NUOVA RIVISTA STORIjC.^^-^
V
Fasc. 1. — Gennaio-febbraio. ^^^^.ììo
Ottardando innanzi (La Redazione)
QiUPEPPE Fraccaroli, Filologia e letteratura ......... » ^T)
Giosuè Maliandi, La fase attuale degli studii di storia religiosa. . » 29 -i^
Guido Porzio, La piii antica aristocrazia corintiaca : I Bacchiadi {Con- |
tinuazione). . » 48
Note; Questioni storiche; Discussioni; Recensioni:
Intorno all'opera storica di Pasquale Villari (C. B.) »
Una storia del Belgio (G. Lazzeri) »
Studi italiani di storia religiosa (Ficarra; Bonaiuti; Geminiani)
(G. Maliandi) . . » 91
Problemi della guerra e del dopo-guerra (Prato ; Carli) (E. Corbino) » 96
Una iniziativa della Scuola papirologica milanese (C. B.) . . . . » 97
Un processo filologico-storiografico... (F. Guglielmino) .... » 100
La pubblicazione degli Atti delle Costituzioni italiane » 107
Bollettino bibliografico: Si paria di: C. Barbagallo; A. Solari;
V. Cannizzo; G. Patroni; L Del Lungo; P. Preda; R. Marcucci. » 108
Libri ricevuti » 110
Fasc. il — Marzo-aprile.
Gaetano Salvemini, Pasquale vinari Pag. 113
Giuseppe Rensi, Il concetto di storia della filosofia ...... » 140
Ettore Rota, Razionalismo e storicismo ecc. {Continuazione) . . » 190
Note; Questioni storiche; Discussioni; Recensioni:
I. Storiografia integrale : tra critico e autore (L. Halphen ; C. B.) . » 209
II. Un libro di storia economica (E. Corbino) »213
Bollettino bibliografico: Si paria di: V. Pareto; F. Sarappa;
A. Cossu; A. Ottolini; E. Melchiori; H. Delbriick; V. Garretto;
J. Miller Seake; W. O. Weyforth; A. Debidour; F. Paolini;
F. Momigliano » 218
Fasc. III. — Maggio-giugno.
Ettore Ciccotti, L'enigma della Guerra e i suoi interpreti. . . . Pag. 225
Alessandro Chiappelli, La mente di Domenico Comparetti ...» 239
Ettore Romagnoli, I personaggi di Eschilo » 253
Angelo Ottolini, La seconda Repubblica Cisalpina {Fine) .... » 267
Guido Porzio, La più antica aristocrazia corintiaca : i Bacchiadi {Fine) » 292
Note; Questioni storiche; Discussioni; Recensioni:
I. Storia e politica: Italia e Francia (C. B.) - » 319
II. La cattedra di storia antica nella R. Università di Roma (Gu. P. ;
C. B.) . . . » 325
La «Voce dei popoli» (E. R.) . . ' . . . . * 327
Fasc. IV. — Laglto^agosto.
Aldo Ferrari, L'opera storica di Giuseppe Ferrari Pag. 329
Giuseppe Pardi, Un bilancio preventivo dello Stato fiorentino nel 1544 » 349
Guido Santini, Storiografia elementare * 363
Note; Questioni storiche; Discussioni; Recensioni:
I. L'enigma del Settecento italiano e il problema delle origini
del nostro Risorgimento (E. ROTA) » '^81
IL Spagna e Italia nel periodo della Rinascenza (P. Negri) . . »
III. Giacomo Burckhardt (C. B.) » 406
IV. Un'impresa italiana nel campo della storia economica (C. B.). » 409
V. Un nuovo libro sul materialismo storico (C. B.) » 413
VI. Philologica ,• antiphilologica ; extraphilologica (C. B.). ... » 419
VII. Ancora una parola intorno alla cattedra di storia antica nella
R. Università di Roma (Gu. P. ; C. B.) » 423
Vili. Riviste nuove » 425
Bibliografia italiana sulla guerra europea. » 426
Libri ricevuti : » 435
Fasc. V-VI. — Settembre-dicembre.
Corrado Barbagallo, Giuseppe Fraccaroli Pag. 437
Georges Platon, Un Le Play ateniese o !'« Economia politica » di
Senofonte {Continuazione) » 450
Umberto Ricci, Sulla opportunità di una storia della economia po-
litica italiana » 471
Italo Pizzi, Origine e natura della civiltà orientale nel Medio Evo . » 484
Ettore de Ruggiero, Lo Stato e la città capitale nel mondo romano. » 498
Francesco Paolo Giordani, L'umanitarismo razionalistico, e l'impe-
rialismo romantico in Germania » 508
Ettore Bota, Razionalismo e storicismo ecc. {Fine) » 523
Corrado Barbagallo, Francia e Germania dal 1848 al 1871 (leg-
gendo Enrica von Treitsckhe) {Continuazione) » 554
Rassegne: V. Piccoli, Per la storia della filosofia italiana: Studi
giobertiani » 565
Note; Questioni storiche; Discussioni; Recensioni:
I. La questione ucraina (Y. Gr.) » 578
II. Tra il primato di un popolo e la missione universale delle
nazioni (Rodolfo Mondolfo) » 582
in. Dopo la guerra: Meditazioni storiche: considerazioni e raf-
fronti (G. Cassi) » 595
IV. Le democrazie medievali italiane (G. LuzzattO) » 600
V. Nota archeologica: Un nuovo studio sulla campagna ro-
mana (E. DE R.) » 603
VI. Una nuova traduzione dei dialoghi Platonici (E. Bignone) . » 605
VII. La Poetica di Aristotele (E. BiGNONE) > 607
Vili. Una storia della filosofia greca (V. Piccoli) » 611
Bollettino bibliografico . » 621
Libri ricevuti » 639
Anno II. Gennaio- Febbraio 1918, Fasc. 1.
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GUARDANDO INNANZI
Nel varcare la soglia del secondo anno di vita, la Nuova Ri-
vista Storica — non più trimestrale, ma bimestrale — procede
con lo stesso indirizzo, dal quale prese le mosse, ma fortificata
da un largo consenso di spiriti, umili ed eletti, donde essa attinge
la prova sicura di non esistere inutilmente.
Certo, non è mancata, fra le molie voci unisone, qualcuna
fuori di chiave ; ma sarebbe follìa pretendere che, nelle cose in
cui entra il pensare degli uomini, i pareri fossero sempre iden-
tici. Se questa è la regola comune, nel nostro caso essa con-
ferma la necessità di persistere, e con maggiore ardimento,
poiché faremmo opera vana se la Nuova Rivista Storica incar-
nasse un'idea universalmente accettata e condivisa.
Intanto ci basta di avere, dietro a noi e con noi, una falange
di studiosi e di compagni, che hanno sorretto Topera nostra con
assiduo testimonio di simpatia e di fede. L'accoglienza cortese
e benevola della stampa, quotidiana e periodica, nazionale ed
estera, ci è stata convalidata da manifestazioni private, attraverso
lettere di ignoti e di illustri, le quali appunto perchè private,
esprimevano senza veli l'animo di coloro che le dettarono. Noi
scorriamo ancora in questo momento, con vera commozione,
quegli scritti che già ci furono di tanto conforto; non ne ren-
diamo conto al pubblico perchè essi erano destinati a noi — a noi
soli — ma, iniziando il nuovo anno, vogliamo da queste pagine
dichiarare a quei cortesi la nostra profonda riconoscenza.
^ — Nuova Rivista Storica.
La Redazione
Quali le ragioni della fortuna della Nuova Rivista Storica,
che pure nacque ed è vissuta attraverso le circostanze storiche
meno favorevoli?
In primo luogo, pensiamo che trenta o più anni di contor-
sione del pensiero e delle attitudini nostre sul terreno della sto-
riografia, in nome di una scienza, che si diceva più severa, es-
sendo invece una brutale contraffazione deirideale medesimo, che
essa intendeva raggiungere, non hanno potuto spegnere le nostre
virtù congenite, e quanto di eterno o di vivo rifulge nella nostra
disciplina. Lo snaturamento' del nostro pensiero, la deviazione
dal fine e dai metodi di quella cosa sacra, che è la storia, erano
stati compiuti con tutti i mezzi — lusinghieri e brutali — di cui
l'autorità scientifica dispone. Eppure, è bastato il richiamo di
poche voci, nel mezzo di una crisi generale, perchè una folla
di gente assetata tornasse verso le antiche fonti della coltura
storiografica italiana.
In secondo luogo, noi pensiamo, il nostro successo si deve
al fatto che troppo, da due o tre anni, si è chiacchierato in Italia
di tedeschismo e di antitedeschismo, di vassallaggio e di eman-
cipazione della nostra coltura; ma assai poco, almeno nel campo*
delle scienze morali, si è tentato allò scopo di accordare i fatti
alle sovrabbondanti parole. Vezzo deplorevole, a cui ha voluto
riparare la nostra iniziativa. Noi intendemmo con essa dire e
provare che, mentre una propaganda teorica, diretta a rafforzare
la nostra nuova coscienza, può essere utile, assai più utile è
cominciare a fare, sforzarsi ili fare, incamminarsi sulle vie nuove,
che sono per altro le secolari strade maestre del mondo latino,
e di questa volontà di azione abbiamo tentato di dare una prova
positiva. Infine — e su quest'ultimo punto chiediamo che special-
mente si soffermi Fattenzione dei lettori — noi pensiamo che ad
un altro fatto, ad un altro oscuro sentimento si debba il successo
dell'opera nostra. Questa guerra universale, che incendia l'Europa,
non è soltanto un conflitto d'armi e d'armati, in cui sarà vin-
citore solo colui che avrà trionfato per la sua forza materiale
sui campi di battaglia. È altresì una grande prova spirituale, e
vincitore sarà quegli, se non oggi, in un prossimo avvenire,
che da tale prova uscirà libero o liberato, perchè in questa
prova avrà ritrovato la sua personalità, nazionale, culturale, in-
tellettuale. Costui vincerà in proporzione del suo stesso sforzo^
Guardando innanzi
anche se la sorte sui campi di battaglia gli sia contraria. Noi perciò
credemmo (e pare che il nostro pubblico ci abbia intesi) di porre
nel nostro paese uno degli elementi, di accendere una delle fiac-
cole di questa nuova potenza spirituale; credemmo che la nostra
fosse una forma di lotta non meno utile delle altre, perchè
quesfoperà contribuisce in modo eminente alla vittoria, che
solo, se sapremo ottenerla su questo terreno dello spirito, ninno
potrà mai ritoglierci colle armi.
Perciò volemmo venire alla luce ieri e non domani; perciò
abbiamo dato vita a questo nostro amato organo di coltura, nel-
l'istante più difficile della nostra storia e della nostra vita; perciò
parecchi di noi — redattori e collaboratori — vi hanno atteso,
vi hanno voluto attendere, pure essendo impegnati in più gra-
vosi e materiali servizi, che il paese richiedeva.
Il nostro programma rimane pertanto immutato: fare in modo,
con Popera, con Fesempio, col richiamo continuo, che Io scri-
vere di storia torni ad essere in Italia, non già tediosa eserci-
tazione critica su questioni minute e disorganiche, non già il-
lustrazione spicciola di testi e di documenti, ma, essenzialmente,
« interpretazione e intelligenza dei fatti sociali, specie di quelli
politici, nel senso pili ampio e comprensivo della parola » . Tutto
questo non significa, non può significare (ogni nostro articolo
ha dato di ciò prova palmare) che noi disdegniamo la erudi-
zione, le ricerche, la disciplina scientifica; che noi amiamo, come
taluno vorrebbe dire, abbandonarci alla faciloneria e a una così
detta oziosa (chi sa mai perchè?) «genialità latina». Significa
invece credere che le ricerche, Terudizione, le discussioni sui
testi debbono non esser mai fine a se stesse, ma mezzo contin-
gente a uno scopo più alto e diverso: la vera e propria pene-
trazione storica. La quale si può raggiungere non solo facendo
ricerche, accumulando notizie, discutendo fonti, ma sforzandosi
d'intendere il significato delle cose, e si raggiunge di fatto, allor-
ché la storico si pone in intima comunione col contenuto del ma-
teriale raccolto, e con tutte le discipline, e con quel senso della
vita storica, che soli sono in grado di illuminare il suo spirito.
Dopo un anno di esperienza noi conosciamo ancor meglio
che non in passato quanto sia difficile raggiungere il nostro
ideale, quanti ostacoli occorre superare per rendere veramente
fattiva l'opera nostra. Taluni dì questi ostacoli derivano da ra-
La Redazione
gioni puramente materiali: Io spazio che ogni giorno ci manca
perchè non possiamo oHrepassare gì' invalicabili confini tipogra-
fici; Fopera di collaborazione, che ci vien meno improvvisamente,
per forza maggiore; la impossibilità di scegliere coloro, che pur
avremmo bramato di adoperare ; la nostra cruda, incorreggibile
povertà!... Ma la prova durata c'insegna anche questo: che per
riuscire bisogna agire; che gli ostacoli bisogna tentarli, non
accrescerli per farne ombra alla propria pusillanimità, e che molti
dei più gravi problemi della nostra ora presente non si risolvono
con la preordinata abbondanza dei mezzi materiali, ma con la
saldezza della volontà, con Fabnegazione del lavoro, con lo
sforzo tenace e quotidiano, con la passione disinteressata che
nello sforzo si prodiga, checché il sacrificio abbia a costare.
Queste furono le virtù che mancarono a gran parte, della vec-
chia Italia di ieri ; queste sono le virtù che debbono scaldare i
cuori delle generazioni di oggi e di domani.
La Redazione
FILOLOGIA E LETTERATURA*
1 Ma siamo giusti: se la retorica* è nata effettivamente con
lo scopo preciso e confessato di ingannare, ciò non impedisce che per
altri rispetti possa essere, e qualche volta anche sia, una disciplina
onesta e nobilissima. In quanto infatti essa studi a posteriori la veste
del pensiero, è ricerca psicologica, come la grammatica; e il notare,
catalogare e coordinare i vari atteggiamenti dell'espressione non è certo
meno capitale per il filosofo, di quello che sia il diriger l'attenzione
sopra alcun'altra più appariscente specie di fenomeni. Studiare, per
esempio, come il parlar proprio e il figurato si corrispondano, si so-
stituiscano e si intreccino tra loro, è studiare come si associno le idee,
è cercare di conoscere l'umana natura in ciò che ha di più proprio
e più caratteristico, è cercare di conoscerci noi stessi, che è precisa-
mente lo scopo della nostra esistenza. Fino a qui nessuno può non
lodare la retorica, e Aristotele può stare sicuro di tutta la nostra am-
mirazione. Ma insegnare a far metafore e metonimie è proprio come
insegnare agli uccelli a cantare ; ma invece di studiare il pensiero nella
forma sua spontanea, considerar la forma come indipendente da esso,
e trasportarla di qua e di là come un abito fatto per andar bene, o
piuttosto per andar male, a tutti i corpi ; ma formular precetti di ne?
cessità arbitrari, manchevoli e falsi, — questa è educare alla menzo-
gna e alla sciocchezza; e questa è la retorica che noi detestiamo e
combattiamo.
Ma la retorica ha una sorella minore; ed è la filologia. Non inar-
cate le ciglia, che ora ve lo spiego. Anche la filologia infatti studia la
* Da un volume di iraminentc pubblicazione : L'educazione nazionale, Bologna,
Zanichelli.
1 Della retorica come falsificazione si parla nel capitolo precedente.
Giuseppe Fraccaroli
veste del pensiero, però con questa differenza, che la retorica la studia
nella sua convenienza con la cosa rivestita, e la filologia la studia
meramente in quanto è veste, di che materia sia ìntessuta, come sia
intessuta, come sia tinta, e se sia tarlata, e se si possa rammendare,
e vìa discorrendo. In altre parole, la retorica, quella buona, studia la
forma per giungere al pensiero ; e la filologia, quella buona, studia la
materia per giungere alla forma; e se è funzione modesta in apparenza,
è però altrettanto utile ed indispensabile. Un manicaretto, per quanto
saporito, vi ripugna e vi stomaca, se presentato su di un piatto che
sa di lezzo; di dove si vede quanto sia utile saper lavare i piatti bene.
E così la filologia a questo deve attendere, a darci i piatti, cioè i testi
puliti, quindi a ridurli possibilmente come gli autori li hanno scritti,
o, se questo non può farsi, a conformarli almeno alla tradizione più
attendibile, a corredarli di tutti i dati di fatto che meglio giovino alla
loro intelligenza, a purgarli dei guasti che siano loro capitati; e poi-
ché a tale bisogna attendo anchMo professionalmente, non può essere
affatto intenzione mia di screditarla.
2. Precisiamo meglio. Filologia è vocabolo di uso moderno : i no-
stri vecchi l'avrebbero chiamata grammatica ; ma questa parve parola
troppo frusta, e ne occorreva una nuova. Or se con ciò si fosse ot-
tenuto di definire anche con maggior precisione il contenuto della
nuova disciplina, sarebbe già un guadagno : se grammatica nel senso
classico comprendeva anche e principalmente la letteratura e quindi il
pensiero, e con filologia si voleva intendere che la letteratura veniva
eliminata, fin qui, padronissimi. Gli è che invertivano anche le parti,
e la letteratura intendevano con ciò di padrona farla serva, e la filo-
logia di serva padrona: la materia diventava la sostanza, lo spirito e
la vita un accidente. E così la letteratura nella filologia ce la facevano
entrare a parole quando tornava comodo, ma c'entrava per mera tolle-
ranza; e quando si veniva alla resa dei conti, una collazione o un cata-
logo di codici la vinceva sempre in confronto di qualsiasi piti meditato
lavoro, ove oltre la preparazione strettamente filologica facesse capolino
un qualche sospetto di pensiero. Questa è storia ben documentata.
Or questa concezione è essenzialmente materialistica, come è essen-
zialmente tedesca. Da quando fu detto cogito^ ergo sam, pareva dovesse
essere fuori di discussione la precedenza del soggetto sull'oggetto;
qui invece, non che posposto, il soggetto è presso che eliminato. Es-
sere oggettivi è la prima raccomandazione che si fece: la letteratura
poteva essere arte o filosofia; la filologia volle esser scienza, e con
essa le ventiquattro discipline, che secondo il Wolf ne dipendono. Ma
oggetto della scienza non può essere che il fatto, cioè ciò che si pesa,
novera e misura: l'apparato pertanto era solenne, il corteggio splen-
Filologia e Letteratura
dido, ma la sua meta è un tempio senza Dio: la vostra filologia esclude
lo spirito. Una pittura storica del Carlyle o del Michelet, per rubare
un esempio al Romagnoli, un'analisi artistica del Taine, una sintesi
estetica del De Sanctis, per il filologo sono mere fantasie, per ciò che
non si pesano e non si misurano, e non sono perciò scienza; per noi
sono invece al di là della scienza, sono filosofia. Voi ci date i fatti, e
sta bene, e ve ne ringraziamo : la vostra è anatomia ; siete contenti ?
Noi ne inferiamo e ne riviviamo lo spirito: la nostra è biologia. Se
poi mi insistete a dire che è sciocco chi si immagina di poter capirne
di biologia, se d'anatomia non capisce, e che più sciocco ancora è il
discorrere d'estetica senza aver prima suffieentemente accertato dì che
cosa si discorre, io vi darò non una ma dieci ragioni.* Soltanto io
vi aggiungo che accertare i fatti è presso che inutile, se poi non c'è
chi ne cavi alcun costrutto.
Né si può cavamelo improvvisando, come certuni si figurano.
Discutendo una volta di certi titoli paleografici d'un candidato in un
concorso, e notando io che questi non costituivano alcuna prova che
il loro autore di letteratura o d'arte capisse un corno, mi sono sentito
rispondere : — O che credete che costui, che ha saputo far questo, non
saprebbe facilmente, quando occorra, anche dire chi era Sofocle, cosa
ha scritto, e via via? — E dinanzi a tanta innocenza che vogliamo rispon-
dere alla nostra volta? Che il professore di letteratura non deve rifi-
schiare ciò che è su tutti i manuali, ma presentare l'autore e l'opera
nella luce del suo spirito? che deve essere maèstro di vita? Saper fare
la Sippe dei codici d'Aristofane non prova nfente affatto che quello
capisca Aristofane: provò di capirlo invece il Romagnoli con la sua
eccellente traduzione; e poiché lo capì, seppe riprodurne anche lo spi-
rito, e ridestandone l'amore e il desiderio giovò così agli studi clas-
sici e alla loro vita vera attuale e perenne, più che non avrebbero
potuto fare mai più generazioni di filologi puri, per quanto accurati
e diligenti. Or poiché noi crediamo che l'arte, l'estetica, la psicologia,
la filosofia, tutti gli studi del pensiero richiedano sensazione chiara e
precisa, osservazione acuta e delicata, riflessione continuata, esercizio
appassionato, e speciale abito mentale, riteniamo altresì che chi crede
queste cose poterle improvvisare, con questa stessa sua credenza dimo-
stra che la sua filologia non la ha ajutato a capir niente: la filologia, il
cui vero merito era stato quello di combatter la retorica, l'ha ricon-
dotto in grembo a una retorica peggiore.
1 Io non loderò mai, per esempio, la disinvoltura di coloro che traducono una
opera d'alta arte o di pensiero senza rendere ragione del testo onde traducono, quando
«luesto testo sia effettivamente, e non immaginariamente, incerto e discutibile.
Giuseppe FraccaroV
Ma sempre che la filologia sia sana veramente, e riconosca che
ai mondo c'è anche qualcos'altro che non e di suo dominio, nessuno
si immagini che a chi preferisce studiar filologia noi vogliamo imporre
la letteratura ad ogni costo. Ciascuno scelga ciò che gli si attaglia; e
posto che i Tedeschi fossero contenti delle discipline filologiche, do-
vremmo anche riconoscere che ciò è ragionevole per loro e sufficente
e consentaneo. Il pensiero greco e latino, come non nella storia, così
neppur nelle lettere è il pensiero loro né la vita loro: è una cosa
straniera, di cui vorrebbero informarsi, un ornamento, una cultura, ma
di cui strettamente parlando potrebbero fare, e nella sostanza, si è
visto adesso, fanno anche a meno: per loro è erudizione, jroXvfiaOia.
Ci fu bensì un tempo in cui i maggiori loro filologi non disdegnarono
di essere anche esteti (Carlo Ottofredo Mueller, per tacer d'altri, ne è
un esempio luminoso); e se tale indirizzo è tra loro oggidì sempre
più pretermesso, non vorremo di ciò congratularci; ma per lo meno
sono consentanei. Alla filologia nel senso più ristretto il loro raziona-
lismo e positivismo dispone i Tedeschi egregiamente : facciano dunque
ciò che sanno fare. Ciò che la filologia tedesca ha di grande vera-
mente è infatti tutto peso, numero e misura. Le raccolte delle epigrafi,
dei documenti, dei monumenti, i lessici, le enciclopedie, i repertori, 1
manuali, tutto ciò che ha carattere di compilazione, tutto che ha o
può avere il nome di corpus^ è eseguito spesso dai Tedeschi con me-
raviglioso acume e diligenza e con un vero e grande vantaggio delln.
scienza e degli studi: io perciò continuo a servirmi con grato animo
dei loro repertori anche durante la guerra, e continuerò anche dopo
la guerra, tanto più che con repertori di filologi italiani sostituire non
li posso, perchè non ve ne sono. Per tutto ciò invece che in contrap-
posizione al corpus- potrebbe dirsi spiritas, la faccenda è parecchio
diversa. Dacché la filologia tedesca cominciò a presumere di affinarsi
in scienza pura (o così credono) e sempre più positiva, lo spirito co-
minciò a perder d'interesse, e finì col perderlo del tutto. I filologi
della storia, innocentissimi (è una constatazione del Croce),' ebbero
l'ardimento di respingere addirittura l'intromissione del pensiero nella
storia; e peggio fecero i filologi delle lettere. E ciò si spiega. Non
vediamo noi molti medici negare l'anima, perchè sotto il bisturi non
è mai capitato loro di trovarla? Così quelli hanno finito a non trovare
più lo spirito. E quando non c'è più spirito, non c'è più vita, e quando
non c'è più vita, non c'è più interesse r e così la critica tedesca ha
assunto il carattere scientifico del disinteresse, con tutte le belle con-
seguenze che di sopra abbiamo deplorate.
1 Teoria e storia della storiografia (Bari, Laterza, 1917), p. 268.
Filologia e Letteratura
Ma perchè nel mondo morale gli effetti di questo indirizzo non
siano per noi invidiabili, non bisogna per questo disconoscere i suoi
ìrutti nel campo razionale. La filologia per i Tedeschi non fu sterile.
Se dagli studi classici furono incapaci di apprendere l'umanità e la
bontà, ne hanno appreso, ho detto già, la disciplina. E da questi studi
più che da alcun altro. Se infatti la matematica ed ogni altra scienza
educa della mente la parte razionale nei limiti cui giunge quella scienza,
e un matematico fuori della matematica può essere innocente come un
fanciullo, gli studi classici invece, quando siano intesi e protessati lar-
gamente, per il loro contenuto svariatissimo, questa parte razionale
la educano tutta e la dispongono altresì indirettamente a pesare e mi-
surare tutte le manifestazioni della vita. Or limitateli pure all'analisi,
nessuno potrà a ogni modo negare che anche così non debba da essi
derivarsi un abito non più parziale ma generale di ordine e di pre-
cisione, che diventa poi una forma dello spirito. La freddezza, del resto,
di questa disciplina, se può tarpare le ali alle ascensioni, impedisce
per altro i voli d'Icaro; se non ti permette più l'entusiasmo della con-
templazione dei c^eli, ti assicura la terra sotto i piedi. E se da ogni
altra disciplina e instituto di vita in generale, dagli studi classici sopra
tutto, ridotti meramente razionali, i Tedeschi questo appresero appunto,
questo, che abbiam riconosciuto esser la loro vera forza, a sapere ciò
che si vogliono, a determinarlo, a preparare e misurare i mezzi per
raggiungere il fine, a considerar le cose sotto tutti gli aspetti, a non
trascurar nulla di ciò che può giovare a un dato scopo, a far la critica
e poi la critica della critica. Essi si esercitarono, o s'illusero, a demo-
lire la nostra arte e la nostra storia; e poiché di quell'arte e di quella
istoria l'anima era la nostra morale cristiana'ed umana, questa pure
un bel giorno credettero di aver distrutta, e le opere loro furono con-
formi a questa loro persuasione. Levato via infatti dagli studi classici
tutto ciò che non si misura e non si pesa, levato via ogni significato
morale, ritenuto superfetazione e falsità tutto ciò che non si può ri-
durre a freddo calcolo e a fredda logica, la parte razionale ne riten-
nero e la irrazionale, come debolezza, ne esclusero; superarono cioè
i nostri aviti pregiudizi della giustizia, del diritto, dell'onore, dell'uma-
nità, tutti elementi turbativi della logica assoluta. Il Nietzsche, prima
d'essere filosofo era stato filologo e aveva conosciuto perciò le teorit
di Trasimaco e di Callide, che la giustizia è danno di chi la pratica ;
e il Nietzsche negò dritto dritto la morale, la negò e la combattè. Egli
teorizzò e gli altri praticarono. I Tedeschi perciò aggredirono il mondo
civile con scientifica freddezza, quando i loro provvedimenti precisi,
cauti, minuti, analitici diedero loro buono affidamento e presso che
certezza di soverchiare, ben sapendo d'altra parte che le vittime loro
IO Giuseppe Fraccaroli
SÌ baloccavano ancora nelle ubbie da lor derise, e si fidavano perciò
ancora ingenuamente e con un abbandono così fanciullesco, da lasciarsi
cogliere prima affatto impreparati, e da farsi menar poi per il naso
mesi ed anni dalle grossolane astuzie dei principi balcanici. Questo
fu il vantaggio che ritrassero i Tedeschi dagli studi classici, ancorché
potati e sconciati al modo loro, e questo è il danno che raccogliamo
adesso noi deiraverli in tutti i modi pretermessi.*
Noi non ci sogniamo dunque di impugnare il valore che lo studio
razionale dei classici per molti rispetti, anche di gran momento, può
avere ed effettivamente ha; e poiché i Tedeschi la filologìa la colti-
vano sul serio infinitamente meglio della letteratura, hanno dunque
ragione se nelle università loro le cattedre che da noi hanno questo
titolo le chiamano col titolo di filologia: questo risponde bene al loro
programma ed al loro scopo. Non hanno invece ragione per questo
i nostri pappagalli, quando vorrebbero sostituire anche da noi « filo-
logia ». Nel progetto infatti di riforma universitaria, che da noi pende
sempre e un giorno o Taltro si spera che caschi, la sostituzione è stata
già proposta: poiché la scienza ci viene di Germania e noi corriamo
a farcene imboccare, poiché in Germania dicono filologia, è giusto
che il Mitarbeiter (si chiamano così) parli come parla il principale,
com*è doveroso che chi si fa papero si faccia menare a bere dalle oche.
Gli è che se in Germania il mondo classico può essere oggetto di uno
studio scientifico, cioè amorale (quando con le sue denegazioni non
è anzi immorale), disinteressato e demolitore, da noi lo studio scien-
tifico, se mai, non dev'essere che un mezzo per risalire più sicura-
mente non solo alla filosofia ma anche alla vita: noi di quell'antica
civiltà nostra non ci contentiamo di informarci, ma vogliamo intenderla
e goderla, e non soltanto goderla, ma continuarla; dobbiamo perciò
studiarla tutta intera, come ragione, come arte e come idea.
La filologia e la critica storica sono certo qualche cosa, e come
fondamento e substrato del filosofare e del conoscere possono essere,
e sono in moltissimi casi, indispensabili. Tu devi sapere che Platone
nacque in Atene, Aristotele a Stagira, Dante a Firenze, il Petrarca in
Arezzo, e se non lo sai, sei un asino: ma il saper questo solo non
ti fa migliore né intellettualmente né moralmente; e nemmeno il co-
noscere la prosodia di Dante e del Petrarca o la stilometria di Pla-
1 Chi vuol confrontare la serietà del Gymnasium prussiano con l'allegria del
liceo-ginnasio nostro che gli corrisponde, non ha che da badare a queste cifre. In
Prussia il latino ha in tutto il corso 68 ore d'insegnamento, e in Italia 40; il greco
in Prussia 36, in Italia 21. Viceversa perla lingua nazionale sono assegnate in Prussia
ore 24 e in Italia 49. O patria delle chiacchiere !
Filologia e Letteratura ii
tohe, che pure sonò cose utilissime a sapersi, se questo non ti serve
a vivere con Dante, col Petrarca, con Platone.* Noi non disconosciamo
niente affatto che ci son delle notizie e dei dati, senza avere i quali
questa comunione di vita non si dà: per intender, per esempio,
Nel mezzo del cammin di nostra vita,
occorre sapere che questo mezzo Dante lo poneva ai trentacinque
anni, e sarà utile anche persuaderci che questa determinazione non
era cervellotica. Qui l'erudizione, se anche non educa la mente, è
però condizione perché essa possa intendere; se non è la vita, agevola
la vita; tu devi quindi cercarla e averla cara: questa è la funzione
che riconosciamo alla filologia, quale ora la si intende; questa, e basta,
cioè di chiarire, e non già di turbare la visione.
Se infatti invece il pedante, spiegandoti, per esempio,
Chiare, fresche e dolci acque
con tutti gli accidenti della sua pedanteria, ti pianta la questione,
poniamo, se Laura si sia bagnata in una vasca, o in una pozza, o
in un fosso, o in un lago, o in un fiume, e se questo fiume losse il
Sorga, e disserta sull'uso dei bagni nel medio evo in Francia o in
Italia, tu potrai con queste notizie occupar gustosamente i fuoi ozi
eruditi, e te ne gioverai forse per altri rispetti, ma se credi con ciò
di intender meglio la canzone del poeta, credi pure che credi una
grande sciocchezza. Né sono curiosità sempre innocenti : se, per esem-
pio, frugando e rifrugando, ci dovesse risultare che Laura si bagnò
in una tinozza, ne otterremmo il bel costrutto di perdere la visione
ideale del poeta per assistere ad un fatto di toeletta intima poco o
punto attraente. Queste misurazioni insomma, quando si vogliono
applicare a ciò che non è misurabile, invece di riconoscere la impo-
tenza propria, finiscono col negare la còsa stessa in cui servigio si
adoperano : avviene per Tarte quello stesso che avviene per la reli-
gione, per ia morale e per la patria. E non potrebbe essere altrimenti.
Dice benissimo Manara Valgimigli in un aureo suo scritto,* che
mi piace qui di segnalare ai giovani (e perché non anche ai vecchi?),
quando parlando della visione soggettiva dell'opera d'arte, determina
insieme la funzione ed i limiti della filologia e della critica : < Dire che
1 Cfr. Gentile, Sommario di Pedagogia, I, p. 172, e tutto il Capitolo intito-
lato // metodo vivo.
s Poesia e traduzioni di poesia, prefazione alle Ecloghe di Virgilio tradotte da
Socrate Topi (Palermo, Sandron, 1916).
Giuseppe Fraccaroli
l'interpretazione che noi possiamo dare oggi di Omero è più compiuta
di quella che potevano darci i nostri maggiori cento anni fa solo
perchè più perfetti sono e più numerosi gli strumenti ermeneutici che
possediamo, è su per giù come dire che la impressione ch'io posso
ricevere da questo limpido mattino di primavera è più compiuta di
quella che poteva riceverne alcun altro qualche secolo fa, solo perchè
io sono in grado oggi di possedere più precìse conoscenze sulla vi-
cenda delle correnti atmosferiche e sulla loro composizione fisica o
chimica ». E poco più oltre: « Nessuno nega come e quanto di fronte
a uno scrittore sia utile mettersi nelle condizioni migliori per inten-
derlo pienamente, valendoci di tutti quei sussidi che la scienza ci of-
fre e che la nostra posizione mentale e spirituale e lo special fine a
cui intendiamo ci indicano come migliori; ma sopra tutto e innanzi
tutto sarà utile e necessario che cotesti elementi diversi siano di volta
in volta come riassorbiti dalla nostra unità spirituale fino a spogliarsi
ciascuno del suo valore di elemento singolo e fondersi tutti e quasi
annullarsi in una disposizione di più schietta semplicità e in un mo-
vimento di più viva energia creatrice: sarà necessario rinverdire di
volta in volta la nostra freschezza di sensazioni, purgare l'anima di ogni
ingombro torbido e greve, rifarci immediati e leggeri e tersi... Finché
perduri e valga la impacciante soma degli elementi analitici e non si
sia tornati agili e spediti, noi potremo fare un elenco o una cronaca
d'interpretazioni, ma non potremo né sentire né dare la interpreta-
zione nostra, che è luce di contatto diretto e sintesi suprema della
nostra anima con l'anima dello scrittore». L'erudizione insomma di
per sé sola (e la filologia è appunto erudizione) non educa la mente ;
e che un individuo o un popolo coltissimo possa essere insieme inci-
vilissimo, non deve fare meraviglia. Essa infatti studia di preferenza la
capacità dell'oggetto ad esser conosciuto e trascura di mantenere b di
educare nel soggetto la potenza di conoscere. Eppure è il soggetto quello
che più importa : il Petrarca è tutt'altra cosa per l'artista da quella che
possa essere per il filologo, come la chioma di Madonna Laura era
ben diversa per il suo amante e rispettivamente per il suo parrucchiere.
3. Ma anche i parrucchieri servono a qualcosa; e a sbrogliar le
parrucche male pettinate nessuno nega che occorra una certa abilità.
E così la filologia, poiché tira i nodi al pettine, è una tecnica utile,
la quale va studiata: va studiata, come va studiato l'alfabeto. Io non
intendo affatto perciò la filologia di distruggerla, come augurò un amico
mio in un impeto di zelo contro le male fatte dei filologi; io sono
invece piuttosto d'accordo col Croce,' che giudica i filologi « veri
l Op, cit., p. 23.
Filologia e Letteratura 13
animaletti innocui e benefici, i quali se venissero distrutti, come nella
concitazione polemica talora si augura, la fertilità dei campi dello
spirito non solo ne sarebbe sminuita ma addirittura rovinata, e biso-
gnerebbe promuovere d'urgenza la reintroduzione e l'accrescimento
di quei coefficenti dì cultura: press'a poco come dicono che sia acca-
duto di recente nell'agricoltura francese, dopo l'improvvida caccia data
per più anni agli innocui e benefici rospi». E sta bene, aggiungo io;
ma se questi benefici rospi ti vengono a saltar sulla tovaglia, o che
allora non pigli la scopa?
Io la filologia non rhi sogno dunque di distruggerla, soltanto voglio
netterla al suo posto. E tutte le cose al posto loro sono belle e buone,
anche le ciabatte e le pignatte, come spiegava Iscomaco ateniese alla
sua sposa: e quando sono fuori di posto pajono anche più brutte che
non sono e corron qualche volta dei brutti pericoli. Io, per esempio,
davanti a un matematico, a un chirnico, a un naturalista, a un giurista,
a un filosofo mi periterei molto, e starei ben attento ai moti dei suoi
piedi, quando avessi ad affermarmi suo collega nel sacerdozio della
scienza soltanto perchè io sappia, forse che sì e forse che no, leggere
un'antica scrittura, copiarla, collazionarla e registrarne le varianti. Gli
è che il naturalista, il matematico, il chimico non hanno per fortuna
alcuna idea di questa così détta scienza nostra, e poiché la senton
chiamar scienza, , credono che sia, e ci pigliano sul serio. In realtà la
si direbbe meglio tecnica, tecnica utile per certo e necessaria: una
tipografia deve avere buoni compositori e buoni correttori ; e un notajo,
se ha da essere notajo (e io lo so, perchè ne ho fatta la pratica),
deve eseguire le copie degli atti conformi esattamente al loro origi-
nale. O la diremo scienza perchè è ordine? Anche i più umili mestieri
allora sono scienza : o perchè il ciabattino, che pianta in ordine i suoi
punti nella suola, non potrebbe anche lui fregiarsi di tal nome? Ma
il primo ordine, come ho detto da principio, è quello di stare ciascuno
al posto suo: è il filologo che resta al posto suo e presta la sua opera
diligente e coscienziosa e faticosa, è perciò una persona rispettabi-
lissima come uno scienziato, e forse di più, in quanto che creato da
Dio con un cervello che poteva ascendere forse alle altezze del pensiero,
si contenta invece per il bene comune di strisciare terra terra prepa-
rando con pazienza i fondamenti su cui altri dovrà edificare. Io non
lesino afflitto la mia ammirazione a questo martire, come non la lesino
a chi insegna quella. cosa anche tanto più utile che è l'alfabeto, sempre
che né l'uno né l'altro imbizzarriscano al punto di credere che, oltre
quelle parole e quelle lettere delle quali studiano le forme, non ci sia
altro di più importante da vedere.
E acciocché nessuno pensi ch'io esageri, o che parli male della
Giuseppe Fraccaroli
filologia solo perchè è roba che viene di Germania, e questo è ora
l'andazzo, sentiremo ancora a rincalzo Benedetto Croce, che non è
mangiatedeschi certamente. Dopo aver detto ^ che in Germania « la
mutria pedantesca fiorisce meglio che altrove e..., per effetto dello
stesso abito ammirevolissimo della serietà scientifica, la scientificità è
assai idoleggiata, e questa parola viene ambiziosamente adoperata per
ogni cosa che concerna i contorni e gli strumenti della scienza vera e
propria», egli soggiunge: «Ma in Germania ogni meschino copiatore
di testi e collettore di varianti e scrutatore di dipendenze tra i testi
e congetturista del testo genuino, si eresse a uomo di scienza e di
critica, e osò non solo guardare a faccia a faccia, ma con superiorità
e dispregio, come uomini antimetodici, uno Schelling o un Hegel, un
Herder o uno Schlegel. Dalla Germania si diffuse questa mutria
pseudo-scientifica negli altri paesi d'Europa, e ora anche in America :
sebbene in altri paesi incontrasse con più frequenza spiriti irriverenti
che ne risero». E ridiamone dunque anche noi.
Ad ogni modo, anche se è tecnica, io non disconosco che la filologia
per apprendersi a dovere chieda studio lungo, disciplina ed esercizio,
e a farsene padroni veramente non sia da prendere a gabbo. Io non
nego dunque ma affermo che la si ha perciò da insegnare e si ha da
obbligare gli scolari ad impararla, per quel tanto almeno che è loro
indispensabile. Ebbene, nelle università nostre c'è già una cattedra di
grammatica latina e greca, sul cui contenuto ancora si discute, e che
fino ad ora non ha servito ad altro in generale che ad arrotondare lo
stipendio a parecchi professori o ad esser come un premio di conso-
lazione a chi a vincere la corsa non sarebbe mai riuscito altrimenti:
perchè non potremo noi questa, determinandone meglio la materia,
chiamarla filologia nel senso che s'è detto, e far tutti contenti? No, non
vogliono. È la letteratura quella che dà noja ai Tedeschi d'Ualia. Se
mai si degnano dì curarsene, vi appiccicano graziosamente l'epiteto
di amena, e se con questo intendono di serbare per la filologia quello
di nojosa, faccian pure. Ma che amena d'Egitto? Letteratura vuol
essere arte e pensiero vivo; e in una cattedra di letteratura, fino a
che serbava questo nome, c'era sempre il pericolo, scongiurato per
vero molte volte, che si intrufolasse qualcheduno che valesse di più
per le doti del cervello che per quelle del filo della schiena, qualche
aruspice che non fosse allenato a tenersi dal ridere incontrando un
altro aruspice; non hanno torto perciò, se corrono ai ripari. Cos'è
questo scandalo d'un insegnamento che presume d'esser vivo? Cos'è
quest'ambizione di voler capire qualche cosa di ciò che le lettere
1 Op. cit, pp. 268-69.
J
Filologia le Letteratura 15
dell'alfabeto significano? In una certa relazione ufficiale di concorso
mi si assicura si trovi affermato, non essere necessario per un filologo
avere ingegno; e questo credo anch'io: ma quando, e non ci vorrà
molto, si avrà il coraggio necessario a fare un passo di più, sentiremo
dire che per un filologo l'ingegno è anzi dannoso. E allora da maestri
senza ingegno impareremo davvero delle bièlle cose!
Per tal modo quel dissenso tra la scuola e la vita, che si lamenta
nelle scuole secondarie, non che attenuarsi, anzi si aggrava e si fa
insanabile nelle università: la scienza e la pratica infatti, invece di
collaborare, molte volte si ignorano tra di loro, e ignorandosi si disisti-
mano a vicenda. Di chi è la colpa? Non vi ha dubbio che i pratici ne
hanno la lor parte, ma non si potrebbe affermare per altro che ne
abbiano di più dei teorici. Io non so degli altri studi, ma dei miei
posso ben dire. Che cosa c'è di più vicino alla vita di un popolo della
sua letteratura? E a noi che cos'era più vicino della letteratura dei
nostri avi? E adesso che cosa è più lontano? Dire che la scienza ha
ucciso l'arte, è una risposta che qui non può aver luogo. Anche con-
cesso che questa la sia scienza, dove sono i suoi prodotti? Dove sono
le sue costruzioni? Dove sono gli autori, i fatti, le cose, i pensieri
dell'antichità, alla ciii conoscenza e intelligenza abbia contribuito vera-
mente? Qual è, o signori filologi dal metodo dei metodi, il cibo spirituale
di che abbiate nutrito il popolo nostro, o per esso coloro che dovevano
esserne i maestri ? In questo nuovo risorgimento, per esempio, di tanti
testi classici, e parecchi pieni d'interesse, pubblicati di sui papiri spe-
cialmente in Germania e in Inghilterra, quali e quanti sono quelli che
abbiate illustrato, integrato, emendato, di cui abbiate cercato di deter-
minare il valore letterario, storico, filosofico, che abbiate collocato
al posto loro nello svolgimento dell'arte o del pensiero? Bacchilide?
Non sarei scortese da ricordarvelo, se con cotesto bagaglio e cotesti
precedenti non v'atteggiaste, proprio voi, a tutori e detentori esclusivi
della serietà della scienza e degli studi. Che vis de dal che devi avegh !
diceva quel Milanese, quando sentiva smargiassate di tal fatta. Inten-
diamoci bene : io non li metto tutti in un mazzo ; e anche tra i filologi
nostri, non ostante i disaccordi totali o parziali, ne riconosco di seri,
dai quali so bene che potrei imparar molto : il lavoro infine, purché
onesto, qual ch'esso sia, non fa torto ; è l'inerzia quella che fa torto.
Non è perciò di loro né per loro ch'io parlo ;
Io parlo per ver dire,
Non per odio d'altrui né per disprezzo;
lo parlo per amor di questa nostra Italia, cui in buona fede o in mala
fede, per ignoranza o per leggerezza, per vanità o per mancanza di
i6 Giuseppe Fraccaroli
carattere, si vengono essiccando le fonti della vita ; io parlo perchè è
ora di finirla con cotesta ciarlataneria cosciente o incosciente, che ti
riempie la bocca di paroloni, di scienza, di metodo, di ragù di lepre
senza lepre, e ti vuota il cervello. Tutto ciò che non corrisponde alla
nostra natura riesce male : noi potremmo diventare filologi solo comin-
ciando ad essere artisti ; noi abbiamo bisogno di amare per sentire il
bisogno di conoscere; noi dobbiamo commuoverci alla passione di Saffo
(e per qualche cosa di più alto e di meglio che per andar la sera al
bordello, come qualche filologo ha senza richiesta sui giornali confes-
sato), dobbiamo esaltarci al volo di Pindaro, dobbiamo ridere alle beffe
d'Aristofane, perchè ci venga voglia di indagare le particolarità della
loro lingua, della loro ortografia, della loro metrica: questo è l'ordine
naturale delle còse; e se noi. seguiamo quest'ordine, è segno che siamo
ancora vivi. Il processo contrario infatti da noi ha dato frutti mise-
randi, appunto perchè per noi è contro natura, e tutto ciò che si fa
contro natura affatica ed accascia: filologia e nevrastenia si corrispon-
dono da noi ben più che non sì creda. Grandi propositi, grande pre-
sunzione, grandi progetti, grandi programmi, grande fumo; ma in
sostanza, in confronto dell'operosità tedesca, cui sommariamente ho
testé accennato, la scuola filologica tedeschizzante da noi non ha pro-
dotto che qualche trascrizione, qualche collazione e qualche catalogo
di codici. E così avviene che per gli studi classici manchino in Italia
i libri anche più elementari, o se c'è qualche cosa, non sia merito né
opera dei filologi puri. Essi hanno scelto per impresa una comoda sen-
tenza di Callimaco, néya pipXiov fiéva xaxóv, cioè * libro grande porche-
ria grande*; e preferiscono perciò fare porcherie piccole, almeno in
estensione. Si è lamentato e ancora si lamenta che i testi che si adope-.
rano nelle nostre scuole siano tedeschi in massima parte, e ci si grida
a gran voce di sostituirli. Con che? È perfettamente inutile, ci ha am-
monito a ragione qualcuno di costoro, tentar la concorrenza con le ditte,
germaniche, quando non abbiamo intanto niente di niente. Ma se que-
sto fosse vero, come rispetto a voi è vero certo, si può rispondere e
fu già risposto, — che ci stavate voi a fare? O eravate incapaci, o
avevate un osso nella schiena, o l'intesa era di non far concorrenza
alla Germania: scegliete voi. E così per quasi mezzo secolo questi bei
signori non hanno cercato altro che d'imporci la roba tedesca e la
mentalità tedesca ; sapere il tedesco prima del greco e del latino, scri-
vere in tedesco, mettersi in coda dei Tedeschi, farsi corregger dai
Tedeschi, esser bene quotati in Germania, disconoscere e finger d'igno-
rare le produzioni del pensiero nostro che non sian compilazioni da
libri tedeschi, compatirle al più come dilettantismo (perfino il Compa-
retti, il grande maestro, ci sono or certuni che lo compatiscono); —
Filologia e Letteratura 17
e tutto questo tedescume che Italiani volete che ci educhi? Questa è
la bella educazione nazionale a cui si collabora in certi nostri atenei ;
poi i più promettenti di saperla diffondere si mandano a perfezionarsi.
Dove? In Germania, sempre in Gerniania,i dove sovrapponendo alla
mentalità propria, se ne conservavano ancora quafche traccia, la men-
talità altrui con danno dell'una e dell'altra, ci ritornan poi giù col cer-
vello ridotto una ciabatta, e scrivono cose, se mai ne scrivono, dove
non c'è più neanche il senso comune. Questa è la mortificazione intel-
lettuale, a cui vogliono condurci, e per quanto fu in loro ci hanno già
condotto, i banditori del verbo germanico. Non ci sarà malizia certa-
mente, perchè tra loro vi sono anche di quelli che non si fanno affatto
pregare a gridare adesso — viva l'Italia ! — occorra o non occorra.
Meglio assai però farebbero costoro a lasciar stare le vociferazioni, e
a procacciare invece di modificarsi loro nel loro spirito, nei loro atti,
nei loro abiti, di riscattare la loro e la nostra mentalità, che vale molto
più della terra irredenta. Badiamo ai fatti, amici miei. Lo spionaggio
culturale tedesco bollato da Ezio Maria Gray nel suo santo libro Viti-
vasione Tedesca in Italia, c'è chi crede che continui anche adesso. Siete
voi vigili abbastanza? Avete respinto le transazioni, le raccomandazioni,
le sollecitazioni, le imposizioni che vengono direttamente o indiretta-
mente dai nemici nostri? Siete sicuri che i perfezionati sappiano edu-
care nelle vostre scuole anime italiane, o non propaghino invece il
contagfo onde sono infetti essi medesimi? Non si dovrebbe veramente
dubitarne: o che gli altri starebbero a ridere e a guardare?
4. Mi si perdoni questo sfogo che non è che risposta a recenti
improntitudini, e ritorniamo in carreggiata.
La filologia, ho detto, è sorella minore della retorica, e 'degenera
perciò con analogo processo: degenera anch'essa, e più della reto-
rica, quando dallo studio dei fatti e dalla constatazione dei pesi,
numeri e misure presurne tirare conseguenze e fissare leggi che vanno
al di là di questi limiti. Un esempio: quando la filologia riesce a
dimostrare, se pur ci riesca, che il dialetto di Pindaro è differente
in questo e questo dal dialetto dei poeti a lui più affini, quando se-
gnala certe forme sue speciali di sintassi, essa accerta dei fatti inte-
ressantissimi, che possono aprirci notevoli spiragli per veder dentro
alla sua anima: quando ne inferisce che Pindaro dunque non sapeva
1 De' miei scolari in Germania non ne ho mandato mai nessuno, né ho mai pro-
posto di mandarne: non sono un convertito. E se anche lo fossi? Ricredersi d'una
sciocchezza o d' un errore è stato sempre, è e sarà sempre indizio di serietà e ragio-
nevolezza. Si è convertito anche S. Paolo : e nessuno mai lo ha accusato d' incoerenza
o di mancanza di carattere.
2 — Nuova Rivista Storica. *
i8 Giuseppe Fraccaroli
bene la lingua che scriveva, fa delle chiacchiere. Vi capacita? E
che la filologia su questa china sia disposta a scivolare più assai
della retorica, è anche facilmente spiegabile : la retorica, l'abbiamo già
detto, movendo dalle forme della vita, ti vuol rifare almeno una larva
di vita; falsificando il pensiero te ne fabbrica almeno un, sia pur
cattivo, surrogato: la filologia movendo dalla materia, a furia di tra-
scurare il pensiero e di eliminarlo, finisce a disprezzarlo: èssa si limita
a dissecare e a ricomporre dei cadaveri, e poi se li ammira e se
li gode.
Il vaniloquio filologico poi è piti pericoloso di quello retorico ap-
punto per il suo substrato di oggettività. Se uno stampa una disserta-
zione, poniamo, sulle unità della tragedia, io posso facilmente dispen-
sarmi dal leggerla; ma quando si tratta di fatti, non si sa mai, se in
quella piccola o grande porcheria non ne sian segnalati uno o due
nuovi, o se per lo meno non siano ordinati in modo nuovo, o messi in
qualche nuova relazione. Il più delle volte non c*è niente; ma intanto
bisogna leggere e perdere il tempo e confondersi la testa. E così il vani-
loquio dilaga sempre più ; e T infatuazione della filologia per la filologia
trova più facile esca di quella della retorica per la retorica : la critica
positiva traligna in critica avvocatesca : si cerca la tesi per la tesi, la que-
stione per la questione, la disputa per la disputa; ci si mette di punta per
dire diverso dagli altri, per essere più acuti, per mostrarsi più scettici,
per sbalordire con l'erudizione, le citazioni, la sicumera. E così adesso
per leggere una pagina di un classico bisogna acconciarsi al bel diver-
timento di leccar via le allumacature di un centinajo di semi-idioti che
vi han strisciato sopra la loro impurità ; ed è un miracolo di Dio se non
se ne resta infettati. Se non lo fai, ti senti dire che non sei al corrente
della scienza, che non hai preparazione bibliografica, che non tieni
conto dei più recenti risultati. Ma se per arrivare al banchetto della
ambrosia devo scavarmi il passo in mezzo a una montagna di guano,
ne avrò lo stomaco tanto sconcertato, da non sentir più tra guano e
ambrosia differenza. Accade infatti che non si faccia ora più caso se
non si arriva a leggere per disteso Omero, Pindaro, Eschilo, e conosco
di quelli che si professano filologi e verisimilmente non li hanno letti
ancora ; adesso importa raccogliere e ammirare e ribiasciare le cache-
relle che hanno evacuato in lor dispregio coloro che non ne hanno
mai capito niènte. E ci son dei disgraziati che passano la vita in co-
teste sporche occupazioni.
Non c'è schiavitù peggiore di quella dello spirito. Noi dobbiamo
bensì avere l'anima aperta ad apprendere, se c'è cosa utile a sapersi,
da qualunque parte essa venga : sissignori, ma dobbiamo per altro anche
guardare che merce è quella che ci si vuol vendere, ma non dobbiamo
Filologia e Letteratura 19
mutare la nostra forma mentis, né rinunciare al nostro senso d*arte.
È critica poi anciie questa, anzi è critica di critica. Così potremo, per
addurre un altro esempio, accettare le constatazioni che fa il Wilamowitz
sulla poesia narrativa delle donne di Beozia, ancorché la via più corta
e più sicura sarebbe chiederle ai frammenti stessi di Corinna, dai
quali egli le attinse e derivò; ma non abbiamo nessun obbligo al
mondo, né convenienza, né scusa di affrettarci a raccogliere insieoie
l'idiosincrasia di cotesto signore, e ripetere con lui, che la produzione
poetica delle donne di Beozia a noi piace moHo pia che non le stuc-
chevoli opere rapsodiche attribuite ad Omero e ad Esiodo,^ Queste parole
1 Questa bella facezia è stata bollata già in Minerva e lo Scimmione dal Roma-
gnoli, cui l'avevo indicata io (e lo dico per assumerne la responsabilità), come a me
era stata indicata già da altri. E hanno avuto il coraggio di difenderla! L'autore degli
Appunti sullo Scimmione, risponde con aria quasi di pietà : « Le sganasciate opere
dei rapsodi che vanno sotto i nomi di Omero e di Esiodo... « non sono n^ V Iliade
NÉ VOdissea ». Il maiuscoletto e i puntini sono suoi. E l'amico che gli ha aggiunto
le postille ribadisce con altrettanta sufficenza : « Del resto è chiaro come il sole
che le sganasciate opere sono roba ciclica». Ma benone! Limitiamoci a Omero: il
Wilamowitz parla in tempo presente : a noi piacciono molto di più (uns sehr viel
tesser behagen) delle opere" rapsodiche che vanno (treten, tempo presente) sotto
il nome di Omero. Quali sono le opere che vanno, tempo presente, sotto il nome di
Omero? L'Iliade e l'Odissea; e punto e basta. Andavano, sì o no, sotto il suo nome
i poemi ciclici, o alcuni di essi, ma per lo meno dagli Alessandrini in qua non vanno
più. Andassero pure, dove sono le rapsodie cicliche che a noi (uns) non piacciono?
Sapete cosa sono i poemi ciclici? Sapete che cosa ne rimane, da poter dire se a noi
piacciono o non piacciono? Opere rapsodiche neanche una, neanche mezza, ma solo
pochissimi e miserabili frammenti, il più lungo dei quali giunge appena a dodici
versi (e non si vede poi perchè dovrebbe dirsi sganasciato). Questo è il metodo critico
che imperversa ancora a Firenze: o come non c'è chi senta il bisogno di respingere
il ridicolo di una presumibile acquiescenza o connivenza? Ha parlato un Tedesco?
Venite, adoremus! Si curassero almeno d'intenderlo ! Le parole del Wilamowitz hanno
un senso solo, chiaro, lampante (altro che il sole!), brutale, indiscutibile : /^ opere che
vanno sotto il nome di Omero e che a noi piacciono o dispiacciono, sono l'Iliade e
l'Odissea ; e non gli piacciono. Non gli piace neanche Pindaro ; non c'è dunque di
che meravigliarci. Volete cambiargli la testa? A me però vien quasi voglia di difen-
derlo contro i suoi stessi difensori, che giustizia è dovuta anche ai nemici. Il Wila-
mowitz infatti sa benissimo ciò che resta a noi dei poemi ciclici, e sa che nessuno li
attribuisce più ad Omero ; egli sa altresì, e non possiamo fargli l'ingiuria di 4>unto
dubitarne, che quando si vuole per mezzo di un confronto lodare checchessia, il con-
fronto dev'essere con cosa o persona che vale o comunemente si crede valga molto.
Io potrò dire che mi piace più Dante di Virgilio, e intendere con questo di lodarlo :
non lo loderei punto se dicessi che mi piace di più di fra Giacomino ; e soltanto direi
una sciocchezza. Il confronto perciò di Corinna coi poemi omerici, che tutti ammirano,
a Corinna faceva onore; non gliene avrebbe fatto invece quello con poetastri (posto
che fossero) che si soglion citare come poveri di spirito. Il Wilamowitz infatti mostra
altrove di avere d'Omero un buon concetto, non però del nostro Omero, ma di quello
ch'egli rabbercia e pota a modo suo, con quel buon gusto di che abbiamo ormai
20 Giuseppe Fraccaroli
le copio da un lavoro filologicamente non mal compilato intorno a
Corinna, opera d*uno studioso che probabilmente fu perfezionato in
Germania, come ci pare dalla riverenza religiosa con cui riferisce tali
espettorazioni. È vero che de gustibus non est dlspatandum, come diceva
quel gatto ;, ma bada, figliuolo, vorrei dirgli, che dopo di questo non
c'è più che il manicomio. Altro che futurismo! Questo è ciò che si
importa ora di Germania; e ho citato questo esempio, solo perchè
è Tultimo che mi è occorso di trovare, e perchè chi lo riferisce non
ha affatto Tarla di un vanesio che parli a caso, ma sembra che vera-
mente intenda di esprimere una sua scientifica e meditata persuasione:
thoagh this he madness, yet there is method in*t\ l'ho citato perchè le
affermazioni generiche lasciano il tempo che trovano, e i fatti parlano
più chiaro al nostro ingegno.
Però che solo da sensato apprende
Ciò che fa poscia d'intelletto degno;
sebbene questa volta si potrebbe correggere, e dire che apprende da
insensato.
La filologia insomma e la scienza tedesca (s'ha da metterlo in
musica?), in ciò che hanno di buono, che non è poco, noi non ci
sogniamo né di rigettarle né di disprezzarle : ciò che i Tedeschi hanno
pesato bene, è pesato bene anche per noi. Quanto invece al pensare,
che è per lo spirito ciò che il pesare è per la materia, non possiamo
delegarlo né ai Tedeschi, né ai Francesi, né a chi che sia. Non è una
rinuncia che ci convenga in alcun modo, e ,gli esempi di essa che ora
abbiam citato non pajono davvero incoraggiarci a questo passo.
Ancora: ciò che le altre nazioni hanno di buono, se è buono per
quelle, può essere meno buono, o anche cattivo per noi. Una pelliccia
è eccellente a Pietrogrado ; ma io ho veduto dei disgraziati grondar
di sudore indossandola sotto il sole di Palermo, forse perchè nella
loro testa (e testa non vuol dire altro che pignatta) pareva loro questa
un'eleganza. Ciascuna cosa a posto, amici miei ; e sei per esempio, il
Wagner ha scritto delle opere che durano intere giornate, egli sapeva
di poter contare sulla costanza, sulla pazienza e sulla deferenza del
tante prove: ciò che d'Omero non gli^ piace, ed è una buona parte, son per lui rapsodie
male attribuitegli (ma attribuitegli però sempre veramente, perchè la sentenza d'espro-
prio non diventerà mai esecutiva), roba famosa e lodata generalmente, ma per lui roba
sganasciata: a questa perciò, alle presunte interpolazioni dei rapsodi, con tutto che
altri le ammirino, egli intendeva forse dire che Corinna è preferibile. Le sue parole
non dicono cosi, ma l'intenzione può esser stata questa: è un giudizio che non divi-
deremmo ; ma sarebbe per lo meno un discorso che fila.
Filologia e Letteratura 21
SUO pubblico ; mentre da noi chi facesse altrettanto lo si manderebbe
a farsi benedire. Conoscere perciò quello che fanno gli altri non c'è
dubbio che sia utile; ma precipitarsi ad imitarlo è piuttosto da scimie
che da uomini. Né solo quando, come negli esempi ora addotti, la
imitazione è per sé stessa insensata, ma anche quando potesse parere
in sé indifferente. Una casa di stile francese o tedesco, per esempio,
può essere tanto e più comoda ad abitarvi di una casa di stile italiano,
e vogliamo anche ammettere per un momento che esteticamente sia
altrettanto decorosa; ebbene, ma da noi è fuori di posto, non ha storia,
non ha ragione, non ha continuità, non s'intona. Un capriccio? I capricci
ammissibili sono quelli che non escono dal nostro carattere, dalla nostra
indole; quelli invece che n'escono, non sono altro che sciocchezze.
Se la bionda ci tiene a conservare la sua biondezza, e rispettivamente
la bruna, o che crederemo che il colore dell'anima importi meno che
sia conservato del colore dei capelli ? Or quanto più noi siamo disformi
da un altro popolo, meno ci si adatta ciò che per quel popolo sta
bene: se la bionda può cercar di spandere riflessi d'oro, la bruna cerchi
invece lucentezza d'ebano o carezza di viole: se l'anima tedesca è
più razionale, la nostra é più appassionata ; se quella è grave 'e com-
passata, la nostra ride; se quella dissolve, la nostra rifonde ;... lasciamo
stare le bizze dei fanciulli, che vorrebbero ciascuno essere il più bello:
siamo belli tutti, purché ciascuno s'accontenti di essere quello che è,
si educhi conforme a cotesta sua propria natura, e faccia quello che
sa fare.
5. Certamente colui che studia lo spirito, tratta un'essenza che a
non stare bene attenti si volatilizza facilmente, e chi tratta i corpi,
ha r impressione di avere sempre qualche cosa salda tra le mani. Mi
diceva una volta un valente grammatico : la differenza è, che noi filologi
sappiamo di un poeta dare delle spiegazioni positive, e voi esteti non
sapete dir altro che bello ! magnifico ! — Ebbene ; è vero che noi non
sapremo forse pigliare il toro per le corna; voi invece lo pigliate per
la coda, e vi pare di averlo già, se ve ne resta in mano qualche pelo.
Sta in fatto che l'estetica e la filosofia procedono di sintesi in sintesi,
e la filologia di analisi in analisi : l'estetica, per esempio, nega i generi
letterari, la filologia li moltiplica; e si ignorano a vicenda: ora è
consentaneo che chi discende alla pluralità della materia trovi più
occasioni di chiacchierare, che non chi risale all'unità dello spirito.
Del resto non è del tutto vero che ci riduciamo solo a dir bello!
magnifico! Francesco De Sanctis disse dì meglio. L'estetica, se mai,
si arrischia anzi troppo spesso a dir molte più cose che la prudenza
non le consiglierebbe : essa si dimentica qualche volta che l'oggetto suo
è la conoscenza intuitiva, e si dà a ragionare, come si trattasse di
22 Giuseppe Fraccaroli
conoscenza logica. Ad ogni modo, poiché essa investe tutto intero il
fenomeno sensibile nella sua essenza e non, come la filologia, soltanto
nei suoi accidenti, le sue conclusioni sono, anche così, ben più sostan-
ziali e probative che non le constatazioni preparatorie e particolari
della scienza presunta sua rivale.
Ma, per non divagar troppo, poniamo per un momento che ci ridu-
ciamo a un*esclamazione, — come del resto fanno anche i vostri
Tedeschi, più o meno filologi, quando ci ruzzolano giù dalle Alpi, che
non sanno dir altro che kolossal! kolossal! -- e che perciò? Voi cre-
dete, sì vede, che uno stato d'animo non si possa comunicare agli altri,
se non formulandolo in un discorso razionale ben diviso e ordinato' in
soggetto, predicato e complementi.* Povera umanità se la fosse così,
e disgraziato quel popolo nel quale un sì misero modo di comunicazione
è prevalente ! Non vi siete mai trovati in una folla, in un teatro, in
•un tempio, in una battaglia, a una festa, a un funerale? Non avete
mai amato ? E in iscuola ai vostri scolari non avete mai parlato anche
con gli occhi? e gli scolari a voi coi loro? Se leggendo, per esempio,
l'ultimo libro deWIllade potremo esercitare la nostra diligenza filolo-
gica esaminando i fatti linguistici e storici e le altre Realien, se potremo
aguzzare il nostro acume artistico osservando con quanta sapienza e
con quanta umanità vera la chiusa del poema si collega col principio,*
e i due riscatti di Criseide e di Ettore, non solo segnalino la diffe-
renza profonda tra il carattere d'Achille e quello d'Agamennone, ma
ci rappresentino in atto il valor morale di tutta la favola; quando
finalmente assisteremo al pianto concorde e irrefrenabile di Priamo
e di Achille, il vecchio e il giovane uguagliati dal dolore, quale formula
logica vorreste voi trovare per esprimere questo estremo di poesia?
O davanti alla Pietà di Giovanni Bellini come vi pensereste di signi-
ficare con parole questo estremo dell'arte? Non v'è che cercare una
altr'anima sensibile ed amata a cui stringerci, con cui fonderci insieme
nella visione, nella commozione, nell'esaltazione, nel silenzio, al di là
di ogni ragione e di ogni logica. Non vi pare che basti ? Se non avete
mai amato, se siete incapaci di amare, ci farete per altro anche il
famoso piacere di credere che ci sia al mondo pure chi ama, e perciò
nella cosa o persona amata trovi altri diletti e compiacimenti maggiori
dì quello di fare la statìstica degli elementi che la costituiscono. La-
sciateci vivere, questo è ciò che vi chiediamo; lasciateci esercitare
i Osserva acutamente e a proposito il Bergson {Les Honnée immédiates de la
conscience, XX» ed., p. 103) che « celles-là seules de nos idées qui nous appartiennent
le moins sont adéquatement exprimables par de mots ».
« Di ciò ho discorso nel mio libro L'Irrazionale nella Letteratura, pp. 184 sgg.
Filologia e Letteratura 23
tutte le nostre facoltà. Agli affetti sani conculcati si possono, se
no, sostituire delle degenerazioni patologiche. Dice la leggenda che
Sant'Antonio, che aveva in sé represso ogni spirito d'amore, terminò
a innamorarsi d'un majale; e qualcosa di simile accade a quei filologi,
o aspiranti a filologi, che vanno in estasi davanti ai frammenti di Co-
rinna o alla Cldlppe di Callimaco, o che pigliano Timoteo per un
grandissimo poeta.
Ma, rispondono, anche la vostra ammirazione per Omero non si
può dimostrare sia più legittima. Non si pilo dimostrare razional-
mente; non solo lo concedo, ma lo affermo: noi però abbiamo con
noi il consenso di tutto il genere umano; e questo vuol dire che se
le rapsodie attribaite ad Omero per voi sono stucchevoli^ ciò avviene
non perchè Omero ne abbia colpa, ma per un vostro traviamento pato-
logico. L'estetica è, si o no ?, lo studio del bello sensibile? E se è sen-
sibile, ci può essere di esso un giudice più competente del senso? E
il senso normale credete voi sia il vostro proprio, o quello di tutta
la specie? E Omero fu ritenuto sommo poeta forse da una cricca
di compari, che gli abbian battuto intorno la gran cassa? o da un
cenacolo d'intellettuali, che abbiano lanciato la sua moda? o da una
scuola di dotti, che avessero interesse professionale di lodarlo ? o non
piuttosto da tutta la grecità, da tutta la romanità, da tutta la civiltà,
da tutta l'umanità spregiudicata? Voi dimenticate, cari signori, due
verità importantissime: l'una è che, nelle cose che non si possono
matematicamente dimostrare, il senso sano della specie e il relativo
consenso generale costituiscono una presunzione di cui si deve tenere
molto conto, e che perciò se a voi piacciono più i calcinacci che lo
zucchero, non vuol dire affatto <!he voi abbiate ragione e gli altri torto.
Quando dunque il lodato signor di Wilàmowitz vi dice in un altro
luogo * che « il parlare di un carattere unico dell'Achille o dell'Ulisse
omerico è una pazzia », io non dirò che questa sia l'ultima parola
della scienza, ma penserò piuttosto malinconicamente quanta prudenza
anche l'uomo più dotto, giunto che sia a una certa età, dovrebbe avere
prima di contraddire il giudizio concorde di tutto il genere umano sen-
ziente e pensante, quando più facilmente che questo il pazzo rischia
invece lui di parere l'involuto. Sono disgrazie che succedono. Né il per-
ché ch'egli vi appulcra lo scagiona : « perchè », dice, « poeti diversi
concepiscono l'eroe medesimo in modo diverso ». Arcibenissimo ; que-
sta però, se mai, sarà la prova che lì non ci sono poeti diversi. —
L'altra verità è questa appunto, che non nel ragionamento ma nella
ammirazione contemplativa la ricerca del bello ha il suo termine, e
i Die griechische Liti, und Sprache^ p. 12.
24 Giuseppe Frac caroli
che per conseguenza l'artista potrà nella scuola comunicare agli altri
il suo sentimento anche senza parlare, come facea, per esempio, Gia-
como Zanella mio maestro, mentre il retore e il filologo, in quanto
retore e filologo, non possono neanche parlando, per la semplice ragione
che non si comunica altrui ciò che non si ha.
6. Filologia insomma sta a letteratura come la materia allo spirito,
la veste alla persona, il fiasco al vino, ciò che è accessorio a ciò che
è sostanziale. Certo le belle vesti e i buoni fiaschi non sono cose indif-
ferenti per il buon vino e i bei corpi ; soltanto crediamo che i fiaschi
e le vesti normalmente sian fatti per contenere il vino e i corpi, e
non già il vino ed i corpi per riempire le vesti e i fiaschi vuoti ; e
perciò la vostra indifferenza e sufficenza per il contenuto e chi se ne
occupa è... come potrei dire?
Per lo meno si potrebbe ritenere che il lavare i fiaschi e raccon-
ciare le vesti sia un'occupazione che debba avere poi un termine ; e
quando, poniamo, a Sofocle avremo accomodato il tabarro com'è nella
statua in Laterano, non c'è nessun bisogno di tornare da capo: c'è
bisogno solamente di sentirlo parlare. Non facciamo così forse anche
noi ? Quando il sarto ci ha già preso le misure, se non siamo poi ingras-
sati o dimagriti, come a Sofocle è un po' difficile che accada, è inu-
tile che ce le prenda un'altra volta. Invece no ; è anzi allora il bello
di cominciare. Si sa bene; non c'è che Dio che non sia passibile di
miglioramento, e per tutto il resto il campo è aperto ed infinito ; e così
tutti vogliono provareisi : quel tabarro così pende bene ; ma io crederei
che penderebbe meglio a tirarlo un ditino più su, e tu a tirarlo un
ditino più giù: tiriamo dunque; e tira che ti tiro, e il divertimento può
continuare per tutti i secoli de* secoli,' — ne siamo persuasissimi anche
noi. Così, con la solita scusa del solito famoso sassolino, ciascuno vi
schicchera il suo componimento, e appiccica sempre nuove incrosta-
zioni, e dàlie una e due e tre e cento, si seppellisce non solo il tabarro,
ma anche la figura. Quando uno per intendere Sofocle debba consu-
mare prima una notevole parte della vita intorno alla sua bibliografia,
ha anche ragione di pensarci due volte prima di accingersi all'impresa.
Questo è il bel risultato di sì fatta retorica della filologia.
Checché sia di ciò, questo almeno è certo, che in quanto la filologia
presume di esser scienza e ne assunse il metodo e gli scopi, in tanto
dovette essa perdere, se mai l'avesse avuta, anche ogni funzione sociale.
L'arte è di tutti, la scienza non può essere che di pochi e facilmente
numerabili, e la filologia perciò, posto che sia tale, deve essere trattata
come le altre sue sorelle. Se però non sarà pane per tutti, potrà essere
companatico per pochi ; e che si cerchi, con un po' più di studio, un
po' più di buon lavoro e un po' meno di ciarlataneria, di mettere in-^
Filologia e Letteratura 25
sieme anche da noi un manipolo meno sparuto di filologi veri per dav-
vero, che anche in questo campo rappresentino non risibilmente né mi-
serevolmente l'operosità nostra, è un onesto e lodevolissimo desiderio
ed è ufficio e parte anche questa non trascurabile dell'insegnamento
universitario, come di sopra abbiam riconosciuto. Ma non potrebbe
questo aver che fare con l'educazione né universale né nazionale, più
che non ci abbia che fare la chimica, la fisica, l'astronomia, anzi infini-
tamente di meno. Se diventassimo infatti tutti astronomi, la disgrazia
sarebbe molto minore che a diventar tutti filologi ; poiché il misurare
la distanza delle stelle ci può far meditare utilmente sulla nostra nul-
lità, mentre il conoscere la gerarchia dei codici di Eliano, che effetto
morale possa avere, aspetto ancora uno che me Io dica. Se mai, come
scienza o pratica tediosa, meticolosa e minuta, la filologia, presa da
sola e senza alcun contravveleno, non può che immiserire e invilire e
rimminchionire chi la professa ; e pur troppo ho notato dei casi dolo-
rosi di tali fenomeni, che nort saprei spiegare plausibilmente in altro
modo.
Il fabbricare dei filologi perciò dev'essere uno scopo, ma non per
altro lo scopo principale neppure dell'università : prima, anche all'uni-
versità ce ne sono due altri piti generali e più santi, il fare dei maestri
e il far degli Italiani.
Se le scuole, così dette, secondarie più che l'erudizione e la cultura
devono aver per fine la civiltà e l'educazione, un. professore secondario,
cui non sia stato insegnato altro che azzeccar varianti, far collazioni
e mortificare lo spirito, che bella civiltà volete che insegni ? ^ Per la
» Sugli effetti perniciosi che l'intrusione delle materie e degli abiti scientifici ha
prodotti nelle nostre scuole medie, scrisse pagine eloquenti e degne di essere medi-
tate il Gentile in Scuola e filosofia, pp. 185 sgg. — Cfr. pure Sommario di Pedagogia^
\y pp. 256-57. Il metodo filologico è, quando è buono, metodo scientifico, e perciò nel
liceo fatto apposta per guastare il valore educativo di quelli studi che dovrebbero essere
anzi il suo contravveleno. La scuola media, dice bene il Gentile, non è scuola di
scienza, ipa di preparazione alla scienza ; e se questa anticipazione della scienza in
altri casi non solo torna a danno intellettuale ma anche a corruzione morale, tanto
più rovinosa sarà in questo. Non sono invece più d'accordo con lui, quando in altro
luogo per le università egli vorrebbe appunto ciò che per i licei trova dannoso : ma
forse il dissenso è meno profondò che non paja. Certo l'insegnamento universitario
dev'essere dal liceale assai diverso ; certo dal liceo la filologia dev'essere esclusa e
nell'università deve avere il suo posto ; certo nel liceo si deve accendere la fede e
nell'università proporre i dubbi: ma da una parte io credo che un distacco totale
tra i due gradi di insegnamento non sia praticamente possibile dato il fatto, che nes-
suna teoria può disconoscere, della in moltissimi casi mancata preparazione liceale,
per la quale avviene che all'università non si possa insegnare ciò che si vorrebbe,
ma solo ciò che l'alunno nelle sue condizioni mentali può utilmente intendere e ap-
prendere : dall'altra parte io accetto bensì tutto ciò che il Gentile domanda, soltanto
26 Giuseppe Fraccaroli
filologìa pura e razionalistica il mare è acqua e il bosco è legna.
Non ci ha che fare né il bello ! né il magnifico ! È legna, soltanto
legna, e nient'altro che legna. E se mai un giovinetto inesperto ed
illuso, entrando in quel bosco, vinto da quel verde e da quella frescura,
s'immagina di trovarvi un refrigerio o una sensazione che la legna, in
quanto è legna, non gli ha mai dato, il maestro filologo deve disingan-
narlo . Vuoi sapere cos'è il bosco veramente ? Comincia a contarne le
foglie; poi conterai gli sterpi ; poi non c'è altro. E che vuoi che ci sia?
Quando avrai contato e registrato tutto, puoi anche bruciarlo, che non
ci perdi niente, anzi ci guadagni, poiché togli di mezzo un'occasione
d'ingannarti. Questo fa per instituto suo il maestro filologo puro. Egli
i libri antichi non li legge più per quello che vi può essere di vivo,
per l'aria sana che si può in essi respirare, per rinfrescarsi alle fonti
della nostra civiltà, per conoscere il germe e l'evoluzione del nostro
pensiero; questo lo lascia ai dilettanti: egli invece li cincischia per
scoprirvi delle preziosità ; e si sente andare in fregola quando ne trova
di ghiotte, come, per esempio, che si deve scrivere Vergilius e non
VìrgiliuSf KXvraifiìjaTQa e non KÀuTaifxvriaTQa : sul padre di Tucidide
invece perdura ancora il dubbio atroce se si chiamasse Oloro oppure
Orolo. E si fan collezioni di coteste sciocchezzuole con la stessa serietà
con cui si raccolgono scatole di cerini, pipe, figurine del Liebig, così,
non per ornamento né per uso, ma per ingombro della casa. Or noi
vogliamo nei nostri ginnasi dei maestri che scrivano bensì in latino
Vergilius, ma che non ne facciano più caso che di saper l'ortografia di
qualsiasi altra parola : noi vogliamo dei maestri che sentano e sappiano
cosa vale Virgilio, cosa vale Tucidide, e sian perciò persuasi che le
parole si studiano meramente in servigio delle cose e del pensiero. Io
posso perciò essere benissimo d'accordo che la pedagogia e la didattica
all'università, in un certo senso, non ci abbian molto che vedere; ma
se non il metodo dei licei, le cose almeno l'università deve insegnarle,
e sopra tutto deve evitar bene che il culto della materia danneggi quello
dello spirito, che la critica diventi disinteresse, e il disinteresse indiffe-
esigo che la filologia non debba essere solo distruttiva, e che anche dopo la critica
gii autori conservino per lo studioso tutto il loro valore reale, che siano anche dopo
l'università stimati degni di esser letti per il contenuto. Adesso invece il laureato che
vada a insegnare in una sede che non si^ Roma o Torino o Firenze, lo sentirete
spesso lagnarsi di non poter concluder nulla, perchè gli mancano i mezzi di studio ;
e se voi gli dite — eh via, comperati un Tucidide, e se non l'hai letto ancora, leg-
gilo, che ti ajuterà ad esser uomo, — quello vi sgrana tanto d'occhi in faccia, quasi
per dire: — oh che adesso Tucidide s'ha da leggere? — Una filologia che conduca
a questi risultati io non mi sento di raccomandarla ne per l'università né per verun
altro luogo.
Filologia e Letteratura 27
renza, che si mortifichino quelle anime che devono accendere negli altri
la vita. Dicono che il joduro sia un buon epurativo, ma non ho sentito
dire mai che di joduro solo si viva. Non bisogna mai dimenticare che
i pensatori ed i poeti scrivevano per comunicare non ai grammatici
ma al mondo il loro pensiero, il loro sentimento, la loro passione. Non
per il filologo poetò Giacomo Leopardi, che pur era un gran filologo,
ma per le anime appassionate e doloranti. E queste anime appassio-
nate e doloranti che aderiscono alla sua anima e piangono la sua
passiione e il suo dolore, queste e non già il freddo critico e il filo-
logo intendono e senton veramente la poesia di Giacomo Leopardi.
Così per Dante, così per Omero, così per tutti. Or sentite voi questa
passione, questo dolore, questa esaltazione? Avete l'anima accordata
con quella del poeta in modo da vibrare insieme con la sua? Allora
potete essere suoi interpreti;- allora potete essere maestri. L'esperienza
che è nei vostri sensi e nella vostra anima può integrare e correg-
gere le impressioni incerte degli scolari, può accendere al contatto
il fuoco nelle loro anime, non solo renderle ricettive ma attive. Ma
se siete impastati di filologia e poi filologia e di nient'altro che filo-
logia, allora l'opera vostra sarà quella di spegnere, anzi che d'infiam-
mare. L'arte, appunto perchè non è razionale, non può essere intesa
se non da chi abbia anima d'artista.
Ma oltre che fare i maestri, neanche l'università deve mai dimen-
ticare lo scopo più generale e piti vitale di fare gli Italiani. La matema-
tica, è vero, non è né italiana né tedesca, ma le lettere e le arti per noi
devono essere italiane, devono di necessità, se han da avere un'anima;
se no, non saran niente. E anima italiana deve avere chi ha da inse-
gnare queste lettere. Non sceglieremmo un Turco per educarci l'anima
cristiana, e non dobbiamo scegliere un barbaro per educarcela latina.
L'università deve mettere in mostra e in onore le forme e gli spiriti
delle lettere nostre non solo per uso di una classe facilmente nume-
rabile di tecnici, ma per vantaggio del pubblico tutto e della nazione ;
deve insegnare la vita; e chi vuol questa vita trasfonderla in altri,
deve avere esuberante la propria, deve essere lui il tipo intellettuale
della specie che ha da educare. Questo dev'essere il requisito primo
da richiedergli. La Facoltà di Lettere alla sua volta dovrebb'essere la
prima e naturale custode della nostra civiltà, e ad essa in primo luogo
dovrebbero accorrere coloro che non studiano per lo scopo di esercitare
una professione, ma per il godimento spirituale di farsi una coscienza.
Naturalmente per giungere a ciò bisogna che invitiamo a bere il vino
e non solamente a lavare i fiaschi, a bere il nostro vino e a inebriar-
cene. Gli spiriti infatti e le forme classiche sono spiriti e forme nostre,
vita nostra, grandezza nostra, anche attuale: Leopardi, Foscolo, Car-
i
28 Giuseppe Frac caro li
ducei, Pascoli, D'Annunzio sono classicisti. Lo studio di quel pensiero
non è per noi una curiosità, né ci fregia solo di un'erudizione, né ci
dà la vernice di una cultura, ma ci risveglia una consapevolezza, ci
fa vivere la vita della nostra stirpe nel suo passato glorioso, ce la fa
affermare e integrare nel presente, ce ne fa trasmettere la lampada
accesa nei secoli futuri. Le Facoltà di Lettere dovrebbero essere pertanto
non cimitero di morti, come adesso, ma palestra di vivi: la filologia
dev'essere sussidio, utile di regola, indispensabile spesso: la sostanza
dev'essere la letteratura, l'arte, il pensiero, l'idea, la civiltà nostra, quella
civiltà che ci differenzia dai barbari intellettualmente e moralmente, che
è creazione nostra e nostro vanto. Se a questo ufficio esse Facoltà
rispondan ora, chiunque può vedere. Quindi l'atrofia anche di tutte le
altre scuole, dove i nostri filologi tedeschizzanti non educano ma
scoccian gli scolari. Essi rifischian fuor di proposito e male al gin-
nasio e al liceo quelle quattro inezie e quei quattro versi che hanno
sentito screditare all'ateneo; e questo é tutto il costrutto. Per questo
gli studi classici vanno a rotoli. Otto anni di latino per non saperlo
intendere, e cinque anni di greco per non saperlo leggere, bene
impiegati, affé di Dio ! Questo è il bel vantaggio che ci hanno portato
l'indirizzo, così detto, scientifico e il metodo tedesco : han cancellato
la nostra coscienza, han guasta la nostra mentalità, e han finito a far
credere che il greco e il latino siano stati inventati per rompere le
scatole alla gente; e, ridotti così, non si può negare che sia vero.
Giuseppe Fraccaroli.
e^
U FIIS[ ITIOniE DEGLI STI DI SIOIII REIIMSI
I
I. — Natura e posizione del problema religioso.
La scienza delle religioni data, può ben dirsi, da cinquantanni, ed
è solo nel 1880, con la fondazione in Francia della nobile Reme de
VHistoire des Religions^ che s'inizia una vera e propria ricerca scien-
tifica su tutto il vastissimo dominio della storia delle formazioni reli-
giose attraverso l'umaniià.
Il concetto che la storia delle religioni potesse essere trattata con
gli stessi metodi e con lo stesso rigore analitico, come qualunque
altro campo dell'attività umana; che, accanto alla storia civile e mili-
tare,, per esempio, potesse esistere una vera e propria, paleopsicologia
(formazione dei primitivi concetti valutativi religiosi) ed una ierologia,
concetto questo che pur non offriva insormontabile difficoltà, è tardato
ad entrare nella coscienza comune, degli studiosi, ed è tutt'altro che
universalmente accettato e compreso ai giorni nostri. Ciò è avvenuto
perchè il « problema religioso » è il problema umano per eccellenza :
la religione (e intendo significare con questa l'educazione religiosa
dell'Occidente cristiano, in generale) non voleva soltanto essere un
corpus di credenze, più o meno fissate teologicamente, né solo un
mezzo di catarsis pei credenti ed un climax, ossia una scala per un
mondo superiore, ma ha preteso, quasi in tutti i tempi, in cui le caste
sacerdotali hanno potuto organizzarsi, di regolare essa sola i destini
dell' uomo, accompagnandolo pietosamente dalla nascita fino alla
morte, ed iniziandolo allora ad una società ultramondana. Con quelli
dell'uomo, essa ha inteso regolare i destini del mondo: ha voluto, cioè,
essere una vera sistemazione cosmica, che non lasciasse senza sanzione
30 Giosuè Maliandi
quasi alcun lato della vita umana, e del mondo affermava l'origine e la
finalità da un punto di vista esclusivamente antropico.
Ogni scienza, per quanto lontana possa parere dal campo reli-
gioso, spesso urta contro questa inevitabile barriera, eretta e cristal-
lizzata da millenni nell'animo umano. La metafisica e l'etica poi, l'una,
nella trattazione del problema dell'assoluto, l'altra in quella del pro-
blema valutativo od axiologico, sono storicamente obbligate alla discus-
sione del problema religioso. Filosofia, scienza, teologia, si sono tra-
vagliate dolorosamente e si travagliano intorno al tragico problema,
che ha funestato per secoli la storia dell'umanità con lunga teoria di
martini e d'incubi, con fulgori di fede e di negazioni, con austerità
di vite ed opere, e con ignobili mercature di caste.
Si potrebbe ad esso applicare, seguendo una volta tanto il metodo
dell'esegesi rabbinica, e con significato puramente storico, il detto del-
l'Evangelo: <^positus est in ruinam et in signum cai contradicetur ^
(Luca, II, 34). Però la « posizione del problema » può variare di molto,
poiché qualunque esegesi e qualunque ricerca storica non possono pre-
scindere, anche per il puro e semplice riconoscimento del «fatto
religioso », da un minimum concettuale proprio del fatto stesso. La
stessa scuola sociologica del Durkeim lo riconosce, e non è possibile
analizzare alcun fenomeno religioso senza una qualche teoria apprezza-
tiva sulla religiosità o (meno propriamente) religione. Ma è strano che
questo minimum concettuale indispensabile cambi non soltanto (il che
si spiega) secondo la scuola o la mentalità del ierologo, ma sopratutto
secondo i sistemi religiosi che si studiano : constatazione di grande impor-
tanza per caratterizzare una delle moderne correnti esegetiche e storiche.
11 Lammens, per esempio, che è un gesuita della scuola teologica con
pretese scientifiche, può trovarsi d'accordo col Vollers e collo Snouck
Hurgronje sulla valutazione delle fonti del Corano; raggiunge i limiti di
una vera ipercritica nei suoi studi su Fatima e sui primordi dell'Isiàm ;
il Cheikho, valentissimo arabista, non è imbarazzato da alcun sillogi-
smo teologico nella discussione del periodo storico degli Ummiadi;
il Deimel e lo Strassmayer non dimostrano |ina mentalità teologale
cristiana nella ricerca delle fonti Assiro-Babilonési, come del pari lo
Scheill nella pubblicazione dei testi sumero-accadìci ed elamito-semi-
tici. Ma i medesimi scrittori resterebbero atterriti se dovessero usare
gli stessi metodi di ricerca per la storia ebraica e cristiana. Qui sottentra
il piano teologico tradizionale, ed ogni discussione è impossibile. Non
è da molti anni che lo stesso Chantepie de la Saussaye, nella sua edi-
zione del Manuel d*Histoire dea Religions,^ ne escludeva il Cristiane-
i Paris, 1904.
La fase attuale degli studi di storia religiosa 31
Simo, per il « carattere precipuo e specialissimo della rivelazione cri-
stiana»; carattere che egli negava, evidentemente, alla rivelazione
coranica ed avestica ; il che poteva essergli contestato, con le stesse sue
ragioni teologiche, da ogni buon Mobed o Dastur persiano e da ogni
mediocre Sufi arabo.
È noto del resto che, nel 1905, nel Congresso degli Orientalisti
ad Algeri, il dotto arabo Muhammad ben Cheneb, a proposito della
discussione della nota teoria del Vollers sulla redazione delle sitre co-
raniche, rivendicò fieramente contro gl'infedeli lo studio del libro
sacro, e il presidente, prof. Montet, scriveva poi malinconicamente:
« Questo dimostra l'abisso che separa la mentalità musulmana dal-
l'europea...». Avrebbe detto meglio: la mentalità teologica da quella
scientifica.
Il fatto che l'evoluzione religiosa, lunghissima, quasi inafferrabile
nei suoi inizi, confusi ed indistinti con altre pratiche sociali, abbia con-
cretato, attraverso i tempi, una quantità di concetti-dommi, come Dio,
\ anima, Vlnferno, il Paradiso e — di formazione posteriore a Gesù —
il Purgatorio, il Giudizio, ecc. — ha spostato, obbiettivandosi, la
natura stessa dei fatti. E come la credenza neWEvangelium Christi
divenne col tempo la credenza neWEvangelium de Christo, e la persona
di colui che fu il banditore divenne, del pari che nelle altre religioni, il
centro del sistema e delle credenze, così, per un fenomeno di ottica
mentale, la ricerca della formazione delle credenze su Dio e sugli altri
simboli dell'anima religiosa è divenuta la ricerca affannosa di Dio, come
\xn* entità a sé e di cui si possa, con un processo critico, stabilire la
reale esistenza, trasformando spesso la storia religiosa in un vero Cursus
Theologiae dogmaticae triplex. Accettata tradizionalmente senza alcuna
disamina 1* idea che la religione si concreti nella credenza in uno o
più Dei, e in un corpo determinato di dottrina, imposta ai fedeli come
rivelazione appunto della divinità, il problema di Dio è divenuto, col
tempo e con gli elaborati successivi dell'anima religiosa, il problema
dell'Assoluto e della Causa prima, e, come tale, pur essendo un t)ro-
dotto esclusivo del pensiero religioso — e non teologico — , è passato
in filosofia ed ha confuso le menti e i cuori con la sua straordinaria
potènza ed antichità.
La prima e grande constatazione da farsi, dunque, è la risoluta posi-
zione dei vari problemi nei loro veri elementi : il problema, che può
dirsi teofanico e teoforico, non ha nulla che vedere con quello cosmo-
gonico: la storia di Dio non è affatto da confondersi con la storia del
mondo. Del primo si occupa e si deve occupare la ierologia; del secondo,
la scienza. Ma è soltanto la scuola sociologica francese quella che ha
posto oggi il problema nella sua vera luce. Né la scuola storica, né Fan-
32 Giosuè Maliandi
tropologica, e molto meno l'esegesi protestante, potevano proporselo,
impigliate com'erano neWarrière-plan di idee filosofiche e confessiona-
listiche. Dio, come problema ontologico, è uno pseudo-problema, e,
come nessuno storico ha cercato mai di stabilire la reale esistenza dei
centauri, delle sirene, o dei mostri infernali, così è vano proporsi, con
le sòlite pseudo-prove anselmiane e tomistiche o con i tentativi filosofici
del Green, del Royce, e, in Italia, del nostro benemerito Chiappelli,
di foggiare e creare una divinità, la cui motivazione antropica è troppo
evidente. // problema di Dio non può essere che la storia della forma-
zione del complicatissimo ciclo di credenze e di pratiche, che hanno con-
dotto gli uomini a crearlo.
Elaborato di millenni, a cui tutte le generazioni hanno contribuito,
esso è invece, talora, preso come un concetto primitivo, insolubile, dato
ab origine nel contenuto di tutte le religioni. Così opinano, infatti,
il padre Schmidt, nei suoi studi sull'Idea di Dio (in Anthropos^ 1908
e segg.) ; così la quasi totalità della teologia tedesca ; così il pietismo
anglo-americano; così il Tiele, il Pfleidsrer, il Sabatier, il TrumbuU-
Ladd, il Galloway, l'Hòffding, e, finalmente, il Troeltsch, nel suo
libro dal titolo assai significativo : Die Absolutheit des Christentum !
Ma tutti questi rispettabili autori, pure appartenendo a tendenze di-
verse, non hanno potuto porsi il problema storico dell'origine dei fe-
nomeni religiosi in termini veramente scientifici, perchè tutti si sono
foggiati della religione una idea preconcetta, dedotta esclusivamente
da una delle più imponenti manifestazioni storiche religiose: il Cri-
stianesimo. La storia delle formazioni religiose, per questi autori, cul-
mina di necessità nell'avvento del Cristo ; le religioni precedenti, quale
più e quale meno, si dispongono in un piano prestabilito di prepara-
zione per il « Desiderato dalle genti ». La storia mondiale della reli-
gione è stata così trasformata in una dimostrazione, che già Agostino
e Bossuet avevano tentata, ùé\V Assolutezza del Cristianesimo, come
afferma risolutamente il teologo Troeltsch, e non egli soltanto.
Ma come nessun zoologo ha cercato mai di dimostrare che i pro-
tozoi, per esempio, dovevano preparare l'avvento dei metazoi, e nessun
botanico, che le briofite e le rodoficee dovevano, nella notte dei tempi,
preparare la venuta delle cormofite, così è semplicemente assurdo e
privo d'ogni senso storico il « piano di sviluppo della religiosità », che
s'è preteso di far passare per « Filosofia della Religione ». Si potrebbe,
con lo stesso metodo e criterio finalistico, dimostrare che l'uomo è
stato fatto pel completo sviluppo del Laverania malaria o del Tripa-
nosoma gambienscy perchè esso è un anello indispensabile nel ciclo
di vita di questi emosporidi, o che i denti dell'uomo sono stati fatti per
gì' ifomiceti, e l'epidermide, per il sarcc/?^^ sca/>/V/... Il processo logico
I
La fase attuale degli studi di storia religiosa 33
delle seriazione dei termini è perfettamente lo stesso : post hoc, ergo
propter hoc. Questa concezione teologica del mondo culmina nell'opera
di Vito Fornari su « Gesù Cristo » : tutto il processo cosmico essere una
preparazione air« avvento di Gesù », per la « manifestazione di Dio at-
traverso la carne ». Ma è anche un'idea antichissima: essa era stata già
elaborata e sviluppata potentemente dal grande teologo, Massimo il
Confessore, nella sua dottrina della odQxtooig (= incarnazione di Dio)' e
della 6éa)at(; (=^ processo di divinizzazione deiruomo).i
Per questo il problema capitale della ierologia, la ricerca cioè
dell'origine dei primitivi fenomeni religiosi, è diversamente inteso a
seconda che si tratti della scuola antropologica inglese (Tylor, Lang,^
Clodd, Frazer,3 ecc.), della sociologia francese (L'<siAnnee Sociologique-*
del Durkheim, specialmente il Mauss e l'Hubert), o di una certa scuola,
che diremmo dei neo-mitologi (Gunkel, Jeremias, Vòlter,* ecc., per
quanto si possa argomentarlo d{ii loro scritti quasi esclusivamente
biblici), per non parlare di alcuni orientalisti isolati, come l'Hommel, ^
il Nielsen e qualche altro, che farebbero derivare ogni forma di reli-
giosità da un arcaico culto astrale o da un più ipotetico culto dei
morti {necrolatrla) : ipotesi ormai superate dal pensiero contemporaneo,
e destituite d'ogni base storica ed etnografica.
II. — La scuola teologica e gli psicologi individualisti.
L'antropologia, la sociologia e gli studi religiosi.
Lo studio dei primordiali fenomeni religiosi, oltre ad essere impor-
tantissimo per se stesso, ha ancora un grande valore per il riconosci-
mento e la valutazione dell'intero dominio religioso: è da esso in-
fatti che divergono e si caratterizzano le due prime scuole b tendenze
di studi su nominate ed una terza, che diremmo degli psicologi indi-
vidualisti, i quali affermano recisamente che il problema dell'origine
della religione (come non senza improprietà essi dicono) non è affatto
di natura storica, ma psicologica (Rauvvenhoff, Caird, Tiele, Sabatier).
Essi ammettono in fondo che il fieri della religiosità sia immanente
allo spirito umano, che il fatto si ripeta per interna dinamica, e non
per motivazioni esteriori, e che si possa quindi ricercarne l'origine
nella stessa anima moderna, forse nella sola anima moderna.
1 Cfr. Patr. gr. XCI, 48.
« Myth, Ritual and Religìon., 2* ed., 1901.
3 u. The Golden Bough^, 3^ ed., London, 1910-11, 7 voli.
-* D. VÒLTER, Aegypten und Bibel, 3* ed!, Leiden, 1908.
5 Der Gestir ndienst der alien Araber, Munich, 1901.
3 — Nuova Rivista Storica.
34 Giosuè Maliandi
Tutto questo presuppone un altro gratuito postulato : che il concetto
della religione debba essere tratto, non più dalle sue prime ed incerte
(essi dicono) manifestazioni, ma dalle sue forme più alte ed evo-
lute, dai grandi sistemi religiosi, cioè precisamente dal Cristianesimo.
Essi così imaginano un vero dramma romantico-mistico, che si. svolga
senza spettatori attraverso la storia, e di cui Tunica dramaiis persona
sia soltanto Fautore stesso. Questa teoria può condurre all'hege-
lismo, come al tomismo cristiano; al protestantesimo, come al misti-
cismo di nuova fattura pragmatistica. L' interna dinamica spirituale,
che rOmodeo per esempio (nel suo volume su Gesà di Nazaret e
le Origini del Cristianesimo, Messina, Principato, 1913) imagina per ispie-
gare Tevoluzione del Giudaismo nel Cristianesimo e il Cristianesimo
stesso, è sullo stesso piano della teoria teologica della Rivelazione :
dinamismo interno di un elemento ignoto, che è proprio la cosa da
spiegare, cominciando dalla sua posizione iniziale. Ciò significa ripetere
in parole diverse la dottrina patristica di€iX economia della rivelazione
delle verità dommatiche illustrata da Gregorio Nazianzeno.^
Or bene, V intera storia delle religioni e tutta l'etnografia contem-
poranea smentiscono completamente questa teoria od ipotesi che dir si
voglia. Qual'è l' interna dinamica della religione dei Dakota, per esempio,
e degli Ovambo? Ed è forse dimostrata l' identità dello spirito umano
sotto tutte le latitudini ed in tutti i tempi ? Non si spiegherebbe altri-
menti, dice rOmodeo, perchè la religione di Mitra non sia divenuta reli-
gione universale in luogQ del Cristianesimo ; ma egli non si accorge che
questa è la stessa ingenua proposizione, che i teologi cristiani enuncia-
vano per indurre gli altri ad ammettere il miracolo. Si può ripetere
la medesima domanda per tutti i sistemi religiosi.. Ogni religione ha
un'area ed un limite, oltre i quali la sua diffusione è impossibile o
minima, perchè non tutte le credenze si possono adattare indifferen-
temente a gruppi sociali diversi. Il Cristianesimo non si è mai diffuso
in Cina o nell'arcipelago Malese, laddove l'Islamismo vi fa continui
progressi e si propaga anche rapidamente in Africa ; né lo Scintoismo
è uscito fuor del Giappone, come scarsissimi sono stati i risultati
della propaganda protestante in Italia. La religione di Mitra non
soppiantò il Cristianesimo, pur avendo avuto una vasta diffusione
in Asia, a Roma stessa, a Nersa, nel cuore dell'Appennino, in Sicilia,
nell'Africa Settentrionale e nell'Europa centrale,^ e ciò, per gli stessi
motivi, per cui la religione de' Nosairi e dei Mandei non divenne pre-
1 Patr. gr. XXXVI, 161.
* Cfr. Fr. Cumont, Textes et monuments figurés^ rélatifs aux mystères de Mi-
hra, Paris, 1899, I, pp. 279 segg.
La fase attuale degli studi di storia religiosa 35
valente in Palestina ; per le stesse ragioni sociali e storiche, per cui non
è prevalsa in Asia quella di Kongtsè o di Mani. Queste obbiezioni
non hanno valore e dimostrano soltanto il brevissimo orizzonte visuale
de* vari autori, e, quel ch'è peggio, i soliti pregiudizi e le solite pre-
ferenze etniche.
Come si spiega in questa teoria dell'Omodeo la redazione degli
Evangeli? Episodi come quello della vestizione di Gesù da re, Bar-Abas,
il Cireneo, la stessa Crocefìssione non si spiegano con nessuna esegesi
psicologica o puramente storica, senza la luce che viene dell'etnografia ;
come non si spiegano la nascita miracolosa di Gesù da una vergine
(Lucina sine concubitu), ch'è concezione arunta,^ o l'istituzione della
comunione, vera e propria teofagia, la quale ricorda ad evidenza il
sacramento totemico delle tribù primitive. Se lo stesso Girolamo
e Firmico Materno si meravigliavano di trovare proprio a Betleem il
culto di Adone (Tammaz) innanzi la storia di Gesù, vuol dire che
questa ha intimi rapporti con l'ambiente, in cui si svolse.
Il Sabatìer, nel suo saggio, tra francescano e mistico, sulla ^Phi-
losophie de la Religlon », imagina di poter trovare proprio nell'anima
moderna la motivazione più sicura del ^frisson primitive ^^ che avrebbe
iniziato la religione. Il processo è dunque eminentemente dialettico ;
esso si può sviluppare in ogni tempo, in ogni luogo, perennandosi;
il che suppone un concetto sai generis della religiosità e la trascuranza
di qualunque dato fferto dall'archeologia e dalla storia. Ma è evi-
dente l'errore di metodo : lo stabilire l'essenza intima della religione è
proprio il compito ultimo della ierologia^ come sintesi finale di sempre
più vaste ricerche su tutto il dominio religioso, nessuno escluso ; e
l'obbiezione, a cui abbiamo accennato, che solo le forme più evolute ne
contengano veramente l'essenza è fatta in base al solito circolo vizioso e
ad una sintesi personale delle possibili caratteristiche della religiosità, e
si riferisce al più noto piano storico, che subordina le varie religio ni
all'ultima grande manifestazione del Divino, il Cristianesimo. Ma come
in filogenia animale e in botanica la storia delle vertebre, per esempio,
non si fa sólo nei vertebrati, né la storia del fiore nelle sole fanerogame,
ma gli zoologi vanno a ricercarla nei procordoni e nelle crittogame ;
così il concetto di religione, essendo eminentemente appreziativo-sub-
biettivo, non può essere preso in blocco, come primitivo ed originario,
poiché é invece il prodotto di lunghissima evoluzione, e perciò è neces-
sario risolverlo nei suoi veri elementi. Operare diversamente equivale
altresì a commettere un errore di metodo, poiché da un solo dominio
1 Spencer and Gillen, Tlie Native Tribes of Central Australia ^ The Northern
Tribes of Central Australia, London, 1904.
36 Giosuè Maliandi
religioso, scelto ad arbitrio, noti può ricavarsi mai alcuna definizione
valevole per la totalità; tanto altrimenti varrebbe ricavare l'essenza
intima della religione dall'analisi del Kangiur tibetano, dai Sutta buddici,
dalla religione de' Zuni o dei Weddas, o dall'archeologia del Messico
precolombiano.
Ma, al pari di quella psicologica, neanche la scuola puramente sto-
rica ha potuto del tutto liberarsi da preconcetti ed incertezze nella
posizione dei due principali problemi ierologici: V origine e V essenza
della religiosità. La ricerca storica ha un limite insuperabile nella esi-
guità dei documenti ; la religione delle tribù ebraiche in Palestina non
può essere intesa nella sua vera essenza e nella sua origine col solo
studio della Bibbia o dell'archeologia palestinica. Jahwè ed Elohim,
come Baal è Melkart, Kemosc e Beelzebub, figli d'una mentalità unica,
sono già abbastanza evoluti e definiti come divinità quando entrano
per noi nella storia; ma la loro composizione concettuale dev'essere
ricercata molto prima di essi. Jahwè di Habaqqua o di Amos non è più
quello del Pentateuco; come il dio d'Ireneo o di Valentino non è
quello di Anselmo d'Aosta o di Raimondo Lullo. Quale di questi è più
« vero » o più « falso » ? Ontologismo inutile, poiché è vera psicologica-
mente soltanto la credenza in essi, la cui formazione storica interessa la
scienza. I documenti religiosi di tutte le epoche — fondamento indispen-
sabile per ogni ricerca, senza dubbio — hanno questo di comune che
codificano e fissano credenze e dommij già molt/' sviluppati e spesso
non più in accordo col gruppo sociale che per primo li foggiò e visse.
I residui ancestrali ed aberranti, i precipitati etnici antichissimi, le forme
teratologiche ne sono una prova. In biologia avviene lo stesso: i re-
sidui delle glandole mammarie nell'uomo, la caruncola lacrimale (ri-
cordo paleozoico della membrana nictitante dei sauropsidi?), la famosa
glandola pineale, l'intestino cieco, non si spiegherebbero affatto, se
noi ci fermassimo alla loro anatomia normale, come non si spieghe-
rebbero i cosidetti teratomi (gl'individui-mostri). Precisamente come nel
campo delle formazioni religiose i concetti, o, meglio, i pseudo-concetti
A^Vuomo-diOf della vergine- nìadre, della partecipazione alla divinità con
la comunione (teofagia) sono impossibili ed assurdi dal punto di vista
della psicologia individuale. Essi suppongono categorie mentali, che
escono dal campo della psiche singola; con essi le formazioni comuni
del pensiero logico individuale — causa-effetto, identità , persona-
lità, ecc. — sono oltrepassate, negate, interconfuse ed elaborate dal-
l'anima religiosa in maniera del tutto differente; lo stesso concetto
dell'^ss^r^ è inteso spesso variamente, in modo da distruggerne la
fissità, da liquefarlo quasi in una strana ed indistinta fluttuazione, in
una (come dire?) depersonalizzazione, senza cessare per questo dì
La fase attuale degli studi di storia religiosa 37
essere una realtà vìva e vissuta potentemente. Forme abnormi ed as-
surde pel pensiero individuale, esse trovano la loro ragione d'essere
soltanto nella psicologia collettiva, nella società.
L'avere stabilito indiscutibilmente questo fatto capitale per l'inter-
pretazione dei fenomeni religiosi è merito insigne della sociologia con-
temporanea; e, come i grandi etnologi Spencer e Gillen dichiaravano
d'essere abbastanza compensati delle loro lunghe e penose ricerche tra
gl'indigeni del centro e del Nord-Australia, con la scoperta della conce-
zione d'una Lucina sine concahltu, così la constatazione che le « forme »
del pensiero religioso sono di tutt'altra natura di quelle del pensiero
logico è molto più importante della scoperta del famoso codice Syrus
sinaiticus o della redazione non ninivita del Diluvio.^
La religione era stata intesa per lo più come un sistema di cre-
denze e di dottrine avente uno scopo conoscitivo e sistemativo della
realtà; lo stesso Tylor*-^ parlava dell'animismo come d'una specie di
filosofia primitiva dei selvaggi, poiché non si pensava (o non si sa-
peva) che la parte conoscitiva o speculativa in tutte le religioni è
sempre, e di molto, posteriore, e si ritrova solo nei grandi sistemi re-
ligiosi, e in epoca assai tarda, quando già la teologia e la filosofia
hanno lavorato a sufficienza sui primitivi concetti magico-liturgici.
Dopo che la divinità è divenuta il centro d'attrazione del sistema, la
religione si accresce, per necessità teoriche, d'una parte puramente
cosmologica. Qual'è infatti la cosmologia di Gesù? Buddo, ad un
discepolo, che gli chiedeva qual fosse il destino dell'anima dopo la
morte, rispose: « Noi vedremo tutto ciò insieme; per ora occupiamoci
della liberazione! » La religione non è mai per sé stessa conoscenza
della realtà, perché solo incidentalmente, e per quel lato soltanto che
può riguardarla, si occupa di sistemare la realtà esterna e d'inquadrarla,
bene o male, nelle sue categorie. Essa è essenzialmente il dominio del
sacer nozione primitiva, indistinta, che significa qualcosa di separato,
di diverso dal cotidiano dominio, e contiene anche la nota della intan-
gibilità; nozione, che trova il suo perfetto riscontro in quella del Mana
melanesico, del Hasina nialgascio, deWarungquilta australiano, del-
i'orenda algonquino, del qodesc ebraico, e la cui origine é del tutto
sociale. Essa opera sur un mondo a parte, sur una realtà vissuta e
valutata, ma non indipendente; i suoi giudizi non sono affatto onto-
logici, ma puramente valutativi. Alla base di ogni concezione religiosa
noi intravediamo le categorie sociali, la conoscenza della stessa realtà
esterna espressa sotto forma di giudizi e valori sociali; ma nei grandi
» Cfr. HiLPRECHT, The earliest relation of the Deluge Story, Philadelphia, 1910.
t Cfr. TiELE, Philosophy of religìon, 1893, p. 71.
38 Giosuè Maliandi
sistemi religiosi questi si sono confusi o sono stati rielaborati dalla
teologia e dalla filosofia, ed hanno per questo perduto in gran parte il
loro carattere primitivo. È avvenuto lo stesso di molte pratiche litur-
gico-magiche, rimaste come massi erratici fìnanco nel Cristianesimo, e
che poi sono state spiegate con ipotesi assurde o pretesi comandi della
divinità. Come intendere, ad esempio, la scelta dell'olio nelle diverse
funzioni sacre, anziché dell'acqua o di un altro liquido, dato che questo,
per se stesso, senza la benedizione, non avrebbe alcuna virtù propria?
E che cosa significa ora Taccompagnare i defunti coi ceri accesi di
pieno giorno, e Tuso dei funerali nel 3% 7<», 10<> e SO" giorno, anche
nel Cristianesimo? Le spiegazioni dei Padri sono così puerili come le
altre ipotesi (quella d'Alenino p. es. nel « De divinis Officiis ») sulla
scelta ^é[Vagnus nell'Antico Testamento e nel Nuovo, mentre è chiaro
invece che simili cerimonie ci riportano al ciclo arcaico delle idee
magiche (oggetti catartici, puri ed impuri) e funerarie.
in. — I neohegeliani; le teorie del James, e del Myers:
il pragmatismo e la storia religiosa.
L'obbiezione teorica dell'Omodeo che la ricerca regressiva, con-
dotta fino alle primissime origini delle religioni, diventa una vera ato-
mistica, e rarefa la storia religiosa senza nulla spiegare, non ha una
seria base logica. Essa deriva innanzi tutto dal solito presupposto di
fermarsi ad una sola delle manifestazioni religiose dell'umanità, da
cui poi si foggiano i concetti astratti e generali per giudicare del-
l'intero dominio; deriva dal non ammettere che la ricerca causale è
l'unica via scientifica che ci sia dato seguire ; ma proviene anche dal-
l'aver confuso la spiegazione delle personalità religiose con la storia
anonima della feligione. Certo, non si spiega Paolo, soltanto notomiz-
zandolo, e rendendo ai Giudei ed ai Greci, o, magari, ai Persiani, ciò
che loro appartiene; ma noi non sapremmo nulla di lui, come di Gesù,
di Maometto, di Mani,di Nestorio, se non avessimo dei documenti scritti,
la cui interpretazione, evidentemente, è sempre nostra. La storia, checché
se ne possa dire, ha sempre dei caratteri frammentari, direi quasi osteolo-
gia; io spirito che animava Paolo, Gesù, Sakiamuni, è morto da tempo,
né è supponibile che l'Omodeo pretenda veramente di far rivivere Paolo,
o Gesù. Queste galvanizzazioni storiche sono caduche e fallaci: alla
personalità religiosa di Paolo, come di qualunque altro, noi ci acco-
stiamo soltanto attraverso i documenti e l'opera loro. Così di Mani
(e di Westorio) si sapeva Solo quello che gli ereseologi cristiani ave-
vano detto, e ben altra é risultata la figura del profeta persiano dopo
la scoperta delle fonti dirette ed autentiche : basta confrontare i vecchi
La fase attuale degli studi di storia religiosa 39
libri di Mattar, di Beausobre con quelli di Kessler, De Rochat,i Cu-
mont. La ricostruzione delle personalità storiche è sempre la più diffi-
cile: le numerose Vite di Gesù (come di Maometto, di Buddo, di
Zarathustra) ne sono una prova; in questo campo le affermazioni nega-
tive, pur troppo, sono le più vere, lo riconosce chiaramente il Goguel,
nel suo studio sulla moderna posizione del Problema Sinottico (in Reviie
de l'Hist. des Religions, 1909 seg.), là dove dice che di Gesù noi
possiamo affermare poco più di quattro o cinque cose ... ; il che per
verità non è un lieto risultato, se si pensa all'enorme lavoro critico
degli ultimi cinquanta anni !
Ma, se la ricerca per cause dovesse essere abbandonata, quale altro
metodo si dovrebbe usare? È possibile forse un apprendimento (come
dire?) diretto dei fatti, un quid simile deW ispirazione cattolica e deW in-
tuizione dei mistici? La mistica, è vero, si propone di entrare in diretta
comunione con la divinità mediante le tre forme di « conceritramento
dello spirito » : meditazione, ascesi, contemplazione. Essa s'illude d'ap-
propriarsi del divino perchè lo sente (avendolo creato) fortemente in sé,
e per essa la realtà di Dio non ha alcun dubbio; ma la scienza si pro-
pone appunto, come già abbiamo detto, di spiegare proprio questa tale
posizione o proiezione spirituale, cioè lo status animae religiosus, il cona-
tus animae, e non l'obbietto del conato e del desiderio. Per contro, la
critica deirOmodeo rivela una concezione prettamente hegeliana della
storia religiosa. « Ricondurre alle cause, egli scrive,^ significa negare la
logicità e la necessità dello sviluppo dell'effetto fuor della causa... ». Ed
aggiunge: « Se io trovo delle analogie tra il codice di Hamurabi e la legge
mosaica, mi rimane da intendere perchè mai la legge mosaica fu il lievito
d'una grande religione (quale? non è stata anche grande, anzi grandis-
sima la religione degli Assiri?), e il codice di Hamurabi ha dormito
per millenni tra le macerie della Mesopotamia. Con interpretazione per
cause estrinseche mi lascerei sfuggire come sabbia dal pugno la vita
stessa, cioè la storia. Con l'aggregazione atomistica delle credenze non
posso ricostruirne la storia... ». Indubbiamente! Ma l'evoluzione e il
dinamismo di uno spirito religioso fuori del ciclo sociale, che lo vive
e lo foggia, sono assurdi, poiché non si riesce a comprendere per quali
ragioni interne esso si trasformerebbe e il perchè di questa trasforma-
zione. La religione d'oggi non è più quella di Paolo, non perchè il
suo dinamismo interno (quale?) l'abbia condotta necessariamente a
quest'ultima fase, ma perchè la società moderna non è più quella di
Paolo. Che, se di dinamica interna si vuol parlare, essa è la stessa di-
1 Essai sur Mani, Genève, 1897. Su Nestorio, cfr. Loofs, Nestoriana, Halle, 1905;
Revue d'hist. eccles., 1907, t. VII e ìXLiber Heraclidis^ pubblicato nel testo siriaco da
M. Bedjan.
» Op, cit., p. XXIII.
40 Giosuè Maliandi
namica della società: la società vive, e vive la religione; si trasforma
la società, e si trasforma la sua religione. Dove sarebbe e che cosa
sarebbe uno « spirito religioso », che pervada l'umanità e la superi?
Una teoria siffatta presuppone un concetto speciale dello « spirito
umano », che noi purtroppo non possiamo qui esaminare, perchè ci
condurrebbe in piena metafisica ed in biologia, ma si capisce che è
sullo stesso piano della vecchia teoria — essa stessa d'origine reli-
giosa — della « creazione separata dell'anima da parte d'uno 'spirito
superiore, Dio ». È il solito comune spostamento di visione: noi tro-
viamo nel mondo una quantità di fenomeni, che qualifichiamo per re-
ligiosi; essi possono essere omologhi ma non identici, né presuppon-
gono un quid metafisico e trascendentale da cui deriverebbero; l'unica
realtà viva, ch'è alla loro base e che c'illumina appunto sulle loro dif-
ferenze, è la società. Ma questa storia, per la sua millenaria evoluzione,
per le sue origini, che certo non sono chiare né facilmente accessibili,
diviene una serie unica e continua, qualcosa di autonomo e d'indipen-
dente, che si proietta al di fuori ed al di sopra dell'ambiente sociale,
che a mano a mano l'ha foggiato e vissuto.
Non possiamo fermarci a discutere un'altra tendenza moderna di
studi religiosi (o, meglio di pseudo-studi reh'giosi), la quale, partendo
dalle ricerche del Myers, del Podmore e di una folla di occultisti,
pretende ricollegare o giustificare .la religione con la telepatia, l'ocal--
tismo, la psicomistlca, ecc. Non giudichiamo il fine, perchè il nostro
articolo non è polemico, né, molto meno, confessionalistico; diremo
solo che essi lavorano sur un terreno già elaborato dalla coscienza
religiosa, e che le ingenue affermazioni ontologiche sono proprio quelle
che devono essere spiegate dalla storia delle formazioni religiose.
Maggior valore, certo, avrebbero le moderne dottrine pragmatisti-
che, se non fossero viziate dal secreto pensiero di rimettere a tutti i costi
in valore la religione dal punto di vista della vita e della prassi-etica.
Hanno tentato alcuni, specialmente il James, un'analisi dei presuppost
metafisici del pensiero religioso, ed hanno cercato di foggiare una dot-
trina della « religione » con elementi psicologici tratti per lo più da
relatori recenti di così dette « conversioni spirituali ». Così il Coe, lo
Stàrbuch, ecc. ecc. More-americano, essi hanno tentato anche delle
inchieste sa di un formulario unico, distribuito ai credenti : ma le ri-
sposte, si capisce, non hanno alcun valore, dal punto di vista della
scienza delle religioni. La dottrina del James sul « Me più grande »,
che sarebbe alla base della credenza, è assurda dal punto di vista della
psicologia e dell'etnografia. Essa riposa sulle solite, ingenue afferma-
zioni dell'anima religiosa, che ignora la sua storia e che attribuisce un
La fase attuale degli studi di storia religiosa 41
valore ontologico alla sua cre'clenza. II « Me più grande » è un po'
come la e pontificai celi » della psicologia del James, la cellula ponti-
ficale del cervello umano, un po' come la teoria del Meyers sulla « co-
scienza subliminale », ed un poco (forse più che poco) come la dot-
trina cattolica della « rivelazione ». Non qualifichiamo qui il tentativo
filosofico del James; esso non interessa la ierologia; diremo solo che
«n Daiaco di Borneo ed un australiano Arunta avrebbero, dal punto di
vista del pragmatismo, tutto il diritto di rimettere in valore l'antro-
pofagia funeraria e il sacramento totemico della comunione...
IV. — Gli studi religiosi in Italia.
In Italia gli studi di storia religiosa sono stati, fino a questi ultimi
tempi, assai negletti, per varie ragioni politiche e sociali; ma la reli-
giosità o rirreligiosità non hanno nulla a vedere con essi. Prima del-
l'unità italiana non era certo possibile un insegnamento non confes-
sionalistico della storia religiosa, né esisteva tra noi una tradizione di
studi biblici, come nei paesi protestanti, in cui, pur nell'ambito del
domma, la filologia e la storia avevano^ campo, se non altro, di pre-
parare il terreno a studi ulteriori, liberi da ogni imposizione ecclesia-
stica. Nelle università italiane esistevano solo delle cattedre di teologia
e qualche raro insegnante d'ebraico ; ma non avevano alcuna ripercus-
sione nella cultura nazionale, né alcun carattere scientifico. Bisogna
forse dire che sia mancato in Italia un senso vivo della religiosità, intesa
come problema angoscioso ed imminente dello spirito, o che, non es-
sendo tra noi neppur l'ombra di contrasti e di lotte religiose, il terreno
non era preparato a ricerche e studi intorno alla religiosità ed alle
religioni? Il clero, certo, non ha mai studiato la religione scientifica-
mente: per esso, infatti, ciò sarebbe un non senso od un sacrilegio; ma
neppure i dotti laici se ne sono gran che preoccupati. La grande mag-
gioranza degli Italiani, del resto, è religiosa più che per altro per tra-
dizione, senza aver mai approfondito le ragioni della propria credenza,
e, peggio, senza sentire la necessità di ricercarle. Per questo non è
difficile trovare degli uomini, anche dotti in alcuni rami dello scibile,
che partecipano pietosamente delle superstizioni più comuni; medici
che si raffigurano ancora l'inferno e il paradiso, come se si fosse ai
primordi dell'era cristiana; scienziati che intingono divotamente la
mano nella pila dell'acqua benedetta. Cervelli asindetici, senza dubbio,
che ricordano molto da vicino i Giapponesi, presso cui spesso si nota
il miscuglio più curioso di pratiche buddiste e scintoiste senza il
senso di alcuna contraddizione. Ciò avviene perchè le dottrine scien-
tifiche alle volte non hanno alcuna ripercussione sulla totalità dello spi-
I
42 Giosuè Maliandi
rito; è come se una parte deiranima non abbia alcun contatto con
l'altra ; si può vivere così tutta una vita, senza sentire questo profondo
contrasto, e senza che l'analisi venga a turbare la placida vita quoti-
diana. Ma il problema religioso è puramente conoscitivo, cóme qua-
lunque altro problema storico e filosofico. Si può essere del tutto fuori
d'ogni forma di religione ed appassionarsi al problema cristiano, come
airisUmico, all'avestico, allo scintoistico, ecc. ; si può esserci dentro e
non sentirne il valore e la necessità conoscitiva. Ma, poiché questi
studi sembrano alla maggioranza completamente sterili, il credente ne
diffida, o ne ha grande spavento, perchè potrebbero rubargli il suo
tesoro dottrinario; l'areligioso non se ne cura, bastandogli di non
sentirne la necessità emotiva od intellettiva; l'irreligioso o non li co-
nosce o li apprezza poco, perchè crede che la sola scienza possa spazzar
via dall'animo la nebbia religiosa o ne fa una macchina di guerra
contro la religione. Pochissimi invece sono quelli che, forniti della ne-
cessaria preparazione, ne comprendono l'importanza filosofica e ne ri-
vivono tutto il fascino interiore.
Certo, la scienza delle religioni è una scienza eminèntemente
aristocratica, che richiede una conoscenza non comune di lingue, di
storia, d'etnografia. Non si può studiare il Cristianesimo, senza cono-
scere l'ebraismo e le altre religioni palestiniche ; né seguirne l'evolu-
zione, senza una nozione diretta dell'immensa letteratura patristica
e conciliare. Non si studia l' islamismo o il parsismo, senza una sicura
conoscenza dei testi orientali; né la storia religiosa della Cina o del
Tibet, senza avere appreso il cinese e il tibetano. I pochi cultori seri di
studi religiosi in Italia si sono occupati più spesso di filologia e di
pura archeologia, e, soltanto in brevi saggi, di questioni ierologiche,
rattenuti non si sa da qual pensiero o da qual timore. Certo, man-
cano in Italia i mezzi di studio: anche nelle grandi biblioteche non
è facile trovare i periodici esteri di storia religiosa, e poche opere fon-
damentali vi sono contenute. A Napoli, per esempio, dove pure è un
Istituto Orientale, mancava fino a qualche anno addietro quasi ogni libro
per lo studio dell'armeno e del copto; né vi si trova nulla che age-
voli la conoscenza delle lingue e delle religioni dell'Africa e della
Polinesia; non esiste un dizionario malgascio... Non parlo poi di
bibliografia e di materiale etnografico. Tuttavia ci sono presso di noi
alcuni conoscitori dell'oriente semitico ed ario, i quali, certo meglio
di altri, avrebbero potuto occuparsi di storia religiosa, come il Guidi, il
Nallino, lo Schiaparelli, (mi sia lecito anche ricordare il mio maestro di
arabo a Napoli, Lupo Buonazia, valente arabista, d' una modestia quasi
inverisimile, morto tre anni addietro), notissimi in tutto il mondo scien-
tifico, non meno del Pizzi, del Conti Rossini del Formichi, ecc.
La fase attuale degli studi di storia religiosa 43
I lavori dello Scerbo sull'Antico Testamento dimostrano la sua
profonda conoscenza della filologia semitica e l'esatta valutazione dei
lavori critici moderni, dal punto di vista della pura filologia; ma
l'autore s'interdice quasi ogni discussione ed ogni apprezzamento
religioso. Eppure è certo che molti lavori di filologia dipendono da
valutazioni storiche diverse dei vari libri biblici presi in esame. L'edi-
zione dell' Haupt, per esempio, non è stata fatta in base a criteri di
pura filologia (è mai possibile un'edizione simile?), come quella del
Baer-Delitzsch, ma sur una concezione storica ben definita, la quale,
partendo dalla conoscenza, possibilmente completa, del mondo se-
mitico, si riflette poi nella critica testuale della Bibbia. Così la divi-
sione delle fonti (jahvista, elohista, codice sacerdotale) non è fatta,
checché se ne dica, in base a criteri grammaticali, ma parte da una con-
cezione speciale della religione d' Israele nei vari periodi della sua
storia. Non si fa, del resto, un'edizione critica di Job o di Gregorio di
Narek, senza una conoscenza, la più esatta possibile, del periodo storico in
cui vissero ; com'è certo che la lingua e la sintassi di Jona non sono gran
che differenti da quelle di Haggai, per esempio, o di Amos, come
potrebbe esserlo l'ebraico del cantico di Debora da quello d'Ibn
Tibbon o dello Sciur Komah. In tali casi il puro criterio filologico è
del tutto insufficiente.
Importanti senza dubbio sono i vari scritti del Minocchi, e può
dirsi ormai classica la sua traduzione dei Salmi ; come i saggi di filo-
logia neo-testamentaria del Buonaiuti dimostrano la sua grande pre-
parazione a questo genere di studi. Maggior valore forse ha il suo libro
su lo Gnosticismo, che, pur servendosi dei lavori del De Fayé, del-
TAmélineau, dello Schmidt, è un'esposizione abbastanza esatta di quel
complicato ed importantissimo argomento. Non parliamo degli scritti
del Mariano e del Labanca, perchè essi dimostrano una mentalità,
liberale bensì, ma religiosa, ed alcuni loro scritti (il libro sul Papato
del Labanca) sono pieni di errori storici. Maggior valore ebbe il libro
di Gaetano Negri su Giuliano V Apostata, specialmente quando lo si
paragoni all'opera, molto più ampia certo, ma partigiana, di Paolo
Allard sullo stesso argomento.
II Salvatorelli ha di recente pubblicato in volume (Città di Ca-
stello, 1914) diversi articoli di storia religiosa. I due più importanti
sono forse il VII (Gli Apologeti Greci del II secolo) e il XVIII su
Baldassarre Labanca. Però il Salvatorelli espone soltanto e non prende
mai posizione nel dibattito dei vari problemi suscitati dalla critica
recente. Pare che egli abbia un certo ritegno nel pronunziarsi, e
chi legge, alla fine, si domanda perplesso: — Qual'è il pensiero del-
l'autore?—.
Giosuè Maliandi
Il saggio ultimo della raccolta, Filosofia e Religione nell'Italia con-
temporanea, avrebbe potuto essere, oltre che un'esposizione, una critica
analitica di qualcuno almeno dei massimi problemi della storia religiosa.
Ma quel che si rileva da varii accenni è l'assunzione, senz'ombra di prova,
che la filosofia religiosa sia una parte^ un aspetto della filosofia gene-
rale. Invece il risultato proprio della ierologia, qual'è veramente intesa
dai sociologi contempoi^anei, ed a cui si vanno convertendo i filologi
orientalisti (basterebbe nominare tra questi il Meillet, il grande arme-
nìsta) è che le entificazioni dell'anima religiosa non hanno nulla che
vedere coi problemi della filosofia, e che solo tardivamente, come
abbiamo ripetuto, essi divengono per il pensiero, jgià più evoluto e
più sicuro di sé, un problema ontologico. Non si esclude che la
filosofia possa proporsi i problemi e i simboli dell'anima religiosa
come proprio oggetto di ricerca, ma lo stabilirne prima la natura sto-
rica (meglio, « valutativa», e non ontologica) li pone in una luce total-
mente diversa.
L'altro volume dei Salvatorelli, Introduzione bibliografica alla storia
delle religioni^ non contiene che della bibliografia con qualche piccolis-
sima nota critica. Eppure un libro simile;, potentemente pensato e non
ridotto ad un nudo elenco di opere, o almeno preceduto da una parte
generale, che avesse esposto criticamente le posizioni della scienza
storica contemporanea di fronte alle affermazioni dell'anima. religiosa,
sarebbe stato importante ed utilissimo in Italia, ove manca un'elabora-
zione originale — per quanto possa essere anch'essa discutibile — dei
risultati della storia religiosa degH ultimi venti anni. Le soluzioni, date
dal Croce e dal Gentile al « problema religioso », e che il Salvatorelli
dice non confutate * e superate, senza però spiegare se egli le accetti o no,*
non possono essere discusse qui ; ma è chiaro che i due illustri autori
ignorano completamente le ricerche storiche sulle varie religioni, i dati
etnografici indispensabili per chi non voglia fare opera del tutto fanta-
stica, e non conoscono né le lingue, né le letterature dell'Oriente. Defi-
nire la religione come un2i filosofia inferiore è affermazione destituita
d'ogni riguardo storico-etnografico, paragonabile a quella di un patologo
moderno, il quale affermasse che i neoplasmi sono dei lusus naturae o
volesse rinnovare le fantastiche teorie di Paracelso sulla febbre... La reli-
gione non é mai, « fatto teoretico », in quanto religione ; gli elementi af-
fermativi si aggiungono solo in tempi posteriori e in costruzioni filoso-
fico-teologiche. Né più vera é l'altra proposizione del Salvatorelli (che ri-
sente del vecchio Protestantesimo), per cui soltanto nelle ^ra/^rf/ religioni
(perché non dire esplicitamente: nel Cristianesimo?) la vita religiosa
1 Saggi di storia e politica religiosa, p. 278.
La fase attuale degli studi di storia religiosa 45
si mostra in tutta la sua complessità e profondità, e chi ha passato
t'itta la sua esistenza a studiare la religione australiana o quella dei
Pelli Rosse assai difficilmente potrebbe arrivare a comprendere che cosa
sia « religione». Si potrebbe domandare: — E chi ha studiato l'Islamismo
o il Parsismo, riuscirà a comprendere? — È il solito pregiudizio cpnfes-
sionalistico od etnico, la solita assunzione arbitraria delle note concet-
tuali della religiosità da un campo solo. del dominio storico religioso.
Un discorso a parte meritano gli studi del grande orientalista e
scienziato Leone Caetani: ì suoi lavori sull'Isiàm valicano il puro
campo orientale semitico ed entrano in quello più vasto della scienza
in senso generale (geologia, storia universale). Il merito grandissimo
del Caetani è di aver ricondotto alla sua vera base geo-biologica lo studio
delle migrazioni. dei popoli semitici, sino air ultimo grande fatto storico
che è r Isiàm. L'oscurissimo problema dell'origine e della sede primi-
tiva dei popoli semiti, inintelligibile alla pura filologia, acquista, con
le dimostrazioni, ormai inoppugnabili, del Caetani, una spiegazione
logica e scientifica. Il Lammens può ben dichiarare la sua incompe-
tenza in materia geologica ; può sbrigarsi in due righi degli argomenti
del Caetani; ma ciò dimostra fino all'evidenza l'invincibile mentalità
sacerdotale e l'atroce paura del credente, che resta a distanze astrono-
miche dalla scienza. La vita d' un popolo non s' intende, distaccata dalla
terra in cui è vissuto e vive: la storia o è mesologia, o è raccolta di
fatti slegati, senz'ombra di spiegazione. Le emigrazioni del popoli se-
mitici sarebbero del tutto enigmatiche, se non si sapesse ormai quali
siano state le vicende della penisola arabica. Tutte le altre ipotesi pos-
sono dirsi definitivamente superate.
Ma la geniale teoria del Caetani ha una applicazione innegabil-
mente felice anche nel campo ierologico. Le religioni semitiche più
antiche hanno indubbi caratteri arabici, che si sono tenacemente con-
servati fino in tempi assai più tardi, quando la religione aveva già
potuto organizzarsi in un mondo autonomo. Si sente in essa perspi-
cuamente il deserto, la maligna influenza della miseria e della selvagia
aridità del suòlo. Feroci e sanguinari erano Jahvè e Dagòn, perchè
tali erano le tribù, che li avevano foggiati, e tale la vita durissima,
ch'esse avevano condotta nel deserto. Si potrebbe immaginare un
Buddo arabo o un Maometto ellenico? L'influenza dell'ambiente non
deve essere più intesa, come facevano i vecchi mitologi, nel senso che la re-
ligiosità sia nata dalla paurosa osservazione dei grandi fenomeni naturali;
ma bensì nel senso che qualunque società umana reca in sé le stigmate
del luogo in cui vive: la ricchezza e la fertilità si riflettono nella trascri-
zione spirituale e nella vita d' un popolo ; come la povertà del contenuto
psichico non è che il riflesso della tristizia e della malignità del suolo.
46 Giosuè Maliandi
La religione dei Fuegini non può esser confusa con quella dei Bantu;
il Dio Tlaloc o Huitzilopochtli non si può scambiare con Mitra o
con la figura semi-totemica del serpente Wollunqua d'Australia. La
storia dei dommi, che è la codificazione più completa degli assurdi
dal punto di vista della psicologia individuale, contiene innegabili
prove deir influenza dell'ambiente sulla concezione di alcune figurazioni
simboliche di luoghi o di eventi storici od extrastorici. La figura del-
l' Inferno, per esempio, a cui pure hanno contribuito tante società e
tante generazioni diverse, è d'innegabile origine orientale semitica. In
essa la Oehinnon, concezione moabito- fenicia, s'è fusa con un concetto
strettamente arabo, derivato dall'esperienza dei grandi ardori del de-
serto (processo parallelo di simbolizzazione del giudizio universale
nella valle di Jahvè sciaphaf). Tanto è ciò vero che nella traduzione
slava del libro d'Enoch, l'Inferno è situato nel nord, in ana regione
di ghiaccio e di freddo intenso^ mentre nel testo etiopico la prigione
infernale è piena di fuoco ed è situata nelV estremo sud,» Lo stesso è
avvenuto nella concezione del Paradiso, il quale, se avesse avuto or-
gine tra gli Esquimesi della Groenlandia o tra i Daiachi di Borneo,
probabilmente sarebbe stato concepito in modo diverso, e certo non
si chiamerebbe nemmeno col nome persiano di Paradiso. Il Requiem
babilonese per i morti, che si avviano all'Aràlu, non era che un ango-
scioso appello dell'anima beduina, martirizzata dalla sete del deserto:
< Che Ninib ti faccia bere acqua pura ! ».
Le origini del monachismo cristiano forniscono un'altra prova,
forse un po' meno evidente, della profonda influenza dell'ambiente. Il
monachismo è nato in Egitto all'epoca copta, e della terra d'Egitto e
dei Copti ha conservato traccie indelebili nella sua stessa concezione»
nelle regole, fin nell'abito. Per un periodo lunghissimo il monachismo
cristiano si considerò come una storia meravigliosa, vera ascesi spi-
rituale, e i cenobiti di Scete e della Nitria, come eroi perfetti, e e
Girolamo e Palladio di Elenopoli avevano rivelati alla venerazione
entusiasta della cristianità occidentale. Le Vitae Patrum e gli Apo-
phtegmata Patrum sono stati il viatico spirituale di molte anime e
di parecchie generazioni. Ma un bel giorno, o un brutto giorno, si
rintracciano in Egitto (nei vari dialetti copti) le vite autentiche dei
famosi anacoreti (Pacomio, Scenute, Macario, Giovanni Kolobos, ecc.)
e l'aureola meravigliosa che li illuminava comincia a impallidire...
Pregiudizii e difficoltà tecniche di vario genere hanno impedito
in Italia la creazione di un vero insegnamento universitario della storia
religiosa, come si ritrova in quasi tutti i paesi d'Europa e negli Stati
Uniti ; ma la Facoltà orientale in Roma e l' Istituto Superiore di Firenze
sarebbero certe le due sedi più indicate per lo sviluppo di uno studia
La fase attuale degli studi di storia religiosa 47
veramente scientifico delle religioni. Perchè queste sono la conclusione
del nostro articolo (che non poteva certo essere né completo né esau-
riente) e la linea secondo cui si orientano le ricerche moderne: il pro-
blema religioso non essere di natura trascendente o diversa da quella
di tutti gli altri problemi storici del mondo umano; la storia del
Cristianesimo doversi studiare con gli stessi criterii e con lo stesso
metodo con cui si studia 1* Isiàm o la religione degli Hovas, che i libri
cristiani si^ trovano sullo stesso piano logico e metafisico del Mi
cinese, del Kuastuanift manicheo, del Sidrà de Niscmata mandaico.
Giosuè Maliandi.
^
LA PIO ÌNTICA aristocrazia CORINTIACA
(I Bacchiadi : ? - 610 circa a. C.)
(Continuaz.; cfr. A. /, fase. I-II).
Nuiperose testimonianze inducono qualsivoglia più cauto indaga-
tore della storia greca a porre tra Corinto e la Beozia, negli anni del-
l'aristocrazia, una non turbata serenità. Cantava la leggenda, che è
poi, in questo caso» il raggio ideale innalzato sovra il terreno solido
dei fatti: Poseidon, dominatore delle acque^ generò Eolo e Beoto: dal
primo i corinzi Sisifidi, dall'altro gli abitanti della Beozia ebbero na-
scimento.^ Inoltre, Sisifo, il monarca favoloso dell'istmo, attraverso la
nepote Crisogene, fecondata da Poseidon, dava i natali a Minia fon-
datore della beotica Orcomeno.'-^ E finalmente l'Edipo tebano, intorno
al quale ascese così sublime l'ululato della tragedia greca, venne rac-
colto — così suona il mito — dai pastori sovra i declivii del Citerone
e crebbe nella reggia di Polibo corinzio, forse entro il villaggio di Te
nea situato a mezzogiorno della città di Sisifo e celebre perchè da
quel punto numerosi coloni avrebbero prese le mosse a gettar le basi
della lontana Siracusa.3 Si aggiunga cheil instino di Atteone corin-
tìaco assassinato da Archia (il quale poi scontava la colpa abbando-
1 Prellfr, Griech. MythoL, ed. e. I, 469.
« Scholia in Apollon. Rhod. argonaut. Ili, 1094.
8 SOPHOCL., Oed. rex, 771-834, 909 910. 924 1182; EuRiP., Phoenis., 100-1007;
Pherecyd., ap. Sclwl. in Eurip., P/ioenis., 53; Nic. Damasc, /rag. 15 in FMG.,
Ili, pp. 366-367; Strab., Vili, 6, 22; Paus., IX, 26, 2, X, 5, 2; Plut., de euriosit.,
523 A. C. ; Hygin., fab. 67 (ed. Schmid), 1872, pp. 73-74; Apollod., Bibiioth., Ili,
48-56 e sgg., Sehol. recent, in Aeschyl. sept. coni. T/ieb., ed. Dindorff Oxon., 1851,
p. 297, SchoL in Eurip. Phoen. argutnent. V e poi 28, 29; 44, 71.
La più antica aristocrazia corintiaca 49
nando la patria e facendo vela verso la Sfcilìa) sembra trovar riscon-
tro nei casi miserandi delle figliuole di Scedaso di Leuttra; i due
racconti favolosi, quello corinzio e quello beotico, sono l'uno sull'al-
tro ricalcati.!
Se dalle brume leggendarie drizziamo, a grado, i passi verso le
prime luci tremebonde ed i fulgori meridiani della storia, sempre ci
muoveranno incontro i segni d'una perenne amicizia tra la regione
beotica e la terra dell'istmo. Che Anfione di Tebe, ammaestrato da
Ermes, costruisse la cetra al cui suono traevan dietro le fiere man-
suefatte, apparisce dalle reliquie del poema Europa dovuto alla fanta-
sia del Bacchiade Eumelo,^ il quale poi a una delle Muse poneva il
nome di Cefiso, lago noto dolla Beozia.^ Di più : fra i Corinzi, come
tra i Beoti, fumavano gl'incensi innanzi all'ara delle Qariti,* e dall'istmo
— insistendo sovra le vestigia dell'amico Diocle che fuggiva la geni-
trice accesa per lui di fiamme impure — giunse a Tebe il Bacchiade
Filolao a dettar leggi intorno all'adozione e all'immutabilità, dei beni
da trasmettere intatti al lungo ordine dei nepoti. ^ Chi poi fosse punto
dal 'desiderio di seguire il prolungarsi negli anni di tali vincoli d'af-
fetto troverebbe che Chersia, epico poeta di Orcomeno, intuonò i suoi
canti nella reggia dei Cìpselidi ; ^ che sopra le monete di Coronea e di
Cope nella Beozia spiccava la lettera corinzia Kof incisa per ordinario
soltanto sovra i nummi usciti dalle zecche dell'istmo '^ che, allo scate-
narsi della lotta peloponnesiaca e per tutto' il prolungarsi dei sussulti
i Plut., Maral, amator. narrai., lU- Le vicende di Atteone corinzio formaqo oggetto
del racconto che precede {ibid., li): da aggiungere poi clie lo slesso Scedaso di Leut-
tra, in cammino verso Sparta, ode da un cittadino dell'euboica Oreo narrata la fine
di un figliò suo perito tragicamente come Atteone e per l'identico sferrarsi di tor-
bide passioni d'amore {ibid.. 111).
2 EuMELOS ap. Paus., IX, 5, 8.
3 iD., ap. TzETZ., in Hesiod., 25; epic. graec. fragni, (ed. Kinkel, p. 195); Wi-
LISCH,. //A. die Fragni, d. Epik. Euniel., 38; Io., Spiir. altk. Dicht. ausa. Euniel. in
lahrbucb f. class. P/u!olog.,B. 123 (1881), p. 163; Curtius, Stud., z. Gescli. v. Kor,
—in Hermes, X (1876), p.,217.
Hi 4 WiLiscH, Spuren n. s. w,, /. e, p. 163.
^ 5 Aristot., Polli., \Tl\ a 30-42, 1274 b, 1-5. La data del soggiorno di Filolao
in Tebe, si ricava, giusta il Duncker, considerando che Diocle fu vincitore dei ludi
in Olimpia verso il 728: poco tempo dopo i due amici avrebbero cercato rifugio
fra i Tebani (Duncker, op. e, V 3Q7 nota 2*). 11 ragionamento sarebbe accettabile
qualora fosse concesso di giurare sovra l'autenticità degli anni segnati nei più an-
tichi elenchi olimpiaci: ma ciò non è. A noi basta sapere da Aristotele che Filolao era
Bacchiade ('t>iXóXuo5 xò nèv y^vo? toóv BaxxiaSiòv, Poi. 1274 a, 32, 33).
6 Paus., IX, 39, 9; IX 29, 2.
7 RAOUL-RocHETTe, Un vase peint d. fabriq. corinihien. in Annal d. Inst. ar~
cheolog. 49 (1847), p. 250, nota 2*.
4 — Nuova Rivista Storica,
50 Guido Porzio
della guerra sino al trionfo di Lisandro spartano, le milizie di Tebe
a fianco di quelle corinzie caricarono il nemico comune.^
Quale fosse Tenergia operatrice del diuturno accordo tra le due
terre mal si ricava dalle congetture degli eruditi che, come il Wilisch,
invocarono, a spiegare Tunione dei due popoli, la voce del sangue.^
La comunanza delle origini non è mai stata, per sé stessa, cagione
d*amicizia : ha porto, anzi, molto spesso, cogli attriti quotidiani, esca
potente al divampare degli odi. La veemenza dei rancori, qualche volta
inestinguibili, alimenta le sue fiamme più rutilanti proprio dove la
comunione della schiatta farebbe attendere una pace di spiriti fraterni :
questa legge vale così per le famiglie come pet i popoli. Anche nel
caso nostro la storia si spiega, non col dar ascolto ai battiti del cuore
e col mirare in alto le luci iridate dei così detti ideali, ma abbassan-
doci a scrutare l'opera occulta delle radici profondantisi nella nera
terra. Si pensi che la Beozia, a motivo delle acque copiose, era una
delle regioni più feraci dell'Eliade antica ^ e che, mentre da un lato
acque siffatte — o mormoranti libere negli alvei naturali, o frenate, nei
costruiti condotti, dall'opera umana — irrigavano i pingui orti e li
rendevano superbi di erbe nutritive più che in qualunque paese della
Grecia,* d'altra parte le reti dei pescatori gettavano sopra le sponde
delle lacustri cavità cumuli di anguille mescolate a pesci varii,^ e le
praterie verdeggianti erano alimentatrici di destrieri focosi,^ e nei campi
ondeggiavan le messi feconde di grano la cui potenza nutritiva vin-
ceva di gran tratto — come fanno ricordo Teofrasto e Plinio — quella
del frumento maturato nelle terre attiche.'^ Inoltre, a saziare le voglie
dei facoltosi buongustai, pernici in gran copia e altre specie di pen-
nuti e di varia selvaggina eran nutrite dalla terra fertile e s'innalza-
vano a stuoli o veloci trascorrevano, fatte segno ai colpi degli esperti
cacciatori.8 Era, dunque, la Beozia un paese che poteva largire a Co-
1 Thucyd., I, 27, 2; II, 9, 2; Diodor., XIII, 8.
* Wilisch, Spnr. altkor, u. s. w. /. e, p. 163..
* Thucyd., I, 2, 3-4 (appunto a cagione di siffatta fertilità la Beozia fu una delle
terre -maggiormente funestata dalle invasioni), Eustath, comment. in lliad.^. 189 (il
popolo beota è detto pingue ed opimo dal cantore epico per la fertilità delle sue terre).
4 DiCAEARCHi vel potius Athenaei descript. Graec, 13, 20, 21 in Geograph. Graec.
Minor., I, pp. 102-103: è giunta a noi memoria della magnificenza dei cocomeri e
dei superbi napi, Athen., epitom. I, 4 d; Io., Ili, 74 a.
5 DoRioN ap. Athen., VII, 297 e; feuBULUS ap. Athen., Vili 300 d; Aristophan.,
ap. Athen., VII, 302, d.
« Herodot., V. 77; Dicaearchi, vel potius Athen., descript. Graec, 13,20,21
in Geog. Graec. Min., I, pp. 102-103.
7 Theophrast., hist. piantar.. Vili, 4, 5 ; Plin., n. h., XVIII, 12, 3.
8 Athen., IX, 390 b : ricordiamo che l'essersi i congiurati, amici di Pelopida, na-
scosti sotto le spoglie di cacciatori per aver più facilmente libero il passo a rove-
La più antica aristocrazia corintiaca 51
rinto abbondanza di frutti agricoli e altri prodotti della terra e delle
acque: paese nel quale l'industria suonava, tutt'al più, entro le dome-
stiche pareti per l'appagamento dei bisogni più semplici dell'uomo:
ben lontana, quindi, dal desiderio inquieto d'una conquista di mer-
cati stranieri. E ciò significa che i Beoti, mentre sulle navi corinzie
caricavano l'eccesso della loro produzione agricola e gli splendidi ortaggi
e gli animali o vivi o uccìsi, erano poi tributari dei Bacchiadi in quel
che riguarda una parte cospicua dei manufatti usciti dalle officine del-
l'istmo. Non basta. Scriveva Eforo che nelle acque del golfo Criseo 1
— ivi s'incurvava un porto beotico nel lato del seno corinzio che
più volge al sol levante 2 — venivano ad ancorarsi le navi cariche
dei prodotti della Sicilia della Libia e d'Italia. Se anche tale testi-
monianza è pervenuta a noi mutila, quasi reliquia sovranuotante
dopo la deplorata dispersione delle opere del narratore, tuttavia ap-
pare manifesto che la maggior parte dei legni ingombri di merci
e solcanti le acque del Criseo erano proprietà di mercatori corin-
tiaci. Tebe e i Beoti solo molto tardi. ebbero navi proprie, e sup-
porre che altri legni di repubbliche navigatrici osassero veleggiare in
quelle acque, ch'erano, allora, mobile palestra all'esclusiva attività co-
rinzia, significherebbe abbandonarsi a temerarie congetture. In tal
guisa l'accordo dei due popoli scaturiva da vicendevoli utilità e in
esse trovava il suo saldo fondamento ; possedeva, cioè, quella forza
di coesione che dev'essere, per ordinario, reputata massima nel regno
degli umani.
Per quel che s'attiene all'isola di Samo, essa dette inizio alla
propria ascensione industriale e mercantile forse quando ancora i re
splendevano sul trono, s'agitò vivace negli anni dell'aristocrazia per fol-
gorare poi lontano, come un grande centro di luce e di vita, al tempo
di Policrate.3 Dalle officine samiote uscivano tappeti di tinte varie,^ e
squisiti lavori di orefici,^ e bronzi colati magistralmente,^ e ferrei ar-
sciare l'oligarchia dimostra abituale lo spettacolo di tali comitive venatorie e perciò
non atto a richiamare l'attenzione delle sentinelle che stavano a guardia delle porte
di Tebe (Plut., Pelop., 8, 3).
1 Ephor., ap. Strab., !X, 2, 2.
« PsEUDi-ScYLAC. perlp. in Geogr. Graec. Min., I, p. 38, Chrestom. ex Strab.
lib.. Vili, 31 in /. r., II, p. 584 ; anche un passo deiri4^^5//flo di Senofonte (II, If 19)
dimostra abituali i viaggi nelle acque del Criseo.
* Per la potenza e la magnificenza di Policrate cfr. Herodot., Ili, 125.
-* ATHeN., X, 540 d ; Theocrit., XV, 125.
5 Opera dell'artefice. Teodoro fu l'anello di Policrate, Herodot., III, 41 : gioielliere
era il padre di Pitagora di Samo, Suid. s. v. nvdayóQag; Tzetz., Chillad., VI, 369;
Apulei., Florid.j p. 129 (ed. Bipont.).
6 Plin., n. A., XXXV, 152 : Reco e Teodoro inventarono la fusione dei metalli
(passo gigantesco nel metodo di saldatura, come s'esprime il Blumner, Uattiv. industr.
52 Guido Porzio
iiesi con saldature non frangibili, fi cantore Asio nei frammenti della sua
perduta epopea descrive gl'isolani esultanti negli agi e molto vaghi di
morbidi piaceri.^ In tali condizioni tra l'isola industre e la terra del-
l'istmo, agitate da identica operosità produttrice, v'era materia copiosa
all'accendersi degli odi. Ma Samo, quantunque per testimonianza di
Erodoto 2 drizzasse talora le prore audaci sino alle colonne d'Ercole,
recava tuttavia, in maniera precipua, i suoi prodotti ai sovrani della
Lidia, ai gran re persiani e ai loro popoli -? procedeva, adunque, alla
conquista di paesi nei quali la penetrazione dei Corinzi, volta piut-
tosto al dominio mercantile dell'occidente, giungeva, se mai, fievole e
scarsa. Si comprende cosi che in anni remoti, quantunque non se-
gnati con storica esattezza, il re dei Samii Amficrate muovesse guerra
ad Egina,* mortale nemica dei Bacchiadi. Tra gl'impulsi varii determi-
nanti lo scatenarsi della guerra è necessario far una parte cospicua
all'accorta diplomazia dei mercatori corintiaci. Èssi, fuor d'ogni dub-
bio, dovettero soffiare nelle ire perseguendo lo scopo di servirsi delle
mani altrui per vibrar la percossa ai proprii nemici. Del resto la cor-
dialità delle relazioni tra Samo e Corinto, mentre la più antica ari-
stocrazia dominava sopra l'istmo, ha il suo piti cospicuo assertore in
Tucidide, il quale narra che Ameinocle armatore corinzio, verso l'anno
704, apprestò ai Samioti quattro navi annunzianti già, nella lor forma
più perfetta, l'agile trireme.^
Invece il contrasto degl'interessi sopra i mercati d'Italia suscitava
gli odi tra Corinto e la ionica Mileto. Nelle reliquie di Timeo s'in-
travede la tenacia invitta spiegata dai Milesii nello spingere attraverso
Sìbari sino al paese degli Etruschi coperte di lana e molte specie di
stoffe intessute. Chiusa era la via più agevole dello stretto di Messina:
chiusa, secondo un'assennata congettura,^ dalla rivalità dei Calcidesi
e dei Corinzi che, dominando da tempo Coi loro prodotti sovra le
terre dell'Etruria, mal tolleravano la concorrenza degli arditi abitatori
della Ionia asiatica. I pochi cenni a noi pervenuti coll'integramento di
dei popol. dell'ani, class, in Bib. distar, econom. ed. e. v. II, part. 1*, p. 548) «multo
anto Bacchiadas Corintho pulsos ».
1 Asius in epic. graec. fragm., ed. Kìnkel, Leipz. 1877, p, 206.
« Herodot., IV, 152.
3 ID., E, 51, 3; Athen., XII, 514 f, 515 a.
* Id., ifi, 59: la congettura del Duncker {op. cit., V5, p. 406), che la guerra non
potè essere combattuta più tardi della fine dell'ottavo secolo perchè verso il 700 a
Samo non v'erano più re, si presenta ragionevole.
6 Thucyd., I, 13.
«. TiMAEUS, fragm. 60 in /7/G, I, p. 205 ; Meyer Ed., Gesch. d. Alt^ II,
(1892), p. 539.
La più antica aristocrazia corhitiaca 53
naturali supposizioni bastano a porci innanzi la rabbia sorda dei ne-
goziatori che, dopo aver cupamente rumoreggiato nei solchi aperti
dalle navi e lungo le vie terrestri battute dai carri ingombri di pro-
dotti, si rovesciava di bel nuovo dai paesi occidui sui campi e sui
mari ellenici con nembi di guerra. Mileto ostacolava alle mercanzie dei
Samioti le vie dell'Asia: premeva, inoltre, co' suoi manufatti verso i
paesi dell'Esperia sulle traccie dei venditori corinzi: valida spinta, -adun-
que, per indurre Corinto e Samo a congiungere le destre nei medi-
tati assalti e nelle difese opportune. Così la concordia aveva suo te-
nace cemento nell'odio comune. Era poi naturale che, quando il
groviglio degl'interessi e degli odi si arruffava di soverchio, esso fosse
reciso a colpi di spada. Fu questo il caso della guerra lelantea. Le
ire concepite nel trascorrere di molte generazioni e avvelenate ogni
giorno dall'urto dei mercatori affrettanti, a prova, il passo sopra le
vie del traffico, le guerre prima accese come vampe solitarie nella va-
stità del mondo greco, i cupi rancori e le proteste clamorose, in una
parola, tutti i singeli contrasti confluirono, dopo una serie di sussulti
parziali, in una spaventosa conflagrazione che rapinò ne' suoi vortici
quasi tutto il mondò greco. A porgere ai lettori un'idea del vasto con-
flitto Tucidide sente la necessità di ricordare lo sforzo degli Elleni
intorno alla città priameia.i I popoli nemici da lunghi anni (Eretrii,
Calcidesi, Samioti, Milesii e forse Corinzi, Megaresi, Corciresi, Egineti)
convennero nell'Eubea e lungamente s'aggirarono in una ridda armata
e tnffaronsi nel sangue, non per stabilire se le quattro zolle dei campi
di Lelanto dovessero cadere sotto il dominio dell'una o dell'altra città
euboica, ma per risolvere colle armi in pugno la secolare contesa della
conquista dei mercati. Vedremo tra breve quale densità di caligini av-
volga tuttora la partecipazione dei Corinzi a guerra siffatta ; notiamo,
intanto, che nelle impalcature delle alleanze greche, in cui la chiave
di volta era costituita dagl'interessi convergenti delle città unite ad un
patto, bastava la più leggera deviazione per produrre un crollo dis-
solvitore d'ogni architettato edifizio diplomatico. Il tornaconto, a volta
a volta, dettava e lacerava i patti stabiliti. Quando, ad esempio, il ti-
ranno Periandro si congiunse d'amicizia al milesio Trasibulo,^ subito
tra Samo e Corinto, prima così avvinte di fraterna concordia, pro-
ruppero i crucci 3 annunziatori di prossime tempeste.
i Thucyd., XV, 1-3 (è chiaro nel pensiero del narratore il confronto tra la guerra
di Troia e quella lelantea, le due più' grandi imprese dei tempi antichissimi).
« Herodot., V, 92, 14.
3 Id., Ili, 48: nemici dei Corinzi, i Samii diventano, al tempo di Periandro,
amici dei Corciresi, come appare alla fine del citato capitolo erodoteo (III, 48, 4).
54 Guido Porzio
Una guerra commerciale e le varie ipotesi
INTORNO all'intervento CORINTIACO.
Vili.
Dubbiosa, com'abbiam detto, è la partecipazione di Corinto alla
catastrofe che chiuse nella Grecia la rivalità delle più antiche repub-
bliche navigatrici. Il problema della guerra lelantea sorge irto di non
lievi difficoltà, e se è vero che i critici han per uso di far uscire in
gran parte la piii vetusta storia greca da battaglie di parole e da ar-
tifiziose combinazioni di ipotesi infeconde, è vero anche che neirac-
canito abbaruffarsi intorno all'accennato problema meglio rifulge, con
fastidio degli ascoltanti, la loro nobilitade. Basti dire che per tale
guerra gli anni delle ostilità oscillano entro il giro di più che cento
anni, dalla fine del secolo VIII al terzo decennio del secolo VI (704-570
a. C). Anzi in questo caso la cronologia possiede la natura dei mo-
bili banchi di arena viaggianti nel deserto; che se il Belòch nella
prima edizione della sua Storia Greca poneva il 600 come data pre-
sumibile della lotta tra Calcide ed Eretria, nella second.a ristampa per
lo stesso urto delle due città euboiche stabilì il 570 quale segnacolo
nel tempo.i Camminano le date, come si vede: e se il Beloch farà
della sua storia una terza impressione, egli è ben capace, pur di tenere
in bilico qualche nuovo architettato sistema cronologico, di far scen-
dere la guerra per i campi di Lelanto fino alla vigilia delle battaglie
combattute contro il re dei Persiani, Dario d'Istaspe.^
A nostro avviso giova impostare i termini del problema così : S'è
Corinto gettata nella conflagrazione della guerra lelantea ? In caso af-
fermativo, ha essa combattuto a fianco di Calcide o di Eretria?
Alla prima domanda rispondiamo che i dotti possono, a loro posta,
frugare nelle memorie dell'antichità alla ricerca di un passo da cui la
parte presa dai Corinzi nella guerra pei campi di Lelanto salti fuori
anche solo per accenni.
1 Cfr. perla cronologia Curtius, Stad. x. Gesch. v. Kor. in Hermes (1871), 220-222;
BusoLT,oyt;. aV., I«,456; Meyer, op. cit., II, 539; Pohlmann, op. cit., 46; Beloch,
op. ci., I», 289, I« !• Abt. 338.
* Il motivo di questa semovente cronologia belochiana è che l'a. nella 2* edìz.
della Star. Grec, rese alquanto più prossimo a noi il tiranno Perìandro : ora questi,
stando al Beloch, intervenne nella lotta lelantea : quindi spostamento nella data della
guerra.
La piU antica aristocrazia corintiaca 55
Questo passo non c'è.^ Che, adunque, Corinto, in tale frangente,
abbia tratto dal fodero la spada è una pura supposizione dei moderni
investigatori della storia greca, supposizione espressa, diremmo quasi
ricalcata, con un identico giro di frasi convenzionali. « Innanzi a così
grande eccidio di guerra ai Corinzi, che guidavano i destini d*una
repubblica potente, non era dato di « rimanere semplici spettatori >
scrive il Busolt. « Se tutto il mondo greco si schierò o con 1* uno o
con Taltro dei contendenti, Corinto dovette certo gettarsi nella mischia »,
annuisce Edoardo Meyer. Dominatrice delle acque, « Corinto non po-
teva non prender parte alla guerra » tra Calcide ed Eretria, suona la
conferma di Erick Wilisch. «A una potenza navale come quella di
Corinto non era concesso, durante guerra siffatta, di chiudersi nella
neutralità », sentenzia Giulio Beloch.^ Si tratta, dunque, d*un' ipotesi che
potrebbe colpire giusto, ma anche errar molto lungi dal prefisso segno.
Confessiamo che la superba solitudine della più antica aristocrazia
corintiaca, durante una guerra in cui tutti i nodi arruffati nel giro di
molti anni venivano al pettine, cioè al filo tagliente delle spade greche :
confessiamo che una tale supposta solitudine non ha per noi nessuna
seduzione. Ma è certo, d'altra parte, che in un caso solo potremmo
ben apporci ; se il groviglio delle vicende elleniche dall' Vili al VI se-
colo ci si dipanasse innanzi compiutamente chiaro, senza velami mi-
steriosi. È così? Folgorata da dimanda siffatta il Beloch non potrebbe
torsi d'impaccio neppure con uno de' suoi disinvolti naturalmente.
Ma ammettiamo pure siccome certa la partecipazione dei Corinzi
alla guerra tra Calcide ed Eretria. Da qual parte avranno essi schierato
1 Non in Tucidide e nelle chiose de' suoi scoliasti (I, 15, 3 e Schol. in Thucyd.t
I, 15, 3), non in Erodoto (v. 99, 1), non in Strabone (X, 1, 12; 3, 6), non nei frammenti
aristotelici (Aristotel., fragni.^ 98, Rose, p. 96), non nei versi intercalati nelle opere
esiodee ("Bey., 650 e sgg.), non in Plutarccj {sept. sap. conviv., 10: op. mar., 153), non
nelle relique di Archiloco (fragm. 3 in P. Lyr. GraeCy Bergk, II* 383) : vedreqjo che i
pretesi distici di Teognide (Theoon., 891 : ed. Berghk, IH, p. 195) non hanno valore,
né per stabilire la parte presa dai Corinzi nella guerra, né per fissare la cronologia.
« Busolt, op. cit.t I«, 456; Meyer, op. cit., II, 539; Whilisch, Beitr. z. Gesch.
V. Kor.y 9, Beloch, I», X* Abt. 339 nota 1* : la recisa affermazione del Meyer parrebbe
trarre il suo vigore dalle parole di Tucidide, che, cioè, alla antichissima guerra tra i
Calcidesi e gli Eretrii »eol xò àXXo 'EX-X-nutòv èg |v|j,(i.axtav éxaTéQoov òiéorr), l, 15. Ma s'an-
drebbe certo oltre il pensiero dello storico, il quale volle significare la partecipazione
alla lotta, non di tutta V Eliade ^ ma di una parte più o meno cospicua di essa. Così
il passo fu inteso da tutti gli storici moderni. Diremo poi che lo scoliaste tucidideo
(Schol. in Thucyd.y I, 15) si trovò in tale impiccio nel chiosare la frase dello storico
(evidentemente che tutto il mondo greco fosse travolto nella guerra gli parve un'esa-
gerazione intollerabile) che egli ammise, si, una specie di alleanza platonica universale
dell'Eliade per l' una e per l'altra città lottatrice : ma queste, dopo tutto, fecero da sé
<e la loro si ridusse ad una monomachia.
56 Guido Porzio
i loro eserciti? La risposta suonerà diversa secondo due diversi casi:
o che il furore delle armi siasi abbattuto sovra l'Eubea al tempo dei
Bacchiadi, ovvero durante la tirannia di Cipselo e dei discendenti. A
suffragare la prima supposizione soccorrono molti indizi suggestivi che
ognuno può leggere nelle pagine di Giorgio Busolt. Ad esempio, i
Samii, durante la guerra lelantea, furon larghi di so:corso ai Calci-
desi. Lo dice Erodoto e non v'è dubbio.^ Ora, poiché Tucidide afferma
che nel 704 Ameinocle corinzio costruì ai Samioti quattro navi, il Busolt,
insieme con altri, vide in tale fatto un apprestamento a quel cozzo
d'armi in cui vennero ad urtarsi le due precipue città dell'Eubea ed
altri stati greci. No, rimbrotta G. Beloch, la piti antica battaglia sulle
acque, giusta il ricordo di Tucidide, fu combattuta nel 664, vale a dire
40 anni dopo che Ameinocle aveva atteso in Samo a costruire le quattro
navi ricordate. Or chi ha detto al Beloch che costruire quattro navi e
interpretare un tale affaccendarsi come preparazione ad una guerra
imminente significhino, nel Busolt e negli altri, la certezza di un grande
scóntro sulle acque al tempo della guerra lelantea? Questo il Busolt
— che ammette, anzi, aver i Calcidesi e i loro amici vibrato per terra
contro gli Eretrii il colpo decisivo — ne ha espresso, né mai s'è so-
gnato di esprimere. Già il numero esiguo delle navi costruite esclude,
per sé stesso, ogni impeto di battaglia sul mare: ma ben potevano i
quattro legni somministrare aiuto prezioso nella difesa dei trasporti di
uomini e di armi dalle spiagge di Samo a quelle dell'Eubea. Così pure
il Busolt invoca quale indizio il frammento di Archiloco, poeta che fiorì
verso il 650 a C. La reliquia archilochea fa cenno dei signori delVEubea
famosi nel palleggiar la lancia?' A diventar illustri per tale ragione oc-
corre una guerra che dev'esser stata quella di Lelanto, e gli anni in
cui fioriva il cantore (650 à. C.) ^ saran pure gli anni delle battaglie
combattute tra gli Eretrii e i Calcidesi. Ma anche qui il Beloch fa con-
trasto affermando che in molte guerre, durante il secolo VII, dovettero
pugnare i dominatori della grande isola e che non v'è proprio bisogno
di tirare in Ballo la lotta lelantea.
Ora, a farlo apposta, Strabone ci fa sapere che tali perpetui sussulti
di ostilità tra le due terre euboiche più importanti non ebbero luogo,
che, anzi, quasi sempre esse vissero senza guerra, eccezion fatta per
quella che da Lelanto prese il nome.* Non basta: ma i dominatori glo-
riosi per le palleggiate aste richiamano al pensiero i patti sanciti,
1 Herodot., V, 99, 1.
« Archi LOCH., fragm. 3 in Poet. Lyr. Graec. (Bergk), II<, 386.
3 Beloch, op. cit, I«, 1« Abt. 313, 2« Abt. 349 e sgg.
* Strab., X, 1, 12.
La più antica aristocrazia corintiaca, 57
giusta la testimonianza straboniana, tra gli Eretrii e quei di Calcide
mentre imperversava la lotta dì Lelanto, patti incisi sovra una stele in
Amarintio che stabilivano dover le avverse milizie far rinunzia negli
scontri alle armi da getto.* Tal divieto includeva implicito il consenso
di servirsi della protesa lancia come usarono, del resto, gli Eubei anche
sotto i propugnacoli di Troia, durante la lotta decennale: ^ e una guerra
combattuta con tanta lealtà serena, pure in mezzo ai fumi delPodio
che nel contrasto dovettero sprigionarsi, e la circostanza che detta
guerra esplicavasi tra i principali contendenti a soli colpi di lancia:
tutto questo, dico, poteva bene far risuonare la fama tra i Greci e
meritare l'erezione di una stele a perenne ricordo e l'onore dei versi
di Archiloco.
Si aggiunge il ricordo del sovrano Amfidamante di Calcide caduto
colle armi in pugno combattendo contro gli Eretrii nella guerra di
Lelanto. Del guerriero è fatta menzione nel convito plutarcheo dei sette
savi e da Prode nel commento alle opere del cantore Esiodo, più in
un episodio intercalato negli Erga del poeta ascreo.^ 11 Beloch ha sen-
tito il bisogno di insistere sull'interpolazione dei versi esiodei: ciò che
anche il Busolt ammetteva.^ Ma poi lo stesso Beloch riconosce pro-
babile che la notizia di Plutarco sia tratta da buona fonte. E questo
ci fa paghi. Se un re di Calcide lasciò la vita nella guerra lelantea
vuol dire che a questa guerra è duopo assegnare una più alta antichità
che non sia quella dei Cipselidi.
Però i barbassori della critica non fan parola di due indizi, i quali
con più suaditrice eloquenza c'indurrebbero a porre la guerra per 1
campi lelantei negli anni della più antica aristocrazia corintiaca.
Primo indizio è l'espressione tucididea che battezza la lotta sic-
come antica e perciò oscillante con mal certi contorni nella memoria
degli uojnini.5 Ora se l'urto dei popoli avesse insanguinato le terre
euboiche nell'età dei tiranni — cioè, un cento e quaranta anni in-
nanzi che nel pensiero di Tucidide germinasse il disegno delle storie
meravigliose — certo al narriltore di Atene non sarebbe caduco nel
» Strab., ibid., X, 1, 12.
« HoM., ap. Strab., X, 448.
3 Plut., sept. sap. conv., 10; Hesiod. Eqy-, 648-652, Procl., in Hesiod. "'Eqy., 6550.
4 Beloch., op. cit., I«, 1» Abt. 339 nota 1», 312 nota 1% Busolt, I«, 459, nota 1».
5 Thucyd., I, 15, 3 : per l'antichità della lotta tutti, commentatori e traduttori, son
concordi (cfr. Hass, versione latina dell'ed. Didot «in ilio bello pervetusto » 'p. 7,
Am. Peyron., trad. italiana, Torino, Stamp. Reale, 1861, I, p. 65): del resto l'ès xòv
nàXai jtoxè vevófievov 3tóA,ejjiov tucìdideo non SÌ può intendere altrimenti. A ragione poi
Alfred Cf^oiset iJ)\\5C\i3.j texte grec etc, Paris, Hachette, 1886, p. 168, nota alla
linea 6^) ammonisce che il Jtoxé « lascia nell' indeterminatezza la data (Vili, o VII se-
colo) di questa antica guerra».
58 Guido Porzio
pensiero di attenersi al modo di esprimersi di cui invece fece uso.
Nessuno che respiri nel secolo XX le aure vitali reputa venerande per
antichità e fluttuanti nelle brume del passato le battaglie di Federico II
degli Hohenzollern. L'altro indizio è dato da Strabone che, sorretto
dalla testimonionza dì Archemaco euboico, presenta la guerra tra Cal-
ci de ed Eretria- come una serie continua di scontri armati prolungatisi
nel tempo.i In tal guisa, ponendo nell'epoca della tirannia lo scatenarsi
delle prime ire guerresche, ci vedremmo costretti a far vibrare gli
ultimi echi della lotta negli anni postremi del secol sesto, quando la
Ionia meditava V insurrezione contro il Gran Re. Ma allora, trattandosi,
si può dire, d' un avveninento della vigilia, la frase di Tucidide appa-
rirebbe più che mai vuota di senso. Si faccia invece indietreggiare il
conflitto negli anni più remoti dei Bacchiadi e ogni incongruenza sparirà.
Se al Beloch, nella parte negativa della sua tesi, non arrise la
gloria del trionfo, peggio gì' intervenne allorché s'accinse a dimostrare
molto a noi prossima quella lotta di Lelanto cui anche il tiranno Pe-
riandro avrebbe recato il vigore de' suoi eserciti. E prima d'ogni altra
cosa, l'impossibilità agli inizi del secolo VII di un aggruppamento d'al-
leanze intorno ai Calcidesi e agli Eretrii scesi In armi (Tessali, Samìi
e forse Corinzi a Iato dei primi, Mileto a fianco dei secondi) si riduce,
dopo tutto, a un vano sogno belochiano. Bisognerebbe immaginare
paurosamente chiusi entro i proprii confini, afflitti dalla miopia d' un
particolarismo egoistico quei Greci che correvano a gara a piantar
colonie sulle spiagge dell' Italia e delja Sicilia, che recavano tra i re-
moti Etruschi i loro manufatti, che spandev?nsi intorno con una specie
di febbrile irradiazione feconda di opere. e di contatti quotidiani. Nello
sferrarsi di tante energie la concordia e la discordanza degli interessi
venivano a gravitare verso le constellazioni di alleanze opposte.
Ma la cavalleria tessalica, lanciata dai Calcidesi all'inseguimento
dei vinti Eretrii, lascia supporre che la Tessaglia già facesse sentire la
sua preminenza nella Grecia centrale e un tal fatto ci porta all'. poca
di Periandro, scrive il Beloch.
Ecco: questo nuovo peregrino argomenta riuscirebbe a dimostrare
qualcosa se all'autore venisse fatto di provarci che ai Calcidesi — primi
colonizzatori della Sicilia e quindi, insieme coi Corinzi, navigatori tra
i più audaci alla fine del secolo Vili — mancassero i legni per il tra-
sporto di poche centurie di cavalli e di cavalieri sulle spiagge dell' isola
nativa. Il Beloch ritiene che i cavalieri dovessero giungere per terra
i Archemaco Euboico — autore di età incerta, /7/0., IV, pp. 314 e sgg. —
presentò (ap. Strab., X, 3, 6) i Cureti abitatori di Calcide sempre (cwvqtas) in guerra
a cagione della pianura lelantea.
La più antica aristocrazia corintiaca 59
sulle rive del canale aperto tra l'Eubea e il paese dei Beoti: quindi la
necessità di una politica preponderanza della Tessaglia (fatto che s'av-
vera nel VI secolo) a spiegare come cavalli e cavalieri potessero avere
libero il passo. Ora, poiché i Calcidesi — certo nel tempo della loro
pili gagliarda operosità, al tramonto deirVIII e all'alba del secolo VII —
inviavano le loro mercanzie per una strada che attraverso il Pindo e
la Tessaglia sbucava nel golfo Maliaco,i non è proprio necessario
attendere più di cento anni per spiegare il trasporto della cavalleria
sui campi di Lelanto. La via percorsa un secolo innanzi dai carri in-
gombri di mercanzie ben poteva esser battuta dagli zoccoli dei destrieri
tessalici: poi quelle navi calcidesi che prima del 700 trasportavano a
fondar Nasso i pionieri ardimentosi potevano anche servire al tragitto
dei cavalli e degli armigeri dal seno Maliaco alle sponde euboiche. E
non ci attarderemo troppo a ripudiare, come argomento probatorio per
la cronologia, i versi ascritti a Teognide e che il Beloch, a dire il vero,
invoca dubitoso: «O viltà! Cerinto è distrutto, il fertile piano di Le-
lanto messo a viti viene devastato, di nuovo i cattivi han Tesercizio
del potere: possa Giove recare lo sterminio nella schiatta dei Cipse-
lidi».2 Non solo i distici non vanno attribuiti a Teognide ^ (e ciò ha
lieve importanza perchè rimarrebbe sempre il cenno alla stirpe dei ti-
ranni corinzi, da qualunque cantore la maledizione sia uscita), ma essi
hanno un così dubbio significato che il Duncker ben potè applicarli
alla guerra che verso il 507 arse fra Calcide ed Atene.* E Tultimo verso
suonante dopo Taccenno al lamentato dominio delle plebi (esso servi-
rebbe, unico, ai fini di O. Beloch) non è che una zeppa: una specie
di delenda Carthago in cui proruppe Todio di tutta Taristocrazia greca
contro il popolo e i tiranni guidatori :5 cosi vero che la stessa male-
dizione chiudeva Tepi^rafe incisa, secondo il racconto tradizionale, sopra
Taureo colosso sacrato da Cipselo all'olimpio Giove.®
E dopo questo ' diremo che la parte presa dai Corinzi alla guerra
lelantea non è sicuramente accertata ; che se poi la città dell' istmo fu
1 Cfr. questa stessa Rivista, anno I, fase. II, apr.-giug., 1917, pp. 224-225.
« Theoqn., 891; ed. Bergk, IH, p. 195.
« Berok in Poet. Lyr. graec, 1. e. : « haec duo disticha Theognide aliena ».
< Duncker, op, cit.y Vis, 575.
B Del resto anche il Beloch ammette la possibilità che i distici citati non abbiano
tra loro connessione, I«, 1* Abt. 339, nota 1*.
« Apell. Pontic, ap. Phot., s. v. Kvt|>8A,t8ffiv &vddT][ta, Suid. (sotto la stessa pa-
rola): cfr. FHQ., IV, pp. 288, 307.
7 Per. gli argomenti recati dal Busolt e dal Beloch in tale questione cfr. Busolt,
op. clt., I«, 456-457 (testo e note), 650 nota 6* ; Beloch, op. cit., H, 289, P, !• Abt.
389 e nota 1*; si vegga anche Costanzi, la guerra lelantea in Atene e Roma, 1902,
anno V, n. 48, pp. 769-790. Non c4ndugieremo intorno agli argomenti — del resto
6o Guido Porzio
anch'essa attratta nel vortice entro cui vennero a cozzare molti stati
greci (ecoccorrono a questo gravi indizi), ciò dovette accadere al tempo
della più antica aristocrazia corintiaca, la quale nell'ora dei dubbiosi
cimenti mantenne, così, inalterata l'amicizia antica: che se, infine, la
guerra lelantea, protrattasi senza dubbio per lunghi anni, ardeva
tuttavia all'epoca di Periandro, è da credere che il più bellicoso dei
tiranni corinzi — ch'era amico di Trasibulo signore dei Milesii stretti
d'alleanza agli Eretrii — portasse ànch'egli a questi ultimi soccorso.
Ma la supposizione, nei riguardi di Periandro, è dannata veramente:
essa si libra a mezz'aria sovra il sostegno di fisime repugnanti.
Chiaro è, ad ogni modo, che per i Corinzi le ipotetiche alleanze
ed ostilità durante l' imperversare della guerra lelantea germogliarono
sotto l'impulso di motivi non diversi da quelli spingenti Corinto e
Calcide à unire le destre nelle opere di pace, cioè sempre per la forza
trascinatrice dei concordi o dissonanti interessi economici.
Odii coloniali e il più a'ntico cozzo d'armi
SOPRA LE ACQUE D'OCCIDENTE.
IX.
Splendente invece di luce meridiana è la guerra contro l'isola di
Corcira, sia in quel che s'attiene alla cagione generatrice, sia per ciò
che riguarda la cronologia e le scaturite conseguenze.
acuti — recati dal Costanzi perchè il Beloch, 10 anni più tardi, dagli argomenti stessi
ha tratto il fior fiore : si combatte il Beloch, ergo... con quel che segue. Questo solo
aggiungiamo. Poiché, Erodoto (V, 99) narra che quelli d'Eretria prestarono volonteroso
soccorso ai Milesii insorti contro il Gran Re (erano gli anni delle rivolte precorrenti
le guerre persiane) — e ciò a compensare Mileto dell'aiuto porto mentre ferveva la
guerra lelantea —, il Beloch afferma che tal maniera di esprimersi dimostra come il
ricordo di detta guerra serbasse ancora tutta la sua freschezza nel pensiero degli El-
leni viventi verso il 500 a. C: che, dunque, il cozzo tra le due città dell' Eubea aveva
avuto luogo non molto prima. Canone nuovo e peregrino per fissare la cronologia
degli avvenimenti! I ricordi si- ravvivano. quando se ne pre^nta il bisogno e ser-
vono spesso come giustificazione, come spiegazione e anche come spinta ad operare.
Allorché l' Italia andò a Tripoli udimmo evocata la memoria della dominazione romana
sull'Africa del nord durante l' impero. Quando era imminente il cozzo tra l'Europa e
l'Asia destinate a scontrarsi sopra i campi di Maratona e nelle acque di Salamina
balzò viva tra i Greci la rimembranza della guerra combattuta intorno a Troia. Testi-
mone Erodpto che con tal ricordo, mescolato ad altri, dà inizio alle sue storie. Vor-
remmo vedere se dalla freschezza delle memorie qualche rabberciatore di date saltasse
fuori a ditci che, putacaso, il dominio di Roma sulle spiaggie dell'Africa settentrionale
è per noi un avvenimento della vigilia. .
La più antica aristocrazia corintìaca 6i
Pingui eran le zolle corciresi e sovr'esse molti prodotti maturavano
al.sole.i La fama dei vini spremuti suonò ampia per le terre greche:
di questi vini erano sovra tutto esaltate la squisita soavità e Tabbon-
danza.2 In ogni tempo gli ellenici buongustai — com'è ricordo nei
commediografi — furon usi di centellinare con grande letizia nelle
coppe eleganti il vino vecchio di Corcira. Infatti, più gli anni trascor-
revano sovra i colmi vasi, più ai ragni industri era concesso d' intes-
sere intorno molti strati delle mirabili tele, e più il vino spandeva
lontano il fascino delle sue fragranze e solleticava voluttuosamente i
palati dei bevitori.^ S'aggiungano lo stormir dei boschi e lo svariare
degli olivi da cui era tratto l'olio dagl'aurei riflessi : * s'aggiunga il
pescoso mare fremente tutt' in giro. Le reti calate e innalzate getta-
vano sovra le arene del lieto gran copia di polipi di grandezza non
comune.^ Isola beata nei vetusti tempii si legge nella geografia strabo-
niana : ^ isola bella, sentenziavano i supposti vaticini della Sibilla.'^ I
cuori dei mercanti corintiaci dovettero sulle prime gonfiare d'esultanza.
La terra dei Feaci con la fulgente gloria epica che sovr'essa irradiava
dai versi dell'Odissea e colla prosaica utilità dei ricavati molteplici pro-
dotti molceva l'orgoglio dell'aristocrazia fondatrice ed arrecava nel
tempo stesso guadagni cospicui.
Ma il conquistato possesso appariva prezioso, più che per sé me-
desimo, a causa della posizione sua perchè, insistendo sopra quelle
terre con ben saldo piede, potevano i cittac^ini della metropoli a gara
coi pionieri drizzar le prore verso le spiaggie d'Italia, toccare le op-
poste sponde dell'Adriatico, coi loro carichi di mercanzie insinuarsi
tra i barbari. Le transazioni commerciali ebbero inizio, naturalmente,
coi più vicini paesi della penisola greca verso la quale i due precipui
porti di Corcira — quello d'Alcinoo e l'Illaico ~ s'aprivano per dar
ricetto ai giungenti legni o porgevano l'augurale saluto a quelli che
partivano.
L'Epiro e le terre prossime davan legna a costruire le veloci navi,
metalli, bestiame in gran copia, uomini trascinati in servitù, erbe da
cui la solèrzia dei mercanti dell'istmo distillava odorose essenze. L'Epiro
e le terre prossime ricevevano in cambio tutte le mercanzie uscite
1 Anonymi paraphrasis 492-497 in Geog. Graec. Minor.., II, p. 416 ; HY0iN.,/fl6tt/.,
276 (ed. Schmid!), 1872, p. 152.
« Geopon., V, 2.
3 Alexis, ap. Athen., epit. I, 33 b; Eustathius, Comm.in Odyss.t H, 122.
4 DUNCKER, Gesch. d. Alt., V», 404.
5 Archestratus ap. Athen., VII, 318 f.
6 Strab., vii, fragm. 7.
7 Orac. Siby/l., V, 317.
62 Guido Porzio
dalle officine dell'istmo e Corcira appariva qome un enorme depo-
sito corinzio ove il flusso e il reflusso dei prodotti venivano a po-
sarsi per volgere poi il corso verso opposte direzioni. I mercatori
della metropoli imprimevano impulsi febbrili a siffatto movimento è
ben presto eran pingui dei ricavati guadagni ; invece i Corciresi, tra-
volti in quel turbine di affari ma sfruttati solamente, dovevano star
paghi di accattare le briciole cadute dalle sontuose mense corintiache.
Senonchè questa condizione di cose trascorse con tanta precipitosa
rapidità che nei ricordi erodotei e in quelli di Tucidide i suoni del-
Tidilio tra la colonia e Ia madre patria eran già cancellati del tutto.
I due scrittori ricordavan solo l'anelito degli odi e l'ansimare delle
battaglie: ci presentarono, perciò, la figliuola che, quasi nell'atto stesso
di balzar tra i vivi, lacera il seno della genitrice.^ Come si spiega
questo precoce irrompere di ire?
Innanzi tutto, qualunque fosse la cagione dell'esodo dei coloni
— o l'urto delle fazioni politiche contrastanti o la scarsa fecondità
del suolo — certo è che i pionieri formavano la parte più audace
delle moltitudini greche, quella che sentiva pulsare così forte in sé
stéssa il vigore d' indomite energie da poter guardare, senza batter
ciglio, verso il pauroso avvenire. Dire addio ad una vita che addor-
mentava colla pigra soavità dell'abitudine, abbracciare per 1* ultima
volta i sepolcri degli avi e muovere lontano tra i barbari a ricostruire
il proprio nido, gettarsi in. un mondo selvaggio ove tutto era da fare
e quivi, fra gli assalti degli indigeni urlanti tutt' intorno, roteare con
una mano la spada e far sorgere coU'altra l'edifizio d'una novella so-
cietà, tutto questo era dimostrazione di saldezza d'animi invitti e
quotidiana palestra di virtii. La colonia diveniva la patria degli eletti
e questo spiega come spesso i suoi fulgori abbiano oscurato la gloria
della metropoli. Così accadde per i Corciresi. Essi, infranti gli assalti
dei primitivi occupatori, spremettero dal suolo ì frutti dell'agricoltura
sì che i giardini di Alcinoo parevano verdeggiare un'altra volta tra i
murmuri delle acque e ostentare in mezzo alle frondi i pomi delicati.
Poi, invece di adempiere al non gradito ufficio di puri intermediari
dei guadagni altrui, gli isolani, afferrati dal desiderio tormentatore
delle ricchezze, s'adersero innanzi ai mercanti corinzi come rivali for-
midabili. Il dolce vino in ogni tempo solleticatore di voluttà e addor-
mentatore di resistenze fra le barbare nazioni aprì, a vantaggio di
Corcira, sopra le sponde della vicina penisola, i cuori alla gioia e le
1 Herodot., Ili, 49 (da che i Corinzi hain fondato nell'isola la colonia sempre
— aUl — hanno avuto coi Corinzi dissensione); Thucyd., I, 38, 1 (dicono i Corinzi r
pur essendo coloni nostri sempre — 6tà navrój — defezionarono).
La più antica aristocrazia corintiaca 63
vie agli scambi. E non sola il liquore maturato sopra i tralci corei-
resi era oggetto di traffico in mezzo agli Epiroti, agli Illirii e, via
via, alle molte tribù dimoranti sopra le due sponde delFAdriatico : che
ai molti compratori sitibondi era concesso di ornare i loro deschi con
molte specie di vini squisitissimi. Soave il vinetto di Issa isola del-
TAdriatico: messo con altri a paragone chiaro appariva come tutti li
vincesse in eccellenza.^ Centellinando quel di Taso ogni vampa in-
terna laceratrice dei precordi si spegneva quasi tuffata in un balsamo
incantatore: Esculapio dei vini lo salutava un commediografo.^ Così
pure gli acini giunti a maturità sopra ì vitigni di Chio e di Lesbo, ove
il sole sfavilla con tutti gli ardori e i fascini deiroriente, canticchiavano
nei vasi di creta per zampillare poi in vini nei quali eran dolcezze di
stillato miele.3 Ebbene, è certo che quei di Corcira eran venditori di
tutto quel bene degli dei,* come pure, fuor di dubbio, d'altre specie di
vini adriatici famosi per squisitezza di profumi e facilità di digestione.^
Non basta. Quanto vigore d'industria s'accumulasse rapido tra i
Corciresi non è dato stabilire con ampiezza sufficiente. Sappiamo che
i figuli isolani apprestavano vasi di terra cotta barattati coi dolci vini
di Lesbo, di Taso e di Chio.® Sappiamo anche che sferze metalliche,
cospicue per grandezza per il candore dei manichi d'avorio e pei dadi
appesi alle oscillanti estremità, uscivano dalle manifatture di Corcira.
L' uso s' indovina : quei flagelli duplicati e rinterzati eran fatti a posta
per scendere con sibili sinistri sovra le nude schiene dei servi riottosi.''
Tuttavia, sebbene infiniti fossero i dorsi dei miseri costretti a pagare
tributi di sangue ed a contorcersi sotto gli spasimi dilaniatori, l'atti-
vità manifatturiera non fu chiusa certo entro limiti così angusti. Dalle
mani dei Corciresi altre materie, senza dubbio, venivano trasformate ^
I Athen., I, epit. 28 d-e.
« Epilycus ap. Athen., I, epit. 28, e: preferito tale vino a tutti gli unguenti con
cui le donne eleganti solevano irrorare la chioma — dice un'ancèlla nelle Eccles. ari-
stofanesche — perchè aveva la proprietà di rimanere nel capo per più lungo tempo :
ben inteso colla dolce ebbrezza suscitata; Aristoph., Eccles.^ 1119.
3 EuBULUS ap. Athen., I, 28 f : cfr. anche, per le molte lodi tributate ai vini di
Taso, di Chio e di Lesbo, Aristoph. ap. Athen., I, epit., 29, a; Archestrat., ap.
Athen., I, epit., 29 b, e; Alexis ap. Athen., I, epit.y2&, e; Athen., I,fjt;zY. 28 e, f.
< Aristot., de mirab. aascaltat., 104.
5 Athen., I, epit., 33 a-b.
6 Aristot., op. cit., 104.
■^ Strab., vii fragm. 3, [Plut.] vii,., X, orai., Lycurgus in vita script, graec,
min, ed Westermann, p. 274; Hesychius s. v. xeQxvcal» h<ìoti|. Schei, in Aristoph,
Aves, 1463.
8 Congettura naturale che si affaccia alla mente del Bliimner {op. cit., in Bibl. di
stor. econ., v. II, parte 1*, p. 602), il quale crede, a buon diritto, che i Corciresi abbiano
fabbricato oggetti tali che convenissero il pia possibile alle popolazioni barbare vicine.
64 Guido Porzio
e il silenzio della storia — allorché si tratta del lavoro spregevol troppo
rispetto al fulminare della spada guerriera contro i nemici e alle agi-
tazioni cittadine sulla piazza pubblica — non può essere addotto come
una prova. Certo è, ad ogni modo, che ai mercatori dell* isola perve-
niva, insieme con i vini, grande copia di manufatti dalle citate isole
rìdenti in mezzo alla lucida distesa dell'Egeo e del mare Tracico,^ e
2erto è pure che tanta febbre di attività mercantile gravitava come
un^ minaccia di morte sul commercio della metropoli. Ai Corciresi
era dato di spacciare i prodotti proprii ed altrui ad un prezzo tanto
più mite, quanto più tenui, a cagione della maggiore vicinanza, eran
per essi le spese di trasporto. Perciò con audace penetrazione con-
quistaron essi di balzo i mercati del Ionio e dell'Adriatico e in cambio
delle merci proprie ed altrui ebbero i bovi,^ i grani,^ i metalli * e i
legni epirotici,^ il frumento,^ i suini e i latticinii'^ della Sicilia, i pro-
dotti della fertile Etruria:^ avviarono, inoltre, lucrose transazioni con
tutti gli indigeni attendati sulle spiaggie dell'Adriatico, dalle moltitu-
dini erranti sovra i piani della futura Brindisi ^ a quelle attendate sulle
spiaggie della penisola istriana.!^
1 Sopra il mercato del quale è cenno in Aristotele {de mirab. anscutt. 104) per-
venivano, per lo scambio colle anfore corciresi, mercanzie di Taso, di Chio e di
Lesbo {xà Aéapia xal Xia nal Odaio), e non soltanto vino come molti han creduto : da
supporre, quindi, che giungessero ai mercanti corciresi — oltre ai Vasi tasii (Aristoph.,
Lys.j 196, Eccles., 1119, in SchoL Aristoph. Lys., 196; Pollux, X, 72: Teopompo scri-
veva che vini tasii si trovavano in Narona ap. Strab., VII, 5, 9 e manichi di detti
vasi con sovra epigrafi furon scoperti in Si9ilia, senza parlare di altri luoghi C. /. O.,
IH, p. XVII, tav. HI) di Chio (notevoli sojiratutto per la loro capacità, Plin., n. //.,
XXXVI, 12, 19 ; LuciAN., var. hisi., II, 40) e di Lesbo pieni di vino — aifche i calici
chioti (Athen., XI, 480 e), quelli vitrei di Lesbo con colori smaglianti di porpora, e,
pure da Lesbo, oggetti di metallurgia (Blììmner, (>/;. cit.t in Bil)L di star, econ.y v. II,
parte 1*, 544, 545, nota 1» e 2*).
* COLUMELLA, de re rustica, VI, 1.
3 Lycurqus, cont. Leocr.y 26, 27.
^ Percy Gardner, 7>yt7^s of greek coins (ed. cit.), p. 6; Guiraud, La main
d'oeuvre dans l'ancie/tne Grece, pp. 203-204 : si comprende così il dono delle sferze
metalliche corciresi offerte a Giove nel tempio di Dodona; Strab., VII, frag/n. 3.
5 DURUY, fiist. d. Grecs, I, pp. 554-557 (ed. cit.).
6 Thucyd., hi, 86, 4; Thbopomp. ap. Athen., VI, 231 /, 232 a, b ; Moschion ap.
Athen., V, 209 a; Plin., n. h., XVIH, 12, 3.
7 Hermipp., ap. Athen., epist., I, 27 /; Clytus ap. Athen., XII, 540 c-d :
naturale, quindi, l'aiuto recato anche dai Corciresi a Siracusa sconfitta sul fiume Eloro
dal tiranno di Gela Ippocrate all'inizio del V secolo; Herodot., VII, 154.
8 Solo in tal modo si spiega come in seguito il sistema monetario eginetico abbia
potuto da Corcira venir diffuso fra gli Etruschi attraverso i porti deirAdriatico e le
bocche del Po come opina I'Head, tiist. num., p. LIV.
9 Di qui la leggenda dell'eroe Diomede venuto in soccorso dei Corciresi iiì guerra
contro Brindisi, Pseud. Heraclid. Pont., fragm. 27 in F ff G., II, p. 220.
10 È provato il .commercio corcirese, non solo a Narona (Theopomp. ap. Strab.,
VU, 5, 9), ma nell' Istria ove i mercanti di Corcira diffusero la leggenda corinzia in-
La più antica aristocrazia corintiaca 65
Ben s'intende che una tale irradiazione vigorosa di traffico corei-
rese aveva come mezzo necessario una flotta mercantile rinforzata da
navi da battaglia,^ e ben s' intende anche che il numero moltiplicato di
dette navi in corsa per i mari imprimeva, a sua volta, nel traffico un
quotidiano e non consueto vigore. È ricordo negli antichi di una nuova
specie di nave che, uscita dai cantieri dell'isola, dovette guizzar veloce
sulle onde e possedere nella corsa e negli assalti un impeto speciale.
I Corciresi eran così lieti di questo nuovo strumento aumentatofe
di lor ricchezze che v' impressero sopra il suggello proprio battezzan-
dolo col nome della terra da essi abitata.^ E più le navi filavano lungo
le spiaggie e insinuavansi negli aperti seni e risalivano le correnti del-
l'Eridano e attorcevano il corso serpentino nel labirinto delle isole
verso le coste orientali del seno Adriatico, e più — siccome fiamma
esultante dalle sferrate energie — uno smisurato orgoglio scuoteva gli
animi degli audaci marinai. Dalle rapsodie omeriche consacrate al-
l'errar lungo di Odisseo, l'eroe dai numerosi accorgimenti, una grande
luce di gloria saliva ad avviluppare i nuovi coloni dorici. Non eran
essi i discendenti dei Feaci cui dilettavan, non l'arco e la faretra, ma
gli alberi delle navi ed i remi stillanti ed i ben equilibrati legni spinti
a corsa pel canuto mare?^
Innanzi a così superba attività i Corinzi dovettero sentire le loro
anime agitate da angoscie di morte. Ah ! non per questo — per veder
chiusi gli orizzonti mercantili da quelle stesse mani ch'essi speravano
coadiutricinell'aprirli sempre più vasti, per esser spinti proprio fuori
delle terre ch'essi erano più ansiosi di assaltare coi loro traffici — ah!
non per questo i mercatori oligarchi avevan dato il fuoco sacro e una
guida ai partenti ! Tra la metropioli e la colonia s'elevò ben tosto la con-
citazione di un dialogo iroso, ritornello eterno che le patrie fondatrici e
sfruttatrici scambiano colle figliuole tratte fatalmente da naturale svi-
torno ai Colchi, Medea e gli Argonauti: anche il passo citato di Aristotele conduce
alla stessa conclusione.
1 Tranne il periodo necessario di preparazione {Schol. in Thucyd,, 1,25, 4: non
sempre ebbero gli isolani abbondanza di navi e perciò Tucidide fa uso dell'espressione
èaxiv OTE, chiosa il glossatore), che del resto passò rapido, Corcira — dagli anni piìi
antichi fino al tempo che tenne dietro alla guerra del Peloponneso — poteva menar
vantodi una flotta polente Thucyd., I, 14, l ; 25, 4; 31, 2; I, 68 ; Herodot., VII, 145;
Xenoph., fiellen., VjI, 2, 9; Strab., VII, fragm. 7; Chrestotn. ex Strab. lib. vii, 62
in Geog. graec. Min.^ //, p. 577; Eustath., comin, 492 in Geog. Graec. Min., II t
pp. 309-310.
« Etymolog. M., S. V. Kéqxouq. SuiD., S. V. Na^iouQyìlS xdvftaQOS.
3 Odyss. VI, 268-272, VII, 32-36, 108-109 : per l'orgoglio dei Corciresi che van-
tavano sè stessi quali eredi dei Feaci cfr. Thucyd., I, 25, 4, Schol. in Thucyd. ^ I,
25, 4.
5 — Nuova Rivista Storica.
66 Guido Porzio
Juppo a infrangere i ceppi, prima del servaggio economico, e poi d'ogni
politica soggezione. Eran lampi corruschi di idee dardeggiati in una
atmosfera grave di tempesta da opposte direzioni dell'orizzonte :' era
l'urto di due programmi — del servaggio e della libertà — che sem-
bravano cozzare a mezz'aria in una specie di cielo metafisico.^ Sem-
bravano? ma così non era. Tutto quel balenio di idee scintillava sotto
r impulso di contrastanti cupidigie, e più il tuono delle voci corintiache
s'alzava minaccioso e più si sferrava di rimbalzo, rapida e lacerante,
la risposta corcirese. I coloni negano all' inviato della metropoli i primi
seggi € gli onori del sacrifizio allorché le moltitudini son convocate
a bruciare gì' incensi e ad offrire agi' immortali i prescritti olocausti : ^
i coloni traccian sui flutti spumosi una linea divisoria, confine dei loro
costituiti dominii* e intimano che nessuno ardisca di varcare quel
segno ove da essi non sia espressamente consentito : ^ i coloni dai
loro porti come da sicuri recessi di corsari piombano addosso ai tra-
sgressori delle lor voglie prepotenti : ^ i coloni chiudono, a loro posta,
1 I programmi dei Corinzi e dei Corcfresi sono espressi in Tucidide I, 34, 1 : 38, 2-3
(« ogni Stabilimento coloniale, se beneficato, reca .tributo di onori alla madre patria,
ma ove patisca ingiustizia si strania: infatti i coloni son spediti fuori, non per essere
schiavi, ma eguali agli altri rimasti in patria », così i Cprciresi : « noi affermiamo di
averli costituiti (/ Corciresi) in colonia, non per esser bersaglio dell'insolenza loro,
ma per esercitare predominio e ottenere congrue onoranze », (cosi i Corinzi).
» Il Freeman {Histor. of Sicily Oxford, 1891, I, 340-341 ed. cit.) sembra scam-
biare per un puro urto di regole programmatiche quello ch'era invece conflitto di
interessi : idee e passioni traevano lor vigore dal terreno della realtà.
3 Thucyd., I, 25, 4.
4 Che Corcira avesse un dominio proprio poco innanzi che scoppiasse la guerra
peloponnesiaca, è evidente; essa, infatti, conchiuse con Atene tma lega difensiva colla
clausola che le due città dovessero recarsi aiuto vicendevole nel caso che qualcuno
muovesse contro Corcira^ contro Atene o contro iloro alleati; Thucyd., I, 44, 1-2; si
pensi che ne^ lingnaggio dell'Atene di quel tempo alleato suona come suddito, -he,
inoltre, il comandante della flotta attica negli stessi anni ordinò alla flotta corinzia di
non navigare, né verso Corcira, né verso qualche sua terra; Id., I, 53, 4. Ora siffatta
condizione non era che il prolungarsi di uno stato di cose molto antico.
5 L'araldo corcirese, che poco prima della conflagrazione peloponnesiaca intima
alle navi corìnzie di non procedere più a nord di Azio situato alle fauci del seno
Ambracico, indica in qual punto — allora e prima — fosse tracciata la linea divisoria
(Thucyd., I, 29, 3-4). Appena Corcira cominciò a battere moneta (verso il 583 a. C.
come pare, Head., hist. num., p. 275) subito ebbe cura dì farla adottare dalle città
formanti il suo dominio (Qardner, Types of greek coins, ed. cit., p. 39-40). Questo
sul mare: per terra i Corinzi, pigliando le mosse da Ambracia, potevan giungere
molto più a nord e così recare aiuto a quelli d'Epidamno, Thucyd., I, 26, 2. Ma
delle acque i Corciresi erano dominatori e per andare verso nord, oltre la linea^^e-
gnata, occorreva una flotta (Tucidide lo dice /. e. : che, cioè, i Corinzi mossero pe-
doni per paura d'essere impediti dalle forze corciresi durante la traversata marittima).
« I Corciresi sono descrìtti quali pirati in Thucyd I, 37, 2-5.
La più antica aristocrazia corintiaca 67
le vie marittime verso la Sicilia, verso tutto l'occidente, verso le acque
dell'Adriatico ; 1 i coloni, chiusi in una selvaggia indipendenza, pro-
clamano che tutti han di loro bisogno ed essi di nessuno.^ E non
v'era rimedio : la loro insolenza era alimentata dai grassi affari, no-
tava Tucidide e sentenziava il genio d'Aristotele.^ Contro tanta audacia
di programma e, sopratutto, contro la travolgente realtà, non restava
ai Corinzi che trar dal fodero la spada e tentare la sorte delle armi.
Lo scontro tuonò nel 664 circa a. C.,* come la tempesta più formida-
bile che, a ricordo d' uomo, si fosse scatenata fino allora sulle acque
greche. Con quali risultati? Venne fatto ai Corinzi di por le briglie
ai coloni riottosi ? Trionfò il programma del servaggio coloniale ov-
vero quello della libertà? Invano si frugherebbe in Tucidide, auto-
revole testimone, per trovare alla domanda una qualsiasi risposta. Ma
poiché sempre esultante di forze era la metropoli ed a Corcira, sebbene
a sua volta gagliarda e non domabile, non ancora era dato di prostrare
il vigore dell'aristocrazia dei Bacchiadi, così è da credere che lo
scontro seminasse molte rovine e molti cadaveri travolgesse nelle pro-
fondità del mare senza tuttavia dar in pugno all' uno o all'altro po-
polo contendente la vittoria agognata. Corcira assicurò la propria in-
dipendenza resa più sacra dal sangue versato, ma, d'altra parte, dovette
acconsentire che le navi di Corinto, varcando i limiti prescritti, giun-
gessero nei porti adriatici e sopra le spiaggie della Sicilia. Non in
altra guisa si spiega che Corinto e Corcira, dopo la mischia sangui-
nosa, abbiano insieme, e perfino negli anni del tiranno Cipselo, con-
giunte le destre nel gettare le fondamenta di Epidamno, di Apollonia,
di Leucade e di Anattorio.^ I colpi inferii e ricevuti avevano gravato
negl'animi dei lottatori un rispetto vicendevole.® Tuttavia la pace con-
1 Quanto all'Adriatico — già lo notammo — serviva l'accennata linea divisoria :
per la Sicilia e l'occidente cfr. Thucyd., I, 36, 2; 44, 3.
« Thucid., I, 37, 2.
3 Id., I, 38, 6; Aristotel., ap. Zenob., IV, 49, ap. Hesych., s. v. xeQKvcala
* Thucyd., I," 13, 4 : è palese l'errore dello scoliaste che pone tale battaglia al
tempo di Periandro {Schol. in Thucyd. ^ I, 13, 1).
5 Colonie comuni di Corinto e di Corcira furono Epidamno (Thucyd., I, 24, 2)
fondata, giusta Eusebio, nell' Ol 38, 4, 625 a. C, cioè 39 anni dopo la battaglia na-
vale accennata': Apollonia (Strab., VII, 5, 8) sorta, a quanto pare, prima dei tiranni
(Beloch, Griech. Gesch., I» ed. cit., 231) : Anattorio (Thucyd., I, 55, 1) e Leu-
CÀDB (Plut., Them., V\ 24, 1) dedotte per iniziativa dì Cipselo (Nic. Damasc,
frag/n. 58 in /=■ // O., Ili, p. 392).
6 Questa nostra nuova ipotesi scaturisce dai fatti e dalla natura delle cose: il
Lutz sembra, a tal proposito, giuocare a mosca cieca in una di quelle cantafere in cui
gli eruditi si danno quasi l'aria di ragionare perchè, tratto tratto, lanciano un testo
68 Guido Porzia
chiusa costituiva, più che altro, una tregua d*armi : come il riposo di
due atleti che attendono a medicare le ferite per avvinghiarsi un'altra
volta con uno sforzo disperato di mutua distruzione. Corinto conservò
il resto del suo dominio coloniale :i ma la più bella tra le figliuole,
la più vivacemente baldanzosa non fece più ritorno al materno seno.
La gara per la conquista delle ricchezze aveva scavato tra loro un
abisso che niente, nel giro di molti anni, valse a colmare.
Le altre molteplici manifestazioni della vita materiale
E spirituale in Corinto.
I conforti ciie facevan lieti oli accorsi stranierl
Una ferra designata dalla natura quale campo aperto alle transa-
zioni degli uomini manifesta subito la tendenza a profondere soprai
giungenti molte lusinghe allettatrici. L'ospite che arriva — scosso ap-
pena dalle vesti il polverone della strada o sgranchite le gambe rese
torpide dal difetto di movimento durante un viaggio lungo sulle acque
— dovrà subire il fascino come di un luogo d' incantesimi, ove le ca-
rezze d'infiniti piaceri gli facciano vibrare l'anima soavemente. Più
gli stranieri, nell'esultanza dei loro cuori, faran soggiorno in mezzo al
tumulto del mercato, e più grassi saranno gli affari conchiusi, più lauti
i guadagni degli albergatori e di chi ha presentato in mostre superbe
i suoi cumuli di mercanzie. Perciò i grandiosi empori del traffico
odierno appaion tutti sfolgoranti d' irresistibili seduzioni.
Lo stesso accadde nella Corinto più antica.
Lo straniero — calato dall'altipiano dell'Arcadia, sceso dalle al-
ture dell'Eliade centrale, oppure stanco di un lungo cammino sopra
i liquidi sentieri — appena messo il piede nella città industre era ac-
colto dal mormorio confortatore di acque zampillanti da pubbliche fon-
tane. La polla scaturita, come suonava la leggenda, sopra la cima
dell' Acrocorinto per la percossa dello zoccolo di Pegaso, divino de-
greco al capo del lettore. Attardarci a combattere il Lutz sarebbe tempo perso : Heinr.
LUTZ., Z. Gesch. Korcyras in Philolog. B. LVI, Heft., I, 1867, p. 72 e sgg.
1 ThuCyd., I, 38, 2-3.
La più antica aristocrazia corintiaca 69
striero, fluiva a valle per nascoste vie^e sprizzava poi limpida sulle
piazze pubbliche della città e nei quadrivii affollati/^ Quell'acqua vin-
ceva in leggerezza le altre della Grecia,^ Era lieve e cristallina, gelida
e copiosa: per gli animali da trasporto, per i cavalli piè-veloci e per
altri usi più vili s'apriva, inóltre, in Corinto un gran numero di pozzi.*
Dopo il saluto delle acque mormoranti s' illuminava, a conforto dei
peregrini, il sorriso degli uomini. In Corinto — come accadde in altre
terre greche tormentate da senofobia — non brillarono mai di luce
sinistra gli occhi dei cittadini contro chi vestisse abiti di altre fogge
e sfringuellasse un dialetto un poco diverso da quello parlato sopra
l'istmo. Il viatore straniero incontrava solo volti benigni e aperte braccia,
udiva nelle voci paesane tremare, uniche, le vibrazioni della benevolenza
e della gentilezza. « Rifugio comune di tutti, via e transito per qual-
sivoglia mortale, città degli Elleni quanti sono, loro metropoli, e
madre » : queste le lodi di un tardo scrittore che riassumeva la pra-
tica dei Corinzi da che essi eran balzati sopra la scena della storia.^
« Accarezzatrice degli ospiti e pronta a servirli » : tale l'encomio univer-
sale squillato poi da PI darò colla sua voce di bronzo a onore delle
famiglie e della città, ; i^etuto da altri senza fine.® Un certo Cidone, in
grazia della generosità con cui dava ai viandanti il benvenuto sotto
il suo tetto, ebbe con un proverbio la consacrazione di un nome
eterno.'' Chi sentiva alle reni la furia degli inseguitori, chi sentiva,
come più tardi Senofonte, scottare sotto i piedi il suolo della patria,
correva a piantar le tende sull'istmo ospitale.^ Chi nelle tempeste po-
1 Sembra che al tempo di Euripide (ap. Strab, p. 379) le acque si spandessero,
allo scoperto, giù per il declivio : non così in altri anni e in quelli del geografo
Strabone.
« Herodot., V. 92, 2; Simonid, ap. Plut., de Herodot. malign., 870 B-F, 871
A-B; EuRiP. ap. Strab., p. 261; Plaut., AulaL, 557-559; Strab., 8, p. 379; Paus.,
II, 3, 5 (osserva il periegeta: che v'erano xQfjvai 6è noXXal jièv àvà TTjvjtóXiv... jifioav);
Athen., II, 53 b, IV, 156 e, XIII 588 e; Eustathius, comment. in II., B. 59; com-
ment. in Odyss., I, 146 ; per le figurazioni della fontana di Pirene sopra le monete
cfr. Du Mersan in Rev. Numismat. 1843 p. 17; Babelon, Trait. d. mona. grec. et
rom. Part., I, tom. I, p. 40 (ed. cit.) ; Head, hist, num. (ed. cit.), pp. 334-335.
3 Athen., epit., lib. II, 43b: l'a. contradice aU'opi*»'one di Antifane, che l'acqua
più leggera della Grecia fosse nelle terre attiche.
* Strab., 8, p. 379; Eustath., comment. in II., B. 59 (da confrontare sovra
questo punto le chiose del Politi nell'edizione di Eustazio da lui curata).
5 Aristid., /5//t/n. ad Nept, tom. I, p. 22, ed. lebb.
« PiNDAR., O/., XIII, 1-3: amante degli stranieri è chiamata Corinto nella sup-
posta epigrafe sovra le ceneri di Senofonte riferita da Diogene Laerzio, II, 58.
7 Proverbia e codice bisleriano in paroemiograph. graec, p. 5, 113 (Oxonii) 1836 ;
Crusius, Wochenschrif. f. xlass. Philolog., 1889, n. 13, p. 344.
8 DiOQ. Laert., II, 6, 14, Antholog. Palai., c&p., VII epigram, sepulcral., n. 98.
70 Guido Porzio
litiche vedeva travolti il diadema e il trono si rifugiava, come Dionisio
siracusano, a cercar pace e oblio sopra il suolo corintiaco.^ La terra
dei mercanti — appunto perchè tale — dava amorevole ricetto, così
ai negoziatori, come ai naufraghi della vita. E così Corinto appariva,
in ógni tempo,^ sotto l'impulso d'una identica cagione — Tanelito alla
ricchezza procacdata mediante l'attività industriale e commerciale —
coU'augusto carattere di un asilo della libertà, non in altra guisa di
Venezia ove nei secoli XVI e XVII venivano a posarsi i superstiti del-
l'indipendenza politica e gli eroici assertori del libero pensiero, non
in altra guisa dell'Inghilterra contemporanea rifugio comune ai per-
seguitati da molteplici vendette : dalle vendette dei padroni offesi, dalle
vendette sacerdotali, dalle vendette del despotismo.
Di più : al peregrino che, dopo un giorno di mercato — tra 1* urlio
tonante dei venditori e il frastuono degli animali e degli uomini tra-
scorrenti con perenne moto come un fiume in piena — era colto da
una specie di vertigine: al peregrino che, nel far le compre e nello
spacciare le proprie mercanzie, aveva dovuto per molte ore tener ben
teso l'arco dell'intelletto e sferzare all'attenzione, con volere tenace,
verso il prefisso scopo, i fasci dei nervi in sussulto: a questo pere-
grino anelante al riposo dell'anima e del corpo Corinto offriva, sul
calare dei rosei tramonti e al posarsi del turbine della fiera, tutto
quello che può recar conforto all'organismo umano affaticato. Innanzi
tutto la letizia di una mensa sulla quale trionfava la squisitezza di vini
e di cibi giunti dalle regioni più lontane.^ Poi, quando era sazia l'avi-
dità del cibo e dagli spiriti voluttuosamente eccitati dal vigore del
vino s'effondeva lo scintillìo degli aurei fantasmi, lo straniero, a braccio
cogli amici e cogli ospiti, poteva recasi a diporto sotto i boschi dei
cipressi che dentro e fuori della cinta corintiaca fremevano al soffio
ristoratore della brezza di terra e di mare.* Inoltre, raro accadeva che
la celebrazione di qualche pubblica solennità colle lusinghe delle spe-
rate gioie non trattenesse a lungo il frequentatore dell'emporio. Eran
1 Plut., num seni sit gerenda respub. in F. Philos. Qraec, II, p. 233.
* Da ricordare la ospitalità concessa ad Abrone argivo, la cui storia e quella del
figlio Melisso e di Atteone s' intrecciano con le vicende di Archia fondatore di Siracusa
al tempo dei Bacchiadi, Plut., amator narrati II.
» Corinto in ogni tempo ebbe fama « propter opportunitatem loci per duo di-
versa maria omnium rerum usus ministrantis humailo generi», Liv., XXXIII, 31, 1-3:
cfr. anche Cic, de re pubi., II, 4, 7-9.
4 Di uno di questi boschi nereggianti sopra la via che dal Cenchreo conduceva
a Corinto é avente inizio proprio sotto le mura della città (il bosco Craneo) fa parola
Pausania (li, 2, 4) : ma refrigerio d'ombre offrì certo la città di Sisifo da tempo non
memorabile, non appena s'apri in essa l'emporio mondiale.
La più antica aristocrazia corintiaca 71
COSÌ numerosi sopra T istmo i giorni d'esultanza! O che le etère, ven-
ditrici dei voluttuosi spasimi sensuali, bruciassero gì* incensi e allineas-
sero i cortei in onore di Afrodite dagli occhi ladri : ^ o che le candide
fanciulle, durante le feste Ellotie sacre ad Atena, si lanciassero a gara
nelle corse stringendo le lampade colle manine delicate:'^ o che le
donne, ornate di casti costumi entro il santuario delle domestiche pa-
reti, si raccogliessero intorno agli altari di Venere pudica ^ (in Corinto,
come ben si vede, v'erano Afroditi per tutti i gusti): o che nelle vie
della città suonasse la gioia delle feste euclee delle quali è cenno in
Senofonte: * o che le tenzoni del corpo e dello spirito nei ludi istmici
triennali, consacrati a Poseidon, avessero spettatore plaudente tutto il
mondo greco,^ certo è che molto spesso lo straniero,^ dopo le compre e
le vendite effettuate, si sentiva come da fili invisibili trattenuto sopra
r istmo molto più a lungo di quel che egli innanzi s'attendesse.
Del resto se l'allettamento dei pubblici spettacoli qualche volta po-
teva far difetto, non mancavano però mai le benemerite meretrici*
In tempi a noi più vicini la storia della prostituzione ha scritto
1 ALtxis ap. Athen., XIII, 574 h-c = Fragm., Cam. Graec. (ed. Didot), p. 372.
« PiND., O/., XIII, 39, SchoL vet. in Pindaro 01. , XIII, 56, Schol. ree. in Pindar.
Ol.t XII 48; ScH^EiQYikE\3S., animadvers. in Athen., p. 678 a, tom. Vili p. 97; per
r intrigo dei miti intrecciati intorno a}la festa e per la spiegazione della festa stessa
(Atena Ellotia sarebbe la luna) cfr. Bocekh, explication. ad Pind, OL, XIII, tom. II,
p. 216.
3 Alexis ap. Athen., XIII, 574 b-c.
* Xenophont, Meilen,, IV, 4, 2.
5 FiHD., fragm. ap. Apollod. Dyscob., desyntaxl, II, 21, p. 153 Sylb; Hellanic.
et. Andron ap. Plut., Thes.» 25, 6; Strab., Vili, pp. 334-335; Plin., n. A., VII, 57;
Pompon. Melas, chorograph., II, 3, 48; Musaeus ap. Schol. in Apollon., Rhod. ar-
gonaut.y III, 1240.
< Quanto agli altri spettacoli non abbiamo prove esplicite per stabilire l'esatta
cronologia: è però a supporre che siano antichi almeno quanto le persone celebra-
trici : per esempio, la festa all'oscena Afrodite dovette essere coeva all'affluire 'delle
prostitute sopra l'istmo e ciò avvenne — come vedremo — fin dal tempo dei Bac-
chiadi. Negli anni in cui questi ultimi reggevano il timone dello stato i cosi detti ludi
istmici già attraevano, senza dubbio. Greci d'ogni parte. Per tacere delle testimonianze,
che fanno risalire siffatti ludi a Sisifo (Schol. in Aristotel. Panai., p. 323 ed. Din-
dorff) ; Aeschyli, fragm., ed. Didot, p. 232 ; Musaeus ap. Schol. in Apollon. Rhod.,
III, 1240; Tzetz, in Lycophron, 107) od a Teseo (Hellan. et Andron Halicarnas.
ap. Plut., Thes., 25; Aeschyli /ra^/w. ed. cit. p. 232), e perciò ad un alta antichità (te-
stimonianze il cui valore è nullo senz'altro), è certo che i ludi stessi già al tempo di
Solone, e quindi verso il 594, godevano di alta fama (DiOG. Laert., I, 2, 8, 55): e
se anche, come vogliono Gerolamo Eusebio « Solino, solo verso il 580, 581 (Hiero-
NYMUS, 580; EusEB., 581 ; 584 Solin., 7, 14 ed. Mommsen) i ludi assunsero un'im-
portanza nazionale, non v'ha dubbio ch'essi ottenessero tale onore soltanto dopo un
lungo e splendido svolgimento 'molto anteriore all'epoca soloniana. Si cade così negli
anni dei Bacchiadi.
72 Guido Porzio
in Corinto, a seconda dei gusti vari, pagine d'oro o pagine d'infamia.
Le amabili etère dalle forme divinamente belici e procaci e coi lor
visetti birichini incorniciati entro il volume delle treccie disposte ed
attorte in acconciature di squisita eleganza (quei volti incisi sopra le
monete sono anche oggi miracolo a vedersi), 2 le amabili etère, dico,
volteggiavano, omnipresenti,^ tra la calca dei mercatori, e col fruscio
delle vesti, con gli squilli delle risate argentine, con l'irritazione dei
profumi acutissimi suscitavano sui loro passi e lasciavano fremente
alle spalle una tempesta di desideri che trovava quiete solo tra le ombre
dei lupanari. Dire xoQivOid^Eiv significava l'abitudine triste di trasci-
narsi pei bordelli:* recarsi in Corinto era come esporsi al pericolo di
far ritorno con tutte le nausee dei piaceri abusati e colle tasche piene
di ragnateli, perchè le femmine, dispensatrici delle gioie sensuali, eran
use di levare ai clienti le penne maestre. Non è da tutti V andare
in Corinto, suonava un adagio ch'era come un memento funereo
contro i rischi della bancarotta sospesi sovra il capo degl' incauti.^ Il
pervertimento e lo sfrenato prorompere dei sensi ottenevano sopra
l'istmo, non solo la consacrazione del sentimento religioso (che più di
mille etère osannavano, sacerdotesse oscene, intorno agli altari di Afro-
dite),^ ma anche il canto di poeti dei quali la divina armonia appare
vincitrice dei secoli. « O giovinette ospitali, ancelle della persuasione
in Corinto doviziosa (questo l'esordio d'uno scolio pindarico composto
per il corinzio Senofonte), o voi che bruciate le bionde lacrime dell' in-
censo verde spesso sollevando l'anima ad Afrodite celeste madre degli
amori... » E così di seguito.'' Se ai piedi delle mura veniva a cozzare la mi-
1 Theocrit., IdyL, 18, Anacreont., 13. Poet. lyr. graec, p. 1053; Anacreont.,
XXXII, 10 sgg.
« Oardner, Types of greek coins (ed. cit.), London, 1883, p. 139.
3 Plat., de re pub. 404 D; Io. ap. Athen., XII, 527 d-f; Euripid., ap. Polluc,
IX, 76; Aristophan., Plat.y 149-152; Io., Lysistrat., 90-92, Schol. in Aristoph. Lysist,
90-92, Schol. in Aristoph., Equit., 608 ; Strattis ap. Athen., 13, p. 589 a; Terent.,
Hecyra, I, 2, 85-86; DiON. Crysost. ap. Eustath., comm. in II. B. 59, Proverbia Ze-
nob. in paroetn. graec, p. 354 (Oxonii, 1836); Proverbia e codice Bodleiano, 374 in
paroem. graec, (ed. cit.), p. 89, ibid., 195; proverbine codice coilisniano in paroem.
graec.y pp. 121, 153; Hesychius in Fragm. Coni. Graec. (ed. Meineke) p. 738 n. 141 ;
Steph. Byzant., s. V. KóQivdos; EusTATHius, comm. in IL, B. 59.
* Phileteros ap. Athen., XIII, 559 a; Steph. Byzant., s. v. kóqiv^os ; Eustath.,
comm. in II. B. 59.
5 Aristophan., Plat., 149-152 ; Theopomp. ap. Polluc, 9, 59, (cfr. anche Fragm.
Com. Graec, p. 307); Strab., Vili, 6, 20, XII, 3, 36; Hesychius et. Photius, s. v.
©0 jsovTÒg àv5QÒs èg KóqivO'ov IoO'' ó nkovq.
« PiND. ap. Athen., XIII, 373 /, 574 a-c, Euripid. ap. Strab. VIII; 21, p. 379;
Strab., Vili, 6, 20; Oeoqraph. ap. Eust. comm. /»//., B. 59, Athen., XIII, 573 c-e.
7 PiND., ap. Athem., XIII, 573 e-f, 574 a-b.
La più antica aristocrazia corintìaca 73
naccia nemica, se l'Eliade, muta di pavida meraviglia, tendeva l'orecchio
al gran fragore delle orde di Serse che svegliavano nel loro cammino gli
echi di tutte le caverne, se, it>una parola, l'aria era scossa da fantasimi
di guerra, subito Corinto — mentre s'affrettava a trascinare nelle acque
le triremi e ad eccitare all'assalto le proprie fanterie — chiedeva il soc-
corso di Afrodite servendosi del ministero delle meretrici ad essa con-
sacrate. Tuonava la mischia sulle acque e intanto le prostitute corin-
tìache, supplici innanzi agli altari, imploravano da Venere la vittoria.
Le meretrici coli' aiuto divino avevano sprofondate le navi di Serse
negli abissi del golfo Saronico. E così, allorché i mercanti, a memoria
perenne dell'ottenuto trionfo, consacrarono un quadro alla dea ausi-
liatrice e in mezzo alla tavola dipinta avevan risalto le immagini delle
etère supplichevoli, il poeta Simonide — come fan ricordo Teopompo
e Timeo — avrebbe dettato i distici seguenti : « Coteste donne quivi
rimasero per drizzare le loro preghiere alla dea di Cipro a vantaggio
degli Elleni e dei cittadini usi a gettarsi corpo a corpo nel turbine
della mischia: che la divina Afrodite non volle consegnare la rocca
degli Elleni nelle mani dei Medi portatori di arco ».i Le prostitute erano,
dunque, per i Corinzi una salìJtare istituzione e l'ultima speranza
quando l'ora dei cimenti supremi \ batteva alle porte della patria. E
fin qui ci siamo avvolti in mezzo ad una folla muliebre senza nome.
Ma, come era ad attendersi, sovra la grigia uniformità delle genera-
zioni delle etère correnti, una dopo l'altra, negli abissi della morte si
sollevavano alcune prostitute cui venne fatto, colla loro venustà e colle
lubriche prodezze, di salvare il nome dall'oblio eterno. Sono esse le
eroine del meretricio. Non troppo e' indugieremo a far parola di Cirene,
di Leena, di Sinope, di Mirrine, di Schione, di Antea, di Lagisca, di
Teolite, di Cleobulina, di Aristagora 2 e di Ocimo, quest' ultima colla
graziosa particolarità del suo nome vegetale (e chi brucava di quel-
l'erba era ridotto al verde e perdeva anche la camicia).^ Si può dire di
queste e di altre che tutte assaporarono, più o meno a lungo, la so-
vranità della bellezza, che furono regine perchè — osserva Stobeo —
un gran numero di maschi inuzzoliti si precipitò all'ubbidienza dei
loro comandi significati anche per accenni. * Ma più vasta di gran tratto
1 Theopomp., Timaeus et. Camaleon. Heracl. ap. Athen., XIII, 573 c-e: Si-
MONiD., ap. Athen., XIII 573 c-e e ap. Schei, veter. in Pind. OL, XIII, 32.
* Anaxandrides ap. Athen., XIII, 570 d, Schol. in Aristoph. Plut.^ 149; Plut.,
de Pythiae arac, 401 A-B ; Athen., IV, 167 d, e, XIII 590 e.
3 EuBUL., ap. Athen., XIII, 567 e; Nicostrat., ap. Athen., XIII 587 d; per
il nome di altre etère che ebbero in Corinto il loro campo d'operazioni cfr. Theoph.,
fragm. ap. Athen;, XIII, 587 / [Demosthen.], LIX, 18-23.
* Stob., fior § E, 15. *
74 Guido Porzio
suonò e suona tuttavia la fama della corinzia Laide, meretrice degna
dell'epopea. Notava il Casaubono: «Era ignoto agli antichi il luogo
natale di Laide come quello di Omero e di altri uomini illustri poiché
— scrive Solino — essa volle piuttosto fare la scelta della patria che
confessare la vera ».i Se del cantore di Achille e di Odisseo ben sette
città si contendevano i natali poco meno accadde in quel che s'at-
tiene a Laide meretrice. Era essa di Iccara o di Eucarpia castelli sice-
Ubti ? Era di Crasto ? Oppure aveva volti i suoi primi sorrisi infantili al
sole folgorante sovra la città accovacciata alle radici dell' Acrocorinto ?
Mistero ! Per tutte le diverse opinioni si presentavano sostenitori
gagliardi.2 Così pure il fascino dell'ignoto circondava la tomba con-
servatrice dei resti mortali di quella donna che aveva, a suo modo,
conquistato il mondo. Dormiva essa il sonno eterno in Corinto sotto
le ombre del Craneo, oppure il funebre monumento era eretto tra i Tes-
sali nella valle di Tempe bagnata dal Penco? Anche qui mistero im-
penetrabile. Gli antichi serbavano ricordo dì un'epigrafe mortuaria che
poneva come non dubbioso il sotterramento in Tessaglia della donna
terribile. « L'altera ed invitta Eliade fu trascinata in servitù dalla bel-
lezza di Laide, pari a quella d'una dea: generolla Amore, Corinto la
itutrì: ora giace nelle illustri tessaliche pianure ».3 Tale l'epigrafe mor-
tuaria: Ma chi dei Corinzi dava retta? Per essi l'ombra di Laide er-
rava, notturna larva, sotto i cipressi piantati dagli avi e al tempo di
Pausania periegeta ognuno segnava con compiacenza fuòri della città
il sepolcro della meretrice recante l'effigie di una fiera leonessa nel-
l'atto di acciuffare un ariete colle zampe anteriori.* E a conforto della
loro opinione citavano essi l'epigrafe ^ (potremmo dire le epigrafi) ® del
sepolcro corinzio nella quale si leggeva che esso conteneva Laide, più
delicata d'Afrodite, fulgente d'oro e di purpuree vesti, cittadina di Co-
1 Casaubonus ap. Schweiohaeus., animad. in Athen., p. 570 e v. VII, pp. 83-84.
t Timeo, Polemone, Nirafodoro(ap. Atheh., XIII, 588 f, 589 a), Iperide (ap. AtHen.,
XIII, 557 e = Fragm. Orai. Att, p. 384 ed. Didot), Pausania (II, 2, 5) e Plutarco (Alcib.,
39) la fanno di Iccara: Strattis, Macone ed altri, di Corinto (ap. Athen., XIII, 589 a,
582 e, 585 d).
« TiMAEUS ap. Athen., XIII, 589 b-c: stavano per la sepoltura di Laide tra i
Tessali — senza parlare di Timeo da cui (1, e.) è tolta l'epigrafe — anche altri dei
quali con parole vaghe è cenno in Ateneo, XIII, 589 e. Anche Pausania cita un monu-
mento sepolcrale di Laide in Tessaglia; ma poiché lo stesso autore fa parola di un'altra
tomba in Corinto, cosi non è chiaro quale dei due fosse per lui nn cenotafio (Paus.,
II. 3, 5).
4 f AUS., II, 2, 4 ; altri cui accenna vagamente Ateneo, XIII, 589 a, 589 e,
5 Antipatri SiooNii in Antholog. Palai. y e. VII, 218.
« Altre inscrizioni per il sepolcro di Laide in Corinto furono dettate da Pompeo
il giovane e Agazia scolastico, AnthoL Palai., VII, 219-220.
La più antica aristocrazia corintiaca 75
rìnto cìnta dal mare... E via di questo passo coirenumerazione dei
molti amatori che bruciarono per lei di sfrenati desideri e colFaggiunta.
che, se Laide non avesse prostituite le gioie dell'amore, una nuova
guerra si sarebbe accesa per cagion sua non meno famosa dell'altra
combattuta sotto le mura del superbo Ilion. In mezzo ai due misteri
della culla e della sepoltura cantava poi, sonora, la leggenda.^ A co-
minciare da Timandra, la genitrice che avrebbe consolato l'esilio
di Alcibiadej2 tutto nella vita di Laide appariva fantasiosamente poe-
tico e favoloso. Essa, bambina di sette anni, avrebbe visto gli opliti
di Nicia muovere alla volta di Siracusa per seguire poi, vecchia, il passo
cadenzato delle falangi d'Alessandro in cammino verso l'Asia. L'età
di più che 130 anni sembrerà forse soverchia: ma la leggenda ignora
i confini del possibile. Con 130 primavere Laide era ancora tale da
sommuovere nelle donne tessale le trafitture acute della gelosia.^ Ove tro-
vare un tramonto piti luminoso? Se ad Epicrate* era piaciuto di pre-
sentare la donha umilmente curva sotto il peso degli anni — simile
all'aquila usa a trasportare nella sua giovinezza, roteando per i Cieli,
lepri ed agnelli, e posantesi poi, vecchia spennachiata e immota, sopra
i vertici dei templi — Epicrate tra una mala lingua, Epicrate mentiva.
Nei lunghi giorni dei fulgidi meriggi sopra il corpo di quella donna
era passata tutta l'Eliade. Allora dal calice delle sue labbra avevano
succhiato il veleno dei baci inebrianti gli uomini illustri di quattro
o cinque generazioni, e Filonide ateniese bersaglio agli strali di Ari-
stofane,^ e Aristippo di Cirene,® e Diogene il cinico, e il divino Apelle "^
e Demostene l'oratore.^ Perfin le dee, come Venere Melainis, abban-
donavano i seggi dell'olimpo immortale per svelare negli aurei sogni
i tiomi dei facoltosi amatori che sarebbero calati a posarsi nel grembo
ospitale dell'etèra.^ Ripetiamo che quella di Laide è la leggenda del
1 Un curioso riassunto della leggenda troviamo negli scolii d'Aristofane {Schol.
in Aristoph. Plat.^ 179); oltre alle notizie che diamo più sotto*, anche questa: chela
prostituta sarebbe stata concessa in dono al poeta Filosseno da Dionisio tiranno di
Siracusa.
« Plut., Alcib., 39; Athen., XII, 535 b, e.
8 Paus., II, 2, 5: Scholia in Aristhoph. Pluf., 179: Laide dopo la sua ultima cam-
pagna nell'Asia fu uccisa dalle donne gelose in Tessaglia ov'essa avrebbe, seguito il
suo amante Ippostrato, Io., ibid, e Tim., ap. Athen., XIII, 589 a.
4 Epicrat., ap, Athen, XIII, 570. c-d.
5 Aristoph., Plut, 302-306.
« Hermesianact. ap. Athen., XIII, 599, b; Qell., N. Att., I, 8; Dioo. Laert.,
IL 71, II, 83-85; Clem. Alex., II, 20; Athen., XII, 544 d, XIII, 588 f.
7 Athen., XIII, 588 d-e.
« Qell., N. Att., I, 8, Valerio Ruffinio ne dacat uxorent in Op, Divi Hieronymi,
V. IV, p. 172 (ed. di. Frankfurt au Mein, senza data).
9 Athen., XIII, 588 e.
76 Guido Porzio
meretricio e sapete perchè? Perchè Laide era bella divinamente,^
perchè essa formava la gloria dell'Eliade, lo stupore della Sicilia e
l'ornamento di Corinto, perchè — come cantava Properzio — tutta la
Grecia si era prostrata, adorando, innanzi alla sua porta.'-^
È questa, come ognun vede, l'apoteosi ^ della prostituzione co-
rinzia negli anni più prossimi all'era nostra. Ma la stessa oscena realtà
cogli identici clangori della fama e colle medesime tinte iridate della
poetica tavolozza dobbiamo immaginare al tempo dei Bacchiadi. Ci
basti far ricordo di Periandro che volle sommerse nelle acque del golfo
tutte le mezzane degli illeciti amori,* le quali, giusta l'avviso del ti-
ranno, erano apportatrici di contagli nei costumi della città di Si-
sifo. Col ferro e col fuoco la mano del despota s'accinse a guarire
la piaga della prostituzione ch'erasi fatta purulenta negli anni del go-
verno aristocratico.
È inutile dire che tutte le accennate manifestazioni — e gli zam-
pilli delle fontane d'acqua viva, e il brusìo dei cipressi stormeggianti
tra i fulgori dei vespri purpurei, e la dovizia delle mense, e il gaio
turbinare delle feste, e i lacci soavi tesi dalle bellissime meretrìci —
erano predisposte al consueto e immancabile scopo commerciale. La
città dell'istmo diveniva* la terra degli incanti ove ognuno, nella fre-
nesia dei perseguiti piaceri, dimenticava anche il vacillare non infre-
quente del suolo percosso da Poseidon enosigeo.^ Quando poi lo
straniero aveva scosso dal capo lo stupore delle torbide ebbrezze, tro-
vava nel marsupio l'abbominio della desolazione. Dietro la capricciosa
voluttà, che galoppava innanzi, divorando la via, seguiva tosto l'orrido
pentimento.
{Continua) Guido Porzio.
i Paus., II, 2, 5; STOb., Fior:, 58; Athen., XIII, 588 e, Schol. in Aristoph.
Lysistr., 91.
« Strattis ap. Athen., XIII, 589 a, Propert., 2, 6, 2.
3 Tralasciamo, per non dilungarci troppo, le altre notizie e le argute risposte della
prostituta (Athen., XII, 585 d) e i suoi ragionari con Euripide (Machon ap. Athen.,
XIII, 582 c-d) e l'effigie della donna impressa sopra le monete (Eckhel, Doct. num. vet.,
pars. I, V. Ili, p. 240), etc. etc.
* [Heraclid. Pont.] de rep. pub. V Corinth. in /7/G., II, p. 213.
6 Dei terremoti, che devastavano le terre corinzie, è cenno in Macrob., Saturn.^
II, 6; Serv., comm, in Virg., Aen., Ili, 84; Procop., stor. seg., cap. 20.
e^
noli!, pÉni ME, IMonl lemoni
Intorno all'opera storica di Pasquale Villari.^
Circa diciassette anni or sono, allorché Pasquale Villari non era, come
adesso, l'annoso vegliardo, che attende stanco l'ora sua, ma si trovava
ancora nel pieno dell'autorità e della potenza e udiva sotto la sua casa squittire
da torno
i pappagalli lusingatori,
un giovane oscuro, . uscito appena da uno dei maggiori istituti superiori ita-
liani, con l'animo pieno di febbrile interessamento, non per la cattedra
di ginnasio o liceo da occupare, ma per tutte le idee che egli aveva apprese,
che aveva meditate, o che invano aveva ricercate e sperato di attingere, det-
tava sull'uomo, universalmente considerato quale il principe della storiografia
italiana, un breve studio critico, non precisamente un'apologia. Quel giovane,
che troppo intimi rapporti conserva con l'autore di questi righi, aveva il
torto di credere che in questo basso mondo le idee dovessero, agli occhi
degli uomini, serbare il valore che reca il loro contenuto medesimo e non già
quello che loro conferiscono i riguardi mondani ; quell' ingenuo aveva il torto
di pensare che la repubblica delle lettere in Italia fosse qualcosa di somi-
gliante, poniamo, alla repubblica filosofica hegeliana, di cui egli allora an-
siosamente leggeva, con la sua destra e con la sua sinistra, coi discepoli
sempre vigili, sempre animati dal fuoco sacro, pronti a battersi al primo
richiamo dell'Idea. Egli credeva in tutte queste cose, e altre moltissime
restavano ancora a lui ignote. Ragione per cui accadde che quel suo scritto,
giovanile di diciassette anni or sona non dovesse mai essergli perdonato...
Dietro quello studio critico, e quale suo precedente, non v'erano allora
n sostanza che radi cenni iconoclasti, contenuti specialmente nei primi scritti
» P. Villari, L'Italia^ la civiltà, Milano, Hoepli, 1916, pp. XXXIII-45I. Questa «Nota» £a
scritta nell'ottobre scorso. La riproduco tal quale. P. Villari è morto il 7 dicembre 1917 (G, B.).
78 Note, questioni storiche ^ ecc.
di un uomo, che ci fu per anni, veramente Maestro, e che ora è dileguato
troppo lungi da se stesso e da noi, voglio dire Benedetto Croce. Da quegli
accenni e dalle dottrine, che li ispiravano, pigliava infatti le mosse lo studio
in parola. Solo più tardi dovevano, intorno all'opera di Pasquale Villari,
fiorire altri studi critici, forse meno completi, certo taluno più vivacemente
demolitore.* Or bene, io scorrendo ora il volume, nel quale la benemerita
casa Hoepli, nell'imminenza del 90» compleanno di Pasquale Villari, ch'è
ricorso proprio in questi giorni, volle raccogliere sistematicamente, secondo
l'ordine cronologico dei fatti narrati, il meglio del pensiero storico di lui, e
riguardando di nuovo, dopo gran tempo, quelle mie pagine morte, trovo
che al puro lume della logica ben poco avrei da mutare all'obliato giudizio.
Esso si riassume in due parole, nelle quali io voglio qui deliberatamente
confinarlo: le vedute teoriche e metodiche sulla storia del Villari essere
deboli o fallaci ; la sua intelligenza dei fatti storici, superficiale, incerta, o
artificiosa. Eppure — questo è ciò che adesso voglio mettere in rilievo —,
se quel giudizio, entro i suoi precisi limiti, era esatto; se esattamente giu-
dicata ne riesciva l'opera storica del V., ove la si confronti al tipo ideale
di storico, che il critico dovea proporsi alla mente, la raffigurazione comples-
siva, che ne discendeva, deve dirsi non completamente verace perchè he
teneva conto del valor relativo dell'opera del V., nel tempo in cui essa si
svolse, e perchè trascurava gli elementi imponderabili, e tendenziali, che in
quell'opera sono pure cosi numerosi e così interessanti. In altre parole, quella
raffigurazione diceva il vero, ma non la verità in tutta quella compiutezza,
che solo la fa veramente tale; onde essa potrebbe paragonarsi a una foto-
grafia che renda solo alcuni tratti della persona a noi cara, ma tutti gli
altri o l'insieme di quel volto, per sempre rapito alla nostra vista sensibile,
sia stata impotente a riprodurre. Siffatta completazione e correzione critica è
l'unica cosa che io voglio ritentare nel corso delle poche pagine che seguono.
Pasquale Villari visse e scrisse in quel cinquantennio della nostra storia
nazionale, in cui, per l'opera di |:alune avverse circostanze, non riuscì possibile
il fiorire di una grande storiografìa. La storiografia del nostro Risorgimento
— buona sotto parecchi aspetti, deficiente in molti altri — accennava ad
evolvere a forme superiori, allorché fu come sorpresa e paralizzata nel suo
sviluppo ideale. A tale effetto contribuì in primo luogo la reazione d'indole
affatto politica seguita a quell'età eroica. Le generazioni, che vennero dopo
il compimento della nostra unità nazionale, furono come prese da un senso
profondo di reazione e di scetticismo verso il passato. Si era troppo batta-
gliato, troppo discorso e cantato di patria; si era fatta troppa politica. Re-
sultato n' era stata l' unità nazionale, ma ànphe il trionfo e l'avvento al
« Cito per tutti i^ brillante studio critico di Giuliano il sofista [Gius. Prkzzolini] sul
Leonardo dell'aprile 1905 e l'altro, in apparenza più posato, di G. Gentile, Pasquale ViUaH, in
Critica, 1908, pp. 349 sgg.
Note^ questioni storiche^ ecc, 79
proscenio della nostra storia di una classe sociale, cupida, ingorda, senza
scrupoli, talora volgare, o che tale agli ideologhi appariva, la quale aveva
confiscato, e andava confiscando, a proprio vantaggio tutta l'eredità di storia,
che le stava dietro. No: l'esercizio della vita pubblica non valeva né una
messa, né una diuturna sollecitudine. Meglio occuparsi di altro, di cose più
utili o più dilettevoli, o affatto remote dalle contaminazioni della politica!
Cosi le nuove generazioni crebbero apolitiche fin nel profondo della coscienza.
Ora una storiografia, vuotata dalla passione politica, non può essere che
fredda e inintelligente curiosità erudita, priva della favilla della passione.
Che solo la vita è capace di infondervi.
In pari tempo scompariva dalia mentalità degli studiosi nostri quel senso
filosofico, quell'amor dello speculare sui fatti e sulle idee, che era stato
tanta parte della passione dei nostri giovani del Risorgimento, e che fu, fra
l'altro, il lievito della grande storiografia della prima metà del secolo XIX
in Francia e in Germania. Storia non è soltanto l'accertamento e la ripro-
duzione del fatto; é il fatto illuminato da un'aureola di idee, è il fatto
trasfigurato in segno di un'idèa; è il fatto collocato nei suoi rapporti di
causalità e di dipendenza; è il fatto o tutta una serie di fatti considerati
dall'alto, sub specie aeternitatis. Per ciò la mentalità filosofica è elemento,
non di lusso, ma necessario, indispensàbile alla storia.
Insieme con l'abito filosofico spariva dalla mentalità storica italiana quello
che potrebbe dirsi il senso artistico, che non è, come volgarmente si é cre-
duto, qualcosa di posticcio, ma fa tutt'uno con l'essenza della storiografia.
Esso consiste infatti nell'arte di risuscitare il passato col suo grande dramma,
con i suoi contrasti, con i suoi minuti particolari, con i suoi sfondi, con i suoi
personaggi viventi e operanti, senza di che non può neanche esistere la pos-
sibilità dell'idea o della realtà della storia.
Orbene, mentre questa crisi si svolgeva negli animi delle nostre giovani
generazioni, discendeva dal nord il così detto metodo storico-critico tedesco,
o, meglio, quel tanto di metodo tedesco, che veniva esportato e fanatica-
mente accolto in Italia, quale merce preziosa. Questo pseudo metodo storico
conquistava di botto le Università e gli istituti superiori italiani; imponeva
il suo giogo all'indirizzo degli studii storici, onde, appena i primi neofiti
ebbero occupato i posti officiali piìl elevatf della coltura, le sorti della storio-
grafia italiana furono decise. Gli altri, i concorrenti, gli aspiranti, gli arrivisti
non si studiarono che di conformarsi a quel rhodello, non cercarono che di
adattarsi a quel letto di Procuste, incoronarsi, come di lauro, di quella
corona di spine, e tutti gareggiare per imporre altrui una servitù troppe volte
incresciosa ed opprimente.
Tra questo indirizzo di spiriti e di tendenze culturali si svolse l'opero-
sità storica del Viliari. E fu opera inconsapevolmente ribelle. Discepolo di
Francesco De Sanctis, egli non potè mai far getto degli insegnamenti e delle
aspirazioni del maestro. Per lui, come pel Maestro, narrar di storia era com-
piere un grande processo spirituale, era lavorar con delle idee e sulle idee
Q. meglio, lavorare sui fattL in quanto generatori d'idee e segno d^idee*
8o Note, questioni storiche, ecc.
D'altro canto, forte della conquista d'una cattedra superiore, occupata in-
nanzi il tempo, nel quale quella cattedra a lui sarebbe stata sicuramente
negata, egli potè svolgere il suo indirizzo di studi al coperto di qualun-
que materiale preoccupazione. Fu perciò un erudito modesto, .un debole
erudito, anzi ; non fu alfatto un erudito alla tedesca, non un discutitore di
testi o di documenti, non un esumatore o un collezionista o un coUaziona-
tore; ma tutte queste deficienze gli furono perdonate, o, in grazia dell'alta
posizione ufficiale, non furono in lui volute scorgere. Del resto egli si occu-
pava di problemi storici ideali : del problema delle origini del Comune di
Firenze, del fenomeno Savonarola, del fenomeno Machiavelli.
Per altro — e fu suo merito insigne, che risalta in modo singolare in
queste pagine, dove, a dispetto dell' imperizia del compilatore, ci è concesso
avere sott'occhio, di un solo sguardo, molti pezzi principali dell'opera sua
— per il V., storia non fu soltanto trattazione di singoli fatti politici. In u»
periodo di cieco e ringhioso specialismo, quest'uomo s'occupò anche di pro-
blemi filosofici, studiò l'opera di grandi sociologi. In tempi, in cui il divorzio
fra storia politica e, storia dell'arte si faceva profondissimo, egli s'occupò
di critica d'arte e di critica letteraria. Discorse infine largamente di problemi
politici e sociali contemporanei, cercando di illuminare il presente col ricordo
e con la luce del passato.
Tutte queste trattazioni (è indispensabile dissimularlo.?), prese una per
una, singolarme7ite, presentano difetti organici: al confronto del Machiavelli ^\
Francesco de Sanctis, che tuttavia ne rimane il modello ideale, il Machiavelli
del V. è cosa mediocre, incerta, annebbiata. La sua famosa discussione sulla
natura della storia — scienza o arte — manca di precisione e di profondità ;
le sue spiegazioni sulle origini dei Comuni sono affatto esteriori ; nei suoi due
grossi volumi la personalità di Girolamo Savonarola non è bene spiegata. Ma
su ciò io non voglio antipaticamente indugiare. Voglio invece dire che, consi-
derata come si può adesso, nel suo insieme, dall'alto, quell'opera reca ih sé
medesinia tendenze ideali, veramente preziose; è come l'ultimo grande fiotto
di un fiume superbo, che si smarrisce tra scogliere infeste e sotto un cielo
grigio. Debbo dire di più : quello storico, che, senza saperlo è, in mezzo al
suo mondo, un eretico ; quello storico, che non ebbe mai il coraggio di fare,
e contrapporla a tanti altri, la teoria del proprio lavoro ; questo desailctisiano,
che fiorisce e attinge gli estremi culmini degli onori in un tempo e in un
luogo, riél quale il suo inimitabile maestro veniva rovesciato nella polvere,.
è anche un precursore inconsapevole.
L'opera del V., considerata attentamente e giudicata con criteri severi,
varrà quello che vale; ma da essa è nata quella così detta Collezione Vii-
lari, che sola ha reso possibile parecchie delle produzioni migliori dell'ultimo
decennio. Ma da quell'insegnamento — solo da esso! — sono potuti uscire
studiosi di storia della tempra di Gaetano Salvemini, Gennaro Mondaini,
Romolo Caggese, Nicolò Rodolico (per citare questi soli), che in altri magi-
Steri sarebbero stati soffocati in sul nascere, come altri di non minor valore lo
furono. E chi di noi potrebbe negare che alla linea ideale di quelle tradizioni
si ricolleghi oggi l'indirizzo propugnato dalla Nuova Rivista Storica?
Note, questioni storiche, ecc, 8i
Gli uomini non valg^ono solo per quello che in concreto producono, ma
altresì per quello che essi — consapevoli o meno — accennano ; talora, per
quello che finiscono, renitenti, col fare. Le mistiche visioni di Giovanna d'Arco
creano l'unità della Francia; l'ignoto uccisore dell'insolente francese dei
Vespri siciliani suscita parecchi secoli di nuova storia italiana ; l'errore di
Paolo Toscanelli e di Cristoforo Colombo dona un nuovo mondo all'umanità;
gl'innominati eroi della Rivoluzione fanno la gloria del primo e del secondo
Impero. Analoga è la situazione dell'opera di P. Villari nella storia della
coltura italiana. Noi possiamo rilevarla e misurarla oggi assai più che ieri, e
chi ieri giudicò severamente, allorché severamente giudicare costituiva una
ingenuità, è oggi il meglio adatto a comprendere benevolmente, nell'istante
in cui la benevolenza è solo un atto di sana e di onesta coscienza.
C. B.
^ ^ è ^
Una storia del Belgio.^
Molti studiosi si soh posti, nel corso del secalo ^scorso e nei comincia-
menti del presente, più o meno nettamente, il problema della storia del
Belgio. Esiste o non esiste una storia del Belgio? Si sono avute risposte atte
a soddisfare tutti i gusti, e tutte le tendenze storiche: si sono fatte molte
confusioni tra storia ed elementi storici ; si è affermato che una storia del
Belgio esiste, ma che essa s'è iniziata soltanto con il i33o ; e, in opposto
senso, si è anche affermato che esiste una storia del Belgio, che risale alle
più remote origini. Ancora recentemente, coh parecchia confusione, Jules
Destrée scriveva : « Sarebbe cosa eccessiva parlare di una storia del Belgio
« nel medesimo senso che di una storia di Francia o di una storia d' Inghil-
« terra. Il nostro passato non ha ifnitàl I nostri annali somigliano piuttosto
« a quelli dell' Italia, che sono costituiti da evoluzioni separate : come in quella
< penisola si trovano una Repubblica di Venezia, gli Stati Pontifici, il Regno
« di Napoli e diversi altri principati, cosi esisterono nel Belgio le Contee di
« Fiandra, di Hainaut, i Marchesati di Anversa e di Namur, il Principato di
«Liegi, ecc. ».2 Queste parole del Destrée non risolvono nulla; confondono,
anzi, la storia con i fenomeni storici di unità e di pluralità. Non esiste forse
una storia d' Italia, perché sino al 1860 l' Italia poteva dirsi mera espressione
geografica? La storia é una cosa, e i fenomeni storici sono un'altra. Non esiste
una storia unitaria e una storia multipla: c'è la storia, la quale può essere
rappresentazione di fenomeni unitarii o di fenomeni diversi. Compito della
» Mario Tortonesk: Storia del Belgio, Genova, Libreria Editrice Moderna, 1917 (in-8*,
pp. XVI 11-260).
' Cfr. Jules Destrée : // Principio delle nazionalità e il Belgio (n. 3 degli Opuscoli della
n Giovine £wro/a»), Catania, Battiate, 1916, p. 19.
6 — Nuova Rivista Storica.
82 Note» questioni storiche y ecc.
storia d'Italia è rappresentare, nei suoi molteplici aspetti, nel complesso della
sua vita, della sua evoluzione e così via, i fenomeni varii verificatisi, nel corso
dei tempi, entro quei limiti geografici che dall' Italia prendono il nome. Ma
una storia d' Italia esisteva anche prima che la nazione avesse raggiunta
l'unità nazionale, così come esiste una storia del Belgio, non dal 1830, ma dai
tempi di Roma. Quando l'unità di una nazione è politicamente raggiunta,
non ne deriva un mutamento della storia (la quale muta e progredisce, sì, ma
col mutare e progredire della scienza) : ne deriva un mutamento negli ele-
menti che danno vita e permettono alla storia di essere.
La questione è tanto semplice e di così meridiana evidenza, che potrebbe
sembrare ozioso anche il solo prospettarla, se non abbondassero ancora in
Italia certi storici, i quali sarebbero capaci d'oppormi, ad esempio, che, se
l'Italia nel passato non ebbe un organismo unitario, ebbe tuttavia quasi
costantemente aspirazioni unitarie, tali da giustificare una storia sua come
rappresentazione* di nazionalità, tanto più che la popolazione delle antiche
repubbliche, dei vecchi regni, ducati e granducati rappresentavano già di per
se stesse un' unità etnografica. Il Belgio, invece (seguiterebbero ad oppormi
cotesti storici) mostrò, non solo e sempre, uno scarso senso unitario, ma non
ebbe mai, né ha ancora, una popolazione etnograficamente unitaria. Il che
non distrugge affatto il concetto da me accennato; perchè — a parte la
molto discutibile affermazione di una costante tendenza unitaria manife-
statasi nella nostra penisola — ragionare nel modo sopra indicato è seguitare
a confondere un singolo fenomeno storico con la storia. Lo storico può assu-
mersi r impegno di dimostrare che il processo dialettico dello sviluppo del-
l' Italia ha per pernio un concetto d' unità ; ma la storia non ha davvero vita
da simil fatto. Né maggior valore ha, nel suo fondo, il criterio etnografico:
se avesse valore, non sarebbe possibile, ad esempio, una storia dell' Austria-
Ungheria, poiché questa nazione è un vero caos etnografico. Ma, se anche
il criterio etnografico avesse il valore che gli attribuisce il semplicismo di
molti democratici italiani e stranieri, ciò non escluderebbe l'esistenza di una
vera e propria storia del Belgio, ma potrebbe soltanto negare l'esistenza d'una
nazionalità, belga. Per nostra fortuna, però, il concetto di nazionalità non è
un puro concetto etnografico e linguistico : mai, forse, quanto per il Belgio,
é viva ancora la lapidaria definizione di Renan : < Ce qui constitue une nation,
ce n'est pas de parler la mème langue ou d'appartenir au méme g^oupe etno-
graphique ; e* est (Vavoir fait ensemble de grandes choses dans le passe et de
vouloir en fair e encore dans Vavenir ».
A parte tutto, poi, e a parte anche il fatto che i Belgi sono i soli in
Europa che non abbiano cambiato nome fin dai tempi storici, ^ la più bella
prova che esiste una storia del Belgio é stata data dall'ottima Histoire de
Belgique di Henry Pirenne,* vero monumento, elevato dall'illustre storico
a gloria della propria patria.
» Questo fatto è riconosciuto anclie dal Destréb {Op. cit., p. 19): «...i Belgi sono i soli in
Europa, i quali non abbiano cambiato nome fino dai tempi storici, e questo particolare è di tal
natura da far presumere una certa continuità storica, malgrado lo sbocconcellamento feudale».
* Bruxelles, Lamertin, 1902 e segg. (ancora in corso di pubblicazione).
Note^ questioni storiche, ecc. 83
È naturale che, dopo quanto sopra ho detto, salutassi con vivo piacere
l'apparire di quella Storia del Belgio, che mi porge l'argomento per questa
« Nota », e che si deve alle fatiche di Mario Tortonese, un giovane studioso
nostro che con un suo primo lavoro aveva destato buone speranze. ^ Mi sembrava
bello che un giovine rompesse l'andazzo consuetudinario, che imponeva da
lungo tempo agli storici nostri un àmbito di studii puramente italiani, e
affrontasse, memore della nostra gloriosa tradizione storiografica, un argomento
straniero di non lieve difficoltà, quale è appunto quello di una storia del Belgio.
Fatica tanto più lodevole, in quanto la sventura del Belgio ha suscitato vuote,
se pur commosse, divagazioni, ma ha prodotto ben poco di serio e di vera-
mente utile a far conoscere il piccolo Stato nella sua storia e nella sua vita.
Le mie buone disposizioni, però, e la mia attesa sono state assai deluse
e per la (come dire?) leggerezza, con la quale il Tortonese ha svolto il suo
lavoro, e per la superficialità che in esso si nota e, soprattutto, per la man-
canza di serie e adeguate preparazione e conoscenza dell'argomento. L'A.
dichiara nella prefazione di ritenere « opportuno tessere brevemente la storia
del Belgio, per offrire alle persone colte in una rapida sintesi le vicende
di codesto nobile popolo, e spiegarne il dualismo etnico e \' unità politica ».
E ancora dichiara : « Questi modesti cènni [la sua storia, cioè] vogliono essere
una volgarizzazione dei precipui avvenimenti belgi ; ne valuto io per il primo
le manchevolezze, che troppe volte essi si appagano degli elementi mecca-
nici, esteriori della vita belga, pur lumeggiando quelle essenziali caratteri-
stiche del Belgio che bastano a mostrarcene il ritmo dello spirito e della
civiltà ».
L'A., dunque, non ha avuto intenzione di far opera originale, di darci
una sua rappresentazione storica della vita belga traverso i secoli : ha inteso
soltanto dare alle persone colte uua sintesi della storia del Belgio, compiere
opera di divulgazione e di volgarizzazione. Intendimenti in apparenza modesti,
ma tutt'altro che privi di difficoltà, quando si voglia far cosa diligente e
fedelmente costringere nel breve giro di tapide pagine la complessa storia
di tutto un popolo. Tanto più che i propositi manifestati dall'A. mostrano
implicitamente che, pur facendo opera di volgarizzazione, egli intendeva fare
anche e specialmente opera storica nel pieno senso della parola. Che signifìca
— del resto — « volgarizzazione » ? Volgarizzare è indubbiamente cosa assai
più difficile dello scrivere piccole o grosse monografie erudite. Queste possono
appagarsi di sciorinare tutti gli elementi possibili dell'argomento impreso a
trattare, mentre « volgarizzare » significa rendere altrui facile tma materia che
completamente si domina, anche se non si è preso contatto con tutti i suoi
materiali eruditi. In qual modo il Tortonese ha realizzato i suoi propositi?
* Cfr. la mia recensione all'opera dello stesso' M. Tortonese, La politica ecclesiastica di
Carlo Emanuele III nella soppressione della Nunziatura e verso i Gesuiti (Firenze, Libreria
della Voce, 1912), apparsa ne La Nuova Cultura, a. I (i9i3)> fase. 3.
84 Note^ questioni storiche^ ecc.
Basta scorrere T indice della Storia per accorgerci che l'A. ha obbedito
a procedimenti puramente scolastici. Nel dividere in capitolili suo volume,
l'A. non ha avuto presente il dialettico sviluppo interno del popolo belga,
ma la pura apparenza del fatto esterno. Le sue divisioni, in altre parole, non
obbediscono ad una necessità storica^ non segnano, cioè, le varie fasi del-
l'evoluzione intima, culturale e politica, del popolo belga; ma obbediscono
ad un criterio cronologico, ad un puro criterio scolastico, intesa la parola nel
senso di riferimento a quegli scandalosi manuali, sui quali fino a non molto
tempo a dietro (e ancora ai dì nostri !) s' insegnava la storia nelle scuole. Si
capisce che da questo procedimento puramente meccanico venga a soffrire,
non solo l'esterna architettura dell'opera, ma anche larhiarezza comprensiva
dei varii fatti storici. Per questo, il volume del Tortonese non è una storia,
sia pure divulgaltiva, del popolo Belga; ma una cronologia della storia di
qbesto pòpolo...
Si capisce, dopo ciò, come l'A. non si preoccupi di comprendere e di
far comprendere al lettore l'intimo ritmo della storia del popolo belga.
Egli s'accontenta di stendere il racconto dei fatti, senza minimamente pensare
ad indagarne le origini e le conseguenze. Dimentica di scrivere una storia del
Belgio ad uso delle « persone colte » (tale abbiam visto essere stato il proposito
dell'A.), per abbandonarsi ad esemplificazioni o definizioni, puerili ormai anche
per un giovinetto. Dichiara che anche il Belgio subì lo sminuzzamento feudale.
Qual'è la persona mediocremente colta che non sappia cosa sia cotesto smi-
nuzzamento? L'A. opina, evidentemente, che s'abbia spiegarlo, e soggiunge :
« Se la Fiandra si mantenne compatta, la Lotaringia invece si spezzettò in
«varie signorie, rette dal principe, o duca, o conte che n'aveva il dominio,,
« e che dettava leggi, imponeva taglie e tributi, rendeva giustizia, chiamava
« valvassori e sudditi a raccolta nelle terre private, concludeva paci e alleanze
« per proprio conto, e produzione e commercio inceppava con restrizioni arbi-
«trarie e monopoli. La nobiltà germanica e quella latina, ormai affratellate
«dalla comunanza degli Interessi, si adagiarono negli ordini feudali, appar-
* tandosi dalla plebe e costituendo quella particolare società, della quale furono
« elementi preziosi la cavalleria e la cortesia » (p. 23). E potrei citare tanti
e tanti altri tratti identici o quasi, a dimostrazione dell'alto concetto che l'A.
mostra d'avere delle « persone colte », cui la sua storia è diretta • me ne
dispenso per brevità e per evitar noia a chi mi legge.*
Per converso, se abbondano coteste divagazioni è definizioni inutili, man-
cano, sempre o quasi sempre, le cose veramente utili alla intelligenza dello
svolgersi degli avvenimenti storici belgi. Eccone alcuni esempi. Nella prefazione
alla sua storia l'A. scrive: « ...forse Henry Pirenne nella sua pregevole opera,
La Nation Belge^ andò troppo oltre nel voler dimostrare l'esistenza d'un'anima
belga sin dai tempi del dominio borgognone» (p. XIII). Dopo una simile, sia
pur vaga, affermazione, il lettore s'attende che nel capitolo dedicato ai duchi
» Non voglio, però, defraudare il lettore di un'amenità che si legge a p. 173: «Odiosi ai
Belgi parvero sovra tutti, i balzelli sul macinato e sulle carni macellate, cioè sul pane e sulla
carne ».
Note, questioni storiche, ecc. 85
di Borgogna l'A. discuta se il Pirenne andò troppo oltre nel dimostrare l'esi-
stenza d' un'anima belga, o se pure interpretò esattamente la realtà storica.
Vana attesa! L'A. ha completamente dimenticato non solo il proprio dubbio,
ma anche il problema della realtà o meno di qu.est'anima belga dell'epoca bor-
gognona. Egli regala al lettore un albero genealogico della casa di Borgogna,
e in otto paginette si sbriga d'ogni cosa, con una filza di nomi e di date. La
figura di Carlo il Temerario, il duca ch'ebbe più Jimpida la visione dell'unità
belga, l'uomo che — come lapidariamente cantò Émile Verhaeren —
Avant de s'écrouler, comme un pan de montagne,
Avait, quand méme, à coups de volente, bàti
Entra la Franca ardente et la rude AUemagne,
Jusques à fleur da sol, notre pays, 1
la figura di Carlo il Temerario, dico, è relegata in una rapida paginetta, e
dell'opera sua non appare che il prospetto cronologico, e perciò esterno. Il
lettore, che non conosca l'opera del Pirenne e che, sopratutto, ignori le
pp. 157 e segg. della sua Histoire de la Belgique (le ha lette il Tortonese
e le ha ben meditate?) rimane contrariato verso l'A., che ha sollevato un
dubbio e non l'ha né risolto, né ha posto elementi sufficienti a risolverlo.
Altrove, narrando la storia del Belgio sotto il dominio spagnuolo, ed
esponendo 1^ vicende della rivolta dei « Gueux », l'A. trova modo,, ad esempio,
di regalare al lettore una nota per ricordargli che «Felice Cavallotti alle
vicende dei Gueux ispirò il suo dramma storico, I pezzenti » (p. 100) ; ma ben
si guarda dal penetrare le cause vere dell'epica rivolta, ben si guarda dal
prospettarne le orìgini eie conseguenze profonde. Anche qui la meccanicità
dell'esterno fatto, la cronologia dell'avvenimento preoccupa l'A., che d'altro
non si cura, o sa curarsi. Invano si cerca una rappresentazione degli eroici
avvenimenti, invano si attende che l'A. sappia ravvisare, nell' intimo degli
uomini che capeggiano la rivolta, la chiara visione d' un'anima belga già
inconsciamente formata, viva e reale. Pallida e sparuta appare nelle sue
pagine la figura gigantesca di Guglielmo d'Orange, il Taciturno, cui piat-
tamente e senza rilievo spirituale d'opposizione fa riscontro quella sangui-
naria e atroce del duca d'Alba. Invano il lettore cerca d'aver chiara l'idea
del dramma, che nasce dall' urto della volontà spagnuola, che vuol dire tiran-
nia, e della volontà belga, che significa libertà.
Altrettanto si deve dire delle brevissime pagine dedicate alla storia del
Belgio durante la Rivoluzione francese, di quelle dedicate al periodo del-
l' unione con l'Olanda, e di quelle che dovrebbero lumeggiare il risorgimento
e la conquista dell'indipendenza. C'è sempre una meccanica, più o meno
chiara, esposizione del fatto storico; non è mai possibile trovare una com-
pressione di esso. Eppure la storia non è esposizione, ma rappresentazione,
e perciò comprensione del fatto storico. Quando, ad eàempio, l'A. si ostina
per parecchie pagine a narrare l'urto dei partiti nel Belgio indipendente, e
» Cfr. ÉMiLE Verhabrks, Poèmesiég^endaires de diandre et de ^rabant, Paris, Société
Littéraire de Franca, 1916, p. 40.
86 Note, questioni storiche, eoe.
Io narra sulla cronaca degli avvenimenti, elencando i vari attriti tra clericali
e liberali, senza preoccuparsi di penetrare il fondo delle ideologie di questi
partiti, farà della cronaca, esporrà dei fatti, ma non farà mai della storia.
Liberalismo e clericalismo non barino in Belgio il significato politico che
hanno da noi : sono etichette, sotto le quali si nascondono partiti prettamente
economici, che pongono al fondo delle loro lotte, costanteinente, una con-
quista o una conservazione di carattere economico. Così pure il T. tratta la
questione linguistica,. che tanta parte ha nella vita politica belga, alla pura
stregua del fatto eisterno, della data, in cui un'adunanza di fiamminghi si è
raccolta, o in cui è loro stata fatta una concessione. Ne deriva che l' impor-
tanza fondamentale della questione sfugge al lettore che non abbia una pre-
cisa conoscenza della vita belga. Pure, non era per l'A. difficile far cosa com-
piuta e penetrativa : bastava avesse riprodotto alcuni dati statistici e li avesse
discussi con chiarezza. Avrebbe, allora, chiarito al lettore la necessità del
bilinguismo per un popolò che conta il 41,47 "/, d'individui parlanti il solo
francese, e il 41,01 »/• di parlanti il solo fiammingo; avrebbe mostrato che
la fortuna delle lettere francesi in Fiandra era determinata, non soltanto da
simpatie culturali e politiche (intese come tendenza democratica), ma anche
dall'esistenza di un nucleo di 673.554 abitanti che parlavano il fiammingo e il
francese, contro un nucleo di 6.251 abitanti che parlavano il fiammingo e il te-
desco. La quale ultima cifra, tra parentesi, sta a dimostrare la follia di quei fiam-
minghi, che gridavan per le piazze : « Madre Germania ! », giungendo ad in-
vocare la loro annessione ad essa. Ma l'A. di tutto questo si è dimenticato.
Così come si è dimenticato — nel tracciare la storia di un popolo la cui
politica internazionale, dal giorno che ebbe l'indipendenza, fu di stretta neutra-
lità e tale doveva essere per forza e virtù d' internazionali trattati — d' illu-
minare il lettore sulla precisa portata di questa neutralità, sulle sue premesse
e sulle sue conseguenze. Accenna l'A. al famoso trattato dei ventiquattro
articoli, ma ben si guarda di studiarlo e di discuterlo, non ostante su di esso
sia basata tutta la vita politica internazionale del Belgio indipendente. C'è
da sospettare che l'A. conosca solo il trattato per sentita a dire, e gli siano
sfuggite tutte le discussioni e le esegesi, che su di esso sono apparse in
non lieve numero di pubblicazioni, dallo scoppio della conflagrazione europea
in poi.*
Il sospetto sorge spontaneo perchè, se il volume del Tortonese non brilla
come storia, non brilla nemmeno per sicurezza e larghezza d'informazione, la
quale dovrebbe essere necessarissima in chi pretende far opera divulgativa :
è égli possibile volgarizzare ciò che non si conosce?
L'A. premette alla sua storia una bibliografia, dove, ad esempio, a
fianco della storia del Pirenne, è elencato il volume di Ezio M. Gray : // Bel-
* Eppure, ano studioso di storia belga, se può ignorare le molte pubblicazioni occasionali
apparse' dopo lo scoppio della guerra, deve assolutamente conoscere, almeno il fondamentale
volume di Edouard De Camps: La neutralità de la Belgique au point de vue historique, di-
piomatique, juridique et politique, Bruxelles, 1902.
Note, questioni storiche^ ecc. 87
gio sotto la spada tedesca (edito non a Milano, come è sfuggitto al Tortonese,
ma a Firenze) : il che dovrebbe dire che la bibliografìa premessa dall'A. sia
cosa minutissima, poiché, a fìanco di opere scientifiche, sono citate opere occa-
sionali o di mera cronaca contemporanea. Né men per sogno, che l'A. dichiara
di elencare « soltanto le opere principali consultate ». Non si capisce allora
perchè egli abbia posto una pagina di bibliografia, quando poi le opere
elencate sono tutte quante citate nel testo, con rimandi a pie di pagina.
Ma il criterio delle « opere principali consultate », come prova il raccosta-
mento che sopra ho fatto, é semplicimente edificante, e vien fatto di doman-
dare se l'A. conosca quella Bibliographie de V histoire de Belgique, che è uno
dei volumi della più volte citata Histoire de Belgique di Henry Pirenne.
Intanto, per dimostrare' la sua sicurezza d' informazione, il T., che per
parecchie pagine si occupa della rivolta dei € Gueux » e del Belgio sotto
Carlo V e Filippo II, si guarda bene dal citare, sia pure una sol volta, quella
Storia dei Paesi Bassi dello Schiller, che é sostanziale per la intelligenza
dell'epoca ora accennata dèlia storia belga. Né egli può accampare la scusa
di non conoscere il tedesco, non solo perché vedo citati i volumi del Dahn,
del Prutz, di von Betzold, ecc., apparsi nella Storia universale illustrata
deirOnken; ma anche perchè, se ciò fosse, non dovrebbe ignorare la tra-
duzione francese dell'opera dello Schiller, pubblicata a Bruxelles sino dal
1820 o 22. Altrove, parlando della questione fiamminga, o, meglio, del pro-
blema linguistico belga, l'A. cita bensì il volume dello Hamelius {Histoire
politique et littéraire du mouvement flamand^ Bruxelles, 1890); ma mostra
d'ignorare quello del Destrée sulla Wallonie (Paris, Messein, 1913), impor-
tantissimo esso pure sull'argomento : chiunque abbia qualche pratica di cose
bel'ghe sa benissimo che, mancando la questione linguistica (altrimenti detta
famminga- vallone) d' uno studio organico, è necessario ricorrere, oltre che
ai varii giornali e periodici, ai due volumi ora citati. Chi sì basa soltanto
sullo Hamelius corre il rischio di non intendere veramente la questione, e
di riuscire parziale.
Se però 'io dovessi qui elencare tutto ciò che l'A. ignora, sarei obbligato
a empire, pagine e pagine d'indicazioni bibliografiche, sarei costretto a
stendere una bibliografìa vera e propria della storia del Belgio : cosa che
non può rientrare nei ristretti limiti, in cui è necessità costringere queste
rapide note. Bastino, perciò, i due esempi ora citati. M'accontenterò di ag-
giungere solo qualche appunto, per segnalare altre defìcenze, non solamente
bibliografìche. Questa) ad esempio: l'A. introduce nella sua storia due capitoli,
uno sulla Fede^ arte e cultura nel Medio-Evo^ l'altro sulla Cultura ed arte
nei secoli XVI e XVH, Segno che ha intuito la necessità d' indagare, non
solo il puro avvenimento storico, ma anche gli elementi culturali del Belgio :
una storia che dimenticasse le manifestazioni di fede, di cultura e di arte non
potrebbe mai essere veramente storia, perchè non abbraccerebbe nella sua
rappresentazione tutti gli elementi che indicano i segni evolutivi della vita di
una nazione. Ma i due capitoli ora accennati non sono dall'A. collegati con
lo sviluppo dei vari avvenimenti storici: stanno di {)er sé soli, come morti
tronchi, elenco puro e semplice essi pure di nomi e di fatti. Anche in
ho No fé, quesHoni storiche, ecc.
essi si rivela la solita mancanza d'informazione,* unitamente alla più impres-
sionante superficialità. D'altra parte, dopo il 1880, l'arte, la letteratura e la
poesia vengono ad assumere nel Belgio una vera importanza nazionale, rial-
zano il tono spirituale della vita^ rinnovano e nobilitano l'ambiente. Non è
possibile tracciare un quadro della vita belga dell'epoca, Senza tener conto
di esse, e il lettore logicamente si attende che il Tortonese — dopo avere
scritto i due capitoli sopra accennati — pensi anche a scriverne uno intorno
al periodo in cui letteratura e cultura sono floride nel Belgio, come mai non
lo furono pel passato. Attesa vana ! L'A. se ne sbriga in fin della sua
storia con sole dodici righe, sufficenti, però, a dimostrare che di lettera-
tura belga egli conosce assai poco. Vi trova modo di dire che Georges Ro-
dembach rappresentava -le lettere belghe a fianco di Camille Lemonnier e
e di Edmond Picard, e ricorda il Rodembach come autore di Bruges-la-morte,
e cioè come romanziere. Subito dopo aggiunge che la poesia « vantava
nomi di Alberto Giraud », ecc. ecc. Ma sa l'autore che il nome del Rodembach
è legato soprattutto alla sua opera poetica, e che poeta rimane sempre anche
nelle sue prose ? Ha egli mai letto un rigo di Rodembach ? Ha egli mai
saputo che in Belgio, contemporaneo al Rodembach, al Maeterlinck, ai
Verhaeren, ecc., è vissuto anche un poeta che. si chiamava Charles van
Lerberghe, che ha un posto di prim'ordine. nella storia della poesia belga,
non ostante l'A. non lo nomini mai ?
A quali fonti attinge l'A. le sue notizie letterarie? In fóndo alle sue
dodici righe c'è un richiamo a pie pagina, ove si legge « Remy db GoUr-
mont: La Belgique littéraire ». Per edificazione del lettore debbo riprodurre
alcune delle parole con le quali il De Gourmont presenta il proprio volu
metto (Paris, Georges Grès & C.*^, 1915, in. 32®, di pp. 132): « Ce petit livre
« improvisé avec des connaissances pas absolument cotnplètes du sujet porte la
« date de sa composition presquea chaque page... Je l'aurais voulu plus court.
« mais j'aurais dù negliger encore plus de nonis que je n'aifait et j'en aurais
« eu du chagrin... ». Bastano queste parole per caratterizzare la brillante im-
provvisazione del De Gourmont, che per la sua incompiutezza (come mo-
strano le parole che ho sottolineate) può esser utilmente adoperata soltanto
da chi abbia una precisa conoscenza della letteratura belga : conoscenza che
il Tortonese non ha e che ha mostrato di non voler possedere, perchè il
libretto stesso del De Gourmont gli dava un' indicazione, che l' avrebbe
posto sulla retta via di proficue letture. A p. 8 del suo volumetto, infatti,
il De Gourmont rinvia il lettore ad un volume di Albert Heumann, Le
mouvement littéraire Belge d' expression frangaise depuis 1880 (Paf is, Mer-
cure de France, 19 13), avvertendolo che in questo volume è contenuta una
« bibHographie très sérieuse », Ora, se il Tortonese si fosse data la pena di
leggere il volume dello Heumann (lavoro incompleto, ma di grande impor-
• Per amor di brevità non sto qui a segnalare le molte opere, che l'A. ignora completamente
e nemmeno ha il sospetto che esistano, come, per non dire che di alcune tra le più recenti :
H. Fikrens-Gevakrt, La renaissance septentrionaìe et les premières tnaìtres des Flandres
(Bruxelles, 1905) ; G. Geffroy, La Belgique (Paris, s. a.) ; L. Hourticq, Rubens (Paris, s. a.);
E. FrombntiNj Les mattres d'autre fots, Belgique 'HoUande (Paris, s.^ a.), ecc. ecc.
Note, questioni storiche, ecc. 89
tanza critica per l'acutezza di molti giudizi), vi avrebbe trovato citatq a
p. 39 l'ancor buona Histoire des Lettres bélges d'expressionfrangaise (Bruxelles,
1892, voli. 2) di Francis Nautet, e nella pagina seguente avrebbe trovata
citati i lavori, tutti variamente importanti, di Eugène Gilbert {Les lettres
frangaises dans la Belgique d'aujourà' hui, Paris, Sansot, 1906), di Henri
Liebrecht {Histoire de la Littérature belge d'expression frangaise, Bruxelles,
Vanderbriden, 1910), e di Hubert Effer {Beitràge zur Geschichte der fran-
zòsischen Literatur in Belgien, Dusseldorf, 1909). Alle pp. 303-333, poi,
il Tortonese avrebbe trovato un'ampia bibliografia, non completa, ma suffi-
cente, nella prima parte, per conoscere i più importanti lavori critici rela-
tivi alla letteratura belga contemporanea, e nella seconda parte per indicare
le letture dei singoli scrittori ^
Il nostro A., però, si è ben guardato dal procurarsi una simile cono-
scenza, così come non ha pensato (egli che s'era occupato dall'antica arte
fiamminga, ignorando persino quanto ne Lcrisse Ippolito Taine nel i*^ tomo,
3* parte, della Philosophie de Vari) che^dal 1830 in poi erano magnificamente
rifiorite nel Belgio le arti figurative. Ha nominato Camille Lemonnier, ma, se
veramente conosce l'opera del Lemonnier, come ma,' ha dimenticato di par-
lare anche degli artisti belgi, quando proprio al Lemonnier si deve una
insuperata Histoire des beaux-arts en Belgique {^830-1887), che ancor si può
leggere nella seconda edizione, pubblicata dal Weissenbruch, a Bruxelles,
nel 1887? Eppure i nomi di Alfred Stevens e di Félicien Rops, di Costantin
Meunier e di James Ensor, ecc. ecc. non significano soltanto qualcosa nella
storia dell'arte belga, ma anche in quella dell'arte europea, che ogni persona
colta conosce e deve conoscere.
Ma pretendere dal Tortonese ampiezza d'informazione e solidità di cul-
tura è forse troppo. Egli trova modo, ad esempio, di citare un paio di
volte VEgmont di Wolfango Goethe, e lo cita sulla rievocazione fattane da
Paolo Savj-Lopez nelle pp. 11-16 del suo opuscolo, L'anima del Belgio {M\-
lano, Treves, 1915, n. 11 dei Quaderni della guerra)... Ora io posso ammet-
tere che una persona colta — dato il caso che ignori il tedesco — non
conosca la bella traduzione italiana in prosa che fu pubblicata a Firenze
dal Le Monnier, nel 1853; ma non posso, ammettere che una personar, anche
mediocremente colta, non conosca almeno di nome la traduzione di Giu-
seppe Rota, che si legge in fine del i» voi. del Teatro scelto di Wolfaugo
Goethe; recato in versi italiani da G. R. (Milano, Gnocchi, 1860, voli. 2) :
chi ha letto Carducci, conosce almeno una gustosa recensione di questa
traduzione, e 1' ha letta alle pp. 197-200 del voi. V delle Opere. Il Tortonese,
non si dà pensiero di tutto ciò...
Il nostro A. chiude la sua storia con un capitolo intitolato : Nel secolo
ventesimo. Il lettóre spera di trovare, qui almeno, notizie dirette, sicure, pre-
cise. S'illude: l'informatore del Tortonese per la maggior parte del capi
tolo è Ezio M. Gray, o meglio il secondo capitolo del volume di quest'ul-
timo: // Belgio sotto la spada tedesca. Ci sì trova dì fronte non solo alla
90
Note^ questioni storiche, ecc.
volgarizzazione, ma spesso anche al plagio più o meno larvato. In molti
punti del volume ho scoperto delle parafrasi, senza richiamo alle fonti, di
passi del Pirenne e d'altri ; son passato e passo oltre, perchè in quei punti
per lo meno si parafrasavano opere che non sono di divulgazione. Debbo
però mostrare al lettore come il Tortonese si serve del citato capitolo del
Gray. L'opera di quest'ultimo è citata dal nostro autore soltanto in fine
all'a capo, che va dalla riga 7* alla 24* della p. 253. Si deve, perciò, supporre
che soltanto quest'a capo h. attinto dal Gray.
Si confrontino invece i due passi seguenti:
TORTONESE (p. 255).
Pieno di significato fu, nel 1908, un
articolo ufficioso dcWdi Kolnische Zeitung^
in cui si proponeva al Belgio l'adozione
del tedesco come lingua ufficiale, pro-
mettendo in compenso la cessione del
territorio Morésnet-Neutre, alla frontiera
belga-tedesca. Era una baldanzosa ipo-
teca sull'avvenire, contro la quale prote-
stò sdegnosamente l' Indépéndance Belge.
Gray (p. 52).
Signifìcatissimo fu nel 1908 un arti-
colo ufficioso della Kolnische Zeitung,
in cui si proponeva al Belgio l'adozione
del tedesco come lingua ufficiale, pro-
mettendo in compenso la cessione del
territorio Morésnet-Neutre alla frontiera
belgo-tedesca. V Indépéndance Belge pro-
testò furiosamente. Tale progetto era
niente altro che un'audace ipoteca sul-
l'avvenire aperto alle mire tedesche dalla
proposta del deputato Coremans (di An-
versa) di rendere obbligatoria la lingua
fiamminga nelle scuole.
Qui il Gray non è citato, e il plagio è evidente, tanto più che la sop-
pressione di una parte dell' ultimo periodo del Gray mostra che il Torto
nese non sa plagiare con efficacia, perchè senza questa parte del periodo la
« baldanzosa ipoteca » o l'« audace ipoteca » sull'avvenire non dice nulla.
Ancora un esempio, tra i tanti, prima di finire :
TORTONESE (p..235).
l'avvocato Emilio Vandervelde, de-
finito < un Robespierre senza Rousseau,
su cui fossero passati cento anni di espe-
rienza parlamentare »
(p. 256)
(sebbene il Vandervelde nella Na-
tional Review proclamasse con soddi-
sfazione che ormai si vedevano gli sforzi
proletari di tutto il mondo raggiungere a
poco a poco il bando della guerra dalle
società civili, e che ci si avvicinava agli
Stati Uniti d'Europa!)...
Gray (p. 34>.
il Vandervelde..., « un Robespierre
senza Rousseau » — qualcuno disse —
e sul quale fossero passati cento anni di
esperienza parlamentare»...
(p. 35)
il Vandervelde néiluNatlonal Review
candidamente proclamava ancora che
con soddisfazione si vedevano gli sforzi
proletari di tutto il mondo raggiungere
a poco a poco il bando della guerra
dalle società civili e che « ormai ci si av-
vicinava agli Stati Uniti d' Europa ».
E basta, per carità, che già troppo tempo e troppo spazio ho occupato
per quest'opera di sedicente storia belga : con simili metodi non si scrive |a
storia, ma solo si tradisce la buona fede dei lettori.
Gerolamo Lazzeri.
Note, questioni storiche^ ecc. 91
Studi italiani di storia religiosa.
È. raro che si pubblichino in Italia libri di storia religiosa o di studii
patristici : libri, dico, che abbiano un qualche valore scientifico, perchè non
è il caso di parlare di opere e di opuscoli di edificazione o di apologetica
più o meno pueriji. Perciò ho letto con vero interesse e con tutta l'atten-
zione possibile il libro del Ficarra su Girolamo' e la sua posizione nella
storia della coltura. Il Ficarra ha fatto senza dubbio uno studio assai accu-
rato della vasta opera ieronimiana ; ha diviso il suo libro (il solo pubblicato
finora) in due parti, e studia nella prima la formazione della coltura, nella
seconda, «il pensiero di Girolamo». Questa seconda parte è incompleta è
bisognerà attendere il secondo volume. A me sembra che l'autore sia stato
molto più felice nell'esposizione della prima, che riguarda i varii elementi
della coltura di Girolamo e l'ambiente dove essa si formò : le scuole dei
retori, i classici, lo studio dei Padri, i viaggi, ecc. Ma non si sa per qual
ragione in questa parte, che è pura analisi storica dell'ambiente in cui Giro-
lamo nacque e crebbe, sia capitato in ultimo un capitolo, che doveva essere
il centro di tutta l'opera : il sesto, « L'anima di S. Girolamo »» È evidente
che all'autore è mancata una chiara prospettiva della sua stessa opera, la
quale è cominciata con una raccolta, o meglio un centone, di passi geroni-
miani, che si è andato mano mano inquadrando in rubriche più o meno
scolastiche s, più o meno schematiche, le quali tradiscono indubbiamente
il lavoro di un principiante. L'autore ha percorso tutta l'immensa opera di
Girolamo, traendone, non senza fatica ed acume, i passi più caratteristici
e significativi, ma la figura dj Girolamo non s'intravede per nulla, almeno in
questo primo volume, che pur contiene il capitolo sull'anima di Girolamo.
Due sono, indiscutibilmente, le attività fondamentali e gli aspetti del
pensiero del monaco dalmata : il traduttore e l'asceta ; anzi si può dire che
tutta l'importanza di Girolamo è nel valore che possono avere i suoi studi
biblico-orientali. Girolamo, più che un omilata ed esegeta, nel senso pro-
prio della parola, più che scrittore agiografico, è essenzialmente traduttore.
Ma nell'illustrazione di questa parte appunto il Ficarra è deficiente: egli non
conosce le lingue d'Oriente, e meno che mai la moderna esegesi; altrimenti
non avrebbe scritto che « non vi ha autore che ci possa istruire più a fondo
nella critica dei libri sacri, quanto le opere di questo padre » (p. 131), né
direbbe, per es. : « S. Girolamo, come tutti i grandi genii » (p. 106) ;
esagerazioni che si spiegano solo in un principiante. In verità, Girolamo
non ha mai cessato di essere retore, retore nella lingua e nell'anima; e, in
quanto al suo valore come esegeta, esso non è mica molto brillante ; baste-
rebbe confrontare i suoi lavori critico-esegetici, non dico con i moderni, il
che sarebbe ingiusto, ma con qualcuno degli antichi, per es., coi frammenti
di Teodoro di Mopsuesta. IÌ Ficarra ignora che all'epoca di Girolamo era
* A. Ficarra, La posizione di S. Girolamo nella storia della cultura, voi. I, iii-8» (pp. VIÌI-216),
Palermo, R. Sandron, 1916.
92 Note, questioni storiche, eco.
impossibile proporsi il vero problema storico-esegetico della formazione degli
scritti biblici; ma il merito di Girolamo, consistette innanzi tutto nell'aver
capito, a differenza di molti ecclesiasici, che il fondamento di ogni studio
sulla Bibbia era la conoscenza, quanto più profonda possibile, dell'ebraico e
del caldaico.
Uno dei capitoli, singolarmente imperfetto ed errato, è quello sulle « Idee
ascetiche e pedagogiche in S. Girolamo», mentre avrebbe dovuto essere
uno dei più importanti. Lasciando da parte le idee pedagogiche, l'ascetismo
di Girolamo è interessantissimo perchè rivela tutto un dramma interiore,
che pochi hanno intravisto ed esaminato scentificamente. Girolamo è una
delle più illustri vittime di questo dramma: partito in battaglia contro la
mondanità e contro la donna, « l'eterno e peggior nemico », come s'esprime
anche un hadith musulmano, questa entrava di nuovo, furtivamente, a riem-
pirgli l'anima, il cuore ^d il pensiero, attraverso la pretesa scuola d'ese-
gesi biblica, in casa della nobile romana Marcella. Gran parte delle lettere
di Girolamo sono indirizzate alle famose vergini Paola, Eustochio, Asella
An«he alcune sue traduzioni ed alcuni trattati esegetici sono dedicati, non
si sa per quali motivi mistici (se non vi fosse \ina ragione puramente
umana), alle stesse vergini. Tipiche senza dubbio e caratteristiche, dal punto
di vista scientifico, sono le parole della lettera ad Asella (^>. 45,7) «Saluta
Paulum et Eustochium: velit, nolit mundus, in Chris to meae sunt... » kSubti-
liter fornicantur^, avrebbe detto Agostino. Il Ficarra si appaga di citare
una pagina, alquanto barocca, di Amedeo Thierry, senza indagare più in
là. Il problema del resto è più complesso di quello che non abbia visto
il Ficarra: solo un grande vescovo dell'antichità, Sinesio di Cirene, ha
trattato del celibato ecclesiastico nei suoi vari termini, chiamando le cose
con ì loro nomi, ed ispirandosi, con sicura scienza, al vero spirito del cri-
stianesimo. Ma una storia veramente scientifica dell'ascetismo, nella iUc.
genesi psicologica e storica, nelle sue vere motivazioni ed aberazioni, è ancora
un pium desiderium, anche dopo i lavori dello Zockler, del Dott. Leuba,
del Delacroix.
Un passo, citato dal Ficarra {Comment. in Ezechiel., Vili, 13), avrebbe
potuto dar luogo ad un'interessante excursus sul carattere sincretico della
figura storica del Cristo. Il passo riguarda il culto di Adone, in Palestina e
propriamente a Betlem, del quale si celebrava la nascita miracolosa, la morte
e la risurrezione, con strana, e, al dire di Girolamo, scandalosa somiglianza
colla storia di Gesù, mentre è questa una prova in più che la leggenda cri-
stiana trova nel terreno semitico la sua preistoria, e che gli elementi, che
hanno composto la figura di Gesù nelle sue varie fasi (nascita miracolosa
da una vergine, tentazione, crocifissione e risurrezione), si ritrovano già nella
leggenda di Sargani-Sar-ali, di Mosé, di Zaratustra, e financo in quella di
Romolo. Ma, nel libro del F., Vexursus. manca, ed è un peccato perchè gli
stessi studi patristici acquisterebbero ben altro valore, e noi saremmo molto
più avanti nella conoscenza scentifica dei fenomeni religiosi, se fosse.o intra-
presi da un punto di vista largamente comparativo, e con indispensabile
preparazione etnografica ed antropologica.
Note, questioni storiche y ecc. 93
Un'ultima osservazione. In un libro di carattere scientifico, come quello
del Ficarra, dovrebbero scomparire, come del tutto inutili, le tradizionali .V
maiuscole dinanzi ai nomi degli scrittori ecclesiastici ; non si comprede allora
perchè, nominando dei santi musulmani, non si debbano adoperare anche,
per loro, le note formule abbreviate, che presso di noi si tradurrebbero in
<i Abbia Allah pietà di luif^y oppure « 5m lui la pacete.
Il « profilo » del Buonaiuti su Agostino * è certo il meno riuscito di tutti
i suoi lavori : sembra una conferenza di carattere generale su Agostino ed i suoi
tempi ; e della conferenza ha l'intonazione e lo stile. Vi si trova un po' di tutto :
la vita romana del secolo IV, il possibile incontro di Agostino « gomito a
3;omito », dice l'autore (chi sa perchè ?), con Girolamo ; un'esposizione, {)er
quanto breve, del Manicheismo ; un'altra, più breve ancora, del Donatismo ;
e financo un accenno agli attacchi dì Verdun, a proposito del Babut. La
figura d'Agostino è naufragata nel pelago dei fatti storici del suo secolo:
la sua storia intima e il dramma profondo, iche si svolse per lunghi anni
nell'anima sua, appaiono appena nel «profilo». Questo voleva essere appunto
una vigorosa raffigurazione o, meglio, rievocazione della nobilissima perso-
nalità di Agostino: un ritratto che dall'analisi vasta e paziente àéWopus
agostiniano, e dalla molteplice letteratura dell'argomento, facesse risorgere,
al modo di cui parla Izchiel, col soffio vivificatore del pensiero e con Vefflatus
dell'arte, l'anima grande del Vescovo d'Ippona. Il Buonaiuti ha disseccato
nell'ambiente ciò che doveva essere l'unità spirituale d'Agostino, illuden-
dosi di resuscitare un'anima, cercandone le vestigia nel mondo esterno. Pre-
cisamente come alouni pretesi storici della nostra letteratura hanno cercato
di ricostruire la figura di Dante, per es., attraverso i documenti dei notai di
Firenze, appassionandosi al problema, eminentemente spirituale, di sapere
se un fico dell'orto di Dante fu sradicato o no per pagare un certo debito...,
e sei Giullari, quando mangiavano, facevano molto rumore...: questioni, come
ognun sa, di capitale importanza...
Non mancano, anche in un libro cosi breve, delle sviste e qualche apprez-
zamento arbitrario. Non è vero che i Canones ad Galles^ attribuiti al Papa
Damaso, contengano la più antica formulazione canonica della legge celiba-
taria per il clero, poiché è noto che fu il concilio di Elvira (del 300) in Ispa-
gna, sotto l'influenza del fanatico Osio, a formulare i primi canoni relativi al
celibato. Il Buonaiuti chiama concezione mistica quella che è alla base della
grande opera di Agostino « De Civitate Dei », confondendo la concezione
mistica del mondo con quella religiosa^ che è propria di Agostino. Non è
possibile, si capisce, darne qui le- prove, ma si può affermare recisamente
che l'opera De Civitate Dei non si basa affatto su di una concezione mi-
stica del mondo. Mistica è là cosmologia, diciamo così, sebbene impro-
priamente, dello Pseudo-Dioriigi Areopagita, di Bernardo, di Ugo da S. Vit-
tore, presso i Cristiani ; di Sahrawardi Maktul, Di Giami, di Hallàgi, di
Ibn Arabi, presso i Musulmani ; di Moise ben Scemtob (alcune parti dello
E. BoNAiUTi, 5. Agostino, Roma, Fornjigginl, « Profili », n, 44, 1917.
94 Note, questioni storiche, ecc.
Zohar), presso gli Ebrei, pejr nominare solo alcuni dei grandi mistici. Ma la
concezione di Agostino è prettamente religiosa. Il Buonaiuti crede che «Ago-
stino abbia ricavato dallo spirito del Vangelo una filosofìa della storia, di
cui può essere caduca la formulazione verbale, non già V intima essenza »
(p. 66). Ciò può riuscire ammissibile in un « Cursus theologiae dogmaticae
triplex'»^ non già in uno studio, che ha l'intenzione di essere scientifico.
Attendiamo con fiducia gli Studii agostiniani annunciati dal Buonaiuti,
Ed eccoci ad un altro lavoro dello stesso autore : La prima coppia umana
nel sistema Manicheo (estr. dalla Rivista degli Studi orientali^ voi. VII, Roma).
La scoperta dei manoscritti cinesi di Tun-huang e di Turian (Pelliot e Cha-
vannes) ha rinnovato, può dirsi, gli studi sul Manicheismo. L'autore, dopo
aver accennato all' importanza dei testi cinesi per confermare l'interpretazione
di alcuni passi importanti degli Ada Archelai, che restanio sempre documento
fondamentale per la conoscenza del sistema di Mani, studia un punto impor-
tante della complicatissima religione manichea : la formazione della prima
coppia umana. Le tradizioni non erano concordi : Agostino, gli Scolii di Teo-
doro Bar Khoni, e lo stesso Fihtist riferivano, come dottrina di Mani, che la
prima coppia umana era nata dal rapporto sessuale del Re delle tenebre e
sua moglie, o, come dice il Fihrist, Adamo ed Eva er^no il frutto di due
successivi rapporti di un Arconte maschio con Arconti femmine. Invece il trat-
tato manicheo, scoperto dal Pelliot nel 1908 a Tun-huang, è nettamente
favorevole alla diversa tradizione riferita negli Ada Archelai e toglie, come
dice il B., ogni dubbio sull'argomento. Secondo questo testo, la prima coppia
umana costituirebbe l'antitesi perfetta del sole e della luna, vascelli della
luce purificata, e « i due sessi sono i demoniaci veicoli e i perversi stru-
menti, mediante i quali il re delle tenebre riesce a tener vincolata nel mondo
la luce, sua prigioniera » (p. 13).
Qualche osservazione non sarà inutile. Il passo di Girolamo {Contra
Ruf., III, 22), citato dal Buonaiuti come allusivo ai monaci della Nitria, im
bevuti di manicheismo, non contiene alcuna indicazione precisa (« inter sancto-
rum choros aspides làtere perspexi»). L'antropologia di Mani, con tutti gli
scolii di 'Teodoro Bar Khoni, i testi di Efrem e gli scritti cinesi, rimane
oscura in sé e come campata in aria. Ripeterò ancora una volta: non credo
che il metodo, seguito da troppi studiosi, di riferirsi solo ai testi ed ai docu-
menti religiosi per interpretarli e spiegarli, dia molti risultati. Non si spie-
gano gli oscuri motivi della manducazione degli aborti nel sistema di Mani,
né l'orrore per la generazione sessuale, senza ricorrere necessariamente ad
un ciclo d' idee molto più antico ed arcaico : al ciclo magico-totemico, che ha
preceduto di gran lunga ogni sistema teologico. Nel Cristianesimo nessun
teologo riuscirà a spiegar mai il perché dei funerali al III, VII, XXX giorno e
l' uso delle candele nei servizi funebri ; come nessun rabbino é riuscito a
intendere la proibizione delle carni suine presso gli Ebrei, come nessuna
teologia potrebbe spiegare le fantasiose stravaganze del libro di Jeù (scritti
copti del ciclo della « Pistis Sophia ») e le meravigliose costruzioni del Se-
der Qoldstà mandeo. Solo l'etnografia e lo studio accurato delle primitive tra-
Note, questioni storiche, ecc. 95
dizioni palestino-iraniche potranno spiegarci molti tratti oscurissimi, che ri-
mangono ancora come massi erratici in tutti i grandi sistemi religiosi.
L'autore di quest'articolo sul pensiero di S. Paolo* ha cercato di rile-
vare la dottrina di Paolo di fronte alla Chiesa cristiana nascente, e di coglierne
i più vivi atteggiamenti e le più risolute proteste innanzi la formazione del
dommatismo tradizionale ecclesiastico. Naturalmente la complessa personalità
di Paolo si presta a molte interpretazioni, egualmente unilaterali, del suo
pensiero e dell'opera sua, sol che si esageri, col solito processo dell'in-
grandimento macroscopico, questo o quel passo delle sue epistole, così ricche
di problemi e di controversie. Il Geminiani tiene proprio a dimostrare che
la dottrina di Paolo è in aperta opposizione alla Chiesa nascente, che preten-
deva quasi monopolizzare il Cristianesimo, con la pretesa di essere 1' unica
interprete del pensiero di. Gesù, e si sforza di provare (con passi tutt'altro
che probativi, come ad es. Ad Galat., Ili, i) il contrasto stridente, che Paolo
avrebbe affermato, tra il Vangelo del Cristo e la Chiesa, che tendeva ad alte-
rarlo. PaoJo avrebbe predicato il Vangelo della Verità, cioè che le anime
formano una comunità simbolica, un insieme di membra egualmente vivifi-
cate dal Cristo; ed inoltre egli avrebbe posto come fondamento della fede
nientemeno che « la libertà dello spirito »! « La Chiesa irreggimenta, ufficia-
lizza ; Paolo invece vede dei cristiani dovunque c'è il fervore dell' idea, il
fuoco della libertà, dove si lavora a rompere dei vincoli, a liberare delle
coscienze» (p. 53). Ma la trasfigurazione di Paolo non è finita ; ecco un altro
passo caratteristico : « Ogni uomo, che al di sopra delle cose della vita sa
porre un ideale, eccolo con lui, con Paolo, fuori é contro la Chiesa per af-
fermare la definitiva liberazione dello spirito umano da ogni vincolo, che
avrebbe potuto farlo prigioniero della terra, nel nome di Gesù » (p. 54). Ecco
Paolo completamente rammodernato ed interpretato attraverso le aspirazioni
religiose aell'autore ! Poiché il Geminiani in verità non sembra che abbia
inteso sul serio le linee reali del complesso pensiero paulino ; non fa un cenno
delle controversie recentissime sulle Epistole (cfr. Jkanmaire, \\\Rev. Hist. des
Religions, 1913, e M. Goguel, Cronologia di Paolo, ivi, 1912, pp. 338 segg.),
e si vale dei testi in modo affatto impreciso e saltuario, come gli era indispen-
sabile per poter dare un certo qual fondamento alla sua « tesi », che termina
con queste notevoli parole : « Il pensiero pauliano può fornirci il modo di
ritrovare ancora, attraverso i libri evangelici, che le Chiese ci offrono, il puro
Vangelo del Cristo» (P..59). Per contro tutti gli studiosi di esegesi cristiana
sanno che fu proprio Paolo colui che trasformò completamente (cfr. Loisy,
L'Evang. de Jesus et l'Evang. de Paul, in Rev. d'Hist. et de Litt. relig.^ 1914)
la dottrina, contenuta neW Evangelium Christi, nell'altra deW Eva7rgelium de
Christo : ciò ch'è divenuto col tempo il domma fondamentale del Cristiane-
simo, sino a fissarsi nel classico simbolo « Quicumque » del secolo Vili».
G. Maliandi.
> A. Geminiani, Cristianesimo e Chiesa nel pensiero di S. Paolo (estr. dal Bollettino della
Società Teosofica Italiana, marzo, 1917, pp. 46-59).
96 NotCy questioni storiche, ecc.
Problemi della guerra e del dopo-guerra.
Mentre, nel campo letterario e storico, si va combattendo un'aspra bat-
taglia per affrancare la nostra cultura da tutto quello che he aveva fatto
un feudo della Kultur^ merita di essere segnalato all'attenzione dei lettori
della N, R. S. il discorso pronunciato a Torino, all'inaugurazione dell'anno
accademico 1916-17 del R. Istituto Superiore di Studi Commerciali, da Giu-
seppe Prato : Forze economiche e forze tnorcUì ^^lla restaurazione post-bellica
(in Ri/orma sociale, dicembre 1916).
Nell'imperversare di una legislazione di guerra, che pretende sovvertire
i canoni più elementari della scienza economica e di cui ancora non si può
valutare il danno non lieve, e, di più, nella visione di un'Italia, in cui lo Stato
debba diventar tutto e l'attività individuale debba essere letteralmente sof-
focata dalla regolamentazione burocratica, dà un vero senso di conforto la
lettura di queste pagine, nelle quali alla serenità dello studioso ^ pari la chia-
rezza dell'esposizione. Il contrasto fra i due principii, in lotta nella guerra at-
tuale : quello della libertà civile ed economica, proprio del mondo anglo-latino,
e l'altro, incarnato nella enorme macchina statale tedesca, pur nella brevità
del discorso, convince del gran pericolo, cui andrebbe incontro il nostro
paese se il sistema tedesco dovesse ispirare la futura vita economica della
nazione. Sarebbe questa, dice giustamente il Prato, la più grande delle vit-
torie^ la massima delle vendette del germanesimo in quanto è spirito e idea.
Purtroppo, non soltanto la maniera con cui oggi si svolge l'attività dello
Statp, ma le manifestazioni di quei gruppi politici, che più godono della po-
polarità, lasciano temere che la voce della scienza debba restare inascoltata
e che l'empirismo dovrà ancora per molto tempo ispirare l'azione dei governi:
danno, questo, incalcolabile e doloroso, se si pensi che è già tanto grande
quello recato dalla guerra, e che potrebbe essere accettato con rassegna-
zione soltanto quale prezzo necessario per comprovare a tutti la inanità
degli sforzi dei politicanti nel sovrapporsi alle leggi economiche.
Quanto sia difficile, ad esempio, lo svolgimento dell'attività statale
in materia economica, e come possano esserne gravi gli effetti, il Prato di-
mostra in un altro breve, ma interessante, studio sul Nazionalismo economico
e rincaro del capitale (in Giornale de^li Economisti, dicembre 1916). Deve,
infatti, giudicarsi perniciosa e nociva agl'interessi della nostra economia tutta
quell'attività statale, che per esigenze politiche ostacola l'affluire del capi-
tale straniero, necessario a sistemare il nostro giovane organismo, con prov-
vedimenti, che ci fanno tornare ad epoche storiche sorpassate e che urtarlo
con lo spirito liberale della nostra legislazione. Constata, ad esempio, il P. che
proprio da quei gruppi, i quali vorrebbero veder finita la nostra emigra-
zione, mediante una politica di lavori pubblici grande stile, sono (per una pe-
ricolosa esaltazione dello spirito di nazionalismo) più insistentemente re-
clamate le disposizioni più vessatorie a carico del capitale straniero...
Dinanzi a tali difficoltà, in cui necessariamente viene ad urtare l'esercizio
dell'attività politica ed economica dello Stato, mi pare straordinaria l'invo-
Note, questioni storiche^ ecc. 97
cazione, che ne fa Filippo Carli in due recenti (e per altro assai interessanti e
suggestivi) stuelli : Le leggi della poj>olàzione ed il problema della pace (in Ri-
vista II. di Sociologia y 191 7, fase. \) ^ La guerra e la civiltà occidentale (in
Nuova Antologia, 16 aprile 191 7).
Che lo Stato possa favorire lo sviluppo economico del paese con l'ap-
plicazione di quei princìpi di libertà, che altrove hanno dato così buoni frutti,
è cosa che riconosco volentieri, così come riconosco che qualsiasi altro in-
dirizzo dovrà necessariamente promuovere un artificioso, e perciò instabile,
sviluppo dell'economia nazionale, o creare situazioni analoghe a quella della
Germania nel 1914. Ma che possa esserci uno Stato, il quale abbia la « capa-
cità di disciplinare le correnti .demografiche », mediante «un potere poli-
tico il quale conosca talmente le leggi demografiche ed economiche, ed
abbia un così squisito senso della psicologia sociale, da saper temperare nella
giusta misura la fede nelle possibilità della propria nazione », come il C. dice
nel primo studio, è cosa che può rappresentare un bellissimo desiderio, ma
nella quale, malgrado la migliore buona volontà, io non trovo la forza di
credere. Non vede il Carli, nell'esame di quelle che chiama le leggi della
popolazione, che si tratta di leggi naturali tanto complesse che mal si pre-
stano a subire la regola di un potere politico? E non vede egli, nel suo secondo
studio, le enormi difficoltà, che dovrebbe superare « un Governo » per cercare
una migliore distribuzione della ricchezza, una distribuzione « più conforme
agl'interessi nazionali »? Egli parla del danno della concentrazione di redditi
in poche mani. Ma quando un reddito si dirà concentrato f Quale dovrà
essere il limite minimo di conce ntrazioìie?
Il Carli subordina a questa ed altre condizioni dello stesso valore la
salvezza della civiltà occidentale, altrimenti minacciata dal fallimento a van-
taggio di altre civiltà e di altri continenti. Io credo che egli esageri nel suo
pessimismo, e che la civiltà occidentale non corra veramente un rischio così
grave. In ogni caso, credo che essa troverà rimedi efficaci nella reazione na-
turale che deriverebbe dal pericolo. Che, se dovessi unicamente sperare nel-
l'opera degli Stati, svolta attraverso poteri politici^ tratti a sacrificare il prin-
cipio dell& libertà individuale, io, me lo consenta il Carli, andrei anche più
in là di lui, e alla nostra civiltà canterei senz'altro il De profundis!
Epicarmo Corbino.
Una iniziativa della Scuola papirologica milanese.
Torniamo, come già promettemmo (A. i», fase. 3», pp. 538-59), su questo
interessante argomento.
La Scuola papirologica milanese è uno degli esémpi più significativi di
quello che, nei nostri Atenei, possa la libera iniziativa degli insegnanti, allor-
ché essi non si lascino vincolare da viete regolamentazioni o, ciò ch'è peggio,
non si lascino addormentare da quella Circe incantatrice ch'è il cosi detto
7 — Nuova Rivista Storica.
98 Note, questioni storiche, ecc.
ordinariato. Nel 1912, un insegnante — il prof. Aristide Calderini — allora
incaricato di letteratura greca — con l'aiuto del preside-rettore dell'Acca-
demia scientifico-milanese — il compianto Attilio De Marchi — e di qualche
altro studioso, e insieme con alcuni giovani studenti, si accinse ^ leggere e
a studiare determinati gruppi di papiri editi e inediti e a impratichirsi di
quel difficile materiale. Cosi nacque là Scuola papirologica milanese. Dal 1912
ad oggi la scuola, continuando nell'opera iniziata, vide affratellarsi insieme
nel lavoro maestri e scolari, laureandi e laureati, e, se ciò può aver valore,
ottenne, nello scorso anno scolastico, il riconoscimento ufficiale del Mini-
stero della P. I.
Frutto del lavoro comune, uscirono due volumi di « Studi » eruditi, per
cui i fondi occorrenti vennero forniti dalla munificenza di singoli privati,
da enti commerciali, da amici della cultura milanese. Man mano però che
i collaboratori procedevano nel difficile cammino, avveniva tra essi una tal
quale specializzazione del lavoro. Essi si ripartivano lo studio dei singoli ar-
gomenti, offerti dai papiri: alcuni studiavano questioni di diritto, altri di
economia, altri collazionavano testi poetici; altri testi filosofici, e così via:
chi ispirava quello studio mirava sopra tutto a che ciascuno non ripetesse,
ma completasse il lavoro degli altri. In pari tempo, essi curavano di diffon-
dere tra il gran pubblico l'interessamento alle Scoperte e ai resultati della
papirologia, e parecchie conferenze in proposito erano tenute nei circoli mi-
lanesi di coltura: il Lyceum femminile, V Atene e Roma, ecc.
Tutto ciò, ripeto, veniva fatto, senza che occorressero regolamenti, ri-
forme universitarie, diplomi e simili, così come moltissime altre cose potreb-
bero farsi nel mondo universitario et extra, se gli Italiani volessero una
buona volta convincersi che non le regolamentazioni, astratte creano la realtà,
ma è invece la realtà concreta a determinare, talora, il bisogno di rego-
lamenti, e volessero smettere dal vezzo — oggi rincrudito — di sognare mille
cose, discutere di altre mille con abbondanti parole in circoli ed ih accade-
mie, per poi non attuarne nessuna.
Oggi, dicevo, pervenuta alla sua maturità, la Scuola papirologica milanese
intende stabilire una serie continua e, in certo modo originale, di pubbli-
cazioni; intende pubblicare continuatamente quelli che una sua circolare
chiama : « Testi papiracei », cioè libretti di piccola mole e di jirezzo tenue,
in cui si accolga tutto quanto si può dire intorno a un determinato gruppo
di papiri opportunamente trascelti e raccolti, per interessare di èssi, non solo
gli studiosi, ma anche il pubblico colto. Si avrebbero così, in questi libretti,
pubblicazioni di opere poetiche, drammatiche, atti privati, documenti della
vita antica, preceduti da ampie introduzioni illustrative, e accompagnati da
osservazioni complessive, da annotazioni, indicazioni bibliografiche e, ove oc-
corra, anche da lessici.
Questa è forse là innovazione maggiore, che la scuola si propone. Ma a
contribuire alla migliore organizzazione degli studi papirologici in Italia, essa
vorrebbe anche dare regolare continuità alla collezione degli <. Studi », i
quali dovrebbero avere un carattere più severo dei « Tesd » e contenere
testi inediti, memorie, note critiche, repertori, bibliografie, ecc.
Note^ questioni storiche, ecc. 99
Per runa e per l'altra impresa la Scuola ha calcolato il fabbisogno
iniziale in circa venti mila lire. Per questo fondo essa si è rivolta alla mu-
nificenza milanese, e chi conosce fino a che punto questa sia illuminata e
generosa può sicuramente affermare che l'appello non resterà vano. Non lo
è anzi rimasto : la pubblicazione dei primi quindici volumi è assicurata ; edi-
trice ne sarà la Casa Bemporad di Firenze.
Per nostro conto non possiamo non far plauso alla iniziativa. Non ce
ne nascondiamo le enormi difficoltà: prima, anzi tutto, quella di stringere
intorno a chi dirigerà le due collezioni una schiera di studiosi, che non
si sciolga coir imbrunire di ogni giorno e che sia tanto volonterosa, quanto
provetta, quanto (come l'economia impone) interamente disinteressata; poi
l'altra, di poter offrire, veramente, dei testi che non siano frammenti disutili,
come moltissima parte delle collezioni inglesi e tedesche, al quale scopo gli
editori non dovranno appagarsi del solo materiale papirologico, ma di molto
altro materiale, che i papiri non danno. Non ci nascondiamo neanche il pe-
ricolo di una sopravalutazione del materiale papirologico, per cui qualunque
frammento dei rifiuti di Oxyrynchus o del Fajùm può rischiar di assurgere
a documento-principe o a capolavoro d'arte, e la papirologia, ch'è solo mezzo
al fine superiore della storia, dell'arte, della filosofia, assumere una perico-
losa finalità (oltre che una personalità) propria, come di tante altre cose
nella filologia classica e nell'antiquaria è avvenuto.
Ma indubbiamente, salvo queste riserve e queste necessarie preveggenze,
e salvo, s' intende, il giudizio concreto alle sue prime prove, l'opera deve
riscuotere tutto il nostro plauso anticipato. Dirò di più : se anche l' idea dei
Testi papiracei fallisse e la collezione ideata dovesse limitarsi all'ordinata, in-
telligente, continua e periodica pubblicazione degli Studi, la Scuola farebbe
sempre opera meritoria, giacché l' unica rivista del genere, VArchiv fiìr
Payrusforschungen del Wilcken, è ormai, forse per sempre, interrotta. Che
l'Italia, la quale, fu patria dei Petrettini *e dei Peyron» cioè dei fondatori
della papirologìa, ne assuma idealmente la continuazione non può essere cosa
estranea al nòstro compiacimento.
Ma, giacché sono venuto su questo soggetto, é necessario che io chiuda
con un'osservazione che mi pare di molto rilievo. Quale fu, in fondo, il se-
greto delle grandi imprese e dejle grandi collezioni tedesche nel secolo XIX ?
Fu certamente questo : che non soltanto i loro ideatori trovarono subito ben
120 milioni di acquirenti parlanti una lingua unica, ma ch'essi altresì riuscirono
a internazionalizzarne la diffusione. Ora noi italiani, francesi e inglesi non po-
tremo a nessun patto sottrarci al monopolio della coltura tedesca, se non
smettiamo l'idea delle collezioni esclusivamente nazionali. In questo momento
in Italia, in Francia e in Inghilterra, si stanno facendo per lo meno tre di-
stinte collezioni di classici. È possibile che intraprese cosi frazionate resistano
ai grandi mezzi, che una impresa unica tedesca potrà adottare contro di esse?
Nella vita industriale moderna il grande segreto é la distribuzione del lavoro,
quanto alla specie, e la universalità del prodotto, quanto al mercato. La
produzione scientifica, se vuol vivere, non può, nei rispetti commerciali,
loo NoU^ questioni storiche, ecc.
seguire criteri differenti. Or bene, io chiedo, anche a proposito dei Testi pa-
piracei: — Ha la Scuola papirologica milanese preso accordi, prenderà essa
accordi, con la scienza francese, e specie con quella inglese, che sul terreno
papirologie© ha un' importanza di prim'ordine, perchè le sue speciali pubbli-
cazioni penetrino altrove, impegnandosi viceversa ad accogliere dal di fuori
altre speciali pubblicazioni, e ciò allo scopo ch'essa, alla dimane della pace,
non sia spazzata o cacciata in un angolo oscuro da un colpo di concorrenza
tedesca, che vi arrechi merce meno buona, ma industrialmente e commer
ciàlmente assai meglio organizzata? — .
Ecco un problema, un grosso problema!..... Per il momento, ripeto, per la
sola ragione che la Scuola ha fatto, e non ha aspettato autorizzazioni, conferme
o ratifiche ; per la sola ragione che ha fatto, e non perduto il suo tempo in vane
logomachie o in vanitose e perniciose competizioni, essa ha diritto alla ri-
conoscenza di tutte le persone, che veramente amano la nostra coltura.
C. B.
Un processo filologico-storiografico...*
Una vivace polemica filologico-storiografica fu dibattuta in parecchi nu-
meri di un grande giornale romano (in verità assai amico delle polemiche),
dal giugno al luglio u. s., ed ha avuto un'eco in altri minori periodici italiani
e perfino in taluno dei più, famosi giornali francesi, quali l'antico Journal dea
Débats.* Essa assunse l'aspetto di un processo vero e proprio^ nel quale glt
accusati furono Ettore Romagnoli e Corrado Batbagallo; querelanti, i filologi
della scuola fiorentina. Di questo processo, a beneficio dei lettori distratti, io^
usurpando per poco l'ufficio di redattore giudiziario , mi son proposto di fare
il resoconto sintetico, ma veridico. Forse gioverà al lettore, a formarsi una sua
chiara idea, avere sott'occhio tutti gli elementi deista causa.
U accusa era duplice: si imputava ai querelati di calunniare di tiepido
patriottismo o peggio i filologi e gli storiografi della scuola fiorentina e di
voler rimettere in onore, a detrimento^ e vergogna della cultura italiana, V
dilettantismo, la superficialità, la leggerezza
La prima accusa cadde subito perchè insussistente : gli accusati lealment
dichiararono di non aver mai pensato o scritto la brutta cosa a carico, dello
• Da un volume di prossima pubblicazione: Per V italianità della coltura nostra: discussion
•e battaglici*: scritti di C. Barbagallo, E. Bignonk, E. Ciccotti, G. Fragcaroli, ecc. ecc.
* Un interessante riassunto critico della polemica e dei suoi precedenti ideali, è contenuto nr
numeri del i^ agosto e /* settembre del Bulletin périodique de la presse italienne, edito dall' Iti
stitut francais di Milano per opera della signora Sofia Ravasio. Dopo la pubblicazione di quel boi
lettino, i soli scritti degni dinota, relativi alla polemica, sono stati un articolo di R. Mondolfo.
Per l'autonomia spirituale nel Giornale d'Italia del /" settembre ; due di Niter (N. Terzaghij.
Pro domo... (a proposito di recenti polemiche) su II Vomere <fe/ 5 e 12 agosto; due di C. Baj
BAGALLO, Un istante critico della cultura italiana/ in Idea democratica dell'8 settembre e Gè
manesimo intellettuale in Popolo d'Italia, j/ ottobre; uno di J. Luchairb, Scienza tedesca
scienza italiana e francese, in Rivista delle Nazioni latine, /* settembre 1917.
Note, questioni storiche, ecc.
persona (Girolamo Vitelli), a cui la pretesa calunnia si voleva indirizzata. Il
processo si svolse tutto sulla seconda accusa e divenne notevole davvero ed
interessante, perchè, cessando di essere quistione di persone, assurse a quistione
di principii. In verità stavano di fronte a contendere, da una parte i filologi^
seguaci di un metodo critico rigoroso e « scientifico », che, tanto per intenderci,
chiamereìno di stampo tedesco, e, dall'altra, i fautori di un metodo meno pe-
dantesco e rigido, ma tale pur sempre che, seìiza nulla detrarre alla serietà
degli intenti e dei risultati, potesse meno sentire di tanfo accademico e meglio
diffondere questi risultati nel così detto pubblico colto, in modo che essi non
fossero patrimonio riservato e chiuso di pochi iniziati, ma circolassero come
dinfa viva nelV organismo CQltur ale della nazione. I primi 7iel campo delle lin-
gue classiche mettono capo to/ Vitelli, reputato maestro dell' Ateneo fiorentino,
gli altri al Fraccaroli e al Romagnoli, i quali, da anni, con non interrotta
propaganda, affermano che anche a questi studi si debba imprimere il carat-
tere nazionale, restituire l' impronta specifica della tradiziofte italiana, dell* in-
dole e del genio della nostra stirpe. Occasione immediata alla querela fu la
pubblicazione di un libro battagliero del Romagnoli dal titolo Minerva e lo
scimmione, e il sorgere della Nuova Rivista Storica, promossa da Corrado Bar-
bàgallo e da parecchi suoi amici, egregi cultori di studii storici, coli' intendi-
mento di suscitare, anche nel campo della storiografia, la stessa riscossa dai
metodi tedeschi e pseudo-tedeschi, che 41 Fraccaroli e il Romagnoli avevano da
tempo iniziata e propugnata in quello della filologia classica.
Il ... pubblico assisteva al... processo con evidente interessamento, poiché
si intuì subito che esso si riconnetteva, molto più, che a prima vista non sem-
brasse, con la guerra che combattiamo : giacché la guerra, che l'Italia combatte,
non è soltanto contro l'Austria per Trento e Trieste, per la rettifica dei
confini o pel predominio nell'Adriatico, ma é soprattutto — come pochi forse
ebbero il gran merito di capire fin da principio — guerra in difesa della civiltà
latina contro la cultura tedesca. Del resto, questo stesso avevano apertamente
confessato i Tedeschi, giacché von Bernhardi aveva scritto a chiare lettere:
« Gli interessi della cultura tedesca sono superiori a quelli di qualunque altro
interesse umano e di qualunque Considerazione cot^unemente detta morale "i^y e
aveva soggiunto che la Germania si batte <per mantenere la superiorità dei
professori tedeschi sopra tutti gli altri professori ... ». Ora appunto. Contro
questa egemonica pretesa di superiorità, per quel che riguarda gli studi classici,
avevano lottato il Fraccaroli, il Romagnoli, e, per quel che riguarda la storia^
il Barbagallo, Ettore Rota, Giacinto Romano, Guglielmo Ferrerò e parecchi
altri redattori o collaboratori della Nuova Rivista Storica, da molto tempo prima
che scoppiasse la guerra, e l'opera loro é stata, per questo rispetto, antiveggente
e patriotticamente benemerita.
Il ... processo acquistò poi, durante il dibattito, maggiore importanza per
la dignità e l'autorità dei testimoni di parte civile, i quali, furono costretti
dalla loro coscienza a fare tali concessioni in favore della tesi degli avversari,
che questi ebbero presto causa vinta, senza dovere insistere nell'escussione
di loro propri testimoni, che, del resto, per un singolare... criterio del gior-
nale (pardon, del... giudice istruttore) non poterono far valere la loro autorità
e la loro parola. Giova riassumere pertanto alcune deposizioni piti notevoli.
Uno dei primi interrogati fu Giovanni Calò, giovane e valente cultore
di filosofia, il quale disse testualmente (e san parole che sollevano l'anima) che
102 ì^oie, questioni storiche, ecc.
« è difficile trovare oggi in Italia altrettanto odio contro i Tedeschi, altret-
41. tanto sincero desiderio ch'essi rimangano schiacciati e che V Italia divenga,
« attraverso la guerra, veramente e completamente libera e autonoma nel la-
<kVoro, nella scienza e nelld vita tutta, quanto è quello che egli ha sentito fre-
« fnere intorno a sé nei colleghi più, autorevoli della scuola fiorentina ». Da
canto suo, il testimone dichiarò che non credeva di essere capace di tanto odio
quanto gliene inspira la Germania. Udito ciò, uno degli avvocati difensori si
alza ed in nome degli imputati lealmente proclama che i suoi difesi non ave-
vano mai voluto elevare sospetto alcuno sul patriottismo di Girolamo Vitelli,
ma che dubitavano che V indirizzo, da lui caldeggiato negli studi, potesse per-
petuare quella soggezione verso la cultura germanica, dalla quale egli per il
primo dichiara di aborrire. Il testimone allora ammette anche lui che tutti
siamo convinti come « non basti tutto quel complesso li sottili ricerche melo-
« diche, che costituisce il lavoro filologico^ per gustare e intendere pienamente
<knel loro spirito gli autori antichi e tutte le espressioni della loro civiltà...
« Lo stesso è per la storia... È un pezzo che si sente la necessità di mirare alle
k idee, ai problemi sostanziali dello sviluppo storico delle società, delle civiltà,
<L degli Stati ..."». Tale deposizione preziosa si consacra in verbale. Se non che
egli soggiunse : — Però ^non vogliamo che con la scusa delV antigetmanismo
41, si instauri il culto dell'ignoranza e della leggerezza r>. Qui gli accusati si
levano in piedi e furiosamente protestano: invocano dal Presidente, che richiami
il testimone, il quale li ingiuria gratuitamepte... Si fa un po' di chiasso, ma
rimedia lo stesso testimone, affrettandosi à dire: 4(. Molte cose faremo anche
« tneglio dei Tedeschi, ne son convinto. In tutto doi^remo cercare di essere noi.
« Assorbire dobbiamo e assimilare l'altrui per essere meglio noi, non rinunziare
« ad esser meglio noi per odio cieco di tutto ciò che è altrui ». — Benissimo! —
grida uno del pubblico; il Presidente finge di sdegnarsi, ma non riesce a repri-
mere i commenti anim,ati; gli stessi imputati sono soddisfatti. L'usciere senza
indugio chiama a troncare i bisbigli Gaetano Salvemini.
Il pubblico si dispone ad ascoltare attentamente : si tratta del successore
degno di Pasquale Villarp. Gli si domanda se l'influenza germanica abbia
determinato qualche servilismo scientifico. Senza esitazione , da galantuomo,
risponde : * È vero : negli ultimi treni' anni del secolo XIX molti studiosi ita-
« liani e francesi, suggestionati dai trionfi militari tedeschi del 1870 e dalla
« conseguente egemonia politica della Germania sul contincfite europeo, hanno
« esagerato brutalmente nell'ossequio all'autorità, anche scientifica, dei Tede-
< schi>. — Ma allora, gli si chiede, è salutare una reazione? — « Si, risponde,
« é legittima ed anzi necessaria, purché non degeneri in un disprezzo sistema-
4i.tico di qualunque metodo, in una rivolta scapestrata contro qualunque forma di
« disciplina intellettuale ». Gli accusati sono proprio d'accordo col testimonio,
anzi, perché V accordo risulti più, completo, e divenga lampante la vanità della
riserva del teste, il Barbagallo lo invita a uscire dalle generali e a denunziare,
a carico degli imputati, un solo « esempio concreto di esagerazioni, di errori »,
di « rivolte » del genere da lui accennato. Ma il Salvemini fa un gesto vago
e non risponde...
Quindi é licenziato; resta nel pubblico V impressione che egli, che pure ha
fama di brillante parlatore, sia stato un po' a disagio nelle vesti di testimone
di parte civile. . .
Viene chiamato il prof . Ernesto Parodi, il quale la sa lunga ed imposta
Note» questioni storiche, ecc. 103
subito abilmente la quistione. Comincia col dichiarare vano il volere abbattere
in un giorno il lavoro asprissimo e tenacissimo di cento e piti anni, col
quale la Germania ha fondato e assicurato il suo dominio anche sugi' intelletti.
Gli accusati ne convengono ; ma osservano che cominciare una buona volta
bisogna e che essi credono non ci sia da perder tempo, e che anzi si sarebbe
dovuto cominciare da un pezzo.
Continua il Parodi nella sua ben meditata deposizione e ad un certo punto
affer^na che <lun gran popolo deve pensare per conto suo; che le giovani
<i generazioni, conquistando V indipendenza del pensiero, faranno opera non
« minore di quelle che ci conquistarono V hidipendenza politica ». Un mormorio
di approvazioTie sottolinea tali parole ; qualcuno del pubblico arrischia un ten-
tativo di applauso, che il Presidente reprime. Uno dei difensori grida: — A
verbale! a verbale! — La deposizione prosegue, e si fa più interessante. A pro-
posito del metodo, il testimone dice cose assai sennàte, in cui tutti, gli accu-
sati per i primi, consentono ; riconosce che l'Italia ha dovuto subire nella poli-
tica, nell' industria ed anche nella cultura l' influenza tedesca e che ha dovuto
imparare a far come gli altri per potere di nuovo imparare a far da sé. —
Bravo! Bravo! — esclamano gli imputati — Noi proprio ci scalmaniamo da
un pezzo perchè cotninci a fare da sé, ma il Vitelli vorrebbe che officina e
struìnenti di lavoro, per lungo tempo ancora, fossero tedeschi^ e noi non lo
vogliamo. — Un avvocato della difesa gli domanda se crede che questi strumenti
siano sempre solidi e di buon metallo, oppure talvolta con certi difetti, propri
della lavorazione germanica... ^ e un po' deteriorati dall'uso... Il testimone di-
chiara: « Si, hanno quei difetti: il popolo tedesco ha una logicità dura e intratisi-
<k gente, e, a dispetto delle sue pretese poetiche, ha pigra e lenta l'intuizione :
« di qui la sua tendenza a portar la logica fino all'estremo limite della possi-
le bilitày restringendo con ansia alquanto peda?itesca i confini dell* intuizione.
< Perciò sono di solito mediocri critici dell'opera d'arte, e la giudicano piut-
M. tosto secondo il contenuto che se condola forma; infine, vogliono introdurre
« dovunque più, logica che non sia necessario, nella storia come nell'arte, e
a perciò sono i più proclivi ad « emendare », a re secar e,, a rimanipolare. C'è poi
« un altro carattere della loro indole, che a queste tendenze e a questi espedienti,
« dai quali, contenuti nei loro limiti, possono anche venire buoni frutti, tende
« a dare mio sviluppo eccessivo e parassitario. I Tedeschi, nonostante le loro
<i famose pretese all' individualismo y sono poco individuali, e perciò sono sempre in
« vena di organizzare: Ogni menomo proceditnento diventa uno sforzo collettivo ».
// pubblico, che nella grande maggioranza è orinai favorevole agli accusati ,
scatta: non si tratta più di un mortnorio, ma di approvazioni a gran voce. Il
Presidente minaccia di fare sgombrare Paula... ; qualcuno degli avvocati a difesa
grida che la parte civile può ritirare V accusa. Il testimone, visto che ha già
molto favorito gli accusati^ dice che bisogna però distinguere tra persone varia-
mente e umanisticamente colte e persone versate nello studio assiduo e profondo
dell'antichità, tra le quali ultitne sono da scegliere i professori universitari, ed
insinua un inciso malizioso per isfiorare anche lui, di un suo colpo, un bersa-
glio, già troppo preso di mira, e già troppo fallito, in questi giorni. Sta per
sollevarsi un putiferio, ma il testimone avvedutamente salta con agile mossa
sur un terreno più solido: volendo mettere in rilievo le benemerenze della parte
civile, fa un'esposizione efficace di quel che fosse la cultura italiana fino a
qualche tempo addietro, per concludere che fu merito del metodo < scientifico » se
I04 ^ote, questioni storiche, ecc.
l'Italia potè far sentire la sua voce nel grande coro della scienza mondiale.
Gli accusati non contestano ; soltanto dichiarano esser loro desiderio che quella
voce si distingua nel coro come piti acuta e piti armonica, e magari possa ten-
tare un a solo. // testimone non replica, ma gli occhi gli brillano di gioia:
in fondo in fondo, questo sarebbe anche il desiderio suo!... È licenziato; ma
qualcuno degli avvocati difensori soddisfatto mormora : -^ Lo ha fatto citare
la parte civile,' ed ha agevolato il compito alla difesa/... — .
A questo punto il Tribunale toglie la seduta per interrogare a domicilio
un testimone privilegiato : Benedetto Croce! Questi è un formidabile dialet-
tico; ha la rispettabile abitudine di cominciale sempre ab ovo, vuol vedere le
cose non già nella fugace parvenza del contingente e temporaneo, ma quanto
è possibile sub s'j)ecie aeternitatis. Ama piantare nel suolo certe travi maestre
di sostegno, che diconsi basi logiche, e a quelle travi attacca tutto un parato di
stoffe e mussole e di festoni, che però svolazzano rumorosamente, facendo
oscillare anche le travi, se il vento soffia un po' impetuoso... Tutti ad ogni
modo lo rispettano ; il Tribunale gli usa deferenza speciale perchè si sa che è
rigidamente conseguenziario sino ad affrontare la lapidazione pubblica e non
guarda in faccia né ad amici né a nemici. Al ritorno della Corte, si legge
la rogatoria. Ad un certo punto il testimone ha detto: <i L'ardimento di respin-
gere addirittura l' intromissione del pensiero nella storia, che era mancato agli
storici diplomatici {perchè mancava loro la necessaria innocenza a tale ardi-
mento), l'ebbero invece i filologi, innocentissimi... E l'ebbero tanto piic facil-
mente in jquanto l'opinione di sé medesimi, anteriorm,ente modesta, si era
assai accresciuta e aveva gonfiato i loro petti, per il grado di perfezione a
cui era pervenuta l'indagine delle . cronache e dei documenti e per V accaduta
fondazione, che {non fu, a dir vero, creazióne ex nihilo) del metodo critico o sto-
rico, che si esplicava nella sottile e accurata genealogia e riduzione delle fonti,
e nella critica interna dei testi, E tanto piti facilmente codesto orgoglio di
filologi prevalse, in quanto il perfezionamento del metodo accadeva in un paese
come la Germania, dove la mutria pedantesca fiorisce meglio che altrove, e
dove, per effetto dello, stesso abito ammirevolissimo della serietà scientifica, la
« scientificità » è assai idoleggiata^ e questa parola viene am,biziosamente ado-
perata per ogni cosa che concerna % contorni e gli strumenti della scienza vera
e propria, come è il caso della raccolta e critica delle narrazioni e documenti.
I vecchi eruditi italiani e francesi, che al loro tempo fecero compiere al « me-
todo » avanzamenti non minori di quelli che si ebbero poi nel secolo decimo-
nono in Germania, non sognavano di produrre così m scienza», e molto meno
di gareggiare con la filosofia. e la teologia, e di poterle scacciare e surrogare
col loro metodo documentario >.
E il teste illustre ha continuato: — Invece, nei secoli XIX e XX, in Ger-
mania, e, sull'esempio della Germania, anche altrove, ^per la prima volta si
manifestò in grado insigne quel modo di storiografia, che ho denominato
€ storia filologica » <? « erudita » .• cioè si presentarono camuffate come storie,
e come sole degne e scientifiche storie, le più, o meno giudiziose compilazioni
di fonti, che pél passato si dicevano Antiquìtates, Annales, Thesauri, e simili.
La fede di quegli storici era riposta in un racconto, del quale ogni parola
potesse appoggiarsi a un testo, e nient* altro ci fosse che quanto era nei
testi, sceverati e ripetuti, ma non pensati dal filologo narratore; la loro
speranza, nel poter assurgere a poco a poco, movendo da compilazioni circa
sìngoli tempi, regioni ed avvenimenti,, a compilazioni comprensive, riassumenti
Note^ questioni storiche, ecc, 105
di grado in grado le meno comprensive, sino a ordinare V intero sapere sto-
rico in grandi enciclopedie, delle quali forniscono saggi quelle, ora sistema-
tiche, ora lessicali, che sono state messe insieme da gruppi di specialisti, guidati
da un direttore specialista, per la filologia classica, romanza, germanica, in-
doeuropea e semitica ».
Ed egli ha concluso: — Allora <iin Germania ogni meschino copiatore
4L di testi e collettore di varianti e scrutatore di dipendenze tra i testi e
« congetturista del testo genuino si eresse ad uomo di scienza e di critica,
« e osò non solo guardare faccia a faccia, tna con superiorità e dispregio, come
IL uomini 4k antimetodici if^ anche pensatori sommi. <i. Dalla Germania si diffuse
« questa mutria pseudoscientifica negli altri paesi di Europa ed ora anche
« in America, sebbene in altri paesi incontrasse con piti frequenza spiriti irri-
€verenti che ne risero... ». A siffatta lettura, uno degli avvocati a difesa
esclama : — Veda, sig. Presidente, è proprio questo il gran torto degli accu-
sati! Essi sono stati tra questi <k spiriti irriverenti » ^ che primi in Italia si
accorsero del lato ridicolo deHa cosa, e arditamente, liberamente, ne risero. —
Qui sorge mio degli... imputati, il Romagnoli, e reclama che si leggano certi
scritti di un morto, il quale rise prima di loro di certi metodi del suo tempo,
che molto si assomigliavano a quelli dei Tedeschi. La parte civile si oppone :
non si ammettono intrusioni di morti in un processo fra vivi: qualcuno osserva
che peto quel m.orto dopo morto è piic vivo di prima. Gl'incidenti si fanno vi-
vacissimi: il Presidente con lodevole imparzialità ordina la lettura, che manda
in visibilio il pubblico. Si tratta di un tale Ugo Foscolo, che doveva essere ai
suoi tempi uomo di spirito. Pare l'abbia a morte con i pedanti, contro i quali
volta a volta è caustico, mordace, insolente. Il pubblico si diverte un mondo,
gli accusati non dissimulano la loro soddisfazione, gli occhietti del Romagnoli
sfavillano. Gli avvocati di paHe civile si guardano in viso evidentemente con-
trariati: quel morto tra i piedi li imbarazza... Qualcuno vorrebbe attaccarlo
di falso, ma come si fa ad incriminare un morto ? Uno grida :■ — Tutto ciò
non ci riguarda : il morto parlava di pedanti^ e nella parte civile non ci sono
pedanti, ma uomini di gusto, di dottrina e di cervello — . — Va bene, ammet-
tiamo anche questo, obbietta un difensore, ma la parte civile si comporta spesso
in modo da autorizzare a confonderla con i pedanti o con chi li porta su. .., e
troppo disconosce quelli che dalla pedanteria aborriscono: lo proveremo ad
esuberanza, se la Corte eccellentissima lo consente. — Il Presidente, che è calvo,
si porta le htani ai capelli...; prevede che si scatenerà una tempesta: certo si
parlerà di concorsi; verranno fuori scandali sopiti. Agita violentemente il carne-
panello e^ chiama un altro testimone: Alfredo Galletti.
Movimento di intensa curiosità : è il successore del Carducci e del Pascoli
a Bologna, ha fama di critico acuto e di uomo di ingegno. Si fa un religioso
silenzio. Egli incomificia col dire qualcosa che dimostra come Girolamo Vitelli,
il quale, pur troppo, è sofferente di occhi, ebbe acutissima la vista della mente
piii di dieci anni fa. Previde che ^ affarismo e militarismo lavoravano d'accordo
ad abbrutire la « Germania, tirandola giù, verso una idea cinicamente materia-
« Ustica della vita e che il nuovo Impero, nato dalla forza e cupido di ricchezza,
<k accennava, come il Nabucodònosor della Bibbia, a tramutarsi in bestia e in
« bestia da preda ». Poi il testimone improvvisa una bella tirata sui preconcetti
nazionalistici della storiografia tedesca e sulla cristallizzazione delle idee, fe-
nomeno frequentissimo in Germania, a segno da diventare un pericolo sociale.
Si apprende che certe viziose abitudini in quel paese rimontano per lo meno a
io6 NoUt quisHoni storiche ^ ecc.
Federico il grande! Il Presidente non lo interrompe perchè le cose che dice sono
giuste ed interessanti» ma alla fine gli fa garbatamente osservare che molto di
quel che ha detto non era pertinente alla causa... Il testimone sorride malizio-
samente : egli lo sapeva già prima, ma così gli è riuscito di evitare di entrare in
marito... A questo punto, di comune accordo, si rinunzia a lutti gli altri testi-
fnoni ; tanto ^ Ermenegildo Pis tetti non ha da dir nulla a questo proposito, e
Giorgio Pasquali, incaricato di letteratura greca nel R. Istituto di Studi supe-
riori di Firenze y la parte civile {chi sa mai perchè?) non l' ha fatto citare...
Il Presidènte sospende la seduta per l'esperimento della conciliazione. Egli
crede che dal dibattimento sia risultato che tra la parte civile e l'accusa non
ci sia poi l'abisso di mezzo. Gli uni, osserva tra sé, non sonò stati e non
sono, nemmeno per ipotesi, fautori di superficialità e dilettantismo ; gli altri
vogliono, come loro, che la scienza italiana abbia impronta efisonomia propria;
dunque gli avversari si possono stringere la mano... Ma il Pubblico Ministero,
che fino a questo momento aveva taciuto, vuol presentare le sue conclusioni:
— Signor Presidente, incomincia, io smi d'avviso che non sia il caso della con-
ciliazione, ma luti' al piti della compensazione delle ingiurie. L'accordo tra
le idee delle due parti è formale e non sostanziale: la discordia riapparirà
piit aspra alla prima occasione (intendeva dire al primo concorso di letteratura
greca o di storia) ^ perchè gli uni, per istudio assiduo e profondo del passato,
intendono soltanto collazione di codici, discussione di varianti, ricerca di
oscure fonti, qualche volta anche entomologia scientifica per arrivare, come
a mèta suprema, all'edizione critica. Non ammettono che sia buon conoscitore
delC antichità chi tenta opere organiche o costruttive. Per questo rispetto ^ anzi,
essi sono piit ostinati e rigidi dei Tedeschi stessi. Se ne vuole una prova?
Il Vitelli aveva tutti % numeri per dare air Italia opere di questo genere, e
non le ha mai volute intraprendere. È benemerito quanto si vuole, ma si è
dato a quel solo genere di lavoro, e quello ha imposto ai suoi discepoli come
il solo che valga. La scuola del Fraccaroli e del suo. eccellente secondino, il
Romagnoli, ha dato, è giustizia riconoscerlo, ben altri frutti. Del resto il
Fraccaroli ha sempre inculcato ai stwi discepoli: « informazione precisa, ri-
« spetto per chi se lo merita, adorazione cieca per nessuno, senso di arte, senza
« di che non si fa critica, e un pò* di sale in zucca >. Non si condensano
forse in queste parole tutte le lezioni di metodo? Gli accusati, pertanto, hanno
ragione da vendere, a mio giudizio, se diventano a lor volta accusatori, in
nome appunto di quella originalità ed indipendenza delle lettere nostre, che
teoricaf nenie, ovvero a parole, si vuol salvare da tutti. Gli accusati, non si
dimentichi, al di là dell'edizione critica vedono qualche altra cosa, cotne
sarebbe a dire lo studio delibarle e del pensiero di uno scrittore, dei suoi
problemi spirituali, dei suoi tempi, della sua posiziofie morale rispetto ai
tempi in cui visse, e di quanto di sé, della sua arte, del suo pensiero abbia
trasmesso alle generazioni susseguenti. Essi vanno anche piti in là : non cofi-
siderano il mondo antico come separato dal nostro da una barriera insor-
montabile. Cercano di intenderlo {e dico, si badi, intenderlo, non frainten-
derlo), avvicinandolo in certo qual modo a noi; cercano di mettersi, vorrei dir
quasi, tn sintonia morale, con quegli spiriti. In una parola, gli accusati non
vogliono anatomizzare cadaveri, ma rintracciare ansiosamente aliti di vita, ma
rinvenire, sotto le scorie, il pietrame e i calcinacci, il metallo terso e lucido
che possa ancora brillare al sole. È dello stesso avviso anche la parte civile?,
E allora la querela era inutile, l'avrebbe fatta a se stessa... Pensa invece che si
Note^ questioni storiche^ ecc. 107
debba giungere solo e sempre aW edizione critica o alla ricerca e discussione
dei documenti, e che ogni altro lavoro sia superfluo o pericoloso o, per fatale
decreto degli dèi superi, inibito a noi? Ed in questo caso ha torto. Gli stessi
Tedeschi, che sono i Tedeschi, come avvertivano nel loro programma i redat-
tori della Nuova Rivista Storica, jz sono dati da un pezzo a queste opere costrut-
tive e d* insieme j e sono arrivati perfino ai commenti estetici. Chi è del mestiere
sa bene a quali opere io alluda, e converrà altresì che essi però maneggiano
spesso con ruvida ma io seriche stoffe, mentre a noi riesce piti facile sfiorarle
con delicatezza senza gualcire o macchiare. Contludo che la parte civile sia
condannata alle spese... —
// Tribunale, il gran Tribunale dell'opinione pubblica, si ritira per delibe-
rare...
Francesco Guolielmino.
la pubblicazione degli Atti delle Costituzioni italiane.^
La R. Accademia dei Lincei ha iniziato un'impresa grandiosa e vera-
mente benemerita: la pubblicazioni degli Atti dei Parlamenti e delle Diete,
regionali e comunali italiane. La prima parte della raccolta conterrà gli Atti
dei Parlamenti o Stati generali e provinciali del Medio-Evo e dell'età mo-
derna fino alla fine del secolo XVIII ; la seconda conterrà le assemblee par-
lamentari dal 1797 al 1821 ; la terza, gli Atti delle maggiori assemblee . dei
Comuni medievali.
La prima iniziativa dèlia grande opera si deve a proposta, che, in data
16 febbraio 1913, Luigi Luzzatti fece all'Accademia dei Lincei. L'attua-
zione ne fu più tardi assicurata da un disegno di legge, votato dal nostro
Parlamento, su proposta dei ministri Credaro (Istruzione pubblica) e- Tede-
sco (Tesoro), il quale metteva a disposizione dell'Accademia i fondi neces-
sarii. Dopo di che l'edizione venne assunta dalla Casa editrice Zanichelli di
Bologna, Attualmente la raccolta degli Atti degli Stati provinciali delle Mar-
che è affidata al prof. Zdekauer; di quelli piemontesi, al prof. Buraggi; di
quelli friulani, al Leicht ; di quelli siciliani, al Lamantia ; di quelli sardi, al
dott. Lippi. La seconda sezione della raccolta è affidata ai dottori Montal-
cini e Alberti. Della terza parte si pubblicheranno per ora solo che gli Atti
del maggior Consiglio di Venezia per cura del prof. Nino Tamassia.
Sono già usciti i due primi Bollettini, che contengono gli Atti relativi al
Parlamento di Montolmo del 15 gennaio 1306, ei seguenti articoli: P. S. Leicht,
Il piti antico documento del Parlamento friulano; E. Gentile, La <k Curia
generale » del regno di Carlo I d*Angid ; A. Alberti, // contributo militare
imposto da Bonaparte alla Lombardia nel 1796. Noi discorreremo più ampia-
mente e particolareggiatamente della grande raccolta, appena la sua pubblica-
zione ci fornirà un sufficiente materiale di analisi; per ora ci limitiamo a
segnalarne l' inizio e 1* importanza non comune.
* R. Accademia dei Lincei, Atti delle Assemblee costituzionali italiane dal Medioevo al rSjl,
Boll. nn. I ; 2, Bologna, Zanichelli 1916-17.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Metodica e teorica della storia: C. Barbagallo, Il materialismo sto-
rico, Milano, Federazione itaL delle Biblioteche popolari, 19 17. — È un rias-
sùnto critico della tanto discussa dottrina del ttiaterialismo storico, accom-
pagnato da esemplificazioni storiografiche, tratte dalle principali opere italiane,
che a quella dottrina si sono ispirante. Esso colma perciò una lacuna della
nostra produzione filosofico-storica. L'A., anziché limitarsi ai pochi fi-ammenti
del Marx o dell'Engels, relativi al materialismo storico, ha preferito desumere
e lumeggiare questa interessantissima concezione cori gli scritti, storici e filo-
sofici, dei due autori.
Antichità e archeologia classiche : A. Solari," Delle antiche relazioni
commerciali fra la Siria e V Occidente :, In Roma e in Gullia (estr. dagli
Annali delle università toscane, 1916, fase. VI). — È uno studio erudito sui
Sirii, che nell'età classica abitarono in Roma e in Gallia, sulle loro occupa-
zioni e sulle loro immigrazioni. È assai utile come raccolta di fatti, sebbene
l'A. non abbia sfruttato completamente il materiale cosi detto epigràfico.
V. Cannizzo, Sommario delle scoperte archeologiche dal igoj al 19 14
nella Sicilia orientale (estr. da Sicania, a. IV, 1916, pp. 57). — Come dice
il titolo, si tratta di un'esposizione riassuntiva delle scoperte archeologiche
nel territorio dell'antica Ibla, nei dintórni di Grammichele (prov. di Cata-
nia), presso Licodia Eubea (Catania), presso Chiaramonte Gulfi (Siracusa),
e nel centro dell'isola. L'esposizione descrittiva è seguita da un saggio
sulle età preistoriche in Licodia Eubea. Il lavoro è utile agli studiosi sia per
le notizie, ch'esso fornisce raccolte in un corpo unico, sia perchè i suoi re-
sultati sono stati controllati e approvati da uno dei più valenti archeologi
italiani, Pietro Orsi, ch'è altresì l'unico vero conoscitore della Sicilia antichis-
sitàa.
G. Patroni, Enea svelato al cospetto di Bidone (estr. dagli Atti della
R. Accademia di Archeologia, lettere e Belle arti di Napoli^ 1917, pp. 105-14). —
U illustre archeologo offre in questa memoria un saggio d' interpretazione
di una pittura pompeiana. Ma più importante è l'idea, che le sue mterpre-
tazioni e il suo esame copfermano : essere cioè erronea la credenza che
Bollettino bibliografico 109
l'arte e l'architettura pompeiana abbiano un mero carattere ellenistico, an-
ziché romano. Contro questo pregiudizio, nato dalla sopravalutazione che
l'archeologia e la critica tedesca fecero deirellenismo per isvalutare il roma-
nesimo, egli aveva più volte battagliato. La sua idea riceveva più tardi
nuove conferme in campi diversi. Un'altra conferma è in questa pittura o,
meglio, nella suggestiva interpretazione, che il P. dà della pittura, e il cui
primo merito egli giustamente attribuisce all' illustre pompeianista e nostro
collaboratore, Antonio Sogliano.
Storiografia italiana : I. Del Lungo, Per la nuova autentica edizione della
Storia d'Italia di F. Guicciardini (estr. dalla Nuova Antologia, 16 luglio
-1917), pp. 7. — È una « Comunicazione», che il D. L. fece alla R. Accademia
dei Lincei intorno alla imminente pubblicazione della Storia d'Italia del Guic-
ciardini. La pubblicazione era stata caldeggiata dal conte on. F. Guicciardini
e dal defunto Alessandro Gherardi dell'Archivio di Stato di Firenze. Nella
comunicazione, il D. L. si indugia a rilevare l'importanza del nuovo testo
della Storia, Sarebbe assai desiderabile che, nella imminenza di una così
grande rievocazione, qualcuno dei nostri studiosi volesse mettere in evidenza
il carattere e 1' importanza storiografica dell'opera di quel nostro grande
antenato.
Italia e Francia: P. Preda, Pour Vamitié italo-franqaise, Livourne,
1917. — È la confutazione, che un italiano ha con lodevoli intendimenti voluto
tentare del volume di G. Curatolo, Italia e Francia (di cui forse ci oc-
cuperemo in questa stessa Rivista)^ apparso alla vigilia della nostra guerra.
La confutazione è condotta con assai buon garbo. Pur troppo, nell'accerta-
mento dei fatti e nella loro interpretazione, il P., si lascia interamente do-
minare dall'autorità del C, onde il suo libro dà l'impressione di ricercare
le attenuanti di una causa difficile, anziché di trattare una causa indubbia-
mente buona.
Storia regionale italiana : R. Marcucci, La fiera di Senigallia } contri-
buto alla storia economica del bacino Adriatico, in Atti e Memorie della R. De-
putazione di storia patria per le Marche, voi. Vili), pp. 300. — In questa
monografia, dettata con acume, spirito critico e sulla scorta di numerosissimi
docurhenti inediti, l'A. tràccia la storia della Fiera di Senigallia dalle sue
lontane e incerte origini fino alla metà del secolo XIX. La diligente e in-
telligente ricerca mira a illustrare, attraverso la fiera di Senigallia, tutta la
storia economica del bacino adriatico. Ed invero, durante i lunghi anni, in
cui, dopo il dominio dei DellaNRovere, Senigallia rimase annessa allo Stato
pontificio, essa fu il principale emporio commerciale di tutto lo Stato. Ma,
nel XIX secolo, con l' importanza assunta da altri porti dell'Adriatico, Seni-
gallia andò decadendo, fin tanto che nel 1861 il Regno d'Italia decretò la
soppressione della storica Fiera. Tuttavia questa continuò per altri otto anni,
sino al 1869. Lo studio è altresì importante per la competenza, che l'A. vi
dimostra, dei problemi economici che l'argomento involgeva^
{Continua),
t^
LIBRI RICEVUTI
A. Dbbidour, Histoire diplomatique de l'Europe depuis le Congrès de Berlin
jusqu'à nos jours (1878- 1904 ; 1904-1916), Paris, Alcan, 1917, 2 voli.,
pp. xii-359 ; 379.
V. Gioberti, Ultima replica ai municipali t pubblicata per la prima volta e
con documenti inediti da G. Balsamo-Crivelli, Torino, Bocca, 1917,
pp. 204.
V. Piccoli, L'Estetica di V, Gioberti^ Milano-Roma-Napoli, Albrighi, Se-
gati & C, 1917, pp. 173-
G. Parenti, N. Machiavelli e il Trentino^ Firenze, Stabil. tipografico Al-
dino, 1917, pp. 76.
F. Ercole, Studi sulla dottrina politica e sul diritto politico di Bartolo : Im-
pero universale e Stati particolari (estr. dalla Rivista italiana di scienze
giuridiche^ gennaio 1917).
G. Sforza, // dittatore di Modena, Biagio Nardi e. il suo nepote Anacarsi,
in Bibliot. stor. del Risorg. italiano y Albrighi, Segati & C, 19 16,
pp. CLi-344.
A. Renaùdet, Préréforme et humanisme à Paris pendant les pref.nères guerres
d'Italie (1514-1517), Paris, E. Champion, 1916, pp. 739.
A. Ferrari, Giuseppe Ferrari: saggio critico, Genova, Formiggini, 1914.
pp. xii-329.
A. D'Amato, Lorenzo de Concilj con le <k Decisioni della Gran Corte spe-
ciale di Napolii^ (estr. dalla Rivista storica del Sannio, a. II, n. i, 1916,
pp. 22).
E. B1GNONE, Sopra un frammento del comico Damosseno (estr. dai Rendi-
conti del R. Istituto lombardo di scienze, e lettere, i*» febbraio 191 7).
A. CODARA, La persecuzione in casa Flavia e la congiura contro Domiziano,
Torino, Scuola tip. Salesiana, 1917, pp. 44-
F. Ravaisson, Saggi filosofici: prefazione, trad., note, cenni bio-bibliogra-
fici di A. TiLGHER, Roma, « Tiber », 1917, pp. xv-236.
A. D'Amato, / movitnenti politici del 1870 nelV Irpinia e le decisioni della
Gran Corte criminale di Avellino (estr. dalla Riv. Stor. del Sannio, A. Ili,
n. 2, 1917), pp. 8.
A. De Marchi, Le antiche epigrafi di Milano (pubbl. déiV Atene e Roma, Se-
zione milanese, Milano, Paravia, 1917), pp. 322.
Libri ricevuti
Brunetto Latini, / libri naturali del « Tesoro », emendati, commentati e il-
lustrati da Guido Battelli, Firenze, Le Monnier, 1917,. pp. xiii-219.
Alessandro Poerio, // viaggio in Germania; il carteggio letterario ed altre
prose, a cura di B. Croce, Firenze, Le Monnier, pp. 277.
A. Renaudet, Les sources Vhistoire de France aux archives d'État de Flo-
rence, des guerres d'Italie à la Revolution {1494-1789) : essai d'inventaire
méthodique publié par les soins de la Société d' histoire moderne et de
/'Institut fran9ais»de Florence, Paris, Rieder-Champion, 1916.
C. Pascal, Per la resurrezione del latino come lingua scientifica internazio-
nale (ili Rendic. del R. Ist. lomb. di scienze e lettere, 1917, pp. 608-12).
A. Calderini, La questione del pane nelV antichità, Milano, ParaWa, 1917,
pp. 33.
L. T0NELLI, Z<? spirito francese contemporaneo, Milano, Treves, pp. xvi-353.
D. Urbano, Scritti scelti, con prefazione e note di G. Urbano, Milanò-
Roma-Napoli, Albrighi, Segati & C, 1917, pp. 210.
F. TuLLO, Degli elementi e degli echi storici virgiliani: considerazioni storico-
letterarie. Palo del Colle, 1917, pp. 86.
A. Chester Millspaugh, Partyorganisation and màchinary in Michigan since
i8go, Baltimore, The Johns Hopkins Press, 1917, pp. viii-189.
R. MoNDOLFO, Le materialismi historique d'après Fréderic Engels (trad. fr.),
Paris, Giard et Brière, 1917, pp. 426.
M. A. Gabellini, La questione del greco e del latino (estr. da La Coltura
popolare, A. VII (1917). "• 7). PP- i5-
G. Ferrerò, Le genie latin et le monde moderne, Paris, Grasset, 1917,
PP- 335.
P. Fedele, La coscienza delle nazionalità in Italia nel Medio Eva (estr. dalla
Nuova Antologia), 1915, pp. 16:
G. Cassi, // mare Adriatico, Milano, Hoepli, 1915, pp. xix-532.
I. Del Lungo, Storia esterna d'un piccol libro dei tempi di Dante, Milano-
Roma-Napoli, Albrighi Segati & C, 1917, I, p. 420.
R. Cessi, // probtema bancario a Venizia nel sec. XIV (estr. dagli Atti della
R. Accad. delle scienze di Torino, voi. 52, 1916-17), pp. 781-99.
A. Gemelli, Folklore di guerra: per uno studio della psicologia del soldato
(estr. da Vita e pensiero, i* gennaio 1917), pp. 11.
Idem, Il principio di nazionalità, Milano, 191 7, pp. 42.
G. Tracconaglia, Une page de i' histoire de V italianisrne à Lyon : contributo
allo studio dell'italianismo in Francia, Lodi, 1915-17.
L. Cappelletti, Austria e Toscana (1824-59), Torino, Bocca, 1917, pp. ix-456.
G. Pardi, Lo sviluppo demografico di una città siciliana {Caltagirone) (estr»
dalVArch. stor, siciliano, 191 7, pp. 201-221).
F. P. Giordani, Storia della Russia secondo gli studi piò, recenti, Milano,
Treves, 1916, 2 voli., pp. viJi-427 ; 374.
A. PiNGAUD, Bonaparte président de la République italienne, Paris, Perrin
et C««; 1917, 2 voli., pp. xxix-490; 529. {Continua).
Articoli che vedranno la luce nei prossimi numeri:
Corrado Barbaoallo, L'Oriente e l'Occidente nell'Impero romano.
Idem, Problemi di storia romana.
Carlo Paladini, Un invito dell' Inghilterra all'Italia in Egitto.
Aldo Ffrrari, L'opera storica di Giuseppe Ferrari.
Giuseppe Rensi, // concetto di storia della filosofia.
Anna Vera Eisenstadt, La preistoria della rivoluzione russa.
Vito Garretto, Un precedente storico : La guerra frc^ Stati Uniti e
Inghilterra del 1812.
Guido Santini, Storiografia elementare.
Paolo Terruzzi, Un'obliata discussione sui <fini della guerra > in
Francia.
Giuseppe Pardi, Un bilancio preventivo dello Stato fiorentino nel 1544.
Gellio Cassi, Meditazioni storiche: considerazioni e raffronti.
Gerolamo Lazzeri, Le teorie storiografiche di B. Croce.
Amedeo Mazzotti, La ^.filosofia della storia » di Guglielmo Ferrerò.
*:picarmo Corbìno, // progresso economico della Sicilia negli ultimi
decenni.
Alessandro Chiappelli, Domenico Coniparetti e Vopera sua.
I nuovi programmi di storia per le scuole medie (C. B).
Antonio Sooliano, La bandiera dell'ellenismo.
Ivan Grinenko, Le correnti federaliste nella storia della Russia e nella
lotta politica odierna.
Gaetano Salvemini, Pasquale Villari e l'opera sua.
Di prossima pubblicazione:
Per i'ilaHlà Iella [olia nostia: inni e lallaglie
Scritti di C. Barbaoallo ; E. BignoneiE. Ciccottij A. Ferrari; G. Ferrerò;
G. Fraccaroli; F. Guglielmino; R. Mondolfo; E. Pancrazio; A. So-
oliano ; P. Terruzzi, ecc. ecc.
— Anche questa volta, come il lettore avrà notato, abbiamo dovuto, per
motivi di spazio, rimandare la massima parte del Bollettino bibliografico. Nel pros-
simo fascicolo (marzo-aprile 1918) speriamo completare la pubblicazione delle
due monografie del Rota {Razionalismo e storicismo^ ecc.) e dell'OTTOLiNi (Z,a
Seconda Cisalpina),
— In rapporto a una Nota critica di C. B., pubblicata nello scorso numero,
riceviamo una lettera, assai interessante, di Louis Halphen, che daremo nel
prossimo fascicolo.
A. Medici, Gerente responsabile.
Città di Castello, Tipografia della Casa Editrice S. Lapi^ 1918.
Anno 11. Marzo- Aprile 1918. Fasc. II.
^uo>/a ^\>/\s\a ^\ov\ca
PASQUALE VILLARI.
I. — Erudizione, storia, politica.
Nella seconda metà del secolo XIX, gli studi storici sono stati
attraversati da una generale vivacissima reazione « positiva » contro i
sistemi a priori della così detta « filosofia della storia» e contro gli
appassionati preconcetti politici e patriottici, che avevano dominato e
turbato la istoriografia durante le grandi crisi costituzionali e nazio-
nali della prima metà del secolo. Messo al bando, come privo di se-
rietà, ogni « soggettivismo » di « idee generali », la storia della lette-
ratura si ridusse a catalogo di nomi, di date, di biografie, di riassunti
d'opere ; derisa come indizio di leggerezza intellettuale ogni velleità
di valutazione estetica, lo studio degli autori non fu piìi che analisi delle
fonti, commento erudito, filologico, grammaticale; dannato senz'altro
come avventato e arbitrario ogni tentativo di ricostruzione sintetica dei
fatti passati, la storia politica si ridusse alla ricerca, alla critica, alla recen-
sione dei testi, all'esame di piccole questioncelle accuratamente isolate
le une dalle altre, tutt'al più alla compilazione di enciclopedie, più o
meno corpulente, in cui i resultati della erudizione frammentaria veni-
vano raccolti senza idee direttive, senza legami logici, senza premesse
e senza conclusioni. I fatti, i soli fatti, nudi e crudi e disarticolati tro-
neggiarono despoti del pensiero. Fu sistema non aver sistema.
I benefici arrecati alla serietà scientifica da questa corrente di lavoro
sono innegabili, e sono stati grandissimi: perchè senza una scrupo-
losa raccolta di fatti criticamente accertati, non vi ha né solidità né
probità di pensiero, ma preconcetto arbitrario o dilettantismo da ciar-
latani. Ma imponendo quasi la rinuncia all'uso della ragione per paura
di quegli errori, in cui può incorrere certamente chi sente il bisogno
8 — Nuova Rivista Storica.
114 Gaetano Salvemini
di ragionare, questa negazione di ogni sforzo sintetico e di ogni
preoccupazione pratica ha prodotto conseguenze veramente funeste
nella coltura storica e politica, specialmente dell'Italia, dove più arre-
trate erano le condizioni intellettuali delle classi dirigenti, e più generale
e più fanatico fu l'abbandono dell'antica e l'ossequio alla nuova moda.
Si ruppe ogni circolazione di pensiero fra gli studi storici e la
pratica politica. Mentre gli storici accumulavano fatti senza estrarne
nessuna idea, le persone colte non sapevano che farsi di quei fatti, e
rimanevano senza idee. I giovani non lessero più i libri di storia, in
cui nulla più li interessava, e rimasero abbandonati nella loro educa-
zione politica alle sole improntitudini dei giornali quotidiani. Spentasi
quella luce, che viene .dalla conoscenza delle tradizioni nazionali del
proprio paese e degli altri, l'azione di Governo si ridusse ad un em-
pirismo inintelligente e incoordinato, ad una imitazione brutale di
iniziative altrui, a un continuo fare e disfare di politicanti e di burò-
crati improvvisatori e maldestri.
In questo generale inaridimento degli studi storici e impoveri-
mento del pensiero politico, Pasquale Villari continuò, correggendola
e adattandola ai nuovi tempi, la tradizione degli storici moralisti del
nostro Risorgimento.
Avendo sentito in Napoli, proprio sui venti anni, nel momento de-
cisivo della formazione intellettuale, durante la crisi del *48, la influenza
d'un grande maestro di pensiero e di vita — Francesco De Sanctis — ;
orientatosi definitivamente versogli studi storici, fra il 1849 e il 1859,
in Toscana, in un ambiente cioè tutto imbevuto di realismo prudente
e metodico, ma fervido anche esso delle preoccupazioni morali della
nostra formazione patriottica; — il Villari accettò e predicò costante-
mente la necessità di sottoporsi alla rigida disciplina dei nuovi me-
todi: i quali, del resto, erano nuovi solo per modo di dire, perchè
erano i metodi di tutti i grandi eruditi italiani dei secoli XV e XVI,
perfezionati in Italia e fuori d'Italia nei secoli successivi, e applicati
più sistematicamente nelle università germaniche del secolo XIX. Ma
anche nei momenti in cui la cosiddetta « scuola storica » aveva per
sé la quasi unanimità degli studiosi italiani, il Villari si rifiutò sempre
di accettarne i criteri angusti ed esclusivi.
Certi eccessi ed errori — egli ripeteva — che sono occorsi finora
nel lavoro della sìntesi storica, lungi dal rendere necessario l'abban-
dono di ogni tentativo di sintesi, sono una prova manifesta del bi-
sogno incoercibile, che sospinge il nostro spirito a unificare i dati
della ricerca storica, sia pure con ipotesi provvisorie e magari fallaci.
Questo bisogno nasce in noi dal fatto che la conoscenza sintetica
del passato è il solo mezzo, che abbiamo per renderci conto della
Pasquale Vii tari 115
nostra genesi intellettuale e morale, e dell'indole delle grandi forze,
che muovono la società in cui viviamo. Noi non possiamo spiegare
l'uomo, se non conosciamo i suoi tempi; e non possiamo conoscere
i suoi tempi, senza conoscere la storia del passato: perchè questo
passato vive trasformato nei suoi tempi, i quali vivono in lui. Noi non
saremmo quello che siamo, se non fossero stati i Greci da cui abbiamo
avuto tante idee artistiche e filosofiche ; se non fossero stati i Romani
dai quali abbiamo avute tante idee giuridiche e politiche ; non saremmo
quello che siamo, se non fosse stata la Rivoluzione francese, la Rivo-
luzione italiana, tutta la storia del passato. Se, per ipotesi, ci proviamo
a cancellare dalla storia i Greci e i Romani, che cosa facciamo ? Non
solamente lasciamo una lacuna nel corso degli avvenimenti; non so-
lamente rendiamo difficile, impossibile il comprendere i fatti poste-
riori ; ma per cancellare dalla storia quei due popoli, quelle due ci-
viltà, dobbiamo cancellare anche una parte della nostra coscienza,
della nostra personalità. Se, invece, attraverso gli studi storici, noi ci
sforziamo di determinare il punto di partenza delle singole forze, che
hanno contribuito a creare la nostra società e il nostro spirito, le di-
rezioni seguite da ciascuna di esse, il momento ed il modo d'incro-
ciarsi delle une con le altre, noi impariamo così ad analizzare il mondo
in cui viviamo e gli elementi costitutivi della nostra personalità, impa-
riamo a conoscere nell'equilibrio presente della vita sociale e della no-
stra vita psichica, quali fattori sono primitivi e permanenti, quali se-
condari e variabili ; raccogliamo i presupposti indispensabili, non solo
per una conoscenza scientifica del presente, ma anche per qualunque
azione politica voglia riuscire davvero intelligente ed efficace.
Non v'ha errore più pericoloso alla coltura politica di un paese,
che negare la storia per la erudizione, e rompere così ogni ponte di
passaggio fra lo studio del passato e la vita presente. Un nostro
alunno — egli raccontava — valoroso davvero, aveva speso due anni
nello studio d'una pessima poesia in dialetto del secolo XVIH, ed aveva
finito con lo scoprirne le fonti in due pessime poesie francesi. Tutta
questa ricerca era fatta con tanta dottrina, con un metodo così rigo-
roso, con tale ingegno, che bisognò addottorarlo con lode. Ma a che
così grande dottrina ? non sarebbe stato meglio occuparsi d'altro ? Qua-
lunque soggetto di studio può essere trattato con lo stesso metodo
critico e condurre a resultati positivi. Ma fra gli infiniti possibili sog-
getti di studio, lo storico deve scegliere di preferenza quelli, i cui re-
sultati possano meglio contribuire al progresso della coltura politica
del proprio paese.
Questa preoccupazione pratica, ereditata dal pensiero del Risor-
gimento, mentre, associata alle innate attitudini sintetiche, salvò il Vii-
ii6 Gaetano Salvemini
lari dal pericolo di diventare, anche lui, come tanti suoi contempo-
ranei, un semplice erudito, non poteva non costituire una insidia assai
pericolosa per l'opera dello storico.
Lo storico deve certamente essere guidato, nella scelta degli ar-
gomenti, a cui vuole applicare la sua curiosità, da un saldo sentimento
della funzione dei suoi studi neir insieme delle scienze morali, e della
funzione delle scienze morali nella coltura politica moderna: ed è
merito del Villari aver mantenuto alto questo principio con la teoria
e con la pratica, quando era generalmente discreditato. Ma non appena
lo storico sia stato condotto, dalle preoccupazioni morali del suo tempo,
a scegliere un determinato soggetto per le sue ricerche, da quel mo-
mento in poi i doveri del metodo critico devono dominare sovrani, e
non consentono più T intervento di nessun principio morale, salvo
quello del più assoluto ossequio alla verità. Lo storico non deve né
condannare né assolvere, deve semplicemente spiegare; il suo ufficio
si riduce tutto a risolvere il problema, dicìam così, quantitativo, di
incatenare logicamente i fatti in un sistema di concomitanze e di causa-
lità. Se non avrà risoluto obbiettivamente questo problema, il suo
lavoro non raggiungerà né un valore scientifico né una utilità pratica.
Se non che quello stesso interesse politico, o religioso, o sociale,
che ha orientato lo storico nella scelta deirargomento, e ne sostiene
il fervore nella fatica della ricerca, dell'esame, del coordinamento e
della elaborazione letteraria del materiale, quello stesso interesse mi-
naccia continuamente di sviarlo dal freddo lavoro critico, lo tenta a
sostituire la valutazione morale alla spiegazione storica, può turbare
più o meno profondamente la stessa spiegazione storica.
Il Villari sa benissimo anche lui che il lavoro critico non tollera
pregiudiziali morali, che Io storico non è un professore di costumi,
addetto a ricercare nel passato esempi buoni o cattivi da raccoman-
dare alla ammirazione o alla esecrazione dei posteri. Ma la teoria non
è così penetrata nel suo spirito, da imprimere costantemente al suo
lavoro un indirizzo risoluto e rettilineo.
II. — Le opere storiche.
Osserviamolo, infatti, nella Storia di Gerolamo Savonarola.^ Di-
nanzi alle tragica figura di questo mistico medioevale e moralista
eroico, sbalestrato nell'Italia della fine del secolo XV, a lottare contro
tutte le correnti intellettuali e morali del Rinascimento e a naufragarvi
i L'ottimo profilo dì Francesco Baldasseroni, Pasquale Villari, Tip. Galileiana,
1907, mi dispensa da ogni necessità di sistematiche notizie biografiche e bibliografiche.
Pasquale Villari 117
miseramente, il Yillari resta affascinato e interdetto. Nell'Italia del- Ri-
nascimento, che dà Leonardo e Michelangiolo, Machiavelli e Ariosto,
e prepara Giordano Bruno e Galileo, il Savonarola è un ritardatario
e uno spostato: quell'Italia egli la maledice e ne viene stritolato. Ma
quest' Italia è anche il paese di Alessandro VI e di Ludovico il Moro,
moralmente pervertito e politicamente disorganizzato, fatto preda e
ludibrio alla prepotenza straniera: è veramente la bolgia d'inconti-
nenza e di scetticismo, maledetta dal frate di S. Marco. Chi ha dun-
que ragione, fra il frate mistico e moralista, e V Italia razionalista ed
esteta del Rinascimento? La riforma morale predicata dal frate, era
un'impresa ragionevole, per quanto sventurata, oppure il sogno, sia
pure eroico, di un allucinato?
II problema, per lo storico, non esiste : questa era la società, que-
sto era l'uomo, così scoppiò il contrasto, così ebbe termine il dramma:
esaurite queste domande, lo storico ha esaurito il suo compito. Il
Villari è, invece, continuamente assillato nel suo studio dalla inquie-
tudine dì questo problema. La coscienza morale lo spinge all'entusia-
smo pel martire; le abitudini critiche gli vietano di disconoscere la
povertà infantile di quel pensiero. In qualche punto accenna a voler
superare la contraddizione, inserendo il Savonarola nella corrente in-
tellettuale del Rinascimento, e facendone un precursore della libertà
di pensiero, uno spirito della famiglia di Telesìo, di Campanella, di
Bruno, un uomo insomma che conciliava la fede religiosa del Medio
Evo e la libertà intellettuale dell'età nuova. Ma la dimostrazione è ap-
pena accennata; né potrebbe riuscire vittoriosa.
Fortunatamente, nella seconda metà dell'opera, via via che l'astu-
zia diabolica di Alessandro VI e dei Priori di Firenze stende i suoi
tentacoli intorno al povero frate dalla cappa lacera, e questi se ne
lascia avvolgere più per il fanatismo dei seguaci che per volontà pro-
pria; — e noi vediamo delinearsi il contrasto irreducibile fra il frate, che
aspira ad una riforma religiosa e morale, e i suoi stessi seguaci, che
si preoccupano soprattutto del problema politico di difendere la Re-
pubblica contro una reazione medicea; — e da un lato cresce la esalta-
zione mistica del frate e dei suoi più intimi seguaci, dall'altro la stan-
chezza e la paura invade i borghesi fiorentini, che non sanno più
dove vendere il vino e la lana, se Firenze è interdetta dal Papa; —
il popolo esaltato da quattro anni di prediche e penitenze, di flagelli
che arrivano e di .flagelli che gli .si preannunciano, è condotto alla
fine ad esigere che il profeta faccia un miracolo per confermare
la fede che vacilla; — e in Piazza della Signoria noi aspettiamo col
popolo che il miracolo avvenga, mentre in Palazzo i Signori, d'ac-
cordo coi nemici del frate, mandano le cose per le lunghe, affinchè la
ii8 Gaetano Salvemini
prova non avvenga, e la folla si stanchi; — il piano perfidissimo riesce
alla perfezione; i fedeli del profeta si sbandano delusi; il convento è
assalito ; il frate e due compagni di sventura sono processati fra tor-
menti atroci e falsità infami ; finalmente i tre cadaveri penzolano sul
rogo, grondanti viscere e sangue, lapidati dalla folla; — via via insomma
che la tragedia con logica spietata precipita alla catastrofe, e l'argo-
mento consente alla simpatia morale di darsi libero sfogo senza tur-
bare la ricerca critica, anzi la simpatia acuisce la penetrazione dello
studioso e ne sferza le attitudini artistiche; allora l'opera del Villari non
solo riesce magnifica come opera di scienza^e come opera d'arte, ma
rende partecipe scrittore e lettore della medesima esaltazione morale.
In uno stato d'animo assolutamente opposto il Villari si trova,
allorché studia Niccolò Machiavelli e i suoi tempi. Il segretario fioren-
tino non è un mistico medioevale: discorre e parla come noi; pos-
siede un potente spirito realista, osservatore ed indagatore; riduce
tutti i fatti della storia e della politica a cause naturali; al disopra della
piccola patria fiorentina, sente l'esistenza della universale nazionalità
italiana, e vede chiaramente la necessità di riunire l' Italia in un unico
Stato per garantirne la indipendenza contro ogni straniero ; ha predi-
cato con ardore disinteressato e con fedie non mai indebolita la neces-
sità di sostituire il servizio militare obbligatorio alle milizie mercenarie ;
presenta, insomma, il perfetto tipo intellettuale dello scienziato e del
politico moderno.
Ma il primo scritto, che ci è pervenuto di lui, è una lettera dì
scherno sulle « bugie » del Savonarola ; ama le allegre compagnie, scrive
lettere e comn^edie oscene; serve il partito repubblicano, quando i
Medici sono espulsi da Firenze, e si offre di servire i Medici, non ap-
pena è caduto il regime repubblicano ; l'arte del governare è, nel suo
spirito, del tutto indipendente dai precetti morali; le azioni politiche
non sono per lui oneste o disoneste, ma utili o dannose, e perciò lode-
voli o biasimevoli, secondo che sì propongono e raggiungono o no
il fine della potenza dello Stato ; del Principe, che deve unificare
l'Italia, fa un mostro di perfidia e dì crudeltà, a cui insegna quando e
come deve mentire, ingannare, tradire ; sopra tutti gli uomini del suo
tempo ammira proprio Cesare Borgia: esiste fra lui e il suo storico
un abisso di repugnanza morale.
E per quanto il Villari si sforzi di comprenderlo e spiegarlo, e
ripeta che un uomo non può essere compreso fuori del suo tempo,
che il secolo XVI non deve essere giudicato con i criteri morali dei
giorni nostri, che il Machiavelli discute problemi dì tecnica polìtica e
non di morale privata, — pure la insoddisfazione morale finisce sempre
col prevalere sui canoni astratti della curiosità disinteressata. A che
Pasquale Villari 119
vale allo studioso ripetere cofi fa ragione che un secolo non può essere
giudicato con le idee morali di altri secoli, se nel contrasto fra la
prodigiosa attività intellettuale ed artistica del Rinascimento e i vizi
osceni e i delitti freddi e spietati, fra il progresso intellettuale e la
disorganizzazione morale, il suo cuore sente maturarsi la prossima
catastrofe della patria, se tutta la vita del suo spirito si fonda sulla
convinzione assoluta, che le Società più prospere, più forti, che eser-
citano una più grande e generale azione sulla civiltà del mondo, sono
le società più oneste ? Quella atroce mescolanza di razionalismo, di
estetismo e di putredine morale lo disgusta e lo sgomenta; la rovina
politica dell'Italia, in tanto splendore di arti e di scienze, lo colpisce di
tragico terrore. Quel secolo lo descrive nelle sue molteplici attività,
raggiungendo spesso una grande efficacia di rappresentazione ; ma ogni
unità in quelle manifestazioni contraddittorie gli sfugge: non può com-
prendere, perchè non può amare. E la unità nazionale, costituita coi
metodi preconizzati dal Machiavelli, non sa né respingerla, né accet-
tarla. Egli é continuamente a domandarsi: fu un uomo onesto, fu un
disonesto ? questo gigante del pensiero fu, dunque, un mostro morale ?
Siffatta inquietudine — non storica — lo paralizza anche nella so-
luzione del problema storico. Gli sfugge, per esempio, quello che è
il nodo centrale del pensiero politico del Machiavelli: la distinzione
fra lo « stato sano », in cui le istituzioni domano e disciplinano la
perversità naturale degli individui, e la legge morale può essere norma
di condotta a governanti e governati; e lo «stato corrotto», in cui
gli egoismi indfviduali hanno rotto ogni freno di legge, e nello sfacelo
di tutte le istituzioni lo Stato diviene incapace di difendere la sua indi-
pendenza contro gli Stati vicini ; e allora — e T Italia del 500 è il più
miserabilmente corrotto di tutti gli Stati — unica via di salvezza é per la
Nazione la comparsa di un uomo, che ricostituisca il vigore della orga-
nizzazione politica, con quei mezzi, che la corruzione e la perfidia uni-
versale consentono, affinché la Nazione si salvi e nello Stato, ridive-
nuto « sano », possano riprendere dominio su governanti e governati
le norme della legge morale.^ '
E la insoddisfazione, che lo turba per la mancata soluzione e
del problema storico e del problema morale, si manifesta anche nella
struttura letteraria del libro, in cui la cornice della storia dei tempi non è
né proporzionata né coordinata con quello, che dovrebbe essere il vero e
proprio quadro, la vita e il pensiero del Machiavelli. L'opera, insomma,
è mancata, non sala come opera di storia, ma anche come opera d'arte.
» Ercole, Lo « Stato » nel pensiero di N. Machiavelli, negli Studi economici e
giuridici della R. Università di Cagliari, sol. Vili (1916), e voi. DC (1917).
Gaetano Salvemini
Felicissima, invece, è la posizione intellettuale e morale del Villani
innanzi ai Primi due secoli della Storia di Firenze. Per studiare questo
argomento, il Villari non aveva che un materiale frammentario e po-
verissimo di cronache e documenti. Ma alle lacune delle fonti storiche
suppliva l'alta attitudine sintetica dell'ingegno. E l'ingegno era sor-
retto e quasi moltiplicato da una simpatia calda, incondizionata. Si
trattava qui di comprendere l'ascensione del popolo nostro dalla bar-
bara disorganizzazione feudale a quella potente civiltà artigiana e de-
mocratica dei nostri comuni, forte e gentile primavera dello spirito,
che vide pensatori come S. Tommaso,^ e poeti come Dante ; produsse
il «Cantico delle creature» e gli «Ordinamenti di giustizia»; elevò
le navate di S. Maria del Fiore e la mole del Palazzo della Signoria.
L'ammirazione non si elideva, in questo caso, con la curiosità : la cu-
riosità soddisfatta rendeva più viva l'ammirazione.
E in un magnificò slancio di pensiero e di simpatia, il Villari
creò quasi dal niente la storia sociale e politica del Comune di Fi-
renze, riducendo a luminosa unità i dati scarsi e discontinui delle
fonti, scoprendo una successione necessaria di lotte di classe al disotto
di quelle, che erano state raccontate fino allora come capricciose risse
personali e rivalità di famiglie: opera veramente ammirabile, soprat-
tutto se viene messa in relazione con lo stato degli studi in Italia
prima del 1870, e col movimento di ricerche da essa determinato :
perchè le parti più originali e più solide furono pubblicate nel 1866
e 1867; e se gli studiosi, che sono venuti dopo, hanno visto talvolta
più lontano, lo debbono al fatto di aver potuto salire sulle sue spalle ;
e con tutto questo, anche oggi, le linee generali della storia comunale
fiorentina restano quelle che il Villari tracciò mezzo secolo fa.
III. — L'insegnamento universitario.
Quelle stesse attitudini sintetiche e quello stesso fervore morale,
che spiegano l'indirizzo e le debolezze e le forze dell'opera storica
del Villari, dovevano fare di lui un grande insegnante universitario e
preparatore d'insegnanti di storia per le scuole secondarie.
Se Io storico deve essere non un erudito indifferente ai problemi
morali e politici del suo tempo, ma un politico e un moralista, che
con la disciplina della erudizione deve cercare nel passato la origine
della società, in cui deve vivere ed operare, — l'insegnante di storia
deve, più ancora dello storico, guardarsi bene dalla pura erudizione
gelida e incoordinata; perchè nella società moderna egli ha il compito di
educare, con l'aiuto della storia, gli alunni ad esercitare con intelligenza
le future funzioni politiche, e adempiere con coscienza i doveri sociali.
Pasquale Villari 121
Di questa verità il Villari ebbe una visione lucidissima. L* insegna-
mento della storia — egli insegnava — , come qualunque altro insegna-
mento, non è fine a sé stesso. È un mezzo, con cui dobbiamo rag-
giungere un determinato fine intellettuale e morale, e questo fine ci
è indicato dai bisogni della società democratica moderna, in cui la
scuola vive e per cui deve preparare la gioventù. Non già che l' inse-
gnante di storia debba modellare i suoi alunni secondo la propria fede
politica o religiosa, o secondo indirizzi ufficiali imposti dal governo.
Non v'ha illusione più inetta, oltre che immorale, di quella che pre-
tende far servire la scuola al trionfo o al consolidamento di determi-
nati principi politici o religiosi : le grandi correnti intellettuali e morali
si formano sempre fuori della scuola, e gli uomini le creano e se ne
lasciano trascinare indipendentemente dagli impulsi ricevuti dalla scuola:
dai licei gesuitici uscirono quasi tutti i liberi pensatori e -Rivoluzionari
dei secoli XVIII e XIX. Ma l'alunno, che nello studio della storia abbia
imparato la propria discendenza intellettuale e morale, e confrontando
il passato col presente, abbia preso l'abitudine di cercare nel passato
gli embrioni del presente, e in questo uno sviluppo perenne del pas-
sato; e si sia reso conto in questo modo della complessità della struttura
sociale, della relatività delle istituzioni e delle idee, dei rapporti di inter-
dipendenza e di causalità, che stringono fra loro i fenomeni sociali
consecutivi e contemporanei ; — quell'alunno, quale che sia il suo grado
sociale, quali che siano le sue idee politiche e religiose, qualunque posto
di combattimento gli avranno assegnato le tradizioni di famiglia, gì' in-
teressi, la suggestione dell'ambiente, il temperamento individuale; —
quell'alunno non sarà né un semplicista, né un intollerante, né un cieco ;
? non crederà che il jnondo non debba più mutare o possa mutare ad
un tratto; saprà osservare, criticare, valutare i fatti con pensiero, se
non assolutamente sereno, certo meno esclusivo e meno nebbioso di
chi sia privo di ogni punto di vista storico, di chi non abbia mai
esercitato e raffinato il suo pensiero nella osservazione dei fatti del pas-
sato. Ed é appunto questa maggiore agilità intellettuale, questo pensiero
più spregiudicato, più plastico, più largo, il frutto prezioso- di una
buona coltura storica, che l'alunno porterà seco nella vita, dopo la
scuola, anche se col passare degli anni dimenticherà tutti i singoli
fatti storici, che avrà imparato nella scuola. Di questa propria specifica
funzione educativa l'insegnante deve sentire la coscienza, e i doveri,
e l'orgoglio, nella moderna società.
Ora questa funzione non si può compiere senza la guida di idee
generali sui problemi della vita presente e sulla evoluzione della vita
passata. Il valore del professore di storia — Egli insegnava — si misura
non tanto da ciò che dice quanto da ciò che sa tacere ; traspare dal-
Gaetano Salvemini
l'arte, con cui, nel cumulo dei dati e delle notizie, sa discernere e met-
tere in rilievo il fatto essenziale e il concetto semplice, sacrificando
alla chiarezza e al fine educativo ogni erudizione superflua: idee poche,
ma chiare. Ma senza idee generali, voi sarete incapaci di adattarvi alle
necessità dell' insegnamento : il vostro occhio non avrà il senso della
prospettiva e della misura : voi non saprete isolare dalle altre la nozione,
che merita l'attenzione dello spirito, e presentarla in maniera che l' in-
telligenza dell'alunno nel cogliere il dato nuovo percepisca le relazioni,
che r uniscono ai dati antichi, e componga con esso un tutto. Lo studio
si ridurrà per i vostri alunni ad uno sforzo di memoria inutile e
disperato.
Le idee generali, il Maestro non ce le dava belle e fatte, perchè
le ripetessimo a pappagallo ai nostri alunni, e le usassimo come guan-
ciali alla nostra pigrizia mentale. Ne suscitava in noi il bisogno, espo-
nendoci le principali teorie storiche, elaborate via via dai grandi spiriti
dell'umanità. E poiché sentiva che a noi, appena venuti dal liceo,
mancava la preparazione necessaria per seguire una vera e propria
anàlisi di sistemi, spesso eccessivamente astrusi, aveva l'abilità istintiva
di rappresentare volentieri la idea centrale di ciascun sistema con una
imagine plastica, magari umoristica. — Per esempio, spiegandoci la
teoria di S. Agostino e di Bossuet, dopo averci detto che base di essa
è un Dio creatore e guidatore del mondo, che conduce l'Umanità verso
un fine che le è ignoto, e che questa concezione, facendo dell'uomo
uno strumento di una mente superiore, è la negazione di ogni impulso
per lo studio storico, riassumeva la esposfzione e la critica in un' ima-
gine : in questa teoria la provvidenza guida i popoli, come un cocchiere
guida i cavalli. — Voleva spiegarci che la mancanza del sentimento
delia relatività storica è una delle caratteristiche fondamentali della
coltura dei secoli anteriori al secolo XIX? — Vi è in una delle Biblio-
teche di Firenze un manoscritto prezioso, un Virgilio illustrato, si dice,
da Benozzo Gozzoli. L'artista ha rappresentato le scene déWEneide.
Si vede, fra le altre cose, il cavallo di legno, in cui sono nascosti i
Greci, introdotto nella città di Troia, I Greci ne escono, e che cosa
vedono nella città di Troia ? Il palazzo Riccardi, la Loggia dei Lanzi,
il Palazzo Vecchio, e i Troiani sono vestiti con le vesti dei cittadini
fiorentini del secolo XV. Ora immaginate un poco, che oggi un artista
volesse rappresentarci il Padre degli Dei con la giubba e la cravatta
bianca, il cappello a tuba e la sciarpa tricolore del Sindaco. — Voleva
darci una impressione delle differenti abitudini intellettuali degli studiosi
inglesi, francesi, tedeschi? — Un'Accademia propose un premio alla
più completa monografia sul cammello : un francese andò a studiarlo
al giardino pubblico; un inglese fece i suoi bauli e parti per i paesi
Pasquale Villari 123
dove il cammello vive libero; un tedesco se lo levò dalla propria
coscienza.^
Così nella parola di quel piccolo uomo, che spariva quasi nella
cattedra, mostrandoci solo al di là una grande fronte luminosa, sfila-
vano innanzi al nostro spirito S. Agostino e Dante, Machiavelli e Vico,
Montesquieu e Kant, Herder ed Hegel, Buckle e Tocqueville. Così fummo
spinti a leggere Guizot e Thierry, Macaulay e Sainte Beuve, Taine e
Sorel, Bryce e Laveley. E così eravamo costretti anche ad elaborarci
una coscienza nuova, con l'anelito del nostro lavoro, attraverso crisi
giovanili, dolorose e benefiche.
Che le sue fossero proprio lezioni di storia e di metodo storico,
non si può dire. Provvedevano a questo gli altri insegnanti dell* Istituto.
Concordi, puntuali, inflessibili, ognuno di essi, in quella casa smobi-
liata o male anmiobìliata che era la nostra coltura, si prendeva una
stanza, e ci insegnava a tenerla in ordine, a restaurare i mobili scian-
cati, a trasformare o eliminare quelli di cattivo gusto. Lui entrava in
tutte le stanza, spalancava porte e finestre, faceva circolare ovunque
l'aria e la luce, disfaceva magari l'ordine degli altri. Ufficialmente,
insegnava storia moderna. In realtà ci insegnava una infinità di cose,
compresa la storia moderna : ci insegnava soprattutto a non essere
mummie, ad essere uomini.
E non solamente era il nostro maestro : era il nostro grande amico.
Faceva con noi lunghe passeggiate, interrogatore pertinace, critico
imbarazzante, discutendo i nostri lavori, indicandoci libri da leggere,
informandosi delle nostre famiglie, aiutandoci nelle nostre ristrettezze,
disputando di politica, rimproverandoci per le nostre scappatelle gio-
vanili. Io, per esempio, — mi sia consentito questo piccolo accenno
personale, dolce nella memoria — , a causa delle mie idee politiche,
Io preoccupavo, come il pulcino che sfugge alla chioccia: una volta
mi disse che sarei finito male: e non è detto che il vaticinio non abbia
ancora il tempo di avverarsi; ma quando, nel terzo anno degli studi,
mi ammalai, pel troppo lavoro e per via di quella certa abitudine a
vivere di niente, che si assume quando scarseggiano i rifornimenti,
egli mi raccomandò ad una famiglia a lui amica, mi fece andare in
campagna, e mi aiutò così a riavermi e a tornare al lavoro.
1 Sul Giornale d'Italia del 14 dicembre 1917, il senatore Chiappelli ha rivelato
che quest' immagine del cammello è stata usata, prima che dal Villari, dal Villemain.
Ecco, dunque, che l'« analisi delle fonti ^ comincia ad esercitarsi anche sul Villari ! Ma
le lezioni di un insegnante non hanno nessun obbligo di originalità: l'insegnante può
e deve dire con Seneca : meuni est quod bonum est : quel che importa, non è la pro-
venienza delle idee, ma l'uso che egli sa farne ai fini dell'insegnamento.
124 Gaetano Salvemini
« Ogni volta — egli ha detto nel 1899, durante la cerimonia, con cui colleghi,
scolari e ammiratori, festeggiarono il quarantesimo anno del suo insegnamento —
ogni volta che uno di noi percorre l'Italia, dovunque sì fermi, da Sondrio a
Caltanissetta, vede dai Ginnasi, dai Licei, dagli Istituti tecnici, sbucar fuori qual-
cuno di questi giovani, e cercare ansiosi di noi. Spesso sono uomini già maturi,
calvi o canuti, affaticati dalle molte ore di lavoro, con magri stipendi. Ma appena
si trovano dinanzi a noi, intorno al loro volto apparisce come un'aureola d'in-
genua giovinezza, e ricordano i tempi, essi dicono felici, nei quali li facevamo
lavorare. E sono sempre a combattere per mantenere nell' insegnamento i buoni
metodi, la disciplina, il sentimento del dovere, la giusta severità. Chi può dirvi
con che forza si ridesta in noi l'antico affetto? Chi non è stato nell'insegna-
mento, non potrà mai formarsi un'idea del sentimento che stringe il professore
ai suoi scolari. Si comincia a prendere un vivo interesse al loro avvenire; e
quando se ne incontra qualcuno, che dimostri eccezionali doti d'intelletto, si
desidera, si spera per lui la gloria. Noi cerchiamo allora di spronarlo, di spin-
gerlo innanzi, ci sforziamo di infondere nelle sue vene il sangue stesso del nostro
spirito. Ci par già di vedere il suo nome risplendere di una luce che lascerà in
ombra, farà dimenticare il nostro, il che ci sorride come speranza di lieto avve-
nire. Il lavoro intellettuale si trasforma allora in un trionfo morale sopra noi
medesimi. E questa è la mèta più ambiziosa che un insegnante possa proporre-
a sé stesso».
Fortunata queir insegnante, che può, come Pasquale Villari, dire
di sé stesso, con verità, queste parole.
IV. — L'azione politica.
Un uomo di quel temperamento morale e di quella. ricchezza intel-
lettuale doveva essere tentato spesso dalla politica.
Cominciò nel 1848, con gli altri scolari di Francesco De Sanctis,
partecipando al movimento liberale di Napoli; e il 15 maggio, mentre
l'amico diletto. Luigi La Vista, era ucciso dagli Svizzeri, fu imprigio-
nato, come il maestro, — particolare della sua vita, che egli non ha
mai raccontato, e che sarebbe rimasto sempre ignoto se non ne fosse
stata scoperta e rivelata, dopo la sua morte, la notizia dalle carte dell' Ar-
chivio di Stato di Napoli.!
1 II prof. Giuseppe Paladino, che prepara una poderosa opera sul regno di Fer-
dinando II, ha dato notizia del fatto sul Giornale d' Italia dei 15 dicembre 1917, e mi
comunica gentilmente i seguenti particolari. — In un « Notamente di tutti gì' individui
arrestati nelle giornate de' 15 e 16 maggio 1848 e posti su diversi legni da guerra in
Darsena» (Arch. di Stato di Napoli, Sez. Giustizia. Proc. per i fatti del 15 maggio
1848, fascio 4969) figura — fra gli altri — il nome di Pasquale Villari. Il luogo e il
modo dell'arresto non mi sono noti, ma è certo che egli, al pari di tutti coloro che
furono catturati dagli Svizzeri e dalle truppe regolari, venne condotto alla Gran Guardia
Pasquale Villari 125
Nel settembre del 1860 è in Napoli, durante la crisi di transizione
fra l'entrata di Garibaldi e l'arrivo dell'esercito regolare.
«In questi giorni — scrive il 17 settembre a persona amica di Firenze —
ho provato delle strane vicende. Vi scrissi nell'altra mia che ero stato nominato
Segretario di Legazione a Torino. Sul primo avevo accettato; ma poi, avendo
parlato con Bertani e con Leopardi più volte, mi avvidi che eravamo in una
falsa posizione, che non era possibile conciliare Bertani con Cavour, e che molto
meno ciò si poteva fare da un Leopardi, uomo onesto, ma di corto vederej
caparbio. Mi dimisi. C'era una ragione ancora più grave, che mi obbligava a dimet-
termi. Il sig. Bertani faceva certi strani discorsi, da cui si vedeva che egH avrebbe
desiderato che io controllassi Leopardi. Questo fu quello che propriamente mi
decise. Io dissi a Bertani che non volevo far nulla da nascondere a Leopardi,
e mi faceva meraviglia come egli, che accusava dì slealtà la politica piemontese,
potesse e volesse propormi di essere cosi poco leale contro uno che mi era amico
e che esso faceva mio superiore. Fu tutto finito. — Vidi Bertani il giorno
seguente; a un tratto mi propose di essere alla direzione del Ministero degli
Affari Esteri, giacché (Jui i Ministri han quasi tutti il titolo di Direttori. Bertani
aveva discusso più volte con me, aveva voluto essere scritte alcune istruzioni
diplomatiche e sembrava avere acquistato qualche stima del mio ingegno. Ad
una domanda cosi improvvisa io restai sbalordito, risposi però di si. Mi disse di
ritornare la sera. — lo intanto parlai col Direttore della Pubblica Istruzione, per
sapere se gli altri Ministri mi avrebbero accolto volentieri. Rispose: — Sarai
ricevuto con le braccia aperte, con quell'affezione e stima che meriti e che hai
sempre avuta da tutti noi. Io credo che devi subito accettare, farai bene per te
ed anche per noi. In questo momento noi temiamo di avere tra noi qualche
nemico, puoi figurarti se ti accoglieremo volentieri. — Domandai a due o tre altri,
ebbi la stessa risposta. Andai la sera per accettare ; il Bertani era tutto mutato,
era un altro uomo, parlò sulle generali, non determinava mai nulla. Io restai
sbalordito. Gli dissi però: Mi pare che oggi mi avete fatto questo discorso, e
glielo ripetei. — Sì. — Ebbene, se per caso avete mutato la vostra idea, sappiate che
non fa bisogno esitare a dirlo, perchè io non ambisco per nulla entrare al Mini-
stero in momenti sì difficili e pericolosi; anzi il vostro mutamento mi farebbe
piuttosto piacere. — Ma io non ho per nulla mutato. Anzi persisto. — E qui di
nuovo diceva mille e mille parole incomprensibili. Vi assicuro che io non potevo
(sede del Comando della Piazza presso Castelnuovo) e di là nella Darsena, su alcuni
legni da guerra, dove i prigionieri rimasero tre giorni circa. Col Villari era anche il
De Sanctis, il cui nome fifjura nel medesimo elenco. Il 17 maggio il Consiglio dei
Ministri, riunitosi in Consiglio di Stato, sotto la presidenza delire, decise dimettere
in libertà tutti gli arrestati. Si disse che, essendo stati essi catturati tumultuariamente
nelle perquisizioni che i soldati avevano operate nelle case donde si era fatto fuoco,
non era possibile accertare con sicurezza la reità di ognuno. Per non colpire quindi
gli innocenti, si concesse il perdono anche ai colpevoli, molti dei quali erano stati
sorpresi con le armi alla mano. Col Villari e col De Sanctis fu imprigionato quel giorno
anche Domenico Morelli, il quale, ferito, venne condotto all'Ospedale anziché alla
Darsena ».
126 Gaetano Salvemini
capire nulla. Ma in fine la sostanza pare che fosse questa: egli aveva creduto
di poter mettere fra i Ministri un uomo sleale che avesse fatto due parti, si era
avveduto di essersi ingannato, e non poteva spiegare tutto questo perchè offen-
deva me e scopriva sé stesso... Insomma, a farla breve, noi ci separammo sciolti
da ogni vicendevole impegno, ed io non salirò più quelle scale dove andai chia-
mato. Sicché yerrò forse a rivedervi ben presto per uscire da questa che minaccia
di divenire putredine morale ».
Ma rimane in quella tumultuosa anarchia finché dura il perìcolo
di un immediato sfacelo.
« I Regi — scrive il 30 settembre — ingrossano, pigliano ardire dietro le
mura di Capua... Il Piemonte non par deciso a entrare. Le cose si possono com-
plicare terribilmente da un momento all'altro ; possiamo avere delle reazioni pro-
vocate dal mal governo, possiamo avere orrori dai Regi, che si stendono negli
Abruzzi saccheggiando e bruciando. La questione di Napoli può perdere l' Italia,
se non si fa presto. Io bramerei partir subito, perchè qui sono veramente dispe-
rato. Ma se questo partire sembrasse un disertare... allora esiterei, perchè se
veramente può tornare un pericolo grave, bisogna restare ».*
Sopravvenuta una relativa sicurezza con l'intervento piemontese,
ritornò agli studi e alle lezioni, fino al 1867, in cui accettò la candi-
datura del Collegio di Bozzolo. E fu piìi volte, tra il '67 e 1*80, deputato,
e, fra il febbraio del '91 e il maggio del '95, ministro della Pubblica
Istruzione.
Ma gli mancavano molte di quelle attitudini, che sono indispen-
sabili a riuscire nel mondo parlamentare. Tutte le qualità caratteristiche
del suo spirito: la preoccupazione perenne del problema nazionale,
inteso come problema di progresso intellettuale e di più rigida disci-
plina morale; il senso squisito delle realtà concrete, ribelli alle formule
semplici e facili; il bisogno inquieto di criticare gli altri e se stesso,
guardando i problemi da tutti i Iati, anche a costo dì non risolverli,
nella insistenza di analizzarne tutti gli elementi cercando i punti deboli
di ogni soluzione; — non potevano non riuscirgli doti sfavorevoli nelle
fortune politiche.
L' uomo, che vuole operare politicamente, anche se gli avviene dì
essere fornito di larga coltura, ed è animato dal desiderio sincero di
porre il bene del paese al disopra degli interessi personali propri e degli
amici, ha bisogno, per riuscire, di portare in sé tutte le superiorità e
tutte le inferiorità della passione e della volontà di domìnio : la lealtà,
la coltura, il disinteresse, debbono aiutarlo nella scelta dei problemi
1 Debbo la comunicazione di queste lettere al collega e amico, prof. E. Pistelli,
che ne possiede gli originali.
Pasquale Villari \^f
da agitare e delle soluzioni da preferire — e solo chi procede in questa
scelta con larga preparazione tecnica e salda probità, riesce grande
uomo di Stato; gli altri sono abili politicanti. — Ma, fatta la scelta,
r uomo politico deve entrare risolutamente nella lotta, far tacere in sé
ogni spirito critico, andare avanti a passo serrato, confondendo sé col
partito, confondendo il partito col paese, dividendo gli uomini in eletti
e in reprobi, eletti gli amici, reprobi gli avversari: lo stesso genio lim-
pido ed equilibrato di Cavour non sarebbe stato un genio politico, se
non fosse stato attraversato, per così dire, da una vena di irrazionale
fanatismo mazziniano.
Di siffatto genere di esaltazione, il Villari era del tutto privo.
Ingegno felicissimo nell'analizzare e spiegare gli avvenimenti, si trovava
paralizzato neirazione politica dalle sue stesse tendenze critiche.
Osserviamolo, per esempio, nel settembre del 1866, all'indomani
delle sconfitte di Custoza e di Lissa, in quella tempesta di accuse recì-
proche e di recrimazioni irritate, che non manca mai di scatenarsi
dopo un grande infortunio nazionale. Mentre tutti si domandavano:
di chi è la colpa?, anche il Villari pubblicò sul Politecnico di Milano
uno scritto intitolato: Di chi è la colpa?
« La guerra — egli dice — è cessata, e noi abbiamo ottenuto la Venezia,
ma niuno è contento. Questa guerra ci ha fatto perdere molte illusioni, ci ha
tolto quella infinita fiducia, che avevamo in noi stessi. Tutti ripetono in coro:
la colpa è dei capi; in un punto mancò il cibo, in un altro la munizione, un
ordine non giunse a tempo, un altro non fu eseguito. — Ma allora, come mai
si commisero tanti errori? Di chi è la colpa? — La colpa, si risponde, è del
sistema, che ci ha governati finora; sono gli uomini, che hanno sempre tenuto
il mestolo in mano. — Ma come mai l' Italia si è lasciata così lungamente gover-
nare da tali uomini? Il governo fu sostenuto dai deputati, questi furono eletti
dal paese. — SI, ma le nostre moltitudini sono ignoranti, la pubblica opinione
non ha indirizzo; e noi manchiamo di uomini. — Allora, voi siete scontenti dei
generali, dei ministri, dei deputati, degli impiegati, e per giunta anche del paese.
E allora, è giusto accumulare le responsabilità dei nostri mali, tutte sul capo di
due 0 tre uomini, che potrebbero essere facilmente rimossi, per chiuder poi gli
occhi a quegli errori, assai più pericolosi e più diffìcili a rimediarsi, perchè furono
gli errori di tutto il paese? — Nella guerra si misurano tutte quante le forze
delle Nazioni. La Nazione che vince è la Nazione più civile. Non è possibile
supporre, che la Nazione più debole nella pace riesca nella guerra più forte.
Quando le ciurme della nave americana o inglese sono in riposo, voi trovate i
marinari occupati a leggere; noi abbiamo 17 miHoni di analfabeti. Se la coltura
delle nostre plebi è cosi bassa, credete voi che nessun grave danno risenta
l'esercito? La Nazione più dotta riesce la prima anche nel campo di battaglia
E se la coltura scientifica è così bassa nel paese, e il pubblico insegnamento
cosi abbandonato, dove troveranno le scuole militari tutto il gran capitale scien-
tifico d cui hanno bisogno ? L'esercito può ordinare e migliorare, non può creare,
128 Gaetano Salvemini
tutte le forze, che mancano nella Nazione ». — Che cosa allora bisogna fare ? —
« Il primo passo è quello di mettere noi stessi a nudo le nostre piaghe, e distrug-
gere le illusioni e i pregiudizi nazionali. Se voi pigliate ad uno ad uno tutti i
rami della civiltà umana, ninno vi pone in dubbio che le scienze, le lettere, l' in-
dustria, il commercio,, l' istruzione, la disciplina, l'energia del lavoro siano in Italia
assai inferiori a quel che sono in tutte le altre Nazioni civili. Ma quando si
viene a tirare la somma, vi è sempre una certa cosa, per cui vogliamo persua-
derci di essere superiori agli altri. Ebbene questa certa cosa o non c'è, o bisogna
dimostrarla coi fatti. — V'è nel seno della Nazione stessa un nemico piìi potente
dell'Austria; ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete,
i burocratici-macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici
impossibili, i generali incapaci, l'operaio inesperto, l'agricoltore patriarcale, e la
rettorica che ci rode le ossa. Vi è in Italia un gran colpevole: e quest'uno
siamo tutti noi ». — E l'opera, che ci è necessaria per correggere noi stessi,
non si può improvvisare con una legge, con un regolamento, con un nuovo
sistema scritto sulla carta. Ci occorre un lungo, penoso sforzo di « modestia,
volontà, lavoro », perchè ci occorre creare « una generazione di gran lunga supe-
riore a noi, perchè la scienza, l'industria, l'esperienza, in una parola gli uomini,
che r Italia possiede, non sono ancora quelli, che costituiscono le grandi Nazioni. —
Che cosa abbiano noi fatto di tutto ciò ? Nulla. E perchè noi soli dobbiamo senza
lavoro e senza sacrifici, presumere di raccogliere il frutto della civiltà, a cui altri
arrivarono solo col sudore della propria fronte? E vogliamo noi ridurre a que-
stione di partito una questione, che riguarda la nostra esistenza e il nostro avve-
nire, in un momento in cui ci troviamo a esperimentare cosi dolorosamente la
incapacità, gli errori e la mancanza d'uomini in tutti i partiti?»
Ecco un uomo destinato ad avere scarsa fortuna nella politica,
perchè non sa semplificare i problemi; non sa proporre rimedi sicuri,
immediati, facili, soprattutto facili; non sa spremere neanche da una
guerra disgraziata un solo argomento elettorale contro il partito avver-
sario e a favore dei propri amici.
« Guardate un poco i nostri partiti — scrive nel 1870 — come sono in-
dulgenti su ciò che costituisce la sostanza stessa dell' umana coscienza e anche
sull'ingegno, purché le loro convinzioni e le loro convenzioni siano rispettate.
Vogliono il colore, vogliono il voto e transigono snW'uotno. Una volta entrato in
questa Chiesa, voi dovete giurare il Sillabo, e rispettarne le regole. Se un mo-
mento d'impazienza vi piglia, guai I Udite subito sussurrare la parola immorale l
tanto più facile a pronunziarsi, quanto minore importanza si pone sul valore
della condanna. Ma se avete l'arte finissima di serbare intatto il colore, e mutare
ogni giorno avviso sulle centomila questioni di morale o politica, che non sono
nel Sillabo, ma sono nella vita, e, avendo l'aria di proteggere o far paura a
tutti i ministri presenti, passati o futuri, vi costituite pianeta errante intorno ad
essi, e ne cavate invisibili favori e potere; voi potete essere un uomo sprege-
vole agli occhi dei più modesti mortali ; ma sarete puro d'ogni macchia in faccia
agli amici polìtici. Che se nelle vostre continue mutazioni saprete lusingar
Pasquale Villari 129
sempre le mutabili passioni del partito, voi sarete insino alla fine portati in
palma di mano, sebbene non riiisciate ad altro che a discreditarlo e scomporlo.
Voi potete anche essere una specie, direi quasi, di honne à tout faire, metter le
mani in tutto, mescolarvi di tutto quel che sapete e che non sapete, sciupando
cosi, con gli affari del paese, le vostre forze, l' ingegno e il cuore. Non monta
nulla, ciò non vi nuoce. Vi nuocerà piuttosto l'esservi occupato d'una cosa sola
e mirare a quello... Pure è strano davvero, che questi partiti, ì quali circondano
i loro adepti dì tanti vincoli e sono così rigidi, non sanno precisamente quello
che essi vogliono, o almeno, mutano assai spesso le loro idee, bredendosi obbli-
gati a dire sempre i' contrario di ciò che dicono gli avversari. Se la Destra
vuole armare, è di regola che la Sinistra citi l'America; ma se vuole armare
la Sinistra, allora la Destra deve avere urgente bisogno di economie. E cosi
andate discorrendo. Io non voglio gli ordini religiosi e per certi politici sarò un
matto ; ma se domani il partito decide di votarne l'abolizione, toccherà al-
lora a voi che li volevate salvare, di votare con me; altrimenti il partito si
esautora. Se vi viene voglia di tener duro, v'abbandonano anche gli amici che pen-
sano come voi, e vi deridono i nemici. Nessuno piìi di me comprende la necessità
della disciplina, che manca purtroppo agl'Italiani. Ma v'è negli eserciti una di-
sciplina, che nasce solo dai regolamenti, e ve n'è un'altra che nasce principalmente
dal patriottismo. Così v'è nei partiti una disciplina, che ci guida sopra un pro-
gramma netto e chiaro di principii in cui si ha fede, che si sostengono in comune,
e a questa io credo. L'obbedienza cieca è allora libertà piena, che forma i ca-
ratteri, promuove e non sopprime l' indipendenza personale, forza vera dei popoli
liberi. Ma che debbo io pensare, quando vedo che voi vi combattete con tanto
ardore, anche se volete la stessa cosa, e discutete solamente per sapere chi di
voi è stato il primo a volerla ? Può crescere il numero, può crescere l'automatica
disciplina; ma scemerà la forza; questa può esser rettorica politica, può essere
guerra civile; non è lotta parlamentare, non è lotta feconda di libertà ».*
Chi parla così dei partiti, è condannato a trovarsi isolato e in-
quieto in qualunque partito. I suoi amici vedranno in lui piuttosto un
ingombro che un aiuto. Gli sarà più facile essere onorato che ascol-
tato. Non è un uomo politico. Può essere uno scrittore politico.
V. — Il problema meridionale e il problema sociale.
E fu senza dubbio un nobilissimo scrittore politico, continuando,
anche in questa forma dì attività, durante la seconda metà del se-
colo XIX, e adattandola ai nuovi tempi, la tradizione del nostro Ri-
sorgitnento.
Le nostre classi dominanti — sono queste le idee centrali della
sua propaganda — credono che risoluto il problema politico, non ci
sìa per esse da fare oramai altro, che godere del nuovo stato di cose.
1 La guerra presente e Vltalia^ Firenze, Barbèra, 1870, p. 36-40.
9 — Nuova Rivista Storica.
I30 Gaetano Salvemini
badare ai propri interessi, arricchirsi. È questo un grande e pericoloso
errore. Il nostro paese non possiede ancora queir unità morale, che
forma veramente una Nazione ; è ben lontano dall'aver raggiunto quel
livello di civilt|i, che forma veramente una grande Nazione; la nostra
libertà minaccia di trasformarsi in una fonte di mali assai maggiori di
quelli del dispotismo, se non sapremo adoperarla come mezzo di
progresso e dì giustizia sociale.
« Io torno a Napoli — scrive nel 1875 — : il mondo è mutato per me e per
i miei amici: la parola è libera, la stampa è libera, molte vie sono aperte avanti
a me. La differenza è come dalla notte al giorno ; se dovessi tornare al pas-
sato, mi parrebbe di scendere nella tomba. Abbandono le strade centrali, vado
nei quartieri bassi e ritrovo le cose come le lasciarono i Borboni. I fondaci
Scannasorci, Tentella, San Crispino, Pisciavino, del Pozzillo, sono là, sempre gli
stessi, coi medesimi infelici, forse ancora più oppressi, più affamati di prima. A
che cosa serve a costoro ia nostra libertà, la nostra unità, la nostra grandezza?
Ah I Dunque la libertà che io volevo era una libertà per mio uso e consumo
solamente ? » *
E nelle Provincie napoletane, in Sicilia, nella Campagna romana,
ovunque nuovi tormenti e nuovi tormentati. — I contadini abru zzesi,
per sfuggire alla miseria, scendono a lavorare nella Campagna romana :
« Fanno otto ore di viaggio, chiusi e stipati nei vagoni delle merci, in piedi
sempre, uomini, donne e bambini, col patto stipulato che a nessuno sia permesso
scendere per via, neppure una sola volta; in mezzo alla malaria, accanto ai
pantani, lavorano tutto il giorno ; discendono, per dormire, in tane da lupi, dove
pigliano le febbri; fra non molto saranno ridotti a pochi, perchè vengono qui a
seminare le loro ossa. Se questa è la vita che preferiscono, quale sarà quella
che fuggono ? » (Z,).
La sottomissione del contadino meridionale al padrone è immensa.
Ma non illudiamoci. Questa obbedienza non nasce da affetto e da stima.
« È fondata solo sull'antica persuasione che il proprietario può tutto, che il
Governo, i Tribunali, la Polizia dipendono da lui, o sono una cosa sola con lui.
Il contadino si potrebbe inginocchiare dinanzi al padrone, con lo stesso senti-
mento con cui l'indiano adora la tempesta e il fulmine. Il giorno in cui questo
incanto fosse sciolto, il contadino sorgerebbe a vendicarsi ferocemente, con l'odio
lungamente represso, con le sue brutali passioni » (Z,).
Un paese, che presenta in tanta parte delle sue classi inferiori
questa condizione intellettuale e morale, può pretendere di essere una
grande Nazione? Può illudersi anzi di essere una Nazione?
1 Lettere meridionali al Direttore dell' « Opinione », marzo 1875, pp. 18-19. Ci-
terò da ora in poi questo scritto con la sigla L.
Pasquale Villari 131
E non si dica che questi malanni si trovano solo nel Mezzogiorno
d'Italia.
« L'Italiano d'una provincia, quando nota con calma il male che germoglia
in un'altra, e soddisfatto che ne sia innnune il suo luogo nativo, non crede*
di dover pensare ad altro, quasi abbia messo al sicuro la propria coscienza,
non s'accorge che dimostra di non avere la moralità politica necessaria a far
parte di un popolo libero. La cinica indifferenza, che alcuni dimostrano verso i
mali che travagliano il Mezzogiorno, non è solo una condanna delle condizioni
di moralità politica in cui si trova il resto d'Italia; ma ha seminato nel Mezzo-
giorno germi di rancore e di malcontento infinitamente più gravi che non si
crede ».*
D'altra parte non ci illudiamo troppo che quassù le cose vadano
meglio che laggiù.^ In Lombardia
« ... intorno alla ricca intelligente e patriottica Milano, vivono i più miseri
contadini, tra i quali le febbri e la pellagra fanno stragi crudeli, dov'è risoluto
il singolare problema d'avere la più ricca produzione con la massima miseria
del coltivatore. È una tale iniquità che la sola giustizia umana non basterebbe
a punirla » {L).
« La nostra gloriosa rivoluzione non ha avuto il tempo di pen-
sare a questi piccoli problemi ».3
«L'indifferenza sulle miserie dei milioni di uomini che lavorano le terre in
campagna e delle migliaia che si abbrutiscono nelle città, è incredibile. La nostra
letteratura, la nostra scienza, e la nostra politica sembrano del pari indifferenti
su questo problema che racchiude il nostro avvenire economico e morale » (Z,).
— ^Abbiamoaperto le Scuole elementari, tecniche, di disegno, gli asili infantili.
Questa è una vera ironia. Che volete che faccia dell'alfabeto, colui a cui mancano
l'aria e la luce, che vive nell'umido e nel fetore? E se un giorno vi riuscisse
d'insegnare a leggere e scrivere a quella moltitudine lasciandola nelle condizioni
in cui si trova, voi apparecchiereste una delle più tremende rivoluzioni sociali.
Non è possibile, che comprendendo il loro stato restino tranquilli » (5).
In Inghilterra, in Germania, in Francia, in Svizzera, già gli operai
delle industrie si muovono per conquistarsi un avvenire migliore. In
Itaha il pericolo non appare ancora imminente, perchè non abbiamo
un grande sviluppo industriale, e molta gente si compiace dell'ordine
interno, della pace sociale in cui godiamo. Ma è pace, questa che noi
abbiamo ?
1 U Italia giudicata da un meridionale y 1882.
* Ibidem.
3 La scuola e la questione sociale in Italia^ 1827. Indicherò questo scritto con la
la 5.
132 Gaetano Salvemini
« Sono segni di ordine la camorra, la mafia, il brigantaggio ? A Zurigo, a
Ginevra, in molte città della Svizzera, si sono più volte agitate le moltitudini
con teorie sovversive; ma nella Svizzera voi potete traversare di giorno e di
notte monti, valli e boschi, senza quasi mai trovare un gendarme, e senza mai
temere della vita, anche se siete carico d'oro. Potremo proprio dire che ivi la
pace sociale sia turbata, e che fra noi invece sia perfetta, quando pensiamo che
in alcune nostre provinciè non si può camminare senza essere circondati da
guardie armate, e vi sono uomini che, in mezzo alla libertà, sono poco meno che
schiavi? » (/,). — «La insurrezione è un pericolo; ma l'ozio, l'inerzia, il vaga-
bondaggio, e l'abrutimento sono forse un pericolo meno grave specialmente per
un popolo che vuol essere libero ? » (L). — « La resistenza è almeno segno di
energia e di forza; l'abbattimento e l'abbandono possono esser segno d'un male
anche maggiore ».*
Quella plebe, delle cui miserie non ci diamo carico, forma il nostro
esercito, la nostra marina militare.
« Se un giorno fossimo trascinati in una guerra, la sorte delle battaglie
dipenderebbe assai meno dal buon ordinamento militare, che dalla "forza intel-
lettuale e morale che avremmo saputo infondere nelle nostre .campagne » (5).
— « Or se dura la nostra indolenza, durerà in eterno la pacifica sottomissione
delle nostre plebi ? C'è bisogno di dimostrare a quali pericoli andrebbe incontro
l'Italia, quando i nostri contadini, che sono pure la grande maggioranza del paese,
fatti consapevoli della loro forza, dalla istruzione obbligatoria, dal suffragio uni-
versale e dai tribuni, si organizzassero per insorgere ? C'è poco da ridere e da
ghignare ».2
La questione, fra non molto, diverrà gravissima e s'imporrà a
tutte. Ed è necessario che « le riforme vengano dall'alto, prima che
siano richieste dalle moltitudini ». Non c'è altra via per evitare una
catastrofe, « la quale può nascere non solo da sommosse sfrenate, ma
anche da inerzia ed abbandono prolungato » (Z.).
« Il Governo costituzionale* è, in sostanza, il Governo della borghesia. La
classe dei proprietari è divenuta la classe governante; i Municipi, le Provincie»
le Opere pie, la Polizia rurale, sono nelle nostre mani » (Z,). — « Abbiamo
creduto e sostenuto in faccia al mondo d'essere più onesti dei tiranni che ci
opprimevano : possiamo noi pretendere d'essere più onesti di coloro che oppri-
miamo, solo perchè essi non si ribellano? » (5). — « Il giorno in cui l'Italia
si dichiarasse impotente a rispettare e far rispettare le leggi più elementari della
giustizia, essa avrebbe pronunziata la propria condanna di morte ; avrebbe in
faccia all'umanità confessato che non ha il diritto di esistere. Che importerebbe,
infatti, all'umanità che ci sia un'Italia unita e lìbera, piuttosto che divisa ed
oppressa, se la nostra libertà dichiarasse che per esistere dev.e permettere che
1 U Italia giudicata da un meridionale.
* Ibidem.
Pasquale Villari 133
i sacri diritti dei deboli vengano oi^ni giorno violati ? » {L). — « Popolo libero
è quello solamente, in cui i potenti e i ricchi fanno un perenne sacrificio di sé
ai poveri e ai deboli » {L).
W primo passo consiste neir« illuminare la pubblica opinione, ri-
velando le nostre piaghe e le nostre vergogne, senza paura del ridì-
colo e del discredito, che sì cercherà di versare su quelli che oseranno
parlare. Senza il coraggio di affrontare il ridicolo, o di esporsi alla
taccia di visionari, molti progressi sarebbero stati impossibili, e molte
calamità non si sarebbero evitate » (L). Occuparsi di questo problema
avrebbe sul paese intero, e* principalmente su noi stessi, un effetto
benefico: il bene giova più a chi lo fa, che a chi lo riceve.
« Due cose fanno ai popoli operare grandi imprese : la religione e il patriot-
tismo. La religione si può dire quasi spenta in Italia.; dove non è superstizione,
è abito tradizionale, non è fede viva. E quanto al patriottismo, che forma esso
deve prendere ora ? A quale nobile scopo indirizzarsi ? L' Italia è unita, è libera,
è indipendente. Che cosa dunque vogliamo? Occorre che un nuovo spirito ci
animi, che un nuovo ideale baleni innanzi a noi. E questo ideale è la giustizia
sociale, che dobbiamo compiere prima che ci sia domandata » (A). — « L'uomo^
che vive in mezzo agli schiavi, accanto agli oppressi e corrotti, senza resistere,
senza reagire, senza combattere, è un uomo immorale che ogni giorno de-
cade » {L). — Negli anni della redenzione nazionale, « c'era una guerra, una spe-
ranza, un sacrificio ed un pericolo contìnuo, che sollevava lo spirito nostro. Oggi
è invece una lotta di partiti, e qualche volta d'interèssi, senza un Dio a cui
sacrificare la nostra esistenza. Questo Dio era allora la Patria, che oggi sembra
divenuta libera per toglierci il nostro ideale. A noi manca come l'aria da respi-
rare, perchè non troviamo più nulla a cui sacrificarci. Eppure l'aiutare coloro
che soffrono vicino a noi, è il nostro dovere, è il nostro interesse, supremo»
urgente; e ci restituirebbe l'ideale perduto » (A).
Queste idee non sono di oggi. Le ho prese, senza mutarne la
forma, da uno scritto del 1882, dalle Lettere meridionali del 1875, dallo
studio su La scuola e la questione sociale del 1872. Ed è stata questa
la predicazione continua, si può dire la fissazione insistente, di tutta la
sua vita, fino agli ultimi momenti. Non ha lasciato senza un grido
di allarme nessuna delle nòstre malattie nazionali: la camorra, la mafia,
il brigantaggio, i contratti agrari, V usura rurale, le amministrazioni
locali, l'igiene di Napoli, il lavoro dei carusi nelle zollare, la miseria
delle trecciaiuole toscane, il domicilio coatto, la tratta dei fanciulli, i
tumulti universitari, la disorganizzazione della scuola media, le conti-
nue facilitazioni negli studi e negli esami, la campagna contro gli
studi classici di una borghesia che vuole godere dei privilegi sociali
ma rifiuta di compiere qualunque sforzo intellettuale per meritarli,
remigrazione. Ci è ritornato sopra senza tregua, ora in una forma, ora
134 Gaetano Salvemini
in un'altra, approfittando di ogni circostanza, ammonendo il paese
smemorato, nei periodi di bonaccia, che la calma era ingannatrice,
se non ne approfittava per scongiurare le tempeste; ritornando ad
ammonirlo nei momenti di crisi, quando il terrore violento succedeva
ad un tratto alla indifferenza flaccida, che le repressioni, i tribunali
militari, le condanne potevano essere una triste necessità immediata,
ma non guarivano la cancrena, e aumentavano la colpa di chi, aven-
dola lasciata crescere, era costretto ora così a combatterla. La voce
sua è stata nell' Italia della seconda metà del secolo XIX e degli inizii
del secolo XX la voce della nostra coscienza morale, severa, sincera,
importuna. Questo Cavaliere delFAnnunziata ha continuato la propa-
ganda sociale di Mazzini, e la sua parola è riuscita spesso cruda e
squillante come quella di un rivoluzionario. Non ha avuto mai paura
di dire tutta la verità. Non ha risparmiato nessun giusto rimprovero
ai suoi amici politici.
Con quali resultati?
« Il sog'^etto delle questioni sociali, — diceva egli con amarezza nel 1899 —
desta molt'j simpatia. Sfortunatamente, in Italia, è più che altro una simpatia
letteraria. QuCiHdo voi avete descritto la misera vita di coloro che vanno a prèn-
dere le febbri neiia Campagna romana, che abitano in capanne da ottentotti, che
dopo una lunga giornata di lavoro non hanno abbastanza da sfamarsi, quando
avete descritto tutto ciò, assai spesso vi sentite dire: bell'articolo! — Punto e
basta ».*
Era un pessimismo non del tutto giustificato. La sua opera qual-
che frutto jia pure arrecato ; parecchi spiriti ha svegliati dall'alto sonno :
per esempio, la legge per il risanamento della città di Napoli, se fu il
resultato immediato del terrore, che nacque in tutta Italia dopo il co-
lera del 1884, non si sarebbe probabilmente avuta, se da tanti anni il
Villari non avesse insistito nel denunciare le spaventevoli condizioni
igieniche della città : e si deve a quella legge, se Napoli, pur non es-
sendo ancora una città tale da non farci arrossire, non è più quel-
l'insulto obbrobrioso alla civiltà e alla umanità, che era cinquant'anni
or sono. E le Lettere meridionali sono state il capostipite di tutta una
nobile tradizione di studi e di ricerche sociali, da quelle del Fran-
chetti e del Sonnino sulla Sicilia del 1876, a quelle del Taruffi, del
De Nobili e del Lori sulla Calabria del 1906.
Ma sta il fatto che le nostre classi dirigenti sono state terreno
troppo ingrato a un così buon seminatore. Gli scritti di questo con-
servatore hanno servito più spesso come miniera di argomenti auto-
» Fondazione Villari, Firenze, Barbèra, 1900, p. 43.
Pasquale Villari 135
revoli alla propaganda socialista, che come aculeo alla inerzia plum-
bea dei partiti del così detto ordine. Molte volte è avvenuto al
Maestro di vedere i suoi discepoli, condotti proprio dai suoi scritti,
perdere ogni speranza in una riforma spontanea, che parta dalla bor-
ghesia, e passare al socialismo. « Seminiamo malva, e nascono rosa-
lacci » — soleva dire. Ma rosalacci o malve che siano, contribuiranno
tutti, per diverse vie, al progresso del paese, finché rimanga nella loro
coscienza un'eco dì quella voce a tener desto il sentimento della giu-
stizia, il bisogno della bontà.
VI. — La guerra europea.
Leggendo i suoi più antichi scritti, storici o politici che siano, noi
dobbiamo fare uno sforzo curioso per renderci conto che apparten-
gono proprio al 1875, al 18Ó7, al 1860, sono cioè vecchi di quaranta,
di cinquanta, di circa sessant'anni. I primi lavori e gli ultimi sembrano
sgorgati tutti, oggi, senza differenza di tempo, sotto i nostri occhi,
dalla stessa vena di pensiero limpido e spontaneo, che si riflette nella
semplicità cristallina della forma. Dagli anni della adolescenza, quando
il buon marchese Puoti lo rimproverava sdegnatissimo di violare le
regole della retorica, perchè descriveva un giovane in modo « che gli
pareva di vederlo, gli pareva di avergli proprio parlato »,i fino all'ul-
timo della sua vita quasi centenaria, ebbe il privilegio di una perenne
freschezza dello spirito, di una vivacità inquieta e arguta, che faceva
di lui, nato nel 1827, contemporaneo dei nostri nonni, un coetaneo
nostro, partecipe di tutte le nostre idee, di tutti i nostri dolori, di tutte
le nostre speranze.
Proprio nel giugno del 1914 notava, con la solita chiarezza di
idee, i prodromi della grande^ tragedia, che sovrastava al mondo.
« Il maraviglioso progresso, dell'industria e del commercio ha profondamente
trasformato la società moderna. Essa sembra divenuta come unagrande officina
industriale, con l'unico scopo di moltiplicare sempre più la sua produzione... Si
tratta di una società, che non è mai esistita e nella quale, per mezzo del suffragio
universale, il quarto Stato deve salire al potere. L'operaio, che principalmente
costituisce questo quarto Stato, s'apparecchia a prendere in mano il timone, senza
ancora avere ricevuta la necessaria educazione e coltura. Tutte le antiche demo-
crazie, a coniiroiito di questa, furono vere e proprie oligarchie. Il passato non
può quindi servirci di guida, la sua esperienza non può riuscirci di alcun pratico
ammaestramento. Noi infatti restiamo assai spesso come al buio, dinanzi ai nuovi
pericoli che si presentano... Ed intanto ai pericoli interni si aggiungono i peri-
La/^/ La Vista, in Scritti varii, Bologna, ZanicheUi, 19>2, p. 205.
136 Gaetano Salvemini
coli esterni, che sono conseguenza anche essi del grande rivolgimento econo-
mico industriale delle Nazioni moderne... Dichiarando di voler solo difendere i
propri interessi, l'Inghilterra e la Germania procedono da una parte e dall'altra
ad armamenti, sempre pili formidabili di terra e di mare, obbligando tutte le
altre Nazioni a fare altrettanto. L'Europa si è così trasformata in un vero campo
militare, nel quale si profondono miliardi, per esser pronti ad una prossima
guerra, che per ora è solo ipotetica, ma che, col continuo pensarci e continuo
apparecchiarvisi, può divenire una realtà. È inutile farsi illusioni. Noi stiamo
creando uno stato di cose, sempre più anormale, che non può durare a lungo.
Sotto questa continua pressione di armi, di armati e d'imposte, per apparec-
chiarsi alla lotta, che dovrà decidere chi è il più forte, potrà venire Km giorno,
in cui la guerra apparirà come un sollievo, perchè, una volta deciso chi avrà
la vittoria, sarà possibile aver per qualche tempo tregua e riposo. E non c'illuda
la tranquilla serenità, con cui i più sembrano guardare lo stato presente delle
cose aenza temere la più lontana possibilità di una catastrofe, persuasi che il
progresso crescente della civiltà rende impossibili i fatti sanguinari di altri tempi.
Nessun avvenimento, più grande, e meglio da lungo tempo preparato, fu meno
preveduto della Rivoluzione francese. — In "mezzo a questo grande tumulto di
avvenimenti, in quali condizioni si trova l'Italia? Essa è venuta ultima fra le
grandi Nazioni, improvvisamente. Tutti i più difficili problemi, che agitano le più
civili Nazioni, le si son presentati a un tratto, quando essa era meno delle altre
preparata a risolverli. La nostra rivoluzione è stata fatta, si può dire, dalla sola
borghesia, senza che il popolo delle città e delle campagne vi prendesse una
parte veramente efficace, oltre di che venne affrettata e condotta con grande
rapidità al suo compimento dall'aiuto straniero. E cosi l'Italia si trovò costituita
prima che il suo nuovo spirito fosse interamente, definiti vanìente formato, e si
trovò fra le grandi Potenze, dominata da un alto e grande sentimento nazionale,
ma senza avere ancora una chiara e precisa coscienza della sua vera missione
nella storia e nella civiltà generale del mondo ».
In questa situazione pericolosa, Egli avrebbe voluto che l'Italia
facesse la parte di conciliatrice e di paciera.
« Nessuna Nazione meglio dell'Italia può comprendere e far comprendere
che la civiltà delle une è necessaria a quella delle altre, che la disfatta e la
demolizione di una di esse sarebbe un danno universale per tutte. E potrebbe
del pari capire e far capire, che i pericoli da cui è minacciata la Società mo-
derna, sono pur tali che a combatterli efficacemente, le forze riunite di tutte le
Nazioni civili non sarebbero troppe. In questo modo, l'Italia riuscirebbe un nuovo
elemento di pace e di progresso bella civiltà del mondo ».^
Gli anni non lo avevano sbiadito; non lo avevano reso ne scet-
tico, né «realista», come si sogliono chiamare coloro che ritengono ì
sole forze reali della storia essere i sentimenti cinici e brutali. La fede
1 Leggendo un libro di ti. G. Wells, nella Nuova Antologia del l" giugno 1914.
Pasquale Villari 137
liberale e umanitaria della prima giovinezza lo accompagnò durante
tutta la vita.
« Ogni secolo ha i suoi grandi problemi da risolvere. Il XIX ebbe quello di
dar forma determinata alle nazionalità, e di sollevare a di<Tnità nuova le classi
lavoratrici, riconoscendo il rispetto dovuto al lavoro manuale. Il secolo XX deve
non solo condurre a compimento quest'opera, ma deve ancora, accanto al con-
cetto di nazionalità, promuovere quello di solidarietà internazionale.»^
Sorpreso dal rapido scatenarsi della fanatica e atroce rapina te-
desca, quel vecchio di 87 anni non esitò a scegliere la sua via: non
indugiò mai, in quella aspettazione, mezzo pavida e mezzo ricattatrice,
che gli abili e i saggi chiamavano neutralità ; non pensò mai, neanche
per ipotesi, che l'Italia potesse rimanere indifferente fra aggrediti e ag-
gressori.
Nella Germania egli aveva sempre ammirato assai il potente sen-
timento nazionale, la tenacia nel lavoro, la salda disciplina, la serietà
di ogni iniziativa, la risolutezza maschia e conseguente di ogni attività,
la perfetta organizzazione scientifica. Ma aveva sempre sospettato e
temuto lo spirito d'ingiustìzia e di prepotenza nazionale.
« Insieme col sentimento patriottico della unità e della grandezza nazionale
— così egli descriveva lo stato d'animo dei Tedeschi nel 1865, dopo il primo
viaggio in Germania — ne è cresciuto un altro, assai singolare, per cui si son
persuasi jche tutto il mondo moderno, come essi dicono, sarà germanico. L'uma-
nità ha percorso il suo hmgo cammino attraverso l'India, la Grecia e Roma per
divenire finalmente tedesca. L'uomo moderno ùiiv^t geniuinizzarsi. Ecco tutto.
Le Nazioni più civili, esse vi dicono, assorbotio sempre le meno civili. Ed a ciò
bisogna poi aggiungere, quel che non osano dire apertamente, ma che pure pen-
sano, cioè che nulla può seguire di meglio ad una nazione, che d'essere quanto
prima germanizzata. Uno dei più illustri scienziati tedeschi mi diceva : — SI,
l'Austria dovrebbe persuadersi a lasciare la Venezia. Però se la Germania fosse
unita, la cosa sarebbe diversa ; allora potrebbe forse discutersi, se la Venezia
non le sia necessaria e far valere gli antichi diritti dell'Impero. — Bisogna andare
a sentire il processo dei Polacchi, mi diceva a Beriino un giovane dottore: era
istruito, educato e gentile. — Vedrete più di 100 gentiluomini in giubba e guanti
bianchi sedere al banco degli accusati. Il Pubblico Ministero domanda la morte;
forse ne eseguiranno solo una ventina. — E vi par poco, venti condanne a morte,
per causa politica? — Ah! ma badate, non sono tedeschi! — Il non sono tede-
sciti ha un grande significato in Germania, La Francia è mal veduta, la Polonia
ap.che, la Danimarca, ognuno sa che ne dicono, e l'Italia? I Tedeschi sono quasi
meravigliati, quando non possono disprezzarci. Vi è sempie qualcosa di acre e
ili acido, quando parlano di noi. Sembrano cosi persuasi della impossibilità asso-
luta, che in Italia si possa fare qualche cosa di grande per la scienza, che quando
1 Dove andiamo?, nella Nuova Antolosia del 1" novembre 1893.
138 Gaetano Salveviini
non lo dicono apertamente, dimosti;-ano di fare un cosi grande sforzo per credere
alla nostra capacità, che ò anche pegfjio ».*
E nel 1870, quando la Francia era prostrata:
«La Oerinajiia — scriveva — non s'ilhidae non c'iUiida troppo snl suo
spirito di pace, di oinstizia e di libertà, mentre ora il demone della guerra la
invade tutta, e la storia del suo passato ò piena di lunghe guerre, di conquiste
crudeli. Non dica: — Si;iiiore, ti ringrazio che io non sono cotiie gli altri uomini,
rapaci, ingiusti, adulteri. -— I mali della guerra ricadono spesso sul vinto e snl
vincitore, e la Germania potrebbe sentir più grave il peso di quella aristocrazia,
che ora combatte con tanto valore alla testa de' suoi eserciti ; potrebbe vedere
scemata la libertà e l'uguaglianza, e sentire il bisogno di chiamare in suo aiuto
i principi deir89 ».2
Assai più ammirava l'Inghilterra — continuando, anche in questo,
la tradizione liberale del Risorgimento — per la lenta, pacifica evolu-
zione democratica delle sue istituzioni nel secolo XIX, per la sapienza
romana con cui ha creato e mantiene il più grande impero della sto-
ria, per le sue classi dirigenti così profondamente dominate dal sen-
timento della responsabilità e della solidarietà sociale, per quella
fusione completa, che si manifesta nella sua vita pubblica, fra i diritti
della libertà individuale e le imposizioni di una disciplina tanto più
ferrea, quanto più spontaneamente accettata.
Una vittoria della Germania, in questo grande naufragio del vec-
chio mondo, gli apparve come un perìcolo mortale per la umanità,
che Tumanità intera dovesse rompere in uno sforzo solidale dì difesa
e di giustizia; e, pur oppresso da un grande dolore, volle, risoluta-
mente, incrollabilmente, volle che Tltalia partecipasse a questa nuova
guerra d'indipendenza per sé e per il mondo.
La vita gli è mancata nell'ora triste del disastro dell'Isonzo. Non
è giunto a superar quel dolore. Non vedrà l'alba del nuovo giorno.
— Dì chi è la colpa? dev'essersi domandato più volte, sotto il peso
della grande angoscia, in attesa del supremo viaggio. — Di chi è la
colpa? — E la risposta deve essere stata quella di cinquant'anni
or sono : — Non riduciamo a questione di partito una questione, che
riguarda la nostra esistenza e il nostro avvenire, in un momento in
cui ci troviamo a esperimentare così dolorosamente la incapacità, gli
errori e la mancanza d'uomini in tutti i partiti. Vi è in Italia un gran
colpevole: e quest'uno, siamo tutti noi. Si trova in guerra quel che si
> Uistruzione secondaria in Germania e in Italia^ in Scritti pedagogici^ 1868,
pp. 338-342.
* La guerra europea e l'Italia, p. 21.
Pasquale Villari 139
era preparato in pace. Questo popolo, che un bel giorno abbiamo
inviato in trincea, rivelandogli che per la Patria, per la libertà, per la
civiltà, ha il dovere di sopportare, non per un giorno, non per un
mese, ma per anni, un inaudito martirio ; — questo popolo si era mai
sentito considerato, protetto, amato, nella patria nostra, come in una
patria, che fosse anche la patria sua ? Che cosa abbiamo fatto per ren-
derlo partecipe, in giusta misura, di quella libertà, di quella civiltà,
per cui oggi gli ingiungiamo di morire? A compiere oggi con anima
eroica il suo dovere, l'avevamo forse preparato, adempiendo, prima
noi, verso di lui, negli anni della lunga pace, i nostri, tanto più age-
voli e meno penosi, doveri? E se noi — classe dirigente — abbiamo
sempre avuto, se finanche mentre infuria la tempesta, continuiamo ad
avere un così debole sentimento della giustizia sociale e della solida-
rietà nazionale, abbiamo noi il diritto di pretendere dal nostro popolo
quello che da tutti i popoli esige questa immensa guerra? — Per no-
stra immeritata fortuna, in cinquant*anni di unità nazionale e di pro-
gresso generale, il mondo ha camminato coi suoi piedi anche fra noi :
la forza delle cose ha supplito in parte alla imprevidenza e all'egoismo
degli uomini. Nel 18Ó6, l'Italia si sentì vìnta ^ (\o\)0 la sola battaglia di
Custoza, con soli 736 morti. Oggi il nostro popolo, sebbene combatta
da due anni e mezzo la guerra più micidiale della storia, si è ripreso
dopo un attimo di funesto abbandono, è tornato ad affermare la sua
volontà di resistenza e di vita, grida di nuovo in faccia al nemico la
coscienza del suo onore. Esso è assai migliore di noi. Ha in se tutti
gli elementi per divenire un nobile popolo libero, purché trovi alfine
una classe dirigente, capace intellettualmente di comprenderlo, degna
moralmente di governarlo. Perchè « popolo libero è quello solamente,
in cui i potenti e ricchi fanno un perenne sacrificio di sé ai poveri e ai
deboli. Aiutare coloro che soffrono, vicino a noi, è il nostro dovere,
è il nostro interesse, supremo, urgente ; e ci restituirebbe l'ideale per-
duto ».
Gaetano Salvemini.
IL COIICETTQ DI STOIIR WM FlLOSOFiH
t^
"Made in Germany„
Non è soltanto la storia civile e politica che soffre presso di noi
sotto la grave mora delle concezioni e dei metodi tedeschi, ma altresì,
e forse più, la storia della filosofia. Essa è, infatti, per buona parte
— sopratutto presso Croce, Gentile e i loro seguaci — di pretta marca
tedesca. Porta, cioè, tenace e ostinata, l'impronta hegeliana, appena
un po' rispolverata e rammodernata nella forma. E Tartificio e la fal-
sità di questo indirizzo, verso cui non pochi tra i giovani sMncammi-
nano (o forse si può oggi già dire si incamminavano ?) attratti
dalla moda ridatagli e dalla facilità che esso offre loro di prendere
atteggiamenti di superiorità e di sentenziare con solennità o con di-
spregio su uomini e sistemi — l'artificio e la falsità di questo indi-
rizzo tedesco nella storia della filosofia, è un'altra di quelle nostre
tendenze culturali contro cui non è inutile ora dire una parola.
L^ ** assolutismo „
E dogma essenziale per gli araldi della dottrina dello spirito asso-
luto, che la ragione speculativa — ossia la ragione opposta al mise-
rello intendimento comune, ossia ancora il pensiero umano in quanto
sa liberarsi dai pregiudizi, dalle passioni e dai sofismi ed errori che
ne nascono, e convenientemente elevarsi, ed essere veramente pensiero
o ragione — deve poter senza fallo colpire il vero, deve cogliere indifet-
tibilmente la verità eterna e infallibile e farla posare in se senza pos-
sibilità dì errore. Se così non fosse, se la ragione umana, anche nel
suo esercizio più schietto, spassionato ed alto, potesse non afferrare
la verità ed essere suscettibile di errore, la sua assoluteza, Tassolu-
// concetto dì storia della filosofia 14 1
lezza dello spirito, se ne andrebbe in fumo. Se ciò che la ragione
umana, nelle condizioni accennate, scorge sicuramente come vero, po-
tesse non essere vero ed essa dovesse pensare che può semplicemente
apparirle come tale, allora i suoi responsi non sarebbero più assoluti»
ma essenzialmente relativi. Essa non potrebbe più mai dire « ciò è ».
Potrebbe bensì vedere con perfetta sicurezza che qualche cosa è. Ma
non avendo altro criterio che sé e questa sua sicurezza, una volta insi-
nuatosele il pensiero che la sua certezza più evidente può essere illusoria,
che essa ragione, pur nella sua visione più precisa e limpida, può
avere una rivelazione errata della realtà, non potrebbe più lasciarsi
andare ad affermare che quel qualche cosa che le risulta essere, è.
Essa lo scorge, sì, come alcunché che è. Ma sa oramai che tale suo scor-
gimento, per quanto puro e alto, può errare. Allora sarà sospinta a dire
non più « ciò è », ma « ciò mi appare », « ciò è per me, e potrebbe
non essere per ragioni diversamente costituite o colorite » : ad usare in-
somma le formule proprie del relativismo. E con ciò la filosofia « asso-
lutista » sarebbe morta prima di nascere.
È essenziale, adunque, a questa filosofia il concetto che il pensiero
umano, in quanto non deviato o inquinato da qualche cosa che non
è veramente pensiero, non può che cogliere sempre e infallante-
mente la verità una, immutabile, eterna, e eternamente identica' a
sé stessa.
Tale concetto, senza del quale l'assolutismo filosofico cade in
frantumi, cozza contro tre principali ostacoli che i dogmatici assolu-
tisti, non ostante i più arditi salti mortali, non sono mai riusciti a
superare. E sono: l'errore teorico, il male morale e le varie formula-
zioni del pensiero speculativo, le varie soluzioni date ai « massimi
problemi », cioè la storia della filosofia.
Lasciamo andare i due primi, e fermiamoci su quest'ultimo.
Hegel Cuor Contento
Se il pensiero umano, in quanto propriamente e puramente pen-
siero, coglie sempre e con sicurezza la verità, come avviene che i si-
stemi filosofici sono vari, che la loro diversità, anziché sparire, continua
attraverso i secoli, la loro opposizione perdura e s'accentua, e non
v'è una questione sola in cui l'accordo si sia stabilito ? Come avviene
che quanto é maggiore lo sforzo d' un sistema per costringere la con-
vinzione e coartare logicamente le ragioni di tutti ad accettarlo e quanto
più orgogliosa la persuasione di esservi riuscito, tanto più pronta e
violenta é l' insurrezione delle ragioni che lo demoliscono quasi prima
ancora che esso sia finito di costruire?
142 Giuseppe Rensi
Qui si tratta dei più alti e nobili pensatori che T umanità abbia
avuto, cioè appunto del pensiero, per eccellenza, più propriamente e
veramente pensiero. Eppure le manifestazioni di questo pensiero sono
contraddittorie. Essa ha visto la verità in varie guise. Non ha cioè
visto una verità. Ma allora non ha visto la verità. La filosofia insomma
ha una storia; il che vuol dire appunto che i sistemi sono diversi,
che la convinzione circa la verità muta, che il pensiero scorge la ve-
rità variamente. Ora come si concilia questo col caposaldo dell'assolu-
tismo che la ragione umana, in quanto essenzialmente ragione, è in
indissolubile coniugio con la verità, che il pensiero si identifica con
Tessere? Uno solo dei molti sistemi diversi può contenere la verità.
Ma allora, la ragione che ha pensato gli altri è in istato di divorzio
dal vero, né in questi altri il pensiero si identifica all'essere. E quale
è quello, il solo che può essere vero ? Ognuno lo afferma di sé, e af-
fermi! che tutti gli altri sono falsi. Ma ci è facile di estendere quest' ul-
tima affermazione. Basta che ci collochiamo sul terreno di uno di
questi altri che affermano falso quello facendo centro nel quale si di-
chiarano falsi tutti gli altri. Allora vediamo che la sentenza di falsità li
colpisce, con pari autorità, tutti deipari.
Di fronte a ciò due vie sono aperte? O si ammette che nessuno
dei sistemi filosofici contenga un insieme di idee che si possa affermar
costituire la verità obbiettiva, valevole necessariamente per tutti, tale
che le ragioni di tutti siano logicamente costrette ad accettarla; che
la filosofia, insomma, non sia scienza (se alla scienza si attribuisce
questo carattere di verità obbiettiva), ma possegga invece un in-
dole essenzialmente diversa. Ovvero ci si appiglia all'espediente di
Hegel.
Per grido unanime dei supj seguaci, Hegel fu il primo che stabilì
e formulò il concetto scientifico della storia della filosofia. E a ciò
egli riuscì applicando ad essa storia uno dei capisaldi della sua logica ;
la soppressione del principio di contraddizione, la negazione cioè che
due elementi contraddittori si escludano e l'affermazione che essi pos-
sono insieme coesistere nel pensiero.
Che cosa dice il pensiero comune? Che un oggetto qualsivoglia
o è « così » o non è « così » : o è bianco o è non bianco, per esempio.
Donde le note formule della logica comune, le cosiddette « leggi del
pensiero ^ \ A t. A, A non è non-i4, i4 o è B o è non-R Mal queste
sono le formule e le leggi del pensiero triviale, per Hegel. Chi vi si solleva
un po' al di sopra e guarda la questione dall'alto scorge che le cose sono
« così » e anche non sono « così », che sono bianche e non bianche,
per esempio: che il bianco e il non bianco — questi elementi con-
traddittori — coesistono e devono coesistere per rendersi reciproca-
// concetto di storia della filosofia 143
mente possibili, e la loro superficiale contraddizione si sopisce nel
concetto di colore che entrambi li abbraccia e li rappacifica. Il triviale
pensiero comune, l' intendimento astratto, si ferma alle contraddizioni
e vi naufraga. Esso dice : ecco la vita, e tosto la morte la contraddice
e la nega; ecco il bene, e subito il male lo insidia, lo mina, lo corrode.
In quale rete di assurdi viviamo! Così dice l'intelligenza triviale.^ Ma
la ragione, il filosofo-sole che dal suo speculativo « Occhio di Bue » vede
il mondo picciolo ai suoi pie*
risponde: di che assurdi andate parlando? Tutto si spiega, tutto corre
bene, tutto si coordina, se riguardate di qui. La vita è già in sé morte
e la morte è necessaria alla vita; il male è necessario al bene che
per essere bene ha bisogno d' un male da superare e solo è bene
quando lo supera. Libertà e necessità non si escludono, come voi pensate
ponendo male il problema, bensì fanno un tutto unico; e poiché ogni
azione opera su di una situazione di fatto preesistente, ma su questa
crea alcunché di nuovo, ogni atto è necessitato e libero insieme
(Croce). Gli elementi insomma che vi sembrano irriducibilmente con-
traddittori, perché vi ostinate a isolarli e continuate a fissarli nel
loro isolamento, si articolano perfettamente l' un con Taltro, e si scor-
gono benissimo così articolati se si ha la forza mentale di sollevarsi
ad abbracciarli d* un guardo nel loro insieme. Le contraddizioni che
appaiono insormontabili nei singoli elementi finché questi si tengono
separati Tuno di fronte all'altro, sfumano nel tutto; ossia, in questo
restano bensì i contrasti, esso è bensì un insieme di contrasti, ma
di contrasti, che, pur rimanendo tali, sono organizzati in una più
ampia unità e sono anzi necessari a questa unità se essa ha da essere
non un vuoto uniforme nulla, ma un mondo.
Così parla il disgustoso ottimismo hegeliano, che ha in sé tutto
il sapore delle vecchia teodicea da un predicatore sputasentenze scio-
rinata con sicura baldanza dal pulpito, e tutta l' impronta del pacifico
e indifferente egoismo d'un grosso rentier campagnuolo che appren-
dendo nel periodo digestivo miserie o tragedie, conclude facilmente e
beatamente che il mondo nel suo insieme va però bene lo stesso.
Ma intanto che la prestigiditazione accademica e professorale fa sparire
dall'alto della cattedra le contraddizioni e i contrasti, e mostra che
r identità é differenza e la differenza identità e che le cose che si
urtano non si urtano ma si sorreggono reciprocamente — come il ciar-
latano mostra che la fiamma é stoppa e la stoppa carta —nella vita,
dove la ragione assoluta non v'é ed esìstono solo gli spiriti umani,
la gente di carne e d'ossa per le contraddizioni, gli urti e ì contrasti
— per queste cose pretese apparenti e "transeunti — dolora e muore. Le
144 Giuseppe Retisi
tragedie deiramore spezzano i cuori ; i conflitti dei popoli infrangono
le vite a milioni ; la miseria economica fa languire lo spirito e il corpo
di intiere classi e generazioni ; ciò che pareva in ogni ieri verità scien-
tifica inconcussa, continua senza fine in ogni oggi ad essere dimo-
strato errore. Non è già smussando con la lima delle formulette
cattedratiche gli angoli crudi e sporgenti che non vogliono rientrare
nel quadro, ripetendo solennemente proposizioni di cui si sa quale
sarebbe confutazione che però superbamente si sottace, mettendosi
dinanzi il mondo come i fanciulli si mettono dinanzi quei dadi su
cui sono incollati i pezzi d* un dipinto o quei multiformi ritagli d*2is-
sicella su cui sono fissati i frammenti d* una carta geografica, come,
cioè, si trattasse di qualcosa le cui parti si è sicuri in precedenza che
col tempo, la pazienza e l'abilità si deve riuscire a far combaciare in
modo da dare un bel disegno regolare e completo -r- non è già così,
ma collocandosi in presenza alle giovani vite che si spengono, al pensiero
che la malattia uccide prima della vita, alla corrutela che circostanze
estrinseche insinuano fatalmente in animi puri, all' uomo che morendo
o vedendo morire rinnova nell'angoscia la domanda, che par banale
agli onnisapìenti : « perchè si viene al mondo, se poi si muore ?» ; è po-
nendoci in faccia di codesta nuda realtà che bisogna saggiare la verità
della frase dottorale: « questi contrasti si coordinano se considerati
nel tutto »! La morte occorre per la vita, spiega l'assolutista. E che ci
importa? Questo appunto si domanda: perchè V assurdo che la morte
occorra per la vita e che la concatenazione dell'esistenza sia tale
che per la vita abbisogni la reciproca distruzione universale delle
vite. Il male occorre pel bene, ricalza il cattedratico. E tutte le innu-
merevoli volte che in una persona umana o nella storia dei popoli
il male soverchia definitivamente e senza riparo il bene, tutte le volte
che invece è il bene che ha servito al male, dove il compenso e la
sintesi ? La libertà e la necessità si conciliano, giudica e manda il don
Ferrante dell'assoluto che conosce e soppesa tutti i sistemi, sa a me-
nadito sin dove ciascuno abbia ragione e torto, ed ha trasformato in
succo e sàngue la quintessenza dei più scelti di essi. Ma quello che
fuori d'equivoci si chiede, e che solo è importante, è non già se nel-
l'uomo che ha ceduto ad una tentazione si è combinata la necessità
d'uno stato di fatto preesistente che costituiva la materia della ten-
tazione con la libertà di certe nuove direzioni nel cedervi, ma se
l'uomo ha la possibilità e la libertà di resistere, di operare diversa-
mente da quel che vuole, e più ancora, come già il Galluppi aveva
acutamente posta la questione, « di non volere ciocché vuole » ;i se, per
1 Filosofia della Volontà (Milano, SUvestri, 1855, voi. H, p. 81).
// concetto di storia della filosofia T45
usare il linguaggio del James,^ dipende da noi riuscire a matitenre
terma nella coscienza un* idea difficile e buona o ad allontanarne una
insinuante e cattiva, vale a dire se lo sforza a ciò necessario è una
funzione determinata, da dati fissi (il carattere, i motivi) ovvero una
« variabile indipendente » e noi possiamo iniziarlo ed aumentarlo in
modo indeterminato e autonomo; se infine davanti a cèrte tragiche
soccombenze, deprecate e maledette da colui che soccombe, la conci-
liazione della necessità con la libertà sia qualche cosa di più d' un
castello di parole o d'uno di quei bilanci che gli accorti manipo-
latori di cifre sanno far chiudere in perfetto pareggio, ma sulla carta.
Così a chi fissi senza le lenti accademiche lo sguardo nella realtà
cruda appare chiaro che non già le disarmonie sono una fase preli-
minare e un momento parziale d*una sintesi più ampia che accoglien-
dole in sé le risolve, ma che invece ogni sintesi e soluzione è un
momento essenzialmente passeggero, Tattimo di sosta d* un equilibrio
instabile, e che ciò che è davvero permanente e dominante è Furto
delle negazioni e delle contraddizioni che rompe quella effimera sintesi,
rovescia quella apparente soluzione, spezza quel falso e momentaneo
equilibrio, per precipitarlo di continuo nel turbine del conflitto dell* in-
solubilità e deirautonomia. Non è sulla sintesi e sulla soluzione, ma
sulla contraddizione e sul contrasto che il processo del mondo e
quello del pensiero costringono a mettere Taccento. Non l'accordo,
la sintesi, la vita, ma l* urto, la scissione, la mòrte è ciò che soprastà
e perdura.
Mortalem vitam mors.,. immortalis ademit,^
Uidentità hegeliana di filosofia e storia
Comunque, questo criterio appunto, cioè la tesi che le contraddizioni
non si negano né si distruggono a vicenda, che due elementi contraddit-
tori non necessitano da parte della nostra mente un*esclusione e una
scelta, ma che possono entrambi essere accolti insieme e coesistere nel
1 Precis de Psychologie, p. 606; Principi di Psicologia, p. 824.
« De rer. Nat, III, 867. — Si potrà obbiettare che con ciò, per combattere la
soppressione del principio di contraddizione, si sopprime il principio di identità;
mentre, senza riconoscere che l' identità persiste nelle differenze, non potremmo avere
il concetto d'alcunché nemmeno del movimento, in cui una cosa è la stessa attraverso
differenti tempi e spazi; e mentre, se non si ammette che le cose per essere diffe-
renti devono essere le stesse, non c'è neppur modo di paragonarle e di dire « sono
differenti » perchè mancherebbe ogni elemento di relazione, il quale è solo possibile
sulla base d' una identità. — Ad evitare lunghe discussioni la nostra risposta sarà
semplicissima : e cioè che pure ammesso t[uel tanto di identità che il ragionamento ora
riferito richiede, resta un margine di differenza e di contraddizione piti che sufficiente
per giustificare quanto sopra è detto.
H) — Nuova Rivista Storica,
tj6 Giuseppe Rensi
pensiero, ma che stanno in questo a loro pieno agio l'uno accanto all'al-
tro, ma che si armonizzano a meraviglia insieme quando collocati in
tutto più largo — questo è il criterio che Hegel ha introdotto per
sostenere, in presenza della diversità delle filosofie, l'assolutezza della
Verità filosofici.
Ognuno ricorda come proceda l'applicazione di questo criterio
alla filosofia e alla sua storia. Storia e filosofia — dice Hegel — sem-
brano concetti antitetici. La filosofia mira ad intendere ciò che è uni-
versalmente vero e immutabile, cioè la verità che è eterna, non cade
nella sfera del transeunte e per conseguenza non ha storia. La storia
ci parla di ciò che in un dato momento esiste e in un dato altro
scompare, soppiantato da alcunché di diverso. In tale antitesi restiamo
finché consideriamo la storia della filosofia come un cumulo di opi-
nioni contingenti, manifestantesi casualmente nel tempo, che, in questo
caso, sarebbbe già tròppo onore denominare opinioni e andrebbero
meglio chiamate insensatezze. Ma il vero concetto é quello che sostiene
che la verità é una, eppure mette in luce, non solo la possibilità, ma
l'assoluta necessità, di filosofie diverse.
A questo concetto ci permettono di salire due idee: quella di svi-
luppo e quella di concretezza.
Quella di sviluppo consiste nel fatto che qualche cosa esiste dap-
prima implicito e poi diventa esplicito; è dapprima potenza, capacità
(essere-in-sè) e diventa poi attualità, atto (essere-per-sè). Ora, ciò che
in un dato momento é in atto, in piena espansione ed efflorescenza,
è certo diverso da quel che era quando si trovava ancora implicito o
in germe: eppure, sebbene diverso, é la medesima cosa. Così, se
r uomo è per natura razionale, egli possiede la ragione già nel ventre
della madre. Ma la ragione che egli allora jDossiede è soltanto implicita,
e cos? diversa dal come è quando diventa esplicita nell'uomo adulto,
che allora è come egli non possedesse ragione. Pure, non ostante
questa diversità, quella ragione embrionale od implicita e questa ra-
gione matura od esplicita sono pur sempre la medesima ragione.
Così ancora: la pianta è, in un certo senso, qualcosa d'assai diverso
dal seme; pure é anche la stessa cosa del seme poiché non é che lo
sviluppo di ciò che era .nascosto e idealmente contenuto nel seme.
L'idea di «concreto » consiste nel fatto che ciò che si sviluppa,
fin dal suo germe, non é qualcosa di vacuamente e astrattamente uni-
forme, di assolutamente identico, di indifferenziato; ma é un'unità di
differènze, racchiude un complesso di distinzioni, costituisce un'unione
di determinazioni diverse. Se il seme non comprendesse già un insieme
di differenziazioni potenziali non ne potrebbero scaturire le varie parti
della pianta.
// concetto di storia della filosofia 147
Combinando le due idee di sviluppo e di « concreto » che cosa
otteniamo ? Otteniamo la conclusione che il « concreto » che si svi-
luppa mette fuori a poco a poco le differenze o diverse determi-
nazioni che conteneva implicitamente fin dal principio; e le mette
fuori in un certo ordine, voluto dalla sua natura; e ciascuna di que-
ste determinazioni differenti, sebbene sia diversa, contrastante, con-
traddittoria a ciascun' altra, pure non esclude mica quest'altra, ma
sta a perfetto suo agio accanto ad essa nel processo di sviluppo del
tutto, anzi richiede indispensabilmente |a presenza di queste determi-
nazioni diverse da sé affinchè il tutto e il suo sviluppo possa esservi,
giacché esso esiste solo per il concorso di tutte quelle determinazioni
contrastanti.
Così, il seme della pianta sviluppandosi metterà fuori prima le radici,
poi il tronco, poi i rami, poi le foglie, poi ì fiori, poi il frutto. Ognuno
di questi elementi non é l'altro, è diverso dall'altro, é la negazione
dell'altro. Pure essi non si escludono a vicenda, ma si armonizzano,
anzi si esigono reciprocamente, se li consideriamo nello sviluppo del
tutto. Se quando vediamo comparire le radici noi ci arrestassimo ad
esse e dicessimo « le radici sono // vero della pianta », quando poi
compare il tronco dovremmo rinnegare quel che credevamo prima
d'aver visto come vero e dire « il tronco è // vero della pianta ». E
anche questo vero dovremmo rinnegarlo quando poi compaiono le
foglie e così via. Fissiamo lo sguardo su ciascuno di questi elementi
— radici, tronco, foglie, ecc. — isolatamente e man mano che appaiono.
E ciascuno ci risulterà come una contraddizione e una negazione del-
l'altro, come ciò che fa dell'altro alcunché di falso. Ma fissiamo invece
lo sguardo sullo sviluppo totale della pianta e scorgeremo che il vero
della pianta non è né le radici, né il tronco, né le foglie, non questi
elementi considerati isolatamente al loro successivo presentarsi, ma lo
sviluppo stesso del tutto, nel quale questi elementi, sebbene, in quanto
considerati isolatamente, negantisi a vicenda, hanno tutti il loro posto,
e per costituire il quale la loro presenza e la loro successione e con-
catenazione è necessaria. — Questo é ciò che Hegel esprime anche
dicendo che il principio di diversità non è qualcosa d'assolutamente
fisso, ma é in istato di flusso e deve èssere concepito nel processo di
sviluppo e come un momento di passaggio.
Orbene, così appunto, secondo Hegel, deve considerarsi la filo-
sofia nella sua storia.
Se voi fissate isolatamente i sistemi e osservate che uno fiorito
in una data epoca venne contradetto e abbattuto da quello dell'epoca
successiva, fate come chi vedendo comparire le radici e poi il tronco
dice che il tronco contraddice e nega le radici. Ma fissate invece lo svi-
148 Giuseppe Retisi
luppo dell' insieme. Allóra comprenderete che anche la verità nel campo
della filosofia, anche V idea filosofica, è un « concreto » che già nel
suo germe iniziale contiene implicita un'unità di differenze o deter-
minazioni o elementi diversi, e che sviluppandosi mette in luce pro-
gressivamente queste sue parti o articolazioni differenti, le quali tutte
insieme costituiscono e sono necessarie a costituire l'idea filosofica
medesima nel suo sviluppo, come il progressivo prodursi delle radici,
del tronco, delle foglie fa della pianta. E come nel caso della pianta,
così nel caso dell'idea filosofica, l'apparizione dì questi diversi membri
o momenti dell' idea che si sviluppa, avviene, non a caso, ma con un
cert'ordine proprio della sua natura: e cioè l'ordine delle determina-
zioni concettuali, ossi^ delle categorie, di cui, secondo la logica hege-
liana, consta il pensiero, quest'ordine è lo stesso di quello con cui i
sistemi di filosofia compariscono nella storia. Quindi la storia della
filosofia va considerata come il sistema di sviluppo dell'idea filosofica.
Quindi, è possibile non solo spiegare così la comparsa nella storia di
sistemi diversi, perchè r insieme della storia della filosofia non è che
un progresso messo in moto da un' inerente necessità, ma altresì con-
cludere che ogni diversa filosofia è stata necessaria e lo è ancora per-
chè ognuna è contenuta come elemento nel tutto. Quindi ogni filosofia
è vera ed inconfutabile, confutabile essendo solo il fatto che si consi-
deri il principio che la informa come definitivo e assoluto. Quindi,
infine, le prime filosofie sono le più povere ed astratte, ed è invece la
filosofia moderna, nuova, « del nostro tempo ^ quella che è più svilup-
pata, ricca e profonda.
Si può dire, insomma, che il concetto hegeliano della filosofia e
della sua storia trova la propria illustrazione nell'immagine del Levia-
tano come ce lo rappresenta il frontespizio del libro di Hobbès. A
quella guisa che questo è l'uomo-gigante il cui corpo è costituito di
tanti uomini ordinari, così la filosofia — la filosofia nella sua vita, nel
suo sviluppo, nella sua storia, cioè la filosofia integrale, quella sola che
da un punto di vista onnicomprensivo può chiamarsi la filosofia —
è r unica, eterna, immensa, inesauribile idea filosofica, la cui struttura
è costituita di tanti sistemi, e che tutti i sistemi filosofici concor-
rono e devono concorrere ad articolare. E quindi è che, se la storia
della filosofia non è che la stessa idea filosofica nel suo processo, se
non ci presenta che lo sviluppo dell'idea filosofica secondo l'ordine
delle sue fasi quale è posto dalla interiore costituzione logica di essa,
gli elementi personali non possono avere alcuna importanza per tale
storia. Quanto minor rilevanza si attribuisce agli individui particolari
— giunge a dire Hegel — e tanto meglio è per la storia. Più ci si
occupa del pensiero come libero, del carattere universale dell'uomo
// concetta di storia della filosofia 149
come uomo, e più questo pensiero, spogliato così d'ogni caratteristica
speciale, apparisce essere il soggetto che crea.^
Riecheggiatori tedeschi delF identità hegeliana
Questa concezione della storia della filosofìa, foggiata adunque
per primo da Hegel, e che restò dominante in Germania, è quella per
cui sdilinquiscono tutti i dogmjitici dell'assoluto. E ogni volta che in un
libro filosofico ci si imbatte nelle parole, di colore hegeh'ano e asso-
lutista, « spirito », « spirito assoluto », « spirito del mondo » si può esser
certi che la concezione della filosofia e della sua storia, che informa
quel libro, è suppergiù codesta dello Hegel.
1 Vorlesungen ìiber die Geschichte der Philosophìe. Einleìtuug (in iVerke, Bexììno,
1840, voi. 13). Quando più oltre nel corso della sua storia Hegel si trova in presenza
dello scetticismo greco e delle contraddizioni mortali che esso rileva nel pensiero
umano, fa un nuovo analogo sforzo per liberarsene col suo solito espediente, addu-
cendo cioè che lo scetticismo, efficace contro la conoscenza sensibile e l' intendimento
comune, è impotente contro l'Idea speculativa (gegen das wahrhaft Unentliche der
speculativen Idee) la quale rende ragione della negatività dell' idea senza fermarsi
sul risultato negativo che è solo unilaterale, comprende già in sé ogni determinazione
e il suo opposto, risolve in sé l'urto d'ogni finito e del suo altro già prima e senza
bisogno che lo scetticismo lo metta in luce, adempie dunque contro ogni determinato
la stessa funzione dello scetticismo (das gegen das Eestimmte thut, was der Skeptici-
smus thun will) sfuggendo nello stesso tempo alle prese di questo {Ibidem, voi. 14,
pp. 474, 488, 511-2). Quasiché nel mondo, nella vita, nella conoscenza reale, viva ed at-
tiva che si pone veramente dinanzi il mondo e la vita, esistesse qualche altra cosa dal
cosiddetto « intendimento ordinario » pel quale le contraddizioni hanno una realtà incan-
cellabile, che vi si dibatte in vano, che ne è spesso straziato. Quasiché l'Idea specu-
lativa che sa mettere tutto a suo luogo, per la quale tutto è a posto, esistesse ed ope-
rasse davvero in qualche sito tranne che sulle cattedre delle pacifiche dottrinarie
oche filosofiche e fosse veramente altra cosa che la favola escogitata da quelli che
Schopenhauer chiama, nel proemio alla seconda edizione della sua opera principale, i
professori di filosofia (tra i quali, in senso schopenhauriano, tiene presso di noi il
posto più eminente qualche non professore in senso ordinario). — Questo scaricare
il compito di far mostra di riparare i guai che ci affliggono, di cancellare le contrad-
dizioni che stanno davanti ai nostri occhi, sulla mitica Idea speculativa, che esiste non
si sa dove, mentre quaggiù si pensa, si agisce, si conosce solo mediante l' intendimento
ordinario che tali contraddizioni avverte e subisce, è un po' il procedimento rinnovato
dal Bradley pel quale tutto qui é contraddizione e quindi apparenza, ma la Realtà
dev'essere armonica, dunque le contraddizioni qui visibili saranno tolte « in qualche
modo» fsornehow), non possiamo saper come, nell'Assoluto (Appearance and Reality),
C é però tra Hegel e Bradley una differenza : che per il primo l'Idea speculativa pos-
siede tutta la più corpulenta e pesante serietà teutonica, per il secondo il suo Assoluto
sembra qualche cosa di fuggevolmente ironico e tutta la cura, l'attenzione, l'acutezza della
ricerca sta nel mettere in luce le disperate contraddizioni che su ogni punto ci avvolgono.
La filosofia del Bradley ha dunque un colore spiccatamente scettico, ed egli stesso
definisce infatti il suo libro « a sceptical study of first principles > (Ibidem Prefazione),
I50 Giuseppe Rensi
Così pedissequamente hegeliano ci sì rivela subito l'Erdmann.
Come un popolo o un paese — egli sentenzia i — esprime la sua sapienza
e la sua volontà per la bocca dei suoi savi e dei suoi legislatori, allo
stesso modo lo spirito del mondo (ossia l'umanità collettiva) esprime
la sua sapienza e la sua volontà mediante i filosofi. E come l' individuo
passa per i vari stadii della sua vita senza detrimento della sua unità,
così lo spirito del mondo è in successione lo spirito dei vari tempi.
E vero che ogni tempo ha la sua filosofia, e che solo pel tempo di
cui è il prodotto questa rappresenta la verità definitiva. Ma ciò non
distrugge la sua assolutezza più che il fatto che le diverse età della
vita hanno diversi doveri tolga al dovere il carattere di incondiziona-
lità. La storia della filosofia non consiste dunque se non nel fatto che,
come lo spirito del mondo passa attraverso i differenti spiriti delle
epoche per formare la storia del mondo, così la sua coscienza, o la
sapienza del mondo, passa attraverso le diverse coscienze dei tempi.
Niente quindi va perduto, perchè i risultati d'un'età e d'una filosofia
offrono il materiale e il punto di partenza per le elaborazioni succes-
sive. Perciò la diversità e anche il conflitto dei sistemi filosofici non
solo non infirmano l'asserzione che tutti sono soltanto lo sviluppo
d'una singola filosofia, ma piuttosto la confermano, poiché tanto l'appa-
rire nella storia d'un sistema filosofico quanto il suo spodestamento
per opera d'un altro che lo incalza e lo sorpassa, si manifestano deri-
vare da una necessità razionale.
Meno unilaterale sembra voler essere lo Zeller, che, col più pret-
tamente tedesco dottissimo dire nulla per voler tener conto di tutto,
riconosce che le cause e condizioni della storia della filosofia sono
di tre classi, lo stato generale della cultura, l'influsso dei sistemi pre-
cedenti sui successivi, le particolarità dei singoli filosofi. Se ci limitiamo
a queste ultime (prosegue) abbiamo un pragmatismo biografico e
psicologico; se prendiamo in considerazione lo stato generale della
cultura allora si cercherà di comprendere la filosofia mediante le con-
dizioni universali della storia della cultura medesima; ma se si dà il
peso decisivo all' interna concatenazione e alla storica azione recìproca
dei sistemi filosofici, allora ^ apparisce la storia della filosofia come un
corso in sé conchiuso procedente da un determinato punto di partenza
in avanti con leggi interiori, che si comprende tanto più profonda-
mente quanto più completamente si riesce a mostrare in ogni succes-
siva manifestazione la logica conseguenza di quella immediatamente
precedente, e quindi nel tutto, come fece Hegel, uno sviluppo che si
completa con dialettica necessità ». Ma tuttavia, subito avverte, la dire-
» Grundriss der Geschichte der Phiiosophie, § 2-12.
// concetto di storia della filosofia 151
zione e la forma del pensiero filosofico è determinata anche dalle altra
condizioni. E tutti questi influssi, la personalità, la concatenazione
storica dei sistemi, lo stato generale della coltura non stanno sempre
nella medesima relazione: sicché allo storico incombe stabiUre quale
di essi sia preponderante in una data fase del corso storico della
filosofia.^
Infine anche il Windebband, pure ammettendo che l'ordine delle
determinazioni concettuali del pensiero non sia quello con cui i sistemi
successivamente appariscono nella storia, e che in questa conti qual-
cosa anche la personalità del filosofo, dichiara che solo con Hegel la
storia della filosofia acquista valore di scienza e insiste nel ravvisarla
come un processo complessivo, come un insieme unitario delle crea-
zioni spirituali.'^
Parola più parola meno, adunque, con una od un'altra formula-
zione, la concezione hegeliana della storia della filosofia come sviluppo
unitario e perpetuo, questa concezione che pretende « giudicare le prò
duzioni filosofiche in nome dell'idea più o meno mistica d'una filo-
sofia eterna »,3 è rimasta il patrimonio gelosamente conservato e amo-
rosamente trasmesso di padre in figlio, da tutti gli storici della filosofia
in Germania, la patria moderna del dogmatismo assolutistico, nonché
il nutrimento devotamente assorbito anche altrove da ogni uomo-bu-
della della filosofia, che, come quello celebrato dal Fusinato, voglia
rigonfiarsi a buon mercato di gas speculativo per elevarsi facilmente
sui tetti degli umili mortali.
L^hegelianismo cousiniano
Tale concezione, a tempo suo, fece capolino anche in Francia. E
ciò per opera del Cousin in una certa fase del suo pensiero, nella quale
egli però non rimase costantemente.
Quando si osa ravvicinare Cousin ad Hegel, gli hegeliani vedono
rosso e schiattano del loro più superno disprezzo per quegli che non
sa distinguere la superficiale ricucitura operata dal Cousin e la pro-
fonda organica comprensione hegeliana del momento di verità di ogni
sistema. Frottole. Sia pure che si possa dire che il Cousin diluì e
confettò in pillole digeribili per i salotti parigini gli aspri ed oscuri
concetti di Hegel, sta il fatto che il suo ecclettismo è hegelianismo e
che l'hegelianismo in materia di storia della filosofia non è che ecclet-
1 Gnindriss der Geschichte der Griechischen Phiiosophie {Lipsia, 1907, Vili ediz.,
Einkitung, § 1, pp. 1-4).
« Storia della Filos. (trad. it., Palermo, Sandron, Introduzione).
3 BouTROUx, Etudes d'Hist. de la Philosophie (Alcan, 1897, pp. 2-3).
152 Giuseppe Rensi
tismo cousiniano, per quanto redimito di trascendentalismo e paludato
di frasi e gesti da monte Sinai. Si legga in Cousin che la filosofia ac-
cetta tutte le idee, « le combina e le riconcilia nel seno d* una vasta
sintesi ove ciascuna trova il suo posto » e che così fa pure la storia
«con l'aiuto dei secoli, nel suo movimento universale e nell'ampio
sistema che essa genera e svolge successivamente ». Vi si legga che
l'ecclettismo è la filosofia « il cui solo scopo è di comprendere tutto
e che per conseguenza accetta tutto e tutto concilia ». Vi si apprenda,
dopo constatato esservi nei sistemi « da ogni lato opposizione e con-
traddizione, errore e verità insieme », che « Tunica soluzióne possibile
di queste opposizioni sta nell'armonia dei contrari, l'unico mezzo di
sfuggire all'errore nell'accettare tutte le verità ». Si riscontri affermato
che « non si deve nella storia proscrìvere alcuno dei grandi sistemi
che la dividono e che per quanto esclusivi e difettosi provengono ne-
cessariamente da qualche elemento reale ». Vi si vegga difeso l'ecclet-
tismo con l'argomento che « tutto attorno a noi è misto, complesso,
mescolato e tutti i contrari vivono, e benìssimo, insieme ». Lo si ascolti
proclamare che « egli non appartiene ad alcun sistema particolare, ma
a tutti, e per così dire allo spirito comune che li domina tutti e che
non si sviluppa completamente se non mediante la stessa lotta di tutti
i principi incompleti, esclusivi e nemici ».i Sì ricordino infine le ultime
parole pronunciate da lui alla Sorbona : « La filosofìa non è questa o
quella scuola, ma il fondo comune e quasi a dire l'anima di tutte le
scuole. Essa è distinta da tutti ì sistemi, ma è commista a ciascuno
di essi, perchè non si manifesta, non sì sviluppa, non avanza che per
mezzo dì essi ; la sua unità è la loro stessa unità, tanto discordante in
apparenza, tanto profondamente armonica in realtà; il suo progresso
e la sua gloria è il loro perfezionamento reciproco mediante la lotta
pacifica... Ciò che io professo innanzi tutto non è questa o quest'altra
filosofia, ma la filosofìa stessa; non è l'attaccamento ad un sistema,
ma lo spirito filosofico superiore a tutti i sistemi... La missione della
critica... è di distrigare di tra gli errori le verità che possono e devono
esservi commiste e con ciò dì rivelare la ragione umana ai suoi propri
occhi, d'assolvere la filosofia del passato, dì incoraggiarla e rischia-
rarla nell'avvenire ».2 Sì rilegga e si ricordi tutto ciò, e, a parte i soliti
arzigogoli solenni e i grotteschi atteggiamenti di superiorità di com-
prensione, si dovrà convenire che in materia di storia della filosofia
l'ecclettismo cousiniano è un'esatta e chiara trascrizione dell'hege-
lianismo.
1 Introdttction à PHist. de la Philos.^ Lez. IX e XIII.
t Cit. da Janet, Revue des Deax Mondes, feb. 1884.
Il concetto di storia della filosofia 153
Anche del concetto hegeliano che « ciò che è razionale è reale e
ciò che. è reale è razionale » di questa (checché se ne voglia dire) su-
pina giustificazione del fatto compiuto qualunque sia,^ di questa pro-
fonda scoperta delle ragioni che rendono necessarie precisamente certe
cose e non altre, fatta dopo che si sono viste queste cose e non altre
prodursi, Cousin ci offre una traduzione che appunto per essere ba-
nalmente diluita rende quel concetto trasparente e la sua portata af-
ferrabile senza equivoci. Basta ricordare i pensieri che egli espone
intorno alla storia considerata come incarnazione e svolgimento d' un
piano divino, nella quale « tutto ha la sua ragione d' essere, tutto ha
la sua idea, il suo principio, la sua legge, niente è insignificante, tutto
ha un senso » e « il mondo delle idee è nascosto nel mondo dei fatti -»?•
Basta ricordare il suo concetto di popolo, il quale esiste secondo lui
perchè è chiamato a rappresentare una delle idee d'un'epoca,^ e a svolgere
progressivamente l'idea che egli è stata affidata».* Basta ricordare il
suo concetto della guerra, scaturente da quello di popolo: perchè la
guerra (secondo Cousin) « ha la sua radice nelle idee dei diversi po-
poli, che essendo necessariamente parziali, limitate ed esclusive, sono
necessariamente ostili, agggressive, tiranniche »5; sicché essa è neces-
saria: necessaria perchè non è altro che l'urto inevitabile delle idee
unilaterali da ciascun popolo incarnate, necessaria perchè « ogni po-
polo veramente storico ha un'idea da realizzare; la realizza in sé, e
quando l'ha sufficientemente in sé realizzata, le fa fare il giro del mondo ;
esso è conquistatore, inevitabilmente conquistatore; ogni civiltà che
avanza, avanza mediante la conquista ».6 Basta ricordare la sua giusti-
ficazione della vittoria nelle guerre. La vittoria è sempre giusta perché
«tutto è perfettamente giusto in questo mondo, e la felicità e l'infe-
licità sono distribuite come devono esserlo ».'7 La sconfitta dimostra
sempre che un popolo, e la sua idea, « ha fatto il suo tempo »,8 almeno
in quanto quel popolo s' è infiacchito dì fronte alla preparazione mili-
1 La storia infatti per Hegel e Cousin riesce esattamente a ciò che il Bovio (seb-
bene anche lui alquanto impeciato in questa metafisica) deprecava scrivendo : « Triste
giuoco sarebbe veramente la storia, se con là panacea della sintesi potessimo guarire
tutte le sozzure, menzogne e contraddizioni della vita » {Saggio critico del dir. pen.,
Napoli, 1877, p. 24)
« Introd. à ì'Hist. de la Phil. (Bruxelles, 1836, p. 228).
3 /rf., pp. 266, 269.
4 !d., p. 247.
5 /rf., p. 263.
« Id., p. 278.
7 Id., p. 271.
« Id„ p. 264. ^
154 Giuseppe Retisi
tare necessaria per superare gli avversari, cioè per sostenere la vitalità
della propria idea.^ Nella guerra non domina il caso, come si pensa;
nessuna guerra fu mai perduta per l'umanità, perchè il suo risultato
segnò sempre il vantaggio dello spirito dell'avvenire su quello del
passato.2 Quindi il Cousin « assolve la vittoria »^ e afferma, « la mora-
lità del successo ».* Infatti, egli proclama, « il vinto dev'essere vinto e
merita di esserlo ; il vincitore non solo serve alla civiltà, ma è migliore,
più morale ed è perciò che è vincitore ».'> Basta infine ricordare il suo
concetto di grand'uomo: il quale « viene per rappresentare un'idea »*'
ed è « stromento del destino »;7 sicché, specie quando il grand'uomo
è guerriero, « se è grande, bisogna assolverlo e assolvere in massa
tutto ciò che ha fatto ».8
Si abbandonino i devoti di Hegel alle contorsioni che vogliono,
ma tutto questo è pretto hegelianismo, reso chiaro, nitido, spoglio
dalle nebulose ambiguità che permettono le scappatoie e gli equivoci.
Si potrà forse dire che Cousin è la caricatura di Hegel. Ma la cari-
catura è riproduzione dell'originale, e solo ne accentua i difetti. Cousin
è Hegel messo in luce, Hegel senza vesti a pieghe per mascherare le
storture e le gobbe. Perciò la lettura di Cousin guarisce da Hegel,
poiché tolta l'oscurità di quest'ultimo che par nascondere inaccesse ed
incerte profondità, e diventatone in Cousin il pensiero superficialmente
chiaro, vengono altresì alla superficie il luogo comune, i mezzucci e l'ar-
tificiosità di quello che è pure pensiero hegeliano.
Identità di *' spirito „ e storia in Cousin
Ma, allo stesso modo, la concezione cousiniana della storia della
filosofia è di colorito prettamente hegeliano, ed è tutta contessuta di
quelle varie « identità » a cui ci hanno abituato, come a loro nuove
e supeciori posizioni di pensiero, gli odierni seguaci italiani di Hegel.
Identità di partenza « della psicologia e della storia »,9 perchè (stabi-
lisce il Cousin) non è col metodo sperimentale soltanto che si può
trattare la storia filosofica: per chi, .infatti, pretende di trattarla solo
1 Introd. à VHist, de la PhiL, p. 273 e seg.
« Id., p. 269.
» Id., p. 270.
4 Id., p. 270.
5 Id., p. 271.
« Id., p. 290.
7 Id., p. 292.
8 Id., p. 293.
» Op. cit., p. 61.
// coti ce t lo di storia della filosofia 155
con questo metodo non possono esservi epoche filosofiche, poiché
l'epoca filosofica è un certo numero di sistemi ricondotto a un punto
sS\ vista generale, il quale manca all'empirista, perchè suppone distin-
zioni e classificazioni da cui l'empirista non ha il diritto di partire.
Per la medesima ragione non possono, per l'empirista, esistere scuole;
egli è ridotto a prendere e a studiare tutti i singoli sistemi, grandi e
piccoli, importanti o no, senza discernimento; e quando pure, in
tal modo, sia riuscito ad approdare ad una grossolana cronologia, gli
111 inca ancora il più, gli manca la possibilità di sapere « perchè ciò
C!ie ha preceduto' ha preceduto e ciò che ha seguito ha seguito », gli
manca la possibilità di sapere ciò che sa « in un ordine che sia quello
della ragione ».i
Bisogna dunque far capo al metodo speculativo. E cioè « ricer-
care gli elementi essenziali dell'umanità; poi dalla natura di questi
elementi ricavare i loro rapporti fondamentali, da questi rapporti le
leggi del loro sviluppo, e quindi passando alla storia domandarsi se,
essa conferma o ripudia questi risultati ».2 In tal modo la storia della
filosofia ci apparirà non più un seguito di parole incoerenti, ma « una
frase intelligibile in cui tutte le parole presentando un'idea formereb-
bero un insieme che rappresenterebbe un pensiero completo ».3 Infatti,
la ragione umana dev: svilupparsi conformemente alla sua natura e
alle sue leggi ; ma la ragione (la quale è essenzialmente, non già al-
cunché di individuale, di soggettivo, di nostra privata proprietà, ma
di impersonale, di assoluto, di distinto dalla nostra particolarità per-
sonale) è l'elemento filosofico ; la filosofia non è dunque che « i
diversi elementi della ragione umana coi loro rapporti e con le loro
leggi ».*
Perciò il Cousin all'identità, così stabilita di psicologia e storia
(il che, nel suo linguaggio significa, come si vede, quello che gli
hegeliani nostrani direbbero ora identità di spirito e storia) approda
«all'identità della filosofia e della storia della filosofia». Infatti la
storia della filosofia o storia della ragione umana risulta in tal guisa
essere « la filosofia stessa con tutti i suoi elementi, con tutti i loro rap-
porti, con tutte le loro, leggi, cioè la filosofia nel suo sviluppo interno,
rappresentata in grande e in caratteri vistosi dalle mani del tempo e
della storia, nel cammino visibile della specie umana ».^
» Op. cii.y p. 98.
8 /rf., p. 101.
s /rf., p. 102.
* /rf., p. 124, 164, 167.
5 /</., 103.
J56 Giuseppe Retisi
Ed ecco adunque come quella « indentìtà » che per molti sono
stati gli hegeliani italiani del 1900 a tornar a rivelarci dopo un labo-
riosissimo viaggio di scoperta, non è altro che V « identità » che Cousin
già nel 1830 aveva riprodotta da Hegel. « L'identità della filosofia e
della sua storia è certa; non si tratta che di scoprirla e metterla
in luce ».^
Per questa messa in luce Cousin procede esattamente sulla falsariga
di Hegel. Abbiamo detto che quella psicologia con cui Cousin iden-
tifica la storia non è altro che ciò che i crocio-hegeliani odierni chia-
merebbero filosofia dello spirito, la determinazione cioè degli elementi
fondamentali dello spirito stesso. Ed ecco, infatti, Cousin passare a
dirci che ciò che Aristotele e Kant chiamano « categorie », ciò che
la scuola inglese chiama « principi della natura umana », sono ap-
punto quelli, da lui così chiamati, « elementi della ragione » sulla
base dei quali soltanto si può costruire una storia razionale della
filosofia.^ Precisamente come per Hegel questa riproduce nel suo svol-
gimento il processo e la dialettica delle categorie che la logica aveva
scoperto nello spirito, così per Cousin la storia della filosofia riproduce
la serie degli « elementi » che la sua « psicologia » scopre nella ragione.
Quanto a questi elementi, dopo Aristotele e Kant non c'è (se-
condo Cousin) altra possibilità al riguardo che quella di operarne una
riduzione. Tutto ciò che pensiamo, lo pensiamo sotto una o l'altra di
due forme mentali, o categorie, o idee: l'idea dell'uno e del molte-
plice, dell'essere e dell'apparire, della sostanza e del fenomeno, della
causa assoluta e delle cause seconde, dell'assoluto e del relativo, del
necessario e del contingente, dell' immensità e dello spazio (circoscritto),
dell'eternità e del tempo (limitato), ecc. 1 primi termini di tutte queste
proposizioni si possono identificare fra loro, e così fra loro i secondi.
Ne risultano in tal modo due termini comprensivi, l' infinito e il finito,
a cui va aggiunto (poiché essi non costituiscono un dualismo insupe-
rabile e irreconciliabile, ma anzi sono posti dalla mente in reciproca
relazione essenziale) il rapporto tra di essi.^ Il finito, l' infinito e il loro
rapporto sono dunque le « categorie » cousiniane. E, precisamente
come Hegel, Cousin, dopo averle rintracciate nello spirito umano,
intesse su di esse il corso della storia della filosofia.
Quindi nella storia generale dell' umanità, e in quella della filosofia,
vi possono e vi devono essere solo tre epoche, « né più né meno *,
come egli si compiace di ripetere: giacché, secondo avviene sempre in
1 Op. eli., p. 104.
» Id., p. 107.
8 W.. p. 103 e seg., 1?0.
// concetto di storia della filosofia 157
queste costruzioni fantastiche e romanzesche, quando Fautore annuncia
di voler verificare se il corso degli eventi che egli ha in precedenza
speculativamente scoperto, trovi la sua conferma nella realtà, questa
manco a dirlo, lo conferma infallantemente e con tutta precisione, e
ì fatti appariscono ai nostri occhi meravigliati come se obbedis-
sero docilmente al cenno del tamuaturgo che li ha divinati e venis-
sero alla luce a bella posta per riempire e avverare la sua sagoma
teorica.
E perciò vi dev'essere e v*è un'epoca destinata allo sviluppo del-
l' idea del finito : in essa troveremo l' industria progressiva ; il com-
mercio che si svolge su larga scala e per via del mare, questo « im-
pero del finito » ;i la religione che avrà la forma politeistica, ed una
filosofia che sarà tutta fisica e psicologia. Vi dev'essere e v'è un'epoca
destinata allo sviluppo dell'idea dell'infinito: e vi vedremo, con un'in-
dustria ed un commercio stazionari, con uno Stato assolutista ed im-
mobile, con manifestazioni artistiche gigantesche e smisurate, con una
religione assorta nell'invisibile e piuttosto nella morte che nella vita,
una filosofia che sarà la contemplazione dell' unità assoluta. Final-
mente bisogna pure che il rapporto tra il finito e l'infinito abbia la
sua epoca e il suo sviluppo : e allora^ con un' industria, uno Stato,
un'arte, in cui i due elementi saranno contemperati, riscontreremo
una religione in cui la vita presente pur essendo riferita a Dio, con-
serva la sua serietà e il suo valore, ed una filosofia caratterizzata dal-
l' unione della psicologia con l'ontologia.^ E queste tre epoche — le
uniche e necessarie epoche della storia della filosofia, perchè tre sono
le fondamentali categorie dello spirito a cui le epoche storiche devono
corrispondere — hanno tra di loro non solo un rapporto di succes-
sione, ma altresì un rapporto più intimo, quello di generazione, « per
modo che la storia intera dell'umanità si risolve in un gran movi-
mento composto di tre momenti, che non solo si succedono, ma che
si generano l'uno dall'altro».'**
Ecco rhegelianismo storico-filosofico del Gousin. Hegelianismo,
bensì, debonnaire e in veste da camera, facilone e da buon figliuolo, e
quasi diremmo un pochino « tarasconese » perchè si colloca con Dio,
col mondo e con gli eventi umani su quel medesimo piede di sem-
plice, chiara e alquanto incosciente confidenza con cui Tartarin si
collocava coi ghiacciai delle Alpi. Ma non per questo, meno hegelia-
nismo nella concezione intrinseca e nel movimento essenziale. Più
i Op. cit., p. 198.
« /rf., p. 202 e tutta la Sez. VII.
» /</., p. 221.
i58 Giuseppe Rensi
simpatico anzi, appunto per la sua faciloneria senza complessi e stu-
diati artifici, di quello originale. Il quale ultimo, non ostante la sua
posa di complicazione profonda e di faticosa penetrazione, non ci
offre in sostanza niente di meglio e niente di più.^
L*** identità,, hegelo-cousiniana in Italia
V'è appena bisogno di ricordare come questa tedesca concezione
assolutista della filosofia e della sua storia sia stata rinnovata oggidì tra
noi d.-ii Croce e dal Gentile. Il leit-motiv d^Wdi dottrina d'entrambi è il
vangelo liegelo-cousiniano dell' identità della filosofia con la storia della
filosofia, allargato a diventare identità della filosofia con la storia sen-
z'altro; identità quest'ultima che si presenta nei due con qualche sfu-
matura diversa.
Pel Croce tale identità è stabilita per la ragione che il concetto
puro non si può pensare fuori dalle rappresentazioni ; e sulla scorta
della identificazione di verità di ragione con verità di fatto, di verità
a-priori con verità a-posteriori. Quella identità sembra dunque in lui
voler dire che la filosofia è il pensamento di ciò che è reale, vero, e
cioè « storico »; l'universalità concreta dei fatti stessi in quanto pen-
sati, avvolti nell'atmosfera del pensiero, intellettualmente percepiti; il
combaciare, quindi, del pensiero con l'essere. Sembra dunque in lui
quell'identità accennare ad una direzione speciale: quella di stabilire
che la filosofia è questa sintesi del concetto coi fatti, fatti investiti dal
concetto, fatti pensati, e che appunto perciò è identica, non già alla
scienza, che si pasce di « pseudoconcetti », ma alla storia che pensa
r insieme degli eventi individuali e concreti.^
Per il Gentile, l'identità di storia e filosofia sembra essere pili
circoscritta e limitarsi a questo che la storia del pensiero « in quanto
riflessione morale, credenza religiosa, opinione politica, pregiudizio
tradizionale» è quella che esprime veramente l'animo di un popolo;
sembra ridursi insomma al concetto « che nella storia della filosofia
si riassume tutta la storia de l' umanità ».3 Anzi su questo punto il
Gentile sembra voler temperare e correggere la troppo lata identità
stabilità dal Croce, osservando contro di lui « che la storia, in cui si
compie la filosofia strido sensu, è la storia della filosofia».* In ciò la
1 È significante che lo Zeller, sostanzialmente hegeliano, tra i due soli scrittori
non tedesclii che egli ritiene opporturno ricordare nel Grundriss (p. 14) perchè hanno
ben meritato per la storia della filosofia greca, menzioni in prima linea il Cousin,
e precisamente in grazia anche AtW Introduction. — L'altro è il Grote.
* Logica, Parte II, Gap. Ili e IV.
s La Rif. della DiaL Hegel., pp. 130-3.
< Ibidem, p. 163.
// concetto di storia della filosofia 159
posizione del Gentile è identica a quella di Hegel e di Cousin, il
quale ultimo proclama: «Percorrete gli annali dell' incivilimento, e
troverete che è sempre la filosofia d' un'epoca quella che ne racchiude
il pensiero compiuto, lo libera dai suoi veli politici e religiosi e s'incarica,
per così dire, di tradurlo in una formula astratta, netta e precisa». ^
Ma per quanto riguarda il rapporto tra filosofia e storia della
filosofia i due sono in perfetto accordo e camminano entrambi a
braccetto sulla vecchia direttiva assolutista hegelocousiniana.
« Io sono, e credo che bisogni essere, hegeliano ; ma nello stesso
senso in cui chiunque abbia ai tempi nostri mente e coltura filosofica
è, e si sente, tutt' insieme, eleatico, eracHteo, socratico, platonico, aristo-
telico, stoico, scettico, neoplatonico, cristiano, buddista, cartesiano, spi-
nozista, leibniziano, vichiano, kantiano; e via dicendo. Nel senso cioè
che ogni pensatore, e ogni movimento storico di pensiero,, non può
esser passato senza frutto, senza deporre un elemento di verità, che
fa .parte, consapevole o no, del pensiero vivo e moderno ».2 Questo
periodo, che contiene più falsità che parole; queste affermazioni che
urtano insuperabilmente contro il senso di violenta opposizione o di
esclusiva adesione che ogni pensatore anche del giorno d'oggi sente
per le une o per le altre di quelle filosofie del passato a seconda che
le sue credenze o il suo temperamento lo avvicinano alle une o alle
altre: l'adesione del kantiano allo stoicismo e la sua avversione per
l'epicureismo, la simpatia del materialista per ir democritismo e la sua
reiezione del leibnizismo, l'ostilità del deista per lo spinozismo e il suo
amore pel platonismo — opposizione e adesione che dimostrano l'im-
possibilità di conciliare i contrasti dei sistemi filosofici e di assumere
di fronte a questi la parte di Padreterno che mette pace fra gli elementi ;
queste proposizioni, in cui riecheggiano tutti i motivi che vedemmo
formulati dal Cousin, sebbene, come abbiamo avvertito essere di pram-
matica, il Croce trovi che l'ecclettismo cousiniàno « è la falsificazione
e la caricatura della vastità del pensiero, che abbraccia in se tutti i
pensieri, apparentemente più diversi e inconciliabili » '^ queste proposi-
» Op. cit., p. 08.
* Ciò che è vivo, ecc. in Hegel, 1907, pp. 207-8. Non è possìbile sottrarsi alla
tentazione di porre a raffronto questa posa onnisciente di chi ha tutto capito, tutto
digerito, tutto padroneggiato, tutto sistemato e messo a posto nella stia niente vasta,
con l'attitudine riservata e modesta d'altri pensatori, e ben più grandi, pure di tendenza
hegeliana. P. es. del Bradley: « Quanto ad Hegel, io penso certo che egli sia un grande
filosofo; ma non avrei mai potuto chiamarmi hegeliano, in parte perchè non posso
dire dì essermi impadronito del suo sistema » {Principles of Logic, ed. amer. Pref.,
p. IV).
5 Logica^ II ediz., p. 342. ^
i6o Giuseppe Reitsi
zioni, diciamo, ci offrono la quintessenza del pensiero del Croce in
argomento e ce lo mostrano lancia spezzata di quell'assolutismo, il
quale — per poter sostenere che il pensiero filosofico afferra sempre
il vero, che la verità non è qualcosa di irrimediabilmente cangiante e
diverso secondo i vari pensatori, che queste millenarie contraddizioni
dei sistemi sempre insuperate e viventi e cozzanti nelle nostre menti
oggi come al tempo in cui essi furono escogitati, non implicano che
il preteso vero assoluto ci ondeggi dinanzi sotto le faccie più oppo-
ste e inconciliabili — identifica la filosofia con la sua storia, la fa
una cosa sola con l'insieme dei sistemi considerati come il preteso
svolgimento dell' unica e globale verità.
È vero che il Croce non accetta il concetto hegeliano « di una
storia della filosofia come storia del successivo apparire delle cate-
gorie » ; è vero che riconosce che una siffatta storia filosofica dovrebbe
« logicamente, nell'ultimo suo termine (che è quello rappresentato da
colui che costruisce tale storia dellji filosofia) porre una filosofia defini-
tiva » ; è vero che trova assurda la pretesa di questa filosofia definitiva
dopo la quale « non resterebbe altro se non eternamente danzare, come
danzano le stelle nelle immagini dei poeti, senza mai più necessità di
fare tentativi, e rischio dì cadere in errori »i (ed è naturale che, sebbene
l'idea d'una filosofia definitiva raccolta nella mente cajpace che ha
messo a posto in sé tutti i sistemi anteriori e li ha ravvisati come
sviluppo dell'unica idea, sistemata da questo spirito che superiore a
tutti e giudice di tutti diviene così una cosa sola con lo spirito asso-
luto, col pensiero filosofico stesso, sia l' unica confacente col concetto
di storia della filosofia come svolgimento progressivo d'una pretesa
totale e unica verità filosofica, è naturale, diciamo, che, ciò non ostante,
i neohegeliani respingano questa idea: occorre, infatti, fare un posti-
cino al sole ai loro sistemi, che senza di ciò non vi rimarrebbe più).
Ma se 1 vero che il Croce non accetta da Hegel il concetto di filo-
sofia definitiva, sta il fatto che egli fa suo quello che è il più presun-
tuosamente arbitrario caposaldo dell'assolutismo hegeliano, il concetto
della filosofia come « perpetuo svolgimento » nella storia della fnte-
grale e una verità filosofica.
E identica è al riguardo la posizione del Gentile. Questi (come è
consuetudine costante degli assolutisti) si rifiuta di porre il suo con-
cetto della filosofia e della storia di questa in serie e in fila tra gli
altri, come uno tra altri, come uno che può essere discusso e negato
al par degli altri. Ciò è precisamente quello che ogni assolutista di
buona lega non può ammettere. Appunto perchè essi vogliono pre-
1 Logica, pp. 337-8.
// concetto di storia della filosofia i6i
sentarsi come la sintasi in cui le contraddizioni dei sistemi posano,
trovano pace e ognuna s' invera, il loro sistema dev'essere fuori della
contraddizione, superiore ad essa, non soggetto al suo urto. 11 loro
sistema, che tutto sa, tutto comprende e tutto mette a posto, che è
giudice e sistematore di tutti gli altri, non può essere pari ad uno di
questi. Esso non può essere contraddetto. Se lo potesse non sarebbe
più il sistema che si eleva sui contrasti di tutti i sistemi a conciliarli
nel suo seno ove si deve formare l' unità superiore e assoluta di tutti
E se è contradetto di fatto ciò avviene illegittimamente, per incom-
prensione e ignoranza, ma, secondo le buone regole del giuoco del
pensiero, contradetto esso non deve essere. Quindi l'opinione del
Gentile rappresenta « non uno tra i concetti, ma l'unico possibile
concetto della storia della filosofia » e la sua storia non soltanto la
sua ma la storiai Questa opinione poi sta in ciò che la possibi-
lità della storia della filosofia, inesistente nel mondo antico quando
la verità veniva concepita come un insieme di idee eterne e immobili
poste fuori e indipendentemente dalla mente e puro oggetto di questa,
è cominciata quando nel mondo moderno venne immedesimato l'es-
sere e il pensiero e mostrata la verità quale una creazione dell'atto
della mente o sintesi a priori. Da questo momento ecco la possibilità
d' una « progressiva formazione » ; ecco che « la scienza fatta cede il
luogo alla scienza in fieri, in perpetuo fieri » ; ecco che la filosofia, la
verità filosofica, anziché essere qualche cosa di bell'e fatto che si coglie
o non si coglie, cadendo fatalmente nell'errore nel secondo caso, co-
gliendo fatalmente il vero nel primo, diventa una costruzione progres-
siva nel cui corso totale la verità fluisce e circola eternamente, « si
viene realizzando in una vita infinita » di cui però « la conclusione non
verrà mai ». Si obbietterà : non vi son forse gli errori ? Ma l'errore
« è un'astrazione ». Esso non diventa errore se non quando è veduto
come tale, se non « in quanto "si corregge e dà luogo, perciò, a una
verità ». Non si tratta di errori, si tratta di verità inferiori. E « il pro-
cesso eterno dello spirito » è appunto questo: « da una verità a
una verità superiore ; raggiunta la quale la prima non ha più valore ».2
L'assolutismo e Terrore
Ma, e la seconda? Questa è la domanda che annichila tale petto-
ruto dogmatismo. La seconda non ha maggior valore della prima
perchè un minuto dopo viene una terza verità ancora superiore, che la
* La Rif. della Dial. Hegel., Messina, 1913, pp. 109-110.
* Op. cit., p. 140.
1 — Nuova Rivista Storica.
i62 Giuseppe Retisi
soppianta, e a cui, del resto, è imminente il medesimo destino. Bisogna
essersi straordinariamente bene otturate le orecchie con la bambagia
dogmatica per non udire il grido trionfale della confutazione che
sorge dalle stesse parole con cui questa teoria si espone. Bisogna che
l'impertubabilità accademica raggiunga un grado inverosimile per pre-
tendere si possa attribuire un'esclusiva attenzione al momento imper-
cettibile del raggiungimento d'una verità che è subito rovesciata,
onde rappresentare questo processo — processo di proposizioni non più
presto asserite che negate e travolte — come il processo lungo il
quale si esplicherebbe la vita immortale del vero eterno e assoluto; e
per rifiutarsi di vedere invece che ciò che e veramente da questa stessa
concezione messo in luce come dominante, perenne, permanente, onni-
presente, unico, è il processo del perpetuo rovesciamento e della
negazione incessantemente sopravveniente. Non è il tenue monti-
colo di sabbia che rirnane un istante sul lido, ma l'cwida del mare che
sopraggiunge senza posa a sconvolgerlo e a sostituirlo, ciò che costi-
tuisce l'elemento saliente della realtà.
Trattasi allora — si chiederà — d'un processo di errori? No,
nemmeno questo. Dove non trova applicazione la qualifica « verità »,
non trova neppure applicazione la qualifica « errore ». Qui siamo in
presenza di fatti d'un ordine diverso. L'errore, voi dite, è un'astra-
zione : diviene errore in quanto è visto come tale. Visto da chi, si do-
manda? Basta, perchè una proposizione sia errore, che venga vista
come tale da altri, o occorre che la veda come errore colui che la
professa? Nel primo caso, qualunque proposizione filosofica è sempre
errore, perchè tutte trovano contraddittori, perchè vi sono cioè sempre
persone che le scorgono come errori. Nel secondo caso, nessuna pro-
posizione filosofica è errore — o almeno ogni proposizione filosofica
può non esserlo mai — perchè taluno può rimanere in una credenza
filosofica che non sa essere stata combattuta o confutata, o alla cui
confutazione si rifiuta di prestar fede e di arrendersi. L'errore non
esiste, dite, perchè in chi corregge l'errore proprio ed altrui è pre-
sente la verità, e in chi rimane in errore questo non ha il carattere
di errore che tale carattere presuppone la presenza della verità cor-
relativa la quale toglierebbe l'errore.^ Ma, chiediamo, se taluno man-
tiene una proposizione che altri reputa erronea, od è certo essere er-
ronea (poniamo, la credenza nelle streghe o nella transustanziazione)
siffatta i^roposizione, per il fatto che in quello spirito non ha il « di-
svolare » di errore ed è ravvisata come verità, si dovrà dire verità ?
O si dovrà dire errore perchè, sebbene quégli la vegga come verità,.
» La Rif, della Dial. Hegel., p. 137.
// concetto di storia delia filosofia 163
altri spiriti sono certi che essa è errore ? O si dovrà dire verità per
questo, errore per questo, nel qual caso il vostro dogmatismo sarebbe
colpito a morte ? Oppure si potrà ridurci a dire che una proposizione
diviene erronea quando nello spirito di chi la professava penetra un'op-
posta verità che la rende tale ? E perchè, se quella proposizione dive-
nuta erronea in lui, sta forse ancora senza correzione, cioè come verità,
nello spirito di altri, se forse precisamente quando chi la professava
viene a scorgerla come errore, ecco che chi la combatteva compie la
correzione inversa e viene a scorgerla come verità ?
Affinchè, adunque, tale teoria potesse servir di fondamento all'asso-
lutismo, bisognerebbe che il passaggio dall'errore (verità inferiore) alla
verità (superiore) avvenisse per fasi storiche compatte, definitivamente,
senza incroci e ritorni. Bisognerebbe, cioè, che tutti gli uomini d' un pe-
riodo storico (ossia, per usare il linguaggio assolutista, lo « spirito » in
una sua fase) scorgessero la verità in una proposizione, e tutti quelli d'un
secolo successivo (lo « spirito > in una sua fase ulteriore) ne scorges-
sero l'erroneità di fronte ad una verità superiore. Ma. ciò non avviene.
Ogni proposizione è nel medesimo periodo ed istante verità per chi la
professa, errore per chi la combatte. È vista, dunque, nel medesimo mo-
mento dallo « spirito » come errore e verità. Non avviene già che lo
« spirito » passi da una proposizione ad un'altra lasciandosi indietro
definitivamente la prima come errore o verità inferiore. Ma avviene
invece che gli uomini, gli « spiriti » (plurali) incrociano nel medesimo
momento le loro opinioni circa la verità e l'errore e ritornano ad
ogni istante a proposizioni del passato — basti ricordare il ritorno dei
positivisti a Democrito, Epicuro, Lucrezio, e degli odierni « realisti »
a Platone — ritenute prima verità, poscia errore, poi ancora verità e
domani nuovamente errore, e dagli uni e dagli altri nel medesimo mo-
mento errore e verità. E ciò basta a dimostrare che le proposizioni
filosofiche fondamentali sfuggono alla presa della categoria « errore^
verità » ed appartengono ad un'attività di natura siffatta che ad esse
tale categoria non si applica.
Il concetto assolutista della filosofia come sviluppo progressivo
delia verità, cioè l' identificazione della filosofia con la sua storia, ha,
ancora, qualche barlume almeno di sensatezza solo in Hegel, solo in
chi cioè audacemente sì posa come la conclusione di quel moto e
offre la sua filosofia come il punto d'arrivo, il punto fermo, la « filo-
sofia definitiva ». Assurdo, certo, in quanto toglie la possibilità di pen-
sare ulteriormente, ma sensatezza almeno in questo che, così, la verità
filosofica che pur si sostiene essere ciò che progressivamente si svolge
lungo il corso del pensiero, non ci viene rappresentata, proprio nell'atto
in cui se ne afferma l'assolutezza, come destinata ad aggirarsi e muli-
i64 Giuseppe Rensi
nare eternamente invano, ma giunge ad una meta. Ma costoro, che han
fatto ? Rompendo il cerchio mediante il quale in Hegel il percorso del
pensiero filosofico si chiudeva e si saldava in sé, abbattendo il termine
fisso del percorso, ostinandosi a parlare di verità filosofica assoluta, e
nell'istesso tempo rappresentandola come sviluppo perpetuo e senza
conclusione, hanno fatto di questa — della quale pure essi si atteggiano
ad essere gli unici seri e degni sacerdoti — una parodia dell'opera di
Sisifo, il lavoro d'un Sisifo non più tragico ma comico, che è sempre
certo dì spingere il sasso del pensiero verso la cima della verità e certo
nel medesimo tempo che appena toccata quella cima il sasso ricadrà
a valle perchè la cima non sarà più la verità. Ecco il miserando spetta-
colo che ci offre in loro la phllosophia perennis !
E in tal modo costoro, ostinati avversari come sono della filosofia
della storia, fanno, nell'atto in cui negano di farla,i la peggiore delle
filosofie della storia, là filosofia della storia della filosofia, che tale e
non altro, checché ne dicano, è questo pretendere di costringere il
complesso delle concezioni filosofiche — all'uopo, mediante l'arbitrario
elevamento d'alcune di esse a rappresentare il corso tipico del pen-
siero, e il corrispondente arbitrario degradamento di altre '^ — a signi-
ficare lo svolgimento perpetuo d' un' ùnica verità progressivamente
costruita; questo volere insomma costringere a tutta forza la storia
della filosofia ad essere una cosa sola con la presunta fantastica una
verità filosofica in eterno sviluppo.^
1 Croce, Logica, p. 338 e seg.
2 Mediante ciò, e mediante opportuni ritocchi alla cronologia. Tipico, per esem-
pio, è il fatto che quasi tutte le storie della filosofia trattano di Pirrone coi Nuovi
Accademici, con Arcesilao e Cameade, lasciando così surrettiziamente credere che la
sua filosofia si presenti un secolo più tardi. Hegel, per esempio, la cui tesi è che lo
scetticismo appartiene alla decadenza della filosofia e del mondo {De Skcpticismus
gehort so dem Verfall der Philosophie tind dcr Welt ati. — Werke, voi. 14, ed. cit.,
p. 516), la suffraga parlando di Pirrone dopo Cameade! [Ibid., p. 479). E invece Pir-
rone è contemporaneo di Aristotile. Ma Hegel (come dice Lang, St. del Aìater. trad.
frane. I, 337, che dà quivi interessanti esempi di queste alterazioni di cronologia)
« si lavava le mani, come Ponzio Pilato, quando la natura s'era ingannata nel far
nascere un uomo od un libro qualche anno più presto o più tardi ».
3 Gli artifici che gli storici di questa scuola fanno per stabilire la perpetua con-
catenazione sono spesso addirittura acrobatici. Quando per es. lo Zeller {Die Philos.
d. Griechen, IV ediz.. Ili, 2, p. 82) si trova davanti alla difficile impresa di conca-
tenare i neoplatonici con gli ultimi scettici, la tenta dicendo che « quanto meno la
scienza aveva in sé stessa fermi fondamenti, tanto più doveva nascere pel pensiero il
bisogno di cercare la verità, del cui possesso non sentiva sicuro, esteriormente a se,
in una rivelazione superiore ». E come mai, se gli scettici avevano tolti i « fermi fonda-
menti » in ugual misura alla scienza e alla credenza nella divinità ? — In generale,
poi, questi scrittori pretendono rappresentare il corso della filosofia greca cosi : 1°) i
// concetto di storia della filosofia 165
La molteplicità degli " spiriti „ filosofici
Ora, questa concezione assolutista di marca tedesca della filosofia
e della sua storia non è altro che un insieme di bubbole altisonanti,
che possono abbagliare e piacere nei momenti di ingenuità; non altro
che una trovata da Verne o da Wells trasportata nel campo della spe-
culazione ; non altro che virtuosismo o manierismo filosofico, mediante
cui, come un artefice che conosce gli espedienti e i segreti del mestiere
sa sempre fare il suo quadro, così, nel suo tranquillo Pensatoio, il
filosofo di maniera tira a pulimento il sistema palliandone con pennel-
late artificiose i punti che sa insostenibili.
C'è anzitutto appena bisogno di rilevare che quand'anche questa
tesi del perpetuo sviluppo avesse un'ombra di verità, essa dovrebbe
subire un'importante restrizione, la quale basta a distruggere il po-
stulato che ad essa tesi sta sotto e che mediante essa si tende diret-
tamente o indirettamente a suffragare: quello dell'esistenza rf^/Zi? «spi-
rito », d'un unico spirito, cioè, di cui ogni pensiero speculativo apparso
nel mondo, tutte le filosofie della terra sarebbero la manifestazione e
l'esplicazione progressiva.
Tale restrizione è questa, che, a ogni modo, siffatto sviluppo si
racchiude e si circoscrive entro sfere separate di spazio, neh' interno dì
ciascuna delle quali forse si avvertirebbe, ma non già tra le une e le
altre come vincolo continuativo che connetta queste con quelle. Lo « spi-
rito » non volteggia nell'aria; risiede nei cervelli umani, e quando
questi non hanno contatto, ogni continuità è mitologica. Quale conti-
nuità di sviluppo tra il pensiero filosofico indiano e quello greco? Non
sono questi veramente due mondi indipendenti ? « Quanto più lo studio
approfondisce le credenze (osserva il Renouvier) e permette di risalire
nella serie delle, età, tanto più si vede accentuarsi sotto certi aspetti
dogmatici presocratici; 2'') da tale dogmatismo è eccitato il movimento dì pensiero
sofistico che afferma contro quel dogmatismo la subbiettività ; 30) contro i sofisti, So-
crate, Platone, Aristotile ristabiliscono la certezza con la filosofia dei concetti e del-
l'universale (Zeller, Grundriss, pp. 89, 93 e seg. ; Windelband, St. della filos., trad.
it., voi. I, pp. 116, 147, 178-9). Concezione artificiosa e convenzionale se pur ve n'è
una. I sofisti, infatti, non si erano limitati a ricavare la subbiettività dalla conoscenza
sensibile, ma avevano fatto anche la critica del concetto, e mostrato che anche questo
è variabile per ognuno, cioè non universale (e non solo i sofisti, che di Senofane ci
informa Eusebio, Praep. Ev. I, 8, che egli rigettava come fallaci non solo i sensi, ma
la ragione stessa). Socrate, Platone, Aristotile, senza poter su ciò direttamente confu-
tarli, non fanno altro che ripresentare come cosa che vada da sé il dogmatismo che il
concetto sia l'universale, l'essenza permanente e obbiettiva delle cose. Con ciò, in
sostanza^ riproducono la precedente antecritica (cioè antesofistica) posizione dogmatica.
i66 Giuseppe Retisi
l'originalità di ogni grande nazione; e, tanto più divengono dubbie
le comunicazioni tra i popoli antichi, oltre quelle che si possono rigo-
rosamente provare. Il vecchio ponte dell'asino della filosofia della storia,
che conduceva gli- scolari dall'India all'Egitto, dall'Egitto alla Grecia,
dalla Grecia a Roma, trascina nella sua rovina tutti i sistemi fondati
sull'ipotesi d' un'evoluzione unica dello spirito umano.i Lo spirito uni-
tario e il suo unitario sviluppo sono dunque assunzioni arbitrarie. E il
tentativo di puntellare, mediante la filosofia come « perpètuo sviluppo »
il monismo dello spirito, s'infrange una nuova volta a beneficio di
quella frammentarietà e discontinuità di questo, anzi della moltiplicità
degli spiriti, brillantemente rivendicata dal James. ^
Subito dopo questa un'altra restrizione si impone. Non solo lo
sviluppo, se mai, va così circoscritto a spazi separati, ma anche nel-
l'interno di questi, esso va limitato a tratti separati di tempo durante
ciascuno dei quali esso forse si prosegue, ma tra gli uni e gli altri
dei quali esiste un hiatus e un distacco più o meno profondi. Sono,
per quanto riguarda il mondo occidentale quei tratti di tempo su cui
si dividono tradizionalmente i periodi della storia della filosofia. Ogni
tentativo per riconnettere evolutivamente Descartes allo scolasticismo
è artificioso, come è falso ogni sforzo onde ricucire per via di sviluppo
il pensiero fondamentale del cristianesimo con la filosofia greca. Il
monoteismo cristiano, l'idea d'un « creatore non creato, non gene-
1 Introd. à la Pkilos. Analyt. de l'Hist, p. 576. L'indipendenza del pensiero
greco dell'orientale è stabilita anche da Zeller (cfr. Gnindriss, § 5). Ma egli ne adduce
anche delle cattive ragioni Col solito sistema tedesco di « congetturare » erigendo ca-
stelli su una pagliuzza. Una di queste ragioni (//;., p. 17) e che le testimonianze della
derivazione della filosofia greca dall'oriente diventano numerose nei tempi più tardi
(quando il contatto dei greci coi popoli orientali s'era fatto più intimo) e mancano
invece nei tempi precedenti, cioè quanto più ci avviciniamo all'epoca in^cui la pretesa
derivazione si sarebbe operata. Quasiché non fosse la cosa più normale del mondo che
solò in uno stadio avanzato e tardo di civiltà e di cultura un popolo si renda consa-
pevole delle origini della sua civiltà e di doverla all'influsso d'un'altra civiltà e della
misura in cui a questa la deve, mentre di tutto ciò nel suo stato primitivo e di civiltà
appena incipiento non si può render conto.
* L'assolutista potrebbe dire : appunto questo fatto — cioè le coincidenze di pen-
siero filosofico tra popolo e popolo che non hanno avuto comunicazione materiale —
mostra che lo spirito è uno nella sua essenza profonda e al di fuori e al di sopra
d'ogni unità empirica. Ma che il pensiero umano riproduca sempre le poche medesime
concezioni filosofiche e s'aggiri senza uscita in esse, è appunto anche il nostro assunto.
L'asininto dell'assolutista è quello" che lo spirito cogliendo nella totalità del suo svi-
luppo la verità, presenta un graduale eterno sviluppo filosofico. Ora il fatto della
coincidenza tra popolo e popolo che non hanno avuto contatto, non prova questo as
sunto, ma il contrario. L'India antica comincia d'un tratto con concezioni per trovare
le analoghe delle quali bisogna discendere al neoplatonismo o a Schopenhaner.
Hi
// concetto di storia della filosofia 167
rato, creante con la sua volontà e con la sua parola », questa « dot-
trina eminentemente eccezionale d'un popolo eccezionale e isolato tra
tutte le nazioni dell'antichità » entrò nella religione e nella filosofia
per rivoluzione e non per evoluzione storica.^--
Infine, una terza restrizione si affaccia. La tesi assolutista trascura
il fatto dell'enorme influenza che hanno sulla filosofia certi elementi
del carattere nazionale dei vari popoli, i quali fanno sì che una deter-
minata linea di sviluppo del pensiero filosofico sia propria esclusiva-
mente d'un dato popolo, che quel pensiero assuma lungamente iiì
questo un colorito e caratteristiche speciali, che insomma lo sviluppo
si manifesti barricato e incanalato dalle frontiere nazionali. Ce ne offre
un ottimo esempio l' indole « insulare » delia filosofia inglese fin quasi
al secolo XIX, della quale il metodo sperimentale e induttivo contro
quello razionalistico e deduttivo, la tendenza epistemologica contro
quella ontologica, le preoccupazioni pratiche o etiche contro quelle
speculative, sono le fattezze che la distinguono nettamente dalla filo-
sofia continentale,^ e che trasmettendosi dall'uno all'altro pensatore
inglese creano uno sviluppo specialmente inglese del pensiero filoso-
fico, il quale non si può sommergere e far sparire nel preteso sviluppo
universale e unitario dello spirito speculativo. Le fasi dello sviluppo
di questo, adunque, non sono rappresentabili come se fossero sempre
momenti del pensiero puro, e momenti prodotti dalla necessità che
il dinamismo interiore di esso, in quanto puro, presenta, anziché spesso
momenti non affatto necessari a questo dinamismo del pensiero pnro^
e dovuti invece a mere accidentalità locali e nazionali.
La filosofia definitiva o " dell'epoca „
Queste osi»crvazioni infirmano già grandemente la tesi tedesco-
assolutista. Ma più importante ancora sono le obbiezioni che tendono
non più a limitarla, ma investirla nella sua stessa sostanza. Prima
questa che, sotto l'una o sotto l'altra forma, la concezione del « per-
petuo sviluppo » è sempre quella della « filosofia definitiva ». Se non
definitiva per l'eternità, come in Hegel, definitiva per l'epoca.
1 Cfr. Renouvier, Philos. Analyt. de VHist., voi. IV, p. 653. Confutando l'at-
tribuzione del monoteismo a Senofene (che invece continua ad ammettere Zeller, Gru/j-
driss, p, 55) il Gomperz scrive : « Il monoteismo puro, assoluto, è sempre apparso agli
spiriti ellenici come un'empietà » [Les Penseurs de le Grece, trad. frane. I, p. 174).
2 V. su ciò l'agile e interessante libro recente di James Seth, English PhilO'
sophers and Schools of Philosophy (Londra, Dent) specialmente Introduzione e
p. 237 e seg.
i68 Giuseppe Rensi
Colui che pensa, infatti, che la storia della filosofia sia il perpetuo
sviluppo della verità filosofica nel tempo, pone necessariamente il suo
sistema come quello verso cui si è diretto il corso di questa verità,
come quello che di questa verità rappresenta ineluttabilmente la fase
odierna, come quello che il flusso secolare della verità stessa ha in
questo momento, superiormente a voleri e pensieri individuali, formato
e portato alla superficie. Il suo sistema non è, adunque, una conce-
zione filosofica tra le altre, l'affermazione d' un punto di vista che può
essere contradetto ; è l' unico sistema « adeguato al momento storico
a cui egli appartiene », mentre è falso ogni altro « derivante da un
criterio di giudizio inferiore a parte dei punti di vista già conquistati
dalla ragione nella storia, incapace, perciò, di render ragione di tutti
i sistemi già apparsi ».i Naturalmente, la propria adeguazione al mo-
mento storico e la decisione che gli altri che gli contendono il campo
partono da un « criterio inferiore », sono sentenze che nel sistema che
le pronuncia non hanno per fondamento se non la più arbitraria
arroganza.
Da ciò deriva che in siffatta concezione, è implicita la tendenza a
negare la libertà di pensare. Già questa ^< filosofia definitiva » dell'eter-
nità o del « momento storico » non dovrebbe nemmeno poter dirsi
l'opera personale di colui che la formula e l'asserisce. Se fosse sua opera
personale sarebbe soggetta alle vicissitudini, alle fallacie, agli errori del
pensiero soggettivo e individuale e alla concomitante possibilità di impu-
gnative e controversie. Non sarebbe più, come vuol essere, la verità
obbiettiva, assoluta, indiscutibile, necessaria. Essa non è quindi opera
personale del pensatore, non fu fatta a rigore da lui. Fu fatta dallo
« spirito » in lui, che dello « spirito » fu soltanto lo stromento. Fu fatta
dallo stesso corso della storia, dallo stesso processo del pensiero nel
tempo, che il pensatore non fece che raccogliere e interpretare. Nep-
pur egli, adunque, aveva la possibilità di formularne un'altra, di fer-
marsi in credenze diverse, ma la ferrea fatalità del « perpetuo sviluppo >
gli imponeva di affermare e accettare la verità che era destinata a ve-
nire in tale sviluppo a galla in quest'ora, a cui lo sviluppo precedente
da tutta l'eternità metteva oggi fatalmente capo. Si tratta veramente
(per usare parole del Renouvier) d' una verità « arrecata dal di fuori e
che si scopre spontaneamente mediante il progresso necessario delle
idee nel corso dei tempi », d'una verità^ quindi « che una ragione im-
personale sarebbe costretta a subire ».2
i Gentile, op. cit., p. 147.
« Philos. Analytique de l'Hist., voi. IV, p. 463.
// concetto di storia della filosofia 169
Se, in tale concezione, la libertà di pensare è a rigore soppressa
per chi formula il sistema, tanto più per gli altri. I contemporanei di
colui che ha redatto, non la sua filosofia, ma la filosofia che lo « svi-
luppo perpetuo » prescriveva a quel dato tempo, sono obbligati ad
accettarla, sotto pena di trovarsi fuori dal campo del pensiero. Il sistema
di Hegel, o di Croce, o di Gentile non può essere contraddetto, lo non
posso farmi una mia convinzione personale, conforme alle mie credenze,
determinata dal mio temperamento intellettuale e a questo confacente.
Non ho diritto (senza essere un intellettualmente « arretrato », uno che
si è arrestato a un « giudizio inferiore ») di liberamente fermarmi ad
una delle filosofie del passato, a Tommaso d'Aquino, a Spinoza, allo
Spencer, e farla mia con un'adesione che sorge dalle viscere stesse della
mia natura. Non mi è lecito arrestarmi ad un antico dogma religioso e
credere, per esempio, « che Dìo padre mandò Gesù suo figliuolo a
redimere gli uomini dalla perdizione, in cui erano caduti pel peccato
d'Adamo ».iNo: io vedo, se voglio essere individuo pensante, accettare
il sistema di Hegel ieri o di Croce oggi perchè è quello che incorpora
tutti i « punti di vista già conquistati dalla ragione nella storia », e,
centro di convergenza di tutto il pensiero anteriore e quindi espres-
sione dell'assoluta e indiscutibile verità dell'oggi, si impone fatalmente
e uniformemente a tutti gli uomini venuti alla luce in quest'ora. Esso
non può essere negato più che si possa negare che due più due vai
quattro.'-^
Eppure negato lo è. E quanto più il sistema altezzosamente si
posa come l'infallibile e necessaria verità sia dell'eternità sia del mo-
mento, tanto più l'insurrezione è violenta. Ora, che vuol dire clie un
tale sistema, che non può e non deve essere negato, pure lo sia ? Si
badi: il semplice. fatto che uno solo lo neghi, basta ad annientarlo.
Basta, appunto perchè esso afferma che essere negato e contraddetto
non può e non deve, e in tale affermazione sta la sua essenza. Esso
1 Croce, Logica, p. 274.
2 « La storia della filosofia, così considerata come una evoluzione di cui sarebbe
possibile definire la legge e che non dovrebbe più permettere alla libertà del pensa-
tore di ritornare ad uno dei momenti passati dello sviluppo generale dello spirito e
di fissarvisi mediante la franca esclusione dei momenti contraddittori, è l'eliminazione
del suo soggetto, lo spirito individuale nelle sue libere determinazioni, poiché ne fa
un semplice anello di una concatenazione necessaria. Gli rifiuta la facoltà d'affermare
e credere alcuna verità pura, e la potenza correlativa di errare, poiché affermazione
e negazione non hanno valore che messe al loro posto, spiegate, bilanciate e final-
mente cancellate dall'evoluzione, cioè dal filosofo che viene, come alla fine dei tempi,
a posarsi interprete della legge e conciliatore universale ». Renouv.'ER, Esquisse d^ une
claisìfìcation des systemes, vói. II, parte VII, p. 127 e seg.
I70 Giuseppe Rensi
dice che nessuna contraddizione o negazione Io può tangere pò: ::!iè
rende « ragione di tutti i sistemi già apparsi », perchè cioè tutte le
contraddizioni del pensiero filosofico sono in esso sistemate ad unità.
Ma taluno lo nega e lo respinge. Che significa? Che esso non fa
ragione a tutti i sistemi; che non li accoglie e non li assorbe in sé
se non a parole e senza la loro adesione ; che mentre esso si atteggia
ad essere il mare ampio in cui le acque degli opposti versanti tro-
vano stanza concorde, a coordinare insomma in sé tutti i punti di
vista apparentemente contraddittori, non è altro che uno di questi
punti di vista, come scorge bene colui che, precisamente perchè quel
sistema non risponde al punto di visto suo, lo respinge.
E, in verità, che cos'è questa sua pretesa sistemazione ad unità
superiore di tutte le opposizioni, affermate apparenti? Soltanto lustra,
giuoco di parole e sotterfugio. Può bene Hegel o Croce proclamare
d'aver conciliato il determinismo con la libertà: il credente nel libero
arbitrio troverà che questa conciliazione è meramente verbale e clas-
sificherà quei sistemi sotto uno dei due punti di vista eternamente
pugnanti, sotto il determinismo. Possono bene proclamare d'aver con-
ciliato il male col bene; colui che crede che per la morale si richieda
la libertà dello spinto personale contro il male, li classificherà tra i
sistemi immoralisti. E, per esemplificare ancora, dell'antitesi somma,
quella consistente nel problema se la realtà suprema sia la coscienza
o il mondo esteriore, la cosa o la persona, lo spirito o la natura, se
questa formi quello o quello questa, dov'è che quei sistemi rendono
ragione delle opposte concezioni? Essi si classificano apertamente tra
una serie di sistemi storici o punti di vista contro l'altra serie, e qui tutto
il loro « render ragione » sta nel dire che la filosofia è solo e sempre
idealismo. Ma poiché l'orgogliosa asserzione non basta a cancellare
dalla storia e dagli animi la visuale contraria, essi sono legittimamente
negati da chi questa visuale professa. Insomma, un sistema di siffatta
indole pretende (per usare ancora parole del Renouvier) « attribuirsi
un posto interamente a parte dagli altri e una situazione superiore
di neutralità circa le dottrine contrarie; invece, sì classifica in com-
pagnia di alcune di queste sui punti decisivi, né gode alcun privilegio
per far accettare, sotto pretesto di sintesi, asserzioni che i vecchi me-
todi di dimostrazione non hanno potuto sottrarre alle divergenze e
mettere al di sopra del dibattito ».i Dopo, come prima, di quéste co-
struzioni, in cui la superbia pareggia V insincerità, i punti di vista fon-
damentali ed opposti, ne* quali si è sempre diviso il pensiero filosofico,
e i quali non si « sviluppano», ma permangono e si riproducono eterna-
Esquisse d' une classification des systèmes, voi. I. n. 1.
Il concetto di storia della filosofia 171
mente gli stessi nel fondo, e solo con altre parole e con altro materiale,
restano tuttora di fronte, non conciliati, non ridotti ad unità, ed anzi,
nella loro appassionata chiaroveggenza, lincei nel vedere e qualificare
esattamente come uno od altro di sé medesimi il sistema che preten-
deva sopirli, ridurli ad unità ed elevarsi in tal modo sovrano su
di essi.
Perchè la tesi tedesco-assolutista avesse una parvenza di vero
bisognerebbe che esistesse sul serio una « filosofia dell'epoca ». Biso-
gnerebbe che, come asseriva Cousin, « in ogni epoca, con la varietà
necessaria alla realtà dell'unità, con un'abbastanza grande diversità
di scuole filosofiche » non vi potesse essere « che un solo e medesimo
spirito filosofico, poiché non v'è che un solo e medesimo spirito in
ogni epoca ».i Bisognerebbe che questa « filosofia dell'epoca» fosse
data non già soltanto nell'olimpica baldanzosa asserzione che fa uno
di tali sistemi assolutisti di essere esso tale filosofia, ma che esistesse
nel fatto, nel fatto cioè che tutti gli spiriti d' un'epoca aderissero a
una sola filosofia. Allora solo si potrebbe con qualche verosimiglianza
parlare d'una continuità di sviluppo dello spirito filosofico, d'un uni-
tario processo e svolgimento d* un'eterna verità, ossia d' un'identità
della filosofia con la sua storia, sia nel senso hegeliano che ciascuna
delle fasi storiche filosofeggi una delle categorie dello spirito dalle
più povere alfe più complesse secondo l'ordine in cui nello spirito
appariscono, sia nel senso crocio-gentiliano che la filosofia di ogni
fase storica sia quella e solamente quella che eleva un piano di una
certa speciale architettura sul fondamento della incorporazione che
ha fatto ih sé di tutte le filosofie del passato. Ma tale filosofia del-
l'epoca è una chimera. Si può, bensì, dar ad intendere che ci sia
sopprimendo o degradando le manifestazioni filosofiche che non vi
quadrano : cioè facendo della filosofia della storia (nel senso peggio-
rativo) applicata alla storia della filosofia — proprio mentre si grida che
di filosofia della storia non si vuol sentire parlare — se filosofia della
storia é quella che opera alterando, manipolando ad arbitrio, « re-
cidendo i documenti ».2 Vale a dire: scrivendo delle storie della filo-
sofia che sono puri e semplici pamphlets,'^ qualificando un importante
indirizzo di pensiero filosofico, le cui traccie nel campo della filo-
sofia saranno a ogni modo incancellabili, di « andazzo positivistico »,*
1 Op. cit, p. 258.
* Croce, Logica, p. 295.
3 Tipici gli studi pubblicati dal Gentile sulla Critica intorno alla filosofia in
Atalia dopo il 1850.
* Gentile, La Rif. della Dial. MegeL, p. 122.
72 Giuseppe Re usi
o di « non già filosofia, ma ibrido guazzabuglio di scienze naturali e
metaiisica » ;i chiamando il sistema d* uno dei piC;, grandi pensatori
moderni, il Mill, « concezione infantile »,2 la sua Logica « nefasta » e
« uno di quei libri che non fannno onore all'intelletto umano »,3 e
non peritandosi di issarsi sui trampoli della propria presunzione per
arrivare fino alla sua altezza e poter sentenziare la sua « inconclu-
denza mentale »* e definirlo « men che mediocre razìocinatore ».6 Così
sì, con siffatta filosofia della storia della filosofia, si riesce a far appa-
rire che ci sia una « filosofia dell'epoca », che cioè il pensiero filoso-
fico abbia avuto uno svolgimento unitario, abbia sviluppato nella storia
i momenti d'un' unica verità lungo una linea costante, metta capo
oggi come al momento predestinato a quest'epoca ad una certa esclu-
siva concezione, e che tale momento dell' unica verità spettante alla
fase storica odierna sia, naturalmente, il proprio sistema.^
Ma chiunque guardi spregiudicatamente alle cose, scorge subito
l'enorme' falsificazione che v'è in tutto ciò. « Egli pensò (così già il
nostro Cattaneo esattamente confutava tale idea in Cousin) che le
filosofie rappresentassero i tempi, mentre è ben rara quell'età in cui
le più opposte dottrine non sì affrontino nella stessa lingua e sullo
stesso terreno; come vediamo con quelle di Saint-Simon e Deniaistre,
di Schelling e Gali».'' E infatti se il fantastico «spirito del mondo»
sgomitola il suo unico filo attraverso il tempo, come avviene che
1 Croce, Filos. della Pratica, p. 177.
* Croce, Logica^ p. 167.
3 Ibidem, p. 382.
< Filos. della Pratica, p. 291.
5 Logica, p. 382.
6 Nemmeno del resto, se esistesse davvero una € filosofia dell'epoca » questa po-
trebbe razionalmente costringere l'assenso. C'è oggi, poniamo, una filosofia dominante,
in cui tutti giurano, per cui tutti si entusiasmano, che trascina tutti. Ma non so già
fin d'ora che questa non sarà la filosofia definitiva, che verrà fra qualche anno rove-
sciuta e riconosciuta falsa ? Non è avvenuto forse così sotto i miei occhi per qualche
altro sistema che l'ha preceduta, e che sovraneggiava ugualmente ieri su tutte le menti?
Dunque basta che'io mi trasporti nello spirita del temjpo in cui la filosofia oggi do-
minante sarà confutata, per saperla falsa. — È questa l'applicazione del profondo con-
siglio di Sesto Empirico: «Alla stessa guisa che ci si domanda d'aggiustar fede a cui
sì dica più sennato di quanti esistano o furono, e ciò per la prudenza sua, così ad
uno più assennato s'avrebbe a credere meglio che a lui : e se questi ci fosse, un altro
incora più prudente di lui avrebbesi a sperar che sorgesse, e poi un altro più di co-
desto e sino all'infinito » {Istit. Pirron., L. II, 5, trad. S. Bissolati, Le Mounier, 1917,
p. 194).
7 Su la Scienza Nuova di Vico in Opere Edite ed Inedite, ed. Le Mounier, voi. VI,
p. 105. Il Cattaneo prosegue ribattendo vigorosamente il piatto ottimismo hegelo-cou-
siniano e la sua razionalistica giustificazione del successo.
// con celio di si orla della filosofia 173
ad ogni momento vi sono sistemi pugnanti, e, quel che è più, che i
medesimi fondamentali punti di vista opposti sono sempre quelli che,
con diverse parole e diverso materiale, si trovano in ogni e medesimo
istante a cozzare tra di loro ? In quale di questi punti di vista, sempre
rinnovanti il loro urto, si esprime lo « spirito del mondo », l'autentico
e legittimo momento del preteso « perpetuo svolgimento » dell'unica
verità e dell' integrale pensiero ? Kant, Fichte, Schelling, Hegel... Croce.
Chi autorizza, fissando arbitrariamente lo sguardo su questa serie e
cancellando dal pensiero le contrastanti serie parallele, a ritenere che
sia questo il filone garantito dove si trova un tratto del « perpetuo
svolgimento » dello « spirito del mondo », e non, per esempio, il filone
Democrito-Pomponazzi-Ardigò? Chi autorizza a dire che il filone d'oro
puro sia quello che mette capo al Gentile anziché quello che mette
capo a Le Dantec ? Chi autorizza farle viste di dimenticare che Cabanis
è contemporaneo di Fichte, che Schopenhauer, Mill e Taine sono
postkantiani come Hegel, che Spencer e Rosmini sono pressoché degli
stessi anni, che tutte queste intuizioni opposte della verità che si asse-
risce convogliata sempre innanzi dal medesimo corso d'acqua si eri-
gono le une contro le altre nello stesso momento, sfidando qualsiasi
tentativo di riduzione ad una pretesa unità superiore la quale possa
dar da credere in uno svolgimento unico e continuo, e permetta di par-
lare di «filosofia dell'epoca» o di «filosofia adeguata al momento
storico »? 1 Chi, invece, guardando spassionatarhente a tutto ciò, non
scorge che il preteso unico spirito filosofico in eterno sviluppo unico
ci si spezza dinanzi in molteplici spiriti filosofici, ciascuno sempre
identico a sé e irriducibilmente opposto agli altri, cioè che non sono
soggetti né ad evoluzione in sé medesimi né a derivazione e a conca-
tenamento tra di essi ?
Il processo per antitesi
Che anche quando sembra che taluno di questi spiriti o punti
di vista filosofici sia diventato un momento dominante e possa rap-
presentare la « filosofia dell'epoca » non è affatto vero che ci sia un
rapporto di filiazione di esso con la filosofia precedente, che esso
1 « Nel pensiero del filosofo degno del secoio XX dev'essere pensato il pensiero
di tutti i filosofi della nostra civiltà; pensato e corretto» (Gentile, (7/7. cit., p. 130).
Ma chi è giudice del degnai chi è giudice dei tutti (di quali cioè nella dizione «tutti
i filosofi » debbano essere compresi come veramente filosofi) ? chi è giudice della cor-
rezione ? Si erige arbitrariamente a giudice di tutto ciò la cieca albagia del cattedra-
lieo che si ritiene sicuro che soli i filosofi che egli ripensa siano tutti i filosofi e il
modo con cui egli li pensa sia quel « correggerli » che fa di un filosofo il filosofo
degno.
174 Giuseppe Retisi
costituisca un prolungamento operato sull'incorporazione di tutta
questa anteriore filosofia. Il vero è che « le dottrine non si susseguano
soltanto per trasmissioni o similitudini, ma si succedono altresì per
opposizioni e reazioni, od anche come delle eresie suscitate, pur con-
servando ordinariamente un andamento comune, relativo ai tempi ».i
Il vero è che se v'è una legge che domina qui essa è quella stessa
unica legge che, secondo il Faguet, impera nel campo della lettera-
tura: «poiché la sola legge di storia letteraria che io conosca è che
dopo qualche tempo ci si stanca di una certa mentalità letteraria, e si
desidera, si spera, si sollecita, si fa nascere, si incoraggia, si sostiene,
si applaudisce la mentatità contraria».''^ I punti di vista filosofici son
sempre quelli, ma se vi è un moto di successione tra di essi, se uno
torna a succedere all'altro, e a cacciar quest'altro di nido, e a ridiventar
dominante, ciò avviene spesso non per filiazione, ma per opposizione
ed antitesi. È Hegel che, destando la nausea per la metafisica produce
il materialismo di Vogt, Moleschott, Buchner, il quale è pur presente
sulla scena filosofica, non si può cancellamelo che arbitrariamente,
eppure nulla incorpora e tutto respinge della filosofia immediatamente
precedente, e se incorpora qualcosa del passato è un certo filo di
pensiero scelto da esso saltando via gli immediati predecessori e da
esso eretto ad esclusione di tutto il resto in sana filosofia. È Ardigò
e l'ardigoismo che producono e incrementano per reazione Croce e il
crocismo (come questo darà certo fra poco origine al suo opposto); ma
la filosofia del Croce non incorpora la filosofia precedente di Ardigò;
non la incorpora, perchè per quella questa non è filosofia; tutta la filo-
sofia antecedente che il crocismo incorpora è una certa piccola parte di
questa che esso di sua autorità erige in vera filosofia ; anche qui esso
salta via l'immediato predecessore per cominciare « l'incorporazione >
ad un momento più lontano che del pensiero immediatamente prece-
dente costituisce l'antitesi assoluta. « Così la storia ci getta d'anti-
tesi in antitesi dagli Stoici a Plutarco, dagli Scolastici a Montaigne,
da questo a Descartes ».3 E molte volte un sistema sorge null'altro
che per questo, che un pensatore è, vivamente eccitato a pensare con-
tradditoriamente dal sistema che gli sta davanti, che domina alla sua
epoca, e che ripugna profondamente al suo temperamento. « Senza
Crisippo non sarei ciò che sono » dice Cameade presso Laerzio.*
i Renouvier, P/iìlos. Analyt. de l'Hist., IV, p. 682.
« Petite Nist. de la Litter, frangaise (Grès), p. 281.
3 JANET et Séailles, Hist. de la Philos. (IX cdiz., p. 51). Le antitesi a cui qui
si allude riguardano la questione dell'istinto.
* IV. 9.
// concetto di storia della filosofia 175
Ora, che significa tutto ciò? Che significa questo procedere per
opposizioni, per antitesi, per contraddizioni, questa incorporazione solo
parziale e d'un certo ramo della filosofia precedente anche da parte di
chi pretende di comprendere tutto, abbracciar tutto ed essere tutto,
dagli eleati in giù? Che significa che questa incorporazione sia sem-
pre necessariamente parziale, giacché « bisognerebbe, affinchè i nuovi
sistemi assimilassero veramente tutti gli elementi del passato, che
assimilassero il determinismo e il libero arbitrio, il dio creatore e
Teterno Proteo Forza-Materia, la ragione giudice universale e l'espe-
rienza unica regola, l' imperativo categorico e l'utile solo mobile della
condotta »i? Significa, una volta di più, che i punti di vista sono sem-
pre quelli, che sono irriducibili, che non si lasciano permeare da nes-
suna pretesa unità superiore, né avviluppare in nessun corso evolu-
tivo unitario. E lo stesso fatto che la medesima violenta opposizione
o il medesimo ardente attaccamento che proviamo per un sistema dei
nostro tempo, per un sistema che vive e agisce con noi — per esempio
per l'ardigoismo o il crocismo — proprio quell'istessa opposizione o
attaccamento e della medesima natura e per i medesimi motivi, lo
proviamo per tutte le filosofie d'un cert'ordine apparso lungo il corso
storico — hegeliano, spinozismo, plotinismo, ovvero spencerismo, baco-
nismo, epicureismo, democritismo — dimostra che, nella serie rispet-
tiva, ciascuna di esse ci dice su i punti che ci stanno più a cuore la
stessa cosa, che esse rappresentano tutte, nella propria serie, alcune
delle medesime visuali riaffacciatesi lungo il tempo, e che quelle d'una
serie sono inconglomerabili .con quelle dell'altra. L'istinto con cui
conglobiamo nella medesima ripugnanza o simpatia filosofie presenti
con altre remote e fuori della vita attuale non e' inganna : e — mentre
accenna al fatto che le nostre credenze filosofiche sono dettate dal
modo di essere fondamentale del nostro temperamento — questa
istintiva identità di ripugnanza e identità di simpatia è rivelatrice
dell'immutabile identità di sostanza dei diversi punti di vista filoso-
fici raccolti, nelle loro varie espressioni, entro lo stesso cerchio o di
ripugnanza o di simpatia — e della loro reciproca impermeabilità.
11 concetto di classificazione
«Filosofia che è storia, storia che é filosofia». A questo ormai
ritornello da organetto di Barberia, a questo falso concetto teutonico-
assolutistico della filosofia come svolgimento, è ora di opporre riso-
lutamente il concetto vero, cioè quello di classificazione.
Renouvier, Esqaisse d'une classification, II, p. 149.
176 Giuseppe Rensi
Già il Cousin, in una fase di pensiero, a nostro avviso difficil-
mente conciliabile con quella suesposta, adottava il criterio di clas-
sificazione e ne proponeva varie forme. Una volta sembra incline a
classificare tutti i sistemi sotto due capi, secondo cioè che prendono^
la ragione o l'esperienza come principio delle conoscenze umane.^
Un'altra volta sembra ammettere cinque tipi di questioni sotto cui
classificare tutte le scuole: due riferentesi all'obbietto, e cioè il pro-
blema dell'assoluto e quello della realtà dell'esistenza degli oggetti
particolari; tre riferentesi al soggetto: l'origine delle conoscenze, il
loro carattere nell'intelligenza sviluppata, il passaggio dal soggetto
airoggetto.2 Finalmente propone una terza classificazione, la sua più
notoria, quella cioè, assai attendibile, che ordina i sistemi filosofici
d'ogni tempo in quattro classi, sensualismo, idealismo, scetticismo e
misticismo, e che egli ha brillantemente svolta, mostrandola a grandi
tratti applicabile a tutta la storia della filosofia, daU"India antica
all'Europa del secolo XVIH.^ — Anche lo Schopenhauer, che, con
Nietzsche, è il meno appartenente al tipo tedesco del filosofo, accenna
ad adottare il concetto classificatorio, col dividere tutti i sistemi in
due ordini, secondo prendono le mosse dall'oggetto o dal soggetto, e
suddistinguendo i primi secondo che l'oggetto è il mondo reale (Talete
e gli lonii, Democrito, Epicuro, Bruno, i materialisti francesi) o un
concetto astratto (gli Eleati e Spinoza) o il tempo (Pitagora e Y-King)
o l'atto di volontà motivato dalla conoscenza (gli Scolastici).* — Del
pari, il Royce mette a fondamento della sua opera principale la clas-
sificazione di tutti i sistemi in quattro specie, realismo, misticismo,
razionalismo critico, volontarismo assoluto.^ — Ma colui che ha più
sistematicamente e con maggior consapevolezza sostenuto ed elabo-
rato il principio della classificazione contro quello dello sviluppo è
stato il Renouvier.
Fin. dai primordi del pensiero noi vediamo che si sono prodotte
nel campo della filosofia vedute reciprocamente contraddittorie: l'em-
pirismo e il razionalismo, il vitalismo e il meccanismo, il finitismo e
l'ìnfinitismo, l'individualismo sensazionista e l'universalismo astratto,
l'evoluzionismo della materia e il demiuigismo dello spirito, e, poco
dopo, l'opposizione del libero arbitrio e della necessità, del dovere e
della felicità. Queste vedute, non ostante che le variazioni di termi-
1 De Vfiist. de la Philos. in Fragments Philos., voi. I.
« Es^ai d'una class ification dea questions et des écoles philosophiqties in Frag-'
ments Philos., voi. II.
3 Cours de Pliilosophie. Hist. de la Philos. da XVIII siede. Lezioni IV-XII.
< // Mondo, ecc., § 7.
6 // Mondo e l'Individuo (trad. ital., parte I, voli. I e II).
// concetto di storia della filosofia 177
nologia e la diversità di rapporti sotto cui o^;ni problema può essere
considerato, permettessero di dar espressioni nuove ad opinioni anti-
che, sono rimaste immutabilmente di fronte da venticinque secoli, e
sono tuttavia in presenza in istato di rivalità assolutamente irriduci-
bile ad una superiore unificazione. Se noi sceveriamo così un certo
numero di questioni fondamentali, quelle relative alle eterne interroga-
zioni e alle eterne più vitali esigenze dello spirito umano, vediamo che
le risposte ad esse offerteci da tutti i sistemi venuti alla luce lungo i
secoli costituiscono delle coppie contraddittorie a due a due, tra le
quali la conciliazione è impossibile. L'affermazione o la negazione di
fronte ad esse è ciò che caratterizza essenzialmente i sistemi. Questi
devono pronunciarsi, e si pronunciano effettivamente, con un sì o
con un no.
Ognuna di queste questioni fondamentali apre dunque, quasi a
dire, sotto di se due colonne: quella del sì e quella del no. Ora tutti
i sistemi, da Talete a Croce ed a Bergson, si classificano insieme, questi
nell'una, quelli nell'altra, delle due colonne del sì e del no proprie di
ciascuna questione. O in altri termini: le soluzioni date, lungo il
corso dei tempi, da tutti i sistemi, delle principali questioni metafisiche,
costituiscono binomi antitetici; e tali antitesi, come sostanza o coscienza,
infinito o finito, evoluzione o creazione, determinismo o libertà, evi-
denza o credenza, dovere o felicità, non solo permettono, ma costrin-
gono, a cumulare insieme, sotto l'uno o l'altro capo, sistemi in qua-
lunque epoca apparsi (Spencer, per esempio, con taluno dei preso-
cratici, Hegel con gli alessandrini) mostrando così che queste risposte
o soluzioni antitetiche del medesimo problema, e che sì presentano
così per tutti i problemi essenziali, sono di continuo le medesime,
ritornano incessantemente ad affacciarsi, sono sempre possibili, e non
v'è per esse, che costituiscono la sostanza stessa della metafisica, né
sviluppo né incorporazione.^
Tale, in brevi parole, il concetto renouvieriano. Ed è appunto in
presenza della netta posizione delle perenni alternative ed irriducibili
antitesi, ora accennate, che si scorge quanto sia serio ricantare, come
fa Hegel che « la vera differenza non è sostanziale, ma una differenza
nei differenti stadi dello sviluppo; e se la differenza implica l'unila-
teralità come presso gli Stoici, Epicuro e la Scepsi, è pur veramente
in primo luogo la totalità che costituisce la verità i^.'^ Sì davvero: tota-
lità costituita dalla risposta affermativa e negativa data dagli uni e
1 Cfr. Renouvisr, Esquisse, ecc. cit. e Les Oileinmes de la Métaphyssique pure
(Alcani.
« 0/J. cit., voi. 14, p. 502.
12 — Nuova Rivista Storica.
i;^ Giuseppe Rensi
dacfli altri alla medesima questione, totalità del « sì » e del «no» tra
cui ogni problema filosofico importante esige categoricamente che
rispondendo si scelga, totalità, insomma, di proposizioni che si esclu-
dono a vicenda. E quando lo stesso Hegel avverte che « contro l'as-
soluta affermazione dell* idealismo: l'assoluto è l'Io, si afferma con pre-
cisamente ugual diritto che l'assoluto è l'Essere»; quando riconosce
che «l'uno nell'immediata certezza di sé stesso dice: io sono per me
l'assòluto, e l'altro del pari nella. certezza di sé stQ^so: questo mi è
assolutamente certo che le cose esistono »; quando conviene che «poi-
ché rio è assoluto, non può altresì il Non-io essere assoluto », ma
«viceversa si può altrettanto giustamente dire: poiché la cosa é l'as-
soluto, allora non è assoluto l'Io »;i — quando dice tutto questo, può
poi bene Hegel aggiungere che qui si ha a che fare con unmittelbaren
Wissen (quasi che quando tale sapere è mediato e ragionato diven-
tasse divèrso e non rimanesse precisamente così): in realtà, egli viene
a porre in luce Tirreducibilità di due delle opposte posizioni fonda-
mentali stabilite dal Renouvter, quelle che costui indica colle parole
«Coscienza-Cosa», e il fatto che ciascuna delle due si regge sovra-
namente sul proprio principio, non s'arrende all'altra e che dall'una
o dall'altra soltanto si può prendere le mosse, l'una o l'altra soltanto
si può accogliere per vera.
Mentre, adunque, il canone fondamentale degli assolutisti, di cui
essi hanno bisogno per sorreggere il loro concetto di identità della
filosofia con la sua storia e di questa come perpetuo svolgimento, è
che non sia lecito compiere alcun ravvicinamento tra filosofie di periodi
storici diversi a che ognuno di tali ravvicinamenti sia frutto d' igno-
ranza e dilettantismo,^ sta il fatto invece che siffatti raccostamenti o
raprgruppamenti o classificazioni sono l' unica Cosa seria e feconda che
la storia della filosofia possa compiere, e che é per contro la continuità
del pensiero filosofico asserita dagli hegeliani che costituisce una men-
zogna e una parvenza.
Tale parvenza sorge per il fatto che ogni pensatore naturalmente
usufruisce del materiale che nell'ambiente intellettuale in cui viene alla
luce trova davanti a sé, e su di esso fonda la sua costruzione. Sembra
quindi che egli incorpori e prosegua una filosofia precedente. Invece si
tratta sempre soltanto di uno degli immutabili punti di vista, di una
delle immobili intuizioni filosofiche che tira e travolge a sé un certo
1 L. cit., voi. 14, p. 506.
« Già l'Erdinann {Op. cit., § 13) biasimava solennemente gli storici della scuola
kantiana e specialmente il Tennemann per il raffronto « dei sistemi anche più antichi
con dottrine che potevano solo essere proposte nel diciottesimo secolo ».
// concetto di storia della filosofia 179
materiale e linguaggio filosofico esistente e si esplica e manifesta con
questo, come potrebbe fare (e fece nel passato) con qualsiasi altro.
Malebranche e Spinoza non costituiscono uno sviluppo e un pro-
lungamento del cartesìanesinjo. Solo le menti fumose degli assolutisti
possono pensare che l'idea filosofica, impersonale, da sé, per forza
propria, per opera del suo dinamismo interiore, giunta in Cartesio
abbia sentito la necessità d' un determinato suo ulteriore sviluppo pel
quale s'è servita dei cervelli di Malebranche e Spinoza come di suoi
stromenti. Fichte, Schelling, Hegel non costituiscono una continuazione
del kantismo. E ci vuole un bel coraggio per ripetere il luogo comune
della scuola hegeliana che cioè Kant ripudiando Fichte fosse inconscio
della vera portata del suo stesso pensiero e che questa sia stata messa
in luce soltanto da quei suoi successori. La verità è che Fichte, Schel-
ling, Hegel sono per molti e principali rispetti l'antitesi di Kant, e che
questi sapeva benissimo al riguardo quello che si diceva. La verità è
che né nel primo caso si ha uno sviluppo del cartesianesimo, né nel
secondo del kantismo. La verità è, invece, che in entrambi i casi, è
l'eterno momento del panteismo, dell' infinitismo, del demiurgismo della
sostanza (estesa o pensante), della sommersione dell' individualità in uno
spinto universale, che si afferma là col materiale e il linguaggio carte-
siano, qui col materiale e il linguaggio kantiano, come poc'anzi, tra
gli alessandrini, s'era affermata col materiale e il linguaggio platonico.^
Oli scettici odièrni, come il Ferrari nella Filosofia della Rivoluzione,
e il Bradley (i due nomi vanno ravvicinati) nei suoi lati scettici tanto
dei Principles of Logic quanto di Appearance and Reality rinnovano
in sostanza le tesi essenziali di Sesto Empirico, riguardo al quale del
pari lo Zeller rileva, non senza aria di disprezzo, che egli si affatica
molto per raggiungere Idngst bekannten Ergebnisse:^ quasi che ciò
appunto non fosse una prova che non v'è Entwickelung ! Gli antichi
ionici ponendo come origine del mondo la materia allo stato liquido,
la materia senza qualificazioni o « indistinto », la materia allo stato
aeriforme, in ogni caso sospinta nelle sue trasformazioni da una forza
ad essa inerente e che la anima ab intas, hanno stabilito (ed ogni
pensatore non abbacinato dalla mania del sistema lo avverte 3) propo-
1 «Quel nuovo eleatico che fu B. Spinoza». Bertini, La Filosof. greca di So-
crate, p. 119).
* Grundrìss, p. 271.. E io stesso in Die Philos. der Griechen, III, 2, p. 43: « die
alten skeptischen Sàtze ».
3 Renouvier, Philos. Anal. de VHistoire, voi. I, p. 429 e seg. — Admason,
The Developnient ofGreek Philosophy {p. 12 « Anaximander's cosmical wiew presents
a curious if distant analogy to the very much later conception called technically the
Nebular Theory »). Altre analogie rileva Allievo, // Problema Metafisico, ecc., pp. 55, 61.
I
i8o Giuseppe Kensi
sizioni che abbiamo visto rinnovare quasi sotto i nostri occln* coi nomi
di « forza e materia », « evoluzionismo ^>, « trasformismo >, « teorìa della
nebulosa >. Bergson non si concatena in nessun modo (come sì è ten-
tato di mostrare) a Kant, né gli si può assegnare come posto un
aneilo qualsiasi in una pretesa Entwlckclung o Ziisammenhang della
filosofia postkantiana. Egli riproduce invece in tutta la sua pienezza e
sino al limite estremo l'intuizione eraclitea. Se ne vuole la sensazione
quasi tangibile ? « Io non vedo che divenire. Non lasciatevi ingannare !
Sta nel vostro breve sguardo, non nell'essenza delle cose, che voi cre-
diate vedere dovechessia terra ferma nel mare del divenire e del trascor-
rere. Voi avete bisogno di nomi per le cose come se esse possedessero
una rigida durata... La gente crede veramente di conoscere qualcosa
di rigido, terminato, consistente... Le cose stesse, nella cui fissità e
permanenza crede il ristretto intelletto degli uomini e degli animali,
sono soltanto il lampeggiare e lo sfavillare delle spade impugnate, sono
i punti luminosi della vittoria nella lotta delle qualità contrastanti».
— «Ciò che il senso non corretto presenta è una falsa impressione
di permanenza o fissità nelle cose, le quali in realtà hanno cangiato
la loro natura nello stesso momento in cui le vediamo e le tocchiamo.
E il radicale difetto nel modo abituale di pensare starebbe in ciò, che
riflettendo questa falsa o non corretta sensazione, esso attribuisce ai
fenomeni dell'esperienza una durabilità che loro realmente non appar-
tiene. Traendo da queste fluide impressioni un mondo di oggetti ferma-
mente delineati, esso conduce a riguardare come una cosa rigida e
morta ciò che è in realtà pieno di animazione, di vigore, di fuoco di
vita ». In questo schizzo che il Nietzsche ^ e il Pater 2 danno della filo-
sofia di Eraclito, è il pensiero di Eraclito o quello del Bergson che
vien tratteggiato? 3
Così, sono i pochi temi fondamentati che n'appariscono sempre.
Ma siccome usufruiscano sempre d'un materiale nella forma nuova e
1 Die Philosophie ini tragischen Zeitaiter der GriecUen, § 5 {Werke, Taschcnan-
sgabe, voi. I, p. 433-8).
i Marius the Epicurean (Londra, 1917, voi. I, p. 129).
3 La filosofia del Bergson, appunto perchè è la filosofia del flusso e non dell'ir-
rigidimento di questo nel concetto, non può a rigore esprimersi in parole, che que-
ste non sono che traduzione verbale di concetti. La intui/.ione bergsoniana non è che
ciò che con la frase mistica di S. Agostino si potrebbe chiamare ictus cordis. « Celles-Ià
seules de nos idées (egli dice, Les Donnccs immédiates, etc, XV ed., p. 103) qui
nous appartiennent le moins sont adéquatement exprimables par de mots ». Ora,
è interessante notare che l'eracliteo Cratilo rigettava appunto l'uso del linguaggio
adoperando per esprimersi sblo i cenni, come meno affermativi (Aristot., Metaf.
p. 1010, 7).
Il concetto di storia della filosofia i8i
di posizioni dei problemi diverse non nel fondo ma nelle linee super-
ficiali, ne sorge quella illusoria apparenza di sviluppo perpetuo, di cui
si giovano, come di un giuoco di specchi magici, gli assolutisti, per
dare parvenza di corpo al fantasma vuoto del loro concetto di filo-
sofia e storia della filosofia.^
La filosofia come lirica
Vano è dunque lo sforzo degli assolutisti per girare l'insupera-
bile ostacolo che le contraddizioni dei sistemi oppongono alla loro
tesi temeraria che il pensiero filosofico sia costantemente in contatto
e in fusione con la verità una ed assoluta; sforzo compiuto col tentar
di rappresentare queste contraddizioni come i momenti d'un unico
vero in isviluppo, i quali nella totalità di questo troverebbero la loro
conciliazione e la loro integrazione vicendevole. Invece, i punti di vista
filosofici opposti restano eternamente gli stessi, restano eternamente
contraddittori, si rifiutano eternamente di sopire il loro conflitto in
una fantastica unità superiore. Nessuno di essi si può mai, mediante
una dimostrazione logicamente costringente, ne cacciar fuori dal campo
della ragione, né imporre esclusivamente alla ragione. Essi si ripresen-
tano sempre: cioè sono sempre tutti razionalmente possibili. Tra di
essi, per quanto riguarda gli argomenti strettamente razionali, noi
abbiamo libera la scelta.
Che significa ciò ? Quello che abbiamo espresso dicendo che alle
proposizioni filosofiche non sì applica la categoria « verità-errore ».
Vale a dire che la filosofia non è scienza, che la filosofia non è la
verità.
Che si direbbe sé la geometria invece di essere da Euclide in poi
sempre quella medesima dottrina, le cui modificazioni consistono sol-
tanto nella perfezione di qualche particolare o in una qualche esten-
sione della sua area, si presentasse con andamento diverso e con con-
clusioni opposte in ogni suo cultore? Se vi fosse non una sola e
identica geometria per tutti i pensatori, ma se ogni pensatore potesse
i « Riguardo alla religione naturale non è facile trovare che un filosofo d'oggidì
sia in posizione più favorevole di Talete e Simonide ; egli ha preeisamente dinanzi a
sé le stesse prove di disegno della struttura dell'universo che avevano i primi greci.
Il ragionamento con cui Socrate, nell'arringa di Senofonte, confutò l'aleo Aristodemo,
è esattamente quello della Teologia Naturale di Paley. Irf* quanto all'altra grande que-
stione su ciò che avviene dell'uomo dopo la morte, non iscorgiamo che un europeo
finamente educato abbia maggior probabilità d'un indiano di essere nel vero... Inoltre
tutti i grandi enigmi che confondono il teologo naturale sono i medesimi in tutti i
secoli... Dunque la filosofia naturale non è una scienza progressiva » (Macaulay nel
saggio / Papi nei Secoli XVI e XVll, trad. Rovighi).
i82 Giuseppe Retisi
fare una sua geometria incompatibile con quella d'ogni altro, o se vi
fossero otto o dieci geometrie differenti dai punto di partenza al
punto d'arrivo, che i pensatori sì palleggiassero, altercando continua-
mente con l'affermare « la vera geometria è questa » e rispondere
« no, la vera geometria è quest'altra », lungo il corso di tutti i secoli ?
A chi verrebbe in mente di attribuire in questo caso alla geometria
il carattere di scienza e di verità? Ma ciò che si scorge chiaro in tale
ipotetica circostanza per la geometria, non si vuol scorgere per la filo-
sofia. E mentre questa si trova esattamente nel caso era supposto per
la geometria, si pretende, mediante enormi stiracchiature di pensiero
e grosse sofistificazioni, di conservarle tuttavia il carattere di scienza e
di verità.
La filosofia non è la verità. Né ciò la diminuisce. Nemmeno l'ai te
è la verità, in questo senso che essa ci presenti e si proponga di pre-
sentarci nozioni obbieUive universalmente vere, valeypli per tutti, sul-
l'essenza del mondo o dell'uomo. L'arte non ci presenta se non la
visuale personale che del mondo e dell'uomo ha l'artista, quella visuale
che il temperamento e la passione gli forniscono, e l'unica sua verità
consiste nella sincerità con cui tale visuale è colta e presentata. Ora,
questa appunto è la natura della filosofia.
1 professori di filosofia in senso scopenhauriano considerano bensì
questo modo di vedere come ciò che vi può essere di più profano,
dilettantesco e « letterario ». Ma a provare come esso invece abbia pieno
diritto di cittadinanza proprio nel campo filosofico, basterà addurre
l'autorità d'un così autentico filosofo come il Boutroux, il quale nella
prefazione alla traduzione francese dello Zeller dimostra che il concetto
di filosofia non si sostiene se non ricondotto a quello di arte (e, insieme,
pel Boutroux, di religione) e precisamente a quello di creazione arti-
stica personale. Basterà addurre l'autorità d' uno dei più sobri e pene-
tranti nostri pensatori, il Cantoni, il quale dal suo magistrale studio
su Kant (forse il più ricco di senno che sia stato scritto) approda alla
conclusione che la sintesi filosofica ha «del soggettivo e dell'indivi-
duale, perchè il filosofo nel formarla non compie un lavoro puramente
logico, ma un Ir/oro nel quale hanno anche larghissima parte le sue
stesse condizioni subbiettive » ; che « a conseguire tale veduta sintetica
e interpretativa si richiede un volo della mente, un'intuizione^ un'ope-
razione che ha qualche cosa di poetico e di geniale » ; che « come nella
poesia, l'uomo, fondandosi pur sempre sulle percezioni primitive del
senso esterno ed interno, colorisce e rappresenta sensibilmente il mondo,
mosso da un estro particolare che dicesi appunto poetico, così nella
metafisica egli deve fondarsi bensì sui principi razionali e sui dati delie
scienze, ma da questi deve salire, con un estro che chiamerei appunto
// concetto di storia della filosofia 1S3
metafisico, ad una spiegazione sintetica del mondo ». Quindi pel Can-
toni, «la metafisica potrebbe chiamarsi una poesia razionale; e varia
naturalmente, come la vera poesia, secondo le tendenze particolari
degli individui, pur essendo identico per tutti il fondamento da cui le
fantasie poetiche o le spiegazioni razionali sono o debbono essere
tratte». E quindi la ragione per cui la metafisica non è « concorde e
uniforme come è la matematica » è la stessa per cui ciò non si può
chiedere « alla poesia e all'arte in generale » : perchè cioè se « si trova
giusto che ogni poeta come detta dentro vada significando » così si deve
permettere « al filosofo, quando abbia genio ed ali poderose, di rap-
presentarsi il mondo come vuole il suo modo di pensare e di sentire ».i
La metafisica è dunque lirica. Come la lirica esprime non una
pretesa verità obbiettiva, ma un certo modo personale dì sentire la
vita, di provare la passione, di scorgere il mondo; come le note fon-
damentali che in essa echeggiano non subiscono né evoluzione né
incorporazione, ma sono rimaste sempre sostanzialmente le stesse
attraverso il corso dei tempi e riappariscono di continuo insonmier-
gibili l'una accanto all'altra; così la metafisica adempie, con diverso
linguaggio e con rispondenza a una diversa e più complessa natura
intellettuale, la medesima funzione, e i sistemi metafisici esprimono le
varie visioni, i vari punti di vista inconciliabili e irriducibili ad unità,
con cui si presenta all'umanità nel suo complesso, e ai diversi uomini
secondo i loro temperamenti intellettuali, anche ad ogni singolo uomo
in diversi momenti della sua esistenza — ed eziandio nello stesso
momento, se sappia ripercorrere con accurata imparzialità gli argo-
menti opposti — l'essere e il processo del mondo e della vita.
Essi, per quanto contraddittori e dìbattentisi in un reciproco con-
flitto non risolubile in alcuna unificazione, sono tutti veri, in ciò che
ciascuno è la verità per colui che lo fa suo, per quegli cui lo rende
vero l'irremovibile credenza profonda, per chi lo ha foggialo o vi ha
i C. Cantoni, Emanuele Kant (Milano, 1884, voi. Ili, pp. 422-4). Anche nel suo
Corso Elementare di filosofia (Milano, 1884, voi. I, p. 7) il Cantoni esprime il medesimo
concetto e cioè che nella formazione dei sistemi filosofici concorrono « 1* immaginazione,
il sentimento e certe tendenze soggettive della mente e dell'animo, variabili secondo
le età, i popoli e gli individui », per cui se i sistemi variano è perchè i concetti meta-
fisici che li costituiscono hanno « sempre un carattere individuale e storico, come
l'hanno i prodotti dell'immaginazione e del sentimento». (Ciò però non bene si coor-
dina con la tesi evolutiva cui il Cantoni sembra aderire nella prefazione al III volume
del Corso Elementare^ cioè alla sua Storia compendiata della filosofia). Queste due
autorità del Bontroux e del Cantoni potrebbero bastare a far ragione dell'atteggia-
mento che il Croce nella sua Logica prende verso l'« estetismo » filosofico: atteggia-
mento, al solito, d'un pedagogo che con la ferula scolastica lo fa definitivamente
stare a posto sul banco dell'asino.
i84 Giuseppe Rensi
ardentemente aderito con la passionale e imperiosa necessità che prova
il suo spìrito di vedere le cose in un certo modo. Ma per il pensatore
che lì considera tutti nel loro insieme, appunto a cagione di questa
verità che ciascuno presenta a chi lo ha fatto veicolo della propria
visuale del mondo e a cagione insieme della loro irriducibile oppo-
sizione, nessuno di essi (e tanto meno il loro logicamente ineffettua-
bile insieme organico) è vero nel senso che rispecchi una verità ob-
biettiva, impersonale, universale, uguale per tutti e che debba e possa
imporsi a tutti. Essi, adunque, non possono dirsi né veri né falsi, per-
chè qui la categoria « vero-falso » non trova presa, perché qui si tratta
del modo con cui il prisma del nostro spirito costruisce e colora in
noi rerum nataram, perchè si tratta del riflesso che ripercuote in noi
una realtà il cui obbiettivo in sé o non esiste od è inafferrabile.^
Non v*è piti grande bizzarria (sebbene la sua stranezza sia atte-
nuata dalla frequenza ton cui la vediamo ripetersi) di quella del filosofo
il quale esplicitamente o implitamente afferma la pretensione che il suo
sistema sia la verità. Basta riflettere alla semplicissima circostanza che
con ciò quel pensatore nega agli altri il diritto e la possibilità di pensare,
perchè se il suo sistema fosse la verità, non ci sarebbe più che da
ripeterlo e mandarlo a memoria, o tutt'al più da darne un^esposizione
migliore. Eppure il filosofo, nelPatto che pretende presentare il pro-
prio sistema come la verità, sa perfettamente che, non ostante ogni
voga che tale suo sistema possa conquistare, esso sarà sempre soltanto
verità per una piccola parte degli uomini, che altri opporranno altri
sistemi con la stessa pretesa che questi siano la verità, e che né i suoi
argomenti potranno porre quest'altri sistemi fuori dal campo della pos-
sibile ragionevolezza, né gli argomenti degli altri il suo. Così avviene
appunto, ad esempio, della maniera ovidiana e di quella petrarchesca
di sentire e liricizzare l'amore: esse sono incompatibili, si negano a
vicenda, son inassimilabili, nessuna si^^ascia assorbire con l'altra in una
unicità dMspirazione lirica e nessuna può espungere l'altra fuori del
campo deirarte, della verità, della vita — sebbene anche qui (e la ma-
nifesta linvalidità di questa pretesa in un campo illumina la medesima
invalidità che esiste nell'altro) ciascuna affermi di essere la sola vera
e guardi, con irrisione e disprezzo, all'altra come ad alcunché di falso.
Per chi non è cieco, per colui nel quale la più pedantesca aridità sco-
> « Tutte le teorie, qualunque sia la leale coscienza che faticosamente le elabora,
sono e dovono essere, per le condizioni medesime che sono in esse, incomplete, pro-
blematiche ed anche false. Sappi dunque ciò che questo universo è e ciò che professa
di essere : un infinito. Non tentar di farne il pasto della tua digestione logica »
(Carlyle, RivoL frane., trad. frane, voi. I, p. 71).
// concetto di storia della filosofia 185
lastica non abbia ucciso la possibilità d'ogni agile accorgimento e vi-
tale interpretazione dei fatti, ciò vuol dire che i sistemi filosofici sono
ripercussioni personali interiori come le creazioni artistiche, che sono
in fondo « impressioni » come quelle che producono e costituiscono
la lirica, per quanto elaborate su scala e con processi diversi. Né è
senza significato il fatto che i primi metafisici siano stati poeti-filosofi
e che anche oggi riguardo ad una certa lirica, come quella del Leo-
pardi e del Browning, sia manifestamente del tutto impossibile, nonf
ostante ogni sforzo e sottigliezza, di stabilire dei consistenti e precisi
caratteri che la differenzino dalla filosofia.
Risulta quindi, innegabile che « un sistema di metafisica, qualun-
que sia la pretesa al puro pensiero e all'assoluta razionalità da cui
prende le mosse, è sempre alla fine la visione personale d'un uomo
circa l'universo, e che l'anelito metafisico, spesso così forte nei gio-
vani, non è altro che il desideriodi raccontare l'universo come taluno
lo pensa; racconto che può meritare d'esser narrato, se è narrato
bene ».i Risulta, cioè che la metafisica è della medesima natura della
lirica, ed anche in ciò che nasce, al pari di questa, dal potente e in-
vincibile bisogno di dar corpo alla propria intuizione. E infatti, se il filo-
sofo esamina sinceramente sé stesso scorge tosto che non è tanto
perchè mosso dalla convinzione di esprimere una verità obbiettiva,
di dominio comune, quasi a dire pubblica, che egli scrive (perchè, al-
lora, scriverebbero gli scettici i quali a rigore non hanno da dire al-
tro che a loro appare non esserci verità?); ma unicamente per il gusto
di formulare per sé e manifestare agli altri il suo pensiero, per espri-
mere la propria impressione, il che è appunto il movente fondamen-
tale della produzione artistica: e di qui anche deriva che per ogni
filosofo il proprio sistema è un'intuizione, è evidente per sé stesso,
tanto che, in fondo, oghi filosofo, più che dimostrarlo, lo espone.^ Né
v'è a temere (come teme il Renouvier^) che con ciò la filosofia fini-
sca per essere un semplice dilettantismo. Giacché la lirica, cui la filo-
sofia viene assimilata, non é dilettantismo. È cosa seria e grave; e.
1 F. T. S. Schiller, Riddles of the Sphinx (Londra, 1910. Pref., p. VII).
2 « L'Ontologia (mi diceva il Rosmini) darà compimento al Sistema. Mi pare
impossibile, che chi la intenda e non voglia cavillare, trovi più nessuna difficoltà ad
ammetterlo per intero ». {Aristotile esposto ed esaminato, Avvertenza). Questo è pre-
cisamente ciò che, quando non rifletta addentro, pare ad ogni filosofo. Se ci pensa,
il filosofo sa bene che non esprime che una verità sua ; ma se non s'arresta a consi-
derare la cosa (a considerare, per esempio, che a tutti pare così) sdrucciola facilmente
a credere che la verità sua che egli scorge, mediante la sua intuizione, evidente, debba
essere verità, per tutti, cioè anche per intuizioni diverse.
3 Esquisse, ecc., II, 142.
i
i86 Giuseppe Rensi
come quella con cui diamo veste e voce ai moti più vitali e profondi
dei nostro spirito, ha per noi la stesra importanza di questi, vaio a
dire la stessa importanza della nostra vita, poiché è in fondo questi
stessi nostri più vitali moti ed impulsi che si prolungano, si infervorano,
assumono un'esistenza più tenace, calda, imperiosa, dominante, e quindi
gridano sé stessi al mondo. Essa è materiata delle nostre tragedie e
delle nostre esultanze, delle nostre lagrime e delle nostre ebbrezze, di
tutto ciò che costituisce per eccellenza il nostro io\ è tagliata ndla
stessa stoffa della nostra anima e la sua tinta è quella che le dà il
nostro stesso sangue. Come potrà ritenersi dilettatitismo la filosofia
se si dice che è questa medesima cosa e adempie a questa medesima
funzione? Come potrà perdere d'interesse la filosofia se si dice che
essa non è la verità, né come un sistema né come l'insieme storico dei
sistemi, che la sua attrattiva sta appunto non nel dare delle conclusioni,
ma nel presentarci dei problemi, che se questi divenissero soluzioni
la cosa sarebbe finita, l'interesse terminato — precisamente come l'iu-
teresse dell'arte sta nel darci, non soluzioni di problemi, ma esposi-
zioni di situazioni ?i
La filosofia e Fistinto
Ma se la metafisica è lirica, se i sistemi filosofici sono la riper-
cussione che le cose danno negli animi nostri, l'espressione dell'im-
pressione che ci fanno — esattamente come l'arte, e solo con forme
speciali di elaborazione concettuale, le quali non la differenziano per
natura della lirica^ più che la forma della canzone differenzi questa
dal sonetto, o quella della novella separi questa dal romanzo, o,^anche,
più che la forma del romanzo faccia di questo un prodotto di natura
così diversa dalla lirica come è rispetto a questa un trattato di ma-
tematica — allora, ne consegue che il più massiccio degli errori hege-
liani è la proposizione che tanto più la storia della filosofia sia vera
storia (per il che Hegel intende storia del movimento del pensiero puro)
quanta minor importanza attribuisce agli individui particolari.^ Preci-
» «L'Essere, il Pensiero, la Verità, il Bene, questi sono i problemi religiosi, e
di questi è da vedere se la filosofia sia in grado di risolverli : solo quando li abbia
risoluti, si potrà decidere se per la conoscenza irrazionale sia finita — o se non finirà
insieme anche la filosofia. Quando infatti sapremo, di che potremo noi filosofare?»
(Fraccaroli, V Edacazione Nazionale^ p. 93).
« « Die Hervorbringungen um so vortrefflicher sind, je weniger auf das besondere
Individuum die Zurechnung und das Verdienst fàllt, je mehr sie dagegen deni freier
Denken, dem allegemeinen Charakter des Menschen als Menschen angehòren, je mehr
dies eingeiithumlichkeitslose Denken selbst das producirende Subject ist » {Op. clt.,
ìVerke, voi. 13, p. 12).
// concetto di storia della filosofia 187
samehte il contrario è vero. « AI presente (osservava già giustissima-
mente il Credaro ^) non è chi possa scientificamente sostenere l'opi-
nione dell'Hegel che un sistema filosofico scenda dai precedenti uni-
camente per una necessità logica, e che quindi la storia della filosofia
si possa e debba costruire con un procedimento speculativo e dialet-
tico. Ogni sistema di scienza speculativa ha, nelle disposizioni e qualità
intellettuali e morali dell'uomo che l'ha concepito, un fattore individuale
assai forte, in generale non bastevolmente apprezzato. Se questo non
fosse, come si potrebbero spiegare le tanti differenti direzioni nel campo
della speculazione che si hanno e si ebbero fra pensatori nati e vissuti in
condizioni esterne fra loro non molto disuguali? Tutti hanno studiato
le opere principali dei più grandi filosofi; ma quale diverso frutto
ne hanno tratto? A quanta varietà e differenza di concepimenti non
furono essi condotti? ». Ciò, insomma, che, al contrario di quanto
vuole Hegel, ha mag^i^iore importanza per la storia della filosofia è la
personalità, appunto perchè il sistema metafisico, essendo lirica, non può
essere, come questa, che l'espressione d'un temperamento personale. ^
Czolbe pensava che « il materialismo e il sistema contrario na-
scono entrambi non dalla scienza e dall'intelligenza, ma dalla fede e
dal temperainenfo morale » e che « una certa composizione chimica
e fisica della materia cerebrale potrebbe èssere appropriata al bisogno
religioso, un'altra al bisogno ateo».'» A parte la forma paradossalmente
materialistica, il concetto è vero. Se i punti di vista filosofici fonda-
mentali sono sempre gli stessi, ciò che spiega il ripresentarsi di que-
sto o di quello, la ricostruzione che questo o quel filosofo nel suo
sistema presenta dell'uno o dell'altro, l'adesione infine che all'uno e
all'altro dà ognuno di noi, è unicamente il nostro temperamento, la
nostra natura profonda con le sue visuali irriducìbili e i suoi bisogni
che non nascono da ragioni ma che creano essi le proprie ragioni, è
insomma il « fondamento che natura pone ». La visuale e il tempe-
ramento ottimistico crea e accetta sistemi che travolgono a buon fine
« Lo Scetticismo degli Accademici (Milatio, 1893, voi. I, p. 96).
« Anche in qualcuno dei nostri più recenti e intelligenti storici della filosofìa
questo concetto comincia a riprendere piede presso di noi. « Sotto un sistema filoso-
fico vi è sempre un temperamento» (scrive il Bignone), e « nel passato noi cerchiamo
un'anima e una coscienza, con i suoi tratti personali, con le sue attitudini, a sentire,
a giudicare la vita in gioia e in dolore ; cerchiamo insomma un temperamento ^ un tipo
umano da aggiungere alle nostre esperienze spirituali » {Empedocle, Torino, 1916, pp. 23
e 28). Anche il Bodrero nella prefazione al suo Eraclito (Torino, 1910) ci sembra af-
fermare questo concetto della filosofia come « emanazione personale », come « creazione
dell'uomo » non sottoposta' alla coazione intellettuale che deriva dal ritenere « che la
verità è identificata con la realtà ».
s Citato da Lance, op. cit., ed. cit., II, 136.
i88 Giuseppe Rensi
i fatti più tristi e fanno del mondo una teofonìa, con una tenacia che
urta profondamente e sembra insipienza e menzogna al temperamento
e alla visuale pessimistica che invece costruisce o accetta sistemi in
cui ogni evento più lieto è interpretato sotto una luce disperante. Co-
lui nel quale è imperioso il bisogno di credere in un ordine del mondo,
creerà o farà suoi sistemi teistici, mentre trionferà la concezione atea
nel temperamento in cui predomina una visione della vita più arida
e sconfortata, colpita' e signoreggiata sopratutto dagli clementi del-
r« assurdo » e del « caso ». Uocchio di costui vede e dà rilievo sol-
tanto a ciò che v'è di stridente e mal connesso e ne ricava che il cosid-
detto ordine del mondo è un grossolano press*a poco, un adattamento
eretto da noi come meglio si poteva su di un fondo di cieca casua-
lità. All'occhio di colui le sconnessioni appariscono saltuarie e acciden-
tali, sfumate nella lontananza e nello sfondo del quadro, ed egli non
scorge che le regolarità che persistono nella solida impalcatura essen-
ziale delle cose. È sempre la struttura deirocchio che fa vedere posi o
così, « o gli atomi o la provvidenza », secondo il dilemma che si pre-
sentava ad ogni momento allo spirito di Marco Aurelio;^ che fa quindi
costruire od accettare Tuno o Taltro dei motivi fondamentali della spe-
culazione. Se sarà occhio virgiliano vedrà
Esse apibus partem divinae mentis ; *
ma se sarà occhio lucreziano scorgerà
Nequaquam nobis divinitus esse paratam
Naturam rerum: tanta stat praedita culpa.3
E questi appunto — poiché rispetto alle quattro concezioni ora ac-
cennate, ognuno è costretto a scorgere ciò che si rilutta a scorgere rìlpetto
ad altre, vale a dire che né l'ottimismo né il pessimismo, né il deismo
né l'ateìsmo, si possono conciliare in una sintesi unica, ovvero imporre
o ridurre al silenzio per ragioni, come una verità o un errore d'astro-
nomia o di fisica (da quanto tempo ciò sarebbe avvenuto, se fosse
possibile, nel dibattito millenario!) e che qtiindi se essi ripullulano
sempre di nuovo è perchè sgorgano' non dalla « scienza », non dalla
« verità », non dal « pensiero puro », ma da forme irriducibili di tem-
peramento * — questi appunto, diciamo, sono gli esempi più ovvi per
I IV, 3; VI, 10; X, 6.
« Geog., IV, 226.
3 De R. N. V, 198.
* Si rifletta alla giusta osservazione del Boutroux (nella pref. alla traduz. francese
dello Zeller) : « Chi oserebbe preargomentare (préjuger) le opinioni filosofiche d'un
uomo dalle sue conoscenze scientifiche ? »
// concetto di storia della filosofia 189
dimostrare che i sistemi metafisici e il loro incrociarsi ed alternarsi
sono dovnti al modo fondamentale di vedere e interpretare le cose, il
quale non si forma per ragioni né per ragioni si riduce, ma, irragio-
nato in se e nel suo profondo, fa germinare le sue ragioni; sono do-
vute all'indole in se immotivata che motiva e determina il senso di
importanza maggiore che diamo a questo o a quell'elemento della
realtà; sono dovuti, per usare la nota espressione di Nietzsche, al-
r« ordine in cui sono collocate le intime tendenze» del nostro essere;^
o, in altre parole, alle tendenze istintive della nostra natura.
All'istinto. Non può più apparire anacronismo, stonatura o igno-
ranza dell'ultimo figurino, il riaffermare ciò, se il più sottile metafisico
dei nostri giorni poco tempo fa confessava d'essere venuto nel segreto
dei suoi appunti personali alla conclusione che « la metafisica è la
scoperta di cattive ragioni a sostegno di ciò che crediamo per istinto,
e lo scoprire quelle ragioni è esso stesso un istinto ».2
Giuseppe Rensi.
1 Al di là del Bene e del Male. — Vedine il commento in De Oaultier, De
Kant à Nietzsche, p. 251 e scg. e in Riehl, Nietzsche (it., p, 15 e seg.)-
« F. H. Bradley, Ap/jcarance and Reality (Pref., p. XIV).
^.C^
HRZIQHaySMQ E STOHiCISMO
(Rapporti di pensiero fra Italia e Francia avanti e dopo la Rivoluzione francese)
{Continuazione; cfr. A. /, fase. I, II e IV)
Il problema della scuola e delia libertà nazionale
alla luce del positivismo storico.
Queste idee, che si aggirano nell* umile recinto delle possibilità
umane, e che vogliono promuovere le energie dell'umanità, senza af-
faticarla neiransia inutile di una età dell'oro inattuabile, penetrano
nella coscienza italiana attraverso i nuovi giornali e i nuovi testi di filo-
sofia, scritti di proposito per le scuole.
Sì inizia una fratellanza ideale fra scrittori e popolo. Si comprende
che la scuola ha una funzione non ancora messa a profitto, che anzi ha
la funzione precipua nell'opera di rifacimento sociale. La rivoluzione è
un cattivo metodo; appartiene agli spiriti troppo impazienti e frettolosi.
In tre anni, dice il Coco, la Francia ha voluto passare dall'età di Menenio
Agrippa a quella dei Gracchi ;i anzi, le idee sono corse molto più avanti,
un secolo più innanzi di quelle dei Gracchi; e perciò la repubblica
francese ha avuto un secolo meno di vita della romana! Ma ne seguì
anche lo spossamento, perchè « un eccesso di energia ne produce un
altro di rilasciatezza » ; 2 e accanto a questa, l'anarchia, che è sempre
l'effetto dei rapidi cangiamenti. Troppa fretta. « Urgenza! nome funesto
che distrugge tutte le repubbliche ».3 L'errore fondamentale è di non
avere fatto calcolo sull'azione delle forze collettive nel tempo; ossia, di
* Saggio storico, p. 193.
* Ibid., p. 197
* Fram. op. cit.^ p. 483.
Razionalismo e Storicismo 191
avere dimenticato il popolo. Rousseau ha detto che il popolo non ha bi-
sogno di educazione. E il popolo non fu educato ; e si parlò un linguaggio
astratto, che esso non intende. Eppure è in mezzo al popolo che viviamo,
è desso che forma la parte più grande della nostra patria, e che provvede
alla sua difesa e sussistenza.* E mentre si è tanto discusso sui prodigi del-
l'educazione, si è lasciata la scuola in balia d'una rettorica insensata, e
di regole insipide. Dalle nostre aule vediamo ogni giorno uscire dei grandi
pedanti e dei piccoli uomini. Ma se il progresso è l'effetto di una lenta
evoluzione, la nostra opera deve cominciare dalla scuola, in cui l'anima
dell'uomo apre le sue prime corolle e le tinge dei primi colori; purché
la scuola guardi alla vita, e senta in sé rifluire lo spirito dei tempi,
cjie é spirito popolare. Bisogna discendere verso la folla, studiare i
vizi e le sue virtù, per poterle dirigere al bene. Ce ancora troppa
aristocrazia negli ambienti scolastici: o libri superiori alla mentalità
dei semplici, o catechismi; insufficenti gli uni e gli altri per insegnare
le regole della vita agli artigiani e agli agricoltori delle nostre terre,
che sono la prima ricchezza nazionale. L' Italia deve conoscere il suo
popolo, se vuole utilizzare le sue forze ; solo così potrà formarsi una
propria filosofia, che é la condizione della sua grandezza e della sua
indipendenza. L'educatore, non deve proporsi di formare un uomo di
qualità, ma un uomo del popolo. L'amor di patria « nasce dalla pub-
blica educazione ».2 Ecco le nuove idee che indirizzano il secolo alla
vera democrazia: sono idee imbevute di senso nazionale.
Vincenzo Coco, che per il primo le ha chiaramente espresse e
divulgate, é il più italiano dei nostri pensatori. Nessuna preoccupa-
zione é in lui maggiore, che di resistere agli eccessi dell'influenza
francese e di avvezzare l'Italia, proprio durante i fasti dell'età napo-
leonica, si badi bene, a pensare col proprio cervello, a sentire col
proprio cuore ; ad amare le sue glorie, ad aver stima di sé, fiducia nei
suoi destini ; nessuno più di lui, fino all'epoca del Mazzini, cercò con
tanto fervore di studi e di opere il risveglio della coscienza storica d'Italia,
che nel suo pensiero voleva dire coscienza popolare, perché, é questa
secondo il Coco, l'operatrice sovrana delle vere e durature trasforma-
zioni. A questo mirava la sua attività giornalistica; a questo voleva
indirizzata la scuola.
Interprete sapiente, ne fu Melchiorre Gioia: modello insigne, quale
pedagogista, del cangiamento profondo che ha subito ogni patriota
cisalpino, attraverso l'esperienza del dominio francese: nell'ora vibrante
1 Oneste idee sono svolte negli articoli del Giornale italiano del 1804 e nel Pla-
tone. Cfr. Hazard, op. cit., p. 239 e segg., 251 e segg.
« Saggio, p. 174.
192 Ettore Rota
di sogni, era cosmopolita, francofilo, utopista; adesso è sopratutto
italiano, equilibrato, metodico, positivista.
Melchiorre Gioia non domanda alla educazione che essa formi dei
filosofi visionari, ma dei saggi artigiani, dei prudenti commercianti; non
vuole più il filosofo fabbricante di repubbliche, ma un uomo attivo
e produttivo, consapevole di tutte le difficoltà della vita, di tutti gli
inganni: capace di superarle e di causarli. L'Italia una, dovrà uscire dal
suo lavoro e dalla sua abilità; mediocremente dotta, ma sufficentemente
addestrata negli affari del mondo, nella « lotteria sociale », nei rag-
giri del mercato. Un' Italia forte nel campo agricolo-industrìale, e cogli
occhi bene aperti su tutte le cose del giorno che toccano i suoi per-
sonali interessi, diffidente di tutto e di tutti, ma piena di fiducia in
se stessa: ecco l'idea che anima gli Elementi di filosofia che il pia-
centino ha steso per le scuole italiane.
V'è un po' dell'anima chiaroveggente e franca di chi ha scritto
il Prìncipe; e l'opera si direbbe un Prìncipe a rovescio, in quanto è di-
retta al popolo, e coli' intendimento di dargli le norme pratiche per
bene condursi nella vita e per guardarsi dalle truffe, sia dei governi
che dei loro mestatori.
Eppure, nelle pagine del Gioia, vi sono proprio i precedenti più
prossimi di quel programma moderatp che è riuscito a cucire insieme
il nostro vecchio stivale. Il giudizio può sembrare esagerato. Ma la gene-
razione di uomini che va dal D'Azeglio al Cavour, ha vissuto di questa
educazione schiettamente borghese, che non risente più dell'enciclope-
dia, ma della realtà quotidiana; non del diritto naturale, ma del diritto
positivo; non della felicità ginevrina, ma della più modesta felicità che
nasce dal compimento di un dovere; educazione che sa di lavoro, dì
contratti, di operazioni finanziarie bene riuscite; amor di libertà disci-
plinata e prudente; precetti e dettami d'esperienza, più che principi
dotirinaj'i.
Educare l'uomo, per il Gioia, non significa prepararlo ad una vita
ideale, che non esiste, o dargli una certa somma di idee universali,
che egli non comprende e che lo esaltano di un falso orgoglio; significa
renderlo alto a vivere entro l'organismo della società, veramente con-
siderata nelle sue virtù come nei suoi difetti; significa dare al popolo
gli strumenti necessari per comprendere i fatti del giorno nella loro
giusta entità, per guardarsi dai molti ciarlatani in abito di gentiluomo.
Egli acconsente con Bacone, che « all'intelletto umano bisogna aggiun-
gere non ali, ma pesi». E dice chiaro: «non tutti i cittadini devono
possedere idee scientifiche e profonde, ma tutti devono possederne
delle pratiche e sane » ; bisogna calcolare sopra le energie della intera
gioventù, al fine « d'abituarla a sperare più nella proprìa attività che
Razionalismo e Storicismo 193
neW altrui favore » ; « primo dovere è di accrescere le proprie facoltà ;
secondo dovere è d'impiegare le proprie facoltà »i; oggi la filosofia
ha l'obbligo di rendere ogni individuo capace di compiere « i doveri
che la patria ha diritto d'esigere da tutti », « a riguardare come propri
nemici coloro che ingannano i popoli e i sovrani ».''^ Non è « scopo
della filosofia di formare alcuni pochi geni in mezzo di una moltitu-
dine ignorante e stupidamente ammiratrice, ma di rendere comuni
alla moltitudine gli utili concetti del genio, e sopratutto di svolgere in
essa la capacità di Intenderli e l'abitudine di applicarli ».3 Ecco la verità
fondamentale dell'educazione popolare : curare nell'alunno lo sviluppo
del cittadino, dargli \2i forma mentis per la vita; fare che la voce della
scuola risuoni nell'animo, come l'esempio della madre accompagna il
figlio che lascia la vecchia casa per farne una propria. Ma la scuola
è fuori della vita, o vi tende con mezzi incapaci : rettorica, pedanteria
filologica, o idee troppo universali ; vi sono manuali di filosofia, « come
per es. quelli dell'ab. Soave, che fanno morire assiderato qualunque più
coraggioso lettore » ; altri, come « la logica del senatore Destutt-Tracy »
il quale « impiega 671 pagine in^ carattere minuto per far sapere che
giudicare è sentire » ; non badano « alla capacità e ai bisogni dei gio-
vani lettori», i quali, «passati i primi anni dell' infanzia, vengono co-
stretti a studiare la teoria metafisica della grammatica, assolutamente
superiore alla loro cognizione, una lingua morta non bene intesa dagli
stessi loro maestri, applicata non a cose sensibili e comuni, ma talora
ad affari politici, stranieri alle idee dei fanciulli, talora ad oggetti mito-
logici che tendono a falsificare il loro giudizio »> La barbarie del me-
todo che comunemente si adopera produce questo effetto : « che il
frutto di lunghissima insopportabile noia si riduce a pochissime idee
confuse ed indigeste accompagnate o seguite per lo più da fortissima
avversione allo studio » ; e pare che le famiglie oggi si siano propo-
ste questo problema: «trovare il mezzo più sicuro per formare degli
imbecilli » ; ^ o che « vogliano fare dei filosofi, quando la natura vuole
che siano, quasi direi, bricconcelli ».^ Questi nostri giovani che vanno
a scuola per insaccare indigesta materia, assomigliano, dice il Gioia, a
certi viaggiatori che, per strettezza di -tempo, devono conoscere una
1 Melchiorre Gioia, Elementi di filosofia^ Milano, 1818, T. Il, p. 250 e segg.
t Ibid., I, XV.
» Ibid., I, XIX. 3
4 Ibid., II, 61.
5 Ibid., l. cit.
« Melchiorre Gioia, Del merito e delle ricompense^ Lugano, 1810, T. I, p. 231,
nota 9.
13 — Nuova Rivista Storica.
194 Ettore Rota
grande città in una sola giornata. « Troppo rumore, troppe cose,
troppa gente» direbbe un esquimese a Londra!^
Allo stesso modo, danneggia « una eccessiva generalizzazione » ;
Ir. fantasia accoglie volentieri i principi astratti; ma compiacendosi
spesso di prestare ad essi « un' impero senza limiti ed assoluto, sforza
la natura a piegarsi » ; ond'è che « i filosofi, per generalizzare sover-
chiamente un principio, misero alla tortura i fenomeni come il gi-
gante della favola, che voleva adattare tutti i suoi ospiti al suo
Ietto ».2 Con tale metodo, esemplifica il Gioia, Talete vede nell'ac-
qua il principio di tutte le cose, come Eraclito lo pone nel fuoco;
e collo stesso metodo Lucrezio fa nascere dal timore le religioni, e
Crizia dalla forza fa nascere le società; così Elvezio spiega tutte le
opinioni coll'interesse, e Malebranche attribuisce ai soli sensi i nostri
errori. Di questo passo, la Rivoluzione francese ha posto il dogma
dell'uniformità delle léggi sulla base dell'uniformità ^elle genti. « Per-
suasi che l'umanità è una, che la sensibilità fa di tutti i popoli una sola
famiglia, che tutti gli uomini sono diretti dal dolore o dal piacere, ten-
tarono alcuni di stendere uno stesso codice penale ai diversi popoli...;
colla stessa logica si vollero innestare su tutti i popoli moderni le isti-
tuzioni greche e romane, il che si riduceva a pretendere da tutti gli
uccelli lo stesso canto, da tutti i quadrupedi la stessa celerità, per tutti
i pesci la stessa acqua, per tutte le corporature lo stesso abito ».3 Le
idee universali non corrispondono ai bisogni della vita, soddisfano un
intelletto giovane «come le palle di sapone piacciono ai ragazzi per la
loro forma sferica e pei colori brillanti » ; ma spesso determinano delle
« combinazioni ideali, false e frivole » ; e non danno una soda istruzione ;
fanno il rivoluzionario, non l'uomo; rispondono ad una necessità del
momento, non alle necessità perenni « di cui facciamo uso giornaliero ».
Il complesso sociale, dice il Gioia, è fatto in gran parte di false apparenze ;
e sono queste che deve illuminare il filosofo, l'educatore. Talvolta, e spe-
cie in Francia, osserva il piacentino, si legge l'iscrizione Grand magazine
sopra la più miserabile bottega di rigattiere.^ Ma quanti aspetti della vita
ricordano quest'iscrizione! «Quasi dappertutto sono aperti banchi di
lotto ; l'insegna e l'iscrizione delle botteghe sono diverse, ma la sostanza
è la stessa: vendere speranze chimeriche in cambio di cose o di servizi ».5
Quale la causa, e quale il rimedio? « La vendita delle false speranze
1 Elementi di filosofia, II, 110.
« Op. cit., II, 159.
» Elementi di filosofia, II, 160.
4 Ibid., II, 133, nota 1.
» Ibid., II, 135,
Razionalismo e Storicismo 195
riesce più o meno pronta, più o meno lucrosa, in ragione dell' igno-
ranza dei popoli... ; l'ignoranza dava pregio a quelle merci che la scienza
ha screditate; e gli astrologi hanno diritto di lagnarsi dei progressi del-
l'astronomia, come i ciarlatani della fisica, gli alchimisti della chimica... e
così dite di ogni altra specie di scroccatori ».i L'educazione ha il suo
compito tracciato dalla fisiologia e dalla patologia della società, non
dalle aberrazioni di un pensiero filosofico individuale, E Melchiorre
Gioia pazientemente districa al suo Emillio la trama complessa del
mondo borghese, e gli addita tutte le false apparenze della sua facciata
umanitaria; gli dà la regola pratica per distinguere gli onesti e i traf-
ficanti, gli ingenui ed i simulatori; e gli fa anche vedere come debbasi
studiare il passato, e come si possa riconoscere il vero dal falso nelle
testimonianze storiche come in quelle di un processo criminale; le
fallaci parvenze di grandezza nei popoli e nei governi; e scende giù
giù, nei piani inferiori della vita sociale, e indica al suo Emilio le
« false apparenze » nelle arti e nel commercio, i trucchi dei mercanti
che vogliono mascherare un fallimento o spacciare una merce guasta... ;
lo mette in guardia dagli scritti dei parolai, dai gazzettieri venduti,
dai falsi annunci, dagli affissi ingannevoli sulle contrade...
Questa singolare pedagogia, che pare proprio fatta per una stirpe
d' ingenui-nati, non dà una giusta idea della sua importanza a chi non
rifletta che il Gioia parlava a un popolo deluso, ma ancora e sempre
credulone, e facile a lasciarsi sedurre o raggirare; la sua pedagogia
umile e piana, ha un retroscena politico che la giustifica, ha un fine
eminentemente nazionale; e infatti, Pietro Giordani ammirava assai
questi Elementi di filosofia, « non per alcun pregio di stile, non per
straordinaria acutezza d'ingegno, ma come ottimo sistema di educa-
zione » scòrgendo in essi « un Emilio più praticabile, adattatisslmo alla
vita e al tempi correnti ».2
Fu r incubo del Gioia : fare intendere al suo popolo in che mondo
viveva, svegliare gl'ingegni umili per battere i potenti, portare in su
le folle per deprimere il facile credito dei ciarlatani. A tale scopo avea
scritto un'altra opera, la sua prediletta fra tutte, Dei meriti e delle ricom-
pense, che sembra di erudizione storica, ma è di rivoluzione sociale;^
1 l. ciL
« Pietro Giordani, Epistolario edito per Antonio Gussalli, Milano, 1854, voi. V,
p. 152 e seg.
3 II Gioia propugna in quest'opera la ribellione ai governi che condannano i
novatori, e dice che Socrate doveva fuggire, sottrarsi all'impero della legge per recare
utile ai Greci col lume della sua sapienza (I, Ì59 e seg.) ; « qualunque infatti sia l'ori-
gine della società, gli obblighi sociali suppongono la garanzia di maggiori vantaggi,
e se la patria ci assicura i secondi noi siamo sciolti dai primi ».
196 Ettore Rota
intendendo con essa di muover battaglia non solo all'ignoranza, alleata
delle tirannidi, ma a quelli che, per giovarsi di essa, comprimono i liberi
ingegni e negano al merito la ricompensa adeguata.
A suo giudizio, Gian Giacomo Rousseau, coll'elogìo della soli-
tudine e dell'ignoranza, favorisce, pur non volendo, il persistere dei
vecchi titoli e privilegi e la loro fortunata speculazione nella grande « lot-
teria sociale ». Ma il filosofo ginevrino « aspirava più a far rumore che
ad essere utile »,i poiché «la solitudine non è il teatro della virtù.., e
l'uomo, anche volendo supporlo naturalmente buono, sarebbe in quella
condizione un gomitolo che nessuno svolgerebbe » ; 2 ma giacché la
società esiste e non si può sopprimere, è meglio farla conoscere in tutti i
suoi più minuti e più riposti congegni, affinché ognuno, dal più povero
al più ricco, dal più dotto al meno, sappia condursi coi propri occhi
e non sì lasci rimorchiare. « 11 popolo più ignorante é il più espo-
sto alle seduzioni » ; * e fra gli stati, « anche in dispari circostanze
quello é più forte che ha un popolo più istruito »,* potendosi sempre
provare, « con calcoli statistici, che la durata media dei regni é più corta
nei secoli ignoranti che nei secoli illuminati ». Ed il Gioia stupisce
assai che del parere di Rousseau fosse Napoleone quando affidava alle
Memorie di. S, Elena questo strano pensiero: «Je n'ai jamais com-
pris quel serait le parti que je pourrais tirer des études,- et dans le
fait elles ne m'ont servi qu'a m'apprendre des méthodes. Je n'ai retirè
quelque fruit que des mathematiques. Le reste ne m'a été utile à rien » !
Il Gioia vede la causa di questa indifferenza air« azione delle forze
intellettuali », nella manchevolezza generale del senso della continuità.
Il lavoro dell'intelligenza, dice, agisce in modo lento, ma d'ora in ora;
e avviene di esso come della luce, « che agisce senza strepito e
senza interruzione »; e «in generale, allorché le cose camminano len-
tamente col tempo... sfugge all'animo umano l'azione delle loro cause
costanti » ; l'indole dell' uomo é tale « che finisce per esser insensìbile alle
sensazioni divenute abituali » ; « gli uomini che resterebbero sorpresi
della loro mancanza, non si avveggono della loro esistenza », proprio
come « il passeggero sceso in un vascello, non accorgendosi di essere tra-
i Del merito, ecc., I, 136. — Il Gioia combatte anche le teorie del Rousseau sul
disprezzo della ricchezza; e osserva che «la ricchezza può bilanciare la forza» e un
popolo ricco può sfidare e il cieco coraggio delle nazioni barbare » (1,^148); la ricchezza
è quindi intesa dal Gioia come garanzia di indipendenza nazionale, la povertà come
l'antiporio della servitù.
« Elementi di filosofia^ II, 255.
3 Elementi, ecc., I, XV.
* Ibid., I, XVI.
Razionalismo e Storicismo 197
sportato, è insensil)ile al vascello clie lo trasporta ».i Ma ognuno porta in
sé il deposito di tutto il lavorio storico precedente : « lo spirito umano
è la somma dei pensieri di tutti gii uomini istruiti, è il genio aggiiuito
al genio, dal principio dei secoli siuo al presente. Esso cammina in
coinpai>nia del tempo; e mentre questi distrugge le opere materiali,
quegli raccoglie i metodi con cui furono costrutte...; le generazioni
non scendono nel sepolcro tutte in un istante, per riprodursi in un
istante dopo ; ma mentre uua parte sparisce, un'altra si rinnova, e tra
i padri e i figli si forma una catena ideale, dalla quale non è tolto un
anello debole, se pria non è formato uno più forte > :^
Questa concezione evolutiva dello spirito umano, uno nella conti-
nuità del tempo, continuo nella sua unità di azione, come un fiume
del quale si utilizzano le acque, quantunque non sì vedano le sorgenti,
presuppone in ogni individuo e in ogni età il dovere di collabo-
rare cogli altri individui e con le altre età; e pertanto eleva la fede nel-
l'educazione, al di sopra dello stesso ottimismo pedagogico di Cartesio,
di Leibnitz, di Helvetius, di Condillac; poiché, a rigore, la dottrina del
nulla mentale primitivo, legittima questo assurdo anti-storico: che la
civiltà può interrompere in qualunque momento la sua marcia faticosa,
sia per concedersi qualche sosta che per rifare altrimenti la via, senza
pregiudizio dell'avvenire. È la teorica rivoluzionaria dell'SO che in realtà,
slegando un secolo dall'altra), ed il presente da tutto il passato, con-
traddice ai suoi proprositi di fratellanza universale ; della quale meglio
persuade la dottrina storica del Gioia che vuol affermare « la re-
ciproca dipendenza dei popoli ».^ Infatti, se fosse possibile, con un qua-
dro storico comparativo, convincere l' umanità intera che il primato non
spetta a nessun popolo e a nessuna razza, che la civiltà è opera di tutti
e proprietà di nessuno, che essa è la risultanza di una legge di eredi-
tarietà universale continua ed eterna, che tutti i popoli hanno debolezze
uguali e abbisognano di uguali sostegni, che insomma nessuna stirpe
può vantarsi di non dovere proprio nulla ad altri e di avere fabbricato
sempre da sé il proprio avvenire, che infine, un dovere di mutua
obbligatorietà unisce tutti i membri dell'universo civile, nello stesso
modo che la legge di attrazione universale tiene sospeso ogni corpo
nello spazio, donde il dovere supremo di un vicendevole rispetto e
1 Dsl merito, I, 138. Sovente il Gioia, nei suoi Eiemsnti di filosofia, rimanda il
lettore all'opera sua Del merito, ecc.; è perciò che ci serviamo anche di questa per
l'analisi di quella. Ambedue le opere sono una propaganda popolare dei pregi del-
l'istruzione considerati da ogni punto di vista, individuale e sociale, morale ed eco-
nomico, civile e politico.
2 Del merito, ecc., I, 144.
3 Ibid., I, 143.
198 Ettore Rota
amore» — noi avremmo, io credo, dimostrato storicamente il principio
dell'uguaglianza di natura, e anche risolto il problema della pace
universale.
Adunque: non un postulato di pura ragione, suscettibile di contrap-
posti negativi e ugualmente razionali, ma la storia, insolubile intreccio
di forze ideali, può dettare le leggi di una democratica convivenza.
Così il problema dell'educazione, ispiratosi al concetto della pro-
gressività storica, diventa un corollario del nazionalismo italiano: ogni
popolo ha diritto a vivere liberamente, quando, liberamente e nel limite
massimo delle proprie attitudini, contribuisca al benessere universale.
Riepiloghiamo: durante il triennio cisalpino, il problema nazio-
zionale fu concepito in una forma eteronoma: la libertà doveva ba-
stare senza l'indipendenza: doveva piovere dal cielo di Parigi, doveva
essere un miracolo delja mistica trinità francese, consacrato dalla Ri-
voluzione. Dominava l'astrattismo. Nel periodo che succede alla battaglia
di Marengo, il problema nazionale è posto in una forma autonoma
e autoctona: la libertà è concepita con l'indipendenza ed il suo luogo
d'origine dev'essere il suo luogo di sviluppo; la libertà politica è in-
tesa come un- succedaneo dell'indipendenza culturale. La nuova Italia
deve uscire dall'intimità del suo pensiero, del suo lavoro, della sua
tradizione; pensare da sé, e fare da sé; con l'animo pieno della propria
storia, goduta e sofferta; resistere alla corruzione di ogni influsso in-
tellettuale straniero, accrescere la produttività agricola e industriale dèi
proprio paese; col cuore pronto alla ribellione; questi i primi doveri
dell'Italia, secondo il Coco ed il Gioia. Domina il positivismo.
È una filosofia che può scriversi sulla facciata politica di tutta l'Eu-
ropa contemporanea: vale per il periodo dell'Impero napoleonico, come
per il recente, ma già morituro, risveglio di napoleonismo prussiano!
È dessa il vero punto di partenza dell'epoca nazionale.
Il romanticismo nel conflitto fra storia e ragione.
In queste idee del Coco vi è l'essenza letteraria e politica del ro-
manticismo. E poiché esprimono un bisogno largamente sentito dì
reagire contro la dittatura intellettuale di un secolo che aveva lasciato
il vuoto nei cuori e nelle menti, circolano in tutta Europa. Si ritrovano
nella requisitoria di Madame de Staél contro l'abitudine di imitare la
Francia, si rileggono nelle pagine giornalistiche del Foscolo e del
Berchet come nelle pagine filosofiche di Fichte.
Imitare, é opera contraria a natura, perchè nell' imitazione non vi
è nulla di naturale;, questo il principio semplice e chiaro che illumina
le prime albe del secolo XIX. Senza individualità di pensiero, non vi
Razionalismo e Storicismo 199
può essere individualità di nazione: libertà significa rimanere fedeli
alle proprie tradizioni, risolvere le questioni indipendentemente e origi-
nalmente, secondo il proprio spirito; queste le conseguenze del principio.
Qui la nazione non è più concepita come opera d*arte, non di coltura ;
non di coercizione esteriore, ma di libero pensiero ; ma involontario
effetto di un fato geografico, ma conquista e conseguimento di auto-
nomìa intellettuale. E poiché il pensiero che astrae dal mondo si perde
dentro vie che non hanno sbocco nella realtà, per apprendere le leggi
del mondo sociale bisogna acquistare conoscenza della sua struttura e
del suo funzionamento, ossia bisogna rifarsi airesperienza del passato.
La nazione è dunque intesa come un complesso- di valori spirituali
maturati nel tempo e trasmessi dall'una all'altra generazione.
La storia si riabilita. L'insuccesso pratico della filosofia dell'illu-
minismo dimostrava per se stessa l'errore di avere messo a fronte
ostilmente il vecchio e il nuovo, nella stessa antitesi di barbarie e di
civiltà, l'errore di avere considerato come condannevole tutta la storia
precedente e come ottimo soltanto ciò che doveva scaturire dalle nuove
dottrine ; gli uomini che si trovarono ancora dinnanzi all'angoscia del-
l' insoluto, presero a concepire la realtà non più nella forma dualista
di male e di bene, di crolli subitanei e di nascite miracolose, ma nel-
r idea di graduale e continuo svolgimento : ossia che ogni età ha un
proprio compito da eseguire, e nell'esecuzione di questo, collabora al
progresso universale, che non è improvvisa risurrezione, ma la somma
di eredità parziali, integrate dall'interesse di ogni epoca successiva.^
11 concetto di sviluppo, che domina la storiografia del romanti-
cismo, accresce fiducia nei miglioramenti futuri. Il desiderio di libertà
che per Rousseau e gli individualisti francesi, era un'aspirazione senti-
mentale di un ideale razionale, una passione sorretta dalla convinzione,
è ora inteso quale necessità storica inevitabile, con l'appoggio giurì-
dico dei precedenti tradizionali. A nessuno piaceva più di costruire con
elementi di astratta ragione, e il materialismo stesso non voleva più
essere naturalistico, ma storico.^ Si principiava a vedere la storia in
armonia con la natura, ed il suo processo dialettico in corrispondenza
con la dialettica del pensiero. Tutto mostrasi pervaso dallo spirito della
storia : storicità non solo è naturalezza, ma verità : il Manzoni si serve
dell' idea di sviluppo, applicata alle passioni degli uomini, per dimostrare
che da essa deriva una maggiore veridicità sulle scene, e quindi un certo
contenuto morale del dramma storico; la rappresentazione di un delitto,
1 Cfr. Benedetto Croce, Teoria e storia dilla storiografia, Bari, Laterza, 1917,
Capit. VI.
« Ibid., p. 246. ^
20O Ettore Rota
liberata da limitazioni di tempo e dì luogo, e svolgentesi in tutte le
sue gradazioni, dalle cause lontane sino all'azione finale con le lotte
interiori che l'accompagnano, acquista un valore etico che difficilmente
può avere in una rappresentazione serrata, precipitosa e convenzionaleJ
Questa guerra dei romantici contro le norme aristoteliche, con-
tribuisce a sua volta allo sviluppo della storiografia.
La lotta letteraria contro l'unità di tempo, e la nuova abitudine
di vedere il fatto attraverso una larga distesa e concatenazione di
eventi, fanno meglio apprendere la diversità dei tempi ed il loro valore,
o individuale o in rapporto all'universale; danno il concetto del rela-
tivismo storico che è la chiave di volta per una interpretazione del
mondo politico, piìi rispettosa verso i diritti di ciascun popolo alla
propria libertà di vita e di sviluppo.
Ma varie forze impedivano ancora che questa idea di svolgimento
potesse diventare il pùnto di partenza di una visione positivista della
storia, quelle appunto per cui l'epoca del romanticismo si distingue
da quella più scientifica che è legata ai nostri giorni.
L'ora che passava sull'Europa echeggiava di rintocchi funebri e di
ricordi mistici; dapprima le guerre di Napoleone, spargendo dovunque
il terrore, avevano risospinto i popoli vèrso i porti abbandonati della
fede; di poi il saliscendere della sua fortuna, da ultimo il tonfo nel
vuoto di S. Elena, avvicendavano l'idea della vendetta. divina, nei vinti
di ieri, con l'impressione della fragilità delle cose umane, nei popoli
o nei partiti che erano stati vincitori. Una diversa e antitetica filosofia
della storia doveva scaturire dalle due opposte parti: la soggettivazione
della divinità, dall' una, insieme con l'orgogliosa idea di popolo eletto e
destinato alla rigenerazione universale; dall'altra invece, l'impotenza
dell' uomo a superare i limiti della sua umanità senza l' intervento di
una grazia divina redentrice, insieme con la visione dolorosa dell'esi-
stenza, e la sua finalità posta fuori del mondo.
Il presupposto religioso era insito nella stessa idea di sviluppo,
che faceva derivare il bene dal male, e che in quest'ultimo lasciava
vedere un elemento provvidenziale. Senonchè, al problema di Dio do-
vevano mettere capo le due immancabili soluzioni : Dio in noi, o Dio
fuori di noi. All'una si apprese la Germania di Fichte, il quale voleva
esercitare la più terribile suggestione nell'anima di un popolo abbat-
tuto e dormiente ; l'altra fu l'espressione più romantica dell' Italia di
Silvio Pellico, di Alessandro Manzoni, dei carbonari, dello stesso Maz-
zini, che sapevano di parlare a un popolo meno lontano che quello
1 Cfr. Alpredo Galletti, Manzoni^ Shakespeare e Bossuet/\n Studi di filologia
moderna, anno IV, fase. 3-4 (1911), p. 227.
Razionalismo e Storicismo
tedesco dagli ideali di libertà, e meglio educato alla paziente, rasse-
gnata, ma fiduciosa attesa.
Così nel tempo stesso che sì forma l'auto-coscienza nazionale,
questa, nell' idolatria del proprio io, nel delirio del proprio potere, già
trabocca in aspirazioni imperialiste che invaderanno, a non lungo an-
dare, le zone di nazionalità etnica e vi si sovraporranno in nome di un
altro concetto, quello di universalità, che dovrà alimentare a poco a poco
un più pericoloso napoleonismo. Un'altra volta la filosofia vuole tra-
dursi in istoria, e con ambizioni più avventate perchè non procede
solo in nome di un principio astratto, ma di un principio che pretende
dì avere le sue giustificazioni nella logica del divenire. Per la Germa-
nia che dopo il disastro di Jena si è vista riabilitata dal congresso di
Vienna, Vessere e il pensare si sono trovati d'accordo in un ritmo
dialettico comune ; Videa può dunque camminare alla conquista del
mondo, avendo Dio con sé. Il romanticismo tedesco elabora nell' Uni-
versità di Jena i più arbitrari sistemi, in cui il metodo storico-psicolo-
gico, che pareva" dispensare ai popoli i loro diritti nazionali, viene tra-
viato per dare libero slancio all'imaginazione nei regni dell'assoluto.
Spogliarsi dell'umanità e salire fino a Dio ; questo il sogno dei filosofi
romantici tedeschi, Era la dottrina di Plotino e della scuola Alessandrina
che Novalis tentava di restaurare; la statua della deessa di Sa'is por-
tava questa iscrizione: « Nessun mortale può togliere il mio velo» ;
uno dei discepoli aveva detto : « Se nessun mortale può togliere il velo
della Dea, dobbiamo noi stessi divenire immortali ». Novalis ripetè la
stessa frase e ne fece il programma superbo della nuova Germania,
che gridò con lui: « È necessario che io diventi Dio ». E la storia,
insieme con la natura furono invocate a sostegno di questo presuntuoso
ideale. Fichte e Hegel videro la storia in marcia verso l'assoluto, e
questo venire incontro all'umanità per il tramite della razza bionda;
Stahl vide il cosmo popolato di fluidi imponderabili che di sé com-
penetravano l'uman genere, specie di rapporti inconsci fra le cose e
lo spirito, ma più propriamente fra l'essere divina e il popolo eletto
di Dio. Natura e storia parvero associate: ma per esiliarsi in un mondo
metafisico, dove una grande follìa egemonica nutriva la pretesa di
ricostrurre in terra l'universale.
Dì fronte al concetto dell'immanenza di Dio, riservata e privile-
giata al popolo tedesco,^ il principio originario di svolgimento perdette
ogni ragion d'essere ; ma già lo si vede spodestato nei famosi Discorsi
del Fichte; il quale lo nega implicitamente quando determina uno svl-
1 V. Balbino Giuliano, // primato di un popolo, ed. Battiate, Catania, 1916,
pp. 79e segg. ; e Erminio Troilo, La filosofia e la guerra, Milano, Treves, 1916, p. 71.
J02 Ettore Rota
luppo-Iìmìte alle razze latine e le rappresenta come spoglie di spirito
sovrano, esauste di vita, per trasferire al suo popolo il diritto di gui-
dare il mondo con la consapevolezza della propria superiorità. Ma
ancora meglio contraddice al principio di sviluppo, quando vuol attin-
gere questa superiorità non più dal fattore tempo, come aveva fatto
nella esposizione delle tre epoche del mondo, ma dalla verginità lin-
guistica dei tedeschi, dal loro stato di purezza primitiva, dalla conser-
vazione di tutti gli attributi divini, in forza di questa esistenza incon-
taminata dagli incroci della storia.^
Questa concezione rappresenta lo sforzo più formidabile per con-
ciliare insieme l'ideale e il reale, la filosofia e la storia; ma il suo
razionalismo idealista è la maggiore negazione della storia perchè mira
a negar il genio di tutti i popoli, tranne uno, per affidare a. quest'ul-
timo la direzione spirituale del mondo ; sforza la trascendenza ad essere
realtà, riconsacra il diritto divino nell' io umano, vuol realizzare l'asso-
luto, che è r irrealizzabile eterno ; arriva ad una forma peggiorata di
napoleonismo, contro il quale era primamente insorta; vuole ridurre
l'uomo tutto a spirito, come il secolo XVIH lo voleva ridurre tutto a
ragione, ma in realtà materializza questo spirito sovrano nella concu-
piscenza di egemonie terrene ; vuole attuare il processo dialettico del-
l' idea, ma isolando l'attuazione di questa idea in un popolo, la spoglia
della sua universalità, che poteva invece affermarsi nel concetto di
cooperazione e di solidarietà umana.
È quindi una veduta anti-storica, anti-sociale, anti-naturale, nono-
stante il suo sfoggio di storicità di filantropia e di naturalismo.
Lo spirito romantico dei popoli latini è più prossimo a Cristo che
a Napoleone, ed è anche meno lontano dallo spirito liberale della
Rivoluzione, che può considerarsi essenzialmente cristiana nelle sue
aspirazioni di umanità e di fratellanza. Anch'esso vuole conciliare la
società con la natura e con la storia, ma assegna ad ognuna una propria
sfera di attività e di poteri, meno discordi dalle possibilità reali.
L* uomo è concepito a distanza da Dio ; non l' universo preordi-
nato a profitto di pochi, ma sede di impenetrabile mistero, ammoni-
mento perenne della inferiorità mortale; non fantastica e sfrenata
tendenza del finito a perdersi nell' infinito, ma moderato senso di lon-
tane cose, salutare richiamo della terra al cielo, e più che altro, dolore
d'anima in esilio, rimpianto di una patria ancora in sogno.
Nel romanticismo tedesco la tendenza razionalista dell' illuminismo
francese diventa una morbosa ed egoistica idolatria del proprio pen-
» O. Fichte, / discorsi alla nazione tedesca, trad. di E. Burich, Ed. Remo Sai.»
^ron, Capp. IV e VII.
Razionalismo e Storicismo 2o3
siero e del proprio volere in contrapposto a quello di altri ; e finisce
per razionalizzare T immanenza divina; in quello occidentale T infalli-
bilità della ragione viene sottoposta a duro processo coi raffronti del
mondo biologico, dominato dalla legge di continuità, che sconsiglia
dai procedimenti rivoluzionari, dai mezzi di violenza, dai deliri del-
l'orgoglio personale e nazionale; oppure viene controllato dall'espe-
rienza storica, in cui il sogno dell'ideale si risolve tragicamente.
L' uno è panteista e guarda all'evoluzione dello spirito libero e sca-
pigliato, l'altro è cristiano e bada all'evoluzione del fenomeno vita,
soggiogata da una tragica fatalità, spesse volte* anzi a ritroso della lo-
gica astratta. Da questa apparenza d' irrazionale, il romanticismo latino
deduce la conferma, che il fine umano è al di là della esistenza sen-
sibile e si raccoglie nell'intimità della fede senza rinunciare all'azione.
Permangono in esso gli ideali di umanità, di giustizia, temperati
da una più modesta e reale interpretazione delle forze umane, corretti
da un più saggio equilibrio fra idea e sentimento.
Il romanticismo latino cammina sulla via della psicologia storica,
della storia che cerca di avere una importanza scientifica, acquistando
conoscenza dell' uomo mediante lo studio del suo passato, con l' inda-
gine del suo mondo interiore messo in rapporto con le variazioni del
complesso sociale, e mediante l'analisi comparativa dell'uomo con i
vari esseri e fenomeni di tutto il mondo organico e naturale.
Qual'è r idea nuova, il valore pratico, che il romanticismo contrap-
pone all'illuminismo in seguito a questo suo amplesso con la storia e
con la natura ? La filosofia del secolo XVIII aveva posto nel benessere
il fine ultimo dell'uomo, ed il suo angustiante problema era la ricerca
dei mezzi per attuare la felicità universale. Alessandro Manzoni risponde
che la felicità non si. può raggiungere, che la storia di tutti i tempi
e di tutti gli uomini ne è la tonferma, che i suoi drammi si chiudono
con la rovina dei protagonisti; ed anche le individualità più rappre-
sentative che hanno goduto di una vita più intensa, muoiono inquieti
e insoddisfatti, sgomenti dei loro stessi ideali. La storia, dice il Man-
zoni, ci fa sentire « quel fondo comune di miseria e di debolezza che
dispone ad un' indulgenza fatta... di ragione e d'amore ».i
La storia è dunque lo specchio della natura umana, intessuta di
amarezze e di fragilità ; essa è pertanto la buona educatrice, che rivela
il senso giusto della vita, che dà la misura delle nostre capacità, che
chiama a raccolta tutti gli uomini dietro la voce di un dolore, dovunque
diffuso. Le leggi dell'incremento sociale non si potranno determinare
per via di puro interesse, perchè nella natura la parte più nobile è
1 A. Galletti, op, cit, p. 231.
204 Ettore Rota
occupata dal sentimento; e un'idea potrà essere attiva solo quando sia
ewuaia nel cerchio magico delie passioni.
È forse questa filosofia di tanto deprimente di quanto era stimo-
lante la filosofia del romanticismo germanico? È questa la parola nuova
per le generazioni dell'Occidente che hanno assistito al crollo di Wa-
terloo? Questa filosofia non edonistica, che educava alla scuola del
soffrire, delle pazienti attese, della rasse[>nazione operosa, era la piìi
adatta per un popolo al quale si dovevano chiedere i più grandi sacri-
fici ed i più generosi eroismi: è dessa che prepara la dottrina mazzi-
niana del dovere e della vita-missione attraverso la quule doveva iniziarsi
la nostra emancipazione. Si riattacca a quella del Coco e la completa:
indipendenza intellettuale, vita di pensiero tutto nostro, fino al sacri-
ficio dell'esistenza per la sua individualità e nazionalità.
I residui del razionalismo e i fattori dell' iucivilidiento
in G. D. Romagnosi.
Ma un pensiero che ha percorso il mondo alimentando gli spiriti
per tre quarti di secolo, non improvvisamente può scomparire. Nel tra-
passo da una ad altra idea, vi è sempre chi tenta la sintesi del passato a
profitto dei nuovi bisogni che pure determinano nuove correnti ideali.
L'ingegno poderoso che riassume la sociologia razionalista con
una mentalità che sarebbe difficile definire se più francese o più ita-
liana, e con la vecchia illusione dì poter svilu()pare ad arte i fattori del-
l'incivilimento, tenendo calcolo di tutte le voci moderne, è Gian Do-
menico Romagnosi.
Tra le prime raffiche rosminiane contro il sensismo (che è già
barcollante in un sensista, il padre Soave), e le prime fortunate ac-
coglienze al kantismo (che si apre uno spiraglio con Adolfo Testa) il
Romagnosi è ancora indeciso, a tal punto che sembra essere di nes-
suno e di ambedue nello stesso tempo ; i seguace di Condillac, rico-
nosce nella formazione delle idee la presenza di elementi estranei al
senso che egli denomina cpn oscuri neologismi, derivandoli da un
senso lògico e razionale, il quale accenna senz'altro al principio della
spontaneità del pensiero; ma disdegna ogni accordo con la scuola
trascendentale; e del resto è separato nettamente da Kant in quanto
non assegna ai principi razionali un carattere di universalità e di ne-
cessità conferiti dalla « Critica della ragione pura ».
Ma nel metodo col quale elabora i problemi del mondo, e nel
fine a cui subordina la sua elaborazione, il Romagnosi è già tutto
1 L. Credaro, // kantismo in Romagnosi in Boll. It. di filos., anno 2", voi. II.
Razionalismo e Storicismo 205
francese.! II Mazzini disse di lui che nessuna via nuova aprì all' intel-
letto italiano, e che il merito suo è di avere mirabilmente riassunte le
idee e le discussioni del secolo enciclopedista.^ Questo giudizio fu
confermato dal grande discepolo Giuseppe Ferrari.^
La mentalità geometrica del Romagnosi lo pose in antitesi con
Vico e lo accostò all'indirizzo cartesiano; Io fece essere meno audace
neir intuire nuove verità, ma più atto a schiarire e ordinare in un com-
plesso sistema le verità già intuite da altri.
Col Romagnosi riacquista fortuna il metodo anti-storico della
scuola sensista che egli apprese a conoscere attraverso il « Saggio ana-
litico » del Bonnet. A simiglianza di Rousseau, egli non studia la
psicologia dei popoli sulla trama del passato ; anzi muove a Vico Tap-
punto di essersi sperduto nelle tradizioni storiche e di aver preteso
di fissare sulla loro base i principi della vita e delle genti. Il Roma-
gnosi non interpella la storia per uno studio contemplativo sulle orì-
gini e sui progressi di un dato fenomeno sociale, ma per chiarirne la
loro efficacia pratica e per indicare allo statista il mezzo onde ridurlo
in valori reali.
È la stessa concezione e Io stesso uso che della storia avevano
fatto il Montesquieu e Voltaire. II Romagnosi recinge in teoria « le
zotiche e materiali metafore di orme impresse su di una tavola rasa » ;
proclama che « la suscettività energica dello spirito » non è una morta
capacità come quella di un vaso... bensì la potenza di agire in un
modo determinato dall'indole propria, in conseguenza di dati im-
pulsi ; * ma la psicologìa del Romagnosi, e quindi la sua filosofia ci-
vile, prediligono lo stùdio dell'individuo singolo, isolato, astratto; ossia
immaginario e artificiale come le metafore da lui riprovate. Nella « Ge-
nesi del diritto » muove dall' ipotesi dell' individuo nella condizione di
selvaggio per trovare la base della teorica sociale sulle pene. Ripete
il metodo di Rousseau di rintracciare una base ai diritti e ai doveri
sociali in uno stato che è negazione della società; nel quale per-
tanto, come diceva il Alazzini, « esistono necessità individuali, diritti
non mai ».5
11 Romagnosi argomenta così : l'uomo ha diritto alla propria coil-
» La prima opera del Romagnosi {Genesi del diritto penale) h del 1791. Ma poiché
le altre sono applicazioni dei principi esposti in essa e poiché tutta la sua filosofia è
una veduta retrospettiva del secolo XVIII, abbiamo preferito trattare di lui ora in com-
plesso, sebbene queste pagine già abbiano toccato del segolo XIX.
« Mazzini, Scritti, voi. IV, Roma, 1881, p. 227.
8 La niente di G. D. Romagnosi.
* Romagnosi, Opere, I, 262.
5 Mazzini, voi. cit., p. 325.
2o6 Ettore Rota
servazione, sia nello stato di natura che nella società ; se in quello usa
la forza contro la forza, in questa può usare di ogni mezzo necessario
alla sua difesa ; e come usa della guerra contro i nemici esterni ; così
può usare delle pene, adeguate ai delitti, per reprimere con l'esempio
la spinta criminosa, ossia per eliminare i perturbatori dell'ordine
sociale.
Il Romagnosi qui si ritrova con Rousseau, che ha considerato la
pena quale conseguenza del diritto di difesa, ossia una necessità alla
conservazione; e come Rousseau difende pure la pena di morte.
Dalla tendenza naturale dell' uomo alla propria conservazione e
al proprio benessere, e dalla necessità di usare certi mezzi per un
dato fine, necessità ricavata dai rapporti reali delle cose (Montesquieu),
il Romagnosi deriva la nozione pratica del diritto e del dovere,^ ricol-
legandosi alle teorie edonistiche di Helvetius e alla psicologia determi-
nista del Bonnet.
Helvetius ha detto che il giusto e l'ingiusto, come il bene ed il
male, non sono che modificazioni dell'amor proprio ; tradotte in forma
di leggi per la massima utilità; Bonnet ha dimostrato che i movimenti
intellettuali sono prodotti da movimenti fisici della macchina umana,
impressi dal monda esterno. Il Romagnosi inverte questa veduta, e
dice che i diritti e i doveri sono mezzi razionali, necessari al funzio-
namento della macchina sociale e determinati dall'attrazione della fe-
licità ; regolati in modo da riuscire sempre forze utili all' umano con-
sorzio; quindi il diritto criminale deve misurare i provvedimenti sopra
il massimo tornaconto comune.
Il Romagnosi, dominato nel diritto e nella morale dall' utilitarismo
pratico della scuola francese, identifica il benessere sociale colla giu-
stizia, l'economia pubblica con le finalità dell'etica.
Qui appare a viva luce la distanza del Romagnosi dal Vico ; questi
assegna, all' umanità un fine morale e religioso, e lo fa procedere in
armonia con le leggi della Provvidenza ; quegli assegna all' umanità lo
scopo di effettuare le condizioni di una piacevole convivenza. Il giusto
e l'ingiusto non hanno un valore di fronte al sentimento, sono la
conformità o difformità dalla norma propostasi dall' uomo stesso ; di-
ritto o dovere solo valgono come elementi del meccanismo sociale.^
Ma la spiegazione sensista della coscienza è connessa in modo più
stretto con le teorie sull'incivilimento.
Bonnet ha detto che nel potere dell'anima di accogliere impres-
sioni e di reagirvi accrescendo così i propri moti, è la sorgente della
i Ferrari, La mante di G. D. Romagnosi, Milano, 1913, p. 14.
* Cantoni, O. B. Vico, ecc., op. cit., pp. 295.
Razionalismo e Storicismo 207
perfettibilità della specie; la civiltà dunque è opera del mondo esterno,
e sarà più intensa in quanto saprà disporre di un numero maggiore
di mezzi per produrre nella psiche umana impressioni e movimenti ;
Helvetius aveva ricavato dal sensismo una spiegazione più bizzarra
del progresso, che definì opera delle circostanze esterne felicemente
combinate dal caso.
Il Romagnosi non esce dall'ambito segnato da queste idee e ri-
pete l'inutile fatica del secolo XVIII di ricercare quale sia il governo
più adatto a perfezionare la legislazione civile e quali siano i fattori
dell' incivilimento. Egli considera quest' ultimo come un complesso di
funzioni razionalmente ordinate, e la perfettibilità come un'attitudine
a ricevere l'educazione artificiale dell'incivilimento. Non ammette con
Vico che sia l'effetto spontaneo delle facoltà di ogni nazione, perchè,
a suo avviso, la storia mostra la più alta ripugnanza delle genti ad
abbandonare lo stato selvaggio; non è vero per Romagnosi che tutte
le nazioni possano elevarsi in forza di un interno impulso ; ma per il
concorso fortuito di circostanze particolari : religione, agricoltura, go-
verno, opinione, concepite come potenze che agiscono in tempi diversi,
in modo separato, esteriormente allo spirito umano; non già riunite
nella sintesi dello spirito umano, attivo e passivo nel medesimo tempo.^
Ne viene di conseguenza che lo stato può giovarsi di tutti gli
elementi costitutivi della civiltà per raggiungere un fine di benessere;
allo stesso modo che il pilota può giovarsi del vento e del timone per
spingere la nave in una data direzione.
E come i filosofi di Francia amavano di porre in armonia i fe-
nomeni dell' universo fisico coi fenomeni dell' universo morale, così il
Romagnosi tenta di definirne le leggi comuni ; vede nella natura e
nell'umanità una forza di inerzia ed una d'impulso, una tendenza al
completo pareggio dei bisogni e delle soddisfazioni, una gravitazione
costante verso questo equilibrio ; e quindi « una meccanica intellettuale
e politica delle nazioni ; » che fa della « filosofia civile, una fisiologia
degli stati ».
Tutte le tendenze del filosofismo francese si collegano in un ampio
sistema logicamente costrutto: la critica filosofica, che trova fatica ad
estendere il concetto dell'esperienza dall' individuo alla società, dal pre-
sente a tutto il passato ; la storia, abbassata a rice.ttario dei governi ;
r incivilimento, ridotto a produzione artificiale, come un fiore di serra ;
le crisi storiche, stati morbosi in balia dei governi, come ammalati in
balia di medici ; il mondo morale, semplice congegno in funzione della
macchina fisica ; e questa, moventesi con gli stessi ordigni dell' universo
1 Cantoni, G. B. Vico, op. cit., p. 290.
2o8 Ettore Rota
cosmico; il bene ed il male, forme soggettive della convivenza, ima-
ginate a utilità del genere umano. E tutto questo incardinato sopra
il sensismo condillacchiano, poiché (giova ripeterlo) la spiegazione sen-
sista della conoscenza presuppone una data filosofia civile, in quanto
che, posti air infuori dello spirito umano gli agenti dello sviluppo
psichico, rimangono esteriori anche gli impulsi del meccanismo sociale ;
e allora tutto ciò che si attiene ad esso, governo, politica, religione
legge..., costituiscono altrettanti mezzi dell'incivilimento medesimo ; sono
vie scorciatoie del percorso umano per l'attuazione sollecita del suo
benessere, segni di abbreviazione coi quali l'artefice-stato può indicare
sulle tavole del mondo le direttive dei popoli e. delle nazioni.
Ne deriva che è possibile trasformare la società, trasformando le
leggi; e in pochi anni affrettare l'opera dei secoli; ne deriva che la
religione può essere modificata per convenienza ; X uguagUanza ottenuta
con la forza; il diritto imposto con le armi; e la libertà può diventare
sconfinata, e sconfinato può essere il potere politico, poiché un fine
ha dei limiti, ma i mezzi sono illimitati ; ne deriva insomma che lo
stato non è un mezzo all' individuo, ma l' individuo un mezzo allo stato :
ed ecco gli eccessi della Rivoluzione ed il programma di Robespierre:
per conquistare la libertà, bisogna sopprimere la libertà ; espressione
pratica di tutta la filosofia dell'enciclopedismo. Ed ecco le imposizioni
violenti in Italia di un codice e di principi nati sotto altro cielo. Ecco
gli errori dei primi patrioti repubblicani : confondere l'esterno con
l'interno, credere che la legge ed il diritto e la libertà siano merci di
importazione anziché fenomeni nativi; il fine col mezzo: modellare
tutta la civiltà sopra un tipo unico, farne tante copie conformi e dira-
marle pel mondo, come un disegno a stampa; anziché vedere in essa
un pensiero gelosamente personale dei singoli popoli ; tentare di agire
col governo sulla società, anziché fare che questa agisca sul governo;
infine servirsi della libertà stessa per uccidere la libertà. Il razionalismo
era diventato una dottrina dì conquista. La reazione doveva essere
necessariamente in senso nazionale.
Era dunque necessario tornare a Vico : questi aveva dato la filo-
sofia vera per la costituzione di un' Italia italiana, di una libertà liberale,
di un diritto nazionale. E per questa via si era già incamminato il
romanticismo: il primo che realmente comprende, con esagerazione
in Germania, con più sano equilibrio in Italia, la forza dello spirito
nel mondo e i suoi diritti nella civiltà.
{Continua) Ettore Rota,
i lem
^
I. — storiografia integrale : tra critico e autore.
In relazione alla mia « Nota » (L'eloquenza di un insegnamento : cento
anni di storiografia in Francia) pubblicata nel fase. IV del jgij (pp. 6§s-à6o),
Luigi Halphen mi dirige la lettera seguente:
Caro Signore,
Bordeaux, 9 novembre 1917.
Un autore è sempre male ispirato a voler presentare la sua difesa, specie
quando le critiche a lui dirette sono espresse in termini cosi lusinghieri e
cortesi come quelli che avete adoperato nel vostro ultimo articolo della
N. R. S., e, s'egli ritiene che il suo pensiero è stato malamente compreso,
si può sempre rispondergli che il torto è suo. Ma voi avete sollevato una
questione di principio così importante e che impegna la mia coscienza a tal
segno, che non posso astenermi dal darvi alcune spiegazioni.
È proprio vero che dall'agosto 19 14, nel mio pensiero e in quello del
miei compatriotti, si sia prodotto un cambiamento decisivo di orientazione,
concernente lo spirito storico e che noi siamo ormai tratti a rinnegare il me-
todo, secondo cui avevamo fin allora condotto le nostre ricerche? Io non vedo
traccia di un tal fenomeno presso di noi, e per conto mio affermo altamente
che ciò non mi è accaduto.
Nel mio volumetto su L'Histoire en Frafice depuis cent ans, esponendo
i metodi storiografici francesi, io scrissi che, in sui primi del secolo XIX, le
tradizioni critiche, che avevano fatto la gloria dei nostri grandi eruditi dei
due secoli precedenti, si erano a poco a poco perdute in Francia, laddove,
dall'altra riva del Reno, lavoratori, meno profondi forse e sempre meno bril-
lanti, al paragone dei nostri ; storici coscienziosi, ma sprovvisti di quella fiamma
14 — Nuova Rivista Storica.
Note, questioni storiche, ecc.
del genio, che illumina l'opera d'un Michelet, riuscivano a furia di pazienza
e di cura meticolosa, a perfezionare i procedimenti d'investigazione, che
non bisogna mai confondere con la storia, ma che sono la condizione della
storia.
Io non ho detto mai e non ho mai pensato che la critica dei testi rap-
presenti la parola ultima del lavoro storico ; ma ho detto e ripeto volen-
tieri ancora una volta che V opera storica più brillante non è che un giuoco
vano dello spirito se i documenti su cui essa riposa non sono stati in prece-
denza vagliati. Con materiali fragili, senza consistenza, il più geniale archi-
tetto non farà mai uh edificio durevole. Ora è certo che nel lavoro di pre-
parazione dei materiali storiografici gli storici francesi, durante il secolo XIX,
si 1 asciarono ^^r «« momento {ó\co : per un momento) sorpassare dagli sto-
rici tedeschi, e dovettero, poi transitoriamente riporsi alla scuola tedesca per
riguadagnare il tempo perduto. Questo fatto, le cui prove sono cosi patenti,
e che uno storico del valore del Renan non arrossiva di confessare, noi dob-
biamo oggi confessare, non ostante il nostro patriottismo.
Significa questo forse che, innanzi il 1914, lo storico-tipo fosse ai nostri
occhi lo storico tedesco? Io non credo di aver mai scritto cosa alcuna che
possa farmi attribuire un'opinione così lontana dal mio pensiero. Io pensavo
come voi, innanzi il mese d'agosto del 1914 — e il mio punto di vista non
è mutato — che i Tedeschi hanno da un mezzo secolo fatto un cattivo e
strano uso del metodo critico, ed ebbi più d'una volta, innanzi la guerra,
l'occasione di protestare contro gli eccessi e gli errori, ai quali, in nome di
questo metodo, cento eruditi d'oltre Reno si sono lasciati troppo spesso tra-
scinare. Il torto di gran parte di loro — non di tutti — è stato di conside-
rare la discussione critica come fine, e non come mezzo, e di compiacersi
a questo proposito di costruzioni ipercritiche, di cui solo l'apparenza è sa-
piente e in cui il buon senso è troppo spesso calpestato... In Francia, al-
cuni di noi hanno dovuto, per gli argomenti che trattavano e per le difficoltà
che loro occorreva vincere, consacrarsi lungamente a discussioni critiche ta-
lora assai aride, ma che sono indispensabili e che nessuno, che io sappia, ha
1* intenzione di rinnegare. La Germania in questo non c'entra punto, e noi
non abbiamo, in Francia almeno, a liberarci da una tutela, che da gran tempo
non subiamo più.
Vogliate gradire, con gli augurii che io faccio per il successo della Nuova
Rivista Storica, i miei più cordiali saluti.
Luigi Halphen
professore nella Università di Bordeaux.
Sono lieto di avere provocato questa lettera di Luigi Halphen, la quale ri-
solve, con elementi ch'egli solo poteva fornire, il quesito che mi ero posto
nella precedente nota: quale sia il pensiero attuale del critico francese sul com-
pito della storiografia latina di fronte al « regno della critica », che si dice
inaugurato dalla storiografia tedesca. E Luigi Halphen, severo studioso di
storia medioevale, collaboratore della dotta Revue historique, autore di quel
libro, pieno di grazia, di dottrina e di ingegno, che è la sua Histoire en Franca,
Note, questioni storiche^ ecc.
nel quale ei;li aveva fatto omais^gio a^li studi critici germanici di tutta la sto-
riografia francese del secolo XIX, accusando questa di una critica. « affatto este-
riore e superficiale », ove «i veri problemi sono esclusi o piuttosto tion sono
neanche scorti », e nella quale « si può quasi dire che il metodo sia ancorci
di là da venire» {p, 113): VA., dicOy di 'questo interessantissimo volumetto,
in cui pure si legge che « la storiografia francese va rigenerata co7i l' ispirar s ir
all'esempio 'delle Università tedesche » {p. 144) e « col dar^ senz'altro battaglia
ai suoi ultimi rappresentanti, con l' attaccar li corpo a corpo, abbat-
terli o squalificarli» {p. 147), avverte ora, chiarendo e completando il suo
pensiero, « che i Tedeschi hatmo da un mezzo secolo fatto un cattivo e strano
uso del metodo critico»', che, in nome di questo metodo, « gran parte di loro
hanno voluto considerare la discussione critica come fine, e non come mezzo,
e si sono compiaciuti di costruzioni ipercritiche, di cui solo V apparenza è sa-
piente e in cui il buon senso è troppo spesso calpestato...».
Chiarendo e completando il suo pensiero, egli biella sua lettera ci dice che, in
questo secolo XIX, il torto della storiografia francese è stato solo « di perdere al-
quanto il contatto con le tradizioni critiche, che avevano fatto la gloria degli eru-
diti francesi dei due secoli precedenti» e «.di lasciarsi per un momento
sorpassare dagli storici tedeschi» <nel lavoro di preparazione dei materiali
storiografici » ; lavoro, per altro, che « non bisogna mai confondere con la
storia». Le quali affermazioni non fanno che tradurre in termini più. elevati
quello che anche io devo avere scritto, che cioè « la ricerca e la pubblicazione
dei documenti, la loro collezione e collazione e le mille sensate cautele neW usarne
erano scienza vecchia del mondo francese e latino in genere» (N. R. S., A. T,
fase, IV, p. 659),
Con questi chiarimenti l'H. ha ben il diritto di concludere che ^se, in
Francia \come anche altrove^, alcuni hanno dovuto, per gli argomenti che-
trattavano e per le difficoltà che loro occorreva vincere, consacrarsi lungamente
a discussioni critiche, talora aride, ma indispensabili, la Germania in questo
non c'entra punto », e che la storiografia francese non ha a mutar rotta, né
a « liberarsi da una tutela che da gran tempo essa più non subisce ». Pen-
siero veratnente consolatore e che altra volta io stesso esprèssi a proposito
della Francia ; ma la serenità di quei nostri fratelli latini noA può (ahimè /)
venire condivisa e adottata da chi studia e lavora nello squallido campo
della storiografia italiana... L'Italia è il paese, ove ieri i rappresentanti
piti illustri della coltura tedesca di esportazione erano applauditi, allorché ripe-
tevano trionfanti che ciò che nella storia v' ha di « oggettivo e di « scien-
tifico », ciò che v'ha di nobile e degno di essere insegnato nelle Università, è
solo V <é. accertamento dei fallii, e che il resto è semplice ^roynanzo... ». Qui
i maestri di storia antica apponevano questo sacro nome a volumi indigesti e
sesquipedali, in cui di storia non v'era l'ombra o che piuttosto erano centoni
di discussioni e costruzioni ipercritiche dall'apparenza sapiente, ma in cui « il
buon senso era affatto calpestato». Nel Giostro paese {ahimè!') ^ buona parte»
dei professori di storia medioevale hanno insegnato che storia è il saper leggere
i documenti paleografici, e gli studiosi di storia moderna hanno, con la loro
pratica, inculcato il convincimento che occuparsi di questo ramo di studi signi-
212 Note, questioni storiche, ecc.
fichi andare in traccia di documenti speciosi per poi inserirli negli archivi.
Qui, nel campo della storia civile, religiosa, letteraria, ecc., si è ben lungi
dal credere che i procedimenti della investigazione siano appena una parte del
lavoro di ricostruzione storica, e « che la critica dei testi non rappresenti la
parola ultima del lavoro storico ». Qui l'uomo, lo studioso italiano, che una
polemica recente descrisse come rappresentante del piii puro pensiero e della
più pura scienza italiana, uno € stimatissimo filologo e maestro », ha per tren-
ta anni, costantemente e vittoriosamente inculcato che, prima di questi ultimi
decenni (t decenni dell'influenza germanica), in Italia, negli studii, poniamo,
di storia letteraria greca, c'era solo {citerò testualmente) dilettantismo perico-
loso, che li sviava, li rendeva vani, non altro che vaporose generalità pseudo-
estetiche e pseudo-critiche, niente altro che melensaggini e sdilinqui-
ménti pseudoartistici da accogliere col riso e col disprezzo... Qui,
dico, egli ha potuto sostenere che un progresso è stato compiuto, perchè si è
capito che il fondamento di tutto sono il maneggio {sic!) la manipolazione [sic!)
dei testi.... e la critica metodica della tradizione verbale e delle fonti storico-
letterarie; che, se si vuole, ad esempio, avere una scuola italiana di storia
antica e di storia dell'arte, occorre solo che Tucidide, Erodoto, Polibio, Livio,
Pausania, siano manipolati {sic!) da mani italiane... Che tutto il resto è vano
tessuto di parole, formule vuote, inconcludenti, e chi accanto all' indirizzo
puramente filologico, diplomatico e cnX.\co favorisse quello filosofico ed
estetico non farebbe altro che porgere omaggio a delle qualità retoriche e
fantastiche, niente altro che riconoscere a torto come legittimo un indirizzo
.poco scrupoloso della ragione positiva dei fatti, donde deriverebbe una grave
a t tur a e quasi un regresso alle sorti avvenire dei nostri studi...*
Così essendo, in Italia, lo studioso di storia — civile, religiosa, artistica —
del mondo antico e moderno ; lo studioso, dico, il quale discorre di tendenze e
di metodi storiografici, non può adagiarsi nel soddisfatto quietismo, a cui,
secondo l'H., ha diritto il critico contemporaneo di storiografia francese, giac-
ché egli deve, pur troppo, ancora, concepire il suo ufficio come una dura militia
hominis super terram...
Rimane forse da osservare qualche altra cosa alla lettera dell' H. V^ha
da richiamare un problema non puramente teorico, ed assai pieno d' interesse,
che io sono dolente di dover qui accennare solo di fuga. Con frase popo-
lare e riassuntiva V H. distitigue gli elementi della storiografia in due
parti: i m^ateriali storici e lo spirito dello storico. UH. sa benissimo {e non
è a lui quindi che mi rivolgo) che questa classificazione o distinzione non regge.
L'opera dello storico è tutta nel suo spirito. // così detto materiale storiografico
non è un elemento obbiettivo, esteriore, di contro all'elemento subbiettivo dello
spirito dello storico; né l' uno parla pianamente da sé, né l'altro sta a regi-
strarlo obbediente. Quel materiale ha vita, significato, valore, solo in quanto
v'ha nello storico uno spirito capace di cofnprensione e di reviviscenza ; solo
in quanto lo storico esiste. La storiografia quindi progredisce solo col progre-
» Per una più precisa ed ampia documentazione, si cfr. « Per l' italianità della coltura ita-
liana: Discussioni e battaglie», Roma, Società editrice Albrighi, Segati & C, 19x8, APP. II.
Note, questioni storiche, ecc. 213
dire dello spirito di quest'ultimo... Né i materiali san le fondamenta, e il la-
voro dello spìrito, l'edificio, che, all' incontro, nello spirito dello storico è
tutto: costruzione e fondamenta.
Vi sarebbe ancora da mostrare l'errore di un altro pregiudizio comune :
che, cioè, la via che conduce alla sintesi storica passa per il punto morto del-
l'analisi. L'analisi storica è necessaria, indispensabile... Ma dall'analisi alla
sintesi non v'ha" passaggio...: Se noti che — vii accorgo — tali questioni, così
semplici a enunciare iti fortna schematica e così facilttietite ititelligibili per chi
già ne possedeva iti atiticipaziotie gli elementi, meriterebbero ben piit atnpio
sviluppo, e io cotifido che altri, all'itifuori di me, vorrà un qualche giorno
discorrerne più degnatnetite su queste stesse pagine.
Non mi resta che ritigraziare l'illustre atnico d'olir' Alpe, per avermi
pòrto una nuova occasione di ribadire e precisare ancora una volta il nostro
pensiero.
C. B.
II. — Un libro di storia economica.^
Una serie di contrarietà, dovute in massima parte alla guerra, non ci
ha consentito di parlare fin ora di questo poderoso lavoro di Giuseppe
Prato, che forma il IIP volume della Serie i* {Illustrazioni sloriche e Docu-
metiti) della raccolta dei Docuttienti finatiziari degli Stati della motiarchia
pietnontese. A questa collezione, che si annunzia ormai piena di buone pro-
messe, il volume del P. apporta un contributo notevolissimo, sì da renderla
indispensabile a quanti, attraverso lo studio dell'economia, vogliano giovare
alla loro coltura storica, e, attraverso lo studio del passato, dare salde fon-
damenta alla loro coltura economica. Mai forse, come nell'ora tragica
attuale, è stata così evidente l'ignoranza delle cose economiche in quelle
classi, così dette colte, che vogliono presentarci, qual parto della loro ine-
sauribile ingegnosità, sistemi economici e provvedimenti, che una severa
indagine storica dimostra essere stati adottati da altre generazioni, e che
sono caduti dalla stima universale dopo che una costosa esperienza ha finito
con l'averne ragione. Se in Italia non ci fosse il malo vezzo, per cui ognuno,
il quale copre una qualsiasi carica o un qualsiasi impiego pubblico, si sente
in diritto di legiferare in materia economica, senza peraltro conoscerne i
canoni fondamentali, il volume del Prato dovrebbe trovare un'accoglienza
degna delle fatiche, che deve essere costato al suo A., ed i vantaggi ne sareb-
bero notevolissimi. Pur troppo, l'attività scientifica dei nostri studiosi, anche
(juando investe problemi di utilità immediata e di importanza nazionale, non
ha pregio all' infuori della stretta cerchia di coloro che, nonostante l'empi-
» Giuseppe Prato, Problemi monetari e bancari nei secoli Xyjl e XVIII, Torino, S. T. E. N.,
1916, pp. VIII-310.
214 Note, questioni storiche, ecc.
ristno trionfante, e spesso con sommo loro danno personale, non sanno
allontanarsi* dagli studi sereni.
10 confido che questa sorte non debba toccare al lavoro del P., ma, in
ogni caso, deve a lui essere di grande sodisfazione la certezza di aver
portato un forte contributo allo studio di importa»i^?f4tr.: p'-oblemi economici
e storici.
L'A. aveva due gravi questioni da risolvere : l'una di metodo, l'altra di
estensione. Egli si era proposto di « studiare in un tipico ambiente la strut-
tura, gli organi, le manifestazioni del credito, nei molteplici aspetti e nella
crescente importanza inerente alla ognora dilatata sua funzione », e, precisa-
mente, « quel segreto, tacito lavorìo di oscure ed anonime opinioni, attraverso
le quali maturano le grandi rivoluzioni ». La questione di metodo era diffi-
cile perchè, com'egli dice, è sensibilissima nella storia economica la discor-
danza dei metodi d'indagine. È necessaria infatti una profonda conoscenza
delie questioni economiche ed una solida cognizione delle difficoltà del me-
todo storico, perchè i lavori non portino «a costruzioni arbitrarie o fanta-
stiche o ad ammassi disorganici di materiale ». Il P. si è servito di un co-
pioso, anzi immenso, materiale, tratto da biblioteche e da archivi, e lo ha
esaminato con attenta cura, con grande obiettività, mettendolo a raffronto
con il progresso della dottrma, senza d'altra parte reciderne il legame
con l'ambiente dal quale era ricavato o a cui si riferiva, cosicché noi ora
non ci -troviamo dinanzi ad una semplice esposizione di documenti, ma ve-
diamo il lento e costante evolversi delle istituzioni economiche studiate man
mano che l'esperienza ed il progresso della dottrina consentivano di arrivare
a migliori risultati.
Ma in rapporto alla questione di metodo c'era un'altra difficoltà da su-
perare. I fatti economici, di cui il P. si occupa, non erano nei secc. XVII-
XVIII così ben definiti come sono oggi. Inoltre nello stesso periodo fatti
prima confusi cominciano ad acquistare fisonomia propria fino quasi a distin-
guersi nettamente dagli altri e tra loro. I fatti insomma, tanto nelle memorie
pubblicate, quanto nei lavori inediti da lui esumati, si presentavano in con-
dizioni tali da renderne assai difficile una distribuzione sistematica secondo
i dettami della scienza economica, sopratutto per la grave possibilità di incor-
rere in ripetizioni.
11 P. ha saputo superare quest'ostacolo con vera maestria mediante uno
studio paziente, minuto, esauriente, di tutto il materiale adoperato, sicché,
mentre noi possiamo seguire benissimo lo svolgimento dei vari istituti eco-
nomici nella sua portata pratica e teorica, secondo una precisa divisione siste-
matica, pochissime sono le ripetizioni che occorrono ed assai rari i riferi-
menti. Il P. dice che il metodo scelto per la sua analisi documentaria vuole
essere riguardato «piuttosto come un tentativo sperimentale, che come la
risultante ultima di una elaborazione definitiva che egli ritenga e giudichi
pienamente sodisfacente ». Ma, dopo aver letto con attenzione il suo volume,
si deve concludere che il « tentativo sperimentale » è perfettamente riuscito,
e merita di essere seguito da coloro che volessero tentare studi analoghi
per altri ambienti o per altri aspetti della vita economica.
Note, questioni storiche, ecc. 315
Ho detto che l'A., aveva anche un problema di estensione da risolvere.
Per quanto l'importanza dei contributi della monarchia piemontese nei feno-
meni studiati non fosse trascurabile (ed il P. lo dimostra benissimo), pure lo
studioso non poteva prescindere dal dare uno sguardo alle condizioni della
dottrina ed allo stato dei fatti degli altri paesi, la cui influenza poteva essere
sensibile in Piemonte. I richiami e l'esame di tali condizioni e di tale stato
di cose non potevano dunque mancare, tanto più che, se è in genere assai
scarsa la conoscenza delle sane norme economiche, altrettanto è notevole la
comune ignoranza delle vicende storiche, per le quali i vari istituti sono
passati. Tuttavia i richiami stessi non potevano essere così importanti da far
passare in seconda linea l'obietto principale del lavoro, che era la società
piemontese. Ma anche questa difficoltà è stata superata dall'A. in iiiodo
che, senza togliere importanza a quanto forma il tema principale, la esposi-
zione delle vicende storiche degl' istituti, studiati negli altri paesi e condotta
con grande precisione e serenità, procede armonicamente con quella speciale
del Piemonte, e costituisce una storia sommaria, chiara e spesso originale,
delle vicende stesse. Qualche volta ci si trova dinanzi ad una ricostruzione,
addirittura nuova, di alcuni fatti economici, mentre la coscenziosa indagine
della non piccola bibliografia ci mostra su quali fondamenta granitiche stiano
assisi i giudizi riassuntivi, che non sono propri dell'A. Per questa parte,
anzi, il lavoro del P. varca i limiti della monografia regionale ed acquista il
pieno diritto di entrare nella categoria degli studi storici generali dell'eco-
nomia politica.
Ed ora qualche cenno più speciale dell'opera.
Il lavoro è diviso in cinque parti. La prima si occupa delle banche e
dei banchieri a mezzo il seicento ; la seconda, del Piemonte nella storia
bancaria; la terza, dei cameralisti piemontesi e delle dottrine della cir-
colazione ; la quarta, del problema bancario ; la quinta, degl'istituti acces-
sori. Riassumere il contenuto di ciascuna è impossibile. Tutti i problemi,
attinenti all'evoluzione del credito, alla distinzione del problema monetario
da quello bancario, alle condizioni del mercato monetario, alla funzione del
credito nella economia nazionale, ai rapporti fra la banca e lo Stato, alla
struttura economica, alla gestione tecnica ed alle funzioni della banca, ecc. ecc.,
sono esaminati, col metodo già esposto, nelle loro svariate manifestazioni,
si che la vita economica del Piemonte ci si schiude intera dinanzi agli
occhi. E, mentre sarebbe stato facile cadere in esagerazioni di carattere na-
zionalista, è più che notevole l'imparzialità del giudizio, sia che esso si rife-
risca alle deformazioni, che i sistemi stranieri subivano nelle applicazioni,
che n'erano fatte nella .Monarchia, sia che si riferisca al contributo non
indifferente, che uomini e sistemi piemontesi portarono alla risoluzione dei
problemi discussi. Dobbiamo infatti essere grati, fra l'altro, al P. per il modo
sereno, con cui mette in evidenza l'opera finora ignorata di G. B. Vasco,
il quale, nel suo Saggio politico della carta moneta (dal P. altrove pubblicato
integralmente), « adombrava con mente lucida più di un problema che da
molti si ritiene scaturito dalla sottigliezza di <. laborazione analitica delle re-
centissime scuole »,
2i6 Note^ questioni sloriche, ecc.
È notevole, poi, a tanta distanza di tempo, il ricorrere degli stessi feno-
meni economici, di che, nel lavoro del P., notiamo gran numero di esempi.
Troviamo così un esempio di coalizione d'industriali (i setaiuoli) contro i
coltivatori di bozzoli, che si è ripetuta in forma identica, recentemente, nella
industria degli zuccheri. Troviamo numerosissimi accenni al danno enorme
che deriva alla vita economica dei paesi da un eccessivo intervento dello
Stato, al quale riguardo il P. riproduce delle pagine, che, nella loro freschezza,
ci mostrano al vivo il male che, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, ha prodotto
uni ingombrante burocrazia. Egli cita una strofa popolare, cantata in Francia
in sugl'inizi della Reggenza, la quale si adatta mirabilmente allo immoderato
ed ingiustificabile aumento di ministeri, che contrassegna gli ultimi anni della
nostra vita parlamentare. E leggendo di un episodio relativo ad una fabbrica
di Madrid, che, affidata ad un provetto mercante di panni, si trovò tosto in
perdita per il gran numero di impiegati che vi erano stati assegnati, riesce
più facile comprendere le ragioni dell'insuccesso di tutte le imprese di Stato,
e si è indotti a disperai;e che in avvenire le cose possano andare diver-
samente.
Della odierna partecipazione dello Stato in industrie di carattere nazio-
nale troviamo un'anticipazione in un progetto di certo signor Des Roches,
che vorrebbe acquistate dal Sovrano la metà delle 4000 azioni di una sua
Compagnia, mentre in altro progetto troviamo esempio di una semiespropri?.-
zione dei beni delle corporazioni religiose. Né mancano i casi in cui il P. sa
dimostrare la priorità d'idee, discese poi da altre fonti o apparse addirittura
nuove, come, per esempio, quando mette in evidenza la grande importanza
che, nella storia del credito agrario, hanno avuto i Monti frumentari di Sar-
degna, vere e proprie Casse rurali, o come quando discorre di risparmio e
di assicurazione. Altrove noi troviamo esposto un progetto per la formazione
di una Cassa di risparmio e pensioni, che ha molti punti di contatto con la
famosa Cassa Pensioni di Torino e nel quale sono accennate delle condizioni,
come questa: che la Cassa sia in grado di preventivare, con esatti calcoli,
che. cosa possa promettere, in base a quanto riceve. Le quali, se nel nostro caso
fossero state tenute presenti, troppe delusioni si sarebbero evitate... Poco
dopo il P. ci informa di un disegno, clje è un vero e proprio schema di
assicurazione mutua obbligatoria per invalidità, vecchiaia, malattie, disoccupa-
zione, ecc., e che molti anni dopo sarà fra noi importato di Germania... Non
mancano neppure i tentativi di mobilizzare il valore ipotecario delle terre, il
cui studio, per certi stravaganti disegni venuti su in questo periodo di
guerra, ha, come ben dice il P., qualcosa di più di un interesse puramente
archeologico...
La parte più interessante del lavoro è però quella che non si può riassu-
mere, e nemmeno chiarire con un tratto reso più vivo dalla rasspmiglianza
con fatti analoghi dell'epoca attuale. Lo svolgimento dell' idea bancaria
all'estero e in Italia, lo sviluppo delle società anonime in Inghilterra, la se-
parazione dei concetti di banca e industria e del carattere pubblico e privato
di una banca, la nascita e lo sviluppo dei titoli ai portatore, le relazioni fra
banca e depositi, la lotta per isfuggire al monopolio dei banchieri, le funzioni
Note t questioni storiche y ecc. 217
della banca, la determinazione del rapporto fra sconto e circolazione cartacea,
la formazione delle riserve, i progetti del Law, tutti questi ed altri aspetti
importantissimi dei fenomeni monetari e bancari sono esaminati in pagine
veramente magistrali, in cui alla serenità dello storico è unito il senso cri-
tico di chi mostra di conoscere a fondo i problemi trattati e che danno al
lavoro un rilievo che va al di là di ciò che non faccia supporre il titolo della
raccolta di cui fa parte.
L'A. non viene a conclusioni determinate, e si limita a raccogliere qualcuna
delle impressioni culminanti, che gli sembrano emergere dalla sua esposi-
zione, solo per dedurne qualche risultato concreto relativamente a taluno
dei fatti studiati o dei problemi discussi. Questi fatti egli raggruppa in due
campi, di cui l'uno è riferibile solo alla storia locale, l'altro è di più larga por-
tata. Rispetto al primo, egli conferma quanto in altra sede aveva asserito
circa il notevole sviluppo della scienza economica in Piemonte nel periodo
presmithiano. Rispetto al secondo, l'A. constata l'intima somiglianza fra
molti dei problemi allora dibattuti o tnolti dei fenomeni che le provocarono,
e quelli che ancor oggi occupano ed appassionano i dibattiti del pubblico.
Tale connessione appunto io mi sono studiato di porre in evidenza, e perciò
auguro all'A. e al nostro paese che il libro abbia fortuna assai maggiore di
quella che, pur troppo, suole accompagnare i lavori scientifici italiani.
Epicarmo Cordino.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Sociologia generale : V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Firenze,
Barbèra, 1916, 2 voli., pp. LXXVii-757 ; 887. — Delle teorie sociologiche di
V. Pareto discorrerà a suo tempo ex professo uno dei collaboratori della Ri-
vista. Qui ci limitiamo a esporre oggettivamente la tesi fondamentale di que-
st'opera voluminosa, una delle più colossali (comunque si giudichi) nel campo
della sociologia moderna. Organizzando teorie ch'egli avea accennate in altri
suoi scritti precedenti di carattere non precisamente sociologico, il P. vuole
adesso ricercare le leggi generali sul dinamismo della società umana. Egli
nota che le azioni umane, fondamento del fatto sociale, sono parte azioni
logiche e parte azioni non logiche, derivate cioè dal sentimento e dall'istinto,
sebbene gli uomini se le figurino dettate da ragione, e tali vogliano dimo-
strarle. Il P. chiama residui gli istinti e quei sentimenti originari, che muovono
e determinano le varie società. Di questi residui una prima categoria è costi-
tuita di tendenze rinnovatrici {Classe /) ; una seconda categoria, di tendenze
conservatrici {Classe II). Una società vive e prospera in quanto, e fino a
quando, i residui della Classe Ivi si equilibrano con quelli delia Classe II.
Allorché, fra le due Classi, si inizia un pericoloso squilibrio, interviene a ri-
mediare un riflusso compensatore degli elementi della classe momentanea-
mente più debole. Praticamente, nelle varie società, i residui della Classe I
sono specialmente impersonati negli strati sociali superiori; quelli della
Classe II, negli strati inferiori ; e ogni volta l'equilibrio è turbato dalle ten-
denze novatrici di una frazione dei ceti superiori e ristabilito dall'intervento
di una frazione dei ceti inferiori, che entra così a far parte di quella che si
dice classe superiore dominante.
Questo schema generalissimo è svolto dal P. diffusamente nelle nume-
rose pagine dei due volumi, attraverso una esemplificazione vastissima di
fatti storici, antichi, moderni, modernissimi. Può dirsi anzi che, se la teoria è
un'ipotesi, la parte viva dell'opera è la copia sterminata delle analisi di fe-
nomeni sociali che essa contiene.
Bollettino bibliografico 219
Ma, caso strano, è stato appunto tale fondamento quello che ha mag-
giormente e non favorevolmente colpito i sociologi critici del P. Avvezzi a
baloccarsi con le teorie e con le vuote generalità ; assai deficienti molte volte
di senso storico, essi sono rimasti urtati da una osservazione storica difficile
a inseguire in tutte le sue arguzie e in tutti i suoi particolari e da ravvici-
lìamenti, che una superficiale canonica storica o sociologica non consentiva.
Eppure, ripetiftmo, è questa la parte più suggestiva e migliore dell'opera del P.
Egli può avere errato nelP interpretare questo o quel fatto storico, nello sta-
bilire questo o quel ravvicinamento, ma egli ha veramente sentito la storia
come fatto vivo ed ha conferito alla cronaca di oggi la dignità storica, che
si doveva, e che quanti, pur troppo, sono abituati a separale nettamente
l'oggi dall' ieri, la solenne storia dalla vile politica attuale, non vi riconoscono.
Un altro elemento ha nociuto al P. nel giudizio di molti suoi critici : la ten-
denza conservatrice dei suoi apprezzamenti storici e politici. Questa è, come
direbbe il P. stesso, una tendenza non logica; ma essa non riguarda, come
si è creduto, singoli giudizi storici o politici, sibbene l'essenza stessa della
teoria. Come abbiamo visto, se il perfetto stato sociale è pel P. quello, in
cui le tendenze novatrici si equilibrano con le tendenze di carattere opposto,
ne consegne che, per lui, ogni eccesso delle prime deve necessariamente co-
stituire un pericolo sociale, deve cioè essere considerato come un male.
Ma con queste considerazioni noi entriamo in un campo critico da cui
volevamo astenerci. Noi intendevamo per ora limitarci esclusivamente a dare
un'idea dell'opera, anzi, meglio ancora, delsistema sociologico del Pareto.
Storia regionale italiana: Nella Collana Scolastica per le Provincie d'Ita-
lia, edita a cura dei sigg. Federico e Ardia di Napoli, è stato pubblicato il
volume Terra di Lavoro del prof. F. Sarappa, contenente nozioni geo-
grafiche, storiche e sociologiche della Provincia di Caserta. Questo . lavoro
risponde esattamente agl'intenti che si prefiggono gli editori, che son quelli
di far conoscere le notizie più importanti di ciascuna regione d'Italia. Ed in-
fatti della provincia di Caserta si ha nel volume del Sarappa una buona
descrizione geografica, sufficienti cenni storici, notizie statistiche e cenni
biografici delle persone più illustri. Il libro poteva avere certamente un mag-
gior rigore nella parte storica : si poteva, ad esempio, non parlare à^V esa-
crato governo borbonico, subito dopo aver detto che per opera di Ferdi-
nando IV s'iniziò la vita industriale della provincia; potevasi inoltre, parlando
di Itri, ricordare Michele Pezza, ecc.; potevansi anche non notare, dopo la
Conclusione, in appendice, certi canti popolari ed alcuni cunte, che non hanno
alcun valore Storico, e tanto meno letterario e demografico, ma ad ogni
modo il lavoro, come studio regionale, non manca d' importanza e risponde
allo scopo, per cui è stato scritto (C. Carucci).
— A. Cossu, L'isola di Sardegna, saggio monografico di geografia fisica
e di antropogeografia, Milano-Roma-NapoH, Albrighi, Segati & C, 1916. ~
È uno studio condotto con rigore scientifico e con conoscenza precisa de
moderni indirizzi degli studi geografici. L'isola è studiata ampiamente sotto
l'aspetto fisico, ma la parte più importante del lavoro è quella che he riguarda
Bollettino b ihlioi»rafico
l'aiitropoj^^éojjrafia. L'origine degli abitatori della .Sardegna, la loro storia e
le diilerenze dialettologiche sono studiate con competenza profonda. Interes-
santissimo è poi lo studio sulla distribuzione della popolazione in rapporto
alla distanza dal mare, alla costituzione geologica del suolo, all'altitudine e
quello sulla somatologia e demografia della popolazione stessa. È merito del-
l'opera una ricca bibliografia (C. Carucci).
Terre italiane irredente: A. Ottolini, Irredentismo veneto e proclami
nazionali {i86o- 1866), in Archivio veneto, 1916. — L'A., sulla fede di documenti
e di narrazioni assai interessanti, espone le diverse manifestazioni dell' irre-
dentismo veneto e l'accanita opposizione, che vi fece l'Austria dal 1860 al 1866.
In appendice trovansi poesie e proclami inediti tratti dal Museo del Risor-
gimento di Milano.
— E. MHLCfiiORi, La lotta peri* italianità delle Terre Irredente (1797-1915),
Firenze, Bemporad, 1917, pp. 196. — L'A., dopo aver accennato alle ragioni,
a suo giudizio fondamentali, dell'odio degli Italiani contro l'Austria, prosegue
narrando la storia del Trentino, dell'Istria e della Dalmazia dal 1798 al 1815.
Mette quindi in rilievo le varie manifestazioni d'italianità in quelle regioni,
durante i rivolgimenti del 1848-49, il nobile entusiasmo degli Irredenti du-
rante la campagna del '59, la spedizione garibaldina del '60 e i tentativi
del '66. Continua illustrando le agitazioni irredentistiche, in Italia e nella
Venezia Giulia e Tridentina, dal 1867 fino al 1914. Passa quindi ad indagare
le cause della guerra italiana presente, i motivi della nostra neutralità al
principio di essa, poi della denunzia della Triplice e infine della nostra entrata
in guerra. Il lavoro ha carattere più apologetico che storico. Di qui i suoi
pregi e i suoi difetti, assai facilissimi a intuire e a rilevare.
Napoleone I e la Germania: Hans Dklbrùck, L'exemple de Napo-
léonl*^'', in Revue Politique Internationale, gennaio-febbraio 1917. — L'A., par-
tendo dalla premessa che ciò che oggi muove l' Inghilterra nel suo colossale
sforzo contro la Germania è il ricordo del pericolo napoleonico, si propone
di indagare storicamente quanto sia di vero e di falso in questo ravvici-
namento, Egli, per una parte, riabilita Napoleone, «calunniato» dall'odio
inglese, e sostiene che, contrariamente :al desideirio del Primo Console, ch'era
quello di mantenere la pace, l' Inghilterra ruppe il trattato di Amiens e ri-
prese la lotta nel i8o3 perchè temeva lo sviluppo e l'accrescimento della
Francia. Indagando le cause, che possono aver sospinto l' Inghilterra a formu-
lare V ultimatum y che imponeva la cessione dell'isola di Malta e che fu da
Napoleone giudicato intollerabile per il prestigio e la gloria della Francia,
l'A., ispirandosi ad una recente monografia di Otto Brandt {England und
die Napoleonische Weltpolitik 1800-1803, Winter, Heidelberg), opina che sia
stata la Russia ad incoraggiare 1* Inghilterra in una politica, la quale doveva
necessariamente condurre alla continuazione della lotta.
Passando a discorrere della guerra europea attuale, l'A. afferma che è un
errore politico credere che tutto il popolo tedesco sogni l'egemonia mon-
diale, come è errore storico credere che la Francia dei primi anni del se-
Bollettino bibliografico 221
colo XIX pensasse fare altrettanto in Europa. Si tratterebbe invece, per la Ger-
mania d'oggi, come per la Francia di allora, di acquistare una forza navale,
un'industria d'esportazione, un grande commercio d'oltre mare, e ammette
che questo programma costituisce una minaccia per la potenza dell'Inghilterra,
Lo studio termina con un raffronto tra le condizioni di pace, offerte dalla
Germania alla fine del 1916, l'appellò rivolto dal Bonaparte all'Arciduca Carlo
nel 1797 e la sua lettera del Natale di quell'anno inviata al re d'Inghilterra
e all' Imperatore d'Austria. Questo raffronto vuol provare come, nell' un caso
e nell'altro, le offerte del vincitore siano state sincere. Dal punto di vista
storico, l'articolo è significantissimo per due fatti : obbiettivo l' uno, soggettivo
l'altro. Quello obbiettivo è la revisione, che gli eredi del Blùcher hanno ini-
ziata del loro tradizionale giudizio sull'opera di Napoleone ; quello soggettivo
è r ingenua e sincera identificazione, ch'essi lietamente fanno della Germania
ai primi del secolo XX con la Francia in sui primi del secolo XIX ; di Gu-
glielmo li con Napoleone I
Stati Uniti : Vito Garretto, Storia degli Stati Uniti delV America del
Nord (1497-1914), Milano, Hoepli, 1916, pp. xix-500. — Sulla storia degli
Stati Uniti d'America noi italiani possediamo due eccellenti lavori, dovuti a
due nostri collaboratori : l'uno, quello del Moi^daini {Origini degli Stati Uniti.
Milano, Hoepli, 1914) ; l'altro, questo recentissimo dei Garretto. Sono lavori
egualmente buoni, sebbene forniti di caratteri diversi : quello del M. più
ampio e meditativo; questo, più succinto, ma d'informazione p)iù ricca e più
immediata, poiché elaborato nel paese stesso di cui l'A. discorre, e di una
esposizione piana e semplice, che pur conosce il segreto di destare nel let-
tore un interesse sempre crescente. È uno dei volumi migliori della Collezione
Villari, la quale, benché conti nella sua serie dei saggi scadenti, ha avuto
il raro merito di donare al nostro paese qualche libro di vera storia..
— Jambs Miller Leake, Ph. D., l^he Virginia Committee System and the
American Revolution {Johns Hopkins Univcrsily Studies in Historical and
Politicai Science), Baltimora, The Johns Hopkins Press, 1917, Series XXXV,
No. I. — Questo studio del dott. Leake riesamina un punto importantissimo
di storia americana: quello che si riferisce alla istituzione dei Comitati di
Corrispondenza, i quali furono gli organi regolatori dell'azione americana,
durante il periodo critico, che sta tra i primi movimenti rivoluzionari delle
Tredici Colonie e l'apertura del primo Congresso continentale. Siccome il
sistema di affidare a Comitati speciali la trattazione delle varie questioni, po-
litiche e amministrative, ha avuto nel Parlamento americano una stabile^ con-
tinua e ininterrotta applicazione, tanto da costituire la caratteristica precipua
della organizzazione parlamentare americana, é chiaro che non è vano stu-
diare i precedenti di quel sistema e seguirne le vicende, sopratutto là dove
esso ebbe la più ampia applicazione. Ciò avvenne nella Colonia della Vir-
ginia, nella quale il sistema dei Comitati parlamentari venne applicato fin dal
prostituirsi della famosa Camera dei Borghesi, che fu la prima Assemblea del
genere in America ed ha perciò un posto glorioso nella storia della demo-
-crazia di tutto il mondo.
I
222 bollettino bibliografico
La Camera dei Borghesi, nata nel 1619, fu modellata sulla Camera dei
Comuni della madre-patria ; ma in quella il sistema dei Comitati si affermò
e consolidò sempre più ; laddove in Inghilterra, col sorgere del Gabinetto re-
sponsabile, il sistema decadde. Ciò spiega perchè Comitati parlamentari
permanenti siano stati generalmente riguardati come un' invenzione pura-
mente americana. Ma v'ha di più : siccome codesto sistema non ebbe larga
applicazione nelle Assemblee del New England, gli scrittori di storia ame-
ricana, per lo più uomini del New England, hanno sorvolato sul fatto che,
prima del 1789, anno in cui la Costituzione federale degli Stati Uniti fu
promulgata, il sistema era stato largamente applicato e da lungo tempo
praticato in Virginia. Ora il Leake si è proposto di dimostrare la continuità,'
di spiegare la organizzazione dei Comitati nella Camera dei Borghesi, e di
mettere in luce la parte che tali Comitati ebbero nella convocazione del
Primo Congresso Continentale.
I materiali, su cui il lavoro del Leake è condotto, sono noti agli studiosi
di storia americana ; ma l'autore con nuova diligenza li ha investigati e
scrutati e ne ha ricavato prove convincenti per la sua tesi, che a me pare
giustissima. Ed è bene che gli studiosi italiani prendano nota di questo la-
voro e non lo trascurino, quando vogliano occuparsi dell' interessante argo-
mento, non solo per la storia, ma anche per la vita (V. Garretto.)
— William O. Weyfroth, The organizability of Labour {Johns Hopkins
University Studies), Baltimora, The Johns Hopkins Press, 1917 (pp. 277), Se-
ries XXXV, No. 2. — È un'accurata ed interessante monografia sull'organiz-
zazione del lavoro negli Stati Uniti in base ai dati forniti dalle pubblicazioni
delle Trade-unions e dalle pubblicazioni ufficiali o ricercati direttamente
dall'A. in numerose interviste con i segretari delle varie associazioni. L'orga-
nizzazione delle forze lavoratrici vi è esaminata sotto tutti gli aspetti : i me-
todi, le persone e le agenzie di propaganda, la lotta con gl'industriali e le
armi relative (lo sciopero sopra tutto), i mezzi per mantenere i lavoratori
inscritti alle leghe il più a lungo possibile, le diverse probabilità di costi-
tuzione di una lega a seconda che si tratti di lavoratori addetti a piccole
imprese o a grandi industrie riunite in formidabili organizzazioni (trusts),
le ripercussioni, che lo stato generale dell'economia esercita sulla forza
numerica e finanziaria delle leghe, ecc. ecc. Ognuno di questi aspetti è poi a
sua volta studiato nelle sue caratteristiche più minute. Lo studio racchiude
anche una misurata esposizigrie di dati statistici, ed è convalidato da molte
prove tratte dall'esperienza del trade-umonismo americano.
Alcune pagine del libro hanno per noi qualche interesse immediato per-
chè vi si studia l'atteggiamento degl* immigranti di fronte all'organizzazione
del lavoro. Qui l'A., polemizzando, con altro scrittore che aveva attaccato le
conclusioni della Immigration Commissione conferma anche lui che l'immi-
grante in genere è restio ad inscriversi nelle leghe, e, se lo fa, non vi resta a
lungo. L'A. attribuisce tale fatto alla qualità di lavoratore non specializzato
dell'immigrante, alla brevità del suo soffermarsi sul mercato di lavoro e alla
scarsa fiducia nei vantaggi lontani, che gli potrebbero derivare da una per-
manenza neljia lega. In tutto il volume è messa, assai bene in evidenza l'im-
Bollettino bibliografico 223
portanza che il favore dell'opinione pubblica ha nella decisione delle lotte
fra lavoratori e industriali e gli effetti che, sulla vitalità delle organizzazioni,
esercita l'esito degli scioperi. Da numerosi esempi citati appare poi chiaris-
simo l'insuccesso degli scioperi così detti di solidarietà, divenuti ormai troppo
frequenti.
Nel periodo che si attraversa, e in vista delle future competizioni fra lavo-
ratori ed industriali, il lavoro del Weyforth — a motivo della serietà con cui
sono condotte le indagini e la notevole serenità di giudizio — può riuscire
assai utile a consultarsi anche per il nostro mercato di lavoro, nonostante
la sua non perfetta corrispondenza con quello americano. Un indice per ma-
teria rende agevoli le ricerche (E. C).
Storia contemporanea: A. Debidour, Histoire diplomatique de l'Europe,
depuis le Congrès de Berlin jusqu'à nosjours, Paris, Alcan, 1917: I (2* edi-
tion), pp. xii-359 ; II, pp. 379. — Il compianto A. Debidour, professore nella
Università di Parigi, era già noto nel mondo degli studiosi per la sua Histoire
diplomatique de l'Europe ù^X Congresso di Vienna al Congresso di Berlino.
Or bene, nei due volumi che abbiamo sott'occhio egli continuò l'opera sua
fino ai nostri gioì-ni ; svolgendo per tal guisa, esattamente, un secolo di storia
diplomatica europea. L'opera è scritta con ammirevole imparzialità, e mai
una tesi patriottica o partigiana fa velo allo spirito dell'A. Essa è fondamen-
tale per la storia della politica estera europea di questi ultimi quarant'anni.
Tuttavia pecca dell'inevitabile difetto di tutte le storie, che esaminano uno
solo dei fenomeni, politici e sociali, del tempo. La storia esterna europea è
qui narrata coqie avulsa dalle restanti istorie interne (politica, economica, cul-
turale) di ciascun paese; sì che noi scorgiamo il tracciato del disegno, ma
non le forze retrostanti che lo determinarono è configurarono. Questo non
vuol dire che non si possa scrivere di un fenomeno solo della vita di un
popolo, ma, perchè. quel racconto sia vivo e vero, occorre non reciderlo mai
completamente dall'insieme di tutti gli altri fenomeni storici.
— F. Paoloni, / sudekumizzati del socialismo, Milano, ed. del Popolo
d'Italia, 1917, pp. 366. ~ È un libro di battaglia, ma, è sopra' tutto un libro
di storia. L'A. si è proposto di fare la storia dell'atteggiamento o, piuttosto,
dei successivi atteggiamenti del partito socialista italiano, durante l'attuale
guerra europea e rispetto alla guerra. A tale scopo egli ha avuto presente
tutta la sterminata letteratura, periodica e occasionale, del socialismo italiano
e tutti gli atti ufficiali e semiufficiali da esso compiuti od emanati. Ne con-
segue che il libro risulta una storia documentata, efficacissima e indispenv
sabile, dell'azione del socialismo italiano rispetto alla guerra. Il titolo, che
sembra un'ingiuria rivoltaalPavversario, non è in realtà tale. La tesi delPA.
— lucidissimamente dimostrata — è appunto questa: che il P. S. U. I. sia
a poco a poco passato da un atteggiamento antiaustriaco e antitedesco a una
neutralità benevola verso Austria e Germania : ciò che era appunto lo scopo
della famigerata missione Sudekum.
— Felice Momigliamo, Amedeo Fichte e le caratteristiche del naziona-
lismo tedesco, in Nuova Antologia, 8 settembre 1916. — \\ geniale autore
studia in quali modi, in tempi gravi per la Germania, il Fichte, abbia, con
la propria opera, saputo influire sulla coscienza nazionale dei suoi compa-
trioti. Conclude, confrontando il patriottismo del Fichte col nazionalismo
tedesco dopo il 1870.
Articoli che vedranno la luce nei prossimi numeri:
Corrado Barbagallo, L'Italia dal 1870 ad oggi: saggio storico.
Idem, VOriente e l'Occidente nell'Impero romano,
Carlo Paladini, Un invito dell'Inghilterra all'Italia in Egitto,
Aldo Ferrari, L'opera storica di Giuseppe Ferrari.
Anna Vera Eisenstadt, La preistoria della rivoluzione russa,
Alberto De Stefani, Le ^idee madri* di Vilfredo Pareto.
Guido Santini, Storiografia elementare.
Giuseppe Pardi, Un bilancio preventivo dello Stato fiorentino nel 1544,
Gellio Cassi, Meditazioni storiche: considerazioni e raffronti,
Gerolamo Lazzeri, Le teorie storiografiche di B. Croce.
Amedeo Mazzotti, La € filosofia della storia* di Guglielmo Ferrerò,
Epicarmo Corbino, // progresso economico della Sicilia negli ultimi decenni.
Alessandro Chiappelli, Domenico Comparetti e l'opera sua,
Antonio Sogli a no, La bandiera dell'ellenismo.
Ivan Grinenko, Le correnti federaliste nella storia della Russia e nella Iqtta pJtitiéM
odierna.
Ettore Ciccotti, La guerra e i suoi interpreti.
Umberto Ricci, Sulla opportunità della storia della economia politica itafiana.
Italo Pizzi, Della così detta civiltà degli Arabi.
Valentino Piccoli, Rassegna giobertiana,
È già pubblicato :
Per l'ilaUlà della (olliira oostia: Dimoili e Batlaglle
. ♦ > ^ . __
Milano-Roma-Napoli - Società Editrice Dante Alighie^-i di Albrighi,
Segati & C, pp. viii-137, Lire 2,50, di, cut qui dianio il Sommario:
PREFAZIONE (Gli Editori); INTRODUZIONE (C. Barbaoallo); In che consiste Veman
Cipazione della coltura nazionale (E, Ciccorri); Per l'emancipazione della coltura italiana (A
proposito di un articolo di G. Vitelli) (C. B.); Filologia e Storia (A. Ferrari); Per l'autonomia
letteraria e spirituale (R. Mondolfo); Filologia italiana e filologia tedesca (G. Fraccaroli) ;
Filologia e.letteraiura : coltura tedesca e coltura italiana (G. Fraccaroli); A proposito di una
polemica di coltura (P. Ter ruzzi); Storia, coltura e metodo storico: lettera aperta a O. Salve-
mini (C. Barbaoallo); Le discipline storiche e l'ora presente (E. Bignone); La bandiera del'
l'ellenismo (A. Sogliano); Un processo filologico-storiografico (F. Guglielmino); EPILOGO
(C. Barbagallo). — APPENDICE: I. Per la serietà' della scuola italiana: la questione dui
libri scolastici del Barbagallo (E. Pancrazio) ; U. L'indirizzo culturale di Girolamo Vitelli e
della sua scuola (C. B.).
A scanso di equivoci e di erronee Interpretazioni dichiariamo una volta
per tutte che del contenuto SPECIFICO del singoli articoli la responsabi-
lità appartiene interamente agli autori che 11 sottoscrivono.
^yiyi ■■iwV 'VMM VW VW " ^» VWV" WW ' V'W ' VMV ' v»
A. Medici, Gerente responsabile.
Città di Castello, Tipografia della Casa Editrice S. Lupi, 1918,
Anno II. Maggio-Giugno 1918, Fasc. III.
•J^uoiJa ^\9\s\a 2)^onca
L'enigma della Guerra e i suoi interpreti
In seguito a cortese concessione dell'autore (che ha riveduto e anno-
tato appositamente il suo scritto per il nostro periodico) e degli editori
(il giornale La Sera di Milano), possiamo qui riprodurre una parte
della notevole Prolusione^ che, all' inaugurarsi di quest'anno scolastico,
Ettore Ciccotti tenne nella R. Università di Messina, Nelle pagine
immediatamente precedenti l'A, fa una rapida sintesi per mostrare la
graduale evoluzione, anche nel mondo antico, della guerra con tutte le con-
seguenze nel campo della civiltà, e negli aspetti stessi della guerra. Nota
il movimento per cui si cercava porre d'accordo la forza delle ragioni
con le ragioni della forza, e come specialmente aW epoca romana si fa-
cessero strada il criterio di non scompagnare la guerra da un senso di
giustizia e la necessità di moderarne la inumanità. Indi il Ciccotti
continua:
Alberigo Gentili e Ugo Grozio.
Questi ed altri tratti di antichi, che, volendo, si potrebbero mol-
tiplicare, segnano già un momento non trascurabile del cosidetto di-
ritto di guerra. Ma toccava al secolo XVI — e per opera, prima, di un
italiano e, poi, di un olandese, di Alberigo Gentili e di Ugo Grozio
— dare forma sistematica, organica, più concreta e quasi normativa,
a questo modo di considerare la guerra e le sue forme.
Nasceva e fioriva Alberigo Gentili proprio mentre TEuropa era
devastata dalle guerre della Casa d'Austria e della Casa di Valois, dalle
guerre di religione tra protestanti e cattolici, e maturavano i foschi e
invadenti disegni di Filippo II. Appartenente a una famiglia di etero-
dossi, per lungo tempo vagante fuori d'Italia, portando ovunque la
15 — Nuova Rivista Storica.
226 Ettore Ciccotti
dirittura del suo spirito e la luce della sua dottrina, egli doveva essere,
forse più d*ogni altro, spinto a cercare, tra quella tempesta e quella
confusione, una norma e una guida; e la trovò e la bandì in una più
retta intelligenza della guerra che non era possibile o lecito evitare,
e neir impedirne gli eccessi e le sregolatezze.
Nella sua definizione (I, 2) la guerra è « giusto conflitto di pub-
blici poteri armati ».* E F intendeva con una larghezza, di cui giova,
ad esempio, menzionare un caso, ridivenuto oggi, come si direbbe, di
attualità. Alludo air intervento inglese, per la protezione del Belgio nel
1585, che il Gentili, sulla traccia di Giusto Lipsio, chiamava il baluardo
dell'Europa, vallam Europae. Egli si domandava (I, 16)' se potesse
essere gfiUsto difendere contro il. loro sovrano anche i sudditi altrui, e
se fosse lecito farlo anche quando la loro causa fosse ingiusta. E ri-
spondeva: «Proteggiamo anche ì figli ingiusti contro la crudeltà del
padre e i servi contro la crudeltà de* padroni, e ci adoperiamo lodevol -
mente perchè anche gl'iniqui non siano castigati con furore... Ecco
quale è ora la quistione principale: Se gl'Inglesi abbiano fatto cosa
giusta aiutando i Belgi contro la Spagna, perfino se la causa dei Belgi
fosse stata ingiusta e i Belgi fossero ancora sudditi della Spagna; cose
che veramente si ritengono entrambe non vere. Si diceva che si dovesse
fare la guerra in tale occasione per ottenere dalla Spagna una buona
pace che altrimenti sembrava non si potesse ottenere. E anche così si fa
una guerra giusta secondo la nostra tradizione... » E continuava e.
conchiudeva : « Se il mio vicino fa in casa sua apparecchi ed altre
cose contro la mia casa, non dovrò io temere per me né muovere
contro il vicino? Così si faceva nel Belgio, come videro uomini saggi
e come il grande eroe Leicester, con molta saggezza, ritenne che fosse
estremamente giovevole e necessaria allo Stato la difesa del Belgio, e
persuase di assumerla. Né, se gli Spagnuoli avessero infranto quel
baluardo di Europa (così sapientemente lo chiamasti tu, o Giusto
Lipsio), niente sarebbe rimasto da opporre alla loro violenza. E fin
qui della guerra di difesa ».
E, tre secoli e mezzo dopo, un altro grande Italiano, alto di mente,
più grande ancora di animo, Aurelio Saffi, richiamando alla memoria
de' concittadini ricostituiti in nazione nell'Ateneo Bolognese, la memo-
ria e la gloria del giurista di San Ginesio, aggiungeva:' «Incontro
al supremo pericolo della indipendenza europea, stettero, a quei giorni,
la virtù fiamminga e la liberalità della politica inglese. Alle immanità
> Alberici Oentilis, Opera omnia, Neapoll, 1770, Tom. I, p. 10.
« Op. cit.^ Tom. I, p. 63 sg.
3 Di Alberigo Qentili e del diritto delle genti, Bologna, 1878, p. 157 sgg.
L'enigma della Guerra ^ i suoi interpreti 227
del Duca d'Alba tennero fronte, con Guglielmo d'Orange, gli indomiti
litoranei del Mare del Nord, i nipoti degli antichi Batavì; alle tene-
brose congiure dei gesuiti, i vigili consigli dei Ministri di Elisabetta;
ai torreggianti vascelli della Invincibile Armada, il patriottismo del po-
polo inglese e de' suoi marinai, con lor navi piccole e snelle, con la
loro destrezza e col loro coraggio. Il senno di Leicester e di Walsin-
gham. Segretario di Stato dell'accorta Regina, e la eroica mente di
Sidney compresero che dalla indipendenza delle Fiandre dipendeva la
salvezza delle nazioni; che ivi, come dice Alberigo nel suo Diritto di
guerra, era l'antemurale della libertà dell'Europa. E quella magnanima
politica, esempio non inutile anche alla nostra età, facendo propria la
causa degli oppressi, aiutando da un lato i Fiamminghi, dall'altro gli
Ugonotti e la parte nazionale fra i cattolici di Francia, a rintuzzare,
con la mano e col senno di Enrico IV, le armi e le insidie di Spagna,
gittò le prime fondamenta di quel nuovo ordine degli Stati Europei,
che, mercè il contrasto delle forze, apparecchiò il moto vitale delle mo-
derne nazioni ».
Mentre Alberigo Gentili si accingeva a scrivere il suo libro di
precursore, nasceva in Olanda Ugo Grozio, colui che doveva svilup-
parne l'opera e raccoglierne il frutto nel campo della fama e di una
più diffusa azione sull'opinione pubblica e sull'evoluzione del diritto
internazionale.
Cresciuto a traverso lo sviluppo di avvenimenti, che sotto il suo
grande precursore cominciavano soltanto a disegnarsi ; passato attra-
verso le molteplici esperienze della vita repubblicana e della reggia,
della guerra civile e della diplomazia, della carcere e dell'esilio, dell' in-
tolleranza e delle lotte per la libertà di coscienza, attraverso le ribel-
lioni dell'eresia e le riconciliazioni dei ritorni alla fede, fecondando
tutto con una erudizione sterminata, che una mirabile precocità aveva
permesso di meglio accumulare e utilizzare; Ugo Grozio dette a l'opera
sua un'estensione, che è stata oggetto di critiche e di lodi e che l'ha
fatto confondere con un trattato fondamentale di diritto delle genti e
di diritto naturale, inquadrando in esso il fenomeno della guerra, dalle
sue cause più complesse e diverse alle sue manifestazioni più varie.
Dedicando, nel 1625, a Luigi XIII il suo libro,* che da traduttori »
e commentatori doveva poi essere successivamente dedicato a Luigi XIV,
all'Imperatore Leopoldo, a Guglielmo III e Giorgio I d'Inghilterra e
che dall'ultimo traduttore francese era dedicato con maggior senti-
1 De jure belli oc pacis. Libri tres, Neapoli (?), 1719.
* Le droit de la guerre et de la paix, trad. par I. Barbeyrac, Amsterdam, 1724;
Le droit de la guerre et de la paixt trad. par M. P. Pradibr-Fodéré, Paris, 1867.
228 Ettore decotti
mento a sua madre; Grozìo attendeva che — son sue parole — < fa-
cendo cadere da ogni parte le armi, la pace tornasse per sua iniziativa
non solo tra gì' Imperi, ma tra le Chiese ». « Stanchi di discordie — egli
aggiungeva — i nostri spiriti sono portati verso questa speranza dal-
l'amicizia recente che si è formata tra voi e il Re della Gran Bretagna,
questo Re così saggio e così appassionato di questa pace santa».
Ma la forza degli eventi voleva che, proprio nell'anno in cui egli
liberava la sua opera alla stampa e mentre Vincenzo di Paola istituiva
la Congregazione delle missioni, salisse al trono Carlo I d' Inghilterra,
che doveva poi lasciare la testa sul ceppo come suggello della contra-
stata libertà politica e religiosa d'Inghilterra, e cominciasse quella
lunga e devastatrice guerra detta de' Trent'anni, donde solo doveva
uscire la pace sanzionatrice della tolleranza religiosa in Germania.
Adamo Smith disse che Grozio fu il primo, il quale cercasse di
dare al mondo qualche cosa come una trattazione sistematica di quei
principi, che debbono costituire la base e il fondo delle leggi di tutti
i popoli ; e il suo trattato del Diritto della guerra e della pace è ancor
oggi, malgrado le sue imperfezioni, il libro più completo che sia stato
scritto su questa materia.
E il libro è stato tutt'altro che privo d'influenza sulla opinione
pubblica e sull'evoluzione della coscienza per tutto il tempo avvenire.
Ma non a torto il Leibnitz,' riconoscendo la dottrina e la solidità
di spirito di Grozio, notava che egli non era abbastanza filosofo per
ragionare con l'esattezza necessaria sugli argomenti sottili di cui si oc-
cupava. Grande giureconsulto — anche giureconsulto del genere umano,
come lo chiamò G. B. Vico — egli rimaneva tale, e forse esclusiva-
mente tale, anche quando, come frequentemente accadeva, invocava
e adoperava, quale strumento di dimostrazioni, la filosofia, la teologia,
la storia. Giungeva a una concezione realistica, come quando (Lib. 1, 22 ;
II, 4) dichiarava sufficentemente costante che il dritto naturale, il quale
può anche essere chiamato dritto delle genti, non disapprova punto
ogni specie di guerra; ma vi giungeva attraverso analisi così staccate
di autori e di proposizioni, da rasentare spesso la casistica, quando
non vi si sperdeva dentro addirittura. La sua stessa^, definizione della
guerra (Lib. I, 1, 2), in cui, prendendo le mosse dalla definizione di
Cicerone — cioè un contrasto risoluto dalla forza — la sviluppa nel
senso che «la guerra è la condizione d'individui che risolvono i loro
contrasti con la forza e sono considerati come tali»; questa definizione
è piti formale e meno precisa di quella adottata da Alberigo Gentili.
Una visione larga, comprensiva della guerra, capace di ulteriori
t Oeavres, edit. Duteus, Tom. VI, 1, p. 271<
L'enigma della Guerra e i suoi interpreti 229
svilupi3i, che la abbracciasse quindi, non solo nelle sue cause imme-
diate e nelle sue forme esteriori ed accessorie, ma nella sua essenza e
nel suo processo intimo in rapporto alla evoluzione della civiltà, po-
teva averla e darla solo chi, prendendo le mosse, senza arrestarvisi,
dalla concezione realistica, per cui fu grande Niccolò Machiavelli, ne
traesse tutto il partito e le conseguenze di cui è capace la storia. E il
secolo XIX, al cui pensiero il metodo storico e la concezione storica
dettero forza ed impulso, doveva a preferenza illustrare e svolgere
Targomento da questo punto di vista.
Emanuele Kant.
Sul finire del secolo XVHI, il 1795, proprio mentre non era spenta
ancora l'eco della guerra di successione austriaca o di quella de* sette
anni, e cominciavano a riardere le guerre che si dovevano protrarre
ininterrotte per altri vent'anni, Emanuele Kant pubblicava il suo fa-
moso saggio filosofico «La Pace perpetua ».*
Era la reazione del desiderio di quiete verso il mondo che si
metteva in tumulto. Era la estrema conseguenza di quella concezione,
che aveva veduta la suprema verità nella legge morale scolpita inde-
lebilmente nel nostro petto per sopravvivere a tutto e a tutti, compa-
rabile solo in magnificenza e bellezza al cielo stellato che ne sovrasta.
Ed era anche Tultima espressione di quell'indirizzo aprioristico, che
tanto si era esercitato a rifoggiare il mondo sopra schemi e forme
preconcette.
Ma^ il grande pensatore non sapeva dispensarsi, dedicando il suo
libro alla « Pace perpetua», di aggiungere subito dopo: « Questa iscri-
zione satirica che si leggeva sull'insegna di un albergatore olandese,
ove era dipinto un cimitero, si applica agli uomini in generale o par-
ticolarmente a' sovrani mai sazi di guerre, o soltanto a' filosofi che si
abbandonano a questo dolce sogno? Ecco ciò che è inutile esaminare ».
Non sapeva dispensarsi nemmeno il filosofo dallo scrivere nel corso
del suo libro: « Ma la stessa guerra non ha bisogno dì un motivo par-
ticolare: essa sembra avere la sua radice nella natura umana, e passa
anche per essere una còsa nobile a cui l'uomo è tratto dell'amore della
gloria, indipendentemente da ogni movente d'interesse ». E, finalmente,
proponeva, per la realizzazione del suo disegno, modi e forme, che
non avrebbero potuto venire in atto senza infinite guerre e lunghe
rivoluzioni politiche, il cui ciclo, in un secolo, è appena incominciato.
» Elétnents métaphysiques de la dottrine du droit salvie d'un essai sur le paix
perpetuelle, trad. par I. Barni, Paris, 1853, pp. 289 sg.
230 Ettore decotti
La nobile filantropica aspirazione kantiana era così soverchiata
dagli avvenimenti, che, proprio nel suo stesso paese, oltre che nel
campo dell'azione, nel campo del pensiero, si determinava un movi-
mento diametralmente opposto. Il cosmopolitismo di Fichte andava a
finire ne* Discorsi alla Nazione tedesca, il Vangelo del futuro nazio-
nalismo germanico.
E, nella filosofia del divenire hegeliano, tutta la storia, in tutto il
suo ritmo, con le sue avanzate e i suoi recessi, diveniva un solo pro-
cesso razionale, giacché ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale
è razionale ; * e la guerra, che nella storia aveva avuta e aveva tanta
parte, ne diveniva la forma dinamica. Anzi, « non distinguendo piti il
concetto metafisico, Io storico e l'empirico della guerra, vi veniva, con
un abuso gnoseologico — come ben si è detto proprio da un neo-
hegeliano,* — esaltata la guerra empiricamente intesa quale una forma
specifica della guerra metafisica, di quella dialettica ideale, che è per
Hegel la legge, la vita di tutto; e quindi non solo delle cruente bat-
taglie in cui si scontrano i popoli cercando ciascuno la propria vita
nella morte del nemico, ma anche del lavoro sociale dei popoli pro-
speranti nella sicurtà della pace, anzi delle opere dello spirito sopra-
mondane, come quelle che appartengono all'arte, alla religione, alla
filosofia in quella sfera dello spirito assoluto, dove non ci sono piii
divisioni di persone e antagonismi sociali governati da interessi diversi,
ma l'idea nel più profondo raccoglimento della coscienza celebra la
sua perfetta universalità ».
Un punto di vista questo che, anche col sopravvenire di una fi-
losofia antitetica, col trionfo del positivismo, trionfava nella teoria della
evoluzione, se intesa in maniera troppo angusta e confusa, con un
troppo rigoroso darwinismo. Attraverso di che, non solo si legittimava
e si spiegava la guerra in quanto avvenimento storico contingente, ma
si elevava a forma necessaria della vita ; e, di quello che, nel tempo,
è un modo specifico della lotta per l'esistenza e dell'adattamento vitale
fra popoli polìticamente costituiti, si faceva il solo principio dinamico,
la prevalente ed eterna forma dì competizione nello svolgimento della
vita internazionale. Cosa che contrastava con il sentimento e con la
ragione, con le aspirazioni e, si potrebbe anche dire, con le previ-
sioni rischiarate da un più largo concetto delle necessità e della pla-
sticità della vita sociale.
Superare questo punto, risolvere questa antitesi dolorosa dello spi-
1 Was vernunftig ist, das ist wirklich ; und was wirklich ist das ist vernunftig;
(Encycl, §6; GrundUn. d. Philos. des Rechts, 1911, p. 14).
« G. Gentile, la filosofia della guerra^ Palermo, 1914, p. 4 sgg.
L'enigma della Guerra e i suoi interpreti 231
rito di conservazione individuale, del senso inestinguibile di umanità
e della meditata distruzione di vite umane: ecco il problema tormen-
toso, che solo una comprensione sintetica di tutta la storia e una vi-
si one intera del riscatto, che si compie attraverso il sacrificio, poteva
intendere, se non risolvere, in una maniera compatibile e conciliante.
Giuseppe De Maistre.
Giuseppe De Maistre ' ne cercò la risoluzione nel rifugio supremo
della Provvidenza, che, dal punto di vista religioso, pur rimanendo
nella sua essenza un imperscrutabile segreto, ricostituisce, con una
spiegazione solo formale, l'unità della storia.
Agli autori delle facili improvvisate, empiriche spiegazioni de' re
che comandano e obbligano a marciare, il De Maistre rispondeva:
« Tutte le volte che un uomo, il quale non è assolutamente uno sciocco,
vi presenta una quistione come assai problematica, dopo averla abba-
stanza meditata, diffidate di queste soluzioni subitanee che si offrono
allo spirito di chi se ne è occupato con leggerezza^ o non se ne è oc-
cupato punto : sono ordinariamente semplici punti di vista senza con-
sistenza, che non spiegano niente e non resistono alla riflessione. I so-
vrani non comandano efficacemente e in un modo durevole che nella
cerchia delle cose accettate dairopinione pubblica e questa cerchia non
sono essi a tracciarla... Per obbligare a radersi la barba, per accor-
ciare gli abiti, Pietro I ebbe bisogno di tutta la forza del suo carat-
tere invincibile : per condurre innumerevoli legioni sul campo di bat-
taglia, anche nell'epoca in cui egli era battuto, per imparare a battere,
non ebbe bisogno, come tutti gli altri sovrani, che di parlare».
E il credente, il cristiano, il cattolico, il legittimista finiva per
concludere: «La guerra è dunque divina in sé stessa; dacché è una
legge del mondo. La guerra è divina per le sue conseguenze dì un
ordine soprannaturale, tanto generali come particolari: conseguenze
poco note perchè sono poco indagate, ma non sono meno incontesta-
bih\.. La guerra è divina nella gloria misteriosa che la circonda e nel-
l'attrattiva, non meno inesplicabile, che ad essa ci conduce... La guerra
è divina per i suoi risultati che sfuggono assolutamente alla specula-
zione della ragione umana, poiché essi possono essere affatto diversi
tra due nazioni, benché l'azione della guerra si sia mostrata uguale
da una parte e dall'altra. Vi sono guerre che avviliscono le nazioni e
le avviliscono per secoli; altre l'esaltano, le perfezionano in tutte le
maniere e risarciscono anche subito, ciò che è davvero straordinario,
1 Les soirées de Saint Pétersbourgt 14* ed., Paris, 1876, Tom. II, p. 2 9gg.
232 Ettore decotti
le perdite momentanee con un visibile incremento di popolazione. La
storia ci mostra spesso lo spettacolo di una popolazione ricca e cre-
scente in mezzo a' combattimenti più micidiali ; ma vi sono guerre pecca-
minose, guerre di maledizione, che la coscienza riconosce meglio del ra-
gionamento ; le nazioni ne sono ferite a morte nella loro potenza e nel
loro carattere ; e allora voi potete vedere lo stesso vincitore degradato,
impoverito e gemente fra i suoi tristi allori, mentre, sulle terre del
vinto, non troverete, dopo alcuni momenti, né un opificio né un aratro
a cui manchi un uomo ».
Questo che Io scrittore legittimista presentava irradiato di una
luce oltremondana e, al tempo stesso, avvolto nel velo impenetrabile
della trascendenza, tornava ad apparire, in altra. forma, con altre pa-
role, da un altro punto di vista, con un contenuto schiettamente
storico e immanente, in altri due scrittori, che anticipavano e precorre-
vano di tanto i tempi, di quanto almeno De Maistre intendeva rallen-
tarne il corso : due eterodossi, come De Maistre era un ortodosso : Pi-
sacane e Proudhon; nell'uno in via di enunciazione e di accenno;
nell'altro come un compiuto svolgimento.
Pisacane e Mazzini.
Al secondo de* suoi saggi storici-politici-militari sull' Italia,* Carlo
Pisacane premetteva come epigrafe queste parole di Giordano Bruno :
« Non temete nuotare contro il torrente ; è d'un animo sordido pen-
sare come il volgo perchè il volgo è in maggioranza ». Ed esordiva
così : « Sarebbe cosa strana farsi a distendere l'apologia della guerra
in tempo che tutti scrivono contro « Di recente ne parlò distesamente
il Macchi nei suoi studi politici, con quella fede ed amore per la causa
dell'umanità che l'hanno sempre distinto. Ma gridare contro la guerra
e contro il rigore del verno sembra la medesima cosa. E, se la mente
non pena a figurarsi un'era in cui il perfetto equilibrio degli interessi
mondiali farà sparire un tal flagello, si può eziandio, senza notare la
ragione, supporre la terra raddrizzata nella sua ecclittica e ritornata
ad una perenne primavera. Ma, come un tal fenomeno non potrebbe
verificarsi senza un cataclisma, così quell'era fortunata non sarà che la
conquista di una gran guerra lunga e terribile. E, discorrendo in questo
libro di guerre e di battaglie, e volendo convincere noi Italiani della
superiorità che abbiamo sugli stranieri come guerrieri, è giusto, mentre
gridano contro la guerra, rammentare che senza la guerra la civiltà non
sarebbesi sparsa nel mondo romano. I paesi settentrionali sarebbero
» Genova, 1857.
L'enigma della Guerra e i suoi interpreti 233
rimasti barbari senza conquistare il decrepito impero ; e forse gli ultra-
montani non avrebbero quella civiltà di cui si vantano senza le incur-
sióni in Italia. La civiltà tende a livellarsi come le acque ; la guerra
non sa che abbattere le dighe, distruggere città e nazioni ; ma in
ognuna di queste vicende l'umanità progredisce di un secolo verso la
civiltà mondiale : perciò non dovrebbero schifare la guerra coloro che
la grandezza patria a quella dell'umanità sacrificano volentieri. Ma,
utile o nociva che sia la guerra, pur ne è forza accettarla. L'Italia deve
ad essa le glorie passate e la schiavitù presente, e da essa solamente
può sperare giorni migliori. I propugnatori della pace dovrebbero di-
mostrare che tutti gli interessi de' diversi popoli e delle varie classi
di un popolo medesimo sono in perfetto equilibrio, oppure, se non
c'è equilibrio, dimostrare come possa esso stabilirsi senza la guerra,
cioè come possa mutarsi l'umana natura.
«Ma, finché l'Europa è in balìa di tre o quattro despoti soste-
nuti da una selva di baionette, finché in Europa la decima parte degli
abitanti vive eziandio nell'ofi^lenza, mentre nove decimi vivono pro-
ducendo nella miseh'a, parlare di pace perpetua (parlo ai signori del
Comitato della pace) è inutile ipocrisia. — Gli eserciti permanenti non
si distruggono con l'impedire che l'Austria contragga prèstiti in Inghil-
terra, costringendola così a farli con maggior suo profitto in Italia me-
diante la forza delle baionette, ma con argomenti che dimostrino
a quelle stupide masse i vantaggi che la libertà promette ; e, ove non
vogliano intenderlo con le buone, combattendoli con la forza della di-
sperazione e col coraggio di un profondo convincimento ».
È — sotto una visuale che ne' successori doveva sempre più sco-
starsi dal Mazzini — un'eco di ciò che il Mazzini scriveva già dodici
anni prima, facendosi vaticinatore, apologeta delle gesta di Garibaldi,
quando egli scriveva alla signora Wilks: « Le mando un piccolo foglio,
che parla di alcune coraggiose gesta della nostra legione italiana a
Montevideo — forse la battaglia di Sant'Antonio — . Sono gesta di
guerra, ma non dovete dimenticare che la guerra è un fatto e sarà
un fatto per altro tempo ancora; e, sebbene per sé stessa terribile,
essa è spessissimo il solo mezzo di sostenere il diritto contro lajorza
brutale. È bene quindi che i nostri Italiani agiscano coraggiosaniente
e onestamente in essa non meno che nelle arti della pace. E vi man-
derò anche la copia di una brevissima lettera in seguito al fatto d'armi,
di cui parla il foglio stampato, e nella .quale Garibaldi declina il titolo
di generale e le ricompense pecuniarie offerte dal Governo di Mon-
tevideo. Questo mio concittadino dovrebbe essere meglio conosciuto
ed io spero ancora che egli, un giorno o l'altro, avrà parte premi-
nente nei nostri affari d'Italia... ».
■
234 Ettore decotti
Proudhoti.
Proudhon,' a un certo punto, prende le mosse propria» da De
Maistre per capovolgerne e completarne al tempo stesso il concetto.
« De Maistre pel primo — egli dice —, facendo della guerra una
specie di manifestazione del cielo, e precisamente perchè confessa di
non comprendervi nulla, ha mostrato che ne comprendeva qualche
cosa. — ta stessa coscienza, che produce la religione e la giustizia,
produce anche la guerra; lo stesso fervore, la stessa spontaneità di
entusiasmo, che anima i profeti e i giustizieri, accende gli eroi: ecco
ciò che costituisce la divinità della guerra. — E, intanto, questo mi-
stero, veramente unico, di una coscienza in cui il diritto, la pietà e
l'omicidio si uniscono in un abbraccio fraterno, possiamo noi spie-
garlo? Se sì, la guerra cessa di essere divina: ancor più, perdendo la
sua divinità, essa arriva alla sua fine. All'incontro, se questo spaven-
tevole mito è impenetrabile, la guerra, io non esito a dirlo, è eterna».
Impostato su questa proposizione, il libro, a cui avea imposto il
motto della Sfinge : < Indovina o ti divoro », Proudhon passava a svol-
gerla con quella sua vivacità di concezione e di espressione, che costi-
tuisce la caratteristica del suo ingegno e del suo stile.
Uscito dal popolo, autodidatta, estraneo ad ogni ambiente acca-
demico; con una istruzione e una educazione mentale fatta giorno per
giorno, un po' tra i libri, più nella realtà stessa della vita, Proudhon
godeva — si direbbe qualche volta anche per civetteria mentale — a
prendere di fronte le idee e i punti di vista tradizionali, e giudizi fatti,
comunemente accettati. 11 che, se talvolta gli faceva rasentare il sofisma
o gli faceva soltanto sfiorare Targomento, altre volte gli. consentiva
d'illuminare come con un baleno i convenzionalismi della vita e schiu-
dere anche nuovi orizzonti.
E cosi fece, appunto, in un argomento tanto ardente e dì tanto
vitale interesse.
Il libro non si riassume: è nelle critiche^ nelle ricostruzioni, negli
aforismi, negli stessi paradossi. Volendo tuttavia segnarne la traccia
secondo la linea stessa da lui disegnata, per lui la guerra, al pari della
religione e della giustizia, è, nel genere umano, un fenomeno piuttosto
interno che esterno/un fatto della vita morale ben più che della vita
fisica e passionale. È per questa ragione che la guerra, giudicata sem-
pre secondo le apparenze dal volgare e da' filosofi, non è stata mai
compresa, se non forse ne' tempi eroici.
> La guerre et la paix, Paris, 1861.
ì
L'enigma della Guerra e i suoi interpreti 235
Tutto intanto nella nostra natura la suppone, tutto ne implica la
presenza come la nozione. La guerra è divina, cioè, primordiale, essen-
ziale alla vita, alla produzione stessa dell'uomo e della società. Essa
ha il suo focolare nelle profondità della coscienza e abbraccia nella
sua idea T universalità de' rapporti umani: il contrasto come la soli-
darietà; la solidarietà nel contrasto. Per mezzo suo si rivelano e si
esprimono, ne' primi giorni della storia, le nostre facoltà più elevate:
religione, giustizia, poesia, belle arti, economia sociale, politica, go-
verno, nobiltà, borghesia, potere regio, proprietà. Per mezzo suo, nelle
epoche successive, i costumi si ritemprano, le nazioni si rigenerano,
gli Stati racquistano il loro equilibrio, il progresso si sviluppa, la giu-
stizia ristabilisce il suo impero, la libertà trova le sue guarentige. Sop-
primete per ipotesi l'idea della guerra e non resta nulla del passato
né del presente del genere umano. Non si concepisce senza di essa
che cosa avrebbe potuto essere la società : non s' indovina ciò che può
divenire. La civiltà cade nel vuoto; il suo movimento anteriore è un
mito, a cui non corrisponde alcuna realtà; il suo sviluppo ulteriore,
un' incognita, che nessuna filosofia saprebbe risolvere. La pace stessa,
infine, senza la guerra non si comprende: non ha niente di positivo
e di vero; essa è priva di valore e di significato: è un niente.
Intanto il genere umano fa la guerra e tende con tutte le sue forze
alla pace!
Come si risolve questa antitesi reale e questa contraddizione for-
male?
Dimostrate largamente queste proposizioni, assodato che la guerra
contiene un elemento morale; che implica, nella sua nozione, ne' suoi
motivi e nel suo fine, un' idea di diritto e si risolve così in vero man-
dato giudiziario ; che tale è l'opinione di tutti i popoli, la fede intima
del genere umano ;*si aveva la chiave di questo, misterioso e gigan-
tesco fenomeno: e, più sin allora era sembrato abbassare la nostra
specie, più si sentiva d'un tratto che la rilevava.
Il risultato di quest'esame — secondo il Proudhon — era, con-
trariamente alla voce della scuola, ma d'accordo con la credenza delle
nazioni, all'unisono con le speranze che aveva fatte nascere in tutti
questa fenomenologia grandiosa della guerra: cioè, che tanto è certo
che la giustizia è una facoltà reale e un' idea positiva dell' uomo, tanto
è vero che esiste un diritto reale e positivo della forza; che questo
diritto è sottoposto alle stesse condizioni di reciprocità degli altri ; che
ha come ogni altro la sua specialità e per conseguenza i suoi limiti,
la sua competenza e la sua incompetenza; che la sua applicazione più
ordinaria, dal formarsi delle prime società ha avuto luogo tra gli Stati,
o che si trattasse della loro formazione e del loro ingrandimento o
236 Ettore decotti
della loro divisione e del loro eauilibrio ; infine, che la guerra è la forma
di azione del diritto della forza, rendendo col combattimento manifesta
la stessa forza. Come il diritto di proprietà e il diritto del lavoro, come
il diritto dell'intelligenza e quello dell'amore, il diritto della forza è
uno de' diritti dell'uomo e del cittadino, il primo di tutti nell'ordine
della maniiestazione: solo per effetto del patto sociale il cittadino se
ne spoglia nelle mani del sovrano, che solo si trova investito, in nome
di tutti, del diritto di guerra e del diritto di giustizia.
A questo punto tutto era dunque perfettamente coordinato; tutto
sì seguiva, era collegato e faceva tutt' uno. Si aveva un princìpio, una
base di operazioni, una prospettiva, uno scopo, un metodo. Non più
scissione nell'uomo e nella società: la forza e il diritto, lo spirito e
la materia, la guerra e la pace sì fondono in un pensiero omogeneo e
indissolubile.
Ma nella pratica, sopratutto ne' particolari, questa magnifica con-
cezione sembrava svanire. In che modo, se la guerra può essere con-
siderata nella generalità della storia come una divinità giustiziera, come
una saggia e valorosa Minerva, d'altro canto, ci fa pagare le sue deci-
sioni con tanti mali, che si finisce per dubitare non solo del diritto
della guerra ma di ogni specie dì diritto, e considerare la giustizia
come una idealità fuori natura, e la guerra, come una Gorgona. Non
ci è soltanto — nella guerra — della religione, del diritto, della poesia,
dell'eroismo e dell'entusiasmo; vi sì mescola, a dose almeno uguale, della
collera, dell'odio, della perfidia, una sete dì bottino inestinguibile e la
più grande impudicizia. La guerra ci si presenta con una doppia faccia:
la faccia dell'Arcangelo e quella del dèmone, E qui è il segreto del-
l'orrore che ispira; e quest'orrore, bisogna confessarlo, è tanto legittimo
quanto l'ammirazione ispirata dal suo eroismo.
Questa contraddizione tra il fatto e l' idea della guerra non ha del
resto niente di fortuito: non è punto un'eccezione che tocchi solo casi
particolari. Essa è generale, costante, la si vede aggravarsi con i secoli ;
essa ha tutta l'apparenza dì un vizio cronico, incurabile.
Donde deriva ciò? Ecco l'enigma che dobbiamo sciogliere.
Ora questo antagonismo e questa contraddizione si risolvono con
l'indagine della causa fondamentale, radicale, della guerra e con la
relativa, graduale sua eliminazione ; il che avviene mediante e attraverso
l'evoluzione stessa della guerra.
La causa fondamentale, di ultima istanza, è dì carattere economico:
il pauperismo e lo squilibrio economico, come Proudhon lo chiama.
La causa prima dì ogni guerra — egli dice — è unica. Essa può va-
riare d'intensità e non essere assolutamente determinante; ma essa
è sempre presente, sempre attiva e finora indistruttibile. Essa scoppia
L'enigma della Guerra e i suoi interpreti aSy
per le gelosie, le rivalità, le quistioni di frontiere, di servitù; di qui-
«tioni, per così dire, di muro intermedio. Là è la responsabilità delle
nazioni. Senza questa influenza del pauperismo, senza il disordine che
introduce nello Stato la rottura dell'equilibrio economico, la guerra
sarebbe impossibile ; nessun motivo secondario sarebbe capace di spin-
gere le nazioni ad armarsi Tuna contro l'altra
È evidente, dunque — aggiungeva Proudhon — che, in luogo di
un problema da risolvere, ne abbiamo due : un problema politico con-
cernente la formazione, la delimitazione e la dissoluzione degli Stati,
che la guerra si è incaricata di risolvere; e un problema economico rela-
tivo alla organizzazione della facoltà produttive e alla ripartizione de*
servizi e de' prodotti, problema di cui né la guerra né lo Stato, né la
stessa religione si sono, sino a questo giorno — il libro è del 1861 —
occupati. « Noi non possiamo — prosegue Proudhon — io lo riconosco,
non possiamo che farci un'idea ancora indecisa del regime economico,
che, io sostengo, debba succedere al regime di politica e di guerra,
avendo per me queste due espressioni lo stesso significato. Sotto questo
rapporto e in questa misura il dubbio é legittimo. Ma non bisogna
abusare, per negare il movimento e l'avvenire, dello sfavore gettato su
di alcune teorie socialiste. Una cosa almeno si è verificata, ed é che
la religione «ideila guerra se ne va, al pari di quella della regalità e della
nobiltà; la ragione degl'interessi domina sempre piti la ragione di Stato;
il lavoro, in altri tenìpi considerato una maledizione, é glorificato oggi
al pari della virtù. Il lavoro, già opera servile, regna presentemente
sotto il nome di suffragio universale; un giorno governerà. Già ha
cominciato a prendere possesso del potere sotto il titolo di governo
rappresentativo; la metà del cammino è fatta. Noi non sappiamo, lo
ripeto, ciò che avverrà, quando si sarà realizzato il disarmo universale;
ciò che é sicuro è'che la guerra ha trovato il suo successore».
Ma a questo punto di vista teorico, a questo stato di coscienza,
come alla condizione che lo determina e ne rende possibile la realiz-
zazione, si giunge solo lentamente, gradualmente, attraverso la stessa
evoluzione della guerra. Anche il processo della guerra é una spirale.
La guerra, fomentata dal pauperismo, intrapresa in vista della ra-
pina, organizzata dapprima, e indifferentemente, ora da' particolari, ora
dalle città, é in seguito riservata allo Stato. Il diritto di guerra diviene
la prerogativa del sovrano. La pirateria, ultima espressione delle guerre
private, è notata d'infamia, votata all'estremo supplizio. Ma la guerra
non perde punto, perciò, il suo carattere di rapina ; le armi civiche non
sono punto più pure delle armi eroiche... E ciò dura sino a che, per
un concorso di circostanze che la storia narra e il Proudhon riassume,
la spoliazione delle popolazioni, la devastazione di territorii, sollevando
I
238 Ettore decotti
la riprovazione generale, la conquista si trasforma in una semplice incor-
porazione politica ed obbliga il conquistatore a cercare nello sfrutta-
mento de* suoi soggetti gli utili della sua professione.
Dal diritto della forza puro e semplice si passa così al diritto della
QTuerra, al diritto delle genti, al diritto politico, al diritto civile o do-
mestico,, al diritto economico, suddiviso in due branche, come le cose
che lo rappresentano: il lavoro e lo scambio; al diritto filosofico e del
libero pensiero; e finalmente al diritto della libertà, in cui l'umanità,
plasmata della guerra, dalla politica, dalle istituzioni, dal lavoro e dal
commerèio, dalla scienza e dalle arti, non è più retta che dalla libertà
pura sotto la legge unica della ragione. In questa gamma di diritti, la
forza fa da basso e la libertà è l'ottava.
È evidente allora che, liberata la guerra dal motivo segreto e diso-
norevole che la determina, dall'abolizione del saccheggio, della corsa,
delle contribuzioni di guerra e di ogni specie di requisizioni, contor-
nata in seguito di tutti i diritti civili, politici, internazionali ch'essa
stessa ha fatto nascere, non verrà in mente ad alcuno di ricorrervi,
poiché né la ricchezza, né l'onore della patria vi sono interessati ; che
le difficoltà internazionali, ricondotte a questioni di semplice diritto,
possono essere risolute in via diplomatica o arbitrale; infine che la
giustizia della forza e tutti i suoi apparecchi, tutto ciò che ne dipende,
tutto ciò che la suppone, l'implica, la sostiene, tutta questa giurisdi^
zione e questa giurisprudenza debbono essere soppresse per mancanza
di giudicabili.
È la guerra che, così, riscatta e al tempo stesso scalza la guerra.
« La guerra, creando il diritto nell* umanità, facendo dello studio di
questo diritto una scienza positiva, obbiettiva, ha parlato più alto
di tutte le rivelazioni, e la sua autorità sorpassa quella dello stesso
Evangelo. La legge d'amore non ha prodotto niente di comparabile alle
creazioni uscite dal diritto della forza... ».
Solo nell'applicare questa sua concezione al suo tempo, pel quale
credeva cessata ogni ragione di guerra, il Proudhon cade in vari errori,
non facendo il debito conto del principio di nazionalità e del movi-
mento che investiva allora la vita internazionale. È ciò che accade non
di rado, del resto, ad autori che, avendo formulato de* principii, non
sono parimenti felici nel trarne tutte le conseguenze.
Tutto questo, intanto, non toglie valore al quadro da lui tracciato.
E mai come in questo momento, in mezzo a* tragici avvenimenti che
si traversano, questa concezione della guerra, questa sua interpreta-
zione dialettica torna alla mente e s'impone all'attenzione.
Ettore Ciccotti.
W§S
U MENTE DI DOMEICO COMPIREHI
^
Intendimento di queste mie pagine non è solo il rendere un tri-
buto di gratitudine reverente ad un solenne maestro al quale sento
di dover tanto, sì anchp, in tempi di grande turbamento di animi, il
ricondurre, anche per un momento alFesempio d* un animo nobilmente
sereno; e in tanta confusione di valori il farsi quasi di un valore,
vero ed incontestabile, presentatore a gran parte del pubblico no-
stro, anche colto, cui per varie ragioni, alcune delle quali tornano
ad onore delFuomo, questi è rimasto men conosciuto di altri di assai
minore statura intellettuale, divenuti più largamente e notoriamente
popolari. 11 che non significa (che non è officio mio qui) tessere
una biografia di Domenico Comparétti, né comporgli sul canuto e
venerato capo una encomiastica corona, della quale egli non ha bi-
sogno, ne desiderio. E nemmeno è proposito mio il ricercare per ogni
parte la sua operandi critico e di storico insigne: al che mi farebbe
difetto, segnatamente in alcuni ordini di studi, la speciale compe-
tenza, vólto, come io sono, per notevole parte e per quello che in
essi io possa valere, a studi di natura diversa, ancorché congenere e
per nobiltà di argomenti congeniale.
Delineare il tipo mentale di questo valentuomo come maestro,
scrittore e studioso, é tuttavia possibile, e per me assai grata impresa:
specialmente se mi venga fatto di dileguare o attenuare con la mia
parola certe non del tutto spassionate prevenzioni su di lui nutrite da
alcuni pur valentuomini, che furono suoi antichi discepoli e continua-
tori degni e in parte anche integratori dell'opera sua nel campo degli
studi classici: opera già a tanti studiosi italiani esempio ed aiuto de^
gnissimo, e ben riconosciuta e pregiata dalla scienza straniera. Le quali
prevenzioni, se non mi è dato giustificare, è lecito almeno spiegare col
240 Alessandro Chiappelli
ricercarne le orìgini e i motivi psicologici in certi suoi e negli altrui
atteggiamenti di studioso, cagione di non sempre sereni dissensi, che
vorremmo, ad ogni modo, composti in bella ed amichevole armonia
patriottica, ora che di consensi ha tanto bisogno la patria comune.
Alle indirette e pur grandi benemerenze del Comparetti per i' in-
cremento degli studi italiani, specialmente d'antichità classica, ed anche
delle ricerche archeologico-epigrafiche, occorre appena accennare. Da
lunghi anni egli si adoprò a promuovere le ricerche archeologiche
neir isola di Creta, provvedendovi anche largamente col suo concorso
personale : quelle ricerche che hanno dato i grandi resultati, sì epigra-
fici e sì archeologici, che son ben noti oramai nel mondo scientifico.
Opera sua è la fondazione della Scuola Archeologica di Roma, e in
parte anche quella della nostra Scuola Archeologica di Atene, il cui
Annuario, nel suo primo volume, reca una Prefazione da lui dettata,
che è un vasto programma di studi e di ricerche, pensato con lar-
ghezza scientifica di criteri e modernità di propositi. Del pari è opera
sua la istituzione, presso la R. Accademia dei Lincei, dei Monumenti
Antichi, pubblicati, per cura di quel nostro massimo Istituto, in una
serie di volumi di alto valore scientifico, ai quali egli e molti discepoli
suoi contribuirono largamente con lavori archeologici, papirologie!,
epigrafici. Dei quali ultimi fanno parte le tre grandi raccolte epigrafiche,
alla cui redazione egli, l'Halbherr, il Pais, il Lanciani ed altri accade-
mici stanno ora attendendo, e vi attendeva anche il compianto Savi-
gnoni. Questa serie accademica dei Monumenti antichi si collega con
la pubblicazione, già da lui iniziata e diretta, del Museo Italiano di
antichità classica, di cui vennero in luce tre grossi volumi, che sono
documento della fertile e vigile opera sua e della sua scuola. Non è
meraviglia, quindi, che queste benemerenze, e più ancora la grande
e varia opera sua di filologo e di archeologo, sieno state riconosciute
già da tempo oltre i confini della patria: e che come l'Università dì
Oxford lo volle suo honoris causa, così l'abbiano accolto nel loro seno
l'Accademia di Monaco, l'Istituto dì Francia, l' Università dì Atene, per
citare solo alcuni degl'Istituti che si onorano di averlo loro desiderato
sodale, e il Senato del Regno che lo ebbe, già dal 1890, fra i mag-
giori uomini della scienza italiana, onde ha prestigio .e decoro.
Gli studi Medievali,
La scienza e la scuola sono i due poli intorno ai quali si è svolta
ampia e continua l'opera intellettuale di questo insigne uomo. Opera
continua dì scienza (e speriamo sia ancora per lunghi anni !) è quella
.che va dalle giovanili memorie in latino sopra l'orazione d'iperide e
La mente di Domenico Compare tti 241
l'età dell'annalista Liciniano, pubblicati nel 1858 dal Rheinisches Ma-
seurn fino alla Iscrizione inedita di Pednelissos (Pisidia) e a due epi-
grafi inedite di Gortyna (Creta) da lui pubblicate e dichiarate nel
III volume degli Annali della R. Scuoia Archeologica di Atene in questo
anno ora caduto 1917. E non senza ragione ho formato l'augurio che
l'operosità sia conservata lungamente all'onore della scienza italiana
(pur senza contare i caldi voti d'affetto e d'amicizia per l' uomo caris-
simo a quanti gli sono familiari), poiché di lui sta per pubblicarsi nei
Monumenti Antichi dei Lincei una memoria illustrativa del gran dipinto
murale Pompeiano, recentemente scoperto, « Le Nozze di Bacco e d)
Arianna », e, dei lavori epigrafici in corso per le tre collezioni o Sii»
logi, di cui sarà editrice l'Accademia dei Lincei, specialmente la silloge
delle iscrizioni arcaiche cretesi, è affidata alle mani esperte del Com-
paretti, promotore di questa impresa dei tre Corpi Epigrafici, assunta,
con animosa libertà e con maturità scientifica, dalla nostra Accademia
in sostituzione dell'Accademia dì Berlino.
Quello che rende ammirabile nel mondo scientifico l'opera di lui,
e quasi inesplicabile agli stranieri, di consueto specialisti, e a poche
altre comparabile anche in Italia, dove pur questa jtoXunaOta, ben diversa
dal dilettantismo superficiale, è gloria caratteristica e antica tradizione
del genio nazionale, a cui plaudiva anche il Carducci, è la sua triplice
padronanza e riconosciuta competenza sì nel vasto campo degli studi
classici (filologici, archeologici, epigrafici), sì in quello delle letterature
medievali e in quello della letteratura comparata. Stringere, quindi, il
suo molto in poco ed inquadrare la sua molteplice produzione più che
sessantenne in brevi linee, sarebbe ben malagevole impresa, se a noi,
per il fine di queste pagine e per l' indole del periodico in cui vedon
la luce, non bastasse raccoglierla intorno ad alcuni punti fondamen-
tali attinenti a quei tre ordini di ricerche: il Virgilio nel Medio Evo,
la Grande Epigrafe arcaica di Gortyna^ il Kalevala finnico ; ai quali si
potrebbero aggiungere gli studi e le ricerche sulla letteratura e novelli-
stica popolare (il /o/^è-Zf?/-^),, sui dialetti greco-slavi dell'Italia meridionale,
e la grandiosa pubblicazione del Codice Vaticano delle Rime Antiche,
da lui procurata in unione col D'Ancona. Giovinetto ancora, e ben
presto maestro nell'Università pisana, il Comparetti cominciò a ren-
dersi noto con lavori di critica letteraria ed epigrafia classica. Magia
fin d'allora si preparava, con gli studi su Ristoro d'Arezzo, sul libro
di Sindibàd, sul Victorial di Gutierre Diaz de Games, ed altri consi-
mili, a quell'opera sul Virgilio nella tradizione medievale, a cui racco-
mandò dapprima il suo nome e che fu tosto pubblicata in veste tedesca
ed inglese. Opera di lunga lena e di vasto e solido disegno, in cui la
sicurezza e pienezza del corredo scientifico ed erudito si compone
16 — Nuova Rivista Storica.
242 Alessandro Chiappelli
armoniosamente con la larghezza visuale, che i fatti vede dairalto e
come in ampia sintesi, e li sa stringere intorno ad alcune idee direttive
e fondamentali, che percorrono da un capo alFaltro, quei due volumi :
l'uno dedicato alla tradizione letteraria, l'altro alle leggende popolari,
che lungo il Medio Evo si foggiarono e si diffusero in tutta l'Europa
sulla virtù magica e taumaturgica del poeta. Oggi forse alcuni giudizi
sul cristianesimo medievale, pronunciati da una mente, come quella del
Comparetti, così classicamente formata e atteggiata, e perciò anche
repugnante dai riflessi romantici dell'idea cristiana nelle letterature
moderne, posson parere oltrepassati o non interamente accettabili.* Ma
l'opera rimane come un tempio dorico, saldo sulle sue colonne e armo-
nioso nella venustà equilibrata della sua compagine e nel fulgido nitore
dello stile. E tanto rjman salda, che nella nuova e desiderata edizione,
fattane dopo più di vent'anni, l'autore non ebbe che da aggiungere
poche cose, specialmente nelle note, per metterla, come si dice, al
giorno delle pubblicazioni uscite in quell'intervallo, lasciandone intatta
la sostanza tutta e il disegno. In tanta odierna fioritura, e non sempre
degna, di letteratura dantesca, le pagine di quest'opera sul Virgilio
dantesco sono ancora delle più belle che si possan leggere sul sacro
Poema, e tali che forse possono solo cedere a quelle del Carlyle su
Dante. Fra le maggiori opere storiche, come quelle del Villari, del-
l'Amari, del D'Ancona, del Del Lungo, del Graf, che la scienza italiana
produsse nella seconda metà dello scorso secolo, questa del Comparetti,
per ampiezza e solidità d'erudizione e per bella evidenza di concepi-
mento, sicuramente e degnamente primeggia.
OH studi classici.
Lasciato questo monumento agli studiosi delle cose medievali, parve
che il critico volesse rivolgere e consacrare d'allora in poi tutte le sue
poderose forze alle indagini classiche: indagini papirologiche, che,
cominciate con gli studi sui papiri ercolanesi, si protrassero fino a quelle
recenti sui papiri provenuti dall'Egitto, illustrati nella pubblicazione dei
1 Dopo gli studi dell'Harnack e del Norden (Agnostos Theos) sugli Atfi degli Apo-
stoli, e segnatamente dopo l'acuta memoria della Stanvell negli Aiti dell' International
Medicai Congress di Oxford del 1913, noi siamo in grado di poter dimostrare, ciò che
faremo prossimamente, che l'autore lucanico, specialmente della parte narrativa in
plurale {Wis-shicke dei Tedeschi), aVeva dinanzi V Eneide Virgiliafaa. Come il fatale eroe
troiano, per mille avventure, era condotto da Troia a Roma come da un fato divino,
così sulla narrazione virgiliana è esemplato il racconto degli Atti della peregrinazione
dell'eroe del Cristianesimo dalla Palestina a Roma. Il parallelismo è evidente, e non
pnò essere accidentale.
La mente di Domenico Comparetti 243
Papiri fiorentini, intrapresa in unione con Girolamo Vitelli, ed altri stu-
diosi; indagini archeologiche, da quelle sulla Villa Pisoniana d'Ercolano
a quella sulla Statua d'Anzio; indagini sopratutto epigrafiche, dalle auree
laminette orfiche di Petelia, dalle iscrizioni d'Olimpia, di Tauromenio,
d*Alicarnasso, di Oaxos, di Cuma, di Mantinea, di Cirene, dalle varie
iscrizioni vascolari da lui dichiarate, alle Tabelle Testamentarie delle
Colonie Achee della Magna Grecia, fino alle iscrizioni arcaiche cretesi e
a quella massima di Gortyna, detta da lui giustamente « la regina delle
iscrizioni ». Monumento antichissimo del diritto greco ch'egli decifrò
per primo e criticamente pubblicò più tardi, con tale sicurezza e copia
di rapporti giuridici e storici, che gli stranieri, come il Zietelmann, il
Dareste e tanti altri, che lo seguirono, non ebbero che da procedere
sulla via da lui segnata, dividendosi fra loro il lavoro, filologico e giu-
ridico, che egli aveva intrapreso e condotto da solo, e ricalcando le orme
originalmente impressevi dal suo spirito felicemente divinatore e rigo-
rosamente documentatore.
Mentre egli andava così cercando dentro e d'intorno questa fo-
resta spessa e viva di reliquie d'antiche forme e d'antiche parole, non
disdegnava di rendere in forma accessibile ad un più largo pubblico
di lettori la struttura e lo spirito vivo e spesso così vicino al senso
della vita moderna, di alcune commedie di Aristofane nelle Introdu-
zioni magistrali alla traduzione che ne veniva pubblicando il compianto
Franchetti, diversa, ma non inferiore per merito a quella più recente
e completa del Romagnoli. Ho detto magistrali; perchè, a chi aveva
avuto la ventura di udire le sue lezioni sopra la Comedia antica e su
Aristofane, pareva di riudire, leggendo quelle pagine, la parola lumi-
nosa e serena del maestro ; e, per tutti i lettori poi, di tale evidenza,
da far maraviglia che un così severo uomo di dottrina sapesse rendersi
così agevolmente aperto e da far desiderare insieme che egli un giorno
voglia (poiché può) sulla letteratura greca in genere, o sulla questione
omerica, comporre un libro come egli saprebbe fare, e come han sa-
puto fare gì' Inglesi, dal Grote, dal Gladstone, fin al Mahaffy, il quale
alla solida preparazione filologica e scientifica disposi come in anello
d'oro la grazia della forma trasparente ed evidente, che a tutti lo ren-
dano caro ed accetto.
Il Kalevala finnico.
E non senza ragione ho accennato di sfuggita alla questione ome-
rica. Nessuno forse, in Italia, pochi altri, fuori, potrebbe riprenderla ed
avviarla ad una soluzione consentita, con pari preparazione ed auto-
rità. Chi ascoltò le sue lezioni su questo glande argomento, o chi ri-
cordi soltanto le pagine di lui sulla Commissione Omerica di Pisistrato
244 Alessandro Chiappelli
e il Ciclo Epico, nella Rivista di filologia classica del 1881, o chi abbia
presente la sua magnifica edizione fototipica del Codice Veneto Mar-
ciano 454 deir Iliade (Lugduni Batavorum, 1901) ne sarà ben persuaso.
Ma gli elementi scientifici, onde potrebb*essere materiato questo desi-
derabile libro che aspettiamo da lui, si possono già raccogliere dà
un'altra opera insigne, o come dicono gì* Inglesi standard work (i Tede-
schi direbbero bahnbrechendes, ma, nel caso presente, sarebbe piuttosto
conclusiva e definitiva) sul K^l^vala Finnico (1891). Quella vasta com-
pagine di canti eroici, lirici, magici e narrativi, ancora fluttuanti e tra-
mandati oralmente dai laalajat (i rapsodi finlandesi), specie di nebulosa
poetica popolare, quasi in atto di cercare e costituire il suo nucleo
centrale intorno a cui ordinarsi a vero epos nazionale, costituiva una
specie di esperienza epica vivente, una formazione incipiente di epopea,
che cadeva sotto i nostri occhi, di tale importanza ed evidenza sugge-
stiva, da tentare fortemente la critica letteraria e da attrarre l'attenzione
della scienza storica sulla questione, ancora irresoluta, delle origini delle
grandi epopee nazionali, di cui si aveva qui un esempio contempora-
neo in un popolo per costumi, per cultura, ancora assai primitivo in
mezzo all'Europa civile. Preparato dalla sua larga conoscenza delle
moderne lingue europee, da ripetuti viaggi da lui fatti in Finlandia, la
regione di questa vivente generazione epica; e familiare da lungo tempo
con le letterature, leggende e tradizioni popolari di altri paesi, egli potè
portare nella viva questione di letteratura comparata una parola sua
e originale, che, mentre preparava ad altri piij giovani studiosi italiani,
come il Pavolini, la via a dare della epopea finnica una traduzione
completa nella nostra lingua, recava altresì nuova luce sulle antiche
epopee nazionali, come i poemi omerici, la Chanson de Roland e i
Nibelunghi. Avendo l'occhio specialmente all'Epos omerico, la con-
clusione a cui giunge il Comparetti appare sostanzialmente negativa.
L'ipotesi Wolfiano-Lacmanniana dell'origine dei poemi omerici da sparsi
canti anteriori di ragione popolare, di cui si credè ritrovare i segni per
via dell'analisi critica del testo omerico, non trova conferma nella com-
parazione col Kalevala finnico. La runa finnica appare ancora ben lon-
tana da quella dignità e maturità d'arte che consente la formazione della
grande opera epica. E se quella informe moltitudine di canti di così
varia natura e provenienza il Lònnert potè, fra il 1835 e il '49, com-
porre in una certa unità nel poema che ebbe da lui quel nome, l'opera
sua fu opera di riflesso artificio di dotto diligente, non già frutto di
quella spontanea creazione e ispirazione artistica, che è propria degli
originali unificatori ed ordinatori della materia epica e dei canti popo-
lari in organismo di poema nazionale nelle epoche creative. Il compi-
latore finlandese, più che ad Omero, cioè ad una mente geniale e
La mente di Domenico Comparetti 245
creatrice, rassomiglia piuttosto ad uno dei dlaskeaasti Pisistratidi. Si
può forse credere che, se ai Finni fosse toccato in sorte uno di questi
geni creatori, che ebbero popoli più fantasiosi e chiamati all'arte, anche
questa dispersa materia, ond'è composto il Kalevala, avrebbe potuto
assurgere a dignità di poema organico. Potrebbe anche dubitarsi se fra
le opposte teorie dello stretto unitarismo, cui inclina il Comparetti, al-
meno per l'Epos classico, e della formazione collettiva o del conglutina-
mento spontaneo dei canti dispersi, nonr si apra una via media, che
codesta composizione ed ordinamento della materia epica precedente
riconduca all'opera d* una scuola o di una tradizione domestica, che di
padre in figlio trasmetta il dono della poesia e il patrimonio dei canti
rapsodici. La tradizione classica ci parla degli Omeridi, come, per la
scienza, degli Asclepiadi, e, per le arti, porta il mitico nome dei Deda-
lidi. E quanto potere abbia avuto questa opera corporativa nelle scuole
filosofiche non solo risulta per l'età platonico-aristotelica dalle ricerche
dell' Usener e del Wìlamowìtz, ma ancora, per le più antiche presocra-
tiche, dalle acute osservazioni del Diels. Ora, se questa efficacia della
tradizione scolastica e domestica è per l'antichità indubitabile anche
per la formazione dei cicli poetici, qualche traccia di generazioni di
poeti e di continuità poetica familiare si trova pure tra i cantori fin-
nici: poiché sappiamo che uno dei principali di cui si ha memoria,
Arhippa, ebbe figli che furono cantori ed ebbe cantore valente il padre.
Comunque sia, la vasta opera del critico italiano e per il severo
metodo con cui è condotta, per le fondamentali conclusioni a cui
giunge, e pel vivo sentimento dell'arte che l'anima ed avviva, è a lui
nobile documento di onore e titolo di gloria agli studi italiani ; i quali,
per merito suo, anche in questo campo della letteratura comparata, si
sono degnamente affermati nel cospetto dej mondo scientifico, in modo
da non temere paragone straniero, e da offrire anzi un imitabile esempio
agli studiosi di tutte le colte nazioni.
Il Maestro.
Tale è, nelle sue linee sostanziali, l'opera dello studioso e dell'in-
dagatore. Ma quale fu a molti di noi il maestro, tale è anche l'uomo
e quello che per tutti è lo scrittore: lucido, largo, nobilmente alto e
sereno. Il pensiero del Comparetti in tutti i suoi scritti, e specie nei
maggiori, si svolge con limpidità classica e quasi direi con certa so-
lennità ieratica. Nelle sue pagine si ritrovano molte di quelle insigni
qualità che naturalmente apparivano più evidenti nella sua viva parola
di maestro. Chi fu alla sua scuola (e dalla scuola pisana che egli creò
insieme al Villari, al D'Ancona, al Teza e al Lasinio, escirono valen-
tuomini come il Rajna, il D'Ovidio, il Vitelli ; come dalla fiorentina.
246 Alessandro Chiappelli
nella quale ebbe cooperatori Io stesso Villari, il Bartoli, il Trezza e il
Vitelli, altri non meno valenti come il Pais, il Milani e altri molti);
chi, dico, lo ebbe maestro, non dimenticherà mai l'efficacia della sua
parola austera, sobria, serena e rigorosamente scientifica: efficacia che
chi scrive sentì rifluire sempre in sé durante il suo magistero neirAteneo
napoletano, e ne volle rendere grata testimonianza dedicando al Gom-
paretti un antico suo libro di Studi sulla letteratura cristiana primi-
tiva (1887). Né può, chi l'abbia udito, dimenticare con quale alto senso
d'arte il maestro leggeva ed illustrava o l'Agamennone d'Eschilo o
un'Ode di Pindaro. Bastava, anzi, talora la lettura o la recitazione,
iniziale o finale, del testo, fatta da lui, per far sentire la grandezza di
quell'antica parola, che nella sua voce solenne riviveva. Non avvicinava
quasi mai gli scolari : ma operava, per così dire, a distanza, e con dure-
vole efficacia, sulle loro menti.
Ora questa dignità, portata e serbata nella scuola, era già prima
nell'animo suo. Consapevole della sua superiorità su tanti, egli {rara
avis) non ha mai mendicato lodi né da amici, né dalla pubblica stampa,
né si é mai indugiato in piccole polemiche, anche se assaUto da qualche
malevolo. In controversie scientifiche si è misurato con uomini come
il Mommsen e il Diels; ma trattando da pari a pari, come atleta che
sa la sua forza e leoninamente affronta l'avversario, senza ambagi o
adulatorie captationes benevolentiae. Questo atteggiamento, che altri
disse di olimpica serenità (chi mai legge nel profondo animo, o signori?)
e di superiorità onestamente sentita « per la fidanza che ha di sé »,
come dice un antico biografo di Filippo di Ser Brunellesco; questa
sua libertà di critica, dinanzi alla scienza tedesca, potè a taluno spia-
cere e dare appiglio, anche in alcuni suoi valorosi discepoli, ad ingiu-
stificati risentimenti. Ingiustificati, dico: poiché quest'uomo, che così
altamente sente di sé, non ha mai, come pur tanti hàn fatto e fanno,
cercato di inalzarsi deprimendo altrui.
Quella sua dignitosa e nobile coscienza del suo valore, che traluce
da tutto il suo costume, non ha mai nociuto a nessuno: e nemmeno
dà quel repugnante senso di degnazione che offende, essendo egli a
chi l'avvicina squisitamente affabile e signorilmente cortese d'ogni con-
siglio ed aiuto. Sarebbe stato perciò desiderabile, per la rispettiva repu-
tazione e per il bene degli studi nostri, che qualche valentuomo, emi-
nente pur egli negli studi classici come collazionatore di codici, come
papirologo diligentissimo, ed anelante, alla sua volta, a formare una
sua scuola, avesse riconosciuto càndidamente che le sue proprie qualità
analitiche potevano servire bellamente ad integrare, per la scuola, le
facoltà prevalentemente sintetiche del comune maestro.
E dico prevalentemente: perchè nei primi anni del suo insegna-
mento pisano, a quanto mi venne riferito da antichi scolari suoi, egli
pure indulse al vezzo tedesco di dare nella scuola minuta notizia delle
La mente di Domenico Comparetti 247
varianti dei testi ch'egli andava interpretando, o fosse V Orazione de-
mostenica sulla Corona o V Edipo re di Sofocle: e delle sue facoltà
analitiche d'erudito, oltre le opere maggiori, bastano a far fede gli studi
sulle epigrafi arcaiche, specialmente cretesi. Che se poi il Comparetti
nostro non dubitò di misurarsi coi maggiori della scienza filologica e
storica della Germania, questo, anziché nuocere, come altri allora temè,
al buon nome degli studi italiani, era, fin da quel tempo, testimonianza
onorevole che il sentimento d'italianità in lui non ebbe bisogno per
destarsi e rivelarsi delle odierne violenze germaniche di guerra. Certo,
altri ebbe l'onore di avere affidata dall'Accademia di Berlino la cura
del testo di alcuni Commentatori di Aristotele, e qualche reputatissimo
e pugnace discepolo di costui ebbe a contribuire ad un'altra raccolta
tedesca, la Collezione classica Teubneriana. Ma il comune maestro aveva
già i suoi alti titoli d'onore, da lungo tempo conosciuti, anche senza
godere di certe ufficiali simpatie teutoniche.
Chiunque abbia avuto, pertanto, la ventura di essere stato discepolo
di questo facile prlnceps (se non altro per ordine di tempo) degli elle-
nisti italiani, e insieme di qualche suo valente creato, anch'egli oramai
e già da tempo canuto, non. sa darsi ragione di questo malaugurato
dissenso e di un tale immeritato disconoscimento dell'innegabile e
sovrana benemerenza, che rende venerabile il filologo ed archeologo
romano : mentre nell'animo suo, pur facendo ragione della diversa mi-
sura di questi valenti, sente che la diversità di attitudini e di predile-
zioni negli uomini di studio e di scienza non può né deve escludere
la fraterna armonia e la serena cooperazione di tutte le varie forze; e
lo invoca per l'onore d'Italia e per la educazione intellettuale e morale
della nostra gioventù, la quale dagli esempi che vengono dall'alto prende
norma di vita ed incitamento a rendersene degna continuatrice nel pen-
siero e nell'opera.
Alessandro Chi appelli.
Opere e scritti vari di Domenico Comparetti.
La Nuova Rivista Storica crede di rendere un nobile servigio alla scienza e ai
suoi lettori, facendo seguire al bel saggio di Alessandro Chiappelli su Domenica
Comparetti una bibliografia completa — cronologicamente ordinata — della multiformt
attività scientifica di quest'ultimo fra i nostri grandi poligrafi italiani dell* età nostra.
Observationes in Hyperidis orationem funebrem (in Rheinisches Museum, N. F,,
XIII (1858), pp. 533 sgg.).
Epi^tula ad Fridericam Ritschelium de Liciniani annalium scriptoris aetate (in
Rheinisches Museum, N. F., XIH, 1858).
«48 Nuova Rivista Storica
Intorno alVetà in cui visse Vannalista Liciniano (in Archivio Storico Italiano,
N, 5., X (1859), pp. 1 sgg.).
Intorno alCopera sulla composizione del Mondo di RISTORO D'AREZZO, pubblicata
da E. NarduCCI (in Giornale Arcadico, aprile 1859).
// discorso d'Iperide in favore di Euxenippo, Pisa, 1861, in 4», pp. 108, con 11 ta-
vole di fac-simile.
Sulle iscrizioni relative al Metroon Pireense, Roma, 1862 (in Annali delT Istituto
di corrispondenza archeologica, voi. XXXIV).
Notizie ed osservazioni in proposito degli « Studi Critici » del prof. ASCOLI :
1« Sui coloni Greci e Slavi dell'Italia meridionale; 2® Sulle ricerche albanesi,
Pisa, 1863 (in Rivista Italiana, nn. 126; 134; 140).
// discorso a'Iperide pei morti nella guerra Lamiaca, Pisa, 1864, in 40, pp. 78,
con 12 tavole di fac-simile.
Intorno al Libro dei Sette Savi di Roma: Osservazioni,Pìsa, Nistri, 1865, in 8®, pp. 37.
Virgilio nella tradizione letteraria fino a Dante (in Nuova Antologia, gen-
naio 1866); Virgilio mago ed innamorato (in Nuova Antologia, aprile e
agosto 1867). [Questi due articoli sono il primo abbozzo dell'opera Virgilio
nel Medio Evo].
Saggi dei dialetti greci dell'Italia meridionale, Pisa, 1866, in 8«>, pp. 105.
Edipo e la Mitologia comparata: Saggio critico, Pisa, Nistri, 1867, in 8®, pp. 90.
Recensione A€iVÉtude sur le dialecte tzaconien del Deville, (in Zeitschrift fiir
vergi. Sprachf. del KUHN, voi. XVIII, 1868).
La Novella di Messer Danese e di Messer Gigliotto, Pisa, 1868 (pubblicata per
nozze da A. D'ANCONA con illustrazioni di D. C).
Eine neuentdeckte Inschrift von Tauromenion (in fahrbiicher fiir class. Philolo-
gie, 1869).
Ricerche intorno al Libro di Sindibdd, Milano (Bernardoni), 1869, in 4°, pp. 54
(in Memorie del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere). [Fu tradotta in
inglese da Mr. Coote, London (Folk-Lore Society), 1882].
Recensione di due pubblicazioni del JuLG, Racconti Mongolici e di una del Ger-
LAND, Novelline dell'Odissea (in Revue critique, settembre 1869).
Recensione del Zink, Der Mytholog. Fulgentius (in Revue critique, agosto 1869).
Sul « Victorial» di Gutierre Diaz de Games, traduzione franese di Circourt et
Puymaigre (in Nuova Antologia, settembre 1869).
Recensione de La Corte letteraria di Giovanni II re di Castiglia del PUYMAIGRE
(in Nuova Antologia, 1869).
Zur Hermeneutik des Pindaros {Pyth. II, 72 sgg.) (in Philologus, XXVIII (1869),
pp. 385-398).
/ Manoscritti di Arborea (in Nuova Antologia, giugno 1870).
Virgilio nel Medio Evo, Livorno, Vigo, 1872, in 8», 2 voli., pp. 313; 310. [Fu
tradotto in tedesco da Hans Dutschke, Leipzig, Teubner, 1875; in inglese,
da E. F. M. Benecke, con. una Introduzione di Robinson Ellis, London,
Sounenschein, 1895. La seconda edizione, riveduta dall'autore, è del 1896
(Firenze, Seeber), in 8«, 2 voli., pp. 316; 328].
Recensione dell'edizione di Nonio Marcello, De compendiosa doctrina del Qui-
CHERAT (in Rivista di Filologia, ecc., 1873, pp. 138-142).
opere e scritti di Domenico Comparetti 249
Die Strafe des Tantalos bei Pindar {01. I, 56 sgg.) (in Philologus, XXXII (1873),
pp. 227-251).
P(\piro Ercolanese inedito, Torino, Loescher, 1875, in 8°, pp. 110. [Contiene Vin-
dice degli Stoici],
Novelline popolari italiane, illastraie da D. Comparetti, voi. I, Torino, Loescher
1875. [È il VI volume della raccolta Canti e Racconti del Popolo italiano,
pubblicati per cura di D. Comparetti e A. D'Ancona. Di queste novelline,
dopo il primo volume, non fu ..pubblicato altro: Tutta la raccolta mano-
scritta di proprietà del Comparetti di Canti e Novelline fu da lui donata
a Lamberto Loria pel suo Museo etnografico italiano].
(e D'Ancona), Le antiche « Rime volgari » secondo la lezione del Codice Vati-
cano 3793, Bologna, Romagnoli, 1875-1888.
Sulla Epistola O'udiana di Saffo a Paone: studio critico, Firenze, Le Monnier,
1876, in 40, pp. 53 (in Pubblicazioni del R. Istituto Superiore di Firenze).
Saffo e Paone dinanzi alla critica storica (in Nuova Antologia, febbraio 1876).
La Villa de' Pisoni in Ercolano e la sua Biblioteca, Napoli, 1879 (nel volume
Pel Centenario di Pompei). [Fu riprodotto con variazioni nel grande voluin e
dello stesso titolo di Comparetti e De Petra].
Frammenti inediti della Etica di Epicuro, tratti da un Papiro Ercolanese (in Ri-
vista di Filologia, ecc., 1879). [La seconda edizione è contenuta nel Museo
Italiano di Antichità classica].
Lamìnette di oro con iscrizioni greche scoperte nel territorio di Sibari (in Notizie
degli Scavi, aprile 1880). [L'edizione critica di queste e altre simili iscrizioni
è contenuta nel volume Lamìnette Orfiche, ecc.].
Relazione sui Papiri Ercolanesi letta alla R. Accadeniia dei Lincei, Roma, 1880
(in Memorie della R. Accadentia dei Lincei, voi. V). [Fu letta nella seduta
del 17 febbraio 1878. È riprodotta nel volume La Villa Ercolanese de' Pi-
soni di Comparetti e De Petra].
// Kfllevala o la Poesia tradizionale dei Finni: Studio storico- critico sulle origini
delle grandi epopee nazionali, Roma, 1901, in 4<', pp. 214 (in Memorie della
R. Accademia dei Lincei). -[Fu tradotta in tedesco dalla Sig.na Heusler,
Halle, Niemeyer, 1892, in 8°, pp. 327 ; in inglese, da Isabella M. Anderton
con Introduzione di Andrew Lang, London, Longmann, 1898, in 8»
pp. 359].
Iscrizioni greche di Olimpia e di Ithaka, Roma, 1881 (in Memorie della R. Ac-
cademia del Lincei, voi. VI).
La Commissione Omerica di Pisistrato e il Ciclo Epico {in Rivista di Filologia, ecc.,
1881, pp. 539-551).
Sur une inscription de Tauromenium: lettre à Mr. Albert Martin {École franf.,
de Rome, 1881, pp. 181-186).
Introduzione e note a le « Nuvole » di Aristofane, tradotte da A. Franchetti,
Firenze, 1881.
On two inscriptions from Olympia (in fournal of hellenic Studies, 1881); The Pe-
telia Gold Tablet (ibid., voi. Ili (1882), pp. Ili sgg.).
Due epigrafi greche arcaiche illustrate (in Riv. di Filologia, ecc., luglio-agosto 1882).
Sur une inscription d'Halicarnasse, 1882 (in Mélanges Oraax).
250 Nuova Rivista Storica
Appunti alla raccolta di epìgrafi greche arcaiche pubblicate ùaXV Accademia di
Berlino (in Rivista di Filologia, ecc., aprile-giugno 1883).
(e G. De Petra) La Villa Ercolanese dei Risoni; i suoi Monumenti e la sua Bi-
blioteca: ricerche e notizie con 24 tavole, Torino, Loescher, 1883, in fol.,
pp. 294.
L'Iscrizione arcaica di Oaxos interpretata (in Rivista di Filologia, ecc., 1883).
Iscrizione Cretese scoperta in Venezia, Roma, 1883 (in Memorie ùqW Accademia
dei Lincei). [L'edizione definitiva della iscrizione fu data nel Museo Italiano
di Antichità Classica, voi. I (1885)].
Frammenti dell' « Etica » di Epicuro, tratti da un Papiro Ercolanese con 2 tavole
(in Museo Italiano, ecc., pp. 67-88).
Museo Italiano di Antichità classica, diretto da D. C, Firenze, Loescher, voi. I,
in 40, con molte tavole, 1885, coli. 382; voi. II, 1888, coli. 910 con molte ta-
vole e un atlante gr. in fol. ; voi. Ili, 1890, coli. 796 con pili tavole.
Leggi antiche della città di Qortyna in Creta, lette ed illustrate, Firenze, Loe-
scher, 1885, in A°, pp. 55, con una grande tavola (in Museo italiano, voi. I,
pp. 232-288).
Varietà Epigrafiche: Keos; Amorgos; iscrizioni di vasi, 1885 (in Museo ita-
liano, ecc., voi. I, pp. 221-232).
L'Iscrizione del Vaso Dressel, 1885 (in Museo italiano, ecc., voi. I, pp. 175-190).
Su di una Iscrizione di Alicarnasso, 1885 (in Museo italiano, ecc., voi. I,
pp. 151-158).
Iscrizione cretese scoperta in Venezia, 1885 (in Museo italiano, ecc., voi. I,
pp. 141-150).
Introduzione e Note alle « Rane » di Aristofane, tradotte da A. Franchetti,
Città di Castello, 1886.
Sull'Iscrizione greca segnata sul piede di un vaso (in Rendiconti dell'Accademia
dei Lincei, nowQtnbre 1888).
Le recenti scoperte archeologiche in Creta (in Nuova Antologia, 1888).
/ Canti Epici della Finlandia: Discorso pronunciato nella seduta reale dell'Ac-
cademia dei Lincei, 27 maggio 1888.
(e F. Halbherr), Epigrafi arcaiche di Gortyna, 1888 (in Museo italiano, ecc.,
voi. II, pp. 129-252).
Iscrizioni arcaiche di Gortyna rinvenute nei nuovi scavi presso il Letìieo, 1888,
(in Museo italiano, ecc., voi. II, pp. 593-686).
Osservazioni sul così detto « Niger Lapis » del Foro (in Rendiconti delC Accade-
mia dei Lincei, gennaio 1889).
Su di un antico Specchio con iscrizione latina (in Rendiconti dell'Accademia dei
Lincei, febbraio 1889).
(e F. Halbherr), Relazione sugli scavi del Tempio d'Apollo Pythio in Qortyna
e nuovi frammenti d'iscrizioni arcaiche trovati nel medesimo, Roma, 1889,
in 40, pp. 110, con tavole (in Monumenti Antichi dei Lincei, voi. I).
Oli scavi del Foro Romano (in Nuova Antologia, maggio 1889).
Saffo nelle antiche rapprese(itanze vascolari, con 4 tavole, 1890 (in Museo ita-
liano, ecc., voi. II, pp. 41-80).
le Leggi di Qortyna e le altre iscrizioni arcaiche cretesi edite ed illustrate, Fi-
opere e scritti di Domenico Campar etti 251
renze, Milano, Hoepli, 1893, in 40, coli. 480, coi fac-simili di tutte le iscri-
zioni in tavole o in pagina.
Introduzione e note agli « Uccelli» di Aristofane, tradotte da A. Franchetti
Città di Castello, 1894.
Commemorazione di G. B. De Rossi (in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei,
novembre 1894).
La Guerra gotica di Procopio di Cesarea : testo greco emendato sui manoscritti
con traduzione italiana, Roma, Istituto Storico italiano, 1895-98, in 8», 3 voli.,
pp. 213; 464; 366. [Fa parte delle Fonti per la Storia d'Italia pubblicate
daW Istituto Storico italiano}.
Su di un Busto con iscrizione greca (in Rendiconti della R. Accademia dei Lin-
cei, giugno 1897).
Les Dithyrambes de Bacchylide, Paris, 1898 (in Mélanges WeiL [Fu scritto nel
marzo, prima cioè della pubblicazione dell'edizione del Blass].
Introduzione e note ai « Cavalieri ^ di Aristofane, tradotti da A. Franchetti,
Città di Castello, 1898.
Introduzione e note al « Plato » di Aristofane, tradotto da A. Franchetti,
Città di Castello, 1900.
Iscrizione arcaica del Foro Romano, Firenze-Roma, 1900 in 4<' grande, con di-
segni e una tavola grande.
Introduzione e note a le « Donne a Parlamento » di ARISTOFANE, tradotte da
A. Franchetti, Città di Castello, 1901.
Homeri Ilias cum scholiis: Codex Venetvs A. Marcianus 454, phototypice editus
con prefazione, Lugduni Batavorum, Sijthoff, 1901, in fol., pp. 14.
Frammento filosofico da un Papiro greco-egizio, Vienna, 1902 (in Festschrift fur
Theodor Qomperz).
Laminetta Orfica di Cecilia Secundina (in Atene e Roma, giugno-luglio 1903).
[È riprodotta con varianti nel volume: Laminette Orfiche, ecc.].
Su alcune epigrafi metriche cretesi (due fascic), Vienna, 1903 (in Bormannheft
der « Wiener Studien^, a. XXIV; XXV).
Èpistolaire d'un commandani de Varmée romaine en Egypte, Genève, 1905 (in
Mélanges Nicole)!' [Una nuova e più completa edizione del Papiro è nel vo-
lume Papiri Fiorentini (1911)].
Introduzione e note alle « Donne alle Tliesmoforie » di Aristofane, tradotte da
A. Franchetti, Città di Castello, 1905.
Sull'Iscrizione della Colonna Traiano, Roma, 1906 (in Rendiconti della R. Acca-
demia dei Lincei), novembre 1906.
Iscrizione arcaica cumana, Roma, 1907 (in Ausonia, anno I). [È riprodotta nel
volume Laminette Orfiche, ecc.].
La Statua di Anzio, Roma, 1910 (in Bollettino d^Arte del Ministero delta Pub-
blica Istruzione, febbraio 1910).
Iscrizione greca arcaica dì un dischetto di bronzo, 1910 (nel volume in onore di
G. De Petra).
La Bibliottièque de Philodème, Paris, 1910 (in Mélanges Chatelain).
Introduzione e note ala « Lisistrata » di Aristofane, tradotta da A. Franchetti,
Città di Castello, 1911.
252 Nuova Rivista Storica
Papiri greco-egìzi'. Papiri Fiorentini letterari ed epistolari, Milano, Hoepli, 1911,
in 40 gr., pp. 300 con 6 tavole e 70 fotografie in pagina. [È il 2» volume
dei Papiri greco-egizi pubblicati dalla R. Accademia dei Lincei].
Laminette Orfiche edite ed illustrate, Firenze, 1910, con fotografie in pagina e
in 4 tavole (Edizione principe).
L'Iscrizione arcaica di Mantinea, con 3 tavole (in Annuario della R. Scuola Ar-
cheologica di Atene e delle Missioni italiane in Oriente, I, Bergamo, 1914).
Laminetta argentea iscritta di Aidone (Sicilia) con 1 tavola (in Annuario della
R. Scuola Archeologica di Atene, ecc., I, Bergamo, 1914).
Iscrizione cristiana di Cirene con 3 illustrazioni (in Annuario della R. Scuola
Archeologica di Atene, ecc., Bergamo, 1914).
Prefazione al P volume ^t\V Annuario della R. Scuola Ardi, di Atene, ecc., 1914.
Le Imagini di Virgilio, il Musaico di Hadrumetam e i primi sette versi deW Eneide
(in Atene e Roma, nn. 183-184, 1914, con 2 tavole).
Tabelle Testamentarie delle Colonie Achee di Magna Grecia con 6 illustrazioni
(in Annuario della R. Scuola Archeologica di Atene„ecc., II (1915), Ber-
gamo, 1916).
Tabelle Testamentarie ed altre Iscrizioni greche con 4 fotografie, Firenze, 1915.
Iscrizione inedita di Pednelissos (Pisidia) (in Annuario della R. Scuola Archeo-
logica d'Atene, ecc.. Ili, Bergamo, 1917).
Due epigrafi inedite di Gortyna (Creta) (in Annuario della R. Scuola Archeolo-
gica d'Atene, ecc., Ili, Bergamo, 1917.
in corso di stampa.
Le nozze di Bacco ed Arianna, grande composizione pittorica nel triclinio di una
Villa Pompeiana recentemente scoperta (in Monumenti Antichi dei Lincei) ;
Silloge di tutte le iscrizioni cretesi venute in luce fino ad oggi (R. Accademia
dei Lincei) ; Addenda et corrigenda ad Corpus Inscr. Graec. Italiae et Insu-
larum (ibidem); Supplementa ilalica ad Corpus Inscr. Latinorum (ibid.). [La
Silloge cretese è redatta dal Comparetti (che ne ha specialmente elaborato
la parte arcaica) e dall'HALBHERR. Promotore della grande impresa dei tre
Corpi Epigrafici su menzionati, ora assunta dalla nostra Accademia dei Lin-
cei, in sostituzione é^W Accademia di Berlino, è stato lo stesso Comparetti] .
^^
I personaggi di Eschilo'
^^F»
Il carattere eroico dei personaggi.
E passiamo ora ad osservare gli attori di queste formidabili
azioni.
La prima impressione è di trovarci dinanzi ad una folla di ener-
gumeni. E non parliamo neppure delle Euménidi, né di Cassandra,
e di Io, le folli. Ma quasi tutte le altre persone del mondo eschileo,
Clitennestra, Elettra, Oreste, Egisto, Prometeo, Eteocle, sono tutti in-
vasi da una furia da un impeto di dissoluzione, e parlano parole dì
fuoco, tutte barbagli e alato volo d'immagini, come profeti e come
Sibille.
Come già dissi, da questo carattere uniforme si è voluta indurre
una incapacità di Eschilo a scolpire la varietà dei caratteri. Ma la illa-
zione è ingiusta o per lo meno eccessiva.
Nelle Rane di Aristofane, Euripide, che rappresenta la critica ra-
zionale e sofistica,'rivolge al rivale Eschilo un rimprovero simile:
Spacciar Licabetti e volate Parnasie, gli è questo che nomini
insegnare il buono? Oh non devesi parlar come parlano gli uomini?
Ed Eschilo gli risponde:
A esprimere grandi concetti, la frase convien che si crei
acconcia. E parole più grandi ci vogliono pei semidei,
se han gli abiti pure di tanto più belli dei nostri I
Appunto così. I personaggi di Eschilo non sono uomini, sono
eroi. Essi non parlano la lingua di tutti gli uomini, bensì una lingua
\
i Da un volume, // teatro greco, d' imminente pubblicazione presso la Casa
F.lli Treves di Milano.
254 Ettore Romagnoli
diversa, corrusca di vocaboli e di immagini meravigliose; una lingua
che ebbe per crogiuolo la ebbra vita dionisiaca, e il cui metallo fu
poi battuto e cesellato dalla musica, che die*, come vedemmo, l'impronta
formale alla tragedia. Trarne argomento per diminuire la capacità di
Eschilo nella creazióne dei caratteri, è superficiale. Seppure bisognerà
cercare se, data questa generica tempra dello stile eschileo, che è lo
stile ditirambico, lo stile dionisiaco, variano poi, o non variano, ì par-
ticolari, a seconda dei personaggi. E in verità, non ci vuol molta acu-
tezza per accorgersi che le immagini di Clitennestra non sono per
esempio le immagini della nutrice di Oreste.
Ridotto nella sua giusta luce il problema della loquela, vediamo
quale sia Tarte di Eschilo nello scolpire caratteri.
Il progresso delParte eschilèa^
Ora, anche dai pochi- resti della sua grande opera, appare una
profonda trasformazione nel modo di concepire i personaggi : trasfor-
mazione che implica e va di pari passo con la trasformazione di tutta
la tragedia.
Della cronologia dei sette drammi superstiti possiamo stabilire con
relativa sicurezza solo questi punti. Le Supplici 'sono il dramma più
antico; i Persiani sono del 472 (Eschilo aveva già 53 anni); i Sette a
Tebe del 467; la Orestèa del 458. Sedici anni ci separano ormai dai
Persiani; venti dalle Supplici: Orai nelle Supplici appena possiamo par-
lare di caratteri. Fra Danao ed il re d'Argo, non sapremmo in verità
distinguere: sono due re, che parlano, l'uno il linguaggio della sven-
tura, l'altro del sicuro potere ; ma non sapremmo davvero definire in
quale specifica materia umana sia impressa questa loro regalità. Né a
carattere specifico accennano le considerazioni e gli ammonimenti dJ
Dario, né le lamentazioni di Serse nei Persiani. Figure generiche,
anch'essi, specie di portavoci, massime il primo, ad esprimere» conside-
razioni e sentimenti del poeta. Bisogna che arriviamo ad Eteocle, per
trovare qualcuno di quegli sprazzi che incidono il carattere. Caratteri-
stica è la violenza con cui aggredisce le fanciulle supplici. E anche più
incisive e determinatrici sono le parole disperate, onde egli risponde al
Coro che cerca distoglierlo dal fatale proposito di affrontare il fratello.
Coro.
I
Piglio, che smani? Con impeto rabido
te non travolga la furia belligera I
Scrolla il dominio di brama funestai
I personaggi di Eschilo 255
Eteocle.
Poi che gli eventi incalza un Dio, rapito
dai venti sia di Laio il seme tutto,
odio di Febo, sul fatai Cocito 1
È Tamara voluttà dell'uomo che, percosso da ogni parte dai mali,
quasi gode a rendere il suo strazio più 'colmo e perfetto. Il tratto è
profondo, incisivo, di grande psicologia.
Ma del resto, anche Eteocle ricorda Danao e Pelasgo. È, come
essi, un re. Più che veri caratteri, sono tipi, quasi direi maschere tra-
giche. Somigliano Tuno all'altro, come le statue arcaiche, che, qualunque
fosse il turbine di passione che si presumeva sconvolgesse l'animo
loro, mantenevano le labbra piegate in un convenzionale immutabile
sorriso.
Molto si parla de! carattere di Prometeo. Ma può essere che que-
sta comune opinione sia fondata sopra un malinteso. Prometeo non
si smuove dalla sua deliberazione, anzi insiste in questa ad onta di
tutte le pene e di tutte le minacce; e questo significa, in lingua po-
vera, esser uomo di carattere. Tale infatti è Prometeo: e di qui l'illu-
sione. Ma tutt'altra cosa s'intende per carattere scenico. Sicché, da que-
sto lato, non vedo in Prometeo, qualunque sia la cronologia del
dramma, una gran differenza dagli altri personaggi ricordati.
Piuttosto scorgiamo in Prometeo accennare un altro tipo dì etopèa
p pittura di carattere, che consiste nel far direttamente enunciare dai
personaggi quello che sono, ossia quello che il poeta vorrebbe risul-
tassero. E Prometeo ripete a sazietà che egli è filantropo, e che il
suo animo è di tèmpra inflessibile. Ma simili dichiarazioni raramente
hanno virtù suasiva. Virtù suasiva hanno le parole e le azioni quasi
direi inavvertite, daHe quali traspaia questo o quel sentimento, questa
o quella passione. L'altro metodo e pure etopèa, ma etopèa di se-
cond'ordine. Ed il Prometeo è creazione sublime; ma per altre ragioni,
che in parte si son già discorse.
Né con ciò è detto che queste figure eschilèe abbiano minor ca-
lore, minor rilievo. In fondo un personaggio drammatico può aver
questo e quello, anche indipendentemente da minuta pittura di carat-
tere. Chiarirò anche tale concetto mediante un brano di Aristofane.
Nella scena già ricordata dalle Rane, Euripide muove ed Eschilo la
crìtica seguente:
Euripide.
Prima, piantava un tizio, imbacuccato e assiso,
un Achille, una Niobe, un fantoccio, che il viso
celava, e non diceva nulla.
256 Ettore Romagnoli
Dioniso.
Nemmeno un èttel
Euripide.
Il coro ci appoggiava via via quattro strofette,
e quelli zittii
Dioniso.
Eppure, non m'era men trastullo
quel tacer, che le chiacchiere d'ora!
Euripide
Gli è ch'eri grullo,
contaci I
Dioniso.
Ne convengo. Ma qual n'era l' intento ?
Euripide.
Vendere fumo ! Il pubblico aspettava il momento
che Niobe aprisse bocca; e il dramma andava avanti.
Questa critica burlescamente esagerata, che Aristofane pone in
bocca ad Euripide, si può in certo modo, e con la debita discrezione,
applicare a tutti i personaggi della più antica maniera eschilea. Essi
sono un pò*, non diremo davvero fantocci, bensì meravigliose statue,
statue favellanti, di cui udiamo le parole, ma non vediamo l'anima o
appena la intravvediamo.
Clitennestra.
Ma quando giungiamo dXVOrestèa^ il quadro cambia improvvisa-
mente, prodigiosamente. Il monotono sorriso arcaico non inflette più
le labbra e i visi nella unica gelida espressione; ma ciascun volto è
segnato, grandi linee e particolari, dalle pieghe della sua propria pas-
sione, della sua doglia, della sua disperazione. Noi distinguiamo ad uno
ad uno tutti i personaggi della trilogia, dai grandi ai piccoli, dagli
eroi agli schiavi. Essi sono tanto vivi, che, anche a distanza di anni,
la nostra fantasia li rievoca, come persone incontrate e conosciute
nella vita.
Non posso indugiare a descriverli tutti ad uno ad uno. Prendiamo
il più meraviglioso, Clitennestra. E facciamo ancora un po' d'analisi,
d'anatomia, per isolare ed avvicinare in gruppi omogenei i numerosi
tratti che compongono questa miracolosa figura.
I personaggi di Es chilo 257
Clitennestra è altera. Quando, al principio déìV Agamennone, an-
nunzia ai vecchi la caduta di Troia, e quelli esitano a credere, le sue
risposte sono aspre:
Coro.
L'hai visto in sogno, forse? — E tu lo credi?
Clitennestra.
Alla mente assonnata io prestar fede?
Coro.
Non ti pascesti d'una vana ciancia?
Clitennestra.
Tu m'oltraggi 1 Non son fanciulla sciocca.
L'araldo che giunge a recar nuove dello sposo, non vuole neanche
udirlo:
Ed or, che importa
un tuo lungo discorso? Presto udrò
tutto dal mio signore istesso.
A Cassandra rivolge un discorso di molta dolcezza; ma, quando
la fanciulla non le risponde, conclude superba:
Ma non oltre m'abbasso a favellarle 1
I vecchi ateniesi, che vogliono vendicare il re ucciso, sono per lei
cani: sicché dice all'amante Egisto:
Non curar questi latrati spersi all'aria!
È altera con gli umili. Ma a tempo e luogo la troviamo servile.
Quando giunge lo sposo, si prostra al suolo, tanto che quegli la rim-
provera:
Non mi trattare mollemente, a guisa
di donna, né levar voce prostrata
al suol, come dì barbaro 1
E quando il figlio vuote ucciderla, non troviamo più in lei nes-
suna traccia di alterezza. Pur di campare la vita, si abbassa ad ogni
preghiera, ad ogni umiliazione.
17 — Nuova Rivista Storica.
258 Ettore Romagnoli
Questi due atteggiamenti opposti hanno origine in una delle qua-
lità dominanti e fondamentali del suo carattere: la finzione. Essa ha
tradito Io sposo, Io odia, lo attende per ucciderlo. E tuttavia, al primo
annunzio del suo arrivo, le fioriscono sul labbro le espressioni, le pro-
teste del più tenero affetto. Dice all'araldo:
Al signor mio questo messaggio reca :
venga, come può prima, alla città
che lo brama. Tornando alla sua casa,
ei troverà la fida sposa quale
pur la lasciò: cane del tetto a guardia,
benigno a lui, nemico ai suoi nemici;
e costante in ogni altro atto, per lungo
volger di tempo, niun sigillo io fransi.
Immersa mi sarei prima in un bagno
d'ardente bronzo, che gustar piacere
d'un altr'uomo, ed averne scorno e biasimo I
E tutte le sue parole, e prima deirarrivo, e poi allo sposo arrivato,
sono una continua variazione su questo tema.
Nelle Coefere, le giunge l'annunzio della finta morte del figlio
Oreste, ed ella gioisce nel profondo cuore, perchè vede così allonta-
nato l'incubo che la premeva notte e giorno. Ma le sue parole suo-
nano ben diverse dal suo sentimento :
Ah/, che rovina sopra noi si abbatte!
Ahi, maledetta ineluttabil sorte
di questa casa, anche i lontani beni
miri, e colpisci con diritte frecce,
e me, tapina, dei miei cari privi 1
E adesso Oreste, che guardingo il piede
lungi tenea dalla sanguigna gora,
la speranza, medela unica all'impeto
degli affanni, perduta adesso scrivila.
Ma r infingimento ipocrita non è sempre perfetto. È incrinato da
certa smania sarcastica, per la quale essa lascia talvolta trasparire il
fondo dell'anima sua con velate allusioni. Così, quando fa stendere i
tappeti su cui deve muovere Agamennone:
Procurerò che degnamente accolto
Io sposo sia, di reverenza degno.
Presto, velata sia la via di porpora,
sf che Giustizia lo conduca ai tetti
com'egli non credea. Quanto altro bramo,
col voler degli Dei provvederà
che si compia un pensier che non assonna.....
J personaggi di Eschilo 259
E quando Agamennone è già entrato nella reggia, dove troverà
la morte:
Oh Giove, Giove
che i voti adempì, esaudisci il miol
Né queste allusioni sfuggono sempre ai vecchi del Coro. E giusto,
dopo questa ultima, più esplicita e trasparente, esprimono in un lugu-
bre canto i loro presentimenti angosciosi.
In realtà, Clitennestra ha la feroce voluttà di scherzare col peri-
colo — tratto assai comune nei delinquenti osservato e reso da Eschilo
con grande finezza.
Ottenuto lo scopo, compiuto il delitto, la ipocrisia venata dì sar-
casmi tramuta in brutale cinismo. Ella appare sulla soglia della reggia,
stringendo in pUgno la scure omicida. Le sue prime parole suonano :
Dire l'opposto a quanto prima io dissi
per opportunità, non m'è vergogna ;
e tutto il discorso è un racconto minuzioso ed una sfrontata esalta-
zione del proprio delitto. Ma pur nel cinismo riappare la ipocrisia e
la finzione. Ella adduce due fatti a discolpa del proprio assassinio.
Primo, il sacrificia d' Ifigenia — e tutto il complesso del dramma ci
grida che il suo amore per la figlia è menzognero, o, meglio, esage-
rato e sfruttato. Poi la gelosia, infinita, per Cassandra. Cassandra come
si sa, era stata presa fra il bottino di guerra, ed Agamennone l'aveva
fatta sua. Onde Clitennestra dice :
Eccoli stesi morti: Tuom che fu
la mia rovina, la delizia delle
Crisèidi d'Ilio; e questa schiava, questa
indagatrice di portenti, e ganza
sua, che spacciava oracoli, e ben ligia
gli entrava in letto, e al fianco suo calcava
la tolda della nave. Ah ! Ma pagarono
quello che meritavano. Costui
lo vidi bene. E quella, come un cigno,
cantato l'ultimo ululo di morte,
giace anch'essa, la putta; e aggiunge al Ietto
dei miei piaceri un condimento npovo.
Ma essa è ramante di Egisto da anni ed anni ; il nuovo amore di
Agamennone per Cassandra, seppure è amore, data da poco tempo,
dalla presa di Troia. Il pretesto della gelosia riesce quas ridicolo; e
a dargli questo carattere contribuisce il ricordo di Crisèide: acqua
26o Ettore Romagnoli
più che passata. Ma il carattere di Clitennestra ne riceve ancora una
luce.
Altre due note dominanti sono la lussuria e la ferocia. Deiruna
e deiraltra appaiono le tracce quasi in ogni sua parola. E occorre os-
servare come questi due tratti si fondano in lei, con mescolanza assai
comune, e nota nei quadri della criminologia.
Descrive l'assassinio di Agamennone, punto per punto, con com-
piacetiza orribile. Sembra una Jena che si avvoltoli tra i visceri della
vittima sbranata. Ma le frasi con cui descrive lo spruzzo di sangue,
piombatole sopra, sembrano, nei vocaboli e nelle immagini, la evoca-
zione d*una voluttà erotica:
Cosi piombando, l'alma esala: fuori
soffia una furia di sanguigna strage,
e me colpisce con un negro scroscio"
di vermiglia rugiada, ond'io m'allegro,
non men che per la pioggia alma di Giove,
nei parti della spiga, il campo in fiore.
Ed esplicitamente esprime questa sua predilezione, che si direbbe
sadica, a proposito dello scempio, compiuto anche da lei, di Cassandra,
nei versi or ora letti:
E quella, come un cigno,
cantato l'ultimo ululo di morte,
giace anch'essa, la putta ; e aggiunge al letto
dei miei piaceri un condimento nuovo.
E con intuizione davvero meravigliosa. Eschilo ha innestati questi
due rami affini, della ferocia e della lussuria, in un tronco dove infatti
sogliono attecchire: nella immaginazione fantastica.
Clitennestra è una immaginativa per eccellenza. Il suo linguaggio
la dimostra tale, subito, recisamente, anche in mezzo al linguaggio dio-
nisiaco, e quindi immaginoso, di tutti gli altri personaggi. Questi fio-
riscono i loro discorsi d'immagini. Ma Clitennestra ne rovescia torrenti,
valanghe. Leggemmo la corsa dei fuochi notturni. Ricordiamo ora il
saluto che volge al marito :
Ed or che il male
sofferto è già, con cuor lieto, quest'uomo
dirò cane fedel della sua casa,
gomena che salvezza è della nave,
saldo pilastro dell'eccelso tetto,
figliuolo unico al padre, terra apparsa
ai naviganti contro ogni speranza,
giorno fulgente dopo il turbine, acqua
di vena al peregrino arso di sete!
Questo è il saluto ond'io t'onoro.
I personaggi di Eschilo 261
Tutu questi elementi, alcuni dei quali sembrano a prima vista
eterogenei e discordi, sono poi radicati sur un solido fondo, come fusti
molteplici sopra un unico ceppo. E questo è la volontà inflessibile, in-
domabile.
Da gran tempo, come ella cinicamente dice al Coro, ha pensato
e tramato questa insidia: dal sacrificio d'Ifigenia, dunque da dieci anni.
Da quando, rettifichiamo noi, divenne ramante di Egisto. E da allora
in poi, giorno per giorno, ora per ora, meditò il delitto. Giunge il
marito ; ed essa non esita un istante, ma freddamente, sicuramente, lo
compie. Essa, e non Egisto.
1 vecchi cittadini d*Argo la rampognano, ma il suo cuore non trema
un solo istante.
Mi mettete alla prova come femmina
scioccai Io con cuore che non trema parlo
a chi m'intende.
Infine gli Argivi sì ribellano, scoppia la sommossa, e tutta la città
piomba su Egisto e i suoi seguaci. Ma riappare Clitennestra, e tutta
la città è nuovamente domata. Da questa donna si sprigiona una forza
magnetica, la forza delle volontà incrollabili. E durante tutta la tragedia
è visibile questo fàscino che ella esercita su tutti. Quando ella compare,
sembra che sulle fronti e sugli occhi costernati si levi la testa di Medusa.
Siamo all'ultimo episodio della sua vita, e un nuncio la reca la
notizia della uccisione di Egisto, compiuta da Oreste. Le prime parole
che pronuncia la femmina implacabile sono per chiedere una scure:
per uccidere il figlio come uccise il padre.
Ahimè, ben chiaro questo enimma suonai
Spenti di frode siam, come uccidemmo 1
Alcun mi porga un omicida scure,
Presto 1 Vediam se vinceremo, o se
saremo vinti. Or siamo a tal frangente!
E neppure la morte la placa. Dopo che il figlio Tha trafitta, il suo
spirito vigila le Furie vendicatrici ; e appena queste si assopiscono, le
scuote e le incita con amara rampogna ad incalzare il matricida.
In mezzo a questa orrida miscela di sentimenti perversi, un affetto
sincero, immutabile : Egisto. Pochi tratti, ma rivelatori.
Quando i vecchi la minacciano che dovrà scontare il suo delitto,
proclama sicura :
Sospetto e paura
in casa mia non entrerà, finché
sul focolare mio la fiamma accenda
Egisto, e m*ami, come adesso m'amai *■
262 Ettore Romagnoli
E quando il figlio le annuncia che ha ucciso il drudo, il vero do-
lore che essa prova paralizza la sua ipocrisia, e le strappa un grido
di vera angoscia :
Ahimè t Sei morto, Egisto dilettissimo!
EgÌ8tO>
Ma Innanzi tutto è colto e reso con arte di psicologo grande il
reciproco rapporto dei due amanti. Di fronte alla volontà di Cliten-
nestra, Egisto rimane in ombra. In verità, quella è l'uomo, esso è la
femmina, la femminetta, come con rovente ironia lo chiamano i vecchi
argivi. Il delitto non lo ha compiato lui, bensì la donna; e agli Ar-
givi, che gli rimproverano questa sua codardia, non sa neppure che
cosa rispondere. Nella convivenza con Clitennestra egli s*è plasmato
su lei, ha preso le stimmate dei suoi difetti, si è macchiato delle sue
macchie, ha assunto i suoi gesti : in una parola, è un suo imitatore.
Come quella s'è voluta giustificare ricordando il sacrificio d'Ifigenia,
così egli rievoca lo scempio di Atreo contro il suo genitore Tieste.
Non meno cinico di lei si mostra nel proclamare la propria soddisfa-
zione pel delitto. Non meno ipocrita nell'infinto dolore per la morte
di Oreste.
So che son giunti forestieri, e recano
una novella punto grata. Oreste
è morto. E deve questo nuovo cruccio
patir la casa, oltre l'antica strage
che ci piaga e ci morde. Or come apprendere
se credibile e vera è la novella?
Egisto è il protetto, e la donna la protettrice. E quando egli è
accinto ad una lotta mortale coi vecchi d'Argo, essa lo distoglie e lo
salva con parole soavi:
Altro male non si provochi, o diletto a me su tutti.
Insomma, Clitennestra è l'incubo, Egisto il succubo. Rapporto che
credo frequente nella coppia delinquente, t che da Eschilo è osservato
e reso con mirabile intuizione.
Tale è questa prodigiosa figura di donna. E chi ad onta di essa
nega che Eschilo abbia scolpito veri caratteri ha certo la mente in-
gombra del pregiudizio moderno, per cui fare psicologia significa far
parlare e discutere i personaggi stessi del loro stato d'animo.
I personaggi di Eschilq 263
Qui l'anima di Clitennestra appare a sprazzi. Ogni sua tose, ogni
parola, è uno spiracelo, attraverso il quale irraggia un bagliore della
gran fiamma sinistra che brucia pereime il suo animo torbido. Agli
spettatori rimane il compito di immaginar la fiamma nel suo pieno
divampare, di indovinare gli elementi vari che la nutrono. Così Tarte
serba il velato mistero della vita.
E questa concezione psicologica è in piena fioritura nella Orestèa,
che viene una trentina d'anni dopo i Sette a Tebe. Essa investe tutti
i personaggi, che, dai massimi ai minimi, ci appaiono bene scolpiti e
distinti. Ecco Agamennone, triste, parco di parole, schivo di pompe,
la cui fronte sembra avviluppata come da una duplice nube funesta:
lo scempio d'Ifigenia e il presentimento della prossima morte. Oreste
è un abulico, spinto da Apollo, esitante, incitato dalla sorella, incitato
da Pilade e, compiuto appena il delitto, assalito dai rimorsi,' che Io
spingono errabondo di luogo in luogo. Elettra deriva dalla madre la
implacabile volontarietà, non ha un momento di esitazione e di debo-
lezza femminile.
I personaggi minori*
Veniamo alle figure secondarie. La scolta, nel primo monologo,
mostra il proprio animo sospettoso, chiaroveggente, prudente. L'araldo
è pieno di fuoco e di entusiasmo. Ma speciale considerazione merita la
vecchia nutrice di Oreste. Eschilo ne ha fatto un vero tipo, e un tipo
grottesco, che introduce un colore strano e insospettato nella tragedia.
Ecco, nelle Coefore, le parole della povera vecchia, che ha udita la
morte del suo prediletto Oreste:
La regina m'invia che cerchi Egisto,
perchè qui venga sùbito, e s'incontri
coi forestieri, e apprenda la novella
dalla lor bocca istessa. Avanti ai suoi
faceva il viso triste, e in fondo agli occhi
celava il riso. Erano andate bene
per' lei, le cosel Ma quella notizia
dei forestieri, è troppo chiaro, segna
per questa reggia l'ultima rovina.
1 Alcuno crede anche dal dubbio circa la colpa materna, per le sue parole : tte«a«v
li tAfA èSeaoev ; (v. 1008). Ma questa è una proposizione dubitativa retorica ; è una do-
manda che non aspetta risposta se non affermativa. Oreste mostra il mantello intrìso
di sangue — prova irrefragabile — e chiede : e Ha compiuto o non ha compiuto
il delitto? > Ossia : Chi può dubitare che ella abbia commesso il delitto? — Così anche
in italiano. Analogo valore ha VàMxdex* l^ o6x dHo^ers; dei Sette a Tebe (97).
«64 Eitore Romagnoli
Come sarà contento Egisto, quando
sentirà queste nuove! Ahimè, tapinai
Tutte le antiche pene insopportabili
della casa d'Atreo, mi contristarono ;
ma non mai tanta doglia ebbi a patire.
In pace sopportai l'altre sciagure;
ma il caro Oreste, il pensiero dell'anima
mia, ch'ebbi dalla madre, e che nutrii!
I suoi notturni acuti pianti sempre
mi tenevano desta; e tante e tante
pene m'ebbi per lui. Come un lattonzolo
cònvien nutrire un pargoletto, privo
di senno ancora. Nulla dice il pargolo,
se la fame o la sete, o se bisogno
d'urinar lo molesta; e senza legge
è dei bambini il piccoletto ventre.
Io stavo sempre attenta: e pure, spesso
giungevo tardi. E allora, a riasciacquare
le fasce al bimbo. Lavandaia e balia
era tutto un mestiere: il doppio incarico
avevo avuto da suo padre, quando
me l'affidò. Tapinai E adepso sento
che Oreste è morto. Ed io devo recarmi
dall'uomo che insozzò questa famiglia.
Come sarà contento a questa nuova!
Neirarte di abbozzare un tipo scenico, non mi pare che si possa
andare più oltre.
Questa nuova concezione psicologica si estende anche al Coro, l
vecchi ù^ Agamennone non hanno del vecchio solamente le vesti de-
corose o la generica sapienza sentenziatrice. Ogni loro parola dipinge
la grave età. Ma non basta. Con un tratto di genialità somma, Eschilo
frange l'arcaica unità di questo strumento scenico, in cui ventiquattro
persone si univano, come altrettante note all'unisono, a comporre un
solo uomo; e fa parlare vari di essi, e in ciascuno abbozza un carat-
tere. Riferisco la breve scena che segue agli urli di Agamennone mo-
ribondo, nella quale i vecchi discutono che cosa bisogni fare nel ter-
ribile frangente. La vgrietà e decisione dei caratteri emerge dal contrasto,
senza bisogno di verun commento.
Agamennone.
{(iaL di dentro).
Ahimè ! Che colpo, a morte; entro mi fora !
A.
Fa' silenzio I Questo grido chi levò, ferito a morte?
I personaggi di Eschilo 265
Agamennone.
Ahimè! Che un nuovo colpo m'ha percosso!
A.
È del re questa la voce: dunque, il fatto è già compito.
B.
Consigliamoci, avvisiamo quale sia miglior partito.
C.
Ecco l'avviso mio: diamo l'allarme,
che i cittadini corrano alla reggia !
D.
Piombiamo dentro, dico io: cogliamo
gli assassini còl ferro ancor grondante!
E.
Anch'io dico così: bisogna agire:
non è momento d'indugiare, questo !
È chiaro! Questi son preludi: poi
la tirannia sopra Argo piomberà.
D.
Perdiamo tempo! E quelli, sotto i piedi
cacciandosi ogni indugio, opran, non dormono 1
Non so quale partito approvar debba:
chi agisce, deve ben prender consiglio!
B.
È pure' il mio parer: tanto, non posso
richiamar, coi discorsi, in vita il morto!
266 Ettore Romagnoli
C.
Ci curverem tutta la vita a questi,
che svergognan la reggia, e spadroneggiano?
Patire non si può: meglio è morire:
prima che la tirannide, la morte.
A.
Dobbiamo dunque argomentar dai gèmiti,
e profetar che spento è il nostro re ?
B.
Veder chiaro, bisogna, e poi discorrere :
altro è congetturare, altro è saperci
Questa m'ha proprio persuaso a pieno :
sapere prima come sta l'Atride.
Ettore Romagnoli.
^
LA SECOIA REPUBBLICA CISALPINA
(2 giugno 1800-14 febbraio 1802)
{Continuazione e fine, c/r. anno I, fase. IV)
Crisi economica e disordini.
Al tempo stesso, provocata da cause svariate — 1* improvviso turba-
mento del corso della vita normale, il cangiamento del governo, la
sospensione del credito e dei traffici, le requisizioni deireserqto fran-
cese, T inclemenza della stagione — tutta la Cisalpina fu in breve pre-
cipitata in una gravissima crisi economica. Cominciarono a mancare
i generi di prima necessità, e, di conseguenza, il loro costo, a crescere
spaventosamente. Il frumento salì a 160 lire la soma;' il grano
turco, a 105. Ma non per questo la merce si trovava. A Modena
e a Bologna le autorità dovettero stabilire un premio di 40 scudi per
chi denunciava granaglie e farine nascoste dai mercanti e ordinare
l'apertura di alcuni* forni, che si erano chiusi. La stessa scandalosa
speculazione avveniva m Val Camonica, a Brescia e, in genere, in tutta
la Cisalpina. Il governo dovette emanare Una legge contro gli accapar-
ratori ed accumulatori di grano. Fu così annullato ogni contratto d'ac-
caparramento già conchiuso, e vennero comminate gravi pene, anche
personali, ai trasgressori. Un cronista afferma che questa legge venne
decretata per salvare dal disastro finanziario alcuni reggitori della Re-
pubblica e alcuni generali, che avevano stipulato contratti segreti di ac-
caparramento, mentre il raccolto del grano si annunciava, da ogni parte
d'Europa, abbondantissimo. Ma, concesso che questa legge sia stata
sancita anche per salvare alcuni accaparratori da disastri finanziàri, non
è meno vero il fatto che regnava ovunque grande scarsezza di viveri,
1 Circa i quintale.
268 Angelo Ottolini
che in Bologna era vietato ai padri di famiglia di tenere in casa fru-
mento, frumentone o riso oltre il bisogno, pel consumo di 25 giorni,
che i fornai, i quali non osavano chiudere i forni, e non erano disposti
a rimetterci, mescolavano alla farina il loglio ed altri vegetali nocivi,
e che molti morivano a causa del nutrimento scarso e mal sano.
Non è da meravigliare, se, perciò, siano qua e là scoppiati tumulti.
Il 31 maggio del 1801, il popolo di Novara invade gli uffici del
dazio alle porte della città, e si reca davanti ai locali della ammini-
strazione provinciale, portando i registri daziari, testimoni della gra-
vissima imposta, e reclamando la diminuzione della tassa sui generi di
consumo. Le autorità amministrative cedono al tumulto, e non chiamano
la truppa a reprimerlo; la guardia nazionale assiste indifferente, e la mu-
sica accompagna la dimostrazione.
Ma il giorno dopo interviene il governo cisalpino, fa sciogliere le
amministrazioni, dipartimentale e comunale, le biasima perchè non
hanno ricorso alla forza contro i tumultuanti e manda un commissario
straordinario con larghi poteri. Anche la guardia nazionale è sospesa
dalle sue attribuzioni, e in sua vece viene dal general Moncey inviato
un corpo di truppe francesi comandate dal general Mainoni. A tali
truppe viene assegnato doppio soldo a carico del comune di Novara,
e il Comune stesso è gravato di una contribuzione di 100.000 franchi
da pagare entro 48 ore e da esigere sui principali cittadini.
I tumulti popolari si ripeterono a Modena il 19 di giugno, per il
caro del pane, e, nello stesso giorno e il giorno dopo, a Bologna, ove sì
tentò saccheggiare i forni e i magazzini di grano. Poco dopo, il 25, si
ha una sollevazione in Val Camonica, e alla fine dell'agosto, un grave
tumulto a Brescia contro i mercanti di piazza.
Occorse allora ricorrere alla carità privata e pubblica, e a rimedi
legislativi ancora pili energici dei precedenti. Si fecero delle collette
nelle parrocchie; il municipio milanese venne in soccorso dei poveri,
fissando due forni per provveder loro il pane. Da Milano si scrisse a
Parigi che la maggior parte della Cisalpina era minacciata dalla fame
vera e propria, e il dipartimento del Reno (sembra cronaca di oggi!),
per risparmiare frumento, proibì la confezione del pane bianco e delle
paste fini da tavola.
La creazione di un esercito cisalpino e nuovi malcontenti.
La crisi economica capitava in un momento, in cui. essa era de-
stinata a complicarsi con un non meno grave malessere morale, di-
pendente dalla volontà del governo francese di organizzare militar-
mente il paese.
i
La seconda Repubblica Cisalpina 269
Era questo del servizio militare uno dei problemi più gravi e di
più difficile attuazione, e tale sarebbe rimasto nella nostra penisola per
lunghi anni, anche dopo l'epopea del Risorgimento nazionale. Dall'età
dei Comuni, e cioè dal secolo XIV, l'Italia aveva scordato il grave
mestiere delle armi, e gli Italiani, come nazione, eran rimasti un po-
polo eminentemente pacifico. Era possibile imporre loro facilmente e
d'un tratto l'accettazione dell'obbligo del servizio militare? Per circa
venti anni, dal 1796 al 1815, il governo francese si trovò, con suo danno,
a lottare contro la violenta reazione, che tale imposizione suscitava
presso le masse popolari. Un significativo esperimento esso ne fece nel
periodo della seconda Cisalpina.
Già il Bonaparte nel '96 aveva imposto alla Municipalità di creare
una Legione lombarda^ la quale fosse il nucleo del futuro esercito ci-
salpino-italiano. In breve si erano arruolati 3700 legionariì, che ven-
nero divisi in sette coorti di fanteria, 150 cacciatori a cavallo, 600 zap-
patori e pochi cannonieri pel servizio d'una mezza batteria di campagna.
Comandante era stato nominato quel Lahoz, che, dopo aver disertato il
servizio austriaco, alia resa del castello di Milano, era divenuto aiutante
del Bonaparte, e più tardi peri ucciso ad Ancona.
Nel '99, il Direttorio aveva introdotto una più vasta riforma, or-
dinando una leva di 9000 giovani dai 18 ai 26 anni, esclusi gli am-
mogliati e i figli unici. Era un primo passo verso la coscrizione ob-
bligatoria. Ma i Lombardi, che da secoli non erano soggetti alla leva
militare e nei quali molti degli entusiasmi del *96 erano sbolliti, avver-
sarono il nuovo ordine di cose. I contadini, come sempre, si dimo-
strarono specialmente e irreducibilmente ostili. Seguirono tumulti in
varie parti ; e, poiché pel momento fu giocoforza cedere, gli arruolati
si prepararono a disertare dai deJDOSÌti ove erano stati radunati.
Adesso, ristabiJita la Cisalpina, sono messe in campo due divi-
sioni di 4 reggimenti di ordinanzaj ossìa, di milizia territoriale, tre bat-
taglioni leggieri, un battaglione di ufficiali, due reggimenti di usseri e
uno di cacciatori a cavallo. Insieme con queste divisioni si provvede
agli ingegneri militari, agli artiglieri, agli zappatori. Ma i vecchi disor-
dini si rinnovano.
Per rimediare, la Consulta, il 2 fiorile dell'anno IX, dà incarico
al Teulié, nominato ministro della guerra, che si era reso beneme-
rito per l'istituzione della Guardia nazionale nel '96 e della legione
italica nel '99, e che sembrava riscotere l'affetto e la fiducia dei soldati,
di attuare i provvedimenti necessari a ristabilire il buon ordine tra
i 22.000 Cisalpini e i 6000 polacchi ausiliari. Il Teulié stabilì per ogni
corpo le uniformi, le armi, gli stipendi, le indennità ; sottopose a se-
vero rendimento i vari rami dell'amministrazione militare ; tentò di fre-
270 Angelo Ottolini
nare le ruberie degli approvvigionatori ; soppresse i birri, che sembra-
vano sottentrati ai bravi del Cinquecento, e li sostituì con la gendarmeria;
abolì ringaggio, aprì l'iscrizione volontaria, organizzò le truppe in
corpi disciplinati, e diede ad esse l'aspetto di quel vero esercito nazio-
nale, ch'egli da tempo vagheggiava.
Avrebbe voluto qualcosa di più e di meglio. Avrebbe voluto che
dei 3.85^7.668 abitanti della Cisalpina fossero estratti a sorte 20.000 co-
scritti, fra i celibi dai 20 ai 36 anni, esclusi i vedovi con prole e ì
riformabili. Così infatti scriveva in uno schema di legge presentato al
Comitato il 20 maggio 1801 : « L'esperienza ha mostrato che l'arruola-
mento volontario non basterà giammai a costituire il nostro esercito.
Non è sperabile che molti si schierino sotto la bandiera della libertà,
perchè l'Italia, da lungo tempo suddita e straziata dai partiti, ha smar-
rito l'antico valore. Aprendo i registri degli arruolamenti volontari, ve-
dremmo presentarsi vagabondi italiani, disertori francesi e alemanni,
quanti, in una parola, non avendo nìài sentito l'amor di patria, vivono
disonorati. Codesta genia abbraccia lo stato militare per disperazione,
conseguenza ordinaria del vizio: passa da un corpo ad un altro, e,
quasi certa di sottrarsi alle indagini, lucra, ricevendo nuove armi e
nuove uniformi... Giammai si riuscì a introdurre fra i volontari la
disciplina, la moralità e lo spirito militare. L'esperienza dimostrò essere
la coscrizione l'unico mezzo per avere una forza reale, specialmente
in tempo di pace».
Sono le vecchie, e non mai abbastanza apprezzate, teorie del Ma-
chiavelli che ritornano a farsi valere nella storia italiana, e che tcion-
feranno piii tardi. Il Teulié presentò il suo disegno il 20 maggio; la
Consulta decretò per il settembre la coscrizione. Senonchè non ebbe
l'energia di mandarla ad effetto, atterrita dalla repugnanza e dall'osti-
lità della popolazione.
Ma neanche le saggie riforme, potute realmente introdurre dal
Teulié, ottennero l'approvazione di quanti avrebbero preferito conti-
nuare o cominciare a speculare sull'esercito, in prima linea, degli ap-
paltatori militari. Costoro gli suscitarono tali odiose inimicizie, che egli
ne fu indotto a ritirarsi.*
1 Durante la sua carica il Teulié fondò a Milano due filantropiche istituzioni, che
etemano il suo nome : un ospizio per i veterani e gli invalidi, sulla cui porta d'in-
gresso leggevasi : Ai veterani ed invalidi \ onore e riposo^ e un ospizio per gli orfani
militari. Nel vasto fabbricato, che sorge vicino a S. Luca (Porta Ludovica), ove la do-
menica si adunavano i giovani studiosi delle belle arti, fece in modo che si raccogliesse
un battaglione di cencinquanta tra veterani ed invalidi. Le pratiche erano già iniziate,
quando il Teulié uscì dal Ministero ; ma vennero confermate da un ordine dei triumviri
del 15 gennaio 1802. Invece, nel monastero di S. Luca che era stato ridotto ad ospedale
La seconda Repubblica Cisalpina 271
Ciò fece il 30 luglio, lasciando il posto, degnamente tenuto a
Giovanni Tordorò.*
Ma, se il Teulié si ritirava, le sue proposte furono tosto ripigliate.
Il 30 ottobre 1801 era approvata una nuova legge sulla formazione
dell'esercito cisalpino, proposta dal Comitato alla Consulta di Stato,
nella quale si tennero in gran conto le riforme, che egli avea avuto in
animo di introdurre. Ma neanche questa legge potè andare ad effetto
e bisognò di nuovo, poco dopo, sospenderne la esecuzione sotto pre-
testo di un prossimo ordinamento costituzionale della Cisalpina.
Così anche questa veramente benefica innovazione militare fu
sospesa a mezzo o deviata dal suo migliore indirizzo. Ma rimaneva
indubitato che, non ostante le sue intrinseche opportunità, il nuovo
esercito riusciva, nei riguardi finanziari, motivo di gravi oneri per la
popolazione. La sua costituzione importò un versamento immediato di
ben due milioni di lire, e avrebbe continuato ad importare una spesa
ordinaria mensile di altri due milioni : circostanza, che nelle traversie
finanziarie, tra cui la Cisalpina si dibatteva, non era da prendere a.
gabbo.
La Consulta. La Commissione straordinaria.
Angherie; Tasse; Leggi;
Gravi difficoltà dunque attraversavano le speranze di un buon
governo nella Cisalpina: il rancore dei repubblicani e dei democra-
tici, che vedevano dileguare quella forma politica sognata e vagheg-
giata dal '96 al '99; gl'intrighi del partito austriacante per un pros-
simo ritorno dell'Austria; la reazione e il malcontento della nobiltà
locale, che si vedeva scalzata nei suoi privilegi ; il peggiorare della eco-
nomia pubblica; l'ostilità del paese al servizio militare. Ma a queste
difficoltà se n'aggiungeva una più grave di tutte: la mancanza d'una
militare, il Teuliè allogò gli orfani militari; e, per tener vivo il sentimento della
patria e lo spirito militare, fece dipingere lungo i corridoi i ritratti dei guerrieri più
illustri, antichi e moderni, con inscrizioni del Foscolo, del Gasparinetti, del Oiovio.
Gli orfani poi, grati e riconoscenti, vollero che se ne aggiungesse una pel benefattore:
A Pietro Teulié prode generale | per lumi ed umanità distinto \ che gli orfani mili-
tari I in questo onorato asilo radunò \ e meritossi il titolo | di fondatore e padre J
monumento e ricordanza.
> Giovanni Tordorò (nato a Milano nel 1755) fu uno dei più caldi fautori delle
novità democratiche ; nel 1796 fece parte del Comitato militare ; nel novembre del 1797
fu mandato commissario organizzatore del dipartimento del Mincio e poi addetto al
ministero della guerra fino alla caduta della Cisalpina. Nel settembre 1800 ebbe il
grado di commissario ordinatore, ufficio che conservò sino alla fine del Regno, diri-
gendo nel Ministero la. divisione dd servizi amministrativL Morì in Venezia nel 1836^
i
272 Angelo Otto lini
mente direttrice, di un governo, che sapesse conquistarsi la fiducia
dei cittadini e dello stesso popolo minuto, il qual domandava panem e
non riceveva, se mai, che circenses,
11 grave compito di riordinare il meccanismo del governo spet-
tava alla Consulta legislativa. Radunatasi per la prima volta il 4 luglio
1800, le sue sedute furono inaugurate con un discorso del generale
Petiet, in cui questi parlò dell'antica gloria dell'Italia e dei suoi saggi
legislatori, lodando i nostri artisti, la nostra lingua, il nostro governo.
« Ceux qui furent — disse — vos maitres ont reconnu votre indépen-
dance; ceux qui furent vos libérateurs sauront la maintenìr». Poi si
pensò aAa riforma dei codici, e ne uscirono innovazioni di una certa
importanza. Furono aboliti i vecchi feudali diritti di primogenitura,
che, ad eccezione di un solo, condannavano all'indigenza i figli di uno
stesso padre. Nei rispetti della eredità, le figlie furono equiparate ai
maschi, e non più quindi costrette al chiostro o a un amaro celibato. Il
nuovo regolamento giudiziario fu una unificazione salutare e un pro-
gresso insperato, in quanto faceva scomparire le differenze fin allora
esistenti tra i vari paesi componenti lo Stato. Vennero anche affrancati
da pedaggi i passaggi a livello, meno quelli appartenenti agli istituti di
beneficenza e d'istruzione. Venne garantita la proprietà letteraria, e
si istituirono subito accademie di pittura, scoltura, architettura e, quel
che più importava, nuove scuole comunali e dipartimentali. D'altro
lato, con legge del 4 febbraio 1801, venne stabilita l'uniformità dei
pesi e delle misure per tutta la Cisalpina.
A una stabile divisione amministrativa della Repubblica non si
potè subito pensare, che i confini dovevano variarne più volte a se-
conda degli accordi internazionali, che ne condizionavano l'esistenza.
Infatti, con decreto del 2 settembre 1800, alla Cisalpina, fin allora
limitata a parte della Lombardia e delle Romagne, vennero aggregati
il Novarese, il Vigevanese e la Lomellina; con decreto 19 gennaio 1801,
tutti i paesi alla destra dell'Adige, il Polesine incluso; il 2 febbraio,
Mantova, ch'è sgombrata dai 10.664 Austriaci, i quali ne formavano la
guarnigione. Finalmente, con legge 13 maggio 1801, la Cisalpina, po-
polata da circa quattro milioni di abitanti (3.857.668), sarà divisa in
12 dipartimenti * e 46 distretti, che si stenderanno dalle Alpi agli Ap-
pennini, da Novara a Rimini.
Ma tutto questo riguardava la parte meno urgente o meno vi-
stosa del problema governativo. Le difficoltà più gravi si annidavano
in un campo diverso.
^ Agogna, Larìo, Olona, Serio, Mella, Alto Po, Mincio, Crostolo, Panaro, Basso
Po, Reno, Rubicone.
La seconda Repubblica Cisalpina 273
Le condizioni finanziarie della nascente repubblica erano mise-
rande: vuote le casse e prepotente il bisogno di denari; stremata e
piena di debiti la cittadinanza, per le guerre, per le requisizioni, per
gli aggravi enormi, imposti dai governi, che da tre anni si alterna-
vano al potere.
Come si sarebbe provveduto e rimediato a tutto ciò?
Un problèma analogo si era, nello stesso giro di tempo, presentato
in Piemonte. I Francesi erano entrati in Torino il 25 giugno, accolti
sulla strada di Rivoli da un'immensa moltitudine. Uomini e donne
avevano versato fiori a piene mani sopra i baldi soldati, che lietamente
ne avevano inghirlandato le baionette dei fucili. I generali avevano rice-
vuto da dame gentili corone di alloro e di quercia, adorne di perle.
Il Bonaparte v'era arrivato il 26; il Berthier, il 27, fra le salve delle
artiglierie e le acclamazioni della moltitudine. Il governo era stato af-
fidato a una Commissione temporanea di sette cittadini, dipendenti da
Pietro Dupont, ministro straordinario francese, sostituito in seguito
dal generale Jourdan. Gli Austriaci eran partiti, lasciando le casse vuote;
i Francesi avevano impedito che le finanze fossero restaurate. Ma quivi
la Commissione di governo s'avvide subito di trovarsi in una posizione
insopportabile, umiliante, ruinosa al paese, e subito dimostrò la sua
ferma volontà di resistere. Nell'agosto del 1800, essa indirizzava vive
lagnanze e proteste al generale Jourdan, e offriva le proprie dimissioni
piuttosto che perseverare in un sistema, pel quale la catastrofe del Pie-
monte sarebbe divenuta inevitabile.
Nella Cisalpina, invece, la Commissione straordinaria non seppe
organizzare alcuna vera e salutare opposizione. Tutti, o quasi, i suoi
uomini si mostravano acquiescenti verso le esigenze francesi, e non
avevano il coraggio di reagire. Taluni della Commissione di governo
non la intendevano però in questo modo, e l'Aldini, in una importan-
tissima seduta dei primi del settembre 1800, dichiarò apertamente che
dalla Cisalpina non potevano, né dovevano, sostenersi pesi più gravi
di quelli fino ad» ora sostenuti; e, giacché la guerra contro l'Austria
sarebbe proseguita principalmente a profitto della Francia, la Cisal»
pina doveva concorrere alle spese solo in equa proporzione. La
Francia, che l'aveva creata e fatta sua alleata, per averne poi un aiuto,
non doveva indebolirla sino al punto che a nulla valesse per sé e
per altri ; tanto meno doveva rendersi ad essa odiosa. Doveva invece
sostenerla, afforzarla, farsela amica, almeno per debito di gratitudine.
D'altra parte, a suo avviso, la Commissione non aveva l'obbligo
di obbedire servilmente agli agenti della Francia, ma aveva assunto l'in-
carico, e ne aveva anche il dovere, di provvedere all'incolumità dei suoi
governati e nello stesso tempo al loro benessere e alla loro prosperità.
1^ 18 — Nuo\a Rivista Storica.
274 Angelo Ottolini
L'Aldini chiese quindi ai colleghi se fossero disposti a sostenere e a
resistere contro le eccessive pretese dei generali francesi e del ministro
di Francia. Altrimenti — dichiarò — è meglio tornare di nuovo sog-
getti e vilipesi per aver difeso la patria, che serbare una larva di po-
tere e farsi complici dello sterminio della propria terra.
Fermo in queste sue idee, malgrado altri dissentissero da lui,
egli si dispose a rinunciare a un ufficio, in cui non gli era dato di evi -
tare il male, e neppure di contrastarvi.
Ma la maggioranza della Commissione non fu di questo parere.
Dopo lungo discutere, essa opinò che ritirarsi in quel frangente poteva
mettere in pericolo resistenza della Repubblica. Di tale avviso furono il
Sommariva, il Ruga e il Melzi ; il Visconti si dimostrò incerto. Alfine
si decise che la Commissione non doveva sciogliersi, ma che la somma
dei pubblici affari, dipendenti dal potere esecutivo, doveva affidarsi a
un triumvirato. Questo, infatti, assunse il nome di Comitato di Governo
e fu composto dal Ruga, dal Sommariva e dal Visconti. L'idea del
triumvirato era buona : questo doveva servire a dare unità ed energia
ad un governo che sMmpacciava della sua stessa mole. Pur troppo,
come vedremo, gli uomini, che assunsero il difficile carico, erano i
meno adatti a condurre la Repubblica verso gli scopi che la riforma
si era proposti.
Durante queste discussioni fu adottata l'idea di una tassa così detta
«sulle opinioni». Per essa cioè si venivano a colpire quelli che si
erano notoriamente mostrati partigiani del governo precedente. Av-
venne allora che le denuncie di austriacantismo piovvero da ogni parte;
bastava essere accusati per dover pagare ; il denunziatore poi si celava
sotto, l'anonimo e poteva così impunemente esercitare le proprie ven-
dette. Fra i denunciati vi fu anche il nostro immortale Carlo Porta,
reo d'essere stato per tredici mesi impiegato dell'Austria.
Agli aggravi legislativi si aggiungevano gli abusi e le vessazioni
dei commissari e dei generali. Un'ombra sinistra oscura a questo
proposito la figura di parecchi generali francesi. Il valoroso Mas-
sena, allorché gli fu sostituito il Brune,' partendo da Milano, costrinse
la municipalità a pagargli 300.000 lire, ed egli, che nel frattempo
insieme col Murat, si era ingolfato in amorazzi o, peggio, si era con
sfacciata disinvoltura sollazzato in banchetti luculliani e in feste ma-
gnifiche con là sua dama servente, la cittadina Frapoli, lasciò a questa,
come dono grazioso, quattro passaporti in bianco, acciò se ne facesse
i un piovoso fu spedito un mandiato di lire 4090 a favore del cittadino sovrin-
tendente Massoli da valere per le spese occorrenti al pranzo da darsi al generale in
capo, Brune.
La seconda Repubblica Cisalpina
275
merito con persona di sua confidenza. Il generale Varrin pretese 440 lire
al giorno per il suo pranzo e Tapproviggionamento anticipato per il
doppio dei soldati, che stavano effettivamente ai suoi ordini, e lacerò
in faccia al presidente dell'amministrazione dipartimentale i documenti
che questi allegava a sostegno delle proprie ragioni. L'aiutante Cravey
fece incarcerare l'onesto Greppi, e gli estorse con violenza denaro,
perchè l'altro osava opporsi a quanto egli richiedeva. Più duramente
ancora,' a Bologna, ai lamenti della popolazione si rispondeva che < le
labbra dei cittadini debbono lagnarsi con quella stessa parsimonia con
cui essi sono soliti pascersi ».
Intanto, per ricolmare le casse vuote, la Commissione straordi-
naria ricorreva a un prestito forzoso rimborsabile nel termine di tre
mesi, oltre l'interesse del 6 7oJ metteva una sovrimposta fondiaria di
otto denari per ogni particella di terreno estimata uno scudo;* poco
dopo, un'altra di 20, pagabile in tre rate, onde la fondiaria sali a 108
denari per ciascuno scudo d'estimo. Non bastando tutto ciò, decretò
un prestito forzato di 8 milioni per azioni sopra individui scelti fra i
più ricchi, o supposti tali,* che dovevano poi essere rimborsati con
beni nazionali reputati d'egual valore.
Né fu tutto. Nel giugno dello stesso anno si mise un'imposta
sui fabbricati di otto denari per scudo d'estimo, da servire al mante-
nimento della illuminazione cittadina, e nel luglio entrò in vigore l'ob-
bligo del bollo sulla carta e sui giornali.
Il Triumvirato.
La istituzione del triumvirato fu ratificata dal Petiet il 2 settem-
bre 1800. Da questo momento, fino ai Comizi di Lione, ogni autorità
risiede nelle mani di tre persone : G. Battista Sommariva, dal, 22 giu-
gno presidente della Commissione di governo; Sigismondo Ruga e
Francesco Visconti; o, per essere più esatti (poiché quest'ultimo deli-
i Lo scudo milanese valeva circa lire 4,50; il denaro ^ lire 0,0032.
s Tale imposta a titolo di prestito sul commercio, decretata con l'art. 2 della
legge 21 messidoro anno Vili, fu dalla Commissione governativa cosi ripartita nel
termidoro fra i vari dipartimenti :
Olona L. 1.716.880
Alto Po. » 1.073.796
Serio. . . . . . . . » 844.394
Adda ed Oglio .... » 391.752
Mella. » 841.562
Tanaro . L. 576.368
Crostolo » 536.458
Reno. » 1.032.672
Basso Po ...... » 266.875
Rubicone ..,...» 768.306
276 Angelo Ottolini
beratamente se ne tenne lontano/ e il Ruga fu tosto sopraffatto dalla
intraprendenza e dalla energia del suo collega) essa risiede tutta nelle
mani di uno solo, il Sommariva, il quale prese la direzione di ogni
cosa.
Il Ruga era stato nel 1797 giudice di Tribunale d'appello e, du-
rante la reazione austro-russa, si era segnalato per avere con tenacia
sostenuto la validità della vendita dei beni nazionali, sì da esserne
dair Austria ricambiato con la sospensione dall'avvocatura. Il Visconti,
discendente della nobile famiglia dei Visconti, si era dedicato fin
dal *96 alla causa democratica; aveva fatto parte della prima munici-
palità milanese, e nel '97 era Mato ministro plenipotenziario della Re-
pubblica cisalpina. Era uomo probo e assai apprezzato dal Bona-
parte.'
Non ostante dunque i maligni ripetessero che la scelta del Ruga
e del Visconti si doveva all'avvenenza delle loro consorti, particolar-
mente ammirate dagli ufficiali francesi, la verità è che i due uomini
avevano titoli abbondanti per il nuovo ufficio, che essi ora venivano
a coprire.
Il Sommariva venne scelto per la sua avvedutezza. Fu per certo
uomo assai abile e intraprendente. Egli avea trascorso una vita assai
avventurosa. Da umile barbiere di S. Angelo Lodigiano, suo paese
nativo, fatto educare dalla ricca famiglia Bolognini, feudataria di quel
villaggio, egli era riuscito à laurearsi in legge e ad esercitare l'avvo-
catura a Lodi, donde nel '96 corse a Milano in cerca di miglior fortuna.
Gettatosi a capo fitto nel mondo politico, e militando fra i gruppi
più rumorosi e più radicali, era stato il 21 maggio chiamato a far parte
della municipalità, allorché ne venivano esclusi il Parini ed altri patrioti.
Nel dicembre fu inviato a Reggio ad esprimere, nel congresso Ci-
spadano, i voti dei Lombardi per l'unione delle due nazioni, e in quel
comizio rappresentò insieme col Porro la Lombardia.
1 Col 25 fruttidoro il Visconti comincia ad essere regolarmente assente dalle
riunioni « per indisposizione » ; col 1^ vendemmiale smno X, nel « Registro delle deli-
berazioni del Comitato di governo i>, egli è notato assente, tralasciandosi la parola in-
disposizione; dopo il 19 vendemmiale, la sua assenza è appena e malamente segnalata.
Di fatti non era «indisposto» perchè era presente alle sedute in casa Petiet.
* Anche su di lui corsero però dei sospetti. Leggesi nella Cronaca del Manto-
vani, a p. 281, sotto la data 17 ottobre 1801 : « Oggi si dice che Visconti abbia deci-
samente rinunciato al governo. È voce che mandò i suoi tesori nella Svizzera e com-
perato in Losanna un grosso fondo sotto il nome di un finto Barone di Milano.
Colà pare voglia ritirarsi». E a p. 283: «11 presidente del governo, Sommariva, ol-
tre gli altri, acquistò il fondo di S. Angelo dal conte Tanzi per lire 450.000 lire 180.000 ;
pagate al momento ; l'avv. Ruga, la casa del conte Canevago vicina al Castello per
Visconti, una baronia z, Losanna ».
La seconda Repubblica Cisalpina 277
Costituita la Cisalpina, il 30 giugno 1797, portato dalla Società
popolare, venne nominato segretario generale del direttorio Cisalpino
ed esercitò così, sul governo, una specie di sindacato costante in nome
e per gli interessi della democrazia estrema. Tale ufficio dovette la-
sciare, per ordine del Brune, nell'aprile del 1798.
Al sopraggiungere degli Austro-Russi, stette a lungo nascosto presso
le famiglia Castelli in Menaggio, donde gli fu facile, attraverso i monti
della Svizzera, rifugiarsi in Francia, a Parigi. Quivi conobbe moltissimi
dei personaggi più in vista del tempo e, insieme con essi, tutti gli ele-
menti equivoci della gran Babilonia, progredendo così nella pratica
del maneggio degli uomini e (perchè no?) nei segreti dell'intrigo
e della corruzione.
Ottenuta la confidenza e l'aiuto del Talleyrand e del Murat, che
non erano troppo scrupolosi sulla scelta dei loro amici, egli, nel 1799,
forte delle amicizie parigine e di quella astuzia, che talora supplisce
al vero ingegno, ritornava \\\ Italia al seguito dell'esercito francese
e si faceva nominare nella Commissione di governo, ove cominciò
subito a dominare, ostentando apparenze moderate, parlando il lin-
guaggio pomposo dell'indipendenza, ma più ancora soddisfacendo
ogni domanda dei generali francesi. Poco scrupoloso personalmente,
non scelse o non volle scegliere i fautori e gli amici tra gli individui
più specchiati. Preferì circondarsi di gente venale; ma, audace, ener-
gico, autoritario, quando la Commissione fu ristretta nel Comitato
triumvirale, egli, come dicemmo, ne divenne il capo effettivo e accentrò
nelle sue mani il reggimento della Repubblica, che fu — può dirsi —
in suo potere dal 24 settembre 1800 al 14 febbraio 1802.
Intrighi e nuove tassazioni.
Ma il triumvirato non poteva essere, e non fu, il tocca e sana di
ogni male. Il Sommariva cominciò col far nominare, quale ministro
della guerra,' il milanese Bianchi d'Adda, ex-ufficiale al servizio del-
l'Austria; agli interni il Pancaldi; alla polizia lo Smancini; alle finanze
il Soldini, e fissò loro una retribuzione annua di 20.000 lire. Creò
segretario generale del triumvirato il Canzoli con uno stipendio di
lira 32.500, quasi uguale a quello dei triumviri, che si erano assegnati
uno stipendio di 35.000 lire; segretario presso la sezione di finanza
il Petracchi con 5000 lire; segretario alla guèrra il Lancetti; agli in-
terni, il Galvani.
i I ministri sì chiamarono dapprima ispettori generali del governo ; cambiarono
nome per la legge 13 brumale anno 9, ed ebbero un indennizzo di 20.000 lire annue.
278 Angelo Ottolini
Gli esordii non erano promettenti, ma il peggio doveva venire dopo,
allorché il triumvirato, avrebbe dato mano ai mezzi più radicali nel
governo finanziario dello Stato. Anzi tutto, d'accordo col Petiet e col
Murat, il triumvirato elevò di 700.000 lire i due milioni mensili desti-
nati al mantenimento dell'esercito francese. E, dopo aver dato fondo
agli altri due milioni, imposti ai fautori e agli ex-impiegati austriaci,
si accinse ad imporre tasse arbitrarie sul commercio • e sugli aristo-
cratici. Indi i triumviri pensarono di alienare i beni nazionali, ancora
superstiti allo sperpero fattone nel triennio della Prima Cisalpina, e li
posero in vendita il 9 ventoso (anno 9) per la somma globale di otto
milioni, costringendo i più ricchi, o coloro che vennero dichiarati tali,
a comperare le azioni. I tassati, riuniti sotto il nome di azionisti, fe-
cero causa comune per uscirne alla meglio. I milioni furono versati,
ma scomparvero immediatamente nell'abisso senza fondo del bilancio
della Cisalpina. Ne abbisognarono perciò degli altri, e si ricorse al-
l'espediente d'una lotteria con azioni obbligatorie di lire 50, rimbor-
sabili sulle future vendite di altri beni nazionali, più lire duecentomila
suddivise in premi da estrarsi a sorte.
Cominciarono allora a piovere le proteste, e si fecero tanto clamo-
rose, che si reputò conveniente rinunciare alla vendita delle cartelle e
ricorrere ad altro sistema. Questa volta l'iniziativa venne dalla Consulta.
Abrogando la legge della lotteria forzata, essa pensò di mettere a
disposizione del governo beni nazionali pel valore di quindici milioni;
il governo ne doveva far la vendita per mezzo di azioni forzate in
numero di millecinquecento da lire diecimila ciascuna; la ripartizione
del nuovo onere doveva farsi sui cittadini più ricchi. Nessuno poteva
esser tassato per meno di mvì' azione, e queste dovevano pagarsi un terzo
entro la prima decade della notificazione; un altro terzo, dopo tre de-
cadi; l'ultimo, tre decadi dopo la scadenza della seconda rata.
Il breve tempo concesso per il pagamento (l'elenco dei tassati uscì
il 21 gennaio 1801), il numero delle azioni assegnate (quindici di 150.000
lire l'una) e la difficoltà di trovare il denaro immediatamente, anche
a mutuo, provocarono numerosi reclami, onde le operazioni si protras-
sero per tutto l'anno. Allora, quasi a corollario, si aggiunse una sovrim-
posta di otto denari per ogni scudo d'estimo, pagabile alla fine di
novembre e d'altri sei nel dicembre sulla prima rata del 1802. Solo
allora, per fortuna, a temperare quell'insopportabile prestito, subentrò
alla Cisalpina la Repubblica Italiana.
1 II 17 fiorile anno 9 si presentò un disegno di legge portante un'imposta di sei
milioni in tante azioni forzate sui cittadini e commercianti più facoltosi ; il 27 vendem-
miale (anno 9), un' imposta di otto milioni sul commercio dell'Alto Po.
La seconda Repubblica Cisalpina 279
Con altro grave provvedimento i sei cittadini più censiti di ogni
dipartimento venivano intanto solidalmente tenuti responsabili del paga-
mento delle imposte prediali arretrate. Siccome non sempre i colpiti
curvavano il capo, ma talora vivacemente protestavano, i patimenti
rincrudivano. A Modena, a Bologna, a Reggio il silenzio fu imposto a
fucilate; a Brescia, il commissario Oliva veniva espulso dal popolo con
le grida: « Ladri non ne vogliamo; ne abbiamo abbastanza! »
La stima dei beni era tenuta vilissima, sia perchè il denaro difet-
tava, sia perchè gli speculatori mercanteggiavano in prevenzione con
Toro, e lucravano sul prezzo di compera e sui bonit che il governo rice-
veva in luogo del pagamento. Ne derivò così un turpe mercato, che
rovinò moltissimi e arricchì enormemente il triumviro Sommariva, che
aveva il monopolio dell'impresa,^ e gli usurai che io circondavano.
Comandanti e Commissari, autorità municipali e comunali requisivano
in città e in campagna fieno, cavalli, buoi, grani, vestiti, ecc., rilasciando
boni^ che il governo assumeva T impegno di pagare.* Il maggior numero
dei boni era in mano dei fittabili, i quali, tostochè gli avvisi di paga-
mento erano pubblicati, malgrado le strade fossero cattive e malsicure,
accorrevano alla cassa in città per sentirsi poi rispondere che pel
momento non v*era denaro « A chi mostrava premura per l'esigenza,
scrive il cronista Mantovani, il cassiere in confidenza suggeriva che il
negoziante Marietti e l'ebreo Formiggini incettavano ì boni con qual-
che sconto. I possessori, stretti dal bisogno, correvano da costoro, i
quali pretendevano il 40 7o- Erano d' intelligenza coi governanti e con
Petiet^ e con Murat;* con questa cabala guadagnarono immense
somme ».
Questa l'accusa di un contemporaneo, ostile ai democratici e alla
nuova restaurazione repubblicana. Ma, se l'accusa è ingiusta pel Visconti,
i Notali Mantovani (oyò. r/Y., p. 183, 18 ottobre 1801): < Dedotto lo sconto, ri-
sulta che il Sommariva guadagnò 182.000 lire in questa settimana ».
2 Mantovani, op. cit., p., 302, 26 ottobre 1801 : « La sfacciataggine con cui il Go
verno delibera le aste e provisioni di qualunque cosa o genere abbisogna alla Repub-
blica è giunta al colmo della scelleratezza. Si contratta pubblicamente il 14 o il 15 per
cento preventivamente a Sommariva, il quale poi per la sua pubblica condotta non ha
difficoltà di far note le esuberanti. sue ricchezze col comprar fondi, acquistar ville di
tutto lusso, aprir banco sotto altro nome e spedire milioni su piazze estere, e ciò, in
vista di tutti, ed a cognizione dei nostri negozianti ».
8 Mantovani, op. cii., p. 323, 20 dicembre 1801: « Legge dei Tre colla quale si
dichiara benemerito della Repubblica il ministro Petiet, che parte domani per Lione.
Meno male se questa burattinata finisse in un complimento ! »
* Mantovani, op. cit., p. 318, 8 dicembre 1801: * I Tre stanno deliberando di
emettere 20 milioni in carta per supplire alle spese della truppa francese, per la quale
Murat va reclamando da alcune settimane ».
28o Angelo Ottolini
uomo dì specchiata onestà, se è dubbia per il Ruga e per il Petiet, essa
è certa e legittima per il Sommariva, qualificato quasi non bastasse a
farlo credere tale la tradizione dei contemporanei/ « sublime ladro »
fin nei carteggi ufficiali. Ed invero, nei venti mesi che resse la Cisal-
pina, egli, che non aveva beni di fortuna e che aveva perduto, col
sequestro del settembre *99, quanto era fin allora riuscito ad accu-
mulare, arricchì in modo straordinario e con esso i turcimanni, che per
luì compravano sulla piazza ì boni soggetti alle variazioni che più gli
tornavano utili.* Per fortuna, come sempre avviene nella storia, quel
mercimonio ebbe conseguenze importantissime, che ne oltrepassano
di gran lunga il demerito morale. Fu in quell'epoca che sensali e spe-
culatori d*ogni sorta, comprando a vii prezzo i beni delle soppresse
corporazioni e mercanteggiando nel modo pìù_ disonesto, divennero
d'un tratto grandi proprietari, e formarono la classe della nascente
ricca borghesia.
L'appello al Bonaparte.
Così la Cisalpina, la «vergine pura», tra le braccia dei mille suoi
drudi, s'era, come ben disse il Mazzini, convertita in prostituta venale.
La tirannide di pochi s'era trasformata nella tirannide di quanti Tar-
bitrio del caso, l'impudenza o l'intrigo ponevano a sommo della ruota
civile: proconsoli ladri, governatori inetti, legislatori deboli od igno-
ranti creavano una confusione inestricabile, che avrebbe per certo de-
terminato reazioni e rivolte sanguinose, se gli sforzi degli onesti non
si fossero interposti, rivolgendosi al Primo console, il solo che fosse
in grado di tenere a freno la mala genia, che gavazzava nella miseria
e nel disordine e di compiere il miracolo di una restaurazione am -
ministrativa ed economica.
Allorché il Bonaparte nel 1800 discese in Italia, a Parigi, a rappre-
sentare gli interessi del Direttorio Cisalpino, c'era il Serbelloni, il quale.
1 Op.cit,, p. 301, 25 ottobre : « II Mangiagalli, uomo risoluto, anzi furioso, si portò
da Soramariva, dandogli del birbante e ladro, concludendo che ne avrebbe pronta soddi-
sfazione, qualora non si ritirasse prontamente la lettera mandata a suo figlio (di rimo-
zione d'impiego). La strapazzata ebbe il suo effetto, ed oggi una nuova lettera ha
confermato il Mangiagalli, dichiarando essere seguito uno sbaglio ».
* Op. cit.f p. 312, 29 novembre 1801 : * I governanti approfittano della partenza
della Consulta e delle autorità subalterne, e, prevedendo che va a finire il loro comando
dispotico, fanno raccogliere per mezzo di emissari i boni emessi già da alcuni anni
al 48 per o/q, lucrando così il 52 per o/o» facendoli al momento pagare dai rispettivi
cassieri. Questo traffico infame ha portato parecchi milioni di vantaggio massime a
Sommari va, che in ciò può dirsi il cassiere generale».
La seconda Repubblica Cisalpina 281
restaurata la Cisalpina, tornò a Milano, ove lo chiamavano le cure
della famiglia dissestata per il sequestro dei beni toccatogli nel 1799.
Scnonchè i crescenti disordini degli stessi governanti richiesero uomini
di nota fama e tali che potessero esercitare un grande ascendente sul-
l'animo del Primo console. Perciò, nel luglio 1800, la Commissione di
governo incaricò i due membri della Consulta, Marescalchi e Greppi,
entrambi esperti nielle arti diplomatiche, a voler assumere la difficile mis-
sione di abboccarsi col Bonaparte e di esporgli le condizioni della Ci-
salpina. Che quella realmente fosse missione difficile lo prova un brano
di una lettera del Marescalchi, il quale scriveva: «Noi, costretti per
vie indirette ad ottenere qualche udienza, abbiamo l'aspetto di queruli
accusatori, anziché di vostri deputati. Di più manchiamo di documenti
positivi per constatare le vessazioni militari, sulle quali reclamate ».
Non ostante queste difficoltà, i due uomini accettarono e, con no-
bile ardire, fecero rilevare al Bonaparte come nei primi due mesi di
luglio e agosto si fossero estorti alla Cisalpina ben trenta milioni in
luogo dei quattro da lui imposti per il mantenimento dell'esercito. Il
Marescalchi scriveva al Primo console : « Che diverrà la nostra pa-
tria? Quale specie di morte ci sovrasta in premio della nostra costanza
e dei nostri sacrifici? Tale pensiero m'opprime; e vedo traverso i
raggi della vostra gloria l'unica tavola che ne resti a salvarci dal nau-
fragio » .
Nulla ottennero pel momento, ma non rinunciarono a battere e
ribattere su quel chiodo doloroso. Il 14 settembre moriva intanto il
Greppi, che, malandato in salute, aveva accettato il gravoso incarico
solo per operare a vantaggio della Repubblica, e il Marescalchi' rima-
neva solo. Ma più tardi, il 2 novembre 1805, Pancaldi fece nominare
Marescalchi ministro plenipotenziario presso il Primo console e pensò
di dargli, quale collega nel difficile incarico, Francesco Melzi, il futuro
presidente della Repubblica italiana, la persona più adatta per le doti
personali e per la stima che di lui faceva il Bonaparte*
Viveva il Melzi lontano da Milano, donde era partito nel 1797, a
Saragozza, in Spagna, e da quel placido asilo egli, nel 1799, scriveva
al Bonaparte in Egitto a proposito delle miserie d'Italia : « Quale sarà
la sorte dell'infelice paese dopo tante calamità e tante vergogne? Nudo,
senz'opinióne, senza speranza, ha per solo punto d'azione l'odio con-
tro i Francesi, e più contro i partigiani dei medesimi. Sì, per ottenere
un anno di riposo, l'Italia darebbesi ai Turchi, e per un giorno di
vendetta, al diavolo ! Credesi forse che i Russi abbiano cancellato tutto ?
No; questi barbari, nonostante le traccie di sangue che dovunque
lasciarono, saranno dimenticati più presto dei Francesi. Chi brutal-
mente uccide ferisce n^eno il sentimento nazionale di chi umilia! Sa-
282 Angelo Ottolini
rebbe possibile che obliaste, Cittadino generale, un paese la cui storia
è ormai congiunta alla vostra? che fu il primo teatro della vostra
gloria, e vi fornì i mezzi di sì grandi imprese? No, noi credo, e que-
sto pensiero rianima la mia fiducia ». Nominato membro della Com-
missione di governo, rifiutò di parteciparvi, allegando la salute mal-
ferma. Persistè nel rifiuto, anche quando gli giunsero la nomina di
deputato presso il Primo console e le sollecitazioni dell'amico Mare-
scalchi, e ciò per l'antipatia e il disprezzo che nudriva pei triumviri.
Ma dispacci da Milano spingevano il Marescalchi ad agire. « La
nostra azienda, gli scriveva il buon Pancaldi, va di abisso in abisso
pei carichi che ci vogliono addossare, non solo al di là delle nostre
forze, ma delle stesse intenzioni del Primo console. Vi sono nella Ci-
salpina ventimila soldati francesi, e se ne aspettano altrettanti. For-
se egli sarà nella persuasione che i nostri sforzi si restringano ai due
milioni mensili, ma la cosa va altrimenti. Un milione bisogna versarlo
al pagatore generale pel soldo della truppa. Le spese degli ospedali a
nostro carico e mille altri appendici di sussistenza e casermaggio as-
sorbono la vistosa somma di quasi tre milioni di franchi. Tale enorme
sbilancio trascinerà in breve la Repubblica in rovina, intaccandone il
credito, che è bisogno supremo d'uno Stato nascente. È indispensabile
che facciate conoscere al Primo console la nostra triste situazione. La
Cisalpina è forza perisca in mezzo al suo ingrandimento ed alla bril-
lante sua prospettiva di un felice avvenire, e noi faremo naufragio in
porto se la mano potente che ci richiamò in vita non ci sostiene ».
Bisognava dunque arrivare ad ogni costo fino al Bonaparte, e con-
vincerlo. Fu allora che il Marescalchi cercò d'impietosire Talleyrand.
E a lui infatti scrisse: «Il disordine, le ruberie, l'insubordinazione del-
l'esercito d'Italia sono inconcepibili; noi abbiamo dato oltre ì nostri
mezzi; se ci si tolgono i modi di sussistenza, sarà meglio strozzarci
addirittura e risparmiarci tante sofferenze Non è possibile che i pro-
prietari paghino in tre mesi ciò che non riscuotono dalle loro terre
nemmeno in otto ; tanto vale cacciarli dal loro focolare » Ma non
v'era che il Melzi, che potesse parlar chiaro e senza ambagi. Eppure
egli, che s'era fatto altamente apprezzare dal Bonaparte, il quale so-
leva dire: «quanto sono rari gli uomini in Italia! su diciotto milioni
ne vedo appena due, Dandolo e Melzi ! », si teneva in disparte, e non
venne fuori se non dopo nuove, replicate esortazioni della Commis-
sione di governo e quando si fu assicurato un potente collaboratore in
Vincenzo Dandolo, e seppe che il Bonaparte lo desiderava a Parigi.
Tale desiderio equivaleva a un ordine; convenne- ubbidire, e nell'aprile
del 1801 egli si recava dal Primo console.
Il Melzi gli fece comprendere che bisognava assolutamente abban-
La seconda Repubblica Cisalpina 283
donare il cattivo sistema di governo allora in vigore nella Cisalpina e
allottare criterii nuovi e diversi, senza i quali la pace europea sarebbe
stata sempre precaria; che, quindi, conveniva ritirare dalla Cisalpina
le truppe francesi, rinunciare al dominio, sia pur mascherato, della re-
pubblica e dare all'Italia Stati monarchici, unificando sotto un solo prin-
cipe tutto il paese posto fra le Alpi e l'Adige, stabilendo così una
potenza intermedia tra la Francia e l'Austria. Il principe, secondo lui,
avrebbe dovuto essere tratto dalla casa regnante in Spagna. Ma il
Bonaparte la pensava diversamente e non intendeva affatto trasformar
la Cisalpina in un regno, o, tanto meno, farne dono a un principe
borbonico. 11 Melzi, allora, convinto che non sarebbe riuscito a spun-
tarla, tentò allontanarsi da Parigi e fare ritorno a Milano, ma il Primo
console non gli accordò la richiesta licenza, e volle direttamente ser-
virsi dell'opera sua.
Con un decreto del 1^ giugno 1801, il governo della Repubblica
francese impose alla Cisalpina di riordinare in modo regolare le truppe.
In seguito a tale decreto, il 13, la Commissione governativa, assente
solo il Bargnani, insieme coi triumviri si riunì nella casa del ministro
Petiet. Quivi essi si studiarono di drizzare un bilancio delle entrate
della Repubblica, della spesa che importava l'esercito (50.240 Fran-
cesi e 21.599 Cisalpini), e trovarono che questa addossava allo Stato
il carico di 88 milioni annui di lire milanesi (= fr. 66.000.000) e im-
portava quindi un disavanzo di 24 milioni. Allora decisero di sten-
dere una memoria e di inviarla a Parigi, a fine di ottenere che la
Repubblica francese venisse in soccorso della consorella, almeno per
quella somma che questa non era in gr^do di sopportare.
Il 27 pratile il cittadino Aldini lesse la memoria da presentarsi al
Primo console; la rilesse ritoccata il primo messidoro. Indi, dopo che
essa fu approvata a voti segreti, la Commissione passò alla nomina
di un membro incaricato di presentarla al Bonaparte. Venne eletto lo
stesso Aldini, uomo di grande ingegno, d'animo saldo e di specchiata
onestà, ben noto per la difesa, che aveva fatto del suo concittadino
bolognese Zamboni, che primo avea inalberato il tricolore italiano e
aveva scontato tale reato sul patibolo. La Consulta gli diede per
compagno l'ex-duca Serbelloni, ex-ambasciatore a Parigi, che era in
intimità con il Bonaparte e con gli uomini più influenti. A questo il Pan-
caldi scriveva :.« Ambedue d'accordo otterrete o la diminuzione di
metà del numero ordinato o almeno della metà spesa occorrente. Non
dissimuliamo la difficoltà dell'impresa, trattandosi di revocare un de-
creto ; ma la giustizia della nostra causa, il valore di Aldini e il vostro,
e soprattutto la nostra dimostrata impotenza, persuadono che sarete
ascoltati e che ci verrà fatta ragione. Senza tale persuasione chiunque
284 Angelo Ottolini
ami la patria non resterebbe temerariamente assiso al timone di una
nave vicina a sprofondarsi ».
L'Aldini e il Serbelloni partirono da Milano il 25 giugno 1801, e
giunsero a Parigi il 5 luglio ; si presentarono al Marescalchi, al quale
i triumviri, per conciliarselo, aveano portato lo stipendio da lire 41.600
a 82.000 più 1500 luigi per le spese di quella straordinaria circostanza.
Nello stesso giorno il Marescalchi, che aveva sempre vegliato sulle
sorti della Cisalpina e che aveva sempre invano tentato di correggere
la falsa opinione che fosse straricca, scriveva a Giuseppina: «Je
vous prie, madame, de parler un istant au Premier consul de l'état
pitoyable de la Cisalpina, et de la charge de l'entretien d'un nombre
trop considérable de troupes. Les peuples sont au désespoir pour les
^mpositions; les proprietaires sont tout-a-fait depouillés. Qu'il soit per-
suade que je ne suis pas capable de lui en vouloir imposer: nous
sommes reduits à l'extremité >.
Aldini e Serbelloni recavano un reclamo che parlava altrettanto
chiaro. Esso provava con le cifre che, essendo l'estimo censuario di 537
milioni di scudi e la sua rendita, di 21.800.000 scudi, pari a 179 mi-
lioni di lire milanesi, i tributi della Cisalpina non potevano eccedere
i 64 milioni di lire milanesi, cioè 48 milioni di franchi, 10 dei quali
venivano assorbiti dalle spese dipartimentali e dai comuni. L'Austria
stessa *non aveva ricavato più di 18 milioni annui di lire milanesi,- lad-
dove la Cisalpina ne aveva dati 30 nei soli mesi di luglio e agosto
del 1800. Faceva notare come gli eccessivi aggravi avessero costretto
il governo a riscuoterli con la forza, né la stessa forza aveva sempre
potuto cavar denaro là dove erano essiccate le fonti d'ogni pubblica e
privata ricchezza. Di qui la decadenza delle arti, del commercio, del-
l'agricoltura; i ricchi, obbligati a sopperire all'impotenza del povero,
fatti anch'essi poveri ed impotenti ; donde gli sdegni e la disperazione,
di cui non era possibile calcolare gli effetti.
Il Bonaparte lesse e ascoltò i reclami dei governanti d'Italia, ma
dubitò di qualche esagerazione. In seguito Aldini e Serbelloni otten-
nero un'udienza privata > dal Console, e questi dichiarò loro che la
Cisalpina doveva ben avere quella forma di governo che reputava mi-
gliore. Pregato di spiegare una frase così oscura, con fare enigmatico
soggiunse : « Molte volte me ne occupai, ma ho sempre trovato osta-
coli insormontabili. Di tante cose che feci in vita mia, ninna mi si
presentò così ardua quanto creare una costituzione adatta al vostro
paese... ».
Tenendosi così sulle generali, il Bonaparte non lasciava capire se.
preferisse affidare il potere esecutivo a uno o più individui e sfuggiva
di toccare la questione delle truppe ; ma affrontò quel soggetto l'Aldini
La secofida Repubblica Cisalpina 285
col dimostrare che la Francia non aveva interesse a tener uomini in
Italia e perorò con tanto calore la causa, che persuase il Primo console
a (decidersi per la loro riduzione a 30.000; indi parlò senza ambagi della
pessima amministrazione della Cisalpina. Il Bonaparte dovette rimanerne
impressionato. Egli invero non nudriva del triumvirato un concetto molto
lusinghiero. Ciò risulta da una lettera dell'Aldini al Pancaldi, in cui
quegli scrive: «Appena entrati nella sua camera, egli prese la parola
dicendo: — Laggiù le cose vanno molto male; non si commettono
che bestialità; si ruba a precipizio e non faceste che sciocchezze — .
E insistendo sul pessimo andamento delle cose pubbliche, per essersi
sostituita agli onesti la canaglia, esclamò : — Questa genia nata in bassa
condizione si è fitta in testa di straricchire nei posti che occupa, ma
andrò laggiù e punirò severamente i ladri — .* Scrìvete che mi sono
note tutte le loro bricconerie e che nominerò una Commissione per
sindacarle *.
Dalla Repubblica Cisalpina alla Repubblica Italiana.
Non restava dunque che porsi all'opera, e far seguire alle parole
e ai giudizi severi i fatti e i rimedi.
Il Petiet e la Consulta avevano messo insieme un disegno di ri-
forma della Costituzione, che dovevasi tener segreto fino a che non
fosse inviato a Parigi, e non si doveva inviare prima che non fosse
sottoscritta definitivamente la nuova Pace di Amiens tra Francia e In-
ghilterra, che avrebbe chiuso finalmente la guerra della seconda coali-
zione europea. La pace fu conclusa il 15 maggio 1802. Allora l'inviato
del governo ebbe incarico di presentare al Bonaparte il disegno della
Costituzione e di procurare che venisse da lui approvata.
Il presupposto -della riforma era che alla Cisalpina fossero aggre-
gati tutti gli Stati e territori italiani da lui conquistati. Ma, come ri-
sulta dalla corrispondenza del Marescalchi, questo piano non garbava
troppo al Bonaparte, il quale non aveva in animo di ingrandire la
Cisalpina e voleva invece unire alla Francia il Piemonte e offrire al
giovane duca di Parma la Toscana e Piombino in cambio del ducato.
Allora i termini della disegnata riforma costituzionale furono, in
conformità delle vedute del Bonaparte, alquanto modificati. E questi
li comunicò il 3 settembre al Talleyrand perchè li ristudiasse insieme
con Marescalchi, Melzi, Aldini e Serbelloni, senza che però essi faces-
1 Mantovani, op. cit., p. 317, 6 die. 1801 : « Bonaparte disse pubblicamente a
Parigi che erano tre birbanti decisi, quelli del triumvirato, e da lui per tali cono-
sciuti*.
286 Angelo Otto lini
sero saper nulla in Italia, e presentassero le osservazioni per il 19:
quello che regolarmente venne fatto.
La prima cosa, che occorreva per tradurre in atto questo disegno,
era la formazione di tre collegi elettorali, ciascuno corrispondente a
una determinata classe sociale, cioè, rispettivamente, formato dei rap-
presentanti del commercio, della scienza, della grande proprietà:
il dotto, il ricco ed il patrizio vulgo.
Questi collegi dovevano, secondo il pensiero del Bonaparte, con-
tare, i primi, 200 membri ciascuno; l'ultimo, 300. In essi doveva risie-
dere la sovranità nazionale, e ad essi spettare la facoltà di scegliere
a suffragi segreti tutte le dignità, i magistrati e un Senato. Il 29 set-
tembre il laborioso disegno è ultimato e spedito per corriere straor-
dinario a Milano,^ ove toccava alla Consulta discuterlo in sedute se-
grete per poi rinviarlo a Parigi.
In realtà la questione era già decisa. Si volevan solo salvare le
forme. E, per meglio salvarle, il Bonaparte deliberò di convocare a
Lione 452 notabili della Cisalpina, che avrebbero dovuto rappresen-
tare la parte più eletta della nazione in atto di sancire col proprio
voto la disegnata riforma della Costituzione.
Verso la fine di novembre cominciò la partenza dei deputati ci-
salpini per Lione (i triumviri ne erano stati deliberatamente esclusi
dalla legge stessa, che avea regolato la nomina della nuova Costituente).
Ma noi non seguiremo nel loro viaggio i neo-eletti, né c'intratterremo
sulle sedute, che colà si tennero: questa materia esorbita dal nostro
assunto. Ci basterà dire che colà si adottarono tutti i provvedimenti
necessari per escludere i triumviri e le loro creature da qualsiasi inge-
renza nel regime che si stava per inaugurare, e che, proclamato Bo-
naparte presidente della nuova repubblica, questi medesimo presentò
il Melzi quale vice presidente. Il 26 gennaio 1802, fra grandi applausi,
si proclamava decaduta la Cisalpina e vi si sostituiva la Repubblica
Italiana, Ai triumviri, o meglio duumviri (poiché il Visconti si era vo-
luto far considerare dimissionario), se ne diede notizia con una lettera
di congedo, che qui iriferiàmo:
Lyon, le 7 Pluviose, a. X.
Citoyens Ruga et Sommariva, composant le Coniité de Gouvernement de Mi-
lan, la Constitutìon ayant établì un gouvernement definiti!, le vice-President, la
Consulte de Stato, et le Conseil Legislatif entreront en fonction le 20 Pluviose,
epoque à la quelle cesserà votre gouvernement. Je desire que d'ici à ce tenis
1 Arrive^ a MUano il 6 ottobre; il ministro Petiet lo presentò alla Consulta il
giorno 7.
La seconda Repubblica Cisalpina 287
là il ne soit fait aucune operation extraordinaire, et je connais trop votre zèle
pour douter que vous ne donniez au vice-President et aux Conseillers qu'il
designerà toutes les instructions et consignations nécessaires. Je vous ai per-
sonnellement donne une marque d'intérèt, en vous nommant l'un et l'autre mem-
bres des différens collèges. Je désire que dès l'instant que votre mission vous
laissera le tems convenable vous me fassiez connaìtre toutes les operations de
finance et d'administration, que vous avez fait pendant le tems qu'a dure vQtre
Gouvernement.
Je vous salue.
BONAPARTE.
La portata storica della seconda Cisalpina.
Il 7 febbraio il Melzi giungeva a Milano, e il 10 solennemente si
inaugurava la Repubblica italiana, presenti il Ruga e il Sommariva, di-
venuti-ora (oh, instabilità delle fortune umane!) da padroni assoluti di
ogni cosa, pubblico oggetto di satira e di scherno universale.
Dopo appena venti mesi di vita, la Seconda Cisalpina moriva e
senza neanche i rimpianti, che sogliono accompagnare il trapasso delle
giovani vite recise. I contemporànei non seppero sfuggire alla triste
impressione, che in loro suscitava il ricordo di tante speranze troncate,
e i piti identificarono quel regime col periodo del triumvirato o, piut-
tosto, della tirannia del Sommariva.
Un segno eloquentissimo di questa vivace reazione si ebbe nelle
quotidiane dimostrazioni ostili, che seguirono alla, deposizione dei
triumviri. Caricature atroci circolarono contro il Sommariva, signifi-
canti il verdetto popolare; i nuovi governanti non lo ammisero al
loro cospetto, e il ministro degli interni gli rifiutò senz'altro udienza.
Il Sommariva alla fine dovette ritirarsi a Parigi, ove invano, nuovo Lu-
cullo, tentò con la Vita fastosa, col prodigar tesori in lavori artistici, con
l'intrigare presso Murat ed altri, di raccostarsi al Bonaparte, nel quale
intento fece persino offrire a Giuseppina Beauharnais una collana di
diamanti valutata un milione, e al Talleyrand un orologio del valore
di 80.000 lire.»
1 Ecco come descrive gli ultimi anni del Sommariva un suo contemporaneo, il
Custodi (in L. Aurray, Ballettiti italien, p. 338, 1905) : « ... Rientrò nella vita privata,
occupandosi a cumulare con l'industria le acquistate colossali ricchezze ed impiegandone
gli enormi redditi a fare il magnifico nel lusso delle ville, degli arredi e delle collezioni
d'ogni sorta dì oggetti di belle arti. Si noverano tra questi quattro o cinque grandi
lavori di Canova, e i bassirilievi del trionfo di Alessandro di Thorwaldsen, dati in
commissione da Napoleone, e di cui nessun principe osò di procurarsi l'acquisto. La
villa, già Clerici, sul lago dì Como, notabilmente ampliata, quella di S. Colombano,
di nuovo eretta, l'altra sommamente signorile nella valle di Mommorency sono rìmur-
288 Angelo Ottolini
Non di meglio toccò al Ruga, che dovette alla fine lasciare Milano
e ritirarsi sul Lago Maggiore, ove neanche la moglie volle seguirlo.
Ma non fu soltanto il volgo a inchiodare alla gogna la memoria dei
triumviri e della seconda Cisalpina. Vi concorse la parola degli intellet-
tuali più in vista, in quel tempo e nell'età immediatamente successiva.
Il Foscolo, incaricato proprio dai triumviri in sullo scorcio del
loro governo, di un'orazione al Bonaparte, corrispose all'incarico, det-
tando un'aspra requisitoria dell'opera loro e, peggio ancora, osando
con amaro sarcasmo pubblicare il suo discorso e facendolo precedere
da una dedica al Ruga e al Sommariva, che suonava così : « M'avete
reputato degno di scrivere il vero al Bonaparte, ed io riconoscente,
vi reputo capaci di confermarlo con la vostra autorità... ».'
Con pari ostilità la seconda Cisalpina è ricordata da Vincenzo Monti
nell'O^^ pei Comizi di Lione^ e più chiaramente ancora nel 2° canto
della Mascheroniana,
Vota il popol per fame avea la vena,
E il vivere suo vedea fuso e distrutto
Da' suoi pieni tiranni in una cena.
chevoli per il giusto e la ricchezza, tanto delle fabbriche quanto degli addobbi, e, dopo
sì enormi spese, morì Sommariva in Milano nel gennaio 1826, lasciando un asse giu-
dicato non inferiore di 16 milioni di franchi, de' quali fu erede un unico figlio, mag-
giore nelle guardie del re di Francia. L'origine di una tanta' fortuna fu il negozio
delle carte Cisalpine e lo sconto de' mandati del Tesoro, di cui sì il Direttorio che il
Comitato facevano un'emissione sproporzionata alla realtà dei fondi, o che tale almeno
supponevasi, così che era d'uopo di uno special ordine per quitanzarli, e un siffatto
ordine era venduto a prezzo. Nonostante una sì gran fortuna, sua moglie, da lui di-
visa, visse abitualmente fuori di Milano con una meschina pensione, la quale nella
sua maggior misura non ha oltrepassato l'annualità di lire tre ù ila di Milano».
Il ritratto del Sommariva, dipinto dal Prud'hon, si conserva nella Galleria d'arte
del Comune di Milano nel Castello Sforzesco, ove pure trovasi quello della moglie,
contessa Emilia Sommariva nata Seillère, dipinto da Carlo Boisfremont. Detta contessa,
morendo, lasciò per legato alla Pinacoteca di Brera i ritratti deposti nella Galleria
del Castello, e, alla città di Milano, tutti i suoi gioielli quali si vedono dipinti nel suo
ritratto, venduti alcuni anni addietro per circa 300.000 lire nell' interesse dei Musei d'arte
lei "Castello. Qui si conserva anche una serie di smalti — 99 pezzi — per la più parte À
dipinti da Adele Chavassieu e in parte da Henri Leveque, che riproducono i capo- J
lavori della Galleria del Sommariva. Fu dono o volontà di espiazione?...
Il Sommariva lasciò anche un libretto : Lettere cisalpine, ossia storia del Governo
provvisorio dell'anno VIIl-lX-X repubblicano, Pesaro, anno X, in 16°, di pp. 45, che
mi è stato impossibile rintracciare. Altre lettere familiari di nessun valore politico,
dirette al figlio dal 1809 al 1825, furono pubblicate pei tipi del Didot, nel 1842.
1 Lo spirito della pubblicazione del Foscolo non fu inteso da coloro, i quali, di-
mentichi del suo contenuto, credettero dì vedere nel poeta un complice dei triumviri,
e di ciò lo fecero responsabile. A torto anche lo si credette retribuito per quella sua
composizione. Il nome del Foscolo non compare affatto nei registri amministrativi del
governo.
La seconda Repubblica Cisalpina 289
Identico concetto sviluppava il Manzoni nel 4^ Canto del Trionfo
della Libertà:
Langue il popol per fame, e grida: pane;
E in gozzoviglia stansi e in esultanza
Le Frinì e i Duci, turba, che di vane
Larve di fasto gonfia e di burbanza,
Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,
A piena bocca sclamando: Eguaglianza!
Ma, come sempre il giudizio dei posteri, che, lontani dagli avve-
nimenti, possono, formarsi di essi un concetto più completo e più se-
reno, deve essere meno sfavorevole e meno aspro di quello dei con-
temporanei e dei poeti.
Direttamente e indirettamente, nei suoi consapevoli e inconsape-
voli resultati,. la seconda Cisalpina creò qualcosa di più di quello che
un governo migliore, ma anodino, forse non avrebbe potuto. Deve
anzi a cuor tranquillo affermarsi che il giudizio sopra di essa si con-
fonde con quello generale sul governo francese in Italia, dal 1796
al 1815.
Sotto il triumvirato, e prima, erano stati perpetrati molti abusi;
il paese era stato coperto di imposte. Eppure la Lombardia usciva da
questa prova terribile in condizioni migliori di quelle in cui l'Austria
Taveva lasciata dopo i tredici mesi di governo, che avevano preceduto.
In questo periodo la sola Lombardia aveva sborsato oltre 31 milioni
di lire; all'incontro, la Cisalpina cessava, dopo aver prelevato, durante
un periodo più lungp e sur un territorio assai più esteso, 30 milioni di
imposte dirette, cioè, in proporzione, 7 lire a testa in luogo di 30.
Sotto la seconda Cisalpina, tornò a rifiorire la manifattura a filo
d'oro ; si estese e perfezionò l'arte di fabbricare le carrozze. I telai bat-
tenti, che nel 1790 erano 1820, sorpassano ora i 3000. Così pure si
moltiplicarono le stamperie, il numero dei torchi, le fonderie, le fab-
briche di vetro, ecc. Si ebbe un risveglio commerciale e un aumento
di popolazione: da 128.926 abitanti, quanti ne contava nel 1795, Mi-
lano salì nel 1801 a 142.034. Il risveglio morale non fu minore o di
minor conto. Se il governo austriaco avea significato tirannide della
nobiltà e del clero, il governo francese significa ora la ravvivata co-
scienza del diritto a un regime di eguaglianza e di indipendenza.
Gli ultimi residui del vecchio diritto feudale sono aboliti. Sor-
gono accademie di pittura, di scultura, architettura, sono aperte nuove
scuole. Non ostante e attraverso gli eccessi, si ha di nuovo la co-
scienza del diritto e della libertà di opinione, che taluni avevano coar-
tata durante la prima Cisalpina e i susseguiti dominatori, gli Austro-
Russi, avevano voluto letteralmente distruggere.
L'Austria della seconda coalizione europea aveva governato, di-
sprezzando le leggi, incutendo un terrore universale, con stoltezza di
19 — Nuova Rivista Storica.
290 Angelo Oitolini
giudizi, con pene sproporzionate, tenendo il paese nella ignoranza,
sopprimendo le scuole, soffocando le arti, le scienze, il commercio.
Col ritorno dei Francesi, si comincia di nuovo a respirare, e tutto si
risveglia col destarsi di una coscienza nuova
« Sotto l'Austria, scriverà poco dopo Melchiorre Gioia, gli agri-
coltori soffrirono saccheggi, requisizioni di bestie e di sementi; i po-
veri mancarono di sale e di riso; gli artisti furono dispersi; i commer-
cianti soffrirono il danno della moneta di carta ; gli uomini di lettere,
Tesilio e la carcere; i proprietari, unMmposta di cui non si conosceva
Tesempio; i compratori di beni nazionali furono ad ogni istante mi-
nacciati d'esser spogliati; il clero, dopo mille promesse, non ottenne
nulla; saccheggiati furono i templi, derubati i vasi sacri, l'olio santo
sugli stivali dei Russi, i parroci delle campagne insultati, bastonati,
feriti ed anche uccisi ».
Sotto la Cisalpina invece, salvo episodii sporadici, la religione venne
rispettata; le lettere e le scienze favorite; l'università di Pavia riaperta ;
gli artisti protetti; il commercio riattivato. La nuova Cisalpina non è
dunque l'orribile cosa che i contemporanei e le vittime dei triumviri
furono tratti a giudicare.
Impossibile fu rimediare a tutto, agli sperperi, ai soprusi, agli in-
trighi di alcuni violenta .senza scrupoli. Si commisero in questo periodo
molti errori imputabili 'per la maggior parte al governo dei triumviri,
che non ebbero scrupolo di ipotecar l'avvenire, pensando forse, come
Luigi XV, che dopo di loro non ci sarebbe stato che il diluvio. Ma
tutto il denaro, che venne spillato ai ricchi proprietari della Cisalpina,
non servì soltanto ad arricchire qualche individuo, ma altresì a deter-
minare uno spostamento di ricchezza, che a sua volta suscitò nuove
classi sociali. Ciò che seguirà nell'Italia meridionale dopo il '60, con
la vendita delle mani-morte, seguì allora nella Cisalpina con la ven-
dita dei beni nazionali e coi prestiti forzosi. Molta parte della bor-
ghesia dell'Italia nord nàsce appunto in tale momento della storia
nazionale.
Così in questo, come in ogni altro caso, attraverso l'ineluttabile
ingranaggio della storia, dal male invano deprecato si originava il bene,
e l'indipendenza italiana nasceva attraverso una seconda dura prova
di dominazione straniera, come è quella, a cui le sorti della seconda
Cisalpina vanno intimamente legate.
Angelo Ottolini.
Fonti e letteratura suirargomento
Archino di Sfato dì AJ/Za/io; cartelle riguardanti la Cisalpina.
R. BONFADINI, La Repubblica Cisalpina, in Politecnico, 1867.
— Mezzo secolo di patriotismo, Milano, Treves, 1886.
La seconda Repubblica Cisalpina 291
I
A. Butti, / deportati del 1799, in Archivio Stor. Lomb., a. XXXIV, fase. XI V.
C. CantÙ, Cronistoria delt indipendenza italiana. Unione Tip. torinese, 1872.
T. Casini, Fonti per la storia della Consulta di Lione, Modena, 1906.
A. COMANDINI, L'Italia nei cento anni, Mijano, Vallardi, 1900.
F. CoRACCiNi (La Folie), Storia dell' amministrazione del Regno d'Italia, Lu-
gano, 1822.
Fr. Cusani, Storia di Milano, voli. Ve VI, Milano, Albertari, 1867.
G. De Castro, Milano e la repubblica Cisalpina, Milano, Dumolard, 1879.
— Milano durante la dominazione napoletana, id., id., 1880.
M. Gioia, / Francesi, i Tedeschi, i Russi in Lonibaraia : discorso storico-popolare,
3* ed., Milano, 1805.
A. LissoNi, Storia delle imprese militari de' soldati italiani dal 1796 al 1814,
Milano, Giiglielmini, 1848.
Mantovani, Diario, manoscritto esistente nella Biblioteca Ambrosiana.
Marelli, Compendio della storia patria della Repubblica Cisalpina: diario, ma-
noscritto con opuscoli in 10 volumi (Bibl. Ambrosiana).
— Giornale storico dal 1796 al /<S6)6 in 38 volumi, ampia miscellanea manoscritta
nell'Ambrosiana, intramezzata da documenti.
Fr. Melzi D'Eril, Memorie e documenti, Milano, 1865.
Minola, Diario, manoscritto dell'Ambrosiana..
A. Verri, Notizie memorabili dal 1789 al 1801, Milano, G. Brigola, 1858.
A. Zanolini, Antonio Aldini e i suoi tempi, Firenze, Le Mounier, 1864.
A. Zanoli, Sulla milizia cisalpina-italiana; cenni storico-statistici dal 1796 al
1814, Milano, Ferrarlo, 1845.
Queste pagine erano già scritte, quando è uscita l' interessante
opera di A. Pinoaud, Bonaparte Président de la Républiqae italienne,
Paris, Perrin, 1914, nel cui voi. I, cap. VII (pp. 193-240), sì discorre
con molto garbo della Seconda Cisalpina.
A. O.
e^
LA PIO AMICA ARISTOCRAZIA CORIIiTIACA
(I Bacchiadi : ? - 610 circa a. C).
{Contìnuaz. e fine: cfr. A. I, fase. I-II ; A. Il, f osa I).
Psicologia dei mercatori : luci ed ombre nei costumi corintiaci.
XI.
La febbrile attività spiegata nel traffico e le scaturite ricchezze,
come operavano a determinare la psicologia propria dei mercatori,
così erano generatrici di costumanze, le quali, prorompendo prima nei
fatti quotidiani, s'innalzavano poi nei cieli azzurri dei principi etici per
esser guida alla condotta dei cittadini nei casi della vita.
Già osservava Strabone che Corinto ebbe abbondanza di figli
validi nelle arti e nei politici accorgimenti.* Miracolo sarebbe che così
non fosse. A strappare la palma della vittoria nelle gare della produ-
zione e degli scambi sono richieste le doti medesime con cui s'appa-
recchia il trionfo della patria nello sferrarsi degli urti tra le diverse
unità politiche. La previdenza e il calcolo minuziosamente ponderato,
il fulmineo colpo d'occhio e la perseveranza non removibile verso la
prefissa mèta, sono le qualità di un uomo di affari e di un perfetto
reggitore di popoli. Avveniva in Corinto quello che nei nostri comuni
del medio evo. Come nell'età di mezzo bastava scegliere a caso un mer-
cante delle arti fiorentine per potere, senza tema di cadute precipitose,
mettergli in pugno il gonfalone della città e affidargli il comando
d'una guerra, così un Bacchiade, uso a dipanare nel pensier suo la
matassa del traffico mondiale, sapeva stringere nelle reti delle astuzie
1 Strab., vili, 6, 26: la calUditas corinzia è messa anche in rilievo nell'opera
ad Herennium (IV, 27, 37) già attribuita a Cicerone.
La più antica aristocrazia corintiaca 293
sottili tutte le volpi della diplomazia greca e condurre, all' uopo, gli
eserciti alla vittoria. Anche in Corinto la mercatura era la propedeu-
tica dell'arte del governo.*
A uomini poi, come quelli corinzi, pronti sempre a convergere
verso il segnato scopo tutti i mezzi necessari ad afferarlo, e che opra-
vano mentre rombava intorno l' urlo selvaggio delle guerre predatrici,
non poteva sfuggire che molto spesso la via allo spaccio dei prodotti
doveva essere aperta con la spada. Perciò ove le arti della persuasione
languivano impotenti, ivi lampeggiava il ferro omicida. Ma; pur cor-
rendo alle armi, i Corinzi non dimenticavano che la furia degli assalti
e delle difese traeva inizio e vigore dagl' interessi della mercatura. La
guerra era il mezzo cruento, ma all'estremità della via insanguinata
brillava il fine del tornaconto economico. Ora la scaltrita sagacia dei
mercatori mirò a non perdere mai d'occhio lo scopo anche in mezzo
alla polvere delle battaglie. Per essi la guerra non doveva distruggere
i benefizi della pace, né quest' ultima opporre inciampi alle esplosioni
irose della prima. Un esercito di milizie prezzolate ^ conciliava nel tempo
stesso le due necessarie attività e così, mentre la mano del mercenario
brandiva le armi negli scontri di terra e di mare o spingeva coi remi a
corsa le triremi, il grande esercito dei servi e dei liberi lavoratori con-
tinuava a produrre sudando nelle officine della patria. Combattere e nel
tempo stesso lavorare senza che la guerra e la pace sieno a sé stesse
apportatrici di vicendevoli nocumenti fu in ogni tempo l'ideale e la pra-
tica dei governi mercantili. Ma gli alunni di Marte, cui suonan dolci agli
orecchi solo i rantoli dei feriti e dei moribondi, irridono per uso alla
sagacia dei mercatori e al loro straniarsi dal campo delle stragi come a
vigliacca pusillanimità, e anche nella Grecia la satira dei portatori d'armi
si è sbizzarrita a presentare gli abitanti dell' istmo come una turba di
i La sapienza politica era un articolo d'esportazione : i Corinzi n'avevano per sé
e per gli altri. Ricordiamo il Bacchiade Filolao chiamato a dettar leggi in Tebe (Ari-
STOTEL., Poi.., B. 12. 1274 a, 31-41) : ricordiamo che molto tempo dopo Dione, vitto-
rioso in Sicilia, chiamò dall' istmo alcuni cittadini per chieder consiglio intorno alla
forma di governo più adatta ai Siracusani ; Plut., Dio, 53, 2 : che nell'arte di reg-
gere lo stato i Corinzi fossero maestri ad altri popoli è posto in rilievo anche dal
Curtius, Stud. z. Gesch. Kor. in Hermes^ X (1876), p. 227.
* Notava Cicerone {de re pub., II, 4) che i Corinzi « mercandi cupiditate armo-
rum curaro reliquerunt ». Inoltre lo scoliaste di Aristofane — commentando il verso
del Plato « costui {cioè, Plato, dio delle ricchezze) mantiene in Corinto l'esercito mer-
cenario » (Aristoph., Plut., 173) — osservava che i Corinzi ebbero, in ogni tempo
(dei) un esercito prezzolato {Schol. in Aristoph. Plut. 173). Particolari esempi fan difetto
per il tempo dei Bacchiadi (allora la storia era ancor lontana dal proprio nasci-
mento): abbondano invece per le epoche successive: cfr. Thucyd., I, 31, 1, 2: 35,
3-4: 60, \'. VII, 19, 4-5: 57, 9; Plut., TimoL, 3; 4.
294 Guido Porzio
pavidi conigli.* Ciò che gli ottusi seminatori di morte vituperavano come
un'infamia era un segno di sagacia previggente.
Inoltre, il commercio con le sue necessità ineluttabili tendeva in
quell'epoca di ferro a far sbocciare nei cuori dei Corinzi gentilezze
non consuete ed a produrre un codice morale avente sua base sopra
il rispetto della vita umana. Scriveva il Curtius che gli abitatori del-
l'istimo « più che Dori e Peloponnesiaci avevan l'aria di cittadini del
mondo ».* E doveva essere così. Recar lontano i prodotti e aprir le
porte della città a tutti quelli che giungevano con lo scopo dell'eser-
cizio della mercatura, significava non soltanto, come diremo, la con-
vergenza sopra r istmo di idee folgorate da tutti i punti dell'orizzonte
con l'effetto d'un vigor nuovo nelle menti dei mercatori, ma anche
l'accensione delle simpatie tra chi dava e chi riceveva ricovero ospi-
tale. Quando è necessità attrarre gli uomini colle seduzioni dei van-
taggi del traffico, si getta, per prima cosa, tra i ferri vecchi l'arma
insanguinata. La mercatura, o allontana e reprime la violenza, o con-
danna sé medesima all'inazione e alla morte. Per un popolo consa-
crante l'attività sua a produrre e a vendere la guerra contro 1' uomo
è così rara come i deliriì della febbre in un corpo lieto di sanità.
Questo rispetto della vita, che divenne civile abitudine ^ e che indusse
i Corinzi a non dar tregua per terra e per mare alle violenze rapina-
trici,^ costituiva il fiore di un sentimento, non spontaneo, ma educato
sotto l'impulso delle necessità mercantili.
Così pure dal commercio traeva origine in Corinto la coorte non
esigua dei veri e supposti vizi e di altre non liete conseguenze.
Che quei mercanti fossero astuti e ben sapessero celare il pensiero
profondo entro viluppi non penetrabili, che a ragione suonasse il mo-
nito del poeta di non porre fiducia nei cittadini di Corinto '" dei quali
l'animo era doppio non meno di quello dei loro coloni corciresi,^ non
parrà inverosimile a chi pensi come di astuzie sottili appaia, a così
dire, materiata la psiche dei negoziatori, non soltanto corintiaci, ma
di tutti i luoghi, e di tutti i tempi. Di più : se molti ladri si movevano
nella leggenda,^ che è l'irradiazione della realtà, e quindi anche entro
» Aristotel., physiognoniy 3; Plut., TimoL, 32.
« Curtius, Peloponnes., Il, pp. 520-521 (ed. e).
» La bontà dei Corinzi, accennata da Pindaro (O/., XIII, 13), è poi messa in ri-
lievo dallo scoliaste che chiama i Corinzi buoni per natura, Schol. in Pindar. Ol.,
XIII, 16:
< Cfr. di questa Rivista il fase. I del 1917, pp. 71-76.
5 Menandri, in Anthol. Palat, XI, 438.
« Hermippus, ap. Athen., I. 27 d-e.
' Ricordiamo, a cagion d'esempio, Sini (Baccmylid., XVIII, 16-27 ; Paus-, II, I
4 ; Apollod., Bibliothec. Ili, 217-218, SchoL in Earip. Hippolyt. 977, ed. DindorfQ
La più antica aristocrazia corintiaca 295
le mura cittadine e nelle vie conducenti a Corinto,* ciò era uno degli
effetti spiacevoli dell'opulenza generata dall'enorme attività produttrice.
L'ostentazione superba della ricchezza suscitava gì' ìmpeti furaci. Ag-
giungiamo che la sete non estinguibile di acquisti sempre nuovi e la
corsa sfrenata verso accrescimenti ogni giorno più ampli dei beni di
questa terra sospingevano i mercanti con spasimi acuti a gettarsi nel
turbine degli affari.* In mancanza di siffatta cupidità mal si compren-
derebbe che l'aristocrazia abbia spiegato nel produrre un'energia vin-
citrice di tutti gli ostacoli. Che poi la tensione dolorosa di tutte le
forze verso la mèta disegnata e le quotidiane vertigini dell'operare ar-
recassero non rari vacillamenti nella ragione dei mercatori così da
permettere guadagni lauti a chi facesse professione di guarire i delìrii
dell' intelletto, apparirà, in un cozzar sì grande di passioni, la naturale
catastrofe dei vinti nelle battaglie della vita.^ Per ultimo non è fuor
di luogo far notare che tra i Corinzi persino il delitto assumeva le
forme più consenzienti all'universale mitezza dei costumi. E se uno,
poniamo caso, mirava a far discendere nel regno delle ombre il ge-
nitore tediosamente longevo per divorare più presto l'eredità, o desi-
gnava di saziare sopra un nemico la sua sete di vendetta, invece di
snudare il ferro come un qualsivoglia guerriero dorico attendato nella
valle dell'Eurota, preferiva ricorrere alla potenza di un veleno spiccia-
tivo. I Corinzi, perchè dediti alla mercatura, erano più miti dei loro
fratelli in dorismo anche nell' infliggere la morte.*
Quanto alla frenesia delle voluttà — una specie di aurea spuma
splendente sopra quel mare di vita agitata — certo è che i Corinzi
colsero in ogni tempo tutte le gioie della vita.^ Sapevan essi apprez-
zare così le delizie dei banchetti sontuosi come i gaudii irrequieti del-
l'ebrietà.* Era per loro dilettazione squisita incamminarsi, coronati di
Scirone (Euripid., fragm, Sciron. Satyr., 1 (669) ap. Polluc. onom., X, 35 ; Apollod.,
epit., I, 1-3) e l'opportuno accenno del Wilisch {Die Sagen v. Kor. nach ihr. geschicht.
Bed. \n Jahrbiich. Klass. Phiiolog., 1878, pp. 729-730), che. molti casi mitici di latro-
cinio si sona localizzati sopra /' istmo.
1 In Corinto un sotterraneo di nome cos accoglieva i ladri e i servi fuggitivi
(EusTATH. comm. in II., B. 114).
2 II grido invocatore alle ricchezze (xqt||*«<»i xenjAaTo)[ risuona proprio in un'ode
istmica pindarica {/sthm., II, 17): chi, nato in altre parti dell'Eliade, era agitato dal
pungolo del guadagno traeva verso l'istmo come in tempi posteriori Antifonte; [Plut.],
vii. X orat., 2 (ed. Westermann).
3 Id., ibid. in vit. script, graec. minor., p. 233 (ed. Westermann).
< Schol. in Eurip. Med., 11.
5 Corinto descritta quale città di gaudenti da Aristofane, Thesmoph., 403, da
ApoUodoro Caristio (ap. Athen., VII, 281 a) e da Ateneo, Vili, 351 e.
6 A cominciare da Etiope che, compagno di Archia, al tempo dei Bacchiadi, ven-
dette la sua porzione di beni siracusani per sfrenata intemperanza e amor dei piaceril,
296 Guido Porzio
rose, insieme con gli amici, verso i patrii bordelli.* Nel tempo stesso
sopra questi disordini morali effondevano la luce di un'eleganza fastosa
che è manifesta persino nella superba venustà dei loro intercolonnii.*
Ebbene, anche di questo gaio turbinare l'origine non è per nulla av-
volta nel mistero. Alcuni autori fanno appello ai soliti Fenici seminanti
sopra l'istmo il contagio dei loro costumi orientali. Ma non è d'uopo
far ricerca delle cause in troppo remote lontananze. Ogni ricchezza
— e in Corinto quella ingente accumulata col lavoro — è incentivo
a godere.^ Raro oltre modo e pertinente agli studi della patologia è il
caso degli arpagoni che si condannano a mortificare i desideri in mezzo
a tutti i beni largiti dagli dei.
Lo SPLENDORE DELLE ARTI E DELLA POESIA.
XII.
Dalle ricchezze accumulate s'elevò folgorante anche la vita dello
spirito nelle sue più varie manifestazioni: che le immagini del poeta
e i fantasmi dell'artista, le figure disascóse dal marmo o espresse sovra
le dipinte tavole, pur sembrando elevarsi così sublimi e sdegnose sopra
la vile materia, in realtà traggono da questa la possanza ai voli solenni.
Scriveva Mac CuUoc : « Dove non è raccolta ricchezza alcuna la mente
umana, attanagliata dalle cure assidue di provvedere ai bisogni fisici
pili urgenti, non avrà agio di attendere alla coltura dello spirito. Senza
la tranquilla serenità,... procurata dall'abbondanza degli averi, non
potranno aver luogo gli studi eleganti che allargano il pensier nostro,
purificano il nostro spirito e ci collocano in luogo più eccelso nella
com'è ricordo in Archiloco e in Demetrio di Scepsi (ap. Athen., IV, 167 d), gli esempi
delle gioie sensuali — sopratutto del mangiare e del bere soverchio — si prolungano
durante tutti i periodi noti della storia (Alexis. ap. Athen., IV, 165 a , Diphilus ap.
Athen., VI, 22 b ; Eriphus ap. Athen., IV, 137 d ; Maxim. Tyr., dissert., I, 5, III
10 (testimonianze per i banchetti); Cratinus ap. Athen., X 424 b ; Hermeas Metym-
MEUS ap. Athen., X, 438 b e; Aelian., var. hist. (testimonianze per l'ebrietà).
» EUPOL. in Frag. Com. Graec, p. 187, Hermesianactes ap. Athen., XIII, 599 b;
Schol.t in Aristoph. Thesmoph.^ 404; Hesychius in Fragra. Com. Qraec, p. 738:
quanto alle parole già ricordate di xoQiv^id^etv e xoQiv^iooTfjs, cui era annesso il signi-
ficato di bordellare e di bordelliere cfr. Philetaerus ap. Athen., XIII, 559 a e ap.
Steph. Byz., p. 468 (Berk) in F. Com. Graec, pp. 475-476 e in ex tmv Svt5a xatà
oToixetov (ed. Westermann), pp. 17J-174, Poliochos ap. At.;en., VII, p. 313 e, Eustath.,
comm. Hom. II. (indice) p. 264, ed Lipsia, 1828.
* MtJLLER Otf., Die Doriery ed. e. II, p. 404.
3 ID., ibid.y M, 22, 285, nota !•; Doruy, Hist. d. Qrecs, p. 504 ; DuNCKER, Gesch,
d. Alt, 115, 49.
(
La più antica aristocrazia corintiaca 297
scala degli esseri. Lo stato di barbarie o d' incivilimento di un popolo
dipende più dalle condizioni delle sue ricchezze che da qualunque
altra circostanza. A dire il' vero, un popolo indigente non è mai civile
ed una nazione ricca non è mai barbara ».' In tal guisa l'aristocrazia
corintiaca, allorché pareva agitata soltanto dai pungiglioni del gua-
dagno, preparava sopra 1* istmo, senza saperlo, l'albergo delle Muse.
Alla prosperità economica, che costituiva, a così dire, V humus
fecondo da cui s'estolleva superbo l'albero della scienza del bene e
del male dev'essere aggiunta, come energia alimentatrice di luce all' in-
telletto, anche l'azione spiegata nella mercatura. Se è vero che l'abi-
tudine suade la psiche ad una pigrizia sonnolenta, è anche certo che
la visione di strane costumanze in remote regioni e lo scambio delle
idee e il loro cozzo inevitabile sono per l'anima addormentata quel che
lo squillo della tromba di guerra per i poliedri animosi.* Ora i Corinzi
correvano appunto tutti i mari e frugavano per tutti i paesi d'occi-
dente; essi, per mezzo delle colonie, venivano a quotidiano contatto
coi selvaggi della Grecia settentrionale e con le popolazioni d' Italia.
Ma se anche, per strana ipotesi, nei mercatori sì fosse insinuata un'in-
vitta repugnanza ad uscire fuori della cerchia delle mura cittadine,
ciò non di meno l'urto delle idee. e il conseguente scintillio degl'insolit»
bagliori avrebbero avuto luogo in Corinto, alla stessa maniera che sopra
l'istmo da tutti punti dell'orizzonte e da tutte le vie del cielo venivano a
posarsi i venti con soffio di tempesta e sì scambiavano i prodotti matu-
rati e lavorati nei luoghi più diversi. In una parola : l'esercizio della mer-
catura, come rendeva più gagliardo l' intelletto con lo sforzo d'ogni
giorno richiesto a strappar la vittoria nella sfrenata concorrenza, così
diveniva, per mezzo del sussulto degli odii e degli amori consueti in
chi si dibatte nel vortice della lotta, la palestra migliore all'educazione
dei sentimenti. In tal modo l'impeto dell'attività produttiva faceva
sbocciare e rendeva più gagliarde le forze dalle quali gli splendori
dell'arte traggono vita ed inizio. Si aggiunga che il mercante, dopo i
giorni tragici della conquista, suole, in mezzo al trionfo delle mietute
ricchezze, chiedere all'arte i sorrisi suadenti ad una quiete di morbide
voluttà e i grandiosi jjarbagli con cui la conquistata magnificenza
annunzia sé medesima ai volghi stupefatti. Questa è la storia, non
solo dell'aristocrazia corintiaca, ma (a tacere di altri esempi) dei mer-
canti e dei banchieri d' Italia negli anni dell' umanesimo.
1 Cic. de re pub., II, 4, 7-9 : Diogene il cinico, che fece dimora in Corinto — rap-
presentava egli la filosofia dell'astinenza nella città di tutti i piaceri — era solito di^
dire che in una città e in una casa ricca non alberga la virtù; Stob., Fior, XCIII in
Fragra, Philosoph. Graec, II, p. 305.
2 Mac Culloc ap. G. B. Say, Corso completo d'econ, poi, in Bibl. delVEcon,,
Torino, Cugini Pomba, e C, 1855, Serie I, v. VII, p. 1056.
298 Guido Porzio
Nella Grecia, che dopo la catastrofe delle monarchie patriarcali si
poneva in cammino verso nuove ascensioni di gloria, Corinto annunziò
il nascimento di tutte le arti del disegno. Prima nello sferrare a corsa
le triremi sopra l'infinita distesa delle acque, prima a costruire l'impero
mercantile, l'aristocrazia dei Bacchiadi fu anche prima a rapire al cielo
molti raggi di quella varia artistica bellezza che è forse generatrice
delle gioie più pure nel regno degli uomini. Fra i cumuli enormi delle
mercanzie trascorrenti con alto frastuono dall'uno all'altro porto, Co-
rinto trovò la forza di accendere e di scuotere innanzi al mondo la
fiaccola dell'ideale.* «Chi posò sovra i templi il gemino re dei pen-
nuti?»' prorompeva il lirico tebano tessendo le lodi dei figliuoli di
Sisifo. E. Timeo commentava: « Il fastigio triangolare sopra la fronte e
nella parte posteriore dei templi, con la sovrastante aquila di Giove, è
spacciata dal poeta come una scoperta corintiaca».® Si tratta di quella
parte dell'edifizio cui è dato il nome di tetto spiovente a schiena
d'asino.* Di più : sempre la Musa di Pindaro non si stancava di celebrare
dei Corinzi le invenzioni antiche.^ E bene il vate s'apponeva. Che Plinio
il Vecchio ricorda, quale ingegnosa opera di Cleante corinzio, la pit-
tura lineare, cioè il semplice contorno monocromo disegnato con mano
ferma dall'artista (sarebbe, nel linguaggio pliniano, Vumbra hominis
lineis circmndacta) cui Cleofanto — anch'egli cittadino dell'istmo e com-
pagno al Bacchiade Demarato fuggiasco verso i paesi dell'Etruria —
avrebbe infuso la gioia dei colori tritando un coccio e stemperando
la polvere nell'acqua.^ Se mai, Sidone poteva, unica, presentarsi contro
Corinto nella tenzone per la priorità della scoperta.'
i II fatto è ammesso con voci concordi dagli studiosi: cfr. Curtius, Stud. z. Gesck.
V. Kor. in Hermes, X (1876), 115; Duruy, hist. d. Grecs, Paris, Hachette, 1887, I, 504;
DuNCKER, Qesch. d. Alt., VI*, 46 ; Overbeck, Gesch. d. griech. Piasi., Leipzig, 1893,
I, 93, 138, ecc.
» PiND., O/., Xin, 21.
3 TiM., ap. Schei., in Pind. Ci. XIII, 29; Plin. n. h., XXXV, 152; « hinc {da
Corinto) izsiìg\2i templorum orta>.
4 Meyer, Gesch. d. Alt., II, 604-605: i'a. in queste pagine discorre di manife-
stazioni del secol settimo.
5 Pind., OL, XIII, 16-17 ; intomo alle parole del poeta confrontare quel che può
essere ritenuto come una serie di commenti nel Curtius op. cit. in Hermes X, 1876,
215, Overbeck, op. cit., I, 249-253, Meyer, op. cit., l, 602, 604-605; la facoltà delle
geniali scoperte architettoniche non inaridiva a Corinto anche negli anni successivi:
citiamo quella famosa dei capitelli corintiaci (Callixen., ap. Athen., V, 205; Strab.,
IV, 4, 6 ; Eustath., comm. in II., B. 59 ; Athen., V, 204 e ; Hesychius, v. II, p. 536),
che sembra coincidere, durante la guerra peloponnesiaca, col più grande splendore
dell'arte ateniese (Beloch, Griech. Gesch., V, 581) e che Vitruyio descrive mirabil-
mente sovraposto alle colonne cospicue per la venusta virginale fragilità (Vitruv., de
architect., IV, 1, 2-3; 1, 9-11).
« Plin., n. h., XXXV, 5; Rhusopulos, vasetto corinzio in Ann. dicorrisp, archeol.,
v. XXXIV (1878), 48.
7 Plin., ibid., XXXV, 5 ; Rhusop., /. e; Overbeck, op. cit., 1, 75'; un passo str*.
boniano (Vili, 6, 23), in cui è fatta parola >/fri>na di Corinto e poi di Sicione qnali
La più antica aristocrazia corintiaca 299
Così pure l'arte del plasmatore ebbe sopra l'istmo i suoi più antichi
esemplari usciti vivi e spiranti dalle mani del figulo Butades ^ e trovò,
prima che tramontasse la dominazione dei Bacchiadi, incrementi nuovi
per la geniale attività di Eucheiro e di Eugrammo, artefici che Dema-
rato trasse seco verso i dolori e le fortune dell'esilio.* Poi dalla creta
gli artisti trascorrevano, per gradi, al marmo candido, e ben presto si
giunse nella statuaria a così fatta perfezione che l'immagine di Apollo
di Tenea, strappata alla nera terra non lungi da Corinto, gode fama
di una tra le più belle statue greche del sesto secolo.^ Naturalmente
— e qui si svela non sopprimibile la natura dei mercatori — anche
l'arte, come altrove notammo, anche questo raggio consolatore rapito
agli dei, diveniva pei Corinzi oggetto di transazioni commerciali. Le
gaie tinte e le figure rilevate invasero, come ornamento delle ceramiche,
i paesi d'occidente.^
Alla più antica vita corinzia, che si presenta come una specie di
conviviale solennità lieta di fantasiose iridescenze artistiche, strano sa-
rebbe che fosse mancata la voce canora delle Muse. Certo è che sulle
piazze della terra industre e nelle case sontuose dei mercatori i rapsodi
intonarono, negli anni più antichi, la canzone dell'ira d'Achille e del
lungo errare di Odisseo. La tradizione faceva passare Omero sopra
l'ismo tra la meraviglia attonita dei cittadini e i molti onori tributati
al poeta.5 Quando poi piacque agli artisti di porre mano ad ornare
con la loro tavolozza le pareti dei vasi di terra cotta, ebbero essi
cura di chiedere sovente inspirazione al cantore degli eroi.**
E fin qui Corinto era rimasta paga di dare nuove risonanze alla
città in cui fiorì l'arte dei colori e quella plastica, sembra risolvere la questione in
favore dei Corinzi.
J Plin., n. h., XXXX, 43; cfr. l'opinione dell'Overbeck {op. cit., I, 75) secondo
la quale Butades, fiorito verso il 664 a. C. (e perciò al tempo dei Bacchiadi), da Si-
cione, ove nacque, si sarebbe recato a Corinto.
« Plin., ibid., XXX, 43: nel passo medesimo è detto che gli artisti plasmatori
fiorirono in Corinto « multo ante Bacchiadas Corintho pulsos ».
3 OVERBECK, Op. CÌf., I, 118-119.
< HoLM, Gesch. Sic. im Alt. (ed. e.) 1870, I, 121; Pierrot et Chipiez, hist. d.
Vari dans Vantiq. tom. Vili, 470-476 ; G. Porzio, // fondarti, econ. della più antica
aristocraz. carini, in Ann. d. Un. Tose, N. Serie, v. I (XXXV della collez.), fase. S»,
pp. 20 e sgg. ; che poi in Corinto Ip>;rbio abbia inventata la ruota del figulaio è ri-
ferito da Teofrasto (ap. Schol. in Pind. 01., XIII, p. 113) e da Plinio (n. /«., VII, 57).
5 Hesiod. et Momeri certam. 21 (ed. Didot, volume di Esiodo), ibid. in vita script,
graec. min. (ed. Westermann), nel certame dei due poeti, 17. È opinione del Wilisck
che la poesia omerica fosse ben nota in Corinto fin dalla metà del sècolo ottavo,
Sparen altkor. Dicht. u. s. w. in Jahrbuch. f. klass. Pkilolog. B. 123 (1881), p. 162.
« G. Abeken, Vasi con dipinture arcaiche in Ann. di corrispon. archeol., 1836,
Vili, pp. 307-308 ; E. Brann, ibid., 1848, v. XX, p^. 338-344.
300 Guido Porzio
gloria dell'epopea sbocciata lontano tra gli Elleni dell'Asia e trascorsa
poi, come una colonna dì fuoco, dall'uno all'altro scoglio, attraverso
l'Egeo scintillante. Ma ben presto anche la repubblica navigatrice doveva
dagli urti di una vita senza requie far sprizzare le scintille di fantasmi
poetici particolari.
Pindaro cantava che la Musa in Corinto era fiorita senza trovar
sonno ^ e gli scoliasti annotarono che in quella città cantori di gran
fama eransi sollevati a invocare le figliuole di Giove e di Mnemosine.*
Vano sarebbe, in' gran parte, il rinnovato tentativo di dare alle parole
pindariche precisioni soverchie di contorni. Altri ha frugato tra le
poetiche rovine lodevolmente recando a noi una messe sparuta dì soli
nomi.^ Ma quella fatica erudita bastava a giustificare l'ipotesi del Curtius,
che intorno ad Eumelo contemplò l'affaccendarsi di una scuola di
cantori.* E qui — specie di fronte ad Eumelo, figlio di Anfilito,^ il solo
vate del quale a noi sia giunto un manipolo di passi frammentarli —
apparisce l'inesausto vigore di quell'unica causa generatrice già molte
volte accennata. In apparenza nulla piiì dei poetici fantasmi si sfrena a
capricciosa libertà, e dovremmo credere che niuna legge valga a regolare
il mondo tumultuante delle immagini effuse dall'anima di un vate. Esse
sarebbero le divine farfalle inafferrabili. Ma chi su questo luogo comune
facesse giuramento correrebbe il rischio di cadere in grave errore. Certo
è che mai come nel cantore dei mercanti corinzi le poetiche fantasie
furono emanazione così diretta della prosaica realtà. O che Eumelo
invocasse Cefiso, Acheloo ® e Boristene, tre Muse generate da Apollo
i PlND., O/., XIII, 31.
« Schol. vet. ad Pind. OL, XIII, 31 (ed. Boeckh), Schol. ree. ad Pind., Ol., XIII, 31
e la prefazione del Boeckh medesimo nel tomo II degli scolii, p. XX.
3 WiLiscH, Spur.en altkor. Dicht. ausser Eumel. in Jahibiich. f. elass. Philolog.
(1881), V. 123, pp. 161, 162, 165, 168, 169, 176, ecc. Tra i nomi recati a noi dal Wilisch e
segnanti un poeta fiorito con certezza al tempo dei Bacchiadi, ricordiamo Etiope, quello
stesso che, compagno ad Archia, avrebbe venduto a Siracusa la sua parte di terreno
per una metà di focaccia (Io., ibid., 161, 162, 165, 168, 169): il poeta è identificato con
Esone del quale fan parola gli scolii pindarici (v. sopra) e la sua storica realtà è soste-
nuta anche dal Bergk forte del ricordo di Archiloco (ap. Wilisch, ibid. in Jahrbiie/i., ecc.,
pp. 168-169). Tra i ricordi di canti anonimi — puri ricordi, si badi — il Wilisch
pone come contemporaneo ai Bacchiadi quello consacrato ad Agemone. padre di
Alcione, la quale, a sua volta, fu generatrice di Alcione madre di Diocle amico del
Bacchiade Filolao legislatore di Tebe (Arist., poi., II, 9, 6). Dell'esistenza di un tale
canto è parola in Ateneo XV, 696 f.
■* Curtius, Stud. z. Qeseh. v. Kor.. in Hermes, X, p. 218.
5 Ch'egli appartenesse alla schiatta dei Bacchiadi afferma Pausania (II, 1, 1) ed
è ammesso dagli storici moderni senza eccezione : quanto agli anni probabili del suo
fiorire cfr. G. Porzio, Corinto, critica della leggenda (ed. e), pp. 24-25, nota 4.
6 II nome Acheloo deve avere la preferenza sull'altro di Apollonida tramandato
dal Tzetzes nel frammento di Eumelo da lui stesso riferito (Tzetzes ad Hesiod., p. 25,
La più antica aristocrazia corintiaca 301
ma recanti il battesimo di tre fiumi sulle cui acque facevano tragitto
i carchi delle mercanzie corintiache: o che all'accesa mente del vate
— nell'atto di trascinarsi dietro con le divine armonie bestie selvagge
e macigni rotolanti — apparisse Anf ione, vecchio eroe di quella Tebe
che aveva annodato con Corinto, per mezzo dei traffici, legahii saldi
e antichi : o che il figliuolo di Anfilite celebrasse le origini dei monta-
nari dell'Arcadia e sorprendesse i vagiti di Giove aprente tra i Lidi
gli occhi agli splendori della fulgida luce orientale: o che nei versi
del cantore ululassero i venti dell'Eusirio a gonfiare le vele della nave
Argo onusta del prezioso vello d'oro e guidata verso l'istmo da Giasone
e dalla venefica Medea: sempre troverete che ad ogni tonfo di remo co-
rinzio nelle acque più diverse sprizza in alto un'immagine, che per
ogni balla di spacciata mercanzia balza fuori e si snoda una mirabile
leggenda.' Non in altra guisa, dietro il solco aperto delle navi lusitane
in rotta verso il paradiso delle Indie, si elevavano i nembi poetici
raccolti poi e arroventati nella sovrana fantasia dì Luigi Camóes.
Eumelo fu il cantore delle esplorazioni audaci sopra i legni fragili, iP
cantore della mercatura marittima e terrestre, il Camòes della Grecia
antica. In questo, come in altri casi, il libro mastro del dare e dell'avere
fu la Musa suscitatrice dei personaggi poetici turbinanti e inspiratrice
delle canzoni modulate.
Si aggiunga, infine, che il commercio corintiaco, come sommini-
strava i succhi vitali ai fiori ed ai frutti sfavillanti della civiltà, così
recava quest'ultima peregrina in mezzo ai barbari, nelle regioni d'oc-
cidente. Che se non sempre l'atro affanno corre in groppa insieme
con l'agitato cavaliere, non v'ha dubbio, invece, che idee e mercanzie
abbiano in ogni tempo congiunte le loro forze per la conquista degli
animi e il dominio dei mercati. L'alfabeto corinzio,* diffuso ampia-
ap. WiLiscH, Ueber die Fragm. d. Epik. Eamelos, Zittau, Programm, 1875, p. 38);
questo secondo l'opportuna correzione recata dall'Hermann {de Musis fluvìalibus Epi-
charm. et Eumel. in Opusc, II, 299) e accolta dal Wilìsch (op. cit., p. 39) e dal Curtius
(Stad. z. Qesch. v. Kor. in Hermes^ X, 1876, p. 217.
1 Frammenti di Eumelò in G. Marckscheffel (Hesiodi, Eumeli^ Cinaethonis^ etc
fragm.y Leipzig, 1840), nel Wilìsch {Ueber die Fragm. d. Epik. Eumel. ed. cit., p. 8 e,
sgg.) e nel Kinkel {Epic. graec. fragm. ed. Teubner, 1887, p. 185 e sgg.): non
troppo c'indugieirérao nell'interpretazione delle reliquie del poeta già da noi data in
un'altra monografia; cfr. Porzio II fondam. econ., etc^ ed. e, pp. 43-44,50-51, 53,
55-57, 60.
* Abeken, vas/ con dipinti arcaichi in Ann. d. Ist. d. corrisp. archeolog., 1836,
V. Vili, pp. 308-309, 312; Raóul-Rochette, Un vose peint inéd. de fab. corinth. in
Annal., ecc., 1847, v. XIX, pp. 249-251 ; Rhusópulos, Vasetto cor. con iscriz. d. carat.
antichis. in Annal., ecc., 1862 v. XXXIX, pp. 50-55; Dumont et Chaplain, Les céramiq.
de la Grece propr., ed. e, p. 242; Kirchhoff, Stud. z. Gesch. d. griech. Alphab. Gu-
302 Guido Porzio
niente dalle spiaggie della Focide ' a quelle dell'Illiria, somministrò il
mezvjo necessario a dischiudere i tesori della sapienza greca. Ad ogni
ammainarsi di vele candide in un porto qualunque dell' Acarnania,
dell'Etolia, dell'Epiro, dell' Illiria, della Sicilia e dell'Italia, un fascio di
luce prorompeva nell'interno a fugare la tenebria ond'era avvolto l'uomo
delle spelonche. Non solo ; ma Corinto fu ne' suoi begl'anni maestra
ad Atene nelle arti figurative e perfino nel canto, * che è dono degli
dei. La Città dei Bacchiadi, per tutto il tempo che ebbe la sovranità
nel traffico e l'impero sulle acque, restò anche arbitra delle eleganze. .
Poi volsero, pur troppo, i giorni tristi della dipendenza economica e
dell'inferiorità spirituale. Corinto scontava la precoce baldanza dei
secoli gloriosi con molti anni di grigia mediocrità. È il destino im-
mutato degl'individui e dei popoli.
Il mondo degli dei e òeoli eroi.
XIII.
In mezzo a così grande attività di opere — ch'era poi l'anima
suscitatrice di tutte le manifestazioni corintiache e l'energia dalla quale
traeva alimento e colorivasi perfino il ritmo dei poeti — che cosa
doveva accadere nel regno degli dei e degli eroi?
Tutti gli olimpi sono l'ideale riflesso della terra e l'uomo nel fa-
ticoso cammino delle sue ascensioni crea a somiglianza sua gli esseri
divini, i quali poi, insieme con l'uomo stesso, s'elevano dalla notte della
barbarie verso la luce e dagli impeti omicidi verso più miti costumanze.
Se questa legge formulata corrisponde al vero, noi dovremmo atten-
derci che in Corinto non facessero difetto gli dei e le mitiche persone
recanti il suggello particolare impresso sovra ogni altra parte della
vita. Il mondo degli affari si riverberava nelle altitudini dell'idea, il
ersloh, Bertelsmann, 1887 (4* edìz.), pp. 101-111 : per alcune particolarità del dialetto
corinzio cfr. Quintil., Inst. orai.. Vili, 3, 28; Schvveighaeus., animadv. in Athen.,
V. Ili, p. 382.
» Thucycd, lì, 48; Beloch, Griech. Gesch., I», 64; Io., Z. griech. Vorgesch, in
Hist. Zeitschr. N. F., 1897, voi. 43, pp. 204, 205.
t DuMONT, et Chaplain, op. cit., 314-318, 233, 334-335 ; O. Loeschcke, Due
vasi dipinti d. stil. arcaic. in Annal., ecc., 1878, v. 50, pp. 301-316 (questo per le
ceramiche) ; quanto all'imitazione, da parte degli Ateniesi, delle monete corinzie — un
fatto alquanto posteriore ma che è il prolungamento d'un' iniziata abitudine — si vegga
Fritze, Die Munztyp. v. Athen in 6 Jahrhund. vor. C. in Zeitschr f. Numism., 1897,
V. 20, pp. 142-155 ; anche Solone invocava le Muse con le stesse parole di Eumelo
(Clem. Alex., Strom., VI, 621).
La più antica aristocrazia corintiaca 303
regno dello spirito appariva, almeno in parte, come una creazione
irradiata dall'anima «dei gaudiosi mercatori.
Com'è noto, i Corinzi dovevano al mare la prosperità e la vita.
Insieme alle onde fluenti e refluenti giungevano tra loro, dalle oppo-
ste direzioni del Mediterraneo, merci e ricchezze. Non basta. Le onde
salse erano apportatrici d'inesausta opulenza, non solo per il fatto na-
turale ch'esse aprivano il seno al solco dei veloci legni, ma perchè,
mentre spumeggiavano furiose intorno al capo Malea scuotendo per
terrore l'anima dei naviganti, venivano, al contrario, a baciare tranquille
le due spiaggie del breve istmo gettato dalla natura tra l'urto e l'altro
golfo come un ponte per i rapidi passaggi. Il mare e l'istmo, più e
meglio delle Parche, avevan dunque filato i destini corintiaci. Ed ora
sappiamo perchè i discendenti di Sisifo abbiano a Poseidon, domina-
tore delle acque, bruciati gl'incensi piti odorosi, eretti i piti magnifici
altari,^ tributate le più alti lodi. 11 dio, cui troppo spesso dilettava il
tremore della terra ondeggiante, moveva con particolare giocondità
verso l'istmo ove balde torme di giovani l'accoglievano a suon di flauto
e ove i forti facevan mostra della lor maschia vigoria.* Dilettoso sog-
giorno dell'l^nosigeo non era soltanto Orcheste, ma più il marin ponte
dell'istmo in conspetto delle mura corintiache, cantava la Musa del li-
rico tebano.^ Perciò qual vigilante sentinella delle porte istmiche era
Poseidon descritto dagli antichi,* e dall'istmo si formava l'appellativo
che aveva alle orecchie del dio le più soavi vibrazioni,^ e sempre a
cagione del divino ® istmo saliva al dio stesso il nidore dei pingui olo-
causti.'^ Bene Elios aveva potuto, nell'origine dei tempi, entrare in gara
con Poseidon per il possesso della terra: ma ogni sforzo della lumi-
nosa divinità s'era infranto contro il giudizio di Briareo, il rhostro che
allungava mani senza numero e scuoteva infinite teste. Che se Elios,
ad ogni levarsi delfaurora e ad ogni scendere dei crepuscoli vesper-
tini, poteva indorare co' suoi raggi le vette delle alture acrocorinzie,
cioè i ruderi della città morta, a lui attribuiti,* come proprietà, dal
1 Herodot., Vili, 122, 123, IX, 81; Strab., Vili, 6, 4; 6, 22; Paus.. II, 2, 3;
Plin., n. h. IV, 9; Pompon. Melas, chorograph, II, 3, 48; Schol. in Pind., ol.,
XIII, 1.
« PiND., Nem., V, 36-38, Schol. veter. in Pind. Nem., 36-38 (ed.Abel).
3 ID., Isthm., Ili, 37-38.
4 Plut., de Is. et Osir., 364 F.
5 Appellativo di istntio applicato a Poseidon, oppure usata l'espressione di dio
istmio, Steph. Byz. s. v. 'lo^uóg, Etymol. Mag. s. v. *Ev5rmos.
6 Pind., Isihm., I, 32.
^ Sembra che i Corinzi adorino più specialmente Poseidon a cagione dell'istmo
(b\à xòv 'lathM-óv, Schol. in Aristoph. Equit., 609.
« O. Porzio, Corinto, le origini in Riv. d. stor. ant., N. Ser., anno XI (1907),.
pp. 569-570, Steph. Byz. s. v. 'HXwOwoXis.
304 Guido Porzio
giudice gigante : per contrario a Poseidon eran toccate in sorte le bas-
sure dell'istmo o, ch'è lo stesso, il nuovo alveare umano cui brillava
innanzi un luminoso avvenire.' Corinto fu e rimase il vestibolo di
Poseidon.*
Intorno al signore delle acque folleggiò, inoltre, una densa schiera
di divinità marine. E i Corinzi a tutte innalzarono simulacri e templi,
a tutte offrirono vittime ed incensi. Erano i guizzanti Tritoni, e Cromo
figlio di Poseidon, e la consorte Amfitrite, e le vaghe Nereidi, e Ga-
lene usa a recare sugl'irosi flutti un'immota tranquillità,* ed Egeone,*
(altro germoglio del fratello di Zeus, ch'era poi l'onda spumeggiante
tra le rupi allorché con caprina agilità sembra arrampicarsi su per gli
erti scogli), e Leucotea, cioè il candor della schiuma che scintilla so-
pra la cresta delle percosse onde,^ e Glauco raffigurante la glauca
estensione delle masse acquee,* e così di seguito.' Non è tutto. Tra gli
esseri divini tenuti maggiormente in onore sopra l'istmo spicca Atena *
ch'è poi unita al Pegaso, il corridore delle onde. Il capo della dea,
con la copertura dell'elmetto corinzio, e il Pegaso alato fecero, incisi
sopra le monete, il giro trionfale delle terre d'occidente.^ E ad Atena
poi era sull'istmo consacrata la grande solennità delle feste ellotie.*®
Ebbene, anche la dea dai cerulei occhi, la quale a Bellerofonte, uno
tra i molti germogli di Poseidon, recò aiuto a frenare la baldanza del
Pegaso non domato, fu messa in relazione con l'umido elemento." A Co-
I Paus., II, 1, 6; EusTATH., comm. in IL B., 59: la lotta tra Poseidon e il sole
è ricordata anche dalle monete, Eckhel, Doct. num. veter. pars I, v. IH (ed. e), p. 239.
« PiND., O/., XIII, 4-5.
3 Paus., II, 1, 3 ; II, 1, 7.
^ EuMEL., ap. Schol. in Apollon. Rkod. argonauta (ed. Keil), I, 1165 j Preller,
Griech. Mythol., p. 134, 465, 513, II, 211 : Egeone da alS alyóg, capra.
5 Paus., II, 2, 1, Tzetz., Schol. Lycophr., 107.
6 HYGiN.,/a^., 25 i, p. 138 (ed. Schmidt), Eustath., comm. in IL, 13, 59; Thrasil,
ap. Clem. Alex, Strom., I, 21 ; Richard Hildebrand, Athen. in Philolog. 1886-1888,
V. 46, p. 204 (Glauco lo stesso che Poseidon del quale sono glauchi gli occhi).
■^ Per tutte le altre divinità marine che, giusta la religione dei Corinzi, facevan
corteggio a Poseidon, cfr. (oltre le Inscript. graec. antiq. praeter atticas in Attic.
reperì, ed. Roehl, Berlin 1883; dal n. 20, 1 al 20 32, 20, 54: dal 20 56 al 20 55, 20,
64, 20, 66, 20, 68: dal 20, 71 al 20, 80; dal 20, 110 al 20, 113) specialmente Paus.,
II 2, 1, II 2, 2, II 2, 2, II 2, 3, II 2, 4, II 3, 5.
8 Tzetz., Schol. in Lycophr., 658.
» PoLLUx, IX, 76; Eckhel, Doctr. num. vet. pars I, v. II, p. 101, ibid., pars I,
V. III, p. 245.
10 PiND., O/., XIII, 39 e BOECKH, explicat, ad Pind. OL, XIII, v. II, p. 216.
Schol. vet. in Pind. OL, XIII, 56, Schol. vet. in Pind. Ol., XIII, 48.
II Etymolog. Magn. latmio, Schol. Sophoc Oed. Colon, 712; Preller, Griech. My-
thol. I, 484; Richard Hildebrand, Athen. in Philolog., (1886-1888), v. 46, p. 202, 208 ;
Head., hist. num. 335, ed. e. (citiamo le conclusive parole dell'Head: «l'adorazione
di Atena ini Corinto era legata al culto di Poseidon e al mare»).
La più antica aristocrazia corintiaca 305
rinto, adunque, squillò con la possanza di mille toni l'epopea del mare
benefico, in tutte le varietà delle sue manifestazioni : o che urii furioso
contro le scogliere in suono di tempesta o che lambisca dolce le arene
della spiaggia : o che sfavilli per il riverbero di luci infinite scendenti
dai padiglioni del cielo o che mugoli oscuro entro il mistero della
notte.
Il mare procurava le ricchezze e queste ultime la letizia degli as-
saporati piaceri tra i quali avevano il primo luogo i delirii delle gioie
sensuali di cui eran ministre, come abbiam detto, le benemerite mere-
trici. Senonchè accanto alle sacerdotesse delle voluttà suonava tran-
quillo entro le pareti dei ginecei corinzi il lavoro delle madri, delle
spòse e delle candide fanciulle. Lo spettacolo della laboriosa pudicizia
e della licenza senza freno si proiettava nell'Olimpo risonante del riso
argentino di due Veneri, della Venere casta invocata in Corinto dalle
donne a modo, e della Venere impudica cui salivano il canto e gli
incensi delle prostitute.* E già abbiamo detto come quest'Afrodite del
mal costume s'abbassasse a far da mezzana dei lubrici amori.* Per
questa parte il soggiorno degli dei non era che il prolungamento
esatto della terra e una manata di fango sembrava avventarsi contro il
cielo.^
Finalmente, non v'ha dubbio che in Corinto fossero elevate pre-
ghiere alle Ore, Eunome, Diche ed Eirene, figliuole di Temi. Ma le
tremule invocazioni traevano lor vigore dal precipuo motivo che le di-
vine sorelle erano sopratutto dispensatrìci delle ricchezze ai mortali.*
Se dai fulgori dell'Olimpo discenderemo nel mondo degli eroi,
ci muoveranno incontro Sisifo Vastiitoì' vincitore anche della morte.
1 Ciò appare dai frammenti di Alesside (ap. Athen., XIII, 574 b) ov'è detto che
due feste diverse eran celebrate in Corinto in onore di Afrodite : la festa delle donne
a modo e quella delle meretHct: le Veneri, dunque, eran due.
» Athen., XIII, 588 e.
3 È curioso che anche la dea Cotitto (divinità straniera adorata in Corinto, pa-
ren.^e alla Gran Madre e le cui orgie si collegavano ai misteri di Bacco) veniva dal
commediografo Eupoli introdotta sopra la scena in vesti di meretrice : cfr. Paus., Il,
7, 7; HipposTRATUS ap. Schol. Theocr., 6, 40; Hesychius, s. v. Koxwo»; EuPOLis,
In F. Com. Graec, 157, 158; Preller., op. cit., I, 57.
* PiND., 0\.,Xm, 6, 8, Schol. vet. in Pind. OL, XIII, 6; Boeckh, explic.adOl.
XIII, V. Ili, p. 212; Preller, op. cit., I, 393; di queste Ore, stando ad Igino {fab,
183, p. 36, ed. e.) era già fatta parola dà Euraelo.
5 Astutissimo è proclamato da Pindaro, XIII, 50: di lui fecero parola — a tacere
d'altri — Omero (//., VI, 152 e segg.), Teognide (in P'oet. lyr. graec. Bergk, v. II,
p. 531) ed Eschilo cfr. Poet. Eurip. et Aristoph. acquatesele. Didot, p. 95): l'aned-
doto dell'astuto Siiito, che inganna la morte, è narrato da Ferecide ap. Schol. Homer.
Z, 153, in F. H. G. I, fragm. 78.
20 — Nuova Rivista Storica.
i
3o6 Guido Porzio
e Alete ch'è come dire il vagabondo o Xerrante,^ primo monarca dorico
nella conquistata Efira di Omero. Astato e vagabondo ? Chi non vede
a questo punto i mercatori corinzi in atto di nobilitare sé medesimi
con l'ascensione alle eroiche dignità ?
Certo Corinto era cospicua per le immagini di altri dei essendoché
il generato della donna, anche se vegga h luce in una terra pervasa
dalla febbre della mercatura, non può esser. soltanto un uomo d'affari.
V'erano, adunque, altri dei, altri templi, altri altari e altri fili dipa-
nati di auree leggende.' Ma gli altri dei apparivano di tanto inferiori
a quelli già descritti,^ quanto ogni altra idea ed affetto dovevan cedere
innanzi al pensiero assiduo e alle cure martellanti del traffico e delle
orgie dei sensi che han la virtù di rapinare l'uomo come entro i vortici
d*un uragano.
Le cause e la marcia della rivoluzione:
caduta del governo repubblicano.
XIV.
Ma l'energia spiegata con la benefica conseguenza di così grande
ubertà di frutti, se ai Bacchiadi fu causa di potenza e titolo di gloria,
doveva, d'altra parte, dopo il tramonto di numerose generazioni, con-
vertirsi in una forza di dissolvimento non deprecabile. Il governo del-
l'aristocrazia, al pari di tutti gli organismi balzati tra i vivi, recava in
sé i germi della morte. I Bacchiadi, agitandosi negli sforzi della gran-
diosa produzione, , estendendo con le colonie gli orizzonti mercan-
tili e tutti convitando al banchetto della vita, si scavavano, inconsci,
con mani proprie, la fossa.
» Alete è fatto derivare comunemente, ed a ragione, da àXdonoi che significa er-
rare y andar vagabondo, ecc.: qìt. Sophocl. deperdit. fragni, in SophocL qnaeext. ed.
Bninck, London, 1819, v. II, p.' 184-185.
« Tra gli altri dei ricordiamo Era Acraia (Strab., XIII, 6, 22 ; Appollod., Bi-
bltoth. in niythograph. graec. I, pp. 145-146 ; Photius. v. f| 6' dl| ttjv pdxaiQav, Prov.
e cod. bodleiano 29 in paroeni. graec. p. 4, ed. e: Schol. Euripid. Med., 10), Apollo
Teneate (Strab., Vili, p. 380) Demetra (Hesychius, v. II, p. 177), ed i molti, che ap-
paiono in Pausania accanto agli altri del ciclo di Poseidon (Paus., Il, 1, 3,11, 5, 5).
Quanto alle leggende, ricordo quella del ladro Sini legata alle gesta di Teseo (Plut.,
Tlies.y 4; Suidas ««^à oToixeìov in vit. script, graec. minor., p. 215 (ed. Westermann) e
l'altra che doveva^essere celebrata intorno ad Agemone (Polem. Perieget. ap. Athen,
XV, 696 f.).
3 La superiorità di Poseidorf è dimostrata dalla consacrazione a lui fatta dei ludi
istmici, quella di Atene e di Afrodite dalle monete e dall'importanza delle prostitute:
Alete Yerrante è il capostipite della mitica monarchia: Sisifo apparisce già nell'epos
ed ha nella leggenda corintiaca una parte preminente, ecc.
La più antica aristocrazia corintiaca 307
Ecco come la natura delle cose e le pervenute notizie acconsen-
tono di additare le nascoste ragioni degli urti imminenti, i lampi pre-
cursori delle tempeste nel conturbato cielo corintiaco, i sussulti incal-
zantisi delle forze in contrasto e il crollo finale che traeva a perdizione
la repubblica.
Allorché i mercanti attraverso le bassure dell'istmo e dalla vetta
dominatrice fecero squillare l'appello alle armi contro l'oppressione
della potente Argo e l'impeto liberatore fu salutato dalla vittoria,^ il
governo costituito sopra le rovine del despotismo straniero largì su-
bito il benefìzio di lina generosa libertà e la pienezza dei poteri al
popolo sovrano. Il trionfo ottenuto con gli sforzi di tutti diveniva pre-
mio a ciascuno: chi, nascendo, non recava impressa sopra la fronte
l'obbrobrio del marchio servile, trovava aperti gli accessi alle magi-
strature cittadine. Senonchè il diritto scendendo tra gli attriti quoti-
diani deiresistenza perde sempre una parte non piccola de' suoi splen-
dori e della sua forza beneficante, e così l'uguaglianza proclamata
all'esercìzio delle cariche riceveva modificazione nel senso, che quasi
sempre, o almeno troppo sovente, le insegne dei magistrati rendevano
cospicui quei ch'eran lieti di più copiose ricchezze.
L'esempio non è nuovo. Anche in Venezia repubblicana, innanzi
che le porte del governo fossero chiuse sul tramontare del secol terzo
decimo, il diritto di ascendere agli onori era comune a tutti gli abi-
tanti delle isole lagunari, ma, nel fatto, l'esercizio del potere si perpe-
tuava nelle famiglie degli armatori, dei possessori di galee e dei mer-
canti smisuratamente arricchiti con i commerci orientali. Ognuno poi,
che abbia aperti gli occhi alla visione del mondo che s'agita intorno,
può certificarsi della verità delle nostre parole. In quel che s'attiene ai
mercatori corintìaci già proclamati opulenti dall'epos omerico,* chiaro
apparisce che essi con tutto loro agio potevano attendere alle cure di
amministrare la cosa laubblica. Non certo erano infitte nelle loro carni
quelle punte del bisogno che sospingevano le plebi a corse trafelate
per la soddisfazione delle necessità primordiali della vita. Inoltre, non
avevano i ricchi propagato il moto vittorioso della rivoluzione? Non
s'eran fatti moderatori del movimento ? Non avevan condotto le dense
schiere all'assalto ? Nella libera Corinto i mercanti più ricchi afferrarono,
adunque, il timone dello stato. Se la luce egualitaria irradiava i suoi
splendori nel regno dell'idea, essa, mescolandosi nei giri turbinosi di
questa nostra polvere mortale, diveniva tristamente grigia ed opaca.
» O. Porzio, Corinto^ critica della leggenda (ed. e), pp. 82-83.
« //., II, 570, XIII, 663-664; Eustath., comm. in IL, B. 81, 569-570, SchoL antiq,
in Hom. IL, 2, 570.
3o8 Guido Porzio
Una cosa è il diritto, altra cosa i! fatto. Ove poi gli eventi prestino
soccorso, il fatto — il quale ha assunto l'apparenza decorosa di de-
viazione temporanea da un diritto segregato neireburnea torre dei
principii ideali — tenderà, a sua volta, a munirsi dei sacri suggelli di
un diritto inviolabile.
In Venezia la sconfinata democrazia deWarrengo, abdicando pra-
ticamente i suoi poteri nelle mani della classe più doviziosa, scontò
nel 1297 la lunga deviazione con la chiusura del Maggior Consiglio. In
Corinto l'originaria eguaglianza degenerò in una sospettosa e rapace
oligarchia.
Gli eventi, per cui sovra la terra dell'istmo maturava il fosco de-
stino della servitù, balzan fuori con non dubbiosa evidenza a chi getti
uno sguardo indagatore sopra le condizioni speciali di Corinto anti-
chissima.
Già abbiamo dimostrato che, con l'infrangersi del giogo argivo, in
Corinto sprigionavansi gagliarde le forze produttive,' le quali, a loro
volta, avevano necessità di estesi mercati. Più dai sonanti opifizi e
dalle private dimore uscivano i manufatti a cumularsi sulle piazze e
nelle botteghe dell'istmo, e più occorreva che l'audacia dei pionieri
aprisse alle colonie nuovi sbocchi in regioni lontane. La voce dei ma-
gistrati suonava a tutti ammonitrice: Arricchitevi. Quando la voce non
bastava, soccorreva l'aculeo dell'esempio. In questa gara scatenata
della produzione quelli cui aveva arriso benigna la fortuna, riuscendo
con lor ricchezze ad estollersi sopra la calca degli umili e dei mediocri,
s'affrettarono ad ingrossare il drappello esiguo dei dominanti. La ric-
chezza era scala magnifica alle ascensioni del potere.
Senonchè l'ardore del traffico e dell'operosità trasformatrice della
materia, mentre recava, da un lato, il benefizio di liete conseguenze,
non mancò, d'altra parte, di preparare rovine. Allora, come adesso, la
via, che mena verso la luce della gloria e verso il benessere comune,
era cosparsa di lacrime e di sangue.
Innanzi tutto, le funeste ripercussioni del commercio mondiale
s'abbattevano sopra i possessori delle sitibonde campagne corintiache.
Poiché l'esercito manifatturiero s'agglomerava sopra l'istmo ogni
giorno più numeroso, era necessità importare i frutti agricoli matu-
rati nella Sicilia e lungo le altre spiaggia del Tirreno, del Ionio e del-
l'Adriatico. Se anche debba supporsi che i padroni degli opifizi fos-
sero possessori di una parte del suolo stendentesi sopra l'istmo, certo
è che il danno recato loro, quali proprietari terrieri, dal giungere dei
1 Q. Porzio, Il fondamento econom. d. pia antic. aristocraz. carini, in AnnaU
d, Univ. Toscane, nuova ser, v. I (XXXX della collezione), fase. 3, 1916, pp. 1-106.
La più antica aristocrazia corintiaca 309
frutti cresciuti sotto gli splendori del sole ellenico e d' Italia, riceveva
ampio compenso nei vantaggi derivanti loro cjuali animatori e mode-
ratori delt'attjvità industriale. Ma per chi possedesse un picciol campo
e dalle zolle avare sì trovasse costretto a spremere quel ch'era neces-
sario per sé e per i suoi a trascinar la vita, i frutti importati, con la
ripercussione di disastrose concorrenze, significavano l'abbandono dei
campi e delle tombe degli avi e l'inurbarsi da tutte le vie sbucanti
sopra r istmo di una turba * che veniva a chiedere nel fragoroso centro^
cittadino, insieme col lavoro, qualche tozzo di pane lacrimato.
Al trascorrere di quelle caterve fameliche per le strade e per le
piazze della città, che sembrava tremar tutta nell'ebbrezza dell'opera
produttiva, i vecchi inquilini, usi a vendere nelle manifatture le braccia
muscolose, unico loro bene, guardarono con torvi occhi. Che essi pre-
sentivano strappati a sé ed ai figliuoli dalle folle sopragiungenti molti
bocconi di quel pane che già era troppo scarso a quetare gli ululati
della fame.
Poi non troppo a lungo si fece attendere il momento in cui molti
liberi lavoratori, nuovi ed antichi, vennero a picchiare indarno alle
porte delle officine. Le guerra e la superstite pirateria, in qualche mare
non mai del tutto sgominata, l'affannoso pensiero del domani che in-
duceva molti a stendere i polsi alle catene del servaggio ed a barat-
tare così le gioie della libertà con un frusto dì pan nero e con una
cuccia squallida ma sicura, il fatto che Corinto, com'era emporio di
ogni prodotto europeo ed asiatico, così si trovava aperto anche al
traffico della carne umana:* tutte le accennate circostanze, tendenti a
far vile il prezzo della merce uomo, indussero ì grandi manifattori ad
agglomerare i servi quali strumenti della produzione. Che se i moderni
industriali, a far paghe le richieste enormi, invocano negli opifizi qual-
che nuovo strumento dai muscoli d'acciaio, nei tempi antichi la sola
macchina era il servo spronato all'opra dalla sferza dell'aguzzino. Si
può comprendere facilmente quale tempesta di odi ^ dovesse gonfiare
1 Questo appare dall'ordine di Periandro che vietava alle plebi di far dimora nella
città, ([Heraclid. Pont.] in F. ti. G., II, fragm. V, p. 213); il tiranno —operando
naturalmente in senso opposto a quello dell'aristocrazia — ebbe cura di risospingere
verso la campagna l'onda di popolo che rendeva troppo vile la mano d'opera e ge-
nerava perciò una condizione di cose funesta agli operai delle officine e grave di peri-
coli per la pubblica tranquillità.
2 G. Porzio, Il fondant, econom., ecc. (/. e, pp. 103-104).
3 La proibizione di possedere schiavi fatta da Periandro ai cittadini (Nic. Damasc.
in F. H. G. in fragm. 59, p. 393, [Heraclid. Pont.] in F. fi. G. II, fragm. V, p. 213)
dimostra che i Bacchiadi avevano a gara agglomerato i servi per il lavoro produttivo.
Quanto all'enorme massa servile raccolta in Corinto si cfr. G. Porzio, // fondam.
econ., ecc. (ed. e), pp. 78-106; Guiraud, La main d'oeuvre, ecc. (ed. e), pp. 103-104,
[IO Guido Porzio
il cuore dei cenciosi derelitti cui si profilava innanzi Timmagine sini-
stra, o della morte per fame cronica, o dei ceppi della servitù.
Siffatto groviglio d'interessi contrastanti riceveva nuovo arruffio
col balzar sopra il teatro della lotta dei mediocri produttori e dt quelli
che con mezzi pure esigui avviavano gli scambi. In ogni società crea-
trice delle ricchezze (così nei comuni italici del medio evo, come nelle
nazioni d'oggi giorno ove il vigore nel trasformare le materie prime
e nello spanderle in ogni angolo più remoto del mondo abitato si
presenta qual nuovo miracolo allo studioso stupefatto) al grande ca-
pitale non venne fatto mai di essiccare totalmente all'altro piccolo o
mediocre le sorgenti della vita. Vero è che la concorrenza scatenata
dai più forti passa sopra il corpo dei deboli : ma questi, a loro volta,
con tenacia invitta traggono dalle necessità sociali le energie del mol-
tiplicarsi. Ora, da che il sole illumina le sciagure degli uomini, tra
grandi e piccoli produttori, tra grandi e piccoli distributori delle ric-
chezze, divampa la guerra senza requie. In Corinto la classe detentrice
del potere, lavorando per i mercati lontani, doveva appigliarsi ai mezzi
di governo più confacienti alla natura di siffatta attività economica.
La politica divenne ancella della grande produzione. Di qui l'opera
febbrile sonante nei cantieri a costruire legni da trasporto e navi da
guerra, di qui il dispiegarsi delle malizie diplomatiche per la difesa
dei vantaggi commerciali corinzi nelle gare con gli altri stati produttori
della Grecia, di qui il fulminare delle spade ogni qualvolta fosse d'uopo
provvedere con mezzi cruenti al trionfo della mercatura. Ma quando
gli sforzi della diplomazia e degli eserciti ottenevano vittoria, al ban-
chetto delle prede sedevano solamente i grandi produttori, grassi così
delle angoscie e dei rischi di tutti. Che doveva importare dei mercati
lontani a chi produceva per l'interno? Eppure anche i possessori di
tenui capitali avevan largito per la prosperità dei forti una parte delle
loro ricchezze e molte stille del loro sangue.
La potenza riunita dei piccoli possidenti terrieri, del medio ceto
industriale e mercantile, dei liberi lavoratori cui da lungi accennavano
'gli schiavi fremebondi, questa bufera di odi che ingombrava un cielo
fosco solcato da guizzi di lampi illuminanti un più fosco avvenire in-
dussero, per gradi, i forti industriali ed i poderosi mercanti a afferrare
per sé, con esclusione assoluta degli altri, la somma del potere. Tale
si presenta la serrata corintiaca. La chiusa aristocrazia non si estolle ai
primi inizi della vita repubblicana, come affermarono concordi gli
autori moderni,* sibbene negli anni che precedettero il lor tramonto
1 Plass, Die Tyrannis (ed. e), I, 148; MSntler, Korinth, uni. d. Kypselid.
(ed. e), 4; Haacke, Gesch. Kor. bis z. Siurz, d. Backiad. 12; Duncker, Gesch. d.
La più antica aristocrazia corintiaca 311
non lontano. Fu come il calare di un drappello di predoni sopra le
sostanze di tutti. Dal loro seno i nuovi moderatori della vita corintiaca
trassero un capo, il pritam^ ed ebber cura, con legami matrimoniali
avvinti solo tra i giovani germogli della classe dominatrice, di mante-
nere esiguo il numero dei partecipanti alla letizia del potere.* Chiusi
in sé medesimi, stretti tutti, a breve andare, dai vincoli delle parentele,
essi attesero a far venerata la loro progenie nobilitando le origini.
Immaginarono leggende mendaci per indurre gli ignari a credere scor-
rente nelle loro vene il sangue di Bacchide, mitico re di una mitica
monarchia.* Poi a tale fantasia, suggerita da cupido orgoglio, ebbero
cura di porre il suggello di un nome che agli orecchi dei volghi as-
sorge sempre a dignità di prova inconcussa. Si chiamarono Bacchiadi.
E temendo che non salde abbastanza per la legittimità de* suoi poteri
fossero le fondamenta di un trono ipotetico eretto sulla terra, l'aristo-
crazia dell' istimo additò gli inizi di sua prosapia come snodantisi nel-
l'Olimpo, ai piedi del seggio di Zeus, tra i folgorati barbagli de-
gl'immortali. Nobiltà, adunque, per diritto divino essendoché Eracles,
germoglio di Giove, fosse presentato come primo anello nella catena
degli avi.^
Ma a far in modo che l'edifizio costruito con sapienza faticosa
potesse opporre ad ogni urto una vittrice resistenza era necessità che
l'aristocrazia si fosse rassegnata a spegnere gli, ardori per la mirabile
produzione e pel commercio d'oltre mare. Chiudere l'emporio e le vie
dell'istmo, abbandonare sopra le arene, preda ai tarli, le veloci navi,
significare alle colonie che dovevano provvedere a sé stesse perché la
metropoli, come percossa da febbre di disfacimento, aveva dato inizio
alla politica della rinunzia, maledire alla gloria degli anni giovani e
farsi piccoli per deprecare le minacele della morte: tali erano le con-
Alt. V5 (ed. e), 3Q6-397; Beloch, op. cit., V, 302, I«, 218, ecc. E un errore. Ero-
doto e Nic. di Damasco pa'rlan bensì dell'oligarchia dei Bacchiadi, ma solo negli
anni in cui sta per balzar fuori Cipselo, cioè al termine del loro dominio. I noàtri
storici han scambiato il tramonto con l'aurora dalle tinte purpuree, han visto al' prin-
cipio quel che apparve soltanto alla fine.
1 Herodot., V, 92, 3, Diod. reliq, vii, 9.
t Era serbato ai critici moderni di accettare serenamente una panzana suggerita
dairorgoglio. Duruv, hist. d. Grecs, pp. 504-507 (ed. del 1887); Duncher, op.cit, V5
378; Meyer op. cit. II 351; Beloch, op.cit., 1*,302, 1«, 218, Pòhlmann, Grundr. d.
griech. Gesch. (ed. 1906), ecc. Per questa strana fede in Bacchide e nella monarchia
cf r. G. Porzio, Corinto, critica della leggenda (ed. e. pp.), 1-84. O perchè non han
creduto anche alla vantata discendenza da Eracles?
3 A tutti è noto che i Bacchiadi son discendenti di Eracles, si legge in Dionys.
Halicarn., antiq. rom.^ IV, 26: infatti, anche il Corìnzio Fallo d'Eratoclide, coloniz-
zatore d'Epidamno al tempo dei Bacchiadi, era derivato da questo dio, Thucyd., I,
24, 2. -
312 Guido Porzio
dizioni richieste a prolungare la vita. Non bastava barrar gli accessi
airautorità politica: occorreva anche ostruire tutti gli sbocchi che con-
ducevano all'acquisto delle ricchezze. Che, ove Timpeto del produrre
avesse rapinato gli animi come nei trascorsi anni, era ad attendersi
che i nuovi arricchiti avrebbero chiesto, anche con la violenza, il loro
posto al convito del potere. Ora, poiché ai Bacchiadi non arrise 1* idea
di rassegnarsi al suicidio per la paura di morire, avvenne quel che
non era evitabile: che, cioè, i padroni plebei delle splendide manifat-
ture, gli armatori delle triremi e quei che nelle regioni più lontane ave-
vano recato le copiose mercanzie dell' istmo, forti di lor ricchezze, ve-
nissero ad urtare contro le porte del governo. Ma, com'era a prevedersi,
i postulanti non furono ammessi alla beatitudine della goduta sovra-
nità. Ed ecco infuriare, con l'orrifico ululato delle^ catastrofi imminenti,
la lotta tra le due mobili proprietà dei ricchi di oggi e dei ricchi di
ìeri.^ Solo nelle anime dei moderni eruditi poteva trovar luogo l'odio
delle stirpi e il contendere sopra V istmo dei Dori e dei Ioni con me-
scolanze più o meno lievi di eoliche tribù* In Corinto si scatenava
1 Che di questo si tratti è dimostrato dal gfoverno costituito dopo l'esperiraento
della tirannide : an^ aristocrazia temperata cui furono ammessi tutti i possessori di
cospicue ricchezze (Guiraud, La propr.fonc. (ed. e), 139; Meyer, op. cit, 11,626-627;
BusoLT, Griech. Gesch., I«, 658; Beloch, op, cit., P, 315, ecc.): è dimostrato anche
dalle multe con cui l'aristocrazia colpiva i nemici, multe ingenti che solo i ricchissimi
potevano pagare (gli altri scontavano con la prigione), Nic. Damasc. in F. M. G.,
Ili, fragm. 58, p. 392. Provammo altrove (O. Porzio, / molti luoghi comuni intrusi
nella storia dei Bacch. in Att. R. Accad. arch. lett. beli. art. di Napoli, N. Ser.
V. IV, 1915, p. 139-144) che, mentre vacillava la potenza aristocratica, la lotta era com-
battuta, non tra la proprietà terriera e quella mobile, ma tra due mobili proprietà
mercantili, una recente, l'altra più antica.
« MiiLLER, Die Dorier (ed. e), I, 111. Plass, op. cit., I, 146-147, 149; Holle,
De Periandro Corinth, Tyran, Monast., 1869, 3, 5 ; Haacke, op. cit., 6, 7 ; Duncker,
op. cit., V5, 394, 396-397; Hertzbero, op. cit. (ed. 1879), I, 100; Pòhlmann, op. cit.,
70, ecc. Dell'irrazionale ingrediente dell'odio di razza nella lotta corintiaca gli antichi
non fanno mai parola. Così pure non vi è testimonianza di due nobiltà lottanti in
Corinto come immaginarono alcuni scrittori moderni (tra altri il Dunqker, op. cit.,
V», 396,397 e il Busolt ap. Wilisch in Gdtt. Gel. Anz., 1880, pp. 1194-1195): Ero-
doto (v. 92) Nic. di Damasc, (in F. H. G., III fragm., 58, pp. 391-392): tutti ci par-
lano di un'oligarchia sola, e basta: l'altra nobiltà è sbocciata insieme con la fisima
delle razze attendate l'una contro l'altra in tutte le terre greche e guardantisi in ca-
gnesco. — Che poi la ribellione di Corcira abbia trascinato a rovina i nobili dominanti
è un'altra infondata supposizione dell'HAACKE (op. cit., 19-20), del Duncker {op. cit.,
VI, 36) deU'HERTZBERO (op. cit., V, 100-101), ecc. La battaglia fu combattuta fuor di
dubbio verso il 664 mentre Cipselo appare solo nel 655 secondo la più comune cro-
nologia, verso il terminare del secolo VII secondo la nostra : ad ogni modo, anche
nell'ipotesi più comune, noi dovremmo ammettere che un fatto accaduto nove anni
addietro avesse la virtù di atterrare un governo. Se mai -^ poiché la rovina era Tef-
fetto dell'indignazione popolare rovesciante sopra i doitiinatorì la colpa della sconfìtta
La più antica aristocrazia corintiaca 313
il contrasto della proprietà e non delle stirpi, e la lotta assumeva la
natura di tutta la storia dell'organismo mercantile com'era scritta nel-
Tattimo fuggente e nei fasti del passato. A meno non riesca ai dotti
di provare che le ricchezze, mentre eran dolce compenso alle fatiche
d*ima stirpe greca, rifuggivano d'accumularsi entro le mani di un' altra,
oppure che i Corinzi, travolti nei contrasti d'una battaglia economica-
politica, avessero agio e volontà di squadrare, in mezzo al fragore
delle vibrate percosse, la mutria dei contendenti per sorprendere nelle
contraffatte fisionomie i segni abborriti d'una stirpe avversa.
Il prorompere dei ricchi nella mischia già iniziata scosse dalle
fondamenta l'edifizio dei Bacchiadi. La terra deli' istmo sembrò tremare
per la violenza degli urti quotidiani. Assalita d'ogni parte dalla massa
enorme dei malcontenti antichi, cui adesso prestavano man salda molti
cittadini facoltosi, l'aristocrazia corse ai ripari affrontando gagliarda
le minaccie oscure. Per scongiurare il pericolo tutti i mezzi furon buoni.
Far cadere molte teste, spingere a stuoli in terre straniere i dannati
ai lunghi esilii, porre le mani violente sopra i beni dei riottosi, vitu-
perare i men temibili nemici con le stimmate dell'infamia, tali le arti
d'ogni morente governo e quindi dei Bacchiadi.' Cionondimeno la
marea saliva con muggiti spaventevoli. E poiché il terrore non aveva
prodotte le attese conseguenze ed ogni stilla di sangue sparso sem-
brava far più gagliarda l'audacia degli assalitori, i dominanti, con i
volti composti a simulata mitezza, fecero prova di disarmare con alcune
concessioni la furia nemica. I più ricchi e più temuti dell'avversa fa-
zione vennero ammessi all'onore dei connubi.* Inoltre, ai discendenti di
non giuste nozze — a condizione però che nelle loro vene scorresse il
sangue aristocratico almeno da parte della genitrice — era concesso
di ascendere alle magistrature secondarie. Una di esse dovette essere
la carica di polemarco, non storica interamente perchè ricalcata da
Eforo sulla comune tradizione, ma che ad ogni modo, nella parte so-
stanziai, segna e adombra la vissuta realtà.'
— o la causa operava di prjmo impeto nello stesso anno 664, o mai più. E poi biso-
gnerebbe supporre che lo scontro coi Corciresi fosse terminato in una sconfitta : ma
così non fu.
1 Nic. Damasc. in F. H. G. Ili, fragm. 58, p. 392.
* Herodot., V. 92. 4.
3 Cfr. le mie osservazioni in questa rivista, fase. 1, 1917, pp. 68-69: dire — come
ho detto — che là carica di polemarco non corrisponde a verità non significa buttare
senz'altra la notizia nel ciarpame. È noto che Eforo rendeva più razionale la tradi-
lione e troppo ricalcava il passato sui modelli storici dei tempi suoi : si tratta, ad
ogni modo, molto spesso, di trasformazione^ non d'invenzione. Di vero nella carica
di polemarco vi è quel tanto che accenniamo nel testo. Vedi Nic. Damasc. in F. H. G,
III, fragni. 58, p. 392 (da Eforo).
314 Guido Porzio
Le combattenti moltitudini furono piene d'esultanza perchè la mi-
tezza inattesa era la più certa prova che Todiato dominio vacillava. Le
plebi in armi salutarono quello che noi, per intenderci, chiameremo
il polemarco, con frenesia di applausi.^ Era fi loro capo. Vero è che
Taristocrazia pose ogni cura nell'avvelenare il donativo. E così tra le
altre funzioni, circonfuse sempre di mistero, pesava sopra il polemarco
l'obbligo di mantenere in ceppi chi era colpito da condanna finché la
multa comminata non venisse soddisfatta. Qual mezzo migliore ad at-
tirare sopra il magistrato della rivoluzione i fulmini dell'ira popolare?
Tanto più che con diabolica malizia i reggitori avevano disposto che
una parte delle multe toccasse al polemarco,* pregustando così la gioia
perversa di poter additare l'idolo del volgo come pingue del sangue
delle plebi. Senonchè l'aristocrazia veniva a brandire un'arma con la
quale correva il rischio di ferire sé medesima. Se un polemarco astuto
scioglieva le catene dei condannati dichiarandosi pago di mallevadori,
se faceva generosa rinunzia della parte di multa a lui spettante e in-
nanzi al popolo proclamava sé stesso non contaminato da cupidigia
volgare e non lordo di un guadagno miserabile che era poi il prezzo
del tradimento, se questo avveniva — come avvenne — ecco che d'un
sol colpo cadevano infrante tutte le reti della politica tenebrosa. La
macchina eretta ai danni della plebe seminava invece rovina tra gli
artefici creatori.
All'esercito in marcia mancava solo un capo che guidasse gli as-
salti contro le ultime difese. A questo punto calò sopra l'arena, gui-
datore dei rivoltosi, Cipselo, figliuolo di Eezione e di Labda claudi-
cante, discesa però dai lombi magnanimi dell'aristocrazia dominatrice.
Insignito della carica di polemarco, Cipselo rivolse, nel modo già de-
scritto, la punta dell'arma insidiosa contro la classe che l'aveva affilata.
Concesse ai prigionieri la libertà, pose garante sé medesimo che avreb-
bero pagate le somme dovute, delle multe riscosse rifuggì di toccare
una parte qualsivoglia.^
Con l'infuriare di Cipselo nel campo chiuso della lotta economica
e politica il governo della nobiltà parve scosso dalle convulsioni del-
l'agonia. Non una delle molte fondamenta sulle quali, come su basi
di granito, posava un tempo l'edifizio,. valse ad opporre una lunga re-
sistenza all'urto formidabile.
1 II carattere popolare di questa carica e il favore con cui essa fu salutata dalla
moltitudine apparisce anche dall'espressione del Damasceno (/. e, p. 392): che, cioè,
nelV esercitare V ufficio del polemarco ^ Cipselo si cattivò da parte del popolo più amore
di quel che avevano ottenuto gli altri insigniti prima di lai della stessa magistratura.
2 Nic. Damasc, /. e, p. 392.
s Herodot., V, 92, 4, Nic. Damasc, /. e, pp. 391-392.
La più antica aristocrazia corintiaca 315
Non certo ai Bacchìadi era dato di legittimare il lor potere ìnvo-
Ciiiido le più copiose ricchezze. Volgetevi attorno — poteva suonare
la. risposta — e v'abbatterete in molti che sono più di voi superba-
mente doviziosi. Perchè dunque sarà serbato agli uni il fastigio del-
l'autorità e agli altri l'amaritudine dell'esilio? O forse all'aristocrazia
sarebbe venuto in mente di porre il consenso unanime dei soggetti
e le cure consacrate alla comune felicità quali pietre angolari del go-
duto dominio? Ma contro di loro i ruggiti dell'odio e le maledizioni
risvegliavano i molti echi delle terre corintiache: contro di loro i pu-
gnali erano affilati e branditi nelle tenebre. E quanto alla sollecitudine
millantata del ben comune, chi non sapeva ch'essi con bestiale cupi-
digia sfruttavano il governo come un campo ferace a lor venuto dai
maggiori?^ E neanche ai Bacchiadi era acconsentito di esaltare la su-
periore purità dei costumi immacolati. Il fantasma di Atteone, violentato
e uccido da Archia, sarebbe uscito dal tumulo sepolcrale a vituperarli
quali sodomiti cupidi di sangue.' Così pure la gloria vantata della di-
scendenza nobilesca impallidiva al cospetto di Melana progenitore di
Cipselo, per antichità ben altrimenti venerando, il quale, insieme con
Alete, dalle alture del Soligeio, aveva percosso con lungo assedio le
mura di Corinto.^ Allorché l'avo dei guidatori dei ribelli era disceso
con la spada a conquistare ai Dori erranti una patria, Bacchide e Bac-
chiadi non ancora movevansi tra i vivi a contristar la terra. Come si
vede iutti i sostegni, che potremmo chiamare umani, giacevano al
suolo frantumati.
Restava il puntello degli dei essendoché le iniquità politiche e so-
ciali, più gridano vendetta nel regno degli uomini, e più si adòprino
a fortificarsi con la sanzione del diritto divino. È questo l'ultimo ba-
luardo dietro il quale stanno aperti gli abissi. Allorquando gli uomini
son ridotti alla difesa disperata dall'invocazione agli dei, vuol dire che
la morte batte intorno le sue ali. Nulla, invero, é più agevole che porre
in armi un dio contro un altro dio. Ad esempio, Giuseppe Mazzini
ebbe a durare una fatica non soverchia nel far discendere contro la
divinità della Santa Alleanza, cui suonavan carezzevoli i singulti dei
i Ricordiamo lo sfruttamento del mercato che Strabene (Vili, 6, 20) attribuisce
ai Bacchiadi: sfruttamento, il quale va inteso in buono e anche in cattivo senso.
« Del fatto di Atteone, figlio di Melisso, stuprato e ucciso dal Bacchiade Archia
è ricordo in Plut., amator. narrai. 2, Diodor., reliq. vili, 8; Strab., p. 269; Paus.,
V, 7, 4; Alexand. Aetol., in Antolog. Palai., 1,208; Parthen., ero^., 14 in Mytho-
graph. graec. v. II, fase. I; Maximi Tyr., dissert., XXXV, 1, Schol. in Apollon. Rhod.
argon. IV., 1212; Suidas, s. v. 'Aezios: quanto alla loro superbia e lussuria cfr. anche
IHeraclides] in F. H. G., Wfragm.W, p. 213; Aelian., var. hist., X 19.
3 Paus., II, 4, 4 ; V, 18, 7 : cfr. O. Porzio, Corinto, crii. d. leggenda, ed. e,
p. 24 e nota 3*.
3i6 Guido Porzio
moribondi nelle segrete dello Spielberg, il suo, baldanzoso dio repub-
blicano trascorrente con la magica insegna del berretto grigio a recare
nelle regioni italiche il soffio della libertà. Se i mortali si azzuffano,
tosto la tenzone esulta anche tra gli dei : battaglia sulla terra e batta-
glia in cielo. Mentre la lotta infuriava sotto le mura di Troia, l'Olimpo
tremò tutto dello scrosciar delle folgori di Zeus e del cozzo delle di-
vinità contendenti. Mentre i senzabrache frantumavano, insieme con la
monarchia, le ultime tarlate inpalcature del medio evo e vittoriosi ca-
ricavano le milizie della reazione, il dio degli eserciti, scudo e sostegno
della progenie dei Capeto, varcava la frontiera a raggiungere in Co-
blenza il campo dell'esule aristocrazia. Intanto per le navate di Nostra
Donna salivano gli inni, prima alla dea Ragione, e poi all'Essere Su-
premo'. Anche in Corinto i vecchi dei della vecchia oligarchia, di fronte
agli altri che fulminavano, guidatori delle turbe in rivolta, furono presi
dallo sbigottimento il quale annunzia le vicine fughe. Cantarono gli
oracoli. La Pizia vaticinante aveva visto rotolare dalla matrice di Labda
un macigno sotto il cui peso i superbi dominatori sarebbero ridotti
a una maciullata poltiglia intrisa nel sangue : aveva visto dallo stesso
utero sbucare con un salto un leone spaventoso che a molti dei Bac-
chiadi doveva sciogliere le ginocchia. E il macigno che rotolava e il
leone che ruggiva erano un trasparente simbolo di Cipselo, duce dei
ribelli. « Beato quest'uomo, che discende ai penetrali nostri, Cipselo Ee-
tide, sovrano di Corinto illustre » gridava la sacerdotessa di Delfo non
appena il passo ferrato del polemarco demagogo suonò nei recessi
del santuario. S'aggiunga che solo un dio aveva potuto travolgere il
senno dei nobili assassini, i quali, scoperto in fasce il vaticinato de-
molitore di lor potenza e bastando stendere la mano per disperdere, in-
sieme coi resti dell'infante ucciso, la minaccia sospesa sopra il loro
capoj sentirono invece tremare i polsi nell'atto di ferire. Inoltre, lo
stesso Giove, all'ombra protettrice del tempio suo in Olimpia, aveva
alimentato la gagliarda giovinezza del figliuolo di Eezione per ricon-
durlo in Corinto a compiere le sue gesta allorché fosse suonata l'ora
delle vendette. Finalmente al disopra dello stesso Zeus anche il Fato
cospirava alla distruzione dei Bacchiadi Stava scritto nel libro del
Destino che il dominio oligarchico precipitasse al tramonto.* Innanzi
a questo decreto non deprecabile non una delle divinità restò ai fian-
chi dei morituri per consolarne l'agonia.
1 Herodot., V, 92, 4-12; Nic. Damasc, in F. fi. G. Ili, fragm, 58, pp, 391-
392; si spiega così che agli dei, promotori della rivoluzione e del dominio da essa sca-
turito, i Cipselidi abbiano consacrato doni votivi a Delfo e in Olimpia ; Aristot-, Poi.
Vili (5), 9, 4 ; Strab., Vili, 3, 30 ; Plut., quaesi. mar. 724, B ; Ephor. et Aristot., ap.
La più antica aristocrazia corintiaca 317
Chiusi i cieli e fatta nemica la terra, airaristocrazia altro non re-
stava che piegare il capo all'incombente realtà. Un colpo di pugnale
vibrato da cospiratori uscenti dalle ombre di una segreta conventicola
lasciava boccheggiante sopra la via pubblica Tultimo pritane, e Cipselo,
corrusco di tutte le folgori dell'ira popolare, decimava i nobili con la
morte, spingeva i superstiti nella tristezza dell'esilio, i beni degli uc-
cisi e dei fuggiaschi largiva alle plebi.* In Corinto è sorto il trono del
tiranno,* legittimo perchè avente sua base nel volere del maggior
numero e capace, perciò, durante molti anni, di resistere vittorioso
contro tutti gli assalti. Cipselo era il delegato della democrazia an-
cora minorenne e il suo governo, instaurando entro i confini del
territorio corintiaco l'invocata concordia è proclamando l'eguaglianza
di tutti innanzi al trono, spingeva le moltitudini a nuovo e più
intenso fervore di operosità civile. Così, mentre i tiranni passavano
falciati dalla morte e il potere era trasmesso ai discendenti, la luce
già accesa dall'aristocrazia continuava ad avvampare nei cieli greci con
fulgori più intensi.
E la conclusione di questo studio? Essa vibrerà dei suoni stessi
che annunziarono gl'inizi ; che, cioè, l'attività produttrice dell'industria
e degli scambi fu nella storia di Corinto una specie d'anima tenace-
mente operante dalla quale rampollarono tutte le varie manifestazioni
della vita. Tale attività fece sorgere dal nulla il centro cittadino,'' armò
le mani degli abitatori nello sforzo vittorioso della riscossa contro
Argo, diede alla terra liberata la forma di governo più adatta ai pre-
menti suoi bisogni, consigliò ad aprire i mercati ampi delle colonie,
suggerì le astuzie della diplomazia, pose le condizioni della pace e
soffiò nelle trombe della guerra, si convertì in creatrice energia di
tutti gli atti comuni della vita quotidiana, divenne la scaturigine dei
Dioa. Laert., I, 96 ; Aqaclytus (autore di età incerta) in F, H. O., IV, p. 288; Phot.,
1 Herodot., V, 92, 13; Nic. Damasc, /. r., p. 392; Aristot., Poi. V, 9, 4.
« Nel 655, 656 e 657 secondo l'ipotesi comunemente accettata (Grote, op. cit.^
trad. Sadous, IV, 77, Real-Èncyklopàdie, del Pauly s. v. Corinth u. Corinthian»
ed. di Stuttgart 1842: Unger, Die Zeitverhàltn. Pheid. in Philolog. B, 28, 1869,
pp. 420-421 ; Holm, Gesch. Griech., ed. 1886, I, 305, 306, 344; Pohlmann, op. cit.,
71, ecc.): verso il terminare del secolo VII come io credo per le ragioni esposte al-
trove ; Q. Porzio, / Cipselidi, la tirannide corinzia nuovamente esaminata, Bologna,
Zanichelli, 1912, p. 119-151.
» Q. Porzio, Corinto, le origini, l. e, p. 561-565.
3l8 Guido Porzio
vizi, delle virtù e delle più diverse attitudini spirituali, largì ai poeti
e agli artefici fantasmi folgoranti, proiettò sopra le vette dell'Olimpo,
soggiorno degli immortali, gli dei e gli eroi della mercatura, poi ai
Bacchiadi, cioè al loro governo, strumento valido alla creazione delle
opere maravigliose, finì con lo scavare il sepolcro per sospingere la terr;»
dell'istmo a nuove forme di vita più eccelsa.
In Corinto apparisce dominatrice della storia un'unica cagione.
Guido Porzio.
^^
note. QDedioDi sloiii. lUofll nsioni
storia e politica: Francia e Italia.
È lecito al politico, a chiunque, anzi, Si trovi sulla soglia di un problema
politico, invocare la luce e il sussidio della esperienza storica del passato, e
tentar di risolvere col suo aiuto il terribile quesito, che la Sfinge dell'avve-
nire pone dinanzi a lui? La nostra risposta non può non essere interamente
affermativa : come le esperienze quotidiane della politica son la luce interna
dello storico, così le esperienze della storia formano la luce interna dell'uomo
politico, e come più perfetto storico è queglj che più vivo ed acuto alimenta
in sé il senso politico, così più perfetto uomo politico è colui il quale, dalla
conoscenza del passato, ha tratto l'idea, la consuetudine delle varie forme di
risoluzioni, in cui gli eventi umani sogliono, nel loro aggrovigliarsi, precipitare.
Salvochè l' insegnamento, che la storia porge all'uomo politico, non può essere
(come dire?) un insegnamento materiale e meccanico: esso deve addestrarlo
non già ad ingombrarla memoria del cumulo e dei rottami dei fatti passati,
ma a comprendere quei fatti, a metterli in rapporto con le mutate o identiche
condizioni del tempo, anzi a non giudicare mai alcun fatto senza tener conto
di tutti i rapporti, di tutti i fili invisibili, a cui esso è legato.
Chi, ad esempio, poniamo, alla vigilia della nostra guerra, forte della
sua memoria storica, avesse, innanzi di decidersi, richiamato a se stesso sol-
tanto tutti gli attriti in cUi nei secoli ebbero a trovarsi impegnate Francia e
Italia o Austria ed Italia, e da quest'unica rievocazione' avesse voluto attingere
luce per una decisione, avrebbe operato da pessimo uomo politico. Giacché
egli avrebbe dimenticato chele condizioni di oggi, in cui Italia, Francia, Austria,
Zi muovono, sono mutate da quelle di settant'anni o cinquant'anni or sono,
o anche di ier l'altro, e mutate sono altresì le restanti condizioni internazio-
nali, come mutate esse saranno domani. Egli, dunque, conducendo il suo lavoro
* G. E. Curatolo, Francia e Italia: pagine di storia {1849-19x4), Torino, Bocca, 1915,.
pp. XIII-238.
320 Note^ questioni storiche, ecc.
entro i termini che ho sopra accennati, non avrebbe fatto opera di politico, ma,
attraverso l'erudizione storica, opera meno nobile di settaria partigianeria. Or-
bene, questa è la prima censura, a cui non sfugge il libro di G. E. Curatolo,
Francia e Italia, dettato alla vigilia della nostra entrata in guerra, irto di
citazioni di lettere, brani di giornali, memorie ; libro, che, secondo dichiara
l'A., intendeva, con la storia alla mano, illuminare l'Italia nella grande e
tragica vigilia del suo destino, e che tutto era un vivente richiamo, un appello
insistente ai vecchi « rancori » dell' Italia contro la Francia per ciò che questa
fece, e anche per ciò che non fece, dal 1849 al 1914.
Ma l'errore politico è il fratello germano di un continuo errore storico, in
cui l'A. si aggira ad ogni pagina, non ostante la sua copiosa dottrina in fatto
di storia del nostro Risorgimento, e non ostante la ponderosa mole del suo
volume. Ad onta di tutto ciò, dico, egli poneva male i problemi storici, in
cui via via veniva ad imbattersi, giacché egli sembra aver dimenticato che
compito dello storico non è di sciorinare documenti, più o meno speciosi,
ma di intendere, volta per volta, ogni problema storico, riponendolo all'am-
biente e nell* insieme di rapporti, in cui le circostanze del tempo lo avevano
collocato.
Darò di ciò parecchie prove più innanzi. Ma qui mi assale un dubbio.
È codesto un errore esclusivo del Curatolo, o non piuttosto la consegvienza
del modo in cui, presso di noi, suole condursi lo studio della storia del
nostro Risorgimento? Io sono per la seconda alternativa. La nostra storio-
grafia del Risorgimento italiano è ancora allo stadio di puria apologia, di
pura requisitoria, allo stadio di pura raccolta di episodi e di ^documenti, aliena
da qualsiasi sforzo d'interpretazione intelligente e profonda: O se giudizi e
interpretazioni si danno, i criteri ne sono i più errati possibili. Ogni singolo
fatto è giudicato, non già tenendo conto delle circostanze del tempo, ma alla
stregua dei resultati finali del processo del nostro Risorgimento. Quel ch'è
peggio, la storia del Risorgimento è studiata isolatamente dal contesto univer-
sale della storia europea dal 1815 al 1870, cioè a dire fuori del terreno
storico, che la condizionò e, in parte, la generò.
Delle conseguenze di tutti cotesti errori di prospettiva è testimonianza
precisa, solenne il volume del C.
Ho accennato alla copi^ dell'erudizione del libro e dell'autore. Ma mi
accorgo di dover fare qualche riserva. La «partigianeria», cui accennavo
in principio, ha macolato anche sotto quest'aspetto il volume del C. Darò
alcune prove.
Discorrendo della politica di Napoleone III verso l' Italia nel 1859, il C.
(pp. 31-36) insiste sugli scopi sleali, cui quel principe avrebbe mirato nell'atto
di valicare le Alpi. Egli avrebbe voluto la guerra soltanto per consolidare
il suo trono con la gloria militare, e per continuare, sempre in vista di un
interesse dinastico, a lacerare i trattati del 1815 ; infine, per « rettificare » le
Note, questioni storiche, ecc. .321
frontiere della Francia. Così la guerra del 1859 sarebbe stata l'effetto, di un
piano machiavellico della diplomazia imperiale.
Io potrei a questo punto chiedere quale, se così stessero le cose, sarebbe
stata la colpa del governo francese, giacché, il C. stesso ci aveva in prece-
denza insegnato che le nazioni debbono agire « senza inopportuni sentimenta-
listni^ con sola davanti agli occhi la visione del bene supremo della patria »
(p. v.). Ma io preferisco chiedere qual'è la prova della verità di una siffatta
interpretazione della politica francese al 1859. Codesta prova non esiste, e
l'erudito ha ingannato se stesso prima che i suoi lettori. Egli ha citato un
brano di un tardo discorso parlamentare di Giovanni Bovio, che nulla ha
che vedere con la guerra del 1859, e \ giudizi personali di un più tardo scritto
di Francesco Crispi, ormai piegato al fascino del prussianismo, in cui, per
altro, insieme con talune smentite alla tesi del C, si contengono veri e propri
errori storici, che più in là rileveremo. Fuori di ciò il C. non si è dato la
pena di esaminare la situazione della Francia alla vigilia del 1859, di pene-
trare l'indirizzo generale della politica estera del Secondo Impero.
Se così avesse fatto, avrebbe trovato che la volontà di lacerare i trattati
del 181 5 fu ed è una delle più disinteressate cose della politica del terzo Na-
poleone; che la guerra del '59 segue al consolidamento trionfale del trono del
Bonaparte, gìà avvenuto nel 1856, e che esso fu un atto, destinato a com-
promettere, e che gravemente compromise, i precedenti successi imperiali;
che, infine, la rettifica delle frontiere non fu lo scopo della guerra, ma la con-
dizione che il Bonaparte dovette porre perchè l'opinione pubblica francese
gli consentisse la meno interessata guerra del mondo.
Assai peggio si comporta il C. à proposito della guerra del 1866. L'Im-
peratore, com'è noto, aveva assicurato all'Italia la Venezia, «qualunque fosse
l'esito della guerra». Ma il C. trova perciò che la mala e fiacca condotta
della nostra guerra di allora si deve alle mefistofeliche assicurazioni del-
l'Imperatore, anzi al suggerimento stesso dell'Imperatore (p. 50)..... Costui,
per altro, avrebbe intenzionalmente voluto nuocere all'onore italiano, facen-
dosi, dopo Sadowa, intermediario tra Prussia e Austria. Di questa intenzio-
nalità il C. non può portare alcuna prova. Viceversa, egli, che ben la conosce,
vuol mostrar di ignorare tutta la grande irrequietezza dell'opinione pubblica
francese intorno al 1866 circa l'imperiale deliberazione di neutralità nella
guerra austro-prussiana, e, di conseguenza, il dotto storico, che al solito studia
il nostro Risorgimento, chiudendosi nella considerazione dei soli avvenimenti
italiani, ostenta di non sapere che l' intervento francese, dopo Sadowa, dipese
dalla reazione interna della Francia di contro al nascente pericolo prussiano.
Ma che dire, allorché il C. afferma che fu proprio Napoleone III a im-
pedire, nella pace di Vienna del 1866, la cessione del Trentino all' Italia
(PP- 52-53)? Per affermare ciò egli si fonda sur una notìzia che il Bismarck
avreboe confidata a Francesco Crispi, e che questi annotò in quelle stesse pa-
gine, in cui — vedemmo — aveva giudicata machiavellica la politica di Napo-
leone III nel 1859. L'erudizione del Curatolo non ignora, per certo, ma essa
è sforzata a sottacere, che, prima e dopo la guerra, fu soltanto la Prussia
a negarci il Trentino. L'erudizione del C. sa infatti che cioè consegnato in
•21 — Nuova Rivista Storica.
322 Note, questioni storiche, ecc.
una pubblicazione italiana semi-ufficiale (L. Chiala, Ancora un po' piti di
luce sugli avvenimenti del 1866, Firenze, Barbera, 1902, Appendice ^ pp. 456-57;
528) e in solenni pubblicazioni ufficiale tedesche.* Viceversa, la responsabilità
personale del Bonaparte è nettamente esclusa da un altro storico ufficiale
tedesco, che indubbiamente il C. conosce, Guglielmo Oncken, il quale appunto
menziona i numerosi e vani « passi » dell'Imperatore dei Francesi e gli rim-
provera « la debolezza di aver fatta sua e appoggiato a Vienna la pretesa del
vinto di Custoza e di Lissa... ».2
dome si vede, la forma esatta della inesattezza storica del C. è quella
dell'omissione. Così, se vuol illustrare la politica del Presidente della seconda
Repubblica francese verso il papato, nel 1849, egli dimenticherà la famosa
lettera a Ney del 18 agosto di quell'anno, come dimenticherà la successiva
lettera a Barrot, dopo il Motuproprio di Pio IX del 12 settembre successivo.
Se poi vuole illustrare la politica del Presidente e dell'Imperatore verso il
papato dal 1849 ^ 1870, egli dimenticherà l'invio del ministro Reynal a Roma
dopo il 1856; dimenticherà l'opuscolo famoso Le Pape et l'Italie del 1860;
dimenticherà la missione del Persigny subito dopo il settembre 1864, e così via.
Analogamente il C. registra l'invettiva famosa del Cavour dopo Villa-
franca, ma omette il poco più tardo ed esplicito giudizio del medesimo sulla
politica, immediatamente successiva, del Bonaparte. « Come i germi conte-
nuti nel Trattato di Villafranca si sono sviluppati in modo meraviglioso! La
campagna politica e diplomatica che l'ha seguita è stata così gloriosa per
l'Imperatore, più' vantaggiosa per l'Italia della campagna militare che Ì'ha
preceduta. La condotta dell'Imperatore verso Roma, la sua risposta all'arci-
vescovo di Bordeaux, il suo importante opuscolo, la lettera al P«pa sono ai
miei occhi dei titoli alla riconoscenza degli Italiani più grandi delle stesse •
vittorie di Magenta e di Solferino... Benedetta la pace di Villafranca! Senza
essa la questione romana, la più importante di tutte, non solo per l'Italia,
ma per la Francia e l'Europa, non avrebbe potuto avere una soluzione com-
pleta... ». « L'Imperatore ha reso alla società moderna il maggior servizio che
fosse possibile di renderle. Egli ha acquistato il diritto di essere collocato fra
i pili grandi benefattori dell'umanità ».3
Se infine il C. deve narrare dell'occupazione francese di Tunisi, nel 1881,
al cui possesso i più recenti storici francesi convengono che eguali interessi
(essi parlano esattamente di interessi, non di diritti) portavano Italia e Fran-
cia, egli dimentica assolutamente la parte avuta dal Bismarck nell'aflare,
confermata persino dalle stesse fonti tedesche (cfr. Hohenlohe, Denkwur-
dingkeit, Stuttgart-Leipzig, 1907, II, 306-07) ; dimentica le responsabilità del
governo italiano, censurate dai nostri giornali moderati di quel tempo, e non
vuol mostrar di conoscere, poniamo, gli studi italiani (non stranieri!) più
autorevoli, più imparziali e più completi in proposito, ad es. quello del Chiala
{Pagine di storia contemporanea, i^sz. 2°; Tunisi, Torino, Roux & C, 1912).
» Cfr. voN Keudhll, Bismarck et sa famille (trad. fr.), pp. 229 sgg. ; von Sybel, BegtuH-
dung der deutschen Reiches. MUnchen-Leipzig, 1890-94, V, pp. 370 sgg. ; 402 sgg.
• L'epoca deW Imperatore Guglielmo (trad. it.), Milano, Soc. ed. Libr., I, pp. 731-732.
• Citato In C. TivARONi; L'Italia degli Italiani (1859^6), Torino, 1896, pp. i53-i54-
Note, questioni storiche, ecc. 323
Se infine il C. discorre dei posteriori rapporti fra Francia e Italia fino
al 1914, egli ha cura di mettere in rilievo soltanto gli atti di reciproca osti-
lità e di passare sotto silenzio tutti quelli di carattere opposto, e che furono
assai numerosi, dopo il 1900.
Ma, ripeto, l'errore storico più grave e fondamentale deF libro del Cura-
tolo è l'assenza completa d'intelligenza storica, al cui compenso non basta
r impressionante sciorinare delle citazioni e dei documenti.
Il C. usa valutare fatti antichi con criteri d'età assai più tarde. Ad esem-
pio, egli immagina di credere che la Repubblica romana del 1859 sia stata
giudicata dai contemporanei negli stessi termini, in cui la giudicano oggi
gli autori di libri recenti di storia patria. Viceversa, il Mazzini del 1849, P^^
i due (o per i tre quarti?) dei liberali e dei democratici del tempo, era un pazzo,
un « demagogo », e il suo antitemporalismo, un'utopia pericolosa Il C. co-
nosce certamente il giudizio, che noi oggi possiamo dire sbagliato, ma che
allora rappresentava il pensiero della democrazia moderata, che V^incenzo Gio-
berti dettò sulla Repubblica romana del 1849 : « Il primo errore fu la Repubblica,
il secondo, l'elezione del capo. L'equità, la decenza e la politica consiglia-
vano del pari che la scelta non cadesse su Giuseppe Mazzini Il Mazzini era
in voce di fanatico e perpetuo cospiratore, rappresentava per molti quanto
può figurarsi di più eccessivo in opera di rivoluzione ; dava diffidenza ai savi,
spavento ai timidi, ribrezzo ai religiosi uomini... Una repubblica, capitanata
da un tal uomo, invece di placar gli opponenti, si concitava contro tutti
coloro a cui non va a sangue la signoria dei puritani. Odiando egli la mo-
narchia assolutamente e volendo ridurre tutto il mondo a repubblica, non
sarebbe stato pago a quella di Roma, ma di quivi, come da un centro, avrebbe
cospirato contro i principi in universale. Ora come ciò potesse piacere ai so-
vrani d'Italia e d'Europa ognun sei vede L'intervento [francese] non ebbe
tanto luogo contro il principio democratico, quanto contro il demagogico, im-
personato nel Mazzini, il quale era creduto intendersela di qua dalle Alpi
colle sètte pericolose alla proprietà e alla famiglia ».*
Il C. conosce per certo tale giudizio significantissimo, ma non ne fa
punto menzione. Analogamente, egli immagina di credere che il concetto
dell'unità d' Italia, che prima, del 1860 era soltanto di una piccola minoranza
di mazziniani, sia stato condiviso dalla unanimità degli Italiani, sulla qual base
egli può lanciare le accuse più atroci contro le tendenze federalistiche di
Napoleone III a Plombières Ma, per costruirsi tali fondamenta, egli deve,
fra le infinite cose, scalpellare dalla propria memoria il giudizio che lo stesso
Cavour dava allora degli unitarii : « Manin è sempre un utopista, non ha
dimesso l'idea di una guerra schiettamente popolare , vuole l'unità
d'Italia ed altre corbellerie...^ (Cavour, Lettere, ed. Chiala, To-
rino, Roux, II: 9 aprile 1856, p. 439).
» Del Rinnovamento civile, Bari, 1911, I, pp. 368-9; cfr. pp. 293; 349 sgg. Circa le sinistre
leggende iutorao al Mazzini e all'opera sua rivoluzioaaria, cfr. aache B. King, Mazzini (trad.
it.), Firenze, pp. 167 sgg.
324 NotCt questioni storiche, ecc.
Con criterio analogo, il C. valuta l'opera degli uomini politici secondo
gli attacchi degli avversari... Così, quale unità di giudizio intorno a Napo-
leone III, egli adotta gli Chàtiments e Napoléon le Petit di Victor Hugo.
Il che sarebbe lo stesso che voler intendere e giudicare il grandioso mo-
vimento repubblicano-socialista-francese dal 1851 al 1870 coi criteri della
polizia napoleonica. Nessuno sforzo, nessuna luce per formarsi un concetto
dell'enorme importanza e della funzione del Secondo Impero nella storia
della Francia e dell'Europa durante la seconda metà del secolo XIX; nes-
suno sforzo per penetrare il non facile problema politico della spedizione
francese a Roma del 1849, e per distinguervi le diverse e discordi influenze
che la ispirarono e determinarono. Nessuno sforzo (l'abbiamo accennato)
per intendere la politica papale di Napoleone III; nessuno per ritrovare il
bandolo della fatalmente contradditoria politica italiana di quel principe ;
nulla per ritrovare la chiave della sua politica europea. Così Villafranca,
Nikolsburg, Mentana rimangono, come nei libri per'^le scuole, un mistero
o un parto della malvagità umana. Un altro mistero è l'arrendevolezza, il
« molle contrasto » (come lo definiva il Cavour) della Francia alla spedizione
garibaldina del i86o-6r, mentre il valor politico della Convenzione di settem-
bre è fatto giudicare {incredibile dictu !) dai moti di Torino del 21 e 21 settem-
bre Finalmente la politica francese sulla questione romana intorno al 1870,
quella politica che fece perdere alla Francia l'aiuto italiano ed austriaco ad
un tempo; quella politica che seguirono insieme bonapartisti e repubblicani
antibonapartisti; quella politica di sacro rispetto ai trattati volontariamente
sottoscritti, anche quando il lacerarli era giovevole ; quella politica — dico —
che solo l'Europa del 1914-18 può apprezzare e che ispirò lampi di passio-
nata eloquenza agli uomini politici della Francia martire,* è ancora una volta
profondamente miscompresa e calunniata.
E gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma la conclusione sarebbe sempre
una sola: storia non è ammucchiare citazioni, ritagliare memorie, giornali,
documenti; storia è intendere tutto questo; è tentar di sviscerar le ragioni
di ogni cosa; è illuminare ogni cosa con la luce del proprio ingegno, della
propria coltura, del proprio spirito. Per non aver fatto nulla di ciò, il libro
del C. fu un atto politico pericolosissimo, e rimane tuttavia una peggiore
monografia storica.
C. B.
* Ecco come scriveva allora all' Imperatore il suo Primo ministro, un democratico : * Sire,
l'idea che Vi suggerisce il signor von Beust [il ministro austriaco] è deplorevole e non pratica...
Con l'Italia noi non abbiamo che una sola tesi onorevole, sicura...: la Convenzione del 15 set-
tembre. Se per combattere i Prussiani non. vogliamo divenire come essi senza fede né legge, noi
dobbiamo tenerci. Nessuna alleanza può controbilanciare una mancanza alV onore. "L'onore ci vieta
di uscire da Roma, salvo che con la promessa che l' Italia rispetterà e farà rispettare la Conven-
zione del 15 settembre». Ecco come replicava, in data 25 luglio, il Ministro degli esteri all'am-
basciatore francese a Vienna: « L' imperatore è impegnato [nella Convenzione di settembre] e non
può, né deve, disimpegnarsi. La Francia non può difendere il suo onore sul Reno e sacrificarlo
sui Tevere... > « La sola idea », ribadirà telegraficamente il suo collega, due giorni dopo, « la sola idea
di abbandonare il papa in cambio del concorso dei nostri alleati ci coprirebbe di vergogna*.
(E. Ollivier, Emp. liberal, Paris, 1911, XV, pp. 483; 513). Più tardi al governo imperiale suc-
cederà il governo repubblicano, antibonapartista, della Difesa nazionale, e la risposta sarà sempre
la stessa : « La Convenzione di settembre è ben morta, ma noi non la denunceremo. Se la Francia,
fosse vittoriosa, noi cederemmo al vostro desiderio, ma essa è ben vinta...»
Note^ questioni storiche^ ecc. 325
M cattedra di storia antica nella R. Università di Roma.
Un autorevole giornale romano pubblica la veridica Informazione, che qui
fedelmente riproduciamo :
« È noto che a Roma la cattedra di Storia antica era « affidata al pro-
« fessore Giulio Beloch, tedesco. Con un provvedimento che avrebbe dovuto
« essere stato preso prima, il prof. Beloch — il quale non ha mai fatto mi-
« stero di essere e di rimanere .im fedele suddito del Kaiser — è stato final-
« mente messo a riposo. La Facoltà sta provvedendo alla successione. Ma
« si sa che, per decreto luogotenenziale, fino al termine della guerra sono
« vietati i concorsi. Occorre dunque provvedere con un trasferimento. La Fa-
« colta, per votazione, chiama dà un'altra Università a Roma un professore
« da designarsi con almeno 12 voti su x8 votanti. Sono state poste, per la
«cattedra di Roma, due candidature: quella del prof. Ettore Pais, titolare a
€ Napoli, e quella del prof. De Sànctis, titolare a Torino. La tendenza del
« De Sanctis, il quale è un allievo del Beloch, è stata sostenuta dai proff. Ceci
« De Lollis e Festa dell'Università di Roma. Si è così addivenuti a una
« prima votazione, Eccone i risultati : 1 1 voti favorevoli al prof. Pais, una
«scheda bianca; 6 voti al prof. De Sanctis.
« Si procederà a una seconda votazione, e se ne attendono con interesse
« i risultati. Si osserva una vivace attività di propaganda a favore dei due can-
« didati, e sembra si voglia fare di questa, che avrebbe da essere questione
« puramente scientifica, oggetto di competizioni d'altra natura. Ma è possibile
«che, mentre l'Italia è in guerra, nemmeno all'Università, siano ancora scom-
« parsi i livori di parte ? Ed è possibile che, mentre la Germania si disonora
4(di fronte alla morale umana, ci siano ancora degli araldi della Kulìurfi^.
Queste notizie meriterebbero a loro volta un commento svariato e molteplice.
Ma noi qui vogliamo Jimitar ci ad una sola osservazione. In qualcuno degli
scorsi numeri della N. R. St. ci siamo occupati dell* opera di Giulio Beloch,
fino a ieri professore di storia antica nella R. Università di Roma^ mettendo
in rilievo^ forse primi in Italia^ alcune delle sue manchevolezze. Ora il Beloch
non è piti insegnante negli Atenei italiani, travolto dalla tormenta universale
che tutto scuote e rovescia. E appunto perciò — nel silenzio profondo dì coloro
che per decenni stettero 'curvi intorno al suo trono^ supplicando un cenno di
assentimento — noi, per fortuna insospettabili y vogliamo dire che il Beloch,
insieme con talune qualità negative ^ ebbe grandi pregi, non d'insegnante, ma
di storico: larga erudizione, coltura economica, senso politico, capacità di guar-
dare i fatti dall'alto, una certa arte dello scrivere, che lo distingueva tra i
suoi dotti connazionali, sì che veramente egli fu il più, geniale, il solo geniale,
tra la schiera degli studiosi di storia antica, che presunsero ispirarsi alla sua
scuola e intitolarsi discepoli suoi. Questo vogliamo dire oggi, e forse illustre-
remo domani, in un qualche apposito saggio sulla N. R. St. Ma lo stesso non
possiamo ripetere dell'uomo, che vediamo predestinato a succedergli.
326 Note, questioni storiche, ecc.
Ettore Pais non, è tino storico; dello storico possiede unicamente la fa-
coltà critica^ ma questa degenera in lui in tali eccessi^ da rendere impossibile
la vera opera storica di penetrazione e di ricostruzione. Egli è piuttosto un
bizantino della erudizione^ un maniaco della ipercritica. Tutto quello che di
meno equilibrato, intorno alla storia romana, almanaccarono i critici tedeschi
del secolo XIX egli lo ha ridotto a sistema in volumi invalicabili, fiei quali
lo spirito di demolizione sembra essere un preconcetto, piuttosto che la conse-
guenza naturale di uno studio serenamente intrapreso. Là dove Niebuhr a
Mommsen avevano mosso dubbi e sospetti egli ha affermato sicuramente ; là
dove i criticastri avevano negato, egli pensò bene di snodare tutta la catena
delle conseguenze negative. Egli si presenta così come il maggiore responsabile
della distruzione della storia romana, che da cinquant' anni si perpetra nelle
scuole italiane. Lo è stato fino al punto da destare — egli ch'era l'importatore
riconosciuto dei metodi germanici in Italia — il cruccio e lo sdegno nei Te-
deschi stessi, da cui avea preso le mosse. I critici d'oltre Alpi videro a un
certo punto che l'imitatore nostrano era la parodia vivente dei loro criterii
scientifici e lo ammonirono di non essere più. tedesco dei Tedeschi. . . ^ Qualcuno
di noi ricorda ancora Vacre disdegno di Teodoro Mommsen dinarizi all'opera
paisiana. Ma sono note le accuse di vassallaggio intellettuale germanico rivolte
al Pais dallo stesso Beloch.^ Or bene, per noi che, fortunamente , possiamo
considerar la cosa nei soli riguardi della coltura, l'allontanamento del Beloch
dalla cattedra di storia antica in Roma fion può avere il semplice significato
di un atto di polizia interna: esso deve esprimere la ferma volontà di confe-
rire a menti e a spiriti, italiani per educazione e per sentire, quella cattedra
» Cfr. O. E. SCHi\il>T,Die gegenwdrtige Krisis in der Auffassung cUr alteren romischen Gè-
schichte (in N. Jahrbùcher fùr d. klass. Altertum (1900, pp. 38sgg,):
«Lo scetticismo critico guadagna terreno anche fra i dotti non tedeschi. In Italia, di re-
«cente, un cospicuo professore universitario — Ettore Pais — si è posto contro la tradizione ro-
«< mana, tutto informato allo spirito del Niese, anzi, nella sua inclinazione allo scetticismo, ha
«oltrepassato il Niese stesso » (p. 39). Il P. ha pubblicato due grossi volumi e un terzo geme sott»
* torchi. « Tuttavia egli e ancora lontanissimo da una esposizione della storia romana ; i due
« volumi fin ora pubblicati contengono solo un esame critico della tradizione... Si ha dell'Autore
« l' impressione come di un uomo oppresso sotto il peso del materiale raccolto... e che perciò si sforza
« in certo modo di liberarsene pubblicandolo... La lettura dei due volumi, che ci stanno dinanzi, noa
« è davvero un diletto, ma una fatica, che solo pochi tedeschi potranno realmente aver la pazienza di
« condurre fino in fondo... » yp. 40). « Nella distruzione della tradizione il Pais era stato preceduto
«dal Niese» (pp. 42-43), «Il suo procedere di fronte al racconto tradizionale è quello di un dia-
« gnosticatore in pena... Egli rigetta, non solo quello che non ha senso e che è pieno di contradi-
«zioni, ma anche quello di cui si può in un modo qualsiasi sospettare... Il P. non si domanda se
« una notizia o una persona della storia romana siano o no inverosimili, ma senza scrupolo giudica
«decisamente come falsificazione ciò che può .eventualmente entrare in qualcuna delle categorie
« da lui stabilite ». « Perciò il P., nel suo radicalismo critico, non solo va al di là di Niebuhr e di
«Mommsen, ma anche del Niese» (p. 41-42). «Noi troviamo in lui la stessa fede nella propria
«infallibilità che si nota in molti altri moderni : ciò che Polibio e i suoi contemporanei, Scipione
«e Lelio, non intesero esattamente, è inteso in modo perfetto dal professore del secolo XIX... E chi
«difende le vedute e l'apprezzamento di Polibio; dimostra mancanza di metodo o dilettantismo...
« Da ciò la sua inclinazione verso le teorie più radicali; da ciò il suo conseguenzialismo senza riguardi»
« che non gli permette di porgere ascolto a voci moderate e a correzioni, fino a che finalmente, senza
«accorgersene, egli si. perde in un labirinto di soggettivismo smodato e di sterile speculazione...*
• G. Beloch, in /?i». d'Italia, 1912, p. 537: « Io non appartengo a nessuna delle scuole
«esistenti in Germania; il prof. Pais invece è uscito dalla scuola del Mommsen ; ne è anzi uno
«dei rappresentanti più autorevoli. E suppongo che egli non vorrà rinnegare'' ora il suo Maestro,
« il ritratto del quale troneggia, o troneggiava fino a poco tempo fa, Nume tutelare del luog»,
«sul suo tavolino da studio».
I
Note» questioni storiche, ecc. 327
che è simbolo e pegno solenne del nostro patrhnonio storico e intellettuale . Se
dunque il nostro non è il paese delle contradizioni e delle transazioni rivol-
tanti, alla cattedra universitaria di Roma non può degnamente rispondere la
personabilità scientifica di Ettore Pais. Sappiamo bene che Facoltà e ministri
non hanno largo campo di scelta nel nostro devastato mondo ufficiale, ma non
è perciò detto che la buona scelta debba essere proprio la scelta peggiore.
G. P. ; C. B.
< La Voce dei Popoli » organo della Giovine Europa/
La necessità di sottrarre per sempre al militarismo prussiano gli aiuti
delle nazioni oppresse e di tutti gli Slavi irreggimentati al conseguimento dei
suoi fini imperialisti; la necessità di isolare l'Austria, sia sul versante russo
che su quello balcanico con un cordone continuo di Stati indipendenti dalla
Vistola al Danubio; la scomparsa del pericolo panslavista o delle preoccu-
pazioni che da esso derivavano, donde la via libera a patti più cordiali con gli
Slavi del Nord e del Sud ; da ultimo lo svanire di ogni speranza riposta in
una resipiscenza democratica del popolo germanico o in una sfaldatura del
blocco centrale: questi sono stati i fatti maggiori che hanno indotto l'Italia a
fare nuovamente suoi il programma e lo spirito mazziniano, là dove si pro-
ponevano di affidare al nostro paese l'iniziativa di una trasformazione europea
secondo il principio di nazionalità.
Da qui una nuova letteratura storico-polemica, mirante ad una vigorosa
offensiva morale e politica contro il nemico, e contfo l'Austria, in modo più
particolare, per Fintesa di tutti i popoli etnicamente fuori del germanesimo,
ma socialmente e militarmente soffocati dalla sua stretta con la complicità di
Vienna e di Berlino. Queste idee, che ebbero nel nostro Gaetano Salvemini
il primo divulgatore tenace e, nella sua,« Unità », la prima palestra di adde-
stramento, avranno, e hanno cominciato ad avere, un ausiliario bene promet-
tente in un nuovo organo di studio e di propaganda, « La Voce dei Popoli »,
il cui primo numero contiene già tutte le principali questioni che si collegano
al diflScile problema del dopo guerra : rispetto alla Boemia nell'Europa futura,
alle convenienze di un accordo coi Jugoslavi, alle rivendicazioni romene, a
quelle polacche, belghe, ecc. Questo primo numero, a cui hanno collaborato
U. Zanotti-Bianco, Edoardo Benes, lasa Grgachevic, P. M. Commène, ce. ecc.,
parla con voce non indegna del Grande agitatore, « per quei che giacciono
alla base della gerarchia europea ».
E. R.
Di parecchie altre riviste, sorte in questi due ultimi mesi — V Intesa in-
tellettuale (ed N. Zanichelli) ; V Italia che scrive (ed. A. F. Formiggini) ; / libri
del giorno (ed. F.lli Treves); Il Rinnovamento (dir. A. De Ambris) ; la Rasse-
gna italo-britannica, ecc. — discorreremo con più agio in un prossimo numero.
» Direttore Umberto Zanotti-Bianco. Anno I, n. i, aprile 1918.
I
Articoli che vedranno la luce nei prossimi numeri :
Corrado Barbagallo, L'Italia dal 1870 ad oggi: saggio storico.
Idem, V Oriente e l'Occidente nell'Impero romano.
Carlo Paladini, Un invito dell'Inghilterra all'Italia in Egitto.
Aldo Ferrari, L'opera storica di Giuseppe Ferrari.
Anna Vera Eisenstadt, La preistoria della rivoluzione russa.
Alberto De Stefani, Le « idee madri ^ di Vilfredo Pareto.
Guido Santini, Storiografia elementare.
Giuseppe Pardi, Un bilancio preventivo dello Stato fiorentino nel 1544.
Gellio Cassi, Meditazioni storiche: considerazioni e raffronti.
Gerolamo Lazzeri, Le teorie storiograficlie di Benedetto Croce.
Amedeo Mazzotti, La * filosofia della storia* di Guglielmo Ferrerò.
Epicarmo Corbino, // progresso economico della Sicilia negli ultimi decenni.
Antonio Sogliano, La bandiera dell'ellenismo.
Ivan Grinenko, Le correnti federaliste nella storia della Russia e nella lotta politica
odierna.
Umberto Ricci, Sulla opportunità della storia della economia politica italiana.
Italo Pizzi, Della così detta civiltà degli Arabi.
Valentino Piccqli, Rassegna giobertiana.
Guido Porzio e Corrado Barbagallo, Scrittori vissuti di storia antica in Italia:
G. Beloch; E. Pais ; Q. De Sanctis; G. Ferrerò; E. Ciccotti.
Idem, La rivoluzione dei Gracchi.
G. Urbini, // romanticismo natile arti figurative in Italia.
È già pubblicato :
Per l'iiaoità Maiolliifa Btt: Dmiì e Baliaolie
Milano-Roma-Napoli — Società Editrice Dante Alighieri di Albrìghì,
Segati & C, pp. viii-137, Lire 2,50, di cui qui diamo ii Sommario;
PREFAZIONE (Oli Editori); INTRODUZIONE (C. Barbaoallo); In che consiste Veman-
eipazione della coltura nazionale (E. Ciccotti); Per Vemanclpazione della coltura italiana {A
proposito di un artìcolo di O. Vitelli) (C. B.); Filologia e Storia (A. Ferrari); Per l'autonomia
letteraria e spirituale (R. Mondolfo); Filologia italiana e filologia tedesca (Q. Fraccaroli);
Filologia e letteratura : coltura tedesca e coltura italiana (Q. Fraccaroli) ; A proposito di una
polemica di cottura (P. Terruzzi); Storia, coltura e metodo storico: lettera aperta a G. Salve'
mini (C. Barbagallo); Le discipline storiche e l'ora presente (E. Bignone); La bandiera del'
l'ellenismo (A. Sqoliano); Un processo filologico-storiografico..... (F. Ouolielmino) ; EPILOGO
(C. Barbagallo). — APPENDICE : I. Per la serietà della scuola italiana : la questione del
libri scolastici del Barbagallo (E. Pangrazio); II. L'indirizzo culturale di Girolamo Vitelli e
della sua scuola (C. B.).
A scanso di equivoci e di erronee interpretazioni dichiariamo una volta
per tutte che del contenuto SPECIFICO dei singoli articoli la responsabi-
lità appartiene interamente agli autori che li sottoscrivono.
A. Medici, Gerente responsabile.
Città di Castello, Tipografia della Casa Editrice S. Lapi^ 1918,
Anno II. Luglio-Agosto 1918. Fasc. IV.
^uo9a ^\9\s\a 2)^or\ca
L'OPERA SMICA 1)1 GIUSEPPE FERRARI
Lo sviluppo intellettuale.
La produzione di G. Ferrari (1811-1876), voluminosissima, multi-
forme, diversissima di valore, è come un gran campo incolto, dove in
mezzo al popolo verde delle erbe crescono egualmente le pianticelle
maligne e i fiori pia meravigliosi della schietta natura ; onde, per non
commettere errori di giudìzio generalizzando a tutti i suoi libri i pregi
o i difetti di qualcuno, e per evitare le opposte esagerazioni degli
idolatri e degli iconoclasti, bisogna raccogliere le sue opere in gruppi
separati secondo un criterio di valore, che corrisponde suppergiù al
criterio cronologico. Se ne possono infatti comporre quattro gruppi:
le opere giovanili (1835-1843), per lo più di argomento filosofico, quasi
tutte di pregio molto limitato per la debolezza e confusione del giu-
dizio; la Filosofìa della Rivoluzione (1852), potente ma oscura; le Rivo-
luzioni d* Italia e gli Scrittori politici (1858-1862), che insieme alla
costellazione dei minori saggi storici contemporanei, sono veri e pro-
pri capolavori per l'unione felice della giustezza e sicurezza di criterio
con la mirabile forza interpretativa e rappresentativa; infine, gli altri
scritti posteriori (1862-1876), viziati fondamentalmente e irrimediabil-
mente dal pregiudizio della filosofia della storia.
Le opere del primo periodo trattano di solito argomenti filosofici
d'ogni genere, per lo più sotto»- forma di critica, senza limitazione dì
tempo o di luogo; ma la mancanza di un sistema formato impedisce al-
l'autore di veder chiaro e di esprimersi preciso. Si direbbe che egli
abbia piuttosto la sensazione confusa che non il concetto esatto della
importanza dei problemi, della posizione dei pensatori, delle scoperte
330 Aldo Ferrari
da essi fatte, delle verità da essi ritrovate. Questi libri sono sopratutto
riassunti, abbastanza lucidi e ordinati, a dire il vero, delle dottrine
studiate, di fronte a cui egli non s'attenta di prender netta posizione,
ma che cerca far giudicar dalla storia raccogliendo le crìtiche dei po-
steri. Comincia però a spuntare anche il primo accenno di un sistema
originale. Prendendo posizione fin da principio contro il sensismo del
secolo XVIII, senza per altro accettare il puro idealismo, il Ferrari cerca
di distruggere con la critica la logica, per sostituirvi la rivelazione nata-
rate, che vince lo scetticismo, sfuggendo alle contradizioni metafisiche
con l'affermare la verità dell'apparenza ; ammette una facoltà originaria,
che combinandosi con la sensazione produce le idee; sostiene, pur ac>
Gettando l'utilitarismo, l'irreducibilità del sentimento morale, nato dal-
l'interesse, ma inconfondibile con esso.
Un posto a parte fra questi primi saggi merita lo scritto sulla Lette-
ratura popolare in Italia,^ dove il buon senso e il buon gusto gli tengon
luogo di criterio, per là giustezza di vedute con cui esamina la lette-
ratura dialettale italiana, così copiosamente ricca di capolavori, ignorati
anche oggi dalla generalità dei letterati, i quali considerano il dialètto
come roba da comari in pettegolezzo o da facchini in riposo domenicale.
La Filosofia della Rivoluzione^ cerca di raccogliere in sistema le
idee del Ferrari. Questi viene comunemente classificato come uno scet-
tico: così lo definiscono il Cantoni,^ il Fiorentino,* il Nicoli,^ il De
Ruggiero,® sebbene il De Sanctis,^ non lasciandosi ingannare dall'eti-
chetta, preferisse aggregarlo all'indirizzo critico, e il Gentile * finisca
col riconoscere che in ogni caso lo scetticismo del Ferrari è di marca
tutta speciale. 11 Ferrari invece è un inconscio hegeliano: porta nella
filosofia sua, fosforescente e confusa, l'esigenza ancora oscura del supe-
ramento di Hegel, ne accenna la strada, e disegna le prime linee del
sistema destinato a succedergh'. Messosi a lottare corpo a corpo con
quel gigante della filosofia moderna, ne intuì il punto debole (confusione
dei concetti opposti e dei concetti distìnti) e quivi concentrò i colpi della
sua critica dissolvitrice, guidato in quelle tenebre crepuscolari da un
1 In Revue des Deux Mondes, 1 giugruo 1839 e 15 gennaio 1840; ripubblicato poi
con qualche aggiunta e correzione negli Opuscoli politici # Mterari, CapoUgo, Elve-
tica, 1852.
» Londra, s. t., 1851.
3 Q. Ferrari, Milano. Brigola, 1878.
* Scritti vari, Napoli, l676,' pp. 35 e segg.
* la mente di O. /="., Pavia, Cooperativa, 1902.
< La filosofia contemporanea, Bari, Laterza, 1911, pp. 157-159.
7 Storia della Leti, ital., Napoli, Morano, U, p. 463.
« Q. Ferrari, in Critica, 1903, p. 199.
U opera storica di Giuseppe Ferrari 331
oscuro istinto più forte del suo pensiero; ma era stato poi vinto senza
accorgersene da quel che in Hegel era di immortale; ed aveva tradotto
nei guizzi pirotecnici del suo pseudoscetticismo, tra contradizioni e in-
certezze, le verità da quello scoperte (dialettica interna del divenire
— eterno e contemporaneo fluire della realtà e del pensiero - imma-
nenza — razionalità della realtà e della storia) e preannunziato, a dir
vero piuttosto con l'ambiguità dell'indovino che non con la chiarezza
del precursore, il superamento di quella filosofia (autonomia dei gradi
dello spirito -- irreducibilità rispettiva e rapporto di arte e logica,
d'interesse e morale). La dimostrazione di ciò è stata data ampiamente
dall'autore di questo scritto in altro luogo.^
Il Ferrari non è un filosofo sommo e nemmeno un filosofo com-
pleto. Non solo non ha le doti esteriori dell'ordine e delia chiarezza; ma
si direbbe che nel procedimento logico segua la forma dell'espressione
artistica, sicché par quasi arrivare al vero piuttosto col volo della poesia
che non co! rigore esatto del raziocinio. Quindi la misura completa
del suo genio si ha solo nelle opere di storia concreta immediatamente
susseguenti al sistema filosofico, cioè le Rivoluzioni d'Italia e gli Scrit-'
tori politici^ con qualche saggio minore.
La storia d'Italia.
Prendendo a rovescio l'indirizzo intellettuale del Settecento, astratto,
antistorico, tendenzioso e polemico, la reazione, che in sui primi dell'Ot-
tocento s'inizia contro la Rivoluzione Francese, sia nel campo della po-
litica che in quello del pensiero, richiama in onore la storia. La quale
diventa narrazione, non più degli errori, ma dei tentativi che l'uma-
nità ha fatti per raggiungere la giustiiia, la spiegazione e la giustifi-
cazione del passato necessario e giusto, un prodotto scientifico ogget-
tivo, superiore, almeno teoricamente, alle tendenziosità politiche^ per
quanto in pratica inquinato da una tendenziosità opposta. Indi il suo
rispetto ai fatti, il pregio restituito all'erudizione, per quanto questa
non sia di marca troppo fina, l'adozione del concetto di svolgimento
che deve giustificare il passatp necessario di fronte alla ragione con-
creta, il ripudio della ragione astratta incurante di tempi e di luoghi,
Vico tornato in onore come il primo Italiano che avesse insegnato
la razionalità e lo svolgimento della storia. I rappresentanti del nuovo
indirizzo, che formarono la scuola cattolico-liberale o neo-guelfa (Man-
zoni, Troya, Capponi, Balbo, Gioberti, Tosti, Tommaseo, Cantù),* se-
> A. Ferrari, Giuseppe Ferrari, Genova, Formigginl, 1914» pp« 45-69.
* Vedi : U. Rosa, Storia generale delle storie, Milano, Hoepli, 1873 ; B ClKK^B^
Storia della storiografia in Italia, iu Critica, 1915-1916.
332 Aldo Ferrari
gnavano anche nella pratica un progresso notevolissimo, per quanto
non così grande come nella teoria, sia nelle idee generali sulla storia
d'Italia (collocamento dell'Italia nella storia del mondo — riabilitazione
del Medio Evo — asserzióne del principio federale contro l'unitario — im-
portanza del Papato come gloria nazionale — lotta, non accordo, fra in-
vasori e Latini), sìa nelle scoperte particolari (guerra nazionale contro i
Longobardi — origine italica dei Comuni). Ma contrastava al giusto con-
cetto che essi avevano della storia un superstite moralismo prodotto dalla
confusione fra giudizio morale e giudizio storico, e un'ombra di teocra-
tismo, per quanto questo si riducesse alla forma, naturale ed umana, di
un'interpretazione, condotta secondo il punto di vista d'un'istituzione,
storica e reale, come la Chiesa. Contradiceva poi alla larghezza di criterio,
con cui giudicavano il passato, l'angustia di pensiero per cui non accetta-
vano le età più vicine, il presente, e accettavano solo in parte il movi-
mento rivoluzionario del loro tempo. Nella sua opera concreta la ten-
denza della scuola era tanto visibile, che eccitò una reazione, la quale
prese naturalmente, per quanto impropriamente, il nome di ghibellina
(Niccolini, Vannucci, La Farina). Inferiori per senso storico ai loro oppo-
sitori, incuranti della precisione, tronfi di stile, risottomettendo la storia
al capriccio individuale, essi rappresentavano nello stesso tempo il con-
cetto unitario ripreso da Machiavelli, altrettanto erroneo come criterio dì
interpretazione che il concetto di indipendenza del Balbo; e continua-
vano l'opposizione razionalistica e atea dei ghibellini medievali alla
devozione dei neo-guelfi, la quale andava a finire nella reazione. Questa
posizione sentimentale dava loro ragione contro gli avversari e segnava
un progresso teorico in mezzo a tanto regresso pratico.
Ma il vero superamento della scuola cattolico-liberale si ha solo
nel Ferrari, che, come ogni gran pensatore, continuatore, discepolo,
e nello stesso tempo avversario, dei maestri da lui combattuti, ne as-
simila tutto il buono e ne rigetta tutte le limitazioni retrograde e set-
tarie, e porta la storia a una altezza interpretativa non mai raggiunta,
a uno splendore di rappresentazione, davanti a cui le più belle pagine dei
suoi predecessori sembrano come appannarsi. Sollecito dell'erudizione
e dell'esattezza documentaria, il suo rispetto al passato è ancora più
completo; la sua oggettività, ancora più assoluta, perchè non obbedisce
a preferenze di epoche o di tendenze; la razionalità della storia viene
più compiutamente dimostrata da un pensiero puro di ogni residuo
teocratico; la necessità di essa, affermata con una energia che ributta
ogni incompetente moralismo. Egli volta contro i cattolico-liberali, che
giustificavano il passato e combattevano il presente, tutti i loro prin-
cipii condotti alle logiche conseguenze; e dimostra contro di loro la
razionalità del movimento rivoluzionario contemporaneo e del presente,
U opera storica di Giuseppe Ferrari 333
nemico e figlio del tanto ammirato passato, pur esso ai suoi tempi
giusto, ma che, appunto perchè tale, deve esser morto per sempre. Ac-
cetta il concetto di svolgimento,' ma ne determina con molto maggiore
esattezza le due forme necessarie e irreducibili : lotta interna di partiti
e lotta esterna di nazioni ; rivoluzione e guerra, che sono, per così dire,
le due gambe su cui si muove l'umanità in progresso. Egli sa collocare
veramente l'Italia nella storia europea, anzi mondiale, non sottometten-
dola a un principio, per quanto largo sempre limitato nella sua con-
creta realtà, come il Papato ; ma dimostrandola viaggiante per una serie
di rivoluzioni similari a quelle di ogni altra nazione. Pur riconoscendo
la grande importanza del Papato nella storia medievale, egli la contiene
nei suoi giusti limiti, opponendo al principio cattolico un altro prin-
cipio, non meno irreducibile, assoluto, opntpresente in ogni rivolgi-
mento italiano: l'Impero, anch'esso creazione nostra nazionale, e col-
legato col primo in una infrangibile dualità per formare il sistema
politico d'Italia. Dimostra come nel Papa, allo stesso modo che nell'Impe-
ratore, diventati dopo il mille poteri conservatori, non si esaurisse la vi-
talità politica italiana, che stette sopratutto nel popolo, solo vero grande
protagonista di tutte le epoche del Medio Evo : esso creatore del Pa-
pato e dell'Impero contro la minacciosa possibilità del Regno; esso in
lotta poi col Papato e con l'Impero per riformarli, costringendoli ad
accettare e legalizzare le progressive libertà conquistate nella abba-
gliante, vertiginosa, fantastica serie delle sue rivoluzioni.v Con non
minore energia sfata il pregiudizio dell'indipendenza, che riduceva tutta
la storia italiana a un controsenso continuo, a una assurdità storica, e
condannava il Balbo a miscomprenderla nel modo più irragionevole ; ri-
getta l'antipatia contro il Rinascimento, figlio più che oppositore del
Medio Evo, sua diretta continuazione e conclusione nella lotta della ci-
viltà latina contro l'invasione dei Barbari ; confuta la tentata apologia di
alcuni barbari (i Goti del Troya) contro altri, tutti simili nell'oppressione
agli Italiani, tutti egualmente da essi combattuti nella aspirazione al Regno.^
Le Rivolazioni d'Italia^ sono una vera e propria storia nazionale
dalla caduta dell'Impero romano ai giorni nostri; più estesa e parti
» Predecessori del Ferrari, in quanto, superiori come lui alle passioni di parte,
attinsero i loro criteri di interpretazione nelle pure regioni dell'intelletto sono : V. Cuoco
col suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801), in cui si giudi-
cano gli avvenimenti con la più serena imparzialità filosofica, e M. Amari, nella Guerra
del Vespro (Parigi, 1842) e nella Storia dei Musulmani in Sicilia (Firenze, Le Mon-
nier, 1854-1872), che sostituisce agli idoli individuali i popoli, e domina la storia da
un'altezza superiore tanto alle tradizioni guelfe e ghibelline quanto alle vanità nazio-
nali e ai pregiudizi di razza.
« 1* edizione, Paris, Didier, 1850; 2' edizizione, Milano, Treves, 1,870-72.
334 -^/flfo Ferravi
colareggiata per lo spazio di tempo compreso tra il Q62 e il 1530, in
cui più piena fu la libertà dell'Italia, più potenti e brillanti le sue lotte
interne, indiscusso il suo predominio nell'Europa. In quest'opera il
Ferrari dà l'interpretazione più profonda ed esatta che ancor si abbia
del nostro Medio Evo, rivelandovi la grandezza della patria nostra, che
risiedette, non nel chiuso orgoglio di una indipendenza non mai deside.
rata né cercata, ma nell'essere il centro ideale del mondo, che irraggiò
a tutte le nazioni, costrette a imitarla, le onde delle sue continue e pro-
gressive rivoluzioni, sotto la gran repubblica universale del Papa e
dell'Imperatore, da essa suscitati. Gli Scrittori politici * sono come uno
specchio gigantesco, che riflette la storia d'Italia. Essi ne spiegano e ri-
producono le rivoluzioni ingrandite a utopie, narrano lo svolgersi delle
teorie che si susseguono e si combattono, imitando nel campo del pen<
siero puro la realtà, e rivelano la ricchezza sotterranea della letteratura
politica nostra, interpretata con una profondità, che non impedisce il
volo della più entusiastica poesia.
Molto importanti, per quanto inferiori in tutto a questi due capo-
lavori, sono pure i saggi di storia italiana contemporanea, quasi tutti
pubblicati in riviste francesi per far conoscere la nazione nostra al-
l'Europa.*
Valore deirinterpretazione storica del Ferraris
L'interpretazione storica, che il Ferrari dette del Medio Evo, rimane
ancor oggi insuperata. Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fatta
del sistema papaie-imperiale, il quale solo può dominare e spiegare con
l'unità d'una legge l'esuberante varietà delle forme politiche, che assume
Io spirito italiano, scisso nelle due eterne antitesi dei Guelfi e dei Ghi-
bellini ? Solo quando si parta dal concetto che gli Italiani lottano, non
per una indipendenza che sottragga la nazione al Papa e all' Impe-
ratore, ma per la libertà e per il progresso sociale; non per distrug-
gere, ma per riformare gradualmente la repubblica dualistica che è
la loro franchigia, diventano intelligibili le Innumerevoli battaglie che
ebbero II loro campo fra le Alpi e il mare. Il popolo italiano è il gran
1 MUano, Manin!, 1862.
* La philosophie mtkolìqae en Italie» in Revue ttes Deax Mondes, 15 marzo e 15 mag-
gio 1844 ; La revolution et les révolutionnaires en Italie, ibid., 15 novembre 1844 e
1 gennaio 1845 ; De Varlstocratie italienne, ibid., 15 agosto 1846 ; De la Renaissance
ttalienne, in Revue indipendente, 10 e 25 novembre 1847 ; £a revolution et les réformes
en Italie, ibid., 10 gennaio 1848 ; Machiavel juge des revolutions de notre temps, Paris,
loubert, 1849 ; L* Italia dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, Capolago, Elve-
tica, 1852. Quasi tutti questi scritti furono ripubblicati in italiano negli Opuscoli poli-
tici e letterari tìiAtì,
V opera storica di Giuseppe Ferrari 335
protagonista che adopera i papi e gli imperatori, imponendo loro le
parti che devon recitare sulla mobile scena della storia ; che chiama e
distrugge gli stranieri ; sfrutta tutte le invasioni ; maneggia Francesi e
Tedeschi per conquistare una sempre più larga democrazia. Tutta la
gran guerra delle rivoluzioni italiane si riduce, come per Vico la guerra
interna della Repubblica romana, a un contrasto sociale del popolo con
Taristocrazia ; che è nello stesso tempo contrasto di razza, perchè il
popolo è italico e romano, mentre Taristocrazia è formata di Goti, di
Longobardi, di Franchi, di tutti gli invasoti e dei loro discendenti. La
guerra contro il regno barbarico straniero dei Goti e dei Longobardi ;
quella contro il regno barbarico indìgeno dei Berengari e degli Arduini ;
la rivoluzione dei Vescovi contro i Conti sono nello stesso tempo lotte
di classe e lotte di razza : da una parte, il popolo romano, dall'altra,
i conquistatori barbarici. E poiché i Barbari hanno piantato più pro-
fonde radici nelle città militari da essi colonizzate, la lotta fra le città
romane e le militari si colloca pure sotto questa duplice antitesi; come
la lotta delle città contro i castelli, dei Cittadini contro i Concittadini,
dei Guelfi contro i Ghibellini. Se non che, man mano che si procede
nella fusione etnica, la lotta attenua il suo carattere di opposizione
di razza per accentuare quello di contradizione di classe. Già, nella
guerra contro i castelli, i feudatari, combattuti dalle città militari, barbare
di tendenza, si romanizzano facendo alleanza con le città romane ; co-
sicché nell'era seguente noi assistiamo a una lotta incrociata, di modo
che, nelle città romane, i Cittadini sono romani e i Concittadini, bar-
bari, mentre nelle città militari accade il rovescio. Nel periodo suc-
cessivo il popolo è guelfo nelle città romane e ghibellino nelle militari.
E siccome la vittoria spetta all'elemento romano e all'elemento popo-
lare insieme uniti, trionfano le grandi città dell'industria e del com-
merciQ; e il progre«so della democrazia va di pari passo col risorgere
dei grandi focolari della civiltà romana; finché, con la costituzione
della lega federale del 1454, il movimento indigeno è esaurito, e i
nuovi progressi della democrazia vengono dall'estero trasmessi a noi
dal Papa e dall' Imperatore per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini.
Non meno chiaroveggente ed esatta é l'interpretazione che il Ferrari
ci dà dei particolari periodi storici. Alcuni periodi, come quelli dei Ve-
scovi, dei Cittadini e Concittadini, dei Tiranni, sono da lui addirittura
scoperti ; ma anche quegli altri, che già si conoscevano, di che luce non
vengono ora illuminati! Egli non usa le partizioni comuni, le quali
hanno il difetto di abbracciare troppo tempo e di sottomettere a volte
la nostra storia a un principio straniero, che non ebbe mai fra noi cit-
tadinanza é fu sempre combattuto dall'espansione originaria nostra : per
esempio, l'enorme periodo, detto comunemente del Feudalesimo, che ya
336 Aldo Ferrari
da Carlo Magno ai Comuni, è da lui decomposto nei due minori della
Lotta contro il regno barbarico interno e dei Vescovi. Egli veramente
ci spiega la caduta dell' Impero romano, che percuote di spavento, come
un misterioso cataclisma fisico, dimostrando che fu rovesciato dai popoli
irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piuttosto una invasione stabile
che il continuamente rinnovantesi disastro delle invasioni maneggiate
dal governo. Egli veramente rende intelligibile la lotta delle investiture,
guidata, non dal Papa e dall'Imperatore, ma dal Popolo italiano, che
si giova dell' uno contro l'altro per modificarli a vicenda e costringerli
ad accettare. nel patto di Carlo Magno la rivoluzione della libera ele-
zione dei vescovi. Egli sa ritrovare il filo del progresso logico in mezzo
allo sconvolgimento vertiginoso della crisi militare, che deve assegnare
ad ogni città il raggio di espansione corrispondente alla sua potenzia-
lità economica. Egli classifica il periodo della Decadenza dei Signori
come restaurazione papaie-imperiale, non quale conquista straniera,
perchè liberamente invocata e accettata dai popoli, che non si difendono
nemmeno con una battaglia.
Nessuno ha saputo giudicare e giustificare con tanta altezza di
criterio il passato, tutto il passato. Guardate con quanta piena giu-
stizia egli riabilita il Medio Evo, combattendo le esclusive esageraziohi
opposte dei classicisti fanatici del Rinascimento e dei romantici e cat-
tolici entusiasti del Medio Evo. Egli sfata l'assurda leggenda della deca-
denza, dimostrando come anche nei secoli più oscuri il progresso
sociale continui sotterraneo ; come il popolo nostro non sia mai stato
schiavo, ma abbia, o accettato liberamente le invasioni perchè gli por-
tavano un progresso sociale, o lottato contro i conquistatori così ter-
ribilmente fino a distruggerli; dimostrando come egli solo sia il prota»
gonista oscuro e possente di nove secoli di storia splendidissima. Egli
dimostra come non sia mai 'stato immerso nel puro misticismo questo
popolo, che, anche nelle epoche più teocratiche, volto alla guerra, si
giovava della religione come di un'arma non meno possente delle spade
gotiche e delle aste longobarde, per dominare con la magia di una
superstizione formidabile gli enormi bestioni vellosi e truculenti dei
Barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio dei Romani. Mostra che
poi, dal tempo. dei Consoli, rigettando l'aiuto della Chiesa, ormai inu-
tile, esso si volse con energia meravigliosa alle opere dell' industria e
del commercio e diventò il banchiere dei re d'Europa, e ridusse la
religione a una tradizione, da cui. gli artisti potessero evocare una folla
di capolavori; che passò novecento anni in mezzo alle passioni forse
più violente della vita — quelle politiche ~ cOn la spada alla mano.
La decadenza politica comincia proprio nel periodo del Rinascimento,
quando la civiltà trasporta altrove i suoi centri d'irradiazione e l' impulso
L'opera storica di Giuseppe Ferrari 337
viene -dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile non c*è nemmeno al.
lora, come non c*è alla caduta dell'Impero romano, come non c'è al
prevalere della Signoria sopra il Comune. Il grande progresso sociale
della democrazia continua, anche se proviene dall'Europa, più innanzi
ormai nella scala storica, per accrescere dì continuo la potenza dei
centri romani, delle città industriali e commerciali. Non v'ha salto, come
non v'ha decadenza, in tutta la distesa della storia italiana ed europea.
Questo grandissimo contributo di scoperte è alla storia italiana
portato tutto dal Ferrari, con la forza originaria del suo genio. Qual-
che somiglianza che si può trovare con storici stranieri non ne dimi-
nuisce affatto il merito. Le opere più vicine alla sua sono la Storia
delle Repubbliche italiane del Sismondi * e le Revolution^ d* Italie del
Quinet.^ Ma la prima è troppo fuori dalla concezione del Ferrari, per
a unilateralità del criterio, che vuol ridurre tutta la storia d'Italia alla
storia delle repubbliche ; con la seconda non c'è altro serio punto di
contatto che il titolo, del resto ormai classico.^ Se qualche vaga somi-
glianza di concezione vi si trova (l' Italia spiega l' Europa — la sua
lotta è per la libertà, non per l' indipendenza — Venezia è estranea alla
vera Italia), si tratta di osservazioni ormai comuni fra gli storici, o
anticipate dal Ferrari stesso nei suoi saggi anteriori al '48.* Del resto
l'opera del Quinet fu pubblicata nel 1857 e non potè quindi influire
su quella del Ferrari pubblicata nel 1858.
Del tutto indipendente è pure il Ferrari dai Tedeschi, di cui spesso
combatte le affermazioni, come, per esempio, nella questione dell'ori-
gine del Comune e dell'elemento etnico e storico, che sopratutto con-
corre a formarlo. Contro quelli che lo vogliono di origine romana^
egli osserva che il Comune raggiunse il suo pieno sviluppo, non nelle
regioni dove più il romanesimo perdurava, come appunto in Roma, in
Ravenna, ecc., ma nell'Italia settentrionale. Contro quelli che lo vogliono
di origine germanica,^ ricorda che il Comune nacque combattendo contro
i Barbari. L'elemento fondamentale che lo costituisce non è dunque né
il romano né il germanico, è Vitaliano: sono le stirpi originarie itali-
che, che nel Medio Evo risollevano il capo, sia contro l'accentramento
romano in nome dell'intimo principio federale della penisola, sia contro
la barbarie degli invasori, in nome delVantìca civiltà.
i Histoire des Républiques italiennes, Ginevra, 1807-1818.
* E. Quinet, Les Révolutions d'Italie, Paris, Daguerre, 1857.
» Cfr. le Rivoluzioni d'Italia di C. Denina (1765-1857).
* Cfr. D. LioY, G. Ferrari, Torino, Pomba, 1864, p. 88.
5 Saviqny, Geschichte des ròmischen Rechts ini Mittelalter, Heidelberg, 1820.
« Leo, Geschichte der italienischen Stadten, Hamburg, 1829-1830 ; Hege! , Storia
dtlU (-(istituzioni italiane, Lipsia, 1847.
22 — Nuova Rivista Statica.
338 Aldo Ferrari
Certo non bisogna nascondere che, in tanta mirabile ricchezza
e verità di pensiero, si sente a tratti qualche cosa che urta; in mezzo
agli splendori di così scintillante rappresentazione, si nota a volte come
un'ombra leggera, che proietta qua e là la sua lieve tenebra; dentro
alla soddisfazione così pura del sentimento artistico e filosofico, felice
di abbandonarsi alla contemplazione e all'ammirazione, c'è come una
leggera amarezza di scontento. Tutto ciò è prodotto da quell'anticipa-
zìoné di positivismo che sminuisce leggermente, senza intaccarla, poiché
rimane alla superfice, la grandezza dell'opera del Ferrari; da quell'impal-
catura un pochino troppo rigida e schematica, dentro cui vengono
incasellati, senza pur tuttavia esserne sfigurati, i fatti ; da quella rappre-
sentazione un pochino troppo meccanizzata e geometrizzata del movi-
mento storico nella sua duplice espansione del tempo e dello spazio.
Questo è quanto impedisce la nostra piena adesione spirituale e accusa
il Ferrari figlio del tempo suo e, com'esso, involto in errori ornai
sorpassati.
Ma il Ferrari non è solo un interprete unico, è anche un artista di
primissimo ordine, che il buon Cantoni non si peritava di paragonare
per la potenza drammatica dì rappresentazione allo Shakespeare.*
Un periodo ampio; una vivezza calda e mossa di rappresenta-
zione; un sottile humour, tenue come sorriso d'uomo superiore, che
compatisce alle debolezze umane, e nel tempo stesso un'accensione
lirica, una foga d'entusiasmo, che gli fa mettere in luce la grandezza
epica della storia in ogni minimo fatto ; una potenza d'immagini, che,
atteggiando come esseri viventi città e Stati, vi si piantano nel cer-
vello senza abbandonarvi più, formano le doti di questo scrittore, che
avrebbe potuto anche nel campo dell'arte pura lasciare un'orma pro-
fonda. Con una fecondità, versatilità, profondità veramente shakespea-
riane, egli ha saputo creare una folla di personaggi e rappresentare
una serie innumerevole dì rivolgimenti senza mai ripetersi, perchè sa
colpire nella sua caratteristica la realtà che mai si ripete. Per avere
un'idea della sua forza drammatica e rappresentativa, del suo slancio
lirico, sì legga, per esempio, la narrazione della lotta di Milano con-
tro il vescovo papista Grossolano (I, p. 395), o quella delle imprese
di Ezzelino da Romano (li, p. 278), o la descrizione dei Longobardi
(I, p. 69), di Venezia (IH, p. 108), o, magari, soltanto, dì Genova
(I, p. 480): '< Genova è un magnifico anfiteatro gettato fra il mare e
la montagna, e tale che i suoi abitanti non possono fare un passo senza
salire sulle rupi o senza ondeggiare sull'acqua : sono montanari marit-
timi, che riuniscono tutti gli estremi della miseria e della munificenza.
O. Cantoni, Q, Ferrari, p. 87.
L'opera storica di Giuseppe Fenari 339
Nei loro viottoli stretti, neri, fangosi, inaccessibili alle carrozze, si riz-
zano immensi palazzi, che disegnano le linee della loro abbagliante
architettura sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni lato ;
le due riviere ci versano i loro marchesi, che vi si incontrano alla ventura
con la moltitudine cenciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la città
ondeggia dall'aristocrazia alla democrazia come una goletta di smisu-
rata alberatura; e i suoi cronisti non possono dissimulare l'ondula-
zione dei Consoli, specie di marea tumultuosa che monta a poco a
poco fino a insabbiare il potere del vescovo >. Si veggano pure i ri-
tratti di Federico II (H, p. 211), dell'Alfieri (III, p. 595), di Campanella
{Scrittori politici, p. 513).
Successo e continuatori del Ferrari.
Eppure, con tanto valore artistico e storico, l'opera del Ferrari non
ebbe fortuna né nella prima edizione francese fatta per l'Europa,
né nella seconda edizione italiana. La sua altezza così serena di giu-
dizio lo rese trascurato e incomprensibile dai suoi contemporanei,
ancor tutti accesi delle passioni, dal cui cozzo usciva l'Italia.* Ma, se non
veniva pienamente capito e rettamente giudicato al suo tempo, quando
il senso storico era ancora assai diffuso e profondo, figuriamoci un
po' se lo poteva nel periodo dì ottusità intellettuale, che immediatamente
gli successe. È questa l'epoca del positivismo, a dui egli stesso in certa
maniera partecipò con le sue ultime opere sulla filosofia della storia :
la concezione geometrica della realtà attutisce coi suoi schemi astratti
il senso dell'individuo, del reale, del vivo; le scienze naturali mirabil-
mente fiorenti invadono anche il campo del pensiero puro e pretendono
sottomettere alle misure dei loro strumenti di precisione la filosofia,
Tarte, la morale ; la storia abbandona il compito di interpretazione e
di sintesi per ridursi a raccolta di frammenti, a catalogazione di docu-
menti, e, piti tardi, a mutilarsi con l'unilateralità del materialismo storico.
In mezzo al diluvio delle monografie, tra la folla dei positivisti,
che abbassavano arte e storia alla portata dei loro intelletti piccini,
uno solo ci fu — un solitario — che non solo intese Ferrari, ma
cercò di continuarlo: Alfredo Oriani. Anch'egli, come il suo grande
predecessore, ben comprese che storia è interpretazione, spiegazione,
visione dall'alto, resurrezione secondo la parola di Michelet. E non
solo fece di lui una giusta stima, e ne attinse largamente per tutte le
sue opere di pensiero; ma, forse inconsciamente, fece fare alla storia
i Cfr. E. Rosa, iii Archivio storico italiano^ Firenze, 1858. Nuova Serie, T. HI,
pp. Ili e segif.
340 /^/rfo Ferrari
del Ferrari un ulteriore progresso, liberandola del tutto da quella cri-
salide di positivismo classificatorio e geometrico, da quel meccanicismo
troppo naturalistico, che leggermente la macolaya. Ciò l*Oriani fece,
non tanto nella storia del Medio Evo, trasportata in sunto dal suo pre-
decessore nei libri I e II della Lotta politica * con tutti i suoi periodi, i
suoi schemi, le sue caselle;^ ma nella interpretazione della storia mo-
derna fatta nel seguito di questa opera e negli altri suoi saggi.^ Non
dunque come storico del Medio Evo, ma come storico del Risorgimento
italiano, TOriani è l' unico che continui il Ferrari e che possa tentare
il paragone con lui, per quanto rimanga nell'opera concreta inferiore :
come storico, per T ineguaglianza dell'interpretazione, ora indovinata
ora superficiale; come artista, per la non rara enfatica esagerazione
romagnola, inferiore alla possente precisione lombarda del Maestro.
Oriani si trova inoltre in una posizione sentimentale un po' meno
adatta che non quella del Ferrari. In questo il senso del sublime sto-
rico e l'entusiasmo di fronte alla grandezza vanno accompagnati a una
calma serena, a una specie di fine bonario umorismo, che sa trovare
l'uomo, magari contro il suo volere, benefico, anche sotto i cenci del
mascalzone. Oriani ha della. storia solo, il senso tragico; brontola un
po' troppo ; va troppo spesso in collera col passato ; non sa mantenersi
sereno davanti agli errori dei personaggi, errori spesso imposti dalla
storia, che qualche volta egli vorrebbe correggere. Ma, salvo l'Oriani,
nessun altro dei moderni cultori di storia italiana ha mai fatto del Fer-
rari il conto che merita, anche se si è ricordato di citarlo qualche rara
volta fra la selva dei nomi tedeschi.
Solo uno straniero, che amò e studiò l'Italia, J. A. Sysmonds, autore
di una Renaissance in Italy, non meno importante del più noto lavoro del
Burckhardt, ebbe l'esatta percezione delP importanza delle Rivoluzioni,
Infatti, come nella prefazione del primo volume (Uèra dei Tiranni) egli
ricordava espressamente quell'opera,* così nel cap. II (La Storia italiana)
ne ripete con parole diverse e con qualche ampliamento o dilucidazione
tutte le grandi idee, però da un punto di vista un po' meno elevato e
non del tutto superiore ai pregiudizi del senso comune. Ma nel seguito
del volume egli non ne tiene poi gran conto.
1 La lotta politica in Italia, Bologna, 1882.
« L. Ambrosini, La Lotta politica di A. O.,* nella Voce, 1008, nn. 17; 18; 10.
3 Fino a Dogali, Bologna, Oherardi, 1912; La rivolta Ideale^ Napoli, Perrella,
1910; Fuochi di bivacco, Bari, Laterza, 1912 ; Ombre d'occaso, id. id.
< J. A. Sysmonds, // Rinascimento in Italia: L'èra dei tiranni {ir^ói. it.), Torino,
Roux e Viarengo, 1900, p. XX : « Debbo anche manifestare speciale gratitudine al Fer-
rari, del quale ho fatto miei non pochi giudizi nel capitolo sulla storia italiana scritto
per la seconda edizione di questo volume»,
Vopera storica di Giuseppe Ferrari 341
Il De Sanctis della storia.
Certo, sarebbe ridicolo affermare che Topera del Ferrari sia defi-
nitiva, perchè nulla c'è al mondo di definitivo, né la vita, né la filosofia,
né l'interpretazione storica. Ma come una filosofia è viva finché non è
sorpassata, così è anche di un'opera storica/Orbene, prima di buttare
il libro del Ferrari fra le anticaglie, bisogna averlo sorpassato, e finora
nessuno, non solo non l'ha superato, ma non si è nemmeno sollevato
al suo livello.
Probabilmente, contro questa valutazione, che dà al Ferrari come
storico concreto, un valore attuale, sarà mossa una facile ma altret-
tanto debole obiezione, dalle persone incapaci di passare col pensiero
oltre la superficie delle cose: si dirà cioè che il nostro autore fu, è
vero, il più grande storico dei suoi tempi, fece coi materiali che aveva
allora sottomano quanto di meglio si poteva fare ; ma che adesso, con
tutto il nuovo materiale storico, che in un cinquantènnio di lavoro
assiduo si è portato alla luce, egli non basta più, e la sua interpreta-
zione è ormai sorpassata. È lo stesso appunto che si moveva una
ventina d*anni fa, nel bel fiore del così detto metodo storico^ alla cri-
tica letteraria del De Sanctis, col quale il Ferrari ha più d'un punto
di contatto, sia nella costituzione spirituale che nella fortuna. Si diceva
che il De Sanctis fosse sorpassato dalle nuove scoperte, perchè la
critica storica aveva assodato che la canzone Spirto gentil non pareva
scritta per Cola di Rienzo, o perché nelle sue citazioni, fatte quasi
sempre a memoria, il grande critico aveva qualche volta alterato la
lezione di un verso. È ^tato ormai messo in chiaro * di quanta poca
importanza siano questi pretesi errori. E adesso De Sanctis non solo
non è seppellito, ma è più vivo di prima, e le edizioni delle sue opere
si moltiplicano nel nord e nel sud della penisola, mentre la nomèa dei
suoi pretesi distruttori va diventando man mano più fioca.
Ora questo non dipende da una ragione metafisica per cui l'astra-
zione, la sintesi, l' idea siano riconosciute superiori all'analisi e al fatto,
ma proprio da una ragione di critica storica. Noi possiamo seguire i
sostenitori del così detto metodo storico proprio nel campo loro, nel
campo dei fatti, su cui sì credono invincibili. Per il Ferrari, come per il
De Sanctis, le scoperte tanto magnificate della così detta scuola storica
sh riducono, relativamente, a pochi dati, a particolari, a rettificazioni
minute. Ora le costruzioni sintetiche del Ferrari non sono tirate fuori
astrattamente dal cervello, sono basate sopra una enorme mole di fatti,
i B. Croce nella Prefazione alla Storia della leit, ital. da lui curata, Bari, Laterza.
342 Aldo Ferrari
già messi in luce dairerudizione gigantesca dei secoli precedenti, spe-
cie del Settecento, e poco, al loro confronto, aggiungono le famose
scoperte di questi ultimi tempi, per quanto serie e rispettabili. Quando
il principio di De Sanctis o di Ferrari vi spiega tutti i fatti politici
del Medio Evo conosciuti fino al loro tempo, gli altri fatti nuovi,
di una importanza e di un numero infinitamente minore, non possono
alterare quella concezione se non solo in proporzione del loro valore
molto limitato, cioè nei particolari. Ora V interpretazione, che il Ferrari
ha data del Medio Evo, vi spiega inoltre tutta quell'età : la letteratura,
Parte, la filosofia, la politica ... Di fronte a così enorme mole di fatti
spiegati, qual valore ha Tosservazione, per esempio, che egli abbia
ritenuto i Longobardi un po' più numerosi di quanto non furono
in realtà?
Qualcun altro tirerà fuori la solita obbiezione che il Ferrari spiega
tutto con le idee astratte; dirà che il suo Papa e il suo Imperatore sono
delle entità metafisiche senza rispondenza nella realtà; che il famoso
patto papaie-imperiale, com'egli lo fantastica, non s'è ancor trovato
fra i mucchi di cartapecore di qualche convento abbandonato. Dirà
che le cause reali e vere dei movimenti pon sono così generali, ma si
trovano negli interessi particolari di quel tale individuo, di quella tale
città, di quella tale classe. E questo non è altro se non un pregiu-
dizio positivistico, simile a quello di certi filosofi (?), che negano lo
spirito perchè non sono mai riusciti a vederlo con gli occhi o a toccarlo
con le mani ; il pregiudizio sempliciotto di chi vorrebbe vedere i con-
cetti generali o le sintesi sotto le forme tangibili di oggetti individuati
o materiati.
Per racchiudere in una frase il resultato di queste mie osserva-
zioni, dirò che Ferrari è il De Sanctis della storia politica; l'unico vero e
grande storico dell'Italia medievale. E non solo in Italia, ma in tutta
l'Europa il Ferrari merita un posto a parte, forse superiore ai più fa-
mosi, al Macaulay, al Mommsen, al Taine; e ciò per la stessa ragione
che rende il De Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura : per il
senso filosofico che diresse la sua potenza interpretativa e rappresenta-
tiva a risultati così grandi. Noi non esitiamo a considerarlo come il
sommo rappresentante della storiografia romantica,* degno ancora,
quale storico, di essere il grande maestro della nostra generazione.
Poiché egli è innanzi tutto completo. In lui il coscienzioso lavoro erudito
viene messo in valore da una incomparabile forza rappresentativa e in-
terpretativa ; alla compulsazione dei codici, alla lettura diretta delle fonti,
1 Cfr. B. Croce. Intorno alla storia della storiografia, in Critica^ 1913,
pp. 223-230.
L'opera storica di Giuseppe Ferrari 343
allo studio minuzioso del materiale, seguì in lui il potente lavoro della
ricostruzione sintetica, e questo fu compiuto da una mente di filosofo,
oltre che di artista, superiore alla lotta dei partiti e solo obbediente al'
l'esigenza logica d'una spiegazione razionale degli avvenimenti.
La " teoria dei periodi politici „.
Giunto al sommo della sua parabola luminosa, l'intelletto del
Ferrari, dopo le Rivoluzioni d'Italia e gli Scrittori politici, comincia a
declinare, come un astro che abbia toccato il suo zenit. E la decadenza
si inizia e prosegue col dissociarsi graduale di quei due elementi, che
imiti avevano fatto la sua grandezza di storico: la forza sintetica carat-
teristica del filosofo e la forza intuitiva propria dell'artista. La prima
diventò schematismo astratto, ed esulata ormai dalla realtà, provocò
l'inaridimento della seconda, poiché volle costringere la vitalità ribelle
dei fatti dentro ìe caselle d'un sistema morto. Non più filosofia ne
storia, ma filosofia della storia.
Come un alchimista che si metta alla ricerca della pietra filoso-
fale, il Ferrari si pone alla ricerca impossibile delle leggi della storia.
Favorito da una vastissima erudizione e da una memoria tenace e pronta,
egli moltiplica i raffronti, ordina, classifica, misura col compasso alla
mano; crudele come un anatomico, incide il corpo vivente della storia
per contarne le ossa e seguirne le vene: e quando, giunto alla fine di
questo suo spaventevole lavoro, ha ucciso, cristallizzato, mummificato
la realtà, con la sicurezza di Harwey che scopre la circolazione del
sangue, proclama la scoperta della circolazione misteriosa dentro cui
si muovono gli Stati col ritmo di pulsazioni ciclopiche. Non il minimo
dubbio: affascinato da una specie di allucinazione, confinato dentro
il cerchio magico della filosofia della storia, come da un incanto mali-
gno, ei non ne potè più uscire; e dal 1863 fino alla sua morte (1876)
tutta la sua operosità, che avrebbe potuto essere impiegata molto più
utilmente nell'interpretazione concreta, fu quasi totalmente assorbita
in questo sterile lavoro. La sua filosofia della storia è esposta teori-
camente in quattro lavori successivi: la Raison d*État,^ la Chine et
l'Europe^ la Teoria dei Periodi politicità V Aritmetica nella storia^^ che
a vicenda s* integrano e si correggono. Tutti i suoi saggi storici di
1 Paris, Lears, 1860.
t La Chine et l'Europe, Uur histoire et leurs tradiiions eomparées, Piris, Di-
dier, 1867.
a Milano, Hoepli, 1874.
* Rendiconti deU'Istitato Lombardo, gennaio-aprile 1875.
344 Aldo Ferrari
questo perìodo sono poi impregnati di tali idee, che eran diventate
ormai per luì una specie di Vangelo.
Noi sappiamo come il secolo XX abbia finito col dichiarare assurda
la pretesa d'una scienza esatta della storia, la quale sotto la pressione
della logica si è scomposta nei suoi due elementi reali, la filosofia
pura e la storia pura: tutto quel che di assoluto, di universale si può
trarre dalla storia è filosofia, quel che rimane si ribella alle leggi, per-
chè non ne segue alcuna salvo quella della propria individualità/ Le
leggi della storia, dunque, quando non siano leggi filosofiche, non sono
altro che generalizzazioni di significato tutt'altro che assoluto, varia-
bili secondo i punti di vista; canoni il cui valore si giudica appunto
praticamente col fatto. Così per esempio la legge vichiana dei corsi
e ricorsi non è altro se non un canone di interpretazione, che si serve
della analogia per spiegar meglio certi fenomeni e per determinarne
meglio in ultima analisi il carattere individuale: e le eguaglianze sta-
bilite da Vico fra la prima età di Roma e il nostro Medio Evo, fra
r Impero e le monarchie moderne, ridotte a somiglianze ed analogie,
conservano una verità indiscutibile. Noi troviamo di tutto ciò la riprova
pratica nella filosofia della storia del Ferrari, che, dentro il crogiolo
della riflessione, vediamo decomporsi nella sua filosofia e in una serie
di generalizzazioni, che funzionano come canoni empirici, di cui bisogna
determinare il valore secondo la loro portata pratica.
Non è questo il luògo di fare l'esposizione particolareggiata e la
critica del suo sistema ; ciò è stato fatto oltrove ; - qui richiameremo
che la sua teoria è basata sulla distinzione assoluta delle razze e delle
generazioni trentennali, le quali, collegandosi a quaterne (prepara-
zione-esplosione-reazione-solazione), sono necessarie per la realizzazione
di un nuovo principio politico nel mondo. La legge del contrasto, che
organizza gli Stati vicini gli uni a rovescio degli altri, fa in modo che
il nuovo principio venga trasmesso dalle minoranze via via a tutti gli
Stati, costretti ad elevarsi all'altezza politica del popolo, che inizia il
moto per non esserne conquistati. Questi brevi periodi, collegandosi
anch'essi a quattro a quattro, formano un periodo maggiore di cinque-
cento anni, durante il quale la terra compie il ciclo di una totale rinno-
vazione. Siccome la successione delle generazioni è logicamente fissata,
la previsione è possibile al principio di un periodo.
Questa parte dell'opera del Ferrari, che pure fu la più conosciuta
e suscitò anche presso gente di intelletto entusiasmi perfino ridicoli,' è
» Cfr. B. Croce, Estetica^ Bari, Laterza, 1909, pp. 47-49 e QuesL stor., pp. 16 e 21.
* A. Ferrari, G. Ferrari, pp. 213-245.
» Cfr. O. Bovio, Prolusione al corso di scienze morali nella Univ. di Napoli^ 1876.
L'opera storica di Giuseppe Ferrari 345
viziata fondamentalmente nel suo disegno e nel suo concetto. Di buono
non se ne può cavare che una raccolta di canoni empirici d* interpreta-
zione basati sulla analogia e sulla generalizzazione. Alcuni di essi sono
come tali accettabili e fecondi : quello, per esempio, che assegna allo
svolgimento storico ie due forme di lotta di partiti e di lotta di
nazioni, rivoluzione e guerra; la seconda, determinata spesso dalla
prima; e l'altro dell'irraggiamento politico della nazione più progredita,
con cui si tende a correggere l' insufficenza del concetto, che considera
la storia svolgentesi in ciclo chiuso dentro i confini dello Stato. Ma essi
erano già stati enunciati senza tanta falsa precisione scientifica e ap-
plicati con molta maggiore elasticità di sviluppo nelle opere precedenti
di storia concreta.
Tuttavia, per quanto viziati nella concezione che serve loro di
base, la Raison d'Étatt la Chine e i Periodi politici non si possono
buttar via senz'altro ; perchè c'è in essi, dirò così, come elemento resi-
stente, l'interpretazione concreta, che viene a formare une specie di
storia universale. Naturalmente questa interpretazione porta con sé fin
dalla nascita il peccato originale della filosofia della storia, che costringe
l'autore a guardare la realtà dall'inferriata a quadri del suo sistema, a
ricercare ad ogni costo equivalenze, a tracciare equazioni fra fatti storici
caratteristicamente irreducibili, in modo da farne spesso disconoscere
l'essenza. Siamo evidentemente molto al sotto delle Rivoluzioni d'Italia
e degli Scrittori politici ; e la decadenza non si rivela solamente nel-
l'abuso del sistema classificatorio, che riduce l' interpretazione a vaghe
generalità, ma anche nella minore perspicuità e chiarezza dello, stile,
nella più rara fecondità d'immagini, nella diminuita potenza di rap-
presentazione. Ma, anche considerata quale opera di decadenza, essa
è pur meritevole di osservazione. Intanto, per quanto spezzettata nei
segmenti eguali def periodo, la linea del progresso si disegna all'in-
grosso; per quanto incasellati, i fatti e le persone sono spesso colti e
penetrati con esattezza storica. E poi, per esagerato che sia il sistema
dei parallelismi ad ogni costo, noi sentiamo che Tunica maniera di
raccontare la storia universale, in modb da darne una visione d'insieme,
che ci mostri il progrèsso simultaneo dei popoli, è quella che ricorre
al metodo della divisione per periodi.
La .parte storica della Raison d'État, molto sommaria, è quasi
totalmente rifusa nella Chine ^ che si può veramente definire una storia
universale narrata a periodi e preceduta da un parallelo fra la Cina e
l'Europa. Ma i Periodi politici ci fanno assistere all'assassinio della storia,
commesso a sangue freddo allo scopo di impartirci una lezione d'ana-
tomia storica; e V Aritmetica nella storia è poi addiritura impossibile
con le sue tavole aritmetiche, dove son misurate e comparate la durata
346 Aldo Ferrari
ilei regni e la lunghezza della vita dei dogi, dei papi e dei vescovi !
Fra gli altri saggi minori pubblicati in questo periodo ricordiamo la
Mente di Oidnnone,^ che, già composta fin dal '63, rimane meno inqui-
nata dal sistema; gli scritti sulla guerra franco-prussiano,^ e uno studio
su Proudhon.^
Uomo di due età.
Ed ora, conchiudendo, cerchiamo di comporre in un quadro sin-
tetico queste forze intellettuali, che abbiamo osservate a una a una in
azione, per determinare il carattere e il significato della mente del
Ferrari.
Artista per la forza penetrativa e rappresentativa, dotato d'una ac-
censione lirica da poeta, d'una vivezza da pittore, d'una abbondanza da
oratore; mescolante all'entusiasmo un sottile umorismo che nasce dalla
sua persuasione nella razionalità della storia, la quale usa qualche volta
ironicamente le persone più indegne per i suoi fini più grandi, egli
non ha dei puri artisti la facoltà inventiva e creativa che trae un intero
mondo dalla fantasia di un uomo, la libertà senza confini che usa
di tutti i luoghi e di tutti i tempi a dimora delle sue creature e a
scena dei suoi drammi. Filosofo nella potentissima forza sintetica, non
sa vivere in mezzo alle idee pure; inseguito fin nel regno platonico
della scienza dai fantasmi della realtà, non sa dare una trattazione
esauriente e compiuta, raccogliere in forma didattica ed espositiva, in
sistema lucido e quadrato, le sue idee, le quali sembrano più una anti-
cipazione poetica che non una logica deduzione, o le sue scoperte, le
quali ci appaiono piuttosto prodotto di una divinazione profetica che
non di un ragionamento filosofico. Manchevole come artista puro e
come filosofo puro, egli è però incomparabile come storico, perchè per
questo ufficio le sue manchevolezze diventano pregi, evitando alla sua
forza sintetica concreta il pericolo delle creazioni fantastiche e delle
sbiadite astraizioni vuote. Messo di fronte alla storia concreta, egli mani-
festa nella sua pienezza una potenza rappresentativa e dominatrice, una
forza di penetrazione e di interpretazione che non hanno rivali, e che rag-
giungono la loro più perfetta espressione nelle Rivoluzioni d'Italia e
negli Scrittori politici. Ma c'è pure nel suo intelletto una nefasta ten-
denza filosofistica, geometrica, meccanica, falsamente sintetica, che, spin-
gendolo a trasportare nelle scienze morali il sistema classificatorio empi-
1 Milano, Tip. Libero Pensiero, 1868.
s In Nuova Antologia^ 1870-1871.
3 In Nuova Antologia^ aprile 1875.
L'opera storica di Giuseppe Ferrari 347
fico delle scienze naturali, lo trascina alle aberrazioni della filosofia
della storia. La sua assurda teoria del periodo è frutto di questa ten-
denza, che per fortuna si sviluppò in lui posteriormente.
Cosi, figlio del suo tempo, questo filosofo della contradizionc
rappresenta con la sua personalità il contrasto ideale dei due periodi
storici, che si urtarono nell'età in cui egli visse: la Rivoluzione della
Borghesia e la Rivoluzione proletaria.
Vissuto nella fase ultima del periodo storico della Rivoluzione della
Borghesia o Rivoluzione democratica (1748-1870), egli accetta di quel
grandioso movimento i principii supremi (eguaglianza legale — par-
lamentarismo — nazionalità), liberati dalle esagerazioni (odio alla reli-
gione — repubblicanesimo — odio al passato) della posteriore reazione.
Ciò al modo stesso ch'egli fa la storia nella realtà dei fatti e, supe-
rando gli scrittori della rivoluzione e quelli della reazione, insegna la
necessità e la razionalità di tutto quanto il passato, del passato lontano,
del passato recente, che a volta a volta gli uni e gli altri condanna-
vano o esaltavano, resi miopi dalla loro tendenziosità politica. Maj
durante la fase finale della rivoluzione borghese, un altro movimento
politico e sociale inizia la sua preparazione ideologica e letteraria: è
il movimento proletario, che scoppia poi nel campo della realtà con la
Comune (1870), e che ha come equivalente nel campo scientifico il
positivismo. Non è questo il luogo di dimostrare la stretta parentela
e i caratteri comuni dei due movimenti politico e scientifico : la depres-
sione delle forze ideali, la svalutazione del sentimento nazionale, il
disdegno per i prodotti superiori dello spirito umano, l'antipatia per
la storia, il culto della classificazione naturalistica, ecc. Qui diremo
solo che il Ferrari nella sua seconda maniera si dimostra rappresentante
di questo periodo e di questo indirizzo scientifico di positivismo natu-
ralistico e classificatorio, che faceva capolino qua e là anche nelle opere
anteriori e che poi, per sua sventura vittorioso, sciupò tutte le sue
energìe intellettuali attorno alla filosofia della storia.
L'opera multiforme e copiosissima del Ferrari non si può accettare
in blocco : bisogna sottometterla ad un processo di vivisezione per ca-
varne W poco buono dal molto cattivo. Che rimane dunque di lui ? Noi
Siam passati devastatori come i Vandali attraverso la sua voluminosissima
produzione; ne abbiamo dimostrato insufficenti o fondamentalmente
sbagliati i quattro quinti; abbiamo dichiarato assurde le sue ambizioni
più accarezzate, alle quali sacrificò incalcolabili energie e un prodigioso
lavoro; abbiamo da tanta mole di libri condannati estratte solo tre
opere, o per meglio dire (giacché la Filosofia della Rivoluzione è an-
ch'essa molto manchevole) due: /le Rivoluzioni d* Italia e gli Scrittori
politici con qualche altro piccolo saggio. La chiesi^ola dei fanatici, i
348 Aldo Ferrari
quali, elevando a norma di giudizio il loro entusiasmo senza criterio
predicano che il Ferrari è grande sempre e 'dappertutto e vanno in
visibilio davanti ai suoi imparaticci o alle sue assurdità (poiché egli,
con doppia esagerazione, dalla massima parte delle persone colte è
ignorato o trascurato, e da alcuni pochi fedeli, esageratamente ado-
rato) rimarranno insoddisfatti di questa conclusione. Eppure quel poco
(relativamente alla mole) bielle sue opere, che noi abbiamo tratto fuori
a titolo di onore e di gloria, è tale e tanto, che può dargli a buon
diritto uno dei posti più elevati nel Pantheon dei grandi pensatori del
nostro Risorgimento.
Aldo Ferrari.
^
Dn liiiio piili dello Stalo fiorenti nel ISii
Quando a Firenze si consolidò il Principato assoluto, già le dot-
trine finanziarie vi avevano avuto il più largo svolgimento, come por-
tavano le istituzioni economiche di quel Comune, che meglio d'ogni
altro in Italia preannunciava, per questo rispetto, lo Sfato moderno.
In una città dove così straordinaria abilità spiegavano i privati
neirammìnìstrazione dei beni e delle aziende, perfino dei teologi sape-
vano trattare con chiarezza e praticità questioni relative alle pubbliche
finanze ;* e quasi tutti i principali scrittori di politica e di storia met-
tevano in luce quanto negli Stati giovino Soprattutto i buoni ordina-
menti economici.^
Gino di Neri Capponi^ lanciava la fortunata affermazione :"/T(/e-
naro è il nervo della guerra. Matteo Palmieri * esponeva i vantaggi d'un
sistema d* imposte per cui le particolari sostanze dei cittadini venissero
parimente consumate. Lodovico Guetti ^ sosteneva la universalità delle
imposte e Tabolizione di ogni privilegio; Tobbligo per tutti di contri-
buire alle spese dello Stato; la convenienza di un'imposta diretta, 5
» Alludo ad Antonino di Firenze. Cfr. Funk, Ueber die okonomischen Anschaun-
gen der mittelalter lichen fheologen, nella Zeitschrift filr die gesammte Staatswissen-
schaft, XXV, Tubinga, 1869, pp. 66-69.
» TomoLO, Scolastica ed Umanismo nelle dottrine economiche al tempb del Ri-
nascimento in Toscana, Pisa, 1887, pp. 72-73.
3 Nei suoi Commentari, pubblicati dal Muratori nel T. XVlII dei R. I. S.
4 Della vita civile, ed. di-Milano, 1830, p. 153. Cfr. Cusumano, V economia po-
litica nel Medio Evo, Bologna, 1876, pp. 69 sgg.
5 Inventiva d'una imposizione di naova gravezza, pubblicata dal Roscoe in ap-
pendice al voi. I della sua Vito di Lorenzo de* Medici (pp. 408-09 della trad. frane,
Parigf, 1800).
350 Giuseppe Pardi
proporzionale al reddito dei beni mobili o immobili posseduti da
ciascuno oppure alla rendita del mestiere o della professione eser-
citata.
Son note le acute considerazioni del Machiavelli in materia di pub-
blica finanza,* specie in quello dei suoi Discorsi (libro II, cap. IO*'),
in cui temperò l'opinione che il denaro è il nervo della guerra^ nel
senso ch'esso va subordinato ai buoni soldati e alle buone condizioni
politiche e morali.
Così sarebbe superfluo parlare degli scritti finanziari del Guicciar-
dini, in particolare di quello famoso sulla Decima scalata^^ dove egli,
pur osteggiando come conservatore l'imposta progressiva, espone con
chiarezza e acume straordinario le ragioni che militano prò e contro
la progressione nelle tasse, e anticipa modernissimi criteri e dottrine.
In corrispondenza con gli studi teorici, la repubblica fiorentina
raggiunse nella pratica i più felici risultati,^ i quali vengono così rias-
sunti dal Ricca-Salerno :* « Creato il sistema dei bilanci normali, che
si mantennero intatti non ostante le continue guerre e le ingenti spese
sostenute dallo Stato ; separate le spese che dovevano pagarsi col pro-
dotto dei cespiti ordinar! e dei tributi, da quelle che bisognava sod-
disfare mediante le prestante ; mantenuto l'equilibrio tra le spese e le
entrate pagando regolarmente sino all'ultimo gl'interessi del debito
pubblico; adoperato largamente il credito e organizzato con tutti i
modi dei moderni consolidati ; ripartito equamente il carico straordi-
nario delle prestanze, tassando non solo i beni stabili ma i mobili,
compresi i titoli del debito pubblico; formato il catasto dell* intiera
ricchezza immobiliare e mobiliare sovra basi certe ; stabilita quindi la
decima o vera imposta fondiaria ; ed applicata alle imposte variamente
la ragione progressiva, non che la proporzionale ».
In una città che poteva vantare tante belle tradizioni in fatto di
finanza, venne a governare un principe, che, sebbene ancor giova-
nissimo, mostrava così precoce serietà e costanza, tale attitudine agli
affari, da lasciar ben comprendere che nelle sue vene scorreva il sangue,
oltre che di Giovanni d^lle Bande Nere, anche dei più abili mercanti
e uomini politici, che sieno mai vissuti in Italia.
» Cfr. ViLLARi, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, Firenze, 1877, voi. I, pp. 431-35,
p Knibs, Niccolò Machiavelli als volkswirthscliaftlicher Schriftsteller nellt cit. Zeit-
^chrift di Tubinga, Vili, 1852, pp. 267 sgg.
t Nel voi. X delle Opere inedite, Firenze, 1867, pp. 355-70.
3 Cfr. Canestrini, La scienza e l'arte di Siato desunta dagli atti uff ieiati della
repubblica fiorentina e dei Medici, Firenze, 1862.
« Storia delle dottrine finanziarie in Italia, Palermo, 1896, p. 79.
Un Hf ancia preventivo dello Stato fiorentino del 1544 35 J
Verrebbe fatto adunque di immaginare più che mai vicini alla
perfezione, in Firenze, al tempo del duca Cosimo I, i criteri finanziari
e .i mezzi pratici per attuarli. Le cose, invece, sarebbero andate ben
diversamente, a giudizio dì alcuni studiosi delle finanze fiorentine.
Il Rigobon, ad esempio, che ha pubblicato un apposito volume
sopfa « La contabilità di Stato nella repubblica di Firenze e nel gran-
ducato di Toscana »,* scrive a questo proposito : « La compilazione
dei bilanci delle entrate e uscite, normali e quella di veri bilanci consun-
tivi generali non si verificava normalmente, a quanto sembra, nei tempi
medicei».^ E aggiunge:^ «Senza veri bilanci compilati normalmente
sembra abbia continuato per molto tempo la gestione delle finanze to-
scane». Infine cita lo Zobi,* secondo il quale Tempirismo e la confu-
sione dominavano nella pubblica economia e non si aveva alcuna idea
di bilanci di previsione.
Tali erronei concetti intorno alla gestione delle finanze pubbliche,
almeno al tempo di Cosimo I, derivano, secondo il mio modo di vedere,
da due cause: dalla confusione che in realtà si riscontra più tardi
neiran-ministrazione finanziaria del granducato, quando principi poco
intelligenti, inadatti al govèrno o trascurati, lasciarono fare a loro
talento dei cattivi ministri ; soprattutto poi dal non aver saputo gli
storici rintracciare, negli archivii medicei, documenti che valessero a
mettere in piena luce il vero stato delle cose.
Nemmeno quando si aveva notìzia di tali documenti, essi sono
stati consultati e studiati. Il Rigobon, ad esempio, è a cognizione del
fatto che nella Raccolta Strozziana dell'Archivio di Stato in Firenze
« trovasi una dimostrazione dell'entrata e uscita di Firenze dal V lu-
glio 1537 a tutto febbraio 1538, che pare lavoro di Francesco Guicciar-
dini per il duca Cosimo »,® come si legge nell'Indice di quella raccolta,
ma deve confessar* che gli « duole dì non averla esaminata ». Se lo
avesse fatto, probabilmente non avrebbe potuto dare che un giudìzio
molto favorevole circa ì criteri e le attitudini finanziarie di un prin-
cipe, il quale, appena salito al trono, incaricò la persona più competente
che fosse in Firenze di stendere un'esatta relazione sullo stato delle
finanze, se non proprio dì compilare un vero bilancio consuntivo. Con
degli erronei sistemi di amministrazione egli non avrebbe potuto, come
1 Girgenti, 1892.
« RiooBON, op. cit., p. 235.
» Ibidem, p. 236.
* A. ZoBi, Manuale storico degli ordinamenti economici vigenti in Toscana, Fì-
rente, 1858.
5 RiQOBON, op. cit.i p. 235.
3S2 Giuseppe Pardi
fece, riparare alla scarsezza dell'entrate, né lasciare, morendo, un co-
spicuo tesoro da lui stesso accumulato.
Lo Zobi poi si sarebbe guardato dall'af fermare che alla Corte di
Firenze non si aveva idea di bilanci preventivi, se avesse frugato bene
tra le carte degli archivi. A me è accaduto, infatti, di trovare, pur senza
compiere una ricerca metodica, il bilancio preventivo del 1544, che
credo utile di pubblicare, perchè finora unico nel suo genere, per Fi-
renze, premettendovi, per la migliore intelligenza del medesimo, i chia-
rimenti che seguono.
Sebbene il titolo del documento sia : Stato deW entrata dell* anno f544
in disegno, non vi è fatto il bilancio dell'intera annata, ma soltanto
di un semestre. Perciò, per ottenere il primo, occorre raddoppiare le
singole cifre. Ne risulta così la previsione di un'entrata e di una uscita
ammontanti in complesso a 652.000 scudi. E poiché vi figurano anche
entrate straordinarie, ciò non appare in contrasto con quanto riferisce
il Repetti '} « Dal bilancio fatto nel 1550 di tutte l'entrate ordinarie del
dominio fiorentino appariva che esse ammontavano a lordo a du-
cati 437.934 per anno e al netto delle spese ordinarie a ducati 267.903 ».
Il cespite principale degli introiti, quasi un quarto della somma
totale, consiste ancora nel dazio consumo (le casse delle Porte), come
al tempo dei Comuni, quando anzi gli uomini di finanza ricorrevano
quasi soltanto a questa specie d'imposte indirette, per la comodità e
il vantaggio pratico dell'esazione, oltre che per altre ragioni.' Sotto il
Principato oramai doveva prevalere la considerazione, come più tardi
in Inghilterra, che il loro peso sì distribuiva sulle classi privilegiate e
potenti in proporzione minore che sulla moltitudine dei popolani.^
H dazio consumo rendeva a Firenze 116.000 scudi airanno, a
Pisa 26.000, a Pistoia M.OOO, a Prato 2000, in tutto 158.000 scudi.
Seguiva, per importanza di reddito, V Imposta del sale, da cui si
ritraevano annualmente 110.000 scudi. Anche questa aveva stabilito
sin da tempo antico il Comune fiorentino, obbligando ciascuna città
o terra del dominio ad acquistare una certa quantità di sale in pro-
porzione, prima dell'estimo complessivo degli abitanti,^ poi della ric-
chezza e insieme del loro numero, infine delle teste di ciascuna fami-
glia. Il sale veniva venduto dal governo ad un prezzo ben superiore
» Dizionario geografico fisico-storico delia Toscana^ voi. II, Firenze, 1835, p. 227.
2 Cfr. Q. Pardi, Gli statati della colletta del Comune di Orvieto, nel Boll, della
R. Dep. di st. p. per l'Umbria, voi. I, pp. 1 sgg. ; voi. IV, pp. 1 sgg. ; voi. X,
pp. 169 sgg.
3 VocKE, Geschichte der Steuern des Britischen Reichs, Lipsia, 1866, p. 53.
* Nei Capitoli del Comune fiorentino è usata per varie comunità la frase che
esse debbano acquistare il sale « in proporzione del loro estimo ».
Un bilancio preventivo dello Stato fiorentino nel 1544. 353
ai quello d'acquisto, per cui restava un largo margine di guadagno.
// caìnerllngo del sale, ricordato nel documento, era il cassiere che
riscoteva dalle singole comunità l'ammontare della relativa tassa.
Terza per importanza di reddito figura l'imposta chiamata sovi'^a-
zione del contado. Per quanto il nome sia nuovo, essa dovrebbe cor-
rispondere, in parte almeno, al vecchio estimo: gravezza basata sulla
sostanza delle persone abitanti nel dominio fiorentino e sul loro nu-
mero. Generalmente l'estimo, scrive il Rezasco,* « si componeva di tre
parti : degli immobili, de' mobili e guadagni, e delle teste. Degli im-
mobili poteva la gravezza non allontanarsi dal giusto, se si adopera-
vano i mezzi che ci sono per rinvenirlo. Ma de' guadagni, non volendo
starsene alle denunzie, forza era rimettersi alla coscienza, che è quanto
dire all'opinione, anzi all'arbitrio ed alle passioni dei ponitori, donde
originò il nome odioso ma giusto, d'arbitrio, dato allora e poi man-
tenuto alla tassa de' guadagni e delle industrie». Per tali ragioni
l'estimo veniva sopportato di mal animo dai cittadini e per questo non si
applicò che al contado. Se si imponeva talvolta entro Firenze, si faceva
in forma di prestanza; le somme prestate s'inscrivevano a monte, vale
a dire sul gran libro del debito pubblico, e se ne pagavano gì' interessi.
Sappiamo che Cosimo de' Medici, bisognoso di accrescere le ren-
dite dello Stato, per ricavarne i mezzi di difenderlo, di consolidarvi la
potenza propria e di ingrandirlo con l'acquisto del Senese, « ordinò una
revisione generale degli estimarì nel territorio fiorentino »* e mediante
quest'operazione fece salire molto il gettito dell'estimo, « con lo aumento
delle stime di quelli [tra I beni] che avevano ricevuto, in principio,
una bassa valutazione, o dei miglioramenti o accrescimenti in pro-
gresso».^ Per il contado di Pisa in particolare, poiché nella capitola-
zione del 150Q si era convenuto di esentare da qualunque gravezza i
possessi fondiari dei Pisani, trasferendone il peso sui contadini, Co-
simo sgravò questi ultimi, aggravando invece i padroni : così fece opera
di giustizia e potè percepire somme maggiori.
Dalla sovvenziotie del contado si prevedeva un gettito di 50.000
scudi al semestre e di 100.000 all'anno.
Quarta per importanza di reddito figura tra le gravezze la Decima:
imposta del 10 per 100 sulle entrate che ciascun cittadino di Firenze
ritraeva dai beni immobili, «senza sconto alcuno, cioè non tenendo
conto delle bocche e degli altri carichi ».* Essa era basata, dunque.
» Diz.del linguaggio ital. storico e amministrativo ^ Firenze, \9>S\, soiio Estimo.
« Paglini, Ragionamento storico politico sul debito pubblico della Toscana^ voi. X
0832) degli Atti dell' Accademia dei Georerofìli.
* Ibidem.
< Canestrini, op. cit., p. 190.
21 — Nuova Rivista Slorica.
354 Giuseppe Pardi
non sulla sostanza o capitale, bensì sulla rendita dei terreni e delle
case; e colpiva non il solo reddito disponibile (il così detto sovrab-
bondante)f ma T intiera rendita fondiaria, sottratti i censì e livelli ed
esclusa la casa d'abitazione.*
Nel documento del 1544 si parla di «una Decima et un quarto
et un arbitrio »: vale a dire che 1* imposta veniva, oltre il dieci per cento,
aggravata di un quarto e per di più imposta ad arbitrio, cioè ripartita
«a congettura, giudizio e coscienza dei deputati alla distribuzione, i
quali aggravavano coloro che nel frattempo avessero aumentati i loro
beni o fossero presunti di possedere più di quello che avevano de-
nunziato; ed era anche e più generalmente ripartita sugli esercizi e
sulle industrie... ; e siccome pesava più sulle persone che sui beni ed
era distribuita secondo la presunta facoltà contributiva de' cittadini, e
quindi secondo la discrezione ed opinione degli officiali del reparto,
chiamavasi arbitrio ».* Al tempo del Principato « l'arbitrio fu intro-
dotto e riscosso unitamente alla Decima fino all'anno 1561 >.' Anche
nel 1539 si impose «una decima e V4 e un arbitrio».*
Si prevedeva un reddito di 32.000 scudi dalla decima, di 8000 dal
quarto e di 2000 dall'aggravio : di 42.000 fra tutto in un semestre,
e però di 84.000 all'anno.
Quinto tra i cespiti d'entrata figura il dazio doganale, da cui si
sperava di ritrarre annualmente 74.000 scudi. Esistevano tre classi di
dogane per la riscossione dei dazi sulle merci : ai confini d'ogni di-
stretto, ai confini del dominio e nei porti (senza tener conto del dazio
di consumo alle Porte). Nel 1556 Cosimo I fece pubblicare un nuova
regolamento della dogana di Pisa e regolare meglio le relazioni tra
questa e l' importante dogana di Livorno.* Il camerlingo di dogana, di
cui si parla nel bilancio del 1544, era il cassiere che introitava le
rendite di tutti gli uffici doganali.
Un reddito di 18.000 scudi al semestre, vale a dire di 36.000 all'anno,
si prevedeva dalla gabella dei contratti, ossia dalla tassa che si pagava
sui contratti di compra e vendita.® Il camerlingo de* contratti riscoteva
la tassa medesima.
1 Ricca-Salerno, op. cit.t p. 64 n. Anche della decima Cosimo I accrebbe consi-
derevolmente il gettito, rispetto al tempo precedente, facendo rivedere i catasti e a^^
giungere il reddito dei miglioramenti e degli accrescimenti fatti di recente.
« Canestrini, op. cit.^ pp. 181-85.
« Ibidem, p. 404.
4 Ibidem, p. 436.
6 Cantini, Legislazione Toscana, Firenze, a. 1833 sgg., voi. Ili, pò. 82-83.
« Nuove leggi sulla gabella dei contratti furon promulgate da Cosimo I net 1550
• ti veggono riprodotte dal. Cantini, 0/;. ciL, I, 173-74 e 176 sgg.
Un bilancio preventivo deìlb Stato fiorentino del 1544 355
Un'imposta diretta diseguale e o(iìos2i era. il balzello, prestito lor-
icato, così detto perchè generalmente, scrive il Rezasco,* « non perco-
teva l'universale, ma sì alcuni uomini in singularità, ^ con disegua-
glianze e sbalzi»^,, Il balzello, come raccatto a perdita, non veniva
garantito da veruna entrata pubblica, né iscritto al Monte, e per con-
seguenza non se ne riscotevanO interessi. Lo Stato si dichiarava soltanto
debitore delle somme percepite e prometteva di restituirle quando po-
tesse. Si può facilmente immaginare che i balzelli colpivano in parti-
colare i tepidi sostenitori del nuovo governo o gli avversari sospettati,
Ola ancora nascosti : così il principe accresceva le proprie rendite e i
suoi mezzi di difesa, mentre diminuiva quelli dei nemici non dichiarati,
poiché di quelli manifesti faceva addirittura confiscare i beni.
Il balzello avrebbe* dovuto rendere 20.000 scudi al semestre e
40.000 all'anno.
Circa 12.000 scudi al semestre, cioè 24.000 all'anno, si sperava
ricavare dalle teste del contado, ossia dalla tassa sopra gli abitanti po-
veri del contado, basata sopra il numero delle persone o teste com-
ponenti ciascuna famiglia.
Ben 9000 scudi al semestre, ossia 18.000 all'anno, rendevano le
tasse de* Comuni, vale a dire i tributi, che, secondo gli speciali capitoli
conclusi al tempo della sottomissione, e non di rado poi modificati per
le mutate condizioni economiche delle comunità, ciascuna di queste era
obbligata di pagare in passato alla repubblica fiorentina e allora ai
duca Cosimo.
Settemila e cinquecento scudi al semestre, 15.000 all'anno, rende-
vano le decime dei preti dello Stadio, vale a dire le tasse sui religiosi,
che erano state destinate al mantenimento degli Studi o Università, di
Pisa e di Firenze.
Avrebbe dovuto fornire 7000 scudi al semestre, 14.000 all'anno,
il Camerlingo de* Cinque del contado, ossia il tesoriere dei Cinque Con-
servatori del contado e del distretto,^ magistratura che esercitava vigi-
lanza sui camarlinghi dei Comuni posti nel solo contado. Essa, dopo
la riforma che ne fece appunto Cosimo I, tendeva « ad accrescere le
entrate e resecare le spese superflue >.^ Nel 1544 però non era stato
ancora sviluppato il sistema ingegnoso, ma arbitrario, con cui Cosimo I
s'impossessò delle rendite eccedenti i bisogni delle comunità.
È noto che negli atti di sottomissione alla repubblica fiorentina i
1 Op. cit. alla voce: Balzello.
« Canestrini, op. eit., pp. 327 e 405.
s Cfr. A. Anzi L LOTTI, La eostituzione interna della Stato fiorentino sotto il duca
Cosimo l, Firenze, 1910, p. 70.
* Ibidem, p. 71.
Ò56 Giuseppe Pardi
Comuni si erano riservata l'amministrazione dei rispettivi patrimoni.
E quel governo, difatti, aveva limitata la sua azione ad una vigilanza
diretta a impedire abusi ed errori amministrativi. Cosimo I nel 1549
ordinò che gli avanzi delle rendite comunali fossero depositati a dispo-
sizione del governo. Più tardi istituì il Magistrato dei Nove Conser-
vatori della glaris azione e del dominio fiorentino, a cui assoggett òtutti
i patrimoni municipali, col pretesto che essi avessero a tutelarli, in
realtà perchè gli agevolassero il modo di valersi delle eccedenze de*
bilanci a vantaggio del suo erario.
Ben 4000 scudi al semestre, 8000 all'anno, rendeva a Firenze la
tassa de' cavalli, destinata al mantenimento dei cavalli in guerra o,
per dir meglio, deiresercito, poiché fin dall'alto Medio Evo la cavalleria
era diventata la parte più importante delle milizie. Dice il Rezasco*
che nel Fiorentino quell'imposta fu introdotta, a modo di prestanza,
nel 1323, se non prima, quell'imposta che si diceva a Firenze anche
cavallata o tassa delle lance^ e veniva distribuita sull'estimo delle pos-
sessioni e sulla rendita delle case^
Duemila e cinquecento scudi al semestre, 5000 all'anno, erano il
reddito presunto dalla gabella del bestiame. Fino dal tempo della repub-
blica sì pagava una tassa del 5 per 100 sopra le vendite, i baratti eie
donazioni delle bestie (asini, muli e cavalli). Il prodotto della medesima
doveva servire alle spese necessarie per i lavori dell'Arno. Cosimo I
nel 1549 lo estese ai ripari da farsi a qualsiasi fiume dello Stato.'
Avrebbe dovuto fornire all'erario 2000 scudi al semestre, 4000 al-
l'anno, il Depositario delle Bande. La milizia chiamata delle Bande era
addetta al servizio e alla difesa dello Stato. Cosimo I stabili per essa
mi nuovo regolamento il 26 marzo 1548.^ Il Depositario delle Bande
riscoteva le pene pecuniarie inflitte agli iscritti in quelle milizie.* Da
tali multe doveva risultare il reddito presunto.
Altri 2000 scudi al semestre, 4000 all'anno, avrebbe somministrati
il Depositario della Parte, ossia il tesoriere della Parte Guelfa, la quale,
com'è ben noto, possedeva un ingente patrimonio, derivato dalla con-
fisca dei beni dei Ghibellini, fin dal 1267.
Tali erano le rendite previste per l'erario fiorentino nel 1544. Esse
appaiono considerevolmente accresciute dal principio del governo di Co-
simo a quest'anno, poiché l'intelligentissimo principe, avendo ben com-
preso che ir denaro è il nerbo della potenza, s'ingegnava con ogni
mezzo d'accrescere le entrate del suo erario. E bene avrebbe fatto ad
» Op. eit., alla voce: Cavallo.
* Cantini, op. cit., II, 91 sgg.
t Ibidem, II, 9 sgg. Venne riformato poi il l" ottobre 1556, Ibidem, III, 10 sgg.
4 Ibidem, HI, 13 sgg.
Un bilancio preventivo dello Staio fiorentino nel 1^44 35:
aumentarle quanto era possibile, senza però aggravare il suo popolo,
poiché egli non si riguardò — e questo fu il' suo torto principale
nell'amministrazione delle finanze -^ dall* inasprire. soverchiamente i dazi
di consumo, tassando generi di prima necessità in passato esenti da
gabella ; né dall'appropriarsi i redditi delle comunità, impedendo cosi
a queste di migliorare le proprie condizioni. Fu adunque con metodi
talvolta, troppo fiscali, che egli potè portare le rendite pubbliche da
meno di mezzo milione a un milione e centomila scudi.^
Esaminate le entrate dello Stato, vediamone ora le spese, così ordi-
narie come straordinarie.
La principale tra tutte era il. pagamento degli interessi del debito
pubblico (o, come si diceva allora, le paghe del Monte)^ per cui occor-
revano 45.600 scudi al semestre, 91.200 airanno.
Era stato fondato nel 1343 il Monte Cornane, così chiamato per
indicare la riunione o l'ammasso di tutti i creditori dello Stato: ufficio
dove si inscrivevano tutti i debiti pubblici e si pagavano gli interessi
di questi o, secondo i casi, si rimborsava interamente o in parte il
capitale. Da allora in poi ogni prestito venne contratto in nome del
Monte, che funzionava da Banca pubblica sotto la garanzia del go-
verno. Dal 1343 al 1427, nel quale ultimo anno s'iniziò un nuovo
ordine di cose con l'istituzione del catasto, il Monte aveva ottenuto
in prestito dai cittadini la somma di 19.100.00Ó fiorini d'oro.-
Non meno di 700QV"cli al semestre e 14.000 all'anno andavano
« alli offitiali del Monte per resto di lor capitale et discretione ».
Li offitiali del Monte erano una magistratura che sovrintendeva
alle operazioni di credito per conto dello Stato, al pagamenlo degli
interessi e al rimborso del capitale. L'ordine di Cosimo 1 in data
28 febbraio 1551 regolò meglio l'elezione di quei magistrati e le loro
attribuzioni.* Essendo tale ufficio molto ambito, serviva di allettamento
per ottener nuovi prestiti dai cittadini. Come risulta appunto dal
bilancio preventivo del 1544, mancando 39.779 scudi al semestre per
raggiungere il pareggio tra l'entrata e l'uscita del pubblico erario, si
dovevano creare otto nuovi «offitiali di Monte», con l'obbligo, a cia-
scuna delle persone che verrebbero nominate, di prestare allo Stato
5000 scudi da restituirsi gradualmente.*
La somma preventivata doveva appunto servire al rimborso di
quella parte del capitale prestato dai deputati al Monte, che scadeva
» Paglini, op. cit,, voi. X, p. 108, degli Atti citati.
* Paglini, op. dt. (negli Atti cit. degli anni 1831 e 1832, voli. DC e X, partico-
laimeiite IX, 198-99).
* Cantini, op. cit., I, 133.
* Ciò sigoifica forse la frase del documento: per riacquisto.
358 Giuseppe Pardi
nel 1544, come pure degli interessi dovuti per Finterà somma da essi
mutuata (discretione, parola usata particolarmente per gli interessi del
Monte, perchè da principio si lasciarono variabili a discrezione degli
ufficiali che li dovevano riscotere).
In tal modo la cassa di ammortamento, istituita per impedire
l'eccessivo aumento del debito pubblico, si riempiva col prodotto ài
nuovi prestiti. « Questo bisogno sempre rinascente, per natura istessa
deiramministrazione, esponeva il Monte a un circolo vizioso, i di cut
risultamenti erano i progressivi aumenti del debito, per lo aumento
dej frutti, per le spese di azienda e per le requisizioni del Governo ».*
Una somma presso a poco eguale, o di poco minore, a quella
necessaria per pagare gli interessi del debito pubblico, occorreva per
il fTianlenimento e la custodia delle fortezze dello Stato : 44.402 scudi
al semestre, di cui 18,350 per il solo castello di Firenze, 8800 per le
paghe dei soldati tedeschi e 5218 per le guardie della fortezza di Li-
vornoj che, dopo l'altra della capitale, si considerava come la piCi impor-
tante del dominio.
Altre spese militari erano: 20.952 scudi al semestre pei* le paghe
a tre compagnie di soldati mercenari; circa 4000 scudi preventivati
annualmente per la costruzione di una nuova fortezza in firenie e
5000 per fortificare Monte S. Miniato; lOOO per la fortezza di Arezzo;
1000 per quella di Pistoia; 2000 per restaurare e rafforzare le mura
della città di Pisa; 1500 per le mura di Prato; 1000 per la muraglia
di Livorno. Accrescendo in tal modo le fortificazioni e tenendo pronte
milizie abbastanza numerose, Cosimo si preparava a far fronte, non
tanto agli eserciti di Stati nemici (che, sotto la protezione della Spagna,
egli non aveva, da questo Iato, niente a temere), quanto a ii^ prese di
fuorusciti o a ribellioni di repubblicani.
Non meno di 30.000 scudi al semestre occorrevano per le spese
giornaliere della Casa granducale e 7000 per le spese particolari del
duca e della duchessa.
Circa ISjOOO scudi importava il pagamento delle quote maturate
«dei capitali da restituire per doti di fanciulle: «terzi et capitali à\
dote vecchie e nove ». Fin da! 1425 si era istituito in Firenze il
Monte delle doti, per costituire doti e assegni a fanciulli, così maschi
come femmine, e, dopo il 1457, alle femmine soltanto. Depositata una
somma di lOO fiorini, sì aumentava con grossi frutti il capitale per uno
spazio di 15 anni. Al termine di questi, se la ragazza era maritata,
guadagnava una dote di 500 fiorini. Il pagamento veniva fatto a terzi,
cioè in tre rate. Neirordine per il Monte Comune del 28 febbraio 1536
1 Paglini, op. eit., p. 201 del voi. IX degli Atti dUtl.
Un bilancio preventivo dello Stato jiorentino nel 1544 359
si legge: «Quanto alle dote guadagnate, sien tenuti e* detti offiziali
(del Monte] far pagare il terzo delle dote guadagnate, o che si gua-
dagnarono durante il tempo della presente riforma >.* In certi casi poi
si restituiva il capitale, come, ad esempio, quando si facevano monache
le fanciulle per cui era stato versato il deppsito.
Ben 8000 scudi occorrevano per gli Otto di pratica^ che « dovevano
diriger^ il maneggio diplomatico, provvedere alla condotta dei soldati
e dei capitani al soldo della repubblica, farne le rassegne, stanziare
le provvisioni e i salari per le condotte, dovevano curare le opere di
difesa del territorio fiorentino e vigilare le rocche, le fortezze e il loro
vettovagliamento ».* Ma col Principato le attribuzioni di questa magi-
stratura mutarono totalmente, poiché il principe si riservò le più alte
attribuzioni ad essa ^\2i conferite, cosicché non le restò che « cono-
scere le controversie sorgenti fra le comunità, e fra queste e i privati» : •*
essa diventò insomma un tribunale delle comunità e come tale estese la
sua giurisdizione su tutto il dominio e venne ad integrare l'azione
esercitata dai Cinque del contado e del distretto.
Altri 8000 scudi occorrevano per salari di ambasciatori e di Com-
missari (ufficiali mandati in qualche luogo per eseguire commissioni
del governo, oppure quali^ governatori di città) e per le spese neces-
sarie a Inviare messaggi e lettere.
Quasi 80C0 scudi importavano ì salari degli ufficiali di Palazzo
Vecchio.
Circa 7000 se ne spendevano per la polizia: per bargelli e loro
compagnie; e quasi 4000 per i servi di Corte.
Ben 7400 scudi costavano al semestre gli Studi di Pisa e di Firenze,
per il pagamento dei salari ai Lettori.
A 3200 scudi circa ammontavano i salari dei giudici di Rota e
dei podestà. Ruota, e a Firenze Rota, dìcevasi il tribunale, e quindi
giudici di Rota wo\<ò\'a significare semplicemente giudici. Nel 1502,
aboliti i tribunali del podestà e del capitano del popolo, la giurisdizione
civile e criminale venne affidata a cinque giudici forestieri. Quel tri-
bunale fu riformato nel 1532 e poi di nuovo da Cosimo I. I podestà
continuavano ad amministrar la giustizia nelle terre del dominio fio-
rentino.
Tra le altre spese vanno ricordate quelle per le guardie del foca,
paragonabili ai moderni pompieri.
Occorre qualche spiegazione per la somma di 4C0 scudi dovuU
> Cantini, op. cit., l, 134.
« Anzillotti, op. eit, p. 75.
> Ibidem.
36o Giuseppe Pardi
< a* depositi de' pupilli ». Vi era in Firenze un apposito « offitio dellit
pupilli », che invigilava suiramministrazione dei beni pupillari. Il de-
positario o camarlingo deirufficio stesso teneva, «quella quantità di
residui di depositi rimasti in detto magistrato per non si trovargli
padroni o eredi a chi si abbino a restituire».* I 400 scudi dovevan
servire per le spese di quest'ufficio, che lo Stato forse anticipava.
Giuseppe Pardi.
Stato deirentrata- deiranno 1544 in disegno.
Dalle casse delle Porte scudi 58,cvd«)
Da una Decima et V4 et un arbitrio (la Decima è di 32 mila, .
il V4 [di] 8 mila) ................ » 42.000
Dal camerlingo del saìe=. » 55.000
Dal camerlingo di dogana » 37.000
Dal camerlingo de* contratti » 18.000
Dal camerlingo di Pisa » 13.000
Dal camerlingo de' Cinque del contado » 7.000
Dal camerlingo di Pistoia ., . » 7.000
Dalle tasse de' Comuni . » 9.000
Dalle gabelle delle bestie . » 2.500
Dalle teste del contado. .... .^ ......... > 12.000
Dal depositario della Parte, » 2.000
Dal depositario delle Bande » 2.000
Dalle tasse de' cavalli » 4.000
Da' resti di più camerlinghi » 4.000
Dal camerlingo et entrata di Prato; » 1.000
Dalle Decime de' preti dello Studio » l-V^
Somma tutta l'entrata, come di sopra » 281.000
Nota della uscita ordinaria dell'anno medesimo.
Al Bargello di Firenze con la. sua compagnia. » 1-985
Al Bargello di campagna » 2.619
Al Bargello di Pistoia » 2.434
Al Bargello di Pisa. , » 785
Alli ofìfìtii di Palazzo per lor salarli, cioè collegi, procuratori
et altro » 7-78+
Allo Studio di Pisa et di Firenze . ». » 7.400
Alla famiglia del Palazzo ....;..•....*. » 3*9^
Alle guardie del foco. » 600
A' Giudici di Ruota et Potestà. » 3.M0
1 Cantini,, op. eit., IV, 60.
Un bilancio preventivo dello Stato fiorentino nel 1544 361
A Hmosine dì più- monasteri et limosìne di S. Eccellenza . . scudi 2.144
A spese della camera dell'arme et monitioni (?) » 1.600
A limosine di S.** Maria Nuova » 3.200
Al re d'Inghilterra » 2.142
A terzi et capitali di dote vecchie et nudve » 13.000
A Inibasciatori, Comessariì et Poste » 8.000
A spese delli Otto di Pratica con pigioni di casa ..... » 8.000
Alle paghe del Monte et altro » 45.600
AIH ofiìliali del Monte per resto di lor capitale et discretione, » 7.000
AIH creditori delli ottavi dell'arte . » i.ooo
Somma in tutto l'uscita ordinaria » 122.453
Somma in lutto l'uscita straordinaria, come di sotto .... » 133*326
In tutto somma l'jiscita ordinaria et straordinaria ..... » 255.779
Uscita straordinaria.
Alla guardia del castello di Firenze . . . . ; ... . . » 18.350
Alla guardia de' Tedeschi » 8.800
Alla fortezza di Livorno * 5.218
Alla fortezza di Pisa » 3' 156
Alla fortezza d'Arezzo » 2.130
Alla fortezza di Volterra » 780
Alla fortezza di Pistoia . , , » 1.272
Alla fortezza del Borgo » 858
Alla fortezza tìi Cortona ......... » 547
Alla fortezza di Montepulciano ,.,.,.. » 576
Alla fortezza di Castrocaro » 470
Alla ròcca di Modigliana » 180
Alla ròcca di Motrone et rocchetta di Pietrasanta » 312
Alla ròcca di Montecarlo » 105
Alla torre di Vada. » 103
Poggio Imperiale » 84
Alla torre di Monte Pogginolo . * ...» 86
Alla torre nuova di Livorno » 360
Al fanale di Livorno . » 115
A due Porte di Livorno » 432
A quattro Porte di Pisa » 468
Somma la spesa delle foltezze et guardie ........ » 44*402
Segue Tuscita straordinaria.
Alla provisione del Signore Stefano et sue Lance . ...» 3.600
A dieci capitani della militia » 2.160
Alle Lance Spezzate > 5.500
Al Signore Ridolfo et sua compagnia . » 12.720
Al capitano Aldano et sua compagnia ......... » 4.632
A spese di munitiont et artiglieria ........... > 2.600
3<>2 Giuseppe Pardi
A spese della muraglia del Castel di Fiorenza ducati 4 mila,
o più o meno che pare a Sua Eccellenza scudi 4.000
Alla furtifìcatione del Monte . , » 5.000
Alle spese de' ripari d'Arno » i.ooo
Alle spese delle fortezze d'Arezzo ,* . . . » i.ooo
Alle spese della fortezza di Pistoia mille, o più o meno. . . » 1.000
Alla muraglia della città di Pisa » 2.00C»
Alla lìrovisione di casa » 30.000
A spese a conto di Sua Eccellènza et della Duchessa ...» 7.000
Alla muraglia di Prato » 1.500
Alla muraglia di Livorno et altri acconcimi ....... » f.ooo
Alle tasse de' cavalli. » 3.662
A rnesser Giovanni de Montesdus spagnolo, per parte di suo
credito » 150
A' depositi de' pupilli » 400
Somma l'uscita straordinaria suddetta » 88.924
Somma la faccia di là, di detta uscita » 44.402
(n tutto somma l'uscita straordinaria . . < '. . . » 133.326
Somma in tutto l'entrata, come si vede » 281.600
Somma in tutto l'uscita ordinaria et straordinaria » 255.779
Resta l'avanzo dell'entrata » 25.221
Ragionasi si tragga ancora del Balzello della città, di danari
conti . , . , , . » 20.000
Ancora si ragiona si tragga della sovventione messa al contado. » 50.000
Somma l'avanzo dell'entrata, il resto del Balzello et la sov-
ventione » 95.221
Ragionasi che ci sia di debito con i cittadini, per la presta
fatta da loro, fra capitali et discretione . » 135.000
Trattone }'avan2o dell'entrata, balzello et sovventione . . ' . » 95.221
Resto netto » 39*779
Come Si vede, ci resterebbe a riempire i detti scudi 39.779;
per riempimento de' quali si ragiona, quando a Sua Ec-
cellenza piaccia, di metter otto offitiali di Monte, con ob>.
bligo di prestar scudi ^ mila per ciascuno, per riacquisto:
i quali offitiali saressino per assegnamento il camarlingo
de' contratti, per sino alla somma di scudi 15 mila l'anno,
fra capitali et discretìpne . ...•,. » 40.000
{Documento originale carjaceo del tempo di cui porta la data, folto da uh
codice del quale formava le pagbie 78-81, conservato nell'Archivio di Stato
in Firenze, Gabinetto, filza 1^6. n. j).
G. P.
storiografia Elementare
^
Concetto delia storiografia.
In ogni tempo fa storiografia ebbe diretti rapporti col concetto
fi(o$ofico della vita. Nella storiografia i fatti umani sono accertati,
collegati con le loro cause e coi loro motivi, e giudicati o interpretati
sia come effetti d'un fattore materiale, sia come prodotto degli appetiti
degli uomini, sia come vicende dei rapporti tra la vita terrena e la
divinità. Una storia implica sempre un concetto filosofico, e non può
ridursi alla semplice constatazione dei fatti, come nelle croniche e
nelle liste di pontefici o di regnanti. Una storia rappresenta uno
svolgersi d'avvenimenti- in cui tutti gli aspelti più essenziali della vita
umana entrano a far parte e a dar ragione della successione nel tempo.
Che talora uno di questi^ aspetti predomini sugli altri, dipende dal
concetto filosofico che lo considera come il rappresentante di tutti,
l'elemento unico e fondamentale di cui sono formati gli eventi storici.
Nei tempi primitivi, o per lo meno nei tempi storici più remoti,
la storiografia è epopea. In seguito diventa narrazione di vicende ter-
rene, dove le divinità non intervengono più, anzf sono esplicitamente
escluse da un nuovo concetto della vita. Poi la divinità interviene ancora
nelle cose umane col Cristianesimo, poi è esclusa nuovamente dalla
filosofia, che le sostituisce il concetto dello spirito come evoluzione,
progresso e universale.
In ciascuno di questi momenti successivi dello svolgimento sto-
riografico noi vediamo l'idea della divinità o il pensiero filosofico
esercitare un'azione essenziale nel dar rilievo ai fatti, nel determinarne
l'importanza rispetto a ciò che di più certo ed elevato ha saputo sco*
364 Guido San fini
prire e concepire la civiltà. Nell'epopea le divinità intervengono direi
tamente nei fatti della storia, vendicano, parteggiano, proteggono, pro:
fetizzano. È il momento in cui la riflessione specificamente filosofica
non ha preso ancora una forma distinta net complesso dei pensieri,
ed è come fusa insieme con altri fattori, con altri aspetti della vita
spirituale, che più tardi saranno anch'essi principii e oggetti di consi-
derazioni a parte. L'atto dello storiografo dei tempi eroici potrebbe
essere dichiarato del pari atto di filosofo, atto d'artista, atto di sciei^-
ziato interpretatore, atto insomma molteplice e uno, in cui vivono
insieme le potenze dello spirito, in attesa — a nostro vedere — d'un
più ampio svolgimento e d'una distinzione in cui uomini di attitudini
diverse e varie discipline si sentiranno solidali fra loro nel medesimo
lavoro, ma a cui il pensiero individuale non basterà più, o almeno
non basterà più allo stesso modo. Il sentimento del mistero, il valore
umano che prendono le cose entrando nel dominio della nostra vita,
le forze che sfuggono alla nostra volontà o la secondano, nell'indi-
stinto dell'atto primitivo producono in ch| li considera un'intuizione
della realtà dove essi non hanno ancora una precisa determinazione
speciale, così da poter entrare in rapporto sistematico con gli altri
aspetti dell'essere. Del resto il giudizio dei fatti storici soltanto come
fatti empirici non ha senso, non può bastare, non è mai bastato, non
basta neppure quando la storia sembra essere una specie di scienza
positiva rivolta ad accertare gli avvenimenti e a collegarli fra loro
mediante cause naturali. Non basta, perchè anche quest'ultimo giudizio
della realtà storica dipende da un concetto filosofico della realtà uni-
versale, e ad esso si riferisce nelle sue premesse, nei suoi criteri, nei
suoi metodi, nelle sue afférmazioni e negazioni. Nel racconto epico
la filosofia è un momento, distinto soltanto da noi, della visione ge-
nerale della realtà, e vi determina il formarsi di quelle imagini mitiche
o leggendarie il cui credito è sostenuto dalla loro corrispondenza cois
un aspetto essenziale della vita. Dal quale non si può prescindere,,
perchè è l'aspetto stesso dello spirito nella pienezza della sua azione,
quello che determina i valori delle cose e dà loro un significato umano.
Però è credibile che il Greco dei tempi omerici parlasse di Atena «>
di Zeus come di personaggi reali, e popolasse la natura di volontà
soprannaturali senza dubitare della loro esistenza. Era questo un dar
valore umano e ordine al mondo empirico, che non basta all'esigenza
conoscitiva di nessun tempo. Nonché, dunque, l'uomo delle età remote
fosse più credulo e rozzo, dal punto di vista della vita universale dello
spirito, di quello che non sia l'uomo dei nostri tempi. Egli non si
poneva le questioni che ci poniamo noi in seguito all'accrescimento
della nostra esperienza e al complicarsi dell'azione riflessiva e distintiva.
storiografia eleweniare 365
Ma se non sì poneva i nostri problemi, o non se li poneva in modo
:la dar subito luogo a un effettivo mutamento nell'insieme dei suoi
iP^ensieri, non vuol dire che a lui rimanessero estranei certi aspetti es-
senziali della vita spirituale. Ne era soltanto consapevole in modo di-
verso dal nostro.
Ogni forma di storiografia corrisponde
a un determinato sviluppo dello spirito.
Di queste cose è fatto qui cenno perchè si vuol indicare un difetto
gravissimo nell'insegnamento della storia ai ragazzi, un difetto che ne
rende nullo il profitto, come purtroppo dimostrano i fatti, e toglie a
questo studio l'attrattiva che ha naturalmente, quando è ben condotto
m rapporto coi concetti che gli danno un valore. Questo difetto consiste
Fieirinsegnare ai ragazzi la « nostra » storia.
Se è vero che la storia è l'espressione d'un concetto filosofico
della vita umana, che ne determina i metodi e i giudizi, una storio-
grafia, non più distinta ma separata dai suoi presupposti universali, è
priva di significato, e non può avere alcuna efficacia educativa né può
suscitare quell'interesse per cui il suo insegnamento parve degno di
speciale attenzione. Certamente che i fatti siano veri è una condizione
essenziale del credito di qualsivoglia storiografia. Ma si tratta appunto
di sapere in qual senso dev'essere accertata una tale verità. Che un
personaggio sia esistito davvero, che abbia compiuto determinate azioni,
che con le circostanze del suo tempo si sia trovato in determinati
rapporti; che tutto ciò a noi sia noto per vero e constatato con gli
strumenti della nostra indagine e della nostra critica; che certi muta-
menti sociali' o politici siano accaduti col concorso definito di fattori
distinti e misurati separatamente, sono cose da cui non possiamo pre-
scindere, sia per il fondamento delle nostre convinzioni che per la se-
rietà dell'insegnamento storico. Tutto ciò ha avuto valore capitale nella
storiografia di tutti i tempi, e non possiamo dubitare che gli storici di
date epoche abbiano voluto tenerne conto. Epperò noi vediamo sempre
la storia differire in questo da una novella, che la sua narrazione è
data per veritiera e come tale è creduta, almeno da chi può capirne,
ma più ancora apprezzarne la veridicità. I fatti storici hanno perciò da
essere veri, sotto un aspetto speciale, sotto quell'aspetto che comprende
tutta la vita dell'uomo, e debbono essere posti a riscontro diretto coi
princìpi universali dell'azione. Anche l'uomo dei tempi omerici o ve-
dici, mentre non avrebbe creduto all'intervento diretto degli dèi nelle
particolari opere quotidiane e materiali della sua esistenza, perchè a
comprenderle e a spiegarle bastava un concetto di causalità e di prò-
366 Guido Santini
prietà materiali, credeva tuttavia alla presenza e all' intromissione divina
in tutto l'insieme di quelle cose per le quali la causalità naturale non
basta e l'interpretazione per fattori umani non può aver luogo prima
che sìa stata risolta nell'umanità la vita universale. Così la verità d*un
latto veniva commisurata con criteri di giudizio non pertinenti soltanto
alla vita fisica o sociale dell'uomo, mz. a tutto il suo domìnio spirituale.
Anche ora la nostra storiografia non ritrae soltanto l'uonio di natura
e soggetto a cause naturali, se non in seguito a un concetto universale
della sua vita. Solamente questo concetto ha oggi una trattazione di-
stinta, un modo specifico d'affermarsi come tale, mentre un tempo faceva
parte dello stesso racconto storico sotto forma di complemento mitico
del fatto sensibile, in cui veniva raffigurato ciò che pure esiste senza
dubbio neiresperienza ed è sentito profondamente dall'uomo.
Per conseguenza, ogni forma di storiografia è strettamente collegata
con un determinato sviluppo dello spirito.
Posizione ideale della moderna storiografia dotta.
La storiografia moderna degli adulti è una manifestazione ideale
congiunta con altre che formano il carattere della nostra civiltà. Ma più
che questo aspetto astratto, essa ne ha uno concreto, che consiste
nell'essere espressione d'una corrente filosofica, anzi delle sue sfumature,
anzi, più precisamente, del pensiero filosofico individuale. Essa è ade-
guata solamente al sentimento della vita di ciascuno, ed è sentita come
cosa d'altissimo pregio e come essenziale elemento formatore solo in
quanto corrisponde a idee determinate per via di riflessione originale»
cioè sentite vivamente. Nei tempi primitivi la storiografia poteva avere
una forma unica per tutta una gente, perchè la semplicità delle condi-
zioni primitive limitava l'esperienza, lasciava ai miti un valore ogget-
tivamente indeterminato, che poi di volta in volta si determinava nel-
l'animo del poeta e dell'uditore. Le varietà del modo di sentirlo non
prendevano ancora quelle forme esplicite che -ha un'idea quando cor-
risponde largamente all'esperienza oggettiva ed ha assunto una fun-
zione organica che non può rimanere la stessa se non nello stesso orga-
nismo. Marte non suscita ancora polemiche ed obiezioni, ed è un perso-
naggio interessante per tutti, perchè alla sua figura non appartengono,
né le si possono opporre, i caratteri determinati dell'esperienza oggettiva
e riflessiva : per il momento essa medesima è una rivelazione e un'espe-
rienza. La forza militare d'un popolo, invece, ha determinazioni che sono
frutto d'un lavoro distintivo e riflessivo avanzato, e non si può spie-
game l'azione, né sentirne il valore, senza tener conto del lavoro che
le ha dato quell'importanza distinta. E come diversissimo è questo
storiografia, elementare 367
lavoro in ciascuno, così sono diversi negli autori e nei lettori i tipi
storiografici, benché questi abbiano certi caratteri comuni, e le condi-
zioni delja cultura prestino i criteri per comprenderli nella loro varietà.
Ma appunto si tratta di condizioni di coltura, d'essere più o meno e
In qualche modo a contatto con esse, d'essere più o meno preparati ad
assimilare un'esperienza altrui che non è più quella immediata.
La storiografia dei dotti non può esser quella dei semidotti, ne
quella del popolo, né quella dei fanciulli, se è necessaria almeno una
generica uguaglianza di condizioni spirituali per comprendere e per far
propria, trasformandola, un'espressione che implica l'accordo di tutte
le potenze dello spirito. Sulla verità dei singoli oggetti delle altre
discipline può esservi accordo universale. La loro oggettività può essere
presente al nostro spirito indipendentemente dall'interpretazione che
l'ha scoperta e determinata, perché é forma d'esperienza immediata e per
un verso o per l'altro entra sempre nell'armonia dei concetti individuali .
Una volta precisato un oggetto sensibile, l'efficacia d'un medicamento,
i caratteri d'un animale, le proprietà d'un corpo, non c'è bisogno d'altro
per suscitare negli uomini, in qualunque momento del loro sviluppo,
un qualsivoglia interesse per quell'oggetto dato separatamente dalle
condizioni ideali che ne interpretano il valore presso chi lo ha definito.
Ma per la storia la cosa é assai diversa. L'avvenimento storico non ha
da essere semplicemente un fatto che arricchisce in un modo qualsiasi
l'esperienza umana, ma un fatto storico, un fatto, cioè, già fornito d'un
dato valore nell'atto in cui è determinato.
A differenza della storiografia primitiva, la nostra è un'espressione
ideale distinta. Per quanto in essa si converta il concetto della vita'
umana trattato dalla filosofia, ad ogni modo, come organo .ideale, essa
è distinta da questa e la presuppone.
Principali difetti dell' insegnamento storico elementare.
Ora, l'importanza della storia nell'educazione è grandissima e af-
fermata da tutti. Alcuni anni sono questa materia era insegnata ai
ragazzi mediante le biografie degli uomini illustri; oggi va prevalendo
un altro metodo d'insegnamento storico, che consiste nell'esporre
la storia, non più spezzettata nei raccohtini biografici, ma coerente
nell'insieme delle sue narrazioni. Il racconto biografico era scelto con
lo scopo principale di dare un esempio di virtù civile, d'eroismo, di
forza di volontà, d'onestà, di patriottismo, e di mostrare quale spiega-
mento d'attività, quali sforzi, quali sacrifici siano costati i beni della
vita civile che attualmente godiamo noi, e di indurre i giovani al ri-
spetto e alla venerazione delle più insigni opere umane. Ma la bio-
368 Guido Santini
grafia, astratta dal suo sfondo di circostanze, di costumi, di ide^
dominanti, perdeva il carattere storico, e nessuno avrebbe saputo di-
stinguerla da un fatto imaginato, da una diceria, da un avvenimento
di cronaca cittadina, se non perchè era cosa realmente accaduta nei
tempi passati. Anzi, Timagine del personaggio, accompagnata da parti-
colari strani e incomprensibili, riguardanti le immediate condizioni dei
suoi atti, e diversi da quelli che sogliono essere oggetto d'esperienza
per gli scolari, restava priva anche di quella forza esemplare, di quel
potere suggestivo che invece avrebbe avuto un fatto collocato nelle
circostanze più note al ragazzo. L'eroismo d'un pompiere, l'arresto
movimentato d'un malvivente, l'atto munifico d'un principe di passaggfo
per la città avrebbero avuto per Talunìio una priorità indiscutibile sul
pallido e incerto fantasma d'un Pietro Micca, d'un Cola di Rienzi,
d'un Orazio Coclite, non, abbastanza determinati neppure nella foggia
del vestire e di portare le armi. La successione cronologica, in cui
erano disposti questi raccontini, rimaneva uno schema convenzionale
e niente più, perchè il loro contenuto era privo di quegli elementi
che danno ragione d'un certo ordine nel tempo. L'eroismo, la virtù,
il significato civile dei personaggi dileguavano così col loro valore
storico, e nella mente dell'alunno rimaneva soltanto un arruffio di date
e di nomi, parole prive di senso vivo, voci convenzionali, accompa-
gnate dai soliti aggettivi rappresentanti il merito esemplare, ma inca-
paci di dare a questo il rilievo e la distinzione che Io individuano e
ue ritraggono la particolare potenza. Una volta, all'esame, un ragazzo,
a cui era rimasto impresso il lato debole di quell'aggettivazione dogma-
tica, ingiustificata, alla domanda chi fosse Leonida rispose, con suffi-
ciente sicurezza di cavarsela, che era una saggia donna
I difetti di tal modo d'insegnare la storia apparvero evidenti attra-
verso le critiche che gli furono mosse e l'esperienza negativa dei
risultati ottenuti, specialmente nella grande maggioranza dei discepoli
che non avevano continuato gli studi. Per contrasto, parve più neces-
sario quell'aspetto della storia che nella narrazione a biografie era
manchevolissimo, l'aspetto del costume, inteso sopratutto come vita
pratica, come foggia di costruire le case, di vestire, di essere in rap-
pprto coi concittadini, d'avere una fede, di fare la guerra. La succes-
sione storica apparve così più determinata come imagine; lo scenario
€ la guardaroba ebbero più grande rilievo, ma la scena fu vuota;
mancò il dramma. Era quasi meglio, con tutti i suoi difetti, il rac-
contino biografico. Questa successione di costumi, questo mutar di
vestiario, d'architetture, di armi, di consuetudini, d'idee, rimasero a
loro volta senza alcuna giustificazione. Poiché è chiaro che, se gli atti
dell'uomo astratti dalle circostanze hanno un valore assai indetermi-
storiografia elementare 369
nato, le circostanze senza l'uomo hanno un valore ancora- più inde-
terminato. Si può capire fino a un certo punto, anche senza molte
spiegazioni, come Tizio sia stato prima o dopo Caio, ma come un'archi-
tettura, una religione, un ordinamento civile, un rapporto politico siano
preceduti o seguiti da altri, non si può capire, se questi aspetti della
vita non sono animati interiormente dall'opera dell'uomo, che agisce nel
dramma della storia. L'uno e l'altro modo d'insegnare la storia hanno
il difetto comune d'essere astrazioni, di presentare i fatti sotto un
aspetto distinto per noi, ma separato per gli alunni, sotto un aspetto
formante il principio d'una loro trattazione e d'un loro speciale ordina-
mento sistematico, mentre di tale distinzione, di tale considerazione
a parte non era ancor sentito il bisogno né quindi compreso il valore.
Posizione ideale del fanciullo verso la storiografia dei dotti.
V'è forse un altro modo più compiuto di scrivere la storia per
1 ragazzi, facendo entrare nel racconto i molteplici aspetti del vivere
civile e indicandone in modo più preciso la funzione particolare. Ma
come faremo a descrivere il concorso di tutti questi aspetti ? Con l'aste-
nerci dall'impoverire troppo il nostro racconto? Col lasciargli più
grande ricchezza di particolari ? La nostra storia è il nostro modo di
renderci conto dei fatti della nostra civiltà, dei fatti quali noi li con-
cepiamo e li distinguiamo fra loro. Essa è tanto più complessa quanto
più numerosi sono gli aspetti sotto i quali siamo soliti considerare le
cose. La storia delle nostre scuole, invece, è privata delle parti che
sembranp più difficili ; il suo delicato intreccio vi è mutilato e
stroncato ; e si pretende che dopo tale operazione — compiuta, per
giunta, quasi sempre da mani inesperte — ciò che rimane conservi
ancora il medesimo valore che aveva nelle sue fonti. Il pregio della
storia consiste nella sua interezza come prodotto originale, dove si ri-
flette il significato della verità dei fatti. Tutti insieme gli aspetti che
noi distinguiamo negli avvenimenti storici fanno parte della loro realtà
concreta, e non possono essere considerati separatamente uno dall'ai-
tro. Non possiamo astrarre impunemente da alcuno di essi. Però è ne-
cessario che siano tutti presenti allo spirjto nel loro vero ordine e nel
loro nesso particolare. Questo sarebbe l'unico modo d'insegnare la
storia. Questo è infatti l'unico, ma solamente in un certo senso. Tutte
le potenze dello spirito debbono essere presentate in azione, ma non
sempre possono essere rappresentate in azione distinta e allo stesso
modo. Ciò che determina il pensiero a compiere certe distinzioni
tra gli aspetti della vita è la funzione ideale di consapevolezza che pos-
sono compiere. Tale funzione, appunto perchè è una funzione, è con-
24 — Nuova RMsta Storica.
370 Guido Santini
nessa coi fatti deiresperienza tutta, con tutta Tunità della vita, e rappre-
senta quindi un bisogno sentito, e non solo imaginato.
I bisogni del giovane non sono gli stessi di quelli d'un uomo ma-
turo e provetto negli studi, che della vita s'è formato un concetto, a cui
riferisce in modo riflesso l'importanza dei propri atti e dei propri pen-
sieri. Più che un concetto il ragazzo ha un senso della vita, in cui quelle
note, che nel concetto sono chiaramente distinte a compiere una funzione
vitale, si trovano fuse e come ancora involute. Le distinzioni che in noi
sono nate neiresperienza, in seguito a un prolungato lavoro astrattivo e
generalizzatore, non si sono formate ancora nel ragazzo. Le esperienze
i cui oggetti si trovano certamente lìeirambiente in cui vive il ragazzo
insieme con Tadulto, non sono ancora avvenute. E ciò, non perchè
quegli oggetti siano sottratti alla sua percezione, ma perchè non è an-
cora sentito da lui il bisogno di distinguerli col nostro valore. Uno
sciopero, reiezione del Consiglio comunale, il restauro d*un edificio an-
tico, la leva dei soldati, i prezzi delle merci, i pubblici spettacoli, Tam-
ministrazione della giustizia, Tordinamento del Comune, della Provincia,
dello Stato, lo sviluppo delle industrie, le condizioni e i rapporti delle
varie classi sociali sono pure elementi storici [presenti alla sua diretta
esperienza. Tutti i giorni ne può notare le manifestazioni, ne sente par-
lare in famiglia, fuori di casa e a scuola. Sono veri tutti ; egli stesso
ne può constatare la realtà. Eppure non sono significativi per lui allo
stesso modo che Io sono per noi. Sono fatti o aspetti della realtà pres-
soché indifferenti, quasi come il rumore della città, il fragore dei carri
per le strade, Taffollamento di molte persone nelle vie preferite per la
passeggiata. Cose che si vedono, si constatano, non si collegano per
sé con nessun particolare interesse. Se talora il ragazzo vi pone atten-
zione e ci domanda spiegazioni intorno al loro essere, il suo perchè
non è una vuota capacità di contenuto — come si può supporre fino
a un certo punto per una domanda intorno a un effetto materiale, per-
chè fa giorno e perchè fa notte, perchè piove o tira vento o cade la
neve ™ ma è una domanda che riguarda Fazione dell'uomo, e, come
tale, è adeguata al concetto che dell'uomo può avere un ragazzo. Tutto
ciò che ha il suo fondamento fuori di tale concetto è nulla, e lascia
delusa l'aspettazione dell'interrogante. La sua curiosità si dilegua nella
vacuità di ciò che gli riesce incomprensibile in quel valore, che non
ha la forma di quello che gli era balenato prima. La sua attenzione si
rivolge altrove.
II concetto che un ragazzo ha dell'uomo è derivato dallo stesso
sentimento della sua vita. Cerchiamo noi stessi negli altri esseri e nelle
cose, ma più che mai nella storia. Come il fanciullo sente la giustizia,
ma non ne tratta il concetto, sente la necessità economica, ma non he
storiografia elemetitare 371
tratta il concetto, sente il pregio del bello e del vero, ma non ne tratta
il concetto, così tutte le nostre spiegazioni, che dipendono dalla trat-
tazione sistematica d'un concetto, sono un'anticipazione inutile sul suo
sviluppo e non corrispondono alla funzione che attualmente dovrebbero
compiere. Se di tali elementi è formata la nostra storia, è chiaro tut-
tavia che come elementi non hanno alcun significato e però alcuna
esistenza, se non in una particolare storiografia, determinata da bisogni
di distinzione che non possono essere provocati per la via dei sensi,
ma che ineriscono allo sviluppo totale del pensiero. Per capire il va-
lore di Galileo bisogna conoscere il momento storico in cui visse e
operò; per conoscere questo momento bisogna ponderarne i caratteri
essenziali; per ponderarli bisogna interpretarli, e per questo occorre
un concetto della vita umana in generale, del significato e della verità
storica in particolare, che varia da uomo a uomo, da età a età, secondo
il particolar punto di vista di ciascuno, e che può dar luogo alle più
diverse interpretazioni d'un medesimo personaggio e d'uno stesso fatto.
Gli uomini possono essere perfettamente d'accordo sul miglior modo
dì costruire un motore o di trasmettere a distanza le notizie; ma nel
giudicare i fatti della storia ciascuno trova nelle proprie condizioni,
nei propri bisogni, nel sentimento dei propri rapporti con l'umanità
il criterio di distinzione e il punto di vista che dà importanza ai fatti.
Ciò non vuol dire che la storia dipenda dal capriccio individuale e sia
quasi pari all'opinione, ma solamente che la storia ha bisogno d'essere
vissuta, e non solo pensata, per avere un significato.
Concetto della storiografia elementare*
Dal sentimento che il ragazzo ha della vita umana nascono do-
mande, curiosità, momenti d'attenzione la cui capacità è essenzialmente
drammatica, sia perchè è ancor poco lontana dall'esperienza ogget-
tiva immediata, sia perchè lo dispone a cercare negli oggetti sensibili
un'esperienza in cui tutta la sua umanità trovi argomento d'affer-
mazione. La sua disposizione verso le. cose umane è l'impressiona-
bilità, l'emotività, la curiosità dell'episodio, e bene l'hanno compreso
— ma più che compreso, sentito, anch'essi — coloro che insegnavano,
e insegnano ancora, la storia a biografie. Solamente, nel loro episodio
scompare ciò che si può chiamare storia, e rimane un'imagine nia|
definita nei particolari e mal collocata nel tempo. Nell'episodio sepa-
rato, poi, quand'anche l'imagine riuscisse abbastanza determinata, il
valore del personaggio, non più storico, nel significato largo e umano
della parola, si abbasserebbe a quello d'un avvenimento qualunque»
CQme n«* succedono tanti. L'organicità della storia risiede nella coati*
37« Guido Santini
nuità, o, meglio, nell'unità che collega al nostro presente una serie di
fatti passati, il cui posto nel tempo ritrae il progressivo divenire in
noi di ciò che essi rappresentano. Debbono essere perciò un arricchi-
mento di ciò che si trova già in atto nella vita di ciascuno, bisogno
materiale o pensiero o sentimento che sia. Il bambino domanda conto
ai genitori della sua nascita, della loro nascita, risale ai nonni, da que-
sti agli antenati e, se la sua curiosità non si stanca, all'origine del mondo
e deUa vita umana. Come i genitori lo ammoniscono, lo consigliano.
Io nutrono, lo proteggono, così apprende che i nonni fecero altrettanto
verso i suoi genitori, che un tempo furono bambini come lui e come
lui errarono, s'illusero, ebbero la dura esperienza della vita. Sa che
poi crebbero di età e ,di cure. Io fecero nascere insieme coi suoi fra-
tellini. Apprende così che anch'egli un giorno sarà adulto, avrà fami,
glia nuova e figli, dei quali i suoi genitori saranno diventati i nonni,
e così con un più ricco sentimento del proprio vivo presente, suscitato
dalla considerazione del passato e suscitatore d'altre simili e più variate
considerazioni, di mano in mano che la sua esperienza procede e i suoi
bisogni pratici e ideali sì differenziano, egli si protende verso l'avvenire
e dà alla propria coscienza quel contenuto ricco di propositi e di ap-
prezzamenti e quel moto caratteristico che viene dalla storia come dalla
stessa corrente della vita. Se storia ha da essere per lui, non può conte-
nere particolari che non siano rispondenti alla sua esperienza, o se con-
tiene tali particolari, bisogna che di essi sia mostrato quel solo aspetto
che caratterizza nella sua coscienza la vita dell'uòmo e vi può suscitare
un più diretto interesse. Per questo tutto ciò che noi vogliamo inse-
gnargli della nostra storia dev'essere tradotto nelle forme e nelle espres-
sioni, nei limiti e nei caratteri della sua vita famigliare e dei suoi rap-
porti coi coetanei, coi parenti, con gli altri uomini. Deve essere tra-
sformalo in dramma e avere un'unità, che non può essere determinata
dal criterio con cui noi cerchiamo e interpretiamo i fatti storici.
Ma se noi non possiamo più avere i bisogni spirituali d'un fan-
ciullo, abbiamo bisogno tuttavia di avvicinarlo a noi, e ciò è misura
della serietà delle nostre azioni verso di lui e dei nostri insegnamenti,
se pure in qualche modo dovessero differire dal nostro modo perso-
nale di pensare e di vedere la realtà. Ciò che nella storia abbiamo
distinto dev'essere fuso e reinvoluto in un'intuizione che ne sia come
il presentimento. L'interpretazione della vita umana, la visione della
ricchezza della nostra civiltà debbono essere riprodotte, poiché non
possiamo prescindere dai nostri convincimenti, ma debbono esserlo
come funzioni e non come cose. A quel modo appunto che lo sono
per noi, benché nel pensarle ci riferiamo alle cose, e non alla funzione,
che è una maniera d'interpretare il pensiero delle cose. Lo stesso uf-
storiografia elementare 373
ficio cioè che la storia compie per noi dev'essere quello medesimo che
compie anche per il fanciullo. Ti^tti gli aspetti della storia sono dun-
que conservati, ma non più nella loro distinzione analitica e sistema-
tica di fattori valutati separatamente nella loro efficacia e nella loro
importanza, bensì in una loro attualità integrale, la cui complessità
esplicita, distinta per fattori, è proporzionata al discernimento del ra-
gazzo. Tutti i fattori della storia debbono entrare anche nella storio-
grafia del ragazzo, come vi entrano tutte le potenze dello spirito, men-
tre l'unità della nostra narrazione non può mancare neanche in quella
destinata all'educazione dei giovani.
Non possiamo ridurre in proporzioni minori la storia della nostra
vita lasciandone intatta la struttura distintiva, perchè tale riduzione
avverrebbe solamente in apparenza, mentre in realtà sarebbe soltanto
un privare il racconto di parti inseparabili dal tutto, elementi o aspetti
che siano. Non possiamo raccontargli questo tutto, nato dai nostri
bisogni, dipendente dal nostro sviluppo progredito, vivo soltanto nel-
l'ufficio che compie per noi nell'insieme dei nostri pensieri e delle
azioni del nqstro spirito, perchè egli non lo capirebbe. Bugie o inven-
zioni che ne simulino l'apparenza non possiamo dirgliene. Sembrerebbe
dunque impossibile insegnare la storia al fanciullo, al soggetto del-
l'educazione in generale. Ma, d'altra parte, tale cognizione è necessaria,
fa parte della vita dello spirito, è anzi questa vita stessa nell'atto di
sentirsi collegata e solidale col passato e con l'avvenire, in uno svi-
luppo che sorpassa i limiti della vita empirica. Però, se è necessaria, è
anche possibile, e non averne trovata finora la forma riflessa per l'in-
segnamepto non vuol dire che essa non vi sia, e non possiamo averne
almeno un'idea. Inoltre, se è necessaria, la storia si fa lo stesso nel-
l'animo del fanciullo e del popolo; si fa senz'aiuto, con elementi ca-
suali, con pregiudizi e con vaghi e nebbiosi complementi della realtà
empirica, male espressi e poco attivi perchè la sua formazione non è
guidata dal concorso della cultura superiore contemporanea. Bisogna
risalire a esempi in cui questa corrispondenza fra l'anima primitiva e
le forme ideali superiori della civiltà fu assai più stretta, e causa di
più attivo scambio, per avere l'idea di ciò che potrebbe essere la storia
dell'educando, se invece d'essere abbandonata a se stessa e di crescere
contorta e povera sotto l'oppressione d'un concetto estraneo, fosse
secondata e, come vuole la buona pedagogia, fosse educata nell'atto
stesso della sua spontaneità.
Ci sarebbe dunque una vìa, come sembra: alterare e allargare i
limiti di ciò che siamo soliti valutare come fatto concreto, di ciò che
è oggetto dell'esperienza immediata e che accettiamo nella nostra sto-
ria perchè il suo valore storico risiede nell'interpretazione distinta per
jJ74 Guido Santini
aspetti astratti e per funzioni concettuali ; deformare e come stilizzare^
Toggetto materiale della nostra verità, il personaggio, il fatto politico,
il movimento speculativo, il fiorire dèlie arti, il prosperare delle industrie,
affinchè vi entri con potenza adeguata alla limitata capacità distintiva
del ragazzo ciò che, se non è distinto, è tuttavia sentito come essenziale
e non può essere sottratto senza danno, col pretesto di semplificare.
Per il ragazzo non si semplifica astraendo da astrazioni, mutilando il
nostro concetto, scegliendo le note di cui egli ha esperienza sensibile
ed escludendo quelle altre. Se non fanno parte né dell'esperienza sen-
8H?ile né della coscienza riflessa, sono ad ogni modo elementi di vita
e ragioni essenziali di quel valore attribuito al fatto oggettivo. La sem-
plificazione, in questo caso, avviene col concretare di nuovo il no-
stro concetto totale della storia. Altrimenti, se pure ammettiamo che
il ragazzo possa distinguere il singolo fatto o il singolo aspetto — cosa
che del resto non si può negare — in che cosa facciamo poi consi-
stere il criterio che gli dà un valore e per cui a noi preme tanto il
suo insegnamento?
Valore generale deireletnento fantastico nella storia.
Stilizzare l'oggetto materiale vuol dire fare opera di fantasia,
opera creatrice di forme intuitive. Questo non significa che noi dob-
biamo inventare o rammodernare miti solari, leggende eroiche, storie
di mostri, colloqui d'elementi naturali o d'animali parlanti, né che dob-
biamo sbrigliare la nostra fantasia, come nelle favole, tenendo la no-
stra storia solamente per falsariga. Il risultato sarebbe certamente an-
cora più grottesco ed assai meno irinocuo di quello che non fosse
prodotto dai raccontini biografici, o non lo produca, attualmente,
l'esposizione dei costumi delle varie epoche. Una tale fantasmagoria
sarebbe assurda del tutto, anche se fosse composta di miti storici e di
leggende che un tempo ebbero vigore di verità presso gli adulti, a
meno che non li facessimo strumenti e mèmbri' d'una visione più se-
ria, e più rispondente al nostro concetto d'unità della storia. Come
chi parla per parabole o per aforismi non inventa, ma per l'invenzione
spiega effettivamente e dimostra una verità o il significato d'un fatto
reale, così chi fa opera di fantasia nel raccontare la storia ai fanciulli,
non può prescindere né dai propri convincimenti, né dal sentimento
della vita reale che ha il ragazzo. Il quale, in fondo, non ha neanche
molta fantasia, come si vede dai suoi componimenti.
Per concreto fantastico s'intende dunque qualche cosa che è arte,
ma che, al pari d'ogni forma di arte, mantiene una stretta solidarietà
col materiale di pensiero da cui nasce. < Santippe > del Panzini è arte,
Storiografia elementare 375
ma è anche storia e filosofia. Y*è l'arte religiosa, Tarte figurativa, l'arte
politica, l'intuizione, cioè, rivolta a determinati oggetti o aspetti del-
l'essere; così vi può essere un'arte che, oltre essere prima di tutto
arte davvero, è anche rispondente al bisogno pratico dell'educazione,
nata cioè dai nosrri rapporti col fanciullo. Per questa via riflessa l'arte
tornerebbe all'indistinto, anteriore al prolungato lavoro riflessivo, che
ne ha fatto un momento speciale chiaramente precisato. Ma non per
noi, che certamente dovremmo reggere il valore d'un tale indistinto
mediante il riferimento a tutte le nostre distinzioni. Queste, così, non
sarebbero date in misura più o meno abbondante, mutilate o decimate,
alla mente dello scolaro, ma sarebbero per il nostro racconto il fon-
damento d'un doppio significato, uno per noi e uno per il ragazzo.
Per noi, di un valore pedagogico, che vuol dire di verità nostra inse-
gnata; per il fanciullo, di un valore di verità sua appresa da noi. È
evidente che, per la mediazione di quell'indistinto, i due valori si con-
vertono interamente uno nell'altro. Ma bisogna perciò che la verità
insegnata sia sentita dal ragazzo come sua davvero e rispondente alla
sua esperienza.
Però la verità storica non è alterata quando, se è utile e richiesto
dal grado di sviluppo, si preferisce, ad esempio, la leggenda della
lupa a una verità accertata nel modo più positivo. La grandezza di
un popolo, l'importanza civile e umana d'un atto eroico, d'un atto
d'abnegazione, dell'amore per la patria e per la verità, sono espressi
nelle leggende e nei miti insieme con la figurazione generale del si-
gnificato della vita, e hanno, anche per un ragazzo, un valore tanto
diverso da quello d'una favola, quanto più in essi sente e vede mani-
festata un'aspirazione e quasi un'azione istintiva dell'uomo verso i
propri fini specifici. Qui la verità si confonde con ciò che deve essere,
e ciò che è stato con ciò che è in realtà viva nell'animo. Il primitivo
s'accontenta della leggenda, che per lui è verità com'è per noi la storia
documentata; il ragazzo ha bisogno dell' imagine che deformi i con-
torni maturali delle cose per comprendervi in una forma immediata
la verità di quel valore che nelle cose materiali non si trova, che per
concetti non è ancora distinta, ma che tuttavia esiste come principio
animatore dì tutto il lavoro dello spirito. Tale deformazione è però
richiesta e giustificata solo in quanto può esercitare quest'ufficio e
avere questo significato.
Il valore storico dei miti e delle leggende è importantissimo perchè
ritraggono in una forma intuitiva il vero carattere integrale d'una ci-
viltà. Ma non possono essere dati senz'altro al ragazzo, come quelli
che corrispondono a volontà di adulti e d'altri tempi, e però, come
tali> rimangono estranei del pari al suo intendimento. I miti sono come
■
376 ' Guido San fini
un suggerimento per noi, un fatto da criticare e da documentare sotto
un nuovo punto di vista, per metterlo al suo posto nella storia. Essi
sono materiale soltanto per una nuova forma di nostra storia, senza
contare che sono utili allo scolaro anche come conoscenza di monu-
menti illustri che dovranno non rimanere ignorati. Non sono da pren-
dere e da riferire in ordine tali e quali, poiché ciascuno di essi è una
storia, è un mondo chiuso e determinatovi un dato istante del tempo
che non è il nostro istante; poiché, dunque, uno non é la continuità
dell'altro. Ognuno, caso mai, é il rifacimento degli altri sotto un nuòvo
aspetto, nei limiti di bisogni vissuti, che possono essere riprodotti in
noi solamente attraverso l'esame particolareggiato di circostanze sto-
riche lontane dall'esperienza immediata. Inoltre non é giusto dire che
il bambino ha bisogno di storia in tali forme, per noi fantastiche, di
mito. Se questo bisogno vi fosse davvero, darebbe qualche manifesta-
zione notevole tra i prodotti dello spirito giovanile. Ciò che non è.
Noi, al contrario, abbiamo bisogno di ricorrere a quelle forme per
far penetrare nel raggio della sua visuale certi valori che si trovano
concreti a nostro modo nella nostra vita, ma che in lui richiedono
un coiicretamento relativo alla sua anteriorità sul nostro sviluppo.
Valore particolare deirelemento fantastico nella storia.
Quell'efficacia che cerchiamo nei miti vi si trova dunque fino a
un certo punto, ed ha bisogno d'essere ancora trasformata da noi
per servire al nostro scopo e per raggiungere la piena chiarezza della
verità, per parte nostra, il sentimento della verità, per parte dello sco-
laro. Oggi i miti storici non corrisponderebbero né alle nostre con-
vinzioni né all'esperienza del ragazzo, che li vedrebbe contradetti ad
ogni istante nella famiglia e fuori, e non troverebbe in nessun luogo
le traccie di quel largo sviluppo d'esteriorità, di quel molteplice ad-
dentrarsi e diramarsi nell'esistenza umana, che hanno i veri concetti
della vita. Come i primitivi insegnarono la storia mitica ai loro fig^i,
i pagani la storia pagana, i bramani quella braminica, e non andarono
a cercare la forma del loro insegnamento in altre civiltà, così noi non
vogliamo insegnare ai nostri figli se non ciò che teniamo effettiva-
mente per vero. Ma ecco che l'esempio delle civiltà che insegnarono
ai giovani, con la loro storia, la parte migliore del loro, sapere, la
dottrina della vita in cui realmente credettero, appare sempre meno
capace di chiarire a noi il compito speciale della nostra educazione
storica, di mano in mano che ci allontaniamo dai tempi primitivi. Se
i miti presso quelle civiltà ebbero anche un valore pedagogico pari a
quello civile, fu perchè il lavoro degli elementi migliori della civiltà,
storiografia elementare 377
l'opera della cultura superiore di quei tempi si svolgevano in diretto
contatto con l'esperienza immediata e però potevano essere capiti e
apprezzati senz'altre trasformazioni anche dal popolo. Oggi la cultura
superiore è assai lontana dal potere esercitare quest'ufficio. Tanto che
il bisogno di fondare una pedagogia e di cercare una particolare
forma di verità, adatta all'insegnamento e aireducazione, non nasce
che quando il sapere non è più una semplice intuizione o rivelazione,
ma rappresenta uno svolgimento astrattivo in vista di rapporti e di
atti sempre più differenziati e complessi. Così che se il mito natura-
listico non ha più alcun valore né per il ragazzo né per noi, resta
pur sempre vero che nell'insegnamento della storia ci troviamo in
presenza d'un caso che riproduce, con certe differenze, il fatto delle
civiltà primitive. Da una parte vediamo che la scuola deve rappresen-
tare la cultura superiore del nostro tempo, mentre, dall'altra, ci accor-
giamo che non può riprodurre la nostra verità. La soluzione di tale
alternativa parrebbe dunque questa : rappresentare nella scijola la cul-
tura superiore del tempo in cui vive il ragazzo, che é bensì il nostro
tempo, ma in funzione del ragazzo. Per questo, se i miti e le leggende
della storia non hanno per se stessi valore d* insegnamento storico, lo
hanno tuttavia come tipo di cultura superiore d'una coscienza emotiva.
Bisogna dunque che la storiografia del ragazzo comprenda in sé
l'unità universale e un principio unico di spiegazione di tutto il mondo
moderno. In essi potrebbero convertirsi la nostra unità e il nostro
princìpio, in modo da essere nello stesso tempo anche le forme su-
periori della vita reale del ragazzo. Se i miti non bastano interamente
perchè sono frammenti e perché non interpretano la nostra vita, è ne-
cessario trovare un'espressione che per noi abbia almeno valore mitico
e corrisponda alle esigenze della nostra storia. La quale ha un prin-
cipio immanente di- spiegazione distinto in particolari aspetti astratta-
mente e sistematicamente considerati. Ma, come s'è visto, tanto per
intenderlo come immanente, quanto per capirne il valore nelle sue
manifestazioni distinte, bisogna che l' immanenza sia concepita come
l'atto della nostra esistenza, mentre non può esserlo se non quando
l'elaborazione interiore dello spirito sia abbastanza progredita e si sia
allontanata abbastanza dall' intuizione immediata : altrimenti non è
che una parola. O non è altro che trascendenza. Ma anche questo
rapporto dell'uomo con un principio trascendente deve essere corre-
lativo a certi bisogni, ai quali quel principio è commisurato. Né per
il ragazzo né per altri, la trascendenza di ciò che non può essere che
immanente può avere alcun valore; in altri termini, il ragazzo non
vi capisce nulla. Bisogna trovare una trascendenza che, sotto un certo
punto di vista, sia tale anche per noi. Il che vuoi dire, in fondo, una
I
3yS Guido Santini
trascendenza che abbia un significato universale. Allora ciò che nella
nostra storia trascende la vita del ragazzo acquista valore trascendente,
e non ha più nella trascendenza un difetto. È la rivelazione di prin-
cipii umani, dei quali il ragazzo sente bensì la forza, ma sopratutto
come autorità piuttosto che come parte ed elemento attuale della pro-
pria azione autonoma. Tale trascendenza, dunque, non può essere che
trascendenza spirituale. La serietà del nostro insegnamento storico, la
verità di ciò che diciamo al ragazzo, la fedeltà ai nostri convincimenti
in questo caso consistono appunto nell'essere consapevoli che, se
l'azione di quei principii esplicativi è immanente, tuttavia la loro co-
noscenza, per lo scolaro, è trascendente. Verità per noi e verità per
il ragazzo.
Esempi d*una nuova storiografia.
Tra le storie per ragazzi quella che mi sembra meno lontana da
questo ideale è la storia del maestro Colombo di Milano. Essa, tut-
tavia, pure accennando qua e là a un'azione provvidenziale costante,
espone il processo storico principalmente sotto l'aspetto del CQstume.
La storia per i ragazzi, invece, come qui è concepita, non esclude
nessun aspetto della vita umana; è più ricca, come la nostra. Il mol-
teplice sviluppo dei suoi fattori, che si trova ogni momento sotto gli
occhi del ragazzo, specialmente se abita nelle città, ricompare tutt'it)-
tero nelle sue vere forme anche ' nella storiografia scolastica. Sola-
mente, il principio esplicativo, che nella nostra storia è una logica
immanente dei fatti, non può essere compreso da lui come immanente,
perchè ad essere concepito come tale richiede un'esperienza interiore
che non è ancora avvenuta. L'azione che i fattori storici esercitano
l'uno sull'altro a formate l' insieme di un progresso è determinata dal
giudizio portato su ciascuno di essi valutato distintamente, e non può
avere importanza per se stessa se non quando lo spirito ne esperimenti
la distinzione negli atti medesimi della sua vita pratica. Ma per il ra-
gazzo, che non ha esperienza della sostanzialità interiore all'uomo
stesso di quei fattori dell'esistenza umana, ma ne sente soltanto l'auto-
revolezza e la superiorità, il giudizio non può essere così particolareg-
giato sotto quell'aspetto d'immanenza. È un giudizio la cui autorità,
non avendo spiegazione nell'esperienza interiore ^fattiva, dev'essere
spiegato come rivelazione e come sentenza, come sapienza e come
volontà d'un ente che trascende la vita empirica. I fatti umani restano
gli stessi che per noi, nei loro antecedenti, nelle loro circostanze e
nelle loro conseguenze. Tuttavia l' interpretazione e il passaggio dagli
uni agli altri, invece d'essere determinati dalla logica interiore del-
Storiografia elementare 379
rumanitàj sono voluti dalla logica più semplice, ma non meno signifi-
cativa, del rapporto deiruomo con la volontà e col giudizio d'un ente
superiore. Però la conseguenza degli atti umani non è un mutamento
giustificato da necessità pratiche e dallo svolgimento medesimo del-
l'intreccio dei fini particolari, riferiti poi sinteticamente al fine gene-
rico umano provato neiresperienza vìva di ciascuno di noi. È piti
semplice. È una depravazione e una condanna, un'elevazione e una
ricompensa ; è il risultato di una prova e una sentenza costante. La cui
giustificazione sta appunto nell'autorevolezza del principio reggitore.
Perciò la storia per ragazzi ha carattere eminentemente religioso.
Di tale storia abbiamo un esempio illustre nella Bibbia. In essa
tutte le principali nazioni antiche dell'oriente agiscono intorno a un
principio universale di civiltà e di redenzione, rappresentato da Dio.
Le vicende di quei popoli, gli atti dei loro personaggi, la successione
degli avvenimenti hanno un rapporto contìnuo e diretto con la vo-
lontà e con la provvidenza divina. Qui il dramma riassume nella sua
unità tutte le manifestazioni umane, dalle foggie delle vesti, dalle
usanze e dai costumi, fino ai più importanti avvenimenti politici, ai
fatti religiosi più tipici per ciascun popolo. Non è detto con questo
che il ragazzo abbia bisogno d'insegnamento positivamente religioso:
non si tratta di storia da comporre con criteri ecclesiastici. E nemmeno
si tratta d'esser convinti dell'esistenza di Dio. Se siamo convinti che
per il ragazzo il nostro principio d'interpretazione storica è trascen-
dente, anche se non crediamo in Dio, bisogna di necessità che siamo
convinti per lui che Dio esiste e opera come rivelatore e come giudice
nella trama dei fatti umani, dal momento che questo appunto è l'unico
aspetto ragionevole che' possa prendere ai suoi occhi il nostro mondo,
almeno per ora. E se questo è l'unico aspetto ragionevole, come non
potrebbe avere un significato serio, riconosciuto anche da noi? La
vita non fa la stessa impressione da qualunque punto di vista. Capito
il criterio sotto cui bisogna considerarla in date circostanze perchè in
quelle e non in altre abbia senso, è ammessa anche la visione delle
cose che ne risulta, e che in circostanze diverse, sarebbe certamente
diversa. Basta dunque che tale affermazione significhi qualche cosa
corrispondente al nostro concetto filosofico della vita, e rappresenti,
ad esempio, la potenza creatrice dello spìrito, la sua coerenza in tutti
gli atti, la logica dei fatti, che, a guisa della provvidenza, dà sempre
agli avvenimenti un qualche significato umano. Se Dio non è una fede,
può essere 'benissimo una parabola, un postulato, una personificazione
di quel meglio in cui crediamo. La Bibbia ci dà un esempio limitato
di tale storiografia, fino a pochi anni dopo la morte di Cristo. Ma
non è impossibile, una volta accettato il principio e capito il valore
I
38o Guido Santini
deiresempio, renderla più compiuta e più adatta ai nostri criteri e ai
nostri fini, introducendovi Roma dalle origini e M Grecia, e prolun
garla fino all'età presente, come fino a quest'età è pur sopravvissuta
la fede, benché non tutti le diano il medesimo posto nell'insieme dei
sentimenti e dei pensieri umani. E questa fede, questo sentimento del-
l'azione divina nella nostra vita ha dato luogo a giudizi storici, se non
a un novissimo Testamento e a una storia sacra più recente, che pos-
sono essere suggerimenti validissimi e una preparazione appropriata a
chi volesse costruire una storia su questo tipo. La sola differenza fra
la storia precisamente ecclesiastica e quella per i ragazzi consisterebbe
nell'esser quella un'esplicazione storica soltanto della vita d'una reli-
gione positiva, mentre questa che noi vorremmo comporre per i no-
stri allievi sarebbe essenzialmente un'esplicazione del sentimento della
vita dello spirito nella civiltà moderna, e sarebbe retta, ad ogni modo,
da un'intuizione mistica non rivolta a preconcetti confessionali. L'aspetto
religioso di questa storia avrebbe il valore, non d'un insegnamento
dogmatico, ma d'una rivelazione e d'un'animazione dello svolgimento
storico, in diretto rapporto con la vera esperienza e col carattere emo-
tivo della spontaneità d'un ragazzo.
Guido Santini.
noie, wÉiii inft. Honl mmm
L'enigma del Settecento italiano e il problema delle origini
del nostro Risorgimento.^
L'ampio studio del Pingaud, qui sotto citato, abbraccia un periodo che
oltrepassa i limiti a cui accenna il titolo semplice e modesto. — Esso consi-
dera tutta l'opera di Bonaparte in Italia, dalla prima discesa (1796) all'inco-
ronazione (1805), ma non trascura nemmeno la fase anteriore del dominio
austriaco, che anzi è il suo punto di vista costante per la valutazione completa
del periodo francese e della trasformazione impressa da Bonaparte a tutti
gli ordini della nostra vita, pubblica e privata, politica, economica, morale.
È uno studio poderoso, ma vivace, piacevole, geniale; è un lavoro di
analisi e di sintesi, di psicologia e di storia ; con una visione larga e minuta,
che non abbandona né il generale né il particolare ; a volte anzi tròppo mi-
nuta nelle singole discussioni, ma sempre lucida e signorile, ricca di sorprese
dialettiche, che sa scoprire delle pieghe dove altri aveva supposto una per-
fetta continuità.
È un'opera che vorremmo scritta, per vari capitoli, da un italiano, perchè
riguarda cose nostre, che vorremmo conosciute da noi con uguale profondità.
Ma il periodo, preso in esame, da qualche tempo ha innamorato anche gli
storici italiani, i quali hanno sentito che esso involge il problema delle origini
del nostro Risorgimento. Ed é giustizia ricordare che vi hanno degnamente
atteso studiosi d'ogni campo: Silvio Pivano con attenzione più particolare
alle forme giuridiche e allo sviluppo dell'idea costituzionale; Giulio Natali,
in rapporto alle manifestazioni letterarie del sentimento unitario e alla co-
• Albert Pingaud, Bonaparte président de la République Italienne: Ouvrage couronnée
per l^ Academie Francaise, 2 voli., pp. XXIX-490; 529, Paris, 1914, Librerie Académique Perrin.—
Giulio Natali, Idee, costumi, uomini del Settecento, in 16°, p. 356, Torino, 1916, Società Tipogra-
fica-Editrice Nazionale. — Idum, L'Idea del primato italiano Prima di Vincenzo Cro^^r/i (estratto
dalla Nuova Antologia, 16 luglio 1917).
38» Note, questioni storiche, ecc.
scienza storico-nazionale di tutto il Settecento; il Ciasca, rispetto alle dottrine
economiche ed ai precedenti più lontani del programma moderato-riformatore ;
Camillo Montalcini, in relazione alla maturità civile d'Italia e alle sue tradi-
zioni politiche ; altri ancora, con speciale riguardo al problema religioso, alle
correnti gianseniste e alle loro preparazione democratica e rivoluzionaria.
Di guisa che, da molti aspetti, fu già esaminata anche ultimamente l'età
della preponderanza francese: ma il Pingaud ne ha tentato il quadro com-
plessivo, giovandosi di chi l'aveva preceduto, e rifrugando negli Archivi
d'Europa per avere a disposizione tutto il materiale storico, noto e sco-
nosciuto.
Il lavoro si apre con una larga esposizione dell'antico regime dell'Italia
superiore, studiato nei vari aspetti della vita di società, delle condizioni de-
mografiche, del movimento ideale, dello spirito pubblico, delle forme am-
ministrative. E qui l'A. s'imbatte in una plebe indifferente a tutte le imper-
fezioni del suo' tempo ; in una borghesia poltrona e godereccia ; in un
patriziato frivolo e mondano ; in un piccolo gruppo di intellettuali che cre-
devano politicamente attuabile tutto ciò che aveva un'apparenza di verità
filosofica ; in città gelose del proprio isolamento, divise da rivalità di primato
e sensibili solo alle suscettibilità del patriottismo municipale: dovunque
un'esistenza facile e vuota, presuntuosa ed ignorante, voluttuosa e disoccupata,
poverissima d'idee e ricca di piacevoli sensazioni; all'ombra di un governo
burocratico e costoso, senza organi della difesa esterna, a cui le masse tributa-
vano riconoscenza solo perchè soddisfatte nei bisogni più materiali.
È sopra questa * società, affetta di « misoneismo universale », priva di
esperienza politica e di spirito italiano, guidata solo dall'egoismo del proprio
campanile, « impotente a modificare da sé sola il suo regime territoriale e
politico» (I, no), «e che pareva destinata a restare in un eterno stato di
minorità politica» (I, 117); è sopra quest'impoverita Italia che Bonaparte
rovescia le sue armate, per portare negli animi divisi la coscienza della loro
comunità di razza e di interessi.
E Milano improvvisamente si desta: al primo dono di libertà, essa ri-
sponde con entusiasmo infantile ; all'apatia succede la credulità più ottimistica ;
?A. torpore di ieri, l'impazienza di un domani radioso : l'imagine di una Ita-
lia ricomposta nel suo antico decoro, vista in sogno da pochi poeti, viene
agitata dinanzi alle folle che applaudono a chi la regge e l'abbellisce di
promesse. Tutta l'atmosfera, che pareva impigrire sopra una immobile palude
di pregiudizi, s'accende di ardori rivoluzionari ; i Milanesi prendono sul serio
i proclami del giovane generale e dichiarano che la salvezza della democrazia
europea è strettamente legata all'unificazione d'Italia e alla sua alleanza con
la Francia. Essi iniziano una propaganda attiva e generale e ripartiscono il
lavoro per renderlo più efficace.
ila il Direttorio non era dello stesso avviso : come ha dimostrato il Pi vano,
esso non pensava neppure alla possibilità di conservare la Lombardia, e ri-
teneva superfluo di jusare riguardi verso un paese, che sarebbe ricaduto sotto
il tallóne di Vienna : Milano doveva servire a pagare le spese della guerra
contro l'Austria, « come merce di compensazione per la rettifi<;a della fron-
Note» quesHoni storiche, ecc. 383
tiera renana. L'Austria non doveva essere soverchiamente danneggiata :
tutt'al più le si doveva mettere paura, per tenerla a freno. Non conveniva
anche alla causa francese che le popolazioni della penisola fossero sconvolte
per dissolvere in precedenza la coalizione dei potentati italiani e tenerli de-
voti in vista del pericolo patriottico?
Ma qui il Pingaud scivola via: e trova chela nostra immaturità politica
esigeva la continuazione di una regime di tutela, che, per i bisogni della
difesa esterna, assumeva necessariamente la forma di improvvisi colpi di
stato e di una vera e propria dittatura militare. La Repubblica Cisalpina,
« oeuvre de la France, elle devait fatalement en devenir la chose ; improv-
visée en quelques raois par la force étrangère, appelée à Tindépendance
sans posseder ni armée, ni finances, ni esprit public, elle ne pouvait, comme
tous les États naissants, se maintenir qu'avec l'appui permanent de la puis-
sance qui Tavait fondée. Gomme tous les États protecteurs, celle-ci se trouvait
naturellement exsposée à abuser de cette necessitò. Le Directoire fran^ais
cèda d'autant plus volontiers à la tentation que ses besoins financiers, plus
forts que ses scrupules, réduisirent bientót sa politìque extérieure à exploiter
les peuples conquis et à révolutionner les autres».
Dimodoché, fino a questo punto, non si può dire che la Rivoluzione
faccia sentire i suoi benefìci lumi, né che la diplomazia del Direttorio, a cui
fu estraneo ogni scrupolo fin dalle prime mosse dell'armata francese, si orienti
verso i principi, che aveva affermati la Dichiarazione dei diritti. In quanto a
Bonaparte, il trattato di Campoformio disse chiaramente che cosa egli pen-
sasse dell'unità d'Italia e come male provvedesse ad impedire respansÌ9ne
tedesca nei Balcani, già preveduta e deprecata dagli Italiani di quel tempo.
E sia al di qua che al di là del Mincio il pensiero italiano fu compresso
in sul suo nascere, checché ne pensi il Pingaud sulla opportunità di questa
improvvisa compressione. Esso tentò di scuotere l'asservimento (che pre-
testava la difesa dell'indipendenza) con le proteste vibrate e le accuse violenti
di alcuni patrioti, come Pietro Custodi, di cui il Pingaud avrebbe fatto bene ad
esaminare l'opera audace di giornalista e di tribuno ; ma le voci fuori chiave
furono soffocate nel carcere. E quando apparvero gli Austro-Russi, a suggere
la già smunta repubblica, il desiderio di un vivere più riposato strappò al
Lombardi intempestive acclamazioni. Né la seconda Cisalpina, che venne dopo
Marengo, modificò le precedenti considerazioni militari, nei riguardi con le
libertà cittadine e col patrimonio privato. Si l'uno che l'altro furono ugual-
mente manomessi ; ed il pensiero fu mantenuto ih uno* stato di vassallaggio
fra le agitazioni dei partiti, l'inquietudine della Francia, la rovina delle finanze,
lo sgomento del pubblico, accusatore di un governo che tion riusciva a col-
mare l'abisso fra le parole e gli atti, fra le lusinghe ed i soprusi.
È questo il momento dulminante della crisi, che l'occupazione francese
è venuta aggravando di giorno in giorno. È allora che il genio di Bonapafte
risolleva gli animi con l'annuncio della Consulta di Leone, messaggera di
ordine, di pace, di grandezza.
L'A. commientfli molto bene l'importanza di essa, decisiva per f avvenire
d'IUlia.
384 Note, questioni storiche^ ecc.
La Rivoluzione, anche quella importata e improvvisata di qua delle Alpi,
aveva destato nuovi bisogni e colpito a sangue vecchi privilegi; le antiche
classi dirigenti, nobiltà è clero, avevano perduto la loro superiorità, senza
che questa fosse passata agli altri ordini sociali ; offeso il> patriziato nei suoi
averi, venduto i beni ecclesiastici, ridotto i conventi, perseguitato 1 claustrali ;
ma non erasi disposto ad impedire che il loro ritorno fosse minacciato da
un'alleanza fra gli ordini colpiti e le classi popolari disilluse, fra il crescente
misogallismo dei più intellettuali ed il Terzo stato, che aveva visto svanire il
sogno di un allargamento delle frontiere commerciali. La borghesia erasi bensì
arricchita con la compera dei beni nazionali e con un aumento di influenza
personale, ma non aveva raggiunto l'indipendenza politica e non poteva ancora
fare a meno degli aiuti dei grandi proprietari. Essa aveva nel proprio seno
un gruppo di patrioti audaci, di democratici estremi, che volevano la dire-
zione esclusiva degli affari pubblici e il possesso di tutti gl'impieghi gover-
nativi ; che considerava le agitazioni politiche come un mezzo di fortuna, di
contro alle alassi spodestate, che si valevano della forza dei pregiudizi nobi-
iari e delle credenze religiose per contendere ad essi l'appoggio della plebe.
La Consulta di Lione doveva foggiare alla Repubblica i nuovi cardini
su cui consistere con una certa stabilità di equilibrio : una costituzione, non
francese, ma appropriata ai suoi bisogni ; un'armata non dissanguatrice, ma
di difesa; un'amministrazione non militare, ma autonoma; e la libertà di svi-
luppare lo spirito nazionale, che la rendesse capace di provvere e di bastare
a se stessa.
Quale fu l'animo di Bonaparte in questa circostanza? Si lasciò ispirare
da considerazioni di opportunismo europeo, o da sincero amore verso l'Italia?
Svolse una politica dì prepondenza -francese, od un piano già predisposto, parti-
colare alla penisola, e mirante alla sua emancipazione graduale e sistematica ?
Il problema è discusso dal Pingaud con animo sereno ed obbiettivo.
Napoleone ha voluto far credere, nei tramonti di S. Elena, di avere sempre
desiderato e promosso la ricostituzione integrale d'Italia: ma il controllo dei
fatti e della sua corrispondenza, smentisce questo generoso disegno. Egli
ha evitato, nell'ordine territoriale, tutte le annessioni, che potevano lusingare
l'idea di unità o sollecitare propositi di completa indipendenza economica,
mediante sbocchi al mare o collegamento con le vìe maggiori del traffico.
Caratteristico fu l'impegno assunto da Bonaparte, pubblicamente, per una
annessione della Toscana alla Cisalpina, e smentito poco dopo, quando gli
si affacciò il sospetto che un ingrandimento della Repubblica verso il Tir-
reno fosse esiziale agli interessi della Francia.
Uno stesso spirito di diffidente cautela dettò il suo epistolario diploma-
tico, donde traspare la fissazione di un'Italia vassalla, riserva di uomini e di
denari per la grande lotta contro l'Inghilterra; e dettò pure le sue decisioni
rispetto all'esercito italiano, avendo egli cura di dividerlo in parecchi gruppi,
che mandava a combattere separatamente e in luoghi lontani, quasi temesse
di dargli coscienza della sua forza collettiva e della sua compagine etnica. Egli
si rifiutò di incorporare nei reggimenti lombardi i coscritti piemontesi, toscani
«» rqmani; e nel 1808 rimproverò il viceré Eugenio, che, cedendo ad una
NolCy questioni storiche, ecc. 385
supplica, aveva ammesso i nobili piemontesi nelle guardie d'onore di Mi-
lano, atto che egli chiamò < contrario alla sua politica e volontà ». Data
questa attitudine, che si spiega solo col desiderio di fare opera contro la na-
zionalità d'Italia, si comprende che la Consulta di Lione, sebbene presentata
all'Europa come espressione solenne della volontà popolare italiana, sia stata
in realtà un'emanazione del volere personale ^ di Bonaparte, contro il quale
i deputati lombardi tentarono inutilmente di reagire in nome del decoro
italiano. Essi furono chiamati a sottoscrivere deliberazioni meditate e prepa-
rate in precedenza ; e la loro passività non trovò conforto che in uno sfogo
di dolore confidato alle lettere per gli amici più intimi.
Ma l'opera di Lione, se apparve agli occhi dei Milanesi una sfacciata
parodia della consulta nazionale ; se lasciò insoddisfatti tutti gli spiriti, ad
eccezione del clero, il solo che riscosse riguardi dall'imperatore ; appare in-
vece, così come si svolse, un fatto inevitabile nel giudizio finale del Pin-
gaud, il quale non sa mai dimenticare, a discolpa dell'assolutismo napoleonico,
il vecchio ritornello dell'immaturità politica e civile del popolo italiano.
Ed è perciò che egli, pur dopo di avere escluso dal pensiero di Bonaparte,
intenzioni preordinate a favore del nostro paese, dopo avere riconosciuto
che Bonaparte dovette frenare correnti schiettamente autonomistiche, lo
scagiona dall'accusa di una politica antitaliana, dicendo che « fu costretto
ad agire così per la logica di una situazione anteriore », quasiché nulla
fosse mutato negli animi e nelle cose dal 1796 al 1802. La Cisalpina, dice
il P., come' atto artificiale dell' intervento straniero, non poteva reggersi
che con mezzi artificiali: e questo è anche il giudizio più comune degli
storici avversi alla Repubblica, che avrebbero preferito i Francesi in Francia
a continuare per loro conto la Rivoluzione, e l'Austria in Italia a continuare
nel sistema placido delle riforme, destinate, secondo questi storici, a modi-
ficare e rinnovare lentamente la costituzione interna del vecchio regime senza
scosse turbatrici e a profitto di uno spontaneo sviluppo. Ma i fatti sono comfr
il destino li ha voluti : e se la Cisalpina fu un atto di politica estera, non è
men vero che Bonaparte cercò di mantenere ad esso il suo carattere di
importazione, coatro tutti i tentativi di assimilazione che miravano a natura-
lizzarlo italiano. Bene avvertiva Francesco Melzì, il giudice più competente
in si delicata materia, che alla grande Repubblica sarebbe mancata ogni si-
curezza d'avvenire e la stessa aria per condurre la vita del giorno, fino a
che la Francia l'avesse tenuta come una provincia vassalla, infeudata al suo
militarismo conquistatore. Bene avvertiva che l'Italia non era paese atto a
dividere gli entusiasmi di un programma imperialista ; che per la difesa della
Repubblica bastava un numero minore di soldati ; che tanto apparato di forza
infastidiva gli animi, invece di rassicurarli ; che cosi non era possibile gover-
nare con la pubblica' opinione, alla quale non isfuggiva che Bonaparte voleva
colmare i vuoti della finanza francese coi nostri redditi e aggiogava l'Italia
per trascinarla nelle sue avventure europee.
I disaccordi fra il presidente ed il suo illustre vicario erano l'espressione
più chiara della diversità di interessi fra Milano e Parigi. Ed al Melzi, che
erasi provato ad insistere con fermezza d'animo per una riduzione del bilancio
25 — Nuova Rivista Storica.
3S6 NgtCi guisiioni storiche f ree.
militare, il Marescalchi, che siedeva a Parigi, dava il consiglio di usare mezzi
blandi e di accarezzare corligianamente Torgoglio smisurato del Còrso ; nel
che pure conveniva il Duca, indotto dall'esperienza personale in questa amara
confessione : « Si nous ne marchons pas de bon gre, il noùs fera marcher
de fbrce ».
Esisteva dunque un pensiero italiano, insieme con la consapevoiczaa di
un interesse italiano, di cui il Melzi aveva formulato il programma d'attua-
zione, in armonia colle regole costituzionali. Ma il Pingaud prosegue rigida -
'mente nella direzione della stessa visuale di Bonaparte, sprezzante degli Ita-
liani, tenuti in basso, non solo per convenienza, ma per un falso preconcetto
de|la loro insanabile inferiorità ; e solo a questo patto, solo in forza di una politica
personale che sapeva farsi largo, coi co^pi di stato, attraverso le opposizioni
che rivestivano forma legale, il Pingaud crede chp sia stato possibile alla
Repubblica, e più al Regno di vivere almeno quanto visse il suo artefice sven-
turato, e di raggiungere una trasformazione sensibile in ogni angolo déiredi-
ficio Sociale, caratterizzata da un grande numero di fatti nuòvi : rovina dei
grandi proprietari e del clero a beneficio del ceto medt'o e dei letterati, futuri
araldi di sovversismo democratico; afflusso di vita materiale e spirituale nei
g^randi centri a scapito dei minori, dove la vita languiva dispersa e senza una
mèta; sostituzione di un governo indigeno unitario. e parlamentare a quello
straniero ineguale e assolutista ; istituzione di una npilizia permanente fondata
sulla coscrizione obbligatoria.
Trasformazione che, sebbene abbia ostili \ contadini e i proprietari, incerti
fra l'Austria e l'indipendenza completa, e il Terzo stato, tollerante della Frància
solo come difesa dall' Au5tria; e sebbene abbia fra gli aderenti decisi soltanto
la classe dei pubblici funzionari o degli aspiranti, «stato maggiore senza
truppe » (II, 501), tuttavia, secondo il Pingaud, attesta di una vitalità positiva
attraverso il nuovo dinamismo dell'idea nazionale, che, all'indomani di Water-
loo, anche in balìa di se SteSsa, ritroverà la propria mèta attraverso agita-
zioni popolari, congiure Segrete, atti di martirio e di eroismo.
Ma è proprio a questo scompiglio di fattori amministrativi ed economici
che si deve la fecondità nuova dell'ideale unitario, o non piuttosto alla forza
di una tradizione che le massime rivoluzionarie hanno ricomposto in forma
più organica e vitale?...
Il P. ha la coscienza sicura di avere dimostrato che gli Italiani del se-
colo XVlll erano assolutamente incapaci di trovare con le proprie forze le vie
della propria emancipazione e neppure di porvi mente; Bonaparte, rovesciando
un governo solidamente stabilito, educando il paese alle prime elementari no
zioni di libertà e di costituzionalismo, assumendo la tutela di un popolo mi-
norenne, che si compiaceva e si specchiava nelle vecchie abitudini dì servilità;
avrebbe eliminato gli ostacoli che si frapponevano all'evoluzione d'Italia in
senso unitario, avrebbe dato nascimento ai principi di patria e di indipen-
denza, avrebbe creato le condizioni necessarie al loro compimento.
Questa conclusione finale trova discordi tutti ^quegli studiosi, che, pur
riconoscendo all'epoca napoleonica il merito di avere fatto progredire le
idee unitarie, insieme con una certa azione di eccitamento intellettuale
Noie, questioni storiche, ecc. 387
<; di abitudine critica, pur concedendo molta parte del risveglio italiano ai
richiami patriottici della Rivoluzione, ai rintocchi sentimentali della roma-
nità antica, suscitati da esse, tuttavia riconoscono nel nostro Risorgimento uno
sviluppo ori.^inario, nazionile e consapevole, e vedono in esso, anziché il
risultato artificiale, tardivo di elementi forestieri, introdotti da Napoleone,
l'effetto di tradizioni paesane ininterrotte, che hanno acquistato popolarità e
valore costruttivo, per reazione alle correnti sensiste e cosmopolite del se-
colo XVIII, alle prepotenze francesi del Direttorio e del Consolato, alla
doppiezza politica dell' Impero. ,
Il Pingaud che, nella trattazione di problemi singoli, è sempre obbiet-
tivo e profondo, cede poi al segreto compiacimento della difesa di Napo-
leone, quando, tirando le somme, vuole conciliare il risultato logico delle
varie parti col decoro morale di Colui che impersonava là Rivoluzione.
Contro «l'idée maitresse» del Pingaud, che le condizioni della penisola
determinarono in quel dato senso la condotta di Bonaparte, ossia che «la
situation dans laquelle Bonaparte trouvait l'Italie ne lui laissait pas la libertè
d'agir autrement qu'il ne l'a falt » (II, 505^ stanno considerazioni diverse.
La verità starebbe col Pingaud se ci figurassimo nell'Italia del '700 una terra di
morti, e, nella dominazione francese, il miracolo della risurrezione. Ma qui è
l'errore capitale. Non tutto era cicisbeismo, mollezza e sopore prima ; né tutto
fu di poi estraneo al solito ciarlatanismo di tutti i conquistatori o un donp
liberale della provvidenza napoleonica. Se nel vecchio regime la borghesia
«ra esclusa dal governo, non è lecito dedurre che fosse impreparata a gover-
nare: e poteva forse la Francia, dopo tanti secoli di assolutismo, addestrarla
ai congegni di un regime costituzionale, nuovi anche per essa ? Ma chi ha
studiato la Lombardia austriaca ha visto, se non altro, che i ceti commer-
cianti non si rassegnavano alla passività imposta da Vienna; e muovevano
critiche acerbe ai loro funzionari e all'operato amministrativo ; studiavano i
problemi dell'economia, e si adunavano a discutere; e facevano pervenire i
loro memoriali al Magistrato Sapremo ; e premevano da tutti i lati per avere
riforme; e davano corso all'innato umor satirico contro i conservatori del-
l'Austria. Nelle acclamazioni, che salutano l'arrivo di Bonaparte, vi è l'eco
dei malcontenti accumulati dal governo anteriore e la speranza sincera di una
pronta riparazione. Il giovane generale, che conosceva gli Italiani attraverso
le relazioni dei viaggiatori francesi, scritte sotto l'impressione del momento,
en passant, e contro le quali già era insorto un Italiano, Michele Torcia,
non credè di prendere sul serio la popolazione lombarda, e la considerò
quale balorco inerte nelle sue mani ; ma non tardò a capire che i nostri,
al contrario, e più onestamente, prendevano sul serio le sue parole; e do-
vette frenare l' impeto patriottico, promosso dapprima, ma che subito aveva
preso le forme minacciose di un movimento per 1' unificazione di tutta V Italia
continentale : da Genova a Venezia e giù fino ad Ancona per incontrarsi con
quello che veniva su da Napoli. Allora chiuse i clubs^ sospese i giornali, in-
viò ministri con pieni poteri, incarcerò i democratici, che denunciavano l'in-
ganno volgare» mentre egli, nelle sale di Mombello preparava la fortuna
propria e delie sorelle leggiadre I
388 Note, questioni storiche, ecc.
Il Ping:aud ha rilevato che le nostre città del '700 erano divise da gelosie
dì primato campanilista e che la sola realtà vivente era il municipalismo di
vecchio stampo medievale : ma questo fatto accenna solo al persistere di
correnti repubblicane, e non è giusto vedere in esso un elemento negativo
di italianità della coscienza nazionale ; come non è vero, e qui sbaglia di
grosso il P., che gli Italiani del '700 non sapessero vivere più di un'ora lon-
tani dalla propria parrocchia. I viaggi furono la passione dominante, come
la noia era il male del giorno; e i nostri viaggiavano continuamente, e di
preferenza, all'estero, non per visitare musei dì antichità, ma per apprendere
leggi e costumi, per conoscere Corti e governi ; con gli occhi aperti e l'animo
sveglio; e le loro impressioni riferivano a princìpi, a ministri, ad amba-
sciatori; tipo classico l'Algarotti '(per non dire del Corani, del Baretti, del
Verri, ecc.), che conobbe palmo a palmo l'Europa, e fu in Russia, e sostò
lungamente in Germania, e osservò molto bene le caserme di Dresda e di
Potsdam ; e notò i motivi per cui « da qualche tempo in qua ha incominciato
la Sprea ad alzare la testa, e a guardare con grande sicurezza verso la Senna,
il Tamigi, il Danubio»; e vide che, «.perchè ciò abbia sempre da durare ^ ha
avvisato con grande profondità di consiglio il re di mettere ogni ordine dello
stato sotto la tutela delle armi più, perfette che istituire si possano al mondo » .*
E in quanto alle gelosie intercittadine, bisogna andare cauti nelle indu-
zioni : poiché in Italia si riscontra lo stesso^ fenomeno nel 1848 : allora, ogni
città si solleva e agita una stessa bandiera di guerra all'Austria e ai tiranni,
ma tuttavia ogni città fa opera di separatismo e agisce per proprio conto.
Forse che allora mancò un pensiero italiano?..
Ne danno ragione, non l'assenza di spirito nazionale, ma i pregiudizi eco-
nomici, neppur oggi scomparsi nella nostra Europa : le varie città temono
di perdere la loro importanza economica col divenire province di un solo
regno e preferiscono restare piccoli regni di tante province chiuse ; non com-
prendono ancora l'utile comune di un allargamento delle frontiere commer-
ciali; e continuano a vedere la propria fortuna attraverso l'anlico e ancor
recente dualismo «o Roma o Cartagine», senza avvertire che nel principio
della libera associazione nazionale vi è posto per tutte le singole fortune, di
grandi e di piccole città: come nell'auspicata Società delle nazioni trove-
ranno sfogo gli interessi di tutti gli Stati, piccoli e grandi.
Milano però sentiva, nella seconda metà del '700; l'attrazione econo-
mica dell'ideale unitario; il governo austriaco tentò trascinarla nel raggio
d'azione dell'economìa tedesca e agevolò le tariffe di trasporto a tutte le
merci che fossero entrate in Italia per il tramite del porto di Trieste : la bor-
ghesìa lombarda fu recalcitrante a questa politica, e domandò via lìbera dalla
parte dì Genova, Venezia, Ancona.
Bonaparte pregiudicò per sempre la ricostituzione territoriale dell'Italia
superiore, staccando la linea del Mincio dalla Repubblica e mettendo l'Austria
a guardia dell'Adriatico e sulle" soglie dell'Oriente balcanico. Il traffico di
Venezia diede una chiara idea del conto in cui teneva l'Italia; egli lavo-
» opere del Conte Algarotti, Venezia, 1792, T. V., p. 275.
Noie» questioni storiche^ ecc. 389
rava per la grandezza di Parigi. Il vecciiio problema della frontiera orien-
tale rimase l' incubo della Francia. L'umanitarismo della Rivoluzione si con-
densò in un patriottismo fortemente nazionalista. È Valmy che anima tutta
la coscienza del suo popolo anche dopo i trionfi dell* Impero. La patria è
sempre vista in pericolo ; e con tragico entusiasmo si corre ai ripari : possano
a questo giovare o le contribuzioni straordinarie del patriziato lombardo, 0
la cessione della terraferma, oppure la Reitibund.
Bonaparte adunque non battè, con generosa ubbidienza e con cuore
italiano, la strada segnata dalle condizioni del nostro paese : non già que-
st' ultime, ma l'orientamento francese di tuttala sua politica europea deter-
minò le direttive particolare dell'opera da lui svolta in Italia : « la France
avant tout!» fu il programma imposto al duca Melzi e al viceré Eugenio.
È necessario ritornare allo studio del '700 per accostarci alle vere origini
del nostro Risorgimento. Là sono i primi i germi, là i primi studi moderni
intorno al difficile problema di ricostituire l'Italia, i primi impulsi verso il pas-
sato, le tendenze vive a conoscere la storia nostra per amore di primato
ideale, le prime forme già chiare dei vari atteggiamenti, che ha preso in
modo più deciso il secolo XIX di fronte ai tre oppositori del problema uni-
tario: l'Austria, la Chiesa, i Borboni. Giulio Natali vi sta dedicando la parte
migliore dello sua esistenza, ed è già pervenuto a buon punto. Egli ha spi-
golato in una vigna dalla quale erano stati colti i grappoli maggiori : ma vi
ha trovato una messe più copiosa di questi ultimi insieme. Accanto alle ma-
nifestazioni eccelse del pensiero italiano, ne ha scoperto di umili, ma più
frequenti : ed ha così rinnovato il giudizio incompleto, che correva formato
intorno a quegli alberi d'alto fusto, creduti sempre dei grandi solitari. Ora
ne arguisce che la vita del '700 italiano era proprio tutta nel pensiero, con
tanta intensità, quanta ne mise il secolo dopo nell'azione. Più le ricerche
approfondiscono, e più il Settecento italiano si differenzia intellettualmente
dalla Francia: non pallido riflesso di quest' ultima, come vuoisi da chi segue
ancora le vedute del Villemain, ma individuantesi in un proprio organismo
di idee e di interessi, alla cui formazione la Francia ha recato un valido con-
tributo, ma per impulsi precedenti dell'Italia e con una preponderanza de-
cìsa del nostro senso storico, rivolto alla pratica più che alla teoria, e del-
l'elemento classico tradizionale.
Il rinnovamento italiano, dice il Natali, fu un lento risveglio delle sopite
energie, favorito, non determinato, dagli influssi stranieri ; questi « aiutano
V Italia a ritrovar se stessa ; ecco tutto » ; ma tale autocoscienza apre gli occhi
alla luce di un'arte che è neo-classica; a sua volta, il prevalere del classi-
cismo è un altro fatto interno, originario : è la vittoria del pensiero sulla rea-
zione cattolica ; « è la forma della nuova coscienza nazionale e sociale » ; né
deve giudicarsi anacronismo ; anche la Rivoluzione « farà appello coi suoi
Bruti all' ideale classico della romanità contro la monarchia d'origine barba-
rica e feudale». Pertanto. nell'Italia del '700, che non può dirsi « il secolo
190 Note^ qjiestioni storiche^ ecc.
della filosofìa francese », perchè non si può dire né antir*cristiana, né anti-sto-
rica, né anti-italiana l'età di Vico e di Vincenzo Coco, dei Giansenisti e dei
pre-romantici, del Gianiione e dei martiri napoletani : « esiste una coscienza
nazionale avanti la rivoluzione ». Il periodo napoleonico, che fncomincia con la
Marsigliese del Direttorio e finisce col Te Deum della Santa Alleanza, rap-
presenta una deviazione, una sosta, nel corso del nostro risveglio neo-cla.n-
sico; fu esso che momentaneamente soffocò questa coscienza nazionale con
la fede umanitaria e universale, «dalla quale ben presto i nostri migliori
passarono, o tornarono, reajcendo contro le prepotenze francesi, al senti-
mento della patria italiana » ; e già durante l'età napoleonica, quelli che oggi
difemmo ì nazionalisti italiani continuano la tendenza propria di tutto il pe-
riodo anteriore, come può già vedersi in Vincenzo Coco.
L'interpretazione del Natali, affatto contraria alle vedute del Pingaud,
pare ardita: ma siamo tentati di credere che lo stesso Bonaparte si fosse
avveduto di questo neoclassicismo con tendenze nazionali, quando racco-
mandava ai suoi emissari di parlare sempre di Roma e della Grecia ; e non
doveva essere ignoto neppure a Madame de Staél, quando notava che i Ro"
mani del suo tempo applaudivano ai versi dell'Alfieri, come se le azioni et
sentimenti che il poeta magnificava li riguardassero ancora.
Anche nella corrente meno letteraria del secolo, la giansenista, si ritrovn
un*eco di romanità nel concetto fondamentale di ui^o Stato solidamente costi-
tuito, direttore supremo della vita civile, e di quella religiosa in tutte le sue
attinenze col temporale. Studiati individualmente i Giansenisti italiani, rao-
strano una singolare predilezione verso l'antichità classica: particolare che
non fu ancora studiato, ma che addito volentieri al Natali, perchè promette
risultati interessanti.
Se la concezione storica del Natali appare in gran parte nuova per quanto
si attiene al concetto delle origini classiche del nazionalismo unitario, e a
quello dello storicismo del Settecento italiano; nel resto si riattacca alle vedute
del partito moderato: al Gioberti e a quanti, come lui nel Ptim^tOy lamen-
tarono che la rivoluzione francese aVesse* interrotto il movimento civile di
quel secolo, e accennarono alla sua ripresa come a mezzo sicuro per un»
pacifica attuazione dell'aspirazione unitaria : idea che formò la teorica del pro-
gramma riformista di Maximo D'Azeglio (1847-65) e di tutti i cosidetti rivo-
luzionari all'aperto. E poprio di quest'ultimo programma, il Ciasca, in un bel
volume (a parte alcuni errori nella valutazione del fattore economico, impa-
rentato troppo strettamente col sentimento nazionale),* ha trovato i prece-
denti negli economisti del nostro Settecento. Anche allora, infatti, lo studio
delle questioni doganali, dei rapporti di commercio, dei bisogni agricoli ed
industriali d' Italia, della navigazione fluviale interna, suggerirono sentimenti
opportunistici di unità e di indipendenza : e il problèma nazionale fu pro-
spettato (es. dal Genovesi) come un problema di necessità pratica, con la
lusinga di un ottimo affare.
* QuesU «rrori farono rilerati dà M. RodolicÓ' in Ar€hivio Storico Jiati^nò, Anno LXXIT
voi. Il, 1916.
Noie^ questioni storiche, ecc. 391
Anzi, il Ciasca si dà premura di concludere che fu questa necessità eco-
aomica il punto di partenza dell' idealità nazionale. E noi aggiungiamo che fu
contro di essa che reagì il pensiero mazziniano fin dalle sue prime battute.
Per non soffermarci sul contrasto fra la concezione materialistica del Ciasca,
e quella idealistica del Maiali, che può trovare una spiegazione nel diverso
ordine di fatti a cui si rivolgje la loro indagine, una verità scaturisce : che il
problema della ricomposizione d' Italia, non ha lasciato indifferenti gli animi
del nostro Setteceiilo, sia .nelle considerazioni sentimentali, sia nei motivi di
interesse ; che vi furono varie correnti di pensiero nazionalistico, e, intorno ad
esse, non fitto lavoro di critica dottrinale, di indagine e di ricostruzione sto-
rica, sul quale gettano una luce di eroismo il tentativo napoletano del 1796
e resòdo dei patrioti di Lombardia e d'ogni altra regione nel 1799.
Tutto lascia credere che il nostro Settecento fu studiato male, in modo
incompleto, con prevenzioni . dannose. Bisogna ritornare da capo come se
ancor nulla si fosse scritto. E allora forse sì potranno mettere in accordo le
due diverse concezioni, la riformista e la rivoluzionaria: quella che tutto ri-
vendica al rinnovamento intellettuale e principesco succeduto al trattato di
Àquisgr&na, e quella che lo sconfessa come impotente a rinnovare senza la
scossa deirS9.
Poiché si vedrà meglio la funzione di reciproca integrazione che spetta
ad ambedue nel complesso delia vita italiana. A nostro avviso, i] nostro '700 ha
posseduto un'anima propria; mail pensiero, onde si alimentava, era sempli-
cemente contemplativo ed inerte, insufficiente all'azione; aveva bisogno di
essere provocato, punto nel vivo, per suscitare faville: e come era bastata
l'offesa del padre Bouhours contro le nostre lettere, a mettere in moto una
ialange di letterati per la salvezza del decoro artistico d' Italia, e a scate-
nare una polemica durata più d'un secolo, cosi bastarono le prime promesse
liberali del Direttorio a raccogliere insieme una falange di patrioti, di gior-
nalisti e di tribuni, nel comune proposito democratico e unitario ; come non
erano poi necessari gli eccessi della dittatura napoleonica per rendere gli
Italiani meglio persuasi dell'utilità di un governo indipendente e di un^ li-
bbra naxione!
Ettore Rota.
» »
Simgoa e Italia nel periodo delia Rinascenza/
Perseverando nella sua mirabile operosità, Benedetto Croce ha raccolto
nel presente volume parecchi saggi sulle relazioni italorspagnuole, e ha vo-
luto delincare in qualche modo un quadro, che nella fervida gioventù aveva
Sboisato g^agliardamente. Con indagini copiose e svariate, con alacre opera
e con viva per$picacia. in poco più di cinque anni, tra il 1893 e il 1898, egli
* B. Crock, ta S^agntk nfila vita itaHamo AwtnUe U^ Himan*n%^. Bari, Lal«rsa, 1917.
392 Noie, questioni storiche , eco*
s'era collocato tra i primi spagnolisti d'Italia; e non pochi studiosi attendevano
da lui quello che egli confessa essere stato allora il suo intendimento : una storia
dell'influenza spagnuola in Italia dal Medio evo sino a tutto il secolo deci-
mottavo. I migliori saggi, dettati allora dal Croce, coordinati tra loro, qua e
là accresciuti e armonizzati, formano la parte centrale del nuovo volume, ch'è
riuscito un libro materiato di densa e solida dottrina, uno di quei libri ove
l'analisi investe i fatti tratti da fonti molteplici, li vivifica e li colorisce mira-
bilmente. L'erudizione, che nei saggi mostrava spesso la nervatura del lavoro,
è ora abilmente dissimulata; e la diligente trattazione, pur non perdendo
nulla del rigore scientifico, è resa accessibile a un'utile e dilettevole lettura:
pregio non piccolo in un libro cosi complesso e cosi ricco.
Non è forse inopportuno rilevare anzitutto che non si tratta propriamente
dell' influsso spagnuolo in ogni manifestazione della vita italiana della Rina-
scenza, come forse può apparire dal titolo: ma di rapporti prevalentemente
letterari, con scorci di vita del costume, riflessi di abitudini e costumanze,
sguardi fuggevoli alla yita civile e religiosa, accenni contenuti ad avvenimenti
politici. Si tratta insomma di influssi di cultura esercitatisi sul popolo italiano
durante la dominazione spagnuola.
In un primo saggio d' introduzione sonò studiati i primi contatti tra
Italia e Spagna, quando le relazioni fra i due paesi erano assai scarse : si
tratta naturalmente di un capitolo a larghe linee, che provocò, come parecchi
dei successivi, notevoli aggiunte, dovute anche alle recensioni di Arturo Fa-
rinelli, di Eugenio Mele, di Menendez y Pelayo. Ai primi albori della civiltà
medievale, mentre le città marinare scuotevano arditamente il terrore dei
pirati saraceni, giungeva dalla penisola iberica l'eco di grandi battaglie com-
battute incessantemente contro l' invasione musulmana. Le vicende grandiose
del secolare conflitto valsero a sanare il concetto e il ricordo della barbarie
dei Goti, onde mosse la riscossa, e non è forse ultima causa del titolo di
nobiltà annesso da letterati e uomini politici del Rinascimento alla discen-
denza dall'alta stirpe dei Goti. La grande lotta delle investiture, portando
all'apogeo la potenza papale, fece sì che la Spagna sentisse con maggiore
forza la voce di Roma ; e i papi più grandi, da Gregorio VII a Innocenzo III,
levarono spesso la voce a bandire la Crociata in favore della pericolante cri-
stianità iberica. Più tardi, mentre i Pisani combattevano nelle Baleari lo
stesso nemico degli Spagnuoli, le università italiane accoglievano tra gli stu-
denti delle varie nazioni quelli della nazione spagnuola. Il ciclo carolingio e
i poemi franco-italiani recavano favolose notizie di quel paese, reso celebre
anche dai pellegrini reduci da S. Giacomo di Compostella. Di fama singolare
godevano allora gli Spagnuoli in Italia: la varietà etnica che si avvicendava
sul suolo della penisola aveva una ripercussione nell'estimazione dei popoli
vicini : Giudei, Arabi, Cristiani vivevano una vita intensa e agitata e recavano
attraverso la Spagna, la civiltà orientale al mondo occidentale in un lavorio
bizzarro, in fogge strane e spésso fantastiche. Più tardi i re di Castiglia e
d'Aragona prevalsero nella oscura mischia ; ambasciatori e avventurieri mos-
sero dall'Occidente alle Corti e ai paesi dell'Europa centrale. I Catalani, spinti
dal loro spirito d'avventura e di guadagni, si sparsero ben presto in gran
Note, questioni storiche, ecc. 393
numero nelle nostre città marinare ; i poeti italiani conobbero, confusa con la
provenzale, la civiltà e lo coltura della Catalogna. Così, dalle lotte comuni
contro il nemico mediterraneo sorse presto affinità di destini : e la Sicilia
chiamò contro Carlo d'Angiò gli Aragonesi, che non lasciarono più la bella
isola, spingendosi in seguito sulla Sardegna e a poco a poco sul continente.
I « bracci » e gli « stamenti », in Sicilia e in Sardegna, insieme con una note-
vole immigrazione dei dominatori e col conseguente innestarsi sul tronco
iinguisHco dì nuovi vocaboli, furono le durevoli tracce del nuovo stato di cose.
Ma l'elemento indigeno era troppo vivace, intelligente e colto per essere
sostanzialmente modificato ; le istituzioni e la vita italiana continuarono il
loro ritmo progressivo e ascendente, assimilando e traendo all'ammirazione »
nuovi elementi di ben nota civiltà inferiore.
Nella seconda metà del Quattrocento un re aragonese a Napoli e un papa
— Callisto III Borgia — sulla cattedra di S. Pietro attestavano eloquente-
mente la influenza ascensionale della Spagna in Italia. Il C. tratta in un quadro
vivace le condizioni della Corte di Alfonso d'Aragona in Napoli. Il re, che,
a detta del Giovio, inserì stabilmente sul suolo italico la stirpe spagnuola,
ebbe il maggior merito di recare a Napoli quel Rinascimento che fino allora
sembrava indugiarsi nell'alta e media Italia. E tale opera fu proseguita con
maggiori risultati da Ferrante, il figlio d'Alfonso, figura ricca di luci e ^\
ombre. Alla Corte del primo re aragonese fiorì la prima gioventù avventu-
rosa di Spagna : guerrieri, diplomatici e poeti ben presto occuparono le prime
cariche del regno e trassero con sé una fitta immigrazione di scudieri, paggi,
menestrelli, mercanti, artefici. Volavano le strofe d'amore attorno alle trecce
delle gentildonne venute spose ai signori napoletani ; i giochi allietavano con
nuove fogge la nascente società italo-spagnuola, e si ebbero allora i suoni o
balli mascherati, le moresche con altre danze, le prime cacce di tori, lo sfog-
giare delle splendide cavalcature e l'affascinante galanteria del costume. Ma
là poesia risentiva ancora del paese d'origine ; il pensiero correva sempre alla
patria remota, alle città native, ai ricordi di giovinezza, al re e alla regina
lontani, alle feste di Corte. Con l'avvento al trono di Ferrante si stabilì un
equilibrio tra i due elementi con una progressiva e rapida nazionalizzazione
degli Aragonesi di Napoli : il re obbediva anche a necessità di ordine politico,
tendendo a rafforzare la sua posizione di principe indipendente. L'elemento ita-
liano riprese valore e vigore e, come alla Corte esso ricomparve nei posti più
eminenti, così avvenne che tra 1 letterati si facesse meno vivo il senso dì
avversione, che nei ceti medio e popolare circondava la crescente prosperità
spagnuola. Per tal modo, mentre la letteratura spagnuola scemava di copia
e di intensità, si videro riuniti nello stesso circolo Gioviano Pontano e Gio-
vanni Pardo, il Cariteo e il Sannazzaro, e più tardi Tristano Caracciolo e
Antonio Galateo : letterati e artisti di varia provenienza e di varie tendenze,
che nella loro opera riflettevano al vivo la società e le molteplici influenze
del loro tempo.
Il quinto capitolo, che tratta degli Spagnuoli in Roma e in Italia, pur
essendo ricco di dati e di notizie sul movimento spagnuolo, che sì aggirò
principalmente attorno alle figure dei due papi della famiglia Borgia, Cai-
394 Note^ questioni storiche^ ecc.
listo ITI ed Alessandro VI, non è forse esauriente, e lo nota il Croce stesso
(pp. 87 e 221-222). Ad ogni modo queste pagine si leggeranno con profìtto
dopo quelle del Gregorovius, del Muntz e del Pastor. L'elemento spagnuolo,
fiancheggiato dal nepotismo papale, contò, specialmente nel ceto ecclesiastico,
intelligenze potenti e varie come forse non mai, e le tracce rimangono
ancor oggi numerose nelle chiese romane, ove i sontuosi prelati dormono
ben composti nelle armoniose tombe marmoree. Propaggini e filtrazioni sono
poi notate a Ferrara, ove Eleonora d'Aragona andò sposa a Ercole I d'Este
e Lucrezia Borgia ad Alfonso I ; a Mantova, a Urbino, a Milano. Ma sono ac-
cenni, e tra questi si poteva anche aggiungere qualche ricordo relativo a
Venezia. I tempi ormai incalzavano e l'espulsione dei Mori pareva di buon
augurio all'Europa, che poteva illudersi di trovare nell'Occidente vittorioso ud
fondamento di speranza contro il colosso ottomano affermatosi possente nella
penisola balcanica e nella stessa Costantinopoli. La scoperta delle Americhe,
che i) genio di un Italiano donava alla Spagna riunita, coronava il trionfo
ed era foriera di nuove conquiste e di più vasto dominio. La politica di
Ferdinando il Cattolico diventava sempre più europea ; i suoi generali con
alla testa il Gran Capitano scendevano in Italia, e presto la nostra penisola
era piena delle loro gesta. Più tardi le armate di Carlo V la percorreranno
tutta da, nord a sud, e gli Italiani, inquadrati nei reggimenti di Raimondo di
Cardonaedi Antonio de Leyva, porteranno il fuoco e la distruzione nella Francia
tanto invisa agli Italiani dopo le imprese di Carlo Vili e Luigi XII. L'inno
alla potenza spagnuola è cantato inconsciamente nella rozza cronaca del frate
aragonese Fabrizio Gauberte:>l^ Spagna dà al mondo papi, imperatori, pro-
dotti, guerrieri. Spagnuolo il papa Alessandro; spagnuolo e figlio dell'ara-
gonese Eleonora, V imperatore Massimiliano ; spagnuolo il più saldo baluardo
della Cristianità contro il pericolo ottomano, che sarebbe già debellato ove i
Francesi, chiamati dagl' Italiani, non si fossero rovesciati in Italia. Fra poco
sorgerà la potenza sterminata di Carlo V, sui cui domini non tramonterà
mai il sole.
Di fronte al rapido sviluppo di sì prodigiosa grandezza, gli Italiani, sqossi
nel loro particolarismo regionale, non poterono serbarsi impassibili. Quando
ancora il dominio spagnuolo si ammantava di cultura latina e umanistica, gli
Italiani, lieti della loro prosperosa e fiorente civiltà, indugiati nei lucrosi traf-
fici marittimi e continentali, nello solendore delle arti belle, e nella rinata
vita romana, non accolsero malvolentieri coloro che ascendevano dal Medi-
terraneo, pieni di sb.ncio e di ardimento a cercare ventura e a recare il loro
braccio. Né era pi^ .jIo titolo di orgoglio che i nuovi venuti, pur signoreg-
giando sempre più sulla scena politica, rinunziassero moralmente alla loro
patria. Più tardi la stima e le accoglienze per gli Spagnuoli subirono un brusco
mutamento. Ciò accadde, quando la Spagna, con il peso delle sue armi vitto-
riose, con il baldanzoso spirito nazionale, parve voler deviare secondo nuovi in-
dirizzi la vita, il costume e la cultura italiana. Troppo essa era povera di eler
menti intellettuali, perchè i suoi difetti potessero sfuggire alla suscettività fine
ed elegante di quegli Italiani, che avevano saputo ritrovare e far rifiorire di
nuova vita l'antica e ricca civiltà di Roma repubblicana e imperiale. Cosi, Vte-
Noie» questioni storiche, ecc. 395
rameiite barbari dovettero sembrare gli Spagnuoli, quando, a mezzo il Quattro-
cento, sì affacciarono a invadere tumultuariamente l'Italia. Avventurieri e sol-
dati, prelati ed ebrei, nobili e popolani, donne e letterati si insediarono con
tal furia alle Corti di Alfonso il Magnanimo e di Callisto III, che scoppiarono
qua e là tumulti e si suscitarono malcontenti durevoli. La più fiera accusa
contro il sopravvenire e la minaccia della nuova barbane è lanciata nell'opu-
scolo di Antonio Galateo « De educatione ». All'avarizia, già rimproverata ai
Catalani fin dai tempi di Dante, l'autore rinfaccia agli Spagnuoli il disprezzo
della cultura, l'infezione gotico-moresca, rimasta nei caratteri della scrittura
% nel consonantismo della lingua, la snervante cortigianeria, la profonda
Corruzione, la sodomia, l'adulazione, l'albagìa provocatrice, la vaghezza ecces-
.siva di sollazzi e di giuochi, la miseria malamente dissimulata, la rozzezza e
l'arroganza. Ma, ahimè, il Galateo non poteva troppo a lungo insistere nel-
Tattribuire tali e tante quantità negative a un popolo grande, che aveva saputo
salire a tanta potenza; e a poco a poco si indusse, come il Sannazzaro, a
riconoscergli i meriti, già per altro riconosciutigli dalla fredda diplomazia,
C ft lasciare il tema della perduta indipendenza per ammettere che almeno
r Italia aveva ora un protettore cont;ro le mire ambiziose dei Turchi.
Hei capitoli successivi, dal settimo all'undecimo, il C. studia come si
atteggiasse la vita italo-spagnuola nella prima metà del Cinquecento. Sono
densi studi sulla società galante italo-spagnuola, la lingua e la letteratura
spagnuola. le cerimonie spagnuole, lo spirito militare, la religiosità, gli aspetti
del domìnio .spagnuolo in Italia. Da questo semplice sommario si scorge con
quanta larghezza e con qual« forza il C. abbia impreso a trattare il complesso
problema ttalo-spagnuolo, che affatica ancora gli studiosi e appassiona tutta-,
▼ia in special modo il Mezzogiorno d'Italia. Chi vorrà completare il quadro,
accarezzato nei giovani anni dal C, dovrà indùbbiamente attenersi a questa
guida solida e valente-
Se non che sarà permesso aggiungere qualche osservazione a chi ha letto
e meditato attentamente queste pagine.* Il C. confessa con lealtà nell'Intro-
duzione che le ricerche, dalle quali et>bero origine le memorie e gli articoli
* Questo k rammonimento di Michelangelo Schifa {Riv. Stdìr. Ital., ». 1917, pp. 43-44)»
il <|ue»le iti una sesie (U «Jolte • ncate dissertazioni ha svolto una tesi, t>er molti rispetti e da uo
pnnto più strettamente Sporico, affine a quella del C. Cfr. di lui Conlese sociali a Napoli nel
Medioevo, in Arch. Slot. Nap. XXXI (1906», pp. 392-427, 575-622 ; XXXII (1907), pp. 68-123, 314-377»
513-586, 757-797; XXXin (Ì908), pp. 81-Ì27; Il popolo di Napoli dal 1495 al 1522, Ibid., XXXIV
(1909), pp. 392-318, 461-497, 672-70Ó; La pretesa fellonia del duca d'Ossuna, Ibid., XXXV (1910),
PP- 459-484, 637-660; XXXV (191O, pp. 56-85, 286-328, 475-506, 710-750; XXXVII (1912), pp. 211-241,
341-411; La menti di HafanieUo, Ibid., XXXVIII (1913), pp. 655-680; XXXIX (1914), pp. 95-i3x;
La cosi detta rivoluzione di Masaniello, Ibid., XLI (1916), pp. 65-99, 311-336, 453-492 ; XLII (1917),
pp. 79-107, 161-187 ; lo studio riassuntivo Studi Masanielliani, estr. dagli Atti delta R. Acc. di Arch.,
Lettere f Belle Arti dt Napoli. N. S., voi. V, 1916; e Un grido di libertà n^ Ztitrnto, estr. dagli
St^éi if> onore di trratueeiwo Torrnc*. Napoli, t»erella, 1912.
39^ Note, questioni storiche, ecc.
fusi in questo volume, fu^rono condotte fra il 1892 e il 1894, e adesso ricompare
solamente la materia già a stampa, sia pure riordinata compendiata e talora
accresciuta con rimaneggiamento più formale che sostanziale (pp. vii-viii).
Se si tenga presente che sia le memorie d'indole generale, come la tratta-
zione dei problemi particolari, non erano nella prima redazione, ancora, a
confessione del C, punto esaurienti {La lingua spagnuola^ ecc. pp. 3 ; 33 ; 41 ;
I, 60, n. 61 e App. del Farinelli pp. 79; 87 ; Ricerche ispano-italiane , I, pp. 1
e 2 n. 2 ; II p. 12 n. 5 ; Intorno al soggiortio di Garcilasso de la Vega in
Italia, p. Il); che le schede e gli appunti, non utilizzati del C, erano assai
numerosi, e che ogni nota lasciava intravedere un lavorìo critico incessante,
uno spirito pronto e perspicace, un'ansia viva di ricerche: non si può pen-
sare senza rammarico alla poderosa opera che il C. avrebbe potuto darci e
che tuttora si lascia desiderare. Il Mele e il Farinelli, che in lunghe e copiose
recensioni fecero interessantissime osservazioni e aggiunte agli studii crociani,
di mano in mano che vedevano la luce, avranno certamente aumentato di
molto quel materiale di appunti nei dieci anni durante i quali il C. era vólto
a studii diversi, ove per altro la sua alta benemerenza è universalmente ap-
prezzata.* Del disegno originale della vasta opera non abbiamo dunque che
frammenti : dei quali i più cospicui e affini, per argomento e successione, sono
raccolti nel presente volume; altri sono stati inclusi in volumi già editi {Saggi
sulla letteratura italiana del Seicento; Teatri di Napoli); laddóve molti altri
non furono raccolti nelle memorie originali. Non è perciò questo il quadro
atteso e desiderato dagli studiosi, ma « piuttosto un abbozzo di quadro > ;
e delle varie limitazioni siamo avvertiti dallo stesso A., allorché dichiara
di aver contenuto le sue indagini « all'efficacia che la Spagna ebbe sul-
r Italia, lasciando ad altri la ricerca inversa » (p. 3) ; di non aver « delineato
nemmeno in iscorcio la storia dell'umanismo spagnuolo nei suoi rapporti con
r umanismo italiano » (p. 87) ; di aver dato soltanto brevissimi cenni sulla
composizione della società spagnuola di Roma, di Lombardia, dì Venezia e
delle altre parti d' Italia (pp. 220-221); di non aver voluto occuparsi del reci-
proco influsso delle belle arti e infine di aver tralasciato un'esposizione delle
vicende politiche. Aggiungeremo ancora che il C. lavora esclusivamente su
materiale « italiano » in largo senso ; ossia i suoi studi sono condotti su cro-
nache, novelle, atti pubblici, storie locali e generali, italiane e spagnuole,
elisegli potè avere disponibili in Italia, e, più propriamente, nell' Italia meri-
dionale, o meglio, nel Napoletano. Non per nulla il C. è stato per dieci anni
il direttore instancabile e attivo della Napoli nobilissima, e non a caso il vo-
lume, di cui discorriamo, si chiude con una appendice intitolata : Una passeg'
giata per la Napoli spagnuola. Si rifletta ancora che, dei domini spagnuoli in
» Di Eugenio Mele, cui è dedicato il volume <ic;l C, cfr. ira l'altro: Tra gramniatici,
maestri di lingua spagnuola e raccoglitori di proverbi spagnuoli in Italia, vÀ Studi di filol. moderna
del Manacorda, VII (1907), pp. 13-41 ; Per la fortuna del Cervantes in Italia nel Seicento, Ibid.,
II, (1902), fase. 3-4; Per la fortuna del Tansillo in Ispagna; Le *ti Lagrime di S. Pietro vt, in Ross,
crit. di lelt.'it., XXI (1916), pp. 145-161. Da parte sua, A. Kari.velli ha scritto or ora una parti-
colareggiata e vivace receusione dello studio del C. in Giornale Sior. della Leti. Ital., LXXl (1918),
PP- 243-302.
Note, questioni storiche, ecc. 397
Italia, la Sicilia, che rappresenta una parte così importante nella vita italiana con
(a rivoluzione del 1282, con la successiva guerra d'indipendenza, con la domi-
nazione straniera, rimane sempre più segregata dagli altri Stati della penisola
sino a non lasciar quasi traccia nella storia d* Italia; che la Sardegna ha poche
menzioni nell'opera del C, e che dell'influenza spagnuola nei domini milanesi
poco si parla. Ciò non ostante non dobbiamo immaginare che il volume del
C. si riduca ai preziosi contributi recati da E. Gothein allo studio del Rina-
scimento nell' Italia meridionale.* Ciò che nell'economia dell'opera dell'erudito
tedesco non era che un capitolo, pregevole indubbiamente, nell'opera crociana
s'è esteso a un volume di vasto ambito, di colorito vivace e ricco, di rifles-
sioni acute e varie, di più ampie ricerche : inoltre, com'è naturale, l'esame
delle manifestazioni letterarie coglie, forse più che non possa apparire a prima
vista, lo spirito etnico dell' uno e dell* altro popolo negli anni fuggevoli in
cui le due floridezze delle armi e del sapere s'incontrarono e parvero allearsi,
se non fondersi. Quegli anni sono fìssati dal C. in pagine indimenticabili.
Con tutto ciò lo scopo, che il C. si propone col suo volume, non può essere
completamente raggiunto senza un esame che attinga ai tesori inesauribili di
documenti, relativi all'Italia, conservati negli archivi e nelle biblioteche spa-
gnuole. Il Gachard trasse da quei depositi, secondi, per quantità e importanza,
forse solamente agli archivi vaticani, una nuova storia delle Fiandre. Per la
storia d' Italia non abbiamo inventari soddisfacenti ; ma la relazione di Isidoro
Carini, benché affrettata e lacunosa, mostra l'importanza sostanziale dei
fondi spagnuoli per la nostra storia, non soltanto politica, ma letteraria, arti-
stica, civile e religiosa. 2 Cosi i rapporti tra Italia e Spagna nel Medio Evo
sarebbero suscettibili di ben altra trattazione, anche dal punto dì vista stret-
tamente culturale : la Catalogna tiene un posto rilevantissimo nelle relazioni
intellettuali con l'Italia, come fanno fede, tra l'altro, le recenti ricerche di Mila
y Fontanals,^ e i materiali raccolti nella collezione del BtUlettino Dantesco
e nella Rivista per gli studi catalani edita a Barcellona. Dal rinnovato ardore
per risuscitare lo studio del provenzale e del catalano, che gli Italiani con-
fusero insieme nel periodo delle origini, noi dobbiamo trarre motivo per pro-
seguire attivamente m quest'ordine di studi. A proposito, ebbe a notare
giustamente Enrico Finke, il benemerito autore degli Acta Aragonensia^ tanto
preziosi per noi,* che gran parte della storia medievale d' Italia sta ancora
* E. Gothein, // Rinascimento nelV Italia meridionale (trad. Persico), t'irenze, Sansoni,
1915, (in Biblioteca stor. del Rinasc. diretta da F. P. Luiso). È questo il capitolo migliore di
un'ampia e abbozzata opera, intitolata Die Culturentwikelimg Sud — Italiens in einzèln Darstel-
lungen, Breslau, Koebnér, 1886.
• I. Carini, Gli Archivi e le Biblioteche di Scagna in rapporto alla storia d'Italia z« gene-
rale e della Sicilia in particolare, I, Palerjno, Tip. dello Statuto, 1884. Il Carini, chiamato dal-
l'Archivio di Stato di Palermo alla direzione degli archivi vaticani, non potè elaborare gl'impor-
tanti materiali raccolti nella sua non lunga missione in Ispagna.
• Notas sobre la influencia de la litteratìira ital. en la catalana, in Obras compietas, III, 499 sgg .
* Per l'importanza di questa raccolta, cfr. Cipolla, in Arch. St, it., disp. 3* del 1909,
pp. 167 sgg. e F. ToRRACA, in Bull, della Soc. dantesca, voi. 17, pp. 170 e sgg. Per im saggio di
quanto si può ritrarre da essa per chiarire nuovi punti di storia italiana, cfr. P. Silva, Già
corno II e la Toscanu (TJ07-T309), estr. ^TiWArch. Stor. it., disp. 3* del 1913.
398 Note, questioni storiche, ecc.
rinchiusa negli archivi di Barcellona. Al che si può aggiungere che gran parte
d^lla storia successiva, mentre si delinea e si svolge il grande dramma della
civiltà moderna, giace ignorata negli archivi dell' Escuriale e di Simancas.*
Dai primi verrà indubbiamente molta luce sulle nostre magistrature del mare,
che paiono continuare nel fitto Medio evo la gloria della legislazione romana
in tutto il Mediterraneo; con l'aiuto dei secondi, si potrà meglio conoscere
come, diminuito e depresso il vecchio regime feudale, d sviluppassero i primi
vasti bagliori di coscienza nazionale, come si compiesse la lenta e faticosa
ricostituzione della nostra grande tradizione scientifica e letteraria.^
Ma, dopo queste considerazioni, facciamoci a dire qualche cosa in merito
ai risultati che ci offrono le ricerche ora raccolte e pubblicate dal C. Taluni
critici, o troppo benevoli o troppo frettolosi, hanno voluto riconoscere nel
volume crociano un nuovo fondamento^ per una più benevola valutazione
del Seicento, per via, diremo così, di contrapposizione, ossia sragionando la
Spagna dalle tante, accuse che per opera di artisti e letterati le si addebitarono
e che poi furono rese popolarissime dal noto romanzo di Alessandro Manzoni.
Invero su ben altre besi dovrà sorgere e sorgerà la cQsidetta riabilitazione del
Seicento, e cioè sur un esame e una valutazione intrinseca dei psegi o dei
difetti di quell'età, come già s'è fatto, con grande vantaggio, per la storia delle
belle arti. Solo dopo si potrà, se mai, passare allo studio dell'influsso o degli
influssi stranieri. Il decadimento politico non reca, come necessaria conse-
guenza, l'annegamento del pensiero e delle sue varie e più importanti mani-
festazioni ; una civiltà robusta e vigorosa può coesistere, anche se assoggettai»
con le arniì, di fronte a un'altra civiltà spiritualmente meno viva ed intensa-,
Per fermarci alla materia dei densi capitoli crociani, noteremo che la
Spagna, a detta del C. stesso, negli ultimi del '400 e in sui primi del '500,
non recava all' Italia nessun germe di nuova vita. Come nel regime politico-
amministrati Vo l'invasione pacifica di Alfonso d'Aragona portava con ȏ un
rincalzo alla feudalità del Regno (p. 46), cosi nell'ordine religioso i teologi,
spagnuolì. nel Concilio di Firenze e più tardi nel sacro collegio di Calisto lU,
giungevano quali tardi rappresentanti di condizioni di spirito e di cultura che
In Italia andavano tramontando (p. 87). E si comprende la vivace depreca-
zione umanistica alla invecchiata forma mentis spagnuola che col suo ardore
> Non mancano lavori di storia italiana, i cai autori abbiano attinto a fonti arcbivistiche spa-
gnuole: ad es. G. Dn L»'VA, Storia doc. dì Carlo V in correlazione aW Italia, Venezia, Narator-
vjch, 1863-1894; L, Sr^KFKrTi, La congiura del Fiesco e la corte di Toscana, in Atti della Soc.
Lig. di St. Patr., XXIII, fase, a", Genova 1891; I. R^ulich, Storia di Carlo Emanueie I duca
4i Savoia, Milano. Hoepli, 1896. Una fonte di non comune importfinza per la storia d' Italia ci è
rivelata da L Skrrano, Embajada de Esfiafia cerca la S, Sede, I, Indice analitico de los docm-
mentos del siglo XV, Roma, Imprenta del Instituto Pio IX, 1915, e da Pou v Marti, Embajada, ecc..
Il, Indice analitico, ecc. del sirIo XVII, Roma, ibid., i^fj. AI Serrano dobbiamo pure l'edizione
^iliKentissima della Cprrispondencia entre Espafi^ y la Sqnta Sede durante el Pontificad» de
SJ*io K, Madrid, 1914.
Note, questioni storiche^ ecc. 399
Ifuerriero e religioso tentava trapiantarsi sul suolo d'Italia, riconsacrato v\
classicismo romano nella vita e nelle manifestazioni del pensiero (p. 108).
Anche più tardi, al sopraggiungere delle armi vittoriose di Ferdinando
il Cattolico e di Carlo V, quando il predominio spagnuolo parve riflettersi
più largamente nella vita sociale nostra, la letteratura spagnuola ebbe in-
fluenza assai ristretta, sia perchè non aveva tal forza da soddisfare nuovi e
grandi bisogni spirituali, sia perchè non offriva prodotti letterari notevoli, né
Indicava nuove vie per la produzione di nuove opere d'arte. Mentre 1* Itali»
aveva raggiunto l'apogeo intellettuale, mal poteva prevalere la poesia corti-
gianesca provenzaleggiarne dei cancioneros, l'osservazione realistica di opere
come il Lazzatillo o la Celestina ; né era probabile vi fosse notevolmen te
apprezzata la poesia nazionale delle romances. Potè la vita in apparenza tra-
sformarsi alla spagnuola, assumere nuovi modi e titoli di cortesia; pote-
rono la lingua e lo stile arricchirsi di vocaboli e dì atteggiamenti nuovi;
potè aver diffusione certa lirica erotica e cortigiana; taluni Italiani poterono
anche scrivere versi spagnuoli ; ma i fatti della vita italo-spagnuola, esami-
nati con molta diligenza dal C, non oltrepassano la cerchia del documento
storico per entrare nella sfera laminosa dell'arte. L'arguto, l'enfatico e l'am-
pollòso, proprio della vita e della letteratura spagnuoli, fu del resto cono^into
e denunziato dagli Italiani contemporanei: né. giova molto l'osservazione
del C. che la ragione della nostra decadenza sia piuttosto da ricercare in
cause interne, ossia nell'esaurimento dei vecchi sentimenti e nella mancanza
di nuovi: la Spagna, anziché rec.ire all'Italia la materia e la elaborazione
di nuove forme d'arte, aiutò l'efflorescenza dei difetti formali fiiio a che si
diede a (questi v.alore di precetti artistici. Con l'enfasi e la pompa del costume
e degli scritti, con l'appariscente sfoggio di galanteria, con l'eccessiva parte
fatta al cerimoniale, con la moda ripristinata dei duèlli, con l'invasione dello
spirito avventuroso e fanatico dei nuovi Crociati di una grande Spagna, l' Ita-
lia doveva, dopo i primi contatti d'affinità, sentirsi come risospinta a ritroso
del suo corso. Perciò ebbe bene a notare quello spirito bizzar/o e arguto
di Ortensio Landò che le galanterie, le pompe, le cerimonie, le raffinatezze,
le sottigliezze, introdotte dagli Spagnuoli, furono quanto efficaci nel costume
di certe classi sociali, altrettanto sterili nella vita del pensiero e dell'arte.
E Isidoro Dsl Lung^o potè asserire che, anche negli anni peggiori della domi-
nazione spagnuola, rimase intatto e valido il nostro tesora di lingua, nono-
stante l'alterazione e la deformazione dello stile.* Il cavaliere brillante e valo-
roso, che era apparso degno di ammirazione agi' Italiani più abituati alle
immagini della. guerra che alla vera guerra, fornì ben presto uria persona di
più alla commedia dell'arte e tosto fu vólto in caricatura il racconto esage-
rato e ridondante delle sue avventure : dal concetto della « lentezza » e « gra-
vità » spagnuola si giungeva al concetto della loro « tardità » e « ostinatezza ».
Il frequente arrivo di milizie spagnuole in Italia, denominate, scherzosamente
* I. DSL Lungo, L'italianità della tingui del fio fiolo nfq^li scrittori, in N. Antologia, 16 giu-
gno 1907, p. 582 ; I. DEL Lungo e V. PaVaro, La prosa del Galilei per saggi criticamente disposti,
Firenze, Sansoni, 1911, pp. Vil-XII.
400 Note, questioni storiche, ecc.
Bisogni dalla pronta arguzia italiana, i feroci saccheggi in tempo di guerra,
le dispersioni spietate degli « alloggi » in tempo di pace contribuirono a dare
il crollo alla buona reputazione militare spagnuola, ch'era considerata uno dei
principali titoli di merito della Spagna di contro alla Francia.
Così, se gli Italiani avevano guardato con minor sospetto alle milizie di
Ferdinando il Cattolico che non alle francesi di Carlo Vili, perchè queste si
ritenevano più avide ed affamate, essi più tardi dovettero riguardare indifferen-
temente alle une ed alle altre.' Inoltre non erano sfuggiti alla diplomazia degli
Stati italiani, nell'ultimo venticinquennio del Quattrocento, gli scopi aggressivi
della politica di Ferdinando il Cattolico, anche quando nell' Italia meridionale
regnava il ramo degli Aragonesi di Napoli. È vero che entriamo nelle que-
stioni politiche, che il C. dice alieno dalle sue intenzioni trattare ; ma uno studio
più complesso, come quello da lui ideato, non può astrarre dal divenire poli-
tico di due popoli uniti, nolenti o volenti, appunto da speciali condizioni
politiche. E da tale studio non può non venir maggior luce anche su que-
stioni puramente letterarie, come quella dibattutissinia tra secentismo e spa-
gnolismo. Opere letterarie di non comune valore furono infatti scritte da
uomini, che parteciparono attivamente all'azione politica: basti ricordare Ma-
chiavelli, Guicciardini, Castiglione, giù giù fino a Fulvio Testi ; e, per non
«scìr dalla Spagna, Garcilasso de la Vega e Diego Hurtadó de Mendoza.
Così, se dai documenti letterari può apparire che l'ammirazione italiana
per i sovrani spagnuoli, che infrangevano T ultimo propugnacolo moresco in
Occidelite, fosse incondizionata, scevra di timori e di sospetti « e per così
dire sentimentale e poetica », dai documenti diplomatici e propriamente sto-
rici, confortati dall'autorità del bene informato (purità, risulta che gì' Italiani
seguivano attentamente la politica con là quale re Ferdinando, pur non disto^
gliendo gli occhi dalla lotta nazionale, si immischiava nelle cose d' Italia,
dalla congiura dei baroni alla calata di Carlo VIII, alla perfida preparazione
degli accordi che dovevano trarre a rovina gli Aragonesi di Napoli.* I dispacci
del Gherardi, editi non molto tempo addietro da Enrico Carusi,^ e i lavori, sìa
pure insuftìcienti e lacunosi, del Calmette* non lasciano dubbi in proposito.
* Rimasero celebri le parole attribuite ad Alfonso I d'Este, mentre alla battaglia di Ravenna
(il aprile 191 2) le sue artiglierie tiravano contemporaneamente sugli Spagnuoli nemici e sui Fran-
cesi alleati: «Traete pure, perchè sono tutti inimici!» (Fra Giuliano Ughi, va. Arch. Stor. It.,
I* Serie, VII, App., p. 125).
« Si potrebbe anzi affermare che l'opera storica dello (,!urita {Historia del Rey Don Her-
mando el CathoUco de las empresas y ligas de Italia, V, ^aragoca, 1610) è negli intenti e nelle
forme un solenne documento delle tendenze sopraffatrici e imperialistiche della Spagna. Cfr. special-
mente i fogli 23-26 ; 33-34 e sgg. Né sarà inutile ricordare che lo (J^urita, nominato da Filippo li
raccoglitore delle memorie utili alla storia spagnuola, mostra di conoscere molto bene lo sviluppo
degli avvenimenti.
» E. Carusi, Dispacci e lettere di Giacomo Gherardi (ri sett. 1487-10 ottobre 1490), Roma,
Tip. Poliglotta Vaticana, 1909, pp. LXXV, 64, 66, 70, 71 sgg. Molti documenti si possono tro-
vare nel Codice Aragonese edito dal Trinchhra, nella preziosa rAccoltSi Regis Ferdinandi Primi
Instructionum Liber (io maggio 1486-10 maggio /^<S<J) testé edito da L. Volpicella (Napoli, Pierre,
MCMXVI) e negli studi speciali del Piva, dell'EGior, del Fossati, del Dki-abordb, del Secre,
del Pelissirr e di altri ancora.
* J. Calmbtte, La potitique espagnole dans la guerre de Ferrara Ì14S2-1484), in Rcvue kisto-
^ique, a. 1906, pp. 225 sgg. (cfr. le osservazioni di R. Ckssi in A'. Arch. Ven., N. S., XIII, pp. 189-191
Note^ questioni storiche, ecc. 401
La cronaca del Malipiero mostra inoltre che il senato veneziano, richiamato
ripetutamente con mal celata minaccia dal governo spagnuolo,* pensava ben
altrimenti di come opina il C. che, « se pericoli si presagivano dal di fuori
air Italia, era forse dalla banda di Francia, non certo da quella di Spagna ».
Né ha, parmi, maggior fondamento l'altra osservazione del C. che i sospetti
non potevano esistere « per la più lontana grandezza di Ferdinando e d' Isa-
bella » : un secolo più tardi gli Italiani non dubitarono di ricorrere alla più
Mficina potenza di Enrico IV e di Luigi XIII contro la più lontana e gravosa
?)otenza<di Filippo II e Filippo IV.
Nella conclusione il C. ha cercato di condensare il suo giudizio sul vario
t molteplice influsso spagnuolo in Italia anche oltre la Rinascenza, esten-
dendo le sue considerazioni a più larga sfera che non fosse quella compresa
aei capitoli precedenti. È qui affrontato per la prima volta il vasto problema
di oltre un secolo e mezzo della nostra storia, e, conseguentemente, non si ha
?a conclusione degli studi che attualmente il C. pubblica, ma di quelli che
originariamente il C. si era proposti di fare. Ma quattordici pagine son forse
poche per racchiudere tante e così complesse soluzioni.
Anzitutto ottima è l'opinione che non si debba giudicare di quei tempi
col sentimento della nuova coscienza italiana, ma ascoltando direttamente le
voci degl' Italiani della Rinascenza e dei secoli immediatamente successivi. Ma,
se si esaminano in ispecie le testimonianze dei letterati della Rinascenza, non
si deve generalizzare il giudizio ad altre manifestazioni dello spirito. Le mani-
festazioni letterarie, ove non attingano un'ahezza sovrana sì da appartenere al
patrimonio artistico di tutti i tempi, rappresentano sempre un ciclo chiuso e
sorpassato, che non è difficile comprendere e valutare nel suo insieme e nei suoi
elementi. Così a ragione il C. combatte il luogo comune di una Spagna « fonte di
nequizia e corruttrice di un'Italia incorrotta », essendo logicamente assurdo
che possa esercitarsi un influsso « dove non c'è animo disposto ad accoglierlo
ed elaborarlo e a rinviarlo a sua volta potenziato e più o meno profondamente
modifìcato ». Anziché accettare ancora una volta senza discussioni l' immagine
di un' Italia traviata dal suo cammino ora da questa ora da quell'altra forza,
è molto più serio, equo e dignitoso studiare coraggiosamente e spassionata-
mente ogni epoca, più o meno illustre e gloriosa, nei propri pregi e difetti, e
ricercare anzitutto nelle sue condizioni il motivo della sua prosperità o della sua
decadenza. La fibra italiana, cosi salda e robusta nell'epoca comunale, cre-
sciuta a maravigliosa splendidezza su d'un innesto improprio, come quello
della imitazione classica, doveva necessariamente volgere a precqce intristi-
mento anche senza P influenza spagnuola. E gli spiriti classici predominano
e di P. F(edble) in Arch. d. R. Soc. rotn. di Si. Patr., a. 1913, pp. 345-346); La politique espa-
gttoU dans t affaire des barons napolitaim (1485-1492), ibid., pp. 225-246. Mediocre, ma utile, è il
lavoretto di L. Volpicella, Federico d' Aragona, Napoli, 1908, pp. 13 e sgg.
» Annali Veneti in Arch. star, it., VII, PP. 467, 473, 478.
26 — Nuova Rivinta Storica.
402 • Note, questioni storUhet ecc.
ancora in tutto il secentismo letterario ed artistico, mentre il quetismo, it
misticismo, la nuova scolastica del Suarec e dei Mariana, la casistica dei Me-
dina e degli Escobar pervadono la Spagna. La Gerusalemme liberata di Tor-
quato Tasso è forse T ultima eco dello spirito religioso, che assorbì l'estreme
energie della monarchia di Fih'ppo K ed ebbe nuovo rinvigorimento dalla
Controriforma e dal pericolo turco rifattosi minaccioso. Magli Italiani ammi-
rarono nel poema, più che le azioni eroiche dei Crociati, la dolce musicalità
dell'autore dell'Aminta, e non vollero leggere la più austera e contegnosa
Gerusalemme conquistata. È ancora una riprova che l'ortodossia italiana dif-
feriva assai, per serenità ed equilibrio, da quella spagnuola, e spiega, a pre-
scindere da altri argomenti, come da noi poco fossero seguite le grandiose
imprese politiche e religiose della Spagna.
Nei campo più strettamente politico il giudizio è più arduo, poiché, non
essendo forse ancora chiuso il ciclo aperto dalla dominazione spagnuola ip
Italia, difficilmente possiamo spogliarci della nostra qualità di uomini moderni
e sottrarci ai vincoli che per qualche parte legano ancora quel passato at
nostro presente. Per certo, quando si afferma che la Spagna recò all'Italia
già stanca dall'immane efflorescenza del Rinascimento, i suoi spiriti militari
e feudali, la sua incapacità a svolgere nuove correnti di pensiero, le sne
qualità negative di iìronte ai problemi industriali e commerciali, che formano
il travaglio e l'ansia dell'età nostra, se si è detto assai, molto è ancora da
aggiungere ; ed a ragione il C. insorge contro coloro che si erigono a faciii
giustizieri con quadri a forti e cupe tinte, tutti ingombri di caratteristiche
negative e di elementi estrinseci che facilmente inducono alla condanna. Ma,
anche ad accogliere quel tanto di positivo offertoci dal C, occorre procedere
con molta cautela. Dopo aver detto che quella spagnuola era una decadenza
che s'attaccava a un'altra decadenza (l'italiana), il C. soggiunge: «E poiché
r Italia, per note ragioni, non potè allora costituirsi in istato unitario nazio-
nale ; poiché le mutate condizioni di Europa non le permettevano di conti-
nuare a vivere come nel Trecento e Quattrocento ; poiché era pur necessario
che in qualche modo uscisse dal municipalismo del tardo Medio evo e si
venisse plasmando sulla forma delle monarchie moderne ; il dominio della
Spagna fu per lei, allora, il maggior bene o il minor male che si voglia dire.
La Spagna cominciò a raccoglierne gli Stati in grandi masse ; la Spagna ne
ordinò in qualche misura le forze e concorse con le sue milizie a difenderla
contro il perìcolo turco; la Spagna represse l'anarchia della vita italiana,
gettò giù i turbolenti baroni e signorotti che non conoscevano se non gì* in -
teressi delle loro case ; e col suo dominio, con la sua egemonia, perfino, con
le opposizioni che suscitò, venne formando o preparando negli Italiani certi
sensi di devozione al Re e allo Stato, che non furono privi di effetto pel
futuro svolgimento civile e politico. Italiani furono e all' Italia pur servirono
quei tanti Italiani che servirono il governo spagnuolo e sparsero il loro sangue
«u tutti i campi d'Europa e si stimavano cosi, non traditori, ma fedeli alla
lora patria ». Còhie si vede, è un magro bilancio di un secolo e mez^o dj
storia, e non molto lusinghiero per colpro che si attendevano dal C. una
specie di riabilitazione della dominazione spagnuola in Italia, i quali inoltre
Note, questioni storiche, ecc. 405
possono ritrovare parte di questi elementi, certamente jion - individuati e
definiti con tanta chiarezza e precisione, nello scritto di uno dei più severi e
spietati giudici della dominazione spagnuola in Italia.' E pure su questi scarsi
elementi positivi bisogna fare altre limitazioni. In centocinquant*anni seg^e
necessariamente, anche nel migliore dei domini, un lento e fatale mutamento :
^li elementi primitivi si sviluppano, raggiungono la loro maturità e si scom-
pongono, integrandosi con elementi nuovi sopravvenienti. Così, a proposito
del lungo periodo considerato nel giudizio del C, occorrerà distinguere un
prima e un poi. Che ai primi del Cinquecento la Spagna avesse saputo e
potuto prevalere in Italia, e avesse saputo progredire dal sud al nord con
forza irrestisibile, inquadrando forze, accaparrando la**nobiltà, trascinando 1^
masse nella sua spinta, concedendo il maggior numero di cariche e di Stati
agli Italiani eminenti per tenerseli soggetti, offrendo indistintamente e a
ognuno la gloria sugli stessi campi di battaglia, nessuno vorrà disconoscere.
Mia chi pensi all'Italia, quale venne in dominio della Spagna, ancora composta
nelle sue larghe autonomie, e confronti tali condizioni con quelle dell'età
delle gride, dei bravi, dell'insicurezza pubblica, dell'inerzia amministrativa
non> sottoscriverà incondizionatamente alle citate conclusioni crociane.
Parimenti chi ricordi, quando tutto era in mano agli Spagnuoli e la vec-
chia amministrazione comunale e feudale si decomponeva senza dar luogo
a una nuova, gli sforzi incessanti degli Stati italiani per sostenersi contro la
fhultiforme invadenza spagnuola, non accetterà senza riserve l'altra afferma-
zione del C. che la Spagna abbia riordinato in grandi masse gli Stati ita-
liani, se si eccettui l'atto iniziale della conquista; che anzi potrebbe dirsi che
essa, con la pericolosa e insìdiatrice politica, costrinse gli Stati italiani super-
stiti a una fiera lotta per l'esistenza; e soltanto con miracoli di astuzia, di
diplomazia e di abilità potè continuarsi una tradizione statale italiana e ini-
^arsi una politica di accentramento, che, in opposizione alla Spagna, assorbì
a poco a poco i piccoli Stati entro i maggiori.
Basta richiamare alla memoria \ tentativi dei principi sabaudi per Mas-
Serano e il Finale ; degli Estensi per la Garfagnana, Mirandola e Correggio ;
dei Medici per Piombino; della Chiesa per Ferrara e Urbino. Così si deve
giudicare la difesa recata all'Italia dalle navi spagnuole contro il Turco
come pura azione di polizia, essendo noto che proprio la defezione della
Spagna, in costante e inesorabile dissidio con Venezia, considerata fin dai
primi del secolo XVI propugnacolo delle libertà italiche, impedi che si
COgliessero i frutti delle due maggiori vittorie della cristianità contro il Turco,
alla Prevesa e a Lepanto. E finalmente, se i principi italiani accorsero a
Madrid, e si distinsero su tutti i campi di battaglia d'Europa ove la Spagna
era impegnata a sostenere il suo gigantesco sforzo di egemonia politico-reli-
giosa (nel Seicento però il centro della gravità della lotta, contro il protestan-
tesimo a nord e contro gli Ottomani a sud, passa agli Asburgo di Vienna),
«^i, «alvo in parte i cadetti, erano guidati, più che da ambizione di onori e d|
» F. P. Cestaro, Le rivoluzioni na^Ietane nei secati X^f e XVII, in Rivista Europea, 9et-
ismbre-ottobre 1878 « poi in stu(ii Slot tei ^t.le/taran\ L,. Rotuf, Tpr4QÒ*Rom«,^8^4, pp, 35; 58-56; 71.
404 Note» questioni stoìichc, ecc.
paesi stranieri, dalla speranza d'ingrandire i propri Stati in Italia. E molti
di essi rifiutarono di cambiare i loro ristretti domini con il governo di vasti
e ricchi territori fuori d' Italia, e, se permisero che le loro figlie e sorelle
andassero a cingere le corone di Francia, Spagna e Austria, raramente le
concessero spose ai grandi principi d'Oltralpe.'
Più che a veri o a presunti benefici della dominazione spaguola in Italia,
che furono, se mai, iniziali e appunto per ciò assai limitati, occorre dunque
ammettere una tenace e persistente fiamma di italianità che .talora appare
sopita, ma poi spesso balza vivida e. forte. Non può indubbiamente disco-
noscersi il valore del grido « Per la libertà d' Italia », che echeggia per un
secolo e mezzo da una parte all'altra d' Italia ; che guida il moto italiano
del 1526; che illumina di gloria 'gli ultimi giorni della libertà di Firenze e di
Siena ; che muove le congiure del 1547 \ che anima la lotta di Paolo IV
Caraffa ; che sostiene Carlo Emanuele contro gli Spagnuoli e Venezia contro
le armi e le insidie degli Uscocchi della Spagna ; che dà anima e vita a quella
serie di movimenti antispagnuoli, che vanno dalla lega di Avignone (1623)
alla guerra per la successione di Mantova (1627-1631) fino ai tentativi napo-
letani-del Pignatelli, dell'AnielIo e dell'Annese, per i quali poco mancò che
fin d'allora il Regno delle due Sicilie venisse in signoria di uno dei prin-
cipi Sabaudi.*
E qui cade in acconcio rilevare, almenp per ora fugacemente, un fatto
poro conosciuto e valutato, che però giova forse a lumeggiare in modo nuovo
e inatteso la forza delle più riposte energie italiche di fronte alla Spagna.
Nella lotta secolare dibattutasi tra la Francia e la Spagna per l'egemonia
europea, aperta da Francesco I e Carlo V, sopita durante le Guerre di reli-
gione, ripresa dai potenti ministri Olivares e Richelieu, l'atteggiamento indif-
ferente e piuttosto ostile dell'Italia ebbe non poca parte nel tramonto dei
sogni mondiali degli Asburgo spagnuoli e austraci. E, se gl'Italiani ai primi
del Cinquecento salutarono negli Spagnuoli i degni successori della Crociata
antiottomana, non riconobbero loro per certo, dopo il concilio di Trento e
consenziente il papato, la tutela e la diffusione del nuovo programma della
Controriforma. Anche le relazioni religiose si fecero più tese: nella seconda
metà del Quattrocento abbiamo due papi spagnuoli ; nel Cinquecento non v'ha
che Adriano VI, il fiammingo precettore di Carlo V ; nel Seicento, l' in-
fluenza spagnuola nel sacro collegio è -in decisa decadenza. Tale decadenza
dell'influenza spagnuola alla Corte di Roma è manifestata da cifre significative:
Qualche sviluppo di quanto è qni per necessità soltanto accennato si può trovare altrove :
i fr. Disegni di Cristina Alessandra di Svezia per un* impresa cóntro il regno di Napoli, in Arch.
della R. Soc. rom. di SI. Patr., XXXII (1900), pp. 108 sgg. ; Due mesi a Roma nel 1627, Ibid.,
XXXIV (1911), pp. 430-431, 440-445; La politica veneta contro gli Uscocchi, ecc. in A^ Afch.
Veneto, N. S., voi. XVII (1909), P.« II; Relazioni italo-sbagnuole nel secolo XVII, estr. dal-
l'are*. Stor. it. (1913), pp. 30-33. 39-40.
• Cfr., oltre i noti lavori di G. Rua, Per la liòertà d' Italia, Torino, 1905; Letteratura civile
italiana del Seicento, Roma-Milano, 19 io, e la recentissima e concettosa memoria di M. Schipa
Ideali d'indipendenza e partiti politici napoletani nel Seicento, cstr. dagli Atti R. Acc. d'Archiol.
lettere. Belle Arti di Napoli, N. S., voi. VI, 1917-
Note, questioni storiche, ecc. 405
durante il regno di Filippo li ben trentadue legati e nunzi papjiH giunsero
4lla Corte spagnuola, dodici nel secolo XVIH e solamente quattro in tutto
jl secolo XIII.* I pontificati di Sisto V e di Clemente Vili sono vere e proprie-
tragedie, osando la loro politica sostenere le sorti vacillanti della Francia,
percorsa da fremiti e da discordie civili e religiose, contro le astute mire del
colosso iberico ammantato nella veste della ortodossia. Il quale atteggia-
mento, chi ben consideri la straordinaria importanza, di cui godeva il papato
in questi tempi, è indizio di coraggiosa previdenza ed ebbe forse importanza
Mon piccola nel far fallire i sogni di egemonia mondiale accarezzati dagli
Asburgo di Austria e di Spagna per oltre un secolo, culminanti nella Guerra
dei trent'anni, e nel conservare l'Europa alla passione dei grandi conHitti di
Nazionalità, che ci auguriamo traggano dall'attuale guerra la suprema sanzione.
Considerata entro quest'ordine d'idee, la letteratura antispagnuola d'Ita-
lia non appare più manifestazione generica o semplicemente retorica, ne
l'opera così fieramente antispagnuola di Traiano Boccalini, 'bollato da Lope
de Vega « ó baca del infierno », sembrerà così singolare e irragionevole, comt
secondo il C. appariva allora. Né si po^rà concepire l'incessante susseguirsi
delle ribellioni come semplici manifestazioni antifiscali e dirette indifferente-
mente tanto contro la nobiltà indigena quanto contro il governo dei viceré e dei
governatori. Né tutti consentiranno infine nell'asserzione del C. «che un vero
odio nazionale contro la Spagna e gli Spagnuoli non ci fu mai in Italia du-
rante quel secolo e mezzo, e sta di fatto che la loro potenza cadde e disparv'r
per cagioni non già nazionali ma Jnternazionali ». Che se, nella lotta per l'esi-
stenza, i principi italiani non trovarono la forza morale di riunirsi e uscire
da un'azione prevalentemente negativa per iscuotere, come i Paesi Bassi, il
giogo oppressore, i tentativi diplomatici non cessarono mai e giunsero spesso
fin sulla soglia dell'azione. Disconoscere tutto questo lavorìo intenso, e talora
fervido, sebbene poco appariscente e finora poco avvertito, che si riscontra a
volta a volta nelle varie parti della penisola, è forse tanto ingiusto quanto
negare il persistente sentimento patrio dei Polacchi perchè incapaci di scuo-
tere per forza propria il pesante dominio della Germania, dell'Austria e della
Russia.*
Meglio dunque riprendere un altro concetto del C. e dire che come la
dominazione diretta e indiretta dell'Austria in Italia dopo il 1S15 affratellò
io qualche modo tutti gì' Italiani tormentati dagli stessi mali e spinti a cer-
care una sola bandiera, così, fatta la differenza dei tempi, la dominazione
Rpagnuola, con il suo vasto organismo statale, con la coordinazione e la tenacia
de* suoi sforzi, con l'insieme delle sue leggi, col duro orgoglio di razza,
ch'essa ci fece provare, ingenerò negli Italiani, direttamente o per reazione,
un più vivo senso di conservazione, una più gelosa cura del proprio passato
» R. De Hinojosa, Los Jespacftos de la diptomacia pontificia en Espana, Madrid. A. de Ih
Voeiite, I, 1894, p. 423.
• Anche il Farinelli yop. cit., pp. 300-302) conchiiide le sue eruditissime Note, le quaii met-
tono la trattazione del Croce al corrente degli sludi attuali, dicendo che occorrerà ancora « un
attento e minuto esame di questo coraplesslssimo fenomeno di cultura e di vita ». Grazie però alle
Ikeaemereuze dei due valentuomini, le difScoUà di un tale esame sono notevolmente ridotte,
^o6 Noie f questioni storiche, ecc.
(è il secolo della istituzione degli archivi, delle raccolte dei musei e delle
gallerie, dell'erudizione ancora informe ma ricca e copiosa), un rudimentale
bisogno di uscire dall'abiettezza è di slanciarsi nel campo dell'azione. L'equi-
librio delicatissimo e l' importanza politica degli Stati della penisola era vigi-
lata> apprezzato più di quanto comunemente non si creda; né l'Italia fn
assolutamente estranea alla politica internazionale. Italiano fu Emanuele Fili-
berto, che sui campi di S. Quintino sanzionò un secolo e mezzo di storÌK
europea ; italiani, Alessandro Farnese e Ambrogio Spinola, i più illustri generali
di Filippo H ; italiano, il cardinal Mazzarino, che condusse a glorioso termine
la riscossa antispagnuola iniziata in Francia dal Richelieu ; italiano, Vittorio
Amecfeo li, che dalla sconfitta decisiva della Spagna in Italia riportava come
spoglia onorata la Sicilia, il più antico possesso spagnuolo. E unitamente alla
tradizione guerriera e diplomatica i geni del pensiero, Bruno, Telesio, Cam-
panella. Galilei serbavano nell' Italia propizi i tempi per i nuovi destini.
Queste osservazioni non intendono menomare il predio del ricco e sug-
gestivo volume crociano, il quMe è comunque un tentativo notevole di col-
locare l'Italia nella politica- generale delle nazioni, quando il nostro popolo,
dopo 11 mirabile sforzo dei Comuni e del Rinascimento, potè sembrare as-
sente dall'Europa é dalla storia come forza autonoma e decisiva. Una futura
edizione si avvantaggerà anche d'assai, se conterrà una compiuta rassegna
degli spagnolismi rimasti nelle varie regioni d* Italia : essi rappresentano
forse le più genuine ed efficaci testimonianze della vera e ancor oggi dure
vole influenza spagnuola in Italia. Il Croce già vi ha accennato (£« lirrffUA.
spagnuola, pp. 55-58;* e saprebbe comporla da pari suo.
Paolo Nrgri.
#
Al <V
aiacomo Burckhardt (25 maggio 1318-8 agosto 1897).
Le farmacie da villaggio, quali, pur troppo, Sono stati ridotti la maggiot
parte dei nostri circoli di studii storici e filologici, non si sono accorti che
in questi giorni è ricorso (ed è stato celebrato) il centenario di uno tra i
più grandi e puri spiriti che siano passati nel cielo della storia dell'uma
nità: Giacomo Burckhardt. Se, invece di essere un libero cittadino della pic-
cola Elvezia (egli nacque a Basilea il 25 maggio 1818), fosse stato un sud
dito della grande Germania ; se, in luogo di avere Scritto le nobili cose che
scrisse, egli avesse compilato una qualche « edizione critica » di Lucano o di
Asconio, o avesse discusso o ridiscusso sui Fasti consolari romani, il suo nome
comparirebbe og^i-^iei Bollettini e nei Rendiconti delle nostre Accademie.
Ma Giacomo Burckhardt fu qualcosa di più alto. Egli fu anzi tutto un
grande amatore dell' Italia della Rinascenza, di questa Seconda fase della vita
di nostra gente, in cui per la prima volta, dopo l'evo antico, si realizzò \\
perfetto ideale greco-latino di bellezza e di saggezza — fusione mirabile di ri-
Noigf questioni storiche, ecc. 407
iHessione filosofica, di senso d'arte, di senso storico — , che fino a ieri costituì
l'elemento fondamentale della civiltà moderna. Quanti di noi non rammen-
tano di aver bevuto alla coppa della sua Civiltà della Rinascenza in Italia
l'incantesimo di quella meravigliosa vita spirituale, anzi di essersi rifugiati
1(1 quelle pagine, convulsi di nostalgia e di passione, allorché alla nostra
ignara giovinezza si inculcava — more teutonico — il concetto che lettera-
tura deve essere soltanto studio di codici, di lezioni, di varianti!
Haec est Italia Diis sacra! E dell'Italia della Rinascenza, dell'Italia dei
secoli XV-XVI, Giacomo Burckhardt accolse in sé gli elementi migliori.
Egli fu veramente, come erano gli uomini allora, uno spìrito cosmopolita,
«no spirito, per cui al di sopra delle piccole contingenze materiali della cro-
naca e della politica, esistono, devono esistere e valere la contemplazione del
bello, il libero gioco dei fantasmi della propria mente. E il bello è solo nel pas-
sato ; il vero è solo nella potenza creatrice dello spirito ! Cosi questo classico,
«amatore e suscitatore della classicità, fu un'anima assai vicina ai romantici
della vecchia Germania, a Goethe, a Schiller, a Schelling, a Winckelmann,
a Wagner, a re Luigi di Baviera. Egli fu cittadino del mondo, e non scaldò
nel suo cuore struggitrici passioni politiche o volgari vanità nazionalistiche.
Per lui, in pieno secolo XIX, la grande GermaniSi era sempre la vecchia
Germania, la Germania dalle cattedrali gotiche, dalle cittadine malinconiche
e superbe, dai castelli feudali, pencolanti sugli abissi o incorniciati di edera
o ritagliati nella fioritura degli alberi; la Germania dalle pittoresche Corti
dei Principi elettori, dalle minuscole città montanine arrampicate sui fianchi
dei colli, dai modesti opifici ronzanti di tessitori e di orologiai. Era la vec-
chia Germania di Weimar col suo corteo di dotti, di artisti, di letterati, dì
Mecenati, con la sua popolazione studiosa e pacifica.
Egli ebbe anzi una teoria !>peciale : la teoria del Greco antico, dell* Ita-
liano della Rinascenza : egli pensò che il progresso politico debba tendere,
non già alla formazione di Stati mastodontici, ma alla conservazione di pic-
coli Stati poco più che municipali : « quei piccoli Stati, che esistono affinchè
ci sia un angolo della terra in cui la maggior parte dei connazionali possano
sentirsi cittadini nel senso pieno della parola ». Per questo, anche per questo,
tgli amava la Rinascenza italiana, che fu come l'incarnatone sensibile di quel
suo ellenico ideale di vita.
Pari all'uonio fu lo studioso. Quale la speciale disciplina da lui coltivata?
Fu uno storico? un filosofo ? un filologo? un poeta? un critico d'arte ? Nes-
suna di codeste categorie artificiose era fatta per lui, come non è fatta per
i grandi spiriti, per i sinceri devoti dalla cultura. Esse sono fatte per i Fili-
sier della scienza o per l'ingordigia dei cacciatori di cattedre.
Egli scrisse di storia romana, discorrendo di Costantino il grande ; di
st Oria moderna, intorno alla Rinascenza italiana ; scrisse di pittura, su Rubens;
ài pittura, di scolturia, di architettura, sull'Italia di tutti i secoli ; scrisse di
storia greca, conversando intorno alla civiltà ellenica. Egli rimase un inimita-
bile vagabondo df Ha coltura, e, dovuiiique la Dea ascosa accennò tacita a lui,
Egli accorse sollecito al richiamo e si abbandonò fidente nel suo grembo di-
fino. Per lui la vita del pensiero fu come un lento passeggiare nei Musei
4o8 Note, questioni storiche^ ecc.
eterni della Bellezza e della Sapienza, ed egli li percorse tutti, e ne conobbe
ogni mistero, placidamente, profondamente, passionatamente.
Fu anche insegnante, e per moltissimi anni — dal 1850 al 1893 — nella
Università di Basilea, la Città dei grandi umanisti, di Froben, dì Holbein, di
Erasmo. Questa fu anzi la grande, la somma funzione civile di questo sibarita
dell'intelletto. Per Votarsi, anzi, all'insegnamento, egli, a un certo momento
della sua vita, smise di annerire manoscritti, di stampare libri. Egli faceva qual-
cosa di più eletto : formava degli spiriti. Perciò il suo insegnamento fu il rovescio
di quello inculcato tra noi dal fascino della nuova Germania. « Egli, informa uff.
suo finissimo critico, non fu punto l'uomo delle piccole specialità, della filologia,
e dei seminari filologici. Egli non credeva che la storia consistesse nel riu-
nire delle cartelle e nel collezionare delle schede. Egli voleva che la sua
azione si esercitasse con dei grandi corsi di lezioni, i soli capaci di fecondare
gli spiriti e di farne scaturire delle idee ». Perciò i soggetti delle sue lezioni
abbracciano vasti quadri della storia, quella storia che è tanto più educatrice
quanto più diviene universale. Perciò, allorché i suoi discepoli gli chiedevano
consiglio intorno ad argomenti per tesi scolastiche, egli raccomandava loro
con insistenza dei «grandi soggetti.», dei soggetti «di carattere universale»,
e che si studiassero di trattarli « con ampiezza di concezione ». « L'uomo, egli
s'esprimeva, che sa dipingere la vita e che ha delle idée, passa al di sopra
della piccola gente erudita... e con grande Joro sbalordimento..,»
Appunto per questo, forse, egli aborriva da quella forma di insegnamento,
che frattanto veniva in onore nei seminari di Germania e più tardi verrà i».
onore nelle loro dipendenze...: l'insegnamento fatto su cartelle di appunti
ricuciti insieme. Egli era invece pel vecchio insegnamento oratorio della
vecchia Francia e della vecchia Italia. « Un professore deve saper parlare
senza note, liberamente; l'uomo che parla è assai diverso dall'uomo che
legge... »
Tale fu Giacomo Burckhardt, di cui i Basileesi hanno quest'anno celebrato
con onore il centenario, ma che i figli di quell'Italia, che fu la sua patria di
elezione, hanno interamente scordato. Non a torto forse ! La prussianizzata:
coltura uiFficiale dell' Italia d'oggi non è più la coltura di quell'altra Italia,
che Egli aveva amata e onorata come Madre del suo grande spirito. Per
questo era bene che fosse obliato, era bene che la protesta vivente della
sua memoria non venisse, come tante altre cose, macchiata dalla ipocrisia
della commemorazione di chi ne tradiva l'ammaestramento e l'esempio!
C. B.
Opere principali di Giacomo Burckhardt.
Die Zeit Constantins des Grosse (1-853), Leipzig, 1880 (2* ed.).
Die Cattar der Renaiss nce in Italien (1850 , Erzlingen, 1912 (5* ed.), 2 toII. ; (trad. Ift
Firenze. 1876; 1899 901; trad. frane. 1885).
Der Cicerone: Etne Anleitung zum Qenass der Kanstwerbe Italiens (1855), Leipzig.
1909-lU (4* ed,), 4 voli. (trad. fr., Paris, 1885-92, 2 voli.).
NotBi questioni storiche ^ ecc. 409
Oeschichte der Renaissance in Italien (1857), Stuttgart, 1878 (2* ed.).
ìf^eltgeschichtlicke Betrachiungen, Beflin, 1935 (postuma).
Qriechische Kaltttrgeschichte, Berlin, 1893-930, 3 voli, (postuma).
Briefe an eirtem Architekten (1870-1889), Munchen, 1913.
Beitràge zar Kunstgeschichte von Italien, Basel, 1898.
» $
Un'impresa italiana nel campo della storia economica:
Bihlioteca di storia economica di V. Pareto e di E. Ciccotti, Milano^
Sfjcietà editrice libraria, 1899 6 voli.
Ecco un'altra grande e nobile impresa storiografica italiana, che doloro-
?mmente ha stentato a penetrare nel dominio così detto scientifico della nostra
scienza storica, e che ancor oggi viene apprezzata maggiormente nei campi
di studi affini che in quelli della pura storiografia.
L'idea della Biblioteca ha precedenti e modelli. Chiunque infatti badi
rjolo al titolo della collezione si sovviene subito della Biblioteca dell' eco-
nomista fondata dal Boccardo, cosi benemerita per la nostra coltura eco-
nomica, o, magari, della Biblioteca di scienze politiche del Brunialti. Ma certo
errerebbe chi credesse che nel pensiero dei suoi fondatori l'idea germinò
dall'esistenza di quei modelli. Nacque invece da un gruppo di idee fra le
più suggestive della coltura socialista, ch'è stata una delle poche forze vera-
mente ispiratrici delle giovani generazioni italiane dopo il 1870. Nacque
dalla dottrina del materialismo storico, di cui uno — il primo — dei fonda-
tori della Biblioteca, Ettore Ciccotti, era — ed è rimasto — tra i più ferventi
assertori. Importa poco, a questo proposito, pensare se quella dottrina sia
vera o falsa. Nell'un caso e nell'altro, essa poteva portare, come di fatto
ha portato, la conseguenza di un maggiore interessamento alle ricerche
economiche nel campo della storiografia, interessamento i cui beneficii non
potranno essere conte*fetati da alcuno, a qualunque filosofia egli appartenga,
i|ualunque sia il suo giudizio sulla dottrina del materialismo storico.
«Chi potrebbe sostenere», si chiedeva il Ciccotti nella sua Introduzione
al primo volume, « che è inutile alla conoscenza della storia il sapere della
produttività del paese, della sua produzione effettiva, messa in relazione con
la popolazione ?» « Chi Vorrebbe credere di poter impunemente prescindere,
«elio studio della storia, dalla distribuzione della ricchezza e specialmente
dalla ripartizione del suolo, che ne' suoi vari momenti caratterizza le crisi più
importanti della storia e che per tanto tempo, nella forma più immediata, si
presenta in prima linea, specialmente nella storia di Roma, occupandola tutta
« dando la sua impronta a tutte le lotte politiche del tempo? A chi parrà di
potersi senz'altro dispensare dal prendere in considerazione le fasi di ogni
mezzo di scambio, che agevola o inceppa la circolazione della ricchezza?
Chi vorrà prescindere dalla conoscenza dei sistemi ponderali, della moneta
»el suo sviluppo e nelle sue crisi? Chi crederà inutile occuparsi delle grandi
4 IO Note» questioni storielle ^ ecc.
vie, delle grandi arterie, mercè cui il commercio di ogni genere, materiale
a morale, e la stessa azione dello Stato compiono il loro circolo vitale?»
(I, p. XLI).
E le affermazioni implicite in queste interrogazioni erano tanto vere e
incalzanti, che l'altro fondatore-direttore della Biblioteca^ Vilfredo Pareto,
porgeva ad essa il suo nome e la sua opera augurale, pur essendo fin d'al-
lora, com'è rimasto più tardi, un critico severo del materialismo storico.
Se dunque l'idea primitiva era generata da un certo concetto del fatto
sociale, da una certa idea del dinamismo storico, essa, concretandosi, veniva
ad assumere una individualità propria e ijidipendente, ch'era, ed è questa :
raccogliere in modo accessibile al pubblico degli studiosi italiani le opere
principali, illustratrici della storia economica, non solo dell'antichità, ma di
tutti i tempi. Queste opere erano disperse in volumi, in atti accademici, iti
fascicoli di riviste non propriamente storiche, talora poco conosciute. Con ht
nuova iniziativa, esse sarebbero state poste facilmente a disposizione dei lettori
corredate di introduzioni e di annotazioni, voltate anzi in italiano, giacché
per la maggior parte esse erano straniere e per giunta tedesche.
Poiché di questi, tempi accade il fenomeno singolare che, per difendere
il filologismo italiano, si attacchi il filologi$mo tedesco contemporaneo, di cui
quello è poi il continuatore fedele e genuino, e si faccia le viste di identificare
con quest' uUimo tutta la storiografìa tedesca, non è inopportuno richiamare
qui il giudizio, che dell'uno, e implicitamente dell'altro, faceva uno dei più
•grandi ingegni tedeschi del secolo XIX, l'iniziatore, anzi, puC> dirsi, degli
studi di storia econonUca dell'antichità, Augusto Boeckh. Egli parlava della
Germania, ma, mutalo nomine, potrebbe parlare anche dell'Italia.... « Per
qualche tempo )a filosofìa sviò mc^ti ; si pensava di potere dar fondo a tutto
con ragionamenti generali; si credeva di comprendere l'elemento sostanziale
dell'antichità con la distinzione tra soggettivo ed oggettivo Quest'indi-
ffizzo doveva menare a una confusione e ad una leggerezza infinita, ed è
perciò chiaro che Ja più severa scienza gli si fece contro. Il centro di gra-
vità del lavoro filologico sta nella ricerca speciale. . . Ma poiché non si vo
leva staccarsi soltanto da un falso indirizzo della. filosofia^ tna dalla filosofia
stessa, e si voleva restringersi nell'ittdagine speciale, lo studio dell'antichità
si è straordinariamente spezzettato. Mancano al maggior numero idee gene-
rali, manca lo sguardo che dall'alto abbraccia tutto un orizzonte; tutto è
fatto a pezzi e bocconi nelle loro teste ; perciò non hamio né un concetto del-
F estensione, né una profonda idea del contenuto della scienza d^lle antichità:
tonoscotH} solo quei dati, in cui si perde il loro pensiero. In conseguenza di
questa unilateralità, accanto alla vera critica, ha fatto fortuna ^a pseudo-cri-
iica piit superficiale, che^si manifesta in virtuosità grammaticali, in una
ridicola caccia alle congetture e in una stnania di revocar tutto in dubbio : ma
alla ricerca obbiettiva manca il grande spirito dell'erudizione del secolo XVI
é al posto delCentusiatHO del secolo XV f iubentrata un'esagerata rigidità, , *
In tali condizioni non v'é punto da far meraviglie che la sàienzà dell' antichiià
•abbia perduto terreno ' . . .
> Bncyktopadù tmd MèthodOinif 4. pkòol. ìVisseiuckmfi,'\AÌp^,x9IS6,9p. 6x agg.
Note, questioni storiche, ecc, 411
Cosi opinava, ad ammonimento dei contemporanei e dei posteri, il fon-
<iatore di quella che si dice la scienza deirantichità, e specialmente dello
studio de^Ie antichità economiche. E a lui stesso, inaugurando la nostra Bi-
htioteca, vennero ad ispirarsi gli ideatori della medesima.
Ma ideare non basta. Occorreva tradurre in pratica. E non era cosa fa-
cile in un tempo e in un paese, in cui, pur troppo, come s'esprimeva uno
straniero, un volume sull'uso dell'aoristo in Isocrate poteva trovar fortuna
e, viceversa, non trovarne alcuna il tentativo di uno studio sulla storia della
popolazione nell'antichità. La prima grande difficoltà fu quella di trovare una
coraggiosa Casa editrice. La Società editrice libraria milanese accolse l'idea,
e fu per certo grande ardire, ma preferì cominciare limitando la conce-
zione alla sola storia antica. Rimaneva un'altra difficoltà, una difficoltà, che
oggi può farci sorridere, ma che pur va rilevata come segno di tempi, dai
quali per fortuna siamo usciti. Si era alla vigilia del 1898, é l*idea, sebbene
nobile e grandiosa, era concepita da uno studioso socialista. . . ; onde occorreva
apporvi un più pacifico suggello borghese. . . Fu perciò officiato uno studioso
dì economia, ora defunto, il quale accettò; ma, venuto il 1S98, egli si tirò
indietro e non volle più saperne. Fu allora che Vilfredo Pareto, contro cui
oggi ingenerosamente si appuntano i peggiori strali socialisti ; fu appunto al-
lora — dico — che questo economista « borghese » e antisocialista acconsenti
generosamente e nobilmente ad offrire il suo nome e la sua collaborazione. Suo
infatti è il Proemio al primo volume scritto nel 1898 e sue molte delle note
dita traduzione ééìV Economia pubblica degli Ateniesi di A. Boeckh. Tutta-
via il maggior pondo dell'opera rimase éugli omeri dell'altro direttore — Et-
tore Ciccotti —, il quale (pur troppo !), dopo la reazione politica del 1898,
fu pregato di far scomiparire il suo nome dal frontispizio dei volumi..., e
più tardi rimase solo, unico operaio del penoso e gravoso lavoro.
In queste condizioni sono usciti i primi sei volumi dell'opera. Il primo
6x essi riguarda l'economia pubblica dei Romani e dei Greci, e contiene con
qualche altro scritto minore la traduzione delle due opere fondamentali :
L'Economia pubblica Ateniesi del BoECitH e {'Economia politica dei Romani
del DuREAi/ DE LA Malle. 41 secondo riguarda specialmente il campo della
produzione, industriale e agricola, dell'antichità, e contiene, insieme con altrj
scritti minori, il fine studio di A. Dickson su V Economia degli antichi;
quello di G. Roscher, Sull'economia agricoli, degli antichissimi Tedeschi \
U. BlDmnbr, L'attività industriale dei popoli *dell' antichità classica; P. Gui,
ftAtlD, La proprietà fondiaria in Grecia ; Roobertus, Per la storia della evo-
tuTione agraria di Rjma Sotto gV Imperatori ; M. Weder, La storia agraria
romana in rapporto al diritto pubblico e privato ; H. v. Scheel, / concetti
fondamentali del Corpus iuris. Il terzo volume riguarda specialmente la mo-
netazione antica, e contiene, fra l'altro, C. F. Lehman, U antico sistema me-
trico e ponderale babilonese; E. NisssN, Metrologia greca eropnana;^. Ba-
HSLOM, Le origini della moneta considerata dal punto di vista economico e
itorico : L. FkifiOLk^DK^y Sul prezzo del grano e il valor reale del danaro
ne IV antichità ; T. Reinach« Del vaiare proporzionale dell'oro e dell'argento
n^lVantichHà greca ; G. PerHOT , // commercio del danaro ed iì credito ad Atene
412 Notej questioni storiche, ecc.
nel IV secolo a. C. Il quarto volume è tutto dedicato allo studio demografico
dell'antichità e, oltre le due opere fondamentali dell'Hu-MK e del Beloch, con-
tiene parecchi notevolissimi saggi del Seeck, del Kornemann, del Mevkk,
dei CrccoTTi, dell' Holm. I volumi quinto e sesto, in corso di puhblicazion»,
riguardano rispettivamente le finanze pubbliche, il commercio, le comuni-
cazioni nell'antichità e conterranno le note monografie capitali di G. Humbert.
Sulle finanze e stilla contabilità pubblica presso i Romani \ di R. Cagnat,
Sulle imposte indirette presso i Romani, e il Manuale della storia del catk
me re io di R. Mavr, lo Sviluppo dell'industria e del commercio in sul pritn.^
Medio Evo del Cunnjngham, ecc.
Come si vede, siamo dinanzi a un'opera dall'architettura grandiosa e
dalla concezione ampia ed organica; sopra tutto organica, perchè in ciascun
trolume le pubblicazioni non sono collocate l'una accanto all'altra per virtft
di un semplice allineamento materiale, ma si è voluto realizzare fra esse \\u
legame più intimo, dando anche l'idea di quello che potrebbe essere, per
ciascun ramo, un'opera sola, l'organica opera ideale, che ad esso dovrebbe
corrispondere.
Per certo delle critiche sono state formulate. V'ha chi avrebbe trovatct
opportuna una più ampia pubblicazione di opere, relative a questo od a quel-
l'argomento ; chi ha deplorato la pubblicazione di qualche lavoro non receu
tissimo in cambio di qualche altro più recente ; l'adozione^ in qualche caso, &i
edizioni più antiche in luogo di edizioni più recenti. V'ha chi ha opinato che,
per molti problemi, che le opere fondamentali pubblicate trattavano male o
in forma antiquata, sarebbe stato opportuno, talora, offrire al pubblico studii
particolari, od apporvi abbondanti note ed ampie appendici. Altri ha notato
ohe i primi volumi della Biblioteca sono meglio curati di qualcuno dei suc-
cessivi e così via. Orbene non può dirsi che queste critiche, astrattamente
considerate, non abbiano fondamento. Ma, a parte ciò che si potrebbe opporre
in linea teorica, v'è stata, e vi è tuttavia, una grande obbiezione d'indoi*?
pratica, che fa ricadere sugli stessi critici la massima parte delle responsa-
bilità e delle imperfezioni dell'opera.
Essa non ha riscosso ed è ancora ben lungi dal riscotere tutto l'aiuto,
morale e materiale, che meritava. I cultori di storia italiana hanno affettato
di ignorarla, e, mentre Francesi, Inglesi e Tedeschi amano citare le opere
straniere nelle traduzioni nazionali, noi abbiamo continuato a citare nel testo,
tedesco od inglese, gli scritti che questa ^/^//W^ra ripresentava in più frese»
veste italiana. È molto facile parlare di altre opere da introdurre» di opere
recentissime da voltare in italiano, di recentissime edizioni da adoperare.
Tutto questo importava un aumento di mole, di spesa; importava il paga-
mento di forti diritti di proprietà letteraria ; importava anche la difì^icoltà di
superare invalicabili ragioni editoriali... Si fa molto presto a pensare a ri-
maneggiamenti, ad appendici, a sostituzioni. Purtroppo, Puniversità italiana
non ha dato nulla del genere, perchè essa ha preferito continuare a dis-
sertare sugli aoristi in Isocrate. . . Ancor oggi, mentre scrivo, dei fascicoli
della Biblioteca, che via via si pubblicano, discorrono le riviste economiche
e> sociologiche, non mai le nostre riviste filologiche o di antichità.
NotCy questioni storiche y ecc, 413
Per coatro, deve nolarsi che la Biblioteca ha reso facilmente accessibili
taluni scritti, che, pur forniti di grande interesse, rimanevano ignorati per-
fino alla minia del filologismo storico italiano per le prolisse citazioni biblio-
grafiche. Tali sono, ad esempio, gli scritti dal Rodbertus, del Friedlandér,
'lei von Scheel e di qualche altro.
Ma più degne di rilievo mi paiono le Introduzioni ^ che il Ciccotti va pre-
mettendo ad ogni volume. Quella, che inaugura il primo volume su L'evolu-
zione della storioq: rafia e la storia economica del mondo antico è un eccellente
s5aggio di storia della storia, di storia dell'antiquaria e, contiene, anche nella
«uà compendiosita, una delle migliori illustrazioni della cosi detta concezione
materialistica della storia. Buona Anch^V Introduzione al secondo volume dal ti
tolo Tratti caratteristici dell'economia antica. Ma assai migliore è V Introduzione
a\ quarto {Indirizzi e metodi deo^li studi di depno,^rafia antica), che ripiglia da
capo tutta la grossa questione del problema degli studii democrafici sull'antì-
chità, e, con essa, la Introduzione al terzo volume {Vecchi e nuovi orizzonti della
numismatica e funzione della moneta nel inondo antico), eh 'è una storia inte-
ressantissima della numismatica e delle sue varie tendenze dalle origini al
ii^iorno d'oggi, la quale sarebbe bene pubblicare in forma indipendente ed
\ parte, e tradurre in lingua straniera.
Verranno i tempi nuovi, che anche per la nostra coltura storica dovreb-
bero pur venire, a infondere nuovo vigore a questa Biblioteca, a portarla,
*.',ome èssa n'è degna, all'altezza, poniamo, della Biblioteca dell'economista, e
a fare in modo che si possa riprendere ex integro il disegno generale della
collezione, che non doveva limitarsi all'antichità, ma slargarsf a tutta la storia
wiedievale e moderna ? Io me lo auguro con tutto il cuore di studioso, con
lutto l'orgoglio di italiano, e per questo ho voluto presentarla ai lettori
l'iella N.R.S... Purché le porte dell'Inferno non continuino a prevalere!...
C. 15.
Da nuovo libro sul materialismo storico.^
La storia delle fortune della così detta concezione materialistica della
storia in Italia è la seguente. Fino al 1896 essa vi era stata di (fusa attra-
verso mediocri riassunti francesi, non che attraverso la interpretazione — ge-
niale o no, ma infedele — che un illustre economista italiano. Achille Lo-
ria, ne avea fatta. L'idea, che il gran pubblico se n'era formata, era quella
di una dottrina, la quale inculca il concetto che ogni fenomeno od ogni
fatto storico vanno spiegati icon delle cause e delle ragioni di puro interesse
» R. MoNOOLKO, Le tnaterialisme historique d'aPrès Frèdéric Engels (tr. fr.), Paris, Giard et
Prière, 1917, pp. VlI-426.
41^ Note, questioni storiche, ecc.
economico. Contro siffatto volgare travisamento insorse in tre suoi saggi ma-
gistrali,^ nel 1896, Antonio Labriola.
Gli scritti del Labriola ebbero una risonanza enorme e apersero Taditi»
a discussioni innumeri. Tanto più che essi non facevano della bibliografìa,
non citavano testi, non avevano rimandi; ma, conformemente alla menta-
lità dell'A. e alla sua padronanza dell'argomento, rielaboravano in una trat-
tazione soggettiva, anzi, suggestiva, più che ordinata, tutta la materia.
Un gruppo di illustrazioni assai interessanti dei saggi del Labriola furono
quelle tentate da B. Croce in una serie di scritti, poi ripubblicati in volume
unico {Miterialìsmo ed economia marxistica^ Bari, Laterza, 3* edizione, 1918).
Questi articoli presentavano (e presentano) tuttavia un inconveniente : avendo
l'aria di glossare i saggi del Labriola, esprimevano talora opinioni personali
del critico, assai remote da quelle del Labriola stesso, e tal'altra porgevano
del materialismo storico una interpretazione, che non era quella, che di esso
avevano voluto dare i primi iniziatori della concezione: i due comunisti hege-
liani tedeschi, Carlo Marx e Federico Engels, Non si può dire tuttavia che
la posteriore fìoritura, filosofica e sociologica, abbia ravvicinato \\ grande
pubblico alla intelligenza della dottrina. Questa continuò a rimanere una
teorica, per la quale i fatti storici vanno spiegati con le soJe cause econo-
miche... Deve dirsi, anzi, di più; la nuova visione storica e sociale non
ispirò (salvo, cenasi, negli studii di Ettore Ciccotti) lavori storiografici di qual-
che valore. Rimase fra noi come materia spicciola di esegesi critico-socio-
logiche, non quale consapevole visione, ispiratrice di nuove forme della storia
universale. Negli ùltimi anni la situazione si era aggravata : insieme con la de-
cadenza, in cui gli studii cosi detti sociologici erano andati travolti ; nella rea-
zione antisocialista, in cui l'opinione pubblica andava affermandosi; nelU
trascuranza (o nell'abbandono?) in cui i suoi più noti seguaci di un tempo
l'avevano lasciato, il materialismo storico era andato perdendo man mano
terreno.
Per vero la popolarità della dottrina urtava naturalmente contro parecchi
asprissìmi ostacoli. Impressionante era anzi tutto la tenacia con cui i suoi fon-
datori e i suoi seguaci asserivano che il materialismo storico era destinato a
dimostrare rineiuttabilità dei socialismo, ad essere cioè l'algebra vivente della
rivoluzionaria trasformazióne della società contemporaneav D'altro canto, essa
sembrava capovolgere alcune idee o illusioni correnti, che gli nomini da secoli
si sono formate sul funzionaniento della società e sul processo della storia. Gli
uomini aveano creduto e^credono che l'azione e il moto della massa sociale
siano esclusivamente guidati da grandi motivi ideali, nonché dalla parola e
dall'azione di singoli individui. Il materialismo storico sembrava rovesciare
questo modo di vedere ; sembrava affermare che non le ideologie, ma le condi-
zioni, le esigenze materiali delle società decidono del progresso del mondo ;
che non l'individuo, ma la collettività ha valore e peso nella storia. È facile
ì Im memoria del mani/estp dei Comunisti, Roma. Loescher, 1895 ; Del materialismo storico,
Itoma, Loesctier^ 1896; Discorrendo di socialismo e di jUosoJla; lettere a G, Serel, fLonuL, Lor-
schor, Z898.
Note^ questioni storiche^ ecc. 415
perciò capire come, specie se enunciata in modo così reciso e riassuntivo,
la dottrina ferisse le opinioni e i sentiménti più radicati e sollevasse resi-
stenze, attacchi, requisitorie.
Fu appunto in queste condizioni che, dopo alcuni saggi sporadici sul-
rargomento, Rodolfo Maridolfo, uno dei più fini e coscienziosi studiosi di
cose filosofiche pubblicò l'edizione italiana del suo // Materialismo storico di
F. Et^els (Genova, Formiggini, 1912). Ed è proprio in mezzo alla colos-
sale reazione antitedesca, portata dalla guerra europea, che ora esce la tra-
duzione francese di questo volume, che io oso giudicare la migliore, più fe^
dele e più efficace illustrazione di molti punti — i principali — della dottrina.
Il volume del M. reca anzi tutto un pregio esteriore: esso non solo ha
dietro di sé una concezione organica del materialismo storico, ma, per ogni
problema trattato, porta la più larga e abbondante documentazione, attinta,
sia agli studii critici in materia, quanto (ciò ch'era più importa) alle opere
originali del Marx e dell'Engels. Con tal mezzo ogni problema è serrato ai
suoi elementi necessarii, ed il margine degli errori o degli equivoci, volon-
tari e involontari, è ridotto di molto.
Ma il merito maggiore risiede nel modo in cui il M. ha impiantato la
sua trattazione.
Come è noto, né il Marx, né l'Engels ci lasciarono una esposizione or-
ganica della dottrina, cui dettero vita. Di loro, invece, abbiamo solo alcuni
spunti, alcuni incisi, contenuti in qualche stùdio, politico o filosofico ©eco-
nomico. Perchè tali accenni assumessero vita vera, "occorreva che fossero il-
luminati dalla luce di altri elementi, la quale valesse a presentarli, non ^ià
come punti isolati e sperduti hello spazio, ma come parti vive di un tutto
organico. Il M. ha compiuto questo lavorò (come, per altro, senza farlo ap-
parire, l'aveva per suo contò compiuto Antonio Labriola), e ha presentato
i concetti fondamentali del materialismo storico, collegandoli, secondo il Marx,
ma specie l'Engels inculcavano, da uh lato, con le loro generali dottrine
filosofiche, dall'altro, con quei loro studii politico-storici, nei quali la dottrina
discendeva nella realtà.
Tale lavoro è fatto con -cura, con diligenza, con intelligenza, con abbon-
danza — ripeto — di documentazione^ onde chi vorrà, dopo questo, tor-
nare a esaminare spassionatamente la dottrina materialistica della storia,
dovrà smettere dal discorrerne come di teorica unilaterale o superficiale, e con-
vincersi che può essere, se tale vorrà crederla, una dottrina falsa, ma è certo
la piti complessa e profonda fra le così dette dottrine sociologiche ; che è
anzi, una dottrina, la quale, inconsapevolmente, è stata adottata dai grandi
storici di ogni tempo e di ogni paese.
Non è male quindi, in questa mia «Nota» sul volume del M., porre in
rilievo alcuni dei punti della dimostrazione, che hanno maggiore importanza
per ì lettori della nostra Rivista.
È anzitutto il materialismo Storico, una teorica materialistica? Natural-
mente, per chi pone tale quesito, il concetto di materialismo deVe essere ben
diverso da quello che si fòggia il volgo o si è foggiato la maggioranza degli
|i6 Note, questioni storiche y ecc.
storici, che hanno discusso intorno al noto argomento. Materialismo, in que-
sto caso, non può equivalere — verbi srafia^ — a propugnare il trionfo, po-
niamo, o l'eccellenza di vizi materiali, quali la concupiscenza, l'avarizia, l'in-
vidia, l'ingordigia, la speculazione ecc. Materialismo deve invece avere il suo
tradizionale significato filosofico di dottrina, la quale, nel depnire i rapporti
tra lo spirito umano e la natura, afferma come elemento primordiale e de-
terminante, non già lo spirito, ma la natura esterna. Tale è infatti il mate-
rialismo storico, per cui, non la coscienza dell'uomo (lo spirito) determina il
fatto sociale (la natura esterna), ma quella è all'incontro determinata da que-
sto. Tuttavia, pur poggiando su queste basi, il materialismo storico ha una co-
struzione idealistica perchè suo elemento animatore ne è quello che Hegel,
Marx ed Engels chiamavano la dialettica.
La dialettica consiste nell'insegnamento di una verità semplici.ssima, ma
che deve considerarsi capitale per la scienza, per la filosofia, per la storia
Mentre l'uomo volgare concepisce le cose e i processi della natura, della vita,
della società come fatti cristallizzati, ben definiti, accuratamente isolati e di-
stinti, e taluni classifica come cause, altri come efietti, la dialettica inculca
che ognuna delle cose del mondo va concepita non già isolatamente e stati-
camente, ma nella sua connessione, nel suo movimento, nella sua concate-
nazione universale. Noi diciamo volgarmente che un animale è vivo o morto,
ch'esso esiste o non esiste, che ur^ fatto è buono o cattivo. Or bene, questo
è un modo volgare di pensare e di esprimersi. La vita non è un fatto, ma
un processo, che, svolgendosi crea la morte, e viceversa. Ciò che si dice male
è veicolo anche di bene e il bene fu generato anche dal male. La schiavitù
antica rese possibile la divisione del lavoro e la floridezza della civiltà greca, e
questi beni crearono altri fenomeni storici, che furono elementi di male. Ana-
logamente quelle cose e quei concetti, che sembrano escludersi a vicenda,
terminano, nel loro svolgimento, col comporsi in una unità superiore, che ri-
chiama uno dei termini principali della sua composizione, ma ne rimane di>
versa e distinta, e darà luogo a un ritmo di movimento analogo a quello che
essa stessa aveva percorso. Per citare un esempio materiale, ch'è dell'Engels,
un uovo, annullandosi, dà vita a una farfalla, che si annulla poi a sua volta
morendo e partorendo altre uova, le quali creeranno altre farfalle simili, ep-
pur diverse dall'antica. In altri termini, un essere avrebbe creato, col suo
non essere un altro essere, il quale ripeterà, con le riserve sopra accennate,
un eguale processo.
Ma che importanza ha tutto ciò per il sociologo e per lo storico ? Ha im-
portanza somma : perchè questa concezione, questa dialettica, questa convin-
zione del movimento e dello sviluppo eterni della natura, della società e del
pensiero insegnano che il mondo è tutto una lotta di forze antitetiche, le quali
perennemente fluiscono l'una nell'altra, e vivono, non già nelle loro forme
contrarie, cristallizzate, nei loro isolati elementi, ma solo nel loro svolgimento
continuo: luce e ombra, vita e morte, vero e falso, bello e brutto, attività
e passività; che, insomma, le cose hanno una sola realtà : la ininterrotta vi-
cenda del loro divenire e del loro dissolversi. Non più dunque la vana ri-
cerca di soluzioni definitive e di. verità eterne. Ogni nozione ha un carattere
NotBy questioni storiche, ecc. 417
limitato e condizionato alle circostanze in cui ci pervenne. Ciò che è ricono-
sciuto come vero ha anche il suo lato occulto, erroneo, che verrà rilevato
più tardi, e viceversa. Così l'osservatore della storia si avvezza a guardar le
cose sub specie aeternitatis, lungi dai piccoli e pettegoli giudizi quotidiani ; si
avvezza a concepire che il bene e il male, il vero e il falso, la giustizia ed
il torto, quando non si considerino isolatamente, nella loro immobilità, ma si
considerino invece nel loro processo, hanno entrambi, nei risultati, una fun-
zione utile; che lo sforzo, diretto all'attuazione di egoismi particolari, diviene
mezzo di resultati universali; che gli uomini, con l'opera propria, oltrepas-
sano le loro intenzioni consapevoli e creano ciò di cui essi erano inconsape-
voli. Questa la grande lezione che fa sacra la storia e v'infonde come un senso
di religione.
Ma, se tutto ciò costituisce, l'anima del materialismo storico, ne segue
necessariamente la confutazione dell'obbiezione volgare ch'esso assegni va-
lore di causa a certi determinati ordini di fenomeni, relegando gli altri nella
categoria effetti; ch'esso, in altre parole, come si dice, isoli e sopravvaluti
il /attore economico, ponendolo come causa universale, immediata e neces-
saria, e faccia di tutti gli altri fattori le sue più o meno dirette conseguenze.
Una teoria siffatta (come quell'altra, che pure è stata formulata, e con mag-
giori pretensioni scientifiche nel secolo XIX, la quale concepiva il processo
storico come effetto di una serie di forze catalogabili in rubriche separate —
forze fìsiche, istituzioni sociali, istituzioni politiche, azione individuale, ecc. —
è invece recisamente repudiata dal materialismo storico. E ciò, perchè questo
repugna per definizione dal concepire il processo storico come qualcosa di
immobile, in cui una o più serie di cause esercitino una loro azione sur un'al*
tra serie di fatti, che passivamente la subiscono. A motivo della sua natura,
ossia della dottrina filosofica, che le pervade, e a cui esso si lega, il mate-
rialismo storico rifiuta senz'altro questa concezione semplicistica, con cui pure
si è creduto di confutarlo : per esso tutti i pretesi « fattori » sono causa ed
effetto ad un tempo, e vivono solo nella loro reazione reciproca.
In virtù di queste sue premesse, il materialismo storico inculca che la
stoiia va intesa e trattata come un tutto organico in tutti i suoi vari elementi,
ciascuno legato all'altro da vincoli di interdipendenza e di mutua influenza.
Non c'è una storia politica, una storia sociale, una storia economica, una
storia letteraria, una storia interna, una storia esterna. C'è una sola storia,
che deve essere tutte queste cose a un tempo, e non già catalogate l'una a
fianco dell'altra, ma esposte in guisa che di ciascuna si rilevino le influenze
csercitantesi su l'altra, e viceversa.*»
Ma (e con questo veniamo al punto più delicato e più bersagliato della
questione) oserebbe il materialismo storico affermare che le condizioni ma-
teriali della società determinano, direttamente o indirettamente, tutte le altre
forme della vita e della storia collettiva umana; ch'esse, quindi, se ne pos-
sono dire le cause-madri ?
^ Per uno sviluppo più ampio di questi concetti, cfr. C. Barbagallo, Il maUrialismo sto-
rica^ Milano, Federazione Biblioteche popolari, 1916.
27 — Nuova Rivista Storica.
4i8 Note, questioni storiche^ ecc.
Dopo ciò che abbiamo esposto, non è rlilTìcile intendere che tal^ affer-
mazione può considerarsi solo- una inesatta e approssimativa enunciazione
riassuntiva del materialismo storico, ma che, per essere intesa e colta nella
sua essenziale verità, va chiarita, illustrata e rimaneggiata profondamente.
Una espressione più piena e più fedele della dottrina potrebbe forse es-
sere questa: i fenomeni storici, che noi sogliamo considerare come elementi
isolati, contribuiscono tutti insieme, reagendo a vicenda l'uno sull'altro, a deter-
minare volta per volta il fatto sociale, ma tra essij nel ruotare perenne di
tutti gli elementi concorrenti, in fondo al processo, hanno maggior peso, sia
quali forze attive, sia quali forze di arresto, quelli che si dicono i rapporti
sociali economici. E questo, perchè, come nell'individuo singolo, così tra gli
individui consociati, i bisogni non stanno tutti al medesimo piano, ma v'ha
fra essi come una gradu?izione, determinata dalla violenza e dalla frequenza,
con cui battono al nostro essere, e dalla necessita, con cui reclamano di
venir soddisfatti.
Ma anche tale enunciazione è imperfetta. Ciò per due ragioni. Sono forse
codesti rapporti economici elementi venuti dal di fuori, nella, cui determina^
zione tutti gli altri non hanno nessuna presa? Una concezione Schiettamente
materialistica risponderebbe di si ; il materialismo storico risponde invece di
no. Risponde che i rapporti economici sono via vìa creati e posti dall'uomo
sociale, sospinto da tutto il complesso delle, forze che lo a faticano a creare )a
storia ; sono quindi di volta in volta effetti di cause economiche e non eco-
nomiche precedenti.* L'altra ragione è questa. j\Iaterialismo storico non si-
gnifica economismo storico. Esso quindi, se accenna in via ordinaria ai rap-
porti economici, non esclude, anzi ammette che talora, in certi casi, esistano
altre forze materiali e morali fornite di energia causale preponderante. Per
esso l'importante non è l'accenno al fatto economico, ma la necessità di vol-
gere di caso in caso l'attenzione alle forze in ultima istanza decisive, che
d' ordinar io , in fondo al Processo, ?\ xXXxQ'^'aino essere i rapporti di produzione
o di proprietà. Le illustrazioni di carattere teorico o storico-politico del
Marx e dell'Engels sono su questo punto interessantissime, e i relativi capitoli
del volume del Mondolfo, pieni di suggestioni e di finissimi rilievi. La con-
clusione è sempre quella che 1' Engels espresse in una sua lettera, discor-
rendo dei rapporti tra ideologie e condizioni economiche secondo la dot-
trina materialistica della storia : « Quanto più il campo studiato si allontana
da quello economico e si avvicina all'ideologico puramente astratto, tanto
più, nel suo aspetto, esso mostra delle accidentalità, tanto più la linea, che
congiunge quelle ideologie al terreno economico, si svolge a zig-zag. Ma
si provi a tracciare Tasse mediano dì quella curva e si troverà che, nuanto
* Una esatta intierpretazìone di questo difficile, ma capitale punto del materialismo otorico,
io non l'ho trovata altrove se non in Gu. Da Ruggipro, Filosofia contemporanea, Bari, Laterza,
1912, pp. 26-27 : k Lungi dall' assottigliare ciò che fu da essi chiamato una soprastruttura, l'intenta
Costante [del Marx e dell'Engels] è di condensarla, d'incorporarla nella struttura economica. Non
abb;(ssano insomma lo Stato e la società al grado di un mero riflesso dell'economia, ma elevano
V economia fino al punto da includere in essa tutta la vita sociale e politica. La storia è, per i
creatori del materialismo storico, tutta di getto. .>»,
I
Note, questioni storiche , ecc. 419
più vasto è il campo e lungo il periodo storico osservato/tanto più quel*
Tasse correrà parallelo a quello^dello sviluppo economico».
Tale appare, a chi veramente' e con intelletto filosofico la studii, la con-
cezione materialistica della storia, ch'è di fatto, come la definiva TEngels,
ma delle maggiori « scoperte » del secolo XIX. Una ricerca che oggi potrebbe
essere interessante sarebbe questa : vedere che rapporti intercedono tra il
concetto fondamentale della sociologia di Vilfredo Pareto e la dottrina dei
materialismo storico, intorno a cui pure, in una sua opera recente,* il Pareto
mi sembra gravemente equivocare Io son sicuro che un esame del genere
porterebbe alla conclusione che la sociologia del Pareto, con i suoi con-
cetti ispiratori delle azioni non logiche, dei residui^ delle derivazioni, è
un largo sviluppo della dottrina del Marx e dell'Engels.* Ma questa dimostra-
zione mi trascinerebbe assai lungi dal soggetto, a cui si limita il presente ar-
ticolo, e per ora il mio compito è necessariamente finito.
C. B.
Philologica: antiphìloiogica : extraphilologica:
Per l* italianità della coltura nostra: discussioni e battaglie : scritti di C. Ba»-
BAGALLO, E. BlGNONE, E. ClCCOTTI, A. FrRRARI, G. FRACCAROLI,
F. GUGLIELMINO, R. MONDOLFO, E. PANCRAZIO, A. SOGUANO, P. TkR-
Ruzzi, Roma, Albrighi, Segati e C, 1918, pp. 135. — E. Romagnoli,
L'aurora boreale, Bologna, Zanichelli, 1918, p. 46. -r Idem, Vigilie
italiche, Milano, Istit. edit. italiano (in 16°), pp. 221. — Idem, Minerva
e lo Scimmione, Bologna, Zanichelli, 1918 (2* ed.), pp. XLVIII-239.
Abbiamo onestamente tenuto fede alla nostra promessa. Allorquando, or
sono molti mesi, la Nuova Rivista Storica, il sottoscritto e ii nostro egregio
collaboratore Ettore Romagnoli furono investiti dall' onda di una offen-
siva culturale di pura marca italo- tedesca, io feci, in nome di tutti; la pro-
messa solenne che nulla — proprio nulla — sarebbe valso a riraoverci dalla
battaglia, e che € come ieri, come oggi, cosi ancora domani >, ci impegna-
vamo a Combattere « non la scienza della Germania, di cui .sapevamo e
avremmo saputo fare il debito conto e che giudicavamo assai migliore di
quello che ci si era avvezzati a conoscere e ad imitare ; ma a combatter^
invece il tedeschismo della cultura italiana : «sclusivista, angusto, cieco. ini*>
serando, colpevole ».
* V. Parbto, Sociologia g^nérat^, Firenze. BacUtr», 191^. I. pfi^ 4f6'97; |l, RP« 279» 9it'
" Ì4« «bbe t»lor» come vo muso otcwc lo tt««M rarttQj»/. ^. |I. »7»49)'
420 Note, questioni storiche, ecc.
Ebbene, la promessa è stata da noi mantenuta ; mantenuta anzi signoril-
mente, poiché abbiamo reso in altrettanto oro il vile bronzo, che ci si por-
geva. In luogo di fogli volanti, firmati o anonimi, o di lettere pseudo-filolo-
giche sulle colonne di qualche giornale da fiera, abbiamo dato ben quattro
volumetti (taluno è forse proprio un volume), nei quali vengono trattati seria-
mente problemi importantissimi di critica, relativi alla contemporanea coltura
italiana. Di questi due volumi uno è la secohda edizione di Minerva e lo
Scimrfiione del Romagnoli, cui precede una nuova, vigorosa Introduzione e
segue in appendice una brillantissima Intervista con' Ugo Foscolo; un secondo
è una polemica dello stesso Romagnoli con i filologi ^^^^ Atene e Roma
fiorentina intorno al futuro programma di rinnovamento degli studi classici ;
un terzo raccoglie i migliori artìcoli polemici, che furono da parte nostra
pubblicati durante la scorsa estate e anche quelli (forse i più efficaci) che il
giornale, che avea iniziato la polemica, non pubblicò.
Io credo serenamente di poter oggi considerare questa produzione nostra«
non più quale parte in causa, ma quale critico, e in tale atteggiamento ap-
punto io. voglio oggi discorrerne brevemente.
Nei volumi sopra accennati, il fenomeno più degno di nota è questo:
che le discussioni che vi si fanno da studiosi, diversi per indole, per studii,
per tradizione, contengono un saldo gruppo omogeneo di idee, quale non
è facile, anche tra combattenti nelle ste;sse file, ritrovare. Il nucleo di
idee comuni è il seguente: che la nostra lotta contro il filologismo italiano
ha la sua profonda giustificazione npl fatto che l'indirizzo, che a codesta
denominazione corrisponde, investe e domina, come piovra enorme, tutta
la cerchia degli studi di letterature antiche e moderne, nonché le discipline
storiche stesse ; 2® che codesto deplorato metodo non consiste affatto nella
raccolta dei materiali della storia, nello scrupolo, naturale e doveroso, di ac-
certare i fatti e le idee, innanzi di discorrerne ; operazioni, su cui a nessun
patto si può sorvolare, e che noi riconosciamo perfettamente legittime, come
ancora una volta si ripete a chi non vuole intendere ; 3<' ch'esso invece con-
sìste — sostanzialmente — nelle riduzione della critica letteraria e della storia
alla disorganica raccolta, cieca e senza scopo, del materiale, allo studio di
frammenti isolati, quasi sempre sprovvisti di significato e che nulla hanno
a che vedere né con la letteratura, né con la vita; consiste nella critica con-
dotta fino all'esasperazione, al parossismo, alla distruzione della realtà stessa;
consiste nel feroce aborrimento dalle idee generali, che lo studio dei fatti
fecondino; nell'irrisione della sintesi e delle concezioni teoriche, che l'analisi,
per essere feconda, anzi, per poter esistere, deve necessariamente presupporre ;
consiste infine nella sostituzione a tutto ciò della manìa per le virtuosità gram-
maticali, «della caccia alle congetture, della ossessione ipercritica » : 4» che co-
desto metodo è stato imposto dalla Germania materialistica dei secoli XIX-XX,
si che si può e deve legittimamente chiamare metodo tedesco ; 5' che l'instau-
razione della italianità nella nostra coltura deve consistere nel distaccarsi da
questo biasimato e cieco esclusivismo e nel ritornare all' indirizzo tradizio-
nale degli studi nostri, che non escludeva, anzi implicava la grande erudizione
e l'entusiasmo per essa, ma al suo fianco, in prevalenza, richiedeva la rielabo-
Note, questioni storiche ^ ecc. 421
razione, secondo uno spirito proprio, dei dati forniti dall'analisi, la loro coor-
dinazione e presentazione sotto nuovi aspetti, la loro geniale divulgazione.
Queste — ripeto — sono le idee comuni propugnate in ciascuna delle
pagine dei volumi che ho sott'occhio. Tuttavia, attraverso di esse, sono
sparse alcune idee, che, per varie ragioni, meritano un esame speciale.
I. Taluno degli scrittori del volumetto « Per l'italianità, ecc. » ha avan-
zato l'idea che sia opera d'italianità di coltura rifare molte delle analisi e
riapprestare in veste diversa molti degli elementi di fatto fornitici dalla cul-
tura tedesca dei sec. XIX-XX. Per addurre un esempio, taluno pensa che
sia opera d'italianità apprestare delle edizioni di classici latini o pubblicare
presso editori italiani dei Codici diplomatici, che i* Tedeschi avrebbero in
precedenza pubblicati. Indubbiamente, chi così facesse farebbe cosa utile e
potrebbe forse contribuire alla italianità della nostra coltura. Ma non si esa-
geri e non si equivochi I Quest'apprestamento di fatti e di elementi materiali
può — con lievi cautele — essere senz'altro mutuato dalla coltura tedesca.
È assurdo voler rifare ex novo tutti gli strumenti del lavoro solo perchè
la maggior parte di quelli che si posseggono sono di marca straniera. Tali
strumenti son buoni, e con piccoli ritocchi si possono render impeccabili.^
Cih che occorre invece è cominciare a lavorare con tali arnesi, ma secondo un
nuovo spirito- o, se mai, fabbricarne degli altri che la coltura tedesca non ci
abbia ancora forniti. La rifabbricazione ab imis di tutto il materiale sarebbe
invece un lavoro di Sisifo, che ninno spirito patriottico potrebbe giustificare.
II. Una delle obbiezioni più serie (in apparenza almeno), che si è fatta
al volume del Romagnoli» Minerva e lo Scimmione , è la recisa affermazione
che a suo avviso: Philologia est delenda!...
Questa sentenza ha fatto sobbalzare di meraviglia e d'ira molta gente.
È dessa invece un giudizio inappellabile, quando la si rimetta nella cerchia
organica delle vedute del Romagnoli. Questi l'aveva già illustrato or sono
parecchi anni, nel 191 1, in un bellissimo programma di lavoro — natural-
mente rifiutato — ch'egli espose al Convegno fiorentino delV Atene e Poma di
quell'anno. E il suo pensiero era questo : che la raccolta, il disseppellimento,
la purificazione del materiale delle antiche letterature non può essere che
una fase provvisoria degli studi classici. « Allorquando l'ultimo codice sarà
esplorato, gli ultimi papiri disseppelliti, le ultime collezioni compiute, i più
trascurati scrittori pubblicati in edizioni perfette..., guel tipo di studio non
avrà piii ragione di esistere, e chi si ostinasse a perpetuarlo sarebbe una
specie di don Chisciotte della filosofia classica... ». « .So bene», egli aggiun-
geva, « che l'ultimissima parola non sarà mai detta... Ma il più elementare
buon senso dice che, arrivati ad un certo punto, questo lavoro diverrebbe
una fatica delle Danaidi... » {Vigilie italiche, pp. 77-78).
Queste parole — ripeto — egli aveva vergate sette anni or sono; quel
suo scritto egli ripubblica adesso, e la cosa ha un'importanza esegetica non
» L'aver seguito e il seguire tale criierio è il merito principale del Corpus Paravianum degli
scrittori latini, che il Pascal dirige e su cui i filologi italiani trovaao a ridire perchè esso non
ri& sx novo il lavoro già fatto dagli atudiosi tedeschi.
4»* Note, questioni storiche^ ecc.
piccola : noi sappiamo finalmente quale sia la filologia da giustiziare : essa
è quella che, col pretesto della scienza, si crogiola in un lavoro in tutto pa-
ragonabile al vuotare e rìvuotaredei fossi, ò, come diceva il Mommsen, all'agi-
tare e rimestare le travi. « Quando (scrive un nostro arguto, e più autorevole,
compagno di via) a Sofocle avremo accomodato il tabarro com'è nella statua
in Laterano, non c'è nessun bisogno di tornare da capo: c'è bisogno sola-
mente di sentirlo parlare...».
III. Il torto, mi pare, del Romagnoli è un altro : quello di aver .disegnato
in modo tale lo sviluppo della filologia nel secolo XIX, da addossare la respon-
sabilità di tutte le sue perniciose influenze a coloro che di queste influenze
non furono responsabili, a coloro anzi che si sforzarono di contrastarvi.
Mi spiego. Egli immagina che le cose siano andate come segue. Fino ai
primi del sec. XIX la filologia era soltanto preparatrice e illustratrice di testi.
Per primo Augusto Wolf volle ampliarne il compito e convertirla in scienza
universale dell'antichità. Perciò egli vi avrebbe assoggettato ventiquattro disci-
pline, ossia quasi tutto lo scibile umano. D'allora sarebbe cominciata la tiran-
nia del nuovo verbo filologico sul mondo.»
Anche ammessa siffatta interpretazione storica, rimarrebbe naturalmente
a spiegare come quella gigantesca macchina wolfiana abbia potuto dominare
il mondo, e come il mondo vi si sia volentieri prestato. La spiegazione di un
tale fenomeno non istà dentro la filologia, sibbene nelle generale funzione sto-
rica, che la Germania ha esercitata nel mondo moderno. Ma ciò che io voglio
rilevare è un'altra cosa. Sia o non sia accettabile la classificazione wolfiana
delle discipline dipendenti della filologia (taluni dei suoi discepoli infatti non
l'accettarono), la filologia che fì Wolf creò, e mirò ad elevare, non ha nulla
di comune con la filologia contemporanea, che il Romagnoli fustiga a sangue.
La filologia del Wolf è cosa assai seria, ed essa si andava a identificare
con la storia nel senso più alto e più puro. Essa significava la volontà di
penetrare e amare e godere completamente il mondo antico, e questa sua
visione egli e i suoi discepoli e seguaci — Bòeckh, Niebuhr, C. O. Mùl-
ler -- difesero e contrapposero agli -ermeneuti, ai grammatici, ai puri pre-
paratori dì edizioni critiche del tempo loro.*
Per disgrazia della Germania e della cultura universale, il naturalismo,
il positivismo, il razionalismo, poco dopo, irrompendo, sconvolsero la grande
concezione filologica che il romanticismo aveva inaugurata, e vi sostituirono
l'altra che noi conosciamo. Questa trovò il suo trono già bello e apparec-
chiato, trovò spiriti umili e proni, e dalla sua piccolezza si diede a spadro-
neggiare e ad impazzare nel mondo.
Per questo, appunto per questo — piaccia o non piaccia ai nostri avver-
sari — la lotta per la liberazione della nostra coltura letteraria e storica dal
minuto filolofismo non è cosa da nulla ; per questo ogni tentativo del genere
è un'anione di merito, non solo scientifico, ma anche civile. Il quale merito,
^ MintTfW t lo Scimmione, CvSfi}^. \\-l\\.
} Cfr. K. HiLLÉBRAND. Ètuie sur C. O. MUtiér otson icolé (B«Ua tua trtd. fi. della £//-
iirtiimtt gr«i0ié òA MBlìsr, Pari», t866. Voi. I, 7* ad.).
NoUf quesHoni storiche^ ecc. 423
per destino di cose, va in Italia toccando, non già ad organismi costituiti,
non ad autorità e competenze universalmente riconosciute, ma ad individui
isolati, la cui operosità e la cui intelligenza riescono a suscitare d'attorno
l'imitazione e l'emulazione; ad individui, i quali hanno, oltreché delle opi-
nioni, delle passioni decise, e i quali sono per ciò tratti, non al quieto vivere
accademico, ma alla critica e alla lotta contro il terrore intellettuale, contro
l'autorità di convenzione, contro (perchè non dirlo?) la vigliaccheria mentale,
in cui il nostro paese era finito per adagiarsi.
C. B.
Ancora una parola intorno alla cattedra di storia antica
nella R. Università di Roma.
La triste commedia è finita. Ettore Pais è professore di storia antica
nella R. Università di Roma, prescelto ansi a guest' ufficio per tenervi
accesa la fiaccola della grande tradizione storiografica italiana! Il let-
tore conosce il nostro pensiero sul merito della cosa. Ma — post factum —
è necessario aggiungere qualche altra considerazione.
La prima si deve riferire alla profonda igftoranza, dimostrata in
questa occasione dalla nostra stampa politica. I giornalisti, specie quelli
aventi uno spirito ed uri colore patriottico, che in questi giorni hanno van-
tato la genialità e /'italianità {il differente carattere tipografico non è
nostro) dell'opera paisiana, non possono, come s'è detto, avere esclusiva-
mente subito un* ispirazione di origifie massoftica. Essi hanno creduto in
verità a quello che scrivevate. Or bene, tutto ciò significa che essi non
conoscono né l'opera massima del Pais — la sua Storia di Roma — né
alcun frammento, piccolo o grande, della sua residua attività storiografica.
Anzi, uno dei piii colti e inlelligenti fra essi non esitava a dichiarare
eh 'egli delle Stòrie romane del Pais e del suo concorrente non sapeva {e
<g\\ bastava») che questo: che < entrambe concordano ne W affermare che
Roma sorse non lungi dal 7,evere e che i Babilonesi non ebbero parte
alcuna nella sua fondazione... » (Corriere della Sera, 29 giugno 191S).
Tutto questo si spiega a sufficienza con la 7iatura di quell'opera tanto « ge-
niale > e tanto < italiaìia », da riuscire poi assolutamente invalicabile. Se
quei giornalisti l'avessero conosciuta, io ho fede che nessun impegno avrebbe
potuto trascinarli a .scrivere le inaudite cose che hanno scritte e stampate*
Ma essi non tie sapevano nulla di nulla, e non pertanto, come sembra sia
ancora costume in Italia, osaroìio con grande su^siéguo dirigere l'opinione
pubblica in un senso piutiostochè in un altro!,,.
Un secondo ordifte di considerazioni potrebbe riguardare gli indefinì-
bili metodi, coìt cui ambe le parti contendenti {a gli amici delU due parti f)
434 Noie, questioni storiche^ ecc.
hanno cercato di inscenare l'opera propria; metodiche sono pi'ecipitati fino a
un vero e proprio record di canards. Ma è cosa troppo volgare, perchè le
pagine della N. R. S. debbano di ciò venire a occuparsi. Circostanza più,
grave e più seria, almeno da un certo punto di vista, è stato invece il metodo
adottato dal Ministro della P. Istruzione, perchè la nomina del Pais toccasse
il porto agognato. Il Ministro {impossibile indorare la frase!) ha in questo
caso commesso una vera e propHa violazione di legge. Egli, dopo il falli-
mento della normale procedura, richiesta pei^ trasferimenti, ch'era appunto
la procedura fin allora applicata ed applicabile al Pais, d'improvviso volle
adottare a suo favore Vari. 24 del Testo unico delle leggi sulla Istruzione
superiore, corrispondente al vecchio e famoso art. 69 de Ha legge Casati,
e riguardante, com'è noto, le persone venute <tiin meritata fama> nella
disciplina che dovrebbero insegnare. Ma l'una e l'altra disposizione si
applicano unicamente alle nuove e prime nomime universitarie, non già
ai casi falliti di trasferimenti da sede a sede Per tal modo la legge fu
aggirata aite spalle! La richiesta di tanta violazioìie fu così inaudita,
che il Consiglio Superiore per l'I. P., a differenza di qiiel che narrano
le gazzette, non fu affatto unanime a sanzionarla, ma solo 24 su 35 membri
parteciparono alla votazione, e di essi una parte ricusò di votare perchè
la illegalità non risco tesse neanche il suffragio di una indiretta adesione.
Solo in tal modo i giornali bene ispirati poterono discorrere di una una-
nimitd di voti, che era di fatto la unanimità di quelli che avevano votato
favorevolmente
Dopo di che il Pais è professore di storia antica nella Università
di Roma! Il malefico anello, che era stato per la prima volta intaccato,
e che per un momento sembrò dovesse spezzarsi, si è di nuovo richiuso
e saldato. L'italianità della nostra coltura subisce ancora una grande
umiliazioTte . Ancora una volta, per opera di amici, ingannatori o ingan-
nati! Un Ministro, che ha J ama di uomo energico e di novatore ; un Mi-
nistro, che sembrò accingersi coraggiosamente ad infrangere un vecchio,
medievale privilegio delle nostre Facoltà universitarie, senza di che non
v'ha salute per la nostra coltura nazionale, ha finito poi con l'essere piti
amico di Platone che della Verità e del suo Paese, e non ha trovato la
virtù o l'ispirazione di un atto, che sia veramente disinteressato, geniale e
benefico. Le forze del male, di cui egli è stato strumento e vittima, sono di
nuovo prevalse. A noi, che iniziammo questa battaglia senza l'ombra di
alcuno interesse, diretto o vìdiretto, rimane l'orgoglio che accompagna im-
mutabilmente ogni nobile e pura sconfitta.
G. P.! C. B,
Noie^ questioni storiche^ ecc. 425
Riviste nuove»
Questi ultimi mes| sono stati fecondi, forse eccessivameùte, in produ-
zione di riviste nuove. La casa editrice N. Zanichelli ha dato mano alle
pubblicazione de V Intesa intellettuale, diretta dal prof. A. Galante e che ha
per iscopo quello di rejidere più vivi e frequenti i rapporti fra la coltura (e jg^li
istituti di coltura) dei paesi a noi alleati ed amici. Il programma ^ buono ; lo
sostenne a suo tempo le N. R. S. (A. l, fase. II: E. Rota, Per una quadru--
piice intesa scientifica"), e buona l'.attuazione che se né comincia a fare con
questo primo numero. — La stessa Casa editrice ha iniziato la pubblicazione
di un'altra rivista politico-culturale, La Rassegna italiana, che non ci è per-
venuta, ma di cui, non riusciamo ancora ad afferrare le organicità del pro-
gramma, essendo essa diretta (secondo che sembra) a diffondere il pensiero
nazionalista e quello... mazziniano. — Una Rivista di carattere politico-so-
ciale è // Rinnovamento (dir. A. De Ambris), organo del sindacalismo ita-
liano, e che noi segnaliamo qui per la sua tendenza spietatamente critica
di tutti i dogmi socialistici del passato, per cui essa viene a collocarsi de-
gnamente accanto alla rivista, iniziata fin dallo scorso anno (e pur troppo
assai irregolarmente pubblicata) Vie Nuove, organo di un gruppo di socialisti
riformisti indipendenti : I. Bonomi, L. Caetani, F. Colucci, M. Silvestri. —
La Rassegna italo-britannica (dir. M. Borsa), uscita testé a Milano, mira a
svolgere, nel campo dei rapporti italo-britannici, quella stessa opera e a com-
piere la stessa funzione, che nei rapporti franco-italiani egregiamente disim-
pegna la Rivista delle nazioni latine di J. Luchaire e G. Ferrerò. — Final-
mente sono apparse ad un tempo due rassegne ménsil idi coltura: / libri
del giorno della Casa F.*'» Treves (abb. semestrale L. 3) e L'Italia che scrive
dell'editore A. F. Formaggini (abb. semestrale per gli abbonati della Nuova
Rivista Storica, L. 1,75), aventi l'una e l'altra uno scopo comune interes-
santissimo : quello di mettere 1* Italia che legge e che studia in immediato
rapporto coi libri che si stampano e con le variei questioni attinenti alla
produzione libraria, in modo da costituire, pel lettore italiano, una vera e
propria guida intellettuale.
Tanto risvéglio di vita intellettuale non è piccola cosa ; e noi brameremmo
ch'esso fosse più consistente e duraturo di quello che non vorremmo temere.
Per ciò sinceramente auguriamo ai confratelli di questa primavera italica
vita e fortuna !
BIBLIOGRAFIA ITALIANA
SULLA GUERRA EUROPEA
(Cfr. A. I, fase. II).
Come a suo tempo promettemmo, continuiamo, nel presente numero la Bibliografia
italiana sulla guerra europea, che iniziammo lo scorso anno e che, per la costante so-
vrabbondanza della materia, possiamo riprendere solo oggi. I criteri sono quelli stessi
da noi allora indicati. Questa seconda puntata comprende quasi tutti gii scritti, che,
direttamente o indirettamente, posseggono un qualche valore storico, apparsi nel 1914-15.
Con la puntata successiva esauriremo questo biennio e inizieremo la bibliografia degli
terltti apparsi nel 1916.
1. — Documenti e pubblicazioni diplomatiche.
Comunicati ufficiali e dispacci della guerra, in Rivista marittima, 1915
Diario della guerra d'Italia : raccolta dei bollettini ufficiali e altri documenti,
Milano, Treves, 1915
II. — Carte geografiche.
f A. Dardano], La regione veneta e le Alpi nostre dalle fronti dell'Adige al
Quarnaro : carta storico-linguistica ad i : 500 000, Novara, Ist. De Ago-
stini, 1915.
Le Tre Venezie, Novara, Istituto De Agostini, 1915.
HI. — Storia e cronaca della guerra.
La guerra europea : rassegna settimanale illustrata : diligente e completa ero-
nistoria degli avvenimenti^ .Milano, Son/ogno, 1914
A. Fraccaroli, La Serbia nella sua terza guerra: lettere dal campo serbo,
Milano, Treves, 191 5.
G. Destréb, Ciò che hanno fatto gli Inglesi (agosto 1914-sett. 1915) (trad.
It.) Milano, Treves, 1915.
Bibliografia italiana sulla guerra europea 427
E. Modigliani, A Londra durante la guerra^ Milano, Treves, 1915.
M. Mariani, La Germania nelle sue condizioni militari ed economiche dopo
, nove mesi di guerra, Milano, Treves, 1915.
C. Pettinato, Sui campi di Polonia, con prefazione di E. Sienkibwicz,
Milano, Treves, 191 5.
L. Ambrosini, Uh mese in Germania durante la guerra y Milano, Treves, 1915.
A. Fraccaroli, La presa di Leopoli e la guerra Austro-Russa in Galizia,
Milano, Treves, 1914.
V. Almanzi, La guerra santa d'Italia : storia documentata degli avvenimenti
dall'attentato di Seraievo alla dichiarazione di guerra dell'Italia alla Tur-
chia, Milano, Bietti, 1915.
R. ViLLETTi, La nostra guerra vista da vicino: dalle Alpi Gamiche alle Giulie,
(agosto-settembre 1915), Roma, Soc. ed. Dante Alighieri, 1915.
R. Mazzinghi, Gli avvenimenti navali nel conflitto europeo, in Rivista ma-
rittimaf 1914-1915.
V. Mavtegazza, Storia della guerra mondiale, Milano, Istit. editor., 1915-16.
D. Angeli, La Francia in guerra: lettere parigine, Milano, Treves, 1915.
R. Garibaldi, Libro rosso garibaldino, 1515.
D. Angeli, Rheims e il suo martirio, Milano, Treves, 1914.
MoRiss, Parigi durante la guerra, in Lettura, luglio 1915.
IV. — Le Cattse.
C. Grilli, Economia e politica nell'odierno conflitto internazionale ^ in Rivista
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E. Scarpoglio, La guerra della sterlina contro il marco insta dall'Italia,
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A scanso di equivoci e di erronee interpretazioni dichiariamo una volta
per tutte che del contenuto SPECIFICO del singoli articoli la responsabi-
lità appartiene interamente agli autori che li sottoscrivono.
^^ VW 'WM WW WW WW *é<i^¥ VM«^ MN^M ' ^W ^A-
A. Medici, Gerènte responsabile.
Città di Castello, Tipografia della Casa Editrice S. tapi, 1919,
Anno U. Settembre- Dicembre 1918. Fasc. V-VI.
^uoila '^\i?\s\a 2)^or\ca
I »"••■■ o*^' »<»w ■ •mm<f -<»^r«
t
GIUSEPPE FRACCAROLI
La battaglia contro il fiioìogismo.^
11 Frìiccaroli polemista.
....... Mi resta a discorrere del Fraccarolì polemista.
Chi lo conobbe solo di persona stenterà forse a sospettare in lui
tale qualità, del resto non comune agli studiosi dì cose antiche in
Italia. Pochi invero, rievocando il suo aspetto più invecchiato che Tetà
non facesse, il visibile logorio dell'intenso lavoro, la bonarietà del
conversare, anzi, la facilità di consentire nelle opinioni dell'interlocutore,
pochi, ripeto, avrebbero sospettato in quell'affaticato operaio del
pensiero una tempra di polemista di prim'ordine- Eppure è così. 11
Fraccaroli aveva, nella sua vita, nel suo pensiero, come delle idee-madri,
che lo reggevano, delle convinzioni saldissime, che gli si erano radicate
nell'anima, e per esse egli era pronto a scendere in campo, a lancia e
ìpada, in ogni luogo, in qualunque momento, contro chicchessia.
Quelle idee-madri — vivaddio! — non erano, come per altri, la scelta
di una variante; non già — poniamo — questa o quell'altra tesi
intorno alla cronologia delle odi di Pindaro da lui tanto amato. Erano
invece — gloria a lui ! — le idee più alte e più profonde che sorreggano
la vita morale e intellettuale dell'uomo. Questo è infatti ciò che contra-
distingue la buona dalla mala polemica. Il volgo, con la sua tendenza
1 Da uno studio di imminente pubblicazione : Giuseppe Fraccarolì (5 maggio 1849-
23 settembre 1918), Bologna. N. Zanichelli, 1919.
43S Corrado Barhagallo
alia confusione e all'equivoco, è incline ad avvolgere in un comune
sfavorevole giudizio tutte le polemiche e tutti i polemizzanti, a qualificar
tutto e tutti di pettegolezzo. Eppure il diritto (o il dovere?) della po-
lemica è sacro, e vi rinunziano soltanto quelli che non sanno né amare
né odiare, e per cui il bene e il male restano quantità indifferenti.
Chi invece ha nella vita delle fedi, dei culti, chi crede veramente in
qualche cosa é un disputatore nato e considera, non può non consi-
derare, la sua carriera come una militia hominis super terram. Tale,
dicevo, fu nella sua non lunghissima, ma non breve, esistenza, il Frac-
caroli. E fu uno dei migliori e dei maggiori polemisti italiani contem-
poranei.
La sua polemica ha una fisonomia speciale, che non permette
di confonderla con altre. La sua vis polemica non possiede l'irruenza
alogica, e pur travolgente, di Giosuè Carducci ; non possiede neanche,
per venire a più umile paragone, lo scintillio fosforescente della
polemica di uno dei nostri scrittori e giornalisti più popolari, Gaetano
Salvemini, il quale, ad ogni attacco, sembra serrare l'avversario tra due
lame di spade. La sua polemica è meno irruente, meno recisa, più
borghese ; somiglia più da vicino a quella di Benedetto Croce, sebbene
l'ironia, che vi é diffusa, porti seco assai meno di asprezza intima.
Essa ha qualcòsa di più manzoniano, di più socratico, di più bonario.
Il discutente, molte volte, ha l'aria di concedere, anzi concede volontieri.
Ciò gli serve, talora, a ristabilire la misura, l'equilibrio, a non pas-
sare n)ai i limiti della verità; nia, tal'altra, dopo la concessione, egli ha
come un possente balzo logico, per cui l'avversario è preso alle spalle
e costretto ad atterrare. Come in Socrate, la sua argomentazione muove
talora dagli esempi più umili. Alcibiade redivivo potrebbe ripetere di
lui « ch'egli parla spesso e volentieri di asini da basto, di calderari,
di ciabattini, di cuoiai, e sempre coi mezzi medesimi pare che dica
le medesime cose, talché la gente sciocca e ignorante potrebbe ridere
dei suoi discprsi ». Ma provatevi a guardarvi dietro, a seguirli fin in
fondo, e vi accorgerete che si tratta solo di punti di appoggio e di
partenza, e che le sue conclusioni « riguardano le cose più alte e più
nobili e che i suoi discorsi sono i soli che abbiano senno e », come
i discorsi socratici, « siano quelli che contengono più immagini dì
virtù ».
Raramente la sua polemica ha voli lirici ; poggia sempre invece
su delle basi molto solide ; reca con sé uno scrupolo non comune — ed
è questa una sua grande forza — dell'accertamento dei fatti e delle idee.
Ma, allorché, dopo un lungo procedere dall'apparenza dinoccolata, egli,
il polemista, si accende e comincia a levarsi in una regione superiore,
la commozione del lettore è profonda, perchè egfi si sente sforzato
Giuseppe Fraccaroli 439
senza saperlo, a completare, a oltrepassare la tonalità raggiunta dal
discutente. E il peana di trionfo, che questi non vuole cantare, viene per
lui intonato irresisti|?ilmente dal suo ascoltatore.
Ma assai più importante è indicare per quali idee il Fraccaroli si
sia, attraverso tutta la sua vita, battuto. Esse possono ridursi a tre:
si battè sempre, costantemente, contro l'insegnamento retorico nelle
scuole; si battè per la restaurazione della classicità nell'educazione
nazionale; si battè infine fieramente, in una lotta, per lui più aspra
e cotidiana: la battaglia contro il filologismo italiano. Tale il conte-
nuto, cui si applicò la sua virtù polemica.' E, poiché io ho discorso
dei due primi punti, là dove mi sono intrattenuto dell'ellenista e del
maestro, non mi rimane che toccare del terzo, ma non più per
accenni, sibbene distesamente, come l' interesse della cosa rende ne-
cessario.
Una lottaepica d'altri tempi.
Per rendere un'idea della lotta, anzi, delle sue necessità, non oc-
corre qui premettere e dichiarare, come pure in altri casi è stato utile,
che il filologismo, contro cui il Fraccaroli e noi stessi combattiamo,
non è punto lo sforzo di accertare e chiarire i fatti della letteratura
e della storia prima di discorrerne, come in buona o mala fede taluno
vorrebbe insinuare. Questo non è il filologismo, come il petrarchismo
non è il Petrarca, o il d'annunziunismo non è D'Annunzio. È un'altra
cosa, che fra breve diremo cosa sia. Occorre invece insegnare ai nostri
filologi quello che essi, ignari delle origini della storia e delle finalità
della propria disciplina, non sanno, che cioè la lotta, che noi, in
sui primi del secolo ventesimo, abbiamo ingaggiata contro il dominio
universale del filologismo, è soltanto una ripresa in piccolo stile di una
colossale battaglia, che la grande filologia tedesca del secolo XIX — la
filologia dei Wolf, dei Boeckh, dei Mueller, ecc. — combattè e vinse
contro i piccoli uomini di quel tempo, che della filologia volevano fare
quella certa cosa che in seguito, in Germania, ma più assai in Italia,
è stata fatta.
A mezzo il secolo XIX, anzi, nella sua prima metà, per una parte dt
gli studiosi tedeschi, filologia doveva essere lo studio della lingua, delle
forme letterarie degli antichi popoli classici, e, in via subordinata, degli
staccati elementi del contenuto di quelle opere, e solo ed in quanto
ciò servisse a renderle intelligibili. A questa scuola, che capeggiò
G. Hermann, e la quale, senza aver nulla del fuoco sacro dell'umane-
simo, nulla portava in sé della grandezza dello storicismo romantico;
a questa scuola di grammatici, di ermeneuti, di critici, e in parte anche
440 Corrado Barbagallo
di retori, si contrapposero prima F. A. Wolf, poi i suoi discepoli, per
altro assai più lucidi, più « latini » di lui. Augusto Boeckh e Carlo
Otofredo Mueller. Essi, nutriti delle possenti midolla della filosofia
idealistica tedesca, presi già dairinvadente passione del nuovo roman-
ticismo per la storia, rovesciarono senz'altro i termini della questione
e della sua soluzione. No, la filologia non deve essere principalmente
uno studio delle forme letterarie, e neanche dei frammenti del loro
contenuto, per quello che ciò può valere a rendere intelligìbili i testi;
là filologia non può essere solo grammatica, linguistica, metrica, eru-
dizione. Filologia deve essere il principal mezzo di ricerca per lo studio
dello spirito umano; deve collegarsi con la politica, con la filosofia,
la mitologia, l'archeologia, Teconomia, ecc. Bisogna, proseguivano essi,
considerare l'antichità come un tutto organico, armonico, animato da
uno spirito, che ovunque espande il suo afflato, e ovunque rimane
uguale a se stesso, pur. sotto forme diverse. Il compito e il fine della
filologia sonò appunto di concepire questo mondo e di presentarlo
nella sua totalità organica. La filologia studierà le lingue e i monu-
menti letterari, ma solo per arrivare all'essenza intellettuale delle nazioni,
per penetrarla. La filologia appartiene alla storia; è atìzi storia, nel
concetto più alto, più profondo, più organico.'
« Limitare, essi incalzavano, il proprio studio alla esegesi degli
autori è tanto arbitrario ed errato, quanto per il botanico limitarsi
alla classificazione di un erbario. Come questi si propone lo studio
di tutto il mondo vegetale, così la filologia persegue la intelligenza
completa della vita morale del mondo greco-latino, e tende ad assi-
milarsi questa vita tutta intera con Vintelligenza, col sentimento, con
V immaginazione.... ».^ La filologia, aveva detto A. Wolf, « è l'insieme
delle conoscenze storiche e filosofiche, per cui noi possiamo appren-
dere a conoscere le nazioni del mondo antico o dell'antichità in tatti
i sensi possibili e immaginabili..., ».^ « La filologia », ribadiva C. O.
Mueller, « non si propone di precisare fatti particolari, né di conoscere
forme astratte, ma di abbracciare lo spirito antico tatto intero nelle opere
della ragione, del sentimento, della immaginazione^. Cotale studio,
infine, non doveva rimanere chiuso in Sé stesso: la penetrazione del
t K. HiLLEBRAND, Étude sur e. O. MSller et son «:(;/f (nella sua trad. della LiY-
tératare grecqae del Mììller, Paris (2* ed.)i 1866, I, p. LVII), che io adopero larga-
mente per questa parte. L'unico studio italiano utilizzabile sull'argomento è quello
-di E. CiccoTTi, V evoluzione della storiografia, ecc., ìnBibl. di st. economica, I, pp.
LI sgg. n Manuale di filologia classica di L. Va lm aggi (Torino-Palermo, Qausen,
1891), è, per questa parte, insufficientissirao e difettosissimo.
* Uber die Encyklopàdié d. Alterthumswissenschaft, Leipzig, Qiirther, 1836 <cit.
in HiLLEBRÀND, Op. CÌt., p. LIX, 11. 1).'
Giuseppe Fraccaroli 441
contenuto e dello spirito delle opere antiche — insegnava àncora il
Wolf — doveva implicare la comparazione di quella vita con la vita,
con la storia successiva e con la vita odierna. Solo in tal modo Vintel-
ligenza e il godimento ne diventavano possibili, utili, completi/
Allora, come oggi, di contro a questa grandiosa e nobile conce-
zione, i filologi puri contrapponevano, e lanciavano sugli avversari, l'ac-
cusa di voler nascondere, dietro la risonanza delle parole, l'ignoranza
degli elementi della materia; rimproveravan loro l'imprudente « immode-
stia » delle concezioni e delle opere, ed esaltavano a sé medesimi la gran-
dezza del proprio compito dì ermeneuti e di grammatici, così a torto
misconosciuto dal volgo indotto e presuntuoso. Allora, come oggi, essi
pretendevano giocare all'equivoco, dichiarando di volere anch'essi quello
che gli avversari volevano.- Ed allora, come oggi, contro questi facili
censori, pieni di boria, di falsa modestia e di acredine, i filologi della
nuova scuola, per bocca di A. Boeck, replicavano accusando:
« Poiché non ci si volle staccare soltanto da un falso indirizzo di una.
filosofia, ma dalla filosofia stessa, e e! si volle restrìngere nell'indagine
speciale, lo studio dell'antichità ■ si è straordinariamente spezzettato.
Mancano al maggior numero idee generali, manca lo sguardo che dal-
l'alto abbraccia tutto un orizzonte ; tutto è fatto a pezzi e a bocconi
nelle loro teste; perciò non hanno né un concetto dell'estensione, né
una profonda idea del contenuto stesso della scienza delle antichità:
conoscono solo dei singoli dati in cui si perde il loro pensiero. In
conseguenza di questa unilateralità, accanto alla vera critica, ha fatto
fortuna la p scudo- critica più superficiale, che si manifesta in virtuosità
grammaticali, in una ridicola caccia alle congetture e in una smania
di revocar tutto in dubbio; ma alla ricerca obbiettiva manca il grande
spirito dell'erudizione del secolo decimosesto e al posto dell'entusiasmo
del secolo decimoquinto è subentrata una esagerata rigidità. In tali
condizioni non v'è punto da fare le meraviglie che la scienza delFanti-
chità abbia perduto terreno ».*
Nell'epico duello, ì novatori, gli eretici, gli imprudenti, gli impu-
tati di faciloneria, trionfarono, e la grande filologia tedesca nacque, e
riuscì, per lóro mezzo, e in loro nome, a dominare il mondo e a fog-
giare in anticipazione la rinomanza dei futuri minuscoli, degeneri epi-
goni, i quali tra non molto torneranno da capo a perpetrare tutto quello
che i loro padri, lottando e soffrendo, avevano stigmatizzato e combattuto,
1 Wolf e Butmann, Maseum d. Alterthums, I (1807), p. 30; A. Bòckh, Encyklo-
pàdie und Methodologie d. philos. Wissensckaft, Leipzig, 1886, ppl 40-41.
« G. Hermann, Uber Herrnprof.BockWsBehandlungd.griechischelnschriften^
London, 1826, pp. 3 sgg.
» Encyklopàdie und Methodologie, p. 307.
442 Corrado Barbagallo
11 filologisiiio letterario in Italia.
Ma la grande ragione del successo si ascondeva nelle forze spi-
rituali, che la battaglia e la vittoria avevano alimentato. I trionfatori
erano alunni e seguaci della grande filosofia idealistica tedesca dei
secoli XVIll-XIX, che riempiva di sé ancora la, Germania; i trionfatori
recavano in cuore quella favilla della grande passione storica, che,
novello Prometeo, il romanticismo avea portato nel mondo. Fra poco
l'uno e Taltro fuoco si sarebbero spenti, e la filologia, la nobile Signora
della coltura moderna, non sarebbe stata che un grande cadavere, che,
col suo contatto e col suo incubo, tutto avrebbe ammorbato.
Il nuovo rivolgimento si manifestò in Germania all' incirca verso
il 1865-1880, in dipendenza dei nuovi indirizzi filosofici del secolo. Ma,
per nostra sciagura, presso di noi, il male non si limitò all'antichità
classica, si estese a tutta la coltura letteraria e storica. Allora infatti
quello che si chiamò filologia^ in rapporto alle letterature classiche, si
chiamò critica storica (sic/) in rapporto alle letterature moderne; si
chiamò critica delle fonti in rapporto alla storiografia.
Siamo adesso nel momento in cui il grido famoso K^in Metafhysik
niehrì è risonato per le aule e per le piazze della scienza germanica, e
l'eco dapprima confusa s'è ripercossa largamente in Francia e in Italia.^
Siamo nel momento in cui il positivismo trionfa in filosofia, e la moda
realistica, in arte. 1 letterati di questo tempo non hanno, in genere, con-
sapevolezza del rapporto tra i due indirizzi, perchè, a essere letterati, ce
n'è per loro anche di troppo, e la filosofia è, per le loro menti piccine,
niente altro che vacua metafisica. Non sanno, ad esempio, né si accorgono,
che il positivismo filosofico del tempo è la cosa meno positiva di que-
sto mondo; che, anzi, la sua caratteristica è quella di scostarsi dalla
ragion positiva delle cose, dall'accertamento severo dei fatti. Non si
accorgono che il positivismo italiano — orribile a dirsi! — è di marca
francese, non tedesca, laddove essi, i filologi, non vogliono andar dietro
che a una sola luce ideale: quella che vieh di Germania. Non si ac-
corgonor o non sanno che il positivismo si collega a un indirizzo de-
mocratico della vita sociale, laddove essi, come cittadini, vogliono essere
dei buoni conservatori, come più tardi vorranno essere dei buoni na-
zionalisti. Tuttavia fanno anch'essi, alla cieca, del positivismo in lette-
» P. ViLLARi, La filosofia positiva € il metodo storico, in Arte, Storia e Filo-
sofia, Firenze, Sansoni, 1884; p. 443; cfr. Gu. De Ruggiero, La filosofia contempo-
ranea, Bari, Laterza, 1912, parie I, cap. I; parte II, pp. 145-50*
Giuseppe Fraccaroli 443
ratiira, ossia, come Io chiamano, del metodo critico, della « critica
storica >, della filologia
Dello stato generale della coltura letteraria italiana in pieno regime
di positivismo scrissero, or sono tredici anni, due giovani pieni d'in-
gegno, di coltura, di spirito, Giuseppe Prezzolini e Giuseppe Papini,
disegnando e colorendo un quadro mirabile in pagine, che oggi mette
conto richiamare e ripocare.*
In quelle pagine, piene di vita e di fuoco, essi descrivevano il « me-
todo » dei nuovi studii critico-letterarii in Italia. Il primo canone di code-
sto « metodo » era di cacciar dalla mente ogni passione, ogni sistema,
ogni idea che sorgesse prima dei fatti. La mente doveva essere una tabula
rasa..,: questa era la scientificità del « metodo ». Il secondo canone
consisteva nella più rigorosa divisione del lavoro: bisognava frantu-
mare tutta la storia letteraria in quadratini minuti, a seconda i tempi
e i generi, ed ogni studioso doveva attaccarsi solo a uno di codesti
quadratini : un poetucolo, un'operetta, un manoscritto inedito. Era le-
cito al massimo prendere per sé due o tre quadratini contigui. Chi
aveva del genio si slanciava a varii quadratini staccati. Ma non oltre!
Solo i grandi professori, dopo aver raccolto con l'aiuto di scolari di-
ligenti e ossequiosi gran numero di schede, facevano un lavoro di
sintesi, ossia una... monografia sur un secolo o sur un autore, che ì
più prudenti, del resto, non vedevano di buon occhio... Il terzo canone
era la ricerca óeìV inedito. V inedito era il secondo Iddio del letterato
contabile dopo la monografia. Importantissima l'esattezza formale del-
l'inedito, ossia la riproduzione secondo la vecchia grafia, ossia la ri-
duzione « a migh'or lezione », ossia la illegibilità perfetta del testo ora
pubblicato...
Le conseguenze di un tale « metodo » furono facili a constatare: la
compressione delle ^qualità passionali, che avrebbero potuto far deviare
dal lavoro metodico, l'umiliazione delle facoltà creative. Come mai lo
studente — manovale in sott'ordine, allenato per tutta la vita a mu-
rar mattoni — sarebbe stato poi capace di tentare il disegno di uri
edifizio? Infine, la distruzione organica di ogni attitudine sintetica.
Dove chi non ha mai lavorato in vista di un'idea, di un sistema «tro-
verebbe le idee, il disegno, il sistema per dominare i fatti? E i fatti
potrebbero esser adatti ad una sintesi se sono stati cavati fuori senza
alcun criterio? Cosa direste di un ingegnere che facesse tagliar pietre,
comprar mattoni e inumidir calce senza sapere cosa costruire? >
Ma chi avesse guardato bene avrebbe trovato che, insieme con la
1 Lo scritto — del 1905 — porta come tìtolo « // metodo storico *: Ftt ripubbli-
cato nel volume La Coltura italianat Finnzti Lumachi, 1906.
444 Corrado Barbagalio
sintesi, $i veniva a distruggere il valore, anzi la possibilità di qualsiasi
analisi. Un documento, un'ppera han valore e significato sqIo se si con-
siderano insieme a tutti gli altri documenti, a tutte le altre opere del
loro tempo o dei tempi passati, se si riuniscono a noi medesimi come
esseri creativi, cioè solo se vi sì porge l'addentellato di una vera è
propria sintesi... In altri termini, ogni analisi presuppone necessaria-
mente una sintesi.,. La conclusione era la seguente, e nella sostanza
ricordava troppo le parole di A. Boeckh, che sopra abbiamo riferite:
«I sostenitori del metodo storico non hanno fatto che aiutare la
barbarie burocratica, il cinesismo formale, la piccolezza e 1a vigliac-
cherìa dell'Italia... I loro libri non trattano che dell'abito e dimenticano
il corpo dei tempi. Non c'è mai uno sforzo di simpatìa, un volo di
poesia, un grido di entusiasmo e di violenza, che evochi i fantasmi
del passato. Non c'è che la pura lettera, il tempio senza il santuario,
il cibario privo dell'ostia. In tal modo hanno allevato una generazione
di copisti idioti, di contabili freddi, di professori pedanti, di istruttori
inabili, di specialisti ristretti. Hanno insegnato il disprezzo per le grandi
opere, per l'amore degli eroi, per la tentazione dell'assurdo, per il
gusto dello straordinario... Svelare le favole, meccanicizzare il genio
ridurre le creazioni individuali a compilazioni ingegnose di opere delU
folla , solennizzare come conquista ogni riduzione della divinità umane
alla macchina, tale è stata la loro opera. Cioè, per noi, uno dei mag
glori ingombri che l'uomo abbia potuto incontrare nel suo cammino
per farsi eguale a Dio».
Il neo-filologtsmo negli studii classici.
Tale il quadro generale — efficacissimo. Ma, per renderlo completo,
per adattarlo al nostro speciale soggetto, occorre tracciarvi alcune altre
linee particolari, che i due giovani autori non vi descrissero, e, così
completato, metterlo a fianco dell'altro quadro, che di sé stessa dette
al mondo l'Italia studiosa delle letterature classichei innanzi il fatale
decennio 1870-80.
La vecchia Italia aveva amato i poeti, ì prosatori antichi, li avea
studiati, li avea tenuti compagni delle sue gioie o dei suoi dolori; li
avea considerati parte della sua anima, e quella vita avea giudicata
come un antecedente, come un elemento necessario della sua storia
presente. Così i nostri letterati dal secolo XV al secolo XIX aveano
letto per disteso tutti i nostri grandi classici, li aveano appresi a me-
moria, ne esponevano le dottrine, ne parafrasavano le sentenze, ne
traducevano largamente i versi e la prosa. E, allorché essi passavano
dalla pura contenipiazione artistica alla ricerca erudita, si gettavano
Giuseppe Fraccaroli 445
con ansia dì febbre in quel mondo disparso, ch'era- un po' anche il
loro; vi frugavano dentro con passione; ne esumavano in copia le
ruine, e qgnì frammento del passato — gli scritti, le medaglie, le statue^
le pietre preziose — era per essi come il segno di una vita, era trat-
tato come cosa viva; e per essi i palazzi, i circhi, i templi, i monu-
menti funerarii rivivevano per narrare la grandezza passata, per esserne
di nuovo testimoni ^parlanti e palpitanti. Tali furono i nostri classicisti,
ì nostri grandi eruditi, per ben quattro secoli della nostra istoria mo-
derna.
Per certo, quel modo di amare e di lavorare portava seco qualche
inconveniente'. L'amore per la forma di quelle letterature avea portato
la manìa di rifare l'antico, ossia di trasfondere il nuovo, tutto il nuovo,
immancabilmente, in forme antiche. La fretta di percorrere e divorare
il materiale erudito provocava talora scoperte o resultanze fallaci. Tut-
tavia, attraverso gli errori e gli eccessi, la fiamma pura del classicismo
ardeva e ispirava l'arte, la letteratura, la vita stessa.
Ma, dopo il 1870, avvenne il contrario. Sull'esempio e dietro l'an-
dazzo di quella specifica forma del nuovo filologismo tedesco, con
cui essi, ultimi arrivati entrarono in contatto; abbarbagliati dal fascino
della nuova vittoriosa e grande Germania, i nostri studiosi principia-
rono a considerare l'antichità, quella letteratura, quella poesia, non più
per la vita che rappresentavano, per la loro arte, per il loro spiritò,
ma per le occasioni di dissertare, ch'esse potevano offrire. Per l' innanzi,
si era studiata la metrica di Plauto o di Orazio perché si era amata
quella poesia; ora si lesse Plauto ed Orazio perchè le esigenze di una
tesi dottorale imponevano m\ excursus sulla metrica dell'uno e dell'al-
tro. E Plauto ed Orazioj come Omero e Virgilio, non furono conside-
rati nel complesso e nella vita del loro tempo, nella bellezza defl'arte
loro, ma, staccati da tutto^ciò. Vennero esaminati alla nuda e fredda
tavola anatomica, perchè di qualche loro particolare si avesse à scri-
vere, anzi, propriamente, a dissertare e a discutere. Così l'arte, la poesia,
la vita, l'uomo, la storia non furono che pretesti, e quello che in tutti
i casi andò perduto fu la grande anima, la vita intima del soggetto
trattato.
Di questa critica potrebbe ripetersi a meraviglia quello stesso che
era stato osservato intorno all'arte di padre Bresciani. Pel Bresciani
l'uomo era un pretesto per descrivere delle scene, e ogni scena, un
pretesto per descrivere i suoi particolari:
« Pio IX si affaccia al balcone della reggia di Portici perchè l'autore
ci possa descrivere le bellezze del golfo di Napoli. Pio IX fa una ca-
valcata alla Basilica Lateranense perchè il Bresciani ci possa far vedere
la squadra dei dragoni a cavallo, i trombetti degli Svizzeri^ i camerieri
44^ Corrado Barbagallo
d'onore, i camerieri ecclesiastici », ecc. ecc. « E i dragoni ci stanno per
farci vedere il berrettone e i guanti e gli stivali; e ci stanno i came-
rieri perchè vedessimo le belle guarnacchette e le falde e i calzoni e
i calzarini; e ci stanno i camerieri ecclesiastici per la loro cappa magna,
i cappuccioni e ì cavalli di rosso fiammante... Che bella carrozza! Che
bei cavalli! Che belle vesti! Oh, i bei guanti! Oh, le belle gualdrappe!...
Così grida la stupida plebe, quando passano processioni o mascherate,
con un'ammirazione uguale per il cavallo e per il cavaliere. E se Bar-
tolo si piglia il caffè, egli è perchè l'autore ci mostri in che guisa^s'ha
da fare il caffè,;. L'Uomo vi sta per il suo cavallo, l'attore per le scene,
Bartolo per il suo caffè... Il cervello del Bresciani, nel libro, ci sta
perchè egli abbia un pretesto di descrivere il berretto... ».*
Analogamente, nella nuova scienza filologica, la poesia ci stette
per il suo^contenuto; questo, per i suoi particolari; i particolari, per
il codice che li descriveva; il codice, per le sue varianti; le varianti
per gli amanuensi ; gli amanuensi, per le congetture, e la « plebe »
filologica s'avvezzò a trovar tutto ugualmente bello, ugualmente inte-
ressante....
Nacquero così le dissertazioni critiche, che andarono man mano,
sempre più; invadendo le riviste filologiche e gli studi italiani di filologia
classica: le ricerche, poniamo, su le fonti della Fedra di Seneca o delle
Epistole di Eliano ; le esumazioni degli scolii ad Aftonio o degli Aria-
leda Planudea alle Metamorfosi di Ovidio ; gli studii su Ànite da Tegea
e su Difilo comico nelle imitazioni latine... Prima l'amore della bellezza,
la passione dell'antichità aveva certe volte invischiato gli uomini nelle
pieghe della vesta dell'una» o dell'altra; Ora il pseudoamore di una
pseudoscenza li tratteneva presso i frammenti, rotti e ischeletriti, del
contenuto, che di quelle forme si era cinto, o, peggio ancora, sulle
imbastiture delle vesti medesime...
Le conseguenze di cotale situazione di spirito, la meno adatta a
veramente conoscere, furono infinite e impressionanti. Oltre alle spi^
golature critiche e alle dissertazioni (preferibili quelle scritte iti lingue
esotiche), sostituite alle letture larghe dei classici ; oltre allo studio delle
minute Realien, preferito al quadro della vita o all'arte degli antichi,
si inaugurò un atteggiamento costante di inchiesta sospettosa verso
il mondo, che man mano allo studioso si rivelava, e si dette mano a
una nuova furia di razionalismo distruggitore. No, per certo. Omero
non poteva avere scritto i suoi poemi, perchè un'analisi attenta e
minuta poteva scoprirvi molte discrepanze, molte stonature interne.
No, Pindaro non doveva essere gustato, leggendo i suoi versi, scor-
1 F. De Sahctis, Sa^^* criiiei^ Napoli, Morano, 1874, pp. 131-132.
Giuseppe Fraccaroli 447
rendo rapidamente sulle parti convenzionali e indugiando là dóve it
cuore e la fantasia del poeta avevano palpitato, là dove il cuore e la
fantasia del lettore erano tratti a commoversi. Bisognava prima di
tu^o trovar la chiave di ciascun suo epinicio ; la chiave dei tipi dei suoi
versi; la cronologìa delle sue odi, la risoluzione degli enigmi oscuri di
ciascuna. Un grandissimo critico dall'anima di poeta aveva scritto : < Se
la mia voce avesse qualche peso sulla nuova generazione, io direi : La-
sciate queste dispute agli oziosi da convento o da caffè, e voi, gittate
via i commenti ed avvezzatevi a leggere gli autori tra voi e loro sola-
mente. Ciò che non capite non vale la pena che sia capito : quello solo è
bello che è chiaro. Sopratutto, se volete gustar Dante, fatti i debiti stadii
di lettere e di storia, leggetelo senza commenti, senz'altra compagnia
che di lui solo, e non vi caglia d'altri sensi che del letterale. State alle
vostre impressioni, e sopra tutto alle prime, che sono le migliori. Più
tardi ve le spiegherete, educherete il vostro gusto; ma importa che
nei primi passi non vi sia guasta la via da giudizi preconcetti e da
metodi artificiali... ».^
Ma quel critico non doveva conoscere il modo in cui importa
conoscere ; egli per certo restava assai lungi dalle ragioni positive della
critica e della scienza. Al corretto filologo occorreva procedere altri-
menti. Di Saffo l'importante era la cronaca, non la poesia; per la
« scienza», i Persiani di Timoteo erano più interessanti di quelli di
Eschilo, anche se il contrario apparisse agli amanti degli « sdilinqui-
menti pseudoartistici » e delle « formule vuote e inconcludenti >. Que-
sto, perchè, per la « scienza », ciò che più importa non è il noto e il
grande, ma il piccolo e l'ignoto. Il quale piccolo e ignoto richiedereb-
bero studii « profondissimi », che dovrebbero assorbire tutto l'intelletto
e tutta la vita di un uomo. Chi è che vuol essere poeta e critico a un
tempo? Chi filosofo e letterato ? Chi osa studiare insieme V Iliade e il
Kalevala? VOdissea e Milton? Eschilo e Shakespeare? Chi legge in
una volta sola Saffo e Swiburne o Shelley? Omero, Eschilo, Ibico
rappresentano somme enormi di problemi, di cui ciascuno importa
lustri di studii e di ricerche... Come furono leggeri i nostri padri ! Come
poco conobbero il jnodo in cui bisogna studiare, essi che ci dettarono
storie letterarie e civili, greche, romane, ecc. ecc.! Ogni storia è una
somma di milioni di analisi, e ogni analisi secondaria, una somma di
milioni di analisi primarie. Anzi, una storia letteraria è una ipotesi, una
verità tendenziale...; ma la storia di una letteratura non si può né scrivere,
né insegnare. Forse essa non è mai esistita, e quelle che per tali si
gabellano non sono che romanzi... Avete voi pianto dinnanzi a un fra-
i F. De Sancvis, Nuovi saggi critici, Napoli, Morano (30^ ed.), 191<), p. 3.
448 Corrado BarbazaUo
mento di Saffo? Vi siete sentito pungere di commozione dinanzi al
colloquio di Ettore e di Andromaca? Avete provato come una alluci-
nazione dinanzi a uno squarcio di Pindaro? La lettura di una orazione
di Pericle o di un dialogo di Platone vi ha suscitato nell'animo la
volontà di disegnare quel mondo in un grande quadro, in un grande,
poniamo, dramma o romanzo storico, in un nuovo dialogo platonico?
Se così è, voi dovete stare in guardia contro voi stesso: tutto ciò non
è che « dilettantismo pericoloso », niente altro che « vaporosità pseudo-
estetiche », niente altro che « travestimenti », « compilazioni », « contraf-
fazioni »; niente altro che «melensaggini d? accogliere col riso e col
disprezzo». Una sola cosa v'ha di serio nella scienza dell'antichità:
la «manipolazione e il maneggio dei testi classici», la « critica meto-
dica della tradizione verbale e delle fonti storico-letterarie»! E chi fa
cosa diversa non compone che « vani tessuti di parole e formule vuote
e inconcludenti ȓ
La battaglia contro il filologismo.
In questo basso mondo, gretto e materialistico, s'avvide, dopo il
pnmo stordimento, di essere piombato il Fraccaroli, egli che gli studii
legali aveva abbandonati, solo nella speranza (o nella illusione?) di
poter cosi vivere «la vita della intelligenza e l'idealità del pensiero ».*
E, appena egli ebbe preso consapevolezza della cosa, non esitò. Dopo
il 1903, la sua battaglia contro il filologismo è cotidiana, incoercibile,
tanto più che egli vede nel nuovo meccanismo uno specifico di cor-
ruzione di quegli studii classici, che tanto aveva amati, un meccanismo
di distruzione di quella scuola classica, che per lui rappresentava il
mezzo più alto e più nobile per formare degli Italiani. Da allora la
sua battaglia è costante, in opuscoli, articoli di giornali e di riviste,
introduzioni critiche, colloqui privati. Il filologismo: ecco il nemico!
Ed egli lo combatte ovunque si accampi e ovunque si nasconda, da
qualunque riparo, insidiosamente o apertamente, minacci.
Fu questa una polemica che non si può rifare nei suoi partico-
lari, ma solo richiamare e accennare nelle tendenze e nelle sue grandi
linee. Negli ultimi scritti del Fraccaroli, la lotta contro il filologismo
si è ingranata in una concezione filosofica superiore, si è slargata in
una idea più vasta. U filologismo è una delle svariate manifestazioni
di quelle tendenze utilitarie e razionalistiche, che da tempo, e ancor
oggi, imperversano nella educazione moderna. 11 filologismo non è che
dell'utilitarismo scientifico, e, come tutte le altre manifestazioni con-
' G. Fraccaroli, E. Ferrai (in Riv di filoL classica, 1897, p. 637).
Giuseppe Fraccaroli 449
generi, porta seco la decadenza e la corruzione dei popoli. Questo il
nuovo concetto o, meglio, il nuovo sviluppo di antichi concetti, che
dal suo antifilologìsmo il Fraccaroli ritrae nel suo ultimo volume su
V educazione nazionale»
L'osservazione e la connessione sono vere, rispondono a una
realtà e ad un pericolo. Ecco la ragione somma, per cui ciò che del
Fraccaroli, nella grande massa degli studiosi e delle persone colte, ha
avuto presa più salda, è stata appunto questa sua campagna. Non si
è trattato, come taluno insinua, di compiacenza per un indirizzo che
inviterebbe al dolce far niente ; si trattò invece di un grande colpo
d'ala, che di un subito mostrò in che modo gli spiriti e le menti si
possano elevare; che gli uni e le altre trasportò ad altezze da gran
tempo non sperimentate, e donde era facile scorgere e misurare la
bassura in cui si era respirato.
Per questa sua speciale operosità, espressa nei libri, divulgata in
articoli, popolarizzata con ogni mezzo, il Fraccaroli ha segnato vera-
mente un'orma incancellabile nella nostra vita intellettuale contempo-
ranea. Il solco, che altri tracciava nel campo delle discipline filosofiche e
degli studii di letteratura italiana; il rinnovamento che con assai minore
fortuna altri iniziava nella storiografia, egli lo tentò, e in parte felice-
mente compiè, sul campo degli studii delle letterature classiche. Perciò
l'uomo, che ci è stato strappato da un destino crudele, lascia disce-
poli che egli stesso avea ignorati, che nacquero dal suo spirito, che
sono sparsi in tutte le contrade del nostro paese, che lo onorarono, pur
non aspirando a servirsi di lui per fini interessati. Perchè egli non fu
solo un dotto, un letterato, perchè non fu un mestierante, ma un crea-
tore, un uomo, uno spirito vive dalla fiamma perenne.
Corrado Barbaoallo.
19 ^ MMva Rivista Sivriem.
UN LE PLAY ATENIESE
DEL IV SECOLO a. C.
d Lr^'ECONOMIA POLITICA» DI SENOFOHTB
{Continuazione: Cfr. A. I, fase. II).
Dello studio che segue, la Nuova Rivista SprìcsL pubblicò la prima
parte nel fascicolo W delVanno 1° {pp. 271-293, aprile-giugno 1917). Più
tardi l'improvvisa morte de II' A, e lo stato in cui egli mi lasciò il mano-
scritto, chCf ancora non completamente elaborato ^ volle affidare alla mia
insufficiente cura, impedirono la rapida prosecuzione del suo mirabile
saggio. Con questo fascicolo e con il successivo si continuerà e completerà
la pubblicazione della seconda e poi della terza ed ultima parte. Poiché^
specie a proposito di quest'ultima, io ho dovuto^ pur troppo, qua e là,
rielaborare il testo originale, chiedo scusa al lettore di tutte le deficienze,
ch'egli vorrà imputare a me, ed a me solo.
Per comodità dei nostri lettori riassumo qui brevemente i concetti
fondamentali della prima parte, veramente magistrale, di questo saggio. Se
ciò non basterà, ove un certo numero di nostri amici lo domandino, la
ripubblicheremo integralmente. Forse (mi permetto credere) non sarà inu-
tile a una migliore intelligenza della trattazione, che si dia uno sguardo
a un mio studio sulle idee economico-sociali del Platon, pubblicato in
Nuova Rivista Storica anno 1°, fascicolo IV" (1917), Ed ecco senz'altro
il riassunto,
L'A., dopo avere illustrato l'antitesi morale tra la vecchia Grecia,
la Grecia di Esiodo e di Erodoto, e la nuova Grecia dei secoli V-IV
a, C, nella quale all'antica reverenza degli Dei e ad un complesso di
norme incrollabili, direttrici della umana condotta, è seguito un profondo
scetticismo, morale e politico, uno spirito di analisi filosofica e di cupidigia
econòmica, che tende a sostituire dovunque, alle idealità della concezione
Un Le. Play ateniese del IV secolo a. C. 451
morale^ i calcoli dell* interesse individuale, mostra come contro questo
scetticismo si sia avuta una duplice reazione : una nel campo morale-filo-
sofico, impersonata da Aristofane, Socrate, Platone; ma, nel campo eco-
nomico, impersonata da Senofonte. Lo 'sviluppo economico . nella Grecia,
nel secolo IV era già assai progredito. Non si trattava più di economia
chiusa, ossia organizzata in vista della produzione e deW acquisto dei
soli beni realij che occorrono ai bisogni immediati dell'individuo, ma
di economia capitalistica^ tendente come tale anche alla produzione del
superfluo, che si scambia con del danaro, allo scopo appunto di pro-
curarsi del danaro, con cui è possibile acquistare ogni cosa, « In che
« modo », si chiedeva, concludendo il Platon, « deve comportarsi /'homo
« oeconomicus, che, insieme con Id nascente economia capitalistica ab-
« biamo visto spuntare in questa società, in questo preciso momento della
« evoluzione economica ? È quello che ci dirà Senofonte » (C. B.).
Vii. — Natura deir unità economica primitiva:
il patrimonio antico.
U lettore ha già certamente inteso che il punto di partenza del-
l'economia di Senofonte è la casa — l'olxia — il gruppo primitivo
della stretta parentela con tutto l'insieme dei servitori, dei clienti, degli
schiavi, dei beni. Il gruppo non è un mito, una ipotesi gratuita ; sem-
bra proprio che si trovi nella realtà, alle origini della società greca,
bastante a se medesimo, sotto il comando e la direzione del capo-fa-
miglia. Le scienze, le arti tecniche e i vari rami della economia natu-
rale, che Aristotele enumera nel capitolo 4, §§ 1-2 del libro I. della sua
Politica (ippologia; allevamento delle specie bovine, ovine, porcine;
scienza delle piantagioni, agricoltura, allevamento dei volatili), mercè
le quali l'uomo si mette in possesso delle cose, che sono necessarie
al soddisfacimento dei suoi bisogni primordiali, gli servono a costi-
tuire la sua Casa: l'olxka. Sono altrettanti mezzi subordinati a questo
fine, e il compito dell'economo, che è il capo-famiglia, consisterà nel
conservare, nel mantenere questa unità economica della casa, dell'olxoq,
per mezzo della crematistica naturale, con le differenti parti, che la
compongono. *
L'oixia è un insieme di pèrsone, di bestie, di cose, alla cui ammi-
nistrazione presiede il proprietario o l'economo e che tende a bastare
a se stessa, poiché tutti gli esseri animati, che compongono il gruppo/
mangiano, vivono insieme e risolvono tutti insieme il problema di
assicurarsi il pane quotidiano.^ « L'acquisto, essendo una parte della
i Aristot., Polii,, 1, 1, 6; cfr. anche 1, 2, 1.
452 Georges Platon
loxi'a, Tarte di acquistare è una parte della economia. Senza le cose
necessarie, non è possibile vivere, ossia viver bene L'oggetto del-
l'acquisto (il xtrma) è un mezzo per vivere, un utensile, uno strumento
dell'acquisto; v.xr\aic, è l'insieme di questi mezzi. Lo schiavo è uno
strumento vìvente, e ogni servitore, uno strumento innanzi gli altri
strumenti ».* Ne segue che l'olxia è Un tutto formato di parti diverse,
subordinate le une alle altre, riunite e fuse in unità perchè esse ser-
vono alla realizzazione di un solo e medesimo scopo, sotto la guida
di uno stesso capo. L'olxia è, come diremmo oggi, un organismo,
un essere vivente. A questo titolo essa è una unità sociale, la cui
nozione ripugna a qualsiasi Idea di divisione, di dissoluzione, di fran-
tumazione, di cessazione nel tempo. Se si vuole, con dei testi positivi
e di natura giuridica, farsene una idea esatta, occorre rievocare dal
diritto romano l'idea ^hereditas iacens: quel complesso di beni, la
cui unità persiste prinla e dopo la morte di colui, che ne ha avuto
temporaneamente Tamministrazione.'^
L'olxia, dunque, nel sUo significato economico, non ha niente di
comune con rolxia, nel significato di abitazione propriamente detta.^
Tutto ciò che si possiede al di fuori della abitazione, sia lontano, sia
fuori della città abitata dal capo-famiglia, ih altra città, fa parte dell' olxo?.
Ciò che forma l' unità dell'olxo? non è la coesione territoriale, il collo-
camento nella stessa località degli elementi, che la costituiscono, ma è
il legame di diritto, che pone tutte queste cose alla dipendenza di uno
stesso capo; è il fatto ch'essi sono l'oggetto dì uno stesso diritto di
possesso, da parte di uno stesso individuo. L*olxo?, insomma, è il gruppo
di persone e di beni, laxui stretta coesione permette di risolvere il
difficile problema di sovvenire ai bisogni della vita, ossìa, come dice
Aristotele, aria comunità naturale ver la vita di ogni ^iorno.^
Vili. — Il patrimonio nelle età primitive.
Non è da meravigliare se, oltre la consistenza naturale che il
gruppo deriva per tal guisa dalla natura della sua primitiva destina-
zione, la legge abbia fatto di tutto, sia in Grecia come a Roma, per
confermare e fortificare con ogni mezzo questa indivisibilità, di cui
noi abbiamo visto tanti segni.
1 Aristot., Pqlit. 1, 2, 3-4.
* Si potrà consultare su questo punto con profitto Dig, L 208, L, 16; /. 13S
(180), ibid. ; /. 27 (28) Dig, X, 2,
s Xenoph., Oechom,, I, 5.
4 Polita 1, 1. «.
Un Le Play ateniese del IV secolo a. C. 483
In origine, a Sparta, non era permesso di vendere, né nel sUo in-
sieme, né ad appezzamenti separati, il lotto di terra, che era stato asse-
gnato a ciascuno sin dal tempo della conquista dorica/ E Aristotele
cita disposizioni analoghe di antiche leggi, a Corinto, presso i Locresi
e, in genere, un pò* da per tutto.-
Per le stesse ragioni, in Grecia, nelle epoche più remote, gli sto-
rici del diritto ci dicono che il potere di testare del capo-famiglia è
strettamente limitato, e che, per il testatore, si tratta meno di disporre
dei beni che di trovare, nella persona dell'erede, un amministratore,
che gli succeda.
Ma quello che sovra tutto c'interessa, nei riguardi del nostro spe-
ciale soggetto, è che dal momento in cui l'economìa monetaria è
successa all'economia naturale, il gruppo di beni, che già, anche senza
di questo, sarebbe, entro certi limiti, stato suscettibile di accrescimento
e di diminuzione, venendo ora a comprendere una riserva di danaro,
diventa assai maggiormente suscettibile di quest'aumento e di que-
sta diminuzione. Ecco dunque due resultati, a cui noi siamo perve-
nuti: in primo che roì;a'a, il gruppo di beni, che fanno da sostegno
al gruppo di persone riunite sotto la guida del capo-famiglia, è il
quadro naturale entro cui si esercita l'attività di quest'ultimo; in. se-
condo, che questo gruppo di beni, benché per natura sua quasi indivi-
sibile, non si presenta più come un nucleo chiuso ed immobile, ma
come un tutto, che in uno dei suoi elementi, specie il denaro, é suscet-
tibile di accrescimento e diminuzione. Questo nucleo può crescere o
diminuire, secondo le qualità proprie o la incapacità di colui che è alla
sua testa — il capo-famiglia — e che é essenzialmente l'amministratore.
Per essere completi, Occorrerebbe aggiungere un terzo punto: benché
suscettibile di accrescimento o di diminuzione, il gruppo, teoricamente,
deve essere concepito come un organo, se così può dirsi, essenzialmente
conservatore, la cui legge é di non mutare troppo bruscamente, ma,
dovendo soddisfare a bisogni definiti e generalmente stabili, di restare
quasi identico per conservar sempre lo stesso potere efficace. Insomma,
il patrimonio é un mezzo, il mezzo di provvedere alla sussistenza del
gruppo familiare, e il denaro, col suo potere perturbatore, ha un bel
fare irruzione nella- sua sfera: quello non perderà mai il suo scopo
originario di essere un mezzo, e non già un fine.
Che l'idea che noi ci facciamo di tutto questo non sia un sem-
plice schema e una costruzione arbitraria del nostro spirito, ma che
essa risponde alla concezione di Senofonte e alla realtà economica del
1 Plut., Inst. lae., 22.
% PoUL, 2. 3. 7; 2, 4, 4 j 6, 2 5
454 Georges Platon
SUO tempo ce Io dice Senofonte stesso nelle pagine di^Oeconomicus
e dei Memorabili, ch'egli consacrò all'analisi delle idee di valor di
usò e di valore di scambio, le quali toccano il fondo stesso dell'eco-
homia dell'epoca.
iX. — L'identità di bellezza, bontà, utilità.
La grande antìtesi, chfe porta in se stessa l'opposizione di economia
naturale e di economia monetaria, sembra riassunta perfettamente
nella legge 49 D. L. 16 di Ulpiano,'che definisce da una parte i beni,
bona quae beantf quae beatos faciunt homines, qaae prosànt, e fa figurare
al tempo stesso tra questi beni i diritti di superficie, le azioni, le peti-
zioni, le rivendicazioni d'immobili, il denaro prestato, ogni sorta di
cose, che non possoilo servire direttamente alla soddisfazione dei biso-
gni dell'individuo. Tutti questi beni sono tali, perchè suscettibili di
essere convertiti in danaro, perchè possono scambiarsi con del danaro.
Questa antitesi- è nota benissimo a Senofonte, e noi vedremo a
momenti come, pur facendo alla seconda categoria di beni il loro
posto legittimo, è alla prima che egli accorda la preferenza, come ben
doveva aspettarsi. La cosa, il xtrina (per designarlo si trovano adope-
rati anche gli altri due termini di xtfjm^ e di xQTÌM«Ta)» "on è per
Senofonte-Socrate un bene se non in quanto esso è utile, in quanto
contiene qualche cosa di buono (n ayaeóv) per l'individuo che lo pos-
siede. Si sopprima nelle cose questo elemento della bontà, della utilità
per il possessore, e svanirà presto in esse la qualità di bene} E si
vede che per utilità occorre qui intendere 1' utiHtà nel significato piti
stretto della parola, l'utilità concepita dal punto di vista dell'individuo
isolato e del momento: l'utilità che dipende, non solo dalla natura
dell'oggetto, ma dalla esistenza, nella persona del possessore, delle atti-
tudini che occorrono per servirsi efficacemente dell'oggetto. Un cavallo
vigoroso, che sbalza di sella il suo signore, non è un bene per costui
(oux àvaDòv). Il cavallo ritorna un bene, quando è passato nelle mani
di qualcuno più capace di montarlo. La cosa non può aver valore che
per un'individuo determinato, considerato in se stesso, allo stato iso-
lato. Ecco il vero bene, che riposa tutto intero sul valor d'uso.
In un dialogo interessantissimo, contenuto nel cap. 8*^ del lib. Ili
dei Memorabili, tra Socrate e Aristippo di Cirene sul bene^ sul bello j
Senofonte sostiene la stessa tesi. Aristippo, come è noto, è il fondatore
della scuola cirenàica, il psicologo e moralista sensualista, che non vuol
1 Xenopr., Oecan.p 1, 9.
Un Le Play aUniest del IV secolo a. C. 455
riconoscere nulla all' infuori della sensazione del momento — piacere o
dolore —, quasi compiacendosi di sopprimere nella vita umana ogni
eleiuento di stabilità. Egli vuol far prevalere contro Socrate il suo
principio di universale relatività e di nichilismo generale/
Senofonte osserva ~ come, contrariamente alle sue abitudini, Socrate
abbia posto^ in questa discussione, tutto il suo sforzo e tutta la sua
abilità di elegante schermitore, che d'ordinario si contentava di parare
negligentemente i colpi. A meglio difendersi, egli sembra entrare ne!
gioco stesso del suo avversario, e fargli le concessioni più gravi per
tenersi sul terreno delle realtà e finirla con le discussioni metafisiche,
le quali non fanno procedere d'un passo le soluzioni dei problema.
Non vi sono, dice Socrate, beni generali, ma beni particolari, beni di
questa o di quell'altra natura. Uno stesso oggetto può essere buono
per una certa cosa, cattivo per tutte le altre. Ciò che sazia la fame
può aggravare la febbre.
Lo stesso accade del bello. Una cosa, bella in un certo caso, può
non essere bella in un altro.^ L*uomo bello, di bella forma,^quando si
tratta di correre, può non esserlo più quando si tratta di lottare. U
bel corridore può dunque non somigliare al bel lottatore. Per Socrate,
il bene e il bello non si distinguono: tutte le cose sono nello stesso
tempo, belle e buone in relazione a uno stésso oggetto.
La virtù, per esempio, non è bella in rapporto a una certa cosa
e buona in rapporto a un*altra. Gli uomini sono reputati al tempo
stesso belli e buoni (xaXol xdYaeol) nello stesso modo e in rapporto
alle medesime cose. Per la stessa ragione si dice degli uomini che i
loro corpi sono al tempo stesso belli e buoni. Per la stessa ragione,
e negli stessi rapporti, come si dice del corpo, si dice di tutte le altre
cose che sono a disposizione degli uomini, ch'esse sono belle e buone
(xd^à te xdYaOà vo^it^etai). Esse sono belle e buone nei rapporti di tutte
le cose per cui sono iitili.^l tre concetti di bene, di bello e di utile
sono fra loro connessi, se non identici; o, piuttosto, i due primi non
sono che aspetti, appena diversi tra loro, dell'/fifea di utilità, di atti-
tudine, di rapporto di mezzo a fine.
C'è bontà e bellezza dove c'è utilità: e dove c'è utilità, vale à dire
rapporto di mezzo a fine, c'è valor d*uso. Noi ritroviamo lo stesso ra-
gionamento nel cap. 6 del libro IV (8-9) : « Il bene non è diverso dal-
l'utile. Una cosa utile è un bene per colui al quale essa è utile ». E,
1 DiOGEN. Laert., 2, 87 ; 88 ; 91 ; Cicer., Acad. pr,^ 24, 76.
« Memor., 3, 8, 1
3 Mem., 3, 3, 4.
* Mem., 3, 8, 5 ; 6. •
45^ Georges Platon
quanto al bello, « ogni oggetto è dunque bello solamente per Tuso al
quale deve servire »; « una cosa utile è bella per colui al quale essa è
utile ». È danque un rapporto costante di utilità ciò che forma la bontà
e la bellezza della cosa, un rapporto di mezzo a fine,
Aristippo sembra vicinissimo a trionfare. Ma in un altro discorso
con lo stesso Eutidemo, che era già intervenuto nel cap. 2 del libro IV,
Socrate avanza improvvisamente il concetto che vi sono dei fini supe-
riori a degli altri: la libertà, la libertà politica, interiore ed esteriore,
è per esempio un bene di ordine elevatissimo.* Ciò che gli uomini
chiamano la virtù o le virtti -— la temperanza (èYXQaTEia), la prudenza
(ootpia), la saggezza (cwoqpQoauvT]) — non sono tali, e non hanno valore
per Tuomo, che quali mezzi necessari a raggiungere questo bene su-
periore.^ I' beni superiori sono i piaceri più lontani dai piaceri, imme-
diati e più vicini, dei sensi. < Sono il piacere di amministrare il meglio
possibile il proprio còrpo e la propria casa, in modo da essere della
maggiore utilità ai propri amici, alla propria città, in modo da trion-
fare dei propri nemici, da realizzare le utilità e i piaceri superiori
((bcpeUiat y.al f|8ovai \iz^iox^\)? La condizione capitale all'uopo è Tindi-
pendenza più completa dai vizi, per cui si realizza lo stato di libertà
e la pratica delle virtù. E tutto ciò — fini e mezzi — è la manifesta-
zione di quello che è propriamente la natura umana. Realizzare queste
utilità superiori, gustare questi piaceri, remotissimi dai sensi, e perciò
i più completi e più profondi, è l'oggetto proprio deWuomo.
Colui il quale cerca soltanto di raggiungere, qualunque esso sia,
il piacere che Io seduce maggiormente, non si distingue dalla bestia
senza ragione. « Con una specie di dialettica, ch'è insieme ragione e
parola, l'uomo saggio e temperante stabilisce una distinzione e una
gerarchia fra i diversi ordini di realtà, sceglie il bene, e fugge il male ».'*
« Gli è in tal modo, prosegue Socrate, che gli uomini diventano buo-
nissimi e felicissimi, e la loro dialettica è potentissima. La parola dia-
lettica — aggiunge — viene dal fatto che parecchie persone, riunite
per discutere e deliberare insieme, distribuiscono in differenti classi e
generi le differenti specie di realtà. « Bisogna, dunque, prepararsi il
meglio possibile a questo compito, occuparsene più che si può, giac-
ché è per questa via che gli uomini divengono ottimi, degnissimi di
comandare, e raggiungono la maggiore saviezza j».*^
» Mem., 4, 5, 2.
« ìbid., § 3-4.
» Ibid.i § 10. La traduzione di Senofonte, che noi di regola seguiamo, è quella
^i E. Talbot (Paris, Hachette, 1873, 2 voli.).
4 Ibid., § 11.
8 tbid., § 12.
Un Le Play ateniese del IV secolo a. C. 457
In tal modo si afferma fino in fondo l'identità dei tre concetti,
il hello, il buono, Vutile, la quale conclude in quest'altra identità, che ih
fondo è la stessa: della bontàj della felicità, della sapienza. È la stessa
cosa per gli uomini divenire dialettici, cioè cogliere il vero rapporto
delle cose, i rapporti naturali di mezzi a fini, la loro gerarchia e la
loro classificazione naturale, che divenir buoni e, divenendo buoni,
diventare liberi e felici.
A questo punto, Aristippo non trova piti il suo conto. Il suo sen-
sualismo e il suo nichilismo sono superati ; tutta la vita morale ed eco-
nomica sono ristabilite su delle solide basi.
X. — Economia e morale.
È infatti l'apparizione di questa nozione di fine superiore, che dà
all'economia politica di Senofonte-Socrate il suo carattere definitivo
e determina il valor proprio e rispettivo di queste due nozioni di valor
d'uso e di valore di scambio.
Il valor d'uso esiste dacché esiste l'individuo. Ma la dialettica ha
ben presto restituito l'individuo alla specie, ha collocato la vita indi-
viduale nella vita collettiva, e, in conseguenza, posto l'utilità del
gruppo al di sopra dell'utilità individuale. Dacché la moneta ha fatto
la sua apparizione — la moneta, comune misura delle cose, mezzo in-
dispensabile per Io sviluppo dello scambio tra gli uomini — non si
saprebbe più contestarle la qualità di rappresentare un fine, una uti-
lità superiore. Si vede nello stesso tempo apparire nei medesimi oggetti,
accanto al loro valor naturale, accanto al loro valor d'uso, la nozione
del loro valore sociale, del loro valore di scambio, che s'esprime nella
quantità corrispondente di moneta.
Il denaro, la moneta che rappresenta il valore di scambio delle
cose (xQ^'ifiata), ha il suo compito necessario nella società, e deve figu-
rare, a titolo legittimo, tra i beni economici. Bisogna attribuirgli, fino
a un certo segno, i caratteri di una cosa che ha una sua vita propria^
Ma, quale realtà sociale, bisogna davvero considerarla cortie una forza
d'ordine assolutamente nuova, che non abbia più nulla di comune
con le utilità naturali e con la nozione di valor d*uso, e, di conse-
guenza, non abbia punto a subire il controllo, cui sono sottoposte
queste ultime?
La dialettica socratica non saprebbe ammettere questa opinione.
Ci sono i beni naturali, e c'è il denaro.* Ma queste due categorie di
» Oeeom, 1, 12.
458 Georges Platon
beni sono egualmente subordinate ai concetti di bene morale, di uti-
lità morale, su cui riposa tutta la dottrina sociale di Senofonte. Le
qualità del corpo — la forza, la sanità —, i beni della natura — la terra,
che produce il grano, gli animali domestici — non sono veri beni se non
in quanto servono all'uomo a raggiungere dei fini superiori.^ Lo stesso
è a dire del denaro. « Neanche il denaro è un valore (xo^ina), se gli
uomini non se ne sanno servire». « Se qualcuno impiega il suo denaro
all'acquisto di un'amante, che rovina la sua salute, la sua anima, la sua
casa, non si potrà dire che il denaro gli sia utile, ch'essp sia per
lui un bene (xQfjfia) ». « Se dunque non ci se ne sa servire, che il de-
naro sia gittato ben lontano come cosa che non è affatto un valore ! »*
Ecco il concetto più elevato, a cui Socrate arriva; ecco in qual modo
sì pone per lui il problema dell'attività economica, in qual senso ed
entro quali confini deve svolgersi l'attività del buon economo !
XI. — L'amministrazione del patrimonio antico è innanzi
tutto agricoltura: elogio di quest'arte.
Secondo il pensiero di Socrate-Senofonte, l'amministrazione della
casa non può considerarsi come un'impresa industriale e commer-
ciale, la quale non abbia altro scopo che l'accumulazione dei danaro.
Il danaro ha «il suo posto e il suo compito legittimo; può, anzi, deve
servire di strumento, di mezzo d'acquisto. « Che pensare, fa dire a un
certo punto Senofonte a Critobulo, uno degli interlocutori dell'O^c^-
nornicuSy quando vediamo delle persone che potrebbero col loro talento
e con le loro risorse (d(poQjial) ingrandire la loro ca^sa, lavorando, mentre
si ostinano a non far nulla e a rendere per ciò stesso inutili le loro
capacità (dvwcpeXetg èmaxf[\iai) ? ^ ^ « Può dirsi altrimenti se non che, per
» Oecon., 1, 8.
s Oecpn,, li 12; 14. Notiamo qui altri passi analoghi; «Oli amici, quando ce
ne sappiamo servire a nostro vantaggio, sono dei valori (xQ^jiiara), ed essi sono tali a
maggior titolo dei buoi». « I nemici, del pari, sono dei beni per colui che sa cavarne
dell'utilità», e E infatti, quanti uomini privati, quanti principi, quanti tiranni non
devono la loro prosperità, l'accrescimento della loro casa e dei loro Stati al male che
hanno fatto ai loro nemici ? * (Ibid., §§ 14 ; 15). In questi due ultimi esempi deve
«scorgersi un accenno alla pratica, comune nel mondo antico, della corsa e della pira-
teria, che si trova ricordata come istituzione legale e regolare (cfr. Schòmann-Iipsius,
Orlech. Alterhumer, Berlin, 1897, I, p. 44, e, sopratutto, TnyciD., I, 4-5).
3 »Ejwotfjnat sono le conoscenze tecniche, che comprendono la scienza e l'arte.
Le d(poQ)ial sono il capitale, che questo stesso passo distingue dal lavoro. I vxiy^xa de-
gli ultimi righi del passo sono evidentemente le &<poQ(ial iniziali: il capitale a cui si
applica il lavoro qualificato.
Un Le Play ateniese del IV secolo a. C. 459
costoro, né le loro capacità, né i mezzi, di cui essi potrebbero disporre,
non sono punto dei beni?» Ma il denaro non deve esercitare, anche
in questo caso, che un ufficio subordinato. La creriiatistica deve restare
subordinata alla morale.
Senofonte non ammette che il capo famiglia, che l'economo si
faccia speculatore e mercante, che il patrimonio, che roixo? sia trattato
come un capitale da servire a un'impresa commerciale, come delle
dcpoQfial, che rappresentino una pura messa in gioco per delle specu-
lazioni arrischiate. Il capo-famiglia ha il compito essenzialmente con-
servatore di mantenere la sua casa, facendola sa^^/az/z^/z^^ prosperare,
di assicurare la vita economica, sociale e morale, di tutti i componevi
il gruppo, di generazione in generazione.
Il che spiega come il carattere tecnico-,, che prevale nel padre di
famiglia, neircconomo, debba essere quello di agricoltore. L'ammini-
stratore dell'ol'/.og è, secondo Senofonte, essenzialmente agricoltore. Sal-
Vagrieoltura riposano V equilibrio e la solidità delle società, V agricoltura
è l'occupazione, la professione per eccellenza. VOeconomicus, che va sotto
il nome di Aristotele, di cui abbiamo esposto la natura e le tendenze,
ne fa, nel libro primo, innanzi di passare alla enumerazione dei cattivi
espedienti finanziari, gli elogi maggiori : « È dessala più naturale delle
industrie, quella che sta in cima alle altre, quella che seguono le altre ehe
han rapporto del pati alla terra, come, per esempio, l'industria dell'estra-
zione dei metalli. Essa è inoltre la più giusta fra tutte; quella che non
suppone alcuno sfruttamento dell'uonio, né diretto, né indiretto, si tratti
dello sfruttamento consentito da colui che ne è l'oggetto, come nel
commercio o nell'industria (ad esempio lo sfruttamento del cliente o
del salariato), o dello sfruttamento non volontario, come nel caso di
guerra tra ì popoli. L'agricoltura è nell'ordine delle cose della natura.
Tutti gHessciri ricevono il loro nutrimento dalla madre loro; gli uomini
lo ricevono dalla terra ». L'agricoltura inoltre contribuisce grandemente
a formare degli uomini coraggiosi, perchè sviluppa la forza e la bellezza
del corpo, e le qualità morali, che vi corrispondono, e di cui non pos-
sono disporre gli operai, deformati dal mestiere.*
Aristotele aveva già detto questo nel cap. 3 elei librò t della 7^^-
litica, che il Pseudo-Oecononilcus non fa che analizzare e parafrasare.
Ed aveva soggiunto che là dove gli agricoltori dominano < possono
stabilirsi delle democrazie, ammirevoli per il buon ordine e per il ri-
spetto delle leggi».* Ciò che caratterizza allora la costituzione sociale
è la preponderanza di un olxog^, d'un patrìnloiiio modesto, che permette
» [Arist.], Oecònomieas 1, 2-3, ed. Susemihl.
t Polit,, 4, 5, 3.
46o Georges Platon
ai cittadini di vivere lavorando, ma che non li lascia indugiare in un
ozio pieno di yìzii, né consente che perdano il loro tempo sulla piazza
pubblica (ràYoo«) in discussioni oziose. La costituzione politica è allora
una costituzione censitaria, una postituzione però non chiusa, né esclu-
siva, ma che s'apre a tutti i cittadini, i quali pervengono a realizzare
le condizioni di fortuna a cui sono subordinate le qualità civiche. E
tutti se ne trovano bene.
Questo è ristante felice deirolxo? e dell'agricoltore campagnuolo,
nel quale evidentemente Socrate e Senofonte vedono l'ideale dei cittadino.
Si rammenterà che è proprio con una contrapposizione fra questo
tipo del gentiluomo di campagna e il cittadino adusato a gingillarsi
nelle piazze e per le vie di Atene che esordisce la conversazione tra
Socrate e Isomaco, di cui si compone la più gran parte dell' O^r(7/zo//z/-
ciis di Senofonte. « Perchè, o Isomaco », chiede Socrate, « contrariamente
alla tua abitudine, sei qui seduto senza far nulla sotto il portico del
Giòve Liberatore? Io ti vedo quasi sempre occupato e so che tu
perdi ben poco tempo s>v!X agora. Che fai? Quale occupazione ti me-
rita il nome di buono e di bello? Tu non resti chiuso in casa, e tu
non hai affatto la complessione per una vita sedentaria ».*
Dopo aver ricordato che, in ogni tempo, i migliori uomini, i più
valenti, i più potenti, tutti i re di Persia — in specie Ciro il giovane,
l'eroe di€iV Anabasi — si dedicarono interamente all'agricoltura e consi-
derarono, conie loro onore e piacere, praticarne essi stessi i vari lavori,
nei momenti di ozio,'' Socrate, nel capitolo V, ne fa una solenne apo-
logia. « Dunque, egli dice, i liiù felici non possono fare a meno del-
l'agricoltura. *La cura che vi si pone è una fonte di piacere, di pro-
sperità per la casa e d'esercizio per il corpo, ch'essa rende capace di
compiere tutti i doveri propri di un uomo libero ».^ L'elogio prosegue
per tal modo, pieno di grazia, di moderazione, di una dolcezza gra-
devole e commovente. « Infine, dice Socrate, per concludere, la terra
insegna la giustizia a tutti coloro, che sono in grado di impararla,
giacché essa rende maggior copia di benefizi a quelli che la coltivano
con maggior diligenza.* L'agricoltura ci insegna ad aiutarci a vicenda.
Essa é la madre e la nudrice di ogni cosa, giacché, quando l'agricoltura
prospera, tutte le altre arti fioriscono insieme con essa».^
Così discorre Socrate, per bocca di Senofonte, dell'agricoltura in
genere. E la seconda parte del trattato è tutta piena di fatti e detti dello
» Oeeon.f 7, 1-3.
« Oecon., 4, 21 sgjff»
• Oecon., 5, l.
* Ibid., 12.
^Ibid., 14; 17.
Un Le Play ateniese del IV secolo a. C. 461
stesso Isomaco, il protagonista del libro, il quale riunisce in sé tutte
le virtù del gentiluomo di campagna. Egli, infatti, è per Socrate l'agri-
coltore ideale: egli possiede la salute, la forza fisica, Tagilità, e può
— in tal modo — senza vergogna tornare incolume dai combattimenti.^
Nello stesso tempo egli fa bene i suoi affari; la sua casa prospera,
mentre quelle di tanti altri, che appartengono alla stessa classe sociale
o a classi sociali superiori, rischiano di andare in rovina.^
Come mai ottiene ciò e come bisogna fare per riuscire al pari
di lui?
XII. — Il concetto cristiano della donna compagna dell'uomo.
— Attraverso la ricerca e Tesarne della buona pratica! —risponde
Socrate, come risponderà più tardi il Le Play : « Io ti indicherò> o
Critobulo delle persone più abili di me nella scienza dell'economia,
della quale tu, in questo momento, mi preghi di darti lezioni. Io ti
confesso di avere con grande cura cercato in ogni genere ì migliori
maestri della nostra città. Io mi sono accorto che coloro i quali eser-
citano a caso le diverse professioni finiscono col perdercisi, laddove
quelli che ragionano e fanno ogni cosa con cura arrivano a un gua-
dagno più pronto e più facile. A questa scuola, se vuoi, e se la divi-
nità non ci -mette ostacoli, tu potrai diventare un eccellente economo e
far molto danaro».^
Isomaco è di quelli che riescono nella amministrazione dei suol
beni ; è un 9ta?cdYa0óg, o, per adoperare il linguaggio del Le Play, una
«autorità sociale indiscutibile ». Per diventare un buon capo di casa,
non c'è che a vedere in che modo egli procede, e imitarlo. Che la teoria
non serve a niente jn queslo caso ; le buone abitudini non s'improv-
visano; né possono essere sostituite dalla pura teorica. Esse sono vis-
sute dapprima dagli uomini di azione. Poi viene l'osservazione, che
rileva i procedimenti, che i pratici seguono come per istinto. Ma fare
la teoria della pratica non basta per dare l'attitudine tecnica. Noi ve-
dremo a momenti come occorre comportarsi.
Ma che cosa c'è a notare anzi tutto in questo Isomaco, che So-
crate propone alla imitazione di Critobulo? Egli non è solo, ma son
due persone. Egli è come raddoppiato nella persona della sua donna;
1 ibid., 12.
« Oecon., 2, 17.
» Oecon,, 2, 17-16.
462 Georges Platon
e questo è nel mondo antico qualche cosa dì nuovo. Esiodo parla assai,
male delie donne. A suo dire, l'ottima fra tutte non vale nulla. Non
bisogna farla comparire uè nell' interno della casa, né, a più forte ra-
gione, nella condotta generale dell'economia. In tale concetto si nota
quasi un regresso della poesia esiodèa al confronto dell'epopea omerica,
che Penelope gode xi^^ Odissea di una situazione certamente superiore
a quella della sposa del ciipo-famiglia, che appare nelle Opere e i
giorni di Esiodo.
Con Socrate-Senofonte, si è compiuto un progresso notevolissimo.
Come l'uomo della Bibbia, il capo della casa è stato creato uomo-
donna,^ maschio e femmina, così il capo delI'oTy.og socratico è padrone
e padrona. Egli non resta mai in casa;- egli ha l'amministrazione dèi
di fuori e, per la sua attività esterna, per la sua energia, la ricchezza
entra nella casa.'' La donna invece cura la spesa, a^niministra l'interno,
conserva i beni, veglia acciocché ogni cosa sia in ordine,^ acciocché il
personale dell'interno compia l'opera sua, in pace, con tranquillità di
spirito, anzi lietamente.* L'attività dell'uomo non è completa senza l'at-
tività concorde della padrona, e, quando ognuno di essi fornisce perfet-
tamente il compito che a lui spetta, la casa non può non prosperare.
Allora si ha, per quanto è possibile, la felicità in terra e la benedizione
degli Dei.^ Avviene questo: che si realizza il più aito grado di felicità
e di virtù, cui possa aspirare l'imperfezione umana: «Divenuta più
perfetta di me, dice il capo di casa alla sua donna, tu mi avrai fatto
tuo servitore. Lungi dal temere che l'età ti faccia perdere l'ascendente
che ora eserciti nella casa, tu potrai esser certa che, invecchiando, tu
diventi per qie una compagna ancora migliore; per i tuoi figliuoli, una
madre, migliore, e, per la tua casa, una padrona più onorata. Impe-
rocché la bellezza e la bontà non dipendono punto dalla giovinezza,
ma dalle virtù, che le accrescono nella vita agli occhi degli uomhii... ».*
Vi è in queste frasi un tratto di sublimità, che forse non può essere
superato, né in alcuna civiltà, né da alcuna religione."^
Ecco dunque il padrone di casa uomo-donna, tutto intento ad
amministrare il suo patrimonio, allo scopo di conservarlo e di molti-
plicarlo per trasmetterlo ai suoi figliuoli. Lia donna, sotto questo aspetto.
1 Qenes.f 1, 27; àQoev xol {H\h) ixoiriaev aòxo-bz.
* Oecon., 7, 3; 3, 15.
^'Oecon., capp. 7-8.
* Oicon., 7, 37; 41.
5 Oecon,, 7, 42.
* Oecon., 7, 42.
' Cfr. Matthias, Evang. 20, 26-27 : « Chiunque tra voi vorrà divenir grande tia
vostro ministro: e chiunque ira voi vorrà esser primo sia vostro servitore ».
Un Le Play ateniese del IV secolo a. C. 463
riceve più Specialmente la qualifica di massaia, di custode del patrimonio
per i suoi figliuoli (xal ;caialv oihov (puA,a| duE^vtov Y^YVTi) (7,42). Quale sarà
il segreto .delloro comune valore? Sarà quello stesso ch'è proprio del-
Tuomo, del capo di casa, dal tempo di Esiodo, in ogni tempo. Come
sempre, in questo mondo in cui il danaro e la crematistica hanno una
parte grandissima, Tuomo si sente schiavo delle cose, dell'ambiente
esterno, delle condizione economiche generali, cioè a dire dipendente
dagli Dei che presiedono alla vita del mondo. Tutta l'attività del va-
lente agricoltore e dell'uomo virtuoso che è Isomaco è perciò dominata
da questo sentimento di dipendenza dell'uomo e dal timore degli Dei.
XIH. — Qualità morali e religiose deiramministratore.
Egli è convinto che, per riuscire nel suo compito, tanto difficile,
non può fare a meno della protezione degli Dei. Questo sentimento
si manifesta ad ogni pagina àtWOeconomicus: «Non potrai, dice So-
crate,* riuscire e far del danaro, che seguendo coloro i quali riescono
nei loro affari, se Dio non si opporrà ». E altrove, deplorando Crito-
buló che vi siano in agricoltura dei casi che l'uomo non può preve-
dere, la grandine, i geli, le siccità ecc., « Io credevo, replica Socrate,
o Critobulo, che tu conoscessi il potere degli Dei, così completo sui
lavori dei campi, come sulle fatiche della guerra... Come, innanzi di
cominciare una guerra, così, prima di qualsiasi lavoro agricolo, occorre
rendersi propizi gli Dei. I savii rendono omaggio agli Dei delle frutta
succulente e di quelle secche, dei buoi, dei cavalli, delle pecore, di
tutto ciò che posseggono ».^ Ed ecco come parla e opera Isomaco,
innanzi di intraprendere l'opera capitale d'iniziare la sua donna all'at-
tiva collaborazione ch'egli «spetta da lei : « Io ho offerto un sacrificio,
e ho pregato il cielo di accordare a me il favore di istruirla bene, e
a lei stessa,* di apprender bene ciò che può formare la nostra comune
felicità». — La tua donna, dunque, gli chiedo, sacrificava con te e
rivolgeva al cielo le stesse preghiere?^ — Certamente, rispose Isomaco;
anch'essa- prometteva solennemente agli Diei di resiar sempre quale
dovrebbe essere ».
Ecco la donna associata al calta del marito, com'eila e associata
alla di lui vita, e tutta la loro esistenza non sarà che una lunga vita
di pietà.
1 Oecon.t 2, 18.
« Oecon., 5, 19-20.
» Oecon. f 7, 7-8.
464 Georges Platon
1 figliuoli, che sono lo scopo del matrimonio, poiché è per essi
che deve perpetuarsi l'oixoc/ sono considerati come una benedizione e
un dono degli Dei, e il compito comune degli sposi sarà di allevarli
ed educarli il meglio possibile.^ Ed eccoli tutti e due all'opera sotto
rocchio vigile degli Dei, dominati dalla preoccupazione di non far
nulla che non sia giusto e onesto, che non sia a un tempo la volontà
degli Dei e della legge.^ « La divinità li associa per i figliuoli, e la legge
per il patrimonio (roixog). La legge stessa dichiara altresì onesto tutto
ciò che resulta dalle facoltà particolari accordate dal cielo all'uno ed
all'altra ».*
Tutta questa vita intima, come la sua attività esterna, è dunque
piena di spirito: morale e religioso. In luogo di un egoismo brutale
e arrogante, che non conosce che la volontà dell'individuo e le sue
concupiscenze, e che, per risolvere il problema della vita, non conta
che sulla sola intelligenza umana, si ha qui un atteggiamento di dif-
fidenza generale, che riconduce l'uomo al suo io interno e lo dispone
ad ascoltare la voce profonda, che si fa sentire dentro di lui. Noi l'ab-
biamo già veduto : per Socrate, tutta la vita morale si riduce a questo :
a praticare costantemente la preghiera, a ricorrere alla divin?.zione, ed
ascoltare le voci che fa nascere in noi il nostro daimon interiore. Iso-
maco non si trova in diverse disposizioni spirituali, e la sua condotta
è egualmente penetrata del divino.
Si tratta di formare la sua donna alla pratica dei suoi doveri nella
casa? — Preghiera e sacrifizio in comune! — Si tratta di intraprendere
qualche cosa, sia pure di quelle che sembrano maggiormente dipendere
dalla iniziativa e dalle cure dell'uomo? « Convinto che anche agli uomini
più prudenti e più attivi, gli Dei talora accordano di riuscire, ma tal'altra
non lo concedono punto, egli comincia col rendere loro omaggio, e
si sforza di meritare con le sue preghiere la salute, la forza del corpo,
la stima dei concittadini, la benevolenza degli amici, la felicità di tor-
nare sano e salvo, con pieno onore, dalla guerra; ^ una fortuna onesta
1 Oecon., 7. 11.
« Oecon., 7, 12.
» Oecon,, 7, 15; 16.
* Oeeon,, 7, 30.
s Oecon.^ 11,8. L'eccellente Talbot, nella sua traduzione, cade in un controsenso,
allorché traduce: e Je m'ef force de mériter l'avantage d'étre à l'abri durant la guerre ».
Questa traduzione misconosce e falsa malamente il pepsiero di Socrate e di Senofonte,
che non lesinarono mai il sacrifizio della propria vita alla patria. Analogamente Virgilio
ha fatto il suo eroe, Enea, notevole sopra tutto per la sua pietà. Molti crìtici hanno
rimproverato al poeta questa religiosità, che loro è parsa eccessiva e smaccata. Dopo
dò che noi abbiamo visto dell'uomo xaXòs Kàya^òg di Socrate e di Senofonte, deve
dirsi che questa pietà, anziché segnare una mancanza ^ virilità, è al contrario, nello
Un Le Play ateniese del IV secolo a. C. 465
mente acquistata ». — Preghiera e sacrifizio sempre. — « 1 saggi ren-
dono omaggio agli Dei delle frutta succulente e di quelle secche, dei
buoi, dei cavalli, delle pecore, in una parola, di tutto ciò che posseg-
gono ». Dunque sacrifizi e preghiere in ogni circostanza!^
La ragione ne è che il mondo per la sua complessità sfugge al-
l'impero dell'uomo, e che al di sopra di lui v*è la volontà degli Dei e
la natura delle cose. C'è la volontà degli Dei, che si può piegare solo
con la preghiera e con la pietà; c'è la qualità intima delle cose, che
l'uomo riceve bella e formata, e su cui egli non può agire che super-
ficialmente, fino a un punto, oltre il quale essa si rivela più forte di
lui, facendogli scontare con l'insuccesso la temerità della sua audacia.
Ne segue che il successo di ogni attività umana, veramente buona,
starà nelle due qualità fondamentali della moderazione e della modestia,
rispetto agli Dei e alle forze naturali, e nella costante volontà dell'indi-
viduo. Fuori di ciò tutto è vano. La felicità, la prosperità, per l'indi-
vìduo, le famiglie, i popoli, sono il resultato della collaborazione del-
l'uomo e di Dio, una collaborazione, in cui il primo non può che
portare la sua buona volontà, una sincerità di sforzi, sovente oscurata
dalle sue passioni, della quale però egli non sa mai se si tratta di
volontà veramente buona, e in cui il compito principale ricade sempre
sull'altro Collaboratore, la cui azione inafferrabile, inintelligibile, decide
del resultato finale degli sforzi umani. L'uomo può ben agitarsi, può
ben creare la scienza e l'arte ; erigere a sistema le sue ingegnosità e i
suoi incerti contatti con le cose. Senza la « buona volontà >, quale noi
l'abbiamo definita, egli non può nulla. Questa, la tesi fondamentale
del nostro Le Play e di Senofonte.
XIV. — La ^ buona volontà ».
Ecco il capo della casa, ci dice Senofonte.* Egli possiede a un
tempo la scienza, le conoscenze teoriche e i mezzi necessari per riu-
scire. Ma egli non ha buona volontà, onde i due elementi, la cui com-
binazione doveva rendere prospera la sua casa sono per lui come
inesistenti, non sono cioè per lui dei beni. •— Né qui si tratta, osserva
Senofonte, di anime naturalmente inferiori, di schiavi, i quali, non pos-
spirito degli antichi, una condizione del vero eroismo. Sarebbe lo stesso che rimpro-
verare a Giovanna d'Arco o a Baiardo la loro pietà e la loro fiducia in Dio. Cfr. Ver-
GIL., Aeneid., ed. Hirtzel (Oxford), I, vv. 10 ; 545 ; V, v.56; VI, y, 437 sgg.;769j
XI, v. 292 e S AI nte-Beu VE,. f/«<fe sàr Virgile, Paris, 1870 (2* ed.),*pp. 125; 128.
1 Oecon., 5, 20.
« Oecon.t 1, 16. 4
30 — Nuova Rivista Storica.
466 Georges Platon
sedendo delle conoscenze precise, non sono indotti a volerne ricavare
rutile necessario per il loro padrone.* Si tratta invece di eupatridi, dj
componenti Tantica nobiltà, che hanno ereditato qualche virtù dai loro
antenati, conoscenze relative alla pace e alla guerra; di gente, dunque,
che possiede ogni sorta di vantaggi, ma che nulla vuol fare per trame
partito. O piuttosto i padroni invisibili, di cui essi sono i servitori, im-
pediscono loro di trarre partito da queste ragioni di prosperità.^ — Non
basta una certa generosità naturale. Occorre una buona volontà posi-
tiva, libera da ogni ostacolo, e che non si diparte mai dalla linea di
applicazione necessaria.
L'agricoltura — è questo un tema che Socrate si compiace di lu-
meggiare nella stessa parte del dialogo — è una delle sci«nze più sem-
plici ad apprendere, una delle arti più facili e più gradevoli ad eserci-
tare.' Socrate si fa dimostrare da Isomaco che, in fatto di agricoltura,
egli, Socrate, ne conosce quasi tutti i principii fondamentali, pur senza
averli mai imparati, solo per avere guardato le cose. «Non si tratta,
spiega Isomaco, neiragricoltura, come nelle altre arti, di lungo tirocinio ;
Tagricoltura non è punto difficile ad apprendere. Stai a guardare il
coltivatore che lavora ; ascoltalo, e ben presto ne saprai abbastanza per
dare, se vuoi, delle lezioni agli altri L'agricoltura non nasconde nulla
dei suoi procedimenti , e parimenti essa eccelle a dare un carattere
guerriero a coloro che la esercitano ».*
Si può stabilire, come principio che i precetti elementari da ap-
plicare in agricoltura sono conosciuti da tutti, tanto dagli uomini sem-
plici come dai dotti.^ Che cosa, dunque, distingue un agricoltore da
un'altro? Perchè Tuno riesce e l'altro no?
Gli è che, «se tutti gli uomini conoscono bene i principii del-
l'agricoltura, non tutti li praticano bene egualmente.^ Non sono né la
scienza, né l'ignoranza ad arricchire gli uni e a ruinare gli altri...'^ Tu
sentirai piuttosto dire: — Costui non raccoglie grano, non perchè egli
semina irregolarmente, ma perchè non ha cura di seminare il suo campo
o di concimarlo. Quest'altro non raccoglie vino perchè egli non ha
cura di piantar vigne, né di mettere in valore quelle che possiede, per-
chè egli non fa nulla per possederne La differenza — quando una
ce- n'è — tra i vari lavoratori, consiste più nella pratica che nell'inven-
i 1. 17.
» 1, 18.
» Oecon., 6, 8.
4 Oecon., 15, 10; 12.
5 Oecon., 19, 17.
« Oecon., 20, 1.
■» Oecon., 20, 2 ; 5.
Un Le Play ateniese del JV secolo a. C. 467
zione di qualche ingegnoso processo di lavoro >.* Lo stesso segue per
tutte le arti, compresa Tarte militare.*
Un altro punto essenziale per il buono o il cattivo successo in
agricoltura è che di coloro i quali si occupano dei lavoratori, alcuni
sorvegliano acciocché gli operai impieghino bene il loro tempo, e la-
vorino bene ; altri non ci badano affatto. In una parola, ciò che costi-
tuisce la differenza tra gli agricoltori, e, più generalmente, tra gli
uomini, a qualunque classe e condizione appartengano, è la cura ch'essi
pongono nel lavoro, l'amore del lavoro, la buona volontà, «'Mio padre
dice Isomaco, non aveva ereditato il suo sapere da alcuno, né acqui-
starlo gli è costato grandissima fatica; ma sono stati il suo amore per
l'agricoltura e pel lavoro a rivelargli il segreto della sua condotta».^
Buona volontà — £jti|ieXeia, cpdojtovia — : ecco il segreto della riuscita
nell'agricoltura, come in qualsiasi altra opera umana.
XV. — L'utilità sociale delle diseguaglianze tra gli uomini.
È la buona volontà sufficiente? No, risponde Socrate: essa è
necessaria, ma non basta. Occorre inoltre che il capo di casa, come
lo stratego, come tutti coloro che debbono comandare a degli uomini,
abbia l'anima di un re (toùtov éyò) q)atiìv av exeiv ti TJ160U5 ^adixov). Aver
l'anima di un re significa avere il dono innato del comando, « avere
il dono, allorché ci si mostra agli uomini, a cui si comanda, di met-
terli, per forza del solo pensiero, in movimento; di comunicare agli
operai uno slancio, una emulazione generale, una ambizione possente
e individuale; il dono di rendere colui che é comandato capace di sor-
passare se medesimo, di produrre qualche còsa di notevole.* Aver l'anima
regale significa, quando si é a capo di un esercito, far fare ai soldati
le cose più difficili, renderli capaci di qualsiasi impresa, infonder loro
l'amore del lavoro e della gloria, infonder loro il coraggio, e seguirli
attraverso tutti i pericoli. Si è allora un grand'uomo, che fa grandi
cose piuttosto col genio che con la forza fisica. < Allora si chiama a
ragione uomo di grande coraggio (fisYa^oyvcjafxtov) colui che va alla testa
di un esercito animato da questi sentimenti. Allora si dice che costui si
avanza con un grande braccio, a cui tante altre braccia obbediscono >.^
Quest'uomo ha la facoltà di trasformare gli uomini!
1 Oecon.,
20,
2sgg.
* Oecon.,
20.
6.
s Oecon.,
20,
25.
* Oecon.,
21.
10.
s Ibtd., e
21.
7 sgg.
468 Georges Platon
« Ciò che è vero nella condotta degli eserciti è vero altresì nella
condotta delle opere domestiche, per quel che concerne il capo della
casa, il soprastante, il capo dei lavoratori. E, allorché costoro sanno
rendere le persone zelanti nel lavoro, diligenti, assidui, sono essi vera-
mente che fanno prosperare la casa evi riversano l'abbondanza >/
Il punto capitale in ogni opera umana, e altrettanto, se non più,
nella direzione deirolxo?, è, dunque, oltre alla buona volontà, l'obbligo
di uniformarsi alle indicazioni della natura nella utilizzazione degli
uomini; è il riconoscimento di questo grande fatto che i mezzi a di-
sposizione dell'uomo, perchè egli possa fornire il suo compito, gli sono
dati dalla natura e ch'egli non potrebbe violentare le cose, senza an-
dar contro al suo stesso scopo. Il principio che non si deve perdere
di vista è che tra gli uomini esistono differenze di natura irreducibili
a delle differenze di educazione, e che la saggezza consiste nel saperle
mettere in evidenza e nel tenerne grandissimo conto nella costituzione
della gerarchia sociale. « Quanto al talento di comandare, dice Socrate,
(talento egualmente necessario, si tratti di agricoltura, di politica, di
economia, di condotta degli eserciti), io convengo con te che c'è fra
gli uomini una gran differenza nei riguardi dell'intelligenza » (21, 2).
Gì sono nature che partecipano deiriìOos paadixòv (21, 10); delle per-
sonalità che si chiamano con ragione nsYaXoyvcónoves, ossia uomini << dal
grande cuore » (ibid., 8), di cui si dice ancora ot 8'a* Osioi xal avaGol xal
è.TiTì'jiiove; aQxovres (Sono essi i capi divini e buoni e sapienti, ibid., 5).
Tutto riconduce a questo fatto originario d'una bontà naturale, di cui
non si può non tener conto in qualsiasi ordine di attività. Le capacità
della direzione, del comando non s'imparano, ma suppongono delle
predisposizioni naturali. « Per Giove, esclama Isomaco, io non dico
che questo talento s'acquisti di primo acchito, e in una sola lezione;
io sostengo ai contrario, che a fine di pervenirci, occorre l'istruzione
e un dono naturale, e, ciò che più importa, una ispirazione dall'alto »
(0EVOV YévéaOoti).-
L'arte di ben condurre la casa suppone la scienza delle anime. Oc-
corre che il capo di casa, tal quale come la città nella scelta dei ma
gistrati, sappia, nella scelta del suo personale, distinguere le nature ca-
paci, di cui, con l'aiuto dell'educazione, potrà fare dei preziosi ausiliarii.
A tale scopo egli eliminerà dapprima tutti quelli che sono schiavi dei
loro vizii: gli ubbriaconi, quelli che sono troppo inclini alla srego-
latezza o che sono troppo leggeri, i temperamenti pesanti e torpidi.
>2i, 9.
t 21, 11 ; 12. Si rammenti la differenza stabilita da Platone nella sua Città ideale
fra le mime di ferro, di argento, di oro {Refi. 3, p. 415 <i sgg.).
Un Le Play ateniese del IV secolo a. C. 469
Restano, nel numero dei liberi o degli schiavi, ai cui ci si vuole ser-
vire per la direzione della casa, gl'individui intelligenti e moralmente
buoni, le nature capaci e provviste di buone doti. Vi sono coloro di cui
non c'è nulla a fare, insensibili ai migliori trattamenti. Essi sono ingua-
ribili, fondamentalmente cattivi. Gli altri, i quali rappresentano Xélite,
sono anime generose, capaci di essere affinate dalla lode, che certe
nature hanno tanto bisogno di lode, quanto di bere e di cibarsi.*
«L'uomo, avido di stima, differisce dall'uomo volgare, avido di
guadagno, per questo ch'egli ha in vista solo gli elogi e la stima,
sia quando lavora, sia quando sfida i pericoli, sia quando si astiene
da lucri vergognosi ».* Ecco l'uomo che occorre affezionarsi con buoni
trattamenti, facendogli un posto a parte tra gli altri della sua categoria,
rendendogli la vita più dolce, permettendogli di creare una famiglia,
associandolo agli avvenimenti intimi, felici o disgraziati, della propria
esistenza.^ Così appunto si fa di lui un buon intendente.
Così ciascuno è al posto suo: così si trova realizzato l'ordine indicato
dalla natura; così, sotto la direzione, saggia e precisa del capo-famiglia,
aiutato dalla sua donna, devota interamente al compito suo, non leg^
gera,* non distratta dai suoi doveri dall'amor del piacere, ma che am-
ministra r interno della casa con prudenza, con fermezza, con dolcezza,
con filantropia e con vera bontà, l' uno e l'altra secondati da intendenti
€ da domestici di loro fiducia — ; così la casa, prospera e s'accresce
con r aiuto e la benevolenza degli Dei. Si hanno allora l'ordine e l'ar-
monìa perfetta.^ Allora questa cosa non più umana, ma divina,'è rea-
lizzata: «l'autorità esercitata senza violenza, il comando, accettato
come un beneficio da cuori, che volontariamente si offrono >.®
< Ma. questo dono del comando è privilegio distribuito con parsi-
monia grande tra gli uomini, veramente dotati di saggezza perfetta ».
« Quanto poi al comando, che si esercita con la forza, nei riguardi
delle persone che non. vogliono sottostarvi, è questo, senza dubbio,
aggiunge Senofonte, a guisa di conclusione finale, per vero alquanto
enigmatica, un castigo pari a quello di Tantalo che gli Dei condannano
a vivere nell'ossessione continua di morire d'una doppia morte >.^ O i
mali del comando dispotico, o i mali» non meno grandi, dell'anarchia !
» Oecon,, 13, 8-9.
« Oecon,, 14, 10.
8 Oecon., 13, 10 igz- ; c^r- 12, 6 ; 7.
* Tutto il ctp. io ^tWOecon. è consacrato a mostrare come Isomaco abbia distolto
la propria donna dalla civetterìa
» Oecon.f 8, 3.
« Oecon., 21, 12.
7 Oecon,, 21, 12. •
470 Georges Platon
Cosi il fondo della vita sociale è naturalmente 1* ineguaglianza,
l'aggruppamento gerarchico. Scoprire le nature superiori, metterle al
loro posto, far servirle la loro attività spontanea al bene del gruppo;
sviluppare presso tutti, con la disciplina della forza per le nature in-
feriori, che han bisogno di sentire la paura; con la disciplina del-
l'esempio, col fascino, con l'educazione sistematica, per le nature ge-
nerose; sviluppare, dico, presso tutti la volontà di bene, la volontà
della prosperità del gruppo; riuscire a che tutti sentano che Tinte-
resse del gruppo è il loro proprio interesse; rafforzare questi senti-*
menti di benevolenza scambievole con sentimenti d'amore e di timore
verso gli Dei: ecco il fondo di ciò che si potrebbe chiamare la filosofia
sociale di Senofonte-Socrate, ch'è quella stessa del Le Play,
Per ambedue lo scopo dell'economia non è tanto quello di am-
mucchiar denaro, quanto l'altro di bastare ai bisogni del gruppo fami-
gliare, dell'olxo?. Il mezzo di assicurarne la prosperità è mantenere la
sua coesione interna ed esterna coll'obbedienza spontanea e lieta di
ciascuno dei suoi componenti, i quali tutti compiano il loro dovere
con gioia religiosa.
« Dio e r uomo, scrive il De Bonald, gli uomini tra loro, esseri
simili di volontà e d'azione, ma non eguali di volontà e d'azione, pel
solo fatto di questa somiglianza ed ineguaglianza, stanno tutti in un
sistema, in un ordine di volontà e d'azione che si chiama società.
Giacché, se ci fosse eguaglianza di volontà e di azione in tutti, non
ci sarebbe più società: tutto sarebbe forte o tutto sarebbe debole,
e la società non è che un rapporto di forza a debolezza».* E sog-
giunge: « Non solamente l'uomo deve formare la società, ma la società
deve formare l'uomo, con la educazione sociale. L'uomo non esiste che
per la società, e questa non Io forma che per se stessa. Egli deve
dunque adoperare al servizio della società tutto quello che ha rice-
vuto dalla natura e tutto quello che ha ricevuto dalla società; tutto
ciò ch'egli è e tutto ciò che ha».^
Così parla il De Bonald; così parla il Le Play; così pensa e parla
Senofonte.
{Continua) Georges Platon.
1 De Bonald, La Ugislation primitive, Paris, 1802, I, viii, 1.
« Théorie da pouvoìr politiqae et réligieux, Préf., p. 3 (ed. Migne).
Sulla opportunità di una storia
deireconomia politica italiana
Scarsa conoscenza straniera degli economisti italiani.
\ì signor Henri Joly « de TAcadémie des sciences raorales », sceso
in Italia per compiere uno studio vivo e obbiettivo sul nostro inse-
gnamento universitario, viaggiò, osservò, interrogò, discusse e alla fine
maturò il frutto di sue ricerche e lo espose nella Revue des deux mondes
del 15 agosto 1914. Il signor Joly fornisce informazioni, che han sa-
pore di novità anche per le persone, che stanno più addentro nella nostra
vita universitaria, ma una ve n*è, che non può apprendersi senza un guizzo
di maraviglia. Il signor Henri Joly avrebbe scoperto che all' Università
di Roma il professore di economia politica è una donna. Il nome di
questa creatura di sesso femminile egli rileva senz'ambagi : è la signo-
rina dottoressa Teresa Labriola. E parrebbe che all' Università di Roma,
almeno sulla cattedra di economia politica, il diritto d' insegnare passi
di padre in figlia, giacché il signor Joly avverte che la signorina La-
briola succedette al defunto suo padre, prof. Antonio. Né il critico
francese si può dichiarare soddisfatto dell'insegnamento impartito
dalla signorina Labriola : che anzi egli si palesa in generale severo e
un po' sarcastico verso le gonnelle agitanti?! sulle cattedre universi
tarie ; delle quali gonnelle egli sarebbe riuscito a scoprirne tre. « Les
candidatures féminines n'ont pas ce caractére exceptionnel qu'elles
ont encore eji France ; car on a non seulement à , Cagliari, mais à
Rome et à Naples (à Rome, M"* Labriola, successeur de son pére en
la chaire d'economie jDolitique), des professeurs féminins qui ne sem-
blent pas avoir force la liorte par des titres bien retentissans. C'est
peut-ètre de ce coté que les universités d* Italie aiment le piieux à
prouver leur libéralisme! ».*
1 Joly, Les Universités itaHennes» in Revue des deux mondes, 15 ag. 1914, pp. 804-805.
472 Umberto Ricci
Forse il signor Henri Joly non è un economista, e però vogliamo
in parte scusarlo se, nel tessere le sue indagini attorno all' insegna-
mento dell'economia politica in Roma, egli cadde vittima di qualche
informatore burlone. Ma quanti economisti forestieri, autori di trattati
di scienza economica, o di manuali di storia dell'economia politica, nel
riferire e sentenziare sull'economia politica italiana, si mostrano di
poco superiori al signor Joly!
Prendiamo uno dei manuali tedeschi più diffusi: la Theoretische
Sózlalòkonomik di Adolfo Wagner. Nel 1907, anno di pubblicazione
del primo volume, erano da ricordare in Italia, secondo Wagner, cinque
principali teorici. Questi « Theoretiker » li riportiamo nello stesso ordine
in cui li dispone lui: Nitti, Ricca-Salerno, Cusumano, Supino, Loria
(p. 12). A meglio documentare la famosa scrupolosità di esattezza,
della quale i Tedeschi si vantano e sono accreditati dappertutto, cite-
remo un altro particolare : V Handwòrterbuch der Staatswissenschafien di
Conrad, Lexis e compagni, prodigo di biografie di economisti nati
in ogni parte del mondo, l' Italia non esclusa, tace i nomi di Panta-
ieoni e Pareto (anno 1910).
Apriamo un manuale francese, che pf^r ha obbietto proprio la storia
dell'economia poHtica: V Histoire des dódrines économiques di Gide e
Rist (1909), grosso volume di 766 pagine ed alquanto caotico. Nella
prefazione gli autori dichiarano di voler riserbare una parte cospicua
agli scrittori del proJDrio paese — e nessuno può trovarci a ridire.
Soggiungono di aver voluto assegnare all' Inghilterra e alla Germania
« la, grande place qui leur est due,». E sta bene. Ma, arrivati all'Italia,
se la svignano con queste frasi generiche: « Nous ne voudrions pas que
la part très insuffisante que nous avons du faire à d'autres pays pùt
donner à croire, que nous méconnaissons les services éminents que
ceux-ci, et surtout l'Italie et les États-Unis, ont rendus à la science
éconoraique dans le passe come dans le présent » (p. viii). E nel
testo ripetutamente : « Si les limites de ce livre nous permettaìent de
parler des économistes italiens... » (p. 381, nota); « ce serait le lieu
cependant ici, quoique nous ayons, à regret, écarté de notre programme
les économistes italiens... » (p. 661, nota). Tuttavia qua e là qualche
notizia sugli economisti italiani e qualche citazione sfuggono alla penna
dei due autori.
Nel 1912 uscì negli Stati Uniti di America una History of economie
thought del prof. Haney. Egli dedica un capitoletto all'Italia contem-
poranea (pp. 487-493), attingendo, oltre che all' Introduzione del Cossa
e al noto studio dello Schullern-Schrattenhofen, ad articoli del pari
poco recenti di Rabbeno, Loria e Oraziani. Ne risulta, con la migliore
volontà dell'autore, un tremendo guazzabuglio. Pure il signor Haney
StiUa opportunità di una storia dell'economia politica italiana 47$
deve nutrire una segreta simpatia per noi, se, dopo aver concluso che
il contributo dell'Italia nell'ultimo secolo è stato scarso, dice che le
opere italiane si possono consultare con vantaggio.
Di recente (1915) si è ripubblicata la Histoty of politicai economy
dell' Ingram. Uscita la prima volta nel 1888, faceva all' Italia una parte
onorevole. La seconda edizione, rimessa a nuovo dal prof. William A.
Scott dell' Università di Wisconsin, regala all' Italia contemporanea
un po' meno di una paginetta e mezzo. Mezza pagina abbondante è
assorbita dal Loria « one of the most originai and forceful^ as well
astone of the most extreme and radicai, of present-day Italian econo-
mists >, e lì una lunghissima filza di titoli di libri lorianì in corsivo.
Ci sono, prima e dopo del Loria, due listerelle di autori italiani vari.
Nessuna traccia del Pareto in tutto il volume. Pantaleoni è magramente
ricordato, e i suoi Princlpii di economia pura sono trasformati in un
Manuale f anzi in un Manuale di economia.
Opportunità di una storia delPecono-
mia politica italiana scritta da italiani.
Fino a venti o trenta anni fa gli economisti italiani erano abba-
stanza familiari ai dotti stranieri, e ciò si deve principalmente alla
Storia àt\ Pecchio calla Guida, divenuta x^o\ Introduzione^ deXCò^STL^
diffuse all'estero e facili fornitrici di notizie. Dobbiamo confessare che
la passione per la storia delle. dottrine economiche italiane è venuta
scemando in Italia e poco più se ne scrive oggi, a differenza di
quanto accadeva venticinque o trenta anni fa. Possedevamo allora,
non solo la Guida del Cossa, ma parecchie opere speciali: la Storia
delle teorie economiche nelle province napoletane del Fornari (1882-1888) ;
la Teoria del commercio dei grani in Italia del Cusumano (1877);
la Concorrenza estera e gli antichi economisti italiani del Gobbi
(1884); L'economia politica negli scrittori italiani del secolo XV I-X VII
pure del Gobbi (1889); le tre storie della teoria del valore in Italia à\
Loria (1882), Graziani .(1889) e Montanari (1889); la Storia delle dot-
trine finanziarie in Italia del Ricca-Salerno (1881); la storia della s/a-
tistica di Gabaglio (1888), sebbene non limitata all'Italia, e una mol-
titudine poi di saggi su autori singoli. Erano in onore anche gli
studi bibliografici, e ricordiamo il Saggio di bibliografia dei trattati
e compendii di economia politica scritti da italiani di Luigi Cossa
(1891-92), il Saggio di bibliografia economica italiana 1870-1890 di
Angelo Bertolini (1891-93), il Dizionario bibliografico deW economia po-
litica, Parte /% i Trattati generali di Tullio Martello (1893), nonché
474 Umberto Ricci
le svariate bibliografie dello stesso Cossa su particolari capitoli del-
l'economia.
Ora, dopo un quarto di secolo, è tempo di riabbracciare e pro-
seguire questi studi.
Una storia dei progressi compiuti dall'economia politica — come,
del resto, la storia dei progressi in qualsiasi scienza o arte, o, diciamo,
in qualsivoglia ramo notevole dell'attività umana — per virtù e merito di
una determinata nazione, se è cosa importante agli occhi di quella na-
zione, che per tal modo si esalta e s'invoglia a meglio proseguire, è quasi
più importante per gli effetti che produce all'estero. Certo non basta
scrivere una storia per mutare la faccia del mondo, ma, se il libro di
storia è esso stesso un'opera riuscita, serve a portare in piena luce i
propri eroi del pensiero e dell'azione, a raddrizzare opinioni errate,
a suscitare il rispetto dei dotti stranieri, i quali poi provvederanno a
diffonderlo nei rispettivi paesi. La pubblicazione di buone storie è uno
dei tanti mezzi per accrescere Io splendore intellettuale di una nazione,
e non dimentichiamo che dominio spirituale e politico spesso s'intrec-
ciano : ne abbiamo avuto una prova in tempi recenti, vedendo di che
reverenza per la Germania, di quale sicura fede nella sua vittoria e di
quanto terrore della sua inimicizia fossero pervasi gli ammiratori della
coltura tedesca : o che avessero « studiato in Germania », o che fossero
assidui leggitori di libri e riviste teutoniche.
Dopo la pace, con un mutato assetto poHtico, e con deviate correnti
dei traffici, con rinnovate simpatie ed intese, ogni Stato si sforzerà di
farsi apprezzare al massimo grado e anche il nostro, che tutti confi-
diamo accresciuto di territorio, di fierezza e di prestigio, dovrà coor-
dinare le sue energie e spingerle al più alto rendimento. Una ricapi-
tolazione delle passate vicende sarà opportuna e si dovrà eseguire' per
le scienze e per le arti. Fra le prime spicca, per bellezza di lineamenti
teorici e molteplicità di applicazioni pratiche, l'economia politica. Un
volume maneggevole, serio, esatto e piacevole a leggersi dovrebbe
illustrare la storia della scienza economica in Italia dal 1860 ai giorni
nostri.
Profili di economisti italtatiL
La prima è più maestosa figura, che tale storia dovrà disegnare»
è quella di Francesco Ferrara, sommo fra gli economisti italiani del
secolo decimonono, mente di genio, che sapeva risalire ai supremi
principii della scienza, sapeva scolpire e concatenare le grandi leggi
economiche, sapeva esprimersi con eloquenza magnifica e travolgente.
La sua figura non è, non sarà menomata dal tempo. Il tempo rispetta
i sovrani del pensiero, i quali fissano lucidamente le verità universali,
Sulla opportunità di una storia dgU'economia politica italiana 475
e solo morde le opere frammentarie e occasionali. Molte pagine del
Ferrara suscitano subitanee visioni d'insieme, che danno ebbrezze è
rapimenti : esse ancora attendono il divulgatore, che le diffonda oltre
un ristretto cenacolo di economisti italiani, e allora la fama del loro
autore sarà moltiplicata e crescerà il numero dei discepoli.
Nessun miglior divulgatore che lo stesso Ferrrara, quando il meglio
delle sue opere fosse raccolto in un agevole volume. Il pensiero fer-
rariano, esposto principalmente in prefazioni a disparati autori, com-
parse a distanza di anni V una dall'altra, è rimasto sempre sistematico.
Prendete le più belle pagine del Ferrara, fatene, senza mutar loro né
un accento né una virgola, altrettanti paragrafi, ordinate i paragrafi in
capitoli secondo un disegno razionale che vi sarà ispirato dallo stesso
Ferrara, e verrà fuori per incanto un meraviglioso trattato, scritto
parola per parola dal Ferrara. Sia messo in vendita il trattato, in ni-
tida veste, da un abile editore, a prezzo non proibitivo, e il Ferrara
penetrerà finalmente fra la folla degli studiosi.*
Che persino a economisti italiani il Ferrara sìa notò per sentita
dire, e veduto come attraverso una fitta nebbia, lo prova Tepìsodio che
ora racconterò. Nell'adunanza di Padova, tenutasi nel settembre 1909, la
Società italiana per il progresso delle scienze volle pronunziato un
discorso inaugurale sui progressi della scienza ih Italia. Appartengono
alla Società scienziati indubbiamente autorevoli e in ogni ramo dello sci-
bile. Invece « gì' illustri rettori della Società » si misero per « più tei;ipo »
ad « affaticare di amiche inquietudini, perchè dicesse l'orazione >, chi
credete voi ? uno scienziato ? No ; un personaggio politico, l'onorevole
Luigi Luzzatti. L'illustre uomo discorse di astronomia, idraulica, ana-
tomia, patologia, glottologia e anche di economia politica. Arrivato a
Francesco Ferrara, Sua Eccellenza Luzzatti in tal guisa lo giudicò: « Fer-
rara svolse con grande OFiginalità di particolari le teorie ottimiste di
Carey e Bastiat ». Grande originalità, ma nei particolari^ e per il resto
obbedienza a due scrittori fuori di strada, in quanto ottimisti. Non si
può onestamente esigere che un uomo solo penetri in tutte le scienze.
Probabilmente S. E. Luzzatti si sarà rivolto a un astronomo per l'astro-
nomia, a un fisico per la fisica, e per l'economia avrà ben consultato
un economista. Se così accadde, esisteva dunque in Italia un econo-
mista che non aveva Ietto Ferrara, o che, leggendolo, non lo aveva
capito, ma preferiamo credere che non lo avesse letto.
Abbiamo insistito sul Ferrara perchè è il maggiore fra gli econo-
1 Quest'idea io esposi nel 1908 a un intelIig:entiss»inio editore: il Laterza di
Bari, che l'accolse con assai favore. Nacque poi qualche difficoltà e l' idea svanì : po-
trebbe forse essere attuata da altri.
476 Umberto Ricci
misti scomparsi dell* ultimo cinquantennio : anche altri, come il Messe-
daglia e il Nazzani, andranno ricordati con rispetto.
Dei viventi, i nostri due più insigni, Pantaleoni e Pareto, sono
conosciuti fuori d'Italia, sebbene non quanto meritino: e sono cono-
sciuti forse perchè del primo si trovano tradotti in inglese i Prlncipii;
del secondo tutte, o quasi tutte le opere sono scritte o tradotte in
francese. Ma i saggi del Pantaleoni, così forti e sprizzanti d' idee per-
sonali, poco si vedono citati all'estero. E poco vengono citati economisti
viventi di autentico valore, quali Martello, Toniolo, Valenti, Bertolini,
Gobbi, Jannaccone, De Viti, Einaudi, Benini, Coletti, nonché altri rag-
guardevoli che non enumeriamo, non essendo nostro compito di trac-
ciar qui in riassunto la storia che invochiamo.
In rami speciali dell'economia o in discipline affini contiamo pure
cultori valorosi. Così negli studi sul marxismo vantiamo il defunto
Antonio Labriola e Benedetto Croce; nell'economia agraria, Valenti e
Serpieri ; nella finanza, fra viventi e da non molto scomparsi, abbiamo
una pleiade di scrittori : De Viti, Mazzola, Conigliani, Puviani e comin-
ciamo ora a possedere due trattati, come quello originale, ma non ancora
definitivo, dell'Einaudi e quello, assai più ampio, ma non ancora svolto
in tutte le sue parti, del Tangorra, per non menzionare il fortunato
manuale del Flora. Nella storia dei fatti economici si è lavorato in
proporzioni minori, ma, se si mettono insieme opere di economisti,
storici politici, storici del diritto, commercialisti, si finisce col for-
mare un elenco non disprezzabile. Alcune inchieste governative, ese-
guite in tempi più o meno lontani, forniscono materiali utili che stu-
diosi futuri sapranno sempre meglio sfruttare. Gli studii di economia
e finanza sabauda condotti dall'Einaudi e dal Prato sono modelli, e
sarebbe fortuna se suscitassero ricerche simili in altre regioni d' Italia.
Nella statistica metodologica e applicata possediamo in Benini un
autore di prima forza. I suoi Principii, sebbene un po' arretrati nella
parte matematica, sono un capolavoro : per finezza, ingegnosità di
logica e decoro dello stile, non hanno l'uguale in altre letterature.
Del resto, per limitarci alla statistica economica, che più propriamente
cade nel nostro programma, l'originalità e fecondità della scuola ita-
liana coi nomi di Pareto, Benini e Bresciani è stata ammessa ed esal-
tata da competenti non italiani.*
Un economista-sociologo, che gli stranieri ricordano con predile-
zione, è il Loria, autore di molti libri, alcuni dei quali tradotti, e di
molti articoli, alcuni dei quali in riviste esotiche. Il Loria viene nominato
1 Cfr. MOORB, The statistieal complemtnt of pure economics {nt\ Quarterly Journal
of economies. novembre 1908) e piìl vibratamente in Laws ofwages, 1911, o. 173 noia.
Sulla opportunità di una storia dell'economia politica italiana 477
con un rispetto stereotipo, che si richiama forse al famoso giudizio di
Luigi Cossa : « A nessuno inferiore per ingegno, superiore a tutti nel-
ro.riginalità ed a molti per dottrina, il mantovano Achille Loria, ecc. ».
Certo il Loria, degno di riguardo per la grande sua laboriosità e dot-
trina, ma stravagante nel concepire le teorie e retorico nell'esporle,
non è affatto l'uomo rappresentativo della scienza e della coltura
schiettamente italiane. Qualche volta gli stranieri, citandolo, sanno di
dover parole di omaggio all'economista « a nessuno inferiore per in-
gegno, ecc. >, ma non sempre se ne mostrano convinti. Ecco un diver-
tente esempio. VEconomist del 18 marzo 1916, capitato a recensire la
Sintesi economica tradotta in inglese, incomincia con un complimento di
prammatica al « distìguished Italìan economist », il quale « hardly needs
an introduction to English readers ». Poi si trova un poco imbarazzato
di fronte alle definizioni e astrazioni del Loria. Poi entra in uno stato
di apprensione, vedendo volare le terribili frasi, che il Loria è abituato
a scagliare freddamente addosso alla società borghese; frasi che, tra-
dotte in inglese, sembrano ancora più terribili. Finalmente il solido
e pratico giornale, udendo parlare della « unclean atmosphere of the
modem Stock Exchange, whose transactions are ali founded on fraud »,
si spaventa e sente il bisogno di una dichiarazione d| onestà a favore
dell'Inghilterra, nei seguenti termini:, « Che cosa accada alla Borsa di
Roma non sappiamo. Possiamo tuttavia assicurare i lettori italiani che
le transazioni alla Borsa di Londra sono altrettante onorevoli quanto
le transazioni commerciali di ogni parte del mondo..... ».
Le nostre deficienze.
Pari a un esame di coscienza, l'esposizione storica ci svelerà i
nostri difetti e le nostre manchevolezze, che è sempre virile scoprire
e denunziare per tentarne il rimedio. Di tali deficienze, alcune, ci sem-
bra, pqssono enumerarsi fin d'ora.
In primo luogo non abbiamo un trattato italiano di economia
politica che sia l'ottimo libro di testo per l' insegnamento superiore e
il fidato libro di consultazione delle persone colte. Possediamo, è vero,
il Cours del Pareto. Il Cours è un libro che fa onore a un letteratura ;
pure osiamo dire che non è adatto alla moltitudine degli studiosi:
reca un'imprónta troppo personale, è opera definitiva, come tutte le
opere classiche, le quali si collocano in un punto determinato e im-
mobile della storia. Per ì bisogni dell'insegnamento superiore occor-
rerebbe un libro, che pur serbandosi coerente in tutte le sue dottrine,
pur riuscendo vigoroso e suggestivo, riassumesse le più sicure con-
quiste dell'economia politica in tutti i suoi campi e fosse così confor-
478 Umberto Ricci
mato da tener dietro, con maggiori o minori ritocchi, in successive
edizióni, ai progressi della scienza. Riconosciamo che un simile trat-
tato è oramai difficilissimo, tanto l'economia politica si è allargata e
complicata, e la difficoltà va crescendo col tempo : comunque, quel
trattato noi non Tabbiamo.
In secondo luogo ci manca un dizionario di economia politica:
opera meno ardua del trattato, perchè non soggiace o soggiace meno
all'obbligo del rigoroso sistema e ammette la collaborazione di molti.
L* utilità universale di un dizionario di economia politica è provata
dalie ristampe del Dictionary del Palgrave e deWMandworterbuch di
Conrad, Lexis e altri. Tali due dizionari sono diffusi anche tra noi :
è superfluo affermare che non ci bastano e noi vogliamo un dizio-
nario italiano, il quale, senza trascurare le biografie e le teorie di scien-
ziati stranieri e i dati statistici di estranee contrade, metta in speciale
rilievo quelli della nostra patria.
In terzo luogo la nostra letteratura, giudicata nel suo complesso
e confrontata con le altre, mentre è tale da assicurarci una posizione
più che decorosa e onorifica, rivela una relativa prevalenza di opere
teoriche e -- oseremmo dire, ma forse la parola oltrepassa il pen-
siero — accademiche. Di ciò possono assegnarsi varie ragioni, connesse
alcune coll'ordinamento dei nostri studi superiori, dipendenti le altre
dai caratteri della nostra vita economica.
Contiamo in Italia 17 facoltà di giurisprudenza nelle Università
regie e 4 nelle Università libere. Doppioni, o quasi delle facoltà di giu-
risprudenza sono 5 Scuole superiori di commercio, 1 Università com-
merciale, 1 Istituto di scienze sociali. C'è spazio dunque per 28 pro-
fessori ufficiali di economia politica, ai quali dobbiamo aggiungere
altrettanti professori di statistica e quasi .altrettanti di scienza finanziaria.
Le cattedre si conquistano superando un. concorso per titoli, ed ecco
quindi una coorte d* industri scriventi, che non possono essere tutti, e
non si pretende che siano, pensatori di primissimo ordine, ma, se pure
fossero tali, non disporrebbero di mezzi di studio sufficienti. Non vi
è posto, in Italia, per 28 grandi biblioteche specializzate, copiosamente
provviste di libri e riviste di scienze conomiche, riviste tecnico-indu-
striali, quotidiani commerciali e anche politici, collezioni di statistiche
ufficiali dei principali paesi del mondo, collezioni di leggi e decreti e
atti parlamentari, listini di borsa, circolari di case commerciali e poi
macchine per calcolare e insomma tutto il formidabile costoso arma-
mentario occorrente a un grande osservatorio o laboratorio o gabi-
netto moderno di economia e statistica. In tali condizioni gì' innamo-
rati della cattedra s' invogliano piuttosto a riesaminare le vecchie
dottrine generali, a riesporle, criticarle e modificarle anziché ad affron-
Sulla opportunità di una storia dell' economia politica italiana 479
tare nuovi problemi particolari. Il compito sembra più facile e promet-
tente e inganna soprattutto i giovani, mentre è più scabroso e andrebbe
lasciato ai maestri. Per quanto dunque si attiene all'ordinamento
degli studi, il miglioramento, o, se si preferisce, l'integrazione della
nostra produzione scientifica sembra richiedere -la riduzione del numero
delle scuole accompagnata da un risoluto rafforzamento di quelle su-
perstiti. Pur troppo la tendenza è nel senso opposto : accrescere il nu-
mero dei professori e diminuire, magari di un dieci per cento, le somme
stanziate in bilancio per dotazioni di biblioteche e gabinetti.
Aggiungasi che l'economia è scienza deduttiva e induttiva e che il
campo di osservazione dell'economista è vastissimo, abbraccia tutta l'atti-
vità industriale delle nazioni, presa la parola industria nel suo significato
più esteso. Il fisico può rinchiudersi nel gabinetto, il botanico nel giard/no,
il clinico nell'ospedale. L'economista invece dovrebbe poter uscire di
quando in quando dal suo laboratorio, sia pure rigurgitante dei materiali
dianzi enumerati, per visitare quei più grandi laboratori che si chiamano
aziende agrarie, opifici, case di esportazione, banche, compagnie di navi-
gazione. Se il professore di economia potesse ogni tanto allontanarsi dalla
cattedra e insinuarsi inavvertito fra gli altri uomini d'affari, per solito dif-
fidenti e gelosi dei loro segreti; se potesse col suo occhio avido esaminare
processi di produzione, ordinamenti del lavoro, più o meno efficienti,
e sistèmi di rimunerazione, composizione dei costi, metodi dì compera
delle materie prime e di vendita dei prodotti, gradi e forme di con-
nessione di un'impresa con altre imprese e coi consumatori, e così
via, egli ne ritrarrebbe inestimabili vantaggi. Qualche scrittore, con-
vinto di siffatto giovamento, ha persino proposto che non sì possa
diventare professore di economìa politica senz'aver compiuto un pe-
riodo di pratica in imprese industriali o bancarie.^ Sarebbe forse troppo
pretendere. E non è^nemmeno detto che upmini di acuto ingegno e
dediti alla meditazione non siano in grado di arricchire la scienza
filosofando sulle esperienze quotidiane, accessibili a chiunque. Esemp *
cospicui potrebbero addursi. Ma è certo che, quanto più l'economista
si sforza di applicare i prìncipìi generali a temi particolari, tanto più
deve addentrarsi nella tecnica industriale, e tanto più vi riesce, quanto
più intensa, estesa e multiforme è l'attività del paese in cui egli vive
e studia.
Non solo. Quando un paese abbonda di complesse e potenti isti-
tuzioni economiche, è probabile che provetti economisti sorgano da
1 Cfr. Riesser {Priparation et conduite fìnancières de la guerre, 1916, p, 108,
nota), il quale vorrebbe però estendere l'obbligo a tutti gì' insegnanti di scienze poli-
tiche e giurisprudenza.
480 Umberto Ricci
quelle medesime istituzioni. In Italia, paese a struttura economica rela-
tivamente semplice, non s* incontrano specialisti venuti direttamente
dall'industria o dalla banca, e pur degni di salire sulla cattedra uni-
versitaria : autori di libjri ove è spremuto il succo di cognizioni assimi-
late durante un lungo periodo di lavoro intelligente e sorrette da una
cultura economica generale.
Né infine, in un paese come l'Italia, che non è all'avanguardia
del progresso economico, si avverte, come altrove, il bisogno d' intra-
prendere grandi inchieste pubbliche sul valore della moneta, sulla
banca, sulla borsa, sui cartelli^ sulle depressioni industriali, e via via ;
le quali inchieste offrono agli economisti vaste raccolte di fatti e di
opinioni dei pratici.
Ecco le ragioni," dipendenti dalla vita economica del nostro paese^
per le quali le opere di economia applicata sono relativamente meno
frequenti, sebbene non manchino, che ne abbiamo di ragguardevoli.
Il rimedio, almeno parziale, si può escogitare, e consiste, a nostro avviso,
nella divisione del lavoro. Gli economisti cattedratici, i quali, per il
fatto stesso di appartenere all' insegnamento superiore, devono essere
già addottrinati nelle teorie generali, si vengono specializzando in uno
o pochi capitoli dell'economia applicata, dedicandosi di preferenza chi
all'economia dell'agricoltura, chi a quella dell'industria, coltivando
questi la tecnica e la politica commerciale, quegli la materia della
banca e della borsa o i trasporti terrestri e la navigazione, approfon-
dendo, gli uni, le questioni del lavoro, gli altri, quelle della coopera-
zione e dell'assicurazione, dell'emigrazione e delle colonie — spingen-
dosi poi tutti ugualmente il più possibile a contatto delle persone e
delle istituzioni, che sono in grado d'illuminare le rispettive loro ricer-
che. Così la nostra letteratura si accrescerà df opere poderose su
temi speciali: opere che sfideranno il tempo, che tutti i ricercatori
futuri si sentiranno costretti a consultare, e che terranno alta la' fama
dell'Italia.
Gli economisti maestri della nazione.
Quando su ogni circoscritta zona di studio vegliano appositi spe-
cialisti, è sempre possibile che, al delinearsi di gravi quistioni econo-
miche interessanti la collettività, si levi, sul tumultuare del pubblico
degl'incompetenti, la voce ammaestratrice e ammonitrice della cattedra.
L' Italia odierna vanta due uomini, che da soli tengono le veci, si può
dire, di un intero manipolo di specialisti : ammirevoli, perchè sembta
posseggano la chiave di tutti i problemi economici; benemeriti, perchè
non si stancano mai di predicare e di combattere, tenaci custodi en-
irambi delle nobili tradizioni liberali, avverse al socialismo^ alla iper-
Sulla oppor (imita di una storia dell'economia politica italiana 48 1
burocrazia, al protezionismo. L'uno originale in ogni passo, ricchis
Simo di cultura umanistica — storica, politica, letteraria — potente,
irruente, paradossale talvolta, è suscitatore di ferventi discussioni t
opposizioni ; l'altro semplice, metodico, equilibrato, sebbene talvolta
ceda alla piena della passione nascosta, insegna dal Corriere della Sera
garbatamente l'economia politica a migliaia di lettori, e comincia ad
essere ascoltato come un oracolo : voglio accennare a Maffeo Panta-
leoni e a Luigi Einaudi.
Quando saranno ordinati e raccolti in uno o più volumi gii arti-
coli che da più un ventennio Luigi Einaudi è andato pubblicando prima
nella Stampa e poi nel Corriere della Seni, si verranno ad avere sotto
mano i capitoli e di una cronistoria economico-finanziaria dell' Italia
e di un trattato italiano di economia applicata. Si resterà allora stu-
piti di tanta alacrità, di tanta sapienza, di tanto senno e anche di tanto
patriottismo.
E auguriamo che il Pantaleoni, oltre a proseguire la serie degli
Scritti vari con un quarto volume, pel quale la materia è già più che
sufficiente — e ci piacerebbe vedervi inserita la parte essenziale di un
suo recente studio semiologico, poco accessibile agli studiosi nella
sua forma attuale ^ -— voglia anche fare una cernita dei suoi articoli
più propriamente economici, sparsi in giornali innumerevoli, e ristam-
parli in volume.
Il giornale politico quotidiano è divenuto un concorrente della
rivista scientifica, e l'articolo del professore illustre merita spesso di
venir tratto dall'oblio a cui il giornale presto o tardi lo condannerebbe.
Se già letterati e giornalisti di grande valore, e anche di valore non
tanto grande, sentono il bisogno di far riapparire in volume gli arti-
coli critici, le novelle, e persino le loro cronache, quanto è più neces-
sario che salvino i loro articoli scientifici critici insigni della politica
economica e finanziaria, quali il Pantaleoni e l'Einaudi!"
Requisiti necessarii dello storico.
Lo storico dovrebbe possedere certi requisiti, che non sempre si
riuniscono nella medesima persona.
Dovrebbe padroneggiare tutta la nostra letteratura economica :
manuali, studi monografici sui più svariati argomenti, articoli di rivi-
1 Relazione del collegio dei periti nella causa tra ia Società anonima « Età
blissements Arbel » e l' Amministrazione delle ferrovie dello Stato, 1914.
« Il mio voto è oggi, almeno in parte, esaudito. Il Laterza ha dato alla luce tre
volumi del Pantaleoni : 1) Fra le incognite-, 2) Note in margine della guerra; Z) Po-
31 — Nuova Rivista Storica.
4*2 Umberto Ricci
ste, saggi contenuti in documenti ufficiali. E non solo la letteratura
italiana, ma anche quella straniera, e non solo la letteratura delT ultimo
mezzo secolo, ma anche quella anteriore, per istituire i raffronti e
stabilire le giuste proporzioni nello spazio e nel tempo.
Dovrebbe poi esser dotato di temperamento critico. Uno che
si mettesse in mente di lodare tutto quanto si è prodotto da Italiani
solo perchè italiano, uno che sentisse il prepotente bisogno di ono-
rare tutti i morti, riverire tutti i colleghi, incoraggiare tutti i giovani,
svaluterebbe subito la sua opera. Anni or sono il Loria soleva man-
dare dXV Economie Journal una rassegna della letteratura economica
italiana, e chi non veniva ricordato ed elogiato? II più minuscolo e
inutile lavoretto, pescato non si sa dove, era messo con superiore in-
differenza quasi a livello del frutto di nobili fatiche di nobili menti.*
La storia non si fa così, la storia sceglie e dà il giusto risalto a ciò
che merita di essere ricordato. Appunto il Loria, se non erriamo, ripor-
tava in uno dei suoi tanti saggi la bella sentenza di Francesco De
Sanctis : « perchè tutto è rilievo, manca il rilievo ».^
Lo storico deireconomia italiana dovrebbe essere anche imparziale.
E qui forse la difficoltà si accresce, perchè gli studiosi di una stessa
disciplina tante volte si odiano fra loro e tante volte si amano troppo.
Poniamo che l'incarico di scrivere una storia dell'economia in Italia
— e non pure in Italia, ma nel mondo intero — se lo prenda uno ài
quei giovani che camminano impettiti perchè si chiamano seguaci della
< Scuola di Lausanne ». Ebbene, egli dedicherebbe il primo capitolo
al Pareto — e fin qui tutti plaudono, essendo il Pareto uno scrittore
di così gran polso da ben meritare un capitolo in una storia italiana e
in una internazionale. Ma poi il nostro ipotetico storiografo sarebbe
capace di scrivere un secondo e ultimo capitolo destinato ai parafra-
satori, ricopiatori e diluitori del Pareto. E accluderebbe forse una
carta geografica — visto che la geografia è un occhio della sto-
ria — con in mezzo un cerchietto, che denominerebbe Lausanne^ e tut-
t'attorno un vasto spazio coperto dalla scritta: Deserto delVeconomia
letteraria.
Dottrina, senso critico, imparzialità: ecco dunque le doti del nostro
storico. Più d'uno fra gli economisti italiaoi ne è ornato ed è merite-
vole di scrivere la degna istoria, ma un nome mi è corso insistente
litica: criterii ed eventi. Il secondo volume è fatto, per l'appunto, quasi tutto di ar-
ticoli di giornali, mentre il primo e il terzo riproducono articoli di riviste. I tre vo-
lumi sono però limitati alle questioni della guerra.
' Cfr. V Economie Journal degli anni 1897 e 1906.
« Storia della leti, italiana {té. Croce) II, pp. 208-09.
i
Sulfa opportunità di una storia dell'economia politica italiana 483
sulle labbra: il nome di uno dei nostri più sapienti economisti, cauto
e signorile scrittore, giudice equanime, avveduto, sincero: Pasquale
Jannaccone. Se l'illustre direttore della Biblioteca dell* Economista vo-
lesse, egli potrebbe apprestarci la storia, della quale il paese nostro
manca. Essa servirebbe a far meglio conoscere il vero valore della
nostra produzione scientifica, coi pregi e coi difetti che le sono ine-
renti, a noi stessi italiani e servirebbe ad aprire gli occhi agli stranieri,
I quali, dovendo discorrere degli economisti nostri, saprebbero final-
mente dove informarsi.
Umberto Ricci.
s
Oli E in EEILI llll «HI 11 n EVO
Il problema.
La designazione di sapienza e civiltà degli Arabi nel Medio Evo
è una di quelle designazioni che ostinatamente si usano dai più,
anche se più volte da taluno ne è stata dimostrata Terroneità. Possono
starle accanto le denominazioni di architettura gotica e di cifre arabi-
che, che nonsot^o tali ma indiane, per tacere di altre meno ovvie e
comuni. Senonchè, ove si rifletta per un poco su questa sola domanda
che io propongo, si vedrà che la risposta negativa,^ che necessari.^
mente vi si deve dare, dimostra tutto quanto l'errore dell'asserto. E la
domanda è questa: Una nazione che per secoli e secoli era rimasta
nel natio deserto, lontana da ogni commercio con le altre^ genti, se-
polta neir ignoranza e nella barbarie più profonda, tanto ignorante e
orgogliosa dell'ignoranza sua, da trovarsi memoria di qualche suo poeta
che si vergognava di saper leggere e scrivere, asserendo che ciò era
cosa indegna, come potè d*un sùbito, nel giro di forse un secolo,
uscita dai suoi deserti, farsi maestra a tutto il mondo civile d'allora,
e ciò nelle più ardue e sottili discipline, quali la filosofia, la logica,
la medicina, la matematica e l'astronomia? Per quanto sia agile e acuto
e sottile r ingegno degli Arabi, si può mai supporre ch'esso d'uri
tratto, senza dirozzarsi, acquistasse tanto valore da soggiogare gì' in-
gegni tutti dei paesi colti e da lungo tempo inciviliti? Ancora. Per
quanto numerose fossero le orde di quei predoni del deserto, uscite
d'Arabia alla conquista, poterono esse invadere, esse sole, tante regioni
quante si stendono dall'Indo al Tago, dal Caucaso al Sahara, e se-
gnare nella mente delle genti conquistate l'impronta del proprio ingegno
e tramandar loro un sapere che esse stesse non avevano ? Se tutto ciò
Origine e natura della civiltà orientale nel Medio Evo 485
è impossibile nell'ordine naturale della storia (e in ciò appunto sta la
risposta alla domanda or ora avanzata), bisogna cercare altrove il come
e il perchè e l'origine di questo avvenimento, che ha del portentoso,
non essendovi forse altro esempio di tanto e così rapido dilagare
uniforme di idee, di opinioni, di dottrine, per così grande tratto di
paese.
Le lotte di razza attraverso il Mediterraneo.
Si può dire che il Mediterraneo fino dai tempi che toccano la
preistoria è stato il luogo designato, per ragioni molteplici, ad una
contesa non interrotta fra tutte le nazioni e le stirpi che si sono affac-
ciate ai suoi lidi. Stirpi africane si sono spinte verso il settentrione, e
stirpi europee dal più remoto settentrione sono discese verso le terre
meridionaH, quando le grandi metropoli dei regni e degl'imperi, che
dovevano dare al mondo la civiltà, non esistevano ancora. E poi, agli
albori della civiltà, quando s'iniziano 1 commerci, e i Fenici percor-
rono le acque del Mediterraneo, e fondano qua e là, sui litorali,
loro colonie, e passando lo stretto si spingono fino all'ultima Tuie,
antiche memorie ci parlano confusamente di quell'antagonismo tra
l'Asia e l'Europa, a cui fa cenno Erodoto al principio delle sue sto-
rie. L'Asia cerca di rovesciarsi sull'Europa. Risponde la Grecia con le
sue vittorie, alcune delle quali sono velate di mitologia e colorite
di epopea nella tradizione degli Argonauti conquistatori del vello
d'oro, e in quelle degli eroi greci confederati alla conquista di Troia.
Un'altra ci è narrata al lume della storia, ed è quella che ributta vinti
e scornati in Asia gli eserciti di Dario e di Serse. L'avventura di Ales-
sandro fu pure una vittoria dell'Europa sull'Asia, sebbene con indole
d'avventura cavalleresca. Ma la contesa infierì più che mai fra Carta
gine e Roma, quando, ed era questione di vita o di morte fra le due
potenti città rivali, sulle acque dei nostri mari e sui lidi d'Africa si
decise uno dei più gravi momenti di essa. La maestà e la potenza del-
l'Impero romano, giunto al suo massimo splendore, fece o parve far
silenzio per un lungo intervallo di tempo, ma . poi, quando fu diviso
fra Roma e Costantinopoli, di qua e di là, sui lidi tutti circostanti, si
rinnovarono le disperate battaglie per la difesa dell* impero contro le
orde barbariche calate dal settentrione e penetrata fino a toccare i
lidi opposti d'Africa e a fondarvi effimere signorie. E la contesa, as-
sunto alfine color religioso, si rinnovò più fiera al dilagare dell'Isla-
mismo, che giunse a toccar Sicilia e Spagna e Provenza, e al quale
risposero con ardito e pertinace slancio le Crociate. Col sopravvenire
dei Turchi, gente nuova per noi fino al X secolo, essa si rinfocolò
486 Italo Pizzi
ancor più. Arrestò i Turchi a Lepanto, nel 1571, il valore delle armi
cristiane; ma intanto la mala signoria non si tolse mai più da Costan-
tinopoli, dove erasi fnsediata nel 1453, per minacciar poi sempre d»
là, pdiata sempre, ma tollerata sempre e sostenuta fino ad oggi dalle
bieche discordie nostre.
Gli scambi di civiltà attraverso il Mediterraneo.
Eppure, in tanto secolare strepito d'armi, i molti scambi e com-
merci, anche intellettuali, che fin dal principio s'iniziarono fra genti
tanto diverse, non cessarono mai ; onde il Mediterraneo, se fu il campo
della secolare contesa, fu anche la via della civiltà. Accadde quello che
sempre suole accadere tra due eserciti combattenti, cioè colloqui e
scambi agli avamposti, allorché . per qualche istante posano le armi.
Anche qui, nel corso di tanti secoli, tanto in guerra quanto in pace,
molte cose si barattarono dall'Oriènte all'Occidente e dall'Occidente
all'Oriente. Tracce di scienza astronomica greca si son trovate nei
libri sanscriti, mentre i Greci ricevettero dall' India, insieme alle merci
preziose, idee e postulati filosofici. Un antichissimo commercio di col'
telli e di spade con baratto di blocchi di stagno si fece già tra l'Asia
e l'estrema Europa, e il tramite principale n'erano il continente asia-
tico per la via regia, tracciata dai monarchi assiri e dai monarchi per-
siani, e il mare sui navigli fenici. E intanto nozioni pratiche d'astronomia
e di computo affluivano, per ignote vie, da Babilonia fino all'estremo
settentrione d'Europa. Assai più tardi penetrava in Oriente l'ellenismo
con Alessandro, che; fondandovi tante città designate dal suo nome, vi
lasciava anche un focolare, che d' un sùbito non si estinse, durò anzi
lungo tempo ancora, del capere greco. E Alessandria d'Egitto fu d'al-
lora in poi per più secoli il luogo di convegno dei dotti d'Oriente e
d'Occidente, e Seleucia e Ctesifonte, e Antiochia e Pergamo furono
sedi celebratissime d' un sapere, che, pur serbandosi prevalentemente
greco, assunse anche un carattere universale.
Ma poi, quando Roma, incalzando i barbari dal settentrione, non
potè più occuparsi delle faccende d'Asia, che, volente o nolente, abban-
donò alle cure degl'Imperatori di Costantinopoli, una fiacchezza fatale,
degenerata presto in sfinimento, sorprese le due maggiori monarchie
orientali d'allora, quella di Costantinopoli e quella di Ctesifonte, la
greca e la persiana. Se da noi si parla di questioni biza;itine da che ì
cortigiani teologi di Bisanzio occupavansi di cose da nulla e non s'ac-
corgevano degl'interni mali che rodevano le radici dell'impero, altret-
tanto vana, di rincontro, era la Corte persiana, sì che fa pietà il leg-
Origine e natura della civiltà orientale nel Medio Evo 487
geme le cronache misere, piene d* intrighi, di discordie, di gelosie, di
congiure, di tradimenti. La canzone epica, di Firdusi, che celebra le
imprese guerriere dei tempi eroici della Persia, vela a gran stento il
vuoto di questi tempi tardivi, quando ci racconta come T ultimo re
di Persia, l'infelice Yezdeghird 111, morto trucidato da un mugnaio
nel 652 d. C, mentre fuggiva davanti agli Arabi invasori, più che del
regno, più che della perduta dignità, occupavasi, in una lunga lettera
regale, dei profumi e delle manteche, dei gioielli e delle pelliccie, delle
carni salate e dei cani da caccia, di che volevasi provvedere nell'amara
via dell'esilio! ^
L'espansione arabica e le sue cause originarie
Ed ecco intanto, fra due monarchie cadenti, avanzarsi, non attesa,
una gente nuova, sospinta da una- fede religiosa, ma più ancora dalla
fame e dalla brama di far bottino, l'araba.
Si è sempre ritenuto che la nuova religione, a cui Maometto aveva
chiamato gli Arabi, dati all'idolatria dall'antichità più remota, tosse
ciò che li spìnse alla conquista di tanta parte del mondo. Studi più
recenti, invece, hanno dimostrato che, se gli Arabi uscirono dal natio
deserto, non fu perchè invasati del novello spirito religioso, essi che
a volta a volta, in sul principio della nuova religione, ignoravano cosa
mai fosse veramente il Corano, nel cui nome combattevano, si bene
perchè sospinti e cacciati dalla fame e dalla povertà estrema. Del premio
loro promesso da Maometto in Paradiso al grosso di tante orde poco
veramente importava; ma poiché Maometto aveva altamente procla-
mato «Combattete nella via del Signore!», tale precetto perentorio
fu subitamente' e avidamente inteso nel senso di far preda nelle pingui
campagne e nelle città di Mesopotamia, di Siria, d'Egitto, togliendole
ai sovrani di Costantinopoli e di Persia, di cui da lontano esse avevano
fiutato la fiacca impotenza. Che prima ancora di Maometto gli Arabi
avessero tentato di sbucare dai loro deserti, è cosa antica assai, e se
ne ha memoria fin dai tempi assiri e babilonesi nelle iscrizioni cunei-
formi. Ma sempre e sempre, sebbene con grande stento, furono trat-
tenuti. Si legge anzi negli annali musulmani che un re di Persia,
mandando in Arabia un suo principe vassallo della Casa di quei di
Hira, gli domandò nel cospetto della Corte: « E saprai tu tenere a
freno gli Arabi ? » I principi di Hira erano di stirpe araba anch'essi,
1 II curioso documento si legge nel Libro dei Re di Firdusi (voi. Vili, pp. 432
e segg. della mia traduzione), Torino, Unione Tip. Ed., 1886-89.
488 Italo Pizzi
e di stirpe araba erano pure quei di Ghassan. Occupavano le regioni
che si stendono, all'ingrosso, tra la Mesopotamia e la Siria, da una
parte, e l'Arabia, dall'altra, e quelli erano vassalli della Persia, e questi
dell'Impero d'Oriente, strumenti gli uni e gli altri di tirannia, o,
se si vuole, di freno ai turbolenti abitatori del deserto, lasciati a logo-
rarsi scambievolmente nelle discordie sanguinose, delle loro tribù.
Ma quando questi Arabi s'accorsero, come ora si diceva, del deca-
dere delle due grandi monarchie, che fin allora avevano loro conteso
il passo, quando si voltarono alla religione di Maometto gli stessi
principi di Ghassan e di Hirà, tolta a pretesto la nuova religione, irrup-
pero con inaudito furore nel contrastato territorio nemico, vi fonda-
rono campi militari, che poi diventarono le città di Bassora e di Kufa,
penetrarono nelle vecchie metropoli di Damasco, d'Antiochia, di Ctesi-
fonte, fondarono Bagdad sulle rive del Tigri. Furono la fame e il
bisogno che li sospinsero tant'oltre, predoni come allora erano per
natura, sebbene, col progredir del tempo, sentimenti assai più nobili
sopravvenissero ad animare qualcuno dei loro personaggi più illustri.
« Mungete la cammella ! », mandavasi a dire dai Califfi d'Arabia ai
generali musulmani, e per la ca/w/7z^//fl , intendevansi le campagne di
Persia e di MesopotamV
1 primi effetti della conquista.
Chi ha messo in luce questo importante punto di storia, è stato
Leone Caetani, principe di Teano, in un'opera che è tutto un monu-
mento di sapere e di cri1,ica acuta e giudiziosa.* Dopo ciò, è facile
intendere in qual modo si comportassero, nei paesi conquistati, queste
orde di barbari, ignorantissimi. Altro che farsi maestri di civiltà a
mezzo mondo! Che, se non è credibile che al tempo del Califfo Omar
i conquistatori facessero strame dei papiri delle biblioteche d'Alessandria
ai loro cavalli, è pur troppo vero che in Siria e in Persia e in tutta
quanta la Mesopotamia ogni cosa fu devastata e distrutta. La reggia
persiana di Ctesifonte fu arsa, e si racconta fra l'altro come un ma-
gnifico tappeto, che il monarca persiano si soleva distendere nei giorni
solenni, tappeto, che con fiocchi variopinti di seta e con grappoli di
rubini, di topazi, di turchesi e di perle doveva rappresentare un prato
di primavera, tagliato in più pezzi, fu mandato a distribuire tra gli
avidi capi delle tribù d'Arabia.
1 L. Caetani, Annali delU Islam, Milano, U. Hoepli, 1905 e sgg. La pubblicazione
di quest'opera insigne, disgraziatamente interrotta dalla presente guerra, è giunta a tutto
il volume ({uinto. Ne rimangono ancora da pobblicare molti altri, quod est in votisi
Origine e natura delta civiltà orientale nel Medio Evo 489
Ben presto però i conquistatori s'accorsero che incombeva loro la
cura dell'azienda pubblica e l'amministrazione delle accumulate ricchezze
e l'ordinamento dei tributi e delle spese pubbliche, tutte cose che nel
deserto non si usavano e perciò s'ignoravano interamente. E allora
essi, che non sapevano né leggere né scrivere, si valsero, pur disprez-
zandoli cordialmente, degli ufficiali greci già ai servigi degl' imperatori
di Costantinopioli, e dei Persiani, per tener . registri e scriver lettere e
far computi. Né ebbero in sulle prime moneta propria, ma, quando ne
coniarono, vi apposero leggende persiane, imitando quelle dei monarchi
persiani, i Sassanidi, di recente debellati da loro e privati del trono.
Quando poi il Califfato uscì d'Arabia per insediarsi prima a Da-
masco e poi a Bagdad, in quella Corte prevalsero il sapere e l' ingegno
dei Siri, in questa il sapere e l' ingegno dei Persiani, e ciò con gran-
dissimo scandalo degli Arabi ortodossi, intransigenti, che vedevano con
dolore insinuarsi elementi stranieri nella dottrina del Profeta. Essi (T più
pii erano rimasti in Medina) consideravano come figliuoli di Satana
i Califfi di Damasco, gli Ommiadi, dati alle armi e ai piaceri, e come
empi e atei quelli di Bagdad, gli Abbassidi, dati al fasto e al filoso-
fare. È notevole, a tal proposito, quel detto tradizionale del Profeta:
« Tu non devi speculare intorno all'esistenza di Dio, sì bene obbedire
a Dio! ». Ma intanto veniva nascendo e formandosi e maturando len-
tamente quella civiltà, che noi siam soliti chiamare araba, e che è tut-
t'altro che tale, come già facilmente sì può intendere da quanto finora
abbiamo detto.
Civiltà siriaca e persiana in veste araba.
Tutto il periodo, che va dal II al V e al VI secolo dell'era volgare,
è occupato, nell'Asia anteriore, da uii intenso movimento o lavorio tutto
proprio dei Siri. La sapienza greca, da Alessandria e da Pergamo e da
Antiochia, erasi propagata per tempo in tutta- la Siria e la Mesopota-
mia, e fioriva nelle scuole siriache di Nisibi e dì Edessa, dove s' inse-
gnavano la filosofia e la grammatica, l'esegesi biblica e la teologia, le
matematiche e le scienze naturali. Senonchè tanto sapere, tanto lavorìo
intellettuale non fu originale ; fu privo, anzi, di ogni tratto geniale, se
ne togli l'opera poetica di S. Efrem diacono della chiesa di Edessa,
morto nel 372, che fu il maggior poeta che vanti la Siria e i cui bel-
lissimi inni funebri si cantano tuttora dalla chiesa sìra nelle esequie
dei morti. Ma, se non fu né originale né geniale, fu diligentissìmo con-
servatore della sapienza greca, dì cui tradusse le opere, anche quelle
poetiche, poiché si ha memoria di un Teofilo astronomo di Edessa,
che tradusse in siriaco V Iliade e V Odissea. Tanto poi era andata attorno
490 Italo Pizzi
la fama df così grande splendore, che i re dì Persia della dinastia dei
Sassanidì mandavano in Siria a studiarvi i loro giovani, alcuni dei
quali poi, scrivendo, non usarono già il persiano, sì bene il siriaco,
come fecero appunto il filosofo Afraate e Paolo di Dayr-i-Sher, autore
d'un trattato di logica dedicato al re di Persia Chosroe il grande (531-
78 d. C). Onde, se non fossero sopravvenuti gli Arabi conquistatori, è
certo che la lingua dotta del Medio Evo orientale sarebbe stata la si-
riaca. Fu, invece Taraba come ora diremo. E già, al tempo dei Califfi
Ommiadi che risiedettero a Damasco fino al 750, i dotti sirìaci si videro
costretti a voltare dal siriaco in arabo, per compiacere ai novelli signori,
le opere greche che essi avevano già tradotte. Fu maestro in ciò sotto
gli Abbassidi, un secolo dopo, un medico siro, Honeyn ibn Ishaq,
a cui il Califfo Al-Mutavekkil (847-861 d. C.) pagava le traduzioni
veramente a peso d'oro, mettendone nell'un piatto delle bilance il ma-
noscritto e nell'altro tante, monete d'oro quante potevano uguagliarne
il peso. Né è necessario soggiungere che tutta cotesta sapienza siriaca,
sebbene cristiana, era greca d'origine e di concetto. Sopravvenne intanto
un decreto, che non cambiò punto la sostanza delle cose, ma ne cambiò
d'un tratto la faccia esterna, per così dire, e l'apparenza.
Il Califfo Ommiade Abd al-Melik, che regnò dal 685 al 705 d. C,
in ossequio al Corano, al libro rivelato da Dio, ordinò con solenne
decreto che ogni fedele musulmano dovesse usare, scrivendo, la lingua
in cui quel libro era stato scritto, cioè l'arabo, è i Musulmani tutti,
anche dei paesi dove Tarabo era pur sempre una lingua straniera, obbe-
dirono pronti e devoti. Avvenne pertanto che l'arabo divenne la lingua
dotta di tutto l'impero dei Califfi dall' India alla Sicilia e alla Spagna,
dal Caucasp all'Egitto, e che, mentre ben altro che arabi erano il pen-
siero e il sapere e la dottrina, agli Occidentali tutto questo pensiero,
ritornando dall'Oriente, sì presentò loro in veste araba, onde fu in
buona fede ritenuto genuinamente arabo. I Persiani e i Siri, che erano
i popoli più dotti convertiti di recente alla religione di Maometto, si
trovarono costretti a scrivere in quella' lingua, e però, mentre da una
parte la lingua siriaca, affine all'araba, perchè semitica anch'essa,
c^dde in disuso, tanto che, per esempio, lo scrittore siro Bar Hebreo,
vescovo dì Melitene e primate d'Oriente,, del XII secolo, si ridusse a
voltare in arabo la sua cronaca già dettata in siriaco, dall'altra parte,
i Persiani tardarono quasi tre secoli a dar princìpio alla loro bella
letteratura scrìtta in persiano, che incomincia propriamente col magni-
fico poema di Firdusì, il Libro dei Re. La lìngua persiana, perchè
non semitica, ma indoeuropea, resìstette all'urto e si conservò. Avi-
cenna, infatti, che tutti, anche i commentatori di Dante, spacciano per
arabo e che invece era persiano, nativo di Bukhara, scrìsse in arabo
Origine e natura della civiltà orientale del Medio Evo 491
il SUO Canone di Medicina^ mentre, quando voleva divertirsi poetando,
componeva in persiano certe quartine d'acre safjore scettico, dì cui ecco
un esempio :
Con questi pochi sciocchi che si pensano
Esser del mondo i saggi in lor stoltizia,
Esser tu devi un asino.
Per quella asineria che passa il termine,
Questa gente ogni tal che non è un asino
Empio dice ed eretico.^
Dopo quello d'Avicenna ecco i nomi di altri non meno celebri,
che furono o sono ritenuti tutt'ora arabi, e non sono.
I nostri del Medio Evo, nei loro trattati scientifici, solevano appel-
larsi, oltre a quella d'Aristotele, di Galeno, di Tolomeo, anche all'auto-
rità di Agazel, di Alrasi, di Alfarabio, di Albatenio, di Alfragano, di
Aìbumasar, e d'altri meno noti. Ora Agazel o.Algazel non è che il
teologo e filosofo At-ghazzalr, professóre a Bagdad, morto nel 11 11 d. C,
ma nativo di Tus nel Khorassan, concittadino di Firdusi, quindi an-
ch'egli persiano. Alrasi, cioè Al-Razi, che avanzò dì gran lunga i
medici greci nella chirurgia, e immaginò, tra l'altro, l'operazione della
cateratta, morto nel 932, le cui opere voltate in latino e in ebraico si
lessero e studiarono nelle nostre scuole fino al secolo XVI, era per-
siano, come, del resto, dice lo stesso suo cognome Al-Razi, cioè nativo
di Rey nella Media, che è la Rhages della Bibbia e la Ragha delle
iscrizioni, cuneiformi persiane, Alfarabio, cioè Al-Farabi, filosofo aristo-
telico era di Farab nella Transoxiana, nella parte più settentrionale
della Persia, morto nel Q50. Albatenio, cioè Al-Battani, morto nel 929,
di cui il mio illustre discepolo, il professore Carlo Alfonso Nallirìo, ha
pubblicato alcuni anni fa l'insigne opera astronomica corredandola
d'una bella traduzione latina, era nativo di Harran in Mesopotamia.
Ma della Persia settentrionale era AlTergani,' nativo di Fergana, astro-
nomo e cosmografo, citato da Ristoro d'Arezzo e da altri col nome
di Alfragano, della cui vita nulla veramente sappiamo se non che visse
nel secolo IX. E citato dallo stesso Ristoro è pure Aìbumasar, cioè Abu
Maashar, nativo del Khorassan, morto nell'SSl, dottissimo in astrologia
e in astronomia.
Ma l'ingegno persiano prevalse anche in molte altre opere. Come,
per esempio, chiamare ancora architettura araba quella di cui abbiamo
esempi meravigliosi in Sicilia e in Ispagna, da che gli Arabi d'Arabia
i Vedine qualche altro esempio nella mia Storia della poesia persiana^ Torino,
Unione Tip. Ed., 1894, I, p. 280, e nel mìo Islamismo, nei Manuali fioepli, Milano,
(1903i p. 306).
dq2 Italo Pizzi
non ebbero mai architettura, essi che da secoH abitavano sotto le tende ?
La così detta architettura araba o moresca è dovuta, per quello che
se ne può congetturare, ad un congiungimento od intreccio di elementi
bizantini e persiani; e venuti di Persia erano i più celebri architetti
che lavoravano per conto dei Califfi, come quel Rozbeh di Hamadan,
che per il Califfo Omar edificò la moschea di Kufa/ L'elegante col-
tivazione dei giardini con la bella varietà di tanti fiori, e in partico-
lare delle rose, l'arte d'innestare alberi fruttiferi per trarne mille varietà
di frutta, l'arte del distillar rosolii, vennero dai Persiani.^ Passata l'arte
del giardinaggio per mezzo degli Arabi in Ispagna e in Sicilia, venne
ad allietare da noi, in modo non prima veduto, le case dei signori.
Non si deve però affermare, come fanno taluni, che nulla, vera-
mente nulla, abbiano dato gli Arabi e i Semiti in generale, alla scienza
e alla civiltà, che sarebbe eccessivo. Ma noi insistiamo su questo punto,
cioè sull'errpre, tanto invalso da noi, di reputare e chiamare arabo ciò
che non è e non potè essere tale. Resta il solo idioma, l'arabo, in cui
tutto questo sapere fu versato, idioma però felicemente scelto per la
sua mirabile duttilità, finezza e pieghevolezza. Senonchè non già per
queste sue belle qualità esso fu scelto dal Califfo, ma piuttosto, come
abbiam detto, per fare atto di reverenza al Corano. Nella sostanza poi
e nell'intima essenza, anche con alcune parti stranière, venute dall'India
o d'altronde, esso altro non è che il sapere greco ritornato a noi. Nem-
meno Aristotele ritornò genuino, sì bene tanto inquinato di dottrine
panteistiche, che la Chiesa ne proscrisse dalle scuole le opere, repu-
tate eretiche, dichiarando inoltre esso Aristotele padre di tutte le eresie.
Toccò poi a Galileo, più secoli dopo, l'ufficio e il merito di rimettere
in onore l'Aristotele vero e il metodo di lui nella indagine scientihca.
Riferiscono, intanfo, le storie del Medio Evo i nomi di quei beneme-
riti che tradussero dall'arabo in latino le opere venute dall'Oriente,
tra i quali forse i più illustri furono un italiano, Gherardo da Cremona
del secolo XII, traduttore delle opere di Avicenna, e un francese, Ger-
berto monaco di Aurillac, studioso di scienze fisiche apprese su libri
arabici, e però sospettato di eresia, salvatone, soltanto quando fu as-
sunto, nel 999, alla cattedra di San Pietro col nome di Silvestro IL E
già di sopra abbiam fatto menzione di versioni dall'arabo in ebraico
jier opera di dotti ebrei.
i M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, cap. lU. Vedi anche il mio Islami-
smo, cap. VI, 9.
* Un esempio chiaro di tal^ trasmissione, per mezzo degli Arabi, lo abbiamo nella
voce giulebbe, che è persiana e significa acqua di rose. Ma in persiano suona gulàb,
da gul rosa, e ab acqua. Si deve agli Arabi, che non hanno il g duro nel loro alfa-^
Jbeto, e pronunciano à quasi come un ^, se i^oi diciamo giulebbe e non gulabbe.
Origine e natura della civiltà orientale del Medio Evo 493
La conquista turca e 1 suoi effetti.
Lungo adunque e non interrotto mai, anche a dispetto dei tor-
bidi frequenti e lunghi, fu cotesto commercio intellettuale. Con tutto
questo, ciò che infuse alla fine certa profonda antipatia e certa invin-
cibile diffidenza fra le due parti, furono due fatti importantissimi che
sono le Crociate e la preponderanza turca dai secoli XI e XII, nell'Asia
anteriore, e, nell'Asia minore, dal secolo XIV in poi. Le Crociate offesero
profondamente i Musulmani tutti, dai quali, a principio, s'intende bene,
e non dipoi, il Cristianesimo era fatto segno del maggior rispetto, e
considerato come la religione più vera e più santa fino all'Islamismo,
il quale, e da Maometto e da loro, se ne reputava come un ulteriore,
anzi un ultimo perfezionamento. Maometto stésso si proclamava il sug-
gello dei profeti, cioè colui che aveva compiuto l'opera di Gesù, che,
alla sua volta, aveva reso più perfetta quella di Mosè e di Abramo.
li Califfo Omar, allorché entrò vittorioso in Gerusalemme, pregò devo-
tamente nel tempio al fianco del Patriarca cristiano, Sofronio, e, quando
il Saladino fu sollecitato a rendere ai Cristiani il Santo Sepolcro, ri-
spose così : « Per noi Musulmani il sepolcro del vostro Profeta è tanto
degno di venerazione quanto è per voi, e voi potete onorarlo di visite
e di adorazione ogni qualvolta vi piaccia >.
Ma più tardi i Turchi, abborriti cordialmente dagli Arabi e dai Per-
siani, non solo perchè di razza diversissima (erano Turani discesi dalle
steppe dell'Asia settentrionale), ma anche perchè tra l'VIII e il XII se-
colo fecero orribili stermini e rapine, e distrussero nel 1258 il Califfato,
e fondarono potenti signorie in Persia, in Siria, in Mesopotamia e nel-
l'Asia Minore ; i Turchi, diciamo, insediatisi in Costantinopoli, furono
come una barriera insuperabile eretta tra l'Oriente e l'Occidente. E
seminarono attorno tant'odio e tanto livore, che li fece invisi a noi,
coinvolgendo in tale odio tutte le altre nazioni orientali, che prima assai
di più erano accostevoli e meno renitenti e ritrose. Ma oggi Gerusa-
lemme, la città santa, oggetto di tante contese, è stata riconquistata
dalle armi alleate d'Italia, d'Inghilterra, di Francia, ed essa, sottratta
all'indegno dominio, sarà nell'avvenire faro e stazione luminosa per
ravvivare il commercio e il colloquio intellettuale d'un tempo.
Elementi orientali nelle nostre letterature.
Esso infatti si può chiamar tale perchè tale veramente fu. Molte
cose passarono d'Oriente a noi nel Medio Evo. Altre furono nozioni
scientifiche, e altre furono nozioni d'arte e di letteratura con non poca
494 ^i^io Pizzi
parte dovuta alla immaginazione popolace. Ma quali ne furono i modi
e le vie?
Quanto alle scientifiche, s'intende in qual modo e per qual via
dovettero passare a noi, e già più innanzi l'abbiaoi detto. Furono i
dottori musulmani (ora non li diremo più arabi) che inviarono ai no-
stri e tramandarono qu^i libri che in tutto il Medio Evo furon letti e
commentati nelle scuole. Ma più difficile è, e sarà sempre, rintracciar
la via, per cui venne a noi dalla Persia e anche dairindia tutto quel-
l'insieme di cose, non poche veramente, dovute all'immaginazione e
alla letteratura. La maggior parte n'è d'invenzione popolare, e coloro
che trasmisero questi elementi, appartenendo alle classi popolari, ci
rimasero quasi tutti ignoti. Non potendo altro, accenneremo qui alle
cose più importanti per dimostrare anche una volta che anch'esse, come
tante altre, sono da attribuire a tutt'altra gente e a tutt'altra origine
che all'araba.
Uno dei più notevoli doni, fatto a noi nel Medio Evo dall'Oriente
indiano e persiano, è quello delle favole e delle novelle. Lunga e ricca
di particolari curiosi è tutta la storia della venuta, fin dall'India, del
libro sanscrito il Panciatantra, in cui, per via di apologhi e di favole
si trattano certi punti di morale pratica, né qui sarebbe il luogo di
narrarla. Questo solo si noti ^ si sappia che, tradótto in lingua pehle-
vica al tempo del re Chosroe di Persia, per via di versioni e d| rifa-
cimenti arabici, siriaci, persiani, ebraici, greci, latini, italiani, fiamminghe
spagnuoli, tedeschi, si sparpagliò, trasfigurandosi in. mille guise pei li-
bri dei nostri novellatori d'Occidente, compresi il Boccaccio, il Ban-
dello, il Firenzuola, il Doni. Da molti e in gioiti dei quali serbasi tut-
tora il disegno di quel primo e lontanò libro, che è quello d'incorniciare
e comprendere in un solo racconto principale tanti racconti secondari
e minori, intrecciati fra loro, che rientrano l'uno nell'altro, distribuiti per
tanti capitoli o giornate secondo soggetti determinati. È questo, come
ognun vede, il disegno del più cospicuo fra i nostri libri di novelle,
il Ùecamerone, Lo stesso libro popolare, tanto famoso, delle Mille e
una notte, che dai più si ritiene arabo,. non è che una remota e ultima
e alterata trasformazione, con elementi d'altra origine e in lingua
araba, del Panciatantra}
Ci venne pure dall'India il giuoco degli scacchi, di cui nel Libro
dei Re di Firdusi,^ si narra la storia molto curiosa e nuova. Ma dal-
1 Per tutta questa storia del Panciatantra t delle sue derivazioni, vedi la mia tradu-
zione: Le Novelle indiane di Visnusarma (Panciatantra), Torino, Unione Tip. Ed., 1896;
e più aneora: V Introduzione al Solvan el Mota d*Ibn Za/er, trad. dell* Amari, Firenze, Le
Mounier, 1857 ; e Benfey, Pantschatantra, fan/ BUcher indoear. Pabeln, Leipzig, 1859
* Voi. Vili, pp. 222 e segg. (della mia traduzione),
Origine e natura della civiltà orientale nel Medio Evo 495
l'India, sempre al tempo delire Chosroe, passò in Persia e dalla Persia,
per qùal via non sappiamo bene, venne a noi regalandoci alcuni ter-
mini speciali che vi si riferiscono.*
Il tipo o. carattere dell'uomo del volgo, rozzo, ignorante, ma do-
tato d'acuto ingegno e di fine buon senso, franco e scaltrito, che rap-
presenta appunto il senno popolare, contrapposto al sapere aulico,
seduto in trono o in cattedra) che da noi si presenta nella veste di
Bertoldo, di Marcolfo, di Sidraco, è pure di origine persiana, t il mo-
dello primo 0 prototipo, che^ voglia dirsi, trovasene in quella lettera-
tura. Nella quale, come da noi nella popolare, ebbe già gran voga un
libro, rifatto poi anche in arabo, in cui narravasi come il figlio d'un
povero contadino, allevato rozzamente in campagna, venuto alla Corte
d«»l gran re Chosroe, disputasse coi magnati del regno e' coi dottori
e tutti ti confondesse. Chiamavasi Buzurcimihr, ed ebbe poi, per Tin-
nato buon senso, il soprannome di savio. Di quel libro persiano ci
restano tuttora molti saggi e rifacimenti, tra i quali uno di Avicenna,*
e vi si riferiscono i dialoghi, le sentenze e le dispute di esso Buzurci-
mihr, phe fanno un bel riscontro a quelle di Bertoldo a Corte del re
Alboino, di Marcolfo a Corte del re Salomone, di Sidraco, se non
un'inganno, in una Corte provenzale.
Ma il più bel dono della Persia, anzi della più orientale regione
della Persia, è quello, non ne dubitiamo, della bionda Angelica, che se-
dusse, al dire dei poeti nostri cavallereschi,] Paladini dì Francia.
In un poema ciclico della scuola di Firdusi, e però dell'XI e tut-
t'al più del Xll secolo, dMgnoto autore, si racconta come un bel giorno
il re del Khatày, nimicissimo del re di Persia, mandasse una figlia sua,
bellissima, esperta in ogni arte magica, accompagnata da un suo gio-
vane e valoroso fratello, a sedurre co' suoi vezzi i campioni persiatji.
L'avvenente maga, Susena, si presenta d'improvviso a Rustem, che è
il più illustre e valoroso guerriero dei tempi eroici della Persia, nel
mentre ch'egli celebrava con altri prodi in un solenne convito la festa
della primavera. Tocchi dai vezzi di lei, i guerrieri tutti perdono uno
ad uno il senno e abbandonano le armi e la causa del loro sovrano
per correrle dietro, pazzi d'amore. Per chi legge cotesto nel poema ci-
clico persiano,^ non può riuscir dubbio ch*esso sia il tipo primo (l'epo-
» Tra questi termini, sono : scacco, re (pers. sliàh. Io Scià) ; scaccomatto, il re è
morto ; rocco, torre (pers. rukti), e altri.
* Vedine un saggio, appunto d'Avicenna, nella miti Storia della poesia persiana,
voi. II, pp. 346 segg. Anche Firdusi, nel suo poema (voi. VII, pp. 205 segg. della
mia traduzione), ne reca un rifacimento molto ampio.
8 Vedine un saggio nella mia Storia della poesia persiana, II, pp. 137 segg. Il
testo del poema che ha per titolo: V Avventura di Berza figlio di Sohràb^ trovasi a
496 Italo Pizzi
pea persiana risale molto addietro,, nel Medio Evo, e se ne trovano
certe parti accennate anche nell'Avesta, che è il libro sacro di Zara-
thustra),^ della bella Angelica. Questa figlia del maggior sovrano del
Levante venne dal Cataio (il Khatày del nostro poema persiano) accom-
pagnata dal giovane suo fratello, e si presentò al re Carlo nel giorno
della Pasqua di rose, cioè nella festa della primavera, quando appunto
il re solennemente banchettava, per fare impazzire co' suoi vezzi i Pa-
ladini di Francia e trarli tutti quanti dietro di sé, discordi e forsennati.
Giosuè Carducci, al quale io feci conoscere, tra i primi, tutto que-
sto racconto da me rinvenuto, sentenziò per la non dubbia origine
persiana del personaggio d'Angelica, imitato i)oi dal Tasso nelhi sua
Armida, maga avvenentissima anch'essa. Senonchè i più insigni stu-
diosi italiani di letteratura medievale, e in particolare cavalleresca,
hanno sempre negato con incomprensibile ostinazione, non ostante
tanta somiglianza o meglio identità di cose e di particolari, questa per
me indubitabile provenienza. Io però non rinuncio e non rinuncerò
alla opinione mia, avvalorata dal suffragio del Carducci. La rafforzerò
piuttosto adducendo un altro caso affatto consimile, quello della pro-
venienza persiana del notissimo romanzo di Tristano e Isotta, tanto fa-
moso da noi nel Medio Evo per tante redazioni e rifacimenti. Ma poiché
il trattar questo punto richiederebbe troppo spazio, così rimanderò vo-
lentieri chi volesse saperne di più ad uno scritto del professore Ro-
dolfo Zenker e ad uno scritto mio, che diligentemente lo riassume e
commenta.* Vi si troveranno le prove.
Altre cose potremmo aggiungere a conforto della nostra tesi, pur
limitandoci al campo delle letterature. Potremmo aggiungere che nel
Libro dei Re di Firdusi, e nei poemi ciclici della sua scuola, tutti del-
rXI o del XII secolo, comune episodio è quello d'una fanciulla guer-
riera che combatte, chiusa nell'armi, con un giovane campione ne-
mico, il quale 4J0Ì, quando con un colpo di lancia le svelle l'elmo dal
capo, perdutamente se ne innamora, come appunto avviene di Clo-
rinda e di Tancredi nel poema del Tasso ; ' che il disegno dei contrasti
pp. 2160 é segfic in fine al testo persiano del Libro dei Re, nell'edizione di Calcutta
procurata dal capitano Tumer Macan, del 1829.
1 Vedi, per tutto questo punto, il cap. V della Poesia epicut nella mia Storia della
poesia persiana f e la mia traduzione àeWAvesta (negli Immortali, n. 26, dell'Istituto
Editoriale Italiano, Milano, 1917).
« R, Zenkeb, Die Tristansage und das persische Epos von Wts und Ràmin (nelle
Romanischen Forschungen, XXIX Band, 2 Heft, Erlangen, 1910); I. Pizzi, L'origine
persiana del romanzo di Tristano fi Isotta (nella Rivista d'Italia, 1911).
8 ^ l'episodio di Sohrab e di Ourdafrida nel Libro dei Re (voi. II, p. 209 della
mia traduzione)* Simile episodio trovasi nel poema ciclico persiano, il Libro di Sàm
Origine 6 natura della civiltà orientale nel Medio Evo 497
e delle tenzoni, tanto usate da noi nel Medio Evo, trovasi già nelle
tenzoni persiane del IX e del X secolo ; che ogni poesia d'amore per-
siana incomincia, come tante nostre, con la descrizione obbligata della
primavera; che certe operazioni campagnuole vi sono descritte, in ap-
positi componimenti poetici, al modo delle nostre, come, per esempio,
quella della pigiatura dell'uva, che là si rappresenta come un martirio
dì essa uva, che fortemente se ne lagna, e qui si rappresenta sotto la
forma del martirio di San Bacco/ Ma bastino le cose accennate, anche
se accennate in via sommaria, per dimostrare quanto poco di arabo si
trovi in tutto ciò che da noi si vuol comprendere sotto il nome er-
rato e improprio di civiltà e dì scienza degli Arabi nell'età di mezzo.
Tutto ciò che s'è inteso o s'intende sotto questa denominazione (la so-
stanza diciamo e l'origine, non la lingua, non la forma), è molto più
antico di quanto comunemente si pensa, anteriore dì molto al primo
apparire degli Arabi sulla scena della storia.
Italo Pizzi.
vedi la mia Storia della paesi a persiana. II, pp. 80 segg. ; 235, dove è contenuto un
breve saggio tradotto).
1 Vedine un esempio nel canzoniere del poeta persiano Minocihri, del sec. XII
nell'edizione di A. de Biberstein Kazimirski, Menoutchehri, poète persati daXIIsìècle,
Paris, 1886, p. 193, della trad. francese, p. 54 del testo persiano. Si cfr. anche la mia
Storia della poesia persiana, I, pp. 82 e 145; II, p. 481, e tutto il cap. IX, che tratta
Delle somiglianze della letteratura persiana con le nostre nel Medio Evo,
S'
32 — Nuova Rivista Storica.
IO illlIO E U [HTH (ME 1
f=SS^
Importanza delle città capitali nella vita degli Stati.
La storia di una nazione civile può dirsi essere quasi la storia della
sua capitale. Le varie individualità etniche, i piccoli organismi ammi-
nistrativi, il loro sviluppo sociale, più o meno- progredito, e la stessa
coltura non ci sono rivelati che attraverso la capitale, non acquistano
importanza storica se non in quanto si riverberano e si confondono
nel cuore della nazione. Oli avvenimenti di maggior portata, le guerre
come le rivoluzioni, il crollare di antichi dominii come il sorgere di
nuovi, il cadere di dinastie come l'acquisto o la perdita dell'indipen-
denza sono fatti, che, quando pur non hanno origine nei grandi centri
della vita nazionale, finiscon sempre per decidere, insieme con la sorte
di questi ultimi, sovente anche quella di tutto lo Stato. È solo col tra-
scorrere dei secoli o con la invadente e sterminatrice barbarie, che
capitali anche tra le più cospicue possono perire; esse lasciano però
sempre profonde tracce di sé nella storia e nei monumenti. Quante
stirpi del mondo antico non sarebbero rimaste sperdute nelle tenebre,
e a noi ignote, se, giungendo da Alessandria, da Babilonia, da Atene
o da Ronia, un raggio di luce non avesse illuminato il loro passaggio
lungo queste grandi metropoli. E così pure, a mo* d'esempio, se non
fosse stata Parigi a darvi il primo impulso, la Francia non avrebbe
avuto la sua grande rivoluzione e la democrazia, in gran parte del-
l'Europa, sarebbe rimasta sepolta tra i postulati della scienza.
Lo Stato e la coltura, questi due grandi fattori del progresso
umano, non trovano elementi di vita rigogliosa e di prosperità, se non
là dove si raccolgono tutte le forze di una nazione, le intellettuali e le
morali ; tutti gli interessi, quelli economici e quelli giuridici ; tutti i bi-
sogni, quelli spirituali e quelli materiali, se non dove si offre loro
una vasta e adatta palestra, in cui l'operosità umana possa libera-
Lo Stato e la città capitale nel mondo romano 499
mente esplicarsi. Sono barbare o quasi quelle gentil le quali o non
sanno o non possono crearsi que^sti focolari, sempre ardenti di nuove
forze, generatrici d'incremento. Non è perciò dì essi che la storia
debba fare obietto di ricerche.
La capitale e lo Stato*
Il sorgere e il costituirsi di una città a capitale è uno dei feno-
meni più complessi, e per conseguenza uno dei problemi più ardui, che
si presenta allo spirito indagatore e ricostruttore dello storico. Può il
fatto essere studiato nelle sue origini, esaminando come la giacitura
geografica, le condizioni etnografiche, i rapporti con altri popoli, e
soprattutto l'ordinamento politico, abbiano contribuito a fissare in uno,
piuttosto che in altro luogo, tutto quanto concorre a formarvi, per così
dire, l'anima di uno Stato. Si possono pure ricercare gli elementi, che
costituiscono l'essenza della metropoli, a cominciare dai poteri pubblici,
che ne sono la sorgente principale, e venendo giù alla popolazione, più
numerosa che altrove e sempre più che altrove crescente, allo sviluppo
degli ordini sociali, del commercio e delle industrie, fino agi' istituti di
educazione e di istruzione o alle opere pubbliche di utilità e di piacere,
e così via. Né sono di minor momento i problemi che s'incontrano, prin-
cipalmente quando si vogliano considerare alcune delle conseguenze ine-
vitabili di simili concentramenti dell'attività pubblica di un popolo. Chi
potrà, infatti, in modo assoluto affermare che dovunque e sempre alla
sicurezza ^sterna degli Stati giovi l'avere una città, nella quale siano
raccolte tutte le forze più vive di essi? Chi oserà dire che per l'assetto
economico e sociale sia un beneficio ovvero un danno, e per la stessa
conservazione dell'ordine interno giovi, anziché noccia, l'agglome-
rarsi eccessivo degli abitanti e l'esuberanza di operosità industriale e
commerciale ih un sol luogo ? E non è forse nelle capitali sopratutto,
dove, accanto al fiorente sviluppo della coltura, si vedono del pari e
più che altrove prosperare le tristi piante della corruzione e del delitto ?
Ma questi sono problemi, intorno ai quali forse invano si affannano
le menti dei sociologi. Altri ve n'ha, invece, che più direttamente riguar-
dano la scienza dello Stato, e che hanno maggior bisogno di essere
studiati. Tale è, per ricordare il problema in pratica meno suscettibile
di una definitiva soluzione, quello della autonomia dei comuni, o, come
oggi piace chiamarlo, del decentramento, amministrativo ; problema, il
quale si riconnette in fondo con l'altro della capitale nei suoi rapporti
con i restanti centri dejl'amministrazione pubblica. Se, invero, lo Stato
non può reggersi senza che da un lato l'azione del governo sia concen-
trata in un luogo, e dall'altro non sia impedito ai comuni il provvedere
da sé ai propri bisogni, sorge il quesito : quale debba essere la misura
«Joo Ettore de Ruggiero
di queirazione difettiva e di questa locale cooperazione. Se non che la
città che si eleva a metropoli, non cessa per questo di essere essa mede-
sima un comune, col diritto di amministrarsi da sé e nello stesso tempo
con esigenze, che gli altri comuni o non hanno .punto o hanno in una
cerchia più ristretta. Ma un tale quesito «e trae seco un altro, non
meno importante e difficile, cioè fino a qual segno quel diritto della
città capitale debba essere rispettato, fino a che limite il comune stesso
o lo Stato debba provvedere a quelle particolari esigenze; in altri
termini, se la capitale debba godere di una condizione eccezionale di
fronte alle altre città e sottostare ad un'azione più diretta dello Stato
e più ristrettiva della sua autonomia amministrativa.
La scienza, che pretendesse di dare una soluzione pratica univer-
sale a questi due fondamentali problemi, ispirandosi soltanto a prin-
cipii generali, riuscirebbe in molti casi a sconvolgere la compagine di
uno Stato. Essa deve ponderare le condizioni speciali di questo, le sue
tradizioni, il suo svolgimento attraverso ì secoli. Quanto più anti-
che sono le nazioni, tanto più lento e graduale è stato il lavorìo
per darsi un ordinamento politico conforme al loro carattere e alla
loro storia, e tanto meno si sono esse imbattute in ostacoli insupera-
bili per venirne a capo. La prova mrgliore ci vien pòrta da quel
popolo deirantichità, nel quale, più che in ogni altro, furono così pro-
fondi la coscienza del diritto e il concetto dello Stato: il popolo ro-
mano. Le continue guerre in Italia e poi fuori, le sedizioni e le aspre
lotte dei partiti politici, le riforme costituzionali e lo stesso apparire
deir Impero con le sue nuove istituzioni non valsero a rimutare a fondo
lo spirito che ne informava l'organamento politico. Il quale, svolgendosi
a gradi e senza grandi scosse, riuscì a conciliare i più forti contrasti
che si siano mai avuti in un popolo : la maggiore possibile democrazia
con l'autorità, suprema moderatrice dello Stato; la prosperità eco-
nomica del paese, principalmente dell' Italia fino a Diocleziano rimasta
immune dalla imposta fondiaria, con le minori gravezze dei cittadini;
un domìnio esterno sconfinato con la consistenza più salda del carat-
tere nazionale italico dello Stato. Anche in questo rispetto è l'Inghil-
terra quella tra le nazioni moderne, che col suo self-government xi'xb. si
accosta all'ordinamento romano, pur essendo stata la Britannia una
delle Provincie, in cui meno intenso fu l'influsso del romanesimo.
Lo Stato romano e la sua capitale durante la Repubblica.
Se non che un sì alto grado di maturità politica, un ideale di Stato
quasi perfetto non furono da Roma raggiunti così di buon'ora, come
generalmente si crede, anche prima cioè che la sua potenza militare
Lo Stato e la città capitale 7tel mondo romano 501
e la sua signoria oltremare si fossero per sempre e incrollabilmente
affermate. Si ponga mente che i popoli ordinati a confederazione non
sono in genere, e non lo furono tanto maggiormente nel mondo antico,
i più adatti a darsi una grande ed unica capitale. Questa suole formarsi,
prosperare e divenire strumento di progresso là dove più strette e
vive sono la compagine e l'anima nazionale. Negli Stati, invece, com-
posti di stirpi differenti, sono a ciò di ostacolo la vicendevole riva-
lità e spesso la non facile opera di tenerle unite e quasi soggette a
quella che ne è a capo. Ove poi il territorio è esiguo, scarsa la popola-
zione e tenue lo sviluppo politico non può parlarsi di una vera capi-
tale, bensì, soltanto, di un centro di direzione militare e di convegno
dei rappresentanti delle singole popolazioni riunite per trattare d'inte-
ressi federali e insieme per partecipare a feste religiose comuni. E fede-
rale fu appunto la costituzione di Roma, probabilmente già dalla tarda
età monarchica, indubbiamente dal principio della repubblica sin circa
alla fine. Certo, in origine, quando essa facea parte della confederazione
latina e sì sostituì ad Alba Longa, quell'impedimento a motivo delle
stirpi diverse non vi fu, o meglio non avrebbe dovuto esservi, essendo
Roma medesima essenzialmente latina. Eppure, frequentissime furono
le sollevazioni e le guerre mossele degli alleati insofferenti della sua ege-
monia, guerre finite, come è noto, con lo scioglimento della confedera-
zione (a. 338 a. C.) e con la concessione della cittadinanza romana a quasi
tutti i popoli del Lazio. Maggiore, invece, dovea essere, e fu nel fatto, un
tale impedimento, dal tempo in cui Roma strinse intorno a sé con legami
federali molti altri popoli d' Italia, ribellatisi anch'essi per non aver otte-
nuto di partecipare al governo dello Stato, non ostante che la loro aspi-
razione fosse strenuamente sostenuta dal partito democratico. La breve
guerra di secessione (a. QO a. C.) finì anch'essa con la sottomissione delle
città italiche, che come quelle latine divennero municipii romani.
Ora, in tutto questo lungo periodo di storia repubblicana, man-
cavano ancora in Roma gli elementi principali, perchè essa si costituisse
a vera capitale: un grande sviluppo economico, sociale, edilizio e de-
mografico, ma più di ogni altra cosa mancava l'unificazione dei popoli
italici e il proprio ordinamento a Stato. Essa rimase perciò quale era
stata fin dalle origini. Gli alleati non avevano con la città sovrana
alcun legame amministrativo : essi continuavano a reggersi con proprie
léggi ed istituzioni, liberi di accettare o meno quelle offerte da' Ro-
mani; erano insomma Stati indipendenti. La supremazia di Roma non
si esplicava se non in due rispetti : l' uno d' impedire che essi avessero
rapporti internazionali con altri popoli e si muovessero guerra tra
loro; l'altro, di stabilire, occorrendo, con quale contingènte di mili-
zie o di navi ciascun alleato dovesse contribuire alla formazione del-
502 Ettore de Ruggiero
l'esercito e dell'armata federale. Ma tutto ciò non importava ch'essi
perdesse il suo carattere originario: Roma fu soltanto la maggiore
delle città delle sue confederazioni: essa non assunse, né lo poteva,
per le ragioni accennate, il carattere di centro e di capitale dello Stato.
Ì3uanto si è detto riflette Roma studiata nei suoi rapporti esterni,
vale a dire con i popoli federati. Considerandola ora nel rapporti in-
terni, si osserva che il principio della maggiore autonomia locale in
armonia coi poteri centrali, condizione essenziale per aversi un vero
Stato, non sempre accompagnò Roma nella sua più volte secolare evo-
luzione politica. In quasi tutta l'epoca repubblicana essa non fu altro
se non un comune. La città stessa e* i territori, mano a mano occu-
pati oltre i suoi confini, erano infatti suddivisi in piccoli distretti am-
ministrativi — le tribù —, i quali abbracciavano gran parte dell' Italia
centrale, e i cui capi erano solo organi dei magistrati romani, incari-
cati delle limitate e preliminari operazioni del censimento e della leva.
Tutte le città italiche, che non fossero di diritto latino, e in genere
federale, o non avevano alcun ordinaftiento comunale (ed erano le più
numerose di tutte), o questo vi era incompleto. Per modo che, pur
essendo fuori del territorio della città, esse in fondo rappresentavano
elementi amministrativamente incorporati nella medesima. Le provincie
poi non facean parte del comune, del quale erano semplici possedi-
menti demaniali.
Né le due principali riforme, che ci offre la storia di questo periodo,
valsero a scuotere il suddetto principio. Non quella che prese nome
dal censore Appio Claudio (ca. 312 a. C), per la quale ai cittadini
privi di proprietà fondiaria venne concesso il voto nella maggiore
assemblea deliberante. Né l'altra (220 ? a. C), con cui non solo fu sot;
tratto all'arbitrio del governo il formare le sezioni dei votanti, ma fu
altresì abbassato l'ultimo grado del censo, sicché anche i proletari pote-
rono godere di un diritto, il quale, sebbene proclamato col sorgere della
Repubblica, era rimasto fin allora nella pratica effimero. Furon queste,
é vero, riforme essenzialmente costituzionali. Ma, informate com'erano
ad uno spirito democratico, sempre intollerante di ogni menomazione
di libertà e d'indipendenza, e rafforzando il partito che di questa facea
il suo vessillo, anch'esse indirettamente contribuirono a tener saldo il
pHncipio dell'autonomia contro ogni tentativo che avrebbe potuto farsi
per iscrollarla.
Formazione dello Stato romano.
Fu molto più tardi, in sullo scorcio della Repubblica, che Roma
prese forma e consistenza di Stato, dopo cioè che intorno a sé, in
tutta Italia, eran sorti municipi! e colonie di diritto romano, forniti
Lo Stato e la città capitale nel mondo romano 503
della più larga autonomia amministrativa. Mediante poi lo- scioglimento
di piccole e grandi confederazioni — quale per esempio quella degli
Etruschi, di cui soltanto le feste religiose venivan conservate — e inol-
tre con rintroduzione del latino come lingua ufficiale, delle leggi e
delle istituzioni romane, e perfino del calendario, dei pesi, delle mi-
sure, l'opera unificatrice del paese, sebbene dopo lenta evoluzione,
potè, già air inizio dell'Impero, dirsi completa. Anche le provincie poco
a poco andaron perdendo il loro antico caràttere. Non più governate
dagli stessi magistrati di Roma delegati sul luogo, né più quindi sepa-
rato Jl governo del comune da quello provinciale; scomparsa la qualità
di demanio dei Romani, loro attribuita già da una legge dei Gracchi;
accresciuto nei loro vasti territorii il numero dei municipii e delle colo-
nie, esse finirono per divenire dei veri distretti dello Stato. D'altro
lato, le antiche tribù cessarono di essere quello ch'erano state in ori-
gine, e servirono parte per provare il possesso del diritto di cittadi-
nanza in coloro che vi erano inscritti e parte per far godere i cittadini
delle frumentazioni.
Questo svolgimento ebbe compimento con la famosa costituzione
di Caracalla (212 d. C), per la quale anche le città alleate e tributarie
o suddite delle provincie divennero con la concessione della cittadinanza
municipii romani. Ma fin dalla guerra Marsica o sociale (90-89 a. C)
Roma era cominciata realmente ad essere una capitale, quantunque dal
punto di vista edilizio non fosse ancora all'altezza, a cui più tardi
fu inalzata. L'Impero, che potrebbe parere per la sua natura avverso
all'autonomia locale, la rispettò invece per oltre un secolo. Fu dal tempo
di Traiano, e più frequentemente e intensamente da quello degli Anto-
nini, che in Italia, e ancora più nelle provincie, si ebbero commissari
imperiali inviati in singoli municipii o in gruppi di essi, con lo scopo di
moderarne e invigilarne sopratutto l'amministrazione delle finanze. Ma
ciò non avvenne tanto per effetto di una nuova tendenza del governo
a limitare l'indipendenza dell'amministrazione comunale, quanto perchè
i cittadini aveano cominciato a schivare i gravosi uffici pubblici, e i
comuni, a sperperare le loro entrate. Solo più tardi il moltiplicarsi di
simili delegati con funzioni varie fu la conseguenza dell'essersi l'Impero
allontanato dal concetto, che ne avea avuto il fondatore, "e il prin-
cipio di quella trasformazione, a cui andò soggetta la città di Roma.
Roma capitale deirimpero.
Posta sulle rive del Tevere e su colli agevolmente fortificabili» a
breve distanza dal mare, tra le vaste e fertili regioni del Lazio, dell'Etru-
ria e della Sabina e su quel fianco della penisola ove abbondano golfi
504 Ettore de Ruggiero
e porti, Roma, chiamata, dopo la rovina di Cartagine e poi dopo l'unifi-
cazione dell'Italia, a divenire la prima città commerciale, militare e po-
litica, non avrebbe potuto realizzare questo suo destino, se lo Stato non
avesse assunto su di sé tutta o la parte principale della propria ammi-
nistrazione. Questa concezione ebbe chiara ed alta Augusto, il quale,
inalzandola a capitale d'Italia, creò insieme il vero Stato romano. Augu-
sto trovò il comune di Roma quasi sprovvisto di tutto quanto occorreva
a talfine. Esso o non avea inteso i nuovi suoi bisogni, o piuttosto
non aveva saputo adeguatamente provvedervi, valendosi dei suoi magi-
strati — consoli, censori, pretori ed edili — o questi, incaricati di
molteplici funzioni militari, giudiziarie e amministrative, non riuscivano
con intensa cura ad attendervi. E come alla mancanza di una flotta
militare stabile. Augusto sopperì col creare le due armate di Miseno
e di Ravenna per la difesa dei due litorali, e indirettamente della capi-
tale d'Italia, così del pari raccolse nelle sue mani, cioè del governo
rappresentato dai suoi delegati, i servizi pubblici più importanti : l'am-
ministrazione annonaria, riordinandola ed allargandola, come era neces-
sario per una popolazione di oltre un milione di abitanti ; quella delle
vie, che attraverso la penisola mettevan capo a Roma, e quindi ne
agevolavano il traffico, la sicurezza, l'incremento; quella degli acque-
dotti, provvedendo così, non solo alla migliore manutenzione dei già
esistenti, ma anche alla costruzione dì nuovi, sicché mano a mano da
quattro, quanti ve n'erano nella Repubblica, essi si accrebbero ad undici
nell'Impero ; la cura degli edifici pubblici d'ogni specie da conservare
e da costruire e insieme la tutela del suolo pubblico contro ogni abusiva
occupazione dei privati; da ultimo il servizio degli incendi, affidandolo
ad un corpo di vigili militarmente ordinato, a cui male attendevano
nella Repubblica schiere di schiavi assoldati.
Tiberio seguì le orme del padre: a lui si debbono da una parte
la creazione di un ufficio speciale del Tevere, inteso a renderne più
agevole la navigazione e a tutelarne le rive, dall'altra, l'istituzione di un
prefetto della città, investito tanto della polizia, quanto della relativa
giurisdizione penale e civile, come pure del comando di un corpo
militare, le coorti urbane. La suddivisione della città in quattordici re-
gioni, aggiungendosi alle quattro antiche i sobborghi del Campo Mar-
zio, dell'Aventino e parte del Transtevere, anch'essa augustéa, che
pure non sembra abbia avuto uno scopo amministrativo, dimostra
però quanto Roma già prima di allora fosse cresciuta di abitanti e di
edifici.
A queste riforme si accompagnarono svariate opere, dirette a ren-
dere la città degna del suo nuovo destino. Queste opere valsero a fa-
vorire la coltura, specialmente le arti, arricchendola di innumerevoli e
Lo Stato e la città capitale nel mondo romano 505
Splendidi monumenti; a tener vivo nel popolo i! sentimento religioso
e patrio; a rendervi più copiosi i luoghi di spettacpli, di convegni e
di' ricreazione, piìi comoda e dilettevole la vita, meno disagevole il
traffico, e così via. E anche qui ci si presenta come principale autore
e fautore lo stesso Augusto, il quale, ripigliando i grandiosi piani di
Cesare, rimasti inattuati per la morte di lui, e parte conducendoli a
termine, parte eseguendone dei propri, anche in questo rispetto si
affermò nella storia come fondatore di Roma quale città capitale del
mondo.
In ciò egli non fu punto eguagliato da nessuno dei successori,
che fino ad Adriano alcuni di essi poco aggiunsero a quanto egli
avea fatto, e dopo gli Antonini, si può dire, comincia la inerzia
nelle costruzioni. Si videro quindi per la prima volta sorgere in Roma
scuole e biblioteche pubbliche, nuovi tempii dedicati a divinità nazio-
nali e straniere, archi, ricordanti vittorie famose riportate sul nemico
e superbi trionfi, teatri ed anfiteatri, basiliche e terme, portici, giardin i
pubblici, fontane. Molte delle vecchie vie vennero rese più ampie e in
gran parte lastricate, nuovi Fori o grandi piazze, decorati di monu-
menti, furono aperti sia per istabilire più facili comunicazioni tra Tuna
regione e l'altra, sia perchè servissero quali mercati. Nessuna capita le
del mondo antico, insomma, raggiunse quanto Roma altrettanto splen-
dore d'arte, di monumenti, di magnificenza, pari alla grandezza e alla
potenza dello Stato.
La fine di Roma capitale.
Questo splendore però, che rifulse nei primi due secoli dell'Impero,
cominciò ad illanguidire anche prima che una seconda capitale fosse
istituita in Bisanzio,* e che questa divenisse emula dell'antica, e di. essa
più fiorente per lo sviluppo maggiore che vi ebbe il commercio. Alla
decadenza contribuì pure il fatto, che, in seguito alle necessità della
difesa dei confini dell'Impero, qualche imperatore abbandonò Roma
e stabilì la sede del governo e della Corte in altre città, come Milano
e Ravenna. Ma, quanta al rinnovamento attuato da Augusto e in parte
da Tiberio nel campo amministrativo, non fu certo un danno che esso
non fosse continuato immediatamente dopo di loro. Ripreso infatti più
tardi, esso condusse alla profonda ed esiziale trasformazione dell'or-
dinamento interno della capitale, anzi alla sua fine. Seguendo un indi-
rizzo opposto a quello che avea guidato il fondatore del Principato,
la grande riforma costituzionale di Diocleziano e di Costantino, mentre
da un lato inalzava l'Italia al grado di una delle quattro Prefetture del
pretorio, in cui, nel secolo quarto dell'era volitare, venne suddivisa
5o^ Ettore de Ruggiero
tutto l'Impero, dall'altro, grandemente ne abbassava la più fulgida e
gloriosa città.
Da quel tempo, cessata l'Italia dall'essere il cardine dello Stato,
scomparso perciò il carattere nazionale del medesimo, né più esistendo
la sua identificazione con Murbs Roma, questa non poteva più continuare
a rappresentarne la capitale, e necessariamente la sua particolare am-
ministrazione dovette essere adeguata allo spirito di quella riforma. Essa
non ebbe più, come l'avea avuto fin dall'orìgine ntWager Romanus, e
come l'aveva ogni altro comune, un proprio territorio, tale non essendo
quel breve tratto che dalle porte si stendeva fino al primo miglio, e
ancora meno la vasta regio urbicaria o subarbicaria, che allora s'era
formata. Le antiche magistrature repubblicane, le quali, specialmente
le supreme, anche nell'Impero, aveano continuato ad amministrare in-
sieme la città e lo Stato, non furono abolite, ma, private di ogni potere,
divennero semplici dignità decorative, e ad esse si sostituirono antichi
e nuovi rappresentanti dell'imperatore. Il senato, che come consi-
glio di quelle magistrature, avea preso parte ad ogni più impor-
tante atto di governo di politica interna ed estera, spesso arrogando-
sene l'iniziativa, e che con Tiberio avea acquistato anche il potere
legislativo, non solo fu sostanzialmente modificato nella sua composi-
zione, ma anche spogliato di ogni effettiva funzione. L'antichissimo
tesoro della città e dello Stato, Vaerarium populi Romani, Sissorbìio nei
primi secoli dell'Impero poco a poco dal fiscus Caesaris, più non
esisteva già prima di Diocleziano. Il sacrum aerarium, sorto dopo, era
uno dei tre nuovi tesori imperiali e, tranne il nome che ricordava
l'antico, non ebbe alcun rapporto con l'amministrazione cittadina.
Varca publica. Varca vinaria ed altre simili casse speciali, relative all'ap-
provigionamento della città, non erano istituzioni del comune, ma dello
Stato. Ai bisogni di quello, specialmente rispetto alle vettovaglie, era
provveduto con le entrate in natura provenienti delle provincie del
mezzogiorno d'Italia. L'istituzione caratteristica del comune in genere,
fondamento della costituzione municipale, quella cioè degli oneri per-
sonali da compiersi a prò' del comune (muncra personalia), fu allora
per la prima volta estesa anche a Roma, in un modo affatto nuovo, in
quanto che ad essi non eran soggetti i cittadini e coloro che vi aveano
il domicilio, come era uso dapertutto, bensì un gran numero di corpo-
razioni riconosciute dallo Stato. Cosi la riforma dell'amministrazione
edilizia, che Augusto seppe contenere nei giusti limiti della necessità,
conferendo al comune alcuni più importanti servizi pubblici, fu dai
suoi tardi successori sostanzialmente alterata e guasta, e oltrepassò senza
misura quei limiti. Roma ritornò quindi ad essere un comune, però
di una specie affatto singolare e nuova, un comune senza un prò-
Lo Stato e la città capitale nel mondo romano 507
prio territorio, senza un proprio tesoro e sopratutto senza una di-
retta rappresentanza nella sua amministrazione. La regina del mondo,
che ave» saputo dare e conservare in tutti i comuni dell'Impero
un'autonomia più o meno larga, la vide a sé medesima tolta, per poi,
dopo qualche secolo^ sotto altra forma, cessata la romanità pagana,
ricomparire.
Ma di quesf ultima trasformazione, qui sommariamente accennata,
sarà in modo particolare trattato ad altra occasione.
Ettore de Ruggiero.
L'umanitarismo razionalistico
e Timperialismo romantico in Germania
r^
l — Il cosmopolitismo tedesco del secolo XVHL
11 secolo XVIII in Germania fu caratterizzato da un sentimento co-
mune a quasi tutti gli scrittori, che finiva per tendere ad un vero e
proprio cosmopolitismo. La ferrea disciplina imposta alla Prussia da
Federico II, il regime della caserma che aveva dato forza al brutale
regno deirHohenzollern, quantunque glorificato da splendide vittorie,
pure aveva ingenerato come un senso di disgusto nelle anime più
elette, disgusto che, da prima appena accennato, aveva finito per esplo-
dere in un coro di proteste. È lo stesso Treìtschke, il moderno glo-
rificatore della grandezza prussiana, a riconoscere nel secolo XVIII
questo distacco delle più belle intelligenze germaniche dal metodo orga-
nizzatore prussiano. Winkelmann, ebbro di bellezza greca, essendo riu-
scito a sfuggire al regime feroce, che Federico Guglielmo I imponeva
ai suoi sudditi, inviava da Dresda, ove era riuscito a rifugiarsi, le sue
fiere rampogne contro la patria : « Io penso con raccapriccio a quel
paese, egli scriveva ; su di esso pesa il più grande dei dispotismi che si
sia mai potuto sognare; è meglio essere un Turco che un Prussiano. In
un paese come Sparta le arti non possono fiorire, e, quando vi si tra-
piantano, muoiono».* Né Federico Guglielmo I poteva dirsi un prin-
cipe che disprezzasse le lettere, anzi egli si atteggiava a Mecenate di
artisti, e qualche volta, con un pizzico di vanagloria, si reputava, forse
anche troppo, buon intenditore. Però i letterati non gli furono mai
grati dei beneficii, che egli aveva loro largito e preferivano, come
Winkelmann, esulare, accontentandosi di tirargli da lontano un bacio
i Winkelmann, BrU/e, Berlino, ediz. 1896, p. 318.
L'umanitarismo razionalistico, ecc. 509
ed una trecciata. Scrive Wieland al suo amico Merck il 16 maggio
del 1780: < Federico in. verità è un grand'uomo, ma il buon Dio ci
preservi dal piacere di vivere sotto il suo scettro ed il suo bastone!.. »'
Lo stesso Goethe, quando, al seguito del duca di Weimar, nel 1778, vi-
sitò Berlino, non riuscì a nascondere la sua antipatia per la monarchia
prussiana e per gli stessi abitanti del paese, i quali gli fecero l'effetto
«di tante ruote senza volontà». L'umanità, così idealmente vagheg-
giata dal poeta, alla vista dei Prussiani, sì rimpiccioliva; il suo co-
smopolitismo rimaneva colpito e lo faceva pensare ^lla grandezza del
mondo dalla forza, che ciascun uomo e quindi ci^iscuno Stato, nei li-
miti ristretti dall'egoismo monarchico, è costretto a rappresentarvi. « Io
affermo, scriveva egli a M."' de Stein, che non vi è arlecchinata, né pagliac-
ciata di sorta, che sia così ributtante come il va e vieni dei grandi, dei
mezzani e dei piccoli fra i sudditi del re Federico ».^ Weimar quindi
doveva esser ben differente da Berlino, se Goethe risentì tanta impres-
sione per il metodo brutale di governo degli Hohenzollern e per la
mentalità degli abitanti. Weimar, che era il focolare di tanti poeti, la
piccola città delle Muse, come si compiaceva chiamarla il duca, rap-
presentava in quel secolo, di fronte a Berlino, l'individuo contro lo
Stato.
Questo atteggiamento spirituale e questi apprezzamenti degli uomini
più rappresentativi della Germania, nei riguardi della Prussia, dimo-
strano come l'illuminismo razionalistico del secolo XVIIl avesse com-
pletamente sopito qualsiasi sentimento di prepotenza militare e che
una specie di cosmopolitismo ideale formasse il fondamento di ogni
teorica di Stato. Solo la Prussia rimaneva appartata da questo- movi-
mento, che sembra a prima vista umanitario, come . aquila rapace
pronta a scagliarsi coi sUoi unghioni sulla restante Germania per spez-
zare la libertà, acquistata a prezzo di sangue con la pace di Westfalia,
e per imporre il suo credo. Il cosmopolitismo tedesco però non era
un'utopia, come utopico fu nella mente di Gian Giacomo Rousseau;
era come una reazione al latinismo e come un'espressione gelosa della
superiorità teutonica, non foss'altro spirituale, sull'organizzazione ro-
mana,' che per il tedesco illuminato di quel tempo rappresentava il
trionfo della forza bruta, non accompagnata dalla luce dell'idea. E di
rimando, seguendo una stessa concezione, si blaterava contro la Prussia.
Date le tendenze della filosofia umanitaria del tempo, non si .com-
prendeva il rigore militare degli Hohenzollern, ed in generale si
rigettava il patriottismo, che veniva considerato come un avanzo della
i Wieland, Briéfe, Berlino, ediz. 1899, p. 240.
« Goethe, Briefe, Berlino, ediz. 1874, II, p. 118.
5 IO Francesco Paolo Giordani
antica società romana, la cui rudezza i letterati tedeschi, come già
dicemmo, non arrivavano a comprendere, anzi biasimavano, ritenendola,
dannosa allo sviluppo intellettuale dei popoli. Onde una specie di con-
trasto nacque fra fa Prussia e la rimanente Germania. L'estetismo di
questa faceva resistenza ad oltranza al rigido militarismo deiraltrk. In-
vano Hamann, Tamico di Herder, domandava al filosofo prussiano, che
erasi sottratto alla « caserma di Berlino », un pò* di patriottismo prus-
siano; Herder rimaneva sordo alle sue esortazioni. E in un discorso, che
il filosofo pronunciò a Riga nel 1764, e che aveva per soggetto: « Ab-
biamo noi ancora un pubblico ed una patria come gli antichi?», Herder
ritorna al concetto umanitario moderno, contrastante con la prepotenza,
appoggiata dalla forza, della" fin troppo lodata Roma. L'antica città,
dice Herder, e la moderna società sono due cose differenti. Anticamente
la prosperità e la grandezza della patria erano lo scopo supremo dei
liberi cittadini. Non poteva esistere un interesse superiore. Religione,
morale, tradizione, tutto si riattacca strettamente alla città, tutto pro-
mana da essa e tutto perisce, se essa cade. Perciò il patriottismo è il
primo e il più imperioso dovere, (lavanti al quale tutti gli altri cedono,
e la quintessenza di ogni virtù è l'amor di patria. Ma l'Europa cristiana
non può, né deve rassomigliare alle repubbliche dell'antichità. Il pro-
gresso, il cristianesimo hanno sollevato i moderni ad un concetto più
alto, all'idea suprema dell'umanità. Seguendo tali teorie, non è più
necessario il patriottismo ; esso rimane come un'esclusività degli anti-
chi, per cui ancora era tenebra la luce del Vangelo. Ora, invece,
l'umanità sola può formare un'ideale politico e sociale, ed il vero trionfo
della civiltà si otterrà, secondo il filosofo, allorché verranno soppresse
le barriere fra ì popoli ed allorché ognuno saprà riconoscere la sua
patria solo nell'umanità.*
Il discorso di Herder ha certamente un alto valore morale ed ebbe
eco al suo tempo, sopratutto in Germania, in cui veniva manifestandosi
tanta acrimonia. contro la Prussia; ma le idee in esso contenute, ben-
ché condivise da tutti gli spiriti illuminati, non solamente tedeschi, ma
anche europei, sono quasi volute dalle condizioni storiche del momento.
Il santo impero gemanico, che pur manteneva una tradizione classica,
era un'ombra e non esisteva più che di nome: i divèrsi Stati germa-
nici, dì o^ni grandezza e di ogni forma, più che tendere ad unirsi,
paventavano invece una solidarietà, che avrebbe senz'altro compromesso
la loro indipendenza. Quindi il rafforzamento della Prussia ed il pa-
triottismo, in essa così bene sviluppato, costituiva un pericolo enorme,
a cui bisognava resistere con tutte le forze, per mantenere le grandi
1 Herder, Werke^ III, pp. 12 sgg.
L'umanitarismo razionalistico , ecc. 511
conquiste spirituali, sociali e politiche, ottenute con la pace di Westfalia.
Se non che anche un certo tal quale spirito nazionalistico, sia pure in
mezzo a tanto umanitarismo, faceva capolino; la grandezza romana, così
magnificata ed a suon di tuba dagli eroi di Tito Livio e di Plutarco
era cosa troppo grave, era luce troppo vivida dinanzi a cui scompa
rivano e s'annebbiavano le magniloquenti riesumazioni dì Enrico l'Uc
cellatore e di Arminio dovute alla sagacia patriottica del Klopstock
Perchè è questo, torniarfio a ripetere, il carattere della cultura te
desca del secolo XVIII: un astio mal rattenuto verso il romanesimo
una dimostrazione quindi indiretta che al germanesìmo è devoluta la
missione di civilizzare il mondo. Né lo stesso Goethe disdegna queste
idee, e negli Annunzi di Francoforte con una frase sola sintetizza tutto
il suo pensiero : « II patriottismo alla foggia dei Romani ? Che il signore
ce ne preservi !> E Schiller, che poi divenne il poeta preferito dei
patrioti tedeschi, tenea quasi contemporaneamente un discorso simile.
Egli nel 1789, all'alba della grande rivoluzione, scriveva al suo amico
Koerner: < Noi altri moderni abbiamo un interesse che non conobbero
né i Greci, né i Romani e che lascia molto lungi da sé l'interesse
patriottico. Questo sentimento non ha importanza, tranne che per le
nazioni, che non sono ancora mature per l'adolescenza del mondo.
È un ideale ben povero di contenuto lo scrivere per una sola nazione ».^
Non é certo senza importanza il ricordare lo stato d'animo della
Germania nel secolo XVIII, quando VAufklaemng aveva come di getto
inondato di luce nuova Io spirito tedesco, che s'immergeva in questo ba-
gno salutare e che scherniva la Prussia, rimasta semplice spettatrice di
un tanto movimento sotto l'assillo della censura e la minaccia del ba-
stone. E senza riandare tutto il moto, che determinò un tal cambia-
mento, e senza occuparci della parte che quasi simultaneamente vi
esercitò l'Inghilterra, non bisogna scordare che il flusso d'idee nuove,
propagatosi dalla Francia, venne assorbito con estrema facilità dalla
rinascente Germania. Rousseau e Bernardin de Saint-Pierre avevano
stabilito che i mali maggiori della società, e tra gli altri la guerra,
provengono sopratutto dagli uomini, per effetto dei loro vizi e dei
loro errori. Quindi, se l'uomo voleva rendersi migliore, non aveva che
a liberarsene, correggendosi : « Tutto è bene ciò che esce dalle mani
della natura; tutto degenera nelle mani dell'uomo». Questa massima
celebre deWEmilio esprìme, meglio dì qualunque altra, l'ottimismo pro-
prio della seconda metà del secolo XVIII. Se non che fin da questo
tempo, i Tedeschi sentono fluttuare nel loro intimo l'idea, vaga da prin-
cìpio, poi sempre più precisa, che a loro soli sia assegnato da Dio l'in-
i Schiller, Briefe^ p. 120.
512 Francesco Paolo Giordani
carico di liberare il mondo dalla piovra della conquista, che aveva
tenuto asservita l'umanità dalla formazione dello Stato romano. Né po-
teva essere altrimenti: giacché Leibniz, il profeta della razza germanica,
aveva già previsto nell'universo nient'altro che ordine ed armonia, ed
aveva conciliato Dio e il male, la prescienza divina ed il libero arbitrio,
la filosofia e la religione, la metafisica e la scienza. Ed il pensatore
prediceva tutto ciò all'uscire d'un periodo tempestoso, ch'era durato
qualche secolo ed in cui gli uomini, sotto il pretesto della religione,
si erano sgozzati fra loro tranquillamente. Leibniz quindi malediceva
alla guerra, e per le conquiste della pace di Westfalia preannunziava
un'era nuova dovuta alla saggezza tedesca. Ma Vungeheure Vielseitigkeit,
r« incredibile versatilità » del filosofo non gl'impediva nello stesso tempo
di escogitare una politica coloniale, che noi chiameremmo essenzial-
mente imperialistica, un disegno di conquista dell'Egitto sottomesso
al re di Francia nel 1672, e di chiarire l'interesse speciale che avrebbe
avuto la Germania nel vedere la Francia lanciarsi in conquiste molto
dispendiose di territori lontani, coprendo tutto questo ben di Dio
con un certo orpello umanitario, arieggiante ad un vero e proprio
socialismo di Stato, ossia con l'organizzazione di officine nazionali in
cui gli operai lavorassero gaiamente e persino con l'associazione di
tutti i popoli nell'intento d'utilizzare le forze della natura.
A questa idea ritorna Herder, però cpn equivoca convinzione,
per quanto procuri d'aggiustarla alla Rousseau. « Guerra e patria », egli
dice, « debbono scomparire. Patrie in armi contro altre patrie in una lotta
terribile è la più grande barbarie dell'umanità ». Ma anch'egli ammette
poi le lotte pacifiche nelle arti della pace, la rivalità feconda dei po-
poli per il progresso e per la civiltà. E Tinteresse? Dimenticava il fi-
losofo che dalla rivalità dei ' popoli nel progresso sorge l'interesse e
che il bene si muta in male, non appena compaia questa passione, fra
tutte la più bestiale?
n. — Herder e la sua posizione intellettuale.
E da Herder appunto prende le mosse la nuova Germania. Se
il filosofo s'ispira a Rousseau e se gabella d'umanitarismo le sue idee
antiprussiane ed il suo amore allo sviluppo interno d'ogni nazione,
è la sua nazione che egli vuole sopra le altre prospera e grande. Ma
fin qui noi non possiamo che ammirare Herder. Gli è piuttosto quando
egli ricerca una spiegazione storica dei grandi fatti propulsori della ci-
viltà, che il suo cosmopolitismo getta la maschera e fa intravedere il cipi-
glio del più puro imperialismo. Se la spada di Federico il Grande a lui
era sembrata itigulatrice d'ogni nobile istinto, pure egli non sembrava
L'umanitarismo razionalistico, ecc. 513
disdegnare in fondo le teorie di Paolo de Holbach, né del tutto mostra-
vasi insensibile alla voce dell'Helvetius. Niente in Herder della tolle-
ranza di Cristiano Wolff e dell'olimpico umanitarismo di Efraim Lessing,
spiriti avveduti e realmente imparziali, che affrontavano il problema del
miglioramento dell'uomo, sollevandolo al di sopra delle barriere, poste
quali confini dei diversi popoli. Herder fa parte della schiera di coloro,
da noi già in antecedenza ricordati, i quali professano un cosmopoli-
tismo convenzionale e teorico, frutto dell'amalgama di tante idee, pio-
vute come su campo sterile, dall'occidente d'Europa. Anzi Herder sem-
bra raccogliere in sistema le teorie pullulanti allora in Francia ed in
Inghilterra, scegliendo fra esse quelle che meglio potevano rispondere
al suo pensiero, che, nella speculazione continua delle passate epoche
storiche, rivedeva il cammino percorso dalla Germania stretta sempre
fra la morsa del romanesimo. Così il filosofo, meglio d'ogni altro, insie-
me con l'avversione alla Prussia, trova agio di esporre addirittura il suo
odio per la civiltà latina, odio che ben si mostra sotto l'orpello demo-
cratico Roussoiano, con un invito a ritornare al puro stato di natura.
Quali cause hanno dunque, secondo Herder, inceppato il libero
sviluppo del genio germanico? I funesti effetti della Rinascenza: e da
quel giorno », egli dice, « noi Tedeschi abbiamo tutto ricevuto dalla
mano dei Latini, mentre essi ci prendevano tutto ciò che noi ave-
vamo ». Ed ecco che il fanatismo teutonico, non certo scevro di un
misticismo involuto, si manifesta in Herder, che a tal proposito rico-
nosce come la Germania abbia perduto nel cambio. Sarebbe stato
meglio per essa, anche a rischio di camminare più lentamente, di se-
guire la via tracciata dalie sue proprie ispirazioni, e sopratutto sarebbe
sfuggita, nel secolo XVIll, alle influenze della civiltà francese, avrebbe
mantenuto intatto il suo patrimonio linguistico, né avrebbe sofferto
che il tanto decantato Federico II non sapesse, si può dire, né vo-
lesse parlare altro che il francese. Era necessario quindi rinsanguare
e rispettare la lingua nazionale per riparare, almeno in parte, alle
perdite, quasi irreparabili, della Germania. «Fosse piaciuto al cielo»,
esclama il filosofo con slancio in cui già si manifesta una punta di acri-
monia, « che la Germania, alla fine del medioevo, fosse stata un'isola
come la Gran Bretagna ! » Il suo isolamento sarebbe stato una salva-
guardia per la sua originalità, ed il male é stato tanto più grave in
quanto v'ha una differenza profonda ed un'opposizione realmente forte
fra il genio latino ed il genio tedesco. Quindi é tempo che la Germania
riacquisti il pieno possesso di se stessa: «• Ciò che è passato, é passato»,
prosegue Herder, « npn ne parliamo più; ma in avvenire, battiamo
la nostra strada e traiamp dal nostro fondo, ciò che potremo trarre... >.
Se in antecedenza noi non avessimo accennato al cosmopolitismo di
33 — Nuova Rivista Siorita.
514 Francesco Paolo Giordani
Herder, non sembrerebbe ascoltare qui un patriota fortemente geloso,
non solo dell'inidipendenza, ma della grandezza del suo paese? Né a
questo si ferma V antiromanismo, se così può dirsi, di Herder. Egli,
immergendosi nella questione del linguaggio, spezza una lancia contro
le prerogative delle lingue romanze, che da lui vengono considerate
figlie del latino, a sua volta figlio del greco. Secondo il filosofo, queste
lingue derivate e di recente formazione, non possono, nemmeno lon-
tanamente, rivaleggiare in nobiltà col tedesco, che è lingua antica
quanto il popolo che la parla e che è rimasta sempre pura. « Tanto
vale una lingua, tanto vale una nazione! », esclama Herder, ed il concetto
del saggio di Mohrungen viene in seguito ripreso da Fichte nel Di-
scorso alla nazione tedesca, in cui egli, fondandosi sulla comparazione
delle lingue, prova che fra tutti i popoli europei, i Tedeschi sono il
più antico, il più nobile \d il più esente da censura. Dalla questione,
essenzialmente filologica, della lingua, Herder passa a considerare la
questione politica. Egli riconosce lo stato d'abbiezione in cui giace il
decrepito impero, e man mano il suo cosmopolitismo, del tutto teo-
rico, sfuma ai suoi occhi e viene assumendo la forma d'un unita-
rismo, anch'esso teorico, ma in cui già si contraddistingue una più
precisa aspirazione nazionale. Non guadagnerà niente la Germania dal-
l'unione sotto lo scettro d'un solo, ma, pur conservando tanti centri
distinti, nei quali possa liberamente svilupparsi l'originalità dei diversi
rami della razza, essa potrà addivenire ad una tale coscienza di sé
stessa, da non sfigurare nei rapporti con le altre nazioni.* Il con-
cetto per il momento è sempre pacifico, ma quanto rumore di grosse
guerre future esso racchiude, mentre il Nirvana delle evangeliche aurore
fra tutti gli uomini e della fraternità del Rousseau s'impicciolisce e
assume contornì precisi ! A Riga, presso i Russi, a Strasburgo, presso i
Francesi, Herder si sentiva a casa sua, come a Weimar e a Koenigsberg,
e, per quanto il filosofo di Mohrungen non abbia ancora l'esatta visione
geografica di ciò che egli reclama come rivendicazione nazionale, pure
la teoria, in lui dotto filologo, non fa velo al suo senso pratico, ed
egli definisce nettamente la Germania nella sua unicità di lingua, di
carattere e di tradizioni, lavorando con tutte le sue forze a darle argo-
mento per una futura grandezza.
Più tardi la rivoluzione francese sembra orientare il pensiero di Her-
der verso altre aspirazioni. Da principio egli accoglie la riforma costitu-
zionale come un vivo riconoscimento dei diritti dei popoli, indi approva
la guerra che i Francesi sostengono contro gl'invasori, i quali arcfi-
vano d'immischiarsi nei loro affari; ma la morte del re e i delitti
I Herder. Werke, IH, p. 112.
L'umanitarismo razionalistico, ecc. 515
del Terrore lo disgustano; il suo umanitarismo rimane scosso; la nuova
tirannide giacobina gli riempie il cuore di orrore. L'ideale, che egli
aveva vagheggiato, d'una pace mondiale, sia pure con una certa pre-
valenza germanica, svanisce; egli intuisce che il regno della forza è
sempre quello che ha ragione e che quei tali legami spirituali, da luì
più volte auspicati, non bastano a mantenere una nazione. Alla forza
si deve opporre la forza, ed « una nazione (così egli s'esprime) che non
è capace di proteggersi e di difendersi contro lo straniero, non è
realmente una nazione, né merita l'onore di tal nome... ».
Quanta lontananza, in un brusco risveglio, dal primitivo cosmopo-
litismo, che ascriveva a disdoro dell'antichità le virtù militari del pa-
triottismo! Gli avvenimenti hanno smascherato il filosofo, ed egli è ridi-
venuto prussiano. Né fu Herder il solo a riconvertirsi così rapidamente
per la stringente logica degli avvenimenti; gli spiriti illuminati della
Germania, tutti, si può dire, cosmopoliti ed umanitari in altri tempi,
fecero un giro su se stessi e furono d'un colpo abbacinati, ancora
una volta, dal lampo della spada fiammeggiante degli Hohenzollern.
Fichte, per esempio, cosmopolita fin al 1805, diviene nel 1806, dopo
Jena, il più fervente dei patrioti, pur non volendo in alcun modo ammet-
tere l'aperta contraddizione fra le nuove disposizioni e quelle dell'anno
precedente.
Però 1 vecchi cosmopoliti tedeschi rimasero sempre antlromanly
cercando, per non ìsmentirsi, di conciliare il cosmopolitismo con lo stretto
sentimento nazionale tedesco. E da questa autonomia, passata al filtro
delle speculazioni filosofiche, nacque il pangermanesimo, di cui Herder
è senza dubbio il primo ed eloquente teorico. Egli ^esprime tutto il
suo pensiero in un'epistola in versi, che fu pubblicata postuma nel 1812,
quantunque, sotto il titolo de «La gloria nazionale tedesca ^^ l'avesse
scritta fin dal 1792. Il temperamento del filosofo, pure immaginoso e
fantastico, non era capace di addolcire quasi magicamente le verità
più crude, ma l'idealismo raffinato, di cui egli le sa rivestire, dà
a questo squarcio poetico il sapore strano di un brano di storia.
« Con tutte le loro qualità naturali, dice Herder, sostanzialtnente, i
Tedeschi sono da parte loro infelici. 11 bisogno li opprime e la mi-
seria li caccia fuori di casa ; la vedova di Lutero fu costretta^ a
limosinare presso il re di Danimarca quel che non aveva potuto ot-
tenere dai suoi connazionali; Keplero morì di fame; tutti gli inven-
tori, gli artisti e sopratutto i lavoratori, che si facevano esportare sulle
rive del Misissipi e dell'Ohio, erano tedeschi ». Come dunque poteva
un tanto popolo rivendicare i suoi diritti? L'antico cosmopolita non
poteva eccitare il suo popolo alla rivoluzione, ma, alla presenza di
una tale visione storica, non aveva che a consigliare i Tedeschi a ri-
5i6 Francesco Paolo Giordani
mettersi alla bontà di Dio ed a sperare in una giustizia infallibile: il
tedesco dimentichi se stesso per consacrarsi sempre più a! progresso
dell'umanità, né procuri di acquistare potenza e ricchezze per mezzo
della brutalità e della forza. Per lui è sufficiente essere l'educatore
del mondo e quasi l'espressione vivente della filosofia universale.
Questo sogno del filosofo, umanitario e patriottico ad un tempo,
conteneva in genere l'idea che fu ripresa dai combattenti contro Napo-
leone e doveva poi ritrovare nel nostro secolo una fortuna grandissima.
Ogni popolo per Herder ha su questa terra una missione da compiere,
ed è naturale che quei popoli, i quali oramai si trovano sulla china di-
scendente della loro fortuna, manifestino la necessità storica di averla
compiuta. È quindi implicito che le razze, che si trovano sulla curva
discendente, debbano scomparire dalla scena del mondo, per lasciar
posto alle più giovani, che hanno ancora da rappresentare la loro parte.
< Noi tedeschi, siamo arrivati tardi», esclama Herder; « ebbene noi per-
ciò siamo giovani ed abbiamo ancora da lavorare, mentre altre nazioni
entrano in un periodo di riposo dopo aver prodotto tutto ciò di cui
erano capaci >. E l'allusione è chiara, che viene a colpire in pieno il
mondo latino, e particolarmente la Francia, la quale nella seconda metà
del secolo XVHI, con Montesquieu, Voltaire, Rousseau aveva dato i
migliori frutti che potesse produrre.*
L'epistola poetica di Herder fu il canto del cigno del filosofo e
segnò un mutamento sostanziale nelle sue idee primitive. Fu proprio
con essa che il saggio di Mohrungen tentò ihconnubio del suo co-
smopolitismo con l'ideale nazionale tedesco, e l'ideale tedesco si confuse
con l'ideale dell'umanità. Alla Germania doveva essere riservato di
giudicare l'Europa, divenuta cristiana e civile sul cammino del pro-
gresso. Bastò questo amalgama di spiritualismo e di praticità per acuire
fé menti dei sopravvenienti verso un miglioramento e verso l'egemonia
della razza. E Fichte, come a tutti è noto, ne fece tesoro: il popolo
per eccellenza, o quanto dire il popolo privilegiato, è già in embrione
nelle speculazioni idealistiche, frutto della mente di Herder.
IH. — Le tre fasi del romanticismo tedesco*
Le idee sparse dal filosofo di Mohrungen acuirono, non v'ha
dubbio, il nervosismo tedesco, che già erasi manifestato non ap-
pena era apparso all'orizzonte l'astro napoleonico. Si trattava ora
di raccogliere i frutti della propaganda cosmopolita e simpatizzante
i Herder, Werke, HI, p. 32L
L'umanitarismo razionalistico, ecc. 517
coji la Rivoluzione, che aveva caratterizzato Tepoca di GoetherC déll'anti-
prussiaiiismo umanitario, in fine misto e confuso con l'intingolo pa-
triottico della vecchiaia di Herder: bisognava che i due problemi
morali antitetici si amalgamassero per iscoprire, nel risveglio più che
alchimistico, qualche vena d'oro, foss'anche impuro, ma capace di gal-
vanizzare le masse e di produrre un rovesciamento dei valori estetici
e morali. Fu questo il compito che s'impose il Romanticismo.
Non è facilmente comprensibile il sistema tenuto dalla nuova
scuola, né si riesce sempre a isolare gli elementi del problema. Molti
scrittori hanno affrontato la vexata quaestio, ma anche i più autorevoli
critici tedeschi sembra, che a bello studio, o per mancanza di argo-
menti, abbiano sorvolato sopra alcune caratteristiche, che a noi sem-
brano di capitale importanza.
Secondo noi, il romanticismo, è nelle sue origini appunto il pro-
dotto di quello speciale stato d'animo promanante dall'umanitarismo
cristiano, rispondente all'atteggiamento della filosofia del secolo XYIH,
e infine condito a più riprese del nazionalismo temperato degli ultimi
tempi delia vita di Herder. Se non che appare subito manifesto
come quest'ultimo portato dell'idealismo particolaristico germanico
prevalga ^sulle generali direttive del pensiero antecedente e come
tosto si palesi la preoccupazione di definire più stretto l'accordo
tra i due termini, realmente contrari. Federico Schlegel ci manifesta
chiaramente tale preoccupazione, allorché cerca, con una bizzarria
tutta romantica, avvicinare gli estremi delle due diverse questioni.
«Le tre grandi correnti del nostro secolo», egli scrive, «sono state
determinate dalla Rivoluzione francese, dal Wilhelm Meister di Goethe
e dalla Dottrina della Scienza di Fichte ». Il paradosso dello Schlegel
nasconde però una verità, qualora lo s'intenda come appunto Io scrit-
tore voleva che s'intendesse, dando cioè alla Rivoluzione francese il
valore d'un periodo storico nuovo nella vita politica d'Europa e al
romanzo di Goethe, come al sistema di Fichte, il valore d'una rivolu-
zione, non meno importante, nell'arte e nella filosofia. Onde il primo
romanticismo, se pur conservò in parte quella forma di opposizione
al latinismo, propria al Goethe ed ai suoi contemporanei, non mostrò
di voler abbattere del tutto l'ideale classico.
L'ideale greco era rivissuto nell'ammirazione sconfinata dei dotti
tedeschi del secolo XVIII da Winkelmann e Lessing ad Herder, il quale,
tanto per concludere, aveva dichiarato che l'ideale estetico dei Greci
gli sembrava il più alto di quelli a cui potesse aspirare l'umanità. Se-
guendo questa teoria, i primi romantici si danno allo studio assiduo dei
poeti greci e divengono in materia profondi eruditi. Le opere giovanili
di Federico Schlegel sono infatti queste : « Circa le scuole della poesia
5i8 Francesco Paolo Giordani
greca; Il valore artistico della commedia greca; l caratteri di donne nei
poeti greci ecc. >, ed egli poteva scrivere al fratello che « i Greci
sono il solo popolo 'che abbia veramente avuto gusto. artistico ». Ma
la grecomania, cosi definita da Schiller, celava fra gli ardenti e giovani
novatori romantici uno scopo ambizioso: essi erano persuasi di essere
predestinati a fare rinascere in Germania il genio della Grecia e che
alla Germania sola era riservato di penetrarlo e di possederlo per
intiero. La Storia dell'arte antica del Winkelmann poteva essere
di ciò una prima testimonianza. E l'ambizione del primo romanti-
cismo non era altro che una diretta conseguenza delle teorie di
Herder: ambizione per ora dì carattere puramente estetico, ma che,
all'occhio di chi indaga, sembra spingersi anche più oltre. Come spie-
gare, infatti, in Germania, fra un popolo essenzialmente cristiano, e che
si gloriava di aver fatto la Riforma, un tanto feticismo per la Grecia
scettica ed idolatra? Gli è che i romantici volevano emancipare la Ger-
mania dalFasservimento letterario della Francia, così invidiata ed ammi-
rata e per raggiungere un tale scopo essi risalivano alle fonti antiche,
già ispiratrici dei poeti francesi, con un sentimento, se meno poetico,
certo piii scientifico. L' indagine sulle fonti, fatta con tale criterio,
avrebbe dato il resto, che è quanto dire l'ironia da poter riversare
sul predominio letterario francese, i cui poeti trattavano gli eroi e le
efoine del gran mondo ellenico coi titoli di ^Monsieur^» e di <ii Ma-
dame ». Poi, raggiunta che fosse una conoscenza perfetta della vita dei
Greci ; in altri termini, afferrato nella sua interezza l'ideale ellenico, si
poteva questo unire a quello moderno : tale fu la base dell'estèticismo
romantico. « Gli antichi », pensa Federico Schlegel, « sono senza rivali
nella concezione e nella esecuzione del bello naturale; l'anima moderna,
senza dubbio, meno armoniosa, ma più complessa, vuole un'arte che
renda le sue debolezze e le sue grandezze, le sue sconfitte e le sue
vittorie morali, e sopratutto il suo slancio verso la libertà infinita».* Ma
la forma vaga e tutta teorica dell'infinita libertà dello spirito moderno
si restringe in seguito, nella pratica tedesca all'individualismo proprio
della razza, e l'impersonalità, onde gli antichi caratterizzavano l'opera
loro contrasta, secondo gli esteti romantici, con l'arte moderna che
vuole esprimere, non solo la natura, ma l'c io », e, più ancora la sovra-
nità deir«/(7» sulla natura. In questa variazione della formula estetica
è già in germe il conflitto, negato da prima fra il classicismo e
il romanticismo ed anche fra le idee del secolo XVIII e quelle di
Herder, che i nuovi esteti si erano sforzati in antecedenza a mettere
d'accordo. Da ciò deriva già un nuovo orientamento deirestetica
» Schlegel, Werke, p. 436.
L'umanitarismo razionalistico, ecc. 519
romantica. La ragione del conflitto da principio, è puramente senti-
mentale : il secolo XVIII aveva del tutto misconosciuto l'alta funzione
dell'arte, laddove agli occhi dei romantici essa è una religione o, per
lo meno, un culto. L'estasi che produce un capolavoro nell'iniziato
all'arte dà, secondo i romantici, la sola risposta a tutti i problemi,
che sembrano insolubili alla nostra ragione, onde coloro che dif-
fondono una tale idea, sono i veri apostoli dell'avvento d'una futura
civiltà.
< Tutti quelli che lavorano a coltivare la loro natura ed a comu-
nicare agli altri questa cultura, dice Federico Schlegel — non è que-
sta forse la più alta finalità che l'uomo si possa assegnare nella vita? —
tutti costoro io li chiamo artisti. Onde vi sono tre specie di artisti. Gli
uni perseguono il vero; gli altri, il bello; gli ultimi, il bene. Presso i
Greci, l'insegnamento del vero e del bene non era che una cosa sola.
La filosofia dei saggi non era meno nella loro vita che nella loro
dottrina. Gli uni vi si dedicavano, parlando come Socrate; gli altri,
scrivendo, come Platone ». Federico Schlegel, tutto pieno della sua
erudizione ellenistica, si ispira, per dimostrare il suo asserto, ai Greci ;
invece Tieck e Wackenroder, meno familiari col greco, spostano nel
tempo la loro teoria, e, pur mantenendo identico il sentimento, s'ispi-
rano al Medioevo ed alla Rinascenza. L'ingenuo artista, che, tutto pieno
del suo ideale di bellezza, lo traduce sulla tela o nel marmo, con un
candore d'anima sublime, in un quasi divino rapimento di tutto il suo
essere, dà ai romantici la dimostrazione che l'arte è una pura mani-
festazione della divinità. Ma a questo punto s'annebbia anche il con-
cetto di bellezza tal quale era apparso alla mente dei Greci, il cui natu-
ralismo avrebbe troppo scarsa influenza sul pensiero di chi dona
all'arte le essenziali caratteristiche del divino. Se l'arte è un'astrazione,
e se, astraendo, sì giunge al concetto di divino, solo all'artista è
deferita l'immortalità ed egli solo è capace di guidare l'uomo verso la
libertà infinita. Fra le arti solo la musica è capace di integrarle tutte;
essa è una metafisica, come più tardi dirà Schopenhauer, onde l'ideale
del pensiero umano non può essere che una simfilosofia (così barba-
ramente giudicò Federico Schlegel), in cui si fondono insieme la religio-
ne, l'arte, e la metafisica stessa. Il secolo XVIII, tutto pieno del suo razio-
nalismo, non avea compreso una tale idealità: esso aveva rigettato le
tradizioni, chiamandole pregiudizi, e la fede stigmatizzandola come
superstizione. Il romanticismo quindi reagiva all'illuminismo antecedente
ed apriva una lotta a sangue contro il dilagare delle cognizioni scien-
tifiche, che disseccavano gli animi, sezionandone i corpi. La cultura, dif-
fondendosi ovunque, minacciava di rovesciare violentemente quanto
di spirituale esisteva nelle tradizioni, rendendo tutto borghese e strap-
520 Francesco Paolo Giordani
pando all'aristocrazia del pensiero il retaggio che essa possedeva da
secoli. La vita della mente doveva essere ancora ricoperta d'un velario
opaco verso cui doveva appuntarsi l'accenno dei pochi privilegiati che
erano stati dalla natura e da Dio destinati a penetrarlo. Di modo che il
romanticismo si fa banditore di un imperialismo intellettuale, in cui
però non sai se scorgere più una affermazione aristocratica o la
sopraffazione di una tendenza borghese. Il nebuloso, il trascendentale,
o meglio l'inconoscibile hanno avuto violati i loro diritti dai sezio-
natori di cadaveri e dagli affaristi borghesi; la scienza è tutta questione
d'interesse a cui bisogna opporre l'argine dell'ideale; la sete del gua-
dagno soddisfatto non è sufficiente ad estinguere la sete dell'anima. La
stessa Riforma fu prodotta dall'interesse e ridusse in limiti troppo
definiti la religione, donata da Cristo in uno slancio sublime e mo-
dificata dalle prime comunità Cristiane, per cui ogni aspirazione del
cuore si mutava in estasi. Perciò tutta la liturgia del cristianesimo
primitivo è il prodotto estetico di tale tensione d'animo ed il culto
della Madonna è la tendenza più gentile verso il concetto della purifi-
cazione del mondo.
Seguendo lo sviluppo delle idee romantiche, siamo dunque arri-
vati ad una nuova fase, in cui un imperialismo intellettuale, forte di
tutte le armi dell'idea, tenta di sopraffare l'imperialismo borghese, fon-
dato dalla critica, mantenendo senza interruzione il contatto coi nemici
del romanesimo e predicando lo sterminio di tutti i tarli dell'ideale,
che troppo pomposamente avevano preso il nome di positivisti. Così
opina Federico Schlegel, che, partendo da Herder, generalizza le sue
teorie e forma il credo della nuova generazione germanica. Ormai i
romantici hanno rotto ogni rapporto con la saggezza prudente, sia pure
personalmente, utilitarista, dei loro predecessori; la nuova scuola vuole
e richiede il meraviglioso, il pittoresco, il fantastico. Lo studio della
natura è opera di laboratori! e puzza di antico. Ormai bisogna librarsi
sulle ali del sogno e domandare all'irreale la soddisfazione dello spi-
rito. Le leggende medioevali, così piene di rude franchezza, e pure così
involute di una tepida atmosfera ideale, sono quanto di meglio si possa
richiedere in fatto d'ispirazione. L'individualismo feudale germanico, da
cui sgorgò la grande follia della cavalleria ; l'epoca del sacro romano
impero, con tutte le sue lotte e con tutte le sue glorie, non mai abba-
stanza lodate in Germania; tutta questa nuova civiltà, uscita dalle selve
opache del nord alla luce del sud, tra una fantasmagoria di scudi e
di elmi, tra un fragore rauco di sciabole tra un ululato di tuono,
e innanzi a tutti Arminio il vincitore di Varo, il primo vindice del
germanesimo, il tutto avvolto nelle brumose saghe scandinave, poteva
dar mezzo air imperialismo intellettuale romantico di trasformarsi, al-
U umanitarismo razionalistico, ecc, 521
meno teoricamente, in un vero e proprio imperialismo politico. Tieck
e Wackenroder aprono la nuova fase con il romanzo di SternbM. < Il
libro è divino », scrive Federico Schlegel, « ed è poco chiamarlo, fra
tutti, il migliore che abbia scritto Tieck. È il primo romanzo che sia
romantico dopo Cervantes, ed io lo metto molto al di sopra di Wilhelm
Meister ». Ed è questo il primo colpo che Goethe riceve nel suo
Olimpo dagli stessi Tedeschi, i quali oramai, affinandosi l'estetica del
romanticismo, vengono restringendo il loro ideale umanitario e si guar-
dano dattorno per ricercare in se stessi qualche cosa che valga a
soddisfare il loro individualismo : Tombra di Herder aleggia fra loro.
Wackenroder restringe ancora più un tale ideale; a lui sembra che il
cenacolo romantico sia troppo vasto, egli vuole, spingendo più oltre
il suo idealismo, che pochi privilegiati si assidano al convito del-
l'arte: quelli soli che siano in grado di comprenderla e di gustarla,
ossia, in una parola, gli aristocratici del pensiero, che non sono, che
non possono essere altro che tedeschi, i quali da soli sanno opporsi
al razionalismo invadente, che ha caratterizzato il secolo XVIII e che
ha prodotto la grande Rivoluzione. Leggete il brano su Alberto Durer,
che apre \t Fantasie sa rarte, e là troverete la protesta più chiara
d'un'anima avida di fede e di dolci emozioni contro la fredda e pre-
suntuosa saggezza dei filosofi materialisti. « Vi è », esclama Wackenro-
der, < e vi sarà eternamente un abisso incolmabile fra le analisi dello
spirito e le emozioni del cuore ».
Ma lo spiritualismo di Wackenroder rimase sempre teorico; man-
cava la pratica manifestazione che annebbiasse ancor più l'astro troppo
fulgente di Goethe. Novalis tentò la grande prova ntW Enrico di Ofter-
dingen. «Goethe», egli scrive, «è un poeta troppo pratico; le sue opere
mi fanno pensare agli articoli di fabbricazione inglese. Egli ha, come
gli Inglesi, un gusto naturalmente economico, e Wilhelm Meister è
un'opera prosaica. L'elemento romantico ne è assente, e con esso la
poesia della natura ed il meraviglioso ». E, concludendo, il Novalis
esclama: « Wilhelm Meister è in realtà un Candido, diretto contro la
poesia... ». Quanto cammino percorso nel breve giro dì alcuni anni! Prima
i romantici s'erano sdilinquiti in lodi continue per Goethe ed ora ne
rigettano le formule artistiche. Ma il fenomeno è ^più psicologico che
estetico. Le teorie di Herder, a cui seguirono quelle di Fichte e di
Schleiermacher, hanno prodotto il miracolo. L'ideale, da universale, è
divenuto individuale, jSarticolaristico ; l'umanità, già veduta attraverso
la lente del cosmopolitismo, s'è ristretta e si agita solo nella nuova
Germania, e l'aristocrazia intellettuale, di cui ora si parla, non è altro
che il principio dell'imperialismo, già affermatosi vittorioso nella lotta
contro Napoleone. Il mondo è di pochi e di quel pochi che riescona
522 Francesco Paolo Giordani
a capire la portata dell' idealismo romantico, in cui eia distinzione
della poesia e della filosofia non è che apparente».
Wilhelm Màster di Goethe, Sternbald di Tieck ed Enrico di Of-
Urdingen del Novalis, sono dunque le tre tappe del romanticismo,
come anche sono i tre caposaldi dell'ascesa dell' idealismo tedesco, in
cui per gradi va trasformandosi, anche attraverso saltuarie polemiche,
e finisce poi col disparire, il concetto dell'ideale umano. Ma quelle
tre fasi hanno un grande interesse nell'ulteriore sviluppo della razza, in
quanto che per il tramite del razionalismo umanitario del secolo XVIII,
per le angoscie della Rivoluzione e per il cataclisma napoleonico, ap-
plicano, anzi seminano nella Germania l'idea, già espressa da Herder,
che il popolo tedesco sia il popolo privilegiato e che dai pochi aristo-
cratici del pensiero, antesignani d'un grande e futuro movimento, si
possa aspettare il verbOy che dovrà rigenerare il mondo decrepito.
Come l'arte greca è stretta in intima solidarietà con la filosofia
di Platone e di Aristotele, cosi il romanticismo, secondo lo Schlegel
ed i suoi amici, doveva avere il merito di spiegare il legame che unisce
l'arte del Medioevo e l'arte moderna nello sviluppo del pensiero umano,
dopo il Cristianesimo. O, se m'è possibile ridurre in termini minori
l'asserto, ciò è quanto dire che il romanticismo doveva essere l'afferma-
zione del germanesismo cristianizzato, sia pure innanzi la Riforma,
contro il paganesimo romano, pallido riflesso d'ìtn ideale già tramon-
tato: l'ideale greco.
Francesco Paolo Giordani,
RflZIQHaLiSiHO E STOHIEISIHO
{Rapporti di pensiero fra Italia e Francia avanti e dopo la Rivoluzione francete)
{Continuazione e fine; cfr. A. I, fase. I; li; IV; A. II, fase. Il)
La naturalità della storia e la concUiacione delle antitesi
nella filosofia sociale del secolo XIX.
La storia si fa da se, ha detto Vico. Non è un processo industriale
o meccanico o d'improvvisazione; ma spirituale, spontaneo, contìnuo;
la civiltà non è riducibile in atti arbitrarii né in termini di creazione
individuale, ma nasce dalle disposizioni naturali e dal lavoro associato
delle varie attitudini di una nazione; non esiste un metodo unico tra-
smutabile da luogo a luogo ; esistono delle facoltà preordinate a pro-
durre in un dato modo.
L' intellettualismo sentimentale del Rousseau e quello sensistico del
Condillac avevano concepito il mondo sociale come esteriore al pensiero
umano, per assegnare a quest'ultimo una libera attività di creazione,
svincolata dalle leggi del tempo, che opera con lentezza e modera-
zione. Ma le nuove tendenze fanno rientrare lo spirito nella società,
attivo e passivo nello stesso tempo, principio e fine, causa ed effetto,
ma disciplinato dalla tradizione. Un fatto, isolatamente preso, o conside-
rato in un dato momento, storico o preistorico, non è più il criterio asso-
luto del vero; anche per la corrente guelfa che predilige il Medio Evo,
questo è giudicato colle norme del relativismo, perchè nella restaurazione
della. Chiesa si tiene conto dell'atmosfera democratica creata dalla Rivo-
luzione. Il vero, ha detto Vico, si converte col fatto, a poco a poco,
nella continuità di sviluppo del genere umano ; come i fini particolari
diventano mezzi a fini più ampi, per servire alla sua conservazione.
Nella società non può vedersi adunque, né una formazione ostile
allo sviluppo delle tendenze naturali; né un oggetto plasmabile s^nX
524 Ettore Rota
modello di teorie foggiate a tavolino: essa è il campo d'azione e di
sviluppo di tutte le facoltà della mente umana, che il tempo a poco
a poco dispiega e traduce in fatti, normativi per l'avvenire.
Sono questi i principi fondamentali del nuovo idealismo storico, i|
quale non fa che aggirarsi intorno all'idea di sviluppo. Nel concetto di
determinazione causale, entra il concetto della progressione qualitativa
e del fine gradualmente raggiunto. La fede nelle possibilità umane
passa, dall'individuo rivoluzionario, all'umanità operante nel tempo.
Dal processo storico si fa uscire tanto la conferma di una legge prov-
videnziale nel mondo, quanto la prova della rivoluzione continuamente
in atto; di un principio trascendente, come pure dell' immanenza
divina.
La conclusione pratica è che la natura non deve essere violen-
tata; che i popoli hanno diritto alla propria indipendenza; che lo Stato
non deve esercitare pressioni; che l'individuo non deve imporsi all'in-
dividuo; che la libertà deve essere un metodo universale; che la rivo-
luzione circola dal pensiero alle cose e dalle cose al pensiero ; che il
domani è consanguineo dell'oggi; che l'avvenire è contenuto nel pas
sato. Questa filosofia sociale sa trarre una nuova volontà di vita dalle
rovine dell'antico regime e dalle sconfitte della Rivoluzione: essa ria-
nima il mondo, avvilito e stanco, coli' idea di una cooperazione univer-
sale ed esterna, che viene all' uomo inconsapevolmente dalla storia ; essa
concilia le contraddizioni della realtà coU'ottimismo dialettico che scopre
la razionalità dell' irrazionale, che nel male ravvisa la condizione di un
bene successivo, che coordina il tutto in uno, che mira ad affermare
il concetto dell'unità di legge nella natura, nella società, nello spirito,
immedesimando la logica della storia colla logica del pensiero.
La natura non è più interpretata nel senso fisico, del Système de
la nature^ che non ammette, se non soggettivamente, la distinzione fra
ordinato e disordinato, tutto reputando necessario allo stesso modo; ma
in un senso teleologico, come un sistema ordinato secondo la regola
dei fini. Questa interpretazione si ritrova nella filosofia del movimento
collettivista come in quella della rinascenza cattolica: diverso è il fine
preposto alla realtà; ma questa possiede un proprio principio attivo,
che imprime al suo sviluppo una data direzione. Saint-Simon, seb-
bene ancora affezionato alla morale del piacere, dice che una legge di
gravitazione regola il moto degli spiriti verso un punto comune di perfet-
tibilità; Fourier opina che come l'attrazione universale regola il mondo
fisico, così l'attrazione passionale ordina il mondo sociale. Cousin vede
nella storia il riflesso della ragione. Mazzini e Lamennais concepiscono
tutto r universo dominato da una solidarietà di amori e di sacrifici, che
unisce il mondo alle creature, queste tra loro nell'umanità, e l'Uma-
Razionalismo e Storicismo 525
nità a Dio/ Anche questo misticismo è aggrappato alla storia, esprime
il bisogno di afferrare nella realtà Tessere ideale, di eliminare le con-
traddizioni dell'esistenza, di richiamare Dio dal suo esilio, contro i pochi
che ancora tentano di rinchiudere Io spirito nelPorizzonte sensistico.
Questo bisogno è europeo. Maggiormente sentito e più efficace-
mente espresso in Francia ed in Italia, che avevano insieme sperato
e sofferto. Fra esse vi è la più intima rispondenza spirituale. De Musset
e Leopardi esprimono una eguale nota di disperazione. Le loro pagine
danno ì brividi di una melanconia autunnale. De Maistre e Rosmini
accendono una stessa fiamma divina. Mazzini e Lamennais portano
alla più alta significazione ideale la vita dell'Umanità dietro il concetto
sublime dell'unità morale dell'universo politico.
La corrente mistica. Giuseppe Mazzini.
Le varie correnti storiciste prendono in Francia tre forme princi-
pali, costituite: dai filosofi del cattolicesimo; dai filosofi dell'associa-
zione; dai filosofi dell'esperienza.
Il loro pensiero ha potentemente agito sulla vita spirituale del-
l'Italia nuova.
La scuola cattolica francese dice che l'uomo fuori della società cessa
di essere una potenza viva, e che per ciò non devesi guardare all' in-
dividuo, ma al consorzio; non alla ragione singola, ma a quella che
si convalida del consenso universale : ossia, la verità riposa nella Chiesa,
che è tradizione perenne, e che vive in comunità col popolo e con Dio.
Lamennais, colla critica della ragione, ha affermato l' incapacità di
questa alla conoscenza del vero ; il libero esame porta scetticismo ; le
vedute personali cozzano fra loro, e dall'urto nasce il dubbio; la legge
della conoscenza va riposta nel consenso unanime. Dunque bisogna
rifarci al cattolicìsmo che è ragione universale per eccellenza; e poiché
il vero non è nell'individuo uno, così il governo del mondo riposerà
sul volere del popolo, protetto da Dio. Fuori della Chiesa non è luce
di vero, e fuori del popolo non è speranza di bene. Questo è pure il
principio dei Lamennesiani d'Italia: Alessandro Manzoni, Gino Cap-
poni, Raffaello Lambruschini.*
Naturalmente essi accennano più alla Chiesa dei primi tempi che
alla Chiesa degli ultimi secoli; la vogliono restaurata in Cristo per il
1 Carlo Cantimori, Saggio sull'idealismo di Giuseppe Mazzini, Faenza, 1904.
p. 293.
* S. Reinach, Orpheus, Voi, II, p. 744 ; Antonio Anzilotti, Dal neo-guelfisma
ali* idea liberale, in Nuova Rivista Storica, Anno I, fase. Ili, pp/388 e stsz
526 Ettore Rota
trionfo civile delle massime evangeliche: carità, uguaglianza, associa-
zione universale del genere umano. Qualcosa hanno preso dai gian-
senisti di Francia, di cui, anzi, rappresentano gli ultimi seguaci. È nota
l'azione di Port Royal sul Manzoni.^
Ma nel concetto del Lamennais* di salvare la religione, non già
a scopo reazionario, ma per il trionfo del popolo, di cui .annuncia
l'avvento in uno stile apocalittico, è già rinchiuso ciò che il Mazzini
espresse colla formula Dio e popolo.
È stato detto che il povero Fantasio altro non fu che un rima-
sticatore « in cattivo italiano > delle idee e dei sentimenti del grande
francese.^ Ma l'originalità consiste anche nel trovare rapporti scono-
sciuti fra cose note: e tale fu il Mazzini, che, dove altri vide un prin-
cipio di lotta, egli dimostrò l'esistenza di un'armonia per il raggiun-
gimento dell' unità.
Nel Mazzini confluiscono molti rivi della nuova corrente religiosa
di Francia ; e Lamennais non vi entra che per una parte ; bisogna anzi-
tutto distinguere il Lamennais della prima e della seconda maniera.
L'uno vuole la religione cattolica ed una Chiesa col papa di Roma;
Mazzini vi si oppone; e non crede già ad una religione, ma alla reli-
gione, o meglio al sentimento religioso dell'Umanità, e considera il cri-
stianesimo già esaurito nella propria funzione civile. Il Lamennais della
seconda fase si stacca dall'autorità pontificia e sogna quel cattolicismo
umanitario, che era pure negli intenti del Mazzini. Ma è molto difficile
stabilire quali scrittori abbiano maggiormente cooperato con Lamennais
a determinare e precisare l'idea di identità fra filosofia e religione,
e nessuno potrebbe lasciare in disparte Pierre Leroux. Senonchè quella
idea il Genovese l'ha succhiata con le prime lezioni di grammatica
latina; il suo primo maestro fu un prete giansenista, l'abate Luca Ago-
stino De Scalzi * un patriota di stampo cisalpino, che sì prefiggeva di
provare le affinità della democrazia coi principi della religione. Non è di
poco conto rilevare che l'indirizzo futuro del pensiero politico mazzi-
niano non discorda dai ricordi che lo legano all'operosità pratica del
suo più caro Maestro, dal quale avrà anche appreso insegnamenti di
purissima morale evangelica.
Il Mazzini non più* discepolo, ma libero studioso, ha cominciato pro-
i Dora Meleqari, Un janseniste au XIX siede, in Journal de Genève, Ginevra,
I, 1901.
* Saggio sopra l* indifferenza (1817). Relazione in rapporto all'ordine civile e
politico (1825).
» Th. Neal (Angelo Cecconi), Studi di letteratura, Firenze, 1898, p. 215.
* O. Salvemini, Ricerche e documenti sulla giovinezza di Q. Mazzini^ in Stiuli
storici, Voi. XX, fase. I, 1911.
Razionalismo e Storicismo 527
prìamente col subire l'azione del Condorcet. A diciassette anni egli aveva
lasciato la fede dell'infanzia e ne attingeva una nuova ààW Esquisse ;
era questo il suo libro di intimità spirituale, che talvolta, leggeva durante
tutto il tempo della cerimonia sacra.
Il principio di unità politico-morale d'Europa, confederata in libere
repubbliche, e la fede nell'avvenire dell'Umanità solidale nel fine, fu
l'anima del suo sistema. Da qui apprese a diffidare del metodo di
Rousseau, che studia l'indole della società fuori della società medesima,
e contro il quale affermò « che il progresso è rivelato dalla tradizione
storica, dalla scienza e dalle aspirazioni dell'anima »^ Apprese ancora
a diffidare del Montesquieu, nella cui dottrina « del clima padrone asso-
luto delle nazioni » vide la genesi del « materialismo politico filosofico >;
poiché essa, assegnando ai popoli molteplicità di fini da raggiungere,
determinava un sistema di caste e di aristocrazie, e quindi il trionfo
del federalismo e del diritto individuale, che nega la solidarietà nel cam-
mino ideale della specie.*
Ma dinanzi a quel primo concetto della perfettibilità umana, si
presentava la questione: donde essa proviene e chi ne è causa.
11 Mazzini trovò la risposta nel Cousin, di cui seguiva febbrilmente
le lezioni famose del 1828.
Il panteismo dello Schelling era penetrato in Francia con Hegel, e
Cousin lo illustrava lucidamente: la storia riflette l'azione di Dio. sul-
l'umanità; il progresso e le epoche sono incarnazioni successive degli
elementi fondamentali dello spirito; la verità non è chiusa nei limiti
di un'epoca sola, ma è una costruzione progressiva e continua.
Pierre Lcroux introdusse questi principi in un sistema filosofico, la
cui base era l'identità della filosofia e della religione (non ammessa dal-
l'eclettismo del Cousin) : queste hanno il medesimo scopo e obbiettivo,
dice il Leroux: l'ideale deJla perfettibilità; la filosofia si trasforma, ma
è pur sempre religiosa; è la religione sotto altra veste; ì veri grandi
pensieri che hanno agito sull'umanità sono stati religiosi; quando la
filosofia sembra staccarsi dalla sua compagna gemella, è per raggiun-
gere un avanzamento maggiore.
Il Mazzini prende l' una e l'altra idea, del Cousin e di Pierre Leroux ;
vede nella storia una « immensa epopea religiosa », e concepisce la
verità divina come uscente in progressive rivelazioni dal seno fecondo
dell'umanità; e definisce la storia umana « la storia della religione pro-
gressiva dell'Umanità».'
1 Scritti editi ed inediti, Roma, 1861-91, XVI, 23.
« Deir unità italiana, 1. cìt.
5 Scritti, IV, 238.
528 Ettore Rota
Quando un principio religioso si è sviluppato per intero, inco-
mincia un'epoca nuova con la rivelazione di un dogma più perfetto. Le
idee sono tutte di Dio ; successivamente rivelate costituiscono le varie
epoche del mondo.
Rimane ancora un problema da risolvere : in quale modo V umanità
giunge a conoscere il nuovo principio religioso, che informerà l'età
nascitura.
11 Cousin viene ancora in soccorso al Mazzini. A lui è attribuito
il merito di avere diffusa tra i paesi latini la teoria hegelliana del genio.
A differenza di Helvetius, che lo faceva opera del caso, Cousin spiegò
il genio come rappresentante di un'idea chiusa nel cuore delle molti-
tudini, e destinato a rivelarla alle moltitudini stesse da^cui viene rac-
colta. È la scintilla che ha condensato l'energia elettrica dispersa nel-
l'atmosfera, e l'ha restituita, illuminando e risvegliando It nuvole che
dormivano nel cielo opaco.
Entro l'anima del Mazzini, piena di mistico ardore, in cui paiono
condensati i dolori del passato e le aspirazioni del suo secolo, l' idea
esposta dal Cousin ha qualcosa che gli parla di sé stesso. E la fa
propria. L'uomo di genio è per il Mazzini colui che sente più inten-
samente la vita universale, è la sintesi che esprime tutta la verità di cui
può essere dotata un'epoca, e che questa contiene oscuramente, in-
consciamente ; tale verità « Dio pone nel core del pòpolo e sotto il
cranio di un individuo potente, che la imbeve del proprio amore e la
trasfonde in utile della collettività».*
Il Mazzini distingue il genio che riassume il passato, che riassume
il presente, che fa nascere l'avvenire ; quest' ultimo è il genio religioso.
I geni sono «gli angeli di Dio sulla terra »;^ le pietre miliari sulla via
che l'umanità segue; i sacerdoti della sua religione.
Anche Saint-Simon si è fermato sulla dottrina del genio e ha propo-
sto che alla sola intelligenza sia affidato il governo; un potere spirituale,
mediante l'istituzione di un sacerdozio degli ingegni, che dovrebbe,
secondo le circostanze, essere affidato ora ai dotti, ora agli artisti, ora
agli industriali. Ma Giuseppe Mazzini combatte questa forma di azione
pratica degli uomini superiori, che presentava il pericolo di ridare vita al
passato monarchico della Francia e di creare un secondo cattolicesimo
con altri papi e cardinali;^ lo combatte in nome dell'autonomia spi-
rituale dell'umanità e della sua progressiva divinizzazione: il pensiero
» ScrittU IV, 238.
« Scritti, IV f 49; cfr. Carlo Cantimori, Saggio sull'idealismo di Q. Mazzini,
1894, p. 228; Q. Salvemini, // pensiero religioso, ecc., di G. Mazzini, Messina, 1905, p. 7.
5 Scritti, VII, 323,
Raziofialismo e Storicismo 529
non deve essere imposto da un ordinamento qualunque e da uria setta
di privilegiati legalmente costituita; l'umanità deve liberamente acco-
gliere le idee che il genio liberamente getta nel suo seno.
Donde verrà la formula dell'avvenire ? Quale l'elemento nuovo da
introdurre nella vita dei popoli?
La Francia aveva variamente risposto alla questione; e molti si-
stemi vide sorgere il Mazzini; dal neo-cattolico Buchez al comunista
Louis Blanc; da Saint-Simon al Proudhon. Tutti prese in esame e di-
scusse; e da ognuno attinse qualcosa, sopratutto dove trovò ammessa
la necessità di emancipare l'Europa dalle vedute del secolo XVIIL
Ma alla scuola del Buchez non si sente affine ; il neo-cattolico fran-
cese vide nella Rivoluzione un prodotto del cristianesimo, e la inter-
pretò come il principio di un'era nuova (di cui spettava alla Francia
l'iniziativa), nella quale il cristianesimo si sarebbe convertito in reli-
gione sociale e avrebbe fatto realtà del Regno di Dio sulla terra.
Ma innanzi tutto il Mazzini nega a priori la perennità di una idea,
che è in antitesi colla premessa delle rivelazioni successive; quindi con-
sidera il Cristianesimo come una religione esaurita e ritiene assurdo di
aggiungere un fine collo strumento destinato ad un altro. 11 fine del
cristianesimo essendo la salvazione dell'individuo, non poteva servire
a fondare una società credente nella vita collettiva dell'umanità;^ un
dogma non può conciliarsi con un principio 4ì progresso successivo.
La rivoluzione era per il Mazzini un programma da svolgere ; non
l'inizio di un'epoca nuova, ma l'ultima formola di un'epoca, della quale
Napoleone aveva dichiarato la morte a Sant'Elena; « cangiamento quindi
del punto donde devono muovere i lavori dell' intelletto >.^
In secondo luogo il Mazzini non poteva tollerare « il pregiudizio
vergognoso... in virtù del quale alla Francia sola apparterrebbe l' inizia-
tiva della lotta europea ».^ Questo non era che un effetto del ricordo
della Rivoluzione, che signoreggiava i pensieri sull'avvenire, perchè era
il moto più vicino e più gigantesco.
Àncora meno accessibile alle aspirazioni mazziniane era la defe-
renza del Buchez verso il papato, come a un potere che le predica-
zioni della democrazia religiosa avrebbero ravvivato e ricostituito ini-
ziatore d'ogni futuro sviluppo.
Tale programma urtava colla concezione del genio diffusa dal
Cousin e fatta propria dal Genovese. Se il segreto dì un'epoca vive
nel popolo, non potrà raggiungersi col mezzo di un potere che non
1 Scritti, V, 38.
» Scritti, V, 69.
3 Scritti, V, 70 (Deli' iniiiativa rivoluzionaria in Europa, 1834).
34 — Nuova Rivista Storica.
530 Ettore Rota
esiste per diritto di popolo, e a cui il popolo nega l'antico consenso;
ira gli uomini e Dio non vi deve essere altra sorgente intermedia di
vero, che non sìa il "genio affratellato col popolo. Libertà e papa, se-
condo il Mazzini, stanno in contraddizione; ogni sistema che si leva
sulle rovine del cattolicesimo si pone al di fuori della via maestra.
Nella stessa categoria collocò il sansimonismo, per il suo ordina-
mento gerarchico dell'associazione, e perchè assegnava a ordini diversi
il compito di influire sulle diverse branche della società. Ma quel si-
stema gli parve ancora schiavo del vecchio utilitarismo sensista, rin^
novellato dalla scuola del Bentham. E, nella critica di esso, il Mazzini
ripete le considerazioni di Pietro Leroux.
Il punto di partenza di questa dottrina è la massima possibile feli-
cità; è la conciliazione dell' interesse individuale col generale ; la religione
dei sansimonisti è la religione del godimento; essi non cercano d'in-
nalzare la terra al cielo, ma di far discendere il cielo sulla terra .*
Carlo Fourier agita la stessa bandiera ; « la felicità è intento alla vita ;
il dolore un segno di errore ; il piacere un segno di verità ; l' interesse,
l'unica leva per raggiungere l'avvenire e riordinare la società».* Il
Fourier dichiara legittime tutte le passioni umane e * materializza lo
spìrito in un'abbietta teoria di godimento».' Orbene, l'uomo non si
cambia indorandone l'abitazione; non lo si spinge al sacrificio par-
lando di compensi materiali ; trascurare l' uomo interno è voler sosti-
tuire la cornice al quadro ; il progresso sta nella coscienza del pro-
gresso, nell'acquisto di valori morali, in una missione da compiere,
in una virtù da raggiungere.
Nella scuola di Saint-Simon, Il Mazzini non trova che un principio
valevole per l'avvenire ; l'armonia tra pensiero ed azione.* Tutto quanto
conduce all'unità umana, sia pure l'ecclettismo, richiama le simpatie del-
l'ardente Genovese. E quelle parole egli scrìsse sulla propria bandiera.
Così pure il tentativo di risolvere ad un tratto la questione religiosa
e tutte le altre che si agitavano nell'industria e nell'arte, ponendo a
base un principio unico, sia pure falso, gli parve rappresentare un passo
innanzi, poiché la filosofia aveva mutilato l'umana natura, trascurando
che in essa il tutto ha un'origine sola. Il secolo XVIII aveva ecceduto nel-
l'analisi; il secolo XIX doveva fare la sintesi per ricostruire l'unità umana.
Ma né il Buchez, né Saint-Simon, né il Fourier sanno suggerire il
verbo nuovo; questo viene dalle pagine del Lamennais.
1 Scritti, VII, 313.
« Seritit, VII, 317.
^ Scritti, VII, 203.
* Scrim, VII, 307.
JRazionalisìfio e Storicismo 531
Il Libro del popolo contiene tutta la teoria del e dovere > abbrac-
ciata dal Mazzini.
Il Lamennais pone l'errore nell'individualità; la ragione conduce
allo scetticismo quand'è personale, perchè essa passa da negazione a
negazione, d'abisso in abisso ; ma trova la sua potenza quand'è collet-
tiva; nel genere umano è dunque la guida dell'intelligenza; e nel con-
senso universale, il vero ; ma il diritto è un principio conservatore, e
l'ente individuo è una forza isolante che separa l'uomo dall'umanità,
poiché reclamare un diritto è domandare qualcosa per sé. Dunque nel
diritto non riposa la giustìzia sociale ; questa invece dovrà cercarsi \v\
un principio di solidarietà il quale non può essere che il dovere, an-
titesi del diritto.
Il consenso universale è la legge della conoscenza in metafisica;
il dovere è la legge dell'associazione nel mondo civile; è la legge
dell'avvenire umano. Il dovere, dice Lamennais, spinge ciascuno al di
fuori di sé, avendo per scopo il bene di tutti; compire un dovere è
fare qualcosa dì utile altrui. Il puro dovere è puro sacrificio, ossia la
giustizia e l'amore supremo; l'uomo non vive solo; egli non si conserva
all'infuori dei suoi simili; è quindi la « famiglia universale che noi dob-
biamo continuamente pensare di costituire » ; è quindi il dovere < il
principio conservatore della società».
Il Lamennais si guarda bene dal negare l'importanza sociale del
diritto, ma lo considera inferiore al dovere.
Provare ora che il Mazzini svolge fedelmente queste massime, è
superfluo. Egli vede dovunque, nel suo tempo, discordia e scissura; ne
assegna le cause alla filosofia rivoluzionaria, che ha creato la teorica
dei diritti individuali; ne addita i rimedi nella teorica del dovere e
dell'Umanità collettiva. Eleva il dovere ad importanza e ad essenza di
pensiero religioso, dichiarando che la vita umana non è felicità, ma
missione, sacrificio, arena di battaglia, martirio di ognuno per tutti.
Ed ecco completato il sistema del Mazzini: il progresso è indefinito
(Condorcet); esso si compie per successive rivelazioni divine (Leroux,
Reynaud, Quinet), diffuse dal genio sulle moltitudini e da queste sugge<
rite (Cousin) ; la legge nuova sorgerà quando il popolo si sentirà as^
sodato in un solo pensiero, e questa unità ideale deve essere il fine
supremo dell'esistenza; ma l'unità può nascere solo dalla scuola del
dovere (Lamennais) ; dunque la vita è una missione; la norma di tale
missione ha un termine nella collettività, e la cooperazione generale
è la leva del mondo.
Ed il problema dell'oltretomba? Non è difficile comprendere che
tale sistema ha il suo complemento nella dottrina della metempsicosi.
Leroux e Reynaud hanno accettato ciò che era una conseguenza
532 Ettori Rota
logica; l'indefinita perfettibilità umana richiede la possibilità di succes-
sive esistenze, attraverso le quali lo spirito progredisce inalzandosi a
Dio ; l'umanità forma un'unità reale che si perpetua nella riviviscenza
dello spirito; questo non ha il ricordo della vita anteriore; è cambiato,
e cambiare vuol dire dimenticare Io stato precedente. Questo ammise
Leroux; invece il Reynaud credette in una transmigrazione ad altri
mondi. Fu di tale avviso il Mazzini: «Qui sulla terra siamo in con-
tinuazione dì viaggio, provenienti da altri astri o pianeti: non ce ne
risovviene perchè siamo ancora troppo in basso. Arrivati più in su
ad altre stelle, ci si scoprirà la spirale corsa, e gettandovi su rocchio
ricorderemo il passato. Le anime morte ci sono vicine, il loro contatto
è causa dei nostri slanci verso i sacrifici >.*
Che cosa rimane di proprio al Mazzini? Ancora tutto, poiché la
sua forza e la sua originalità sono riposte nella fede istintiva della
sua anima; e questa noti ITia creata nessuno dei filosofi dai quali egli
attinse. Dimostrate pure che le dottrine di Cristo erano già sparse
nella Persia di Zoroastro o nell'India di Budda; ma rimarrà sempre
intatta la figura di chi ha compiuto il sacrificio sulla Croce ; e nessuno
mai potrà dimostrare che sia stato Zoroastro o Budda a compiere
l'opera civilizzatrice del cristianesimo ! On'idea può essere patrimonio
di molti individui e di molti popoli; ma solo pochi riescono a tradurla
in principio vitale, poiché il suo valore pratico dipende, piiì che da una
bontà intrinseca, dalla fede che l'accompagna e che essa sa esplicare.
Il Mazzini ne ha dato la prova personale. Quando sulla sua anima e
scesa l'ora tragica del dubbio, il suo pensiero si è convertito in un
proposito di morte. La fede ha tanta parte nel suo sistema che quasi
soffoca l'elemento storico e l'elemento razionale. I due termini sono
sovrapposti da un terzo, che la Rivoluzione aveva soffocato, ma che
poi ha restituito più fortemente che non fosse nello stesso Bossuet o
nel teismo vichiano.
Ma la storia che è prossima al Mazzini sembra essergli contrària.
A lui ripugnava di individuare in Parigi la funzione rivoluzionaria di
Europa; ma in verità, il 1830 borghese ed il 1848 plebeo hanno avuto
iniziativa francese.
Se la storia dei suoi giorni è contro Mazzini, il suo sistema non
può risolvere i problemi immediati del suo tempo; esso appartiene
all'avvenire.
Però la condizione fondamentale che egli ha posto alla reden-
zione italiana — emanciparsi dalla Francia — non rimane un pensiero
isolato.
1 Cfr. Salvemini, op, eit.t p* 25.
Razionalismo e Storicismo 533
In fondo è Io stesso concetto del primato italico nel movimento
delle idee mondiali, già posto dal Coco, e poi svolto dal Rosmini, col
proposito esplicito di rovesciare il sensismo, di sperdere le tracce della
rivoluzione volterriana, di restaurare l'impero del Cristianesimo.
Dopo il Mazzini la stessa idea è sviluppata dal Gioberti; anch'egli
vuol fare della religione la generatrice della nuova esistenza nazionale;
dispregia il sensualismo, vagheggia una tradizione idealistica italiana; e,
mentre il Mazzini ha affermato la necessità di oltrepassare l'Enciclo-
pedia, ma riconoscendo l'utilità dell'opera sua, il Gioberti si mette in
opposizione a tutta la Francia da Descartes a Tracy, imaginando una
Italia teocratica, che era pure la negazione della storia come l'uomo
selvaggio del Rousseau.
Ma i sistemi del Mazzini e del Gioberti mettono capo ad una con-
traddizione ; la loro filosofica avversione alla Francia è rappresentabile in
politica dal principio del non-intervento, che è una stessa cosa col
rispetto nazionale. Ma come si concilia con quello di umanità a cui
il Mazzini, in modo deciso, vuole giungere superando l'egoismo na-
zionale?
Dunque la dottrina mazziniana, che colorisce poeticamente l'ideale
associativo di Saint-Simon, anziché allontanare Titalia dalla Francia ne
la spinge di nuovo !
La tendenza positiva. Giuseppe Ferrari.
Giuseppe Ferrari compie questa operazione logica.
Egli corre all'eccesso opposto dei sognatori di un primato ; e
preannuncia, di questo passo, la rovina della patria.^ Pieno l'animo di
entusiasmo per la novità e la potenza conquistatrice del pensiero ri-
voluzionario, afflitto dalla intolleranza dei neoguelfi, nei francesi vede
quasi delle divinità scese sulla terra; e nel 1844 invoca in tutta Europa
l'intervento della nazione che ha proclamato i diritti dell'uomo.-
Ma, coi preparatori italiani di un nuovo cristianesimo, egli condanna
quelli di Francia; e tutta la scuola che ha servito di ispirazione al Maz-
zini è violentemente attaccata. Saint-Simon e il discepolo Leroux, li
confina tra i nuovi Millenari.^
Il Ferrari fa una critica storica della politica, alla luce di questa
idea fondamentale: che v'ha una tendenza all'utopia e una tendenza
alla fredda osservazione, ambedue visibili fin dall'antichità, l'una in Pla-
1 P. F. Nicoli, La mente di G. Ferrari, Voi. I, p. 85.
* 'La philosophie catholique en Italie, in Revue des Deux Mondes, maggio 1844.
3 Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire, Paris, 1843.
534 Ettore Rota
tone e l'altra in Aristotile. E tra gli utopisti colloca i restauratori della
tradizione cristiana, Demaistre, Bonald, Lamennais, il cui ideale si
spezza € contro la realtà di questo mondo, ancora fremente di tutta la
rivoluzione, che il pensiero ha dovuto sostenere contro il pensiero del
Medio Evo ».
Il Lamennais (Essai sur Vindifference) ha visto l'intelligenza passare
da negazione a negazione ; da Roma a Wittemberga, da qui a Ferney :
cattolicismo, protestantesimo, deismo ; sempre in moto per negare, mai
per affermare; e allora proclamò la necessità di un autorità sociale, di
una sottomissione al capo della cristianità.
Giuseppe Ferrari gli osserva : Se la ragione personale è anarchia,
sorge il dilemma: o vivere in massa ubbidendo, o vivere individual-
mente con libertà; ma per risolversi ad ubbidire bisogna ragionare; per
chiudersi in una foresta, occorre pure fare atto di ragionamento ; dun-
que il dilemma è falso, e la difesa del Lamennais a favore dell'autorità
cattolica non è giusta.
Ma lo stesso Lamennais quando si trovò alle prese coll'autorità
diventò ribelle!
Il Ferrari lo segue nella seconda fase delle e Paroles d'un croyant >,
e con una critica brillante rileva i controsensi della sua equivoca po-
sizione di filosofo e di teologo.
Il Lamennais ha'imaginato l'autorità del genere umano in luogo di
quella pontificia; ma la tradizione offre mille sistemi; chi sceglierà il
migliore? Il Lamennais si rappresenta l'umanità come la manifestazione
progressiva di tutto ciò che è in Dio; ma questa veduta conciliativa,
dice il Ferrari, crea due opinioni estreme; da un lato suppone che
Dio ha voluto il male, dall'altro, non lo scolpa di avere ceduto ad
una fatalità che lo sollecitava a produrre tutto, senza risparmiarci i
primi abbozzi della creazione.*
In quanto a Pierre Leronx, il Ferrari dimostra che il suo sistema
è una scafa di congetture, di cui ogni gradino inferiore è sempre più
debole, a partire dall'idea del progresso indefinito fino alla metempsi-
cosi, che funziona al tempo stesso da ipotesi e da riprova.
L'antipatia del Ferrari contro tutte le utopie, lo rende freddo al-
l'idea di una grande federazione mondiale a cui tendevasi, al di qua
e al di là delle Alpi, con fede religiosa; e lo rende alieno dalle affer-
mazioni assolute; come non riconosce al Cousin la morte delle nazioni
asiatiche, così non crede con Augusto Comte che l'ideale-perfezione
sarà raggiunto dal mondo degli scienziati, e contesta ad Elvezio che
il genio è figlio del caso.
1 Essai, p. 173.
Razionalismo e Storicismo 535
La critica, che egli move ad Elvezio, è tra le più notevoli del se-
colo e sì ricollega al suo sistema di filosofia civile/ che è continua-
zione e applicazione del sistema vichiano, già riabilitato dal Cousin.
Il Ferrari tronca subito l'opinione del francese, mostrando che il
caso, avverandosi sempre e solo in alcuni individui, e mai una sola
volta in un solo individuo, cessa di essere un caso e cade sotto il do-
minio della legge! I geniì non si fermano ad una scoperta, ma ne
continuano a produrre; e, pure ammessa la possibilità di scoperte
causali, v'è differenza fra quest'ultime e quelle del genio.
Galvani non è Volta. Se il caso disponesse delle arti e delle scienze
e delle invenzioni, « un'indefinita versatilità dovrebbe presentare l'incivi-
limento presso le nazioni diverse». E invece « la direzione degli sforzi
dell'arte si trova uniforme presso le nazioni diverse », e in tutte si no-
tano in un dato tempo gli stessi traviamenti, come prodotti di una
legge inevitabile». In una parola, è facile intravedere « una legge generale
di gravitazione delle menti che sbandisce il caso dalla storia, una virtù
elaboratrice dell'intelletto umano che coordina col materiale delle sen-
sazioni il mondo della civiltà».-
L'errore che il Ferrari imputa ad Elvezio è di non avere « oltre-
passato la superficie delle sensazioni, per risalire alle potenze elabora-
trici della mente » ; di aver considerato « gli atomi solamente del mondo
intellettuale ; quindi non è penetrato nel laboratorio mentale e nel cir-
colo magico delle passioni ».^
Ma se la civiltà non risiede nelle cose e nei fatti, sibbene nelle
leggi colle quali noi discipliniamo le cose e i fatti, ne viene la neces-
sità di analizzare ogni umana cognizione nella sua genesi e nel suo
sviluppo, ossia « di inaugurare ogni studio filosofico coll'indagìne psi-
cologica più spinta».*
E qui il Ferrari si collega a Vittorio Cousin.
È merito di quest'ultimo l'avere chiarita in Francia tutta l'impor-
tanza dell'analisi psicologica per la conoscenza del fenomeno storico,
ispirandosi al Vico e ad HegeL
Il Cousin^ vide che la scienza della storia è la rappresentazione
della natura, quale si manifesta nell'individuo e nella specie; e che essa
pertanto presuppone una coscienza delle potenze, degli affetti, delle
» O. Ferrari, La mente di Q. D. Romagnosi, Milano, 1913, capitoli V e YH
(l'opera è del 1635).
« La mente di Q. D. Romagnosi, ed, cit. p. 70.
3 Ibid., p. 105.
* Cfr. Nicoli, op. cit., p. 38.
5 V. sul Cousin: Giuseppe Rensi, // concetto di storia della filoso/latin Nuova
Rivista Storica, A. II, fase. II (1918).
53^ Ettore Rota
leggi fondamentali dello spirito umano; comprese che l'analisi storica
può completare l'analisi psicologica e ambedue giovarsi insieme; che
in ogni spirito vivono le stesse idee, frutto degli stessi bisogni fonda-
mentali; che l'unità della civiltà è nella unità della natura umana, e la
sua varietà nella varietà degli elementi di questa natura; e come la
natura umana è la materia della storia, la storia è il giudice della na-
tura umana, e l'analisi storica è la controprova dell'analisi psicologica.
Questa dottrina, che sottrae l'incivilimento all'arbitrio di una causa-
lità amorfa e lo deriva da leggi scolpite nella costituzione stessa del-
l'uomo (idea vichiana), ha il suo complemento nella teoria del genio
considerato il rappresentante delle idee dei popoli, il condensatore
delle aspirazioni generali, la mente che riassume il lavoro progressivo
di una generazione.
Senonchè il Cousin non è rimasto fedele ai suoi principi, e nel-
l'applicazione li ha travisati o abbandonati ; e, invece di considerare la
natura svolgentesi nella sua totalità, la suddivide in facoltà diverse e
individualizza il loro singolo sviluppo in diversi periodi della storia.
Studiando le categorie del pensiero conclude che i principi costitutivi
della ragione sono tre, l'idea d'infinito, di finito e di relazione, e di-
stingue tre epoche successive: nella prima l'uomo è compreso dalla
idea dell'infinito, nella seconda acquista coscienza della propria per-
sonalità, nella terza concilia gli estremi. Qui il Cousin ha guastato
Vico con Hegel; lasciando cadere la psicologia nel baratro oscuro
della metafisica.
Giuseppe Ferrari ripete le grandi verità formulate dal filosofo eclet-
tico, e muove dallo stesso principio: che la filosofia deve procedere
di conserva con la storia, che la psicologia è unico fondamento della
filosofia storica, che la storia è lo sviluppo della ragione ; accetta la
teoria del genio e trae da qui la sua dottrina della « gravitazione uni-
versale delle menti », colla quale spiega il progredire di tutte le nazioni
in una direttiva comune attraverso la varietà dei costumi e dei climi.
Le menti meditano sempre gli stessi problemi ; a duemila anni di di-
stanza, tra diversi paesi, Aristotile e Bacone, Platone e Descartes pos-
sono riconoscersi sulla stessa via; l'umano pensiero ha dunque una
diramazione uniforme, «tutti gravitano verso un perfezionamento
unico >, e «il genio non fa che precedere nella gravitazione ».*
Il Ferrari vuole rispettati questi principi, e rimprovera al Cousin
di non avere considerata la natura nella sua totalità, e di avere visto
nei periodi storici uno solo degli elementi costitutivi del pensiero, che
per la loro natura universale e indivisibile non possono essere studiati
1 La mente di Romagnosi, p. 102.
Razionalismo e Storicismo 537
separatamente, e ognuno da popolo a popolo. La civiltà orientale non
presenta, egli osserva, tutti i caratteri dell'infinito; Tlndia forse, ma
certo non la Cina; e in ogni caso, l'India monoteista e la Cina indu-
striale, non sono i primi momenti della storia; che anzi, nei primi st^di
della vita di un popolo, il primo prodotto dell'idea è particolare, po-
sitivo, e ben definito; ma anche posto il principio del Cousin, come
può dirsi che la Grecia succede all'Oriente, se quella è politeista e
questo monoteista?*
Il Ferrari accoglie l'idea che il Cousin prese da Herder; che Ter-
rore prepara la civiltà, poiché la verità non è chiusa nei limiti di un
epoca, ma si svolge nel tempo, ed esce dall'errore come la luce esce
dalle tenebre ; e le epoche successive correggono gli errori delle pre-
cedenti, sì che l'umanità presentasi come un tutto organico in una
continuità attiva.^
Analogamente, il Ferrari respinge la logica come arte diretta a
scoprire la verità e a distruggere l'errore; contro la logica formale
continua la lotta intrapresa dal Cousin, illuminando appunto la filoso-
fia con la storia, e considerando la verità come elaborazione di sistemi
ideali svolgentisi nel tempo ; l'errore è una verità incompleta, è il pro-
dotto di una associazione imperfetta, di una sintesi difettosa, in cui
non sono compresi tutti gli elementi dell'analisi.
La civiltà dunque non è l'opera del caso, né delle pure sensazioni,
né del clima, né dell'individuo legislatore...; è un succedersi di si-
stemi ideali progressivi, ognuno dei quali si appoggia al precedente
in forza del gravitare delle menti intorno agli stessi problemi; il mondo
delle nazioni é regolato dai principi che dominano la mente dell'uomo;
e perciò nell'unità è la varietà; la storia consiste nel movimento ge-
nerale dello spirito umano, ragione, sentimento, volere, attività; il pro-
gresso risiede nella, continua scoperta di nuovi dati, che l'esperienza
scientifica offre alla mente sintetica; le sensazioni sono la materia prima,
il giudizio e l'associabilita sono le macchine elaboratrici ; i sentimenti
e le passioni trascelgono tra la materia prima, ed eccitano le facoltà
elaboratrici.
Così con Giuseppe Ferrari la filosofia e la storia si tendono la
mano per svolgere insieme i misteri della vita dell'umanità, e i feno-
meni della coscienza; la storia diventa il microscopio della psicolo-
gia; la psicologia una lente della storia. Questa è affermata nella
sua razionalità e necessità, in nome della ragione concreta, reale, al
» Essala ecc., ed. 1843, p. 255.
* Tutte queste idee sono svolte nelle sue lezioni del 1828.
538 Ettore Rota
di sopra, di contro alla ragione astratta, incurante dei tempi e di
luoghi.*
Giuseppe Ferrari fu un ammiratore del Vico ; ma i principi della
Scienza nuova li ritrovò nei filosofi d'oltralpe, che seguirono al crollo
di Napoleone, e che avevano fatto esperienza, in pochi anni, di tutti
i sistemi, di tutte le idee, di tutte le prove della [Dossibilità umana.
Perciò non potè che nutrire una sconfinata ammirazione verso un po-
polo, che con tanta intensità di vita aveva rimescolato il mondo; e
contrariamente al Mazzini fece propria la sentenza del Michelet : « La
Francia è il verbo d'Europa, come la Grecia fu il verbo dell'Asia >.
CONCLUSIONE.
A). Il pensiero come scienza ed il pensiero come arte
ripetono in se stessi il dissidio fra storicismo e razionalismo.
La natura ha dato all'uomo due bisogni: la conoscenza del vero
ed il benessere. L'uno provvede alla sua struttura morale; l'altro, alla
sua conservazione fisica. Perciò la filosofia di tutti i secoli si è pro-
posta un duplice ufficio: esplicare il mistero dell'universo, assumere
le direttive del mondo. Nel primo caso l' intelletto ha dinanzi a sé le
vie della ricerca scientifica e del pensiero speculativo ; nel secondo,
le vie della creazione artificiale e del pensiero operante.
II secolo XVIII ha ripreso in esame un vecchio problema : se l'uni-
verso sensibile possa dettare all'uomo le norme della sua condotta
civile e morale; o se dalla vita di società esulino i principi di natura.
In altra forma: se, nelle massime regolatrici della storia, o etiche o giu-
ridiche o religiose, è implicita una forza di obbligatorietà naturale,
o invece una vjolazione di natura; se il nostro passato corrisponde
allo sviluppo di principi supremi ed immutabili, o invece puramente
convenzionali, contrattuali, suscettibili di una nostra volontaria modi-
ficazione. Da una parte si disse che la civiltà è un moto spontaneo
delle nazioni, svolgenti per proprio istinto delle idee eterne, quasi
intimo impulso, inconsapevole degli individui ordinati a consorzio;
altri opposero che essa è un prodotto, fittizio e accidentale, di relazioni
esterne e di postulati razionali, che l'uomo, investito di autorità pub-
blica, artificialmente combinai accomoda, rivolge ad un dato fine. Da
» Aldo Ferrari, L'opera storica di Giuseppe Ferrari, in Nuova Rivista Sto-
rica, An. II, fase. IV (1918), p. 331.
Razionalismo e Storicismo 539
una parte è la scuola del Vico, dall'altra è renciclopedismo. Da una
parte è la tendenza scientifica che cerca nell'insieme dei fatti le idee
fondamentali e le leggi pérenni, senza presumere di tracciare un dise-
gno per il governo del mondo ; dall'altra, è la tendenza artistica, che
procede all'applicazione dei principi scientifici, che pone mente so-
pratutto all'azione facendo suo prò di essi, e vuole costruire la so-
cietà, diffondere il benessere, rifoggiarc l'uomo, formulare la precet-
tistica di una politica prudenziale. La filosofìa dell'enciclopedismo ha
preferito di dare quest'ultima interpretazione al fenomeno sociale, per
avere mano libera nell'opera di ricostruzione. Essa ha proclamato la
sovranità assoluta della ragione, per sottrarsi ad ogni limitazione di
poteri; essa ha negato, o semplificato, l'enigma dell'universo, per rispon-
dere con franchezza a tutti gli interrogativi che assediano l'orgoglio
Umano, e che chiudono gli sbocchi dell'attività razionale. Essa è so-
pratutto animata dal più potente desiderio operativo.
Pertanto, nei filosofi francesi del secolo XVIIl, « l'arte è l'aspetto
predominante > del loro pensiero : il quale non procede disinteressato
allo studio della realtà, o storica o naturale, ma serve ad un intento
pratico, ubbidisce alle abitudini inventive dell'arte. Il loro ingegno non
ha tanta capacità di speculazione, quanta audacia di costruzione; la
loro dottrina cerca un profitto immediato; non si adatta all'utile medio
dell'esperienza; vuole signoreggiare l'esperienza coll'astrazione, per un
utile maggiore.
Questa filosofia è wxCarte sociale: suggerisce le formule ritenute
capaci di condurre l'uomo alla felicità con la piii razionale sistemazione.
Come la sua logica insegna il meccanismo pratico del ben pensare e
di scoprire l'errore, così la sua parte educativa insegna l'arte di reg-
gere i popoli e di uguagliarli fra loro. La mentalità filosofica della
Rivoluzione è essenzialmente una mentalità pedagogica e volontarista.
Di fronte alla storia, essa assume le forme, non più del discepolo,
ma del maestro e del giudice: movendole l'accusa di non avere se-
guito, ed intenzionalmente, un modello diverso nella costituzione del
sistema sociale: invenzione di astuti, il contratto fra ricchi e poveri;
invenzione di sacerdoti, il mito; invenzione dei più forti lo Stato.
Se fosse suo metodo di cercare l'uomo nei fatti, le sue dottrine
perderebbero il filo della realtà. Essa deve concepire l'uomo astratta-
mente, per appropriarlo ad esse; deve giudicare la storia contro na-
tura, perchè la storia si rifiuta di dare una dimostrazione positiva alle
nuove dottrine.
Così, dopo tanto filosofare, si arriva alla concezione imaginaria di
una società che è fuori del tempo, che ha una base nel periodo pre-
sociale, e che è una creazione teorica, una fantasia artistica, una com-
540 Ettore Rota
binazione di gabinetto, dove si ha cura che la forma corrisponda
all'idea, e che le varie parti possano reggere insieme, con sicurezza
di equilibrio.
La macchina-uomo e la macchina-società: ecco due termini molto
in uso, che danno al vivo la concezione statica dell'organismo sociale:
riducibile a condizioni di stabilità perpetua, come complesso di leve
e pezzi di ricambio, che il legislatore deve manovrare secondo le do-
dici tavole della nuova filosofia.
L'opera del politico diventa opera di meccanico ; la trasformazione
sociale, un miracolo dell'industria. Hebert abbasserà i campanili in
nome dell'uguaglianza; i giacobini trasfonderanno l'amore di libertà
mediante la coltivazione di teneri alberelli Si ripensi all'automa di
Condillac, che in seguito a date impulsioni diventa il genio di Elve-
zio; e sì ha la più chiara imagine dell'universo umano regolabile a
guisa di orologieria.
1 caratteri della produzione musicale contemporanea rispecchiano
il procedimento filosofico del secolo XVIH; la musica è pensiero e
arte; il pensiero dà le linee foniche del motivo, e nessun precetto
insegna il segreto d'origine; è l'opera misteriosa del genio; ma il modo
più acconcio di combinare le note per ottenere un effetto armonico
e sembianze musicali può essere insegnato a chiunque, e questa è
arte. Oggi la musica tende a ridurre il pensiero ad arte; voi trovate
povertà di motivi, ma ricchezza di accordi; la musica spesso appare
una sterile combinazione di suoni senza concetto animatore.
Quindi è ingenerata la credenza che tutti possono scrivere di mu-
sica, come nel secolo XVIII era diffusa la credenza che tutti potessero
scrivere di filosofia, dettare leggi all'universo, imaginare un tipo infal-
libile di società. Scarsa originalità di pensiero, ma sconfinata ambizione
di ordinamenti sistematici.
Un secolo, che raccoglieva l'eredità politica e intellettuale lasciata
da Luigi XIV, non poteva sfuggire al preconcetto artistico e alla pre-
sunzione delle possibilità infinite; un principe, che aveva preteso di
reggere la nazione con la forza del proprio spirito, doveva trasmettere
all'intero popolo la fiducia nella potenza creativa della ragione. L'ima-
gine del re Sole è riprodotta dalla filosofia, che vuole avanzare oltre
i gradini del trono per rifare a nuovo la società.
Ma il secolo, che raccoglie le ceneri dell'SQ, diffida nell'opera del
pensiero individuale, e chiede alla tradizione, alla coscienza del genere
umano, alla ragione universale, simboleggiata dalla Chiesa o dallo Stato
o dal progresso storico, la formula risolutiva dei grandi problemi; il
suo pessimismo è la migliore espressione critica del semplicismo arti-
ficialmente creatore. Ma esso ha originato la scienza moderna.
Razionalismo e Storicismo 541
La vecchia tendenza però non scompare totalmente nei primi de-
cenni dell'ottocento francese; se il Cousin riabilitala storia e vi porta
i lumi della psicologia per trovare delle leggi, che in sé rispecchino
l'andamento complessivo ed evolutivo dello spirito umano, e non già
un dato momento di esso, il Saint-Simon ripete ancora il procedi-
mento mentale del secolo trascorso, e lo porta quasi alle ultime con-
seguenze, mostrandosi appassionato costruttore di armonie artistiche e
filosofiche.
Negli scrittori italiani, che pure dipendono intellettualmente da
quelli francesi, noi vedemmo che la tendenza a tradurre in atto un
postulato di ragione, non è così manifesta ; anzi, i nostri esercitano una
critica minuta e assidua sul pensiero d'oltralpe, e mirano a colpirlo
nei suoi aspetti d'arte, nelle sue pretensioni universalmente ricostruttivej
i filosofi italiani, anche quando concepiscono l'incivilimento come su-
scettibile di modificazioni per azioni esterne, vedono nella società un
prodotto di natura; nelle sue anomalie, una conseguenza di anomalie
naturali; e non hanno molta fiducia che la ragione umana possa sco-
prire, padroneggiare, e fabbricare i fattori dell'incivilimento. I nostri
scrittori vedono con chiarezza che il procedimento matematico e delle
scienze astratte non può valere per il governo della società e per la
vita di tutti ì giorni. Le idee semplici non sempre sono applicabili al
mondo complesso delle passioni. Queste non hanno una logica fissa,
né posseggono l'immobilità e le dimensioni precise di una linea geo-
metrica. Il principio dell'intuizione e delle deduzioni appare il più falso
ed il pili arrischiato. Il Genovesi li chiama tutti, con frase scultoria,
filosofi della « pietra filosofale », quelli di Francia, perchè volevano
raggiungere la perfezione e la felicità chimicamente, matematicamente;
egli mette in burla questa loro folle corsa dietro la inafferrabile chimera.
Il Beccaria rinnega Ja teoria del contratto dopo di averne fatta espe-
rienza;, lo Spedalieri la deforma per imbrigliarla con la storia ; il Filan-
geri e il Pagano si sforzano di accostarsi al Vico.
Fra i due termini sta la mente vastissima di G. D. Romagnosi, che
riassume i pregi e i difètti del secolo enciclopedista. Ma Is^ scuola vi-
chiana, che va dal Coco al Ferrari, ne svela in modo franco l'utopi-
smo e l'artificioso, e pone a scopo delle sue indagini la pura cono-
scenza dello sviluppò umano con un ritorno al t conosci te stesso »
della sapienza greca. Specialmente il Ferrari, nell'analisi della mente
di G. D. Romagnosi, insiste sulla necessità di anteporre la scienza
all'arte nello studio della civiltà, se vuoisi cavare da esso qualche pra-
tico insegnamento; ossia di studiare il problema delle origini e dello
sviluppo delle istituzioni, per valutare senza eccessi, né di ottimismo,
né dì pessimismo, la relativa perfettibilità dei periodi sociali ancora in
542 Ettore Rota
formazione; in una parola, egli ammonisce di ridurre prima la storia
a scienza, se vuoisi poi realizzare l'ardito concepimento di ridurre ad
arte la civiltà.*
Concludendo: il conflitto tra storicismo e razionalismo, psicologi-
camente considerato, riflette la duplice disposizione dell'uomo : specu-
lativa e creativa; lo studio obbiettivo del mondo, e la ricostruzione
subiettiva di esso; il contrasto fra il pensiero, in quanto è scienza, ed
in quanto vuol essere arte.
fì). L'antistoricismo è un prodotto delle civiltà oltrepassate.
Rimane a vedere per quale complesso psicologico la Francia, sul-
l'imbrunire del più grande impero, nel periodo ancor più denso
della sua vitalità storica, voglia divorziare dalla propria storia, e negli i
al suo passato ogni efficacia per l'avvenire; mentre l'Italia, all'indo-
mani del dominio spagnuolo, che aveva depresso e deformato Io spi-
rito nazionale, reagisce alle tendenze antistoriciste d'oltralpe, e prepara,
col Vico e col Muratori, le pietre monumentali di tutta la sociologia
storica contemporanea.
Questi due fatti, contrari fra loro, si spiegano a vicenda. La vec-
chia Francia aveva, col secolo XVIII, raggiunto quella forma di matu-
rità, che sembra incapace d'ulteriore sviluppo se non per virtù di ideali
nuovi, in sostituzione dei vecchi ideali gxò. compiuti e superati. Nasce
allora quel senso di immobilità o di arresto, che fa parere la vita un
campo di noia e una imagine priva di contenuto; nella sfiducia del
passato, nella insoddisfazione del presente, nel desiderio tormentoso
di nuove emozioni, l'uomo rivendica a se stesso la direzione dell'av-
venire, quasi fossero in lui delle attitudini superiori alla società mede-
sima, jn mezzo alla quale vive ed agisce.
La Francia di Voltaire ha acquistato la coscienza di avere com-
piuto il suo programma storico, quale era stato posto dai primi esordi
della sua esistenza politica ed europea: perfezionare l'istituto monar-
chico-nazionale; sviluppare e mantenere il cattolicismo. Queste furono
le forze vive della Francia, dal tempo di Clodoveo al regno di Luigi XIV;
e la Francia portò in esse una ostinazione feroce, quanta ne mise l'In-
ghilterra a volere temperata la monarchia e salvo il protestantesimo
Ma poi, toccate le due mete della lunga ascensione, la Francia non.
sentì di avere altri impegni col passato, che non poteva più offrire
elementi vitali per il suo domani. Come si bruciano le cambiali già
t La mente di Gian Donunìeo Romagnosi, ed. dt., p. 126.
Razionalismo e Storicismo 543
scontate, la Francia lacerò le sue pergamene, e sui timbri delPantico
Regime gettò la lava della Rivoluzione.
Essa provò la stanchezza della propria storia, vissuta con esube-
ranza di fede; si senti satura di tutte le civiltà, di tutte le grandezze;
fu annoiata di assimilare roba d'altri e roba propria; e lanciò nel mondo
il nuovo credo che era la negazione di tutte le civiltà e di tutte le gran-
dezze della storia. Credette di avere adorato per tanti secoli un mito
falso, e negò tutti i miti; credette di avere percorso una via fittizia,
e rifece a ritroso il cammino del tempo per riafferrare la natura sem-
plice, buona, incontaminata. Non è la nobiltà medesima, non sono i
discendenti della classe che aveva creato la gloria della Francia, quelli
che, inconsapevolmente a propria rovina, ma per un eccesso di noia,
elaborano la filosofia della Rivoluzione ? Non è lo stesso Voltaire, l'in-
quieto e brontolone pellegrino delle Corti, il freddo ragionatore, che,
dopo di essersi giovato della ragione come chiave del mondo, afferma
che la ragione è un inganno, e la accusa di avere fatto l'uomo servo
dell'uomo,... egli che voleva colla ragione emanciparlo?*
Così tutti coloro che avevano folleggiato nelle sale di Versailles
furono presi dalla nausea per la vita di città, per le convenienze for-
mali, per la pesante etichetta delle alte sfere; e sognarono un'esistenza
fuori delle abitudini dorate; nella bianca nebulosa della vita pre-civile,
nella penombra silenziosa di lontananze arcane, ìn un riposato avve-
nire di amore universale e di armonie fraterne. Cercarono la campa-
gna, vollero l'amplesso romantico . delle distese verdi, sentirono che
l'aspetto pili vero dell'esistenza, l'omaggio più sublime al creato, era
ancora l'intimo sacrificio della madre che porge al bimbo il petto ri-
gonfio... E 'fra queste arcadiche idealità maturava la Rivoluzione inno-
vatrice; come nell'età di Augusto, mentre il poeta dì Corte benedice
il suo rustico ritiro, il popolo abbraccia la Croce che spezzerà con
invisibili colpi lo scettro imperiale.
Ma il fenomeno, che si osserva nella Francia dell'assolutismo mo-
narchico, si ripete anche nella psiche dei grandi indivìdui, che, dopo
avere intensamente vissuto un'ideale, ne vedono la maturazione. Insigne
esempio, l'epilogo anti-tedesco ed anti-storico nella evoluzione dell'idea
nazionale Wagneriana. Il cittadino che ha fatto in cospetto del pa-
dre-Reno il solenne giuramento alla Patria, l'uomo che ha compiuto
il più gigantesco sforzo per coordinare e convergere la propria attività
al trionfo dello spirito e della razza germanica, quando vede il nuovo
Impero fondato, l'orgoglio nazionale soddisfatto, la potenza e le ric-
chezze cresciute a dismisura, ha improvvisamente un senso dì disgusto
1 V., nel suo Dizionario filosofico, l'art. Raison,
544 Ettore Rota
verso il suo antico sogno. Compiuto il ciclo storico» ha l'impressione
del nulla e del vuoto. Allora si ribella alla propria gcrmanità, si illude
di poterla sradicare dal suo spirito, facendosi cittadino d'America, cerca
la verità fuori della storia, in se stesso, nella propria coscienza, e ama-
ramente confessa : « La mia sfiducia nella Germania e nel suo stato
presente è assoluta, completa *.*
Ben diversa dalla Francia era la condizione d'Italia, rimasta sempre
a mezza strada nell'attuazione dei suoi ideali. Essa non aveva toccato
nessuna mèta, né religiosa, né politica, né economica; e cercava l' una
in ondeggiamenti continui fra la Chiesa di Cristo e la Chiesa di Roma;
l'altra, nelle perplessità fra la monarchia e la repubblica ; la terza nelle
artificiosità del regime doganale. Eppure aveva la sua Orsa nel proprio
cielo di dolori; la sua antica Roma parlava di un primato vissuto e
di una eternità di vita; in tutti i suoi secoli vi era una via Appia che
custodiva tesori di fede^. In quei ricordi adunque, nella riviviscenza
e nella prosecuzione di un passato migliore, l'Italia poteva trovare la
luce dell'avvenire. E la storia fu la sua tavola di salvezza, e la coscienza
nazionale-unitaria emerse dalla più remota classicità.
Nella tendenza razionalista dei francesi che respirano ancora l'epoca
di Luigi XIV, vive lo spirito di un popolo che ha raggiuntò pienezza
di vita, e che quasi sbadiglia dinanzi alle sue memorie, come chi esca
da teatro a spettacolo finito. Nell'orientamento storicista degli Italiani,
vibra Io spirito di un popolo in formazione, che deve adorare il suo
passato, perchè fuori di là non vede elementi atti a edificare il suo
futuro: non il disgusto di una vita goduta a sazietà, ma il bisogno
di cominciare a vivere.
Più tardi, anche la Francia, dopo l'incendio delle sue pergamene,
sentì che dal complesso storico nazionale, non da un pensiero astratto,
vengono alle società gli elementi spirituali che ne assicurano la con-
tinuità di esistenza; e ritornò sulle orme antiche; poiché la storia è una
catena di ferro che non si può spezzare, che la stessa natura umana
ha fuso e saldato insieme, anello per anello, nel corso del tempo. Al-
lora Italia e Francia si ritrovarono sopra una rotta uguale; non più a
fantasticare sull'avvenire con inventivo genio di arte, ma ripiegate am-
bedue sulle proprie origini: allora Michelet tradusse e volgarizzò la
Scienza Nuova di Giambattista Vico.
} Cfr. Guido Manacorda, R. Wagner e lo spirito del germanismo, in Studi di
Jilologia moderna, gennaio-giugno 1914, pp. 8 e segg.
Razionalismo e Storicismo 545
C). Le variazioni filosofiche sul concetto naturalistico,
sono un riflesso delle variazioni sociali.
Già siamo venuti esplicando che il conflitto logico fra la natura
e la storia, sebbene rifletta la particolare struttura del pensiero umano,
ora volto all'esame della realtà, ora all'attuazione di un ideale, rientra
nella sfera dei fenomeni riflessi, che si presentano ad un dato mo-
mento e in date condizioni dello sviluppo sociale.
Non è il caso di pensare che realmente esista, anche fuori del
nostro subbiettivismo logico, una opposizione fra la vita storica del-
l' umanità e la vita naturale comunque intesa, sia del mondo fisico
che del mondo organico (irriducìbili fra loro), sia del mondo umano
pre-civile (a noi completamente ignoto) ; e tanto meno ciò si può dire
dell'individuo isolatamente considerato, rispetto all'individuo sociale,
perchè è legge universale che i corpi in combinazione acquistano ca-
ratteri diversi da quelli che posseggono allo stato semplice.
Il mistero dell'universo ha sempre gravato sullo spirito dell'uomo;
ma siamo ben lungi dal poter risolvere i due problemi della realtà
storica e della realtà naturale, e quindi dal poter stabilire un raffronto
tra esse. L'uomo dà delle interpretazioni; le quali sono, ognuna, al-
trettanti fatti umani, dì pura importanza storica e psicologica; perchè
le interpretazioni sono diverse nei diversi tempi e nei diversi individui ;
e le varie filosofie, che su quelle hanno fondamento, confermano il
carattere provvisorio di tutti gli enunciati umani, nell'investigazione
di certi problemi che fermano la scienza sulla soglia della poesia. Ogni
età sente il bisogno di fare una revisione dei propri sistemi ideali ;
ma essa non riesce a soddisfare che poche generazioni ; e anche quando
crede di avere rotto i veli di Iside, il pensiero è sempre al di sotto
della verità misteriosa che esso vuole indagare; e, senza avvedersi, vi
porta la voce dei propri bisogni e dei propri interessi, e le attitudini
o le caratteristiche del suo tempo, pervenendo ad una interpretazione
che sovente interessa dì più la filosofia della storia che la filosofia
della natura, perchè in essa si riflette una realtà appropriata ad inte-
ressi particolari. Lo stesso Darwin è costretto a sostare davanti al-
l'inatteso, all'incomprensibile, all'incoerente; e, quando crede di porre
un principio assoluto, gli sorgono d'intorno tante eccezioni, che quello
rientra a sua volta nei casi eccezionali. Ma la natura, dice Maeterlink,
nel suo poetico studio sulla vita delle api, sì mostra, nello stesso fe-
nomeno e nello stesso momento, prodiga ed avara, negligente e prov-
vida, una e multipla, e da tutte le parti ci sfugge. Noi poniamo delle
leggìi ed essa gode nello spezzarne le misure; è magnìfica verso i
36 — Nuova Rivista Storica.
546 Ettore Rota
privilegi dell'amore, meschina e dura con quella che gli uomini chia-
mano virtù.
Orbene, se la natura e la vita hanno degli aspetti irrazionali,
r uomo non potrà sempre chiedere alla propria ragione il mezzo co-
noscitivo della natura, né potrà illudere il suo merito personale, di
appropriarsi i segreti di natura, o di avvicinarsi alle sue forme,
quando presuma di costruire razionalmente nuove forme sociali.
È stato detto, con buon fondamento di osservazioni, che la vita
è irrazionale; che nulla è più irrazionale dello spirito; che la ragione
non può creare, ma falsificare; che essa serve a qualche cosa, sola-
mente se accetta i postulati extra-razionali che la natura dà gratuita-
mente.* E nella letteratura romantica di Paul Bourget accade spesso di
vedere dimostrate le fallaci conseguenze pratiche del preconcetto razio-
nalistico e della sua creduta onnipotenza. « La ragione? (si chiede Gio-
•vanni Monneron nella Tappa); ma la ragione non è una dottrina. Non
è che lo sviluppo del senso critico. Ma il senso critico, una volta sca-
tenato, dove si arresta?... Colla ragione sola, tutto si giustifica e tutto si
distrugge, poiché da che mondo è mondo, tutto si discute con argo-
menti di forza uguale >. Analisi è dissoluzione, rincalza il Fraccaroli,
e dissoluzione è il contrario di vita.^ Essa ci illude di conoscere l'in-
conoscibile; ci lascia credere di aver trovato i limiti dell'illimitato,
d'aver ridotto a finito ciò che è infinito ; di superare colla volontà ciò
che è opera di una lenta circolazione. E questa nuova filosofia del
lìmite-umano, nel pensiero e nell'azione, è stata accreditata dagli ultimi
avvenimenti d'Europa, nei quali si è voluto vedere l'ultima conse-
guenza, e l'epilogo più tragico, di tutti gli elementi tossici nascosti in
una filosofia che, per aver promossa la Rivoluzione in nome di prin-
cipi assoluti e col presupposto dell'innata bontà umana, ha fatto per-
dere il senso della misura nel tracciato preventivo delle possibilità
reali; e ai giorni nostri, la stessa tattica razionalistica ha condotto un
popolo, inesperto di politica e di storia, al pervertimento dell'orgoglio^
alla smoderazione dei desideri, alla illusione di una illimitata grandezza
coll'opera della volontà e colla preparazione dell'intelligenza.^
1 Giuseppe Fraccaroli, L'educazione nazionale, Bologna, Zanichelli, 1918, pp. 14,
25, e passim.; cfr. Gustave Le Bon, Premières conséqaences de la guerre^ livre I,
chap. Ili, Les illusions rationalistes.
t Op. cit. p. 26.
3 Cfr. GuOLiELMO Ferrerò, La vecchia * Europa e la nuova, Milano, Treves,
pp. 234 e passim. — Nella Némésis di Paul Bourget, si legge € De quoi Néraésis
punit-elle l'homme? D'avoir voulu étre corame un Dieu. Savoir trop, pouvoir trop,
avoir trop, — e' est Promethée, c'est les Titans, c'est Polycrate dans la fable. Dans
la réalité et dcs nos jou^, c'est Napolépn ^ (Paris, Librairie Plon, 1918, p. 59).
Razionalismo e Storicismo 547
Ammesso dunque, secondo la concezione illuministica, che la na-
tura abbia stabilite le norme più sagge del vivere umano, e che la
ragione abbia l'ufficio di determinare le leggi della natura originaria,
separandole dalle falsificazioni posteriori della storia, i fatti provano che
r irrazionalità della natura rifiuta il controllo della ragione. La società
deve essere un mezzo per comprendere la natura; non già la natura
un mezzo per accusare la società.
Si è tentato di dare una spiegazione del fatto sociale, sempre in
rapporto al fenomeno naturale, studiando le sue analogìe o le sue
discordanze coU'organismo umano.
Si è detto che quest' ultimo presenta delle regolarità funzionali
così disciplinate, da dare la imagine più concreta della più perfetta
società. Noi infatti vi troviamo delle risultanze armoniche, derivate da
leggi di equilibrio, di solidarietà, di stabilità : i numerosi individui uni-
cellulari compiono, ognuno, il proprio lavoro, colla più esatta regola
dell'uno per tutti e di tutti per uno, coU'osservanza rigorosa dei propri
diritti e doveri; ognuno partecipa alla vita d'insieme, e nel tempo
stesso esplica una propria vitalità; e tutti sono socializzati per una
individualità maggiore, Torganismo esistente.
Eppure, nessuno dei regimi, che si incontrano nella vita dei popoli,
accade di verificare in quella del nostro organismo : non lotta di classe,
né gelosie di primato, né egemonie di famiglie; nessuna pratica di
libertà, di ragione, di uguaglianza intesa a modo nostro ; non forme di
parassitismo o di servaggio; ogni elemento ubbidisce e lavora per reci-
proco interesse ; nessuna, dunque, delle presenti metafisiche, che hanno
guidato r umanità nelle sue conquiste storiche.* Si trova invece, neiror-
ganismo umano, la vera Società delle Nazioni, di tipo ideale.
Ma neppure queste armonie del mondo biologico, che non è pos-
sibile verificare nel mondo sociale, autorizzano a credere che que-
st'ultimo proceda a ritroso della natura. Esse dinotano appena che
l'organismo umano ha forme e consuetudini di vita, diverse dal civile
consorzio. Noi ignoriamo per quali tappe o modificazioni geologiche,
climatiche, chimiche, ecc. del mezzo solido, liquido, aereo, è pas-
sato il fenomeno cosmico e biologico prima di raggiungere la fase
attuale di stabilità e di ordine interno. La questione sociale ha fatto
nascere una questione organica, che ha posto una lunga serie di pro-
blemi, rivolti a indagare se Tuna non avrà un esito pari alla seconda;
se l'umanità non proceda verso una condizione di statica sociale,
come ha raggiunto una statica biologica; se i cataclismi della storia
1 Tolgo questo raffronto da Pierre Bonniet, Defense organique et centres ner-
veux, Paris, Flammarion, 1914, pp. 40 e segg.
548 Ettore Rota
non rappresentino gli antecedenti naturali e necessari dell'assestamento
definitivo.
La scienza accusa la filosofia di non sapere attendere il domani,
di essere troppo impaziente e dottrinale ; e la filosofia non ha ancora
trovato modo di accordare le varie scuole, circa i limiti della stessa
naturalità, volendo alcuni escludere ed altri inserire, tra i fatti natu-
rali, anche quelli che, per le comodità degli uomini, o per il loro
modo di giudicare, sembrano meglio appropriati al mondo patologico
ed anormale.
Questo prova la subiettività del criterio accennato, e le deformazioni
che subisce, per influsso di interessi estranei alla scienza^ che hanno
più stretto rapporto coi nostri bisogni, o colle correnti politiche e so-
ciali del tempo, in mezzo al quale si formano gli atteggiamenti del
nostro pensiero.
Quando l'uomo pone il problema dei rapporti fra la storia e la
natura, egli cerca una interpretazione nuova del fatto sociale, per as-
sumere una parte di comando rispetto all'azione che intende di affi-
dare alle sue teorie. In ultima analisi, questi suoi giudizi, che hanno
sempre un carattere dì relatività e di mutevolezza, si identificano con
altrettante valutazioni normative del processo sociale. Negandone la
naturalità intrinseca, l' uomo si attribuisce pienezza di poteri, e libertà
da coercizioni ; interpretando la società e la natura teologicamente,
r uomo si adagia in un pensiero di finalità superiore, che gli pare una.
giustificazione morale dei sacrifici e delle rinunce, imposte dall'osser-
vanza delle leggi e delle costrizioni civili.
Né diversamente accade dei giudizi intorno allo stato di natura\
problema assai discusso da tutti i filosofi del diritto e della morale;
ma che ha fedelmente servito all'ottimismo di chi esalta nella natura
la consigliera e la maestra dell' umanità, come al pessimismo di chi la
guarda biecamente, quale nemica e fonte di amarezze. Per Hobbes, Io
stato di natura non dà altro che manifestazioni di egoismo e lotte fra-
tricide; perii Rousseau, è l'essenza della bontà; ma l'uno mira a di-
fendere i poteri pubblici ; l'altro, ad emancipare la coscienza dell' indi-
viduo. Hobbes contrappone la disciplina dello Stato, unitario ed accen-
tratore, all'individualismo della Riforma ; Rousseau, i diritti dell'uomo ai
privilegi di una casta dominante. Questi svaluta i vincoli sociali a pro-
fitto della persona; quegli, li riabilita a profitto dell'autorità di Stato.
Ma in ogni caso è fuori dubbio che l'apprezzamento del termine na-
tura ora si alza ora si abbassa, sotto la pressione delle condizioni
esterne sociali ; e nulla v'è di più arbitrario, equivoco ed illusorio, che
i giudizi filosofici sulla natura, pure considerata secondo la concezione
genetica, ossia nel significato del primitivo umano, il quale si presta ad
Razionalismo e Storicismo 549
un insegnamento di uguaglianza, non meno che a quello di disparità
sociali. Sia nel Hobbes che nel Rousseau, (per non dire dell'errore di
metodo che converte un concetto fisico in una regola morale, < un
prlus nel tempo in un principio nel senso logico »*), questo principio
ha sempre il carattere di un artifizio polemico.* Come tale, buono
per tutti gli usi: v'è in esso l'apologia della fredda ragion di Stato,
come pure dell'autonomia personale ; voi vedete passarvi dinnanzi
r imagine di Socrate che si rifiuta di evadere dal carcere in nome
della legge o di una autorità convenuta; e quella, parimenti austera,
di Diogene, libero viandante, che riconosce appena la realtà del sole,
dell'aria, del proprio io, al di sopra dei principi e dei governi.
Né qui si arrestano le variazioni filosofiche sull'arduo problema e
le sue pratiche attinenze. Per G. G. Rousseau, come per gli antichi
Cinici, la verità è nei primordi, e nello sviluppo è la corruzione ; egli
fonde insieme il primitivo e l'esemplare in una sola nozione, il naturale,
che gli suggerisce il mito della lontananza ideale, come il poeta
innamorato:
E da lungi il suo volto è più divino.
Invece, per la scuola evoluzionista o Hegeliana, ciò che appare prima nel
tempo, è il più lontano dalla natura, specialmente rispetto ai suoi fini ;
e l'espressione adeguata di essa è data per ultimo nella serie delle
esperienze, come il compimento di un divenire.^ Ma la dottrina pan"
teista dello spirito, che vede nella storia l'esplicazione progressiva del-
l'assoluto, e nei suoi vari periodi l'apparire successivo dei vari ele-
menti della ragione, non ha, meno di ogni altra, intendimenti politici.
Essa identifica il processo storico col processo naturale dello spirito,
per assegnare alla filosofia una funzione di sovranità direttiva neh' uni-
verso civile. È ancora una teoria razionalista, sebbene si ammanti di
storicismo: presume di dominare il mondo coli' idea, e di convertire
il razionale nel reale. Il suo storicismo non vincola affatto la sua libertà
di teorizzare e di fantasticare sul futuro; poiché essa ha cura di di-
mostrare in precedenza, che la storia conduce fatalmente verso quel
dato termine, che essa intende di preparare o di affrettare coH'opera
dello spirito. Carlo Marx agita e proclama la Rivoluzione comunista:
1 Del Vecchio, op. cit., p. 104.
> Ammette Hobbes che gli uomini « disciplinam et usum ratìonis a natura non
habent»; cad societatem ergo homo aptus non natura sed disciplina factus est».
Ma come è possibile scoprire la natura mediante ragione, se questa non è un dato
naturale ? E come ha potuto 1* uomo introdurre la ragione nella società, e mediante
ragione ridurla a disciplina, se né questa né quella preesistevano al patto sociale ?
3 Del Vecchio, op. cit., p. 156 e 160.
550 Ettore Rota
ma non prima di avere sostenuto che essa ha già nella costituzione
borghese i suoi precedenti necessari ed inevitabili.* Questa scuola pone
già, come storicamenfe e sperimentalmente accertato, un latto, che vuole
razionalmente avverare. Il famoso ritmo dialettico potrà dire quali sono
la meccanica dei fatti umani, le modalità della loro nascita e della loro
morte; ma non potrà mai dare la serie preventiva dei fatti, né rivelare
i mister! deiravvenire.
La realtà storica smentisce i conati della pura ragione, e risolve
tragicamente i piani del nostro pensiero; essa ha una logica propria,
che non lascia intravedere il suo domani. Il preteso cammino dello
spirito e della civiltà, dal finito all' infinito, con stadi intermedi conci-
liatori e qualitativamente progressivi, ed uno stàdio ultimo di auto-co-
scienza, è una bella imagine poetica, ma non già la risolvente fissa di
tutte le incognite della storia; in tutti i tempi, lo spirito si afferma
sempre identico a se stesso, e non in forma frammentaria, ma integra,
colle medesime inguaribili infermità e debolezze ;.poichè pone e tenta
risolvere gli stessi problemi, mantenendo inalterati i limiti mediocris-
simi della propria capacità. L'identità della filosofia con la storia può
ammettersi, non in quanto l' una determini l'altra, o ne condensi la ve-
rità assoluta, ma in quanto lo spirito si muove colla storia, soggetto
alle oscillazioni .e incertezze che accompagnano i vari aspetti del-
l'esistenza.
Le interpretazioni, che del problema sociale scaturiscono dallo
studio dei rapporti fra storia e natura, sono forme correlative dello
sviluppo sociale, « motivate da ragioni che momentaneamente sì rico-
noscono di una certa utilità ».
D). Il conflitto logico fra natura e storia
è il contrassegno dei periodi di dissoluzione.
Se, in generale, esse sono il prodotto e l'espressione di circostanze
storiche, la concezione antagonista fra i due termini, risponde ai pe-
riodi di disintegrazione; ed è il loro primo sintomo, il più chiaro
contrassegno.
Non è un fenomeno esclusivo del secolo XVIII. È di tutte le epo-
che, al primo apparire di una crisi, che induca l'umanità ad una «-e-
visione dei vecchi valori sociali, e a concepire un mutamenj:o di vita.
Durante le prime formazioni storiche, quando non sono intervenuti
né la stanchezza né il disinganno, e tutto si colorisce di audacia e di
1 Cfr. le chiare osservazioni di Rodolfo Mondolfo, Spirito rivoluzionario e senso
storico, In Nuova Rivista Storica, A. I, fase. Ili (1917).
Razionalismo e Storicismo 551
speranza, i popoli amano la propria storia, alveare di ricordi gloriosi,
come amano la natura, tempio di fedi. Ma a misura che l'organismo
politico si fa più complesso, e le fortune si differenziano, e le classi
si allontanano, e l'opulenza invade, trasforma, sovverte, e i vecchi so-
stegni infracidiscono, allora i popoli dubitano di sé stessi, del proprio
passato, dei governi presenti, e si domandano se non siano falsi i
rapporti in uso fra il giusto e l' ingiusto, il legale e 1* illegale, Tordine
e il disordine... ; allora la vófiog è messa in istato di accusa dalla
cpiiaig. Le vecchie verità sono negate e capovolte; i poteri consacrati
dal tempo, vengono sconsacrati dalla ragione; la società accenna a
dissolversi ; sente il disagio delle sue creazioni imperfette ; vuole rico-
minciarsi; oscilla fra un desiderio di libertà sconfinata, in cui appaiono
soddisfatti tutti i diritti e tutte le aspirazioni, ed una esigenza di di-
sciplina, che modera e concilia gli ampi dissidi per evitare mali mag-
giori. La storia appare la grande complice ; e la natura, la giustiziera
e la liberatrice.
Questo fatto si ripete costantemente: il suo ritmo esprime il tra-
gico e perenne ansare umano verso mete non mai raggiunte di armo-
nie e di perfezione.
Tale il razionalismo illuminista francese ; tale la sofistica ellenica,
rispetto al momento d'origine e di ispirazione.
Nelle prime albe gioconde dello spirito greco, l'uomo considera
se stesso e la Natura, una sola unità di saggezza di prudenza di ra-
gione; e la società riposa sopra il culto sacro delle leggi e delle
tradizioni.
Per il buon genio antico dell'Eliade, la verità è dentro di noi,
dove l'anima vive di luce divina, nelle sue parti più profonde e na-
scoste ; e la storia degli uomini è lo sviluppo delle sue facoltà latenti,
poiché l'anima é l'unica realtà e la chiave dell'universo.
Poi questa armonia, diffusa nel creato, si rompe e si sperde.
Mutano le condizioni esterne ; con esse il rapporto fra gli uomini
e le cose. Il commercio, i viaggi, le ricchezze del mare, alterano l'eco-
nomia, i costumi, i pensieri delle classi antiche. Dalla vita aspra dei
campi e delle triremi, dai rischi delle battaglie per la difesa nazionale,
il ceto robusto e semplice dei montanari e dei pescatori trascorre alle
feste e alle chiacchiere vane. Mentre il denaro affluisce copiosamente,
i vecchi termini si spostano; le austere consuetudini dell'epoca so
Ionica, si sovvertono. Atene racchiude un popolo elegante e ciarliero,
raffinato e corrotto. La sua civiltà è splendida, ma snervante. Alla
morte di Pericle, dell'antica Grecia non restano intatti neppure i simu.
lacri. Dentro Atene agonizza una demagogia discorde ; fuori, brontola
la minaccia spartana; e l'oro del re di Persia arriva nelle mani di
552 Ettore Rota
tribuni e di magistrati. Ognuno bada a farsi strada sul corpo del più
debole ; il tradimento diviene arte di governo ; la teoria del più forte
prende terreno accanto a quella dello svincolismo di natura.
La dottrina sofista è già attuata nella pratica di tutti i giorni,
prima ancora di avere preso corpo in una filosofia. È venuta su dalle
cose, alimentata dall'orgoglio d'improvvise fortune sotto le forme di una
corruzione intellettuale e sapiente. È già tutta nella politica del secolo
d'oro, nel suo rappresentante più cospicuo, nello splendido Luigi XIV
di Atene.» Quale differenza fra il sofista che nega valore a un decreto,
ed il magistrato che non rispetta i tesori degli alleati, o invade paesi
per amor di bottino? Quale differenza fra l'anarchico ed il conquistatore?
V'è dentro uno stesso spirito di dissoluzione: l'uno nella sfera della
coscienza civile; l'altro, nel sacro recinto delle libertà cittadine. Eppure
è il giovane figliuolo di Xantippo che consiglia e opera il trasporto
del tesoro federale neiracropoli di Atene, rompendo fede ai patti giu-
rati! Questo è il furto legalizzato. Ma Pericle prepara anche il furto
delle libertà, prepara la repubblica di Eucrate e di Cleone, che spiana
la via ai Trenta e alla tirannide Macedone.
È dunque nella pienezza della vita, greca, che la sofistica appare;
fra due età, di cui essa è il limite ; come primo segnale deircsauriraento
politico e del pervertimento morale, che segue ad ogni sviluppo ecces-
sivo; è la filosofia della decadenza, con intenti rinnovatori; è la so-
stanza torbida, che precipita nelle civiltà giunte al grado di saturazione.
Pervenuta al sommo dello sviluppo, Atene ha smarrito la sapienza
moderatrice dei primi secoli; ha perduta la coscienza della sua mis-
sione democratica e liberatrice ond'era apparsa sulle rive del Cefiso;
ha perduto la nozione del limite, del mio e del tuo, delle pubbliche
virtù ; è invasa da ambizioni imperialiste ; è disgustata, nauseata del suo
presente ; è malcontenta fra i suoi stessi splendori e guarda al Pelo-
ponneso, come la Francia del re Sole, annoiata e malata nella sua
opulenza, adocchia il Reno.* Atene lascia le proprie tradizioni, sprezza
la sua storia, dimentica i suoi coloni antichi, semplici e forti, e si butta
a capofitto nelle avventure.
Sopra questo organismo in dissoluzione, ballano i sofisti. I quali,
in nome della natura, arbitrariamente intesa, svalutano la società, il
diritto, ì principi dv giustizia, le verità comuni, abbassate al valore di
forme convenzionali. Tra essi i Rousseau e i D'HoIbach dell'età greca,
e il razionalismo radicale del Cinico, rappresentante insigne del duello
1 Cfr. Felice Cavallotti, Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle, Milano^
1874, p. 61 e 8«gg. ; 63 e segg.
Razionalismo e Storicismo 5^3
fra la natura e la società, spregiatore irriducibile di tutti i valori
storici, nemico di tutti i governi e di tutte le politiche, di tutti i
vincoli legali, sognatore di una legge morale unica per tutti i tempi
e per tutti i popoli, e che assicuri la piena sovranità dello spirito e
della ragione.*
Fra questa esaltazione di dottrine anti-sociali passa la mesta ironia
dì Socrate, che. evoca il sentimento innato del giusto e il rispetto ai
decreti, per salvare lo Stato in rovina; e dietro a lui Platone ritorna
all'innocenza primitiva; come sulla Francia disillusa dalla filosofia rivo-
uzionaria, passa la reazione mistica; e la parola del Vangelo, che poco
prima era apparsa una dottrina attiva di guerra, ritorna come inse
gnamento di ordine, di pace, e di conservazione.
Ettore Rota.
» V. Ettore Bignone, Antifonte sofista ed il problema della sofistica nella
storia del pensiero grecOy In Nuova Rivista Storica^ A. I, fase. Ili (1017) pp. 472 ; 482.
FRAEll E GERMANIA DAL 1848 AL i8ji
(Leggendo Enrico von Treitscbke)^
È stata certamente cosa deplorevole che gli scritti degli storici
tedeschi, nazionalisti e pangermanisti, non abbiano fino a ieri goduto in
Italia della diffusione e della notorietà, che sarebbe stato opportuno
godessero. Molte storture di apprezzamento si sarebbero evitate e molti
pericolosi pregiudizi sarebbero stati facilmente scalzati.
La guerra orarfra i tanti mali, porta questo bene : la volontà di
mettere anche Tltalia al corrente di quella letteratura, ed ecco (per la
prima volta, non solo presso di noi, ma in tutti i paesi latini) il
tentativo di tradurre qualcuna delle opere del massimo, degli sto-
rici nazionalisti tedeschi, Enrico von Treitschke. Naturalmente, pur
troppo, Io scopo di propaganda — di propaganda (come dire?) tede
sca — non è estraneo al nuovo tentativo. Basterebbe pensare fra
le tante cose, alla prima scelta degli scritti del Treitschke, che il loro
traduttore italiano ha fatta per l'occasione : non qualcuna delle grandi
opere classiche; non la Storia della Germania nel secolo XIX; non i
Dieci anni di lotta in Germania, ma anzitutto, a propiziarsi l'ambiente,
alcuni articoli e saggi sulla Francia dal primo Impero napoleonico
al 1871, cioè su quel periodo ch*è pieno di tante dolorose memorie
per la storia del nostro paese : Napoleone I, il dominio francese, la
spedizione del 1849, Villafranca, Mentana, gli chassepots, ecc. Il vero
Treitschke; il Treitschke, che gli Italiani avrebbero potuto spassio-
natamente giudicare, non è qui; onde i due volumi non sono, almeno
1 La Francia dal Primo impero al 1871, Bari, Uterza, 1917, 2 voli. (tauL it. di
£. Ruta) pp. xv-269 ; 262.
Francia e Germania dal 1848 al 1871 555
per noi, i più adatti a dare un'idea precisa del pensiero fondamentale
e organico dello scrittore tedesco. Come che sia, prescindendo dalle
intenzioni, dalla scelta e dalla... prefazione del traduttore, ahimè, tre
volte più tedesca dello stesso testo tedesco..., il tentativo è meritorio
ed utile. Gli studiosi italiani, gli Italiani possono alla fine giudicare
direttamente con conoscenza di causa il valore del Treitschke, quale
storico, e formarsi un'idea della natura dei suoi scritti, del suo pen-
siero, e perciò respingere buona parte delle famose apologie e, magari,
delle iperboliche censure, di cui fin oggi egli andava tra noi circonfuso.
Poiché altra volta sulla nostra rivista discorse di lui il migliore e
■più equanime dei suoi critici, Antonio Guilland,* io mi limiterò nel pre-
sente artìcolo a esaminare soltanto gli scritti tradotti in questi due vo-
lumi; anzi, per poterne discorrere con agio e con non eccessiva prolis-
sità, m*intratterò specialmente sul secondo: quello che contiene una
serie di saggi sulla Rivoluzione francese del 1848 e sull'Impero del
terzo Napoleone.
La Rivoluzione francese del 1848 secondo il Treitschke.
Qual'è, giudicando spassionatamente i fatti, lungi dalle ispirazioni
del successo o dell' insuccesso, che così profondamente turbano tutti i
giudizi degli umani, il carattere della Rivoluzione francese del 1848?
Quel movimento, tanto infelice nel suo tragico epilogo, fu opera di
due minoranze sperdute tra una sterminata maggioranza, o indiffe-
rente od ostile: una minoranza di intellettuali, superstiti o rinati ideo-
loghi della Repubblica, contro un governo — la Monarchia del lùglio —,
che, non ostante molti buoni tratti, aveva deluso le piene sparanze di
coloro che al 1830 avevan creduto di potere senz'altro tornare ai
giorni migliori della Grande Rivoluzione ; un'altra minoranza, rappre-
sentata dai gruppi più avanzati delle nascenti organizzazioni socialiste
le quali cominciavano a reclamare con vivacità l'obbligo di un'alta consi-
derazione sociale verso il nascente quarto stato operaio. Opera dunque di
due minoranze, e, quel ch'era peggio, minoranze; non solo rispetto a
tutta la Francia, ma a qixeW élite della Francia, che fin dal 1789 era
stata Parigi, la quale, ancora una volta, dovea essere il focolare e la
tomba del nuovo movimento. Considerata sotto questo aspetto, la Ri-
voluzione francese del 1848 appare perciò come uno dei più nobili
episodii della storia moderna. Allorché infatti si esaminano uno ad uno
1 Cfr. Nuova Rivista Storica, A. I, fase. II: A. Guilland, Enrico von Treitschke.
Nel numero della rivista del gennaio sarà pubblicato uno studio di E. BertaNA sulla
Politica del Treitschke.
556 Corrado Barbagallo
^li ideali e i propositi di politica, interna ed estera, di quella neonaia
Repubblica — la pienezza della sovranità popolare, incarnata nel suf-
fragio universale; il rispetto più assoluto del principio di nazionalità;^
la fraternità sociale ; i diritti del quarto stato — ; allorché si conside-
rano persino l' incruenza e la sua cavalleresca generosità, uniche nella
storia, verso gli avversari, noi possiamo dire che la storia del mondo
moderno è progredita, progredisce, sforzandosi di realizzare uno dopo
l'altro quegli ideali e proponendoseli come meta del suo pellegrinag-
gio secolare.
Lo stesso movimento socialista ci appare sotto una luce assai più
simpatica del più tardo socialismo europeo. I ceti operai, che combat-
tono — anche sulle barricate — non rappresentano l'egoismo di classe,
che quel movimento andrà sfoggiando di poi : essi sono consci del
nuovo valore assunto nel mondo, ma non chiedono che di lavorare
fraternamente con pari diritto degli altri, nella grande società umana.
Né può dirsi ch'essi non vedano nulla al di là del proprio interesse
di classe o tutto riportino a questa esclusiva unità di misura. I dirigenti
il movimento socialista del tempo tengono d'occhio, tutti insieme, il
lato politico, il lato economico, quello nazionale, quello universale,
dello specifico problema che li affatica. E quel loro ideale operaio
sarà, molti anni più tardi, e a più riprese, l'ideale di tutti coloro, che
dovranno lottare contro le degenerazioni unilaterali di questo o di
quell'altra movimento socialista.
Per certo, molte altre circostanze che qui non è il luogo di
illustrare — la fase critica dell'economia borghese in Francia ; le condi-
zioni del proletariato rurale; lo scarso sviluppo del così detto prole-
tariato industriale — spiegano bene come quel movimento fosse con-
sacrato all'insuccesso. Ma lo storico, il cui compito precipuo è di
guardare al passato, cercando di comprenderlo innanzi di giudicarlo)
cercando di rifarne nel proprio spirito le ragioni e il processo, cer-
cando di simpatizzare con esso — quale che ne sia la natura — e
di usare sempre critèri relativi di giudizio, giacché nulla di assoluto
esiste nella storia, e ciò ch'é oggi è bene, domani sarà male, e ciò
che dona il bene, porta seco il suo elemento contrario ; lo storico —
dico — non può travolgere in una catastrofica condanna tutti gli ele-
menti di quel grande moto politico-sociale: quelli che erano capaci di
effetti utiU e gli altri che questi resultati soffocarono o impedirono;
i vinti ed i vincitori; le vittime ed i carnefici.
1 Non sì tratta di particolare che ora venga messo in evidenza per mero inten"
dimento polemico. Tale aspetto della Rivoluzione del 1848 rilevò a suo tempo uno
dei suoi critici più obbiettivi, E. Ollivier, L'Empire Uberai, Paris, 1895, I {Du prin-
cipe des nationalités), pp. 483 sgg. e passim.
Francia e Germania dal 1848 al 1871 557
Debbo dire di più: lo storico in fondo non ha mai il diritto di
queste violente condanne : lo storico deve ^spiegare come il presente
si. generi dal grembo del passato ; come il presente generi Tavvenire,
e per esso ogni elemento del passato e del presente è sacro, perchè
porta in grembo i germi di ciò che più tardi saranno il bene ed il
male. Ma il Treitschke non è per certo di questa opinione. Il Treitschke
affronta la storia francese armato di una serie di concetti-limite, di
una serqua di unità di misura, per mezzo delle quali soltanto sa-
rebbe dato, a suo avviso, di valutare e giudicare quel passato. Co-
desti concetti sono di vario genere. V*è la serie dei concetti antide-
mocratici e antidealistici. Un partito che s'attiene al metodo delle dimo-
strazioni popolari ; un partito che vuol agire, pur essendo minoranza,
pecca, secondo il Treitschke, di « imprevidenza puerile » ; è un partito
deplorevolmente sovversivo (II, 5). Un movimento, che proclama il
suffragio universale, la fraternità come supremo principio sociale, la
eliminazione della miseria mercè Tamore < e per soprassello » (sic !)
— orribile a dirsi ! — la « soppressione della schiavitù dei negri » ;
l'abolizione della pena di morte (II, 8-9; 9), è un movimento condannato
al suicidio. « Per tutto questo, dunque », si chiede il Treitschke, « le
strade della capitale furono arrossate di sangue, per questo una scossa
terribile fu riserbata alla pace del mondo? E che cosa sarebbe mai
stato della rettitudine e chiarezza tedesca se mai noi avessimo potuto
ammirare ana tale vertigine! » (II, 9). Una costituzione politica, che
premette agli articoli, che le saranno propri, Taffermazione del dovere
dei cittadini di amare la patria, difendere a ogni costo — anche della
vita! — la repubblica, e di procacciare i mezzi di sostentamento ai
bisognosi, è, secondo il Treitschke, una costituzione, la quale cade
nel fantastico e nel ridicolo (II, 34). Ma v'ha anche di peggio : se ogni
possibile forma di^ monarchia viene da lui giudicata « più salutare » di
questa repubblica (II, 42), un principe, che abbandona l'assolutismo
e adotta un regimie liberale è per lui colpevole di tramutarsi volonta-
riamente in un « regal fantoccio costituzionale* (II, 126). Così come
tentar di guardare con amore dall'alto del governo ai ceti minori della
popolazione, è deplorevole « socialismo monarchico » (II, 97), è « tiran-
nide democratica », quale si ebbe tutt'al più sotto gì' imperatori ro-
mani, ma che la storia moderna non aveva mai ancora veduta (II, 146) ;
così come colpevole e responsabile "di tirannide democratica, favoreg-
giatrice d'indolenza verso i doveri civili, è qualunque regime che
adotti il sistema della indennità parlamentare (II, 111).
V'ha poi in Treitschke, quale unità di misura dei fatti storici, la serie
dei preconcetti nazionalistici. Come tutti gli storici tedeschi del se-
colo XIX, il Treitschke ha creduto di poter estrarre dalla psiche collettiva
558 Corrado Barbagallo
del popolo tedesco certi tratti spirituali caratteristici, i quali, allorché si
realizzano, bastano a conferire dignità e verità storica ai fatti in cui essi
s'incarnano ; allorché non si realizzano, o si realizza qualcosa di diverso
da loro, bastano con la loro assenza ad oscurare la nobiltà e la verità
del fatto storico. L'anima tedesca è «chiara e diritta» (II, 9). Hegel
quindi non intenderebbe le astruserie ideologiche francesi ; il Tedesco,
che pure non ha avuto Rousseau, bada sopra tutto all'intimità morale
dell'anima (II, 80); la parte migliore della storia e dalla psiche francese
fu forse elaborata da elementi latini e germanici, ora quasi interamente
schiumati (II, 83). La caratteristica principale della storia tedesca, la
quale pure ha creato l'Impero di Guglielmo I e di Guglielmo II, lo
Zollverein, le leggi sociali .bism^rckiane, il socialismo di Stato, la
democrazia sociale, e il cui vanto maggiore è il progresso dell'orga-
nizzazione statale, sarebbe l'autonomia comunale, l'indipendenza del-
l'educazione delle moltitudini (II, 109); la scrupolosa astensione dello
Stato dal mescolarsi nel libero moto delle energie economiche (li,
142)... Uno dei tratti più meritorii della stirpe e della storia tedesca, al
confronto degli altri popoli, è la prolificità. E questo, semplicemente,
perchè la storia europea « toccherà il culmine, quando l'aristocrazia
popolare della razza bianca dominerà le terre di là dagli oceani » , nel
qual compito il secondo, o il primo posto, toccheranno alla stirpe
tedesca... (II, 154).
Vi sonò poi in Treitschke i concetti e i criteri di valutazione anti-
francesi, che per brevità ometto, e che oggi alla luce di tante altre cir-
costanze, muovono talora a malinconico sorriso;* vi sono i concetti
e i criteri del protestantesimo o dell'intransigenza protestante, che oggi
fa senso ritrovare in pagine tedesche, ma che al Treitschke dettavano
periodi come questi: «Noi protestanti non riusciamo a considerare le
1 « Il tradizionale principio francese è che la potenza della Francia si basa sulla
rovina dei vicini » (II, 25) ; « l'educazione del popolo francese è volta a svegliare
l'ambizione esteriore in luogo dell'intimità morale dell'anima» (II, 80); la nazione è
penetrata di « malvagia libidine guerresca » (II, 90) ; < qui l'unico legame possibile tra
governanti e governati è costituito dall'interesse » (II, 92) ; qui impera « l'uzzolo fan-
ciullesco degli effetti teatrali, l'antica atroce ferinità dell'odio di partito» (II, 120).
< La nazione non è atta, né ora, né per molto tempo appresso, a comportare la libertà »
(II, 129); quello francese, anzi, è un popolo d'istinti servilmente monarchici (laddove
il tedesco, sotto qualsiasi forma politica è un« repubblicano nato, I, 14), e per lui
l'eguaglianza è solo un sospiro d'invidiosi (I, 18). La Francia è un paese nato pel
comunismo, laddove in Germania questo « a stento ha suscitato proseliti tra spiriti di
poveri diavoli... », in quanto esso è una dottrina che « offende crudamente tutte le con-
suetudini statali e sociali... » (I, 21). La Francia < esalta come un titolo di superiorità
la provvidente onnipotenza dello Stato, con ragioni che un tedesco intende a mala
pena... > (I, 23). I Francesi posseggono un senso della legalità e devastato dalle fon*
damenta» (I, 35); e ciò, non solo ne! riguardi del loro, ma di tutti ^li altri popoli...
Francia e Germania dal 1848 al 1871 559
precipitose convulsioni della vita francese senza lamentare ancora una
volta il calamitoso editto, che bandì dalla Francia la fede evangelica.
Quando a un popolo ardimentoso e geniale non resta altra scelta che
la Chiesa dell'autorità e del piatto ossequio; quando nelle questioni
più sacre, supremamente personali, gli è tolta la debita libertà »,
«allora un'agitazione convulsa invade tutta intera la sua vita spiri-
tuale..., e la società... ritorna sempre a cercare di nuovo la propria
salvezza nella servitù. . . » (II, 72).
Or bene, gli è con questi criterii, i quali, se mai, corrispondono
solo a verità o ad errori relativi e contingenti; gli è con questi cri-
terii — dico — che il Treitschke affronta l'esame e svolge là sua re-
quisitoria contro la Rivoluzione francese del '48, nella quale come (egli
stesso ce ne avverte) in tutta la storia della Francia moderna, si rea-
lizza l'orrore della mancanza di queste virtù cardinali o la presenza
delle qualità loro contrarie. Ma tante accuse hanno un centro organico,
intorno a cui tutte vanno mano mano serrandosi, un'accusa maggiore
in cui tutte si risolvono e la quale comprende ogni altra: che cioè
la rivoluzione del *48 finì nell'insuccesso perchè ricorse in un paese
dedito soltanto alla ricerca del proprio interesse materiale ed ebbe di
contro classi sociali numericamente preponderanti e sprovviste di qual-
siasi luce di idealità.
Incredibile a dirsi ! L'intransigente nazionalista tedesco piglia a
imprestito questo criterio d'interpretazione dal più radicale dei socia-
listi del suo tempo, da Carlo Marx, autore di due scritti storico-polemici
(come questi del Treitschke) sulla Rivoluzione del '48 e i casi successivi :
« La lotta di classe in Francia dal 1848 al 1850 » e i^Il Diciotto Brumaio
di Laigi Bonaparte ». Il Treitschke non li ricorda mai ; pure chi è pratico
degli uni e degli altri ha l'impressione ch'egli ne attinga talora giudizi
particolari, concetti, persino giri di frasi, sia pure filtrati e fusi in
un'esposizione stilisticamente perfetta. Certo egli ne attinge il concetto
fondamentale sovraccennato, che gli serve quale argomento principe
per condannare in blocco la Rivoluzione francese del '48.* Ma il Marx,
(I, 44). Essi, a differenza dei Tedeschi, pensano che la gloria militare debba essere
contaminata da violenze e da devastazioni... (I, 45). La Francia « vuole avocare a sé
e accentrare tutte le idee dell'Europa, e pensa che il mondo si creda in debito di
accettare da lei con gratitudine tutti i pensieri, tutti i capricci, che le balenano nella
mente » (I, 50). Parigi infine è « la città, che oggi nessun tedesco, che abbia senso
di dignità, può più visitare... » (li, 260).
1 Darò qualche esempio e qualche prova. Nel voi. II, pag. 20, il Tr. enuncia
la sottile, eppur veridica, opinione che « la repubblica aveva paura di se stessa », e « la
maggioranza reazionaria la considerava soltanto come un terreno neutrale ». Questo
concetto è del Marx, e da lui ripetutamente espresso nelle sue Lotte di classe in Fran-
cia^ p. 62 (trad. it. in Marx, Engels, Lassalle, OperCt Milano, Società ed. Avanti !.
560 Corrado Barbas^allo
che pure vien giudicato un partigiano, non commette mai l'errore,
a cui lo storico Treitschke perviene, di coinvolgere nella stessa con-
danna la Rivoluzione del 1848 e coloro che del suo insuccesso furono
causa. Il Marx, partendo da un suo speciale punto di vista, esalta l'opera-
dei socialisti del tempo, che al più rimprovera di timidità, di esitanza,
di moderazione eccessiva rispetto alle altre classi (timidità e modera-
zione, ch'egli del resto spiega con le condizioni arretrate dello sviluppo
operaio in Francia) ; ma ciò ch'egli deplora non è la rivoluzione del 1848,
sibbene le forze che quella rivoluzione contaminarono o sopraffecero.
Pel Treitschke la cosa è ben diversa, e la condanna della Rivoluzione
del *48 equivale alla condanna della Francia moderna, su cui più
tardi la Germania sarà dal destino prescelta ed « eseguire il giudizio
della storia... ».
Tale condanna è anzi così universale, che una persona, una
persona sola se ne salva: colui che meno si aspetterebbe, l'autore del
colpo di Stato del 2 dicembre 1851 : Luigi Napoleone Bonaparte, e
proprio in grazia, non già dei suoi atti migliori, che saranno più tardi
a loro volta condannati, ma in grazia della grande macchia della sua
vita: il colpo di Stato. Vero è che il Treitschke ritrova che in lui
« la mancanza di coscienza dello zio aveva un degno erede » ; ma
l'uomo politico (è questo uno degli aforismi bismarckiani del Treit-
schke) no;i deve rispettare la morale più del necessario. Perciò Luigi
Bonaparte è il solo uomo € superiore » del tempo, l'unico, «che per->
seguisse uno scopo, politico, chiaro, conseguibile. . . » (II, 64). Se non
che la menzione del Bonaparte ci trae senz'altro all'esame dell'altra
parte — la maggiore — del volume del Treitschke: il secondo Impero
napoleonico.
Il Secondo Impero ed il giudizio del Treitschke^
Questa seconda parte, la quale corrisponde a circa 200 delle 262
pagine del volume, è però, a differenza della prima, svolta secondo un
metodo assai differènte. Nella prima il Treitschke seguiva i fatti nel loro
svolgimento successivo, e la Rivoluzione del '48 era esaminata nelle sue
1914, voi. I, N. 6) e in Diciotto Brumaio, pp. 30 ; 60; 65 {ibid., N. 7). Replicatamente
il Tr. imputa alla Repubblica del '48 di non aver voluto decentralizzare l'amministra-
zione; ma anche questo è uno dei concetti fondamentali del Marx (cfr. Diciotto Bru-
maio, pp. 17; 39; 82; 83). L'idea che il trionfo del Bonaparte fosse un trionfo dei
contadini (Tr. II, p. 45 e passim) è l'idea principe di questa stessa operetta dello scrittore
socialista (pp. 21 ; 83 segg. e passim). « I legittimisti pellegrinavano a Wiesbaden ; gli
Orleanisti a Clàremont », scrive il Jr. a p. 57 del suo secondo volume; e Marx:
« I legittimisti intrigavano a Eros ; gì; Orleanisti, a Claremont. . . » {op. cit, 37). E
così via.
Francia e Germania dal 1848 al 187 1 561
origini, nel suo divenire, nella sua catastrofe. Per il Secondo impero,
il metodo è completamente mutato. Il Treitschke scompone quel gran-
dioso fenomeno storico, durato dal 1851 al 1870, in parecchi dei suoi
elementi: la costituzione politica, l'amministrazione, la situazione eco-
nomica, la politica estera, e di ciascuno discorre separatamente. È chiaro
che le tendenze naturali dello storico trovino in questo piano di lavoro
un terreno pericolosamente propizio al loro aggrayarsi, anzi, al loro
irrimediabile peggiorare.
In questo nuovo piano, il Treitschke ha dinanzi a sé, non più la ge-
nesi di un fenomeno da spiegare, ma dei fenomeni storici, isolati da
tutto il complesso fatto storico, su cui esercitare a bell'agio la pole-
mica o la requisitoria. L'una e l'altra di queste due cose potranno
essere brillanti ed efficaci, ma il più divino della storia si dilegua.
Che cosa può infatti, dal punto di vista storico, significare un esame
di tutti i compromessi, di tutte le contradizioni della costituzione o
delle varie costituzioni del Secondo impero ? Ogni costituzione — da
quella degli Stati Uniti a quella dell'Impero tedesco — è un compro-
messo, e qualsiasi tra esse, e ciascuna delle sue parti, può dar materia
a una brillante requisiforia. Che cosa può, dal punto di vista storico,
significare una requisitoria contro le forze sociali che operavano sul
Secondo impero, e sul governo, che ne avrebbe subito l'influsso ? Che
valore storico, per l'idea generale e pel giudizio da portare su quel
governo, può avere una descrizi one della situazione economica della
Francia o della politica estera del Bonaparte, distaccate da tutte le re-
stanti forze, che operavano sulla di lui attività ? Certamente, in questi
capitoli c'è qualche cosa da attingere; molto — concedo — d'interes-
sante; quello che però manca è la visione del processo storico, del suo
graduale divenire e precipitare : quello che costituisce appunto la storia.
Così avviene che in questa parte, assai più che nella prima, ogni
fatto non sia spiegato col suo precedente, né sia giudicato alla stregua
degli effetti ch'esso produrrà; ma venga considerato isolatamente, in
base a criteri molteplici, e divenga motivo di contradizioni, i cui termini
sono riallacciati a distanza, per simpatie irrefrenabili o per invincibili
antipatie.
Ma un'altra circostanza, non meno grave, in questo secondo
volume, è che il Treitschke, nella sua foga di giudicare e di sentenziare,
non si è curato dì studiare con attenzione la sua materia, e, poiché i
fatti dovevano servirgli come mezzi ad uno scopo .estraneo, egli non ha
cercato di accertarli, sia pure con mediocre rigore. La serie dei veri
e propri errori storici di questa parte sarebbe assai lunga se si volesse
elencarla compiutamente. Io non riferirò che alcuni esempi, forse non
tra i più gravi, certo fra i più significativi.
3ó — Nuova Rivista Storica.
$62 Corrado Barbagallo
\\ Treitschke vuole ad un certo punto spiegare di qùal natura mai
fosse i! governo di Napoleone III, e Io definisce « una tirannide perso-
nale, eletta dalle moltitudini e governante a prò' di codesto quarto
stato, pervenuto alla coscienza di sé > (II, 91).
Quarto stato — gli è ormai un concetto pacifico — significa le
classi operaie della città e della campagna. Ora, che il governo napo-
leonico avesse cercato più volte di venire incontro ai bisogni di queste
è cosa fuori dubbio e che fece onorfc a quel principe. Ma dire che le
forze operanti sul governo di Napoleone III emergessero dal quarto
stato, è certamente un grave errore storico. Il governo del secondo
Bonaparte, come avevano rivelato i suoi precedenti, e come rileverà tutta
l'attività del principe nel campo economico, è il governo della borghesia
francese: la borghesia industriale, in tutti i suoi gradi, la borghesia
rurale della Francia agricola. Per contro il quarto stato « pervenuto alla
coscienza di sé > costituì uno deglf elementi irreducibili della nuova
società, e a tale situazione si deve in gran parte la catastrofe del 1870,
che fu* catastrofe d'origine tutt'affatto interna.; Del resto il Treitschke
stesso, dimenticando il suo asserto, scrive altrove che l'Impero «non
volle favorire un ceto solo » ; che esso « seppe contentare l'ambizione e
la foga industriale della borghesia e nello stesso tempo ripristinare la
nobiltà.,. > (II, 94): il che non fa più intendere come s'abbia a pensare
che « il quarto stato dominava interamente sulla vita pubblica... t (II, 95).
Altrove il Treitschke, che aveva emesso tutta una serie di giudizi
sfavorevolissimi sul dispotismo del Bonaparte, vuole emetterne uno
sul governo liberale inaugurato col Ministero Ollivier. Naturalmente
le frecciate ai novatori non mancano. L'Ollivler è dallo storico ritratto
nella posa semiseria di persona che € rifulge di unzione e di virtù»;
i liberali, che 'esultano, sono degli illusi nell'aspettativa di una quarta
notte di agosto ; il Journal des débats, il quale « protestava » che presto
la Prussia avrebbe invidiato le libertà francesi, e il Temps, il quale
vedeva imminente il giorno in cui « il virtuoso esempio della signora Ol-
livier avrebbe nobilitato i costumi della Corte », sarebbero degli ingenui
passibili di sorriso. Ma in ogni modo, il Treitschke conviene che la
Francia possiede ora veramente la più libera costituzione della sua
storia (II, 126). « Pure, l'antico dispotismo dei prefetti non si era
menomamente cambiato > e « 450 cittadini francesi, in parte con lettres
de cachet, furono buttati in prigione perchè la polizia pretendeva di avere
scoperto una congiara *. Ma no, non si trattava, egli s'affretta, a spie-
gare, dell* incorreggibile dispotismo dei prefetti, e Gli era che la nuova
«trasformazione magica del governo imperiale era in fatto», sempli-
cemente, la grossolana replica di una commedia, di cui i Francesi
Francia e Germania dal 1848 al 18 ji 563
si erano pasciuti fino alla nausea. Il dispotismo di un partito cacciava
l'altro : la soluzione del giorno era novellamente s^emparer da pouvoir »
(II, 126-127).
Ecco come il Treitschke apprezza la virtù dell'Ollivier e il valore
del « più libero » governo della Francia ; ecco come egli colorisce tutte
le cose francesi, quelle che ha reputate peggiori, e quelle che ha giu-
dicate migliori. Ma il guaio si è ch'egli stesso ha isolato l'avvenimento
— la « pretesa» congiura e la repressione — da tutto l'intreccio della
situazione politica del momento.
Ed invero, in sullo scorcio del suo non lunghissimo governo, il
Bonaparte era venuto a trovarsi di fronte a parecchie specie di oppo-
sizione: un'opposizione d'ordine finanziario ed economico, un'oppo-
sizione clericale, un'opposizione liberale e, finalmente, un'opposizione
socialista e repubblicana con carattere rivoluzionario. La più temibile
era certamente quest'ultima: le altre avrebbero continuato a protestare,
a formulare riserve, e poi a lasciarsi placare ; questa no : nasceva dalle
memorie, non mai sopite, del 2 dicembre, dalle tradizioni giacobine della
grande Rivoluzione, dal ricordo cocente dello scacco sanguinoso del
1848, e reclutava le sue forze nell'esercito, ogni giorno crescente, e sem-
pre più saldamente e cupamente organizzantesi, del proletariato urbano
delle varie città industriali francesi. Or bene, il nuovo ministero liberale
dell'Ollivier, se venne in buona parte a dissipare parecchie delle altre
specie di opposizioni, venne del pari a inacerbire potentemente que-
st'ultima — l'opposizione socialista-repubblicano-rivoluzionaria, che
pure aveva sognato prossima la palingenesi universale — , perchè esso
venne con la sua sola presenza ad isolarla dalle altre e a gettarla nel-
l'angolo morto dell'anarchia.
Furono perciò tentati allora sforzi supremi a fine d'impedire l'ultima
liberale reincarnazione del Bonaparte, e furono apparecchiati in Francia
dimostrazioni violente, grandiosi scioperi operai, e ordita a Londra
una congiura, che avrebbe avuto per iscopo l'assassinio del Bonaparte
e l'instaurazione della «repubblica sociale». La «pretesa» congiura
era quindi la più verisimile delle realtà, gli esecutori designati e i
suoi ideatori la confessarono in giudizio e rivelarono più tardi in scritti
pubblici.^ Che cosa dunque si sarebbe dovuto fa:re se non arrestarli
e processarli ? Quale il fondamento dell'aspro giudizio del Treitschke
sullo spirito informatore del nuovo governo e sui perfidi scopi dei suoi
uomini ?
Ma il nuovo governo liberale sarebbe stato colpevole di qualcosa
di peggio: di avere, «non appena arrivato al potere», gettato indif-
i Cfr. E. Ollivier, Empire liberal, Paris, 1908, XIU, pp. 372 sgg. e fonti ivi dUte.
564 Corrado Barbagaìlo
ferentemente in un angolo tutti i desiderii di autonomia amministra-
tiva, di cui esso era stato ii portavoce e dalla quale « dipendeva prin-
cipalmente » l'avvenire della libertà politica francese.
Ometto di discutere sul valore e sull'efficacia di codesta riforma,
almeno in quel momento. Ma dimentica il Treitschke le vicende del
Ministero Ollivier? La vita di questo ministero, che nominalmente ebbe
principio il 2 gennaio, in realtà comincia solo alla dimane del plebi-
scito, che sanciva le nuove grandi riforme costituzionali e senza la cui
sanzione quel tentativo liberale si sarebbe dovuto dire interamente
fallito, ossia col 9 luglio 1870. Or bene, dopo l'enorme fatica, che
quelle riforme e il plebiscito avevano procurata, tutta l'attività del
Gabinetto fu assorta in quello che si potrebbe dire un lavoro d'assesta-
mento interno e nella replicata difesa dai replicati attacchi della Destra.
Esso cominciava appena a respirare, allorché fu sorpreso dai noti
incidenti diplomatici, che condussero alla guerra franco prussiana dei
1870-71, la quale, a mezzo il luglio, era già dichiarata. Or bene, come
si potrebbe in tal caso, a codesto ministero, la cui esistenza trascorre
fra tempeste d'ogni genere, e a cui la «buona spada» germanica
stroncò l'esistenza, come si può, dico, e, proprio da un Tedesco, rim-
proverare di non aver presentato una grande legge sull'autonomia
amministrativa?
Eppure, ciò non ostante, il Ministero del 2 gennaio tradì così poco
le sue promesse, che uno. dei suoi primi atti fu la nomina di una
Commissione extraparlamentare di decentralizzazione amministrativa
col compito di elaborare una serie di progetti destinati a ravvivare la
vita municipale, cantonale, -provinciale, alla cui presidenza venne posto
uno degli uomini politici, che da decenni aveva consacrato tutta l'opera
sua alla propaganda per la decentralizzazione della Francia, Odillon
Barrot. Or bene, se i lavori di quella Commissione non poterono essere
interamente utilizzati, o se il Ministero non potè dar corso a maggiori
disegni d'ordine amministrativo, la posterità dovrà chiederne conto,
non già al Ministero Ollivier, ma al ministero prussiano presieduto dal
Bismarck, che si affrettò a scatenare contro la Francia la feroce guerra,
« esecuzione del giudizio della storia », ieri soltanto vendicata.^
Ma passiamo a qualche cosa di più importante.
{Continua)
Corrado Barbaoallo.
1 Sulla sapiente preparazione diplomatica tedesca di codesta guerra cfr. un mio
studio sulla Revae des nations latines, marzo-giugno 1914.
RASSEGNE
Per la storia della filosofia italiana: Studi giobertiani.
Assistiamo noi a un risveglio nel campo degli studi gioberbiani? Le po-
lemiche attuali su la nazionalità del pensiero filosofico e il trasformarsi della
coscienza politica italiana hanno indubbiamente richiamato alia memoria di
molti l'autore del « Primato », allo stesso modo che il volger degli eventi
ha costretto alcuni giuristi a studiare novellamente il -pensiero di P. S. Man-
cini, e parecchi critici a volgere uno sguardo più riverente a F. De Sanctis.
Ma non da ciò sarebbe lecito indurre che il Mancini, il De Sanctis, il Gio-
berti siano mai stati posti in oblio. Gli spiriti superficiali dirigono i loro studi
sotto l'impulso degli eventi, ma vi sono molti — per buona sorte i più —
che seguono una loro linea di ricerche senza preoccupazioni di attualità.
Per questo gli studi giobertiani non hanno subito mai soluzione di continuità,
dallo Spaventa al Gentile e al Solmi, anche in periodi nei quali taluno sor-
rideva a udir parlare di una tradizione metafisica italiana.
Il centenario del 1901 raccolse attorno al Gioberti i consueti ricercatori
di attualità, che tosto si dileguarono, lasciando il campo a una schiera più
limitata. Oggi avviene uiì poco la medesima cosa, e, se non possiamo parlare
di un vero risveglio di studi giobertiani, dobbiamo tuttavia constatare che
essi si sono fatti più intensi e frequenti, sia dal punto di vista politico, che
da quello storico e filosofico.
Studi politici.
Tra gli scritti che si occupano della concezione politica del Gioberti,
troviamo anzi tutto quello di Balbino Giuliano,* del quale è detto più larga-
mente nelle pagine di questo fascicolo medesimo. L*A., che già aveva
1 B. Giuliano, Il Frimaio di un popolo (Fichte e Gioòertiì^ Catania. F. Battiate, 191^,
pp, VIII-I34.
566 Rassegne
impostalo in altri scritti il problema spirituale dell'ora presente,^ osserva
la superficialità di talune invettive lanciate contro là filosofia tedesca )da
gente che, fino al giorno prima, aveva scimmiottato i Tedeschi (p. 9) e
afferma la necessità di uno studio sereno e profondo di quella concezione
idealistica da cui derivò l'idea del primato germanico, per «ricercare e sceve-
rare quali furono i germi fecondi di vita e quali i germi patogeni, quali furono
i principi di valore, donde derivò la forza, e quali gli errori che la fecero de-
generare (p. 13) ». L'origine dell'idea del primato germanico è in Fichte;
quella, ben diversa, del primato italiano è in Gioberti. Qui l'autore riprende
il parallelo tentato dal Faggi ,2 accennato dal Cesareo ^ e da altri, proponen-
dosi di « mettere a confronto le fedi di^ questi due grandi spiriti, la diversa
concezione filosofica e storica, su cui si fondano le loro fedi, tion per con-
cludere che noi siamo buoni e che i Tedeschi son cattivi, ma per determi-
nare con questo confronto quale sia la forma di primato che un popolo può
sognare» (p. 16). Così il N. giunge alla esposizione della ideologia giober-
tiana: e a questa noi ci limiteremo, lasciando ad altri di osservare se il
confronto tra il Gioberti e il Fichte sia veramente legittimo e fecondo.
L'A. si rende esatto conto che la teoria politica del Gioberti è comple-
tamente legata alla sua metafisica, ma non per questo ci dà una sufficiente
esposizione della dottrina ontologica del filosofo torinese. Pone come postulato
una identità, che ci pare molto discutibile, tra il ;puntp di vista della sco-
lastica e quello della filosofia giobertiana. Troppo viva impronta hanno lasciato
nel Gioberti, prima le grandi concezioni di Platone e Plotino, poi quelle mo-
derne, italiane e straniere, dal Bruno al Rosmini, da Kant a Hegel, perchè si
possa così semplicemente ricondurre la posizione e il valore della formola ideale
a un rinnovamento della scolastica. Da questo, che è il difetto iniziale, de-
rivano alcune conseguenze nel resto della trattazione. L'A. concepisce uh
Gioberti troppo rigidamente ortodosso, più limitandosi alla lettera, che inda-
gando lo spirito degli scritti giobertiani. Nulla v'ha di meno ortodosso, dal
punto di vista esteriore e formale -<lella tradizione chiesastica, di quel pro-
fondo rivolgimento che il Gioberti voleva operare nel seno del cattolicesimo.
Perchè il cattoli<:esimo fosse forza viva, occorreva conciliare l'autorità con la
libertà (non quella vana dei protestanti e dei razionalisti) in una concezione
spirituale che le superasse ambedue : su questo argomento ha belle pagine il
Saitta, del quale diremo più avanti. D'altra parte l'azione spirituale del ponte-
fice sulla confederazione neoguelfa non sarebbe stata conciliabile né con una
rigida ortodossia, né con la politica dei Gesuiti. Di questi l'A. non si occupa, e
a noi sembra non si possa compiutamente esporre l'ideologia religiosa del Gio-
berti, trascurando la sua lotta con ciò che egli credeva elemento degenerativo, al-
• Cfr. B. Giuliano, Cultura tedesca e umanità latina, in Riv. d'Italia, aprile, 1915, pp. 548-
^^-j\ Immanentismo e umanità [Polemica con G. Vìdari], in Riv. rfi.F/7oJo/a, ottobre-dicembre I9i5t
fase. V, pp. 565-573.
« A. Faggi, Il h Primato v» del Gioberti e i h Discorsi alla nazione tedesca» di G. A. Fichte,
in Ri9. di Filosofia, ottobre-dicembre, 1915, fase. V, pp. 489-504.
• Cfr. Italia madre, discorso di Ò. A. Cesareo all'Acc. Reale di Scienze Lettere ed Arti
in Palermo per l'inauguraz. dell'anno accademico 1917, pp. 13*15.
Raisegnc 567
lignato nel seno della Chiesa, dopo che questa ebbe perduta la propria egemonia
spirituale, come l'A. stesso bene espone sulle orme del Gioberti (pp. 51-54).
Netta e chiara è però la ricostruzione che il Giuliano ci dà, in breve
visione sintetica, della teorica del Primato^ sopra tutto nei suoi elementi po-
litici. Egli osserva acutamente che l'errore fondamentale del Gioberti è nel-
l'illusione di aver superato il dualismo tra Dio e uomo, pur conservando un
abisso profondo' tra l'ordine degli enti e quello degli esistenti. Da questa
illusione deriva tutto ciò che nella teoria neoguelfa ripugna alla pratica at-
tuazione, e perciò, di fianco alla coscienza religiosa d'una dantesca Italia inter-
nazionale, si viene formando una coscienza laica, estranea alla Chiesa, se
non alla religione, che prevale nelle sorti d'Italia fino a imporsi alla mente
dello stesso Gioberti. Questo passaggio dall'internazionalismo religioso al
nazionalismo liberale è perspicuamente determinato dall'A. in alcune belle
pagine che chiudono la parte giobertiana del suo volume.
Il problema della evoluzione, avvenuta nel Gioberti in particolare, e nella
coscienza italica in generale, dal neoguelfismo al liberalismo, problema politico
e spirituale a un tempo, non può tuttavia ancora dirsi risolto. È una coincidenza
di fattori molteplici, pragmatici e spirituali, che convergono ad abbattere il
sogno neoguelfo per edificare, con ciò che in questo sogno era vivo, l'idea
liberale che troverà un esponente nel Rinnovamento. Allo studio di questo
argomento ha portato un notevole contributo, già noto ai lettori di queste pa-
gine, Antonio Anzilotti *, che vede chiaramente la funzione storica del neoguel-
fismo come suscitatore di quella religiosità profonda, che dà le forze etiche a
tutti i grandi rivolgimenti.
Siamo di fronte a un fatto spirituale che coincide con lo svolgersi degli
eventi esteriori : per questo non si può seguire chi, come p. es. P. G.- Clerici,*
vuole attribuire il mutamento delle tendenze politiche del Gioberti a influenze
personali. L'idea che rimane uniforme, sia nella ideologi^ neoguelfa che in
quella liberale del Gioberti, è la concezione del primato spirituale degli Ita-
liani, della quale indaga le origini il Natali. ^ Questi però crede non si pos-
sano trovare precursori al Gioberti prima del secolo XVIII e non tiene, ci
sembra, sufficiente conto della importanza assunta dal pensiero di Dante e
da quello del Machiavelli nella formazione della utopia giobertiana. Il Natali
ha però una visione nitida dell'importanza della idea del primato, come idea-
forza, al di là delle contingenze evolutive del neoguelfismo e del liberalismo.*
^ Antonio Anzilotti, Z>a/ neoguelfismo all'idea liberale, in Nuova Rivista Storica, Anno I,
1917, fase. II, pp. 226-256, fase. Ili, pp. 385-422.
• Cfr. P. G. Clerici, Paralipomeni giordaniani, in Riv. d^ Italia, anno XVIII, fase. I, gen-
naio 19 15, ove si sostiene che il Giordani abbia influito sulle nuove idee politiche del Gioberti.
Cfr. anche V. Piccoli, V. Gioberti e P. Giordani, in Riv. d'Italia, anno XX, fase. Ili,
marzo 1917.
» G. Natali, L'idea del^rimato italiano prima di V. Gioberti, in Nuova Antologia, anno 52»,
fase. 1092, 16 luglio 19:7.
* Su tale evoluzione cfr. anche: V. Piccoli, Introduzione al voi. // pensiero di Gioberti
(scelto dalle migliori sue pagine), G. Carabba, Lanciano 1918, pp. vii-viii, xiii-xv e V. Piccoli,
La Rinnova Rema» di K Gioberti, in Nuovo Convito, anno III, n. 4, Roma 30 aprile 19^8,
pp. 128-131.
568 Rassegne
Infìne, quale contributo alla storia della politica giobertiana, non va di-
menticato l'articolo nel quale Arcangelo Ghisleri * trova alcune coincidenze
tra qualche osservazione fatta dal Gioberti nel Rinnovamento e la politica d'Ita-
lia dopo Caporetto. Naturalmente il Ghisleri non fa che accennare, poiché non
ignora che «mai la storia si ripete esattamente e che l'Italia del 1917-18 non
è più quella di settantanni or sono ».
Studi storici.
Alla complessa questione delle polemiche sorte dalla pubblicazione del Rin-
novamento (passiamo ora dalla politica alla storia) ha portato un notevole con-
tributo Gustavo Balsamo-Crivelli,' con la pubblicazione dell* Ultima replica
ai municipali. Si tratta, come è nolo, di una fra le più tristi polemiche, sorte
dopo la campagna del, 1849, nei non lieti inizi del regno di Vittorio Ema-
nuele II.
Polemica triste, perchè coglie nelle sue prime radici quella che sarà poi
sempre la perenne scissione della nostra vita politica fino al '70; triste, perchè
si svolge nell'ultimo periodo della vita del Gioberti, quando per il filosofo
torinese, esule volontario in Parigi, si avvicinava ormai la morte.
Origine delle polemiche furono i capitoli nono e decimo del Rinnova-
mento^ nei quali il Gioberti bollava l'inettitudine e il mal volere di alcuni
uomini politici, ch'egli accusava di municip'alismo. I più colpiti erano il Rat-
tazzi, il Dabormida e Pier Dionigi Pinelli. Alle repliche il Gioberti aveva
controreplicato, ma i suoi amici non si mostravano contenti, sopra tutto della
risposta al Dabormida, che, per essere leale e temperata, era apparsa ad
alcuni timida e remissiva.
Molto opportunamente il Balsamo-Crivelli mette in luce tutto il com-
plesso carteggio privato con l'ab. Unìa, con il Monti, il Pallavicino, il Mas-
sari, mostrando quale copia di notizie e di giudizi, di consigli e di offerte
testimonianze, venisse inviata al Gioberti, che talora, a chi non tiene suffi-
ciente conto di questi carteggi, appare irruento, poco sereno, impulsivo."^
Sopra tutti l'ab. Unia forniva notizie ai danni del Dabormida, mentre il Pal-
lavicino, il Monti, il Bertinotti eccitavano l'amico a più acri polemiche. La
situazione diveniva ancor più tesa per una piccola polemica con Luigi Torelli
a proposito del general Perrone, ripubblicata in appendice dal B.-C. Il Dabor-
* Arcangelo Ghisleri, Vincenzo Gioberti giudice della situazione presente? \n Riv. Popo-
lare di Politica, Lettere e Scienze Sociali, anno XXIII, n. 20, Roma, 31 ottobre T917. Questo
articolo fu prima pubblicato da L'Idea Democratica, anno V, n. 43, Roma, 27 ottobre 1917.
• Vincenzo Gioberti, Ultima replica ai municipali pubblicata per la prima volta con pre-
fazione e documenti inediti da, Gustavo Balsamo-Crivelli, Torino, Fratelli Bocca, 19:7,
pp. XIII-304.
» Tale appare a Vittorio Ciao, che, nella recensione a questo libro, sul Giorttale Storico della
Letteratura Italiana, anno XXV, voi. I-.XX, fase. 210 (1917), pp. 317-324, riconferma i severi giu-
dizi espressi nella Prefazione alle Lettere di V. Gioberti a P. D. Pinelli, Torino, 1913, e ritiene
che il Gioberti fosse eccitato dalla passione di parte e che il municipalismo non fosse che un'idea
fissa. Chi guardi senza preconcetti la vita politica piemontese dopo \\ 1849 e chi consideri qaale
ora tragica attraversasse il Gioberti in quegli anni, non può certsTinente seguire il Cian nei suoi
apprezzamenti severi.
Rassegne 569
mida, in piena Camera, si diceva calunniato, alludendo palesemente al Gio-
berti, che si decideva a rispondere in una lettera a Giorgio Pallavicino, in
data del 5 marzo 1852. Ma, mentre il Bianchi-Giovini ricusava di pubblicare
la lettera suW Opinione , l'ab. Unia, mostrandosi pentito delle notizie fornite
e della responsabilità assuntasi, impediva anche che quello scritto fosse pubbli-
cato dall'editore Bocca. E così ricominciava la serie delle incertezze. L'Unìa
voleva che il Dabormida e gli altri dessero un appiglio al Gioberti, perchè
la risposta apparisse provocata. L'appiglio fu dato da un articolo del Bon-
compagni nel Risorgimento di Torino del 9 marzo 1852, ripubblicato quasi
per intiero, come nota il B.-C, nell'opuscolo Pier Dionigi Pinelli e Vin-
cenzo Gioberti (Torino, 1880) e riportato in appendice dal N. Tale scritto,
per quanto temperato verso il Gioberti, come si addiceva a un antico col-
laboratore,^ non poteva restare senza una risposta. L' Unia concedette che si
facesse uso delle sue informazioni, e il 20 mai-zo i852 il Gioberti cominciava
la sua Replica, che chiamava ultima, poiché con essa si proponeva di por
termine a ogni polemica, e indirizzava, pur dandole forma di una lettera al
Boncompagni, a tutti i municipali di Piemonte, ossia a quanti anteponevano
l'interesse regionale ai destini della nazione. Il 25 marzo in Parigi lo Chamerot
iniziava la stampa dell'opuscolo. Ma sembrava destinato che l'ultima replica
dovesse incombere a lungo, inesorabile spada di Damocle, sui nemici del
Gioberti, senza esser mai resa pubblica fino a oggi. La malattia e la morte
del Pinelli spingevano l'esule pietoso, prima a sospendere la pubblicazione
della Replica, poi a modificare quanto riguardava il Pinelli. Intanto si amma-
lava gravemente anche il Dabormida.
\\ Risorgimento annunziava in,modo pungente che il Gioberti non avrebbe
reso pubblica la Replica. Questi, irritato, rispondeva smentendo la notizia.
« Convengo teco, scriveva il C al direttore del Risorgimento, che queste
polemiche si vorrebbero evitare; ma elle sono solamente imputabili a chi le
provoca col travisare i fatti e vituperare colle ingiurie la fama degli inno-
centi » (p. 55). Nella prima metà del maggio 1852 la pubblicazione sembrava
decisa, con l'aggiunta di un Preambolo, fatto allo scopo di conciliare i diritti
della verità e della giastizia con i riguardi dovuti allo stato del generale Dabpr-
mida e alla memoria del Pinelli (p. 57). Ai primi di giugno Preambolo e
Replica dovevano essere pubblicati, quando 1' Unia definitivamente, nelle let-
tere del 29 maggio e del i» giugno 1852, pregò il Gioberti di non esporlo
alle vendette del Dabormida, rendendo pubbliche le sue informazioni private.
Qui è la vera ragione della soppressione dell'opuscolo: il B.-C. lo prova chia-
ramente, mostrando come le ragioni allegate dal Massari, fonte spesso poco
attendibile, e quelle della lettera pubblicata n^W Opinione dal Gioberti, siano
solo apparenti,, destinate al gran pubblico. Ci sembra però che la seces-
sione dell' Unia debba essere considerata sopra tutto come causa determi-
nante, strettamente connessa a qualche cosa di più interiore e profondo,
* Secondo il Solmi, il Gioberti aveva concorso con il Bertini, il Rava, il Rayneri all'elabo-
razione del Codice Boncompagnì per l'istruzione pubblica in Piemonte. [Cff. E. Solmi, K Gio^
berti nel 1848, in Nuova Antologìa, 16 settembre 1912].
570 Rassegne
allo stato d'animo da lungo tempo latente nel Giobei^ti, al quale ripugnava
la triste fraterna contesa. Perchè egli, di consueto alieno da ogni incer-
tezza, in questa occasione ci si mostra oscillante per ogni minimo motivo ?
Sotto la lunga odissea di piccoli fatti esterni si cela un aspro tormento spi-
rituale, una lotta che va dal febbraio al giugno del 1852, e che si svolgeva
pochi mesi prima della morte del filosofo. Questo il Balsamo-Crivelli non ha
creduto necessario di mettere in luce. Con il rigore obbiettivo dello storico
ci badato documenti, ma non ha fatto rivivere, come avrebbe potuto, l'ora
più tragica della vita del Gioberti. Il 7 giugno si eseguiva nella villa fiocca,
la distruzione di 1211 copie della Replica, mentre il Preambolo veniva pub-
blicato.
Il B.-C- cerca qui di ricostruire, per ipotesi, la sorte delle copie non bru-
ciate: una, che mancava all'editore, alcune che erano presso il Gioberti a
Parigi o che questi tentava di ricuperare dagli amici.
Quando Edmondo Solmi scrisse il suo articolo su 1* Ultima replica^ pub-
blicato postumo nel 1912,* l'opuscolo era creduto irreperibile. Il Solmi dovè
limitarsi a tentarne una ricostruzione, aiutandosi con qualche frammento. da
lui trovato negli autografi inediti della Biblioteca Civica di Torino.
Maggior fortuna è toccata al Balsamo-Crivelli, che nell'ottobre del 1915,
nel fondo « Risorgimento » della Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, ha
potuto rinvenire una copia della Replica^ probabilmente quella appartenuta
al Senatore Filippo Capone, al (juale il Gioberti l'aveva richiesta invano. ^
Così, a distanza di sessantacinque anni, è stata resa pubblica questa ope-
retta smarrita del Gioberti, che costituisce una piccola conquista per lo
storico e per l'esteta. Alla storia porta un contributo, certo interessante,
poiché riguarda uno dei periodi più tormentosi e discussi della vita poli-
tica piemontese. E porta, per l'esteta, nuove pagine di quella mirabile
prosa del Gioberti, eloquente, dramatica, pagine di pensiero e di pas-
sione, vibranti di forza polemica. Qui, forse ancor meglio che nel Rinnova-
^nento, vediamo quale visione nitida delle future sorti d'Italia abbia avuto
prima di morire il filosofo torinese. Ne è una prova il sereno giudizio sul
Cavour, con cui termina la Replica, « Oggi è chiaro a tutti che la presente
amministrazione è da un lato la sola possibile come liberale, e, dall'altro, la
sola atta ad assicurar le franchigie come conservatrice. Camillo di Cavour
diede testé prova di sensi patrii e di coraggio civile nel rompere a visiera
alzata coi nemici degli ordini' liberi e coi politici di municipio. La salute del
Piemonte (in cui si racchiude quella d'Italia) è però nei presenti termini
divenuta una quistione personale. Depongano adunque tutti gli uomini di
senno e di cuore i loro dissidi! : si stringano intorno al governo e lo difen-
dano dalle fazioni inette ed improvide, che precipiterebbero cotesta provincia
* E. Solmi, V ultima replica . ai municipali, in Bollettino Storico-bibliografico Subalpino,
Anno XVII, fase. IIMV.
* Un'altra copia è stata in seguito rinvenuta da Antonio Bruers, nella Bibl. Nazionale di Pa-
rigi. Cfr. A. Bruers, Una seconda copia deir« Ultima replica n di Gioberti, su La Tribuna d/
Roma del 5 giugno 1918.
Rassegne 57 1
nello stesso baratro di viltà e dì sciagure, in cui poco addietro inabissarono
la nazione » (p. 167).
Il Balsamo-Crivelli, concludendo, ha compiuto opera utile, accuratissima,
erudita, ma certo non del tutto completa. I documenti che egli allega, e quelli
che introduce in frammenti o per esteso nella prefazione, ricostruiscono più
le vicissitudini del libro che non la tragica ora di chi lo scriveva ed era tor-
mentato dal dubbio. Non oserei però fare un appunto di tal mancanza al
Balsamo-Crivelli: se da una parte è desiderabile che il documento non sia
fine a sé sitesso, è pur d'altra parte assai pericoloso farne lo strumento di
ricostruzioni subiettive.^ Qui, per un lettore amoroso, parla da sé lo scritto dei
Gioberti : il Balsamo-Crivelli si è limitato a un obiettivo corredamento docu-
mentario. E, sopra tutto per quanto riguarda il nostro risorgimento, ancora
troppo vicino a noi, Tobiettività è dote rara e difficile.^
Studi filosofici.
Di fianco alla trattazione delle questioni politiche e storiche, troviamo
le ricerche e le interpretazioni filosofiche. ^ Mancava finora in Italia un'opera
che riuscisse a « indagare con animo libero tutti gli aspetti del pensiero del
Gioberti ». Questa lacuna si é proposto di riempire il Saitta,* e in parte,
come vedremo, se non del tutto, ha raggiunto il suo intento, in un'opera
vasta, densa, comprensiva. Il Gioberti ha una personalità filosofica così netta
e distinta da tutte le altre, che è molto facile per ognuno trovare in esso ele-
menti che attraggono ed elementi che ripugnano, attenersi ai primi, non vo-
* L'esumazione del Balsamo-Crivelli, non solo porse argomento a molte recensioni, che qui
non è necessario enumerare, ma diede anche origine a un'aspra polemica. Il Ruffini, parlandone
in Senato, fece un paragone fra municipalismo e disfattismo, fra Novara e Caporetto [cfr. Atti
Parlamentati, Legisl. XXIV, i* Sessione, discussione della tornata del 2 marzo 1918, pp. 4183-
-4184]. La Stampa di Torino replicò con due articoli editoriali- — attribuiti poi al prof, U. Cosmo —
nei numeri del 16 e del 17 marzo 1918, tentando un parallelo fra Cavour e Giolitti, mentre la Critica
Sociale sembrava sostenere la medesima tesi, con l'art, firmato Rabano Mauro, // disfattismo
nella disfatta di Novara (Milano, 16-31 marzo 1918). Agli articoli della Stampa risposero molti gior-
nali e periodici, fra i quali cfr.s Eja (EttorK Janni) Novara e Cavour sul Corriere della Sera
del 23 e 24 marzo 191 8; N. Colajanni, Paragoni errati e previsioni criminose, su La Sera di Mi-
lano del 26 marzo 191 8; Cavour e Giolitti paragonati dal sen. Frassati, in Rivista Popolare di
Politica, Lettere, e Scienze Sociali,'^ Anno XXIV, Roma, 31 marzo 1918; V. Piccoli, F. Gioberti
e Novara, sul Secolo del 21 aprile 1918.
» Altri contributi alla storia della vita del Gioberti si trovano negli art. seguenti: A. Bruers,
Belgio e Italia nelV esilio di V. Gioberti, sul Piccolo di Roma, 7-8 febbraio 1917; P. A, Menzio,
Intórno alla « Ultima Replica ai municipali y*, in Risorgimento Italiano, anno X, 4, 1918; M. Maz-
ziOTTi, Una letteta di V. Gioberti, in Nuova Antologia, anno 53», fase. 1114, Roma, 16 giugno
1918 ; Gina Bajone, La Costituente toscana, in Rassegna Storica del Risorgimento, anno V, fase. II,
aprile-giugno 1918, pp. 322-342; A. Colombo, Nuovi documenti sulla controversia rosminiana tra
V. Gioberti e Gustavo Benso di Cavour, in Rassegna Storica del Risorgimento, anno V, fase. III,
pp. 373-394-
* Alla diffusione del, pensiero giobertiano contribuì nel 1918 il Gentile, con Id prolusione
del IO gennaio al suo corso di storia della filosofia. Cfr. G. Gentile, Il carattere storico della filo-
sofia italiana, Bari, ed. Laterza, 1918; G. Gentile, Il profeta della nuova Italia, in Conferenze
e prolusioni, XI, 6, 1918. Cfr. anche a tale proposito V. Piccoli, Per la tradizione giobertiana,
in n Libri del Giornor>, Milano, giugno 1918, pp. 117-118.
* Giuseppe Saitta, Il pensiero di Vincenzo Gioberti, in Studi Filosofici, diretti da G. Gen-
tile; VI, ed. G. Principato, Messina, 1917, pp. XXVIII-452. — È da tempo aspettata una mono-
grafìa sul Gioberti del- Calò, nella collezione Sandron dei « Grandi Pensatori » e uno studio de
nostro collaboratore, A. Anzilotti.
572 Rassegne
ler vedere i secondi e quindi svisare il proprio autore. Questo difetto di r;l-
cuni interpreti del Gioberti è stato ben definito da Felice Momigliano, a
proposito di Bertrando Spaventa. « Potrò io avere innanzi a me Vincenzo
Gioberti, quando avrò dimostrato che la famosa formula che è la pietra fon-
damentale del suo sistema, non è che spinoiismo, in quanto la mente, l'as-
soluto è considerato come sostanza, secondo la quale Dio è l'identità o l'in-
differenza assoluta del pensiero e dell'estensione e perciò natura ; in altri
termini l'essenza di questo Dio è il conoscere e non il creare, mentre nei-
r elaborazione successiva dell'opere postume, la sostanza comprendendosi
nell'autocoscienza, l'organo della filosofia diventando riflessione, dialettismo,
si conchiude con l'hegelismo?»^ A questo difetto non mi pare si sia del
tutto sottratto il Saitta, il quale pur sembrava più che altri indicato a tale
studio, preparato dalle sue profonde ricerche sulla scolastica e sul neoto-
mismo.* Il Saitta riprende il tentativo, già fatto da altri, a cominciare dallo
Spaventa, di interpretare la metafisica giobertiana come filos9fia dello spi-
rito, considerando l'idea dell'Ente come atto dello spirito, e la formola, come
pura creazione spirituale. Egli spesso si appoggia un poco troppo alle opere
postume, nelle quali trova elementi favorevoli alla sua tesi ; e noi crediamo
si debba fare un uso molto cauto delle opere po^ume, che rappresentano
più una serie di indagini che di conclusioni, e che sono state a noi trasmesse
sovente con molte incertezze, sopra tutto dal Massari.
Esaminiamo brevemente l'opera del Saitta. Le ragioni della divisione
della materia e dell'economia del volume s'intendono solo dopo un esame
non superficiale, poiché corrispondono a esigenze spirituali dell' A. piuttosto
che a esigenze formali della materia. Nella Parte prima, l'À. tratta tutte le
questioni preliminari, sia d'indole storica che speculativa, necessarie all'inten-
dimento dell'opera.
Per ciò che riguarda la cronologia delle opere filosofiche del Gioberti,
il Saitta non fa che riordinare le idee sul fondamento degli studi bibliogra-
fici del Gentile. Osserva giustamente che i pensieri, raccolti dal Solmi sotto
il titolo di Meditazioni Filosofiche, 'dovrebbero essere disposti diversamente,
tenendo conto dei periodi a cui appartengono (pp. 26-27). Circa lo svolgimento
spirituale il Saitta ritorna su le orme del Solmi, ma aggiunge alcuni elementi
nuovi, sopra tutto per ciò che riguarda l'influenza del pensiero agostiniano
e la conoscenza che il Gioberti giovane aveva del Kant. Esamina poi ex novo
il periodo meno noto, che precede immediatamente la pubblicazione della
Teorica del Sovranaturale , dal 1834 al 1837. Questo è un punto importante
dell'opera del Saitta, il quale conclude con esattezza che nel 1838 il pen-
siero del Gioberti era maturo e che, con la Teorica del Sovranaturale e con
\* Introduzione , il Gioberti sostituisce all'antica dialettica analitica la moderna
sintetica. Qui l'autore, ritornando sulle relazioni con S. Agostino e con la
scolastica,, esamina come si venga formando la personalità mistica di Yin-
' Fklick Momigliano, Religione, filosofia e storia della filosofia, in Riv. di Filosofia,
Aano IX, fase. III, marzo-luglio 1917, p. 247.
« G. Saitta, La Scolastica nel secolo J(VI e la politica dei Gesuiti. Torino, 1911; Le ori-
gim del neotomismo nel secolo Xl^, in Bibl, di Cultura moderna, n. 58. Bari, I9i2«
Rassegne 573
cenzo Gioberti,* attraverso le varie forme che essa viene assumendo, e giunge
a determinare, come posizione ultima del Gioberti, un atteggiamento di pen-
siero (?he non ci sembra in tutto corrispondente a quel netto superamento
del misticismo, che è proprio della metafisica ééiV Introduzione . Ma tutto sta
neir intendersi sul valore che si attribuisce alla parola « misticismo ». Chiude
la prima parte la trattazione di un arduo argomento : le relazioni tra la
visione ontologica e quella parallela teologica, che implica il problema
delle relazioni tra filosofia e religione. Anche qui possiamo seguire il Saitta
quando jacutamente determina come il sapere per il Gioberti sia unità della
teologia pura e della filosofia pura (p. 88), ma non possiamo essere con
lui quando conclude che l'unica radice -viva di tale unità è l'attività dello
spirito (p. 94). Il Saitta afferma che, «se Dio è verità, è vita perfetta, in
quanto dipende dall'atto ricreativo, che è concreto, reale in quanto atto
umano ; sì che lo spirilo umano è creatore quanto Dio, ed egli solo può rap-
presentare quella scienza compiuta, che è la religióne pienamente attuata,
palingenesiaca » (pp. 94-95). Qui si attribuisce al Gioberti quella concezione
dello spirito demiurgo del Cosmo, che da Cartesio a Fichte e a Hegel rap-
presentò, secondo il Gioberti, il massimo errore della metafisica moderna.
E questa attribuzione di concezioni spiritualistiche si continua per tutto
il volume del Saitta. A noi sembra che, sebbene molte volte sia neces-
sario intravvedere oltre la lettera di ciò che scrivono i filosofi, non si possa
negare, nella posizione definitiva della metafisica giobertiana, un ontolo-
gismo assoluto, che ammette una realtà obiettiva, indipendente dallo spi-
rito umano, che sarebbe anche qualora lo spirito umano non esistesse^ che
pone lo spirito come sua conseguenza, rendendone possibile l'attività, solo su-
bordinatamente alla propria attività. ^ Si intende agevolmente che, dato il punto
di vista del Saitta, la critica presente dovrebbe ora ripètersi per tutti gli ar-
gomenti da lui trattati. Più nitido e perspicuo è il capitolo quinto della. Prima
Parte, in cui l' A. tratta dell'apparente antinomia tra autorità e libertà nel
pensiero del Gioberti, mostrando come la tradizione religiosa segni un supe-
ramento e una conciliazione dei due concetti opposti ; ma anche qui a noi
sembrja che la tradimone^ che il Saitta intende come coscienza subiettiva, sia
per il Gioberti rivelazione trascendentale.
Nella Parte seconda, l'A. si occupa di tutto ciò che riguarda i due fon-
damenti del sistema giobertiano, l'idea dell'Ente e il principio di creazione,
con tutti i problemi secondari e le polemiche che si connettono ;a tali argo-
menti. Ma noi dovremmo proseguire, nell'esposizione di questa seconda parte,
con il continuo ritornello di questa antinomia tra un Gioberti ontologo (il
nostro) e un Gioberti spiritualista (quello del Saitta). Ci limitiamo quindi ad
accennare come l'A., attraverso una sua interpretazione del sovrintelligibile
giobertiano, che egli vuol distinguere dal neoplatonico e avvicinare al nou-
meno kantiano, giunga alla dottrina dell'Ente e alla formola ideale, osser-
» Cfr. anche G. Saitta, // misticismo di V. Gioberti^ Bilychnis, IH, 1916.
♦ Cfr. V. Piccoli, Ontologia e gnoseologia nel sistema filosofico di yiftcèHxc Gioòerft,' itt
Xlvista di J^losofia, inno X,n. i, Romtkt.tiìaif^ìo agosto igi6^ pp. g^^ttii
574 Rassegne
vandone gli elementi formativi nelle speculazioni di S. Agostino, di S. To-
maso e del Rosmini. Il Gioberti, ben rileva il Saitta, concilia nel suo pen-
siero la visione creativa di S. Agostino con quella statica di S. Tomaso : a
tale complessa concezione giunge presupponendo la posizione rosminiana, e
qui il Saitta continua il punto di vista dello Spaventa. A questo proposito 1*A.
opportunamente ricostruisce la polemica rosminiana, sulla quale noii è an-
cora stata detta l'ultima parola,* allo scopo di meglio precisare il concetto
di intuito, il problema della individuazione, la teorica dell'Ente. Il Saitta pensa
che il Gioberti si contraddica nel voluto divario da lui posto tra l'Ente e le
creature, che si estingue in quanto la differenza è solo per il grado (p. 197).
E d'altra parte l'obietto non è, per la sua stessa etimologia, se. non il pen-
sato (p. 199). Questa illazione del Saitta avvicinerebbe il Gioberti al suo op-
posto, al Cartesio, e" quindi l'A. crede naturalmente necessario, nel capi-
tolo IV, di prevenire l'obiezione, spiegando che.il Gioberti era men discosto
di quel che credeva da Cartesio, perchè, se nei due pensatori « è invertito il
cammino, non è perancò diverso il risultato a cui si arriva, perchè la illusione
d'una verità immobile, impietrata rimane costante» (p. 211). Pur troppo,
qualunque sia il risultato, quella inversione di cammino è alquanto grave!
L'A. ricostruisce quindi il concetto di creazione e ne deduce le relazioni con
molti altri punti della metafisica giobertiana, nella quale la elisi può consi"
derarsi la chiave di volta di tutto il sistema. Notevoli le pagine (pp. 306-
316), in cui l'autore tenta un parallelo tra il Gioberti e Hegel per ciò che
riguarda la dialettica della creazione.^ L'A. conclude in una visione unitaria
la sua interpretazione della filosofia giobertiana, considerata con «orienta-
mento deciso verso quella filosofia dello spirito, la quale, pur passando at-
traverso alla religione, riconosce il suo vero problema, cioè l'unità del giu-
dizio e del fatto, della verità e della certezza^ (p. 246). Il cap. VII, che è
tra i più belli del volume del Saitta, ci dà in vasta sintesi guesto tentativo
di concepire il Gioberti come il filosofo delia mentalità pura, celebrantesi
nello spirito, come eticità (p. 366). « Mediante la conoscenza che è processo
— conclude il Saitta — e quindi volere, moralità, noi crediamo un mondo, e,
quanto più conosciamo, tanto più questo mondo si allarga e diventa sempre
* Cfr. G. Gentil», Rosmini e Gioberti, Pisa, 1898; G. Capone Braga, Saggio su .Rosmini.
Il Afondo delle Idee, Libreria Editrice Milanese, Milano, 1914, pp. 72-109; A. Colombo, Art. cit.
• Per opera del Croce è venuto in luce un parallelo fatto dal De Sanctis tra l'estetica di
Hegel e quella del Gioberti. [F. Dk Sanctis, Le leziotii sulla storia della critica, in La Critica,
anno XV, fase. II, 20 ^jjarzo 19171 PP- 98-107; fase. Ili, 20 maggio 1917, pp. 170-178; fase. IV,
20 luglio 1917, pp. 224-234]. L'interpretazione che dà il De Sanctis alla estetica del Gioberti è
completamente ontologica: ne nota però le incoerenze, còme l'introdursi di un elemento kantiano,
con la teorica del sublime. Questo era stato notato anche dallo scrivente, prima della pubblica-
zione deUe postume desanctisiane [cfr. V. Piccou, L'estetica di V. Gioberti, Roma, Soc. Ed.
D. Alighieri, 1917, pp. 47-55]. A ogni modo è da tener presente che, sia il De Sanctis che il Saitta,
non possono fare che un parallelo puramente esteriore tra il Gioberti e l'Hegel, dato che l'Hegel
non fu tra i filosofi più studiati dal Gioberti e non ebbe una vera influenza sulla formazione della
sua personalità filosofica. L'Ottolini vorrebbe invece vedere veri e propri rapporti spirituali tra
l'Hegel e il Gioberti, paragonabili a quelli che intercedono tra il Gioberti e il Rosmini, il Gal-
luppi, lo Schelling, Kant [cfr. A. Ottolini, L'estetica di V. Gioberti, in Rassegna Nazionale,
I dicembre 1917, pp. «09]. E in questo non ci sembra di poterlo seguire.
Rassegne 575
più cosa nostra. In ciò consiste la vita stessa del mondo. L'uomo, questo
Dio scaduto e regressivo, ma nello stesso tempo principiante e progressivo,
è un dialettismo vivo e concreto, e, come tale, assoluta dinamicità : che è il
problema che il Gioberti lasciò in eredità all'idealismo moderno d'Italia, che
percorre la via da lui additata » (p. 366).
Nella Parte terza, l'A. esamina come, -dai fondamenti metafisici esposti,
vengano prendendo forma alcune distinte discipline: l'estetica, la morale, la
politica, la teoria dell'educazione. Ci saremmo aspettati di trovare la morale
nella Parte seconda, ove si tratta del concetto di creazione, dato che l'etica e
la logica sono per il Gioberti discipline ctisologiche, ma abbiamo già detto
come l'ordinamento dell'opera segua le esigenze dell'autore, non la linea este-
riore del pensiero giobertiano. Il Saitta non tratta a parte né della logica né
della psicologia, ma il lettore troverà i fondamenti della psicologia giobertiana
nel capitolo primo della Parte seconda, a proposito della teorica della cono-
iscenza e troverà molte idee di logica e di dialettica, oltre che sparse qua e là,
raccolte nel capitolo sesto della Parte seconda, nel raffronto tra la dialettica
hegeliana e quella del Gioberti. Nella trattazione sull'estetica, il Saitta prende
le mosse dal severo giudizio dato dal Croce, e lo riconosce ingiusto, solo perchè
dalle opere del Gioberti < si possono ricavare i lineamenti di un'estetica, che ha
parecchi punti di contatto con quella del Croce » (p. 370). Ora a noi sembra
che il giudizio del Croce sia ingiusto per ben altre ragioni, e prima di tutto
perchè ha forma di sentenza categorica, portata a conclusione di una insuffi-
ciente parvenza di esposizione.* D'altra parte l'estetica del Gioberti, sebbene
non si sottragga a qualche incoerenza, in una cosa è ferma e nettamente
orientata: ne! fondamento ontologico, obiettivo del Bello, ,, che ha un'origine
trascendentale anche quando appare creazione dello spirito e che «sarebbe
né più né meno, ancorché mancasse di spettatori ».* Siamo pertanto al punto
di vista diametralmente opposto a quello crociano e, se qua e là troviamo
che qualche risultato del Gioberti concorda con quelli del Croce, le premesse
sono così differenti da dare valore diverso alle conclusioni apparentemente
simili. Si continua pertanto anche qui, come nei capitoli seguenti, l'antinomia
che è in tuttp il libro, così -nell'esposizione delle dottrine morali, ove l'eti-
cità è involuta completamente nella sfera dello spirito, come nell'esposizione
della politica, che viene considerata anch^essa quale mentalità pura. Nel ca-
pitolo sulla politica, l'A. ci dà alcune belle pagine, in cui si oppone alla
tesi, sostenuta dal Solmi nel Mazzini e Gioberti, che sino al 1833.^ i senti-
menti democratici del Gioberti fossero simili a quelli del Mazzini, mostrando
l'elemento profondamente speculativo che distingue il concetto giobertiana
di democrazia da tutti gli altri (pp. 410-414). Espone poi chiaramente alcuni
- dei principi cardinali della filosofia politica del Gioberti, quali i concetti di
sovranità e di costituzione. Ma perchè la visione sintetica della politica gio-
bertiana, apparisse completa, eguale nei suoi fondamenti filosofici, mutata
solo nelle contingenti determinazioni pratiche, l'A. avrebbe dovuto fondere
» Cfr. V. Piccoli, L'Estetica di Vincenzo . Gioberti, pp. 25 ti passim.
• V. Gioberti, Del Sello, Firenze, ed. P. Ducei, 1845, Cap. I, p. io.
576 Rassegne
questo capitolo con quello ove tratta della riforma religiosa propugnata dal
Gioberti (cap. V della Parte prima) e con quanto dell'antigesuitisnio e della
funzione sociale dello scrittore è detto nel capitolo sulla educazione. In
questo, che chiude il libro, l'A. considera l'atteggiamento critico assunto dal
Gioberti, sia di fronte alla pedagogia gesuitica che a quella del Locke e del
Rousseau, considerate tutte inferiori alla concezione cristiana dello spirito
(P' 457)1 per mostrare come il vero educatore sia quello scrittore ideale, a
cui con tanto amore suole il Gioberti tornare sovente ne' suoi scritti.
Sulle idee pedagogiche del Gioberti ci ha dato una più estesa e par-
ticolare esposizione Andrea Franzoni,^ riprendendo un argomento già trat-
tato da lui nel 1901.2 Dopo avere tratteggiato la figura di Vincenzo Gio-
berti nelle vicende della sua vita, l'A. passa a riepilogarne in breve la con-
cezione filosofica. Naturalmente la preoccupazione d'essere semplice e chiaro,
determinata dalle finalità didattiche dei suoi Quaderni, impedisce al Franzoni
di^ addentrarsi troppo in alcune questioni, così che spesso nel suo scritto
ritroviamq più la lettera che lo spirito del pensiero giobertiano. L'A. rica-
pitola la polemica rosminiana per venire a determinare il valore dell'atteg-
giamento del neoidealismo contemporaneo di fronte al Gioberti. Dopo
avere esposto le idee religiose e politfche e ripreso l'ormai vieto paragone
tra Gioberti e Fichte, il Franzoni viene alfine a trattare delle teorie pedago-
giche. Qui l'A. non riassume più da altri, ma procede in un campo ancor
poco studiato, poiché troppo sommari e non definitivi sono gli studi del Val-
darnini e del Gerini sull'argomento. La teoria dell'educazione e le questioni
riferentisi a essa, quali la necessità dell'sducazioiìe, le relazioni tra educazione
famigliare e domestica, e infine quelle tra Stato e scuola, vengono esposte dal
Franzoni, senza alito di spiritualità vera e profonda. Però egli tratta anche
opportunamente dell'antigesuitismo del Gioberti, per dedurne il principio
della autonomia dell'educando. In questo punto avremmo desiderato che il
Franzoni, come gli altri studiosi dei quali ci siamo occupati, si fermasse un
poco più a lungo. I Gesuiti non hanno oggi ancora deposto il vecchio rancore
contro il Gioberti. Sono, di ieri alcuni indegni articoli della Civiltà Cattolica,^
nei quali si rifa la storia delle polemiche gesuitiche, riprendendo, non le pa-
cate e oneste obbiezioni di P. Francesco Pellico, ma le contumelie di P. Carlo
Curci, l'apologista dei carnefici di Cosenza. Leggano coloro che venerano
la figura di Vincenzo Gioberti, per esempio, la nota a pp. 326-327 {Quad. 1593,
voi. 4, 4 novembre 1916), ove si parla dei pourboirs (sic !) pagati al Gioberti,
» A. Franzoni, Gioberti, in Quaderni di Pedagogia, Anno I, serie II, n. 3-4. Milano, 1917,
pp. XI-XVIII-165-290.
• A. Franzoni, V. Gioberti educatore e pedagogista nazionale, in Riv. Filosofica, Pavia,
marzo-aprile 1901.
» Anonimo, V. Gioberti e i Gesuiti, in Civiltà Cattolica, voi. 3, quad. 1589, pp. 577-585;
voi. 4, quad. 1591, pp. 66-73; qua^« 159». PP. 180-185; quad. 1593, PP. 319-330; <l"ad. 1594, pp. 430-
446 (1916).
Rassegne 577
perchè egli conducesse la sua campagna contro i Gesuiti! È vero che certi
scritti non meritano risposta, ma tuttavia coloro che trattano del Gioberti non
dovrebbero dimenticare di porre in luce tutto il valore e la grandezza della
sua polemica antigesuitica. Così ci sembra che in queste pagine del Fran-
zoni avrebbe potuto trovar posto opportuno qualche cenno sulle relazioni
tra il Gioberti e l'Aperti e su quanto il Gioberti scrisse a proposito delle
persecuzioni subite dall'Aporti, dal P. Girard e da altri. L'A. passa poi
a trattare uno dopo l'altro tutti i capisaldi del pensiero pedagogico del
Gioberti : l'importanza formativa sia del classicismo che del tecnicismo, il
valore profondaniente umano degli studi classici, l'efficacia dello studio della
lingua materna, delle arti e delle lettere, come fattore di educazione morale
e nazionale. Chiudono il volume alcune pagine nelle quali l'A. ricostruisce
rapidamente il profilo del pensatore e dell'uomo politico, attraverso la sua
evoluzione spirituale. Il Franzoni accoglie del tutto la tesi dello Spaventa,
per il quale il Gioberti avrebbe « oltrepassato lo psicologismo e la dottrina
dell'ente per creare la filosofia dello spirito » (pp. 269-270), e anche in questo
non possiamo essere con lui. Ma di ciò si è detto a proposito del volume
del Saitta.
Valentino Piccoli.
^^
37 -^ Nuoiia Rivista Storica,
Me. doedionj iride.
La questione ucraina.
Una delle più gravi questioni della Russia d'oggi è la questione ucraina.
Sembra strano rattristarsi per lo sconvolgimento di una parte, mentre il tutto
è travolto in un caos di follia. Sembra strano attribuire importanza a quello
che avviene alla periferia, quando il cuore ed il cervello della Russia sono
colpiti da grave malanno, e tutte le sue forze creatrici si trovano come in
istato di paralisi. Ma la questione ucraina è insopportabilmente tormentosa,
appunto perchè si tratta di una parte, periferica (« ocraina » in russo) solo
di nome, poiché in realtà l'Ucraina da lungo tempo non è più una « Ocraina »,
ma è diventata una delle parti « centrali )> della Russia, se non geografica-
mente, almeno per importanza.
Sono ormai due secoli e mezzo che r« etmano » Bogdan Chmelnizky si
trovò dinanzi ad un problema politico assai complicato. Egli dovette assicu-
rare l'esistenza dell'Ucraina, paese molto più debole che non le sue vicine,
Russia e Polonia, nemiche fra di loro. Tre soluzioni — almeno teoricamente —
si presentavano come possibili. L'Ucraina poteva o tendere alla piena indi-
pendenza e proclamarla, o; rinunziando a questa, poteva concludere un patto
sia con la Polonia sia con la Russia. Bogdan Chmelnizky, dopo lunghi e gravi
dubbi, dopo una serie di esperimenti dolorosi, preferi l'ultima soluzione. La
preferi perchè per un'esistenza indipendente dell'Ucraina vi era poca sicu-
rezza e perchè era infinitamente preferibile la dipendenza dalla Russia alla
dipendenza dalla Polonia ; e ciò per la stessa ragione, per la quale gli attuali
Polacchi preferirebbero la dipendenza dalla Russia alla dipendenza dalla
Prussia. Così era molto meglio assicurato quéi miminum di libertà e di indi-
pendenza indispensabili allo sviluppo sano di qualsiasi nazionalità.
Tutta la storia successiva della nuova « Piccola Russia » dimostrò nel
modo più lampante la saggezza della risoluzione presa dell'etmano. L'im-
portanza della Piccola Russia come unità militare libera diminuì certamente ;
gli Ucraini dovettero passare qualche brutto momento, come p. es. all'abo-
lizione della « Zaporojskaja Sieto ». Ma, in compenso, la vita economica della
Note^ questioni storiche ^ ecc. 579
Piccola Russia entrò in contattò con la vita economica e politica della Grande
Russia per fondersi poi a poco a poco in un'unità indissolubile con essa.
Dopo aver perso la finzione dell'indipendenza — poiché l'Ucraina, in
realtà, non era mai stata completamente indipendente — il popolo ucraino acqui-
stò tutto quello che forma la vita di una grande nazione, tutto quello che
distingue la grandezza dalla meschinità, un palazzo da una capanna. La Rus-
sia diventò una grande pptenza, e con lei ascese anche l'Ucraina. La Russia di-
ventò un fattore economico di prim'ordine, e nello stesso tempo crebbe l'im-
portanza economica dell'Ucraina. La Russia cominciò ad elaborare una coltura
originale e piena di vigore — la vera coltura di un grande popolo —, e la
Ucraina pervenne ad un livello più alto, prendendo parte al movimento scien-
tìfico, artistico, letterario, della Russia.
L'Ucraina era legata alla Russia con mille fili ; i dolori suoi erano anche
i dolori della Russia, e con la Russia essa ha vissuto tutte le sue gioie. Ma
prima di tutto e più di tutto la comunione di vita delle due nazioni sorelle
si manifestò là, dove germogliano le radici di ogni vita politica, di ogni vita
di Stato : nel campo economico.
La fine del secolo XVII ed il principio del secolo XVIII furono caratte-
rizzati in Russia dallo sviluppo di un'economia agricola naturale, accompa-
gnato dallo schiudersi della servitù della gleba. I «pomestcik»* piccoli-russi
sfruttavano la forza viva del contadino così come i loro fratelli grandi-russi ;
i contadini della Piccola Russia gemevano sotto il giogo della « barstcina » *
come i contadini della Grande Russia. I canti melanconici dell'Ucraina poe-
tica ci narrano le stesse sofferenze popolarli che le canzoni primitive e fiere
della Grande Russia. Di queste sofferenze si fanno interpreti il poeta piccolo-
russo Taras Scevcenco, come il poeta russo Necrassov. E allorché l'economia
naturale della Russia comincia a scomporsi, questo processo involge l'Ucraina
nella stessa misura in cui involge la Russia. Tanto qui come là, la « barstcina »
cede il posto all'* obroc ».3 Nelle due parti dell'organismo gigante si svi-
luppa l'economia monetaria del cambio, e tutti e due i popoli provano ugual-
mente la gioia della liberazione dalla servitù della gleba nell'anno 1861.
Il processo della decomposizione dell'economia agricola naturale si iniziò
già nel primo quarto del secolo XIX. La produzione del grano per la ven-
ditgi — per Taglioni di clima e di terreno (si rammentino le Terre nere) — si
sviluppò principalmente nel mezzogiorno. In compenso, il nord fu la culla
dell'industria russa. Ma questi fenomeni, completandosi mutualmente, come
la differenziazione di un insieme economico, crearono un mercato russo unico,
sul quale i.prodotti dell'industria nazionale si incontrarono coi prodotti del-
l'agricoltura nazionale. Le condizioni della vita statale comune, la struttura
geologica del terreno e la distribuzione geografica delle ricchezze minerarie
suscitarono anche nel Mezzogiorno un centro importante di industria ; questa
però non ha cessato mai di far parte dell'industria nazionale russa. L'Ucraina
^ Padrone e proprietario della terra e dei contadini.
• Lavoro obbligatorio {corvée) del contadino a favore dei padrone.
' La parte di prodotto, che spettava al padrone.
58o Note, questioni storiche^ ecc.
è divenuta così un centro dell'industria zuccheriera russa nello stesso modo
in cui era già divenuta un centro dell'agricoltura russa. Una parte importante
del grano esportato dalla Russia era costituita dal grano ucraino, ma non per
questo cessava di far parte dell'esportazione totale russa, essendo quello un
prodotto esportato in condizioni economiche uguali per tutta la Russia. Per
questa salda unità economica, che la Russia rappresenta, la produzione del
l'Ucraina aveva tanta importanza, quanto la produzione della Grande Russia,
■e tutti e due si completavano a vicenda e si assicuravano mutualmente l'esi-
stenza economica. Un'Ucraina indipendente è così poco immaginabile senza
la Russia come è poco concepibile la vita economica della Russia senza
l'Ucraina. Tra queste due parti djello stesso organismo economico si era sta-
bilita una certa differenziazione, ma questa differenziazione er^ il risultato
dello sviluppo normale dell'organismo, un sintomo della sua salute, come in
generale la differenziazione è una prova dello sviluppo sano di ogni orga-
nismo. Invece la separazione economica dell'Ucraina dalla Russia era divenuta
altrettanto impossibile, guanto la rivolta di alcune membra del corpo umano
contro tutte le altre.
Ma non soltanto la vita economica costituisce un legame tra la Russia
e l'Ucraina. L'esistenza politica comune ha già da lungo tempo fatto sì, che
nella vita statale governativa e sociale della Russia prendessero parte tanto
Grandi Russi quanto Piccoli Russi. Sebbene la costituzione monarchica della
Russia prerivoluzionaria ammettesse la partecipazione di certi ceti sociali della
nazione al governo, questa era proporzionalmente uguale per ambedue i po-
poli. I funzionari superiori si reclutavano tanto rielle famiglie aristocratiche
della Piccola Russia come nell'aristocrazia grande-russa. L'amministrazione
locale dei governatorati piccoli-russi non differiva in modo alcuno da quella
dei governatorati grandi-russi. L'attività degli zemstvo si sviluppava in modo
consimile negli uni come negli altri ; il governatore piccolo russo, che reg-
geva un governatorato grande-russo, assomigliava, come una goccia d'acqua
all'altra, al suo collega grande-russo, il quale reggeva un governatorato
piccolo-russo. Il Gorodnicii immortale del Revisore di Gogol è un tipo
unico per tutta la Russia, e, quasi a mettere in rilievo questo fatto, il tipo fu
creato da un Piccolo Russo che fu un grande scrittore russo. La vita della
campagna piccolo-russa é russa sono perfettamente identiche, col loro « sta-
rosta » (sindaco), col loro « volostnoi pissar » (segretario comunale), col
loro « mir ».
Attraverso due secoli e mezzo si compiè la fusione dei due popoli, pre-
parata dalla loro affinità di razza, e alla fine la vita statale e l'ecofiomia
comune crearono un popolo imico con la medesima coltura. L'adolescente
cresciuto nell'Ucraina conservava per lungo tempo i ricordi poetici del mez-
zogiorno, ma -egli prendeva contatto con le questioni mondiali che abbrac-
ciano l'umanità intiera negli .alveari della scienza russa, rappresentati in
misura uguale dalle università ucraine e da quelle russe ; e nella maturità
egli userà la più evoluta lingua russa per dar forma ad un'idea più complessa,
conservando però l'idioma ucraino per i moti intimi, primitivi del senti-
mento. La lingua russa, la lingua dello Stato, la lingua della coltura econo-
Note» questioni storiche, ecc. 581
mica, la lingua letteraria assorbiva in sé tutti gli elementi ed eleggeva i suoi
scrittori e poeti, tanto fra i Grandi quanto fra i piccoli russi. Il popolo ucraino,
la sua massa, i suoi contadini, come le sue così dette cime intellettuali, vive-
vano della vita comune russa e fino alla rivoluzione non pensavano neppure
di poter trasformarsi in uno Stato indipendente, in un'Ucraina, che verso la
sua sorella potesse mettersi in relazioni tali che facessero ricordare la disputa
tra Ivan Ivano vite e Ivan Nikiforovitc a proposito dell'oca.^ Ma, poiché tutto
al mondo ha una causa, tentiamo di analizzare le cause di questo strano
fenomeno, a cui oggi assistiamo.
L'antico regime era divenuto del tutto insopportabile durante gli ultimi
anni della sua esistenza. Crollando l'edificio sociale, la cui base era costituita
dall'economia naturale della servitù della gleba, l'autocrazia era destinata a
crollare insieme con queste vecchie forme diell'esistenza economica. Ma per
inerzia, dando prova di una vitalità soprannaturale, l'autocrazia continuava
ad esistere, mettendosi così in una contraddizione sempre più flagrante con
l'evoluzione della vita russa. Sorretta da interessi di equilibrio internazio-
nale, essa tentava di conservare la sua vita con mezzi artificiali, con inie-
zioni subcutanee di materie eccitanti. Se esistesse veramente una «meccanica
sociale », quei sistema poliziesco, mostruosamente sviluppato, che prolungò
la vita dell'autocrazia per più di un decennio, potrebbe essere considerato
come una vera e propria valvola di sicurezza. L'autocrazia vetusta seppe man-
tenersi con la distruzione crudele di tutto quello che respirava, con una pres-
sione ferrea ed incessante su ogni manifestazione della vita sociale. E questa
pressione non conobbe esclusioni, ma gravava ugualmente su ogni fenomeno
sociale, su ogni espressione del movimento nazionale. Estendendo il suo
controllo su tutto, per mezzo dei suoi organi di sicurezza, il vecchio regime
spinse fino all'orróre la centralizzazione, che, in simile misura, riusciva vuota
di senso, specie tenuto conto deirimmensità dello spazio russo. Con ciò esso
comunicò un carattere rivoluzionario alle più modeste manifestazioni di indi-
vidualità nazionale. Temendo come il fuoco ogni indipendenza, ogni velleità
nazionale, l'autocrazia menava una guerra senza tregua alla lingua ucraina nella
scuola elementare, vedendola di mal occhio anche sulla scena del primitivo
teatro piccolo-russo. Non era permesso indossare il bel costume nazionale
ucraino; alle volte si perseguitava anche il canto di innocenti canzoni sto-
riche dell'Ucraina. Ma, anche elevate al grado di delitto politico, tutte queste
espressioni ingenue del sentimento nazionale ucraino erano, dal punto di
vista del pensiero politico e sociale, infinitamente più deboli delle correnti
rivoluzionarie della Grande Russia. Gli scorpioni, che l'autocrazia lanciava
sulle tracce dei rivoluzionari russi, non possono affatto paragonarsi al lieve
* Racconto delizioso di Gogol, dove due intimi amicii Ivan Ivanovitc e Ivan Nikiforovitc.
-vengono alle mani a proposito di un'oca, e con la loro cocciutaggine pica>lo-russa non possono
nai più toccare questo soggetto senza ogni volta rinnovare il litigio, sorto proprio da no nonnulla.
58a Noie^ questioni storiche, ecc.
castigo che essa infliggeva ai « chochli »* delinquenti. Gli Ucraini ascendevano
il piedistallo del martirio politico solamente quando essi partecipavano al
comune movimento rivoluzionario russo. Ciononostante, le persecuzioni al-
l'autonomia ucraina erano ingiuste o, peggio ancora, prive di senso e, ciò do-
veva^necessariamente produrre un certo fermento.
A poco a poco i partiti radicali e socialisti dell'Ucraina, sorti nelle me-
desime condizioni politiche è sociali di quelli russi, e quindi analoghi ad essi,
cominciano, sotto l'influenza dell'insensata pressione politica del governo, ad
assumere un colore nazionale. Si pubblicano indagini storiche sui vecchi
tempi ucraini; nell'assumere un'attitudine contraria al governo, certi circoli,
non sapendo scindere le cause dalle conseguenze, estendono il loro atteggia-
mento ostile a tutto quello che è russo, ed il piccolo ruscello comincia a gon-
fiarsi a guisa di torrènte impetuoso.
Il movimento centripeto del potere autocratico aveva provocato il mo-
vimento centrifugo dell'Ucraina. Non vi era ragione di aspirare all'indipen-
denza statale della Piccola Russia, ma l'insano centralismo del vecchio re-
gime doveva suscitare una reazione, altrettanto naturale quanto forte, non
appenai . questo governo cadde. L'anarchia sfrenata del bolscevismo, que-
sta autocrazia a rovescio, si spiega in gran parte con la pressione soffbcatrice
del passato. Nello stesso modo il movimento centrifugo della Piccola Russia
è in gran parte il risultato della pressione centripeta del governo autocrata.
Entrambi i movimenti non hanno radici profonde e non possono essere du-
revoli. Essi sono temporanei e transitori, come temporanea e transitoria è
Stata la manomissione tedesca sul territorio belga e francese.
V. Gr-
Tra il primato d'un popolo e la missione universale delle
nazioni.^'
I due libri, dei quali intendo qui intrattenere i lettori, traggono dalla
immane guerra presente ^ l'uno lo stimolo immediato e diretto, l'altro il con-
forto alla rievocazione della parola d'un apostolo, che risveglia ora echi più
vivi e profondi nelle anime» Ma il significato e il valore di entrambi è ben
lontano dall'esser limitato all'occasione che ha determinato il nascimento del-
l'uno ed accompagnato l'apparizione dell'altro: libri come questi, di pen-
siero, di dottrina e di fede, conserveranno, anche superato il tragico momento
» Chochol (ciuffo), nome che il Russo dà volontieri all'Ucraino.
• Balbino Giuliano, Il primato d'un Popolo {Fichte e Gioberti), Catania, F. Battiato, 1916;
Alessandro Levi, La filosofia politica di Giuseppe Martini, Bologna, N. Zanichelli, 1917.
» Questo scritto fu consegnato per la stampa nel gennaio 1918, in piena guerra europea : ciò
Taiga a spi«^re alcune frasi, che oggi sarebbero anacronistiche,
NoUy questioni storiche^ ecc. 583
storico incombente, l'interesse del contenuto e della trattazione viva è pene-
trante onde oggi attraggono il lettore.
La reazione generale degli spiriti alla brutale prepotenza germanica ha di
quest'anni fatalmente coinvolto in una stessa condanna col militarismo anche
tutta la cultura e la filosofia tedesca, alle quali si copsidera (e non intiera-
mente a torto) spettare qualche responsabilità nella formazione di quello stato
d'animo in Germania, che ha reso possibile lo scatenamento della guerra
immane. E il Giuliano, fervido seguace dell'idealismo e della dottrina del-
l'immanenza di Dio, ha voluto, per sé e per gli altri, cercare una risposta
a tutta una serie di problemi. È forse in quella dottrina la radice e la giu-
stificazione sofistica dei misfatti dell' imperialismo ? E se il miraggio egemo-
nico di Fichte è diventato l'evangelo della Germania, mentre l' Italia lasciava
cadere nell'oblìo il sogno di primato del Gioberti, perchè questa diversità?
E qual'è la forma di primato, il cui sogno un popolo può e deve alimentare ?
Il Primato di Gioberti ha comune coi Discorsi di Fichte lo spirito reli-
gioso, che è in entrambi l'anima della concezione politica ; ma con quella dif
ferenza profonda, che secondo Fichte caratterizzava appunto la opposizione
tra tedeschi e neolatini, cioè il contrasto tra la fede nell' immanenza e la
fede nella trascendenza. Per quanto sulla interpretazione di tutto lo sviluppo
del pensiero giobertiano si siano dibattute e si dibattano tuttora discussioni
(e basti ricordare gli studi dello Spaventa, del Gentile e quello recentissimo
del Saitta), tuttavia è fuor di dubbio che nel Primato appaia una dottrina
della trascendenza di Dio, la quale non sì limita a porre fra esso e l'uomo un
abisso, che soltanto la grazia redentrice può superare, ma, coU'escluderé
la rivelazione diretta, pone la Chiesa come necessaria mediatrice fra la natura
divina e l' umana. Così anche la legge e la vita civile vengono a discendere
dall' insegnamento sacerdotale ; e per la fede che Cristo sia venuto a diffon-
dere non una ma la religione, e a fondare 1' Ecclesia universale, nel sacer-
dozio cattolico si costituisce per Gioberti la guida morale e civile di tutta
l' umanità.
Per ciò nell' umanità, secondo Gioberti, l' Italia, in quanto nazione sacer-
dotale per eccellenza, ha un primato ; ma consistendo esso nell'accettare la
subordinazione del laicato al sacerdozio, dello spirito al dogma, non .consente
alla nazione italiana neppur di tendere ad una unità nazionale, che isolerebbe
il papa dalla vita civile, e le fa invece obbligo d'accettare una forma fede-
rativa sotto l'egemonia del papato.
Un primato, connesso con la negazione dell'autonomia spirituale e con-
cludente a una grave limitazione dell'autonomia nazionale, non poteva certo
sorridere allo spirito degli italiani, quando l'esigenza della libertà lo perva-
deva e moveva alPazione : il sogno del Gioberti era destinato quindi ad esser
breve sogno per il suo stesso autore, che di lì a pochi anni confessava il
dileguamento delle sue speranze. Ma per 11 Giuliano la caducità del miraggio
giobertiano deriva invece dal dualismo che egli poneva fra Dio e l'uomo.
Certo, posto simile dualismo, non ^ possìbile alcuna unità sintetica fra i due
termini, senza quei miracoli che sono la creazione nel tempo e la rivelazione ;
ma non è detto che, posta la trascendenza, debba di necessità discenderne
584 Note^ questioni storiche, ecc.
la concezione di una missione del sacerdozio. Una fede nella trascendenza
potrebbe anche conchiudere ad un buio agnosticismo o ad una rivelazione
diretta, che sia concessa come grazia illuminante ad ogni anima individuale.
La necessità di una chiesa mediatrice non è per se stessa inclusa in ogni
dottrina di trascendenza; si potrebbe anzi dire che la trascendenza diventi
per essa meno rigorosa e netta, una volta che sull'abisso fra Dio e l'uma-
nità vien gettato il ponte della Chiesa.
Ora le conseguenze, alle quali arriva il Gioberti nel Primato, di una
sovranità della Chiesa, che è (come dice il Giuliano) negazione di ogni libertà
teoretica e pratica, si possono far discendere dalla dottrina della trascendenza
di Dio, solo in quanto senza di essa non sarebbe concepibile la funzione
attribuita al sacerdozio : essa è, in altri termini, una condizione necessaria ma
non sufficiente;, rende cioè possibile, ma non necessaria la conclusione gio-
bertiana.
L'Italia, secondo il Giuliano, ebbe una volta questo primato teocratico :
il laicato d'Italia avrebbe creato la civiltà del m. e. e del rinascimento, ani-
mato dall' idea religiosa cristiana. Ma, intanto, dire idea religiosa o idea cri-
stiana non è dire idea e missione sacerdotale; e, d'altra parte, l'affermare
che la civiltà del rinascimento non sia stata che espressione dell'idea reli-
giosa, conduce il Giuliano alla conseguenza di considerare per es. già morta
quella civiltà nell'arte di Raffaello e di Tiziano, in cui morta è la fede, e vive
nell'Ariosto soltanto le tracce dell'idea cristiana superstiti fra le scene pagane
di bellezza e di gioia. Perchè non dire anche, allora, la Gerusalemme (magari
la conquistata piuttosto che la liberata) più viva dell' Orlando furioso ?
Il primato d'Italia verrebbe a cessare, secondo il Giuliano, col cristal-
lizzarsi del dogma nel concilio di Trento ; non (come potrebbe credersi) per
l'azióne soffocatrice esercitata dalla controriforma, dall'inquisizione e dalla
compagnia di Gesù su tutte le sorgenti vive dell'attività spirituale ; ma perchè ,
finita l'elaborazione e lo sviluppo vivo dei dogmi, cadono insieme l'ege-
monìa spirituale della Chiesa e quella dell'Italia. Fino ad allora (afferma il
Giuliano) la coscienza cattolica di una missione sacerdotale impediva all' Italia
di sentir l'esigenza dell'unità nazionale, perchè l'Italia era più che una
nazione: era la forma viva di un'idea internazionale; ma anche la caduta di
questo suo valore internazionale non tolse del tutto l'ostacolo alla forma-
zione della coscienza nazionale, fin che non vi si associò, nel trionfo della
rivoluzione francese, il compimento del processo an ti teocratico, con l'afferma-
zione che il diritto non sCende dall'alto dei cieli, ma sale dalla volontà stessa
dell* uomo.
Di fronte a questa interpretazione della storia d'Italia ci si affacciano
molti dubbi: se la fede in una missione internazionale fosse impedimento-
alla affermazione della coscienza nazionale, come si spiegherebbe il fatto,
che proprio nel più grande apostolo di questa coscienza in Italia, Mazzini,
ella si fondi e consista essenzialmente (come più oltre diciamo) proprio nella
volontà e nell'esercizio di una missione internazionale? Non per l'Italia {la
terza Roma) soltanto, ma per ogni nazione : ora per Mazzini non si può
ripeter certo quel che, potrebbe dirsi per Gioberti (pure fondante il diritta
Note, questioni storiche, ecc. 585
d'esistenza e d'autonomia d'ogni nazione sul suo speciale compito o primato
internazionale) che alla universalità della missione dell' Italia fosse disposto
a sacrificare l'unità nazionale; nessuno più di Mazzini vigoroso e reciso
assertore d'unità ebbe mai l'Italia.
E quest'ultima connessione dell'idea nazionale con un compito inter-
nazionale non meno caratteristica è nel pensiero germanico, dove sembra
anzi che la coscienza nazionale non possa destarsi se non affermandosi, dagli
Stùrmer und Drànger ai romantici, da Herder a Fichte ad Hegel, come por-
tatrice ed esecutrice di una missione universale di primato o, per usar le
espressioni di Schiller, che riecheggiano poi in tutti gli altri, come «nucleo
dell' umanità, eletto a costruire l'edificio eterno della civiltà umana ». E perchè
anche in Germania solo dopar la rivoluzione francese si vien formando la
coscienza nazionale ? Forse anche là era stata prima di ostacolo la missione
internazionale del sacro impero, erede di Roma ? O perchè allora la coscienza
nazionale si forma precisamente come affermazione di una missione mon-
diale dell' impero ?
D'altra parte l'azione delle idee della rivoluzione sulla formazione della
coscienza nazionale — in Italia e altrove — non è tanto nella direzione anti-
teocratica (che teocratico fu Gioberti e, in un significato che spieghiamo più
oltre, teocratico fu lo stesso Mazzini) quanto nel senso di destare l'esigenza
della libertà e di dare, con il concetto della volontà generale^ la visione del-
l'unità spirituale che costituisce un popolo, e fonda il potere dello stato e
della legge. Non per nulla anche in Germania (dove un'azione demolitrice
contro la Chiesa cattolica non avrebbe avuto senso) Fiéhte prima dei Discorsi
alla nazione tedesca aveva scritto la Rettifica dei giudizi del pubblico sulla
rivoluzione francese, è tutti i romantici, fondatori della coscienza nazionale
germanica, avevan sentito potente l'influsso del Rousseau.
I Discorsi alla nazione tedesca sono, come accennammo, inspirati alla
dottrina dell'immanenza, là dove nel Primato giobertiano si afferma poi la
dottrina della trascendenza ; ma come sarebbe inesatto fare di questa oppo*
sizione, secondo che Fichte voleva, un contrasto caratteristico dello spirito
germanico e del neolatino, così non è storicamente esatta neppure la distin-
zione attenuata, che pone il Giuliano, fra una tendenza puramente demoli-
trice del soggettivismo latino e una tendenza costruttrice del soggettivismo
tedesco: basterebbe ricordare Rousseau e la sua influenza su Kant e sullo
stesso Fichte. Ma con Fichte l'idealismo si rivolge al tentativo di superare
ogni dualismo, ponendo l' Io come assoluta realtà identica all'ordine divino r
l'immanenza del divino è affermata in tutta la sua pienezza.
Nella valutazione della fede immanentistica il Giuliano non mi par sempre
coerente : quando egli esalta la fede romantica, figlia della Riforma, come il
nuovo cristianesimo che al creatore celeste sostituisce il Cristo inteso vera-
mente come uomo-di^; che rovescia il cristianesimo della Chiesa, sostituendo
alla sommessa accettazione di un'autorità esteriore l'autonomo slancio del-
l'anima verso la libertà; che nell'ascensione al Calrario verso la trasfigura-
zione vede, come nell'ascensione dell'eroe Sigmund al Walfater, simboleg-
giata l'ascensione dell'umanità verso la stia etema realtà ideale; con, tutto
586 Note» questioni storiche y ecc.
ciò egli non ci prepara certo alle successive affermazioni, che la riforma e il
romanticismo non diano una vera parola religiosa nuova, da cui potesse sor-
gere una nuova superiore forma di coscienza e di civiltà umana, ma diano
soltanto un'eresia intellettuale, incapace di creare un nuovo mito, perchè
mancante di una di quelle idee madri, che rappresentano una radicale tra-
sformazione dello spirito.
Tuttavia, prescindendo da questa antitési tra affermazioni parimenti recise,
che esìgerebbe di essere maggiormente chiarita, ci appare vìvo nel Giuliano
il convincimento che la concezione dell' idealismo immanentistico sia la sola,
che affermi in tutto il 'suo significato la libertà dello spirito, la sola che ponga
in tutto il suo valore il principio di attività, e additi nel soggetto stesso la
vera fonte dei valori, sì da indirizzare l'opera educativa verso il vero prin-
cipio creatore, e farne veramente una formazione dell'uomo.
Ma sarebbe anzi tutto a dimostrare che la fede nella « prpfonda imma-
nente divinità da cui (per dirla col Giuliano) sgorga colla vita umana ogni
suo valore » non possa condurre a far risalire la vera fonte dei valori oltre
1 soggetto, a quella scaturigine cui il soggetto stesso deve attingere il valore
proprio. Con l' immanenza, scrisse una volta anche il Gentile, resta sempre
anche la trascendenza : quindi, se l'autonomia appartiene al soggetto univer-
sale nel suo sviluppo, non appartiene altrettanto al soggetto individuale, sem-
plice atomo d'un anello di una catena infinita.
Ma nel caso di Fichte c'è qualcosa di più grave ancora.
Il processo della sua filosofìa avrebbe dovuto condurlo all' idea dell' uni-
versale umano e alla affermazione di un inveran^entò del principio divino in
tutta intiera l'umanità attraverso al suo sviluppo storico: Fichte invece nei
Discorsi si fa apostolo di un nazionalismo esclusivo, che il Giuliano non
esita a chiamare imperialistico. Ora il Giuliano crede che non ci sia contra-
dizione in questo passaggio : ma altro è dire che Fichte non credette di tra-
dire l'idea dell'universale umano, altro il ritenere che non abbia tradito o
deviato dall'umanismo al patriottismo.
^ Un vero umanismo e cosmopolitismo non era in Fichte neppure quando
scriveva i Caratteri fondamentali dell' età presente, dove pure scindeva l'uma-
nità in due piani, degli spiriti terrestri' e degli spiriti solari, e in ogni epoca
attribuiva ad un pòpolo la funzione di dominatore sopra gli altri. Ma tanto
più esso manca nei Discorsi^ ove lo stesso Giuliano riconosce la deforma-
zione di una grande idea, la smentita all' idea di umanità, la conversione di
una concezione filosofica in una gnosis dogmatica.
Ora in questa conversione il Giuliano avrebbe potuto rilevare come il
Fichte sia condotto alle conseguenze di ogni dogmatismo: alla negazione
della libertà del soggetto. La sua concezione pedagogica, che doveva fon-
darsi sul principio di attività e di libertà dello spirito, si deforma nei Discorsi,
fino ad esigere che l'educando « non possa volere diversamente da come l'edu-
catore vuole che egli voglia », e che la costituzione di un ambiente artifi-
ciale, ottenuto con la violenta separazione dalla famiglia, dia il modello, su
«ai debba foggiarsi l'ideale della vita sociale. E dovendo questa violenta
imposizione essere operata dagli uomini di stato, Fichte arriva ad augurarsi
Note^ questioni storiche^ ecc. 587
nella Staaislehre ^ un padrone, che ci costringa a fondafe il germanismo».
La parabola con ciò è compiuta; e l'opposizione, che il Giuliano pone tra
Machiavelli, invocante un eroe dominatore capace di violentar l' Italia e il
destino, e Fichte invocante la rigenerazione dal popolo stesso, viene a cadere.
Per tanto il divario fra l'azione possente esercitata da Fichte sullo spi-
rito germanico, e la rapida caduta del miraggio giobertiano, non mi pare
possa dipendere dalla opposizione fra immanenza e trascendenza come vuole
il Giuliano: Fichte col suo immanentismo non riusciva a superare quella
necessità logica, che costringe ogni ambizione egemonica a porre come sua
condizione una negazione dell' autonomia del soggetto. E, d'altra parte, se
Gioberti, dopo aver accesa col suo Primato la vampata di un momentaneo
entusiasmo, la vede rapidamente declinare e spegnersi come fuoco di paglia,
e sente in se stesso morire il suo sogno, la voce di Mazzini, invece, che pure
affermava anch'essa la trascendenza del divino, suscita tutto un tumulto tem-
pestoso di risonanze, risveglia ed incita all'azione tutto un popolo, e pur oggi
riecheggia sempre viva negli spiriti.
La diversità del destino dei due sogni di Gioberti e di Fichte era nella
diversa rispondenza di ciascuno allo spirito nazionale del tempo: Gioberti
riesce ad esaltare gli animi solo in quanto celebra le glorie passate, ma va
contro alle aspirazioni verso l'autonomia piena e la compiuta unità della
nazione, che, per opera specialmente di Mazzini, si facevano sempre più dif-
fuse, vive e possenti; la passionata parola di Fichte invece, che suona la
diana all'orgogliosa coscienza di un privilegiato destino della sua nazione,
mostra la sua corrispondenza ad una tendenza generale del momento storico
nel fatto stesso di esser preceduta ed accompagnata e seguita da tutto un
coro di altre voci consonanti con essa nel moto romantico, pieno del superbo
convincimento di una supremazia germanica. Tutti gli uomini, che hanno
esercitato una grande azione nella storia (diceva egregiamente il Comte) trag-
gono la loro importanza dall'aver sentito per istinto geniale quali mutamenti
si andavano preparando e dall'averli proclamati : le forze sociali che si svi-
luppavano in silenzio sono allora apparse sulla scena con tutto il vigore della
giovinezza, moltiplicando la^loro energia d'azione per la più chiara consape-
volezza che i grandi uomini han dato loro, coll'esprimere nella loro aperta
affermazione le tendenze oscure che lavoravano nell'ombra ad aprirsi la via.
All'azione storica dei discorsi del Fichte non è di ostacolo la negazione,
sopra accennata, dell'esigenza dell'autonomia: nel nazionahsmo fichtiano (de-
viazione, non derivazione dalla .dpttrina etica di -Fichte) come in quello del
romantici, il principio di attività non è più affermazione di libertà, ma vo-
lontà di potenza ; e questa volontà di potenza maschera la rinuncia all'auto-
nomia spirituale sotto l'affermazione di un privilegio, senza avvedersi che la
negazione dell'altrui valore e degli altrui diritti include quella del valore e
del più alto diritto proprio.
Contro queste tendenze, delle quali in Fichte stesso sarebbe stato bene
metter in luce le conseguenze, il Giuliano si richiama con ardore . di fede a
quel pensatore, apòstolo, profeta dell'Italia nuova, che fu Giuseppe Mazzini.
Ma l'invocazione non è più giusta se, come ho accennato, la si voglia far
588 Not€f questioni storiche^ ecc.
discendere dalla affermazione di un idealismo che sia, quale il fichtiano, filc;-
sofia e religione dell'immanenza : Mazzini credeva nella trascendenza, e cer-
cava in un Dio superiore all'umanità, non nel soggetto stesso, la vera fonte
dei valori. Ora se Mazzini' può essere invocato anche dal Giuliano a segna-
colo di una nuova ascensione, ciò accade per la sua fede nei valori, non per
•a fondazione religiosa che voleva darne. Prova evidente, questa, che l'es-
senziale è precisamente, in questo caso, la nobiltà, sincerità ed energia della
coscienza morale, la quale non è subordinata all'accettazione di un credo im-
manentistico, e può essere ugualmente alta, operosa ed efficace in spiriti se-
guaci di diverse tendenze metafisiche, perchè non soltanto in una di esse
può trovare la sua fondazione.
'V
Con l'invocazione a Mazzini si chiude lo scritto del Giuliano; ed ecco,
nel libro del Levi, una rievocazione del pensiero' mazziniano, fondata su una
conoscenza piena e sicura, e compiuta con una serenità che, pur non celando
l'amore per la grande figura del Genovese, vuole stabilire nettamente e di-
scutere a fondo i problemi che presentano la ricostruzione e l'interpretazione
della sua dottrina.
Ma prima di venire al libro del Levi aggiungo una considerazione. Nel
richiamo a Mazzini il Giuliano moveva da Fichte e dal suo idealismo; ma
anche Gioberti avrebbe potuto bene ricondurre il pensiero al grande apostolo
dell'Atalia nuova. Il primato, che Gioberti attribuiva agli italiani, non esclu-
deva, anzi implicava l' affermazione di un primato particolare per ognuna delle
stirpi e nazioni, in corrispondenza delle speciali doti ed attitudini di cia-
scuna: anche quelle non salite finora all'orizzonte della civiltà, lungi dall'es-
sere per Gioberti, come per Hegel, escluse per sempre dalla storia, occu-
peranno un giorno, secondo lui, nel disegno universale della provvidenza, un
grado onorevole; e dal futuro contributo allo sviluppo dell'umanità, che co-
stituirà nell'avvenire i! loro speciale primato, hanno intanto fondato il loro
diritto alla vita e all'autonomia.
Il concetto del prima,to in Gioberti si può dunque avvicinare a quello
della missione ^c^Q Mazzini ad ogni nazione ritiene assegnata nel corso della
storia universale : tutti i primati^ come tutte le missioni, costituiscono il segno
e la sorgente dei diritti di ogni nazione, e debbono esercitarsi per il bene di
tutte e nella direzione del fine comune. Sopra al. concetto di nazione in en-
trambi i pensatori italiani splende il concetto d'umanità, illuminato in entrambi
dalla viva luce di una fede religiosa. E il ravvicinamento potrebbe farsi anche
per la missióne preminente conferita da Mazzini alla terza Roma, se non fosse
che il primato spirituale, attribuito dal Gioberti all'Italia in quanto nazione
sacerdotale, doveva essere per lui permanente, mentre la missione di inizia-
trice, conferita da Mazzini alla nazione che più aveva sofferto, doveva esser
temporanea : di aprir la via per la quale poi tutta l'umanità si sarebbe insieme
incamminata ; e se non fosse, sopra tutto, che la premessa giobertiana era
in una negazione dell'autonomia spirituale, la premessa mazziniana in una
afférmazione vigorosa di essa, per la nazione italiana e per tutte le altre.
Notet questioni storiche^ ecc. 589
Le dottrine di Mazzini hanno comune con quelle di Marx e di Engels la
condizione di essere disseminate in molteplici scritti, quasi tutti d'occasione, e
qyasi mai esposte sistematicamente; ma più forse che quelle hanno il carat-
tere, che il Levi mette in rilievo, di un'intima unità e di un coerente colle-
gamento fra le idee direttrici. Tempra di credente più che di filosofo, d'uomo
d'azione più che di freddo pensatore, Mazzini della stessa filosofia poneva
un concetto religioso : la filosofia era per lui un'affermazione dell'individua-
lità fra una sintesi religiosa che cade e un'altra che sorge, una religione del-
l'individuo, nello stesso modo che la religione è la filosofia delle moltitu-
dini. Si unificano nel contenere entrambe il pensiero dominatore di un'epoca ;
si distinguono non soltanto nell'appartenenza della prima all'individuo e del-
l'altra all'umanità collettiva, ma anche nella condizione, richiesta per il pas-
saggio alla collettività, di aggiungere la sanzione di un'origine divina, e nella
potenza; che in questa l'icfea attinge, di trasformare il mondo. Ma per la stessa
filosofia il criterio di verità è dato, secondo Mazzini, dalla ratifica che la co-
scienza individuale trova nella coscienza dell'umanità, in quanto in essa vive
la legge morale : in Mazzini come in Rousseau il sentimento ha la premi-
nenza sull'intelletto, come in kant la ragion pratica ha il primato sulla spe-
culativa, come in Fichte le affermazioni teoretiche restano sospese a quelle
etiche. Per questo orientamento etico Mazzini considera il consenso dell'uma-
nità necessario appoggio alla coscienza individuale, con un criterio di verità
che, sotto questo rispetto, non merita il titolo d'ingenuo che il Levi pro-
pènde a dargli : esso si ricollega con la fondamentale tendenza religiosa del
Mazzini, per la quale, come il Levi osserva, si potrebbe anche chiamar /<?(f^
la sua stessa dottrina politica.
La fede, per cui Mazzini s'era sentito un giorno tratto in salvo dalla tem-
pesta del dubbio, aveva per suo motto: la vita è missione ; ma la missione
era, secondo lui, affidata all'uomo da Dio. Dio per Mazzini è un postulato
della morale : « esiste universale il bisogno di unMdea, d'un centro, d'un prin-
cipio unico a cui si richiamino le norme delle azioni » ; e come postulato
dell'etica, esso è in Mazzini quel che era in Kant e, ancor prima, nella Pro-
fession de foi del Rousseau, la cui azione sul Mazzini meriterebbe di esser
determinata nelle concordanze e nelle opposizioni. Dio per Mazzini, afferma
giustamente il Levi, non s'identifica col mondo e neppure con lo spirito del-
l'umanità : per quanto egli abbia talora parlato di panteismo, Dio resta per
luì sempre trascendente, superiore al mondo come autore della vita e della
legge morale. L'umanità^ lo ha in sé come inspiratore, ma restan sempre di-
stinti: «Dio è Dio, e l'Umanità è il suo profeta» o, come scriveva al La-
mennais, «ce n'est pas Dieu-Humanité, mais Dieu et l'Humanité, que nous
avons pour devise ».
Il progressivo sviluppo storico o, come aveVa detto il Lessing, la edu-
cazione progressiva del genere umano si compie secondo Mazzini nella suc-
cessione storica delle religioni : la rivelazione di Dio si attur « attraverso la
vita collettiva dell'Umanità». Quindi se anche, come osserva il Levi, manca
in Mazzini una definizione precisa dell'umanità, c'è per altro In lui un con-
cetto ben definito della continuità della vita di essa attraverso i tempi e i
590 Note^ questioni storiche^ ecc.
luoghi, del contributo che allo sviluppo collettivo reca ogni uomo come ogni
popolo (quasi operai nell'immenso opificio dell'umanità) e del valore di mis-
sione che ha questo contributo per ciascuno. Nel concetto di umanità per
tal modo è racchiuso anche quello di progresso :Vn concetto non determi-
nistico, ma volontaristico e teleologico, che può ben meritare il nome di fede.
A questa idea Mazzini era condotto, oltre che dal Condorcet e dalla filosofia
del sec. XVIII, anche dal Saint Simon e aggiungerei, in parte anche dal Lessing.
Dante, cui egli amava richiamarsi, non gli avea dato, come nota il Levi, se non
le idee che egli a lui attribuiva ; Vico non gli dava quella convinzione, che egli
professa, della continuità del progresso e del suo indefinito procedere. La conti-
nuità in Mazzini è rappresentata dàlia tradizione, il rinnovarsi incessante è co-
stituito « dalla necessità che spinge, quasi legge di esistenza, ogni essere allo
sviluppo di tutti i germi, di tutte le forze, di tutte le facoltà di vita che sono
in esso » ; ma questa necessità non è esteriore alla coscienza ; essendo quei
germi e quelle forze di lor natura spirituali, di fronte alla tradizione, che con-
serva le conquiste già fatte, la forza impulsiva è data « dalle ispirazioni che
sono in noi tutti ». E per questo «il progresso sta nella coscienza del pro-
gresso. L'uomo deve conquistarlo di passo in passo... non può meritarlo che
combattendo, purificandosi col sacrificio nelle forti opere, nei santi dolori ».
Sempre, ovunque, il concetto della vita come missione si riafferma ; il
principio del dovere riappare come centro di tutta la dottrina mazziniana, e
si concreta nel suo carattere religioso, etico e storico a un tempo: «la sor-
gente del dovere risiede in Dio — suo oggetto l'umanità — la sua base è
la reciproca responsabilità degli uomini — la sua misura è determinata dai
bisogni del tempo e dall'intelletto dell'individuo — il suo limite è segnato
dal grado di potenza che l'individuo possiede». Coni Doveri dell'Momp Maz-
zini intendeva contrapporre ai diritti dell'uomo^ proclamati dalla rivoluzione
francese, i principi dell'epoca nuova, non più critica ma organica, avente per
fine non più Vindividuo, ma V Associazione. E in questa opposiaione ai prin-
cipi'dell'Sg, che lo ravvicina ài Comte (e molto opportunamente il Levi ha
tracciato le linee essenziali di un raffronto) per la comune derivazione dal
Saint Simon, Mazzini, al pari del Comte, fraintende e disconosce il valore
che il concetto di diritto aveva nelle Dichiarazioni rivoluzionarie e nel loro
inspiratore Rousseau.
Laddove il dovere scende da una legge generale, il diritto, dice Maz-
zini, non scende che da una volontà, è fe^e dell'individuo, è interesse e,
come tale, minaceli^ di passare dalla sovranità deWio «alla signoria dell'in
più potente». In queste accuse è dimenticato del tutto il carattere di uni-
versalità e — quindi — di reciprpcità, che l'idea di diritto include in sé, per
cui la rivendicazione è possibile solo in nome di uh principio universale, che
implica l'pbbligo del riconoscimento, nel pensiero e nell'azione, del diritto
degli altri. In questo senso il concetto di diritto si identifica con quello di
dovere, e l'uomo nell' affermarlo sente in sé rumanità, come aveva splendi-
damente mostrato Rousseau nella celebre formula : « rinunciare alla libertà
è rinunciare alla propria qualità d'uomo, ai diritti^ anzi ai doveri dell'uma-
nità'». Il Mazzini non è affatto nel vero, quindi, allorché afferma che ^il'eser-
Note, questioni storiche, ecc. 591
cizio dei diritti è necessariamente facoltativo » : tale non era in Rousseau,
del quale Mazzini stesso è l'eco fedele, quando scrìve : « lasciando che la
sua libertà sia violata l'uomo tradisce la propria natura». Su questo punto
il Levi avrebbe potuto accentuare maggiormente i suoi rilievi critici; che in
Rousseau (il quale è l'espressione più alta della scuola del diritto naturale)
il diritto non è solo pretesa, ma è norma; e non ne deriva solo, come ri-
tiene Mazzini, un calcolo che renda incapaci di affrontare il sacrificio e il mar-
tirio, per la convinzione che «primo fra tutti i diritti è il diritto alla vita».
«Vivre ce n'est pas respirer, c'est agir», dice Rousseau;. ed agire è seguire
«la force expansive de l'àme qui m'identifie avec mon semblable»; là dove
chi « vient à bout de n'aimer que lui-méme » è un'«àme cadavéreuse » cui
manca la vita della coscienza. Lungi dal condurre, come crede Mazzini, « al-
l'accettazione dei fatti compiuti», la dottrina dei diritti parte dal principio che
«la vérité morale ce n'est pas ce qui est, mais ce qui est bien-», e conduce
i singoli «à s'identifier avec le plus grand tout, à se sentir membres de la
patrie, à l'aimer de ce sentìment exquis que tout homme isole n'a que pour
soi-méme». (Cfr. il mio Rousseau nella formazione della coscienza moderna).
Certamente, nel pensiero di Mazzini il processo della fondazione dei di-
ritti era inverso a quello della scuola del diritto naturale. ^ IL ^rj«j per lui
non è l'Uomo' ma l'Umanità, non l'individuo ma il popolo; a lui non oc-
corre, come a Rousseau «l'acte par lequel un peuple est un peuple » ; che
al popolo, «arbitro, centro, legge viva del mondò», V autorità sv.ex\àt. diret-
tamente da Dio. Ma tuttavia il concetto mazziniano di sovranità (ben lo nota
il Levi) differisce profondamente da quello dei tepcratici, che per Mazzini
da Dio scende non il potere e il diritto, ma il dovere, il fine, la legge. La
sovranità del popolo è sovranità del fine, missione e non diritto, anche se
poi fonda il diritto del popolo, in quanto « costituisce la norma, sulla quale
è giudicata la legalità o l'illegalità dei Governi », e di ciò fa giudice il po-
polo, conscio del fine chf la tradizione e il progresso gli assegnano.
Questa democrazia religiosa presenta indubbiamente in sé, col porre «il
termine collettivo superiore a tutte le individualità y>, ì\ pericolo di deduzioni
limitatrici della libertà: lo slesso Mazzini, pur cosi convinto della santità del-
l'eresia, «pegno o tentativo di progresso futuro», non concepiva la piena
libertà d'insegnamento, e contro là formula di Cavour « libera chiesa in li-
bero stato », aspirava ad uno stato che incarnasse in sé il principiò religioso,
inalzandosi alla chiesa. Non la chiesa cattolica né altra delle esistenti, sì
bene quella dell'avvenire ; ma .anche in questo puntò Mazzini somiglia a
Comte (col quale concorda nella critica alla democrazia europea) e la iso-
miglianza in questo caso non é sempre a favore del principio di libertà.
Sinceramente, profondamente religioso (come scrisse di se stesso) con-
vinto che « l'Umanità non può vivere senza cielo », Mazzini nella questione
sociale doveva trovarsi — e si vide nell'Internazionale, cui da prima aveva
aderito — in netta opposizione con Marx ed Engels, che volevano (come al-
trove ho mostrato) approfondire l'umanismo di Feuerbach, troncando le ra-
dici sociali della autoalienazione che l'uomo compie nella religione. Da que-
sta opposizione fondamentale tutte le altre discendono': che dove per Marx
592 Notey questioni storiche » ecc.
ed Engels il fondamento sociale della religione è la scissione della umanità
in classi, onde la dialettica storica si svolge nella lotta delle classi, per Maz-
zini liei popolo^ profeta di Dio, deve regnare l'unità del fine e, quindi, la
solidarietà degli sforzi. Ecco quindi il contrasto, che l'Engels caratterizzava
in uno scritto del 1850 contro Mazzini ed altri, che chiamava i nostri evan-
gelisti: «essi negano l'esistenza delle lotte di classe». Ma l'Engels non era
giusto verso Mazzini, quando lo rimproverava di proibire alle singole classi
di formulare i loro interessi e le loro pretese rispetto alle altre, e di predi-
care l'attesa inerte del gran giorno, che doveva operare il miracolo. Maz-
zini sin dal 1839 affermava la necessità di una rivoluzione; e nel 1842 inci-
tava la classe operaia a unirsi nell'associazione e dare il suo programma,
annunziando di non combattere se non per quello; e già nel 1840: «Non vi
sono rimedi per chi non s'aiuta... I grandi cangiamenti hanno luogo sola-
mente quando sono apertamente desiderati. E voi non avete diritto alcuno
a miglioramenti finché state inerti ». E nel 1858 : « Il popolo fu deluso finora
e per ogni dove in Europa, perchè seguì l'impulso delle altre classi: agi-
sca... per impulso proprio e otterrà».
Certo, quest'azione della classe lavoratrice non dev'essere per Mazzini
nella direzione della lotta di classe, che Marx ed Engels affermavano invece
unica via alla mèta : egli vagheggia da un lato associazioni operaie aiutate
dal credito nazionale, che ben possono compararsi a quelle propugnate d^J
Lassalle; dall'altro lato spera sopra tutto nell'efficacia dell'educazione etico-
religiosa, nop intendendo (parafrasiamo qui il detto di Lassalle : gli indivi-
dui si lasciano ingannare, le classi mai) che gli individui possono abdicare ;
le classi, no.
Se, del resto, Engels era ingiusto con Mazzini, neppure Mazzini era giu-
sto con Marx ed Engels, quando imputava loro, oltre alla negazione di Dio,
anche quella della Nazione e d'ogni proprietà individuale. Quanto alla pro-
prietà, basta ricorfiare la formula del Capita/e, , che di fronte alla appropria-
zione capitalistica, negazione della vera proprietà personale, il socialismo vuol
essere la negazione della negazione. Ora la vera proprietà personale non è
per Marx ed Engels (credo di averlo dimostrato altrove analizzando il con-
cetto del plusvalore) diversa da quella che è per Mazzini : « il riparto dei frutti
del lavoro tra i lavoranti, in proporzione del lavoro compiuto e del valore di
quel lavoro». Mazzini, preoccupato dalla convinzione che non fossero possibili
idealità fuori della fede religiosa, non poteva scorgere l'idealismo che sog-
giace in fondo ^1 cosi detto materialismo storico (il materialismo degli inte-
ressi, com'egli malamente lo chiama), non poteva intendere quella inspirazione
etica, che anche il Levi, con giuste osservazioni rivendica al socialismo marxi-
stico. Anche riguardo al concetto di nazione, è certo che la causa nazionale
non poteva nel pensiero di Marx e di Engels avere quell'importanza premi-
nente che doveva avere in Mazzini, la cui patria era oppressa e divisa; ma
Come Mazzini (l'ho notato altrove) somigliava ad Engels nel tracciare i fon-
damenti economici dell'aspirazione patriottica, cosi Engels somigliava a Maz-
zini nel riconoscere la nazione come condì tio sine qua non dell'internaziona-
lismo. Ai passi, 4a me indicati altra volta, aggiungo ora cól Levi, per il
Isiote, quesiioni storiche, ecc. 593
valore singolare che assume nell'attuale momento storico, il significante brano
della prefazione alla traduzione italiana del Manifesto dei conmnisii : « senza
l'autonomia e l'unità restituite a ciascuna nazione, né l'unione internazionale
del proletariato, né la tranquilla e intelligente cooperazione di coteste nazioni
verso fini comuni potrebbero compiersi».
E siamo con questo alla parte più luminosa e feconda dell'apostolato
mazziniano.
Il concetto di nazione, nota giustamente il Levi, è uno dei meglio deter-
minati nella dottrina del Mazzini : é un concetto — secondo il carattere ge-
nerale del suo spirito — non deterministico, ma teleologico, in quanto, pur
tenendo conto dei fattori naturali (territorio, razza, lingua), sopra tutti que-
sti considera essenziale il fine, l'intento comune, la missione. In questo punto
a me pare possa conciliarsi l'opinione del Levi, che il concetto centrale in
Mazzini sia quello del dovere, con l'opinione del Vidari, che il concetto più
profondo sia quello del popolo : ciò che costituisce un popolo è la sua mis-
sione: «una nazione è una missione vivente». Perciò Mazzini scriveva che
« a fondare una nazionalità è necessaria la coscienza di questa nazionalità » :
una coscienza però che, ben lungi dall'essere esclusivista od egoistica, e dal
poter generare la boria delle nazioni, deve sentire che « la nazione deve es-
sere per l'umanità ciò che la famiglia è, o dovrebb' essere, per la Patria».
Il fine di una nazione non dev'essere in contrasto col fine di alcun'altra, per-
chè è soltanto « la part que Dieu fait à un peuple dans le travail hu mani-
taire ; l'oeuvre qui lui donne droit de cité dans l'Humanité: le baptème qui
lui confère un caractére et lui assigne son rang parmi les peuples ses frè-
res». Nel suo trascendentalismo religioso Mazzini afferma con energia la con-
cezione solidarìstica dell'umanità : la distinzione delle nazioni non può signi-
ficar contrasto di fini ma (come s'è già accennato) solo la differenza delle
attitudini e, quindi, del contributo che ciascuna può e deve recare al fine
comune dell'umanità.
Ora questa concezione solidaristica in Mazzini è strettamente connessa con
la visione dell'universalità della norma, intesa come criterio della condotta
morale, per le nazioni come per gli individui : nell'ammonimento dei Doveri
delVuomo a desistere da ogni azione, che pur recasse vantaggio immediato
alla famiglia o alla patria, quando la coscienza dice che « fatto da tutti e per
tutti nuocerebbe all'umanità », questo concetto dell'universalità della normia
si unisce e quasi si subordina alla visione degli effetti dell'azione, per Pinter-
vento del principio solidaristico. Ma se qui la norma etica si lega per tal via
all'idea di un interesse, sia pur generale e altissimo, altra volta la legittimità
di un fine solo in quanto sia concepito quale principio universale è netta-
mente afiermata : « adoro la mia patria perchè' adoro la Patria ; la nostra li-
bertà perchè io credo nella Libertà ; i nostri diritti perchè credo nel Diritto ».
E questa visione così alta e sicura della fondazione etica dei fini solo
nella universalità loro, doveva mettere Mazzini in posizione di netto contra-
sto contro tutte quella tendenze nazionalistiche (fossero di Francia o d*Alle-
38 — t^uova Rivista Storica.
594 Note^ quesHorii storiche^ ecc.
magna o d'altra gente qualsiasi) di cui già vedeva ed affermava il carattere
reazionario. E bene U Levi ha voluto mettere in rilievo l'antagonismo del
purissimo apostolato di nazionalità del Mazzini, animato da un soffio eletto
di inspirazione etica, con quelle correnti nazionalistiche e irnperialistiche, le
qualt discendono dall'amoralismo o immoralismo nietzschiano, affermando
uno spirito brutale di conquista i cui « limiti sono nella potenza e non già
nel diritto».
Con \?^ missione della terza Roma (la Roma del popolo) Mazzini attri-
buiva, è vero, all'Italia un prunaio morale y ma il Popolo messia non doveva
esser che Viniziatore della nuova epoca del genere umano ; e la formula di
questa epoca doveva essere « Associazione di tutti i popoli, di tutti gli uomini
liberi, in una missione di progresso che' abbracci l'Umanità ».
Tutte le vedute del Mazzini sulla sistemazione dell'Europa, ancor oggi
piene di tante suggestioni e di tanti ammonimenti, tutti i suoi giudizi sulla
politica contemporanea delle diverse nazioni, si inspirano a quel concetto, per
la convinzione che la morale dovesse essere elemento di vita internazionale
e dare la consecrazione alla politica, non potendo la pace e la concorde col-
laborazione fra i popoli «essere che conseguenza della libertà e della giu-
stizia >.
E col Levi io sono pienamente d'accordo nel giudicare che il meritò ca-
pitale della dottrina mazziniana sia nell'aver affern;iata l'importanza del fat-
tore etico nella vita degli individui e degli stati e nei rapporti fra le nazioni.
I fattori morali sono fattori positivi in quanto muovono le coscienze e deter-
minano l'azione : diventano quindi fattori storici in quanto possono suscitare
e dirigere l'azione delle masse, ossia in quanto le masse conquistino la con-
sapevolezza e la volontà della loro funzione di fattrici della storia.
E in questo l'insegnamento mazziniano viene, come a prima vista non
si direbbe, a confluire con quello di Marx ed Engels, i quali auspicavano
per l'umanità il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà,
facendo consistere in « questo atto liberatore del mondo la missione storica
del proletariato moderno », la quale sarà resa possibile dalla conquista della
consapevolezza. L'ultima parola, in entrambe queste pur così opposte dot-
trine, è l'umanità: ma nella visione realistica della storia, che Marx afferma,
essa significa il bisogno e il diritto che gli interessati rivendicano contro la
loro condizione di disumanità (Unmenschlichkeit) ; nell'austera concezione
morale di Mazzini invece essa significa il dovere ^ che va compiuto da tutti,
quelli compresi, per cui segni un sacrificio degli interessi. L'antitesi tuttavia
non è insuperabile per l'umanità. L'appello alle forze storiche, per le quali
l'esigenza morale costituisca un bisogno e un interesse, non annulla il valore
universalistico di quell'esigenza : d'altra parte anche Mazzini riconosceva che
«non vi sono rimedi per chi non s'aiuta... I grandi cangiamenti hanno luogo
solamente quando sono apertamente desiderati ».
Rodolfo Mondolfo.
Note, questioni storiche^ ecc.
Dopo la guerra: meditazioni storiche: considerazioni e raffronti.
La guerra europea ha senza dubbio capovolto e il pensiero e il metodo
di ricerca storica, specialmente per coloro che avevano contratto la mala abi-
tudine di considerare i tempi passati come età affatto diverse dalla nostra.
Tutti eravamo un po' troppo abituati a concepire le vicende trascorse come
un tutto a sé, nel quale non v'era posto per le nostre anime, dal quale, anzi,
ci sentivamo obbligati ad appartarci. Né altrimenti si spiegherebbe l'immenso
grido di sorpresa, che ci proruppe dal cuore il giorno in cui scoppiò la grande
conflagrazione : fu come un brusco risveglio da un sogno, in cui eravamo
immersi e ci cullavamo da parecchio tempo. E diremo altresì che la dolce
illusione era stata in parte sapientemente coltivata da chi aveva tutto l'in-
teresse di farlo.
Intanto dormivamo sonni beati, sfogliando, fra un riposo e l'altro, le
pagine della storia, con l'aria di chi legge un romanzo d'avventura dei tempi
di re Artù. — Le guerre? Sogni di altre età! Chi oserà appiccare l'incendio
all'Europa? — E l'incendio fu appiccato, ed a tutto il mondo. — L'imperia-
lismo? Morto e sepólto a Sant'Elena! — E l'imperialismo germanico si drizzò
tutto intero nell'agosto 1914, e, perchè potesse trionfare, milioni di uomini
avevano lavorato in silenzio da anni ed anni con tenacia e pazienza incredi-
bili. E nessuno se n'era accorto o, meglio, non s'era voluto accorgere.
Un solo, il Kaiser, aveva spesso interloquito, tradendo il gran segreto, e, atteg-
giandosi quasi a novello Messia, ci aveva fatto balenare dinanzi agli occhi
le spade affilate e le polveri asciutte, ma aveva incontrato la sorte dell'an-
tica Cassandra ; peggio, non era stato preso sul serio ! E si seguitavano a tri-
butare incensi ed inni alla Dea Pace, ed il 22 febbraio d'ogni anno,'neiran-
niversario della nascita di Giorgio Washington, tutte le scuole elevavano, per
immancabile invito, un inno alla fratellanza universale... Invece, da ultimo, an-
che la patria di Giorgio Washington entrò nella grande fornace, non certo
per farsi abbruciare . . .
Nell'agosto 1914 la confusione dei governi, della diplomazia, dei pacifisti
fu adunque immensa oltre ogni dire: ma più gigantesco fu l'imbarazzo delle
coscienze, che si trovarono brutalmente dinanzi alla tremenda realtà, ad una
realtà che si affermava e ripeteva ed insegnava come morta e sepolta da un
pezzo. Invece essa appariva più baldanzosa che mai, tanto che molti non se
ne persuasero, né vogliono tuttavia persuadersi, e s'ostinano a tenere gli òcchi
ben chiusi. Pur troppo, non bastano quattro anni di guerra, con le relative
perdite di sangue e di beni, per distoglierli dall'utopìa ! E per consolarsi di.
non essere del tutto dalla parte del torto, se la pigliano con quelli, che,
avendo brandito le armi per difendersi, ebbero, secondo loro, il grave torto
d'avere imitato il malo esempio dei Tedeschi...
Cessato lo sbalordimento dei primi mesi di guerra, allorché adunque si
cominciò un pochino a veder chiaro ed a ragionare, si comprese che ciò
che nel 1914 imperversava per l'Europa era sempre avvenuto da che mondo
596 NotCy questioni storichCy ecc.
è mondo. L'imperialismo teutonico una novità? E quello di Napoleone? E
Cesare ed Alessandro? E Attila e Tamerlano? Ma perchè mai l'età presente
doVeva costituire un'eccezione? L'uomo è sempre uomo, e le basi della società
civile {civile, ecco una parola che ci ha tratti in errore!) sono sempre le
stesse Ci voleva il misfatto di Serajevo per farci ricordare quanto ave-
vamo appreso nelle lezioni di scienze naturali : la lotta per l'esistenza, la so-
pravvivenza del più adatto? Che altro è infatti la vita, se non lotta per l'esi-
stenza? Cosa semplicissima, che tutti sanno, ed io ho (juasi ritegno a ripeterla,
tanto mi sembra luogo comune : così comune però, che l'avevamo dimenti-
cato, per ricordarlo soltanto nella scuola ed applicarlo agli animali od agli
uomini d'altre età....
Oggi, per confortarci e per attenuare la grossolanità del nostro errore,
ci siamo alfine acconciati ad ammettere, in quanto ?C\ fatti, ch'essi corrispon-
dono alla logica delle vicende umane, limitando perciò le nostre riserve
al modo in cui si sono svolti, modo che ha superato — s' è detto — e
sconvolto del. tutto la nostra mentalità. Ed anche qui abbiamo torto. Ba-
sta raffrontare il grande conflitto con avvenimenti passati dello stesso
carattere e d'uguale grandezza, per vedere che, anche in quanto al modo,
non c'è in sostanza gran che di mutato. La logica della storia non si smen-
tisce mai: essa è d'un rigore inesorabile. Taluno obbietterà: — Ma ai
giorni nostri i Tedeschi avrebbero dovuto,; via, comportarsi un po' meno
peggio ! — Convengo^ perchè infatti i soldati di Guglielmo II sono scesi allo
stesso livello dei Lanzi e delle orde di Alarico. Tuttavia, tolte le differenze
di luogo, di tèmpo, di nazionalità (sopratutto di nazionalità, e queste sono
spiccatissime fra latinità e germanesimo), gli avvenimenti d'altri tempi non
potevano ripetersi nel secolo presente in maniera diversa. Se non l'abbiamo
capito, peggio per noi! Vuol dire che abbiamo studiato la storia passata,
ignorando quella d'oggi, ^ che, prima del 1914, leggevamo i giornali, senza
stabilire alcun legame fra la cronaca del giorno e l'età di Napoleone, tra le
informazioni della politica quotidiana ed il periodo della Fronda. Peggio per
noi se abbiamo staccato il passato dal presente ! In luogo di mandare all'uno
ed all'altro sguardi distratti, dovevamo aprir bene gli occhi su ambedue.
Ora finalmente stiamo facendo giudizio e sembra ci siamo persuasi che
la guerra europea fu uno dei tanti avvenimenti, di cui è piena la storia, un
fenomeno, che tante volte s'è ripetuto e che poteva ripetersi, come avvenne
infatti, nel 1914. E ci pieghiamo altresì a riconoscere che ciò che han fatto,
o voluto fare, i Tedeschi non è molto diverso da quanto han fatto, o voluto
fare, in altre età i Persiani, i Greci, i Romani, i Francesi e gli stessi Tede-
schi. L'imperialismo non è una novità. Mai più! Intanto, e sempre per atte-
nuare la gravità del nostro scacco spirituale, accusiamo gli insegnanti ed i
libri scolastici L'accusa non è del tutto infondata: ma, in sostanza, accu-
siamo noi stessi, perchè in effetto veniamo a denunciare le nostre illusioni,
quelle che hanno tratto in errore scrittori e lettori, maestri e scolari. Diamo
dunque l'addio alle meraviglie e correggiamo gli errori del passato, metten-
doci sull'unica via buona, quella che e' insegna la storia. È difficile seguirla?
Se abbiamo presenti e chiari alla memòria gli avvenimenti d'oggi, sapremo
Note^ quistioni storiche^ ecc. 597
imiiiancabilmente interpretare quelli d'altre età, come riusciremo a spiegare
a perfezione le vicende presenti, ricorrendo agii esempi del passato. Così si
fa la storia, che, vtuiaiis muiandis, non varia gran che da secolo in secolo
Non capite perchè Bettman-Holhveg assassinò due volte il Belgio o per-
chè lo Stato Maggiore germanico, sgombrando la Francia del nord, ha posto
il deserto fra sé ed il nemico? Chiedetelo al Louvois, che consigliò il Re Sole
a terrorizzare l'Olanda e a devastare il Palatinato ! Non trovate solidi argo-
menti per sostenere davanti agli alunni il programma di Temistocle, che
consigliava i suoi concittadini a rafforzare il naviglio ? I testi di storia proba-
bilmente lo taceranno : ma vi risponde Lloyd George « Navi, navi, navi! » La
guerra attuale vi insegna adunque che, distrutta la flotta persiana, l'esercito di
Serse difficilmente avrebbe potuto mantenersi nell'Eliade, mancandogli la
maggior parte de' rifornimenti, che venivano per mare. E si ebbe Salamina,
ed avvenne ciò che Temistocle aveva intuito. Altro esempio. Parlando di
Luigi XIV, avrete magnificato le sue vittorie- contro la Lega d'Augusta,
cioè contro quasi tutta l'Europa ; ma avrete anche rilevato èhe il Gran Re,
nonostante l'incontrastata superiorità strategica, a un dato momento, si fece
innanzi per primo a chiedere la pace. Gli alunni saranno rimasti a bocca
aperta. INIaora, che gli Imperi centrali hanno imitato il Gran Re, la spiegazione
è chiarissima, e si dovrà anzi concluderne che nelle guerre lunghe chi più
sofifre è lo Stato che ha le grandi vie del rifornimento — quelle marittime —
minacciate e bloccate. Ancora un esempio. Si meravigliano taluni e prote-
stano perchè a parecchi, che pur sono Italiani, sia dispiaciuta la nostra guerra
e. peggiOi la nostra vittoria. Legittima e nobile la protesta ! Quanti però di
tali esempi ! Guardate la Francia rivoluzionaria : proprio allora che la pro-
paganda repubblicana dilagava e le teste coronate tremavano, mentre insomma
la supremazia francese iniziavasi trionfalmente sull'Europa, a Parigi tutto
era predisposto per rovesciare il Direttorio, e per rimettere sul trono il fra-
tello del decapitato Luigi, accogliendo l'indirizzo politico, tanto caro ai rea-
listi ed agli stranieri. E così sarebbe avvenuto, se tre su cinque Direttori non
avessero compiuto il Colpo di Stato del 18 fruttidoro, ossia del io settem-
bre 1797. Sono stranezze, anomalie, si chiamino pure perfìdie e peggio:
eppure sono cose che si vanno ripetendo di secolo in secolo con logica ta-
gliente, immutabile.
Ora poi, se vogliamo esercitarci in raffronti, e l'esercizio è sempre istrut-
tivo {hisioria ntagistra vitae, non è vero?), ci sono state la Rivoluzione russa
e quella tedesca. Molti, moltissimi, tutti vorrebbero sapere quale sarà l'epi-
logo dei due immani drammi. Adagio! La storia ricerca le cause dei fatti,
studia i fatti stessi, li analizza, li raffronta, induce e deduce, ma non pre-
dice... Essa non è astrologia! Non previsioni, dunque, ma constatazioni sì.
Ecco vele. La Duma riceve da Nicola II l'ordine di sciogliersi ed invece ri-
mane al suo posto, ed il Presidente lo fa sapere ai sovrano. Ricordate la
Costituente francese e le parole di Mirabeau al Gran Cerimoniere : « Dite al
re...»} La fine dello czarismo suscita ed avvampa mille fantasie. Si inneg-
. già finalmente alla tanto sospirata libertà « con quanto fiato può uscire tlalla
598 Note, questioni storiche, ecc.
gola; si proclama il principio dello sciopero anche fra i militari, si formano
Comitati di operai e soldati, si vuole che le elezioni degli ufficiali siano fatte
dai gregari e così via. »È il Saturnale dell'idealismo... Pure, così, s'era fatto
anche in Francia nell'Ottantanove, e l'Europa dei novatori aveva calorosamente
appfeudito, e come oggi s'era illusa — o aveva temuto — di veder cadere,
dopo quella del 14 luglio, tutte le altre Bastiglie. Ma i reazionari congiura-
vano e venne il Novantadue: alle frontiere s'addensarono i nemici esterni
con la complicità dei nemici interni, e la patria fu veramente in pericolo.
Si dovette accettare la guerra, che in nome della fratellanza umana repu-
gnava ai rivoluzionari. Dai miracoli del Novantatrè scaturì l'idea della guerra
di, liberazione, con la conseguente conquista, sia purea scopo di difesa. La
dura realtà s'imponeva sopra e contro i fumi dell'idealismo. E s'arriva al
trionfo dell'egemonìa francese sui popoli europei, con la compressione delle
altre genti, a dispetto dei principi stessi dell'Ottantanove. Io non penso cTie
in Rùssia si giungerà a tali eccessi, ma veggo che gli inizi della rivoluzione
russa non differiscono gran che da quelli della rivoluzione francese. Dirò che,
dopo r inevitabile sfogo delle anime sitibonde di libertà e la conseguente
confusione, la realtà comincerà a far aprire gli occhi, ad ammonire, a frenare
certi impulsi, a contenere desideri prematuri : obbligherà insomma i dirigenti
a tenere la testa a posto. Verranno anche di là nuovi miracoli come dalla
Convenzione nazionale francese? Speriamolo ed auguriamolo! Non farò pre-
visioni; ma nel pensare che il Lafayette e il Dumouriez cercarono scampo
fra i nemici, che rivoluzionarii illustri, quali Danton e Robespierre, lasciarono
la testa sotto la bipenne, sto per credere ch'una fine non dissimile si stia
forse preparando per Lenin e. compagni...
E quanto alla Germania : Voi vi stupite dell'infrangersi di così compatta
nazionalità in un mucchio di Soviet municipali? Abbiate pazienza! Ricor-
date il federalismo francese del 1789-93, che /solo il Terrore riuscì a supe-
rare e a fondere in un nuovo compatto metallo, e poi continuate ad essere
rauti, nelle vostre deduxioni.....
Uno dei primi uffici della storia è quello di prendere in esame un dato
avvenimento e di raffi-ontarlo con un altro di uguali carattere ed importanza,
onde fissarne l'analogia dei tratti più salienti, soprattutto circa l'origine e lo
svolgimento: dopo di che si potrà concludere che le risultanze saranno le
medesime. La conflagrazione europea, che nacque dal tentativo d'affermare
nel mondo l'egemonìa teutonica, quanti riscontri non trova nella storia!
Carlo V, Filippo II, il Re Sole, Napoleone I, che valevano, questi almeno,
assai più di Guglielmo II...
Proprio di questi giorni, sfogliando le pagine della Revue des Oeux
Mondes del 1853 e leggendovi un articolo di De Viel-Castel {Louis XIV et
Guillaume II), rimasi colpito da un quadro, che potrebbe figurare su qual-
che nostra rivista, così bene si adatta alla, situazione internazionale di ieri
e di oggi. Ecco velo:
« Louis XIV..., luttant depuis près de dix ans contre l'Europe. presque
eutière, qu'il avait éxasperée par son orgueilleuse prépotence, éprouvait pour
Note^ questioni storiche, ecc. 599
1» première fois une résistance énergique, dont il ne pouvait triompher; il
était force de reconnaìtre que les autres Puissances, si longtemps vaincues,
s'étaient aguerries par leurs défaites mèmes, qu'elles avaient appris de lui
l'art de mettre en mouvement ces masses énormes de soldats dont le nombre
finit toujours pour fixer la victoire . . . Dejà les ressources de la France s'épui-
saient, ce n'était plus qu'à grand'peine que les successeurs des Colbert et
des Louvois fournissaient à ceux des Condé, des Turenne, des Duquesne,
des ressources suffisantes eu hommes et en argent. Dejà aussi sur mer nous
avions perdu la superiorité ; sur terre nous remportions encore des victoires,
mais presque toujours c'étaient de ces victoires peu décisives, qui, pour un
grand État attaqué par des nombreux ennemis , soni souveni
le préludede viritables disastres . Voltaire a parfaitement caracté-
risé cette situation en représentant la France comme un corp piiissant et ro-
buste, fatigué d'un longue résistance, épiiisé par ses victoires, et qu'un coup
porte à propoa eid fait chanceler ».
Ebbene, al posto di Luigi XIV mettiamo Guglielmo II d'Hohenzollern,
con le altre sostituzioni di conseguenza, appropriamioci il giudizio del Vol-
taire ed applicamolo alla Germania, ed avremo un quadro veridico di questo
Stato, innanzi l'armistizio, per nulla dissimile da quello della Francia del
Seicento in lotta con la Lega d'Augusta, della Francia all'antivigilia della
Rivoluzione, che l' imperialismo del Gran Re tanto contribuì a preparare !
D'altra parte, l'attuale conflagrazione, da cui la vecchia monarchia
austriaca sperava trarre, col soccorso della Gerniania, l'impulso a novella
vita, quante rovine ha disseminate intorno al vecchio tronco degli Asburgo,
organismo terribilmente artificiale, ultimo e triste retaggio del già e per sem-
pre svanito Sacro Romano Impero!
Il grande Mazzini vaticinò arditamente che il trionfo dei principi nazio-
nali avrebbe disfatto contemporaneamente la Turchia e l'Austria. È del resto
la fatalità storica, quella fatalità che abbattè lo Stato carolingio e l'impero
di Napoleone, che travolse i disegni di Serse e le ambizioni di Carlo di
Svezia, che arrestò le orde di Attila e la marcia di Solimano. Strano tuttavia,
in apparenza, che la débàcle, in cui è precipitata la monarchia degli Asburgo,
sia stata in fondo opera della sua grande alleata, la potente Germania...
Pure, se ben si guardi, la presente guerra, era in .germe nell'atto solenne
del 18 gennaio 1871, allorché a Versailles, nella Sala degli Specchi, donde
il Re Sole e la grazia latina avevano signoreggiato TEuropa, i sovrani
d'oltre Reno conferivano a Guglielmo I di Prussia quella corona imperiale,
che Federico Guglielmo IV aveva rifiutato nel 1849, allorché gli era stata
offerta dal suo popolo per mezzo de' suoi rappresentanti. Quell'afferma-
zione del diritto divino nella terra stessa, che aveva bandito i sacri princip]
dell 'Ottantanove, e proprio allorquando nelle reggie d'Europa facevasi posto
alla sovranità popolare; quella consacrazione, dico, dell'Impero tedesco,
celebrata nel territorio dei vinti, anzi nel cuore della nazione, che da secoli
era la più fiera nql contrastare al germanesimo l'egemonìa continentale, non
poteva restare un semplice epilogo, privo di conseguenze per l'Europa. Un
6oo Noie, questioni storiche, ecc.
genio sottile avrebbe potuto trarre sinistri auspicii sin d'allora. Il nostra
Gioberti, superando lo stesso Mazzini, aveva profetato, durante i tumulti della
sua età, che in un prossimo avvenire Latini ed Anglo-sassoni avrebbero
cozzato, e fortemente, in nome della libertà e del diritto, contro il germa-
nesimo reazionario ed imperialista. E venne l'agosto 1914, ed il patto di
Versailles di quarantatre anni innanzi apparve quale era nel suo intimo signi-
ficato: l'impegno di foggiare il continente ed il mondo ad imagine del-
l'Impero tedesco, come l'Impero tedesco s'era foggiato ad imagine della
Prussia. Quod Dii avertere statuire... !
Gellio Cassi.
Le democrazie medievali italiane.^
La storia politica, scrive l'egregio autore del presente volume, Julien Lu-
CHAiRE consiste propriamente nella storia delle relazioni fra un popolo ed
il suo governo, delle relazioni fra le diverse frazioni di un popolo, per quanto
ha rapporto al loro governo comune, delle leggi che sono l'espressione di
queste diverse relazioni, delle agitazioni che hanno modificato o distrutto
queste leggi, questi raggruppamenti, questi 'governi.
In tale senso i! L. si è proposto di tentare una sintesi, che egli (con ecces-
siva modestia) considera con/e provvisoria ed anzi come « una serie di indi-
cazioni e di riflessioni sui fatti ch'egli giudica principali », della storia politica
dei Comuni italiani dalla loro prima costituzione nel XII secolo fino alla
caduta dell'ultimo grande Comune nel 1530. E a questo concetto della storia
politica egli si informa in tutta la trattazione del suo tema interessantissimo,
mettendo sempre in prima linea i rapporti fra popolo e governo, le lotte dei
partiti e delle classi sociali, la partecipazione di queste all'amministrazione
pubblica, il processo di democratizzazione della costituzione, determinato non
tanto dal fatto che fosse più o meno numerosa la partecipazione diretta al
governo, quanto dalla possibilità che aveva l'opinione pubblica di esprimersi
in forma sempre più aperta ed efficace.
A questa esposizione, in cui il L. alterna molto felicemente l' illustra-
zione dei fatti, istituzionali e collettivi, col racconto dei fatti, episodici e per-
sonali, che tuttavia meglio giovino a darne una spiegazione e della quale
non è possìbile fare in una breve nota un'analisi soddisfacente, si potrebbero
tuttavia muovere alcune osservazioni d'indole specialmente metodica.
Si potrebbe osservare, se non sembrasse una verità lapalissiana, che
la storia politica, anche di un Comune cittadino, non si esaurisce nella sua
storia interna, su cui esercitano sempre una ripercussione fortissima i rap-
porti col mondo esterno, per quanto ristretto esso sia.
Più fondata di questa obbiezione, a cui l'A. potrebbe giustamente rispon-
dere ch'egli non aveva inteso dar fondo alla storia politica dei Comuni, ma
* Jf. LucRAiRB, Les Démocratiei Itmliermés, Paris, Flammàrion, 1915. pp. 35^
Noie, questioni storiche , ecc. 60 r
studiare in essa lo sviluppo dell'idea democratica, sarebbe l'altra di aver
limitato il proprio campo di osservazione alla Toscana, e più particolarmente
a Firenze. Effettivamente nessuno dei Comuni italiani è passato più comple-
tamente di quello di Firenze per tutti gli stadii del processo di democra-
tizzazione e ne ha conservato una più ampia documentazione ; ma è anche
innegabile che le forme di sviluppo si son mostrate cosi varie e ricche nelle
varie regioni d* Italia, ed hanno, pur nella loro Varietà, tanti punti comuni di
riferimento, che una più ampia comparazione avrebbe giovato sensibilmente
a illustrare alcune fasi dello sviluppo comunale, su cui le vicende fiorentine
non offrivano luce sufficiente.
Nella trattazione, infatti, del L., che in generale è tanto organica ed armo-
nica, si devono rilevare alcune disuguaglianze. Per taluni periodi, come quello
che va dalla creazione dei Priori alla morte di Arrigo VII, e per quello del
Savonarola e dell'ultima repubblica fiorentina, data la ricchezza delle fonti
cronistiche e le ottime pubblicazioni storiche moderne condotte su ricchis-
sime collezioni documentarie, l'esposizione critica del L. è felicissima ed
esauriente. Per altri periodi invece, come quello del primo Comune aristocra-
tico e della trasformazione interna, che prepara l'avvento delle Signorie, il
libro risente dell'insufficienza delle fonti fiorentine, mentre dalle vicende dei
Comuni d'altre regioni e della stessa Toscana avrebbe, potuto ritrarre ben
maggiori elementi.
Altra questione di metodo, in cui non mi sentirei di accordo col L., è
quella della posizione affatto secondaria, che nella storia politica dei Comuni
Italiani egli assegna al fattore economico. « Le opposizioni fra ricchi e poveri,
egli scrive, fra capitale e lavoro, fra industriali ed agrari etc, sono alla base
dei partiti politici ; le crisi politiche sono spesso provocate da crisi economiche.
Tuttavia le stesse cause, sono state seguite in altri paesi nello stesso momento
da conseguenze politiche diverse». E tali differenze sarebbero determinate dai
fattori morali, dall' intelligenza, dalla sensibilità, dalla volontà umana.
Ora possiamo tutti riconoscere di aver troppo concesso, una ventina
d'anni fa, all' interpretazione materialistica della storia e di aver esagerato nel
negare importanza al fattore morale, collettivo o individuale. Ma, se v'è un
periodo storico, in cui il fatto economico stia sempre in prima linea e deter-
mini la condotta e le vicende politiche dello Stato," è questo sopra ogni altro
il periodo dei Comuni italiani. La storia comunale è sempre e dovunque una
storia di classi, in cui pochissime personalità emèrgono dall'oscurità collet-
tiva, e solo per brevissimo tempo. E la mentalità, gli ideali, la condotta poli-
tica delle classi sono sempre determinate in maniera evidente dalla loro costi-
tuzione economica, dalla loro comunione di interessi. Che il sorgere della
borghesia industriale e mercantile e con essa delle autonomie municipali sia
un fatto comune a molti paesi dell'Europa meridionale e centrale, e che cio-
nonostante lo sviluppo politico dei comuni italiani sia stato profondamente
diverso da quello delle città francesi, è un fatto incontestabile. Ma bisogne-
rebbe anche vedere se la differenza non dipenda alla sua volta da una pro-
fonda diversità del grado e delle forme di sviluppo, che la borghesia rag
giunse allora nell'uno e nell'altro paese.
6o2 Note, questioni storiche, ecc.
Neir Italia stessa i piccoli Comuni del centro e più ancora quelli del nord,
rimasti fermi al grado di sviluppo della stretta economia cittadina, dell'arti*
gianato e del piccolo commercio, che provvede ai bisogni della campagna
circostante, son presto caduti nell'orbita delle grandi città industriali e mer-
cantili e si son trovati, di fronte ad esse, press'a poco, nelle condizioni dei
Comuni francesi di fronte alla monarchia. Al contrario, nella Francia stessa,
le grandi città del Mezzogiorno, per il carattere particolare della loro eco-
nomia, hanno per un certo tempo raggiunto uno sviluppo politico che le rav-
vicina ai Comuni italiani piuttostochè a quelli del resto della Francia.
Il fatto che alcune città italiane si siano costituite in Stati indipendenti,
il L. l'attribuisce invece all'assenza di un potere esteriore preponderante, della
quale assenza esse avrebbero poi approfittato per fondare il principio della
sovranità collettiva, per compiere cioè l'atto essenziale che le fece diverse
da quasi tutto il resto del mondo in quell'epoca. Ma sarebbe stato, a mio
avviso, da discutere se il grado di sviluppo economico, raggiunto nel Due-
cento e Trecento dalla grassa borghesia mercantile e industriale, non abbia
contribuito all' indipendenza delle città maggiori quanto e più della mancanza
di un potere centrale, che pure in Italia tentò ripetutamente di costituirsi e
dovette cedere, non tanto per l'opposizione papale, quanto per la resistenza
insuperabile dei grandi Comuni.
Così pure lo sviluppo della democrazia, ossia l'influenza direttamente
esercitata a un'opinione pubblica sempre più larga sulle cose dello Stato, è
in istretta relazione coi progressi della classe mercantile e dell* industria, che
assume forme nuove molto prossime a quelle del capitalismo moderno, per
cui la borghesia di alcune soltanto fra le maggiori città italiane anticipa di
parecchi secoli quelle che saranno le condizioni politiche e sociali di tanta
parte d'Europa alla vigilia della Rivoluzione francese. Giano della Bella e
Michele di Landò, due fra le pochissime figure politiche che emergano dalla
folla oscura delle lotte fiorentine, servono a dare un nome ed a gettare una
certa luce sui fatti in cui hanno avuto una parte rappresentativa. Ma a spie-
gare quei due fenomeni la conoscenza della loro figura e della loro attività
vale infinitamente meno della conoscenza dei fatti dello sviluppo economico,
che han portato la piccola borghesia, sulla fine del Duecento, il proletariato
industriale o il piccolissimo artigianato, nella seconda metà del Trecento, a
mettersi per breve tempo in prima linea nella vita politica fiorentina.
Ma queste divergenze di metodo e di vedute non possono distogliere
dal riconoscere il merito, grande e indiscutibile, del libro del Luchaire, al
quale la storia, già tanto ricca dei Comuni italiani, va debitrice di un tentativo
del tutto nuovo e originai^.
Finora infatti, salvo qualche studio magistrale sopra un breve periodo
della storia di un ^olo Comune, in cui il fenomeno politico-sociale era stato
illustrato in tutte le sue manifestazioni e in tutti i suoi rappòrti, nelle opere
d' insieme si era invece trattato separatamente o dello sviluppo politico, o
dello sviluppo economico sociale, o delle istituzioni pubbliche dal loro lato
prevalentemente formale.
Il L. per il primo ha avuto il merito di riunire in un breve, ma denso
Note^ questioni storiche, ecc. 603
e suggestivo volume, tutto quanto può gettar luce sullo sviluppo interno
della vita politica comunale; e in questo tentativo, indovinato e felice, la
participazione attiva alla vita pubblica e alle correnti di pensiero moderno
ha permesso al L. di gettare nuova luce sulla vita e sulle istituzioni del
Medioevo : e sotto l' influenza benefica delle discussioni più recenti sull'es-
senza dei partiti e della democrazia, egli non si è arrestato mai alla forma
esterna, ma ha voluto sempre vedere che cosa sotto quella forma vi sia di
sostanziale. Per lui gli Statuti e le riforme costituzionali, il diritto di voto,
l'eleggibilità ed i metodi di elezione han valore solo in quanto la narrazione del
cronisti, gli atti dei Consigli od altri documenti più vivi e significativi possano
venire a dimostrare a chi ed in qual misura quegli statuti o quelle riforme do-
vevano giovare, ed a chi esse hanno effettivamente giovato, quali, classi o
quali gruppi avevano in mano, nelle varie epoche, le redini della cosa pubblica.
Tipica a questo proposito, per citarne una sola, ci sembra l'osservazione
che il L. fa a proposito delle leggi fiorentine, che escludevano i nobili dal
Priorato e dalle altre cariche comunali. Mentre generalmente si considerano
quegli ordinamenti come vere e proprie lèggi di eccezione, destinate ad assi-
curare il completo trionfo del popolo e la definitiva caduta di ogni potere
dei nobili, considerati legalmente e politicamente inferiori al più modesto
popolano, il L. invece dimostra in modo felicissimo che quelle leggi miravano
ad assicurare l'equilibrio fra le due classi, che, se il popolo si garantiva con
esse l'esclusivo godimento ^^W^ proprie magistrature, ai nobili restavano sem-
pre delle armi poderose nei loro palazzi turriti, nelle loro proprietà, nei loro
numerosi dipendenti, nelle loro associazioni di classe e sopratutto nella parte
preponderante che essi conservavano ancora nell'esercito comunale.
Per questa genialità di concezione, per questo sforzo di vedere sempre
il lato intimo e sostanziale delle questioni politiche, per la facilità elegante,
con cui esso è scritto, l'ottimo libro del Luchaire non solo sarà letto, con pia-
cere e con grandissima utilità, da quanti si interessano alla storia dei nostri
Comuni, e da chi si appassiona a vedere un po' addentro nello sviluppo, tante
volte illusorio, delle istitituzioni democratiche, passate e presenti, ma sarà
un sussidia, prezioso e indispensabile, per chiunque si proponga di interpre-
tare i fatti e le istituzioni della vita pubblica medievale.
Gino Luzzatto.
Nota archeologica: Un ntrovo studio su la campagoa romana/
È questo upo scritto intorno alla topografia della Campagna romana, che
il dott. G. Lugli ha presa a studiare in modo particolare, coordinando, illu-
strando e in parte scoprendo avanzi di monumenti sparsi qua e là, di cui alcuni
si vedono sorgere a fior di terra, altri vi giacciono ancora sepolti e nascosti.
Il campo di tale studio non è certe del tutto inesplorato: già da gran
» G. Lugli., Castra Albana: Un accampamento romano fortificato al XV. migUo della
via Appia (^aXV Ausonia a. IX), pp. 312-65, Roma, 1917.
6o4 Note, questioni storiche y ecc.
tempo archeologi e topografi, italiani e stranieri, ne avean fatto obietto di
speciali ricerche. L'autore però tenta qualcosa di più : l'esame accurato di
tutto ciò che meglio giova a determinare la natura di questo o quel rudero,
la definizione della tecnica e del tempo cui appartiene ogni singolo monu-
mento. Inoltre, esercitando una critica acuta e temperata delle opinioni da
altri sostenute, spesso egli perviene a nuovi e felici risultati.
Il titolo della memorie Castra Albana, corrisponde a due fatti : quello di
un accampamento romano e l'altro di un insieme di avanzi di costruzione, che
si estendono per gran parte nella odierna città d'Albano. Ma qual corpo
militare vi ebbe sede e quando l'accampamento stesso fu impiantato ? Ecco
due problemi che sinora ebbero varie soluzioni, di cui la più comune è
quella secondo cui esso rimonterebbe a Domiziano, il quale vi avrebbe stan-
ziato dei pretoriani a custodia della villa da lui edificata sui Colli Albani.
Ma l'autore giustamente osserva che questa opinione non regge, sia per
le grandi dimensioni dei Castra, non rispondenti al bisogno di una o due
coorti di quelle milizie, sia per la valida fortificazione, ch'essi presentano,
quale si richiedeva piuttosto per una legione, come pure per la mancanza sul
luogo di ogni indizio relativo ai pretoriani, mentre se ne hanno abbondanti
per altre truppe. Oltre a ciò si osservi che la pianta generale e la costru-
zione del muro di cinta in opera quadrata accennano piuttosto a un'epoca
posteriore a quella di Do miziano.
I soli avanzi, che potevano far determinare più o meno precisamente la
data, erano quelli dell' interno, fin ora poco studiati e anzi in parte del tutto sco-
nosciuti, cioè un grande edifizio rotondo presso la porta <Lprincipalis sitiistra »
(oggi chiesa di S. Maria della Rotonda), alcune camere termali, ivi presso,
varie caserme e sostruzioni di altre verso l'alto della collina, una torretta
rotonda nell'angolo del muro di cinta, e due conserve d'acqua, di cui una è la
più bella di quante esistano nella Campagna romana, capace di contenerne oltre
IO ooo metri cubi. Benché conosciuta fin dal Settecento, l'autore è il primo
a fornire un'esatta pianta di questa piscina, che è di forma trapezoidale e
non rettangolare, il primo a riconoscere un secondo cunicolo di immissione, il
quale cade dall'alto della navata centrale ed ha un'origine del tutto indipen-
dente. Egli è riuscito a stabilire che tutti i monumenti esistenti nell'interno
dei « Castra », eccetto l'edificio rotondo, appartengono ad un'epoca bene
definita, cioè al periodo che va tra i primi e i secondi Antonini e s'acco-
stano più specialmente a questi ultimi. Solo l'edificio rotondo risale al
tempo di Domiziano, come appare dalla muratura che è identica a tutti gli
altri edifici della sua villa, i quali sorgont» a N O. dei Castra fra Albano e
Castel Gandolfo (Villa Barberini). Or bene, questo è stato sempre creduto il
tempio di Minerva, per la quale Domiziano aveva uno speciale culto. Senon-
chè, dopo un'esame molto accurato di tutte le sue parti e dopo ratìVonti
con altri simili edifìci, il Lugli è venuto alla conclusione non dubbia che il
monumento non sia altro se non un magnifico Ninfeo, forse appartenente, in
origine, a terme, costruite da Domiziano in questo luogo, prima che vi
sorgesse l'accampitmento militare, quando cioè tutto il colle Albano era un
ampio giardino annesso alla villa.
Note^ questioni storiche, ecc. 605
Ottenuto questo primo risultato positivo, l'autore procede ad altre ricerche.
E, poiché i Castra sono posteriori al Ninfeo, si comprende perchè essi si, tro-
vino in una posizione cosi insolita e perchè tutta la sistemazione del muro
di cinta sia stata dettata da questo monumento e da altri contemporanei, che
certamente gli sorgevano accanto. Infatti, già gli avanzi posti néll' interno ci
conducono tra il II. e il III. secolo d. C. Ed è propriamente in questo tempo
che la storia, come da notizie intorno all'agro albano, ci ricorda un fatto
importantissimo pel quale fu sconvolta la topografia dell'agro medesimo. Egli
è che ivi Settimio Severo trasportò la II* legione Partica, la quale vi rimase per
circa tutto un secolo. Fatto importante, anche sotto un altro punto di vista,
quello cioè che, anche in, si tarda età, l'antico privilegio di Roma di non aver
presidio (tale non essendo né le coorti pretoriane, né le urbane, né quelle dei
vigili) era, almeno formalmente, rispettato. È chiaro quindi che l'accampa-
mento militare sorse proprio in quel tempo, e ciò è provato anche dalle
condizioni topografiche.
La memoria del L., ricca di oltre 35 tra illustrazioni e piatite, termina
con un paragrafo di Notizie Storiche intomo a quella legione e alla sua per-
manenza in Albano, fino a qualche tempo prima di Costantino, quando cioè
essa abbandonò l'accampamento, per recarsi altrove, forse, in Mesopotamia.
Esso fu allora invaso dalla popolazione del territorio circostante, la quale sì
stabilì nell'antico recinto, costituendo il primo nucleo della civitas albanensis,
a cui Costantino fece dono di una basilica dedicata a S. Giovanni Battista 6 di
larga parte della vicina villa imperiale. Parecchie lapidi ricordano militi della
legione.
(E. DE R.)
Una nuova traduzione dei dialoghi Platonici/
Questo volume appartiene alla raccolta dei Filosofi Antichi e Medieì^ali a
cura di G. Gentile in cui già sono apparsi il Clitofonte e La Repubblica di
Platone, tradotti dallo Zuretti, e là Poetica di Aristotele tradotta e commen-
tata dal Valgimigli, di cui discorriamo più innanzi. L'idea della collezione,
parallela a quella del Pensiero greco del Bocca, è meritato onore del Gentile,
di cui tante sono le benemerenze verso gli studi filosofici italiani, e del La-
terza, ardito ed animoso editore. Con quanta serietà si sia iniziata fra noi
provano questi primi volumi, di cui due già ebbero la dovuta lode. Che Ì
nostri cultori di letterature classiche si tengano in diretto contatto col pensiero
antico, non sarà senza grande utilità della filologia, che deve addestrarsi e
preparare a sé materia nella ricerca formale, senza cui ogni sintesi branfco-
* Platonb, Dialoghi: Voi. IV. Eutidemo, Protagora, Gorgia^ Merione, Ippia maggiore,
Ippia minore, Ione, Menesseno, tradotti da Francesco Zambaldi, Bari, Gius. Laterm.e Figli.
19x7 : in 8», pp. 3Ì3.
6o6 Note, questioni storiche, ecc.
lerebbe nel vuoto e si imputerebbe di errori, ma sempre per mirare più alto,
ad intendere ed interpretare lo spirito di un popolo nelle espressioni sue più
solenni. E quanta parte tenga la fìlosofìa nello spirito del popolo ellenico, non
è bisogno di mostrare. Maggior vantaggio ne avrà poi la cultura nostra, che
dall'operosità degli studiosi delle letterature classiche dovrebbe poter molto
ritrarre. Porgere dunque a tutti buone traduzioni di classici, e particolarmente
di quelli che per il vigore del pensiero meno perdono ad esser tradotti, è il
primo dovere che si debba da noi assolvere : a questo ideale il volume dello
Zambaldi, opera di una nobile tempra, ancor verde e vigorosa non ostante
gli anni, corrisponde assai bene.
Di traduzioni di Platone ve ne possono esser naturalmente di più specie.
V'è chi come l'Acri s'è proposto, con travaglio, nobilissimo ed assiduo, di
rendere l'inimitabile bellezza stilistica del inaggior prosatore greco, ed ha
lasciato alcuni bellissimi modelli di questo ideale di traduzione. Altri invece
come il Fraccaroli, pur rendendo alcuni dei più ardui dialoghi platonici in una
prosa lucidissima e vigorosa e schiettamente italiana; compientandoli, resti-
tuendone il testo con la sicura dottrina e con l'acume che gli era proprio,
$i prefisse massimamente di riprodurne tutti gli atteggiamenti del pensiero
con quella precisione che solo ottiene chi abbia profonda conoscenza della
lingua e dell'esegesi critica e filosofica. La sua traduzione completa così egre-
giamente il commento, come si doveva in quei dialoghi, il Timeo, il Sofista
e VUomo politico, che sono, particolarmente i due ultimi, di lettura faticosis-
sima meli 'originale. Or bene questa traduzione dello Zambaldi è assai simile;
per propositi, a quella del Fraccaroli, benché nella distribuzione dei dialoghi
da tradurre, fatta dal direttore della raccolta, all' A. siano toccati dialoghi
meno ardui ed in cui l'opera del commentatore è assai meno richiesta.
L'autore stesso, dichiarando il fine propostosi, scrive : « In quanto ai pregi
dello stile, il traduttore si guardò bene dall'ehtrare in questa gara col grande
artista, ben. sapendo che si sarebbe esposto a quella sorte d'Icaro, che
Orazio minaccia agli emuli di Pindaro. Egli si terrà pago se alla fine di
ogni diàlogo il lettore dirà : ho capito ». Semplici e schiette parole a cui
corrisponde l'opera perfettamente.
La traduzione èorre agevole, spontanea, senza arcaismi e senze vezzi,
con una nobile chiarezza e limpidità, che non s'ottiene del resto senza sicura
maestrìa della lingua e senza nitida intelligenza del testo. Chi legge non s'ac-
corge generalmente d'avere dinanzi una traduzione, perchè non trova impaccio
o stento alcuno nella frase, che si svolge naturalmente, senza ambagi. Chi voglia
seguire il ragionare di Platone in questi dialoghi difficilmente potrebbe tro-
vare lettura così facile e corrente, ed è appunto quello che il traduttore si
propose. Ogni frase è riportata nella forma della conversazione, senza sciat-
terìa e senza ricercatezza, e sono evitate tutte quelle sfumature di particelle,
che riescono così appropriate nel testo greco, ogni qual volta il renderle in
italiano appesantirebbe la frase. L'espressione sicura sia breve, chiara nervosa
ed efficace. Naturalmente però, in particolar modo nei tratti in cui lo stile di
Platone si piega con arte somma a rappresentare, coA la sua mutabilità
mirabile, i caratteri dei personaggi che discorrono, la traduzione perde di quella^
I
Note, questioni storiche, ecc. 607
forza intima di persuasione che viene dall'arte stessa dello scrittore ; ma le
argomentazioni riescono perspicue sempre e la struttura logica del dialogo è
resa benissimo, ciò che è appunto l'essenziale, e non è piccola né facile cosa.
Chi poi confronti questa traduzione con quella del Bonghi, che ha certo
pregi non lievi, vedrà come di solito essa riesca più naturale, per avere l'A.
evitata ogni affettazione ed ogni ribobolo. Il testo scelto è tratto dalle migliori
edizioni, senza che si dichiari di volta in volta la lezione seguita ; e per questi
dialoghi, in cui, di solito, la critica del testo non presenta difficoltà notevoli,
e l'interpretazione non è, generalmente, dubbia, né sono esposte dottrine
intricate, la traduzione può fare a meno di note sul testo. Non vorrei però
che il medesimo metodo si seguisse in quei volumi in cui si diano tradotti
dialoghi ove le questioni sul testo sono frequentissime ed essenziali. È giusto
infatti che la traduzione di un testo tecnico debba essere corredata di tutte
quelle precauzioni e di quegli ammonimenti che mettano in guardia il lettore
e lo avvertano se egli ha dinanzi il senso ovvio voluto dall'autore o se gli
si offre invece un interpretazione soggettiva del traduttore ; altrimenti si per-
petuano confusioni ed errori. L'A. poi non premette alcuna introduzione ai
singoli dialoghi. Ma se le lunghissime introduzioni ed i. discorsi proemiali
del Bonghi, pur avendo loro interesse particolare, qualche volta dovevano
evitarsi in questa Collezione^ che mira a sobrietà- e brevità di informazione,
mi pare che qualche breve avvertenza ai singoli dialoghi sarebbe neces-
saria, tanto più che manca in Italia uno studio compiuto sulle opere di Pla-
tone, onde possa parere superfluo dare notizie indispensabili al retto intendi-
mento dei dialoghi tradotti. Ad ogni modo ciò che l'A. ci ha voluto dare è
molto e degno di sincera e insigne lode.
Ettore Bignone*
è ^
La Poetica di Aristotele.
Anche questo volume fa parte della collezione « Filosofi Antichi e Me-
dievali » curata, con ottimo pensiero, dal Gentile, ed intesa a colmare una
lacuna degli studi filologici in Italia. È singolare infatti come negli ultimi
decenni l'operosità degli studiosi italiani, nel campo della filologia classica,
si sia poco curata di quel compito, essenziale per la larga conoscenza del pen-
siero e dell'arte antica, che può essere solo assolto da abbondanti, esatte e
buone traduzioni degli scrittori classici. Certo non è la cosa più agevole ac-
cingersi all'opera di rendere in buona forma italiana un testo studiato filologi-
camente, interpretandolo e commentandolo nei passi oscuri; opera questa
che richiede, non solo profonda conoscenza delle lingue classiche, ma anche,
cosa più rara in un filologo, sicura padronanza della lingua nostra. Ma
» Aristotele, Poetica, traduzione note ed interpretazione di M. Valgimicu, Bari, Gius. La-
terza e Figlia 1916, pp. UI-183.
6o8 Note, questioni storiche^ ecc.
solo quando gli studi filologici saranno accoppiati, presso di noi, alla buona
traduzione umanistica ed a vigorose qualità sintetiche d'ingegno, potremo
dire di esser giunti sulla buona via per far progredire veramente gli studi
classici. Si deve dunque accogliere con sincera lode il volume del Valgimigli,
che a questi concetti è informato. Esso consiste di una lucida introduzione
(pp. vii-l), della Traduzione e commento della Poetica (pp. 3-137), di una Ap-
pendice critica ed indice delle lezioni (pp. 139-154), ove è reso conto del testo
seguito dal traduttore, e di un copioso Indice dei nomi propri (pp. 155-180),
in cui SOrio raccolte le notizie più importanti su scrittori ed opere ricor-
dati nel testo tradotto. Intorno alla Poetica di Aristotele copiosissime son
fiorite le ricerche sino dalla Rinascenza, e particolarmente negli ultimi tempi,
e fra esse specialmente insigni quelle più recenti del Butcher, del Bywater
e del Margoliouth, i quali studiarono, tradussero, commentarono ampiamente
ed egregiamente l'operetta di Aristotele. Di questi lavori l'A. ha conoscenza,
senza però asservirvisi, onde dimostra personalità di criterii, acume critico,
diretto studio dell'opera atistotelica. E degna di particolare lode è Vlntro-
duzione, ove della dottrina aristotelica dell'arte si discorre con molta signorile
finezza e con calore, esponendo lucidamente e con buon discernimento le que-
stioni d'estetica proposte per il primo dello Stagirita con mirabile acume e
tuttora raggianti di perenne verità. Qualche obiezione potrebbesi muovere
qua e là, ed una sola ne accennerò ora. Secondo l'A., p. yiii sgg,, nessun
influsso avrebbe avuto la Poetica di Aristotele presso i greci ed i latini, per
le dottrine estetiche, L'A. rimanda la diifiostrazione di questo punto ad
altr'opera, ma a me sembra impossibile si possa dimostrare che idee esposte
da Aristotele in questo libro — il quale è essenzialmente uh compendio di
lezioni da lui tenute — non siansi divulgate nella scuola peripatetica e, per
mezzo di esso, anche altrove. Ad esempio tracce di questo influsso credo
si trovino negli scolii ai tragici o ad altre opere antiche, come p. es. in quelli
ad Dionys. Trac.^ ove ricorre (p. 168, 8 166, 13 Hilgard) un giudizio su Empe-
docle affatto simile a quello dato da Aristotele nella Poetica. E del resto,
data la scarsità dei nostri documenti sull'estetica greca, e sopratutto sulle
opere dei peripatetici greci e romani, mi pare che tale dimostrazione non
potrebbe ad ogni modo posare sopra stabili basi.
Quanto ^1 testo dell'opera di Aristotele da lui tradotta, l'A. prende per
base quello del Christ, perchè il più diffuso, non già perchè il migliore, ed
indica i luoghi da cui se ne scosta, che sono molti ; di fatto testi, assai migliori
di quello del Christ, sono quelli costituiti dal Butcher, dal Byivater e dal Mar-
goliouth, ed un esame attento dimostra come il Valgimigli abbia seguito assai
più da presso queste edizioni, ed ha fatto bene. Non mancano proposte di
lezioni dell' A. stesso, degne di considerazione.^ Il commento è assai ampio, e
potrebbe anche parere ad alcuno troppo ampio, dato che ottimi e recentissimi
commenti della- Poetica non mancano : ma è anche mio parere che una tradu-
* AU'A. sAiggi che nella congettuta oAlAv ovelYYOov l'ivox^iv 6|mi5óv ts (p. 146! a 20) era
%xk stato preceduto dal ^vwater
Note, questioni storiche, ecc. ^09
zione di un classico debba essere corredata di quelle note che sono necessarie
per la minuta intelligenza del testo, non solo quando non potrebbero trarsi da
altri commenti, come è il caso di moltissime opere filosofiche greche, ma anche
quando tali com menti esistono ; perchè ogni libro di cultura dovrebbe, per
quanto è possibile, essere antonomo e non richiedere dal lettore l'uso d'una
biblioteca o la consultazione di parecchi altri volumi per intendere a fondo il
testo che legge. La traduzione è nitida^ chiara, agevole, anzi un poco troppo
agevole talvolta, cosicché rischia di non rispecchiare sempre esattamente il
carattere dell'opera originale, che assai spesso lascia luogo a diverse interpre-
tazioni, ed espone certi principi in forma meno recisa che non apparisca dalla
traduzione del M. E questa ambiguità corrisponde alla natura speciale di questi
scritti di Aristotele, che segnano la faticosa via di ricérca e d'indagine dello
Stagirita, a cui certi problemi appariscono a mano a mano che procede, e che
non sempre si arresta a risolverli compiutamente, non intendendo egli di fare
opera per il gran pubblico, ma di segnare direttive ai suoi discepoli ed a se
stesso, disposto a ritornarvi su per giungere ad accertamenti più esatti. An-
che questo carattere un poco arduo e implicato, che ha il testo originale, è
interessante per la conoscenza dello spirito intimo della filosofìa dello Stagi-
rita, e forse poteva in gran parte conservarsi, riserbando al commento certe
dilucidazioni necessarie: tanto più che, in tal modo, si corre meno rischio
di attribuire ad Aristotele certe determinazioni soggettive di chi traduce. Ad
ogni modo l'A. ci ha dato una traduzione più pregevole di quella del Barco,
che pure va ricordata con lode, e sopratutto una traduzione che ha veri me-
riti di italianità e questo è molto. Si deve dunque augurare al libro dif-
fusione quale certo avrà e che giunga ad una seconda edizione a cui certo
l'operosità ed il buon gusto, di cui l'A. ha date ottime prove non in que-
sto solo libro, appresteranno sempre nuove cure. In vista di una nuova edi-
zione, e per dimostrare all'A. che non mi sono accontentato, come spesso si
fa da noi, di lodare senza darmi la pena di conoscere e studiare l'opera,
aggiungerò alcune osservazioni sui primi XXII capitoli, ove ho tenuto a
fronte il testo originale.
A p. 1450 a 40 segg.,^ l'A. traduce. « Dunque la favola è l'elemento primo
e come l'anima della tragedia. Qualcosa di simile accade anche nella pit-
tura : che se uno di fatti imbrattasse ^ fosse pure dei colori più belli, una tela^
ma senza un diseguo prestabilito, costui non potrebbe dilettare allo stesso
modo che se disegnasse in bianco i contorni della figura». Ora pare strano
che imbrattando una tela si pòssa dilettare, sìa pure in minor misura che de-
lineando una figura, ed anche può parere strano che sopra una tela si dise-
gni in bianco : sarebbe dunque meglio tenersi più fedele al testo greco, che
dice èvaXEtxpeie T0I5 xaA,XiaToi(; (jpaQ{id,xoi$ . x^^^v- Perciò tradurrei, presso a
poco, così : « non potrebbe produrre ug^al piacere con una chiazza di sva-
riati colori, sia Dure dei più belli, anzi che disegnando...», si toglierebbe,
> Per maggiore comodità di confronti con il testo, indico U numero delle pagìit« dei testo
greco (corrispondente a quelle d^l'edizioue Beckeriana) che del testo fono segnate s. margine
dall'A'
39 -^ Nuoim Rivista Storiai
6io Note^ questioni storiche, ecc.
in tal modo, V imbrattare, e, sopratutto, si eviterebbe la menzione della teta
che non mi sembra si possa, di nostro arbitrio, introdurre in un'opera che
tratti di arte greca. A^p. 1451 b 26 sgg. l'A. traduce: «si conchiude chia-
ramente che il poeta ha da essere poeta [cioè creatore] di fàvole anzi che di
versi, in quanto egli è poeta solo in virtù della sua capacità mimetica [cioè
creatrice], e sono le azioni che egli imita [o crea, non i versi]. Ora la prima
frase mi pare resa in modo almeno dubbio, parendo che Aristotele dica che
il poeta deve essere incoiTjTTi? (autore) di favole invece che di versi, e' non che
deve essere poeta (creatore) di favole piuttosto che di versi (|xà?>,^ov...ìi). Né
credo se ne debba esagerare il concetto,* essendovi creazione anche nel
v^rso: per di più, in ciò che segue, Aristotele dice «in quanto è poeta
rispetto la facoltà mimetica, e la sua facoltà mimetica ha per oggetto le azioni
(oocp rtoiTiTTig xarà t^v |ii^T)alv èativ, fii|ieiTai 8è tàg jigàleig) ». Il solo, nel
testo non vi è, e non è opportuno metterlo, per non dare all'affermazione
un senso restrittivo, che Aristotele non diede, mentre lo poteva, se voleva,
introducendo |aóvov. Ma^ sopratutto non vorrei le ultime due aggiunte che
l'A. pose fra parentesi quadrate. li versi sono senza dubbio creazione del
poetai ma, in questo caso, creazioni rivolte ad un fine ulteriore, cioè alla
mimesi di azioni. Sostituendo invece, senz'altro, a mimesi il termine creazione,
si f^ dire air A. quello che non disse.^
A p. 1453 b 9 sgg., ove si parla dei mezzi tragici per destare pietà e ter-
rore, non credo l'A. renda giustamente il testo di Aristotele : « Cercar di pro-
muovere questi sentimenti mediante lo spettaccolo scenico è cosa che non ha
* Tale esagerazione mi sembra essere anche in p. 1447 b 19: «quello [cioè Omero] sarebbe
giusto chiamarlo poeta, questo [Empedocle], non poeta ma fisiologo » ; Aristotele dice però :
«< piuttosto fisiologo che poeta », e mi pare anche più pericoloso caricare le tinte in questo punto,
in quanto Aristotele stesso già esagera (v. la mia n. in Empedocle p. 319) ed è momentaneamente
un poco inconseguente a ciò che dice altrove, ove loda come poetiche le metafore di Empedocle
{Meteor. Ili 3, 357 a 24) e chiama Empedocle omerico nella poesia ed immaginoso e scaltrito in
ogni artifizio poetico [fr. 70]. Insomma, come ho detto prima, una .traduzione d'uno scritto di Ari-
stotele dovrebbe essere, quanto mai possìbile, letterale, per riprodurre sempre in mod6 fedele il
pensiero dell' A., spesso oscillante od espresso in forma, direi, provvisoria ed occasionale, ciò che
è confermato del resto dallo studio delle opere aristoteliche.
• Cosi pure a p. 1451 b 11 sgg. vorrei tolte le parole poste fra parentesi quadrate dall' A.,
perchè non è certo che Aristotele pensasse alla nuova commedia anzi che alla commedia di
mezzo, e che si riferisse agli antichi giambogrofi e non alla poesia giambica in generale (cfr. an-
che il presente woiovoiv, invece dell'imperfetto con cui traduce l'A.). Cosi pure la nota pone
il lettore su cattiva via, facendogli credere come cosa indubbia che Aristotele conoscesse, quando
scrisse la Poetica, le commedie di Menandro, e le prediligesse. Cosi pure a p. 38 n. 2 non direi
che la cosa gradita che il messo di Corinto annunzia ad Edipo sia la «morte di Polibo... perla
quale Edipo sarebbe divenuto re di un nuovo regno», ma piuttosto quella «che i Corinzi vola-
vano eleggerlo re di Corinto », giacché la morte di Polibo, che Edipo credeva suo padre, e certo
l'aveva, allevato come suo figlio, era anzi l'annunzio triste che al messo doleva di dovergli dare
(cfr. SOF., Edipo re. v. 936 sgg.). Non mi persuade punto la nota a p. 122 ed il testo che l'A.
difende ; infatti che «dvxo? e non solo AA,Xoi fosse nei versi che cita Aristotele mi pare risulti
dal testo stesso di Aristotele, che dice ripetutamente atdvxeg e nàv, e non aX.Xoi. Nella nota a
p. 98 l'autore si pone una difficoltà che non esìste, rispetto all'olKela fiSovfj del X&ov, perchè
realmente altro è il piacere estetico che può dare un bell'uomo, una bella donna, un bel ca--
vallo, ecc.
NotCy questioni storiche, ecc. 61 1
che fare con Parte del poeta e ci deve pensare il corego ». Aristotele infatti dice
ToiJTp JcapaoHEud^eiv àtexvÓTEQOV xat yoQ'tYfiac, Séo^ievov, cioè : « è cosa meno
artistica ed ha bisogno di mezzi estranei ». E difatti àxE/vÓTEpov ricorre aAche
a p. 1454 b 31, dove si parla di mezzi di riconoscimento meno artistici, e
non già di mezzi che non abbiano che fare con l'arte del poeta; per di più
lo spettacolo scenico qui considerato (come nell'esempio famoso delle Eume-
nidi, nella tragedia omonima di Eschilo, che tanto terrore incussero agli
spettatori o in quelli éeXVEdipo Re e del Filottete) non è una aggiunta del
corego, ma s'origina dalla visione scenica voluta dal poeta, e consegue neces-
sariamente ad essa. Al corego, se mai, non altro spettava che interpretarla.
Perciò mi sembra anche più opportuno intendere xoQ^ìY^txs Settat secondo
l'interpretazione che ho seguita * anzi che secondo quella dell'A. Che poi
Aristotele riconosca un elemento poetico ed artistico, sia pure di natura meno
pregevole, anche in questi mezzi scenici che scaturiscono dalla visione voluta
dal poeta, risulta anche da ciò che si dice prima e da ciò che segue, ove si
Stabilisce la giusta graduazione degli effetti artistici, secondo la loro eccel-
lenza. A p. 1458 a 6 deve mutarsi la traduzione deiremisticchio di Empe-
docle (fr. 88 Diels, jiia yiyvzxat. àftqjOTéocov òi^) che l'A. rende così : « Un
tampo solo uscì d'ambo quegli occhi », mentre vuqj dire che « sola una vista
s'ha d'ambedue gli occhi » cioè, che, pur essendo due i nostri occhi, rice-
viamo un'unica percezione visiva.^ Come si vede però si tratta di cose di lieve
momento, che non tolgono pregio alla traduzione veramente utile e degna
della fama che già il Valgimigli s'è giustamente procurata.
Ettore Bignone.
Una storia della filosofìa greca.
Nelle nostre facoltà di filosofìa e lettere, quando un giovine che non
possa o non voglia approfortdire gli studi di filosofia greca, cerca qual-
che opera riassuntiva e completa, gli vengono per lo più indicate opere
straniere, quaH il Gomperz, lo Zeller, l'Eucken, il Windelband. Nessuna
storia dalla filosofia greca scritta da Italiani ha finora avuto fortuna tra noi,
e, d'altra parte, alcuni tentativi recenti, come quello del Mieli, ci lasciano al-
quanto scettici sull'argomento. Tuttavia, chi vuole studiarfe un singolo punto
della filosofia greca non può prescindere dalle opere nazionali, vaste mono-
grafie, che hanno spesso valore fondamentale, quali (per citare gli esempi
^ Infatti tfH^fia si contrappone alla lettura, di cui si parla sopra, la quale ncm ha bisogno dì
artifizi estemi. Ni però si deve ergere che i mezzi scenici, tanto piìi nella tragedia greca, dipen-
dano essenzialmente dall'arte del corego, perchè essi in verità derivano direttamente dalle pre-
messe del dramma e dalle situazioni volute dal poeta.
* Anche il Diels, di cui l'A, dice di seguire la traduzione, ha ueins wird beider Augen
Stick». V. del resto per la teorìa la n. ad. l. nel mio Empedocle.
6i2 Note, questioni storiche, ecc.
che mi vengono per i primi sotto la penna) il Socrate dello Zuccante o
V Empedocle del Bìgnone. Né si può negare che chi si affidi esclusivamente
all'opera esegetica degli stranieri non sempre si trova sulla via giusta nel-
r interpretazione dei filosofi greci. Molte dispute, per esempio, ài interpre
tazioni platoniche sarebbero più acutamente risolte, se chi si occupa di Pla-
tone non seguisse troppo sovente le orme degli interpreti fiancesi, dal Cousin
al Fouillée, o dei tedeschi dall'Hermann al Windelband, curando appena i
nostri, da Terenzio Mamiani sino a Francesco Acri, al Tocco, allo Zuccante,
al Fraccaroli, e lasciando nel più completo oblìo le profonde pagine plato-
niche, che pur sono fi-equenti nelle opere del Galluppi, del Rosmini, del
Gioberti.
Per tutte queste considerazioni mi è parso che la storia della filosofi^
greca di Guido De Ruggiero,* della quale intendo occuparmi in queste pa-
gine, non solo venisse a colmare una grave lacuna, ma dovesse rappresen-
tare la sintesi e quasi il coronamento della lunga e gloriosa attività nazio-
nale in questo campo, per riaffermare quell'autonomia di pensiero, che sempre
più si va oggi imponendo. E di questo suo atto, che può dirsi quasi corag-
gioso, voglio anzi tutto dar lode al De Ruggiero, anche se l'opera sua non
ha completamente corrisposto alla mia aspettazione.
La storia del De Ruggiero è là prima parte di una completa storia della
filosofia.
L' A. sembra per questo essersi talora preoccupato dei limiti conces-
sigli dall'economia dell'opera completa, restringendo e condensando alcuni
punti anche importanti, come i paragrafi nei quali tratta degli Ionici, dei
Pitagorici e degli Eleati, ove specialmente le pagine dedicate alla scuola pita-
gorica [I, 46-53] sono tanto schematiche da risultare del tutto insufficienti.
Ma procediamo con ordine.
Nella introduzione, TA. dichiara di non voler premettere, come suol
f^rsi di consueto, una sua concezione teoretica della storia della filosofia e
della filosofia stessa, poiché egli considera la sua materia come lo studio
delle molteplici manifestazioni di un'attività spirituale, formalmente identica.
« L'attività del filosofare è quella che persiste identica nello svolgersi e nel
tramontare delle filosofie ; o, più ancora, essa é l'anima di ogni sviluppo e
la ragione di ogni tramonto, il quale a sua volta forma il momento negativo
di un nuovo sviluppo ». (I, 9). Qui il De Ruggiero riconferma in massima
il punto di vista <|a lui già svolto nell' Introduzione al suo volume sulla filo-
sofia contemporanea:- Anche questa concezione formalistica dell'attività con-
tinua dello spirito è però una concezione della storia della filosofia, contrap-
* Guido De Ruggiero, Storia della filosofia. Parte Prima: La filosofia greca, Bari, ed
Laterza e Figli, 1918, voi. 2, pp. XV-242 ; XV-242.
s Cfr. G. Db Ruggiero, La filosofia contemporanta, Bari, ed Laterza e Figli, 1912, XXXI-48s>
pp. 14-16.
Note^ questioni sioriche, ecc. 6i;
posta a tante altre: è pertanto un' illusione quella dell'A. di non premettere,
fii pari degli altri, una sua teoria. Egli stesso più avanti sente la necessirA
di completarla in modo che trovi « la sua piena corrispondenza con la con-
cezione della filosofia, secondo la quale la vera, assoluta realtà spirituale è
il problema, cioè lo spirito che si possiede nella sua indagine attiva sopra
sé medesimo, nella ricerca di sé in tutte le cose e di tutte le cose in sé —
che è la sua perenne autorilevazione » (I, 38-39).
L'A. trova anche errato dividere la storia della filosofia in periodi con-
venzionali, e si propone di « lasciare che il periodizzamento, anziché una
classificazione, sia l'accentuazione naturale del pensiero storico » (I, loi.
Ho detto « si propone », perchè poi, nel corso dell'opera, egli se^^ue le
classificazioni tradizionali. Pospone, con l'Hegel e con lo Zeller, Anassa-
gora agli atomisti, benché sia cronologicamente anteriore almeno a Demo-
crito « per la considerazióne che egli forma l'antecedente immediato dell'in-
dirizzo socratico, a cui prelude con la dottrina del voO^ «> (I, 85, nota). Tratta a
parte, per ragioni teoretiche di esposizione, della psicologia dei presocratici,
dopo avere « a bella posta lasciato un po' in disparte tutti gli sforzi e i ten-
tativi di adattamento del pensiero di fronte alla realtà oggettiva ». (I, 91).
E nella stessa introduzione l'A. separa d' un taglio netto la filosofia antica
da quella cristiana, senza veruna preoccupazione cronologica.
« Filosofia antica, egli afiernsa, è quella che vive nell'antico spirito,
anche se cronologicamente si esplica nell'era cristiana. Così noi impareremo
a conoscere un vasto movimento di pensiero — il neo-platonismo — che si
esplica fino al VI secolo d. C, e tuttavia vedremo che esso appartiene alla
filosofia antica, di cui costituisce 1' ultimo momento. E per converso, inclu-
deremo nel periodo storico del cristianesimo alcune manifestazioni coeve al
neo-platonismo, (la Patristica) che però appartengono allo spirito cristiano ^).
(I, 16-17). Siamo pertanto alla consueta e tradizionale suddivisione : il De Rug-
giero, affermando che i periodi dovevano seguire « l'accentuazione naturale
del pensiero storico » avrebbe meglio potuto studiare nei suoi complessi
valori questo periodo di contemporaneità del neo-platonismo e della patri-
stica, considerando le infinite relazioni intercedenti tra lo spirito antico, che
si va spegnendo e lo spirito cristiano che si va formando. Ma questo egli
non ha voluto fare, conservando quella suddivisione artificiosa, che si trova
in qualunque vecchia storia del pensiero greco. Ne prendo una a caso : il
Manuale del Tennemann,* che, sebbene arricchito con note e suppiimenti dal
Romagnosi e dal Poli, non è certo un capolavoro. Ebbene, a p. 279 del
I volume termina la parte riguardante Damaselo e Simplicio, colpiti dall'editto
giustinianeo del 529 d. C, e a p. 280 comincia il capitolo dedicato ai padri
della Chiesa con Tertulliano, « divenuto cristiano verso il 185, morto il 220 ».*
Come si vede, l'artificiale schematismo dei periodi filosofici, indipendente da
» Manuale della stoHa della filosofia di Guglielnio Tennemann, trad. dal prof. F. Lon-
ghena, con note e suppliment} dei prof. Giandomenico Romagnosì e Bau}assare Poli, II ed.
Milano, G. Silvestri, 1855, voi. 4,
« Op. cit., voi. I, p. 285.
6i4 Note, questioni storiche, ecc.
ogni preoccupazione di rappresentare, nella storia della filosofia, la sintesi
spirituale di tutto yn periodo, nel cozzare degli elementi antinomici, non fa
un patìso avanti dal Tennemann al De Ru^iero.
Un altro problema preoccupa l'A. : donde è d'uopo incominciare la storia
del pensiero? Qui il De Ruggiero s'addentra in una polemica con quella
che egli chiama « il punto di vista embriogenetico », per concludere che
« la quistione dell'origine, presa per sé sola, non ha alcun interesse, e ne
acquista soltanto col fondersi con la quistione del valore » (I, 14-15). L'A.
Vuole sostituire lo studio genetico regressivo con lo studio del « reale pro-
gresso della ricerca filosofica » (I, 15), e pertanto stabilire i confronti tra
la ^filosofia greca e le filosofie orientali nel loro periodo più evoluto. A
me sembra che l'A. non ponga chiaramente la questione. 'V'ha una ten-
denza esagerata a risalire alle prime fonti del pensiero e a stabilire col-
legamenti, genetici, talora arbitrarli o per lo meno insignificanti: e .da
questa tendenza, a buon diritto, l'A, si tiene lontano. Ma v'ha un altro
punto di vista: queir* attività del filosofare», che «persiste identica nello
svolgersi e nel tramontare delle filosofie » (I, 9), per qual ragione deve
proprio cominciare soltanto col manifestarsi del pensiero greco nel VI se-
colo a. C. ? Per seguire l'ordine naturale del pensiero si deve cercare
l'attività spirituale molto più indietro nel tempo — anche se si vuol pre-
scindere dalle questioni embriogenetiche. È inneg:abile che la pura atti-
vità del filosofare umano, l'esigenza metafìsica innata nello spirito, apparve
la prima volta nelle forme mistiche delle religioni primitive, dalle quali non
si può e non si deve prescindere. È quasi un luogo comune che la storia
della filosofia è, nelle sue- origini, storia delle religioni, e in un'epoca come
la nostra, in cui lo studio della storia e della scienza delle religioni è andato
acquistando uno sviluppo sempre 'maggiore, non s'intende come si possa
scrivere una storia della filosofia, eliminando nettamente le religioni e le
filosofie orientali. Né bastano a colmare la lacuna quei cenni, che qua e là
sì trovano nell'opera del De Ruggiero, perché essi presuppongono una trat-
tazione adeguata dell'argomento, che invece manca. Come può, per esem-
pio, l'A. accennare — in alcune pagine che sono tra le migliori dell'opera
sua — alle Conseguenze della fusione ellenistica tra la scienza greca e l'espe-
rienza religiosa dei popoli orientali (II, 138-139), se di tale esperienza reli*
giosa, e del suo vasto e profondo valore filosofico, ha creduto opportuno di
non trattare affatto?
L'A. pertanto, sebbene si proponga una posizione assolutamente scevra
di idee preconcette, stabilisce una serie di principi informatori, nei quali è
tutta una teoria della storia della filosofia, concepita come conflitto di pro-
blemi, attraverso i quali procede, senza soluzione di continuità, l'autorive-
lazione dello spirito (I, 38-39), indipendentemente da ogni ricerca genetica
in quelle forme mitiche dell'attività spirituale, che escono dai limiti prece-
dentemente stabiliti. Da tali principii informatori derivano tutti i difetti della
trattazione che segue. Il De Ruggiero, più che una vera esposizione della
filosofia greca, ce ne dà una interpretazione fatta dal punto di vista pura-
mente spiritualistico. E come nel suo libro sulla filosofia contemporanea non
Note, questioni storiche, ecc. 615
aveva voluto considerare nella sua vera natura la metafìsica giobertiana,
attenendosi in tutto e per tutto all' interpretazione dello Spaventa e del Gen-
tile/ così molte volte egli non sembra voler vedere nella evoluzione del pen-
siero greco, se non quegli elementi che portano alla formazione della meta-
fisica dell'Io. Questo carattere interpretativo e sintetico della storia del
De Ruggiero fa sì che essa divenga quasi un commento, che presuppone
nel lettore la conoscenza della materia trattata, e non una vera analisi del
pensiero greco in tutte le sue fasi.
Anche qui necessariamente si cade in una questione di carattere gene-
rale : la storia della filosofìa deve essere ricreazione sintetica, compiuta dallo
storico, del pensiero altrui. Ma tale sintesi presuppone un lungo e minuto
lavoro di analisi : qui l'A. crede bene, anche per la limitata estensione del-
l'opera, tenere per sé l'analisi e dare al lettore solamente i risultati sinte-
tici. Ma, sia per il carattere informativo dell'opera, sia perchè i risultati con-
vincono meglio quando si conosca il procedimento analitico percorso dal-
l'A., sarebbe stato desiderabile che alla sua esegesi, talora acuta e nuova,
il De Ruggiero, avesse fatto precedere ogni volta una più lenta, più vasta,
più obiettiva esposizione analitica.
L'ambito di questa breve recensione non ci concede di esaminare punto
per punto tutta l'opera del Oe Ruggiero : ci limiteremo pertanto alle parti più
notevoli. Il carattere essenzialmente esegetico del libro, si nota sopra tutto,
come abbiamo accennato, nei paragrafi dedicati alle tre prime scuole presocra-
tiche. L'A., al di sopra delle particolari determinazioni naturalistiche, consi-
dera il concetto diàQXTJ come l'esigenza unica delle tre scuole, che rappre-
sentano per lui le tre fasi evolutive di un unico processo storico-dialettico.
L'dpxn» ^a quale nella scuola di Talete « non va oltre le premesse di un
materialismo ilozoistico, che identifica la materia e la vita e immagina la
materia vivente e generatrice » (I, 45),> per i Pitagorici, sia nella parte scien-
tifica del principio quantitativo, che in quella di carattere fantastico e mitico
(I, 51), è il numero, e segna il termine intermedio « tra la materia della
scuola ionica e ì'sssert della scuola eleatica » (I, 48). Con Parmenide final-
mente « il concetto dell'àQx»Ì si epura da tutte le precedenti contaminazioni,
e l'analisi dei suoi caratteri fondamentali procede indipendentemente da ogni
dato sensibile e come una deduzione logica. Il concetto della realtà, dell'es-
sere, che è il cardine di tutta la speculazione filosofica, è posto immediata-
mente dal pensiero : pensare l'essere ed essere è la stessa cosa i (I, 55).
Come si vede, l' illazione di tutto il processo evolutivo presenta per il De Rug-
giero un primordiale atteggiamento subiettivistico, clie egli ottiene acco-
gliendo l'interpretazione dello Zeller e del Diels sul controverso principio
TÒ yàQ avrò voelv iaxiw te xai elvai. (fr. 5) (I, 55, nota)
* Cfr. G. Ds Ruggiero. La filosofia contemporanea, ed. ctt., pp. 36S-37X.
6i6 Note, questioki ntoriche, ecc.
Anche qui l'A. segue il suo sistema di dare dogmaticamente i risultati,
senza spiegare come o perchè vi sia giunto. Egli afferma, nella nota citata,
che l'interpretazione dello Zeller e del Diels « è, storicamente, la più atten-
dibile », senza aggiunger altro. Il lettore ha pur il diritto di sapere le ragioni
di tale conclusione, o almeno — se l'A. non vuol perdere tempo nella contro-
versia — trovare nella nota le indicazioni bibliografiche che gli mostrino la via
da seguire nell'esanje della questione. Ma al De Ruggiero interessa proce-
dere oltre per esaminare come dal naturalismo ilozoistico, attraverso le tre
scuole, si giunga a una vera e propria dialettica (I, 64-65), dalla quale il
concetto deìVessere, posto dal pensiero, ed identificato con il pensiero stesso,
risulta scientificamente e dialetticamente formato (I, 65). Manca però a tale
concetto ogni idea di relazione, che costituirà il principio innovatore della
speculazione presocratica da Eraclito ad Anassagora (I, 65-66). Qui l'esposi-
zione si fa più obiettiva e meno affrettata, raggiungendo in alcuni punti
acutezza di sintesi, come nella conclusione delle pagine sull'atomismo (I, 83-84)
e nelle buone « considerazioni finali » (I, 96-99), che chiudono il capitolo sui
presocratici, il più arduo e complesso di tutta l'opera, e per questo il più
vario nell'avvicendarsi dei difetti e dei pregi.
Il capitolo sui sofisti s' inizia con una descrizione viva e reale dell'am-
biente storico, nel quale sorse e si venne formando la sofistica (I, 100- no),
per poi procedere, in alcune pagine che mi sembrano alquanto schematiche
e affrettate, a trattare partitamente di Protagora e di Gorgia. L'A. semplifica
un po' troppo questo argomento: egli passa sotto silenzio la profonda in-
fluenza esercitata dalla sofistica sull'oratoria, e quindi sulle vicende sto-
riche contemporanee e successive- alla guerra del Peloponneso, e non cura
l'indagine psicologica di quei dati peculiari del temperamento ellenico, che
favorivano la formazione della sofistica. Egli sembra desideroso di passar
oltre, per giungere alla parte centrale, e certamente la più notevole, di tutta
l'opera : ai capitoli su Socrate, Platone, Aristotele.
La dottrina socratica è esposta perspicuamente, alternando alle testimo-
nianze platoniche quelle di Senofonte, e bene integrando le une con le altre.
Trovo, a proposito del socratico « conosci te stesso », una pagina bella e
profonda, che mi piace riportare. « Il « Conosci te stesso » è il principio
perenne della filosofia, eterno nella novità e ricchezza inesauribile degl'im-
pulsi che ha dato e darà alla vita speculativa di ogni tempo. Tutti i rivol-
gimenti più profondi d' idee non sono che il frutto di una più intensa rifles-
sione dello spirito sopra sé medesimo. Ciò non vale per il solo dominio
limitato e ristretto della vita psicologica ; ma non v'è scoperta nel cosi detto
mondo oggettivo, non ampliamento della sfera dell'azione umana in quel
mondo, che non sia il correlato di una più profonda riflessione del soggetto
in sé stesso, di una più vasta realizzazione di sé... Il nostro oggetto è quel
che noi siamo ; e noi siamo quel che ci facciamo, quel che sappiamo realiz-
zarci, nella riflessione attiva su noi medesimi, che coinvolge i destini di tutte
Note, questioni storiche, ecc. 617
le cose. È questo il significato eterno del « Conosci te stesso », per cui i pen-
satori di ogni tempo, da Socrate a Plotino, a S. Agostino, a Cartesio, ai
moderni hanno potuto farne il principio vivente della loro speculazione
(I, 130-13 1) ». Tuttavia TA. più oltre estende il valore etico e gnoseologico
del principio socratico a fondamento di una sua interpretazione spiritualistica,
che toglie alla dottrina socratica ogni possibile elemento trascendente. Infatti,
nella spiegazione del concetto di 8aipióviov, considerato come « ipotiposi della
coscienza » (I, 155), il De Ruggiero non vUol vedere la figurazione simbolica
del trascendentale, immanente allo spirito umano. Il òaijxóviov non è, a mio
vedere, the la prima forma di quello che sarà, nella dottrina platonica, la
|xé^£|ig, partecipazione dell'essere individuato all'essere puro, alla realtà onto-
logica delle idee.
Di questa parte fondamentale della filosofia platonica, poco ci dice l'A.,
anche più oltre (I, 202), nel capitolo dedicato a Platone. Egli considera giu-
stamente lo studio del pensiero di Platonis, come storia della sua dottrina
delle idee,^ seguendo in questo il punto di vista del Windelband. Ma, nello
studio dello svolgersi della metafisica platonica da un'opera all'altra, l'A. non
sembra rendersi sempre conto adeguato della natura essenzialmente ontologica
del sistema platonico, attraverso tutte le sue fasi, sovrapponendo egli troppo^
spesso un punto di vista critico e subiettivo all'esposizione chiara e serena
della teoria delle idee. S'intende quindi come la concezione del 8aij.ióviov
o della jxéO^eIk;, considerata come essenza ontologica dello spirito, trascen-
dente lo spirito ed immanente in esso, non possa agevolmente venir accet-
tata dall' interpretazione del Del Ruggiero. Questo ci spiega anche perchè
il De Ruggiero, che pur si occupa di frequente del Fedro e del Convito,
non ritenga necessario trattare di un'estetica platonica. Egli in questo è ligio
alla veduta del Croce, il quale, non ammettendo i valori di un'estetica onto-
logica, che si occupi dell'idea del bello e della tendenza metessica, dello
spirito al raggiungimento di tale idea assoluta, nega l'esistenza di una vera
estetica nel mondo aatico,^ e riduce l'estetica platonica alla pura negazione
rigoristica della RepubblicqL.^
Né solamente l'estetica platonica è trascurata dal De Ruggiero, ma
anche la pedagogia, che dovrebbe invece trovare il suo posto a complemento
del paragrafo dedicato alla politica, quando l'A. tratta del diritto dello Stato
sui fanciulli e del concetto di famiglia, presso che annientato nell'utopia
platonica (I, 232). Tutta questa trattazione della teoria dello Stato è incom-
pleta : l'A. giustamente osserva che « dall' idea del sapere come forza re-
golatrice dei rapporti umani, scaturiscono gli svariati regolamenti di quei
rapporti » (I, 231), ma poi non ci mostra come e perchè ciò avvenga, né quale
sia l'origine e il valore di tale potenza del sapere, inspiratore supremo d'ogni
> Cfr. G. WiNDKLBAND, Platone, trad. M. Graziussi, Palermo, ed. Sandron, p. 71.
• Cfr. B. Croce, Estetica, Bari, ed. Laterza, 1912, p. 183.
• Cfr. B., Croce, Op. cit., pp. 184-186. Per una confutazione del punto di vista crociano-
V. Piccoli^ V estetica di V. Gioberti, Milano- Romaj ed. Albrighi, Segati & Co., 191 7,
pp. 119-127.
^i8 Note, questioni storiche^ ecc.
norma, sia ideale che positiva. E il problema delle relazioni tra etica ^ di-
ritto, norma ideale e norma positiva, che nella concezione platonica sono
fuse in forma ed essenza unitaria, in modo da costituire una concezione
metafisica del diritto, rigidamente opposta ad ogni futura teoria empiristica
od utilitaria, è dall'A. a mala pena adombrato. Infine il De Ruggiero, che
nel capitolo sui primordi (I, 21-36), in quello sulla sofistica (I, 100-114), e a
proposito della condanna di Socrate (I, 152-158), aveva mostrato consape-
volezza delle relazioni tra l'ambiente storico e la vita e il pensìera dei filo-
sofi, qui non si preoccupa punto di esaminare 1* influenza che le vicende
tormentate della Grecia del suo tempo e gli errori della demagogia ateniese
avevano indubbiamente esercitato su Platone. Per quanto grande sia la fi-
gura dal filosofo, noi non dobbiamo mai, sopra tutto in materia di filosofia
politica, considerarlo completamente fuori del suo tempo e degli eventi che
si svolgono attorno a lui. Il medesimo difetto trovo nella esposizione della
politica aristotelica (II, 55-58). Il capitolo dedicato ad Aristotele è vasto,
t>ene informato ed esauriente, ma in esso l'A., quando giunge a determinare
le differenze tra la concezione platonica dello Stato e quella aristotelica
(II, 56-57), prescinde nel modo più assoluto dai fattori storici, influenti in
modo diverso sul pensiero dei due filosofi. Ed anche qui, come per Platonie,
la pedagogia e l'estetica non sono fortunate. Della prima l'A. tace del tutto,
alla seconda dedica una smilza paginetta (II, 59-60), completamente ina-
deguata all'importanza dell'argomento, per. sé e per la sua influenza nella
storia dell'estetica.
L'esame delU parte riguardante la filosofia postaristotellca mi condur-
rebbe sovente a ripetere osservazioni già fatte ; lo ridurrò pertanto ai miniini
termini. Nelle considerazioni sintetiche suHa crisi del pensiero greco (II, 62-68),
ritorna il De Ruggiero a preoccuparsi dell'influenza pragmatica sq 'l'evolu-
zione del pensiero, e mostra, in poche pagine dense, come dal cosmopo-
litismo dell'età di Alessandro derivi un senso di turbamento nella coscienza
greca, e quindi la necessità di rinchiudersi in una concezione individualistica,
quale è quella dello stoicismo. Bene rileva l'A. come un profondo pessimi-
smo sia l'essenza dello stoicismo (II, 89-90) è, per altre ragioni, del-
l'epicureismo. Questo, egli osserva, « è in fondo una filosofia triste e pessi-
mistica. Gli epicurei, uomini senza Dio, senza patria, senza famiglia, non
sono dei gaudenti, non sono, nelle stessa valutazione degli antichi, gli espo-
nenti di una umanità' felice. Essi non realizzano quella felicità che si propo-
nevano di realizzare; e neppure riescono a dare, come gli stoici, un signi-
ficato di nobiltà e di decoro alla loro rinunzia. In essa infatti non sta la loro
forza, ma la crisi finale della loro impotenza. Resta, al di là della rinunzia,
il desiderio vano di quello a cui son costretti a rinunziare» (il, 101-102).
Solamei}te io avrei voluto vedere più vastamente trattato questo velato pes-
simismo della filosofia postsocratica e postaristotellca : i Snici, che sotto
questo rispetto hanno un valore profondo e caratteristico, sono trascurati, e
così i cirenaici (I, 161-170), mentre, occupandosi map:giormente di loro, l'A.
avrebbe potuto dipingere a più vivi colori la crisi del pensiero greco; E mag-
gior luce ne sarebbe venuta anche allo studio dello scetticismo. A questo
Note, questioni storiche» ecc. 619
proposito; sarebbe stato opportuno un esame più accurato della critica mosst
da Sesto Empirico al sillogismo (II, 133) e alla logica aristotelica in gene-
rale. L'A. crede opportuno collegare lo scetticismo all'eclettismo, e di que-
st'ultimo espone la natura (II, iii) in termini di valore generale: mi sem-
bra però che egli veda un solo atteggiamento eclettico del pensiero, quello
negativo, e quindi presso che scettico. Ma v'ha anche un eclettismo più
profondo e più acuto, un eclettismo creativo, che è fusione ^ palingenesi
dei discòrdi elementi formativi. Sotto questo rispetto v'ha un divario profondo
tra scetticismo ed eclettismo.
Chiude l'opera un vasto capitolo dedicato al neoplatonismo. Sono in esso
notevoli le pagine sintetiche sui fattori essenziali dell'ellenismo (II, 136-143),
del quale l'A. determina bene l'elemento positivo e costruttivo, opponendosi
giustamente a quanti non ne sanno vedere che l'elemento negativo e dis-
solvente.
« É inconcepibile, osserva felicemente l'A., che la Grècia classica abbia
cortsegnato all'ellenismo un ficco patrimonio di valori soltanto per dissi-
parlo; anzi, per il fatto stesso che i valori non si tramandano che nella
creazione di nuovi valori, è lecito presumere che l'ellenismo abbia in sé
un carattere positivo, che formi la sua vera originalità » (II, 137). Ma il
De Ruggiero riesce poi incompleto, quando cerca di determinare tutti gli
elementi nuovi che scaturicono e si formano nella complessa cultura elleni-
stica. Rispet'to alle relazioni con l'esperienza religiosa orientale (II, 139-140),
l'accenno, come abbiamo già osservato, non può essere chiaro, perchè
l'A. non ha trattato a suo tempo delle religioni. e delle filosofie orientali.
D'altra parte la cultura ellenistica è molteplice, e l'A. avrebbe potuto
meglio determinarne la complessa fisionomia, esaminando i valori dell'elle-
nismo nella storia della civiltà, nella evoluzione delle scienze, nella storia
dell'arte. La filosofia ellenistica non è isolata nettamente dalle altre ma-
nifestazioni, ma si collega ad esse e segue parallelamente la crisi e la
palingenesi, che in quel tempo subivano tutte le altre attività del pensiero
e dell'arte. E, se pure l'A^ voleva isolare il suo argomento, non poteva pre-
scindere dalle relazioni dell^ultiriYa parte della filosofia greca con il misticismo
cristiano, con le concezioni manichee, con lo gnosticismo nelle sue diverse
espressioni. Per quanto riguarda, poi in particolar modo l'esposizione, accu-
rata, chiara,s precisa, della metafisica plotiniana (II, 166-195), osserverò ancora
.una volta la mancanza di quella povera estetica, che nel libro del De Rug-
giero è decisamente la Cenerentola.
Mi si concedano ancora poche parole per la nota bibliografica (II, 219-238),
L'A. rimanda alla bibliografia dell'Ueberweg, e si limita «a pochi appunti
bibliografici, per dare un primo istradamento al lettore » (II, 219). Tuttavia,
pur rimanendo nell'ambito dei pochi appunti strettamente necessari!, il De Rug-
giero avrebbe potuto arricchire la sua nota di alcune indicazioni che mi sem-
brano indispensabili.
620 Note, questioni storiche, ecc.
Per esempio, perchè, oltre al Mullach e al Diels, non segnala al lettore
il Ritter e il Preller, che forse taluno potrebbe procurarsi più facilmente elei
primi? Su Empedocle avrei voluto veder indicato il libro dell'Acri, Dei si-
stemi di Empedocle e Democrito, e un lavoro dimenticato dì Paolo Lioy, Un
filosofo di duemila anni fa : Empedocle. Per i cinici e i cirenaici, non trovo
segnalati gli studi fondamentali di Giuseppe Zuccante. Per Epicuro mi sem-
bra che l'A. a torto dimentichi l'opera del Preller, Ueber Epikur und seine
Philosophie (Berol. 1859), nonché gli scritti del Trezza, di Luigi Ferri e
quelli, più recenti, del Bignone.* Per il neoplatonismo, con la citazione delle
opere del Simon e del Vacherot avrei voluto almeno un cenno al con-
corso del 1845 ^' che provocò in quel tempo in Francia una non infeconda
produzione di studi sulla scuola d'Alessandria. Così non trovo, (né a questo,
né ad altro proposito) citate le opere di Edward Caird sul pensiero teolo-
gico dei filosofi greci, né lo studio del Wittaker, The neo-piatonist (Cam-
bridge 1900). Infine, per Seneca e Boezio — che l'A. con gli altri pensatori
romani include nel vasto ciclo del pensiero greco — avrei voluto veder ri-
cordate, se non altre, almeno le cinquecentesche versioni di Benedetto Varchi :
per altri autori vedo infatti segnalate traduzioni molto meno importanti.
•V
Occorre una parola di conclusione ? Forse é inutile : dalle osservazioni
fatte, si vede che si tratta di un'opera dove numerosi sono i pregi e i difetti.
Il De Ruggiero — che nel suo libro dimostra una indiscutibile personalità di
pensatore e una buona tempra di scrittore — ha messo insieme gli ele-
menti per scrivere una storia della filosofia antica. Da questi elementi noi
aspettiamo con fiducia che egli ci dia un giorno l'opera vasta e compiuta che
si ha diritto di esigere da lui.
Valentino Piccoli.
» Tra non molto Io stesso Bigno^e darà — Edita dal Laterza — una traduzione completa
di Epicuro e uno studio sul medesimo, che, non dubitiamo, sarà opera veramente magistrale.
« Cfr. Barthélemy St. Hilaire, Sur le concours ouvert par V Académie de Ktences morales
*t politiques sur Fècole d'Alexandrie, Paris, 1845.
i
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
storia della coltura: G. De Lorenzo, India e Bt^dismo anticoy spedi-
zione, Bari, Laterza e Figli, 1917, pp. VIII-516. — Quest'opera, giunta
ormai alla terza edizione, in pochi anni, caso non frequente per un libro di
cultura, ha già, nel favore incontrato presso il pubblico, chiara testimonianza
del suo pregio. Il quale germina particolarmente dallo spirito stesso, che il
De Lorenzo ha infuso al suo libro e dalla passione con cui l'ha scritto. Egli,
cultore insigne di altri studi, s'è dedicato all'indagine del Buddismo, nori
per dovere professionale di erudito, ma per elettiva affinità verso una delle
più solenni espressioni del pensiero e della coscienza umana. Le opere sue
non sono perciò aride e gelide esposizioni e ricerche dottrinarie, ma pagine
fervide di fede. Il lettore intelligente sente in lui un'anima fraterna, che, pur
possedendo ben più profonda, vasta e salda coltura, è mossa dal medesimo
suo ardore di vita spirituale.
Ne risulta perciò quella comunione di spiriti fra autore e lettore, che
è la miglior virtù di un libro, il quale studi vitali problemi di pensiero. Chi
conosce poi gli altri libri del De Lorenzo sa come egli sappia giovarsi della
sua larga e fine coltura letteraria, per farci sentire i commossi echi, onde si
ripercotono nella storia del pensiero umano le medesime verità essenziali,
che l'uomo, in ogni secolo ed in ogni popolo, scruta nella propria coscienza.
Interessantissime sono a questo proposito le pagine in cui egli pone la dot-
trina di 'S. Francesco a confronto con la predicazione buddistica. Degne
pure di molta considerazione sono quelle sopra l'India e la Grecia antica.
È dovuta perciò a quest'opera, che l'A. ha nelle successive edizioni
ampliata assai e rielaborata con cura, l'augurio di una diffusione sempre mag-
giore in benefizio della cultura italiana (E. B.).
— A. Olivieri, Alane one di Crotone, Memoria letta alla R. Accademia
di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli^ Napoli, 1917, pp. 29. — Que-
sta «Memoria» dell'Olivieri è la migliore e più compiuta analisi che sia ap-
parsa negli ultimi tempi sul filosofo e medico di Crotone. La singolare com-
petenza che l'Olivieri possiede negli studi sulla medicina antica, lo mise in
grado di offrirci uno studio pieno di osservazioni acute e ricco di ricer-
622 Bollettino bibliografico
che personali, onde le. dottrine di questo precursore della scienza moderna
ne riescono in molti punti chiarite. Tutte le testimonionze antiche sono dal-
l'A., con ottimo discernimento critico, esaminate e paragonate fra loro, per
trarne da questa indagine, e per mezzo del confronto con le dottrine di altri
ftlosofi e scienziati dell'antichità, interessanti conclusioni od induzioni. E piace
veramente vedere un professore di letteratura greca far materia di studio e
di ricerca, non già vuote questioni formali, ma una delle figure più interes-
santi del pensiero presocratico, e giovarsi per i suoi studi di acuti confronti
con la scienza moderna, metodo certo più arduo che non sia la pura erudi-
zione filologica, ma necessario a chiunque voglia veramente giungere a vitali
risultati nello studio dell'antichità.
In un sol punto non sono persuaso dell'argomentazione dell' A., ed è
intorno alla sue conclusioni circa la dottrina di Alcmeone sull'anima (p. 17 segg.)-
A me pare veramente che, dalle testimonianze di Aristotele ^ e de^li altri
antichi (v. A 12, Diels), risulti che Alcmeone Considerava l'^inima come im-
mortale. Questo però non nuoce punto alle acute osservazioni, che fa in seguito
l'Olivieri, circa la dottrina alcmeoniana del cervello, come sede della co-
scienza. Avremmo infatti, come ho dimostrato per Empedocle, anche in Alc-
meone, una duplice teoria, mistica e fisiologica, dell'anima. Solo l'anima mi-
stica è immortale, mentre l'anima fisiologica sottostà alla vicenda di nascita
e di morte, comune a tutta la natura fisica.
Come questa duplice dottrina si ritrovi non solo in Empedocle, ma in
altri filosofi antichi e moderni, ho mostrato anche nel niio volume su Empe-
docle (Torino, Bocca, 1916, pp. 257 sgg. ; 659 sgg.) (E. B.).
Storia e politica^ moderna e contemporanea: Albert Mathiez, La,
Revolution et les élrangers, Paris, «La, Renaissance du Livre, 19 18. — I demo-
cratici del 1789 ed i giacobini del 1792 ignorarono il problema degli stra-
nieri domiciliati in Francia, appartenenti alle Potenze nemiche. ,La Rivolu-
zione continuò le tradizioni ospitali della Francia monarchica, e Parigi fu
ancora il soggiorno preferito dagli Europei. Scomparve ogni differenza dì
nazionalità ; gli stranieri presero parte alla propaganda per la fraternizza-
zione universale. Essi non solo entrarono nei clubs, ma anche nell'esercito
combattente, sia come soldati, sia come generali. Unanime fu il grido :
«Aimables étrangersl Respectables étrangers I... ». — Ma, ai primi rovesci
militari, sorsero gravi sospetti sull'opera degli stranieri ; fu discussa la que-
stione dei rapporti fra l'ideale cosmopolita e le esigenze della difesa nazio'
naie. In realtà, la famosa cospirazione dello straniero fu l'invenzione di
> Aristotele infatti {de an.l, 2, 405 a 29) dice espressamente : q)Tiol yòq adffjv &^dvaTOV slvoi,
e che Alcmeone deduceva questo dalla facoltà di etemo movimento che l'anima possiede, pro-
pria anche delle essenze celesti : sole, luna, cielo, che per certi Pitagorici sono immortali (cfr. Pl^t.,
Phfudr. 245 e nSuaa i|iuxf|, à'd'dvaTog' tò y^ dsixtvtiTov àMvaTov). Quanto alla testimonianza
di Cicerone, de n. deor. I, 11, 27, che del resto conferma essa pure quella di Aristotele, è forse
utile notare che le parole non sensit sese tnortalibus rebus tmmortalitatem dare, sono un osserva-
zione polemica dell'epicureo Velleio, che qui parla, per il quale tanto l'anima come i corpi ce-
lesti sono mortali e distruttibili.
Bollettino bibliografico 623
alcuni malevoli, più tardi denunciata e riconosciuta; ma, nell'ora del perìcolo,
la tolleranza parve una colpa, e, sebbene a malincuore, i' rivoluzionari fecero
una rinuncia temporanea al loro eccessivo umanitarismo. Il regime di terrore
e le misure di legittima difesa contro gli stranieri, creduti agenti del nemico,
non durarono neppure un giorno, oltre i limiti imposti dalle necessità della
èuerra. Tosto che la battaglia impegnata col militarismo prussiano fu vinta,
ed il territorio fu salvo, i rivoluzionari tornarono liberali e restituirono agli
stranieri la libertà della persona ed i beni confiscati. Il Direttorio riprese la
propaganda nei paesi vicini ; nuovamente costituì legioni di stranieri ; Parigi
ritornò l'asilo di tutti i profughi politici e di tutti i cospiratori. (E. R.).
— Andriya Radovitch, Le Montenegro et ses tendancès nationales, Paris,
Imprimerle slave, 1918 ; Idem, Le Montenegro, son passe et son avenir,
Paris, Blond et Gay, 1918. — Se la disgraziata teoria delle sfere d'influenza
generò gli antagonismi delle Potenze nei Balcani, dóve i piccoli Stati diven-
nero gli « enfant gàtés » ora dell'una ora dell'altra, una insufficiente conoscenza
dei popoli Balcanici, della loro mentalità e dei loro governi fu causa di errori
non meno gravi. Ancor- oggi si parla di Serbi e di Montenegrini come di due
distinte entità etnografiche, e la distinzione viene assecondata volentieri da
certi ambienti politici, a cui giova deprimere l'aspirazione verso una futura
Jugo-slavia, lasciando credere che i Montenegrini abbiano un proprio ideale di
nazione e che perciò sia ingiusto chiedere la soppressione della loro indivi-
dualità a profitto dell'unione. Ma la storia del Montenegro non è che un epi-
sodio della lotta d'indipendenza del popolo Serbo; ed il suo popolo non è
che una parte di quest'ultimo: il quale, alla caduta del grande Stato del-
l'Imperatore Dasciam, che pur comprendeva il Montenegro, si rifugiò sulle
aspre montagne di questo territorio e vi trovò il centro sicuro della vita na-
zionale, minacciata da tutti i lati. Ciò che era una semplice provincia, divenne
un regno indipendente, per effetto della disorganizzazione generale, nella per-
sona di Balchitch, che era il suo governatore. I Turchi conquistarono la ca-
pitale Scutari e la valle dello Zeta, e lo Stato si ridusse alla porzione di
territorio intorno a Cettigne, il cui monastero divenne il punto di raccoglimento
della vita politica, democraticamente disciplinata. Sebbene il Montenegro sia
stato riconosciuto dalla Turchia come Stato indipendente, verso il 1859, e
definitivamente nel 1875, i Montenegrini non cessarono mai di lottare contro
i Turchi, né rinunziarono all'ideale di riunirsi coi fratelli di confine. Anzi ,^9
fondazione dello Stato serbo, sui primi del secolo scorso, segna il rapido
avanzare della idea unitaria, a tale segno che nel 1865 fu concluso un trat-
tato fra la Serbia ed il Montenegro, con tanta cordialità di rapporti fra i
due sovrani, che il giovine principe Nicola prometteva di rinunciare al trono
del Montenegro a profitto del principe Michele Obrenovich di Serbia, e quest'ul-
timo impegnavasi a considerarlo come suo successore, ove mancasse nella pro-
pria famiglia una discendenza diretta. Anche nella coscienza popolare il pro-
blema unitario è risolto da tempo. E bene avverte il popolo che le disastrose
condizioni economiche e sociali del suo piccolo Stato, dovute alla povertà dei
prodotti naturali, alla cattiva amministrazione, al suo isolamento politico, al-
l'abitudine delle armi ecc., possono essere risanate ^olo grazie all'unione
624 Bollettino bibliografico
cogli altri gruppi Slavi del sud. Se poi l'attuale conflitto lasciasse immutate
le cose, la separazione del Montenegro darebbe motivo a gravi e continue
agitazioni interne, di cui approfitterebbe (così scriveva allora il R.) la mo-
narchia Austro-Ungarica per rinnovare il suo intervento negli affari balcanici
con evidente pericolo della pace europea. (E. R.).
— Enrico Melchiori, L'eterno dramma Adriatico, Milano, Casa ed.
Risorgimento, 1918. — L'A. fa una rapida ed efficace rassegna storica, dai
tempi più antichi ai più recenti, dei rapporti corsi fra le due sponde dell'Adria-
tico, per dimostrare che il problema della sicurezza economica, politica, navale
e militare della costa occidentale, si è sempre presentato all'Italia come pro-
blema di conquista della costa orientale, perchè, dice l'A., tutti i popoli che
presero quivi stanza, misero quasi sempre a repentaglio lo sviluppo vitale del-
l'altra riva, e perchè «tranquillità non ci può essere quando l'una e l'altra
costa non siano sotto il nostro dominio ». Quindi, sulla base della tradizione
storica e degli interessi impliciti in essa, il M. conclude affermando la necessità
dell'occupazione litoranea ed insulare.
Senonchè, non isfugge neppure all'Autore, ad un dato punto, che le
tradizioni storiche sono di varie specie, come di varie specie sono i diritti
che ne conseguono. E infatti, quando gli si para innanzi la questione della
Jugoslavia, egli non può a meno di riconoscere, sebbene in nota, che, se
si giudicano le cose dal punto di vista della nazionalità, l'Italia non potrebbe
opporsi alla forn^azione di uno Stato libero e indipendente nella penisola bal-
canica, « senza rinnegare in tal caso tutte le tradizioni e lo spirito del suo ri-
sorgimento, insieme con lo spirito storico che ora attraversiamo... E poiché
l'unità jugoslava, nonostante lo scetticismo di molti, è in marcia da parecchi
anni, e dovrà raggiungere sicuramente la sua mèta, è bene che gli Italiani...
non sieno ricordati dagli Slavi, come persecutori, ma come liberatori ! » Pec-
cato che l'A. sì sia accorto di queste verità dopo avere scritte le pagine
precedenti:.., (E. R.),
Storia della letteratura: E. CwbìVìato, Le odi di Pindaro: testo versione
e commento. Sestri Ponente, St^b. tipogr. N. L. Bruzzone, 1918, pp. 764. —
Lo studio di Pindaro ha dato in Italia, negli ultimi decenni, ottimi frutti. Dopo
l'opera fondamentale del Fraccaroli (giunta alla seconda edizione) che rap-
presenta una pietra miliare negli studi di letteratura greca in Italia, è note-
vole il bellissimo saggio critico del Romagnoli, che ci offerse pure alcune
squisite traduzioni poetiche delle più belle fra le odi agonali e della mag-
gior parte dei frammenti, e che presto ci darà tutto Pindaro tradotto. Ora
poi il Cerrato s'è accinto ad un compito utilissimo per le persone colte, cioè
quello di presentarci a fronte del testo greco, riveduto con saggi criteri,
una nitida traduzione in prosa, aggiungendo nelle note tutti quei chiarimenti
che possano giovare a ben intendere quella non facile arte pindarica. Opera
egregia, che s'incominciò a pubblicare nel 1915 ed uscì negli «Atti della
R. Università di Genova» in quattro parti distinte. Il presente volume,
posto ora in commercio, le contiene tutte unite. Dire dei pregi dell'opera
sarebbe forse superfluo, dopo che la critica favorevolissimamente accolse
Bollettino bibliografico 625
le singole parti di essa, di mano in mano che vennero pubblicate. L'utilità
ne è a tutti evidente. Un edizione completa di Pindaro, corrispondente ai
criteri della critica moderna, mancava in Italia, e la mancanza è tanto più
gravosa ora che procurarsi edizioni straniere non è facile. Ma Pindaro non
è poeta che possa leggersi, anche da chi sappia di greco, senza altri sus-
sidi, ed il più utile fra tutti, per la piena conoscenza essenziale, è una tra-
duzione in prosa, agevole, fedele, non sciatta, posta a riscontro del testo,
che possa soccorrere sempre il lettore principiante ed all'uopo giovi anche
all'esperto. Naturalmente tradurre Pindaro non è cosa agevole, e larga lode
va data all' A. per la sua lunga ed egregia fatica. La sua versione ha note-
voli pregi, non solo di interpretazione ma anche di espressione. A volte solo la
vorrei più strettamente letterale, che cioè evitasse di cadere nella parafrasi, e
questo in particolare quando Pindaro esce dagli schemi della logica comune nel
raggruppare fra loro le idee. Certo l'A. si preoccupò sopratutto della chia-
rezza, ma a parer mio (altri forse potrà giudicare altrimenti) l'indicare lo svol-
gimento logico di certe associazioni poetiche di idee, poteva essere piuttosto
ufficio del commento che della traduzione. Ma ciò non toglie che il sussidio
offerto alle persone colte dall' A. sia veramente insigne.
L'A. fa precedere alla traduzione di ogni ode una breve Introduzione, ove
indica i dati storici essenziali, e da un lucido Argomento, diviso nello schema
consueto a cui giustamente egli riconduce ogni epinicio. Sotto il testo e la tra-
duzione, reca poi il commento, che chiarisce le difficoltà, indica le ragioni della
lezione adottata e dell'interpretazione proposta o prescelta. L'A. con grande
scrupolo non volle dar per suo nulla che fosse di altri, e perciò, quando da
altri fosse già stato detto ciò che gli sembrava opportuno è migliore, ne ri-
porta senz'altro le parole, tradotte, quando tolga da opera iscritta in inglese
od in tedesco, testualmente, quando la citazione sia francese o latina. Ed in
questo scrupolo forse l'A. fu persino eccessivo, poiché si riportano, in qual-
che punto, con l'autorità di altro critico osservazioni, che ogni intenditore
di Pindaro, e tanto più l'A., poteva fare benissimo da sé. Ma si tratta di casi
eccezionali. In realtà il commento, così costituito dall' A. per mezzo delle pro-
prie ed altrui osservazioni, è utilissimo, e dimostra acuto ingegno critico e
vastissima conoscenza dell'Autore commentato e della letteratura che vi si
riferisce. Naturalmente Pindaro non è poeta su cui si possa in ogni punto
determinare quale interpretazione sia assolutamente migliore con criterii og-
gettivi ed inoppugnabili. In qualche caso, si potranno preferire opinioni e
spiegazioni che l'A. rigetta, ma, poiché egli in generale riferisce anche
quelle che combatte, il lettore ha modo di scegliere, se gli sembri oppor-
tuno. Certo il Cerrato non risparmiò fatica di ricerca e di studio, per infor*
mare rettamente i lettori e per sciogliere ogni difficoltà che il testo presen-
tasse; ove con lui non ci si accordi, ciò proviene dalla natura della poesia,
e di quella di Pindaro in ispecie, che offi-e molteplici problemi esegetici,
la cui risoluzione è spesso affidata al gusto personale del lettore. Saggia
assai è, come già ho osservato, la costituzione del testo, scrupolosamente
fedele ai codici ; ed anzi nei luoghi discussi avrei voluto (e lo potrà fare l'A.
in un'edizione prossima) veder riferite in nota le pochissime varianti. È na-
ie — Uuova Rivista Storica,
626 Bollettino bibliografico
turale infatti che il lettore sappia fino a qual punto una congettura corrisponde
alla tradizione dei manoscritti. Ad ogni modo i luoghi in cui questo è op-
portuno non sarebbero, molti. Quale è dunque questo volume dell'A., esso va
consigliato con gran lode a tutti coloro che al)biano amore alla poesia clas-
sica» ed onora gli studi di letteratura greca in Italia. (E. Bignone),
— G. Piazzi, La Novella Fronda: manuale storico della letteratura e
dell'arte italictna^ Milano, Trevisini, 1918, 3 voli., pp. 494; 564; 574. — - Que-
sto libro, questa nuova storia della letteratura e dell'arte italiana, reca
anzi tutto un pregio esteriore grandissimo : si presenta come un libro bello.
In momenti, in cui, per sciagurate condizioni, tutte le pubblicazioni librarie
sopo necessariamente brutte, questi tre volumi appaiono in una veste, che
dà materialmente un'impressione di bellezza: bella la copertina, arieggiante
quella di codice antico, belli i caratteri, belle le decorazioni, le incisioni. Ma i
meriti intrinseci non sono forse gran che inferiori alle apparenze. Anzi tutto,
questo : non si tratta di u« libro di testo per le scuole, gettato cioè in quel for-
mulario e in quelle tradizionali partizioni, che i programmi indicano, e a cui
gl'insegnanti corrono incontro anelanti, come sospinti da irrefrenabile volontà
di schiavitù. L'opera per certo potrà servire, servirà degnamente, nelle scuole ;
ma essa non è deliberatamente un libro di testo. La materia vi è gettata in
una forma nuova, in quella forma speciale in cui l' A. la vedeva svolgersi e
fissarsi : questo è dunque uno di quei rarissimi libri di coltura generale, che i
nostri autori e ì nostri editori amano produrre.
Appunto per questo non è neanche una storia o letteraria, o politica, o
artistica dell'Italia nostra. Esso è tutte queste cose insieme, o, meglio, è
la storia delle nostre lettere e delle nostre arti quale fluisce dalla nostra sto-
ria politico-sociale. Siffatta concezione ricorda benissimo il De Sanctis; e
alla Storia della letteratura del De Sanctis il P. si è volontariamente ispirato.
Per ciò non troviamo elenchi di autori o enumerazioni complete di opere per
ciascun secolo. L' A. discorre di quegli autori, che crede, lungamente di al-
cuni — quelli che, a suo avviso, rappresentano tipicamente le principali ten-
denze dell'epoca — brevemente, di altri; niente affatto, di altri ancora. I
suoi tre volumi non sono dei notiziari!. Per le identiche ragioni egli riferisce
largamente brani d'opere di questo o di quell'autore, o larghissimamente le
riassume, non isolandole mai, ma introducendole nel contesto del suo rac-
conto. Per le stesse ragioni, infine, il P. non esclude dalla sua esposizione
i poeti, gli artisti, i critici, i filosofi contemporanei, ma di tutti discorre con
lo stesso criterio, con la stessa libertà, con lo stesso senso storico, che degli
antichi o degli estinti.
Indubbiamente, l'opera non è perfetta. Non tutte le parti hanno eguale
valore. Non tutti gli apprezzamenti sono accettabili. Ma su questo primo
tentativo di storia della letteratura e dell'arte italiana, uscente dai vecchi
schemi, il giudizio che deve farsi è solo un giudizio comparativo. Ed esso
non può non tornare a tutto vantaggio dell'autore (C. B.J.
— G. Papini, Vuomo Carducci^ Bologna, Zanichelli, 1918, in i6», pp. 276.
— Come tutti i libri del P., anche questo saggio sm Carducci uomo ^ pieno
di verve f di grazia,, di vita, di passione. Non è lin libro erudito, è la raffi*
Bollettino bibliografico 627
gurazione, che del grande poeta si è formato quel fine spirito d'artista, che
è il P., e che egli stesso comunica ora ai lettori italiani.
— Fr. Guglielmino, Ardimenti classici e aberrazioni futuristiche (estr.
dalla Rassegna bibliografica della letteratura italiana, 19 18, n. i), pp. 25. —
Con grande arguzia e conoscenza della materia l'A. pone a raffronto molli
così detti ardimenti dei nostri recenti poeti futuristi con altri ardimenti
analoghi degli antichi classici greci. La sua sensata conclusione è che «le
arditezze non sono prerogative di futuristi: ogni grande poeta ha creato im-
magini e parlato figuratamente; solo che nei grandi poeti le immagini non
sono cercate, volute, ammassate per far chiasso e per batter colpi di graa
cassa ; non sono costruzioni intellettuali, ma sprizzano spontanee. Essi si espri-
mono cosi come vedono, sentono e concepiscono; e non lavorano di ma-
niera».
Coltura contemporanea: Gli studi classici in America*, opinioni e dati
statistici (trad. it. di P. Bellezza e Introduzione di C. Pascal), Milano,
Sezione milanese dell'« Atene e Roma», 1918, pp. 22. — È un opuscolo più
interessante di quello che il semplice titolo possa significare, l^oi sogliamo
credere che l'America, paese tutto dedito agli affari e senza tradizioni classiche,
aborra da questa speciale forma di coltura. La verità è nell'opinione contraria :
non solo i principali uomini politici propugnano (come si rileva dalla prima
parte di questo opuscolo) una soda coltura classica, ma le numerose statistiche,
allegate alla seconda parte, provano come negli ultimi venticinque anni lo
studio del latino nelle scuole secondarie americane abbia avuto un rapido e
continuo incremento, si che, dopo l'inglese, la storia e l'algebra, che sono
materie obbligatorie, il latino — materia facoltativa — vi conta il maggior nu-
mero di iscrizioni. Nel 1915, su i. 291. 187 iscritti, ben 503.785 avevano scelto
il latino. Non basta: altre statistiche dimostrano, che gli allievi, diremo cosi,
classici, durante il curriculum scolastico, riescono assai più felicemente dei
non classici.
Questo insegnano le statistiche. A inchiesta completa, TA. si ripromette
di studiare in particolare su tutti i dati il problema. Ma per ora la conclu-
sione generale non può essere che questa: «o gli studenti migliori preferi-
scono scegliere i corsi classici, o questi corsi, meglio degli altri, allenano
gli studenti, che li professano, o infine l'una cosa e l'altra insieme ».
A. Magnaghi, <i .,, La Geografia è in cammino -^^ Ciriè, Capella,. 1918,
pp. 104. — È un'arguta e minuta critica di alcuni tra i nostri maggiori e più
difiusi testi scolastici di geografia. La critica, piena di spirito, è però macolata
da un errore fondamentale : il M. crede di poter demolire un libro, elencandone
le sviste e i particolari sbagliati. Tutto questo può avere il suo peso; ma
ci sono libri con sviste e con errori, pieni di vita e di vitalità, e viceversa...
Il M. ha affatto trascurato questa crìtica organica dei libri da lui presi in
esame, ed è statp male. O, piuttosto, egli l'ha praticata in un solo caso : in
quello dei testi scolastici del prof. Giovanni Bonacci. Qui v' hanno giudizi
che investono tutto il valore organico dell'opera. Pur troppo, era quello
i'unico caso, in cui tale crìtica riusciva perfettamente superflua,
628 Bollettino bibliografico
— G. Maugain, La laugue et la littérature frangaise en Italie, Grenoble,
1918, p. 75: utile rassegna degli studi! contemporanei italiani di letteratura
francese.
— R. MoNDOLFO, Dai sogni d'egemonia alla rinuncia alla libertà, Bologna,
Zanichelli, 1917, pp. 45. — Fu questo il discorso che TA. lesse per la inau-
gurazione degli studi nella R. Università di Bologna il 5 novembre 1917. Ma
non è affatto uno dei discorsi del genere solito. Il M., noto per istudii assai
interessanti sulla fìlosoHa moderna, ha tracciato in queste pagine — corre-
date da una copiosa appendice di note finali — una storia viva e vera dello
spirito tedesco dai primi del sec. XIX ad oggi : dalla quale risulta' il dia-
gramma, che è formulato dal titojo stesso dell'opuscolo. Il breve scritto del
M. è specialmente degno di nota al confronto delle assai, pur troppo, mediocri
pubblicazioni di guerra, che hanno imperversato in Italia.
LIBRI RICEVUTI*
S^
A. Monti, Filippo Caronti^ Milano- Lugano, Casa editrice del Coenobiumy
1918, pp. 43.
P. Silva, // Sessantasei, Milano, Treves, 1917, pp. 320.
KoKiCHi MoRiMOTO, TAe Standard of Living in Japan, Baltimore, The Johns
Hopkins Press, 1918, pp. 150.
A. Solari, / Comuni dell' Etruria: Nota (in Rendic. della R. Accademia dei
Lincei), 1917, pp. 23.
G. ViDARi, Giuseppe Mazzini e l'ora presente, Torino, Lattes, 1917.
A. Grandis, a proposito dei giudizi del Mommsen (estr. da « Atene e Roma »,
1918, pp. 203-215).
G. CuRCio, La filosofia della storia nell'opera di Tito Livio (estr. dalle- i?«vz-
sta indo-greco'italica, 1917), pp. 77-85.
P. EoiDi, Codice diplomatico dei Saraceni di Lucerà, Napoli, Società storica
napoletana, 1917, pp. xix-465.
St. Gsbll, Histoire ancienne de V Afrique du nord, II, (pp. 475); III (pp. 424)»
Paris, Hachette, 191 8.
G/ Ferrerò, La vecchia Europa e la nuova: Saggi e discorsi, Milano, Tre-
ves, pp. 333.
G. Pascoli, Poesie, con note di L. Pietrobono, Bologna, N. Zanichelli,
1918, pp. XIV-318.
A.. Ciattini, L'Italia di domani, Pistoia, Casa Ed. Rinascimento, pp. 30.
F. Savorgnan, La guerra e la popolazione: studi di demografia, Bologna,
N. Zanichelli, 1918, pp. 146.
P. Silva, La monarchia di luglio e P Italia, Torino, Bocca, 1917, pp. Xv-425.
\. Marrocco, Romanticismo e classicismo, Caltanissetta, Libr. ed. del Divenire
artistico, 1918, pp. 24.
• Oltre quelli di cui si discorre nelle « Note ecc..» e ^d « BolleUino bibUografico x».
630 Libri ricevuti
Idem, Nicolò Machiavelli precursore della scuola realistica^ Calt^nissetta, Libr.
ed. del Divenire artistico, 1918, pp. 31.
Idem, L'educazione civile nei capolavori artistici della triade trecentistica, Cal-
tanissetta, Libr. ed. del Divenire artistico, 1918, pp. 52.
A. Calderini, Liberi e schiavi nel mondo dei papiri, Milano, 1918, pp. 30.
G, Paladino, Documenti per la storia della colonia Eritrea (estr. dal Bol-
lettino della Soc. africana d'Italia, 1918^ n. i), pp. 23.
G. LuLLY, De Senatorum romanorum patria sive de romani cultus in Pro-
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F. CoLBTTij / nostri irredenti, Milano, Unione gen. degli insegnanti italiani,
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F. LosiNi, Ivan Turghenieff, Roma, A, F. Formiggini, 1917, in 16", pp. 86.
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G. L« Vrkvgi, Conferenze di storia viterbese, Roma, E. Loeschèri 1915, pp. 66.
632 Libri ricevuti
R. ALLiBRf Les Allemands à Sainie^Dié (27 aoitt-io septembre 1914, 1914),
Paris, Payot & C, 1918, pp. xvi-277.
C. Bresciani e Turroni, G. Salvatore del Vecchio {184^-917) (estr. ói\\V An-
nuario della R. Università di Genova^ 1918) ; F. Cosentini, G. Salva-
tore del Vecchio e la sua opera scientifica (estr. dal Dizionario di legi-
slazione sociale y 1917, fase. 5-6); F. Virgilii, L' opera scientifica di G. S.
Del Vecchio (estr. dagli Studii senesi, voi. XXXIII, fase. 4-5, 1918.
I NOSTRI MORTI
GIUSEPPE FRACCAROLI
FERDINANDO GABOTTO
2C9 A scanso di equivoci e di erronee interpretazioni dichiariamo una volta
per tutte clie del contenuto SPECIFICO dei singoli articoli la responsabi-
lità appartiene interamente agli autori che li sottoscrivono.
A. Medici, Gerente responsabile.
Città di Castello, Tipografia della Casa Editrice S. tapi, 1918,
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N88
Nuova rivista storica
anno 2
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