzo  culturale  di  Girolamo  Vitelli  e 
della  sua  scuola  (C.  B.). 

A  scanso  di  equivoci  e  di  erronee  Interpretazioni  dichiariamo  una  volta 
per  tutte  che  del  contenuto  SPECIFICO  del  singoli  articoli  la  responsabi- 
lità appartiene  interamente  agli  autori  che  11  sottoscrivono. 

^yiyi       ■■iwV  'VMM  VW  VW       "     ^»  VWV"  WW        '     V'W         '    VMV    '         v» 

A.  Medici,  Gerente  responsabile. 
Città  di  Castello,  Tipografia  della  Casa  Editrice  S.  Lupi,  1918, 


Anno  II.  Maggio-Giugno  1918,  Fasc.  III. 

•J^uoiJa    ^\9\s\a    2)^onca 

L'enigma  della  Guerra  e  i  suoi  interpreti 


In  seguito  a  cortese  concessione  dell'autore  (che  ha  riveduto  e  anno- 
tato appositamente  il  suo  scritto  per  il  nostro  periodico)  e  degli  editori 
(il  giornale  La  Sera  di  Milano),  possiamo  qui  riprodurre  una  parte 
della  notevole  Prolusione^  che,  all'  inaugurarsi  di  quest'anno  scolastico, 
Ettore  Ciccotti  tenne  nella  R.  Università  di  Messina,  Nelle  pagine 
immediatamente  precedenti  l'A,  fa  una  rapida  sintesi  per  mostrare  la 
graduale  evoluzione,  anche  nel  mondo  antico,  della  guerra  con  tutte  le  con- 
seguenze nel  campo  della  civiltà,  e  negli  aspetti  stessi  della  guerra.  Nota 
il  movimento  per  cui  si  cercava  porre  d'accordo  la  forza  delle  ragioni 
con  le  ragioni  della  forza,  e  come  specialmente  aW epoca  romana  si  fa- 
cessero strada  il  criterio  di  non  scompagnare  la  guerra  da  un  senso  di 
giustizia  e  la  necessità  di  moderarne  la  inumanità.  Indi  il  Ciccotti 
continua: 

Alberigo  Gentili  e  Ugo  Grozio. 

Questi  ed  altri  tratti  di  antichi,  che,  volendo,  si  potrebbero  mol- 
tiplicare, segnano  già  un  momento  non  trascurabile  del  cosidetto  di- 
ritto di  guerra.  Ma  toccava  al  secolo  XVI  —  e  per  opera,  prima,  di  un 
italiano  e,  poi,  di  un  olandese,  di  Alberigo  Gentili  e  di  Ugo  Grozio 
—  dare  forma  sistematica,  organica,  più  concreta  e  quasi  normativa, 
a  questo  modo  di  considerare  la  guerra  e  le  sue  forme. 

Nasceva  e  fioriva  Alberigo  Gentili  proprio  mentre  TEuropa  era 
devastata  dalle  guerre  della  Casa  d'Austria  e  della  Casa  di  Valois,  dalle 
guerre  di  religione  tra  protestanti  e  cattolici,  e  maturavano  i  foschi  e 
invadenti  disegni  di  Filippo  II.  Appartenente  a  una  famiglia  di  etero- 
dossi, per  lungo  tempo  vagante  fuori  d'Italia,  portando  ovunque  la 

15  —  Nuova  Rivista  Storica. 


226  Ettore  Ciccotti 


dirittura  del  suo  spirito  e  la  luce  della  sua  dottrina,  egli  doveva  essere, 
forse  più  d*ogni  altro,  spinto  a  cercare,  tra  quella  tempesta  e  quella 
confusione,  una  norma  e  una  guida;  e  la  trovò  e  la  bandì  in  una  più 
retta  intelligenza  della  guerra  che  non  era  possibile  o  lecito  evitare, 
e  neir  impedirne  gli  eccessi  e  le  sregolatezze. 

Nella  sua  definizione  (I,  2)  la  guerra  è  «  giusto  conflitto  di  pub- 
blici poteri  armati  ».*  E  F  intendeva  con  una  larghezza,  di  cui  giova, 
ad  esempio,  menzionare  un  caso,  ridivenuto  oggi,  come  si  direbbe,  di 
attualità.  Alludo  air  intervento  inglese,  per  la  protezione  del  Belgio  nel 
1585,  che  il  Gentili,  sulla  traccia  di  Giusto  Lipsio,  chiamava  il  baluardo 
dell'Europa,  vallam  Europae.  Egli  si  domandava  (I,  16)'  se  potesse 
essere  gfiUsto  difendere  contro  il.  loro  sovrano  anche  i  sudditi  altrui,  e 
se  fosse  lecito  farlo  anche  quando  la  loro  causa  fosse  ingiusta.  E  ri- 
spondeva: «Proteggiamo  anche  ì  figli  ingiusti  contro  la  crudeltà  del 
padre  e  i  servi  contro  la  crudeltà  de*  padroni,  e  ci  adoperiamo  lodevol  - 
mente  perchè  anche  gl'iniqui  non  siano  castigati  con  furore...  Ecco 
quale  è  ora  la  quistione  principale:  Se  gl'Inglesi  abbiano  fatto  cosa 
giusta  aiutando  i  Belgi  contro  la  Spagna,  perfino  se  la  causa  dei  Belgi 
fosse  stata  ingiusta  e  i  Belgi  fossero  ancora  sudditi  della  Spagna;  cose 
che  veramente  si  ritengono  entrambe  non  vere.  Si  diceva  che  si  dovesse 
fare  la  guerra  in  tale  occasione  per  ottenere  dalla  Spagna  una  buona 
pace  che  altrimenti  sembrava  non  si  potesse  ottenere.  E  anche  così  si  fa 
una  guerra  giusta  secondo  la  nostra  tradizione...  »  E  continuava  e. 
conchiudeva  :  «  Se  il  mio  vicino  fa  in  casa  sua  apparecchi  ed  altre 
cose  contro  la  mia  casa,  non  dovrò  io  temere  per  me  né  muovere 
contro  il  vicino?  Così  si  faceva  nel  Belgio,  come  videro  uomini  saggi 
e  come  il  grande  eroe  Leicester,  con  molta  saggezza,  ritenne  che  fosse 
estremamente  giovevole  e  necessaria  allo  Stato  la  difesa  del  Belgio,  e 
persuase  di  assumerla.  Né,  se  gli  Spagnuoli  avessero  infranto  quel 
baluardo  di  Europa  (così  sapientemente  lo  chiamasti  tu,  o  Giusto 
Lipsio),  niente  sarebbe  rimasto  da  opporre  alla  loro  violenza.  E  fin 
qui  della  guerra  di  difesa  ». 

E,  tre  secoli  e  mezzo  dopo,  un  altro  grande  Italiano,  alto  di  mente, 
più  grande  ancora  di  animo,  Aurelio  Saffi,  richiamando  alla  memoria 
de'  concittadini  ricostituiti  in  nazione  nell'Ateneo  Bolognese,  la  memo- 
ria e  la  gloria  del  giurista  di  San  Ginesio,  aggiungeva:'  «Incontro 
al  supremo  pericolo  della  indipendenza  europea,  stettero,  a  quei  giorni, 
la  virtù  fiamminga  e  la  liberalità  della  politica  inglese.  Alle  immanità 


>  Alberici  Oentilis,  Opera  omnia,  Neapoll,  1770,  Tom.  I,  p.  10. 

«  Op.  cit.^  Tom.  I,  p.  63  sg. 

3  Di  Alberigo  Qentili  e  del  diritto  delle  genti,  Bologna,  1878,  p.  157  sgg. 


L'enigma  della  Guerra  ^  i  suoi  interpreti  227 

del  Duca  d'Alba  tennero  fronte,  con  Guglielmo  d'Orange,  gli  indomiti 
litoranei  del  Mare  del  Nord,  i  nipoti  degli  antichi  Batavì;  alle  tene- 
brose congiure  dei  gesuiti,  i  vigili  consigli  dei  Ministri  di  Elisabetta; 
ai  torreggianti  vascelli  della  Invincibile  Armada,  il  patriottismo  del  po- 
polo inglese  e  de'  suoi  marinai,  con  lor  navi  piccole  e  snelle,  con  la 
loro  destrezza  e  col  loro  coraggio.  Il  senno  di  Leicester  e  di  Walsin- 
gham.  Segretario  di  Stato  dell'accorta  Regina,  e  la  eroica  mente  di 
Sidney  compresero  che  dalla  indipendenza  delle  Fiandre  dipendeva  la 
salvezza  delle  nazioni;  che  ivi,  come  dice  Alberigo  nel  suo  Diritto  di 
guerra,  era  l'antemurale  della  libertà  dell'Europa.  E  quella  magnanima 
politica,  esempio  non  inutile  anche  alla  nostra  età,  facendo  propria  la 
causa  degli  oppressi,  aiutando  da  un  lato  i  Fiamminghi,  dall'altro  gli 
Ugonotti  e  la  parte  nazionale  fra  i  cattolici  di  Francia,  a  rintuzzare, 
con  la  mano  e  col  senno  di  Enrico  IV,  le  armi  e  le  insidie  di  Spagna, 
gittò  le  prime  fondamenta  di  quel  nuovo  ordine  degli  Stati  Europei, 
che,  mercè  il  contrasto  delle  forze,  apparecchiò  il  moto  vitale  delle  mo- 
derne nazioni  ». 

Mentre  Alberigo  Gentili  si  accingeva  a  scrivere  il  suo  libro  di 
precursore,  nasceva  in  Olanda  Ugo  Grozio,  colui  che  doveva  svilup- 
parne l'opera  e  raccoglierne  il  frutto  nel  campo  della  fama  e  di  una 
più  diffusa  azione  sull'opinione  pubblica  e  sull'evoluzione  del  diritto 
internazionale. 

Cresciuto  a  traverso  lo  sviluppo  di  avvenimenti,  che  sotto  il  suo 
grande  precursore  cominciavano  soltanto  a  disegnarsi  ;  passato  attra- 
verso le  molteplici  esperienze  della  vita  repubblicana  e  della  reggia, 
della  guerra  civile  e  della  diplomazia,  della  carcere  e  dell'esilio,  dell'  in- 
tolleranza e  delle  lotte  per  la  libertà  di  coscienza,  attraverso  le  ribel- 
lioni dell'eresia  e  le  riconciliazioni  dei  ritorni  alla  fede,  fecondando 
tutto  con  una  erudizione  sterminata,  che  una  mirabile  precocità  aveva 
permesso  di  meglio  accumulare  e  utilizzare;  Ugo  Grozio  dette  a  l'opera 
sua  un'estensione,  che  è  stata  oggetto  di  critiche  e  di  lodi  e  che  l'ha 
fatto  confondere  con  un  trattato  fondamentale  di  diritto  delle  genti  e 
di  diritto  naturale,  inquadrando  in  esso  il  fenomeno  della  guerra,  dalle 
sue  cause  più  complesse  e  diverse  alle  sue  manifestazioni  più  varie. 

Dedicando,  nel  1625,  a  Luigi  XIII  il  suo  libro,*  che  da  traduttori  » 
e  commentatori  doveva  poi  essere  successivamente  dedicato  a  Luigi  XIV, 
all'Imperatore  Leopoldo,  a  Guglielmo  III  e  Giorgio  I  d'Inghilterra  e 
che  dall'ultimo  traduttore  francese  era  dedicato  con  maggior  senti- 


1  De  jure  belli  oc  pacis.  Libri  tres,  Neapoli  (?),  1719. 

*  Le  droit  de  la  guerre  et  de  la  paix,  trad.  par  I.  Barbeyrac,  Amsterdam,  1724; 
Le  droit  de  la  guerre  et  de  la  paixt  trad.  par  M.  P.  Pradibr-Fodéré,  Paris,  1867. 


228  Ettore  decotti 


mento  a  sua  madre;  Grozìo  attendeva  che  —  son  sue  parole  —  <  fa- 
cendo cadere  da  ogni  parte  le  armi,  la  pace  tornasse  per  sua  iniziativa 
non  solo  tra  gì'  Imperi,  ma  tra  le  Chiese  ».  «  Stanchi  di  discordie  —  egli 
aggiungeva  —  i  nostri  spiriti  sono  portati  verso  questa  speranza  dal- 
l'amicizia recente  che  si  è  formata  tra  voi  e  il  Re  della  Gran  Bretagna, 
questo  Re  così  saggio  e  così  appassionato  di  questa  pace  santa». 

Ma  la  forza  degli  eventi  voleva  che,  proprio  nell'anno  in  cui  egli 
liberava  la  sua  opera  alla  stampa  e  mentre  Vincenzo  di  Paola  istituiva 
la  Congregazione  delle  missioni,  salisse  al  trono  Carlo  I  d' Inghilterra, 
che  doveva  poi  lasciare  la  testa  sul  ceppo  come  suggello  della  contra- 
stata libertà  politica  e  religiosa  d'Inghilterra,  e  cominciasse  quella 
lunga  e  devastatrice  guerra  detta  de'  Trent'anni,  donde  solo  doveva 
uscire  la  pace  sanzionatrice  della  tolleranza  religiosa  in  Germania. 

Adamo  Smith  disse  che  Grozio  fu  il  primo,  il  quale  cercasse  di 
dare  al  mondo  qualche  cosa  come  una  trattazione  sistematica  di  quei 
principi,  che  debbono  costituire  la  base  e  il  fondo  delle  leggi  di  tutti 
i  popoli  ;  e  il  suo  trattato  del  Diritto  della  guerra  e  della  pace  è  ancor 
oggi,  malgrado  le  sue  imperfezioni,  il  libro  più  completo  che  sia  stato 
scritto  su  questa  materia. 

E  il  libro  è  stato  tutt'altro  che  privo  d'influenza  sulla  opinione 
pubblica  e  sull'evoluzione  della  coscienza  per  tutto  il  tempo  avvenire. 
Ma  non  a  torto  il  Leibnitz,'  riconoscendo  la  dottrina  e  la  solidità 
di  spirito  di  Grozio,  notava  che  egli  non  era  abbastanza  filosofo  per 
ragionare  con  l'esattezza  necessaria  sugli  argomenti  sottili  di  cui  si  oc- 
cupava. Grande  giureconsulto  — anche  giureconsulto  del  genere  umano, 
come  lo  chiamò  G.  B.  Vico  —  egli  rimaneva  tale,  e  forse  esclusiva- 
mente tale,  anche  quando,  come  frequentemente  accadeva,  invocava 
e  adoperava,  quale  strumento  di  dimostrazioni,  la  filosofia,  la  teologia, 
la  storia.  Giungeva  a  una  concezione  realistica,  come  quando  (Lib.  1, 22  ; 
II,  4)  dichiarava  sufficentemente  costante  che  il  dritto  naturale,  il  quale 
può  anche  essere  chiamato  dritto  delle  genti,  non  disapprova  punto 
ogni  specie  di  guerra;  ma  vi  giungeva  attraverso  analisi  così  staccate 
di  autori  e  di  proposizioni,  da  rasentare  spesso  la  casistica,  quando 
non  vi  si  sperdeva  dentro  addirittura.  La  sua  stessa^,  definizione  della 
guerra  (Lib.  I,  1,  2),  in  cui,  prendendo  le  mosse  dalla  definizione  di 
Cicerone  —  cioè  un  contrasto  risoluto  dalla  forza  —  la  sviluppa  nel 
senso  che  «la  guerra  è  la  condizione  d'individui  che  risolvono  i  loro 
contrasti  con  la  forza  e  sono  considerati  come  tali»;  questa  definizione 
è  piti  formale  e  meno  precisa  di  quella  adottata  da  Alberigo  Gentili. 

Una  visione  larga,   comprensiva  della  guerra,  capace  di  ulteriori 


t  Oeavres,  edit.  Duteus,  Tom.  VI,  1,  p.  271< 


L'enigma  della  Guerra  e  i  suoi  interpreti  229 

svilupi3i,  che  la  abbracciasse  quindi,  non  solo  nelle  sue  cause  imme- 
diate e  nelle  sue  forme  esteriori  ed  accessorie,  ma  nella  sua  essenza  e 
nel  suo  processo  intimo  in  rapporto  alla  evoluzione  della  civiltà,  po- 
teva averla  e  darla  solo  chi,  prendendo  le  mosse,  senza  arrestarvisi, 
dalla  concezione  realistica,  per  cui  fu  grande  Niccolò  Machiavelli,  ne 
traesse  tutto  il  partito  e  le  conseguenze  di  cui  è  capace  la  storia.  E  il 
secolo  XIX,  al  cui  pensiero  il  metodo  storico  e  la  concezione  storica 
dettero  forza  ed  impulso,  doveva  a  preferenza  illustrare  e  svolgere 
Targomento  da  questo  punto  di  vista. 

Emanuele   Kant. 

Sul  finire  del  secolo  XVHI,  il  1795,  proprio  mentre  non  era  spenta 
ancora  l'eco  della  guerra  di  successione  austriaca  o  di  quella  de*  sette 
anni,  e  cominciavano  a  riardere  le  guerre  che  si  dovevano  protrarre 
ininterrotte  per  altri  vent'anni,  Emanuele  Kant  pubblicava  il  suo  fa- 
moso saggio  filosofico  «La  Pace  perpetua  ».* 

Era  la  reazione  del  desiderio  di  quiete  verso  il  mondo  che  si 
metteva  in  tumulto.  Era  la  estrema  conseguenza  di  quella  concezione, 
che  aveva  veduta  la  suprema  verità  nella  legge  morale  scolpita  inde- 
lebilmente nel  nostro  petto  per  sopravvivere  a  tutto  e  a  tutti,  compa- 
rabile solo  in  magnificenza  e  bellezza  al  cielo  stellato  che  ne  sovrasta. 
Ed  era  anche  Tultima  espressione  di  quell'indirizzo  aprioristico,  che 
tanto  si  era  esercitato  a  rifoggiare  il  mondo  sopra  schemi  e  forme 
preconcette. 

Ma^  il  grande  pensatore  non  sapeva  dispensarsi,  dedicando  il  suo 
libro  alla  «  Pace  perpetua»,  di  aggiungere  subito  dopo:  «  Questa  iscri- 
zione satirica  che  si  leggeva  sull'insegna  di  un  albergatore  olandese, 
ove  era  dipinto  un  cimitero,  si  applica  agli  uomini  in  generale  o  par- 
ticolarmente a'  sovrani  mai  sazi  di  guerre,  o  soltanto  a'  filosofi  che  si 
abbandonano  a  questo  dolce  sogno?  Ecco  ciò  che  è  inutile  esaminare  ». 

Non  sapeva  dispensarsi  nemmeno  il  filosofo  dallo  scrivere  nel  corso 
del  suo  libro:  «  Ma  la  stessa  guerra  non  ha  bisogno  dì  un  motivo  par- 
ticolare: essa  sembra  avere  la  sua  radice  nella  natura  umana,  e  passa 
anche  per  essere  una  còsa  nobile  a  cui  l'uomo  è  tratto  dell'amore  della 
gloria,  indipendentemente  da  ogni  movente  d'interesse  ».  E,  finalmente, 
proponeva,  per  la  realizzazione  del  suo  disegno,  modi  e  forme,  che 
non  avrebbero  potuto  venire  in  atto  senza  infinite  guerre  e  lunghe 
rivoluzioni  politiche,  il  cui  ciclo,  in  un  secolo,  è  appena  incominciato. 


»  Elétnents  métaphysiques  de  la  dottrine  du  droit  salvie  d'un  essai  sur  le  paix 
perpetuelle,  trad.  par  I.  Barni,  Paris,  1853,  pp.  289  sg. 


230  Ettore  decotti 


La  nobile  filantropica  aspirazione  kantiana  era  così  soverchiata 
dagli  avvenimenti,  che,  proprio  nel  suo  stesso  paese,  oltre  che  nel 
campo  dell'azione,  nel  campo  del  pensiero,  si  determinava  un  movi- 
mento diametralmente  opposto.  Il  cosmopolitismo  di  Fichte  andava  a 
finire  ne*  Discorsi  alla  Nazione  tedesca,  il  Vangelo  del  futuro  nazio- 
nalismo germanico. 

E,  nella  filosofia  del  divenire  hegeliano,  tutta  la  storia,  in  tutto  il 
suo  ritmo,  con  le  sue  avanzate  e  i  suoi  recessi,  diveniva  un  solo  pro- 
cesso razionale,  giacché  ciò  che  è  razionale  è  reale,  e  ciò  che  è  reale 
è  razionale  ;  *  e  la  guerra,  che  nella  storia  aveva  avuta  e  aveva  tanta 
parte,  ne  diveniva  la  forma  dinamica.  Anzi,  «  non  distinguendo  piti  il 
concetto  metafisico,  Io  storico  e  l'empirico  della  guerra,  vi  veniva,  con 
un  abuso  gnoseologico  —  come  ben  si  è  detto  proprio  da  un  neo- 
hegeliano,* —  esaltata  la  guerra  empiricamente  intesa  quale  una  forma 
specifica  della  guerra  metafisica,  di  quella  dialettica  ideale,  che  è  per 
Hegel  la  legge,  la  vita  di  tutto;  e  quindi  non  solo  delle  cruente  bat- 
taglie in  cui  si  scontrano  i  popoli  cercando  ciascuno  la  propria  vita 
nella  morte  del  nemico,  ma  anche  del  lavoro  sociale  dei  popoli  pro- 
speranti nella  sicurtà  della  pace,  anzi  delle  opere  dello  spirito  sopra- 
mondane, come  quelle  che  appartengono  all'arte,  alla  religione,  alla 
filosofia  in  quella  sfera  dello  spirito  assoluto,  dove  non  ci  sono  piii 
divisioni  di  persone  e  antagonismi  sociali  governati  da  interessi  diversi, 
ma  l'idea  nel  più  profondo  raccoglimento  della  coscienza  celebra  la 
sua  perfetta  universalità  ». 

Un  punto  di  vista  questo  che,  anche  col  sopravvenire  di  una  fi- 
losofia antitetica,  col  trionfo  del  positivismo,  trionfava  nella  teoria  della 
evoluzione,  se  intesa  in  maniera  troppo  angusta  e  confusa,  con  un 
troppo  rigoroso  darwinismo.  Attraverso  di  che,  non  solo  si  legittimava 
e  si  spiegava  la  guerra  in  quanto  avvenimento  storico  contingente,  ma 
si  elevava  a  forma  necessaria  della  vita  ;  e,  di  quello  che,  nel  tempo, 
è  un  modo  specifico  della  lotta  per  l'esistenza  e  dell'adattamento  vitale 
fra  popoli  polìticamente  costituiti,  si  faceva  il  solo  principio  dinamico, 
la  prevalente  ed  eterna  forma  dì  competizione  nello  svolgimento  della 
vita  internazionale.  Cosa  che  contrastava  con  il  sentimento  e  con  la 
ragione,  con  le  aspirazioni  e,  si  potrebbe  anche  dire,  con  le  previ- 
sioni rischiarate  da  un  più  largo  concetto  delle  necessità  e  della  pla- 
sticità della  vita  sociale. 

Superare  questo  punto,  risolvere  questa  antitesi  dolorosa  dello  spi- 


1  Was  vernunftig  ist,  das  ist  wirklich  ;  und  was  wirklich  ist  das  ist  vernunftig; 
(Encycl,  §6;  GrundUn.  d.  Philos.  des  Rechts,  1911,  p.  14). 

«  G.  Gentile,  la  filosofia  della  guerra^  Palermo,  1914,  p.  4  sgg. 


L'enigma  della  Guerra  e  i  suoi  interpreti  231 

rito  di  conservazione  individuale,  del  senso  inestinguibile  di  umanità 
e  della  meditata  distruzione  di  vite  umane:  ecco  il  problema  tormen- 
toso, che  solo  una  comprensione  sintetica  di  tutta  la  storia  e  una  vi- 
si one  intera  del  riscatto,  che  si  compie  attraverso  il  sacrificio,  poteva 
intendere,  se  non  risolvere,  in  una  maniera  compatibile  e  conciliante. 

Giuseppe  De  Maistre. 

Giuseppe  De  Maistre  '  ne  cercò  la  risoluzione  nel  rifugio  supremo 
della  Provvidenza,  che,  dal  punto  di  vista  religioso,  pur  rimanendo 
nella  sua  essenza  un  imperscrutabile  segreto,  ricostituisce,  con  una 
spiegazione  solo  formale,  l'unità  della  storia. 

Agli  autori  delle  facili  improvvisate,  empiriche  spiegazioni  de'  re 
che  comandano  e  obbligano  a  marciare,  il  De  Maistre  rispondeva: 
«  Tutte  le  volte  che  un  uomo,  il  quale  non  è  assolutamente  uno  sciocco, 
vi  presenta  una  quistione  come  assai  problematica,  dopo  averla  abba- 
stanza meditata,  diffidate  di  queste  soluzioni  subitanee  che  si  offrono 
allo  spirito  di  chi  se  ne  è  occupato  con  leggerezza^ o  non  se  ne  è  oc- 
cupato punto  :  sono  ordinariamente  semplici  punti  di  vista  senza  con- 
sistenza, che  non  spiegano  niente  e  non  resistono  alla  riflessione.  I  so- 
vrani non  comandano  efficacemente  e  in  un  modo  durevole  che  nella 
cerchia  delle  cose  accettate  dairopinione  pubblica  e  questa  cerchia  non 
sono  essi  a  tracciarla...  Per  obbligare  a  radersi  la  barba,  per  accor- 
ciare gli  abiti,  Pietro  I  ebbe  bisogno  di  tutta  la  forza  del  suo  carat- 
tere invincibile  :  per  condurre  innumerevoli  legioni  sul  campo  di  bat- 
taglia, anche  nell'epoca  in  cui  egli  era  battuto,  per  imparare  a  battere, 
non  ebbe  bisogno,  come  tutti  gli  altri  sovrani,  che  di  parlare». 

E  il  credente,  il  cristiano,  il  cattolico,  il  legittimista  finiva  per 
concludere:  «La  guerra  è  dunque  divina  in  sé  stessa;  dacché  è  una 
legge  del  mondo.  La  guerra  è  divina  per  le  sue  conseguenze  dì  un 
ordine  soprannaturale,  tanto  generali  come  particolari:  conseguenze 
poco  note  perchè  sono  poco  indagate,  ma  non  sono  meno  incontesta- 
bih\..  La  guerra  è  divina  nella  gloria  misteriosa  che  la  circonda  e  nel- 
l'attrattiva, non  meno  inesplicabile,  che  ad  essa  ci  conduce...  La  guerra 
è  divina  per  i  suoi  risultati  che  sfuggono  assolutamente  alla  specula- 
zione della  ragione  umana,  poiché  essi  possono  essere  affatto  diversi 
tra  due  nazioni,  benché  l'azione  della  guerra  si  sia  mostrata  uguale 
da  una  parte  e  dall'altra.  Vi  sono  guerre  che  avviliscono  le  nazioni  e 
le  avviliscono  per  secoli;  altre  l'esaltano,  le  perfezionano  in  tutte  le 
maniere  e  risarciscono  anche  subito,  ciò  che  è  davvero  straordinario, 


1  Les  soirées  de  Saint  Pétersbourgt  14*  ed.,  Paris,  1876,  Tom.  II,  p.  2  9gg. 


232  Ettore  decotti 


le  perdite  momentanee  con  un  visibile  incremento  di  popolazione.  La 
storia  ci  mostra  spesso  lo  spettacolo  di  una  popolazione  ricca  e  cre- 
scente in  mezzo  a'  combattimenti  più  micidiali  ;  ma  vi  sono  guerre  pecca- 
minose, guerre  di  maledizione,  che  la  coscienza  riconosce  meglio  del  ra- 
gionamento ;  le  nazioni  ne  sono  ferite  a  morte  nella  loro  potenza  e  nel 
loro  carattere  ;  e  allora  voi  potete  vedere  lo  stesso  vincitore  degradato, 
impoverito  e  gemente  fra  i  suoi  tristi  allori,  mentre,  sulle  terre  del 
vinto,  non  troverete,  dopo  alcuni  momenti,  né  un  opificio  né  un  aratro 
a  cui  manchi  un  uomo  ». 

Questo  che  Io  scrittore  legittimista  presentava  irradiato  di  una 
luce  oltremondana  e,  al  tempo  stesso,  avvolto  nel  velo  impenetrabile 
della  trascendenza,  tornava  ad  apparire,  in  altra. forma,  con  altre  pa- 
role, da  un  altro  punto  di  vista,  con  un  contenuto  schiettamente 
storico  e  immanente,  in  altri  due  scrittori,  che  anticipavano  e  precorre- 
vano di  tanto  i  tempi,  di  quanto  almeno  De  Maistre  intendeva  rallen- 
tarne il  corso  :  due  eterodossi,  come  De  Maistre  era  un  ortodosso  :  Pi- 
sacane  e  Proudhon;  nell'uno  in  via  di  enunciazione  e  di  accenno; 
nell'altro  come  un  compiuto  svolgimento. 

Pisacane  e  Mazzini. 

Al  secondo  de*  suoi  saggi  storici-politici-militari  sull'  Italia,*  Carlo 
Pisacane  premetteva  come  epigrafe  queste  parole  di  Giordano  Bruno  : 
«  Non  temete  nuotare  contro  il  torrente  ;  è  d'un  animo  sordido  pen- 
sare come  il  volgo  perchè  il  volgo  è  in  maggioranza  ».  Ed  esordiva 
così  :  «  Sarebbe  cosa  strana  farsi  a  distendere  l'apologia  della  guerra 

in  tempo  che  tutti  scrivono  contro «  Di  recente  ne  parlò  distesamente 

il  Macchi  nei  suoi  studi  politici,  con  quella  fede  ed  amore  per  la  causa 
dell'umanità  che  l'hanno  sempre  distinto.  Ma  gridare  contro  la  guerra 
e  contro  il  rigore  del  verno  sembra  la  medesima  cosa.  E,  se  la  mente 
non  pena  a  figurarsi  un'era  in  cui  il  perfetto  equilibrio  degli  interessi 
mondiali  farà  sparire  un  tal  flagello,  si  può  eziandio,  senza  notare  la 
ragione,  supporre  la  terra  raddrizzata  nella  sua  ecclittica  e  ritornata 
ad  una  perenne  primavera.  Ma,  come  un  tal  fenomeno  non  potrebbe 
verificarsi  senza  un  cataclisma,  così  quell'era  fortunata  non  sarà  che  la 
conquista  di  una  gran  guerra  lunga  e  terribile.  E,  discorrendo  in  questo 
libro  di  guerre  e  di  battaglie,  e  volendo  convincere  noi  Italiani  della 
superiorità  che  abbiamo  sugli  stranieri  come  guerrieri,  è  giusto,  mentre 
gridano  contro  la  guerra,  rammentare  che  senza  la  guerra  la  civiltà  non 
sarebbesi  sparsa  nel  mondo  romano.  I  paesi  settentrionali  sarebbero 


»  Genova,  1857. 


L'enigma  della  Guerra  e  i  suoi  interpreti  233 

rimasti  barbari  senza  conquistare  il  decrepito  impero  ;  e  forse  gli  ultra- 
montani non  avrebbero  quella  civiltà  di  cui  si  vantano  senza  le  incur- 
sióni in  Italia.  La  civiltà  tende  a  livellarsi  come  le  acque  ;  la  guerra 
non  sa  che  abbattere  le  dighe,  distruggere  città  e  nazioni  ;  ma  in 
ognuna  di  queste  vicende  l'umanità  progredisce  di  un  secolo  verso  la 
civiltà  mondiale  :  perciò  non  dovrebbero  schifare  la  guerra  coloro  che 
la  grandezza  patria  a  quella  dell'umanità  sacrificano  volentieri.  Ma, 
utile  o  nociva  che  sia  la  guerra,  pur  ne  è  forza  accettarla.  L'Italia  deve 
ad  essa  le  glorie  passate  e  la  schiavitù  presente,  e  da  essa  solamente 
può  sperare  giorni  migliori.  I  propugnatori  della  pace  dovrebbero  di- 
mostrare che  tutti  gli  interessi  de'  diversi  popoli  e  delle  varie  classi 
di  un  popolo  medesimo  sono  in  perfetto  equilibrio,  oppure,  se  non 
c'è  equilibrio,  dimostrare  come  possa  esso  stabilirsi  senza  la  guerra, 
cioè  come  possa  mutarsi  l'umana  natura. 

«Ma,  finché  l'Europa  è  in  balìa  di  tre  o  quattro  despoti  soste- 
nuti da  una  selva  di  baionette,  finché  in  Europa  la  decima  parte  degli 
abitanti  vive  eziandio  nell'ofi^lenza,  mentre  nove  decimi  vivono  pro- 
ducendo nella  miseh'a,  parlare  di  pace  perpetua  (parlo  ai  signori  del 
Comitato  della  pace)  è  inutile  ipocrisia.  —  Gli  eserciti  permanenti  non 
si  distruggono  con  l'impedire  che  l'Austria  contragga  prèstiti  in  Inghil- 
terra, costringendola  così  a  farli  con  maggior  suo  profitto  in  Italia  me- 
diante la  forza  delle  baionette,  ma  con  argomenti  che  dimostrino 
a  quelle  stupide  masse  i  vantaggi  che  la  libertà  promette  ;  e,  ove  non 
vogliano  intenderlo  con  le  buone,  combattendoli  con  la  forza  della  di- 
sperazione e  col  coraggio  di  un  profondo  convincimento  ». 

È  —  sotto  una  visuale  che  ne'  successori  doveva  sempre  più  sco- 
starsi dal  Mazzini  —  un'eco  di  ciò  che  il  Mazzini  scriveva  già  dodici 
anni  prima,  facendosi  vaticinatore,  apologeta  delle  gesta  di  Garibaldi, 
quando  egli  scriveva  alla  signora  Wilks:  «  Le  mando  un  piccolo  foglio, 
che  parla  di  alcune  coraggiose  gesta  della  nostra  legione  italiana  a 
Montevideo  —  forse  la  battaglia  di  Sant'Antonio  — .  Sono  gesta  di 
guerra,  ma  non  dovete  dimenticare  che  la  guerra  è  un  fatto  e  sarà 
un  fatto  per  altro  tempo  ancora;  e,  sebbene  per  sé  stessa  terribile, 
essa  è  spessissimo  il  solo  mezzo  di  sostenere  il  diritto  contro  lajorza 
brutale.  È  bene  quindi  che  i  nostri  Italiani  agiscano  coraggiosaniente 
e  onestamente  in  essa  non  meno  che  nelle  arti  della  pace.  E  vi  man- 
derò anche  la  copia  di  una  brevissima  lettera  in  seguito  al  fatto  d'armi, 
di  cui  parla  il  foglio  stampato,  e  nella  .quale  Garibaldi  declina  il  titolo 
di  generale  e  le  ricompense  pecuniarie  offerte  dal  Governo  di  Mon- 
tevideo. Questo  mio  concittadino  dovrebbe  essere  meglio  conosciuto 
ed  io  spero  ancora  che  egli,  un  giorno  o  l'altro,  avrà  parte  premi- 
nente nei  nostri  affari  d'Italia...  ». 


■ 


234  Ettore  decotti 


Proudhoti. 

Proudhon,'  a  un  certo  punto,  prende  le  mosse  propria»  da  De 
Maistre  per  capovolgerne  e  completarne  al  tempo  stesso  il  concetto. 

«  De  Maistre  pel  primo  —  egli  dice  —,  facendo  della  guerra  una 
specie  di  manifestazione  del  cielo,  e  precisamente  perchè  confessa  di 
non  comprendervi  nulla,  ha  mostrato  che  ne  comprendeva  qualche 
cosa.  —  ta  stessa  coscienza,  che  produce  la  religione  e  la  giustizia, 
produce  anche  la  guerra;  lo  stesso  fervore,  la  stessa  spontaneità  di 
entusiasmo,  che  anima  i  profeti  e  i  giustizieri,  accende  gli  eroi:  ecco 
ciò  che  costituisce  la  divinità  della  guerra.  —  E,  intanto,  questo  mi- 
stero, veramente  unico,  di  una  coscienza  in  cui  il  diritto,  la  pietà  e 
l'omicidio  si  uniscono  in  un  abbraccio  fraterno,  possiamo  noi  spie- 
garlo? Se  sì,  la  guerra  cessa  di  essere  divina:  ancor  più,  perdendo  la 
sua  divinità,  essa  arriva  alla  sua  fine.  All'incontro,  se  questo  spaven- 
tevole mito  è  impenetrabile,  la  guerra,  io  non  esito  a  dirlo,  è  eterna». 

Impostato  su  questa  proposizione,  il  libro,  a  cui  avea  imposto  il 
motto  della  Sfinge  :  <  Indovina  o  ti  divoro  »,  Proudhon  passava  a  svol- 
gerla con  quella  sua  vivacità  di  concezione  e  di  espressione,  che  costi- 
tuisce la  caratteristica  del  suo  ingegno  e  del  suo  stile. 

Uscito  dal  popolo,  autodidatta,  estraneo  ad  ogni  ambiente  acca- 
demico; con  una  istruzione  e  una  educazione  mentale  fatta  giorno  per 
giorno,  un  po'  tra  i  libri,  più  nella  realtà  stessa  della  vita,  Proudhon 
godeva  —  si  direbbe  qualche  volta  anche  per  civetteria  mentale  —  a 
prendere  di  fronte  le  idee  e  i  punti  di  vista  tradizionali,  e  giudizi  fatti, 
comunemente  accettati.  11  che,  se  talvolta  gli  faceva  rasentare  il  sofisma 
o  gli  faceva  soltanto  sfiorare  Targomento,  altre  volte  gli. consentiva 
d'illuminare  come  con  un  baleno  i  convenzionalismi  della  vita  e  schiu- 
dere anche  nuovi  orizzonti. 

E  cosi  fece,  appunto,  in  un  argomento  tanto  ardente  e  dì  tanto 
vitale  interesse. 

Il  libro  non  si  riassume:  è  nelle  critiche^  nelle  ricostruzioni,  negli 
aforismi,  negli  stessi  paradossi.  Volendo  tuttavia  segnarne  la  traccia 
secondo  la  linea  stessa  da  lui  disegnata,  per  lui  la  guerra,  al  pari  della 
religione  e  della  giustizia,  è,  nel  genere  umano,  un  fenomeno  piuttosto 
interno  che  esterno/un  fatto  della  vita  morale  ben  più  che  della  vita 
fisica  e  passionale.  È  per  questa  ragione  che  la  guerra,  giudicata  sem- 
pre secondo  le  apparenze  dal  volgare  e  da'  filosofi,  non  è  stata  mai 
compresa,  se  non  forse  ne'  tempi  eroici. 


>  La  guerre  et  la  paix,  Paris,  1861. 


ì 


L'enigma  della  Guerra  e  i  suoi  interpreti  235 

Tutto  intanto  nella  nostra  natura  la  suppone,  tutto  ne  implica  la 
presenza  come  la  nozione.  La  guerra  è  divina,  cioè,  primordiale,  essen- 
ziale alla  vita,  alla  produzione  stessa  dell'uomo  e  della  società.  Essa 
ha  il  suo  focolare  nelle  profondità  della  coscienza  e  abbraccia  nella 
sua  idea  T universalità  de'  rapporti  umani:  il  contrasto  come  la  soli- 
darietà; la  solidarietà  nel  contrasto.  Per  mezzo  suo  si  rivelano  e  si 
esprimono,  ne'  primi  giorni  della  storia,  le  nostre  facoltà  più  elevate: 
religione,  giustizia,  poesia,  belle  arti,  economia  sociale,  politica,  go- 
verno, nobiltà,  borghesia,  potere  regio,  proprietà.  Per  mezzo  suo,  nelle 
epoche  successive,  i  costumi  si  ritemprano,  le  nazioni  si  rigenerano, 
gli  Stati  racquistano  il  loro  equilibrio,  il  progresso  si  sviluppa,  la  giu- 
stizia ristabilisce  il  suo  impero,  la  libertà  trova  le  sue  guarentige.  Sop- 
primete per  ipotesi  l'idea  della  guerra  e  non  resta  nulla  del  passato 
né  del  presente  del  genere  umano.  Non  si  concepisce  senza  di  essa 
che  cosa  avrebbe  potuto  essere  la  società  :  non  s' indovina  ciò  che  può 
divenire.  La  civiltà  cade  nel  vuoto;  il  suo  movimento  anteriore  è  un 
mito,  a  cui  non  corrisponde  alcuna  realtà;  il  suo  sviluppo  ulteriore, 
un'  incognita,  che  nessuna  filosofia  saprebbe  risolvere.  La  pace  stessa, 
infine,  senza  la  guerra  non  si  comprende:  non  ha  niente  di  positivo 
e  di  vero;  essa  è  priva  di  valore  e  di  significato:  è  un  niente. 

Intanto  il  genere  umano  fa  la  guerra  e  tende  con  tutte  le  sue  forze 
alla  pace! 

Come  si  risolve  questa  antitesi  reale  e  questa  contraddizione  for- 
male? 

Dimostrate  largamente  queste  proposizioni,  assodato  che  la  guerra 
contiene  un  elemento  morale;  che  implica,  nella  sua  nozione,  ne'  suoi 
motivi  e  nel  suo  fine,  un'  idea  di  diritto  e  si  risolve  così  in  vero  man- 
dato giudiziario  ;  che  tale  è  l'opinione  di  tutti  i  popoli,  la  fede  intima 
del  genere  umano  ;*si  aveva  la  chiave  di  questo,  misterioso  e  gigan- 
tesco fenomeno:  e,  più  sin  allora  era  sembrato  abbassare  la  nostra 
specie,  più  si  sentiva  d'un  tratto  che  la  rilevava. 

Il  risultato  di  quest'esame  —  secondo  il  Proudhon  —  era,  con- 
trariamente alla  voce  della  scuola,  ma  d'accordo  con  la  credenza  delle 
nazioni,  all'unisono  con  le  speranze  che  aveva  fatte  nascere  in  tutti 
questa  fenomenologia  grandiosa  della  guerra:  cioè,  che  tanto  è  certo 
che  la  giustizia  è  una  facoltà  reale  e  un'  idea  positiva  dell'  uomo,  tanto 
è  vero  che  esiste  un  diritto  reale  e  positivo  della  forza;  che  questo 
diritto  è  sottoposto  alle  stesse  condizioni  di  reciprocità  degli  altri  ;  che 
ha  come  ogni  altro  la  sua  specialità  e  per  conseguenza  i  suoi  limiti, 
la  sua  competenza  e  la  sua  incompetenza;  che  la  sua  applicazione  più 
ordinaria,  dal  formarsi  delle  prime  società  ha  avuto  luogo  tra  gli  Stati, 
o  che  si  trattasse  della  loro  formazione  e  del  loro  ingrandimento  o 


236  Ettore  decotti 


della  loro  divisione  e  del  loro  eauilibrio  ;  infine,  che  la  guerra  è  la  forma 
di  azione  del  diritto  della  forza,  rendendo  col  combattimento  manifesta 
la  stessa  forza.  Come  il  diritto  di  proprietà  e  il  diritto  del  lavoro,  come 
il  diritto  dell'intelligenza  e  quello  dell'amore,  il  diritto  della  forza  è 
uno  de'  diritti  dell'uomo  e  del  cittadino,  il  primo  di  tutti  nell'ordine 
della  maniiestazione:  solo  per  effetto  del  patto  sociale  il  cittadino  se 
ne  spoglia  nelle  mani  del  sovrano,  che  solo  si  trova  investito,  in  nome 
di  tutti,  del  diritto  di  guerra  e  del  diritto  di  giustizia. 

A  questo  punto  tutto  era  dunque  perfettamente  coordinato;  tutto 
sì  seguiva,  era  collegato  e  faceva  tutt'  uno.  Si  aveva  un  princìpio,  una 
base  di  operazioni,  una  prospettiva,  uno  scopo,  un  metodo.  Non  più 
scissione  nell'uomo  e  nella  società:  la  forza  e  il  diritto,  lo  spirito  e 
la  materia,  la  guerra  e  la  pace  sì  fondono  in  un  pensiero  omogeneo  e 
indissolubile. 

Ma  nella  pratica,  sopratutto  ne'  particolari,  questa  magnifica  con- 
cezione sembrava  svanire.  In  che  modo,  se  la  guerra  può  essere  con- 
siderata nella  generalità  della  storia  come  una  divinità  giustiziera,  come 
una  saggia  e  valorosa  Minerva,  d'altro  canto,  ci  fa  pagare  le  sue  deci- 
sioni con  tanti  mali,  che  si  finisce  per  dubitare  non  solo  del  diritto 
della  guerra  ma  di  ogni  specie  dì  diritto,  e  considerare  la  giustizia 
come  una  idealità  fuori  natura,  e  la  guerra,  come  una  Gorgona.  Non 
ci  è  soltanto  —  nella  guerra  —  della  religione,  del  diritto,  della  poesia, 
dell'eroismo  e  dell'entusiasmo;  vi  sì  mescola,  a  dose  almeno  uguale,  della 
collera,  dell'odio,  della  perfidia,  una  sete  dì  bottino  inestinguibile  e  la 
più  grande  impudicizia.  La  guerra  ci  si  presenta  con  una  doppia  faccia: 
la  faccia  dell'Arcangelo  e  quella  del  dèmone,  E  qui  è  il  segreto  del- 
l'orrore che  ispira;  e  quest'orrore,  bisogna  confessarlo,  è  tanto  legittimo 
quanto  l'ammirazione  ispirata  dal  suo  eroismo. 

Questa  contraddizione  tra  il  fatto  e  l' idea  della  guerra  non  ha  del 
resto  niente  di  fortuito:  non  è  punto  un'eccezione  che  tocchi  solo  casi 
particolari.  Essa  è  generale,  costante,  la  si  vede  aggravarsi  con  i  secoli  ; 
essa  ha  tutta  l'apparenza  dì  un  vizio  cronico,  incurabile. 

Donde  deriva  ciò?  Ecco  l'enigma  che  dobbiamo  sciogliere. 

Ora  questo  antagonismo  e  questa  contraddizione  si  risolvono  con 
l'indagine  della  causa  fondamentale,  radicale,  della  guerra  e  con  la 
relativa,  graduale  sua  eliminazione  ;  il  che  avviene  mediante  e  attraverso 
l'evoluzione  stessa  della  guerra. 

La  causa  fondamentale,  di  ultima  istanza,  è  dì  carattere  economico: 
il  pauperismo  e  lo  squilibrio  economico,  come  Proudhon  lo  chiama. 
La  causa  prima  dì  ogni  guerra  —  egli  dice  —  è  unica.  Essa  può  va- 
riare d'intensità  e  non  essere  assolutamente  determinante;  ma  essa 
è  sempre  presente,  sempre  attiva  e  finora  indistruttibile.  Essa  scoppia 


L'enigma  della  Guerra  e  i  suoi  interpreti  aSy 


per  le  gelosie,  le  rivalità,  le  quistioni  di  frontiere,  di  servitù;  di  qui- 
«tioni,  per  così  dire,  di  muro  intermedio.  Là  è  la  responsabilità  delle 
nazioni.  Senza  questa  influenza  del  pauperismo,  senza  il  disordine  che 
introduce  nello  Stato  la  rottura  dell'equilibrio  economico,  la  guerra 
sarebbe  impossibile  ;  nessun  motivo  secondario  sarebbe  capace  di  spin- 
gere le  nazioni  ad  armarsi  Tuna  contro  l'altra 

È  evidente,  dunque  —  aggiungeva  Proudhon  —  che,  in  luogo  di 
un  problema  da  risolvere,  ne  abbiamo  due  :  un  problema  politico  con- 
cernente la  formazione,  la  delimitazione  e  la  dissoluzione  degli  Stati, 
che  la  guerra  si  è  incaricata  di  risolvere;  e  un  problema  economico  rela- 
tivo alla  organizzazione  della  facoltà  produttive  e  alla  ripartizione  de* 
servizi  e  de'  prodotti,  problema  di  cui  né  la  guerra  né  lo  Stato,  né  la 
stessa  religione  si  sono,  sino  a  questo  giorno  —  il  libro  è  del  1861  — 
occupati.  «  Noi  non  possiamo  —  prosegue  Proudhon  —  io  lo  riconosco, 
non  possiamo  che  farci  un'idea  ancora  indecisa  del  regime  economico, 
che,  io  sostengo,  debba  succedere  al  regime  di  politica  e  di  guerra, 
avendo  per  me  queste  due  espressioni  lo  stesso  significato.  Sotto  questo 
rapporto  e  in  questa  misura  il  dubbio  é  legittimo.  Ma  non  bisogna 
abusare,  per  negare  il  movimento  e  l'avvenire,  dello  sfavore  gettato  su 
di  alcune  teorie  socialiste.  Una  cosa  almeno  si  è  verificata,  ed  é  che 
la  religione  «ideila  guerra  se  ne  va,  al  pari  di  quella  della  regalità  e  della 
nobiltà;  la  ragione  degl'interessi  domina  sempre  piti  la  ragione  di  Stato; 
il  lavoro,  in  altri  tenìpi  considerato  una  maledizione,  é  glorificato  oggi 
al  pari  della  virtù.  Il  lavoro,  già  opera  servile,  regna  presentemente 
sotto  il  nome  di  suffragio  universale;  un  giorno  governerà.  Già  ha 
cominciato  a  prendere  possesso  del  potere  sotto  il  titolo  di  governo 
rappresentativo;  la  metà  del  cammino  è  fatta.  Noi  non  sappiamo,  lo 
ripeto,  ciò  che  avverrà,  quando  si  sarà  realizzato  il  disarmo  universale; 
ciò  che  é  sicuro  è'che  la  guerra  ha  trovato  il  suo  successore». 

Ma  a  questo  punto  di  vista  teorico,  a  questo  stato  di  coscienza, 
come  alla  condizione  che  lo  determina  e  ne  rende  possibile  la  realiz- 
zazione, si  giunge  solo  lentamente,  gradualmente,  attraverso  la  stessa 
evoluzione  della  guerra.  Anche  il  processo  della  guerra  é  una  spirale. 

La  guerra,  fomentata  dal  pauperismo,  intrapresa  in  vista  della  ra- 
pina, organizzata  dapprima,  e  indifferentemente,  ora  da'  particolari,  ora 
dalle  città,  é  in  seguito  riservata  allo  Stato.  Il  diritto  di  guerra  diviene 
la  prerogativa  del  sovrano.  La  pirateria,  ultima  espressione  delle  guerre 
private,  è  notata  d'infamia,  votata  all'estremo  supplizio.  Ma  la  guerra 
non  perde  punto,  perciò,  il  suo  carattere  di  rapina  ;  le  armi  civiche  non 
sono  punto  più  pure  delle  armi  eroiche...  E  ciò  dura  sino  a  che,  per 
un  concorso  di  circostanze  che  la  storia  narra  e  il  Proudhon  riassume, 
la  spoliazione  delle  popolazioni,  la  devastazione  di  territorii,  sollevando 


I 


238  Ettore  decotti 


la  riprovazione  generale,  la  conquista  si  trasforma  in  una  semplice  incor- 
porazione  politica  ed  obbliga  il  conquistatore  a  cercare  nello  sfrutta- 
mento de*  suoi  soggetti  gli  utili  della  sua  professione. 

Dal  diritto  della  forza  puro  e  semplice  si  passa  così  al  diritto  della 
QTuerra,  al  diritto  delle  genti,  al  diritto  politico,  al  diritto  civile  o  do- 
mestico,, al  diritto  economico,  suddiviso  in  due  branche,  come  le  cose 
che  lo  rappresentano:  il  lavoro  e  lo  scambio;  al  diritto  filosofico  e  del 
libero  pensiero;  e  finalmente  al  diritto  della  libertà,  in  cui  l'umanità, 
plasmata  della  guerra,  dalla  politica,  dalle  istituzioni,  dal  lavoro  e  dal 
commerèio,  dalla  scienza  e  dalle  arti,  non  è  più  retta  che  dalla  libertà 
pura  sotto  la  legge  unica  della  ragione.  In  questa  gamma  di  diritti,  la 
forza  fa  da  basso  e  la  libertà  è  l'ottava. 

È  evidente  allora  che,  liberata  la  guerra  dal  motivo  segreto  e  diso- 
norevole che  la  determina,  dall'abolizione  del  saccheggio,  della  corsa, 
delle  contribuzioni  di  guerra  e  di  ogni  specie  di  requisizioni,  contor- 
nata in  seguito  di  tutti  i  diritti  civili,  politici,  internazionali  ch'essa 
stessa  ha  fatto  nascere,  non  verrà  in  mente  ad  alcuno  di  ricorrervi, 
poiché  né  la  ricchezza,  né  l'onore  della  patria  vi  sono  interessati  ;  che 
le  difficoltà  internazionali,  ricondotte  a  questioni  di  semplice  diritto, 
possono  essere  risolute  in  via  diplomatica  o  arbitrale;  infine  che  la 
giustizia  della  forza  e  tutti  i  suoi  apparecchi,  tutto  ciò  che  ne  dipende, 
tutto  ciò  che  la  suppone,  l'implica,  la  sostiene,  tutta  questa  giurisdi^ 
zione  e  questa  giurisprudenza  debbono  essere  soppresse  per  mancanza 
di  giudicabili. 

È  la  guerra  che,  così,  riscatta  e  al  tempo  stesso  scalza  la  guerra. 
«  La  guerra,  creando  il  diritto  nell*  umanità,  facendo  dello  studio  di 
questo  diritto  una  scienza  positiva,  obbiettiva,  ha  parlato  più  alto 
di  tutte  le  rivelazioni,  e  la  sua  autorità  sorpassa  quella  dello  stesso 
Evangelo.  La  legge  d'amore  non  ha  prodotto  niente  di  comparabile  alle 
creazioni  uscite  dal  diritto  della  forza...  ». 

Solo  nell'applicare  questa  sua  concezione  al  suo  tempo,  pel  quale 
credeva  cessata  ogni  ragione  di  guerra,  il  Proudhon  cade  in  vari  errori, 
non  facendo  il  debito  conto  del  principio  di  nazionalità  e  del  movi- 
mento che  investiva  allora  la  vita  internazionale.  È  ciò  che  accade  non 
di  rado,  del  resto,  ad  autori  che,  avendo  formulato  de*  principii,  non 
sono  parimenti  felici  nel  trarne  tutte  le  conseguenze. 

Tutto  questo,  intanto,  non  toglie  valore  al  quadro  da  lui  tracciato. 
E  mai  come  in  questo  momento,  in  mezzo  a*  tragici  avvenimenti  che 
si  traversano,  questa  concezione  della  guerra,  questa  sua  interpreta- 
zione dialettica  torna  alla  mente  e  s'impone  all'attenzione. 

Ettore  Ciccotti. 


W§S 


U  MENTE  DI  DOMEICO  COMPIREHI 


^ 


Intendimento  di  queste  mie  pagine  non  è  solo  il  rendere  un  tri- 
buto di  gratitudine  reverente  ad  un  solenne  maestro  al  quale  sento 
di  dover  tanto,  sì  anchp,  in  tempi  di  grande  turbamento  di  animi,  il 
ricondurre,  anche  per  un  momento  alFesempio  d*  un  animo  nobilmente 
sereno;  e  in  tanta  confusione  di  valori  il  farsi  quasi  di  un  valore, 
vero  ed  incontestabile,  presentatore  a  gran  parte  del  pubblico  no- 
stro, anche  colto,  cui  per  varie  ragioni,  alcune  delle  quali  tornano 
ad  onore  delFuomo,  questi  è  rimasto  men  conosciuto  di  altri  di  assai 
minore  statura  intellettuale,  divenuti  più  largamente  e  notoriamente 
popolari.  11  che  non  significa  (che  non  è  officio  mio  qui)  tessere 
una  biografia  di  Domenico  Comparétti,  né  comporgli  sul  canuto  e 
venerato  capo  una  encomiastica  corona,  della  quale  egli  non  ha  bi- 
sogno, ne  desiderio.  E  nemmeno  è  proposito  mio  il  ricercare  per  ogni 
parte  la  sua  operandi  critico  e  di  storico  insigne:  al  che  mi  farebbe 
difetto,  segnatamente  in  alcuni  ordini  di  studi,  la  speciale  compe- 
tenza, vólto,  come  io  sono,  per  notevole  parte  e  per  quello  che  in 
essi  io  possa  valere,  a  studi  di  natura  diversa,  ancorché  congenere  e 
per  nobiltà  di  argomenti  congeniale. 

Delineare  il  tipo  mentale  di  questo  valentuomo  come  maestro, 
scrittore  e  studioso,  é  tuttavia  possibile,  e  per  me  assai  grata  impresa: 
specialmente  se  mi  venga  fatto  di  dileguare  o  attenuare  con  la  mia 
parola  certe  non  del  tutto  spassionate  prevenzioni  su  di  lui  nutrite  da 
alcuni  pur  valentuomini,  che  furono  suoi  antichi  discepoli  e  continua- 
tori degni  e  in  parte  anche  integratori  dell'opera  sua  nel  campo  degli 
studi  classici:  opera  già  a  tanti  studiosi  italiani  esempio  ed  aiuto  de^ 
gnissimo,  e  ben  riconosciuta  e  pregiata  dalla  scienza  straniera.  Le  quali 
prevenzioni,  se  non  mi  è  dato  giustificare,  è  lecito  almeno  spiegare  col 


240  Alessandro  Chiappelli 


ricercarne  le  orìgini  e  i  motivi  psicologici  in  certi  suoi  e  negli  altrui 
atteggiamenti  di  studioso,  cagione  di  non  sempre  sereni  dissensi,  che 
vorremmo,  ad  ogni  modo,  composti  in  bella  ed  amichevole  armonia 
patriottica,  ora  che  di  consensi  ha  tanto  bisogno  la  patria  comune. 

Alle  indirette  e  pur  grandi  benemerenze  del  Comparetti  per  i'  in- 
cremento degli  studi  italiani,  specialmente  d'antichità  classica,  ed  anche 
delle  ricerche  archeologico-epigrafiche,  occorre  appena  accennare.  Da 
lunghi  anni  egli  si  adoprò  a  promuovere  le  ricerche  archeologiche 
neir  isola  di  Creta,  provvedendovi  anche  largamente  col  suo  concorso 
personale  :  quelle  ricerche  che  hanno  dato  i  grandi  resultati,  sì  epigra- 
fici e  sì  archeologici,  che  son  ben  noti  oramai  nel  mondo  scientifico. 
Opera  sua  è  la  fondazione  della  Scuola  Archeologica  di  Roma,  e  in 
parte  anche  quella  della  nostra  Scuola  Archeologica  di  Atene,  il  cui 
Annuario,  nel  suo  primo  volume,  reca  una  Prefazione  da  lui  dettata, 
che  è  un  vasto  programma  di  studi  e  di  ricerche,  pensato  con  lar- 
ghezza scientifica  di  criteri  e  modernità  di  propositi.  Del  pari  è  opera 
sua  la  istituzione,  presso  la  R.  Accademia  dei  Lincei,  dei  Monumenti 
Antichi,  pubblicati,  per  cura  di  quel  nostro  massimo  Istituto,  in  una 
serie  di  volumi  di  alto  valore  scientifico,  ai  quali  egli  e  molti  discepoli 
suoi  contribuirono  largamente  con  lavori  archeologici,  papirologie!, 
epigrafici.  Dei  quali  ultimi  fanno  parte  le  tre  grandi  raccolte  epigrafiche, 
alla  cui  redazione  egli,  l'Halbherr,  il  Pais,  il  Lanciani  ed  altri  accade- 
mici stanno  ora  attendendo,  e  vi  attendeva  anche  il  compianto  Savi- 
gnoni.  Questa  serie  accademica  dei  Monumenti  antichi  si  collega  con 
la  pubblicazione,  già  da  lui  iniziata  e  diretta,  del  Museo  Italiano  di 
antichità  classica,  di  cui  vennero  in  luce  tre  grossi  volumi,  che  sono 
documento  della  fertile  e  vigile  opera  sua  e  della  sua  scuola.  Non  è 
meraviglia,  quindi,  che  queste  benemerenze,  e  più  ancora  la  grande 
e  varia  opera  sua  di  filologo  e  di  archeologo,  sieno  state  riconosciute 
già  da  tempo  oltre  i  confini  della  patria:  e  che  come  l'Università  dì 
Oxford  lo  volle  suo  honoris  causa,  così  l'abbiano  accolto  nel  loro  seno 
l'Accademia  di  Monaco,  l'Istituto  dì  Francia,  l' Università  dì  Atene,  per 
citare  solo  alcuni  degl'Istituti  che  si  onorano  di  averlo  loro  desiderato 
sodale,  e  il  Senato  del  Regno  che  lo  ebbe,  già  dal  1890,  fra  i  mag- 
giori uomini  della  scienza  italiana,  onde  ha  prestigio  .e  decoro. 

Gli  studi  Medievali, 

La  scienza  e  la  scuola  sono  i  due  poli  intorno  ai  quali  si  è  svolta 
ampia  e  continua  l'opera  intellettuale  di  questo  insigne  uomo.  Opera 
continua  dì  scienza  (e  speriamo  sia  ancora  per  lunghi  anni  !)  è  quella 
.che  va  dalle  giovanili  memorie  in  latino  sopra  l'orazione  d'iperide  e 


La  mente  di  Domenico  Compare tti  241 


l'età  dell'annalista  Liciniano,  pubblicati  nel  1858  dal  Rheinisches  Ma- 
seurn  fino  alla  Iscrizione  inedita  di  Pednelissos  (Pisidia)  e  a  due  epi- 
grafi inedite  di  Gortyna  (Creta)  da  lui  pubblicate  e  dichiarate  nel 
III  volume  degli  Annali  della  R.  Scuoia  Archeologica  di  Atene  in  questo 
anno  ora  caduto  1917.  E  non  senza  ragione  ho  formato  l'augurio  che 
l'operosità  sia  conservata  lungamente  all'onore  della  scienza  italiana 
(pur  senza  contare  i  caldi  voti  d'affetto  e  d'amicizia  per  l' uomo  caris- 
simo a  quanti  gli  sono  familiari),  poiché  di  lui  sta  per  pubblicarsi  nei 
Monumenti  Antichi  dei  Lincei  una  memoria  illustrativa  del  gran  dipinto 
murale  Pompeiano,  recentemente  scoperto,  «  Le  Nozze  di  Bacco  e  d) 
Arianna  »,  e,  dei  lavori  epigrafici  in  corso  per  le  tre  collezioni  o  Sii» 
logi,  di  cui  sarà  editrice  l'Accademia  dei  Lincei,  specialmente  la  silloge 
delle  iscrizioni  arcaiche  cretesi,  è  affidata  alle  mani  esperte  del  Com- 
paretti,  promotore  di  questa  impresa  dei  tre  Corpi  Epigrafici,  assunta, 
con  animosa  libertà  e  con  maturità  scientifica,  dalla  nostra  Accademia 
in  sostituzione  dell'Accademia  dì  Berlino. 

Quello  che  rende  ammirabile  nel  mondo  scientifico  l'opera  di  lui, 
e  quasi  inesplicabile  agli  stranieri,  di  consueto  specialisti,  e  a  poche 
altre  comparabile  anche  in  Italia,  dove  pur  questa  jtoXunaOta,  ben  diversa 
dal  dilettantismo  superficiale,  è  gloria  caratteristica  e  antica  tradizione 
del  genio  nazionale,  a  cui  plaudiva  anche  il  Carducci,  è  la  sua  triplice 
padronanza  e  riconosciuta  competenza  sì  nel  vasto  campo  degli  studi 
classici  (filologici,  archeologici,  epigrafici),  sì  in  quello  delle  letterature 
medievali  e  in  quello  della  letteratura  comparata.  Stringere,  quindi,  il 
suo  molto  in  poco  ed  inquadrare  la  sua  molteplice  produzione  più  che 
sessantenne  in  brevi  linee,  sarebbe  ben  malagevole  impresa,  se  a  noi, 
per  il  fine  di  queste  pagine  e  per  l' indole  del  periodico  in  cui  vedon 
la  luce,  non  bastasse  raccoglierla  intorno  ad  alcuni  punti  fondamen- 
tali attinenti  a  quei  tre  ordini  di  ricerche:  il  Virgilio  nel  Medio  Evo, 
la  Grande  Epigrafe  arcaica  di  Gortyna^  il  Kalevala  finnico  ;  ai  quali  si 
potrebbero  aggiungere  gli  studi  e  le  ricerche  sulla  letteratura  e  novelli- 
stica popolare  (il /o/^è-Zf?/-^),, sui  dialetti  greco-slavi  dell'Italia  meridionale, 
e  la  grandiosa  pubblicazione  del  Codice  Vaticano  delle  Rime  Antiche, 
da  lui  procurata  in  unione  col  D'Ancona.  Giovinetto  ancora,  e  ben 
presto  maestro  nell'Università  pisana,  il  Comparetti  cominciò  a  ren- 
dersi noto  con  lavori  di  critica  letteraria  ed  epigrafia  classica.  Magia 
fin  d'allora  si  preparava,  con  gli  studi  su  Ristoro  d'Arezzo,  sul  libro 
di  Sindibàd,  sul  Victorial  di  Gutierre  Diaz  de  Games,  ed  altri  consi- 
mili, a  quell'opera  sul  Virgilio  nella  tradizione  medievale,  a  cui  racco- 
mandò dapprima  il  suo  nome  e  che  fu  tosto  pubblicata  in  veste  tedesca 
ed  inglese.  Opera  di  lunga  lena  e  di  vasto  e  solido  disegno,  in  cui  la 
sicurezza  e  pienezza  del  corredo  scientifico  ed  erudito  si  compone 

16  —  Nuova  Rivista  Storica. 


242  Alessandro  Chiappelli 


armoniosamente  con  la  larghezza  visuale,  che  i  fatti  vede  dairalto  e 
come  in  ampia  sintesi,  e  li  sa  stringere  intorno  ad  alcune  idee  direttive 
e  fondamentali,  che  percorrono  da  un  capo  alFaltro,  quei  due  volumi  : 
l'uno  dedicato  alla  tradizione  letteraria,  l'altro  alle  leggende  popolari, 
che  lungo  il  Medio  Evo  si  foggiarono  e  si  diffusero  in  tutta  l'Europa 
sulla  virtù  magica  e  taumaturgica  del  poeta.  Oggi  forse  alcuni  giudizi 
sul  cristianesimo  medievale,  pronunciati  da  una  mente,  come  quella  del 
Comparetti,  così  classicamente  formata  e  atteggiata,  e  perciò  anche 
repugnante  dai  riflessi  romantici  dell'idea  cristiana  nelle  letterature 
moderne,  posson  parere  oltrepassati  o  non  interamente  accettabili.*  Ma 
l'opera  rimane  come  un  tempio  dorico,  saldo  sulle  sue  colonne  e  armo- 
nioso nella  venustà  equilibrata  della  sua  compagine  e  nel  fulgido  nitore 
dello  stile.  E  tanto  rjman  salda,  che  nella  nuova  e  desiderata  edizione, 
fattane  dopo  più  di  vent'anni,  l'autore  non  ebbe  che  da  aggiungere 
poche  cose,  specialmente  nelle  note,  per  metterla,  come  si  dice,  al 
giorno  delle  pubblicazioni  uscite  in  quell'intervallo,  lasciandone  intatta 
la  sostanza  tutta  e  il  disegno.  In  tanta  odierna  fioritura,  e  non  sempre 
degna,  di  letteratura  dantesca,  le  pagine  di  quest'opera  sul  Virgilio 
dantesco  sono  ancora  delle  più  belle  che  si  possan  leggere  sul  sacro 
Poema,  e  tali  che  forse  possono  solo  cedere  a  quelle  del  Carlyle  su 
Dante.  Fra  le  maggiori  opere  storiche,  come  quelle  del  Villari,  del- 
l'Amari, del  D'Ancona,  del  Del  Lungo,  del  Graf,  che  la  scienza  italiana 
produsse  nella  seconda  metà  dello  scorso  secolo,  questa  del  Comparetti, 
per  ampiezza  e  solidità  d'erudizione  e  per  bella  evidenza  di  concepi- 
mento, sicuramente  e  degnamente  primeggia. 

OH  studi  classici. 

Lasciato  questo  monumento  agli  studiosi  delle  cose  medievali,  parve 
che  il  critico  volesse  rivolgere  e  consacrare  d'allora  in  poi  tutte  le  sue 
poderose  forze  alle  indagini  classiche:  indagini  papirologiche,  che, 
cominciate  con  gli  studi  sui  papiri  ercolanesi,  si  protrassero  fino  a  quelle 
recenti  sui  papiri  provenuti  dall'Egitto,  illustrati  nella  pubblicazione  dei 


1  Dopo  gli  studi  dell'Harnack  e  del  Norden  (Agnostos  Theos)  sugli  Atfi degli  Apo- 
stoli, e  segnatamente  dopo  l'acuta  memoria  della  Stanvell  negli  Aiti  dell'  International 
Medicai  Congress  di  Oxford  del  1913,  noi  siamo  in  grado  di  poter  dimostrare,  ciò  che 
faremo  prossimamente,  che  l'autore  lucanico,  specialmente  della  parte  narrativa  in 
plurale  {Wis-shicke  dei  Tedeschi),  aVeva  dinanzi  V Eneide  Virgiliafaa.  Come  il  fatale  eroe 
troiano,  per  mille  avventure,  era  condotto  da  Troia  a  Roma  come  da  un  fato  divino, 
così  sulla  narrazione  virgiliana  è  esemplato  il  racconto  degli  Atti  della  peregrinazione 
dell'eroe  del  Cristianesimo  dalla  Palestina  a  Roma.  Il  parallelismo  è  evidente,  e  non 
pnò  essere  accidentale. 


La  mente  di  Domenico  Comparetti  243 

Papiri  fiorentini,  intrapresa  in  unione  con  Girolamo  Vitelli,  ed  altri  stu- 
diosi; indagini  archeologiche,  da  quelle  sulla  Villa  Pisoniana  d'Ercolano 
a  quella  sulla  Statua  d'Anzio;  indagini  sopratutto  epigrafiche,  dalle  auree 
laminette  orfiche  di  Petelia,  dalle  iscrizioni  d'Olimpia,  di  Tauromenio, 
d*Alicarnasso,  di  Oaxos,  di  Cuma,  di  Mantinea,  di  Cirene,  dalle  varie 
iscrizioni  vascolari  da  lui  dichiarate,  alle  Tabelle  Testamentarie  delle 
Colonie  Achee  della  Magna  Grecia,  fino  alle  iscrizioni  arcaiche  cretesi  e 
a  quella  massima  di  Gortyna,  detta  da  lui  giustamente  «  la  regina  delle 
iscrizioni  ».  Monumento  antichissimo  del  diritto  greco  ch'egli  decifrò 
per  primo  e  criticamente  pubblicò  più  tardi,  con  tale  sicurezza  e  copia 
di  rapporti  giuridici  e  storici,  che  gli  stranieri,  come  il  Zietelmann,  il 
Dareste  e  tanti  altri,  che  lo  seguirono,  non  ebbero  che  da  procedere 
sulla  via  da  lui  segnata,  dividendosi  fra  loro  il  lavoro,  filologico  e  giu- 
ridico, che  egli  aveva  intrapreso  e  condotto  da  solo,  e  ricalcando  le  orme 
originalmente  impressevi  dal  suo  spirito  felicemente  divinatore  e  rigo- 
rosamente documentatore. 

Mentre  egli  andava  così  cercando  dentro  e  d'intorno  questa  fo- 
resta spessa  e  viva  di  reliquie  d'antiche  forme  e  d'antiche  parole,  non 
disdegnava  di  rendere  in  forma  accessibile  ad  un  più  largo  pubblico 
di  lettori  la  struttura  e  lo  spirito  vivo  e  spesso  così  vicino  al  senso 
della  vita  moderna,  di  alcune  commedie  di  Aristofane  nelle  Introdu- 
zioni magistrali  alla  traduzione  che  ne  veniva  pubblicando  il  compianto 
Franchetti,  diversa,  ma  non  inferiore  per  merito  a  quella  più  recente 
e  completa  del  Romagnoli.  Ho  detto  magistrali;  perchè,  a  chi  aveva 
avuto  la  ventura  di  udire  le  sue  lezioni  sopra  la  Comedia  antica  e  su 
Aristofane,  pareva  di  riudire,  leggendo  quelle  pagine,  la  parola  lumi- 
nosa e  serena  del  maestro  ;  e,  per  tutti  i  lettori  poi,  di  tale  evidenza, 
da  far  maraviglia  che  un  così  severo  uomo  di  dottrina  sapesse  rendersi 
così  agevolmente  aperto  e  da  far  desiderare  insieme  che  egli  un  giorno 
voglia  (poiché  può)  sulla  letteratura  greca  in  genere,  o  sulla  questione 
omerica,  comporre  un  libro  come  egli  saprebbe  fare,  e  come  han  sa- 
puto fare  gì'  Inglesi,  dal  Grote,  dal  Gladstone,  fin  al  Mahaffy,  il  quale 
alla  solida  preparazione  filologica  e  scientifica  disposi  come  in  anello 
d'oro  la  grazia  della  forma  trasparente  ed  evidente,  che  a  tutti  lo  ren- 
dano caro  ed  accetto. 

Il  Kalevala  finnico. 


E  non  senza  ragione  ho  accennato  di  sfuggita  alla  questione  ome- 
rica. Nessuno  forse,  in  Italia,  pochi  altri,  fuori,  potrebbe  riprenderla  ed 
avviarla  ad  una  soluzione  consentita,  con  pari  preparazione  ed  auto- 
rità. Chi  ascoltò  le  sue  lezioni  su  questo  glande  argomento,  o  chi  ri- 
cordi soltanto  le  pagine  di  lui  sulla  Commissione  Omerica  di  Pisistrato 


244  Alessandro  Chiappelli 


e  il  Ciclo  Epico,  nella  Rivista  di  filologia  classica  del  1881,  o  chi  abbia 
presente  la  sua  magnifica  edizione  fototipica  del  Codice  Veneto  Mar- 
ciano 454  deir  Iliade  (Lugduni  Batavorum,  1901)  ne  sarà  ben  persuaso. 
Ma  gli  elementi  scientifici,  onde  potrebb*essere  materiato  questo  desi- 
derabile libro  che  aspettiamo  da  lui,  si  possono  già  raccogliere  dà 
un'altra  opera  insigne,  o  come  dicono  gì*  Inglesi  standard  work  (i  Tede- 
schi direbbero  bahnbrechendes,  ma,  nel  caso  presente,  sarebbe  piuttosto 
conclusiva  e  definitiva)  sul  K^l^vala  Finnico  (1891).  Quella  vasta  com- 
pagine di  canti  eroici,  lirici,  magici  e  narrativi,  ancora  fluttuanti  e  tra- 
mandati oralmente  dai  laalajat  (i  rapsodi  finlandesi),  specie  di  nebulosa 
poetica  popolare,  quasi  in  atto  di  cercare  e  costituire  il  suo  nucleo 
centrale  intorno  a  cui  ordinarsi  a  vero  epos  nazionale,  costituiva  una 
specie  di  esperienza  epica  vivente,  una  formazione  incipiente  di  epopea, 
che  cadeva  sotto  i  nostri  occhi,  di  tale  importanza  ed  evidenza  sugge- 
stiva, da  tentare  fortemente  la  critica  letteraria  e  da  attrarre  l'attenzione 
della  scienza  storica  sulla  questione,  ancora  irresoluta,  delle  origini  delle 
grandi  epopee  nazionali,  di  cui  si  aveva  qui  un  esempio  contempora- 
neo in  un  popolo  per  costumi,  per  cultura,  ancora  assai  primitivo  in 
mezzo  all'Europa  civile.  Preparato  dalla  sua  larga  conoscenza  delle 
moderne  lingue  europee,  da  ripetuti  viaggi  da  lui  fatti  in  Finlandia,  la 
regione  di  questa  vivente  generazione  epica;  e  familiare  da  lungo  tempo 
con  le  letterature,  leggende  e  tradizioni  popolari  di  altri  paesi,  egli  potè 
portare  nella  viva  questione  di  letteratura  comparata  una  parola  sua 
e  originale,  che,  mentre  preparava  ad  altri  piij  giovani  studiosi  italiani, 
come  il  Pavolini,  la  via  a  dare  della  epopea  finnica  una  traduzione 
completa  nella  nostra  lingua,  recava  altresì  nuova  luce  sulle  antiche 
epopee  nazionali,  come  i  poemi  omerici,  la  Chanson  de  Roland  e  i 
Nibelunghi.  Avendo  l'occhio  specialmente  all'Epos  omerico,  la  con- 
clusione a  cui  giunge  il  Comparetti  appare  sostanzialmente  negativa. 
L'ipotesi  Wolfiano-Lacmanniana  dell'origine  dei  poemi  omerici  da  sparsi 
canti  anteriori  di  ragione  popolare,  di  cui  si  credè  ritrovare  i  segni  per 
via  dell'analisi  critica  del  testo  omerico,  non  trova  conferma  nella  com- 
parazione col  Kalevala  finnico.  La  runa  finnica  appare  ancora  ben  lon- 
tana da  quella  dignità  e  maturità  d'arte  che  consente  la  formazione  della 
grande  opera  epica.  E  se  quella  informe  moltitudine  di  canti  di  così 
varia  natura  e  provenienza  il  Lònnert  potè,  fra  il  1835  e  il  '49,  com- 
porre in  una  certa  unità  nel  poema  che  ebbe  da  lui  quel  nome,  l'opera 
sua  fu  opera  di  riflesso  artificio  di  dotto  diligente,  non  già  frutto  di 
quella  spontanea  creazione  e  ispirazione  artistica,  che  è  propria  degli 
originali  unificatori  ed  ordinatori  della  materia  epica  e  dei  canti  popo- 
lari in  organismo  di  poema  nazionale  nelle  epoche  creative.  Il  compi- 
latore finlandese,  più  che  ad  Omero,  cioè  ad  una    mente  geniale  e 


La  mente  di  Domenico  Comparetti  245 

creatrice,  rassomiglia  piuttosto  ad  uno  dei  dlaskeaasti  Pisistratidi.  Si 
può  forse  credere  che,  se  ai  Finni  fosse  toccato  in  sorte  uno  di  questi 
geni  creatori,  che  ebbero  popoli  più  fantasiosi  e  chiamati  all'arte,  anche 
questa  dispersa  materia,  ond'è  composto  il  Kalevala,  avrebbe  potuto 
assurgere  a  dignità  di  poema  organico.  Potrebbe  anche  dubitarsi  se  fra 
le  opposte  teorie  dello  stretto  unitarismo,  cui  inclina  il  Comparetti,  al- 
meno per  l'Epos  classico,  e  della  formazione  collettiva  o  del  conglutina- 
mento  spontaneo  dei  canti  dispersi,  nonr  si  apra  una  via  media,  che 
codesta  composizione  ed  ordinamento  della  materia  epica  precedente 
riconduca  all'opera  d*  una  scuola  o  di  una  tradizione  domestica,  che  di 
padre  in  figlio  trasmetta  il  dono  della  poesia  e  il  patrimonio  dei  canti 
rapsodici.  La  tradizione  classica  ci  parla  degli  Omeridi,  come,  per  la 
scienza,  degli  Asclepiadi,  e,  per  le  arti,  porta  il  mitico  nome  dei  Deda- 
lidi.  E  quanto  potere  abbia  avuto  questa  opera  corporativa  nelle  scuole 
filosofiche  non  solo  risulta  per  l'età  platonico-aristotelica  dalle  ricerche 
dell'  Usener  e  del  Wìlamowìtz,  ma  ancora,  per  le  più  antiche  presocra- 
tiche, dalle  acute  osservazioni  del  Diels.  Ora,  se  questa  efficacia  della 
tradizione  scolastica  e  domestica  è  per  l'antichità  indubitabile  anche 
per  la  formazione  dei  cicli  poetici,  qualche  traccia  di  generazioni  di 
poeti  e  di  continuità  poetica  familiare  si  trova  pure  tra  i  cantori  fin- 
nici: poiché  sappiamo  che  uno  dei  principali  di  cui  si  ha  memoria, 
Arhippa,  ebbe  figli  che  furono  cantori  ed  ebbe  cantore  valente  il  padre. 
Comunque  sia,  la  vasta  opera  del  critico  italiano  e  per  il  severo 
metodo  con  cui  è  condotta,  per  le  fondamentali  conclusioni  a  cui 
giunge,  e  pel  vivo  sentimento  dell'arte  che  l'anima  ed  avviva,  è  a  lui 
nobile  documento  di  onore  e  titolo  di  gloria  agli  studi  italiani  ;  i  quali, 
per  merito  suo,  anche  in  questo  campo  della  letteratura  comparata,  si 
sono  degnamente  affermati  nel  cospetto  dej  mondo  scientifico,  in  modo 
da  non  temere  paragone  straniero,  e  da  offrire  anzi  un  imitabile  esempio 
agli  studiosi  di  tutte  le  colte  nazioni. 

Il  Maestro. 

Tale  è,  nelle  sue  linee  sostanziali,  l'opera  dello  studioso  e  dell'in- 
dagatore. Ma  quale  fu  a  molti  di  noi  il  maestro,  tale  è  anche  l'uomo 
e  quello  che  per  tutti  è  lo  scrittore:  lucido,  largo,  nobilmente  alto  e 
sereno.  Il  pensiero  del  Comparetti  in  tutti  i  suoi  scritti,  e  specie  nei 
maggiori,  si  svolge  con  limpidità  classica  e  quasi  direi  con  certa  so- 
lennità ieratica.  Nelle  sue  pagine  si  ritrovano  molte  di  quelle  insigni 
qualità  che  naturalmente  apparivano  più  evidenti  nella  sua  viva  parola 
di  maestro.  Chi  fu  alla  sua  scuola  (e  dalla  scuola  pisana  che  egli  creò 
insieme  al  Villari,  al  D'Ancona,  al  Teza  e  al  Lasinio,  escirono  valen- 
tuomini come  il  Rajna,  il  D'Ovidio,  il  Vitelli  ;  come  dalla  fiorentina. 


246  Alessandro  Chiappelli 


nella  quale  ebbe  cooperatori  Io  stesso  Villari,  il  Bartoli,  il  Trezza  e  il 
Vitelli,  altri  non  meno  valenti  come  il  Pais,  il  Milani  e  altri  molti); 
chi,  dico,  lo  ebbe  maestro,  non  dimenticherà  mai  l'efficacia  della  sua 
parola  austera,  sobria,  serena  e  rigorosamente  scientifica:  efficacia  che 
chi  scrive  sentì  rifluire  sempre  in  sé  durante  il  suo  magistero  neirAteneo 
napoletano,  e  ne  volle  rendere  grata  testimonianza  dedicando  al  Gom- 
paretti  un  antico  suo  libro  di  Studi  sulla  letteratura  cristiana  primi- 
tiva (1887).  Né  può,  chi  l'abbia  udito,  dimenticare  con  quale  alto  senso 
d'arte  il  maestro  leggeva  ed  illustrava  o  l'Agamennone  d'Eschilo  o 
un'Ode  di  Pindaro.  Bastava,  anzi,  talora  la  lettura  o  la  recitazione, 
iniziale  o  finale,  del  testo,  fatta  da  lui,  per  far  sentire  la  grandezza  di 
quell'antica  parola,  che  nella  sua  voce  solenne  riviveva.  Non  avvicinava 
quasi  mai  gli  scolari  :  ma  operava,  per  così  dire,  a  distanza,  e  con  dure- 
vole efficacia,  sulle  loro  menti. 

Ora  questa  dignità,  portata  e  serbata  nella  scuola,  era  già  prima 
nell'animo  suo.  Consapevole  della  sua  superiorità  su  tanti,  egli  {rara 
avis)  non  ha  mai  mendicato  lodi  né  da  amici,  né  dalla  pubblica  stampa, 
né  si  é  mai  indugiato  in  piccole  polemiche,  anche  se  assaUto  da  qualche 
malevolo.  In  controversie  scientifiche  si  è  misurato  con  uomini  come 
il  Mommsen  e  il  Diels;  ma  trattando  da  pari  a  pari,  come  atleta  che 
sa  la  sua  forza  e  leoninamente  affronta  l'avversario,  senza  ambagi  o 
adulatorie  captationes  benevolentiae.  Questo  atteggiamento,  che  altri 
disse  di  olimpica  serenità  (chi  mai  legge  nel  profondo  animo,  o  signori?) 
e  di  superiorità  onestamente  sentita  «  per  la  fidanza  che  ha  di  sé  », 
come  dice  un  antico  biografo  di  Filippo  di  Ser  Brunellesco;  questa 
sua  libertà  di  critica,  dinanzi  alla  scienza  tedesca,  potè  a  taluno  spia- 
cere e  dare  appiglio,  anche  in  alcuni  suoi  valorosi  discepoli,  ad  ingiu- 
stificati risentimenti.  Ingiustificati,  dico:  poiché  quest'uomo,  che  così 
altamente  sente  di  sé,  non  ha  mai,  come  pur  tanti  hàn  fatto  e  fanno, 
cercato  di  inalzarsi  deprimendo  altrui. 

Quella  sua  dignitosa  e  nobile  coscienza  del  suo  valore,  che  traluce 
da  tutto  il  suo  costume,  non  ha  mai  nociuto  a  nessuno:  e  nemmeno 
dà  quel  repugnante  senso  di  degnazione  che  offende,  essendo  egli  a 
chi  l'avvicina  squisitamente  affabile  e  signorilmente  cortese  d'ogni  con- 
siglio ed  aiuto.  Sarebbe  stato  perciò  desiderabile,  per  la  rispettiva  repu- 
tazione e  per  il  bene  degli  studi  nostri,  che  qualche  valentuomo,  emi- 
nente pur  egli  negli  studi  classici  come  collazionatore  di  codici,  come 
papirologo  diligentissimo,  ed  anelante,  alla  sua  volta,  a  formare  una 
sua  scuola,  avesse  riconosciuto  càndidamente  che  le  sue  proprie  qualità 
analitiche  potevano  servire  bellamente  ad  integrare,  per  la  scuola,  le 
facoltà  prevalentemente  sintetiche  del  comune  maestro. 

E  dico  prevalentemente:  perchè  nei  primi  anni  del  suo  insegna- 
mento pisano,  a  quanto  mi  venne  riferito  da  antichi  scolari  suoi,  egli 
pure  indulse  al  vezzo  tedesco  di  dare  nella  scuola  minuta  notizia  delle 


La  mente  di  Domenico  Comparetti  247 

varianti  dei  testi  ch'egli  andava  interpretando,  o  fosse  V Orazione  de- 
mostenica  sulla  Corona  o  V Edipo  re  di  Sofocle:  e  delle  sue  facoltà 
analitiche  d'erudito,  oltre  le  opere  maggiori,  bastano  a  far  fede  gli  studi 
sulle  epigrafi  arcaiche,  specialmente  cretesi.  Che  se  poi  il  Comparetti 
nostro  non  dubitò  di  misurarsi  coi  maggiori  della  scienza  filologica  e 
storica  della  Germania,  questo,  anziché  nuocere,  come  altri  allora  temè, 
al  buon  nome  degli  studi  italiani,  era,  fin  da  quel  tempo,  testimonianza 
onorevole  che  il  sentimento  d'italianità  in  lui  non  ebbe  bisogno  per 
destarsi  e  rivelarsi  delle  odierne  violenze  germaniche  di  guerra.  Certo, 
altri  ebbe  l'onore  di  avere  affidata  dall'Accademia  di  Berlino  la  cura 
del  testo  di  alcuni  Commentatori  di  Aristotele,  e  qualche  reputatissimo 
e  pugnace  discepolo  di  costui  ebbe  a  contribuire  ad  un'altra  raccolta 
tedesca,  la  Collezione  classica  Teubneriana.  Ma  il  comune  maestro  aveva 
già  i  suoi  alti  titoli  d'onore,  da  lungo  tempo  conosciuti,  anche  senza 
godere  di  certe  ufficiali  simpatie  teutoniche. 

Chiunque  abbia  avuto,  pertanto,  la  ventura  di  essere  stato  discepolo 
di  questo  facile  prlnceps  (se  non  altro  per  ordine  di  tempo)  degli  elle- 
nisti italiani,  e  insieme  di  qualche  suo  valente  creato,  anch'egli  oramai 
e  già  da  tempo  canuto,  non.  sa  darsi  ragione  di  questo  malaugurato 
dissenso  e  di  un  tale  immeritato  disconoscimento  dell'innegabile  e 
sovrana  benemerenza,  che  rende  venerabile  il  filologo  ed  archeologo 
romano  :  mentre  nell'animo  suo,  pur  facendo  ragione  della  diversa  mi- 
sura di  questi  valenti,  sente  che  la  diversità  di  attitudini  e  di  predile- 
zioni negli  uomini  di  studio  e  di  scienza  non  può  né  deve  escludere 
la  fraterna  armonia  e  la  serena  cooperazione  di  tutte  le  varie  forze;  e 
lo  invoca  per  l'onore  d'Italia  e  per  la  educazione  intellettuale  e  morale 
della  nostra  gioventù,  la  quale  dagli  esempi  che  vengono  dall'alto  prende 
norma  di  vita  ed  incitamento  a  rendersene  degna  continuatrice  nel  pen- 
siero e  nell'opera. 

Alessandro  Chi  appelli. 


Opere  e  scritti  vari  di  Domenico  Comparetti. 

La  Nuova  Rivista  Storica  crede  di  rendere  un  nobile  servigio  alla  scienza  e  ai 
suoi  lettori,  facendo  seguire  al  bel  saggio  di  Alessandro  Chiappelli  su  Domenica 
Comparetti  una  bibliografia  completa  —  cronologicamente  ordinata  —  della  multiformt 
attività  scientifica  di  quest'ultimo  fra  i  nostri  grandi  poligrafi  italiani  dell*  età  nostra. 

Observationes  in  Hyperidis  orationem  funebrem  (in  Rheinisches  Museum,  N.  F,, 

XIII  (1858),  pp.  533  sgg.). 
Epi^tula  ad  Fridericam  Ritschelium  de  Liciniani  annalium  scriptoris  aetate  (in 

Rheinisches  Museum,  N.  F.,  XIH,  1858). 


«48  Nuova  Rivista  Storica 


Intorno  alVetà  in  cui  visse  Vannalista  Liciniano  (in  Archivio  Storico  Italiano, 
N,  5.,  X  (1859),  pp.  1  sgg.). 

Intorno  alCopera  sulla  composizione  del  Mondo  di  RISTORO  D'AREZZO,  pubblicata 
da  E.  NarduCCI  (in  Giornale  Arcadico,  aprile  1859). 

//  discorso  d'Iperide  in  favore  di  Euxenippo,  Pisa,  1861,  in  4»,  pp.  108,  con  11  ta- 
vole di  fac-simile. 

Sulle  iscrizioni  relative  al  Metroon  Pireense,  Roma,  1862  (in  Annali  delT Istituto 
di  corrispondenza  archeologica,  voi.  XXXIV). 

Notizie  ed  osservazioni  in  proposito  degli  «  Studi  Critici  »  del  prof.  ASCOLI  : 
1«  Sui  coloni  Greci  e  Slavi  dell'Italia  meridionale;  2®  Sulle  ricerche  albanesi, 
Pisa,  1863  (in  Rivista  Italiana,  nn.  126;  134;  140). 

//  discorso  a'Iperide  pei  morti  nella  guerra  Lamiaca,  Pisa,  1864,  in  40,  pp.  78, 
con  12  tavole  di  fac-simile. 

Intorno  al  Libro  dei  Sette  Savi  di  Roma:  Osservazioni,Pìsa,  Nistri,  1865,  in  8®,  pp.  37. 

Virgilio  nella  tradizione  letteraria  fino  a  Dante  (in  Nuova  Antologia,  gen- 
naio 1866);  Virgilio  mago  ed  innamorato  (in  Nuova  Antologia,  aprile  e 
agosto  1867).  [Questi  due  articoli  sono  il  primo  abbozzo  dell'opera  Virgilio 
nel  Medio  Evo]. 

Saggi  dei  dialetti  greci  dell'Italia  meridionale,  Pisa,  1866,  in  8«>,  pp.  105. 

Edipo  e  la  Mitologia  comparata:  Saggio  critico,  Pisa,  Nistri,  1867,  in  8®,  pp.  90. 

Recensione  A€iVÉtude  sur  le  dialecte  tzaconien  del  Deville,  (in  Zeitschrift  fiir 
vergi.  Sprachf.  del  KUHN,  voi.  XVIII,  1868). 

La  Novella  di  Messer  Danese  e  di  Messer  Gigliotto,  Pisa,  1868  (pubblicata  per 
nozze  da  A.  D'ANCONA  con  illustrazioni  di  D.  C). 

Eine  neuentdeckte  Inschrift  von  Tauromenion  (in  fahrbiicher  fiir  class.  Philolo- 
gie,  1869). 

Ricerche  intorno  al  Libro  di  Sindibdd,  Milano  (Bernardoni),  1869,  in  4°,  pp.  54 
(in  Memorie  del  R.  Istituto  Lombardo  di  Scienze  e  Lettere).  [Fu  tradotta  in 
inglese  da  Mr.  Coote,  London  (Folk-Lore  Society),  1882]. 

Recensione  di  due  pubblicazioni  del  JuLG,  Racconti  Mongolici  e  di  una  del  Ger- 
LAND,  Novelline  dell'Odissea  (in  Revue  critique,  settembre  1869). 

Recensione  del  Zink,  Der  Mytholog.  Fulgentius  (in  Revue  critique,  agosto  1869). 

Sul  «  Victorial»  di  Gutierre  Diaz  de  Games,  traduzione  franese  di  Circourt  et 
Puymaigre  (in  Nuova  Antologia,  settembre  1869). 

Recensione  de  La  Corte  letteraria  di  Giovanni  II  re  di  Castiglia  del  PUYMAIGRE 
(in  Nuova  Antologia,  1869). 

Zur  Hermeneutik  des  Pindaros  {Pyth.  II,  72  sgg.)  (in  Philologus,  XXVIII  (1869), 
pp.  385-398). 

/  Manoscritti  di  Arborea  (in  Nuova  Antologia,  giugno  1870). 
Virgilio  nel  Medio  Evo,  Livorno,  Vigo,  1872,  in  8»,  2  voli.,  pp.  313;  310.  [Fu 
tradotto  in  tedesco  da  Hans  Dutschke,  Leipzig,  Teubner,  1875;  in  inglese, 
da  E.  F.  M.  Benecke,  con.  una  Introduzione  di  Robinson  Ellis,  London, 
Sounenschein,  1895.  La  seconda  edizione,  riveduta  dall'autore,  è  del  1896 
(Firenze,  Seeber),  in  8«,  2  voli.,  pp.  316;  328]. 

Recensione  dell'edizione  di  Nonio  Marcello,  De  compendiosa  doctrina  del  Qui- 
CHERAT  (in  Rivista  di  Filologia,  ecc.,  1873,  pp.  138-142). 


opere  e  scritti  di  Domenico  Comparetti  249 


Die  Strafe  des  Tantalos  bei  Pindar  {01.  I,  56  sgg.)  (in  Philologus,  XXXII  (1873), 
pp.  227-251). 

P(\piro  Ercolanese  inedito,  Torino,  Loescher,  1875,  in  8°,  pp.  110.  [Contiene  Vin- 
dice degli  Stoici], 

Novelline  popolari  italiane,  illastraie  da  D.  Comparetti,  voi.  I,  Torino,  Loescher 

1875.  [È  il  VI  volume  della  raccolta  Canti  e  Racconti  del  Popolo  italiano, 
pubblicati  per  cura  di  D.  Comparetti  e  A.  D'Ancona.  Di  queste  novelline, 
dopo  il  primo  volume,  non  fu  ..pubblicato  altro:  Tutta  la  raccolta  mano- 
scritta di  proprietà  del  Comparetti  di  Canti  e  Novelline  fu  da  lui  donata 
a  Lamberto  Loria  pel  suo  Museo  etnografico  italiano]. 

(e  D'Ancona),  Le  antiche  «  Rime  volgari  »  secondo  la  lezione  del  Codice  Vati- 
cano 3793,  Bologna,  Romagnoli,  1875-1888. 
Sulla  Epistola  O'udiana  di  Saffo  a  Paone:  studio  critico,  Firenze,  Le  Monnier, 

1876,  in  40,  pp.  53  (in  Pubblicazioni  del  R.  Istituto  Superiore  di  Firenze). 
Saffo  e  Paone  dinanzi  alla  critica  storica  (in  Nuova  Antologia,  febbraio  1876). 
La  Villa  de'  Pisoni  in  Ercolano  e  la  sua  Biblioteca,  Napoli,  1879  (nel  volume 

Pel  Centenario  di  Pompei).  [Fu  riprodotto  con  variazioni  nel  grande  voluin e 
dello  stesso  titolo  di  Comparetti  e  De  Petra]. 

Frammenti  inediti  della  Etica  di  Epicuro,  tratti  da  un  Papiro  Ercolanese  (in  Ri- 
vista di  Filologia,  ecc.,  1879).  [La  seconda  edizione  è  contenuta  nel  Museo 
Italiano  di  Antichità  classica]. 

Lamìnette  di  oro  con  iscrizioni  greche  scoperte  nel  territorio  di  Sibari  (in  Notizie 
degli  Scavi,  aprile  1880).  [L'edizione  critica  di  queste  e  altre  simili  iscrizioni 
è  contenuta  nel  volume  Lamìnette  Orfiche,  ecc.]. 

Relazione  sui  Papiri  Ercolanesi  letta  alla  R.  Accadeniia  dei  Lincei,  Roma,  1880 
(in  Memorie  della  R.  Accadentia  dei  Lincei,  voi.  V).  [Fu  letta  nella  seduta 
del  17  febbraio  1878.  È  riprodotta  nel  volume  La  Villa  Ercolanese  de'  Pi- 
soni di  Comparetti  e  De  Petra]. 

//  Kfllevala  o  la  Poesia  tradizionale  dei  Finni:  Studio  storico- critico  sulle  origini 
delle  grandi  epopee  nazionali,  Roma,  1901,  in  4<',  pp.  214  (in  Memorie  della 
R.  Accademia  dei  Lincei).  -[Fu  tradotta  in  tedesco  dalla  Sig.na  Heusler, 
Halle,  Niemeyer,  1892,  in  8°,  pp.  327  ;  in  inglese,  da  Isabella  M.  Anderton 
con  Introduzione  di  Andrew  Lang,  London,  Longmann,  1898,  in  8» 
pp.  359]. 

Iscrizioni  greche  di  Olimpia  e  di  Ithaka,  Roma,  1881  (in  Memorie  della  R.  Ac- 
cademia del  Lincei,  voi.  VI). 

La  Commissione  Omerica  di  Pisistrato  e  il  Ciclo  Epico  {in  Rivista  di  Filologia,  ecc., 
1881,  pp.  539-551). 

Sur  une  inscription  de  Tauromenium:  lettre  à  Mr.  Albert  Martin  {École  franf., 
de  Rome,  1881,  pp.  181-186). 

Introduzione  e  note  a  le  «  Nuvole  »  di  Aristofane,  tradotte  da  A.  Franchetti, 
Firenze,  1881. 

On  two  inscriptions  from  Olympia  (in  fournal  of  hellenic  Studies,  1881);  The  Pe- 
telia  Gold  Tablet  (ibid.,  voi.  Ili  (1882),  pp.  Ili  sgg.). 

Due  epigrafi  greche  arcaiche  illustrate  (in  Riv.  di  Filologia,  ecc.,  luglio-agosto  1882). 

Sur  une  inscription  d'Halicarnasse,  1882  (in  Mélanges  Oraax). 


250  Nuova  Rivista  Storica 


Appunti  alla  raccolta  di  epìgrafi  greche  arcaiche  pubblicate  ùaXV Accademia  di 
Berlino  (in  Rivista  di  Filologia,  ecc.,  aprile-giugno  1883). 

(e  G.  De  Petra)  La  Villa  Ercolanese  dei  Risoni;  i  suoi  Monumenti  e  la  sua  Bi- 
blioteca: ricerche  e  notizie  con  24  tavole,  Torino,  Loescher,  1883,  in  fol., 
pp.  294. 

L'Iscrizione  arcaica  di  Oaxos  interpretata  (in  Rivista  di  Filologia,  ecc.,  1883). 

Iscrizione  Cretese  scoperta  in  Venezia,  Roma,  1883  (in  Memorie  ùqW Accademia 
dei  Lincei).  [L'edizione  definitiva  della  iscrizione  fu  data  nel  Museo  Italiano 
di  Antichità  Classica,  voi.  I  (1885)]. 

Frammenti  dell' «  Etica  »  di  Epicuro,  tratti  da  un  Papiro  Ercolanese  con  2  tavole 
(in  Museo  Italiano,  ecc.,  pp.  67-88). 

Museo  Italiano  di  Antichità  classica,  diretto  da  D.  C,  Firenze,  Loescher,  voi.  I, 
in  40,  con  molte  tavole,  1885,  coli.  382;  voi.  II,  1888,  coli.  910  con  molte  ta- 
vole e  un  atlante  gr.  in  fol.  ;  voi.  Ili,  1890,  coli.  796  con  pili  tavole. 

Leggi  antiche  della  città  di  Qortyna  in  Creta,  lette  ed  illustrate,  Firenze,  Loe- 
scher, 1885,  in  A°,  pp.  55,  con  una  grande  tavola  (in  Museo  italiano,  voi.  I, 
pp.  232-288). 

Varietà  Epigrafiche:  Keos;  Amorgos;  iscrizioni  di  vasi,  1885  (in  Museo  ita- 
liano, ecc.,  voi.  I,  pp.  221-232). 

L'Iscrizione  del  Vaso  Dressel,  1885  (in  Museo  italiano,  ecc.,  voi.  I,  pp.  175-190). 

Su  di  una  Iscrizione  di  Alicarnasso,  1885  (in  Museo  italiano,  ecc.,  voi.  I, 
pp.  151-158). 

Iscrizione  cretese  scoperta  in  Venezia,  1885  (in  Museo  italiano,  ecc.,  voi.  I, 
pp.  141-150). 

Introduzione  e  Note  alle  «  Rane  »  di  Aristofane,  tradotte  da  A.  Franchetti, 
Città  di  Castello,  1886. 

Sull'Iscrizione  greca  segnata  sul  piede  di  un  vaso  (in  Rendiconti  dell'Accademia 
dei  Lincei,  nowQtnbre  1888). 

Le  recenti  scoperte  archeologiche  in  Creta  (in  Nuova  Antologia,  1888). 

/  Canti  Epici  della  Finlandia:  Discorso  pronunciato  nella  seduta  reale  dell'Ac- 
cademia dei  Lincei,  27  maggio  1888. 

(e  F.  Halbherr),  Epigrafi  arcaiche  di  Gortyna,  1888  (in  Museo  italiano,  ecc., 
voi.  II,  pp.  129-252). 

Iscrizioni  arcaiche  di  Gortyna  rinvenute  nei  nuovi  scavi  presso  il  Letìieo,  1888, 
(in  Museo  italiano,  ecc.,  voi.  II,  pp.  593-686). 

Osservazioni  sul  così  detto  «  Niger  Lapis  »  del  Foro  (in  Rendiconti  delC Accade- 
mia dei  Lincei,  gennaio  1889). 

Su  di  un  antico  Specchio  con  iscrizione  latina  (in  Rendiconti  dell'Accademia  dei 
Lincei,  febbraio  1889). 

(e  F.  Halbherr),  Relazione  sugli  scavi  del  Tempio  d'Apollo  Pythio  in  Qortyna 
e  nuovi  frammenti  d'iscrizioni  arcaiche  trovati  nel  medesimo,  Roma,  1889, 
in  40,  pp.  110,  con  tavole  (in  Monumenti  Antichi  dei  Lincei,  voi.  I). 

Oli  scavi  del  Foro  Romano  (in  Nuova  Antologia,  maggio  1889). 

Saffo  nelle  antiche  rapprese(itanze  vascolari,  con  4  tavole,  1890  (in  Museo  ita- 
liano, ecc.,  voi.  II,  pp.  41-80). 

le  Leggi  di  Qortyna  e  le  altre  iscrizioni  arcaiche  cretesi  edite  ed  illustrate,  Fi- 


opere  e  scritti  di  Domenico  Campar  etti  251 


renze,  Milano,  Hoepli,  1893,  in  40,  coli.  480,  coi  fac-simili  di  tutte  le  iscri- 
zioni in  tavole  o  in  pagina. 

Introduzione  e  note  agli  «  Uccelli»  di  Aristofane,  tradotte  da  A.  Franchetti 
Città  di  Castello,  1894. 

Commemorazione  di  G.  B.  De  Rossi  (in  Rendiconti  della  R.  Accademia  dei  Lincei, 
novembre  1894). 

La  Guerra  gotica  di  Procopio  di  Cesarea  :  testo  greco  emendato  sui  manoscritti 
con  traduzione  italiana,  Roma,  Istituto  Storico  italiano,  1895-98,  in  8»,  3  voli., 
pp.  213;  464;  366.  [Fa  parte  delle  Fonti  per  la  Storia  d'Italia  pubblicate 
daW Istituto  Storico  italiano}. 

Su  di  un  Busto  con  iscrizione  greca  (in  Rendiconti  della  R.  Accademia  dei  Lin- 
cei, giugno  1897). 

Les  Dithyrambes  de  Bacchylide,  Paris,  1898  (in  Mélanges  WeiL  [Fu  scritto  nel 
marzo,  prima  cioè  della  pubblicazione  dell'edizione  del  Blass]. 

Introduzione  e  note  ai  «  Cavalieri  ^  di  Aristofane,  tradotti  da  A.  Franchetti, 
Città  di  Castello,  1898. 

Introduzione  e  note  al  «  Plato  »  di  Aristofane,  tradotto  da  A.  Franchetti, 
Città  di  Castello,  1900. 

Iscrizione  arcaica  del  Foro  Romano,  Firenze-Roma,  1900  in  4<'  grande,  con  di- 
segni e  una  tavola  grande. 

Introduzione  e  note  a  le  «  Donne  a  Parlamento  »  di  ARISTOFANE,  tradotte  da 
A.  Franchetti,  Città  di  Castello,  1901. 

Homeri  Ilias  cum  scholiis:  Codex  Venetvs  A.  Marcianus  454,  phototypice  editus 
con  prefazione,  Lugduni  Batavorum,  Sijthoff,  1901,  in  fol.,  pp.  14. 

Frammento  filosofico  da  un  Papiro  greco-egizio,  Vienna,  1902  (in  Festschrift  fur 
Theodor  Qomperz). 

Laminetta  Orfica  di  Cecilia  Secundina  (in  Atene  e  Roma,  giugno-luglio  1903). 
[È  riprodotta  con  varianti  nel  volume:  Laminette  Orfiche,  ecc.]. 

Su  alcune  epigrafi  metriche  cretesi  (due  fascic),  Vienna,  1903  (in  Bormannheft 
der  «  Wiener  Studien^,  a.  XXIV;  XXV). 

Èpistolaire  d'un  commandani  de  Varmée  romaine  en  Egypte,  Genève,  1905  (in 
Mélanges  Nicole)!'  [Una  nuova  e  più  completa  edizione  del  Papiro  è  nel  vo- 
lume Papiri  Fiorentini  (1911)]. 

Introduzione  e  note  alle  «  Donne  alle  Tliesmoforie  »  di  Aristofane,  tradotte  da 
A.  Franchetti,  Città  di  Castello,  1905. 

Sull'Iscrizione  della  Colonna  Traiano,  Roma,  1906  (in  Rendiconti  della  R.  Acca- 
demia dei  Lincei),  novembre  1906. 

Iscrizione  arcaica  cumana,  Roma,  1907  (in  Ausonia,  anno  I).  [È  riprodotta  nel 
volume  Laminette  Orfiche,  ecc.]. 

La  Statua  di  Anzio,  Roma,  1910  (in  Bollettino  d^Arte  del  Ministero  delta  Pub- 
blica Istruzione,  febbraio  1910). 

Iscrizione  greca  arcaica  dì  un  dischetto  di  bronzo,  1910  (nel  volume  in  onore  di 
G.  De  Petra). 

La  Bibliottièque  de  Philodème,  Paris,  1910  (in  Mélanges  Chatelain). 

Introduzione  e  note  ala  «  Lisistrata  »  di  Aristofane,  tradotta  da  A.  Franchetti, 
Città  di  Castello,  1911. 


252  Nuova  Rivista  Storica 


Papiri  greco-egìzi'.  Papiri  Fiorentini  letterari  ed  epistolari,  Milano,  Hoepli,  1911, 
in  40  gr.,  pp.  300  con  6  tavole  e  70  fotografie  in  pagina.  [È  il  2»  volume 
dei  Papiri  greco-egizi  pubblicati  dalla  R.  Accademia  dei  Lincei]. 

Laminette  Orfiche  edite  ed  illustrate,  Firenze,  1910,  con  fotografie  in  pagina  e 
in  4  tavole  (Edizione  principe). 

L'Iscrizione  arcaica  di  Mantinea,  con  3  tavole  (in  Annuario  della  R.  Scuola  Ar- 
cheologica di  Atene  e  delle  Missioni  italiane  in  Oriente,  I,  Bergamo,  1914). 

Laminetta  argentea  iscritta  di  Aidone  (Sicilia)  con  1  tavola  (in  Annuario  della 
R.  Scuola  Archeologica  di  Atene,  ecc.,  I,  Bergamo,  1914). 

Iscrizione  cristiana  di  Cirene  con  3  illustrazioni  (in  Annuario  della  R.  Scuola 
Archeologica  di  Atene,  ecc.,  Bergamo,  1914). 

Prefazione  al  P  volume  ^t\V Annuario  della  R.  Scuola  Ardi,  di  Atene,  ecc.,  1914. 

Le  Imagini  di  Virgilio,  il  Musaico  di  Hadrumetam  e  i  primi  sette  versi  deW Eneide 
(in  Atene  e  Roma,  nn.  183-184,  1914,  con  2  tavole). 

Tabelle  Testamentarie  delle  Colonie  Achee  di  Magna  Grecia  con  6  illustrazioni 
(in  Annuario  della  R.  Scuola  Archeologica  di  Atene„ecc.,  II  (1915),  Ber- 
gamo, 1916). 

Tabelle  Testamentarie  ed  altre  Iscrizioni  greche  con  4  fotografie,  Firenze,  1915. 

Iscrizione  inedita  di  Pednelissos  (Pisidia)  (in  Annuario  della  R.  Scuola  Archeo- 
logica d'Atene,  ecc..  Ili,  Bergamo,  1917). 

Due  epigrafi  inedite  di  Gortyna  (Creta)  (in  Annuario  della  R.  Scuola  Archeolo- 
gica d'Atene,  ecc.,  Ili,  Bergamo,  1917. 


in  corso  di  stampa. 

Le  nozze  di  Bacco  ed  Arianna,  grande  composizione  pittorica  nel  triclinio  di  una 
Villa  Pompeiana  recentemente  scoperta  (in  Monumenti  Antichi  dei  Lincei)  ; 
Silloge  di  tutte  le  iscrizioni  cretesi  venute  in  luce  fino  ad  oggi  (R.  Accademia 
dei  Lincei)  ;  Addenda  et  corrigenda  ad  Corpus  Inscr.  Graec.  Italiae  et  Insu- 
larum  (ibidem);  Supplementa  ilalica  ad  Corpus  Inscr.  Latinorum  (ibid.).  [La 
Silloge  cretese  è  redatta  dal  Comparetti  (che  ne  ha  specialmente  elaborato 
la  parte  arcaica)  e  dall'HALBHERR.  Promotore  della  grande  impresa  dei  tre 
Corpi  Epigrafici  su  menzionati,  ora  assunta  dalla  nostra  Accademia  dei  Lin- 
cei, in  sostituzione  é^W Accademia  di  Berlino,  è  stato  lo  stesso  Comparetti] . 


^^ 


I  personaggi  di  Eschilo' 


^^F» 


Il  carattere  eroico  dei  personaggi. 

E  passiamo  ora  ad  osservare  gli  attori  di  queste  formidabili 

azioni. 

La  prima  impressione  è  di  trovarci  dinanzi  ad  una  folla  di  ener- 
gumeni. E  non  parliamo  neppure  delle  Euménidi,  né  di  Cassandra, 
e  di  Io,  le  folli.  Ma  quasi  tutte  le  altre  persone  del  mondo  eschileo, 
Clitennestra,  Elettra,  Oreste,  Egisto,  Prometeo,  Eteocle,  sono  tutti  in- 
vasi da  una  furia  da  un  impeto  di  dissoluzione,  e  parlano  parole  dì 
fuoco,  tutte  barbagli  e  alato  volo  d'immagini,  come  profeti  e  come 
Sibille. 

Come  già  dissi,  da  questo  carattere  uniforme  si  è  voluta  indurre 
una  incapacità  di  Eschilo  a  scolpire  la  varietà  dei  caratteri.  Ma  la  illa- 
zione è  ingiusta  o  per  lo  meno  eccessiva. 

Nelle  Rane  di  Aristofane,  Euripide,  che  rappresenta  la  critica  ra- 
zionale e  sofistica,'rivolge  al  rivale  Eschilo  un  rimprovero  simile: 

Spacciar  Licabetti  e  volate  Parnasie,  gli  è  questo  che  nomini 
insegnare  il  buono?  Oh  non  devesi  parlar  come  parlano  gli  uomini? 

Ed  Eschilo  gli  risponde: 

A  esprimere  grandi  concetti,  la  frase  convien  che  si  crei 
acconcia.  E  parole  più  grandi  ci  vogliono  pei  semidei, 
se  han  gli  abiti  pure  di  tanto  più  belli  dei  nostri  I 

Appunto  così.  I  personaggi  di  Eschilo  non  sono  uomini,  sono 
eroi.  Essi  non  parlano  la  lingua  di  tutti  gli  uomini,  bensì  una  lingua 


\ 


i  Da  un  volume,  //  teatro  greco,   d' imminente  pubblicazione  presso  la  Casa 
F.lli  Treves  di  Milano. 


254  Ettore  Romagnoli 


diversa,  corrusca  di  vocaboli  e  di  immagini  meravigliose;  una  lingua 
che  ebbe  per  crogiuolo  la  ebbra  vita  dionisiaca,  e  il  cui  metallo  fu 
poi  battuto  e  cesellato  dalla  musica,  che  die*,  come  vedemmo,  l'impronta 
formale  alla  tragedia.  Trarne  argomento  per  diminuire  la  capacità  di 
Eschilo  nella  creazióne  dei  caratteri,  è  superficiale.  Seppure  bisognerà 
cercare  se,  data  questa  generica  tempra  dello  stile  eschileo,  che  è  lo 
stile  ditirambico,  lo  stile  dionisiaco,  variano  poi,  o  non  variano,  ì  par- 
ticolari, a  seconda  dei  personaggi.  E  in  verità,  non  ci  vuol  molta  acu- 
tezza per  accorgersi  che  le  immagini  di  Clitennestra  non  sono  per 
esempio  le  immagini  della  nutrice  di  Oreste. 

Ridotto  nella  sua  giusta  luce  il  problema  della  loquela,  vediamo 
quale  sia  Tarte  di  Eschilo  nello  scolpire  caratteri. 


Il  progresso  delParte  eschilèa^ 

Ora,  anche  dai  pochi-  resti  della  sua  grande  opera,  appare  una 
profonda  trasformazione  nel  modo  di  concepire  i  personaggi  :  trasfor- 
mazione che  implica  e  va  di  pari  passo  con  la  trasformazione  di  tutta 
la  tragedia. 

Della  cronologia  dei  sette  drammi  superstiti  possiamo  stabilire  con 
relativa  sicurezza  solo  questi  punti.  Le  Supplici 'sono  il  dramma  più 
antico;  i  Persiani  sono  del  472  (Eschilo  aveva  già  53  anni);  i  Sette  a 
Tebe  del  467;  la  Orestèa  del  458.  Sedici  anni  ci  separano  ormai  dai 
Persiani;  venti  dalle  Supplici:  Orai  nelle  Supplici  appena  possiamo  par- 
lare di  caratteri.  Fra  Danao  ed  il  re  d'Argo,  non  sapremmo  in  verità 
distinguere:  sono  due  re,  che  parlano,  l'uno  il  linguaggio  della  sven- 
tura, l'altro  del  sicuro  potere  ;  ma  non  sapremmo  davvero  definire  in 
quale  specifica  materia  umana  sia  impressa  questa  loro  regalità.  Né  a 
carattere  specifico  accennano  le  considerazioni  e  gli  ammonimenti  dJ 
Dario,  né  le  lamentazioni  di  Serse  nei  Persiani.  Figure  generiche, 
anch'essi,  specie  di  portavoci,  massime  il  primo,  ad  esprimere»  conside- 
razioni e  sentimenti  del  poeta.  Bisogna  che  arriviamo  ad  Eteocle,  per 
trovare  qualcuno  di  quegli  sprazzi  che  incidono  il  carattere.  Caratteri- 
stica è  la  violenza  con  cui  aggredisce  le  fanciulle  supplici.  E  anche  più 
incisive  e  determinatrici  sono  le  parole  disperate,  onde  egli  risponde  al 
Coro  che  cerca  distoglierlo  dal  fatale  proposito  di  affrontare  il  fratello. 

Coro. 
I 
Piglio,  che  smani?  Con  impeto  rabido 
te  non  travolga  la  furia  belligera  I 
Scrolla  il  dominio  di  brama  funestai 


I  personaggi  di  Eschilo  255 


Eteocle. 

Poi  che  gli  eventi  incalza  un  Dio,  rapito 
dai  venti  sia  di  Laio  il  seme  tutto, 
odio  di  Febo,  sul  fatai  Cocito  1 

È  Tamara  voluttà  dell'uomo  che,  percosso  da  ogni  parte  dai  mali, 
quasi  gode  a  rendere  il  suo  strazio  più 'colmo  e  perfetto.  Il  tratto  è 
profondo,  incisivo,  di  grande  psicologia. 

Ma  del  resto,  anche  Eteocle  ricorda  Danao  e  Pelasgo.  È,  come 
essi,  un  re.  Più  che  veri  caratteri,  sono  tipi,  quasi  direi  maschere  tra- 
giche. Somigliano  Tuno  all'altro,  come  le  statue  arcaiche,  che,  qualunque 
fosse  il  turbine  di  passione  che  si  presumeva  sconvolgesse  l'animo 
loro,  mantenevano  le  labbra  piegate  in  un  convenzionale  immutabile 
sorriso. 

Molto  si  parla  de!  carattere  di  Prometeo.  Ma  può  essere  che  que- 
sta comune  opinione  sia  fondata  sopra  un  malinteso.  Prometeo  non 
si  smuove  dalla  sua  deliberazione,  anzi  insiste  in  questa  ad  onta  di 
tutte  le  pene  e  di  tutte  le  minacce;  e  questo  significa,  in  lingua  po- 
vera, esser  uomo  di  carattere.  Tale  infatti  è  Prometeo:  e  di  qui  l'illu- 
sione. Ma  tutt'altra  cosa  s'intende  per  carattere  scenico.  Sicché,  da  que- 
sto lato,  non  vedo  in  Prometeo,  qualunque  sia  la  cronologia  del 
dramma,  una  gran  differenza  dagli  altri  personaggi  ricordati. 

Piuttosto  scorgiamo  in  Prometeo  accennare  un  altro  tipo  dì  etopèa 
p  pittura  di  carattere,  che  consiste  nel  far  direttamente  enunciare  dai 
personaggi  quello  che  sono,  ossia  quello  che  il  poeta  vorrebbe  risul- 
tassero. E  Prometeo  ripete  a  sazietà  che  egli  è  filantropo,  e  che  il 
suo  animo  è  di  tèmpra  inflessibile.  Ma  simili  dichiarazioni  raramente 
hanno  virtù  suasiva.  Virtù  suasiva  hanno  le  parole  e  le  azioni  quasi 
direi  inavvertite,  daHe  quali  traspaia  questo  o  quel  sentimento,  questa 
o  quella  passione.  L'altro  metodo  e  pure  etopèa,  ma  etopèa  di  se- 
cond'ordine.  Ed  il  Prometeo  è  creazione  sublime;  ma  per  altre  ragioni, 
che  in  parte  si  son  già  discorse. 

Né  con  ciò  è  detto  che  queste  figure  eschilèe  abbiano  minor  ca- 
lore, minor  rilievo.  In  fondo  un  personaggio  drammatico  può  aver 
questo  e  quello,  anche  indipendentemente  da  minuta  pittura  di  carat- 
tere. Chiarirò  anche  tale  concetto  mediante  un  brano  di  Aristofane. 
Nella  scena  già  ricordata  dalle  Rane,  Euripide  muove  ed  Eschilo  la 
crìtica  seguente: 

Euripide. 

Prima,  piantava  un  tizio,  imbacuccato  e  assiso, 
un  Achille,  una  Niobe,  un  fantoccio,  che  il  viso 
celava,  e  non  diceva  nulla. 


256  Ettore  Romagnoli 


Dioniso. 

Nemmeno  un  èttel 
Euripide. 

Il  coro  ci  appoggiava  via  via  quattro  strofette, 
e  quelli  zittii 

Dioniso. 

Eppure,  non  m'era  men  trastullo 
quel  tacer,  che  le  chiacchiere  d'ora! 

Euripide 

Gli  è  ch'eri  grullo, 
contaci  I 

Dioniso. 
Ne  convengo.  Ma  qual  n'era  l' intento  ? 

Euripide. 

Vendere  fumo  !  Il  pubblico  aspettava  il  momento 
che  Niobe  aprisse  bocca;  e  il  dramma  andava  avanti. 

Questa  critica  burlescamente  esagerata,  che  Aristofane  pone  in 
bocca  ad  Euripide,  si  può  in  certo  modo,  e  con  la  debita  discrezione, 
applicare  a  tutti  i  personaggi  della  più  antica  maniera  eschilea.  Essi 
sono  un  pò*,  non  diremo  davvero  fantocci,  bensì  meravigliose  statue, 
statue  favellanti,  di  cui  udiamo  le  parole,  ma  non  vediamo  l'anima  o 
appena  la  intravvediamo. 

Clitennestra. 

Ma  quando  giungiamo  dXVOrestèa^  il  quadro  cambia  improvvisa- 
mente, prodigiosamente.  Il  monotono  sorriso  arcaico  non  inflette  più 
le  labbra  e  i  visi  nella  unica  gelida  espressione;  ma  ciascun  volto  è 
segnato,  grandi  linee  e  particolari,  dalle  pieghe  della  sua  propria  pas- 
sione, della  sua  doglia,  della  sua  disperazione.  Noi  distinguiamo  ad  uno 
ad  uno  tutti  i  personaggi  della  trilogia,  dai  grandi  ai  piccoli,  dagli 
eroi  agli  schiavi.  Essi  sono  tanto  vivi,  che,  anche  a  distanza  di  anni, 
la  nostra  fantasia  li  rievoca,  come  persone  incontrate  e  conosciute 
nella  vita. 

Non  posso  indugiare  a  descriverli  tutti  ad  uno  ad  uno.  Prendiamo 
il  più  meraviglioso,  Clitennestra.  E  facciamo  ancora  un  po'  d'analisi, 
d'anatomia,  per  isolare  ed  avvicinare  in  gruppi  omogenei  i  numerosi 
tratti  che  compongono  questa  miracolosa  figura. 


I  personaggi  di  Es chilo  257 


Clitennestra  è  altera.  Quando,  al  principio  déìV Agamennone,  an- 
nunzia ai  vecchi  la  caduta  di  Troia,  e  quelli  esitano  a  credere,  le  sue 
risposte  sono  aspre: 

Coro. 
L'hai  visto  in  sogno,  forse?  —  E  tu  lo  credi? 

Clitennestra. 
Alla  mente  assonnata  io  prestar  fede? 

Coro. 
Non  ti  pascesti  d'una  vana  ciancia? 

Clitennestra. 
Tu  m'oltraggi  1  Non  son  fanciulla  sciocca. 

L'araldo  che  giunge  a  recar  nuove  dello  sposo,  non  vuole  neanche 
udirlo: 

Ed  or,  che  importa 
un  tuo  lungo  discorso?  Presto  udrò 
tutto  dal  mio  signore  istesso. 

A  Cassandra  rivolge  un  discorso  di  molta  dolcezza;  ma,  quando 
la  fanciulla  non  le  risponde,  conclude  superba: 

Ma  non  oltre  m'abbasso  a  favellarle  1 

I  vecchi  ateniesi,  che  vogliono  vendicare  il  re  ucciso,  sono  per  lei 
cani:  sicché  dice  all'amante  Egisto: 

Non  curar  questi  latrati  spersi  all'aria! 

È  altera  con  gli  umili.  Ma  a  tempo  e  luogo  la  troviamo  servile. 
Quando  giunge  lo  sposo,  si  prostra  al  suolo,  tanto  che  quegli  la  rim- 
provera: 

Non  mi  trattare  mollemente,  a  guisa 
di  donna,  né  levar  voce  prostrata 
al  suol,  come  dì  barbaro  1 

E  quando  il  figlio  vuote  ucciderla,  non  troviamo  più  in  lei  nes- 
suna traccia  di  alterezza.  Pur  di  campare  la  vita,  si  abbassa  ad  ogni 
preghiera,  ad  ogni  umiliazione. 

17  —  Nuova  Rivista  Storica. 


258  Ettore  Romagnoli 


Questi  due  atteggiamenti  opposti  hanno  origine  in  una  delle  qua- 
lità dominanti  e  fondamentali  del  suo  carattere:  la  finzione.  Essa  ha 
tradito  Io  sposo,  Io  odia,  lo  attende  per  ucciderlo.  E  tuttavia,  al  primo 
annunzio  del  suo  arrivo,  le  fioriscono  sul  labbro  le  espressioni,  le  pro- 
teste del  più  tenero  affetto.  Dice  all'araldo: 

Al  signor  mio  questo  messaggio  reca  : 
venga,  come  può  prima,  alla  città 
che  lo  brama.  Tornando  alla  sua  casa, 
ei  troverà  la  fida  sposa  quale 
pur  la  lasciò:  cane  del  tetto  a  guardia, 
benigno  a  lui,  nemico  ai  suoi  nemici; 
e  costante  in  ogni  altro  atto,  per  lungo 
volger  di  tempo,  niun  sigillo  io  fransi. 
Immersa  mi  sarei  prima  in  un  bagno 
d'ardente  bronzo,  che  gustar  piacere 
d'un  altr'uomo,  ed  averne  scorno  e  biasimo  I 

E  tutte  le  sue  parole,  e  prima  deirarrivo,  e  poi  allo  sposo  arrivato, 
sono  una  continua  variazione  su  questo  tema. 

Nelle  Coefere,  le  giunge  l'annunzio  della  finta  morte  del  figlio 
Oreste,  ed  ella  gioisce  nel  profondo  cuore,  perchè  vede  così  allonta- 
nato l'incubo  che  la  premeva  notte  e  giorno.  Ma  le  sue  parole  suo- 
nano ben  diverse  dal  suo  sentimento  : 

Ah/,  che  rovina  sopra  noi  si  abbatte! 

Ahi,  maledetta  ineluttabil  sorte 

di  questa  casa,  anche  i  lontani  beni 

miri,  e  colpisci  con  diritte  frecce, 

e  me,  tapina,  dei  miei  cari  privi  1 

E  adesso  Oreste,  che  guardingo  il  piede 

lungi  tenea  dalla  sanguigna  gora, 

la  speranza,  medela  unica  all'impeto 

degli  affanni,  perduta  adesso  scrivila. 

Ma  r  infingimento  ipocrita  non  è  sempre  perfetto.  È  incrinato  da 
certa  smania  sarcastica,  per  la  quale  essa  lascia  talvolta  trasparire  il 
fondo  dell'anima  sua  con  velate  allusioni.  Così,  quando  fa  stendere  i 
tappeti  su  cui  deve  muovere  Agamennone: 

Procurerò  che  degnamente  accolto 

Io  sposo  sia,  di  reverenza  degno. 

Presto,  velata  sia  la  via  di  porpora, 

sf  che  Giustizia  lo  conduca  ai  tetti 

com'egli  non  credea.  Quanto  altro  bramo, 

col  voler  degli  Dei  provvederà 

che  si  compia  un  pensier  che  non  assonna..... 


J  personaggi  di  Eschilo  259 


E  quando  Agamennone  è  già  entrato  nella  reggia,  dove  troverà 
la  morte: 

Oh  Giove,  Giove 
che  i  voti  adempì,  esaudisci  il  miol 

Né  queste  allusioni  sfuggono  sempre  ai  vecchi  del  Coro.  E  giusto, 
dopo  questa  ultima,  più  esplicita  e  trasparente,  esprimono  in  un  lugu- 
bre canto  i  loro  presentimenti  angosciosi. 

In  realtà,  Clitennestra  ha  la  feroce  voluttà  di  scherzare  col  peri- 
colo —  tratto  assai  comune  nei  delinquenti  osservato  e  reso  da  Eschilo 
con  grande  finezza. 

Ottenuto  lo  scopo,  compiuto  il  delitto,  la  ipocrisia  venata  dì  sar- 
casmi tramuta  in  brutale  cinismo.  Ella  appare  sulla  soglia  della  reggia, 
stringendo  in  pUgno  la  scure  omicida.  Le  sue  prime  parole  suonano  : 

Dire  l'opposto  a  quanto  prima  io  dissi 
per  opportunità,  non  m'è  vergogna  ; 

e  tutto  il  discorso  è  un  racconto  minuzioso  ed  una  sfrontata  esalta- 
zione del  proprio  delitto.  Ma  pur  nel  cinismo  riappare  la  ipocrisia  e 
la  finzione.  Ella  adduce  due  fatti  a  discolpa  del  proprio  assassinio. 
Primo,  il  sacrificia  d' Ifigenia  —  e  tutto  il  complesso  del  dramma  ci 
grida  che  il  suo  amore  per  la  figlia  è  menzognero,  o,  meglio,  esage- 
rato e  sfruttato.  Poi  la  gelosia,  infinita,  per  Cassandra.  Cassandra  come 
si  sa,  era  stata  presa  fra  il  bottino  di  guerra,  ed  Agamennone  l'aveva 
fatta  sua.  Onde  Clitennestra  dice  : 

Eccoli  stesi  morti:  Tuom  che  fu 

la  mia  rovina,  la  delizia  delle 

Crisèidi  d'Ilio;  e  questa  schiava,  questa 

indagatrice  di  portenti,  e  ganza 

sua,  che  spacciava  oracoli,  e  ben  ligia 

gli  entrava  in  letto,  e  al  fianco  suo  calcava 

la  tolda  della  nave.  Ah  !  Ma  pagarono 

quello  che  meritavano.  Costui 

lo  vidi  bene.  E  quella,  come  un  cigno, 

cantato  l'ultimo  ululo  di  morte, 

giace  anch'essa,  la  putta;  e  aggiunge  al  Ietto 

dei  miei  piaceri  un  condimento  npovo. 

Ma  essa  è  ramante  di  Egisto  da  anni  ed  anni  ;  il  nuovo  amore  di 
Agamennone  per  Cassandra,  seppure  è  amore,  data  da  poco  tempo, 
dalla  presa  di  Troia.  Il  pretesto  della  gelosia  riesce  quas  ridicolo;  e 
a  dargli  questo  carattere  contribuisce  il  ricordo  di  Crisèide:  acqua 


26o  Ettore  Romagnoli 


più  che  passata.  Ma  il  carattere  di  Clitennestra  ne  riceve  ancora  una 
luce. 

Altre  due  note  dominanti  sono  la  lussuria  e  la  ferocia.  Deiruna 
e  deiraltra  appaiono  le  tracce  quasi  in  ogni  sua  parola.  E  occorre  os- 
servare come  questi  due  tratti  si  fondano  in  lei,  con  mescolanza  assai 
comune,  e  nota  nei  quadri  della  criminologia. 

Descrive  l'assassinio  di  Agamennone,  punto  per  punto,  con  com- 
piacetiza  orribile.  Sembra  una  Jena  che  si  avvoltoli  tra  i  visceri  della 
vittima  sbranata.  Ma  le  frasi  con  cui  descrive  lo  spruzzo  di  sangue, 
piombatole  sopra,  sembrano,  nei  vocaboli  e  nelle  immagini,  la  evoca- 
zione d*una  voluttà  erotica: 

Cosi  piombando,  l'alma  esala:  fuori 
soffia  una  furia  di  sanguigna  strage, 
e  me  colpisce  con  un  negro  scroscio" 
di  vermiglia  rugiada,  ond'io  m'allegro, 
non  men  che  per  la  pioggia  alma  di  Giove, 
nei  parti  della  spiga,  il  campo  in  fiore. 

Ed  esplicitamente  esprime  questa  sua  predilezione,  che  si  direbbe 
sadica,  a  proposito  dello  scempio,  compiuto  anche  da  lei,  di  Cassandra, 
nei  versi  or  ora  letti: 

E  quella,  come  un  cigno, 
cantato  l'ultimo  ululo  di  morte, 
giace  anch'essa,  la  putta  ;  e  aggiunge  al  letto 
dei  miei  piaceri  un  condimento  nuovo. 

E  con  intuizione  davvero  meravigliosa.  Eschilo  ha  innestati  questi 
due  rami  affini,  della  ferocia  e  della  lussuria,  in  un  tronco  dove  infatti 
sogliono  attecchire:  nella  immaginazione  fantastica. 

Clitennestra  è  una  immaginativa  per  eccellenza.  Il  suo  linguaggio 
la  dimostra  tale,  subito,  recisamente,  anche  in  mezzo  al  linguaggio  dio- 
nisiaco, e  quindi  immaginoso,  di  tutti  gli  altri  personaggi.  Questi  fio- 
riscono i  loro  discorsi  d'immagini.  Ma  Clitennestra  ne  rovescia  torrenti, 
valanghe.  Leggemmo  la  corsa  dei  fuochi  notturni.  Ricordiamo  ora  il 
saluto  che  volge  al  marito  : 

Ed  or  che  il  male 

sofferto  è  già,  con  cuor  lieto,  quest'uomo 

dirò  cane  fedel  della  sua  casa, 

gomena  che  salvezza  è  della  nave, 

saldo  pilastro  dell'eccelso  tetto, 

figliuolo  unico  al  padre,  terra  apparsa 

ai  naviganti  contro  ogni  speranza, 

giorno  fulgente  dopo  il  turbine,  acqua 

di  vena  al  peregrino  arso  di  sete! 

Questo  è  il  saluto  ond'io  t'onoro. 


I  personaggi  di  Eschilo  261 


Tutu  questi  elementi,  alcuni  dei  quali  sembrano  a  prima  vista 
eterogenei  e  discordi,  sono  poi  radicati  sur  un  solido  fondo,  come  fusti 
molteplici  sopra  un  unico  ceppo.  E  questo  è  la  volontà  inflessibile,  in- 
domabile. 

Da  gran  tempo,  come  ella  cinicamente  dice  al  Coro,  ha  pensato 
e  tramato  questa  insidia:  dal  sacrificio  d'Ifigenia,  dunque  da  dieci  anni. 
Da  quando,  rettifichiamo  noi,  divenne  ramante  di  Egisto.  E  da  allora 
in  poi,  giorno  per  giorno,  ora  per  ora,  meditò  il  delitto.  Giunge  il 
marito  ;  ed  essa  non  esita  un  istante,  ma  freddamente,  sicuramente,  lo 
compie.  Essa,  e  non  Egisto. 

1  vecchi  cittadini  d*Argo  la  rampognano,  ma  il  suo  cuore  non  trema 
un  solo  istante. 

Mi  mettete  alla  prova  come  femmina 
scioccai  Io  con  cuore  che  non  trema  parlo 
a  chi  m'intende. 

Infine  gli  Argivi  sì  ribellano,  scoppia  la  sommossa,  e  tutta  la  città 
piomba  su  Egisto  e  i  suoi  seguaci.  Ma  riappare  Clitennestra,  e  tutta 
la  città  è  nuovamente  domata.  Da  questa  donna  si  sprigiona  una  forza 
magnetica,  la  forza  delle  volontà  incrollabili.  E  durante  tutta  la  tragedia 
è  visibile  questo  fàscino  che  ella  esercita  su  tutti.  Quando  ella  compare, 
sembra  che  sulle  fronti  e  sugli  occhi  costernati  si  levi  la  testa  di  Medusa. 

Siamo  all'ultimo  episodio  della  sua  vita,  e  un  nuncio  la  reca  la 
notizia  della  uccisione  di  Egisto,  compiuta  da  Oreste.  Le  prime  parole 
che  pronuncia  la  femmina  implacabile  sono  per  chiedere  una  scure: 
per  uccidere  il  figlio  come  uccise  il  padre. 

Ahimè,  ben  chiaro  questo  enimma  suonai 
Spenti  di  frode  siam,  come  uccidemmo  1 
Alcun  mi  porga  un  omicida  scure, 
Presto  1  Vediam  se  vinceremo,  o  se 
saremo  vinti.  Or  siamo  a  tal  frangente! 

E  neppure  la  morte  la  placa.  Dopo  che  il  figlio  Tha  trafitta,  il  suo 
spirito  vigila  le  Furie  vendicatrici  ;  e  appena  queste  si  assopiscono,  le 
scuote  e  le  incita  con  amara  rampogna  ad  incalzare  il  matricida. 

In  mezzo  a  questa  orrida  miscela  di  sentimenti  perversi,  un  affetto 
sincero,  immutabile  :  Egisto.  Pochi  tratti,  ma  rivelatori. 

Quando  i  vecchi  la  minacciano  che  dovrà  scontare  il  suo  delitto, 
proclama  sicura  : 

Sospetto  e  paura 
in  casa  mia  non  entrerà,  finché 
sul  focolare  mio  la  fiamma  accenda 
Egisto,  e  m*ami,  come  adesso  m'amai   *■ 


262  Ettore  Romagnoli 


E  quando  il  figlio  le  annuncia  che  ha  ucciso  il  drudo,  il  vero  do- 
lore che  essa  prova  paralizza  la  sua  ipocrisia,  e  le  strappa  un  grido 
di  vera  angoscia  : 

Ahimè t  Sei  morto,  Egisto  dilettissimo! 

EgÌ8tO> 

Ma  Innanzi  tutto  è  colto  e  reso  con  arte  di  psicologo  grande  il 
reciproco  rapporto  dei  due  amanti.  Di  fronte  alla  volontà  di  Cliten- 
nestra,  Egisto  rimane  in  ombra.  In  verità,  quella  è  l'uomo,  esso  è  la 
femmina,  la  femminetta,  come  con  rovente  ironia  lo  chiamano  i  vecchi 
argivi.  Il  delitto  non  lo  ha  compiato  lui,  bensì  la  donna;  e  agli  Ar- 
givi, che  gli  rimproverano  questa  sua  codardia,  non  sa  neppure  che 
cosa  rispondere.  Nella  convivenza  con  Clitennestra  egli  s*è  plasmato 
su  lei,  ha  preso  le  stimmate  dei  suoi  difetti,  si  è  macchiato  delle  sue 
macchie,  ha  assunto  i  suoi  gesti  :  in  una  parola,  è  un  suo  imitatore. 
Come  quella  s'è  voluta  giustificare  ricordando  il  sacrificio  d'Ifigenia, 
così  egli  rievoca  lo  scempio  di  Atreo  contro  il  suo  genitore  Tieste. 
Non  meno  cinico  di  lei  si  mostra  nel  proclamare  la  propria  soddisfa- 
zione pel  delitto.  Non  meno  ipocrita  nell'infinto  dolore  per  la  morte 
di  Oreste. 

So  che  son  giunti  forestieri,  e  recano 

una  novella  punto  grata.  Oreste 

è  morto.  E  deve  questo  nuovo  cruccio 

patir  la  casa,  oltre  l'antica  strage 

che  ci  piaga  e  ci  morde.  Or  come  apprendere 

se  credibile  e  vera  è  la  novella? 

Egisto  è  il  protetto,  e  la  donna  la  protettrice.  E  quando  egli  è 
accinto  ad  una  lotta  mortale  coi  vecchi  d'Argo,  essa  lo  distoglie  e  lo 
salva  con  parole  soavi: 

Altro  male  non  si  provochi,  o  diletto  a  me  su  tutti. 

Insomma,  Clitennestra  è  l'incubo,  Egisto  il  succubo.  Rapporto  che 
credo  frequente  nella  coppia  delinquente,  t  che  da  Eschilo  è  osservato 
e  reso  con  mirabile  intuizione. 

Tale  è  questa  prodigiosa  figura  di  donna.  E  chi  ad  onta  di  essa 
nega  che  Eschilo  abbia  scolpito  veri  caratteri  ha  certo  la  mente  in- 
gombra del  pregiudizio  moderno,  per  cui  fare  psicologia  significa  far 
parlare  e  discutere  i  personaggi  stessi  del  loro  stato  d'animo. 


I  personaggi  di  Eschilq  263 


Qui  l'anima  di  Clitennestra  appare  a  sprazzi.  Ogni  sua  tose,  ogni 
parola,  è  uno  spiracelo,  attraverso  il  quale  irraggia  un  bagliore  della 
gran  fiamma  sinistra  che  brucia  pereime  il  suo  animo  torbido.  Agli 
spettatori  rimane  il  compito  di  immaginar  la  fiamma  nel  suo  pieno 
divampare,  di  indovinare  gli  elementi  vari  che  la  nutrono.  Così  Tarte 
serba  il  velato  mistero  della  vita. 

E  questa  concezione  psicologica  è  in  piena  fioritura  nella  Orestèa, 
che  viene  una  trentina  d'anni  dopo  i  Sette  a  Tebe.  Essa  investe  tutti 
i  personaggi,  che,  dai  massimi  ai  minimi,  ci  appaiono  bene  scolpiti  e 
distinti.  Ecco  Agamennone,  triste,  parco  di  parole,  schivo  di  pompe, 
la  cui  fronte  sembra  avviluppata  come  da  una  duplice  nube  funesta: 
lo  scempio  d'Ifigenia  e  il  presentimento  della  prossima  morte.  Oreste 
è  un  abulico,  spinto  da  Apollo,  esitante,  incitato  dalla  sorella,  incitato 
da  Pilade  e,  compiuto  appena  il  delitto,  assalito  dai  rimorsi,'  che  Io 
spingono  errabondo  di  luogo  in  luogo.  Elettra  deriva  dalla  madre  la 
implacabile  volontarietà,  non  ha  un  momento  di  esitazione  e  di  debo- 
lezza femminile. 

I  personaggi  minori* 

Veniamo  alle  figure  secondarie.  La  scolta,  nel  primo  monologo, 
mostra  il  proprio  animo  sospettoso,  chiaroveggente,  prudente.  L'araldo 
è  pieno  di  fuoco  e  di  entusiasmo.  Ma  speciale  considerazione  merita  la 
vecchia  nutrice  di  Oreste.  Eschilo  ne  ha  fatto  un  vero  tipo,  e  un  tipo 
grottesco,  che  introduce  un  colore  strano  e  insospettato  nella  tragedia. 
Ecco,  nelle  Coefore,  le  parole  della  povera  vecchia,  che  ha  udita  la 
morte  del  suo  prediletto  Oreste: 

La  regina  m'invia  che  cerchi  Egisto, 
perchè  qui  venga  sùbito,  e  s'incontri 
coi  forestieri,  e  apprenda  la  novella 
dalla  lor  bocca  istessa.  Avanti  ai  suoi 
faceva  il  viso  triste,  e  in  fondo  agli  occhi 
celava  il  riso.  Erano  andate  bene 
per' lei,  le  cosel  Ma  quella  notizia 
dei  forestieri,  è  troppo  chiaro,  segna 
per  questa  reggia  l'ultima  rovina. 


1  Alcuno  crede  anche  dal  dubbio  circa  la  colpa  materna,  per  le  sue  parole  :  tte«a«v 
li  tAfA  èSeaoev  ;  (v.  1008).  Ma  questa  è  una  proposizione  dubitativa  retorica  ;  è  una  do- 
manda che  non  aspetta  risposta  se  non  affermativa.  Oreste  mostra  il  mantello  intrìso 
di  sangue  —  prova  irrefragabile  —  e  chiede  :  e  Ha  compiuto  o  non  ha  compiuto 
il  delitto?  >  Ossia  :  Chi  può  dubitare  che  ella  abbia  commesso  il  delitto?  —  Così  anche 
in  italiano.  Analogo  valore  ha  VàMxdex*  l^  o6x  dHo^ers;  dei  Sette  a  Tebe  (97). 


«64  Eitore  Romagnoli 


Come  sarà  contento  Egisto,  quando 
sentirà  queste  nuove!  Ahimè,  tapinai 
Tutte  le  antiche  pene  insopportabili 
della  casa  d'Atreo,  mi  contristarono  ; 
ma  non  mai  tanta  doglia  ebbi  a  patire. 
In  pace  sopportai  l'altre  sciagure; 
ma  il  caro  Oreste,  il  pensiero  dell'anima 
mia,  ch'ebbi  dalla  madre,  e  che  nutrii! 
I  suoi  notturni  acuti  pianti  sempre 
mi  tenevano  desta;  e  tante  e  tante 
pene  m'ebbi  per  lui.  Come  un  lattonzolo 
cònvien  nutrire  un  pargoletto,  privo 
di  senno  ancora.  Nulla  dice  il  pargolo, 
se  la  fame  o  la  sete,  o  se  bisogno 
d'urinar  lo  molesta;  e  senza  legge 
è  dei  bambini  il  piccoletto  ventre. 
Io  stavo  sempre  attenta:  e  pure,  spesso 
giungevo  tardi.  E  allora,  a  riasciacquare 
le  fasce  al  bimbo.  Lavandaia  e  balia 
era  tutto  un  mestiere:  il  doppio  incarico 
avevo  avuto  da  suo  padre,  quando 
me  l'affidò.  Tapinai  E  adepso  sento 
che  Oreste  è  morto.  Ed  io  devo  recarmi 
dall'uomo  che  insozzò  questa  famiglia. 
Come  sarà  contento  a  questa  nuova! 

Neirarte  di  abbozzare  un  tipo  scenico,  non  mi  pare  che  si  possa 
andare  più  oltre. 

Questa  nuova  concezione  psicologica  si  estende  anche  al  Coro,  l 
vecchi  ù^ Agamennone  non  hanno  del  vecchio  solamente  le  vesti  de- 
corose o  la  generica  sapienza  sentenziatrice.  Ogni  loro  parola  dipinge 
la  grave  età.  Ma  non  basta.  Con  un  tratto  di  genialità  somma,  Eschilo 
frange  l'arcaica  unità  di  questo  strumento  scenico,  in  cui  ventiquattro 
persone  si  univano,  come  altrettante  note  all'unisono,  a  comporre  un 
solo  uomo;  e  fa  parlare  vari  di  essi,  e  in  ciascuno  abbozza  un  carat- 
tere. Riferisco  la  breve  scena  che  segue  agli  urli  di  Agamennone  mo- 
ribondo, nella  quale  i  vecchi  discutono  che  cosa  bisogni  fare  nel  ter- 
ribile frangente.  La  vgrietà  e  decisione  dei  caratteri  emerge  dal  contrasto, 
senza  bisogno  di  verun  commento. 

Agamennone. 

{(iaL  di  dentro). 
Ahimè  !  Che  colpo,  a  morte;  entro  mi  fora  ! 

A. 
Fa'  silenzio I  Questo  grido  chi  levò,  ferito  a  morte? 


I  personaggi  di  Eschilo  265 


Agamennone. 
Ahimè!  Che  un  nuovo  colpo  m'ha  percosso! 

A. 
È  del  re  questa  la  voce:  dunque,  il  fatto  è  già  compito. 

B. 

Consigliamoci,  avvisiamo  quale  sia  miglior  partito. 

C. 

Ecco  l'avviso  mio:  diamo  l'allarme, 
che  i  cittadini  corrano  alla  reggia  ! 

D. 

Piombiamo  dentro,  dico  io:  cogliamo 
gli  assassini  còl  ferro  ancor  grondante! 

E. 

Anch'io  dico  così:  bisogna  agire: 
non  è  momento  d'indugiare,  questo  ! 


È  chiaro!  Questi  son  preludi:  poi 
la  tirannia  sopra  Argo  piomberà. 

D. 

Perdiamo  tempo!  E  quelli,  sotto  i  piedi 
cacciandosi  ogni  indugio,  opran,  non  dormono  1 


Non  so  quale  partito  approvar  debba: 
chi  agisce,  deve  ben  prender  consiglio! 

B. 

È  pure'  il  mio  parer:  tanto,  non  posso 
richiamar,  coi  discorsi,  in  vita  il  morto! 


266  Ettore  Romagnoli 


C. 

Ci  curverem  tutta  la  vita  a  questi, 

che  svergognan  la  reggia,  e  spadroneggiano? 


Patire  non  si  può:  meglio  è  morire: 
prima  che  la  tirannide,  la  morte. 


A. 


Dobbiamo  dunque  argomentar  dai  gèmiti, 
e  profetar  che  spento  è  il  nostro  re  ? 


B. 


Veder  chiaro,  bisogna,  e  poi  discorrere  : 
altro  è  congetturare,  altro  è  saperci 


Questa  m'ha  proprio  persuaso  a  pieno  : 
sapere  prima  come  sta  l'Atride. 


Ettore  Romagnoli. 


^ 


LA  SECOIA  REPUBBLICA  CISALPINA 

(2  giugno  1800-14  febbraio  1802) 

{Continuazione  e  fine,  c/r.  anno  I,  fase.  IV) 


Crisi  economica  e  disordini. 


Al  tempo  stesso,  provocata  da  cause  svariate  —  1*  improvviso  turba- 
mento del  corso  della  vita  normale,  il  cangiamento  del  governo,  la 
sospensione  del  credito  e  dei  traffici,  le  requisizioni  deireserqto  fran- 
cese, T  inclemenza  della  stagione  —  tutta  la  Cisalpina  fu  in  breve  pre- 
cipitata in  una  gravissima  crisi  economica.  Cominciarono  a  mancare 
i  generi  di  prima  necessità,  e,  di  conseguenza,  il  loro  costo,  a  crescere 
spaventosamente.  Il  frumento  salì  a  160  lire  la  soma;'  il  grano 
turco,  a  105.  Ma  non  per  questo  la  merce  si  trovava.  A  Modena 
e  a  Bologna  le  autorità  dovettero  stabilire  un  premio  di  40  scudi  per 
chi  denunciava  granaglie  e  farine  nascoste  dai  mercanti  e  ordinare 
l'apertura  di  alcuni*  forni,  che  si  erano  chiusi.  La  stessa  scandalosa 
speculazione  avveniva  m  Val  Camonica,  a  Brescia  e,  in  genere,  in  tutta 
la  Cisalpina.  Il  governo  dovette  emanare  Una  legge  contro  gli  accapar- 
ratori ed  accumulatori  di  grano.  Fu  così  annullato  ogni  contratto  d'ac- 
caparramento già  conchiuso,  e  vennero  comminate  gravi  pene,  anche 
personali,  ai  trasgressori.  Un  cronista  afferma  che  questa  legge  venne 
decretata  per  salvare  dal  disastro  finanziario  alcuni  reggitori  della  Re- 
pubblica e  alcuni  generali,  che  avevano  stipulato  contratti  segreti  di  ac- 
caparramento, mentre  il  raccolto  del  grano  si  annunciava,  da  ogni  parte 
d'Europa,  abbondantissimo.  Ma,  concesso  che  questa  legge  sia  stata 
sancita  anche  per  salvare  alcuni  accaparratori  da  disastri  finanziàri,  non 
è  meno  vero  il  fatto  che  regnava  ovunque  grande  scarsezza  di  viveri, 


1  Circa  i  quintale. 


268  Angelo  Ottolini 


che  in  Bologna  era  vietato  ai  padri  di  famiglia  di  tenere  in  casa  fru- 
mento, frumentone  o  riso  oltre  il  bisogno,  pel  consumo  di  25  giorni, 
che  i  fornai,  i  quali  non  osavano  chiudere  i  forni,  e  non  erano  disposti 
a  rimetterci,  mescolavano  alla  farina  il  loglio  ed  altri  vegetali  nocivi, 
e  che  molti  morivano  a  causa  del  nutrimento  scarso  e  mal  sano. 

Non  è  da  meravigliare,  se,  perciò,  siano  qua  e  là  scoppiati  tumulti. 

Il  31  maggio  del  1801,  il  popolo  di  Novara  invade  gli  uffici  del 
dazio  alle  porte  della  città,  e  si  reca  davanti  ai  locali  della  ammini- 
strazione provinciale,  portando  i  registri  daziari,  testimoni  della  gra- 
vissima imposta,  e  reclamando  la  diminuzione  della  tassa  sui  generi  di 
consumo.  Le  autorità  amministrative  cedono  al  tumulto,  e  non  chiamano 
la  truppa  a  reprimerlo;  la  guardia  nazionale  assiste  indifferente,  e  la  mu- 
sica accompagna  la  dimostrazione. 

Ma  il  giorno  dopo  interviene  il  governo  cisalpino,  fa  sciogliere  le 
amministrazioni,  dipartimentale  e  comunale,  le  biasima  perchè  non 
hanno  ricorso  alla  forza  contro  i  tumultuanti  e  manda  un  commissario 
straordinario  con  larghi  poteri.  Anche  la  guardia  nazionale  è  sospesa 
dalle  sue  attribuzioni,  e  in  sua  vece  viene  dal  general  Moncey  inviato 
un  corpo  di  truppe  francesi  comandate  dal  general  Mainoni.  A  tali 
truppe  viene  assegnato  doppio  soldo  a  carico  del  comune  di  Novara, 
e  il  Comune  stesso  è  gravato  di  una  contribuzione  di  100.000  franchi 
da  pagare  entro  48  ore  e  da  esigere  sui  principali  cittadini. 

I  tumulti  popolari  si  ripeterono  a  Modena  il  19  di  giugno,  per  il 
caro  del  pane,  e,  nello  stesso  giorno  e  il  giorno  dopo,  a  Bologna,  ove  sì 
tentò  saccheggiare  i  forni  e  i  magazzini  di  grano.  Poco  dopo,  il  25,  si 
ha  una  sollevazione  in  Val  Camonica,  e  alla  fine  dell'agosto,  un  grave 
tumulto  a  Brescia  contro  i  mercanti  di  piazza. 

Occorse  allora  ricorrere  alla  carità  privata  e  pubblica,  e  a  rimedi 
legislativi  ancora  pili  energici  dei  precedenti.  Si  fecero  delle  collette 
nelle  parrocchie;  il  municipio  milanese  venne  in  soccorso  dei  poveri, 
fissando  due  forni  per  provveder  loro  il  pane.  Da  Milano  si  scrisse  a 
Parigi  che  la  maggior  parte  della  Cisalpina  era  minacciata  dalla  fame 
vera  e  propria,  e  il  dipartimento  del  Reno  (sembra  cronaca  di  oggi!), 
per  risparmiare  frumento,  proibì  la  confezione  del  pane  bianco  e  delle 
paste  fini  da  tavola. 

La  creazione  di  un  esercito  cisalpino  e  nuovi  malcontenti. 

La  crisi  economica  capitava  in  un  momento,  in  cui. essa  era  de- 
stinata a  complicarsi  con  un  non  meno  grave  malessere  morale,  di- 
pendente dalla  volontà  del  governo  francese  di  organizzare  militar- 
mente il  paese. 


i 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  269 


Era  questo  del  servizio  militare  uno  dei  problemi  più  gravi  e  di 
più  difficile  attuazione,  e  tale  sarebbe  rimasto  nella  nostra  penisola  per 
lunghi  anni,  anche  dopo  l'epopea  del  Risorgimento  nazionale.  Dall'età 
dei  Comuni,  e  cioè  dal  secolo  XIV,  l'Italia  aveva  scordato  il  grave 
mestiere  delle  armi,  e  gli  Italiani,  come  nazione,  eran  rimasti  un  po- 
polo eminentemente  pacifico.  Era  possibile  imporre  loro  facilmente  e 
d'un  tratto  l'accettazione  dell'obbligo  del  servizio  militare?  Per  circa 
venti  anni,  dal  1796  al  1815,  il  governo  francese  si  trovò,  con  suo  danno, 
a  lottare  contro  la  violenta  reazione,  che  tale  imposizione  suscitava 
presso  le  masse  popolari.  Un  significativo  esperimento  esso  ne  fece  nel 
periodo  della  seconda  Cisalpina. 

Già  il  Bonaparte  nel  '96  aveva  imposto  alla  Municipalità  di  creare 
una  Legione  lombarda^  la  quale  fosse  il  nucleo  del  futuro  esercito  ci- 
salpino-italiano.  In  breve  si  erano  arruolati  3700  legionariì,  che  ven- 
nero divisi  in  sette  coorti  di  fanteria,  150  cacciatori  a  cavallo,  600  zap- 
patori e  pochi  cannonieri  pel  servizio  d'una  mezza  batteria  di  campagna. 
Comandante  era  stato  nominato  quel  Lahoz,  che,  dopo  aver  disertato  il 
servizio  austriaco,  alia  resa  del  castello  di  Milano,  era  divenuto  aiutante 
del  Bonaparte,  e  più  tardi  peri  ucciso  ad  Ancona. 

Nel  '99,  il  Direttorio  aveva  introdotto  una  più  vasta  riforma,  or- 
dinando una  leva  di  9000  giovani  dai  18  ai  26  anni,  esclusi  gli  am- 
mogliati e  i  figli  unici.  Era  un  primo  passo  verso  la  coscrizione  ob- 
bligatoria. Ma  i  Lombardi,  che  da  secoli  non  erano  soggetti  alla  leva 
militare  e  nei  quali  molti  degli  entusiasmi  del  *96  erano  sbolliti,  avver- 
sarono il  nuovo  ordine  di  cose.  I  contadini,  come  sempre,  si  dimo- 
strarono specialmente  e  irreducibilmente  ostili.  Seguirono  tumulti  in 
varie  parti  ;  e,  poiché  pel  momento  fu  giocoforza  cedere,  gli  arruolati 
si  prepararono  a  disertare  dai  deJDOSÌti  ove  erano  stati  radunati. 

Adesso,  ristabiJita  la  Cisalpina,  sono  messe  in  campo  due  divi- 
sioni di  4  reggimenti  di  ordinanzaj  ossìa,  di  milizia  territoriale,  tre  bat- 
taglioni leggieri,  un  battaglione  di  ufficiali,  due  reggimenti  di  usseri  e 
uno  di  cacciatori  a  cavallo.  Insieme  con  queste  divisioni  si  provvede 
agli  ingegneri  militari,  agli  artiglieri,  agli  zappatori.  Ma  i  vecchi  disor- 
dini si  rinnovano. 

Per  rimediare,  la  Consulta,  il  2  fiorile  dell'anno  IX,  dà  incarico 
al  Teulié,  nominato  ministro  della  guerra,  che  si  era  reso  beneme- 
rito per  l'istituzione  della  Guardia  nazionale  nel  '96  e  della  legione 
italica  nel  '99,  e  che  sembrava  riscotere  l'affetto  e  la  fiducia  dei  soldati, 
di  attuare  i  provvedimenti  necessari  a  ristabilire  il  buon  ordine  tra 
i  22.000  Cisalpini  e  i  6000  polacchi  ausiliari.  Il  Teulié  stabilì  per  ogni 
corpo  le  uniformi,  le  armi,  gli  stipendi,  le  indennità  ;  sottopose  a  se- 
vero rendimento  i  vari  rami  dell'amministrazione  militare  ;  tentò  di  fre- 


270  Angelo  Ottolini 


nare  le  ruberie  degli  approvvigionatori  ;  soppresse  i  birri,  che  sembra- 
vano sottentrati  ai  bravi  del  Cinquecento,  e  li  sostituì  con  la  gendarmeria; 
abolì  ringaggio,  aprì  l'iscrizione  volontaria,  organizzò  le  truppe  in 
corpi  disciplinati,  e  diede  ad  esse  l'aspetto  di  quel  vero  esercito  nazio- 
nale, ch'egli  da  tempo  vagheggiava. 

Avrebbe  voluto  qualcosa  di  più  e  di  meglio.  Avrebbe  voluto  che 
dei  3.85^7.668  abitanti  della  Cisalpina  fossero  estratti  a  sorte  20.000  co- 
scritti, fra  i  celibi  dai  20  ai  36  anni,  esclusi  i  vedovi  con  prole  e  ì 
riformabili.  Così  infatti  scriveva  in  uno  schema  di  legge  presentato  al 
Comitato  il  20  maggio  1801  :  «  L'esperienza  ha  mostrato  che  l'arruola- 
mento volontario  non  basterà  giammai  a  costituire  il  nostro  esercito. 
Non  è  sperabile  che  molti  si  schierino  sotto  la  bandiera  della  libertà, 
perchè  l'Italia,  da  lungo  tempo  suddita  e  straziata  dai  partiti,  ha  smar- 
rito l'antico  valore.  Aprendo  i  registri  degli  arruolamenti  volontari,  ve- 
dremmo presentarsi  vagabondi  italiani,  disertori  francesi  e  alemanni, 
quanti,  in  una  parola,  non  avendo  nìài  sentito  l'amor  di  patria,  vivono 
disonorati.  Codesta  genia  abbraccia  lo  stato  militare  per  disperazione, 
conseguenza  ordinaria  del  vizio:  passa  da  un  corpo  ad  un  altro,  e, 
quasi  certa  di  sottrarsi  alle  indagini,  lucra,  ricevendo  nuove  armi  e 
nuove  uniformi...  Giammai  si  riuscì  a  introdurre  fra  i  volontari  la 
disciplina,  la  moralità  e  lo  spirito  militare.  L'esperienza  dimostrò  essere 
la  coscrizione  l'unico  mezzo  per  avere  una  forza  reale,  specialmente 
in  tempo  di  pace». 

Sono  le  vecchie,  e  non  mai  abbastanza  apprezzate,  teorie  del  Ma- 
chiavelli che  ritornano  a  farsi  valere  nella  storia  italiana,  e  che  tcion- 
feranno  piii  tardi.  Il  Teulié  presentò  il  suo  disegno  il  20  maggio;  la 
Consulta  decretò  per  il  settembre  la  coscrizione.  Senonchè  non  ebbe 
l'energia  di  mandarla  ad  effetto,  atterrita  dalla  repugnanza  e  dall'osti- 
lità della  popolazione. 

Ma  neanche  le  saggie  riforme,  potute  realmente  introdurre  dal 
Teulié,  ottennero  l'approvazione  di  quanti  avrebbero  preferito  conti- 
nuare o  cominciare  a  speculare  sull'esercito,  in  prima  linea,  degli  ap- 
paltatori militari.  Costoro  gli  suscitarono  tali  odiose  inimicizie,  che  egli 
ne  fu  indotto  a  ritirarsi.* 


1  Durante  la  sua  carica  il  Teulié  fondò  a  Milano  due  filantropiche  istituzioni,  che 
etemano  il  suo  nome  :  un  ospizio  per  i  veterani  e  gli  invalidi,  sulla  cui  porta  d'in- 
gresso leggevasi  :  Ai  veterani  ed  invalidi  \  onore  e  riposo^  e  un  ospizio  per  gli  orfani 
militari.  Nel  vasto  fabbricato,  che  sorge  vicino  a  S.  Luca  (Porta  Ludovica),  ove  la  do- 
menica si  adunavano  i  giovani  studiosi  delle  belle  arti,  fece  in  modo  che  si  raccogliesse 
un  battaglione  di  cencinquanta  tra  veterani  ed  invalidi.  Le  pratiche  erano  già  iniziate, 
quando  il  Teulié  uscì  dal  Ministero  ;  ma  vennero  confermate  da  un  ordine  dei  triumviri 
del  15  gennaio  1802.  Invece,  nel  monastero  di  S.  Luca  che  era  stato  ridotto  ad  ospedale 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  271 


Ciò  fece  il  30  luglio,  lasciando  il  posto,  degnamente  tenuto  a 
Giovanni  Tordorò.* 

Ma,  se  il  Teulié  si  ritirava,  le  sue  proposte  furono  tosto  ripigliate. 
Il  30  ottobre  1801  era  approvata  una  nuova  legge  sulla  formazione 
dell'esercito  cisalpino,  proposta  dal  Comitato  alla  Consulta  di  Stato, 
nella  quale  si  tennero  in  gran  conto  le  riforme,  che  egli  avea  avuto  in 
animo  di  introdurre.  Ma  neanche  questa  legge  potè  andare  ad  effetto 
e  bisognò  di  nuovo,  poco  dopo,  sospenderne  la  esecuzione  sotto  pre- 
testo di  un  prossimo  ordinamento  costituzionale  della  Cisalpina. 

Così  anche  questa  veramente  benefica  innovazione  militare  fu 
sospesa  a  mezzo  o  deviata  dal  suo  migliore  indirizzo.  Ma  rimaneva 
indubitato  che,  non  ostante  le  sue  intrinseche  opportunità,  il  nuovo 
esercito  riusciva,  nei  riguardi  finanziari,  motivo  di  gravi  oneri  per  la 
popolazione.  La  sua  costituzione  importò  un  versamento  immediato  di 
ben  due  milioni  di  lire,  e  avrebbe  continuato  ad  importare  una  spesa 
ordinaria  mensile  di  altri  due  milioni  :  circostanza,  che  nelle  traversie 
finanziarie,  tra  cui  la  Cisalpina  si  dibatteva,  non  era  da  prendere  a. 
gabbo. 

La  Consulta.  La  Commissione  straordinaria. 
Angherie;  Tasse;  Leggi; 

Gravi  difficoltà  dunque  attraversavano  le  speranze  di  un  buon 
governo  nella  Cisalpina:  il  rancore  dei  repubblicani  e  dei  democra- 
tici, che  vedevano  dileguare  quella  forma  politica  sognata  e  vagheg- 
giata dal  '96  al  '99;  gl'intrighi  del  partito  austriacante  per  un  pros- 
simo ritorno  dell'Austria;  la  reazione  e  il  malcontento  della  nobiltà 
locale,  che  si  vedeva  scalzata  nei  suoi  privilegi  ;  il  peggiorare  della  eco- 
nomia pubblica;  l'ostilità  del  paese  al  servizio  militare.  Ma  a  queste 
difficoltà  se  n'aggiungeva  una  più  grave  di  tutte:  la  mancanza  d'una 


militare,  il  Teuliè  allogò  gli  orfani  militari;  e,  per  tener  vivo  il  sentimento  della 
patria  e  lo  spirito  militare,  fece  dipingere  lungo  i  corridoi  i  ritratti  dei  guerrieri  più 
illustri,  antichi  e  moderni,  con  inscrizioni  del  Foscolo,  del  Gasparinetti,  del  Oiovio. 
Gli  orfani  poi,  grati  e  riconoscenti,  vollero  che  se  ne  aggiungesse  una  pel  benefattore: 
A  Pietro  Teulié  prode  generale  |  per  lumi  ed  umanità  distinto  \  che  gli  orfani  mili- 
tari I  in  questo  onorato  asilo  radunò  \  e  meritossi  il  titolo  |  di  fondatore  e  padre  J 
monumento  e  ricordanza. 

>  Giovanni  Tordorò  (nato  a  Milano  nel  1755)  fu  uno  dei  più  caldi  fautori  delle 
novità  democratiche  ;  nel  1796  fece  parte  del  Comitato  militare  ;  nel  novembre  del  1797 
fu  mandato  commissario  organizzatore  del  dipartimento  del  Mincio  e  poi  addetto  al 
ministero  della  guerra  fino  alla  caduta  della  Cisalpina.  Nel  settembre  1800  ebbe  il 
grado  di  commissario  ordinatore,  ufficio  che  conservò  sino  alla  fine  del  Regno,  diri- 
gendo nel  Ministero  la.  divisione  dd  servizi  amministrativL  Morì  in  Venezia  nel  1836^ 


i 


272  Angelo  Otto  lini 


mente  direttrice,  di  un  governo,  che  sapesse  conquistarsi  la  fiducia 
dei  cittadini  e  dello  stesso  popolo  minuto,  il  qual  domandava  panem  e 
non  riceveva,  se  mai,  che  circenses, 

11  grave  compito  di  riordinare  il  meccanismo  del  governo  spet- 
tava alla  Consulta  legislativa.  Radunatasi  per  la  prima  volta  il  4  luglio 
1800,  le  sue  sedute  furono  inaugurate  con  un  discorso  del  generale 
Petiet,  in  cui  questi  parlò  dell'antica  gloria  dell'Italia  e  dei  suoi  saggi 
legislatori,  lodando  i  nostri  artisti,  la  nostra  lingua,  il  nostro  governo. 
«  Ceux  qui  furent  —  disse  —  vos  maitres  ont  reconnu  votre  indépen- 
dance;  ceux  qui  furent  vos  libérateurs  sauront  la  maintenìr».  Poi  si 
pensò  aAa  riforma  dei  codici,  e  ne  uscirono  innovazioni  di  una  certa 
importanza.  Furono  aboliti  i  vecchi  feudali  diritti  di  primogenitura, 
che,  ad  eccezione  di  un  solo,  condannavano  all'indigenza  i  figli  di  uno 
stesso  padre.  Nei  rispetti  della  eredità,  le  figlie  furono  equiparate  ai 
maschi,  e  non  più  quindi  costrette  al  chiostro  o  a  un  amaro  celibato.  Il 
nuovo  regolamento  giudiziario  fu  una  unificazione  salutare  e  un  pro- 
gresso insperato,  in  quanto  faceva  scomparire  le  differenze  fin  allora 
esistenti  tra  i  vari  paesi  componenti  lo  Stato.  Vennero  anche  affrancati 
da  pedaggi  i  passaggi  a  livello,  meno  quelli  appartenenti  agli  istituti  di 
beneficenza  e  d'istruzione.  Venne  garantita  la  proprietà  letteraria,  e 
si  istituirono  subito  accademie  di  pittura,  scoltura,  architettura  e,  quel 
che  più  importava,  nuove  scuole  comunali  e  dipartimentali.  D'altro 
lato,  con  legge  del  4  febbraio  1801,  venne  stabilita  l'uniformità  dei 
pesi  e  delle  misure  per  tutta  la  Cisalpina. 

A  una  stabile  divisione  amministrativa  della  Repubblica  non  si 
potè  subito  pensare,  che  i  confini  dovevano  variarne  più  volte  a  se- 
conda degli  accordi  internazionali,  che  ne  condizionavano  l'esistenza. 
Infatti,  con  decreto  del  2  settembre  1800,  alla  Cisalpina,  fin  allora 
limitata  a  parte  della  Lombardia  e  delle  Romagne,  vennero  aggregati 
il  Novarese,  il  Vigevanese  e  la  Lomellina;  con  decreto  19  gennaio  1801, 
tutti  i  paesi  alla  destra  dell'Adige,  il  Polesine  incluso;  il  2  febbraio, 
Mantova,  ch'è  sgombrata  dai  10.664  Austriaci,  i  quali  ne  formavano  la 
guarnigione.  Finalmente,  con  legge  13  maggio  1801,  la  Cisalpina,  po- 
polata da  circa  quattro  milioni  di  abitanti  (3.857.668),  sarà  divisa  in 
12  dipartimenti  *  e  46  distretti,  che  si  stenderanno  dalle  Alpi  agli  Ap- 
pennini, da  Novara  a  Rimini. 

Ma  tutto  questo  riguardava  la  parte  meno  urgente  o  meno  vi- 
stosa del  problema  governativo.  Le  difficoltà  più  gravi  si  annidavano 
in  un  campo  diverso. 


^  Agogna,  Larìo,  Olona,  Serio,  Mella,  Alto  Po,  Mincio,  Crostolo,  Panaro,  Basso 
Po,  Reno,  Rubicone. 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  273 

Le  condizioni  finanziarie  della  nascente  repubblica  erano  mise- 
rande: vuote  le  casse  e  prepotente  il  bisogno  di  denari;  stremata  e 
piena  di  debiti  la  cittadinanza,  per  le  guerre,  per  le  requisizioni,  per 
gli  aggravi  enormi,  imposti  dai  governi,  che  da  tre  anni  si  alterna- 
vano al  potere. 

Come  si  sarebbe  provveduto  e  rimediato  a  tutto  ciò? 

Un  problèma  analogo  si  era,  nello  stesso  giro  di  tempo,  presentato 
in  Piemonte.  I  Francesi  erano  entrati  in  Torino  il  25  giugno,  accolti 
sulla  strada  di  Rivoli  da  un'immensa  moltitudine.  Uomini  e  donne 
avevano  versato  fiori  a  piene  mani  sopra  i  baldi  soldati,  che  lietamente 
ne  avevano  inghirlandato  le  baionette  dei  fucili.  I  generali  avevano  rice- 
vuto da  dame  gentili  corone  di  alloro  e  di  quercia,  adorne  di  perle. 
Il  Bonaparte  v'era  arrivato  il  26;  il  Berthier,  il  27,  fra  le  salve  delle 
artiglierie  e  le  acclamazioni  della  moltitudine.  Il  governo  era  stato  af- 
fidato a  una  Commissione  temporanea  di  sette  cittadini,  dipendenti  da 
Pietro  Dupont,  ministro  straordinario  francese,  sostituito  in  seguito 
dal  generale  Jourdan.  Gli  Austriaci  eran  partiti,  lasciando  le  casse  vuote; 
i  Francesi  avevano  impedito  che  le  finanze  fossero  restaurate.  Ma  quivi 
la  Commissione  di  governo  s'avvide  subito  di  trovarsi  in  una  posizione 
insopportabile,  umiliante,  ruinosa  al  paese,  e  subito  dimostrò  la  sua 
ferma  volontà  di  resistere.  Nell'agosto  del  1800,  essa  indirizzava  vive 
lagnanze  e  proteste  al  generale  Jourdan,  e  offriva  le  proprie  dimissioni 
piuttosto  che  perseverare  in  un  sistema,  pel  quale  la  catastrofe  del  Pie- 
monte sarebbe  divenuta  inevitabile. 

Nella  Cisalpina,  invece,  la  Commissione  straordinaria  non  seppe 
organizzare  alcuna  vera  e  salutare  opposizione.  Tutti,  o  quasi,  i  suoi 
uomini  si  mostravano  acquiescenti  verso  le  esigenze  francesi,  e  non 
avevano  il  coraggio  di  reagire.  Taluni  della  Commissione  di  governo 
non  la  intendevano  però  in  questo  modo,  e  l'Aldini,  in  una  importan- 
tissima seduta  dei  primi  del  settembre  1800,  dichiarò  apertamente  che 
dalla  Cisalpina  non  potevano,  né  dovevano,  sostenersi  pesi  più  gravi 
di  quelli  fino  ad» ora  sostenuti;  e,  giacché  la  guerra  contro  l'Austria 
sarebbe  proseguita  principalmente  a  profitto  della  Francia,  la  Cisal» 
pina  doveva  concorrere  alle  spese  solo  in  equa  proporzione.  La 
Francia,  che  l'aveva  creata  e  fatta  sua  alleata,  per  averne  poi  un  aiuto, 
non  doveva  indebolirla  sino  al  punto  che  a  nulla  valesse  per  sé  e 
per  altri  ;  tanto  meno  doveva  rendersi  ad  essa  odiosa.  Doveva  invece 
sostenerla,  afforzarla,  farsela  amica,  almeno  per  debito  di  gratitudine. 

D'altra  parte,  a  suo  avviso,  la  Commissione  non  aveva  l'obbligo 
di  obbedire  servilmente  agli  agenti  della  Francia,  ma  aveva  assunto  l'in- 
carico, e  ne  aveva  anche  il  dovere,  di  provvedere  all'incolumità  dei  suoi 
governati  e  nello  stesso  tempo  al  loro  benessere  e  alla  loro  prosperità. 

1^        18  —  Nuo\a  Rivista  Storica. 


274  Angelo  Ottolini 


L'Aldini  chiese  quindi  ai  colleghi  se  fossero  disposti  a  sostenere  e  a 
resistere  contro  le  eccessive  pretese  dei  generali  francesi  e  del  ministro 
di  Francia.  Altrimenti  —  dichiarò  —  è  meglio  tornare  di  nuovo  sog- 
getti e  vilipesi  per  aver  difeso  la  patria,  che  serbare  una  larva  di  po- 
tere e  farsi  complici  dello  sterminio  della  propria  terra. 

Fermo  in  queste  sue  idee,  malgrado  altri  dissentissero  da  lui, 
egli  si  dispose  a  rinunciare  a  un  ufficio,  in  cui  non  gli  era  dato  di  evi  - 
tare  il  male,  e  neppure  di  contrastarvi. 

Ma  la  maggioranza  della  Commissione  non  fu  di  questo  parere. 
Dopo  lungo  discutere,  essa  opinò  che  ritirarsi  in  quel  frangente  poteva 
mettere  in  pericolo  resistenza  della  Repubblica.  Di  tale  avviso  furono  il 
Sommariva,  il  Ruga  e  il  Melzi  ;  il  Visconti  si  dimostrò  incerto.  Alfine 
si  decise  che  la  Commissione  non  doveva  sciogliersi,  ma  che  la  somma 
dei  pubblici  affari,  dipendenti  dal  potere  esecutivo,  doveva  affidarsi  a 
un  triumvirato.  Questo,  infatti,  assunse  il  nome  di  Comitato  di  Governo 
e  fu  composto  dal  Ruga,  dal  Sommariva  e  dal  Visconti.  L'idea  del 
triumvirato  era  buona  :  questo  doveva  servire  a  dare  unità  ed  energia 
ad  un  governo  che  sMmpacciava  della  sua  stessa  mole.  Pur  troppo, 
come  vedremo,  gli  uomini,  che  assunsero  il  difficile  carico,  erano  i 
meno  adatti  a  condurre  la  Repubblica  verso  gli  scopi  che  la  riforma 
si  era  proposti. 

Durante  queste  discussioni  fu  adottata  l'idea  di  una  tassa  così  detta 
«sulle  opinioni».  Per  essa  cioè  si  venivano  a  colpire  quelli  che  si 
erano  notoriamente  mostrati  partigiani  del  governo  precedente.  Av- 
venne allora  che  le  denuncie  di  austriacantismo  piovvero  da  ogni  parte; 
bastava  essere  accusati  per  dover  pagare  ;  il  denunziatore  poi  si  celava 
sotto, l'anonimo  e  poteva  così  impunemente  esercitare  le  proprie  ven- 
dette. Fra  i  denunciati  vi  fu  anche  il  nostro  immortale  Carlo  Porta, 
reo  d'essere  stato  per  tredici  mesi  impiegato  dell'Austria. 

Agli  aggravi  legislativi  si  aggiungevano  gli  abusi  e  le  vessazioni 
dei  commissari  e  dei  generali.  Un'ombra  sinistra  oscura  a  questo 
proposito  la  figura  di  parecchi  generali  francesi.  Il  valoroso  Mas- 
sena,  allorché  gli  fu  sostituito  il  Brune,'  partendo  da  Milano,  costrinse 
la  municipalità  a  pagargli  300.000  lire,  ed  egli,  che  nel  frattempo 
insieme  col  Murat,  si  era  ingolfato  in  amorazzi  o,  peggio,  si  era  con 
sfacciata  disinvoltura  sollazzato  in  banchetti  luculliani  e  in  feste  ma- 
gnifiche con  là  sua  dama  servente,  la  cittadina  Frapoli,  lasciò  a  questa, 
come  dono  grazioso,  quattro  passaporti  in  bianco,  acciò  se  ne  facesse 


i  un  piovoso  fu  spedito  un  mandiato  di  lire  4090  a  favore  del  cittadino  sovrin- 
tendente Massoli  da  valere  per  le  spese  occorrenti  al  pranzo  da  darsi  al  generale  in 
capo,  Brune. 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina 


275 


merito  con  persona  di  sua  confidenza.  Il  generale  Varrin  pretese  440  lire 
al  giorno  per  il  suo  pranzo  e  Tapproviggionamento  anticipato  per  il 
doppio  dei  soldati,  che  stavano  effettivamente  ai  suoi  ordini,  e  lacerò 
in  faccia  al  presidente  dell'amministrazione  dipartimentale  i  documenti 
che  questi  allegava  a  sostegno  delle  proprie  ragioni.  L'aiutante  Cravey 
fece  incarcerare  l'onesto  Greppi,  e  gli  estorse  con  violenza  denaro, 
perchè  l'altro  osava  opporsi  a  quanto  egli  richiedeva.  Più  duramente 
ancora,'  a  Bologna,  ai  lamenti  della  popolazione  si  rispondeva  che  <  le 
labbra  dei  cittadini  debbono  lagnarsi  con  quella  stessa  parsimonia  con 
cui  essi  sono  soliti  pascersi  ». 

Intanto,  per  ricolmare  le  casse  vuote,  la  Commissione  straordi- 
naria ricorreva  a  un  prestito  forzoso  rimborsabile  nel  termine  di  tre 
mesi,  oltre  l'interesse  del  6  7oJ  metteva  una  sovrimposta  fondiaria  di 
otto  denari  per  ogni  particella  di  terreno  estimata  uno  scudo;*  poco 
dopo,  un'altra  di  20,  pagabile  in  tre  rate,  onde  la  fondiaria  sali  a  108 
denari  per  ciascuno  scudo  d'estimo.  Non  bastando  tutto  ciò,  decretò 
un  prestito  forzato  di  8  milioni  per  azioni  sopra  individui  scelti  fra  i 
più  ricchi,  o  supposti  tali,*  che  dovevano  poi  essere  rimborsati  con 
beni  nazionali  reputati  d'egual  valore. 

Né  fu  tutto.  Nel  giugno  dello  stesso  anno  si  mise  un'imposta 
sui  fabbricati  di  otto  denari  per  scudo  d'estimo,  da  servire  al  mante- 
nimento della  illuminazione  cittadina,  e  nel  luglio  entrò  in  vigore  l'ob- 
bligo del  bollo  sulla  carta  e  sui  giornali. 


Il  Triumvirato. 

La  istituzione  del  triumvirato  fu  ratificata  dal  Petiet  il  2  settem- 
bre 1800.  Da  questo  momento,  fino  ai  Comizi  di  Lione,  ogni  autorità 
risiede  nelle  mani  di  tre  persone  :  G.  Battista  Sommariva,  dal,  22  giu- 
gno presidente  della  Commissione  di  governo;  Sigismondo  Ruga  e 
Francesco  Visconti;  o,  per  essere  più  esatti  (poiché  quest'ultimo  deli- 


i  Lo  scudo  milanese  valeva  circa  lire  4,50;  il  denaro ^  lire  0,0032. 

s  Tale  imposta  a  titolo  di  prestito  sul  commercio,  decretata  con  l'art.  2  della 
legge  21  messidoro  anno  Vili,  fu  dalla  Commissione  governativa  cosi  ripartita  nel 
termidoro  fra  i  vari  dipartimenti  : 


Olona L.  1.716.880 

Alto  Po. »  1.073.796 

Serio.     .     .    .    .    .     .    .    »  844.394 

Adda  ed  Oglio    ....    »  391.752 

Mella. »  841.562 


Tanaro .    L.  576.368 

Crostolo »  536.458 

Reno. »  1.032.672 

Basso  Po  ......    »  266.875 

Rubicone   ..,...»  768.306 


276  Angelo  Ottolini 


beratamente  se  ne  tenne  lontano/  e  il  Ruga  fu  tosto  sopraffatto  dalla 
intraprendenza  e  dalla  energia  del  suo  collega)  essa  risiede  tutta  nelle 
mani  di  uno  solo,  il  Sommariva,  il  quale  prese  la  direzione  di  ogni 
cosa. 

Il  Ruga  era  stato  nel  1797  giudice  di  Tribunale  d'appello  e,  du- 
rante la  reazione  austro-russa,  si  era  segnalato  per  avere  con  tenacia 
sostenuto  la  validità  della  vendita  dei  beni  nazionali,  sì  da  esserne 
dair Austria  ricambiato  con  la  sospensione  dall'avvocatura.  Il  Visconti, 
discendente  della  nobile  famiglia  dei  Visconti,  si  era  dedicato  fin 
dal  *96  alla  causa  democratica;  aveva  fatto  parte  della  prima  munici- 
palità milanese,  e  nel  '97  era  Mato  ministro  plenipotenziario  della  Re- 
pubblica cisalpina.  Era  uomo  probo  e  assai  apprezzato  dal  Bona- 
parte.' 

Non  ostante  dunque  i  maligni  ripetessero  che  la  scelta  del  Ruga 
e  del  Visconti  si  doveva  all'avvenenza  delle  loro  consorti,  particolar- 
mente ammirate  dagli  ufficiali  francesi,  la  verità  è  che  i  due  uomini 
avevano  titoli  abbondanti  per  il  nuovo  ufficio,  che  essi  ora  venivano 
a  coprire. 

Il  Sommariva  venne  scelto  per  la  sua  avvedutezza.  Fu  per  certo 
uomo  assai  abile  e  intraprendente.  Egli  avea  trascorso  una  vita  assai 
avventurosa.  Da  umile  barbiere  di  S.  Angelo  Lodigiano,  suo  paese 
nativo,  fatto  educare  dalla  ricca  famiglia  Bolognini,  feudataria  di  quel 
villaggio,  egli  era  riuscito  à  laurearsi  in  legge  e  ad  esercitare  l'avvo- 
catura a  Lodi,  donde  nel  '96  corse  a  Milano  in  cerca  di  miglior  fortuna. 
Gettatosi  a  capo  fitto  nel  mondo  politico,  e  militando  fra  i  gruppi 
più  rumorosi  e  più  radicali,  era  stato  il  21  maggio  chiamato  a  far  parte 
della  municipalità,  allorché  ne  venivano  esclusi  il  Parini  ed  altri  patrioti. 

Nel  dicembre  fu  inviato  a  Reggio  ad  esprimere,  nel  congresso  Ci- 
spadano, i  voti  dei  Lombardi  per  l'unione  delle  due  nazioni,  e  in  quel 
comizio  rappresentò  insieme  col  Porro  la  Lombardia. 


1  Col  25  fruttidoro  il  Visconti  comincia  ad  essere  regolarmente  assente  dalle 
riunioni  «  per  indisposizione  »  ;  col  1^  vendemmiale  smno  X,  nel  «  Registro  delle  deli- 
berazioni del  Comitato  di  governo  i>,  egli  è  notato  assente,  tralasciandosi  la  parola  in- 
disposizione; dopo  il  19  vendemmiale,  la  sua  assenza  è  appena  e  malamente  segnalata. 
Di  fatti  non  era  «indisposto»  perchè  era  presente  alle  sedute  in  casa  Petiet. 

*  Anche  su  di  lui  corsero  però  dei  sospetti.  Leggesi  nella  Cronaca  del  Manto- 
vani, a  p.  281,  sotto  la  data  17  ottobre  1801  :  «  Oggi  si  dice  che  Visconti  abbia  deci- 
samente rinunciato  al  governo.  È  voce  che  mandò  i  suoi  tesori  nella  Svizzera  e  com- 
perato in  Losanna  un  grosso  fondo  sotto  il  nome  di  un  finto  Barone  di  Milano. 
Colà  pare  voglia  ritirarsi».  E  a  p.  283:  «11  presidente  del  governo,  Sommariva,  ol- 
tre gli  altri,  acquistò  il  fondo  di  S.  Angelo  dal  conte  Tanzi  per  lire  450.000  lire  180.000  ; 
pagate  al  momento  ;  l'avv.  Ruga,  la  casa  del  conte  Canevago  vicina  al  Castello  per 
Visconti,  una  baronia  z,  Losanna  ». 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  277 


Costituita  la  Cisalpina,  il  30  giugno  1797,  portato  dalla  Società 
popolare,  venne  nominato  segretario  generale  del  direttorio  Cisalpino 
ed  esercitò  così,  sul  governo,  una  specie  di  sindacato  costante  in  nome 
e  per  gli  interessi  della  democrazia  estrema.  Tale  ufficio  dovette  la- 
sciare, per  ordine  del  Brune,  nell'aprile    del  1798. 

Al  sopraggiungere  degli  Austro-Russi,  stette  a  lungo  nascosto  presso 
le  famiglia  Castelli  in  Menaggio,  donde  gli  fu  facile,  attraverso  i  monti 
della  Svizzera,  rifugiarsi  in  Francia,  a  Parigi.  Quivi  conobbe  moltissimi 
dei  personaggi  più  in  vista  del  tempo  e,  insieme  con  essi,  tutti  gli  ele- 
menti equivoci  della  gran  Babilonia,  progredendo  così  nella  pratica 
del  maneggio  degli  uomini  e  (perchè  no?)  nei  segreti  dell'intrigo 
e  della  corruzione. 

Ottenuta  la  confidenza  e  l'aiuto  del  Talleyrand  e  del  Murat,  che 
non  erano  troppo  scrupolosi  sulla  scelta  dei  loro  amici,  egli,  nel  1799, 
forte  delle  amicizie  parigine  e  di  quella  astuzia,  che  talora  supplisce 
al  vero  ingegno,  ritornava  \\\  Italia  al  seguito  dell'esercito  francese 
e  si  faceva  nominare  nella  Commissione  di  governo,  ove  cominciò 
subito  a  dominare,  ostentando  apparenze  moderate,  parlando  il  lin- 
guaggio pomposo  dell'indipendenza,  ma  più  ancora  soddisfacendo 
ogni  domanda  dei  generali  francesi.  Poco  scrupoloso  personalmente, 
non  scelse  o  non  volle  scegliere  i  fautori  e  gli  amici  tra  gli  individui 
più  specchiati.  Preferì  circondarsi  di  gente  venale;  ma,  audace,  ener- 
gico, autoritario,  quando  la  Commissione  fu  ristretta  nel  Comitato 
triumvirale,  egli,  come  dicemmo,  ne  divenne  il  capo  effettivo  e  accentrò 
nelle  sue  mani  il  reggimento  della  Repubblica,  che  fu  —  può  dirsi  — 
in  suo  potere  dal  24  settembre  1800  al  14  febbraio  1802. 

Intrighi  e  nuove  tassazioni. 

Ma  il  triumvirato  non  poteva  essere,  e  non  fu,  il  tocca  e  sana  di 
ogni  male.  Il  Sommariva  cominciò  col  far  nominare,  quale  ministro 
della  guerra,'  il  milanese  Bianchi  d'Adda,  ex-ufficiale  al  servizio  del- 
l'Austria; agli  interni  il  Pancaldi;  alla  polizia  lo  Smancini;  alle  finanze 
il  Soldini,  e  fissò  loro  una  retribuzione  annua  di  20.000  lire.  Creò 
segretario  generale  del  triumvirato  il  Canzoli  con  uno  stipendio  di 
lira  32.500,  quasi  uguale  a  quello  dei  triumviri,  che  si  erano  assegnati 
uno  stipendio  di  35.000  lire;  segretario  presso  la  sezione  di  finanza 
il  Petracchi  con  5000  lire;  segretario  alla  guèrra  il  Lancetti;  agli  in- 
terni, il  Galvani. 


i  I  ministri  sì  chiamarono  dapprima  ispettori  generali  del  governo  ;  cambiarono 
nome  per  la  legge  13  brumale  anno  9,  ed  ebbero  un  indennizzo  di  20.000  lire  annue. 


278  Angelo  Ottolini 


Gli  esordii  non  erano  promettenti,  ma  il  peggio  doveva  venire  dopo, 
allorché  il  triumvirato,  avrebbe  dato  mano  ai  mezzi  più  radicali  nel 
governo  finanziario  dello  Stato.  Anzi  tutto,  d'accordo  col  Petiet  e  col 
Murat,  il  triumvirato  elevò  di  700.000  lire  i  due  milioni  mensili  desti- 
nati al  mantenimento  dell'esercito  francese.  E,  dopo  aver  dato  fondo 
agli  altri  due  milioni,  imposti  ai  fautori  e  agli  ex-impiegati  austriaci, 
si  accinse  ad  imporre  tasse  arbitrarie  sul  commercio  •  e  sugli  aristo- 
cratici. Indi  i  triumviri  pensarono  di  alienare  i  beni  nazionali,  ancora 
superstiti  allo  sperpero  fattone  nel  triennio  della  Prima  Cisalpina,  e  li 
posero  in  vendita  il  9  ventoso  (anno  9)  per  la  somma  globale  di  otto 
milioni,  costringendo  i  più  ricchi,  o  coloro  che  vennero  dichiarati  tali, 
a  comperare  le  azioni.  I  tassati,  riuniti  sotto  il  nome  di  azionisti,  fe- 
cero causa  comune  per  uscirne  alla  meglio.  I  milioni  furono  versati, 
ma  scomparvero  immediatamente  nell'abisso  senza  fondo  del  bilancio 
della  Cisalpina.  Ne  abbisognarono  perciò  degli  altri,  e  si  ricorse  al- 
l'espediente d'una  lotteria  con  azioni  obbligatorie  di  lire  50,  rimbor- 
sabili sulle  future  vendite  di  altri  beni  nazionali,  più  lire  duecentomila 
suddivise  in  premi  da  estrarsi  a  sorte. 

Cominciarono  allora  a  piovere  le  proteste,  e  si  fecero  tanto  clamo- 
rose, che  si  reputò  conveniente  rinunciare  alla  vendita  delle  cartelle  e 
ricorrere  ad  altro  sistema.  Questa  volta  l'iniziativa  venne  dalla  Consulta. 

Abrogando  la  legge  della  lotteria  forzata,  essa  pensò  di  mettere  a 
disposizione  del  governo  beni  nazionali  pel  valore  di  quindici  milioni; 
il  governo  ne  doveva  far  la  vendita  per  mezzo  di  azioni  forzate  in 
numero  di  millecinquecento  da  lire  diecimila  ciascuna;  la  ripartizione 
del  nuovo  onere  doveva  farsi  sui  cittadini  più  ricchi.  Nessuno  poteva 
esser  tassato  per  meno  di  mvì' azione,  e  queste  dovevano  pagarsi  un  terzo 
entro  la  prima  decade  della  notificazione;  un  altro  terzo,  dopo  tre  de- 
cadi; l'ultimo,  tre  decadi  dopo  la  scadenza  della  seconda  rata. 

Il  breve  tempo  concesso  per  il  pagamento  (l'elenco  dei  tassati  uscì 
il  21  gennaio  1801),  il  numero  delle  azioni  assegnate  (quindici  di  150.000 
lire  l'una)  e  la  difficoltà  di  trovare  il  denaro  immediatamente,  anche 
a  mutuo,  provocarono  numerosi  reclami,  onde  le  operazioni  si  protras- 
sero per  tutto  l'anno.  Allora,  quasi  a  corollario,  si  aggiunse  una  sovrim- 
posta di  otto  denari  per  ogni  scudo  d'estimo,  pagabile  alla  fine  di 
novembre  e  d'altri  sei  nel  dicembre  sulla  prima  rata  del  1802.  Solo 
allora,  per  fortuna,  a  temperare  quell'insopportabile  prestito,  subentrò 
alla  Cisalpina  la  Repubblica  Italiana. 


1  II  17  fiorile  anno  9  si  presentò  un  disegno  di  legge  portante  un'imposta  di  sei 
milioni  in  tante  azioni  forzate  sui  cittadini  e  commercianti  più  facoltosi  ;  il  27  vendem- 
miale (anno  9),  un'  imposta  di  otto  milioni  sul  commercio  dell'Alto  Po. 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  279 

Con  altro  grave  provvedimento  i  sei  cittadini  più  censiti  di  ogni 
dipartimento  venivano  intanto  solidalmente  tenuti  responsabili  del  paga- 
mento delle  imposte  prediali  arretrate.  Siccome  non  sempre  i  colpiti 
curvavano  il  capo,  ma  talora  vivacemente  protestavano,  i  patimenti 
rincrudivano.  A  Modena,  a  Bologna,  a  Reggio  il  silenzio  fu  imposto  a 
fucilate;  a  Brescia,  il  commissario  Oliva  veniva  espulso  dal  popolo  con 
le  grida:  «  Ladri  non  ne  vogliamo;  ne  abbiamo  abbastanza!  » 

La  stima  dei  beni  era  tenuta  vilissima,  sia  perchè  il  denaro  difet- 
tava, sia  perchè  gli  speculatori  mercanteggiavano  in  prevenzione  con 
Toro,  e  lucravano  sul  prezzo  di  compera  e  sui  bonit  che  il  governo  rice- 
veva in  luogo  del  pagamento.  Ne  derivò  così  un  turpe  mercato,  che 
rovinò  moltissimi  e  arricchì  enormemente  il  triumviro  Sommariva,  che 
aveva  il  monopolio  dell'impresa,^  e  gli  usurai  che  io  circondavano. 
Comandanti  e  Commissari,  autorità  municipali  e  comunali  requisivano 
in  città  e  in  campagna  fieno,  cavalli,  buoi,  grani,  vestiti,  ecc.,  rilasciando 
boni^  che  il  governo  assumeva  T  impegno  di  pagare.*  Il  maggior  numero 
dei  boni  era  in  mano  dei  fittabili,  i  quali,  tostochè  gli  avvisi  di  paga- 
mento erano  pubblicati,  malgrado  le  strade  fossero  cattive  e  malsicure, 
accorrevano  alla  cassa  in  città  per  sentirsi  poi  rispondere  che  pel 

momento  non  v*era  denaro «  A  chi  mostrava  premura  per  l'esigenza, 

scrive  il  cronista  Mantovani,  il  cassiere  in  confidenza  suggeriva  che  il 
negoziante  Marietti  e  l'ebreo  Formiggini  incettavano  ì  boni  con  qual- 
che sconto.  I  possessori,  stretti  dal  bisogno,  correvano  da  costoro,  i 
quali  pretendevano  il  40  7o-  Erano  d' intelligenza  coi  governanti  e  con 
Petiet^  e  con  Murat;*  con  questa  cabala  guadagnarono  immense 
somme  ». 

Questa  l'accusa  di  un  contemporaneo,  ostile  ai  democratici  e  alla 
nuova  restaurazione  repubblicana.  Ma,  se  l'accusa  è  ingiusta  pel  Visconti, 


i  Notali  Mantovani  (oyò.  r/Y.,  p.  183,  18  ottobre  1801):  <  Dedotto  lo  sconto,  ri- 
sulta che  il  Sommariva  guadagnò  182.000  lire  in  questa  settimana  ». 

2  Mantovani,  op.  cit.,  p.,  302,  26  ottobre  1801  :  «  La  sfacciataggine  con  cui  il  Go 
verno  delibera  le  aste  e  provisioni  di  qualunque  cosa  o  genere  abbisogna  alla  Repub- 
blica è  giunta  al  colmo  della  scelleratezza.  Si  contratta  pubblicamente  il  14  o  il  15  per 
cento  preventivamente  a  Sommariva,  il  quale  poi  per  la  sua  pubblica  condotta  non  ha 
difficoltà  di  far  note  le  esuberanti. sue  ricchezze  col  comprar  fondi,  acquistar  ville  di 
tutto  lusso,  aprir  banco  sotto  altro  nome  e  spedire  milioni  su  piazze  estere,  e  ciò,  in 
vista  di  tutti,  ed  a  cognizione  dei  nostri  negozianti  ». 

8  Mantovani,  op.  cii.,  p.  323,  20  dicembre  1801:  «  Legge  dei  Tre  colla  quale  si 
dichiara  benemerito  della  Repubblica  il  ministro  Petiet,  che  parte  domani  per  Lione. 
Meno  male  se  questa  burattinata  finisse  in  un  complimento  !  » 

*  Mantovani,  op.  cit.,  p.  318,  8  dicembre  1801:  *  I  Tre  stanno  deliberando  di 
emettere  20  milioni  in  carta  per  supplire  alle  spese  della  truppa  francese,  per  la  quale 
Murat  va  reclamando  da  alcune  settimane  ». 


28o  Angelo  Ottolini 


uomo  dì  specchiata  onestà,  se  è  dubbia  per  il  Ruga  e  per  il  Petiet,  essa 
è  certa  e  legittima  per  il  Sommariva,  qualificato  quasi  non  bastasse  a 
farlo  credere  tale  la  tradizione  dei  contemporanei/  «  sublime  ladro  » 
fin  nei  carteggi  ufficiali.  Ed  invero,  nei  venti  mesi  che  resse  la  Cisal- 
pina, egli,  che  non  aveva  beni  di  fortuna  e  che  aveva  perduto,  col 
sequestro  del  settembre  *99,  quanto  era  fin  allora  riuscito  ad  accu- 
mulare, arricchì  in  modo  straordinario  e  con  esso  i  turcimanni,  che  per 
luì  compravano  sulla  piazza  ì  boni  soggetti  alle  variazioni  che  più  gli 
tornavano  utili.*  Per  fortuna,  come  sempre  avviene  nella  storia,  quel 
mercimonio  ebbe  conseguenze  importantissime,  che  ne  oltrepassano 
di  gran  lunga  il  demerito  morale.  Fu  in  quell'epoca  che  sensali  e  spe- 
culatori d*ogni  sorta,  comprando  a  vii  prezzo  i  beni  delle  soppresse 
corporazioni  e  mercanteggiando  nel  modo  pìù_  disonesto,  divennero 
d'un  tratto  grandi  proprietari,  e  formarono  la  classe  della  nascente 
ricca  borghesia. 


L'appello  al  Bonaparte. 

Così  la  Cisalpina,  la  «vergine  pura»,  tra  le  braccia  dei  mille  suoi 
drudi,  s'era,  come  ben  disse  il  Mazzini,  convertita  in  prostituta  venale. 
La  tirannide  di  pochi  s'era  trasformata  nella  tirannide  di  quanti  Tar- 
bitrio  del  caso,  l'impudenza  o  l'intrigo  ponevano  a  sommo  della  ruota 
civile:  proconsoli  ladri,  governatori  inetti,  legislatori  deboli  od  igno- 
ranti creavano  una  confusione  inestricabile,  che  avrebbe  per  certo  de- 
terminato reazioni  e  rivolte  sanguinose,  se  gli  sforzi  degli  onesti  non 
si  fossero  interposti,  rivolgendosi  al  Primo  console,  il  solo  che  fosse 
in  grado  di  tenere  a  freno  la  mala  genia,  che  gavazzava  nella  miseria 
e  nel  disordine  e  di  compiere  il  miracolo  di  una  restaurazione  am  - 
ministrativa  ed  economica. 

Allorché  il  Bonaparte  nel  1800  discese  in  Italia,  a  Parigi,  a  rappre- 
sentare gli  interessi  del  Direttorio  Cisalpino,  c'era  il  Serbelloni,  il  quale. 


1  Op.cit,,  p.  301,  25  ottobre  :  «  II  Mangiagalli,  uomo  risoluto,  anzi  furioso,  si  portò 
da  Soramariva,  dandogli  del  birbante  e  ladro,  concludendo  che  ne  avrebbe  pronta  soddi- 
sfazione, qualora  non  si  ritirasse  prontamente  la  lettera  mandata  a  suo  figlio  (di  rimo- 
zione d'impiego).  La  strapazzata  ebbe  il  suo  effetto,  ed  oggi  una  nuova  lettera  ha 
confermato  il  Mangiagalli,  dichiarando  essere  seguito  uno  sbaglio  ». 

*  Op.  cit.f  p.  312,  29  novembre  1801  :  *  I  governanti  approfittano  della  partenza 
della  Consulta  e  delle  autorità  subalterne,  e,  prevedendo  che  va  a  finire  il  loro  comando 
dispotico,  fanno  raccogliere  per  mezzo  di  emissari  i  boni  emessi  già  da  alcuni  anni 
al  48  per  o/q,  lucrando  così  il  52  per  o/o»  facendoli  al  momento  pagare  dai  rispettivi 
cassieri.  Questo  traffico  infame  ha  portato  parecchi  milioni  di  vantaggio  massime  a 
Sommari  va,  che  in  ciò  può  dirsi  il  cassiere  generale». 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  281 

restaurata  la  Cisalpina,  tornò  a  Milano,  ove  lo  chiamavano  le  cure 
della  famiglia  dissestata  per  il  sequestro  dei  beni  toccatogli  nel  1799. 
Scnonchè  i  crescenti  disordini  degli  stessi  governanti  richiesero  uomini 
di  nota  fama  e  tali  che  potessero  esercitare  un  grande  ascendente  sul- 
l'animo del  Primo  console.  Perciò,  nel  luglio  1800,  la  Commissione  di 
governo  incaricò  i  due  membri  della  Consulta,  Marescalchi  e  Greppi, 
entrambi  esperti  nielle  arti  diplomatiche,  a  voler  assumere  la  difficile  mis- 
sione di  abboccarsi  col  Bonaparte  e  di  esporgli  le  condizioni  della  Ci- 
salpina. Che  quella  realmente  fosse  missione  difficile  lo  prova  un  brano 
di  una  lettera  del  Marescalchi,  il  quale  scriveva:  «Noi,  costretti  per 
vie  indirette  ad  ottenere  qualche  udienza,  abbiamo  l'aspetto  di  queruli 
accusatori,  anziché  di  vostri  deputati.  Di  più  manchiamo  di  documenti 
positivi  per  constatare  le  vessazioni  militari,  sulle  quali  reclamate  ». 
Non  ostante  queste  difficoltà,  i  due  uomini  accettarono  e,  con  no- 
bile ardire,  fecero  rilevare  al  Bonaparte  come  nei  primi  due  mesi  di 
luglio  e  agosto  si  fossero  estorti  alla  Cisalpina  ben  trenta  milioni  in 
luogo  dei  quattro  da  lui  imposti  per  il  mantenimento  dell'esercito.  Il 
Marescalchi  scriveva  al  Primo  console  :  «  Che  diverrà  la  nostra  pa- 
tria? Quale  specie  di  morte  ci  sovrasta  in  premio  della  nostra  costanza 
e  dei  nostri  sacrifici?  Tale  pensiero  m'opprime;  e  vedo  traverso  i 
raggi  della  vostra  gloria  l'unica  tavola  che  ne  resti  a  salvarci  dal  nau- 
fragio » . 

Nulla  ottennero  pel  momento,  ma  non  rinunciarono  a  battere  e 
ribattere  su  quel  chiodo  doloroso.  Il  14  settembre  moriva  intanto  il 
Greppi,  che,  malandato  in  salute,  aveva  accettato  il  gravoso  incarico 
solo  per  operare  a  vantaggio  della  Repubblica,  e  il  Marescalchi'  rima- 
neva solo.  Ma  più  tardi,  il  2  novembre  1805,  Pancaldi  fece  nominare 
Marescalchi  ministro  plenipotenziario  presso  il  Primo  console  e  pensò 
di  dargli,  quale  collega  nel  difficile  incarico,  Francesco  Melzi,  il  futuro 
presidente  della  Repubblica  italiana,  la  persona  più  adatta  per  le  doti 
personali  e  per  la  stima  che  di  lui  faceva  il  Bonaparte* 

Viveva  il  Melzi  lontano  da  Milano,  donde  era  partito  nel  1797,  a 
Saragozza,  in  Spagna,  e  da  quel  placido  asilo  egli,  nel  1799,  scriveva 
al  Bonaparte  in  Egitto  a  proposito  delle  miserie  d'Italia  :  «  Quale  sarà 
la  sorte  dell'infelice  paese  dopo  tante  calamità  e  tante  vergogne?  Nudo, 
senz'opinióne,  senza  speranza,  ha  per  solo  punto  d'azione  l'odio  con- 
tro i  Francesi,  e  più  contro  i  partigiani  dei  medesimi.  Sì,  per  ottenere 
un  anno  di  riposo,  l'Italia  darebbesi  ai  Turchi,  e  per  un  giorno  di 
vendetta,  al  diavolo  !  Credesi  forse  che  i  Russi  abbiano  cancellato  tutto  ? 
No;  questi  barbari,  nonostante  le  traccie  di  sangue  che  dovunque 
lasciarono,  saranno  dimenticati  più  presto  dei  Francesi.  Chi  brutal- 
mente uccide  ferisce  n^eno  il  sentimento  nazionale  di  chi  umilia!  Sa- 


282  Angelo  Ottolini 


rebbe  possibile  che  obliaste,  Cittadino  generale,  un  paese  la  cui  storia 
è  ormai  congiunta  alla  vostra?  che  fu  il  primo  teatro  della  vostra 
gloria,  e  vi  fornì  i  mezzi  di  sì  grandi  imprese?  No,  noi  credo,  e  que- 
sto pensiero  rianima  la  mia  fiducia  ».  Nominato  membro  della  Com- 
missione di  governo,  rifiutò  di  parteciparvi,  allegando  la  salute  mal- 
ferma. Persistè  nel  rifiuto,  anche  quando  gli  giunsero  la  nomina  di 
deputato  presso  il  Primo  console  e  le  sollecitazioni  dell'amico  Mare- 
scalchi, e  ciò  per  l'antipatia  e  il  disprezzo  che  nudriva  pei  triumviri. 

Ma  dispacci  da  Milano  spingevano  il  Marescalchi  ad  agire.  «  La 
nostra  azienda,  gli  scriveva  il  buon  Pancaldi,  va  di  abisso  in  abisso 
pei  carichi  che  ci  vogliono  addossare,  non  solo  al  di  là  delle  nostre 
forze,  ma  delle  stesse  intenzioni  del  Primo  console.  Vi  sono  nella  Ci- 
salpina ventimila  soldati  francesi,  e  se  ne  aspettano  altrettanti.  For- 
se egli  sarà  nella  persuasione  che  i  nostri  sforzi  si  restringano  ai  due 
milioni  mensili,  ma  la  cosa  va  altrimenti.  Un  milione  bisogna  versarlo 
al  pagatore  generale  pel  soldo  della  truppa.  Le  spese  degli  ospedali  a 
nostro  carico  e  mille  altri  appendici  di  sussistenza  e  casermaggio  as- 
sorbono la  vistosa  somma  di  quasi  tre  milioni  di  franchi.  Tale  enorme 
sbilancio  trascinerà  in  breve  la  Repubblica  in  rovina,  intaccandone  il 
credito,  che  è  bisogno  supremo  d'uno  Stato  nascente.  È  indispensabile 
che  facciate  conoscere  al  Primo  console  la  nostra  triste  situazione.  La 
Cisalpina  è  forza  perisca  in  mezzo  al  suo  ingrandimento  ed  alla  bril- 
lante sua  prospettiva  di  un  felice  avvenire,  e  noi  faremo  naufragio  in 
porto  se  la  mano  potente  che  ci  richiamò  in  vita  non  ci  sostiene  ». 

Bisognava  dunque  arrivare  ad  ogni  costo  fino  al  Bonaparte,  e  con- 
vincerlo. Fu  allora  che  il  Marescalchi  cercò  d'impietosire  Talleyrand. 
E  a  lui  infatti  scrisse:  «Il  disordine, le  ruberie,  l'insubordinazione  del- 
l'esercito d'Italia  sono  inconcepibili;  noi  abbiamo  dato  oltre  ì  nostri 
mezzi;  se  ci  si  tolgono  i  modi  di  sussistenza,  sarà  meglio  strozzarci 
addirittura  e  risparmiarci  tante  sofferenze Non  è  possibile  che  i  pro- 
prietari paghino  in  tre  mesi  ciò  che  non  riscuotono  dalle  loro  terre 

nemmeno  in  otto  ;  tanto  vale  cacciarli  dal  loro  focolare »  Ma  non 

v'era  che  il  Melzi,  che  potesse  parlar  chiaro  e  senza  ambagi.  Eppure 
egli,  che  s'era  fatto  altamente  apprezzare  dal  Bonaparte,  il  quale  so- 
leva dire:  «quanto  sono  rari  gli  uomini  in  Italia!  su  diciotto  milioni 
ne  vedo  appena  due,  Dandolo  e  Melzi  !  »,  si  teneva  in  disparte,  e  non 
venne  fuori  se  non  dopo  nuove,  replicate  esortazioni  della  Commis- 
sione di  governo  e  quando  si  fu  assicurato  un  potente  collaboratore  in 
Vincenzo  Dandolo,  e  seppe  che  il  Bonaparte  lo  desiderava  a  Parigi. 
Tale  desiderio  equivaleva  a  un  ordine;  convenne- ubbidire,  e  nell'aprile 
del  1801  egli  si  recava  dal  Primo  console. 

Il  Melzi  gli  fece  comprendere  che  bisognava  assolutamente  abban- 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  283 

donare  il  cattivo  sistema  di  governo  allora  in  vigore  nella  Cisalpina  e 
allottare  criterii  nuovi  e  diversi,  senza  i  quali  la  pace  europea  sarebbe 
stata  sempre  precaria;  che,  quindi,  conveniva  ritirare  dalla  Cisalpina 
le  truppe  francesi,  rinunciare  al  dominio,  sia  pur  mascherato,  della  re- 
pubblica e  dare  all'Italia  Stati  monarchici,  unificando  sotto  un  solo  prin- 
cipe tutto  il  paese  posto  fra  le  Alpi  e  l'Adige,  stabilendo  così  una 
potenza  intermedia  tra  la  Francia  e  l'Austria.  Il  principe,  secondo  lui, 
avrebbe  dovuto  essere  tratto  dalla  casa  regnante  in  Spagna.  Ma  il 
Bonaparte  la  pensava  diversamente  e  non  intendeva  affatto  trasformar 
la  Cisalpina  in  un  regno,  o,  tanto  meno,  farne  dono  a  un  principe 
borbonico.  11  Melzi,  allora,  convinto  che  non  sarebbe  riuscito  a  spun- 
tarla, tentò  allontanarsi  da  Parigi  e  fare  ritorno  a  Milano,  ma  il  Primo 
console  non  gli  accordò  la  richiesta  licenza,  e  volle  direttamente  ser- 
virsi dell'opera  sua. 

Con  un  decreto  del  1^  giugno  1801,  il  governo  della  Repubblica 
francese  impose  alla  Cisalpina  di  riordinare  in  modo  regolare  le  truppe. 
In  seguito  a  tale  decreto,  il  13,  la  Commissione  governativa,  assente 
solo  il  Bargnani,  insieme  coi  triumviri  si  riunì  nella  casa  del  ministro 
Petiet.  Quivi  essi  si  studiarono  di  drizzare  un  bilancio  delle  entrate 
della  Repubblica,  della  spesa  che  importava  l'esercito  (50.240  Fran- 
cesi e  21.599  Cisalpini),  e  trovarono  che  questa  addossava  allo  Stato 
il  carico  di  88  milioni  annui  di  lire  milanesi  (=  fr.  66.000.000)  e  im- 
portava quindi  un  disavanzo  di  24  milioni.  Allora  decisero  di  sten- 
dere una  memoria  e  di  inviarla  a  Parigi,  a  fine  di  ottenere  che  la 
Repubblica  francese  venisse  in  soccorso  della  consorella,  almeno  per 
quella  somma  che  questa  non  era  in  gr^do  di  sopportare. 

Il  27  pratile  il  cittadino  Aldini  lesse  la  memoria  da  presentarsi  al 
Primo  console;  la  rilesse  ritoccata  il  primo  messidoro.  Indi,  dopo  che 
essa  fu  approvata  a  voti  segreti,  la  Commissione  passò  alla  nomina 
di  un  membro  incaricato  di  presentarla  al  Bonaparte.  Venne  eletto  lo 
stesso  Aldini,  uomo  di  grande  ingegno,  d'animo  saldo  e  di  specchiata 
onestà,  ben  noto  per  la  difesa,  che  aveva  fatto  del  suo  concittadino 
bolognese  Zamboni,  che  primo  avea  inalberato  il  tricolore  italiano  e 
aveva  scontato  tale  reato  sul  patibolo.  La  Consulta  gli  diede  per 
compagno  l'ex-duca  Serbelloni,  ex-ambasciatore  a  Parigi,  che  era  in 
intimità  con  il  Bonaparte  e  con  gli  uomini  più  influenti.  A  questo  il  Pan- 
caldi  scriveva  :.«  Ambedue  d'accordo  otterrete  o  la  diminuzione  di 
metà  del  numero  ordinato  o  almeno  della  metà  spesa  occorrente.  Non 
dissimuliamo  la  difficoltà  dell'impresa,  trattandosi  di  revocare  un  de- 
creto ;  ma  la  giustizia  della  nostra  causa,  il  valore  di  Aldini  e  il  vostro, 
e  soprattutto  la  nostra  dimostrata  impotenza,  persuadono  che  sarete 
ascoltati  e  che  ci  verrà  fatta  ragione.  Senza  tale  persuasione  chiunque 


284  Angelo  Ottolini 


ami  la  patria  non  resterebbe  temerariamente  assiso  al  timone  di  una 
nave  vicina  a  sprofondarsi  ». 

L'Aldini  e  il  Serbelloni  partirono  da  Milano  il  25  giugno  1801,  e 
giunsero  a  Parigi  il  5  luglio  ;  si  presentarono  al  Marescalchi,  al  quale 
i  triumviri,  per  conciliarselo,  aveano  portato  lo  stipendio  da  lire  41.600 
a  82.000  più  1500  luigi  per  le  spese  di  quella  straordinaria  circostanza. 
Nello  stesso  giorno  il  Marescalchi,  che  aveva  sempre  vegliato  sulle 
sorti  della  Cisalpina  e  che  aveva  sempre  invano  tentato  di  correggere 
la  falsa  opinione  che  fosse  straricca,  scriveva  a  Giuseppina:  «Je 
vous  prie,  madame,  de  parler  un  istant  au  Premier  consul  de  l'état 
pitoyable  de  la  Cisalpina,  et  de  la  charge  de  l'entretien  d'un  nombre 
trop  considérable  de  troupes.  Les  peuples  sont  au  désespoir  pour  les 
^mpositions;  les  proprietaires  sont  tout-a-fait  depouillés.  Qu'il  soit  per- 
suade que  je  ne  suis  pas  capable  de  lui  en  vouloir  imposer:  nous 
sommes  reduits  à  l'extremité  >. 

Aldini  e  Serbelloni  recavano  un  reclamo  che  parlava  altrettanto 
chiaro.  Esso  provava  con  le  cifre  che,  essendo  l'estimo  censuario  di  537 
milioni  di  scudi  e  la  sua  rendita,  di  21.800.000  scudi,  pari  a  179  mi- 
lioni di  lire  milanesi,  i  tributi  della  Cisalpina  non  potevano  eccedere 
i  64  milioni  di  lire  milanesi,  cioè  48  milioni  di  franchi,  10  dei  quali 
venivano  assorbiti  dalle  spese  dipartimentali  e  dai  comuni.  L'Austria 
stessa  *non  aveva  ricavato  più  di  18  milioni  annui  di  lire  milanesi,- lad- 
dove la  Cisalpina  ne  aveva  dati  30  nei  soli  mesi  di  luglio  e  agosto 
del  1800.  Faceva  notare  come  gli  eccessivi  aggravi  avessero  costretto 
il  governo  a  riscuoterli  con  la  forza,  né  la  stessa  forza  aveva  sempre 
potuto  cavar  denaro  là  dove  erano  essiccate  le  fonti  d'ogni  pubblica  e 
privata  ricchezza.  Di  qui  la  decadenza  delle  arti,  del  commercio,  del- 
l'agricoltura; i  ricchi,  obbligati  a  sopperire  all'impotenza  del  povero, 
fatti  anch'essi  poveri  ed  impotenti  ;  donde  gli  sdegni  e  la  disperazione, 
di  cui  non  era  possibile  calcolare  gli  effetti. 

Il  Bonaparte  lesse  e  ascoltò  i  reclami  dei  governanti  d'Italia,  ma 
dubitò  di  qualche  esagerazione.  In  seguito  Aldini  e  Serbelloni  otten- 
nero un'udienza  privata >  dal  Console,  e  questi  dichiarò  loro  che  la 
Cisalpina  doveva  ben  avere  quella  forma  di  governo  che  reputava  mi- 
gliore. Pregato  di  spiegare  una  frase  così  oscura,  con  fare  enigmatico 
soggiunse  :  «  Molte  volte  me  ne  occupai,  ma  ho  sempre  trovato  osta- 
coli insormontabili.  Di  tante  cose  che  feci  in  vita  mia,  ninna  mi  si 
presentò  così  ardua  quanto  creare  una  costituzione  adatta  al  vostro 
paese...  ». 

Tenendosi  così  sulle  generali,  il  Bonaparte  non  lasciava  capire  se. 
preferisse  affidare  il  potere  esecutivo  a  uno  o  più  individui  e  sfuggiva 
di  toccare  la  questione  delle  truppe  ;  ma  affrontò  quel  soggetto  l'Aldini 


La  secofida  Repubblica  Cisalpina  285 


col  dimostrare  che  la  Francia  non  aveva  interesse  a  tener  uomini  in 
Italia  e  perorò  con  tanto  calore  la  causa,  che  persuase  il  Primo  console 
a  (decidersi  per  la  loro  riduzione  a  30.000;  indi  parlò  senza  ambagi  della 
pessima  amministrazione  della  Cisalpina.  Il  Bonaparte  dovette  rimanerne 
impressionato.  Egli  invero  non  nudriva  del  triumvirato  un  concetto  molto 
lusinghiero.  Ciò  risulta  da  una  lettera  dell'Aldini  al  Pancaldi,  in  cui 
quegli  scrive:  «Appena  entrati  nella  sua  camera,  egli  prese  la  parola 
dicendo:  —  Laggiù  le  cose  vanno  molto  male;  non  si  commettono 
che  bestialità;  si  ruba  a  precipizio  e  non  faceste  che  sciocchezze  — . 
E  insistendo  sul  pessimo  andamento  delle  cose  pubbliche,  per  essersi 
sostituita  agli  onesti  la  canaglia,  esclamò  :  —  Questa  genia  nata  in  bassa 
condizione  si  è  fitta  in  testa  di  straricchire  nei  posti  che  occupa,  ma 
andrò  laggiù  e  punirò  severamente  i  ladri  — .*  Scrìvete  che  mi  sono 
note  tutte  le  loro  bricconerie  e  che  nominerò  una  Commissione  per 
sindacarle  *. 


Dalla  Repubblica  Cisalpina  alla  Repubblica  Italiana. 

Non  restava  dunque  che  porsi  all'opera,  e  far  seguire  alle  parole 
e  ai  giudizi  severi  i  fatti  e  i  rimedi. 

Il  Petiet  e  la  Consulta  avevano  messo  insieme  un  disegno  di  ri- 
forma della  Costituzione,  che  dovevasi  tener  segreto  fino  a  che  non 
fosse  inviato  a  Parigi,  e  non  si  doveva  inviare  prima  che  non  fosse 
sottoscritta  definitivamente  la  nuova  Pace  di  Amiens  tra  Francia  e  In- 
ghilterra, che  avrebbe  chiuso  finalmente  la  guerra  della  seconda  coali- 
zione europea.  La  pace  fu  conclusa  il  15  maggio  1802.  Allora  l'inviato 
del  governo  ebbe  incarico  di  presentare  al  Bonaparte  il  disegno  della 
Costituzione  e  di  procurare  che  venisse  da  lui  approvata. 

Il  presupposto  -della  riforma  era  che  alla  Cisalpina  fossero  aggre- 
gati tutti  gli  Stati  e  territori  italiani  da  lui  conquistati.  Ma,  come  ri- 
sulta dalla  corrispondenza  del  Marescalchi,  questo  piano  non  garbava 
troppo  al  Bonaparte,  il  quale  non  aveva  in  animo  di  ingrandire  la 
Cisalpina  e  voleva  invece  unire  alla  Francia  il  Piemonte  e  offrire  al 
giovane  duca  di  Parma  la  Toscana  e  Piombino  in  cambio  del  ducato. 

Allora  i  termini  della  disegnata  riforma  costituzionale  furono,  in 
conformità  delle  vedute  del  Bonaparte,  alquanto  modificati.  E  questi 
li  comunicò  il  3  settembre  al  Talleyrand  perchè  li  ristudiasse  insieme 
con  Marescalchi,  Melzi,  Aldini  e  Serbelloni,  senza  che  però  essi  faces- 


1  Mantovani,  op.  cit.,  p.  317,  6  die.  1801  :  «  Bonaparte  disse  pubblicamente  a 
Parigi  che  erano  tre  birbanti  decisi,  quelli  del  triumvirato,  e  da  lui  per  tali  cono- 
sciuti*. 


286  Angelo  Otto  lini 


sero  saper  nulla  in  Italia,  e  presentassero  le  osservazioni  per  il    19: 
quello  che  regolarmente  venne  fatto. 

La  prima  cosa,  che  occorreva  per  tradurre  in  atto  questo  disegno, 
era  la  formazione  di  tre  collegi  elettorali,  ciascuno  corrispondente  a 
una  determinata  classe  sociale,  cioè,  rispettivamente,  formato  dei  rap- 
presentanti del  commercio,  della  scienza,  della  grande  proprietà: 

il  dotto,  il  ricco  ed  il  patrizio  vulgo. 

Questi  collegi  dovevano,  secondo  il  pensiero  del  Bonaparte,  con- 
tare, i  primi,  200  membri  ciascuno;  l'ultimo,  300.  In  essi  doveva  risie- 
dere la  sovranità  nazionale,  e  ad  essi  spettare  la  facoltà  di  scegliere 
a  suffragi  segreti  tutte  le  dignità,  i  magistrati  e  un  Senato.  Il  29  set- 
tembre il  laborioso  disegno  è  ultimato  e  spedito  per  corriere  straor- 
dinario a  Milano,^  ove  toccava  alla  Consulta  discuterlo  in  sedute  se- 
grete per  poi  rinviarlo  a  Parigi. 

In  realtà  la  questione  era  già  decisa.  Si  volevan  solo  salvare  le 
forme.  E,  per  meglio  salvarle,  il  Bonaparte  deliberò  di  convocare  a 
Lione  452  notabili  della  Cisalpina,  che  avrebbero  dovuto  rappresen- 
tare la  parte  più  eletta  della  nazione  in  atto  di  sancire  col  proprio 
voto  la  disegnata  riforma  della  Costituzione. 

Verso  la  fine  di  novembre  cominciò  la  partenza  dei  deputati  ci- 
salpini per  Lione  (i  triumviri  ne  erano  stati  deliberatamente  esclusi 
dalla  legge  stessa,  che  avea  regolato  la  nomina  della  nuova  Costituente). 
Ma  noi  non  seguiremo  nel  loro  viaggio  i  neo-eletti,  né  c'intratterremo 
sulle  sedute,  che  colà  si  tennero:  questa  materia  esorbita  dal  nostro 
assunto.  Ci  basterà  dire  che  colà  si  adottarono  tutti  i  provvedimenti 
necessari  per  escludere  i  triumviri  e  le  loro  creature  da  qualsiasi  inge- 
renza nel  regime  che  si  stava  per  inaugurare,  e  che,  proclamato  Bo- 
naparte presidente  della  nuova  repubblica,  questi  medesimo  presentò 
il  Melzi  quale  vice  presidente.  Il  26  gennaio  1802,  fra  grandi  applausi, 
si  proclamava  decaduta  la  Cisalpina  e  vi  si  sostituiva  la  Repubblica 
Italiana,  Ai  triumviri,  o  meglio  duumviri  (poiché  il  Visconti  si  era  vo- 
luto far  considerare  dimissionario),  se  ne  diede  notizia  con  una  lettera 
di  congedo,  che  qui  iriferiàmo: 

Lyon,  le  7  Pluviose,  a.  X. 

Citoyens  Ruga  et  Sommariva,  composant  le  Coniité  de  Gouvernement  de  Mi- 
lan,  la  Constitutìon  ayant  établì  un  gouvernement  definiti!,  le  vice-President,  la 
Consulte  de  Stato,  et  le  Conseil  Legislatif  entreront  en  fonction  le  20  Pluviose, 
epoque  à  la  quelle  cesserà  votre  gouvernement.  Je  desire  que  d'ici  à  ce  tenis 


1  Arrive^  a  MUano  il  6  ottobre;  il  ministro  Petiet  lo  presentò  alla  Consulta  il 
giorno  7. 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  287 


là  il  ne  soit  fait  aucune  operation  extraordinaire,  et  je  connais  trop  votre  zèle 
pour  douter  que  vous  ne  donniez  au  vice-President  et  aux  Conseillers  qu'il 
designerà  toutes  les  instructions  et  consignations  nécessaires.  Je  vous  ai  per- 
sonnellement  donne  une  marque  d'intérèt,  en  vous  nommant  l'un  et  l'autre  mem- 
bres  des  différens  collèges.  Je  désire  que  dès  l'instant  que  votre  mission  vous 
laissera  le  tems  convenable  vous  me  fassiez  connaìtre  toutes  les  operations  de 
finance  et  d'administration,  que  vous  avez  fait  pendant  le  tems  qu'a  dure  vQtre 
Gouvernement. 
Je  vous  salue. 

BONAPARTE. 


La  portata  storica  della  seconda  Cisalpina. 

Il  7  febbraio  il  Melzi  giungeva  a  Milano,  e  il  10  solennemente  si 
inaugurava  la  Repubblica  italiana,  presenti  il  Ruga  e  il  Sommariva,  di- 
venuti-ora (oh,  instabilità  delle  fortune  umane!)  da  padroni  assoluti  di 
ogni  cosa,  pubblico  oggetto  di  satira  e  di  scherno  universale. 

Dopo  appena  venti  mesi  di  vita,  la  Seconda  Cisalpina  moriva  e 
senza  neanche  i  rimpianti,  che  sogliono  accompagnare  il  trapasso  delle 
giovani  vite  recise.  I  contemporànei  non  seppero  sfuggire  alla  triste 
impressione,  che  in  loro  suscitava  il  ricordo  di  tante  speranze  troncate, 
e  i  piti  identificarono  quel  regime  col  periodo  del  triumvirato  o,  piut- 
tosto, della  tirannia  del  Sommariva. 

Un  segno  eloquentissimo  di  questa  vivace  reazione  si  ebbe  nelle 
quotidiane  dimostrazioni  ostili,  che  seguirono  alla,  deposizione  dei 
triumviri.  Caricature  atroci  circolarono  contro  il  Sommariva,  signifi- 
canti il  verdetto  popolare;  i  nuovi  governanti  non  lo  ammisero  al 
loro  cospetto,  e  il  ministro  degli  interni  gli  rifiutò  senz'altro  udienza. 
Il  Sommariva  alla  fine  dovette  ritirarsi  a  Parigi,  ove  invano,  nuovo  Lu- 
cullo,  tentò  con  la  Vita  fastosa,  col  prodigar  tesori  in  lavori  artistici,  con 
l'intrigare  presso  Murat  ed  altri,  di  raccostarsi  al  Bonaparte,  nel  quale 
intento  fece  persino  offrire  a  Giuseppina  Beauharnais  una  collana  di 
diamanti  valutata  un  milione,  e  al  Talleyrand  un  orologio  del  valore 
di  80.000  lire.» 


1  Ecco  come  descrive  gli  ultimi  anni  del  Sommariva  un  suo  contemporaneo,  il 
Custodi  (in  L.  Aurray,  Ballettiti  italien,  p.  338,  1905)  :  «  ...  Rientrò  nella  vita  privata, 
occupandosi  a  cumulare  con  l'industria  le  acquistate  colossali  ricchezze  ed  impiegandone 
gli  enormi  redditi  a  fare  il  magnifico  nel  lusso  delle  ville,  degli  arredi  e  delle  collezioni 
d'ogni  sorta  dì  oggetti  di  belle  arti.  Si  noverano  tra  questi  quattro  o  cinque  grandi 
lavori  di  Canova,  e  i  bassirilievi  del  trionfo  di  Alessandro  di  Thorwaldsen,  dati  in 
commissione  da  Napoleone,  e  di  cui  nessun  principe  osò  di  procurarsi  l'acquisto.  La 
villa,  già  Clerici,  sul  lago  dì  Como,  notabilmente  ampliata,  quella  di  S.  Colombano, 
di  nuovo  eretta,  l'altra  sommamente  signorile  nella  valle  di  Mommorency  sono  rìmur- 


288  Angelo  Ottolini 


Non  di  meglio  toccò  al  Ruga,  che  dovette  alla  fine  lasciare  Milano 
e  ritirarsi  sul   Lago   Maggiore,  ove  neanche  la  moglie  volle  seguirlo. 

Ma  non  fu  soltanto  il  volgo  a  inchiodare  alla  gogna  la  memoria  dei 
triumviri  e  della  seconda  Cisalpina.  Vi  concorse  la  parola  degli  intellet- 
tuali più  in  vista,  in  quel  tempo  e  nell'età  immediatamente  successiva. 

Il  Foscolo,  incaricato  proprio  dai  triumviri  in  sullo  scorcio  del 
loro  governo,  di  un'orazione  al  Bonaparte,  corrispose  all'incarico,  det- 
tando un'aspra  requisitoria  dell'opera  loro  e,  peggio  ancora,  osando 
con  amaro  sarcasmo  pubblicare  il  suo  discorso  e  facendolo  precedere 
da  una  dedica  al  Ruga  e  al  Sommariva,  che  suonava  così  :  «  M'avete 
reputato  degno  di  scrivere  il  vero  al  Bonaparte,  ed  io  riconoscente, 
vi  reputo  capaci  di  confermarlo  con  la  vostra  autorità...  ».' 

Con  pari  ostilità  la  seconda  Cisalpina  è  ricordata  da  Vincenzo  Monti 
nell'O^^  pei  Comizi  di  Lione^  e  più  chiaramente  ancora  nel  2°  canto 
della  Mascheroniana, 


Vota  il  popol  per  fame  avea  la  vena, 
E  il  vivere  suo  vedea  fuso  e  distrutto 
Da'  suoi  pieni  tiranni  in  una  cena. 


chevoli  per  il  giusto  e  la  ricchezza,  tanto  delle  fabbriche  quanto  degli  addobbi,  e,  dopo 
sì  enormi  spese,  morì  Sommariva  in  Milano  nel  gennaio  1826,  lasciando  un  asse  giu- 
dicato non  inferiore  di  16  milioni  di  franchi,  de'  quali  fu  erede  un  unico  figlio,  mag- 
giore nelle  guardie  del  re  di  Francia.  L'origine  di  una  tanta'  fortuna  fu  il  negozio 
delle  carte  Cisalpine  e  lo  sconto  de'  mandati  del  Tesoro,  di  cui  sì  il  Direttorio  che  il 
Comitato  facevano  un'emissione  sproporzionata  alla  realtà  dei  fondi,  o  che  tale  almeno 
supponevasi,  così  che  era  d'uopo  di  uno  special  ordine  per  quitanzarli,  e  un  siffatto 
ordine  era  venduto  a  prezzo.  Nonostante  una  sì  gran  fortuna,  sua  moglie,  da  lui  di- 
visa, visse  abitualmente  fuori  di  Milano  con  una  meschina  pensione,  la  quale  nella 
sua  maggior  misura  non  ha  oltrepassato  l'annualità  di  lire  tre  ù ila  di  Milano». 

Il  ritratto  del  Sommariva,  dipinto  dal  Prud'hon,  si  conserva  nella  Galleria  d'arte 
del  Comune  di  Milano  nel  Castello  Sforzesco,  ove  pure  trovasi  quello  della  moglie, 
contessa  Emilia  Sommariva  nata  Seillère,  dipinto  da  Carlo  Boisfremont.  Detta  contessa, 
morendo,  lasciò  per  legato  alla  Pinacoteca  di  Brera  i  ritratti  deposti  nella  Galleria 
del  Castello,  e,  alla  città  di  Milano,  tutti  i  suoi  gioielli  quali  si  vedono  dipinti  nel  suo 
ritratto,  venduti  alcuni  anni  addietro  per  circa  300.000  lire  nell'  interesse  dei  Musei  d'arte 
lei  "Castello.  Qui  si  conserva  anche  una  serie  di  smalti  —  99  pezzi  —  per  la  più  parte  À 
dipinti  da  Adele  Chavassieu  e  in  parte  da  Henri  Leveque,  che  riproducono  i  capo-  J 
lavori  della  Galleria  del  Sommariva.  Fu  dono  o  volontà  di  espiazione?... 

Il  Sommariva  lasciò  anche  un  libretto  :  Lettere  cisalpine,  ossia  storia  del  Governo 
provvisorio  dell'anno  VIIl-lX-X  repubblicano,  Pesaro,  anno  X,  in  16°,  di  pp.  45,  che 
mi  è  stato  impossibile  rintracciare.  Altre  lettere  familiari  di  nessun  valore  politico, 
dirette  al  figlio  dal  1809  al  1825,  furono  pubblicate  pei  tipi  del  Didot,  nel  1842. 

1  Lo  spirito  della  pubblicazione  del  Foscolo  non  fu  inteso  da  coloro,  i  quali,  di- 
mentichi del  suo  contenuto,  credettero  dì  vedere  nel  poeta  un  complice  dei  triumviri, 
e  di  ciò  lo  fecero  responsabile.  A  torto  anche  lo  si  credette  retribuito  per  quella  sua 
composizione.  Il  nome  del  Foscolo  non  compare  affatto  nei  registri  amministrativi  del 
governo. 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  289 


Identico  concetto  sviluppava  il  Manzoni  nel  4^  Canto  del  Trionfo 
della  Libertà: 

Langue  il  popol  per  fame,  e  grida:  pane; 

E  in  gozzoviglia  stansi  e  in  esultanza 

Le  Frinì  e  i  Duci,  turba,  che  di  vane 

Larve  di  fasto  gonfia  e  di  burbanza, 

Spregia  il  volgo,  onde  nacque,  e  a  cui  comanda, 

A  piena  bocca  sclamando:  Eguaglianza! 

Ma,  come  sempre  il  giudizio  dei  posteri,  che,  lontani  dagli  avve- 
nimenti, possono,  formarsi  di  essi  un  concetto  più  completo  e  più  se- 
reno, deve  essere  meno  sfavorevole  e  meno  aspro  di  quello  dei  con- 
temporanei e  dei  poeti. 

Direttamente  e  indirettamente,  nei  suoi  consapevoli  e  inconsape- 
voli resultati,. la  seconda  Cisalpina  creò  qualcosa  di  più  di  quello  che 
un  governo  migliore,  ma  anodino,  forse  non  avrebbe  potuto.  Deve 
anzi  a  cuor  tranquillo  affermarsi  che  il  giudizio  sopra  di  essa  si  con- 
fonde con  quello  generale  sul  governo  francese  in  Italia,  dal  1796 
al  1815. 

Sotto  il  triumvirato,  e  prima,  erano  stati  perpetrati  molti  abusi; 
il  paese  era  stato  coperto  di  imposte.  Eppure  la  Lombardia  usciva  da 
questa  prova  terribile  in  condizioni  migliori  di  quelle  in  cui  l'Austria 
Taveva  lasciata  dopo  i  tredici  mesi  di  governo,  che  avevano  preceduto. 
In  questo  periodo  la  sola  Lombardia  aveva  sborsato  oltre  31  milioni 
di  lire;  all'incontro,  la  Cisalpina  cessava,  dopo  aver  prelevato,  durante 
un  periodo  più  lungp  e  sur  un  territorio  assai  più  esteso,  30  milioni  di 
imposte  dirette,  cioè,  in  proporzione,  7  lire  a  testa  in  luogo  di  30. 

Sotto  la  seconda  Cisalpina,  tornò  a  rifiorire  la  manifattura  a  filo 
d'oro  ;  si  estese  e  perfezionò  l'arte  di  fabbricare  le  carrozze.  I  telai  bat- 
tenti, che  nel  1790  erano  1820,  sorpassano  ora  i  3000.  Così  pure  si 
moltiplicarono  le  stamperie,  il  numero  dei  torchi,  le  fonderie,  le  fab- 
briche di  vetro,  ecc.  Si  ebbe  un  risveglio  commerciale  e  un  aumento 
di  popolazione:  da  128.926  abitanti,  quanti  ne  contava  nel  1795,  Mi- 
lano salì  nel  1801  a  142.034.  Il  risveglio  morale  non  fu  minore  o  di 
minor  conto.  Se  il  governo  austriaco  avea  significato  tirannide  della 
nobiltà  e  del  clero,  il  governo  francese  significa  ora  la  ravvivata  co- 
scienza del  diritto  a  un  regime  di  eguaglianza  e  di  indipendenza. 

Gli  ultimi  residui  del  vecchio  diritto  feudale  sono  aboliti.  Sor- 
gono accademie  di  pittura,  di  scultura,  architettura,  sono  aperte  nuove 
scuole.  Non  ostante  e  attraverso  gli  eccessi,  si  ha  di  nuovo  la  co- 
scienza del  diritto  e  della  libertà  di  opinione,  che  taluni  avevano  coar- 
tata durante  la  prima  Cisalpina  e  i  susseguiti  dominatori,  gli  Austro- 
Russi,  avevano  voluto  letteralmente  distruggere. 

L'Austria  della  seconda  coalizione  europea  aveva  governato,  di- 
sprezzando le  leggi,  incutendo  un  terrore  universale,  con  stoltezza  di 

19  —  Nuova  Rivista  Storica. 


290  Angelo  Oitolini 


giudizi,  con  pene  sproporzionate,  tenendo  il  paese  nella  ignoranza, 
sopprimendo  le  scuole,  soffocando  le  arti,  le  scienze,  il  commercio. 
Col  ritorno  dei  Francesi,  si  comincia  di  nuovo  a  respirare,  e  tutto  si 
risveglia  col  destarsi  di  una  coscienza  nuova 

«  Sotto  l'Austria,  scriverà  poco  dopo  Melchiorre  Gioia,  gli  agri- 
coltori soffrirono  saccheggi,  requisizioni  di  bestie  e  di  sementi;  i  po- 
veri mancarono  di  sale  e  di  riso;  gli  artisti  furono  dispersi;  i commer- 
cianti soffrirono  il  danno  della  moneta  di  carta  ;  gli  uomini  di  lettere, 
Tesilio  e  la  carcere;  i  proprietari,  unMmposta  di  cui  non  si  conosceva 
Tesempio;  i  compratori  di  beni  nazionali  furono  ad  ogni  istante  mi- 
nacciati d'esser  spogliati;  il  clero,  dopo  mille  promesse,  non  ottenne 
nulla;  saccheggiati  furono  i  templi,  derubati  i  vasi  sacri,  l'olio  santo 
sugli  stivali  dei  Russi,  i  parroci  delle  campagne  insultati,  bastonati, 
feriti  ed  anche  uccisi  ». 

Sotto  la  Cisalpina  invece,  salvo  episodii  sporadici,  la  religione  venne 
rispettata;  le  lettere  e  le  scienze  favorite;  l'università  di  Pavia  riaperta  ; 
gli  artisti  protetti;  il  commercio  riattivato.  La  nuova  Cisalpina  non  è 
dunque  l'orribile  cosa  che  i  contemporanei  e  le  vittime  dei  triumviri 
furono  tratti  a  giudicare. 

Impossibile  fu  rimediare  a  tutto,  agli  sperperi,  ai  soprusi,  agli  in- 
trighi di  alcuni  violenta  .senza  scrupoli.  Si  commisero  in  questo  periodo 
molti  errori  imputabili 'per  la  maggior  parte  al  governo  dei  triumviri, 
che  non  ebbero  scrupolo  di  ipotecar  l'avvenire,  pensando  forse,  come 
Luigi  XV,  che  dopo  di  loro  non  ci  sarebbe  stato  che  il  diluvio.  Ma 
tutto  il  denaro,  che  venne  spillato  ai  ricchi  proprietari  della  Cisalpina, 
non  servì  soltanto  ad  arricchire  qualche  individuo,  ma  altresì  a  deter- 
minare uno  spostamento  di  ricchezza,  che  a  sua  volta  suscitò  nuove 
classi  sociali.  Ciò  che  seguirà  nell'Italia  meridionale  dopo  il  '60,  con 
la  vendita  delle  mani-morte,  seguì  allora  nella  Cisalpina  con  la  ven- 
dita dei  beni  nazionali  e  coi  prestiti  forzosi.  Molta  parte  della  bor- 
ghesia dell'Italia  nord  nàsce  appunto  in  tale  momento  della  storia 
nazionale. 

Così  in  questo,  come  in  ogni  altro  caso,  attraverso  l'ineluttabile 
ingranaggio  della  storia,  dal  male  invano  deprecato  si  originava  il  bene, 
e  l'indipendenza  italiana  nasceva  attraverso  una  seconda  dura  prova 
di  dominazione  straniera,  come  è  quella,  a  cui  le  sorti  della  seconda 
Cisalpina  vanno  intimamente  legate. 

Angelo  Ottolini. 


Fonti  e  letteratura  suirargomento 

Archino  di  Sfato  dì  AJ/Za/io;  cartelle  riguardanti  la  Cisalpina. 
R.  BONFADINI,  La  Repubblica  Cisalpina,  in  Politecnico,  1867. 
—  Mezzo  secolo  di  patriotismo,  Milano,  Treves,  1886. 


La  seconda  Repubblica  Cisalpina  291 


I 


A.  Butti,  /  deportati  del  1799,  in  Archivio  Stor.  Lomb.,  a.  XXXIV,  fase.  XI    V. 
C.  CantÙ,  Cronistoria  delt indipendenza  italiana.  Unione  Tip.  torinese,   1872. 
T.  Casini,  Fonti  per  la  storia  della  Consulta  di  Lione,  Modena,  1906. 
A.  COMANDINI,  L'Italia  nei  cento  anni,  Mijano,  Vallardi,  1900. 

F.  CoRACCiNi  (La  Folie),  Storia  dell' amministrazione  del  Regno  d'Italia,  Lu- 

gano, 1822. 
Fr.  Cusani,  Storia  di  Milano,  voli.  Ve  VI,  Milano,  Albertari,  1867. 

G.  De  Castro,  Milano  e  la  repubblica  Cisalpina,  Milano,  Dumolard,   1879. 

—  Milano  durante  la  dominazione  napoletana,  id.,  id.,  1880. 

M.  Gioia,  /  Francesi,  i  Tedeschi,  i  Russi  in  Lonibaraia  :  discorso  storico-popolare, 
3*  ed.,  Milano,  1805. 

A.  LissoNi,  Storia  delle  imprese  militari  de'  soldati  italiani  dal  1796  al  1814, 
Milano,  Giiglielmini,  1848. 

Mantovani,  Diario,  manoscritto  esistente  nella  Biblioteca  Ambrosiana. 

Marelli,  Compendio  della  storia  patria  della  Repubblica  Cisalpina:  diario,  ma- 
noscritto con  opuscoli  in  10  volumi  (Bibl.  Ambrosiana). 

—  Giornale  storico  dal  1796  al  /<S6)6  in  38  volumi,  ampia  miscellanea  manoscritta 

nell'Ambrosiana,  intramezzata  da  documenti. 
Fr.  Melzi  D'Eril,  Memorie  e  documenti,  Milano,  1865. 
Minola,  Diario,  manoscritto  dell'Ambrosiana.. 

A.  Verri,  Notizie  memorabili  dal  1789  al  1801,  Milano,  G.  Brigola,   1858. 
A.  Zanolini,  Antonio  Aldini  e  i  suoi  tempi,  Firenze,  Le  Mounier,  1864. 
A.  Zanoli,  Sulla  milizia  cisalpina-italiana;  cenni  storico-statistici  dal  1796   al 

1814,  Milano,  Ferrarlo,  1845. 

Queste  pagine  erano  già  scritte,  quando  è  uscita  l' interessante 
opera  di  A.  Pinoaud,  Bonaparte  Président  de  la  Républiqae  italienne, 
Paris,  Perrin,  1914,  nel  cui  voi.  I,  cap.  VII  (pp.  193-240),  sì  discorre 
con  molto  garbo  della  Seconda  Cisalpina. 

A.  O. 


e^ 


LA  PIO  AMICA  ARISTOCRAZIA  CORIIiTIACA 

(I  Bacchiadi  :  ?  -  610  circa  a.  C). 


{Contìnuaz.  e  fine:  cfr.  A.  I,  fase.  I-II ;  A.  Il,  f osa  I). 


Psicologia  dei  mercatori  :  luci  ed  ombre  nei  costumi  corintiaci. 


XI. 

La  febbrile  attività  spiegata  nel  traffico  e  le  scaturite  ricchezze, 
come  operavano  a  determinare  la  psicologia  propria  dei  mercatori, 
così  erano  generatrici  di  costumanze,  le  quali,  prorompendo  prima  nei 
fatti  quotidiani,  s'innalzavano  poi  nei  cieli  azzurri  dei  principi  etici  per 
esser  guida  alla  condotta  dei  cittadini  nei  casi  della  vita. 

Già  osservava  Strabone  che  Corinto  ebbe  abbondanza  di  figli 
validi  nelle  arti  e  nei  politici  accorgimenti.*  Miracolo  sarebbe  che  così 
non  fosse.  A  strappare  la  palma  della  vittoria  nelle  gare  della  produ- 
zione e  degli  scambi  sono  richieste  le  doti  medesime  con  cui  s'appa- 
recchia il  trionfo  della  patria  nello  sferrarsi  degli  urti  tra  le  diverse 
unità  politiche.  La  previdenza  e  il  calcolo  minuziosamente  ponderato, 
il  fulmineo  colpo  d'occhio  e  la  perseveranza  non  removibile  verso  la 
prefissa  mèta,  sono  le  qualità  di  un  uomo  di  affari  e  di  un  perfetto 
reggitore  di  popoli.  Avveniva  in  Corinto  quello  che  nei  nostri  comuni 
del  medio  evo.  Come  nell'età  di  mezzo  bastava  scegliere  a  caso  un  mer- 
cante delle  arti  fiorentine  per  potere,  senza  tema  di  cadute  precipitose, 
mettergli  in  pugno  il  gonfalone  della  città  e  affidargli  il  comando 
d'una  guerra,  così  un  Bacchiade,  uso  a  dipanare  nel  pensier  suo  la 
matassa  del  traffico  mondiale,  sapeva  stringere  nelle  reti  delle  astuzie 


1  Strab.,  vili,  6,  26:  la  calUditas  corinzia  è  messa  anche  in  rilievo  nell'opera 
ad  Herennium  (IV,  27,  37)  già  attribuita  a  Cicerone. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  293 

sottili  tutte  le  volpi  della  diplomazia  greca  e  condurre,  all'  uopo,  gli 
eserciti  alla  vittoria.  Anche  in  Corinto  la  mercatura  era  la  propedeu- 
tica dell'arte  del  governo.* 

A  uomini  poi,  come  quelli  corinzi,  pronti  sempre  a  convergere 
verso  il  segnato  scopo  tutti  i  mezzi  necessari  ad  afferarlo,  e  che  opra- 
vano mentre  rombava  intorno  l' urlo  selvaggio  delle  guerre  predatrici, 
non  poteva  sfuggire  che  molto  spesso  la  via  allo  spaccio  dei  prodotti 
doveva  essere  aperta  con  la  spada.  Perciò  ove  le  arti  della  persuasione 
languivano  impotenti,  ivi  lampeggiava  il  ferro  omicida.  Ma;  pur  cor- 
rendo alle  armi,  i  Corinzi  non  dimenticavano  che  la  furia  degli  assalti 
e  delle  difese  traeva  inizio  e  vigore  dagl'  interessi  della  mercatura.  La 
guerra  era  il  mezzo  cruento,  ma  all'estremità  della  via  insanguinata 
brillava  il  fine  del  tornaconto  economico.  Ora  la  scaltrita  sagacia  dei 
mercatori  mirò  a  non  perdere  mai  d'occhio  lo  scopo  anche  in  mezzo 
alla  polvere  delle  battaglie.  Per  essi  la  guerra  non  doveva  distruggere 
i  benefizi  della  pace,  né  quest'  ultima  opporre  inciampi  alle  esplosioni 
irose  della  prima.  Un  esercito  di  milizie  prezzolate  ^  conciliava  nel  tempo 
stesso  le  due  necessarie  attività  e  così,  mentre  la  mano  del  mercenario 
brandiva  le  armi  negli  scontri  di  terra  e  di  mare  o  spingeva  coi  remi  a 
corsa  le  triremi,  il  grande  esercito  dei  servi  e  dei  liberi  lavoratori  con- 
tinuava a  produrre  sudando  nelle  officine  della  patria.  Combattere  e  nel 
tempo  stesso  lavorare  senza  che  la  guerra  e  la  pace  sieno  a  sé  stesse 
apportatrici  di  vicendevoli  nocumenti  fu  in  ogni  tempo  l'ideale  e  la  pra- 
tica dei  governi  mercantili.  Ma  gli  alunni  di  Marte,  cui  suonan  dolci  agli 
orecchi  solo  i  rantoli  dei  feriti  e  dei  moribondi,  irridono  per  uso  alla 
sagacia  dei  mercatori  e  al  loro  straniarsi  dal  campo  delle  stragi  come  a 
vigliacca  pusillanimità,  e  anche  nella  Grecia  la  satira  dei  portatori  d'armi 
si  è  sbizzarrita  a  presentare  gli  abitanti  dell'  istmo  come  una  turba  di 


i  La  sapienza  politica  era  un  articolo  d'esportazione  :  i  Corinzi  n'avevano  per  sé 
e  per  gli  altri.  Ricordiamo  il  Bacchiade  Filolao  chiamato  a  dettar  leggi  in  Tebe  (Ari- 
STOTEL.,  Poi..,  B.  12.  1274  a,  31-41)  :  ricordiamo  che  molto  tempo  dopo  Dione,  vitto- 
rioso in  Sicilia,  chiamò  dall'  istmo  alcuni  cittadini  per  chieder  consiglio  intorno  alla 
forma  di  governo  più  adatta  ai  Siracusani  ;  Plut.,  Dio,  53,  2  :  che  nell'arte  di  reg- 
gere lo  stato  i  Corinzi  fossero  maestri  ad  altri  popoli  è  posto  in  rilievo  anche  dal 
Curtius,  Stud.  z.  Gesch.  Kor.  in  Hermes^  X  (1876),  p.  227. 

*  Notava  Cicerone  {de  re  pub.,  II,  4)  che  i  Corinzi  «  mercandi  cupiditate  armo- 
rum  curaro  reliquerunt  ».  Inoltre  lo  scoliaste  di  Aristofane  —  commentando  il  verso 
del  Plato  «  costui  {cioè,  Plato,  dio  delle  ricchezze)  mantiene  in  Corinto  l'esercito  mer- 
cenario »  (Aristoph.,  Plut.,  173)  —  osservava  che  i  Corinzi  ebbero,  in  ogni  tempo 
(dei)  un  esercito  prezzolato  {Schol.  in  Aristoph.  Plut.  173).  Particolari  esempi  fan  difetto 
per  il  tempo  dei  Bacchiadi  (allora  la  storia  era  ancor  lontana  dal  proprio  nasci- 
mento): abbondano  invece  per  le  epoche  successive:  cfr.  Thucyd.,  I,  31,  1,  2:  35, 
3-4:  60,  \'.  VII,  19,  4-5:  57,  9;  Plut.,  TimoL,  3;  4. 


294  Guido  Porzio 


pavidi  conigli.*  Ciò  che  gli  ottusi  seminatori  di  morte  vituperavano  come 
un'infamia  era  un  segno  di  sagacia  previggente. 

Inoltre,  il  commercio  con  le  sue  necessità  ineluttabili  tendeva  in 
quell'epoca  di  ferro  a  far  sbocciare  nei  cuori  dei  Corinzi  gentilezze 
non  consuete  ed  a  produrre  un  codice  morale  avente  sua  base  sopra 
il  rispetto  della  vita  umana.  Scriveva  il  Curtius  che  gli  abitatori  del- 
l'istimo  «  più  che  Dori  e  Peloponnesiaci  avevan  l'aria  di  cittadini  del 
mondo  ».*  E  doveva  essere  così.  Recar  lontano  i  prodotti  e  aprir  le 
porte  della  città  a  tutti  quelli  che  giungevano  con  lo  scopo  dell'eser- 
cizio della  mercatura,  significava  non  soltanto,  come  diremo,  la  con- 
vergenza sopra  r  istmo  di  idee  folgorate  da  tutti  i  punti  dell'orizzonte 
con  l'effetto  d'un  vigor  nuovo  nelle  menti  dei  mercatori,  ma  anche 
l'accensione  delle  simpatie  tra  chi  dava  e  chi  riceveva  ricovero  ospi- 
tale. Quando  è  necessità  attrarre  gli  uomini  colle  seduzioni  dei  van- 
taggi del  traffico,  si  getta,  per  prima  cosa,  tra  i  ferri  vecchi  l'arma 
insanguinata.  La  mercatura,  o  allontana  e  reprime  la  violenza,  o  con- 
danna sé  medesima  all'inazione  e  alla  morte.  Per  un  popolo  consa- 
crante l'attività  sua  a  produrre  e  a  vendere  la  guerra  contro  1'  uomo 
è  così  rara  come  i  deliriì  della  febbre  in  un  corpo  lieto  di  sanità. 
Questo  rispetto  della  vita,  che  divenne  civile  abitudine  ^  e  che  indusse 
i  Corinzi  a  non  dar  tregua  per  terra  e  per  mare  alle  violenze  rapina- 
trici,^  costituiva  il  fiore  di  un  sentimento,  non  spontaneo,  ma  educato 
sotto  l'impulso  delle  necessità  mercantili. 

Così  pure  dal  commercio  traeva  origine  in  Corinto  la  coorte  non 
esigua  dei  veri  e  supposti  vizi  e  di  altre  non  liete  conseguenze. 

Che  quei  mercanti  fossero  astuti  e  ben  sapessero  celare  il  pensiero 
profondo  entro  viluppi  non  penetrabili,  che  a  ragione  suonasse  il  mo- 
nito del  poeta  di  non  porre  fiducia  nei  cittadini  di  Corinto  '"  dei  quali 
l'animo  era  doppio  non  meno  di  quello  dei  loro  coloni  corciresi,^  non 
parrà  inverosimile  a  chi  pensi  come  di  astuzie  sottili  appaia,  a  così 
dire,  materiata  la  psiche  dei  negoziatori,  non  soltanto  corintiaci,  ma 
di  tutti  i  luoghi,  e  di  tutti  i  tempi.  Di  più  :  se  molti  ladri  si  movevano 
nella  leggenda,^  che  è  l'irradiazione  della  realtà,  e  quindi  anche  entro 


»  Aristotel.,  physiognoniy  3;  Plut.,  TimoL,  32. 

«  Curtius,  Peloponnes.,  Il,  pp.  520-521  (ed.  e). 

»  La  bontà  dei  Corinzi,  accennata  da  Pindaro  (O/.,  XIII,  13),  è  poi  messa  in  ri- 
lievo dallo  scoliaste  che  chiama  i  Corinzi  buoni  per  natura,  Schol.  in  Pindar.  Ol., 
XIII,  16: 

<  Cfr.  di  questa  Rivista  il  fase.  I  del  1917,  pp.  71-76. 

5  Menandri,  in  Anthol.  Palat,  XI,  438. 

«  Hermippus,  ap.  Athen.,  I.  27  d-e. 

'  Ricordiamo,  a  cagion  d'esempio,  Sini  (Baccmylid.,  XVIII,  16-27  ;  Paus-,  II,  I 
4  ;  Apollod.,  Bibliothec.  Ili,  217-218,  SchoL  in  Earip.  Hippolyt.  977,  ed.  DindorfQ 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  295 


le   mura  cittadine  e  nelle  vie  conducenti  a  Corinto,*  ciò  era  uno  degli 
effetti  spiacevoli  dell'opulenza  generata  dall'enorme  attività  produttrice. 
L'ostentazione  superba  della  ricchezza  suscitava  gì'  ìmpeti  furaci.  Ag- 
giungiamo che  la  sete  non  estinguibile  di  acquisti  sempre  nuovi  e  la 
corsa  sfrenata  verso  accrescimenti  ogni  giorno  più  ampli  dei  beni  di 
questa  terra  sospingevano  i  mercanti  con  spasimi  acuti  a  gettarsi  nel 
turbine  degli  affari.*  In  mancanza  di  siffatta  cupidità  mal  si  compren- 
derebbe che  l'aristocrazia  abbia  spiegato  nel  produrre  un'energia  vin- 
citrice di  tutti  gli  ostacoli.  Che   poi   la  tensione  dolorosa  di  tutte  le 
forze  verso  la  mèta  disegnata  e  le  quotidiane  vertigini  dell'operare  ar- 
recassero non   rari  vacillamenti  nella  ragione   dei   mercatori  così  da 
permettere  guadagni  lauti  a  chi  facesse  professione  di  guarire  i  delìrii 
dell'  intelletto,  apparirà,  in  un  cozzar  sì  grande  di  passioni,  la  naturale 
catastrofe  dei  vinti  nelle  battaglie  della  vita.^  Per  ultimo  non  è  fuor 
di  luogo  far  notare  che  tra  i  Corinzi  persino  il  delitto  assumeva  le 
forme  più  consenzienti  all'universale  mitezza  dei   costumi.  E  se  uno, 
poniamo  caso,  mirava  a  far  discendere  nel  regno  delle  ombre  il  ge- 
nitore tediosamente  longevo  per  divorare  più  presto  l'eredità,  o  desi- 
gnava di  saziare  sopra  un   nemico  la  sua  sete  di  vendetta,  invece  di 
snudare  il  ferro  come  un  qualsivoglia  guerriero  dorico  attendato  nella 
valle  dell'Eurota,  preferiva  ricorrere  alla  potenza  di  un  veleno  spiccia- 
tivo. I  Corinzi,  perchè  dediti  alla  mercatura,  erano  più  miti  dei  loro 
fratelli  in  dorismo  anche  nell' infliggere  la  morte.* 

Quanto  alla  frenesia  delle  voluttà  —  una  specie  di  aurea  spuma 
splendente  sopra  quel  mare  di  vita  agitata  —  certo  è  che  i  Corinzi 
colsero  in  ogni  tempo  tutte  le  gioie  della  vita.^  Sapevan  essi  apprez- 
zare così  le  delizie  dei  banchetti  sontuosi  come  i  gaudii  irrequieti  del- 
l'ebrietà.* Era  per  loro  dilettazione  squisita  incamminarsi,  coronati  di 


Scirone  (Euripid.,  fragm,  Sciron.  Satyr.,  1  (669)  ap.  Polluc.  onom.,  X,  35  ;  Apollod., 
epit.,  I,  1-3)  e  l'opportuno  accenno  del  Wilisch  {Die  Sagen  v.  Kor.  nach  ihr.  geschicht. 
Bed.  \n  Jahrbiich.  Klass.  Phiiolog.,  1878,  pp.  729-730),  che. molti  casi  mitici  di  latro- 
cinio si  sona  localizzati  sopra  /'  istmo. 

1  In  Corinto  un  sotterraneo  di  nome  cos  accoglieva  i  ladri  e  i  servi  fuggitivi 
(EusTATH.  comm.  in  II.,  B.  114). 

2  II  grido  invocatore  alle  ricchezze  (xqt||*«<»i  xenjAaTo)[  risuona  proprio  in  un'ode 
istmica  pindarica  {/sthm.,  II,  17):  chi,  nato  in  altre  parti  dell'Eliade,  era  agitato  dal 
pungolo  del  guadagno  traeva  verso  l'istmo  come  in  tempi  posteriori  Antifonte;  [Plut.], 
vii.  X  orat.,  2  (ed.  Westermann). 

3  Id.,  ibid.  in  vit.  script,  graec.  minor.,  p.  233  (ed.  Westermann). 
<  Schol.  in  Eurip.  Med.,  11. 

5  Corinto  descritta  quale  città  di  gaudenti  da  Aristofane,  Thesmoph.,  403,  da 
ApoUodoro  Caristio  (ap.  Athen.,  VII,  281  a)  e  da  Ateneo,  Vili,  351  e. 

6  A  cominciare  da  Etiope  che,  compagno  di  Archia,  al  tempo  dei  Bacchiadi,  ven- 
dette la  sua  porzione  di  beni  siracusani  per  sfrenata  intemperanza  e  amor  dei  piaceril, 


296  Guido  Porzio 


rose,  insieme  con  gli  amici,  verso  i  patrii  bordelli.*  Nel  tempo  stesso 
sopra  questi  disordini  morali  effondevano  la  luce  di  un'eleganza  fastosa 
che  è  manifesta  persino  nella  superba  venustà  dei  loro  intercolonnii.* 
Ebbene,  anche  di  questo  gaio  turbinare  l'origine  non  è  per  nulla  av- 
volta nel  mistero.  Alcuni  autori  fanno  appello  ai  soliti  Fenici  seminanti 
sopra  l'istmo  il  contagio  dei  loro  costumi  orientali.  Ma  non  è  d'uopo 
far  ricerca  delle  cause  in  troppo  remote  lontananze.  Ogni  ricchezza 
—  e  in  Corinto  quella  ingente  accumulata  col  lavoro  —  è  incentivo 
a  godere.^  Raro  oltre  modo  e  pertinente  agli  studi  della  patologia  è  il 
caso  degli  arpagoni  che  si  condannano  a  mortificare  i  desideri  in  mezzo 
a  tutti  i  beni  largiti  dagli  dei. 


Lo  SPLENDORE  DELLE  ARTI  E  DELLA  POESIA. 

XII. 

Dalle  ricchezze  accumulate  s'elevò  folgorante  anche  la  vita  dello 
spirito  nelle  sue  più  varie  manifestazioni:  che  le  immagini  del  poeta 
e  i  fantasmi  dell'artista,  le  figure  disascóse  dal  marmo  o  espresse  sovra 
le  dipinte  tavole,  pur  sembrando  elevarsi  così  sublimi  e  sdegnose  sopra 
la  vile  materia,  in  realtà  traggono  da  questa  la  possanza  ai  voli  solenni. 
Scriveva  Mac  CuUoc  :  «  Dove  non  è  raccolta  ricchezza  alcuna  la  mente 
umana,  attanagliata  dalle  cure  assidue  di  provvedere  ai  bisogni  fisici 
pili  urgenti,  non  avrà  agio  di  attendere  alla  coltura  dello  spirito.  Senza 
la  tranquilla  serenità,...  procurata  dall'abbondanza  degli  averi,  non 
potranno  aver  luogo  gli  studi  eleganti  che  allargano  il  pensier  nostro, 
purificano  il  nostro  spirito  e  ci  collocano  in  luogo  più  eccelso  nella 


com'è  ricordo  in  Archiloco  e  in  Demetrio  di  Scepsi  (ap.  Athen.,  IV,  167  d),  gli  esempi 
delle  gioie  sensuali  —  sopratutto  del  mangiare  e  del  bere  soverchio  —  si  prolungano 
durante  tutti  i  periodi  noti  della  storia  (Alexis.  ap.  Athen.,  IV,  165  a ,  Diphilus  ap. 
Athen.,  VI,  22  b  ;  Eriphus  ap.  Athen.,  IV,  137  d  ;  Maxim.  Tyr.,  dissert.,  I,  5,  III 
10  (testimonianze  per  i  banchetti);  Cratinus  ap.  Athen.,  X  424  b  ;  Hermeas  Metym- 
MEUS  ap.  Athen.,  X,  438  b  e;  Aelian.,  var.  hist.  (testimonianze  per  l'ebrietà). 

»  EUPOL.  in  Frag.  Com.  Graec,  p.  187,  Hermesianactes  ap.  Athen.,  XIII,  599  b; 
Schol.t  in  Aristoph.  Thesmoph.^  404;  Hesychius  in  Fragra.  Com.  Qraec,  p.  738: 
quanto  alle  parole  già  ricordate  di  xoQiv^id^etv  e  xoQiv^iooTfjs,  cui  era  annesso  il  signi- 
ficato di  bordellare  e  di  bordelliere  cfr.  Philetaerus  ap.  Athen.,  XIII,  559  a  e  ap. 
Steph.  Byz.,  p.  468  (Berk)  in  F.  Com.  Graec,  pp.  475-476  e  in  ex  tmv  Svt5a  xatà 
oToixetov  (ed.  Westermann),  pp.  17J-174,  Poliochos  ap.  At.;en.,  VII,  p.  313  e,  Eustath., 
comm.  Hom.  II.  (indice)  p.  264,  ed  Lipsia,  1828. 

*  MtJLLER  Otf.,  Die  Doriery  ed.  e.  II,  p.  404. 

3  ID.,  ibid.y  M,  22,  285,  nota  !•;  Doruy,  Hist.  d.  Qrecs,  p.  504  ;  DuNCKER,  Gesch, 
d.  Alt,  115,  49. 


( 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  297 

scala  degli  esseri.  Lo  stato  di  barbarie  o  d' incivilimento  di  un  popolo 
dipende  più  dalle  condizioni  delle  sue  ricchezze  che  da  qualunque 
altra  circostanza.  A  dire  il'  vero,  un  popolo  indigente  non  è  mai  civile 
ed  una  nazione  ricca  non  è  mai  barbara  ».'  In  tal  guisa  l'aristocrazia 
corintiaca,  allorché  pareva  agitata  soltanto  dai  pungiglioni  del  gua- 
dagno, preparava  sopra  1*  istmo,  senza  saperlo,  l'albergo  delle  Muse. 
Alla  prosperità  economica,  che  costituiva,  a  così  dire,  V  humus 
fecondo  da  cui  s'estolleva  superbo  l'albero  della  scienza  del  bene  e 
del  male  dev'essere  aggiunta,  come  energia  alimentatrice  di  luce  all'  in- 
telletto, anche  l'azione  spiegata  nella  mercatura.  Se  è  vero  che  l'abi- 
tudine suade  la  psiche  ad  una  pigrizia  sonnolenta,  è  anche  certo  che 
la  visione  di  strane  costumanze  in  remote  regioni  e  lo  scambio  delle 
idee  e  il  loro  cozzo  inevitabile  sono  per  l'anima  addormentata  quel  che 
lo  squillo  della  tromba  di  guerra  per  i  poliedri  animosi.*  Ora  i  Corinzi 
correvano  appunto  tutti  i  mari  e  frugavano  per  tutti  i  paesi  d'occi- 
dente; essi,  per  mezzo  delle  colonie,  venivano  a  quotidiano  contatto 
coi  selvaggi  della  Grecia  settentrionale  e  con  le  popolazioni  d' Italia. 
Ma  se  anche,  per  strana  ipotesi,  nei  mercatori  sì  fosse  insinuata  un'in- 
vitta repugnanza  ad  uscire  fuori  della  cerchia  delle  mura  cittadine, 
ciò  non  di  meno  l'urto  delle  idee. e  il  conseguente  scintillio  degl'insolit» 
bagliori  avrebbero  avuto  luogo  in  Corinto,  alla  stessa  maniera  che  sopra 
l'istmo  da  tutti  punti  dell'orizzonte  e  da  tutte  le  vie  del  cielo  venivano  a 
posarsi  i  venti  con  soffio  di  tempesta  e  sì  scambiavano  i  prodotti  matu- 
rati e  lavorati  nei  luoghi  più  diversi.  In  una  parola  :  l'esercizio  della  mer- 
catura, come  rendeva  più  gagliardo  l' intelletto  con  lo  sforzo  d'ogni 
giorno  richiesto  a  strappar  la  vittoria  nella  sfrenata  concorrenza,  così 
diveniva,  per  mezzo  del  sussulto  degli  odii  e  degli  amori  consueti  in 
chi  si  dibatte  nel  vortice  della  lotta,  la  palestra  migliore  all'educazione 
dei  sentimenti.  In  tal  modo  l'impeto  dell'attività  produttiva  faceva 
sbocciare  e  rendeva  più  gagliarde  le  forze  dalle  quali  gli  splendori 
dell'arte  traggono  vita  ed  inizio.  Si  aggiunga  che  il  mercante,  dopo  i 
giorni  tragici  della  conquista,  suole,  in  mezzo  al  trionfo  delle  mietute 
ricchezze,  chiedere  all'arte  i  sorrisi  suadenti  ad  una  quiete  di  morbide 
voluttà  e  i  grandiosi  jjarbagli  con  cui  la  conquistata  magnificenza 
annunzia  sé  medesima  ai  volghi  stupefatti.  Questa  è  la  storia,  non 
solo  dell'aristocrazia  corintiaca,  ma  (a  tacere  di  altri  esempi)  dei  mer- 
canti e  dei  banchieri  d' Italia  negli  anni  dell'  umanesimo. 

1  Cic.  de  re  pub.,  II,  4,  7-9  :  Diogene  il  cinico,  che  fece  dimora  in  Corinto  —  rap- 
presentava egli  la  filosofia  dell'astinenza  nella  città  di  tutti  i  piaceri  —  era  solito  di^ 
dire  che  in  una  città  e  in  una  casa  ricca  non  alberga  la  virtù;  Stob.,  Fior,  XCIII  in 
Fragra,  Philosoph.  Graec,  II,  p.  305. 

2  Mac  Culloc  ap.  G.  B.  Say,  Corso  completo  d'econ,  poi,  in  Bibl.  delVEcon,, 
Torino,  Cugini  Pomba,  e  C,  1855,  Serie  I,  v.  VII,  p.  1056. 


298  Guido  Porzio 


Nella  Grecia,  che  dopo  la  catastrofe  delle  monarchie  patriarcali  si 
poneva  in  cammino  verso  nuove  ascensioni  di  gloria,  Corinto  annunziò 
il  nascimento  di  tutte  le  arti  del  disegno.  Prima  nello  sferrare  a  corsa 
le  triremi  sopra  l'infinita  distesa  delle  acque,  prima  a  costruire  l'impero 
mercantile,  l'aristocrazia  dei  Bacchiadi  fu  anche  prima  a  rapire  al  cielo 
molti  raggi  di  quella  varia  artistica  bellezza  che  è  forse  generatrice 
delle  gioie  più  pure  nel  regno  degli  uomini.  Fra  i  cumuli  enormi  delle 
mercanzie  trascorrenti  con  alto  frastuono  dall'uno  all'altro  porto,  Co- 
rinto trovò  la  forza  di  accendere  e  di  scuotere  innanzi  al  mondo  la 
fiaccola  dell'ideale.*  «Chi  posò  sovra  i  templi  il  gemino  re  dei  pen- 
nuti?»' prorompeva  il  lirico  tebano  tessendo  le  lodi  dei  figliuoli  di 
Sisifo.  E.  Timeo  commentava:  «  Il  fastigio  triangolare  sopra  la  fronte  e 
nella  parte  posteriore  dei  templi,  con  la  sovrastante  aquila  di  Giove,  è 
spacciata  dal  poeta  come  una  scoperta  corintiaca».®  Si  tratta  di  quella 
parte  dell'edifizio  cui  è  dato  il  nome  di  tetto  spiovente  a  schiena 
d'asino.*  Di  più  :  sempre  la  Musa  di  Pindaro  non  si  stancava  di  celebrare 
dei  Corinzi  le  invenzioni  antiche.^  E  bene  il  vate  s'apponeva.  Che  Plinio 
il  Vecchio  ricorda,  quale  ingegnosa  opera  di  Cleante  corinzio,  la  pit- 
tura lineare,  cioè  il  semplice  contorno  monocromo  disegnato  con  mano 
ferma  dall'artista  (sarebbe,  nel  linguaggio  pliniano,  Vumbra  hominis 
lineis  circmndacta)  cui  Cleofanto  —  anch'egli  cittadino  dell'istmo  e  com- 
pagno al  Bacchiade  Demarato  fuggiasco  verso  i  paesi  dell'Etruria  — 
avrebbe  infuso  la  gioia  dei  colori  tritando  un  coccio  e  stemperando 
la  polvere  nell'acqua.^  Se  mai,  Sidone  poteva,  unica,  presentarsi  contro 
Corinto  nella  tenzone  per  la  priorità  della  scoperta.' 


i  II  fatto  è  ammesso  con  voci  concordi  dagli  studiosi:  cfr.  Curtius,  Stud.  z.  Gesck. 
V.  Kor.  in  Hermes,  X  (1876),  115;  Duruy,  hist.  d.  Grecs,  Paris,  Hachette,  1887,  I,  504; 
DuNCKER,  Qesch.  d.  Alt.,  VI*,  46  ;  Overbeck,  Gesch.  d.  griech.  Piasi.,  Leipzig,  1893, 
I,  93,  138,  ecc. 

»  PiND.,  O/.,  Xin,  21. 

3  TiM.,  ap.  Schei.,  in  Pind.  Ci.  XIII,  29;  Plin.  n.  h.,  XXXV,  152;  «  hinc  {da 
Corinto)  izsiìg\2i  templorum  orta>. 

4  Meyer,  Gesch.  d.  Alt.,  II,  604-605:  i'a.  in  queste  pagine  discorre  di  manife- 
stazioni del  secol  settimo. 

5  Pind.,  OL,  XIII,  16-17  ;  intomo  alle  parole  del  poeta  confrontare  quel  che  può 
essere  ritenuto  come  una  serie  di  commenti  nel  Curtius  op.  cit.  in  Hermes  X,  1876, 
215,  Overbeck,  op.  cit.,  I,  249-253,  Meyer,  op.  cit.,  l,  602,  604-605;  la  facoltà  delle 
geniali  scoperte  architettoniche  non  inaridiva  a  Corinto  anche  negli  anni  successivi: 
citiamo  quella  famosa  dei  capitelli  corintiaci  (Callixen.,  ap.  Athen.,  V,  205;  Strab., 
IV,  4,  6  ;  Eustath.,  comm.  in  II.,  B.  59  ;  Athen.,  V,  204  e  ;  Hesychius,  v.  II,  p.  536), 
che  sembra  coincidere,  durante  la  guerra  peloponnesiaca,  col  più  grande  splendore 
dell'arte  ateniese  (Beloch,  Griech.  Gesch.,  V,  581)  e  che  Vitruyio  descrive  mirabil- 
mente sovraposto  alle  colonne  cospicue  per  la  venusta  virginale  fragilità  (Vitruv.,  de 
architect.,  IV,  1,  2-3;  1,  9-11). 

«  Plin.,  n.  h.,  XXXV,  5;  Rhusopulos,  vasetto  corinzio  in  Ann.  dicorrisp,  archeol., 
v.  XXXIV  (1878),  48. 

7  Plin.,  ibid.,  XXXV,  5  ;  Rhusop.,  /.  e;  Overbeck,  op.  cit.,  1, 75';  un  passo  str*. 
boniano  (Vili,  6,  23),  in  cui  è  fatta  parola  >/fri>na  di  Corinto  e  poi  di  Sicione  qnali 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  299 


Così  pure  l'arte  del  plasmatore  ebbe  sopra  l'istmo  i  suoi  più  antichi 
esemplari  usciti  vivi  e  spiranti  dalle  mani  del  figulo  Butades  ^  e  trovò, 
prima  che  tramontasse  la  dominazione  dei  Bacchiadi,  incrementi  nuovi 
per  la  geniale  attività  di  Eucheiro  e  di  Eugrammo,  artefici  che  Dema- 
rato  trasse  seco  verso  i  dolori  e  le  fortune  dell'esilio.*  Poi  dalla  creta 
gli  artisti  trascorrevano,  per  gradi,  al  marmo  candido,  e  ben  presto  si 
giunse  nella  statuaria  a  così  fatta  perfezione  che  l'immagine  di  Apollo 
di  Tenea,  strappata  alla  nera  terra  non  lungi  da  Corinto,  gode  fama 
di  una  tra  le  più  belle  statue  greche  del  sesto  secolo.^  Naturalmente 
—  e  qui  si  svela  non  sopprimibile  la  natura  dei  mercatori  —  anche 
l'arte,  come  altrove  notammo,  anche  questo  raggio  consolatore  rapito 
agli  dei,  diveniva  pei  Corinzi  oggetto  di  transazioni  commerciali.  Le 
gaie  tinte  e  le  figure  rilevate  invasero,  come  ornamento  delle  ceramiche, 
i  paesi  d'occidente.^ 

Alla  più  antica  vita  corinzia,  che  si  presenta  come  una  specie  di 
conviviale  solennità  lieta  di  fantasiose  iridescenze  artistiche,  strano  sa- 
rebbe che  fosse  mancata  la  voce  canora  delle  Muse.  Certo  è  che  sulle 
piazze  della  terra  industre  e  nelle  case  sontuose  dei  mercatori  i  rapsodi 
intonarono,  negli  anni  più  antichi,  la  canzone  dell'ira  d'Achille  e  del 
lungo  errare  di  Odisseo.  La  tradizione  faceva  passare  Omero  sopra 
l'ismo  tra  la  meraviglia  attonita  dei  cittadini  e  i  molti  onori  tributati 
al  poeta.5  Quando  poi  piacque  agli  artisti  di  porre  mano  ad  ornare 
con  la  loro  tavolozza  le  pareti  dei  vasi  di  terra  cotta,  ebbero  essi 
cura  di  chiedere  sovente  inspirazione  al  cantore  degli  eroi.** 

E  fin  qui  Corinto  era  rimasta  paga  di  dare  nuove  risonanze  alla 


città  in  cui  fiorì  l'arte  dei  colori  e  quella  plastica,  sembra  risolvere  la  questione  in 
favore  dei  Corinzi. 

J  Plin.,  n.  h.,  XXXX,  43;  cfr.  l'opinione  dell'Overbeck  {op.  cit.,  I,  75)  secondo 
la  quale  Butades,  fiorito  verso  il  664  a.  C.  (e  perciò  al  tempo  dei  Bacchiadi),  da  Si- 
cione,  ove  nacque,  si  sarebbe  recato  a  Corinto. 

«  Plin.,  ibid.,  XXX,  43:  nel  passo  medesimo  è  detto  che  gli  artisti  plasmatori 
fiorirono  in  Corinto  «  multo  ante  Bacchiadas  Corintho  pulsos  ». 

3   OVERBECK,   Op.   CÌf.,   I,    118-119. 

<  HoLM,  Gesch.  Sic.  im  Alt.  (ed.  e.)  1870,  I,  121;  Pierrot  et  Chipiez,  hist.  d. 
Vari  dans  Vantiq.  tom.  Vili,  470-476  ;  G.  Porzio,  //  fondarti,  econ.  della  più  antica 
aristocraz.  carini,  in  Ann.  d.  Un.  Tose,  N.  Serie,  v.  I  (XXXV  della  collez.),  fase.  S», 
pp.  20  e  sgg.  ;  che  poi  in  Corinto  Ip>;rbio  abbia  inventata  la  ruota  del  figulaio  è  ri- 
ferito da  Teofrasto  (ap.  Schol.  in  Pind.  01.,  XIII,  p.  113)  e  da  Plinio  (n.  /«.,  VII,  57). 

5  Hesiod.  et  Momeri  certam.  21  (ed.  Didot,  volume  di  Esiodo),  ibid.  in  vita  script, 
graec.  min.  (ed.  Westermann),  nel  certame  dei  due  poeti,  17.  È  opinione  del  Wilisck 
che  la  poesia  omerica  fosse  ben  nota  in  Corinto  fin  dalla  metà  del  sècolo  ottavo, 
Sparen  altkor.  Dicht.  u.  s.  w.  in  Jahrbuch.  f.  klass.  Pkilolog.  B.  123  (1881),  p.  162. 

«  G.  Abeken,  Vasi  con  dipinture  arcaiche  in  Ann.  di  corrispon.  archeol.,  1836, 
Vili,  pp.  307-308  ;  E.  Brann,  ibid.,  1848,  v.  XX,  p^.  338-344. 


300  Guido  Porzio 


gloria  dell'epopea  sbocciata  lontano  tra  gli  Elleni  dell'Asia  e  trascorsa 
poi,  come  una  colonna  dì  fuoco,  dall'uno  all'altro  scoglio,  attraverso 
l'Egeo  scintillante.  Ma  ben  presto  anche  la  repubblica  navigatrice  doveva 
dagli  urti  di  una  vita  senza  requie  far  sprizzare  le  scintille  di  fantasmi 
poetici  particolari. 

Pindaro  cantava  che  la  Musa  in  Corinto  era  fiorita  senza  trovar 
sonno  ^  e  gli  scoliasti  annotarono  che  in  quella  città  cantori  di  gran 
fama  eransi  sollevati  a  invocare  le  figliuole  di  Giove  e  di  Mnemosine.* 
Vano  sarebbe,  in' gran  parte,  il  rinnovato  tentativo  di  dare  alle  parole 
pindariche  precisioni  soverchie  di  contorni.  Altri  ha  frugato  tra  le 
poetiche  rovine  lodevolmente  recando  a  noi  una  messe  sparuta  dì  soli 
nomi.^  Ma  quella  fatica  erudita  bastava  a  giustificare  l'ipotesi  del  Curtius, 
che  intorno  ad  Eumelo  contemplò  l'affaccendarsi  di  una  scuola  di 
cantori.*  E  qui  —  specie  di  fronte  ad  Eumelo,  figlio  di  Anfilito,^  il  solo 
vate  del  quale  a  noi  sia  giunto  un  manipolo  di  passi  frammentarli  — 
apparisce  l'inesausto  vigore  di  quell'unica  causa  generatrice  già  molte 
volte  accennata.  In  apparenza  nulla  piiì  dei  poetici  fantasmi  si  sfrena  a 
capricciosa  libertà,  e  dovremmo  credere  che  niuna  legge  valga  a  regolare 
il  mondo  tumultuante  delle  immagini  effuse  dall'anima  di  un  vate.  Esse 
sarebbero  le  divine  farfalle  inafferrabili.  Ma  chi  su  questo  luogo  comune 
facesse  giuramento  correrebbe  il  rischio  di  cadere  in  grave  errore.  Certo 
è  che  mai  come  nel  cantore  dei  mercanti  corinzi  le  poetiche  fantasie 
furono  emanazione  così  diretta  della  prosaica  realtà.  O  che  Eumelo 
invocasse  Cefiso,  Acheloo  ®  e  Boristene,  tre  Muse  generate  da  Apollo 


i  PlND.,  O/.,  XIII,  31. 

«  Schol.  vet.  ad  Pind.  OL,  XIII,  31  (ed.  Boeckh),  Schol.  ree.  ad  Pind.,  Ol.,  XIII,  31 
e  la  prefazione  del  Boeckh  medesimo  nel  tomo  II  degli  scolii,  p.  XX. 

3  WiLiscH,  Spur.en  altkor.  Dicht.  ausser  Eumel.  in  Jahibiich.  f.  elass.  Philolog. 
(1881),  V.  123,  pp.  161,  162,  165,  168,  169,  176,  ecc.  Tra  i  nomi  recati  a  noi  dal  Wilisch  e 
segnanti  un  poeta  fiorito  con  certezza  al  tempo  dei  Bacchiadi,  ricordiamo  Etiope,  quello 
stesso  che,  compagno  ad  Archia,  avrebbe  venduto  a  Siracusa  la  sua  parte  di  terreno 
per  una  metà  di  focaccia  (Io.,  ibid.,  161,  162,  165,  168,  169):  il  poeta  è  identificato  con 
Esone  del  quale  fan  parola  gli  scolii  pindarici  (v.  sopra)  e  la  sua  storica  realtà  è  soste- 
nuta anche  dal  Bergk  forte  del  ricordo  di  Archiloco  (ap.  Wilisch,  ibid.  in  Jahrbiie/i.,  ecc., 
pp.  168-169).  Tra  i  ricordi  di  canti  anonimi  —  puri  ricordi,  si  badi  —  il  Wilisch 
pone  come  contemporaneo  ai  Bacchiadi  quello  consacrato  ad  Agemone.  padre  di 
Alcione,  la  quale,  a  sua  volta,  fu  generatrice  di  Alcione  madre  di  Diocle  amico  del 
Bacchiade  Filolao  legislatore  di  Tebe  (Arist.,  poi.,  II,  9,  6).  Dell'esistenza  di  un  tale 
canto  è  parola  in  Ateneo  XV,  696  f. 

■*  Curtius,  Stud.  z.  Qeseh.  v.  Kor..  in  Hermes,  X,  p.  218. 

5  Ch'egli  appartenesse  alla  schiatta  dei  Bacchiadi  afferma  Pausania  (II,  1,  1)  ed 
è  ammesso  dagli  storici  moderni  senza  eccezione  :  quanto  agli  anni  probabili  del  suo 
fiorire  cfr.  G.  Porzio,  Corinto,  critica  della  leggenda  (ed.  e),  pp.  24-25,  nota  4. 

6  II  nome  Acheloo  deve  avere  la  preferenza  sull'altro  di  Apollonida  tramandato 
dal  Tzetzes  nel  frammento  di  Eumelo  da  lui  stesso  riferito  (Tzetzes  ad  Hesiod.,  p.  25, 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  301 

ma  recanti  il  battesimo  di  tre  fiumi  sulle  cui  acque  facevano  tragitto 
i  carchi  delle  mercanzie  corintiache:  o  che  all'accesa  mente  del  vate 
—  nell'atto  di  trascinarsi  dietro  con  le  divine  armonie  bestie  selvagge 
e  macigni  rotolanti  —  apparisse  Anf ione,  vecchio  eroe  di  quella  Tebe 
che  aveva  annodato  con  Corinto,  per  mezzo  dei  traffici,  legahii  saldi 
e  antichi  :  o  che  il  figliuolo  di  Anfilite  celebrasse  le  origini  dei  monta- 
nari dell'Arcadia  e  sorprendesse  i  vagiti  di  Giove  aprente  tra  i  Lidi 
gli  occhi  agli  splendori  della  fulgida  luce  orientale:  o  che  nei  versi 
del  cantore  ululassero  i  venti  dell'Eusirio  a  gonfiare  le  vele  della  nave 
Argo  onusta  del  prezioso  vello  d'oro  e  guidata  verso  l'istmo  da  Giasone 
e  dalla  venefica  Medea:  sempre  troverete  che  ad  ogni  tonfo  di  remo  co- 
rinzio nelle  acque  più  diverse  sprizza  in  alto  un'immagine,  che  per 
ogni  balla  di  spacciata  mercanzia  balza  fuori  e  si  snoda  una  mirabile 
leggenda.'  Non  in  altra  guisa,  dietro  il  solco  aperto  delle  navi  lusitane 
in  rotta  verso  il  paradiso  delle  Indie,  si  elevavano  i  nembi  poetici 
raccolti  poi  e  arroventati  nella  sovrana  fantasia  dì  Luigi  Camóes. 
Eumelo  fu  il  cantore  delle  esplorazioni  audaci  sopra  i  legni  fragili,  iP 
cantore  della  mercatura  marittima  e  terrestre,  il  Camòes  della  Grecia 
antica.  In  questo,  come  in  altri  casi,  il  libro  mastro  del  dare  e  dell'avere 
fu  la  Musa  suscitatrice  dei  personaggi  poetici  turbinanti  e  inspiratrice 
delle  canzoni  modulate. 

Si  aggiunga,  infine,  che  il  commercio  corintiaco,  come  sommini- 
strava i  succhi  vitali  ai  fiori  ed  ai  frutti  sfavillanti  della  civiltà,  così 
recava  quest'ultima  peregrina  in  mezzo  ai  barbari,  nelle  regioni  d'oc- 
cidente. Che  se  non  sempre  l'atro  affanno  corre  in  groppa  insieme 
con  l'agitato  cavaliere,  non  v'ha  dubbio,  invece,  che  idee  e  mercanzie 
abbiano  in  ogni  tempo  congiunte  le  loro  forze  per  la  conquista  degli 
animi  e  il  dominio  dei  mercati.   L'alfabeto  corinzio,*   diffuso  ampia- 


ap.  WiLiscH,  Ueber  die  Fragm.  d.  Epik.  Eamelos,  Zittau,  Programm,  1875,  p.  38); 
questo  secondo  l'opportuna  correzione  recata  dall'Hermann  {de  Musis  fluvìalibus  Epi- 
charm.  et  Eumel.  in  Opusc,  II,  299)  e  accolta  dal  Wilìsch  (op.  cit.,  p.  39)  e  dal  Curtius 
(Stad.  z.  Qesch.  v.  Kor.  in  Hermes^  X,  1876,  p.  217. 

1  Frammenti  di  Eumelò  in  G.  Marckscheffel  (Hesiodi,  Eumeli^  Cinaethonis^  etc 
fragm.y  Leipzig,  1840),  nel  Wilìsch  {Ueber  die  Fragm.  d.  Epik.  Eumel.  ed.  cit.,  p.  8  e, 
sgg.)  e  nel  Kinkel  {Epic.  graec.  fragm.  ed.  Teubner,  1887,  p.  185  e  sgg.):  non 
troppo  c'indugieirérao  nell'interpretazione  delle  reliquie  del  poeta  già  da  noi  data  in 
un'altra  monografia;  cfr.  Porzio  II  fondam.  econ.,  etc^  ed.  e,  pp.  43-44,50-51,  53, 
55-57,  60. 

*  Abeken,  vas/  con  dipinti  arcaichi  in  Ann.  d.  Ist.  d.  corrisp.  archeolog.,  1836, 
V.  Vili,  pp.  308-309,  312;  Raóul-Rochette,  Un  vose  peint  inéd.  de  fab.  corinth.  in 
Annal.,  ecc.,  1847,  v.  XIX,  pp.  249-251  ;  Rhusópulos,  Vasetto  cor.  con  iscriz.  d.  carat. 
antichis.  in  Annal.,  ecc.,  1862  v.  XXXIX,  pp.  50-55;  Dumont  et  Chaplain,  Les  céramiq. 
de  la  Grece  propr.,  ed.  e,  p.  242;  Kirchhoff,  Stud.  z.  Gesch.  d.  griech.  Alphab.  Gu- 


302  Guido  Porzio 


niente  dalle  spiaggie  della  Focide  '  a  quelle  dell'Illiria,  somministrò  il 
mezvjo  necessario  a  dischiudere  i  tesori  della  sapienza  greca.  Ad  ogni 
ammainarsi  di  vele  candide  in  un  porto  qualunque  dell' Acarnania, 
dell'Etolia,  dell'Epiro,  dell'  Illiria,  della  Sicilia  e  dell'Italia,  un  fascio  di 
luce  prorompeva  nell'interno  a  fugare  la  tenebria  ond'era  avvolto  l'uomo 
delle  spelonche.  Non  solo  ;  ma  Corinto  fu  ne'  suoi  begl'anni  maestra 
ad  Atene  nelle  arti  figurative  e  perfino  nel  canto,  *  che  è  dono  degli 
dei.  La  Città  dei  Bacchiadi,  per  tutto  il  tempo  che  ebbe  la  sovranità 
nel  traffico  e  l'impero  sulle  acque,  restò  anche  arbitra  delle  eleganze. . 
Poi  volsero,  pur  troppo,  i  giorni  tristi  della  dipendenza  economica  e 
dell'inferiorità  spirituale.  Corinto  scontava  la  precoce  baldanza  dei 
secoli  gloriosi  con  molti  anni  di  grigia  mediocrità.  È  il  destino  im- 
mutato degl'individui  e  dei  popoli. 


Il  mondo  degli  dei  e  òeoli  eroi. 

XIII. 

In  mezzo  a  così  grande  attività  di  opere  —  ch'era  poi  l'anima 
suscitatrice  di  tutte  le  manifestazioni  corintiache  e  l'energia  dalla  quale 
traeva  alimento  e  colorivasi  perfino  il  ritmo  dei  poeti  —  che  cosa 
doveva  accadere  nel  regno  degli  dei  e  degli  eroi? 

Tutti  gli  olimpi  sono  l'ideale  riflesso  della  terra  e  l'uomo  nel  fa- 
ticoso cammino  delle  sue  ascensioni  crea  a  somiglianza  sua  gli  esseri 
divini,  i  quali  poi,  insieme  con  l'uomo  stesso,  s'elevano  dalla  notte  della 
barbarie  verso  la  luce  e  dagli  impeti  omicidi  verso  più  miti  costumanze. 
Se  questa  legge  formulata  corrisponde  al  vero,  noi  dovremmo  atten- 
derci che  in  Corinto  non  facessero  difetto  gli  dei  e  le  mitiche  persone 
recanti  il  suggello  particolare  impresso  sovra  ogni  altra  parte  della 
vita.  Il  mondo  degli  affari  si  riverberava  nelle  altitudini  dell'idea,  il 


ersloh,  Bertelsmann,  1887  (4*  edìz.),  pp.  101-111  :  per  alcune  particolarità  del  dialetto 
corinzio  cfr.  Quintil.,  Inst.  orai..  Vili,  3,  28;  Schvveighaeus.,  animadv.  in  Athen., 
V.  Ili,  p.  382. 

»  Thucycd,  lì,  48;  Beloch,  Griech.  Gesch.,  I»,  64;  Io.,  Z.  griech.  Vorgesch,  in 
Hist.  Zeitschr.  N.  F.,  1897,  voi.  43,  pp.  204,  205. 

t  DuMONT,  et  Chaplain,  op.  cit.,  314-318,  233,  334-335  ;  O.  Loeschcke,  Due 
vasi  dipinti  d.  stil.  arcaic.  in  Annal.,  ecc.,  1878,  v.  50,  pp.  301-316  (questo  per  le 
ceramiche)  ;  quanto  all'imitazione,  da  parte  degli  Ateniesi,  delle  monete  corinzie  —  un 
fatto  alquanto  posteriore  ma  che  è  il  prolungamento  d'un' iniziata  abitudine  —  si  vegga 
Fritze,  Die  Munztyp.  v.  Athen  in  6  Jahrhund.  vor.  C.  in  Zeitschr  f.  Numism.,  1897, 
V.  20,  pp.  142-155  ;  anche  Solone  invocava  le  Muse  con  le  stesse  parole  di  Eumelo 
(Clem.  Alex.,  Strom.,  VI,  621). 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  303 


regno  dello   spirito   appariva,   almeno  in  parte,   come  una  creazione 
irradiata  dall'anima  «dei  gaudiosi  mercatori. 

Com'è  noto,  i  Corinzi  dovevano  al  mare  la  prosperità  e  la  vita. 
Insieme  alle  onde  fluenti  e  refluenti  giungevano  tra  loro,  dalle  oppo- 
ste direzioni  del  Mediterraneo,  merci  e  ricchezze.  Non  basta.  Le  onde 
salse  erano  apportatrici  d'inesausta  opulenza,  non  solo  per  il  fatto  na- 
turale ch'esse  aprivano  il  seno  al  solco  dei  veloci  legni,  ma  perchè, 
mentre  spumeggiavano  furiose  intorno  al  capo  Malea  scuotendo  per 
terrore  l'anima  dei  naviganti,  venivano,  al  contrario,  a  baciare  tranquille 
le  due  spiaggie  del  breve  istmo  gettato  dalla  natura  tra  l'urto  e  l'altro 
golfo  come  un  ponte  per  i  rapidi  passaggi.  Il  mare  e  l'istmo,  più  e 
meglio  delle  Parche,  avevan  dunque  filato  i  destini  corintiaci.  Ed  ora 
sappiamo  perchè  i  discendenti  di  Sisifo  abbiano  a  Poseidon,  domina- 
tore delle  acque,  bruciati  gl'incensi  piti  odorosi,  eretti  i  piti  magnifici 
altari,^  tributate  le  più  alti  lodi.  11  dio,  cui  troppo  spesso  dilettava  il 
tremore  della  terra  ondeggiante,  moveva  con  particolare  giocondità 
verso  l'istmo  ove  balde  torme  di  giovani  l'accoglievano  a  suon  di  flauto 
e  ove  i  forti  facevan  mostra  della  lor  maschia  vigoria.*  Dilettoso  sog- 
giorno dell'l^nosigeo  non  era  soltanto  Orcheste,  ma  più  il  marin  ponte 
dell'istmo  in  conspetto  delle  mura  corintiache,  cantava  la  Musa  del  li- 
rico tebano.^  Perciò  qual  vigilante  sentinella  delle  porte  istmiche  era 
Poseidon  descritto  dagli  antichi,*  e  dall'istmo  si  formava  l'appellativo 
che  aveva  alle  orecchie  del  dio  le  più  soavi  vibrazioni,^  e  sempre  a 
cagione  del  divino  ®  istmo  saliva  al  dio  stesso  il  nidore  dei  pingui  olo- 
causti.'^  Bene  Elios  aveva  potuto,  nell'origine  dei  tempi,  entrare  in  gara 
con  Poseidon  per  il  possesso  della  terra:  ma  ogni  sforzo  della  lumi- 
nosa divinità  s'era  infranto  contro  il  giudizio  di  Briareo,  il  rhostro  che 
allungava  mani  senza  numero  e  scuoteva  infinite  teste.  Che  se  Elios, 
ad  ogni  levarsi  delfaurora  e  ad  ogni  scendere  dei  crepuscoli  vesper- 
tini, poteva  indorare  co'  suoi  raggi  le  vette  delle  alture  acrocorinzie, 
cioè  i  ruderi  della  città  morta,  a  lui  attribuiti,*  come  proprietà,  dal 


1  Herodot.,  Vili,  122,  123,  IX,  81;  Strab.,  Vili,  6,  4;  6,  22;  Paus..  II,  2,  3; 
Plin.,  n.  h.  IV,  9;  Pompon.  Melas,  chorograph,  II,  3,  48;  Schol.  in  Pind.,  ol., 
XIII,  1. 

«  PiND.,  Nem.,  V,  36-38,  Schol.  veter.  in  Pind.  Nem.,  36-38  (ed.Abel). 

3  ID.,  Isthm.,  Ili,  37-38. 

4  Plut.,  de  Is.  et  Osir.,  364  F. 

5  Appellativo  di  istntio  applicato  a  Poseidon,  oppure  usata  l'espressione  di  dio 
istmio,  Steph.  Byz.  s.  v.  'lo^uóg,  Etymol.  Mag.  s.  v.  *Ev5rmos. 

6  Pind.,  Isihm.,  I,  32. 

^  Sembra  che  i  Corinzi  adorino  più  specialmente  Poseidon  a  cagione  dell'istmo 
(b\à  xòv  'lathM-óv,  Schol.  in  Aristoph.  Equit.,  609. 

«  O.  Porzio,  Corinto,  le  origini  in  Riv.  d.  stor.  ant.,  N.  Ser.,  anno  XI  (1907),. 
pp.  569-570,  Steph.  Byz.  s.  v.  'HXwOwoXis. 


304  Guido  Porzio 


giudice  gigante  :  per  contrario  a  Poseidon  eran  toccate  in  sorte  le  bas- 
sure dell'istmo  o,  ch'è  lo  stesso,  il  nuovo  alveare  umano  cui  brillava 
innanzi  un  luminoso  avvenire.'  Corinto  fu  e  rimase  il  vestibolo  di 
Poseidon.* 

Intorno  al  signore  delle  acque  folleggiò,  inoltre,  una  densa  schiera 
di  divinità  marine.  E  i  Corinzi  a  tutte  innalzarono  simulacri  e  templi, 
a  tutte  offrirono  vittime  ed  incensi.  Erano  i  guizzanti  Tritoni,  e  Cromo 
figlio  di  Poseidon,  e  la  consorte  Amfitrite,  e  le  vaghe  Nereidi,  e  Ga- 
lene usa  a  recare  sugl'irosi  flutti  un'immota  tranquillità,*  ed  Egeone,* 
(altro  germoglio  del  fratello  di  Zeus,  ch'era  poi  l'onda  spumeggiante 
tra  le  rupi  allorché  con  caprina  agilità  sembra  arrampicarsi  su  per  gli 
erti  scogli),  e  Leucotea,  cioè  il  candor  della  schiuma  che  scintilla  so- 
pra la  cresta  delle  percosse  onde,^  e  Glauco  raffigurante  la  glauca 
estensione  delle  masse  acquee,*  e  così  di  seguito.'  Non  è  tutto.  Tra  gli 
esseri  divini  tenuti  maggiormente  in  onore  sopra  l'istmo  spicca  Atena  * 
ch'è  poi  unita  al  Pegaso,  il  corridore  delle  onde.  Il  capo  della  dea, 
con  la  copertura  dell'elmetto  corinzio,  e  il  Pegaso  alato  fecero,  incisi 
sopra  le  monete,  il  giro  trionfale  delle  terre  d'occidente.^  E  ad  Atena 
poi  era  sull'istmo  consacrata  la  grande  solennità  delle  feste  ellotie.*® 
Ebbene,  anche  la  dea  dai  cerulei  occhi,  la  quale  a  Bellerofonte,  uno 
tra  i  molti  germogli  di  Poseidon,  recò  aiuto  a  frenare  la  baldanza  del 
Pegaso  non  domato,  fu  messa  in  relazione  con  l'umido  elemento."  A  Co- 


I  Paus.,  II,  1,  6;  EusTATH.,  comm.  in  IL  B.,  59:  la  lotta  tra  Poseidon  e  il  sole 
è  ricordata  anche  dalle  monete,  Eckhel,  Doct.  num.  veter.  pars  I,  v.  IH  (ed.  e),  p.  239. 

«  PiND.,  O/.,  XIII,  4-5. 
3  Paus.,  II,  1,  3  ;  II,  1,  7. 

^  EuMEL.,  ap.  Schol.  in  Apollon.  Rkod.  argonauta  (ed.  Keil),  I,  1165  j  Preller, 
Griech.  Mythol.,  p.  134,  465,  513,  II,  211  :  Egeone  da  alS  alyóg,  capra. 

5  Paus.,  II,  2,  1,  Tzetz.,  Schol.  Lycophr.,  107. 

6  HYGiN.,/a^.,  25  i,  p.  138  (ed.  Schmidt),  Eustath.,  comm.  in  IL,  13,  59;  Thrasil, 
ap.  Clem.  Alex,  Strom.,  I,  21  ;  Richard  Hildebrand,  Athen.  in  Philolog.  1886-1888, 
V.  46,  p.  204  (Glauco  lo  stesso  che  Poseidon  del  quale  sono  glauchi  gli  occhi). 

■^  Per  tutte  le  altre  divinità  marine  che,  giusta  la  religione  dei  Corinzi,  facevan 
corteggio  a  Poseidon,  cfr.  (oltre  le  Inscript.  graec.  antiq.  praeter  atticas  in  Attic. 
reperì,  ed.  Roehl,  Berlin  1883;  dal  n.  20,  1  al  20  32,  20,  54:  dal  20  56  al  20  55,  20, 
64,  20,  66,  20,  68:  dal  20,  71  al  20,  80;  dal  20,  110  al  20,  113)  specialmente  Paus., 
II  2,  1,  II  2,  2,  II  2,  2,  II  2,  3,  II  2,  4,  II  3,  5. 

8  Tzetz.,  Schol.  in  Lycophr.,  658. 

»  PoLLUx,  IX,  76;  Eckhel,  Doctr.  num.  vet.  pars  I,  v.  II,  p.  101,  ibid.,  pars  I, 
V.  III,  p.  245. 

10  PiND.,  O/.,  XIII,  39  e  BOECKH,  explicat,  ad  Pind.  OL,  XIII,  v.  II,  p.  216. 
Schol.  vet.  in  Pind.  OL,  XIII,  56,  Schol.  vet.  in  Pind.  Ol.,  XIII,  48. 

II  Etymolog.  Magn.  latmio,  Schol.  Sophoc  Oed.  Colon,  712;  Preller,  Griech.  My- 
thol.  I,  484;  Richard  Hildebrand,  Athen.  in  Philolog.,  (1886-1888),  v.  46,  p.  202,  208  ; 
Head.,  hist.  num.  335,  ed.  e.  (citiamo  le  conclusive  parole  dell'Head:  «l'adorazione 
di  Atena  ini  Corinto era  legata  al  culto  di  Poseidon  e  al  mare»). 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  305 

rinto,  adunque,  squillò  con  la  possanza  di  mille  toni  l'epopea  del  mare 
benefico,  in  tutte  le  varietà  delle  sue  manifestazioni  :  o  che  urii  furioso 
contro  le  scogliere  in  suono  di  tempesta  o  che  lambisca  dolce  le  arene 
della  spiaggia  :  o  che  sfavilli  per  il  riverbero  di  luci  infinite  scendenti 
dai  padiglioni  del  cielo  o  che  mugoli  oscuro  entro  il  mistero  della 
notte. 

Il  mare  procurava  le  ricchezze  e  queste  ultime  la  letizia  degli  as- 
saporati piaceri  tra  i  quali  avevano  il  primo  luogo  i  delirii  delle  gioie 
sensuali  di  cui  eran  ministre,  come  abbiam  detto,  le  benemerite  mere- 
trici. Senonchè  accanto  alle  sacerdotesse  delle  voluttà  suonava  tran- 
quillo entro  le  pareti  dei  ginecei  corinzi  il  lavoro  delle  madri,  delle 
spòse  e  delle  candide  fanciulle.  Lo  spettacolo  della  laboriosa  pudicizia 
e  della  licenza  senza  freno  si  proiettava  nell'Olimpo  risonante  del  riso 
argentino  di  due  Veneri,  della  Venere  casta  invocata  in  Corinto  dalle 
donne  a  modo,  e  della  Venere  impudica  cui  salivano  il  canto  e  gli 
incensi  delle  prostitute.*  E  già  abbiamo  detto  come  quest'Afrodite  del 
mal  costume  s'abbassasse  a  far  da  mezzana  dei  lubrici  amori.*  Per 
questa  parte  il  soggiorno  degli  dei  non  era  che  il  prolungamento 
esatto  della  terra  e  una  manata  di  fango  sembrava  avventarsi  contro  il 
cielo.^ 

Finalmente,  non  v'ha  dubbio  che  in  Corinto  fossero  elevate  pre- 
ghiere alle  Ore,  Eunome,  Diche  ed  Eirene,  figliuole  di  Temi.  Ma  le 
tremule  invocazioni  traevano  lor  vigore  dal  precipuo  motivo  che  le  di- 
vine sorelle  erano  sopratutto  dispensatrìci  delle  ricchezze  ai  mortali.* 

Se  dai  fulgori  dell'Olimpo  discenderemo  nel  mondo  degli  eroi, 
ci  muoveranno  incontro  Sisifo  Vastiitoì'  vincitore  anche  della  morte. 


1  Ciò  appare  dai  frammenti  di  Alesside  (ap.  Athen.,  XIII,  574  b)  ov'è  detto  che 
due  feste  diverse  eran  celebrate  in  Corinto  in  onore  di  Afrodite  :  la  festa  delle  donne 
a  modo  e  quella  delle  meretHct:  le  Veneri,  dunque,  eran  due. 

»  Athen.,  XIII,  588  e. 

3  È  curioso  che  anche  la  dea  Cotitto  (divinità  straniera  adorata  in  Corinto,  pa- 
ren.^e  alla  Gran  Madre  e  le  cui  orgie  si  collegavano  ai  misteri  di  Bacco)  veniva  dal 
commediografo  Eupoli  introdotta  sopra  la  scena  in  vesti  di  meretrice  :  cfr.  Paus.,  Il, 
7,  7;  HipposTRATUS  ap.  Schol.  Theocr.,  6,  40;  Hesychius,  s.  v.  Koxwo»;  EuPOLis, 
In  F.  Com.  Graec,  157,  158;  Preller.,  op.  cit.,  I,  57. 

*  PiND.,  0\.,Xm,  6,  8,  Schol.  vet.  in  Pind.  OL,  XIII,  6;  Boeckh,  explic.adOl. 
XIII,  V.  Ili,  p.  212;  Preller,  op.  cit.,  I,  393;  di  queste  Ore,  stando  ad  Igino  {fab, 
183,  p.  36,  ed.  e.)  era  già  fatta  parola  dà  Euraelo. 

5  Astutissimo  è  proclamato  da  Pindaro,  XIII,  50:  di  lui  fecero  parola  —  a  tacere 
d'altri  —  Omero  (//.,  VI,  152  e  segg.),  Teognide  (in  P'oet.  lyr.  graec.  Bergk,  v.  II, 
p.  531)  ed  Eschilo  cfr.  Poet.  Eurip.  et  Aristoph.  acquatesele.  Didot,  p.  95):  l'aned- 
doto dell'astuto  Siiito,  che  inganna  la  morte,  è  narrato  da  Ferecide  ap.  Schol.  Homer. 
Z,  153,  in  F.  H.  G.  I,  fragm.  78. 


20  —  Nuova  Rivista  Storica. 


i 


3o6  Guido  Porzio 


e  Alete  ch'è  come  dire  il  vagabondo  o  Xerrante,^  primo  monarca  dorico 
nella  conquistata  Efira  di  Omero.  Astato  e  vagabondo  ?  Chi  non  vede 
a  questo  punto  i  mercatori  corinzi  in  atto  di  nobilitare  sé  medesimi 
con  l'ascensione  alle  eroiche  dignità  ? 

Certo  Corinto  era  cospicua  per  le  immagini  di  altri  dei  essendoché 
il  generato  della  donna,  anche  se  vegga  h  luce  in  una  terra  pervasa 
dalla  febbre  della  mercatura,  non  può  esser. soltanto  un  uomo  d'affari. 
V'erano,  adunque,  altri  dei,  altri  templi,  altri  altari  e  altri  fili  dipa- 
nati di  auree  leggende.'  Ma  gli  altri  dei  apparivano  di  tanto  inferiori 
a  quelli  già  descritti,^  quanto  ogni  altra  idea  ed  affetto  dovevan  cedere 
innanzi  al  pensiero  assiduo  e  alle  cure  martellanti  del  traffico  e  delle 
orgie  dei  sensi  che  han  la  virtù  di  rapinare  l'uomo  come  entro  i  vortici 
d*un  uragano. 

Le  cause  e  la  marcia  della  rivoluzione: 
caduta  del  governo  repubblicano. 

XIV. 

Ma  l'energia  spiegata  con  la  benefica  conseguenza  di  così  grande 
ubertà  di  frutti,  se  ai  Bacchiadi  fu  causa  di  potenza  e  titolo  di  gloria, 
doveva,  d'altra  parte,  dopo  il  tramonto  di  numerose  generazioni,  con- 
vertirsi in  una  forza  di  dissolvimento  non  deprecabile.  Il  governo  del- 
l'aristocrazia, al  pari  di  tutti  gli  organismi  balzati  tra  i  vivi,  recava  in 
sé  i  germi  della  morte.  I  Bacchiadi,  agitandosi  negli  sforzi  della  gran- 
diosa produzione, , estendendo  con  le  colonie  gli  orizzonti  mercan- 
tili e  tutti  convitando  al  banchetto  della  vita,  si  scavavano,  inconsci, 
con  mani  proprie,  la  fossa. 


»  Alete  è  fatto  derivare  comunemente,  ed  a  ragione,  da  àXdonoi  che  significa  er- 
rare y  andar  vagabondo,  ecc.:  qìt.  Sophocl.  deperdit.  fragni,  in  SophocL  qnaeext.  ed. 
Bninck,  London,  1819,  v.  II,  p.'  184-185. 

«  Tra  gli  altri  dei  ricordiamo  Era  Acraia  (Strab.,  XIII,  6,  22  ;  Appollod.,  Bi- 
bltoth.  in  niythograph.  graec.  I,  pp.  145-146  ;  Photius.  v.  f|  6'  dl|  ttjv  pdxaiQav,  Prov. 
e  cod.  bodleiano  29  in  paroeni.  graec.  p.  4,  ed.  e:  Schol.  Euripid.  Med.,  10),  Apollo 
Teneate  (Strab.,  Vili,  p.  380)  Demetra  (Hesychius,  v.  II,  p.  177),  ed  i  molti,  che  ap- 
paiono in  Pausania  accanto  agli  altri  del  ciclo  di  Poseidon  (Paus.,  Il,  1,  3,11,  5,  5). 
Quanto  alle  leggende,  ricordo  quella  del  ladro  Sini  legata  alle  gesta  di  Teseo  (Plut., 
Tlies.y  4;  Suidas  ««^à  oToixeìov  in  vit.  script,  graec.  minor.,  p.  215  (ed.  Westermann)  e 
l'altra  che  doveva^essere  celebrata  intorno  ad  Agemone  (Polem.  Perieget.  ap.  Athen, 
XV,  696  f.). 

3  La  superiorità  di  Poseidorf  è  dimostrata  dalla  consacrazione  a  lui  fatta  dei  ludi 
istmici,  quella  di  Atene  e  di  Afrodite  dalle  monete  e  dall'importanza  delle  prostitute: 
Alete  Yerrante  è  il  capostipite  della  mitica  monarchia:  Sisifo  apparisce  già  nell'epos 
ed  ha  nella  leggenda  corintiaca  una  parte  preminente,  ecc. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  307 

Ecco  come  la  natura  delle  cose  e  le  pervenute  notizie  acconsen- 
tono di  additare  le  nascoste  ragioni  degli  urti  imminenti,  i  lampi  pre- 
cursori delle  tempeste  nel  conturbato  cielo  corintiaco,  i  sussulti  incal- 
zantisi  delle  forze  in  contrasto  e  il  crollo  finale  che  traeva  a  perdizione 
la  repubblica. 

Allorché  i  mercanti  attraverso  le  bassure  dell'istmo  e  dalla  vetta 
dominatrice  fecero  squillare  l'appello  alle  armi  contro  l'oppressione 
della  potente  Argo  e  l'impeto  liberatore  fu  salutato  dalla  vittoria,^  il 
governo  costituito  sopra  le  rovine  del  despotismo  straniero  largì  su- 
bito il  benefìzio  di  lina  generosa  libertà  e  la  pienezza  dei  poteri  al 
popolo  sovrano.  Il  trionfo  ottenuto  con  gli  sforzi  di  tutti  diveniva  pre- 
mio a  ciascuno:  chi,  nascendo,  non  recava  impressa  sopra  la  fronte 
l'obbrobrio  del  marchio  servile,  trovava  aperti  gli  accessi  alle  magi- 
strature cittadine.  Senonchè  il  diritto  scendendo  tra  gli  attriti  quoti- 
diani deiresistenza  perde  sempre  una  parte  non  piccola  de'  suoi  splen- 
dori e  della  sua  forza  beneficante,  e  così  l'uguaglianza  proclamata 
all'esercìzio  delle  cariche  riceveva  modificazione  nel  senso,  che  quasi 
sempre,  o  almeno  troppo  sovente,  le  insegne  dei  magistrati  rendevano 
cospicui  quei  ch'eran  lieti  di  più  copiose  ricchezze. 

L'esempio  non  è  nuovo.  Anche  in  Venezia  repubblicana,  innanzi 
che  le  porte  del  governo  fossero  chiuse  sul  tramontare  del  secol  terzo 
decimo,  il  diritto  di  ascendere  agli  onori  era  comune  a  tutti  gli  abi- 
tanti delle  isole  lagunari,  ma,  nel  fatto,  l'esercizio  del  potere  si  perpe- 
tuava nelle  famiglie  degli  armatori,  dei  possessori  di  galee  e  dei  mer- 
canti smisuratamente  arricchiti  con  i  commerci  orientali.  Ognuno  poi, 
che  abbia  aperti  gli  occhi  alla  visione  del  mondo  che  s'agita  intorno, 
può  certificarsi  della  verità  delle  nostre  parole.  In  quel  che  s'attiene  ai 
mercatori  corintìaci  già  proclamati  opulenti  dall'epos  omerico,*  chiaro 
apparisce  che  essi  con  tutto  loro  agio  potevano  attendere  alle  cure  di 
amministrare  la  cosa  laubblica.  Non  certo  erano  infitte  nelle  loro  carni 
quelle  punte  del  bisogno  che  sospingevano  le  plebi  a  corse  trafelate 
per  la  soddisfazione  delle  necessità  primordiali  della  vita.  Inoltre,  non 
avevano  i  ricchi  propagato  il  moto  vittorioso  della  rivoluzione?  Non 
s'eran  fatti  moderatori  del  movimento  ?  Non  avevan  condotto  le  dense 
schiere  all'assalto  ?  Nella  libera  Corinto  i  mercanti  più  ricchi  afferrarono, 
adunque,  il  timone  dello  stato.  Se  la  luce  egualitaria  irradiava  i  suoi 
splendori  nel  regno  dell'idea,  essa,  mescolandosi  nei  giri  turbinosi  di 
questa  nostra  polvere  mortale,  diveniva  tristamente  grigia  ed  opaca. 


»  O.  Porzio,  Corinto^  critica  della  leggenda  (ed.  e),  pp.  82-83. 
«  //.,  II,  570,  XIII,  663-664;  Eustath.,  comm.  in  IL,  B.  81,  569-570,  SchoL  antiq, 
in  Hom.  IL,  2,  570. 


3o8  Guido  Porzio 


Una  cosa  è  il  diritto,  altra  cosa  i!  fatto.  Ove  poi  gli  eventi  prestino 
soccorso,  il  fatto  —  il  quale  ha  assunto  l'apparenza  decorosa  di  de- 
viazione temporanea  da  un  diritto  segregato  neireburnea  torre  dei 
principii  ideali  —  tenderà,  a  sua  volta,  a  munirsi  dei  sacri  suggelli  di 
un  diritto  inviolabile. 

In  Venezia  la  sconfinata  democrazia  deWarrengo,  abdicando  pra- 
ticamente i  suoi  poteri  nelle  mani  della  classe  più  doviziosa,  scontò 
nel  1297  la  lunga  deviazione  con  la  chiusura  del  Maggior  Consiglio.  In 
Corinto  l'originaria  eguaglianza  degenerò  in  una  sospettosa  e  rapace 
oligarchia. 

Gli  eventi,  per  cui  sovra  la  terra  dell'istmo  maturava  il  fosco  de- 
stino della  servitù,  balzan  fuori  con  non  dubbiosa  evidenza  a  chi  getti 
uno  sguardo  indagatore  sopra  le  condizioni  speciali  di  Corinto  anti- 
chissima. 

Già  abbiamo  dimostrato  che,  con  l'infrangersi  del  giogo  argivo,  in 
Corinto  sprigionavansi  gagliarde  le  forze  produttive,'  le  quali,  a  loro 
volta,  avevano  necessità  di  estesi  mercati.  Più  dai  sonanti  opifizi  e 
dalle  private  dimore  uscivano  i  manufatti  a  cumularsi  sulle  piazze  e 
nelle  botteghe  dell'istmo,  e  più  occorreva  che  l'audacia  dei  pionieri 
aprisse  alle  colonie  nuovi  sbocchi  in  regioni  lontane.  La  voce  dei  ma- 
gistrati suonava  a  tutti  ammonitrice:  Arricchitevi.  Quando  la  voce  non 
bastava,  soccorreva  l'aculeo  dell'esempio.  In  questa  gara  scatenata 
della  produzione  quelli  cui  aveva  arriso  benigna  la  fortuna,  riuscendo 
con  lor  ricchezze  ad  estollersi  sopra  la  calca  degli  umili  e  dei  mediocri, 
s'affrettarono  ad  ingrossare  il  drappello  esiguo  dei  dominanti.  La  ric- 
chezza era  scala  magnifica  alle  ascensioni  del  potere. 

Senonchè  l'ardore  del  traffico  e  dell'operosità  trasformatrice  della 
materia,  mentre  recava,  da  un  lato,  il  benefizio  di  liete  conseguenze, 
non  mancò,  d'altra  parte,  di  preparare  rovine.  Allora,  come  adesso,  la 
via,  che  mena  verso  la  luce  della  gloria  e  verso  il  benessere  comune, 
era  cosparsa  di  lacrime  e  di  sangue. 

Innanzi  tutto,  le  funeste  ripercussioni  del  commercio  mondiale 
s'abbattevano  sopra  i  possessori  delle  sitibonde  campagne  corintiache. 
Poiché  l'esercito  manifatturiero  s'agglomerava  sopra  l'istmo  ogni 
giorno  più  numeroso,  era  necessità  importare  i  frutti  agricoli  matu- 
rati nella  Sicilia  e  lungo  le  altre  spiaggia  del  Tirreno,  del  Ionio  e  del- 
l'Adriatico. Se  anche  debba  supporsi  che  i  padroni  degli  opifizi  fos- 
sero possessori  di  una  parte  del  suolo  stendentesi  sopra  l'istmo,  certo 
è  che  il  danno  recato  loro,  quali  proprietari  terrieri,  dal  giungere  dei 


1  Q.  Porzio,  Il  fondamento  econom.  d.  pia  antic.  aristocraz.  carini,  in  AnnaU 
d,  Univ.  Toscane,  nuova  ser,  v.  I  (XXXX  della  collezione),  fase.  3,  1916,  pp.  1-106. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  309 


frutti  cresciuti  sotto  gli  splendori  del  sole  ellenico  e  d' Italia,  riceveva 
ampio  compenso  nei  vantaggi  derivanti  loro  cjuali  animatori  e  mode- 
ratori delt'attjvità  industriale.  Ma  per  chi  possedesse  un  picciol  campo 
e  dalle  zolle  avare  sì  trovasse  costretto  a  spremere  quel  ch'era  neces- 
sario per  sé  e  per  i  suoi  a  trascinar  la  vita,  i  frutti  importati,  con  la 
ripercussione  di  disastrose  concorrenze,  significavano  l'abbandono  dei 
campi  e  delle  tombe  degli  avi  e  l'inurbarsi  da  tutte  le  vie  sbucanti 
sopra  r  istmo  di  una  turba  *  che  veniva  a  chiedere  nel  fragoroso  centro^ 
cittadino,  insieme  col  lavoro,  qualche  tozzo  di  pane  lacrimato. 

Al  trascorrere  di  quelle  caterve  fameliche  per  le  strade  e  per  le 
piazze  della  città,  che  sembrava  tremar  tutta  nell'ebbrezza  dell'opera 
produttiva,  i  vecchi  inquilini,  usi  a  vendere  nelle  manifatture  le  braccia 
muscolose,  unico  loro  bene,  guardarono  con  torvi  occhi.  Che  essi  pre- 
sentivano strappati  a  sé  ed  ai  figliuoli  dalle  folle  sopragiungenti  molti 
bocconi  di  quel  pane  che  già  era  troppo  scarso  a  quetare  gli  ululati 
della  fame. 

Poi  non  troppo  a  lungo  si  fece  attendere  il  momento  in  cui  molti 
liberi  lavoratori,  nuovi  ed  antichi,  vennero  a  picchiare  indarno  alle 
porte  delle  officine.  Le  guerra  e  la  superstite  pirateria,  in  qualche  mare 
non  mai  del  tutto  sgominata,  l'affannoso  pensiero  del  domani  che  in- 
duceva molti  a  stendere  i  polsi  alle  catene  del  servaggio  ed  a  barat- 
tare così  le  gioie  della  libertà  con  un  frusto  dì  pan  nero  e  con  una 
cuccia  squallida  ma  sicura,  il  fatto  che  Corinto,  com'era  emporio  di 
ogni  prodotto  europeo  ed  asiatico,  così  si  trovava  aperto  anche  al 
traffico  della  carne  umana:*  tutte  le  accennate  circostanze,  tendenti  a 
far  vile  il  prezzo  della  merce  uomo,  indussero  ì  grandi  manifattori  ad 
agglomerare  i  servi  quali  strumenti  della  produzione.  Che  se  i  moderni 
industriali,  a  far  paghe  le  richieste  enormi,  invocano  negli  opifizi  qual- 
che nuovo  strumento  dai  muscoli  d'acciaio,  nei  tempi  antichi  la  sola 
macchina  era  il  servo  spronato  all'opra  dalla  sferza  dell'aguzzino.  Si 
può  comprendere  facilmente  quale  tempesta  di  odi  ^  dovesse  gonfiare 


1  Questo  appare  dall'ordine  di  Periandro  che  vietava  alle  plebi  di  far  dimora  nella 
città,  ([Heraclid.  Pont.]  in  F.  ti.  G.,  II,  fragm.  V,  p.  213);  il  tiranno  —operando 
naturalmente  in  senso  opposto  a  quello  dell'aristocrazia  —  ebbe  cura  di  risospingere 
verso  la  campagna  l'onda  di  popolo  che  rendeva  troppo  vile  la  mano  d'opera  e  ge- 
nerava perciò  una  condizione  di  cose  funesta  agli  operai  delle  officine  e  grave  di  peri- 
coli per  la  pubblica  tranquillità. 

2  G.  Porzio,  Il  fondant,  econom.,  ecc.  (/.  e,  pp.  103-104). 

3  La  proibizione  di  possedere  schiavi  fatta  da  Periandro  ai  cittadini  (Nic.  Damasc. 
in  F.  H.  G.  in  fragm.  59,  p.  393,  [Heraclid.  Pont.]  in  F.  fi.  G.  II,  fragm.  V,  p.  213) 
dimostra  che  i  Bacchiadi  avevano  a  gara  agglomerato  i  servi  per  il  lavoro  produttivo. 
Quanto  all'enorme  massa  servile  raccolta  in  Corinto  si  cfr.  G.  Porzio,  //  fondam. 
econ.,  ecc.  (ed.  e),  pp.  78-106;  Guiraud,  La  main  d'oeuvre,  ecc.  (ed.  e),  pp.  103-104, 


[IO  Guido  Porzio 


il  cuore  dei  cenciosi  derelitti  cui  si  profilava  innanzi  Timmagine  sini- 
stra, o  della  morte  per  fame  cronica,  o  dei  ceppi  della  servitù. 

Siffatto  groviglio  d'interessi  contrastanti  riceveva  nuovo  arruffio 
col  balzar  sopra  il  teatro  della  lotta  dei  mediocri  produttori  e  dt  quelli 
che  con  mezzi  pure  esigui  avviavano  gli  scambi.  In  ogni  società  crea- 
trice delle  ricchezze  (così  nei  comuni  italici  del  medio  evo,  come  nelle 
nazioni  d'oggi  giorno  ove  il  vigore  nel  trasformare  le  materie  prime 
e  nello  spanderle  in  ogni  angolo  più  remoto  del  mondo  abitato  si 
presenta  qual  nuovo  miracolo  allo  studioso  stupefatto)  al  grande  ca- 
pitale non  venne  fatto  mai  di  essiccare  totalmente  all'altro  piccolo  o 
mediocre  le  sorgenti  della  vita.  Vero  è  che  la  concorrenza  scatenata 
dai  più  forti  passa  sopra  il  corpo  dei  deboli  :  ma  questi,  a  loro  volta, 
con  tenacia  invitta  traggono  dalle  necessità  sociali  le  energie  del  mol- 
tiplicarsi. Ora,  da  che  il  sole  illumina  le  sciagure  degli  uomini,  tra 
grandi  e  piccoli  produttori,  tra  grandi  e  piccoli  distributori  delle  ric- 
chezze, divampa  la  guerra  senza  requie.  In  Corinto  la  classe  detentrice 
del  potere,  lavorando  per  i  mercati  lontani,  doveva  appigliarsi  ai  mezzi 
di  governo  più  confacienti  alla  natura  di  siffatta  attività  economica. 

La  politica  divenne  ancella  della  grande  produzione.  Di  qui  l'opera 
febbrile  sonante  nei  cantieri  a  costruire  legni  da  trasporto  e  navi  da 
guerra,  di  qui  il  dispiegarsi  delle  malizie  diplomatiche  per  la  difesa 
dei  vantaggi  commerciali  corinzi  nelle  gare  con  gli  altri  stati  produttori 
della  Grecia,  di  qui  il  fulminare  delle  spade  ogni  qualvolta  fosse  d'uopo 
provvedere  con  mezzi  cruenti  al  trionfo  della  mercatura.  Ma  quando 
gli  sforzi  della  diplomazia  e  degli  eserciti  ottenevano  vittoria,  al  ban- 
chetto delle  prede  sedevano  solamente  i  grandi  produttori,  grassi  così 
delle  angoscie  e  dei  rischi  di  tutti.  Che  doveva  importare  dei  mercati 
lontani  a  chi  produceva  per  l'interno?  Eppure  anche  i  possessori  di 
tenui  capitali  avevan  largito  per  la  prosperità  dei  forti  una  parte  delle 
loro  ricchezze  e  molte  stille  del  loro  sangue. 

La  potenza  riunita  dei  piccoli  possidenti  terrieri,  del  medio  ceto 
industriale  e  mercantile,  dei  liberi  lavoratori  cui  da  lungi  accennavano 
'gli  schiavi  fremebondi,  questa  bufera  di  odi  che  ingombrava  un  cielo 
fosco  solcato  da  guizzi  di  lampi  illuminanti  un  più  fosco  avvenire  in- 
dussero, per  gradi,  i  forti  industriali  ed  i  poderosi  mercanti  a  afferrare 
per  sé,  con  esclusione  assoluta  degli  altri,  la  somma  del  potere.  Tale 
si  presenta  la  serrata  corintiaca.  La  chiusa  aristocrazia  non  si  estolle  ai 
primi  inizi  della  vita  repubblicana,  come  affermarono  concordi  gli 
autori  moderni,*  sibbene  negli   anni  che  precedettero  il  lor  tramonto 


1  Plass,  Die  Tyrannis  (ed.  e),  I,  148;  MSntler,    Korinth,  uni.   d.  Kypselid. 
(ed.  e),  4;  Haacke,  Gesch.  Kor.  bis  z.  Siurz,  d.  Backiad.  12;  Duncker,  Gesch.  d. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  311 

non  lontano.  Fu  come  il  calare  di  un  drappello  di  predoni  sopra  le 
sostanze  di  tutti.  Dal  loro  seno  i  nuovi  moderatori  della  vita  corintiaca 
trassero  un  capo,  il  pritam^  ed  ebber  cura,  con  legami  matrimoniali 
avvinti  solo  tra  i  giovani  germogli  della  classe  dominatrice,  di  mante- 
nere esiguo  il  numero  dei  partecipanti  alla  letizia  del  potere.*  Chiusi 
in  sé  medesimi,  stretti  tutti,  a  breve  andare,  dai  vincoli  delle  parentele, 
essi  attesero  a  far  venerata  la  loro  progenie  nobilitando  le  origini. 
Immaginarono  leggende  mendaci  per  indurre  gli  ignari  a  credere  scor- 
rente nelle  loro  vene  il  sangue  di  Bacchide,  mitico  re  di  una  mitica 
monarchia.*  Poi  a  tale  fantasia,  suggerita  da  cupido  orgoglio,  ebbero 
cura  di  porre  il  suggello  di  un  nome  che  agli  orecchi  dei  volghi  as- 
sorge sempre  a  dignità  di  prova  inconcussa.  Si  chiamarono  Bacchiadi. 
E  temendo  che  non  salde  abbastanza  per  la  legittimità  de*  suoi  poteri 
fossero  le  fondamenta  di  un  trono  ipotetico  eretto  sulla  terra,  l'aristo- 
crazia dell' istimo  additò  gli  inizi  di  sua  prosapia  come  snodantisi  nel- 
l'Olimpo, ai  piedi  del  seggio  di  Zeus,  tra  i  folgorati  barbagli  de- 
gl'immortali. Nobiltà,  adunque,  per  diritto  divino  essendoché  Eracles, 
germoglio  di  Giove,  fosse  presentato  come  primo  anello  nella  catena 
degli  avi.^ 

Ma  a  far  in  modo  che  l'edifizio  costruito  con  sapienza  faticosa 
potesse  opporre  ad  ogni  urto  una  vittrice  resistenza  era  necessità  che 
l'aristocrazia  si  fosse  rassegnata  a  spegnere  gli,  ardori  per  la  mirabile 
produzione  e  pel  commercio  d'oltre  mare.  Chiudere  l'emporio  e  le  vie 
dell'istmo,  abbandonare  sopra  le  arene,  preda  ai  tarli,  le  veloci  navi, 
significare  alle  colonie  che  dovevano  provvedere  a  sé  stesse  perché  la 
metropoli,  come  percossa  da  febbre  di  disfacimento,  aveva  dato  inizio 
alla  politica  della  rinunzia,  maledire  alla  gloria  degli  anni  giovani  e 
farsi  piccoli  per  deprecare  le  minacele  della  morte:  tali  erano  le  con- 


Alt.  V5  (ed.  e),  3Q6-397;  Beloch,  op.  cit.,  V,  302,  I«,  218,  ecc.  E  un  errore.  Ero- 
doto e  Nic.  di  Damasco  pa'rlan  bensì  dell'oligarchia  dei  Bacchiadi,  ma  solo  negli 
anni  in  cui  sta  per  balzar  fuori  Cipselo,  cioè  al  termine  del  loro  dominio.  I  noàtri 
storici  han  scambiato  il  tramonto  con  l'aurora  dalle  tinte  purpuree,  han  visto  al' prin- 
cipio quel  che  apparve  soltanto  alla  fine. 

1  Herodot.,  V,  92,  3,  Diod.  reliq,  vii,  9. 

t  Era  serbato  ai  critici  moderni  di  accettare  serenamente  una  panzana  suggerita 
dairorgoglio.  Duruv,  hist.  d.  Grecs,  pp.  504-507  (ed.  del  1887);  Duncher,  op.cit,  V5 
378;  Meyer  op.  cit.  II  351;  Beloch,  op.cit.,  1*,302, 1«,  218,  Pòhlmann,  Grundr.  d. 
griech.  Gesch.  (ed.  1906),  ecc.  Per  questa  strana  fede  in  Bacchide  e  nella  monarchia 
cf  r.  G.  Porzio,  Corinto,  critica  della  leggenda  (ed.  e.  pp.),  1-84.  O  perchè  non  han 
creduto  anche  alla  vantata  discendenza  da  Eracles? 

3  A  tutti  è  noto  che  i  Bacchiadi  son  discendenti  di  Eracles,  si  legge  in  Dionys. 
Halicarn.,  antiq.  rom.^  IV,  26:  infatti,  anche  il  Corìnzio  Fallo  d'Eratoclide,  coloniz- 
zatore d'Epidamno  al  tempo  dei  Bacchiadi,  era  derivato  da  questo  dio,  Thucyd.,  I, 
24,  2.  - 


312  Guido  Porzio 


dizioni  richieste  a  prolungare  la  vita.  Non  bastava  barrar  gli  accessi 
airautorità  politica:  occorreva  anche  ostruire  tutti  gli  sbocchi  che  con- 
ducevano  all'acquisto  delle  ricchezze.  Che,  ove  Timpeto  del  produrre 
avesse  rapinato  gli  animi  come  nei  trascorsi  anni,  era  ad  attendersi 
che  i  nuovi  arricchiti  avrebbero  chiesto,  anche  con  la  violenza,  il  loro 
posto  al  convito  del  potere.  Ora,  poiché  ai  Bacchiadi  non  arrise  1*  idea 
di  rassegnarsi  al  suicidio  per  la  paura  di  morire,  avvenne  quel  che 
non  era  evitabile:  che,  cioè,  i  padroni  plebei  delle  splendide  manifat- 
ture, gli  armatori  delle  triremi  e  quei  che  nelle  regioni  più  lontane  ave- 
vano recato  le  copiose  mercanzie  dell'  istmo,  forti  di  lor  ricchezze,  ve- 
nissero ad  urtare  contro  le  porte  del  governo.  Ma,  com'era  a  prevedersi, 
i  postulanti  non  furono  ammessi  alla  beatitudine  della  goduta  sovra- 
nità. Ed  ecco  infuriare,  con  l'orrifico  ululato  delle^ catastrofi  imminenti, 
la  lotta  tra  le  due  mobili  proprietà  dei  ricchi  di  oggi  e  dei  ricchi  di 
ìeri.^  Solo  nelle  anime  dei  moderni  eruditi  poteva  trovar  luogo  l'odio 
delle  stirpi  e  il  contendere  sopra  V  istmo  dei  Dori  e  dei  Ioni  con  me- 
scolanze più  o  meno  lievi  di  eoliche  tribù*  In  Corinto  si  scatenava 


1  Che  di  questo  si  tratti  è  dimostrato  dal  gfoverno  costituito  dopo  l'esperiraento 
della  tirannide  :  an^ aristocrazia  temperata  cui  furono  ammessi  tutti  i  possessori  di 
cospicue  ricchezze  (Guiraud,  La  propr.fonc.  (ed.  e),  139;  Meyer,  op.  cit,  11,626-627; 
BusoLT,  Griech.  Gesch.,  I«,  658;  Beloch,  op,  cit.,  P,  315,  ecc.):  è  dimostrato  anche 
dalle  multe  con  cui  l'aristocrazia  colpiva  i  nemici,  multe  ingenti  che  solo  i  ricchissimi 
potevano  pagare  (gli  altri  scontavano  con  la  prigione),  Nic.  Damasc.  in  F.  M.  G., 
Ili,  fragm.  58,  p.  392.  Provammo  altrove  (O.  Porzio,  /  molti  luoghi  comuni  intrusi 
nella  storia  dei  Bacch.   in  Att.  R.   Accad.   arch.  lett.  beli.  art.  di  Napoli,    N.   Ser. 

V.  IV,  1915,  p.  139-144)  che,  mentre  vacillava  la  potenza  aristocratica,  la  lotta  era  com- 
battuta, non  tra  la  proprietà  terriera  e  quella  mobile,  ma  tra  due  mobili  proprietà 
mercantili,  una  recente,  l'altra  più  antica. 

«  MiiLLER,  Die  Dorier  (ed.  e),  I,  111.  Plass,  op.  cit.,  I,  146-147,  149;  Holle, 
De  Periandro  Corinth,  Tyran,  Monast.,  1869,  3,  5  ;  Haacke,  op.  cit.,  6,  7  ;  Duncker, 
op.  cit.,  V5,  394,  396-397;  Hertzbero,  op.  cit.  (ed.  1879),  I,  100;  Pòhlmann,  op.  cit., 
70,  ecc.  Dell'irrazionale  ingrediente  dell'odio  di  razza  nella  lotta  corintiaca  gli  antichi 
non  fanno  mai  parola.  Così  pure  non  vi  è  testimonianza  di  due  nobiltà  lottanti  in 
Corinto  come  immaginarono  alcuni  scrittori  moderni  (tra  altri  il  Dunqker,  op.  cit., 
V»,  396,397  e  il  Busolt  ap.  Wilisch  in  Gdtt.  Gel.  Anz.,  1880,  pp.  1194-1195):  Ero- 
doto (v.  92)  Nic.  di  Damasc,  (in  F.  H.  G.,  III  fragm.,  58,  pp.  391-392):  tutti  ci  par- 
lano di  un'oligarchia  sola,  e  basta:  l'altra  nobiltà  è  sbocciata  insieme  con  la  fisima 
delle  razze  attendate  l'una  contro  l'altra  in  tutte  le  terre  greche  e  guardantisi  in  ca- 
gnesco. —  Che  poi  la  ribellione  di  Corcira  abbia  trascinato  a  rovina  i  nobili  dominanti 
è  un'altra  infondata  supposizione  dell'HAACKE  (op.  cit.,  19-20),  del  Duncker  {op.  cit., 

VI,  36)  deU'HERTZBERO  (op.  cit.,  V,  100-101),  ecc.  La  battaglia  fu  combattuta  fuor  di 
dubbio  verso  il  664  mentre  Cipselo  appare  solo  nel  655  secondo  la  più  comune  cro- 
nologia, verso  il  terminare  del  secolo  VII  secondo  la  nostra  :  ad  ogni  modo,  anche 
nell'ipotesi  più  comune,  noi  dovremmo  ammettere  che  un  fatto  accaduto  nove  anni 
addietro  avesse  la  virtù  di  atterrare  un  governo.  Se  mai  -^  poiché  la  rovina  era  Tef- 
fetto  dell'indignazione  popolare  rovesciante  sopra  i  doitiinatorì  la  colpa  della  sconfìtta 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  313 

il  contrasto  della  proprietà  e  non  delle  stirpi,  e  la  lotta  assumeva  la 
natura  di  tutta  la  storia  dell'organismo  mercantile  com'era  scritta  nel- 
Tattimo  fuggente  e  nei  fasti  del  passato.  A  meno  non  riesca  ai  dotti 
di  provare  che  le  ricchezze,  mentre  eran  dolce  compenso  alle  fatiche 
d*ima  stirpe  greca,  rifuggivano  d'accumularsi  entro  le  mani  di  un'  altra, 
oppure  che  i  Corinzi,  travolti  nei  contrasti  d'una  battaglia  economica- 
politica,  avessero  agio  e  volontà  di  squadrare,  in  mezzo  al  fragore 
delle  vibrate  percosse,  la  mutria  dei  contendenti  per  sorprendere  nelle 
contraffatte  fisionomie  i  segni  abborriti  d'una  stirpe  avversa. 

Il  prorompere  dei  ricchi  nella  mischia  già  iniziata  scosse  dalle 
fondamenta  l'edifizio  dei  Bacchiadi.  La  terra  deli'  istmo  sembrò  tremare 
per  la  violenza  degli  urti  quotidiani.  Assalita  d'ogni  parte  dalla  massa 
enorme  dei  malcontenti  antichi,  cui  adesso  prestavano  man  salda  molti 
cittadini  facoltosi,  l'aristocrazia  corse  ai  ripari  affrontando  gagliarda 
le  minaccie  oscure.  Per  scongiurare  il  pericolo  tutti  i  mezzi  furon  buoni. 
Far  cadere  molte  teste,  spingere  a  stuoli  in  terre  straniere  i  dannati 
ai  lunghi  esilii,  porre  le  mani  violente  sopra  i  beni  dei  riottosi,  vitu- 
perare i  men  temibili  nemici  con  le  stimmate  dell'infamia,  tali  le  arti 
d'ogni  morente  governo  e  quindi  dei  Bacchiadi.'  Cionondimeno  la 
marea  saliva  con  muggiti  spaventevoli.  E  poiché  il  terrore  non  aveva 
prodotte  le  attese  conseguenze  ed  ogni  stilla  di  sangue  sparso  sem- 
brava far  più  gagliarda  l'audacia  degli  assalitori,  i  dominanti,  con  i 
volti  composti  a  simulata  mitezza,  fecero  prova  di  disarmare  con  alcune 
concessioni  la  furia  nemica.  I  più  ricchi  e  più  temuti  dell'avversa  fa- 
zione vennero  ammessi  all'onore  dei  connubi.*  Inoltre,  ai  discendenti  di 
non  giuste  nozze  —  a  condizione  però  che  nelle  loro  vene  scorresse  il 
sangue  aristocratico  almeno  da  parte  della  genitrice  —  era  concesso 
di  ascendere  alle  magistrature  secondarie.  Una  di  esse  dovette  essere 
la  carica  di  polemarco,  non  storica  interamente  perchè  ricalcata  da 
Eforo  sulla  comune  tradizione,  ma  che  ad  ogni  modo,  nella  parte  so- 
stanziai, segna  e  adombra  la  vissuta  realtà.' 


—  o  la  causa  operava  di  prjmo  impeto  nello  stesso  anno  664,  o  mai  più.  E  poi  biso- 
gnerebbe supporre  che  lo  scontro  coi  Corciresi  fosse  terminato  in  una  sconfitta  :  ma 
così  non  fu. 

1  Nic.  Damasc.  in  F.  H.  G.  Ili,  fragm.  58,  p.  392. 

*  Herodot.,  V.  92.  4. 

3  Cfr.  le  mie  osservazioni  in  questa  rivista,  fase.  1, 1917,  pp.  68-69:  dire  —  come 
ho  detto  —  che  là  carica  di  polemarco  non  corrisponde  a  verità  non  significa  buttare 
senz'altra  la  notizia  nel  ciarpame.  È  noto  che  Eforo  rendeva  più  razionale  la  tradi- 
lione  e  troppo  ricalcava  il  passato  sui  modelli  storici  dei  tempi  suoi  :  si  tratta,  ad 
ogni  modo,  molto  spesso,  di  trasformazione^  non  d'invenzione.  Di  vero  nella  carica 
di  polemarco  vi  è  quel  tanto  che  accenniamo  nel  testo.  Vedi  Nic.  Damasc.  in  F.  H.  G, 
III,  fragni.  58,  p.  392  (da  Eforo). 


314  Guido  Porzio 


Le  combattenti  moltitudini  furono  piene  d'esultanza  perchè  la  mi- 
tezza inattesa  era  la  più  certa  prova  che  Todiato  dominio  vacillava.  Le 
plebi  in  armi  salutarono  quello  che  noi,  per  intenderci,  chiameremo 
il  polemarco,  con  frenesia  di  applausi.^  Era  fi  loro  capo.  Vero  è  che 
Taristocrazia  pose  ogni  cura  nell'avvelenare  il  donativo.  E  così  tra  le 
altre  funzioni,  circonfuse  sempre  di  mistero,  pesava  sopra  il  polemarco 
l'obbligo  di  mantenere  in  ceppi  chi  era  colpito  da  condanna  finché  la 
multa  comminata  non  venisse  soddisfatta.  Qual  mezzo  migliore  ad  at- 
tirare sopra  il  magistrato  della  rivoluzione  i  fulmini  dell'ira  popolare? 
Tanto  più  che  con  diabolica  malizia  i  reggitori  avevano  disposto  che 
una  parte  delle  multe  toccasse  al  polemarco,*  pregustando  così  la  gioia 
perversa  di  poter  additare  l'idolo  del  volgo  come  pingue  del  sangue 
delle  plebi.  Senonchè  l'aristocrazia  veniva  a  brandire  un'arma  con  la 
quale  correva  il  rischio  di  ferire  sé  medesima.  Se  un  polemarco  astuto 
scioglieva  le  catene  dei  condannati  dichiarandosi  pago  di  mallevadori, 
se  faceva  generosa  rinunzia  della  parte  di  multa  a  lui  spettante  e  in- 
nanzi al  popolo  proclamava  sé  stesso  non  contaminato  da  cupidigia 
volgare  e  non  lordo  di  un  guadagno  miserabile  che  era  poi  il  prezzo 
del  tradimento,  se  questo  avveniva  —  come  avvenne  —  ecco  che  d'un 
sol  colpo  cadevano  infrante  tutte  le  reti  della  politica  tenebrosa.  La 
macchina  eretta  ai  danni  della  plebe  seminava  invece  rovina  tra  gli 
artefici  creatori. 

All'esercito  in  marcia  mancava  solo  un  capo  che  guidasse  gli  as- 
salti contro  le  ultime  difese.  A  questo  punto  calò  sopra  l'arena,  gui- 
datore dei  rivoltosi,  Cipselo,  figliuolo  di  Eezione  e  di  Labda  claudi- 
cante, discesa  però  dai  lombi  magnanimi  dell'aristocrazia  dominatrice. 
Insignito  della  carica  di  polemarco,  Cipselo  rivolse,  nel  modo  già  de- 
scritto, la  punta  dell'arma  insidiosa  contro  la  classe  che  l'aveva  affilata. 
Concesse  ai  prigionieri  la  libertà,  pose  garante  sé  medesimo  che  avreb- 
bero pagate  le  somme  dovute,  delle  multe  riscosse  rifuggì  di  toccare 
una  parte  qualsivoglia.^ 

Con  l'infuriare  di  Cipselo  nel  campo  chiuso  della  lotta  economica 
e  politica  il  governo  della  nobiltà  parve  scosso  dalle  convulsioni  del- 
l'agonia. Non  una  delle  molte  fondamenta  sulle  quali,  come  su  basi 
di  granito,  posava  un  tempo  l'edifizio,.  valse  ad  opporre  una  lunga  re- 
sistenza all'urto  formidabile. 


1  II  carattere  popolare  di  questa  carica  e  il  favore  con  cui  essa  fu  salutata  dalla 
moltitudine  apparisce  anche  dall'espressione  del  Damasceno  (/.  e,  p.  392):  che,  cioè, 
nelV esercitare  V ufficio  del  polemarco ^  Cipselo  si  cattivò  da  parte  del  popolo  più  amore 
di  quel  che  avevano  ottenuto  gli  altri  insigniti  prima  di  lai  della  stessa  magistratura. 

2  Nic.  Damasc,  /.  e,  p.  392. 

s  Herodot.,  V,  92,  4,  Nic.  Damasc,  /.  e,  pp.  391-392. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  315 


Non  certo  ai  Bacchìadi  era  dato  di  legittimare  il  lor  potere  ìnvo- 
Ciiiido  le  più  copiose  ricchezze.  Volgetevi  attorno  —  poteva  suonare 
la.  risposta  —  e  v'abbatterete  in  molti  che  sono  più  di  voi  superba- 
mente doviziosi.  Perchè  dunque  sarà  serbato  agli  uni  il  fastigio  del- 
l'autorità e  agli  altri  l'amaritudine  dell'esilio?  O  forse  all'aristocrazia 
sarebbe  venuto  in  mente  di  porre  il  consenso  unanime  dei  soggetti 
e  le  cure  consacrate  alla  comune  felicità  quali  pietre  angolari  del  go- 
duto dominio?  Ma  contro  di  loro  i  ruggiti  dell'odio  e  le  maledizioni 
risvegliavano  i  molti  echi  delle  terre  corintiache:  contro  di  loro  i  pu- 
gnali erano  affilati  e  branditi  nelle  tenebre.  E  quanto  alla  sollecitudine 
millantata  del  ben  comune,  chi  non  sapeva  ch'essi  con  bestiale  cupi- 
digia sfruttavano  il  governo  come  un  campo  ferace  a  lor  venuto  dai 
maggiori?^  E  neanche  ai  Bacchiadi  era  acconsentito  di  esaltare  la  su- 
periore purità  dei  costumi  immacolati.  Il  fantasma  di  Atteone,  violentato 
e  uccido  da  Archia,  sarebbe  uscito  dal  tumulo  sepolcrale  a  vituperarli 
quali  sodomiti  cupidi  di  sangue.'  Così  pure  la  gloria  vantata  della  di- 
scendenza nobilesca  impallidiva  al  cospetto  di  Melana  progenitore  di 
Cipselo,  per  antichità  ben  altrimenti  venerando,  il  quale,  insieme  con 
Alete,  dalle  alture  del  Soligeio,  aveva  percosso  con  lungo  assedio  le 
mura  di  Corinto.^  Allorché  l'avo  dei  guidatori  dei  ribelli  era  disceso 
con  la  spada  a  conquistare  ai  Dori  erranti  una  patria,  Bacchide  e  Bac- 
chiadi non  ancora  movevansi  tra  i  vivi  a  contristar  la  terra.  Come  si 
vede  iutti  i  sostegni,  che  potremmo  chiamare  umani,  giacevano  al 
suolo  frantumati. 

Restava  il  puntello  degli  dei  essendoché  le  iniquità  politiche  e  so- 
ciali, più  gridano  vendetta  nel  regno  degli  uomini,  e  più  si  adòprino 
a  fortificarsi  con  la  sanzione  del  diritto  divino.  È  questo  l'ultimo  ba- 
luardo dietro  il  quale  stanno  aperti  gli  abissi.  Allorquando  gli  uomini 
son  ridotti  alla  difesa  disperata  dall'invocazione  agli  dei,  vuol  dire  che 
la  morte  batte  intorno  le  sue  ali.  Nulla,  invero,  é  più  agevole  che  porre 
in  armi  un  dio  contro  un  altro  dio.  Ad  esempio,  Giuseppe  Mazzini 
ebbe  a  durare  una  fatica  non  soverchia  nel  far  discendere  contro  la 
divinità  della  Santa  Alleanza,  cui   suonavan  carezzevoli   i  singulti  dei 


i  Ricordiamo  lo  sfruttamento  del  mercato  che  Strabene  (Vili,  6,  20)  attribuisce 
ai  Bacchiadi:  sfruttamento,  il  quale  va  inteso  in  buono  e  anche  in  cattivo  senso. 

«  Del  fatto  di  Atteone,  figlio  di  Melisso,  stuprato  e  ucciso  dal  Bacchiade  Archia 
è  ricordo  in  Plut.,  amator.  narrai.  2,  Diodor.,  reliq.  vili,  8;  Strab.,  p.  269;  Paus., 
V,  7,  4;  Alexand.  Aetol.,  in  Antolog.  Palai.,  1,208;  Parthen.,  ero^.,  14  in  Mytho- 
graph.  graec.  v.  II,  fase.  I;  Maximi  Tyr.,  dissert.,  XXXV,  1,  Schol.  in  Apollon.  Rhod. 
argon.  IV.,  1212;  Suidas,  s.  v.  'Aezios:  quanto  alla  loro  superbia  e  lussuria  cfr.  anche 
IHeraclides]  in  F.  H.  G.,  Wfragm.W,  p.  213;  Aelian.,  var.  hist.,  X  19. 

3  Paus.,  II,  4,  4  ;  V,  18,  7  :  cfr.  O.  Porzio,  Corinto,  crii.  d.  leggenda,  ed.  e, 
p.  24  e  nota  3*. 


3i6  Guido  Porzio 


moribondi  nelle  segrete  dello  Spielberg,  il  suo,  baldanzoso  dio  repub- 
blicano trascorrente  con  la  magica  insegna  del  berretto  grigio  a  recare 
nelle  regioni  italiche  il  soffio  della  libertà.  Se  i  mortali  si  azzuffano, 
tosto  la  tenzone  esulta  anche  tra  gli  dei  :  battaglia  sulla  terra  e  batta- 
glia in  cielo.  Mentre  la  lotta  infuriava  sotto  le  mura  di  Troia,  l'Olimpo 
tremò  tutto  dello  scrosciar  delle  folgori  di  Zeus  e  del  cozzo  delle  di- 
vinità contendenti.  Mentre  i  senzabrache  frantumavano,  insieme  con  la 
monarchia,  le  ultime  tarlate  inpalcature  del  medio  evo  e  vittoriosi  ca- 
ricavano le  milizie  della  reazione,  il  dio  degli  eserciti,  scudo  e  sostegno 
della  progenie  dei  Capeto,  varcava  la  frontiera  a  raggiungere  in  Co- 
blenza  il  campo  dell'esule  aristocrazia.  Intanto  per  le  navate  di  Nostra 
Donna  salivano  gli  inni,  prima  alla  dea  Ragione,  e  poi  all'Essere  Su- 
premo'. Anche  in  Corinto  i  vecchi  dei  della  vecchia  oligarchia,  di  fronte 
agli  altri  che  fulminavano,  guidatori  delle  turbe  in  rivolta,  furono  presi 
dallo  sbigottimento  il  quale  annunzia  le  vicine  fughe.  Cantarono  gli 
oracoli.  La  Pizia  vaticinante  aveva  visto  rotolare  dalla  matrice  di  Labda 
un  macigno  sotto  il  cui  peso  i  superbi  dominatori  sarebbero  ridotti 
a  una  maciullata  poltiglia  intrisa  nel  sangue  :  aveva  visto  dallo  stesso 
utero  sbucare  con  un  salto  un  leone  spaventoso  che  a  molti  dei  Bac- 
chiadi  doveva  sciogliere  le  ginocchia.  E  il  macigno  che  rotolava  e  il 
leone  che  ruggiva  erano  un  trasparente  simbolo  di  Cipselo,  duce  dei 
ribelli.  «  Beato  quest'uomo,  che  discende  ai  penetrali  nostri,  Cipselo  Ee- 
tide,  sovrano  di  Corinto  illustre  »  gridava  la  sacerdotessa  di  Delfo  non 
appena  il  passo  ferrato  del  polemarco  demagogo  suonò  nei  recessi 
del  santuario.  S'aggiunga  che  solo  un  dio  aveva  potuto  travolgere  il 
senno  dei  nobili  assassini,  i  quali,  scoperto  in  fasce  il  vaticinato  de- 
molitore di  lor  potenza  e  bastando  stendere  la  mano  per  disperdere,  in- 
sieme coi  resti  dell'infante  ucciso,  la  minaccia  sospesa  sopra  il  loro 
capoj  sentirono  invece  tremare  i  polsi  nell'atto  di  ferire.  Inoltre,  lo 
stesso  Giove,  all'ombra  protettrice  del  tempio  suo  in  Olimpia,  aveva 
alimentato  la  gagliarda  giovinezza  del  figliuolo  di  Eezione  per  ricon- 
durlo in  Corinto  a  compiere  le  sue  gesta  allorché  fosse  suonata  l'ora 
delle  vendette.  Finalmente  al  disopra  dello  stesso  Zeus  anche  il  Fato 
cospirava  alla  distruzione  dei  Bacchiadi  Stava  scritto  nel  libro  del 
Destino  che  il  dominio  oligarchico  precipitasse  al  tramonto.*  Innanzi 
a  questo  decreto  non  deprecabile  non  una  delle  divinità  restò  ai  fian- 
chi dei  morituri  per  consolarne  l'agonia. 


1  Herodot.,  V,  92,  4-12;  Nic.  Damasc,  in  F.  fi.  G.  Ili,  fragm,  58,  pp,  391- 
392;  si  spiega  così  che  agli  dei,  promotori  della  rivoluzione  e  del  dominio  da  essa  sca- 
turito, i  Cipselidi  abbiano  consacrato  doni  votivi  a  Delfo  e  in  Olimpia  ;  Aristot-,  Poi. 
Vili  (5),  9,  4  ;  Strab.,  Vili,  3,  30  ;  Plut.,  quaesi.  mar.  724,  B  ;  Ephor.  et  Aristot.,  ap. 


La  più  antica  aristocrazia  corintiaca  317 


Chiusi  i  cieli  e  fatta  nemica  la  terra,  airaristocrazia  altro  non  re- 
stava che  piegare  il  capo  all'incombente  realtà.  Un  colpo  di  pugnale 
vibrato  da  cospiratori  uscenti  dalle  ombre  di  una  segreta  conventicola 
lasciava  boccheggiante  sopra  la  via  pubblica  Tultimo  pritane,  e  Cipselo, 
corrusco  di  tutte  le  folgori  dell'ira  popolare,  decimava  i  nobili  con  la 
morte,  spingeva  i  superstiti  nella  tristezza  dell'esilio,  i  beni  degli  uc- 
cisi e  dei  fuggiaschi  largiva  alle  plebi.*  In  Corinto  è  sorto  il  trono  del 
tiranno,*  legittimo  perchè  avente  sua  base  nel  volere  del  maggior 
numero  e  capace,  perciò,  durante  molti  anni,  di  resistere  vittorioso 
contro  tutti  gli  assalti.  Cipselo  era  il  delegato  della  democrazia  an- 
cora minorenne  e  il  suo  governo,  instaurando  entro  i  confini  del 
territorio  corintiaco  l'invocata  concordia  è  proclamando  l'eguaglianza 
di  tutti  innanzi  al  trono,  spingeva  le  moltitudini  a  nuovo  e  più 
intenso  fervore  di  operosità  civile.  Così,  mentre  i  tiranni  passavano 
falciati  dalla  morte  e  il  potere  era  trasmesso  ai  discendenti,  la  luce 
già  accesa  dall'aristocrazia  continuava  ad  avvampare  nei  cieli  greci  con 
fulgori  più  intensi. 


E  la  conclusione  di  questo  studio?  Essa  vibrerà  dei  suoni  stessi 
che  annunziarono  gl'inizi  ;  che,  cioè,  l'attività  produttrice  dell'industria 
e  degli  scambi  fu  nella  storia  di  Corinto  una  specie  d'anima  tenace- 
mente operante  dalla  quale  rampollarono  tutte  le  varie  manifestazioni 
della  vita.  Tale  attività  fece  sorgere  dal  nulla  il  centro  cittadino,''  armò 
le  mani  degli  abitatori  nello  sforzo  vittorioso  della  riscossa  contro 
Argo,  diede  alla  terra  liberata  la  forma  di  governo  più  adatta  ai  pre- 
menti suoi  bisogni,  consigliò  ad  aprire  i  mercati  ampi  delle  colonie, 
suggerì  le  astuzie  della  diplomazia,  pose  le  condizioni  della  pace  e 
soffiò  nelle  trombe  della  guerra,  si  convertì  in  creatrice  energia  di 
tutti  gli  atti  comuni  della  vita  quotidiana,  divenne  la  scaturigine  dei 


Dioa.  Laert.,  I,  96  ;  Aqaclytus  (autore  di  età  incerta)  in  F,  H.  O.,  IV,  p.  288;  Phot., 

1  Herodot.,  V,  92,  13;  Nic.  Damasc,  /.  r.,  p.  392;  Aristot.,  Poi.  V,  9,  4. 

«  Nel  655,  656  e  657  secondo  l'ipotesi  comunemente  accettata  (Grote,  op.  cit.^ 
trad.  Sadous,  IV,  77,  Real-Èncyklopàdie,  del  Pauly  s.  v.  Corinth  u.  Corinthian» 
ed.  di  Stuttgart  1842:  Unger,  Die  Zeitverhàltn.  Pheid.  in  Philolog.  B,  28,  1869, 
pp.  420-421  ;  Holm,  Gesch.  Griech.,  ed.  1886,  I,  305,  306,  344;  Pohlmann,  op.  cit., 
71,  ecc.):  verso  il  terminare  del  secolo  VII  come  io  credo  per  le  ragioni  esposte  al- 
trove ;  Q.  Porzio,  /  Cipselidi,  la  tirannide  corinzia  nuovamente  esaminata,  Bologna, 
Zanichelli,  1912,  p.  119-151. 

»  Q.  Porzio,  Corinto,  le  origini,  l.  e,  p.  561-565. 


3l8  Guido  Porzio 


vizi,  delle  virtù  e  delle  più  diverse  attitudini  spirituali,  largì  ai  poeti 
e  agli  artefici  fantasmi  folgoranti,  proiettò  sopra  le  vette  dell'Olimpo, 
soggiorno  degli  immortali,  gli  dei  e  gli  eroi  della  mercatura,  poi  ai 
Bacchiadi,  cioè  al  loro  governo,  strumento  valido  alla  creazione  delle 
opere  maravigliose,  finì  con  lo  scavare  il  sepolcro  per  sospingere  la  terr;» 
dell'istmo  a  nuove  forme  di  vita  più  eccelsa. 

In  Corinto  apparisce  dominatrice  della  storia  un'unica  cagione. 


Guido  Porzio. 


^^ 


note.  QDedioDi  sloiii.  lUofll  nsioni 


storia  e  politica:  Francia  e  Italia. 


È  lecito  al  politico,  a  chiunque,  anzi,  Si  trovi  sulla  soglia  di  un  problema 
politico,  invocare  la  luce  e  il  sussidio  della  esperienza  storica  del  passato,  e 
tentar  di  risolvere  col  suo  aiuto  il  terribile  quesito,  che  la  Sfinge  dell'avve- 
nire pone  dinanzi  a  lui?  La  nostra  risposta  non  può  non  essere  interamente 
affermativa  :  come  le  esperienze  quotidiane  della  politica  son  la  luce  interna 
dello  storico,  così  le  esperienze  della  storia  formano  la  luce  interna  dell'uomo 
politico,  e  come  più  perfetto  storico  è  queglj  che  più  vivo  ed  acuto  alimenta 
in  sé  il  senso  politico,  così  più  perfetto  uomo  politico  è  colui  il  quale,  dalla 
conoscenza  del  passato,  ha  tratto  l'idea,  la  consuetudine  delle  varie  forme  di 
risoluzioni,  in  cui  gli  eventi  umani  sogliono,  nel  loro  aggrovigliarsi,  precipitare. 
Salvochè  l' insegnamento,  che  la  storia  porge  all'uomo  politico,  non  può  essere 
(come  dire?)  un  insegnamento  materiale  e  meccanico:  esso  deve  addestrarlo 
non  già  ad  ingombrarla  memoria  del  cumulo  e  dei  rottami  dei  fatti  passati, 
ma  a  comprendere  quei  fatti,  a  metterli  in  rapporto  con  le  mutate  o  identiche 
condizioni  del  tempo,  anzi  a  non  giudicare  mai  alcun  fatto  senza  tener  conto 
di  tutti  i  rapporti,  di  tutti  i  fili  invisibili,  a  cui  esso  è  legato. 

Chi,  ad  esempio,  poniamo,  alla  vigilia  della  nostra  guerra,  forte  della 
sua  memoria  storica,  avesse,  innanzi  di  decidersi,  richiamato  a  se  stesso  sol- 
tanto tutti  gli  attriti  in  cUi  nei  secoli  ebbero  a  trovarsi  impegnate  Francia  e 
Italia  o  Austria  ed  Italia,  e  da  quest'unica  rievocazione' avesse  voluto  attingere 
luce  per  una  decisione,  avrebbe  operato  da  pessimo  uomo  politico.  Giacché 
egli  avrebbe  dimenticato  chele  condizioni  di  oggi,  in  cui  Italia,  Francia,  Austria, 
Zi  muovono,  sono  mutate  da  quelle  di  settant'anni  o  cinquant'anni  or  sono, 
o  anche  di  ier  l'altro,  e  mutate  sono  altresì  le  restanti  condizioni  internazio- 
nali, come  mutate  esse  saranno  domani.  Egli,  dunque,  conducendo  il  suo  lavoro 


*  G.  E.  Curatolo,  Francia  e  Italia:  pagine   di  storia  {1849-19x4),  Torino,    Bocca,    1915,. 
pp.  XIII-238. 


320  Note^  questioni  storiche,  ecc. 


entro  i  termini  che  ho  sopra  accennati,  non  avrebbe  fatto  opera  di  politico,  ma, 
attraverso  l'erudizione  storica,  opera  meno  nobile  di  settaria  partigianeria.  Or- 
bene, questa  è  la  prima  censura,  a  cui  non  sfugge  il  libro  di  G.  E.  Curatolo, 
Francia  e  Italia,  dettato  alla  vigilia  della  nostra  entrata  in  guerra,  irto  di 
citazioni  di  lettere,  brani  di  giornali,  memorie  ;  libro,  che,  secondo  dichiara 
l'A.,  intendeva,  con  la  storia  alla  mano,  illuminare  l'Italia  nella  grande  e 
tragica  vigilia  del  suo  destino,  e  che  tutto  era  un  vivente  richiamo,  un  appello 
insistente  ai  vecchi  «  rancori  »  dell'  Italia  contro  la  Francia  per  ciò  che  questa 
fece,  e  anche  per  ciò  che  non  fece,  dal  1849  al  1914. 

Ma  l'errore  politico  è  il  fratello  germano  di  un  continuo  errore  storico,  in 
cui  l'A.  si  aggira  ad  ogni  pagina,  non  ostante  la  sua  copiosa  dottrina  in  fatto 
di  storia  del  nostro  Risorgimento,  e  non  ostante  la  ponderosa  mole  del  suo 
volume.  Ad  onta  di  tutto  ciò,  dico,  egli  poneva  male  i  problemi  storici,  in 
cui  via  via  veniva  ad  imbattersi,  giacché  egli  sembra  aver  dimenticato  che 
compito  dello  storico  non  è  di  sciorinare  documenti,  più  o  meno  speciosi, 
ma  di  intendere,  volta  per  volta,  ogni  problema  storico,  riponendolo  all'am- 
biente e  nell*  insieme  di  rapporti,  in  cui  le  circostanze  del  tempo  lo  avevano 
collocato. 

Darò  di  ciò  parecchie  prove  più  innanzi.  Ma  qui  mi  assale  un  dubbio. 
È  codesto  un  errore  esclusivo  del  Curatolo,  o  non  piuttosto  la  consegvienza 
del  modo  in  cui,  presso  di  noi,  suole  condursi  lo  studio  della  storia  del 
nostro  Risorgimento?  Io  sono  per  la  seconda  alternativa.  La  nostra  storio- 
grafia del  Risorgimento  italiano  è  ancora  allo  stadio  di  puria  apologia,  di 
pura  requisitoria,  allo  stadio  di  pura  raccolta  di  episodi  e  di  ^documenti,  aliena 
da  qualsiasi  sforzo  d'interpretazione  intelligente  e  profonda:  O  se  giudizi  e 
interpretazioni  si  danno,  i  criteri  ne  sono  i  più  errati  possibili.  Ogni  singolo 
fatto  è  giudicato,  non  già  tenendo  conto  delle  circostanze  del  tempo,  ma  alla 
stregua  dei  resultati  finali  del  processo  del  nostro  Risorgimento.  Quel  ch'è 
peggio,  la  storia  del  Risorgimento  è  studiata  isolatamente  dal  contesto  univer- 
sale della  storia  europea  dal  1815  al  1870,  cioè  a  dire  fuori  del  terreno 
storico,  che  la  condizionò  e,  in  parte,  la  generò. 

Delle  conseguenze  di  tutti  cotesti  errori  di  prospettiva  è  testimonianza 
precisa,  solenne  il  volume  del  C. 


Ho  accennato  alla  copi^  dell'erudizione  del  libro  e  dell'autore.  Ma  mi 
accorgo  di  dover  fare  qualche  riserva.  La  «partigianeria»,  cui  accennavo 
in  principio,  ha  macolato  anche  sotto  quest'aspetto  il  volume  del  C.  Darò 
alcune  prove. 

Discorrendo  della  politica  di  Napoleone  III  verso  l' Italia  nel  1859,  il  C. 
(pp.  31-36)  insiste  sugli  scopi  sleali,  cui  quel  principe  avrebbe  mirato  nell'atto 
di  valicare  le  Alpi.  Egli  avrebbe  voluto  la  guerra  soltanto  per  consolidare 
il  suo  trono  con  la  gloria  militare,  e  per  continuare,  sempre  in  vista  di  un 
interesse  dinastico,  a  lacerare  i  trattati  del  1815  ;  infine,  per  «  rettificare  »  le 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  .321 


frontiere  della  Francia.  Così  la  guerra  del  1859  sarebbe  stata  l'effetto,  di  un 
piano  machiavellico  della  diplomazia  imperiale. 

Io  potrei  a  questo  punto  chiedere  quale,  se  così  stessero  le  cose,  sarebbe 
stata  la  colpa  del  governo  francese,  giacché,  il  C.  stesso  ci  aveva  in  prece- 
denza insegnato  che  le  nazioni  debbono  agire  «  senza  inopportuni  sentimenta- 
listni^  con  sola  davanti  agli  occhi  la  visione  del  bene  supremo  della  patria  » 
(p.  v.).  Ma  io  preferisco  chiedere  qual'è  la  prova  della  verità  di  una  siffatta 
interpretazione  della  politica  francese  al  1859.  Codesta  prova  non  esiste,  e 
l'erudito  ha  ingannato  se  stesso  prima  che  i  suoi  lettori.  Egli  ha  citato  un 
brano  di  un  tardo  discorso  parlamentare  di  Giovanni  Bovio,  che  nulla  ha 
che  vedere  con  la  guerra  del  1859,  e  \  giudizi  personali  di  un  più  tardo  scritto 
di  Francesco  Crispi,  ormai  piegato  al  fascino  del  prussianismo,  in  cui,  per 
altro,  insieme  con  talune  smentite  alla  tesi  del  C,  si  contengono  veri  e  propri 
errori  storici,  che  più  in  là  rileveremo.  Fuori  di  ciò  il  C.  non  si  è  dato  la 
pena  di  esaminare  la  situazione  della  Francia  alla  vigilia  del  1859,  di  pene- 
trare l'indirizzo  generale  della  politica  estera  del  Secondo  Impero. 

Se  così  avesse  fatto,  avrebbe  trovato  che  la  volontà  di  lacerare  i  trattati 
del  181 5  fu  ed  è  una  delle  più  disinteressate  cose  della  politica  del  terzo  Na- 
poleone; che  la  guerra  del  '59  segue  al  consolidamento  trionfale  del  trono  del 
Bonaparte,  gìà  avvenuto  nel  1856,  e  che  esso  fu  un  atto,  destinato  a  com- 
promettere, e  che  gravemente  compromise,  i  precedenti  successi  imperiali; 
che,  infine,  la  rettifica  delle  frontiere  non  fu  lo  scopo  della  guerra,  ma  la  con- 
dizione che  il  Bonaparte  dovette  porre  perchè  l'opinione  pubblica  francese 
gli  consentisse  la  meno  interessata  guerra  del  mondo. 

Assai  peggio  si  comporta  il  C.  à  proposito  della  guerra  del  1866.  L'Im- 
peratore, com'è  noto,  aveva  assicurato  all'Italia  la  Venezia,  «qualunque  fosse 
l'esito  della  guerra».  Ma  il  C.  trova  perciò  che  la  mala  e  fiacca  condotta 
della  nostra  guerra  di  allora  si  deve  alle  mefistofeliche  assicurazioni  del- 
l'Imperatore, anzi  al  suggerimento  stesso  dell'Imperatore  (p.  50).....  Costui, 
per  altro,  avrebbe  intenzionalmente  voluto  nuocere  all'onore  italiano,  facen- 
dosi, dopo  Sadowa,  intermediario  tra  Prussia  e  Austria.  Di  questa  intenzio- 
nalità il  C.  non  può  portare  alcuna  prova.  Viceversa,  egli,  che  ben  la  conosce, 
vuol  mostrar  di  ignorare  tutta  la  grande  irrequietezza  dell'opinione  pubblica 
francese  intorno  al  1866  circa  l'imperiale  deliberazione  di  neutralità  nella 
guerra  austro-prussiana,  e,  di  conseguenza,  il  dotto  storico,  che  al  solito  studia 
il  nostro  Risorgimento,  chiudendosi  nella  considerazione  dei  soli  avvenimenti 
italiani,  ostenta  di  non  sapere  che  l' intervento  francese,  dopo  Sadowa,  dipese 
dalla  reazione  interna  della  Francia  di  contro  al  nascente  pericolo  prussiano. 

Ma  che  dire,  allorché  il  C.  afferma  che  fu  proprio  Napoleone  III  a  im- 
pedire, nella  pace  di  Vienna  del  1866,  la  cessione  del  Trentino  all'  Italia 
(PP-  52-53)?  Per  affermare  ciò  egli  si  fonda  sur  una  notìzia  che  il  Bismarck 
avreboe  confidata  a  Francesco  Crispi,  e  che  questi  annotò  in  quelle  stesse  pa- 
gine, in  cui  —  vedemmo  —  aveva  giudicata  machiavellica  la  politica  di  Napo- 
leone III  nel  1859.  L'erudizione  del  Curatolo  non  ignora,  per  certo,  ma  essa 
è  sforzata  a  sottacere,  che,  prima  e  dopo  la  guerra,  fu  soltanto  la  Prussia 
a  negarci  il  Trentino.  L'erudizione  del  C.  sa  infatti  che  cioè  consegnato  in 

•21  —  Nuova  Rivista  Storica. 


322  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


una  pubblicazione  italiana  semi-ufficiale  (L.  Chiala,  Ancora  un  po'  piti  di 
luce  sugli  avvenimenti  del  1866,  Firenze,  Barbera,  1902,  Appendice ^  pp.  456-57; 
528)  e  in  solenni  pubblicazioni  ufficiale  tedesche.*  Viceversa,  la  responsabilità 
personale  del  Bonaparte  è  nettamente  esclusa  da  un  altro  storico  ufficiale 
tedesco,  che  indubbiamente  il  C.  conosce,  Guglielmo  Oncken,  il  quale  appunto 
menziona  i  numerosi  e  vani  «  passi  »  dell'Imperatore  dei  Francesi  e  gli  rim- 
provera «  la  debolezza  di  aver  fatta  sua  e  appoggiato  a  Vienna  la  pretesa  del 
vinto  di  Custoza  e  di  Lissa...  ».2 

dome  si  vede,  la  forma  esatta  della  inesattezza  storica  del  C.  è  quella 
dell'omissione.  Così,  se  vuol  illustrare  la  politica  del  Presidente  della  seconda 
Repubblica  francese  verso  il  papato,  nel  1849,  egli  dimenticherà  la  famosa 
lettera  a  Ney  del  18  agosto  di  quell'anno,  come  dimenticherà  la  successiva 
lettera  a  Barrot,  dopo  il  Motuproprio  di  Pio  IX  del  12  settembre  successivo. 
Se  poi  vuole  illustrare  la  politica  del  Presidente  e  dell'Imperatore  verso  il 
papato  dal  1849  ^  1870,  egli  dimenticherà  l'invio  del  ministro  Reynal  a  Roma 
dopo  il  1856;  dimenticherà  l'opuscolo  famoso  Le  Pape  et  l'Italie  del  1860; 
dimenticherà  la  missione  del  Persigny  subito  dopo  il  settembre  1864,  e  così  via. 

Analogamente  il  C.  registra  l'invettiva  famosa  del  Cavour  dopo  Villa- 
franca,  ma  omette  il  poco  più  tardo  ed  esplicito  giudizio  del  medesimo  sulla 
politica,  immediatamente  successiva,  del  Bonaparte.  «  Come  i  germi  conte- 
nuti nel  Trattato  di  Villafranca  si  sono  sviluppati  in  modo  meraviglioso!  La 
campagna  politica  e  diplomatica  che  l'ha  seguita  è  stata  così  gloriosa  per 
l'Imperatore,  più'  vantaggiosa  per  l'Italia  della  campagna  militare  che  Ì'ha 
preceduta.  La  condotta  dell'Imperatore  verso  Roma,  la  sua  risposta  all'arci- 
vescovo di  Bordeaux,  il  suo  importante  opuscolo,  la  lettera  al  P«pa  sono  ai 
miei  occhi  dei  titoli  alla  riconoscenza  degli  Italiani  più  grandi  delle  stesse  • 
vittorie  di  Magenta  e  di  Solferino...  Benedetta  la  pace  di  Villafranca!  Senza 
essa  la  questione  romana,  la  più  importante  di  tutte,  non  solo  per  l'Italia, 
ma  per  la  Francia  e  l'Europa,  non  avrebbe  potuto  avere  una  soluzione  com- 
pleta... ».  «  L'Imperatore  ha  reso  alla  società  moderna  il  maggior  servizio  che 
fosse  possibile  di  renderle.  Egli  ha  acquistato  il  diritto  di  essere  collocato  fra 
i  pili  grandi  benefattori  dell'umanità  ».3 

Se  infine  il  C.  deve  narrare  dell'occupazione  francese  di  Tunisi,  nel  1881, 
al  cui  possesso  i  più  recenti  storici  francesi  convengono  che  eguali  interessi 
(essi  parlano  esattamente  di  interessi,  non  di  diritti)  portavano  Italia  e  Fran- 
cia, egli  dimentica  assolutamente  la  parte  avuta  dal  Bismarck  nell'aflare, 
confermata  persino  dalle  stesse  fonti  tedesche  (cfr.  Hohenlohe,  Denkwur- 
dingkeit,  Stuttgart-Leipzig,  1907,  II,  306-07)  ;  dimentica  le  responsabilità  del 
governo  italiano,  censurate  dai  nostri  giornali  moderati  di  quel  tempo,  e  non 
vuol  mostrar  di  conoscere,  poniamo,  gli  studi  italiani  (non  stranieri!)  più 
autorevoli,  più  imparziali  e  più  completi  in  proposito,  ad  es.  quello  del  Chiala 
{Pagine  di  storia  contemporanea,  i^sz.  2°;  Tunisi,  Torino,  Roux  &  C,  1912). 


»  Cfr.  voN  Keudhll,  Bismarck  et  sa  famille  (trad.  fr.),  pp.  229  sgg.  ;  von  Sybel,  BegtuH- 
dung  der  deutschen  Reiches.  MUnchen-Leipzig,  1890-94,  V,  pp.  370  sgg.  ;  402  sgg. 

•  L'epoca  deW Imperatore  Guglielmo  (trad.  it.),  Milano,  Soc.  ed.  Libr.,  I,  pp.  731-732. 

•  Citato  In  C.  TivARONi;  L'Italia  degli  Italiani  (1859^6),  Torino,  1896,  pp.  i53-i54- 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  323 


Se  infine  il  C.  discorre  dei  posteriori  rapporti  fra  Francia  e  Italia  fino 
al  1914,  egli  ha  cura  di  mettere  in  rilievo  soltanto  gli  atti  di  reciproca  osti- 
lità e  di  passare  sotto  silenzio  tutti  quelli  di  carattere  opposto,  e  che  furono 
assai  numerosi,  dopo  il  1900. 

Ma,  ripeto,  l'errore  storico  più  grave  e  fondamentale  deF  libro  del  Cura- 
tolo è  l'assenza  completa  d'intelligenza  storica,  al  cui  compenso  non  basta 
r  impressionante  sciorinare  delle  citazioni  e  dei  documenti. 

Il  C.  usa  valutare  fatti  antichi  con  criteri  d'età  assai  più  tarde.  Ad  esem- 
pio, egli  immagina  di  credere  che  la  Repubblica  romana  del  1859  sia  stata 
giudicata  dai  contemporanei  negli  stessi  termini,  in  cui  la  giudicano  oggi 
gli  autori  di  libri  recenti  di  storia  patria.  Viceversa,  il  Mazzini  del  1849,  P^^ 
i  due  (o  per  i  tre  quarti?)  dei  liberali  e  dei  democratici  del  tempo,  era  un  pazzo, 
un  «  demagogo  »,  e  il  suo  antitemporalismo,  un'utopia  pericolosa Il  C.  co- 
nosce certamente  il  giudizio,  che  noi  oggi  possiamo  dire  sbagliato,  ma  che 
allora  rappresentava  il  pensiero  della  democrazia  moderata,  che  V^incenzo  Gio- 
berti dettò  sulla  Repubblica  romana  del  1849  :  «  Il  primo  errore  fu  la  Repubblica, 
il  secondo,  l'elezione  del  capo.  L'equità,  la  decenza  e  la  politica  consiglia- 
vano del  pari  che  la  scelta  non  cadesse  su  Giuseppe  Mazzini Il  Mazzini  era 

in  voce  di  fanatico  e  perpetuo  cospiratore,  rappresentava  per  molti  quanto 
può  figurarsi  di  più  eccessivo  in  opera  di  rivoluzione  ;  dava  diffidenza  ai  savi, 
spavento  ai  timidi,  ribrezzo  ai  religiosi  uomini...  Una  repubblica,  capitanata 
da  un  tal  uomo,  invece  di  placar  gli  opponenti,  si  concitava  contro  tutti 
coloro  a  cui  non  va  a  sangue  la  signoria  dei  puritani.  Odiando  egli  la  mo- 
narchia assolutamente  e  volendo  ridurre  tutto  il  mondo  a  repubblica,  non 
sarebbe  stato  pago  a  quella  di  Roma,  ma  di  quivi,  come  da  un  centro,  avrebbe 
cospirato  contro  i  principi  in  universale.  Ora  come  ciò  potesse  piacere  ai  so- 
vrani d'Italia  e  d'Europa  ognun  sei  vede L'intervento  [francese]  non  ebbe 

tanto  luogo  contro  il  principio  democratico,  quanto  contro  il  demagogico,  im- 
personato  nel  Mazzini,  il  quale  era  creduto  intendersela  di  qua  dalle  Alpi 
colle  sètte  pericolose  alla  proprietà  e  alla  famiglia ».* 

Il  C.  conosce  per  certo  tale  giudizio  significantissimo,  ma  non  ne  fa 
punto  menzione.  Analogamente,  egli  immagina  di  credere  che  il  concetto 
dell'unità  d' Italia,  che  prima,  del  1860  era  soltanto  di  una  piccola  minoranza 
di  mazziniani,  sia  stato  condiviso  dalla  unanimità  degli  Italiani,  sulla  qual  base 
egli  può  lanciare  le  accuse   più  atroci    contro   le  tendenze   federalistiche  di 

Napoleone  III  a  Plombières Ma,  per  costruirsi  tali  fondamenta,  egli  deve, 

fra  le  infinite  cose,  scalpellare  dalla  propria  memoria  il  giudizio  che  lo  stesso 
Cavour  dava  allora  degli   unitarii  :  «  Manin  è  sempre   un  utopista,   non   ha 

dimesso  l'idea   di  una  guerra   schiettamente   popolare ,    vuole   l'unità 

d'Italia  ed  altre  corbellerie...^  (Cavour,  Lettere,  ed.  Chiala,  To- 
rino, Roux,  II:  9  aprile  1856,  p.  439). 


»  Del  Rinnovamento  civile,  Bari,  1911,  I,  pp.  368-9;  cfr.  pp.  293;  349  sgg.  Circa  le  sinistre 
leggende  iutorao  al  Mazzini  e  all'opera  sua  rivoluzioaaria,  cfr.  aache  B.  King,  Mazzini  (trad. 
it.),  Firenze,  pp.  167  sgg. 


324  NotCt  questioni  storiche,  ecc. 


Con  criterio  analogo,  il  C.  valuta  l'opera  degli  uomini  politici  secondo 
gli  attacchi  degli  avversari...  Così,  quale  unità  di  giudizio  intorno  a  Napo- 
leone III,  egli  adotta  gli  Chàtiments  e  Napoléon  le  Petit  di  Victor  Hugo. 
Il  che  sarebbe  lo  stesso  che  voler  intendere  e  giudicare  il  grandioso  mo- 
vimento repubblicano-socialista-francese  dal  1851  al  1870  coi  criteri  della 
polizia  napoleonica.  Nessuno  sforzo,  nessuna  luce  per  formarsi  un  concetto 
dell'enorme  importanza  e  della  funzione  del  Secondo  Impero  nella  storia 
della  Francia  e  dell'Europa  durante  la  seconda  metà  del  secolo  XIX;  nes- 
suno sforzo  per  penetrare  il  non  facile  problema  politico  della  spedizione 
francese  a  Roma  del  1849,  e  per  distinguervi  le  diverse  e  discordi  influenze 
che  la  ispirarono  e  determinarono.  Nessuno  sforzo  (l'abbiamo  accennato) 
per  intendere  la  politica  papale  di  Napoleone  III;  nessuno  per  ritrovare  il 
bandolo  della  fatalmente  contradditoria  politica  italiana  di  quel  principe  ; 
nulla  per  ritrovare  la  chiave  della  sua  politica  europea.  Così  Villafranca, 
Nikolsburg,  Mentana  rimangono,  come  nei  libri  per'^le  scuole,  un  mistero 
o  un  parto  della  malvagità  umana.  Un  altro  mistero  è  l'arrendevolezza,  il 
«  molle  contrasto  »  (come  lo  definiva  il  Cavour)  della  Francia  alla  spedizione 
garibaldina  del  i86o-6r,  mentre  il  valor  politico  della  Convenzione  di  settem- 
bre è  fatto  giudicare  {incredibile  dictu  !)  dai  moti  di  Torino  del  21  e  21  settem- 
bre   Finalmente  la  politica  francese  sulla  questione  romana  intorno  al  1870, 

quella  politica  che  fece  perdere  alla  Francia  l'aiuto  italiano  ed  austriaco  ad 
un  tempo;  quella  politica  che  seguirono  insieme  bonapartisti  e  repubblicani 
antibonapartisti;  quella  politica  di  sacro  rispetto  ai  trattati  volontariamente 
sottoscritti,  anche  quando  il  lacerarli  era  giovevole  ;  quella  politica  —  dico  — 
che  solo  l'Europa  del  1914-18  può  apprezzare  e  che  ispirò  lampi  di  passio- 
nata eloquenza  agli  uomini  politici  della  Francia  martire,*  è  ancora  una  volta 
profondamente  miscompresa  e  calunniata. 

E  gli  esempi  si  potrebbero  moltiplicare,  ma  la  conclusione  sarebbe  sempre 
una  sola:  storia  non  è  ammucchiare  citazioni,  ritagliare  memorie,  giornali, 
documenti;  storia  è  intendere  tutto  questo;  è  tentar  di  sviscerar  le  ragioni 
di  ogni  cosa;  è  illuminare  ogni  cosa  con  la  luce  del  proprio  ingegno,  della 
propria  coltura,  del  proprio  spirito.  Per  non  aver  fatto  nulla  di  ciò,  il  libro 
del  C.  fu  un  atto  politico  pericolosissimo,  e  rimane  tuttavia  una  peggiore 
monografia  storica. 

C.  B. 


*  Ecco  come  scriveva  allora  all'  Imperatore  il  suo  Primo  ministro,  un  democratico  :  *  Sire, 
l'idea  che  Vi  suggerisce  il  signor  von  Beust  [il  ministro  austriaco]  è  deplorevole  e  non  pratica... 
Con  l'Italia  noi  non  abbiamo  che  una  sola  tesi  onorevole,  sicura...:  la  Convenzione  del  15  set- 
tembre. Se  per  combattere  i  Prussiani  non.  vogliamo  divenire  come  essi  senza  fede  né  legge,  noi 
dobbiamo  tenerci.  Nessuna  alleanza  può  controbilanciare  una  mancanza  alV onore.  "L'onore  ci  vieta 
di  uscire  da  Roma,  salvo  che  con  la  promessa  che  l' Italia  rispetterà  e  farà  rispettare  la  Conven- 
zione del  15  settembre».  Ecco  come  replicava,  in  data  25  luglio,  il  Ministro  degli  esteri  all'am- 
basciatore francese  a  Vienna:  «  L' imperatore  è  impegnato  [nella  Convenzione  di  settembre]  e  non 
può,  né  deve,  disimpegnarsi.  La  Francia  non  può  difendere  il  suo  onore  sul  Reno  e  sacrificarlo 
sui  Tevere...  >  «  La  sola  idea  »,  ribadirà  telegraficamente  il  suo  collega,  due  giorni  dopo,  «  la  sola  idea 
di  abbandonare  il  papa  in  cambio  del  concorso  dei  nostri  alleati  ci  coprirebbe  di  vergogna*. 
(E.  Ollivier,  Emp.  liberal,  Paris,  1911,  XV,  pp.  483;  513).  Più  tardi  al  governo  imperiale  suc- 
cederà il  governo  repubblicano,  antibonapartista,  della  Difesa  nazionale,  e  la  risposta  sarà  sempre 
la  stessa  :  «  La  Convenzione  di  settembre  è  ben  morta,  ma  noi  non  la  denunceremo.  Se  la  Francia, 
fosse  vittoriosa,  noi  cederemmo  al  vostro  desiderio,  ma  essa  è  ben  vinta...» 


Note^  questioni  storiche^  ecc.  325 


M  cattedra  di  storia  antica  nella  R.  Università  di  Roma. 

Un  autorevole  giornale  romano  pubblica  la  veridica  Informazione,  che  qui 
fedelmente  riproduciamo  : 

«  È  noto  che  a  Roma  la  cattedra  di  Storia  antica  era  «  affidata  al  pro- 
«  fessore  Giulio  Beloch,  tedesco.  Con  un  provvedimento  che  avrebbe  dovuto 
«  essere  stato  preso  prima,  il  prof.  Beloch  —  il  quale  non  ha  mai  fatto  mi- 
«  stero  di  essere  e  di  rimanere  .im  fedele  suddito  del  Kaiser  —  è  stato  final- 
«  mente  messo  a  riposo.  La  Facoltà  sta  provvedendo  alla  successione.  Ma 
«  si  sa  che,  per  decreto  luogotenenziale,  fino  al  termine  della  guerra  sono 
«  vietati  i  concorsi.  Occorre  dunque  provvedere  con  un  trasferimento.  La  Fa- 
«  colta,  per  votazione,  chiama  dà  un'altra  Università  a  Roma  un  professore 
«  da  designarsi  con  almeno  12  voti  su  x8  votanti.  Sono  state  poste,  per  la 
«cattedra  di  Roma,  due  candidature:  quella  del  prof.  Ettore  Pais,  titolare  a 
€  Napoli,  e  quella  del  prof.  De  Sànctis,  titolare  a  Torino.  La  tendenza  del 
«  De  Sanctis,  il  quale  è  un  allievo  del  Beloch,  è  stata  sostenuta  dai  proff.  Ceci 
«  De  Lollis  e  Festa  dell'Università  di  Roma.  Si  è  così  addivenuti  a  una 
«  prima  votazione,  Eccone  i  risultati  :  1 1  voti  favorevoli  al  prof.  Pais,  una 
«scheda  bianca;  6  voti  al  prof.  De  Sanctis. 

«  Si  procederà  a  una  seconda  votazione,  e  se  ne  attendono  con  interesse 
«  i  risultati.  Si  osserva  una  vivace  attività  di  propaganda  a  favore  dei  due  can- 
«  didati,  e  sembra  si  voglia  fare  di  questa,  che  avrebbe  da  essere  questione 
«  puramente  scientifica,  oggetto  di  competizioni  d'altra  natura.  Ma  è  possibile 
«che,  mentre  l'Italia  è  in  guerra,  nemmeno  all'Università,  siano  ancora  scom- 
«  parsi  i  livori  di  parte  ?  Ed  è  possibile  che,  mentre  la  Germania  si  disonora 
4(di  fronte  alla  morale  umana,  ci  siano  ancora  degli  araldi   della  Kulìurfi^. 

Queste  notizie  meriterebbero  a  loro  volta  un  commento  svariato  e  molteplice. 
Ma  noi  qui  vogliamo  Jimitar ci  ad  una  sola  osservazione.  In  qualcuno  degli 
scorsi  numeri  della  N.  R.  St.  ci  siamo  occupati  dell* opera  di  Giulio  Beloch, 
fino  a  ieri  professore  di  storia  antica  nella  R.  Università  di  Roma^  mettendo 
in  rilievo^  forse  primi  in  Italia^  alcune  delle  sue  manchevolezze.  Ora  il  Beloch 
non  è  piti  insegnante  negli  Atenei  italiani,  travolto  dalla  tormenta  universale 
che  tutto  scuote  e  rovescia.  E  appunto  perciò  —  nel  silenzio  profondo  dì  coloro 
che  per  decenni  stettero  'curvi  intorno  al  suo  trono^  supplicando  un  cenno  di 
assentimento  —  noi,  per  fortuna  insospettabili y  vogliamo  dire  che  il  Beloch, 
insieme  con  talune  qualità  negative ^  ebbe  grandi  pregi,  non  d'insegnante,  ma 
di  storico:  larga  erudizione,  coltura  economica,  senso  politico,  capacità  di guar- 
dare  i  fatti  dall'alto,  una  certa  arte  dello  scrivere,  che  lo  distingueva  tra  i 
suoi  dotti  connazionali,  sì  che  veramente  egli  fu  il  più,  geniale,  il  solo  geniale, 
tra  la  schiera  degli  studiosi  di  storia  antica,  che  presunsero  ispirarsi  alla  sua 
scuola  e  intitolarsi  discepoli  suoi.  Questo  vogliamo  dire  oggi,  e  forse  illustre- 
remo domani,  in  un  qualche  apposito  saggio  sulla  N.  R.  St.  Ma  lo  stesso  non 
possiamo  ripetere  dell'uomo,  che  vediamo  predestinato  a  succedergli. 


326  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


Ettore  Pais  non,  è  tino  storico;  dello  storico  possiede  unicamente  la  fa- 
coltà critica^  ma  questa  degenera  in  lui  in  tali  eccessi^  da  rendere  impossibile 
la  vera  opera  storica  di  penetrazione  e  di  ricostruzione.  Egli  è  piuttosto  un 
bizantino  della  erudizione^  un  maniaco  della  ipercritica.  Tutto  quello  che  di 
meno  equilibrato,  intorno  alla  storia  romana,  almanaccarono  i  critici  tedeschi 
del  secolo  XIX  egli  lo  ha  ridotto  a  sistema  in  volumi  invalicabili,  fiei  quali 
lo  spirito  di  demolizione  sembra  essere  un  preconcetto,  piuttosto  che  la  conse- 
guenza naturale  di  uno  studio  serenamente  intrapreso.  Là  dove  Niebuhr  a 
Mommsen  avevano  mosso  dubbi  e  sospetti  egli  ha  affermato  sicuramente  ;  là 
dove  i  criticastri  avevano  negato,  egli  pensò  bene  di  snodare  tutta  la  catena 
delle  conseguenze  negative.  Egli  si  presenta  così  come  il  maggiore  responsabile 
della  distruzione  della  storia  romana,  che  da  cinquant' anni  si  perpetra  nelle 
scuole  italiane.  Lo  è  stato  fino  al  punto  da  destare  —  egli  ch'era  l'importatore 
riconosciuto  dei  metodi  germanici  in  Italia  —  il  cruccio  e  lo  sdegno  nei  Te- 
deschi stessi,  da  cui  avea  preso  le  mosse.  I  critici  d'oltre  Alpi  videro  a  un 
certo  punto  che  l'imitatore  nostrano  era  la  parodia  vivente  dei  loro  criterii 
scientifici  e  lo  ammonirono  di  non  essere  più.  tedesco  dei  Tedeschi. . .  ^  Qualcuno 
di  noi  ricorda  ancora  Vacre  disdegno  di  Teodoro  Mommsen  dinarizi  all'opera 
paisiana.  Ma  sono  note  le  accuse  di  vassallaggio  intellettuale  germanico  rivolte 
al  Pais  dallo  stesso  Beloch.^  Or  bene,  per  noi  che,  fortunamente ,  possiamo 
considerar  la  cosa  nei  soli  riguardi  della  coltura,  l'allontanamento  del  Beloch 
dalla  cattedra  di  storia  antica  in  Roma  fion  può  avere  il  semplice  significato 
di  un  atto  di  polizia  interna:  esso  deve  esprimere  la  ferma  volontà  di  confe- 
rire a  menti  e  a  spiriti,  italiani  per  educazione  e  per  sentire,  quella  cattedra 


»  Cfr.  O.  E.  SCHi\il>T,Die  gegenwdrtige  Krisis  in  der  Auffassung  cUr  alteren  romischen  Gè- 
schichte  (in  N.  Jahrbùcher  fùr  d.  klass.  Altertum  (1900,  pp.  38sgg,): 

«Lo  scetticismo  critico  guadagna  terreno  anche  fra  i  dotti  non  tedeschi.  In  Italia,  di  re- 
«cente,  un  cospicuo  professore  universitario  —  Ettore  Pais  —  si  è  posto  contro  la  tradizione  ro- 
«<  mana,  tutto  informato  allo  spirito  del  Niese,  anzi,  nella  sua  inclinazione  allo  scetticismo,  ha 
«oltrepassato  il  Niese  stesso  »  (p.  39).  Il  P.  ha  pubblicato  due  grossi  volumi  e  un  terzo  geme  sott» 
*  torchi.  «  Tuttavia  egli  e  ancora  lontanissimo  da  una  esposizione  della  storia  romana  ;  i  due 
«  volumi  fin  ora  pubblicati  contengono  solo  un  esame  critico  della  tradizione...  Si  ha  dell'Autore 
«  l' impressione  come  di  un  uomo  oppresso  sotto  il  peso  del  materiale  raccolto...  e  che  perciò  si  sforza 
«  in  certo  modo  di  liberarsene  pubblicandolo...  La  lettura  dei  due  volumi,  che  ci  stanno  dinanzi,  noa 
«  è  davvero  un  diletto,  ma  una  fatica,  che  solo  pochi  tedeschi  potranno  realmente  aver  la  pazienza  di 
«  condurre  fino  in  fondo...  »  yp.  40).  «  Nella  distruzione  della  tradizione  il  Pais  era  stato  preceduto 
«dal  Niese»  (pp.  42-43),  «Il  suo  procedere  di  fronte  al  racconto  tradizionale  è  quello  di  un  dia- 
«  gnosticatore  in  pena...  Egli  rigetta,  non  solo  quello  che  non  ha  senso  e  che  è  pieno  di  contradi- 
«zioni,  ma  anche  quello  di  cui  si  può  in  un  modo  qualsiasi  sospettare...  Il  P.  non  si  domanda  se 
«  una  notizia  o  una  persona  della  storia  romana  siano  o  no  inverosimili,  ma  senza  scrupolo  giudica 
«decisamente  come  falsificazione  ciò  che  può  .eventualmente  entrare  in  qualcuna  delle  categorie 
«  da  lui  stabilite  ».  «  Perciò  il  P.,  nel  suo  radicalismo  critico,  non  solo  va  al  di  là  di  Niebuhr  e  di 
«Mommsen,  ma  anche  del  Niese»  (p.  41-42).  «Noi  troviamo  in  lui  la  stessa  fede  nella  propria 
«infallibilità  che  si  nota  in  molti  altri  moderni  :  ciò  che  Polibio  e  i  suoi  contemporanei,  Scipione 
«e  Lelio,  non  intesero  esattamente,  è  inteso  in  modo  perfetto  dal  professore  del  secolo  XIX...  E  chi 
«difende  le  vedute  e  l'apprezzamento  di  Polibio;  dimostra  mancanza  di  metodo  o  dilettantismo... 
«  Da  ciò  la  sua  inclinazione  verso  le  teorie  più  radicali;  da  ciò  il  suo  conseguenzialismo  senza  riguardi» 
«  che  non  gli  permette  di  porgere  ascolto  a  voci  moderate  e  a  correzioni,  fino  a  che  finalmente,  senza 
«accorgersene,  egli  si.  perde  in  un  labirinto  di  soggettivismo  smodato  e  di  sterile  speculazione...* 

•  G.  Beloch,  in  /?i».  d'Italia,  1912,  p.  537:  «  Io  non  appartengo  a  nessuna  delle  scuole 
«esistenti  in  Germania;  il  prof.  Pais  invece  è  uscito  dalla  scuola  del  Mommsen  ;  ne  è  anzi  uno 
«dei  rappresentanti  più  autorevoli.  E  suppongo  che  egli  non  vorrà  rinnegare'' ora  il  suo  Maestro, 
«  il  ritratto  del  quale  troneggia,  o  troneggiava  fino  a  poco  tempo  fa,  Nume  tutelare  del  luog», 
«sul  suo  tavolino  da  studio». 


I 


Note»  questioni  storiche,  ecc.  327 


che  è  simbolo  e  pegno  solenne  del  nostro  patrhnonio  storico  e  intellettuale .  Se 
dunque  il  nostro  non  è  il  paese  delle  contradizioni  e  delle  transazioni  rivol- 
tanti, alla  cattedra  universitaria  di  Roma  non  può  degnamente  rispondere  la 
personabilità  scientifica  di  Ettore  Pais.  Sappiamo  bene  che  Facoltà  e  ministri 
non  hanno  largo  campo  di  scelta  nel  nostro  devastato  mondo  ufficiale,  ma  non 
è  perciò  detto  che  la  buona  scelta  debba  essere  proprio  la  scelta  peggiore. 

G.  P.  ;  C.  B. 


<  La  Voce  dei  Popoli  »  organo  della  Giovine  Europa/ 

La  necessità  di  sottrarre  per  sempre  al  militarismo  prussiano  gli  aiuti 
delle  nazioni  oppresse  e  di  tutti  gli  Slavi  irreggimentati  al  conseguimento  dei 
suoi  fini  imperialisti;  la  necessità  di  isolare  l'Austria,  sia  sul  versante  russo 
che  su  quello  balcanico  con  un  cordone  continuo  di  Stati  indipendenti  dalla 
Vistola  al  Danubio;  la  scomparsa  del  pericolo  panslavista  o  delle  preoccu- 
pazioni che  da  esso  derivavano,  donde  la  via  libera  a  patti  più  cordiali  con  gli 
Slavi  del  Nord  e  del  Sud  ;  da  ultimo  lo  svanire  di  ogni  speranza  riposta  in 
una  resipiscenza  democratica  del  popolo  germanico  o  in  una  sfaldatura  del 
blocco  centrale:  questi  sono  stati  i  fatti  maggiori  che  hanno  indotto  l'Italia  a 
fare  nuovamente  suoi  il  programma  e  lo  spirito  mazziniano,  là  dove  si  pro- 
ponevano di  affidare  al  nostro  paese  l'iniziativa  di  una  trasformazione  europea 
secondo  il  principio  di  nazionalità. 

Da  qui  una  nuova  letteratura  storico-polemica,  mirante  ad  una  vigorosa 
offensiva  morale  e  politica  contro  il  nemico,  e  contfo  l'Austria,  in  modo  più 
particolare,  per  Fintesa  di  tutti  i  popoli  etnicamente  fuori  del  germanesimo, 
ma  socialmente  e  militarmente  soffocati  dalla  sua  stretta  con  la  complicità  di 
Vienna  e  di  Berlino.  Queste  idee,  che  ebbero  nel  nostro  Gaetano  Salvemini 
il  primo  divulgatore  tenace  e,  nella  sua,«  Unità  »,  la  prima  palestra  di  adde- 
stramento, avranno,  e  hanno  cominciato  ad  avere,  un  ausiliario  bene  promet- 
tente in  un  nuovo  organo  di  studio  e  di  propaganda,  «  La  Voce  dei  Popoli  », 
il  cui  primo  numero  contiene  già  tutte  le  principali  questioni  che  si  collegano 
al  diflScile  problema  del  dopo  guerra  :  rispetto  alla  Boemia  nell'Europa  futura, 
alle  convenienze  di  un  accordo  coi  Jugoslavi,  alle  rivendicazioni  romene,  a 
quelle  polacche,  belghe,  ecc.  Questo  primo  numero,  a  cui  hanno  collaborato 
U.  Zanotti-Bianco,  Edoardo  Benes,  lasa  Grgachevic,  P.  M.  Commène,  ce.  ecc., 
parla  con  voce  non  indegna  del  Grande  agitatore,  «  per  quei  che  giacciono 
alla  base  della  gerarchia  europea  ». 

E.  R. 

Di  parecchie  altre  riviste,  sorte  in  questi  due  ultimi  mesi  —  V Intesa  in- 
tellettuale (ed  N.  Zanichelli)  ;  V Italia  che  scrive  (ed.  A.  F.  Formiggini)  ;  /  libri 
del  giorno  (ed.  F.lli  Treves);  Il  Rinnovamento  (dir.  A.  De  Ambris)  ;  la  Rasse- 
gna italo-britannica,  ecc.  —  discorreremo  con  più  agio  in  un  prossimo  numero. 


»  Direttore  Umberto  Zanotti-Bianco.  Anno  I,  n.  i,  aprile  1918. 


I 


Articoli  che  vedranno  la  luce  nei  prossimi  numeri  : 

Corrado  Barbagallo,  L'Italia  dal  1870  ad  oggi:  saggio  storico. 

Idem,  V Oriente  e  l'Occidente  nell'Impero  romano. 

Carlo  Paladini,  Un  invito  dell'Inghilterra  all'Italia  in  Egitto. 

Aldo  Ferrari,  L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari. 

Anna  Vera  Eisenstadt,  La  preistoria  della  rivoluzione  russa. 

Alberto  De  Stefani,  Le  «  idee  madri  ^  di  Vilfredo  Pareto. 

Guido  Santini,  Storiografia  elementare. 

Giuseppe  Pardi,  Un  bilancio  preventivo  dello  Stato  fiorentino  nel  1544. 

Gellio  Cassi,  Meditazioni  storiche:  considerazioni  e  raffronti. 

Gerolamo  Lazzeri,  Le  teorie  storiograficlie  di  Benedetto  Croce. 

Amedeo  Mazzotti,  La  *  filosofia  della  storia*  di  Guglielmo  Ferrerò. 

Epicarmo  Corbino,  //  progresso  economico  della  Sicilia  negli  ultimi  decenni. 

Antonio  Sogliano,  La  bandiera  dell'ellenismo. 

Ivan  Grinenko,  Le  correnti  federaliste  nella  storia  della  Russia  e  nella  lotta  politica 

odierna. 
Umberto  Ricci,  Sulla  opportunità  della  storia  della  economia  politica  italiana. 
Italo  Pizzi,  Della  così  detta  civiltà  degli  Arabi. 
Valentino  Piccqli,  Rassegna  giobertiana. 
Guido  Porzio  e  Corrado  Barbagallo,  Scrittori  vissuti  di  storia  antica  in  Italia: 

G.  Beloch;  E.  Pais  ;  Q.  De  Sanctis;  G.  Ferrerò;  E.  Ciccotti. 
Idem,  La  rivoluzione  dei  Gracchi. 
G.  Urbini,  //  romanticismo  natile  arti  figurative  in  Italia. 

È    già   pubblicato  : 

Per  l'iiaoità  Maiolliifa  Btt:  Dmiì  e  Baliaolie 

Milano-Roma-Napoli  —  Società  Editrice  Dante  Alighieri   di  Albrìghì, 
Segati  &  C,  pp.  viii-137,  Lire  2,50,  di  cui  qui  diamo  ii  Sommario; 

PREFAZIONE  (Oli  Editori);  INTRODUZIONE  (C.  Barbaoallo);  In  che  consiste  Veman- 
eipazione  della  coltura  nazionale  (E.  Ciccotti);  Per  Vemanclpazione  della  coltura  italiana  {A 
proposito  di  un  artìcolo  di  O.  Vitelli)  (C.  B.);  Filologia  e  Storia  (A.  Ferrari);  Per  l'autonomia 
letteraria  e  spirituale  (R.  Mondolfo);  Filologia  italiana  e  filologia  tedesca  (Q.  Fraccaroli); 
Filologia  e  letteratura  :  coltura  tedesca  e  coltura  italiana  (Q.  Fraccaroli)  ;  A  proposito  di  una 
polemica  di  cottura  (P.  Terruzzi);  Storia,  coltura  e  metodo  storico:  lettera  aperta  a  G.  Salve' 
mini  (C.  Barbagallo);  Le  discipline  storiche  e  l'ora  presente  (E.  Bignone);  La  bandiera  del' 
l'ellenismo  (A.  Sqoliano);  Un  processo  filologico-storiografico.....  (F.  Ouolielmino)  ;  EPILOGO 
(C.  Barbagallo).  —  APPENDICE  :  I.  Per  la  serietà  della  scuola  italiana  :  la  questione  del 
libri  scolastici  del  Barbagallo  (E.  Pangrazio);  II.  L'indirizzo  culturale  di  Girolamo  Vitelli  e 
della  sua  scuola  (C.  B.). 

A  scanso  di  equivoci  e  di  erronee  interpretazioni  dichiariamo  una  volta 
per  tutte  che  del  contenuto  SPECIFICO  dei  singoli  articoli  la  responsabi- 
lità appartiene  interamente  agli  autori  che  li  sottoscrivono. 

A.  Medici,  Gerente  responsabile. 
Città  di  Castello,  Tipografia  della  Casa  Editrice  S.  Lapi^  1918, 


Anno  II.  Luglio-Agosto  1918.  Fasc.  IV. 

^uo9a    ^\9\s\a    2)^or\ca 

L'OPERA  SMICA  1)1  GIUSEPPE  FERRARI 

Lo  sviluppo  intellettuale. 

La  produzione  di  G.  Ferrari  (1811-1876),  voluminosissima,  multi- 
forme, diversissima  di  valore,  è  come  un  gran  campo  incolto,  dove  in 
mezzo  al  popolo  verde  delle  erbe  crescono  egualmente  le  pianticelle 
maligne  e  i  fiori  pia  meravigliosi  della  schietta  natura  ;  onde,  per  non 
commettere  errori  di  giudìzio  generalizzando  a  tutti  i  suoi  libri  i  pregi 
o  i  difetti  di  qualcuno,  e  per  evitare  le  opposte  esagerazioni  degli 
idolatri  e  degli  iconoclasti,  bisogna  raccogliere  le  sue  opere  in  gruppi 
separati  secondo  un  criterio  di  valore,  che  corrisponde  suppergiù  al 
criterio  cronologico.  Se  ne  possono  infatti  comporre  quattro  gruppi: 
le  opere  giovanili  (1835-1843),  per  lo  più  di  argomento  filosofico,  quasi 
tutte  di  pregio  molto  limitato  per  la  debolezza  e  confusione  del  giu- 
dizio; la  Filosofìa  della  Rivoluzione  (1852),  potente  ma  oscura;  le  Rivo- 
luzioni d* Italia  e  gli  Scrittori  politici  (1858-1862),  che  insieme  alla 
costellazione  dei  minori  saggi  storici  contemporanei,  sono  veri  e  pro- 
pri capolavori  per  l'unione  felice  della  giustezza  e  sicurezza  di  criterio 
con  la  mirabile  forza  interpretativa  e  rappresentativa;  infine,  gli  altri 
scritti  posteriori  (1862-1876),  viziati  fondamentalmente  e  irrimediabil- 
mente dal  pregiudizio  della  filosofia  della  storia. 

Le  opere  del  primo  periodo  trattano  di  solito  argomenti  filosofici 
d'ogni  genere,  per  lo  più  sotto»- forma  di  critica,  senza  limitazione  dì 
tempo  o  di  luogo;  ma  la  mancanza  di  un  sistema  formato  impedisce  al- 
l'autore di  veder  chiaro  e  di  esprimersi  preciso.  Si  direbbe  che  egli 
abbia  piuttosto  la  sensazione  confusa  che  non  il  concetto  esatto  della 
importanza  dei  problemi,  della  posizione  dei  pensatori,  delle  scoperte 


330  Aldo  Ferrari 


da  essi  fatte,  delle  verità  da  essi  ritrovate.  Questi  libri  sono  sopratutto 
riassunti,  abbastanza  lucidi  e  ordinati,  a  dire  il  vero,  delle  dottrine 
studiate,  di  fronte  a  cui  egli  non  s'attenta  di  prender  netta  posizione, 
ma  che  cerca  far  giudicar  dalla  storia  raccogliendo  le  crìtiche  dei  po- 
steri. Comincia  però  a  spuntare  anche  il  primo  accenno  di  un  sistema 
originale.  Prendendo  posizione  fin  da  principio  contro  il  sensismo  del 
secolo  XVIII,  senza  per  altro  accettare  il  puro  idealismo,  il  Ferrari  cerca 
di  distruggere  con  la  critica  la  logica,  per  sostituirvi  la  rivelazione  nata- 
rate,  che  vince  lo  scetticismo,  sfuggendo  alle  contradizioni  metafisiche 
con  l'affermare  la  verità  dell'apparenza  ;  ammette  una  facoltà  originaria, 
che  combinandosi  con  la  sensazione  produce  le  idee;  sostiene,  pur  ac> 
Gettando  l'utilitarismo,  l'irreducibilità  del  sentimento  morale,  nato  dal- 
l'interesse, ma  inconfondibile  con  esso. 

Un  posto  a  parte  fra  questi  primi  saggi  merita  lo  scritto  sulla  Lette- 
ratura popolare  in  Italia,^  dove  il  buon  senso  e  il  buon  gusto  gli  tengon 
luogo  di  criterio,  per  là  giustezza  di  vedute  con  cui  esamina  la  lette- 
ratura dialettale  italiana,  così  copiosamente  ricca  di  capolavori,  ignorati 
anche  oggi  dalla  generalità  dei  letterati,  i  quali  considerano  il  dialètto 
come  roba  da  comari  in  pettegolezzo  o  da  facchini  in  riposo  domenicale. 

La  Filosofia  della  Rivoluzione^  cerca  di  raccogliere  in  sistema  le 
idee  del  Ferrari.  Questi  viene  comunemente  classificato  come  uno  scet- 
tico: così  lo  definiscono  il  Cantoni,^  il  Fiorentino,*  il  Nicoli,^  il  De 
Ruggiero,®  sebbene  il  De  Sanctis,^  non  lasciandosi  ingannare  dall'eti- 
chetta, preferisse  aggregarlo  all'indirizzo  critico,  e  il  Gentile  *  finisca 
col  riconoscere  che  in  ogni  caso  lo  scetticismo  del  Ferrari  è  di  marca 
tutta  speciale.  11  Ferrari  invece  è  un  inconscio  hegeliano:  porta  nella 
filosofia  sua,  fosforescente  e  confusa,  l'esigenza  ancora  oscura  del  supe- 
ramento di  Hegel,  ne  accenna  la  strada,  e  disegna  le  prime  linee  del 
sistema  destinato  a  succedergh'.  Messosi  a  lottare  corpo  a  corpo  con 
quel  gigante  della  filosofia  moderna,  ne  intuì  il  punto  debole  (confusione 
dei  concetti  opposti  e  dei  concetti  distìnti)  e  quivi  concentrò  i  colpi  della 
sua  critica  dissolvitrice,  guidato  in  quelle  tenebre  crepuscolari  da  un 


1  In  Revue  des  Deux  Mondes,  1  giugruo  1839  e  15  gennaio  1840;  ripubblicato  poi 
con  qualche  aggiunta  e  correzione  negli  Opuscoli  politici  #  Mterari,  CapoUgo,  Elve- 
tica, 1852. 

»  Londra,  s.  t.,  1851. 

3  Q.  Ferrari,  Milano.  Brigola,  1878. 

*  Scritti  vari,   Napoli,  l676,'  pp.  35  e  segg. 

*  la  mente  di  O.  /=".,   Pavia,  Cooperativa,  1902. 

<  La  filosofia  contemporanea,  Bari,  Laterza,  1911,  pp.  157-159. 
7  Storia  della  Leti,  ital.,  Napoli,  Morano,  U,  p.  463. 
«  Q.  Ferrari,  in  Critica,  1903,  p.  199. 


U opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari  331 


oscuro  istinto  più  forte  del  suo  pensiero;  ma  era  stato  poi  vinto  senza 
accorgersene  da  quel  che  in  Hegel  era  di  immortale;  ed  aveva  tradotto 
nei  guizzi  pirotecnici  del  suo  pseudoscetticismo,  tra  contradizioni  e  in- 
certezze, le  verità  da  quello  scoperte  (dialettica  interna  del  divenire 
—  eterno  e  contemporaneo  fluire  della  realtà  e  del  pensiero  -  imma- 
nenza —  razionalità  della  realtà  e  della  storia)  e  preannunziato,  a  dir 
vero  piuttosto  con  l'ambiguità  dell'indovino  che  non  con  la  chiarezza 
del  precursore,  il  superamento  di  quella  filosofia  (autonomia  dei  gradi 
dello  spirito  --  irreducibilità  rispettiva  e  rapporto  di  arte  e  logica, 
d'interesse  e  morale).  La  dimostrazione  di  ciò  è  stata  data  ampiamente 
dall'autore  di  questo  scritto  in  altro  luogo.^ 

Il  Ferrari  non  è  un  filosofo  sommo  e  nemmeno  un  filosofo  com- 
pleto. Non  solo  non  ha  le  doti  esteriori  dell'ordine  e  delia  chiarezza;  ma 
si  direbbe  che  nel  procedimento  logico  segua  la  forma  dell'espressione 
artistica,  sicché  par  quasi  arrivare  al  vero  piuttosto  col  volo  della  poesia 
che  non  co!  rigore  esatto  del  raziocinio.  Quindi  la  misura  completa 
del  suo  genio  si  ha  solo  nelle  opere  di  storia  concreta  immediatamente 
susseguenti  al  sistema  filosofico,  cioè  le  Rivoluzioni  d'Italia  e  gli  Scrit-' 
tori  politici^  con  qualche  saggio  minore. 

La  storia  d'Italia. 

Prendendo  a  rovescio  l'indirizzo  intellettuale  del  Settecento,  astratto, 
antistorico,  tendenzioso  e  polemico,  la  reazione,  che  in  sui  primi  dell'Ot- 
tocento s'inizia  contro  la  Rivoluzione  Francese,  sia  nel  campo  della  po- 
litica che  in  quello  del  pensiero,  richiama  in  onore  la  storia.  La  quale 
diventa  narrazione,  non  più  degli  errori,  ma  dei  tentativi  che  l'uma- 
nità ha  fatti  per  raggiungere  la  giustiiia,  la  spiegazione  e  la  giustifi- 
cazione del  passato  necessario  e  giusto,  un  prodotto  scientifico  ogget- 
tivo, superiore,  almeno  teoricamente,  alle  tendenziosità  politiche^  per 
quanto  in  pratica  inquinato  da  una  tendenziosità  opposta.  Indi  il  suo 
rispetto  ai  fatti,  il  pregio  restituito  all'erudizione,  per  quanto  questa 
non  sia  di  marca  troppo  fina,  l'adozione  del  concetto  di  svolgimento 
che  deve  giustificare  il  passatp  necessario  di  fronte  alla  ragione  con- 
creta, il  ripudio  della  ragione  astratta  incurante  di  tempi  e  di  luoghi, 
Vico  tornato  in  onore  come  il  primo  Italiano  che  avesse  insegnato 
la  razionalità  e  lo  svolgimento  della  storia.  I  rappresentanti  del  nuovo 
indirizzo,  che  formarono  la  scuola  cattolico-liberale  o  neo-guelfa  (Man- 
zoni, Troya,  Capponi,  Balbo,  Gioberti,  Tosti,  Tommaseo,  Cantù),*  se- 


>  A.  Ferrari,  Giuseppe  Ferrari,  Genova,  Formigginl,  1914»  pp«  45-69. 
*  Vedi  :  U.  Rosa,  Storia  generale  delle  storie,  Milano,  Hoepli,  1873  ;  B   ClKK^B^ 
Storia  della  storiografia  in  Italia,  iu  Critica,  1915-1916. 


332  Aldo  Ferrari 


gnavano  anche  nella  pratica  un  progresso  notevolissimo,  per  quanto 
non  così  grande  come  nella  teoria,  sia  nelle  idee  generali  sulla  storia 
d'Italia  (collocamento  dell'Italia  nella  storia  del  mondo  —  riabilitazione 
del  Medio  Evo  —  asserzióne  del  principio  federale  contro  l'unitario  —  im- 
portanza del  Papato  come  gloria  nazionale  —  lotta,  non  accordo,  fra  in- 
vasori e  Latini),  sìa  nelle  scoperte  particolari  (guerra  nazionale  contro  i 
Longobardi  —  origine  italica  dei  Comuni).  Ma  contrastava  al  giusto  con- 
cetto che  essi  avevano  della  storia  un  superstite  moralismo  prodotto  dalla 
confusione  fra  giudizio  morale  e  giudizio  storico,  e  un'ombra  di  teocra- 
tismo,  per  quanto  questo  si  riducesse  alla  forma,  naturale  ed  umana,  di 
un'interpretazione,  condotta  secondo  il  punto  di  vista  d'un'istituzione, 
storica  e  reale,  come  la  Chiesa.  Contradiceva  poi  alla  larghezza  di  criterio, 
con  cui  giudicavano  il  passato,  l'angustia  di  pensiero  per  cui  non  accetta- 
vano le  età  più  vicine,  il  presente,  e  accettavano  solo  in  parte  il  movi- 
mento rivoluzionario  del  loro  tempo.  Nella  sua  opera  concreta  la  ten- 
denza della  scuola  era  tanto  visibile,  che  eccitò  una  reazione,  la  quale 
prese  naturalmente,  per  quanto  impropriamente,  il  nome  di  ghibellina 
(Niccolini,  Vannucci,  La  Farina).  Inferiori  per  senso  storico  ai  loro  oppo- 
sitori, incuranti  della  precisione,  tronfi  di  stile,  risottomettendo  la  storia 
al  capriccio  individuale,  essi  rappresentavano  nello  stesso  tempo  il  con- 
cetto unitario  ripreso  da  Machiavelli,  altrettanto  erroneo  come  criterio  dì 
interpretazione  che  il  concetto  di  indipendenza  del  Balbo;  e  continua- 
vano l'opposizione  razionalistica  e  atea  dei  ghibellini  medievali  alla 
devozione  dei  neo-guelfi,  la  quale  andava  a  finire  nella  reazione.  Questa 
posizione  sentimentale  dava  loro  ragione  contro  gli  avversari  e  segnava 
un  progresso  teorico  in  mezzo  a  tanto  regresso  pratico. 

Ma  il  vero  superamento  della  scuola  cattolico-liberale  si  ha  solo 
nel  Ferrari,  che,  come  ogni  gran  pensatore,  continuatore,  discepolo, 
e  nello  stesso  tempo  avversario,  dei  maestri  da  lui  combattuti,  ne  as- 
simila tutto  il  buono  e  ne  rigetta  tutte  le  limitazioni  retrograde  e  set- 
tarie, e  porta  la  storia  a  una  altezza  interpretativa  non  mai  raggiunta, 
a  uno  splendore  di  rappresentazione,  davanti  a  cui  le  più  belle  pagine  dei 
suoi  predecessori  sembrano  come  appannarsi.  Sollecito  dell'erudizione 
e  dell'esattezza  documentaria,  il  suo  rispetto  al  passato  è  ancora  più 
completo;  la  sua  oggettività,  ancora  più  assoluta,  perchè  non  obbedisce 
a  preferenze  di  epoche  o  di  tendenze;  la  razionalità  della  storia  viene 
più  compiutamente  dimostrata  da  un  pensiero  puro  di  ogni  residuo 
teocratico;  la  necessità  di  essa,  affermata  con  una  energia  che  ributta 
ogni  incompetente  moralismo.  Egli  volta  contro  i  cattolico-liberali,  che 
giustificavano  il  passato  e  combattevano  il  presente,  tutti  i  loro  prin- 
cipii  condotti  alle  logiche  conseguenze;  e  dimostra  contro  di  loro  la 
razionalità  del  movimento  rivoluzionario  contemporaneo  e  del  presente, 


U opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari  333 


nemico  e  figlio  del  tanto  ammirato  passato,  pur  esso  ai  suoi  tempi 
giusto,  ma  che,  appunto  perchè  tale,  deve  esser  morto  per  sempre.  Ac- 
cetta il  concetto  di  svolgimento,' ma  ne  determina  con  molto  maggiore 
esattezza  le  due  forme  necessarie  e  irreducibili  :  lotta  interna  di  partiti 
e  lotta  esterna  di  nazioni  ;  rivoluzione  e  guerra,  che  sono,  per  così  dire, 
le  due  gambe  su  cui  si  muove  l'umanità  in  progresso.  Egli  sa  collocare 
veramente  l'Italia  nella  storia  europea,  anzi  mondiale,  non  sottometten- 
dola a  un  principio,  per  quanto  largo  sempre  limitato  nella  sua  con- 
creta realtà,  come  il  Papato  ;  ma  dimostrandola  viaggiante  per  una  serie 
di  rivoluzioni  similari  a  quelle  di  ogni  altra  nazione.  Pur  riconoscendo 
la  grande  importanza  del  Papato  nella  storia  medievale,  egli  la  contiene 
nei  suoi  giusti  limiti,  opponendo  al  principio  cattolico  un  altro  prin- 
cipio, non  meno  irreducibile,  assoluto,  opntpresente  in  ogni  rivolgi- 
mento italiano:  l'Impero,  anch'esso  creazione  nostra  nazionale,  e  col- 
legato col  primo  in  una  infrangibile  dualità  per  formare  il  sistema 
politico  d'Italia.  Dimostra  come  nel  Papa,  allo  stesso  modo  che  nell'Impe- 
ratore, diventati  dopo  il  mille  poteri  conservatori,  non  si  esaurisse  la  vi- 
talità politica  italiana,  che  stette  sopratutto  nel  popolo,  solo  vero  grande 
protagonista  di  tutte  le  epoche  del  Medio  Evo  :  esso  creatore  del  Pa- 
pato e  dell'Impero  contro  la  minacciosa  possibilità  del  Regno;  esso  in 
lotta  poi  col  Papato  e  con  l'Impero  per  riformarli,  costringendoli  ad 
accettare  e  legalizzare  le  progressive  libertà  conquistate  nella  abba- 
gliante, vertiginosa,  fantastica  serie  delle  sue  rivoluzioni.v  Con  non 
minore  energia  sfata  il  pregiudizio  dell'indipendenza,  che  riduceva  tutta 
la  storia  italiana  a  un  controsenso  continuo,  a  una  assurdità  storica,  e 
condannava  il  Balbo  a  miscomprenderla  nel  modo  più  irragionevole  ;  ri- 
getta l'antipatia  contro  il  Rinascimento,  figlio  più  che  oppositore  del 
Medio  Evo,  sua  diretta  continuazione  e  conclusione  nella  lotta  della  ci- 
viltà latina  contro  l'invasione  dei  Barbari  ;  confuta  la  tentata  apologia  di 
alcuni  barbari  (i  Goti  del  Troya)  contro  altri,  tutti  simili  nell'oppressione 
agli  Italiani,  tutti  egualmente  da  essi  combattuti  nella  aspirazione  al  Regno.^ 
Le  Rivolazioni  d'Italia^  sono  una  vera  e  propria  storia  nazionale 
dalla  caduta  dell'Impero  romano  ai  giorni  nostri;  più  estesa  e  parti 


»  Predecessori  del  Ferrari,  in  quanto,  superiori  come  lui  alle  passioni  di  parte, 
attinsero  i  loro  criteri  di  interpretazione  nelle  pure  regioni  dell'intelletto  sono  :  V.  Cuoco 
col  suo  Saggio  storico  sulla  rivoluzione  napoletana  del  1799  (1801),  in  cui  si  giudi- 
cano gli  avvenimenti  con  la  più  serena  imparzialità  filosofica,  e  M.  Amari,  nella  Guerra 
del  Vespro  (Parigi,  1842)  e  nella  Storia  dei  Musulmani  in  Sicilia  (Firenze,  Le  Mon- 
nier,  1854-1872),  che  sostituisce  agli  idoli  individuali  i  popoli,  e  domina  la  storia  da 
un'altezza  superiore  tanto  alle  tradizioni  guelfe  e  ghibelline  quanto  alle  vanità  nazio- 
nali e  ai  pregiudizi  di  razza. 

«   1*  edizione,  Paris,  Didier,  1850;  2'  edizizione,  Milano,  Treves,  1,870-72. 


334  -^/flfo  Ferravi 


colareggiata  per  lo  spazio  di  tempo  compreso  tra  il  Q62  e  il  1530,  in 
cui  più  piena  fu  la  libertà  dell'Italia,  più  potenti  e  brillanti  le  sue  lotte 
interne,  indiscusso  il  suo  predominio  nell'Europa.  In  quest'opera  il 
Ferrari  dà  l'interpretazione  più  profonda  ed  esatta  che  ancor  si  abbia 
del  nostro  Medio  Evo,  rivelandovi  la  grandezza  della  patria  nostra,  che 
risiedette,  non  nel  chiuso  orgoglio  di  una  indipendenza  non  mai  deside. 
rata  né  cercata,  ma  nell'essere  il  centro  ideale  del  mondo,  che  irraggiò 
a  tutte  le  nazioni,  costrette  a  imitarla,  le  onde  delle  sue  continue  e  pro- 
gressive rivoluzioni,  sotto  la  gran  repubblica  universale  del  Papa  e 
dell'Imperatore,  da  essa  suscitati.  Gli  Scrittori  politici  *  sono  come  uno 
specchio  gigantesco,  che  riflette  la  storia  d'Italia.  Essi  ne  spiegano  e  ri- 
producono le  rivoluzioni  ingrandite  a  utopie,  narrano  lo  svolgersi  delle 
teorie  che  si  susseguono  e  si  combattono,  imitando  nel  campo  del  pen< 
siero  puro  la  realtà,  e  rivelano  la  ricchezza  sotterranea  della  letteratura 
politica  nostra,  interpretata  con  una  profondità,  che  non  impedisce  il 
volo  della  più  entusiastica  poesia. 

Molto  importanti,  per  quanto  inferiori  in  tutto  a  questi  due  capo- 
lavori, sono  pure  i  saggi  di  storia  italiana  contemporanea,  quasi  tutti 
pubblicati  in  riviste  francesi  per  far  conoscere  la  nazione  nostra  al- 
l'Europa.* 

Valore  deirinterpretazione  storica  del  Ferraris 

L'interpretazione  storica,  che  il  Ferrari  dette  del  Medio  Evo,  rimane 
ancor  oggi  insuperata.  Chi  potrebbe  oppugnare  la  scoperta  da  lui  fatta 
del  sistema  papaie-imperiale,  il  quale  solo  può  dominare  e  spiegare  con 
l'unità  d'una  legge  l'esuberante  varietà  delle  forme  politiche,  che  assume 
Io  spirito  italiano,  scisso  nelle  due  eterne  antitesi  dei  Guelfi  e  dei  Ghi- 
bellini ?  Solo  quando  si  parta  dal  concetto  che  gli  Italiani  lottano,  non 
per  una  indipendenza  che  sottragga  la  nazione  al  Papa  e  all'  Impe- 
ratore, ma  per  la  libertà  e  per  il  progresso  sociale;  non  per  distrug- 
gere, ma  per  riformare  gradualmente  la  repubblica  dualistica  che  è 
la  loro  franchigia,  diventano  intelligibili  le  Innumerevoli  battaglie  che 
ebbero  II  loro  campo  fra  le  Alpi  e  il  mare.  Il  popolo  italiano  è  il  gran 


1  MUano,  Manin!,  1862. 

*  La  philosophie  mtkolìqae  en  Italie»  in  Revue  ttes  Deax  Mondes,  15  marzo  e  15  mag- 
gio 1844  ;  La  revolution  et  les  révolutionnaires  en  Italie,  ibid.,  15  novembre  1844  e 
1  gennaio  1845  ;  De  Varlstocratie  italienne,  ibid.,  15  agosto  1846  ;  De  la  Renaissance 
ttalienne,  in  Revue  indipendente,  10  e  25  novembre  1847  ;  £a  revolution  et  les  réformes 
en  Italie,  ibid.,  10  gennaio  1848  ;  Machiavel  juge  des  revolutions  de  notre  temps,  Paris, 
loubert,  1849  ;  L* Italia  dopo  il  colpo  di  Stato  del  2  dicembre  1851,  Capolago,  Elve- 
tica, 1852.  Quasi  tutti  questi  scritti  furono  ripubblicati  in  italiano  negli  Opuscoli  poli- 
tici e  letterari  tìiAtì, 


V opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari  335 


protagonista  che  adopera  i  papi  e  gli  imperatori,  imponendo  loro  le 
parti  che  devon  recitare  sulla  mobile  scena  della  storia  ;  che  chiama  e 
distrugge  gli  stranieri  ;  sfrutta  tutte  le  invasioni  ;  maneggia  Francesi  e 
Tedeschi  per  conquistare  una  sempre  più  larga  democrazia.  Tutta  la 
gran  guerra  delle  rivoluzioni  italiane  si  riduce,  come  per  Vico  la  guerra 
interna  della  Repubblica  romana,  a  un  contrasto  sociale  del  popolo  con 
Taristocrazia  ;  che  è  nello  stesso  tempo  contrasto  di  razza,  perchè  il 
popolo  è  italico  e  romano,  mentre  Taristocrazia  è  formata  di  Goti,  di 
Longobardi,  di  Franchi,  di  tutti  gli  invasoti  e  dei  loro  discendenti.  La 
guerra  contro  il  regno  barbarico  straniero  dei  Goti  e  dei  Longobardi  ; 
quella  contro  il  regno  barbarico  indìgeno  dei  Berengari  e  degli  Arduini  ; 
la  rivoluzione  dei  Vescovi  contro  i  Conti  sono  nello  stesso  tempo  lotte 
di  classe  e  lotte  di  razza  :  da  una  parte,  il  popolo  romano,  dall'altra, 
i  conquistatori  barbarici.  E  poiché  i  Barbari  hanno  piantato  più  pro- 
fonde radici  nelle  città  militari  da  essi  colonizzate,  la  lotta  fra  le  città 
romane  e  le  militari  si  colloca  pure  sotto  questa  duplice  antitesi;  come 
la  lotta  delle  città  contro  i  castelli,  dei  Cittadini  contro  i  Concittadini, 
dei  Guelfi  contro  i  Ghibellini.  Se  non  che,  man  mano  che  si  procede 
nella  fusione  etnica,  la  lotta  attenua  il  suo  carattere  di  opposizione 
di  razza  per  accentuare  quello  di  contradizione  di  classe.  Già,  nella 
guerra  contro  i  castelli,  i  feudatari,  combattuti  dalle  città  militari,  barbare 
di  tendenza,  si  romanizzano  facendo  alleanza  con  le  città  romane  ;  co- 
sicché nell'era  seguente  noi  assistiamo  a  una  lotta  incrociata,  di  modo 
che,  nelle  città  romane,  i  Cittadini  sono  romani  e  i  Concittadini,  bar- 
bari, mentre  nelle  città  militari  accade  il  rovescio.  Nel  periodo  suc- 
cessivo il  popolo  è  guelfo  nelle  città  romane  e  ghibellino  nelle  militari. 
E  siccome  la  vittoria  spetta  all'elemento  romano  e  all'elemento  popo- 
lare insieme  uniti,  trionfano  le  grandi  città  dell'industria  e  del  com- 
merciQ;  e  il  progre«so  della  democrazia  va  di  pari  passo  col  risorgere 
dei  grandi  focolari  della  civiltà  romana;  finché,  con  la  costituzione 
della  lega  federale  del  1454,  il  movimento  indigeno  è  esaurito,  e  i 
nuovi  progressi  della  democrazia  vengono  dall'estero  trasmessi  a  noi 
dal  Papa  e  dall'  Imperatore  per  mezzo  dei  Guelfi  e  dei  Ghibellini. 

Non  meno  chiaroveggente  ed  esatta  é  l'interpretazione  che  il  Ferrari 
ci  dà  dei  particolari  periodi  storici.  Alcuni  periodi,  come  quelli  dei  Ve- 
scovi, dei  Cittadini  e  Concittadini,  dei  Tiranni,  sono  da  lui  addirittura 
scoperti  ;  ma  anche  quegli  altri,  che  già  si  conoscevano,  di  che  luce  non 
vengono  ora  illuminati!  Egli  non  usa  le  partizioni  comuni,  le  quali 
hanno  il  difetto  di  abbracciare  troppo  tempo  e  di  sottomettere  a  volte 
la  nostra  storia  a  un  principio  straniero,  che  non  ebbe  mai  fra  noi  cit- 
tadinanza é  fu  sempre  combattuto  dall'espansione  originaria  nostra  :  per 
esempio,  l'enorme  periodo,  detto  comunemente  del  Feudalesimo,  che  ya 


336  Aldo  Ferrari 


da  Carlo  Magno  ai  Comuni,  è  da  lui  decomposto  nei  due  minori  della 
Lotta  contro  il  regno  barbarico  interno  e  dei  Vescovi.  Egli  veramente 
ci  spiega  la  caduta  dell'  Impero  romano,  che  percuote  di  spavento,  come 
un  misterioso  cataclisma  fisico,  dimostrando  che  fu  rovesciato  dai  popoli 
irritati  dalla  sua  fiscalità,  i  quali  vollero  piuttosto  una  invasione  stabile 
che  il  continuamente  rinnovantesi  disastro  delle  invasioni  maneggiate 
dal  governo.  Egli  veramente  rende  intelligibile  la  lotta  delle  investiture, 
guidata,  non  dal  Papa  e  dall'Imperatore,  ma  dal  Popolo  italiano,  che 
si  giova  dell'  uno  contro  l'altro  per  modificarli  a  vicenda  e  costringerli 
ad  accettare. nel  patto  di  Carlo  Magno  la  rivoluzione  della  libera  ele- 
zione dei  vescovi.  Egli  sa  ritrovare  il  filo  del  progresso  logico  in  mezzo 
allo  sconvolgimento  vertiginoso  della  crisi  militare,  che  deve  assegnare 
ad  ogni  città  il  raggio  di  espansione  corrispondente  alla  sua  potenzia- 
lità economica.  Egli  classifica  il  periodo  della  Decadenza  dei  Signori 
come  restaurazione  papaie-imperiale,  non  quale  conquista  straniera, 
perchè  liberamente  invocata  e  accettata  dai  popoli,  che  non  si  difendono 
nemmeno  con  una  battaglia. 

Nessuno  ha  saputo  giudicare  e  giustificare  con  tanta  altezza  di 
criterio  il  passato,  tutto  il  passato.  Guardate  con  quanta  piena  giu- 
stizia egli  riabilita  il  Medio  Evo,  combattendo  le  esclusive  esageraziohi 
opposte  dei  classicisti  fanatici  del  Rinascimento  e  dei  romantici  e  cat- 
tolici entusiasti  del  Medio  Evo.  Egli  sfata  l'assurda  leggenda  della  deca- 
denza, dimostrando  come  anche  nei  secoli  più  oscuri  il  progresso 
sociale  continui  sotterraneo  ;  come  il  popolo  nostro  non  sia  mai  stato 
schiavo,  ma  abbia,  o  accettato  liberamente  le  invasioni  perchè  gli  por- 
tavano un  progresso  sociale,  o  lottato  contro  i  conquistatori  così  ter- 
ribilmente fino  a  distruggerli;  dimostrando  come  egli  solo  sia  il  prota» 
gonista  oscuro  e  possente  di  nove  secoli  di  storia  splendidissima.  Egli 
dimostra  come  non  sia  mai 'stato  immerso  nel  puro  misticismo  questo 
popolo,  che,  anche  nelle  epoche  più  teocratiche,  volto  alla  guerra,  si 
giovava  della  religione  come  di  un'arma  non  meno  possente  delle  spade 
gotiche  e  delle  aste  longobarde,  per  dominare  con  la  magia  di  una 
superstizione  formidabile  gli  enormi  bestioni  vellosi  e  truculenti  dei 
Barbari  tremanti  dinanzi  all'invisibile  Dio  dei  Romani.  Mostra  che 
poi,  dal  tempo. dei  Consoli,  rigettando  l'aiuto  della  Chiesa,  ormai  inu- 
tile, esso  si  volse  con  energia  meravigliosa  alle  opere  dell'  industria  e 
del  commercio  e  diventò  il  banchiere  dei  re  d'Europa,  e  ridusse  la 
religione  a  una  tradizione,  da  cui. gli  artisti  potessero  evocare  una  folla 
di  capolavori;  che  passò  novecento  anni  in  mezzo  alle  passioni  forse 
più  violente  della  vita  —  quelle  politiche  ~  cOn  la  spada  alla  mano. 
La  decadenza  politica  comincia  proprio  nel  periodo  del  Rinascimento, 
quando  la  civiltà  trasporta  altrove  i  suoi  centri  d'irradiazione  e  l' impulso 


L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari  337 


viene  -dal  di  fuori.  Ma  decadenza  sociale,  civile  non  c*è  nemmeno  al. 
lora,  come  non  c*è  alla  caduta  dell'Impero  romano,  come  non  c'è  al 
prevalere  della  Signoria  sopra  il  Comune.  Il  grande  progresso  sociale 
della  democrazia  continua,  anche  se  proviene  dall'Europa,  più  innanzi 
ormai  nella  scala  storica,  per  accrescere  dì  continuo  la  potenza  dei 
centri  romani,  delle  città  industriali  e  commerciali.  Non  v'ha  salto,  come 
non  v'ha  decadenza,  in  tutta  la  distesa  della  storia  italiana  ed  europea. 

Questo  grandissimo  contributo  di  scoperte  è  alla  storia  italiana 
portato  tutto  dal  Ferrari,  con  la  forza  originaria  del  suo  genio.  Qual- 
che somiglianza  che  si  può  trovare  con  storici  stranieri  non  ne  dimi- 
nuisce affatto  il  merito.  Le  opere  più  vicine  alla  sua  sono  la  Storia 
delle  Repubbliche  italiane  del  Sismondi  *  e  le  Revolution^  d*  Italie  del 
Quinet.^  Ma  la  prima  è  troppo  fuori  dalla  concezione  del  Ferrari,  per 
a  unilateralità  del  criterio,  che  vuol  ridurre  tutta  la  storia  d'Italia  alla 
storia  delle  repubbliche  ;  con  la  seconda  non  c'è  altro  serio  punto  di 
contatto  che  il  titolo,  del  resto  ormai  classico.^  Se  qualche  vaga  somi- 
glianza di  concezione  vi  si  trova  (l' Italia  spiega  l' Europa  —  la  sua 
lotta  è  per  la  libertà,  non  per  l' indipendenza  —  Venezia  è  estranea  alla 
vera  Italia),  si  tratta  di  osservazioni  ormai  comuni  fra  gli  storici,  o 
anticipate  dal  Ferrari  stesso  nei  suoi  saggi  anteriori  al  '48.*  Del  resto 
l'opera  del  Quinet  fu  pubblicata  nel  1857  e  non  potè  quindi  influire 
su  quella  del  Ferrari  pubblicata  nel  1858. 

Del  tutto  indipendente  è  pure  il  Ferrari  dai  Tedeschi,  di  cui  spesso 
combatte  le  affermazioni,  come,  per  esempio,  nella  questione  dell'ori- 
gine del  Comune  e  dell'elemento  etnico  e  storico,  che  sopratutto  con- 
corre a  formarlo.  Contro  quelli  che  lo  vogliono  di  origine  romana^ 
egli  osserva  che  il  Comune  raggiunse  il  suo  pieno  sviluppo,  non  nelle 
regioni  dove  più  il  romanesimo  perdurava,  come  appunto  in  Roma,  in 
Ravenna,  ecc.,  ma  nell'Italia  settentrionale.  Contro  quelli  che  lo  vogliono 
di  origine  germanica,^  ricorda  che  il  Comune  nacque  combattendo  contro 
i  Barbari.  L'elemento  fondamentale  che  lo  costituisce  non  è  dunque  né 
il  romano  né  il  germanico,  è  Vitaliano:  sono  le  stirpi  originarie  itali- 
che, che  nel  Medio  Evo  risollevano  il  capo,  sia  contro  l'accentramento 
romano  in  nome  dell'intimo  principio  federale  della  penisola,  sia  contro 
la  barbarie  degli  invasori,  in  nome  delVantìca  civiltà. 

i  Histoire  des  Républiques  italiennes,  Ginevra,  1807-1818. 

*  E.  Quinet,  Les  Révolutions  d'Italie,  Paris,  Daguerre,  1857. 
»  Cfr.  le  Rivoluzioni  d'Italia  di  C.  Denina  (1765-1857). 

*  Cfr.  D.  LioY,  G.  Ferrari,  Torino,  Pomba,  1864,  p.  88. 

5  Saviqny,  Geschichte  des  ròmischen  Rechts  ini  Mittelalter,   Heidelberg,   1820. 
«  Leo,  Geschichte  der  italienischen  Stadten,  Hamburg,  1829-1830  ;  Hege!  ,  Storia 
dtlU  (-(istituzioni  italiane,    Lipsia,  1847. 

22  —  Nuova  Rivista  Statica. 


338  Aldo  Ferrari 


Certo  non  bisogna  nascondere  che,  in  tanta  mirabile  ricchezza 
e  verità  di  pensiero,  si  sente  a  tratti  qualche  cosa  che  urta;  in  mezzo 
agli  splendori  di  così  scintillante  rappresentazione,  si  nota  a  volte  come 
un'ombra  leggera,  che  proietta  qua  e  là  la  sua  lieve  tenebra;  dentro 
alla  soddisfazione  così  pura  del  sentimento  artistico  e  filosofico,  felice 
di  abbandonarsi  alla  contemplazione  e  all'ammirazione,  c'è  come  una 
leggera  amarezza  di  scontento.  Tutto  ciò  è  prodotto  da  quell'anticipa- 
zìoné  di  positivismo  che  sminuisce  leggermente,  senza  intaccarla,  poiché 
rimane  alla  superfice,  la  grandezza  dell'opera  del  Ferrari;  da  quell'impal- 
catura un  pochino  troppo  rigida  e  schematica,  dentro  cui  vengono 
incasellati,  senza  pur  tuttavia  esserne  sfigurati,  i  fatti  ;  da  quella  rappre- 
sentazione un  pochino  troppo  meccanizzata  e  geometrizzata  del  movi- 
mento storico  nella  sua  duplice  espansione  del  tempo  e  dello  spazio. 
Questo  è  quanto  impedisce  la  nostra  piena  adesione  spirituale  e  accusa 
il  Ferrari  figlio  del  tempo  suo  e,  com'esso,  involto  in  errori  ornai 
sorpassati. 

Ma  il  Ferrari  non  è  solo  un  interprete  unico,  è  anche  un  artista  di 
primissimo  ordine,  che  il  buon  Cantoni  non  si  peritava  di  paragonare 
per  la  potenza  drammatica  dì  rappresentazione  allo  Shakespeare.* 

Un  periodo  ampio;  una  vivezza  calda  e  mossa  di  rappresenta- 
zione; un  sottile  humour,  tenue  come  sorriso  d'uomo  superiore,  che 
compatisce  alle  debolezze  umane,  e  nel  tempo  stesso  un'accensione 
lirica,  una  foga  d'entusiasmo,  che  gli  fa  mettere  in  luce  la  grandezza 
epica  della  storia  in  ogni  minimo  fatto  ;  una  potenza  d'immagini,  che, 
atteggiando  come  esseri  viventi  città  e  Stati,  vi  si  piantano  nel  cer- 
vello senza  abbandonarvi  più,  formano  le  doti  di  questo  scrittore,  che 
avrebbe  potuto  anche  nel  campo  dell'arte  pura  lasciare  un'orma  pro- 
fonda. Con  una  fecondità,  versatilità,  profondità  veramente  shakespea- 
riane, egli  ha  saputo  creare  una  folla  di  personaggi  e  rappresentare 
una  serie  innumerevole  dì  rivolgimenti  senza  mai  ripetersi,  perchè  sa 
colpire  nella  sua  caratteristica  la  realtà  che  mai  si  ripete.  Per  avere 
un'idea  della  sua  forza  drammatica  e  rappresentativa,  del  suo  slancio 
lirico,  sì  legga,  per  esempio,  la  narrazione  della  lotta  di  Milano  con- 
tro il  vescovo  papista  Grossolano  (I,  p.  395),  o  quella  delle  imprese 
di  Ezzelino  da  Romano  (li,  p.  278),  o  la  descrizione  dei  Longobardi 
(I,  p.  69),  di  Venezia  (IH,  p.  108),  o,  magari,  soltanto,  dì  Genova 
(I,  p.  480):  '<  Genova  è  un  magnifico  anfiteatro  gettato  fra  il  mare  e 
la  montagna,  e  tale  che  i  suoi  abitanti  non  possono  fare  un  passo  senza 
salire  sulle  rupi  o  senza  ondeggiare  sull'acqua  :  sono  montanari  marit- 
timi, che  riuniscono  tutti  gli  estremi  della  miseria  e  della  munificenza. 


O.  Cantoni,  Q,  Ferrari,  p.  87. 


L'opera  storica  di  Giuseppe  Fenari  339 


Nei  loro  viottoli  stretti,  neri,  fangosi,  inaccessibili  alle  carrozze,  si  riz- 
zano immensi  palazzi,  che  disegnano  le  linee  della  loro  abbagliante 
architettura  sulle  case  piccole  e  misere  che  li  accerchiano  da  ogni  lato  ; 
le  due  riviere  ci  versano  i  loro  marchesi,  che  vi  si  incontrano  alla  ventura 
con  la  moltitudine  cenciosa  dei  marinai.  Ad  ogni  rivoluzione  la  città 
ondeggia  dall'aristocrazia  alla  democrazia  come  una  goletta  di  smisu- 
rata alberatura;  e  i  suoi  cronisti  non  possono  dissimulare  l'ondula- 
zione dei  Consoli,  specie  di  marea  tumultuosa  che  monta  a  poco  a 
poco  fino  a  insabbiare  il  potere  del  vescovo  >.  Si  veggano  pure  i  ri- 
tratti di  Federico  II  (H,  p.  211),  dell'Alfieri  (III,  p.  595),  di  Campanella 
{Scrittori  politici,  p.  513). 

Successo  e  continuatori  del  Ferrari. 


Eppure,  con  tanto  valore  artistico  e  storico,  l'opera  del  Ferrari  non 
ebbe  fortuna  né  nella  prima  edizione  francese  fatta  per  l'Europa, 
né  nella  seconda  edizione  italiana.  La  sua  altezza  così  serena  di  giu- 
dizio lo  rese  trascurato  e  incomprensibile  dai  suoi  contemporanei, 
ancor  tutti  accesi  delle  passioni,  dal  cui  cozzo  usciva  l'Italia.*  Ma,  se  non 
veniva  pienamente  capito  e  rettamente  giudicato  al  suo  tempo,  quando 
il  senso  storico  era  ancora  assai  diffuso  e  profondo,  figuriamoci  un 
po'  se  lo  poteva  nel  periodo  dì  ottusità  intellettuale,  che  immediatamente 
gli  successe.  È  questa  l'epoca  del  positivismo,  a  dui  egli  stesso  in  certa 
maniera  partecipò  con  le  sue  ultime  opere  sulla  filosofia  della  storia  : 
la  concezione  geometrica  della  realtà  attutisce  coi  suoi  schemi  astratti 
il  senso  dell'individuo,  del  reale,  del  vivo;  le  scienze  naturali  mirabil- 
mente fiorenti  invadono  anche  il  campo  del  pensiero  puro  e  pretendono 
sottomettere  alle  misure  dei  loro  strumenti  di  precisione  la  filosofia, 
Tarte,  la  morale  ;  la  storia  abbandona  il  compito  di  interpretazione  e 
di  sintesi  per  ridursi  a  raccolta  di  frammenti,  a  catalogazione  di  docu- 
menti, e,  piti  tardi,  a  mutilarsi  con  l'unilateralità  del  materialismo  storico. 

In  mezzo  al  diluvio  delle  monografie,  tra  la  folla  dei  positivisti, 
che  abbassavano  arte  e  storia  alla  portata  dei  loro  intelletti  piccini, 
uno  solo  ci  fu  —  un  solitario  —  che  non  solo  intese  Ferrari,  ma 
cercò  di  continuarlo:  Alfredo  Oriani.  Anch'egli,  come  il  suo  grande 
predecessore,  ben  comprese  che  storia  è  interpretazione,  spiegazione, 
visione  dall'alto,  resurrezione  secondo  la  parola  di  Michelet.  E  non 
solo  fece  di  lui  una  giusta  stima,  e  ne  attinse  largamente  per  tutte  le 
sue  opere  di  pensiero;  ma,  forse  inconsciamente,  fece  fare  alla  storia 


i  Cfr.  E.  Rosa,  iii  Archivio  storico  italiano^  Firenze,  1858.  Nuova  Serie,  T.  HI, 
pp.  Ili  e  segif. 


340  /^/rfo  Ferrari 


del  Ferrari  un  ulteriore  progresso,  liberandola  del  tutto  da  quella  cri- 
salide di  positivismo  classificatorio  e  geometrico,  da  quel  meccanicismo 
troppo  naturalistico,  che  leggermente  la  macolaya.  Ciò  l*Oriani  fece, 
non  tanto  nella  storia  del  Medio  Evo,  trasportata  in  sunto  dal  suo  pre- 
decessore nei  libri  I  e  II  della  Lotta  politica  *  con  tutti  i  suoi  periodi,  i 
suoi  schemi,  le  sue  caselle;^  ma  nella  interpretazione  della  storia  mo- 
derna fatta  nel  seguito  di  questa  opera  e  negli  altri  suoi  saggi.^  Non 
dunque  come  storico  del  Medio  Evo,  ma  come  storico  del  Risorgimento 
italiano,  TOriani  è  l' unico  che  continui  il  Ferrari  e  che  possa  tentare 
il  paragone  con  lui,  per  quanto  rimanga  nell'opera  concreta  inferiore  : 
come  storico,  per  T ineguaglianza  dell'interpretazione,  ora  indovinata 
ora  superficiale;  come  artista,  per  la  non  rara  enfatica  esagerazione 
romagnola,  inferiore  alla  possente  precisione  lombarda  del  Maestro. 
Oriani  si  trova  inoltre  in  una  posizione  sentimentale  un  po'  meno 
adatta  che  non  quella  del  Ferrari.  In  questo  il  senso  del  sublime  sto- 
rico e  l'entusiasmo  di  fronte  alla  grandezza  vanno  accompagnati  a  una 
calma  serena,  a  una  specie  di  fine  bonario  umorismo,  che  sa  trovare 
l'uomo,  magari  contro  il  suo  volere,  benefico,  anche  sotto  i  cenci  del 
mascalzone.  Oriani  ha  della. storia  solo, il  senso  tragico;  brontola  un 
po'  troppo  ;  va  troppo  spesso  in  collera  col  passato  ;  non  sa  mantenersi 
sereno  davanti  agli  errori  dei  personaggi,  errori  spesso  imposti  dalla 
storia,  che  qualche  volta  egli  vorrebbe  correggere.  Ma,  salvo  l'Oriani, 
nessun  altro  dei  moderni  cultori  di  storia  italiana  ha  mai  fatto  del  Fer- 
rari il  conto  che  merita,  anche  se  si  è  ricordato  di  citarlo  qualche  rara 
volta  fra  la  selva  dei  nomi  tedeschi. 

Solo  uno  straniero,  che  amò  e  studiò  l'Italia,  J.  A.  Sysmonds,  autore 
di  una  Renaissance  in  Italy,  non  meno  importante  del  più  noto  lavoro  del 
Burckhardt,  ebbe  l'esatta  percezione  delP  importanza  delle  Rivoluzioni, 
Infatti,  come  nella  prefazione  del  primo  volume  (Uèra  dei  Tiranni)  egli 
ricordava  espressamente  quell'opera,*  così  nel  cap.  II  (La  Storia  italiana) 
ne  ripete  con  parole  diverse  e  con  qualche  ampliamento  o  dilucidazione 
tutte  le  grandi  idee,  però  da  un  punto  di  vista  un  po'  meno  elevato  e 
non  del  tutto  superiore  ai  pregiudizi  del  senso  comune.  Ma  nel  seguito 
del  volume  egli  non  ne  tiene  poi  gran  conto. 


1  La  lotta  politica  in  Italia,  Bologna,  1882. 

«  L.  Ambrosini,  La  Lotta  politica  di  A.  O.,*  nella  Voce,  1008,  nn.  17;  18;  10. 

3  Fino  a  Dogali,  Bologna,  Oherardi,  1912;  La  rivolta  Ideale^  Napoli,  Perrella, 
1910;  Fuochi  di  bivacco,  Bari,  Laterza,  1912  ;  Ombre  d'occaso,  id.  id. 

<  J.  A.  Sysmonds,  //  Rinascimento  in  Italia:  L'èra  dei  tiranni  {ir^ói.  it.),  Torino, 
Roux  e  Viarengo,  1900,  p.  XX  :  «  Debbo  anche  manifestare  speciale  gratitudine  al  Fer- 
rari, del  quale  ho  fatto  miei  non  pochi  giudizi  nel  capitolo  sulla  storia  italiana  scritto 
per  la  seconda  edizione  di  questo  volume», 


Vopera  storica  di  Giuseppe  Ferrari  341 


Il  De  Sanctis  della  storia. 


Certo,  sarebbe  ridicolo  affermare  che  Topera  del  Ferrari  sia  defi- 
nitiva, perchè  nulla  c'è  al  mondo  di  definitivo,  né  la  vita,  né  la  filosofia, 
né  l'interpretazione  storica.  Ma  come  una  filosofia  è  viva  finché  non  è 
sorpassata,  così  è  anche  di  un'opera  storica/Orbene,  prima  di  buttare 
il  libro  del  Ferrari  fra  le  anticaglie,  bisogna  averlo  sorpassato,  e  finora 
nessuno,  non  solo  non  l'ha  superato,  ma  non  si  è  nemmeno  sollevato 
al  suo  livello. 

Probabilmente,  contro  questa  valutazione,  che  dà  al  Ferrari  come 
storico  concreto,  un  valore  attuale,  sarà  mossa  una  facile  ma  altret- 
tanto debole  obiezione,  dalle  persone  incapaci  di  passare  col  pensiero 
oltre  la  superficie  delle  cose:  si  dirà  cioè  che  il  nostro  autore  fu,  è 
vero,  il  più  grande  storico  dei  suoi  tempi,  fece  coi  materiali  che  aveva 
allora  sottomano  quanto  di  meglio  si  poteva  fare  ;  ma  che  adesso,  con 
tutto  il  nuovo  materiale  storico,  che  in  un  cinquantènnio  di  lavoro 
assiduo  si  è  portato  alla  luce,  egli  non  basta  più,  e  la  sua  interpreta- 
zione è  ormai  sorpassata.  È  lo  stesso  appunto  che  si  moveva  una 
ventina  d*anni  fa,  nel  bel  fiore  del  così  detto  metodo  storico^  alla  cri- 
tica letteraria  del  De  Sanctis,  col  quale  il  Ferrari  ha  più  d'un  punto 
di  contatto,  sia  nella  costituzione  spirituale  che  nella  fortuna.  Si  diceva 
che  il  De  Sanctis  fosse  sorpassato  dalle  nuove  scoperte,  perchè  la 
critica  storica  aveva  assodato  che  la  canzone  Spirto  gentil  non  pareva 
scritta  per  Cola  di  Rienzo,  o  perché  nelle  sue  citazioni,  fatte  quasi 
sempre  a  memoria,  il  grande  critico  aveva  qualche  volta  alterato  la 
lezione  di  un  verso.  È  ^tato  ormai  messo  in  chiaro  *  di  quanta  poca 
importanza  siano  questi  pretesi  errori.  E  adesso  De  Sanctis  non  solo 
non  è  seppellito,  ma  è  più  vivo  di  prima,  e  le  edizioni  delle  sue  opere 
si  moltiplicano  nel  nord  e  nel  sud  della  penisola,  mentre  la  nomèa  dei 
suoi  pretesi  distruttori  va  diventando  man  mano  più  fioca. 

Ora  questo  non  dipende  da  una  ragione  metafisica  per  cui  l'astra- 
zione, la  sintesi,  l' idea  siano  riconosciute  superiori  all'analisi  e  al  fatto, 
ma  proprio  da  una  ragione  di  critica  storica.  Noi  possiamo  seguire  i 
sostenitori  del  così  detto  metodo  storico  proprio  nel  campo  loro,  nel 
campo  dei  fatti,  su  cui  sì  credono  invincibili.  Per  il  Ferrari,  come  per  il 
De  Sanctis,  le  scoperte  tanto  magnificate  della  così  detta  scuola  storica 
sh  riducono,  relativamente,  a  pochi  dati,  a  particolari,  a  rettificazioni 
minute.  Ora  le  costruzioni  sintetiche  del  Ferrari  non  sono  tirate  fuori 
astrattamente  dal  cervello,  sono  basate  sopra  una  enorme  mole  di  fatti, 


i  B.  Croce  nella  Prefazione  alla  Storia  della  leit,  ital.  da  lui  curata,  Bari,  Laterza. 


342  Aldo  Ferrari 


già  messi  in  luce  dairerudizione  gigantesca  dei  secoli  precedenti,  spe- 
cie del  Settecento,  e  poco,  al  loro  confronto,  aggiungono  le  famose 
scoperte  di  questi  ultimi  tempi,  per  quanto  serie  e  rispettabili.  Quando 
il  principio  di  De  Sanctis  o  di  Ferrari  vi  spiega  tutti  i  fatti  politici 
del  Medio  Evo  conosciuti  fino  al  loro  tempo,  gli  altri  fatti  nuovi, 
di  una  importanza  e  di  un  numero  infinitamente  minore,  non  possono 
alterare  quella  concezione  se  non  solo  in  proporzione  del  loro  valore 
molto  limitato,  cioè  nei  particolari.  Ora  V  interpretazione,  che  il  Ferrari 
ha  data  del  Medio  Evo,  vi  spiega  inoltre  tutta  quell'età  :  la  letteratura, 
Parte,  la  filosofia,  la  politica ...  Di  fronte  a  così  enorme  mole  di  fatti 
spiegati,  qual  valore  ha  Tosservazione,  per  esempio,  che  egli  abbia 
ritenuto  i  Longobardi  un  po'  più  numerosi  di  quanto  non  furono 
in  realtà? 

Qualcun  altro  tirerà  fuori  la  solita  obbiezione  che  il  Ferrari  spiega 
tutto  con  le  idee  astratte;  dirà  che  il  suo  Papa  e  il  suo  Imperatore  sono 
delle  entità  metafisiche  senza  rispondenza  nella  realtà;  che  il  famoso 
patto  papaie-imperiale,  com'egli  lo  fantastica,  non  s'è  ancor  trovato 
fra  i  mucchi  di  cartapecore  di  qualche  convento  abbandonato.  Dirà 
che  le  cause  reali  e  vere  dei  movimenti  pon  sono  così  generali,  ma  si 
trovano  negli  interessi  particolari  di  quel  tale  individuo,  di  quella  tale 
città,  di  quella  tale  classe.  E  questo  non  è  altro  se  non  un  pregiu- 
dizio positivistico,  simile  a  quello  di  certi  filosofi  (?),  che  negano  lo 
spirito  perchè  non  sono  mai  riusciti  a  vederlo  con  gli  occhi  o  a  toccarlo 
con  le  mani  ;  il  pregiudizio  sempliciotto  di  chi  vorrebbe  vedere  i  con- 
cetti generali  o  le  sintesi  sotto  le  forme  tangibili  di  oggetti  individuati 
o  materiati. 

Per  racchiudere  in  una  frase  il  resultato  di  queste  mie  osserva- 
zioni, dirò  che  Ferrari  è  il  De  Sanctis  della  storia  politica;  l'unico  vero  e 
grande  storico  dell'Italia  medievale.  E  non  solo  in  Italia,  ma  in  tutta 
l'Europa  il  Ferrari  merita  un  posto  a  parte,  forse  superiore  ai  più  fa- 
mosi, al  Macaulay,  al  Mommsen,  al  Taine;  e  ciò  per  la  stessa  ragione 
che  rende  il  De  Sanctis  superiore  a  tutti  i  critici  della  letteratura  :  per  il 
senso  filosofico  che  diresse  la  sua  potenza  interpretativa  e  rappresenta- 
tiva a  risultati  così  grandi.  Noi  non  esitiamo  a  considerarlo  come  il 
sommo  rappresentante  della  storiografia  romantica,*  degno  ancora, 
quale  storico,  di  essere  il  grande  maestro  della  nostra  generazione. 
Poiché  egli  è  innanzi  tutto  completo.  In  lui  il  coscienzioso  lavoro  erudito 
viene  messo  in  valore  da  una  incomparabile  forza  rappresentativa  e  in- 
terpretativa ;  alla  compulsazione  dei  codici,  alla  lettura  diretta  delle  fonti, 


1  Cfr.  B.  Croce.   Intorno  alla    storia    della   storiografia,   in    Critica^  1913, 
pp.  223-230. 


L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari  343 


allo  studio  minuzioso  del  materiale,  seguì  in  lui  il  potente  lavoro  della 
ricostruzione  sintetica,  e  questo  fu  compiuto  da  una  mente  di  filosofo, 
oltre  che  di  artista,  superiore  alla  lotta  dei  partiti  e  solo  obbediente  al' 
l'esigenza  logica  d'una  spiegazione  razionale  degli  avvenimenti. 

La  "  teoria  dei  periodi  politici  „. 

Giunto  al  sommo  della  sua  parabola  luminosa,  l'intelletto  del 
Ferrari,  dopo  le  Rivoluzioni  d'Italia  e  gli  Scrittori  politici,  comincia  a 
declinare,  come  un  astro  che  abbia  toccato  il  suo  zenit.  E  la  decadenza 
si  inizia  e  prosegue  col  dissociarsi  graduale  di  quei  due  elementi,  che 
imiti  avevano  fatto  la  sua  grandezza  di  storico:  la  forza  sintetica  carat- 
teristica del  filosofo  e  la  forza  intuitiva  propria  dell'artista.  La  prima 
diventò  schematismo  astratto,  ed  esulata  ormai  dalla  realtà,  provocò 
l'inaridimento  della  seconda,  poiché  volle  costringere  la  vitalità  ribelle 
dei  fatti  dentro  ìe  caselle  d'un  sistema  morto.  Non  più  filosofia  ne 
storia,  ma  filosofia  della  storia. 

Come  un  alchimista  che  si  metta  alla  ricerca  della  pietra  filoso- 
fale, il  Ferrari  si  pone  alla  ricerca  impossibile  delle  leggi  della  storia. 
Favorito  da  una  vastissima  erudizione  e  da  una  memoria  tenace  e  pronta, 
egli  moltiplica  i  raffronti,  ordina,  classifica,  misura  col  compasso  alla 
mano;  crudele  come  un  anatomico,  incide  il  corpo  vivente  della  storia 
per  contarne  le  ossa  e  seguirne  le  vene:  e  quando,  giunto  alla  fine  di 
questo  suo  spaventevole  lavoro,  ha  ucciso,  cristallizzato,  mummificato 
la  realtà,  con  la  sicurezza  di  Harwey  che  scopre  la  circolazione  del 
sangue,  proclama  la  scoperta  della  circolazione  misteriosa  dentro  cui 
si  muovono  gli  Stati  col  ritmo  di  pulsazioni  ciclopiche.  Non  il  minimo 
dubbio:  affascinato  da  una  specie  di  allucinazione,  confinato  dentro 
il  cerchio  magico  della  filosofia  della  storia,  come  da  un  incanto  mali- 
gno, ei  non  ne  potè  più  uscire;  e  dal  1863  fino  alla  sua  morte  (1876) 
tutta  la  sua  operosità,  che  avrebbe  potuto  essere  impiegata  molto  più 
utilmente  nell'interpretazione  concreta,  fu  quasi  totalmente  assorbita 
in  questo  sterile  lavoro.  La  sua  filosofia  della  storia  è  esposta  teori- 
camente in  quattro  lavori  successivi:  la  Raison  d*État,^  la  Chine  et 
l'Europe^  la  Teoria  dei  Periodi  politicità  V Aritmetica  nella  storia^^  che 
a  vicenda  s*  integrano  e  si  correggono.  Tutti  i  suoi  saggi  storici  di 


1  Paris,  Lears,  1860. 

t  La  Chine  et  l'Europe,  Uur  histoire  et  leurs  tradiiions  eomparées,  Piris,   Di- 
dier, 1867. 

a  Milano,  Hoepli,  1874. 

*  Rendiconti  deU'Istitato  Lombardo,  gennaio-aprile  1875. 


344  Aldo  Ferrari 


questo  perìodo  sono  poi  impregnati  di  tali  idee,  che  eran  diventate 
ormai  per  luì  una  specie  di  Vangelo. 

Noi  sappiamo  come  il  secolo  XX  abbia  finito  col  dichiarare  assurda 
la  pretesa  d'una  scienza  esatta  della  storia,  la  quale  sotto  la  pressione 
della  logica  si  è  scomposta  nei  suoi  due  elementi  reali,  la  filosofia 
pura  e  la  storia  pura:  tutto  quel  che  di  assoluto,  di  universale  si  può 
trarre  dalla  storia  è  filosofia,  quel  che  rimane  si  ribella  alle  leggi,  per- 
chè non  ne  segue  alcuna  salvo  quella  della  propria  individualità/  Le 
leggi  della  storia,  dunque,  quando  non  siano  leggi  filosofiche,  non  sono 
altro  che  generalizzazioni  di  significato  tutt'altro  che  assoluto,  varia- 
bili secondo  i  punti  di  vista;  canoni  il  cui  valore  si  giudica  appunto 
praticamente  col  fatto.  Così  per  esempio  la  legge  vichiana  dei  corsi 
e  ricorsi  non  è  altro  se  non  un  canone  di  interpretazione,  che  si  serve 
della  analogia  per  spiegar  meglio  certi  fenomeni  e  per  determinarne 
meglio  in  ultima  analisi  il  carattere  individuale:  e  le  eguaglianze  sta- 
bilite da  Vico  fra  la  prima  età  di  Roma  e  il  nostro  Medio  Evo,  fra 
r  Impero  e  le  monarchie  moderne,  ridotte  a  somiglianze  ed  analogie, 
conservano  una  verità  indiscutibile.  Noi  troviamo  di  tutto  ciò  la  riprova 
pratica  nella  filosofia  della  storia  del  Ferrari,  che,  dentro  il  crogiolo 
della  riflessione,  vediamo  decomporsi  nella  sua  filosofia  e  in  una  serie 
di  generalizzazioni,  che  funzionano  come  canoni  empirici,  di  cui  bisogna 
determinare  il  valore  secondo  la  loro  portata  pratica. 

Non  è  questo  il  luògo  di  fare  l'esposizione  particolareggiata  e  la 
critica  del  suo  sistema  ;  ciò  è  stato  fatto  oltrove  ;  -  qui  richiameremo 
che  la  sua  teoria  è  basata  sulla  distinzione  assoluta  delle  razze  e  delle 
generazioni  trentennali,  le  quali,  collegandosi  a  quaterne  (prepara- 
zione-esplosione-reazione-solazione),  sono  necessarie  per  la  realizzazione 
di  un  nuovo  principio  politico  nel  mondo.  La  legge  del  contrasto,  che 
organizza  gli  Stati  vicini  gli  uni  a  rovescio  degli  altri,  fa  in  modo  che 
il  nuovo  principio  venga  trasmesso  dalle  minoranze  via  via  a  tutti  gli 
Stati,  costretti  ad  elevarsi  all'altezza  politica  del  popolo,  che  inizia  il 
moto  per  non  esserne  conquistati.  Questi  brevi  periodi,  collegandosi 
anch'essi  a  quattro  a  quattro,  formano  un  periodo  maggiore  di  cinque- 
cento anni,  durante  il  quale  la  terra  compie  il  ciclo  di  una  totale  rinno- 
vazione. Siccome  la  successione  delle  generazioni  è  logicamente  fissata, 
la  previsione  è  possibile  al  principio  di  un  periodo. 

Questa  parte  dell'opera  del  Ferrari,  che  pure  fu  la  più  conosciuta 
e  suscitò  anche  presso  gente  di  intelletto  entusiasmi  perfino  ridicoli,'  è 


»  Cfr.  B.  Croce,  Estetica^  Bari,  Laterza,  1909,  pp.  47-49  e  QuesL  stor.,  pp.  16  e  21. 

*  A.  Ferrari,  G.  Ferrari,  pp.  213-245. 

»  Cfr.  O.  Bovio,  Prolusione  al  corso  di  scienze  morali  nella  Univ.  di  Napoli^  1876. 


L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari  345 


viziata  fondamentalmente  nel  suo  disegno  e  nel  suo  concetto.  Di  buono 
non  se  ne  può  cavare  che  una  raccolta  di  canoni  empirici  d*  interpreta- 
zione basati  sulla  analogia  e  sulla  generalizzazione.  Alcuni  di  essi  sono 
come  tali  accettabili  e  fecondi  :  quello,  per  esempio,  che  assegna  allo 
svolgimento  storico  ie  due  forme  di  lotta  di  partiti  e  di  lotta  di 
nazioni,  rivoluzione  e  guerra;  la  seconda,  determinata  spesso  dalla 
prima;  e  l'altro  dell'irraggiamento  politico  della  nazione  più  progredita, 
con  cui  si  tende  a  correggere  l' insufficenza  del  concetto,  che  considera 
la  storia  svolgentesi  in  ciclo  chiuso  dentro  i  confini  dello  Stato.  Ma  essi 
erano  già  stati  enunciati  senza  tanta  falsa  precisione  scientifica  e  ap- 
plicati con  molta  maggiore  elasticità  di  sviluppo  nelle  opere  precedenti 
di  storia  concreta. 

Tuttavia,  per  quanto  viziati  nella  concezione  che  serve  loro  di 
base,  la  Raison  d'Étatt  la  Chine  e  i  Periodi  politici  non  si  possono 
buttar  via  senz'altro  ;  perchè  c'è  in  essi,  dirò  così,  come  elemento  resi- 
stente, l'interpretazione  concreta,  che  viene  a  formare  une  specie  di 
storia  universale.  Naturalmente  questa  interpretazione  porta  con  sé  fin 
dalla  nascita  il  peccato  originale  della  filosofia  della  storia,  che  costringe 
l'autore  a  guardare  la  realtà  dall'inferriata  a  quadri  del  suo  sistema,  a 
ricercare  ad  ogni  costo  equivalenze,  a  tracciare  equazioni  fra  fatti  storici 
caratteristicamente  irreducibili,  in  modo  da  farne  spesso  disconoscere 
l'essenza.  Siamo  evidentemente  molto  al  sotto  delle  Rivoluzioni  d'Italia 
e  degli  Scrittori  politici  ;  e  la  decadenza  non  si  rivela  solamente  nel- 
l'abuso del  sistema  classificatorio,  che  riduce  l' interpretazione  a  vaghe 
generalità,  ma  anche  nella  minore  perspicuità  e  chiarezza  dello,  stile, 
nella  più  rara  fecondità  d'immagini,  nella  diminuita  potenza  di  rap- 
presentazione. Ma,  anche  considerata  quale  opera  di  decadenza,  essa 
è  pur  meritevole  di  osservazione.  Intanto,  per  quanto  spezzettata  nei 
segmenti  eguali  def  periodo,  la  linea  del  progresso  si  disegna  all'in- 
grosso; per  quanto  incasellati,  i  fatti  e  le  persone  sono  spesso  colti  e 
penetrati  con  esattezza  storica.  E  poi,  per  esagerato  che  sia  il  sistema 
dei  parallelismi  ad  ogni  costo,  noi  sentiamo  che  Tunica  maniera  di 
raccontare  la  storia  universale,  in  modb  da  darne  una  visione  d'insieme, 
che  ci  mostri  il  progrèsso  simultaneo  dei  popoli,  è  quella  che  ricorre 
al  metodo  della  divisione  per  periodi. 

La  .parte  storica  della  Raison  d'État,  molto  sommaria,  è  quasi 
totalmente  rifusa  nella  Chine ^  che  si  può  veramente  definire  una  storia 
universale  narrata  a  periodi  e  preceduta  da  un  parallelo  fra  la  Cina  e 
l'Europa.  Ma  i  Periodi  politici  ci  fanno  assistere  all'assassinio  della  storia, 
commesso  a  sangue  freddo  allo  scopo  di  impartirci  una  lezione  d'ana- 
tomia storica;  e  V Aritmetica  nella  storia  è  poi  addiritura  impossibile 
con  le  sue  tavole  aritmetiche,  dove  son  misurate  e  comparate  la  durata 


346  Aldo  Ferrari 


ilei  regni  e  la  lunghezza  della  vita  dei  dogi,  dei  papi  e  dei  vescovi  ! 
Fra  gli  altri  saggi  minori  pubblicati  in  questo  periodo  ricordiamo  la 
Mente  di  Oidnnone,^  che,  già  composta  fin  dal  '63,  rimane  meno  inqui- 
nata dal  sistema;  gli  scritti  sulla  guerra  franco-prussiano,^  e  uno  studio 
su  Proudhon.^ 

Uomo  di  due  età. 

Ed  ora,  conchiudendo,  cerchiamo  di  comporre  in  un  quadro  sin- 
tetico queste  forze  intellettuali,  che  abbiamo  osservate  a  una  a  una  in 
azione,  per  determinare  il  carattere  e  il  significato  della  mente  del 
Ferrari. 

Artista  per  la  forza  penetrativa  e  rappresentativa,  dotato  d'una  ac- 
censione lirica  da  poeta,  d'una  vivezza  da  pittore,  d'una  abbondanza  da 
oratore;  mescolante  all'entusiasmo  un  sottile  umorismo  che  nasce  dalla 
sua  persuasione  nella  razionalità  della  storia,  la  quale  usa  qualche  volta 
ironicamente  le  persone  più  indegne  per  i  suoi  fini  più  grandi,  egli 
non  ha  dei  puri  artisti  la  facoltà  inventiva  e  creativa  che  trae  un  intero 
mondo  dalla  fantasia  di  un  uomo,  la  libertà  senza  confini  che  usa 
di  tutti  i  luoghi  e  di  tutti  i  tempi  a  dimora  delle  sue  creature  e  a 
scena  dei  suoi  drammi.  Filosofo  nella  potentissima  forza  sintetica,  non 
sa  vivere  in  mezzo  alle  idee  pure;  inseguito  fin  nel  regno  platonico 
della  scienza  dai  fantasmi  della  realtà,  non  sa  dare  una  trattazione 
esauriente  e  compiuta,  raccogliere  in  forma  didattica  ed  espositiva,  in 
sistema  lucido  e  quadrato,  le  sue  idee,  le  quali  sembrano  più  una  anti- 
cipazione poetica  che  non  una  logica  deduzione,  o  le  sue  scoperte,  le 
quali  ci  appaiono  piuttosto  prodotto  di  una  divinazione  profetica  che 
non  di  un  ragionamento  filosofico.  Manchevole  come  artista  puro  e 
come  filosofo  puro,  egli  è  però  incomparabile  come  storico,  perchè  per 
questo  ufficio  le  sue  manchevolezze  diventano  pregi,  evitando  alla  sua 
forza  sintetica  concreta  il  pericolo  delle  creazioni  fantastiche  e  delle 
sbiadite  astraizioni  vuote.  Messo  di  fronte  alla  storia  concreta,  egli  mani- 
festa nella  sua  pienezza  una  potenza  rappresentativa  e  dominatrice,  una 
forza  di  penetrazione  e  di  interpretazione  che  non  hanno  rivali,  e  che  rag- 
giungono la  loro  più  perfetta  espressione  nelle  Rivoluzioni  d'Italia  e 
negli  Scrittori  politici.  Ma  c'è  pure  nel  suo  intelletto  una  nefasta  ten- 
denza filosofistica,  geometrica,  meccanica,  falsamente  sintetica,  che,  spin- 
gendolo a  trasportare  nelle  scienze  morali  il  sistema  classificatorio  empi- 


1  Milano,  Tip.  Libero  Pensiero,  1868. 
s  In  Nuova  Antologia^  1870-1871. 
3  In  Nuova  Antologia^  aprile  1875. 


L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari  347 


fico  delle  scienze  naturali,  lo  trascina  alle  aberrazioni  della  filosofia 
della  storia.  La  sua  assurda  teoria  del  periodo  è  frutto  di  questa  ten- 
denza, che  per  fortuna  si  sviluppò  in  lui  posteriormente. 

Cosi,  figlio  del  suo  tempo,  questo  filosofo  della  contradizionc 
rappresenta  con  la  sua  personalità  il  contrasto  ideale  dei  due  periodi 
storici,  che  si  urtarono  nell'età  in  cui  egli  visse:  la  Rivoluzione  della 
Borghesia  e  la  Rivoluzione  proletaria. 

Vissuto  nella  fase  ultima  del  periodo  storico  della  Rivoluzione  della 
Borghesia  o  Rivoluzione  democratica  (1748-1870),  egli  accetta  di  quel 
grandioso  movimento  i  principii  supremi  (eguaglianza  legale  —  par- 
lamentarismo —  nazionalità),  liberati  dalle  esagerazioni  (odio  alla  reli- 
gione —  repubblicanesimo  —  odio  al  passato)  della  posteriore  reazione. 
Ciò  al  modo  stesso  ch'egli  fa  la  storia  nella  realtà  dei  fatti  e,  supe- 
rando gli  scrittori  della  rivoluzione  e  quelli  della  reazione,  insegna  la 
necessità  e  la  razionalità  di  tutto  quanto  il  passato,  del  passato  lontano, 
del  passato  recente,  che  a  volta  a  volta  gli  uni  e  gli  altri  condanna- 
vano o  esaltavano,  resi  miopi  dalla  loro  tendenziosità  politica.  Maj 
durante  la  fase  finale  della  rivoluzione  borghese,  un  altro  movimento 
politico  e  sociale  inizia  la  sua  preparazione  ideologica  e  letteraria:  è 
il  movimento  proletario,  che  scoppia  poi  nel  campo  della  realtà  con  la 
Comune  (1870),  e  che  ha  come  equivalente  nel  campo  scientifico  il 
positivismo.  Non  è  questo  il  luogo  di  dimostrare  la  stretta  parentela 
e  i  caratteri  comuni  dei  due  movimenti  politico  e  scientifico  :  la  depres- 
sione delle  forze  ideali,  la  svalutazione  del  sentimento  nazionale,  il 
disdegno  per  i  prodotti  superiori  dello  spirito  umano,  l'antipatia  per 
la  storia,  il  culto  della  classificazione  naturalistica,  ecc.  Qui  diremo 
solo  che  il  Ferrari  nella  sua  seconda  maniera  si  dimostra  rappresentante 
di  questo  periodo  e  di  questo  indirizzo  scientifico  di  positivismo  natu- 
ralistico e  classificatorio,  che  faceva  capolino  qua  e  là  anche  nelle  opere 
anteriori  e  che  poi,  per  sua  sventura  vittorioso,  sciupò  tutte  le  sue 
energìe  intellettuali  attorno  alla  filosofia  della  storia. 

L'opera  multiforme  e  copiosissima  del  Ferrari  non  si  può  accettare 
in  blocco  :  bisogna  sottometterla  ad  un  processo  di  vivisezione  per  ca- 
varne W  poco  buono  dal  molto  cattivo.  Che  rimane  dunque  di  lui  ?  Noi 
Siam  passati  devastatori  come  i  Vandali  attraverso  la  sua  voluminosissima 
produzione;  ne  abbiamo  dimostrato  insufficenti  o  fondamentalmente 
sbagliati  i  quattro  quinti;  abbiamo  dichiarato  assurde  le  sue  ambizioni 
più  accarezzate,  alle  quali  sacrificò  incalcolabili  energie  e  un  prodigioso 
lavoro;  abbiamo  da  tanta  mole  di  libri  condannati  estratte  solo  tre 
opere,  o  per  meglio  dire  (giacché  la  Filosofia  della  Rivoluzione  è  an- 
ch'essa molto  manchevole)  due: /le  Rivoluzioni  d* Italia  e  gli  Scrittori 
politici  con   qualche  altro  piccolo  saggio.  La  chiesi^ola  dei  fanatici,  i 


348  Aldo  Ferrari 


quali,  elevando  a  norma  di  giudizio  il  loro  entusiasmo  senza  criterio 
predicano  che  il  Ferrari  è  grande  sempre  e  'dappertutto  e  vanno  in 
visibilio  davanti  ai  suoi  imparaticci  o  alle  sue  assurdità  (poiché  egli, 
con  doppia  esagerazione,  dalla  massima  parte  delle  persone  colte  è 
ignorato  o  trascurato,  e  da  alcuni  pochi  fedeli,  esageratamente  ado- 
rato) rimarranno  insoddisfatti  di  questa  conclusione.  Eppure  quel  poco 
(relativamente  alla  mole)  bielle  sue  opere,  che  noi  abbiamo  tratto  fuori 
a  titolo  di  onore  e  di  gloria,  è  tale  e  tanto,  che  può  dargli  a  buon 
diritto  uno  dei  posti  più  elevati  nel  Pantheon  dei  grandi  pensatori  del 
nostro  Risorgimento. 

Aldo  Ferrari. 


^ 


Dn  liiiio  piili  dello  Stalo  fiorenti  nel  ISii 


Quando  a  Firenze  si  consolidò  il  Principato  assoluto,  già  le  dot- 
trine finanziarie  vi  avevano  avuto  il  più  largo  svolgimento,  come  por- 
tavano le  istituzioni  economiche  di  quel  Comune,  che  meglio  d'ogni 
altro  in  Italia  preannunciava,  per  questo  rispetto,  lo  Sfato  moderno. 

In  una  città  dove  così  straordinaria  abilità  spiegavano  i  privati 
neirammìnìstrazione  dei  beni  e  delle  aziende,  perfino  dei  teologi  sape- 
vano trattare  con  chiarezza  e  praticità  questioni  relative  alle  pubbliche 
finanze  ;*  e  quasi  tutti  i  principali  scrittori  di  politica  e  di  storia  met- 
tevano in  luce  quanto  negli  Stati  giovino  Soprattutto  i  buoni  ordina- 
menti economici.^ 

Gino  di  Neri  Capponi^  lanciava  la  fortunata  affermazione :"/T(/e- 
naro  è  il  nervo  della  guerra.  Matteo  Palmieri  *  esponeva  i  vantaggi  d'un 
sistema  d*  imposte  per  cui  le  particolari  sostanze  dei  cittadini  venissero 
parimente  consumate.  Lodovico  Guetti  ^  sosteneva  la  universalità  delle 
imposte  e  Tabolizione  di  ogni  privilegio;  Tobbligo  per  tutti  di  contri- 
buire alle  spese  dello  Stato;  la  convenienza  di  un'imposta  diretta, 5 


»  Alludo  ad  Antonino  di  Firenze.  Cfr.  Funk,  Ueber  die  okonomischen  Anschaun- 
gen  der  mittelalter lichen  fheologen,  nella  Zeitschrift  filr  die  gesammte  Staatswissen- 
schaft,  XXV,  Tubinga,  1869,  pp.  66-69. 

»  TomoLO,  Scolastica  ed  Umanismo  nelle  dottrine  economiche  al  tempb  del  Ri- 
nascimento in  Toscana,  Pisa,  1887,  pp.  72-73. 

3  Nei  suoi  Commentari,  pubblicati  dal  Muratori  nel  T.  XVlII  dei  R.  I.  S. 

4  Della  vita  civile,  ed.  di-Milano,  1830,  p.  153.  Cfr.  Cusumano,  V economia  po- 
litica nel  Medio  Evo,  Bologna,  1876,  pp.  69  sgg. 

5  Inventiva  d'una  imposizione  di  naova  gravezza,  pubblicata  dal  Roscoe  in  ap- 
pendice al  voi.  I  della  sua  Vito  di  Lorenzo  de*  Medici  (pp.  408-09  della  trad.  frane, 
Parigf,  1800). 


350  Giuseppe  Pardi 

proporzionale  al  reddito  dei  beni  mobili  o  immobili  posseduti  da 
ciascuno  oppure  alla  rendita  del  mestiere  o  della  professione  eser- 
citata. 

Son  note  le  acute  considerazioni  del  Machiavelli  in  materia  di  pub- 
blica finanza,*  specie  in  quello  dei  suoi  Discorsi  (libro  II,  cap.  IO*'), 
in  cui  temperò  l'opinione  che  il  denaro  è  il  nervo  della  guerra^  nel 
senso  ch'esso  va  subordinato  ai  buoni  soldati  e  alle  buone  condizioni 
politiche  e  morali. 

Così  sarebbe  superfluo  parlare  degli  scritti  finanziari  del  Guicciar- 
dini, in  particolare  di  quello  famoso  sulla  Decima  scalata^^  dove  egli, 
pur  osteggiando  come  conservatore  l'imposta  progressiva,  espone  con 
chiarezza  e  acume  straordinario  le  ragioni  che  militano  prò  e  contro 
la  progressione  nelle  tasse,  e  anticipa  modernissimi  criteri  e  dottrine. 

In  corrispondenza  con  gli  studi  teorici,  la  repubblica  fiorentina 
raggiunse  nella  pratica  i  più  felici  risultati,^  i  quali  vengono  così  rias- 
sunti dal  Ricca-Salerno  :*  «  Creato  il  sistema  dei  bilanci  normali,  che 
si  mantennero  intatti  non  ostante  le  continue  guerre  e  le  ingenti  spese 
sostenute  dallo  Stato  ;  separate  le  spese  che  dovevano  pagarsi  col  pro- 
dotto dei  cespiti  ordinar!  e  dei  tributi,  da  quelle  che  bisognava  sod- 
disfare mediante  le  prestante  ;  mantenuto  l'equilibrio  tra  le  spese  e  le 
entrate  pagando  regolarmente  sino  all'ultimo  gl'interessi  del  debito 
pubblico;  adoperato  largamente  il  credito  e  organizzato  con  tutti  i 
modi  dei  moderni  consolidati  ;  ripartito  equamente  il  carico  straordi- 
nario delle  prestanze,  tassando  non  solo  i  beni  stabili  ma  i  mobili, 
compresi  i  titoli  del  debito  pubblico;  formato  il  catasto  dell* intiera 
ricchezza  immobiliare  e  mobiliare  sovra  basi  certe  ;  stabilita  quindi  la 
decima  o  vera  imposta  fondiaria  ;  ed  applicata  alle  imposte  variamente 
la  ragione  progressiva,  non  che  la  proporzionale  ». 

In  una  città  che  poteva  vantare  tante  belle  tradizioni  in  fatto  di 
finanza,  venne  a  governare  un  principe,  che,  sebbene  ancor  giova- 
nissimo, mostrava  così  precoce  serietà  e  costanza,  tale  attitudine  agli 
affari,  da  lasciar  ben  comprendere  che  nelle  sue  vene  scorreva  il  sangue, 
oltre  che  di  Giovanni  d^lle  Bande  Nere,  anche  dei  più  abili  mercanti 
e  uomini  politici,  che  sieno  mai  vissuti  in  Italia. 


»  Cfr.  ViLLARi,  Niccolò  Machiavelli  e  i  suoi  tempi,  Firenze,  1877,  voi.  I,  pp.  431-35, 
p  Knibs,  Niccolò  Machiavelli  als  volkswirthscliaftlicher  Schriftsteller  nellt  cit.  Zeit- 
^chrift  di  Tubinga,  Vili,  1852,  pp.  267  sgg. 

t  Nel  voi.  X  delle  Opere  inedite,  Firenze,  1867,  pp.  355-70. 

3  Cfr.  Canestrini,  La  scienza  e  l'arte  di  Siato  desunta  dagli  atti  uff ieiati  della 
repubblica  fiorentina  e  dei  Medici,  Firenze,  1862. 

«  Storia  delle  dottrine  finanziarie  in  Italia,  Palermo,  1896,  p.  79. 


Un  Hf ancia  preventivo  dello  Stato  fiorentino  del  1544  35  J 


Verrebbe  fatto  adunque  di  immaginare  più  che  mai  vicini  alla 
perfezione,  in  Firenze,  al  tempo  del  duca  Cosimo  I,  i  criteri  finanziari 
e  .i  mezzi  pratici  per  attuarli.  Le  cose,  invece,  sarebbero  andate  ben 
diversamente,  a  giudizio  dì  alcuni  studiosi  delle  finanze  fiorentine. 

Il  Rigobon,  ad  esempio,  che  ha  pubblicato  un  apposito  volume 
sopfa  «  La  contabilità  di  Stato  nella  repubblica  di  Firenze  e  nel  gran- 
ducato di  Toscana  »,*  scrive  a  questo  proposito  :  «  La  compilazione 
dei  bilanci  delle  entrate  e  uscite,  normali  e  quella  di  veri  bilanci  consun- 
tivi generali  non  si  verificava  normalmente,  a  quanto  sembra,  nei  tempi 
medicei».^  E  aggiunge:^  «Senza  veri  bilanci  compilati  normalmente 
sembra  abbia  continuato  per  molto  tempo  la  gestione  delle  finanze  to- 
scane». Infine  cita  lo  Zobi,*  secondo  il  quale  Tempirismo  e  la  confu- 
sione dominavano  nella  pubblica  economia  e  non  si  aveva  alcuna  idea 
di  bilanci  di  previsione. 

Tali  erronei  concetti  intorno  alla  gestione  delle  finanze  pubbliche, 
almeno  al  tempo  di  Cosimo  I,  derivano,  secondo  il  mio  modo  di  vedere, 
da  due  cause:  dalla  confusione  che  in  realtà  si  riscontra  più  tardi 
neiran-ministrazione  finanziaria  del  granducato,  quando  principi  poco 
intelligenti,  inadatti  al  govèrno  o  trascurati,  lasciarono  fare  a  loro 
talento  dei  cattivi  ministri  ;  soprattutto  poi  dal  non  aver  saputo  gli 
storici  rintracciare,  negli  archivii  medicei,  documenti  che  valessero  a 
mettere  in  piena  luce  il  vero  stato  delle  cose. 

Nemmeno  quando  si  aveva  notìzia  di  tali  documenti,  essi  sono 
stati  consultati  e  studiati.  Il  Rigobon,  ad  esempio,  è  a  cognizione  del 
fatto  che  nella  Raccolta  Strozziana  dell'Archivio  di  Stato  in  Firenze 
«  trovasi  una  dimostrazione  dell'entrata  e  uscita  di  Firenze  dal  V  lu- 
glio 1537  a  tutto  febbraio  1538,  che  pare  lavoro  di  Francesco  Guicciar- 
dini per  il  duca  Cosimo  »,®  come  si  legge  nell'Indice  di  quella  raccolta, 
ma  deve  confessar*  che  gli  «  duole  dì  non  averla  esaminata  ».  Se  lo 
avesse  fatto,  probabilmente  non  avrebbe  potuto  dare  che  un  giudìzio 
molto  favorevole  circa  ì  criteri  e  le  attitudini  finanziarie  di  un  prin- 
cipe, il  quale,  appena  salito  al  trono,  incaricò  la  persona  più  competente 
che  fosse  in  Firenze  di  stendere  un'esatta  relazione  sullo  stato  delle 
finanze,  se  non  proprio  dì  compilare  un  vero  bilancio  consuntivo.  Con 
degli  erronei  sistemi  di  amministrazione  egli  non  avrebbe  potuto,  come 


1  Girgenti,  1892. 
«  RiooBON,  op.  cit.,  p.  235. 
»  Ibidem,  p.  236. 

*  A.  ZoBi,  Manuale  storico  degli  ordinamenti  economici  vigenti  in  Toscana,  Fì- 
rente,  1858. 

5  RiQOBON,  op.  cit.i  p.  235. 


3S2  Giuseppe  Pardi 


fece,  riparare  alla  scarsezza  dell'entrate,  né  lasciare,  morendo,  un  co- 
spicuo tesoro  da  lui  stesso  accumulato. 

Lo  Zobi  poi  si  sarebbe  guardato  dall'af fermare  che  alla  Corte  di 
Firenze  non  si  aveva  idea  di  bilanci  preventivi,  se  avesse  frugato  bene 
tra  le  carte  degli  archivi.  A  me  è  accaduto,  infatti,  di  trovare,  pur  senza 
compiere  una  ricerca  metodica,  il  bilancio  preventivo  del  1544,  che 
credo  utile  di  pubblicare,  perchè  finora  unico  nel  suo  genere,  per  Fi- 
renze, premettendovi,  per  la  migliore  intelligenza  del  medesimo,  i  chia- 
rimenti che  seguono. 

Sebbene  il  titolo  del  documento  sia  :  Stato  deW entrata  dell* anno  f544 
in  disegno,  non  vi  è  fatto  il  bilancio  dell'intera  annata,  ma  soltanto 
di  un  semestre.  Perciò,  per  ottenere  il  primo,  occorre  raddoppiare  le 
singole  cifre.  Ne  risulta  così  la  previsione  di  un'entrata  e  di  una  uscita 
ammontanti  in  complesso  a  652.000  scudi.  E  poiché  vi  figurano  anche 
entrate  straordinarie,  ciò  non  appare  in  contrasto  con  quanto  riferisce 
il  Repetti  '}  «  Dal  bilancio  fatto  nel  1550  di  tutte  l'entrate  ordinarie  del 
dominio  fiorentino  appariva  che  esse  ammontavano  a  lordo  a  du- 
cati 437.934  per  anno  e  al  netto  delle  spese  ordinarie  a  ducati  267.903  ». 

Il  cespite  principale  degli  introiti,  quasi  un  quarto  della  somma 
totale,  consiste  ancora  nel  dazio  consumo  (le  casse  delle  Porte),  come 
al  tempo  dei  Comuni,  quando  anzi  gli  uomini  di  finanza  ricorrevano 
quasi  soltanto  a  questa  specie  d'imposte  indirette,  per  la  comodità  e 
il  vantaggio  pratico  dell'esazione,  oltre  che  per  altre  ragioni.'  Sotto  il 
Principato  oramai  doveva  prevalere  la  considerazione,  come  più  tardi 
in  Inghilterra,  che  il  loro  peso  sì  distribuiva  sulle  classi  privilegiate  e 
potenti  in  proporzione  minore  che  sulla  moltitudine  dei  popolani.^ 

H  dazio  consumo  rendeva  a  Firenze  116.000  scudi  airanno,  a 
Pisa  26.000,  a  Pistoia  M.OOO,  a  Prato  2000,  in  tutto  158.000  scudi. 

Seguiva,  per  importanza  di  reddito,  V  Imposta  del  sale,  da  cui  si 
ritraevano  annualmente  110.000  scudi.  Anche  questa  aveva  stabilito 
sin  da  tempo  antico  il  Comune  fiorentino,  obbligando  ciascuna  città 
o  terra  del  dominio  ad  acquistare  una  certa  quantità  di  sale  in  pro- 
porzione, prima  dell'estimo  complessivo  degli  abitanti,^  poi  della  ric- 
chezza e  insieme  del  loro  numero,  infine  delle  teste  di  ciascuna  fami- 
glia. Il  sale  veniva  venduto  dal  governo  ad  un  prezzo  ben  superiore 

»  Dizionario  geografico  fisico-storico  delia  Toscana^  voi.  II,  Firenze,  1835,  p.  227. 

2  Cfr.  Q.  Pardi,  Gli  statati  della  colletta  del  Comune  di  Orvieto,  nel  Boll,  della 
R.  Dep.  di  st.  p.  per  l'Umbria,  voi.  I,  pp.  1  sgg.  ;  voi.  IV,  pp.  1  sgg.  ;  voi.  X, 
pp.  169  sgg. 

3  VocKE,  Geschichte  der  Steuern  des  Britischen  Reichs,  Lipsia,  1866,  p.  53. 

*  Nei  Capitoli  del  Comune  fiorentino  è  usata  per  varie  comunità  la  frase  che 
esse  debbano  acquistare  il  sale  «  in  proporzione  del  loro  estimo  ». 


Un  bilancio  preventivo  dello  Stato  fiorentino  nel  1544.  353 


ai  quello  d'acquisto,  per  cui  restava  un  largo  margine  di  guadagno. 
//  caìnerllngo  del  sale,  ricordato  nel  documento,  era  il  cassiere  che 
riscoteva  dalle  singole  comunità  l'ammontare  della  relativa  tassa. 

Terza  per  importanza  di  reddito  figura  l'imposta  chiamata  sovi'^a- 
zione  del  contado.  Per  quanto  il  nome  sia  nuovo,  essa  dovrebbe  cor- 
rispondere, in  parte  almeno,  al  vecchio  estimo:  gravezza  basata  sulla 
sostanza  delle  persone  abitanti  nel  dominio  fiorentino  e  sul  loro  nu- 
mero. Generalmente  l'estimo,  scrive  il  Rezasco,*  «  si  componeva  di  tre 
parti  :  degli  immobili,  de'  mobili  e  guadagni,  e  delle  teste.  Degli  im- 
mobili poteva  la  gravezza  non  allontanarsi  dal  giusto,  se  si  adopera- 
vano i  mezzi  che  ci  sono  per  rinvenirlo.  Ma  de'  guadagni,  non  volendo 
starsene  alle  denunzie,  forza  era  rimettersi  alla  coscienza,  che  è  quanto 
dire  all'opinione,  anzi  all'arbitrio  ed  alle  passioni  dei  ponitori,  donde 
originò  il  nome  odioso  ma  giusto,  d'arbitrio,  dato  allora  e  poi  man- 
tenuto alla  tassa  de'  guadagni  e  delle  industrie».  Per  tali  ragioni 
l'estimo  veniva  sopportato  di  mal  animo  dai  cittadini  e  per  questo  non  si 
applicò  che  al  contado.  Se  si  imponeva  talvolta  entro  Firenze,  si  faceva 
in  forma  di  prestanza;  le  somme  prestate  s'inscrivevano  a  monte,  vale 
a  dire  sul  gran  libro  del  debito  pubblico,  e  se  ne  pagavano  gì'  interessi. 

Sappiamo  che  Cosimo  de'  Medici,  bisognoso  di  accrescere  le  ren- 
dite dello  Stato,  per  ricavarne  i  mezzi  di  difenderlo,  di  consolidarvi  la 
potenza  propria  e  di  ingrandirlo  con  l'acquisto  del  Senese,  «  ordinò  una 
revisione  generale  degli  estimarì  nel  territorio  fiorentino  »*  e  mediante 
quest'operazione  fece  salire  molto  il  gettito  dell'estimo,  «  con  lo  aumento 
delle  stime  di  quelli  [tra  I  beni]  che  avevano  ricevuto,  in  principio, 
una  bassa  valutazione,  o  dei  miglioramenti  o  accrescimenti  in  pro- 
gresso».^ Per  il  contado  di  Pisa  in  particolare,  poiché  nella  capitola- 
zione del  150Q  si  era  convenuto  di  esentare  da  qualunque  gravezza  i 
possessi  fondiari  dei  Pisani,  trasferendone  il  peso  sui  contadini,  Co- 
simo sgravò  questi  ultimi,  aggravando  invece  i  padroni  :  così  fece  opera 
di  giustizia  e  potè  percepire  somme  maggiori. 

Dalla  sovvenziotie  del  contado  si  prevedeva  un  gettito  di  50.000 
scudi  al  semestre  e  di  100.000  all'anno. 

Quarta  per  importanza  di  reddito  figura  tra  le  gravezze  la  Decima: 
imposta  del  10  per  100  sulle  entrate  che  ciascun  cittadino  di  Firenze 
ritraeva  dai  beni  immobili,  «senza  sconto  alcuno,  cioè  non  tenendo 
conto  delle  bocche  e  degli  altri  carichi  ».*  Essa  era  basata,  dunque. 


»  Diz.del  linguaggio  ital.  storico  e  amministrativo ^  Firenze,  \9>S\,  soiio  Estimo. 
«  Paglini,  Ragionamento  storico  politico  sul  debito  pubblico  della  Toscana^  voi.  X 
0832)  degli  Atti  dell' Accademia  dei  Georerofìli. 
*  Ibidem. 
<  Canestrini,  op.  cit.,  p.  190. 

21  —  Nuova  Rivista  Slorica. 


354  Giuseppe  Pardi 


non  sulla  sostanza  o  capitale,  bensì  sulla  rendita  dei  terreni  e  delle 
case;  e  colpiva  non  il  solo  reddito  disponibile  (il  così  detto  sovrab- 
bondante)f  ma  T  intiera  rendita  fondiaria,  sottratti  i  censì  e  livelli  ed 
esclusa  la  casa  d'abitazione.* 

Nel  documento  del  1544  si  parla  di  «una  Decima  et  un  quarto 
et  un  arbitrio  »:  vale  a  dire  che  1*  imposta  veniva,  oltre  il  dieci  per  cento, 
aggravata  di  un  quarto  e  per  di  più  imposta  ad  arbitrio,  cioè  ripartita 
«a  congettura,  giudizio  e  coscienza  dei  deputati  alla  distribuzione,  i 
quali  aggravavano  coloro  che  nel  frattempo  avessero  aumentati  i  loro 
beni  o  fossero  presunti  di  possedere  più  di  quello  che  avevano  de- 
nunziato; ed  era  anche  e  più  generalmente  ripartita  sugli  esercizi  e 
sulle  industrie...  ;  e  siccome  pesava  più  sulle  persone  che  sui  beni  ed 
era  distribuita  secondo  la  presunta  facoltà  contributiva  de'  cittadini,  e 
quindi  secondo  la  discrezione  ed  opinione  degli  officiali  del  reparto, 
chiamavasi  arbitrio  ».*  Al  tempo  del  Principato  «  l'arbitrio  fu  intro- 
dotto e  riscosso  unitamente  alla  Decima  fino  all'anno  1561  >.'  Anche 
nel  1539  si  impose  «una  decima  e  V4  e  un  arbitrio».* 

Si  prevedeva  un  reddito  di  32.000  scudi  dalla  decima,  di  8000  dal 
quarto  e  di  2000  dall'aggravio  :  di  42.000  fra  tutto  in  un  semestre, 
e  però  di  84.000  all'anno. 

Quinto  tra  i  cespiti  d'entrata  figura  il  dazio  doganale,  da  cui  si 
sperava  di  ritrarre  annualmente  74.000  scudi.  Esistevano  tre  classi  di 
dogane  per  la  riscossione  dei  dazi  sulle  merci  :  ai  confini  d'ogni  di- 
stretto, ai  confini  del  dominio  e  nei  porti  (senza  tener  conto  del  dazio 
di  consumo  alle  Porte).  Nel  1556  Cosimo  I  fece  pubblicare  un  nuova 
regolamento  della  dogana  di  Pisa  e  regolare  meglio  le  relazioni  tra 
questa  e  l' importante  dogana  di  Livorno.*  Il  camerlingo  di  dogana,  di 
cui  si  parla  nel  bilancio  del  1544,  era  il  cassiere  che  introitava  le 
rendite  di  tutti  gli  uffici  doganali. 

Un  reddito  di  18.000  scudi  al  semestre,  vale  a  dire  di  36.000  all'anno, 
si  prevedeva  dalla  gabella  dei  contratti,  ossia  dalla  tassa  che  si  pagava 
sui  contratti  di  compra  e  vendita.®  Il  camerlingo  de*  contratti  riscoteva 
la  tassa  medesima. 


1  Ricca-Salerno,  op.  cit.t  p.  64  n.  Anche  della  decima  Cosimo  I  accrebbe  consi- 
derevolmente il  gettito,  rispetto  al  tempo  precedente,  facendo  rivedere  i  catasti  e  a^^ 
giungere  il  reddito  dei  miglioramenti  e  degli  accrescimenti  fatti  di  recente. 

«  Canestrini,  op.  cit.^  pp.  181-85. 

«  Ibidem,  p.  404. 

4  Ibidem,  p.  436. 

6  Cantini,  Legislazione  Toscana,  Firenze,  a.  1833  sgg.,  voi.  Ili,  pò.  82-83. 

«  Nuove  leggi  sulla  gabella  dei  contratti  furon  promulgate  da  Cosimo  I  net  1550 
•  ti  veggono  riprodotte  dal.  Cantini,  0/;.  ciL,  I,  173-74  e  176  sgg. 


Un  bilancio  preventivo  deìlb  Stato  fiorentino  del  1544  355 

Un'imposta  diretta  diseguale  e  o(iìos2i  era.  il  balzello,  prestito  lor- 
icato, così  detto  perchè  generalmente,  scrive  il  Rezasco,*  «  non  perco- 
teva  l'universale,  ma  sì  alcuni  uomini  in  singularità,  ^  con  disegua- 
glianze e  sbalzi»^,, Il  balzello,  come  raccatto  a  perdita,  non  veniva 
garantito  da  veruna  entrata  pubblica,  né  iscritto  al  Monte,  e  per  con- 
seguenza non  se  ne  riscotevanO  interessi.  Lo  Stato  si  dichiarava  soltanto 
debitore  delle  somme  percepite  e  prometteva  di  restituirle  quando  po- 
tesse. Si  può  facilmente  immaginare  che  i  balzelli  colpivano  in  parti- 
colare i  tepidi  sostenitori  del  nuovo  governo  o  gli  avversari  sospettati, 
Ola  ancora  nascosti  :  così  il  principe  accresceva  le  proprie  rendite  e  i 
suoi  mezzi  di  difesa,  mentre  diminuiva  quelli  dei  nemici  non  dichiarati, 
poiché  di  quelli  manifesti  faceva  addirittura  confiscare  i  beni. 

Il  balzello  avrebbe*  dovuto  rendere  20.000  scudi  al  semestre  e 
40.000  all'anno. 

Circa  12.000  scudi  al  semestre,  cioè  24.000  all'anno,  si  sperava 
ricavare  dalle  teste  del  contado,  ossia  dalla  tassa  sopra  gli  abitanti  po- 
veri del  contado,  basata  sopra  il  numero  delle  persone  o  teste  com- 
ponenti ciascuna  famiglia. 

Ben  9000  scudi  al  semestre,  ossia  18.000  all'anno,  rendevano  le 
tasse  de*  Comuni,  vale  a  dire  i  tributi,  che,  secondo  gli  speciali  capitoli 
conclusi  al  tempo  della  sottomissione,  e  non  di  rado  poi  modificati  per 
le  mutate  condizioni  economiche  delle  comunità,  ciascuna  di  queste  era 
obbligata  di  pagare  in  passato  alla  repubblica  fiorentina  e  allora  ai 
duca  Cosimo. 

Settemila  e  cinquecento  scudi  al  semestre,  15.000  all'anno,  rende- 
vano le  decime  dei  preti  dello  Stadio,  vale  a  dire  le  tasse  sui  religiosi, 
che  erano  state  destinate  al  mantenimento  degli  Studi  o  Università,  di 
Pisa  e  di  Firenze. 

Avrebbe  dovuto  fornire  7000  scudi  al  semestre,  14.000  all'anno, 
il  Camerlingo  de*  Cinque  del  contado,  ossia  il  tesoriere  dei  Cinque  Con- 
servatori del  contado  e  del  distretto,^  magistratura  che  esercitava  vigi- 
lanza sui  camarlinghi  dei  Comuni  posti  nel  solo  contado.  Essa,  dopo 
la  riforma  che  ne  fece  appunto  Cosimo  I,  tendeva  «  ad  accrescere  le 
entrate  e  resecare  le  spese  superflue  >.^  Nel  1544  però  non  era  stato 
ancora  sviluppato  il  sistema  ingegnoso,  ma  arbitrario,  con  cui  Cosimo  I 
s'impossessò  delle  rendite  eccedenti  i  bisogni  delle  comunità. 

È  noto  che  negli  atti  di  sottomissione  alla  repubblica  fiorentina  i 


1  Op.  cit.  alla  voce:  Balzello. 
«  Canestrini,  op.  eit.,  pp.  327  e  405. 

s  Cfr.  A.  Anzi L LOTTI,  La  eostituzione  interna  della  Stato  fiorentino  sotto  il  duca 
Cosimo  l,  Firenze,  1910,  p.  70. 
*  Ibidem,  p.  71. 


Ò56  Giuseppe  Pardi 

Comuni  si  erano  riservata  l'amministrazione  dei  rispettivi  patrimoni. 
E  quel  governo,  difatti,  aveva  limitata  la  sua  azione  ad  una  vigilanza 
diretta  a  impedire  abusi  ed  errori  amministrativi.  Cosimo  I  nel  1549 
ordinò  che  gli  avanzi  delle  rendite  comunali  fossero  depositati  a  dispo- 
sizione del  governo.  Più  tardi  istituì  il  Magistrato  dei  Nove  Conser- 
vatori della  glaris  azione  e  del  dominio  fiorentino,  a  cui  assoggett  òtutti 
i  patrimoni  municipali,  col  pretesto  che  essi  avessero  a  tutelarli,  in 
realtà  perchè  gli  agevolassero  il  modo  di  valersi  delle  eccedenze  de* 
bilanci  a  vantaggio  del  suo  erario. 

Ben  4000  scudi  al  semestre,  8000  all'anno,  rendeva  a  Firenze  la 
tassa  de'  cavalli,  destinata  al  mantenimento  dei  cavalli  in  guerra  o, 
per  dir  meglio,  deiresercito,  poiché  fin  dall'alto  Medio  Evo  la  cavalleria 
era  diventata  la  parte  più  importante  delle  milizie.  Dice  il  Rezasco* 
che  nel  Fiorentino  quell'imposta  fu  introdotta,  a  modo  di  prestanza, 
nel  1323,  se  non  prima,  quell'imposta  che  si  diceva  a  Firenze  anche 
cavallata  o  tassa  delle  lance^  e  veniva  distribuita  sull'estimo  delle  pos- 
sessioni e  sulla  rendita  delle  case^ 

Duemila  e  cinquecento  scudi  al  semestre,  5000  all'anno,  erano  il 
reddito  presunto  dalla  gabella  del  bestiame.  Fino  dal  tempo  della  repub- 
blica sì  pagava  una  tassa  del  5  per  100  sopra  le  vendite,  i  baratti  eie 
donazioni  delle  bestie  (asini,  muli  e  cavalli).  Il  prodotto  della  medesima 
doveva  servire  alle  spese  necessarie  per  i  lavori  dell'Arno.  Cosimo  I 
nel  1549  lo  estese  ai  ripari  da  farsi  a  qualsiasi  fiume  dello  Stato.' 

Avrebbe  dovuto  fornire  all'erario  2000  scudi  al  semestre,  4000  al- 
l'anno, il  Depositario  delle  Bande.  La  milizia  chiamata  delle  Bande  era 
addetta  al  servizio  e  alla  difesa  dello  Stato.  Cosimo  I  stabili  per  essa 
mi  nuovo  regolamento  il  26  marzo  1548.^  Il  Depositario  delle  Bande 
riscoteva  le  pene  pecuniarie  inflitte  agli  iscritti  in  quelle  milizie.*  Da 
tali  multe  doveva  risultare  il  reddito  presunto. 

Altri  2000  scudi  al  semestre,  4000  all'anno,  avrebbe  somministrati 
il  Depositario  della  Parte,  ossia  il  tesoriere  della  Parte  Guelfa,  la  quale, 
com'è  ben  noto,  possedeva  un  ingente  patrimonio,  derivato  dalla  con- 
fisca dei  beni  dei  Ghibellini,  fin  dal  1267. 

Tali  erano  le  rendite  previste  per  l'erario  fiorentino  nel  1544.  Esse 
appaiono  considerevolmente  accresciute  dal  principio  del  governo  di  Co- 
simo a  quest'anno,  poiché  l'intelligentissimo  principe,  avendo  ben  com- 
preso che  ir  denaro  è  il  nerbo  della  potenza,  s'ingegnava  con  ogni 
mezzo  d'accrescere  le  entrate  del  suo  erario.  E  bene  avrebbe  fatto  ad 


»  Op.  eit.,  alla  voce:  Cavallo. 

*  Cantini,  op.  cit.,  II,  91  sgg. 

t  Ibidem,  II,  9  sgg.  Venne  riformato  poi  il  l"  ottobre  1556,  Ibidem,  III,  10  sgg. 

4  Ibidem,  HI,  13  sgg. 


Un  bilancio  preventivo  dello  Staio  fiorentino  nel  1^44  35: 


aumentarle  quanto  era  possibile,  senza  però  aggravare  il  suo  popolo, 
poiché  egli  non  si  riguardò  —  e  questo  fu  il'  suo  torto  principale 
nell'amministrazione  delle  finanze  -^  dall*  inasprire. soverchiamente  i  dazi 
di  consumo,  tassando  generi  di  prima  necessità  in  passato  esenti  da 
gabella  ;  né  dall'appropriarsi  i  redditi  delle  comunità,  impedendo  cosi 
a  queste  di  migliorare  le  proprie  condizioni.  Fu  adunque  con  metodi 
talvolta,  troppo  fiscali,  che  egli  potè  portare  le  rendite  pubbliche  da 
meno  di  mezzo  milione  a  un  milione  e  centomila  scudi.^ 


Esaminate  le  entrate  dello  Stato,  vediamone  ora  le  spese,  così  ordi- 
narie come  straordinarie. 

La  principale  tra  tutte  era  il. pagamento  degli  interessi  del  debito 
pubblico  (o,  come  si  diceva  allora,  le  paghe  del  Monte)^  per  cui  occor- 
revano 45.600  scudi  al  semestre,  91.200  airanno. 

Era  stato  fondato  nel  1343  il  Monte  Cornane,  così  chiamato  per 
indicare  la  riunione  o  l'ammasso  di  tutti  i  creditori  dello  Stato:  ufficio 
dove  si  inscrivevano  tutti  i  debiti  pubblici  e  si  pagavano  gli  interessi 
di  questi  o,  secondo  i  casi,  si  rimborsava  interamente  o  in  parte  il 
capitale.  Da  allora  in  poi  ogni  prestito  venne  contratto  in  nome  del 
Monte,  che  funzionava  da  Banca  pubblica  sotto  la  garanzia  del  go- 
verno. Dal  1343  al  1427,  nel  quale  ultimo  anno  s'iniziò  un  nuovo 
ordine  di  cose  con  l'istituzione  del  catasto,  il  Monte  aveva  ottenuto 
in  prestito  dai  cittadini  la  somma  di  19.100.00Ó  fiorini  d'oro.- 

Non  meno  di  700QV"cli  al  semestre  e  14.000  all'anno  andavano 
«  alli  offitiali  del  Monte  per  resto  di  lor  capitale  et  discretione  ». 

Li  offitiali  del  Monte  erano  una  magistratura  che  sovrintendeva 
alle  operazioni  di  credito  per  conto  dello  Stato,  al  pagamenlo  degli 
interessi  e  al  rimborso  del  capitale.  L'ordine  di  Cosimo  1  in  data 
28  febbraio  1551  regolò  meglio  l'elezione  di  quei  magistrati  e  le  loro 
attribuzioni.*  Essendo  tale  ufficio  molto  ambito,  serviva  di  allettamento 
per  ottener  nuovi  prestiti  dai  cittadini.  Come  risulta  appunto  dal 
bilancio  preventivo  del  1544,  mancando  39.779  scudi  al  semestre  per 
raggiungere  il  pareggio  tra  l'entrata  e  l'uscita  del  pubblico  erario,  si 
dovevano  creare  otto  nuovi  «offitiali  di  Monte»,  con  l'obbligo,  a  cia- 
scuna delle  persone  che  verrebbero  nominate,  di  prestare  allo  Stato 
5000  scudi  da  restituirsi  gradualmente.* 

La  somma  preventivata  doveva  appunto  servire  al  rimborso  di 
quella  parte  del  capitale  prestato  dai  deputati  al  Monte,  che  scadeva 

»  Paglini,  op.  cit,,  voi.  X,  p.  108,  degli  Atti  citati. 

*  Paglini,  op.  dt.  (negli  Atti  cit.  degli  anni  1831  e  1832,  voli.  DC  e  X,  partico- 
laimeiite  IX,  198-99). 

*  Cantini,  op.  cit.,  I,  133. 

*  Ciò  sigoifica  forse  la  frase  del  documento:  per  riacquisto. 


358  Giuseppe  Pardi 


nel  1544,  come  pure  degli  interessi  dovuti  per  Finterà  somma  da  essi 
mutuata  (discretione,  parola  usata  particolarmente  per  gli  interessi  del 
Monte,  perchè  da  principio  si  lasciarono  variabili  a  discrezione  degli 
ufficiali  che  li  dovevano  riscotere). 

In  tal  modo  la  cassa  di  ammortamento,  istituita  per  impedire 
l'eccessivo  aumento  del  debito  pubblico,  si  riempiva  col  prodotto  ài 
nuovi  prestiti.  «  Questo  bisogno  sempre  rinascente,  per  natura  istessa 
deiramministrazione,  esponeva  il  Monte  a  un  circolo  vizioso,  i  di  cut 
risultamenti  erano  i  progressivi  aumenti  del  debito,  per  lo  aumento 
dej  frutti,  per  le  spese  di  azienda  e  per  le  requisizioni  del  Governo  ».* 

Una  somma  presso  a  poco  eguale,  o  di  poco  minore,  a  quella 
necessaria  per  pagare  gli  interessi  del  debito  pubblico,  occorreva  per 
il  fTianlenimento  e  la  custodia  delle  fortezze  dello  Stato  :  44.402  scudi 
al  semestre,  di  cui  18,350  per  il  solo  castello  di  Firenze,  8800  per  le 
paghe  dei  soldati  tedeschi  e  5218  per  le  guardie  della  fortezza  di  Li- 
vornoj  che,  dopo  l'altra  della  capitale,  si  considerava  come  la  piCi  impor- 
tante del  dominio. 

Altre  spese  militari  erano:  20.952  scudi  al  semestre  pei*  le  paghe 
a  tre  compagnie  di  soldati  mercenari;  circa  4000  scudi  preventivati 
annualmente  per  la  costruzione  di  una  nuova  fortezza  in  firenie  e 
5000  per  fortificare  Monte  S.  Miniato;  lOOO  per  la  fortezza  di  Arezzo; 
1000  per  quella  di  Pistoia;  2000  per  restaurare  e  rafforzare  le  mura 
della  città  di  Pisa;  1500  per  le  mura  di  Prato;  1000  per  la  muraglia 
di  Livorno.  Accrescendo  in  tal  modo  le  fortificazioni  e  tenendo  pronte 
milizie  abbastanza  numerose,  Cosimo  si  preparava  a  far  fronte,  non 
tanto  agli  eserciti  di  Stati  nemici  (che,  sotto  la  protezione  della  Spagna, 
egli  non  aveva,  da  questo  Iato,  niente  a  temere),  quanto  a  ii^ prese  di 
fuorusciti  o  a  ribellioni  di  repubblicani. 

Non  meno  di  30.000  scudi  al  semestre  occorrevano  per  le  spese 
giornaliere  della  Casa  granducale  e  7000  per  le  spese  particolari  del 
duca  e  della  duchessa. 

Circa  ISjOOO  scudi  importava  il  pagamento  delle  quote  maturate 
«dei  capitali  da  restituire  per  doti  di  fanciulle:  «terzi  et  capitali  à\ 
dote  vecchie  e  nove  ».  Fin  da!  1425  si  era  istituito  in  Firenze  il 
Monte  delle  doti,  per  costituire  doti  e  assegni  a  fanciulli,  così  maschi 
come  femmine,  e,  dopo  il  1457,  alle  femmine  soltanto.  Depositata  una 
somma  di  lOO  fiorini,  sì  aumentava  con  grossi  frutti  il  capitale  per  uno 
spazio  di  15  anni.  Al  termine  di  questi,  se  la  ragazza  era  maritata, 
guadagnava  una  dote  di  500  fiorini.  Il  pagamento  veniva  fatto  a  terzi, 
cioè  in  tre  rate.  Neirordine  per  il  Monte  Comune  del  28  febbraio  1536 

1  Paglini,  op.  eit.,  p.  201  del  voi.  IX  degli  Atti  dUtl. 


Un  bilancio  preventivo  dello  Stato  jiorentino  nel  1544  359 


si  legge:  «Quanto  alle  dote  guadagnate,  sien  tenuti  e*  detti  offiziali 
(del  Monte]  far  pagare  il  terzo  delle  dote  guadagnate,  o  che  si  gua- 
dagnarono durante  il  tempo  della  presente  riforma  >.*  In  certi  casi  poi 
si  restituiva  il  capitale,  come,  ad  esempio,  quando  si  facevano  monache 
le  fanciulle  per  cui  era  stato  versato  il  deppsito. 

Ben  8000  scudi  occorrevano  per  gli  Otto  di  pratica^  che  «  dovevano 
diriger^  il  maneggio  diplomatico,  provvedere  alla  condotta  dei  soldati 
e  dei  capitani  al  soldo  della  repubblica,  farne  le  rassegne,  stanziare 
le  provvisioni  e  i  salari  per  le  condotte,  dovevano  curare  le  opere  di 
difesa  del  territorio  fiorentino  e  vigilare  le  rocche,  le  fortezze  e  il  loro 
vettovagliamento  ».*  Ma  col  Principato  le  attribuzioni  di  questa  magi- 
stratura mutarono  totalmente,  poiché  il  principe  si  riservò  le  più  alte 
attribuzioni  ad  essa  ^\2i  conferite,  cosicché  non  le  restò  che  «  cono- 
scere le  controversie  sorgenti  fra  le  comunità,  e  fra  queste  e  i  privati»  :  •* 
essa  diventò  insomma  un  tribunale  delle  comunità  e  come  tale  estese  la 
sua  giurisdizione  su  tutto  il  dominio  e  venne  ad  integrare  l'azione 
esercitata  dai  Cinque  del  contado  e  del  distretto. 

Altri  8000  scudi  occorrevano  per  salari  di  ambasciatori  e  di  Com- 
missari (ufficiali  mandati  in  qualche  luogo  per  eseguire  commissioni 
del  governo,  oppure  quali^  governatori  di  città)  e  per  le  spese  neces- 
sarie a  Inviare  messaggi  e  lettere. 

Quasi  80C0  scudi  importavano  ì  salari  degli  ufficiali  di  Palazzo 
Vecchio. 

Circa  7000  se  ne  spendevano  per  la  polizia:  per  bargelli  e  loro 
compagnie;  e  quasi  4000  per  i  servi  di  Corte. 

Ben  7400  scudi  costavano  al  semestre  gli  Studi  di  Pisa  e  di  Firenze, 
per  il  pagamento  dei  salari  ai  Lettori. 

A  3200  scudi  circa  ammontavano  i  salari  dei  giudici  di  Rota  e 
dei  podestà.  Ruota,  e  a  Firenze  Rota,  dìcevasi  il  tribunale,  e  quindi 
giudici  di  Rota  wo\<ò\'a  significare  semplicemente  giudici.  Nel  1502, 
aboliti  i  tribunali  del  podestà  e  del  capitano  del  popolo,  la  giurisdizione 
civile  e  criminale  venne  affidata  a  cinque  giudici  forestieri.  Quel  tri- 
bunale fu  riformato  nel  1532  e  poi  di  nuovo  da  Cosimo  I.  I  podestà 
continuavano  ad  amministrar  la  giustizia  nelle  terre  del  dominio  fio- 
rentino. 

Tra  le  altre  spese  vanno  ricordate  quelle  per  le  guardie  del  foca, 
paragonabili  ai  moderni  pompieri. 

Occorre  qualche  spiegazione  per  la  somma  di  4C0  scudi  dovuU 


>  Cantini,  op.  cit.,  l,  134. 

«  Anzillotti,  op.  eit,  p.  75. 

>  Ibidem. 


36o  Giuseppe  Pardi 


<  a*  depositi  de'  pupilli  ».  Vi  era  in  Firenze  un  apposito  «  offitio  dellit 
pupilli  »,  che  invigilava  suiramministrazione  dei  beni  pupillari.  Il  de- 
positario o  camarlingo  deirufficio  stesso  teneva,  «quella  quantità  di 
residui  di  depositi  rimasti  in  detto  magistrato  per  non  si  trovargli 
padroni  o  eredi  a  chi  si  abbino  a  restituire».*  I  400  scudi  dovevan 
servire  per  le  spese  di  quest'ufficio,  che  lo  Stato  forse  anticipava. 

Giuseppe  Pardi. 


Stato  deirentrata- deiranno  1544  in  disegno. 

Dalle  casse  delle  Porte scudi  58,cvd«) 

Da  una  Decima  et  V4  et  un  arbitrio  (la  Decima  è  di  32  mila,  . 

il  V4  [di]  8  mila)  ................  »  42.000 

Dal  camerlingo  del  saìe=. »  55.000 

Dal  camerlingo  di  dogana »  37.000 

Dal  camerlingo  de*  contratti »  18.000 

Dal  camerlingo  di  Pisa »  13.000 

Dal  camerlingo  de'  Cinque  del  contado »  7.000 

Dal  camerlingo  di  Pistoia ., .  »  7.000 

Dalle  tasse  de'  Comuni .  »  9.000 

Dalle  gabelle  delle  bestie   . »  2.500 

Dalle  teste  del  contado.     ....     .^    .........  >  12.000 

Dal  depositario  della  Parte, »  2.000 

Dal  depositario  delle  Bande »  2.000 

Dalle  tasse  de'  cavalli »  4.000 

Da'  resti  di  più  camerlinghi »  4.000 

Dal  camerlingo  et  entrata  di  Prato; »  1.000 

Dalle  Decime  de'  preti  dello  Studio »  l-V^ 

Somma  tutta  l'entrata,  come  di  sopra »  281.000 

Nota  della  uscita  ordinaria  dell'anno  medesimo. 

Al  Bargello  di  Firenze  con  la.  sua  compagnia. »  1-985 

Al  Bargello  di  campagna »  2.619 

Al  Bargello  di  Pistoia »  2.434 

Al  Bargello  di  Pisa. , »  785 

Alli  ofìfìtii  di   Palazzo  per  lor  salarli,  cioè  collegi,  procuratori 

et  altro »  7-78+ 

Allo  Studio  di  Pisa  et  di  Firenze   . ».  »  7.400 

Alla  famiglia  del  Palazzo    ....;..•....*.  »  3*9^ 

Alle  guardie  del  foco. »  600 

A'  Giudici  di  Ruota  et  Potestà. »  3.M0 


1  Cantini,,  op.  eit.,  IV,  60. 


Un  bilancio  preventivo  dello  Stato  fiorentino  nel  1544  361 


A  Hmosine  dì  più- monasteri  et  limosìne  di  S.  Eccellenza   .     .  scudi  2.144 

A  spese  della  camera  dell'arme  et  monitioni  (?) »  1.600 

A  limosine  di  S.**  Maria  Nuova »  3.200 

Al  re  d'Inghilterra »  2.142 

A  terzi  et  capitali  di  dote  vecchie  et  nudve »  13.000 

A  Inibasciatori,  Comessariì  et  Poste »  8.000 

A  spese  delli  Otto  di  Pratica  con  pigioni  di  casa   .....  »  8.000 

Alle  paghe  del  Monte  et  altro »  45.600 

AIH  ofiìliali  del  Monte  per  resto  di  lor  capitale  et  discretione,  »  7.000 

AIH  creditori  delli  ottavi  dell'arte     . »  i.ooo 

Somma  in  tutto  l'uscita  ordinaria »  122.453 

Somma  in  lutto  l'uscita  straordinaria,  come  di  sotto  ....  »  133*326 

In  tutto  somma  l'jiscita  ordinaria  et  straordinaria    .....  »  255.779 

Uscita  straordinaria. 

Alla  guardia  del  castello  di  Firenze    .     .    .     .    ;     ...     .     .  »  18.350 

Alla  guardia  de'  Tedeschi »  8.800 

Alla  fortezza  di  Livorno *  5.218 

Alla  fortezza  di  Pisa »  3' 156 

Alla  fortezza  d'Arezzo »  2.130 

Alla  fortezza  di  Volterra »  780 

Alla  fortezza  di  Pistoia  .     , , »  1.272 

Alla  fortezza  del  Borgo »  858 

Alla  fortezza  tìi  Cortona .........  »  547 

Alla  fortezza  di  Montepulciano ,.,.,..  »  576 

Alla  fortezza  di  Castrocaro »  470 

Alla  ròcca  di  Modigliana »  180 

Alla  ròcca  di  Motrone  et  rocchetta  di  Pietrasanta »  312 

Alla  ròcca  di  Montecarlo »  105 

Alla  torre  di  Vada. »  103 

Poggio  Imperiale »  84 

Alla  torre  di  Monte  Pogginolo    .    * ...»  86 

Alla  torre  nuova  di  Livorno »  360 

Al  fanale  di  Livorno .  »  115 

A  due  Porte  di  Livorno »  432 

A  quattro  Porte  di  Pisa »  468 

Somma  la  spesa  delle  foltezze  et  guardie  ........  »  44*402 

Segue  Tuscita  straordinaria. 

Alla  provisione  del  Signore  Stefano  et  sue  Lance  .          ...»  3.600 

A  dieci  capitani  della  militia »  2.160 

Alle  Lance  Spezzate >  5.500 

Al  Signore  Ridolfo  et  sua  compagnia .  »  12.720 

Al  capitano  Aldano  et  sua  compagnia     .........  »  4.632 

A  spese  di  munitiont  et  artiglieria  ...........  >  2.600 


3<>2  Giuseppe  Pardi 


A  spese  della  muraglia  del  Castel  di  Fiorenza  ducati  4  mila, 

o  più  o  meno  che  pare  a  Sua  Eccellenza scudi  4.000 

Alla  furtifìcatione  del  Monte .     ,  »  5.000 

Alle  spese  de'  ripari  d'Arno »  i.ooo 

Alle  spese  delle  fortezze  d'Arezzo ,*    .     .     .  »  i.ooo 

Alle  spese  della  fortezza  di  Pistoia  mille,  o  più  o  meno.    .    .  »  1.000 

Alla  muraglia  della  città  di  Pisa »  2.00C» 

Alla  lìrovisione  di  casa »  30.000 

A  spese  a  conto  di  Sua  Eccellènza  et  della  Duchessa    ...»  7.000 

Alla  muraglia  di  Prato »  1.500 

Alla  muraglia  di  Livorno  et  altri  acconcimi    .......  »  f.ooo 

Alle  tasse  de'  cavalli. »  3.662 

A  rnesser  Giovanni  de  Montesdus  spagnolo,  per  parte  di  suo 

credito »  150 

A'  depositi  de'  pupilli »  400 

Somma  l'uscita  straordinaria  suddetta »  88.924 

Somma  la  faccia  di  là,  di  detta  uscita »  44.402 

(n  tutto  somma  l'uscita  straordinaria  .     .    < '.     .     .  »  133.326 

Somma  in  tutto  l'entrata,  come  si  vede »  281.600 

Somma  in  tutto  l'uscita  ordinaria  et  straordinaria »  255.779 

Resta  l'avanzo  dell'entrata »  25.221 

Ragionasi  si  tragga  ancora  del  Balzello  della  città,  di  danari 

conti .    ,    .  , ,    .  »  20.000 

Ancora  si  ragiona  si  tragga  della  sovventione  messa  al  contado.  »  50.000 
Somma  l'avanzo  dell'entrata,  il  resto  del  Balzello  et  la  sov- 
ventione   »  95.221 

Ragionasi  che  ci  sia  di  debito  con  i  cittadini,  per  la  presta 

fatta  da  loro,  fra  capitali  et  discretione .  »  135.000 

Trattone  }'avan2o  dell'entrata,  balzello  et  sovventione    .    .  '  .  »  95.221 

Resto  netto »  39*779 

Come  Si  vede,  ci  resterebbe  a  riempire  i  detti  scudi  39.779; 
per  riempimento  de'  quali  si  ragiona,  quando  a  Sua  Ec- 
cellenza piaccia,  di  metter  otto  offitiali  di  Monte,  con  ob>. 
bligo  di  prestar  scudi  ^  mila  per  ciascuno,  per  riacquisto: 
i  quali  offitiali  saressino  per  assegnamento  il  camarlingo 
de'  contratti,  per  sino  alla  somma  di  scudi  15  mila  l'anno, 

fra  capitali  et  discretìpne  .    ...•,. »  40.000 

{Documento  originale  carjaceo  del  tempo  di  cui  porta  la  data,  folto  da  uh 
codice  del  quale  formava  le  pagbie  78-81,  conservato  nell'Archivio  di  Stato 
in  Firenze,  Gabinetto,  filza  1^6.   n.  j). 

G.  P. 


storiografia  Elementare 


^ 


Concetto  delia  storiografia. 


In  ogni  tempo  fa  storiografia  ebbe  diretti  rapporti  col  concetto 
fi(o$ofico  della  vita.  Nella  storiografia  i  fatti  umani  sono  accertati, 
collegati  con  le  loro  cause  e  coi  loro  motivi,  e  giudicati  o  interpretati 
sia  come  effetti  d'un  fattore  materiale,  sia  come  prodotto  degli  appetiti 
degli  uomini,  sia  come  vicende  dei  rapporti  tra  la  vita  terrena  e  la 
divinità.  Una  storia  implica  sempre  un  concetto  filosofico,  e  non  può 
ridursi  alla  semplice  constatazione  dei  fatti,  come  nelle  croniche  e 
nelle  liste  di  pontefici  o  di  regnanti.  Una  storia  rappresenta  uno 
svolgersi  d'avvenimenti-  in  cui  tutti  gli  aspelti  più  essenziali  della  vita 
umana  entrano  a  far  parte  e  a  dar  ragione  della  successione  nel  tempo. 
Che  talora  uno  di  questi^  aspetti  predomini  sugli  altri,  dipende  dal 
concetto  filosofico  che  lo  considera  come  il  rappresentante  di  tutti, 
l'elemento  unico  e  fondamentale  di  cui  sono  formati  gli  eventi  storici. 

Nei  tempi  primitivi,  o  per  lo  meno  nei  tempi  storici  più  remoti, 
la  storiografia  è  epopea.  In  seguito  diventa  narrazione  di  vicende  ter- 
rene, dove  le  divinità  non  intervengono  più,  anzf  sono  esplicitamente 
escluse  da  un  nuovo  concetto  della  vita.  Poi  la  divinità  interviene  ancora 
nelle  cose  umane  col  Cristianesimo,  poi  è  esclusa  nuovamente  dalla 
filosofia,  che  le  sostituisce  il  concetto  dello  spirito  come  evoluzione, 
progresso  e  universale. 

In  ciascuno  di  questi  momenti  successivi  dello  svolgimento  sto- 
riografico noi  vediamo  l'idea  della  divinità  o  il  pensiero  filosofico 
esercitare  un'azione  essenziale  nel  dar  rilievo  ai  fatti,  nel  determinarne 
l'importanza  rispetto  a  ciò  che  di  più  certo  ed  elevato  ha  saputo  sco* 


364  Guido  San  fini 


prire  e  concepire  la  civiltà.  Nell'epopea  le  divinità  intervengono  direi 
tamente  nei  fatti  della  storia,  vendicano,  parteggiano,  proteggono,  pro: 
fetizzano.  È  il  momento  in  cui  la  riflessione  specificamente  filosofica 
non  ha  preso  ancora  una  forma  distinta  net  complesso  dei  pensieri, 
ed  è  come  fusa  insieme  con  altri  fattori,  con  altri  aspetti  della  vita 
spirituale,  che  più  tardi  saranno  anch'essi  principii  e  oggetti  di  consi- 
derazioni a  parte.  L'atto  dello  storiografo  dei  tempi  eroici  potrebbe 
essere  dichiarato  del  pari  atto  di  filosofo,  atto  d'artista,  atto  di  sciei^- 
ziato  interpretatore,  atto  insomma  molteplice  e  uno,  in  cui  vivono 
insieme  le  potenze  dello  spirito,  in  attesa  —  a  nostro  vedere  —  d'un 
più  ampio  svolgimento  e  d'una  distinzione  in  cui  uomini  di  attitudini 
diverse  e  varie  discipline  si  sentiranno  solidali  fra  loro  nel  medesimo 
lavoro,  ma  a  cui  il  pensiero  individuale  non  basterà  più,  o  almeno 
non  basterà  più  allo  stesso  modo.  Il  sentimento  del  mistero,  il  valore 
umano  che  prendono  le  cose  entrando  nel  dominio  della  nostra  vita, 
le  forze  che  sfuggono  alla  nostra  volontà  o  la  secondano,  nell'indi- 
stinto dell'atto  primitivo  producono  in  ch|  li  considera  un'intuizione 
della  realtà  dove  essi  non  hanno  ancora  una  precisa  determinazione 
speciale,  così  da  poter  entrare  in  rapporto  sistematico  con  gli  altri 
aspetti  dell'essere.  Del  resto  il  giudizio  dei  fatti  storici  soltanto  come 
fatti  empirici  non  ha  senso,  non  può  bastare,  non  è  mai  bastato,  non 
basta  neppure  quando  la  storia  sembra  essere  una  specie  di  scienza 
positiva  rivolta  ad  accertare  gli  avvenimenti  e  a  collegarli  fra  loro 
mediante  cause  naturali.  Non  basta,  perchè  anche  quest'ultimo  giudizio 
della  realtà  storica  dipende  da  un  concetto  filosofico  della  realtà  uni- 
versale, e  ad  esso  si  riferisce  nelle  sue  premesse,  nei  suoi  criteri,  nei 
suoi  metodi,  nelle  sue  afférmazioni  e  negazioni.  Nel  racconto  epico 
la  filosofia  è  un  momento,  distinto  soltanto  da  noi,  della  visione  ge- 
nerale della  realtà,  e  vi  determina  il  formarsi  di  quelle  imagini  mitiche 
o  leggendarie  il  cui  credito  è  sostenuto  dalla  loro  corrispondenza  cois 
un  aspetto  essenziale  della  vita.  Dal  quale  non  si  può  prescindere,, 
perchè  è  l'aspetto  stesso  dello  spirito  nella  pienezza  della  sua  azione, 
quello  che  determina  i  valori  delle  cose  e  dà  loro  un  significato  umano. 
Però  è  credibile  che  il  Greco  dei  tempi  omerici  parlasse  di  Atena  «> 
di  Zeus  come  di  personaggi  reali,  e  popolasse  la  natura  di  volontà 
soprannaturali  senza  dubitare  della  loro  esistenza.  Era  questo  un  dar 
valore  umano  e  ordine  al  mondo  empirico,  che  non  basta  all'esigenza 
conoscitiva  di  nessun  tempo.  Nonché,  dunque,  l'uomo  delle  età  remote 
fosse  più  credulo  e  rozzo,  dal  punto  di  vista  della  vita  universale  dello 
spirito,  di  quello  che  non  sia  l'uomo  dei  nostri  tempi.  Egli  non  si 
poneva  le  questioni  che  ci  poniamo  noi  in  seguito  all'accrescimento 
della  nostra  esperienza  e  al  complicarsi  dell'azione  riflessiva  e  distintiva. 


storiografia  eleweniare  365 

Ma  se  non  sì  poneva  i  nostri  problemi,  o  non  se  li  poneva  in  modo 
:la  dar  subito  luogo  a  un  effettivo  mutamento  nell'insieme  dei  suoi 
iP^ensieri,  non  vuol  dire  che  a  lui  rimanessero  estranei  certi  aspetti  es- 
senziali della  vita  spirituale.  Ne  era  soltanto  consapevole  in  modo  di- 
verso dal  nostro. 

Ogni  forma  di  storiografia  corrisponde 
a  un  determinato  sviluppo  dello  spirito. 

Di  queste  cose  è  fatto  qui  cenno  perchè  si  vuol  indicare  un  difetto 
gravissimo  nell'insegnamento  della  storia  ai  ragazzi,  un  difetto  che  ne 
rende  nullo  il  profitto,  come  purtroppo  dimostrano  i  fatti,  e  toglie  a 
questo  studio  l'attrattiva  che  ha  naturalmente,  quando  è  ben  condotto 
m  rapporto  coi  concetti  che  gli  danno  un  valore.  Questo  difetto  consiste 
Fieirinsegnare  ai  ragazzi  la  «  nostra  »  storia. 

Se  è  vero  che  la  storia  è  l'espressione  d'un  concetto  filosofico 
della  vita  umana,  che  ne  determina  i  metodi  e  i  giudizi,  una  storio- 
grafia, non  più  distinta  ma  separata  dai  suoi  presupposti  universali,  è 
priva  di  significato,  e  non  può  avere  alcuna  efficacia  educativa  né  può 
suscitare  quell'interesse  per  cui  il  suo  insegnamento  parve  degno  di 
speciale  attenzione.  Certamente  che  i  fatti  siano  veri  è  una  condizione 
essenziale  del  credito  di  qualsivoglia  storiografia.  Ma  si  tratta  appunto 
di  sapere  in  qual  senso  dev'essere  accertata  una  tale  verità.  Che  un 
personaggio  sia  esistito  davvero,  che  abbia  compiuto  determinate  azioni, 
che  con  le  circostanze  del  suo  tempo  si  sia  trovato  in  determinati 
rapporti;  che  tutto  ciò  a  noi  sia  noto  per  vero  e  constatato  con  gli 
strumenti  della  nostra  indagine  e  della  nostra  critica;  che  certi  muta- 
menti sociali'  o  politici  siano  accaduti  col  concorso  definito  di  fattori 
distinti  e  misurati  separatamente,  sono  cose  da  cui  non  possiamo  pre- 
scindere, sia  per  il  fondamento  delle  nostre  convinzioni  che  per  la  se- 
rietà dell'insegnamento  storico.  Tutto  ciò  ha  avuto  valore  capitale  nella 
storiografia  di  tutti  i  tempi,  e  non  possiamo  dubitare  che  gli  storici  di 
date  epoche  abbiano  voluto  tenerne  conto.  Epperò  noi  vediamo  sempre 
la  storia  differire  in  questo  da  una  novella,  che  la  sua  narrazione  è 
data  per  veritiera  e  come  tale  è  creduta,  almeno  da  chi  può  capirne, 
ma  più  ancora  apprezzarne  la  veridicità.  I  fatti  storici  hanno  perciò  da 
essere  veri,  sotto  un  aspetto  speciale,  sotto  quell'aspetto  che  comprende 
tutta  la  vita  dell'uomo,  e  debbono  essere  posti  a  riscontro  diretto  coi 
princìpi  universali  dell'azione.  Anche  l'uomo  dei  tempi  omerici  o  ve- 
dici, mentre  non  avrebbe  creduto  all'intervento  diretto  degli  dèi  nelle 
particolari  opere  quotidiane  e  materiali  della  sua  esistenza,  perchè  a 
comprenderle  e  a  spiegarle  bastava  un  concetto  di  causalità  e  di  prò- 


366  Guido  Santini 


prietà  materiali,  credeva  tuttavia  alla  presenza  e  all'  intromissione  divina 
in  tutto  l'insieme  di  quelle  cose  per  le  quali  la  causalità  naturale  non 
basta  e  l'interpretazione  per  fattori  umani  non  può  aver  luogo  prima 
che  sìa  stata  risolta  nell'umanità  la  vita  universale.  Così  la  verità  d*un 
latto  veniva  commisurata  con  criteri  di  giudizio  non  pertinenti  soltanto 
alla  vita  fisica  o  sociale  dell'uomo,  mz.  a  tutto  il  suo  domìnio  spirituale. 
Anche  ora  la  nostra  storiografia  non  ritrae  soltanto  l'uonio  di  natura 
e  soggetto  a  cause  naturali,  se  non  in  seguito  a  un  concetto  universale 
della  sua  vita.  Solamente  questo  concetto  ha  oggi  una  trattazione  di- 
stinta, un  modo  specifico  d'affermarsi  come  tale,  mentre  un  tempo  faceva 
parte  dello  stesso  racconto  storico  sotto  forma  di  complemento  mitico 
del  fatto  sensibile,  in  cui  veniva  raffigurato  ciò  che  pure  esiste  senza 
dubbio  neiresperienza  ed  è  sentito  profondamente  dall'uomo. 

Per  conseguenza,  ogni  forma  di  storiografia  è  strettamente  collegata 
con  un  determinato  sviluppo  dello  spirito. 

Posizione  ideale  della  moderna  storiografia  dotta. 

La  storiografia  moderna  degli  adulti  è  una  manifestazione  ideale 
congiunta  con  altre  che  formano  il  carattere  della  nostra  civiltà.  Ma  più 
che  questo  aspetto  astratto,  essa  ne  ha  uno  concreto,  che  consiste 
nell'essere  espressione  d'una  corrente  filosofica,  anzi  delle  sue  sfumature, 
anzi,  più  precisamente,  del  pensiero  filosofico  individuale.  Essa  è  ade- 
guata solamente  al  sentimento  della  vita  di  ciascuno,  ed  è  sentita  come 
cosa  d'altissimo  pregio  e  come  essenziale  elemento  formatore  solo  in 
quanto  corrisponde  a  idee  determinate  per  via  di  riflessione  originale» 
cioè  sentite  vivamente.  Nei  tempi  primitivi  la  storiografia  poteva  avere 
una  forma  unica  per  tutta  una  gente,  perchè  la  semplicità  delle  condi- 
zioni primitive  limitava  l'esperienza,  lasciava  ai  miti  un  valore  ogget- 
tivamente indeterminato,  che  poi  di  volta  in  volta  si  determinava  nel- 
l'animo del  poeta  e  dell'uditore.  Le  varietà  del  modo  di  sentirlo  non 
prendevano  ancora  quelle  forme  esplicite  che -ha  un'idea  quando  cor- 
risponde largamente  all'esperienza  oggettiva  ed  ha  assunto  una  fun- 
zione organica  che  non  può  rimanere  la  stessa  se  non  nello  stesso  orga- 
nismo. Marte  non  suscita  ancora  polemiche  ed  obiezioni,  ed  è  un  perso- 
naggio interessante  per  tutti,  perchè  alla  sua  figura  non  appartengono, 
né  le  si  possono  opporre,  i  caratteri  determinati  dell'esperienza  oggettiva 
e  riflessiva  :  per  il  momento  essa  medesima  è  una  rivelazione  e  un'espe- 
rienza. La  forza  militare  d'un  popolo,  invece,  ha  determinazioni  che  sono 
frutto  d'un  lavoro  distintivo  e  riflessivo  avanzato,  e  non  si  può  spie- 
game  l'azione,  né  sentirne  il  valore,  senza  tener  conto  del  lavoro  che 
le  ha  dato  quell'importanza  distinta.  E  come  diversissimo  è  questo 


storiografia,  elementare  367 


lavoro  in  ciascuno,  così  sono  diversi  negli  autori  e  nei  lettori  i  tipi 
storiografici,  benché  questi  abbiano  certi  caratteri  comuni,  e  le  condi- 
zioni delja  cultura  prestino  i  criteri  per  comprenderli  nella  loro  varietà. 
Ma  appunto  si  tratta  di  condizioni  di  coltura,  d'essere  più  o  meno  e 
In  qualche  modo  a  contatto  con  esse,  d'essere  più  o  meno  preparati  ad 
assimilare  un'esperienza  altrui  che  non  è  più  quella  immediata. 

La  storiografia  dei  dotti  non  può  esser  quella  dei  semidotti,  ne 
quella  del  popolo,  né  quella  dei  fanciulli,  se  è  necessaria  almeno  una 
generica  uguaglianza  di  condizioni  spirituali  per  comprendere  e  per  far 
propria,  trasformandola,  un'espressione  che  implica  l'accordo  di  tutte 
le  potenze  dello  spirito.  Sulla  verità  dei  singoli  oggetti  delle  altre 
discipline  può  esservi  accordo  universale.  La  loro  oggettività  può  essere 
presente  al  nostro  spirito  indipendentemente  dall'interpretazione  che 
l'ha  scoperta  e  determinata,  perché  é  forma  d'esperienza  immediata  e  per 
un  verso  o  per  l'altro  entra  sempre  nell'armonia  dei  concetti  individuali . 
Una  volta  precisato  un  oggetto  sensibile,  l'efficacia  d'un  medicamento, 
i  caratteri  d'un  animale,  le  proprietà  d'un  corpo,  non  c'è  bisogno  d'altro 
per  suscitare  negli  uomini,  in  qualunque  momento  del  loro  sviluppo, 
un  qualsivoglia  interesse  per  quell'oggetto  dato  separatamente  dalle 
condizioni  ideali  che  ne  interpretano  il  valore  presso  chi  lo  ha  definito. 
Ma  per  la  storia  la  cosa  é  assai  diversa.  L'avvenimento  storico  non  ha 
da  essere  semplicemente  un  fatto  che  arricchisce  in  un  modo  qualsiasi 
l'esperienza  umana,  ma  un  fatto  storico,  un  fatto,  cioè,  già  fornito  d'un 
dato  valore  nell'atto  in  cui  è  determinato. 

A  differenza  della  storiografia  primitiva,  la  nostra  è  un'espressione 
ideale  distinta.  Per  quanto  in  essa  si  converta  il  concetto  della  vita' 
umana  trattato  dalla  filosofia,  ad  ogni  modo,  come  organo  .ideale,  essa 
è  distinta  da  questa  e  la  presuppone. 

Principali  difetti  dell' insegnamento  storico  elementare. 

Ora,  l'importanza  della  storia  nell'educazione  è  grandissima  e  af- 
fermata da  tutti.  Alcuni  anni  sono  questa  materia  era  insegnata  ai 
ragazzi  mediante  le  biografie  degli  uomini  illustri;  oggi  va  prevalendo 
un  altro  metodo  d'insegnamento  storico,  che  consiste  nell'esporre 
la  storia,  non  più  spezzettata  nei  raccohtini  biografici,  ma  coerente 
nell'insieme  delle  sue  narrazioni.  Il  racconto  biografico  era  scelto  con 
lo  scopo  principale  di  dare  un  esempio  di  virtù  civile,  d'eroismo,  di 
forza  di  volontà,  d'onestà,  di  patriottismo,  e  di  mostrare  quale  spiega- 
mento d'attività,  quali  sforzi,  quali  sacrifici  siano  costati  i  beni  della 
vita  civile  che  attualmente  godiamo  noi,  e  di  indurre  i  giovani  al  ri- 
spetto e  alla  venerazione  delle  più  insigni  opere  umane.  Ma  la  bio- 


368  Guido  Santini 


grafia,  astratta  dal  suo  sfondo  di  circostanze,  di  costumi,  di  ide^ 
dominanti,  perdeva  il  carattere  storico,  e  nessuno  avrebbe  saputo  di- 
stinguerla da  un  fatto  imaginato,  da  una  diceria,  da  un  avvenimento 
di  cronaca  cittadina,  se  non  perchè  era  cosa  realmente  accaduta  nei 
tempi  passati.  Anzi,  Timagine  del  personaggio,  accompagnata  da  parti- 
colari strani  e  incomprensibili,  riguardanti  le  immediate  condizioni  dei 
suoi  atti,  e  diversi  da  quelli  che  sogliono  essere  oggetto  d'esperienza 
per  gli  scolari,  restava  priva  anche  di  quella  forza  esemplare,  di  quel 
potere  suggestivo  che  invece  avrebbe  avuto  un  fatto  collocato  nelle 
circostanze  più  note  al  ragazzo.  L'eroismo  d'un  pompiere,  l'arresto 
movimentato  d'un  malvivente,  l'atto  munifico  d'un  principe  di  passaggfo 
per  la  città  avrebbero  avuto  per  Talunìio  una  priorità  indiscutibile  sul 
pallido  e  incerto  fantasma  d'un  Pietro  Micca,  d'un  Cola  di  Rienzi, 
d'un  Orazio  Coclite,  non,  abbastanza  determinati  neppure  nella  foggia 
del  vestire  e  di  portare  le  armi.  La  successione  cronologica,  in  cui 
erano  disposti  questi  raccontini,  rimaneva  uno  schema  convenzionale 
e  niente  più,  perchè  il  loro  contenuto  era  privo  di  quegli  elementi 
che  danno  ragione  d'un  certo  ordine  nel  tempo.  L'eroismo,  la  virtù, 
il  significato  civile  dei  personaggi  dileguavano  così  col  loro  valore 
storico,  e  nella  mente  dell'alunno  rimaneva  soltanto  un  arruffio  di  date 
e  di  nomi,  parole  prive  di  senso  vivo,  voci  convenzionali,  accompa- 
gnate dai  soliti  aggettivi  rappresentanti  il  merito  esemplare,  ma  inca- 
paci di  dare  a  questo  il  rilievo  e  la  distinzione  che  Io  individuano  e 
ue  ritraggono  la  particolare  potenza.  Una  volta,  all'esame,  un  ragazzo, 
a  cui  era  rimasto  impresso  il  lato  debole  di  quell'aggettivazione  dogma- 
tica, ingiustificata,  alla  domanda  chi  fosse  Leonida  rispose,  con  suffi- 
ciente sicurezza  di  cavarsela,  che  era  una  saggia  donna 

I  difetti  di  tal  modo  d'insegnare  la  storia  apparvero  evidenti  attra- 
verso le  critiche  che  gli  furono  mosse  e  l'esperienza  negativa  dei 
risultati  ottenuti,  specialmente  nella  grande  maggioranza  dei  discepoli 
che  non  avevano  continuato  gli  studi.  Per  contrasto,  parve  più  neces- 
sario quell'aspetto  della  storia  che  nella  narrazione  a  biografie  era 
manchevolissimo,  l'aspetto  del  costume,  inteso  sopratutto  come  vita 
pratica,  come  foggia  di  costruire  le  case,  di  vestire,  di  essere  in  rap- 
pprto  coi  concittadini,  d'avere  una  fede,  di  fare  la  guerra.  La  succes- 
sione storica  apparve  così  più  determinata  come  imagine;  lo  scenario 
€  la  guardaroba  ebbero  più  grande  rilievo,  ma  la  scena  fu  vuota; 
mancò  il  dramma.  Era  quasi  meglio,  con  tutti  i  suoi  difetti,  il  rac- 
contino biografico.  Questa  successione  di  costumi,  questo  mutar  di 
vestiario,  d'architetture,  di  armi,  di  consuetudini,  d'idee,  rimasero  a 
loro  volta  senza  alcuna  giustificazione.  Poiché  è  chiaro  che,  se  gli  atti 
dell'uomo  astratti  dalle  circostanze  hanno  un  valore  assai  indetermi- 


storiografia  elementare  369 


nato,  le  circostanze  senza  l'uomo  hanno  un  valore  ancora-  più  inde- 
terminato. Si  può  capire  fino  a  un  certo  punto,  anche  senza  molte 
spiegazioni,  come  Tizio  sia  stato  prima  o  dopo  Caio,  ma  come  un'archi- 
tettura, una  religione,  un  ordinamento  civile,  un  rapporto  politico  siano 
preceduti  o  seguiti  da  altri,  non  si  può  capire,  se  questi  aspetti  della 
vita  non  sono  animati  interiormente  dall'opera  dell'uomo,  che  agisce  nel 
dramma  della  storia.  L'uno  e  l'altro  modo  d'insegnare  la  storia  hanno 
il  difetto  comune  d'essere  astrazioni,  di  presentare  i  fatti  sotto  un 
aspetto  distinto  per  noi,  ma  separato  per  gli  alunni,  sotto  un  aspetto 
formante  il  principio  d'una  loro  trattazione  e  d'un  loro  speciale  ordina- 
mento sistematico,  mentre  di  tale  distinzione,  di  tale  considerazione 
a  parte  non  era  ancor  sentito  il  bisogno  né  quindi  compreso  il  valore. 

Posizione  ideale  del  fanciullo  verso  la  storiografia  dei  dotti. 

V'è  forse  un  altro  modo  più  compiuto  di  scrivere  la  storia  per 
1  ragazzi,  facendo  entrare  nel  racconto  i  molteplici  aspetti  del  vivere 
civile  e  indicandone  in  modo  più  preciso  la  funzione  particolare.  Ma 
come  faremo  a  descrivere  il  concorso  di  tutti  questi  aspetti  ?  Con  l'aste- 
nerci dall'impoverire  troppo  il  nostro  racconto?  Col  lasciargli  più 
grande  ricchezza  di  particolari  ?  La  nostra  storia  è  il  nostro  modo  di 
renderci  conto  dei  fatti  della  nostra  civiltà,  dei  fatti  quali  noi  li  con- 
cepiamo e  li  distinguiamo  fra  loro.  Essa  è  tanto  più  complessa  quanto 
più  numerosi  sono  gli  aspetti  sotto  i  quali  siamo  soliti  considerare  le 
cose.  La  storia  delle  nostre  scuole,  invece,  è  privata  delle  parti  che 
sembranp  più  difficili  ;  il  suo  delicato  intreccio  vi  è  mutilato  e 
stroncato  ;  e  si  pretende  che  dopo  tale  operazione  —  compiuta,  per 
giunta,  quasi  sempre  da  mani  inesperte  —  ciò  che  rimane  conservi 
ancora  il  medesimo  valore  che  aveva  nelle  sue  fonti.  Il  pregio  della 
storia  consiste  nella  sua  interezza  come  prodotto  originale,  dove  si  ri- 
flette il  significato  della  verità  dei  fatti.  Tutti  insieme  gli  aspetti  che 
noi  distinguiamo  negli  avvenimenti  storici  fanno  parte  della  loro  realtà 
concreta,  e  non  possono  essere  considerati  separatamente  uno  dall'ai- 
tro.  Non  possiamo  astrarre  impunemente  da  alcuno  di  essi.  Però  è  ne- 
cessario che  siano  tutti  presenti  allo  spirjto  nel  loro  vero  ordine  e  nel 
loro  nesso  particolare.  Questo  sarebbe  l'unico  modo  d'insegnare  la 
storia.  Questo  è  infatti  l'unico,  ma  solamente  in  un  certo  senso.  Tutte 
le  potenze  dello  spirito  debbono  essere  presentate  in  azione,  ma  non 
sempre  possono  essere  rappresentate  in  azione  distinta  e  allo  stesso 
modo.  Ciò  che  determina  il  pensiero  a  compiere  certe  distinzioni 
tra  gli  aspetti  della  vita  è  la  funzione  ideale  di  consapevolezza  che  pos- 
sono compiere.  Tale  funzione,  appunto  perchè  è  una  funzione,  è  con- 

24  —  Nuova  RMsta  Storica. 


370  Guido  Santini 


nessa  coi  fatti  deiresperienza  tutta,  con  tutta  Tunità  della  vita,  e  rappre- 
senta quindi  un  bisogno  sentito,  e  non  solo  imaginato. 

I  bisogni  del  giovane  non  sono  gli  stessi  di  quelli  d'un  uomo  ma- 
turo e  provetto  negli  studi,  che  della  vita  s'è  formato  un  concetto,  a  cui 
riferisce  in  modo  riflesso  l'importanza  dei  propri  atti  e  dei  propri  pen- 
sieri. Più  che  un  concetto  il  ragazzo  ha  un  senso  della  vita,  in  cui  quelle 
note,  che  nel  concetto  sono  chiaramente  distinte  a  compiere  una  funzione 
vitale,  si  trovano  fuse  e  come  ancora  involute.  Le  distinzioni  che  in  noi 
sono  nate  neiresperienza,  in  seguito  a  un  prolungato  lavoro  astrattivo  e 
generalizzatore,  non  si  sono  formate  ancora  nel  ragazzo.  Le  esperienze 
i  cui  oggetti  si  trovano  certamente  lìeirambiente  in  cui  vive  il  ragazzo 
insieme  con  Tadulto,  non  sono  ancora  avvenute.  E  ciò,  non  perchè 
quegli  oggetti  siano  sottratti  alla  sua  percezione,  ma  perchè  non  è  an- 
cora sentito  da  lui  il  bisogno  di  distinguerli  col  nostro  valore.  Uno 
sciopero,  reiezione  del  Consiglio  comunale,  il  restauro  d*un  edificio  an- 
tico, la  leva  dei  soldati,  i  prezzi  delle  merci,  i  pubblici  spettacoli,  Tam- 
ministrazione  della  giustizia,  Tordinamento  del  Comune,  della  Provincia, 
dello  Stato,  lo  sviluppo  delle  industrie,  le  condizioni  e  i  rapporti  delle 
varie  classi  sociali  sono  pure  elementi  storici  [presenti  alla  sua  diretta 
esperienza.  Tutti  i  giorni  ne  può  notare  le  manifestazioni,  ne  sente  par- 
lare in  famiglia,  fuori  di  casa  e  a  scuola.  Sono  veri  tutti  ;  egli  stesso 
ne  può  constatare  la  realtà.  Eppure  non  sono  significativi  per  lui  allo 
stesso  modo  che  Io  sono  per  noi.  Sono  fatti  o  aspetti  della  realtà  pres- 
soché indifferenti,  quasi  come  il  rumore  della  città,  il  fragore  dei  carri 
per  le  strade,  Taffollamento  di  molte  persone  nelle  vie  preferite  per  la 
passeggiata.  Cose  che  si  vedono,  si  constatano,  non  si  collegano  per 
sé  con  nessun  particolare  interesse.  Se  talora  il  ragazzo  vi  pone  atten- 
zione e  ci  domanda  spiegazioni  intorno  al  loro  essere,  il  suo  perchè 
non  è  una  vuota  capacità  di  contenuto  —  come  si  può  supporre  fino 
a  un  certo  punto  per  una  domanda  intorno  a  un  effetto  materiale,  per- 
chè fa  giorno  e  perchè  fa  notte,  perchè  piove  o  tira  vento  o  cade  la 
neve  ™  ma  è  una  domanda  che  riguarda  Fazione  dell'uomo,  e,  come 
tale,  è  adeguata  al  concetto  che  dell'uomo  può  avere  un  ragazzo.  Tutto 
ciò  che  ha  il  suo  fondamento  fuori  di  tale  concetto  è  nulla,  e  lascia 
delusa  l'aspettazione  dell'interrogante.  La  sua  curiosità  si  dilegua  nella 
vacuità  di  ciò  che  gli  riesce  incomprensibile  in  quel  valore,  che  non 
ha  la  forma  di  quello  che  gli  era  balenato  prima.  La  sua  attenzione  si 
rivolge  altrove. 

II  concetto  che  un  ragazzo  ha  dell'uomo  è  derivato  dallo  stesso 
sentimento  della  sua  vita.  Cerchiamo  noi  stessi  negli  altri  esseri  e  nelle 
cose,  ma  più  che  mai  nella  storia.  Come  il  fanciullo  sente  la  giustizia, 
ma  non  ne  tratta  il  concetto,  sente  la  necessità  economica,  ma  non  he 


storiografia  elemetitare  371 


tratta  il  concetto,  sente  il  pregio  del  bello  e  del  vero,  ma  non  ne  tratta 
il  concetto,  così  tutte  le  nostre  spiegazioni,  che  dipendono  dalla  trat- 
tazione sistematica  d'un  concetto,  sono  un'anticipazione  inutile  sul  suo 
sviluppo  e  non  corrispondono  alla  funzione  che  attualmente  dovrebbero 
compiere.  Se  di  tali  elementi  è  formata  la  nostra  storia,  è  chiaro  tut- 
tavia che  come  elementi  non  hanno  alcun  significato  e  però  alcuna 
esistenza,  se  non  in  una  particolare  storiografia,  determinata  da  bisogni 
di  distinzione  che  non  possono  essere  provocati  per  la  via  dei  sensi, 
ma  che  ineriscono  allo  sviluppo  totale  del  pensiero.  Per  capire  il  va- 
lore di  Galileo  bisogna  conoscere  il  momento  storico  in  cui  visse  e 
operò;  per  conoscere  questo  momento  bisogna  ponderarne  i  caratteri 
essenziali;  per  ponderarli  bisogna  interpretarli,  e  per  questo  occorre 
un  concetto  della  vita  umana  in  generale,  del  significato  e  della  verità 
storica  in  particolare,  che  varia  da  uomo  a  uomo,  da  età  a  età,  secondo 
il  particolar  punto  di  vista  di  ciascuno,  e  che  può  dar  luogo  alle  più 
diverse  interpretazioni  d'un  medesimo  personaggio  e  d'uno  stesso  fatto. 
Gli  uomini  possono  essere  perfettamente  d'accordo  sul  miglior  modo 
dì  costruire  un  motore  o  di  trasmettere  a  distanza  le  notizie;  ma  nel 
giudicare  i  fatti  della  storia  ciascuno  trova  nelle  proprie  condizioni, 
nei  propri  bisogni,  nel  sentimento  dei  propri  rapporti  con  l'umanità 
il  criterio  di  distinzione  e  il  punto  di  vista  che  dà  importanza  ai  fatti. 
Ciò  non  vuol  dire  che  la  storia  dipenda  dal  capriccio  individuale  e  sia 
quasi  pari  all'opinione,  ma  solamente  che  la  storia  ha  bisogno  d'essere 
vissuta,  e  non  solo  pensata,  per  avere  un  significato. 

Concetto  della  storiografia  elementare* 

Dal  sentimento  che  il  ragazzo  ha  della  vita  umana  nascono  do- 
mande, curiosità,  momenti  d'attenzione  la  cui  capacità  è  essenzialmente 
drammatica,  sia  perchè  è  ancor  poco  lontana  dall'esperienza  ogget- 
tiva immediata,  sia  perchè  lo  dispone  a  cercare  negli  oggetti  sensibili 
un'esperienza  in  cui  tutta  la  sua  umanità  trovi  argomento  d'affer- 
mazione. La  sua  disposizione  verso  le.  cose  umane  è  l'impressiona- 
bilità, l'emotività,  la  curiosità  dell'episodio,  e  bene  l'hanno  compreso 
—  ma  più  che  compreso,  sentito,  anch'essi  —  coloro  che  insegnavano, 
e  insegnano  ancora,  la  storia  a  biografie.  Solamente,  nel  loro  episodio 
scompare  ciò  che  si  può  chiamare  storia,  e  rimane  un'imagine  nia| 
definita  nei  particolari  e  mal  collocata  nel  tempo.  Nell'episodio  sepa- 
rato, poi,  quand'anche  l'imagine  riuscisse  abbastanza  determinata,  il 
valore  del  personaggio,  non  più  storico,  nel  significato  largo  e  umano 
della  parola,  si  abbasserebbe  a  quello  d'un  avvenimento  qualunque» 
CQme  n«*  succedono  tanti.  L'organicità  della  storia  risiede  nella  coati* 


37«  Guido  Santini 


nuità,  o,  meglio,  nell'unità  che  collega  al  nostro  presente  una  serie  di 
fatti  passati,  il  cui  posto  nel  tempo  ritrae  il  progressivo  divenire  in 
noi  di  ciò  che  essi  rappresentano.  Debbono  essere  perciò  un  arricchi- 
mento di  ciò  che  si  trova  già  in  atto  nella  vita  di  ciascuno,  bisogno 
materiale  o  pensiero  o  sentimento  che  sia.  Il  bambino  domanda  conto 
ai  genitori  della  sua  nascita,  della  loro  nascita,  risale  ai  nonni,  da  que- 
sti agli  antenati  e,  se  la  sua  curiosità  non  si  stanca,  all'origine  del  mondo 
e  deUa  vita  umana.  Come  i  genitori  lo  ammoniscono,  lo  consigliano. 
Io  nutrono,  lo  proteggono,  così  apprende  che  i  nonni  fecero  altrettanto 
verso  i  suoi  genitori,  che  un  tempo  furono  bambini  come  lui  e  come 
lui  errarono,  s'illusero,  ebbero  la  dura  esperienza  della  vita.  Sa  che 
poi  crebbero  di  età  e  ,di  cure.  Io  fecero  nascere  insieme  coi  suoi  fra- 
tellini. Apprende  così  che  anch'egli  un  giorno  sarà  adulto,  avrà  fami, 
glia  nuova  e  figli,  dei  quali  i  suoi  genitori  saranno  diventati  i  nonni, 
e  così  con  un  più  ricco  sentimento  del  proprio  vivo  presente,  suscitato 
dalla  considerazione  del  passato  e  suscitatore  d'altre  simili  e  più  variate 
considerazioni,  di  mano  in  mano  che  la  sua  esperienza  procede  e  i  suoi 
bisogni  pratici  e  ideali  sì  differenziano,  egli  si  protende  verso  l'avvenire 
e  dà  alla  propria  coscienza  quel  contenuto  ricco  di  propositi  e  di  ap- 
prezzamenti e  quel  moto  caratteristico  che  viene  dalla  storia  come  dalla 
stessa  corrente  della  vita.  Se  storia  ha  da  essere  per  lui,  non  può  conte- 
nere particolari  che  non  siano  rispondenti  alla  sua  esperienza,  o  se  con- 
tiene tali  particolari,  bisogna  che  di  essi  sia  mostrato  quel  solo  aspetto 
che  caratterizza  nella  sua  coscienza  la  vita  dell'uòmo  e  vi  può  suscitare 
un  più  diretto  interesse.  Per  questo  tutto  ciò  che  noi  vogliamo  inse- 
gnargli della  nostra  storia  dev'essere  tradotto  nelle  forme  e  nelle  espres- 
sioni, nei  limiti  e  nei  caratteri  della  sua  vita  famigliare  e  dei  suoi  rap- 
porti coi  coetanei,  coi  parenti,  con  gli  altri  uomini.  Deve  essere  tra- 
sformalo in  dramma  e  avere  un'unità,  che  non  può  essere  determinata 
dal  criterio  con  cui  noi  cerchiamo  e  interpretiamo  i  fatti  storici. 

Ma  se  noi  non  possiamo  più  avere  i  bisogni  spirituali  d'un  fan- 
ciullo, abbiamo  bisogno  tuttavia  di  avvicinarlo  a  noi,  e  ciò  è  misura 
della  serietà  delle  nostre  azioni  verso  di  lui  e  dei  nostri  insegnamenti, 
se  pure  in  qualche  modo  dovessero  differire  dal  nostro  modo  perso- 
nale di  pensare  e  di  vedere  la  realtà.  Ciò  che  nella  storia  abbiamo 
distinto  dev'essere  fuso  e  reinvoluto  in  un'intuizione  che  ne  sia  come 
il  presentimento.  L'interpretazione  della  vita  umana,  la  visione  della 
ricchezza  della  nostra  civiltà  debbono  essere  riprodotte,  poiché  non 
possiamo  prescindere  dai  nostri  convincimenti,  ma  debbono  esserlo 
come  funzioni  e  non  come  cose.  A  quel  modo  appunto  che  lo  sono 
per  noi,  benché  nel  pensarle  ci  riferiamo  alle  cose,  e  non  alla  funzione, 
che  è  una  maniera  d'interpretare  il  pensiero  delle  cose.  Lo  stesso  uf- 


storiografia  elementare  373 


ficio  cioè  che  la  storia  compie  per  noi  dev'essere  quello  medesimo  che 
compie  anche  per  il  fanciullo.  Ti^tti  gli  aspetti  della  storia  sono  dun- 
que conservati,  ma  non  più  nella  loro  distinzione  analitica  e  sistema- 
tica di  fattori  valutati  separatamente  nella  loro  efficacia  e  nella  loro 
importanza,  bensì  in  una  loro  attualità  integrale,  la  cui  complessità 
esplicita,  distinta  per  fattori,  è  proporzionata  al  discernimento  del  ra- 
gazzo. Tutti  i  fattori  della  storia  debbono  entrare  anche  nella  storio- 
grafia del  ragazzo,  come  vi  entrano  tutte  le  potenze  dello  spirito,  men- 
tre l'unità  della  nostra  narrazione  non  può  mancare  neanche  in  quella 
destinata  all'educazione  dei  giovani. 

Non  possiamo  ridurre  in  proporzioni  minori  la  storia  della  nostra 
vita  lasciandone  intatta  la  struttura  distintiva,  perchè  tale  riduzione 
avverrebbe  solamente  in  apparenza,  mentre  in  realtà  sarebbe  soltanto 
un  privare  il  racconto  di  parti  inseparabili  dal  tutto,  elementi  o  aspetti 
che  siano.  Non  possiamo  raccontargli  questo  tutto,  nato  dai  nostri 
bisogni,  dipendente  dal  nostro  sviluppo  progredito,  vivo  soltanto  nel- 
l'ufficio che  compie  per  noi  nell'insieme  dei  nostri  pensieri  e  delle 
azioni  del  nqstro  spirito,  perchè  egli  non  lo  capirebbe.  Bugie  o  inven- 
zioni che  ne  simulino  l'apparenza  non  possiamo  dirgliene.  Sembrerebbe 
dunque  impossibile  insegnare  la  storia  al  fanciullo,  al  soggetto  del- 
l'educazione in  generale.  Ma,  d'altra  parte,  tale  cognizione  è  necessaria, 
fa  parte  della  vita  dello  spirito,  è  anzi  questa  vita  stessa  nell'atto  di 
sentirsi  collegata  e  solidale  col  passato  e  con  l'avvenire,  in  uno  svi- 
luppo che  sorpassa  i  limiti  della  vita  empirica.  Però,  se  è  necessaria,  è 
anche  possibile,  e  non  averne  trovata  finora  la  forma  riflessa  per  l'in- 
segnamepto  non  vuol  dire  che  essa  non  vi  sia,  e  non  possiamo  averne 
almeno  un'idea.  Inoltre,  se  è  necessaria,  la  storia  si  fa  lo  stesso  nel- 
l'animo del  fanciullo  e  del  popolo;  si  fa  senz'aiuto,  con  elementi  ca- 
suali, con  pregiudizi  e  con  vaghi  e  nebbiosi  complementi  della  realtà 
empirica,  male  espressi  e  poco  attivi  perchè  la  sua  formazione  non  è 
guidata  dal  concorso  della  cultura  superiore  contemporanea.  Bisogna 
risalire  a  esempi  in  cui  questa  corrispondenza  fra  l'anima  primitiva  e 
le  forme  ideali  superiori  della  civiltà  fu  assai  più  stretta,  e  causa  di 
più  attivo  scambio,  per  avere  l'idea  di  ciò  che  potrebbe  essere  la  storia 
dell'educando,  se  invece  d'essere  abbandonata  a  se  stessa  e  di  crescere 
contorta  e  povera  sotto  l'oppressione  d'un  concetto  estraneo,  fosse 
secondata  e,  come  vuole  la  buona  pedagogia,  fosse  educata  nell'atto 
stesso  della  sua  spontaneità. 

Ci  sarebbe  dunque  una  vìa,  come  sembra:  alterare  e  allargare  i 
limiti  di  ciò  che  siamo  soliti  valutare  come  fatto  concreto,  di  ciò  che 
è  oggetto  dell'esperienza  immediata  e  che  accettiamo  nella  nostra  sto- 
ria perchè  il  suo  valore  storico  risiede  nell'interpretazione  distinta  per 


jJ74  Guido  Santini 


aspetti  astratti  e  per  funzioni  concettuali  ;  deformare  e  come  stilizzare^ 
Toggetto  materiale  della  nostra  verità,  il  personaggio,  il  fatto  politico, 
il  movimento  speculativo,  il  fiorire  dèlie  arti,  il  prosperare  delle  industrie, 
affinchè  vi  entri  con  potenza  adeguata  alla  limitata  capacità  distintiva 
del  ragazzo  ciò  che,  se  non  è  distinto,  è  tuttavia  sentito  come  essenziale 
e  non  può  essere  sottratto  senza  danno,  col  pretesto  di  semplificare. 
Per  il  ragazzo  non  si  semplifica  astraendo  da  astrazioni,  mutilando  il 
nostro  concetto,  scegliendo  le  note  di  cui  egli  ha  esperienza  sensibile 
ed  escludendo  quelle  altre.  Se  non  fanno  parte  né  dell'esperienza  sen- 
8H?ile  né  della  coscienza  riflessa,  sono  ad  ogni  modo  elementi  di  vita 
e  ragioni  essenziali  di  quel  valore  attribuito  al  fatto  oggettivo.  La  sem- 
plificazione, in  questo  caso,  avviene  col  concretare  di  nuovo  il  no- 
stro concetto  totale  della  storia.  Altrimenti,  se  pure  ammettiamo  che 
il  ragazzo  possa  distinguere  il  singolo  fatto  o  il  singolo  aspetto  —  cosa 
che  del  resto  non  si  può  negare  —  in  che  cosa  facciamo  poi  consi- 
stere il  criterio  che  gli  dà  un  valore  e  per  cui  a  noi  preme  tanto  il 
suo  insegnamento? 

Valore  generale  deireletnento  fantastico  nella  storia. 

Stilizzare  l'oggetto  materiale  vuol  dire  fare  opera  di  fantasia, 
opera  creatrice  di  forme  intuitive.  Questo  non  significa  che  noi  dob- 
biamo inventare  o  rammodernare  miti  solari,  leggende  eroiche,  storie 
di  mostri,  colloqui  d'elementi  naturali  o  d'animali  parlanti,  né  che  dob- 
biamo sbrigliare  la  nostra  fantasia,  come  nelle  favole,  tenendo  la  no- 
stra storia  solamente  per  falsariga.  Il  risultato  sarebbe  certamente  an- 
cora più  grottesco  ed  assai  meno  irinocuo  di  quello  che  non  fosse 
prodotto  dai  raccontini  biografici,  o  non  lo  produca,  attualmente, 
l'esposizione  dei  costumi  delle  varie  epoche.  Una  tale  fantasmagoria 
sarebbe  assurda  del  tutto,  anche  se  fosse  composta  di  miti  storici  e  di 
leggende  che  un  tempo  ebbero  vigore  di  verità  presso  gli  adulti,  a 
meno  che  non  li  facessimo  strumenti  e  mèmbri'  d'una  visione  più  se- 
ria, e  più  rispondente  al  nostro  concetto  d'unità  della  storia.  Come 
chi  parla  per  parabole  o  per  aforismi  non  inventa,  ma  per  l'invenzione 
spiega  effettivamente  e  dimostra  una  verità  o  il  significato  d'un  fatto 
reale,  così  chi  fa  opera  di  fantasia  nel  raccontare  la  storia  ai  fanciulli, 
non  può  prescindere  né  dai  propri  convincimenti,  né  dal  sentimento 
della  vita  reale  che  ha  il  ragazzo.  Il  quale,  in  fondo,  non  ha  neanche 
molta  fantasia,  come  si  vede  dai  suoi  componimenti. 

Per  concreto  fantastico  s'intende  dunque  qualche  cosa  che  è  arte, 
ma  che,  al  pari  d'ogni  forma  di  arte,  mantiene  una  stretta  solidarietà 
col  materiale  di  pensiero  da  cui  nasce.  <  Santippe  >  del  Panzini  è  arte, 


Storiografia  elementare  375 


ma  è  anche  storia  e  filosofia.  Y*è  l'arte  religiosa,  Tarte  figurativa,  l'arte 
politica,  l'intuizione,  cioè,  rivolta  a  determinati  oggetti  o  aspetti  del- 
l'essere; così  vi  può  essere  un'arte  che,  oltre  essere  prima  di  tutto 
arte  davvero,  è  anche  rispondente  al  bisogno  pratico  dell'educazione, 
nata  cioè  dai  nosrri  rapporti  col  fanciullo.  Per  questa  via  riflessa  l'arte 
tornerebbe  all'indistinto,  anteriore  al  prolungato  lavoro  riflessivo,  che 
ne  ha  fatto  un  momento  speciale  chiaramente  precisato.  Ma  non  per 
noi,  che  certamente  dovremmo  reggere  il  valore  d'un  tale  indistinto 
mediante  il  riferimento  a  tutte  le  nostre  distinzioni.  Queste,  così,  non 
sarebbero  date  in  misura  più  o  meno  abbondante,  mutilate  o  decimate, 
alla  mente  dello  scolaro,  ma  sarebbero  per  il  nostro  racconto  il  fon- 
damento d'un  doppio  significato,  uno  per  noi  e  uno  per  il  ragazzo. 
Per  noi,  di  un  valore  pedagogico,  che  vuol  dire  di  verità  nostra  inse- 
gnata; per  il  fanciullo,  di  un  valore  di  verità  sua  appresa  da  noi.  È 
evidente  che,  per  la  mediazione  di  quell'indistinto,  i  due  valori  si  con- 
vertono interamente  uno  nell'altro.  Ma  bisogna  perciò  che  la  verità 
insegnata  sia  sentita  dal  ragazzo  come  sua  davvero  e  rispondente  alla 
sua  esperienza. 

Però  la  verità  storica  non  è  alterata  quando,  se  è  utile  e  richiesto 
dal  grado  di  sviluppo,  si  preferisce,  ad  esempio,  la  leggenda  della 
lupa  a  una  verità  accertata  nel  modo  più  positivo.  La  grandezza  di 
un  popolo,  l'importanza  civile  e  umana  d'un  atto  eroico,  d'un  atto 
d'abnegazione,  dell'amore  per  la  patria  e  per  la  verità,  sono  espressi 
nelle  leggende  e  nei  miti  insieme  con  la  figurazione  generale  del  si- 
gnificato della  vita,  e  hanno,  anche  per  un  ragazzo,  un  valore  tanto 
diverso  da  quello  d'una  favola,  quanto  più  in  essi  sente  e  vede  mani- 
festata un'aspirazione  e  quasi  un'azione  istintiva  dell'uomo  verso  i 
propri  fini  specifici.  Qui  la  verità  si  confonde  con  ciò  che  deve  essere, 
e  ciò  che  è  stato  con  ciò  che  è  in  realtà  viva  nell'animo.  Il  primitivo 
s'accontenta  della  leggenda,  che  per  lui  è  verità  com'è  per  noi  la  storia 
documentata;  il  ragazzo  ha  bisogno  dell' imagine  che  deformi  i  con- 
torni maturali  delle  cose  per  comprendervi  in  una  forma  immediata 
la  verità  di  quel  valore  che  nelle  cose  materiali  non  si  trova,  che  per 
concetti  non  è  ancora  distinta,  ma  che  tuttavia  esiste  come  principio 
animatore  dì  tutto  il  lavoro  dello  spirito.  Tale  deformazione  è  però 
richiesta  e  giustificata  solo  in  quanto  può  esercitare  quest'ufficio  e 
avere  questo  significato. 

Il  valore  storico  dei  miti  e  delle  leggende  è  importantissimo  perchè 
ritraggono  in  una  forma  intuitiva  il  vero  carattere  integrale  d'una  ci- 
viltà. Ma  non  possono  essere  dati  senz'altro  al  ragazzo,  come  quelli 
che  corrispondono  a  volontà  di  adulti  e  d'altri  tempi,  e  però,  come 
tali>  rimangono  estranei  del  pari  al  suo  intendimento.  I  miti  sono  come 


■ 


376  '     Guido  San  fini 


un  suggerimento  per  noi,  un  fatto  da  criticare  e  da  documentare  sotto 
un  nuovo  punto  di  vista,  per  metterlo  al  suo  posto  nella  storia.  Essi 
sono  materiale  soltanto  per  una  nuova  forma  di  nostra  storia,  senza 
contare  che  sono  utili  allo  scolaro  anche  come  conoscenza  di  monu- 
menti illustri  che  dovranno  non  rimanere  ignorati.  Non  sono  da  pren- 
dere e  da  riferire  in  ordine  tali  e  quali,  poiché  ciascuno  di  essi  è  una 
storia,  è  un  mondo  chiuso  e  determinatovi  un  dato  istante  del  tempo 
che  non  è  il  nostro  istante;  poiché,  dunque,  uno  non  é  la  continuità 
dell'altro.  Ognuno,  caso  mai,  é  il  rifacimento  degli  altri  sotto  un  nuòvo 
aspetto,  nei  limiti  di  bisogni  vissuti,  che  possono  essere  riprodotti  in 
noi  solamente  attraverso  l'esame  particolareggiato  di  circostanze  sto- 
riche lontane  dall'esperienza  immediata.  Inoltre  non  é  giusto  dire  che 
il  bambino  ha  bisogno  di  storia  in  tali  forme,  per  noi  fantastiche,  di 
mito.  Se  questo  bisogno  vi  fosse  davvero,  darebbe  qualche  manifesta- 
zione notevole  tra  i  prodotti  dello  spirito  giovanile.  Ciò  che  non  è. 
Noi,  al  contrario,  abbiamo  bisogno  di  ricorrere  a  quelle  forme  per 
far  penetrare  nel  raggio  della  sua  visuale  certi  valori  che  si  trovano 
concreti  a  nostro  modo  nella  nostra  vita,  ma  che  in  lui  richiedono 
un  coiicretamento  relativo  alla  sua  anteriorità  sul  nostro  sviluppo. 

Valore  particolare  deirelemento  fantastico  nella  storia. 

Quell'efficacia  che  cerchiamo  nei  miti  vi  si  trova  dunque  fino  a 
un  certo  punto,  ed  ha  bisogno  d'essere  ancora  trasformata  da  noi 
per  servire  al  nostro  scopo  e  per  raggiungere  la  piena  chiarezza  della 
verità,  per  parte  nostra,  il  sentimento  della  verità,  per  parte  dello  sco- 
laro. Oggi  i  miti  storici  non  corrisponderebbero  né  alle  nostre  con- 
vinzioni né  all'esperienza  del  ragazzo,  che  li  vedrebbe  contradetti  ad 
ogni  istante  nella  famiglia  e  fuori,  e  non  troverebbe  in  nessun  luogo 
le  traccie  di  quel  largo  sviluppo  d'esteriorità,  di  quel  molteplice  ad- 
dentrarsi e  diramarsi  nell'esistenza  umana,  che  hanno  i  veri  concetti 
della  vita.  Come  i  primitivi  insegnarono  la  storia  mitica  ai  loro  fig^i, 
i  pagani  la  storia  pagana,  i  bramani  quella  braminica,  e  non  andarono 
a  cercare  la  forma  del  loro  insegnamento  in  altre  civiltà,  così  noi  non 
vogliamo  insegnare  ai  nostri  figli  se  non  ciò  che  teniamo  effettiva- 
mente per  vero.  Ma  ecco  che  l'esempio  delle  civiltà  che  insegnarono 
ai  giovani,  con  la  loro  storia,  la  parte  migliore  del  loro,  sapere,  la 
dottrina  della  vita  in  cui  realmente  credettero,  appare  sempre  meno 
capace  di  chiarire  a  noi  il  compito  speciale  della  nostra  educazione 
storica,  di  mano  in  mano  che  ci  allontaniamo  dai  tempi  primitivi.  Se 
i  miti  presso  quelle  civiltà  ebbero  anche  un  valore  pedagogico  pari  a 
quello  civile,  fu  perchè  il  lavoro  degli  elementi  migliori  della  civiltà, 


storiografia  elementare  377 


l'opera  della  cultura  superiore  di  quei  tempi  si  svolgevano  in  diretto 
contatto  con  l'esperienza  immediata  e  però  potevano  essere  capiti  e 
apprezzati  senz'altre  trasformazioni  anche  dal  popolo.  Oggi  la  cultura 
superiore  è  assai  lontana  dal  potere  esercitare  quest'ufficio.  Tanto  che 
il  bisogno  di  fondare  una  pedagogia  e  di  cercare  una  particolare 
forma  di  verità,  adatta  all'insegnamento  e  aireducazione,  non  nasce 
che  quando  il  sapere  non  è  più  una  semplice  intuizione  o  rivelazione, 
ma  rappresenta  uno  svolgimento  astrattivo  in  vista  di  rapporti  e  di 
atti  sempre  più  differenziati  e  complessi.  Così  che  se  il  mito  natura- 
listico non  ha  più  alcun  valore  né  per  il  ragazzo  né  per  noi,  resta 
pur  sempre  vero  che  nell'insegnamento  della  storia  ci  troviamo  in 
presenza  d'un  caso  che  riproduce,  con  certe  differenze,  il  fatto  delle 
civiltà  primitive.  Da  una  parte  vediamo  che  la  scuola  deve  rappresen- 
tare la  cultura  superiore  del  nostro  tempo,  mentre,  dall'altra,  ci  accor- 
giamo che  non  può  riprodurre  la  nostra  verità.  La  soluzione  di  tale 
alternativa  parrebbe  dunque  questa  :  rappresentare  nella  scijola  la  cul- 
tura superiore  del  tempo  in  cui  vive  il  ragazzo,  che  é  bensì  il  nostro 
tempo,  ma  in  funzione  del  ragazzo.  Per  questo,  se  i  miti  e  le  leggende 
della  storia  non  hanno  per  se  stessi  valore  d*  insegnamento  storico,  lo 
hanno  tuttavia  come  tipo  di  cultura  superiore  d'una  coscienza  emotiva. 
Bisogna  dunque  che  la  storiografia  del  ragazzo  comprenda  in  sé 
l'unità  universale  e  un  principio  unico  di  spiegazione  di  tutto  il  mondo 
moderno.  In  essi  potrebbero  convertirsi  la  nostra  unità  e  il  nostro 
princìpio,  in  modo  da  essere  nello  stesso  tempo  anche  le  forme  su- 
periori della  vita  reale  del  ragazzo.  Se  i  miti  non  bastano  interamente 
perchè  sono  frammenti  e  perché  non  interpretano  la  nostra  vita,  è  ne- 
cessario trovare  un'espressione  che  per  noi  abbia  almeno  valore  mitico 
e  corrisponda  alle  esigenze  della  nostra  storia.  La  quale  ha  un  prin- 
cipio immanente  di-  spiegazione  distinto  in  particolari  aspetti  astratta- 
mente e  sistematicamente  considerati.  Ma,  come  s'è  visto,  tanto  per 
intenderlo  come  immanente,  quanto  per  capirne  il  valore  nelle  sue 
manifestazioni  distinte,  bisogna  che  l' immanenza  sia  concepita  come 
l'atto  della  nostra  esistenza,  mentre  non  può  esserlo  se  non  quando 
l'elaborazione  interiore  dello  spirito  sia  abbastanza  progredita  e  si  sia 
allontanata  abbastanza  dall'  intuizione  immediata  :  altrimenti  non  è 
che  una  parola.  O  non  è  altro  che  trascendenza.  Ma  anche  questo 
rapporto  dell'uomo  con  un  principio  trascendente  deve  essere  corre- 
lativo a  certi  bisogni,  ai  quali  quel  principio  è  commisurato.  Né  per 
il  ragazzo  né  per  altri,  la  trascendenza  di  ciò  che  non  può  essere  che 
immanente  può  avere  alcun  valore;  in  altri  termini,  il  ragazzo  non 
vi  capisce  nulla.  Bisogna  trovare  una  trascendenza  che,  sotto  un  certo 
punto  di  vista,  sia  tale  anche  per  noi.  Il  che  vuoi  dire,  in  fondo,  una 


I 


3yS  Guido  Santini 


trascendenza  che  abbia  un  significato  universale.  Allora  ciò  che  nella 
nostra  storia  trascende  la  vita  del  ragazzo  acquista  valore  trascendente, 
e  non  ha  più  nella  trascendenza  un  difetto.  È  la  rivelazione  di  prin- 
cipii  umani,  dei  quali  il  ragazzo  sente  bensì  la  forza,  ma  sopratutto 
come  autorità  piuttosto  che  come  parte  ed  elemento  attuale  della  pro- 
pria azione  autonoma.  Tale  trascendenza,  dunque,  non  può  essere  che 
trascendenza  spirituale.  La  serietà  del  nostro  insegnamento  storico,  la 
verità  di  ciò  che  diciamo  al  ragazzo,  la  fedeltà  ai  nostri  convincimenti 
in  questo  caso  consistono  appunto  nell'essere  consapevoli  che,  se 
l'azione  di  quei  principii  esplicativi  è  immanente,  tuttavia  la  loro  co- 
noscenza, per  lo  scolaro,  è  trascendente.  Verità  per  noi  e  verità  per 
il  ragazzo. 

Esempi  d*una  nuova  storiografia. 

Tra  le  storie  per  ragazzi  quella  che  mi  sembra  meno  lontana  da 
questo  ideale  è  la  storia  del  maestro  Colombo  di  Milano.  Essa,  tut- 
tavia, pure  accennando  qua  e  là  a  un'azione  provvidenziale  costante, 
espone  il  processo  storico  principalmente  sotto  l'aspetto  del  CQstume. 
La  storia  per  i  ragazzi,  invece,  come  qui  è  concepita,  non  esclude 
nessun  aspetto  della  vita  umana;  è  più  ricca,  come  la  nostra.  Il  mol- 
teplice sviluppo  dei  suoi  fattori,  che  si  trova  ogni  momento  sotto  gli 
occhi  del  ragazzo,  specialmente  se  abita  nelle  città,  ricompare  tutt'it)- 
tero  nelle  sue  vere  forme  anche  '  nella  storiografia  scolastica.  Sola- 
mente, il  principio  esplicativo,  che  nella  nostra  storia  è  una  logica 
immanente  dei  fatti,  non  può  essere  compreso  da  lui  come  immanente, 
perchè  ad  essere  concepito  come  tale  richiede  un'esperienza  interiore 
che  non  è  ancora  avvenuta.  L'azione  che  i  fattori  storici  esercitano 
l'uno  sull'altro  a  formate  l' insieme  di  un  progresso  è  determinata  dal 
giudizio  portato  su  ciascuno  di  essi  valutato  distintamente,  e  non  può 
avere  importanza  per  se  stessa  se  non  quando  lo  spirito  ne  esperimenti 
la  distinzione  negli  atti  medesimi  della  sua  vita  pratica.  Ma  per  il  ra- 
gazzo, che  non  ha  esperienza  della  sostanzialità  interiore  all'uomo 
stesso  di  quei  fattori  dell'esistenza  umana,  ma  ne  sente  soltanto  l'auto- 
revolezza e  la  superiorità,  il  giudizio  non  può  essere  così  particolareg- 
giato sotto  quell'aspetto  d'immanenza.  È  un  giudizio  la  cui  autorità, 
non  avendo  spiegazione  nell'esperienza  interiore  ^fattiva,  dev'essere 
spiegato  come  rivelazione  e  come  sentenza,  come  sapienza  e  come 
volontà  d'un  ente  che  trascende  la  vita  empirica.  I  fatti  umani  restano 
gli  stessi  che  per  noi,  nei  loro  antecedenti,  nelle  loro  circostanze  e 
nelle  loro  conseguenze.  Tuttavia  l' interpretazione  e  il  passaggio  dagli 
uni  agli  altri,  invece  d'essere  determinati  dalla  logica  interiore  del- 


Storiografia  elementare  379 


rumanitàj  sono  voluti  dalla  logica  più  semplice,  ma  non  meno  signifi- 
cativa, del  rapporto  deiruomo  con  la  volontà  e  col  giudizio  d'un  ente 
superiore.  Però  la  conseguenza  degli  atti  umani  non  è  un  mutamento 
giustificato  da  necessità  pratiche  e  dallo  svolgimento  medesimo  del- 
l'intreccio  dei  fini  particolari,  riferiti  poi  sinteticamente  al  fine  gene- 
rico umano  provato  neiresperienza  vìva  di  ciascuno  di  noi.  È  piti 
semplice.  È  una  depravazione  e  una  condanna,  un'elevazione  e  una 
ricompensa  ;  è  il  risultato  di  una  prova  e  una  sentenza  costante.  La  cui 
giustificazione  sta  appunto  nell'autorevolezza  del  principio  reggitore. 
Perciò  la  storia  per  ragazzi  ha  carattere  eminentemente  religioso. 

Di  tale  storia  abbiamo  un  esempio  illustre  nella  Bibbia.  In  essa 
tutte  le  principali  nazioni  antiche  dell'oriente  agiscono  intorno  a  un 
principio  universale  di  civiltà  e  di  redenzione,  rappresentato  da  Dio. 
Le  vicende  di  quei  popoli,  gli  atti  dei  loro  personaggi,  la  successione 
degli  avvenimenti  hanno  un  rapporto  contìnuo  e  diretto  con  la  vo- 
lontà e  con  la  provvidenza  divina.  Qui  il  dramma  riassume  nella  sua 
unità  tutte  le  manifestazioni  umane,  dalle  foggie  delle  vesti,  dalle 
usanze  e  dai  costumi,  fino  ai  più  importanti  avvenimenti  politici,  ai 
fatti  religiosi  più  tipici  per  ciascun  popolo.  Non  è  detto  con  questo 
che  il  ragazzo  abbia  bisogno  d'insegnamento  positivamente  religioso: 
non  si  tratta  di  storia  da  comporre  con  criteri  ecclesiastici.  E  nemmeno 
si  tratta  d'esser  convinti  dell'esistenza  di  Dio.  Se  siamo  convinti  che 
per  il  ragazzo  il  nostro  principio  d'interpretazione  storica  è  trascen- 
dente, anche  se  non  crediamo  in  Dio,  bisogna  di  necessità  che  siamo 
convinti  per  lui  che  Dio  esiste  e  opera  come  rivelatore  e  come  giudice 
nella  trama  dei  fatti  umani,  dal  momento  che  questo  appunto  è  l'unico 
aspetto  ragionevole  che'  possa  prendere  ai  suoi  occhi  il  nostro  mondo, 
almeno  per  ora.  E  se  questo  è  l'unico  aspetto  ragionevole,  come  non 
potrebbe  avere  un  significato  serio,  riconosciuto  anche  da  noi?  La 
vita  non  fa  la  stessa  impressione  da  qualunque  punto  di  vista.  Capito 
il  criterio  sotto  cui  bisogna  considerarla  in  date  circostanze  perchè  in 
quelle  e  non  in  altre  abbia  senso,  è  ammessa  anche  la  visione  delle 
cose  che  ne  risulta,  e  che  in  circostanze  diverse, sarebbe  certamente 
diversa.  Basta  dunque  che  tale  affermazione  significhi  qualche  cosa 
corrispondente  al  nostro  concetto  filosofico  della  vita,  e  rappresenti, 
ad  esempio,  la  potenza  creatrice  dello  spìrito,  la  sua  coerenza  in  tutti 
gli  atti,  la  logica  dei  fatti,  che,  a  guisa  della  provvidenza,  dà  sempre 
agli  avvenimenti  un  qualche  significato  umano.  Se  Dio  non  è  una  fede, 
può  essere 'benissimo  una  parabola,  un  postulato,  una  personificazione 
di  quel  meglio  in  cui  crediamo.  La  Bibbia  ci  dà  un  esempio  limitato 
di  tale  storiografia,  fino  a  pochi  anni  dopo  la  morte  di  Cristo.  Ma 
non  è  impossibile,  una  volta  accettato  il  principio  e  capito  il  valore 


I 


38o  Guido  Santini 


deiresempio,  renderla  più  compiuta  e  più  adatta  ai  nostri  criteri  e  ai 
nostri  fini,  introducendovi  Roma  dalle  origini  e  M  Grecia,  e  prolun 
garla  fino  all'età  presente,  come  fino  a  quest'età  è  pur  sopravvissuta 
la  fede,  benché  non  tutti  le  diano  il  medesimo  posto  nell'insieme  dei 
sentimenti  e  dei  pensieri  umani.  E  questa  fede,  questo  sentimento  del- 
l'azione divina  nella  nostra  vita  ha  dato  luogo  a  giudizi  storici,  se  non 
a  un  novissimo  Testamento  e  a  una  storia  sacra  più  recente,  che  pos- 
sono essere  suggerimenti  validissimi  e  una  preparazione  appropriata  a 
chi  volesse  costruire  una  storia  su  questo  tipo.  La  sola  differenza  fra 
la  storia  precisamente  ecclesiastica  e  quella  per  i  ragazzi  consisterebbe 
nell'esser  quella  un'esplicazione  storica  soltanto  della  vita  d'una  reli- 
gione positiva,  mentre  questa  che  noi  vorremmo  comporre  per  i  no- 
stri allievi  sarebbe  essenzialmente  un'esplicazione  del  sentimento  della 
vita  dello  spirito  nella  civiltà  moderna,  e  sarebbe  retta,  ad  ogni  modo, 
da  un'intuizione  mistica  non  rivolta  a  preconcetti  confessionali.  L'aspetto 
religioso  di  questa  storia  avrebbe  il  valore,  non  d'un  insegnamento 
dogmatico,  ma  d'una  rivelazione  e  d'un'animazione  dello  svolgimento 
storico,  in  diretto  rapporto  con  la  vera  esperienza  e  col  carattere  emo- 
tivo della  spontaneità  d'un  ragazzo. 

Guido  Santini. 


noie,  wÉiii  inft.  Honl  mmm 


L'enigma  del   Settecento  italiano  e  il  problema   delle  origini 
del  nostro  Risorgimento.^ 

L'ampio  studio  del  Pingaud,  qui  sotto  citato,  abbraccia  un  periodo  che 
oltrepassa  i  limiti  a  cui  accenna  il  titolo  semplice  e  modesto.  —  Esso  consi- 
dera tutta  l'opera  di  Bonaparte  in  Italia,  dalla  prima  discesa  (1796)  all'inco- 
ronazione (1805),  ma  non  trascura  nemmeno  la  fase  anteriore  del  dominio 
austriaco,  che  anzi  è  il  suo  punto  di  vista  costante  per  la  valutazione  completa 
del  periodo  francese  e  della  trasformazione  impressa  da  Bonaparte  a  tutti 
gli  ordini  della  nostra  vita,  pubblica  e  privata,  politica,  economica,  morale. 

È  uno  studio  poderoso,  ma  vivace,  piacevole,  geniale;  è  un  lavoro  di 
analisi  e  di  sintesi,  di  psicologia  e  di  storia  ;  con  una  visione  larga  e  minuta, 
che  non  abbandona  né  il  generale  né  il  particolare  ;  a  volte  anzi  tròppo  mi- 
nuta nelle  singole  discussioni,  ma  sempre  lucida  e  signorile,  ricca  di  sorprese 
dialettiche,  che  sa  scoprire  delle  pieghe  dove  altri  aveva  supposto  una  per- 
fetta continuità. 

È  un'opera  che  vorremmo  scritta,  per  vari  capitoli,  da  un  italiano,  perchè 
riguarda  cose  nostre,  che  vorremmo  conosciute  da  noi  con  uguale  profondità. 
Ma  il  periodo,  preso  in  esame,  da  qualche  tempo  ha  innamorato  anche  gli 
storici  italiani,  i  quali  hanno  sentito  che  esso  involge  il  problema  delle  origini 
del  nostro  Risorgimento.  Ed  é  giustizia  ricordare  che  vi  hanno  degnamente 
atteso  studiosi  d'ogni  campo:  Silvio  Pivano  con  attenzione  più  particolare 
alle  forme  giuridiche  e  allo  sviluppo  dell'idea  costituzionale;  Giulio  Natali, 
in   rapporto  alle  manifestazioni  letterarie  del  sentimento   unitario  e  alla  co- 


•  Albert  Pingaud,  Bonaparte  président  de  la  République  Italienne:  Ouvrage  couronnée 
per l^ Academie  Francaise,  2  voli.,  pp.  XXIX-490;  529,  Paris,  1914,  Librerie  Académique  Perrin.— 
Giulio  Natali,  Idee,  costumi,  uomini  del  Settecento,  in  16°,  p.  356,  Torino,  1916,  Società  Tipogra- 
fica-Editrice  Nazionale.  —  Idum,  L'Idea  del  primato  italiano  Prima  di  Vincenzo  Cro^^r/i  (estratto 
dalla  Nuova  Antologia,  16  luglio  1917). 


38»  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


scienza  storico-nazionale  di  tutto  il  Settecento;  il  Ciasca,  rispetto  alle  dottrine 
economiche  ed  ai  precedenti  più  lontani  del  programma  moderato-riformatore  ; 
Camillo  Montalcini,  in  relazione  alla  maturità  civile  d'Italia  e  alle  sue  tradi- 
zioni politiche  ;  altri  ancora,  con  speciale  riguardo  al  problema  religioso,  alle 
correnti  gianseniste  e  alle  loro  preparazione  democratica  e  rivoluzionaria. 

Di  guisa  che,  da  molti  aspetti,  fu  già  esaminata  anche  ultimamente  l'età 
della  preponderanza  francese:  ma  il  Pingaud  ne  ha  tentato  il  quadro  com- 
plessivo, giovandosi  di  chi  l'aveva  preceduto,  e  rifrugando  negli  Archivi 
d'Europa  per  avere  a  disposizione  tutto  il  materiale  storico,  noto  e  sco- 
nosciuto. 

Il  lavoro  si  apre  con  una  larga  esposizione  dell'antico  regime  dell'Italia 
superiore,  studiato  nei  vari  aspetti  della  vita  di  società,  delle  condizioni  de- 
mografiche, del  movimento  ideale,  dello  spirito  pubblico,  delle  forme  am- 
ministrative. E  qui  l'A.  s'imbatte  in  una  plebe  indifferente  a  tutte  le  imper- 
fezioni del  suo'  tempo  ;  in  una  borghesia  poltrona  e  godereccia  ;  in  un 
patriziato  frivolo  e  mondano  ;  in  un  piccolo  gruppo  di  intellettuali  che  cre- 
devano politicamente  attuabile  tutto  ciò  che  aveva  un'apparenza  di  verità 
filosofica  ;  in  città  gelose  del  proprio  isolamento,  divise  da  rivalità  di  primato 
e  sensibili  solo  alle  suscettibilità  del  patriottismo  municipale:  dovunque 
un'esistenza  facile  e  vuota,  presuntuosa  ed  ignorante,  voluttuosa  e  disoccupata, 
poverissima  d'idee  e  ricca  di  piacevoli  sensazioni;  all'ombra  di  un  governo 
burocratico  e  costoso,  senza  organi  della  difesa  esterna,  a  cui  le  masse  tributa- 
vano riconoscenza  solo  perchè  soddisfatte  nei  bisogni  più  materiali. 

È  sopra  questa  *  società,  affetta  di  «  misoneismo  universale  »,  priva  di 
esperienza  politica  e  di  spirito  italiano,  guidata  solo  dall'egoismo  del  proprio 
campanile,  «  impotente  a  modificare  da  sé  sola  il  suo  regime  territoriale  e 
politico»  (I,  no),  «e  che  pareva  destinata  a  restare  in  un  eterno  stato  di 
minorità  politica»  (I,  117);  è  sopra  quest'impoverita  Italia  che  Bonaparte 
rovescia  le  sue  armate,  per  portare  negli  animi  divisi  la  coscienza  della  loro 
comunità  di  razza  e  di  interessi. 

E  Milano  improvvisamente  si  desta:  al  primo  dono  di  libertà,  essa  ri- 
sponde con  entusiasmo  infantile  ;  all'apatia  succede  la  credulità  più  ottimistica  ; 
?A.  torpore  di  ieri,  l'impazienza  di  un  domani  radioso  :  l'imagine  di  una  Ita- 
lia ricomposta  nel  suo  antico  decoro,  vista  in  sogno  da  pochi  poeti,  viene 
agitata  dinanzi  alle  folle  che  applaudono  a  chi  la  regge  e  l'abbellisce  di 
promesse.  Tutta  l'atmosfera,  che  pareva  impigrire  sopra  una  immobile  palude 
di  pregiudizi,  s'accende  di  ardori  rivoluzionari  ;  i  Milanesi  prendono  sul  serio 
i  proclami  del  giovane  generale  e  dichiarano  che  la  salvezza  della  democrazia 
europea  è  strettamente  legata  all'unificazione  d'Italia  e  alla  sua  alleanza  con 
la  Francia.  Essi  iniziano  una  propaganda  attiva  e  generale  e  ripartiscono  il 
lavoro  per  renderlo  più  efficace. 

ila  il  Direttorio  non  era  dello  stesso  avviso  :  come  ha  dimostrato  il  Pi  vano, 
esso  non  pensava  neppure  alla  possibilità  di  conservare  la  Lombardia,  e  ri- 
teneva superfluo  di  jusare  riguardi  verso  un  paese,  che  sarebbe  ricaduto  sotto 
il  tallóne  di  Vienna  :  Milano  doveva  servire  a  pagare  le  spese  della  guerra 
contro  l'Austria,  «  come  merce  di  compensazione  per  la  rettifi<;a  della  fron- 


Note»  quesHoni  storiche,  ecc.  383 


tiera  renana.  L'Austria  non  doveva  essere  soverchiamente  danneggiata  : 
tutt'al  più  le  si  doveva  mettere  paura,  per  tenerla  a  freno.  Non  conveniva 
anche  alla  causa  francese  che  le  popolazioni  della  penisola  fossero  sconvolte 
per  dissolvere  in  precedenza  la  coalizione  dei  potentati  italiani  e  tenerli  de- 
voti in  vista  del  pericolo  patriottico? 

Ma  qui  il  Pingaud  scivola  via:  e  trova  chela  nostra  immaturità  politica 
esigeva  la  continuazione  di  una  regime  di  tutela,  che,  per  i  bisogni  della 
difesa  esterna,  assumeva  necessariamente  la  forma  di  improvvisi  colpi  di 
stato  e  di  una  vera  e  propria  dittatura  militare.  La  Repubblica  Cisalpina, 
«  oeuvre  de  la  France,  elle  devait  fatalement  en  devenir  la  chose  ;  improv- 
visée  en  quelques  raois  par  la  force  étrangère,  appelée  à  Tindépendance 
sans  posseder  ni  armée,  ni  finances,  ni  esprit  public,  elle  ne  pouvait,  comme 
tous  les  États  naissants,  se  maintenir  qu'avec  l'appui  permanent  de  la  puis- 
sance  qui  Tavait  fondée.  Gomme  tous  les  États  protecteurs,  celle-ci  se  trouvait 
naturellement  exsposée  à  abuser  de  cette  necessitò.  Le  Directoire  fran^ais 
cèda  d'autant  plus  volontiers  à  la  tentation  que  ses  besoins  financiers,  plus 
forts  que  ses  scrupules,  réduisirent  bientót  sa  politìque  extérieure  à  exploiter 
les  peuples  conquis  et  à  révolutionner  les  autres». 

Dimodoché,  fino  a  questo  punto,  non  si  può  dire  che  la  Rivoluzione 
faccia  sentire  i  suoi  benefìci  lumi,  né  che  la  diplomazia  del  Direttorio,  a  cui 
fu  estraneo  ogni  scrupolo  fin  dalle  prime  mosse  dell'armata  francese,  si  orienti 
verso  i  principi,  che  aveva  affermati  la  Dichiarazione  dei  diritti.  In  quanto  a 
Bonaparte,  il  trattato  di  Campoformio  disse  chiaramente  che  cosa  egli  pen- 
sasse dell'unità  d'Italia  e  come  male  provvedesse  ad  impedire  respansÌ9ne 
tedesca  nei  Balcani,  già  preveduta  e  deprecata  dagli  Italiani  di  quel  tempo. 

E  sia  al  di  qua  che  al  di  là  del  Mincio  il  pensiero  italiano  fu  compresso 
in  sul  suo  nascere,  checché  ne  pensi  il  Pingaud  sulla  opportunità  di  questa 
improvvisa  compressione.  Esso  tentò  di  scuotere  l'asservimento  (che  pre- 
testava la  difesa  dell'indipendenza)  con  le  proteste  vibrate  e  le  accuse  violenti 
di  alcuni  patrioti,  come  Pietro  Custodi,  di  cui  il  Pingaud  avrebbe  fatto  bene  ad 
esaminare  l'opera  audace  di  giornalista  e  di  tribuno  ;  ma  le  voci  fuori  chiave 
furono  soffocate  nel  carcere.  E  quando  apparvero  gli  Austro-Russi,  a  suggere 
la  già  smunta  repubblica,  il  desiderio  di  un  vivere  più  riposato  strappò  al 
Lombardi  intempestive  acclamazioni.  Né  la  seconda  Cisalpina,  che  venne  dopo 
Marengo,  modificò  le  precedenti  considerazioni  militari,  nei  riguardi  con  le 
libertà  cittadine  e  col  patrimonio  privato.  Si  l'uno  che  l'altro  furono  ugual- 
mente manomessi  ;  ed  il  pensiero  fu  mantenuto  ih  uno*  stato  di  vassallaggio 
fra  le  agitazioni  dei  partiti,  l'inquietudine  della  Francia,  la  rovina  delle  finanze, 
lo  sgomento  del  pubblico,  accusatore  di  un  governo  che  tion  riusciva  a  col- 
mare l'abisso  fra  le  parole  e  gli  atti,  fra  le  lusinghe  ed  i  soprusi. 

È  questo  il  momento  dulminante  della  crisi,  che  l'occupazione  francese 
è  venuta  aggravando  di  giorno  in  giorno.  È  allora  che  il  genio  di  Bonapafte 
risolleva  gli  animi  con  l'annuncio  della  Consulta  di  Leone,  messaggera  di 
ordine,  di  pace,  di  grandezza. 

L'A.  commientfli  molto  bene  l'importanza  di  essa,  decisiva  per  f  avvenire 
d'IUlia. 


384  Note,  questioni  storiche^  ecc. 


La  Rivoluzione,  anche  quella  importata  e  improvvisata  di  qua  delle  Alpi, 
aveva  destato  nuovi  bisogni  e  colpito  a  sangue  vecchi  privilegi;  le  antiche 
classi  dirigenti,  nobiltà  è  clero,  avevano  perduto  la  loro  superiorità,  senza 
che  questa  fosse  passata  agli  altri  ordini  sociali  ;  offeso  il>  patriziato  nei  suoi 
averi,  venduto  i  beni  ecclesiastici,  ridotto  i  conventi,  perseguitato  1  claustrali  ; 
ma  non  erasi  disposto  ad  impedire  che  il  loro  ritorno  fosse  minacciato  da 
un'alleanza  fra  gli  ordini  colpiti  e  le  classi  popolari  disilluse,  fra  il  crescente 
misogallismo  dei  più  intellettuali  ed  il  Terzo  stato,  che  aveva  visto  svanire  il 
sogno  di  un  allargamento  delle  frontiere  commerciali.  La  borghesia  erasi  bensì 
arricchita  con  la  compera  dei  beni  nazionali  e  con  un  aumento  di  influenza 
personale,  ma  non  aveva  raggiunto  l'indipendenza  politica  e  non  poteva  ancora 
fare  a  meno  degli  aiuti  dei  grandi  proprietari.  Essa  aveva  nel  proprio  seno 
un  gruppo  di  patrioti  audaci,  di  democratici  estremi,  che  volevano  la  dire- 
zione esclusiva  degli  affari  pubblici  e  il  possesso  di  tutti  gl'impieghi  gover- 
nativi ;  che  considerava  le  agitazioni  politiche  come  un  mezzo  di  fortuna,  di 
contro  alle  alassi  spodestate,  che  si  valevano  della  forza  dei  pregiudizi  nobi- 
iari  e  delle  credenze  religiose  per  contendere  ad  essi  l'appoggio  della  plebe. 

La  Consulta  di  Lione  doveva  foggiare  alla  Repubblica  i  nuovi  cardini 
su  cui  consistere  con  una  certa  stabilità  di  equilibrio  :  una  costituzione,  non 
francese,  ma  appropriata  ai  suoi  bisogni  ;  un'armata  non  dissanguatrice,  ma 
di  difesa;  un'amministrazione  non  militare,  ma  autonoma;  e  la  libertà  di  svi- 
luppare lo  spirito  nazionale,  che  la  rendesse  capace  di  provvere  e  di  bastare 
a  se  stessa. 

Quale  fu  l'animo  di  Bonaparte  in  questa  circostanza?  Si  lasciò  ispirare 
da  considerazioni  di  opportunismo  europeo,  o  da  sincero  amore  verso  l'Italia? 
Svolse  una  politica  dì  prepondenza -francese,  od  un  piano  già  predisposto,  parti- 
colare alla  penisola,  e  mirante  alla  sua  emancipazione  graduale  e  sistematica  ? 

Il  problema  è  discusso  dal  Pingaud  con  animo  sereno  ed  obbiettivo. 
Napoleone  ha  voluto  far  credere,  nei  tramonti  di  S.  Elena,  di  avere  sempre 
desiderato  e  promosso  la  ricostituzione  integrale  d'Italia:  ma  il  controllo  dei 
fatti  e  della  sua  corrispondenza,  smentisce  questo  generoso  disegno.  Egli 
ha  evitato,  nell'ordine  territoriale,  tutte  le  annessioni,  che  potevano  lusingare 
l'idea  di  unità  o  sollecitare  propositi  di  completa  indipendenza  economica, 
mediante  sbocchi  al  mare  o  collegamento  con  le  vìe  maggiori  del  traffico. 
Caratteristico  fu  l'impegno  assunto  da  Bonaparte,  pubblicamente,  per  una 
annessione  della  Toscana  alla  Cisalpina,  e  smentito  poco  dopo,  quando  gli 
si  affacciò  il  sospetto  che  un  ingrandimento  della  Repubblica  verso  il  Tir- 
reno fosse  esiziale  agli  interessi  della  Francia. 

Uno  stesso  spirito  di  diffidente  cautela  dettò  il  suo  epistolario  diploma- 
tico, donde  traspare  la  fissazione  di  un'Italia  vassalla,  riserva  di  uomini  e  di 
denari  per  la  grande  lotta  contro  l'Inghilterra;  e  dettò  pure  le  sue  decisioni 
rispetto  all'esercito  italiano,  avendo  egli  cura  di  dividerlo  in  parecchi  gruppi, 
che  mandava  a  combattere  separatamente  e  in  luoghi  lontani,  quasi  temesse 
di  dargli  coscienza  della  sua  forza  collettiva  e  della  sua  compagine  etnica.  Egli 
si  rifiutò  di  incorporare  nei  reggimenti  lombardi  i  coscritti  piemontesi,  toscani 
«»  rqmani;  e  nel    1808  rimproverò  il  viceré    Eugenio,    che,    cedendo  ad  una 


NolCy  questioni  storiche,  ecc.  385 


supplica,  aveva  ammesso  i  nobili  piemontesi  nelle  guardie  d'onore  di  Mi- 
lano, atto  che  egli  chiamò  <  contrario  alla  sua  politica  e  volontà  ».  Data 
questa  attitudine,  che  si  spiega  solo  col  desiderio  di  fare  opera  contro  la  na- 
zionalità d'Italia,  si  comprende  che  la  Consulta  di  Lione,  sebbene  presentata 
all'Europa  come  espressione  solenne  della  volontà  popolare  italiana,  sia  stata 
in  realtà  un'emanazione  del  volere  personale ^ di  Bonaparte,  contro  il  quale 
i  deputati  lombardi  tentarono  inutilmente  di  reagire  in  nome  del  decoro 
italiano.  Essi  furono  chiamati  a  sottoscrivere  deliberazioni  meditate  e  prepa- 
rate in  precedenza  ;  e  la  loro  passività  non  trovò  conforto  che  in  uno  sfogo 
di  dolore  confidato  alle  lettere  per  gli  amici  più  intimi. 

Ma  l'opera  di  Lione,  se  apparve  agli  occhi  dei  Milanesi  una  sfacciata 
parodia  della  consulta  nazionale  ;  se  lasciò  insoddisfatti  tutti  gli  spiriti,  ad 
eccezione  del  clero,  il  solo  che  riscosse  riguardi  dall'imperatore  ;  appare  in- 
vece, così  come  si  svolse,  un  fatto  inevitabile  nel  giudizio  finale  del  Pin- 
gaud,  il  quale  non  sa  mai  dimenticare,  a  discolpa  dell'assolutismo  napoleonico, 
il  vecchio  ritornello  dell'immaturità  politica  e  civile  del  popolo  italiano. 
Ed  è  perciò  che  egli,  pur  dopo  di  avere  escluso  dal  pensiero  di  Bonaparte, 
intenzioni  preordinate  a  favore  del  nostro  paese,  dopo  avere  riconosciuto 
che  Bonaparte  dovette  frenare  correnti  schiettamente  autonomistiche,  lo 
scagiona  dall'accusa  di  una  politica  antitaliana,  dicendo  che  «  fu  costretto 
ad  agire  così  per  la  logica  di  una  situazione  anteriore  »,  quasiché  nulla 
fosse  mutato  negli  animi  e  nelle  cose  dal  1796  al  1802.  La  Cisalpina,  dice 
il  P.,  come'  atto  artificiale  dell'  intervento  straniero,  non  poteva  reggersi 
che  con  mezzi  artificiali:  e  questo  è  anche  il  giudizio  più  comune  degli 
storici  avversi  alla  Repubblica,  che  avrebbero  preferito  i  Francesi  in  Francia 
a  continuare  per  loro  conto  la  Rivoluzione,  e  l'Austria  in  Italia  a  continuare 
nel  sistema  placido  delle  riforme,  destinate,  secondo  questi  storici,  a  modi- 
ficare e  rinnovare  lentamente  la  costituzione  interna  del  vecchio  regime  senza 
scosse  turbatrici  e  a  profitto  di  uno  spontaneo  sviluppo.  Ma  i  fatti  sono  comfr 
il  destino  li  ha  voluti  :  e  se  la  Cisalpina  fu  un  atto  di  politica  estera,  non  è 
men  vero  che  Bonaparte  cercò  di  mantenere  ad  esso  il  suo  carattere  di 
importazione,  coatro  tutti  i  tentativi  di  assimilazione  che  miravano  a  natura- 
lizzarlo italiano.  Bene  avvertiva  Francesco  Melzì,  il  giudice  più  competente 
in  si  delicata  materia,  che  alla  grande  Repubblica  sarebbe  mancata  ogni  si- 
curezza d'avvenire  e  la  stessa  aria  per  condurre  la  vita  del  giorno,  fino  a 
che  la  Francia  l'avesse  tenuta  come  una  provincia  vassalla,  infeudata  al  suo 
militarismo  conquistatore.  Bene  avvertiva  che  l'Italia  non  era  paese  atto  a 
dividere  gli  entusiasmi  di  un  programma  imperialista  ;  che  per  la  difesa  della 
Repubblica  bastava  un  numero  minore  di  soldati  ;  che  tanto  apparato  di  forza 
infastidiva  gli  animi,  invece  di  rassicurarli  ;  che  cosi  non  era  possibile  gover- 
nare con  la  pubblica' opinione,  alla  quale  non  isfuggiva  che  Bonaparte  voleva 
colmare  i  vuoti  della  finanza  francese  coi  nostri  redditi  e  aggiogava  l'Italia 
per  trascinarla  nelle  sue  avventure  europee. 

I  disaccordi  fra  il  presidente  ed  il  suo  illustre  vicario  erano  l'espressione 
più  chiara  della  diversità  di  interessi  fra  Milano  e  Parigi.  Ed  al  Melzi,  che 
erasi  provato  ad  insistere  con  fermezza  d'animo  per  una  riduzione  del  bilancio 

25  —  Nuova  Rivista  Storica. 


3S6  NgtCi  guisiioni  storiche f  ree. 


militare,  il  Marescalchi,  che  siedeva  a  Parigi,  dava  il  consiglio  di  usare  mezzi 
blandi  e  di  accarezzare  corligianamente  Torgoglio  smisurato  del  Còrso  ;  nel 
che  pure  conveniva  il  Duca,  indotto  dall'esperienza  personale  in  questa  amara 
confessione  :  «  Si  nous  ne  marchons  pas  de  bon  gre,  il  noùs  fera  marcher 
de  fbrce  ». 

Esisteva  dunque  un  pensiero  italiano,  insieme  con  la  consapevoiczaa  di 
un  interesse  italiano,  di  cui  il  Melzi  aveva  formulato  il  programma  d'attua- 
zione, in  armonia  colle  regole  costituzionali.  Ma  il  Pingaud  prosegue  rigida - 
'mente  nella  direzione  della  stessa  visuale  di  Bonaparte,  sprezzante  degli  Ita- 
liani, tenuti  in  basso,  non  solo  per  convenienza,  ma  per  un  falso  preconcetto 
de|la  loro  insanabile  inferiorità  ;  e  solo  a  questo  patto,  solo  in  forza  di  una  politica 
personale  che  sapeva  farsi  largo,  coi  co^pi  di  stato,  attraverso  le  opposizioni 
che  rivestivano  forma  legale,  il  Pingaud  crede  chp  sia  stato  possibile  alla 
Repubblica,  e  più  al  Regno  di  vivere  almeno  quanto  visse  il  suo  artefice  sven- 
turato, e  di  raggiungere  una  trasformazione  sensibile  in  ogni  angolo  déiredi- 
ficio  Sociale,  caratterizzata  da  un  grande  numero  di  fatti  nuòvi  :  rovina  dei 
grandi  proprietari  e  del  clero  a  beneficio  del  ceto  medt'o  e  dei  letterati,  futuri 
araldi  di  sovversismo  democratico;  afflusso  di  vita  materiale  e  spirituale  nei 
g^randi  centri  a  scapito  dei  minori,  dove  la  vita  languiva  dispersa  e  senza  una 
mèta;  sostituzione  di  un  governo  indigeno  unitario. e  parlamentare  a  quello 
straniero  ineguale  e  assolutista  ;  istituzione  di  una  npilizia  permanente  fondata 
sulla  coscrizione  obbligatoria. 

Trasformazione  che,  sebbene  abbia  ostili  \  contadini  e  i  proprietari,  incerti 
fra  l'Austria  e  l'indipendenza  completa,  e  il  Terzo  stato,  tollerante  della  Frància 
solo  come  difesa  dall' Au5tria;  e  sebbene  abbia  fra  gli  aderenti  decisi  soltanto 
la  classe  dei  pubblici  funzionari  o  degli  aspiranti,  «stato  maggiore  senza 
truppe  »  (II,  501),  tuttavia,  secondo  il  Pingaud,  attesta  di  una  vitalità  positiva 
attraverso  il  nuovo  dinamismo  dell'idea  nazionale,  che,  all'indomani  di  Water- 
loo, anche  in  balìa  di  se  SteSsa,  ritroverà  la  propria  mèta  attraverso  agita- 
zioni popolari,  congiure  Segrete,  atti  di  martirio  e  di  eroismo. 

Ma  è  proprio  a  questo  scompiglio  di  fattori  amministrativi  ed  economici 
che  si  deve  la  fecondità  nuova  dell'ideale  unitario,  o  non  piuttosto  alla  forza 
di  una  tradizione  che  le  massime  rivoluzionarie  hanno  ricomposto  in  forma 
più  organica  e  vitale?... 

Il  P.  ha  la  coscienza  sicura  di  avere  dimostrato  che  gli  Italiani  del  se- 
colo XVlll  erano  assolutamente  incapaci  di  trovare  con  le  proprie  forze  le  vie 
della  propria  emancipazione  e  neppure  di  porvi  mente;  Bonaparte,  rovesciando 
un  governo  solidamente  stabilito,  educando  il  paese  alle  prime  elementari  no 
zioni  di  libertà  e  di  costituzionalismo,  assumendo  la  tutela  di  un  popolo  mi- 
norenne, che  si  compiaceva  e  si  specchiava  nelle  vecchie  abitudini  dì  servilità; 
avrebbe  eliminato  gli  ostacoli  che  si  frapponevano  all'evoluzione  d'Italia  in 
senso  unitario,  avrebbe  dato  nascimento  ai  principi  di  patria  e  di  indipen- 
denza,  avrebbe  creato  le  condizioni  necessarie  al  loro  compimento. 

Questa  conclusione  finale  trova  discordi  tutti  ^quegli  studiosi,  che,  pur 
riconoscendo  all'epoca  napoleonica  il  merito  di  avere  fatto  progredire  le 
idee  unitarie,    insieme   con   una  certa   azione   di   eccitamento  intellettuale 


Noie,  questioni  storiche,  ecc.  387 


<;  di  abitudine  critica,  pur  concedendo  molta  parte  del  risveglio  italiano  ai 
richiami  patriottici  della  Rivoluzione,  ai  rintocchi  sentimentali  della  roma- 
nità antica,  suscitati  da  esse,  tuttavia  riconoscono  nel  nostro  Risorgimento  uno 
sviluppo  ori.^inario,  nazionile  e  consapevole,  e  vedono  in  esso,  anziché  il 
risultato  artificiale,  tardivo  di  elementi  forestieri,  introdotti  da  Napoleone, 
l'effetto  di  tradizioni  paesane  ininterrotte,  che  hanno  acquistato  popolarità  e 
valore  costruttivo,  per  reazione  alle  correnti  sensiste  e  cosmopolite  del  se- 
colo XVIII,  alle  prepotenze  francesi  del  Direttorio  e  del  Consolato,  alla 
doppiezza  politica  dell'  Impero.  , 

Il  Pingaud  che,  nella  trattazione  di  problemi  singoli,  è  sempre  obbiet- 
tivo e  profondo,  cede  poi  al  segreto  compiacimento  della  difesa  di  Napo- 
leone, quando,  tirando  le  somme,  vuole  conciliare  il  risultato  logico  delle 
varie  parti  col  decoro  morale  di  Colui  che  impersonava  là  Rivoluzione. 

Contro  «l'idée  maitresse»  del  Pingaud,  che  le  condizioni  della  penisola 
determinarono  in  quel  dato  senso  la  condotta  di  Bonaparte,  ossia  che  «la 
situation  dans  laquelle  Bonaparte  trouvait  l'Italie  ne  lui  laissait  pas  la  libertè 
d'agir  autrement  qu'il  ne  l'a  falt  »  (II,  505^  stanno  considerazioni  diverse. 
La  verità  starebbe  col  Pingaud  se  ci  figurassimo  nell'Italia  del  '700  una  terra  di 
morti,  e,  nella  dominazione  francese,  il  miracolo  della  risurrezione.  Ma  qui  è 
l'errore  capitale.  Non  tutto  era  cicisbeismo,  mollezza  e  sopore  prima  ;  né  tutto 
fu  di  poi  estraneo  al  solito  ciarlatanismo  di  tutti  i  conquistatori  o  un  donp 
liberale  della  provvidenza  napoleonica.  Se  nel  vecchio  regime  la  borghesia 
«ra  esclusa  dal  governo,  non  è  lecito  dedurre  che  fosse  impreparata  a  gover- 
nare: e  poteva  forse  la  Francia,  dopo  tanti  secoli  di  assolutismo,  addestrarla 
ai  congegni  di  un  regime  costituzionale,  nuovi  anche  per  essa  ?  Ma  chi  ha 
studiato  la  Lombardia  austriaca  ha  visto,  se  non  altro,  che  i  ceti  commer- 
cianti non  si  rassegnavano  alla  passività  imposta  da  Vienna;  e  muovevano 
critiche  acerbe  ai  loro  funzionari  e  all'operato  amministrativo  ;  studiavano  i 
problemi  dell'economia,  e  si  adunavano  a  discutere;  e  facevano  pervenire  i 
loro  memoriali  al  Magistrato  Sapremo  ;  e  premevano  da  tutti  i  lati  per  avere 
riforme;  e  davano  corso  all'innato  umor  satirico  contro  i  conservatori  del- 
l'Austria. Nelle  acclamazioni,  che  salutano  l'arrivo  di  Bonaparte,  vi  è  l'eco 
dei  malcontenti  accumulati  dal  governo  anteriore  e  la  speranza  sincera  di  una 
pronta  riparazione.  Il  giovane  generale,  che  conosceva  gli  Italiani  attraverso 
le  relazioni  dei  viaggiatori  francesi,  scritte  sotto  l'impressione  del  momento, 
en  passant,  e  contro  le  quali  già  era  insorto  un  Italiano,  Michele  Torcia, 
non  credè  di  prendere  sul  serio  la  popolazione  lombarda,  e  la  considerò 
quale  balorco  inerte  nelle  sue  mani  ;  ma  non  tardò  a  capire  che  i  nostri, 
al  contrario,  e  più  onestamente,  prendevano  sul  serio  le  sue  parole;  e  do- 
vette frenare  l' impeto  patriottico,  promosso  dapprima,  ma  che  subito  aveva 
preso  le  forme  minacciose  di  un  movimento  per  1'  unificazione  di  tutta  V  Italia 
continentale  :  da  Genova  a  Venezia  e  giù  fino  ad  Ancona  per  incontrarsi  con 
quello  che  veniva  su  da  Napoli.  Allora  chiuse  i  clubs^  sospese  i  giornali,  in- 
viò  ministri  con  pieni  poteri,  incarcerò  i  democratici,  che  denunciavano  l'in- 
ganno volgare»  mentre  egli,  nelle  sale  di  Mombello  preparava  la  fortuna 
propria  e  delie  sorelle  leggiadre  I 


388  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


Il  Ping:aud  ha  rilevato  che  le  nostre  città  del  '700  erano  divise  da  gelosie 
dì  primato  campanilista  e  che  la  sola  realtà  vivente  era  il  municipalismo  di 
vecchio  stampo  medievale  :  ma  questo  fatto  accenna  solo  al  persistere  di 
correnti  repubblicane,  e  non  è  giusto  vedere  in  esso  un  elemento  negativo 
di  italianità  della  coscienza  nazionale  ;  come  non  è  vero,  e  qui  sbaglia  di 
grosso  il  P.,  che  gli  Italiani  del  '700  non  sapessero  vivere  più  di  un'ora  lon- 
tani dalla  propria  parrocchia.  I  viaggi  furono  la  passione  dominante,  come 
la  noia  era  il  male  del  giorno;  e  i  nostri  viaggiavano  continuamente,  e  di 
preferenza,  all'estero,  non  per  visitare  musei  dì  antichità,  ma  per  apprendere 
leggi  e  costumi,  per  conoscere  Corti  e  governi  ;  con  gli  occhi  aperti  e  l'animo 
sveglio;  e  le  loro  impressioni  riferivano  a  princìpi,  a  ministri,  ad  amba- 
sciatori; tipo  classico  l'Algarotti '(per  non  dire  del  Corani,  del  Baretti,  del 
Verri,  ecc.),  che  conobbe  palmo  a  palmo  l'Europa,  e  fu  in  Russia,  e  sostò 
lungamente  in  Germania,  e  osservò  molto  bene  le  caserme  di  Dresda  e  di 
Potsdam  ;  e  notò  i  motivi  per  cui  «  da  qualche  tempo  in  qua  ha  incominciato 
la  Sprea  ad  alzare  la  testa,  e  a  guardare  con  grande  sicurezza  verso  la  Senna, 
il  Tamigi,  il  Danubio»;  e  vide  che,  «.perchè  ciò  abbia  sempre  da  durare ^  ha 
avvisato  con  grande  profondità  di  consiglio  il  re  di  mettere  ogni  ordine  dello 
stato  sotto  la  tutela  delle  armi  più,  perfette  che  istituire  si  possano  al  mondo  »  .* 

E  in  quanto  alle  gelosie  intercittadine,  bisogna  andare  cauti  nelle  indu- 
zioni :  poiché  in  Italia  si  riscontra  lo  stesso^  fenomeno  nel  1848  :  allora,  ogni 
città  si  solleva  e  agita  una  stessa  bandiera  di  guerra  all'Austria  e  ai  tiranni, 
ma  tuttavia  ogni  città  fa  opera  di  separatismo  e  agisce  per  proprio  conto. 
Forse  che  allora  mancò  un  pensiero  italiano?.. 

Ne  danno  ragione,  non  l'assenza  di  spirito  nazionale,  ma  i  pregiudizi  eco- 
nomici, neppur  oggi  scomparsi  nella  nostra  Europa  :  le  varie  città  temono 
di  perdere  la  loro  importanza  economica  col  divenire  province  di  un  solo 
regno  e  preferiscono  restare  piccoli  regni  di  tante  province  chiuse  ;  non  com- 
prendono ancora  l'utile  comune  di  un  allargamento  delle  frontiere  commer- 
ciali; e  continuano  a  vedere  la  propria  fortuna  attraverso  l'anlico  e  ancor 
recente  dualismo  «o  Roma  o  Cartagine»,  senza  avvertire  che  nel  principio 
della  libera  associazione  nazionale  vi  è  posto  per  tutte  le  singole  fortune,  di 
grandi  e  di  piccole  città:  come  nell'auspicata  Società  delle  nazioni  trove- 
ranno sfogo  gli  interessi  di  tutti  gli  Stati,  piccoli  e  grandi. 

Milano  però  sentiva,  nella  seconda  metà  del  '700;  l'attrazione  econo- 
mica dell'ideale  unitario;  il  governo  austriaco  tentò  trascinarla  nel  raggio 
d'azione  dell'economìa  tedesca  e  agevolò  le  tariffe  di  trasporto  a  tutte  le 
merci  che  fossero  entrate  in  Italia  per  il  tramite  del  porto  di  Trieste  :  la  bor- 
ghesìa lombarda  fu  recalcitrante  a  questa  politica,  e  domandò  via  lìbera  dalla 
parte  dì  Genova,  Venezia,  Ancona. 

Bonaparte  pregiudicò  per  sempre  la  ricostituzione  territoriale  dell'Italia 
superiore,  staccando  la  linea  del  Mincio  dalla  Repubblica  e  mettendo  l'Austria 
a  guardia  dell'Adriatico  e  sulle"  soglie  dell'Oriente  balcanico.  Il  traffico  di 
Venezia  diede  una  chiara  idea  del  conto  in   cui  teneva   l'Italia;   egli   lavo- 


»  opere  del  Conte  Algarotti,  Venezia,  1792,  T.  V.,  p.  275. 


Noie»  questioni  storiche^  ecc.  389 


rava  per  la  grandezza  di  Parigi.  Il  vecciiio  problema  della  frontiera  orien- 
tale rimase  l' incubo  della  Francia.  L'umanitarismo  della  Rivoluzione  si  con- 
densò in  un  patriottismo  fortemente  nazionalista.  È  Valmy  che  anima  tutta 
la  coscienza  del  suo  popolo  anche  dopo  i  trionfi  dell*  Impero.  La  patria  è 
sempre  vista  in  pericolo  ;  e  con  tragico  entusiasmo  si  corre  ai  ripari  :  possano 
a  questo  giovare  o  le  contribuzioni  straordinarie  del  patriziato  lombardo,  0 
la  cessione  della  terraferma,  oppure  la  Reitibund. 

Bonaparte  adunque  non  battè,  con  generosa  ubbidienza  e  con  cuore 
italiano,  la  strada  segnata  dalle  condizioni  del  nostro  paese  :  non  già  que- 
st' ultime,  ma  l'orientamento  francese  di  tuttala  sua  politica  europea  deter- 
minò le  direttive  particolare  dell'opera  da  lui  svolta  in  Italia  :  «  la  France 
avant  tout!»  fu  il  programma  imposto  al  duca    Melzi   e  al  viceré  Eugenio. 


È  necessario  ritornare  allo  studio  del  '700  per  accostarci  alle  vere  origini 
del  nostro  Risorgimento.  Là  sono  i  primi  i  germi,  là  i  primi  studi  moderni 
intorno  al  difficile  problema  di  ricostituire  l'Italia,  i  primi  impulsi  verso  il  pas- 
sato, le  tendenze  vive  a  conoscere  la  storia  nostra  per  amore  di  primato 
ideale,  le  prime  forme  già  chiare  dei  vari  atteggiamenti,  che  ha  preso  in 
modo  più  deciso  il  secolo  XIX  di  fronte  ai  tre  oppositori  del  problema  uni- 
tario: l'Austria,  la  Chiesa,  i  Borboni.  Giulio  Natali  vi  sta  dedicando  la  parte 
migliore  dello  sua  esistenza,  ed  è  già  pervenuto  a  buon  punto.  Egli  ha  spi- 
golato in  una  vigna  dalla  quale  erano  stati  colti  i  grappoli  maggiori  :  ma  vi 
ha  trovato  una  messe  più  copiosa  di  questi  ultimi  insieme.  Accanto  alle  ma- 
nifestazioni eccelse  del  pensiero  italiano,  ne  ha  scoperto  di  umili,  ma  più 
frequenti  :  ed  ha  così  rinnovato  il  giudizio  incompleto,  che  correva  formato 
intorno  a  quegli  alberi  d'alto  fusto,  creduti  sempre  dei  grandi  solitari.  Ora 
ne  arguisce  che  la  vita  del  '700  italiano  era  proprio  tutta  nel  pensiero,  con 
tanta  intensità,  quanta  ne  mise  il  secolo  dopo  nell'azione.  Più  le  ricerche 
approfondiscono,  e  più  il  Settecento  italiano  si  differenzia  intellettualmente 
dalla  Francia:  non  pallido  riflesso  di  quest' ultima,  come  vuoisi  da  chi  segue 
ancora  le  vedute  del  Villemain,  ma  individuantesi  in  un  proprio  organismo 
di  idee  e  di  interessi,  alla  cui  formazione  la  Francia  ha  recato  un  valido  con- 
tributo, ma  per  impulsi  precedenti  dell'Italia  e  con  una  preponderanza  de- 
cìsa del  nostro  senso  storico,  rivolto  alla  pratica  più  che  alla  teoria,  e  del- 
l'elemento classico  tradizionale. 

Il  rinnovamento  italiano,  dice  il  Natali,  fu  un  lento  risveglio  delle  sopite 
energie,  favorito,  non  determinato,  dagli  influssi  stranieri  ;  questi  «  aiutano 
V  Italia  a  ritrovar  se  stessa  ;  ecco  tutto  »  ;  ma  tale  autocoscienza  apre  gli  occhi 
alla  luce  di  un'arte  che  è  neo-classica;  a  sua  volta,  il  prevalere  del  classi- 
cismo è  un  altro  fatto  interno,  originario  :  è  la  vittoria  del  pensiero  sulla  rea- 
zione cattolica  ;  «  è  la  forma  della  nuova  coscienza  nazionale  e  sociale  »  ;  né 
deve  giudicarsi  anacronismo  ;  anche  la  Rivoluzione  «  farà  appello  coi  suoi 
Bruti  all'  ideale  classico  della  romanità  contro  la  monarchia  d'origine  barba- 
rica e  feudale».  Pertanto.  nell'Italia  del  '700,  che  non   può  dirsi  «  il  secolo 


190  Note^  qjiestioni  storiche^  ecc. 


della  filosofìa  francese  »,  perchè  non  si  può  dire  né  antir*cristiana,  né  anti-sto- 
rica, né  anti-italiana  l'età  di  Vico  e  di  Vincenzo  Coco,  dei  Giansenisti  e  dei 
pre-romantici,  del  Gianiione  e  dei  martiri  napoletani  :  «  esiste  una  coscienza 
nazionale  avanti  la  rivoluzione  ».  Il  periodo  napoleonico,  che  fncomincia  con  la 
Marsigliese  del  Direttorio  e  finisce  col  Te  Deum  della  Santa  Alleanza,  rap- 
presenta una  deviazione,  una  sosta,  nel  corso  del  nostro  risveglio  neo-cla.n- 
sico;  fu  esso  che  momentaneamente  soffocò  questa  coscienza  nazionale  con 
la  fede  umanitaria  e  universale,  «dalla  quale  ben  presto  i  nostri  migliori 
passarono,  o  tornarono,  reajcendo  contro  le  prepotenze  francesi,  al  senti- 
mento della  patria  italiana  »  ;  e  già  durante  l'età  napoleonica,  quelli  che  oggi 
difemmo  ì  nazionalisti  italiani  continuano  la  tendenza  propria  di  tutto  il  pe- 
riodo anteriore,   come  può  già  vedersi  in  Vincenzo  Coco. 

L'interpretazione  del  Natali,  affatto  contraria  alle  vedute  del  Pingaud, 
pare  ardita:  ma  siamo  tentati  di  credere  che  lo  stesso  Bonaparte  si  fosse 
avveduto  di  questo  neoclassicismo  con  tendenze  nazionali,  quando  racco- 
mandava ai  suoi  emissari  di  parlare  sempre  di  Roma  e  della  Grecia  ;  e  non 
doveva  essere  ignoto  neppure  a  Madame  de  Staél,  quando  notava  che  i  Ro" 
mani  del  suo  tempo  applaudivano  ai  versi  dell'Alfieri,  come  se  le  azioni  et 
sentimenti  che  il  poeta  magnificava  li  riguardassero  ancora. 

Anche  nella  corrente  meno  letteraria  del  secolo,  la  giansenista,  si  ritrovn 
un*eco  di  romanità  nel  concetto  fondamentale  di  ui^o  Stato  solidamente  costi- 
tuito, direttore  supremo  della  vita  civile,  e  di  quella  religiosa  in  tutte  le  sue 
attinenze  col  temporale.  Studiati  individualmente  i  Giansenisti  italiani,  rao- 
strano  una  singolare  predilezione  verso  l'antichità  classica:  particolare  che 
non  fu  ancora  studiato,  ma  che  addito  volentieri  al  Natali,  perchè  promette 
risultati  interessanti. 

Se  la  concezione  storica  del  Natali  appare  in  gran  parte  nuova  per  quanto 
si  attiene  al  concetto  delle  origini  classiche  del  nazionalismo  unitario,  e  a 
quello  dello  storicismo  del  Settecento  italiano;  nel  resto  si  riattacca  alle  vedute 
del  partito  moderato:  al  Gioberti  e  a  quanti,  come  lui  nel  Ptim^tOy  lamen- 
tarono che  la  rivoluzione  francese  aVesse* interrotto  il  movimento  civile  di 
quel  secolo,  e  accennarono  alla  sua  ripresa  come  a  mezzo  sicuro  per  un» 
pacifica  attuazione  dell'aspirazione  unitaria  :  idea  che  formò  la  teorica  del  pro- 
gramma riformista  di  Maximo  D'Azeglio  (1847-65)  e  di  tutti  i  cosidetti  rivo- 
luzionari all'aperto.  E  poprio  di  quest'ultimo  programma,  il  Ciasca,  in  un  bel 
volume  (a  parte  alcuni  errori  nella  valutazione  del  fattore  economico,  impa- 
rentato troppo  strettamente  col  sentimento  nazionale),*  ha  trovato  i  prece- 
denti negli  economisti  del  nostro  Settecento.  Anche  allora,  infatti,  lo  studio 
delle  questioni  doganali,  dei  rapporti  di  commercio,  dei  bisogni  agricoli  ed 
industriali  d' Italia,  della  navigazione  fluviale  interna,  suggerirono  sentimenti 
opportunistici  di  unità  e  di  indipendenza  :  e  il  problèma  nazionale  fu  pro- 
spettato (es.  dal  Genovesi)  come  un  problema  di  necessità  pratica,  con  la 
lusinga  di  un  ottimo  affare. 

*  QuesU  «rrori  farono  rilerati  dà  M.  RodolicÓ'  in  Ar€hivio  Storico  Jiati^nò,  Anno  LXXIT 
voi.  Il,  1916. 


Noie^  questioni  storiche,  ecc.  391 


Anzi,  il  Ciasca  si  dà  premura  di  concludere  che  fu  questa  necessità  eco- 
aomica  il  punto  di  partenza  dell'  idealità  nazionale.  E  noi  aggiungiamo  che  fu 
contro  di  essa  che  reagì  il  pensiero  mazziniano  fin  dalle  sue  prime  battute. 

Per  non  soffermarci  sul  contrasto  fra  la  concezione  materialistica  del  Ciasca, 
e  quella  idealistica  del  Maiali,  che  può  trovare  una  spiegazione  nel  diverso 
ordine  di  fatti  a  cui  si  rivolgje  la  loro  indagine,  una  verità  scaturisce  :  che  il 
problema  della  ricomposizione  d' Italia,  non  ha  lasciato  indifferenti  gli  animi 
del  nostro  Setteceiilo,  sia  .nelle  considerazioni  sentimentali,  sia  nei  motivi  di 
interesse  ;  che  vi  furono  varie  correnti  di  pensiero  nazionalistico,  e,  intorno  ad 
esse,  non  fitto  lavoro  di  critica  dottrinale,  di  indagine  e  di  ricostruzione  sto- 
rica, sul  quale  gettano  una  luce  di  eroismo  il  tentativo  napoletano  del  1796 
e  resòdo  dei  patrioti  di  Lombardia  e  d'ogni  altra  regione  nel  1799. 

Tutto  lascia  credere  che  il  nostro  Settecento  fu  studiato  male,  in  modo 
incompleto,  con  prevenzioni .  dannose.  Bisogna  ritornare  da  capo  come  se 
ancor  nulla  si  fosse  scritto.  E  allora  forse  sì  potranno  mettere  in  accordo  le 
due  diverse  concezioni,  la  riformista  e  la  rivoluzionaria:  quella  che  tutto  ri- 
vendica al  rinnovamento  intellettuale  e  principesco  succeduto  al  trattato  di 
Àquisgr&na,  e  quella  che  lo  sconfessa  come  impotente  a  rinnovare  senza  la 
scossa  deirS9. 

Poiché  si  vedrà  meglio  la  funzione  di  reciproca  integrazione  che  spetta 
ad  ambedue  nel  complesso  delia  vita  italiana.  A  nostro  avviso,  i]  nostro  '700  ha 
posseduto  un'anima  propria;  mail  pensiero,  onde  si  alimentava,  era  sempli- 
cemente contemplativo  ed  inerte,  insufficiente  all'azione;  aveva  bisogno  di 
essere  provocato,  punto  nel  vivo,  per  suscitare  faville:  e  come  era  bastata 
l'offesa  del  padre  Bouhours  contro  le  nostre  lettere,  a  mettere  in  moto  una 
ialange  di  letterati  per  la  salvezza  del  decoro  artistico  d' Italia,  e  a  scate- 
nare una  polemica  durata  più  d'un  secolo,  cosi  bastarono  le  prime  promesse 
liberali  del  Direttorio  a  raccogliere  insieme  una  falange  di  patrioti,  di  gior- 
nalisti e  di  tribuni,  nel  comune  proposito  democratico  e  unitario  ;  come  non 
erano  poi  necessari  gli  eccessi  della  dittatura  napoleonica  per  rendere  gli 
Italiani  meglio  persuasi  dell'utilità  di  un  governo  indipendente  e  di  un^  li- 
bbra naxione! 

Ettore  Rota. 


»         » 


Simgoa  e  Italia  nel  periodo  delia  Rinascenza/ 


Perseverando  nella  sua  mirabile  operosità,  Benedetto  Croce  ha  raccolto 
nel  presente  volume  parecchi  saggi  sulle  relazioni  italorspagnuole,  e  ha  vo- 
luto delincare  in  qualche  modo  un  quadro,  che  nella  fervida  gioventù  aveva 
Sboisato  g^agliardamente.  Con  indagini  copiose  e  svariate,  con  alacre  opera 
e  con  viva  per$picacia.  in  poco  più  di  cinque  anni,  tra  il  1893  e  il  1898,  egli 

*  B.  Crock,  ta  S^agntk  nfila  vita  itaHamo  AwtnUe  U^  Himan*n%^.  Bari,  Lal«rsa,  1917. 


392  Noie,  questioni  storiche ,  eco* 


s'era  collocato  tra  i  primi  spagnolisti  d'Italia;  e  non  pochi  studiosi  attendevano 
da  lui  quello  che  egli  confessa  essere  stato  allora  il  suo  intendimento  :  una  storia 
dell'influenza  spagnuola  in  Italia  dal  Medio  evo  sino  a  tutto  il  secolo  deci- 
mottavo.  I  migliori  saggi,  dettati  allora  dal  Croce,  coordinati  tra  loro,  qua  e 
là  accresciuti  e  armonizzati,  formano  la  parte  centrale  del  nuovo  volume,  ch'è 
riuscito  un  libro  materiato  di  densa  e  solida  dottrina,  uno  di  quei  libri  ove 
l'analisi  investe  i  fatti  tratti  da  fonti  molteplici,  li  vivifica  e  li  colorisce  mira- 
bilmente. L'erudizione,  che  nei  saggi  mostrava  spesso  la  nervatura  del  lavoro, 
è  ora  abilmente  dissimulata;  e  la  diligente  trattazione,  pur  non  perdendo 
nulla  del  rigore  scientifico,  è  resa  accessibile  a  un'utile  e  dilettevole  lettura: 
pregio  non  piccolo  in  un  libro  cosi  complesso  e  cosi  ricco. 

Non  è  forse  inopportuno  rilevare  anzitutto  che  non  si  tratta  propriamente 
dell'  influsso  spagnuolo  in  ogni  manifestazione  della  vita  italiana  della  Rina- 
scenza, come  forse  può  apparire  dal  titolo:  ma  di  rapporti  prevalentemente 
letterari,  con  scorci  di  vita  del  costume,  riflessi  di  abitudini  e  costumanze, 
sguardi  fuggevoli  alla  yita  civile  e  religiosa,  accenni  contenuti  ad  avvenimenti 
politici.  Si  tratta  insomma  di  influssi  di  cultura  esercitatisi  sul  popolo  italiano 
durante  la  dominazione  spagnuola. 

In  un  primo  saggio  d' introduzione  sonò  studiati  i  primi  contatti  tra 
Italia  e  Spagna,  quando  le  relazioni  fra  i  due  paesi  erano  assai  scarse  :  si 
tratta  naturalmente  di  un  capitolo  a  larghe  linee,  che  provocò,  come  parecchi 
dei  successivi,  notevoli  aggiunte,  dovute  anche  alle  recensioni  di  Arturo  Fa- 
rinelli, di  Eugenio  Mele,  di  Menendez  y  Pelayo.  Ai  primi  albori  della  civiltà 
medievale,  mentre  le  città  marinare  scuotevano  arditamente  il  terrore  dei 
pirati  saraceni,  giungeva  dalla  penisola  iberica  l'eco  di  grandi  battaglie  com- 
battute incessantemente  contro  l' invasione  musulmana.  Le  vicende  grandiose 
del  secolare  conflitto  valsero  a  sanare  il  concetto  e  il  ricordo  della  barbarie 
dei  Goti,  onde  mosse  la  riscossa,  e  non  è  forse  ultima  causa  del  titolo  di 
nobiltà  annesso  da  letterati  e  uomini  politici  del  Rinascimento  alla  discen- 
denza dall'alta  stirpe  dei  Goti.  La  grande  lotta  delle  investiture,  portando 
all'apogeo  la  potenza  papale,  fece  sì  che  la  Spagna  sentisse  con  maggiore 
forza  la  voce  di  Roma  ;  e  i  papi  più  grandi,  da  Gregorio  VII  a  Innocenzo  III, 
levarono  spesso  la  voce  a  bandire  la  Crociata  in  favore  della  pericolante  cri- 
stianità iberica.  Più  tardi,  mentre  i  Pisani  combattevano  nelle  Baleari  lo 
stesso  nemico  degli  Spagnuoli,  le  università  italiane  accoglievano  tra  gli  stu- 
denti delle  varie  nazioni  quelli  della  nazione  spagnuola.  Il  ciclo  carolingio  e 
i  poemi  franco-italiani  recavano  favolose  notizie  di  quel  paese,  reso  celebre 
anche  dai  pellegrini  reduci  da  S.  Giacomo  di  Compostella.  Di  fama  singolare 
godevano  allora  gli  Spagnuoli  in  Italia:  la  varietà  etnica  che  si  avvicendava 
sul  suolo  della  penisola  aveva  una  ripercussione  nell'estimazione  dei  popoli 
vicini  :  Giudei,  Arabi,  Cristiani  vivevano  una  vita  intensa  e  agitata  e  recavano 
attraverso  la  Spagna,  la  civiltà  orientale  al  mondo  occidentale  in  un  lavorio 
bizzarro,  in  fogge  strane  e  spésso  fantastiche.  Più  tardi  i  re  di  Castiglia  e 
d'Aragona  prevalsero  nella  oscura  mischia  ;  ambasciatori  e  avventurieri  mos- 
sero dall'Occidente  alle  Corti  e  ai  paesi  dell'Europa  centrale.  I  Catalani,  spinti 
dal  loro  spirito  d'avventura  e  di  guadagni,  si  sparsero  ben   presto  in  gran 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  393 


numero  nelle  nostre  città  marinare  ;  i  poeti  italiani  conobbero,  confusa  con  la 
provenzale,  la  civiltà  e  lo  coltura  della  Catalogna.  Così,  dalle  lotte  comuni 
contro  il  nemico  mediterraneo  sorse  presto  affinità  di  destini  :  e  la  Sicilia 
chiamò  contro  Carlo  d'Angiò  gli  Aragonesi,  che  non  lasciarono  più  la  bella 
isola,  spingendosi  in  seguito  sulla  Sardegna  e  a  poco  a  poco  sul  continente. 
I  «  bracci  »  e  gli  «  stamenti  »,  in  Sicilia  e  in  Sardegna,  insieme  con  una  note- 
vole immigrazione  dei  dominatori  e  col  conseguente  innestarsi  sul  tronco 
iinguisHco  dì  nuovi  vocaboli,  furono  le  durevoli  tracce  del  nuovo  stato  di  cose. 
Ma  l'elemento  indigeno  era  troppo  vivace,  intelligente  e  colto  per  essere 
sostanzialmente  modificato  ;  le  istituzioni  e  la  vita  italiana  continuarono  il 
loro  ritmo  progressivo  e  ascendente,  assimilando  e  traendo  all'ammirazione  » 
nuovi  elementi  di  ben  nota  civiltà  inferiore. 

Nella  seconda  metà  del  Quattrocento  un  re  aragonese  a  Napoli  e  un  papa 
—  Callisto  III  Borgia  —  sulla  cattedra  di  S.  Pietro  attestavano  eloquente- 
mente la  influenza  ascensionale  della  Spagna  in  Italia.  Il  C.  tratta  in  un  quadro 
vivace  le  condizioni  della  Corte  di  Alfonso  d'Aragona  in  Napoli.  Il  re,  che, 
a  detta  del  Giovio,  inserì  stabilmente  sul  suolo  italico  la  stirpe  spagnuola, 
ebbe  il  maggior  merito  di  recare  a  Napoli  quel  Rinascimento  che  fino  allora 
sembrava  indugiarsi  nell'alta  e  media  Italia.  E  tale  opera  fu  proseguita  con 
maggiori  risultati  da  Ferrante,  il  figlio  d'Alfonso,  figura  ricca  di  luci  e  ^\ 
ombre.  Alla  Corte  del  primo  re  aragonese  fiorì  la  prima  gioventù  avventu- 
rosa di  Spagna  :  guerrieri,  diplomatici  e  poeti  ben  presto  occuparono  le  prime 
cariche  del  regno  e  trassero  con  sé  una  fitta  immigrazione  di  scudieri,  paggi, 
menestrelli,  mercanti,  artefici.  Volavano  le  strofe  d'amore  attorno  alle  trecce 
delle  gentildonne  venute  spose  ai  signori  napoletani  ;  i  giochi  allietavano  con 
nuove  fogge  la  nascente  società  italo-spagnuola,  e  si  ebbero  allora  i  suoni  o 
balli  mascherati,  le  moresche  con  altre  danze,  le  prime  cacce  di  tori,  lo  sfog- 
giare delle  splendide  cavalcature  e  l'affascinante  galanteria  del  costume.  Ma 
là  poesia  risentiva  ancora  del  paese  d'origine  ;  il  pensiero  correva  sempre  alla 
patria  remota,  alle  città  native,  ai  ricordi  di  giovinezza,  al  re  e  alla  regina 
lontani,  alle  feste  di  Corte.  Con  l'avvento  al  trono  di  Ferrante  si  stabilì  un 
equilibrio  tra  i  due  elementi  con  una  progressiva  e  rapida  nazionalizzazione 
degli  Aragonesi  di  Napoli  :  il  re  obbediva  anche  a  necessità  di  ordine  politico, 
tendendo  a  rafforzare  la  sua  posizione  di  principe  indipendente.  L'elemento  ita- 
liano riprese  valore  e  vigore  e,  come  alla  Corte  esso  ricomparve  nei  posti  più 
eminenti,  così  avvenne  che  tra  1  letterati  si  facesse  meno  vivo  il  senso  dì 
avversione,  che  nei  ceti  medio  e  popolare  circondava  la  crescente  prosperità 
spagnuola.  Per  tal  modo,  mentre  la  letteratura  spagnuola  scemava  di  copia 
e  di  intensità,  si  videro  riuniti  nello  stesso  circolo  Gioviano  Pontano  e  Gio- 
vanni Pardo,  il  Cariteo  e  il  Sannazzaro,  e  più  tardi  Tristano  Caracciolo  e 
Antonio  Galateo  :  letterati  e  artisti  di  varia  provenienza  e  di  varie  tendenze, 
che  nella  loro  opera  riflettevano  al  vivo  la  società  e  le  molteplici  influenze 
del  loro  tempo. 

Il  quinto  capitolo,  che  tratta  degli  Spagnuoli  in  Roma  e  in  Italia,  pur 
essendo  ricco  di  dati  e  di  notizie  sul  movimento  spagnuolo,  che  sì  aggirò 
principalmente  attorno  alle  figure  dei   due  papi  della   famiglia  Borgia,  Cai- 


394  Note^  questioni  storiche^  ecc. 


listo  ITI  ed  Alessandro  VI,  non  è  forse  esauriente,  e  lo  nota  il  Croce  stesso 
(pp.  87  e  221-222).  Ad  ogni  modo  queste  pagine  si  leggeranno  con  profìtto 
dopo  quelle  del  Gregorovius,  del  Muntz  e  del  Pastor.  L'elemento  spagnuolo, 
fiancheggiato  dal  nepotismo  papale,  contò,  specialmente  nel  ceto  ecclesiastico, 
intelligenze  potenti  e  varie  come  forse  non  mai,  e  le  tracce  rimangono 
ancor  oggi  numerose  nelle  chiese  romane,  ove  i  sontuosi  prelati  dormono 
ben  composti  nelle  armoniose  tombe  marmoree.  Propaggini  e  filtrazioni  sono 
poi  notate  a  Ferrara,  ove  Eleonora  d'Aragona  andò  sposa  a  Ercole  I  d'Este 
e  Lucrezia  Borgia  ad  Alfonso  I  ;  a  Mantova,  a  Urbino,  a  Milano.  Ma  sono  ac- 
cenni, e  tra  questi  si  poteva  anche  aggiungere  qualche  ricordo  relativo  a 
Venezia.  I  tempi  ormai  incalzavano  e  l'espulsione  dei  Mori  pareva  di  buon 
augurio  all'Europa,  che  poteva  illudersi  di  trovare  nell'Occidente  vittorioso  ud 
fondamento  di  speranza  contro  il  colosso  ottomano  affermatosi  possente  nella 
penisola  balcanica  e  nella  stessa  Costantinopoli.  La  scoperta  delle  Americhe, 
che  i)  genio  di  un  Italiano  donava  alla  Spagna  riunita,  coronava  il  trionfo 
ed  era  foriera  di  nuove  conquiste  e  di  più  vasto  dominio.  La  politica  di 
Ferdinando  il  Cattolico  diventava  sempre  più  europea  ;  i  suoi  generali  con 
alla  testa  il  Gran  Capitano  scendevano  in  Italia,  e  presto  la  nostra  penisola 
era  piena  delle  loro  gesta.  Più  tardi  le  armate  di  Carlo  V  la  percorreranno 
tutta  da, nord  a  sud,  e  gli  Italiani,  inquadrati  nei  reggimenti  di  Raimondo  di 
Cardonaedi  Antonio  de  Leyva,  porteranno  il  fuoco  e  la  distruzione  nella  Francia 
tanto  invisa  agli  Italiani  dopo  le  imprese  di  Carlo  Vili  e  Luigi  XII.  L'inno 
alla  potenza  spagnuola  è  cantato  inconsciamente  nella  rozza  cronaca  del  frate 
aragonese  Fabrizio  Gauberte:>l^  Spagna  dà  al  mondo  papi,  imperatori,  pro- 
dotti, guerrieri.  Spagnuolo  il  papa  Alessandro;  spagnuolo  e  figlio  dell'ara- 
gonese Eleonora,  V  imperatore  Massimiliano  ;  spagnuolo  il  più  saldo  baluardo 
della  Cristianità  contro  il  pericolo  ottomano,  che  sarebbe  già  debellato  ove  i 
Francesi,  chiamati  dagl'  Italiani,  non  si  fossero  rovesciati  in  Italia.  Fra  poco 
sorgerà  la  potenza  sterminata  di  Carlo  V,  sui  cui  domini  non  tramonterà 
mai  il  sole. 

Di  fronte  al  rapido  sviluppo  di  sì  prodigiosa  grandezza,  gli  Italiani,  sqossi 
nel  loro  particolarismo  regionale,  non  poterono  serbarsi  impassibili.  Quando 
ancora  il  dominio  spagnuolo  si  ammantava  di  cultura  latina  e  umanistica,  gli 
Italiani,  lieti  della  loro  prosperosa  e  fiorente  civiltà,  indugiati  nei  lucrosi  traf- 
fici marittimi  e  continentali,  nello  solendore  delle  arti  belle,  e  nella  rinata 
vita  romana,  non  accolsero  malvolentieri  coloro  che  ascendevano  dal  Medi- 
terraneo, pieni  di  sb.ncio  e  di  ardimento  a  cercare  ventura  e  a  recare  il  loro 
braccio.  Né  era  pi^  .jIo  titolo  di  orgoglio  che  i  nuovi  venuti,  pur  signoreg- 
giando sempre  più  sulla  scena  politica,  rinunziassero  moralmente  alla  loro 
patria.  Più  tardi  la  stima  e  le  accoglienze  per  gli  Spagnuoli  subirono  un  brusco 
mutamento.  Ciò  accadde,  quando  la  Spagna,  con  il  peso  delle  sue  armi  vitto- 
riose, con  il  baldanzoso  spirito  nazionale,  parve  voler  deviare  secondo  nuovi  in- 
dirizzi la  vita,  il  costume  e  la  cultura  italiana.  Troppo  essa  era  povera  di  eler 
menti  intellettuali,  perchè  i  suoi  difetti  potessero  sfuggire  alla  suscettività  fine 
ed  elegante  di  quegli  Italiani,  che  avevano  saputo  ritrovare  e  far  rifiorire  di 
nuova  vita  l'antica  e  ricca  civiltà  di  Roma  repubblicana  e  imperiale.  Cosi,  Vte- 


Noie»  questioni  storiche,  ecc.  395 


rameiite  barbari  dovettero  sembrare  gli  Spagnuoli,  quando,  a  mezzo  il  Quattro- 
cento, sì  affacciarono  a  invadere  tumultuariamente  l'Italia.  Avventurieri  e  sol- 
dati, prelati  ed  ebrei,  nobili  e  popolani,  donne  e  letterati  si  insediarono  con 
tal  furia  alle  Corti  di  Alfonso  il  Magnanimo  e  di  Callisto  III,  che  scoppiarono 
qua  e  là  tumulti  e  si  suscitarono  malcontenti  durevoli.  La  più  fiera  accusa 
contro  il  sopravvenire  e  la  minaccia  della  nuova  barbane  è  lanciata  nell'opu- 
scolo  di  Antonio  Galateo  «  De  educatione  ».  All'avarizia,  già  rimproverata  ai 
Catalani  fin  dai  tempi  di  Dante,  l'autore  rinfaccia  agli  Spagnuoli  il  disprezzo 
della  cultura,  l'infezione  gotico-moresca,  rimasta  nei  caratteri  della  scrittura 
%  nel  consonantismo  della  lingua,  la  snervante  cortigianeria,  la  profonda 
Corruzione,  la  sodomia,  l'adulazione,  l'albagìa  provocatrice,  la  vaghezza  ecces- 
.siva  di  sollazzi  e  di  giuochi,  la  miseria  malamente  dissimulata,  la  rozzezza  e 
l'arroganza.  Ma,  ahimè,  il  Galateo  non  poteva  troppo  a  lungo  insistere  nel- 
Tattribuire  tali  e  tante  quantità  negative  a  un  popolo  grande,  che  aveva  saputo 
salire  a  tanta  potenza;  e  a  poco  a  poco  si  indusse,  come  il  Sannazzaro,  a 
riconoscergli  i  meriti,  già  per  altro  riconosciutigli  dalla  fredda  diplomazia, 
C  ft  lasciare  il  tema  della  perduta  indipendenza  per  ammettere  che  almeno 
r Italia  aveva  ora  un  protettore  cont;ro  le  mire  ambiziose  dei  Turchi. 


Hei  capitoli  successivi,  dal  settimo  all'undecimo,  il  C.  studia  come  si 
atteggiasse  la  vita  italo-spagnuola  nella  prima  metà  del  Cinquecento.  Sono 
densi  studi  sulla  società  galante  italo-spagnuola,  la  lingua  e  la  letteratura 
spagnuola.  le  cerimonie  spagnuole,  lo  spirito  militare,  la  religiosità,  gli  aspetti 
del  domìnio  .spagnuolo  in  Italia.  Da  questo  semplice  sommario  si  scorge  con 
quanta  larghezza  e  con  qual«  forza  il  C.  abbia  impreso  a  trattare  il  complesso 
problema  ttalo-spagnuolo,  che  affatica  ancora  gli  studiosi  e  appassiona  tutta-, 
▼ia  in  special  modo  il  Mezzogiorno  d'Italia.  Chi  vorrà  completare  il  quadro, 
accarezzato  nei  giovani  anni  dal  C,  dovrà  indùbbiamente  attenersi  a  questa 
guida  solida  e  valente- 
Se  non  che  sarà  permesso  aggiungere  qualche  osservazione  a  chi  ha  letto 
e  meditato  attentamente  queste  pagine.*  Il  C.  confessa  con  lealtà  nell'Intro- 
duzione che  le  ricerche,  dalle  quali  et>bero  origine  le  memorie  e  gli  articoli 


*  Questo  k  rammonimento  di  Michelangelo  Schifa  {Riv.  Stdìr.  Ital.,  ».  1917,  pp.  43-44)» 
il  <|ue»le  iti  una  sesie  (U  «Jolte  •  ncate  dissertazioni  ha  svolto  una  tesi,  t>er  molti  rispetti  e  da  uo 
pnnto  più  strettamente  Sporico,  affine  a  quella  del  C.  Cfr.  di  lui  Conlese  sociali  a  Napoli  nel 
Medioevo,  in  Arch.  Slot.  Nap.  XXXI  (1906»,  pp.  392-427,  575-622  ;  XXXII  (1907),  pp.  68-123,  314-377» 
513-586,  757-797;  XXXin  (Ì908),  pp.  81-Ì27;  Il  popolo  di  Napoli  dal  1495  al  1522,  Ibid.,  XXXIV 
(1909),  pp.  392-318,  461-497,  672-70Ó;  La  pretesa  fellonia  del  duca  d'Ossuna,  Ibid.,  XXXV  (1910), 
PP-  459-484,  637-660;  XXXV  (191O,  pp.  56-85,  286-328,  475-506,  710-750;  XXXVII  (1912),  pp.  211-241, 
341-411;  La  menti  di  HafanieUo,  Ibid.,  XXXVIII  (1913),  pp.  655-680;  XXXIX  (1914),  pp.  95-i3x; 
La  cosi  detta  rivoluzione  di  Masaniello,  Ibid.,  XLI  (1916),  pp.  65-99,  311-336,  453-492  ;  XLII  (1917), 
pp.  79-107, 161-187  ;  lo  studio  riassuntivo  Studi  Masanielliani,  estr.  dagli  Atti  delta  R.  Acc.  di  Arch., 
Lettere  f  Belle  Arti  dt  Napoli.  N.  S.,  voi.  V,  1916;  e  Un  grido  di  libertà  n^  Ztitrnto,  estr.  dagli 
St^éi  if>  onore  di  trratueeiwo  Torrnc*.  Napoli,  t»erella,  1912. 


39^  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


fusi  in  questo  volume,  fu^rono  condotte  fra  il  1892  e  il  1894,  e  adesso  ricompare 
solamente  la  materia  già  a  stampa,  sia  pure  riordinata  compendiata  e  talora 
accresciuta  con  rimaneggiamento  più  formale  che  sostanziale  (pp.  vii-viii). 
Se  si  tenga  presente  che  sia  le  memorie  d'indole  generale,  come  la  tratta- 
zione dei  problemi  particolari,  non  erano  nella  prima  redazione,  ancora,  a 
confessione  del  C,  punto  esaurienti  {La  lingua  spagnuola^  ecc.  pp.  3  ;  33  ;  41  ; 
I,  60,  n.  61  e  App.  del  Farinelli  pp.  79;  87  ;  Ricerche  ispano-italiane ,  I,  pp.  1 
e  2  n.  2  ;  II  p.  12  n.  5  ;  Intorno  al  soggiortio  di  Garcilasso  de  la  Vega  in 
Italia,  p.  Il);  che  le  schede  e  gli  appunti,  non  utilizzati  del  C,  erano  assai 
numerosi,  e  che  ogni  nota  lasciava  intravedere  un  lavorìo  critico  incessante, 
uno  spirito  pronto  e  perspicace,  un'ansia  viva  di  ricerche:  non  si  può  pen- 
sare senza  rammarico  alla  poderosa  opera  che  il  C.  avrebbe  potuto  darci  e 
che  tuttora  si  lascia  desiderare.  Il  Mele  e  il  Farinelli,  che  in  lunghe  e  copiose 
recensioni  fecero  interessantissime  osservazioni  e  aggiunte  agli  studii  crociani, 
di  mano  in  mano  che  vedevano  la  luce,  avranno  certamente  aumentato  di 
molto  quel  materiale  di  appunti  nei  dieci  anni  durante  i  quali  il  C.  era  vólto 
a  studii  diversi,  ove  per  altro  la  sua  alta  benemerenza  è  universalmente  ap- 
prezzata.* Del  disegno  originale  della  vasta  opera  non  abbiamo  dunque  che 
frammenti  :  dei  quali  i  più  cospicui  e  affini,  per  argomento  e  successione,  sono 
raccolti  nel  presente  volume;  altri  sono  stati  inclusi  in  volumi  già  editi  {Saggi 
sulla  letteratura  italiana  del  Seicento;  Teatri  di  Napoli);  laddóve  molti  altri 
non  furono  raccolti  nelle  memorie  originali.  Non  è  perciò  questo  il  quadro 
atteso  e  desiderato  dagli  studiosi,  ma  «  piuttosto  un  abbozzo  di  quadro  >  ; 
e  delle  varie  limitazioni  siamo  avvertiti  dallo  stesso  A.,  allorché  dichiara 
di  aver  contenuto  le  sue  indagini  «  all'efficacia  che  la  Spagna  ebbe  sul- 
r  Italia,  lasciando  ad  altri  la  ricerca  inversa  »  (p.  3)  ;  di  non  aver  «  delineato 
nemmeno  in  iscorcio  la  storia  dell'umanismo  spagnuolo  nei  suoi  rapporti  con 
r  umanismo  italiano  »  (p.  87)  ;  di  aver  dato  soltanto  brevissimi  cenni  sulla 
composizione  della  società  spagnuola  di  Roma,  di  Lombardia,  dì  Venezia  e 
delle  altre  parti  d' Italia  (pp.  220-221);  di  non  aver  voluto  occuparsi  del  reci- 
proco influsso  delle  belle  arti  e  infine  di  aver  tralasciato  un'esposizione  delle 
vicende  politiche.  Aggiungeremo  ancora  che  il  C.  lavora  esclusivamente  su 
materiale  «  italiano  »  in  largo  senso  ;  ossia  i  suoi  studi  sono  condotti  su  cro- 
nache, novelle,  atti  pubblici,  storie  locali  e  generali,  italiane  e  spagnuole, 
elisegli  potè  avere  disponibili  in  Italia,  e,  più  propriamente,  nell'  Italia  meri- 
dionale, o  meglio,  nel  Napoletano.  Non  per  nulla  il  C.  è  stato  per  dieci  anni 
il  direttore  instancabile  e  attivo  della  Napoli  nobilissima,  e  non  a  caso  il  vo- 
lume, di  cui  discorriamo,  si  chiude  con  una  appendice  intitolata  :  Una  passeg' 
giata  per  la  Napoli  spagnuola.  Si  rifletta  ancora  che,  dei  domini  spagnuoli  in 


»  Di  Eugenio  Mele,  cui  è  dedicato  il  volume  <ic;l  C,  cfr.  ira  l'altro:  Tra  gramniatici, 
maestri  di  lingua  spagnuola  e  raccoglitori  di  proverbi  spagnuoli  in  Italia,  vÀ  Studi  di  filol.  moderna 
del  Manacorda,  VII  (1907),  pp.  13-41  ;  Per  la  fortuna  del  Cervantes  in  Italia  nel  Seicento,  Ibid., 
II,  (1902),  fase.  3-4;  Per  la  fortuna  del  Tansillo  in  Ispagna;  Le  *ti  Lagrime  di  S.  Pietro  vt,  in  Ross, 
crit.  di  lelt.'it.,  XXI  (1916),  pp.  145-161.  Da  parte  sua,  A.  Kari.velli  ha  scritto  or  ora  una  parti- 
colareggiata e  vivace  receusione  dello  studio  del  C.  in  Giornale  Sior.  della  Leti.  Ital.,  LXXl  (1918), 
PP-  243-302. 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  397 


Italia,  la  Sicilia,  che  rappresenta  una  parte  così  importante  nella  vita  italiana  con 
(a  rivoluzione  del  1282,  con  la  successiva  guerra  d'indipendenza,  con  la  domi- 
nazione  straniera,  rimane  sempre  più  segregata  dagli  altri  Stati  della  penisola 
sino  a  non  lasciar  quasi  traccia  nella  storia  d*  Italia;  che  la  Sardegna  ha  poche 
menzioni  nell'opera  del  C,  e  che  dell'influenza  spagnuola  nei  domini  milanesi 
poco  si  parla.  Ciò  non  ostante  non  dobbiamo  immaginare  che  il  volume  del 
C.  si  riduca  ai  preziosi  contributi  recati  da  E.  Gothein  allo  studio  del  Rina- 
scimento nell' Italia  meridionale.*  Ciò  che  nell'economia  dell'opera  dell'erudito 
tedesco  non  era  che  un  capitolo,  pregevole  indubbiamente,  nell'opera  crociana 
s'è  esteso  a  un  volume  di  vasto  ambito,  di  colorito  vivace  e  ricco,  di  rifles- 
sioni acute  e  varie,  di  più  ampie  ricerche  :  inoltre,  com'è  naturale,  l'esame 
delle  manifestazioni  letterarie  coglie,  forse  più  che  non  possa  apparire  a  prima 
vista,  lo  spirito  etnico  dell'  uno  e  dell* altro  popolo  negli  anni  fuggevoli  in 
cui  le  due  floridezze  delle  armi  e  del  sapere  s'incontrarono  e  parvero  allearsi, 
se  non  fondersi.  Quegli  anni  sono  fìssati  dal  C.  in  pagine  indimenticabili. 

Con  tutto  ciò  lo  scopo,  che  il  C.  si  propone  col  suo  volume,  non  può  essere 
completamente  raggiunto  senza  un  esame  che  attinga  ai  tesori  inesauribili  di 
documenti,  relativi  all'Italia,  conservati  negli  archivi  e  nelle  biblioteche  spa- 
gnuole.  Il  Gachard  trasse  da  quei  depositi,  secondi,  per  quantità  e  importanza, 
forse  solamente  agli  archivi  vaticani,  una  nuova  storia  delle  Fiandre.  Per  la 
storia  d' Italia  non  abbiamo  inventari  soddisfacenti  ;  ma  la  relazione  di  Isidoro 
Carini,  benché  affrettata  e  lacunosa,  mostra  l'importanza  sostanziale  dei 
fondi  spagnuoli  per  la  nostra  storia,  non  soltanto  politica,  ma  letteraria,  arti- 
stica, civile  e  religiosa. 2  Cosi  i  rapporti  tra  Italia  e  Spagna  nel  Medio  Evo 
sarebbero  suscettibili  di  ben  altra  trattazione,  anche  dal  punto  dì  vista  stret- 
tamente culturale  :  la  Catalogna  tiene  un  posto  rilevantissimo  nelle  relazioni 
intellettuali  con  l'Italia,  come  fanno  fede,  tra  l'altro,  le  recenti  ricerche  di  Mila 
y  Fontanals,^  e  i  materiali  raccolti  nella  collezione  del  BtUlettino  Dantesco 
e  nella  Rivista  per  gli  studi  catalani  edita  a  Barcellona.  Dal  rinnovato  ardore 
per  risuscitare  lo  studio  del  provenzale  e  del  catalano,  che  gli  Italiani  con- 
fusero insieme  nel  periodo  delle  origini,  noi  dobbiamo  trarre  motivo  per  pro- 
seguire attivamente  m  quest'ordine  di  studi.  A  proposito,  ebbe  a  notare 
giustamente  Enrico  Finke,  il  benemerito  autore  degli  Acta  Aragonensia^  tanto 
preziosi  per  noi,*  che  gran  parte  della  storia  medievale  d' Italia  sta  ancora 


*  E.  Gothein,  //  Rinascimento  nelV Italia  meridionale  (trad.  Persico),  t'irenze,  Sansoni, 
1915,  (in  Biblioteca  stor.  del  Rinasc.  diretta  da  F.  P.  Luiso).  È  questo  il  capitolo  migliore  di 
un'ampia  e  abbozzata  opera,  intitolata  Die  Culturentwikelimg  Sud  —  Italiens  in  einzèln  Darstel- 
lungen,  Breslau,  Koebnér,  1886. 

•  I.  Carini,  Gli  Archivi  e  le  Biblioteche  di  Scagna  in  rapporto  alla  storia  d'Italia  z«  gene- 
rale e  della  Sicilia  in  particolare,  I,  Palerjno,  Tip.  dello  Statuto,  1884.  Il  Carini,  chiamato  dal- 
l'Archivio di  Stato  di  Palermo  alla  direzione  degli  archivi  vaticani,  non  potè  elaborare  gl'impor- 
tanti materiali  raccolti  nella  sua  non  lunga  missione  in  Ispagna. 

•  Notas  sobre  la  influencia  de  la  litteratìira  ital.  en  la  catalana,  in  Obras  compietas,  III,  499  sgg . 

*  Per  l'importanza  di  questa  raccolta,  cfr.  Cipolla,  in  Arch.  St,  it.,  disp.  3*  del  1909, 
pp.  167  sgg.  e  F.  ToRRACA,  in  Bull,  della  Soc.  dantesca,  voi.  17,  pp.  170  e  sgg.  Per  im  saggio  di 
quanto  si  può  ritrarre  da  essa  per  chiarire  nuovi  punti  di  storia  italiana,  cfr.  P.  Silva,  Già 
corno  II  e  la  Toscanu  (TJ07-T309),  estr.  ^TiWArch.  Stor.  it.,  disp.  3*  del   1913. 


398  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


rinchiusa  negli  archivi  di  Barcellona.  Al  che  si  può  aggiungere  che  gran  parte 
d^lla  storia  successiva,  mentre  si  delinea  e  si  svolge  il  grande  dramma  della 
civiltà  moderna,  giace  ignorata  negli  archivi  dell' Escuriale  e  di  Simancas.* 
Dai  primi  verrà  indubbiamente  molta  luce  sulle  nostre  magistrature  del  mare, 
che  paiono  continuare  nel  fitto  Medio  evo  la  gloria  della  legislazione  romana 
in  tutto  il  Mediterraneo;  con  l'aiuto  dei  secondi,  si  potrà  meglio  conoscere 
come,  diminuito  e  depresso  il  vecchio  regime  feudale,  d  sviluppassero  i  primi 
vasti  bagliori  di  coscienza  nazionale,  come  si  compiesse  la  lenta  e  faticosa 
ricostituzione  della  nostra  grande  tradizione  scientifica  e  letteraria.^ 


Ma,  dopo  queste  considerazioni,  facciamoci  a  dire  qualche  cosa  in  merito 
ai  risultati  che  ci  offrono  le  ricerche  ora  raccolte  e  pubblicate  dal  C.  Taluni 
critici,  o  troppo  benevoli  o  troppo  frettolosi,  hanno  voluto  riconoscere  nel 
volume  crociano  un  nuovo  fondamento^  per  una  più  benevola  valutazione 
del  Seicento,  per  via,  diremo  così,  di  contrapposizione,  ossia  sragionando  la 
Spagna  dalle  tante,  accuse  che  per  opera  di  artisti  e  letterati  le  si  addebitarono 
e  che  poi  furono  rese  popolarissime  dal  noto  romanzo  di  Alessandro  Manzoni. 
Invero  su  ben  altre  besi  dovrà  sorgere  e  sorgerà  la  cQsidetta  riabilitazione  del 
Seicento,  e  cioè  sur  un  esame  e  una  valutazione  intrinseca  dei  psegi  o  dei 
difetti  di  quell'età,  come  già  s'è  fatto,  con  grande  vantaggio,  per  la  storia  delle 
belle  arti.  Solo  dopo  si  potrà,  se  mai,  passare  allo  studio  dell'influsso  o  degli 
influssi  stranieri.  Il  decadimento  politico  non  reca,  come  necessaria  conse- 
guenza, l'annegamento  del  pensiero  e  delle  sue  varie  e  più  importanti  mani- 
festazioni ;  una  civiltà  robusta  e  vigorosa  può  coesistere,  anche  se  assoggettai» 
con  le  arniì,  di  fronte  a  un'altra  civiltà  spiritualmente  meno  viva  ed  intensa-, 

Per  fermarci  alla  materia  dei  densi  capitoli  crociani,  noteremo  che  la 
Spagna,  a  detta  del  C.  stesso,  negli  ultimi  del  '400  e  in  sui  primi  del  '500, 
non  recava  all'  Italia  nessun  germe  di  nuova  vita.  Come  nel  regime  politico- 
amministrati  Vo  l'invasione  pacifica  di  Alfonso  d'Aragona  portava  con  ȏ  un 
rincalzo  alla  feudalità  del  Regno  (p.  46),  cosi  nell'ordine  religioso  i  teologi, 
spagnuolì.  nel  Concilio  di  Firenze  e  più  tardi  nel  sacro  collegio  di  Calisto  lU, 
giungevano  quali  tardi  rappresentanti  di  condizioni  di  spirito  e  di  cultura  che 
In  Italia  andavano  tramontando  (p.  87).  E  si  comprende  la  vivace  depreca- 
zione umanistica  alla  invecchiata  forma  mentis  spagnuola  che  col  suo  ardore 


>  Non  mancano  lavori  di  storia  italiana,  i  cai  autori  abbiano  attinto  a  fonti  arcbivistiche  spa- 
gnuole:  ad  es.  G.  Dn  L»'VA,  Storia  doc.  dì  Carlo  V  in  correlazione  aW  Italia,  Venezia,  Narator- 
vjch,  1863-1894;  L,  Sr^KFKrTi,  La  congiura  del  Fiesco  e  la  corte  di  Toscana,  in  Atti  della  Soc. 
Lig.  di  St.  Patr.,  XXIII,  fase,  a",  Genova  1891;  I.  R^ulich,  Storia  di  Carlo  Emanueie  I  duca 
4i  Savoia,  Milano.  Hoepli,  1896.  Una  fonte  di  non  comune  importfinza  per  la  storia  d' Italia  ci  è 
rivelata  da  L  Skrrano,  Embajada  de  Esfiafia  cerca  la  S,  Sede,  I,  Indice  analitico  de  los  docm- 
mentos  del  siglo  XV,  Roma,  Imprenta  del  Instituto  Pio  IX,  1915,  e  da  Pou  v  Marti,  Embajada,  ecc.. 
Il,  Indice  analitico,  ecc.  del  sirIo  XVII,  Roma,  ibid.,  i^fj.  AI  Serrano  dobbiamo  pure  l'edizione 
^iliKentissima  della  Cprrispondencia  entre  Espafi^  y  la  Sqnta  Sede  durante  el  Pontificad»  de 
SJ*io  K,  Madrid,  1914. 


Note,  questioni  storiche^  ecc.  399 


Ifuerriero  e  religioso  tentava  trapiantarsi  sul  suolo  d'Italia,  riconsacrato  v\ 
classicismo  romano  nella  vita  e  nelle  manifestazioni  del  pensiero  (p.  108). 

Anche  più  tardi,  al  sopraggiungere  delle  armi   vittoriose  di  Ferdinando 
il  Cattolico  e  di  Carlo  V,   quando   il  predominio  spagnuolo  parve  riflettersi 
più  largamente  nella  vita   sociale  nostra,  la  letteratura   spagnuola   ebbe  in- 
fluenza assai  ristretta,  sia  perchè  non  aveva  tal  forza  da  soddisfare  nuovi  e 
grandi  bisogni  spirituali,  sia  perchè  non  offriva  prodotti  letterari  notevoli,  né 
Indicava  nuove  vie  per  la  produzione  di  nuove  opere  d'arte.  Mentre  1*  Itali» 
aveva  raggiunto  l'apogeo  intellettuale,  mal  poteva  prevalere  la  poesia  corti- 
gianesca provenzaleggiarne  dei  cancioneros,  l'osservazione  realistica  di  opere 
come  il  Lazzatillo   o  la   Celestina  ;   né  era  probabile  vi  fosse  notevolmen  te 
apprezzata  la  poesia  nazionale  delle  romances.  Potè  la  vita  in  apparenza    tra- 
sformarsi alla   spagnuola,  assumere   nuovi  modi  e  titoli   di   cortesia;    pote- 
rono la  lingua  e  lo  stile  arricchirsi  di   vocaboli  e  dì   atteggiamenti   nuovi; 
potè  aver  diffusione  certa  lirica  erotica  e  cortigiana;  taluni  Italiani  poterono 
anche  scrivere  versi  spagnuoli  ;  ma  i  fatti  della  vita  italo-spagnuola,  esami- 
nati con  molta  diligenza  dal  C,  non  oltrepassano  la  cerchia  del  documento 
storico  per  entrare  nella  sfera  laminosa  dell'arte.  L'arguto,  l'enfatico  e  l'am- 
pollòso,  proprio  della  vita  e  della  letteratura  spagnuoli,  fu  del  resto  cono^into 
e  denunziato  dagli   Italiani  contemporanei:   né.  giova   molto  l'osservazione 
del  C.  che  la  ragione  della  nostra  decadenza  sia  piuttosto   da  ricercare  in 
cause  interne,  ossia  nell'esaurimento  dei  vecchi  sentimenti  e  nella  mancanza 
di  nuovi:   la  Spagna,  anziché  rec.ire  all'Italia  la  materia  e  la   elaborazione 
di  nuove  forme  d'arte,  aiutò  l'efflorescenza  dei  difetti   formali  fiiio  a  che  si 
diede  a  (questi  v.alore  di  precetti  artistici.  Con  l'enfasi  e  la  pompa  del  costume 
e  degli  scritti,  con  l'appariscente  sfoggio  di  galanteria,  con  l'eccessiva  parte 
fatta  al  cerimoniale,  con  la  moda  ripristinata  dei  duèlli,  con  l'invasione  dello 
spirito  avventuroso  e  fanatico  dei  nuovi  Crociati  di  una  grande  Spagna,  l' Ita- 
lia doveva,  dopo  i  primi  contatti  d'affinità,  sentirsi  come  risospinta  a  ritroso 
del  suo  corso.    Perciò   ebbe   bene   a   notare  quello  spirito  bizzar/o  e  arguto 
di  Ortensio  Landò  che  le  galanterie,  le  pompe,  le  cerimonie,  le  raffinatezze, 
le  sottigliezze,  introdotte  dagli  Spagnuoli,  furono  quanto  efficaci  nel  costume 
di  certe  classi  sociali,  altrettanto  sterili  nella  vita  del  pensiero   e  dell'arte. 
E  Isidoro  Dsl  Lung^o  potè  asserire  che,  anche  negli  anni  peggiori  della  domi- 
nazione spagnuola,  rimase  intatto  e  valido  il  nostro  tesora  di  lingua,  nono- 
stante l'alterazione  e  la  deformazione  dello  stile.*  Il  cavaliere  brillante  e  valo- 
roso,  che  era  apparso  degno  di   ammirazione  agi'  Italiani  più  abituati  alle 
immagini  della. guerra  che  alla  vera  guerra,  fornì  ben  presto  uria  persona  di 
più  alla  commedia  dell'arte  e  tosto  fu  vólto  in  caricatura  il  racconto  esage- 
rato e  ridondante  delle  sue  avventure  :  dal  concetto  della  «  lentezza  »  e  «  gra- 
vità »  spagnuola  si  giungeva  al  concetto  della  loro  «  tardità  »  e  «  ostinatezza  ». 
Il  frequente  arrivo  di  milizie  spagnuole  in  Italia,  denominate,  scherzosamente 


*  I.  DSL  Lungo,  L'italianità  della  tingui  del  fio fiolo  nfq^li scrittori,  in  N.  Antologia,  16  giu- 
gno 1907,  p.  582  ;  I.  DEL  Lungo  e  V.  PaVaro,  La  prosa  del  Galilei  per  saggi  criticamente  disposti, 
Firenze,  Sansoni,  1911,  pp.  Vil-XII. 


400  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


Bisogni  dalla  pronta  arguzia  italiana,  i  feroci  saccheggi  in  tempo  di  guerra, 
le  dispersioni  spietate  degli  «  alloggi  »  in  tempo  di  pace  contribuirono  a  dare 
il  crollo  alla  buona  reputazione  militare  spagnuola,  ch'era  considerata  uno  dei 
principali  titoli  di  merito  della  Spagna  di  contro  alla  Francia. 

Così,  se  gli  Italiani  avevano  guardato  con  minor  sospetto  alle  milizie  di 
Ferdinando  il  Cattolico  che  non  alle  francesi  di  Carlo  Vili,  perchè  queste  si 
ritenevano  più  avide  ed  affamate,  essi  più  tardi  dovettero  riguardare  indifferen- 
temente alle  une  ed  alle  altre.'  Inoltre  non  erano  sfuggiti  alla  diplomazia  degli 
Stati  italiani,  nell'ultimo  venticinquennio  del  Quattrocento,  gli  scopi  aggressivi 
della  politica  di  Ferdinando  il  Cattolico,  anche  quando  nell'  Italia  meridionale 
regnava  il  ramo  degli  Aragonesi  di  Napoli.  È  vero  che  entriamo  nelle  que- 
stioni politiche,  che  il  C.  dice  alieno  dalle  sue  intenzioni  trattare  ;  ma  uno  studio 
più  complesso,  come  quello  da  lui  ideato,  non  può  astrarre  dal  divenire  poli- 
tico di  due  popoli  uniti,  nolenti  o  volenti,  appunto  da  speciali  condizioni 
politiche.  E  da  tale  studio  non  può  non  venir  maggior  luce  anche  su  que- 
stioni puramente  letterarie,  come  quella  dibattutissinia  tra  secentismo  e  spa- 
gnolismo. Opere  letterarie  di  non  comune  valore  furono  infatti  scritte  da 
uomini,  che  parteciparono  attivamente  all'azione  politica:  basti  ricordare  Ma- 
chiavelli, Guicciardini,  Castiglione,  giù  giù  fino  a  Fulvio  Testi  ;  e,  per  non 
«scìr  dalla  Spagna,  Garcilasso  de  la  Vega  e  Diego   Hurtadó  de   Mendoza. 

Così,  se  dai  documenti  letterari  può  apparire  che  l'ammirazione  italiana 
per  i  sovrani  spagnuoli,  che  infrangevano  T  ultimo  propugnacolo  moresco  in 
Occidelite,  fosse  incondizionata,  scevra  di  timori  e  di  sospetti  «  e  per  così 
dire  sentimentale  e  poetica  »,  dai  documenti  diplomatici  e  propriamente  sto- 
rici, confortati  dall'autorità  del  bene  informato  (purità,  risulta  che  gì'  Italiani 
seguivano  attentamente  la  politica  con  là  quale  re  Ferdinando,  pur  non  disto^ 
gliendo  gli  occhi  dalla  lotta  nazionale,  si  immischiava  nelle  cose  d' Italia, 
dalla  congiura  dei  baroni  alla  calata  di  Carlo  VIII,  alla  perfida  preparazione 
degli  accordi  che  dovevano  trarre  a  rovina  gli  Aragonesi  di  Napoli.*  I  dispacci 
del  Gherardi,  editi  non  molto  tempo  addietro  da  Enrico  Carusi,^  e  i  lavori,  sìa 
pure  insuftìcienti  e  lacunosi,  del  Calmette*  non  lasciano  dubbi  in  proposito. 


*  Rimasero  celebri  le  parole  attribuite  ad  Alfonso  I  d'Este,  mentre  alla  battaglia  di  Ravenna 
(il  aprile  191 2)  le  sue  artiglierie  tiravano  contemporaneamente  sugli  Spagnuoli  nemici  e  sui  Fran- 
cesi alleati:  «Traete  pure,  perchè  sono  tutti  inimici!»  (Fra  Giuliano  Ughi,  va.  Arch.  Stor.  It., 
I*  Serie,  VII,  App.,  p.  125). 

«  Si  potrebbe  anzi  affermare  che  l'opera  storica  dello  (,!urita  {Historia  del  Rey  Don  Her- 
mando  el  CathoUco  de  las  empresas  y  ligas  de  Italia,  V,  ^aragoca,  1610)  è  negli  intenti  e  nelle 
forme  un  solenne  documento  delle  tendenze  sopraffatrici  e  imperialistiche  della  Spagna.  Cfr.  special- 
mente i  fogli  23-26  ;  33-34  e  sgg.  Né  sarà  inutile  ricordare  che  lo  (J^urita,  nominato  da  Filippo  li 
raccoglitore  delle  memorie  utili  alla  storia  spagnuola,  mostra  di  conoscere  molto  bene  lo  sviluppo 
degli  avvenimenti. 

»  E.  Carusi,  Dispacci  e  lettere  di  Giacomo  Gherardi  (ri  sett.  1487-10  ottobre  1490),  Roma, 
Tip.  Poliglotta  Vaticana,  1909,  pp.  LXXV,  64,  66,  70,  71  sgg.  Molti  documenti  si  possono  tro- 
vare nel  Codice  Aragonese  edito  dal  Trinchhra,  nella  preziosa  rAccoltSi  Regis  Ferdinandi  Primi 
Instructionum  Liber  (io  maggio  1486-10  maggio  /^<S<J)  testé  edito  da  L.  Volpicella  (Napoli,  Pierre, 
MCMXVI)  e  negli  studi  speciali  del  Piva,  dell'EGior,  del  Fossati,  del  Dki-abordb,  del  Secre, 
del  Pelissirr  e  di  altri  ancora. 

*  J.  Calmbtte,  La  potitique  espagnole  dans  la  guerre  de  Ferrara  Ì14S2-1484),  in  Rcvue  kisto- 
^ique,  a.  1906,  pp.  225  sgg.  (cfr.  le  osservazioni  di  R.  Ckssi  in  A'.  Arch.  Ven.,  N.  S.,  XIII,  pp.  189-191 


Note^  questioni  storiche,  ecc.  401 


La  cronaca  del  Malipiero  mostra  inoltre  che  il  senato  veneziano,  richiamato 
ripetutamente  con  mal  celata  minaccia  dal  governo  spagnuolo,*  pensava  ben 
altrimenti  di  come  opina  il  C.  che,  «  se  pericoli  si  presagivano  dal  di  fuori 
air  Italia,  era  forse  dalla  banda  di  Francia,  non  certo  da  quella  di  Spagna  ». 
Né  ha,  parmi,  maggior  fondamento  l'altra  osservazione  del  C.  che  i  sospetti 
non  potevano  esistere  «  per  la  più  lontana  grandezza  di  Ferdinando  e  d' Isa- 
bella »  :  un  secolo  più  tardi  gli  Italiani  non  dubitarono  di  ricorrere  alla  più 
Mficina  potenza  di  Enrico  IV  e  di  Luigi  XIII  contro  la  più  lontana  e  gravosa 
?)otenza<di  Filippo  II  e  Filippo  IV. 


Nella  conclusione  il  C.  ha  cercato  di  condensare  il  suo  giudizio  sul  vario 
t  molteplice  influsso  spagnuolo  in  Italia  anche  oltre  la  Rinascenza,  esten- 
dendo le  sue  considerazioni  a  più  larga  sfera  che  non  fosse  quella  compresa 
aei  capitoli  precedenti.  È  qui  affrontato  per  la  prima  volta  il  vasto  problema 
di  oltre  un  secolo  e  mezzo  della  nostra  storia,  e,  conseguentemente,  non  si  ha 
?a  conclusione  degli  studi  che  attualmente  il  C.  pubblica,  ma  di  quelli  che 
originariamente  il  C.  si  era  proposti  di  fare.  Ma  quattordici  pagine  son  forse 
poche  per  racchiudere  tante  e  così  complesse  soluzioni. 

Anzitutto  ottima  è  l'opinione  che  non  si  debba  giudicare  di  quei  tempi 
col  sentimento  della  nuova  coscienza  italiana,  ma  ascoltando  direttamente  le 
voci  degl'  Italiani  della  Rinascenza  e  dei  secoli  immediatamente  successivi.  Ma, 
se  si  esaminano  in  ispecie  le  testimonianze  dei  letterati  della  Rinascenza,  non 
si  deve  generalizzare  il  giudizio  ad  altre  manifestazioni  dello  spirito.  Le  mani- 
festazioni letterarie,  ove  non  attingano  un'ahezza  sovrana  sì  da  appartenere  al 
patrimonio  artistico  di  tutti  i  tempi,  rappresentano  sempre  un  ciclo  chiuso  e 
sorpassato,  che  non  è  difficile  comprendere  e  valutare  nel  suo  insieme  e  nei  suoi 
elementi.  Così  a  ragione  il  C.  combatte  il  luogo  comune  di  una  Spagna  «  fonte  di 
nequizia  e  corruttrice  di  un'Italia  incorrotta  »,  essendo  logicamente  assurdo 
che  possa  esercitarsi  un  influsso  «  dove  non  c'è  animo  disposto  ad  accoglierlo 
ed  elaborarlo  e  a  rinviarlo  a  sua  volta  potenziato  e  più  o  meno  profondamente 
modifìcato  ».  Anziché  accettare  ancora  una  volta  senza  discussioni  l' immagine 
di  un'  Italia  traviata  dal  suo  cammino  ora  da  questa  ora  da  quell'altra  forza, 
è  molto  più  serio,  equo  e  dignitoso  studiare  coraggiosamente  e  spassionata- 
mente ogni  epoca,  più  o  meno  illustre  e  gloriosa,  nei  propri  pregi  e  difetti,  e 
ricercare  anzitutto  nelle  sue  condizioni  il  motivo  della  sua  prosperità  o  della  sua 
decadenza.  La  fibra  italiana,  cosi  salda  e  robusta  nell'epoca  comunale,  cre- 
sciuta a  maravigliosa  splendidezza  su  d'un  innesto  improprio,  come  quello 
della  imitazione  classica,  doveva  necessariamente  volgere  a  precqce  intristi- 
mento  anche  senza  P  influenza  spagnuola.  E  gli  spiriti  classici  predominano 


e  di  P.  F(edble)  in  Arch.  d.  R.  Soc.  rotn.  di  Si.  Patr.,  a.  1913,  pp.  345-346);  La  politique  espa- 
gttoU  dans  t affaire  des  barons  napolitaim  (1485-1492),  ibid.,  pp.  225-246.  Mediocre,  ma  utile,  è  il 
lavoretto  di  L.  Volpicella,  Federico  d' Aragona,  Napoli,  1908,  pp.  13  e  sgg. 
»  Annali  Veneti  in  Arch.  star,  it.,  VII,  PP.  467,  473,  478. 

26  —  Nuova  Rivinta  Storica. 


402  •  Note,  questioni  storUhet  ecc. 


ancora  in  tutto  il  secentismo  letterario  ed  artistico,  mentre  il  quetismo,  it 
misticismo,  la  nuova  scolastica  del  Suarec  e  dei  Mariana,  la  casistica  dei  Me- 
dina e  degli  Escobar  pervadono  la  Spagna.  La  Gerusalemme  liberata  di  Tor- 
quato Tasso  è  forse  T  ultima  eco  dello  spirito  religioso,  che  assorbì  l'estreme 
energie  della  monarchia  di  Fih'ppo  K  ed  ebbe  nuovo  rinvigorimento  dalla 
Controriforma  e  dal  pericolo  turco  rifattosi  minaccioso.  Magli  Italiani  ammi- 
rarono nel  poema,  più  che  le  azioni  eroiche  dei  Crociati,  la  dolce  musicalità 
dell'autore  dell'Aminta,  e  non  vollero  leggere  la  più  austera  e  contegnosa 
Gerusalemme  conquistata.  È  ancora  una  riprova  che  l'ortodossia  italiana  dif- 
feriva assai,  per  serenità  ed  equilibrio,  da  quella  spagnuola,  e  spiega,  a  pre- 
scindere da  altri  argomenti,  come  da  noi  poco  fossero  seguite  le  grandiose 
imprese  politiche  e  religiose  della  Spagna. 

Nei  campo  più  strettamente  politico  il  giudizio  è  più  arduo,  poiché,  non 
essendo  forse  ancora  chiuso  il  ciclo  aperto  dalla  dominazione  spagnuola  ip 
Italia,  difficilmente  possiamo  spogliarci  della  nostra  qualità  di  uomini  moderni 
e  sottrarci  ai  vincoli  che  per  qualche  parte  legano  ancora  quel  passato  at 
nostro  presente.  Per  certo,  quando  si  afferma  che  la  Spagna  recò  all'Italia 
già  stanca  dall'immane  efflorescenza  del  Rinascimento,  i  suoi  spiriti  militari 
e  feudali,  la  sua  incapacità  a  svolgere  nuove  correnti  di  pensiero,  le  sne 
qualità  negative  di  iìronte  ai  problemi  industriali  e  commerciali,  che  formano 
il  travaglio  e  l'ansia  dell'età  nostra,  se  si  è  detto  assai,  molto  è  ancora  da 
aggiungere  ;  ed  a  ragione  il  C.  insorge  contro  coloro  che  si  erigono  a  faciii 
giustizieri  con  quadri  a  forti  e  cupe  tinte,  tutti  ingombri  di  caratteristiche 
negative  e  di  elementi  estrinseci  che  facilmente  inducono  alla  condanna.  Ma, 
anche  ad  accogliere  quel  tanto  di  positivo  offertoci  dal  C,  occorre  procedere 
con  molta  cautela.  Dopo  aver  detto  che  quella  spagnuola  era  una  decadenza 
che  s'attaccava  a  un'altra  decadenza  (l'italiana),  il  C.  soggiunge:  «E  poiché 
r  Italia,  per  note  ragioni,  non  potè  allora  costituirsi  in  istato  unitario  nazio- 
nale ;  poiché  le  mutate  condizioni  di  Europa  non  le  permettevano  di  conti- 
nuare a  vivere  come  nel  Trecento  e  Quattrocento  ;  poiché  era  pur  necessario 
che  in  qualche  modo  uscisse  dal  municipalismo  del  tardo  Medio  evo  e  si 
venisse  plasmando  sulla  forma  delle  monarchie  moderne  ;  il  dominio  della 
Spagna  fu  per  lei,  allora,  il  maggior  bene  o  il  minor  male  che  si  voglia  dire. 
La  Spagna  cominciò  a  raccoglierne  gli  Stati  in  grandi  masse  ;  la  Spagna  ne 
ordinò  in  qualche  misura  le  forze  e  concorse  con  le  sue  milizie  a  difenderla 
contro  il  perìcolo  turco;  la  Spagna  represse  l'anarchia  della  vita  italiana, 
gettò  giù  i  turbolenti  baroni  e  signorotti  che  non  conoscevano  se  non  gì*  in  - 
teressi  delle  loro  case  ;  e  col  suo  dominio,  con  la  sua  egemonia,  perfino,  con 
le  opposizioni  che  suscitò,  venne  formando  o  preparando  negli  Italiani  certi 
sensi  di  devozione  al  Re  e  allo  Stato,  che  non  furono  privi  di  effetto  pel 
futuro  svolgimento  civile  e  politico.  Italiani  furono  e  all'  Italia  pur  servirono 
quei  tanti  Italiani  che  servirono  il  governo  spagnuolo  e  sparsero  il  loro  sangue 
«u  tutti  i  campi  d'Europa  e  si  stimavano  cosi,  non  traditori,  ma  fedeli  alla 
lora  patria  ».  Còhie  si  vede,  è  un  magro  bilancio  di  un  secolo  e  mez^o  dj 
storia,  e  non  molto  lusinghiero  per  colpro  che  si  attendevano  dal  C.  una 
specie  di  riabilitazione  della  dominazione  spagnuola  in  Italia,  i  quali  inoltre 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  405 


possono  ritrovare  parte  di  questi  elementi,  certamente  jion  -  individuati  e 
definiti  con  tanta  chiarezza  e  precisione,  nello  scritto  di  uno  dei  più  severi  e 
spietati  giudici  della  dominazione  spagnuola  in  Italia.'  E  pure  su  questi  scarsi 
elementi  positivi  bisogna  fare  altre  limitazioni.  In  centocinquant*anni  seg^e 
necessariamente,  anche  nel  migliore  dei  domini,  un  lento  e  fatale  mutamento  : 
^li  elementi  primitivi  si  sviluppano,  raggiungono  la  loro  maturità  e  si  scom- 
pongono, integrandosi  con  elementi  nuovi  sopravvenienti.  Così,  a  proposito 
del  lungo  periodo  considerato  nel  giudizio  del  C,  occorrerà  distinguere  un 
prima  e  un  poi.  Che  ai  primi  del  Cinquecento  la  Spagna  avesse  saputo  e 
potuto  prevalere  in  Italia,  e  avesse  saputo  progredire  dal  sud  al  nord  con 
forza  irrestisibile,  inquadrando  forze,  accaparrando  la**nobiltà,  trascinando  1^ 
masse  nella  sua  spinta,  concedendo  il  maggior  numero  di  cariche  e  di  Stati 
agli  Italiani  eminenti  per  tenerseli  soggetti,  offrendo  indistintamente  e  a 
ognuno  la  gloria  sugli  stessi  campi  di  battaglia,  nessuno  vorrà  disconoscere. 
Mia  chi  pensi  all'Italia,  quale  venne  in  dominio  della  Spagna,  ancora  composta 
nelle  sue  larghe  autonomie,  e  confronti  tali  condizioni  con  quelle  dell'età 
delle  gride,  dei  bravi,  dell'insicurezza  pubblica,  dell'inerzia  amministrativa 
non>  sottoscriverà  incondizionatamente  alle  citate  conclusioni  crociane. 

Parimenti  chi  ricordi,  quando  tutto  era  in  mano  agli  Spagnuoli  e  la  vec- 
chia amministrazione  comunale  e  feudale  si  decomponeva  senza  dar  luogo 
a  una  nuova,  gli  sforzi  incessanti  degli  Stati  italiani  per  sostenersi  contro  la 
fhultiforme  invadenza  spagnuola,  non  accetterà  senza  riserve  l'altra  afferma- 
zione del  C.  che  la  Spagna  abbia  riordinato  in  grandi  masse  gli  Stati  ita- 
liani, se  si  eccettui  l'atto  iniziale  della  conquista;  che  anzi  potrebbe  dirsi  che 
essa,  con  la  pericolosa  e  insìdiatrice  politica,  costrinse  gli  Stati  italiani  super- 
stiti a  una  fiera  lotta  per  l'esistenza;  e  soltanto  con  miracoli  di  astuzia,  di 
diplomazia  e  di  abilità  potè  continuarsi  una  tradizione  statale  italiana  e  ini- 
^arsi  una  politica  di  accentramento,  che,  in  opposizione  alla  Spagna,  assorbì 
a  poco  a  poco  i  piccoli  Stati  entro  i  maggiori. 

Basta  richiamare  alla  memoria  \  tentativi  dei  principi  sabaudi  per  Mas- 
Serano  e  il  Finale  ;  degli  Estensi  per  la  Garfagnana,  Mirandola  e  Correggio  ; 
dei  Medici  per  Piombino;  della  Chiesa  per  Ferrara  e  Urbino.  Così  si  deve 
giudicare  la  difesa  recata  all'Italia  dalle  navi  spagnuole  contro  il  Turco 
come  pura  azione  di  polizia,  essendo  noto  che  proprio  la  defezione  della 
Spagna,  in  costante  e  inesorabile  dissidio  con  Venezia,  considerata  fin  dai 
primi  del  secolo  XVI  propugnacolo  delle  libertà  italiche,  impedi  che  si 
COgliessero  i  frutti  delle  due  maggiori  vittorie  della  cristianità  contro  il  Turco, 
alla  Prevesa  e  a  Lepanto.  E  finalmente,  se  i  principi  italiani  accorsero  a 
Madrid,  e  si  distinsero  su  tutti  i  campi  di  battaglia  d'Europa  ove  la  Spagna 
era  impegnata  a  sostenere  il  suo  gigantesco  sforzo  di  egemonia  politico-reli- 
giosa (nel  Seicento  però  il  centro  della  gravità  della  lotta,  contro  il  protestan- 
tesimo a  nord  e  contro  gli  Ottomani  a  sud,  passa  agli  Asburgo  di  Vienna), 
«^i,  «alvo  in  parte  i  cadetti,  erano  guidati,  più  che  da  ambizione  di  onori  e  d| 


»  F.  P.  Cestaro,  Le  rivoluzioni  na^Ietane  nei  secati  X^f  e  XVII,  in  Rivista  Europea,  9et- 
ismbre-ottobre  1878  «  poi  in  stu(ii  Slot  tei  ^t.le/taran\  L,.  Rotuf,  Tpr4QÒ*Rom«,^8^4,  pp,  35;  58-56;  71. 


404  Note»  questioni  stoìichc,  ecc. 


paesi  stranieri,  dalla  speranza  d'ingrandire  i  propri  Stati  in  Italia.  E  molti 
di  essi  rifiutarono  di  cambiare  i  loro  ristretti  domini  con  il  governo  di  vasti 
e  ricchi  territori  fuori  d' Italia,  e,  se  permisero  che  le  loro  figlie  e  sorelle 
andassero  a  cingere  le  corone  di  Francia,  Spagna  e  Austria,  raramente  le 
concessero  spose  ai  grandi  principi  d'Oltralpe.' 

Più  che  a  veri  o  a  presunti  benefici  della  dominazione  spaguola  in  Italia, 
che  furono,  se  mai,  iniziali  e  appunto  per  ciò  assai  limitati,  occorre  dunque 
ammettere  una  tenace  e  persistente  fiamma  di  italianità  che  .talora  appare 
sopita,  ma  poi  spesso  balza  vivida  e.  forte.  Non  può  indubbiamente  disco- 
noscersi il  valore  del  grido  «  Per  la  libertà  d' Italia  »,  che  echeggia  per  un 
secolo  e  mezzo  da  una  parte  all'altra  d' Italia  ;  che  guida  il  moto  italiano 
del  1526;  che  illumina  di  gloria  'gli  ultimi  giorni  della  libertà  di  Firenze  e  di 
Siena  ;  che  muove  le  congiure  del  1547  \  che  anima  la  lotta  di  Paolo  IV 
Caraffa  ;  che  sostiene  Carlo  Emanuele  contro  gli  Spagnuoli  e  Venezia  contro 
le  armi  e  le  insidie  degli  Uscocchi  della  Spagna  ;  che  dà  anima  e  vita  a  quella 
serie  di  movimenti  antispagnuoli,  che  vanno  dalla  lega  di  Avignone  (1623) 
alla  guerra  per  la  successione  di  Mantova  (1627-1631)  fino  ai  tentativi  napo- 
letani-del  Pignatelli,  dell'AnielIo  e  dell'Annese,  per  i  quali  poco  mancò  che 
fin  d'allora  il  Regno  delle  due  Sicilie  venisse  in  signoria  di  uno  dei  prin- 
cipi Sabaudi.* 

E  qui  cade  in  acconcio  rilevare,  almenp  per  ora  fugacemente,  un  fatto 
poro  conosciuto  e  valutato,  che  però  giova  forse  a  lumeggiare  in  modo  nuovo 
e  inatteso  la  forza  delle  più  riposte  energie  italiche  di  fronte  alla  Spagna. 
Nella  lotta  secolare  dibattutasi  tra  la  Francia  e  la  Spagna  per  l'egemonia 
europea,  aperta  da  Francesco  I  e  Carlo  V,  sopita  durante  le  Guerre  di  reli- 
gione, ripresa  dai  potenti  ministri  Olivares  e  Richelieu,  l'atteggiamento  indif- 
ferente e  piuttosto  ostile  dell'Italia  ebbe  non  poca  parte  nel  tramonto  dei 
sogni  mondiali  degli  Asburgo  spagnuoli  e  austraci.  E,  se  gl'Italiani  ai  primi 
del  Cinquecento  salutarono  negli  Spagnuoli  i  degni  successori  della  Crociata 
antiottomana,  non  riconobbero  loro  per  certo,  dopo  il  concilio  di  Trento  e 
consenziente  il  papato,  la  tutela  e  la  diffusione  del  nuovo  programma  della 
Controriforma.  Anche  le  relazioni  religiose  si  fecero  più  tese:  nella  seconda 
metà  del  Quattrocento  abbiamo  due  papi  spagnuoli  ;  nel  Cinquecento  non  v'ha 
che  Adriano  VI,  il  fiammingo  precettore  di  Carlo  V  ;  nel  Seicento,  l' in- 
fluenza spagnuola  nel  sacro  collegio  è  -in  decisa  decadenza.  Tale  decadenza 
dell'influenza  spagnuola  alla  Corte  di  Roma  è  manifestata  da  cifre  significative: 


Qualche  sviluppo  di  quanto  è  qni  per  necessità  soltanto  accennato  si  può  trovare  altrove  : 
i  fr.  Disegni  di  Cristina  Alessandra  di  Svezia  per  un*  impresa  cóntro  il  regno  di  Napoli,  in  Arch. 
della  R.  Soc.  rom.  di  SI.  Patr.,  XXXII  (1900),  pp.  108  sgg.  ;  Due  mesi  a  Roma  nel  1627,  Ibid., 
XXXIV  (1911),  pp.  430-431,  440-445;  La  politica  veneta  contro  gli  Uscocchi,  ecc.  in  A^  Afch. 
Veneto,  N.  S.,  voi.  XVII  (1909),  P.«  II;  Relazioni  italo-sbagnuole  nel  secolo  XVII,  estr.  dal- 
l'are*. Stor.  it.  (1913),  pp.  30-33.  39-40. 

•  Cfr.,  oltre  i  noti  lavori  di  G.  Rua,  Per  la  liòertà  d' Italia,  Torino,  1905;  Letteratura  civile 
italiana  del  Seicento,  Roma-Milano,  19 io,  e  la  recentissima  e  concettosa  memoria  di  M.  Schipa 
Ideali  d'indipendenza  e  partiti  politici  napoletani  nel  Seicento,  cstr.  dagli  Atti  R.  Acc.  d'Archiol. 
lettere.  Belle  Arti  di  Napoli,  N.  S.,  voi.  VI,  1917- 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  405 


durante  il  regno  di  Filippo  li  ben  trentadue  legati  e  nunzi  papjiH  giunsero 
4lla  Corte  spagnuola,  dodici  nel  secolo  XVIH  e  solamente  quattro  in  tutto 
jl  secolo  XIII.*  I  pontificati  di  Sisto  V  e  di  Clemente  Vili  sono  vere  e  proprie- 
tragedie,  osando  la  loro  politica  sostenere  le  sorti  vacillanti  della  Francia, 
percorsa  da  fremiti  e  da  discordie  civili  e  religiose,  contro  le  astute  mire  del 
colosso  iberico  ammantato  nella  veste  della  ortodossia.  Il  quale  atteggia- 
mento, chi  ben  consideri  la  straordinaria  importanza,  di  cui  godeva  il  papato 
in  questi  tempi,  è  indizio  di  coraggiosa  previdenza  ed  ebbe  forse  importanza 
Mon  piccola  nel  far  fallire  i  sogni  di  egemonia  mondiale  accarezzati  dagli 
Asburgo  di  Austria  e  di  Spagna  per  oltre  un  secolo,  culminanti  nella  Guerra 
dei  trent'anni,  e  nel  conservare  l'Europa  alla  passione  dei  grandi  conHitti  di 
Nazionalità,  che  ci  auguriamo  traggano  dall'attuale  guerra  la  suprema  sanzione. 

Considerata  entro  quest'ordine  d'idee,  la  letteratura  antispagnuola  d'Ita- 
lia non  appare  più  manifestazione  generica  o  semplicemente  retorica,  ne 
l'opera  così  fieramente  antispagnuola  di  Traiano  Boccalini, 'bollato  da  Lope 
de  Vega  «  ó  baca  del  infierno  »,  sembrerà  così  singolare  e  irragionevole,  comt 
secondo  il  C.  appariva  allora.  Né  si  po^rà  concepire  l'incessante  susseguirsi 
delle  ribellioni  come  semplici  manifestazioni  antifiscali  e  dirette  indifferente- 
mente tanto  contro  la  nobiltà  indigena  quanto  contro  il  governo  dei  viceré  e  dei 
governatori.  Né  tutti  consentiranno  infine  nell'asserzione  del  C.  «che  un  vero 
odio  nazionale  contro  la  Spagna  e  gli  Spagnuoli  non  ci  fu  mai  in  Italia  du- 
rante quel  secolo  e  mezzo,  e  sta  di  fatto  che  la  loro  potenza  cadde  e  disparv'r 
per  cagioni  non  già  nazionali  ma  Jnternazionali  ».  Che  se,  nella  lotta  per  l'esi- 
stenza, i  principi  italiani  non  trovarono  la  forza  morale  di  riunirsi  e  uscire 
da  un'azione  prevalentemente  negativa  per  iscuotere,  come  i  Paesi  Bassi,  il 
giogo  oppressore,  i  tentativi  diplomatici  non  cessarono  mai  e  giunsero  spesso 
fin  sulla  soglia  dell'azione.  Disconoscere  tutto  questo  lavorìo  intenso,  e  talora 
fervido,  sebbene  poco  appariscente  e  finora  poco  avvertito,  che  si  riscontra  a 
volta  a  volta  nelle  varie  parti  della  penisola,  è  forse  tanto  ingiusto  quanto 
negare  il  persistente  sentimento  patrio  dei  Polacchi  perchè  incapaci  di  scuo- 
tere per  forza  propria  il  pesante  dominio  della  Germania,  dell'Austria  e  della 
Russia.* 

Meglio  dunque  riprendere  un  altro  concetto  del  C.  e  dire  che  come  la 
dominazione  diretta  e  indiretta  dell'Austria  in  Italia  dopo  il  1S15  affratellò 
io  qualche  modo  tutti  gì'  Italiani  tormentati  dagli  stessi  mali  e  spinti  a  cer- 
care una  sola  bandiera,  così,  fatta  la  differenza  dei  tempi,  la  dominazione 
Rpagnuola,  con  il  suo  vasto  organismo  statale,  con  la  coordinazione  e  la  tenacia 
de*  suoi  sforzi,  con  l'insieme  delle  sue  leggi,  col  duro  orgoglio  di  razza, 
ch'essa  ci  fece  provare,  ingenerò  negli  Italiani,  direttamente  o  per  reazione, 
un  più  vivo  senso  di  conservazione,  una  più  gelosa  cura  del  proprio  passato 


»  R.  De  Hinojosa,  Los  Jespacftos  de  la  diptomacia  pontificia  en  Espana,  Madrid.  A.  de  Ih 
Voeiite,  I,  1894,  p.  423. 

•  Anche  il  Farinelli  yop.  cit.,  pp.  300-302)  conchiiide  le  sue  eruditissime  Note,  le  quaii  met- 
tono la  trattazione  del  Croce  al  corrente  degli  sludi  attuali,  dicendo  che  occorrerà  ancora  «  un 
attento  e  minuto  esame  di  questo  coraplesslssimo  fenomeno  di  cultura  e  di  vita  ».  Grazie  però  alle 
Ikeaemereuze  dei  due  valentuomini,   le  difScoUà   di   un  tale   esame   sono   notevolmente   ridotte, 


^o6  Noie f  questioni  storiche,  ecc. 


(è  il  secolo  della  istituzione  degli  archivi,  delle  raccolte  dei  musei  e  delle 
gallerie,  dell'erudizione  ancora  informe  ma  ricca  e  copiosa),  un  rudimentale 
bisogno  di  uscire  dall'abiettezza  è  di  slanciarsi  nel  campo  dell'azione.  L'equi- 
librio delicatissimo  e  l' importanza  politica  degli  Stati  della  penisola  era  vigi- 
lata>  apprezzato  più  di  quanto  comunemente  non  si  creda;  né  l'Italia  fn 
assolutamente  estranea  alla  politica  internazionale.  Italiano  fu  Emanuele  Fili- 
berto, che  sui  campi  di  S.  Quintino  sanzionò  un  secolo  e  mezzo  di  storÌK 
europea  ;  italiani,  Alessandro  Farnese  e  Ambrogio  Spinola,  i  più  illustri  generali 
di  Filippo  H  ;  italiano,  il  cardinal  Mazzarino,  che  condusse  a  glorioso  termine 
la  riscossa  antispagnuola  iniziata  in  Francia  dal  Richelieu  ;  italiano,  Vittorio 
Amecfeo  li,  che  dalla  sconfitta  decisiva  della  Spagna  in  Italia  riportava  come 
spoglia  onorata  la  Sicilia,  il  più  antico  possesso  spagnuolo.  E  unitamente  alla 
tradizione  guerriera  e  diplomatica  i  geni  del  pensiero,  Bruno,  Telesio,  Cam- 
panella. Galilei  serbavano  nell'  Italia  propizi  i  tempi  per  i  nuovi  destini. 

Queste  osservazioni  non  intendono  menomare  il  predio  del  ricco  e  sug- 
gestivo volume  crociano,  il  quMe  è  comunque  un  tentativo  notevole  di  col- 
locare l'Italia  nella  politica- generale  delle  nazioni,  quando  il  nostro  popolo, 
dopo  11  mirabile  sforzo  dei  Comuni  e  del  Rinascimento,  potè  sembrare  as- 
sente dall'Europa  é  dalla  storia  come  forza  autonoma  e  decisiva.  Una  futura 
edizione  si  avvantaggerà  anche  d'assai,  se  conterrà  una  compiuta  rassegna 
degli  spagnolismi  rimasti  nelle  varie  regioni  d*  Italia  :  essi  rappresentano 
forse  le  più  genuine  ed  efficaci  testimonianze  della  vera  e  ancor  oggi  dure 
vole  influenza  spagnuola  in  Italia.  Il  Croce  già  vi  ha  accennato  (£«  lirrffUA. 
spagnuola,  pp.  55-58;*  e  saprebbe  comporla  da  pari   suo. 


Paolo  Nrgri. 


# 


Al  <V 


aiacomo  Burckhardt  (25  maggio  1318-8  agosto  1897). 

Le  farmacie  da  villaggio,  quali,  pur  troppo,  Sono  stati  ridotti  la  maggiot 
parte  dei  nostri  circoli  di  studii  storici  e  filologici,  non  si  sono  accorti  che 
in  questi  giorni  è  ricorso  (ed  è  stato  celebrato)  il  centenario  di  uno  tra  i 
più  grandi  e  puri  spiriti  che  siano  passati  nel  cielo  della  storia  dell'uma 
nità:  Giacomo  Burckhardt.  Se,  invece  di  essere  un  libero  cittadino  della  pic- 
cola Elvezia  (egli  nacque  a  Basilea  il  25  maggio  1818),  fosse  stato  un  sud 
dito  della  grande  Germania  ;  se,  in  luogo  di  avere  Scritto  le  nobili  cose  che 
scrisse,  egli  avesse  compilato  una  qualche  «  edizione  critica  »  di  Lucano  o  di 
Asconio,  o  avesse  discusso  o  ridiscusso  sui  Fasti  consolari  romani,  il  suo  nome 
comparirebbe  og^i-^iei  Bollettini  e  nei  Rendiconti  delle  nostre  Accademie. 
Ma  Giacomo  Burckhardt  fu  qualcosa  di  più  alto.  Egli  fu  anzi  tutto  un 
grande  amatore  dell'  Italia  della  Rinascenza,  di  questa  Seconda  fase  della  vita 
di  nostra  gente,  in  cui  per  la  prima  volta,  dopo  l'evo  antico,  si  realizzò  \\ 
perfetto  ideale  greco-latino  di  bellezza  e  di  saggezza  —  fusione  mirabile  di  ri- 


Noigf  questioni  storiche,  ecc.  407 


iHessione  filosofica,  di  senso  d'arte,  di  senso  storico  — ,  che  fino  a  ieri  costituì 
l'elemento  fondamentale  della  civiltà  moderna.  Quanti  di  noi  non  rammen- 
tano di  aver  bevuto  alla  coppa  della  sua  Civiltà  della  Rinascenza  in  Italia 
l'incantesimo  di  quella  meravigliosa  vita  spirituale,  anzi  di  essersi  rifugiati 
1(1  quelle  pagine,  convulsi  di  nostalgia  e  di  passione,  allorché  alla  nostra 
ignara  giovinezza  si  inculcava  —  more  teutonico  —  il  concetto  che  lettera- 
tura deve  essere  soltanto  studio  di  codici,  di  lezioni,  di  varianti! 

Haec  est  Italia  Diis  sacra!  E  dell'Italia  della  Rinascenza,  dell'Italia  dei 
secoli  XV-XVI,  Giacomo  Burckhardt  accolse  in  sé  gli  elementi  migliori. 
Egli  fu  veramente,  come  erano  gli  uomini  allora,  uno  spìrito  cosmopolita, 
«no  spirito,  per  cui  al  di  sopra  delle  piccole  contingenze  materiali  della  cro- 
naca e  della  politica,  esistono,  devono  esistere  e  valere  la  contemplazione  del 
bello,  il  libero  gioco  dei  fantasmi  della  propria  mente.  E  il  bello  è  solo  nel  pas- 
sato ;  il  vero  è  solo  nella  potenza  creatrice  dello  spirito  !  Cosi  questo  classico, 
«amatore  e  suscitatore  della  classicità,  fu  un'anima  assai  vicina  ai  romantici 
della  vecchia  Germania,  a  Goethe,  a  Schiller,  a  Schelling,  a  Winckelmann, 
a  Wagner,  a  re  Luigi  di  Baviera.  Egli  fu  cittadino  del  mondo,  e  non  scaldò 
nel  suo  cuore  struggitrici  passioni  politiche  o  volgari  vanità  nazionalistiche. 
Per  lui,  in  pieno  secolo  XIX,  la  grande  GermaniSi  era  sempre  la  vecchia 
Germania,  la  Germania  dalle  cattedrali  gotiche,  dalle  cittadine  malinconiche 
e  superbe,  dai  castelli  feudali,  pencolanti  sugli  abissi  o  incorniciati  di  edera 
o  ritagliati  nella  fioritura  degli  alberi;  la  Germania  dalle  pittoresche  Corti 
dei  Principi  elettori,  dalle  minuscole  città  montanine  arrampicate  sui  fianchi 
dei  colli,  dai  modesti  opifici  ronzanti  di  tessitori  e  di  orologiai.  Era  la  vec- 
chia Germania  di  Weimar  col  suo  corteo  di  dotti,  di  artisti,  di  letterati,  dì 
Mecenati,  con  la  sua  popolazione  studiosa  e  pacifica. 

Egli  ebbe  anzi  una  teoria  !>peciale  :  la  teoria  del  Greco  antico,  dell*  Ita- 
liano della  Rinascenza  :  egli  pensò  che  il  progresso  politico  debba  tendere, 
non  già  alla  formazione  di  Stati  mastodontici,  ma  alla  conservazione  di  pic- 
coli Stati  poco  più  che  municipali  :  «  quei  piccoli  Stati,  che  esistono  affinchè 
ci  sia  un  angolo  della  terra  in  cui  la  maggior  parte  dei  connazionali  possano 
sentirsi  cittadini  nel  senso  pieno  della  parola  ».  Per  questo,  anche  per  questo, 
tgli  amava  la  Rinascenza  italiana,  che  fu  come  l'incarnatone  sensibile  di  quel 
suo  ellenico  ideale  di  vita. 

Pari  all'uonio  fu  lo  studioso.  Quale  la  speciale  disciplina  da  lui  coltivata? 
Fu  uno  storico?  un  filosofo  ?  un  filologo?  un  poeta?  un  critico  d'arte  ?  Nes- 
suna di  codeste  categorie  artificiose  era  fatta  per  lui,  come  non  è  fatta  per 
i  grandi  spiriti,  per  i  sinceri  devoti  dalla  cultura.  Esse  sono  fatte  per  i  Fili- 
sier  della  scienza  o  per  l'ingordigia  dei  cacciatori  di  cattedre. 

Egli  scrisse  di  storia  romana,  discorrendo  di  Costantino  il  grande  ;  di 
st  Oria  moderna,  intorno  alla  Rinascenza  italiana  ;  scrisse  di  pittura,  su  Rubens; 
ài  pittura,  di  scolturia,  di  architettura,  sull'Italia  di  tutti  i  secoli  ;  scrisse  di 
storia  greca,  conversando  intorno  alla  civiltà  ellenica.  Egli  rimase  un  inimita- 
bile vagabondo  df  Ha  coltura,  e,  dovuiiique  la  Dea  ascosa  accennò  tacita  a  lui, 
Egli  accorse  sollecito  al  richiamo  e  si  abbandonò  fidente  nel  suo  grembo  di- 
fino.  Per  lui  la  vita  del  pensiero  fu  come  un  lento  passeggiare  nei  Musei 


4o8  Note,  questioni  storiche^  ecc. 


eterni  della  Bellezza  e  della  Sapienza,  ed  egli  li  percorse  tutti,  e  ne  conobbe 
ogni  mistero,  placidamente,  profondamente,  passionatamente. 

Fu  anche  insegnante,  e  per  moltissimi  anni  —  dal  1850  al  1893  —  nella 
Università  di  Basilea,  la  Città  dei  grandi  umanisti,  di  Froben,  dì  Holbein,  di 
Erasmo.  Questa  fu  anzi  la  grande,  la  somma  funzione  civile  di  questo  sibarita 
dell'intelletto.  Per  Votarsi,  anzi,  all'insegnamento,  egli,  a  un  certo  momento 
della  sua  vita,  smise  di  annerire  manoscritti,  di  stampare  libri.  Egli  faceva  qual- 
cosa di  più  eletto  :  formava  degli  spiriti.  Perciò  il  suo  insegnamento  fu  il  rovescio 
di  quello  inculcato  tra  noi  dal  fascino  della  nuova  Germania.  «  Egli,  informa  uff. 
suo  finissimo  critico,  non  fu  punto  l'uomo  delle  piccole  specialità,  della  filologia, 
e  dei  seminari  filologici.  Egli  non  credeva  che  la  storia  consistesse  nel  riu- 
nire delle  cartelle  e  nel  collezionare  delle  schede.  Egli  voleva  che  la  sua 
azione  si  esercitasse  con  dei  grandi  corsi  di  lezioni,  i  soli  capaci  di  fecondare 
gli  spiriti  e  di  farne  scaturire  delle  idee  ».  Perciò  i  soggetti  delle  sue  lezioni 
abbracciano  vasti  quadri  della  storia,  quella  storia  che  è  tanto  più  educatrice 
quanto  più  diviene  universale.  Perciò,  allorché  i  suoi  discepoli  gli  chiedevano 
consiglio  intorno  ad  argomenti  per  tesi  scolastiche,  egli  raccomandava  loro 
con  insistenza  dei  «grandi  soggetti.»,  dei  soggetti  «di  carattere  universale», 
e  che  si  studiassero  di  trattarli  «  con  ampiezza  di  concezione  ».  «  L'uomo,  egli 
s'esprimeva,  che  sa  dipingere  la  vita  e  che  ha  delle  idée,  passa  al  di  sopra 
della  piccola  gente  erudita...  e  con  grande  Joro  sbalordimento..,» 

Appunto  per  questo,  forse,  egli  aborriva  da  quella  forma  di  insegnamento, 
che  frattanto  veniva  in  onore  nei  seminari  di  Germania  e  più  tardi  verrà  i». 
onore  nelle  loro  dipendenze...:  l'insegnamento  fatto  su  cartelle  di  appunti 
ricuciti  insieme.  Egli  era  invece  pel  vecchio  insegnamento  oratorio  della 
vecchia  Francia  e  della  vecchia  Italia.  «  Un  professore  deve  saper  parlare 
senza  note,  liberamente;  l'uomo  che  parla  è  assai  diverso  dall'uomo  che 
legge...  » 

Tale  fu  Giacomo  Burckhardt,  di  cui  i  Basileesi  hanno  quest'anno  celebrato 
con  onore  il  centenario,  ma  che  i  figli  di  quell'Italia,  che  fu  la  sua  patria  di 
elezione,  hanno  interamente  scordato.  Non  a  torto  forse  !  La  prussianizzata: 
coltura  uiFficiale  dell'  Italia  d'oggi  non  è  più  la  coltura  di  quell'altra  Italia, 
che  Egli  aveva  amata  e  onorata  come  Madre  del  suo  grande  spirito.  Per 
questo  era  bene  che  fosse  obliato,  era  bene  che  la  protesta  vivente  della 
sua  memoria  non  venisse,  come  tante  altre  cose,  macchiata  dalla  ipocrisia 
della  commemorazione  di  chi  ne  tradiva  l'ammaestramento  e  l'esempio! 

C.  B. 


Opere  principali  di  Giacomo  Burckhardt. 

Die  Zeit  Constantins  des  Grosse  (1-853),  Leipzig,  1880  (2*  ed.). 

Die  Cattar  der  Renaiss  nce  in  Italien  (1850  ,  Erzlingen,  1912  (5*  ed.),  2  toII.  ;  (trad.  Ift 

Firenze.  1876;  1899  901;  trad.  frane.  1885). 
Der  Cicerone:  Etne  Anleitung  zum  Qenass  der  Kanstwerbe  Italiens  (1855),  Leipzig. 

1909-lU  (4*  ed,),  4  voli.  (trad.  fr.,  Paris,  1885-92,  2  voli.). 


NotBi  questioni  storiche ^  ecc.  409 


Oeschichte  der  Renaissance  in  Italien  (1857),  Stuttgart,  1878  (2*  ed.). 
ìf^eltgeschichtlicke  Betrachiungen,  Beflin,  1935  (postuma). 
Qriechische  Kaltttrgeschichte,  Berlin,  1893-930,  3  voli,  (postuma). 
Briefe  an  eirtem  Architekten  (1870-1889),  Munchen,   1913. 
Beitràge  zar  Kunstgeschichte  von  Italien,  Basel,  1898. 


»  $ 


Un'impresa  italiana  nel  campo  della  storia  economica: 

Bihlioteca  di  storia  economica  di  V.  Pareto  e  di  E.  Ciccotti,  Milano^ 
Sfjcietà  editrice  libraria,  1899 6  voli. 

Ecco  un'altra  grande  e  nobile  impresa  storiografica  italiana,  che  doloro- 
?mmente  ha  stentato  a  penetrare  nel  dominio  così  detto  scientifico  della  nostra 
scienza  storica,  e  che  ancor  oggi  viene  apprezzata  maggiormente  nei  campi 
di  studi  affini  che  in  quelli  della  pura  storiografia. 

L'idea  della  Biblioteca  ha  precedenti  e  modelli.  Chiunque  infatti  badi 
rjolo  al  titolo  della  collezione  si  sovviene  subito  della  Biblioteca  dell'  eco- 
nomista fondata  dal  Boccardo,  cosi  benemerita  per  la  nostra  coltura  eco- 
nomica, o,  magari,  della  Biblioteca  di  scienze  politiche  del  Brunialti.  Ma  certo 
errerebbe  chi  credesse  che  nel  pensiero  dei  suoi  fondatori  l'idea  germinò 
dall'esistenza  di  quei  modelli.  Nacque  invece  da  un  gruppo  di  idee  fra  le 
più  suggestive  della  coltura  socialista,  ch'è  stata  una  delle  poche  forze  vera- 
mente ispiratrici  delle  giovani  generazioni  italiane  dopo  il  1870.  Nacque 
dalla  dottrina  del  materialismo  storico,  di  cui  uno  —  il  primo  —  dei  fonda- 
tori della  Biblioteca,  Ettore  Ciccotti,  era  —  ed  è  rimasto  —  tra  i  più  ferventi 
assertori.  Importa  poco,  a  questo  proposito,  pensare  se  quella  dottrina  sia 
vera  o  falsa.  Nell'un  caso  e  nell'altro,  essa  poteva  portare,  come  di  fatto 
ha  portato,  la  conseguenza  di  un  maggiore  interessamento  alle  ricerche 
economiche  nel  campo  della  storiografia,  interessamento  i  cui  beneficii  non 
potranno  essere  conte*fetati  da  alcuno,  a  qualunque  filosofia  egli  appartenga, 
i|ualunque  sia  il  suo  giudizio  sulla  dottrina  del  materialismo  storico. 

«Chi  potrebbe  sostenere»,  si  chiedeva  il  Ciccotti  nella  sua  Introduzione 
al  primo  volume,  «  che  è  inutile  alla  conoscenza  della  storia  il  sapere  della 
produttività  del  paese,  della  sua  produzione  effettiva,  messa  in  relazione  con 
la  popolazione  ?»  «  Chi  Vorrebbe  credere  di  poter  impunemente  prescindere, 
«elio  studio  della  storia,  dalla  distribuzione  della  ricchezza  e  specialmente 
dalla  ripartizione  del  suolo,  che  ne'  suoi  vari  momenti  caratterizza  le  crisi  più 
importanti  della  storia  e  che  per  tanto  tempo,  nella  forma  più  immediata,  si 
presenta  in  prima  linea,  specialmente  nella  storia  di  Roma,  occupandola  tutta 
«  dando  la  sua  impronta  a  tutte  le  lotte  politiche  del  tempo?  A  chi  parrà  di 
potersi  senz'altro  dispensare  dal  prendere  in  considerazione  le  fasi  di  ogni 
mezzo  di  scambio,  che  agevola  o  inceppa  la  circolazione  della  ricchezza? 
Chi  vorrà  prescindere  dalla  conoscenza  dei  sistemi  ponderali,  della  moneta 
»el  suo  sviluppo  e  nelle  sue  crisi?  Chi  crederà  inutile  occuparsi  delle  grandi 


4  IO  Note»  questioni  storielle ^  ecc. 


vie,  delle  grandi  arterie,  mercè  cui  il  commercio  di  ogni  genere,  materiale 
a  morale,  e  la  stessa  azione  dello  Stato  compiono  il  loro  circolo  vitale?» 
(I,  p.  XLI). 

E  le  affermazioni  implicite  in  queste  interrogazioni  erano  tanto  vere  e 
incalzanti,  che  l'altro  fondatore-direttore  della  Biblioteca^  Vilfredo  Pareto, 
porgeva  ad  essa  il  suo  nome  e  la  sua  opera  augurale,  pur  essendo  fin  d'al- 
lora, com'è  rimasto  più  tardi,  un  critico  severo  del  materialismo  storico. 

Se  dunque  l'idea  primitiva  era  generata  da  un  certo  concetto  del  fatto 
sociale,  da  una  certa  idea  del  dinamismo  storico,  essa,  concretandosi,  veniva 
ad  assumere  una  individualità  propria  e  ijidipendente,  ch'era,  ed  è  questa  : 
raccogliere  in  modo  accessibile  al  pubblico  degli  studiosi  italiani  le  opere 
principali,  illustratrici  della  storia  economica,  non  solo  dell'antichità,  ma  di 
tutti  i  tempi.  Queste  opere  erano  disperse  in  volumi,  in  atti  accademici,  iti 
fascicoli  di  riviste  non  propriamente  storiche,  talora  poco  conosciute.  Con  ht 
nuova  iniziativa,  esse  sarebbero  state  poste  facilmente  a  disposizione  dei  lettori 
corredate  di  introduzioni  e  di  annotazioni,  voltate  anzi  in  italiano,  giacché 
per  la  maggior  parte  esse  erano  straniere  e  per  giunta  tedesche. 

Poiché  di  questi, tempi  accade  il  fenomeno  singolare  che,  per  difendere 
il  filologismo  italiano,  si  attacchi  il  filologi$mo  tedesco  contemporaneo,  di  cui 
quello  è  poi  il  continuatore  fedele  e  genuino,  e  si  faccia  le  viste  di  identificare 
con  quest' uUimo  tutta  la  storiografìa  tedesca,  non  è  inopportuno  richiamare 
qui  il  giudizio,  che  dell'uno,  e  implicitamente  dell'altro,  faceva  uno  dei  più 
•grandi  ingegni  tedeschi  del  secolo  XIX,  l'iniziatore,  anzi,  puC>  dirsi,  degli 
studi  di  storia  econonUca  dell'antichità,  Augusto  Boeckh.  Egli  parlava  della 
Germania,  ma,  mutalo  nomine,  potrebbe  parlare  anche  dell'Italia....  «  Per 
qualche  tempo  )a  filosofìa  sviò  mc^ti  ;  si  pensava  di  potere  dar  fondo  a  tutto 
con  ragionamenti  generali;  si  credeva  di  comprendere  l'elemento  sostanziale 

dell'antichità  con  la  distinzione  tra  soggettivo  ed  oggettivo Quest'indi- 

ffizzo  doveva  menare  a  una  confusione  e  ad  una  leggerezza  infinita,  ed  è 
perciò  chiaro  che  Ja  più  severa  scienza  gli  si  fece  contro.  Il  centro  di  gra- 
vità del  lavoro  filologico  sta  nella  ricerca  speciale. .  .  Ma  poiché  non  si  vo 
leva  staccarsi  soltanto  da  un  falso  indirizzo  della. filosofia^  tna  dalla  filosofia 
stessa,  e  si  voleva  restringersi  nell'ittdagine  speciale,  lo  studio  dell'antichità 
si  è  straordinariamente  spezzettato.  Mancano  al  maggior  numero  idee  gene- 
rali, manca  lo  sguardo  che  dall'alto  abbraccia  tutto  un  orizzonte;  tutto  è 
fatto  a  pezzi  e  bocconi  nelle  loro  teste  ;  perciò  non  hamio  né  un  concetto  del- 
F estensione,  né  una  profonda  idea  del  contenuto  della  scienza  d^lle  antichità: 
tonoscotH}  solo  quei  dati,  in  cui  si  perde  il  loro  pensiero.  In  conseguenza  di 
questa  unilateralità,  accanto  alla  vera  critica,  ha  fatto  fortuna  ^a  pseudo-cri- 
iica  piit  superficiale,  che^si  manifesta  in  virtuosità  grammaticali,  in  una 
ridicola  caccia  alle  congetture  e  in  una  stnania  di  revocar  tutto  in  dubbio  :  ma 
alla  ricerca  obbiettiva  manca  il  grande  spirito  dell'erudizione  del  secolo  XVI 
é  al  posto  delCentusiatHO  del  secolo  XV  f  iubentrata  un'esagerata  rigidità, ,  * 
In  tali  condizioni  non  v'é  punto  da  far  meraviglie  che  la  sàienzà  dell' antichiià 
•abbia  perduto  terreno  ' . . . 

>  Bncyktopadù  tmd  MèthodOinif  4.  pkòol.  ìVisseiuckmfi,'\AÌp^,x9IS6,9p.  6x  agg. 


Note,  questioni  storiche,  ecc,  411 


Cosi  opinava,  ad  ammonimento  dei  contemporanei  e  dei  posteri,  il  fon- 
<iatore  di  quella  che  si  dice  la  scienza  deirantichità,  e  specialmente  dello 
studio  de^Ie  antichità  economiche.  E  a  lui  stesso,  inaugurando  la  nostra  Bi- 
htioteca,  vennero  ad  ispirarsi  gli  ideatori  della  medesima. 

Ma  ideare  non  basta.  Occorreva  tradurre  in  pratica.  E  non  era  cosa  fa- 
cile in  un  tempo  e  in  un  paese,  in  cui,  pur  troppo,  come  s'esprimeva  uno 
straniero,  un  volume  sull'uso  dell'aoristo  in  Isocrate  poteva  trovar  fortuna 
e,  viceversa,  non  trovarne  alcuna  il  tentativo  di  uno  studio  sulla  storia  della 
popolazione  nell'antichità.  La  prima  grande  difficoltà  fu  quella  di  trovare  una 
coraggiosa  Casa  editrice.  La  Società  editrice  libraria  milanese  accolse  l'idea, 
e  fu  per  certo  grande  ardire,  ma  preferì  cominciare  limitando  la  conce- 
zione alla  sola  storia  antica.  Rimaneva  un'altra  difficoltà,  una  difficoltà,  che 
oggi  può  farci  sorridere,  ma  che  pur  va  rilevata  come  segno  di  tempi,  dai 
quali  per  fortuna  siamo  usciti.  Si  era  alla  vigilia  del  1898,  é  l*idea,  sebbene 
nobile  e  grandiosa,  era  concepita  da  uno  studioso  socialista. .  .  ;  onde  occorreva 
apporvi  un  più  pacifico  suggello  borghese. .  .  Fu  perciò  officiato  uno  studioso 
dì  economia,  ora  defunto,  il  quale  accettò;  ma,  venuto  il  1S98,  egli  si  tirò 
indietro  e  non  volle  più  saperne.  Fu  allora  che  Vilfredo  Pareto,  contro  cui 
oggi  ingenerosamente  si  appuntano  i  peggiori  strali  socialisti  ;  fu  appunto  al- 
lora —  dico  —  che  questo  economista  «  borghese  »  e  antisocialista  acconsenti 
generosamente  e  nobilmente  ad  offrire  il  suo  nome  e  la  sua  collaborazione.  Suo 
infatti  è  il  Proemio  al  primo  volume  scritto  nel  1898  e  sue  molte  delle  note 
dita  traduzione  ééìV Economia  pubblica  degli  Ateniesi  di  A.  Boeckh.  Tutta- 
via il  maggior  pondo  dell'opera  rimase  éugli  omeri  dell'altro  direttore  —  Et- 
tore Ciccotti  —,  il  quale  (pur  troppo  !),  dopo  la  reazione  politica  del  1898, 
fu  pregato  di  far  scomiparire  il  suo  nome  dal  frontispizio  dei  volumi...,  e 
più  tardi   rimase  solo,  unico  operaio  del  penoso  e  gravoso  lavoro. 

In  queste  condizioni  sono  usciti  i  primi  sei  volumi  dell'opera.  Il  primo 
6x  essi  riguarda  l'economia  pubblica  dei  Romani  e  dei  Greci,  e  contiene  con 
qualche  altro  scritto  minore  la  traduzione  delle  due  opere  fondamentali  : 
L'Economia  pubblica  Ateniesi  del  BoECitH  e  {'Economia  politica  dei  Romani 
del  DuREAi/  DE  LA  Malle.  41  secondo  riguarda  specialmente  il  campo  della 
produzione,  industriale  e  agricola,  dell'antichità,  e  contiene,  insieme  con  altrj 
scritti  minori,  il  fine  studio  di  A.  Dickson  su  V Economia  degli  antichi; 
quello  di  G.  Roscher,  Sull'economia  agricoli,  degli  antichissimi  Tedeschi  \ 
U.  BlDmnbr,  L'attività  industriale  dei  popoli  *dell' antichità  classica;  P.  Gui, 
ftAtlD,  La  proprietà  fondiaria  in  Grecia  ;  Roobertus,  Per  la  storia  della  evo- 
tuTione  agraria  di  Rjma  Sotto  gV Imperatori  ;  M.  Weder,  La  storia  agraria 
romana  in  rapporto  al  diritto  pubblico  e  privato  ;  H.  v.  Scheel,  /  concetti 
fondamentali  del  Corpus  iuris.  Il  terzo  volume  riguarda  specialmente  la  mo- 
netazione antica,  e  contiene,  fra  l'altro,  C.  F.  Lehman,  U antico  sistema  me- 
trico e  ponderale  babilonese;  E.  NisssN,  Metrologia  greca  eropnana;^.  Ba- 
HSLOM,  Le  origini  della  moneta  considerata  dal  punto  di  vista  economico  e 
itorico  :  L.  FkifiOLk^DK^y  Sul  prezzo  del  grano  e  il  valor  reale  del  danaro 
ne IV antichità  ;  T.  Reinach«  Del  vaiare  proporzionale  dell'oro  e  dell'argento 
n^lVantichHà  greca  ;  G.  PerHOT ,  //  commercio  del  danaro  ed  iì  credito  ad  Atene 


412  Notej  questioni  storiche,  ecc. 


nel  IV secolo  a.  C.  Il  quarto  volume  è  tutto  dedicato  allo  studio  demografico 
dell'antichità  e,  oltre  le  due  opere  fondamentali  dell'Hu-MK  e  del  Beloch,  con- 
tiene parecchi  notevolissimi  saggi  del  Seeck,  del  Kornemann,  del  Mevkk, 
dei  CrccoTTi,  dell' Holm.  I  volumi  quinto  e  sesto,  in  corso  di  puhblicazion», 
riguardano  rispettivamente  le  finanze  pubbliche,  il  commercio,  le  comuni- 
cazioni nell'antichità  e  conterranno  le  note  monografie  capitali  di  G.  Humbert. 
Sulle  finanze  e  stilla  contabilità  pubblica  presso  i  Romani  \  di  R.  Cagnat, 
Sulle  imposte  indirette  presso  i  Romani,  e  il  Manuale  della  storia  del  catk 
me  re  io  di  R.  Mavr,  lo  Sviluppo  dell'industria  e  del  commercio  in  sul  pritn.^ 
Medio  Evo  del  Cunnjngham,  ecc. 

Come  si  vede,  siamo  dinanzi  a  un'opera  dall'architettura  grandiosa  e 
dalla  concezione  ampia  ed  organica;  sopra  tutto  organica,  perchè  in  ciascun 
trolume  le  pubblicazioni  non  sono  collocate  l'una  accanto  all'altra  per  virtft 
di  un  semplice  allineamento  materiale,  ma  si  è  voluto  realizzare  fra  esse  \\u 
legame  più  intimo,  dando  anche  l'idea  di  quello  che  potrebbe  essere,  per 
ciascun  ramo,  un'opera  sola,  l'organica  opera  ideale,  che  ad  esso  dovrebbe 
corrispondere. 

Per  certo  delle  critiche  sono  state  formulate.  V'ha  chi  avrebbe  trovatct 
opportuna  una  più  ampia  pubblicazione  di  opere,  relative  a  questo  od  a  quel- 
l'argomento ;  chi  ha  deplorato  la  pubblicazione  di  qualche  lavoro  non  receu 
tissimo  in  cambio  di  qualche  altro  più  recente  ;  l'adozione^  in  qualche  caso,  &i 
edizioni  più  antiche  in  luogo  di  edizioni  più  recenti.  V'ha  chi  ha  opinato  che, 
per  molti  problemi,  che  le  opere  fondamentali  pubblicate  trattavano  male  o 
in  forma  antiquata,  sarebbe  stato  opportuno,  talora,  offrire  al  pubblico  studii 
particolari,  od  apporvi  abbondanti  note  ed  ampie  appendici.  Altri  ha  notato 
ohe  i  primi  volumi  della  Biblioteca  sono  meglio  curati  di  qualcuno  dei  suc- 
cessivi e  così  via.  Orbene  non  può  dirsi  che  queste  critiche,  astrattamente 
considerate,  non  abbiano  fondamento.  Ma,  a  parte  ciò  che  si  potrebbe  opporre 
in  linea  teorica,  v'è  stata,  e  vi  è  tuttavia,  una  grande  obbiezione  d'indoi*? 
pratica,  che  fa  ricadere  sugli  stessi  critici  la  massima  parte  delle  responsa- 
bilità e  delle  imperfezioni  dell'opera. 

Essa  non  ha  riscosso  ed  è  ancora  ben  lungi  dal  riscotere  tutto  l'aiuto, 
morale  e  materiale,  che  meritava.  I  cultori  di  storia  italiana  hanno  affettato 
di  ignorarla,  e,  mentre  Francesi,  Inglesi  e  Tedeschi  amano  citare  le  opere 
straniere  nelle  traduzioni  nazionali,  noi  abbiamo  continuato  a  citare  nel  testo, 
tedesco  od  inglese,  gli  scritti  che  questa  ^/^//W^ra  ripresentava  in  più  frese» 
veste  italiana.  È  molto  facile  parlare  di  altre  opere  da  introdurre»  di  opere 
recentissime  da  voltare  in  italiano,  di  recentissime  edizioni  da  adoperare. 
Tutto  questo  importava  un  aumento  di  mole,  di  spesa;  importava  il  paga- 
mento di  forti  diritti  di  proprietà  letteraria  ;  importava  anche  la  difì^icoltà  di 
superare  invalicabili  ragioni  editoriali...  Si  fa  molto  presto  a  pensare  a  ri- 
maneggiamenti, ad  appendici,  a  sostituzioni.  Purtroppo,  Puniversità  italiana 
non  ha  dato  nulla  del  genere,  perchè  essa  ha  preferito  continuare  a  dis- 
sertare sugli  aoristi  in  Isocrate.  .  .  Ancor  oggi,  mentre  scrivo,  dei  fascicoli 
della  Biblioteca,  che  via  via  si  pubblicano,  discorrono  le  riviste  economiche 
e>  sociologiche,  non  mai  le  nostre  riviste  filologiche  o  di  antichità. 


NotCy  questioni  storiche y  ecc,  413 


Per  coatro,  deve  nolarsi  che  la  Biblioteca  ha  reso  facilmente  accessibili 
taluni  scritti,  che,  pur  forniti  di  grande  interesse,  rimanevano  ignorati  per- 
fino alla  minia  del  filologismo  storico  italiano  per  le  prolisse  citazioni  biblio- 
grafiche. Tali  sono,  ad  esempio,  gli  scritti  dal  Rodbertus,  del  Friedlandér, 
'lei  von  Scheel  e  di  qualche  altro. 

Ma  più  degne  di  rilievo  mi  paiono  le  Introduzioni ^  che  il  Ciccotti  va  pre- 
mettendo ad  ogni  volume.  Quella,  che  inaugura  il  primo  volume  su  L'evolu- 
zione della  storioq: rafia  e  la  storia  economica  del  mondo  antico  è  un  eccellente 
s5aggio  di  storia  della  storia,  di  storia  dell'antiquaria  e,  contiene,  anche  nella 
«uà  compendiosita,  una  delle  migliori  illustrazioni  della  cosi  detta  concezione 
materialistica  della  storia.  Buona  Anch^V Introduzione  al  secondo  volume  dal  ti 
tolo  Tratti  caratteristici  dell'economia  antica.  Ma  assai  migliore  è  V Introduzione 
a\  quarto  {Indirizzi  e  metodi  deo^li  studi  di  depno,^rafia  antica),  che  ripiglia  da 
capo  tutta  la  grossa  questione  del  problema  degli  studii  democrafici  sull'antì- 
chità,  e,  con  essa,  la  Introduzione  al  terzo  volume  {Vecchi  e  nuovi  orizzonti  della 
numismatica  e  funzione  della  moneta  nel  inondo  antico),  eh 'è  una  storia  inte- 
ressantissima della  numismatica  e  delle  sue  varie  tendenze  dalle  origini  al 
ii^iorno  d'oggi,  la  quale  sarebbe  bene  pubblicare  in  forma  indipendente  ed 
\  parte,  e  tradurre  in  lingua  straniera. 

Verranno  i  tempi  nuovi,  che  anche  per  la  nostra  coltura  storica  dovreb- 
bero pur  venire,  a  infondere  nuovo  vigore  a  questa  Biblioteca,  a  portarla, 
*.',ome  èssa  n'è  degna,  all'altezza,  poniamo,  della  Biblioteca  dell'economista,  e 
a  fare  in  modo  che  si  possa  riprendere  ex  integro  il  disegno  generale  della 
collezione,  che  non  doveva  limitarsi  all'antichità,  ma  slargarsf  a  tutta  la  storia 
wiedievale  e  moderna  ?  Io  me  lo  auguro  con  tutto  il  cuore  di  studioso,  con 
lutto  l'orgoglio  di  italiano,  e  per  questo  ho  voluto  presentarla  ai  lettori 
l'iella  N.R.S...  Purché  le  porte  dell'Inferno  non   continuino  a  prevalere!... 

C.  15. 


Da  nuovo  libro  sul  materialismo  storico.^ 

La  storia  delle  fortune  della  così  detta  concezione  materialistica  della 
storia  in  Italia  è  la  seguente.  Fino  al  1896  essa  vi  era  stata  di  (fusa  attra- 
verso mediocri  riassunti  francesi,  non  che  attraverso  la  interpretazione  —  ge- 
niale o  no,  ma  infedele  —  che  un  illustre  economista  italiano.  Achille  Lo- 
ria, ne  avea  fatta.  L'idea,  che  il  gran  pubblico  se  n'era  formata,  era  quella 
di  una  dottrina,  la  quale  inculca  il  concetto  che  ogni  fenomeno  od  ogni 
fatto  storico  vanno  spiegati  icon  delle  cause  e  delle  ragioni  di  puro  interesse 


»  R.  MoNOOLKO,  Le  tnaterialisme  historique  d'aPrès  Frèdéric  Engels  (tr.  fr.),  Paris,  Giard  et 
Prière,  1917,  pp.  VlI-426. 


41^  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


economico.  Contro  siffatto  volgare  travisamento  insorse  in  tre  suoi  saggi  ma- 
gistrali,^ nel  1896,  Antonio  Labriola. 

Gli  scritti  del  Labriola  ebbero  una  risonanza  enorme  e  apersero  Taditi» 
a  discussioni  innumeri.  Tanto  più  che  essi  non  facevano  della  bibliografìa, 
non  citavano  testi,  non  avevano  rimandi;  ma,  conformemente  alla  menta- 
lità dell'A.  e  alla  sua  padronanza  dell'argomento,  rielaboravano  in  una  trat- 
tazione soggettiva,  anzi,  suggestiva,  più  che  ordinata,  tutta  la  materia. 

Un  gruppo  di  illustrazioni  assai  interessanti  dei  saggi  del  Labriola  furono 
quelle  tentate  da  B.  Croce  in  una  serie  di  scritti,  poi  ripubblicati  in  volume 
unico  {Miterialìsmo  ed  economia  marxistica^  Bari,  Laterza,  3*  edizione,  1918). 
Questi  articoli  presentavano  (e  presentano)  tuttavia  un  inconveniente  :  avendo 
l'aria  di  glossare  i  saggi  del  Labriola,  esprimevano  talora  opinioni  personali 
del  critico,  assai  remote  da  quelle  del  Labriola  stesso,  e  tal'altra  porgevano 
del  materialismo  storico  una  interpretazione,  che  non  era  quella,  che  di  esso 
avevano  voluto  dare  i  primi  iniziatori  della  concezione:  i  due  comunisti  hege- 
liani tedeschi,  Carlo  Marx  e  Federico  Engels,  Non  si  può  dire  tuttavia  che 
la  posteriore  fìoritura,  filosofica  e  sociologica,  abbia  ravvicinato  \\  grande 
pubblico  alla  intelligenza  della  dottrina.  Questa  continuò  a  rimanere  una 
teorica,  per  la  quale  i  fatti  storici  vanno  spiegati  con  le  soJe  cause  econo- 
miche... Deve  dirsi,  anzi,  di  più;  la  nuova  visione  storica  e  sociale  non 
ispirò  (salvo,  cenasi,  negli  studii  di  Ettore  Ciccotti)  lavori  storiografici  di  qual- 
che valore.  Rimase  fra  noi  come  materia  spicciola  di  esegesi  critico-socio- 
logiche, non  quale  consapevole  visione,  ispiratrice  di  nuove  forme  della  storia 
universale.  Negli  ùltimi  anni  la  situazione  si  era  aggravata  :  insieme  con  la  de- 
cadenza, in  cui  gli  studii  cosi  detti  sociologici  erano  andati  travolti  ;  nella  rea- 
zione antisocialista,  in  cui  l'opinione  pubblica  andava  affermandosi;  nelU 
trascuranza  (o  nell'abbandono?)  in  cui  i  suoi  più  noti  seguaci  di  un  tempo 
l'avevano  lasciato,  il  materialismo  storico  era  andato  perdendo  man  mano 
terreno. 

Per  vero  la  popolarità  della  dottrina  urtava  naturalmente  contro  parecchi 
asprissìmi  ostacoli.  Impressionante  era  anzi  tutto  la  tenacia  con  cui  i  suoi  fon- 
datori e  i  suoi  seguaci  asserivano  che  il  materialismo  storico  era  destinato  a 
dimostrare  rineiuttabilità  dei  socialismo,  ad  essere  cioè  l'algebra  vivente  della 
rivoluzionaria  trasformazióne  della  società  contemporaneav  D'altro  canto,  essa 
sembrava  capovolgere  alcune  idee  o  illusioni  correnti,  che  gli  nomini  da  secoli 
si  sono  formate  sul  funzionaniento  della  società  e  sul  processo  della  storia.  Gli 
uomini  aveano  creduto  e^credono  che  l'azione  e  il  moto  della  massa  sociale 
siano  esclusivamente  guidati  da  grandi  motivi  ideali,  nonché  dalla  parola  e 
dall'azione  di  singoli  individui.  Il  materialismo  storico  sembrava  rovesciare 
questo  modo  di  vedere  ;  sembrava  affermare  che  non  le  ideologie,  ma  le  condi- 
zioni, le  esigenze  materiali  delle  società  decidono  del  progresso  del  mondo  ; 
che  non  l'individuo,  ma  la  collettività  ha  valore  e  peso  nella  storia.  È  facile 


ì  Im  memoria  del  mani/estp  dei  Comunisti,  Roma.  Loescher,  1895  ;  Del  materialismo  storico, 
Itoma,  Loesctier^  1896;  Discorrendo  di  socialismo  e  di  jUosoJla;  lettere  a  G,  Serel,  fLonuL,  Lor- 
schor,  Z898. 


Note^  questioni  storiche^  ecc.  415 


perciò  capire  come,  specie  se  enunciata  in  modo  così  reciso  e  riassuntivo, 
la  dottrina  ferisse  le  opinioni  e  i  sentiménti  più  radicati  e  sollevasse  resi- 
stenze, attacchi,  requisitorie. 

Fu  appunto  in  queste  condizioni  che,  dopo  alcuni  saggi  sporadici  sul- 
rargomento,  Rodolfo  Maridolfo,  uno  dei  più  fini  e  coscienziosi  studiosi  di 
cose  filosofiche  pubblicò  l'edizione  italiana  del  suo  //  Materialismo  storico  di 
F.  Et^els  (Genova,  Formiggini,  1912).  Ed  è  proprio  in  mezzo  alla  colos- 
sale reazione  antitedesca,  portata  dalla  guerra  europea,  che  ora  esce  la  tra- 
duzione francese  di  questo  volume,  che  io  oso  giudicare  la  migliore,  più  fe^ 
dele  e  più  efficace  illustrazione  di  molti  punti  —  i  principali  —  della  dottrina. 

Il  volume  del  M.  reca  anzi  tutto  un  pregio  esteriore:  esso  non  solo  ha 
dietro  di  sé  una  concezione  organica  del  materialismo  storico,  ma,  per  ogni 
problema  trattato,  porta  la  più  larga  e  abbondante  documentazione,  attinta, 
sia  agli  studii  critici  in  materia,  quanto  (ciò  ch'era  più  importa)  alle  opere 
originali  del  Marx  e  dell'Engels.  Con  tal  mezzo  ogni  problema  è  serrato  ai 
suoi  elementi  necessarii,  ed  il  margine  degli  errori  o  degli  equivoci,  volon- 
tari e  involontari,  è  ridotto  di  molto. 

Ma  il  merito  maggiore  risiede  nel  modo  in  cui  il  M.  ha  impiantato  la 
sua  trattazione. 

Come  è  noto,  né  il  Marx,  né  l'Engels  ci  lasciarono  una  esposizione  or- 
ganica della  dottrina,  cui  dettero  vita.  Di  loro,  invece,  abbiamo  solo  alcuni 
spunti,  alcuni  incisi,  contenuti  in  qualche  stùdio,  politico  o  filosofico  ©eco- 
nomico. Perchè  tali  accenni  assumessero  vita  vera,  "occorreva  che  fossero  il- 
luminati dalla  luce  di  altri  elementi,  la  quale  valesse  a  presentarli,  non  ^ià 
come  punti  isolati  e  sperduti  hello  spazio,  ma  come  parti  vive  di  un  tutto 
organico.  Il  M.  ha  compiuto  questo  lavorò  (come,  per  altro,  senza  farlo  ap- 
parire, l'aveva  per  suo  contò  compiuto  Antonio  Labriola),  e  ha  presentato 
i  concetti  fondamentali  del  materialismo  storico,  collegandoli,  secondo  il  Marx, 
ma  specie  l'Engels  inculcavano,  da  uh  lato,  con  le  loro  generali  dottrine 
filosofiche,  dall'altro,  con  quei  loro  studii  politico-storici,  nei  quali  la  dottrina 
discendeva  nella  realtà. 

Tale  lavoro  è  fatto  con -cura,  con  diligenza,  con  intelligenza,  con  abbon- 
danza —  ripeto  —  di  documentazione^  onde  chi  vorrà,  dopo  questo,  tor- 
nare a  esaminare  spassionatamente  la  dottrina  materialistica  della  storia, 
dovrà  smettere  dal  discorrerne  come  di  teorica  unilaterale  o  superficiale,  e  con- 
vincersi che  può  essere,  se  tale  vorrà  crederla,  una  dottrina  falsa,  ma  è  certo 
la  piti  complessa  e  profonda  fra  le  così  dette  dottrine  sociologiche  ;  che  è 
anzi,  una  dottrina,  la  quale,  inconsapevolmente,  è  stata  adottata  dai  grandi 
storici  di  ogni  tempo  e  di  ogni  paese. 

Non  è  male  quindi,  in  questa  mia  «Nota»  sul  volume  del  M.,  porre  in 
rilievo  alcuni  dei  punti  della  dimostrazione,  che  hanno  maggiore  importanza 
per  ì  lettori  della  nostra  Rivista. 

È  anzitutto  il  materialismo  Storico,  una  teorica  materialistica?  Natural- 
mente, per  chi  pone  tale  quesito,  il  concetto  di  materialismo  deVe  essere  ben 
diverso  da  quello  che  si  fòggia  il  volgo  o  si  è  foggiato  la  maggioranza  degli 


|i6  Note,  questioni  storiche y  ecc. 


storici,  che  hanno  discusso  intorno  al  noto  argomento.  Materialismo,  in  que- 
sto caso,  non  può  equivalere  —  verbi  srafia^ —  a  propugnare  il  trionfo,  po- 
niamo, o  l'eccellenza  di  vizi  materiali,  quali  la  concupiscenza,  l'avarizia,  l'in- 
vidia, l'ingordigia,  la  speculazione  ecc.  Materialismo  deve  invece  avere  il  suo 
tradizionale  significato  filosofico  di  dottrina,  la  quale,  nel  depnire  i  rapporti 
tra  lo  spirito  umano  e  la  natura,  afferma  come  elemento  primordiale  e  de- 
terminante, non  già  lo  spirito,  ma  la  natura  esterna.  Tale  è  infatti  il  mate- 
rialismo storico,  per  cui,  non  la  coscienza  dell'uomo  (lo  spirito)  determina  il 
fatto  sociale  (la  natura  esterna),  ma  quella  è  all'incontro  determinata  da  que- 
sto. Tuttavia,  pur  poggiando  su  queste  basi,  il  materialismo  storico  ha  una  co- 
struzione idealistica  perchè  suo  elemento  animatore  ne  è  quello  che  Hegel, 
Marx  ed  Engels  chiamavano  la  dialettica. 

La  dialettica  consiste  nell'insegnamento  di  una  verità  semplici.ssima,  ma 
che  deve  considerarsi  capitale  per  la  scienza,  per  la  filosofia,  per  la  storia 
Mentre  l'uomo  volgare  concepisce  le  cose  e  i  processi  della  natura,  della  vita, 
della  società  come  fatti  cristallizzati,  ben  definiti,  accuratamente  isolati  e  di- 
stinti, e  taluni  classifica  come  cause,  altri  come  efietti,  la  dialettica  inculca 
che  ognuna  delle  cose  del  mondo  va  concepita  non  già  isolatamente  e  stati- 
camente, ma  nella  sua  connessione,  nel  suo  movimento,  nella  sua  concate- 
nazione universale.  Noi  diciamo  volgarmente  che  un  animale  è  vivo  o  morto, 
ch'esso  esiste  o  non  esiste,  che  ur^  fatto  è  buono  o  cattivo.  Or  bene,  questo 
è  un  modo  volgare  di  pensare  e  di  esprimersi.  La  vita  non  è  un  fatto,  ma 
un  processo,  che,  svolgendosi  crea  la  morte,  e  viceversa.  Ciò  che  si  dice  male 
è  veicolo  anche  di  bene  e  il  bene  fu  generato  anche  dal  male.  La  schiavitù 
antica  rese  possibile  la  divisione  del  lavoro  e  la  floridezza  della  civiltà  greca,  e 
questi  beni  crearono  altri  fenomeni  storici,  che  furono  elementi  di  male.  Ana- 
logamente quelle  cose  e  quei  concetti,  che  sembrano  escludersi  a  vicenda, 
terminano,  nel  loro  svolgimento,  col  comporsi  in  una  unità  superiore,  che  ri- 
chiama uno  dei  termini  principali  della  sua  composizione,  ma  ne  rimane  di> 
versa  e  distinta,  e  darà  luogo  a  un  ritmo  di  movimento  analogo  a  quello  che 
essa  stessa  aveva  percorso.  Per  citare  un  esempio  materiale,  ch'è  dell'Engels, 
un  uovo,  annullandosi,  dà  vita  a  una  farfalla,  che  si  annulla  poi  a  sua  volta 
morendo  e  partorendo  altre  uova,  le  quali  creeranno  altre  farfalle  simili,  ep- 
pur  diverse  dall'antica.  In  altri  termini,  un  essere  avrebbe  creato,  col  suo 
non  essere  un  altro  essere,  il  quale  ripeterà,  con  le  riserve  sopra  accennate, 
un  eguale  processo. 

Ma  che  importanza  ha  tutto  ciò  per  il  sociologo  e  per  lo  storico  ?  Ha  im- 
portanza somma  :  perchè  questa  concezione,  questa  dialettica,  questa  convin- 
zione del  movimento  e  dello  sviluppo  eterni  della  natura,  della  società  e  del 
pensiero  insegnano  che  il  mondo  è  tutto  una  lotta  di  forze  antitetiche,  le  quali 
perennemente  fluiscono  l'una  nell'altra,  e  vivono,  non  già  nelle  loro  forme 
contrarie,  cristallizzate,  nei  loro  isolati  elementi,  ma  solo  nel  loro  svolgimento 
continuo:  luce  e  ombra,  vita  e  morte,  vero  e  falso,  bello  e  brutto,  attività 
e  passività;  che,  insomma,  le  cose  hanno  una  sola  realtà  :  la  ininterrotta  vi- 
cenda del  loro  divenire  e  del  loro  dissolversi.  Non  più  dunque  la  vana  ri- 
cerca di  soluzioni  definitive  e  di.  verità  eterne.  Ogni  nozione  ha  un  carattere 


NotBy  questioni  storiche,  ecc.  417 


limitato  e  condizionato  alle  circostanze  in  cui  ci  pervenne.  Ciò  che  è  ricono- 
sciuto come  vero  ha  anche  il  suo  lato  occulto,  erroneo,  che  verrà  rilevato 
più  tardi,  e  viceversa.  Così  l'osservatore  della  storia  si  avvezza  a  guardar  le 
cose  sub  specie  aeternitatis,  lungi  dai  piccoli  e  pettegoli  giudizi  quotidiani  ;  si 
avvezza  a  concepire  che  il  bene  e  il  male,  il  vero  e  il  falso,  la  giustizia  ed 
il  torto,  quando  non  si  considerino  isolatamente,  nella  loro  immobilità,  ma  si 
considerino  invece  nel  loro  processo,  hanno  entrambi,  nei  risultati,  una  fun- 
zione utile;  che  lo  sforzo,  diretto  all'attuazione  di  egoismi  particolari,  diviene 
mezzo  di  resultati  universali;  che  gli  uomini,  con  l'opera  propria,  oltrepas- 
sano le  loro  intenzioni  consapevoli  e  creano  ciò  di  cui  essi  erano  inconsape- 
voli. Questa  la  grande  lezione  che  fa  sacra  la  storia  e  v'infonde  come  un  senso 
di  religione. 

Ma,  se  tutto  ciò  costituisce,  l'anima  del  materialismo  storico,  ne  segue 
necessariamente  la  confutazione  dell'obbiezione  volgare  ch'esso  assegni  va- 
lore di  causa  a  certi  determinati  ordini  di  fenomeni,  relegando  gli  altri  nella 
categoria  effetti;  ch'esso,  in  altre  parole,  come  si  dice,  isoli  e  sopravvaluti 
il  /attore  economico,  ponendolo  come  causa  universale,  immediata  e  neces- 
saria, e  faccia  di  tutti  gli  altri  fattori  le  sue  più  o  meno  dirette  conseguenze. 
Una  teoria  siffatta  (come  quell'altra,  che  pure  è  stata  formulata,  e  con  mag- 
giori pretensioni  scientifiche  nel  secolo  XIX,  la  quale  concepiva  il  processo 
storico  come  effetto  di  una  serie  di  forze  catalogabili  in  rubriche  separate  — 
forze  fìsiche,  istituzioni  sociali,  istituzioni  politiche,  azione  individuale,  ecc.  — 
è  invece  recisamente  repudiata  dal  materialismo  storico.  E  ciò,  perchè  questo 
repugna  per  definizione  dal  concepire  il  processo  storico  come  qualcosa  di 
immobile,  in  cui  una  o  più  serie  di  cause  esercitino  una  loro  azione  sur  un'al* 
tra  serie  di  fatti,  che  passivamente  la  subiscono.  A  motivo  della  sua  natura, 
ossia  della  dottrina  filosofica,  che  le  pervade,  e  a  cui  esso  si  lega,  il  mate- 
rialismo storico  rifiuta  senz'altro  questa  concezione  semplicistica,  con  cui  pure 
si  è  creduto  di  confutarlo  :  per  esso  tutti  i  pretesi  «  fattori  »  sono  causa  ed 
effetto  ad  un  tempo,  e  vivono  solo  nella  loro  reazione  reciproca. 

In  virtù  di  queste  sue  premesse,  il  materialismo  storico  inculca  che  la 
stoiia  va  intesa  e  trattata  come  un  tutto  organico  in  tutti  i  suoi  vari  elementi, 
ciascuno  legato  all'altro  da  vincoli  di  interdipendenza  e  di  mutua  influenza. 
Non  c'è  una  storia  politica,  una  storia  sociale,  una  storia  economica,  una 
storia  letteraria,  una  storia  interna,  una  storia  esterna.  C'è  una  sola  storia, 
che  deve  essere  tutte  queste  cose  a  un  tempo,  e  non  già  catalogate  l'una  a 
fianco  dell'altra,  ma  esposte  in  guisa  che  di  ciascuna  si  rilevino  le  influenze 
csercitantesi  su  l'altra,  e  viceversa.*» 

Ma  (e  con  questo  veniamo  al  punto  più  delicato  e  più  bersagliato  della 
questione)  oserebbe  il  materialismo  storico  affermare  che  le  condizioni  ma- 
teriali della  società  determinano,  direttamente  o  indirettamente,  tutte  le  altre 
forme  della  vita  e  della  storia  collettiva  umana;  ch'esse,  quindi,  se  ne  pos- 
sono dire  le  cause-madri  ? 


^  Per  uno  sviluppo  più  ampio  di  questi  concetti,  cfr.  C.  Barbagallo,  Il  maUrialismo  sto- 
rica^ Milano,  Federazione  Biblioteche  popolari,  1916. 

27  —  Nuova  Rivista  Storica. 


4i8  Note,  questioni  storiche^  ecc. 


Dopo  ciò  che  abbiamo  esposto,  non  è  rlilTìcile  intendere  che  tal^  affer- 
mazione può  considerarsi  solo- una  inesatta  e  approssimativa  enunciazione 
riassuntiva  del  materialismo  storico,  ma  che,  per  essere  intesa  e  colta  nella 
sua  essenziale  verità,  va  chiarita,  illustrata  e  rimaneggiata  profondamente. 

Una  espressione  più  piena  e  più  fedele  della  dottrina  potrebbe  forse  es- 
sere questa:  i  fenomeni  storici,  che  noi  sogliamo  considerare  come  elementi 
isolati,  contribuiscono  tutti  insieme,  reagendo  a  vicenda  l'uno  sull'altro,  a  deter- 
minare volta  per  volta  il  fatto  sociale,  ma  tra  essij  nel  ruotare  perenne  di 
tutti  gli  elementi  concorrenti,  in  fondo  al  processo,  hanno  maggior  peso,  sia 
quali  forze  attive,  sia  quali  forze  di  arresto,  quelli  che  si  dicono  i  rapporti 
sociali  economici.  E  questo,  perchè,  come  nell'individuo  singolo,  così  tra  gli 
individui  consociati,  i  bisogni  non  stanno  tutti  al  medesimo  piano,  ma  v'ha 
fra  essi  come  una  gradu?izione,  determinata  dalla  violenza  e  dalla  frequenza, 
con  cui  battono  al  nostro  essere,  e  dalla  necessita,  con  cui  reclamano  di 
venir  soddisfatti. 

Ma  anche  tale  enunciazione  è  imperfetta.  Ciò  per  due  ragioni.  Sono  forse 
codesti  rapporti  economici  elementi  venuti  dal  di  fuori,  nella,  cui  determina^ 
zione  tutti  gli  altri  non  hanno  nessuna  presa?  Una  concezione  Schiettamente 
materialistica  risponderebbe  di  si  ;  il  materialismo  storico  risponde  invece  di 
no.  Risponde  che  i  rapporti  economici  sono  via  vìa  creati  e  posti  dall'uomo 
sociale,  sospinto  da  tutto  il  complesso  delle, forze  che  lo  a  faticano  a  creare  )a 
storia  ;  sono  quindi  di  volta  in  volta  effetti  di  cause  economiche  e  non  eco- 
nomiche precedenti.*  L'altra  ragione  è  questa.  j\Iaterialismo  storico  non  si- 
gnifica economismo  storico.  Esso  quindi,  se  accenna  in  via  ordinaria  ai  rap- 
porti economici,  non  esclude,  anzi  ammette  che  talora,  in  certi  casi,  esistano 
altre  forze  materiali  e  morali  fornite  di  energia  causale  preponderante.  Per 
esso  l'importante  non  è  l'accenno  al  fatto  economico,  ma  la  necessità  di  vol- 
gere di  caso  in  caso  l'attenzione  alle  forze  in  ultima  istanza  decisive,  che 
d' ordinar  io ,  in  fondo  al  Processo,  ?\  xXXxQ'^'aino  essere  i  rapporti  di  produzione 
o  di  proprietà.  Le  illustrazioni  di  carattere  teorico  o  storico-politico  del 
Marx  e  dell'Engels  sono  su  questo  punto  interessantissime,  e  i  relativi  capitoli 
del  volume  del  Mondolfo,  pieni  di  suggestioni  e  di  finissimi  rilievi.  La  con- 
clusione è  sempre  quella  che  1'  Engels  espresse  in  una  sua  lettera,  discor- 
rendo dei  rapporti  tra  ideologie  e  condizioni  economiche  secondo  la  dot- 
trina materialistica  della  storia  :  «  Quanto  più  il  campo  studiato  si  allontana 
da  quello  economico  e  si  avvicina  all'ideologico  puramente  astratto,  tanto 
più,  nel  suo  aspetto,  esso  mostra  delle  accidentalità,  tanto  più  la  linea,  che 
congiunge  quelle  ideologie  al  terreno  economico,  si  svolge  a  zig-zag.  Ma 
si  provi  a  tracciare  Tasse  mediano  dì  quella  curva  e  si  troverà  che,  nuanto 


*  Una  esatta  intierpretazìone  di  questo  difficile,  ma  capitale  punto  del  materialismo  otorico, 
io  non  l'ho  trovata  altrove  se  non  in  Gu.  Da  Ruggipro,  Filosofia  contemporanea,  Bari,  Laterza, 
1912,  pp.  26-27  :  k  Lungi  dall' assottigliare  ciò  che  fu  da  essi  chiamato  una  soprastruttura,  l'intenta 
Costante  [del  Marx  e  dell'Engels]  è  di  condensarla,  d'incorporarla  nella  struttura  economica.  Non 
abb;(ssano  insomma  lo  Stato  e  la  società  al  grado  di  un  mero  riflesso  dell'economia,  ma  elevano 
V economia  fino  al  punto  da  includere  in  essa  tutta  la  vita  sociale  e  politica.  La  storia  è,  per  i 
creatori  del  materialismo  storico,  tutta  di  getto. .>», 


I 


Note,  questioni  storiche ,  ecc.  419 


più  vasto  è   il  campo  e  lungo  il  periodo  storico  osservato/tanto  più  quel* 
Tasse  correrà  parallelo  a  quello^dello  sviluppo  economico». 


Tale  appare,  a  chi  veramente' e  con  intelletto  filosofico  la  studii,  la  con- 
cezione  materialistica  della  storia,  ch'è  di  fatto,  come  la  definiva  TEngels, 
ma  delle  maggiori  «  scoperte  »  del  secolo  XIX.  Una  ricerca  che  oggi  potrebbe 
essere  interessante  sarebbe  questa  :  vedere  che  rapporti  intercedono  tra  il 
concetto  fondamentale  della  sociologia  di  Vilfredo  Pareto  e  la  dottrina  dei 
materialismo  storico,  intorno  a  cui  pure,  in  una  sua  opera  recente,*  il  Pareto 
mi  sembra  gravemente  equivocare  Io  son  sicuro  che  un  esame  del  genere 
porterebbe  alla  conclusione  che  la  sociologia  del  Pareto,  con  i  suoi  con- 
cetti ispiratori  delle  azioni  non  logiche,  dei  residui^  delle  derivazioni,  è 
un  largo  sviluppo  della  dottrina  del  Marx  e  dell'Engels.*  Ma  questa  dimostra- 
zione mi  trascinerebbe  assai  lungi  dal  soggetto,  a  cui  si  limita  il  presente  ar- 
ticolo, e  per  ora  il  mio  compito  è  necessariamente  finito. 

C.  B. 

Philologica:  antiphìloiogica  :  extraphilologica: 

Per  l*  italianità  della  coltura  nostra:  discussioni  e  battaglie  :  scritti  di  C.  Ba»- 

BAGALLO,  E.  BlGNONE,  E.  ClCCOTTI,  A.  FrRRARI,  G.  FRACCAROLI, 
F.   GUGLIELMINO,    R.    MONDOLFO,    E.    PANCRAZIO,  A.  SOGUANO,  P.  TkR- 

Ruzzi,  Roma,  Albrighi,  Segati  e  C,  1918,  pp.  135.  —  E.  Romagnoli, 
L'aurora  boreale,  Bologna,  Zanichelli,  1918,  p.  46.  -r  Idem,  Vigilie 
italiche,  Milano,  Istit.  edit.  italiano  (in  16°),  pp.  221.  —  Idem,  Minerva 
e  lo  Scimmione,  Bologna,  Zanichelli,  1918  (2*  ed.),  pp.  XLVIII-239. 

Abbiamo  onestamente  tenuto  fede  alla  nostra  promessa.  Allorquando,  or 
sono  molti  mesi,  la  Nuova  Rivista  Storica,  il  sottoscritto  e  ii  nostro  egregio 
collaboratore  Ettore  Romagnoli  furono  investiti  dall'  onda  di  una  offen- 
siva culturale  di  pura  marca  italo- tedesca,  io  feci,  in  nome  di  tutti;  la  pro- 
messa solenne  che  nulla  —  proprio  nulla  —  sarebbe  valso  a  riraoverci  dalla 
battaglia,  e  che  €  come  ieri,  come  oggi,  cosi  ancora  domani  >,  ci  impegna- 
vamo a  Combattere  «  non  la  scienza  della  Germania,  di  cui  .sapevamo  e 
avremmo  saputo  fare  il  debito  conto  e  che  giudicavamo  assai  migliore  di 
quello  che  ci  si  era  avvezzati  a  conoscere  e  ad  imitare  ;  ma  a  combatter^ 
invece  il  tedeschismo  della  cultura  italiana  :  «sclusivista,  angusto,  cieco.  ini*> 
serando,   colpevole  ». 


*  V.  Parbto,  Sociologia  g^nérat^,  Firenze.  BacUtr»,  191^.  I.  pfi^  4f6'97;  |l,  RP«  279»  9it' 
"  Ì4«  «bbe  t»lor»  come  vo  muso  otcwc  lo  tt««M  rarttQj»/.  ^.  |I.  »7»49)' 


420  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


Ebbene,  la  promessa  è  stata  da  noi  mantenuta  ;  mantenuta  anzi  signoril- 
mente, poiché  abbiamo  reso  in  altrettanto  oro  il  vile  bronzo,  che  ci  si  por- 
geva. In  luogo  di  fogli  volanti,  firmati  o  anonimi,  o  di  lettere  pseudo-filolo- 
giche sulle  colonne  di  qualche  giornale  da  fiera,  abbiamo  dato  ben  quattro 
volumetti  (taluno  è  forse  proprio  un  volume),  nei  quali  vengono  trattati  seria- 
mente problemi  importantissimi  di  critica,  relativi  alla  contemporanea  coltura 
italiana.  Di  questi  due  volumi  uno  è  la  secohda  edizione  di  Minerva  e  lo 
Scimrfiione  del  Romagnoli,  cui  precede  una  nuova,  vigorosa  Introduzione  e 
segue  in  appendice  una  brillantissima  Intervista  con' Ugo  Foscolo;  un  secondo 
è  una  polemica  dello  stesso  Romagnoli  con  i  filologi  ^^^^ Atene  e  Roma 
fiorentina  intorno  al  futuro  programma  di  rinnovamento  degli  studi  classici  ; 
un  terzo  raccoglie  i  migliori  artìcoli  polemici,  che  furono  da  parte  nostra 
pubblicati  durante  la  scorsa  estate  e  anche  quelli  (forse  i  più  efficaci)  che  il 
giornale,  che  avea  iniziato  la  polemica,  non  pubblicò. 

Io  credo  serenamente  di  poter  oggi  considerare  questa  produzione  nostra« 
non  più  quale  parte  in  causa,  ma  quale  critico,  e  in  tale  atteggiamento  ap- 
punto io.  voglio  oggi  discorrerne  brevemente. 

Nei  volumi  sopra  accennati,  il  fenomeno  più  degno  di  nota  è  questo: 
che  le  discussioni  che  vi  si  fanno  da  studiosi,  diversi  per  indole,  per  studii, 
per  tradizione,  contengono  un  saldo  gruppo  omogeneo  di  idee,  quale  non 
è  facile,  anche  tra  combattenti  nelle  ste;sse  file,  ritrovare.  Il  nucleo  di 
idee  comuni  è  il  seguente:  che  la  nostra  lotta  contro  il  filologismo  italiano 
ha  la  sua  profonda  giustificazione  npl  fatto  che  l'indirizzo,  che  a  codesta 
denominazione  corrisponde,  investe  e  domina,  come  piovra  enorme,  tutta 
la  cerchia  degli  studi  di  letterature  antiche  e  moderne,  nonché  le  discipline 
storiche  stesse  ;  2®  che  codesto  deplorato  metodo  non  consiste  affatto  nella 
raccolta  dei  materiali  della  storia,  nello  scrupolo,  naturale  e  doveroso,  di  ac- 
certare i  fatti  e  le  idee,  innanzi  di  discorrerne  ;  operazioni,  su  cui  a  nessun 
patto  si  può  sorvolare,  e  che  noi  riconosciamo  perfettamente  legittime,  come 
ancora  una  volta  si  ripete  a  chi  non  vuole  intendere  ;  3<'  ch'esso  invece  con- 
sìste —  sostanzialmente  —  nelle  riduzione  della  critica  letteraria  e  della  storia 
alla  disorganica  raccolta,  cieca  e  senza  scopo,  del  materiale,  allo  studio  di 
frammenti  isolati,  quasi  sempre  sprovvisti  di  significato  e  che  nulla  hanno 
a  che  vedere  né  con  la  letteratura,  né  con  la  vita;  consiste  nella  critica  con- 
dotta fino  all'esasperazione,  al  parossismo,  alla  distruzione  della  realtà  stessa; 
consiste  nel  feroce  aborrimento  dalle  idee  generali,  che  lo  studio  dei  fatti 
fecondino;  nell'irrisione  della  sintesi  e  delle  concezioni  teoriche,  che  l'analisi, 
per  essere  feconda,  anzi,  per  poter  esistere,  deve  necessariamente  presupporre  ; 
consiste  infine  nella  sostituzione  a  tutto  ciò  della  manìa  per  le  virtuosità  gram- 
maticali, «della  caccia  alle  congetture,  della  ossessione  ipercritica  »  :  4»  che  co- 
desto metodo  è  stato  imposto  dalla  Germania  materialistica  dei  secoli  XIX-XX, 
si  che  si  può  e  deve  legittimamente  chiamare  metodo  tedesco  ;  5'  che  l'instau- 
razione della  italianità  nella  nostra  coltura  deve  consistere  nel  distaccarsi  da 
questo  biasimato  e  cieco  esclusivismo  e  nel  ritornare  all'  indirizzo  tradizio- 
nale degli  studi  nostri,  che  non  escludeva,  anzi  implicava  la  grande  erudizione 
e  l'entusiasmo  per  essa,  ma  al  suo  fianco,  in  prevalenza,  richiedeva  la  rielabo- 


Note,  questioni  storiche ^  ecc.  421 


razione,  secondo  uno  spirito  proprio,  dei  dati  forniti  dall'analisi,  la  loro  coor- 
dinazione e  presentazione  sotto  nuovi  aspetti,  la  loro  geniale  divulgazione. 
Queste  —  ripeto  —  sono  le  idee  comuni  propugnate  in  ciascuna  delle 
pagine  dei  volumi  che  ho  sott'occhio.  Tuttavia,  attraverso  di  esse,  sono 
sparse  alcune  idee,  che,  per  varie  ragioni,  meritano  un  esame  speciale. 

I.  Taluno  degli  scrittori  del  volumetto  «  Per  l'italianità,  ecc.  »  ha  avan- 
zato l'idea  che  sia  opera  d'italianità  di  coltura  rifare  molte  delle  analisi  e 
riapprestare  in  veste  diversa  molti  degli  elementi  di  fatto  fornitici  dalla  cul- 
tura tedesca  dei  sec.  XIX-XX.  Per  addurre  un  esempio,  taluno  pensa  che 
sia  opera  d'italianità  apprestare  delle  edizioni  di  classici  latini  o  pubblicare 
presso  editori  italiani  dei  Codici  diplomatici,  che  i*  Tedeschi  avrebbero  in 
precedenza  pubblicati.  Indubbiamente,  chi  così  facesse  farebbe  cosa  utile  e 
potrebbe  forse  contribuire  alla  italianità  della  nostra  coltura.  Ma  non  si  esa- 
geri e  non  si  equivochi  I  Quest'apprestamento  di  fatti  e  di  elementi  materiali 
può  —  con  lievi  cautele  —  essere  senz'altro  mutuato  dalla  coltura  tedesca. 
È  assurdo  voler  rifare  ex  novo  tutti  gli  strumenti  del  lavoro  solo  perchè 
la  maggior  parte  di  quelli  che  si  posseggono  sono  di  marca  straniera.  Tali 
strumenti  son  buoni,  e  con  piccoli  ritocchi  si  possono  render  impeccabili.^ 
Cih  che  occorre  invece  è  cominciare  a  lavorare  con  tali  arnesi,  ma  secondo  un 
nuovo  spirito-  o,  se  mai,  fabbricarne  degli  altri  che  la  coltura  tedesca  non  ci 
abbia  ancora  forniti.  La  rifabbricazione  ab  imis  di  tutto  il  materiale  sarebbe 
invece  un  lavoro  di  Sisifo,  che  ninno  spirito  patriottico  potrebbe  giustificare. 

II.  Una  delle  obbiezioni  più  serie  (in  apparenza  almeno),  che  si  è  fatta 
al  volume  del  Romagnoli»  Minerva  e  lo  Scimmione ,  è  la  recisa  affermazione 
che  a  suo  avviso:  Philologia  est  delenda!... 

Questa  sentenza  ha  fatto  sobbalzare  di  meraviglia  e  d'ira  molta  gente. 
È  dessa  invece  un  giudizio  inappellabile,  quando  la  si  rimetta  nella  cerchia 
organica  delle  vedute  del  Romagnoli.  Questi  l'aveva  già  illustrato  or  sono 
parecchi  anni,  nel  191 1,  in  un  bellissimo  programma  di  lavoro  —  natural- 
mente rifiutato  —  ch'egli  espose  al  Convegno  fiorentino  delV Atene  e  Poma  di 
quell'anno.  E  il  suo  pensiero  era  questo  :  che  la  raccolta,  il  disseppellimento, 
la  purificazione  del  materiale  delle  antiche  letterature  non  può  essere  che 
una  fase  provvisoria  degli  studi  classici.  «  Allorquando  l'ultimo  codice  sarà 
esplorato,  gli  ultimi  papiri  disseppelliti,  le  ultime  collezioni  compiute,  i  più 
trascurati  scrittori  pubblicati  in  edizioni  perfette...,  guel  tipo  di  studio  non 
avrà  piii  ragione  di  esistere,  e  chi  si  ostinasse  a  perpetuarlo  sarebbe  una 
specie  di  don  Chisciotte  della  filosofia  classica...  ».  «  .So  bene»,  egli  aggiun- 
geva, «  che  l'ultimissima  parola  non  sarà  mai  detta...  Ma  il  più  elementare 
buon  senso  dice  che,  arrivati  ad  un  certo  punto,  questo  lavoro  diverrebbe 
una  fatica  delle  Danaidi...  »  {Vigilie  italiche,  pp.  77-78). 

Queste  parole  —  ripeto  —  egli  aveva  vergate  sette  anni  or  sono;  quel 
suo  scritto  egli  ripubblica  adesso,  e  la  cosa  ha  un'importanza  esegetica  non 


»  L'aver  seguito  e  il  seguire  tale  criierio  è  il  merito  principale  del  Corpus  Paravianum  degli 
scrittori  latini,  che  il  Pascal  dirige  e  su  cui  i  filologi  italiani  trovaao  a  ridire  perchè  esso  non 
ri&  sx  novo  il  lavoro  già  fatto  dagli  atudiosi  tedeschi. 


4»*  Note,  questioni  storiche^  ecc. 


piccola  :  noi  sappiamo  finalmente  quale  sia  la  filologia  da  giustiziare  :  essa 
è  quella  che,  col  pretesto  della  scienza,  si  crogiola  in  un  lavoro  in  tutto  pa- 
ragonabile al  vuotare  e  rìvuotaredei  fossi,  ò,  come  diceva  il  Mommsen,  all'agi- 
tare e  rimestare  le  travi.  «  Quando  (scrive  un  nostro  arguto,  e  più  autorevole, 
compagno  di  via)  a  Sofocle  avremo  accomodato  il  tabarro  com'è  nella  statua 
in  Laterano,  non  c'è  nessun  bisogno  di  tornare  da  capo:  c'è  bisogno  sola- 
mente di  sentirlo  parlare...». 

III.  Il  torto,  mi  pare,  del  Romagnoli  è  un  altro  :  quello  di  aver  .disegnato 
in  modo  tale  lo  sviluppo  della  filologia  nel  secolo  XIX,  da  addossare  la  respon- 
sabilità di  tutte  le  sue  perniciose  influenze  a  coloro  che  di  queste  influenze 
non  furono  responsabili,  a  coloro  anzi  che  si  sforzarono  di  contrastarvi. 

Mi  spiego.  Egli  immagina  che  le  cose  siano  andate  come  segue.  Fino  ai 
primi  del  sec.  XIX  la  filologia  era  soltanto  preparatrice  e  illustratrice  di  testi. 
Per  primo  Augusto  Wolf  volle  ampliarne  il  compito  e  convertirla  in  scienza 
universale  dell'antichità.  Perciò  egli  vi  avrebbe  assoggettato  ventiquattro  disci- 
pline, ossia  quasi  tutto  lo  scibile  umano.  D'allora  sarebbe  cominciata  la  tiran- 
nia del  nuovo  verbo  filologico  sul  mondo.» 

Anche  ammessa  siffatta  interpretazione  storica,  rimarrebbe  naturalmente 
a  spiegare  come  quella  gigantesca  macchina  wolfiana  abbia  potuto  dominare 
il  mondo,  e  come  il  mondo  vi  si  sia  volentieri  prestato.  La  spiegazione  di  un 
tale  fenomeno  non  istà  dentro  la  filologia,  sibbene  nelle  generale  funzione  sto- 
rica, che  la  Germania  ha  esercitata  nel  mondo  moderno.  Ma  ciò  che  io  voglio 
rilevare  è  un'altra  cosa.  Sia  o  non  sia  accettabile  la  classificazione  wolfiana 
delle  discipline  dipendenti  della  filologia  (taluni  dei  suoi  discepoli  infatti  non 
l'accettarono),  la  filologia  che  fì  Wolf  creò,  e  mirò  ad  elevare,  non  ha  nulla 
di  comune  con  la  filologia  contemporanea,  che  il  Romagnoli  fustiga  a  sangue. 
La  filologia  del  Wolf  è  cosa  assai  seria,  ed  essa  si  andava  a  identificare 
con  la  storia  nel  senso  più  alto  e  più  puro.  Essa  significava  la  volontà  di 
penetrare  e  amare  e  godere  completamente  il  mondo  antico,  e  questa  sua 
visione  egli  e  i  suoi  discepoli  e  seguaci  —  Bòeckh,  Niebuhr,  C.  O.  Mùl- 
ler  --  difesero  e  contrapposero  agli -ermeneuti,  ai  grammatici,  ai  puri  pre- 
paratori dì  edizioni  critiche  del  tempo  loro.* 

Per  disgrazia  della  Germania  e  della  cultura  universale,  il  naturalismo, 
il  positivismo,  il  razionalismo,  poco  dopo,  irrompendo,  sconvolsero  la  grande 
concezione  filologica  che  il  romanticismo  aveva  inaugurata,  e  vi  sostituirono 
l'altra  che  noi  conosciamo.  Questa  trovò  il  suo  trono  già  bello  e  apparec- 
chiato, trovò  spiriti  umili  e  proni,  e  dalla  sua  piccolezza  si  diede  a  spadro- 
neggiare e  ad  impazzare  nel  mondo. 

Per  questo,  appunto  per  questo  —  piaccia  o  non  piaccia  ai  nostri  avver- 
sari —  la  lotta  per  la  liberazione  della  nostra  coltura  letteraria  e  storica  dal 
minuto  filolofismo  non  è  cosa  da  nulla  ;  per  questo  ogni  tentativo  del  genere 
è  un'anione  di  merito,  non  solo  scientifico,  ma  anche  civile.  Il  quale  merito, 


^  MintTfW  t  lo  Scimmione,  CvSfi}^.  \\-l\\. 

}  Cfr.  K.  HiLLÉBRAND.  Ètuie  sur  C.  O.  MUtiér  otson  icolé  (B«Ua  tua  trtd.  fi.  della  £//- 
iirtiimtt  gr«i0ié  òA  MBlìsr,  Pari»,  t866.  Voi.  I,  7*  ad.). 


NoUf  quesHoni  storiche^  ecc.  423 


per  destino  di  cose,  va  in  Italia  toccando,  non  già  ad  organismi  costituiti, 
non  ad  autorità  e  competenze  universalmente  riconosciute,  ma  ad  individui 
isolati,  la  cui  operosità  e  la  cui  intelligenza  riescono  a  suscitare  d'attorno 
l'imitazione  e  l'emulazione;  ad  individui,  i  quali  hanno,  oltreché  delle  opi- 
nioni, delle  passioni  decise,  e  i  quali  sono  per  ciò  tratti,  non  al  quieto  vivere 
accademico,  ma  alla  critica  e  alla  lotta  contro  il  terrore  intellettuale,  contro 
l'autorità  di  convenzione,  contro  (perchè  non  dirlo?)  la  vigliaccheria  mentale, 
in  cui  il  nostro  paese  era  finito  per  adagiarsi. 

C.  B. 


Ancora   una  parola  intorno  alla  cattedra  di  storia  antica 
nella  R.  Università  di  Roma. 

La  triste  commedia  è  finita.  Ettore  Pais  è  professore  di  storia  antica 
nella  R.  Università  di  Roma,  prescelto  ansi  a  guest'  ufficio  per  tenervi 
accesa  la  fiaccola  della  grande  tradizione  storiografica  italiana!  Il  let- 
tore conosce  il  nostro  pensiero  sul  merito  della  cosa.  Ma  —  post  factum  — 
è  necessario  aggiungere  qualche  altra  considerazione. 

La  prima  si  deve  riferire  alla  profonda  igftoranza,  dimostrata  in 
questa  occasione  dalla  nostra  stampa  politica.  I  giornalisti,  specie  quelli 
aventi  uno  spirito  ed  uri  colore  patriottico,  che  in  questi  giorni  hanno  van- 
tato la  genialità  e  /'italianità  {il  differente  carattere  tipografico  non  è 
nostro)  dell'opera  paisiana,  non  possono,  come  s'è  detto,  avere  esclusiva- 
mente subito  un*  ispirazione  di  origifie  massoftica.  Essi  hanno  creduto  in 
verità  a  quello  che  scrivevate.  Or  bene,  tutto  ciò  significa  che  essi  non 
conoscono  né  l'opera  massima  del  Pais  —  la  sua  Storia  di  Roma  —  né 
alcun  frammento,  piccolo  o  grande,  della  sua  residua  attività  storiografica. 
Anzi,  uno  dei  piii  colti  e  inlelligenti  fra  essi  non  esitava  a  dichiarare 
eh  'egli  delle  Stòrie  romane  del  Pais  e  del  suo  concorrente  non  sapeva  {e 
<g\\  bastava»)  che  questo:  che  < entrambe  concordano  ne W affermare  che 
Roma  sorse  non  lungi  dal  7,evere  e  che  i  Babilonesi  non  ebbero  parte 
alcuna  nella  sua  fondazione...  »  (Corriere  della  Sera,  29  giugno  191S). 
Tutto  questo  si  spiega  a  sufficienza  con  la  7iatura  di  quell'opera  tanto  «  ge- 
niale >  e  tanto  <  italiaìia  »,  da  riuscire  poi  assolutamente  invalicabile.  Se 
quei  giornalisti  l'avessero  conosciuta,  io  ho  fede  che  nessun  impegno  avrebbe 
potuto  trascinarli  a  .scrivere  le  inaudite  cose  che  hanno  scritte  e  stampate* 
Ma  essi  non  tie  sapevano  nulla  di  nulla,  e  non  pertanto,  come  sembra  sia 
ancora  costume  in  Italia,  osaroìio  con  grande  su^siéguo  dirigere  l'opinione 
pubblica  in  un  senso  piutiostochè  in  un  altro!,,. 

Un  secondo  ordifte  di  considerazioni  potrebbe  riguardare  gli  indefinì- 
bili metodi,  coìt  cui  ambe  le  parti  contendenti  {a  gli  amici  delU  due  parti  f) 


434  Noie,  questioni  storiche^  ecc. 


hanno  cercato  di  inscenare  l'opera  propria;  metodiche  sono pi'ecipitati fino  a 
un  vero  e  proprio  record  di  canards.  Ma  è  cosa  troppo  volgare,  perchè  le 
pagine  della  N.  R.  S.  debbano  di  ciò  venire  a  occuparsi.  Circostanza  più, 
grave  e  più  seria,  almeno  da  un  certo  punto  di  vista,  è  stato  invece  il  metodo 
adottato  dal  Ministro  della  P.  Istruzione,  perchè  la  nomina  del  Pais  toccasse 
il  porto  agognato.  Il  Ministro  {impossibile  indorare  la  frase!)  ha  in  questo 
caso  commesso  una  vera  e  propHa  violazione  di  legge.  Egli,  dopo  il  falli- 
mento della  normale  procedura,  richiesta  pei^ trasferimenti,  ch'era  appunto 
la  procedura  fin  allora  applicata  ed  applicabile  al  Pais,  d'improvviso  volle 
adottare  a  suo  favore  Vari.  24  del  Testo  unico  delle  leggi  sulla  Istruzione 
superiore,  corrispondente  al  vecchio  e  famoso  art.  69  de  Ha  legge  Casati, 
e  riguardante,  com'è  noto,  le  persone  venute  <tiin  meritata  fama>  nella 
disciplina  che  dovrebbero  insegnare.  Ma  l'una  e  l'altra  disposizione  si 
applicano  unicamente  alle  nuove  e  prime  nomime  universitarie,  non  già 

ai  casi  falliti  di  trasferimenti  da  sede  a  sede Per  tal  modo  la  legge  fu 

aggirata  aite  spalle! La  richiesta  di  tanta  violazioìie  fu  così  inaudita, 

che  il  Consiglio  Superiore  per  l'I.  P.,  a  differenza  di  qiiel  che  narrano 
le  gazzette,  non  fu  affatto  unanime  a  sanzionarla,  ma  solo  24  su  35  membri 
parteciparono  alla  votazione,  e  di  essi  una  parte  ricusò  di  votare  perchè 
la  illegalità  non  risco tesse  neanche  il  suffragio  di  una  indiretta  adesione. 
Solo  in  tal  modo  i  giornali  bene  ispirati  poterono  discorrere  di  una  una- 
nimitd  di  voti,  che  era  di  fatto  la  unanimità  di  quelli  che  avevano  votato 

favorevolmente 

Dopo  di  che  il  Pais  è  professore  di  storia  antica  nella  Università 
di  Roma!  Il  malefico  anello,  che  era  stato  per  la  prima  volta  intaccato, 
e  che  per  un  momento  sembrò  dovesse  spezzarsi,  si  è  di  nuovo  richiuso 
e  saldato.  L'italianità  della  nostra  coltura  subisce  ancora  una  grande 
umiliazioTte .  Ancora  una  volta,  per  opera  di  amici,  ingannatori  o  ingan- 
nati! Un  Ministro,  che  ha  J ama  di  uomo  energico  e  di  novatore  ;  un  Mi- 
nistro, che  sembrò  accingersi  coraggiosamente  ad  infrangere  un  vecchio, 
medievale  privilegio  delle  nostre  Facoltà  universitarie,  senza  di  che  non 
v'ha  salute  per  la  nostra  coltura  nazionale,  ha  finito  poi  con  l'essere  piti 
amico  di  Platone  che  della  Verità  e  del  suo  Paese,  e  non  ha  trovato  la 
virtù  o  l'ispirazione  di  un  atto,  che  sia  veramente  disinteressato,  geniale  e 
benefico.  Le  forze  del  male,  di  cui  egli  è  stato  strumento  e  vittima,  sono  di 
nuovo  prevalse.  A  noi,  che  iniziammo  questa  battaglia  senza  l'ombra  di 
alcuno  interesse,  diretto  o  vìdiretto,  rimane  l'orgoglio  che  accompagna  im- 
mutabilmente ogni  nobile  e  pura  sconfitta. 

G.  P.!  C.  B, 


Noie^  questioni  storiche^  ecc.  425 


Riviste  nuove» 

Questi  ultimi  mes|  sono  stati  fecondi,  forse  eccessivameùte,  in  produ- 
zione di  riviste  nuove.  La  casa  editrice  N.  Zanichelli  ha  dato  mano  alle 
pubblicazione  de  V Intesa  intellettuale,  diretta  dal  prof.  A.  Galante  e  che  ha 
per  iscopo  quello  di  rejidere  più  vivi  e  frequenti  i  rapporti  fra  la  coltura  (e  jg^li 
istituti  di  coltura)  dei  paesi  a  noi  alleati  ed  amici.  Il  programma  ^  buono  ;  lo 
sostenne  a  suo  tempo  le  N.  R.  S.  (A.  l,  fase.  II:  E.  Rota,  Per  una  quadru-- 
piice  intesa  scientifica"),  e  buona  l'.attuazione  che  se  né  comincia  a  fare  con 
questo  primo  numero.  —  La  stessa  Casa  editrice  ha  iniziato  la  pubblicazione 
di  un'altra  rivista  politico-culturale,  La  Rassegna  italiana,  che  non  ci  è  per- 
venuta, ma  di  cui,  non  riusciamo  ancora  ad  afferrare  le  organicità  del  pro- 
gramma, essendo  essa  diretta  (secondo  che  sembra)  a  diffondere  il  pensiero 
nazionalista  e  quello...  mazziniano.  —  Una  Rivista  di  carattere  politico-so- 
ciale è  //  Rinnovamento  (dir.  A.  De  Ambris),  organo  del  sindacalismo  ita- 
liano, e  che  noi  segnaliamo  qui  per  la  sua  tendenza  spietatamente  critica 
di  tutti  i  dogmi  socialistici  del  passato,  per  cui  essa  viene  a  collocarsi  de- 
gnamente accanto  alla  rivista,  iniziata  fin  dallo  scorso  anno  (e  pur  troppo 
assai  irregolarmente  pubblicata)  Vie  Nuove,  organo  di  un  gruppo  di  socialisti 
riformisti  indipendenti  :  I.  Bonomi,  L.  Caetani,  F.  Colucci,  M.  Silvestri.  — 
La  Rassegna  italo-britannica  (dir.  M.  Borsa),  uscita  testé  a  Milano,  mira  a 
svolgere,  nel  campo  dei  rapporti  italo-britannici,  quella  stessa  opera  e  a  com- 
piere la  stessa  funzione,  che  nei  rapporti  franco-italiani  egregiamente  disim- 
pegna la  Rivista  delle  nazioni  latine  di  J.  Luchaire  e  G.  Ferrerò.  —  Final- 
mente sono  apparse  ad  un  tempo  due  rassegne  ménsil  idi  coltura:  /  libri 
del  giorno  della  Casa  F.*'»  Treves  (abb.  semestrale  L.  3)  e  L'Italia  che  scrive 
dell'editore  A.  F.  Formaggini  (abb.  semestrale  per  gli  abbonati  della  Nuova 
Rivista  Storica,  L.  1,75),  aventi  l'una  e  l'altra  uno  scopo  comune  interes- 
santissimo :  quello  di  mettere  1*  Italia  che  legge  e  che  studia  in  immediato 
rapporto  coi  libri  che  si  stampano  e  con  le  variei  questioni  attinenti  alla 
produzione  libraria,  in  modo  da  costituire,  pel  lettore  italiano,  una  vera  e 
propria  guida  intellettuale. 

Tanto  risvéglio  di  vita  intellettuale  non  è  piccola  cosa  ;  e  noi  brameremmo 
ch'esso  fosse  più  consistente  e  duraturo  di  quello  che  non  vorremmo  temere. 
Per  ciò  sinceramente  auguriamo  ai  confratelli  di  questa  primavera  italica 
vita  e  fortuna  ! 


BIBLIOGRAFIA  ITALIANA 

SULLA  GUERRA  EUROPEA 

(Cfr.  A.  I,  fase.  II). 


Come  a  suo  tempo  promettemmo,  continuiamo,  nel  presente  numero  la  Bibliografia 
italiana  sulla  guerra  europea,  che  iniziammo  lo  scorso  anno  e  che,  per  la  costante  so- 
vrabbondanza della  materia,  possiamo  riprendere  solo  oggi.  I  criteri  sono  quelli  stessi 
da  noi  allora  indicati.  Questa  seconda  puntata  comprende  quasi  tutti  gii  scritti,  che, 
direttamente  o  indirettamente,  posseggono  un  qualche  valore  storico,  apparsi  nel  1914-15. 
Con  la  puntata  successiva  esauriremo  questo  biennio  e  inizieremo  la  bibliografia  degli 
terltti  apparsi  nel  1916. 

1.  —  Documenti  e  pubblicazioni  diplomatiche. 

Comunicati  ufficiali  e  dispacci  della  guerra,  in  Rivista  marittima,  1915 

Diario  della  guerra  d'Italia  :  raccolta  dei  bollettini  ufficiali  e  altri  documenti, 
Milano,  Treves,  1915 

II.  —  Carte  geografiche. 

f  A.  Dardano],  La  regione  veneta  e  le  Alpi  nostre  dalle  fronti  dell'Adige  al 
Quarnaro  :  carta  storico-linguistica  ad  i  :  500  000,  Novara,  Ist.  De  Ago- 
stini, 1915. 

Le  Tre  Venezie,  Novara,  Istituto  De  Agostini,  1915. 

HI.  —  Storia  e  cronaca  della  guerra. 

La  guerra  europea  :  rassegna  settimanale  illustrata  :  diligente  e  completa  ero- 
nistoria  degli  avvenimenti^  .Milano,  Son/ogno,  1914 

A.  Fraccaroli,  La  Serbia  nella  sua  terza  guerra:  lettere  dal  campo  serbo, 
Milano,  Treves,  191 5. 

G.  Destréb,  Ciò  che  hanno  fatto  gli  Inglesi  (agosto  1914-sett.  1915)  (trad. 
It.)  Milano,  Treves,  1915. 


Bibliografia  italiana  sulla  guerra  europea  427 


E.  Modigliani,  A  Londra  durante  la  guerra^  Milano,  Treves,  1915. 
M.  Mariani,  La  Germania  nelle  sue  condizioni  militari  ed  economiche  dopo 
,  nove  mesi  di  guerra,  Milano,  Treves,  1915. 

C.  Pettinato,  Sui  campi  di  Polonia,  con  prefazione  di  E.  Sienkibwicz, 

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geografici  della  Dalmazia;  T.  De  Bacci  Venuti,  La  Dalmazia  e  la  sua 
latinità  fino  al  secolo  XI ;  P.  L;  Rambaldi,  Nel  nome  di  S,  Marco; 
A.  DuDAN,  La  Dalmazia  d^oggi;  E.  G.  Parodi,  Latinità  e  italianità 
della  Dalmazia  secondo  la  testimonianza  della  sua  lingua;  A.  Cippico, 
Delle  lettere  italiane  di  Dalmazia;  A.  Orefici,  Alcuni  cenni  sui  Dalmati 
nella  storia  dell'arte  italiana  nel  Rinascimento;  P.  Foscari,  La  Dalma- 
zia e  il  problema  strategico  de W  Adriatico  ;  G.  Tamaro,  La  reintegrazione 
nazionale  dell'Adriatico  ed  i  pericoli  d'un  irredentismi  slavo;  Indirizzo 
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G.  Prezzolini,  Ut  Dalmazia,  Firenze,  Libr.  della  Voce,  1915, 

L'Irredento,  La  questione  trentina^  Pistoia,  Tip.  Cooperativa,  1915. 

V.  Gayda,  L'Italia  d'oltre  il  confine  {Le  Provincie  italiane  d^ Austria),  To- 
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Idem,  L'arrivo  di  Bìilow,  in  Rassegna  contemporanea,  1915,1. 
Idem,  Agli  zelatori  della  fedeltà  triplicista,  in  Rassegna  contemp'.,  1914,  18. 
V.  Picardi,  Mobilitazione  giolittiana,  in  Rassegna  contemporanea,  1915,  i. 
Idem,  V ultimo  gesto  dell' on.  Giov.  Giolitti,  in  Rassegna  contemp.,  1^1'/^,  23. 

C.  Cesari,  A  cento  anni  di  distanza  {1814-1^14),  in   Rassegna  contefnpora- 

nea,  I9'i4,  18. 
M.  Bisi,  Germania  gaudente,  Milano,  Quintìeri,  1914. 
G.  A.  Di  Cesarò,  Germania  imperiale  e  il  suo  programma  in  Italia,  Firenze/ 

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P.  Bonpan TE,  Le  ragioni  politiche  della  nostra  guerra  (in  La  nostra  guerra). 
P.  Fedozzi,  L'idealità  nazionale  e  il  dovere  d'Italia  (in  La  nostra  guerra)* 
Del  Vecchio  G.,  Le  ragioni  morali  della  nostra  guerra  (in  La  nostra  guerra), 
V.  Miceli,  L'azione  degli  ideali  nella  nostra  guerra,  in  Rivista  italiana  di 
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C.  Crispolti,  /  cattolici  e  la  neutralità  dell'Italia,  in  Rassegna  contempora- 
nea, 1915,  2. 

X.  —  La  guerra  e  il  socialismo. 

A.  Graziadei,  Idealità  socialistiche  e  interessi  nazionali  nel  conflitto  europeo^ 
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S.  ViviANi,  Per  la  neutralità  assoluta  e  in  difesa  del  socialismo,  Firenze, 
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V.  Picardi,  //  manifesto  dei  socialisti,  in  Rassegna  contemporanea,  1914,  18. 

Liborio  Granone,  La  crisi  socialista,  Catania,  «  Il  domani  )»,  1914. 

XI.  -  Problemi  giuridici. 
R.  NuLU,  La  Germania  e  le  leggi  sulla  guerra,  Roma,  Regenberg,  1915. 

XII.  -  Problemi  militari  e  tecnici. 

I.  ZiNGARBLLi,  //  dominio  del  mare  nel  conflitto  anglo-germanico,  Milano*, 
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A.  LusTiG,  La  preparazione  e  la  difesa  sanitaria  dell'esercito,  Milano,  Ravà 
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XIII.  —  Problemi  economici. 

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G.  Arias,  La  nostra  guerra  e  la  ricchezza  italiana,  (in  La  nostra  guerra,  ecc.). 
S.  Raineri,  Le  ripercussioni  della  conflagrazione  sulla  economia  inondiate: 

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G.  PRiNziVAi-Li,  U Italia  nella  sua  vita  economica  di  fronte  alla  guerra  :  note 

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Idem,  Gli  Stati  belligeranti  nella  loro  vita  economica,  finanziaria  e  militare 

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G.  Preziosi,  La  Germania  alla  conquista  dell' Italia^   Firenze,   Libr.   della 

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Idem,  L'economia  del  mondo  prima,  durante  e  dopo  la  guerra  europea,  Roma, 

Athenàeum,  1915. 
U.  Ancona,  L'aspetto  finanziario  della  guerra,  Milano,  Treves,  1915. 
A.  Cabiati,  Problemi  finanziari  della  guerra,  Roma,  Àthenaeum,  1915. 
R.  Murray,  Le  condizioni  economico-finanziarie  dei  paesi  belligeranti  come 

causa  di  cessazione  della  guerra  attuale  (in  Atti  della  R.  Accademia  dei 

Georgofili),  1915. 
Il  Credito  Italiano,  La  legislazione  italiana  durante  la  guerra  nazionale, 

Varese,  1915-16. 

L.  Einaudi,  Preparazione  morale  e  preparazione  finanziaria,  Milano,  Ravà 

e  C.  1915. 

XIV.  ^  Problemi  di  coltura. 

G.  Bono,  Pangermanismo  intellettuale  e  nazionalità  italiana,  Borgomanero, 
Tip.  F.  Vecchi,  1915. 

F.  Patetta,  Civiltà  latina  e  civiltà  germanica,  in  Riforma  sociale,  novem- 
bre 1915. 

M.  Bossi,  I  pericoli  e  le  vittime  della  coltura  tedesca  nel  campo  ginecologico, 
in  Ginecologia  moderna,  191 5. 

U.  Ojetti,  L'Italia  e  la  civiltà  tedesca,  Milano,  Ravà  e  C,  1915. 

A.  Paturgo,  Civiltà,  guerre  e  conflitti,  Roma,  Voghera,  19 14. 

Gu.  Manacorda,  Civiltà  tedesca  e  civiltà  italiana,  in  Nuova  Antologia^,  16  lu- 
glio 1915. 

V.  Benetti  Brunelli,  Guerra  di  popoli  e  guerra  di  cultura,  in  Nuova 
Antologia,  12  giugno  1915. 

XV.  ~  Le  Conseguenze. 

F.  Pacc aquella,  //  domani  della  guerra  europea,  Padova,  Società  Coop.  ti- 
pografica, 191 5. 

A.  Caroti,  Dopo  la  guerra:  involuzione  o  rivoluzione?.  Libreria  Editrice 
Avanti!,  1915. 

F.  Orestano,   Verso  la  nuova  Europa,  Roma,  Inipr.  polyglotte  «  L' Univer- 

selle  »,   1915. 

XVL  '—  Biografìe  e  profìli  biografìci, 

S.  Barzilai,    Comfnemorazione   di    Giacomo    Veneziaii,    in    Annuario    della 

R,   Univerjiità  di  Bologna,  191 5- 16. 
Gu.  BiAGi,  Sidney  Sonnino,  in  Lettura,  luglio  1915. 

XVII.  —  Scritti  varii  e  di  propaganda. 

G.  ViDARi,  Scritti  filosofici  intorno  alla  guerra,  in  Rivista  di  filosofia,  1915,  4» 
C.  Delfino,  L'attuale  guerra  e  la  bancarotta  della  diplomazia,  Firenze,  Gon- 

nelli,  1915. 


434  Bibliografia  italiana  sulla  guèrra  europea 


P.  Orano,  Nel  solco  della  guerra,  Milano,  Treves,   1915. 

A.  Agocella,  L'anno  terribile  che  volge,  Napoli,  Federico  e  Àrdia,  191 5. 
D.  Bkrtolotti,  Note  intorno  alla  grande  guerra  europea,  fase,  i®,  Padova, 

F.Ui  Drucker,  1915. 

e.  M.  Gray,  //  Belgio  sotto  la  spada  tedesca,  Firenze,  Libreria  Internazio- 
nale, 191 4. 

\.  Orvieto,  La  guerra  non  nazionalista,  Bologna,  L.  Cappelli,  1915. 

Idem,  Guerra  di  popolo,  Firenze,  Nerbini,  1915. 

M.  MoRASSO,   La  nuova  guerra,  Milano,  Treves,  1915. 

U.  MoNDOLFi,  È  la  guerra  un  male  necessario  f  (Conf.),  Livorno,  Tip.  E. 
Meucci  e  C.»  1915. 

P.  Savi-Lopez,  Vanima  del  Belgio,  con  la  Ietterà  pastorale  del  card.  Mercier, 
Milaiio,  Treves,  1915. 

B.  Bacci,  L'artiglio  tedesco,  Firenze,  F.  Gonnelli,  1615. 

F.  AvETA,    Qualche  appunto  sulla  guerra,   Napoli,    Tipografia   F.   Giannini 

e  F.,  1915. 

G.  Bbrtacchi,  Davanti  alla  guerra,  Chiavenna,  C.  Caligari,  1914. 

Lo  spionaggio  austro-tedesco  in  Italia,  in  Rassegna  contemporanea,  1914,  ai. 

Illyricus,  Lxl  guerra  delle  nazioni,  in  Rivista  marittima,  1914-15. 

B.  Brugi,  Ammonimenti  sociali'  della  grande  guerra,  in  Rivista  italiana  di 
sociologia,  1915I  2. 

V.  Macchioro,  Lettere  agli  Italiani,  Napoli,  Ed.  Giornale  Roma,  1915. 

G.  Fanciulli,  La  volontà  d* Italia  ;  la  coscienza  nazionale  nel  conflitto  euro- 
peo, Y\xexii^,%tm^QX2ià,  19 15. 

P'Annunzio,  Salandra,  Boselli,  Barzilai»  Manfredi,  Colonna,  /  di- 
scorsi della  guerra,  Milano,  Esperia,  191 5. 


e^ 


IÌ^^^^ISl^lftt'l[^^^^lì 


LIBRI  RICEVUTI 


G.  Pardi,  Disegno  della  sloria  demografica  di  Firenze   (estr.   A^V Archivio 

storico  italiano,   191 6,  pp.  245). 
A.  SocJLiANO,   Porte,    torri   e    vie   di   Pompei  nell'epoca   Sannitica  (in    Atti 

della  R.  Accademia  di  archeologia,  lettere  e  belle  arti  in   Napoli,  1917), 

pp.  155-180. 
A.  Favaro,  Per  il  settimo  centeìiario  della  Università  di  Padova  (in  N.  Ar- 
chivio veneto,  N.  S.,  voi.  34*'),  pp.  5. 
G.  Lazzeri,  La  poesia  di  Guido   Gozzano  (estr.  dalla   Rassegna  nazionale^ 

\^  luglio  1917),  p.  24. 
G.  Patroni,  lipigrafe  paleocristiana  di  un  Presbyter  Berevulfus  (estr.  dalle 

Notizie  degli  Scavi,  a.  1917,  fase.  5°),  pp.  169-74. 
J.  Reinach,  Histoire  de  douze  jours  (23  juiIlet-3  aoùt    1914;,.  Paris,   Alcan, 

1917,  pp.  660. 

F.  Momigliano,  Religione,  filosofia   e  storia  della  filosofia,  Roma,  Formig- 

gini,  1917,  p.   24. 
Idem,  L'influence  franqaise  et  l'unite  allemande  d'après  J.  Mazzini  (estr.  dalla 

Reviie  des  vatìons  l aline s,  ottobre  1917),  pp.  22. 
Idem,  Giuseppe  Mazzini  eia  nostra  guerra  (èstr.  da  Conferenze  e  prolusioni  ^ 

a.  X,  nn.  17-18),*  1917. 
Ambrosoli-Ricci,  Monete  greche^    Milano,    Hoepli,    1917,'  2*    ed.,    in    i6«, 

pp.  ix-626. 
E.  Verhaeren,  //  Belgio  sanguinante  (trad.  ìt.  di   G.  Lazzeri),  Lanciano, 

Carabba,   1917,  pp.  xxxiv-158. 
R.  SÓRiGA,  //  primo  gravide  Oriente  d'Italia  (e€tr.  dal  Boll,  della  Società  pa- 
vese di  storia  patria,  gennaio-dicembre  1917),  pp.  24. 
L.  Centonze,   Papi,   Turchi  e  Crociate^  Palermo,  Trimarclii,'  1912,  pp.  67. 
A.  Sorrentino,  6*.  B.   Vico  e  le  razze  mediterranee  (estr.  dagli  Annales  de 

la  Faculté  des  Létfres  de  Bordeaux,  Bullettin  italien^  aprile-giugno  1917), 

pp.  8. 

G.  A.  Cesareo,  Italia  madre  (Discorso  per  la  inaugurazione  dell'anno  acca- 

demico àìV Accademia  Reale  di  Scienze,  lettere  e  artT)^  Palermo,  1917. 
A.  Galante,  La  politica  estera,  di  G.  Gladstone^  Botogna,  Zanichelli,  19x7 
PP-  35. 


436  Libri  ricevuti 


Ivan  Krkk,   Les  Slovènes,  trad.  par  A.  U.,   Paris,   Alcan,   1917,  pp.  85. 

G.  Patroni,  Appunti  dì  etnologia  antica  (eslr.  da  V  Archivio  per  l'Antropo- 
logia e  la  Etnologia,  voi.  XLVf,  fase.   i<»-20,   1916),  pp.  23. 

A.  Vera  Eisenstadt,  Questions  franco-italiennes  :  l'industrie  du  meublé  de 
lux  e  en  Lombardie  et  le  regime  douanier  franco-italien,  Milano,  1917, 
pp.  42. 

A.  D'Amato,  S.  Agostino  e  il  vescovo  pelagiano  Giuliano  (estr.  da  La  scuola 
cattolica,  febbraio  1917),  pp.  20. 

A.  Masson,  Histoire  complète  de  la  Revolution  russe,  Paris,  De  Boccard,  1917, 
pp.  256. 

J.  Alazàrd,  L'Italie  et  le  conjlit  européen^  Paris,  Alcan,  1917,  pp.  268. 

P.  HuvELiN,  Une  guerre  d* usure  :  la  deuxième  guerre  Punigue,  Paris,  Perrin, 
1917,  pp.  165. 

F.  Torraca,  Commemorazione  di  F.  De  Sanctis,  letta  nella  R.  Università  di 

Napoli,  il  7  giugno  1917,  Napoli,  1917,  pp.  28  in  8»  gr. 

R.  MoNDOLFO,  Dai  sogni  d'egemonia  alla  rinuncia  alla  libertà  (Discorso  per 
l'inauguraziotle  degli  studi  nella  R.  Università  di  Bologna),  Bologna,  Za- 
nichelli, 1917,  pp.  45. 

A.  Calderini,  Papiri  greci  e  libri  italiani  (estr.  dalla  Nuova  Antologia, 
!•  gennaio  1918),  pp.  7. 

£.  Romagnoli,  Minerva  e  lo  Scimmione,  Bologna,  Zanichelli  (2*  ed.),  1918, 
pp.  XLViii-239. 

G,  Prato,  Nei  regni  della  gaia  scienza,  Bari,  Laterza,  1917,  pp.  20. 

J.  Alazard,  L'Jftalie  et  le  conflit  européen,  Paris,  Alcan,  1917,  pp.  271. 
M.  Quartana,  La  donna  e  la  guerra  (Conf.),  con  prefazione  di  E.  Troilo, 

Palermo,  Di  Giorgi,  pp.  xv-20. 
A.  Mathiez,  Études  Robespierristesy  Paris,  A.  Colin,  1918,  pp.  328. 
V.  Piccoli,  Il  pensiero  di  Gioberti  scelto  dalle  migliori  sue  pagine y  Lanciano, 

Carabba,  1917,  pp.  xvi-238; 
J.  Luchaire,  Les  démocraties  italiennes,  Paris,  1917,  pp.  817. 
M.  Schifa,  Ideali  d'indipendenza  e  partiti  politici  napoletani  nel  Seicento  (in 

Atti  della  R,  Accademia  di  Archeologia^  lett.  e  Belle  arti  di  Napoli)^ 

Napoli,  1918,  pp.  183-205. 
N.  Vaccalluzzo,   La  politica  nazionale  negli  scrittori  politici  del  Risorgi^ 

mentOy  Catania,  Giannotta,  1918,  pp.  50. 
A,  Solari,  Nomi  greci  nelle  iscrizioni  latine  dell' Mtruria  (Rend.  del  R.  Istit. 

lomb.  di  se.  e  lettere),  Milano,  1918,  pp.  141-53. 
G.  Ferrerò,  e  C.  Barbagallo,  A  short  History  0/  Rome,  voi.  I  (a.  754-44 

B.  C),  New  York  and  London,  G.  P.  Putnam's  Sons,  1918,  pp.  vii-510. 

A  scanso  di  equivoci  e  di  erronee  interpretazioni  dichiariamo  una  volta 
per  tutte  che  del  contenuto  SPECIFICO  del  singoli  articoli  la  responsabi- 
lità appartiene  interamente  agli  autori  che  li  sottoscrivono. 

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A.  Medici,  Gerènte  responsabile. 


Città  di  Castello,  Tipografia  della  Casa  Editrice  S.  tapi,  1919, 


Anno  U.  Settembre- Dicembre  1918.  Fasc.  V-VI. 


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GIUSEPPE  FRACCAROLI 

La  battaglia  contro  il  fiioìogismo.^ 

11  Frìiccaroli  polemista. 

.......  Mi  resta  a  discorrere  del  Fraccarolì  polemista. 

Chi  lo  conobbe  solo  di  persona  stenterà  forse  a  sospettare  in  lui 
tale  qualità,  del  resto  non  comune  agli  studiosi  dì  cose  antiche  in 
Italia.  Pochi  invero,  rievocando  il  suo  aspetto  più  invecchiato  che  Tetà 
non  facesse,  il  visibile  logorio  dell'intenso  lavoro,  la  bonarietà  del 
conversare,  anzi,  la  facilità  di  consentire  nelle  opinioni  dell'interlocutore, 
pochi,  ripeto,  avrebbero  sospettato  in  quell'affaticato  operaio  del 
pensiero  una  tempra  di  polemista  di  prim'ordine-  Eppure  è  così.  11 
Fraccaroli  aveva,  nella  sua  vita,  nel  suo  pensiero,  come  delle  idee-madri, 
che  lo  reggevano,  delle  convinzioni  saldissime,  che  gli  si  erano  radicate 
nell'anima,  e  per  esse  egli  era  pronto  a  scendere  in  campo,  a  lancia  e 
ìpada,  in  ogni  luogo,  in  qualunque  momento,  contro  chicchessia. 
Quelle  idee-madri  —  vivaddio!  —  non  erano,  come  per  altri,  la  scelta 
di  una  variante;  non  già  —  poniamo  —  questa  o  quell'altra  tesi 
intorno  alla  cronologia  delle  odi  di  Pindaro  da  lui  tanto  amato.  Erano 
invece  —  gloria  a  lui  !  —  le  idee  più  alte  e  più  profonde  che  sorreggano 
la  vita  morale  e  intellettuale  dell'uomo.  Questo  è  infatti  ciò  che  contra- 
distingue la  buona  dalla  mala  polemica.  Il  volgo,  con  la  sua  tendenza 


1  Da  uno  studio  di  imminente  pubblicazione  :  Giuseppe  Fraccarolì  (5  maggio  1849- 
23  settembre  1918),  Bologna.  N.  Zanichelli,  1919. 


43S  Corrado  Barhagallo 


alia  confusione  e  all'equivoco,  è  incline  ad  avvolgere  in  un  comune 
sfavorevole  giudizio  tutte  le  polemiche  e  tutti  i  polemizzanti,  a  qualificar 
tutto  e  tutti  di  pettegolezzo.  Eppure  il  diritto  (o  il  dovere?)  della  po- 
lemica è  sacro,  e  vi  rinunziano  soltanto  quelli  che  non  sanno  né  amare 
né  odiare,  e  per  cui  il  bene  e  il  male  restano  quantità  indifferenti. 
Chi  invece  ha  nella  vita  delle  fedi,  dei  culti,  chi  crede  veramente  in 
qualche  cosa  é  un  disputatore  nato  e  considera,  non  può  non  consi- 
derare, la  sua  carriera  come  una  militia  hominis  super  terram.  Tale, 
dicevo,  fu  nella  sua  non  lunghissima,  ma  non  breve,  esistenza,  il  Frac- 
caroli.  E  fu  uno  dei  migliori  e  dei  maggiori  polemisti  italiani  contem- 
poranei. 

La  sua  polemica  ha  una  fisonomia  speciale,  che  non  permette 
di  confonderla  con  altre.  La  sua  vis  polemica  non  possiede  l'irruenza 
alogica,  e  pur  travolgente,  di  Giosuè  Carducci  ;  non  possiede  neanche, 
per  venire  a  più  umile  paragone,  lo  scintillio  fosforescente  della 
polemica  di  uno  dei  nostri  scrittori  e  giornalisti  più  popolari,  Gaetano 
Salvemini,  il  quale,  ad  ogni  attacco,  sembra  serrare  l'avversario  tra  due 
lame  di  spade.  La  sua  polemica  è  meno  irruente,  meno  recisa,  più 
borghese  ;  somiglia  più  da  vicino  a  quella  di  Benedetto  Croce,  sebbene 
l'ironia,  che  vi  é  diffusa,  porti  seco  assai  meno  di  asprezza  intima. 
Essa  ha  qualcòsa  di  più  manzoniano,  di  più  socratico,  di  più  bonario. 
Il  discutente,  molte  volte,  ha  l'aria  di  concedere,  anzi  concede  volontieri. 
Ciò  gli  serve,  talora,  a  ristabilire  la  misura,  l'equilibrio,  a  non  pas- 
sare n)ai  i  limiti  della  verità;  nia,  tal'altra,  dopo  la  concessione,  egli  ha 
come  un  possente  balzo  logico,  per  cui  l'avversario  è  preso  alle  spalle 
e  costretto  ad  atterrare.  Come  in  Socrate,  la  sua  argomentazione  muove 
talora  dagli  esempi  più  umili.  Alcibiade  redivivo  potrebbe  ripetere  di 
lui  «  ch'egli  parla  spesso  e  volentieri  di  asini  da  basto,  di  calderari, 
di  ciabattini,  di  cuoiai,  e  sempre  coi  mezzi  medesimi  pare  che  dica 
le  medesime  cose,  talché  la  gente  sciocca  e  ignorante  potrebbe  ridere 
dei  suoi  discprsi  ».  Ma  provatevi  a  guardarvi  dietro,  a  seguirli  fin  in 
fondo,  e  vi  accorgerete  che  si  tratta  solo  di  punti  di  appoggio  e  di 
partenza,  e  che  le  sue  conclusioni  «  riguardano  le  cose  più  alte  e  più 
nobili  e  che  i  suoi  discorsi  sono  i  soli  che  abbiano  senno  e  »,  come 
i  discorsi  socratici,  «  siano  quelli  che  contengono  più  immagini  dì 
virtù  ». 

Raramente  la  sua  polemica  ha  voli  lirici  ;  poggia  sempre  invece 
su  delle  basi  molto  solide  ;  reca  con  sé  uno  scrupolo  non  comune  —  ed 
è  questa  una  sua  grande  forza  —  dell'accertamento  dei  fatti  e  delle  idee. 
Ma,  allorché,  dopo  un  lungo  procedere  dall'apparenza  dinoccolata,  egli, 
il  polemista,  si  accende  e  comincia  a  levarsi  in  una  regione  superiore, 
la  commozione  del  lettore  è  profonda,  perchè  egfi  si  sente  sforzato 


Giuseppe  Fraccaroli  439 


senza  saperlo,  a  completare,  a  oltrepassare  la  tonalità  raggiunta  dal 
discutente.  E  il  peana  di  trionfo,  che  questi  non  vuole  cantare,  viene  per 
lui  intonato  irresisti|?ilmente  dal  suo  ascoltatore. 

Ma  assai  più  importante  è  indicare  per  quali  idee  il  Fraccaroli  si 
sia,  attraverso  tutta  la  sua  vita,  battuto.  Esse  possono  ridursi  a  tre: 
si  battè  sempre,  costantemente,  contro  l'insegnamento  retorico  nelle 
scuole;  si  battè  per  la  restaurazione  della  classicità  nell'educazione 
nazionale;  si  battè  infine  fieramente,  in  una  lotta,  per  lui  più  aspra 
e  cotidiana:  la  battaglia  contro  il  filologismo  italiano.  Tale  il  conte- 
nuto, cui  si  applicò  la  sua  virtù  polemica.'  E,  poiché  io  ho  discorso 
dei  due  primi  punti,  là  dove  mi  sono  intrattenuto  dell'ellenista  e  del 
maestro,  non  mi  rimane  che  toccare  del  terzo,  ma  non  più  per 
accenni,  sibbene  distesamente,  come  l' interesse  della  cosa  rende  ne- 
cessario. 

Una  lottaepica  d'altri  tempi. 

Per  rendere  un'idea  della  lotta,  anzi,  delle  sue  necessità,  non  oc- 
corre qui  premettere  e  dichiarare,  come  pure  in  altri  casi  è  stato  utile, 
che  il  filologismo,  contro  cui  il  Fraccaroli  e  noi  stessi  combattiamo, 
non  è  punto  lo  sforzo  di  accertare  e  chiarire  i  fatti  della  letteratura 
e  della  storia  prima  di  discorrerne,  come  in  buona  o  mala  fede  taluno 
vorrebbe  insinuare.  Questo  non  è  il  filologismo,  come  il  petrarchismo 
non  è  il  Petrarca,  o  il  d'annunziunismo  non  è  D'Annunzio.  È  un'altra 
cosa,  che  fra  breve  diremo  cosa  sia.  Occorre  invece  insegnare  ai  nostri 
filologi  quello  che  essi,  ignari  delle  origini  della  storia  e  delle  finalità 
della  propria  disciplina,  non  sanno,  che  cioè  la  lotta,  che  noi,  in 
sui  primi  del  secolo  ventesimo,  abbiamo  ingaggiata  contro  il  dominio 
universale  del  filologismo,  è  soltanto  una  ripresa  in  piccolo  stile  di  una 
colossale  battaglia,  che  la  grande  filologia  tedesca  del  secolo  XIX  —  la 
filologia  dei  Wolf,  dei  Boeckh,  dei  Mueller,  ecc.  —  combattè  e  vinse 
contro  i  piccoli  uomini  di  quel  tempo,  che  della  filologia  volevano  fare 
quella  certa  cosa  che  in  seguito,  in  Germania,  ma  più  assai  in  Italia, 
è  stata  fatta. 

A  mezzo  il  secolo  XIX,  anzi,  nella  sua  prima  metà,  per  una  parte  dt 
gli  studiosi  tedeschi,  filologia  doveva  essere  lo  studio  della  lingua,  delle 
forme  letterarie  degli  antichi  popoli  classici,  e,  in  via  subordinata,  degli 
staccati  elementi  del  contenuto  di  quelle  opere,  e  solo  ed  in  quanto 
ciò  servisse  a  renderle  intelligibili.  A  questa  scuola,  che  capeggiò 
G.  Hermann,  e  la  quale,  senza  aver  nulla  del  fuoco  sacro  dell'umane- 
simo, nulla  portava  in  sé  della  grandezza  dello  storicismo  romantico; 
a  questa  scuola  di  grammatici,  di  ermeneuti,  di  critici,  e  in  parte  anche 


440  Corrado  Barbagallo 


di  retori,  si  contrapposero  prima  F.  A.  Wolf,  poi  i  suoi  discepoli,  per 
altro  assai  più  lucidi,  più  «  latini  »  di  lui.  Augusto  Boeckh  e  Carlo 
Otofredo  Mueller.  Essi,  nutriti  delle  possenti  midolla  della  filosofia 
idealistica  tedesca,  presi  già  dairinvadente  passione  del  nuovo  roman- 
ticismo per  la  storia,  rovesciarono  senz'altro  i  termini  della  questione 
e  della  sua  soluzione.  No,  la  filologia  non  deve  essere  principalmente 
uno  studio  delle  forme  letterarie,  e  neanche  dei  frammenti  del  loro 
contenuto,  per  quello  che  ciò  può  valere  a  rendere  intelligìbili  i  testi; 
là  filologia  non  può  essere  solo  grammatica,  linguistica,  metrica,  eru- 
dizione. Filologia  deve  essere  il  principal  mezzo  di  ricerca  per  lo  studio 
dello  spirito  umano;  deve  collegarsi  con  la  politica,  con  la  filosofia, 
la  mitologia,  l'archeologia,  Teconomia,  ecc.  Bisogna,  proseguivano  essi, 
considerare  l'antichità  come  un  tutto  organico,  armonico,  animato  da 
uno  spirito,  che  ovunque  espande  il  suo  afflato,  e  ovunque  rimane 
uguale  a  se  stesso,  pur.  sotto  forme  diverse.  Il  compito  e  il  fine  della 
filologia  sonò  appunto  di  concepire  questo  mondo  e  di  presentarlo 
nella  sua  totalità  organica.  La  filologia  studierà  le  lingue  e  i  monu- 
menti letterari,  ma  solo  per  arrivare  all'essenza  intellettuale  delle  nazioni, 
per  penetrarla.  La  filologia  appartiene  alla  storia;  è  atìzi  storia,  nel 
concetto  più  alto,  più  profondo,  più  organico.' 

«  Limitare,  essi  incalzavano,  il  proprio  studio  alla  esegesi  degli 
autori  è  tanto  arbitrario  ed  errato,  quanto  per  il  botanico  limitarsi 
alla  classificazione  di  un  erbario.  Come  questi  si  propone  lo  studio 
di  tutto  il  mondo  vegetale,  così  la  filologia  persegue  la  intelligenza 
completa  della  vita  morale  del  mondo  greco-latino,  e  tende  ad  assi- 
milarsi questa  vita  tutta  intera  con  Vintelligenza,  col  sentimento,  con 
V immaginazione....  ».^  La  filologia,  aveva  detto  A.  Wolf,  «  è  l'insieme 
delle  conoscenze  storiche  e  filosofiche,  per  cui  noi  possiamo  appren- 
dere a  conoscere  le  nazioni  del  mondo  antico  o  dell'antichità  in  tatti 
i  sensi  possibili  e  immaginabili...,  ».^  «  La  filologia  »,  ribadiva  C.  O. 
Mueller,  «  non  si  propone  di  precisare  fatti  particolari,  né  di  conoscere 
forme  astratte,  ma  di  abbracciare  lo  spirito  antico  tatto  intero  nelle  opere 
della  ragione,  del  sentimento,  della  immaginazione^.  Cotale  studio, 
infine,  non  doveva  rimanere  chiuso  in  Sé  stesso:  la  penetrazione  del 


t  K.  HiLLEBRAND,  Étude  sur  e.  O.  MSller  et  son  «:(;/f  (nella  sua  trad.  della  LiY- 
tératare  grecqae  del  Mììller,  Paris  (2*  ed.)i  1866,  I,  p.  LVII),  che  io  adopero  larga- 
mente per  questa  parte.  L'unico  studio  italiano  utilizzabile  sull'argomento  è  quello 
-di  E.  CiccoTTi,  V evoluzione  della  storiografia,  ecc.,  ìnBibl.  di  st.  economica,  I,  pp. 
LI  sgg.  n  Manuale  di  filologia  classica  di  L.  Va  lm  aggi  (Torino-Palermo,  Qausen, 
1891),  è,  per  questa  parte,  insufficientissirao  e  difettosissimo. 

*  Uber  die  Encyklopàdié  d.  Alterthumswissenschaft,  Leipzig,  Qiirther,  1836  <cit. 

in  HiLLEBRÀND,  Op.  CÌt.,  p.  LIX,  11.   1).' 


Giuseppe  Fraccaroli  441 


contenuto  e  dello  spirito  delle  opere  antiche  —  insegnava  àncora  il 
Wolf  —  doveva  implicare  la  comparazione  di  quella  vita  con  la  vita, 
con  la  storia  successiva  e  con  la  vita  odierna.  Solo  in  tal  modo  Vintel- 
ligenza  e  il  godimento  ne  diventavano  possibili,  utili,  completi/ 

Allora,  come  oggi,  di  contro  a  questa  grandiosa  e  nobile  conce- 
zione, i  filologi  puri  contrapponevano,  e  lanciavano  sugli  avversari,  l'ac- 
cusa di  voler  nascondere,  dietro  la  risonanza  delle  parole,  l'ignoranza 
degli  elementi  della  materia;  rimproveravan  loro  l'imprudente  «  immode- 
stia »  delle  concezioni  e  delle  opere,  ed  esaltavano  a  sé  medesimi  la  gran- 
dezza del  proprio  compito  dì  ermeneuti  e  di  grammatici,  così  a  torto 
misconosciuto  dal  volgo  indotto  e  presuntuoso.  Allora,  come  oggi,  essi 
pretendevano  giocare  all'equivoco,  dichiarando  di  volere  anch'essi  quello 
che  gli  avversari  volevano.-  Ed  allora,  come  oggi,  contro  questi  facili 
censori,  pieni  di  boria,  di  falsa  modestia  e  di  acredine,  i  filologi  della 
nuova  scuola,  per  bocca  di  A.  Boeck,  replicavano  accusando: 

«  Poiché  non  ci  si  volle  staccare  soltanto  da  un  falso  indirizzo  di  una. 
filosofia,  ma  dalla  filosofia  stessa,  e  e!  si  volle  restrìngere  nell'indagine 
speciale,  lo  studio  dell'antichità  ■  si  è  straordinariamente  spezzettato. 
Mancano  al  maggior  numero  idee  generali,  manca  lo  sguardo  che  dal- 
l'alto abbraccia  tutto  un  orizzonte  ;  tutto  è  fatto  a  pezzi  e  a  bocconi 
nelle  loro  teste;  perciò  non  hanno  né  un  concetto  dell'estensione,  né 
una  profonda  idea  del  contenuto  stesso  della  scienza  delle  antichità: 
conoscono  solo  dei  singoli  dati  in  cui  si  perde  il  loro  pensiero.  In 
conseguenza  di  questa  unilateralità,  accanto  alla  vera  critica,  ha  fatto 
fortuna  la  p scudo- critica  più  superficiale,  che  si  manifesta  in  virtuosità 
grammaticali,  in  una  ridicola  caccia  alle  congetture  e  in  una  smania 
di  revocar  tutto  in  dubbio;  ma  alla  ricerca  obbiettiva  manca  il  grande 
spirito  dell'erudizione  del  secolo  decimosesto  e  al  posto  dell'entusiasmo 
del  secolo  decimoquinto  è  subentrata  una  esagerata  rigidità.  In  tali 
condizioni  non  v'è  punto  da  fare  le  meraviglie  che  la  scienza  delFanti- 
chità  abbia  perduto  terreno  ».* 

Nell'epico  duello,  ì  novatori,  gli  eretici,  gli  imprudenti,  gli  impu- 
tati di  faciloneria,  trionfarono,  e  la  grande  filologia  tedesca  nacque,  e 
riuscì,  per  lóro  mezzo,  e  in  loro  nome,  a  dominare  il  mondo  e  a  fog- 
giare in  anticipazione  la  rinomanza  dei  futuri  minuscoli,  degeneri  epi- 
goni, i  quali  tra  non  molto  torneranno  da  capo  a  perpetrare  tutto  quello 
che  i  loro  padri,  lottando  e  soffrendo,  avevano  stigmatizzato  e  combattuto, 


1  Wolf  e  Butmann,  Maseum  d.  Alterthums,  I  (1807),  p.  30;  A.  Bòckh,  Encyklo- 
pàdie  und  Methodologie  d.  philos.  Wissensckaft,  Leipzig,  1886,  ppl  40-41. 

«  G.  Hermann,  Uber  Herrnprof.BockWsBehandlungd.griechischelnschriften^ 
London,  1826,  pp.  3  sgg. 

»  Encyklopàdie  und  Methodologie,  p.  307. 


442  Corrado  Barbagallo 


11  filologisiiio  letterario  in  Italia. 

Ma  la  grande  ragione  del  successo  si  ascondeva  nelle  forze  spi- 
rituali, che  la  battaglia  e  la  vittoria  avevano  alimentato.  I  trionfatori 
erano  alunni  e  seguaci  della  grande  filosofia  idealistica  tedesca  dei 
secoli  XVIll-XIX,  che  riempiva  di  sé  ancora  la, Germania;  i  trionfatori 
recavano  in  cuore  quella  favilla  della  grande  passione  storica,  che, 
novello  Prometeo,  il  romanticismo  avea  portato  nel  mondo.  Fra  poco 
l'uno  e  Taltro  fuoco  si  sarebbero  spenti,  e  la  filologia,  la  nobile  Signora 
della  coltura  moderna,  non  sarebbe  stata  che  un  grande  cadavere,  che, 
col  suo  contatto  e  col  suo  incubo,  tutto  avrebbe  ammorbato. 

Il  nuovo  rivolgimento  si  manifestò  in  Germania  all' incirca  verso 
il  1865-1880,  in  dipendenza  dei  nuovi  indirizzi  filosofici  del  secolo.  Ma, 
per  nostra  sciagura,  presso  di  noi,  il  male  non  si  limitò  all'antichità 
classica,  si  estese  a  tutta  la  coltura  letteraria  e  storica.  Allora  infatti 
quello  che  si  chiamò  filologia^  in  rapporto  alle  letterature  classiche,  si 
chiamò  critica  storica  (sic/)  in  rapporto  alle  letterature  moderne;  si 
chiamò  critica  delle  fonti  in  rapporto  alla  storiografia. 

Siamo  adesso  nel  momento  in  cui  il  grido  famoso  K^in  Metafhysik 
niehrì  è  risonato  per  le  aule  e  per  le  piazze  della  scienza  germanica,  e 
l'eco  dapprima  confusa  s'è  ripercossa  largamente  in  Francia  e  in  Italia.^ 
Siamo  nel  momento  in  cui  il  positivismo  trionfa  in  filosofia,  e  la  moda 
realistica,  in  arte.  1  letterati  di  questo  tempo  non  hanno,  in  genere,  con- 
sapevolezza del  rapporto  tra  i  due  indirizzi,  perchè,  a  essere  letterati,  ce 
n'è  per  loro  anche  di  troppo,  e  la  filosofia  è,  per  le  loro  menti  piccine, 
niente  altro  che  vacua  metafisica.  Non  sanno,  ad  esempio,  né  si  accorgono, 
che  il  positivismo  filosofico  del  tempo  è  la  cosa  meno  positiva  di  que- 
sto mondo;  che,  anzi,  la  sua  caratteristica  è  quella  di  scostarsi  dalla 
ragion  positiva  delle  cose,  dall'accertamento  severo  dei  fatti.  Non  si 
accorgono  che  il  positivismo  italiano  —  orribile  a  dirsi!  —  è  di  marca 
francese,  non  tedesca,  laddove  essi,  i  filologi,  non  vogliono  andar  dietro 
che  a  una  sola  luce  ideale:  quella  che  vieh  di  Germania.  Non  si  ac- 
corgonor  o  non  sanno  che  il  positivismo  si  collega  a  un  indirizzo  de- 
mocratico della  vita  sociale,  laddove  essi,  come  cittadini,  vogliono  essere 
dei  buoni  conservatori,  come  più  tardi  vorranno  essere  dei  buoni  na- 
zionalisti. Tuttavia  fanno  anch'essi,  alla  cieca,  del  positivismo  in  lette- 


»  P.  ViLLARi,  La  filosofia  positiva  €  il  metodo  storico,  in  Arte,  Storia  e  Filo- 
sofia, Firenze,  Sansoni,  1884;  p.  443;  cfr.  Gu.  De  Ruggiero,  La  filosofia  contempo- 
ranea, Bari,  Laterza,  1912,  parie  I,  cap.  I;  parte  II,  pp.  145-50* 


Giuseppe  Fraccaroli  443 


ratiira,  ossia,  come  Io  chiamano,  del  metodo  critico,  della  «  critica 
storica  >,  della  filologia 

Dello  stato  generale  della  coltura  letteraria  italiana  in  pieno  regime 
di  positivismo  scrissero,  or  sono  tredici  anni,  due  giovani  pieni  d'in- 
gegno, di  coltura,  di  spirito,  Giuseppe  Prezzolini  e  Giuseppe  Papini, 
disegnando  e  colorendo  un  quadro  mirabile  in  pagine,  che  oggi  mette 
conto  richiamare  e  ripocare.* 

In  quelle  pagine,  piene  di  vita  e  di  fuoco,  essi  descrivevano  il  «  me- 
todo »  dei  nuovi  studii  critico-letterarii  in  Italia.  Il  primo  canone  di  code- 
sto «  metodo  »  era  di  cacciar  dalla  mente  ogni  passione,  ogni  sistema, 
ogni  idea  che  sorgesse  prima  dei  fatti.  La  mente  doveva  essere  una  tabula 
rasa..,:  questa  era  la  scientificità  del  «  metodo  ».  Il  secondo  canone 
consisteva  nella  più  rigorosa  divisione  del  lavoro:  bisognava  frantu- 
mare tutta  la  storia  letteraria  in  quadratini  minuti,  a  seconda  i  tempi 
e  i  generi,  ed  ogni  studioso  doveva  attaccarsi  solo  a  uno  di  codesti 
quadratini  :  un  poetucolo,  un'operetta,  un  manoscritto  inedito.  Era  le- 
cito al  massimo  prendere  per  sé  due  o  tre  quadratini  contigui.  Chi 
aveva  del  genio  si  slanciava  a  varii  quadratini  staccati.  Ma  non  oltre! 
Solo  i  grandi  professori,  dopo  aver  raccolto  con  l'aiuto  di  scolari  di- 
ligenti e  ossequiosi  gran  numero  di  schede,  facevano  un  lavoro  di 
sintesi,  ossia  una...  monografia  sur  un  secolo  o  sur  un  autore,  che  ì 
più  prudenti,  del  resto,  non  vedevano  di  buon  occhio...  Il  terzo  canone 
era  la  ricerca  óeìV inedito.  V inedito  era  il  secondo  Iddio  del  letterato 
contabile  dopo  la  monografia.  Importantissima  l'esattezza  formale  del- 
l'inedito, ossia  la  riproduzione  secondo  la  vecchia  grafia,  ossia  la  ri- 
duzione «  a  migh'or  lezione  »,  ossia  la  illegibilità  perfetta  del  testo  ora 
pubblicato... 

Le  conseguenze  di  un  tale  «  metodo  »  furono  facili  a  constatare:  la 
compressione  delle  ^qualità  passionali,  che  avrebbero  potuto  far  deviare 
dal  lavoro  metodico,  l'umiliazione  delle  facoltà  creative.  Come  mai  lo 
studente  —  manovale  in  sott'ordine,  allenato  per  tutta  la  vita  a  mu- 
rar mattoni  —  sarebbe  stato  poi  capace  di  tentare  il  disegno  di  uri 
edifizio?  Infine,  la  distruzione  organica  di  ogni  attitudine  sintetica. 
Dove  chi  non  ha  mai  lavorato  in  vista  di  un'idea,  di  un  sistema  «tro- 
verebbe le  idee,  il  disegno,  il  sistema  per  dominare  i  fatti?  E  i  fatti 
potrebbero  esser  adatti  ad  una  sintesi  se  sono  stati  cavati  fuori  senza 
alcun  criterio?  Cosa  direste  di  un  ingegnere  che  facesse  tagliar  pietre, 
comprar  mattoni  e  inumidir  calce  senza  sapere  cosa  costruire?  > 

Ma  chi  avesse  guardato  bene  avrebbe  trovato  che,  insieme  con  la 


1  Lo  scritto  —  del  1905  —  porta  come  tìtolo  «  //  metodo  storico  *:  Ftt  ripubbli- 
cato nel  volume  La  Coltura  italianat  Finnzti  Lumachi,  1906. 


444  Corrado  Barbagalio 


sintesi,  $i  veniva  a  distruggere  il  valore,  anzi  la  possibilità  di  qualsiasi 
analisi.  Un  documento,  un'ppera  han  valore  e  significato  sqIo  se  si  con- 
siderano insieme  a  tutti  gli  altri  documenti,  a  tutte  le  altre  opere  del 
loro  tempo  o  dei  tempi  passati,  se  si  riuniscono  a  noi  medesimi  come 
esseri  creativi,  cioè  solo  se  vi  sì  porge  l'addentellato  di  una  vera  è 
propria  sintesi...  In  altri  termini,  ogni  analisi  presuppone  necessaria- 
mente una  sintesi.,.  La  conclusione  era  la  seguente,  e  nella  sostanza 
ricordava  troppo  le  parole  di  A.  Boeckh,  che  sopra  abbiamo  riferite: 
«I  sostenitori  del  metodo  storico  non  hanno  fatto  che  aiutare  la 
barbarie  burocratica,  il  cinesismo  formale,  la  piccolezza  e  1a  vigliac- 
cherìa dell'Italia...  I  loro  libri  non  trattano  che  dell'abito  e  dimenticano 
il  corpo  dei  tempi.  Non  c'è  mai  uno  sforzo  di  simpatìa,  un  volo  di 
poesia,  un  grido  di  entusiasmo  e  di  violenza,  che  evochi  i  fantasmi 
del  passato.  Non  c'è  che  la  pura  lettera,  il  tempio  senza  il  santuario, 
il  cibario  privo  dell'ostia.  In  tal  modo  hanno  allevato  una  generazione 
di  copisti  idioti,  di  contabili  freddi,  di  professori  pedanti,  di  istruttori 
inabili,  di  specialisti  ristretti.  Hanno  insegnato  il  disprezzo  per  le  grandi 
opere,  per  l'amore  degli  eroi,  per  la  tentazione  dell'assurdo,  per  il 
gusto  dello  straordinario...  Svelare  le  favole,  meccanicizzare  il  genio 
ridurre  le  creazioni  individuali  a  compilazioni  ingegnose  di  opere  delU 

folla ,  solennizzare  come  conquista  ogni  riduzione  della  divinità  umane 

alla  macchina,  tale  è  stata  la  loro  opera.  Cioè,  per  noi,  uno  dei  mag 
glori  ingombri  che  l'uomo  abbia  potuto  incontrare  nel  suo  cammino 
per  farsi  eguale  a  Dio». 

Il  neo-filologtsmo  negli  studii  classici. 

Tale  il  quadro  generale  —  efficacissimo.  Ma,  per  renderlo  completo, 
per  adattarlo  al  nostro  speciale  soggetto,  occorre  tracciarvi  alcune  altre 
linee  particolari,  che  i  due  giovani  autori  non  vi  descrissero,  e,  così 
completato,  metterlo  a  fianco  dell'altro  quadro,  che  di  sé  stessa  dette 
al  mondo  l'Italia  studiosa  delle  letterature  classichei  innanzi  il  fatale 
decennio  1870-80. 

La  vecchia  Italia  aveva  amato  i  poeti,  ì  prosatori  antichi,  li  avea 
studiati,  li  avea  tenuti  compagni  delle  sue  gioie  o  dei  suoi  dolori;  li 
avea  considerati  parte  della  sua  anima,  e  quella  vita  avea  giudicata 
come  un  antecedente,  come  un  elemento  necessario  della  sua  storia 
presente.  Così  i  nostri  letterati  dal  secolo  XV  al  secolo  XIX  aveano 
letto  per  disteso  tutti  i  nostri  grandi  classici,  li  aveano  appresi  a  me- 
moria, ne  esponevano  le  dottrine,  ne  parafrasavano  le  sentenze,  ne 
traducevano  largamente  i  versi  e  la  prosa.  E,  allorché  essi  passavano 
dalla  pura  contenipiazione  artistica  alla  ricerca  erudita,  si  gettavano 


Giuseppe  Fraccaroli  445 


con  ansia  dì  febbre  in  quel  mondo  disparso,  ch'era-  un  po'  anche  il 
loro;  vi  frugavano  dentro  con  passione;  ne  esumavano  in  copia  le 
ruine,  e  qgnì  frammento  del  passato  —  gli  scritti,  le  medaglie,  le  statue^ 
le  pietre  preziose  —  era  per  essi  come  il  segno  di  una  vita,  era  trat- 
tato come  cosa  viva;  e  per  essi  i  palazzi,  i  circhi,  i  templi,  i  monu- 
menti funerarii  rivivevano  per  narrare  la  grandezza  passata,  per  esserne 
di  nuovo  testimoni  ^parlanti  e  palpitanti.  Tali  furono  i  nostri  classicisti, 
ì  nostri  grandi  eruditi,  per  ben  quattro  secoli  della  nostra  istoria  mo- 
derna. 

Per  certo,  quel  modo  di  amare  e  di  lavorare  portava  seco  qualche 
inconveniente'.  L'amore  per  la  forma  di  quelle  letterature  avea  portato 
la  manìa  di  rifare  l'antico,  ossia  di  trasfondere  il  nuovo,  tutto  il  nuovo, 
immancabilmente,  in  forme  antiche.  La  fretta  di  percorrere  e  divorare 
il  materiale  erudito  provocava  talora  scoperte  o  resultanze  fallaci.  Tut- 
tavia, attraverso  gli  errori  e  gli  eccessi,  la  fiamma  pura  del  classicismo 
ardeva  e  ispirava  l'arte,  la  letteratura,  la  vita  stessa. 

Ma,  dopo  il  1870,  avvenne  il  contrario.  Sull'esempio  e  dietro  l'an- 
dazzo di  quella  specifica  forma  del  nuovo  filologismo  tedesco,  con 
cui  essi,  ultimi  arrivati  entrarono  in  contatto;  abbarbagliati  dal  fascino 
della  nuova  vittoriosa  e  grande  Germania,  i  nostri  studiosi  principia- 
rono a  considerare  l'antichità,  quella  letteratura,  quella  poesia,  non  più 
per  la  vita  che  rappresentavano,  per  la  loro  arte,  per  il  loro  spiritò, 
ma  per  le  occasioni  di  dissertare,  ch'esse  potevano  offrire.  Per  l' innanzi, 
si  era  studiata  la  metrica  di  Plauto  o  di  Orazio  perché  si  era  amata 
quella  poesia;  ora  si  lesse  Plauto  ed  Orazio  perchè  le  esigenze  di  una 
tesi  dottorale  imponevano  m\  excursus  sulla  metrica  dell'uno  e  dell'al- 
tro. E  Plauto  ed  Orazioj  come  Omero  e  Virgilio,  non  furono  conside- 
rati nel  complesso  e  nella  vita  del  loro  tempo,  nella  bellezza  defl'arte 
loro,  ma,  staccati  da  tutto^ciò.  Vennero  esaminati  alla  nuda  e  fredda 
tavola  anatomica,  perchè  di  qualche  loro  particolare  si  avesse  à  scri- 
vere, anzi,  propriamente,  a  dissertare  e  a  discutere.  Così  l'arte,  la  poesia, 
la  vita,  l'uomo,  la  storia  non  furono  che  pretesti,  e  quello  che  in  tutti 
i  casi  andò  perduto  fu  la  grande  anima,  la  vita  intima  del  soggetto 
trattato. 

Di  questa  critica  potrebbe  ripetersi  a  meraviglia  quello  stesso  che 
era  stato  osservato  intorno  all'arte  di  padre  Bresciani.  Pel  Bresciani 
l'uomo  era  un  pretesto  per  descrivere  delle  scene,  e  ogni  scena,  un 
pretesto  per  descrivere  i  suoi  particolari: 

«  Pio  IX  si  affaccia  al  balcone  della  reggia  di  Portici  perchè  l'autore 
ci  possa  descrivere  le  bellezze  del  golfo  di  Napoli.  Pio  IX  fa  una  ca- 
valcata alla  Basilica  Lateranense  perchè  il  Bresciani  ci  possa  far  vedere 
la  squadra  dei  dragoni  a  cavallo,  i  trombetti  degli  Svizzeri^  i  camerieri 


44^  Corrado  Barbagallo 


d'onore,  i  camerieri  ecclesiastici  »,  ecc.  ecc.  «  E  i  dragoni  ci  stanno  per 
farci  vedere  il  berrettone  e  i  guanti  e  gli  stivali;  e  ci  stanno  i  came- 
rieri perchè  vedessimo  le  belle  guarnacchette  e  le  falde  e  i  calzoni  e 
i  calzarini;  e  ci  stanno  i  camerieri  ecclesiastici  per  la  loro  cappa  magna, 
i  cappuccioni  e  ì  cavalli  di  rosso  fiammante...  Che  bella  carrozza!  Che 
bei  cavalli!  Che  belle  vesti!  Oh,  i  bei  guanti!  Oh,  le  belle  gualdrappe!... 
Così  grida  la  stupida  plebe,  quando  passano  processioni  o  mascherate, 
con  un'ammirazione  uguale  per  il  cavallo  e  per  il  cavaliere.  E  se  Bar- 
tolo si  piglia  il  caffè,  egli  è  perchè  l'autore  ci  mostri  in  che  guisa^s'ha 
da  fare  il  caffè,;.  L'Uomo  vi  sta  per  il  suo  cavallo,  l'attore  per  le  scene, 
Bartolo  per  il  suo  caffè...  Il  cervello  del  Bresciani,  nel  libro,  ci  sta 
perchè  egli  abbia  un  pretesto  di  descrivere  il  berretto...  ».* 

Analogamente,  nella  nuova  scienza  filologica,  la  poesia  ci  stette 
per  il  suo^contenuto;  questo,  per  i  suoi  particolari;  i  particolari,  per 
il  codice  che  li  descriveva;  il  codice,  per  le  sue  varianti;  le  varianti 
per  gli  amanuensi  ;  gli  amanuensi,  per  le  congetture,  e  la  «  plebe  » 
filologica  s'avvezzò  a  trovar  tutto  ugualmente  bello,  ugualmente  inte- 
ressante.... 

Nacquero  così  le  dissertazioni  critiche,  che  andarono  man  mano, 
sempre  più;  invadendo  le  riviste  filologiche  e  gli  studi  italiani  di  filologia 
classica:  le  ricerche,  poniamo,  su  le  fonti  della  Fedra  di  Seneca  o  delle 
Epistole  di  Eliano  ;  le  esumazioni  degli  scolii  ad  Aftonio  o  degli  Aria- 
leda  Planudea  alle  Metamorfosi  di  Ovidio  ;  gli  studii  su  Ànite  da  Tegea 
e  su  Difilo  comico  nelle  imitazioni  latine...  Prima  l'amore  della  bellezza, 
la  passione  dell'antichità  aveva  certe  volte  invischiato  gli  uomini  nelle 
pieghe  della  vesta  dell'una» o  dell'altra;  Ora  il  pseudoamore  di  una 
pseudoscenza  li  tratteneva  presso  i  frammenti,  rotti  e  ischeletriti,  del 
contenuto,  che  di  quelle  forme  si  era  cinto,  o,  peggio  ancora,  sulle 
imbastiture  delle  vesti  medesime... 

Le  conseguenze  di  cotale  situazione  di  spirito,  la  meno  adatta  a 
veramente  conoscere,  furono  infinite  e  impressionanti.  Oltre  alle  spi^ 
golature  critiche  e  alle  dissertazioni  (preferibili  quelle  scritte  iti  lingue 
esotiche),  sostituite  alle  letture  larghe  dei  classici  ;  oltre  allo  studio  delle 
minute  Realien,  preferito  al  quadro  della  vita  o  all'arte  degli  antichi, 
si  inaugurò  un  atteggiamento  costante  di  inchiesta  sospettosa  verso 
il  mondo,  che  man  mano  allo  studioso  si  rivelava,  e  si  dette  mano  a 
una  nuova  furia  di  razionalismo  distruggitore.  No,  per  certo.  Omero 
non  poteva  avere  scritto  i  suoi  poemi,  perchè  un'analisi  attenta  e 
minuta  poteva  scoprirvi  molte  discrepanze,  molte  stonature  interne. 
No,  Pindaro  non  doveva  essere  gustato,  leggendo  i  suoi  versi,  scor- 


1  F.  De  Sahctis,  Sa^^*  criiiei^  Napoli,  Morano,  1874,  pp.  131-132. 


Giuseppe  Fraccaroli  447 


rendo  rapidamente  sulle  parti  convenzionali  e  indugiando  là  dóve  it 
cuore  e  la  fantasia  del  poeta  avevano  palpitato,  là  dove  il  cuore  e  la 
fantasia  del  lettore  erano  tratti  a  commoversi.  Bisognava  prima  di 
tu^o  trovar  la  chiave  di  ciascun  suo  epinicio  ;  la  chiave  dei  tipi  dei  suoi 
versi;  la  cronologìa  delle  sue  odi,  la  risoluzione  degli  enigmi  oscuri  di 
ciascuna.  Un  grandissimo  critico  dall'anima  di  poeta  aveva  scritto  :  <  Se 
la  mia  voce  avesse  qualche  peso  sulla  nuova  generazione,  io  direi  :  La- 
sciate queste  dispute  agli  oziosi  da  convento  o  da  caffè,  e  voi,  gittate 
via  i  commenti  ed  avvezzatevi  a  leggere  gli  autori  tra  voi  e  loro  sola- 
mente. Ciò  che  non  capite  non  vale  la  pena  che  sia  capito  :  quello  solo  è 
bello  che  è  chiaro.  Sopratutto,  se  volete  gustar  Dante,  fatti  i  debiti  stadii 
di  lettere  e  di  storia,  leggetelo  senza  commenti,  senz'altra  compagnia 
che  di  lui  solo,  e  non  vi  caglia  d'altri  sensi  che  del  letterale.  State  alle 
vostre  impressioni,  e  sopra  tutto  alle  prime,  che  sono  le  migliori.  Più 
tardi  ve  le  spiegherete,  educherete  il  vostro  gusto;  ma  importa  che 
nei  primi  passi  non  vi  sia  guasta  la  via  da  giudizi  preconcetti  e  da 
metodi  artificiali...  ».^ 

Ma  quel  critico  non  doveva  conoscere  il  modo  in  cui  importa 
conoscere  ;  egli  per  certo  restava  assai  lungi  dalle  ragioni  positive  della 
critica  e  della  scienza.  Al  corretto  filologo  occorreva  procedere  altri- 
menti. Di  Saffo  l'importante  era  la  cronaca,  non  la  poesia;  per  la 
«  scienza»,  i  Persiani  di  Timoteo  erano  più  interessanti  di  quelli  di 
Eschilo,  anche  se  il  contrario  apparisse  agli  amanti  degli  «  sdilinqui- 
menti pseudoartistici  »  e  delle  «  formule  vuote  e  inconcludenti  >.  Que- 
sto, perchè,  per  la  «  scienza  »,  ciò  che  più  importa  non  è  il  noto  e  il 
grande,  ma  il  piccolo  e  l'ignoto.  Il  quale  piccolo  e  ignoto  richiedereb- 
bero studii  «  profondissimi  »,  che  dovrebbero  assorbire  tutto  l'intelletto 
e  tutta  la  vita  di  un  uomo.  Chi  è  che  vuol  essere  poeta  e  critico  a  un 
tempo?  Chi  filosofo  e  letterato  ?  Chi  osa  studiare  insieme  V Iliade  e  il 
Kalevala?  VOdissea  e  Milton?  Eschilo  e  Shakespeare?  Chi  legge  in 
una  volta  sola  Saffo  e  Swiburne  o  Shelley?  Omero,  Eschilo,  Ibico 
rappresentano  somme  enormi  di  problemi,  di  cui  ciascuno  importa 
lustri  di  studii  e  di  ricerche...  Come  furono  leggeri  i  nostri  padri  !  Come 
poco  conobbero  il  jnodo  in  cui  bisogna  studiare,  essi  che  ci  dettarono 
storie  letterarie  e  civili,  greche,  romane,  ecc.  ecc.!  Ogni  storia  è  una 
somma  di  milioni  di  analisi,  e  ogni  analisi  secondaria,  una  somma  di 
milioni  di  analisi  primarie.  Anzi,  una  storia  letteraria  è  una  ipotesi,  una 
verità  tendenziale...;  ma  la  storia  di  una  letteratura  non  si  può  né  scrivere, 
né  insegnare.  Forse  essa  non  è  mai  esistita,  e  quelle  che  per  tali  si 
gabellano  non  sono  che  romanzi...  Avete  voi  pianto  dinnanzi  a  un  fra- 


i  F.  De  Sancvis,  Nuovi  saggi  critici,  Napoli,  Morano  (30^  ed.),  191<),  p.  3. 


448  Corrado  BarbazaUo 


mento  di  Saffo?  Vi  siete  sentito  pungere  di  commozione  dinanzi  al 
colloquio  di  Ettore  e  di  Andromaca?  Avete  provato  come  una  alluci- 
nazione dinanzi  a  uno  squarcio  di  Pindaro?  La  lettura  di  una  orazione 
di  Pericle  o  di  un  dialogo  di  Platone  vi  ha  suscitato  nell'animo  la 
volontà  di  disegnare  quel  mondo  in  un  grande  quadro,  in  un  grande, 
poniamo,  dramma  o  romanzo  storico,  in  un  nuovo  dialogo  platonico? 
Se  così  è,  voi  dovete  stare  in  guardia  contro  voi  stesso:  tutto  ciò  non 
è  che  «  dilettantismo  pericoloso  »,  niente  altro  che  «  vaporosità  pseudo- 
estetiche »,  niente  altro  che  «  travestimenti  »,  «  compilazioni  »,  «  contraf- 
fazioni »;  niente  altro  che  «melensaggini  d?  accogliere  col  riso  e  col 
disprezzo».  Una  sola  cosa  v'ha  di  serio  nella  scienza  dell'antichità: 
la  «manipolazione  e  il  maneggio  dei  testi  classici»,  la  «  critica  meto- 
dica della  tradizione  verbale  e  delle  fonti  storico-letterarie»!  E  chi  fa 
cosa  diversa  non  compone  che  «  vani  tessuti  di  parole  e  formule  vuote 
e  inconcludenti  ȓ 

La  battaglia  contro  il  filologismo. 

In  questo  basso  mondo,  gretto  e  materialistico,  s'avvide,  dopo  il 
pnmo  stordimento,  di  essere  piombato  il  Fraccaroli,  egli  che  gli  studii 
legali  aveva  abbandonati,  solo  nella  speranza  (o  nella  illusione?)  di 
poter  cosi  vivere  «la  vita  della  intelligenza  e  l'idealità  del  pensiero  ».* 
E,  appena  egli  ebbe  preso  consapevolezza  della  cosa,  non  esitò.  Dopo 
il  1903,  la  sua  battaglia  contro  il  filologismo  è  cotidiana,  incoercibile, 
tanto  più  che  egli  vede  nel  nuovo  meccanismo  uno  specifico  di  cor- 
ruzione di  quegli  studii  classici,  che  tanto  aveva  amati,  un  meccanismo 
di  distruzione  di  quella  scuola  classica,  che  per  lui  rappresentava  il 
mezzo  più  alto  e  più  nobile  per  formare  degli  Italiani.  Da  allora  la 
sua  battaglia  è  costante,  in  opuscoli,  articoli  di  giornali  e  di  riviste, 
introduzioni  critiche,  colloqui  privati.  Il  filologismo:  ecco  il  nemico! 
Ed  egli  lo  combatte  ovunque  si  accampi  e  ovunque  si  nasconda,  da 
qualunque  riparo,  insidiosamente  o  apertamente,  minacci. 

Fu  questa  una  polemica  che  non  si  può  rifare  nei  suoi  partico- 
lari, ma  solo  richiamare  e  accennare  nelle  tendenze  e  nelle  sue  grandi 
linee.  Negli  ultimi  scritti  del  Fraccaroli,  la  lotta  contro  il  filologismo 
si  è  ingranata  in  una  concezione  filosofica  superiore,  si  è  slargata  in 
una  idea  più  vasta.  U  filologismo  è  una  delle  svariate  manifestazioni 
di  quelle  tendenze  utilitarie  e  razionalistiche,  che  da  tempo,  e  ancor 
oggi,  imperversano  nella  educazione  moderna.  11  filologismo  non  è  che 
dell'utilitarismo  scientifico,  e,  come  tutte  le  altre  manifestazioni  con- 


'  G.  Fraccaroli,  E.  Ferrai  (in  Riv  di  filoL  classica,  1897,  p.  637). 


Giuseppe  Fraccaroli  449 


generi,  porta  seco  la  decadenza  e  la  corruzione  dei  popoli.  Questo  il 
nuovo  concetto  o,  meglio,  il  nuovo  sviluppo  di  antichi  concetti,  che 
dal  suo  antifilologìsmo  il  Fraccaroli  ritrae  nel  suo  ultimo  volume  su 
V educazione  nazionale» 

L'osservazione  e  la  connessione  sono  vere,  rispondono  a  una 
realtà  e  ad  un  pericolo.  Ecco  la  ragione  somma,  per  cui  ciò  che  del 
Fraccaroli,  nella  grande  massa  degli  studiosi  e  delle  persone  colte,  ha 
avuto  presa  più  salda,  è  stata  appunto  questa  sua  campagna.  Non  si 
è  trattato,  come  taluno  insinua,  di  compiacenza  per  un  indirizzo  che 
inviterebbe  al  dolce  far  niente  ;  si  trattò  invece  di  un  grande  colpo 
d'ala,  che  di  un  subito  mostrò  in  che  modo  gli  spiriti  e  le  menti  si 
possano  elevare;  che  gli  uni  e  le  altre  trasportò  ad  altezze  da  gran 
tempo  non  sperimentate,  e  donde  era  facile  scorgere  e  misurare  la 
bassura  in  cui  si  era  respirato. 

Per  questa  sua  speciale  operosità,  espressa  nei  libri,  divulgata  in 
articoli,  popolarizzata  con  ogni  mezzo,  il  Fraccaroli  ha  segnato  vera- 
mente un'orma  incancellabile  nella  nostra  vita  intellettuale  contempo- 
ranea. Il  solco,  che  altri  tracciava  nel  campo  delle  discipline  filosofiche  e 
degli  studii  di  letteratura  italiana;  il  rinnovamento  che  con  assai  minore 
fortuna  altri  iniziava  nella  storiografia,  egli  lo  tentò,  e  in  parte  felice- 
mente compiè,  sul  campo  degli  studii  delle  letterature  classiche.  Perciò 
l'uomo,  che  ci  è  stato  strappato  da  un  destino  crudele,  lascia  disce- 
poli che  egli  stesso  avea  ignorati,  che  nacquero  dal  suo  spirito,  che 
sono  sparsi  in  tutte  le  contrade  del  nostro  paese,  che  lo  onorarono,  pur 
non  aspirando  a  servirsi  di  lui  per  fini  interessati.  Perchè  egli  non  fu 
solo  un  dotto,  un  letterato,  perchè  non  fu  un  mestierante,  ma  un  crea- 
tore, un  uomo,  uno  spirito  vive  dalla  fiamma  perenne. 


Corrado  Barbaoallo. 


19  ^  MMva  Rivista  Sivriem. 


UN  LE  PLAY  ATENIESE 

DEL  IV  SECOLO  a.  C. 
d  Lr^'ECONOMIA  POLITICA»  DI  SENOFOHTB 


{Continuazione:  Cfr.  A.  I,  fase.  II). 

Dello  studio  che  segue,  la  Nuova  Rivista  SprìcsL  pubblicò  la  prima 
parte  nel  fascicolo  W  delVanno  1°  {pp.  271-293,  aprile-giugno  1917).  Più 
tardi  l'improvvisa  morte  de  II' A,  e  lo  stato  in  cui  egli  mi  lasciò  il  mano- 
scritto, chCf  ancora  non  completamente  elaborato ^  volle  affidare  alla  mia 
insufficiente  cura,  impedirono  la  rapida  prosecuzione  del  suo  mirabile 
saggio.  Con  questo  fascicolo  e  con  il  successivo  si  continuerà  e  completerà 
la  pubblicazione  della  seconda  e  poi  della  terza  ed  ultima  parte.  Poiché^ 
specie  a  proposito  di  quest'ultima,  io  ho  dovuto^  pur  troppo,  qua  e  là, 
rielaborare  il  testo  originale,  chiedo  scusa  al  lettore  di  tutte  le  deficienze, 
ch'egli  vorrà  imputare  a  me,  ed  a  me  solo. 

Per  comodità  dei  nostri  lettori  riassumo  qui  brevemente  i  concetti 
fondamentali  della  prima  parte,  veramente  magistrale,  di  questo  saggio.  Se 
ciò  non  basterà,  ove  un  certo  numero  di  nostri  amici  lo  domandino,  la 
ripubblicheremo  integralmente.  Forse  (mi  permetto  credere)  non  sarà  inu- 
tile a  una  migliore  intelligenza  della  trattazione,  che  si  dia  uno  sguardo 
a  un  mio  studio  sulle  idee  economico-sociali  del  Platon,  pubblicato  in 
Nuova  Rivista  Storica  anno  1°,  fascicolo  IV"  (1917),  Ed  ecco  senz'altro 
il  riassunto, 

L'A.,  dopo  avere  illustrato  l'antitesi  morale  tra  la  vecchia  Grecia, 
la  Grecia  di  Esiodo  e  di  Erodoto,  e  la  nuova  Grecia  dei  secoli  V-IV 
a,  C,  nella  quale  all'antica  reverenza  degli  Dei  e  ad  un  complesso  di 
norme  incrollabili,  direttrici  della  umana  condotta,  è  seguito  un  profondo 
scetticismo,  morale  e  politico,  uno  spirito  di  analisi  filosofica  e  di  cupidigia 
econòmica,  che  tende  a  sostituire  dovunque,  alle  idealità  della  concezione 


Un  Le.  Play  ateniese  del  IV  secolo  a.  C.  451 

morale^  i  calcoli  dell*  interesse  individuale,  mostra  come  contro  questo 
scetticismo  si  sia  avuta  una  duplice  reazione  :  una  nel  campo  morale-filo- 
sofico,  impersonata  da  Aristofane,  Socrate,  Platone;  ma,  nel  campo  eco- 
nomico, impersonata  da  Senofonte.  Lo  'sviluppo  economico .  nella  Grecia, 
nel  secolo  IV  era  già  assai  progredito.  Non  si  trattava  più  di  economia 
chiusa,  ossia  organizzata  in  vista  della  produzione  e  deW acquisto  dei 
soli  beni  realij  che  occorrono  ai  bisogni  immediati  dell'individuo,  ma 
di  economia  capitalistica^  tendente  come  tale  anche  alla  produzione  del 
superfluo,  che  si  scambia  con  del  danaro,  allo  scopo  appunto  di  pro- 
curarsi del  danaro,  con  cui  è  possibile  acquistare  ogni  cosa,  «  In  che 
«  modo  »,  si  chiedeva,  concludendo  il  Platon,  «  deve  comportarsi  /'homo 
«  oeconomicus,  che,  insieme  con  Id  nascente  economia  capitalistica  ab- 
«  biamo  visto  spuntare  in  questa  società,  in  questo  preciso  momento  della 
«  evoluzione  economica  ?  È  quello  che  ci  dirà  Senofonte  »  (C.  B.). 

Vii.  —  Natura  deir unità  economica  primitiva: 
il  patrimonio  antico. 

U  lettore  ha  già  certamente  inteso  che  il  punto  di  partenza  del- 
l'economia di  Senofonte  è  la  casa  —  l'olxia  —  il  gruppo  primitivo 
della  stretta  parentela  con  tutto  l'insieme  dei  servitori,  dei  clienti,  degli 
schiavi,  dei  beni.  Il  gruppo  non  è  un  mito,  una  ipotesi  gratuita  ;  sem- 
bra proprio  che  si  trovi  nella  realtà,  alle  origini  della  società  greca, 
bastante  a  se  medesimo,  sotto  il  comando  e  la  direzione  del  capo-fa- 
miglia. Le  scienze,  le  arti  tecniche  e  i  vari  rami  della  economia  natu- 
rale, che  Aristotele  enumera  nel  capitolo  4,  §§  1-2  del  libro  I. della  sua 
Politica  (ippologia;  allevamento  delle  specie  bovine,  ovine,  porcine; 
scienza  delle  piantagioni,  agricoltura,  allevamento  dei  volatili),  mercè 
le  quali  l'uomo  si  mette  in  possesso  delle  cose,  che  sono  necessarie 
al  soddisfacimento  dei  suoi  bisogni  primordiali,  gli  servono  a  costi- 
tuire la  sua  Casa:  l'olxka.  Sono  altrettanti  mezzi  subordinati  a  questo 
fine,  e  il  compito  dell'economo,  che  è  il  capo-famiglia,  consisterà  nel 
conservare,  nel  mantenere  questa  unità  economica  della  casa,  dell'olxoq, 
per  mezzo  della  crematistica  naturale,  con  le  differenti  parti,  che  la 
compongono.  * 

L'oixia  è  un  insieme  di  pèrsone,  di  bestie,  di  cose,  alla  cui  ammi- 
nistrazione presiede  il  proprietario  o  l'economo  e  che  tende  a  bastare 
a  se  stessa,  poiché  tutti  gli  esseri  animati,  che  compongono  il  gruppo/ 
mangiano,  vivono  insieme  e  risolvono  tutti  insieme  il  problema  di 
assicurarsi  il  pane  quotidiano.^  «  L'acquisto,  essendo  una  parte  della 

i  Aristot.,  Polii,,  1,  1,  6;  cfr.  anche  1,  2,  1. 


452  Georges  Platon 


loxi'a,  Tarte  di  acquistare  è  una  parte  della  economia.  Senza  le  cose 
necessarie,  non  è  possibile  vivere,  ossia  viver  bene L'oggetto  del- 
l'acquisto (il  xtrma)  è  un  mezzo  per  vivere,  un  utensile,  uno  strumento 
dell'acquisto;  v.xr\aic,  è  l'insieme  di  questi  mezzi.  Lo  schiavo  è  uno 
strumento  vìvente,  e  ogni  servitore,  uno  strumento  innanzi  gli  altri 
strumenti  ».*  Ne  segue  che  l'olxia  è  Un  tutto  formato  di  parti  diverse, 
subordinate  le  une  alle  altre,  riunite  e  fuse  in  unità  perchè  esse  ser- 
vono alla  realizzazione  di  un  solo  e  medesimo  scopo,  sotto  la  guida 
di  uno  stesso  capo.  L'olxia  è,  come  diremmo  oggi,  un  organismo, 
un  essere  vivente.  A  questo  titolo  essa  è  una  unità  sociale,  la  cui 
nozione  ripugna  a  qualsiasi  Idea  di  divisione,  di  dissoluzione,  di  fran- 
tumazione, di  cessazione  nel  tempo.  Se  si  vuole,  con  dei  testi  positivi 
e  di  natura  giuridica,  farsene  una  idea  esatta,  occorre  rievocare  dal 
diritto  romano  l'idea  ^hereditas  iacens:  quel  complesso  di  beni,  la 
cui  unità  persiste  prinla  e  dopo  la  morte  di  colui,  che  ne  ha  avuto 
temporaneamente  Tamministrazione.'^ 

L'olxia,  dunque,  nel  sUo  significato  economico,  non  ha  niente  di 
comune  con  rolxia,  nel  significato  di  abitazione  propriamente  detta.^ 
Tutto  ciò  che  si  possiede  al  di  fuori  della  abitazione,  sia  lontano,  sia 
fuori  della  città  abitata  dal  capo-famiglia,  ih  altra  città,  fa  parte  dell' olxo?. 
Ciò  che  forma  l' unità  dell'olxo?  non  è  la  coesione  territoriale,  il  collo- 
camento nella  stessa  località  degli  elementi,  che  la  costituiscono,  ma  è 
il  legame  di  diritto,  che  pone  tutte  queste  cose  alla  dipendenza  di  uno 
stesso  capo;  è  il  fatto  ch'essi  sono  l'oggetto  dì  uno  stesso  diritto  di 
possesso,  da  parte  di  uno  stesso  individuo.  L*olxo?,  insomma,  è  il  gruppo 
di  persone  e  di  beni,  laxui  stretta  coesione  permette  di  risolvere  il 
difficile  problema  di  sovvenire  ai  bisogni  della  vita,  ossìa,  come  dice 
Aristotele,  aria  comunità  naturale  ver  la  vita  di  ogni  ^iorno.^ 


Vili.  —  Il  patrimonio  nelle  età  primitive. 

Non  è  da  meravigliare  se,  oltre  la  consistenza  naturale  che  il 
gruppo  deriva  per  tal  guisa  dalla  natura  della  sua  primitiva  destina- 
zione, la  legge  abbia  fatto  di  tutto,  sia  in  Grecia  come  a  Roma,  per 
confermare  e  fortificare  con  ogni  mezzo  questa  indivisibilità,  di  cui 
noi  abbiamo  visto  tanti  segni. 


1  Aristot.,  Pqlit.  1,  2,  3-4. 

*  Si  potrà  consultare  su  questo  punto  con  profitto  Dig,  L  208,  L,  16;  /.  13S 
(180),  ibid.  ;  /.  27  (28)  Dig,  X,  2, 
s  Xenoph.,  Oechom,,  I,  5. 
4  Polita  1,  1.  «. 


Un  Le  Play  ateniese  del  IV  secolo  a.  C.  483 

In  origine,  a  Sparta,  non  era  permesso  di  vendere,  né  nel  sUo  in- 
sieme, né  ad  appezzamenti  separati,  il  lotto  di  terra,  che  era  stato  asse- 
gnato a  ciascuno  sin  dal  tempo  della  conquista  dorica/  E  Aristotele 
cita  disposizioni  analoghe  di  antiche  leggi,  a  Corinto,  presso  i  Locresi 
e,  in  genere,  un  pò*  da  per  tutto.- 

Per  le  stesse  ragioni,  in  Grecia,  nelle  epoche  più  remote,  gli  sto- 
rici del  diritto  ci  dicono  che  il  potere  di  testare  del  capo-famiglia  è 
strettamente  limitato,  e  che,  per  il  testatore,  si  tratta  meno  di  disporre 
dei  beni  che  di  trovare,  nella  persona  dell'erede,  un  amministratore, 
che  gli  succeda. 

Ma  quello  che  sovra  tutto  c'interessa,  nei  riguardi  del  nostro  spe- 
ciale soggetto,  è  che  dal  momento  in  cui  l'economìa  monetaria  è 
successa  all'economia  naturale,  il  gruppo  di  beni,  che  già,  anche  senza 
di  questo,  sarebbe,  entro  certi  limiti,  stato  suscettibile  di  accrescimento 
e  di  diminuzione,  venendo  ora  a  comprendere  una  riserva  di  danaro, 
diventa  assai  maggiormente  suscettibile  di  quest'aumento  e  di  que- 
sta diminuzione.  Ecco  dunque  due  resultati,  a  cui  noi  siamo  perve- 
nuti: in  primo  che  roì;a'a,  il  gruppo  di  beni,  che  fanno  da  sostegno 
al  gruppo  di  persone  riunite  sotto  la  guida  del  capo-famiglia,  è  il 
quadro  naturale  entro  cui  si  esercita  l'attività  di  quest'ultimo;  in. se- 
condo, che  questo  gruppo  di  beni,  benché  per  natura  sua  quasi  indivi- 
sibile, non  si  presenta  più  come  un  nucleo  chiuso  ed  immobile,  ma 
come  un  tutto,  che  in  uno  dei  suoi  elementi,  specie  il  denaro,  é  suscet- 
tibile di  accrescimento  e  diminuzione.  Questo  nucleo  può  crescere  o 
diminuire,  secondo  le  qualità  proprie  o  la  incapacità  di  colui  che  è  alla 
sua  testa  —  il  capo-famiglia  —  e  che  é  essenzialmente  l'amministratore. 
Per  essere  completi,  Occorrerebbe  aggiungere  un  terzo  punto:  benché 
suscettibile  di  accrescimento  o  di  diminuzione,  il  gruppo,  teoricamente, 
deve  essere  concepito  come  un  organo,  se  così  può  dirsi,  essenzialmente 
conservatore,  la  cui  legge  é  di  non  mutare  troppo  bruscamente,  ma, 
dovendo  soddisfare  a  bisogni  definiti  e  generalmente  stabili,  di  restare 
quasi  identico  per  conservar  sempre  lo  stesso  potere  efficace.  Insomma, 
il  patrimonio  é  un  mezzo,  il  mezzo  di  provvedere  alla  sussistenza  del 
gruppo  familiare,  e  il  denaro,  col  suo  potere  perturbatore,  ha  un  bel 
fare  irruzione  nella- sua  sfera:  quello  non  perderà  mai  il  suo  scopo 
originario  di  essere  un  mezzo,  e  non  già  un  fine. 

Che  l'idea  che  noi  ci  facciamo  di  tutto  questo  non  sia  un  sem- 
plice schema  e  una  costruzione  arbitraria  del  nostro  spirito,  ma  che 
essa  risponde  alla  concezione  di  Senofonte  e  alla  realtà  economica  del 


1  Plut.,  Inst.  lae.,  22. 

%  PoUL,  2.  3.  7;  2,  4,  4  j  6,  2   5 


454  Georges  Platon 


SUO  tempo  ce  Io  dice  Senofonte  stesso  nelle  pagine  di^Oeconomicus 
e  dei  Memorabili,  ch'egli  consacrò  all'analisi  delle  idee  di  valor  di 
usò  e  di  valore  di  scambio,  le  quali  toccano  il  fondo  stesso  dell'eco- 
homia  dell'epoca. 


iX.  —  L'identità  di  bellezza,  bontà,  utilità. 

La  grande  antìtesi,  chfe  porta  in  se  stessa  l'opposizione  di  economia 
naturale  e  di  economia  monetaria,  sembra  riassunta  perfettamente 
nella  legge  49  D.  L.  16  di  Ulpiano,'che  definisce  da  una  parte  i  beni, 
bona  quae  beantf  quae  beatos  faciunt  homines,  qaae  prosànt,  e  fa  figurare 
al  tempo  stesso  tra  questi  beni  i  diritti  di  superficie,  le  azioni,  le  peti- 
zioni, le  rivendicazioni  d'immobili,  il  denaro  prestato,  ogni  sorta  di 
cose,  che  non  possoilo  servire  direttamente  alla  soddisfazione  dei  biso- 
gni dell'individuo.  Tutti  questi  beni  sono  tali,  perchè  suscettibili  di 
essere  convertiti  in  danaro,  perchè  possono  scambiarsi  con  del  danaro. 

Questa  antitesi-  è  nota  benissimo  a  Senofonte,  e  noi  vedremo  a 
momenti  come,  pur  facendo  alla  seconda  categoria  di  beni  il  loro 
posto  legittimo,  è  alla  prima  che  egli  accorda  la  preferenza,  come  ben 
doveva  aspettarsi.  La  cosa,  il  xtrina  (per  designarlo  si  trovano  adope- 
rati anche  gli  altri  due  termini  di  xtfjm^  e  di  xQTÌM«Ta)»  "on  è  per 
Senofonte-Socrate  un  bene  se  non  in  quanto  esso  è  utile,  in  quanto 
contiene  qualche  cosa  di  buono  (n  ayaeóv)  per  l'individuo  che  lo  pos- 
siede. Si  sopprima  nelle  cose  questo  elemento  della  bontà,  della  utilità 
per  il  possessore,  e  svanirà  presto  in  esse  la  qualità  di  bene}  E  si 
vede  che  per  utilità  occorre  qui  intendere  1' utiHtà  nel  significato  piti 
stretto  della  parola,  l'utilità  concepita  dal  punto  di  vista  dell'individuo 
isolato  e  del  momento:  l'utilità  che  dipende,  non  solo  dalla  natura 
dell'oggetto,  ma  dalla  esistenza,  nella  persona  del  possessore,  delle  atti- 
tudini che  occorrono  per  servirsi  efficacemente  dell'oggetto.  Un  cavallo 
vigoroso,  che  sbalza  di  sella  il  suo  signore,  non  è  un  bene  per  costui 
(oux  àvaDòv).  Il  cavallo  ritorna  un  bene,  quando  è  passato  nelle  mani 
di  qualcuno  più  capace  di  montarlo.  La  cosa  non  può  aver  valore  che 
per  un'individuo  determinato,  considerato  in  se  stesso,  allo  stato  iso- 
lato. Ecco  il  vero  bene,  che  riposa  tutto  intero  sul  valor  d'uso. 

In  un  dialogo  interessantissimo,  contenuto  nel  cap.  8*^  del  lib.  Ili 
dei  Memorabili,  tra  Socrate  e  Aristippo  di  Cirene  sul  bene^  sul  bello j 
Senofonte  sostiene  la  stessa  tesi.  Aristippo,  come  è  noto,  è  il  fondatore 
della  scuola  cirenàica,  il  psicologo  e  moralista  sensualista,  che  non  vuol 


1  Xenopr.,  Oecan.p  1,  9. 


Un  Le  Play  aUniest  del  IV  secolo  a.  C.  455 

riconoscere  nulla  all' infuori  della  sensazione  del  momento  —  piacere  o 
dolore  —,  quasi  compiacendosi  di  sopprimere  nella  vita  umana  ogni 
eleiuento  di  stabilità.  Egli  vuol  far  prevalere  contro  Socrate  il  suo 
principio  di  universale  relatività  e  di  nichilismo  generale/ 

Senofonte  osserva  ~  come,  contrariamente  alle  sue  abitudini,  Socrate 
abbia  posto^  in  questa  discussione,  tutto  il  suo  sforzo  e  tutta  la  sua 
abilità  di  elegante  schermitore,  che  d'ordinario  si  contentava  di  parare 
negligentemente  i  colpi.  A  meglio  difendersi,  egli  sembra  entrare  ne! 
gioco  stesso  del  suo  avversario,  e  fargli  le  concessioni  più  gravi  per 
tenersi  sul  terreno  delle  realtà  e  finirla  con  le  discussioni  metafisiche, 
le  quali  non  fanno  procedere  d'un  passo  le  soluzioni  dei  problema. 
Non  vi  sono,  dice  Socrate,  beni  generali,  ma  beni  particolari,  beni  di 
questa  o  di  quell'altra  natura.  Uno  stesso  oggetto  può  essere  buono 
per  una  certa  cosa,  cattivo  per  tutte  le  altre.  Ciò  che  sazia  la  fame 
può  aggravare  la  febbre. 

Lo  stesso  accade  del  bello.  Una  cosa,  bella  in  un  certo  caso,  può 
non  essere  bella  in  un  altro.^  L*uomo  bello,  di  bella  forma,^quando  si 
tratta  di  correre,  può  non  esserlo  più  quando  si  tratta  di  lottare.  U 
bel  corridore  può  dunque  non  somigliare  al  bel  lottatore.  Per  Socrate, 
il  bene  e  il  bello  non  si  distinguono:  tutte  le  cose  sono  nello  stesso 
tempo,  belle  e  buone  in  relazione  a  uno  stésso  oggetto. 

La  virtù,  per  esempio,  non  è  bella  in  rapporto  a  una  certa  cosa 
e  buona  in  rapporto  a  un*altra.  Gli  uomini  sono  reputati  al  tempo 
stesso  belli  e  buoni  (xaXol  xdYaeol)  nello  stesso  modo  e  in  rapporto 
alle  medesime  cose.  Per  la  stessa  ragione  si  dice  degli  uomini  che  i 
loro  corpi  sono  al  tempo  stesso  belli  e  buoni.  Per  la  stessa  ragione, 
e  negli  stessi  rapporti,  come  si  dice  del  corpo,  si  dice  di  tutte  le  altre 
cose  che  sono  a  disposizione  degli  uomini,  ch'esse  sono  belle  e  buone 
(xd^à  te  xdYaOà  vo^it^etai).  Esse  sono  belle  e  buone  nei  rapporti  di  tutte 
le  cose  per  cui  sono  iitili.^l  tre  concetti  di  bene,  di  bello  e  di  utile 
sono  fra  loro  connessi,  se  non  identici;  o,  piuttosto,  i  due  primi  non 
sono  che  aspetti,  appena  diversi  tra  loro,  dell'/fifea  di  utilità,  di  atti- 
tudine, di  rapporto  di  mezzo  a  fine. 

C'è  bontà  e  bellezza  dove  c'è  utilità:  e  dove  c'è  utilità,  vale  à  dire 
rapporto  di  mezzo  a  fine,  c'è  valor  d*uso.  Noi  ritroviamo  lo  stesso  ra- 
gionamento nel  cap.  6  del  libro  IV  (8-9)  :  «  Il  bene  non  è  diverso  dal- 
l'utile.  Una  cosa  utile  è  un  bene  per  colui  al  quale  essa  è  utile  ».  E, 


1  DiOGEN.  Laert.,  2,  87  ;  88  ;  91  ;  Cicer.,  Acad.  pr,^  24,  76. 

«  Memor.,  3,  8,  1 

3  Mem.,  3,  3,  4. 

*  Mem.,  3,  8,  5  ;  6.  • 


45^  Georges  Platon 


quanto  al  bello,  «  ogni  oggetto  è  dunque  bello  solamente  per  Tuso  al 
quale  deve  servire  »;  «  una  cosa  utile  è  bella  per  colui  al  quale  essa  è 
utile  ».  È  danque  un  rapporto  costante  di  utilità  ciò  che  forma  la  bontà 
e  la  bellezza  della  cosa,  un  rapporto  di  mezzo  a  fine, 

Aristippo  sembra  vicinissimo  a  trionfare.  Ma  in  un  altro  discorso 
con  lo  stesso  Eutidemo,  che  era  già  intervenuto  nel  cap.  2  del  libro  IV, 
Socrate  avanza  improvvisamente  il  concetto  che  vi  sono  dei  fini  supe- 
riori a  degli  altri:  la  libertà,  la  libertà  politica,  interiore  ed  esteriore, 
è  per  esempio  un  bene  di  ordine  elevatissimo.*  Ciò  che  gli  uomini 
chiamano  la  virtù  o  le  virtti -—  la  temperanza  (èYXQaTEia),  la  prudenza 
(ootpia),  la  saggezza  (cwoqpQoauvT])  —  non  sono  tali,  e  non  hanno  valore 
per  Tuomo,  che  quali  mezzi  necessari  a  raggiungere  questo  bene  su- 
periore.^ I' beni  superiori  sono  i  piaceri  più  lontani  dai  piaceri,  imme- 
diati e  più  vicini,  dei  sensi.  <  Sono  il  piacere  di  amministrare  il  meglio 
possibile  il  proprio  còrpo  e  la  propria  casa,  in  modo  da  essere  della 
maggiore  utilità  ai  propri  amici,  alla  propria  città,  in  modo  da  trion- 
fare dei  propri  nemici,  da  realizzare  le  utilità  e  i  piaceri  superiori 
((bcpeUiat  y.al  f|8ovai  \iz^iox^\)?  La  condizione  capitale  all'uopo  è  Tindi- 
pendenza  più  completa  dai  vizi,  per  cui  si  realizza  lo  stato  di  libertà 
e  la  pratica  delle  virtù.  E  tutto  ciò  —  fini  e  mezzi  —  è  la  manifesta- 
zione di  quello  che  è  propriamente  la  natura  umana.  Realizzare  queste 
utilità  superiori,  gustare  questi  piaceri,  remotissimi  dai  sensi,  e  perciò 
i  più  completi  e  più  profondi,  è  l'oggetto  proprio  deWuomo. 

Colui  il  quale  cerca  soltanto  di  raggiungere,  qualunque  esso  sia, 
il  piacere  che  Io  seduce  maggiormente,  non  si  distingue  dalla  bestia 
senza  ragione.  «  Con  una  specie  di  dialettica,  ch'è  insieme  ragione  e 
parola,  l'uomo  saggio  e  temperante  stabilisce  una  distinzione  e  una 
gerarchia  fra  i  diversi  ordini  di  realtà,  sceglie  il  bene,  e  fugge  il  male  ».'* 
«  Gli  è  in  tal  modo,  prosegue  Socrate,  che  gli  uomini  diventano  buo- 
nissimi e  felicissimi,  e  la  loro  dialettica  è  potentissima.  La  parola  dia- 
lettica —  aggiunge  —  viene  dal  fatto  che  parecchie  persone,  riunite 
per  discutere  e  deliberare  insieme,  distribuiscono  in  differenti  classi  e 
generi  le  differenti  specie  di  realtà.  «  Bisogna,  dunque,  prepararsi  il 
meglio  possibile  a  questo  compito,  occuparsene  più  che  si  può,  giac- 
ché è  per  questa  via  che  gli  uomini  divengono  ottimi,  degnissimi  di 
comandare,  e  raggiungono  la  maggiore  saviezza  j».*^ 


»  Mem.,  4,  5,  2. 
«  ìbid.,  §  3-4. 

»  Ibid.i  §  10.  La  traduzione  di  Senofonte,  che  noi  di  regola  seguiamo,  è  quella 
^i  E.  Talbot  (Paris,  Hachette,  1873,  2  voli.). 
4  Ibid.,  §  11. 
8  tbid.,  §  12. 


Un  Le  Play  ateniese  del  IV  secolo  a.  C.  457 

In  tal  modo  si  afferma  fino  in  fondo  l'identità  dei  tre  concetti, 
il  hello,  il  buono,  Vutile,  la  quale  conclude  in  quest'altra  identità,  che  ih 
fondo  è  la  stessa:  della  bontàj  della  felicità,  della  sapienza.  È  la  stessa 
cosa  per  gli  uomini  divenire  dialettici,  cioè  cogliere  il  vero  rapporto 
delle  cose,  i  rapporti  naturali  di  mezzi  a  fini,  la  loro  gerarchia  e  la 
loro  classificazione  naturale,  che  divenir  buoni  e,  divenendo  buoni, 
diventare  liberi  e  felici. 

A  questo  punto,  Aristippo  non  trova  piti  il  suo  conto.  Il  suo  sen- 
sualismo e  il  suo  nichilismo  sono  superati  ;  tutta  la  vita  morale  ed  eco- 
nomica sono  ristabilite  su  delle  solide  basi. 


X.  —  Economia  e  morale. 

È  infatti  l'apparizione  di  questa  nozione  di  fine  superiore,  che  dà 
all'economia  politica  di  Senofonte-Socrate  il  suo  carattere  definitivo 
e  determina  il  valor  proprio  e  rispettivo  di  queste  due  nozioni  di  valor 
d'uso  e  di  valore  di  scambio. 

Il  valor  d'uso  esiste  dacché  esiste  l'individuo.  Ma  la  dialettica  ha 
ben  presto  restituito  l'individuo  alla  specie,  ha  collocato  la  vita  indi- 
viduale nella  vita  collettiva,  e,  in  conseguenza,  posto  l'utilità  del 
gruppo  al  di  sopra  dell'utilità  individuale.  Dacché  la  moneta  ha  fatto 
la  sua  apparizione  —  la  moneta,  comune  misura  delle  cose,  mezzo  in- 
dispensabile per  Io  sviluppo  dello  scambio  tra  gli  uomini  —  non  si 
saprebbe  più  contestarle  la  qualità  di  rappresentare  un  fine,  una  uti- 
lità superiore.  Si  vede  nello  stesso  tempo  apparire  nei  medesimi  oggetti, 
accanto  al  loro  valor  naturale,  accanto  al  loro  valor  d'uso,  la  nozione 
del  loro  valore  sociale,  del  loro  valore  di  scambio,  che  s'esprime  nella 
quantità  corrispondente  di  moneta. 

Il  denaro,  la  moneta  che  rappresenta  il  valore  di  scambio  delle 
cose  (xQ^'ifiata),  ha  il  suo  compito  necessario  nella  società,  e  deve  figu- 
rare, a  titolo  legittimo,  tra  i  beni  economici.  Bisogna  attribuirgli,  fino 
a  un  certo  segno,  i  caratteri  di  una  cosa  che  ha  una  sua  vita  propria^ 
Ma,  quale  realtà  sociale,  bisogna  davvero  considerarla  cortie  una  forza 
d'ordine  assolutamente  nuova,  che  non  abbia  più  nulla  di  comune 
con  le  utilità  naturali  e  con  la  nozione  di  valor  d*uso,  e,  di  conse- 
guenza, non  abbia  punto  a  subire  il  controllo,  cui  sono  sottoposte 
queste  ultime? 

La  dialettica  socratica  non  saprebbe  ammettere  questa  opinione. 
Ci  sono  i  beni  naturali,  e  c'è  il  denaro.*  Ma  queste  due  categorie  di 


»  Oeeom,  1,  12. 


458  Georges  Platon 


beni  sono  egualmente  subordinate  ai  concetti  di  bene  morale,  di  uti- 
lità morale,  su  cui  riposa  tutta  la  dottrina  sociale  di  Senofonte.  Le 
qualità  del  corpo  —  la  forza,  la  sanità  —,  i  beni  della  natura  —  la  terra, 
che  produce  il  grano,  gli  animali  domestici  —  non  sono  veri  beni  se  non 
in  quanto  servono  all'uomo  a  raggiungere  dei  fini  superiori.^  Lo  stesso 
è  a  dire  del  denaro.  «  Neanche  il  denaro  è  un  valore  (xo^ina),  se  gli 
uomini  non  se  ne  sanno  servire».  «  Se  qualcuno  impiega  il  suo  denaro 
all'acquisto  di  un'amante,  che  rovina  la  sua  salute,  la  sua  anima,  la  sua 
casa,  non  si  potrà  dire  che  il  denaro  gli  sia  utile,  ch'essp  sia  per 
lui  un  bene  (xQfjfia)  ».  «  Se  dunque  non  ci  se  ne  sa  servire,  che  il  de- 
naro sia  gittato  ben  lontano  come  cosa  che  non  è  affatto  un  valore  !  »* 
Ecco  il  concetto  più  elevato,  a  cui  Socrate  arriva;  ecco  in  qual  modo 
sì  pone  per  lui  il  problema  dell'attività  economica,  in  qual  senso  ed 
entro  quali  confini  deve  svolgersi  l'attività  del  buon  economo  ! 


XI.  —  L'amministrazione  del  patrimonio  antico  è  innanzi 
tutto  agricoltura:  elogio  di  quest'arte. 

Secondo  il  pensiero  di  Socrate-Senofonte,  l'amministrazione  della 
casa  non  può  considerarsi  come  un'impresa  industriale  e  commer- 
ciale, la  quale  non  abbia  altro  scopo  che  l'accumulazione  dei  danaro. 
Il  danaro  ha  «il  suo  posto  e  il  suo  compito  legittimo;  può,  anzi,  deve 
servire  di  strumento,  di  mezzo  d'acquisto.  «  Che  pensare,  fa  dire  a  un 
certo  punto  Senofonte  a  Critobulo,  uno  degli  interlocutori  dell'O^c^- 
nornicuSy  quando  vediamo  delle  persone  che  potrebbero  col  loro  talento 
e  con  le  loro  risorse  (d(poQjial)  ingrandire  la  loro  ca^sa,  lavorando,  mentre 
si  ostinano  a  non  far  nulla  e  a  rendere  per  ciò  stesso  inutili  le  loro 
capacità  (dvwcpeXetg  èmaxf[\iai)  ?  ^  ^  «  Può  dirsi  altrimenti  se  non  che,  per 


»  Oecon.,  1,  8. 

s  Oecpn,,  li  12;  14.  Notiamo  qui  altri  passi  analoghi;  «Oli  amici,  quando  ce 
ne  sappiamo  servire  a  nostro  vantaggio,  sono  dei  valori  (xQ^jiiara),  ed  essi  sono  tali  a 
maggior  titolo  dei  buoi».  «  I  nemici,  del  pari,  sono  dei  beni  per  colui  che  sa  cavarne 
dell'utilità»,  e  E  infatti,  quanti  uomini  privati,  quanti  principi,  quanti  tiranni  non 
devono  la  loro  prosperità,  l'accrescimento  della  loro  casa  e  dei  loro  Stati  al  male  che 
hanno  fatto  ai  loro  nemici  ?  *  (Ibid.,  §§  14  ;  15).  In  questi  due  ultimi  esempi  deve 
«scorgersi  un  accenno  alla  pratica,  comune  nel  mondo  antico,  della  corsa  e  della  pira- 
teria, che  si  trova  ricordata  come  istituzione  legale  e  regolare  (cfr.  Schòmann-Iipsius, 
Orlech.  Alterhumer,  Berlin,  1897,  I,  p.  44,  e,  sopratutto,  TnyciD.,  I,  4-5). 

3  »Ejwotfjnat  sono  le  conoscenze  tecniche,  che  comprendono  la  scienza  e  l'arte. 
Le  d(poQ)ial  sono  il  capitale,  che  questo  stesso  passo  distingue  dal  lavoro.  I  vxiy^xa  de- 
gli ultimi  righi  del  passo  sono  evidentemente  le  &<poQ(ial  iniziali:  il  capitale  a  cui  si 
applica  il  lavoro  qualificato. 


Un  Le  Play  ateniese  del  IV  secolo  a.  C.  459 


costoro,  né  le  loro  capacità,  né  i  mezzi,  di  cui  essi  potrebbero  disporre, 
non  sono  punto  dei  beni?»  Ma  il  denaro  non  deve  esercitare,  anche 
in  questo  caso,  che  un  ufficio  subordinato.  La  creriiatistica  deve  restare 
subordinata  alla  morale. 

Senofonte  non  ammette  che  il  capo  famiglia,  che  l'economo  si 
faccia  speculatore  e  mercante,  che  il  patrimonio,  che  roixo?  sia  trattato 
come  un  capitale  da  servire  a  un'impresa  commerciale,  come  delle 
dcpoQfial,  che  rappresentino  una  pura  messa  in  gioco  per  delle  specu- 
lazioni arrischiate.  Il  capo-famiglia  ha  il  compito  essenzialmente  con- 
servatore di  mantenere  la  sua  casa,  facendola  sa^^/az/z^/z^^  prosperare, 
di  assicurare  la  vita  economica,  sociale  e  morale,  di  tutti  i  componevi 
il  gruppo,  di  generazione  in  generazione. 

Il  che  spiega  come  il  carattere  tecnico-,,  che  prevale  nel  padre  di 
famiglia,  neircconomo,  debba  essere  quello  di  agricoltore.  L'ammini- 
stratore dell'ol'/.og  è,  secondo  Senofonte,  essenzialmente  agricoltore.  Sal- 
Vagrieoltura  riposano  V equilibrio  e  la  solidità  delle  società,  V agricoltura 
è  l'occupazione,  la  professione  per  eccellenza.  VOeconomicus,  che  va  sotto 
il  nome  di  Aristotele,  di  cui  abbiamo  esposto  la  natura  e  le  tendenze, 
ne  fa,  nel  libro  primo,  innanzi  di  passare  alla  enumerazione  dei  cattivi 
espedienti  finanziari,  gli  elogi  maggiori  :  «  È  dessala  più  naturale  delle 
industrie,  quella  che  sta  in  cima  alle  altre,  quella  che  seguono  le  altre  ehe 
han  rapporto  del  pati  alla  terra,  come,  per  esempio,  l'industria  dell'estra- 
zione dei  metalli.  Essa  è  inoltre  la  più  giusta  fra  tutte;  quella  che  non 
suppone  alcuno  sfruttamento  dell'uonio,  né  diretto,  né  indiretto,  si  tratti 
dello  sfruttamento  consentito  da  colui  che  ne  è  l'oggetto,  come  nel 
commercio  o  nell'industria  (ad  esempio  lo  sfruttamento  del  cliente  o 
del  salariato),  o  dello  sfruttamento  non  volontario,  come  nel  caso  di 
guerra  tra  ì  popoli.  L'agricoltura  è  nell'ordine  delle  cose  della  natura. 
Tutti  gHessciri  ricevono  il  loro  nutrimento  dalla  madre  loro;  gli  uomini 
lo  ricevono  dalla  terra  ».  L'agricoltura  inoltre  contribuisce  grandemente 
a  formare  degli  uomini  coraggiosi,  perchè  sviluppa  la  forza  e  la  bellezza 
del  corpo,  e  le  qualità  morali,  che  vi  corrispondono,  e  di  cui  non  pos- 
sono disporre  gli  operai,  deformati  dal  mestiere.* 

Aristotele  aveva  già  detto  questo  nel  cap.  3  elei  librò  t  della 7^^- 
litica,  che  il  Pseudo-Oecononilcus  non  fa  che  analizzare  e  parafrasare. 
Ed  aveva  soggiunto  che  là  dove  gli  agricoltori  dominano  <  possono 
stabilirsi  delle  democrazie,  ammirevoli  per  il  buon  ordine  e  per  il  ri- 
spetto delle  leggi».*  Ciò  che  caratterizza  allora  la  costituzione  sociale 
è  la  preponderanza  di  un  olxog^,  d'un  patrìnloiiio  modesto,  che  permette 


»  [Arist.],  Oecònomieas  1,  2-3,  ed.  Susemihl. 
t  Polit,,  4,  5,  3. 


46o  Georges  Platon 


ai  cittadini  di  vivere  lavorando,  ma  che  non  li  lascia  indugiare  in  un 
ozio  pieno  di  yìzii,  né  consente  che  perdano  il  loro  tempo  sulla  piazza 
pubblica  (ràYoo«)  in  discussioni  oziose.  La  costituzione  politica  è  allora 
una  costituzione  censitaria,  una  postituzione  però  non  chiusa,  né  esclu- 
siva, ma  che  s'apre  a  tutti  i  cittadini,  i  quali  pervengono  a  realizzare 
le  condizioni  di  fortuna  a  cui  sono  subordinate  le  qualità  civiche.  E 
tutti  se  ne  trovano  bene. 

Questo  è  ristante  felice  deirolxo?  e  dell'agricoltore  campagnuolo, 
nel  quale  evidentemente  Socrate  e  Senofonte  vedono  l'ideale  dei  cittadino. 

Si  rammenterà  che  è  proprio  con  una  contrapposizione  fra  questo 
tipo  del  gentiluomo  di  campagna  e  il  cittadino  adusato  a  gingillarsi 
nelle  piazze  e  per  le  vie  di  Atene  che  esordisce  la  conversazione  tra 
Socrate  e  Isomaco,  di  cui  si  compone  la  più  gran  parte  dell' O^r(7/zo//z/- 
ciis  di  Senofonte.  «  Perchè,  o  Isomaco  »,  chiede  Socrate,  «  contrariamente 
alla  tua  abitudine,  sei  qui  seduto  senza  far  nulla  sotto  il  portico  del 
Giòve  Liberatore?  Io  ti  vedo  quasi  sempre  occupato  e  so  che  tu 
perdi  ben  poco  tempo  s>v!X agora.  Che  fai?  Quale  occupazione  ti  me- 
rita il  nome  di  buono  e  di  bello?  Tu  non  resti  chiuso  in  casa,  e  tu 
non  hai  affatto  la  complessione  per  una  vita  sedentaria  ».* 

Dopo  aver  ricordato  che,  in  ogni  tempo,  i  migliori  uomini,  i  più 
valenti,  i  più  potenti,  tutti  i  re  di  Persia  —  in  specie  Ciro  il  giovane, 
l'eroe  di€iV Anabasi  —  si  dedicarono  interamente  all'agricoltura  e  consi- 
derarono, conie  loro  onore  e  piacere,  praticarne  essi  stessi  i  vari  lavori, 
nei  momenti  di  ozio,''  Socrate,  nel  capitolo  V,  ne  fa  una  solenne  apo- 
logia. «  Dunque,  egli  dice,  i  liiù  felici  non  possono  fare  a  meno  del- 
l'agricoltura. *La  cura  che  vi  si  pone  è  una  fonte  di  piacere,  di  pro- 
sperità per  la  casa  e  d'esercizio  per  il  corpo,  ch'essa  rende  capace  di 
compiere  tutti  i  doveri  propri  di  un  uomo  libero  ».^  L'elogio  prosegue 
per  tal  modo,  pieno  di  grazia,  di  moderazione,  di  una  dolcezza  gra- 
devole e  commovente.  «  Infine,  dice  Socrate,  per  concludere,  la  terra 
insegna  la  giustizia  a  tutti  coloro,  che  sono  in  grado  di  impararla, 
giacché  essa  rende  maggior  copia  di  benefizi  a  quelli  che  la  coltivano 
con  maggior  diligenza.*  L'agricoltura  ci  insegna  ad  aiutarci  a  vicenda. 
Essa  é  la  madre  e  la  nudrice  di  ogni  cosa,  giacché,  quando  l'agricoltura 
prospera,  tutte  le  altre  arti  fioriscono  insieme  con  essa».^ 

Così  discorre  Socrate,  per  bocca  di  Senofonte,  dell'agricoltura  in 
genere.  E  la  seconda  parte  del  trattato  è  tutta  piena  di  fatti  e  detti  dello 


»  Oeeon.f  7,  1-3. 
«  Oecon.,  4,  21  sgjff» 

•  Oecon.,  5,  l. 

*  Ibid.,  12. 
^Ibid.,  14;  17. 


Un  Le  Play  ateniese  del  IV  secolo  a.  C.  461 

stesso  Isomaco,  il  protagonista  del  libro,  il  quale  riunisce  in  sé  tutte 
le  virtù  del  gentiluomo  di  campagna.  Egli,  infatti,  è  per  Socrate  l'agri- 
coltore ideale:  egli  possiede  la  salute,  la  forza  fisica,  Tagilità,  e  può 
—  in  tal  modo  —  senza  vergogna  tornare  incolume  dai  combattimenti.^ 
Nello  stesso  tempo  egli  fa  bene  i  suoi  affari;  la  sua  casa  prospera, 
mentre  quelle  di  tanti  altri,  che  appartengono  alla  stessa  classe  sociale 
o  a  classi  sociali  superiori,  rischiano  di  andare  in  rovina.^ 

Come  mai  ottiene  ciò  e  come  bisogna  fare  per  riuscire  al  pari 
di  lui? 


XII. —  Il  concetto  cristiano  della  donna  compagna  dell'uomo. 

—  Attraverso  la  ricerca  e  Tesarne  della  buona  pratica!  —risponde 
Socrate,  come  risponderà  più  tardi  il  Le  Play  :  «  Io  ti  indicherò>  o 
Critobulo  delle  persone  più  abili  di  me  nella  scienza  dell'economia, 
della  quale  tu,  in  questo  momento,  mi  preghi  di  darti  lezioni.  Io  ti 
confesso  di  avere  con  grande  cura  cercato  in  ogni  genere  ì  migliori 
maestri  della  nostra  città.  Io  mi  sono  accorto  che  coloro  i  quali  eser- 
citano a  caso  le  diverse  professioni  finiscono  col  perdercisi,  laddove 
quelli  che  ragionano  e  fanno  ogni  cosa  con  cura  arrivano  a  un  gua- 
dagno più  pronto  e  più  facile.  A  questa  scuola,  se  vuoi,  e  se  la  divi- 
nità non  ci  -mette  ostacoli,  tu  potrai  diventare  un  eccellente  economo  e 
far  molto  danaro».^ 

Isomaco  è  di  quelli  che  riescono  nella  amministrazione  dei  suol 
beni  ;  è  un  9ta?cdYa0óg,  o,  per  adoperare  il  linguaggio  del  Le  Play,  una 
«autorità  sociale  indiscutibile  ».  Per  diventare  un  buon  capo  di  casa, 
non  c'è  che  a  vedere  in  che  modo  egli  procede,  e  imitarlo.  Che  la  teoria 
non  serve  a  niente  jn  queslo  caso  ;  le  buone  abitudini  non  s'improv- 
visano; né  possono  essere  sostituite  dalla  pura  teorica.  Esse  sono  vis- 
sute dapprima  dagli  uomini  di  azione.  Poi  viene  l'osservazione,  che 
rileva  i  procedimenti,  che  i  pratici  seguono  come  per  istinto.  Ma  fare 
la  teoria  della  pratica  non  basta  per  dare  l'attitudine  tecnica.  Noi  ve- 
dremo a  momenti  come  occorre  comportarsi. 

Ma  che  cosa  c'è  a  notare  anzi  tutto  in  questo  Isomaco,  che  So- 
crate propone  alla  imitazione  di  Critobulo?  Egli  non  è  solo,  ma  son 
due  persone.  Egli  è  come  raddoppiato  nella  persona  della  sua  donna; 


1  ibid.,  12. 

«  Oecon.,  2,  17. 
»  Oecon,,  2,  17-16. 


462  Georges  Platon 


e  questo  è  nel  mondo  antico  qualche  cosa  dì  nuovo.  Esiodo  parla  assai, 
male  delie  donne.  A  suo  dire,  l'ottima  fra  tutte  non  vale  nulla.  Non 
bisogna  farla  comparire  uè  nell'  interno  della  casa,  né,  a  più  forte  ra- 
gione, nella  condotta  generale  dell'economia.  In  tale  concetto  si  nota 
quasi  un  regresso  della  poesia  esiodèa  al  confronto  dell'epopea  omerica, 
che  Penelope  gode  xi^^ Odissea  di  una  situazione  certamente  superiore 
a  quella  della  sposa  del  ciipo-famiglia,  che  appare  nelle  Opere  e  i 
giorni  di  Esiodo. 

Con  Socrate-Senofonte,  si  è  compiuto  un  progresso  notevolissimo. 
Come  l'uomo  della  Bibbia,  il  capo  della  casa  è  stato  creato  uomo- 
donna,^  maschio  e  femmina,  così  il  capo  delI'oTy.og  socratico  è  padrone 
e  padrona.  Egli  non  resta  mai  in  casa;- egli  ha  l'amministrazione  dèi 
di  fuori  e,  per  la  sua  attività  esterna,  per  la  sua  energia,  la  ricchezza 
entra  nella  casa.''  La  donna  invece  cura  la  spesa,  a^niministra  l'interno, 
conserva  i  beni,  veglia  acciocché  ogni  cosa  sia  in  ordine,^  acciocché  il 
personale  dell'interno  compia  l'opera  sua,  in  pace,  con  tranquillità  di 
spirito,  anzi  lietamente.*  L'attività  dell'uomo  non  è  completa  senza  l'at- 
tività concorde  della  padrona,  e,  quando  ognuno  di  essi  fornisce  perfet- 
tamente il  compito  che  a  lui  spetta,  la  casa  non  può  non  prosperare. 
Allora  si  ha,  per  quanto  è  possibile,  la  felicità  in  terra  e  la  benedizione 
degli  Dei.^  Avviene  questo:  che  si  realizza  il  più  aito  grado  di  felicità 
e  di  virtù,  cui  possa  aspirare  l'imperfezione  umana:  «Divenuta  più 
perfetta  di  me,  dice  il  capo  di  casa  alla  sua  donna,  tu  mi  avrai  fatto 
tuo  servitore.  Lungi  dal  temere  che  l'età  ti  faccia  perdere  l'ascendente 
che  ora  eserciti  nella  casa,  tu  potrai  esser  certa  che,  invecchiando,  tu 
diventi  per  qie  una  compagna  ancora  migliore;  per  i  tuoi  figliuoli,  una 
madre,  migliore,  e,  per  la  tua  casa,  una  padrona  più  onorata.  Impe- 
rocché la  bellezza  e  la  bontà  non  dipendono  punto  dalla  giovinezza, 
ma  dalle  virtù,  che  le  accrescono  nella  vita  agli  occhi  degli  uomhii...  ».* 
Vi  è  in  queste  frasi  un  tratto  di  sublimità,  che  forse  non  può  essere 
superato,  né  in  alcuna  civiltà,  né  da  alcuna  religione."^ 

Ecco  dunque  il  padrone  di  casa  uomo-donna,  tutto  intento  ad 
amministrare  il  suo  patrimonio,  allo  scopo  di  conservarlo  e  di  molti- 
plicarlo per  trasmetterlo  ai  suoi  figliuoli.  Lia  donna,  sotto  questo  aspetto. 


1  Qenes.f  1,  27;  àQoev  xol  {H\h)  ixoiriaev  aòxo-bz. 

*  Oecon.,  7,  3;  3,  15. 
^'Oecon.,  capp.  7-8. 

*  Oicon.,  7,  37;  41. 
5  Oecon,,  7,  42. 

*  Oecon.,  7,  42. 

'  Cfr.  Matthias,  Evang.  20,  26-27  :  «  Chiunque  tra  voi  vorrà  divenir  grande  tia 
vostro  ministro:  e  chiunque  ira  voi  vorrà  esser  primo  sia  vostro  servitore  ». 


Un  Le  Play  ateniese  del  IV  secolo  a.  C.  463 

riceve  più  Specialmente  la  qualifica  di  massaia,  di  custode  del  patrimonio 
per  i  suoi  figliuoli  (xal  ;caialv  oihov  (puA,a|  duE^vtov  Y^YVTi)  (7,42).  Quale  sarà 
il  segreto .delloro  comune  valore?  Sarà  quello  stesso  ch'è  proprio  del- 
Tuomo,  del  capo  di  casa,  dal  tempo  di  Esiodo,  in  ogni  tempo.  Come 
sempre,  in  questo  mondo  in  cui  il  danaro  e  la  crematistica  hanno  una 
parte  grandissima,  Tuomo  si  sente  schiavo  delle  cose,  dell'ambiente 
esterno,  delle  condizione  economiche  generali,  cioè  a  dire  dipendente 
dagli  Dei  che  presiedono  alla  vita  del  mondo.  Tutta  l'attività  del  va- 
lente agricoltore  e  dell'uomo  virtuoso  che  è  Isomaco  è  perciò  dominata 
da  questo  sentimento  di  dipendenza  dell'uomo  e  dal  timore  degli  Dei. 


XIH.  —  Qualità  morali  e  religiose  deiramministratore. 

Egli  è  convinto  che,  per  riuscire  nel  suo  compito,  tanto  difficile, 
non  può  fare  a  meno  della  protezione  degli  Dei.  Questo  sentimento 
si  manifesta  ad  ogni  pagina  àtWOeconomicus:  «Non  potrai,  dice  So- 
crate,* riuscire  e  far  del  danaro,  che  seguendo  coloro  i  quali  riescono 
nei  loro  affari,  se  Dio  non  si  opporrà  ».  E  altrove,  deplorando  Crito- 
buló  che  vi  siano  in  agricoltura  dei  casi  che  l'uomo  non  può  preve- 
dere, la  grandine,  i  geli,  le  siccità  ecc.,  «  Io  credevo,  replica  Socrate, 
o  Critobulo,  che  tu  conoscessi  il  potere  degli  Dei,  così  completo  sui 
lavori  dei  campi,  come  sulle  fatiche  della  guerra...  Come,  innanzi  di 
cominciare  una  guerra,  così,  prima  di  qualsiasi  lavoro  agricolo,  occorre 
rendersi  propizi  gli  Dei.  I  savii  rendono  omaggio  agli  Dei  delle  frutta 
succulente  e  di  quelle  secche,  dei  buoi,  dei  cavalli,  delle  pecore,  di 
tutto  ciò  che  posseggono  ».^  Ed  ecco  come  parla  e  opera  Isomaco, 
innanzi  di  intraprendere  l'opera  capitale  d'iniziare  la  sua  donna  all'at- 
tiva collaborazione  ch'egli  «spetta  da  lei  :  «  Io  ho  offerto  un  sacrificio, 
e  ho  pregato  il  cielo  di  accordare  a  me  il  favore  di  istruirla  bene,  e 
a  lei  stessa,*  di  apprender  bene  ciò  che  può  formare  la  nostra  comune 
felicità».  —  La  tua  donna,  dunque,  gli  chiedo,  sacrificava  con  te  e 
rivolgeva  al  cielo  le  stesse  preghiere?^  —  Certamente, rispose  Isomaco; 
anch'essa- prometteva  solennemente  agli  Diei  di  resiar  sempre  quale 
dovrebbe  essere  ». 

Ecco  la  donna  associata  al  calta  del  marito,  com'eila  e  associata 
alla  di  lui  vita,  e  tutta  la  loro  esistenza  non  sarà  che  una  lunga  vita 
di  pietà. 


1  Oecon.t  2,  18. 
«  Oecon.,  5,  19-20. 
»  Oecon.  f  7,  7-8. 


464  Georges  Platon 


1  figliuoli,  che  sono  lo  scopo  del  matrimonio,  poiché  è  per  essi 
che  deve  perpetuarsi  l'oixoc/  sono  considerati  come  una  benedizione  e 
un  dono  degli  Dei,  e  il  compito  comune  degli  sposi  sarà  di  allevarli 
ed  educarli  il  meglio  possibile.^  Ed  eccoli  tutti  e  due  all'opera  sotto 
rocchio  vigile  degli  Dei,  dominati  dalla  preoccupazione  di  non  far 
nulla  che  non  sia  giusto  e  onesto,  che  non  sia  a  un  tempo  la  volontà 
degli  Dei  e  della  legge.^  «  La  divinità  li  associa  per  i  figliuoli,  e  la  legge 
per  il  patrimonio  (roixog).  La  legge  stessa  dichiara  altresì  onesto  tutto 
ciò  che  resulta  dalle  facoltà  particolari  accordate  dal  cielo  all'uno  ed 
all'altra  ».* 

Tutta  questa  vita  intima,  come  la  sua  attività  esterna,  è  dunque 
piena  di  spirito:  morale  e  religioso.  In  luogo  di  un  egoismo  brutale 
e  arrogante,  che  non  conosce  che  la  volontà  dell'individuo  e  le  sue 
concupiscenze,  e  che,  per  risolvere  il  problema  della  vita,  non  conta 
che  sulla  sola  intelligenza  umana,  si  ha  qui  un  atteggiamento  di  dif- 
fidenza generale,  che  riconduce  l'uomo  al  suo  io  interno  e  lo  dispone 
ad  ascoltare  la  voce  profonda,  che  si  fa  sentire  dentro  di  lui.  Noi  l'ab- 
biamo già  veduto  :  per  Socrate,  tutta  la  vita  morale  si  riduce  a  questo  : 
a  praticare  costantemente  la  preghiera,  a  ricorrere  alla  divin?.zione,  ed 
ascoltare  le  voci  che  fa  nascere  in  noi  il  nostro  daimon  interiore.  Iso- 
maco  non  si  trova  in  diverse  disposizioni  spirituali,  e  la  sua  condotta 
è  egualmente  penetrata  del  divino. 

Si  tratta  di  formare  la  sua  donna  alla  pratica  dei  suoi  doveri  nella 
casa?  —  Preghiera  e  sacrifizio  in  comune!  —  Si  tratta  di  intraprendere 
qualche  cosa,  sia  pure  di  quelle  che  sembrano  maggiormente  dipendere 
dalla  iniziativa  e  dalle  cure  dell'uomo?  «  Convinto  che  anche  agli  uomini 
più  prudenti  e  più  attivi,  gli  Dei  talora  accordano  di  riuscire,  ma  tal'altra 
non  lo  concedono  punto,  egli  comincia  col  rendere  loro  omaggio,  e 
si  sforza  di  meritare  con  le  sue  preghiere  la  salute,  la  forza  del  corpo, 
la  stima  dei  concittadini,  la  benevolenza  degli  amici,  la  felicità  di  tor- 
nare sano  e  salvo,  con  pieno  onore,  dalla  guerra;  ^  una  fortuna  onesta 


1  Oecon.,  7.  11. 

«  Oecon.,  7,  12. 

»  Oecon,,  7,  15;  16. 

*  Oeeon,,  7,  30. 

s  Oecon.^  11,8.  L'eccellente  Talbot,  nella  sua  traduzione,  cade  in  un  controsenso, 
allorché  traduce:  e  Je  m'ef force  de  mériter  l'avantage  d'étre  à  l'abri  durant  la  guerre  ». 
Questa  traduzione  misconosce  e  falsa  malamente  il  pepsiero  di  Socrate  e  di  Senofonte, 
che  non  lesinarono  mai  il  sacrifizio  della  propria  vita  alla  patria.  Analogamente  Virgilio 
ha  fatto  il  suo  eroe,  Enea,  notevole  sopra  tutto  per  la  sua  pietà.  Molti  crìtici  hanno 
rimproverato  al  poeta  questa  religiosità,  che  loro  è  parsa  eccessiva  e  smaccata.  Dopo 
dò  che  noi  abbiamo  visto  dell'uomo  xaXòs  Kàya^òg  di  Socrate  e  di  Senofonte,  deve 
dirsi  che  questa  pietà,  anziché  segnare  una  mancanza  ^  virilità,  è  al  contrario,  nello 


Un  Le  Play  ateniese  del  IV  secolo  a.  C.  465 


mente  acquistata  ».  —  Preghiera  e  sacrifizio  sempre.  —  «  1  saggi  ren- 
dono omaggio  agli  Dei  delle  frutta  succulente  e  di  quelle  secche,  dei 
buoi,  dei  cavalli,  delle  pecore,  in  una  parola,  di  tutto  ciò  che  posseg- 
gono ».  Dunque  sacrifizi  e  preghiere  in  ogni  circostanza!^ 

La  ragione  ne  è  che  il  mondo  per  la  sua  complessità  sfugge  al- 
l'impero dell'uomo,  e  che  al  di  sopra  di  lui  v*è  la  volontà  degli  Dei  e 
la  natura  delle  cose.  C'è  la  volontà  degli  Dei,  che  si  può  piegare  solo 
con  la  preghiera  e  con  la  pietà;  c'è  la  qualità  intima  delle  cose,  che 
l'uomo  riceve  bella  e  formata,  e  su  cui  egli  non  può  agire  che  super- 
ficialmente, fino  a  un  punto,  oltre  il  quale  essa  si  rivela  più  forte  di 
lui,  facendogli  scontare  con  l'insuccesso  la  temerità  della  sua  audacia. 

Ne  segue  che  il  successo  di  ogni  attività  umana,  veramente  buona, 
starà  nelle  due  qualità  fondamentali  della  moderazione  e  della  modestia, 
rispetto  agli  Dei  e  alle  forze  naturali,  e  nella  costante  volontà  dell'indi- 
viduo. Fuori  di  ciò  tutto  è  vano.  La  felicità,  la  prosperità,  per  l'indi- 
vìduo, le  famiglie,  i  popoli,  sono  il  resultato  della  collaborazione  del- 
l'uomo e  di  Dio,  una  collaborazione,  in  cui  il  primo  non  può  che 
portare  la  sua  buona  volontà,  una  sincerità  di  sforzi,  sovente  oscurata 
dalle  sue  passioni,  della  quale  però  egli  non  sa  mai  se  si  tratta  di 
volontà  veramente  buona,  e  in  cui  il  compito  principale  ricade  sempre 
sull'altro  Collaboratore,  la  cui  azione  inafferrabile,  inintelligibile,  decide 
del  resultato  finale  degli  sforzi  umani.  L'uomo  può  ben  agitarsi,  può 
ben  creare  la  scienza  e  l'arte  ;  erigere  a  sistema  le  sue  ingegnosità  e  i 
suoi  incerti  contatti  con  le  cose.  Senza  la  «  buona  volontà  >,  quale  noi 
l'abbiamo  definita,  egli  non  può  nulla.  Questa,  la  tesi  fondamentale 
del  nostro  Le  Play  e  di  Senofonte. 


XIV.  —  La  ^  buona  volontà  ». 

Ecco  il  capo  della  casa,  ci  dice  Senofonte.*  Egli  possiede  a  un 
tempo  la  scienza,  le  conoscenze  teoriche  e  i  mezzi  necessari  per  riu- 
scire. Ma  egli  non  ha  buona  volontà,  onde  i  due  elementi,  la  cui  com- 
binazione doveva  rendere  prospera  la  sua  casa  sono  per  lui  come 
inesistenti,  non  sono  cioè  per  lui  dei  beni.  •—  Né  qui  si  tratta,  osserva 
Senofonte,  di  anime  naturalmente  inferiori,  di  schiavi,  i  quali,  non  pos- 


spirito  degli  antichi,  una  condizione  del  vero  eroismo.  Sarebbe  lo  stesso  che  rimpro- 
verare a  Giovanna  d'Arco  o  a  Baiardo  la  loro  pietà  e  la  loro  fiducia  in  Dio.  Cfr.  Ver- 
GIL.,  Aeneid.,  ed.  Hirtzel  (Oxford),  I,  vv.  10  ;  545  ;  V,  v.56;  VI,  y,  437  sgg.;769j 
XI,  v.  292  e  S AI nte-Beu VE,.  f/«<fe  sàr  Virgile,  Paris,  1870  (2*  ed.),*pp.  125;  128. 

1  Oecon.,  5,  20. 

«  Oecon.t  1,  16.  4 

30  —  Nuova  Rivista  Storica. 


466  Georges  Platon 


sedendo  delle  conoscenze  precise,  non  sono  indotti  a  volerne  ricavare 
rutile  necessario  per  il  loro  padrone.*  Si  tratta  invece  di  eupatridi,  dj 
componenti  Tantica  nobiltà,  che  hanno  ereditato  qualche  virtù  dai  loro 
antenati,  conoscenze  relative  alla  pace  e  alla  guerra;  di  gente,  dunque, 
che  possiede  ogni  sorta  di  vantaggi,  ma  che  nulla  vuol  fare  per  trame 
partito.  O  piuttosto  i  padroni  invisibili,  di  cui  essi  sono  i  servitori,  im- 
pediscono loro  di  trarre  partito  da  queste  ragioni  di  prosperità.^  —  Non 
basta  una  certa  generosità  naturale.  Occorre  una  buona  volontà  posi- 
tiva, libera  da  ogni  ostacolo,  e  che  non  si  diparte  mai  dalla  linea  di 
applicazione  necessaria. 

L'agricoltura  —  è  questo  un  tema  che  Socrate  si  compiace  di  lu- 
meggiare nella  stessa  parte  del  dialogo  —  è  una  delle  sci«nze  più  sem- 
plici ad  apprendere,  una  delle  arti  più  facili  e  più  gradevoli  ad  eserci- 
tare.' Socrate  si  fa  dimostrare  da  Isomaco  che,  in  fatto  di  agricoltura, 
egli,  Socrate,  ne  conosce  quasi  tutti  i  principii  fondamentali,  pur  senza 
averli  mai  imparati,  solo  per  avere  guardato  le  cose.  «Non  si  tratta, 
spiega  Isomaco,  neiragricoltura,  come  nelle  altre  arti,  di  lungo  tirocinio  ; 
Tagricoltura  non  è  punto  difficile  ad  apprendere.  Stai  a  guardare  il 
coltivatore  che  lavora  ;  ascoltalo,  e  ben  presto  ne  saprai  abbastanza  per 

dare,  se  vuoi,  delle  lezioni  agli  altri L'agricoltura  non  nasconde  nulla 

dei  suoi  procedimenti ,  e  parimenti  essa  eccelle  a  dare  un  carattere 

guerriero  a  coloro  che  la  esercitano  ».* 

Si  può  stabilire,  come  principio  che  i  precetti  elementari  da  ap- 
plicare in  agricoltura  sono  conosciuti  da  tutti,  tanto  dagli  uomini  sem- 
plici come  dai  dotti.^  Che  cosa,  dunque,  distingue  un  agricoltore  da 
un'altro?  Perchè  Tuno  riesce  e  l'altro  no? 

Gli  è  che,  «se  tutti  gli  uomini  conoscono  bene  i  principii  del- 
l'agricoltura, non  tutti  li  praticano  bene  egualmente.^  Non  sono  né  la 
scienza,  né  l'ignoranza  ad  arricchire  gli  uni  e  a  ruinare  gli  altri...'^  Tu 
sentirai  piuttosto  dire:  —  Costui  non  raccoglie  grano,  non  perchè  egli 
semina  irregolarmente,  ma  perchè  non  ha  cura  di  seminare  il  suo  campo 
o  di  concimarlo.  Quest'altro  non  raccoglie  vino  perchè  egli  non  ha 
cura  di  piantar  vigne,  né  di  mettere  in  valore  quelle  che  possiede,  per- 
chè egli  non  fa  nulla  per  possederne La  differenza  —  quando  una 

ce-  n'è  —  tra  i  vari  lavoratori,  consiste  più  nella  pratica  che  nell'inven- 


i  1.  17. 
»  1,  18. 
»  Oecon.,  6,  8. 

4  Oecon.,  15,  10;  12. 

5  Oecon.,  19,  17. 
«  Oecon.,  20,  1. 

■»  Oecon.,  20,  2  ;  5. 


Un  Le  Play  ateniese  del  JV  secolo  a.  C.  467 

zione  di  qualche  ingegnoso  processo  di  lavoro  >.*  Lo  stesso  segue  per 
tutte  le  arti,  compresa  Tarte  militare.* 

Un  altro  punto  essenziale  per  il  buono  o  il  cattivo  successo  in 
agricoltura  è  che  di  coloro  i  quali  si  occupano  dei  lavoratori,  alcuni 
sorvegliano  acciocché  gli  operai  impieghino  bene  il  loro  tempo,  e  la- 
vorino bene  ;  altri  non  ci  badano  affatto.  In  una  parola,  ciò  che  costi- 
tuisce la  differenza  tra  gli  agricoltori,  e,  più  generalmente,  tra  gli 
uomini,  a  qualunque  classe  e  condizione  appartengano,  è  la  cura  ch'essi 
pongono  nel  lavoro,  l'amore  del  lavoro,  la  buona  volontà,  «'Mio  padre 
dice  Isomaco,  non  aveva  ereditato  il  suo  sapere  da  alcuno,  né  acqui- 
starlo gli  è  costato  grandissima  fatica;  ma  sono  stati  il  suo  amore  per 
l'agricoltura  e  pel  lavoro  a  rivelargli  il  segreto  della  sua  condotta».^ 
Buona  volontà  —  £jti|ieXeia,  cpdojtovia  — :  ecco  il  segreto  della  riuscita 
nell'agricoltura,  come  in  qualsiasi  altra  opera  umana. 


XV.  —  L'utilità  sociale  delle  diseguaglianze  tra  gli  uomini. 

È  la  buona  volontà  sufficiente?  No,  risponde  Socrate:  essa  è 
necessaria,  ma  non  basta.  Occorre  inoltre  che  il  capo  di  casa,  come 
lo  stratego,  come  tutti  coloro  che  debbono  comandare  a  degli  uomini, 
abbia  l'anima  di  un  re  (toùtov  éyò)  q)atiìv  av  exeiv  ti  TJ160U5  ^adixov).  Aver 
l'anima  di  un  re  significa  avere  il  dono  innato  del  comando,  «  avere 
il  dono,  allorché  ci  si  mostra  agli  uomini,  a  cui  si  comanda,  di  met- 
terli, per  forza  del  solo  pensiero,  in  movimento;  di  comunicare  agli 
operai  uno  slancio,  una  emulazione  generale,  una  ambizione  possente 
e  individuale;  il  dono  di  rendere  colui  che  é  comandato  capace  di  sor- 
passare se  medesimo,  di  produrre  qualche  còsa  di  notevole.*  Aver  l'anima 
regale  significa,  quando  si  é  a  capo  di  un  esercito,  far  fare  ai  soldati 
le  cose  più  difficili,  renderli  capaci  di  qualsiasi  impresa,  infonder  loro 
l'amore  del  lavoro  e  della  gloria,  infonder  loro  il  coraggio,  e  seguirli 
attraverso  tutti  i  pericoli.  Si  è  allora  un  grand'uomo,  che  fa  grandi 
cose  piuttosto  col  genio  che  con  la  forza  fisica.  <  Allora  si  chiama  a 
ragione  uomo  di  grande  coraggio  (fisYa^oyvcjafxtov)  colui  che  va  alla  testa 
di  un  esercito  animato  da  questi  sentimenti.  Allora  si  dice  che  costui  si 
avanza  con  un  grande  braccio,  a  cui  tante  altre  braccia  obbediscono  >.^ 
Quest'uomo  ha  la  facoltà  di  trasformare  gli  uomini! 


1  Oecon., 

20, 

2sgg. 

*  Oecon., 

20. 

6. 

s  Oecon., 

20, 

25. 

*  Oecon., 

21. 

10. 

s  Ibtd.,  e 

21. 

7  sgg. 

468  Georges  Platon 


«  Ciò  che  è  vero  nella  condotta  degli  eserciti  è  vero  altresì  nella 
condotta  delle  opere  domestiche,  per  quel  che  concerne  il  capo  della 
casa,  il  soprastante,  il  capo  dei  lavoratori.  E,  allorché  costoro  sanno 
rendere  le  persone  zelanti  nel  lavoro,  diligenti,  assidui,  sono  essi  vera- 
mente che  fanno  prosperare  la  casa  evi  riversano  l'abbondanza >/ 

Il  punto  capitale  in  ogni  opera  umana,  e  altrettanto,  se  non  più, 
nella  direzione  deirolxo?,  è,  dunque,  oltre  alla  buona  volontà,  l'obbligo 
di  uniformarsi  alle  indicazioni  della  natura  nella  utilizzazione  degli 
uomini;  è  il  riconoscimento  di  questo  grande  fatto  che  i  mezzi  a  di- 
sposizione dell'uomo,  perchè  egli  possa  fornire  il  suo  compito,  gli  sono 
dati  dalla  natura  e  ch'egli  non  potrebbe  violentare  le  cose,  senza  an- 
dar contro  al  suo  stesso  scopo.  Il  principio  che  non  si  deve  perdere 
di  vista  è  che  tra  gli  uomini  esistono  differenze  di  natura  irreducibili 
a  delle  differenze  di  educazione,  e  che  la  saggezza  consiste  nel  saperle 
mettere  in  evidenza  e  nel  tenerne  grandissimo  conto  nella  costituzione 
della  gerarchia  sociale.  «  Quanto  al  talento  di  comandare,  dice  Socrate, 
(talento  egualmente  necessario,  si  tratti  di  agricoltura,  di  politica,  di 
economia,  di  condotta  degli  eserciti),  io  convengo  con  te  che  c'è  fra 
gli  uomini  una  gran  differenza  nei  riguardi  dell'intelligenza  »  (21,  2). 
Gì  sono  nature  che  partecipano  deiriìOos  paadixòv  (21,  10);  delle  per- 
sonalità che  si  chiamano  con  ragione  nsYaXoyvcónoves,  ossia  uomini  <<  dal 
grande  cuore  »  (ibid.,  8),  di  cui  si  dice  ancora  ot  8'a*  Osioi  xal  avaGol  xal 
è.TiTì'jiiove;  aQxovres  (Sono  essi  i  capi  divini  e  buoni  e  sapienti,  ibid.,  5). 
Tutto  riconduce  a  questo  fatto  originario  d'una  bontà  naturale,  di  cui 
non  si  può  non  tener  conto  in  qualsiasi  ordine  di  attività.  Le  capacità 
della  direzione,  del  comando  non  s'imparano,  ma  suppongono  delle 
predisposizioni  naturali.  «  Per  Giove,  esclama  Isomaco,  io  non  dico 
che  questo  talento  s'acquisti  di  primo  acchito,  e  in  una  sola  lezione; 
io  sostengo  ai  contrario,  che  a  fine  di  pervenirci,  occorre  l'istruzione 
e  un  dono  naturale,  e,  ciò  che  più  importa,  una  ispirazione  dall'alto  » 
(0EVOV  YévéaOoti).- 

L'arte  di  ben  condurre  la  casa  suppone  la  scienza  delle  anime.  Oc- 
corre che  il  capo  di  casa,  tal  quale  come  la  città  nella  scelta  dei  ma 
gistrati,  sappia,  nella  scelta  del  suo  personale,  distinguere  le  nature  ca- 
paci, di  cui,  con  l'aiuto  dell'educazione,  potrà  fare  dei  preziosi  ausiliarii. 
A  tale  scopo  egli  eliminerà  dapprima  tutti  quelli  che  sono  schiavi  dei 
loro  vizii:  gli  ubbriaconi,  quelli  che  sono  troppo  inclini  alla  srego- 
latezza o  che  sono  troppo  leggeri,  i  temperamenti  pesanti  e  torpidi. 


>2i,  9. 

t  21, 11  ;  12.  Si  rammenti  la  differenza  stabilita  da  Platone  nella  sua  Città  ideale 
fra  le  mime  di  ferro,  di  argento,  di  oro  {Refi.  3,  p.  415  <i  sgg.). 


Un  Le  Play  ateniese  del  IV  secolo  a.  C.  469 

Restano,  nel  numero  dei  liberi  o  degli  schiavi,  ai  cui  ci  si  vuole  ser- 
vire per  la  direzione  della  casa,  gl'individui  intelligenti  e  moralmente 
buoni,  le  nature  capaci  e  provviste  di  buone  doti.  Vi  sono  coloro  di  cui 
non  c'è  nulla  a  fare,  insensibili  ai  migliori  trattamenti.  Essi  sono  ingua- 
ribili, fondamentalmente  cattivi.  Gli  altri,  i  quali  rappresentano  Xélite, 
sono  anime  generose,  capaci  di  essere  affinate  dalla  lode,  che  certe 
nature  hanno  tanto  bisogno  di  lode,  quanto  di  bere  e  di  cibarsi.* 

«L'uomo,  avido  di  stima,  differisce  dall'uomo  volgare,  avido  di 
guadagno,  per  questo  ch'egli  ha  in  vista  solo  gli  elogi  e  la  stima, 
sia  quando  lavora,  sia  quando  sfida  i  pericoli,  sia  quando  si  astiene 
da  lucri  vergognosi  ».*  Ecco  l'uomo  che  occorre  affezionarsi  con  buoni 
trattamenti,  facendogli  un  posto  a  parte  tra  gli  altri  della  sua  categoria, 
rendendogli  la  vita  più  dolce,  permettendogli  di  creare  una  famiglia, 
associandolo  agli  avvenimenti  intimi,  felici  o  disgraziati,  della  propria 
esistenza.^  Così  appunto  si  fa  di  lui  un  buon  intendente. 

Così  ciascuno  è  al  posto  suo:  così  si  trova  realizzato  l'ordine  indicato 
dalla  natura;  così,  sotto  la  direzione,  saggia  e  precisa  del  capo-famiglia, 
aiutato  dalla  sua  donna,  devota  interamente  al  compito  suo,  non  leg^ 
gera,*  non  distratta  dai  suoi  doveri  dall'amor  del  piacere,  ma  che  am- 
ministra r  interno  della  casa  con  prudenza,  con  fermezza,  con  dolcezza, 
con  filantropia  e  con  vera  bontà,  l' uno  e  l'altra  secondati  da  intendenti 
€  da  domestici  di  loro  fiducia  — ;  così  la  casa,  prospera  e  s'accresce 
con  r  aiuto  e  la  benevolenza  degli  Dei.  Si  hanno  allora  l'ordine  e  l'ar- 
monìa perfetta.^  Allora  questa  cosa  non  più  umana,  ma  divina,'è  rea- 
lizzata: «l'autorità  esercitata  senza  violenza,  il  comando,  accettato 
come  un  beneficio  da  cuori,  che  volontariamente  si  offrono  >.® 

<  Ma.  questo  dono  del  comando  è  privilegio  distribuito  con  parsi- 
monia grande  tra  gli  uomini,  veramente  dotati  di  saggezza  perfetta  ». 
«  Quanto  poi  al  comando,  che  si  esercita  con  la  forza,  nei  riguardi 
delle  persone  che  non.  vogliono  sottostarvi,  è  questo,  senza  dubbio, 
aggiunge  Senofonte,  a  guisa  di  conclusione  finale,  per  vero  alquanto 
enigmatica,  un  castigo  pari  a  quello  di  Tantalo  che  gli  Dei  condannano 
a  vivere  nell'ossessione  continua  di  morire  d'una  doppia  morte  >.^  O  i 
mali  del  comando  dispotico,  o  i  mali»  non  meno  grandi,  dell'anarchia  ! 


»  Oecon,,  13,  8-9. 
«  Oecon,,  14,  10. 

8  Oecon.,  13,  10  igz-  ;  c^r-  12,  6  ;  7. 

*  Tutto  il  ctp.  io  ^tWOecon.  è  consacrato  a  mostrare  come  Isomaco  abbia  distolto 
la  propria  donna  dalla  civetterìa 
»  Oecon.f  8,  3. 
«  Oecon.,  21,  12. 
7  Oecon,,  21,  12.  • 


470  Georges  Platon 


Cosi  il  fondo  della  vita  sociale  è  naturalmente  1*  ineguaglianza, 
l'aggruppamento  gerarchico.  Scoprire  le  nature  superiori,  metterle  al 
loro  posto,  far  servirle  la  loro  attività  spontanea  al  bene  del  gruppo; 
sviluppare  presso  tutti,  con  la  disciplina  della  forza  per  le  nature  in- 
feriori, che  han  bisogno  di  sentire  la  paura;  con  la  disciplina  del- 
l'esempio, col  fascino,  con  l'educazione  sistematica,  per  le  nature  ge- 
nerose; sviluppare,  dico,  presso  tutti  la  volontà  di  bene,  la  volontà 
della  prosperità  del  gruppo;  riuscire  a  che  tutti  sentano  che  Tinte- 
resse  del  gruppo  è  il  loro  proprio  interesse;  rafforzare  questi  senti-* 
menti  di  benevolenza  scambievole  con  sentimenti  d'amore  e  di  timore 
verso  gli  Dei:  ecco  il  fondo  di  ciò  che  si  potrebbe  chiamare  la  filosofia 
sociale  di  Senofonte-Socrate,  ch'è  quella  stessa  del  Le  Play, 

Per  ambedue  lo  scopo  dell'economia  non  è  tanto  quello  di  am- 
mucchiar denaro,  quanto  l'altro  di  bastare  ai  bisogni  del  gruppo  fami- 
gliare, dell'olxo?.  Il  mezzo  di  assicurarne  la  prosperità  è  mantenere  la 
sua  coesione  interna  ed  esterna  coll'obbedienza  spontanea  e  lieta  di 
ciascuno  dei  suoi  componenti,  i  quali  tutti  compiano  il  loro  dovere 
con  gioia  religiosa. 

«  Dio  e  r  uomo,  scrive  il  De  Bonald,  gli  uomini  tra  loro,  esseri 
simili  di  volontà  e  d'azione,  ma  non  eguali  di  volontà  e  d'azione,  pel 
solo  fatto  di  questa  somiglianza  ed  ineguaglianza,  stanno  tutti  in  un 
sistema,  in  un  ordine  di  volontà  e  d'azione  che  si  chiama  società. 
Giacché,  se  ci  fosse  eguaglianza  di  volontà  e  di  azione  in  tutti,  non 
ci  sarebbe  più  società:  tutto  sarebbe  forte  o  tutto  sarebbe  debole, 
e  la  società  non  è  che  un  rapporto  di  forza  a  debolezza».*  E  sog- 
giunge: «  Non  solamente  l'uomo  deve  formare  la  società,  ma  la  società 
deve  formare  l'uomo,  con  la  educazione  sociale.  L'uomo  non  esiste  che 
per  la  società,  e  questa  non  Io  forma  che  per  se  stessa.  Egli  deve 
dunque  adoperare  al  servizio  della  società  tutto  quello  che  ha  rice- 
vuto dalla  natura  e  tutto  quello  che  ha  ricevuto  dalla  società;  tutto 
ciò  ch'egli  è  e  tutto  ciò  che  ha».^ 

Così  parla  il  De  Bonald;  così  parla  il  Le  Play;  così  pensa  e  parla 
Senofonte. 

{Continua)  Georges  Platon. 


1  De  Bonald,  La  Ugislation  primitive,  Paris,  1802,  I,  viii,  1. 

«  Théorie  da  pouvoìr  politiqae  et  réligieux,  Préf.,  p.  3  (ed.  Migne). 


Sulla  opportunità  di  una  storia 

deireconomia  politica  italiana 


Scarsa  conoscenza  straniera  degli  economisti  italiani. 

\ì  signor  Henri  Joly  «  de  TAcadémie  des  sciences  raorales  »,  sceso 
in  Italia  per  compiere  uno  studio  vivo  e  obbiettivo  sul  nostro  inse- 
gnamento universitario,  viaggiò,  osservò,  interrogò,  discusse  e  alla  fine 
maturò  il  frutto  di  sue  ricerche  e  lo  espose  nella  Revue  des  deux  mondes 
del  15  agosto  1914.  Il  signor  Joly  fornisce  informazioni,  che  han  sa- 
pore di  novità  anche  per  le  persone,  che  stanno  più  addentro  nella  nostra 
vita  universitaria,  ma  una  ve  n*è,  che  non  può  apprendersi  senza  un  guizzo 
di  maraviglia.  Il  signor  Henri  Joly  avrebbe  scoperto  che  all'  Università 
di  Roma  il  professore  di  economia  politica  è  una  donna.  Il  nome  di 
questa  creatura  di  sesso  femminile  egli  rileva  senz'ambagi  :  è  la  signo- 
rina dottoressa  Teresa  Labriola.  E  parrebbe  che  all'  Università  di  Roma, 
almeno  sulla  cattedra  di  economia  politica,  il  diritto  d' insegnare  passi 
di  padre  in  figlia,  giacché  il  signor  Joly  avverte  che  la  signorina  La- 
briola succedette  al  defunto  suo  padre,  prof.  Antonio.  Né  il  critico 
francese  si  può  dichiarare  soddisfatto  dell'insegnamento  impartito 
dalla  signorina  Labriola  :  che  anzi  egli  si  palesa  in  generale  severo  e 
un  po'  sarcastico  verso  le  gonnelle  agitanti?!  sulle  cattedre  universi 
tarie  ;  delle  quali  gonnelle  egli  sarebbe  riuscito  a  scoprirne  tre.  «  Les 
candidatures  féminines  n'ont  pas  ce  caractére  exceptionnel  qu'elles 
ont  encore  eji  France  ;  car  on  a  non  seulement  à  ,  Cagliari,  mais  à 
Rome  et  à  Naples  (à  Rome,  M"*  Labriola,  successeur  de  son  pére  en 
la  chaire  d'economie  jDolitique),  des  professeurs  féminins  qui  ne  sem- 
blent  pas  avoir  force  la  liorte  par  des  titres  bien  retentissans.  C'est 
peut-ètre  de  ce  coté  que  les  universités  d*  Italie  aiment  le  piieux  à 
prouver  leur  libéralisme!  ».* 


1  Joly,  Les  Universités  itaHennes»  in  Revue  des  deux  mondes,  15  ag.  1914,  pp.  804-805. 


472  Umberto  Ricci 


Forse  il  signor  Henri  Joly  non  è  un  economista,  e  però  vogliamo 
in  parte  scusarlo  se,  nel  tessere  le  sue  indagini  attorno  all'  insegna- 
mento dell'economia  politica  in  Roma,  egli  cadde  vittima  di  qualche 
informatore  burlone.  Ma  quanti  economisti  forestieri,  autori  di  trattati 
di  scienza  economica,  o  di  manuali  di  storia  dell'economia  politica,  nel 
riferire  e  sentenziare  sull'economia  politica  italiana,  si  mostrano  di 
poco  superiori  al  signor  Joly! 

Prendiamo  uno  dei  manuali  tedeschi  più  diffusi:  la  Theoretische 
Sózlalòkonomik  di  Adolfo  Wagner.  Nel  1907,  anno  di  pubblicazione 
del  primo  volume,  erano  da  ricordare  in  Italia,  secondo  Wagner,  cinque 
principali  teorici.  Questi  «  Theoretiker  »  li  riportiamo  nello  stesso  ordine 
in  cui  li  dispone  lui:  Nitti,  Ricca-Salerno,  Cusumano,  Supino,  Loria 
(p.  12).  A  meglio  documentare  la  famosa  scrupolosità  di  esattezza, 
della  quale  i  Tedeschi  si  vantano  e  sono  accreditati  dappertutto,  cite- 
remo un  altro  particolare  :  V Handwòrterbuch  der  Staatswissenschafien  di 
Conrad,  Lexis  e  compagni,  prodigo  di  biografie  di  economisti  nati 
in  ogni  parte  del  mondo,  l' Italia  non  esclusa,  tace  i  nomi  di  Panta- 
ieoni  e  Pareto  (anno  1910). 

Apriamo  un  manuale  francese,  che  pf^r  ha  obbietto  proprio  la  storia 
dell'economia  poHtica:  V  Histoire  des  dódrines  économiques  di  Gide  e 
Rist  (1909),  grosso  volume  di  766  pagine  ed  alquanto  caotico.  Nella 
prefazione  gli  autori  dichiarano  di  voler  riserbare  una  parte  cospicua 
agli  scrittori  del  proJDrio  paese  —  e  nessuno  può  trovarci  a  ridire. 
Soggiungono  di  aver  voluto  assegnare  all'  Inghilterra  e  alla  Germania 
«  la, grande  place  qui  leur  est  due,».  E  sta  bene.  Ma,  arrivati  all'Italia, 
se  la  svignano  con  queste  frasi  generiche:  «  Nous  ne  voudrions  pas  que 
la  part  très  insuffisante  que  nous  avons  du  faire  à  d'autres  pays  pùt 
donner  à  croire,  que  nous  méconnaissons  les  services  éminents  que 
ceux-ci,  et  surtout  l'Italie  et  les  États-Unis,  ont  rendus  à  la  science 
éconoraique  dans  le  passe  come  dans  le  présent  »  (p.  viii).  E  nel 
testo  ripetutamente  :  «  Si  les  limites  de  ce  livre  nous  permettaìent  de 
parler  des  économistes  italiens...  »  (p.  381,  nota);  «  ce  serait  le  lieu 
cependant  ici,  quoique  nous  ayons,  à  regret,  écarté  de  notre  programme 
les  économistes  italiens...  »  (p.  661,  nota).  Tuttavia  qua  e  là  qualche 
notizia  sugli  economisti  italiani  e  qualche  citazione  sfuggono  alla  penna 
dei  due  autori. 

Nel  1912  uscì  negli  Stati  Uniti  di  America  una  History  of  economie 
thought  del  prof.  Haney.  Egli  dedica  un  capitoletto  all'Italia  contem- 
poranea (pp.  487-493),  attingendo,  oltre  che  all'  Introduzione  del  Cossa 
e  al  noto  studio  dello  Schullern-Schrattenhofen,  ad  articoli  del  pari 
poco  recenti  di  Rabbeno,  Loria  e  Oraziani.  Ne  risulta,  con  la  migliore 
volontà  dell'autore,  un  tremendo  guazzabuglio.  Pure  il  signor  Haney 


StiUa  opportunità  di  una  storia  dell'economia  politica  italiana        47$ 

deve  nutrire  una  segreta  simpatia  per  noi,  se,  dopo  aver  concluso  che 
il  contributo  dell'Italia  nell'ultimo  secolo  è  stato  scarso,  dice  che  le 
opere  italiane  si  possono  consultare  con  vantaggio. 

Di  recente  (1915)  si  è  ripubblicata  la  Histoty  of  politicai  economy 
dell' Ingram.  Uscita  la  prima  volta  nel  1888,  faceva  all' Italia  una  parte 
onorevole.  La  seconda  edizione,  rimessa  a  nuovo  dal  prof.  William  A. 
Scott  dell'  Università  di  Wisconsin,  regala  all'  Italia  contemporanea 
un  po'  meno  di  una  paginetta  e  mezzo.  Mezza  pagina  abbondante  è 
assorbita  dal  Loria  «  one  of  the  most  originai  and  forceful^  as  well 
astone  of  the  most  extreme  and  radicai,  of  present-day  Italian  econo- 
mists  >,  e  lì  una  lunghissima  filza  di  titoli  di  libri  lorianì  in  corsivo. 
Ci  sono,  prima  e  dopo  del  Loria,  due  listerelle  di  autori  italiani  vari. 
Nessuna  traccia  del  Pareto  in  tutto  il  volume.  Pantaleoni  è  magramente 
ricordato,  e  i  suoi  Princlpii  di  economia  pura  sono  trasformati  in  un 
Manuale f  anzi  in  un  Manuale  di  economia. 


Opportunità  di  una  storia  delPecono- 
mia  politica  italiana  scritta  da  italiani. 

Fino  a  venti  o  trenta  anni  fa  gli  economisti  italiani  erano  abba- 
stanza familiari  ai  dotti  stranieri,  e  ciò  si  deve  principalmente  alla 
Storia  àt\  Pecchio  calla  Guida,  divenuta  x^o\  Introduzione^  deXCò^STL^ 
diffuse  all'estero  e  facili  fornitrici  di  notizie.  Dobbiamo  confessare  che 
la  passione  per  la  storia  delle. dottrine  economiche  italiane  è  venuta 
scemando  in  Italia  e  poco  più  se  ne  scrive  oggi,  a  differenza  di 
quanto  accadeva  venticinque  o  trenta  anni  fa.  Possedevamo  allora, 
non  solo  la  Guida  del  Cossa,  ma  parecchie  opere  speciali:  la  Storia 
delle  teorie  economiche  nelle  province  napoletane  del  Fornari  (1882-1888)  ; 
la  Teoria  del  commercio  dei  grani  in  Italia  del  Cusumano  (1877); 
la  Concorrenza  estera  e  gli  antichi  economisti  italiani  del  Gobbi 
(1884);  L'economia  politica  negli  scrittori  italiani  del  secolo  XV I-X  VII 
pure  del  Gobbi  (1889);  le  tre  storie  della  teoria  del  valore  in  Italia  à\ 
Loria  (1882),  Graziani  .(1889)  e  Montanari  (1889);  la  Storia  delle  dot- 
trine finanziarie  in  Italia  del  Ricca-Salerno  (1881);  la  storia  della  s/a- 
tistica  di  Gabaglio  (1888),  sebbene  non  limitata  all'Italia,  e  una  mol- 
titudine poi  di  saggi  su  autori  singoli.  Erano  in  onore  anche  gli 
studi  bibliografici,  e  ricordiamo  il  Saggio  di  bibliografia  dei  trattati 
e  compendii  di  economia  politica  scritti  da  italiani  di  Luigi  Cossa 
(1891-92),  il  Saggio  di  bibliografia  economica  italiana  1870-1890  di 
Angelo  Bertolini  (1891-93),  il  Dizionario  bibliografico  deW economia  po- 
litica, Parte  /%  i  Trattati  generali  di  Tullio  Martello  (1893),   nonché 


474  Umberto  Ricci 


le  svariate  bibliografie  dello  stesso  Cossa  su  particolari  capitoli  del- 
l'economia. 

Ora,  dopo  un  quarto  di  secolo,  è  tempo  di  riabbracciare  e  pro- 
seguire questi  studi. 

Una  storia  dei  progressi  compiuti  dall'economia  politica  —  come, 
del  resto,  la  storia  dei  progressi  in  qualsiasi  scienza  o  arte,  o,  diciamo, 
in  qualsivoglia  ramo  notevole  dell'attività  umana  —  per  virtù  e  merito  di 
una  determinata  nazione,  se  è  cosa  importante  agli  occhi  di  quella  na- 
zione, che  per  tal  modo  si  esalta  e  s'invoglia  a  meglio  proseguire,  è  quasi 
più  importante  per  gli  effetti  che  produce  all'estero.  Certo  non  basta 
scrivere  una  storia  per  mutare  la  faccia  del  mondo,  ma,  se  il  libro  di 
storia  è  esso  stesso  un'opera  riuscita,  serve  a  portare  in  piena  luce  i 
propri  eroi  del  pensiero  e  dell'azione,  a  raddrizzare  opinioni  errate, 
a  suscitare  il  rispetto  dei  dotti  stranieri,  i  quali  poi  provvederanno  a 
diffonderlo  nei  rispettivi  paesi.  La  pubblicazione  di  buone  storie  è  uno 
dei  tanti  mezzi  per  accrescere  Io  splendore  intellettuale  di  una  nazione, 
e  non  dimentichiamo  che  dominio  spirituale  e  politico  spesso  s'intrec- 
ciano :  ne  abbiamo  avuto  una  prova  in  tempi  recenti,  vedendo  di  che 
reverenza  per  la  Germania,  di  quale  sicura  fede  nella  sua  vittoria  e  di 
quanto  terrore  della  sua  inimicizia  fossero  pervasi  gli  ammiratori  della 
coltura  tedesca  :  o  che  avessero  «  studiato  in  Germania  »,  o  che  fossero 
assidui  leggitori  di  libri  e  riviste  teutoniche. 

Dopo  la  pace,  con  un  mutato  assetto  poHtico,  e  con  deviate  correnti 
dei  traffici,  con  rinnovate  simpatie  ed  intese,  ogni  Stato  si  sforzerà  di 
farsi  apprezzare  al  massimo  grado  e  anche  il  nostro,  che  tutti  confi- 
diamo accresciuto  di  territorio,  di  fierezza  e  di  prestigio,  dovrà  coor- 
dinare le  sue  energie  e  spingerle  al  più  alto  rendimento.  Una  ricapi- 
tolazione delle  passate  vicende  sarà  opportuna  e  si  dovrà  eseguire' per 
le  scienze  e  per  le  arti.  Fra  le  prime  spicca,  per  bellezza  di  lineamenti 
teorici  e  molteplicità  di  applicazioni  pratiche,  l'economia  politica.  Un 
volume  maneggevole,  serio,  esatto  e  piacevole  a  leggersi  dovrebbe 
illustrare  la  storia  della  scienza  economica  in  Italia  dal  1860  ai  giorni 
nostri. 

Profili  di  economisti  italtatiL 

La  prima  è  più  maestosa  figura,  che  tale  storia  dovrà  disegnare» 
è  quella  di  Francesco  Ferrara,  sommo  fra  gli  economisti  italiani  del 
secolo  decimonono,  mente  di  genio,  che  sapeva  risalire  ai  supremi 
principii  della  scienza,  sapeva  scolpire  e  concatenare  le  grandi  leggi 
economiche,  sapeva  esprimersi  con  eloquenza  magnifica  e  travolgente. 
La  sua  figura  non  è,  non  sarà  menomata  dal  tempo.  Il  tempo  rispetta 
i  sovrani  del  pensiero,  i  quali  fissano  lucidamente  le  verità  universali, 


Sulla  opportunità  di  una  storia  dgU'economia  politica  italiana        475 

e  solo  morde  le  opere  frammentarie  e  occasionali.  Molte  pagine  del 
Ferrara  suscitano  subitanee  visioni  d'insieme,  che  danno  ebbrezze  è 
rapimenti  :  esse  ancora  attendono  il  divulgatore,  che  le  diffonda  oltre 
un  ristretto  cenacolo  di  economisti  italiani,  e  allora  la  fama  del  loro 
autore  sarà  moltiplicata  e  crescerà  il  numero  dei  discepoli. 

Nessun  miglior  divulgatore  che  lo  stesso  Ferrrara,  quando  il  meglio 
delle  sue  opere  fosse  raccolto  in  un  agevole  volume.  Il  pensiero  fer- 
rariano,  esposto  principalmente  in  prefazioni  a  disparati  autori,  com- 
parse a  distanza  di  anni  V  una  dall'altra,  è  rimasto  sempre  sistematico. 
Prendete  le  più  belle  pagine  del  Ferrara,  fatene,  senza  mutar  loro  né 
un  accento  né  una  virgola,  altrettanti  paragrafi,  ordinate  i  paragrafi  in 
capitoli  secondo  un  disegno  razionale  che  vi  sarà  ispirato  dallo  stesso 
Ferrara,  e  verrà  fuori  per  incanto  un  meraviglioso  trattato,  scritto 
parola  per  parola  dal  Ferrara.  Sia  messo  in  vendita  il  trattato,  in  ni- 
tida veste,  da  un  abile  editore,  a  prezzo  non  proibitivo,  e  il  Ferrara 
penetrerà  finalmente  fra  la  folla  degli  studiosi.* 

Che  persino  a  economisti  italiani  il  Ferrara  sìa  notò  per  sentita 
dire,  e  veduto  come  attraverso  una  fitta  nebbia,  lo  prova  Tepìsodio  che 
ora  racconterò.  Nell'adunanza  di  Padova,  tenutasi  nel  settembre  1909,  la 
Società  italiana  per  il  progresso  delle  scienze  volle  pronunziato  un 
discorso  inaugurale  sui  progressi  della  scienza  ih  Italia.  Appartengono 
alla  Società  scienziati  indubbiamente  autorevoli  e  in  ogni  ramo  dello  sci- 
bile. Invece  «  gì'  illustri  rettori  della  Società  »  si  misero  per  «  più  tei;ipo  » 
ad  «  affaticare  di  amiche  inquietudini,  perchè  dicesse  l'orazione  >,  chi 
credete  voi  ?  uno  scienziato  ?  No  ;  un  personaggio  politico,  l'onorevole 
Luigi  Luzzatti.  L'illustre  uomo  discorse  di  astronomia,  idraulica,  ana- 
tomia, patologia,  glottologia  e  anche  di  economia  politica.  Arrivato  a 
Francesco  Ferrara,  Sua  Eccellenza  Luzzatti  in  tal  guisa  lo  giudicò:  «  Fer- 
rara svolse  con  grande  OFiginalità  di  particolari  le  teorie  ottimiste  di 
Carey  e  Bastiat  ».  Grande  originalità,  ma  nei  particolari^  e  per  il  resto 
obbedienza  a  due  scrittori  fuori  di  strada,  in  quanto  ottimisti.  Non  si 
può  onestamente  esigere  che  un  uomo  solo  penetri  in  tutte  le  scienze. 
Probabilmente  S.  E.  Luzzatti  si  sarà  rivolto  a  un  astronomo  per  l'astro- 
nomia, a  un  fisico  per  la  fisica,  e  per  l'economia  avrà  ben  consultato 
un  economista.  Se  così  accadde,  esisteva  dunque  in  Italia  un  econo- 
mista che  non  aveva  Ietto  Ferrara,  o  che,  leggendolo,  non  lo  aveva 
capito,  ma  preferiamo  credere  che  non  lo  avesse  letto. 

Abbiamo  insistito  sul  Ferrara  perchè  è  il  maggiore  fra  gli  econo- 


1  Quest'idea  io  esposi  nel  1908  a  un  intelIig:entiss»inio  editore:  il  Laterza  di 
Bari,  che  l'accolse  con  assai  favore.  Nacque  poi  qualche  difficoltà  e  l' idea  svanì  :  po- 
trebbe forse  essere  attuata  da  altri. 


476  Umberto  Ricci 


misti  scomparsi  dell*  ultimo  cinquantennio  :  anche  altri,  come  il  Messe- 
daglia  e  il  Nazzani,  andranno  ricordati  con  rispetto. 

Dei  viventi,  i  nostri  due  più  insigni,  Pantaleoni  e  Pareto,  sono 
conosciuti  fuori  d'Italia,  sebbene  non  quanto  meritino:  e  sono  cono- 
sciuti forse  perchè  del  primo  si  trovano  tradotti  in  inglese  i  Prlncipii; 
del  secondo  tutte,  o  quasi  tutte  le  opere  sono  scritte  o  tradotte  in 
francese.  Ma  i  saggi  del  Pantaleoni,  così  forti  e  sprizzanti  d' idee  per- 
sonali, poco  si  vedono  citati  all'estero.  E  poco  vengono  citati  economisti 
viventi  di  autentico  valore,  quali  Martello,  Toniolo,  Valenti,  Bertolini, 
Gobbi,  Jannaccone,  De  Viti,  Einaudi,  Benini,  Coletti,  nonché  altri  rag- 
guardevoli che  non  enumeriamo,  non  essendo  nostro  compito  di  trac- 
ciar qui  in  riassunto  la  storia  che  invochiamo. 

In  rami  speciali  dell'economia  o  in  discipline  affini  contiamo  pure 
cultori  valorosi.  Così  negli  studi  sul  marxismo  vantiamo  il  defunto 
Antonio  Labriola  e  Benedetto  Croce;  nell'economia  agraria,  Valenti  e 
Serpieri  ;  nella  finanza,  fra  viventi  e  da  non  molto  scomparsi,  abbiamo 
una  pleiade  di  scrittori  :  De  Viti,  Mazzola,  Conigliani,  Puviani  e  comin- 
ciamo ora  a  possedere  due  trattati,  come  quello  originale,  ma  non  ancora 
definitivo,  dell'Einaudi  e  quello,  assai  più  ampio,  ma  non  ancora  svolto 
in  tutte  le  sue  parti,  del  Tangorra,  per  non  menzionare  il  fortunato 
manuale  del  Flora.  Nella  storia  dei  fatti  economici  si  è  lavorato  in 
proporzioni  minori,  ma,  se  si  mettono  insieme  opere  di  economisti, 
storici  politici,  storici  del  diritto,  commercialisti,  si  finisce  col  for- 
mare un  elenco  non  disprezzabile.  Alcune  inchieste  governative,  ese- 
guite in  tempi  più  o  meno  lontani,  forniscono  materiali  utili  che  stu- 
diosi futuri  sapranno  sempre  meglio  sfruttare.  Gli  studii  di  economia 
e  finanza  sabauda  condotti  dall'Einaudi  e  dal  Prato  sono  modelli,  e 
sarebbe  fortuna  se  suscitassero  ricerche  simili  in  altre  regioni  d' Italia. 

Nella  statistica  metodologica  e  applicata  possediamo  in  Benini  un 
autore  di  prima  forza.  I  suoi  Principii,  sebbene  un  po'  arretrati  nella 
parte  matematica,  sono  un  capolavoro  :  per  finezza,  ingegnosità  di 
logica  e  decoro  dello  stile,  non  hanno  l'uguale  in  altre  letterature. 
Del  resto,  per  limitarci  alla  statistica  economica,  che  più  propriamente 
cade  nel  nostro  programma,  l'originalità  e  fecondità  della  scuola  ita- 
liana coi  nomi  di  Pareto,  Benini  e  Bresciani  è  stata  ammessa  ed  esal- 
tata da  competenti  non  italiani.* 

Un  economista-sociologo,  che  gli  stranieri  ricordano  con  predile- 
zione, è  il  Loria,  autore  di  molti  libri,  alcuni  dei  quali  tradotti,  e  di 
molti  articoli,  alcuni  dei  quali  in  riviste  esotiche.  Il  Loria  viene  nominato 


1  Cfr.  MOORB,  The  statistieal  complemtnt  of  pure  economics  {nt\  Quarterly  Journal 
of  economies.  novembre  1908)  e  piìl  vibratamente  in  Laws  ofwages,  1911,  o.  173  noia. 


Sulla  opportunità  di  una  storia  dell'economia  politica  italiana        477 


con  un  rispetto  stereotipo,  che  si  richiama  forse  al  famoso  giudizio  di 
Luigi  Cossa  :  «  A  nessuno  inferiore  per  ingegno,  superiore  a  tutti  nel- 
ro.riginalità  ed  a  molti  per  dottrina,  il  mantovano  Achille  Loria,  ecc.  ». 
Certo  il  Loria,  degno  di  riguardo  per  la  grande  sua  laboriosità  e  dot- 
trina, ma  stravagante  nel  concepire  le  teorie  e  retorico  nell'esporle, 
non  è  affatto  l'uomo  rappresentativo  della  scienza  e  della  coltura 
schiettamente  italiane.  Qualche  volta  gli  stranieri,  citandolo,  sanno  di 
dover  parole  di  omaggio  all'economista  «  a  nessuno  inferiore  per  in- 
gegno, ecc.  >,  ma  non  sempre  se  ne  mostrano  convinti.  Ecco  un  diver- 
tente esempio.  VEconomist  del  18  marzo  1916,  capitato  a  recensire  la 
Sintesi  economica  tradotta  in  inglese,  incomincia  con  un  complimento  di 
prammatica  al  «  distìguished  Italìan  economist  »,  il  quale  «  hardly  needs 
an  introduction  to  English  readers  ».  Poi  si  trova  un  poco  imbarazzato 
di  fronte  alle  definizioni  e  astrazioni  del  Loria.  Poi  entra  in  uno  stato 
di  apprensione,  vedendo  volare  le  terribili  frasi,  che  il  Loria  è  abituato 
a  scagliare  freddamente  addosso  alla  società  borghese;  frasi  che,  tra- 
dotte in  inglese,  sembrano  ancora  più  terribili.  Finalmente  il  solido 
e  pratico  giornale,  udendo  parlare  della  «  unclean  atmosphere  of  the 
modem  Stock  Exchange,  whose  transactions  are  ali  founded  on  fraud  », 
si  spaventa  e  sente  il  bisogno  di  una  dichiarazione  d|  onestà  a  favore 
dell'Inghilterra,  nei  seguenti  termini:,  «  Che  cosa  accada  alla  Borsa  di 
Roma  non  sappiamo.  Possiamo  tuttavia  assicurare  i  lettori  italiani  che 
le  transazioni  alla  Borsa  di  Londra  sono  altrettante  onorevoli  quanto 
le  transazioni  commerciali  di  ogni  parte  del  mondo.....  ». 

Le  nostre  deficienze. 


Pari  a  un  esame  di  coscienza,  l'esposizione  storica  ci  svelerà  i 
nostri  difetti  e  le  nostre  manchevolezze,  che  è  sempre  virile  scoprire 
e  denunziare  per  tentarne  il  rimedio.  Di  tali  deficienze,  alcune,  ci  sem- 
bra, pqssono  enumerarsi  fin  d'ora. 

In  primo  luogo  non  abbiamo  un  trattato  italiano  di  economia 
politica  che  sia  l'ottimo  libro  di  testo  per  l' insegnamento  superiore  e 
il  fidato  libro  di  consultazione  delle  persone  colte.  Possediamo,  è  vero, 
il  Cours  del  Pareto.  Il  Cours  è  un  libro  che  fa  onore  a  un  letteratura  ; 
pure  osiamo  dire  che  non  è  adatto  alla  moltitudine  degli  studiosi: 
reca  un'imprónta  troppo  personale,  è  opera  definitiva,  come  tutte  le 
opere  classiche,  le  quali  si  collocano  in  un  punto  determinato  e  im- 
mobile della  storia.  Per  ì  bisogni  dell'insegnamento  superiore  occor- 
rerebbe un  libro,  che  pur  serbandosi  coerente  in  tutte  le  sue  dottrine, 
pur  riuscendo  vigoroso  e  suggestivo,  riassumesse  le  più  sicure  con- 
quiste dell'economia  politica  in  tutti  i  suoi  campi  e  fosse  così  confor- 


478  Umberto  Ricci 


mato  da  tener  dietro,  con  maggiori  o  minori  ritocchi,  in  successive 
edizióni,  ai  progressi  della  scienza.  Riconosciamo  che  un  simile  trat- 
tato è  oramai  difficilissimo,  tanto  l'economia  politica  si  è  allargata  e 
complicata,  e  la  difficoltà  va  crescendo  col  tempo  :  comunque,  quel 
trattato  noi  non  Tabbiamo. 

In  secondo  luogo  ci  manca  un  dizionario  di  economia  politica: 
opera  meno  ardua  del  trattato,  perchè  non  soggiace  o  soggiace  meno 
all'obbligo  del  rigoroso  sistema  e  ammette  la  collaborazione  di  molti. 
L*  utilità  universale  di  un  dizionario  di  economia  politica  è  provata 
dalie  ristampe  del  Dictionary  del  Palgrave  e  deWMandworterbuch  di 
Conrad,  Lexis  e  altri.  Tali  due  dizionari  sono  diffusi  anche  tra  noi  : 
è  superfluo  affermare  che  non  ci  bastano  e  noi  vogliamo  un  dizio- 
nario italiano,  il  quale,  senza  trascurare  le  biografie  e  le  teorie  di  scien- 
ziati stranieri  e  i  dati  statistici  di  estranee  contrade,  metta  in  speciale 
rilievo  quelli  della  nostra  patria. 

In  terzo  luogo  la  nostra  letteratura,  giudicata  nel  suo  complesso 
e  confrontata  con  le  altre,  mentre  è  tale  da  assicurarci  una  posizione 
più  che  decorosa  e  onorifica,  rivela  una  relativa  prevalenza  di  opere 
teoriche  e  --  oseremmo  dire,  ma  forse  la  parola  oltrepassa  il  pen- 
siero —  accademiche.  Di  ciò  possono  assegnarsi  varie  ragioni,  connesse 
alcune  coll'ordinamento  dei  nostri  studi  superiori,  dipendenti  le  altre 
dai  caratteri  della  nostra  vita  economica. 

Contiamo  in  Italia  17  facoltà  di  giurisprudenza  nelle  Università 
regie  e  4  nelle  Università  libere.  Doppioni,  o  quasi  delle  facoltà  di  giu- 
risprudenza sono  5  Scuole  superiori  di  commercio,  1  Università  com- 
merciale, 1  Istituto  di  scienze  sociali.  C'è  spazio  dunque  per  28  pro- 
fessori ufficiali  di  economia  politica,  ai  quali  dobbiamo  aggiungere 
altrettanti  professori  di  statistica  e  quasi  .altrettanti  di  scienza  finanziaria. 
Le  cattedre  si  conquistano  superando  un.  concorso  per  titoli,  ed  ecco 
quindi  una  coorte  d*  industri  scriventi,  che  non  possono  essere  tutti,  e 
non  si  pretende  che  siano,  pensatori  di  primissimo  ordine,  ma,  se  pure 
fossero  tali,  non  disporrebbero  di  mezzi  di  studio  sufficienti.  Non  vi 
è  posto,  in  Italia,  per  28  grandi  biblioteche  specializzate,  copiosamente 
provviste  di  libri  e  riviste  di  scienze  conomiche,  riviste  tecnico-indu- 
striali, quotidiani  commerciali  e  anche  politici,  collezioni  di  statistiche 
ufficiali  dei  principali  paesi  del  mondo,  collezioni  di  leggi  e  decreti  e 
atti  parlamentari,  listini  di  borsa,  circolari  di  case  commerciali  e  poi 
macchine  per  calcolare  e  insomma  tutto  il  formidabile  costoso  arma- 
mentario occorrente  a  un  grande  osservatorio  o  laboratorio  o  gabi- 
netto moderno  di  economia  e  statistica.  In  tali  condizioni  gì' innamo- 
rati della  cattedra  s' invogliano  piuttosto  a  riesaminare  le  vecchie 
dottrine  generali,  a  riesporle,  criticarle  e  modificarle  anziché  ad  affron- 


Sulla  opportunità  di  una  storia  dell'  economia  politica  italiana        479 

tare  nuovi  problemi  particolari.  Il  compito  sembra  più  facile  e  promet- 
tente e  inganna  soprattutto  i  giovani,  mentre  è  più  scabroso  e  andrebbe 
lasciato  ai  maestri.  Per  quanto  dunque  si  attiene  all'ordinamento 
degli  studi,  il  miglioramento,  o,  se  si  preferisce,  l'integrazione  della 
nostra  produzione  scientifica  sembra  richiedere -la  riduzione  del  numero 
delle  scuole  accompagnata  da  un  risoluto  rafforzamento  di  quelle  su- 
perstiti. Pur  troppo  la  tendenza  è  nel  senso  opposto  :  accrescere  il  nu- 
mero dei  professori  e  diminuire,  magari  di  un  dieci  per  cento,  le  somme 
stanziate  in  bilancio  per  dotazioni  di  biblioteche  e  gabinetti. 

Aggiungasi  che  l'economia  è  scienza  deduttiva  e  induttiva  e  che  il 
campo  di  osservazione  dell'economista  è  vastissimo,  abbraccia  tutta  l'atti- 
vità industriale  delle  nazioni,  presa  la  parola  industria  nel  suo  significato 
più  esteso.  Il  fisico  può  rinchiudersi  nel  gabinetto,  il  botanico  nel  giard/no, 
il  clinico  nell'ospedale.  L'economista  invece  dovrebbe  poter  uscire  di 
quando  in  quando  dal  suo  laboratorio,  sia  pure  rigurgitante  dei  materiali 
dianzi  enumerati,  per  visitare  quei  più  grandi  laboratori  che  si  chiamano 
aziende  agrarie,  opifici,  case  di  esportazione,  banche,  compagnie  di  navi- 
gazione. Se  il  professore  di  economia  potesse  ogni  tanto  allontanarsi  dalla 
cattedra  e  insinuarsi  inavvertito  fra  gli  altri  uomini  d'affari,  per  solito  dif- 
fidenti e  gelosi  dei  loro  segreti;  se  potesse  col  suo  occhio  avido  esaminare 
processi  di  produzione,  ordinamenti  del  lavoro,  più  o  meno  efficienti, 
e  sistèmi  di  rimunerazione,  composizione  dei  costi,  metodi  dì  compera 
delle  materie  prime  e  di  vendita  dei  prodotti,  gradi  e  forme  di  con- 
nessione di  un'impresa  con  altre  imprese  e  coi  consumatori,  e  così 
via,  egli  ne  ritrarrebbe  inestimabili  vantaggi.  Qualche  scrittore,  con- 
vinto di  siffatto  giovamento,  ha  persino  proposto  che  non  sì  possa 
diventare  professore  di  economìa  politica  senz'aver  compiuto  un  pe- 
riodo di  pratica  in  imprese  industriali  o  bancarie.^  Sarebbe  forse  troppo 
pretendere.  E  non  è^nemmeno  detto  che  upmini  di  acuto  ingegno  e 
dediti  alla  meditazione  non  siano  in  grado  di  arricchire  la  scienza 
filosofando  sulle  esperienze  quotidiane,  accessibili  a  chiunque.  Esemp  * 
cospicui  potrebbero  addursi.  Ma  è  certo  che,  quanto  più  l'economista 
si  sforza  di  applicare  i  prìncipìi  generali  a  temi  particolari,  tanto  più 
deve  addentrarsi  nella  tecnica  industriale,  e  tanto  più  vi  riesce,  quanto 
più  intensa,  estesa  e  multiforme  è  l'attività  del  paese  in  cui  egli  vive 
e  studia. 

Non  solo.  Quando  un  paese  abbonda  di  complesse  e  potenti  isti- 
tuzioni economiche,  è  probabile  che  provetti  economisti  sorgano  da 


1  Cfr.  Riesser  {Priparation  et  conduite  fìnancières  de  la  guerre,  1916,  p,  108, 
nota),  il  quale  vorrebbe  però  estendere  l'obbligo  a  tutti  gì' insegnanti  di  scienze  poli- 
tiche e  giurisprudenza. 


480  Umberto  Ricci 


quelle  medesime  istituzioni.  In  Italia,  paese  a  struttura  economica  rela- 
tivamente semplice,  non  s*  incontrano  specialisti  venuti  direttamente 
dall'industria  o  dalla  banca,  e  pur  degni  di  salire  sulla  cattedra  uni- 
versitaria :  autori  di  libjri  ove  è  spremuto  il  succo  di  cognizioni  assimi- 
late durante  un  lungo  periodo  di  lavoro  intelligente  e  sorrette  da  una 
cultura  economica  generale. 

Né  infine,  in  un  paese  come  l'Italia,  che  non  è  all'avanguardia 
del  progresso  economico,  si  avverte,  come  altrove,  il  bisogno  d' intra- 
prendere grandi  inchieste  pubbliche  sul  valore  della  moneta,  sulla 
banca,  sulla  borsa,  sui  cartelli^  sulle  depressioni  industriali,  e  via  via  ; 
le  quali  inchieste  offrono  agli  economisti  vaste  raccolte  di  fatti  e  di 
opinioni  dei  pratici. 

Ecco  le  ragioni,"  dipendenti  dalla  vita  economica  del  nostro  paese^ 
per  le  quali  le  opere  di  economia  applicata  sono  relativamente  meno 
frequenti,  sebbene  non  manchino,  che  ne  abbiamo  di  ragguardevoli. 
Il  rimedio,  almeno  parziale,  si  può  escogitare,  e  consiste,  a  nostro  avviso, 
nella  divisione  del  lavoro.  Gli  economisti  cattedratici,  i  quali,  per  il 
fatto  stesso  di  appartenere  all'  insegnamento  superiore,  devono  essere 
già  addottrinati  nelle  teorie  generali,  si  vengono  specializzando  in  uno 
o  pochi  capitoli  dell'economia  applicata,  dedicandosi  di  preferenza  chi 
all'economia  dell'agricoltura,  chi  a  quella  dell'industria,  coltivando 
questi  la  tecnica  e  la  politica  commerciale,  quegli  la  materia  della 
banca  e  della  borsa  o  i  trasporti  terrestri  e  la  navigazione,  approfon- 
dendo, gli  uni,  le  questioni  del  lavoro,  gli  altri,  quelle  della  coopera- 
zione e  dell'assicurazione,  dell'emigrazione  e  delle  colonie  —  spingen- 
dosi poi  tutti  ugualmente  il  più  possibile  a  contatto  delle  persone  e 
delle  istituzioni,  che  sono  in  grado  d'illuminare  le  rispettive  loro  ricer- 
che. Così  la  nostra  letteratura  si  accrescerà  df  opere  poderose  su 
temi  speciali:  opere  che  sfideranno  il  tempo,  che  tutti  i  ricercatori 
futuri  si  sentiranno  costretti  a  consultare,  e  che  terranno  alta  la'  fama 
dell'Italia. 

Gli  economisti  maestri  della  nazione. 

Quando  su  ogni  circoscritta  zona  di  studio  vegliano  appositi  spe- 
cialisti, è  sempre  possibile  che,  al  delinearsi  di  gravi  quistioni  econo- 
miche interessanti  la  collettività,  si  levi,  sul  tumultuare  del  pubblico 
degl'incompetenti,  la  voce  ammaestratrice  e  ammonitrice  della  cattedra. 
L' Italia  odierna  vanta  due  uomini,  che  da  soli  tengono  le  veci,  si  può 
dire,  di  un  intero  manipolo  di  specialisti  :  ammirevoli,  perchè  sembta 
posseggano  la  chiave  di  tutti  i  problemi  economici;  benemeriti,  perchè 
non  si  stancano  mai  di  predicare  e  di  combattere,  tenaci  custodi  en- 
irambi  delle  nobili  tradizioni  liberali,  avverse  al  socialismo^  alla  iper- 


Sulla  oppor (imita  di  una  storia  dell'economia  politica  italiana        48 1 


burocrazia,  al  protezionismo.  L'uno  originale  in  ogni  passo,  ricchis 
Simo  di  cultura  umanistica  —  storica,  politica,  letteraria  —  potente, 
irruente,  paradossale  talvolta,  è  suscitatore  di  ferventi  discussioni  t 
opposizioni  ;  l'altro  semplice,  metodico,  equilibrato,  sebbene  talvolta 
ceda  alla  piena  della  passione  nascosta,  insegna  dal  Corriere  della  Sera 
garbatamente  l'economia  politica  a  migliaia  di  lettori,  e  comincia  ad 
essere  ascoltato  come  un  oracolo  :  voglio  accennare  a  Maffeo  Panta- 
leoni  e  a  Luigi  Einaudi. 

Quando  saranno  ordinati  e  raccolti  in  uno  o  più  volumi  gii  arti- 
coli che  da  più  un  ventennio  Luigi  Einaudi  è  andato  pubblicando  prima 
nella  Stampa  e  poi  nel  Corriere  della  Seni,  si  verranno  ad  avere  sotto 
mano  i  capitoli  e  di  una  cronistoria  economico-finanziaria  dell'  Italia 
e  di  un  trattato  italiano  di  economia  applicata.  Si  resterà  allora  stu- 
piti di  tanta  alacrità,  di  tanta  sapienza,  di  tanto  senno  e  anche  di  tanto 
patriottismo. 

E  auguriamo  che  il  Pantaleoni,  oltre  a  proseguire  la  serie  degli 
Scritti  vari  con  un  quarto  volume,  pel  quale  la  materia  è  già  più  che 
sufficiente  —  e  ci  piacerebbe  vedervi  inserita  la  parte  essenziale  di  un 
suo  recente  studio  semiologico,  poco  accessibile  agli  studiosi  nella 
sua  forma  attuale  ^  -—  voglia  anche  fare  una  cernita  dei  suoi  articoli 
più  propriamente  economici,  sparsi  in  giornali  innumerevoli,  e  ristam- 
parli in  volume. 

Il  giornale  politico  quotidiano  è  divenuto  un  concorrente  della 
rivista  scientifica,  e  l'articolo  del  professore  illustre  merita  spesso  di 
venir  tratto  dall'oblio  a  cui  il  giornale  presto  o  tardi  lo  condannerebbe. 
Se  già  letterati  e  giornalisti  di  grande  valore,  e  anche  di  valore  non 
tanto  grande,  sentono  il  bisogno  di  far  riapparire  in  volume  gli  arti- 
coli critici,  le  novelle,  e  persino  le  loro  cronache,  quanto  è  più  neces- 
sario che  salvino  i  loro  articoli  scientifici  critici  insigni  della  politica 
economica  e  finanziaria,  quali  il  Pantaleoni  e  l'Einaudi!" 

Requisiti  necessarii  dello  storico. 

Lo  storico  dovrebbe  possedere  certi  requisiti,  che  non  sempre  si 
riuniscono  nella  medesima  persona. 

Dovrebbe  padroneggiare  tutta  la  nostra  letteratura  economica  : 
manuali,  studi  monografici  sui  più  svariati  argomenti,  articoli  di  rivi- 


1  Relazione  del  collegio  dei  periti  nella  causa  tra  ia  Società  anonima  «  Età 
blissements  Arbel  »  e  l' Amministrazione  delle  ferrovie  dello  Stato,  1914. 

«  Il  mio  voto  è  oggi,  almeno  in  parte,  esaudito.  Il  Laterza  ha  dato  alla  luce  tre 
volumi  del  Pantaleoni  :  1)  Fra  le  incognite-,  2)  Note  in  margine  della  guerra;  Z)  Po- 

31  —  Nuova  Rivista  Storica. 


4*2  Umberto  Ricci 


ste,  saggi  contenuti  in  documenti  ufficiali.  E  non  solo  la  letteratura 
italiana,  ma  anche  quella  straniera,  e  non  solo  la  letteratura  delT  ultimo 
mezzo  secolo,  ma  anche  quella  anteriore,  per  istituire  i  raffronti  e 
stabilire  le  giuste  proporzioni  nello  spazio  e  nel  tempo. 

Dovrebbe  poi  esser  dotato  di  temperamento  critico.  Uno  che 
si  mettesse  in  mente  di  lodare  tutto  quanto  si  è  prodotto  da  Italiani 
solo  perchè  italiano,  uno  che  sentisse  il  prepotente  bisogno  di  ono- 
rare tutti  i  morti,  riverire  tutti  i  colleghi,  incoraggiare  tutti  i  giovani, 
svaluterebbe  subito  la  sua  opera.  Anni  or  sono  il  Loria  soleva  man- 
dare dXV Economie  Journal  una  rassegna  della  letteratura  economica 
italiana,  e  chi  non  veniva  ricordato  ed  elogiato?  II  più  minuscolo  e 
inutile  lavoretto,  pescato  non  si  sa  dove,  era  messo  con  superiore  in- 
differenza quasi  a  livello  del  frutto  di  nobili  fatiche  di  nobili  menti.* 
La  storia  non  si  fa  così,  la  storia  sceglie  e  dà  il  giusto  risalto  a  ciò 
che  merita  di  essere  ricordato.  Appunto  il  Loria,  se  non  erriamo,  ripor- 
tava in  uno  dei  suoi  tanti  saggi  la  bella  sentenza  di  Francesco  De 
Sanctis  :  «  perchè  tutto  è  rilievo,  manca  il  rilievo  ».^ 

Lo  storico  deireconomia  italiana  dovrebbe  essere  anche  imparziale. 
E  qui  forse  la  difficoltà  si  accresce,  perchè  gli  studiosi  di  una  stessa 
disciplina  tante  volte  si  odiano  fra  loro  e  tante  volte  si  amano  troppo. 
Poniamo  che  l'incarico  di  scrivere  una  storia  dell'economia  in  Italia 
—  e  non  pure  in  Italia,  ma  nel  mondo  intero  —  se  lo  prenda  uno  ài 
quei  giovani  che  camminano  impettiti  perchè  si  chiamano  seguaci  della 
<  Scuola  di  Lausanne  ».  Ebbene,  egli  dedicherebbe  il  primo  capitolo 
al  Pareto  —  e  fin  qui  tutti  plaudono,  essendo  il  Pareto  uno  scrittore 
di  così  gran  polso  da  ben  meritare  un  capitolo  in  una  storia  italiana  e 
in  una  internazionale.  Ma  poi  il  nostro  ipotetico  storiografo  sarebbe 
capace  di  scrivere  un  secondo  e  ultimo  capitolo  destinato  ai  parafra- 
satori,  ricopiatori  e  diluitori  del  Pareto.  E  accluderebbe  forse  una 
carta  geografica  —  visto  che  la  geografia  è  un  occhio  della  sto- 
ria —  con  in  mezzo  un  cerchietto,  che  denominerebbe  Lausanne^  e  tut- 
t'attorno  un  vasto  spazio  coperto  dalla  scritta:  Deserto  delVeconomia 
letteraria. 

Dottrina,  senso  critico,  imparzialità:  ecco  dunque  le  doti  del  nostro 
storico.  Più  d'uno  fra  gli  economisti  italiaoi  ne  è  ornato  ed  è  merite- 
vole di  scrivere  la  degna  istoria,  ma  un  nome  mi  è  corso  insistente 


litica:  criterii  ed  eventi.  Il  secondo  volume  è  fatto,  per  l'appunto,  quasi  tutto  di  ar- 
ticoli di  giornali,  mentre  il  primo  e  il  terzo  riproducono  articoli  di  riviste.  I  tre  vo- 
lumi sono  però  limitati  alle  questioni  della  guerra. 

'  Cfr.  V Economie  Journal  degli  anni  1897  e  1906. 

«  Storia  della  leti,  italiana  {té.  Croce)  II,  pp.  208-09. 


i 


Sulfa  opportunità  di  una  storia  dell'economia  politica  italiana        483 

sulle  labbra:  il  nome  di  uno  dei  nostri  più  sapienti  economisti,  cauto 
e  signorile  scrittore,  giudice  equanime,  avveduto,  sincero:  Pasquale 
Jannaccone.  Se  l'illustre  direttore  della  Biblioteca  dell* Economista  vo- 
lesse, egli  potrebbe  apprestarci  la  storia,  della  quale  il  paese  nostro 
manca.  Essa  servirebbe  a  far  meglio  conoscere  il  vero  valore  della 
nostra  produzione  scientifica,  coi  pregi  e  coi  difetti  che  le  sono  ine- 
renti, a  noi  stessi  italiani  e  servirebbe  ad  aprire  gli  occhi  agli  stranieri, 
I  quali,  dovendo  discorrere  degli  economisti  nostri,  saprebbero  final- 
mente dove  informarsi. 

Umberto  Ricci. 


s 


Oli  E  in  EEILI  llll  «HI  11  n  EVO 


Il  problema. 

La  designazione  di  sapienza  e  civiltà  degli  Arabi  nel  Medio  Evo 
è  una  di  quelle  designazioni  che  ostinatamente  si  usano  dai  più, 
anche  se  più  volte  da  taluno  ne  è  stata  dimostrata  Terroneità.  Possono 
starle  accanto  le  denominazioni  di  architettura  gotica  e  di  cifre  arabi- 
che, che  nonsot^o  tali  ma  indiane,  per  tacere  di  altre  meno  ovvie  e 
comuni.  Senonchè,  ove  si  rifletta  per  un  poco  su  questa  sola  domanda 
che  io  propongo,  si  vedrà  che  la  risposta  negativa,^  che  necessari.^ 
mente  vi  si  deve  dare,  dimostra  tutto  quanto  l'errore  dell'asserto.  E  la 
domanda  è  questa:  Una  nazione  che  per  secoli  e  secoli  era  rimasta 
nel  natio  deserto,  lontana  da  ogni  commercio  con  le  altre^  genti,  se- 
polta neir  ignoranza  e  nella  barbarie  più  profonda,  tanto  ignorante  e 
orgogliosa  dell'ignoranza  sua,  da  trovarsi  memoria  di  qualche  suo  poeta 
che  si  vergognava  di  saper  leggere  e  scrivere,  asserendo  che  ciò  era 
cosa  indegna,  come  potè  d*un  sùbito,  nel  giro  di  forse  un  secolo, 
uscita  dai  suoi  deserti,  farsi  maestra  a  tutto  il  mondo  civile  d'allora, 
e  ciò  nelle  più  ardue  e  sottili  discipline,  quali  la  filosofia,  la  logica, 
la  medicina,  la  matematica  e  l'astronomia?  Per  quanto  sia  agile  e  acuto 
e  sottile  r ingegno  degli  Arabi,  si  può  mai  supporre  ch'esso  d'uri 
tratto,  senza  dirozzarsi,  acquistasse  tanto  valore  da  soggiogare  gì'  in- 
gegni tutti  dei  paesi  colti  e  da  lungo  tempo  inciviliti?  Ancora.  Per 
quanto  numerose  fossero  le  orde  di  quei  predoni  del  deserto,  uscite 
d'Arabia  alla  conquista,  poterono  esse  invadere,  esse  sole,  tante  regioni 
quante  si  stendono  dall'Indo  al  Tago,  dal  Caucaso  al  Sahara,  e  se- 
gnare nella  mente  delle  genti  conquistate  l'impronta  del  proprio  ingegno 
e  tramandar  loro  un  sapere  che  esse  stesse  non  avevano  ?  Se  tutto  ciò 


Origine  e  natura  della  civiltà  orientale  nel  Medio  Evo  485 

è  impossibile  nell'ordine  naturale  della  storia  (e  in  ciò  appunto  sta  la 
risposta  alla  domanda  or  ora  avanzata),  bisogna  cercare  altrove  il  come 
e  il  perchè  e  l'origine  di  questo  avvenimento,  che  ha  del  portentoso, 
non  essendovi  forse  altro  esempio  di  tanto  e  così  rapido  dilagare 
uniforme  di  idee,  di  opinioni,  di  dottrine,  per  così  grande  tratto  di 
paese. 

Le  lotte  di  razza  attraverso  il  Mediterraneo. 

Si  può  dire  che  il  Mediterraneo  fino  dai  tempi  che  toccano  la 
preistoria  è  stato  il  luogo  designato,  per  ragioni  molteplici,  ad  una 
contesa  non  interrotta  fra  tutte  le  nazioni  e  le  stirpi  che  si  sono  affac- 
ciate ai  suoi  lidi.  Stirpi  africane  si  sono  spinte  verso  il  settentrione,  e 
stirpi  europee  dal  più  remoto  settentrione  sono  discese  verso  le  terre 
meridionaH,  quando  le  grandi  metropoli  dei  regni  e  degl'imperi,  che 
dovevano  dare  al  mondo  la  civiltà,  non  esistevano  ancora.  E  poi,  agli 
albori  della  civiltà,  quando  s'iniziano  1  commerci,  e  i  Fenici  percor- 
rono le  acque  del  Mediterraneo,  e  fondano  qua  e  là,  sui  litorali, 
loro  colonie,  e  passando  lo  stretto  si  spingono  fino  all'ultima  Tuie, 
antiche  memorie  ci  parlano  confusamente  di  quell'antagonismo  tra 
l'Asia  e  l'Europa,  a  cui  fa  cenno  Erodoto  al  principio  delle  sue  sto- 
rie. L'Asia  cerca  di  rovesciarsi  sull'Europa.  Risponde  la  Grecia  con  le 
sue  vittorie,  alcune  delle  quali  sono  velate  di  mitologia  e  colorite 
di  epopea  nella  tradizione  degli  Argonauti  conquistatori  del  vello 
d'oro,  e  in  quelle  degli  eroi  greci  confederati  alla  conquista  di  Troia. 
Un'altra  ci  è  narrata  al  lume  della  storia,  ed  è  quella  che  ributta  vinti 
e  scornati  in  Asia  gli  eserciti  di  Dario  e  di  Serse.  L'avventura  di  Ales- 
sandro fu  pure  una  vittoria  dell'Europa  sull'Asia,  sebbene  con  indole 
d'avventura  cavalleresca.  Ma  la  contesa  infierì  più  che  mai  fra  Carta 
gine  e  Roma,  quando,  ed  era  questione  di  vita  o  di  morte  fra  le  due 
potenti  città  rivali,  sulle  acque  dei  nostri  mari  e  sui  lidi  d'Africa  si 
decise  uno  dei  più  gravi  momenti  di  essa.  La  maestà  e  la  potenza  del- 
l'Impero  romano,  giunto  al  suo  massimo  splendore,  fece  o  parve  far 
silenzio  per  un  lungo  intervallo  di  tempo,  ma .  poi,  quando  fu  diviso 
fra  Roma  e  Costantinopoli,  di  qua  e  di  là,  sui  lidi  tutti  circostanti,  si 
rinnovarono  le  disperate  battaglie  per  la  difesa  dell*  impero  contro  le 
orde  barbariche  calate  dal  settentrione  e  penetrata  fino  a  toccare  i 
lidi  opposti  d'Africa  e  a  fondarvi  effimere  signorie.  E  la  contesa,  as- 
sunto alfine  color  religioso,  si  rinnovò  più  fiera  al  dilagare  dell'Isla- 
mismo, che  giunse  a  toccar  Sicilia  e  Spagna  e  Provenza,  e  al  quale 
risposero  con  ardito  e  pertinace  slancio  le  Crociate.  Col  sopravvenire 
dei  Turchi,  gente  nuova  per  noi  fino  al  X  secolo,  essa  si  rinfocolò 


486  Italo  Pizzi 


ancor  più.  Arrestò  i  Turchi  a  Lepanto,  nel  1571,  il  valore  delle  armi 
cristiane;  ma  intanto  la  mala  signoria  non  si  tolse  mai  più  da  Costan- 
tinopoli, dove  erasi  fnsediata  nel  1453,  per  minacciar  poi  sempre  d» 
là,  pdiata  sempre,  ma  tollerata  sempre  e  sostenuta  fino  ad  oggi  dalle 
bieche  discordie  nostre. 


Gli  scambi  di  civiltà  attraverso  il  Mediterraneo. 

Eppure,  in  tanto  secolare  strepito  d'armi,  i  molti  scambi  e  com- 
merci, anche  intellettuali,  che  fin  dal  principio  s'iniziarono  fra  genti 
tanto  diverse,  non  cessarono  mai  ;  onde  il  Mediterraneo,  se  fu  il  campo 
della  secolare  contesa,  fu  anche  la  via  della  civiltà.  Accadde  quello  che 
sempre  suole  accadere  tra  due  eserciti  combattenti,  cioè  colloqui  e 
scambi  agli  avamposti,  allorché  .  per  qualche  istante  posano  le  armi. 
Anche  qui,  nel  corso  di  tanti  secoli,  tanto  in  guerra  quanto  in  pace, 
molte  cose  si  barattarono  dall'Oriènte  all'Occidente  e  dall'Occidente 
all'Oriente.  Tracce  di  scienza  astronomica  greca  si  son  trovate  nei 
libri  sanscriti,  mentre  i  Greci  ricevettero  dall' India,  insieme  alle  merci 
preziose,  idee  e  postulati  filosofici.  Un  antichissimo  commercio  di  col' 
telli  e  di  spade  con  baratto  di  blocchi  di  stagno  si  fece  già  tra  l'Asia 
e  l'estrema  Europa,  e  il  tramite  principale  n'erano  il  continente  asia- 
tico per  la  via  regia,  tracciata  dai  monarchi  assiri  e  dai  monarchi  per- 
siani, e  il  mare  sui  navigli  fenici.  E  intanto  nozioni  pratiche  d'astronomia 
e  di  computo  affluivano,  per  ignote  vie,  da  Babilonia  fino  all'estremo 
settentrione  d'Europa.  Assai  più  tardi  penetrava  in  Oriente  l'ellenismo 
con  Alessandro,  che;  fondandovi  tante  città  designate  dal  suo  nome,  vi 
lasciava  anche  un  focolare,  che  d' un  sùbito  non  si  estinse,  durò  anzi 
lungo  tempo  ancora,  del  capere  greco.  E  Alessandria  d'Egitto  fu  d'al- 
lora in  poi  per  più  secoli  il  luogo  di  convegno  dei  dotti  d'Oriente  e 
d'Occidente,  e  Seleucia  e  Ctesifonte,  e  Antiochia  e  Pergamo  furono 
sedi  celebratissime  d' un  sapere,  che,  pur  serbandosi  prevalentemente 
greco,  assunse  anche  un  carattere  universale. 

Ma  poi,  quando  Roma,  incalzando  i  barbari  dal  settentrione,  non 
potè  più  occuparsi  delle  faccende  d'Asia,  che,  volente  o  nolente,  abban- 
donò alle  cure  degl'Imperatori  di  Costantinopoli,  una  fiacchezza  fatale, 
degenerata  presto  in  sfinimento,  sorprese  le  due  maggiori  monarchie 
orientali  d'allora,  quella  di  Costantinopoli  e  quella  di  Ctesifonte,  la 
greca  e  la  persiana.  Se  da  noi  si  parla  di  questioni  biza;itine  da  che  ì 
cortigiani  teologi  di  Bisanzio  occupavansi  di  cose  da  nulla  e  non  s'ac- 
corgevano degl'interni  mali  che  rodevano  le  radici  dell'impero,  altret- 
tanto vana,  di  rincontro,  era  la  Corte  persiana,  sì  che  fa  pietà  il  leg- 


Origine  e  natura  della  civiltà  orientale  nel  Medio  Evo  487 


geme  le  cronache  misere,  piene  d*  intrighi,  di  discordie,  di  gelosie,  di 
congiure,  di  tradimenti.  La  canzone  epica,  di  Firdusi,  che  celebra  le 
imprese  guerriere  dei  tempi  eroici  della  Persia,  vela  a  gran  stento  il 
vuoto  di  questi  tempi  tardivi,  quando  ci  racconta  come  T  ultimo  re 
di  Persia,  l'infelice  Yezdeghird  111,  morto  trucidato  da  un  mugnaio 
nel  652  d.  C,  mentre  fuggiva  davanti  agli  Arabi  invasori,  più  che  del 
regno,  più  che  della  perduta  dignità,  occupavasi,  in  una  lunga  lettera 
regale,  dei  profumi  e  delle  manteche,  dei  gioielli  e  delle  pelliccie,  delle 
carni  salate  e  dei  cani  da  caccia,  di  che  volevasi  provvedere  nell'amara 
via  dell'esilio!  ^ 


L'espansione  arabica  e  le  sue  cause  originarie 

Ed  ecco  intanto,  fra  due  monarchie  cadenti,  avanzarsi,  non  attesa, 
una  gente  nuova,  sospinta  da  una-  fede  religiosa,  ma  più  ancora  dalla 
fame  e  dalla  brama  di  far  bottino,  l'araba. 

Si  è  sempre  ritenuto  che  la  nuova  religione,  a  cui  Maometto  aveva 
chiamato  gli  Arabi,  dati  all'idolatria  dall'antichità  più  remota,  tosse 
ciò  che  li  spìnse  alla  conquista  di  tanta  parte  del  mondo.  Studi  più 
recenti,  invece,  hanno  dimostrato  che,  se  gli  Arabi  uscirono  dal  natio 
deserto,  non  fu  perchè  invasati  del  novello  spirito  religioso,  essi  che 
a  volta  a  volta,  in  sul  principio  della  nuova  religione,  ignoravano  cosa 
mai  fosse  veramente  il  Corano,  nel  cui  nome  combattevano,  si  bene 
perchè  sospinti  e  cacciati  dalla  fame  e  dalla  povertà  estrema.  Del  premio 
loro  promesso  da  Maometto  in  Paradiso  al  grosso  di  tante  orde  poco 
veramente  importava;  ma  poiché  Maometto  aveva  altamente  procla- 
mato «Combattete  nella  via  del  Signore!»,  tale  precetto  perentorio 
fu  subitamente'  e  avidamente  inteso  nel  senso  di  far  preda  nelle  pingui 
campagne  e  nelle  città  di  Mesopotamia,  di  Siria,  d'Egitto,  togliendole 
ai  sovrani  di  Costantinopoli  e  di  Persia,  di  cui  da  lontano  esse  avevano 
fiutato  la  fiacca  impotenza.  Che  prima  ancora  di  Maometto  gli  Arabi 
avessero  tentato  di  sbucare  dai  loro  deserti,  è  cosa  antica  assai,  e  se 
ne  ha  memoria  fin  dai  tempi  assiri  e  babilonesi  nelle  iscrizioni  cunei- 
formi. Ma  sempre  e  sempre,  sebbene  con  grande  stento,  furono  trat- 
tenuti. Si  legge  anzi  negli  annali  musulmani  che  un  re  di  Persia, 
mandando  in  Arabia  un  suo  principe  vassallo  della  Casa  di  quei  di 
Hira,  gli  domandò  nel  cospetto  della  Corte:  «  E  saprai  tu  tenere  a 
freno  gli  Arabi  ?  »  I  principi  di  Hira  erano  di  stirpe  araba  anch'essi, 


1  II  curioso  documento  si  legge  nel  Libro  dei  Re  di  Firdusi  (voi.  Vili,  pp.  432 
e  segg.  della  mia  traduzione),  Torino,  Unione  Tip.  Ed.,  1886-89. 


488  Italo  Pizzi 


e  di  stirpe  araba  erano  pure  quei  di  Ghassan.  Occupavano  le  regioni 
che  si  stendono,  all'ingrosso,  tra  la  Mesopotamia  e  la  Siria,  da  una 
parte,  e  l'Arabia,  dall'altra,  e  quelli  erano  vassalli  della  Persia,  e  questi 
dell'Impero  d'Oriente,  strumenti  gli  uni  e  gli  altri  di  tirannia,  o, 
se  si  vuole,  di  freno  ai  turbolenti  abitatori  del  deserto,  lasciati  a  logo- 
rarsi scambievolmente  nelle  discordie  sanguinose,  delle  loro  tribù. 

Ma  quando  questi  Arabi  s'accorsero,  come  ora  si  diceva,  del  deca- 
dere delle  due  grandi  monarchie,  che  fin  allora  avevano  loro  conteso 
il  passo,  quando  si  voltarono  alla  religione  di  Maometto  gli  stessi 
principi  di  Ghassan  e  di  Hirà,  tolta  a  pretesto  la  nuova  religione,  irrup- 
pero con  inaudito  furore  nel  contrastato  territorio  nemico,  vi  fonda- 
rono campi  militari,  che  poi  diventarono  le  città  di  Bassora  e  di  Kufa, 
penetrarono  nelle  vecchie  metropoli  di  Damasco,  d'Antiochia,  di  Ctesi- 
fonte,  fondarono  Bagdad  sulle  rive  del  Tigri.  Furono  la  fame  e  il 
bisogno  che  li  sospinsero  tant'oltre,  predoni  come  allora  erano  per 
natura,  sebbene,  col  progredir  del  tempo,  sentimenti  assai  più  nobili 
sopravvenissero  ad  animare  qualcuno  dei  loro  personaggi  più  illustri. 
«  Mungete  la  cammella  !  »,  mandavasi  a  dire  dai  Califfi  d'Arabia  ai 
generali  musulmani,  e  per  la  ca/w/7z^//fl ,  intendevansi  le  campagne  di 
Persia  e  di  MesopotamV 

1  primi  effetti  della  conquista. 

Chi  ha  messo  in  luce  questo  importante  punto  di  storia,  è  stato 
Leone  Caetani,  principe  di  Teano,  in  un'opera  che  è  tutto  un  monu- 
mento di  sapere  e  di  cri1,ica  acuta  e  giudiziosa.*  Dopo  ciò,  è  facile 
intendere  in  qual  modo  si  comportassero,  nei  paesi  conquistati,  queste 
orde  di  barbari,  ignorantissimi.  Altro  che  farsi  maestri  di  civiltà  a 
mezzo  mondo!  Che,  se  non  è  credibile  che  al  tempo  del  Califfo  Omar 
i  conquistatori  facessero  strame  dei  papiri  delle  biblioteche  d'Alessandria 
ai  loro  cavalli,  è  pur  troppo  vero  che  in  Siria  e  in  Persia  e  in  tutta 
quanta  la  Mesopotamia  ogni  cosa  fu  devastata  e  distrutta.  La  reggia 
persiana  di  Ctesifonte  fu  arsa,  e  si  racconta  fra  l'altro  come  un  ma- 
gnifico tappeto,  che  il  monarca  persiano  si  soleva  distendere  nei  giorni 
solenni,  tappeto,  che  con  fiocchi  variopinti  di  seta  e  con  grappoli  di 
rubini,  di  topazi,  di  turchesi  e  di  perle  doveva  rappresentare  un  prato 
di  primavera,  tagliato  in  più  pezzi,  fu  mandato  a  distribuire  tra  gli 
avidi  capi  delle  tribù  d'Arabia. 


1  L.  Caetani,  Annali  delU Islam,  Milano,  U.  Hoepli,  1905  e  sgg.  La  pubblicazione 
di  quest'opera  insigne,  disgraziatamente  interrotta  dalla  presente  guerra,  è  giunta  a  tutto 
il  volume  ({uinto.  Ne  rimangono  ancora  da  pobblicare  molti  altri,  quod  est  in  votisi 


Origine  e  natura  delta  civiltà  orientale  nel  Medio  Evo  489 

Ben  presto  però  i  conquistatori  s'accorsero  che  incombeva  loro  la 
cura  dell'azienda  pubblica  e  l'amministrazione  delle  accumulate  ricchezze 
e  l'ordinamento  dei  tributi  e  delle  spese  pubbliche,  tutte  cose  che  nel 
deserto  non  si  usavano  e  perciò  s'ignoravano  interamente.  E  allora 
essi,  che  non  sapevano  né  leggere  né  scrivere,  si  valsero,  pur  disprez- 
zandoli cordialmente,  degli  ufficiali  greci  già  ai  servigi  degl'  imperatori 
di  Costantinopioli,  e  dei  Persiani,  per  tener .  registri  e  scriver  lettere  e 
far  computi.  Né  ebbero  in  sulle  prime  moneta  propria,  ma,  quando  ne 
coniarono,  vi  apposero  leggende  persiane,  imitando  quelle  dei  monarchi 
persiani,  i  Sassanidi,  di  recente  debellati  da  loro  e  privati  del  trono. 

Quando  poi  il  Califfato  uscì  d'Arabia  per  insediarsi  prima  a  Da- 
masco e  poi  a  Bagdad,  in  quella  Corte  prevalsero  il  sapere  e  l' ingegno 
dei  Siri,  in  questa  il  sapere  e  l' ingegno  dei  Persiani,  e  ciò  con  gran- 
dissimo scandalo  degli  Arabi  ortodossi,  intransigenti,  che  vedevano  con 
dolore  insinuarsi  elementi  stranieri  nella  dottrina  del  Profeta.  Essi  (T  più 
pii  erano  rimasti  in  Medina)  consideravano  come  figliuoli  di  Satana 
i  Califfi  di  Damasco,  gli  Ommiadi,  dati  alle  armi  e  ai  piaceri,  e  come 
empi  e  atei  quelli  di  Bagdad,  gli  Abbassidi,  dati  al  fasto  e  al  filoso- 
fare. È  notevole,  a  tal  proposito,  quel  detto  tradizionale  del  Profeta: 
«  Tu  non  devi  speculare  intorno  all'esistenza  di  Dio,  sì  bene  obbedire 
a  Dio!  ».  Ma  intanto  veniva  nascendo  e  formandosi  e  maturando  len- 
tamente quella  civiltà,  che  noi  siam  soliti  chiamare  araba,  e  che  è  tut- 
t'altro  che  tale,  come  già  facilmente  sì  può  intendere  da  quanto  finora 
abbiamo  detto. 

Civiltà  siriaca  e  persiana  in  veste  araba. 

Tutto  il  periodo,  che  va  dal  II  al  V  e  al  VI  secolo  dell'era  volgare, 
è  occupato,  nell'Asia  anteriore,  da  uii  intenso  movimento  o  lavorio  tutto 
proprio  dei  Siri.  La  sapienza  greca,  da  Alessandria  e  da  Pergamo  e  da 
Antiochia,  erasi  propagata  per  tempo  in  tutta- la  Siria  e  la  Mesopota- 
mia,  e  fioriva  nelle  scuole  siriache  di  Nisibi  e  dì  Edessa,  dove  s' inse- 
gnavano la  filosofia  e  la  grammatica,  l'esegesi  biblica  e  la  teologia,  le 
matematiche  e  le  scienze  naturali.  Senonchè  tanto  sapere,  tanto  lavorìo 
intellettuale  non  fu  originale  ;  fu  privo,  anzi,  di  ogni  tratto  geniale,  se 
ne  togli  l'opera  poetica  di  S.  Efrem  diacono  della  chiesa  di  Edessa, 
morto  nel  372,  che  fu  il  maggior  poeta  che  vanti  la  Siria  e  i  cui  bel- 
lissimi inni  funebri  si  cantano  tuttora  dalla  chiesa  sìra  nelle  esequie 
dei  morti.  Ma,  se  non  fu  né  originale  né  geniale,  fu  diligentissìmo  con- 
servatore della  sapienza  greca,  dì  cui  tradusse  le  opere,  anche  quelle 
poetiche,  poiché  si  ha  memoria  di  un  Teofilo  astronomo  di  Edessa, 
che  tradusse  in  siriaco  V  Iliade  e  V Odissea.  Tanto  poi  era  andata  attorno 


490  Italo  Pizzi 


la  fama  df  così  grande  splendore,  che  i  re  dì  Persia  della  dinastia  dei 
Sassanidì  mandavano  in  Siria  a  studiarvi  i  loro  giovani,  alcuni  dei 
quali  poi,  scrivendo,  non  usarono  già  il  persiano,  sì  bene  il  siriaco, 
come  fecero  appunto  il  filosofo  Afraate  e  Paolo  di  Dayr-i-Sher,  autore 
d'un  trattato  di  logica  dedicato  al  re  di  Persia  Chosroe  il  grande  (531- 
78  d.  C).  Onde,  se  non  fossero  sopravvenuti  gli  Arabi  conquistatori,  è 
certo  che  la  lingua  dotta  del  Medio  Evo  orientale  sarebbe  stata  la  si- 
riaca. Fu,  invece  Taraba  come  ora  diremo.  E  già,  al  tempo  dei  Califfi 
Ommiadi  che  risiedettero  a  Damasco  fino  al  750,  i  dotti  sirìaci  si  videro 
costretti  a  voltare  dal  siriaco  in  arabo,  per  compiacere  ai  novelli  signori, 
le  opere  greche  che  essi  avevano  già  tradotte.  Fu  maestro  in  ciò  sotto 
gli  Abbassidi,  un  secolo  dopo,  un  medico  siro,  Honeyn  ibn  Ishaq, 
a  cui  il  Califfo  Al-Mutavekkil  (847-861  d.  C.)  pagava  le  traduzioni 
veramente  a  peso  d'oro,  mettendone  nell'un  piatto  delle  bilance  il  ma- 
noscritto e  nell'altro  tante,  monete  d'oro  quante  potevano  uguagliarne 
il  peso.  Né  è  necessario  soggiungere  che  tutta  cotesta  sapienza  siriaca, 
sebbene  cristiana,  era  greca  d'origine  e  di  concetto.  Sopravvenne  intanto 
un  decreto,  che  non  cambiò  punto  la  sostanza  delle  cose,  ma  ne  cambiò 
d'un  tratto  la  faccia  esterna,  per  così  dire,  e  l'apparenza. 

Il  Califfo  Ommiade  Abd  al-Melik,  che  regnò  dal  685  al  705  d.  C, 
in  ossequio  al  Corano,  al  libro  rivelato  da  Dio,  ordinò  con  solenne 
decreto  che  ogni  fedele  musulmano  dovesse  usare,  scrivendo,  la  lingua 
in  cui  quel  libro  era  stato  scritto,  cioè  l'arabo,  è  i  Musulmani  tutti, 
anche  dei  paesi  dove  Tarabo  era  pur  sempre  una  lingua  straniera,  obbe- 
dirono pronti  e  devoti.  Avvenne  pertanto  che  l'arabo  divenne  la  lingua 
dotta  di  tutto  l'impero  dei  Califfi  dall' India  alla  Sicilia  e  alla  Spagna, 
dal  Caucasp  all'Egitto,  e  che,  mentre  ben  altro  che  arabi  erano  il  pen- 
siero e  il  sapere  e  la  dottrina,  agli  Occidentali  tutto  questo  pensiero, 
ritornando  dall'Oriente,  sì  presentò  loro  in  veste  araba,  onde  fu  in 
buona  fede  ritenuto  genuinamente  arabo.  I  Persiani  e  i  Siri,  che  erano 
i  popoli  più  dotti  convertiti  di  recente  alla  religione  di  Maometto,  si 
trovarono  costretti  a  scrivere  in  quella' lingua,  e  però,  mentre  da  una 
parte  la  lingua  siriaca,  affine  all'araba,  perchè  semitica  anch'essa, 
c^dde  in  disuso,  tanto  che,  per  esempio,  lo  scrittore  siro  Bar  Hebreo, 
vescovo  dì  Melitene  e  primate  d'Oriente,,  del  XII  secolo,  si  ridusse  a 
voltare  in  arabo  la  sua  cronaca  già  dettata  in  siriaco,  dall'altra  parte, 
i  Persiani  tardarono  quasi  tre  secoli  a  dar  princìpio  alla  loro  bella 
letteratura  scrìtta  in  persiano,  che  incomincia  propriamente  col  magni- 
fico poema  di  Firdusì,  il  Libro  dei  Re.  La  lìngua  persiana,  perchè 
non  semitica,  ma  indoeuropea,  resìstette  all'urto  e  si  conservò.  Avi- 
cenna, infatti,  che  tutti,  anche  i  commentatori  di  Dante,  spacciano  per 
arabo  e  che  invece  era  persiano,  nativo  di  Bukhara,  scrìsse  in  arabo 


Origine  e  natura  della  civiltà  orientale  del  Medio  Evo  491 


il  SUO  Canone  di  Medicina^  mentre,  quando  voleva  divertirsi  poetando, 
componeva  in  persiano  certe  quartine  d'acre  safjore  scettico,  dì  cui  ecco 
un  esempio  : 

Con  questi  pochi  sciocchi  che  si  pensano 

Esser  del  mondo  i  saggi  in  lor  stoltizia, 

Esser  tu  devi  un  asino. 

Per  quella  asineria  che  passa  il  termine, 

Questa  gente  ogni  tal  che  non  è  un  asino 

Empio  dice  ed  eretico.^ 

Dopo  quello  d'Avicenna  ecco  i  nomi  di  altri  non  meno  celebri, 
che  furono  o  sono  ritenuti  tutt'ora  arabi,  e  non  sono. 

I  nostri  del  Medio  Evo,  nei  loro  trattati  scientifici,  solevano  appel- 
larsi, oltre  a  quella  d'Aristotele,  di  Galeno,  di  Tolomeo,  anche  all'auto- 
rità di  Agazel,  di  Alrasi,  di  Alfarabio,  di  Albatenio,  di  Alfragano,  di 
Aìbumasar,  e  d'altri  meno  noti.  Ora  Agazel  o.Algazel  non  è  che  il 
teologo  e  filosofo  At-ghazzalr,  professóre  a  Bagdad,  morto  nel  11 11  d.  C, 
ma  nativo  di  Tus  nel  Khorassan,  concittadino  di  Firdusi,  quindi  an- 
ch'egli  persiano.  Alrasi,  cioè  Al-Razi,  che  avanzò  dì  gran  lunga  i 
medici  greci  nella  chirurgia,  e  immaginò,  tra  l'altro,  l'operazione  della 
cateratta,  morto  nel  932,  le  cui  opere  voltate  in  latino  e  in  ebraico  si 
lessero  e  studiarono  nelle  nostre  scuole  fino  al  secolo  XVI,  era  per- 
siano, come,  del  resto,  dice  lo  stesso  suo  cognome  Al-Razi,  cioè  nativo 
di  Rey  nella  Media,  che  è  la  Rhages  della  Bibbia  e  la  Ragha  delle 
iscrizioni,  cuneiformi  persiane,  Alfarabio,  cioè  Al-Farabi,  filosofo  aristo- 
telico era  di  Farab  nella  Transoxiana,  nella  parte  più  settentrionale 
della  Persia,  morto  nel  Q50.  Albatenio,  cioè  Al-Battani,  morto  nel  929, 
di  cui  il  mio  illustre  discepolo,  il  professore  Carlo  Alfonso  Nallirìo,  ha 
pubblicato  alcuni  anni  fa  l'insigne  opera  astronomica  corredandola 
d'una  bella  traduzione  latina,  era  nativo  di  Harran  in  Mesopotamia. 
Ma  della  Persia  settentrionale  era  AlTergani,' nativo  di  Fergana,  astro- 
nomo e  cosmografo,  citato  da  Ristoro  d'Arezzo  e  da  altri  col  nome 
di  Alfragano,  della  cui  vita  nulla  veramente  sappiamo  se  non  che  visse 
nel  secolo  IX.  E  citato  dallo  stesso  Ristoro  è  pure  Aìbumasar,  cioè  Abu 
Maashar,  nativo  del  Khorassan,  morto  nell'SSl,  dottissimo  in  astrologia 
e  in  astronomia. 

Ma  l'ingegno  persiano  prevalse  anche  in  molte  altre  opere.  Come, 
per  esempio,  chiamare  ancora  architettura  araba  quella  di  cui  abbiamo 
esempi  meravigliosi  in  Sicilia  e  in  Ispagna,  da  che  gli  Arabi  d'Arabia 


i  Vedine  qualche  altro  esempio  nella  mia  Storia  della  poesia  persiana^  Torino, 
Unione  Tip.  Ed.,  1894,  I,  p.  280,  e  nel  mìo  Islamismo,  nei  Manuali  fioepli,  Milano, 
(1903i  p.  306). 


dq2  Italo  Pizzi 


non  ebbero  mai  architettura,  essi  che  da  secoH  abitavano  sotto  le  tende  ? 
La  così  detta  architettura  araba  o  moresca  è  dovuta,  per  quello  che 
se  ne  può  congetturare,  ad  un  congiungimento  od  intreccio  di  elementi 
bizantini  e  persiani;  e  venuti  di  Persia  erano  i  più  celebri  architetti 
che  lavoravano  per  conto  dei  Califfi,  come  quel  Rozbeh  di  Hamadan, 
che  per  il  Califfo  Omar  edificò  la  moschea  di  Kufa/  L'elegante  col- 
tivazione dei  giardini  con  la  bella  varietà  di  tanti  fiori,  e  in  partico- 
lare delle  rose,  l'arte  d'innestare  alberi  fruttiferi  per  trarne  mille  varietà 
di  frutta,  l'arte  del  distillar  rosolii,  vennero  dai  Persiani.^  Passata  l'arte 
del  giardinaggio  per  mezzo  degli  Arabi  in  Ispagna  e  in  Sicilia,  venne 
ad  allietare  da  noi,  in  modo  non  prima  veduto,  le  case  dei  signori. 
Non  si  deve  però  affermare,  come  fanno  taluni,  che  nulla,  vera- 
mente nulla,  abbiano  dato  gli  Arabi  e  i  Semiti  in  generale,  alla  scienza 
e  alla  civiltà,  che  sarebbe  eccessivo.  Ma  noi  insistiamo  su  questo  punto, 
cioè  sull'errpre,  tanto  invalso  da  noi,  di  reputare  e  chiamare  arabo  ciò 
che  non  è  e  non  potè  essere  tale.  Resta  il  solo  idioma,  l'arabo,  in  cui 
tutto  questo  sapere  fu  versato,  idioma  però  felicemente  scelto  per  la 
sua  mirabile  duttilità,  finezza  e  pieghevolezza.  Senonchè  non  già  per 
queste  sue  belle  qualità  esso  fu  scelto  dal  Califfo,  ma  piuttosto,  come 
abbiam  detto,  per  fare  atto  di  reverenza  al  Corano.  Nella  sostanza  poi 
e  nell'intima  essenza,  anche  con  alcune  parti  stranière,  venute  dall'India 
o  d'altronde,  esso  altro  non  è  che  il  sapere  greco  ritornato  a  noi.  Nem- 
meno Aristotele  ritornò  genuino,  sì  bene  tanto  inquinato  di  dottrine 
panteistiche,  che  la  Chiesa  ne  proscrisse  dalle  scuole  le  opere,  repu- 
tate eretiche,  dichiarando  inoltre  esso  Aristotele  padre  di  tutte  le  eresie. 
Toccò  poi  a  Galileo,  più  secoli  dopo,  l'ufficio  e  il  merito  di  rimettere 
in  onore  l'Aristotele  vero  e  il  metodo  di  lui  nella  indagine  scientihca. 
Riferiscono,  intanfo,  le  storie  del  Medio  Evo  i  nomi  di  quei  beneme- 
riti che  tradussero  dall'arabo  in  latino  le  opere  venute  dall'Oriente, 
tra  i  quali  forse  i  più  illustri  furono  un  italiano,  Gherardo  da  Cremona 
del  secolo  XII,  traduttore  delle  opere  di  Avicenna,  e  un  francese,  Ger- 
berto  monaco  di  Aurillac,  studioso  di  scienze  fisiche  apprese  su  libri 
arabici,  e  però  sospettato  di  eresia,  salvatone,  soltanto  quando  fu  as- 
sunto, nel  999,  alla  cattedra  di  San  Pietro  col  nome  di  Silvestro  IL  E 
già  di  sopra  abbiam  fatto  menzione  di  versioni  dall'arabo  in  ebraico 
jier  opera  di  dotti  ebrei. 


i  M.  Amari,  Storia  dei  Musulmani  di  Sicilia,  cap.  lU.  Vedi  anche  il  mio  Islami- 
smo,  cap.  VI,  9. 

*  Un  esempio  chiaro  di  tal^  trasmissione,  per  mezzo  degli  Arabi,  lo  abbiamo  nella 
voce  giulebbe,  che  è  persiana  e  significa  acqua  di  rose.  Ma  in  persiano  suona  gulàb, 
da  gul  rosa,  e  ab  acqua.  Si  deve  agli  Arabi,  che  non  hanno  il  g  duro  nel  loro  alfa-^ 
Jbeto,  e  pronunciano  à  quasi  come  un  ^,  se  i^oi  diciamo  giulebbe  e  non  gulabbe. 


Origine  e  natura  della  civiltà  orientale  del  Medio  Evo  493 


La  conquista  turca  e  1  suoi  effetti. 

Lungo  adunque  e  non  interrotto  mai,  anche  a  dispetto  dei  tor- 
bidi frequenti  e  lunghi,  fu  cotesto  commercio  intellettuale.  Con  tutto 
questo,  ciò  che  infuse  alla  fine  certa  profonda  antipatia  e  certa  invin- 
cibile diffidenza  fra  le  due  parti,  furono  due  fatti  importantissimi  che 
sono  le  Crociate  e  la  preponderanza  turca  dai  secoli  XI  e  XII,  nell'Asia 
anteriore,  e,  nell'Asia  minore,  dal  secolo  XIV  in  poi.  Le  Crociate  offesero 
profondamente  i  Musulmani  tutti,  dai  quali,  a  principio,  s'intende  bene, 
e  non  dipoi,  il  Cristianesimo  era  fatto  segno  del  maggior  rispetto,  e 
considerato  come  la  religione  più  vera  e  più  santa  fino  all'Islamismo, 
il  quale,  e  da  Maometto  e  da  loro,  se  ne  reputava  come  un  ulteriore, 
anzi  un  ultimo  perfezionamento.  Maometto  stésso  si  proclamava  il  sug- 
gello dei  profeti,  cioè  colui  che  aveva  compiuto  l'opera  di  Gesù,  che, 
alla  sua  volta,  aveva  reso  più  perfetta  quella  di  Mosè  e  di  Abramo. 
li  Califfo  Omar,  allorché  entrò  vittorioso  in  Gerusalemme,  pregò  devo- 
tamente nel  tempio  al  fianco  del  Patriarca  cristiano,  Sofronio,  e,  quando 
il  Saladino  fu  sollecitato  a  rendere  ai  Cristiani  il  Santo  Sepolcro,  ri- 
spose così  :  «  Per  noi  Musulmani  il  sepolcro  del  vostro  Profeta  è  tanto 
degno  di  venerazione  quanto  è  per  voi,  e  voi  potete  onorarlo  di  visite 
e  di  adorazione  ogni  qualvolta  vi  piaccia  >. 

Ma  più  tardi  i  Turchi,  abborriti  cordialmente  dagli  Arabi  e  dai  Per- 
siani, non  solo  perchè  di  razza  diversissima  (erano  Turani  discesi  dalle 
steppe  dell'Asia  settentrionale),  ma  anche  perchè  tra  l'VIII  e  il  XII  se- 
colo fecero  orribili  stermini  e  rapine,  e  distrussero  nel  1258  il  Califfato, 
e  fondarono  potenti  signorie  in  Persia,  in  Siria,  in  Mesopotamia  e  nel- 
l'Asia Minore  ;  i  Turchi,  diciamo,  insediatisi  in  Costantinopoli,  furono 
come  una  barriera  insuperabile  eretta  tra  l'Oriente  e  l'Occidente.  E 
seminarono  attorno  tant'odio  e  tanto  livore,  che  li  fece  invisi  a  noi, 
coinvolgendo  in  tale  odio  tutte  le  altre  nazioni  orientali,  che  prima  assai 
di  più  erano  accostevoli  e  meno  renitenti  e  ritrose.  Ma  oggi  Gerusa- 
lemme, la  città  santa,  oggetto  di  tante  contese,  è  stata  riconquistata 
dalle  armi  alleate  d'Italia,  d'Inghilterra,  di  Francia,  ed  essa,  sottratta 
all'indegno  dominio,  sarà  nell'avvenire  faro  e  stazione  luminosa  per 
ravvivare  il  commercio  e  il  colloquio  intellettuale  d'un  tempo. 

Elementi  orientali  nelle  nostre  letterature. 

Esso  infatti  si  può  chiamar  tale  perchè  tale  veramente  fu.  Molte 
cose  passarono  d'Oriente  a  noi  nel  Medio  Evo.  Altre  furono  nozioni 
scientifiche,  e  altre  furono  nozioni  d'arte  e  di  letteratura  con  non  poca 


494  ^i^io  Pizzi 


parte  dovuta  alla  immaginazione  popolace.  Ma  quali  ne  furono  i  modi 
e  le  vie? 

Quanto  alle  scientifiche,  s'intende  in  qual  modo  e  per  qual  via 
dovettero  passare  a  noi,  e  già  più  innanzi  l'abbiaoi  detto.  Furono  i 
dottori  musulmani  (ora  non  li  diremo  più  arabi)  che  inviarono  ai  no- 
stri e  tramandarono  qu^i  libri  che  in  tutto  il  Medio  Evo  furon  letti  e 
commentati  nelle  scuole.  Ma  più  difficile  è,  e  sarà  sempre,  rintracciar 
la  via,  per  cui  venne  a  noi  dalla  Persia  e  anche  dairindia  tutto  quel- 
l'insieme di  cose,  non  poche  veramente,  dovute  all'immaginazione  e 
alla  letteratura.  La  maggior  parte  n'è  d'invenzione  popolare,  e  coloro 
che  trasmisero  questi  elementi,  appartenendo  alle  classi  popolari,  ci 
rimasero  quasi  tutti  ignoti.  Non  potendo  altro,  accenneremo  qui  alle 
cose  più  importanti  per  dimostrare  anche  una  volta  che  anch'esse,  come 
tante  altre,  sono  da  attribuire  a  tutt'altra  gente  e  a  tutt'altra  origine 
che  all'araba. 

Uno  dei  più  notevoli  doni,  fatto  a  noi  nel  Medio  Evo  dall'Oriente 
indiano  e  persiano,  è  quello  delle  favole  e  delle  novelle.  Lunga  e  ricca 
di  particolari  curiosi  è  tutta  la  storia  della  venuta,  fin  dall'India,  del 
libro  sanscrito  il  Panciatantra,  in  cui,  per  via  di  apologhi  e  di  favole 
si  trattano  certi  punti  di  morale  pratica,  né  qui  sarebbe  il  luogo  di 
narrarla.  Questo  solo  si  noti  ^  si  sappia  che,  tradótto  in  lingua  pehle- 
vica  al  tempo  del  re  Chosroe  di  Persia,  per  via  di  versioni  e  d|  rifa- 
cimenti arabici,  siriaci,  persiani,  ebraici,  greci,  latini,  italiani,  fiamminghe 
spagnuoli,  tedeschi,  si  sparpagliò,  trasfigurandosi  in.  mille  guise  pei  li- 
bri dei  nostri  novellatori  d'Occidente,  compresi  il  Boccaccio,  il  Ban- 
dello,  il  Firenzuola,  il  Doni.  Da  molti  e  in  gioiti  dei  quali  serbasi  tut- 
tora il  disegno  di  quel  primo  e  lontanò  libro,  che  è  quello  d'incorniciare 
e  comprendere  in  un  solo  racconto  principale  tanti  racconti  secondari 
e  minori,  intrecciati  fra  loro,  che  rientrano  l'uno  nell'altro,  distribuiti  per 
tanti  capitoli  o  giornate  secondo  soggetti  determinati.  È  questo,  come 
ognun  vede,  il  disegno  del  più  cospicuo  fra  i  nostri  libri  di  novelle, 
il  Ùecamerone,  Lo  stesso  libro  popolare,  tanto  famoso,  delle  Mille  e 
una  notte,  che  dai  più  si  ritiene  arabo,. non  è  che  una  remota  e  ultima 
e  alterata  trasformazione,  con  elementi  d'altra  origine  e  in  lingua 
araba,  del  Panciatantra} 

Ci  venne  pure  dall'India  il  giuoco  degli  scacchi,  di  cui  nel  Libro 
dei  Re  di  Firdusi,^  si  narra  la  storia  molto  curiosa  e  nuova.  Ma  dal- 


1  Per  tutta  questa  storia  del  Panciatantra  t  delle  sue  derivazioni,  vedi  la  mia  tradu- 
zione: Le  Novelle  indiane  di  Visnusarma  (Panciatantra),  Torino,  Unione  Tip.  Ed.,  1896; 
e  più  aneora:  V Introduzione  al  Solvan  el  Mota  d*Ibn  Za/er,  trad.  dell* Amari,  Firenze,  Le 
Mounier,  1857  ;  e  Benfey,  Pantschatantra,  fan/ BUcher  indoear.  Pabeln,  Leipzig,  1859 

*  Voi.  Vili,  pp.  222  e  segg.  (della  mia  traduzione), 


Origine  e  natura  della  civiltà  orientale  nel  Medio  Evo  495 

l'India,  sempre  al  tempo  delire  Chosroe,  passò  in  Persia  e  dalla  Persia, 
per  qùal  via  non  sappiamo  bene,  venne  a  noi  regalandoci  alcuni  ter- 
mini speciali  che  vi  si  riferiscono.* 

Il  tipo  o. carattere  dell'uomo  del  volgo,  rozzo,  ignorante,  ma  do- 
tato d'acuto  ingegno  e  di  fine  buon  senso,  franco  e  scaltrito,  che  rap- 
presenta appunto  il  senno  popolare,  contrapposto  al  sapere  aulico, 
seduto  in  trono  o  in  cattedra)  che  da  noi  si  presenta  nella  veste  di 
Bertoldo,  di  Marcolfo,  di  Sidraco,  è  pure  di  origine  persiana,  t  il  mo- 
dello primo  0  prototipo,  che^  voglia  dirsi,  trovasene  in  quella  lettera- 
tura. Nella  quale,  come  da  noi  nella  popolare,  ebbe  già  gran  voga  un 
libro,  rifatto  poi  anche  in  arabo,  in  cui  narravasi  come  il  figlio  d'un 
povero  contadino,  allevato  rozzamente  in  campagna,  venuto  alla  Corte 
d«»l  gran  re  Chosroe,  disputasse  coi  magnati  del  regno  e'  coi  dottori 
e  tutti  ti  confondesse.  Chiamavasi  Buzurcimihr,  ed  ebbe  poi,  per  Tin- 
nato  buon  senso,  il  soprannome  di  savio.  Di  quel  libro  persiano  ci 
restano  tuttora  molti  saggi  e  rifacimenti,  tra  i  quali  uno  di  Avicenna,* 
e  vi  si  riferiscono  i  dialoghi,  le  sentenze  e  le  dispute  di  esso  Buzurci- 
mihr, phe  fanno  un  bel  riscontro  a  quelle  di  Bertoldo  a  Corte  del  re 
Alboino,  di  Marcolfo  a  Corte  del  re  Salomone,  di  Sidraco,  se  non 
un'inganno,  in  una  Corte  provenzale. 

Ma  il  più  bel  dono  della  Persia,  anzi  della  più  orientale  regione 
della  Persia,  è  quello,  non  ne  dubitiamo,  della  bionda  Angelica,  che  se- 
dusse, al  dire  dei  poeti  nostri  cavallereschi,]  Paladini  dì  Francia. 

In  un  poema  ciclico  della  scuola  di  Firdusi,  e  però  dell'XI  e  tut- 
t'al  più  del  Xll  secolo,  dMgnoto  autore,  si  racconta  come  un  bel  giorno 
il  re  del  Khatày,  nimicissimo  del  re  di  Persia,  mandasse  una  figlia  sua, 
bellissima,  esperta  in  ogni  arte  magica,  accompagnata  da  un  suo  gio- 
vane e  valoroso  fratello,  a  sedurre  co'  suoi  vezzi  i  campioni  persiatji. 
L'avvenente  maga,  Susena,  si  presenta  d'improvviso  a  Rustem,  che  è 
il  più  illustre  e  valoroso  guerriero  dei  tempi  eroici  della  Persia,  nel 
mentre  ch'egli  celebrava  con  altri  prodi  in  un  solenne  convito  la  festa 
della  primavera.  Tocchi  dai  vezzi  di  lei,  i  guerrieri  tutti  perdono  uno 
ad  uno  il  senno  e  abbandonano  le  armi  e  la  causa  del  loro  sovrano 
per  correrle  dietro,  pazzi  d'amore.  Per  chi  legge  cotesto  nel  poema  ci- 
clico persiano,^  non  può  riuscir  dubbio  ch*esso  sia  il  tipo  primo  (l'epo- 


»  Tra  questi  termini,  sono  :  scacco,  re  (pers.  sliàh.  Io  Scià)  ;  scaccomatto,  il  re  è 
morto  ;  rocco,  torre  (pers.  rukti),  e  altri. 

*  Vedine  un  saggio,  appunto  d'Avicenna,  nella  miti  Storia  della  poesia  persiana, 
voi.  II,  pp.  346  segg.  Anche  Firdusi,  nel  suo  poema  (voi.  VII,  pp.  205  segg.  della 
mia  traduzione),  ne  reca  un  rifacimento  molto  ampio. 

8  Vedine  un  saggio  nella  mia  Storia  della  poesia  persiana,  II,  pp.  137  segg.  Il 
testo  del  poema  che  ha  per  titolo:  V Avventura  di  Berza  figlio  di  Sohràb^  trovasi  a 


496  Italo  Pizzi 


pea  persiana  risale  molto  addietro,,  nel  Medio  Evo,  e  se  ne  trovano 
certe  parti  accennate  anche  nell'Avesta,  che  è  il  libro  sacro  di  Zara- 
thustra),^ della  bella  Angelica.  Questa  figlia  del  maggior  sovrano  del 
Levante  venne  dal  Cataio  (il  Khatày  del  nostro  poema  persiano)  accom- 
pagnata dal  giovane  suo  fratello,  e  si  presentò  al  re  Carlo  nel  giorno 
della  Pasqua  di  rose,  cioè  nella  festa  della  primavera,  quando  appunto 
il  re  solennemente  banchettava,  per  fare  impazzire  co'  suoi  vezzi  i  Pa- 
ladini di  Francia  e  trarli  tutti  quanti  dietro  di  sé,  discordi  e  forsennati. 

Giosuè  Carducci,  al  quale  io  feci  conoscere,  tra  i  primi,  tutto  que- 
sto racconto  da  me  rinvenuto,  sentenziò  per  la  non  dubbia  origine 
persiana  del  personaggio  d'Angelica,  imitato  i)oi  dal  Tasso  nelhi  sua 
Armida,  maga  avvenentissima  anch'essa.  Senonchè  i  più  insigni  stu- 
diosi italiani  di  letteratura  medievale,  e  in  particolare  cavalleresca, 
hanno  sempre  negato  con  incomprensibile  ostinazione,  non  ostante 
tanta  somiglianza  o  meglio  identità  di  cose  e  di  particolari,  questa  per 
me  indubitabile  provenienza.  Io  però  non  rinuncio  e  non  rinuncerò 
alla  opinione  mia,  avvalorata  dal  suffragio  del  Carducci.  La  rafforzerò 
piuttosto  adducendo  un  altro  caso  affatto  consimile,  quello  della  pro- 
venienza persiana  del  notissimo  romanzo  di  Tristano  e  Isotta,  tanto  fa- 
moso da  noi  nel  Medio  Evo  per  tante  redazioni  e  rifacimenti.  Ma  poiché 
il  trattar  questo  punto  richiederebbe  troppo  spazio,  così  rimanderò  vo- 
lentieri chi  volesse  saperne  di  più  ad  uno  scritto  del  professore  Ro- 
dolfo Zenker  e  ad  uno  scritto  mio,  che  diligentemente  lo  riassume  e 
commenta.*  Vi  si  troveranno  le  prove. 

Altre  cose  potremmo  aggiungere  a  conforto  della  nostra  tesi,  pur 
limitandoci  al  campo  delle  letterature.  Potremmo  aggiungere  che  nel 
Libro  dei  Re  di  Firdusi,  e  nei  poemi  ciclici  della  sua  scuola,  tutti  del- 
rXI  o  del  XII  secolo,  comune  episodio  è  quello  d'una  fanciulla  guer- 
riera che  combatte,  chiusa  nell'armi,  con  un  giovane  campione  ne- 
mico, il  quale  4J0Ì,  quando  con  un  colpo  di  lancia  le  svelle  l'elmo  dal 
capo,  perdutamente  se  ne  innamora,  come  appunto  avviene  di  Clo- 
rinda e  di  Tancredi  nel  poema  del  Tasso  ;  '  che  il  disegno  dei  contrasti 


pp.  2160  é  segfic   in  fine  al  testo  persiano  del  Libro  dei  Re,  nell'edizione  di  Calcutta 
procurata  dal  capitano  Tumer  Macan,  del  1829. 

1  Vedi,  per  tutto  questo  punto,  il  cap.  V  della  Poesia  epicut  nella  mia  Storia  della 
poesia  persiana f  e  la  mia  traduzione  àeWAvesta  (negli  Immortali,  n.  26,  dell'Istituto 
Editoriale  Italiano,  Milano,  1917). 

«  R,  Zenkeb,  Die  Tristansage  und  das  persische  Epos  von  Wts  und  Ràmin  (nelle 
Romanischen  Forschungen,  XXIX  Band,  2  Heft,  Erlangen,  1910);  I.  Pizzi,  L'origine 
persiana  del  romanzo  di  Tristano  fi  Isotta  (nella  Rivista  d'Italia,  1911). 

8  ^  l'episodio  di  Sohrab  e  di  Ourdafrida  nel  Libro  dei  Re  (voi.  II,  p.  209  della 
mia  traduzione)*  Simile  episodio  trovasi  nel  poema  ciclico  persiano,  il   Libro  di  Sàm 


Origine  6  natura  della  civiltà  orientale  nel  Medio  Evo  497 


e  delle  tenzoni,  tanto  usate  da  noi  nel  Medio  Evo,  trovasi  già  nelle 
tenzoni  persiane  del  IX  e  del  X  secolo  ;  che  ogni  poesia  d'amore  per- 
siana incomincia,  come  tante  nostre,  con  la  descrizione  obbligata  della 
primavera;  che  certe  operazioni  campagnuole  vi  sono  descritte,  in  ap- 
positi componimenti  poetici,  al  modo  delle  nostre,  come,  per  esempio, 
quella  della  pigiatura  dell'uva,  che  là  si  rappresenta  come  un  martirio 
dì  essa  uva,  che  fortemente  se  ne  lagna,  e  qui  si  rappresenta  sotto  la 
forma  del  martirio  di  San  Bacco/  Ma  bastino  le  cose  accennate,  anche 
se  accennate  in  via  sommaria,  per  dimostrare  quanto  poco  di  arabo  si 
trovi  in  tutto  ciò  che  da  noi  si  vuol  comprendere  sotto  il  nome  er- 
rato e  improprio  di  civiltà  e  dì  scienza  degli  Arabi  nell'età  di  mezzo. 
Tutto  ciò  che  s'è  inteso  o  s'intende  sotto  questa  denominazione  (la  so- 
stanza diciamo  e  l'origine,  non  la  lingua,  non  la  forma),  è  molto  più 
antico  di  quanto  comunemente  si  pensa,  anteriore  dì  molto  al  primo 
apparire  degli  Arabi  sulla  scena  della  storia. 

Italo  Pizzi. 


vedi  la  mia  Storia  della  paesi  a  persiana.  II,  pp.  80  segg.  ;  235,  dove  è  contenuto  un 
breve  saggio  tradotto). 

1  Vedine  un  esempio  nel  canzoniere  del  poeta  persiano  Minocihri,  del  sec.  XII 
nell'edizione  di  A.  de  Biberstein  Kazimirski,  Menoutchehri,  poète  persati  daXIIsìècle, 
Paris,  1886,  p.  193,  della  trad.  francese,  p.  54  del  testo  persiano.  Si  cfr.  anche  la  mia 
Storia  della  poesia  persiana,  I,  pp.  82  e  145;  II,  p.  481,  e  tutto  il  cap.  IX,  che  tratta 
Delle  somiglianze  della  letteratura  persiana  con  le  nostre  nel  Medio  Evo, 


S' 


32  —  Nuova  Rivista  Storica. 


IO  illlIO  E  U  [HTH  (ME  1 


f=SS^ 


Importanza  delle  città  capitali  nella  vita  degli  Stati. 

La  storia  di  una  nazione  civile  può  dirsi  essere  quasi  la  storia  della 
sua  capitale.  Le  varie  individualità  etniche,  i  piccoli  organismi  ammi- 
nistrativi, il  loro  sviluppo  sociale,  più  o  meno-  progredito,  e  la  stessa 
coltura  non  ci  sono  rivelati  che  attraverso  la  capitale,  non  acquistano 
importanza  storica  se  non  in  quanto  si  riverberano  e  si  confondono 
nel  cuore  della  nazione.  Oli  avvenimenti  di  maggior  portata,  le  guerre 
come  le  rivoluzioni,  il  crollare  di  antichi  dominii  come  il  sorgere  di 
nuovi,  il  cadere  di  dinastie  come  l'acquisto  o  la  perdita  dell'indipen- 
denza sono  fatti,  che,  quando  pur  non  hanno  origine  nei  grandi  centri 
della  vita  nazionale,  finiscon  sempre  per  decidere,  insieme  con  la  sorte 
di  questi  ultimi,  sovente  anche  quella  di  tutto  lo  Stato.  È  solo  col  tra- 
scorrere dei  secoli  o  con  la  invadente  e  sterminatrice  barbarie,  che 
capitali  anche  tra  le  più  cospicue  possono  perire;  esse  lasciano  però 
sempre  profonde  tracce  di  sé  nella  storia  e  nei  monumenti.  Quante 
stirpi  del  mondo  antico  non  sarebbero  rimaste  sperdute  nelle  tenebre, 
e  a  noi  ignote,  se,  giungendo  da  Alessandria,  da  Babilonia,  da  Atene 
o  da  Ronia,  un  raggio  di  luce  non  avesse  illuminato  il  loro  passaggio 
lungo  queste  grandi  metropoli.  E  così  pure,  a  mo*  d'esempio,  se  non 
fosse  stata  Parigi  a  darvi  il  primo  impulso,  la  Francia  non  avrebbe 
avuto  la  sua  grande  rivoluzione  e  la  democrazia,  in  gran  parte  del- 
l'Europa, sarebbe  rimasta  sepolta  tra  i  postulati  della  scienza. 

Lo  Stato  e  la  coltura,  questi  due  grandi  fattori  del  progresso 
umano,  non  trovano  elementi  di  vita  rigogliosa  e  di  prosperità,  se  non 
là  dove  si  raccolgono  tutte  le  forze  di  una  nazione,  le  intellettuali  e  le 
morali  ;  tutti  gli  interessi,  quelli  economici  e  quelli  giuridici  ;  tutti  i  bi- 
sogni, quelli  spirituali  e  quelli  materiali,  se  non  dove  si  offre  loro 
una  vasta  e  adatta  palestra,  in  cui  l'operosità  umana  possa  libera- 


Lo  Stato  e  la  città  capitale  nel  mondo  romano  499 


mente  esplicarsi.  Sono  barbare  o  quasi  quelle  gentil  le  quali  o  non 
sanno  o  non  possono  crearsi  que^sti  focolari,  sempre  ardenti  di  nuove 
forze,  generatrici  d'incremento.  Non  è  perciò  dì  essi  che  la  storia 
debba  fare  obietto  di  ricerche. 

La  capitale  e  lo  Stato* 

Il  sorgere  e  il  costituirsi  di  una  città  a  capitale  è  uno  dei  feno- 
meni più  complessi,  e  per  conseguenza  uno  dei  problemi  più  ardui,  che 
si  presenta  allo  spirito  indagatore  e  ricostruttore  dello  storico.  Può  il 
fatto  essere  studiato  nelle  sue  origini,  esaminando  come  la  giacitura 
geografica,  le  condizioni  etnografiche,  i  rapporti  con  altri  popoli,  e 
soprattutto  l'ordinamento  politico,  abbiano  contribuito  a  fissare  in  uno, 
piuttosto  che  in  altro  luogo,  tutto  quanto  concorre  a  formarvi,  per  così 
dire,  l'anima  di  uno  Stato.  Si  possono  pure  ricercare  gli  elementi,  che 
costituiscono  l'essenza  della  metropoli,  a  cominciare  dai  poteri  pubblici, 
che  ne  sono  la  sorgente  principale,  e  venendo  giù  alla  popolazione,  più 
numerosa  che  altrove  e  sempre  più  che  altrove  crescente,  allo  sviluppo 
degli  ordini  sociali,  del  commercio  e  delle  industrie,  fino  agi'  istituti  di 
educazione  e  di  istruzione  o  alle  opere  pubbliche  di  utilità  e  di  piacere, 
e  così  via.  Né  sono  di  minor  momento  i  problemi  che  s'incontrano,  prin- 
cipalmente quando  si  vogliano  considerare  alcune  delle  conseguenze  ine- 
vitabili di  simili  concentramenti  dell'attività  pubblica  di  un  popolo.  Chi 
potrà,  infatti,  in  modo  assoluto  affermare  che  dovunque  e  sempre  alla 
sicurezza  ^sterna  degli  Stati  giovi  l'avere  una  città,  nella  quale  siano 
raccolte  tutte  le  forze  più  vive  di  essi?  Chi  oserà  dire  che  per  l'assetto 
economico  e  sociale  sia  un  beneficio  ovvero  un  danno,  e  per  la  stessa 
conservazione  dell'ordine  interno  giovi,  anziché  noccia,  l'agglome- 
rarsi eccessivo  degli  abitanti  e  l'esuberanza  di  operosità  industriale  e 
commerciale  ih  un  sol  luogo  ?  E  non  è  forse  nelle  capitali  sopratutto, 
dove,  accanto  al  fiorente  sviluppo  della  coltura,  si  vedono  del  pari  e 
più  che  altrove  prosperare  le  tristi  piante  della  corruzione  e  del  delitto  ? 

Ma  questi  sono  problemi,  intorno  ai  quali  forse  invano  si  affannano 
le  menti  dei  sociologi.  Altri  ve  n'ha,  invece,  che  più  direttamente  riguar- 
dano la  scienza  dello  Stato,  e  che  hanno  maggior  bisogno  di  essere 
studiati.  Tale  è,  per  ricordare  il  problema  in  pratica  meno  suscettibile 
di  una  definitiva  soluzione,  quello  della  autonomia  dei  comuni,  o,  come 
oggi  piace  chiamarlo,  del  decentramento,  amministrativo  ;  problema,  il 
quale  si  riconnette  in  fondo  con  l'altro  della  capitale  nei  suoi  rapporti 
con  i  restanti  centri  dejl'amministrazione  pubblica.  Se,  invero,  lo  Stato 
non  può  reggersi  senza  che  da  un  lato  l'azione  del  governo  sia  concen- 
trata in  un  luogo,  e  dall'altro  non  sia  impedito  ai  comuni  il  provvedere 
da  sé  ai  propri  bisogni,  sorge  il  quesito  :  quale  debba  essere  la  misura 


«Joo  Ettore  de  Ruggiero 


di  queirazione  difettiva  e  di  questa  locale  cooperazione.  Se  non  che  la 
città  che  si  eleva  a  metropoli,  non  cessa  per  questo  di  essere  essa  mede- 
sima un  comune,  col  diritto  di  amministrarsi  da  sé  e  nello  stesso  tempo 
con  esigenze,  che  gli  altri  comuni  o  non  hanno  .punto  o  hanno  in  una 
cerchia  più  ristretta.  Ma  un  tale  quesito  «e  trae  seco  un  altro,  non 
meno  importante  e  difficile,  cioè  fino  a  qual  segno  quel  diritto  della 
città  capitale  debba  essere  rispettato,  fino  a  che  limite  il  comune  stesso 
o  lo  Stato  debba  provvedere  a  quelle  particolari  esigenze;  in  altri 
termini,  se  la  capitale  debba  godere  di  una  condizione  eccezionale  di 
fronte  alle  altre  città  e  sottostare  ad  un'azione  più  diretta  dello  Stato 
e  più  ristrettiva  della  sua  autonomia  amministrativa. 

La  scienza,  che  pretendesse  di  dare  una  soluzione  pratica  univer- 
sale a  questi  due  fondamentali  problemi,  ispirandosi  soltanto  a  prin- 
cipii  generali,  riuscirebbe  in  molti  casi  a  sconvolgere  la  compagine  di 
uno  Stato.  Essa  deve  ponderare  le  condizioni  speciali  di  questo,  le  sue 
tradizioni,  il  suo  svolgimento  attraverso  ì  secoli.  Quanto  più  anti- 
che sono  le  nazioni,  tanto  più  lento  e  graduale  è  stato  il  lavorìo 
per  darsi  un  ordinamento  politico  conforme  al  loro  carattere  e  alla 
loro  storia,  e  tanto  meno  si  sono  esse  imbattute  in  ostacoli  insupera- 
bili per  venirne  a  capo.  La  prova  mrgliore  ci  vien  pòrta  da  quel 
popolo  deirantichità,  nel  quale,  più  che  in  ogni  altro,  furono  così  pro- 
fondi la  coscienza  del  diritto  e  il  concetto  dello  Stato:  il  popolo  ro- 
mano. Le  continue  guerre  in  Italia  e  poi  fuori,  le  sedizioni  e  le  aspre 
lotte  dei  partiti  politici,  le  riforme  costituzionali  e  lo  stesso  apparire 
deir  Impero  con  le  sue  nuove  istituzioni  non  valsero  a  rimutare  a  fondo 
lo  spirito  che  ne  informava  l'organamento  politico.  Il  quale,  svolgendosi 
a  gradi  e  senza  grandi  scosse,  riuscì  a  conciliare  i  più  forti  contrasti 
che  si  siano  mai  avuti  in  un  popolo  :  la  maggiore  possibile  democrazia 
con  l'autorità,  suprema  moderatrice  dello  Stato;  la  prosperità  eco- 
nomica del  paese,  principalmente  dell'  Italia  fino  a  Diocleziano  rimasta 
immune  dalla  imposta  fondiaria,  con  le  minori  gravezze  dei  cittadini; 
un  domìnio  esterno  sconfinato  con  la  consistenza  più  salda  del  carat- 
tere nazionale  italico  dello  Stato.  Anche  in  questo  rispetto  è  l'Inghil- 
terra quella  tra  le  nazioni  moderne,  che  col  suo  self-government  xi'xb.  si 
accosta  all'ordinamento  romano,  pur  essendo  stata  la  Britannia  una 
delle  Provincie,  in  cui  meno  intenso  fu  l'influsso  del  romanesimo. 

Lo  Stato  romano  e  la  sua  capitale  durante  la  Repubblica. 

Se  non  che  un  sì  alto  grado  di  maturità  politica,  un  ideale  di  Stato 
quasi  perfetto  non  furono  da  Roma  raggiunti  così  di  buon'ora,  come 
generalmente  si  crede,  anche  prima  cioè  che  la  sua  potenza  militare 


Lo  Stato  e  la  città  capitale  7tel  mondo  romano  501 

e  la  sua  signoria  oltremare  si  fossero  per  sempre  e  incrollabilmente 
affermate.  Si  ponga  mente  che  i  popoli  ordinati  a  confederazione  non 
sono  in  genere,  e  non  lo  furono  tanto  maggiormente  nel  mondo  antico, 
i  più  adatti  a  darsi  una  grande  ed  unica  capitale.  Questa  suole  formarsi, 
prosperare  e  divenire  strumento  di  progresso  là  dove  più  strette  e 
vive  sono  la  compagine  e  l'anima  nazionale.  Negli  Stati,  invece,  com- 
posti di  stirpi  differenti,  sono  a  ciò  di  ostacolo  la  vicendevole  riva- 
lità e  spesso  la  non  facile  opera  di  tenerle  unite  e  quasi  soggette  a 
quella  che  ne  è  a  capo.  Ove  poi  il  territorio  è  esiguo,  scarsa  la  popola- 
zione e  tenue  lo  sviluppo  politico  non  può  parlarsi  di  una  vera  capi- 
tale, bensì,  soltanto,  di  un  centro  di  direzione  militare  e  di  convegno 
dei  rappresentanti  delle  singole  popolazioni  riunite  per  trattare  d'inte- 
ressi federali  e  insieme  per  partecipare  a  feste  religiose  comuni.  E  fede- 
rale fu  appunto  la  costituzione  di  Roma,  probabilmente  già  dalla  tarda 
età  monarchica,  indubbiamente  dal  principio  della  repubblica  sin  circa 
alla  fine.  Certo,  in  origine,  quando  essa  facea  parte  della  confederazione 
latina  e  sì  sostituì  ad  Alba  Longa,  quell'impedimento  a  motivo  delle 
stirpi  diverse  non  vi  fu,  o  meglio  non  avrebbe  dovuto  esservi,  essendo 
Roma  medesima  essenzialmente  latina.  Eppure,  frequentissime  furono 
le  sollevazioni  e  le  guerre  mossele  degli  alleati  insofferenti  della  sua  ege- 
monia, guerre  finite,  come  è  noto,  con  lo  scioglimento  della  confedera- 
zione (a.  338  a.  C.)  e  con  la  concessione  della  cittadinanza  romana  a  quasi 
tutti  i  popoli  del  Lazio.  Maggiore,  invece,  dovea  essere,  e  fu  nel  fatto,  un 
tale  impedimento,  dal  tempo  in  cui  Roma  strinse  intorno  a  sé  con  legami 
federali  molti  altri  popoli  d' Italia,  ribellatisi  anch'essi  per  non  aver  otte- 
nuto di  partecipare  al  governo  dello  Stato,  non  ostante  che  la  loro  aspi- 
razione fosse  strenuamente  sostenuta  dal  partito  democratico.  La  breve 
guerra  di  secessione  (a.  QO  a.  C.)  finì  anch'essa  con  la  sottomissione  delle 
città  italiche,  che  come  quelle  latine  divennero  municipii  romani. 

Ora,  in  tutto  questo  lungo  periodo  di  storia  repubblicana,  man- 
cavano ancora  in  Roma  gli  elementi  principali,  perchè  essa  si  costituisse 
a  vera  capitale:  un  grande  sviluppo  economico,  sociale,  edilizio  e  de- 
mografico, ma  più  di  ogni  altra  cosa  mancava  l'unificazione  dei  popoli 
italici  e  il  proprio  ordinamento  a  Stato.  Essa  rimase  perciò  quale  era 
stata  fin  dalle  origini.  Gli  alleati  non  avevano  con  la  città  sovrana 
alcun  legame  amministrativo  :  essi  continuavano  a  reggersi  con  proprie 
léggi  ed  istituzioni,  liberi  di  accettare  o  meno  quelle  offerte  da'  Ro- 
mani; erano  insomma  Stati  indipendenti.  La  supremazia  di  Roma  non 
si  esplicava  se  non  in  due  rispetti  :  l' uno  d' impedire  che  essi  avessero 
rapporti  internazionali  con  altri  popoli  e  si  muovessero  guerra  tra 
loro;  l'altro,  di  stabilire,  occorrendo,  con  quale  contingènte  di  mili- 
zie o  di  navi  ciascun  alleato  dovesse  contribuire  alla  formazione  del- 


502  Ettore  de  Ruggiero 


l'esercito  e  dell'armata  federale.  Ma  tutto  ciò  non  importava  ch'essi 
perdesse  il  suo  carattere  originario:  Roma  fu  soltanto  la  maggiore 
delle  città  delle  sue  confederazioni:  essa  non  assunse,  né  lo  poteva, 
per  le  ragioni  accennate,  il  carattere  di  centro  e  di  capitale  dello  Stato. 

Ì3uanto  si  è  detto  riflette  Roma  studiata  nei  suoi  rapporti  esterni, 
vale  a  dire  con  i  popoli  federati.  Considerandola  ora  nel  rapporti  in- 
terni, si  osserva  che  il  principio  della  maggiore  autonomia  locale  in 
armonia  coi  poteri  centrali,  condizione  essenziale  per  aversi  un  vero 
Stato,  non  sempre  accompagnò  Roma  nella  sua  più  volte  secolare  evo- 
luzione politica.  In  quasi  tutta  l'epoca  repubblicana  essa  non  fu  altro 
se  non  un  comune.  La  città  stessa  e*  i  territori,  mano  a  mano  occu- 
pati oltre  i  suoi  confini,  erano  infatti  suddivisi  in  piccoli  distretti  am- 
ministrativi —  le  tribù  —,  i  quali  abbracciavano  gran  parte  dell'  Italia 
centrale,  e  i  cui  capi  erano  solo  organi  dei  magistrati  romani,  incari- 
cati delle  limitate  e  preliminari  operazioni  del  censimento  e  della  leva. 
Tutte  le  città  italiche,  che  non  fossero  di  diritto  latino,  e  in  genere 
federale,  o  non  avevano  alcun  ordinaftiento  comunale  (ed  erano  le  più 
numerose  di  tutte),  o  questo  vi  era  incompleto.  Per  modo  che,  pur 
essendo  fuori  del  territorio  della  città,  esse  in  fondo  rappresentavano 
elementi  amministrativamente  incorporati  nella  medesima.  Le  provincie 
poi  non  facean  parte  del  comune,  del  quale  erano  semplici  possedi- 
menti demaniali. 

Né  le  due  principali  riforme,  che  ci  offre  la  storia  di  questo  periodo, 
valsero  a  scuotere  il  suddetto  principio.  Non  quella  che  prese  nome 
dal  censore  Appio  Claudio  (ca.  312  a.  C),  per  la  quale  ai  cittadini 
privi  di  proprietà  fondiaria  venne  concesso  il  voto  nella  maggiore 
assemblea  deliberante.  Né  l'altra  (220  ?  a.  C),  con  cui  non  solo  fu  sot; 
tratto  all'arbitrio  del  governo  il  formare  le  sezioni  dei  votanti,  ma  fu 
altresì  abbassato  l'ultimo  grado  del  censo,  sicché  anche  i  proletari  pote- 
rono godere  di  un  diritto,  il  quale,  sebbene  proclamato  col  sorgere  della 
Repubblica,  era  rimasto  fin  allora  nella  pratica  effimero.  Furon  queste, 
é  vero,  riforme  essenzialmente  costituzionali.  Ma,  informate  com'erano 
ad  uno  spirito  democratico,  sempre  intollerante  di  ogni  menomazione 
di  libertà  e  d'indipendenza,  e  rafforzando  il  partito  che  di  questa  facea 
il  suo  vessillo,  anch'esse  indirettamente  contribuirono  a  tener  saldo  il 
pHncipio  dell'autonomia  contro  ogni  tentativo  che  avrebbe  potuto  farsi 
per  iscrollarla. 

Formazione  dello  Stato  romano. 

Fu  molto  più  tardi,  in  sullo  scorcio  della  Repubblica,  che  Roma 
prese  forma  e  consistenza  di  Stato,  dopo  cioè  che  intorno  a  sé,  in 
tutta  Italia,  eran  sorti  municipi!  e  colonie  di  diritto  romano,  forniti 


Lo  Stato  e  la  città  capitale  nel  mondo  romano  503 

della  più  larga  autonomia  amministrativa.  Mediante  poi  lo- scioglimento 
di  piccole  e  grandi  confederazioni  —  quale  per  esempio  quella  degli 
Etruschi,  di  cui  soltanto  le  feste  religiose  venivan  conservate  —  e  inol- 
tre con  rintroduzione  del  latino  come  lingua  ufficiale,  delle  leggi  e 
delle  istituzioni  romane,  e  perfino  del  calendario,  dei  pesi,  delle  mi- 
sure, l'opera  unificatrice  del  paese,  sebbene  dopo  lenta  evoluzione, 
potè,  già  air  inizio  dell'Impero,  dirsi  completa.  Anche  le  provincie  poco 
a  poco  andaron  perdendo  il  loro  antico  caràttere.  Non  più  governate 
dagli  stessi  magistrati  di  Roma  delegati  sul  luogo,  né  più  quindi  sepa- 
rato Jl  governo  del  comune  da  quello  provinciale;  scomparsa  la  qualità 
di  demanio  dei  Romani,  loro  attribuita  già  da  una  legge  dei  Gracchi; 
accresciuto  nei  loro  vasti  territorii  il  numero  dei  municipii  e  delle  colo- 
nie, esse  finirono  per  divenire  dei  veri  distretti  dello  Stato.  D'altro 
lato,  le  antiche  tribù  cessarono  di  essere  quello  ch'erano  state  in  ori- 
gine, e  servirono  parte  per  provare  il  possesso  del  diritto  di  cittadi- 
nanza in  coloro  che  vi  erano  inscritti  e  parte  per  far  godere  i  cittadini 
delle  frumentazioni. 

Questo  svolgimento  ebbe  compimento  con  la  famosa  costituzione 
di  Caracalla  (212  d.  C),  per  la  quale  anche  le  città  alleate  e  tributarie 
o  suddite  delle  provincie  divennero  con  la  concessione  della  cittadinanza 
municipii  romani.  Ma  fin  dalla  guerra  Marsica  o  sociale  (90-89  a.  C) 
Roma  era  cominciata  realmente  ad  essere  una  capitale,  quantunque  dal 
punto  di  vista  edilizio  non  fosse  ancora  all'altezza,  a  cui  più  tardi 
fu  inalzata.  L'Impero,  che  potrebbe  parere  per  la  sua  natura  avverso 
all'autonomia  locale,  la  rispettò  invece  per  oltre  un  secolo.  Fu  dal  tempo 
di  Traiano,  e  più  frequentemente  e  intensamente  da  quello  degli  Anto- 
nini, che  in  Italia,  e  ancora  più  nelle  provincie,  si  ebbero  commissari 
imperiali  inviati  in  singoli  municipii  o  in  gruppi  di  essi,  con  lo  scopo  di 
moderarne  e  invigilarne  sopratutto  l'amministrazione  delle  finanze.  Ma 
ciò  non  avvenne  tanto  per  effetto  di  una  nuova  tendenza  del  governo 
a  limitare  l'indipendenza  dell'amministrazione  comunale,  quanto  perchè 
i  cittadini  aveano  cominciato  a  schivare  i  gravosi  uffici  pubblici,  e  i 
comuni,  a  sperperare  le  loro  entrate.  Solo  più  tardi  il  moltiplicarsi  di 
simili  delegati  con  funzioni  varie  fu  la  conseguenza  dell'essersi  l'Impero 
allontanato  dal  concetto,  che  ne  avea  avuto  il  fondatore,  "e  il  prin- 
cipio di  quella  trasformazione,  a  cui  andò  soggetta  la  città  di  Roma. 

Roma  capitale  deirimpero. 

Posta  sulle  rive  del  Tevere  e  su  colli  agevolmente  fortificabili»  a 
breve  distanza  dal  mare,  tra  le  vaste  e  fertili  regioni  del  Lazio,  dell'Etru- 
ria  e  della  Sabina  e  su  quel  fianco  della  penisola  ove  abbondano  golfi 


504  Ettore  de  Ruggiero 


e  porti,  Roma,  chiamata,  dopo  la  rovina  di  Cartagine  e  poi  dopo  l'unifi- 
cazione dell'Italia,  a  divenire  la  prima  città  commerciale,  militare  e  po- 
litica, non  avrebbe  potuto  realizzare  questo  suo  destino,  se  lo  Stato  non 
avesse  assunto  su  di  sé  tutta  o  la  parte  principale  della  propria  ammi- 
nistrazione. Questa  concezione  ebbe  chiara  ed  alta  Augusto,  il  quale, 
inalzandola  a  capitale  d'Italia,  creò  insieme  il  vero  Stato  romano.  Augu- 
sto trovò  il  comune  di  Roma  quasi  sprovvisto  di  tutto  quanto  occorreva 
a  talfine.  Esso  o  non  avea  inteso  i  nuovi  suoi  bisogni,  o  piuttosto 
non  aveva  saputo  adeguatamente  provvedervi,  valendosi  dei  suoi  magi- 
strati —  consoli,  censori,  pretori  ed  edili  —  o  questi,  incaricati  di 
molteplici  funzioni  militari,  giudiziarie  e  amministrative,  non  riuscivano 
con  intensa  cura  ad  attendervi.  E  come  alla  mancanza  di  una  flotta 
militare  stabile.  Augusto  sopperì  col  creare  le  due  armate  di  Miseno 
e  di  Ravenna  per  la  difesa  dei  due  litorali,  e  indirettamente  della  capi- 
tale d'Italia,  così  del  pari  raccolse  nelle  sue  mani,  cioè  del  governo 
rappresentato  dai  suoi  delegati,  i  servizi  pubblici  più  importanti  :  l'am- 
ministrazione annonaria,  riordinandola  ed  allargandola,  come  era  neces- 
sario per  una  popolazione  di  oltre  un  milione  di  abitanti  ;  quella  delle 
vie,  che  attraverso  la  penisola  mettevan  capo  a  Roma,  e  quindi  ne 
agevolavano  il  traffico,  la  sicurezza,  l'incremento;  quella  degli  acque- 
dotti, provvedendo  così,  non  solo  alla  migliore  manutenzione  dei  già 
esistenti,  ma  anche  alla  costruzione  dì  nuovi,  sicché  mano  a  mano  da 
quattro,  quanti  ve  n'erano  nella  Repubblica,  essi  si  accrebbero  ad  undici 
nell'Impero  ;  la  cura  degli  edifici  pubblici  d'ogni  specie  da  conservare 
e  da  costruire  e  insieme  la  tutela  del  suolo  pubblico  contro  ogni  abusiva 
occupazione  dei  privati;  da  ultimo  il  servizio  degli  incendi,  affidandolo 
ad  un  corpo  di  vigili  militarmente  ordinato,  a  cui  male  attendevano 
nella  Repubblica  schiere  di  schiavi  assoldati. 

Tiberio  seguì  le  orme  del  padre:  a  lui  si  debbono  da  una  parte 
la  creazione  di  un  ufficio  speciale  del  Tevere,  inteso  a  renderne  più 
agevole  la  navigazione  e  a  tutelarne  le  rive,  dall'altra,  l'istituzione  di  un 
prefetto  della  città,  investito  tanto  della  polizia,  quanto  della  relativa 
giurisdizione  penale  e  civile,  come  pure  del  comando  di  un  corpo 
militare,  le  coorti  urbane.  La  suddivisione  della  città  in  quattordici  re- 
gioni, aggiungendosi  alle  quattro  antiche  i  sobborghi  del  Campo  Mar- 
zio, dell'Aventino  e  parte  del  Transtevere,  anch'essa  augustéa,  che 
pure  non  sembra  abbia  avuto  uno  scopo  amministrativo,  dimostra 
però  quanto  Roma  già  prima  di  allora  fosse  cresciuta  di  abitanti  e  di 
edifici. 

A  queste  riforme  si  accompagnarono  svariate  opere,  dirette  a  ren- 
dere la  città  degna  del  suo  nuovo  destino.  Queste  opere  valsero  a  fa- 
vorire la  coltura,  specialmente  le  arti,  arricchendola  di  innumerevoli  e 


Lo  Stato  e  la  città  capitale  nel  mondo  romano  505 

Splendidi  monumenti;  a  tener  vivo  nel  popolo  i!  sentimento  religioso 
e  patrio;  a  rendervi  più  copiosi  i  luoghi  di  spettacpli,  di  convegni  e 
di'  ricreazione,  piìi  comoda  e  dilettevole  la  vita,  meno  disagevole  il 
traffico,  e  così  via.  E  anche  qui  ci  si  presenta  come  principale  autore 
e  fautore  lo  stesso  Augusto,  il  quale,  ripigliando  i  grandiosi  piani  di 
Cesare,  rimasti  inattuati  per  la  morte  di  lui,  e  parte  conducendoli  a 
termine,  parte  eseguendone  dei  propri,  anche  in  questo  rispetto  si 
affermò  nella  storia  come  fondatore  di  Roma  quale  città  capitale  del 
mondo. 

In  ciò  egli  non  fu  punto  eguagliato  da  nessuno  dei  successori, 
che  fino  ad  Adriano  alcuni  di  essi  poco  aggiunsero  a  quanto  egli 
avea  fatto,  e  dopo  gli  Antonini,  si  può  dire,  comincia  la  inerzia 
nelle  costruzioni.  Si  videro  quindi  per  la  prima  volta  sorgere  in  Roma 
scuole  e  biblioteche  pubbliche,  nuovi  tempii  dedicati  a  divinità  nazio- 
nali e  straniere,  archi,  ricordanti  vittorie  famose  riportate  sul  nemico 
e  superbi  trionfi,  teatri  ed  anfiteatri,  basiliche  e  terme,  portici,  giardin  i 
pubblici,  fontane.  Molte  delle  vecchie  vie  vennero  rese  più  ampie  e  in 
gran  parte  lastricate,  nuovi  Fori  o  grandi  piazze,  decorati  di  monu- 
menti, furono  aperti  sia  per  istabilire  più  facili  comunicazioni  tra  Tuna 
regione  e  l'altra,  sia  perchè  servissero  quali  mercati.  Nessuna  capita  le 
del  mondo  antico,  insomma,  raggiunse  quanto  Roma  altrettanto  splen- 
dore d'arte,  di  monumenti,  di  magnificenza,  pari  alla  grandezza  e  alla 
potenza  dello  Stato. 

La  fine  di  Roma  capitale. 

Questo  splendore  però,  che  rifulse  nei  primi  due  secoli  dell'Impero, 
cominciò  ad  illanguidire  anche  prima  che  una  seconda  capitale  fosse 
istituita  in  Bisanzio,* e  che  questa  divenisse  emula  dell'antica,  e  di. essa 
più  fiorente  per  lo  sviluppo  maggiore  che  vi  ebbe  il  commercio.  Alla 
decadenza  contribuì  pure  il  fatto,  che,  in  seguito  alle  necessità  della 
difesa  dei  confini  dell'Impero,  qualche  imperatore  abbandonò  Roma 
e  stabilì  la  sede  del  governo  e  della  Corte  in  altre  città,  come  Milano 
e  Ravenna.  Ma,  quanta  al  rinnovamento  attuato  da  Augusto  e  in  parte 
da  Tiberio  nel  campo  amministrativo,  non  fu  certo  un  danno  che  esso 
non  fosse  continuato  immediatamente  dopo  di  loro.  Ripreso  infatti  più 
tardi,  esso  condusse  alla  profonda  ed  esiziale  trasformazione  dell'or- 
dinamento interno  della  capitale,  anzi  alla  sua  fine.  Seguendo  un  indi- 
rizzo opposto  a  quello  che  avea  guidato  il  fondatore  del  Principato, 
la  grande  riforma  costituzionale  di  Diocleziano  e  di  Costantino,  mentre 
da  un  lato  inalzava  l'Italia  al  grado  di  una  delle  quattro  Prefetture  del 
pretorio,  in  cui,  nel  secolo  quarto  dell'era  volitare,  venne  suddivisa 


5o^  Ettore  de  Ruggiero 


tutto  l'Impero,  dall'altro,  grandemente  ne  abbassava  la  più  fulgida  e 
gloriosa  città. 

Da  quel  tempo,  cessata  l'Italia  dall'essere  il  cardine  dello  Stato, 
scomparso  perciò  il  carattere  nazionale  del  medesimo,  né  più  esistendo 
la  sua  identificazione  con  Murbs  Roma,  questa  non  poteva  più  continuare 
a  rappresentarne  la  capitale,  e  necessariamente  la  sua  particolare  am- 
ministrazione dovette  essere  adeguata  allo  spirito  di  quella  riforma.  Essa 
non  ebbe  più,  come  l'avea  avuto  fin  dall'orìgine  ntWager  Romanus,  e 
come  l'aveva  ogni  altro  comune,  un  proprio  territorio,  tale  non  essendo 
quel  breve  tratto  che  dalle  porte  si  stendeva  fino  al  primo  miglio,  e 
ancora  meno  la  vasta  regio  urbicaria  o  subarbicaria,  che  allora  s'era 
formata.  Le  antiche  magistrature  repubblicane,  le  quali,  specialmente 
le  supreme,  anche  nell'Impero,  aveano  continuato  ad  amministrare  in- 
sieme la  città  e  lo  Stato,  non  furono  abolite,  ma,  private  di  ogni  potere, 
divennero  semplici  dignità  decorative,  e  ad  esse  si  sostituirono  antichi 
e  nuovi  rappresentanti  dell'imperatore.  Il  senato,  che  come  consi- 
glio di  quelle  magistrature,  avea  preso  parte  ad  ogni  più  impor- 
tante atto  di  governo  di  politica  interna  ed  estera,  spesso  arrogando- 
sene l'iniziativa,  e  che  con  Tiberio  avea  acquistato  anche  il  potere 
legislativo,  non  solo  fu  sostanzialmente  modificato  nella  sua  composi- 
zione, ma  anche  spogliato  di  ogni  effettiva  funzione.  L'antichissimo 
tesoro  della  città  e  dello  Stato,  Vaerarium  populi  Romani,  Sissorbìio  nei 
primi  secoli  dell'Impero  poco  a  poco  dal  fiscus  Caesaris,  più  non 
esisteva  già  prima  di  Diocleziano.  Il  sacrum  aerarium,  sorto  dopo,  era 
uno  dei  tre  nuovi  tesori  imperiali  e,  tranne  il  nome  che  ricordava 
l'antico,  non  ebbe  alcun  rapporto  con  l'amministrazione  cittadina. 
Varca  publica.  Varca  vinaria  ed  altre  simili  casse  speciali,  relative  all'ap- 
provigionamento  della  città,  non  erano  istituzioni  del  comune,  ma  dello 
Stato.  Ai  bisogni  di  quello,  specialmente  rispetto  alle  vettovaglie,  era 
provveduto  con  le  entrate  in  natura  provenienti  delle  provincie  del 
mezzogiorno  d'Italia.  L'istituzione  caratteristica  del  comune  in  genere, 
fondamento  della  costituzione  municipale,  quella  cioè  degli  oneri  per- 
sonali da  compiersi  a  prò'  del  comune  (muncra  personalia),  fu  allora 
per  la  prima  volta  estesa  anche  a  Roma,  in  un  modo  affatto  nuovo,  in 
quanto  che  ad  essi  non  eran  soggetti  i  cittadini  e  coloro  che  vi  aveano 
il  domicilio,  come  era  uso  dapertutto,  bensì  un  gran  numero  di  corpo- 
razioni riconosciute  dallo  Stato.  Cosi  la  riforma  dell'amministrazione 
edilizia,  che  Augusto  seppe  contenere  nei  giusti  limiti  della  necessità, 
conferendo  al  comune  alcuni  più  importanti  servizi  pubblici,  fu  dai 
suoi  tardi  successori  sostanzialmente  alterata  e  guasta,  e  oltrepassò  senza 
misura  quei  limiti.  Roma  ritornò  quindi  ad  essere  un  comune,  però 
di  una  specie  affatto  singolare  e  nuova,  un  comune  senza  un  prò- 


Lo  Stato  e  la  città  capitale  nel  mondo  romano  507 

prio  territorio,  senza  un  proprio  tesoro  e  sopratutto  senza  una  di- 
retta rappresentanza  nella  sua  amministrazione.  La  regina  del  mondo, 
che  ave»  saputo  dare  e  conservare  in  tutti  i  comuni  dell'Impero 
un'autonomia  più  o  meno  larga,  la  vide  a  sé  medesima  tolta,  per  poi, 
dopo  qualche  secolo^  sotto  altra  forma,  cessata  la  romanità  pagana, 
ricomparire. 

Ma  di  quesf  ultima  trasformazione,  qui  sommariamente  accennata, 
sarà  in  modo  particolare  trattato  ad  altra  occasione. 

Ettore  de  Ruggiero. 


L'umanitarismo  razionalistico 
e  Timperialismo  romantico  in  Germania 


r^ 


l  —  Il  cosmopolitismo  tedesco  del  secolo  XVHL 

11  secolo  XVIII  in  Germania  fu  caratterizzato  da  un  sentimento  co- 
mune a  quasi  tutti  gli  scrittori,  che  finiva  per  tendere  ad  un  vero  e 
proprio  cosmopolitismo.  La  ferrea  disciplina  imposta  alla  Prussia  da 
Federico  II,  il  regime  della  caserma  che  aveva  dato  forza  al  brutale 
regno  deirHohenzollern,  quantunque  glorificato  da  splendide  vittorie, 
pure  aveva  ingenerato  come  un  senso  di  disgusto  nelle  anime  più 
elette,  disgusto  che,  da  prima  appena  accennato,  aveva  finito  per  esplo- 
dere in  un  coro  di  proteste.  È  lo  stesso  Treìtschke,  il  moderno  glo- 
rificatore della  grandezza  prussiana,  a  riconoscere  nel  secolo  XVIII 
questo  distacco  delle  più  belle  intelligenze  germaniche  dal  metodo  orga- 
nizzatore prussiano.  Winkelmann,  ebbro  di  bellezza  greca,  essendo  riu- 
scito a  sfuggire  al  regime  feroce,  che  Federico  Guglielmo  I  imponeva 
ai  suoi  sudditi,  inviava  da  Dresda,  ove  era  riuscito  a  rifugiarsi,  le  sue 
fiere  rampogne  contro  la  patria  :  «  Io  penso  con  raccapriccio  a  quel 
paese,  egli  scriveva  ;  su  di  esso  pesa  il  più  grande  dei  dispotismi  che  si 
sia  mai  potuto  sognare;  è  meglio  essere  un  Turco  che  un  Prussiano.  In 
un  paese  come  Sparta  le  arti  non  possono  fiorire,  e,  quando  vi  si  tra- 
piantano, muoiono».*  Né  Federico  Guglielmo  I  poteva  dirsi  un  prin- 
cipe che  disprezzasse  le  lettere,  anzi  egli  si  atteggiava  a  Mecenate  di 
artisti,  e  qualche  volta,  con  un  pizzico  di  vanagloria,  si  reputava,  forse 
anche  troppo,  buon  intenditore.  Però  i  letterati  non  gli  furono  mai 
grati  dei  beneficii,  che  egli  aveva  loro  largito  e  preferivano,  come 
Winkelmann,  esulare,  accontentandosi  di  tirargli  da  lontano  un  bacio 


i  Winkelmann,  BrU/e,  Berlino,  ediz.  1896,  p.  318. 


L'umanitarismo  razionalistico,  ecc.  509 

ed  una  trecciata.  Scrive  Wieland  al  suo  amico  Merck  il  16  maggio 
del  1780:  <  Federico  in. verità  è  un  grand'uomo,  ma  il  buon  Dio  ci 
preservi  dal  piacere  di  vivere  sotto  il  suo  scettro  ed  il  suo  bastone!..  »' 
Lo  stesso  Goethe,  quando,  al  seguito  del  duca  di  Weimar,  nel  1778,  vi- 
sitò Berlino,  non  riuscì  a  nascondere  la  sua  antipatia  per  la  monarchia 
prussiana  e  per  gli  stessi  abitanti  del  paese,  i  quali  gli  fecero  l'effetto 
«di  tante  ruote  senza  volontà».  L'umanità,  così  idealmente  vagheg- 
giata dal  poeta,  alla  vista  dei  Prussiani,  sì  rimpiccioliva;  il  suo  co- 
smopolitismo rimaneva  colpito  e  lo  faceva  pensare  ^lla  grandezza  del 
mondo  dalla  forza,  che  ciascun  uomo  e  quindi  ci^iscuno  Stato,  nei  li- 
miti ristretti  dall'egoismo  monarchico,  è  costretto  a  rappresentarvi.  «  Io 
affermo,  scriveva  egli  a  M."'  de  Stein,  che  non  vi  è  arlecchinata,  né  pagliac- 
ciata di  sorta,  che  sia  così  ributtante  come  il  va  e  vieni  dei  grandi,  dei 
mezzani  e  dei  piccoli  fra  i  sudditi  del  re  Federico  ».^  Weimar  quindi 
doveva  esser  ben  differente  da  Berlino,  se  Goethe  risentì  tanta  impres- 
sione per  il  metodo  brutale  di  governo  degli  Hohenzollern  e  per  la 
mentalità  degli  abitanti.  Weimar,  che  era  il  focolare  di  tanti  poeti,  la 
piccola  città  delle  Muse,  come  si  compiaceva  chiamarla  il  duca,  rap- 
presentava in  quel  secolo,  di  fronte  a  Berlino,  l'individuo  contro  lo 
Stato. 

Questo  atteggiamento  spirituale  e  questi  apprezzamenti  degli  uomini 
più  rappresentativi  della  Germania,  nei  riguardi  della  Prussia,  dimo- 
strano come  l'illuminismo  razionalistico  del  secolo  XVIIl  avesse  com- 
pletamente sopito  qualsiasi  sentimento  di  prepotenza  militare  e  che 
una  specie  di  cosmopolitismo  ideale  formasse  il  fondamento  di  ogni 
teorica  di  Stato.  Solo  la  Prussia  rimaneva  appartata  da  questo- movi- 
mento, che  sembra  a  prima  vista  umanitario,  come .  aquila  rapace 
pronta  a  scagliarsi  coi  sUoi  unghioni  sulla  restante  Germania  per  spez- 
zare la  libertà,  acquistata  a  prezzo  di  sangue  con  la  pace  di  Westfalia, 
e  per  imporre  il  suo  credo.  Il  cosmopolitismo  tedesco  però  non  era 
un'utopia,  come  utopico  fu  nella  mente  di  Gian  Giacomo  Rousseau; 
era  come  una  reazione  al  latinismo  e  come  un'espressione  gelosa  della 
superiorità  teutonica,  non  foss'altro  spirituale,  sull'organizzazione  ro- 
mana,' che  per  il  tedesco  illuminato  di  quel  tempo  rappresentava  il 
trionfo  della  forza  bruta,  non  accompagnata  dalla  luce  dell'idea.  E  di 
rimando,  seguendo  una  stessa  concezione,  si  blaterava  contro  la  Prussia. 

Date  le  tendenze  della  filosofia  umanitaria  del  tempo,  non  si  .com- 
prendeva il  rigore  militare  degli  Hohenzollern,  ed  in  generale  si 
rigettava  il  patriottismo,  che  veniva  considerato  come  un  avanzo  della 


i  Wieland,  Briéfe,  Berlino,  ediz.  1899,  p.  240. 
«  Goethe,  Briefe,  Berlino,  ediz.  1874,  II,  p.  118. 


5  IO  Francesco  Paolo  Giordani 

antica  società  romana,  la  cui  rudezza  i  letterati  tedeschi,  come  già 
dicemmo,  non  arrivavano  a  comprendere,  anzi  biasimavano,  ritenendola, 
dannosa  allo  sviluppo  intellettuale  dei  popoli.  Onde  una  specie  di  con- 
trasto nacque  fra  fa  Prussia  e  la  rimanente  Germania.  L'estetismo  di 
questa  faceva  resistenza  ad  oltranza  al  rigido  militarismo  deiraltrk.  In- 
vano Hamann,  Tamico  di  Herder,  domandava  al  filosofo  prussiano,  che 
erasi  sottratto  alla  «  caserma  di  Berlino  »,  un  pò*  di  patriottismo  prus- 
siano; Herder  rimaneva  sordo  alle  sue  esortazioni.  E  in  un  discorso,  che 
il  filosofo  pronunciò  a  Riga  nel  1764,  e  che  aveva  per  soggetto:  «  Ab- 
biamo noi  ancora  un  pubblico  ed  una  patria  come  gli  antichi?»,  Herder 
ritorna  al  concetto  umanitario  moderno,  contrastante  con  la  prepotenza, 
appoggiata  dalla  forza,  della"  fin  troppo  lodata  Roma.  L'antica  città, 
dice  Herder,  e  la  moderna  società  sono  due  cose  differenti.  Anticamente 
la  prosperità  e  la  grandezza  della  patria  erano  lo  scopo  supremo  dei 
liberi  cittadini.  Non  poteva  esistere  un  interesse  superiore.  Religione, 
morale,  tradizione,  tutto  si  riattacca  strettamente  alla  città,  tutto  pro- 
mana da  essa  e  tutto  perisce,  se  essa  cade.  Perciò  il  patriottismo  è  il 
primo  e  il  più  imperioso  dovere,  (lavanti  al  quale  tutti  gli  altri  cedono, 
e  la  quintessenza  di  ogni  virtù  è  l'amor  di  patria.  Ma  l'Europa  cristiana 
non  può,  né  deve  rassomigliare  alle  repubbliche  dell'antichità.  Il  pro- 
gresso, il  cristianesimo  hanno  sollevato  i  moderni  ad  un  concetto  più 
alto,  all'idea  suprema  dell'umanità.  Seguendo  tali  teorie,  non  è  più 
necessario  il  patriottismo  ;  esso  rimane  come  un'esclusività  degli  anti- 
chi, per  cui  ancora  era  tenebra  la  luce  del  Vangelo.  Ora,  invece, 
l'umanità  sola  può  formare  un'ideale  politico  e  sociale,  ed  il  vero  trionfo 
della  civiltà  si  otterrà,  secondo  il  filosofo,  allorché  verranno  soppresse 
le  barriere  fra  ì  popoli  ed  allorché  ognuno  saprà  riconoscere  la  sua 
patria  solo  nell'umanità.* 

Il  discorso  di  Herder  ha  certamente  un  alto  valore  morale  ed  ebbe 
eco  al  suo  tempo,  sopratutto  in  Germania,  in  cui  veniva  manifestandosi 
tanta  acrimonia. contro  la  Prussia;  ma  le  idee  in  esso  contenute,  ben- 
ché condivise  da  tutti  gli  spiriti  illuminati,  non  solamente  tedeschi,  ma 
anche  europei,  sono  quasi  volute  dalle  condizioni  storiche  del  momento. 
Il  santo  impero  gemanico,  che  pur  manteneva  una  tradizione  classica, 
era  un'ombra  e  non  esisteva  più  che  di  nome:  i  divèrsi  Stati  germa- 
nici, dì  o^ni  grandezza  e  di  ogni  forma,  più  che  tendere  ad  unirsi, 
paventavano  invece  una  solidarietà,  che  avrebbe  senz'altro  compromesso 
la  loro  indipendenza.  Quindi  il  rafforzamento  della  Prussia  ed  il  pa- 
triottismo, in  essa  così  bene  sviluppato,  costituiva  un  pericolo  enorme, 
a  cui  bisognava  resistere  con  tutte  le  forze,  per  mantenere  le  grandi 


1  Herder,  Werke^  III,  pp.  12  sgg. 


L'umanitarismo  razionalistico ,  ecc.  511 

conquiste  spirituali,  sociali  e  politiche,  ottenute  con  la  pace  di  Westfalia. 
Se  non  che  anche  un  certo  tal  quale  spirito  nazionalistico,  sia  pure  in 
mezzo  a  tanto  umanitarismo,  faceva  capolino;  la  grandezza  romana,  così 
magnificata  ed  a  suon  di  tuba  dagli  eroi  di  Tito  Livio  e  di  Plutarco 
era  cosa  troppo  grave,  era  luce  troppo  vivida  dinanzi  a  cui  scompa 
rivano  e  s'annebbiavano  le  magniloquenti  riesumazioni  dì  Enrico  l'Uc 
cellatore  e  di  Arminio  dovute  alla  sagacia  patriottica  del   Klopstock 

Perchè  è  questo,  torniarfio  a  ripetere,  il  carattere  della  cultura  te 
desca  del  secolo  XVIII:  un  astio  mal  rattenuto  verso  il  romanesimo 
una  dimostrazione  quindi  indiretta  che  al  germanesìmo  è  devoluta  la 
missione  di  civilizzare  il  mondo.  Né  lo  stesso  Goethe  disdegna  queste 
idee,  e  negli  Annunzi  di  Francoforte  con  una  frase  sola  sintetizza  tutto 
il  suo  pensiero  :  «  II  patriottismo  alla  foggia  dei  Romani  ?  Che  il  signore 
ce  ne  preservi  !>  E  Schiller,  che  poi  divenne  il  poeta  preferito  dei 
patrioti  tedeschi,  tenea  quasi  contemporaneamente  un  discorso  simile. 
Egli  nel  1789,  all'alba  della  grande  rivoluzione,  scriveva  al  suo  amico 
Koerner:  <  Noi  altri  moderni  abbiamo  un  interesse  che  non  conobbero 
né  i  Greci,  né  i  Romani  e  che  lascia  molto  lungi  da  sé  l'interesse 
patriottico.  Questo  sentimento  non  ha  importanza,  tranne  che  per  le 
nazioni,  che  non  sono  ancora  mature  per  l'adolescenza  del  mondo. 
È  un  ideale  ben  povero  di  contenuto  lo  scrivere  per  una  sola  nazione  ».^ 

Non  é  certo  senza  importanza  il  ricordare  lo  stato  d'animo  della 
Germania  nel  secolo  XVIII,  quando  VAufklaemng  aveva  come  di  getto 
inondato  di  luce  nuova  Io  spirito  tedesco,  che  s'immergeva  in  questo  ba- 
gno salutare  e  che  scherniva  la  Prussia,  rimasta  semplice  spettatrice  di 
un  tanto  movimento  sotto  l'assillo  della  censura  e  la  minaccia  del  ba- 
stone. E  senza  riandare  tutto  il  moto,  che  determinò  un  tal  cambia- 
mento, e  senza  occuparci  della  parte  che  quasi  simultaneamente  vi 
esercitò  l'Inghilterra,  non  bisogna  scordare  che  il  flusso  d'idee  nuove, 
propagatosi  dalla  Francia,  venne  assorbito  con  estrema  facilità  dalla 
rinascente  Germania.  Rousseau  e  Bernardin  de  Saint-Pierre  avevano 
stabilito  che  i  mali  maggiori  della  società,  e  tra  gli  altri  la  guerra, 
provengono  sopratutto  dagli  uomini,  per  effetto  dei  loro  vizi  e  dei 
loro  errori.  Quindi,  se  l'uomo  voleva  rendersi  migliore,  non  aveva  che 
a  liberarsene,  correggendosi  :  «  Tutto  è  bene  ciò  che  esce  dalle  mani 
della  natura;  tutto  degenera  nelle  mani  dell'uomo».  Questa  massima 
celebre  deWEmilio  esprìme,  meglio  dì  qualunque  altra,  l'ottimismo  pro- 
prio della  seconda  metà  del  secolo  XVIII.  Se  non  che  fin  da  questo 
tempo,  i  Tedeschi  sentono  fluttuare  nel  loro  intimo  l'idea,  vaga  da  prin- 
cìpio, poi  sempre  più  precisa,  che  a  loro  soli  sia  assegnato  da  Dio  l'in- 


i  Schiller,  Briefe^  p.  120. 


512  Francesco  Paolo  Giordani 


carico  di  liberare  il  mondo  dalla  piovra  della  conquista,  che  aveva 
tenuto  asservita  l'umanità  dalla  formazione  dello  Stato  romano.  Né  po- 
teva essere  altrimenti:  giacché  Leibniz,  il  profeta  della  razza  germanica, 
aveva  già  previsto  nell'universo  nient'altro  che  ordine  ed  armonia,  ed 
aveva  conciliato  Dio  e  il  male,  la  prescienza  divina  ed  il  libero  arbitrio, 
la  filosofia  e  la  religione,  la  metafisica  e  la  scienza.  Ed  il  pensatore 
prediceva  tutto  ciò  all'uscire  d'un  periodo  tempestoso,  ch'era  durato 
qualche  secolo  ed  in  cui  gli  uomini,  sotto  il  pretesto  della  religione, 
si  erano  sgozzati  fra  loro  tranquillamente.  Leibniz  quindi  malediceva 
alla  guerra,  e  per  le  conquiste  della  pace  di  Westfalia  preannunziava 
un'era  nuova  dovuta  alla  saggezza  tedesca.  Ma  Vungeheure  Vielseitigkeit, 
r«  incredibile  versatilità  »  del  filosofo  non  gl'impediva  nello  stesso  tempo 
di  escogitare  una  politica  coloniale,  che  noi  chiameremmo  essenzial- 
mente imperialistica,  un  disegno  di  conquista  dell'Egitto  sottomesso 
al  re  di  Francia  nel  1672,  e  di  chiarire  l'interesse  speciale  che  avrebbe 
avuto  la  Germania  nel  vedere  la  Francia  lanciarsi  in  conquiste  molto 
dispendiose  di  territori  lontani,  coprendo  tutto  questo  ben  di  Dio 
con  un  certo  orpello  umanitario,  arieggiante  ad  un  vero  e  proprio 
socialismo  di  Stato,  ossia  con  l'organizzazione  di  officine  nazionali  in 
cui  gli  operai  lavorassero  gaiamente  e  persino  con  l'associazione  di 
tutti  i  popoli  nell'intento  d'utilizzare  le  forze  della  natura. 

A  questa  idea  ritorna  Herder,  però  cpn  equivoca  convinzione, 
per  quanto  procuri  d'aggiustarla  alla  Rousseau.  «  Guerra  e  patria  »,  egli 
dice,  «  debbono  scomparire.  Patrie  in  armi  contro  altre  patrie  in  una  lotta 
terribile  è  la  più  grande  barbarie  dell'umanità  ».  Ma  anch'egli  ammette 
poi  le  lotte  pacifiche  nelle  arti  della  pace,  la  rivalità  feconda  dei  po- 
poli per  il  progresso  e  per  la  civiltà.  E  Tinteresse?  Dimenticava  il  fi- 
losofo che  dalla  rivalità  dei  '  popoli  nel  progresso  sorge  l'interesse  e 
che  il  bene  si  muta  in  male,  non  appena  compaia  questa  passione,  fra 
tutte  la  più  bestiale? 

n.  —  Herder  e  la  sua  posizione  intellettuale. 

E  da  Herder  appunto  prende  le  mosse  la  nuova  Germania.  Se 
il  filosofo  s'ispira  a  Rousseau  e  se  gabella  d'umanitarismo  le  sue  idee 
antiprussiane  ed  il  suo  amore  allo  sviluppo  interno  d'ogni  nazione, 
è  la  sua  nazione  che  egli  vuole  sopra  le  altre  prospera  e  grande.  Ma 
fin  qui  noi  non  possiamo  che  ammirare  Herder.  Gli  è  piuttosto  quando 
egli  ricerca  una  spiegazione  storica  dei  grandi  fatti  propulsori  della  ci- 
viltà, che  il  suo  cosmopolitismo  getta  la  maschera  e  fa  intravedere  il  cipi- 
glio del  più  puro  imperialismo.  Se  la  spada  di  Federico  il  Grande  a  lui 
era  sembrata  itigulatrice  d'ogni  nobile  istinto,  pure  egli  non  sembrava 


L'umanitarismo  razionalistico,  ecc.  513 


disdegnare  in  fondo  le  teorie  di  Paolo  de  Holbach,  né  del  tutto  mostra- 
vasi  insensibile  alla  voce  dell'Helvetius.  Niente  in  Herder  della  tolle- 
ranza di  Cristiano  Wolff  e  dell'olimpico  umanitarismo  di  Efraim  Lessing, 
spiriti  avveduti  e  realmente  imparziali,  che  affrontavano  il  problema  del 
miglioramento  dell'uomo,  sollevandolo  al  di  sopra  delle  barriere,  poste 
quali  confini  dei  diversi  popoli.  Herder  fa  parte  della  schiera  di  coloro, 
da  noi  già  in  antecedenza  ricordati,  i  quali  professano  un  cosmopoli- 
tismo convenzionale  e  teorico,  frutto  dell'amalgama  di  tante  idee,  pio- 
vute come  su  campo  sterile,  dall'occidente  d'Europa.  Anzi  Herder  sem- 
bra raccogliere  in  sistema  le  teorie  pullulanti  allora  in  Francia  ed  in 
Inghilterra,  scegliendo  fra  esse  quelle  che  meglio  potevano  rispondere 
al  suo  pensiero,  che,  nella  speculazione  continua  delle  passate  epoche 
storiche,  rivedeva  il  cammino  percorso  dalla  Germania  stretta  sempre 
fra  la  morsa  del  romanesimo.  Così  il  filosofo,  meglio  d'ogni  altro,  insie- 
me con  l'avversione  alla  Prussia,  trova  agio  di  esporre  addirittura  il  suo 
odio  per  la  civiltà  latina,  odio  che  ben  si  mostra  sotto  l'orpello  demo- 
cratico Roussoiano,  con  un  invito  a  ritornare  al  puro  stato  di  natura. 
Quali  cause  hanno  dunque,  secondo  Herder,  inceppato  il  libero 
sviluppo  del  genio  germanico?  I  funesti  effetti  della  Rinascenza:  e  da 
quel  giorno  »,  egli  dice,  «  noi  Tedeschi  abbiamo  tutto  ricevuto  dalla 
mano  dei  Latini,  mentre  essi  ci  prendevano  tutto  ciò  che  noi  ave- 
vamo ».  Ed  ecco  che  il  fanatismo  teutonico,  non  certo  scevro  di  un 
misticismo  involuto,  si  manifesta  in  Herder,  che  a  tal  proposito  rico- 
nosce come  la  Germania  abbia  perduto  nel  cambio.  Sarebbe  stato 
meglio  per  essa,  anche  a  rischio  di  camminare  più  lentamente,  di  se- 
guire la  via  tracciata  dalie  sue  proprie  ispirazioni,  e  sopratutto  sarebbe 
sfuggita,  nel  secolo  XVIll,  alle  influenze  della  civiltà  francese,  avrebbe 
mantenuto  intatto  il  suo  patrimonio  linguistico,  né  avrebbe  sofferto 
che  il  tanto  decantato  Federico  II  non  sapesse,  si  può  dire,  né  vo- 
lesse parlare  altro  che  il  francese.  Era  necessario  quindi  rinsanguare 
e  rispettare  la  lingua  nazionale  per  riparare,  almeno  in  parte,  alle 
perdite,  quasi  irreparabili,  della  Germania.  «Fosse  piaciuto  al  cielo», 
esclama  il  filosofo  con  slancio  in  cui  già  si  manifesta  una  punta  di  acri- 
monia, «  che  la  Germania,  alla  fine  del  medioevo,  fosse  stata  un'isola 
come  la  Gran  Bretagna  !  »  Il  suo  isolamento  sarebbe  stato  una  salva- 
guardia per  la  sua  originalità,  ed  il  male  é  stato  tanto  più  grave  in 
quanto  v'ha  una  differenza  profonda  ed  un'opposizione  realmente  forte 
fra  il  genio  latino  ed  il  genio  tedesco.  Quindi  é  tempo  che  la  Germania 
riacquisti  il  pieno  possesso  di  se  stessa:  «•  Ciò  che  è  passato,  é  passato», 
prosegue  Herder,  «  npn  ne  parliamo  più;  ma  in  avvenire,  battiamo 
la  nostra  strada  e  traiamp  dal  nostro  fondo,  ciò  che  potremo  trarre...  >. 
Se  in  antecedenza  noi  non  avessimo  accennato  al  cosmopolitismo  di 

33  —  Nuova  Rivista  Siorita. 


514  Francesco  Paolo  Giordani 

Herder,  non  sembrerebbe  ascoltare  qui  un  patriota  fortemente  geloso, 
non  solo  dell'inidipendenza,  ma  della  grandezza  del  suo  paese?  Né  a 
questo  si  ferma  V antiromanismo,  se  così  può  dirsi,  di  Herder.  Egli, 
immergendosi  nella  questione  del  linguaggio,  spezza  una  lancia  contro 
le  prerogative  delle  lingue  romanze,  che  da  lui  vengono  considerate 
figlie  del  latino,  a  sua  volta  figlio  del  greco.  Secondo  il  filosofo,  queste 
lingue  derivate  e  di  recente  formazione,  non  possono,  nemmeno  lon- 
tanamente, rivaleggiare  in  nobiltà  col  tedesco,  che  è  lingua  antica 
quanto  il  popolo  che  la  parla  e  che  è  rimasta  sempre  pura.  «  Tanto 
vale  una  lingua,  tanto  vale  una  nazione!  »,  esclama  Herder,  ed  il  concetto 
del  saggio  di  Mohrungen  viene  in  seguito  ripreso  da  Fichte  nel  Di- 
scorso alla  nazione  tedesca,  in  cui  egli,  fondandosi  sulla  comparazione 
delle  lingue,  prova  che  fra  tutti  i  popoli  europei,  i  Tedeschi  sono  il 
più  antico,  il  più  nobile  \d  il  più  esente  da  censura.  Dalla  questione, 
essenzialmente  filologica,  della  lingua,  Herder  passa  a  considerare  la 
questione  politica.  Egli  riconosce  lo  stato  d'abbiezione  in  cui  giace  il 
decrepito  impero,  e  man  mano  il  suo  cosmopolitismo,  del  tutto  teo- 
rico, sfuma  ai  suoi  occhi  e  viene  assumendo  la  forma  d'un  unita- 
rismo, anch'esso  teorico,  ma  in  cui  già  si  contraddistingue  una  più 
precisa  aspirazione  nazionale.  Non  guadagnerà  niente  la  Germania  dal- 
l'unione sotto  lo  scettro  d'un  solo,  ma,  pur  conservando  tanti  centri 
distinti,  nei  quali  possa  liberamente  svilupparsi  l'originalità  dei  diversi 
rami  della  razza,  essa  potrà  addivenire  ad  una  tale  coscienza  di  sé 
stessa,  da  non  sfigurare  nei  rapporti  con  le  altre  nazioni.*  Il  con- 
cetto per  il  momento  è  sempre  pacifico,  ma  quanto  rumore  di  grosse 
guerre  future  esso  racchiude,  mentre  il  Nirvana  delle  evangeliche  aurore 
fra  tutti  gli  uomini  e  della  fraternità  del  Rousseau  s'impicciolisce  e 
assume  contornì  precisi  !  A  Riga,  presso  i  Russi,  a  Strasburgo,  presso  i 
Francesi,  Herder  si  sentiva  a  casa  sua,  come  a  Weimar  e  a  Koenigsberg, 
e,  per  quanto  il  filosofo  di  Mohrungen  non  abbia  ancora  l'esatta  visione 
geografica  di  ciò  che  egli  reclama  come  rivendicazione  nazionale,  pure 
la  teoria,  in  lui  dotto  filologo,  non  fa  velo  al  suo  senso  pratico,  ed 
egli  definisce  nettamente  la  Germania  nella  sua  unicità  di  lingua,  di 
carattere  e  di  tradizioni,  lavorando  con  tutte  le  sue  forze  a  darle  argo- 
mento per  una  futura  grandezza. 

Più  tardi  la  rivoluzione  francese  sembra  orientare  il  pensiero  di  Her- 
der verso  altre  aspirazioni.  Da  principio  egli  accoglie  la  riforma  costitu- 
zionale come  un  vivo  riconoscimento  dei  diritti  dei  popoli,  indi  approva 
la  guerra  che  i  Francesi  sostengono  contro  gl'invasori,  i  quali  arcfi- 
vano  d'immischiarsi  nei  loro  affari;  ma  la  morte  del  re  e   i   delitti 


I  Herder.  Werke,  IH,  p.  112. 


L'umanitarismo  razionalistico,  ecc.  515 

del  Terrore  lo  disgustano;  il  suo  umanitarismo  rimane  scosso;  la  nuova 
tirannide  giacobina  gli  riempie  il  cuore  di  orrore.  L'ideale,  che  egli 
aveva  vagheggiato,  d'una  pace  mondiale,  sia  pure  con  una  certa  pre- 
valenza germanica,  svanisce;  egli  intuisce  che  il  regno  della  forza  è 
sempre  quello  che  ha  ragione  e  che  quei  tali  legami  spirituali,  da  luì 
più  volte  auspicati,  non  bastano  a  mantenere  una  nazione.  Alla  forza 
si  deve  opporre  la  forza,  ed  «  una  nazione  (così  egli  s'esprime)  che  non 
è  capace  di  proteggersi  e  di  difendersi  contro  lo  straniero,  non  è 
realmente  una  nazione,  né  merita  l'onore  di  tal  nome...  ». 

Quanta  lontananza,  in  un  brusco  risveglio,  dal  primitivo  cosmopo- 
litismo, che  ascriveva  a  disdoro  dell'antichità  le  virtù  militari  del  pa- 
triottismo! Gli  avvenimenti  hanno  smascherato  il  filosofo,  ed  egli  è  ridi- 
venuto prussiano.  Né  fu  Herder  il  solo  a  riconvertirsi  così  rapidamente 
per  la  stringente  logica  degli  avvenimenti;  gli  spiriti  illuminati  della 
Germania,  tutti,  si  può  dire,  cosmopoliti  ed  umanitari  in  altri  tempi, 
fecero  un  giro  su  se  stessi  e  furono  d'un  colpo  abbacinati,  ancora 
una  volta,  dal  lampo  della  spada  fiammeggiante  degli  Hohenzollern. 
Fichte,  per  esempio,  cosmopolita  fin  al  1805,  diviene  nel  1806,  dopo 
Jena,  il  più  fervente  dei  patrioti,  pur  non  volendo  in  alcun  modo  ammet- 
tere l'aperta  contraddizione  fra  le  nuove  disposizioni  e  quelle  dell'anno 
precedente. 

Però  1  vecchi  cosmopoliti  tedeschi  rimasero  sempre  antlromanly 
cercando,  per  non  ìsmentirsi,  di  conciliare  il  cosmopolitismo  con  lo  stretto 
sentimento  nazionale  tedesco.  E  da  questa  autonomia,  passata  al  filtro 
delle  speculazioni  filosofiche,  nacque  il  pangermanesimo,  di  cui  Herder 
è  senza  dubbio  il  primo  ed  eloquente  teorico.  Egli  ^esprime  tutto  il 
suo  pensiero  in  un'epistola  in  versi,  che  fu  pubblicata  postuma  nel  1812, 
quantunque,  sotto  il  titolo  de  «La  gloria  nazionale  tedesca ^^  l'avesse 
scritta  fin  dal  1792.  Il  temperamento  del  filosofo,  pure  immaginoso  e 
fantastico,  non  era  capace  di  addolcire  quasi  magicamente  le  verità 
più  crude,  ma  l'idealismo  raffinato,  di  cui  egli  le  sa  rivestire,  dà 
a  questo  squarcio  poetico  il  sapore  strano  di  un  brano  di  storia. 
«  Con  tutte  le  loro  qualità  naturali,  dice  Herder,  sostanzialtnente,  i 
Tedeschi  sono  da  parte  loro  infelici.  11  bisogno  li  opprime  e  la  mi- 
seria li  caccia  fuori  di  casa  ;  la  vedova  di  Lutero  fu  costretta^  a 
limosinare  presso  il  re  di  Danimarca  quel  che  non  aveva  potuto  ot- 
tenere dai  suoi  connazionali;  Keplero  morì  di  fame;  tutti  gli  inven- 
tori, gli  artisti  e  sopratutto  i  lavoratori,  che  si  facevano  esportare  sulle 
rive  del  Misissipi  e  dell'Ohio,  erano  tedeschi  ».  Come  dunque  poteva 
un  tanto  popolo  rivendicare  i  suoi  diritti?  L'antico  cosmopolita  non 
poteva  eccitare  il  suo  popolo  alla  rivoluzione,  ma,  alla  presenza  di 
una  tale  visione  storica,  non  aveva  che  a  consigliare  i  Tedeschi  a  ri- 


5i6  Francesco  Paolo  Giordani 


mettersi  alla  bontà  di  Dio  ed  a  sperare  in  una  giustizia  infallibile:  il 
tedesco  dimentichi  se  stesso  per  consacrarsi  sempre  più  a!  progresso 
dell'umanità,  né  procuri  di  acquistare  potenza  e  ricchezze  per  mezzo 
della  brutalità  e  della  forza.  Per  lui  è  sufficiente  essere  l'educatore 
del  mondo  e  quasi  l'espressione  vivente  della  filosofia  universale. 

Questo  sogno  del  filosofo,  umanitario  e  patriottico  ad  un  tempo, 
conteneva  in  genere  l'idea  che  fu  ripresa  dai  combattenti  contro  Napo- 
leone e  doveva  poi  ritrovare  nel  nostro  secolo  una  fortuna  grandissima. 
Ogni  popolo  per  Herder  ha  su  questa  terra  una  missione  da  compiere, 
ed  è  naturale  che  quei  popoli,  i  quali  oramai  si  trovano  sulla  china  di- 
scendente della  loro  fortuna,  manifestino  la  necessità  storica  di  averla 
compiuta.  È  quindi  implicito  che  le  razze,  che  si  trovano  sulla  curva 
discendente,  debbano  scomparire  dalla  scena  del  mondo,  per  lasciar 
posto  alle  più  giovani,  che  hanno  ancora  da  rappresentare  la  loro  parte. 
<  Noi  tedeschi,  siamo  arrivati  tardi»,  esclama  Herder;  «  ebbene  noi  per- 
ciò siamo  giovani  ed  abbiamo  ancora  da  lavorare,  mentre  altre  nazioni 
entrano  in  un  periodo  di  riposo  dopo  aver  prodotto  tutto  ciò  di  cui 
erano  capaci  >.  E  l'allusione  è  chiara,  che  viene  a  colpire  in  pieno  il 
mondo  latino,  e  particolarmente  la  Francia,  la  quale  nella  seconda  metà 
del  secolo  XVHI,  con  Montesquieu,  Voltaire,  Rousseau  aveva  dato  i 
migliori  frutti  che  potesse  produrre.* 

L'epistola  poetica  di  Herder  fu  il  canto  del  cigno  del  filosofo  e 
segnò  un  mutamento  sostanziale  nelle  sue  idee  primitive.  Fu  proprio 
con  essa  che  il  saggio  di  Mohrungen  tentò  ihconnubio  del  suo  co- 
smopolitismo con  l'ideale  nazionale  tedesco,  e  l'ideale  tedesco  si  confuse 
con  l'ideale  dell'umanità.  Alla  Germania  doveva  essere  riservato  di 
giudicare  l'Europa,  divenuta  cristiana  e  civile  sul  cammino  del  pro- 
gresso. Bastò  questo  amalgama  di  spiritualismo  e  di  praticità  per  acuire 
fé  menti  dei  sopravvenienti  verso  un  miglioramento  e  verso  l'egemonia 
della  razza.  E  Fichte,  come  a  tutti  è  noto,  ne  fece  tesoro:  il  popolo 
per  eccellenza,  o  quanto  dire  il  popolo  privilegiato,  è  già  in  embrione 
nelle  speculazioni  idealistiche,  frutto  della  mente  di  Herder. 

IH.  —  Le  tre  fasi  del  romanticismo  tedesco* 

Le  idee  sparse  dal  filosofo  di  Mohrungen  acuirono,  non  v'ha 
dubbio,  il  nervosismo  tedesco,  che  già  erasi  manifestato  non  ap- 
pena era  apparso  all'orizzonte  l'astro  napoleonico.  Si  trattava  ora 
di  raccogliere  i  frutti  della  propaganda  cosmopolita  e  simpatizzante 


i  Herder,  Werke,  HI,  p.  32L 


L'umanitarismo  razionalistico,  ecc.  517 

coji  la  Rivoluzione,  che  aveva  caratterizzato  Tepoca  di  GoetherC  déll'anti- 
prussiaiiismo  umanitario,  in  fine  misto  e  confuso  con  l'intingolo  pa- 
triottico della  vecchiaia  di  Herder:  bisognava  che  i  due  problemi 
morali  antitetici  si  amalgamassero  per  iscoprire,  nel  risveglio  più  che 
alchimistico,  qualche  vena  d'oro,  foss'anche  impuro,  ma  capace  di  gal- 
vanizzare le  masse  e  di  produrre  un  rovesciamento  dei  valori  estetici 
e  morali.  Fu  questo  il  compito  che  s'impose  il  Romanticismo. 

Non  è  facilmente  comprensibile  il  sistema  tenuto  dalla  nuova 
scuola,  né  si  riesce  sempre  a  isolare  gli  elementi  del  problema.  Molti 
scrittori  hanno  affrontato  la  vexata  quaestio,  ma  anche  i  più  autorevoli 
critici  tedeschi  sembra,  che  a  bello  studio,  o  per  mancanza  di  argo- 
menti, abbiano  sorvolato  sopra  alcune  caratteristiche,  che  a  noi  sem- 
brano di  capitale  importanza. 

Secondo  noi,  il  romanticismo,  è  nelle  sue  origini  appunto  il  pro- 
dotto di  quello  speciale  stato  d'animo  promanante  dall'umanitarismo 
cristiano,  rispondente  all'atteggiamento  della  filosofia  del  secolo  XYIH, 
e  infine  condito  a  più  riprese  del  nazionalismo  temperato  degli  ultimi 
tempi  delia  vita  di  Herder.  Se  non  che  appare  subito  manifesto 
come  quest'ultimo  portato  dell'idealismo  particolaristico  germanico 
prevalga  ^sulle  generali  direttive  del  pensiero  antecedente  e  come 
tosto  si  palesi  la  preoccupazione  di  definire  più  stretto  l'accordo 
tra  i  due  termini,  realmente  contrari.  Federico  Schlegel  ci  manifesta 
chiaramente  tale  preoccupazione,  allorché  cerca,  con  una  bizzarria 
tutta  romantica,  avvicinare  gli  estremi  delle  due  diverse  questioni. 
«Le  tre  grandi  correnti  del  nostro  secolo»,  egli  scrive,  «sono  state 
determinate  dalla  Rivoluzione  francese,  dal  Wilhelm  Meister  di  Goethe 
e  dalla  Dottrina  della  Scienza  di  Fichte  ».  Il  paradosso  dello  Schlegel 
nasconde  però  una  verità,  qualora  lo  s'intenda  come  appunto  Io  scrit- 
tore voleva  che  s'intendesse,  dando  cioè  alla  Rivoluzione  francese  il 
valore  d'un  periodo  storico  nuovo  nella  vita  politica  d'Europa  e  al 
romanzo  di  Goethe,  come  al  sistema  di  Fichte,  il  valore  d'una  rivolu- 
zione, non  meno  importante,  nell'arte  e  nella  filosofia.  Onde  il  primo 
romanticismo,  se  pur  conservò  in  parte  quella  forma  di  opposizione 
al  latinismo,  propria  al  Goethe  ed  ai  suoi  contemporanei,  non  mostrò 
di  voler  abbattere  del  tutto  l'ideale  classico. 

L'ideale  greco  era  rivissuto  nell'ammirazione  sconfinata  dei  dotti 
tedeschi  del  secolo  XVIII  da  Winkelmann  e  Lessing  ad  Herder,  il  quale, 
tanto  per  concludere,  aveva  dichiarato  che  l'ideale  estetico  dei  Greci 
gli  sembrava  il  più  alto  di  quelli  a  cui  potesse  aspirare  l'umanità.  Se- 
guendo questa  teoria,  i  primi  romantici  si  danno  allo  studio  assiduo  dei 
poeti  greci  e  divengono  in  materia  profondi  eruditi.  Le  opere  giovanili 
di  Federico  Schlegel  sono  infatti  queste  :  «  Circa  le  scuole  della  poesia 


5i8  Francesco  Paolo  Giordani 

greca;  Il  valore  artistico  della  commedia  greca;  l  caratteri  di  donne  nei 
poeti  greci  ecc.  >,  ed  egli  poteva  scrivere  al  fratello  che  «  i  Greci 
sono  il  solo  popolo 'che  abbia  veramente  avuto  gusto. artistico  ».  Ma 
la  grecomania,  cosi  definita  da  Schiller,  celava  fra  gli  ardenti  e  giovani 
novatori  romantici  uno  scopo  ambizioso:  essi  erano  persuasi  di  essere 
predestinati  a  fare  rinascere  in  Germania  il  genio  della  Grecia  e  che 
alla  Germania  sola  era  riservato  di  penetrarlo  e  di  possederlo  per 
intiero.  La  Storia  dell'arte  antica  del  Winkelmann  poteva  essere 
di  ciò  una  prima  testimonianza.  E  l'ambizione  del  primo  romanti- 
cismo non  era  altro  che  una  diretta  conseguenza  delle  teorie  di 
Herder:  ambizione  per  ora  dì  carattere  puramente  estetico,  ma  che, 
all'occhio  di  chi  indaga,  sembra  spingersi  anche  più  oltre.  Come  spie- 
gare, infatti,  in  Germania,  fra  un  popolo  essenzialmente  cristiano,  e  che 
si  gloriava  di  aver  fatto  la  Riforma,  un  tanto  feticismo  per  la  Grecia 
scettica  ed  idolatra?  Gli  è  che  i  romantici  volevano  emancipare  la  Ger- 
mania dalFasservimento  letterario  della  Francia,  così  invidiata  ed  ammi- 
rata e  per  raggiungere  un  tale  scopo  essi  risalivano  alle  fonti  antiche, 
già  ispiratrici  dei  poeti  francesi,  con  un  sentimento,  se  meno  poetico, 
certo  piii  scientifico.  L' indagine  sulle  fonti,  fatta  con  tale  criterio, 
avrebbe  dato  il  resto,  che  è  quanto  dire  l'ironia  da  poter  riversare 
sul  predominio  letterario  francese,  i  cui  poeti  trattavano  gli  eroi  e  le 
efoine  del  gran  mondo  ellenico  coi  titoli  di  ^Monsieur^»  e  di  <ii  Ma- 
dame ».  Poi,  raggiunta  che  fosse  una  conoscenza  perfetta  della  vita  dei 
Greci  ;  in  altri  termini,  afferrato  nella  sua  interezza  l'ideale  ellenico,  si 
poteva  questo  unire  a  quello  moderno  :  tale  fu  la  base  dell'estèticismo 
romantico.  «  Gli  antichi  »,  pensa  Federico  Schlegel,  «  sono  senza  rivali 
nella  concezione  e  nella  esecuzione  del  bello  naturale;  l'anima  moderna, 
senza  dubbio,  meno  armoniosa,  ma  più  complessa,  vuole  un'arte  che 
renda  le  sue  debolezze  e  le  sue  grandezze,  le  sue  sconfitte  e  le  sue 
vittorie  morali, e  sopratutto  il  suo  slancio  verso  la  libertà  infinita».*  Ma 
la  forma  vaga  e  tutta  teorica  dell'infinita  libertà  dello  spirito  moderno 
si  restringe  in  seguito,  nella  pratica  tedesca  all'individualismo  proprio 
della  razza,  e  l'impersonalità,  onde  gli  antichi  caratterizzavano  l'opera 
loro  contrasta,  secondo  gli  esteti  romantici,  con  l'arte  moderna  che 
vuole  esprimere,  non  solo  la  natura,  ma  l'c  io  »,  e,  più  ancora  la  sovra- 
nità deir«/(7»  sulla  natura.  In  questa  variazione  della  formula  estetica 
è  già  in  germe  il  conflitto,  negato  da  prima  fra  il  classicismo  e 
il  romanticismo  ed  anche  fra  le  idee  del  secolo  XVIII  e  quelle  di 
Herder,  che  i  nuovi  esteti  si  erano  sforzati  in  antecedenza  a  mettere 
d'accordo.  Da   ciò   deriva  già   un   nuovo   orientamento   deirestetica 


»  Schlegel,  Werke,  p.  436. 


L'umanitarismo  razionalistico,  ecc.  519 

romantica.  La  ragione  del  conflitto  da  principio,  è  puramente  senti- 
mentale :  il  secolo  XVIII  aveva  del  tutto  misconosciuto  l'alta  funzione 
dell'arte,  laddove  agli  occhi  dei  romantici  essa  è  una  religione  o,  per 
lo  meno,  un  culto.  L'estasi  che  produce  un  capolavoro  nell'iniziato 
all'arte  dà,  secondo  i  romantici,  la  sola  risposta  a  tutti  i  problemi, 
che  sembrano  insolubili  alla  nostra  ragione,  onde  coloro  che  dif- 
fondono una  tale  idea,  sono  i  veri  apostoli  dell'avvento  d'una  futura 
civiltà. 

<  Tutti  quelli  che  lavorano  a  coltivare  la  loro  natura  ed  a  comu- 
nicare agli  altri  questa  cultura,  dice  Federico  Schlegel  —  non  è  que- 
sta forse  la  più  alta  finalità  che  l'uomo  si  possa  assegnare  nella  vita?  — 
tutti  costoro  io  li  chiamo  artisti.  Onde  vi  sono  tre  specie  di  artisti.  Gli 
uni  perseguono  il  vero;  gli  altri,  il  bello;  gli  ultimi,  il  bene.  Presso  i 
Greci,  l'insegnamento  del  vero  e  del  bene  non  era  che  una  cosa  sola. 
La  filosofia  dei  saggi  non  era  meno  nella  loro  vita  che  nella  loro 
dottrina.  Gli  uni  vi  si  dedicavano,  parlando  come  Socrate;  gli  altri, 
scrivendo,  come  Platone  ».  Federico  Schlegel,  tutto  pieno  della  sua 
erudizione  ellenistica,  si  ispira,  per  dimostrare  il  suo  asserto,  ai  Greci  ; 
invece  Tieck  e  Wackenroder,  meno  familiari  col  greco,  spostano  nel 
tempo  la  loro  teoria,  e,  pur  mantenendo  identico  il  sentimento,  s'ispi- 
rano al  Medioevo  ed  alla  Rinascenza.  L'ingenuo  artista,  che,  tutto  pieno 
del  suo  ideale  di  bellezza,  lo  traduce  sulla  tela  o  nel  marmo,  con  un 
candore  d'anima  sublime,  in  un  quasi  divino  rapimento  di  tutto  il  suo 
essere,  dà  ai  romantici  la  dimostrazione  che  l'arte  è  una  pura  mani- 
festazione della  divinità.  Ma  a  questo  punto  s'annebbia  anche  il  con- 
cetto di  bellezza  tal  quale  era  apparso  alla  mente  dei  Greci,  il  cui  natu- 
ralismo avrebbe  troppo  scarsa  influenza  sul  pensiero  di  chi  dona 
all'arte  le  essenziali  caratteristiche  del  divino.  Se  l'arte  è  un'astrazione, 
e  se,  astraendo,  sì  giunge  al  concetto  di  divino,  solo  all'artista  è 
deferita  l'immortalità  ed  egli  solo  è  capace  di  guidare  l'uomo  verso  la 
libertà  infinita.  Fra  le  arti  solo  la  musica  è  capace  di  integrarle  tutte; 
essa  è  una  metafisica,  come  più  tardi  dirà  Schopenhauer,  onde  l'ideale 
del  pensiero  umano  non  può  essere  che  una  simfilosofia  (così  barba- 
ramente giudicò  Federico  Schlegel),  in  cui  si  fondono  insieme  la  religio- 
ne, l'arte,  e  la  metafisica  stessa.  Il  secolo  XVIII,  tutto  pieno  del  suo  razio- 
nalismo, non  avea  compreso  una  tale  idealità:  esso  aveva  rigettato  le 
tradizioni,  chiamandole  pregiudizi,  e  la  fede  stigmatizzandola  come 
superstizione.  Il  romanticismo  quindi  reagiva  all'illuminismo  antecedente 
ed  apriva  una  lotta  a  sangue  contro  il  dilagare  delle  cognizioni  scien- 
tifiche, che  disseccavano  gli  animi,  sezionandone  i  corpi.  La  cultura,  dif- 
fondendosi ovunque,  minacciava  di  rovesciare  violentemente  quanto 
di  spirituale  esisteva  nelle  tradizioni,  rendendo  tutto  borghese  e  strap- 


520  Francesco  Paolo  Giordani 

pando  all'aristocrazia  del  pensiero  il  retaggio  che  essa  possedeva  da 
secoli.  La  vita  della  mente  doveva  essere  ancora  ricoperta  d'un  velario 
opaco  verso  cui  doveva  appuntarsi  l'accenno  dei  pochi  privilegiati  che 
erano  stati  dalla  natura  e  da  Dio  destinati  a  penetrarlo.  Di  modo  che  il 
romanticismo  si  fa  banditore  di  un  imperialismo  intellettuale,  in  cui 
però  non  sai  se  scorgere  più  una  affermazione  aristocratica  o  la 
sopraffazione  di  una  tendenza  borghese.  Il  nebuloso,  il  trascendentale, 
o  meglio  l'inconoscibile  hanno  avuto  violati  i  loro  diritti  dai  sezio- 
natori di  cadaveri  e  dagli  affaristi  borghesi;  la  scienza  è  tutta  questione 
d'interesse  a  cui  bisogna  opporre  l'argine  dell'ideale;  la  sete  del  gua- 
dagno soddisfatto  non  è  sufficiente  ad  estinguere  la  sete  dell'anima.  La 
stessa  Riforma  fu  prodotta  dall'interesse  e  ridusse  in  limiti  troppo 
definiti  la  religione,  donata  da  Cristo  in  uno  slancio  sublime  e  mo- 
dificata dalle  prime  comunità  Cristiane,  per  cui  ogni  aspirazione  del 
cuore  si  mutava  in  estasi.  Perciò  tutta  la  liturgia  del  cristianesimo 
primitivo  è  il  prodotto  estetico  di  tale  tensione  d'animo  ed  il  culto 
della  Madonna  è  la  tendenza  più  gentile  verso  il  concetto  della  purifi- 
cazione del  mondo. 

Seguendo  lo  sviluppo  delle  idee  romantiche,  siamo  dunque  arri- 
vati ad  una  nuova  fase,  in  cui  un  imperialismo  intellettuale,  forte  di 
tutte  le  armi  dell'idea,  tenta  di  sopraffare  l'imperialismo  borghese,  fon- 
dato dalla  critica,  mantenendo  senza  interruzione  il  contatto  coi  nemici 
del  romanesimo  e  predicando  lo  sterminio  di  tutti  i  tarli  dell'ideale, 
che  troppo  pomposamente  avevano  preso  il  nome  di  positivisti.  Così 
opina  Federico  Schlegel,  che,  partendo  da  Herder,  generalizza  le  sue 
teorie  e  forma  il  credo  della  nuova  generazione  germanica.  Ormai  i 
romantici  hanno  rotto  ogni  rapporto  con  la  saggezza  prudente,  sia  pure 
personalmente,  utilitarista, dei  loro  predecessori;  la  nuova  scuola  vuole 
e  richiede  il  meraviglioso,  il  pittoresco,  il  fantastico.  Lo  studio  della 
natura  è  opera  di  laboratori!  e  puzza  di  antico.  Ormai  bisogna  librarsi 
sulle  ali  del  sogno  e  domandare  all'irreale  la  soddisfazione  dello  spi- 
rito. Le  leggende  medioevali,  così  piene  di  rude  franchezza,  e  pure  così 
involute  di  una  tepida  atmosfera  ideale,  sono  quanto  di  meglio  si  possa 
richiedere  in  fatto  d'ispirazione.  L'individualismo  feudale  germanico,  da 
cui  sgorgò  la  grande  follia  della  cavalleria  ;  l'epoca  del  sacro  romano 
impero,  con  tutte  le  sue  lotte  e  con  tutte  le  sue  glorie,  non  mai  abba- 
stanza lodate  in  Germania;  tutta  questa  nuova  civiltà,  uscita  dalle  selve 
opache  del  nord  alla  luce  del  sud,  tra  una  fantasmagoria  di  scudi  e 
di  elmi,  tra  un  fragore  rauco  di  sciabole  tra  un  ululato  di  tuono, 
e  innanzi  a  tutti  Arminio  il  vincitore  di  Varo,  il  primo  vindice  del 
germanesimo,  il  tutto  avvolto  nelle  brumose  saghe  scandinave,  poteva 
dar  mezzo  air  imperialismo  intellettuale  romantico  di  trasformarsi,  al- 


U umanitarismo  razionalistico,  ecc,  521 


meno  teoricamente,  in  un  vero  e  proprio  imperialismo  politico.  Tieck 
e  Wackenroder  aprono  la  nuova  fase  con  il  romanzo  di  SternbM.  <  Il 
libro  è  divino  »,  scrive  Federico  Schlegel,  «  ed  è  poco  chiamarlo,  fra 
tutti,  il  migliore  che  abbia  scritto  Tieck.  È  il  primo  romanzo  che  sia 
romantico  dopo  Cervantes,  ed  io  lo  metto  molto  al  di  sopra  di  Wilhelm 
Meister  ».  Ed  è  questo  il  primo  colpo  che  Goethe  riceve  nel  suo 
Olimpo  dagli  stessi  Tedeschi,  i  quali  oramai,  affinandosi  l'estetica  del 
romanticismo,  vengono  restringendo  il  loro  ideale  umanitario  e  si  guar- 
dano dattorno  per  ricercare  in  se  stessi  qualche  cosa  che  valga  a 
soddisfare  il  loro  individualismo  :  Tombra  di  Herder  aleggia  fra  loro. 
Wackenroder  restringe  ancora  più  un  tale  ideale;  a  lui  sembra  che  il 
cenacolo  romantico  sia  troppo  vasto,  egli  vuole,  spingendo  più  oltre 
il  suo  idealismo,  che  pochi  privilegiati  si  assidano  al  convito  del- 
l'arte: quelli  soli  che  siano  in  grado  di  comprenderla  e  di  gustarla, 
ossia,  in  una  parola,  gli  aristocratici  del  pensiero,  che  non  sono,  che 
non  possono  essere  altro  che  tedeschi,  i  quali  da  soli  sanno  opporsi 
al  razionalismo  invadente,  che  ha  caratterizzato  il  secolo  XVIII  e  che 
ha  prodotto  la  grande  Rivoluzione.  Leggete  il  brano  su  Alberto  Durer, 
che  apre  \t  Fantasie  sa  rarte,  e  là  troverete  la  protesta  più  chiara 
d'un'anima  avida  di  fede  e  di  dolci  emozioni  contro  la  fredda  e  pre- 
suntuosa saggezza  dei  filosofi  materialisti.  «  Vi  è  »,  esclama  Wackenro- 
der, <  e  vi  sarà  eternamente  un  abisso  incolmabile  fra  le  analisi  dello 
spirito  e  le  emozioni  del  cuore  ». 

Ma  lo  spiritualismo  di  Wackenroder  rimase  sempre  teorico;  man- 
cava la  pratica  manifestazione  che  annebbiasse  ancor  più  l'astro  troppo 
fulgente  di  Goethe.  Novalis  tentò  la  grande  prova  ntW Enrico  di  Ofter- 
dingen.  «Goethe»,  egli  scrive,  «è  un  poeta  troppo  pratico;  le  sue  opere 
mi  fanno  pensare  agli  articoli  di  fabbricazione  inglese.  Egli  ha,  come 
gli  Inglesi,  un  gusto  naturalmente  economico,  e  Wilhelm  Meister  è 
un'opera  prosaica.  L'elemento  romantico  ne  è  assente,  e  con  esso  la 
poesia  della  natura  ed  il  meraviglioso  ».  E,  concludendo,  il  Novalis 
esclama:  «  Wilhelm  Meister  è  in  realtà  un  Candido,  diretto  contro  la 
poesia...  ».  Quanto  cammino  percorso  nel  breve  giro  dì  alcuni  anni!  Prima 
i  romantici  s'erano  sdilinquiti  in  lodi  continue  per  Goethe  ed  ora  ne 
rigettano  le  formule  artistiche.  Ma  il  fenomeno  è  ^più  psicologico  che 
estetico.  Le  teorie  di  Herder,  a  cui  seguirono  quelle  di  Fichte  e  di 
Schleiermacher,  hanno  prodotto  il  miracolo.  L'ideale,  da  universale,  è 
divenuto  individuale,  jSarticolaristico  ;  l'umanità,  già  veduta  attraverso 
la  lente  del  cosmopolitismo,  s'è  ristretta  e  si  agita  solo  nella  nuova 
Germania,  e  l'aristocrazia  intellettuale,  di  cui  ora  si  parla,  non  è  altro 
che  il  principio  dell'imperialismo,  già  affermatosi  vittorioso  nella  lotta 
contro  Napoleone.  Il  mondo  è  di  pochi  e  di  quel  pochi  che  riescona 


522  Francesco  Paolo  Giordani 

a  capire  la  portata  dell' idealismo  romantico,  in  cui    eia  distinzione 
della  poesia  e  della  filosofia  non  è  che  apparente». 

Wilhelm  Màster  di  Goethe,  Sternbald  di  Tieck  ed  Enrico  di  Of- 
Urdingen  del  Novalis,  sono  dunque  le  tre  tappe  del  romanticismo, 
come  anche  sono  i  tre  caposaldi  dell'ascesa  dell'  idealismo  tedesco,  in 
cui  per  gradi  va  trasformandosi,  anche  attraverso  saltuarie  polemiche, 
e  finisce  poi  col  disparire,  il  concetto  dell'ideale  umano.  Ma  quelle 
tre  fasi  hanno  un  grande  interesse  nell'ulteriore  sviluppo  della  razza,  in 
quanto  che  per  il  tramite  del  razionalismo  umanitario  del  secolo  XVIII, 
per  le  angoscie  della  Rivoluzione  e  per  il  cataclisma  napoleonico,  ap- 
plicano, anzi  seminano  nella  Germania  l'idea,  già  espressa  da  Herder, 
che  il  popolo  tedesco  sia  il  popolo  privilegiato  e  che  dai  pochi  aristo- 
cratici del  pensiero,  antesignani  d'un  grande  e  futuro  movimento,  si 
possa  aspettare  il  verbOy  che  dovrà  rigenerare  il  mondo  decrepito. 

Come  l'arte  greca  è  stretta  in  intima  solidarietà  con  la  filosofia 
di  Platone  e  di  Aristotele,  cosi  il  romanticismo,  secondo  lo  Schlegel 
ed  i  suoi  amici,  doveva  avere  il  merito  di  spiegare  il  legame  che  unisce 
l'arte  del  Medioevo  e  l'arte  moderna  nello  sviluppo  del  pensiero  umano, 
dopo  il  Cristianesimo.  O,  se  m'è  possibile  ridurre  in  termini  minori 
l'asserto,  ciò  è  quanto  dire  che  il  romanticismo  doveva  essere  l'afferma- 
zione del  germanesismo  cristianizzato,  sia  pure  innanzi  la  Riforma, 
contro  il  paganesimo  romano,  pallido  riflesso  d'ìtn  ideale  già  tramon- 
tato: l'ideale  greco. 

Francesco  Paolo  Giordani, 


RflZIQHaLiSiHO  E  STOHIEISIHO 

{Rapporti  di  pensiero  fra  Italia  e  Francia  avanti  e  dopo  la  Rivoluzione  francete) 

{Continuazione  e  fine;  cfr.  A.  I,  fase.  I;  li;  IV;  A.  II,  fase.  Il) 


La  naturalità  della  storia  e  la  concUiacione  delle  antitesi 
nella  filosofia  sociale  del  secolo  XIX. 


La  storia  si  fa  da  se,  ha  detto  Vico.  Non  è  un  processo  industriale 
o  meccanico  o  d'improvvisazione;  ma  spirituale,  spontaneo,  contìnuo; 
la  civiltà  non  è  riducibile  in  atti  arbitrarii  né  in  termini  di  creazione 
individuale,  ma  nasce  dalle  disposizioni  naturali  e  dal  lavoro  associato 
delle  varie  attitudini  di  una  nazione;  non  esiste  un  metodo  unico  tra- 
smutabile da  luogo  a  luogo  ;  esistono  delle  facoltà  preordinate  a  pro- 
durre in  un  dato  modo. 

L' intellettualismo  sentimentale  del  Rousseau  e  quello  sensistico  del 
Condillac  avevano  concepito  il  mondo  sociale  come  esteriore  al  pensiero 
umano,  per  assegnare  a  quest'ultimo  una  libera  attività  di  creazione, 
svincolata  dalle  leggi  del  tempo,  che  opera  con  lentezza  e  modera- 
zione. Ma  le  nuove  tendenze  fanno  rientrare  lo  spirito  nella  società, 
attivo  e  passivo  nello  stesso  tempo,  principio  e  fine,  causa  ed  effetto, 
ma  disciplinato  dalla  tradizione.  Un  fatto,  isolatamente  preso,  o  conside- 
rato in  un  dato  momento,  storico  o  preistorico,  non  è  più  il  criterio  asso- 
luto del  vero;  anche  per  la  corrente  guelfa  che  predilige  il  Medio  Evo, 
questo  è  giudicato  colle  norme  del  relativismo,  perchè  nella  restaurazione 
della. Chiesa  si  tiene  conto  dell'atmosfera  democratica  creata  dalla  Rivo- 
luzione. Il  vero,  ha  detto  Vico,  si  converte  col  fatto,  a  poco  a  poco, 
nella  continuità  di  sviluppo  del  genere  umano  ;  come  i  fini  particolari 
diventano  mezzi  a  fini  più  ampi,  per  servire  alla  sua  conservazione. 

Nella  società  non  può  vedersi  adunque,  né  una  formazione  ostile 
allo  sviluppo  delle  tendenze  naturali;  né  un  oggetto  plasmabile  s^nX 


524  Ettore  Rota 


modello  di  teorie  foggiate  a  tavolino:  essa  è  il  campo  d'azione  e  di 
sviluppo  di  tutte  le  facoltà  della  mente  umana,  che  il  tempo  a  poco 
a  poco  dispiega  e  traduce  in  fatti,  normativi  per  l'avvenire. 

Sono  questi  i  principi  fondamentali  del  nuovo  idealismo  storico,  i| 
quale  non  fa  che  aggirarsi  intorno  all'idea  di  sviluppo.  Nel  concetto  di 
determinazione  causale,  entra  il  concetto  della  progressione  qualitativa 
e  del  fine  gradualmente  raggiunto.  La  fede  nelle  possibilità  umane 
passa,  dall'individuo  rivoluzionario,  all'umanità  operante  nel  tempo. 
Dal  processo  storico  si  fa  uscire  tanto  la  conferma  di  una  legge  prov- 
videnziale nel  mondo,  quanto  la  prova  della  rivoluzione  continuamente 
in  atto;  di  un  principio  trascendente,  come  pure  dell'  immanenza 
divina. 

La  conclusione  pratica  è  che  la  natura  non  deve  essere  violen- 
tata; che  i  popoli  hanno  diritto  alla  propria  indipendenza;  che  lo  Stato 
non  deve  esercitare  pressioni;  che  l'individuo  non  deve  imporsi  all'in- 
dividuo; che  la  libertà  deve  essere  un  metodo  universale;  che  la  rivo- 
luzione circola  dal  pensiero  alle  cose  e  dalle  cose  al  pensiero  ;  che  il 
domani  è  consanguineo  dell'oggi;  che  l'avvenire  è  contenuto  nel  pas 
sato.  Questa  filosofia  sociale  sa  trarre  una  nuova  volontà  di  vita  dalle 
rovine  dell'antico  regime  e  dalle  sconfitte  della  Rivoluzione:  essa  ria- 
nima il  mondo,  avvilito  e  stanco,  coli'  idea  di  una  cooperazione  univer- 
sale ed  esterna,  che  viene  all'  uomo  inconsapevolmente  dalla  storia  ;  essa 
concilia  le  contraddizioni  della  realtà  coU'ottimismo  dialettico  che  scopre 
la  razionalità  dell'  irrazionale,  che  nel  male  ravvisa  la  condizione  di  un 
bene  successivo,  che  coordina  il  tutto  in  uno,  che  mira  ad  affermare 
il  concetto  dell'unità  di  legge  nella  natura,  nella  società,  nello  spirito, 
immedesimando  la  logica  della  storia  colla  logica  del  pensiero. 

La  natura  non  è  più  interpretata  nel  senso  fisico,  del  Système  de 
la  nature^  che  non  ammette,  se  non  soggettivamente,  la  distinzione  fra 
ordinato  e  disordinato,  tutto  reputando  necessario  allo  stesso  modo;  ma 
in  un  senso  teleologico,  come  un  sistema  ordinato  secondo  la  regola 
dei  fini.  Questa  interpretazione  si  ritrova  nella  filosofia  del  movimento 
collettivista  come  in  quella  della  rinascenza  cattolica:  diverso  è  il  fine 
preposto  alla  realtà;  ma  questa  possiede  un  proprio  principio  attivo, 
che  imprime  al  suo  sviluppo  una  data  direzione.  Saint-Simon,  seb- 
bene ancora  affezionato  alla  morale  del  piacere,  dice  che  una  legge  di 
gravitazione  regola  il  moto  degli  spiriti  verso  un  punto  comune  di  perfet- 
tibilità; Fourier  opina  che  come  l'attrazione  universale  regola  il  mondo 
fisico,  così  l'attrazione  passionale  ordina  il  mondo  sociale.  Cousin  vede 
nella  storia  il  riflesso  della  ragione.  Mazzini  e  Lamennais  concepiscono 
tutto  r  universo  dominato  da  una  solidarietà  di  amori  e  di  sacrifici,  che 
unisce  il  mondo  alle  creature,  queste  tra  loro  nell'umanità,  e  l'Uma- 


Razionalismo  e  Storicismo  525 

nità  a  Dio/  Anche  questo  misticismo  è  aggrappato  alla  storia,  esprime 
il  bisogno  di  afferrare  nella  realtà  Tessere  ideale,  di  eliminare  le  con- 
traddizioni dell'esistenza,  di  richiamare  Dio  dal  suo  esilio,  contro  i  pochi 
che  ancora  tentano  di  rinchiudere  Io  spirito  nelPorizzonte  sensistico. 
Questo  bisogno  è  europeo.  Maggiormente  sentito  e  più  efficace- 
mente espresso  in  Francia  ed  in  Italia,  che  avevano  insieme  sperato 
e  sofferto.  Fra  esse  vi  è  la  più  intima  rispondenza  spirituale.  De  Musset 
e  Leopardi  esprimono  una  eguale  nota  di  disperazione.  Le  loro  pagine 
danno  ì  brividi  di  una  melanconia  autunnale.  De  Maistre  e  Rosmini 
accendono  una  stessa  fiamma  divina.  Mazzini  e  Lamennais  portano 
alla  più  alta  significazione  ideale  la  vita  dell'Umanità  dietro  il  concetto 
sublime  dell'unità  morale  dell'universo  politico. 

La  corrente  mistica.  Giuseppe  Mazzini. 

Le  varie  correnti  storiciste  prendono  in  Francia  tre  forme  princi- 
pali, costituite:  dai  filosofi  del  cattolicesimo;  dai  filosofi  dell'associa- 
zione; dai  filosofi  dell'esperienza. 

Il  loro  pensiero  ha  potentemente  agito  sulla  vita  spirituale  del- 
l'Italia  nuova. 

La  scuola  cattolica  francese  dice  che  l'uomo  fuori  della  società  cessa 
di  essere  una  potenza  viva,  e  che  per  ciò  non  devesi  guardare  all'  in- 
dividuo, ma  al  consorzio;  non  alla  ragione  singola,  ma  a  quella  che 
si  convalida  del  consenso  universale  :  ossia,  la  verità  riposa  nella  Chiesa, 
che  è  tradizione  perenne,  e  che  vive  in  comunità  col  popolo  e  con  Dio. 

Lamennais,  colla  critica  della  ragione,  ha  affermato  l' incapacità  di 
questa  alla  conoscenza  del  vero  ;  il  libero  esame  porta  scetticismo  ;  le 
vedute  personali  cozzano  fra  loro,  e  dall'urto  nasce  il  dubbio;  la  legge 
della  conoscenza  va  riposta  nel  consenso  unanime.  Dunque  bisogna 
rifarci  al  cattolicìsmo  che  è  ragione  universale  per  eccellenza;  e  poiché 
il  vero  non  è  nell'individuo  uno,  così  il  governo  del  mondo  riposerà 
sul  volere  del  popolo,  protetto  da  Dio.  Fuori  della  Chiesa  non  è  luce 
di  vero,  e  fuori  del  popolo  non  è  speranza  di  bene.  Questo  è  pure  il 
principio  dei  Lamennesiani  d'Italia:  Alessandro  Manzoni,  Gino  Cap- 
poni, Raffaello  Lambruschini.* 

Naturalmente  essi  accennano  più  alla  Chiesa  dei  primi  tempi  che 
alla  Chiesa  degli  ultimi  secoli;  la  vogliono  restaurata  in  Cristo  per  il 


1  Carlo  Cantimori,  Saggio  sull'idealismo  di  Giuseppe  Mazzini,  Faenza,  1904. 
p.  293. 

*  S.  Reinach,  Orpheus,  Voi,  II,  p.  744  ;  Antonio  Anzilotti,  Dal  neo-guelfisma 
ali*  idea  liberale,  in  Nuova  Rivista  Storica,  Anno  I,  fase.  Ili,  pp/388  e  stsz 


526  Ettore  Rota 


trionfo  civile  delle  massime  evangeliche:  carità,  uguaglianza,  associa- 
zione universale  del  genere  umano.  Qualcosa  hanno  preso  dai  gian- 
senisti di  Francia,  di  cui,  anzi,  rappresentano  gli  ultimi  seguaci.  È  nota 
l'azione  di  Port  Royal  sul  Manzoni.^ 

Ma  nel  concetto  del  Lamennais*  di  salvare  la  religione,  non  già 
a  scopo  reazionario,  ma  per  il  trionfo  del  popolo,  di  cui  .annuncia 
l'avvento  in  uno  stile  apocalittico,  è  già  rinchiuso  ciò  che  il  Mazzini 
espresse  colla  formula  Dio  e  popolo. 

È  stato  detto  che  il  povero  Fantasio  altro  non  fu  che  un  rima- 
sticatore «  in  cattivo  italiano  >  delle  idee  e  dei  sentimenti  del  grande 
francese.^  Ma  l'originalità  consiste  anche  nel  trovare  rapporti  scono- 
sciuti fra  cose  note:  e  tale  fu  il  Mazzini,  che,  dove  altri  vide  un  prin- 
cipio di  lotta,  egli  dimostrò  l'esistenza  di  un'armonia  per  il  raggiun- 
gimento dell'  unità. 

Nel  Mazzini  confluiscono  molti  rivi  della  nuova  corrente  religiosa 
di  Francia  ;  e  Lamennais  non  vi  entra  che  per  una  parte  ;  bisogna  anzi- 
tutto distinguere  il  Lamennais  della  prima  e  della  seconda  maniera. 
L'uno  vuole  la  religione  cattolica  ed  una  Chiesa  col  papa  di  Roma; 
Mazzini  vi  si  oppone;  e  non  crede  già  ad  una  religione,  ma  alla  reli- 
gione, o  meglio  al  sentimento  religioso  dell'Umanità,  e  considera  il  cri- 
stianesimo già  esaurito  nella  propria  funzione  civile.  Il  Lamennais  della 
seconda  fase  si  stacca  dall'autorità  pontificia  e  sogna  quel  cattolicismo 
umanitario,  che  era  pure  negli  intenti  del  Mazzini.  Ma  è  molto  difficile 
stabilire  quali  scrittori  abbiano  maggiormente  cooperato  con  Lamennais 
a  determinare  e  precisare  l'idea  di  identità  fra  filosofia  e  religione, 
e  nessuno  potrebbe  lasciare  in  disparte  Pierre  Leroux.  Senonchè  quella 
idea  il  Genovese  l'ha  succhiata  con  le  prime  lezioni  di  grammatica 
latina;  il  suo  primo  maestro  fu  un  prete  giansenista,  l'abate  Luca  Ago- 
stino De  Scalzi  *  un  patriota  di  stampo  cisalpino,  che  sì  prefiggeva  di 
provare  le  affinità  della  democrazia  coi  principi  della  religione.  Non  è  di 
poco  conto  rilevare  che  l'indirizzo  futuro  del  pensiero  politico  mazzi- 
niano non  discorda  dai  ricordi  che  lo  legano  all'operosità  pratica  del 
suo  più  caro  Maestro,  dal  quale  avrà  anche  appreso  insegnamenti  di 
purissima  morale  evangelica. 

Il  Mazzini  non  più*  discepolo,  ma  libero  studioso,  ha  cominciato  pro- 


i  Dora  Meleqari,  Un  janseniste  au  XIX  siede,  in  Journal  de  Genève,  Ginevra, 
I,  1901. 

*  Saggio  sopra  l*  indifferenza  (1817).  Relazione  in  rapporto  all'ordine  civile  e 
politico  (1825). 

»  Th.  Neal  (Angelo  Cecconi),  Studi  di  letteratura,  Firenze,  1898,  p.  215. 

*  O.  Salvemini,  Ricerche  e  documenti  sulla  giovinezza  di  Q.  Mazzini^  in  Stiuli 
storici,  Voi.  XX,  fase.  I,  1911. 


Razionalismo  e  Storicismo  527 

prìamente  col  subire  l'azione  del  Condorcet.  A  diciassette  anni  egli  aveva 
lasciato  la  fede  dell'infanzia  e  ne  attingeva  una  nuova  ààW Esquisse ; 
era  questo  il  suo  libro  di  intimità  spirituale,  che  talvolta,  leggeva  durante 
tutto  il  tempo  della  cerimonia  sacra. 

Il  principio  di  unità  politico-morale  d'Europa,  confederata  in  libere 
repubbliche,  e  la  fede  nell'avvenire  dell'Umanità  solidale  nel  fine,  fu 
l'anima  del  suo  sistema.  Da  qui  apprese  a  diffidare  del  metodo  di 
Rousseau,  che  studia  l'indole  della  società  fuori  della  società  medesima, 
e  contro  il  quale  affermò  «  che  il  progresso  è  rivelato  dalla  tradizione 
storica,  dalla  scienza  e  dalle  aspirazioni  dell'anima  »^  Apprese  ancora 
a  diffidare  del  Montesquieu,  nella  cui  dottrina  «  del  clima  padrone  asso- 
luto delle  nazioni  »  vide  la  genesi  del  «  materialismo  politico  filosofico  >; 
poiché  essa,  assegnando  ai  popoli  molteplicità  di  fini  da  raggiungere, 
determinava  un  sistema  di  caste  e  di  aristocrazie,  e  quindi  il  trionfo 
del  federalismo  e  del  diritto  individuale,  che  nega  la  solidarietà  nel  cam- 
mino ideale  della  specie.* 

Ma  dinanzi  a  quel  primo  concetto  della  perfettibilità  umana,  si 
presentava  la  questione:  donde  essa  proviene  e  chi  ne  è  causa. 

11  Mazzini  trovò  la  risposta  nel  Cousin,  di  cui  seguiva  febbrilmente 
le  lezioni  famose  del  1828. 

Il  panteismo  dello  Schelling  era  penetrato  in  Francia  con  Hegel,  e 
Cousin  lo  illustrava  lucidamente:  la  storia  riflette  l'azione  di  Dio. sul- 
l'umanità; il  progresso  e  le  epoche  sono  incarnazioni  successive  degli 
elementi  fondamentali  dello  spirito;  la  verità  non  è  chiusa  nei  limiti 
di  un'epoca  sola,  ma  è  una  costruzione  progressiva  e  continua. 

Pierre  Lcroux  introdusse  questi  principi  in  un  sistema  filosofico,  la 
cui  base  era  l'identità  della  filosofia  e  della  religione  (non  ammessa  dal- 
l'eclettismo del  Cousin)  :  queste  hanno  il  medesimo  scopo  e  obbiettivo, 
dice  il  Leroux:  l'ideale  deJla  perfettibilità;  la  filosofia  si  trasforma,  ma 
è  pur  sempre  religiosa;  è  la  religione  sotto  altra  veste;  ì  veri  grandi 
pensieri  che  hanno  agito  sull'umanità  sono  stati  religiosi;  quando  la 
filosofia  sembra  staccarsi  dalla  sua  compagna  gemella,  è  per  raggiun- 
gere un  avanzamento  maggiore. 

Il  Mazzini  prende  l' una  e  l'altra  idea,  del  Cousin  e  di  Pierre  Leroux  ; 
vede  nella  storia  una  «  immensa  epopea  religiosa  »,  e  concepisce  la 
verità  divina  come  uscente  in  progressive  rivelazioni  dal  seno  fecondo 
dell'umanità;  e  definisce  la  storia  umana  «  la  storia  della  religione  pro- 
gressiva dell'Umanità».' 


1  Scritti  editi  ed  inediti,  Roma,  1861-91,  XVI,  23. 
«  Deir  unità  italiana,  1.  cìt. 
5  Scritti,  IV,  238. 


528  Ettore  Rota 


Quando  un  principio  religioso  si  è  sviluppato  per  intero,  inco- 
mincia un'epoca  nuova  con  la  rivelazione  di  un  dogma  più  perfetto.  Le 
idee  sono  tutte  di  Dio  ;  successivamente  rivelate  costituiscono  le  varie 
epoche  del  mondo. 

Rimane  ancora  un  problema  da  risolvere  :  in  quale  modo  V  umanità 
giunge  a  conoscere  il  nuovo  principio  religioso,  che  informerà  l'età 
nascitura. 

11  Cousin  viene  ancora  in  soccorso  al  Mazzini.  A  lui  è  attribuito 
il  merito  di  avere  diffusa  tra  i  paesi  latini  la  teoria  hegelliana  del  genio. 
A  differenza  di  Helvetius,  che  lo  faceva  opera  del  caso,  Cousin  spiegò 
il  genio  come  rappresentante  di  un'idea  chiusa  nel  cuore  delle  molti- 
tudini, e  destinato  a  rivelarla  alle  moltitudini  stesse  da^cui  viene  rac- 
colta. È  la  scintilla  che  ha  condensato  l'energia  elettrica  dispersa  nel- 
l'atmosfera, e  l'ha  restituita,  illuminando  e  risvegliando  It  nuvole  che 
dormivano  nel  cielo  opaco. 

Entro  l'anima  del  Mazzini,  piena  di  mistico  ardore,  in  cui  paiono 
condensati  i  dolori  del  passato  e  le  aspirazioni  del  suo  secolo,  l' idea 
esposta  dal  Cousin  ha  qualcosa  che  gli  parla  di  sé  stesso.  E  la  fa 
propria.  L'uomo  di  genio  è  per  il  Mazzini  colui  che  sente  più  inten- 
samente la  vita  universale,  è  la  sintesi  che  esprime  tutta  la  verità  di  cui 
può  essere  dotata  un'epoca,  e  che  questa  contiene  oscuramente,  in- 
consciamente ;  tale  verità  «  Dio  pone  nel  core  del  pòpolo  e  sotto  il 
cranio  di  un  individuo  potente,  che  la  imbeve  del  proprio  amore  e  la 
trasfonde  in  utile  della  collettività».* 

Il  Mazzini  distingue  il  genio  che  riassume  il  passato,  che  riassume 
il  presente,  che  fa  nascere  l'avvenire  ;  quest' ultimo  è  il  genio  religioso. 
I  geni  sono  «gli  angeli  di  Dio  sulla  terra »;^  le  pietre  miliari  sulla  via 
che  l'umanità  segue;  i  sacerdoti  della  sua  religione. 

Anche  Saint-Simon  si  è  fermato  sulla  dottrina  del  genio  e  ha  propo- 
sto che  alla  sola  intelligenza  sia  affidato  il  governo;  un  potere  spirituale, 
mediante  l'istituzione  di  un  sacerdozio  degli  ingegni,  che  dovrebbe, 
secondo  le  circostanze,  essere  affidato  ora  ai  dotti,  ora  agli  artisti,  ora 
agli  industriali.  Ma  Giuseppe  Mazzini  combatte  questa  forma  di  azione 
pratica  degli  uomini  superiori,  che  presentava  il  pericolo  di  ridare  vita  al 
passato  monarchico  della  Francia  e  di  creare  un  secondo  cattolicesimo 
con  altri  papi  e  cardinali;^  lo  combatte  in  nome  dell'autonomia  spi- 
rituale dell'umanità  e  della  sua  progressiva  divinizzazione:  il  pensiero 


»  ScrittU  IV,  238. 

«  Scritti,  IV f  49;  cfr.  Carlo  Cantimori,  Saggio  sull'idealismo  di  Q.  Mazzini, 
1894,  p.  228;  Q.  Salvemini,  //  pensiero  religioso,  ecc.,  di  G.  Mazzini,  Messina,  1905,  p.  7. 
5  Scritti,  VII,  323, 


Raziofialismo  e  Storicismo  529 


non  deve  essere  imposto  da  un  ordinamento  qualunque  e  da  uria  setta 
di  privilegiati  legalmente  costituita;  l'umanità  deve  liberamente  acco- 
gliere le  idee  che  il  genio  liberamente  getta  nel  suo  seno. 

Donde  verrà  la  formula  dell'avvenire  ?  Quale  l'elemento  nuovo  da 
introdurre  nella  vita  dei  popoli? 

La  Francia  aveva  variamente  risposto  alla  questione;  e  molti  si- 
stemi vide  sorgere  il  Mazzini;  dal  neo-cattolico  Buchez  al  comunista 
Louis  Blanc;  da  Saint-Simon  al  Proudhon.  Tutti  prese  in  esame  e  di- 
scusse; e  da  ognuno  attinse  qualcosa,  sopratutto  dove  trovò  ammessa 
la  necessità  di  emancipare  l'Europa  dalle  vedute  del  secolo  XVIIL 

Ma  alla  scuola  del  Buchez  non  si  sente  affine  ;  il  neo-cattolico  fran- 
cese vide  nella  Rivoluzione  un  prodotto  del  cristianesimo,  e  la  inter- 
pretò come  il  principio  di  un'era  nuova  (di  cui  spettava  alla  Francia 
l'iniziativa),  nella  quale  il  cristianesimo  si  sarebbe  convertito  in  reli- 
gione sociale  e  avrebbe  fatto  realtà  del  Regno  di  Dio  sulla  terra. 

Ma  innanzi  tutto  il  Mazzini  nega  a  priori  la  perennità  di  una  idea, 
che  è  in  antitesi  colla  premessa  delle  rivelazioni  successive;  quindi  con- 
sidera il  Cristianesimo  come  una  religione  esaurita  e  ritiene  assurdo  di 
aggiungere  un  fine  collo  strumento  destinato  ad  un  altro.  11  fine  del 
cristianesimo  essendo  la  salvazione  dell'individuo,  non  poteva  servire 
a  fondare  una  società  credente  nella  vita  collettiva  dell'umanità;^  un 
dogma  non  può  conciliarsi  con  un  principio  4ì  progresso  successivo. 

La  rivoluzione  era  per  il  Mazzini  un  programma  da  svolgere  ;  non 
l'inizio  di  un'epoca  nuova,  ma  l'ultima  formola  di  un'epoca,  della  quale 
Napoleone  aveva  dichiarato  la  morte  a  Sant'Elena;  «  cangiamento  quindi 
del  punto  donde  devono  muovere  i  lavori  dell'  intelletto  >.^ 

In  secondo  luogo  il  Mazzini  non  poteva  tollerare  «  il  pregiudizio 
vergognoso...  in  virtù  del  quale  alla  Francia  sola  apparterrebbe  l' inizia- 
tiva della  lotta  europea  ».^  Questo  non  era  che  un  effetto  del  ricordo 
della  Rivoluzione,  che  signoreggiava  i  pensieri  sull'avvenire,  perchè  era 
il  moto  più  vicino  e  più  gigantesco. 

Àncora  meno  accessibile  alle  aspirazioni  mazziniane  era  la  defe- 
renza del  Buchez  verso  il  papato,  come  a  un  potere  che  le  predica- 
zioni della  democrazia  religiosa  avrebbero  ravvivato  e  ricostituito  ini- 
ziatore d'ogni  futuro  sviluppo. 

Tale  programma  urtava  colla  concezione  del  genio  diffusa  dal 
Cousin  e  fatta  propria  dal  Genovese.  Se  il  segreto  dì  un'epoca  vive 
nel  popolo,  non  potrà  raggiungersi  col  mezzo  di  un  potere  che  non 


1  Scritti,  V,  38. 
»  Scritti,  V,  69. 
3  Scritti,  V,  70  (Deli' iniiiativa  rivoluzionaria  in  Europa,  1834). 

34  —  Nuova  Rivista  Storica. 


530  Ettore  Rota 


esiste  per  diritto  di  popolo,  e  a  cui  il  popolo  nega  l'antico  consenso; 
ira  gli  uomini  e  Dio  non  vi  deve  essere  altra  sorgente  intermedia  di 
vero,  che  non  sìa  il  "genio  affratellato  col  popolo.  Libertà  e  papa,  se- 
condo il  Mazzini,  stanno  in  contraddizione;  ogni  sistema  che  si  leva 
sulle  rovine  del  cattolicesimo  si  pone  al  di  fuori  della  via  maestra. 

Nella  stessa  categoria  collocò  il  sansimonismo,  per  il  suo  ordina- 
mento gerarchico  dell'associazione,  e  perchè  assegnava  a  ordini  diversi 
il  compito  di  influire  sulle  diverse  branche  della  società.  Ma  quel  si- 
stema gli  parve  ancora  schiavo  del  vecchio  utilitarismo  sensista,  rin^ 
novellato  dalla  scuola  del  Bentham.  E,  nella  critica  di  esso,  il  Mazzini 
ripete  le  considerazioni  di  Pietro  Leroux. 

Il  punto  di  partenza  di  questa  dottrina  è  la  massima  possibile  feli- 
cità; è  la  conciliazione  dell'  interesse  individuale  col  generale  ;  la  religione 
dei  sansimonisti  è  la  religione  del  godimento;  essi  non  cercano  d'in- 
nalzare la  terra  al  cielo,  ma  di  far  discendere  il  cielo  sulla  terra  .* 
Carlo  Fourier  agita  la  stessa  bandiera  ;  «  la  felicità  è  intento  alla  vita  ; 
il  dolore  un  segno  di  errore  ;  il  piacere  un  segno  di  verità  ;  l' interesse, 
l'unica  leva  per  raggiungere  l'avvenire  e  riordinare  la  società».*  Il 
Fourier  dichiara  legittime  tutte  le  passioni  umane  e  *  materializza  lo 
spìrito  in  un'abbietta  teoria  di  godimento».'  Orbene,  l'uomo  non  si 
cambia  indorandone  l'abitazione;  non  lo  si  spinge  al  sacrificio  par- 
lando di  compensi  materiali  ;  trascurare  l' uomo  interno  è  voler  sosti- 
tuire la  cornice  al  quadro  ;  il  progresso  sta  nella  coscienza  del  pro- 
gresso, nell'acquisto  di  valori  morali,  in  una  missione  da  compiere, 
in  una  virtù  da  raggiungere. 

Nella  scuola  di  Saint-Simon,  Il  Mazzini  non  trova  che  un  principio 
valevole  per  l'avvenire  ;  l'armonia  tra  pensiero  ed  azione.*  Tutto  quanto 
conduce  all'unità  umana,  sia  pure  l'ecclettismo,  richiama  le  simpatie  del- 
l'ardente Genovese.  E  quelle  parole  egli  scrìsse  sulla  propria  bandiera. 
Così  pure  il  tentativo  di  risolvere  ad  un  tratto  la  questione  religiosa 
e  tutte  le  altre  che  si  agitavano  nell'industria  e  nell'arte,  ponendo  a 
base  un  principio  unico,  sia  pure  falso,  gli  parve  rappresentare  un  passo 
innanzi,  poiché  la  filosofia  aveva  mutilato  l'umana  natura,  trascurando 
che  in  essa  il  tutto  ha  un'origine  sola.  Il  secolo  XVIII  aveva  ecceduto  nel- 
l'analisi; il  secolo  XIX  doveva  fare  la  sintesi  per  ricostruire  l'unità  umana. 

Ma  né  il  Buchez,  né  Saint-Simon,  né  il  Fourier  sanno  suggerire  il 
verbo  nuovo;  questo  viene  dalle  pagine  del  Lamennais. 


1  Scritti,  VII,  313. 
«  Seritit,  VII,  317. 
^  Scritti,  VII,  203. 
*  Scrim,  VII,  307. 


JRazionalisìfio  e  Storicismo  531 


Il  Libro  del  popolo  contiene  tutta  la  teoria  del  e  dovere  >  abbrac- 
ciata dal  Mazzini. 

Il  Lamennais  pone  l'errore  nell'individualità;  la  ragione  conduce 
allo  scetticismo  quand'è  personale,  perchè  essa  passa  da  negazione  a 
negazione,  d'abisso  in  abisso  ;  ma  trova  la  sua  potenza  quand'è  collet- 
tiva; nel  genere  umano  è  dunque  la  guida  dell'intelligenza;  e  nel  con- 
senso universale,  il  vero  ;  ma  il  diritto  è  un  principio  conservatore,  e 
l'ente  individuo  è  una  forza  isolante  che  separa  l'uomo  dall'umanità, 
poiché  reclamare  un  diritto  è  domandare  qualcosa  per  sé.  Dunque  nel 
diritto  non  riposa  la  giustìzia  sociale  ;  questa  invece  dovrà  cercarsi  \v\ 
un  principio  di  solidarietà  il  quale  non  può  essere  che  il  dovere,  an- 
titesi del  diritto. 

Il  consenso  universale  è  la  legge  della  conoscenza  in  metafisica; 
il  dovere  è  la  legge  dell'associazione  nel  mondo  civile;  è  la  legge 
dell'avvenire  umano.  Il  dovere,  dice  Lamennais,  spinge  ciascuno  al  di 
fuori  di  sé,  avendo  per  scopo  il  bene  di  tutti;  compire  un  dovere  è 
fare  qualcosa  dì  utile  altrui.  Il  puro  dovere  è  puro  sacrificio,  ossia  la 
giustizia  e  l'amore  supremo;  l'uomo  non  vive  solo;  egli  non  si  conserva 
all'infuori  dei  suoi  simili;  è  quindi  la  «  famiglia  universale  che  noi  dob- 
biamo continuamente  pensare  di  costituire  »  ;  è  quindi  il  dovere  <  il 
principio  conservatore  della  società». 

Il  Lamennais  si  guarda  bene  dal  negare  l'importanza  sociale  del 
diritto,  ma  lo  considera  inferiore  al  dovere. 

Provare  ora  che  il  Mazzini  svolge  fedelmente  queste  massime,  è 
superfluo.  Egli  vede  dovunque,  nel  suo  tempo,  discordia  e  scissura;  ne 
assegna  le  cause  alla  filosofia  rivoluzionaria,  che  ha  creato  la  teorica 
dei  diritti  individuali;  ne  addita  i  rimedi  nella  teorica  del  dovere  e 
dell'Umanità  collettiva.  Eleva  il  dovere  ad  importanza  e  ad  essenza  di 
pensiero  religioso,  dichiarando  che  la  vita  umana  non  è  felicità,  ma 
missione,  sacrificio,  arena  di  battaglia,  martirio  di  ognuno  per  tutti. 
Ed  ecco  completato  il  sistema  del  Mazzini:  il  progresso  è  indefinito 
(Condorcet);  esso  si  compie  per  successive  rivelazioni  divine  (Leroux, 
Reynaud,  Quinet),  diffuse  dal  genio  sulle  moltitudini  e  da  queste  sugge< 
rite  (Cousin)  ;  la  legge  nuova  sorgerà  quando  il  popolo  si  sentirà  as^ 
sodato  in  un  solo  pensiero,  e  questa  unità  ideale  deve  essere  il  fine 
supremo  dell'esistenza;  ma  l'unità  può  nascere  solo  dalla  scuola  del 
dovere  (Lamennais) ;  dunque  la  vita  è  una  missione;  la  norma  di  tale 
missione  ha  un  termine  nella  collettività,  e  la  cooperazione  generale 
è  la  leva  del  mondo. 

Ed  il  problema  dell'oltretomba?  Non  è  difficile  comprendere  che 
tale  sistema  ha  il  suo  complemento  nella  dottrina  della  metempsicosi. 
Leroux  e  Reynaud  hanno   accettato  ciò  che  era  una  conseguenza 


532  Ettori  Rota 


logica;  l'indefinita  perfettibilità  umana  richiede  la  possibilità  di  succes- 
sive esistenze,  attraverso  le  quali  lo  spirito  progredisce  inalzandosi  a 
Dio  ;  l'umanità  forma  un'unità  reale  che  si  perpetua  nella  riviviscenza 
dello  spirito;  questo  non  ha  il  ricordo  della  vita  anteriore;  è  cambiato, 
e  cambiare  vuol  dire  dimenticare  Io  stato  precedente.  Questo  ammise 
Leroux;  invece  il  Reynaud  credette  in  una  transmigrazione  ad  altri 
mondi.  Fu  di  tale  avviso  il  Mazzini:  «Qui  sulla  terra  siamo  in  con- 
tinuazione dì  viaggio,  provenienti  da  altri  astri  o  pianeti:  non  ce  ne 
risovviene  perchè  siamo  ancora  troppo  in  basso.  Arrivati  più  in  su 
ad  altre  stelle,  ci  si  scoprirà  la  spirale  corsa,  e  gettandovi  su  rocchio 
ricorderemo  il  passato.  Le  anime  morte  ci  sono  vicine,  il  loro  contatto 
è  causa  dei  nostri  slanci  verso  i  sacrifici  >.* 

Che  cosa  rimane  di  proprio  al  Mazzini?  Ancora  tutto,  poiché  la 
sua  forza  e  la  sua  originalità  sono  riposte  nella  fede  istintiva  della 
sua  anima;  e  questa  noti  ITia  creata  nessuno  dei  filosofi  dai  quali  egli 
attinse.  Dimostrate  pure  che  le  dottrine  di  Cristo  erano  già  sparse 
nella  Persia  di  Zoroastro  o  nell'India  di  Budda;  ma  rimarrà  sempre 
intatta  la  figura  di  chi  ha  compiuto  il  sacrificio  sulla  Croce  ;  e  nessuno 
mai  potrà  dimostrare  che  sia  stato  Zoroastro  o  Budda  a  compiere 
l'opera  civilizzatrice  del  cristianesimo  !  On'idea  può  essere  patrimonio 
di  molti  individui  e  di  molti  popoli;  ma  solo  pochi  riescono  a  tradurla 
in  principio  vitale,  poiché  il  suo  valore  pratico  dipende,  piiì  che  da  una 
bontà  intrinseca,  dalla  fede  che  l'accompagna  e  che  essa  sa  esplicare. 
Il  Mazzini  ne  ha  dato  la  prova  personale.  Quando  sulla  sua  anima  e 
scesa  l'ora  tragica  del  dubbio,  il  suo  pensiero  si  è  convertito  in  un 
proposito  di  morte.  La  fede  ha  tanta  parte  nel  suo  sistema  che  quasi 
soffoca  l'elemento  storico  e  l'elemento  razionale.  I  due  termini  sono 
sovrapposti  da  un  terzo,  che  la  Rivoluzione  aveva  soffocato,  ma  che 
poi  ha  restituito  più  fortemente  che  non  fosse  nello  stesso  Bossuet  o 
nel  teismo  vichiano. 

Ma  la  storia  che  è  prossima  al  Mazzini  sembra  essergli  contrària. 
A  lui  ripugnava  di  individuare  in  Parigi  la  funzione  rivoluzionaria  di 
Europa;  ma  in  verità,  il  1830  borghese  ed  il  1848  plebeo  hanno  avuto 
iniziativa  francese. 

Se  la  storia  dei  suoi  giorni  è  contro  Mazzini,  il  suo  sistema  non 
può  risolvere  i  problemi  immediati  del  suo  tempo;  esso  appartiene 
all'avvenire. 

Però  la  condizione  fondamentale  che  egli  ha  posto  alla  reden- 
zione italiana  —  emanciparsi  dalla  Francia  —  non  rimane  un  pensiero 
isolato. 


1  Cfr.  Salvemini,  op,  eit.t  p*  25. 


Razionalismo  e  Storicismo  533 

In  fondo  è  Io  stesso  concetto  del  primato  italico  nel  movimento 
delle  idee  mondiali,  già  posto  dal  Coco,  e  poi  svolto  dal  Rosmini,  col 
proposito  esplicito  di  rovesciare  il  sensismo,  di  sperdere  le  tracce  della 
rivoluzione  volterriana,  di  restaurare  l'impero  del  Cristianesimo. 

Dopo  il  Mazzini  la  stessa  idea  è  sviluppata  dal  Gioberti;  anch'egli 
vuol  fare  della  religione  la  generatrice  della  nuova  esistenza  nazionale; 
dispregia  il  sensualismo,  vagheggia  una  tradizione  idealistica  italiana;  e, 
mentre  il  Mazzini  ha  affermato  la  necessità  di  oltrepassare  l'Enciclo- 
pedia, ma  riconoscendo  l'utilità  dell'opera  sua,  il  Gioberti  si  mette  in 
opposizione  a  tutta  la  Francia  da  Descartes  a  Tracy,  imaginando  una 
Italia  teocratica,  che  era  pure  la  negazione  della  storia  come  l'uomo 
selvaggio  del  Rousseau. 

Ma  i  sistemi  del  Mazzini  e  del  Gioberti  mettono  capo  ad  una  con- 
traddizione ;  la  loro  filosofica  avversione  alla  Francia  è  rappresentabile  in 
politica  dal  principio  del  non-intervento,  che  è  una  stessa  cosa  col 
rispetto  nazionale.  Ma  come  si  concilia  con  quello  di  umanità  a  cui 
il  Mazzini,  in  modo  deciso,  vuole  giungere  superando  l'egoismo  na- 
zionale? 

Dunque  la  dottrina  mazziniana,  che  colorisce  poeticamente  l'ideale 
associativo  di  Saint-Simon,  anziché  allontanare  Titalia  dalla  Francia  ne 
la  spinge  di  nuovo  ! 

La  tendenza  positiva.  Giuseppe  Ferrari. 

Giuseppe  Ferrari  compie  questa  operazione  logica. 

Egli  corre  all'eccesso  opposto  dei  sognatori  di  un  primato  ;  e 
preannuncia,  di  questo  passo,  la  rovina  della  patria.^  Pieno  l'animo  di 
entusiasmo  per  la  novità  e  la  potenza  conquistatrice  del  pensiero  ri- 
voluzionario, afflitto  dalla  intolleranza  dei  neoguelfi,  nei  francesi  vede 
quasi  delle  divinità  scese  sulla  terra;  e  nel  1844  invoca  in  tutta  Europa 
l'intervento  della  nazione  che  ha  proclamato  i  diritti  dell'uomo.- 

Ma,  coi  preparatori  italiani  di  un  nuovo  cristianesimo,  egli  condanna 
quelli  di  Francia;  e  tutta  la  scuola  che  ha  servito  di  ispirazione  al  Maz- 
zini è  violentemente  attaccata.  Saint-Simon  e  il  discepolo  Leroux,  li 
confina  tra  i  nuovi  Millenari.^ 

Il  Ferrari  fa  una  critica  storica  della  politica,  alla  luce  di  questa 
idea  fondamentale:  che  v'ha  una  tendenza  all'utopia  e  una  tendenza 
alla  fredda  osservazione,  ambedue  visibili  fin  dall'antichità,  l'una  in  Pla- 


1  P.  F.  Nicoli,  La  mente  di  G.  Ferrari,  Voi.  I,  p.  85. 

*  'La  philosophie  catholique  en  Italie,  in  Revue  des  Deux  Mondes,  maggio  1844. 

3  Essai  sur  le  principe  et  les  limites  de  la  philosophie  de  l'histoire,  Paris,  1843. 


534  Ettore  Rota 


tone  e  l'altra  in  Aristotile.  E  tra  gli  utopisti  colloca  i  restauratori  della 
tradizione  cristiana,  Demaistre,  Bonald,  Lamennais,  il  cui  ideale  si 
spezza  €  contro  la  realtà  di  questo  mondo,  ancora  fremente  di  tutta  la 
rivoluzione,  che  il  pensiero  ha  dovuto  sostenere  contro  il  pensiero  del 
Medio  Evo  ». 

Il  Lamennais  (Essai  sur  Vindifference)  ha  visto  l'intelligenza  passare 
da  negazione  a  negazione  ;  da  Roma  a  Wittemberga,  da  qui  a  Ferney  : 
cattolicismo,  protestantesimo,  deismo  ;  sempre  in  moto  per  negare,  mai 
per  affermare;  e  allora  proclamò  la  necessità  di  un  autorità  sociale,  di 
una  sottomissione  al  capo  della  cristianità. 

Giuseppe  Ferrari  gli  osserva  :  Se  la  ragione  personale  è  anarchia, 
sorge  il  dilemma:  o  vivere  in  massa  ubbidendo,  o  vivere  individual- 
mente con  libertà;  ma  per  risolversi  ad  ubbidire  bisogna  ragionare;  per 
chiudersi  in  una  foresta,  occorre  pure  fare  atto  di  ragionamento  ;  dun- 
que il  dilemma  è  falso,  e  la  difesa  del  Lamennais  a  favore  dell'autorità 
cattolica  non  è  giusta. 

Ma  lo  stesso  Lamennais  quando  si  trovò  alle  prese  coll'autorità 
diventò  ribelle! 

Il  Ferrari  lo  segue  nella  seconda  fase  delle  e  Paroles  d'un  croyant  >, 
e  con  una  critica  brillante  rileva  i  controsensi  della  sua  equivoca  po- 
sizione di  filosofo  e  di  teologo. 

Il  Lamennais  ha'imaginato  l'autorità  del  genere  umano  in  luogo  di 
quella  pontificia;  ma  la  tradizione  offre  mille  sistemi;  chi  sceglierà  il 
migliore?  Il  Lamennais  si  rappresenta  l'umanità  come  la  manifestazione 
progressiva  di  tutto  ciò  che  è  in  Dio;  ma  questa  veduta  conciliativa, 
dice  il  Ferrari,  crea  due  opinioni  estreme;  da  un  lato  suppone  che 
Dio  ha  voluto  il  male,  dall'altro,  non  lo  scolpa  di  avere  ceduto  ad 
una  fatalità  che  lo  sollecitava  a  produrre  tutto,  senza  risparmiarci  i 
primi  abbozzi  della  creazione.* 

In  quanto  a  Pierre  Leronx,  il  Ferrari  dimostra  che  il  suo  sistema 
è  una  scafa  di  congetture,  di  cui  ogni  gradino  inferiore  è  sempre  più 
debole,  a  partire  dall'idea  del  progresso  indefinito  fino  alla  metempsi- 
cosi, che  funziona  al  tempo  stesso  da  ipotesi  e  da  riprova. 

L'antipatia  del  Ferrari  contro  tutte  le  utopie,  lo  rende  freddo  al- 
l'idea di  una  grande  federazione  mondiale  a  cui  tendevasi,  al  di  qua 
e  al  di  là  delle  Alpi,  con  fede  religiosa;  e  lo  rende  alieno  dalle  affer- 
mazioni assolute;  come  non  riconosce  al  Cousin  la  morte  delle  nazioni 
asiatiche,  così  non  crede  con  Augusto  Comte  che  l'ideale-perfezione 
sarà  raggiunto  dal  mondo  degli  scienziati,  e  contesta  ad  Elvezio  che 
il  genio  è  figlio  del  caso. 


1  Essai,  p.  173. 


Razionalismo  e  Storicismo  535 

La  critica,  che  egli  move  ad  Elvezio,  è  tra  le  più  notevoli  del  se- 
colo e  sì  ricollega  al  suo  sistema  di  filosofia  civile/  che  è  continua- 
zione e  applicazione  del  sistema  vichiano,  già  riabilitato  dal  Cousin. 

Il  Ferrari  tronca  subito  l'opinione  del  francese,  mostrando  che  il 
caso,  avverandosi  sempre  e  solo  in  alcuni  individui,  e  mai  una  sola 
volta  in  un  solo  individuo,  cessa  di  essere  un  caso  e  cade  sotto  il  do- 
minio della  legge!  I  geniì  non  si  fermano  ad  una  scoperta,  ma  ne 
continuano  a  produrre;  e,  pure  ammessa  la  possibilità  di  scoperte 
causali,  v'è  differenza  fra  quest'ultime  e  quelle  del  genio. 

Galvani  non  è  Volta.  Se  il  caso  disponesse  delle  arti  e  delle  scienze 
e  delle  invenzioni,  «  un'indefinita  versatilità  dovrebbe  presentare  l'incivi- 
limento presso  le  nazioni  diverse».  E  invece  «  la  direzione  degli  sforzi 
dell'arte  si  trova  uniforme  presso  le  nazioni  diverse  »,  e  in  tutte  si  no- 
tano in  un  dato  tempo  gli  stessi  traviamenti,  come  prodotti  di  una 
legge  inevitabile».  In  una  parola,  è  facile  intravedere  «  una  legge  generale 
di  gravitazione  delle  menti  che  sbandisce  il  caso  dalla  storia,  una  virtù 
elaboratrice  dell'intelletto  umano  che  coordina  col  materiale  delle  sen- 
sazioni il  mondo  della  civiltà».- 

L'errore  che  il  Ferrari  imputa  ad  Elvezio  è  di  non  avere  «  oltre- 
passato la  superficie  delle  sensazioni,  per  risalire  alle  potenze  elabora- 
trici  della  mente  »  ;  di  aver  considerato  «  gli  atomi  solamente  del  mondo 
intellettuale  ;  quindi  non  è  penetrato  nel  laboratorio  mentale  e  nel  cir- 
colo magico  delle  passioni  ».^ 

Ma  se  la  civiltà  non  risiede  nelle  cose  e  nei  fatti,  sibbene  nelle 
leggi  colle  quali  noi  discipliniamo  le  cose  e  i  fatti,  ne  viene  la  neces- 
sità di  analizzare  ogni  umana  cognizione  nella  sua  genesi  e  nel  suo 
sviluppo,  ossia  «  di  inaugurare  ogni  studio  filosofico  coll'indagìne  psi- 
cologica più  spinta».* 

E  qui  il  Ferrari  si  collega  a  Vittorio  Cousin. 

È  merito  di  quest'ultimo  l'avere  chiarita  in  Francia  tutta  l'impor- 
tanza dell'analisi  psicologica  per  la  conoscenza  del  fenomeno  storico, 
ispirandosi  al  Vico  e  ad  HegeL 

Il  Cousin^  vide  che  la  scienza  della  storia  è  la  rappresentazione 
della  natura,  quale  si  manifesta  nell'individuo  e  nella  specie;  e  che  essa 
pertanto  presuppone  una  coscienza  delle  potenze,  degli  affetti,  delle 


»  O.  Ferrari,  La  mente  di  Q.  D.  Romagnosi,  Milano,  1913,  capitoli  V  e  YH 
(l'opera  è  del  1635). 

«  La  mente  di  Q.  D.  Romagnosi,  ed,  cit.  p.  70. 

3  Ibid.,  p.  105. 

*  Cfr.  Nicoli,  op.  cit.,  p.  38. 

5  V.  sul  Cousin:  Giuseppe  Rensi,  //  concetto  di  storia  della  filoso/latin  Nuova 
Rivista  Storica,  A.  II,  fase.  II  (1918). 


53^  Ettore  Rota 


leggi  fondamentali  dello  spirito  umano;  comprese  che  l'analisi  storica 
può  completare  l'analisi  psicologica  e  ambedue  giovarsi  insieme;  che 
in  ogni  spirito  vivono  le  stesse  idee,  frutto  degli  stessi  bisogni  fonda- 
mentali; che  l'unità  della  civiltà  è  nella  unità  della  natura  umana,  e  la 
sua  varietà  nella  varietà  degli  elementi  di  questa  natura;  e  come  la 
natura  umana  è  la  materia  della  storia,  la  storia  è  il  giudice  della  na- 
tura umana,  e  l'analisi  storica  è  la  controprova  dell'analisi  psicologica. 

Questa  dottrina,  che  sottrae  l'incivilimento  all'arbitrio  di  una  causa- 
lità amorfa  e  lo  deriva  da  leggi  scolpite  nella  costituzione  stessa  del- 
l'uomo (idea  vichiana),  ha  il  suo  complemento  nella  teoria  del  genio 
considerato  il  rappresentante  delle  idee  dei  popoli,  il  condensatore 
delle  aspirazioni  generali,  la  mente  che  riassume  il  lavoro  progressivo 
di  una  generazione. 

Senonchè  il  Cousin  non  è  rimasto  fedele  ai  suoi  principi,  e  nel- 
l'applicazione li  ha  travisati  o  abbandonati  ;  e,  invece  di  considerare  la 
natura  svolgentesi  nella  sua  totalità,  la  suddivide  in  facoltà  diverse  e 
individualizza  il  loro  singolo  sviluppo  in  diversi  periodi  della  storia. 
Studiando  le  categorie  del  pensiero  conclude  che  i  principi  costitutivi 
della  ragione  sono  tre,  l'idea  d'infinito,  di  finito  e  di  relazione,  e  di- 
stingue tre  epoche  successive:  nella  prima  l'uomo  è  compreso  dalla 
idea  dell'infinito,  nella  seconda  acquista  coscienza  della  propria  per- 
sonalità, nella  terza  concilia  gli  estremi.  Qui  il  Cousin  ha  guastato 
Vico  con  Hegel;  lasciando  cadere  la  psicologia  nel  baratro  oscuro 
della  metafisica. 

Giuseppe  Ferrari  ripete  le  grandi  verità  formulate  dal  filosofo  eclet- 
tico, e  muove  dallo  stesso  principio:  che  la  filosofia  deve  procedere 
di  conserva  con  la  storia,  che  la  psicologia  è  unico  fondamento  della 
filosofia  storica,  che  la  storia  è  lo  sviluppo  della  ragione  ;  accetta  la 
teoria  del  genio  e  trae  da  qui  la  sua  dottrina  della  «  gravitazione  uni- 
versale delle  menti  »,  colla  quale  spiega  il  progredire  di  tutte  le  nazioni 
in  una  direttiva  comune  attraverso  la  varietà  dei  costumi  e  dei  climi. 
Le  menti  meditano  sempre  gli  stessi  problemi  ;  a  duemila  anni  di  di- 
stanza, tra  diversi  paesi,  Aristotile  e  Bacone,  Platone  e  Descartes  pos- 
sono riconoscersi  sulla  stessa  via;  l'umano  pensiero  ha  dunque  una 
diramazione  uniforme,  «tutti  gravitano  verso  un  perfezionamento 
unico  >,  e  «il  genio  non  fa  che  precedere  nella  gravitazione  ».* 

Il  Ferrari  vuole  rispettati  questi  principi,  e  rimprovera  al  Cousin 
di  non  avere  considerata  la  natura  nella  sua  totalità,  e  di  avere  visto 
nei  periodi  storici  uno  solo  degli  elementi  costitutivi  del  pensiero,  che 
per  la  loro  natura  universale  e  indivisibile  non  possono  essere  studiati 


1  La  mente  di  Romagnosi,  p.  102. 


Razionalismo  e  Storicismo  537 


separatamente,  e  ognuno  da  popolo  a  popolo.  La  civiltà  orientale  non 
presenta,  egli  osserva,  tutti  i  caratteri  dell'infinito;  Tlndia  forse,  ma 
certo  non  la  Cina;  e  in  ogni  caso,  l'India  monoteista  e  la  Cina  indu- 
striale, non  sono  i  primi  momenti  della  storia;  che  anzi,  nei  primi  st^di 
della  vita  di  un  popolo,  il  primo  prodotto  dell'idea  è  particolare,  po- 
sitivo, e  ben  definito;  ma  anche  posto  il  principio  del  Cousin,  come 
può  dirsi  che  la  Grecia  succede  all'Oriente,  se  quella  è  politeista  e 
questo  monoteista?* 

Il  Ferrari  accoglie  l'idea  che  il  Cousin  prese  da  Herder;  che  Ter- 
rore prepara  la  civiltà,  poiché  la  verità  non  è  chiusa  nei  limiti  di  un 
epoca,  ma  si  svolge  nel  tempo,  ed  esce  dall'errore  come  la  luce  esce 
dalle  tenebre  ;  e  le  epoche  successive  correggono  gli  errori  delle  pre- 
cedenti, sì  che  l'umanità  presentasi  come  un  tutto  organico  in  una 
continuità  attiva.^ 

Analogamente,  il  Ferrari  respinge  la  logica  come  arte  diretta  a 
scoprire  la  verità  e  a  distruggere  l'errore;  contro  la  logica  formale 
continua  la  lotta  intrapresa  dal  Cousin,  illuminando  appunto  la  filoso- 
fia con  la  storia,  e  considerando  la  verità  come  elaborazione  di  sistemi 
ideali  svolgentisi  nel  tempo  ;  l'errore  è  una  verità  incompleta,  è  il  pro- 
dotto di  una  associazione  imperfetta,  di  una  sintesi  difettosa,  in  cui 
non  sono  compresi  tutti  gli  elementi  dell'analisi. 

La  civiltà  dunque  non  è  l'opera  del  caso,  né  delle  pure  sensazioni, 
né  del  clima,  né  dell'individuo  legislatore...;  è  un  succedersi  di  si- 
stemi ideali  progressivi,  ognuno  dei  quali  si  appoggia  al  precedente 
in  forza  del  gravitare  delle  menti  intorno  agli  stessi  problemi;  il  mondo 
delle  nazioni  é  regolato  dai  principi  che  dominano  la  mente  dell'uomo; 
e  perciò  nell'unità  è  la  varietà;  la  storia  consiste  nel  movimento  ge- 
nerale dello  spirito  umano,  ragione,  sentimento,  volere,  attività;  il  pro- 
gresso risiede  nella,  continua  scoperta  di  nuovi  dati,  che  l'esperienza 
scientifica  offre  alla  mente  sintetica;  le  sensazioni  sono  la  materia  prima, 
il  giudizio  e  l'associabilita  sono  le  macchine  elaboratrici  ;  i  sentimenti 
e  le  passioni  trascelgono  tra  la  materia  prima,  ed  eccitano  le  facoltà 
elaboratrici. 

Così  con  Giuseppe  Ferrari  la  filosofia  e  la  storia  si  tendono  la 
mano  per  svolgere  insieme  i  misteri  della  vita  dell'umanità,  e  i  feno- 
meni della  coscienza;  la  storia  diventa  il  microscopio  della  psicolo- 
gia; la  psicologia  una  lente  della  storia.  Questa  è  affermata  nella 
sua  razionalità  e  necessità,  in  nome  della  ragione  concreta,  reale,  al 


»  Essala  ecc.,  ed.  1843,  p.  255. 

*  Tutte  queste  idee  sono  svolte  nelle  sue  lezioni  del  1828. 


538  Ettore  Rota 


di  sopra,  di  contro  alla  ragione   astratta,  incurante   dei  tempi   e   di 
luoghi.* 

Giuseppe  Ferrari  fu  un  ammiratore  del  Vico  ;  ma  i  principi  della 
Scienza  nuova  li  ritrovò  nei  filosofi  d'oltralpe,  che  seguirono  al  crollo 
di  Napoleone,  e  che  avevano  fatto  esperienza,  in  pochi  anni,  di  tutti 
i  sistemi,  di  tutte  le  idee,  di  tutte  le  prove  della  [Dossibilità  umana. 
Perciò  non  potè  che  nutrire  una  sconfinata  ammirazione  verso  un  po- 
polo, che  con  tanta  intensità  di  vita  aveva  rimescolato  il  mondo;  e 
contrariamente  al  Mazzini  fece  propria  la  sentenza  del  Michelet  :  «  La 
Francia  è  il  verbo  d'Europa,  come  la  Grecia  fu  il  verbo  dell'Asia  >. 


CONCLUSIONE. 

A).  Il  pensiero  come  scienza  ed  il  pensiero  come  arte 
ripetono  in  se  stessi  il  dissidio  fra  storicismo  e  razionalismo. 

La  natura  ha  dato  all'uomo  due  bisogni:  la  conoscenza  del  vero 
ed  il  benessere.  L'uno  provvede  alla  sua  struttura  morale;  l'altro,  alla 
sua  conservazione  fisica.  Perciò  la  filosofia  di  tutti  i  secoli  si  è  pro- 
posta un  duplice  ufficio:  esplicare  il  mistero  dell'universo,  assumere 
le  direttive  del  mondo.  Nel  primo  caso  l' intelletto  ha  dinanzi  a  sé  le 
vie  della  ricerca  scientifica  e  del  pensiero  speculativo  ;  nel  secondo, 
le  vie  della  creazione  artificiale  e  del  pensiero  operante. 

II  secolo  XVIII  ha  ripreso  in  esame  un  vecchio  problema  :  se  l'uni- 
verso sensibile  possa  dettare  all'uomo  le  norme  della  sua  condotta 
civile  e  morale;  o  se  dalla  vita  di  società  esulino  i  principi  di  natura. 
In  altra  forma:  se,  nelle  massime  regolatrici  della  storia,  o  etiche  o  giu- 
ridiche o  religiose,  è  implicita  una  forza  di  obbligatorietà  naturale, 
o  invece  una  vjolazione  di  natura;  se  il  nostro  passato  corrisponde 
allo  sviluppo  di  principi  supremi  ed  immutabili,  o  invece  puramente 
convenzionali,  contrattuali,  suscettibili  di  una  nostra  volontaria  modi- 
ficazione. Da  una  parte  si  disse  che  la  civiltà  è  un  moto  spontaneo 
delle  nazioni,  svolgenti  per  proprio  istinto  delle  idee  eterne,  quasi 
intimo  impulso,  inconsapevole  degli  individui  ordinati  a  consorzio; 
altri  opposero  che  essa  è  un  prodotto,  fittizio  e  accidentale,  di  relazioni 
esterne  e  di  postulati  razionali,  che  l'uomo,  investito  di  autorità  pub- 
blica, artificialmente  combinai  accomoda,  rivolge  ad  un  dato  fine.  Da 


»  Aldo  Ferrari,  L'opera  storica  di  Giuseppe  Ferrari,  in  Nuova  Rivista  Sto- 
rica, An.  II,  fase.  IV  (1918),  p.  331. 


Razionalismo  e  Storicismo  539 


una  parte  è  la  scuola  del  Vico,  dall'altra  è  renciclopedismo.  Da  una 
parte  è  la  tendenza  scientifica  che  cerca  nell'insieme  dei  fatti  le  idee 
fondamentali  e  le  leggi  pérenni,  senza  presumere  di  tracciare  un  dise- 
gno per  il  governo  del  mondo  ;  dall'altra,  è  la  tendenza  artistica,  che 
procede  all'applicazione  dei  principi  scientifici,  che  pone  mente  so- 
pratutto all'azione  facendo  suo  prò  di  essi,  e  vuole  costruire  la  so- 
cietà, diffondere  il  benessere,  rifoggiarc  l'uomo,  formulare  la  precet- 
tistica di  una  politica  prudenziale.  La  filosofìa  dell'enciclopedismo  ha 
preferito  di  dare  quest'ultima  interpretazione  al  fenomeno  sociale,  per 
avere  mano  libera  nell'opera  di  ricostruzione.  Essa  ha  proclamato  la 
sovranità  assoluta  della  ragione,  per  sottrarsi  ad  ogni  limitazione  di 
poteri;  essa  ha  negato,  o  semplificato,  l'enigma  dell'universo,  per  rispon- 
dere con  franchezza  a  tutti  gli  interrogativi  che  assediano  l'orgoglio 
Umano,  e  che  chiudono  gli  sbocchi  dell'attività  razionale.  Essa  è  so- 
pratutto animata  dal  più  potente  desiderio  operativo. 

Pertanto,  nei  filosofi  francesi  del  secolo  XVIIl,  «  l'arte  è  l'aspetto 
predominante  >  del  loro  pensiero  :  il  quale  non  procede  disinteressato 
allo  studio  della  realtà,  o  storica  o  naturale,  ma  serve  ad  un  intento 
pratico,  ubbidisce  alle  abitudini  inventive  dell'arte.  Il  loro  ingegno  non 
ha  tanta  capacità  di  speculazione,  quanta  audacia  di  costruzione;  la 
loro  dottrina  cerca  un  profitto  immediato;  non  si  adatta  all'utile  medio 
dell'esperienza;  vuole  signoreggiare  l'esperienza  coll'astrazione,  per  un 
utile  maggiore. 

Questa  filosofia  è  wxCarte  sociale:  suggerisce  le  formule  ritenute 
capaci  di  condurre  l'uomo  alla  felicità  con  la  piii  razionale  sistemazione. 
Come  la  sua  logica  insegna  il  meccanismo  pratico  del  ben  pensare  e 
di  scoprire  l'errore,  così  la  sua  parte  educativa  insegna  l'arte  di  reg- 
gere i  popoli  e  di  uguagliarli  fra  loro.  La  mentalità  filosofica  della 
Rivoluzione  è  essenzialmente  una  mentalità  pedagogica  e  volontarista. 

Di  fronte  alla  storia,  essa  assume  le  forme,  non  più  del  discepolo, 
ma  del  maestro  e  del  giudice:  movendole  l'accusa  di  non  avere  se- 
guito, ed  intenzionalmente,  un  modello  diverso  nella  costituzione  del 
sistema  sociale:  invenzione  di  astuti,  il  contratto  fra  ricchi  e  poveri; 
invenzione  di  sacerdoti,  il  mito;  invenzione  dei  più  forti  lo  Stato. 

Se  fosse  suo  metodo  di  cercare  l'uomo  nei  fatti,  le  sue  dottrine 
perderebbero  il  filo  della  realtà.  Essa  deve  concepire  l'uomo  astratta- 
mente, per  appropriarlo  ad  esse;  deve  giudicare  la  storia  contro  na- 
tura, perchè  la  storia  si  rifiuta  di  dare  una  dimostrazione  positiva  alle 
nuove  dottrine. 

Così,  dopo  tanto  filosofare,  si  arriva  alla  concezione  imaginaria  di 
una  società  che  è  fuori  del  tempo,  che  ha  una  base  nel  periodo  pre- 
sociale, e  che  è  una  creazione  teorica,  una  fantasia  artistica,  una  com- 


540  Ettore  Rota 


binazione  di  gabinetto,  dove  si  ha  cura  che  la  forma  corrisponda 
all'idea,  e  che  le  varie  parti  possano  reggere  insieme,  con  sicurezza 
di  equilibrio. 

La  macchina-uomo  e  la  macchina-società:  ecco  due  termini  molto 
in  uso,  che  danno  al  vivo  la  concezione  statica  dell'organismo  sociale: 
riducibile  a  condizioni  di  stabilità  perpetua,  come  complesso  di  leve 
e  pezzi  di  ricambio,  che  il  legislatore  deve  manovrare  secondo  le  do- 
dici tavole  della  nuova  filosofia. 

L'opera  del  politico  diventa  opera  di  meccanico  ;  la  trasformazione 
sociale,  un  miracolo  dell'industria.  Hebert  abbasserà  i  campanili  in 
nome  dell'uguaglianza;  i  giacobini  trasfonderanno  l'amore  di   libertà 

mediante  la  coltivazione  di  teneri  alberelli Si  ripensi  all'automa  di 

Condillac,  che  in  seguito  a  date  impulsioni  diventa  il  genio  di  Elve- 
zio;  e  sì  ha  la  più  chiara  imagine  dell'universo  umano  regolabile  a 
guisa  di  orologieria. 

1  caratteri  della  produzione  musicale  contemporanea  rispecchiano 
il  procedimento  filosofico  del  secolo  XVIH;  la  musica  è  pensiero  e 
arte;  il  pensiero  dà  le  linee  foniche  del  motivo,  e  nessun  precetto 
insegna  il  segreto  d'origine;  è  l'opera  misteriosa  del  genio;  ma  il  modo 
più  acconcio  di  combinare  le  note  per  ottenere  un  effetto  armonico 
e  sembianze  musicali  può  essere  insegnato  a  chiunque,  e  questa  è 
arte.  Oggi  la  musica  tende  a  ridurre  il  pensiero  ad  arte;  voi  trovate 
povertà  di  motivi,  ma  ricchezza  di  accordi;  la  musica  spesso  appare 
una  sterile  combinazione  di  suoni  senza  concetto  animatore. 

Quindi  è  ingenerata  la  credenza  che  tutti  possono  scrivere  di  mu- 
sica, come  nel  secolo  XVIII  era  diffusa  la  credenza  che  tutti  potessero 
scrivere  di  filosofia,  dettare  leggi  all'universo,  imaginare  un  tipo  infal- 
libile di  società.  Scarsa  originalità  di  pensiero,  ma  sconfinata  ambizione 
di  ordinamenti  sistematici. 

Un  secolo,  che  raccoglieva  l'eredità  politica  e  intellettuale  lasciata 
da  Luigi  XIV,  non  poteva  sfuggire  al  preconcetto  artistico  e  alla  pre- 
sunzione delle  possibilità  infinite;  un  principe,  che  aveva  preteso  di 
reggere  la  nazione  con  la  forza  del  proprio  spirito,  doveva  trasmettere 
all'intero  popolo  la  fiducia  nella  potenza  creativa  della  ragione.  L'ima- 
gine  del  re  Sole  è  riprodotta  dalla  filosofia,  che  vuole  avanzare  oltre 
i  gradini  del  trono  per  rifare  a  nuovo  la  società. 

Ma  il  secolo,  che  raccoglie  le  ceneri  dell'SQ,  diffida  nell'opera  del 
pensiero  individuale,  e  chiede  alla  tradizione,  alla  coscienza  del  genere 
umano,  alla  ragione  universale,  simboleggiata  dalla  Chiesa  o  dallo  Stato 
o  dal  progresso  storico,  la  formula  risolutiva  dei  grandi  problemi;  il 
suo  pessimismo  è  la  migliore  espressione  critica  del  semplicismo  arti- 
ficialmente creatore.  Ma  esso  ha  originato  la  scienza  moderna. 


Razionalismo  e  Storicismo  541 


La  vecchia  tendenza  però  non  scompare  totalmente  nei  primi  de- 
cenni dell'ottocento  francese;  se  il  Cousin  riabilitala  storia  e  vi  porta 
i  lumi  della  psicologia  per  trovare  delle  leggi,  che  in  sé  rispecchino 
l'andamento  complessivo  ed  evolutivo  dello  spirito  umano,  e  non  già 
un  dato  momento  di  esso,  il  Saint-Simon  ripete  ancora  il  procedi- 
mento mentale  del  secolo  trascorso,  e  lo  porta  quasi  alle  ultime  con- 
seguenze, mostrandosi  appassionato  costruttore  di  armonie  artistiche  e 
filosofiche. 

Negli  scrittori  italiani,  che  pure  dipendono  intellettualmente  da 
quelli  francesi,  noi  vedemmo  che  la  tendenza  a  tradurre  in  atto  un 
postulato  di  ragione,  non  è  così  manifesta  ;  anzi,  i  nostri  esercitano  una 
critica  minuta  e  assidua  sul  pensiero  d'oltralpe,  e  mirano  a  colpirlo 
nei  suoi  aspetti  d'arte,  nelle  sue  pretensioni  universalmente  ricostruttivej 
i  filosofi  italiani,  anche  quando  concepiscono  l'incivilimento  come  su- 
scettibile di  modificazioni  per  azioni  esterne,  vedono  nella  società  un 
prodotto  di  natura;  nelle  sue  anomalie,  una  conseguenza  di  anomalie 
naturali;  e  non  hanno  molta  fiducia  che  la  ragione  umana  possa  sco- 
prire, padroneggiare,  e  fabbricare  i  fattori  dell'incivilimento.  I  nostri 
scrittori  vedono  con  chiarezza  che  il  procedimento  matematico  e  delle 
scienze  astratte  non  può  valere  per  il  governo  della  società  e  per  la 
vita  di  tutti  ì  giorni.  Le  idee  semplici  non  sempre  sono  applicabili  al 
mondo  complesso  delle  passioni.  Queste  non  hanno  una  logica  fissa, 
né  posseggono  l'immobilità  e  le  dimensioni  precise  di  una  linea  geo- 
metrica. Il  principio  dell'intuizione  e  delle  deduzioni  appare  il  più  falso 
ed  il  pili  arrischiato.  Il  Genovesi  li  chiama  tutti,  con  frase  scultoria, 
filosofi  della  «  pietra  filosofale  »,  quelli  di  Francia,  perchè  volevano 
raggiungere  la  perfezione  e  la  felicità  chimicamente,  matematicamente; 
egli  mette  in  burla  questa  loro  folle  corsa  dietro  la  inafferrabile  chimera. 
Il  Beccaria  rinnega  Ja  teoria  del  contratto  dopo  di  averne  fatta  espe- 
rienza;, lo  Spedalieri  la  deforma  per  imbrigliarla  con  la  storia  ;  il  Filan- 
geri  e  il  Pagano  si  sforzano  di  accostarsi  al  Vico. 

Fra  i  due  termini  sta  la  mente  vastissima  di  G.  D.  Romagnosi,  che 
riassume  i  pregi  e  i  difètti  del  secolo  enciclopedista.  Ma  Is^  scuola  vi- 
chiana,  che  va  dal  Coco  al  Ferrari,  ne  svela  in  modo  franco  l'utopi- 
smo e  l'artificioso,  e  pone  a  scopo  delle  sue  indagini  la  pura  cono- 
scenza dello  sviluppò  umano  con  un  ritorno  al  t  conosci  te  stesso  » 
della  sapienza  greca.  Specialmente  il  Ferrari,  nell'analisi  della  mente 
di  G.  D.  Romagnosi,  insiste  sulla  necessità  di  anteporre  la  scienza 
all'arte  nello  studio  della  civiltà,  se  vuoisi  cavare  da  esso  qualche  pra- 
tico insegnamento;  ossia  di  studiare  il  problema  delle  origini  e  dello 
sviluppo  delle  istituzioni,  per  valutare  senza  eccessi,  né  di  ottimismo, 
né  dì  pessimismo,  la  relativa  perfettibilità  dei  periodi  sociali  ancora  in 


542  Ettore  Rota 


formazione;  in  una  parola,  egli  ammonisce  di  ridurre  prima  la  storia 
a  scienza,  se  vuoisi  poi  realizzare  l'ardito  concepimento  di  ridurre  ad 
arte  la  civiltà.* 

Concludendo:  il  conflitto  tra  storicismo  e  razionalismo,  psicologi- 
camente considerato,  riflette  la  duplice  disposizione  dell'uomo  :  specu- 
lativa e  creativa;  lo  studio  obbiettivo  del  mondo,  e  la  ricostruzione 
subiettiva  di  esso;  il  contrasto  fra  il  pensiero,  in  quanto  è  scienza,  ed 
in  quanto  vuol  essere  arte. 

fì).  L'antistoricismo  è  un  prodotto  delle  civiltà  oltrepassate. 

Rimane  a  vedere  per  quale  complesso  psicologico  la  Francia,  sul- 
l'imbrunire del  più  grande  impero,  nel  periodo  ancor  più  denso 
della  sua  vitalità  storica,  voglia  divorziare  dalla  propria  storia,  e  negli  i 
al  suo  passato  ogni  efficacia  per  l'avvenire;  mentre  l'Italia,  all'indo- 
mani del  dominio  spagnuolo,  che  aveva  depresso  e  deformato  Io  spi- 
rito nazionale,  reagisce  alle  tendenze  antistoriciste  d'oltralpe,  e  prepara, 
col  Vico  e  col  Muratori,  le  pietre  monumentali  di  tutta  la  sociologia 
storica  contemporanea. 

Questi  due  fatti,  contrari  fra  loro,  si  spiegano  a  vicenda.  La  vec- 
chia Francia  aveva,  col  secolo  XVIII,  raggiunto  quella  forma  di  matu- 
rità, che  sembra  incapace  d'ulteriore  sviluppo  se  non  per  virtù  di  ideali 
nuovi,  in  sostituzione  dei  vecchi  ideali  gxò.  compiuti  e  superati.  Nasce 
allora  quel  senso  di  immobilità  o  di  arresto,  che  fa  parere  la  vita  un 
campo  di  noia  e  una  imagine  priva  di  contenuto;  nella  sfiducia  del 
passato,  nella  insoddisfazione  del  presente,  nel  desiderio  tormentoso 
di  nuove  emozioni,  l'uomo  rivendica  a  se  stesso  la  direzione  dell'av- 
venire, quasi  fossero  in  lui  delle  attitudini  superiori  alla  società  mede- 
sima, jn  mezzo  alla  quale  vive  ed  agisce. 

La  Francia  di  Voltaire  ha  acquistato  la  coscienza  di  avere  com- 
piuto il  suo  programma  storico,  quale  era  stato  posto  dai  primi  esordi 
della  sua  esistenza  politica  ed  europea:  perfezionare  l'istituto  monar- 
chico-nazionale; sviluppare  e  mantenere  il  cattolicismo.  Queste  furono 
le  forze  vive  della  Francia,  dal  tempo  di  Clodoveo  al  regno  di  Luigi  XIV; 
e  la  Francia  portò  in  esse  una  ostinazione  feroce,  quanta  ne  mise  l'In- 
ghilterra a  volere  temperata  la  monarchia  e  salvo  il  protestantesimo 
Ma  poi,  toccate  le  due  mete  della  lunga  ascensione,  la  Francia  non. 
sentì  di  avere  altri  impegni  col  passato,  che  non  poteva  più  offrire 
elementi  vitali  per  il  suo  domani.  Come  si  bruciano  le  cambiali  già 


t  La  mente  di  Gian  Donunìeo  Romagnosi,  ed.  dt.,  p.  126. 


Razionalismo  e  Storicismo  543 

scontate,  la  Francia  lacerò  le  sue  pergamene,  e  sui  timbri  delPantico 
Regime  gettò  la  lava  della  Rivoluzione. 

Essa  provò  la  stanchezza  della  propria  storia,  vissuta  con  esube- 
ranza di  fede;  si  senti  satura  di  tutte  le  civiltà,  di  tutte  le  grandezze; 
fu  annoiata  di  assimilare  roba  d'altri  e  roba  propria;  e  lanciò  nel  mondo 
il  nuovo  credo  che  era  la  negazione  di  tutte  le  civiltà  e  di  tutte  le  gran- 
dezze della  storia.  Credette  di  avere  adorato  per  tanti  secoli  un  mito 
falso,  e  negò  tutti  i  miti;  credette  di  avere  percorso  una  via  fittizia, 
e  rifece  a  ritroso  il  cammino  del  tempo  per  riafferrare  la  natura  sem- 
plice, buona,  incontaminata.  Non  è  la  nobiltà  medesima,  non  sono  i 
discendenti  della  classe  che  aveva  creato  la  gloria  della  Francia,  quelli 
che,  inconsapevolmente  a  propria  rovina,  ma  per  un  eccesso  di  noia, 
elaborano  la  filosofia  della  Rivoluzione  ?  Non  è  lo  stesso  Voltaire,  l'in- 
quieto e  brontolone  pellegrino  delle  Corti,  il  freddo  ragionatore,  che, 
dopo  di  essersi  giovato  della  ragione  come  chiave  del  mondo,  afferma 
che  la  ragione  è  un  inganno,  e  la  accusa  di  avere  fatto  l'uomo  servo 
dell'uomo,...  egli  che  voleva  colla  ragione  emanciparlo?* 

Così  tutti  coloro  che  avevano  folleggiato  nelle  sale  di  Versailles 
furono  presi  dalla  nausea  per  la  vita  di  città,  per  le  convenienze  for- 
mali, per  la  pesante  etichetta  delle  alte  sfere;  e  sognarono  un'esistenza 
fuori  delle  abitudini  dorate;  nella  bianca  nebulosa  della  vita  pre-civile, 
nella  penombra  silenziosa  di  lontananze  arcane,  ìn  un  riposato  avve- 
nire di  amore  universale  e  di  armonie  fraterne.  Cercarono  la  campa- 
gna, vollero  l'amplesso  romantico .  delle  distese  verdi,  sentirono  che 
l'aspetto  pili  vero  dell'esistenza,  l'omaggio  più  sublime  al  creato,  era 
ancora  l'intimo  sacrificio  della  madre  che  porge  al  bimbo  il  petto  ri- 
gonfio... E  'fra  queste  arcadiche  idealità  maturava  la  Rivoluzione  inno- 
vatrice; come  nell'età  di  Augusto,  mentre  il  poeta  dì  Corte  benedice 
il  suo  rustico  ritiro,  il  popolo  abbraccia  la  Croce  che  spezzerà  con 
invisibili  colpi  lo  scettro  imperiale. 

Ma  il  fenomeno,  che  si  osserva  nella  Francia  dell'assolutismo  mo- 
narchico, si  ripete  anche  nella  psiche  dei  grandi  indivìdui,  che,  dopo 
avere  intensamente  vissuto  un'ideale,  ne  vedono  la  maturazione.  Insigne 
esempio,  l'epilogo  anti-tedesco  ed  anti-storico  nella  evoluzione  dell'idea 
nazionale  Wagneriana.  Il  cittadino  che  ha  fatto  in  cospetto  del  pa- 
dre-Reno  il  solenne  giuramento  alla  Patria,  l'uomo  che  ha  compiuto 
il  più  gigantesco  sforzo  per  coordinare  e  convergere  la  propria  attività 
al  trionfo  dello  spirito  e  della  razza  germanica,  quando  vede  il  nuovo 
Impero  fondato,  l'orgoglio  nazionale  soddisfatto,  la  potenza  e  le  ric- 
chezze cresciute  a  dismisura,  ha  improvvisamente  un  senso  dì  disgusto 


1  V.,  nel  suo  Dizionario  filosofico,  l'art.  Raison, 


544  Ettore  Rota 


verso  il  suo  antico  sogno.  Compiuto  il  ciclo  storico»  ha  l'impressione 
del  nulla  e  del  vuoto.  Allora  si  ribella  alla  propria  gcrmanità,  si  illude 
di  poterla  sradicare  dal  suo  spirito,  facendosi  cittadino  d'America,  cerca 
la  verità  fuori  della  storia,  in  se  stesso,  nella  propria  coscienza,  e  ama- 
ramente confessa  :  «  La  mia  sfiducia  nella  Germania  e  nel  suo  stato 
presente  è  assoluta,  completa  *.* 

Ben  diversa  dalla  Francia  era  la  condizione  d'Italia,  rimasta  sempre 
a  mezza  strada  nell'attuazione  dei  suoi  ideali.  Essa  non  aveva  toccato 
nessuna  mèta,  né  religiosa,  né  politica,  né  economica;  e  cercava  l' una 
in  ondeggiamenti  continui  fra  la  Chiesa  di  Cristo  e  la  Chiesa  di  Roma; 
l'altra,  nelle  perplessità  fra  la  monarchia  e  la  repubblica  ;  la  terza  nelle 
artificiosità  del  regime  doganale.  Eppure  aveva  la  sua  Orsa  nel  proprio 
cielo  di  dolori;  la  sua  antica  Roma  parlava  di  un  primato  vissuto  e 
di  una  eternità  di  vita;  in  tutti  i  suoi  secoli  vi  era  una  via  Appia  che 
custodiva  tesori  di  fede^.  In  quei  ricordi  adunque,  nella  riviviscenza 
e  nella  prosecuzione  di  un  passato  migliore,  l'Italia  poteva  trovare  la 
luce  dell'avvenire.  E  la  storia  fu  la  sua  tavola  di  salvezza,  e  la  coscienza 
nazionale-unitaria  emerse  dalla  più  remota  classicità. 

Nella  tendenza  razionalista  dei  francesi  che  respirano  ancora  l'epoca 
di  Luigi  XIV,  vive  lo  spirito  di  un  popolo  che  ha  raggiuntò  pienezza 
di  vita,  e  che  quasi  sbadiglia  dinanzi  alle  sue  memorie,  come  chi  esca 
da  teatro  a  spettacolo  finito.  Nell'orientamento  storicista  degli  Italiani, 
vibra  Io  spirito  di  un  popolo  in  formazione,  che  deve  adorare  il  suo 
passato,  perchè  fuori  di  là  non  vede  elementi  atti  a  edificare  il  suo 
futuro:  non  il  disgusto  di  una  vita  goduta  a  sazietà,  ma  il  bisogno 
di  cominciare  a  vivere. 

Più  tardi,  anche  la  Francia,  dopo  l'incendio  delle  sue  pergamene, 
sentì  che  dal  complesso  storico  nazionale,  non  da  un  pensiero  astratto, 
vengono  alle  società  gli  elementi  spirituali  che  ne  assicurano  la  con- 
tinuità di  esistenza;  e  ritornò  sulle  orme  antiche;  poiché  la  storia  è  una 
catena  di  ferro  che  non  si  può  spezzare,  che  la  stessa  natura  umana 
ha  fuso  e  saldato  insieme,  anello  per  anello,  nel  corso  del  tempo.  Al- 
lora Italia  e  Francia  si  ritrovarono  sopra  una  rotta  uguale;  non  più  a 
fantasticare  sull'avvenire  con  inventivo  genio  di  arte,  ma  ripiegate  am- 
bedue sulle  proprie  origini:  allora  Michelet  tradusse  e  volgarizzò  la 
Scienza  Nuova  di  Giambattista  Vico. 


}  Cfr.  Guido  Manacorda,  R.  Wagner  e  lo  spirito  del  germanismo,  in  Studi  di 
Jilologia  moderna,  gennaio-giugno  1914,  pp.  8  e  segg. 


Razionalismo  e  Storicismo  545 


C).  Le  variazioni  filosofiche  sul  concetto  naturalistico, 
sono  un  riflesso  delle  variazioni  sociali. 

Già  siamo  venuti  esplicando  che  il  conflitto  logico  fra  la  natura 
e  la  storia,  sebbene  rifletta  la  particolare  struttura  del  pensiero  umano, 
ora  volto  all'esame  della  realtà,  ora  all'attuazione  di  un  ideale,  rientra 
nella  sfera  dei  fenomeni  riflessi,  che  si  presentano  ad  un  dato  mo- 
mento e  in  date  condizioni  dello  sviluppo  sociale. 

Non  è  il  caso  di  pensare  che  realmente  esista,  anche  fuori  del 
nostro  subbiettivismo  logico,  una  opposizione  fra  la  vita  storica  del- 
l' umanità  e  la  vita  naturale  comunque  intesa,  sia  del  mondo  fisico 
che  del  mondo  organico  (irriducìbili  fra  loro),  sia  del  mondo  umano 
pre-civile  (a  noi  completamente  ignoto)  ;  e  tanto  meno  ciò  si  può  dire 
dell'individuo  isolatamente  considerato,  rispetto  all'individuo  sociale, 
perchè  è  legge  universale  che  i  corpi  in  combinazione  acquistano  ca- 
ratteri diversi  da  quelli  che  posseggono  allo  stato  semplice. 

Il  mistero  dell'universo  ha  sempre  gravato  sullo  spirito  dell'uomo; 
ma  siamo  ben  lungi  dal  poter  risolvere  i  due  problemi  della  realtà 
storica  e  della  realtà  naturale,  e  quindi  dal  poter  stabilire  un  raffronto 
tra  esse.  L'uomo  dà  delle  interpretazioni;  le  quali  sono,  ognuna,  al- 
trettanti fatti  umani,  dì  pura  importanza  storica  e  psicologica;  perchè 
le  interpretazioni  sono  diverse  nei  diversi  tempi  e  nei  diversi  individui  ; 
e  le  varie  filosofie,  che  su  quelle  hanno  fondamento,  confermano  il 
carattere  provvisorio  di  tutti  gli  enunciati  umani,  nell'investigazione 
di  certi  problemi  che  fermano  la  scienza  sulla  soglia  della  poesia.  Ogni 
età  sente  il  bisogno  di  fare  una  revisione  dei  propri  sistemi  ideali  ; 
ma  essa  non  riesce  a  soddisfare  che  poche  generazioni  ;  e  anche  quando 
crede  di  avere  rotto  i  veli  di  Iside,  il  pensiero  è  sempre  al  di  sotto 
della  verità  misteriosa  che  esso  vuole  indagare;  e,  senza  avvedersi,  vi 
porta  la  voce  dei  propri  bisogni  e  dei  propri  interessi,  e  le  attitudini 
o  le  caratteristiche  del  suo  tempo,  pervenendo  ad  una  interpretazione 
che  sovente  interessa  dì  più  la  filosofia  della  storia  che  la  filosofia 
della  natura,  perchè  in  essa  si  riflette  una  realtà  appropriata  ad  inte- 
ressi particolari.  Lo  stesso  Darwin  è  costretto  a  sostare  davanti  al- 
l'inatteso,  all'incomprensibile,  all'incoerente;  e,  quando  crede  di  porre 
un  principio  assoluto,  gli  sorgono  d'intorno  tante  eccezioni,  che  quello 
rientra  a  sua  volta  nei  casi  eccezionali.  Ma  la  natura,  dice  Maeterlink, 
nel  suo  poetico  studio  sulla  vita  delle  api,  sì  mostra,  nello  stesso  fe- 
nomeno e  nello  stesso  momento,  prodiga  ed  avara,  negligente  e  prov- 
vida, una  e  multipla,  e  da  tutte  le  parti  ci  sfugge.  Noi  poniamo  delle 
leggìi  ed  essa  gode   nello  spezzarne  le  misure;  è  magnìfica  verso  i 

36  —  Nuova  Rivista  Storica. 


546  Ettore  Rota 


privilegi  dell'amore,  meschina  e  dura  con  quella  che  gli  uomini  chia- 
mano virtù. 

Orbene,  se  la  natura  e  la  vita  hanno  degli  aspetti  irrazionali, 
r  uomo  non  potrà  sempre  chiedere  alla  propria  ragione  il  mezzo  co- 
noscitivo della  natura,  né  potrà  illudere  il  suo  merito  personale,  di 
appropriarsi  i  segreti  di  natura,  o  di  avvicinarsi  alle  sue  forme, 
quando  presuma  di  costruire  razionalmente  nuove  forme  sociali. 

È  stato  detto,  con  buon  fondamento  di  osservazioni,  che  la  vita 
è  irrazionale;  che  nulla  è  più  irrazionale  dello  spirito;  che  la  ragione 
non  può  creare,  ma  falsificare;  che  essa  serve  a  qualche  cosa,  sola- 
mente se  accetta  i  postulati  extra-razionali  che  la  natura  dà  gratuita- 
mente.* E  nella  letteratura  romantica  di  Paul  Bourget  accade  spesso  di 
vedere  dimostrate  le  fallaci  conseguenze  pratiche  del  preconcetto  razio- 
nalistico e  della  sua  creduta  onnipotenza.  «  La  ragione?  (si  chiede  Gio- 
•vanni  Monneron  nella  Tappa);  ma  la  ragione  non  è  una  dottrina.  Non 
è  che  lo  sviluppo  del  senso  critico.  Ma  il  senso  critico,  una  volta  sca- 
tenato, dove  si  arresta?...  Colla  ragione  sola,  tutto  si  giustifica  e  tutto  si 
distrugge,  poiché  da  che  mondo  è  mondo,  tutto  si  discute  con  argo- 
menti di  forza  uguale  >.  Analisi  è  dissoluzione,  rincalza  il  Fraccaroli, 
e  dissoluzione  è  il  contrario  di  vita.^  Essa  ci  illude  di  conoscere  l'in- 
conoscibile; ci  lascia  credere  di  aver  trovato  i  limiti  dell'illimitato, 
d'aver  ridotto  a  finito  ciò  che  è  infinito  ;  di  superare  colla  volontà  ciò 
che  è  opera  di  una  lenta  circolazione.  E  questa  nuova  filosofia  del 
lìmite-umano,  nel  pensiero  e  nell'azione,  è  stata  accreditata  dagli  ultimi 
avvenimenti  d'Europa,  nei  quali  si  è  voluto  vedere  l'ultima  conse- 
guenza, e  l'epilogo  più  tragico,  di  tutti  gli  elementi  tossici  nascosti  in 
una  filosofia  che,  per  aver  promossa  la  Rivoluzione  in  nome  di  prin- 
cipi assoluti  e  col  presupposto  dell'innata  bontà  umana,  ha  fatto  per- 
dere il  senso  della  misura  nel  tracciato  preventivo  delle  possibilità 
reali;  e  ai  giorni  nostri,  la  stessa  tattica  razionalistica  ha  condotto  un 
popolo,  inesperto  di  politica  e  di  storia,  al  pervertimento  dell'orgoglio^ 
alla  smoderazione  dei  desideri,  alla  illusione  di  una  illimitata  grandezza 
coll'opera  della  volontà  e  colla  preparazione  dell'intelligenza.^ 


1  Giuseppe  Fraccaroli,  L'educazione  nazionale,  Bologna,  Zanichelli,  1918,  pp.  14, 
25,  e  passim.;  cfr.  Gustave  Le  Bon,  Premières  conséqaences  de  la  guerre^  livre  I, 
chap.  Ili,  Les  illusions  rationalistes. 

t  Op.  cit.  p.  26. 

3  Cfr.  GuOLiELMO  Ferrerò,  La  vecchia  *  Europa  e  la  nuova,  Milano,  Treves, 
pp.  234  e  passim.  —  Nella  Némésis  di  Paul  Bourget,  si  legge  €  De  quoi  Néraésis 
punit-elle  l'homme?  D'avoir  voulu  étre  corame  un  Dieu.  Savoir  trop,  pouvoir  trop, 
avoir  trop,  —  e' est  Promethée,  c'est  les  Titans,  c'est  Polycrate  dans  la  fable.  Dans 
la  réalité  et  dcs  nos  jou^,  c'est  Napolépn  ^  (Paris,  Librairie  Plon,  1918,  p.  59). 


Razionalismo  e  Storicismo  547 

Ammesso  dunque,  secondo  la  concezione  illuministica,  che  la  na- 
tura abbia  stabilite  le  norme  più  sagge  del  vivere  umano,  e  che  la 
ragione  abbia  l'ufficio  di  determinare  le  leggi  della  natura  originaria, 
separandole  dalle  falsificazioni  posteriori  della  storia,  i  fatti  provano  che 
r  irrazionalità  della  natura  rifiuta  il  controllo  della  ragione.  La  società 
deve  essere  un  mezzo  per  comprendere  la  natura;  non  già  la  natura 
un  mezzo  per  accusare  la  società. 

Si  è  tentato  di  dare  una  spiegazione  del  fatto  sociale,  sempre  in 
rapporto  al  fenomeno  naturale,  studiando  le  sue  analogìe  o  le  sue 
discordanze  coU'organismo  umano. 

Si  è  detto  che  quest'  ultimo  presenta  delle  regolarità  funzionali 
così  disciplinate,  da  dare  la  imagine  più  concreta  della  più  perfetta 
società.  Noi  infatti  vi  troviamo  delle  risultanze  armoniche,  derivate  da 
leggi  di  equilibrio,  di  solidarietà,  di  stabilità  :  i  numerosi  individui  uni- 
cellulari compiono,  ognuno,  il  proprio  lavoro,  colla  più  esatta  regola 
dell'uno  per  tutti  e  di  tutti  per  uno,  coU'osservanza  rigorosa  dei  propri 
diritti  e  doveri;  ognuno  partecipa  alla  vita  d'insieme,  e  nel  tempo 
stesso  esplica  una  propria  vitalità;  e  tutti  sono  socializzati  per  una 
individualità  maggiore,  Torganismo  esistente. 

Eppure,  nessuno  dei  regimi,  che  si  incontrano  nella  vita  dei  popoli, 
accade  di  verificare  in  quella  del  nostro  organismo  :  non  lotta  di  classe, 
né  gelosie  di  primato,  né  egemonie  di  famiglie;  nessuna  pratica  di 
libertà,  di  ragione,  di  uguaglianza  intesa  a  modo  nostro  ;  non  forme  di 
parassitismo  o  di  servaggio;  ogni  elemento  ubbidisce  e  lavora  per  reci- 
proco interesse  ;  nessuna,  dunque,  delle  presenti  metafisiche,  che  hanno 
guidato  r  umanità  nelle  sue  conquiste  storiche.*  Si  trova  invece,  neiror- 
ganismo  umano,  la  vera  Società  delle  Nazioni,  di  tipo  ideale. 

Ma  neppure  queste  armonie  del  mondo  biologico,  che  non  è  pos- 
sibile verificare  nel  mondo  sociale,  autorizzano  a  credere  che  que- 
st'ultimo proceda  a  ritroso  della  natura.  Esse  dinotano  appena  che 
l'organismo  umano  ha  forme  e  consuetudini  di  vita,  diverse  dal  civile 
consorzio.  Noi  ignoriamo  per  quali  tappe  o  modificazioni  geologiche, 
climatiche,  chimiche,  ecc.  del  mezzo  solido,  liquido,  aereo,  è  pas- 
sato il  fenomeno  cosmico  e  biologico  prima  di  raggiungere  la  fase 
attuale  di  stabilità  e  di  ordine  interno.  La  questione  sociale  ha  fatto 
nascere  una  questione  organica,  che  ha  posto  una  lunga  serie  di  pro- 
blemi, rivolti  a  indagare  se  Tuna  non  avrà  un  esito  pari  alla  seconda; 
se  l'umanità  non  proceda  verso  una  condizione  di  statica  sociale, 
come  ha  raggiunto  una  statica  biologica;  se  i  cataclismi  della  storia 


1  Tolgo  questo  raffronto  da  Pierre  Bonniet,  Defense  organique  et  centres  ner- 
veux,  Paris,  Flammarion,  1914,  pp.  40  e  segg. 


548  Ettore  Rota 


non  rappresentino  gli  antecedenti  naturali  e  necessari  dell'assestamento 
definitivo. 

La  scienza  accusa  la  filosofia  di  non  sapere  attendere  il  domani, 
di  essere  troppo  impaziente  e  dottrinale  ;  e  la  filosofia  non  ha  ancora 
trovato  modo  di  accordare  le  varie  scuole,  circa  i  limiti  della  stessa 
naturalità,  volendo  alcuni  escludere  ed  altri  inserire,  tra  i  fatti  natu- 
rali, anche  quelli  che,  per  le  comodità  degli  uomini,  o  per  il  loro 
modo  di  giudicare,  sembrano  meglio  appropriati  al  mondo  patologico 
ed  anormale. 

Questo  prova  la  subiettività  del  criterio  accennato,  e  le  deformazioni 
che  subisce,  per  influsso  di  interessi  estranei  alla  scienza^  che  hanno 
più  stretto  rapporto  coi  nostri  bisogni,  o  colle  correnti  politiche  e  so- 
ciali del  tempo,  in  mezzo  al  quale  si  formano  gli  atteggiamenti  del 
nostro  pensiero. 

Quando  l'uomo  pone  il  problema  dei  rapporti  fra  la  storia  e  la 
natura,  egli  cerca  una  interpretazione  nuova  del  fatto  sociale,  per  as- 
sumere una  parte  di  comando  rispetto  all'azione  che  intende  di  affi- 
dare alle  sue  teorie.  In  ultima  analisi,  questi  suoi  giudizi,  che  hanno 
sempre  un  carattere  dì  relatività  e  di  mutevolezza,  si  identificano  con 
altrettante  valutazioni  normative  del  processo  sociale.  Negandone  la 
naturalità  intrinseca,  l' uomo  si  attribuisce  pienezza  di  poteri,  e  libertà 
da  coercizioni  ;  interpretando  la  società  e  la  natura  teologicamente, 
r  uomo  si  adagia  in  un  pensiero  di  finalità  superiore,  che  gli  pare  una. 
giustificazione  morale  dei  sacrifici  e  delle  rinunce,  imposte  dall'osser- 
vanza delle  leggi  e  delle  costrizioni  civili. 

Né  diversamente  accade  dei  giudizi  intorno  allo  stato  di  natura\ 
problema  assai  discusso  da  tutti  i  filosofi  del  diritto  e  della  morale; 
ma  che  ha  fedelmente  servito  all'ottimismo  di  chi  esalta  nella  natura 
la  consigliera  e  la  maestra  dell'  umanità,  come  al  pessimismo  di  chi  la 
guarda  biecamente,  quale  nemica  e  fonte  di  amarezze.  Per  Hobbes,  Io 
stato  di  natura  non  dà  altro  che  manifestazioni  di  egoismo  e  lotte  fra- 
tricide; perii  Rousseau,  è  l'essenza  della  bontà;  ma  l'uno  mira  a  di- 
fendere i  poteri  pubblici  ;  l'altro,  ad  emancipare  la  coscienza  dell'  indi- 
viduo. Hobbes  contrappone  la  disciplina  dello  Stato,  unitario  ed  accen- 
tratore,  all'individualismo  della  Riforma  ;  Rousseau,  i  diritti  dell'uomo  ai 
privilegi  di  una  casta  dominante.  Questi  svaluta  i  vincoli  sociali  a  pro- 
fitto della  persona;  quegli,  li  riabilita  a  profitto  dell'autorità  di  Stato. 
Ma  in  ogni  caso  è  fuori  dubbio  che  l'apprezzamento  del  termine  na- 
tura ora  si  alza  ora  si  abbassa,  sotto  la  pressione  delle  condizioni 
esterne  sociali  ;  e  nulla  v'è  di  più  arbitrario,  equivoco  ed  illusorio,  che 
i  giudizi  filosofici  sulla  natura,  pure  considerata  secondo  la  concezione 
genetica,  ossia  nel  significato  del  primitivo  umano,  il  quale  si  presta  ad 


Razionalismo  e  Storicismo  549 

un  insegnamento  di  uguaglianza,  non  meno  che  a  quello  di  disparità 

sociali.  Sia  nel  Hobbes  che  nel  Rousseau,  (per  non  dire  dell'errore  di 

metodo  che  converte  un  concetto  fisico  in  una  regola  morale,   <  un 

prlus  nel  tempo  in  un  principio  nel  senso  logico  »*),  questo  principio 

ha  sempre  il  carattere   di   un   artifizio   polemico.*   Come  tale,   buono 

per  tutti  gli  usi:  v'è  in  esso  l'apologia  della  fredda  ragion  di  Stato, 

come  pure   dell'autonomia   personale  ;  voi   vedete  passarvi   dinnanzi 

r  imagine  di  Socrate  che  si  rifiuta  di  evadere  dal  carcere  in  nome 

della  legge  o  di  una  autorità  convenuta;  e  quella,  parimenti  austera, 

di  Diogene,  libero  viandante,  che  riconosce  appena  la  realtà  del  sole, 

dell'aria,  del  proprio  io,  al  di  sopra  dei  principi  e  dei  governi. 

Né  qui  si  arrestano  le  variazioni  filosofiche  sull'arduo  problema  e 

le  sue  pratiche  attinenze.  Per  G.  G.  Rousseau,  come  per  gli  antichi 

Cinici,  la  verità  è  nei  primordi,  e  nello  sviluppo  è  la  corruzione  ;  egli 

fonde  insieme  il  primitivo  e  l'esemplare  in  una  sola  nozione,  il  naturale, 

che   gli  suggerisce   il   mito   della   lontananza   ideale,   come  il  poeta 

innamorato: 

E  da  lungi  il  suo  volto  è  più  divino. 

Invece,  per  la  scuola  evoluzionista  o  Hegeliana,  ciò  che  appare  prima  nel 
tempo,  è  il  più  lontano  dalla  natura,  specialmente  rispetto  ai  suoi  fini  ; 
e  l'espressione  adeguata  di  essa  è  data  per  ultimo  nella  serie  delle 
esperienze,  come  il  compimento  di  un  divenire.^  Ma  la  dottrina  pan" 
teista  dello  spirito,  che  vede  nella  storia  l'esplicazione  progressiva  del- 
l'assoluto, e  nei  suoi  vari  periodi  l'apparire  successivo  dei  vari  ele- 
menti della  ragione,  non  ha,  meno  di  ogni  altra,  intendimenti  politici. 
Essa  identifica  il  processo  storico  col  processo  naturale  dello  spirito, 
per  assegnare  alla  filosofia  una  funzione  di  sovranità  direttiva  neh'  uni- 
verso civile.  È  ancora  una  teoria  razionalista,  sebbene  si  ammanti  di 
storicismo:  presume  di  dominare  il  mondo  coli' idea,  e  di  convertire 
il  razionale  nel  reale.  Il  suo  storicismo  non  vincola  affatto  la  sua  libertà 
di  teorizzare  e  di  fantasticare  sul  futuro;  poiché  essa  ha  cura  di  di- 
mostrare in  precedenza,  che  la  storia  conduce  fatalmente  verso  quel 
dato  termine,  che  essa  intende  di  preparare  o  di  affrettare  coH'opera 
dello  spirito.  Carlo  Marx  agita  e  proclama  la  Rivoluzione  comunista: 


1  Del  Vecchio,  op.  cit.,  p.  104. 

>  Ammette  Hobbes  che  gli  uomini  «  disciplinam  et  usum  ratìonis  a  natura  non 
habent»;  cad  societatem  ergo  homo  aptus  non  natura  sed  disciplina  factus  est». 
Ma  come  è  possibile  scoprire  la  natura  mediante  ragione,  se  questa  non  è  un  dato 
naturale  ?  E  come  ha  potuto  1*  uomo  introdurre  la  ragione  nella  società,  e  mediante 
ragione  ridurla   a  disciplina,  se  né  questa  né  quella  preesistevano  al    patto  sociale  ? 

3  Del  Vecchio,  op.  cit.,  p.  156  e  160. 


550  Ettore  Rota 


ma  non  prima  di  avere  sostenuto  che  essa  ha  già  nella  costituzione 
borghese  i  suoi  precedenti  necessari  ed  inevitabili.*  Questa  scuola  pone 
già,  come  storicamenfe  e  sperimentalmente  accertato,  un  latto,  che  vuole 
razionalmente  avverare.  Il  famoso  ritmo  dialettico  potrà  dire  quali  sono 
la  meccanica  dei  fatti  umani,  le  modalità  della  loro  nascita  e  della  loro 
morte;  ma  non  potrà  mai  dare  la  serie  preventiva  dei  fatti,  né  rivelare 
i  mister!  deiravvenire. 

La  realtà  storica  smentisce  i  conati  della  pura  ragione,  e  risolve 
tragicamente  i  piani  del  nostro  pensiero;  essa  ha  una  logica  propria, 
che  non  lascia  intravedere  il  suo  domani.  Il  preteso  cammino  dello 
spirito  e  della  civiltà,  dal  finito  all'  infinito,  con  stadi  intermedi  conci- 
liatori e  qualitativamente  progressivi,  ed  uno  stàdio  ultimo  di  auto-co- 
scienza, è  una  bella  imagine  poetica,  ma  non  già  la  risolvente  fissa  di 
tutte  le  incognite  della  storia;  in  tutti  i  tempi,  lo  spirito  si  afferma 
sempre  identico  a  se  stesso,  e  non  in  forma  frammentaria,  ma  integra, 
colle  medesime  inguaribili  infermità  e  debolezze  ;.poichè  pone  e  tenta 
risolvere  gli  stessi  problemi,  mantenendo  inalterati  i  limiti  mediocris- 
simi della  propria  capacità.  L'identità  della  filosofia  con  la  storia  può 
ammettersi,  non  in  quanto  l' una  determini  l'altra,  o  ne  condensi  la  ve- 
rità assoluta,  ma  in  quanto  lo  spirito  si  muove  colla  storia,  soggetto 
alle  oscillazioni  .e  incertezze  che  accompagnano  i  vari  aspetti  del- 
l'esistenza. 

Le  interpretazioni,  che  del  problema  sociale  scaturiscono  dallo 
studio  dei  rapporti  fra  storia  e  natura,  sono  forme  correlative  dello 
sviluppo  sociale,  «  motivate  da  ragioni  che  momentaneamente  sì  rico- 
noscono di  una  certa  utilità  ». 

D).  Il  conflitto  logico  fra  natura  e  storia 
è  il  contrassegno  dei  periodi  di  dissoluzione. 

Se,  in  generale,  esse  sono  il  prodotto  e  l'espressione  di  circostanze 
storiche,  la  concezione  antagonista  fra  i  due  termini,  risponde  ai  pe- 
riodi di  disintegrazione;  ed  è  il  loro  primo  sintomo,  il  più  chiaro 
contrassegno. 

Non  è  un  fenomeno  esclusivo  del  secolo  XVIII.  È  di  tutte  le  epo- 
che, al  primo  apparire  di  una  crisi,  che  induca  l'umanità  ad  una  «-e- 
visione  dei  vecchi  valori  sociali,  e  a  concepire  un  mutamenj:o  di  vita. 

Durante  le  prime  formazioni  storiche,  quando  non  sono  intervenuti 
né  la  stanchezza  né  il  disinganno,  e  tutto  si  colorisce  di  audacia  e  di 


1  Cfr.  le  chiare  osservazioni  di  Rodolfo  Mondolfo,  Spirito  rivoluzionario  e  senso 
storico,  In  Nuova  Rivista  Storica,  A.  I,  fase.  Ili  (1917). 


Razionalismo  e  Storicismo  551 

speranza,  i  popoli  amano  la  propria  storia,  alveare  di  ricordi  gloriosi, 
come  amano  la  natura,  tempio  di  fedi.  Ma  a  misura  che  l'organismo 
politico  si  fa  più  complesso,  e  le  fortune  si  differenziano,  e  le  classi 
si  allontanano,  e  l'opulenza  invade,  trasforma,  sovverte,  e  i  vecchi  so- 
stegni infracidiscono,  allora  i  popoli  dubitano  di  sé  stessi,  del  proprio 
passato,  dei  governi  presenti,  e  si  domandano  se  non  siano  falsi  i 
rapporti  in  uso  fra  il  giusto  e  l' ingiusto,  il  legale  e  1*  illegale,  Tordine 
e  il  disordine...  ;  allora  la  vófiog  è  messa  in  istato  di  accusa  dalla 
cpiiaig.  Le  vecchie  verità  sono  negate  e  capovolte;  i  poteri  consacrati 
dal  tempo,  vengono  sconsacrati  dalla  ragione;  la  società  accenna  a 
dissolversi  ;  sente  il  disagio  delle  sue  creazioni  imperfette  ;  vuole  rico- 
minciarsi; oscilla  fra  un  desiderio  di  libertà  sconfinata,  in  cui  appaiono 
soddisfatti  tutti  i  diritti  e  tutte  le  aspirazioni,  ed  una  esigenza  di  di- 
sciplina, che  modera  e  concilia  gli  ampi  dissidi  per  evitare  mali  mag- 
giori. La  storia  appare  la  grande  complice  ;  e  la  natura,  la  giustiziera 
e  la  liberatrice. 

Questo  fatto  si  ripete  costantemente:  il  suo  ritmo  esprime  il  tra- 
gico e  perenne  ansare  umano  verso  mete  non  mai  raggiunte  di  armo- 
nie e  di  perfezione. 

Tale  il  razionalismo  illuminista  francese  ;  tale  la  sofistica  ellenica, 
rispetto  al  momento  d'origine  e  di  ispirazione. 

Nelle  prime  albe  gioconde  dello  spirito  greco,  l'uomo  considera 
se  stesso  e  la  Natura,  una  sola  unità  di  saggezza  di  prudenza  di  ra- 
gione; e  la  società  riposa  sopra  il  culto  sacro  delle  leggi  e  delle 
tradizioni. 

Per  il  buon  genio  antico  dell'Eliade,  la  verità  è  dentro  di  noi, 
dove  l'anima  vive  di  luce  divina,  nelle  sue  parti  più  profonde  e  na- 
scoste ;  e  la  storia  degli  uomini  è  lo  sviluppo  delle  sue  facoltà  latenti, 
poiché  l'anima  é  l'unica  realtà  e  la  chiave  dell'universo. 

Poi  questa  armonia,  diffusa  nel  creato,  si  rompe  e  si  sperde. 

Mutano  le  condizioni  esterne  ;  con  esse  il  rapporto  fra  gli  uomini 
e  le  cose.  Il  commercio,  i  viaggi,  le  ricchezze  del  mare,  alterano  l'eco- 
nomia, i  costumi,  i  pensieri  delle  classi  antiche.  Dalla  vita  aspra  dei 
campi  e  delle  triremi,  dai  rischi  delle  battaglie  per  la  difesa  nazionale, 
il  ceto  robusto  e  semplice  dei  montanari  e  dei  pescatori  trascorre  alle 
feste  e  alle  chiacchiere  vane.  Mentre  il  denaro  affluisce  copiosamente, 
i  vecchi  termini  si  spostano;  le  austere  consuetudini  dell'epoca  so 
Ionica,  si  sovvertono.  Atene  racchiude  un  popolo  elegante  e  ciarliero, 
raffinato  e  corrotto.  La  sua  civiltà  è  splendida,  ma  snervante.  Alla 
morte  di  Pericle,  dell'antica  Grecia  non  restano  intatti  neppure  i  simu. 
lacri.  Dentro  Atene  agonizza  una  demagogia  discorde  ;  fuori,  brontola 
la  minaccia  spartana;  e  l'oro  del  re  di   Persia  arriva  nelle  mani  di 


552  Ettore  Rota 


tribuni  e  di  magistrati.  Ognuno  bada  a  farsi  strada  sul  corpo  del  più 
debole  ;  il  tradimento  diviene  arte  di  governo  ;  la  teoria  del  più  forte 
prende  terreno  accanto  a  quella  dello  svincolismo  di  natura. 

La  dottrina  sofista  è  già  attuata  nella  pratica  di  tutti  i  giorni, 
prima  ancora  di  avere  preso  corpo  in  una  filosofia.  È  venuta  su  dalle 
cose,  alimentata  dall'orgoglio  d'improvvise  fortune  sotto  le  forme  di  una 
corruzione  intellettuale  e  sapiente.  È  già  tutta  nella  politica  del  secolo 
d'oro,  nel  suo  rappresentante  più  cospicuo,  nello  splendido  Luigi  XIV 
di  Atene.» Quale  differenza  fra  il  sofista  che  nega  valore  a  un  decreto, 
ed  il  magistrato  che  non  rispetta  i  tesori  degli  alleati,  o  invade  paesi 
per  amor  di  bottino?  Quale  differenza  fra  l'anarchico  ed  il  conquistatore? 
V'è  dentro  uno  stesso  spirito  di  dissoluzione:  l'uno  nella  sfera  della 
coscienza  civile;  l'altro,  nel  sacro  recinto  delle  libertà  cittadine.  Eppure 
è  il  giovane  figliuolo  di  Xantippo  che  consiglia  e  opera  il  trasporto 
del  tesoro  federale  neiracropoli  di  Atene,  rompendo  fede  ai  patti  giu- 
rati! Questo  è  il  furto  legalizzato.  Ma  Pericle  prepara  anche  il  furto 
delle  libertà,  prepara  la  repubblica  di  Eucrate  e  di  Cleone,  che  spiana 
la  via  ai  Trenta  e  alla  tirannide  Macedone. 

È  dunque  nella  pienezza  della  vita, greca,  che  la  sofistica  appare; 
fra  due  età,  di  cui  essa  è  il  limite  ;  come  primo  segnale  deircsauriraento 
politico  e  del  pervertimento  morale,  che  segue  ad  ogni  sviluppo  ecces- 
sivo; è  la  filosofia  della  decadenza,  con  intenti  rinnovatori;  è  la  so- 
stanza torbida,  che  precipita  nelle  civiltà  giunte  al  grado  di  saturazione. 

Pervenuta  al  sommo  dello  sviluppo,  Atene  ha  smarrito  la  sapienza 
moderatrice  dei  primi  secoli;  ha  perduta  la  coscienza  della  sua  mis- 
sione democratica  e  liberatrice  ond'era  apparsa  sulle  rive  del  Cefiso; 
ha  perduto  la  nozione  del  limite,  del  mio  e  del  tuo,  delle  pubbliche 
virtù  ;  è  invasa  da  ambizioni  imperialiste  ;  è  disgustata,  nauseata  del  suo 
presente  ;  è  malcontenta  fra  i  suoi  stessi  splendori  e  guarda  al  Pelo- 
ponneso, come  la  Francia  del  re  Sole,  annoiata  e  malata  nella  sua 
opulenza,  adocchia  il  Reno.*  Atene  lascia  le  proprie  tradizioni,  sprezza 
la  sua  storia,  dimentica  i  suoi  coloni  antichi,  semplici  e  forti,  e  si  butta 
a  capofitto  nelle  avventure. 

Sopra  questo  organismo  in  dissoluzione,  ballano  i  sofisti.  I  quali, 
in  nome  della  natura,  arbitrariamente  intesa,  svalutano  la  società,  il 
diritto,  ì  principi  dv  giustizia,  le  verità  comuni,  abbassate  al  valore  di 
forme  convenzionali.  Tra  essi  i  Rousseau  e  i  D'HoIbach  dell'età  greca, 
e  il  razionalismo  radicale  del  Cinico,  rappresentante  insigne  del  duello 


1  Cfr.  Felice  Cavallotti,  Alcibiade,  la  critica  e  il  secolo  di  Pericle,  Milano^ 
1874,  p.  61  e  8«gg.  ;  63  e  segg. 


Razionalismo  e  Storicismo  5^3 


fra  la  natura  e  la  società,  spregiatore  irriducibile  di  tutti  i  valori 
storici,  nemico  di  tutti  i  governi  e  di  tutte  le  politiche,  di  tutti  i 
vincoli  legali,  sognatore  di  una  legge  morale  unica  per  tutti  i  tempi 
e  per  tutti  i  popoli,  e  che  assicuri  la  piena  sovranità  dello  spirito  e 
della  ragione.* 

Fra  questa  esaltazione  di  dottrine  anti-sociali  passa  la  mesta  ironia 
dì  Socrate,  che. evoca  il  sentimento  innato  del  giusto  e  il  rispetto  ai 
decreti,  per  salvare  lo  Stato  in  rovina;  e  dietro  a  lui  Platone  ritorna 
all'innocenza  primitiva;  come  sulla  Francia  disillusa  dalla  filosofia  rivo- 
uzionaria,  passa  la  reazione  mistica;  e  la  parola  del  Vangelo,  che  poco 
prima  era  apparsa  una  dottrina  attiva  di  guerra,  ritorna  come  inse 
gnamento  di  ordine,  di  pace,  e  di  conservazione. 

Ettore  Rota. 


»  V.  Ettore  Bignone,  Antifonte  sofista  ed  il  problema  della  sofistica  nella 
storia  del  pensiero  grecOy  In  Nuova  Rivista  Storica^  A.  I,  fase.  Ili  (1017)  pp.  472  ;  482. 


FRAEll  E  GERMANIA  DAL  1848  AL  i8ji 

(Leggendo  Enrico  von  Treitscbke)^ 


È  stata  certamente  cosa  deplorevole  che  gli  scritti  degli  storici 
tedeschi,  nazionalisti  e  pangermanisti,  non  abbiano  fino  a  ieri  goduto  in 
Italia  della  diffusione  e  della  notorietà,  che  sarebbe  stato  opportuno 
godessero.  Molte  storture  di  apprezzamento  si  sarebbero  evitate  e  molti 
pericolosi  pregiudizi  sarebbero  stati  facilmente  scalzati. 

La  guerra  orarfra  i  tanti  mali,  porta  questo  bene  :  la  volontà  di 
mettere  anche  Tltalia  al  corrente  di  quella  letteratura,  ed  ecco  (per  la 
prima  volta,  non  solo  presso  di  noi,  ma  in  tutti  i  paesi  latini)  il 
tentativo  di  tradurre  qualcuna  delle  opere  del  massimo,  degli  sto- 
rici nazionalisti  tedeschi,  Enrico  von  Treitschke.  Naturalmente,  pur 
troppo,  Io  scopo  di  propaganda  —  di  propaganda  (come  dire?)  tede 
sca  —  non  è  estraneo  al  nuovo  tentativo.  Basterebbe  pensare  fra 
le  tante  cose,  alla  prima  scelta  degli  scritti  del  Treitschke,  che  il  loro 
traduttore  italiano  ha  fatta  per  l'occasione  :  non  qualcuna  delle  grandi 
opere  classiche;  non  la  Storia  della  Germania  nel  secolo  XIX;  non  i 
Dieci  anni  di  lotta  in  Germania,  ma  anzitutto,  a  propiziarsi  l'ambiente, 
alcuni  articoli  e  saggi  sulla  Francia  dal  primo  Impero  napoleonico 
al  1871,  cioè  su  quel  periodo  ch*è  pieno  di  tante  dolorose  memorie 
per  la  storia  del  nostro  paese  :  Napoleone  I,  il  dominio  francese,  la 
spedizione  del  1849,  Villafranca,  Mentana,  gli  chassepots,  ecc.  Il  vero 
Treitschke;  il  Treitschke,  che  gli  Italiani  avrebbero  potuto  spassio- 
natamente giudicare,  non  è  qui;  onde  i  due  volumi  non  sono,  almeno 


1  La  Francia  dal  Primo  impero  al  1871,  Bari,  Uterza,  1917,  2  voli.  (tauL  it.  di 
£.  Ruta)  pp.  xv-269  ;  262. 


Francia  e  Germania  dal  1848  al  1871  555 

per  noi,  i  più  adatti  a  dare  un'idea  precisa  del  pensiero  fondamentale 
e  organico  dello  scrittore  tedesco.  Come  che  sia,  prescindendo  dalle 
intenzioni,  dalla  scelta  e  dalla...  prefazione  del  traduttore,  ahimè,  tre 
volte  più  tedesca  dello  stesso  testo  tedesco...,  il  tentativo  è  meritorio 
ed  utile.  Gli  studiosi  italiani,  gli  Italiani  possono  alla  fine  giudicare 
direttamente  con  conoscenza  di  causa  il  valore  del  Treitschke,  quale 
storico,  e  formarsi  un'idea  della  natura  dei  suoi  scritti,  del  suo  pen- 
siero, e  perciò  respingere  buona  parte  delle  famose  apologie  e,  magari, 
delle  iperboliche  censure,  di  cui  fin  oggi  egli  andava  tra  noi  circonfuso. 
Poiché  altra  volta  sulla  nostra  rivista  discorse  di  lui  il  migliore  e 
■più  equanime  dei  suoi  critici,  Antonio  Guilland,*  io  mi  limiterò  nel  pre- 
sente artìcolo  a  esaminare  soltanto  gli  scritti  tradotti  in  questi  due  vo- 
lumi; anzi,  per  poterne  discorrere  con  agio  e  con  non  eccessiva  prolis- 
sità, m*intratterò  specialmente  sul  secondo:  quello  che  contiene  una 
serie  di  saggi  sulla  Rivoluzione  francese  del  1848  e  sull'Impero  del 
terzo  Napoleone. 

La  Rivoluzione  francese  del  1848  secondo  il  Treitschke. 

Qual'è,  giudicando  spassionatamente  i  fatti,  lungi  dalle  ispirazioni 
del  successo  o  dell'  insuccesso,  che  così  profondamente  turbano  tutti  i 
giudizi  degli  umani,  il  carattere  della  Rivoluzione  francese  del  1848? 

Quel  movimento,  tanto  infelice  nel  suo  tragico  epilogo,  fu  opera  di 
due  minoranze  sperdute  tra  una  sterminata  maggioranza,  o  indiffe- 
rente od  ostile:  una  minoranza  di  intellettuali,  superstiti  o  rinati  ideo- 
loghi  della  Repubblica,  contro  un  governo  —  la  Monarchia  del  lùglio  —, 
che,  non  ostante  molti  buoni  tratti,  aveva  deluso  le  piene  sparanze  di 
coloro  che  al  1830  avevan  creduto  di  potere  senz'altro  tornare  ai 
giorni  migliori  della  Grande  Rivoluzione  ;  un'altra  minoranza,  rappre- 
sentata dai  gruppi  più  avanzati  delle  nascenti  organizzazioni  socialiste 
le  quali  cominciavano  a  reclamare  con  vivacità  l'obbligo  di  un'alta  consi- 
derazione sociale  verso  il  nascente  quarto  stato  operaio.  Opera  dunque  di 
due  minoranze,  e,  quel  ch'era  peggio,  minoranze;  non  solo  rispetto  a 
tutta  la  Francia,  ma  a  qixeW élite  della  Francia,  che  fin  dal  1789  era 
stata  Parigi,  la  quale,  ancora  una  volta,  dovea  essere  il  focolare  e  la 
tomba  del  nuovo  movimento.  Considerata  sotto  questo  aspetto,  la  Ri- 
voluzione francese  del  1848  appare  perciò  come  uno  dei  più  nobili 
episodii  della  storia  moderna.  Allorché  infatti  si  esaminano  uno  ad  uno 


1  Cfr.  Nuova  Rivista  Storica,  A.  I,  fase.  II:  A.  Guilland,  Enrico  von  Treitschke. 
Nel  numero  della  rivista  del  gennaio  sarà  pubblicato  uno  studio  di  E.  BertaNA  sulla 
Politica  del  Treitschke. 


556  Corrado  Barbagallo 


^li  ideali  e  i  propositi  di  politica,  interna  ed  estera,  di  quella  neonaia 
Repubblica  —  la  pienezza  della  sovranità  popolare,  incarnata  nel  suf- 
fragio universale;  il  rispetto  più  assoluto  del  principio  di  nazionalità;^ 
la  fraternità  sociale  ;  i  diritti  del  quarto  stato  —  ;  allorché  si  conside- 
rano persino  l' incruenza  e  la  sua  cavalleresca  generosità,  uniche  nella 
storia,  verso  gli  avversari,  noi  possiamo  dire  che  la  storia  del  mondo 
moderno  è  progredita,  progredisce,  sforzandosi  di  realizzare  uno  dopo 
l'altro  quegli  ideali  e  proponendoseli  come  meta  del  suo  pellegrinag- 
gio secolare. 

Lo  stesso  movimento  socialista  ci  appare  sotto  una  luce  assai  più 
simpatica  del  più  tardo  socialismo  europeo.  I  ceti  operai,  che  combat- 
tono —  anche  sulle  barricate  —  non  rappresentano  l'egoismo  di  classe, 
che  quel  movimento  andrà  sfoggiando  di  poi  :  essi  sono  consci  del 
nuovo  valore  assunto  nel  mondo,  ma  non  chiedono  che  di  lavorare 
fraternamente  con  pari  diritto  degli  altri,  nella  grande  società  umana. 
Né  può  dirsi  ch'essi  non  vedano  nulla  al  di  là  del  proprio  interesse 
di  classe  o  tutto  riportino  a  questa  esclusiva  unità  di  misura.  I  dirigenti 
il  movimento  socialista  del  tempo  tengono  d'occhio,  tutti  insieme,  il 
lato  politico,  il  lato  economico,  quello  nazionale,  quello  universale, 
dello  specifico  problema  che  li  affatica.  E  quel  loro  ideale  operaio 
sarà,  molti  anni  più  tardi,  e  a  più  riprese,  l'ideale  di  tutti  coloro,  che 
dovranno  lottare  contro  le  degenerazioni  unilaterali  di  questo  o  di 
quell'altra  movimento  socialista. 

Per  certo,  molte  altre  circostanze  che  qui  non  è  il  luogo  di 
illustrare  —  la  fase  critica  dell'economia  borghese  in  Francia  ;  le  condi- 
zioni del  proletariato  rurale;  lo  scarso  sviluppo  del  così  detto  prole- 
tariato industriale  —  spiegano  bene  come  quel  movimento  fosse  con- 
sacrato all'insuccesso.  Ma  lo  storico,  il  cui  compito  precipuo  è  di 
guardare  al  passato,  cercando  di  comprenderlo  innanzi  di  giudicarlo) 
cercando  di  rifarne  nel  proprio  spirito  le  ragioni  e  il  processo,  cer- 
cando di  simpatizzare  con  esso  —  quale  che  ne  sia  la  natura  —  e 
di  usare  sempre  critèri  relativi  di  giudizio,  giacché  nulla  di  assoluto 
esiste  nella  storia,  e  ciò  ch'é  oggi  è  bene,  domani  sarà  male,  e  ciò 
che  dona  il  bene,  porta  seco  il  suo  elemento  contrario  ;  lo  storico  — 
dico  —  non  può  travolgere  in  una  catastrofica  condanna  tutti  gli  ele- 
menti di  quel  grande  moto  politico-sociale:  quelli  che  erano  capaci  di 
effetti  utiU  e  gli  altri  che  questi  resultati  soffocarono  o  impedirono; 
i  vinti  ed  i  vincitori;  le  vittime  ed  i  carnefici. 


1  Non  sì  tratta  di  particolare  che  ora  venga  messo  in  evidenza  per  mero  inten" 
dimento  polemico.  Tale  aspetto  della  Rivoluzione  del  1848  rilevò  a  suo  tempo  uno 
dei  suoi  critici  più  obbiettivi,  E.  Ollivier,  L'Empire  Uberai,  Paris,  1895,  I  {Du  prin- 
cipe des  nationalités),  pp.  483  sgg.  e  passim. 


Francia  e  Germania  dal  1848  al  1871  557 

Debbo  dire  di  più:  lo  storico  in  fondo  non  ha  mai  il  diritto  di 
queste  violente  condanne  :  lo  storico  deve  ^spiegare  come   il   presente 
si.  generi  dal  grembo  del  passato  ;  come  il  presente  generi  Tavvenire, 
e  per  esso  ogni  elemento  del  passato  e  del  presente  è  sacro,   perchè 
porta  in  grembo  i  germi  di  ciò  che  più  tardi  saranno  il  bene  ed  il 
male.  Ma  il  Treitschke  non  è  per  certo  di  questa  opinione.  Il  Treitschke 
affronta  la  storia  francese  armato  di  una  serie  di  concetti-limite,  di 
una  serqua  di  unità  di   misura,  per  mezzo   delle  quali  soltanto  sa- 
rebbe dato,  a  suo  avviso,  di  valutare  e  giudicare  quel  passato.  Co- 
desti concetti  sono  di  vario  genere.  V*è  la  serie  dei  concetti  antide- 
mocratici e  antidealistici.  Un  partito  che  s'attiene  al  metodo  delle  dimo- 
strazioni popolari  ;  un  partito  che  vuol  agire,  pur  essendo  minoranza, 
pecca,  secondo  il  Treitschke,  di  «  imprevidenza  puerile  »  ;  è  un  partito 
deplorevolmente  sovversivo  (II,  5).  Un  movimento,  che  proclama  il 
suffragio  universale,  la  fraternità  come  supremo  principio  sociale,  la 
eliminazione  della  miseria  mercè  Tamore  <  e  per  soprassello  »   (sic  !) 
—  orribile  a  dirsi  !  —  la  «  soppressione  della  schiavitù  dei  negri  »  ; 
l'abolizione  della  pena  di  morte  (II,  8-9;  9),  è  un  movimento  condannato 
al  suicidio.  «  Per  tutto  questo,  dunque  »,  si  chiede  il  Treitschke,  «  le 
strade  della  capitale  furono  arrossate  di  sangue,  per  questo  una  scossa 
terribile  fu  riserbata  alla  pace  del   mondo?  E  che  cosa  sarebbe  mai 
stato  della  rettitudine  e  chiarezza  tedesca  se  mai  noi  avessimo  potuto 
ammirare  ana  tale  vertigine!  »  (II,  9).  Una  costituzione   politica,   che 
premette  agli  articoli,  che  le  saranno  propri,  Taffermazione  del  dovere 
dei  cittadini  di  amare  la  patria,  difendere  a  ogni  costo  —  anche  della 
vita!  —  la  repubblica,  e  di  procacciare  i   mezzi  di  sostentamento  ai 
bisognosi,  è,  secondo  il   Treitschke,  una  costituzione,  la  quale   cade 
nel  fantastico  e  nel  ridicolo  (II,  34).  Ma  v'ha  anche  di  peggio  :  se  ogni 
possibile  forma  di^  monarchia  viene  da  lui  giudicata  «  più  salutare  »  di 
questa  repubblica  (II,  42),  un  principe,  che  abbandona  l'assolutismo 
e  adotta  un  regimie  liberale  è  per  lui  colpevole  di  tramutarsi  volonta- 
riamente in  un  «  regal  fantoccio  costituzionale*  (II,  126).  Così  come 
tentar  di  guardare  con  amore  dall'alto  del  governo  ai  ceti  minori  della 
popolazione,  è  deplorevole  «  socialismo  monarchico  »  (II,  97),  è  «  tiran- 
nide democratica  »,  quale  si  ebbe  tutt'al  più  sotto  gì'  imperatori   ro- 
mani, ma  che  la  storia  moderna  non  aveva  mai  ancora  veduta  (II,  146)  ; 
così  come  colpevole  e  responsabile  "di  tirannide  democratica,  favoreg- 
giatrice   d'indolenza   verso   i    doveri  civili,  è   qualunque  regime  che 

adotti  il  sistema  della indennità  parlamentare  (II,  111). 

V'ha  poi  in  Treitschke,  quale  unità  di  misura  dei  fatti  storici,  la  serie 
dei  preconcetti  nazionalistici.  Come  tutti  gli  storici  tedeschi  del  se- 
colo XIX,  il  Treitschke  ha  creduto  di  poter  estrarre  dalla  psiche  collettiva 


558  Corrado  Barbagallo 


del  popolo  tedesco  certi  tratti  spirituali  caratteristici,  i  quali,  allorché  si 
realizzano,  bastano  a  conferire  dignità  e  verità  storica  ai  fatti  in  cui  essi 
s'incarnano  ;  allorché  non  si  realizzano,  o  si  realizza  qualcosa  di  diverso 
da  loro,  bastano  con  la  loro  assenza  ad  oscurare  la  nobiltà  e  la  verità 
del  fatto  storico.  L'anima  tedesca  è  «chiara  e  diritta»  (II,  9).  Hegel 
quindi  non  intenderebbe  le  astruserie  ideologiche  francesi  ;  il  Tedesco, 
che  pure  non  ha  avuto  Rousseau,  bada  sopra  tutto  all'intimità  morale 
dell'anima  (II,  80);  la  parte  migliore  della  storia  e  dalla  psiche  francese 
fu  forse  elaborata  da  elementi  latini  e  germanici,  ora  quasi  interamente 
schiumati  (II,  83).  La  caratteristica  principale  della  storia  tedesca,  la 
quale  pure  ha  creato  l'Impero  di  Guglielmo  I  e  di  Guglielmo  II,  lo 
Zollverein,  le  leggi  sociali  .bism^rckiane,  il  socialismo  di  Stato,  la 
democrazia  sociale,  e  il  cui  vanto  maggiore  è  il  progresso  dell'orga- 
nizzazione statale,  sarebbe  l'autonomia  comunale,  l'indipendenza  del- 
l'educazione delle  moltitudini  (II,  109);  la  scrupolosa  astensione  dello 
Stato  dal  mescolarsi  nel  libero  moto  delle  energie  economiche  (li, 
142)...  Uno  dei  tratti  più  meritorii  della  stirpe  e  della  storia  tedesca,  al 
confronto  degli  altri  popoli,  è  la  prolificità.  E  questo,  semplicemente, 
perchè  la  storia  europea  «  toccherà  il  culmine,  quando  l'aristocrazia 
popolare  della  razza  bianca  dominerà  le  terre  di  là  dagli  oceani  » ,  nel 
qual  compito  il  secondo,  o  il  primo  posto,  toccheranno  alla  stirpe 
tedesca...  (II,  154). 

Vi  sonò  poi  in  Treitschke  i  concetti  e  i  criteri  di  valutazione  anti- 
francesi, che  per  brevità  ometto,  e  che  oggi  alla  luce  di  tante  altre  cir- 
costanze, muovono  talora  a  malinconico  sorriso;*  vi  sono  i  concetti 
e  i  criteri  del  protestantesimo  o  dell'intransigenza  protestante,  che  oggi 
fa  senso  ritrovare  in  pagine  tedesche,  ma  che  al  Treitschke  dettavano 
periodi  come  questi:  «Noi  protestanti  non  riusciamo  a  considerare  le 


1  «  Il  tradizionale  principio  francese  è  che  la  potenza  della  Francia  si  basa  sulla 
rovina  dei  vicini  »  (II,  25)  ;  «  l'educazione  del  popolo  francese  è  volta  a  svegliare 
l'ambizione  esteriore  in  luogo  dell'intimità  morale  dell'anima»  (II,  80);  la  nazione  è 
penetrata  di  «  malvagia  libidine  guerresca  »  (II,  90)  ;  <  qui  l'unico  legame  possibile  tra 
governanti  e  governati  è  costituito  dall'interesse  »  (II,  92)  ;  qui  impera  «  l'uzzolo  fan- 
ciullesco degli  effetti  teatrali,  l'antica  atroce  ferinità  dell'odio  di  partito»  (II,  120). 
<  La  nazione  non  è  atta,  né  ora,  né  per  molto  tempo  appresso,  a  comportare  la  libertà  » 
(II,  129);  quello  francese,  anzi,  è  un  popolo  d'istinti  servilmente  monarchici  (laddove 
il  tedesco,  sotto  qualsiasi  forma  politica  è  un« repubblicano  nato,  I,  14),  e  per  lui 
l'eguaglianza  è  solo  un  sospiro  d'invidiosi  (I,  18).  La  Francia  è  un  paese  nato  pel 
comunismo,  laddove  in  Germania  questo  «  a  stento  ha  suscitato  proseliti  tra  spiriti  di 
poveri  diavoli...  »,  in  quanto  esso  è  una  dottrina  che  «  offende  crudamente  tutte  le  con- 
suetudini statali  e  sociali...  »  (I,  21).  La  Francia  <  esalta  come  un  titolo  di  superiorità 
la  provvidente  onnipotenza  dello  Stato,  con  ragioni  che  un  tedesco  intende  a  mala 
pena...  >  (I,  23).  I  Francesi  posseggono  un  senso  della  legalità  e  devastato  dalle  fon* 
damenta»  (I,  35);  e  ciò,  non  solo  ne!  riguardi  del  loro,  ma  di  tutti  ^li  altri  popoli... 


Francia  e  Germania  dal  1848  al  1871  559 


precipitose  convulsioni  della  vita  francese  senza  lamentare  ancora  una 
volta  il  calamitoso  editto,  che  bandì  dalla  Francia  la  fede  evangelica. 
Quando  a  un  popolo  ardimentoso  e  geniale  non  resta  altra  scelta  che 
la  Chiesa  dell'autorità  e  del  piatto  ossequio;  quando  nelle  questioni 
più  sacre,  supremamente  personali,  gli  è  tolta  la  debita  libertà  », 
«allora  un'agitazione  convulsa  invade  tutta  intera  la  sua  vita  spiri- 
tuale..., e  la  società...  ritorna  sempre  a  cercare  di  nuovo  la  propria 
salvezza  nella  servitù. . .  »  (II,  72). 

Or  bene,  gli  è  con  questi  criterii,  i  quali,  se  mai,  corrispondono 
solo  a  verità  o  ad  errori  relativi  e  contingenti;  gli  è  con  questi  cri- 
terii —  dico  —  che  il  Treitschke  affronta  l'esame  e  svolge  là  sua  re- 
quisitoria contro  la  Rivoluzione  francese  del  '48,  nella  quale  come  (egli 
stesso  ce  ne  avverte)  in  tutta  la  storia  della  Francia  moderna,  si  rea- 
lizza l'orrore  della  mancanza  di  queste  virtù  cardinali  o  la  presenza 
delle  qualità  loro  contrarie.  Ma  tante  accuse  hanno  un  centro  organico, 
intorno  a  cui  tutte  vanno  mano  mano  serrandosi,  un'accusa  maggiore 
in  cui  tutte  si  risolvono  e  la  quale  comprende  ogni  altra:  che  cioè 
la  rivoluzione  del  *48  finì  nell'insuccesso  perchè  ricorse  in  un  paese 
dedito  soltanto  alla  ricerca  del  proprio  interesse  materiale  ed  ebbe  di 
contro  classi  sociali  numericamente  preponderanti  e  sprovviste  di  qual- 
siasi luce  di  idealità. 

Incredibile  a  dirsi  !  L'intransigente  nazionalista  tedesco  piglia  a 
imprestito  questo  criterio  d'interpretazione  dal  più  radicale  dei  socia- 
listi del  suo  tempo,  da  Carlo  Marx,  autore  di  due  scritti  storico-polemici 
(come  questi  del  Treitschke)  sulla  Rivoluzione  del  '48  e  i  casi  successivi  : 
«  La  lotta  di  classe  in  Francia  dal  1848  al  1850  »  e  i^Il  Diciotto  Brumaio 
di  Laigi  Bonaparte  ».  Il  Treitschke  non  li  ricorda  mai  ;  pure  chi  è  pratico 
degli  uni  e  degli  altri  ha  l'impressione  ch'egli  ne  attinga  talora  giudizi 
particolari,  concetti,  persino  giri  di  frasi,  sia  pure  filtrati  e  fusi  in 
un'esposizione  stilisticamente  perfetta.  Certo  egli  ne  attinge  il  concetto 
fondamentale  sovraccennato,  che  gli  serve  quale  argomento  principe 
per  condannare  in  blocco  la  Rivoluzione  francese  del  '48.*  Ma  il  Marx, 


(I,  44).  Essi,  a  differenza  dei  Tedeschi,  pensano  che  la  gloria  militare  debba  essere 
contaminata  da  violenze  e  da  devastazioni...  (I,  45).  La  Francia  «  vuole  avocare  a  sé 
e  accentrare  tutte  le  idee  dell'Europa,  e  pensa  che  il  mondo  si  creda  in  debito  di 
accettare  da  lei  con  gratitudine  tutti  i  pensieri,  tutti  i  capricci,  che  le  balenano  nella 
mente  »  (I,  50).  Parigi  infine  è  «  la  città,  che  oggi  nessun  tedesco,  che  abbia  senso 
di  dignità,  può  più  visitare...  »  (li,  260). 

1  Darò  qualche  esempio  e  qualche  prova.  Nel  voi.  II,  pag.  20,  il  Tr.  enuncia 
la  sottile,  eppur  veridica,  opinione  che  «  la  repubblica  aveva  paura  di  se  stessa  »,  e  «  la 
maggioranza  reazionaria  la  considerava  soltanto  come  un  terreno  neutrale  ».  Questo 
concetto  è  del  Marx,  e  da  lui  ripetutamente  espresso  nelle  sue  Lotte  di  classe  in  Fran- 
cia^ p.  62  (trad.  it.  in  Marx,  Engels,  Lassalle,  OperCt  Milano,  Società  ed.  Avanti  !. 


560  Corrado  Barbas^allo 


che  pure  vien  giudicato  un  partigiano,  non  commette  mai  l'errore, 
a  cui  lo  storico  Treitschke  perviene,  di  coinvolgere  nella  stessa  con- 
danna la  Rivoluzione  del  1848  e  coloro  che  del  suo  insuccesso  furono 
causa.  Il  Marx,  partendo  da  un  suo  speciale  punto  di  vista,  esalta  l'opera- 
dei  socialisti  del  tempo,  che  al  più  rimprovera  di  timidità,  di  esitanza, 
di  moderazione  eccessiva  rispetto  alle  altre  classi  (timidità  e  modera- 
zione, ch'egli  del  resto  spiega  con  le  condizioni  arretrate  dello  sviluppo 
operaio  in  Francia)  ;  ma  ciò  ch'egli  deplora  non  è  la  rivoluzione  del  1848, 
sibbene  le  forze  che  quella  rivoluzione  contaminarono  o  sopraffecero. 
Pel  Treitschke  la  cosa  è  ben  diversa,  e  la  condanna  della  Rivoluzione 
del  *48  equivale  alla  condanna  della  Francia  moderna,  su  cui  più 
tardi  la  Germania  sarà  dal  destino  prescelta  ed  «  eseguire  il  giudizio 
della  storia...  ». 

Tale  condanna  è  anzi  così  universale,  che  una  persona,  una 
persona  sola  se  ne  salva:  colui  che  meno  si  aspetterebbe,  l'autore  del 
colpo  di  Stato  del  2  dicembre  1851  :  Luigi  Napoleone  Bonaparte,  e 
proprio  in  grazia,  non  già  dei  suoi  atti  migliori,  che  saranno  più  tardi 
a  loro  volta  condannati,  ma  in  grazia  della  grande  macchia  della  sua 
vita:  il  colpo  di  Stato.  Vero  è  che  il  Treitschke  ritrova  che  in  lui 
«  la  mancanza  di  coscienza  dello  zio  aveva  un  degno  erede  »  ;  ma 
l'uomo  politico  (è  questo  uno  degli  aforismi  bismarckiani  del  Treit- 
schke) no;i  deve  rispettare  la  morale  più  del  necessario.  Perciò  Luigi 
Bonaparte  è  il  solo  uomo  €  superiore  »  del  tempo,  l'unico,  «che  per-> 
seguisse  uno  scopo,  politico,  chiaro,  conseguibile. . .  »  (II,  64).  Se  non 
che  la  menzione  del  Bonaparte  ci  trae  senz'altro  all'esame  dell'altra 
parte  —  la  maggiore  —  del  volume  del  Treitschke:  il  secondo  Impero 
napoleonico. 

Il  Secondo  Impero  ed  il  giudizio  del  Treitschke^ 

Questa  seconda  parte,  la  quale  corrisponde  a  circa  200  delle  262 
pagine  del  volume,  è  però,  a  differenza  della  prima,  svolta  secondo  un 
metodo  assai  differènte.  Nella  prima  il  Treitschke  seguiva  i  fatti  nel  loro 
svolgimento  successivo,  e  la  Rivoluzione  del  '48  era  esaminata  nelle  sue 


1914,  voi.  I,  N.  6)  e  in  Diciotto  Brumaio,  pp.  30  ;  60;  65  {ibid.,  N.  7).  Replicatamente 
il  Tr.  imputa  alla  Repubblica  del  '48  di  non  aver  voluto  decentralizzare  l'amministra- 
zione; ma  anche  questo  è  uno  dei  concetti  fondamentali  del  Marx  (cfr.  Diciotto  Bru- 
maio, pp.  17;  39;  82;  83).  L'idea  che  il  trionfo  del  Bonaparte  fosse  un  trionfo  dei 
contadini  (Tr.  II,  p.  45  e  passim)  è  l'idea  principe  di  questa  stessa  operetta  dello  scrittore 
socialista  (pp.  21  ;  83  segg.  e  passim).  «  I  legittimisti  pellegrinavano  a  Wiesbaden  ;  gli 
Orleanisti  a  Clàremont  »,  scrive  il  Jr.  a  p.  57  del  suo  secondo  volume;  e  Marx: 
«  I  legittimisti  intrigavano  a  Eros  ;  gì;  Orleanisti,  a  Claremont. . .  »  {op.  cit,  37).  E 
così  via. 


Francia  e  Germania  dal  1848  al  187 1  561 


origini,  nel  suo  divenire,  nella  sua  catastrofe.  Per  il  Secondo  impero, 
il  metodo  è  completamente  mutato.  Il  Treitschke  scompone  quel  gran- 
dioso fenomeno  storico,  durato  dal  1851  al  1870,  in  parecchi  dei  suoi 
elementi:  la  costituzione  politica,  l'amministrazione,  la  situazione  eco- 
nomica, la  politica  estera,  e  di  ciascuno  discorre  separatamente.  È  chiaro 
che  le  tendenze  naturali  dello  storico  trovino  in  questo  piano  di  lavoro 
un  terreno  pericolosamente  propizio  al  loro  aggrayarsi,  anzi,  al  loro 
irrimediabile  peggiorare. 

In  questo  nuovo  piano,  il  Treitschke  ha  dinanzi  a  sé,  non  più  la  ge- 
nesi di  un  fenomeno  da  spiegare,  ma  dei  fenomeni  storici,  isolati  da 
tutto  il  complesso  fatto  storico,  su  cui  esercitare  a  bell'agio  la  pole- 
mica o  la  requisitoria.  L'una  e  l'altra  di  queste  due  cose  potranno 
essere  brillanti  ed  efficaci,  ma  il  più  divino  della  storia  si  dilegua. 
Che  cosa  può  infatti,  dal  punto  di  vista  storico,  significare  un  esame 
di  tutti  i  compromessi,  di  tutte  le  contradizioni  della  costituzione  o 
delle  varie  costituzioni  del  Secondo  impero  ?  Ogni  costituzione  —  da 
quella  degli  Stati  Uniti  a  quella  dell'Impero  tedesco  —  è  un  compro- 
messo, e  qualsiasi  tra  esse,  e  ciascuna  delle  sue  parti,  può  dar  materia 
a  una  brillante  requisiforia.  Che  cosa  può,  dal  punto  di  vista  storico, 
significare  una  requisitoria  contro  le  forze  sociali  che  operavano  sul 
Secondo  impero,  e  sul  governo,  che  ne  avrebbe  subito  l'influsso  ?  Che 
valore  storico,  per  l'idea  generale  e  pel  giudizio  da  portare  su  quel 
governo,  può  avere  una  descrizi  one  della  situazione  economica  della 
Francia  o  della  politica  estera  del  Bonaparte,  distaccate  da  tutte  le  re- 
stanti forze,  che  operavano  sulla  di  lui  attività  ?  Certamente,  in  questi 
capitoli  c'è  qualche  cosa  da  attingere;  molto  —  concedo  —  d'interes- 
sante; quello  che  però  manca  è  la  visione  del  processo  storico,  del  suo 
graduale  divenire  e  precipitare  :  quello  che  costituisce  appunto  la  storia. 

Così  avviene  che  in  questa  parte,  assai  più  che  nella  prima,  ogni 
fatto  non  sia  spiegato  col  suo  precedente,  né  sia  giudicato  alla  stregua 
degli  effetti  ch'esso  produrrà;  ma  venga  considerato  isolatamente,  in 
base  a  criteri  molteplici,  e  divenga  motivo  di  contradizioni,  i  cui  termini 
sono  riallacciati  a  distanza,  per  simpatie  irrefrenabili  o  per  invincibili 
antipatie. 

Ma  un'altra  circostanza,  non  meno  grave,  in  questo  secondo 
volume,  è  che  il  Treitschke,  nella  sua  foga  di  giudicare  e  di  sentenziare, 
non  si  è  curato  dì  studiare  con  attenzione  la  sua  materia,  e,  poiché  i 
fatti  dovevano  servirgli  come  mezzi  ad  uno  scopo  .estraneo,  egli  non  ha 
cercato  di  accertarli,  sia  pure  con  mediocre  rigore.  La  serie  dei  veri 
e  propri  errori  storici  di  questa  parte  sarebbe  assai  lunga  se  si  volesse 
elencarla  compiutamente.  Io  non  riferirò  che  alcuni  esempi,  forse  non 
tra  i  più  gravi,  certo  fra  i  più  significativi. 

3ó  —  Nuova  Rivista  Storica. 


$62  Corrado  Barbagallo 


\\  Treitschke  vuole  ad  un  certo  punto  spiegare  di  qùal  natura  mai 
fosse  i!  governo  di  Napoleone  III,  e  Io  definisce  «  una  tirannide  perso- 
nale, eletta  dalle  moltitudini  e  governante  a  prò'  di  codesto  quarto 
stato,  pervenuto  alla  coscienza  di  sé  >  (II,  91). 

Quarto  stato  —  gli  è  ormai  un  concetto  pacifico  —  significa  le 
classi  operaie  della  città  e  della  campagna.  Ora,  che  il  governo  napo- 
leonico avesse  cercato  più  volte  di  venire  incontro  ai  bisogni  di  queste 
è  cosa  fuori  dubbio  e  che  fece  onorfc  a  quel  principe.  Ma  dire  che  le 
forze  operanti  sul  governo  di  Napoleone  III  emergessero  dal  quarto 
stato,  è  certamente  un  grave  errore  storico.  Il  governo  del  secondo 
Bonaparte,  come  avevano  rivelato  i  suoi  precedenti,  e  come  rileverà  tutta 
l'attività  del  principe  nel  campo  economico,  è  il  governo  della  borghesia 
francese:  la  borghesia  industriale,  in  tutti  i  suoi  gradi,  la  borghesia 
rurale  della  Francia  agricola.  Per  contro  il  quarto  stato  «  pervenuto  alla 
coscienza  di  sé  >  costituì  uno  deglf  elementi  irreducibili  della  nuova 
società,  e  a  tale  situazione  si  deve  in  gran  parte  la  catastrofe  del  1870, 
che  fu* catastrofe  d'origine  tutt'affatto  interna.; Del  resto  il  Treitschke 
stesso,  dimenticando  il  suo  asserto,  scrive  altrove  che  l'Impero  «non 
volle  favorire  un  ceto  solo  »  ;  che  esso  «  seppe  contentare  l'ambizione  e 
la  foga  industriale  della  borghesia  e  nello  stesso  tempo  ripristinare  la 
nobiltà.,.  >  (II,  94):  il  che  non  fa  più  intendere  come  s'abbia  a  pensare 
che  «  il  quarto  stato  dominava  interamente  sulla  vita  pubblica...  t  (II,  95). 

Altrove  il  Treitschke,  che  aveva  emesso  tutta  una  serie  di  giudizi 
sfavorevolissimi  sul  dispotismo  del  Bonaparte,  vuole  emetterne  uno 
sul  governo  liberale  inaugurato  col  Ministero  Ollivier.  Naturalmente 
le  frecciate  ai  novatori  non  mancano.  L'Ollivler  è  dallo  storico  ritratto 
nella  posa  semiseria  di  persona  che  €  rifulge  di  unzione  e  di  virtù»; 
i  liberali,  che  'esultano,  sono  degli  illusi  nell'aspettativa  di  una  quarta 
notte  di  agosto  ;  il  Journal  des  débats,  il  quale  «  protestava  »  che  presto 
la  Prussia  avrebbe  invidiato  le  libertà  francesi,  e  il  Temps,  il  quale 
vedeva  imminente  il  giorno  in  cui  «  il  virtuoso  esempio  della  signora  Ol- 
livier avrebbe  nobilitato  i  costumi  della  Corte  »,  sarebbero  degli  ingenui 
passibili  di  sorriso.  Ma  in  ogni  modo,  il  Treitschke  conviene  che  la 
Francia  possiede  ora  veramente  la  più  libera  costituzione  della  sua 
storia  (II,  126).  «  Pure,  l'antico  dispotismo  dei  prefetti  non  si  era 
menomamente  cambiato  >  e  «  450  cittadini  francesi,  in  parte  con  lettres 
de  cachet,  furono  buttati  in  prigione  perchè  la  polizia  pretendeva  di  avere 
scoperto  una  congiara  *.  Ma  no,  non  si  trattava,  egli  s'affretta,  a  spie- 
gare, dell*  incorreggibile  dispotismo  dei  prefetti,  e  Gli  era  che  la  nuova 
«trasformazione  magica  del  governo  imperiale  era  in  fatto»,  sempli- 
cemente, la  grossolana  replica  di  una  commedia,  di  cui  i  Francesi 


Francia  e  Germania  dal  1848  al  18 ji  563 

si  erano  pasciuti  fino  alla  nausea.  Il  dispotismo  di  un  partito  cacciava 
l'altro  :  la  soluzione  del  giorno  era  novellamente  s^emparer  da  pouvoir  » 
(II,  126-127). 

Ecco  come  il  Treitschke  apprezza  la  virtù  dell'Ollivier  e  il  valore 
del  «  più  libero  »  governo  della  Francia  ;  ecco  come  egli  colorisce  tutte 
le  cose  francesi,  quelle  che  ha  reputate  peggiori,  e  quelle  che  ha  giu- 
dicate migliori.  Ma  il  guaio  si  è  ch'egli  stesso  ha  isolato  l'avvenimento 
—  la  «  pretesa»  congiura  e  la  repressione  —  da  tutto  l'intreccio  della 
situazione  politica  del  momento. 

Ed  invero,  in  sullo  scorcio  del  suo  non  lunghissimo  governo,  il 
Bonaparte  era  venuto  a  trovarsi  di  fronte  a  parecchie  specie  di  oppo- 
sizione: un'opposizione  d'ordine  finanziario  ed  economico,  un'oppo- 
sizione clericale,  un'opposizione  liberale  e,  finalmente,  un'opposizione 
socialista  e  repubblicana  con  carattere  rivoluzionario.  La  più  temibile 
era  certamente  quest'ultima:  le  altre  avrebbero  continuato  a  protestare, 
a  formulare  riserve,  e  poi  a  lasciarsi  placare  ;  questa  no  :  nasceva  dalle 
memorie,  non  mai  sopite,  del  2  dicembre,  dalle  tradizioni  giacobine  della 
grande  Rivoluzione,  dal  ricordo  cocente  dello  scacco  sanguinoso  del 
1848,  e  reclutava  le  sue  forze  nell'esercito,  ogni  giorno  crescente,  e  sem- 
pre più  saldamente  e  cupamente  organizzantesi,  del  proletariato  urbano 
delle  varie  città  industriali  francesi.  Or  bene,  il  nuovo  ministero  liberale 
dell'Ollivier,  se  venne  in  buona  parte  a  dissipare  parecchie  delle  altre 
specie  di  opposizioni,  venne  del  pari  a  inacerbire  potentemente  que- 
st'ultima —  l'opposizione  socialista-repubblicano-rivoluzionaria,  che 
pure  aveva  sognato  prossima  la  palingenesi  universale  — ,  perchè  esso 
venne  con  la  sua  sola  presenza  ad  isolarla  dalle  altre  e  a  gettarla  nel- 
l'angolo morto  dell'anarchia. 

Furono  perciò  tentati  allora  sforzi  supremi  a  fine  d'impedire  l'ultima 
liberale  reincarnazione  del  Bonaparte,  e  furono  apparecchiati  in  Francia 
dimostrazioni  violente,  grandiosi  scioperi  operai,  e  ordita  a  Londra 
una  congiura,  che  avrebbe  avuto  per  iscopo  l'assassinio  del  Bonaparte 
e  l'instaurazione  della  «repubblica  sociale».  La  «pretesa»  congiura 
era  quindi  la  più  verisimile  delle  realtà,  gli  esecutori  designati  e  i 
suoi  ideatori  la  confessarono  in  giudizio  e  rivelarono  più  tardi  in  scritti 
pubblici.^  Che  cosa  dunque  si  sarebbe  dovuto  fa:re  se  non  arrestarli 
e  processarli  ?  Quale  il  fondamento  dell'aspro  giudizio  del  Treitschke 
sullo  spirito  informatore  del  nuovo  governo  e  sui  perfidi  scopi  dei  suoi 
uomini  ? 

Ma  il  nuovo  governo  liberale  sarebbe  stato  colpevole  di  qualcosa 
di  peggio:  di  avere,  «non  appena  arrivato  al  potere»,  gettato  indif- 


i  Cfr.  E.  Ollivier,  Empire  liberal,  Paris,  1908,  XIU,  pp.  372  sgg.  e  fonti  ivi  dUte. 


564  Corrado  Barbagaìlo 


ferentemente  in  un  angolo  tutti  i  desiderii  di  autonomia  amministra- 
tiva, di  cui  esso  era  stato  ii  portavoce  e  dalla  quale  «  dipendeva  prin- 
cipalmente »  l'avvenire  della  libertà  politica  francese. 

Ometto  di  discutere  sul  valore  e  sull'efficacia  di  codesta  riforma, 
almeno  in  quel  momento.  Ma  dimentica  il  Treitschke  le  vicende  del 
Ministero  Ollivier?  La  vita  di  questo  ministero,  che  nominalmente  ebbe 
principio  il  2  gennaio,  in  realtà  comincia  solo  alla  dimane  del  plebi- 
scito, che  sanciva  le  nuove  grandi  riforme  costituzionali  e  senza  la  cui 
sanzione  quel  tentativo  liberale  si  sarebbe  dovuto  dire  interamente 
fallito,  ossia  col  9  luglio  1870.  Or  bene,  dopo  l'enorme  fatica,  che 
quelle  riforme  e  il  plebiscito  avevano  procurata,  tutta  l'attività  del 
Gabinetto  fu  assorta  in  quello  che  si  potrebbe  dire  un  lavoro  d'assesta- 
mento interno  e  nella  replicata  difesa  dai  replicati  attacchi  della  Destra. 
Esso  cominciava  appena  a  respirare,  allorché  fu  sorpreso  dai  noti 
incidenti  diplomatici,  che  condussero  alla  guerra  franco  prussiana  dei 
1870-71,  la  quale,  a  mezzo  il  luglio,  era  già  dichiarata.  Or  bene,  come 
si  potrebbe  in  tal  caso,  a  codesto  ministero,  la  cui  esistenza  trascorre 
fra  tempeste  d'ogni  genere,  e  a  cui  la  «buona  spada»  germanica 
stroncò  l'esistenza,  come  si  può,  dico,  e,  proprio  da  un  Tedesco,  rim- 
proverare di  non  aver  presentato  una  grande  legge  sull'autonomia 
amministrativa? 

Eppure,  ciò  non  ostante,  il  Ministero  del  2  gennaio  tradì  così  poco 
le  sue  promesse,  che  uno. dei  suoi  primi  atti  fu  la  nomina  di  una 
Commissione  extraparlamentare  di  decentralizzazione  amministrativa 
col  compito  di  elaborare  una  serie  di  progetti  destinati  a  ravvivare  la 
vita  municipale,  cantonale,  -provinciale,  alla  cui  presidenza  venne  posto 
uno  degli  uomini  politici,  che  da  decenni  aveva  consacrato  tutta  l'opera 
sua  alla  propaganda  per  la  decentralizzazione  della  Francia,  Odillon 
Barrot.  Or  bene,  se  i  lavori  di  quella  Commissione  non  poterono  essere 
interamente  utilizzati,  o  se  il  Ministero  non  potè  dar  corso  a  maggiori 
disegni  d'ordine  amministrativo,  la  posterità  dovrà  chiederne  conto, 
non  già  al  Ministero  Ollivier,  ma  al  ministero  prussiano  presieduto  dal 
Bismarck,  che  si  affrettò  a  scatenare  contro  la  Francia  la  feroce  guerra, 
«  esecuzione  del  giudizio  della  storia  »,  ieri  soltanto  vendicata.^ 

Ma  passiamo  a  qualche  cosa  di  più  importante. 

{Continua) 


Corrado  Barbaoallo. 


1  Sulla  sapiente  preparazione  diplomatica  tedesca  di  codesta  guerra  cfr.  un  mio 
studio  sulla  Revae  des  nations  latines,  marzo-giugno  1914. 


RASSEGNE 

Per  la  storia  della  filosofia  italiana:  Studi  giobertiani. 

Assistiamo  noi  a  un  risveglio  nel  campo  degli  studi  gioberbiani?  Le  po- 
lemiche attuali  su  la  nazionalità  del  pensiero  filosofico  e  il  trasformarsi  della 
coscienza  politica  italiana  hanno  indubbiamente  richiamato  alia  memoria  di 
molti  l'autore  del  «  Primato  »,  allo  stesso  modo  che  il  volger  degli  eventi 
ha  costretto  alcuni  giuristi  a  studiare  novellamente  il -pensiero  di  P.  S.  Man- 
cini, e  parecchi  critici  a  volgere  uno  sguardo  più  riverente  a  F.  De  Sanctis. 
Ma  non  da  ciò  sarebbe  lecito  indurre  che  il  Mancini,  il  De  Sanctis,  il  Gio- 
berti siano  mai  stati  posti  in  oblio.  Gli  spiriti  superficiali  dirigono  i  loro  studi 
sotto  l'impulso  degli  eventi,  ma  vi  sono  molti  —  per  buona  sorte  i  più  — 
che  seguono  una  loro  linea  di  ricerche  senza  preoccupazioni  di  attualità. 
Per  questo  gli  studi  giobertiani  non  hanno  subito  mai  soluzione  di  continuità, 
dallo  Spaventa  al  Gentile  e  al  Solmi,  anche  in  periodi  nei  quali  taluno  sor- 
rideva a  udir  parlare  di  una  tradizione  metafisica  italiana. 

Il  centenario  del  1901  raccolse  attorno  al  Gioberti  i  consueti  ricercatori 
di  attualità,  che  tosto  si  dileguarono,  lasciando  il  campo  a  una  schiera  più 
limitata.  Oggi  avviene  uiì  poco  la  medesima  cosa,  e,  se  non  possiamo  parlare 
di  un  vero  risveglio  di  studi  giobertiani,  dobbiamo  tuttavia  constatare  che 
essi  si  sono  fatti  più  intensi  e  frequenti,  sia  dal  punto  di  vista  politico,  che 
da  quello  storico  e  filosofico. 


Studi  politici. 

Tra  gli  scritti  che  si  occupano  della  concezione  politica  del  Gioberti, 
troviamo  anzi  tutto  quello  di  Balbino  Giuliano,*  del  quale  è  detto  più  larga- 
mente  nelle    pagine  di   questo  fascicolo    medesimo.   L*A.,   che  già  aveva 


1  B.  Giuliano,  Il  Frimaio  di  un  popolo  (Fichte  e   Gioòertiì^  Catania.  F.  Battiate,   191^, 
pp,  VIII-I34. 


566  Rassegne 


impostalo  in  altri  scritti  il  problema  spirituale  dell'ora  presente,^  osserva 
la  superficialità  di  talune  invettive  lanciate  contro  là  filosofia  tedesca  )da 
gente  che,  fino  al  giorno  prima,  aveva  scimmiottato  i  Tedeschi  (p.  9)  e 
afferma  la  necessità  di  uno  studio  sereno  e  profondo  di  quella  concezione 
idealistica  da  cui  derivò  l'idea  del  primato  germanico,  per  «ricercare  e  sceve- 
rare quali  furono  i  germi  fecondi  di  vita  e  quali  i  germi  patogeni,  quali  furono 
i  principi  di  valore,  donde  derivò  la  forza,  e  quali  gli  errori  che  la  fecero  de- 
generare (p.  13)  ».  L'origine  dell'idea  del  primato  germanico  è  in  Fichte; 
quella,  ben  diversa,  del  primato  italiano  è  in  Gioberti.  Qui  l'autore  riprende 
il  parallelo  tentato  dal  Faggi ,2  accennato  dal  Cesareo  ^  e  da  altri,  proponen- 
dosi di  «  mettere  a  confronto  le  fedi  di^  questi  due  grandi  spiriti,  la  diversa 
concezione  filosofica  e  storica,  su  cui  si  fondano  le  loro  fedi,  tion  per  con- 
cludere che  noi  siamo  buoni  e  che  i  Tedeschi  son  cattivi,  ma  per  determi- 
nare con  questo  confronto  quale  sia  la  forma  di  primato  che  un  popolo  può 
sognare»  (p.  16).  Così  il  N.  giunge  alla  esposizione  della  ideologia  giober- 
tiana:  e  a  questa  noi  ci  limiteremo,  lasciando  ad  altri  di  osservare  se  il 
confronto  tra  il  Gioberti  e  il  Fichte  sia  veramente  legittimo  e  fecondo. 

L'A.  si  rende  esatto  conto  che  la  teoria  politica  del  Gioberti  è  comple- 
tamente legata  alla  sua  metafisica,  ma  non  per  questo  ci  dà  una  sufficiente 
esposizione  della  dottrina  ontologica  del  filosofo  torinese.  Pone  come  postulato 
una  identità,  che  ci  pare  molto  discutibile,  tra  il  ;puntp  di  vista  della  sco- 
lastica e  quello  della  filosofia  giobertiana.  Troppo  viva  impronta  hanno  lasciato 
nel  Gioberti,  prima  le  grandi  concezioni  di  Platone  e  Plotino,  poi  quelle  mo- 
derne, italiane  e  straniere,  dal  Bruno  al  Rosmini,  da  Kant  a  Hegel,  perchè  si 
possa  così  semplicemente  ricondurre  la  posizione  e  il  valore  della  formola  ideale 
a  un  rinnovamento  della  scolastica.  Da  questo,  che  è  il  difetto  iniziale,  de- 
rivano alcune  conseguenze  nel  resto  della  trattazione.  L'A.  concepisce  uh 
Gioberti  troppo  rigidamente  ortodosso,  più  limitandosi  alla  lettera,  che  inda- 
gando lo  spirito  degli  scritti  giobertiani.  Nulla  v'ha  di  meno  ortodosso,  dal 
punto  di  vista  esteriore  e  formale -<lella  tradizione  chiesastica,  di  quel  pro- 
fondo rivolgimento  che  il  Gioberti  voleva  operare  nel  seno  del  cattolicesimo. 
Perchè  il  cattoli<:esimo  fosse  forza  viva,  occorreva  conciliare  l'autorità  con  la 
libertà  (non  quella  vana  dei  protestanti  e  dei  razionalisti)  in  una  concezione 
spirituale  che  le  superasse  ambedue  :  su  questo  argomento  ha  belle  pagine  il 
Saitta,  del  quale  diremo  più  avanti.  D'altra  parte  l'azione  spirituale  del  ponte- 
fice sulla  confederazione  neoguelfa  non  sarebbe  stata  conciliabile  né  con  una 
rigida  ortodossia,  né  con  la  politica  dei  Gesuiti.  Di  questi  l'A.  non  si  occupa,  e 
a  noi  sembra  non  si  possa  compiutamente  esporre  l'ideologia  religiosa  del  Gio- 
berti, trascurando  la  sua  lotta  con  ciò  che  egli  credeva  elemento  degenerativo,  al- 


•  Cfr.  B.  Giuliano,  Cultura  tedesca  e  umanità  latina,  in  Riv.  d'Italia,  aprile,  1915,  pp.  548- 
^^-j\  Immanentismo  e  umanità  [Polemica  con  G.  Vìdari],  in  Riv.  rfi.F/7oJo/a,  ottobre-dicembre  I9i5t 
fase.  V,  pp.  565-573. 

«  A.  Faggi,  Il  h  Primato  v»  del  Gioberti  e  i  h  Discorsi  alla  nazione  tedesca»  di  G.  A.  Fichte, 
in  Ri9.  di  Filosofia,  ottobre-dicembre,  1915,  fase.  V,  pp.  489-504. 

•  Cfr.  Italia  madre,  discorso  di  Ò.  A.  Cesareo  all'Acc.  Reale  di  Scienze  Lettere  ed  Arti 
in  Palermo  per  l'inauguraz.  dell'anno  accademico  1917,  pp.  13*15. 


Raisegnc  567 


lignato  nel  seno  della  Chiesa,  dopo  che  questa  ebbe  perduta  la  propria  egemonia 
spirituale,  come  l'A.  stesso  bene  espone  sulle  orme  del  Gioberti  (pp.  51-54). 

Netta  e  chiara  è  però  la  ricostruzione  che  il  Giuliano  ci  dà,  in  breve 
visione  sintetica,  della  teorica  del  Primato^  sopra  tutto  nei  suoi  elementi  po- 
litici. Egli  osserva  acutamente  che  l'errore  fondamentale  del  Gioberti  è  nel- 
l'illusione di  aver  superato  il  dualismo  tra  Dio  e  uomo,  pur  conservando  un 
abisso  profondo'  tra  l'ordine  degli  enti  e  quello  degli  esistenti.  Da  questa 
illusione  deriva  tutto  ciò  che  nella  teoria  neoguelfa  ripugna  alla  pratica  at- 
tuazione, e  perciò,  di  fianco  alla  coscienza  religiosa  d'una  dantesca  Italia  inter- 
nazionale, si  viene  formando  una  coscienza  laica,  estranea  alla  Chiesa,  se 
non  alla  religione,  che  prevale  nelle  sorti  d'Italia  fino  a  imporsi  alla  mente 
dello  stesso  Gioberti.  Questo  passaggio  dall'internazionalismo  religioso  al 
nazionalismo  liberale  è  perspicuamente  determinato  dall'A.  in  alcune  belle 
pagine  che  chiudono  la  parte  giobertiana  del  suo  volume. 

Il  problema  della  evoluzione,  avvenuta  nel  Gioberti  in  particolare,  e  nella 
coscienza  italica  in  generale,  dal  neoguelfismo  al  liberalismo,  problema  politico 
e  spirituale  a  un  tempo,  non  può  tuttavia  ancora  dirsi  risolto.  È  una  coincidenza 
di  fattori  molteplici,  pragmatici  e  spirituali,  che  convergono  ad  abbattere  il 
sogno  neoguelfo  per  edificare,  con  ciò  che  in  questo  sogno  era  vivo,  l'idea 
liberale  che  troverà  un  esponente  nel  Rinnovamento.  Allo  studio  di  questo 
argomento  ha  portato  un  notevole  contributo,  già  noto  ai  lettori  di  queste  pa- 
gine, Antonio  Anzilotti  *,  che  vede  chiaramente  la  funzione  storica  del  neoguel- 
fismo come  suscitatore  di  quella  religiosità  profonda,  che  dà  le  forze  etiche  a 
tutti  i  grandi  rivolgimenti. 

Siamo  di  fronte  a  un  fatto  spirituale  che  coincide  con  lo  svolgersi  degli 
eventi  esteriori  :  per  questo  non  si  può  seguire  chi,  come  p.  es.  P.  G.-  Clerici,* 
vuole  attribuire  il  mutamento  delle  tendenze  politiche  del  Gioberti  a  influenze 
personali.  L'idea  che  rimane  uniforme,  sia  nella  ideologi^  neoguelfa  che  in 
quella  liberale  del  Gioberti,  è  la  concezione  del  primato  spirituale  degli  Ita- 
liani, della  quale  indaga  le  origini  il  Natali. ^  Questi  però  crede  non  si  pos- 
sano trovare  precursori  al  Gioberti  prima  del  secolo  XVIII  e  non  tiene,  ci 
sembra,  sufficiente  conto  della  importanza  assunta  dal  pensiero  di  Dante  e 
da  quello  del  Machiavelli  nella  formazione  della  utopia  giobertiana.  Il  Natali 
ha  però  una  visione  nitida  dell'importanza  della  idea  del  primato,  come  idea- 
forza,  al  di  là  delle  contingenze  evolutive  del  neoguelfismo  e  del  liberalismo.* 


^  Antonio  Anzilotti,  Z>a/  neoguelfismo  all'idea  liberale,  in  Nuova  Rivista  Storica,  Anno  I, 
1917,  fase.  II,  pp.  226-256,  fase.  Ili,  pp.  385-422. 

•  Cfr.  P.  G.  Clerici,  Paralipomeni  giordaniani,  in  Riv.  d^ Italia,  anno  XVIII,  fase.  I,  gen- 
naio 19 15,  ove  si  sostiene  che  il  Giordani  abbia  influito  sulle  nuove  idee  politiche  del  Gioberti. 
Cfr.  anche  V.  Piccoli,  V.  Gioberti  e  P.  Giordani,  in  Riv.  d'Italia,  anno  XX,  fase.  Ili, 
marzo  1917. 

»  G.  Natali,  L'idea  del^rimato  italiano  prima  di  V.  Gioberti,  in  Nuova  Antologia,  anno  52», 
fase.  1092,  16  luglio  19:7. 

*  Su  tale  evoluzione  cfr.  anche:  V.  Piccoli,  Introduzione  al  voi.  //  pensiero  di  Gioberti 
(scelto  dalle  migliori  sue  pagine),  G.  Carabba,  Lanciano  1918,  pp.  vii-viii,  xiii-xv  e  V.  Piccoli, 
La  Rinnova  Rema»  di  K  Gioberti,  in  Nuovo  Convito,  anno  III,  n.  4,  Roma  30  aprile  19^8, 
pp.  128-131. 


568  Rassegne 


Infìne,  quale  contributo  alla  storia  della  politica  giobertiana,  non  va  di- 
menticato l'articolo  nel  quale  Arcangelo  Ghisleri  *  trova  alcune  coincidenze 
tra  qualche  osservazione  fatta  dal  Gioberti  nel  Rinnovamento  e  la  politica  d'Ita- 
lia dopo  Caporetto.  Naturalmente  il  Ghisleri  non  fa  che  accennare,  poiché  non 
ignora  che  «mai  la  storia  si  ripete  esattamente  e  che  l'Italia  del  1917-18  non 
è  più  quella  di  settantanni  or  sono  ». 

Studi  storici. 

Alla  complessa  questione  delle  polemiche  sorte  dalla  pubblicazione  del  Rin- 
novamento (passiamo  ora  dalla  politica  alla  storia)  ha  portato  un  notevole  con- 
tributo Gustavo  Balsamo-Crivelli,'  con  la  pubblicazione  dell*  Ultima  replica 
ai  municipali.  Si  tratta,  come  è  nolo,  di  una  fra  le  più  tristi  polemiche,  sorte 
dopo  la  campagna  del, 1849,  nei  non  lieti  inizi  del  regno  di  Vittorio  Ema- 
nuele II. 

Polemica  triste,  perchè  coglie  nelle  sue  prime  radici  quella  che  sarà  poi 
sempre  la  perenne  scissione  della  nostra  vita  politica  fino  al  '70;  triste,  perchè 
si  svolge  nell'ultimo  periodo  della  vita  del  Gioberti,  quando  per  il  filosofo 
torinese,  esule  volontario  in  Parigi,  si  avvicinava  ormai  la  morte. 

Origine  delle  polemiche  furono  i  capitoli  nono  e  decimo  del  Rinnova- 
mento^ nei  quali  il  Gioberti  bollava  l'inettitudine  e  il  mal  volere  di  alcuni 
uomini  politici,  ch'egli  accusava  di  municip'alismo.  I  più  colpiti  erano  il  Rat- 
tazzi,  il  Dabormida  e  Pier  Dionigi  Pinelli.  Alle  repliche  il  Gioberti  aveva 
controreplicato,  ma  i  suoi  amici  non  si  mostravano  contenti,  sopra  tutto  della 
risposta  al  Dabormida,  che,  per  essere  leale  e  temperata,  era  apparsa  ad 
alcuni  timida  e  remissiva. 

Molto  opportunamente  il  Balsamo-Crivelli  mette  in  luce  tutto  il  com- 
plesso carteggio  privato  con  l'ab.  Unìa,  con  il  Monti,  il  Pallavicino,  il  Mas- 
sari, mostrando  quale  copia  di  notizie  e  di  giudizi,  di  consigli  e  di  offerte 
testimonianze,  venisse  inviata  al  Gioberti,  che  talora,  a  chi  non  tiene  suffi- 
ciente conto  di  questi  carteggi,  appare  irruento,  poco  sereno,  impulsivo."^ 
Sopra  tutti  l'ab.  Unia  forniva  notizie  ai  danni  del  Dabormida,  mentre  il  Pal- 
lavicino, il  Monti,  il  Bertinotti  eccitavano  l'amico  a  più  acri  polemiche.  La 
situazione  diveniva  ancor  più  tesa  per  una  piccola  polemica  con  Luigi  Torelli 
a  proposito  del  general  Perrone,  ripubblicata  in  appendice  dal  B.-C.  Il  Dabor- 


*  Arcangelo  Ghisleri,  Vincenzo  Gioberti  giudice  della  situazione  presente?  \n  Riv.  Popo- 
lare di  Politica,  Lettere  e  Scienze  Sociali,  anno  XXIII,  n.  20,  Roma,  31  ottobre  T917.  Questo 
articolo  fu  prima  pubblicato  da  L'Idea  Democratica,  anno  V,  n.  43,  Roma,  27  ottobre  1917. 

•  Vincenzo  Gioberti,  Ultima  replica  ai  municipali  pubblicata  per  la  prima  volta  con  pre- 
fazione e  documenti  inediti  da,  Gustavo  Balsamo-Crivelli,  Torino,  Fratelli  Bocca,  19:7, 
pp.  XIII-304. 

»  Tale  appare  a  Vittorio  Ciao,  che,  nella  recensione  a  questo  libro,  sul  Giorttale  Storico  della 
Letteratura  Italiana,  anno  XXV,  voi.  I-.XX,  fase.  210  (1917),  pp.  317-324,  riconferma  i  severi  giu- 
dizi espressi  nella  Prefazione  alle  Lettere  di  V.  Gioberti  a  P.  D.  Pinelli,  Torino,  1913,  e  ritiene 
che  il  Gioberti  fosse  eccitato  dalla  passione  di  parte  e  che  il  municipalismo  non  fosse  che  un'idea 
fissa.  Chi  guardi  senza  preconcetti  la  vita  politica  piemontese  dopo  \\  1849  e  chi  consideri  qaale 
ora  tragica  attraversasse  il  Gioberti  in  quegli  anni,  non  può  certsTinente  seguire  il  Cian  nei  suoi 
apprezzamenti  severi. 


Rassegne  569 


mida,  in  piena  Camera,  si  diceva  calunniato,  alludendo  palesemente  al  Gio- 
berti, che  si  decideva  a  rispondere  in  una  lettera  a  Giorgio  Pallavicino,  in 
data  del  5  marzo  1852.  Ma,  mentre  il  Bianchi-Giovini  ricusava  di  pubblicare 
la  lettera  suW Opinione ,  l'ab.  Unia,  mostrandosi  pentito  delle  notizie  fornite 
e  della  responsabilità  assuntasi,  impediva  anche  che  quello  scritto  fosse  pubbli- 
cato dall'editore  Bocca.  E  così  ricominciava  la  serie  delle  incertezze.  L'Unìa 
voleva  che  il  Dabormida  e  gli  altri  dessero  un  appiglio  al  Gioberti,  perchè 
la  risposta  apparisse  provocata.  L'appiglio  fu  dato  da  un  articolo  del  Bon- 
compagni  nel  Risorgimento  di  Torino  del  9  marzo  1852,  ripubblicato  quasi 
per  intiero,  come  nota  il  B.-C,  nell'opuscolo  Pier  Dionigi  Pinelli  e  Vin- 
cenzo Gioberti  (Torino,  1880)  e  riportato  in  appendice  dal  N.  Tale  scritto, 
per  quanto  temperato  verso  il  Gioberti,  come  si  addiceva  a  un  antico  col- 
laboratore,^ non  poteva  restare  senza  una  risposta.  L'  Unia  concedette  che  si 
facesse  uso  delle  sue  informazioni,  e  il  20  mai-zo  i852  il  Gioberti  cominciava 
la  sua  Replica,  che  chiamava  ultima,  poiché  con  essa  si  proponeva  di  por 
termine  a  ogni  polemica,  e  indirizzava,  pur  dandole  forma  di  una  lettera  al 
Boncompagni,  a  tutti  i  municipali  di  Piemonte,  ossia  a  quanti  anteponevano 
l'interesse  regionale  ai  destini  della  nazione.  Il  25  marzo  in  Parigi  lo  Chamerot 
iniziava  la  stampa  dell'opuscolo.  Ma  sembrava  destinato  che  l'ultima  replica 
dovesse  incombere  a  lungo,  inesorabile  spada  di  Damocle,  sui  nemici  del 
Gioberti,  senza  esser  mai  resa  pubblica  fino  a  oggi.  La  malattia  e  la  morte 
del  Pinelli  spingevano  l'esule  pietoso,  prima  a  sospendere  la  pubblicazione 
della  Replica,  poi  a  modificare  quanto  riguardava  il  Pinelli.  Intanto  si  amma- 
lava gravemente  anche  il  Dabormida. 

\\  Risorgimento  annunziava  in,modo  pungente  che  il  Gioberti  non  avrebbe 
reso  pubblica  la  Replica.  Questi,  irritato,  rispondeva  smentendo  la  notizia. 
«  Convengo  teco,  scriveva  il  C  al  direttore  del  Risorgimento,  che  queste 
polemiche  si  vorrebbero  evitare;  ma  elle  sono  solamente  imputabili  a  chi  le 
provoca  col  travisare  i  fatti  e  vituperare  colle  ingiurie  la  fama  degli  inno- 
centi »  (p.  55).  Nella  prima  metà  del  maggio  1852  la  pubblicazione  sembrava 
decisa,  con  l'aggiunta  di  un  Preambolo,  fatto  allo  scopo  di  conciliare  i  diritti 
della  verità  e  della  giastizia  con  i  riguardi  dovuti  allo  stato  del  generale  Dabpr- 
mida  e  alla  memoria  del  Pinelli  (p.  57).  Ai  primi  di  giugno  Preambolo  e 
Replica  dovevano  essere  pubblicati,  quando  1'  Unia  definitivamente,  nelle  let- 
tere del  29  maggio  e  del  i»  giugno  1852,  pregò  il  Gioberti  di  non  esporlo 
alle  vendette  del  Dabormida,  rendendo  pubbliche  le  sue  informazioni  private. 
Qui  è  la  vera  ragione  della  soppressione  dell'opuscolo:  il  B.-C.  lo  prova  chia- 
ramente, mostrando  come  le  ragioni  allegate  dal  Massari,  fonte  spesso  poco 
attendibile,  e  quelle  della  lettera  pubblicata  n^W Opinione  dal  Gioberti,  siano 
solo  apparenti,,  destinate  al  gran  pubblico.  Ci  sembra  però  che  la  seces- 
sione dell' Unia  debba  essere  considerata  sopra  tutto  come  causa  determi- 
nante, strettamente  connessa  a  qualche  cosa  di  più   interiore  e   profondo, 


*  Secondo  il  Solmi,  il  Gioberti  aveva  concorso  con  il  Bertini,  il  Rava,  il  Rayneri  all'elabo- 
razione del  Codice  Boncompagnì  per  l'istruzione  pubblica  in  Piemonte.  [Cff.  E.  Solmi,  K  Gio^ 
berti  nel  1848,  in  Nuova  Antologìa,  16  settembre  1912]. 


570  Rassegne 

allo  stato  d'animo  da  lungo  tempo  latente  nel  Giobei^ti,  al  quale  ripugnava 
la  triste  fraterna  contesa.  Perchè  egli,  di  consueto  alieno  da  ogni  incer- 
tezza, in  questa  occasione  ci  si  mostra  oscillante  per  ogni  minimo  motivo  ? 
Sotto  la  lunga  odissea  di  piccoli  fatti  esterni  si  cela  un  aspro  tormento  spi- 
rituale, una  lotta  che  va  dal  febbraio  al  giugno  del  1852,  e  che  si  svolgeva 
pochi  mesi  prima  della  morte  del  filosofo.  Questo  il  Balsamo-Crivelli  non  ha 
creduto  necessario  di  mettere  in  luce.  Con  il  rigore  obbiettivo  dello  storico 
ci  badato  documenti,  ma  non  ha  fatto  rivivere,  come  avrebbe  potuto,  l'ora 
più  tragica  della  vita  del  Gioberti.  Il  7  giugno  si  eseguiva  nella  villa  fiocca, 
la  distruzione  di  1211  copie  della  Replica,  mentre  il  Preambolo  veniva  pub- 
blicato. 

Il  B.-C-  cerca  qui  di  ricostruire,  per  ipotesi,  la  sorte  delle  copie  non  bru- 
ciate: una,  che  mancava  all'editore,  alcune  che  erano  presso  il  Gioberti  a 
Parigi  o  che  questi  tentava  di  ricuperare  dagli  amici. 

Quando  Edmondo  Solmi  scrisse  il  suo  articolo  su  1*  Ultima  replica^  pub- 
blicato postumo  nel  1912,*  l'opuscolo  era  creduto  irreperibile.  Il  Solmi  dovè 
limitarsi  a  tentarne  una  ricostruzione,  aiutandosi  con  qualche  frammento. da 
lui  trovato  negli  autografi  inediti  della   Biblioteca  Civica  di  Torino. 

Maggior  fortuna  è  toccata  al  Balsamo-Crivelli,  che  nell'ottobre  del  1915, 
nel  fondo  «  Risorgimento  »  della  Biblioteca  Vittorio  Emanuele  di  Roma,  ha 
potuto  rinvenire  una  copia  della  Replica^  probabilmente  quella  appartenuta 
al  Senatore  Filippo  Capone,  al  (juale  il  Gioberti  l'aveva  richiesta  invano. ^ 
Così,  a  distanza  di  sessantacinque  anni,  è  stata  resa  pubblica  questa  ope- 
retta smarrita  del  Gioberti,  che  costituisce  una  piccola  conquista  per  lo 
storico  e  per  l'esteta.  Alla  storia  porta  un  contributo,  certo  interessante, 
poiché  riguarda  uno  dei  periodi  più  tormentosi  e  discussi  della  vita  poli- 
tica piemontese.  E  porta,  per  l'esteta,  nuove  pagine  di  quella  mirabile 
prosa  del  Gioberti,  eloquente,  dramatica,  pagine  di  pensiero  e  di  pas- 
sione, vibranti  di  forza  polemica.  Qui,  forse  ancor  meglio  che  nel  Rinnova- 
^nento,  vediamo  quale  visione  nitida  delle  future  sorti  d'Italia  abbia  avuto 
prima  di  morire  il  filosofo  torinese.  Ne  è  una  prova  il  sereno  giudizio  sul 
Cavour,  con  cui  termina  la  Replica,  «  Oggi  è  chiaro  a  tutti  che  la  presente 
amministrazione  è  da  un  lato  la  sola  possibile  come  liberale,  e,  dall'altro,  la 
sola  atta  ad  assicurar  le  franchigie  come  conservatrice.  Camillo  di  Cavour 
diede  testé  prova  di  sensi  patrii  e  di  coraggio  civile  nel  rompere  a  visiera 
alzata  coi  nemici  degli  ordini'  liberi  e  coi  politici  di  municipio.  La  salute  del 
Piemonte  (in  cui  si  racchiude  quella  d'Italia)  è  però  nei  presenti  termini 
divenuta  una  quistione  personale.  Depongano  adunque  tutti  gli  uomini  di 
senno  e  di  cuore  i  loro  dissidi!  :  si  stringano  intorno  al  governo  e  lo  difen- 
dano dalle  fazioni  inette  ed  improvide,  che  precipiterebbero  cotesta  provincia 


*  E.  Solmi,  V  ultima  replica .  ai  municipali,  in  Bollettino  Storico-bibliografico  Subalpino, 
Anno  XVII,  fase.  IIMV. 

*  Un'altra  copia  è  stata  in  seguito  rinvenuta  da  Antonio  Bruers,  nella  Bibl.  Nazionale  di  Pa- 
rigi. Cfr.  A.  Bruers,  Una  seconda  copia  deir«  Ultima  replica  n  di  Gioberti,  su  La  Tribuna  d/ 
Roma  del  5  giugno  1918. 


Rassegne  57 1 


nello  stesso  baratro  di  viltà  e  dì  sciagure,  in  cui  poco  addietro  inabissarono 
la  nazione  »  (p.  167). 

Il  Balsamo-Crivelli,  concludendo,  ha  compiuto  opera  utile,  accuratissima, 
erudita,  ma  certo  non  del  tutto  completa.  I  documenti  che  egli  allega,  e  quelli 
che  introduce  in  frammenti  o  per  esteso  nella  prefazione,  ricostruiscono  più 
le  vicissitudini  del  libro  che  non  la  tragica  ora  di  chi  lo  scriveva  ed  era  tor- 
mentato dal  dubbio.  Non  oserei  però  fare  un  appunto  di  tal  mancanza  al 
Balsamo-Crivelli:  se  da  una  parte  è  desiderabile  che  il  documento  non  sia 
fine  a  sé  sitesso,  è  pur  d'altra  parte  assai  pericoloso  farne  lo  strumento  di 
ricostruzioni  subiettive.^  Qui,  per  un  lettore  amoroso,  parla  da  sé  lo  scritto  dei 
Gioberti  :  il  Balsamo-Crivelli  si  è  limitato  a  un  obiettivo  corredamento  docu- 
mentario. E,  sopra  tutto  per  quanto  riguarda  il  nostro  risorgimento,  ancora 
troppo  vicino  a  noi,  Tobiettività  è  dote  rara  e  difficile.^ 

Studi  filosofici. 

Di  fianco  alla  trattazione  delle  questioni  politiche  e  storiche,  troviamo 
le  ricerche  e  le  interpretazioni  filosofiche. ^  Mancava  finora  in  Italia  un'opera 
che  riuscisse  a  «  indagare  con  animo  libero  tutti  gli  aspetti  del  pensiero  del 
Gioberti  ».  Questa  lacuna  si  é  proposto  di  riempire  il  Saitta,*  e  in  parte, 
come  vedremo,  se  non  del  tutto,  ha  raggiunto  il  suo  intento,  in  un'opera 
vasta,  densa,  comprensiva.  Il  Gioberti  ha  una  personalità  filosofica  così  netta 
e  distinta  da  tutte  le  altre,  che  è  molto  facile  per  ognuno  trovare  in  esso  ele- 
menti che  attraggono  ed  elementi  che  ripugnano,  attenersi  ai  primi,  non  vo- 


*  L'esumazione  del  Balsamo-Crivelli,  non  solo  porse  argomento  a  molte  recensioni,  che  qui 
non  è  necessario  enumerare,  ma  diede  anche  origine  a  un'aspra  polemica.  Il  Ruffini,  parlandone 
in  Senato,  fece  un  paragone  fra  municipalismo  e  disfattismo,  fra  Novara  e  Caporetto  [cfr.  Atti 
Parlamentati,  Legisl.  XXIV,  i*  Sessione,  discussione  della  tornata  del  2  marzo  1918,  pp.  4183- 
-4184].  La  Stampa  di  Torino  replicò  con  due  articoli  editoriali-  —  attribuiti  poi  al  prof,  U.  Cosmo  — 
nei  numeri  del  16  e  del  17  marzo  1918,  tentando  un  parallelo  fra  Cavour  e  Giolitti,  mentre  la  Critica 
Sociale  sembrava  sostenere  la  medesima  tesi,  con  l'art,  firmato  Rabano  Mauro,  //  disfattismo 
nella  disfatta  di  Novara  (Milano,  16-31  marzo  1918).  Agli  articoli  della  Stampa  risposero  molti  gior- 
nali e  periodici,  fra  i  quali  cfr.s  Eja  (EttorK  Janni)  Novara  e  Cavour  sul  Corriere  della  Sera 
del  23  e  24  marzo  191 8;  N.  Colajanni,  Paragoni  errati  e  previsioni  criminose,  su  La  Sera  di  Mi- 
lano del  26  marzo  191 8;  Cavour  e  Giolitti  paragonati  dal  sen.  Frassati,  in  Rivista  Popolare  di 
Politica,  Lettere,  e  Scienze  Sociali,'^  Anno  XXIV,  Roma,  31  marzo  1918;  V.  Piccoli,  F.  Gioberti 
e  Novara,  sul  Secolo  del  21  aprile  1918. 

»  Altri  contributi  alla  storia  della  vita  del  Gioberti  si  trovano  negli  art.  seguenti:  A.  Bruers, 
Belgio  e  Italia  nelV esilio  di  V.  Gioberti,  sul  Piccolo  di  Roma,  7-8  febbraio  1917;  P.  A,  Menzio, 
Intórno  alla  «  Ultima  Replica  ai  municipali y*,  in  Risorgimento  Italiano,  anno  X,  4,  1918;  M.  Maz- 
ziOTTi,  Una  letteta  di  V.  Gioberti,  in  Nuova  Antologia,  anno  53»,  fase.  1114,  Roma,  16  giugno 
1918  ;  Gina  Bajone,  La  Costituente  toscana,  in  Rassegna  Storica  del  Risorgimento,  anno  V,  fase.  II, 
aprile-giugno  1918,  pp.  322-342;  A.  Colombo,  Nuovi  documenti  sulla  controversia  rosminiana  tra 
V.  Gioberti  e  Gustavo  Benso  di  Cavour,  in  Rassegna  Storica  del  Risorgimento,  anno  V,  fase.  III, 

pp.  373-394- 

*  Alla  diffusione  del, pensiero  giobertiano  contribuì  nel  1918  il  Gentile,  con  Id  prolusione 
del  IO  gennaio  al  suo  corso  di  storia  della  filosofia.  Cfr.  G.  Gentile,  Il  carattere  storico  della  filo- 
sofia italiana,  Bari,  ed.  Laterza,  1918;  G.  Gentile,  Il  profeta  della  nuova  Italia,  in  Conferenze 
e  prolusioni,  XI,  6,  1918.  Cfr.  anche  a  tale  proposito  V.  Piccoli,  Per  la  tradizione  giobertiana, 
in  n Libri  del  Giornor>,  Milano,  giugno  1918,  pp.  117-118. 

*  Giuseppe  Saitta,  Il  pensiero  di  Vincenzo  Gioberti,  in  Studi  Filosofici,  diretti  da  G.  Gen- 
tile; VI,  ed.  G.  Principato,  Messina,  1917,  pp.  XXVIII-452.  —  È  da  tempo  aspettata  una  mono- 
grafìa sul  Gioberti  del- Calò,  nella  collezione  Sandron  dei  «  Grandi  Pensatori  »  e  uno  studio  de 
nostro  collaboratore,  A.  Anzilotti. 


572  Rassegne 


ler  vedere  i  secondi  e  quindi  svisare  il  proprio  autore.  Questo  difetto  di  r;l- 
cuni  interpreti  del  Gioberti  è  stato  ben  definito  da  Felice  Momigliano,  a 
proposito  di  Bertrando  Spaventa.  «  Potrò  io  avere  innanzi  a  me  Vincenzo 
Gioberti,  quando  avrò  dimostrato  che  la  famosa  formula  che  è  la  pietra  fon- 
damentale del  suo  sistema,  non  è  che  spinoiismo,  in  quanto  la  mente,  l'as- 
soluto è  considerato  come  sostanza,  secondo  la  quale  Dio  è  l'identità  o  l'in- 
differenza assoluta  del  pensiero  e  dell'estensione  e  perciò  natura  ;  in  altri 
termini  l'essenza  di  questo  Dio  è  il  conoscere  e  non  il  creare,  mentre  nei- 
r elaborazione  successiva  dell'opere  postume,  la  sostanza  comprendendosi 
nell'autocoscienza,  l'organo  della  filosofia  diventando  riflessione,  dialettismo, 
si  conchiude  con  l'hegelismo?»^  A  questo  difetto  non  mi  pare  si  sia  del 
tutto  sottratto  il  Saitta,  il  quale  pur  sembrava  più  che  altri  indicato  a  tale 
studio,  preparato  dalle  sue  profonde  ricerche  sulla  scolastica  e  sul  neoto- 
mismo.* Il  Saitta  riprende  il  tentativo,  già  fatto  da  altri,  a  cominciare  dallo 
Spaventa,  di  interpretare  la  metafisica  giobertiana  come  filos9fia  dello  spi- 
rito, considerando  l'idea  dell'Ente  come  atto  dello  spirito,  e  la  formola,  come 
pura  creazione  spirituale.  Egli  spesso  si  appoggia  un  poco  troppo  alle  opere 
postume,  nelle  quali  trova  elementi  favorevoli  alla  sua  tesi  ;  e  noi  crediamo 
si  debba  fare  un  uso  molto  cauto  delle  opere  po^ume,  che  rappresentano 
più  una  serie  di  indagini  che  di  conclusioni,  e  che  sono  state  a  noi  trasmesse 
sovente  con  molte  incertezze,  sopra  tutto  dal  Massari. 

Esaminiamo  brevemente  l'opera  del  Saitta.  Le  ragioni  della  divisione 
della  materia  e  dell'economia  del  volume  s'intendono  solo  dopo  un  esame 
non  superficiale,  poiché  corrispondono  a  esigenze  spirituali  dell' A.  piuttosto 
che  a  esigenze  formali  della  materia.  Nella  Parte  prima,  l'À.  tratta  tutte  le 
questioni  preliminari,  sia  d'indole  storica  che  speculativa,  necessarie  all'inten- 
dimento dell'opera. 

Per  ciò  che  riguarda  la  cronologia  delle  opere  filosofiche  del  Gioberti, 
il  Saitta  non  fa  che  riordinare  le  idee  sul  fondamento  degli  studi  bibliogra- 
fici del  Gentile.  Osserva  giustamente  che  i  pensieri,  raccolti  dal  Solmi  sotto 
il  titolo  di  Meditazioni  Filosofiche,  'dovrebbero  essere  disposti  diversamente, 
tenendo  conto  dei  periodi  a  cui  appartengono  (pp.  26-27).  Circa  lo  svolgimento 
spirituale  il  Saitta  ritorna  su  le  orme  del  Solmi,  ma  aggiunge  alcuni  elementi 
nuovi,  sopra  tutto  per  ciò  che  riguarda  l'influenza  del  pensiero  agostiniano 
e  la  conoscenza  che  il  Gioberti  giovane  aveva  del  Kant.  Esamina  poi  ex  novo 
il  periodo  meno  noto,  che  precede  immediatamente  la  pubblicazione  della 
Teorica  del  Sovranaturale ,  dal  1834  al  1837.  Questo  è  un  punto  importante 
dell'opera  del  Saitta,  il  quale  conclude  con  esattezza  che  nel  1838  il  pen- 
siero del  Gioberti  era  maturo  e  che,  con  la  Teorica  del  Sovranaturale  e  con 
\* Introduzione ,  il  Gioberti  sostituisce  all'antica  dialettica  analitica  la  moderna 
sintetica.  Qui  l'autore,  ritornando  sulle  relazioni  con  S.  Agostino  e  con  la 
scolastica,,  esamina  come  si  venga  formando  la  personalità  mistica  di   Yin- 


'  Fklick  Momigliano,  Religione,  filosofia  e  storia  della  filosofia,  in  Riv.  di  Filosofia, 
Aano  IX,  fase.  III,  marzo-luglio  1917,  p.  247. 

«  G.  Saitta,  La  Scolastica  nel  secolo  J(VI  e  la  politica  dei  Gesuiti.  Torino,  1911;  Le  ori- 
gim  del  neotomismo  nel  secolo  Xl^,  in  Bibl,  di  Cultura  moderna,  n.  58.  Bari,  I9i2« 


Rassegne  573 


cenzo  Gioberti,*  attraverso  le  varie  forme  che  essa  viene  assumendo,  e  giunge 
a  determinare,  come  posizione  ultima  del  Gioberti,  un  atteggiamento  di  pen- 
siero (?he  non  ci  sembra  in  tutto  corrispondente  a  quel  netto  superamento 
del  misticismo,  che  è  proprio  della  metafisica  ééiV Introduzione .  Ma  tutto  sta 
neir intendersi  sul  valore  che  si  attribuisce  alla  parola  «  misticismo  ».  Chiude 
la  prima  parte  la  trattazione  di  un  arduo  argomento  :  le  relazioni  tra  la 
visione  ontologica  e  quella  parallela  teologica,  che  implica  il  problema 
delle  relazioni  tra  filosofia  e  religione.  Anche  qui  possiamo  seguire  il  Saitta 
quando  jacutamente  determina  come  il  sapere  per  il  Gioberti  sia  unità  della 
teologia  pura  e  della  filosofia  pura  (p.  88),  ma  non  possiamo  essere  con 
lui  quando  conclude  che  l'unica  radice -viva  di  tale  unità  è  l'attività  dello 
spirito  (p.  94).  Il  Saitta  afferma  che,  «se  Dio  è  verità,  è  vita  perfetta,  in 
quanto  dipende  dall'atto  ricreativo,  che  è  concreto,  reale  in  quanto  atto 
umano  ;  sì  che  lo  spirilo  umano  è  creatore  quanto  Dio,  ed  egli  solo  può  rap- 
presentare quella  scienza  compiuta,  che  è  la  religióne  pienamente  attuata, 
palingenesiaca  »  (pp.  94-95).  Qui  si  attribuisce  al  Gioberti  quella  concezione 
dello  spirito  demiurgo  del  Cosmo,  che  da  Cartesio  a  Fichte  e  a  Hegel  rap- 
presentò, secondo  il  Gioberti,  il  massimo  errore  della  metafisica  moderna. 
E  questa  attribuzione  di  concezioni  spiritualistiche  si  continua  per  tutto 
il  volume  del  Saitta.  A  noi  sembra  che,  sebbene  molte  volte  sia  neces- 
sario intravvedere  oltre  la  lettera  di  ciò  che  scrivono  i  filosofi,  non  si  possa 
negare,  nella  posizione  definitiva  della  metafisica  giobertiana,  un  ontolo- 
gismo assoluto,  che  ammette  una  realtà  obiettiva,  indipendente  dallo  spi- 
rito umano,  che  sarebbe  anche  qualora  lo  spirito  umano  non  esistesse^  che 
pone  lo  spirito  come  sua  conseguenza,  rendendone  possibile  l'attività,  solo  su- 
bordinatamente alla  propria  attività. ^  Si  intende  agevolmente  che,  dato  il  punto 
di  vista  del  Saitta,  la  critica  presente  dovrebbe  ora  ripètersi  per  tutti  gli  ar- 
gomenti da  lui  trattati.  Più  nitido  e  perspicuo  è  il  capitolo  quinto  della.  Prima 
Parte,  in  cui  l' A.  tratta  dell'apparente  antinomia  tra  autorità  e  libertà  nel 
pensiero  del  Gioberti,  mostrando  come  la  tradizione  religiosa  segni  un  supe- 
ramento e  una  conciliazione  dei  due  concetti  opposti  ;  ma  anche  qui  a  noi 
sembrja  che  la  tradimone^  che  il  Saitta  intende  come  coscienza  subiettiva,  sia 
per  il  Gioberti  rivelazione  trascendentale. 

Nella  Parte  seconda,  l'A.  si  occupa  di  tutto  ciò  che  riguarda  i  due  fon- 
damenti del  sistema  giobertiano,  l'idea  dell'Ente  e  il  principio  di  creazione, 
con  tutti  i  problemi  secondari  e  le  polemiche  che  si  connettono  ;a  tali  argo- 
menti. Ma  noi  dovremmo  proseguire,  nell'esposizione  di  questa  seconda  parte, 
con  il  continuo  ritornello  di  questa  antinomia  tra  un  Gioberti  ontologo  (il 
nostro)  e  un  Gioberti  spiritualista  (quello  del  Saitta).  Ci  limitiamo  quindi  ad 
accennare  come  l'A.,  attraverso  una  sua  interpretazione  del  sovrintelligibile 
giobertiano,  che  egli  vuol  distinguere  dal  neoplatonico  e  avvicinare  al  nou- 
meno kantiano,  giunga  alla  dottrina  dell'Ente  e  alla  formola  ideale,   osser- 


»  Cfr.  anche  G.  Saitta,  //  misticismo  di  V.  Gioberti^  Bilychnis,  IH,  1916. 
♦  Cfr.  V.  Piccoli,  Ontologia  e  gnoseologia  nel  sistema  filosofico  di  yiftcèHxc  Gioòerft,'  itt 
Xlvista  di  J^losofia,  inno  X,n.  i,  Romtkt.tiìaif^ìo agosto  igi6^  pp.  g^^ttii 


574  Rassegne 


vandone  gli  elementi  formativi  nelle  speculazioni  di  S.  Agostino,  di  S.  To- 
maso e  del  Rosmini.  Il  Gioberti,  ben  rileva  il  Saitta,  concilia  nel  suo  pen- 
siero la  visione  creativa  di  S.  Agostino  con  quella  statica  di  S.  Tomaso  :  a 
tale  complessa  concezione  giunge  presupponendo  la  posizione  rosminiana,  e 
qui  il  Saitta  continua  il  punto  di  vista  dello  Spaventa.  A  questo  proposito  1*A. 
opportunamente  ricostruisce  la  polemica  rosminiana,  sulla  quale  noii  è  an- 
cora stata  detta  l'ultima  parola,*  allo  scopo  di  meglio  precisare  il  concetto 
di  intuito,  il  problema  della  individuazione,  la  teorica  dell'Ente.  Il  Saitta  pensa 
che  il  Gioberti  si  contraddica  nel  voluto  divario  da  lui  posto  tra  l'Ente  e  le 
creature,  che  si  estingue  in  quanto  la  differenza  è  solo  per  il  grado  (p.  197). 
E  d'altra  parte  l'obietto  non  è,  per  la  sua  stessa  etimologia,  se. non  il  pen- 
sato (p.  199).  Questa  illazione  del  Saitta  avvicinerebbe  il  Gioberti  al  suo  op- 
posto, al  Cartesio,  e"  quindi  l'A.  crede  naturalmente  necessario,  nel  capi- 
tolo IV,  di  prevenire  l'obiezione,  spiegando  che.il  Gioberti  era  men  discosto 
di  quel  che  credeva  da  Cartesio,  perchè,  se  nei  due  pensatori  «  è  invertito  il 
cammino,  non  è  perancò  diverso  il  risultato  a  cui  si  arriva,  perchè  la  illusione 
d'una  verità  immobile,  impietrata  rimane  costante»  (p.  211).  Pur  troppo, 
qualunque  sia  il  risultato,  quella  inversione  di  cammino  è  alquanto  grave! 
L'A.  ricostruisce  quindi  il  concetto  di  creazione  e  ne  deduce  le  relazioni  con 
molti  altri  punti  della  metafisica  giobertiana,  nella  quale  la  elisi  può  consi" 
derarsi  la  chiave  di  volta  di  tutto  il  sistema.  Notevoli  le  pagine  (pp.  306- 
316),  in  cui  l'autore  tenta  un  parallelo  tra  il  Gioberti  e  Hegel  per  ciò  che 
riguarda  la  dialettica  della  creazione.^  L'A.  conclude  in  una  visione  unitaria 
la  sua  interpretazione  della  filosofia  giobertiana,  considerata  con  «orienta- 
mento deciso  verso  quella  filosofia  dello  spirito,  la  quale,  pur  passando  at- 
traverso alla  religione,  riconosce  il  suo  vero  problema,  cioè  l'unità  del  giu- 
dizio e  del  fatto,  della  verità  e  della  certezza^  (p.  246).  Il  cap.  VII,  che  è 
tra  i  più  belli  del  volume  del  Saitta,  ci  dà  in  vasta  sintesi  guesto  tentativo 
di  concepire  il  Gioberti  come  il  filosofo  delia  mentalità  pura,  celebrantesi 
nello  spirito,  come  eticità  (p.  366).  «  Mediante  la  conoscenza  che  è  processo 
—  conclude  il  Saitta  —  e  quindi  volere,  moralità,  noi  crediamo  un  mondo,  e, 
quanto  più  conosciamo,  tanto  più  questo  mondo  si  allarga  e  diventa  sempre 


*  Cfr.  G.  Gentil»,  Rosmini  e  Gioberti,  Pisa,  1898;  G.  Capone  Braga,  Saggio  su  .Rosmini. 
Il  Afondo  delle  Idee,  Libreria  Editrice  Milanese,  Milano,  1914,  pp.  72-109;  A.  Colombo,  Art.  cit. 

•  Per  opera  del  Croce  è  venuto  in  luce  un  parallelo  fatto  dal  De  Sanctis  tra  l'estetica  di 
Hegel  e  quella  del  Gioberti.  [F.  Dk  Sanctis,  Le  leziotii  sulla  storia  della  critica,  in  La  Critica, 
anno  XV,  fase.  II,  20  ^jjarzo  19171  PP-  98-107;  fase.  Ili,  20  maggio  1917,  pp.  170-178;  fase.  IV, 
20  luglio  1917,  pp.  224-234].  L'interpretazione  che  dà  il  De  Sanctis  alla  estetica  del  Gioberti  è 
completamente  ontologica:  ne  nota  però  le  incoerenze,  còme  l'introdursi  di  un  elemento  kantiano, 
con  la  teorica  del  sublime.  Questo  era  stato  notato  anche  dallo  scrivente,  prima  della  pubblica- 
zione deUe  postume  desanctisiane  [cfr.  V.  Piccou,  L'estetica  di  V.  Gioberti,  Roma,  Soc.  Ed. 
D.  Alighieri,  1917,  pp.  47-55].  A  ogni  modo  è  da  tener  presente  che,  sia  il  De  Sanctis  che  il  Saitta, 
non  possono  fare  che  un  parallelo  puramente  esteriore  tra  il  Gioberti  e  l'Hegel,  dato  che  l'Hegel 
non  fu  tra  i  filosofi  più  studiati  dal  Gioberti  e  non  ebbe  una  vera  influenza  sulla  formazione  della 
sua  personalità  filosofica.  L'Ottolini  vorrebbe  invece  vedere  veri  e  propri  rapporti  spirituali  tra 
l'Hegel  e  il  Gioberti,  paragonabili  a  quelli  che  intercedono  tra  il  Gioberti  e  il  Rosmini,  il  Gal- 
luppi,  lo  Schelling,  Kant  [cfr.  A.  Ottolini,  L'estetica  di  V.  Gioberti,  in  Rassegna  Nazionale, 
I  dicembre  1917,  pp.  «09].  E  in  questo  non  ci  sembra  di  poterlo  seguire. 


Rassegne  575 


più  cosa  nostra.  In  ciò  consiste  la  vita  stessa  del  mondo.  L'uomo,  questo 
Dio  scaduto  e  regressivo,  ma  nello  stesso  tempo  principiante  e  progressivo, 
è  un  dialettismo  vivo  e  concreto,  e,  come  tale,  assoluta  dinamicità  :  che  è  il 
problema  che  il  Gioberti  lasciò  in  eredità  all'idealismo  moderno  d'Italia,  che 
percorre  la  via  da  lui  additata  »  (p.  366). 

Nella  Parte  terza,  l'A.  esamina  come,  -dai  fondamenti  metafisici  esposti, 
vengano  prendendo  forma  alcune  distinte  discipline:  l'estetica,  la  morale,  la 
politica,  la  teoria  dell'educazione.  Ci  saremmo  aspettati  di  trovare  la  morale 
nella  Parte  seconda,  ove  si  tratta  del  concetto  di  creazione,  dato  che  l'etica  e 
la  logica  sono  per  il  Gioberti  discipline  ctisologiche,  ma  abbiamo  già  detto 
come  l'ordinamento  dell'opera  segua  le  esigenze  dell'autore,  non  la  linea  este- 
riore del  pensiero  giobertiano.  Il  Saitta  non  tratta  a  parte  né  della  logica  né 
della  psicologia,  ma  il  lettore  troverà  i  fondamenti  della  psicologia  giobertiana 
nel  capitolo  primo  della  Parte  seconda,  a  proposito  della  teorica  della  cono- 
iscenza  e  troverà  molte  idee  di  logica  e  di  dialettica,  oltre  che  sparse  qua  e  là, 
raccolte  nel  capitolo  sesto  della  Parte  seconda,  nel  raffronto  tra  la  dialettica 
hegeliana  e  quella  del  Gioberti.  Nella  trattazione  sull'estetica,  il  Saitta  prende 
le  mosse  dal  severo  giudizio  dato  dal  Croce,  e  lo  riconosce  ingiusto,  solo  perchè 
dalle  opere  del  Gioberti  <  si  possono  ricavare  i  lineamenti  di  un'estetica,  che  ha 
parecchi  punti  di  contatto  con  quella  del  Croce  »  (p.  370).  Ora  a  noi  sembra 
che  il  giudizio  del  Croce  sia  ingiusto  per  ben  altre  ragioni,  e  prima  di  tutto 
perchè  ha  forma  di  sentenza  categorica,  portata  a  conclusione  di  una  insuffi- 
ciente parvenza  di  esposizione.*  D'altra  parte  l'estetica  del  Gioberti,  sebbene 
non  si  sottragga  a  qualche  incoerenza,  in  una  cosa  è  ferma  e  nettamente 
orientata:  ne!  fondamento  ontologico,  obiettivo  del  Bello,  ,, che  ha  un'origine 
trascendentale  anche  quando  appare  creazione  dello  spirito  e  che  «sarebbe 
né  più  né  meno,  ancorché  mancasse  di  spettatori  ».*  Siamo  pertanto  al  punto 
di  vista  diametralmente  opposto  a  quello  crociano  e,  se  qua  e  là  troviamo 
che  qualche  risultato  del  Gioberti  concorda  con  quelli  del  Croce,  le  premesse 
sono  così  differenti  da  dare  valore  diverso  alle  conclusioni  apparentemente 
simili.  Si  continua  pertanto  anche  qui,  come  nei  capitoli  seguenti,  l'antinomia 
che  è  in  tuttp  il  libro,  così -nell'esposizione  delle  dottrine  morali,  ove  l'eti- 
cità è  involuta  completamente  nella  sfera  dello  spirito,  come  nell'esposizione 
della  politica,  che  viene  considerata  anch^essa  quale  mentalità  pura.  Nel  ca- 
pitolo sulla  politica,  l'A.  ci  dà  alcune  belle  pagine,  in  cui  si  oppone  alla 
tesi,  sostenuta  dal  Solmi  nel  Mazzini  e  Gioberti,  che  sino  al  1833.^  i  senti- 
menti democratici  del  Gioberti  fossero  simili  a  quelli  del  Mazzini,  mostrando 
l'elemento  profondamente  speculativo  che  distingue  il  concetto  giobertiana 
di  democrazia  da  tutti  gli  altri  (pp.  410-414).  Espone  poi  chiaramente  alcuni 
-  dei  principi  cardinali  della  filosofia  politica  del  Gioberti,  quali  i  concetti  di 
sovranità  e  di  costituzione.  Ma  perchè  la  visione  sintetica  della  politica  gio- 
bertiana, apparisse  completa,  eguale  nei  suoi  fondamenti  filosofici,  mutata 
solo  nelle  contingenti  determinazioni  pratiche,  l'A.  avrebbe  dovuto  fondere 


»  Cfr.  V.  Piccoli,  L'Estetica  di  Vincenzo .  Gioberti,  pp.  25  ti  passim. 
•  V.  Gioberti,  Del  Sello,  Firenze,  ed.  P.  Ducei,  1845,  Cap.  I,  p.  io. 


576  Rassegne 


questo  capitolo  con  quello  ove  tratta  della  riforma  religiosa  propugnata  dal 
Gioberti  (cap.  V  della  Parte  prima)  e  con  quanto  dell'antigesuitisnio  e  della 
funzione  sociale  dello  scrittore  è  detto  nel  capitolo  sulla  educazione.  In 
questo,  che  chiude  il  libro,  l'A.  considera  l'atteggiamento  critico  assunto  dal 
Gioberti,  sia  di  fronte  alla  pedagogia  gesuitica  che  a  quella  del  Locke  e  del 
Rousseau,  considerate  tutte  inferiori  alla  concezione  cristiana  dello  spirito 
(P'  457)1  per  mostrare  come  il  vero  educatore  sia  quello  scrittore  ideale,  a 
cui  con  tanto  amore  suole  il  Gioberti  tornare  sovente  ne'  suoi  scritti. 

Sulle  idee  pedagogiche  del  Gioberti  ci  ha  dato  una  più  estesa  e  par- 
ticolare esposizione  Andrea  Franzoni,^  riprendendo  un  argomento  già  trat- 
tato da  lui  nel  1901.2  Dopo  avere  tratteggiato  la  figura  di  Vincenzo  Gio- 
berti nelle  vicende  della  sua  vita,  l'A.  passa  a  riepilogarne  in  breve  la  con- 
cezione filosofica.  Naturalmente  la  preoccupazione  d'essere  semplice  e  chiaro, 
determinata  dalle  finalità  didattiche  dei  suoi  Quaderni,  impedisce  al  Franzoni 
di^  addentrarsi  troppo  in  alcune  questioni,  così  che  spesso  nel  suo  scritto 
ritroviamq  più  la  lettera  che  lo  spirito  del  pensiero  giobertiano.  L'A.  rica- 
pitola la  polemica  rosminiana  per  venire  a  determinare  il  valore  dell'atteg- 
giamento del  neoidealismo  contemporaneo  di  fronte  al  Gioberti.  Dopo 
avere  esposto  le  idee  religiose  e  politfche  e  ripreso  l'ormai  vieto  paragone 
tra  Gioberti  e  Fichte,  il  Franzoni  viene  alfine  a  trattare  delle  teorie  pedago- 
giche. Qui  l'A.  non  riassume  più  da  altri,  ma  procede  in  un  campo  ancor 
poco  studiato,  poiché  troppo  sommari  e  non  definitivi  sono  gli  studi  del  Val- 
darnini  e  del  Gerini  sull'argomento.  La  teoria  dell'educazione  e  le  questioni 
riferentisi  a  essa,  quali  la  necessità  dell'sducazioiìe,  le  relazioni  tra  educazione 
famigliare  e  domestica,  e  infine  quelle  tra  Stato  e  scuola,  vengono  esposte  dal 
Franzoni,  senza  alito  di  spiritualità  vera  e  profonda.  Però  egli  tratta  anche 
opportunamente  dell'antigesuitismo  del  Gioberti,  per  dedurne  il  principio 
della  autonomia  dell'educando.  In  questo  punto  avremmo  desiderato  che  il 
Franzoni,  come  gli  altri  studiosi  dei  quali  ci  siamo  occupati,  si  fermasse  un 
poco  più  a  lungo.  I  Gesuiti  non  hanno  oggi  ancora  deposto  il  vecchio  rancore 
contro  il  Gioberti.  Sono,  di  ieri  alcuni  indegni  articoli  della  Civiltà  Cattolica,^ 
nei  quali  si  rifa  la  storia  delle  polemiche  gesuitiche,  riprendendo,  non  le  pa- 
cate e  oneste  obbiezioni  di  P.  Francesco  Pellico,  ma  le  contumelie  di  P.  Carlo 
Curci,  l'apologista  dei  carnefici  di  Cosenza.  Leggano  coloro  che  venerano 
la  figura  di  Vincenzo  Gioberti,  per  esempio,  la  nota  a  pp.  326-327  {Quad.  1593, 
voi.  4,  4  novembre  1916),  ove  si  parla  dei  pourboirs  (sic  !)  pagati  al  Gioberti, 


»  A.  Franzoni,  Gioberti,  in  Quaderni  di  Pedagogia,  Anno  I,  serie  II,  n.  3-4.  Milano,  1917, 
pp.  XI-XVIII-165-290. 

•  A.  Franzoni,  V.  Gioberti  educatore  e  pedagogista  nazionale,  in  Riv.  Filosofica,  Pavia, 
marzo-aprile  1901. 

»  Anonimo,  V.  Gioberti  e  i  Gesuiti,  in  Civiltà  Cattolica,  voi.  3,  quad.  1589,  pp.  577-585; 
voi.  4,  quad.  1591,  pp.  66-73;  qua^«  159».  PP.  180-185;  quad.  1593,  PP.  319-330;  <l"ad.  1594,  pp.  430- 
446  (1916). 


Rassegne  577 

perchè  egli  conducesse  la  sua  campagna  contro  i  Gesuiti!  È  vero  che  certi 
scritti  non  meritano  risposta,  ma  tuttavia  coloro  che  trattano  del  Gioberti  non 
dovrebbero  dimenticare  di  porre  in  luce  tutto  il  valore  e  la  grandezza  della 
sua  polemica  antigesuitica.  Così  ci  sembra  che  in  queste  pagine  del  Fran- 
zoni  avrebbe  potuto  trovar  posto  opportuno  qualche  cenno  sulle  relazioni 
tra  il  Gioberti  e  l'Aperti  e  su  quanto  il  Gioberti  scrisse  a  proposito  delle 
persecuzioni  subite  dall'Aporti,  dal  P.  Girard  e  da  altri.  L'A.  passa  poi 
a  trattare  uno  dopo  l'altro  tutti  i  capisaldi  del  pensiero  pedagogico  del 
Gioberti  :  l'importanza  formativa  sia  del  classicismo  che  del  tecnicismo,  il 
valore  profondaniente  umano  degli  studi  classici,  l'efficacia  dello  studio  della 
lingua  materna,  delle  arti  e  delle  lettere,  come  fattore  di  educazione  morale 
e  nazionale.  Chiudono  il  volume  alcune  pagine  nelle  quali  l'A.  ricostruisce 
rapidamente  il  profilo  del  pensatore  e  dell'uomo  politico,  attraverso  la  sua 
evoluzione  spirituale.  Il  Franzoni  accoglie  del  tutto  la  tesi  dello  Spaventa, 
per  il  quale  il  Gioberti  avrebbe  «  oltrepassato  lo  psicologismo  e  la  dottrina 
dell'ente  per  creare  la  filosofia  dello  spirito  »  (pp.  269-270),  e  anche  in  questo 
non  possiamo  essere  con  lui.  Ma  di  ciò  si  è  detto  a  proposito  del  volume 
del  Saitta. 

Valentino  Piccoli. 


^^ 


37  -^  Nuoiia  Rivista  Storica, 


Me.  doedionj  iride. 


La  questione  ucraina. 

Una  delle  più  gravi  questioni  della  Russia  d'oggi  è  la  questione  ucraina. 
Sembra  strano  rattristarsi  per  lo  sconvolgimento  di  una  parte,  mentre  il  tutto 
è  travolto  in  un  caos  di  follia.  Sembra  strano  attribuire  importanza  a  quello 
che  avviene  alla  periferia,  quando  il  cuore  ed  il  cervello  della  Russia  sono 
colpiti  da  grave  malanno,  e  tutte  le  sue  forze  creatrici  si  trovano  come  in 
istato  di  paralisi.  Ma  la  questione  ucraina  è  insopportabilmente  tormentosa, 
appunto  perchè  si  tratta  di  una  parte,  periferica  («  ocraina  »  in  russo)  solo 
di  nome,  poiché  in  realtà  l'Ucraina  da  lungo  tempo  non  è  più  una  «  Ocraina  », 
ma  è  diventata  una  delle  parti  «  centrali  )>  della  Russia,  se  non  geografica- 
mente, almeno  per  importanza. 

Sono  ormai  due  secoli  e  mezzo  che  r«  etmano  »  Bogdan  Chmelnizky  si 
trovò  dinanzi  ad  un  problema  politico  assai  complicato.  Egli  dovette  assicu- 
rare l'esistenza  dell'Ucraina,  paese  molto  più  debole  che  non  le  sue  vicine, 
Russia  e  Polonia,  nemiche  fra  di  loro.  Tre  soluzioni  —  almeno  teoricamente  — 
si  presentavano  come  possibili.  L'Ucraina  poteva  o  tendere  alla  piena  indi- 
pendenza e  proclamarla,  o;  rinunziando  a  questa,  poteva  concludere  un  patto 
sia  con  la  Polonia  sia  con  la  Russia.  Bogdan  Chmelnizky,  dopo  lunghi  e  gravi 
dubbi,  dopo  una  serie  di  esperimenti  dolorosi,  preferi  l'ultima  soluzione.  La 
preferi  perchè  per  un'esistenza  indipendente  dell'Ucraina  vi  era  poca  sicu- 
rezza e  perchè  era  infinitamente  preferibile  la  dipendenza  dalla  Russia  alla 
dipendenza  dalla  Polonia  ;  e  ciò  per  la  stessa  ragione,  per  la  quale  gli  attuali 
Polacchi  preferirebbero  la  dipendenza  dalla  Russia  alla  dipendenza  dalla 
Prussia.  Così  era  molto  meglio  assicurato  quéi  miminum  di  libertà  e  di  indi- 
pendenza indispensabili  allo  sviluppo  sano  di  qualsiasi  nazionalità. 

Tutta  la  storia  successiva  della  nuova  «  Piccola  Russia  »  dimostrò  nel 
modo  più  lampante  la  saggezza  della  risoluzione  presa  dell'etmano.  L'im- 
portanza della  Piccola  Russia  come  unità  militare  libera  diminuì  certamente  ; 
gli  Ucraini  dovettero  passare  qualche  brutto  momento,  come  p.  es.  all'abo- 
lizione della  «  Zaporojskaja  Sieto  ».  Ma,  in  compenso,  la  vita  economica  della 


Note^  questioni  storiche ^  ecc.  579 


Piccola  Russia  entrò  in  contattò  con  la  vita  economica  e  politica  della  Grande 
Russia  per  fondersi  poi  a  poco  a  poco  in  un'unità  indissolubile  con  essa. 

Dopo  aver  perso  la  finzione  dell'indipendenza  —  poiché  l'Ucraina,  in 
realtà,  non  era  mai  stata  completamente  indipendente —  il  popolo  ucraino  acqui- 
stò tutto  quello  che  forma  la  vita  di  una  grande  nazione,  tutto  quello  che 
distingue  la  grandezza  dalla  meschinità,  un  palazzo  da  una  capanna.  La  Rus- 
sia diventò  una  grande  pptenza,  e  con  lei  ascese  anche  l'Ucraina.  La  Russia  di- 
ventò un  fattore  economico  di  prim'ordine,  e  nello  stesso  tempo  crebbe  l'im- 
portanza economica  dell'Ucraina.  La  Russia  cominciò  ad  elaborare  una  coltura 
originale  e  piena  di  vigore  —  la  vera  coltura  di  un  grande  popolo  —,  e  la 
Ucraina  pervenne  ad  un  livello  più  alto,  prendendo  parte  al  movimento  scien- 
tìfico, artistico,  letterario,  della  Russia. 

L'Ucraina  era  legata  alla  Russia  con  mille  fili  ;  i  dolori  suoi  erano  anche 
i  dolori  della  Russia,  e  con  la  Russia  essa  ha  vissuto  tutte  le  sue  gioie.  Ma 
prima  di  tutto  e  più  di  tutto  la  comunione  di  vita  delle  due  nazioni  sorelle 
si  manifestò  là,  dove  germogliano  le  radici  di  ogni  vita  politica,  di  ogni  vita 
di  Stato  :  nel  campo  economico. 

La  fine  del  secolo  XVII  ed  il  principio  del  secolo  XVIII  furono  caratte- 
rizzati in  Russia  dallo  sviluppo  di  un'economia  agricola  naturale,  accompa- 
gnato dallo  schiudersi  della  servitù  della  gleba.  I  «pomestcik»*  piccoli-russi 
sfruttavano  la  forza  viva  del  contadino  così  come  i  loro  fratelli  grandi-russi  ; 
i  contadini  della  Piccola  Russia  gemevano  sotto  il  giogo  della  «  barstcina  »  * 
come  i  contadini  della  Grande  Russia.  I  canti  melanconici  dell'Ucraina  poe- 
tica ci  narrano  le  stesse  sofferenze  popolarli  che  le  canzoni  primitive  e  fiere 
della  Grande  Russia.  Di  queste  sofferenze  si  fanno  interpreti  il  poeta  piccolo- 
russo  Taras  Scevcenco,  come  il  poeta  russo  Necrassov.  E  allorché  l'economia 
naturale  della  Russia  comincia  a  scomporsi,  questo  processo  involge  l'Ucraina 
nella  stessa  misura  in  cui  involge  la  Russia.  Tanto  qui  come  là,  la  «  barstcina  » 
cede  il  posto  all'*  obroc  ».3  Nelle  due  parti  dell'organismo  gigante  si  svi- 
luppa l'economia  monetaria  del  cambio,  e  tutti  e  due  i  popoli  provano  ugual- 
mente la  gioia  della  liberazione  dalla  servitù  della  gleba  nell'anno  1861. 

Il  processo  della  decomposizione  dell'economia  agricola  naturale  si  iniziò 
già  nel  primo  quarto  del  secolo  XIX.  La  produzione  del  grano  per  la  ven- 
ditgi  —  per  Taglioni  di  clima  e  di  terreno  (si  rammentino  le  Terre  nere)  —  si 
sviluppò  principalmente  nel  mezzogiorno.  In  compenso,  il  nord  fu  la  culla 
dell'industria  russa.  Ma  questi  fenomeni,  completandosi  mutualmente,  come 
la  differenziazione  di  un  insieme  economico,  crearono  un  mercato  russo  unico, 
sul  quale  i.prodotti  dell'industria  nazionale  si  incontrarono  coi  prodotti  del- 
l'agricoltura nazionale.  Le  condizioni  della  vita  statale  comune,  la  struttura 
geologica  del  terreno  e  la  distribuzione  geografica  delle  ricchezze  minerarie 
suscitarono  anche  nel  Mezzogiorno  un  centro  importante  di  industria  ;  questa 
però  non  ha  cessato  mai  di  far  parte  dell'industria  nazionale  russa.  L'Ucraina 


^  Padrone  e  proprietario  della  terra  e  dei  contadini. 

•  Lavoro  obbligatorio  {corvée)  del  contadino  a  favore  dei  padrone. 

'  La  parte  di  prodotto,  che  spettava  al  padrone. 


58o  Note,  questioni  storiche^  ecc. 


è  divenuta  così  un  centro  dell'industria  zuccheriera  russa  nello  stesso  modo 
in  cui  era  già  divenuta  un  centro  dell'agricoltura  russa.  Una  parte  importante 
del  grano  esportato  dalla  Russia  era  costituita  dal  grano  ucraino,  ma  non  per 
questo  cessava  di  far  parte  dell'esportazione  totale  russa,  essendo  quello  un 
prodotto  esportato  in  condizioni  economiche  uguali  per  tutta  la  Russia.  Per 
questa  salda  unità  economica,  che  la  Russia  rappresenta,  la  produzione  del 
l'Ucraina  aveva  tanta  importanza,  quanto  la  produzione  della  Grande  Russia, 
■e  tutti  e  due  si  completavano  a  vicenda  e  si  assicuravano  mutualmente  l'esi- 
stenza economica.  Un'Ucraina  indipendente  è  così  poco  immaginabile  senza 
la  Russia  come  è  poco  concepibile  la  vita  economica  della  Russia  senza 
l'Ucraina.  Tra  queste  due  parti  djello  stesso  organismo  economico  si  era  sta- 
bilita una  certa  differenziazione,  ma  questa  differenziazione  er^  il  risultato 
dello  sviluppo  normale  dell'organismo,  un  sintomo  della  sua  salute,  come  in 
generale  la  differenziazione  è  una  prova  dello  sviluppo  sano  di  ogni  orga- 
nismo. Invece  la  separazione  economica  dell'Ucraina  dalla  Russia  era  divenuta 
altrettanto  impossibile,  guanto  la  rivolta  di  alcune  membra  del  corpo  umano 
contro  tutte  le  altre. 

Ma  non  soltanto  la  vita  economica  costituisce  un  legame  tra  la  Russia 
e  l'Ucraina.  L'esistenza  politica  comune  ha  già  da  lungo  tempo  fatto  sì,  che 
nella  vita  statale  governativa  e  sociale  della  Russia  prendessero  parte  tanto 
Grandi  Russi  quanto  Piccoli  Russi.  Sebbene  la  costituzione  monarchica  della 
Russia  prerivoluzionaria  ammettesse  la  partecipazione  di  certi  ceti  sociali  della 
nazione  al  governo,  questa  era  proporzionalmente  uguale  per  ambedue  i  po- 
poli. I  funzionari  superiori  si  reclutavano  tanto  rielle  famiglie  aristocratiche 
della  Piccola  Russia  come  nell'aristocrazia  grande-russa.  L'amministrazione 
locale  dei  governatorati  piccoli-russi  non  differiva  in  modo  alcuno  da  quella 
dei  governatorati  grandi-russi.  L'attività  degli  zemstvo  si  sviluppava  in  modo 
consimile  negli  uni  come  negli  altri  ;  il  governatore  piccolo  russo,  che  reg- 
geva un  governatorato  grande-russo,  assomigliava,  come  una  goccia  d'acqua 
all'altra,  al  suo  collega  grande-russo,  il  quale  reggeva  un  governatorato 
piccolo-russo.  Il  Gorodnicii  immortale  del  Revisore  di  Gogol  è  un  tipo 
unico  per  tutta  la  Russia,  e,  quasi  a  mettere  in  rilievo  questo  fatto,  il  tipo  fu 
creato  da  un  Piccolo  Russo  che  fu  un  grande  scrittore  russo.  La  vita  della 
campagna  piccolo-russa  é  russa  sono  perfettamente  identiche,  col  loro  «  sta- 
rosta  »  (sindaco),  col  loro  «  volostnoi  pissar  »  (segretario  comunale),  col 
loro  «  mir  ». 

Attraverso  due  secoli  e  mezzo  si  compiè  la  fusione  dei  due  popoli,  pre- 
parata dalla  loro  affinità  di  razza,  e  alla  fine  la  vita  statale  e  l'ecofiomia 
comune  crearono  un  popolo  imico  con  la  medesima  coltura.  L'adolescente 
cresciuto  nell'Ucraina  conservava  per  lungo  tempo  i  ricordi  poetici  del  mez- 
zogiorno, ma  -egli  prendeva  contatto  con  le  questioni  mondiali  che  abbrac- 
ciano l'umanità  intiera  negli  .alveari  della  scienza  russa,  rappresentati  in 
misura  uguale  dalle  università  ucraine  e  da  quelle  russe  ;  e  nella  maturità 
egli  userà  la  più  evoluta  lingua  russa  per  dar  forma  ad  un'idea  più  complessa, 
conservando  però  l'idioma  ucraino  per  i  moti  intimi,  primitivi  del  senti- 
mento. La  lingua  russa,  la  lingua  dello  Stato,  la  lingua  della  coltura  econo- 


Note»  questioni  storiche,  ecc.  581 


mica,  la  lingua  letteraria  assorbiva  in  sé  tutti  gli  elementi  ed  eleggeva  i  suoi 
scrittori  e  poeti,  tanto  fra  i  Grandi  quanto  fra  i  piccoli  russi.  Il  popolo  ucraino, 
la  sua  massa,  i  suoi  contadini,  come  le  sue  così  dette  cime  intellettuali,  vive- 
vano della  vita  comune  russa  e  fino  alla  rivoluzione  non  pensavano  neppure 
di  poter  trasformarsi  in  uno  Stato  indipendente,  in  un'Ucraina,  che  verso  la 
sua  sorella  potesse  mettersi  in  relazioni  tali  che  facessero  ricordare  la  disputa 
tra  Ivan  Ivano  vite  e  Ivan  Nikiforovitc  a  proposito  dell'oca.^  Ma,  poiché  tutto 
al  mondo  ha  una  causa,  tentiamo  di  analizzare  le  cause  di  questo  strano 
fenomeno,  a  cui  oggi  assistiamo. 


L'antico  regime  era  divenuto  del  tutto  insopportabile  durante  gli  ultimi 
anni  della  sua  esistenza.  Crollando  l'edificio  sociale,  la  cui  base  era  costituita 
dall'economia  naturale  della  servitù  della  gleba,  l'autocrazia  era  destinata  a 
crollare  insieme  con  queste  vecchie  forme  diell'esistenza  economica.  Ma  per 
inerzia,  dando  prova  di  una  vitalità  soprannaturale,  l'autocrazia  continuava 
ad  esistere,  mettendosi  così  in  una  contraddizione  sempre  più  flagrante  con 
l'evoluzione  della  vita  russa.  Sorretta  da  interessi  di  equilibrio  internazio- 
nale, essa  tentava  di  conservare  la  sua  vita  con  mezzi  artificiali,  con  inie- 
zioni subcutanee  di  materie  eccitanti.  Se  esistesse  veramente  una  «meccanica 
sociale  »,  quei  sistema  poliziesco,  mostruosamente  sviluppato,  che  prolungò 
la  vita  dell'autocrazia  per  più  di  un  decennio,  potrebbe  essere  considerato 
come  una  vera  e  propria  valvola  di  sicurezza.  L'autocrazia  vetusta  seppe  man- 
tenersi con  la  distruzione  crudele  di  tutto  quello  che  respirava,  con  una  pres- 
sione ferrea  ed  incessante  su  ogni  manifestazione  della  vita  sociale.  E  questa 
pressione  non  conobbe  esclusioni,  ma  gravava  ugualmente  su  ogni  fenomeno 
sociale,  su  ogni  espressione  del  movimento  nazionale.  Estendendo  il  suo 
controllo  su  tutto,  per  mezzo  dei  suoi  organi  di  sicurezza,  il  vecchio  regime 
spinse  fino  all'orróre  la  centralizzazione,  che,  in  simile  misura,  riusciva  vuota 
di  senso,  specie  tenuto  conto  deirimmensità  dello  spazio  russo.  Con  ciò  esso 
comunicò  un  carattere  rivoluzionario  alle  più  modeste  manifestazioni  di  indi- 
vidualità nazionale.  Temendo  come  il  fuoco  ogni  indipendenza,  ogni  velleità 
nazionale,  l'autocrazia  menava  una  guerra  senza  tregua  alla  lingua  ucraina  nella 
scuola  elementare,  vedendola  di  mal  occhio  anche  sulla  scena  del  primitivo 
teatro  piccolo-russo.  Non  era  permesso  indossare  il  bel  costume  nazionale 
ucraino;  alle  volte  si  perseguitava  anche  il  canto  di  innocenti  canzoni  sto- 
riche dell'Ucraina.  Ma,  anche  elevate  al  grado  di  delitto  politico,  tutte  queste 
espressioni  ingenue  del  sentimento  nazionale  ucraino  erano,  dal  punto  di 
vista  del  pensiero  politico  e  sociale,  infinitamente  più  deboli  delle  correnti 
rivoluzionarie  della  Grande  Russia.  Gli  scorpioni,  che  l'autocrazia  lanciava 
sulle  tracce  dei  rivoluzionari  russi,  non  possono  affatto  paragonarsi  al  lieve 


*  Racconto  delizioso  di  Gogol,  dove  due  intimi  amicii  Ivan  Ivanovitc  e  Ivan  Nikiforovitc. 
-vengono  alle  mani  a  proposito  di  un'oca,  e  con  la  loro  cocciutaggine  pica>lo-russa  non  possono 
nai  più  toccare  questo  soggetto  senza  ogni  volta  rinnovare  il  litigio,  sorto  proprio  da  no  nonnulla. 


58a  Noie^  questioni  storiche,  ecc. 


castigo  che  essa  infliggeva  ai  «  chochli  »*  delinquenti.  Gli  Ucraini  ascendevano 
il  piedistallo  del  martirio  politico  solamente  quando  essi  partecipavano  al 
comune  movimento  rivoluzionario  russo.  Ciononostante,  le  persecuzioni  al- 
l'autonomia ucraina  erano  ingiuste  o,  peggio  ancora,  prive  di  senso  e,  ciò  do- 
veva^necessariamente  produrre  un  certo  fermento. 

A  poco  a  poco  i  partiti  radicali  e  socialisti  dell'Ucraina,  sorti  nelle  me- 
desime condizioni  politiche  è  sociali  di  quelli  russi,  e  quindi  analoghi  ad  essi, 
cominciano,  sotto  l'influenza  dell'insensata  pressione  politica  del  governo,  ad 
assumere  un  colore  nazionale.  Si  pubblicano  indagini  storiche  sui  vecchi 
tempi  ucraini;  nell'assumere  un'attitudine  contraria  al  governo,  certi  circoli, 
non  sapendo  scindere  le  cause  dalle  conseguenze,  estendono  il  loro  atteggia- 
mento ostile  a  tutto  quello  che  è  russo,  ed  il  piccolo  ruscello  comincia  a  gon- 
fiarsi a  guisa  di  torrènte  impetuoso. 

Il  movimento  centripeto  del  potere  autocratico  aveva  provocato  il  mo- 
vimento centrifugo  dell'Ucraina.  Non  vi  era  ragione  di  aspirare  all'indipen- 
denza statale  della  Piccola  Russia,  ma  l'insano  centralismo  del  vecchio  re- 
gime doveva  suscitare  una  reazione,  altrettanto  naturale  quanto  forte,  non 
appenai .  questo  governo  cadde.  L'anarchia  sfrenata  del  bolscevismo,  que- 
sta autocrazia  a  rovescio,  si  spiega  in  gran  parte  con  la  pressione  soffbcatrice 
del  passato.  Nello  stesso  modo  il  movimento  centrifugo  della  Piccola  Russia 
è  in  gran  parte  il  risultato  della  pressione  centripeta  del  governo  autocrata. 
Entrambi  i  movimenti  non  hanno  radici  profonde  e  non  possono  essere  du- 
revoli. Essi  sono  temporanei  e  transitori,  come  temporanea  e  transitoria  è 
Stata  la  manomissione  tedesca  sul  territorio  belga  e  francese. 

V.  Gr- 


Tra  il  primato  d'un  popolo  e  la  missione   universale  delle 
nazioni.^' 

I  due  libri,  dei  quali  intendo  qui  intrattenere  i  lettori,  traggono  dalla 
immane  guerra  presente  ^  l'uno  lo  stimolo  immediato  e  diretto,  l'altro  il  con- 
forto alla  rievocazione  della  parola  d'un  apostolo,  che  risveglia  ora  echi  più 
vivi  e  profondi  nelle  anime»  Ma  il  significato  e  il  valore  di  entrambi  è  ben 
lontano  dall'esser  limitato  all'occasione  che  ha  determinato  il  nascimento  del- 
l'uno  ed  accompagnato  l'apparizione  dell'altro:  libri  come  questi,  di  pen- 
siero, di  dottrina  e  di  fede,  conserveranno,  anche  superato  il  tragico  momento 


»  Chochol  (ciuffo),  nome  che  il  Russo  dà  volontieri  all'Ucraino. 

•  Balbino  Giuliano,  Il  primato  d'un  Popolo  {Fichte  e  Gioberti),  Catania,  F.  Battiato,  1916; 
Alessandro  Levi,  La  filosofia  politica  di  Giuseppe  Martini,  Bologna,  N.  Zanichelli,   1917. 

»  Questo  scritto  fu  consegnato  per  la  stampa  nel  gennaio  1918,  in  piena  guerra  europea  :  ciò 
Taiga  a  spi«^re  alcune  frasi,  che  oggi  sarebbero  anacronistiche, 


NoUy  questioni  storiche^  ecc.  583 


storico  incombente,  l'interesse  del  contenuto  e  della  trattazione  viva  è  pene- 
trante onde  oggi  attraggono  il  lettore. 

La  reazione  generale  degli  spiriti  alla  brutale  prepotenza  germanica  ha  di 
quest'anni  fatalmente  coinvolto  in  una  stessa  condanna  col  militarismo  anche 
tutta  la  cultura  e  la  filosofia  tedesca,  alle  quali  si  copsidera  (e  non  intiera- 
mente a  torto)  spettare  qualche  responsabilità  nella  formazione  di  quello  stato 
d'animo  in  Germania,  che  ha  reso  possibile  lo  scatenamento  della  guerra 
immane.  E  il  Giuliano,  fervido  seguace  dell'idealismo  e  della  dottrina  del- 
l'immanenza di  Dio,  ha  voluto,  per  sé  e  per  gli  altri,  cercare  una  risposta 
a  tutta  una  serie  di  problemi.  È  forse  in  quella  dottrina  la  radice  e  la  giu- 
stificazione sofistica  dei  misfatti  dell'  imperialismo  ?  E  se  il  miraggio  egemo- 
nico di  Fichte  è  diventato  l'evangelo  della  Germania,  mentre  l' Italia  lasciava 
cadere  nell'oblìo  il  sogno  di  primato  del  Gioberti,  perchè  questa  diversità? 
E  qual'è  la  forma  di  primato,  il  cui  sogno  un  popolo  può  e  deve  alimentare  ? 

Il  Primato  di  Gioberti  ha  comune  coi  Discorsi  di  Fichte  lo  spirito  reli- 
gioso, che  è  in  entrambi  l'anima  della  concezione  politica  ;  ma  con  quella  dif 
ferenza  profonda,  che  secondo  Fichte  caratterizzava  appunto  la  opposizione 
tra  tedeschi  e  neolatini,  cioè  il  contrasto  tra  la  fede  nell'  immanenza  e  la 
fede  nella  trascendenza.  Per  quanto  sulla  interpretazione  di  tutto  lo  sviluppo 
del  pensiero  giobertiano  si  siano  dibattute  e  si  dibattano  tuttora  discussioni 
(e  basti  ricordare  gli  studi  dello  Spaventa,  del  Gentile  e  quello  recentissimo 
del  Saitta),  tuttavia  è  fuor  di  dubbio  che  nel  Primato  appaia  una  dottrina 
della  trascendenza  di  Dio,  la  quale  non  sì  limita  a  porre  fra  esso  e  l'uomo  un 
abisso,  che  soltanto  la  grazia  redentrice  può  superare,  ma,  coU'escluderé 
la  rivelazione  diretta,  pone  la  Chiesa  come  necessaria  mediatrice  fra  la  natura 
divina  e  l' umana.  Così  anche  la  legge  e  la  vita  civile  vengono  a  discendere 
dall'  insegnamento  sacerdotale  ;  e  per  la  fede  che  Cristo  sia  venuto  a  diffon- 
dere non  una  ma  la  religione,  e  a  fondare  1'  Ecclesia  universale,  nel  sacer- 
dozio cattolico  si  costituisce  per  Gioberti  la  guida  morale  e  civile  di  tutta 
l' umanità. 

Per  ciò  nell'  umanità,  secondo  Gioberti,  l' Italia,  in  quanto  nazione  sacer- 
dotale per  eccellenza,  ha  un  primato  ;  ma  consistendo  esso  nell'accettare  la 
subordinazione  del  laicato  al  sacerdozio,  dello  spirito  al  dogma,  non  .consente 
alla  nazione  italiana  neppur  di  tendere  ad  una  unità  nazionale,  che  isolerebbe 
il  papa  dalla  vita  civile,  e  le  fa  invece  obbligo  d'accettare  una  forma  fede- 
rativa sotto  l'egemonia  del  papato. 

Un  primato,  connesso  con  la  negazione  dell'autonomia  spirituale  e  con- 
cludente a  una  grave  limitazione  dell'autonomia  nazionale,  non  poteva  certo 
sorridere  allo  spirito  degli  italiani,  quando  l'esigenza  della  libertà  lo  perva- 
deva e  moveva  alPazione  :  il  sogno  del  Gioberti  era  destinato  quindi  ad  esser 
breve  sogno  per  il  suo  stesso  autore,  che  di  lì  a  pochi  anni  confessava  il 
dileguamento  delle  sue  speranze.  Ma  per  11  Giuliano  la  caducità  del  miraggio 
giobertiano  deriva  invece  dal  dualismo  che  egli  poneva  fra  Dio  e  l'uomo. 
Certo,  posto  simile  dualismo,  non  ^  possìbile  alcuna  unità  sintetica  fra  i  due 
termini,  senza  quei  miracoli  che  sono  la  creazione  nel  tempo  e  la  rivelazione  ; 
ma  non  è  detto  che,  posta  la  trascendenza,  debba  di  necessità  discenderne 


584  Note^  questioni  storiche,  ecc. 


la  concezione  di  una  missione  del  sacerdozio.  Una  fede  nella  trascendenza 
potrebbe  anche  conchiudere  ad  un  buio  agnosticismo  o  ad  una  rivelazione 
diretta,  che  sia  concessa  come  grazia  illuminante  ad  ogni  anima  individuale. 
La  necessità  di  una  chiesa  mediatrice  non  è  per  se  stessa  inclusa  in  ogni 
dottrina  di  trascendenza;  si  potrebbe  anzi  dire  che  la  trascendenza  diventi 
per  essa  meno  rigorosa  e  netta,  una  volta  che  sull'abisso  fra  Dio  e  l'uma- 
nità vien  gettato  il  ponte  della  Chiesa. 

Ora  le  conseguenze,  alle  quali  arriva  il  Gioberti  nel  Primato,  di  una 
sovranità  della  Chiesa,  che  è  (come  dice  il  Giuliano)  negazione  di  ogni  libertà 
teoretica  e  pratica,  si  possono  far  discendere  dalla  dottrina  della  trascendenza 
di  Dio,  solo  in  quanto  senza  di  essa  non  sarebbe  concepibile  la  funzione 
attribuita  al  sacerdozio  :  essa  è,  in  altri  termini,  una  condizione  necessaria  ma 
non  sufficiente;,  rende  cioè  possibile,  ma  non  necessaria  la  conclusione  gio- 
bertiana. 

L'Italia,  secondo  il  Giuliano,  ebbe  una  volta  questo  primato  teocratico  : 
il  laicato  d'Italia  avrebbe  creato  la  civiltà  del  m.  e.  e  del  rinascimento,  ani- 
mato dall'  idea  religiosa  cristiana.  Ma,  intanto,  dire  idea  religiosa  o  idea  cri- 
stiana non  è  dire  idea  e  missione  sacerdotale;  e,  d'altra  parte,  l'affermare 
che  la  civiltà  del  rinascimento  non  sia  stata  che  espressione  dell'idea  reli- 
giosa, conduce  il  Giuliano  alla  conseguenza  di  considerare  per  es.  già  morta 
quella  civiltà  nell'arte  di  Raffaello  e  di  Tiziano,  in  cui  morta  è  la  fede,  e  vive 
nell'Ariosto  soltanto  le  tracce  dell'idea  cristiana  superstiti  fra  le  scene  pagane 
di  bellezza  e  di  gioia.  Perchè  non  dire  anche,  allora,  la  Gerusalemme  (magari 
la  conquistata  piuttosto  che  la  liberata)  più  viva  dell'  Orlando  furioso  ? 

Il  primato  d'Italia  verrebbe  a  cessare,  secondo  il  Giuliano,  col  cristal- 
lizzarsi del  dogma  nel  concilio  di  Trento  ;  non  (come  potrebbe  credersi)  per 
l'azióne  soffocatrice  esercitata  dalla  controriforma,  dall'inquisizione  e  dalla 
compagnia  di  Gesù  su  tutte  le  sorgenti  vive  dell'attività  spirituale  ;  ma  perchè , 
finita  l'elaborazione  e  lo  sviluppo  vivo  dei  dogmi,  cadono  insieme  l'ege- 
monìa spirituale  della  Chiesa  e  quella  dell'Italia.  Fino  ad  allora  (afferma  il 
Giuliano)  la  coscienza  cattolica  di  una  missione  sacerdotale  impediva  all'  Italia 
di  sentir  l'esigenza  dell'unità  nazionale,  perchè  l'Italia  era  più  che  una 
nazione:  era  la  forma  viva  di  un'idea  internazionale;  ma  anche  la  caduta  di 
questo  suo  valore  internazionale  non  tolse  del  tutto  l'ostacolo  alla  forma- 
zione della  coscienza  nazionale,  fin  che  non  vi  si  associò,  nel  trionfo  della 
rivoluzione  francese,  il  compimento  del  processo  an  ti  teocratico,  con  l'afferma- 
zione che  il  diritto  non  sCende  dall'alto  dei  cieli,  ma  sale  dalla  volontà  stessa 
dell*  uomo. 

Di  fronte  a  questa  interpretazione  della  storia  d'Italia  ci  si  affacciano 
molti  dubbi:  se  la  fede  in  una  missione  internazionale  fosse  impedimento- 
alla  affermazione  della  coscienza  nazionale,  come  si  spiegherebbe  il  fatto, 
che  proprio  nel  più  grande  apostolo  di  questa  coscienza  in  Italia,  Mazzini, 
ella  si  fondi  e  consista  essenzialmente  (come  più  oltre  diciamo)  proprio  nella 
volontà  e  nell'esercizio  di  una  missione  internazionale?  Non  per  l'Italia  {la 
terza  Roma)  soltanto,  ma  per  ogni  nazione  :  ora  per  Mazzini  non  si  può 
ripeter  certo  quel  che, potrebbe  dirsi  per  Gioberti  (pure  fondante  il  diritta 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  585 


d'esistenza  e  d'autonomia  d'ogni  nazione  sul  suo  speciale  compito  o primato 
internazionale)  che  alla  universalità  della  missione  dell'  Italia  fosse  disposto 
a  sacrificare  l'unità  nazionale;  nessuno  più  di  Mazzini  vigoroso  e  reciso 
assertore  d'unità  ebbe  mai  l'Italia. 

E  quest'ultima  connessione  dell'idea  nazionale  con  un  compito  inter- 
nazionale non  meno  caratteristica  è  nel  pensiero  germanico,  dove  sembra 
anzi  che  la  coscienza  nazionale  non  possa  destarsi  se  non  affermandosi,  dagli 
Stùrmer  und  Drànger  ai  romantici,  da  Herder  a  Fichte  ad  Hegel,  come  por- 
tatrice ed  esecutrice  di  una  missione  universale  di  primato  o,  per  usar  le 
espressioni  di  Schiller,  che  riecheggiano  poi  in  tutti  gli  altri,  come  «nucleo 
dell'  umanità,  eletto  a  costruire  l'edificio  eterno  della  civiltà  umana  ».  E  perchè 
anche  in  Germania  solo  dopar  la  rivoluzione  francese  si  vien  formando  la 
coscienza  nazionale  ?  Forse  anche  là  era  stata  prima  di  ostacolo  la  missione 
internazionale  del  sacro  impero,  erede  di  Roma  ?  O  perchè  allora  la  coscienza 
nazionale  si  forma  precisamente  come  affermazione  di  una  missione  mon- 
diale dell'  impero  ? 

D'altra  parte  l'azione  delle  idee  della  rivoluzione  sulla  formazione  della 
coscienza  nazionale  —  in  Italia  e  altrove  —  non  è  tanto  nella  direzione  anti- 
teocratica (che  teocratico  fu  Gioberti  e,  in  un  significato  che  spieghiamo  più 
oltre,  teocratico  fu  lo  stesso  Mazzini)  quanto  nel  senso  di  destare  l'esigenza 
della  libertà  e  di  dare,  con  il  concetto  della  volontà  generale^  la  visione  del- 
l'unità  spirituale  che  costituisce  un  popolo,  e  fonda  il  potere  dello  stato  e 
della  legge.  Non  per  nulla  anche  in  Germania  (dove  un'azione  demolitrice 
contro  la  Chiesa  cattolica  non  avrebbe  avuto  senso)  Fiéhte  prima  dei  Discorsi 
alla  nazione  tedesca  aveva  scritto  la  Rettifica  dei  giudizi  del  pubblico  sulla 
rivoluzione  francese,  è  tutti  i  romantici,  fondatori  della  coscienza  nazionale 
germanica,  avevan  sentito  potente  l'influsso  del  Rousseau. 

I  Discorsi  alla  nazione  tedesca  sono,  come  accennammo,  inspirati  alla 
dottrina  dell'immanenza,  là  dove  nel  Primato  giobertiano  si  afferma  poi  la 
dottrina  della  trascendenza  ;  ma  come  sarebbe  inesatto  fare  di  questa  oppo* 
sizione,  secondo  che  Fichte  voleva,  un  contrasto  caratteristico  dello  spirito 
germanico  e  del  neolatino,  così  non  è  storicamente  esatta  neppure  la  distin- 
zione attenuata,  che  pone  il  Giuliano,  fra  una  tendenza  puramente  demoli- 
trice del  soggettivismo  latino  e  una  tendenza  costruttrice  del  soggettivismo 
tedesco:  basterebbe  ricordare  Rousseau  e  la  sua  influenza  su  Kant  e  sullo 
stesso  Fichte.  Ma  con  Fichte  l'idealismo  si  rivolge  al  tentativo  di  superare 
ogni  dualismo,  ponendo  l' Io  come  assoluta  realtà  identica  all'ordine  divino  r 
l'immanenza  del  divino  è  affermata  in  tutta  la  sua  pienezza. 

Nella  valutazione  della  fede  immanentistica  il  Giuliano  non  mi  par  sempre 
coerente  :  quando  egli  esalta  la  fede  romantica,  figlia  della  Riforma,  come  il 
nuovo  cristianesimo  che  al  creatore  celeste  sostituisce  il  Cristo  inteso  vera- 
mente come  uomo-di^;  che  rovescia  il  cristianesimo  della  Chiesa,  sostituendo 
alla  sommessa  accettazione  di  un'autorità  esteriore  l'autonomo  slancio  del- 
l'anima verso  la  libertà;  che  nell'ascensione  al  Calrario  verso  la  trasfigura- 
zione vede,  come  nell'ascensione  dell'eroe  Sigmund  al  Walfater,  simboleg- 
giata l'ascensione  dell'umanità  verso  la  stia  etema  realtà  ideale;  con, tutto 


586  Note»  questioni  storiche y  ecc. 


ciò  egli  non  ci  prepara  certo  alle  successive  affermazioni,  che  la  riforma  e  il 
romanticismo  non  diano  una  vera  parola  religiosa  nuova,  da  cui  potesse  sor- 
gere una  nuova  superiore  forma  di  coscienza  e  di  civiltà  umana,  ma  diano 
soltanto  un'eresia  intellettuale,  incapace  di  creare  un  nuovo  mito,  perchè 
mancante  di  una  di  quelle  idee  madri,  che  rappresentano  una  radicale  tra- 
sformazione dello  spirito. 

Tuttavia,  prescindendo  da  questa  antitési  tra  affermazioni  parimenti  recise, 
che  esìgerebbe  di  essere  maggiormente  chiarita,  ci  appare  vìvo  nel  Giuliano 
il  convincimento  che  la  concezione  dell'  idealismo  immanentistico  sia  la  sola, 
che  affermi  in  tutto  il  'suo  significato  la  libertà  dello  spirito,  la  sola  che  ponga 
in  tutto  il  suo  valore  il  principio  di  attività,  e  additi  nel  soggetto  stesso  la 
vera  fonte  dei  valori,  sì  da  indirizzare  l'opera  educativa  verso  il  vero  prin- 
cipio creatore,  e  farne  veramente  una  formazione  dell'uomo. 

Ma  sarebbe  anzi  tutto  a  dimostrare  che  la  fede  nella  «  prpfonda  imma- 
nente divinità  da  cui  (per  dirla  col  Giuliano)  sgorga  colla  vita  umana  ogni 
suo  valore  »  non  possa  condurre  a  far  risalire  la  vera  fonte  dei  valori  oltre 
1  soggetto,  a  quella  scaturigine  cui  il  soggetto  stesso  deve  attingere  il  valore 
proprio.  Con  l' immanenza,  scrisse  una  volta  anche  il  Gentile,  resta  sempre 
anche  la  trascendenza  :  quindi,  se  l'autonomia  appartiene  al  soggetto  univer- 
sale nel  suo  sviluppo,  non  appartiene  altrettanto  al  soggetto  individuale,  sem- 
plice atomo  d'un  anello  di  una  catena  infinita. 

Ma  nel  caso  di  Fichte  c'è  qualcosa  di  più  grave  ancora. 

Il  processo  della  sua  filosofìa  avrebbe  dovuto  condurlo  all'  idea  dell'  uni- 
versale umano  e  alla  affermazione  di  un  inveran^entò  del  principio  divino  in 
tutta  intiera  l'umanità  attraverso  al  suo  sviluppo  storico:  Fichte  invece  nei 
Discorsi  si  fa  apostolo  di  un  nazionalismo  esclusivo,  che  il  Giuliano  non 
esita  a  chiamare  imperialistico.  Ora  il  Giuliano  crede  che  non  ci  sia  contra- 
dizione  in  questo  passaggio  :  ma  altro  è  dire  che  Fichte  non  credette  di  tra- 
dire l'idea  dell'universale  umano,  altro  il  ritenere  che  non  abbia  tradito  o 
deviato  dall'umanismo  al  patriottismo. 

^  Un  vero  umanismo  e  cosmopolitismo  non  era  in  Fichte  neppure  quando 
scriveva  i  Caratteri  fondamentali  dell' età  presente,  dove  pure  scindeva  l'uma- 
nità in  due  piani,  degli  spiriti  terrestri'  e  degli  spiriti  solari,  e  in  ogni  epoca 
attribuiva  ad  un  pòpolo  la  funzione  di  dominatore  sopra  gli  altri.  Ma  tanto 
più  esso  manca  nei  Discorsi^  ove  lo  stesso  Giuliano  riconosce  la  deforma- 
zione di  una  grande  idea,  la  smentita  all'  idea  di  umanità,  la  conversione  di 
una  concezione  filosofica  in  una  gnosis  dogmatica. 

Ora  in  questa  conversione  il  Giuliano  avrebbe  potuto  rilevare  come  il 
Fichte  sia  condotto  alle  conseguenze  di  ogni  dogmatismo:  alla  negazione 
della  libertà  del  soggetto.  La  sua  concezione  pedagogica,  che  doveva  fon- 
darsi sul  principio  di  attività  e  di  libertà  dello  spirito,  si  deforma  nei  Discorsi, 
fino  ad  esigere  che  l'educando  «  non  possa  volere  diversamente  da  come  l'edu- 
catore vuole  che  egli  voglia  »,  e  che  la  costituzione  di  un  ambiente  artifi- 
ciale, ottenuto  con  la  violenta  separazione  dalla  famiglia,  dia  il  modello,  su 
«ai  debba  foggiarsi  l'ideale  della  vita  sociale.  E  dovendo  questa  violenta 
imposizione  essere  operata  dagli  uomini  di  stato,  Fichte  arriva  ad  augurarsi 


Note^  questioni  storiche^  ecc.  587 


nella  Staaislehre  ^  un  padrone,  che  ci  costringa  a  fondafe  il  germanismo». 
La  parabola  con  ciò  è  compiuta;  e  l'opposizione,  che  il  Giuliano  pone  tra 
Machiavelli,  invocante  un  eroe  dominatore  capace  di  violentar  l' Italia  e  il 
destino,  e  Fichte  invocante  la  rigenerazione  dal  popolo  stesso,  viene  a  cadere. 

Per  tanto  il  divario  fra  l'azione  possente  esercitata  da  Fichte  sullo  spi- 
rito germanico,  e  la  rapida  caduta  del  miraggio  giobertiano,  non  mi  pare 
possa  dipendere  dalla  opposizione  fra  immanenza  e  trascendenza  come  vuole 
il  Giuliano:  Fichte  col  suo  immanentismo  non  riusciva  a  superare  quella 
necessità  logica,  che  costringe  ogni  ambizione  egemonica  a  porre  come  sua 
condizione  una  negazione  dell'  autonomia  del  soggetto.  E,  d'altra  parte,  se 
Gioberti,  dopo  aver  accesa  col  suo  Primato  la  vampata  di  un  momentaneo 
entusiasmo,  la  vede  rapidamente  declinare  e  spegnersi  come  fuoco  di  paglia, 
e  sente  in  se  stesso  morire  il  suo  sogno,  la  voce  di  Mazzini,  invece,  che  pure 
affermava  anch'essa  la  trascendenza  del  divino,  suscita  tutto  un  tumulto  tem- 
pestoso di  risonanze,  risveglia  ed  incita  all'azione  tutto  un  popolo,  e  pur  oggi 
riecheggia  sempre  viva  negli  spiriti. 

La  diversità  del  destino  dei  due  sogni  di  Gioberti  e  di  Fichte  era  nella 
diversa  rispondenza  di  ciascuno  allo  spirito  nazionale  del  tempo:  Gioberti 
riesce  ad  esaltare  gli  animi  solo  in  quanto  celebra  le  glorie  passate,  ma  va 
contro  alle  aspirazioni  verso  l'autonomia  piena  e  la  compiuta  unità  della 
nazione,  che,  per  opera  specialmente  di  Mazzini,  si  facevano  sempre  più  dif- 
fuse, vive  e  possenti;  la  passionata  parola  di  Fichte  invece,  che  suona  la 
diana  all'orgogliosa  coscienza  di  un  privilegiato  destino  della  sua  nazione, 
mostra  la  sua  corrispondenza  ad  una  tendenza  generale  del  momento  storico 
nel  fatto  stesso  di  esser  preceduta  ed  accompagnata  e  seguita  da  tutto  un 
coro  di  altre  voci  consonanti  con  essa  nel  moto  romantico,  pieno  del  superbo 
convincimento  di  una  supremazia  germanica.  Tutti  gli  uomini,  che  hanno 
esercitato  una  grande  azione  nella  storia  (diceva  egregiamente  il  Comte)  trag- 
gono la  loro  importanza  dall'aver  sentito  per  istinto  geniale  quali  mutamenti 
si  andavano  preparando  e  dall'averli  proclamati  :  le  forze  sociali  che  si  svi- 
luppavano in  silenzio  sono  allora  apparse  sulla  scena  con  tutto  il  vigore  della 
giovinezza,  moltiplicando  la^loro  energia  d'azione  per  la  più  chiara  consape- 
volezza che  i  grandi  uomini  han  dato  loro,  coll'esprimere  nella  loro  aperta 
affermazione  le  tendenze  oscure  che  lavoravano  nell'ombra  ad  aprirsi  la  via. 

All'azione  storica  dei  discorsi  del  Fichte  non  è  di  ostacolo  la  negazione, 
sopra  accennata,  dell'esigenza  dell'autonomia:  nel  nazionahsmo  fichtiano  (de- 
viazione, non  derivazione  dalla  .dpttrina  etica  di -Fichte)  come  in  quello  del 
romantici,  il  principio  di  attività  non  è  più  affermazione  di  libertà,  ma  vo- 
lontà di  potenza  ;  e  questa  volontà  di  potenza  maschera  la  rinuncia  all'auto- 
nomia spirituale  sotto  l'affermazione  di  un  privilegio,  senza  avvedersi  che  la 
negazione  dell'altrui  valore  e  degli  altrui  diritti  include  quella  del  valore  e 
del  più  alto  diritto  proprio. 

Contro  queste  tendenze,  delle  quali  in  Fichte  stesso  sarebbe  stato  bene 
metter  in  luce  le  conseguenze,  il  Giuliano  si  richiama  con  ardore .  di  fede  a 
quel  pensatore,  apòstolo,  profeta  dell'Italia  nuova,  che  fu  Giuseppe  Mazzini. 
Ma  l'invocazione  non  è  più  giusta  se,  come  ho  accennato,  la  si  voglia  far 


588  Not€f  questioni  storiche^  ecc. 


discendere  dalla  affermazione  di  un  idealismo  che  sia,  quale  il  fichtiano,  filc;- 
sofia  e  religione  dell'immanenza  :  Mazzini  credeva  nella  trascendenza,  e  cer- 
cava in  un  Dio  superiore  all'umanità,  non  nel  soggetto  stesso,  la  vera  fonte 
dei  valori.  Ora  se  Mazzini'  può  essere  invocato  anche  dal  Giuliano  a  segna- 
colo di  una  nuova  ascensione,  ciò  accade  per  la  sua  fede  nei  valori,  non  per 
•a  fondazione  religiosa  che  voleva  darne.  Prova  evidente,  questa,  che  l'es- 
senziale è  precisamente,  in  questo  caso,  la  nobiltà,  sincerità  ed  energia  della 
coscienza  morale,  la  quale  non  è  subordinata  all'accettazione  di  un  credo  im- 
manentistico, e  può  essere  ugualmente  alta,  operosa  ed  efficace  in  spiriti  se- 
guaci di  diverse  tendenze  metafisiche,  perchè  non  soltanto  in  una  di  esse 
può  trovare  la  sua  fondazione. 

'V 

Con  l'invocazione  a  Mazzini  si  chiude  lo  scritto  del  Giuliano;  ed  ecco, 
nel  libro  del  Levi,  una  rievocazione  del  pensiero'  mazziniano,  fondata  su  una 
conoscenza  piena  e  sicura,  e  compiuta  con  una  serenità  che,  pur  non  celando 
l'amore  per  la  grande  figura  del  Genovese,  vuole  stabilire  nettamente  e  di- 
scutere a  fondo  i  problemi  che  presentano  la  ricostruzione  e  l'interpretazione 
della  sua  dottrina. 

Ma  prima  di  venire  al  libro  del  Levi  aggiungo  una  considerazione.  Nel 
richiamo  a  Mazzini  il  Giuliano  moveva  da  Fichte  e  dal  suo  idealismo;  ma 
anche  Gioberti  avrebbe  potuto  bene  ricondurre  il  pensiero  al  grande  apostolo 
dell'Atalia  nuova.  Il  primato,  che  Gioberti  attribuiva  agli  italiani,  non  esclu- 
deva, anzi  implicava  l' affermazione  di  un  primato  particolare  per  ognuna  delle 
stirpi  e  nazioni,  in  corrispondenza  delle  speciali  doti  ed  attitudini  di  cia- 
scuna: anche  quelle  non  salite  finora  all'orizzonte  della  civiltà,  lungi  dall'es- 
sere per  Gioberti,  come  per  Hegel,  escluse  per  sempre  dalla  storia,  occu- 
peranno un  giorno,  secondo  lui,  nel  disegno  universale  della  provvidenza,  un 
grado  onorevole;  e  dal  futuro  contributo  allo  sviluppo  dell'umanità,  che  co- 
stituirà nell'avvenire  i!  loro  speciale  primato,  hanno  intanto  fondato  il  loro 
diritto  alla  vita  e  all'autonomia. 

Il  concetto  del  prima,to  in  Gioberti  si  può  dunque  avvicinare  a  quello 
della  missione ^c^Q  Mazzini  ad  ogni  nazione  ritiene  assegnata  nel  corso  della 
storia  universale  :  tutti  i  primati^  come  tutte  le  missioni,  costituiscono  il  segno 
e  la  sorgente  dei  diritti  di  ogni  nazione,  e  debbono  esercitarsi  per  il  bene  di 
tutte  e  nella  direzione  del  fine  comune.  Sopra  al.  concetto  di  nazione  in  en- 
trambi i  pensatori  italiani  splende  il  concetto  d'umanità,  illuminato  in  entrambi 
dalla  viva  luce  di  una  fede  religiosa.  E  il  ravvicinamento  potrebbe  farsi  anche 
per  la  missióne  preminente  conferita  da  Mazzini  alla  terza  Roma,  se  non  fosse 
che  il  primato  spirituale,  attribuito  dal  Gioberti  all'Italia  in  quanto  nazione 
sacerdotale,  doveva  essere  per  lui  permanente,  mentre  la  missione  di  inizia- 
trice, conferita  da  Mazzini  alla  nazione  che  più  aveva  sofferto,  doveva  esser 
temporanea  :  di  aprir  la  via  per  la  quale  poi  tutta  l'umanità  si  sarebbe  insieme 
incamminata  ;  e  se  non  fosse,  sopra  tutto,  che  la  premessa  giobertiana  era 
in  una  negazione  dell'autonomia  spirituale,  la  premessa  mazziniana  in  una 
afférmazione  vigorosa  di  essa,  per  la  nazione  italiana  e  per  tutte  le  altre. 


Notet  questioni  storiche^  ecc.  589 


Le  dottrine  di  Mazzini  hanno  comune  con  quelle  di  Marx  e  di  Engels  la 
condizione  di  essere  disseminate  in  molteplici  scritti,  quasi  tutti  d'occasione,  e 
qyasi  mai  esposte  sistematicamente;  ma  più  forse  che  quelle  hanno  il  carat- 
tere, che  il  Levi  mette  in  rilievo,  di  un'intima  unità  e  di  un  coerente  colle- 
gamento fra  le  idee  direttrici.  Tempra  di  credente  più  che  di  filosofo,  d'uomo 
d'azione  più  che  di  freddo  pensatore,  Mazzini  della  stessa  filosofia  poneva 
un  concetto  religioso  :  la  filosofia  era  per  lui  un'affermazione  dell'individua- 
lità fra  una  sintesi  religiosa  che  cade  e  un'altra  che  sorge,  una  religione  del- 
l'individuo, nello  stesso  modo  che  la  religione  è  la  filosofia  delle  moltitu- 
dini. Si  unificano  nel  contenere  entrambe  il  pensiero  dominatore  di  un'epoca  ; 
si  distinguono  non  soltanto  nell'appartenenza  della  prima  all'individuo  e  del- 
l'altra all'umanità  collettiva,  ma  anche  nella  condizione,  richiesta  per  il  pas- 
saggio alla  collettività,  di  aggiungere  la  sanzione  di  un'origine  divina,  e  nella 
potenza;  che  in  questa  l'icfea  attinge,  di  trasformare  il  mondo.  Ma  per  la  stessa 
filosofia  il  criterio  di  verità  è  dato,  secondo  Mazzini,  dalla  ratifica  che  la  co- 
scienza individuale  trova  nella  coscienza  dell'umanità,  in  quanto  in  essa  vive 
la  legge  morale  :  in  Mazzini  come  in  Rousseau  il  sentimento  ha  la  premi- 
nenza sull'intelletto,  come  in  kant  la  ragion  pratica  ha  il  primato  sulla  spe- 
culativa, come  in  Fichte  le  affermazioni  teoretiche  restano  sospese  a  quelle 
etiche.  Per  questo  orientamento  etico  Mazzini  considera  il  consenso  dell'uma- 
nità necessario  appoggio  alla  coscienza  individuale,  con  un  criterio  di  verità 
che,  sotto  questo  rispetto,  non  merita  il  titolo  d'ingenuo  che  il  Levi  pro- 
pènde a  dargli  :  esso  si  ricollega  con  la  fondamentale  tendenza  religiosa  del 
Mazzini,  per  la  quale,  come  il  Levi  osserva,  si  potrebbe  anche  chiamar /<?(f^ 
la  sua  stessa  dottrina  politica. 

La  fede,  per  cui  Mazzini  s'era  sentito  un  giorno  tratto  in  salvo  dalla  tem- 
pesta del  dubbio,  aveva  per  suo  motto:  la  vita  è  missione  ;  ma  la  missione 
era,  secondo  lui,  affidata  all'uomo  da  Dio.  Dio  per  Mazzini  è  un  postulato 
della  morale  :  «  esiste  universale  il  bisogno  di  unMdea,  d'un  centro,  d'un  prin- 
cipio unico  a  cui  si  richiamino  le  norme  delle  azioni  »  ;  e  come  postulato 
dell'etica,  esso  è  in  Mazzini  quel  che  era  in  Kant  e,  ancor  prima,  nella  Pro- 
fession  de  foi  del  Rousseau,  la  cui  azione  sul  Mazzini  meriterebbe  di  esser 
determinata  nelle  concordanze  e  nelle  opposizioni.  Dio  per  Mazzini,  afferma 
giustamente  il  Levi,  non  s'identifica  col  mondo  e  neppure  con  lo  spirito  del- 
l'umanità :  per  quanto  egli  abbia  talora  parlato  di  panteismo,  Dio  resta  per 
luì  sempre  trascendente,  superiore  al  mondo  come  autore  della  vita  e  della 
legge  morale.  L'umanità^  lo  ha  in  sé  come  inspiratore,  ma  restan  sempre  di- 
stinti: «Dio  è  Dio,  e  l'Umanità  è  il  suo  profeta»  o,  come  scriveva  al  La- 
mennais,  «ce  n'est  pas  Dieu-Humanité,  mais  Dieu  et  l'Humanité,  que  nous 
avons  pour  devise  ». 

Il  progressivo  sviluppo  storico  o,  come  aveVa  detto  il  Lessing,  la  edu- 
cazione progressiva  del  genere  umano  si  compie  secondo  Mazzini  nella  suc- 
cessione storica  delle  religioni  :  la  rivelazione  di  Dio  si  attur  «  attraverso  la 
vita  collettiva  dell'Umanità».  Quindi  se  anche,  come  osserva  il  Levi,  manca 
in  Mazzini  una  definizione  precisa  dell'umanità,  c'è  per  altro  In  lui  un  con- 
cetto ben  definito  della  continuità  della  vita  di  essa  attraverso  i  tempi  e  i 


590  Note^  questioni  storiche^  ecc. 


luoghi,  del  contributo  che  allo  sviluppo  collettivo  reca  ogni  uomo  come  ogni 
popolo  (quasi  operai  nell'immenso  opificio  dell'umanità)  e  del  valore  di  mis- 
sione che  ha  questo  contributo  per  ciascuno.  Nel  concetto  di  umanità  per 
tal  modo  è  racchiuso  anche  quello  di  progresso  :Vn  concetto  non  determi- 
nistico, ma  volontaristico  e  teleologico,  che  può  ben  meritare  il  nome  di  fede. 
A  questa  idea  Mazzini  era  condotto,  oltre  che  dal  Condorcet  e  dalla  filosofia 
del  sec.  XVIII,  anche  dal  Saint  Simon  e  aggiungerei,  in  parte  anche  dal  Lessing. 
Dante,  cui  egli  amava  richiamarsi,  non  gli  avea  dato,  come  nota  il  Levi,  se  non 
le  idee  che  egli  a  lui  attribuiva  ;  Vico  non  gli  dava  quella  convinzione,  che  egli 
professa,  della  continuità  del  progresso  e  del  suo  indefinito  procedere.  La  conti- 
nuità in  Mazzini  è  rappresentata  dàlia  tradizione,  il  rinnovarsi  incessante  è  co- 
stituito «  dalla  necessità  che  spinge,  quasi  legge  di  esistenza,  ogni  essere  allo 
sviluppo  di  tutti  i  germi,  di  tutte  le  forze,  di  tutte  le  facoltà  di  vita  che  sono 
in  esso  »  ;  ma  questa  necessità  non  è  esteriore  alla  coscienza  ;  essendo  quei 
germi  e  quelle  forze  di  lor  natura  spirituali,  di  fronte  alla  tradizione,  che  con- 
serva le  conquiste  già  fatte,  la  forza  impulsiva  è  data  «  dalle  ispirazioni  che 
sono  in  noi  tutti  ».  E  per  questo  «il  progresso  sta  nella  coscienza  del  pro- 
gresso. L'uomo  deve  conquistarlo  di  passo  in  passo...  non  può  meritarlo  che 
combattendo,  purificandosi  col  sacrificio  nelle  forti  opere,  nei  santi  dolori  ». 

Sempre,  ovunque,  il  concetto  della  vita  come  missione  si  riafferma  ;  il 
principio  del  dovere  riappare  come  centro  di  tutta  la  dottrina  mazziniana,  e 
si  concreta  nel  suo  carattere  religioso,  etico  e  storico  a  un  tempo:  «la  sor- 
gente del  dovere  risiede  in  Dio  —  suo  oggetto  l'umanità  —  la  sua  base  è 
la  reciproca  responsabilità  degli  uomini  —  la  sua  misura  è  determinata  dai 
bisogni  del  tempo  e  dall'intelletto  dell'individuo  —  il  suo  limite  è  segnato 
dal  grado  di  potenza  che  l'individuo  possiede».  Coni  Doveri  dell'Momp  Maz- 
zini intendeva  contrapporre  ai  diritti  dell'uomo^  proclamati  dalla  rivoluzione 
francese,  i  principi  dell'epoca  nuova,  non  più  critica  ma  organica,  avente  per 
fine  non  più  Vindividuo,  ma  V Associazione.  E  in  questa  opposiaione  ai  prin- 
cipi'dell'Sg,  che  lo  ravvicina  ài  Comte  (e  molto  opportunamente  il  Levi  ha 
tracciato  le  linee  essenziali  di  un  raffronto)  per  la  comune  derivazione  dal 
Saint  Simon,  Mazzini,  al  pari  del  Comte,  fraintende  e  disconosce  il  valore 
che  il  concetto  di  diritto  aveva  nelle  Dichiarazioni  rivoluzionarie  e  nel  loro 
inspiratore  Rousseau. 

Laddove  il  dovere  scende  da  una  legge  generale,  il  diritto,  dice  Maz- 
zini, non  scende  che  da  una  volontà,  è  fe^e  dell'individuo,  è  interesse  e, 
come  tale,  minaceli^  di  passare  dalla  sovranità  deWio  «alla  signoria  dell'in 
più  potente».  In  queste  accuse  è  dimenticato  del  tutto  il  carattere  di  uni- 
versalità e  —  quindi  —  di  reciprpcità,  che  l'idea  di  diritto  include  in  sé,  per 
cui  la  rivendicazione  è  possibile  solo  in  nome  di  uh  principio  universale,  che 
implica  l'pbbligo  del  riconoscimento,  nel  pensiero  e  nell'azione,  del  diritto 
degli  altri.  In  questo  senso  il  concetto  di  diritto  si  identifica  con  quello  di 
dovere,  e  l'uomo  nell' affermarlo  sente  in  sé  rumanità,  come  aveva  splendi- 
damente mostrato  Rousseau  nella  celebre  formula  :  «  rinunciare  alla  libertà 
è  rinunciare  alla  propria  qualità  d'uomo,  ai  diritti^  anzi  ai  doveri  dell'uma- 
nità'». Il  Mazzini  non  è  affatto  nel  vero,  quindi,  allorché  afferma  che  ^il'eser- 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  591 


cizio  dei  diritti  è  necessariamente  facoltativo  »  :  tale  non  era  in  Rousseau, 
del  quale  Mazzini  stesso  è  l'eco  fedele,  quando  scrìve  :  «  lasciando  che  la 
sua  libertà  sia  violata  l'uomo  tradisce  la  propria  natura».  Su  questo  punto 
il  Levi  avrebbe  potuto  accentuare  maggiormente  i  suoi  rilievi  critici;  che  in 
Rousseau  (il  quale  è  l'espressione  più  alta  della  scuola  del  diritto  naturale) 
il  diritto  non  è  solo  pretesa,  ma  è  norma;  e  non  ne  deriva  solo,  come  ri- 
tiene Mazzini,  un  calcolo  che  renda  incapaci  di  affrontare  il  sacrificio  e  il  mar- 
tirio, per  la  convinzione  che  «primo  fra  tutti  i  diritti  è  il  diritto  alla  vita». 
«Vivre  ce  n'est  pas  respirer,  c'est  agir»,  dice  Rousseau;. ed  agire  è  seguire 
«la  force  expansive  de  l'àme  qui  m'identifie  avec  mon  semblable»;  là  dove 
chi  «  vient  à  bout  de  n'aimer  que  lui-méme  »  è  un'«àme  cadavéreuse  »  cui 
manca  la  vita  della  coscienza.  Lungi  dal  condurre,  come  crede  Mazzini,  «  al- 
l'accettazione dei  fatti  compiuti»,  la  dottrina  dei  diritti  parte  dal  principio  che 
«la  vérité  morale  ce  n'est  pas  ce  qui  est,  mais  ce  qui  est  bien-»,  e  conduce 
i  singoli  «à  s'identifier  avec  le  plus  grand  tout,  à  se  sentir  membres  de  la 
patrie,  à  l'aimer  de  ce  sentìment  exquis  que  tout  homme  isole  n'a  que  pour 
soi-méme».  (Cfr.  il  mio  Rousseau  nella  formazione  della  coscienza  moderna). 

Certamente,  nel  pensiero  di  Mazzini  il  processo  della  fondazione  dei  di- 
ritti era  inverso  a  quello  della  scuola  del  diritto  naturale.  ^  IL  ^rj«j  per  lui 
non  è  l'Uomo' ma  l'Umanità,  non  l'individuo  ma  il  popolo;  a  lui  non  oc- 
corre, come  a  Rousseau  «l'acte  par  lequel  un  peuple  est  un  peuple  »  ;  che 
al  popolo,  «arbitro,  centro,  legge  viva  del  mondò»,  V autorità  sv.ex\àt.  diret- 
tamente da  Dio.  Ma  tuttavia  il  concetto  mazziniano  di  sovranità  (ben  lo  nota 
il  Levi)  differisce  profondamente  da  quello  dei  tepcratici,  che  per  Mazzini 
da  Dio  scende  non  il  potere  e  il  diritto,  ma  il  dovere,  il  fine,  la  legge.  La 
sovranità  del  popolo  è  sovranità  del  fine,  missione  e  non  diritto,  anche  se 
poi  fonda  il  diritto  del  popolo,  in  quanto  «  costituisce  la  norma,  sulla  quale 
è  giudicata  la  legalità  o  l'illegalità  dei  Governi  »,  e  di  ciò  fa  giudice  il  po- 
polo, conscio  del  fine  chf  la  tradizione  e  il  progresso  gli  assegnano. 

Questa  democrazia  religiosa  presenta  indubbiamente  in  sé,  col  porre  «il 
termine  collettivo  superiore  a  tutte  le  individualità  y>,  ì\  pericolo  di  deduzioni 
limitatrici  della  libertà:  lo  slesso  Mazzini,  pur  cosi  convinto  della  santità  del- 
l'eresia, «pegno  o  tentativo  di  progresso  futuro»,  non  concepiva  la  piena 
libertà  d'insegnamento,  e  contro  là  formula  di  Cavour  «  libera  chiesa  in  li- 
bero stato  »,  aspirava  ad  uno  stato  che  incarnasse  in  sé  il  principiò  religioso, 
inalzandosi  alla  chiesa.  Non  la  chiesa  cattolica  né  altra  delle  esistenti,  sì 
bene  quella  dell'avvenire  ;  ma  .anche  in  questo  puntò  Mazzini  somiglia  a 
Comte  (col  quale  concorda  nella  critica  alla  democrazia  europea)  e  la  iso- 
miglianza  in  questo  caso  non  é  sempre  a  favore  del  principio  di  libertà. 

Sinceramente,  profondamente  religioso  (come  scrisse  di  se  stesso)  con- 
vinto che  «  l'Umanità  non  può  vivere  senza  cielo  »,  Mazzini  nella  questione 
sociale  doveva  trovarsi —  e  si  vide  nell'Internazionale,  cui  da  prima  aveva 
aderito  —  in  netta  opposizione  con  Marx  ed  Engels,  che  volevano  (come  al- 
trove ho  mostrato)  approfondire  l'umanismo  di  Feuerbach,  troncando  le  ra- 
dici sociali  della  autoalienazione  che  l'uomo  compie  nella  religione.  Da  que- 
sta opposizione  fondamentale  tutte  le  altre  discendono':  che  dove  per  Marx 


592  Notey  questioni  storiche  »  ecc. 


ed  Engels  il  fondamento  sociale  della  religione  è  la  scissione  della  umanità 
in  classi,  onde  la  dialettica  storica  si  svolge  nella  lotta  delle  classi,  per  Maz- 
zini liei  popolo^  profeta  di  Dio,  deve  regnare  l'unità  del  fine  e,  quindi,  la 
solidarietà  degli  sforzi.  Ecco  quindi  il  contrasto,  che  l'Engels  caratterizzava 
in  uno  scritto  del  1850  contro  Mazzini  ed  altri,  che  chiamava  i  nostri  evan- 
gelisti: «essi  negano  l'esistenza  delle  lotte  di  classe».  Ma  l'Engels  non  era 
giusto  verso  Mazzini,  quando  lo  rimproverava  di  proibire  alle  singole  classi 
di  formulare  i  loro  interessi  e  le  loro  pretese  rispetto  alle  altre,  e  di  predi- 
care l'attesa  inerte  del  gran  giorno,  che  doveva  operare  il  miracolo.  Maz- 
zini sin  dal  1839  affermava  la  necessità  di  una  rivoluzione;  e  nel  1842  inci- 
tava la  classe  operaia  a  unirsi  nell'associazione  e  dare  il  suo  programma, 
annunziando  di  non  combattere  se  non  per  quello;  e  già  nel  1840:  «Non  vi 
sono  rimedi  per  chi  non  s'aiuta...  I  grandi  cangiamenti  hanno  luogo  sola- 
mente quando  sono  apertamente  desiderati.  E  voi  non  avete  diritto  alcuno 
a  miglioramenti  finché  state  inerti  ».  E  nel  1858  :  «  Il  popolo  fu  deluso  finora 
e  per  ogni  dove  in  Europa,  perchè  seguì  l'impulso  delle  altre  classi:  agi- 
sca... per  impulso  proprio  e  otterrà». 

Certo,  quest'azione  della  classe  lavoratrice  non  dev'essere  per  Mazzini 
nella  direzione  della  lotta  di  classe,  che  Marx  ed  Engels  affermavano  invece 
unica  via  alla  mèta  :  egli  vagheggia  da  un  lato  associazioni  operaie  aiutate 
dal  credito  nazionale,  che  ben  possono  compararsi  a  quelle  propugnate  d^J 
Lassalle;  dall'altro  lato  spera  sopra  tutto  nell'efficacia  dell'educazione  etico- 
religiosa,  nop  intendendo  (parafrasiamo  qui  il  detto  di  Lassalle  :  gli  indivi- 
dui si  lasciano  ingannare,  le  classi  mai)  che  gli  individui  possono  abdicare  ; 
le  classi,  no. 

Se,  del  resto,  Engels  era  ingiusto  con  Mazzini,  neppure  Mazzini  era  giu- 
sto con  Marx  ed  Engels,  quando  imputava  loro,  oltre  alla  negazione  di  Dio, 
anche  quella  della  Nazione  e  d'ogni  proprietà  individuale.  Quanto  alla  pro- 
prietà, basta  ricorfiare  la  formula  del  Capita/e, , che  di  fronte  alla  appropria- 
zione capitalistica,  negazione  della  vera  proprietà  personale,  il  socialismo  vuol 
essere  la  negazione  della  negazione.  Ora  la  vera  proprietà  personale  non  è 
per  Marx  ed  Engels  (credo  di  averlo  dimostrato  altrove  analizzando  il  con- 
cetto del  plusvalore)  diversa  da  quella  che  è  per  Mazzini  :  «  il  riparto  dei  frutti 
del  lavoro  tra  i  lavoranti,  in  proporzione  del  lavoro  compiuto  e  del  valore  di 
quel  lavoro».  Mazzini,  preoccupato  dalla  convinzione  che  non  fossero  possibili 
idealità  fuori  della  fede  religiosa,  non  poteva  scorgere  l'idealismo  che  sog- 
giace in  fondo  ^1  cosi  detto  materialismo  storico  (il  materialismo  degli  inte- 
ressi, com'egli  malamente  lo  chiama),  non  poteva  intendere  quella  inspirazione 
etica,  che  anche  il  Levi,  con  giuste  osservazioni  rivendica  al  socialismo  marxi- 
stico. Anche  riguardo  al  concetto  di  nazione,  è  certo  che  la  causa  nazionale 
non  poteva  nel  pensiero  di  Marx  e  di  Engels  avere  quell'importanza  premi- 
nente che  doveva  avere  in  Mazzini,  la  cui  patria  era  oppressa  e  divisa;  ma 
Come  Mazzini  (l'ho  notato  altrove)  somigliava  ad  Engels  nel  tracciare  i  fon- 
damenti economici  dell'aspirazione  patriottica,  cosi  Engels  somigliava  a  Maz- 
zini nel  riconoscere  la  nazione  come  condì tio  sine  qua  non  dell'internaziona- 
lismo. Ai  passi,   4a  me  indicati  altra  volta,  aggiungo  ora  cól  Levi,  per  il 


Isiote,  quesiioni  storiche,  ecc.  593 


valore  singolare  che  assume  nell'attuale  momento  storico,  il  significante  brano 
della  prefazione  alla  traduzione  italiana  del  Manifesto  dei  conmnisii  :  «  senza 
l'autonomia  e  l'unità  restituite  a  ciascuna  nazione,  né  l'unione  internazionale 
del  proletariato,  né  la  tranquilla  e  intelligente  cooperazione  di  coteste  nazioni 
verso  fini  comuni  potrebbero  compiersi». 

E  siamo  con  questo  alla  parte  più  luminosa  e  feconda  dell'apostolato 
mazziniano. 


Il  concetto  di  nazione,  nota  giustamente  il  Levi,  è  uno  dei  meglio  deter- 
minati nella  dottrina  del  Mazzini  :  é  un  concetto  —  secondo  il  carattere  ge- 
nerale del  suo  spirito  —  non  deterministico,  ma  teleologico,  in  quanto,  pur 
tenendo  conto  dei  fattori  naturali  (territorio,  razza,  lingua),  sopra  tutti  que- 
sti considera  essenziale  il  fine,  l'intento  comune,  la  missione.  In  questo  punto 
a  me  pare  possa  conciliarsi  l'opinione  del  Levi,  che  il  concetto  centrale  in 
Mazzini  sia  quello  del  dovere,  con  l'opinione  del  Vidari,  che  il  concetto  più 
profondo  sia  quello  del  popolo  :  ciò  che  costituisce  un  popolo  è  la  sua  mis- 
sione: «una  nazione  è  una  missione  vivente».  Perciò  Mazzini  scriveva  che 
«  a  fondare  una  nazionalità  è  necessaria  la  coscienza  di  questa  nazionalità  »  : 
una  coscienza  però  che,  ben  lungi  dall'essere  esclusivista  od  egoistica,  e  dal 
poter  generare  la  boria  delle  nazioni,  deve  sentire  che  «  la  nazione  deve  es- 
sere per  l'umanità  ciò  che  la  famiglia  è,  o  dovrebb' essere,  per  la  Patria». 
Il  fine  di  una  nazione  non  dev'essere  in  contrasto  col  fine  di  alcun'altra,  per- 
chè è  soltanto  «  la  part  que  Dieu  fait  à  un  peuple  dans  le  travail  hu mani- 
taire  ;  l'oeuvre  qui  lui  donne  droit  de  cité  dans  l'Humanité:  le  baptème  qui 
lui  confère  un  caractére  et  lui  assigne  son  rang  parmi  les  peuples  ses  frè- 
res».  Nel  suo  trascendentalismo  religioso  Mazzini  afferma  con  energia  la  con- 
cezione solidarìstica  dell'umanità  :  la  distinzione  delle  nazioni  non  può  signi- 
ficar contrasto  di  fini  ma  (come  s'è  già  accennato)  solo  la  differenza  delle 
attitudini  e,  quindi,  del  contributo  che  ciascuna  può  e  deve  recare  al  fine 
comune  dell'umanità. 

Ora  questa  concezione  solidaristica  in  Mazzini  è  strettamente  connessa  con 
la  visione  dell'universalità  della  norma,  intesa  come  criterio  della  condotta 
morale,  per  le  nazioni  come  per  gli  individui  :  nell'ammonimento  dei  Doveri 
delVuomo  a  desistere  da  ogni  azione,  che  pur  recasse  vantaggio  immediato 
alla  famiglia  o  alla  patria,  quando  la  coscienza  dice  che  «  fatto  da  tutti  e  per 
tutti  nuocerebbe  all'umanità  »,  questo  concetto  dell'universalità  della  normia 
si  unisce  e  quasi  si  subordina  alla  visione  degli  effetti  dell'azione,  per  Pinter- 
vento  del  principio  solidaristico.  Ma  se  qui  la  norma  etica  si  lega  per  tal  via 
all'idea  di  un  interesse,  sia  pur  generale  e  altissimo,  altra  volta  la  legittimità 
di  un  fine  solo  in  quanto  sia  concepito  quale  principio  universale  è  netta- 
mente afiermata  :  «  adoro  la  mia  patria  perchè'  adoro  la  Patria  ;  la  nostra  li- 
bertà perchè  io  credo  nella  Libertà  ;  i  nostri  diritti  perchè  credo  nel  Diritto  ». 

E  questa  visione  così  alta  e  sicura  della  fondazione  etica  dei  fini  solo 
nella  universalità  loro,  doveva  mettere  Mazzini  in  posizione  di  netto  contra- 
sto contro  tutte  quella  tendenze  nazionalistiche  (fossero  di  Francia  o  d*Alle- 

38  —  t^uova  Rivista  Storica. 


594  Note^  quesHorii  storiche^  ecc. 


magna  o  d'altra  gente  qualsiasi)  di  cui  già  vedeva  ed  affermava  il  carattere 
reazionario.  E  bene  U  Levi  ha  voluto  mettere  in  rilievo  l'antagonismo  del 
purissimo  apostolato  di  nazionalità  del  Mazzini,  animato  da  un  soffio  eletto 
di  inspirazione  etica,  con  quelle  correnti  nazionalistiche  e  irnperialistiche,  le 
qualt  discendono  dall'amoralismo  o  immoralismo  nietzschiano,  affermando 
uno  spirito  brutale  di  conquista  i  cui  «  limiti  sono  nella  potenza  e  non  già 
nel  diritto». 

Con  \?^  missione  della  terza  Roma  (la  Roma  del  popolo)  Mazzini  attri- 
buiva, è  vero,  all'Italia  un  prunaio  morale y  ma  il  Popolo  messia  non  doveva 
esser  che  Viniziatore  della  nuova  epoca  del  genere  umano  ;  e  la  formula  di 
questa  epoca  doveva  essere  «  Associazione  di  tutti  i  popoli,  di  tutti  gli  uomini 
liberi,  in  una  missione  di  progresso  che'  abbracci  l'Umanità  ». 

Tutte  le  vedute  del  Mazzini  sulla  sistemazione  dell'Europa,  ancor  oggi 
piene  di  tante  suggestioni  e  di  tanti  ammonimenti,  tutti  i  suoi  giudizi  sulla 
politica  contemporanea  delle  diverse  nazioni,  si  inspirano  a  quel  concetto,  per 
la  convinzione  che  la  morale  dovesse  essere  elemento  di  vita  internazionale 
e  dare  la  consecrazione  alla  politica,  non  potendo  la  pace  e  la  concorde  col- 
laborazione fra  i  popoli  «essere  che  conseguenza  della  libertà  e  della  giu- 
stizia >. 

E  col  Levi  io  sono  pienamente  d'accordo  nel  giudicare  che  il  meritò  ca- 
pitale della  dottrina  mazziniana  sia  nell'aver  affern;iata  l'importanza  del  fat- 
tore etico  nella  vita  degli  individui  e  degli  stati  e  nei  rapporti  fra  le  nazioni. 
I  fattori  morali  sono  fattori  positivi  in  quanto  muovono  le  coscienze  e  deter- 
minano l'azione  :  diventano  quindi  fattori  storici  in  quanto  possono  suscitare 
e  dirigere  l'azione  delle  masse,  ossia  in  quanto  le  masse  conquistino  la  con- 
sapevolezza e  la  volontà  della  loro  funzione  di  fattrici  della  storia. 

E  in  questo  l'insegnamento  mazziniano  viene,  come  a  prima  vista  non 
si  direbbe,  a  confluire  con  quello  di  Marx  ed  Engels,  i  quali  auspicavano 
per  l'umanità  il  passaggio  dal  regno  della  necessità  a  quello  della  libertà, 
facendo  consistere  in  «  questo  atto  liberatore  del  mondo  la  missione  storica 
del  proletariato  moderno  »,  la  quale  sarà  resa  possibile  dalla  conquista  della 
consapevolezza.  L'ultima  parola,  in  entrambe  queste  pur  così  opposte  dot- 
trine, è  l'umanità:  ma  nella  visione  realistica  della  storia,  che  Marx  afferma, 
essa  significa  il  bisogno  e  il  diritto  che  gli  interessati  rivendicano  contro  la 
loro  condizione  di  disumanità  (Unmenschlichkeit)  ;  nell'austera  concezione 
morale  di  Mazzini  invece  essa  significa  il  dovere ^  che  va  compiuto  da  tutti, 
quelli  compresi,  per  cui  segni  un  sacrificio  degli  interessi.  L'antitesi  tuttavia 
non  è  insuperabile  per  l'umanità.  L'appello  alle  forze  storiche,  per  le  quali 
l'esigenza  morale  costituisca  un  bisogno  e  un  interesse,  non  annulla  il  valore 
universalistico  di  quell'esigenza  :  d'altra  parte  anche  Mazzini  riconosceva  che 
«non  vi  sono  rimedi  per  chi  non  s'aiuta...  I  grandi  cangiamenti  hanno  luogo 
solamente  quando  sono  apertamente  desiderati  ». 

Rodolfo  Mondolfo. 


Note,  questioni  storiche^  ecc. 


Dopo  la  guerra:  meditazioni  storiche:  considerazioni  e  raffronti. 

La  guerra  europea  ha  senza  dubbio  capovolto  e  il  pensiero  e  il  metodo 
di  ricerca  storica,  specialmente  per  coloro  che  avevano  contratto  la  mala  abi- 
tudine di  considerare  i  tempi  passati  come  età  affatto  diverse  dalla  nostra. 
Tutti  eravamo  un  po'  troppo  abituati  a  concepire  le  vicende  trascorse  come 
un  tutto  a  sé,  nel  quale  non  v'era  posto  per  le  nostre  anime,  dal  quale,  anzi, 
ci  sentivamo  obbligati  ad  appartarci.  Né  altrimenti  si  spiegherebbe  l'immenso 
grido  di  sorpresa,  che  ci  proruppe  dal  cuore  il  giorno  in  cui  scoppiò  la  grande 
conflagrazione  :  fu  come  un  brusco  risveglio  da  un  sogno,  in  cui  eravamo 
immersi  e  ci  cullavamo  da  parecchio  tempo.  E  diremo  altresì  che  la  dolce 
illusione  era  stata  in  parte  sapientemente  coltivata  da  chi  aveva  tutto  l'in- 
teresse di  farlo. 

Intanto  dormivamo  sonni  beati,  sfogliando,  fra  un  riposo  e  l'altro,  le 
pagine  della  storia,  con  l'aria  di  chi  legge  un  romanzo  d'avventura  dei  tempi 
di  re  Artù.  —  Le  guerre?  Sogni  di  altre  età!  Chi  oserà  appiccare  l'incendio 
all'Europa?  —  E  l'incendio  fu  appiccato,  ed  a  tutto  il  mondo.  —  L'imperia- 
lismo? Morto  e  sepólto  a  Sant'Elena!  —  E  l'imperialismo  germanico  si  drizzò 
tutto  intero  nell'agosto  1914,  e,  perchè  potesse  trionfare,  milioni  di  uomini 
avevano  lavorato  in  silenzio  da  anni  ed  anni  con  tenacia  e  pazienza  incredi- 
bili. E  nessuno  se  n'era  accorto  o,  meglio,  non  s'era  voluto  accorgere. 
Un  solo,  il  Kaiser,  aveva  spesso  interloquito,  tradendo  il  gran  segreto,  e,  atteg- 
giandosi quasi  a  novello  Messia,  ci  aveva  fatto  balenare  dinanzi  agli  occhi 
le  spade  affilate  e  le  polveri  asciutte,  ma  aveva  incontrato  la  sorte  dell'an- 
tica Cassandra  ;  peggio,  non  era  stato  preso  sul  serio  !  E  si  seguitavano  a  tri- 
butare incensi  ed  inni  alla  Dea  Pace,  ed  il  22  febbraio  d'ogni  anno,'neiran- 
niversario  della  nascita  di  Giorgio  Washington,  tutte  le  scuole  elevavano,  per 
immancabile  invito,  un  inno  alla  fratellanza  universale...  Invece,  da  ultimo,  an- 
che la  patria  di  Giorgio  Washington  entrò  nella  grande  fornace,  non  certo 
per  farsi  abbruciare . . . 

Nell'agosto  1914  la  confusione  dei  governi,  della  diplomazia,  dei  pacifisti 
fu  adunque  immensa  oltre  ogni  dire:  ma  più  gigantesco  fu  l'imbarazzo  delle 
coscienze,  che  si  trovarono  brutalmente  dinanzi  alla  tremenda  realtà,  ad  una 
realtà  che  si  affermava  e  ripeteva  ed  insegnava  come  morta  e  sepolta  da  un 
pezzo.  Invece  essa  appariva  più  baldanzosa  che  mai,  tanto  che  molti  non  se 
ne  persuasero,  né  vogliono  tuttavia  persuadersi,  e  s'ostinano  a  tenere  gli  òcchi 
ben  chiusi.  Pur  troppo,  non  bastano  quattro  anni  di  guerra,  con  le  relative 
perdite  di  sangue  e  di  beni,  per  distoglierli  dall'utopìa  !  E  per  consolarsi  di. 
non  essere  del  tutto  dalla  parte  del  torto,  se  la  pigliano  con  quelli,  che, 
avendo  brandito  le  armi  per  difendersi,  ebbero,  secondo  loro,  il  grave  torto 
d'avere  imitato  il  malo  esempio  dei  Tedeschi... 

Cessato  lo  sbalordimento  dei  primi  mesi  di  guerra,  allorché  adunque  si 
cominciò  un  pochino  a  veder  chiaro  ed  a  ragionare,  si  comprese  che  ciò 
che  nel  1914  imperversava  per  l'Europa  era  sempre  avvenuto  da  che  mondo 


596  NotCy  questioni  storichCy  ecc. 


è  mondo.  L'imperialismo  teutonico  una  novità?  E  quello  di  Napoleone?  E 
Cesare  ed  Alessandro?  E  Attila  e  Tamerlano?  Ma  perchè  mai  l'età  presente 
doVeva  costituire  un'eccezione?  L'uomo  è  sempre  uomo,  e  le  basi  della  società 
civile  {civile,  ecco  una  parola  che  ci  ha  tratti  in  errore!)  sono  sempre  le 
stesse Ci  voleva  il  misfatto  di  Serajevo  per  farci  ricordare  quanto  ave- 
vamo appreso  nelle  lezioni  di  scienze  naturali  :  la  lotta  per  l'esistenza,  la  so- 
pravvivenza del  più  adatto?  Che  altro  è  infatti  la  vita,  se  non  lotta  per  l'esi- 
stenza? Cosa  semplicissima,  che  tutti  sanno,  ed  io  ho  (juasi  ritegno  a  ripeterla, 
tanto  mi  sembra  luogo  comune  :  così  comune  però,  che  l'avevamo  dimenti- 
cato, per  ricordarlo  soltanto  nella  scuola  ed  applicarlo  agli  animali  od  agli 
uomini  d'altre  età.... 

Oggi,  per  confortarci  e  per  attenuare  la  grossolanità  del  nostro  errore, 
ci  siamo  alfine  acconciati  ad  ammettere,  in  quanto  ?C\  fatti,  ch'essi  corrispon- 
dono alla  logica  delle  vicende  umane,  limitando  perciò  le  nostre  riserve 
al  modo  in  cui  si  sono  svolti,  modo  che  ha  superato  —  s' è  detto  —  e 
sconvolto  del.  tutto  la  nostra  mentalità.  Ed  anche  qui  abbiamo  torto.  Ba- 
sta raffrontare  il  grande  conflitto  con  avvenimenti  passati  dello  stesso 
carattere  e  d'uguale  grandezza,  per  vedere  che,  anche  in  quanto  al  modo, 
non  c'è  in  sostanza  gran  che  di  mutato.  La  logica  della  storia  non  si  smen- 
tisce mai:  essa  è  d'un  rigore  inesorabile.  Taluno  obbietterà:  —  Ma  ai 
giorni  nostri  i  Tedeschi  avrebbero  dovuto,; via,  comportarsi  un  po'  meno 
peggio  !  —  Convengo^  perchè  infatti  i  soldati  di  Guglielmo  II  sono  scesi  allo 
stesso  livello  dei  Lanzi  e  delle  orde  di  Alarico.  Tuttavia,  tolte  le  differenze 
di  luogo,  di  tèmpo,  di  nazionalità  (sopratutto  di  nazionalità,  e  queste  sono 
spiccatissime  fra  latinità  e  germanesimo),  gli  avvenimenti  d'altri  tempi  non 
potevano  ripetersi  nel  secolo  presente  in  maniera  diversa.  Se  non  l'abbiamo 
capito,  peggio  per  noi!  Vuol  dire  che  abbiamo  studiato  la  storia  passata, 
ignorando  quella  d'oggi,  ^  che,  prima  del  1914,  leggevamo  i  giornali,  senza 
stabilire  alcun  legame  fra  la  cronaca  del  giorno  e  l'età  di  Napoleone,  tra  le 
informazioni  della  politica  quotidiana  ed  il  periodo  della  Fronda.  Peggio  per 
noi  se  abbiamo  staccato  il  passato  dal  presente  !  In  luogo  di  mandare  all'uno 
ed  all'altro  sguardi  distratti,  dovevamo  aprir  bene  gli  occhi  su  ambedue. 

Ora  finalmente  stiamo  facendo  giudizio  e  sembra  ci  siamo  persuasi  che 
la  guerra  europea  fu  uno  dei  tanti  avvenimenti,  di  cui  è  piena  la  storia,  un 
fenomeno,  che  tante  volte  s'è  ripetuto  e  che  poteva  ripetersi,  come  avvenne 
infatti,  nel  1914.  E  ci  pieghiamo  altresì  a  riconoscere  che  ciò  che  han  fatto, 
o  voluto  fare,  i  Tedeschi  non  è  molto  diverso  da  quanto  han  fatto,  o  voluto 
fare,  in  altre  età  i  Persiani,  i  Greci,  i  Romani,  i  Francesi  e  gli  stessi  Tede- 
schi. L'imperialismo  non  è  una  novità.  Mai  più!  Intanto,  e  sempre  per  atte- 
nuare la  gravità  del  nostro  scacco  spirituale,  accusiamo  gli  insegnanti  ed  i 
libri  scolastici L'accusa  non  è  del  tutto  infondata:  ma,  in  sostanza,  accu- 
siamo noi  stessi,  perchè  in  effetto  veniamo  a  denunciare  le  nostre  illusioni, 
quelle  che  hanno  tratto  in  errore  scrittori  e  lettori,  maestri  e  scolari.  Diamo 
dunque  l'addio  alle  meraviglie  e  correggiamo  gli  errori  del  passato,  metten- 
doci sull'unica  via  buona,  quella  che  e' insegna  la  storia.  È  difficile  seguirla? 
Se  abbiamo  presenti  e  chiari  alla  memòria  gli  avvenimenti  d'oggi,  sapremo 


Note^  quistioni  storiche^  ecc.  597 


imiiiancabilmente  interpretare  quelli  d'altre  età,  come  riusciremo  a  spiegare 
a  perfezione  le  vicende  presenti,  ricorrendo  agii  esempi  del  passato.  Così  si 
fa  la  storia,  che,  vtuiaiis  muiandis,  non  varia  gran  che  da  secolo  in  secolo 

Non  capite  perchè  Bettman-Holhveg  assassinò  due  volte  il  Belgio  o  per- 
chè lo  Stato  Maggiore  germanico,  sgombrando  la  Francia  del  nord,  ha  posto 
il  deserto  fra  sé  ed  il  nemico?  Chiedetelo  al  Louvois,  che  consigliò  il  Re  Sole 
a  terrorizzare  l'Olanda  e  a  devastare  il  Palatinato  !  Non  trovate  solidi  argo- 
menti per  sostenere  davanti  agli  alunni  il  programma  di  Temistocle,  che 
consigliava  i  suoi  concittadini  a  rafforzare  il  naviglio  ?  I  testi  di  storia  proba- 
bilmente lo  taceranno  :  ma  vi  risponde  Lloyd  George  «  Navi,  navi,  navi!  »  La 
guerra  attuale  vi  insegna  adunque  che,  distrutta  la  flotta  persiana,  l'esercito  di 
Serse  difficilmente  avrebbe  potuto  mantenersi  nell'Eliade,  mancandogli  la 
maggior  parte  de'  rifornimenti,  che  venivano  per  mare.  E  si  ebbe  Salamina, 
ed  avvenne  ciò  che  Temistocle  aveva  intuito.  Altro  esempio.  Parlando  di 
Luigi  XIV,  avrete  magnificato  le  sue  vittorie-  contro  la  Lega  d'Augusta, 
cioè  contro  quasi  tutta  l'Europa  ;  ma  avrete  anche  rilevato  èhe  il  Gran  Re, 
nonostante  l'incontrastata  superiorità  strategica,  a  un  dato  momento,  si  fece 
innanzi  per  primo  a  chiedere  la  pace.  Gli  alunni  saranno  rimasti  a  bocca 
aperta.  INIaora,  che  gli  Imperi  centrali  hanno  imitato  il  Gran  Re,  la  spiegazione 
è  chiarissima,  e  si  dovrà  anzi  concluderne  che  nelle  guerre  lunghe  chi  più 
sofifre  è  lo  Stato  che  ha  le  grandi  vie  del  rifornimento  —  quelle  marittime  — 
minacciate  e  bloccate.  Ancora  un  esempio.  Si  meravigliano  taluni  e  prote- 
stano perchè  a  parecchi,  che  pur  sono  Italiani,  sia  dispiaciuta  la  nostra  guerra 
e.  peggiOi  la  nostra  vittoria.  Legittima  e  nobile  la  protesta  !  Quanti  però  di 
tali  esempi  !  Guardate  la  Francia  rivoluzionaria  :  proprio  allora  che  la  pro- 
paganda repubblicana  dilagava  e  le  teste  coronate  tremavano,  mentre  insomma 
la  supremazia  francese  iniziavasi  trionfalmente  sull'Europa,  a  Parigi  tutto 
era  predisposto  per  rovesciare  il  Direttorio,  e  per  rimettere  sul  trono  il  fra- 
tello del  decapitato  Luigi,  accogliendo  l'indirizzo  politico,  tanto  caro  ai  rea- 
listi ed  agli  stranieri.  E  così  sarebbe  avvenuto,  se  tre  su  cinque  Direttori  non 
avessero  compiuto  il  Colpo  di  Stato  del  18  fruttidoro,  ossia  del  io  settem- 
bre 1797.  Sono  stranezze,  anomalie,  si  chiamino  pure  perfìdie  e  peggio: 
eppure  sono  cose  che  si  vanno  ripetendo  di  secolo  in  secolo  con  logica  ta- 
gliente, immutabile. 

Ora  poi,  se  vogliamo  esercitarci  in  raffronti,  e  l'esercizio  è  sempre  istrut- 
tivo {hisioria  ntagistra  vitae,  non  è  vero?),  ci  sono  state  la  Rivoluzione  russa 
e  quella  tedesca.  Molti,  moltissimi,  tutti  vorrebbero  sapere  quale  sarà  l'epi- 
logo dei  due  immani  drammi.  Adagio!  La  storia  ricerca  le  cause  dei  fatti, 
studia  i  fatti  stessi,  li  analizza,  li  raffronta,  induce  e  deduce,  ma  non  pre- 
dice... Essa  non  è  astrologia!  Non  previsioni,  dunque,  ma  constatazioni  sì. 
Ecco  vele.  La  Duma  riceve  da  Nicola  II  l'ordine  di  sciogliersi  ed  invece  ri- 
mane al  suo  posto,  ed  il  Presidente  lo  fa  sapere  ai  sovrano.  Ricordate  la 
Costituente  francese  e  le  parole  di  Mirabeau  al  Gran  Cerimoniere  :  «  Dite  al 
re...»}  La  fine  dello  czarismo  suscita  ed  avvampa  mille  fantasie.  Si  inneg- 
.  già  finalmente  alla  tanto  sospirata  libertà  «  con  quanto  fiato  può  uscire  tlalla 


598  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


gola;  si  proclama  il  principio  dello  sciopero  anche  fra  i  militari,  si  formano 
Comitati  di  operai  e  soldati,  si  vuole  che  le  elezioni  degli  ufficiali  siano  fatte 
dai  gregari  e  così  via. »È  il  Saturnale  dell'idealismo...  Pure,  così,  s'era  fatto 
anche  in  Francia  nell'Ottantanove,  e  l'Europa  dei  novatori  aveva  calorosamente 
appfeudito,  e  come  oggi  s'era  illusa  —  o  aveva  temuto  —  di  veder  cadere, 
dopo  quella  del  14  luglio,  tutte  le  altre  Bastiglie.  Ma  i  reazionari  congiura- 
vano e  venne  il  Novantadue:  alle  frontiere  s'addensarono  i  nemici  esterni 
con  la  complicità  dei  nemici  interni,  e  la  patria  fu  veramente  in  pericolo. 
Si  dovette  accettare  la  guerra,  che  in  nome  della  fratellanza  umana  repu- 
gnava ai  rivoluzionari.  Dai  miracoli  del  Novantatrè  scaturì  l'idea  della  guerra 
di,  liberazione,  con  la  conseguente  conquista,  sia  purea  scopo  di  difesa.  La 
dura  realtà  s'imponeva  sopra  e  contro  i  fumi  dell'idealismo.  E  s'arriva  al 
trionfo  dell'egemonìa  francese  sui  popoli  europei,  con  la  compressione  delle 
altre  genti,  a  dispetto  dei  principi  stessi  dell'Ottantanove.  Io  non  penso  cTie 
in  Rùssia  si  giungerà  a  tali  eccessi,  ma  veggo  che  gli  inizi  della  rivoluzione 
russa  non  differiscono  gran  che  da  quelli  della  rivoluzione  francese.  Dirò  che, 
dopo  r  inevitabile  sfogo  delle  anime  sitibonde  di  libertà  e  la  conseguente 
confusione,  la  realtà  comincerà  a  far  aprire  gli  occhi,  ad  ammonire,  a  frenare 
certi  impulsi,  a  contenere  desideri  prematuri  :  obbligherà  insomma  i  dirigenti 
a  tenere  la  testa  a  posto.  Verranno  anche  di  là  nuovi  miracoli  come  dalla 
Convenzione  nazionale  francese?  Speriamolo  ed  auguriamolo!  Non  farò  pre- 
visioni; ma  nel  pensare  che  il  Lafayette  e  il  Dumouriez  cercarono  scampo 
fra  i  nemici,  che  rivoluzionarii  illustri,  quali  Danton  e  Robespierre,  lasciarono 
la  testa  sotto  la  bipenne,  sto  per  credere  ch'una  fine  non  dissimile  si  stia 
forse  preparando  per  Lenin  e. compagni... 

E  quanto  alla  Germania  :  Voi  vi  stupite  dell'infrangersi  di  così  compatta 
nazionalità  in  un  mucchio  di  Soviet  municipali?  Abbiate  pazienza!  Ricor- 
date il  federalismo  francese  del  1789-93,  che /solo  il  Terrore  riuscì  a  supe- 
rare e  a  fondere  in  un  nuovo  compatto  metallo,  e  poi  continuate  ad  essere 
rauti, nelle  vostre  deduxioni..... 

Uno  dei  primi  uffici  della  storia  è  quello  di  prendere  in  esame  un  dato 
avvenimento  e  di  raffi-ontarlo  con  un  altro  di  uguali  carattere  ed  importanza, 
onde  fissarne  l'analogia  dei  tratti  più  salienti,  soprattutto  circa  l'origine  e  lo 
svolgimento:  dopo  di  che  si  potrà  concludere  che  le  risultanze  saranno  le 
medesime.  La  conflagrazione  europea,  che  nacque  dal  tentativo  d'affermare 
nel  mondo  l'egemonìa  teutonica,  quanti  riscontri  non  trova  nella  storia! 
Carlo  V,  Filippo  II,  il  Re  Sole,  Napoleone  I,  che  valevano,  questi  almeno, 
assai  più  di  Guglielmo  II... 

Proprio  di  questi  giorni,  sfogliando  le  pagine  della  Revue  des  Oeux 
Mondes  del  1853  e  leggendovi  un  articolo  di  De  Viel-Castel  {Louis  XIV  et 
Guillaume  II),  rimasi  colpito  da  un  quadro,  che  potrebbe  figurare  su  qual- 
che nostra  rivista,  così  bene  si  adatta  alla,  situazione  internazionale  di  ieri 
e  di  oggi.   Ecco  velo: 

«  Louis  XIV...,  luttant  depuis  près  de  dix  ans  contre  l'Europe. presque 
eutière,  qu'il  avait  éxasperée  par  son  orgueilleuse  prépotence,  éprouvait  pour 


Note^  questioni  storiche,  ecc.  599 


1»  première  fois  une  résistance  énergique,  dont  il  ne  pouvait  triompher;  il 
était  force  de  reconnaìtre  que  les  autres  Puissances,  si  longtemps  vaincues, 
s'étaient  aguerries  par  leurs  défaites  mèmes,  qu'elles  avaient  appris  de  lui 
l'art  de  mettre  en  mouvement  ces  masses  énormes  de  soldats  dont  le  nombre 
finit  toujours  pour  fixer  la  victoire  . . .  Dejà  les  ressources  de  la  France  s'épui- 
saient,  ce  n'était  plus  qu'à  grand'peine  que  les  successeurs  des  Colbert  et 
des  Louvois  fournissaient  à  ceux  des  Condé,  des  Turenne,  des  Duquesne, 
des  ressources  suffisantes  eu  hommes  et  en  argent.  Dejà  aussi  sur  mer  nous 
avions  perdu  la  superiorité  ;  sur  terre  nous  remportions  encore  des  victoires, 
mais  presque  toujours  c'étaient  de  ces  victoires  peu  décisives,  qui,  pour  un 
grand  État  attaqué  par  des  nombreux  ennemis ,  soni  souveni 
le  préludede  viritables  disastres .  Voltaire  a  parfaitement  caracté- 
risé  cette  situation  en  représentant  la  France  comme  un  corp  piiissant  et  ro- 
buste, fatigué  d'un  longue  résistance,  épiiisé  par  ses  victoires,  et  qu'un  coup 
porte  à  propoa  eid  fait  chanceler  ». 

Ebbene,  al  posto  di  Luigi  XIV  mettiamo  Guglielmo  II  d'Hohenzollern, 
con  le  altre  sostituzioni  di  conseguenza,  appropriamioci  il  giudizio  del  Vol- 
taire ed  applicamolo  alla  Germania,  ed  avremo  un  quadro  veridico  di  questo 
Stato,  innanzi  l'armistizio,  per  nulla  dissimile  da  quello  della  Francia  del 
Seicento  in  lotta  con  la  Lega  d'Augusta,  della  Francia  all'antivigilia  della 
Rivoluzione,  che  l' imperialismo  del  Gran  Re  tanto  contribuì  a  preparare  ! 

D'altra  parte,  l'attuale  conflagrazione,  da  cui  la  vecchia  monarchia 
austriaca  sperava  trarre,  col  soccorso  della  Gerniania,  l'impulso  a  novella 
vita,  quante  rovine  ha  disseminate  intorno  al  vecchio  tronco  degli  Asburgo, 
organismo  terribilmente  artificiale,  ultimo  e  triste  retaggio  del  già  e  per  sem- 
pre svanito  Sacro  Romano  Impero! 

Il  grande  Mazzini  vaticinò  arditamente  che  il  trionfo  dei  principi  nazio- 
nali avrebbe  disfatto  contemporaneamente  la  Turchia  e  l'Austria.  È  del  resto 
la  fatalità  storica,  quella  fatalità  che  abbattè  lo  Stato  carolingio  e  l'impero 
di  Napoleone,  che  travolse  i  disegni  di  Serse  e  le  ambizioni  di  Carlo  di 
Svezia,  che  arrestò  le  orde  di  Attila  e  la  marcia  di  Solimano.  Strano  tuttavia, 
in  apparenza,  che  la  débàcle,  in  cui  è  precipitata  la  monarchia  degli  Asburgo, 
sia  stata  in  fondo  opera  della  sua  grande  alleata,  la  potente  Germania... 
Pure,  se  ben  si  guardi,  la  presente  guerra,  era  in  .germe  nell'atto  solenne 
del  18  gennaio  1871,  allorché  a  Versailles,  nella  Sala  degli  Specchi,  donde 
il  Re  Sole  e  la  grazia  latina  avevano  signoreggiato  TEuropa,  i  sovrani 
d'oltre  Reno  conferivano  a  Guglielmo  I  di  Prussia  quella  corona  imperiale, 
che  Federico  Guglielmo  IV  aveva  rifiutato  nel  1849,  allorché  gli  era  stata 
offerta  dal  suo  popolo  per  mezzo  de'  suoi  rappresentanti.  Quell'afferma- 
zione del  diritto  divino  nella  terra  stessa,  che  aveva  bandito  i  sacri  princip] 
dell 'Ottantanove,  e  proprio  allorquando  nelle  reggie  d'Europa  facevasi  posto 
alla  sovranità  popolare;  quella  consacrazione,  dico,  dell'Impero  tedesco, 
celebrata  nel  territorio  dei  vinti,  anzi  nel  cuore  della  nazione,  che  da  secoli 
era  la  più  fiera  nql  contrastare  al  germanesimo  l'egemonìa  continentale,  non 
poteva  restare  un  semplice  epilogo,  privo  di  conseguenze  per  l'Europa.  Un 


6oo  Noie,  questioni  storiche,  ecc. 


genio  sottile  avrebbe  potuto  trarre  sinistri  auspicii  sin  d'allora.  Il  nostra 
Gioberti,  superando  lo  stesso  Mazzini,  aveva  profetato,  durante  i  tumulti  della 
sua  età,  che  in  un  prossimo  avvenire  Latini  ed  Anglo-sassoni  avrebbero 
cozzato,  e  fortemente,  in  nome  della  libertà  e  del  diritto,  contro  il  germa- 
nesimo  reazionario  ed  imperialista.  E  venne  l'agosto  1914,  ed  il  patto  di 
Versailles  di  quarantatre  anni  innanzi  apparve  quale  era  nel  suo  intimo  signi- 
ficato: l'impegno  di  foggiare  il  continente  ed  il  mondo  ad  imagine  del- 
l'Impero  tedesco,  come  l'Impero  tedesco  s'era  foggiato  ad  imagine  della 
Prussia.  Quod  Dii  avertere  statuire...  ! 

Gellio  Cassi. 

Le  democrazie  medievali  italiane.^ 

La  storia  politica,  scrive  l'egregio  autore  del  presente  volume,  Julien  Lu- 
CHAiRE  consiste  propriamente  nella  storia  delle  relazioni  fra  un  popolo  ed 
il  suo  governo,  delle  relazioni  fra  le  diverse  frazioni  di  un  popolo,  per  quanto 
ha  rapporto  al  loro  governo  comune,  delle  leggi  che  sono  l'espressione  di 
queste  diverse  relazioni,  delle  agitazioni  che  hanno  modificato  o  distrutto 
queste  leggi,  questi  raggruppamenti,  questi  'governi. 

In  tale  senso  i!  L.  si  è  proposto  di  tentare  una  sintesi,  che  egli  (con  ecces- 
siva modestia)  considera  con/e  provvisoria  ed  anzi  come  «  una  serie  di  indi- 
cazioni e  di  riflessioni  sui  fatti  ch'egli  giudica  principali  »,  della  storia  politica 
dei  Comuni  italiani  dalla  loro  prima  costituzione  nel  XII  secolo  fino  alla 
caduta  dell'ultimo  grande  Comune  nel  1530.  E  a  questo  concetto  della  storia 
politica  egli  si  informa  in  tutta  la  trattazione  del  suo  tema  interessantissimo, 
mettendo  sempre  in  prima  linea  i  rapporti  fra  popolo  e  governo,  le  lotte  dei 
partiti  e  delle  classi  sociali,  la  partecipazione  di  queste  all'amministrazione 
pubblica,  il  processo  di  democratizzazione  della  costituzione,  determinato  non 
tanto  dal  fatto  che  fosse  più  o  meno  numerosa  la  partecipazione  diretta  al 
governo,  quanto  dalla  possibilità  che  aveva  l'opinione  pubblica  di  esprimersi 
in  forma  sempre  più  aperta  ed  efficace. 

A  questa  esposizione,  in  cui  il  L.  alterna  molto  felicemente  l' illustra- 
zione dei  fatti,  istituzionali  e  collettivi,  col  racconto  dei  fatti,  episodici  e  per- 
sonali, che  tuttavia  meglio  giovino  a  darne  una  spiegazione  e  della  quale 
non  è  possìbile  fare  in  una  breve  nota  un'analisi  soddisfacente,  si  potrebbero 
tuttavia  muovere  alcune  osservazioni  d'indole  specialmente  metodica. 

Si  potrebbe  osservare,  se  non  sembrasse  una  verità  lapalissiana,  che 
la  storia  politica,  anche  di  un  Comune  cittadino,  non  si  esaurisce  nella  sua 
storia  interna,  su  cui  esercitano  sempre  una  ripercussione  fortissima  i  rap- 
porti col  mondo  esterno,  per  quanto  ristretto  esso  sia. 

Più  fondata  di  questa  obbiezione,  a  cui  l'A.  potrebbe  giustamente  rispon- 
dere ch'egli  non  aveva  inteso  dar  fondo  alla  storia  politica  dei  Comuni,  ma 


*  Jf.  LucRAiRB,  Les  Démocratiei  Itmliermés,  Paris,  Flammàrion,  1915.  pp.  35^ 


Noie,  questioni  storiche ,  ecc.  60 r 


studiare  in  essa  lo  sviluppo  dell'idea  democratica,  sarebbe  l'altra  di  aver 
limitato  il  proprio  campo  di  osservazione  alla  Toscana,  e  più  particolarmente 
a  Firenze.  Effettivamente  nessuno  dei  Comuni  italiani  è  passato  più  comple- 
tamente di  quello  di  Firenze  per  tutti  gli  stadii  del  processo  di  democra- 
tizzazione e  ne  ha  conservato  una  più  ampia  documentazione  ;  ma  è  anche 
innegabile  che  le  forme  di  sviluppo  si  son  mostrate  cosi  varie  e  ricche  nelle 
varie  regioni  d*  Italia,  ed  hanno,  pur  nella  loro  Varietà,  tanti  punti  comuni  di 
riferimento,  che  una  più  ampia  comparazione  avrebbe  giovato  sensibilmente 
a  illustrare  alcune  fasi  dello  sviluppo  comunale,  su  cui  le  vicende  fiorentine 
non  offrivano  luce  sufficiente. 

Nella  trattazione,  infatti,  del  L.,  che  in  generale  è  tanto  organica  ed  armo- 
nica, si  devono  rilevare  alcune  disuguaglianze.  Per  taluni  periodi,  come  quello 
che  va  dalla  creazione  dei  Priori  alla  morte  di  Arrigo  VII,  e  per  quello  del 
Savonarola  e  dell'ultima  repubblica  fiorentina,  data  la  ricchezza  delle  fonti 
cronistiche  e  le  ottime  pubblicazioni  storiche  moderne  condotte  su  ricchis- 
sime collezioni  documentarie,  l'esposizione  critica  del  L.  è  felicissima  ed 
esauriente.  Per  altri  periodi  invece,  come  quello  del  primo  Comune  aristocra- 
tico e  della  trasformazione  interna,  che  prepara  l'avvento  delle  Signorie,  il 
libro  risente  dell'insufficienza  delle  fonti  fiorentine,  mentre  dalle  vicende  dei 
Comuni  d'altre  regioni  e  della  stessa  Toscana  avrebbe,  potuto  ritrarre  ben 
maggiori  elementi. 

Altra  questione  di  metodo,  in  cui  non  mi  sentirei  di  accordo  col  L.,  è 
quella  della  posizione  affatto  secondaria,  che  nella  storia  politica  dei  Comuni 
Italiani  egli  assegna  al  fattore  economico.  «  Le  opposizioni  fra  ricchi  e  poveri, 
egli  scrive,  fra  capitale  e  lavoro,  fra  industriali  ed  agrari  etc,  sono  alla  base 
dei  partiti  politici  ;  le  crisi  politiche  sono  spesso  provocate  da  crisi  economiche. 
Tuttavia  le  stesse  cause,  sono  state  seguite  in  altri  paesi  nello  stesso  momento 
da  conseguenze  politiche  diverse».  E  tali  differenze  sarebbero  determinate  dai 
fattori  morali,  dall'  intelligenza,  dalla  sensibilità,  dalla  volontà  umana. 

Ora  possiamo  tutti  riconoscere  di  aver  troppo  concesso,  una  ventina 
d'anni  fa,  all'  interpretazione  materialistica  della  storia  e  di  aver  esagerato  nel 
negare  importanza  al  fattore  morale,  collettivo  o  individuale.  Ma,  se  v'è  un 
periodo  storico,  in  cui  il  fatto  economico  stia  sempre  in  prima  linea  e  deter- 
mini la  condotta  e  le  vicende  politiche  dello  Stato," è  questo  sopra  ogni  altro 
il  periodo  dei  Comuni  italiani.  La  storia  comunale  è  sempre  e  dovunque  una 
storia  di  classi,  in  cui  pochissime  personalità  emèrgono  dall'oscurità  collet- 
tiva, e  solo  per  brevissimo  tempo.  E  la  mentalità,  gli  ideali,  la  condotta  poli- 
tica delle  classi  sono  sempre  determinate  in  maniera  evidente  dalla  loro  costi- 
tuzione economica,  dalla  loro  comunione  di  interessi.  Che  il  sorgere  della 
borghesia  industriale  e  mercantile  e  con  essa  delle  autonomie  municipali  sia 
un  fatto  comune  a  molti  paesi  dell'Europa  meridionale  e  centrale,  e  che  cio- 
nonostante lo  sviluppo  politico  dei  comuni  italiani  sia  stato  profondamente 
diverso  da  quello  delle  città  francesi,  è  un  fatto  incontestabile.  Ma  bisogne- 
rebbe anche  vedere  se  la  differenza  non  dipenda  alla  sua  volta  da  una  pro- 
fonda diversità  del  grado  e  delle  forme  di  sviluppo,  che  la  borghesia  rag 
giunse  allora  nell'uno  e  nell'altro  paese. 


6o2  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


Neir  Italia  stessa  i  piccoli  Comuni  del  centro  e  più  ancora  quelli  del  nord, 
rimasti  fermi  al  grado  di  sviluppo  della  stretta  economia  cittadina,  dell'arti* 
gianato  e  del  piccolo  commercio,  che  provvede  ai  bisogni  della  campagna 
circostante,  son  presto  caduti  nell'orbita  delle  grandi  città  industriali  e  mer- 
cantili e  si  son  trovati,  di  fronte  ad  esse,  press'a  poco,  nelle  condizioni  dei 
Comuni  francesi  di  fronte  alla  monarchia.  Al  contrario,  nella  Francia  stessa, 
le  grandi  città  del  Mezzogiorno,  per  il  carattere  particolare  della  loro  eco- 
nomia, hanno  per  un  certo  tempo  raggiunto  uno  sviluppo  politico  che  le  rav- 
vicina ai  Comuni  italiani  piuttostochè  a  quelli  del  resto  della  Francia. 

Il  fatto  che  alcune  città  italiane  si  siano  costituite  in  Stati  indipendenti, 
il  L.  l'attribuisce  invece  all'assenza  di  un  potere  esteriore  preponderante,  della 
quale  assenza  esse  avrebbero  poi  approfittato  per  fondare  il  principio  della 
sovranità  collettiva,  per  compiere  cioè  l'atto  essenziale  che  le  fece  diverse 
da  quasi  tutto  il  resto  del  mondo  in  quell'epoca.  Ma  sarebbe  stato,  a  mio 
avviso,  da  discutere  se  il  grado  di  sviluppo  economico,  raggiunto  nel  Due- 
cento e  Trecento  dalla  grassa  borghesia  mercantile  e  industriale,  non  abbia 
contribuito  all'  indipendenza  delle  città  maggiori  quanto  e  più  della  mancanza 
di  un  potere  centrale,  che  pure  in  Italia  tentò  ripetutamente  di  costituirsi  e 
dovette  cedere,  non  tanto  per  l'opposizione  papale,  quanto  per  la  resistenza 
insuperabile  dei  grandi  Comuni. 

Così  pure  lo  sviluppo  della  democrazia,  ossia  l'influenza  direttamente 
esercitata  a  un'opinione  pubblica  sempre  più  larga  sulle  cose  dello  Stato,  è 
in  istretta  relazione  coi  progressi  della  classe  mercantile  e  dell*  industria,  che 
assume  forme  nuove  molto  prossime  a  quelle  del  capitalismo  moderno,  per 
cui  la  borghesia  di  alcune  soltanto  fra  le  maggiori  città  italiane  anticipa  di 
parecchi  secoli  quelle  che  saranno  le  condizioni  politiche  e  sociali  di  tanta 
parte  d'Europa  alla  vigilia  della  Rivoluzione  francese.  Giano  della  Bella  e 
Michele  di  Landò,  due  fra  le  pochissime  figure  politiche  che  emergano  dalla 
folla  oscura  delle  lotte  fiorentine,  servono  a  dare  un  nome  ed  a  gettare  una 
certa  luce  sui  fatti  in  cui  hanno  avuto  una  parte  rappresentativa.  Ma  a  spie- 
gare quei  due  fenomeni  la  conoscenza  della  loro  figura  e  della  loro  attività 
vale  infinitamente  meno  della  conoscenza  dei  fatti  dello  sviluppo  economico, 
che  han  portato  la  piccola  borghesia,  sulla  fine  del  Duecento,  il  proletariato 
industriale  o  il  piccolissimo  artigianato,  nella  seconda  metà  del  Trecento,  a 
mettersi  per  breve  tempo  in  prima  linea  nella  vita  politica  fiorentina. 

Ma  queste  divergenze  di  metodo  e  di  vedute  non  possono  distogliere 
dal  riconoscere  il  merito,  grande  e  indiscutibile,  del  libro  del  Luchaire,  al 
quale  la  storia,  già  tanto  ricca  dei  Comuni  italiani,  va  debitrice  di  un  tentativo 
del  tutto  nuovo  e  originai^. 

Finora  infatti,  salvo  qualche  studio  magistrale  sopra  un  breve  periodo 
della  storia  di  un  ^olo  Comune,  in  cui  il  fenomeno  politico-sociale  era  stato 
illustrato  in  tutte  le  sue  manifestazioni  e  in  tutti  i  suoi  rappòrti,  nelle  opere 
d' insieme  si  era  invece  trattato  separatamente  o  dello  sviluppo  politico,  o 
dello  sviluppo  economico  sociale,  o  delle  istituzioni  pubbliche  dal  loro  lato 
prevalentemente  formale. 

Il  L.  per  il  primo  ha  avuto  il  merito  di  riunire  in  un  breve,  ma  denso 


Note^  questioni  storiche,  ecc.  603 


e  suggestivo  volume,  tutto  quanto  può  gettar  luce  sullo  sviluppo  interno 
della  vita  politica  comunale;  e  in  questo  tentativo,  indovinato  e  felice,  la 
participazione  attiva  alla  vita  pubblica  e  alle  correnti  di  pensiero  moderno 
ha  permesso  al  L.  di  gettare  nuova  luce  sulla  vita  e  sulle  istituzioni  del 
Medioevo  :  e  sotto  l' influenza  benefica  delle  discussioni  più  recenti  sull'es- 
senza dei  partiti  e  della  democrazia,  egli  non  si  è  arrestato  mai  alla  forma 
esterna,  ma  ha  voluto  sempre  vedere  che  cosa  sotto  quella  forma  vi  sia  di 
sostanziale.  Per  lui  gli  Statuti  e  le  riforme  costituzionali,  il  diritto  di  voto, 
l'eleggibilità  ed  i  metodi  di  elezione  han  valore  solo  in  quanto  la  narrazione  del 
cronisti,  gli  atti  dei  Consigli  od  altri  documenti  più  vivi  e  significativi  possano 
venire  a  dimostrare  a  chi  ed  in  qual  misura  quegli  statuti  o  quelle  riforme  do- 
vevano giovare,  ed  a  chi  esse  hanno  effettivamente  giovato,  quali,  classi  o 
quali  gruppi  avevano  in  mano,  nelle  varie  epoche,  le  redini  della  cosa  pubblica. 

Tipica  a  questo  proposito,  per  citarne  una  sola,  ci  sembra  l'osservazione 
che  il  L.  fa  a  proposito  delle  leggi  fiorentine,  che  escludevano  i  nobili  dal 
Priorato  e  dalle  altre  cariche  comunali.  Mentre  generalmente  si  considerano 
quegli  ordinamenti  come  vere  e  proprie  lèggi  di  eccezione,  destinate  ad  assi- 
curare il  completo  trionfo  del  popolo  e  la  definitiva  caduta  di  ogni  potere 
dei  nobili,  considerati  legalmente  e  politicamente  inferiori  al  più  modesto 
popolano,  il  L.  invece  dimostra  in  modo  felicissimo  che  quelle  leggi  miravano 
ad  assicurare  l'equilibrio  fra  le  due  classi,  che,  se  il  popolo  si  garantiva  con 
esse  l'esclusivo  godimento  ^^W^  proprie  magistrature,  ai  nobili  restavano  sem- 
pre delle  armi  poderose  nei  loro  palazzi  turriti,  nelle  loro  proprietà,  nei  loro 
numerosi  dipendenti,  nelle  loro  associazioni  di  classe  e  sopratutto  nella  parte 
preponderante  che  essi  conservavano  ancora  nell'esercito  comunale. 

Per  questa  genialità  di  concezione,  per  questo  sforzo  di  vedere  sempre 
il  lato  intimo  e  sostanziale  delle  questioni  politiche,  per  la  facilità  elegante, 
con  cui  esso  è  scritto,  l'ottimo  libro  del  Luchaire  non  solo  sarà  letto,  con  pia- 
cere e  con  grandissima  utilità,  da  quanti  si  interessano  alla  storia  dei  nostri 
Comuni,  e  da  chi  si  appassiona  a  vedere  un  po'  addentro  nello  sviluppo,  tante 
volte  illusorio,  delle  istitituzioni  democratiche,  passate  e  presenti,  ma  sarà 
un  sussidia,  prezioso  e  indispensabile,  per  chiunque  si  proponga  di  interpre- 
tare i  fatti  e  le  istituzioni  della  vita  pubblica  medievale. 

Gino  Luzzatto. 

Nota  archeologica:  Un  ntrovo  studio  su  la  campagoa  romana/ 

È  questo  upo  scritto  intorno  alla  topografia  della  Campagna  romana,  che 
il  dott.  G.  Lugli  ha  presa  a  studiare  in  modo  particolare,  coordinando,  illu- 
strando e  in  parte  scoprendo  avanzi  di  monumenti  sparsi  qua  e  là,  di  cui  alcuni 
si  vedono  sorgere  a  fior  di  terra,  altri  vi  giacciono  ancora  sepolti  e  nascosti. 

Il  campo  di  tale   studio  non  è  certe  del  tutto  inesplorato:  già  da  gran 


»  G.    Lugli.,   Castra  Albana:    Un  accampamento  romano  fortificato  al  XV.  migUo   della 
via  Appia  (^aXV Ausonia  a.  IX),  pp.  312-65,  Roma,  1917. 


6o4  Note,  questioni  storiche y  ecc. 


tempo  archeologi  e  topografi,  italiani  e  stranieri,  ne  avean  fatto  obietto  di 
speciali  ricerche.  L'autore  però  tenta  qualcosa  di  più  :  l'esame  accurato  di 
tutto  ciò  che  meglio  giova  a  determinare  la  natura  di  questo  o  quel  rudero, 
la  definizione  della  tecnica  e  del  tempo  cui  appartiene  ogni  singolo  monu- 
mento. Inoltre,  esercitando  una  critica  acuta  e  temperata  delle  opinioni  da 
altri  sostenute,  spesso  egli  perviene  a  nuovi  e  felici  risultati. 

Il  titolo  della  memorie  Castra  Albana,  corrisponde  a  due  fatti  :  quello  di 
un  accampamento  romano  e  l'altro  di  un  insieme  di  avanzi  di  costruzione,  che 
si  estendono  per  gran  parte  nella  odierna  città  d'Albano.  Ma  qual  corpo 
militare  vi  ebbe  sede  e  quando  l'accampamento  stesso  fu  impiantato  ?  Ecco 
due  problemi  che  sinora  ebbero  varie  soluzioni,  di  cui  la  più  comune  è 
quella  secondo  cui  esso  rimonterebbe  a  Domiziano,  il  quale  vi  avrebbe  stan- 
ziato dei  pretoriani  a  custodia  della  villa  da  lui  edificata  sui  Colli  Albani. 
Ma  l'autore  giustamente  osserva  che  questa  opinione  non  regge,  sia  per 
le  grandi  dimensioni  dei  Castra,  non  rispondenti  al  bisogno  di  una  o  due 
coorti  di  quelle  milizie,  sia  per  la  valida  fortificazione,  ch'essi  presentano, 
quale  si  richiedeva  piuttosto  per  una  legione,  come  pure  per  la  mancanza  sul 
luogo  di  ogni  indizio  relativo  ai  pretoriani,  mentre  se  ne  hanno  abbondanti 
per  altre  truppe.  Oltre  a  ciò  si  osservi  che  la  pianta  generale  e  la  costru- 
zione del  muro  di  cinta  in  opera  quadrata  accennano  piuttosto  a  un'epoca 
posteriore  a  quella  di  Do  miziano. 

I  soli  avanzi,  che  potevano  far  determinare  più  o  meno  precisamente  la 
data,  erano  quelli  dell'  interno,  fin  ora  poco  studiati  e  anzi  in  parte  del  tutto  sco- 
nosciuti, cioè  un  grande  edifizio  rotondo  presso  la  porta  <Lprincipalis  sitiistra  » 
(oggi  chiesa  di  S.  Maria  della  Rotonda),  alcune  camere  termali,  ivi  presso, 
varie  caserme  e  sostruzioni  di  altre  verso  l'alto  della  collina,  una  torretta 
rotonda  nell'angolo  del  muro  di  cinta,  e  due  conserve  d'acqua,  di  cui  una  è  la 
più  bella  di  quante  esistano  nella  Campagna  romana,  capace  di  contenerne  oltre 
IO  ooo  metri  cubi.  Benché  conosciuta  fin  dal  Settecento,  l'autore  è  il  primo 
a  fornire  un'esatta  pianta  di  questa  piscina,  che  è  di  forma  trapezoidale  e 
non  rettangolare,  il  primo  a  riconoscere  un  secondo  cunicolo  di  immissione,  il 
quale  cade  dall'alto  della  navata  centrale  ed  ha  un'origine  del  tutto  indipen- 
dente. Egli  è  riuscito  a  stabilire  che  tutti  i  monumenti  esistenti  nell'interno 
dei  «  Castra  »,  eccetto  l'edificio  rotondo,  appartengono  ad  un'epoca  bene 
definita,  cioè  al  periodo  che  va  tra  i  primi  e  i  secondi  Antonini  e  s'acco- 
stano più  specialmente  a  questi  ultimi.  Solo  l'edificio  rotondo  risale  al 
tempo  di  Domiziano,  come  appare  dalla  muratura  che  è  identica  a  tutti  gli 
altri  edifici  della  sua  villa,  i  quali  sorgont»  a  N  O.  dei  Castra  fra  Albano  e 
Castel  Gandolfo  (Villa  Barberini).  Or  bene,  questo  è  stato  sempre  creduto  il 
tempio  di  Minerva,  per  la  quale  Domiziano  aveva  uno  speciale  culto.  Senon- 
chè,  dopo  un'esame  molto  accurato  di  tutte  le  sue  parti  e  dopo  ratìVonti 
con  altri  simili  edifìci,  il  Lugli  è  venuto  alla  conclusione  non  dubbia  che  il 
monumento  non  sia  altro  se  non  un  magnifico  Ninfeo,  forse  appartenente,  in 
origine,  a  terme,  costruite  da  Domiziano  in  questo  luogo,  prima  che  vi 
sorgesse  l'accampitmento  militare,  quando  cioè  tutto  il  colle  Albano  era  un 
ampio  giardino  annesso  alla  villa. 


Note^  questioni  storiche,  ecc.  605 


Ottenuto  questo  primo  risultato  positivo,  l'autore  procede  ad  altre  ricerche. 
E,  poiché  i  Castra  sono  posteriori  al  Ninfeo,  si  comprende  perchè  essi  si,  tro- 
vino in  una  posizione  cosi  insolita  e  perchè  tutta  la  sistemazione  del  muro 
di  cinta  sia  stata  dettata  da  questo  monumento  e  da  altri  contemporanei,  che 
certamente  gli  sorgevano  accanto.  Infatti,  già  gli  avanzi  posti  néll' interno  ci 
conducono  tra  il  II.  e  il  III.  secolo  d.  C.  Ed  è  propriamente  in  questo  tempo 
che  la  storia,  come  da  notizie  intorno  all'agro  albano,  ci  ricorda  un  fatto 
importantissimo  pel  quale  fu  sconvolta  la  topografia  dell'agro  medesimo.  Egli 
è  che  ivi  Settimio  Severo  trasportò  la  II*  legione  Partica,  la  quale  vi  rimase  per 
circa  tutto  un  secolo.  Fatto  importante,  anche  sotto  un  altro  punto  di  vista, 
quello  cioè  che,  anche  in, si  tarda  età,  l'antico  privilegio  di  Roma  di  non  aver 
presidio  (tale  non  essendo  né  le  coorti  pretoriane,  né  le  urbane,  né  quelle  dei 
vigili)  era,  almeno  formalmente,  rispettato.  È  chiaro  quindi  che  l'accampa- 
mento militare  sorse  proprio  in  quel  tempo,  e  ciò  è  provato  anche  dalle 
condizioni  topografiche. 

La  memoria  del  L.,  ricca  di  oltre  35  tra  illustrazioni  e  piatite,  termina 
con  un  paragrafo  di  Notizie  Storiche  intomo  a  quella  legione  e  alla  sua  per- 
manenza in  Albano,  fino  a  qualche  tempo  prima  di  Costantino,  quando  cioè 
essa  abbandonò  l'accampamento,  per  recarsi  altrove,  forse,  in  Mesopotamia. 
Esso  fu  allora  invaso  dalla  popolazione  del  territorio  circostante,  la  quale  sì 
stabilì  nell'antico  recinto,  costituendo  il  primo  nucleo  della  civitas  albanensis, 
a  cui  Costantino  fece  dono  di  una  basilica  dedicata  a  S.  Giovanni  Battista  6  di 
larga  parte  della  vicina  villa  imperiale.  Parecchie  lapidi  ricordano  militi  della 
legione. 

(E.  DE  R.) 

Una  nuova  traduzione  dei  dialoghi  Platonici/ 

Questo  volume  appartiene  alla  raccolta  dei  Filosofi  Antichi  e  Medieì^ali  a 
cura  di  G.  Gentile  in  cui  già  sono  apparsi  il  Clitofonte  e  La  Repubblica  di 
Platone,  tradotti  dallo  Zuretti,  e  là  Poetica  di  Aristotele  tradotta  e  commen- 
tata dal  Valgimigli,  di  cui  discorriamo  più  innanzi.  L'idea  della  collezione, 
parallela  a  quella  del  Pensiero  greco  del  Bocca,  è  meritato  onore  del  Gentile, 
di  cui  tante  sono  le  benemerenze  verso  gli  studi  filosofici  italiani,  e  del  La- 
terza, ardito  ed  animoso  editore.  Con  quanta  serietà  si  sia  iniziata  fra  noi 
provano  questi  primi  volumi,  di  cui  due  già  ebbero  la  dovuta  lode.  Che  Ì 
nostri  cultori  di  letterature  classiche  si  tengano  in  diretto  contatto  col  pensiero 
antico,  non  sarà  senza  grande  utilità  della  filologia,  che  deve  addestrarsi  e 
preparare  a  sé  materia  nella  ricerca  formale,  senza  cui  ogni  sintesi  branfco- 


*  Platonb,  Dialoghi:  Voi.  IV.  Eutidemo,  Protagora,  Gorgia^  Merione,  Ippia  maggiore, 
Ippia  minore,  Ione,  Menesseno,  tradotti  da  Francesco  Zambaldi,  Bari,  Gius.  Laterm.e  Figli. 
19x7  :  in  8»,  pp.  3Ì3. 


6o6  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


lerebbe  nel  vuoto  e  si  imputerebbe  di  errori,  ma  sempre  per  mirare  più  alto, 
ad  intendere  ed  interpretare  lo  spirito  di  un  popolo  nelle  espressioni  sue  più 
solenni.  E  quanta  parte  tenga  la  fìlosofìa  nello  spirito  del  popolo  ellenico,  non 
è  bisogno  di  mostrare.  Maggior  vantaggio  ne  avrà  poi  la  cultura  nostra,  che 
dall'operosità  degli  studiosi  delle  letterature  classiche  dovrebbe  poter  molto 
ritrarre.  Porgere  dunque  a  tutti  buone  traduzioni  di  classici,  e  particolarmente 
di  quelli  che  per  il  vigore  del  pensiero  meno  perdono  ad  esser  tradotti,  è  il 
primo  dovere  che  si  debba  da  noi  assolvere  :  a  questo  ideale  il  volume  dello 
Zambaldi,  opera  di  una  nobile  tempra,  ancor  verde  e  vigorosa  non  ostante 
gli  anni,  corrisponde  assai  bene. 

Di  traduzioni  di  Platone  ve  ne  possono  esser  naturalmente  di  più  specie. 
V'è  chi  come  l'Acri  s'è  proposto,  con  travaglio,  nobilissimo  ed  assiduo,  di 
rendere  l'inimitabile  bellezza  stilistica  del  inaggior  prosatore  greco,  ed  ha 
lasciato  alcuni  bellissimi  modelli  di  questo  ideale  di  traduzione.  Altri  invece 
come  il  Fraccaroli,  pur  rendendo  alcuni  dei  più  ardui  dialoghi  platonici  in  una 
prosa  lucidissima  e  vigorosa  e  schiettamente  italiana;  compientandoli,  resti- 
tuendone il  testo  con  la  sicura  dottrina  e  con  l'acume  che  gli  era  proprio, 
$i  prefisse  massimamente  di  riprodurne  tutti  gli  atteggiamenti  del  pensiero 
con  quella  precisione  che  solo  ottiene  chi  abbia  profonda  conoscenza  della 
lingua  e  dell'esegesi  critica  e  filosofica.  La  sua  traduzione  completa  così  egre- 
giamente il  commento,  come  si  doveva  in  quei  dialoghi,  il  Timeo,  il  Sofista 
e  VUomo  politico,  che  sono,  particolarmente  i  due  ultimi,  di  lettura  faticosis- 
sima meli 'originale.  Or  bene  questa  traduzione  dello  Zambaldi  è  assai  simile; 
per  propositi,  a  quella  del  Fraccaroli,  benché  nella  distribuzione  dei  dialoghi 
da  tradurre,  fatta  dal  direttore  della  raccolta,  all' A.  siano  toccati  dialoghi 
meno  ardui  ed  in  cui  l'opera  del  commentatore  è  assai  meno  richiesta. 
L'autore  stesso,  dichiarando  il  fine  propostosi,  scrive  :  «  In  quanto  ai  pregi 
dello  stile,  il  traduttore  si  guardò  bene  dall'ehtrare  in  questa  gara  col  grande 
artista,  ben.  sapendo  che  si  sarebbe  esposto  a  quella  sorte  d'Icaro,  che 
Orazio  minaccia  agli  emuli  di  Pindaro.  Egli  si  terrà  pago  se  alla  fine  di 
ogni  diàlogo  il  lettore  dirà  :  ho  capito  ».  Semplici  e  schiette  parole  a  cui 
corrisponde  l'opera  perfettamente. 

La  traduzione  èorre  agevole,  spontanea,  senza  arcaismi  e  senze  vezzi, 
con  una  nobile  chiarezza  e  limpidità,  che  non  s'ottiene  del  resto  senza  sicura 
maestrìa  della  lingua  e  senza  nitida  intelligenza  del  testo.  Chi  legge  non  s'ac- 
corge generalmente  d'avere  dinanzi  una  traduzione,  perchè  non  trova  impaccio 
o  stento  alcuno  nella  frase,  che  si  svolge  naturalmente,  senza  ambagi.  Chi  voglia 
seguire  il  ragionare  di  Platone  in  questi  dialoghi  difficilmente  potrebbe  tro- 
vare lettura  così  facile  e  corrente,  ed  è  appunto  quello  che  il  traduttore  si 
propose.  Ogni  frase  è  riportata  nella  forma  della  conversazione,  senza  sciat- 
terìa e  senza  ricercatezza,  e  sono  evitate  tutte  quelle  sfumature  di  particelle, 
che  riescono  così  appropriate  nel  testo  greco,  ogni  qual  volta  il  renderle  in 
italiano  appesantirebbe  la  frase.  L'espressione  sicura  sia  breve,  chiara  nervosa 
ed  efficace.  Naturalmente  però,  in  particolar  modo  nei  tratti  in  cui  lo  stile  di 
Platone  si  piega  con  arte  somma  a  rappresentare,  coA  la  sua  mutabilità 
mirabile,  i  caratteri  dei  personaggi  che  discorrono,  la  traduzione  perde  di  quella^ 


I 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  607 


forza  intima  di  persuasione  che  viene  dall'arte  stessa  dello  scrittore  ;  ma  le 
argomentazioni  riescono  perspicue  sempre  e  la  struttura  logica  del  dialogo  è 
resa  benissimo,  ciò  che  è  appunto  l'essenziale,  e  non  è  piccola  né  facile  cosa. 
Chi  poi  confronti  questa  traduzione  con  quella  del  Bonghi,  che  ha  certo 
pregi  non  lievi,  vedrà  come  di  solito  essa  riesca  più  naturale,  per  avere  l'A. 
evitata  ogni  affettazione  ed  ogni  ribobolo.  Il  testo  scelto  è  tratto  dalle  migliori 
edizioni,  senza  che  si  dichiari  di  volta  in  volta  la  lezione  seguita  ;  e  per  questi 
dialoghi,  in  cui,  di  solito,  la  critica  del  testo  non  presenta  difficoltà  notevoli, 
e  l'interpretazione  non  è,  generalmente,  dubbia,  né  sono  esposte  dottrine 
intricate,  la  traduzione  può  fare  a  meno  di  note  sul  testo.  Non  vorrei  però 
che  il  medesimo  metodo  si  seguisse  in  quei  volumi  in  cui  si  diano  tradotti 
dialoghi  ove  le  questioni  sul  testo  sono  frequentissime  ed  essenziali.  È  giusto 
infatti  che  la  traduzione  di  un  testo  tecnico  debba  essere  corredata  di  tutte 
quelle  precauzioni  e  di  quegli  ammonimenti  che  mettano  in  guardia  il  lettore 
e  lo  avvertano  se  egli  ha  dinanzi  il  senso  ovvio  voluto  dall'autore  o  se  gli 
si  offre  invece  un  interpretazione  soggettiva  del  traduttore  ;  altrimenti  si  per- 
petuano confusioni  ed  errori.  L'A.  poi  non  premette  alcuna  introduzione  ai 
singoli  dialoghi.  Ma  se  le  lunghissime  introduzioni  ed  i.  discorsi  proemiali 
del  Bonghi,  pur  avendo  loro  interesse  particolare,  qualche  volta  dovevano 
evitarsi  in  questa  Collezione^  che  mira  a  sobrietà-  e  brevità  di  informazione, 
mi  pare  che  qualche  breve  avvertenza  ai  singoli  dialoghi  sarebbe  neces- 
saria, tanto  più  che  manca  in  Italia  uno  studio  compiuto  sulle  opere  di  Pla- 
tone, onde  possa  parere  superfluo  dare  notizie  indispensabili  al  retto  intendi- 
mento dei  dialoghi  tradotti.  Ad  ogni  modo  ciò  che  l'A.  ci  ha  voluto  dare  è 
molto  e  degno  di  sincera  e  insigne  lode. 

Ettore  Bignone* 


è         ^ 


La  Poetica  di  Aristotele. 


Anche  questo  volume  fa  parte  della  collezione  «  Filosofi  Antichi  e  Me- 
dievali »  curata,  con  ottimo  pensiero,  dal  Gentile,  ed  intesa  a  colmare  una 
lacuna  degli  studi  filologici  in  Italia.  È  singolare  infatti  come  negli  ultimi 
decenni  l'operosità  degli  studiosi  italiani,  nel  campo  della  filologia  classica, 
si  sia  poco  curata  di  quel  compito,  essenziale  per  la  larga  conoscenza  del  pen- 
siero e  dell'arte  antica,  che  può  essere  solo  assolto  da  abbondanti,  esatte  e 
buone  traduzioni  degli  scrittori  classici.  Certo  non  è  la  cosa  più  agevole  ac- 
cingersi all'opera  di  rendere  in  buona  forma  italiana  un  testo  studiato  filologi- 
camente, interpretandolo  e  commentandolo  nei  passi  oscuri;  opera  questa 
che  richiede,  non  solo  profonda  conoscenza  delle  lingue  classiche,  ma  anche, 
cosa  più  rara   in  un   filologo,    sicura   padronanza   della   lingua   nostra.   Ma 


»  Aristotele,  Poetica,  traduzione  note  ed  interpretazione  di  M.  Valgimicu,  Bari,  Gius.  La- 
terza e  Figlia  1916,  pp.  UI-183. 


6o8  Note,  questioni  storiche^  ecc. 


solo  quando  gli  studi  filologici  saranno  accoppiati,  presso  di  noi,  alla  buona 
traduzione  umanistica  ed  a  vigorose  qualità  sintetiche  d'ingegno,  potremo 
dire  di  esser  giunti  sulla  buona  via  per  far  progredire  veramente  gli  studi 
classici.  Si  deve  dunque  accogliere  con  sincera  lode  il  volume  del  Valgimigli, 
che  a  questi  concetti  è  informato.  Esso  consiste  di  una  lucida  introduzione 
(pp.  vii-l),  della  Traduzione  e  commento  della  Poetica  (pp.  3-137),  di  una  Ap- 
pendice critica  ed  indice  delle  lezioni  (pp.  139-154),  ove  è  reso  conto  del  testo 
seguito  dal  traduttore,  e  di  un  copioso  Indice  dei  nomi  propri  (pp.  155-180), 
in  cui  SOrio  raccolte  le  notizie  più  importanti  su  scrittori  ed  opere  ricor- 
dati nel  testo  tradotto.  Intorno  alla  Poetica  di  Aristotele  copiosissime  son 
fiorite  le  ricerche  sino  dalla  Rinascenza,  e  particolarmente  negli  ultimi  tempi, 
e  fra  esse  specialmente  insigni  quelle  più  recenti  del  Butcher,  del  Bywater 
e  del  Margoliouth,  i  quali  studiarono,  tradussero,  commentarono  ampiamente 
ed  egregiamente  l'operetta  di  Aristotele.  Di  questi  lavori  l'A.  ha  conoscenza, 
senza  però  asservirvisi,  onde  dimostra  personalità  di  criterii,  acume  critico, 
diretto  studio  dell'opera  atistotelica.  E  degna  di  particolare  lode  è  Vlntro- 
duzione,  ove  della  dottrina  aristotelica  dell'arte  si  discorre  con  molta  signorile 
finezza  e  con  calore,  esponendo  lucidamente  e  con  buon  discernimento  le  que- 
stioni d'estetica  proposte  per  il  primo  dello  Stagirita  con  mirabile  acume  e 
tuttora  raggianti  di  perenne  verità.  Qualche  obiezione  potrebbesi  muovere 
qua  e  là,  ed  una  sola  ne  accennerò  ora.  Secondo  l'A.,  p.  yiii  sgg,,  nessun 
influsso  avrebbe  avuto  la  Poetica  di  Aristotele  presso  i  greci  ed  i  latini,  per 
le  dottrine  estetiche,  L'A.  rimanda  la  diifiostrazione  di  questo  punto  ad 
altr'opera,  ma  a  me  sembra  impossibile  si  possa  dimostrare  che  idee  esposte 
da  Aristotele  in  questo  libro  —  il  quale  è  essenzialmente  uh  compendio  di 
lezioni  da  lui  tenute  —  non  siansi  divulgate  nella  scuola  peripatetica  e,  per 
mezzo  di  esso,  anche  altrove.  Ad  esempio  tracce  di  questo  influsso  credo 
si  trovino  negli  scolii  ai  tragici  o  ad  altre  opere  antiche,  come  p.  es.  in  quelli 
ad  Dionys.  Trac.^  ove  ricorre  (p.  168,  8  166,  13  Hilgard)  un  giudizio  su  Empe- 
docle affatto  simile  a  quello  dato  da  Aristotele  nella  Poetica.  E  del  resto, 
data  la  scarsità  dei  nostri  documenti  sull'estetica  greca,  e  sopratutto  sulle 
opere  dei  peripatetici  greci  e  romani,  mi  pare  che  tale  dimostrazione  non 
potrebbe  ad  ogni  modo  posare  sopra  stabili  basi. 

Quanto  ^1  testo  dell'opera  di  Aristotele  da  lui  tradotta,  l'A.  prende  per 
base  quello  del  Christ,  perchè  il  più  diffuso,  non  già  perchè  il  migliore,  ed 
indica  i  luoghi  da  cui  se  ne  scosta,  che  sono  molti  ;  di  fatto  testi,  assai  migliori 
di  quello  del  Christ,  sono  quelli  costituiti  dal  Butcher,  dal  Byivater  e  dal  Mar- 
goliouth, ed  un  esame  attento  dimostra  come  il  Valgimigli  abbia  seguito  assai 
più  da  presso  queste  edizioni,  ed  ha  fatto  bene.  Non  mancano  proposte  di 
lezioni  dell' A.  stesso,  degne  di  considerazione.^  Il  commento  è  assai  ampio,  e 
potrebbe  anche  parere  ad  alcuno  troppo  ampio,  dato  che  ottimi  e  recentissimi 
commenti  della-  Poetica  non  mancano  :  ma  è  anche  mio  parere  che  una  tradu- 


*  AU'A.  sAiggi  che  nella  congettuta  oAlAv  ovelYYOov  l'ivox^iv  6|mi5óv  ts  (p.  146!  a  20)  era 
%xk  stato  preceduto  dal  ^vwater 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  ^09 


zione  di  un  classico  debba  essere  corredata  di  quelle  note  che  sono  necessarie 
per  la  minuta  intelligenza  del  testo,  non  solo  quando  non  potrebbero  trarsi  da 
altri  commenti,  come  è  il  caso  di  moltissime  opere  filosofiche  greche,  ma  anche 
quando  tali  com  menti  esistono  ;  perchè  ogni  libro  di  cultura  dovrebbe,  per 
quanto  è  possibile,  essere  antonomo  e  non  richiedere  dal  lettore  l'uso  d'una 
biblioteca  o  la  consultazione  di  parecchi  altri  volumi  per  intendere  a  fondo  il 
testo  che  legge.  La  traduzione  è  nitida^  chiara,  agevole,  anzi  un  poco  troppo 
agevole  talvolta,  cosicché  rischia  di  non  rispecchiare  sempre  esattamente  il 
carattere  dell'opera  originale,  che  assai  spesso  lascia  luogo  a  diverse  interpre- 
tazioni, ed  espone  certi  principi  in  forma  meno  recisa  che  non  apparisca  dalla 
traduzione  del  M.  E  questa  ambiguità  corrisponde  alla  natura  speciale  di  questi 
scritti  di  Aristotele,  che  segnano  la  faticosa  via  di  ricérca  e  d'indagine  dello 
Stagirita,  a  cui  certi  problemi  appariscono  a  mano  a  mano  che  procede,  e  che 
non  sempre  si  arresta  a  risolverli  compiutamente,  non  intendendo  egli  di  fare 
opera  per  il  gran  pubblico,  ma  di  segnare  direttive  ai  suoi  discepoli  ed  a  se 
stesso,  disposto  a  ritornarvi  su  per  giungere  ad  accertamenti  più  esatti.  An- 
che questo  carattere  un  poco  arduo  e  implicato,  che  ha  il  testo  originale,  è 
interessante  per  la  conoscenza  dello  spirito  intimo  della  filosofìa  dello  Stagi- 
rita, e  forse  poteva  in  gran  parte  conservarsi,  riserbando  al  commento  certe 
dilucidazioni  necessarie:  tanto  più  che,  in  tal  modo,  si  corre  meno  rischio 
di  attribuire  ad  Aristotele  certe  determinazioni  soggettive  di  chi  traduce.  Ad 
ogni  modo  l'A.  ci  ha  dato  una  traduzione  più  pregevole  di  quella  del  Barco, 
che  pure  va  ricordata  con  lode,  e  sopratutto  una  traduzione  che  ha  veri  me- 
riti di  italianità  e  questo  è  molto.  Si  deve  dunque  augurare  al  libro  dif- 
fusione quale  certo  avrà  e  che  giunga  ad  una  seconda  edizione  a  cui  certo 
l'operosità  ed  il  buon  gusto,  di  cui  l'A.  ha  date  ottime  prove  non  in  que- 
sto solo  libro,  appresteranno  sempre  nuove  cure.  In  vista  di  una  nuova  edi- 
zione, e  per  dimostrare  all'A.  che  non  mi  sono  accontentato,  come  spesso  si 
fa  da  noi,  di  lodare  senza  darmi  la  pena  di  conoscere  e  studiare  l'opera, 
aggiungerò  alcune  osservazioni  sui  primi  XXII  capitoli,  ove  ho  tenuto  a 
fronte  il  testo  originale. 

A  p.  1450  a  40  segg.,^  l'A.  traduce.  «  Dunque  la  favola  è  l'elemento  primo 
e  come  l'anima  della  tragedia.  Qualcosa  di  simile  accade  anche  nella  pit- 
tura :  che  se  uno  di  fatti  imbrattasse ^  fosse  pure  dei  colori  più  belli,  una  tela^ 
ma  senza  un  diseguo  prestabilito,  costui  non  potrebbe  dilettare  allo  stesso 
modo  che  se  disegnasse  in  bianco  i  contorni  della  figura».  Ora  pare  strano 
che  imbrattando  una  tela  si  pòssa  dilettare,  sìa  pure  in  minor  misura  che  de- 
lineando una  figura,  ed  anche  può  parere  strano  che  sopra  una  tela  si  dise- 
gni in  bianco  :  sarebbe  dunque  meglio  tenersi  più  fedele  al  testo  greco,  che 
dice  èvaXEtxpeie  T0I5  xaA,XiaToi(;  (jpaQ{id,xoi$ .  x^^^v-  Perciò  tradurrei,  presso  a 
poco,  così  :  «  non  potrebbe  produrre  ug^al  piacere  con  una  chiazza  di  sva- 
riati colori,  sia  Dure   dei   più  belli,  anzi   che  disegnando...»,  si  toglierebbe, 


>  Per  maggiore  comodità  di  confronti  con  il  testo,  indico  U  numero  delle  pagìit«  dei  testo 
greco  (corrispondente  a  quelle  d^l'edizioue  Beckeriana)  che  del  testo  fono  segnate  s.  margine 
dall'A' 

39  -^  Nuoim  Rivista  Storiai 


6io  Note^  questioni  storiche,  ecc. 


in  tal  modo,  V  imbrattare,  e,  sopratutto,  si  eviterebbe  la  menzione  della  teta 
che  non  mi  sembra  si  possa,  di  nostro  arbitrio,  introdurre  in  un'opera  che 
tratti  di  arte  greca.  A^p.  1451  b  26  sgg.  l'A.  traduce:  «si  conchiude  chia- 
ramente che  il  poeta  ha  da  essere  poeta  [cioè  creatore]  di  fàvole  anzi  che  di 
versi,  in  quanto  egli  è  poeta  solo  in  virtù  della  sua  capacità  mimetica  [cioè 
creatrice],  e  sono  le  azioni  che  egli  imita  [o  crea,  non  i  versi].  Ora  la  prima 
frase  mi  pare  resa  in  modo  almeno  dubbio,  parendo  che  Aristotele  dica  che 
il  poeta  deve  essere  incoiTjTTi?  (autore)  di  favole  invece  che  di  versi,  e' non  che 
deve  essere  poeta  (creatore)  di  favole  piuttosto  che  di  versi  (|xà?>,^ov...ìi).  Né 
credo  se  ne  debba  esagerare  il  concetto,*  essendovi  creazione  anche  nel 
v^rso:  per  di  più,  in  ciò  che  segue,  Aristotele  dice  «in  quanto  è  poeta 
rispetto  la  facoltà  mimetica,  e  la  sua  facoltà  mimetica  ha  per  oggetto  le  azioni 
(oocp  rtoiTiTTig  xarà  t^v  |ii^T)alv  èativ,  fii|ieiTai  8è  tàg  jigàleig)  ».  Il  solo,  nel 
testo  non  vi  è,  e  non  è  opportuno  metterlo,  per  non  dare  all'affermazione 
un  senso  restrittivo,  che  Aristotele  non  diede,  mentre  lo  poteva,  se  voleva, 
introducendo  |aóvov.  Ma^  sopratutto  non  vorrei  le  ultime  due  aggiunte  che 
l'A.  pose  fra  parentesi  quadrate.  li  versi  sono  senza  dubbio  creazione  del 
poetai  ma,  in  questo  caso,  creazioni  rivolte  ad  un  fine  ulteriore,  cioè  alla 
mimesi  di  azioni.  Sostituendo  invece,  senz'altro,  a  mimesi  il  termine  creazione, 
si  f^  dire  air  A.  quello  che  non  disse.^ 

A  p.  1453  b  9  sgg.,  ove  si  parla  dei  mezzi  tragici  per  destare  pietà  e  ter- 
rore, non  credo  l'A.  renda  giustamente  il  testo  di  Aristotele  :  «  Cercar  di  pro- 
muovere questi  sentimenti  mediante  lo  spettaccolo  scenico  è  cosa  che  non  ha 


*  Tale  esagerazione  mi  sembra  essere  anche  in  p.  1447  b  19:  «quello  [cioè  Omero]  sarebbe 
giusto  chiamarlo  poeta,  questo  [Empedocle],  non  poeta  ma  fisiologo  »  ;  Aristotele  dice  però  : 
«<  piuttosto  fisiologo  che  poeta  »,  e  mi  pare  anche  più  pericoloso  caricare  le  tinte  in  questo  punto, 
in  quanto  Aristotele  stesso  già  esagera  (v.  la  mia  n.  in  Empedocle  p.  319)  ed  è  momentaneamente 
un  poco  inconseguente  a  ciò  che  dice  altrove,  ove  loda  come  poetiche  le  metafore  di  Empedocle 
{Meteor.  Ili  3,  357  a  24)  e  chiama  Empedocle  omerico  nella  poesia  ed  immaginoso  e  scaltrito  in 
ogni  artifizio  poetico  [fr.  70].  Insomma,  come  ho  detto  prima,  una  .traduzione  d'uno  scritto  di  Ari- 
stotele dovrebbe  essere,  quanto  mai  possìbile,  letterale,  per  riprodurre  sempre  in  mod6  fedele  il 
pensiero  dell' A.,  spesso  oscillante  od  espresso  in  forma,  direi,  provvisoria  ed  occasionale,  ciò  che 
è  confermato  del  resto  dallo  studio  delle  opere  aristoteliche. 

•  Cosi  pure  a  p.  1451  b  11  sgg.  vorrei  tolte  le  parole  poste  fra  parentesi  quadrate  dall' A., 
perchè  non  è  certo  che  Aristotele  pensasse  alla  nuova  commedia  anzi  che  alla  commedia  di 
mezzo,  e  che  si  riferisse  agli  antichi  giambogrofi  e  non  alla  poesia  giambica  in  generale  (cfr.  an- 
che il  presente  woiovoiv,  invece  dell'imperfetto  con  cui  traduce  l'A.).  Cosi  pure  la  nota  pone 
il  lettore  su  cattiva  via,  facendogli  credere  come  cosa  indubbia  che  Aristotele  conoscesse,  quando 
scrisse  la  Poetica,  le  commedie  di  Menandro,  e  le  prediligesse.  Cosi  pure  a  p.  38  n.  2  non  direi 
che  la  cosa  gradita  che  il  messo  di  Corinto  annunzia  ad  Edipo  sia  la  «morte  di  Polibo...  perla 
quale  Edipo  sarebbe  divenuto  re  di  un  nuovo  regno»,  ma  piuttosto  quella  «che  i  Corinzi  vola- 
vano eleggerlo  re  di  Corinto  »,  giacché  la  morte  di  Polibo,  che  Edipo  credeva  suo  padre,  e  certo 
l'aveva,  allevato  come  suo  figlio,  era  anzi  l'annunzio  triste  che  al  messo  doleva  di  dovergli  dare 
(cfr.  SOF.,  Edipo  re.  v.  936  sgg.).  Non  mi  persuade  punto  la  nota  a  p.  122  ed  il  testo  che  l'A. 
difende  ;  infatti  che  «dvxo?  e  non  solo  AA,Xoi  fosse  nei  versi  che  cita  Aristotele  mi  pare  risulti 
dal  testo  stesso  di  Aristotele,  che  dice  ripetutamente  atdvxeg  e  nàv,  e  non  aX.Xoi.  Nella  nota  a 
p.  98  l'autore  si  pone  una  difficoltà  che  non  esìste,  rispetto  all'olKela  fiSovfj  del  X&ov,  perchè 
realmente  altro  è  il  piacere  estetico  che  può  dare  un  bell'uomo,  una  bella  donna,  un  bel  ca-- 
vallo,  ecc. 


NotCy  questioni  storiche,  ecc.  61 1 

che  fare  con  Parte  del  poeta  e  ci  deve  pensare  il  corego  ».  Aristotele  infatti  dice 
ToiJTp  JcapaoHEud^eiv  àtexvÓTEQOV  xat  yoQ'tYfiac,  Séo^ievov,  cioè  :  «  è  cosa  meno 
artistica  ed  ha  bisogno  di  mezzi  estranei  ».  E  difatti  àxE/vÓTEpov  ricorre  aAche 
a  p.  1454  b  31,  dove  si  parla  di  mezzi  di  riconoscimento  meno  artistici,  e 
non  già  di  mezzi  che  non  abbiano  che  fare  con  l'arte  del  poeta;  per  di  più 
lo  spettacolo  scenico  qui  considerato  (come  nell'esempio  famoso  delle  Eume- 
nidi,  nella  tragedia  omonima  di  Eschilo,  che  tanto  terrore  incussero  agli 
spettatori  o  in  quelli  éeXVEdipo  Re  e  del  Filottete)  non  è  una  aggiunta  del 
corego,  ma  s'origina  dalla  visione  scenica  voluta  dal  poeta,  e  consegue  neces- 
sariamente ad  essa.  Al  corego,  se  mai,  non  altro  spettava  che  interpretarla. 
Perciò  mi  sembra  anche  più  opportuno  intendere  xoQ^ìY^txs  Settat  secondo 
l'interpretazione  che  ho  seguita  *  anzi  che  secondo  quella  dell'A.  Che  poi 
Aristotele  riconosca  un  elemento  poetico  ed  artistico,  sia  pure  di  natura  meno 
pregevole,  anche  in  questi  mezzi  scenici  che  scaturiscono  dalla  visione  voluta 
dal  poeta,  risulta  anche  da  ciò  che  si  dice  prima  e  da  ciò  che  segue,  ove  si 
Stabilisce  la  giusta  graduazione  degli  effetti  artistici,  secondo  la  loro  eccel- 
lenza. A  p.  1458  a  6  deve  mutarsi  la  traduzione  deiremisticchio  di  Empe- 
docle (fr.  88  Diels,  jiia  yiyvzxat.  àftqjOTéocov  òi^)  che  l'A.  rende  così  :  «  Un 
tampo  solo  uscì  d'ambo  quegli  occhi  »,  mentre  vuqj  dire  che  «  sola  una  vista 
s'ha  d'ambedue  gli  occhi  »  cioè,  che,  pur  essendo  due  i  nostri  occhi,  rice- 
viamo un'unica  percezione  visiva.^  Come  si  vede  però  si  tratta  di  cose  di  lieve 
momento,  che  non  tolgono  pregio  alla  traduzione  veramente  utile  e  degna 
della  fama  che  già  il  Valgimigli  s'è  giustamente  procurata. 

Ettore  Bignone. 

Una  storia  della  filosofìa  greca. 

Nelle  nostre  facoltà  di  filosofìa  e  lettere,  quando  un  giovine  che  non 
possa  o  non  voglia  approfortdire  gli  studi  di  filosofia  greca,  cerca  qual- 
che opera  riassuntiva  e  completa,  gli  vengono  per  lo  più  indicate  opere 
straniere,  quaH  il  Gomperz,  lo  Zeller,  l'Eucken,  il  Windelband.  Nessuna 
storia  dalla  filosofia  greca  scritta  da  Italiani  ha  finora  avuto  fortuna  tra  noi, 
e,  d'altra  parte,  alcuni  tentativi  recenti,  come  quello  del  Mieli,  ci  lasciano  al- 
quanto scettici  sull'argomento.  Tuttavia,  chi  vuole  studiarfe  un  singolo  punto 
della  filosofia  greca  non  può  prescindere  dalle  opere  nazionali,  vaste  mono- 
grafie, che  hanno  spesso  valore  fondamentale,  quali  (per  citare  gli  esempi 


^  Infatti  tfH^fia  si  contrappone  alla  lettura,  di  cui  si  parla  sopra,  la  quale  ncm  ha  bisogno  dì 
artifizi  estemi.  Ni  però  si  deve  ergere  che  i  mezzi  scenici,  tanto  piìi  nella  tragedia  greca,  dipen- 
dano essenzialmente  dall'arte  del  corego,  perchè  essi  in  verità  derivano  direttamente  dalle  pre- 
messe del  dramma  e  dalle  situazioni  volute  dal  poeta. 

*  Anche  il  Diels,  di  cui  l'A,  dice  di  seguire  la  traduzione,  ha  ueins  wird  beider  Augen 
Stick».  V.  del  resto  per  la  teorìa  la  n.  ad.  l.  nel  mio  Empedocle. 


6i2  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


che  mi  vengono  per  i  primi  sotto  la  penna)  il  Socrate  dello  Zuccante  o 
V Empedocle  del  Bìgnone.  Né  si  può  negare  che  chi  si  affidi  esclusivamente 
all'opera  esegetica  degli  stranieri  non  sempre  si  trova  sulla  via  giusta  nel- 
r  interpretazione  dei  filosofi  greci.  Molte  dispute,  per  esempio,  ài  interpre 
tazioni  platoniche  sarebbero  più  acutamente  risolte,  se  chi  si  occupa  di  Pla- 
tone non  seguisse  troppo  sovente  le  orme  degli  interpreti  fiancesi,  dal  Cousin 
al  Fouillée,  o  dei  tedeschi  dall'Hermann  al  Windelband,  curando  appena  i 
nostri,  da  Terenzio  Mamiani  sino  a  Francesco  Acri,  al  Tocco,  allo  Zuccante, 
al  Fraccaroli,  e  lasciando  nel  più  completo  oblìo  le  profonde  pagine  plato- 
niche, che  pur  sono  fi-equenti  nelle  opere  del  Galluppi,  del  Rosmini,  del 
Gioberti. 

Per  tutte  queste  considerazioni  mi  è  parso  che  la  storia  della  filosofi^ 
greca  di  Guido  De  Ruggiero,*  della  quale  intendo  occuparmi  in  queste  pa- 
gine, non  solo  venisse  a  colmare  una  grave  lacuna,  ma  dovesse  rappresen- 
tare la  sintesi  e  quasi  il  coronamento  della  lunga  e  gloriosa  attività  nazio- 
nale in  questo  campo,  per  riaffermare  quell'autonomia  di  pensiero,  che  sempre 
più  si  va  oggi  imponendo.  E  di  questo  suo  atto,  che  può  dirsi  quasi  corag- 
gioso, voglio  anzi  tutto  dar  lode  al  De  Ruggiero,  anche  se  l'opera  sua  non 
ha  completamente  corrisposto  alla  mia  aspettazione. 


La  storia  del  De  Ruggiero  è  là  prima  parte  di  una  completa  storia  della 
filosofia. 

L' A.  sembra  per  questo  essersi  talora  preoccupato  dei  limiti  conces- 
sigli dall'economia  dell'opera  completa,  restringendo  e  condensando  alcuni 
punti  anche  importanti,  come  i  paragrafi  nei  quali  tratta  degli  Ionici,  dei 
Pitagorici  e  degli  Eleati,  ove  specialmente  le  pagine  dedicate  alla  scuola  pita- 
gorica [I,  46-53]  sono  tanto  schematiche  da  risultare  del  tutto  insufficienti. 
Ma  procediamo  con  ordine. 

Nella  introduzione,  TA.  dichiara  di  non  voler  premettere,  come  suol 
f^rsi  di  consueto,  una  sua  concezione  teoretica  della  storia  della  filosofia  e 
della  filosofia  stessa,  poiché  egli  considera  la  sua  materia  come  lo  studio 
delle  molteplici  manifestazioni  di  un'attività  spirituale,  formalmente  identica. 
«  L'attività  del  filosofare  è  quella  che  persiste  identica  nello  svolgersi  e  nel 
tramontare  delle  filosofie  ;  o,  più  ancora,  essa  é  l'anima  di  ogni  sviluppo  e 
la  ragione  di  ogni  tramonto,  il  quale  a  sua  volta  forma  il  momento  negativo 
di  un  nuovo  sviluppo  ».  (I,  9).  Qui  il  De  Ruggiero  riconferma  in  massima 
il  punto  di  vista  <|a  lui  già  svolto  nell'  Introduzione  al  suo  volume  sulla  filo- 
sofia contemporanea:-  Anche  questa  concezione  formalistica  dell'attività  con- 
tinua dello  spirito  è  però  una  concezione  della  storia  della  filosofia,  contrap- 


*  Guido  De  Ruggiero,  Storia  della  filosofia.  Parte  Prima:  La  filosofia  greca,  Bari,  ed 
Laterza  e  Figli,  1918,  voi.  2,  pp.  XV-242  ;  XV-242. 

s  Cfr.  G.  Db  Ruggiero,  La  filosofia  contemporanta,  Bari,  ed  Laterza  e  Figli,  1912,  XXXI-48s> 
pp.  14-16. 


Note^  questioni  sioriche,  ecc.  6i; 


posta  a  tante  altre:  è  pertanto  un' illusione  quella  dell'A.  di  non  premettere, 
fii  pari  degli  altri,  una  sua  teoria.  Egli  stesso  più  avanti  sente  la  necessirA 
di  completarla  in  modo  che  trovi  «  la  sua  piena  corrispondenza  con  la  con- 
cezione della  filosofia,  secondo  la  quale  la  vera,  assoluta  realtà  spirituale  è 
il  problema,  cioè  lo  spirito  che  si  possiede  nella  sua  indagine  attiva  sopra 
sé  medesimo,  nella  ricerca  di  sé  in  tutte  le  cose  e  di  tutte  le  cose  in  sé  — 
che  è  la  sua  perenne  autorilevazione  »  (I,  38-39). 

L'A.  trova  anche  errato  dividere  la  storia  della  filosofia  in  periodi  con- 
venzionali, e  si  propone  di  «  lasciare  che  il  periodizzamento,  anziché  una 
classificazione,  sia  l'accentuazione  naturale  del  pensiero  storico  »  (I,  loi. 
Ho  detto  «  si  propone  »,  perchè  poi,  nel  corso  dell'opera,  egli  se^^ue  le 
classificazioni  tradizionali.  Pospone,  con  l'Hegel  e  con  lo  Zeller,  Anassa- 
gora agli  atomisti,  benché  sia  cronologicamente  anteriore  almeno  a  Demo- 
crito «  per  la  considerazióne  che  egli  forma  l'antecedente  immediato  dell'in- 
dirizzo socratico,  a  cui  prelude  con  la  dottrina  del  voO^  «>  (I,  85,  nota).  Tratta  a 
parte,  per  ragioni  teoretiche  di  esposizione,  della  psicologia  dei  presocratici, 
dopo  avere  «  a  bella  posta  lasciato  un  po'  in  disparte  tutti  gli  sforzi  e  i  ten- 
tativi di  adattamento  del  pensiero  di  fronte  alla  realtà  oggettiva  ».  (I,  91). 
E  nella  stessa  introduzione  l'A.  separa  d'  un  taglio  netto  la  filosofia  antica 
da  quella  cristiana,  senza  veruna  preoccupazione  cronologica. 

«  Filosofia  antica,  egli  afiernsa,  è  quella  che  vive  nell'antico  spirito, 
anche  se  cronologicamente  si  esplica  nell'era  cristiana.  Così  noi  impareremo 
a  conoscere  un  vasto  movimento  di  pensiero  —  il  neo-platonismo  —  che  si 
esplica  fino  al  VI  secolo  d.  C,  e  tuttavia  vedremo  che  esso  appartiene  alla 
filosofia  antica,  di  cui  costituisce  1'  ultimo  momento.  E  per  converso,  inclu- 
deremo nel  periodo  storico  del  cristianesimo  alcune  manifestazioni  coeve  al 
neo-platonismo,  (la  Patristica)  che  però  appartengono  allo  spirito  cristiano  ^). 
(I,  16-17).  Siamo  pertanto  alla  consueta  e  tradizionale  suddivisione  :  il  De  Rug- 
giero, affermando  che  i  periodi  dovevano  seguire  «  l'accentuazione  naturale 
del  pensiero  storico  »  avrebbe  meglio  potuto  studiare  nei  suoi  complessi 
valori  questo  periodo  di  contemporaneità  del  neo-platonismo  e  della  patri- 
stica, considerando  le  infinite  relazioni  intercedenti  tra  lo  spirito  antico,  che 
si  va  spegnendo  e  lo  spirito  cristiano  che  si  va  formando.  Ma  questo  egli 
non  ha  voluto  fare,  conservando  quella  suddivisione  artificiosa,  che  si  trova 
in  qualunque  vecchia  storia  del  pensiero  greco.  Ne  prendo  una  a  caso  :  il 
Manuale  del  Tennemann,*  che,  sebbene  arricchito  con  note  e  suppiimenti  dal 
Romagnosi  e  dal  Poli,  non  è  certo  un  capolavoro.  Ebbene,  a  p.  279  del 
I  volume  termina  la  parte  riguardante  Damaselo  e  Simplicio,  colpiti  dall'editto 
giustinianeo  del  529  d.  C,  e  a  p.  280  comincia  il  capitolo  dedicato  ai  padri 
della  Chiesa  con  Tertulliano,  «  divenuto  cristiano  verso  il  185,  morto  il  220  ».* 
Come  si  vede,  l'artificiale  schematismo  dei  periodi  filosofici,  indipendente  da 


»  Manuale  della  stoHa  della  filosofia  di  Guglielnio  Tennemann,  trad.  dal  prof.  F.  Lon- 
ghena, con  note  e  suppliment}  dei  prof.  Giandomenico  Romagnosì  e  Bau}assare  Poli,  II  ed. 
Milano,  G.  Silvestri,  1855,  voi.  4, 

«  Op.  cit.,  voi.  I,  p.  285. 


6i4  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


ogni  preoccupazione  di  rappresentare,  nella  storia  della  filosofia,  la  sintesi 
spirituale  di  tutto  yn  periodo,  nel  cozzare  degli  elementi  antinomici,  non  fa 
un  patìso  avanti  dal  Tennemann  al  De  Ru^iero. 

Un  altro  problema  preoccupa  l'A.  :  donde  è  d'uopo  incominciare  la  storia 
del  pensiero?  Qui  il  De  Ruggiero  s'addentra  in  una  polemica  con  quella 
che  egli  chiama  «  il  punto  di  vista  embriogenetico  »,  per  concludere  che 
«  la  quistione  dell'origine,  presa  per  sé  sola,  non  ha  alcun  interesse,  e  ne 
acquista  soltanto  col  fondersi  con  la  quistione  del  valore  »  (I,  14-15).  L'A. 
Vuole  sostituire  lo  studio  genetico  regressivo  con  lo  studio  del  «  reale  pro- 
gresso della  ricerca  filosofica  »  (I,  15),  e  pertanto  stabilire  i  confronti  tra 
la  ^filosofia  greca  e  le  filosofie  orientali  nel  loro  periodo  più  evoluto.  A 
me  sembra  che  l'A.  non  ponga  chiaramente  la  questione.  'V'ha  una  ten- 
denza esagerata  a  risalire  alle  prime  fonti  del  pensiero  e  a  stabilire  col- 
legamenti, genetici,  talora  arbitrarli  o  per  lo  meno  insignificanti:  e  .da 
questa  tendenza,  a  buon  diritto,  l'A,  si  tiene  lontano.  Ma  v'ha  un  altro 
punto  di  vista:  queir*  attività  del  filosofare»,  che  «persiste  identica  nello 
svolgersi  e  nel  tramontare  delle  filosofie  »  (I,  9),  per  qual  ragione  deve 
proprio  cominciare  soltanto  col  manifestarsi  del  pensiero  greco  nel  VI  se- 
colo a.  C.  ?  Per  seguire  l'ordine  naturale  del  pensiero  si  deve  cercare 
l'attività  spirituale  molto  più  indietro  nel  tempo  —  anche  se  si  vuol  pre- 
scindere dalle  questioni  embriogenetiche.  È  inneg:abile  che  la  pura  atti- 
vità del  filosofare  umano,  l'esigenza  metafìsica  innata  nello  spirito,  apparve 
la  prima  volta  nelle  forme  mistiche  delle  religioni  primitive,  dalle  quali  non 
si  può  e  non  si  deve  prescindere.  È  quasi  un  luogo  comune  che  la  storia 
della  filosofia  è,  nelle  sue- origini,  storia  delle  religioni,  e  in  un'epoca  come 
la  nostra,  in  cui  lo  studio  della  storia  e  della  scienza  delle  religioni  è  andato 
acquistando  uno  sviluppo  sempre 'maggiore,  non  s'intende  come  si  possa 
scrivere  una  storia  della  filosofia,  eliminando  nettamente  le  religioni  e  le 
filosofie  orientali.  Né  bastano  a  colmare  la  lacuna  quei  cenni,  che  qua  e  là 
sì  trovano  nell'opera  del  De  Ruggiero,  perché  essi  presuppongono  una  trat- 
tazione adeguata  dell'argomento,  che  invece  manca.  Come  può,  per  esem- 
pio, l'A.  accennare  —  in  alcune  pagine  che  sono  tra  le  migliori  dell'opera 
sua  —  alle  Conseguenze  della  fusione  ellenistica  tra  la  scienza  greca  e  l'espe- 
rienza religiosa  dei  popoli  orientali  (II,  138-139),  se  di  tale  esperienza  reli* 
giosa,  e  del  suo  vasto  e  profondo  valore  filosofico,  ha  creduto  opportuno  di 
non  trattare  affatto? 

L'A.  pertanto,  sebbene  si  proponga  una  posizione  assolutamente  scevra 
di  idee  preconcette,  stabilisce  una  serie  di  principi  informatori,  nei  quali  è 
tutta  una  teoria  della  storia  della  filosofia,  concepita  come  conflitto  di  pro- 
blemi, attraverso  i  quali  procede,  senza  soluzione  di  continuità,  l'autorive- 
lazione  dello  spirito  (I,  38-39),  indipendentemente  da  ogni  ricerca  genetica 
in  quelle  forme  mitiche  dell'attività  spirituale,  che  escono  dai  limiti  prece- 
dentemente stabiliti.  Da  tali  principii  informatori  derivano  tutti  i  difetti  della 
trattazione  che  segue.  Il  De  Ruggiero,  più  che  una  vera  esposizione  della 
filosofia  greca,  ce  ne  dà  una  interpretazione  fatta  dal  punto  di  vista  pura- 
mente spiritualistico.  E  come  nel  suo  libro  sulla  filosofia  contemporanea  non 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  615 


aveva  voluto  considerare  nella  sua  vera  natura  la  metafìsica  giobertiana, 
attenendosi  in  tutto  e  per  tutto  all'  interpretazione  dello  Spaventa  e  del  Gen- 
tile/ così  molte  volte  egli  non  sembra  voler  vedere  nella  evoluzione  del  pen- 
siero greco,  se  non  quegli  elementi  che  portano  alla  formazione  della  meta- 
fisica dell'Io.  Questo  carattere  interpretativo  e  sintetico  della  storia  del 
De  Ruggiero  fa  sì  che  essa  divenga  quasi  un  commento,  che  presuppone 
nel  lettore  la  conoscenza  della  materia  trattata,  e  non  una  vera  analisi  del 
pensiero  greco  in  tutte  le  sue  fasi. 

Anche  qui  necessariamente  si  cade  in  una  questione  di  carattere  gene- 
rale :  la  storia  della  filosofìa  deve  essere  ricreazione  sintetica,  compiuta  dallo 
storico,  del  pensiero  altrui.  Ma  tale  sintesi  presuppone  un  lungo  e  minuto 
lavoro  di  analisi  :  qui  l'A.  crede  bene,  anche  per  la  limitata  estensione  del- 
l'opera, tenere  per  sé  l'analisi  e  dare  al  lettore  solamente  i  risultati  sinte- 
tici. Ma,  sia  per  il  carattere  informativo  dell'opera,  sia  perchè  i  risultati  con- 
vincono meglio  quando  si  conosca  il  procedimento  analitico  percorso  dal- 
l'A.,  sarebbe  stato  desiderabile  che  alla  sua  esegesi,  talora  acuta  e  nuova, 
il  De  Ruggiero,  avesse  fatto  precedere  ogni  volta  una  più  lenta,  più  vasta, 
più  obiettiva  esposizione  analitica. 

L'ambito  di  questa  breve  recensione  non  ci  concede  di  esaminare  punto 
per  punto  tutta  l'opera  del  Oe  Ruggiero  :  ci  limiteremo  pertanto  alle  parti  più 
notevoli.  Il  carattere  essenzialmente  esegetico  del  libro,  si  nota  sopra  tutto, 
come  abbiamo  accennato,  nei  paragrafi  dedicati  alle  tre  prime  scuole  presocra- 
tiche. L'A.,  al  di  sopra  delle  particolari  determinazioni  naturalistiche,  consi- 
dera il  concetto  diàQXTJ  come  l'esigenza  unica  delle  tre  scuole,  che  rappre- 
sentano per  lui  le  tre  fasi  evolutive  di  un  unico  processo  storico-dialettico. 
L'dpxn»  ^a  quale  nella  scuola  di  Talete  «  non  va  oltre  le  premesse  di  un 
materialismo  ilozoistico,  che  identifica  la  materia  e  la  vita  e  immagina  la 
materia  vivente  e  generatrice  »  (I,  45),>  per  i  Pitagorici,  sia  nella  parte  scien- 
tifica del  principio  quantitativo,  che  in  quella  di  carattere  fantastico  e  mitico 
(I,  51),  è  il  numero,  e  segna  il  termine  intermedio  «  tra  la  materia  della 
scuola  ionica  e  ì'sssert  della  scuola  eleatica  »  (I,  48).  Con  Parmenide  final- 
mente «  il  concetto  dell'àQx»Ì  si  epura  da  tutte  le  precedenti  contaminazioni, 
e  l'analisi  dei  suoi  caratteri  fondamentali  procede  indipendentemente  da  ogni 
dato  sensibile  e  come  una  deduzione  logica.  Il  concetto  della  realtà,  dell'es- 
sere, che  è  il  cardine  di  tutta  la  speculazione  filosofica,  è  posto  immediata- 
mente dal  pensiero  :  pensare  l'essere  ed  essere  è  la  stessa  cosa  i  (I,  55). 
Come  si  vede,  l' illazione  di  tutto  il  processo  evolutivo  presenta  per  il  De  Rug- 
giero un  primordiale  atteggiamento  subiettivistico,  clie  egli  ottiene  acco- 
gliendo l'interpretazione  dello  Zeller  e  del  Diels  sul  controverso  principio 
TÒ  yàQ  avrò  voelv  iaxiw  te  xai  elvai.  (fr.  5)  (I,  55,  nota) 


*  Cfr.  G.  Ds  Ruggiero.  La  filosofia  contemporanea,  ed.  ctt.,  pp.  36S-37X. 


6i6  Note,  questioki  ntoriche,  ecc. 


Anche  qui  l'A.  segue  il  suo  sistema  di  dare  dogmaticamente  i  risultati, 
senza  spiegare  come  o  perchè  vi  sia  giunto.  Egli  afferma,  nella  nota  citata, 
che  l'interpretazione  dello  Zeller  e  del  Diels  «  è,  storicamente,  la  più  atten- 
dibile »,  senza  aggiunger  altro.  Il  lettore  ha  pur  il  diritto  di  sapere  le  ragioni 
di  tale  conclusione,  o  almeno  —  se  l'A.  non  vuol  perdere  tempo  nella  contro- 
versia —  trovare  nella  nota  le  indicazioni  bibliografiche  che  gli  mostrino  la  via 
da  seguire  nell'esanje  della  questione.  Ma  al  De  Ruggiero  interessa  proce- 
dere oltre  per  esaminare  come  dal  naturalismo  ilozoistico,  attraverso  le  tre 
scuole,  si  giunga  a  una  vera  e  propria  dialettica  (I,  64-65),  dalla  quale  il 
concetto  deìVessere,  posto  dal  pensiero,  ed  identificato  con  il  pensiero  stesso, 
risulta  scientificamente  e  dialetticamente  formato  (I,  65).  Manca  però  a  tale 
concetto  ogni  idea  di  relazione,  che  costituirà  il  principio  innovatore  della 
speculazione  presocratica  da  Eraclito  ad  Anassagora  (I,  65-66).  Qui  l'esposi- 
zione si  fa  più  obiettiva  e  meno  affrettata,  raggiungendo  in  alcuni  punti 
acutezza  di  sintesi,  come  nella  conclusione  delle  pagine  sull'atomismo  (I,  83-84) 
e  nelle  buone  «  considerazioni  finali  »  (I,  96-99),  che  chiudono  il  capitolo  sui 
presocratici,  il  più  arduo  e  complesso  di  tutta  l'opera,  e  per  questo  il  più 
vario  nell'avvicendarsi  dei  difetti  e  dei  pregi. 


Il  capitolo  sui  sofisti  s' inizia  con  una  descrizione  viva  e  reale  dell'am- 
biente storico,  nel  quale  sorse  e  si  venne  formando  la  sofistica  (I,  100- no), 
per  poi  procedere,  in  alcune  pagine  che  mi  sembrano  alquanto  schematiche 
e  affrettate,  a  trattare  partitamente  di  Protagora  e  di  Gorgia.  L'A.  semplifica 
un  po'  troppo  questo  argomento:  egli  passa  sotto  silenzio  la  profonda  in- 
fluenza esercitata  dalla  sofistica  sull'oratoria,  e  quindi  sulle  vicende  sto- 
riche contemporanee  e  successive-  alla  guerra  del  Peloponneso,  e  non  cura 
l'indagine  psicologica  di  quei  dati  peculiari  del  temperamento  ellenico,  che 
favorivano  la  formazione  della  sofistica.  Egli  sembra  desideroso  di  passar 
oltre,  per  giungere  alla  parte  centrale,  e  certamente  la  più  notevole,  di  tutta 
l'opera  :  ai  capitoli  su  Socrate,  Platone,  Aristotele. 

La  dottrina  socratica  è  esposta  perspicuamente,  alternando  alle  testimo- 
nianze platoniche  quelle  di  Senofonte,  e  bene  integrando  le  une  con  le  altre. 
Trovo,  a  proposito  del  socratico  «  conosci  te  stesso  »,  una  pagina  bella  e 
profonda,  che  mi  piace  riportare.  «  Il  «  Conosci  te  stesso  »  è  il  principio 
perenne  della  filosofia,  eterno  nella  novità  e  ricchezza  inesauribile  degl'im- 
pulsi che  ha  dato  e  darà  alla  vita  speculativa  di  ogni  tempo.  Tutti  i  rivol- 
gimenti più  profondi  d' idee  non  sono  che  il  frutto  di  una  più  intensa  rifles- 
sione dello  spirito  sopra  sé  medesimo.  Ciò  non  vale  per  il  solo  dominio 
limitato  e  ristretto  della  vita  psicologica  ;  ma  non  v'è  scoperta  nel  cosi  detto 
mondo  oggettivo,  non  ampliamento  della  sfera  dell'azione  umana  in  quel 
mondo,  che  non  sia  il  correlato  di  una  più  profonda  riflessione  del  soggetto 
in  sé  stesso,  di  una  più  vasta  realizzazione  di  sé...  Il  nostro  oggetto  è  quel 
che  noi  siamo  ;  e  noi  siamo  quel  che  ci  facciamo,  quel  che  sappiamo  realiz- 
zarci, nella  riflessione  attiva  su  noi  medesimi,  che  coinvolge  i  destini  di  tutte 


Note,  questioni  storiche,  ecc.  617 


le  cose.  È  questo  il  significato  eterno  del  «  Conosci  te  stesso  »,  per  cui  i  pen- 
satori di  ogni  tempo,  da  Socrate  a  Plotino,  a  S.  Agostino,  a  Cartesio,  ai 
moderni  hanno  potuto  farne  il  principio  vivente  della  loro  speculazione 
(I,  130-13 1)  ».  Tuttavia  TA.  più  oltre  estende  il  valore  etico  e  gnoseologico 
del  principio  socratico  a  fondamento  di  una  sua  interpretazione  spiritualistica, 
che  toglie  alla  dottrina  socratica  ogni  possibile  elemento  trascendente.  Infatti, 
nella  spiegazione  del  concetto  di  8aipióviov,  considerato  come  «  ipotiposi  della 
coscienza  »  (I,  155),  il  De  Ruggiero  non  vUol  vedere  la  figurazione  simbolica 
del  trascendentale,  immanente  allo  spirito  umano.  Il  òaijxóviov  non  è,  a  mio 
vedere,  the  la  prima  forma  di  quello  che  sarà,  nella  dottrina  platonica,  la 
|xé^£|ig,  partecipazione  dell'essere  individuato  all'essere  puro,  alla  realtà  onto- 
logica delle  idee. 

Di  questa  parte  fondamentale  della  filosofia  platonica,  poco  ci  dice  l'A., 
anche  più  oltre  (I,  202),  nel  capitolo  dedicato  a  Platone.  Egli  considera  giu- 
stamente lo  studio  del  pensiero  di  Platonis,  come  storia  della  sua  dottrina 
delle  idee,^  seguendo  in  questo  il  punto  di  vista  del  Windelband.  Ma,  nello 
studio  dello  svolgersi  della  metafisica  platonica  da  un'opera  all'altra,  l'A.  non 
sembra  rendersi  sempre  conto  adeguato  della  natura  essenzialmente  ontologica 
del  sistema  platonico,  attraverso  tutte  le  sue  fasi,  sovrapponendo  egli  troppo^ 
spesso  un  punto  di  vista  critico  e  subiettivo  all'esposizione  chiara  e  serena 
della  teoria  delle  idee.  S'intende  quindi  come  la  concezione  del  8aij.ióviov 
o  della  jxéO^eIk;,  considerata  come  essenza  ontologica  dello  spirito,  trascen- 
dente lo  spirito  ed  immanente  in  esso,  non  possa  agevolmente  venir  accet- 
tata dall'  interpretazione  del  Del  Ruggiero.  Questo  ci  spiega  anche  perchè 
il  De  Ruggiero,  che  pur  si  occupa  di  frequente  del  Fedro  e  del  Convito, 
non  ritenga  necessario  trattare  di  un'estetica  platonica.  Egli  in  questo  è  ligio 
alla  veduta  del  Croce,  il  quale,  non  ammettendo  i  valori  di  un'estetica  onto- 
logica, che  si  occupi  dell'idea  del  bello  e  della  tendenza  metessica,  dello 
spirito  al  raggiungimento  di  tale  idea  assoluta,  nega  l'esistenza  di  una  vera 
estetica  nel  mondo  aatico,^  e  riduce  l'estetica  platonica  alla  pura  negazione 
rigoristica  della  RepubblicqL.^ 

Né  solamente  l'estetica  platonica  è  trascurata  dal  De  Ruggiero,  ma 
anche  la  pedagogia,  che  dovrebbe  invece  trovare  il  suo  posto  a  complemento 
del  paragrafo  dedicato  alla  politica,  quando  l'A.  tratta  del  diritto  dello  Stato 
sui  fanciulli  e  del  concetto  di  famiglia,  presso  che  annientato  nell'utopia 
platonica  (I,  232).  Tutta  questa  trattazione  della  teoria  dello  Stato  è  incom- 
pleta :  l'A.  giustamente  osserva  che  «  dall'  idea  del  sapere  come  forza  re- 
golatrice dei  rapporti  umani,  scaturiscono  gli  svariati  regolamenti  di  quei 
rapporti  »  (I,  231),  ma  poi  non  ci  mostra  come  e  perchè  ciò  avvenga,  né  quale 
sia  l'origine  e  il  valore  di  tale  potenza  del  sapere,  inspiratore  supremo  d'ogni 


>  Cfr.  G.  WiNDKLBAND,  Platone,  trad.  M.  Graziussi,  Palermo,  ed.  Sandron,  p.  71. 

•  Cfr.  B.  Croce,  Estetica,  Bari,  ed.  Laterza,  1912,  p.  183. 

•  Cfr.  B.,  Croce,  Op.  cit.,  pp.  184-186.  Per  una  confutazione  del  punto  di  vista  crociano- 
V.  Piccoli^  V estetica   di   V.    Gioberti,   Milano- Romaj    ed.   Albrighi,  Segati  &  Co.,    191 7, 


pp.  119-127. 


^i8  Note,  questioni  storiche^  ecc. 


norma,  sia  ideale  che  positiva.  E  il  problema  delle  relazioni  tra  etica  ^  di- 
ritto, norma  ideale  e  norma  positiva,  che  nella  concezione  platonica  sono 
fuse  in  forma  ed  essenza  unitaria,  in  modo  da  costituire  una  concezione 
metafisica  del  diritto,  rigidamente  opposta  ad  ogni  futura  teoria  empiristica 
od  utilitaria,  è  dall'A.  a  mala  pena  adombrato.  Infine  il  De  Ruggiero,  che 
nel  capitolo  sui  primordi  (I,  21-36),  in  quello  sulla  sofistica  (I,  100-114),  e  a 
proposito  della  condanna  di  Socrate  (I,  152-158),  aveva  mostrato  consape- 
volezza delle  relazioni  tra  l'ambiente  storico  e  la  vita  e  il  pensìera  dei  filo- 
sofi, qui  non  si  preoccupa  punto  di  esaminare  1*  influenza  che  le  vicende 
tormentate  della  Grecia  del  suo  tempo  e  gli  errori  della  demagogia  ateniese 
avevano  indubbiamente  esercitato  su  Platone.  Per  quanto  grande  sia  la  fi- 
gura dal  filosofo,  noi  non  dobbiamo  mai,  sopra  tutto  in  materia  di  filosofia 
politica,  considerarlo  completamente  fuori  del  suo  tempo  e  degli  eventi  che 
si  svolgono  attorno  a  lui.  Il  medesimo  difetto  trovo  nella  esposizione  della 
politica  aristotelica  (II,  55-58).  Il  capitolo  dedicato  ad  Aristotele  è  vasto, 
t>ene  informato  ed  esauriente,  ma  in  esso  l'A.,  quando  giunge  a  determinare 
le  differenze  tra  la  concezione  platonica  dello  Stato  e  quella  aristotelica 
(II,  56-57),  prescinde  nel  modo  più  assoluto  dai  fattori  storici,  influenti  in 
modo  diverso  sul  pensiero  dei  due  filosofi.  Ed  anche  qui,  come  per  Platonie, 
la  pedagogia  e  l'estetica  non  sono  fortunate.  Della  prima  l'A.  tace  del  tutto, 
alla  seconda  dedica  una  smilza  paginetta  (II,  59-60),  completamente  ina- 
deguata all'importanza  dell'argomento,  per. sé  e  per  la  sua  influenza  nella 
storia  dell'estetica. 

L'esame  delU  parte  riguardante  la  filosofia  postaristotellca  mi  condur- 
rebbe sovente  a  ripetere  osservazioni  già  fatte  ;  lo  ridurrò  pertanto  ai  miniini 
termini.  Nelle  considerazioni  sintetiche  suHa  crisi  del  pensiero  greco  (II,  62-68), 
ritorna  il  De  Ruggiero  a  preoccuparsi  dell'influenza  pragmatica  sq 'l'evolu- 
zione del  pensiero,  e  mostra,  in  poche  pagine  dense,  come  dal  cosmopo- 
litismo dell'età  di  Alessandro  derivi  un  senso  di  turbamento  nella  coscienza 
greca,  e  quindi  la  necessità  di  rinchiudersi  in  una  concezione  individualistica, 
quale  è  quella  dello  stoicismo.  Bene  rileva  l'A.  come  un  profondo  pessimi- 
smo sia  l'essenza  dello  stoicismo  (II,  89-90)  è,  per  altre  ragioni,  del- 
l'epicureismo. Questo,  egli  osserva,  «  è  in  fondo  una  filosofia  triste  e  pessi- 
mistica. Gli  epicurei,  uomini  senza  Dio,  senza  patria,  senza  famiglia,  non 
sono  dei  gaudenti,  non  sono,  nelle  stessa  valutazione  degli  antichi,  gli  espo- 
nenti di  una  umanità'  felice.  Essi  non  realizzano  quella  felicità  che  si  propo- 
nevano di  realizzare;  e  neppure  riescono  a  dare,  come  gli  stoici,  un  signi- 
ficato di  nobiltà  e  di  decoro  alla  loro  rinunzia.  In  essa  infatti  non  sta  la  loro 
forza,  ma  la  crisi  finale  della  loro  impotenza.  Resta,  al  di  là  della  rinunzia, 
il  desiderio  vano  di  quello  a  cui  son  costretti  a  rinunziare»  (il,  101-102). 
Solamei}te  io  avrei  voluto  vedere  più  vastamente  trattato  questo  velato  pes- 
simismo della  filosofia  postsocratica  e  postaristotellca  :  i  Snici,  che  sotto 
questo  rispetto  hanno  un  valore  profondo  e  caratteristico,  sono  trascurati,  e 
così  i  cirenaici  (I,  161-170),  mentre,  occupandosi  map:giormente  di  loro,  l'A. 
avrebbe  potuto  dipingere  a  più  vivi  colori  la  crisi  del  pensiero  greco;  E  mag- 
gior luce  ne  sarebbe  venuta  anche  allo  studio  dello  scetticismo.  A  questo 


Note,  questioni  storiche»  ecc.  619 


proposito;  sarebbe  stato  opportuno  un  esame  più  accurato  della  critica  mosst 
da  Sesto  Empirico  al  sillogismo  (II,  133)  e  alla  logica  aristotelica  in  gene- 
rale. L'A.  crede  opportuno  collegare  lo  scetticismo  all'eclettismo,  e  di  que- 
st'ultimo espone  la  natura  (II,  iii)  in  termini  di  valore  generale:  mi  sem- 
bra però  che  egli  veda  un  solo  atteggiamento  eclettico  del  pensiero,  quello 
negativo,  e  quindi  presso  che  scettico.  Ma  v'ha  anche  un  eclettismo  più 
profondo  e  più  acuto,  un  eclettismo  creativo,  che  è  fusione  ^  palingenesi 
dei  discòrdi  elementi  formativi.  Sotto  questo  rispetto  v'ha  un  divario  profondo 
tra  scetticismo  ed  eclettismo. 

Chiude  l'opera  un  vasto  capitolo  dedicato  al  neoplatonismo.  Sono  in  esso 
notevoli  le  pagine  sintetiche  sui  fattori  essenziali  dell'ellenismo  (II,  136-143), 
del  quale  l'A.  determina  bene  l'elemento  positivo  e  costruttivo,  opponendosi 
giustamente  a  quanti  non  ne  sanno  vedere  che  l'elemento  negativo  e  dis- 
solvente. 

«  É  inconcepibile,  osserva  felicemente  l'A.,  che  la  Grècia  classica  abbia 
cortsegnato  all'ellenismo  un  ficco  patrimonio  di  valori  soltanto  per  dissi- 
parlo; anzi,  per  il  fatto  stesso  che  i  valori  non  si  tramandano  che  nella 
creazione  di  nuovi  valori,  è  lecito  presumere  che  l'ellenismo  abbia  in  sé 
un  carattere  positivo,  che  formi  la  sua  vera  originalità  »  (II,  137).  Ma  il 
De  Ruggiero  riesce  poi  incompleto,  quando  cerca  di  determinare  tutti  gli 
elementi  nuovi  che  scaturicono  e  si  formano  nella  complessa  cultura  elleni- 
stica. Rispet'to  alle  relazioni  con  l'esperienza  religiosa  orientale  (II,  139-140), 
l'accenno,  come  abbiamo  già  osservato,  non  può  essere  chiaro,  perchè 
l'A.  non  ha  trattato  a  suo  tempo  delle  religioni. e  delle  filosofie  orientali. 
D'altra  parte  la  cultura  ellenistica  è  molteplice,  e  l'A.  avrebbe  potuto 
meglio  determinarne  la  complessa  fisionomia,  esaminando  i  valori  dell'elle- 
nismo nella  storia  della  civiltà,  nella  evoluzione  delle  scienze,  nella  storia 
dell'arte.  La  filosofia  ellenistica  non  è  isolata  nettamente  dalle  altre  ma- 
nifestazioni, ma  si  collega  ad  esse  e  segue  parallelamente  la  crisi  e  la 
palingenesi,  che  in  quel  tempo  subivano  tutte  le  altre  attività  del  pensiero 
e  dell'arte.  E,  se  pure  l'A^  voleva  isolare  il  suo  argomento,  non  poteva  pre- 
scindere dalle  relazioni  dell^ultiriYa  parte  della  filosofia  greca  con  il  misticismo 
cristiano,  con  le  concezioni  manichee,  con  lo  gnosticismo  nelle  sue  diverse 
espressioni.  Per  quanto  riguarda,  poi  in  particolar  modo  l'esposizione,  accu- 
rata, chiara,s precisa,  della  metafisica  plotiniana  (II,  166-195),  osserverò  ancora 
.una  volta  la  mancanza  di  quella  povera  estetica,  che  nel  libro  del  De  Rug- 
giero è  decisamente  la  Cenerentola. 


Mi  si  concedano  ancora  poche  parole  per  la  nota  bibliografica  (II,  219-238), 
L'A.  rimanda  alla  bibliografia  dell'Ueberweg,  e  si  limita  «a  pochi  appunti 
bibliografici,  per  dare  un  primo  istradamento  al  lettore  »  (II,  219).  Tuttavia, 
pur  rimanendo  nell'ambito  dei  pochi  appunti  strettamente  necessari!,  il  De  Rug- 
giero avrebbe  potuto  arricchire  la  sua  nota  di  alcune  indicazioni  che  mi  sem- 
brano indispensabili. 


620  Note,  questioni  storiche,  ecc. 


Per  esempio,  perchè,  oltre  al  Mullach  e  al  Diels,  non  segnala  al  lettore 
il  Ritter  e  il  Preller,  che  forse  taluno  potrebbe  procurarsi  più  facilmente  elei 
primi?  Su  Empedocle  avrei  voluto  veder  indicato  il  libro  dell'Acri,  Dei  si- 
stemi di  Empedocle  e  Democrito,  e  un  lavoro  dimenticato  dì  Paolo  Lioy,  Un 
filosofo  di  duemila  anni  fa  :  Empedocle.  Per  i  cinici  e  i  cirenaici,  non  trovo 
segnalati  gli  studi  fondamentali  di  Giuseppe  Zuccante.  Per  Epicuro  mi  sem- 
bra che  l'A.  a  torto  dimentichi  l'opera  del  Preller,  Ueber  Epikur  und  seine 
Philosophie  (Berol.  1859),  nonché  gli  scritti  del  Trezza,  di  Luigi  Ferri  e 
quelli,  più  recenti,  del  Bignone.*  Per  il  neoplatonismo,  con  la  citazione  delle 
opere  del  Simon  e  del  Vacherot  avrei  voluto  almeno  un  cenno  al  con- 
corso del  1845  ^'  che  provocò  in  quel  tempo  in  Francia  una  non  infeconda 
produzione  di  studi  sulla  scuola  d'Alessandria.  Così  non  trovo,  (né  a  questo, 
né  ad  altro  proposito)  citate  le  opere  di  Edward  Caird  sul  pensiero  teolo- 
gico dei  filosofi  greci,  né  lo  studio  del  Wittaker,  The  neo-piatonist  (Cam- 
bridge 1900).  Infine,  per  Seneca  e  Boezio  —  che  l'A.  con  gli  altri  pensatori 
romani  include  nel  vasto  ciclo  del  pensiero  greco  —  avrei  voluto  veder  ri- 
cordate, se  non  altre,  almeno  le  cinquecentesche  versioni  di  Benedetto  Varchi  : 
per  altri  autori  vedo  infatti  segnalate  traduzioni  molto  meno  importanti. 

•V 

Occorre  una  parola  di  conclusione  ?  Forse  é  inutile  :  dalle  osservazioni 
fatte,  si  vede  che  si  tratta  di  un'opera  dove  numerosi  sono  i  pregi  e  i  difetti. 
Il  De  Ruggiero  —  che  nel  suo  libro  dimostra  una  indiscutibile  personalità  di 
pensatore  e  una  buona  tempra  di  scrittore  —  ha  messo  insieme  gli  ele- 
menti per  scrivere  una  storia  della  filosofia  antica.  Da  questi  elementi  noi 
aspettiamo  con  fiducia  che  egli  ci  dia  un  giorno  l'opera  vasta  e  compiuta  che 
si  ha  diritto  di  esigere  da  lui. 

Valentino  Piccoli. 


»  Tra  non  molto  Io  stesso  Bigno^e  darà  —  Edita  dal  Laterza  —  una  traduzione  completa 
di  Epicuro  e  uno  studio  sul  medesimo,  che,  non  dubitiamo,  sarà  opera  veramente  magistrale. 

«  Cfr.  Barthélemy  St.  Hilaire,  Sur  le  concours  ouvert  par  V Académie  de  Ktences  morales 
*t  politiques  sur  Fècole  d'Alexandrie,  Paris,  1845. 


i 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


storia  della  coltura:  G.  De  Lorenzo,  India  e  Bt^dismo  anticoy  spedi- 
zione, Bari,  Laterza  e  Figli,  1917,  pp.  VIII-516.  —  Quest'opera,  giunta 
ormai  alla  terza  edizione,  in  pochi  anni,  caso  non  frequente  per  un  libro  di 
cultura,  ha  già,  nel  favore  incontrato  presso  il  pubblico,  chiara  testimonianza 
del  suo  pregio.  Il  quale  germina  particolarmente  dallo  spirito  stesso,  che  il 
De  Lorenzo  ha  infuso  al  suo  libro  e  dalla  passione  con  cui  l'ha  scritto.  Egli, 
cultore  insigne  di  altri  studi,  s'è  dedicato  all'indagine  del  Buddismo,  nori 
per  dovere  professionale  di  erudito,  ma  per  elettiva  affinità  verso  una  delle 
più  solenni  espressioni  del  pensiero  e  della  coscienza  umana.  Le  opere  sue 
non  sono  perciò  aride  e  gelide  esposizioni  e  ricerche  dottrinarie,  ma  pagine 
fervide  di  fede.  Il  lettore  intelligente  sente  in  lui  un'anima  fraterna,  che,  pur 
possedendo  ben  più  profonda,  vasta  e  salda  coltura,  è  mossa  dal  medesimo 
suo  ardore  di  vita  spirituale. 

Ne  risulta  perciò  quella  comunione  di  spiriti  fra  autore  e  lettore,  che 
è  la  miglior  virtù  di  un  libro,  il  quale  studi  vitali  problemi  di  pensiero.  Chi 
conosce  poi  gli  altri  libri  del  De  Lorenzo  sa  come  egli  sappia  giovarsi  della 
sua  larga  e  fine  coltura  letteraria,  per  farci  sentire  i  commossi  echi,  onde  si 
ripercotono  nella  storia  del  pensiero  umano  le  medesime  verità  essenziali, 
che  l'uomo,  in  ogni  secolo  ed  in  ogni  popolo,  scruta  nella  propria  coscienza. 
Interessantissime  sono  a  questo  proposito  le  pagine  in  cui  egli  pone  la  dot- 
trina di  'S.  Francesco  a  confronto  con  la  predicazione  buddistica.  Degne 
pure  di  molta  considerazione  sono  quelle  sopra    l'India   e  la  Grecia  antica. 

È  dovuta  perciò  a  quest'opera,  che  l'A.  ha  nelle  successive  edizioni 
ampliata  assai  e  rielaborata  con  cura,  l'augurio  di  una  diffusione  sempre  mag- 
giore in  benefizio  della  cultura  italiana  (E.  B.). 

—  A.  Olivieri,  Alane one  di  Crotone,  Memoria  letta  alla  R.  Accademia 
di  Archeologia,  Lettere  e  Belle  Arti  di  Napoli^  Napoli,  1917,  pp.  29.  —  Que- 
sta «Memoria»  dell'Olivieri  è  la  migliore  e  più  compiuta  analisi  che  sia  ap- 
parsa negli  ultimi  tempi  sul  filosofo  e  medico  di  Crotone.  La  singolare  com- 
petenza che  l'Olivieri  possiede  negli  studi  sulla  medicina  antica,  lo  mise  in 
grado  di   offrirci  uno  studio  pieno   di  osservazioni  acute  e  ricco  di  ricer- 


622  Bollettino  bibliografico 


che  personali,  onde  le.  dottrine  di  questo  precursore  della  scienza  moderna 
ne  riescono  in  molti  punti  chiarite.  Tutte  le  testimonionze  antiche  sono  dal- 
l'A.,  con  ottimo  discernimento  critico,  esaminate  e  paragonate  fra  loro,  per 
trarne  da  questa  indagine,  e  per  mezzo  del  confronto  con  le  dottrine  di  altri 
ftlosofi  e  scienziati  dell'antichità,  interessanti  conclusioni  od  induzioni.  E  piace 
veramente  vedere  un  professore  di  letteratura  greca  far  materia  di  studio  e 
di  ricerca,  non  già  vuote  questioni  formali,  ma  una  delle  figure  più  interes- 
santi  del  pensiero  presocratico,  e  giovarsi  per  i  suoi  studi  di  acuti  confronti 
con  la  scienza  moderna,  metodo  certo  più  arduo  che  non  sia  la  pura  erudi- 
zione filologica,  ma  necessario  a  chiunque  voglia  veramente  giungere  a  vitali 
risultati  nello  studio  dell'antichità. 

In  un  sol  punto  non  sono  persuaso  dell'argomentazione  dell' A.,  ed  è 
intorno  alla  sue  conclusioni  circa  la  dottrina  di  Alcmeone  sull'anima  (p.  17  segg.)- 
A  me  pare  veramente  che,  dalle  testimonianze  di  Aristotele  ^  e  de^li  altri 
antichi  (v.  A  12,  Diels),  risulti  che  Alcmeone  Considerava  l'^inima  come  im- 
mortale. Questo  però  non  nuoce  punto  alle  acute  osservazioni,  che  fa  in  seguito 
l'Olivieri,  circa  la  dottrina  alcmeoniana  del  cervello,  come  sede  della  co- 
scienza. Avremmo  infatti,  come  ho  dimostrato  per  Empedocle,  anche  in  Alc- 
meone, una  duplice  teoria,  mistica  e  fisiologica,  dell'anima.  Solo  l'anima  mi- 
stica è  immortale,  mentre  l'anima  fisiologica  sottostà  alla  vicenda  di  nascita 
e  di  morte,  comune  a  tutta  la  natura  fisica. 

Come  questa  duplice  dottrina  si  ritrovi  non  solo  in  Empedocle,  ma  in 
altri  filosofi  antichi  e  moderni,  ho  mostrato  anche  nel  niio  volume  su  Empe- 
docle (Torino,  Bocca,  1916,  pp.  257  sgg.  ;  659  sgg.)  (E.  B.). 

Storia  e  politica^  moderna  e  contemporanea:  Albert  Mathiez,  La, 
Revolution  et  les  élrangers,  Paris,  «La,  Renaissance  du  Livre,  19 18.  —  I  demo- 
cratici del  1789  ed  i  giacobini  del  1792  ignorarono  il  problema  degli  stra- 
nieri domiciliati  in  Francia,  appartenenti  alle  Potenze  nemiche.  ,La  Rivolu- 
zione continuò  le  tradizioni  ospitali  della  Francia  monarchica,  e  Parigi  fu 
ancora  il  soggiorno  preferito  dagli  Europei.  Scomparve  ogni  differenza  dì 
nazionalità  ;  gli  stranieri  presero  parte  alla  propaganda  per  la  fraternizza- 
zione  universale.  Essi  non  solo  entrarono  nei  clubs,  ma  anche  nell'esercito 
combattente,  sia  come  soldati,  sia  come  generali.  Unanime  fu  il  grido  : 
«Aimables  étrangersl  Respectables  étrangers  I...  ».  —  Ma,  ai  primi  rovesci 
militari,  sorsero  gravi  sospetti  sull'opera  degli  stranieri  ;  fu  discussa  la  que- 
stione dei  rapporti  fra  l'ideale  cosmopolita  e  le  esigenze  della  difesa  nazio' 
naie.   In  realtà,   la  famosa  cospirazione  dello   straniero   fu   l'invenzione  di 


>  Aristotele  infatti  {de  an.l,  2,  405  a  29)  dice  espressamente  :  q)Tiol  yòq  adffjv  &^dvaTOV  slvoi, 
e  che  Alcmeone  deduceva  questo  dalla  facoltà  di  etemo  movimento  che  l'anima  possiede,  pro- 
pria anche  delle  essenze  celesti  :  sole,  luna,  cielo,  che  per  certi  Pitagorici  sono  immortali  (cfr.  Pl^t., 
Phfudr.  245  e  nSuaa  i|iuxf|,  à'd'dvaTog'  tò  y^  dsixtvtiTov  àMvaTov).  Quanto  alla  testimonianza 
di  Cicerone,  de  n.  deor.  I,  11,  27,  che  del  resto  conferma  essa  pure  quella  di  Aristotele,  è  forse 
utile  notare  che  le  parole  non  sensit  sese  tnortalibus  rebus  tmmortalitatem  dare,  sono  un  osserva- 
zione polemica  dell'epicureo  Velleio,  che  qui  parla,  per  il  quale  tanto  l'anima  come  i  corpi  ce- 
lesti sono  mortali  e  distruttibili. 


Bollettino  bibliografico  623 


alcuni  malevoli,  più  tardi  denunciata  e  riconosciuta;  ma,  nell'ora  del  perìcolo, 
la  tolleranza  parve  una  colpa,  e,  sebbene  a  malincuore,  i'  rivoluzionari  fecero 
una  rinuncia  temporanea  al  loro  eccessivo  umanitarismo.  Il  regime  di  terrore 
e  le  misure  di  legittima  difesa  contro  gli  stranieri,  creduti  agenti  del  nemico, 
non  durarono  neppure  un  giorno,  oltre  i  limiti  imposti  dalle  necessità  della 
èuerra.  Tosto  che  la  battaglia  impegnata  col  militarismo  prussiano  fu  vinta, 
ed  il  territorio  fu  salvo,  i  rivoluzionari  tornarono  liberali  e  restituirono  agli 
stranieri  la  libertà  della  persona  ed  i  beni  confiscati.  Il  Direttorio  riprese  la 
propaganda  nei  paesi  vicini  ;  nuovamente  costituì  legioni  di  stranieri  ;  Parigi 
ritornò  l'asilo  di  tutti  i  profughi  politici  e  di  tutti  i  cospiratori.  (E.  R.). 

—  Andriya  Radovitch,  Le  Montenegro  et  ses  tendancès  nationales,  Paris, 
Imprimerle  slave,  1918  ;  Idem,  Le  Montenegro,  son  passe  et  son  avenir, 
Paris,  Blond  et  Gay,  1918.  —  Se  la  disgraziata  teoria  delle  sfere  d'influenza 
generò  gli  antagonismi  delle  Potenze  nei  Balcani,  dóve  i  piccoli  Stati  diven- 
nero gli  «  enfant  gàtés  »  ora  dell'una  ora  dell'altra,  una  insufficiente  conoscenza 
dei  popoli  Balcanici,  della  loro  mentalità  e  dei  loro  governi  fu  causa  di  errori 
non  meno  gravi.  Ancor-  oggi  si  parla  di  Serbi  e  di  Montenegrini  come  di  due 
distinte  entità  etnografiche,  e  la  distinzione  viene  assecondata  volentieri  da 
certi  ambienti  politici,  a  cui  giova  deprimere  l'aspirazione  verso  una  futura 
Jugo-slavia,  lasciando  credere  che  i  Montenegrini  abbiano  un  proprio  ideale  di 
nazione  e  che  perciò  sia  ingiusto  chiedere  la  soppressione  della  loro  indivi- 
dualità a  profitto  dell'unione.  Ma  la  storia  del  Montenegro  non  è  che  un  epi- 
sodio della  lotta  d'indipendenza  del  popolo  Serbo;  ed  il  suo  popolo  non  è 
che  una  parte  di  quest'ultimo:  il  quale,  alla  caduta  del  grande  Stato  del- 
l'Imperatore Dasciam,  che  pur  comprendeva  il  Montenegro,  si  rifugiò  sulle 
aspre  montagne  di  questo  territorio  e  vi  trovò  il  centro  sicuro  della  vita  na- 
zionale, minacciata  da  tutti  i  lati.  Ciò  che  era  una  semplice  provincia,  divenne 
un  regno  indipendente,  per  effetto  della  disorganizzazione  generale,  nella  per- 
sona di  Balchitch,  che  era  il  suo  governatore.  I  Turchi  conquistarono  la  ca- 
pitale Scutari  e  la  valle  dello  Zeta,  e  lo  Stato  si  ridusse  alla  porzione  di 
territorio  intorno  a  Cettigne,  il  cui  monastero  divenne  il  punto  di  raccoglimento 
della  vita  politica,  democraticamente  disciplinata.  Sebbene  il  Montenegro  sia 
stato  riconosciuto  dalla  Turchia  come  Stato  indipendente,  verso  il  1859,  e 
definitivamente  nel  1875,  i  Montenegrini  non  cessarono  mai  di  lottare  contro 
i  Turchi,  né  rinunziarono  all'ideale  di  riunirsi  coi  fratelli  di  confine.  Anzi  ,^9 
fondazione  dello  Stato  serbo,  sui  primi  del  secolo  scorso,  segna  il  rapido 
avanzare  della  idea  unitaria,  a  tale  segno  che  nel  1865  fu  concluso  un  trat- 
tato fra  la  Serbia  ed  il  Montenegro,  con  tanta  cordialità  di  rapporti  fra  i 
due  sovrani,  che  il  giovine  principe  Nicola  prometteva  di  rinunciare  al  trono 
del  Montenegro  a  profitto  del  principe  Michele  Obrenovich  di  Serbia,  e  quest'ul- 
timo impegnavasi  a  considerarlo  come  suo  successore,  ove  mancasse  nella  pro- 
pria famiglia  una  discendenza  diretta.  Anche  nella  coscienza  popolare  il  pro- 
blema unitario  è  risolto  da  tempo.  E  bene  avverte  il  popolo  che  le  disastrose 
condizioni  economiche  e  sociali  del  suo  piccolo  Stato,  dovute  alla  povertà  dei 
prodotti  naturali,  alla  cattiva  amministrazione,  al  suo  isolamento  politico,  al- 
l'abitudine delle  armi  ecc.,   possono  essere  risanate   ^olo  grazie  all'unione 


624  Bollettino  bibliografico 


cogli  altri  gruppi  Slavi  del  sud.  Se  poi  l'attuale  conflitto  lasciasse  immutate 
le  cose,  la  separazione  del  Montenegro  darebbe  motivo  a  gravi  e  continue 
agitazioni  interne,  di  cui  approfitterebbe  (così  scriveva  allora  il  R.)  la  mo- 
narchia Austro-Ungarica  per  rinnovare  il  suo  intervento  negli  affari  balcanici 
con  evidente  pericolo  della  pace  europea.  (E.  R.). 

—  Enrico  Melchiori,  L'eterno  dramma  Adriatico,  Milano,  Casa  ed. 
Risorgimento,  1918.  —  L'A.  fa  una  rapida  ed  efficace  rassegna  storica,  dai 
tempi  più  antichi  ai  più  recenti,  dei  rapporti  corsi  fra  le  due  sponde  dell'Adria- 
tico, per  dimostrare  che  il  problema  della  sicurezza  economica,  politica,  navale 
e  militare  della  costa  occidentale,  si  è  sempre  presentato  all'Italia  come  pro- 
blema di  conquista  della  costa  orientale,  perchè,  dice  l'A.,  tutti  i  popoli  che 
presero  quivi  stanza,  misero  quasi  sempre  a  repentaglio  lo  sviluppo  vitale  del- 
l'altra riva,  e  perchè  «tranquillità  non  ci  può  essere  quando  l'una  e  l'altra 
costa  non  siano  sotto  il  nostro  dominio  ».  Quindi,  sulla  base  della  tradizione 
storica  e  degli  interessi  impliciti  in  essa,  il  M.  conclude  affermando  la  necessità 
dell'occupazione  litoranea  ed  insulare. 

Senonchè,  non  isfugge  neppure  all'Autore,  ad  un  dato  punto,  che  le 
tradizioni  storiche  sono  di  varie  specie,  come  di  varie  specie  sono  i  diritti 
che  ne  conseguono.  E  infatti,  quando  gli  si  para  innanzi  la  questione  della 
Jugoslavia,  egli  non  può  a  meno  di  riconoscere,  sebbene  in  nota,  che,  se 
si  giudicano  le  cose  dal  punto  di  vista  della  nazionalità,  l'Italia  non  potrebbe 
opporsi  alla  forn^azione  di  uno  Stato  libero  e  indipendente  nella  penisola  bal- 
canica, «  senza  rinnegare  in  tal  caso  tutte  le  tradizioni  e  lo  spirito  del  suo  ri- 
sorgimento, insieme  con  lo  spirito  storico  che  ora  attraversiamo...  E  poiché 
l'unità  jugoslava,  nonostante  lo  scetticismo  di  molti,  è  in  marcia  da  parecchi 
anni,  e  dovrà  raggiungere  sicuramente  la  sua  mèta,  è  bene  che  gli  Italiani... 
non  sieno  ricordati  dagli  Slavi,  come  persecutori,  ma  come  liberatori  !  »  Pec- 
cato che  l'A.  sì  sia  accorto  di  queste  verità  dopo  avere  scritte  le  pagine 
precedenti:..,  (E.  R.), 

Storia  della  letteratura:  E.  CwbìVìato,  Le  odi  di  Pindaro:  testo  versione 
e  commento.  Sestri  Ponente,  St^b.  tipogr.  N.  L.  Bruzzone,  1918,  pp.  764.  — 
Lo  studio  di  Pindaro  ha  dato  in  Italia,  negli  ultimi  decenni,  ottimi  frutti.  Dopo 
l'opera  fondamentale  del  Fraccaroli  (giunta  alla  seconda  edizione)  che  rap- 
presenta una  pietra  miliare  negli  studi  di  letteratura  greca  in  Italia,  è  note- 
vole il  bellissimo  saggio  critico  del  Romagnoli,  che  ci  offerse  pure  alcune 
squisite  traduzioni  poetiche  delle  più  belle  fra  le  odi  agonali  e  della  mag- 
gior parte  dei  frammenti,  e  che  presto  ci  darà  tutto  Pindaro  tradotto.  Ora 
poi  il  Cerrato  s'è  accinto  ad  un  compito  utilissimo  per  le  persone  colte,  cioè 
quello  di  presentarci  a  fronte  del  testo  greco,  riveduto  con  saggi  criteri, 
una  nitida  traduzione  in  prosa,  aggiungendo  nelle  note  tutti  quei  chiarimenti 
che  possano  giovare  a  ben  intendere  quella  non  facile  arte  pindarica.  Opera 
egregia,  che  s'incominciò  a  pubblicare  nel  1915  ed  uscì  negli  «Atti  della 
R.  Università  di  Genova»  in  quattro  parti  distinte.  Il  presente  volume, 
posto  ora  in  commercio,  le  contiene  tutte  unite.  Dire  dei  pregi  dell'opera 
sarebbe  forse   superfluo,  dopo  che  la  critica   favorevolissimamente   accolse 


Bollettino  bibliografico  625 


le  singole  parti  di  essa,  di  mano  in  mano  che  vennero  pubblicate.  L'utilità 
ne  è  a  tutti  evidente.  Un  edizione  completa  di  Pindaro,  corrispondente  ai 
criteri  della  critica  moderna,  mancava  in  Italia,  e  la  mancanza  è  tanto  più 
gravosa  ora  che  procurarsi  edizioni  straniere  non  è  facile.  Ma  Pindaro  non 
è  poeta  che  possa  leggersi,  anche  da  chi  sappia  di  greco,  senza  altri  sus- 
sidi, ed  il  più  utile  fra  tutti,  per  la  piena  conoscenza  essenziale,  è  una  tra- 
duzione in  prosa,  agevole,  fedele,  non  sciatta,  posta  a  riscontro  del  testo, 
che  possa  soccorrere  sempre  il  lettore  principiante  ed  all'uopo  giovi  anche 
all'esperto.  Naturalmente  tradurre  Pindaro  non  è  cosa  agevole,  e  larga  lode 
va  data  all' A.  per  la  sua  lunga  ed  egregia  fatica.  La  sua  versione  ha  note- 
voli pregi,  non  solo  di  interpretazione  ma  anche  di  espressione.  A  volte  solo  la 
vorrei  più  strettamente  letterale,  che  cioè  evitasse  di  cadere  nella  parafrasi,  e 
questo  in  particolare  quando  Pindaro  esce  dagli  schemi  della  logica  comune  nel 
raggruppare  fra  loro  le  idee.  Certo  l'A.  si  preoccupò  sopratutto  della  chia- 
rezza, ma  a  parer  mio  (altri  forse  potrà  giudicare  altrimenti)  l'indicare  lo  svol- 
gimento logico  di  certe  associazioni  poetiche  di  idee,  poteva  essere  piuttosto 
ufficio  del  commento  che  della  traduzione.  Ma  ciò  non  toglie  che  il  sussidio 
offerto  alle  persone  colte  dall' A.  sia  veramente  insigne. 

L'A.  fa  precedere  alla  traduzione  di  ogni  ode  una  breve  Introduzione,  ove 
indica  i  dati  storici  essenziali,  e  da  un  lucido  Argomento,  diviso  nello  schema 
consueto  a  cui  giustamente  egli  riconduce  ogni  epinicio.  Sotto  il  testo  e  la  tra- 
duzione, reca  poi  il  commento,  che  chiarisce  le  difficoltà,  indica  le  ragioni  della 
lezione  adottata  e  dell'interpretazione  proposta  o  prescelta.  L'A.  con  grande 
scrupolo  non  volle  dar  per  suo  nulla  che  fosse  di  altri,  e  perciò,  quando  da 
altri  fosse  già  stato  detto  ciò  che  gli  sembrava  opportuno  è  migliore,  ne  ri- 
porta senz'altro  le  parole,  tradotte,  quando  tolga  da  opera  iscritta  in  inglese 
od  in  tedesco,  testualmente,  quando  la  citazione  sia  francese  o  latina.  Ed  in 
questo  scrupolo  forse  l'A.  fu  persino  eccessivo,  poiché  si  riportano,  in  qual- 
che punto,  con  l'autorità  di  altro  critico  osservazioni,  che  ogni  intenditore 
di  Pindaro,  e  tanto  più  l'A.,  poteva  fare  benissimo  da  sé.  Ma  si  tratta  di  casi 
eccezionali.  In  realtà  il  commento,  così  costituito  dall' A.  per  mezzo  delle  pro- 
prie ed  altrui  osservazioni,  è  utilissimo,  e  dimostra  acuto  ingegno  critico  e 
vastissima  conoscenza  dell'Autore  commentato  e  della  letteratura  che  vi  si 
riferisce.  Naturalmente  Pindaro  non  è  poeta  su  cui  si  possa  in  ogni  punto 
determinare  quale  interpretazione  sia  assolutamente  migliore  con  criterii  og- 
gettivi ed  inoppugnabili.  In  qualche  caso,  si  potranno  preferire  opinioni  e 
spiegazioni  che  l'A.  rigetta,  ma,  poiché  egli  in  generale  riferisce  anche 
quelle  che  combatte,  il  lettore  ha  modo  di  scegliere,  se  gli  sembri  oppor- 
tuno. Certo  il  Cerrato  non  risparmiò  fatica  di  ricerca  e  di  studio,  per  infor* 
mare  rettamente  i  lettori  e  per  sciogliere  ogni  difficoltà  che  il  testo  presen- 
tasse; ove  con  lui  non  ci  si  accordi,  ciò  proviene  dalla  natura  della  poesia, 
e  di  quella  di  Pindaro  in  ispecie,  che  offi-e  molteplici  problemi  esegetici, 
la  cui  risoluzione  è  spesso  affidata  al  gusto  personale  del  lettore.  Saggia 
assai  è,  come  già  ho  osservato,  la  costituzione  del  testo,  scrupolosamente 
fedele  ai  codici  ;  ed  anzi  nei  luoghi  discussi  avrei  voluto  (e  lo  potrà  fare  l'A. 
in  un'edizione  prossima)  veder  riferite  in  nota  le  pochissime  varianti.  È  na- 
ie —  Uuova  Rivista  Storica, 


626  Bollettino  bibliografico 


turale  infatti  che  il  lettore  sappia  fino  a  qual  punto  una  congettura  corrisponde 
alla  tradizione  dei  manoscritti.  Ad  ogni  modo  i  luoghi  in  cui  questo  è  op- 
portuno non  sarebbero, molti.  Quale  è  dunque  questo  volume  dell'A.,  esso  va 
consigliato  con  gran  lode  a  tutti  coloro  che  al)biano  amore  alla  poesia  clas- 
sica»  ed  onora  gli  studi  di  letteratura  greca  in  Italia.  (E.  Bignone), 

—  G.  Piazzi,  La  Novella  Fronda:  manuale  storico  della  letteratura  e 
dell'arte  italictna^  Milano,  Trevisini,  1918,  3  voli.,  pp.  494;  564;  574.  — -  Que- 
sto libro,  questa  nuova  storia  della  letteratura  e  dell'arte  italiana,  reca 
anzi  tutto  un  pregio  esteriore  grandissimo  :  si  presenta  come  un  libro  bello. 
In  momenti,  in  cui,  per  sciagurate  condizioni,  tutte  le  pubblicazioni  librarie 
sopo  necessariamente  brutte,  questi  tre  volumi  appaiono  in  una  veste,  che 
dà  materialmente  un'impressione  di  bellezza:  bella  la  copertina,  arieggiante 
quella  di  codice  antico,  belli  i  caratteri,  belle  le  decorazioni,  le  incisioni.  Ma  i 
meriti  intrinseci  non  sono  forse  gran  che  inferiori  alle  apparenze.  Anzi  tutto, 
questo  :  non  si  tratta  di  u«  libro  di  testo  per  le  scuole,  gettato  cioè  in  quel  for- 
mulario e  in  quelle  tradizionali  partizioni,  che  i  programmi  indicano,  e  a  cui 
gl'insegnanti  corrono  incontro  anelanti,  come  sospinti  da  irrefrenabile  volontà 
di  schiavitù.  L'opera  per  certo  potrà  servire,  servirà  degnamente,  nelle  scuole  ; 
ma  essa  non  è  deliberatamente  un  libro  di  testo.  La  materia  vi  è  gettata  in 
una  forma  nuova,  in  quella  forma  speciale  in  cui  l' A.  la  vedeva  svolgersi  e 
fissarsi  :  questo  è  dunque  uno  di  quei  rarissimi  libri  di  coltura  generale,  che  i 
nostri  autori  e  ì  nostri  editori  amano  produrre. 

Appunto  per  questo  non  è  neanche  una  storia  o  letteraria,  o  politica,  o 
artistica  dell'Italia  nostra.  Esso  è  tutte  queste  cose  insieme,  o,  meglio,  è 
la  storia  delle  nostre  lettere  e  delle  nostre  arti  quale  fluisce  dalla  nostra  sto- 
ria politico-sociale.  Siffatta  concezione  ricorda  benissimo  il  De  Sanctis;  e 
alla  Storia  della  letteratura  del  De  Sanctis  il  P.  si  è  volontariamente  ispirato. 
Per  ciò  non  troviamo  elenchi  di  autori  o  enumerazioni  complete  di  opere  per 
ciascun  secolo.  L' A.  discorre  di  quegli  autori,  che  crede,  lungamente  di  al- 
cuni —  quelli  che,  a  suo  avviso,  rappresentano  tipicamente  le  principali  ten- 
denze dell'epoca  —  brevemente,  di  altri;  niente  affatto,  di  altri  ancora.  I 
suoi  tre  volumi  non  sono  dei  notiziari!.  Per  le  identiche  ragioni  egli  riferisce 
largamente  brani  d'opere  di  questo  o  di  quell'autore,  o  larghissimamente  le 
riassume,  non  isolandole  mai,  ma  introducendole  nel  contesto  del  suo  rac- 
conto. Per  le  stesse  ragioni,  infine,  il  P.  non  esclude  dalla  sua  esposizione 
i  poeti,  gli  artisti,  i  critici,  i  filosofi  contemporanei,  ma  di  tutti  discorre  con 
lo  stesso  criterio,  con  la  stessa  libertà,  con  lo  stesso  senso  storico,  che  degli 
antichi  o  degli  estinti. 

Indubbiamente,  l'opera  non  è  perfetta.  Non  tutte  le  parti  hanno  eguale 
valore.  Non  tutti  gli  apprezzamenti  sono  accettabili.  Ma  su  questo  primo 
tentativo  di  storia  della  letteratura  e  dell'arte  italiana,  uscente  dai  vecchi 
schemi,  il  giudizio  che  deve  farsi  è  solo  un  giudizio  comparativo.  Ed  esso 
non  può  non  tornare  a  tutto  vantaggio  dell'autore  (C.   B.J. 

—  G.  Papini,  Vuomo  Carducci^  Bologna,  Zanichelli,  1918,  in  i6»,  pp.  276. 
—  Come  tutti  i  libri  del  P.,  anche  questo  saggio  sm  Carducci  uomo  ^  pieno 
di  verve f  di  grazia,,  di  vita,  di  passione.  Non  è  lin  libro  erudito,  è  la  raffi* 


Bollettino  bibliografico  627 


gurazione,  che  del  grande  poeta  si  è  formato  quel  fine  spirito  d'artista,  che 
è  il  P.,  e  che  egli  stesso  comunica  ora  ai  lettori  italiani. 

—  Fr.  Guglielmino,  Ardimenti  classici  e  aberrazioni  futuristiche  (estr. 
dalla  Rassegna  bibliografica  della  letteratura  italiana,  19 18,  n.  i),  pp.  25.  — 
Con  grande  arguzia  e  conoscenza  della  materia  l'A.  pone  a  raffronto  molli 
così  detti  ardimenti  dei  nostri  recenti  poeti  futuristi  con  altri  ardimenti 
analoghi  degli  antichi  classici  greci.  La  sua  sensata  conclusione  è  che  «le 
arditezze  non  sono  prerogative  di  futuristi:  ogni  grande  poeta  ha  creato  im- 
magini e  parlato  figuratamente;  solo  che  nei  grandi  poeti  le  immagini  non 
sono  cercate,  volute,  ammassate  per  far  chiasso  e  per  batter  colpi  di  graa 
cassa  ;  non  sono  costruzioni  intellettuali,  ma  sprizzano  spontanee.  Essi  si  espri- 
mono cosi  come  vedono,  sentono  e  concepiscono;  e  non  lavorano  di  ma- 
niera». 

Coltura  contemporanea:  Gli  studi  classici  in  America*,  opinioni  e  dati 
statistici  (trad.  it.  di  P.  Bellezza  e  Introduzione  di  C.  Pascal),  Milano, 
Sezione  milanese  dell'« Atene  e  Roma»,  1918,  pp.  22.  —  È  un  opuscolo  più 
interessante  di  quello  che  il  semplice  titolo  possa  significare,  l^oi  sogliamo 
credere  che  l'America,  paese  tutto  dedito  agli  affari  e  senza  tradizioni  classiche, 
aborra  da  questa  speciale  forma  di  coltura.  La  verità  è  nell'opinione  contraria  : 
non  solo  i  principali  uomini  politici  propugnano  (come  si  rileva  dalla  prima 
parte  di  questo  opuscolo)  una  soda  coltura  classica,  ma  le  numerose  statistiche, 
allegate  alla  seconda  parte,  provano  come  negli  ultimi  venticinque  anni  lo 
studio  del  latino  nelle  scuole  secondarie  americane  abbia  avuto  un  rapido  e 
continuo  incremento,  si  che,  dopo  l'inglese,  la  storia  e  l'algebra,  che  sono 
materie  obbligatorie,  il  latino  —  materia  facoltativa  —  vi  conta  il  maggior  nu- 
mero di  iscrizioni.  Nel  1915,  su  i. 291. 187  iscritti,  ben  503.785  avevano  scelto 
il  latino.  Non  basta:  altre  statistiche  dimostrano,  che  gli  allievi,  diremo  cosi, 
classici,  durante  il  curriculum  scolastico,  riescono  assai  più  felicemente  dei 
non  classici. 

Questo  insegnano  le  statistiche.  A  inchiesta  completa,  TA.  si  ripromette 
di  studiare  in  particolare  su  tutti  i  dati  il  problema.  Ma  per  ora  la  conclu- 
sione generale  non  può  essere  che  questa:  «o  gli  studenti  migliori  preferi- 
scono scegliere  i  corsi  classici,  o  questi  corsi,  meglio  degli  altri,  allenano 
gli  studenti,  che  li  professano,  o  infine  l'una  cosa  e  l'altra  insieme  ». 

A.  Magnaghi,  <i .,,  La  Geografia  è  in  cammino -^^  Ciriè,  Capella,.  1918, 
pp.  104.  —  È  un'arguta  e  minuta  critica  di  alcuni  tra  i  nostri  maggiori  e  più 
difiusi  testi  scolastici  di  geografia.  La  critica,  piena  di  spirito,  è  però  macolata 
da  un  errore  fondamentale  :  il  M.  crede  di  poter  demolire  un  libro,  elencandone 
le  sviste  e  i  particolari  sbagliati.  Tutto  questo  può  avere  il  suo  peso;  ma 
ci  sono  libri  con  sviste  e  con  errori,  pieni  di  vita  e  di  vitalità,  e  viceversa... 
Il  M.  ha  affatto  trascurato  questa  crìtica  organica  dei  libri  da  lui  presi  in 
esame,  ed  è  statp  male.  O,  piuttosto,  egli  l'ha  praticata  in  un  solo  caso  :  in 
quello  dei  testi  scolastici  del  prof.  Giovanni  Bonacci.  Qui  v'  hanno  giudizi 
che  investono  tutto  il  valore  organico  dell'opera.  Pur  troppo,  era  quello 
i'unico  caso,  in  cui  tale  crìtica  riusciva  perfettamente  superflua, 


628  Bollettino  bibliografico 


—  G.  Maugain,  La  laugue  et  la  littérature  frangaise  en  Italie,  Grenoble, 
1918,  p.  75:  utile  rassegna  degli  studi!  contemporanei  italiani  di  letteratura 
francese. 

—  R.  MoNDOLFO,  Dai  sogni  d'egemonia  alla  rinuncia  alla  libertà,  Bologna, 
Zanichelli,  1917,  pp.  45.  —  Fu  questo  il  discorso  che  TA.  lesse  per  la  inau- 
gurazione degli  studi  nella  R.  Università  di  Bologna  il  5  novembre  1917.  Ma 
non  è  affatto  uno  dei  discorsi  del  genere  solito.  Il  M.,  noto  per  istudii  assai 
interessanti  sulla  fìlosoHa  moderna,  ha  tracciato  in  queste  pagine  —  corre- 
date da  una  copiosa  appendice  di  note  finali  —  una  storia  viva  e  vera  dello 
spirito  tedesco  dai  primi  del  sec.  XIX  ad  oggi  :  dalla  quale  risulta'  il  dia- 
gramma, che  è  formulato  dal  titojo  stesso  dell'opuscolo.  Il  breve  scritto  del 
M.  è  specialmente  degno  di  nota  al  confronto  delle  assai,  pur  troppo,  mediocri 
pubblicazioni  di  guerra,  che  hanno  imperversato  in  Italia. 


LIBRI  RICEVUTI* 


S^ 


A.  Monti,  Filippo  Caronti^   Milano- Lugano,   Casa  editrice  del   Coenobiumy 

1918,  pp.  43. 
P.  Silva,  //  Sessantasei,  Milano,  Treves,  1917,  pp.  320. 
KoKiCHi  MoRiMOTO,   TAe  Standard  of  Living  in  Japan,  Baltimore,  The  Johns 

Hopkins  Press,  1918,  pp.  150. 

A.  Solari,  /  Comuni  dell' Etruria:  Nota  (in  Rendic.  della  R.  Accademia  dei 

Lincei),  1917,  pp.  23. 
G.  ViDARi,  Giuseppe  Mazzini  e  l'ora  presente,  Torino,  Lattes,  1917. 
A.  Grandis,  a  proposito  dei  giudizi  del  Mommsen  (estr.  da  «  Atene  e  Roma  », 

1918,  pp.  203-215). 
G.  CuRCio,  La  filosofia  della  storia  nell'opera  di  Tito  Livio  (estr.  dalle- i?«vz- 

sta  indo-greco'italica,  1917),  pp.  77-85. 
P.  EoiDi,  Codice  diplomatico  dei  Saraceni  di  Lucerà,  Napoli,  Società  storica 

napoletana,  1917,  pp.  xix-465. 

St.  Gsbll,  Histoire  ancienne  de  V  Afrique  du  nord,  II,  (pp.  475);  III  (pp.  424)» 
Paris,  Hachette,  191 8. 

G/  Ferrerò,  La  vecchia  Europa  e  la  nuova:  Saggi  e  discorsi,  Milano,  Tre- 
ves, pp.  333. 

G.  Pascoli,  Poesie,  con  note   di  L.  Pietrobono,  Bologna,  N.  Zanichelli, 

1918,  pp.  XIV-318. 
A..  Ciattini,  L'Italia  di  domani,  Pistoia,  Casa  Ed.  Rinascimento,  pp.  30. 
F.  Savorgnan,  La  guerra  e  la  popolazione:  studi  di  demografia,   Bologna, 

N.  Zanichelli,  1918,  pp.  146. 
P.  Silva,  La  monarchia  di  luglio  e  P Italia,  Torino,  Bocca,  1917,  pp.  Xv-425. 
\.  Marrocco,  Romanticismo  e  classicismo,  Caltanissetta,  Libr.  ed.  del  Divenire 

artistico,  1918,  pp.  24. 


•  Oltre  quelli  di  cui  si  discorre  nelle  «  Note  ecc..»  e  ^d  «  BolleUino  bibUografico  x». 


630  Libri  ricevuti 


Idem,  Nicolò  Machiavelli  precursore  della  scuola  realistica^  Calt^nissetta,  Libr. 
ed.  del  Divenire  artistico,  1918,  pp.  31. 

Idem,  L'educazione  civile  nei  capolavori  artistici  della  triade  trecentistica,  Cal- 
tanissetta,  Libr.  ed.  del  Divenire  artistico,  1918,  pp.  52. 

A.  Calderini,  Liberi  e  schiavi  nel  mondo  dei  papiri,  Milano,  1918,  pp.   30. 

G,  Paladino,  Documenti  per  la  storia  della  colonia  Eritrea  (estr.  dal  Bol- 
lettino della  Soc.  africana  d'Italia,  1918^  n.  i),  pp.  23. 

G.  LuLLY,  De  Senatorum  romanorum  patria  sive  de  romani  cultus  in  Pro- 
vinciis  incremento,  Roma,  Maglione  e  Strini,  1918,  pp.   X11-271. 

F.  CoLBTTij  /  nostri  irredenti,  Milano,  Unione  gen.  degli  insegnanti  italiani, 
1918,  in  160,  pp.  23. 

F.  LosiNi,  Ivan  Turghenieff,  Roma,  A,  F.  Formiggini,  1917,  in  16",  pp.  86. 
Fr.   Cumont,  Études  Syriennes,  Paris,  Picard,  1917,  pp.  xi-379. 

A.  SoGLiANO,  Tabella  Opisthographa  (estr.  dal  volume  in  onore  di  Monsi- 
gnore G.  AsPRENO  Galante),  Napoli,  1918,  in  40,  pp.  315. 

G.  Prato,  k  Ciò  che  non  si  vede  »  del  costo  della  guerra  (estr.),  Torino,  S.  T 

E.  N.,  1918,  pp.  29. 

R.Cagges'B,. Firenze  dalla  decadenza  di  Roma  al  Risorgimento  d'Ita,lia,  Fi- 
renze, Seeber-Lumachi,  1912-13,  2  voli.,  pp.  xxm-533;52i. 

I.  Del  Lungo,  Storia  esterna,  vicende ^  avventure  d'un  piccai  libro  dei  tempi  di 
Dante,  Milano-Roma-Napoli,  Albrighi,  Segati  &  C,  voi.  II»;  1918,  pp.  382. 

G,^  Bassi,  L*  opera  di  un  giurista  ed  economista  italiano  in  Inghilterra  (Leone 
Z«a')  (estr.)  Firenze,  1918,  pp.  12. 

P,  E.  GuAxtumviO^  Fonologia  romanza,  Milano,  Hoepli,  1918  (in  i6«>),  pagine 
viii-64> 

F.  OhGiKtiy  Carlo  Marx,  Milanq,  Soc.  ed.  <^  Vita  e  pensiero  »,  I9i8>  pagine 
xiii-323. 

G;  WK\3GAiVt  L'opinion  italienné  et  l'intervention  de  l'Italie  dans  la  guerre 
actuelle,  Paris,  Champion,  1916,  pp.  105. 

W.  Warren,  Les  justes  revéndications  de  l'Italie,   Paris,  La  Renaissance, 

1918,  pp.  62  con  21  carte  o  grafici. 
N.  Vaccalluzzo,  //  carteggio  di  Massimo  d'Azeglio  con  documenti  inediti 

(^tr.  dalla  Nuova  Antologia,  16  giugno  1918),  pp.  17. 
P.  Salvàdoretti,  Dalla  guerra  alla  pace.  Spezia,  Arti  Gràfiche,  1918,  pp.  33. 
R,.H0WELL,  The  privileges  and  immunities  of  State  Citizenship,  Baltimore, 

The  Johns  Hopkins  Press,  1918^  pp.  120. 
A.   So^v&iAA,   Carducci  e  Oberdan  {i8S2'jgi6),   Bologna,   Zanichelli,   1918, 

pp.  VH-118. 
Sqvoclh,  £dipo  re  (trad.  in  versi  it.  di  £>  Romagnoli),  Bologna,  Zanichelli, 

PP..93. 
H.  Bergson;  R.  DouMic,  Discours  de  reception-,  J^éponse (Séaxice  de  l*Aca. 

demie  firangaise  du  24  janvier  191$),  pp.  71^. 


Libri  ritevuti  631 


G.  Prato,  Le  fonti  storiche  della  legislazione  economica  di  guerra  (estr.  dalla 
Riforma  sociale,  maggio-giugno,  1918). 

A.  So(UAij*  Storia  del  diritto  italiano,  Milano,  Società  ed.  libraria,  1918  (2*  ed.), 
in  160,  pp.  XXXI1-1120. 

Banca  Commerciale  italiana.  Cenni  statistici  sul  movimento  economico  del- 
l'Italia :  La  legislazione  economica  della  guerra  e  le  imposte  e  tasse  in 
Italia,  Milano,  1917,  pp.  1083. 

Kent  Roeerts  Greenfeld,  Sumptuary  Law  in  Nìirnberg ;  a  Study  in  pater- 
nal  government,  Baltimore,  The  Johns  Hopkins  Press,  1918,  pp.  139. 

A.  Gemelli,  Principio  di  nazionalità  e  amor  di  patria  nella  dottrina  cattolicai 
Torino,  Lìbr.  ed.  Internazionale,  1918,  pp.  103. 

E.  Romagnoli,  //  teatro  greco,  Milano,  Treves,  1918,  pp.  xi-406. 

Idem,  Nel  Regno  di  Dioniso,  Bologna,  N.. Zanichelli,  1918,  pp.  293. 

A.  Gambaro,  Primi  scritti  religiosi  di  R.  Lamòruschini,  Firenze,  Riv.  bibl. 
italiana,  1918,  pp.  xii-339. 

C.  M,  Patrono,  De  l'Impèro  ottomano  (estr.  A-aW Esplorazione  commerciale, 
maggio  1906),  in  4»,  pp.  14. 

Idem,  Noterelle  di  storia  del  Risorgimento  italiano,  Palermo,  A.  Trimarchi, 
1916,  pp.  96. 

A.  M1CKIEVICZ,  Gli  Slavi  (trad.it.),  Milano,.  Libreria  editrice  milanese, 
1918,  pp.  17-9. 

I.  Salvioli,  Le  concept  de  la  guerre  juste  d'après  ies  écrivains  antérieurs  ì 
Groiius  (trad.  fr.),  Paris,  Bossard,  1918,  pp.  128. 

Italia  e  Jugoslavia  a  cura  di  «  Un  gruppo  di  scrittori  italiani  e  jugoslavi  »,  Fi- 
renze, Libreria  della  «Voce»,  1918,  pp.  311. 

C.  Maranelli  e  G.  Salvemini,  La  questione  dell'Adriatico,  Firenze,  Libre- 
ria della  «Voce»,  19Ì8,  pp.  xi-284. 

M.  Baratta,  Cesare  Battisti  geografo-martire,  Novara,  Ist.  geogr.  De  Ago- 
stini, 1918,  pp.  31. 

E.  Pais,  Ricerche  sulla  storia  e  sul  diritto  pubblico  di  Roma:  I  Fasti  dei 
Tribuni  della  plebe  e  lo  svolgersi  della  tribunicia  podestà  sino  all'età  dei 
Gracchi,  Roma,  Maglione,  Strini  &  C,  1918,  pp.  xxii-434. 

G.  Amedko  Fichte,  Dottrina  morale  secondo  i  principii  della  dottrina  della 
scienza  (trad.  it.  e  Introduzione  di  L.  Ambrosi),  Milano-Roma-Napoli,  Al- 
brighi.  Segati  &  C,  1918,  pp.  cxxiii-352, 

A.  G.  Amatucci,  Storia  della  letteratura  romana,  Napoli,  F.  Perrella,  1912, 
i6,'  2  voli.,  pp.  viii-244  ;  VI11-206. 

U.  Ancona,  La  rinascenza  economica  dell'Italia,  Roma,  Maglione^  Strini  &  C, 
1911,  pp.  VI11-158. 

E.  Ciccotti,  La  guerra  e  i  partiti  politici  (estr.  da  «  La  Vita  italiana»,  mag- 
gio 1917),  pp.  31. 

G.  L«  Vrkvgi,  Conferenze  di  storia  viterbese,  Roma,  E.  Loeschèri  1915,  pp.  66. 


632  Libri  ricevuti 


R.  ALLiBRf  Les  Allemands  à  Sainie^Dié  (27  aoitt-io  septembre  1914,  1914), 
Paris,  Payot  &  C,  1918,  pp.  xvi-277. 

C.  Bresciani  e  Turroni,  G.  Salvatore  del  Vecchio  {184^-917)  (estr.  ói\\V An- 
nuario della  R.  Università  di  Genova^  1918)  ;  F.  Cosentini,  G.  Salva- 
tore del  Vecchio  e  la  sua  opera  scientifica  (estr.  dal  Dizionario  di  legi- 
slazione sociale y  1917,  fase.  5-6);  F.  Virgilii,  L' opera  scientifica  di  G.  S. 
Del  Vecchio  (estr.  dagli  Studii  senesi,  voi.  XXXIII,  fase.  4-5,  1918. 


I  NOSTRI  MORTI 


GIUSEPPE  FRACCAROLI 
FERDINANDO  GABOTTO 


2C9  A  scanso  di  equivoci  e  di  erronee  interpretazioni  dichiariamo  una  volta 
per  tutte  clie  del  contenuto  SPECIFICO  dei  singoli  articoli  la  responsabi- 
lità appartiene  interamente  agli  autori  che  li  sottoscrivono. 


A.  Medici,  Gerente  responsabile. 


Città  di  Castello,  Tipografia  della  Casa  Editrice  S.  tapi,  1918, 


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N88 

Nuova  rivista  storica 

anno  2 

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