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Full text of "Nuovi poemetti"

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POESIE 

DI 

GIOVANNI  PASCOLI 

III. 


e 


NUOVI 
POEMETTI 


QUARTA  EDIZIONE 


G>- 


OVAVNtrt 


I   ì»'S<i^«l- 


BOLOGNA 

NICOLA  ZANICHELLI 
1918 


PROPRIETÀ   LETTERARIA 


Bologna  -  Tip.  A.  Cacciari  -  Vili  -  '917. 


AI  MIEI  SCOLARI 

DI  MATERA  MASSA  LIVORNO 

MESSINA  PISA  BOLOGNA 


PREFAZIONE 


A  voi  che  mi  conoscete.  A  voi,  ai  quali  non 
avrò  sempre  mostrato  molto  ingegno  e  assai  dot- 
trina, ma  animo  onesto  uguale  sincero,  sì,  sempre. 
A  voi,  ai  quali  non  credo  aver  dato  mai  esempi  di 
prosunzione  e  di  ambizione,  di  malevolenza  e  di  mal- 
dicenza. A  voi,  infine,  ai  quali  io  devo  molto  più  che 
non  diedi. 

Perchè  vi  devo  l'abitudine  di  supporre  sempre 
avanti  me  che  scrivo,  come  ho  avanti  me  che  parlo, 
anime  giovanih,  che  è  dovere  e  religione  non  abbas- 
sare, raffreddare,  violare. 

Cosi  voi  mi  avete  beneficato. 

Così  io  sono  lieto  d'aver  unito  alla  divina  poesia 
l'esercizio  umano  che  più  con  la  poesia  si  accorda; 
la  scuola. 

Bologna,  24  giugno  1909. 

Giovanni  Pascoli 


INDICE 


La  fiorita Pag-  3 

//  pittiere ..  5 

//  solitario »  9 

La  rondine ..  I3 

La  cinciallegra »  i? 

//  torcicollo .,  21 

//  cuculo „  25 

La  capinera »  29 

La  lodola   .          n  33 

L' usignolo n  7)1 

Il  naufrago  —  Il  prigioniero 41 

//  naufrago »  43 

La  morte  del  Papa „  47 

Zi  Meo „  63 

Nannetto „  67 

Bellis  perennis „  7^ 

/   La  pecorella  smarrita „  75 

La  vertigine „  81 

«■*//  prigioniero „  85 

I    FILUGELLI ,  87 

La  mietitura „  loi 

Tra  le  spighe „  103 

Terra  e  cielo „  107 


E  lavoro Pag.  m 

//  pane »  ii5 

La  messe »  119 

/  semi ,  123 

//  corredo ,,127 

//  saluto. »  131 

//  chili    .     .     .     .  • ..  135 

Le  due  aquile  —  I  due  alberi „  139 

Le  due  aquile 141 

La  piada ^45 

Gli  emigranti  nella  luna I53 

/  due  alberi ..  "^ll 

La  vendemmia »  181 

Pistole »  ^97 

Note 211 


II 

PA^LO   MAIORA 


LA  FIORITA 


IL  PITTIERE 


hi  tutti  i  giorni   e   tante   volte  al  giorno 
s'erano  visti!  L'uno  era  in  orecchi 
sempre  che  udisse  spittinire  intorno. 

E  s'ei  tornava  a  casa  con  due  stecchi 

o  due  vincigli,  l'altro  lo  seguiva 

da  ramo  a  ramo.  Erano  amici  vecchi. 


Ma  oggi,  tutto  maraviglia  viva 

nel  petto  rosso,  l'uno  alzava  a  scatti 

la  coda  al  dosso  di  color  d'uliva. 

Parca  dicesse:  —  O  dunque  fa  di  fatti  1?  — 
Ora  aliava  in  terra  tra  lo  sfagno, 
ora  volava  in  cima  a  gli  al  bigatti. 

Con  gli  occhi  tondi  aperti  sul  compagno 
molleggiava  sul  cesto  e  su  l'ontano. 
L'altro  sedeva  al  calcio  d'un  castagno, 

con  una  vetta  e  un  coltelluccio  in  mano... 


LA    FIORITA 


Pareva  savio,  un  altro!  Il  suo  coltello 
fece  alla  vetta  torno  torno  un  segno 
uguale,  netto,  e  un  piccolo  tassello. 

Ed  egli  poi  con  arte  e  con  ingegno 
torse  la  buccia  tra  i  due  pugni,  e  trasse 
fuor  della  buccia  umido  e  bianco  il  legno. 

Tagliò  del  legno  quanto  gli  tappasse 
quel  cannoncello,  ma  non  tutto  e  troppo. 
Scese  il  pittiere  su  le  stipe  basse. 

Provò  se  il  fiato  non  avesse  intoppo, 
soffiando  un  poco,  e  si  drizzò  contento. 
Frullò  il  pittiere  sur  un  alto  pioppo. 

Poi,  nella  selva,  coi  capelli  al  vento, 
lungo  il  ruscello,  il  fanciulletto  Dorè 
col  flauto  verde  annunziò  l'avvento 

dei  fiori  brevi  e  dell'eterno  amore. 


Ili 


O  primo  fiore!  o  bianca  primavera! 
Hai  gli  orli  rossi,  come  li  ha  l'aurora, 
e  il  sole  biondo  è  nella  tua  raggiera! 


IL    PITTIERE 


Dorè  sonava.  All'uccellino  allora 
sovvenne  il  nido.  Alzò,  partendo,  il  canto 
che  là  negli  alti  monti  ove  dimora, 


canta  alle  solitudini  soltanto. 


IL  SOLITARIO 


Stette  sul  botro,  stette  su  lo  scoglio, 
dritto,  sonando  il  flauto  di  corteccia: 
l'acqua  rispose  con  un  suo  gorgoglio. 

Intese  la  diana  boschereccia 

il  vecchio  bosco,  e  la  vitalba  volle 

togliersi  i  bianchi  bioccoli  alla  treccia. 

E  passò  l'acqua  e  risalì  sul  colle: 
per  tutti  i  poggi  il  sufolo  selvaggio 
schiudeva  i  bocci,  apriva  le  corolle. 

Pioppi  ed  ontani  pendere,  al  passaggio, 
facean  dai  rami  ciondoli  e  nappine; 
chiedea  l'avorno  s'era  giunto  maggio. 

Mettea,  chi  fiori  non  potea,  le  spine; 
mettea  le  gemme  l'albero  più  brullo: 
piovea  la  quercia,  vergognando  alfine, 

le  vecchie  foglie  a'  piedi  del  fanciullo. 


LA    FIORITA 


u 


E  il  bel  fanciullo  nella  lieta  ascesa 
passò,  col  fresco  flauto  tra  le  dita, 
presso  macèe  che  furono  una  chiesa. 

Pur  v'è  qualcosa  della  scorsa  vita, 
poiché  vi  canta  all'apparir  del  nuovo 
giorno  ed  al  vespro  il  passero  eremita. 

Vi  canta  ai  biacchi,  che  lì  hanno  il  covo, 
ai  grilli,  alle  lucertole  che  destre 
vengono  a  guizzi  di  tra  il  cardo  e  il  rovo. 

Dorè  intonò  col  sufolo  silvestre 

la  sua  fanfara  del  ritorno;  e  il  suono 

sparse  per  tutto  un  vago  odor  cilestre: 

per  tutto  un  casto  odore,  un  odor  buono, 
dov'era  già  il  sagrato,  dove  pare 
fosse  la  croce,  dove,  ignoti,  sono 

sepolti  i  morti  sotto  il  morto  altare. 


in 


Viole  caste,  palUde  viole! 

Il  fiore  va,  ma  lascia  un  seme  e  il  miele. 

Aprite,  o  fiori,  all'ape  che  vi  vuole! 


IL    SOLITARIO 


Il  solitario  udiva.  Ecco,  e  fedele 
alla  rovina,  prese  alcun  fuscello, 
radiche  e  scorze,  crini  e  ragnatele; 

e  fece  il  nido,   oh!  rozzo  assai,   ma  bello. 


LA  RONDINE 


E  fu  tra  i  campi  e  stie'  su  l'altipiano 
Dorè,  sonando.  Ed  ecco 'che  un  susino 
bianco  sbocciò  sul  verzicar  del  grano. 

Come  un  sol  fiore  gli  sbocciò  vicino 

un  pesco,  e  un  altro.  I  peschi  del  filare 

parvero  cirri  d'umido  mattino; 

d'un  bel  mattino  a  nuvilette  chiare 
rosate  in  cima,  che  dall'Alpi  d'oro 
guatino  ancora  palpitando  il  mare. 

lisciano  le  api.  Ed  or  s'udiva  un  coro 
basso,  un  brusìo  degli  alberi  fioriti, 
un  gran  sussurro,  un  favellar  sonoro. 

Dicean  del  verno,  si  facean  gl'inviti 

di  primavera.  Per  le  viti  sole 

era  ancor  presto,  e  ne  piangean,  le  viti, 

a  grandi  stille,  in  cui  fioriva  il  sole. 


14  LA    FIORITA 


Nell'aia,  sotto  un  prugno,  sur  un  mucchio 
di  piote,  egli  chiamò  le  rondinelle, 
Dorè,  col  flauto  di  castagno  in  succhio. 

Le  voci  fuori  ne  traea  più  belle 
e  più  lontane.  Ed  ecco  che  su  l'aia 
vide  due  rondini  aliare  snelle. 

Svolar  le  vide  sotto  la  grondaia, 
e  poi  sparire;  e  ritornar  più  tante, 
tornare  in  quattro,  in  otto,  in  dieci,  a  paia. 

E  stava  sotto  il  prugno  tremolante 
di  bianchi  fiori,  tra  il  girar  veloce 
di  tante  nere  rondinelle  sante. 

(Avean  Gesù  pur  consolato  in  crocei) 
Forse  mancava  a  casa  lor  qualcosa: 
parlavan  alto,  tutte  ad  una  voce... 

E  su  la  soglia  ecco  che  venne  Rosa. 


Ili 


Torna  la  rondine  1  È  fiorito  il  prugno! 

11  prugno  è  in  fiore,  in  succhio  è  già  il  castagno. 

Quale,  di  marzo;  quale  è  in  fior,  di  giugno. 


LA    RONDINE  15 


Rosa  tenea  nel  gomito  il  cavagno 

pieno  di  ghiomi.  Stette  fissa  al  grido 

del  buon  ritorno.   Ognuna,  il  suo  compagno! 

L'albero  ha  il  fiore  e  la  rondine  il  nido. 


LA  CINCIALLEGRA 


E  poi  cantò  la  cinciallegra,  e  Rigo 
tornò.  T'avea  sognata  sul  mattino, 
t'avea  sognata  tra  un  odor  di  spigo, 

sognata,  o  Rosa,  in  un  candor  di  lino, 
candor  di  fiori  prima  della  foglia, 
senza  una  foglia,  o  candido  armellinol 

Avevi  i  piedi  ignudi  su  la  soglia, 
tremavi  come  un  armellino  in  fiore, 
che  trema  tutto  al  vento  che  lo  spoglia. 

Era  rimasto  a  Rigo,  quel  tremore; 

nel  cuore  suo,  che  per  due  cuori  accanto 

avea  battuto  un  attimo...  o  quante  ore? 

Gli  era  rimasta  una  dolcezza,  un  pianto 
per  lei  come  pel  bimbo  che  non  parla! 
Or  pregherebbe  come  avanti  un  santo... 

E  vide  Rosa,  e  non  ardì  guardarla. 
Nuovi  Poemetti 


It<  LA    FIORITA 


Cantava  a  lei,  ch'era  a  ronzar  nell'orto, 
la  cinciallegra,  e  l'era  Rigo  a  mente, 
quando  lo  vide,  lieto  insieme  e  smorto. 

"  Rigo  !  „  E  lasciò  cadere  le  semente 

che  aveva  in  grembo;  e  vide  sé,  smarrita, 

tutt' arruffata,  con  le  vesti  scente... 

Si  ravviò  con  le  veloci  dita: 

pareano  i  segni  che  si  fanno  in  chiesa. 

Sfiorò  d'un  tratto  fronte  spalle  vita. 

Come  pareva  anche  più  bella,  accesa 
in  viso,  sfatto  il  nodo  biondo,  un  piede 
ignudo  fuor  della  gonnella  tesa! 

"Ohi  quant'è  mai  che  non  vi  si  rivede!  „ 
*  Il  babbo  è  indietro  con  le  sue  faccende  : 
gli  legherò  due  viti  o  tre,  se  crede...  „ 

Poi  mormorò:    "Ben  rende  chi  ben  prende  „. 


m 


Squittian  nel  sole  sopra  la  fanciulla, 
chiedeano  a  lui  le  rondinelle  nere, 
chiedeano:  —  Ed  ora  non  le  dici  nulla?  — 


LA    CINCIALLEGRA  19 


Ma  Rigo,  no;  perchè  volea  vedere. 

—  Sei  tu  che  vieni  a  me  tutte  le  aurore? 

Sei  tu  che  torni  a  me  tutte  le  sere? 

Fa,  quando  s'apre,  un  fiore  più  rumore...  - 


IL  TORCICOLLO 


E  dicea  —  Cincin.. .pota  Cincin.. .pota  — 
la  cinciallegra;  e  un  canto  uscì  dal  prato 
d'erba  lupina:  un'altra  voce  nota. 

Potava  il  babbo;  lasciò  star  pennato 
forbici  e  torchi,  e  poi  seguì,  fischiando 
anch'esso  un  po',  l'altro  messaggio  alato. 

Prese  la  vanga  (questo  era  il  comando 
dell'altro  uccello)  dalla  punta  d'oro; 
andò  la  bricia  a  tirar  su,  con  Nando. 

Poi  spicciolò  nel  campo  il  suo  tesoro 
di  chicchi  d'oro;  e  gli  dicea,  Fa  piano  1, 
quell'incessante  piagnisteo  canoro. 

Dicea:  —  Bada!  Il  granturco  non  è  grano: 
ben  altra  rappa  nascerà  da  un  chicco!  — 
Quasi  parea  glieli  contasse  in  mano, 

dicendo:  —  A  uno  a  uno!  Non  sei  ricco!  — 


LA    FIORITA 


Poi  l'ammoniva  ch'era  giunta  l'ora 
di  seminar  la  canipa.  Ma  poca! 
E  tristo  a  lungo  ripetea,  Lavora! 

Ei  t'ubbidiva,  o  poverella  fioca 

cani  paiola:  e  seminò  ben  fitto, 

dicendo:  "  Non  mai  vince,  chi  non  gioca. 

Il  più  del  seme  ai  passeri  lo  gitto 

per  certo!  È  il  meno  che  doventa  tela  „. 

Però  d'intorno  non  s'udiva  un  zitto.  ' 

Ma  il  torcicollo  a  cui  nulla  si  cela, 
avanti  o  dietro,  e  che  giammai  non  erra, 
cantava  pur  la  lunga  sua  querela. 

Ei  li  vedeva,  i  figli  della  terra, 

color  di  terra,  che  tendean,  gl'ingordi! 

Forse  pensava:  —  E  l'uomo  muove  guerra, 

per  via  di  loro,  ai  torcicolli  e  a'  tordi!  — 


III 


Ma  l'uomo  fece  un  uomo  d'una  cappa 

e  d'un  cappello.  "  E'  vi  darà  buon  conto!  „ 

diceva:  e  se  n'andò  con  la  sua  zappa. 


IL   TORCICOLLO  23 


Scesero  allora  i  passeri.  Il  tramonto 

era  dorato.  Erano  cento  e  cento... 

—  Ohi  il  poveromo!  Ha  l'ali,  al  volo  è  pronto; 

ma  è  confitto,  e  lo  patulla  il  vento!  — 


IL  CUCULO 


Rigo,  mentr'era  buona  ancor  la  luna, 
potava.  Aveva,  a  raccattar  le  brocche, 
la  bionda  Rosa  e  la  Viola  bruna. 

Allegre.  Ohi  d'un  viticcio  tra  le  ciocche 

ridean  mezz'ora!  E  poi  dicean,  ridenti, 

col  fascio  in  capo:  "  Siamo  o  no  due  sciocche? 

Rigo  seguiva  il  loro  andar  coi  lenti 
sguardi,  col  tralcio  che  torceva,  in  mano, 
ed  un  vinchietto  tremolo  tra  i  denti. 

Che  s'affrettava.  Era  già  alto  il  grano, 
avean  le  gemme  l'uva  in  bocca.  —  O  vignai 
pensava:  —  il  cucco  già  non  è  lontano!  — 

Pensava:  —  Il  ben  nel  presto  non  alligna  — 
Ma  sì,  potava,  poi  torceva  a  modo 
il  capo  buono,  quel  che  fa  la  pigna; 

e  lo  legava  con  vie  più  d'un  nodo. 


20  LA    FIORITA 


Sì:  presto  e  bene.  E  già  finiva  il  tutto, 

quasi;  e  non  s'era  inteso  il  doppio  accento 

del  cucco:  —  Un  giorno  molle,  un  giorno  asciutto  — ; 

non  s'era  inteso  annoverar  tra  il  vento 
dolce  le  viti  ancora  da  potare, 
cuculiando  il  contadino  lento. 

Era  all'ultima  vite  del  filare 

Rigo,  e  le  donne  all'ultimo  fastello; 

e  venne  il  canto  da  di  là  del  mare. 

Con  la  sua  mucca  risalìa  bel  bello 

la  mamma,  e  il  babbo  la  scontrava  in  via. 

Dorè  si  ritrovò  col  suo  fratello. 

"L'ultimo  nodo!  Rigo  gridò:  Vial  „ 
Rosa  premeva  il  fascio  coi  ginocchi... 
C'erano  tutti,  in  pace  e  compagnia, 

col  sol  morente,  che  splendea,  negli  occhi. 


m 


Avea  finito.  E  stettero  alcun  poco. 
E  teste  bianche  e  teste  bionde  e  nere 
splendean  sotto  le  nuvole  di  fuoco. 


IL   CUCULO  27 

Udiano  le  due  voci  delle  sere 
di  primavera,  limpide  e  sonore, 
così  lontane  che  parean  non  vere, 

così  vicine  che  parean  del  cuore. 


LA  CAPINERA 


Su  l'alba  Rigo  udì  cantar  gli  uccelli. 
Parlavan,  ora  che  nessun  li  udiva, 
tra  loro,  de'  lor  piccoli  castelli: 

castelli  in  aria;  in  vetta  a  un  melo,  in  riva 
a  un  botro,  appeso  a  un  trave,  dentro  un  muro, 
nel  buco  d'un  castagno  o  d'un' oliva. 

Il  cinguettìo,  così  tra  lume  e  scuro, 
cessò  d'un  tratto.  Era  comparso  il  sole. 
Sparì  ciascuno  nel  bel  giorno  puro. 

E  Rigo  in  cuore  preparò  parole 
da  dire  a  lei,  ridire,  da  vicino... 
Oh!  era  tempo!  E  tutto  può  chi  vuole.. 

Via  via  le  rimutava  in  suo  cammino, 
per  via  le  fece  belle  a  poco  a  poco... 
Rosa  stendeva  sopra  un  biancospino 

l'accia  filata  nell'inverno  al  fuoco. 


3°  I-A    FIORITA 


«^ 


E'  parlò  d'altro,  e  disse  in  fine.   "  O  Rosa...  , 
Rosa  aspettava.  "  Tutte  l'altre  vanno 
a  nozze;  e  voi  non  vi  farete  sposa? „. 

"  Mia  madre  non  è  quella  d'or  un  anno. 
Come  faceva!  come  lavorava! 
Ma  ora  fa  le  scale  con  l'affanno. 

Viola  è  sempre  piccola,  ed  è  brava 
ma  per  le  bestie.  Ora,  chi  fa  mangiare? 
chi  cuce  un  po'?  chi  tesse  un  po'?  chi  lava? 

Da  fare,  in  una  casa,  non  appare, 

ma  ce  n'è  tanto.  E  i  bimbi?  Se  sapeste! 

Dorè  è  piccino,  a  me  mi  sembra  un  mare. 

Ora  chi  li  rammenda  e  li  riveste? 
Che  tutti  i  giorni  manca  lor  qualcosa. 
Tutti  i  giorni!  Non  dico  poi  le  feste...  „ 

A  lui  così  tu  rispondesti,  o  Rosa. 


Ili 


E  quando  venne  l'ora  del  ritorno. 
Rosa  era  allegra,  e  Rigo  no,  non  era. 
Andava  cupo  sul  morir  del  giorno. 


LA    CAPINERA  31 


E  chiedeva  alcunché  la  capinera 
alto  cantando  con  la  voce  chiara; 
ohi  non  a  lui!  Che  nella  rosea  sera 

le  rispondeva  un'altra  voce  cara. 


LA  LODOLA 


Cantar  gli  uccelli  Rigo  udì  su  l'alba. 
Parlavan  piano  di  bambagia  e  piume 
e  fili  e  peli  e  pappi  di  vitalba. 

Dei  lor  lettini  essi  garrian  tra  lume 
e  scuro.  E  venne  il  sole.  E  frullò  via 
ciascuno,  al  bosco,  al  prato,  al  campo,  al  fiume. 

—  Casa  miai  —  pensò  Rigo  —  una  badia 
tu  sei  davvero,  con  un  fraticello 
romito  e  solo,  o  trista  casa   mia! 

E  ci  sarebbe  pure  tanto  bello, 
se  lei  vedessi  tutte  le  mattine 
girare  in  pianellette  ed  in  guarnello...  — 

Così  pensava,  e,  passo  passo,  alfine, 
vide  i  cipressi  neri  della  Pieve... 
Rosa  piegava  una  sua  tela  fine 

che  aveva  tessuta  i  giorni  della  neve. 
Nuovi  Poemetli 


34  LA    FIORITA 


Aveva  i  pésti,  aveva  pianto.  "  O  Rosa! 
Rosa,  avete  le  guance  scolorate, 
avete  pianto.  Rosa.  Per  che  cosa? 

Voi  fate  troppo,  autunno  verno  estate. 
Rosa,  se  non  lavate,  voi  stendete! 
Rosa,  se  non  tessete,  voi  filate  1 

Per  voi  non  c'è  momento  di  quiete. 
Tutto  tenete  lindo,  netto,  asciutto, , 
lustrate  ogni  solaio  ogni  parete. 

Parete  un  uccelletto,  biondo,  sdutto, 
snello,  che  cala  becca  salta  frulla 
in  un  minuto.  E  sola  fate  il  tuttol 

E  siete  sempre  piccola  fanciulla...  „ 

"  Povera  mamma,  è  lei  che  non  ha  posa  I 

Senza  mia  madre,  non  saprei  far  nulla  „ 

A  lui  così  tu  rispondesti,  o  Rosa. 


Ili 


E'  ritornò  più  tristo,  a  capo  chino. 

Ed  ecco,  in  mezzo  al  grande  ciel  sereno, 

la  lodoletta,  uguale  ad  un  puntino, 


LA    LODOLA  35 


cantava;  e  poi,  come  venisse  meno 
dalla  dolcezza,  si  gittò  nel  piano: 
s'abbandonò  sul  nido  suo  terreno, 

s'abbandonò  sul  nido  suo  tra  il  grano. 


L'USIGNOLO 


Su  l'alba  udì,  ma  piano,  come  fosse 
un  gran  segreto,  bisbigliar  di  bianche 
ova  e  celesti  con  goccine  rosse, 

calde  nel  musco,  sopra  i  pappi,  ed  anche 
tra  foglie  secche...  Prima  ancor  di  giorno 
volò  ciascuno  alle  compagne  stanche. 

Ma  tutto  il  giorno  andava  Rigo  attorno 
senza  far  nulla.  Non  guardò  nell'orto 
spighe  di  lilla  e  ciondoli  d'avorno. 

Violacciocche,  e'  vi  guardava  torto 
quando  lo  chiamavate  con  l'odore! 
Ma  verso  sera  egli  là  era,  smorto... 

E  vide  Rosa:  aveva  in  grembo  un  fiore, 
non  facea  nulla,  ed  era  sola  e  muta. 
S'udia  lontano  il  sufolo  di  Dorè. 

Guardava  in  aria,  a  nulla.  Era  seduta. 


38  LA'    FIORITA 


Rigo  le  prese  le  due  mani.  "  O  Rosa, 
ti  voglio  bene.  Io  t'amo  e  mi  vergogno 
di  dirlo  a  te,  di  dirlo  a  te...  mia  sposa! 

Non  ho  coraggio,  Rosa,  ed  ho  bisogno 
che  tu  m'incuori.  Il  cuore  trema:  senti? 
E  non  m'attento  di  parlar,  che  in  sogno. 

Anche  tu  sembra  allora  che  ti  attenti. 

Se  mostro  un  po'  di  chiuder  gli  occhi  e  taccio, 

tu  entri  in  casa  senza  aprir  battenti. 

Tu  vai,  tu  vieni...  Oh!  io  non  ti  discaccio!  „ 
Ecco  e  d'un  braccio  cinse  a  lei  la  vita, 
ed  essa  gli  si  abbandonò  sul  braccio. 

"  Tu  sei  l'anima  mia,  sei  la  mia  vita. 
Battere,  il  cuore,  senza  il  tuo,  non  osa 
più.  Respiriamo  con  la  bocca  unita! 

Apriti  alfine,  o  mio  bocciòl  di  rosa!  „ 


in 


AUor  s'aprì  la  prima  stella  in  cielo; 

e  dalla  terra  tacita  e  sorpresa 

si  levò  un  trillo  come  un  lungo  stelo. 


l'  usignolo  39 

Un'altra,  un  altro.  Ad  ogni  stella  accesa, 
un  nuovo  canto.  Un  canto  senza  posa 
correva  ardendo  lungo  la  distesa 

del  cielo  azzurro.  —  È  l'usignolo,  o  Rosai  — 


IL  NAUFRAGO  -  IL  PRIGIONIERO 


IL  NAUFRAGO 


Il  mare,  al  buio,  fu  cattivo.  Urlava 
sotto  gli  schiocchi  della  folgore!  Ora 
qua  e  là  brilla  in  rosa  la  sua  bava. 

Intorno  a  mucchi  d'alga  ora  si  dora 
la  bava  sua  lungi  da  lui.  S'eifonde 
l'alito  salso  alla  novella  aurora. 

Vengono  e  vanno  in  un  sussurro  l'onde. 

Sembra  che  l'una  dopo  l'altra  salga 

per  veder  meglio.  E  chiede  una,  risponde 

l'altra,  spiando  tra  quei  mucchi  d'alga... 


—  Chi  è?  Non  so.  Chi  sei?  Che  fai?  Più  nulla. 
Dorme?  Non  so.  Sì:  non  si  muove.  E  il  mare 
perennemente  avanti  lui  si  culla. 


44  IL   NAUFRAGO 

Noi  gli  occhi  aperti  ti  baciamo  ignare. 
Che  guardi?  Il  vento  ti  spezzò  la  nave? 
il  vento  vano  che,  sì,  è,  né  pare? 

E  tu  chi  sei?  Noi,  quasi  miti  schiave, 
moviamo  insieme,  noi  moriamo  insieme 
costì  con  un  rammarichìo  soave... 

Siamo  onde,  onda  che  canta,  onda  che  geme. 


Ili 


Tu  guardi  triste.  E  dunque  tua  forse  era 
la  voce  che  parea  maledicesse 
nell'alta  notte  in  mezzo  alla  buferai 

Non  siamo  onde  superbe,  onde  sommesse. 
Onde,  e  non  più.  L'acqua  del  mare  è  tanta! 
Siamo  in  un  attimo,  e  non  mai  le  stesse. 

Ora  io  son  quella  che  già  là  s'è  franta. 
E  io  già  quella  ch'ora  là  si  frange. 
L'onda  che  geme  ora  è  lassù,  che  canta; 

l'onda  che  ride,  ai  piedi  tuoi  già  piange. 


IV 


Noi  siamo  quello  che  sei  tu:  non  siamo. 
L'ombre  del  moto  siamo.  E  ci  son  onde 
anche  tra  voi,  figli  del  rosso  Adamo? 


IL   NAUFRAGO  45 


Non  sono.  È  il  vento  ch'agita,  confonde, 
mesce,  alza,  abbassa;  è  il  vento  che  ci  schiaccia 
contro  gli  scogli  e  rotola  alle  sponde. 

Pacel  Pace!  È  tornata  la  bonaccia. 

Face!  È  tornata  la  serenità. 

Tu  dormi,  e  par  che  in  sogno  apra  le  braccia. 

Onde!  Onde!  Onda  che  viene,  onda  che  va... 


LA  MORTE  DEL  PAPA 


"Oh!  nonna!  il  Papa,,   uno  gridò  "sta  male! 

un  seggiolaio  che  da  Montebono 

salìa  lungo  Corsonna;  "  è  sul  giornale  „. 

Andava  all'Alpe,  dove  più  non  sono 
che  greggi  erranti,  e  dove  non  si  sente, 
fuor  che  di  foglie  al  vento,  altro  frastuono; 

o  il  solitario  scroscio  del  torrente 

dopo  un'acquata,  o  il  conversar  tranquillo, 

presso  le  bianche  nuvole,  di  gente, 

che  non  si  vede,  intorno  cui  lo  squillo 
de'  campanacci  va  per  le  pratina 
odorate  di  menta  e  di  serpillo. 

La  vecchietta  filava.  A  lei  vicina 
una  sua  pecorella  da  guadagno 
strappava  ciuffi  d'erba  pannocchina. 


^8  LA    MORTE    DEL    PAPA 

Essa  filava  all'ombra  d'un  castagno 
centenario,  e  parlava  alla  sua  recchia. 
Infilato  nel  braccio  era  il  cavagno. 

E  tra  ch'eli' era  dura  un  po'  d'orecchia, 
e  che  il  cielo  echeggiava  di  cicale, 
aspre  dal  sole,  a  mezzodì;  la  vecchia 

«  Chi?  „  disse.  "  Il  Papa  „  "  Il  Papa,  che?  „  «  Sta  male  „. 


Alzò  le  braccia  col  cavagno  e  il  fuso, 
al  cielo  azzurro,  e  mormorò  :  "  Madonna 
del  Carmine!  „  La  recchia  levò  il  muso. 

"  Siete  d'età  „  l'uomo  riprese  "  eh  nonna? 
Ma  voi  siete  altra  tiglia!  A  voi  fa  prode 
l'aria  di  monte  e  l'acqua  di  Corsonna  „. 

Ma  la  vecchina  non  sentì  la  lode. 
Smerlucciò  tra  i  castagni,  quasi  intorno 
fosse,  a  qualch' ombra,  l'angiolo  custode. 

EU' era  nata  lo  stesso  anno  e  giorno! 

E  da  vent'anni  le  diceva  il  cuore 

che  farebbero  insieme  anche  il  ritorno. 


LA    MORTE    DEL    PAPA  49 

"  O  dunque  c'è  la  diceria,  che  muore?,, 

"  Più  troppo  1  „  Dunque  non  vedrebbe  il  rosso 

delle  fragole  e  il  nero  delle  morel 

"  Addio  'n  salute  1  „  "  Addio  „.  L'uno  pel  fosso, 
e  l'altra  prese  per  uno  sgaruglio. 
Avea  le  gambe  flosce,  il  fiato  grosso. 

Tornava  a  casa.  O  Vergine  di  luglio! 

o  bianca  nuviletta  del  Carmelo! 

La  recchia  dietro  lei  qualche  cespuglio 

brucava,  e  poi  stradava  con  un  belo. 


Ili 


•  Ta  ta,  Nina,  ta  ta  „  Come  gagliardi 
eran  quei  tre  castagni  suoi!  Che  mésse! 
Che  cimi!  E  la  chioccetta  era  nei  cardi! 

Il  suo  figliolo  quando  vi  coghesse, 
nella  sera  che  accecano  il  melato, 
sì,  penserebbe  a  farle  dir  due  mésse. 

Buttar  due  lire  uguanno  non  fa  stato. 
Uguanno  è  annata,  se  non  è  lo  strino 
che  c'entri  prima  ch'abbiano  animato. 

Nuovi  Poemetti 


50  LA   MORTE   DEL   PAPA 

La  vecchietta  era  giunta  al  casaline; 
ma  non  l'antico  suo  paiòl  di  rame 
appese  alla  catena  del  camino. 

Era  avvilita,  e  non  le  facea  fame! 
Mise  un  lenzuolo  bianco  al  sacconcello, 
ma  prima  un  poco  ne  rumò  lo  strame. 

Poi  si  portò  su  l'uscio  uno  sgabello. 
Sedè  movendo  ad  or  ad  or  la  bocca. 
Aspettò  che  venisse  il  suo  gemello. 

Sgranava  qualche  rappa  nella  cocca 
del  pannello,  e  chiamava  Currel  Currel 
Poi,  rinfilata  nel  pensier  la  rocca, 

filava  in  mezzo  alle  montagne  azzurre. 


IV 


Dan  dan...  dan  dan...  Passava  un  carbonaio 
col  suo  muletto.  "  O  Chiozza,  se  vedete 
il  Ciampa,  il  mi'  figliolo  di  Renaio, 

ditegli,  se  non  è  per  le  faggete, 

che  non  l'ho  visto  da  non  so  mai  quanto, 

e  che  cammini.  E  ditel  anco  al  prete. 


LA    MORTE    DEL    PAPA  Jl 

Venga  di  quella  via  con  l'olio  santo  „ 

"  Servirò.  Ma  che  avete?  O  che  vi  sente?  „ 

"  O  Chiozza,  è  l'ora  che  par  poco  il  tanto  1  „ 

"  Che  dite,  nonna?  „  "  Anzi  non  par  più  niente  I  „ 
"  Coraggio!  „   "  Più  che  vecchi,  non  si  campa. 
Da  Roma  il  Papa  ha  da  venire...  „  "  O  gente!  „ 

"  E  voi  sapete  leggere?,,   "  La  stampa  „ 

"  Che  scrivono  7  „  "  Che  muore  „  "  Ecco  tra  poco 

andrò  con  lui.  Se  lo  vedete,  il  Ciampa, 

il  mi'  figliolo...  „  Ella  parlava  fioco, 
l'altro  ripiva.  Le  montagne  in  faccia 
brillavano  d'un  grande  orlo  di  fuoco. 

Dan  dati...  Sul  petto  ella  piegò  le  braccia. 
Dovean  sonare  Avemarie  dintorno. 
Dan  dan...  dan  dan...  Era  finita  l'accia, 

e  pieno  il  fuso,  e  terminato  il  giorno. 


Il  giorno  dopo  il  Ciampa  (era  ai  vincigli 
poco  lontano)  entrò  senza  picchiare 
col  più  piccino  dei  suoi  sottofigli. 


52  LA    MORTB    DEL    PAPA 

La  trovò  che  sfaceva  col  cucchi  are 
nel  laveggino  nero  una  brancata 
di  farina,  in  ginocchio  al  focolare. 

"  Ch'ha  detto  il  Chiozza,  eh' èrite  malata?  „ 
"  Ohi  Gigi!  Ahimè  che  tremo  ho  fatto!  Provo 
"  se  mi  fa  bono  un  po'  di  farinata  „ 

**  Più  bono,  o  mamma,  vi  farebbe  un  ovo  „ 
"  Con  l'ova  abbiamo  da  comprare  il  sale  „ 
"  O  dunque,  mamma,  cosa  c'è  di  novo?„ 

"  Forse,  figliolo,  e'  è  più  ben  che  male  „ 
"  Dio  v'ascolti  „  "  O  codesto  rapacchiotto?„ 
"  È  il  Gigino  del  mi'  pover  Natale  „ 

"  Dio  lo  riposi.  E  in  quanti  sono  ?  „    "In  otto 
*  Polenta  vi  ci  vuole  ora  e  coraggio!  „ 
"  Su  dunque.  Nini:  porgigU  il  ricotto  „. 

Nelle  sue  frasche  e'  lo  tenea,  di  faggio, 
verdi,  col  cimo  in  dentro  e  fuori  il  calcio: 
un  fardelletto  bello  come  un  maggio, 

legato  con  un  torchiettin  di  salcio. 


LA    MOKTK    DEL    PAPA  53 


VI 


Ella  guardò,  mestando.  "  O  che  gli  porti, 
Nini,  alla  nonna?  O  che  tu  l'hai  saputo 
ch'io  vado  in  pace,  a  ritrovare  i  morti? 

Che  glielo  faccio  a  babbo,  omo,  un  saluto? 
Che  gli  dico  del  bimbo?  Ehi  gli  vuol  detto 
eh' è  savio,  che  dà  retta,  eh' è  d'aiuto; 

ch'ha  il  grembialino,  ch'ha  il  rastellinetto, 
che  va  colle  sue  genti  alle  faccende, 
anco  alla  ruspa  dopo  fatto  appietto; 

e  ch'abbada  alle  pecore,  e  contende 

se  vanno  al  danno,  e  poi  che  fa  in  Corsonna 

le  vetrici  e  le  monda  e  le  rivende. 

Va  colassi!,  va  colasse,  la  nonna, 
con  uno  che  ci  sa;  che  può,  se  vuole, 
anco  portarla  avanti  alla  Madonna. 

Da  lui  si  farà  dire  le  parole 
per  benedire  i  figli  de'  suoi  figli 
coi  lor  figlioli  e  colle  lor  figliole; 

perchè  Dio  vi  protegga  e  vi  consigli, 

e  abbiate  ogni  anno  lo  stabbiato  e  il  frutto, 

e  lana  e  legna,  e  le  fronde  e  i  vincigli, 

e  la  polenta  d'ogni  giorno,  e  tutto  „. 


54  LA    MORTE    DEL    PAPA 


VII 


La  fronte  e  gli  occhi  si  spazzò  col  dosso 
della  mano.  S'alzò.  Prese  in  un  godo 
del  soppianello  due  cucchiai  di  bosso. 

Prese  anche  il  suo  ch'era  attaccato  al  chiodo. 
Staccò  il  laveggio,  a  stento,  dall'uncino: 
riempì  tre  pianette:  il  tutto  a  modo. 

Poi  prese  il  fior  di  latte:  anche,  a  modino, 
aprì  le  frasche,  e  giù,  per  non  lo  sfare, 

10  sbacchiò  sopra  un  borracciòl  di  lino. 

E  mangiarono  avanti  il  focolare 

in  pace  e  amore,  con  di  tanto  in  tanto 

quattro  parole,  a  cucchiaiate  rare. 

11  bimbo  in  terra  era  seduto  accanto 
alla  bisnonna,  e  spesso  dalle  dita 

di  lei  pigliava  un  suo  bocconcin  santo. 

L'uscio  era  aperto.  I  fior  di  margherita 
non  aprivano  ancora  le  corolle 
di  su  le  crepe  della  soglia  erbita. 

Brillava  al  sole  ogni  albero,  ogni  colle; 
ma  la  casuccia  si  godeva  ancora 
l'ombra  sua  propria,  piccola,  ancor  molle 

della  guazza  caduta  in  su  l'aurora. 


LA    MORTB    DEL   PAPA  55 


Vili 


"  Sentite,  Gigi.  La  recchietta  voglio 
che  la  meniate  ora  con  voi  nel  branco. 
È  avvezza  a  qualche  filo  di  trifoglio...  „ 

Uh  po'  di  tela  e'  è  tavìa  nel  banco. 

Ho  due  lenzuola  nove;  anco  un  roteilo, 

da  tanto  tempo,  ch'ha  riperso  il  bianco. 

Ci  troverete  qualche  buon  guarnello, 
persino  una  sottana  con  la  gala, 
che  mi  son  fatte,  là  per  là,  bel  bello. 

Faccio  per  dire  che  non  son  cicala 

ch'ha  un  sol  vestito,  e  quando  è  Usp,  muore. 

Ma  poi,  sentite:  penso  a  quella  scala... 

Ditelo,  Gigi,  con  le  vostre  nuore, 

che  quell'andare  su  la  scala  in  chiesa, 

così  legata,  m'è  una  spina  al  cuore! 

Almeno  almeno,  senza  vostra  spesa, 
vuo'  per  amor  di  Dio  che  mi  mettiate 
quella  camicia  nova  eh' è  lì  stesa. 

lo  l'ho  cucita,  al  sole  della  state; 
io  l'ho  sbiancata,  al  lume  della  luna; 
io  l'ho  tessuta,  per  le  gran  nevate; 

filata,  presso  qualche  vostra  cuna  „. 


5^  LA    MORTE    DEL    PAPA 


IX 


Il  bimbo  era  lì  fuori.  Ella  più  presso 

si  fece  al  vecchio.  "  A  Dio  non  si  nasconde 

quello  che  al  prete,  ed  anche  a  voi  confesso. 

Ho  fatto  a  volte  un  carico  di  fronde 

in  quel  del  Maso  „  **  Un  carichello!  „  **  Ho  colte 

nel  suo,  prima  dell'alba,  le  sue  gronde  „ 

"  Altro  che  gronde,  il  pover  Maso  !  „   "  A  volte, 
per  due  fagioli,  m'allungavo  all'orto. 
Menavo  a  bere  le  mie  bestie  sciolte...  „ 

*  Ma  il  pover  Maso...  „  "  Il  pover  Maso  è  morto! 
Fatemi  dir  due  Messe,  una  per  Maso, 
una  per  me...  „  "  Si  fanno  dire  accorto  „. 

Erano  usciti.  ''Siete  persuaso? „ 

**  Sì  „  "La  recchietta  vuol  menata  a  mano 

su  le  prime  „  "  Si  sa  „  "  Fatene  caso  „ 

"Addio,  madre  „  "Addio  Gigi...  State  sano. 
Addio,  Nina,  O  che  beli?  Io  mi  contento 
d'ire  con  lui  che  sta  così  lontano!  „. 

Ai  monti  sparsi  d'un  vapor  d'argento 

ella  accennava  con  la  mano  arsita, 

e  foglie  secche,  mosse  un  po'  dal  vento, 

parean  in  aria  le  sue  cinque  dita. 


LA    MORTE    DKL    PAPA  57 


Quel  giorno  un  tuono  rimbombò  che  scosse 
l'alta  montagna,  e,  terminato  il  tuono, 
inviò  l'acqua  a  gocce  rade  e  grosse. 

Ed  un'acquata  venne  giù  col  suono 

d'un  gran  passaggio  con  un  grande  struscio. 

A  sera  il  tempo  era  tornato  al  buono. 

Il  cielo  aveva  l'iridi  del  guscio 
di  madreperla.  Stava  lì  tranquilla 
nel  suo  lettino,  con  aperto  l'uscio, 

la  vecchina,  se  udisse  ora  la  squilla 
del  sagrestano,  se  vedesse  alfine 
venir  l'ombrella  color  bianco  e  lilla, 

salir  di  qua  di  là  tante  stelline, 
salir  cantando,  con  in  mano  un  cero, 
una  fila  di  donne  e  di  bambine. 

E  già  scuriva.  E  sì,  vedeva,  in  vero, 
splender  ora  più  fitte  ora  più  rare 
le  luccioline  avanti  l'uscio  nero. 

Quante  candele  c'erano  al  sogliare! 
Udiva,  sì,  cantare;  ma  lontane 
erano  ancora,  colaggiù;  cantare 

cantare  le  ranelle  con  le  rane. 


58  LA    MORTE    DEL    PAPA 


XI 


E  levò  gli  occhi,  e  ravvisò  la  strada, 
nel  cielo  azzurro,  tra  le  stelle  ardenti 
bianca  ma  quasi  molle  di  rugiada, 

la  tacita  sul  sonno  delle  genti 

strada  di  Roma.  Un  tratto  ne  lucea 

nel  breve  spazio  in  mezzo  ai  due  battenti: 

un  sentieròlo  con  una  macea, 
lassù  nel  cielo:  un  pallido  biancore 
presso  le  stelle  di  Cassiopea. 

Al  capo  della  via,  forse  a  quell'ore 
prendea  con  le  due  mani  il  pastorale, 
e  si  levava  su  forse  il  pastore. 

Forse  veniva  tra  un  sussurro  d'ale 
d'angeli  per  l'azzurro  cielo,  e  un  coro 
d'anime  nel  silenzio  siderale. 

E  passando  cantavano,   V'adoro 
ogni  momento...  sopra  gli  alti  monti. 
Ed  egli  aveva  la  sua  mitria  d'oro. 

Spledean  le  selve,  risplendean  le  fonti, 
al  suo  passaggio,  d'un  baglior  fugace 
che  ancor  passava  su  le  bianche  fronti 

d'uomini  e  donne  addormentati  in  pace. 


LA    MORTE    DEL    PAPA  59 


XU 


Per  quella  via...  Ma  quella  era  la  via 
dell'Universo,  l'alta  sui  burroni 
dell'Infinito  ignota  Galaxì'a: 

e  prima  d'essa  Cani  Idre  Leoni, 
raggianti  nelle  tenebre  celesti, 
gelide:  stelle,  costellazioni: 

Soli:  sciami  di  Soli,  anzi,  con  mesti 
pianeti  ognuno,  dove  il  fuoco  primo 
par  che  si  spenga  e  che  l'amor  si  desti; 

dove  marcisce  il  puro  fuoco  in  limo 
di  vita,  impuro,  su  cui  vola  forse 
l'uomo  con  l'ali,  o  sguazza  il  fauno  sinio. 

Le  costellazioni  indi  trascorse, 
dalla  fulgida  Lira  alla  Carena, 
dalla  fulgida  Croce  alle  grandi  Orse; 

ecco  la  fitta  polvere,  la  rena 

ogni  cui  grano  è  Mondo  che  sfavilla 

nella  sua  solitudine  serena; 

dove  pare  un  pulviscolo,  una  stilla, 
il  nostro  cielo  dalla  volta  immensa... 
se  pur  là  c'è  la  notte,  una  pupilla 

nell'ombra,  uno  che  veglia,  uno  che  pensa! 


6o  LA   MORTE   DEL    PAPA 


XIII 

E  la  vecchietta,  dietro  il  suo  pensiero, 
guardando  in  cielo,  ora  vedea  sé  stessa 
non  così  vecchia,  su  per  un  sentiero. 

Andava  col  su'  omo,  era  ben  messa, 
incignava  quel  giorno  anzi  un  guarnello; 
andava  a  su  per  ascoltar  la  messa. 

Lo  conosceva  quel  viotterello: 
era  pieno  di  fragole  e  di  more. 
Quasi  quasi  n'empiva  il  suo  pannello. 

Ma  poi  ben  altro  le  diceva  il  cuore, 
perchè  sentiva  scampanare  a  festa: 
era  la  festa  delle  Quarant'ore. 

Ella  saliva  i  poggi  lesta  lesta, 

cantarellando:  fresca  come  brina; 

ma  in  fondo  al  cuore  era  tra  lieta  e  mesta. 

E  si  trovava  povera  bambina: 
frignava,  dicea  Pappa,  dicea  Bombo: 
un'altra  voce  ripetea:  Cammina! 

Tremava  in  aria  più  vicino  il  rombo 
del  doppio.  Lesta,  che  non  è  lontano! 
Sì,  ma  le  sue  gambette  erano  un  piombo. 

Allor  sua  mamma  la  pighò  per  mano. 


LA    MORTE    DELfPAPA  6l 


XIV 


Una  sua  nuora,  lì  con  la  sua  rócca, 
c'era  a  vegliarla.  Ad  or  ad  or  lo  sputo 
dava  alle  dita  e  due  prilli  alla  cocca: 

Svagellava,  la  nonna.  Ogni  minuto 
parea  l'ultimo.  All'ultimo  ecco  a  stento 
aperse  gli  occhi.  Essa  lo  avea  veduto! 

Il  Papa!  Era  per  l'Alpe,  era  tra  il  vento 
gelido,  anch'esso,  era  piccino  e  stanco, 
sfinito  morto,  ma  parea  contento. 

Come  accaldato!  Aveva  corso  in  branco 
co'  suoi  compagni:  aveva  il  capo  in  fiamma. 
Ora  sudava  freddo;  e  con  un  bianco 

lino  la  fronte  gli  tergea  sua  mamma. 


ZI  MBO 


Guardava  ognuno,  per  un  po',  la  vigna 
tua  lì  rimpetto,  nell' uscir  di  chiesa. 
Ohi  c'era  sempre  qualche  bella  pigna I 

"Non  ha  finito!,,.  E  in  dir  così,  sospesa 
con  l'acquasanta  ancora  avea  la  mano: 
l'altra  reggeva  una  candela  accesa. 

"  Tutti  vizzati  buoni:  Colombano 

e  capobugio  „.  E  discendean  le  soglie, 

a  due  a  due,  salmodiando  piano. 

O  tra  la  lieve  nebbia  che  si  scioglie, 
sole  d'ottobre!  o  come  lunghe  aurore 
giornate  pure!  o  rosseggiar  di  foglie 

presso  a  cadere!  o  limpide  ultime  ore! 
Un  pesco,  tra  le  viti  sciolte,  rosso 
era  così  come  quand'era  in  fiore: 


64 


si  ricordava!  In  faccia  a  lui,  sul  fosso, 

grandi  castagni  con  i  cardi  a  ciocche 

in  tutti  i  rami  ;  e  i  cardi  avean  già  mosso. 

Erano  a  bocca  aperta,  e  dalle  bocche 

già  si  vedea  la  bella  buccia  bionda. 

Oh!  il  bel  tempo  del  fuoco  e  delle  rócche! 

quando  le  genti  siedono  alla  tonda 
avanti  al  fuoco,  e  quelle  donne,  quale 
fa  le  mondine  e  quale  poi  le  monda: 

quando  l'annata  sia  pur  ita  male, 

ma  il  fuoco  scalda!  ma  rallegra  il  vino! 

e  il  vino  è  poco?  Meno  è,  più  vale.  ^ 

Andavano,  pensando  a  San  Martino, 
sotto  i  castagni,  e  c'eri,  su  la  bara, 
coi  panni  buoni,  tu  mio  buon  vicino! 

Dal  Rio  mandava  la  sua  voce  chiara, 

interrogando,  l'usignol  dei  Morti, 

eh' è  il  pettirosso,  e  più  l'alzava  a  gara. 

Usignol  della  nebbia,  che  i  nostri  orti 
visiti  quando  non  c'è  più  che  bruchi, 
tu  che  ci  lodi  il  verno  che  ci  porti; 

e  ti  fai  cuore,  e  vieni  e  vai,  t'imbuchi, 
t'infraschi,  e  cerchi  e  fai  sentire  un  canto 
appena  trovi  sanguini  o  sambuchi: 


65 


un  uomo  noi  portiamo  al  camposanto, 
che,  come  te,  dimestico  e  silvano, 
godea  del  poco  e  non  sapea  del  tanto. 

I  figli  avea  nell'ol tremar  lontano, 
e  quasi  solo  vivucchiava  in  pace 
contento  del  suo  vino  e  del  suo  grano. 

Covava  il  fuoco  avendo  nella  brace 
poche  castagne,  e  già  vecchietto  stanco 
pensava  all'aspra  giovinezza  audace;. 

allor  che  in  vetta  all'alto  pioppo  bianco 
non  scendea;  no:  gli  dava  l'onda  e  in  aria 
prendeva  a  volo  l'altro  pioppo  a  fianco: 

alla  sua  giovinezza  aspra  di  paria, 
allor  che  dentro  il  suo  metato  in  monte 
dovea  passar  la  notte  solitaria; 

ma,  per  il  fumo,  tenea  fuor  la  fronte 
e  la  lasciava  al  vento  ed  al  nevischio 
sino  al  primo  baglior  dell'orizzonte: 

che  allora  à  casa  discendea  tra  il  fischio 
del  tramontano,  la  crinella  in  collo, 
zeppa  di  fronde,  ed  ogni  passo  un  rischio. 

Era  di  ceppa  vecchia  egli  rampollo! 
Seguiva  il  cenno  della  madre  austera 
imperiosa  sotto  il  suo  corolle! 

Nuovi  Poemetti 


66  ZI   MEO 

Che  vita,  allora!  Il  pane  allor  non  c'era 
che  per  le  Pasque!  Ora  godeva  il  verno 
egli  che  non  godè  la  primavera. 

In  vece  qui  con  un  saluto  eterno 

noi  ti  lasciamo.  Addio,  Zi  Meo!  Le  zolle 

che  abbiam  gettate  sul  tuo  cuor  fraterno! 

E  questa  croce  sul  terreno  molle 

non  reggerà!  Verranno  poi  le  acquate. 

Poi,  bianco  il  monte  e  sarà  bianco  il  colle. 

Poi,  torneranno  i  figli  nell'estate 

a  prender  l'aria.  Addio,  Zi  Meo!  La  vita 

è  così  fatta.  Andiamo,  dunque.  —  Andate 

alla  vendemmia  non  ancor  finita!  — 


NANNETTO 


Su  qualche  tetto  erano  forse  al  sole 
o  in  qualche  prato,  simili  a  vedere 
a  bianche  pietre,  in  tanto  verde,  sole. 

lo  le  cercava,  una  di  queste  sere, 
guardando  certe  novità  dell'orto 
suo:  peri  nani  con  enormi  pere. 

Andavo  su  e  giù  come  a  diporto 

col  babbo  suo,  mentre  cercavo  intorno 

le  due  colombe  del  fanciullo  morto. 

Le  avea  portate  da  Zurigo  un  giorno 
e  qui  lasciate  per  tenergli  il  posto 
nella  sua  casa  fino  al  suo  ritorno; 

per  aspettarlo  fino  al  nuovo  agosto; 

no,  per  restare  anch'esso  tra  i  suoi  monti 

e  veder  tutto,  dentro  lor  nascosto: 


68  NANNBTTO 


girare  i  boschi,  bere  ai  puri  fonti 
della  sua  terra,  e  te  godere  ancora, 
sole,  che  così  bello  oggi  tramonti, 

e,  dopo  ancor  l'avemaria,  quest'ora 
chiara  e  la  sera  che  s'addorme  e  pare 
sognar,  sui  monti,  d'essere  l'aurora. 

A  lui  parrebbe  d'esserci,  e  di  fare 
qualcosa  anch'esso  e  d'aiutare  un  poco 
i  suoi  compagni  e  lor  sorelle  care: 

roncare  insieme,  ma  così  per  gioco, 

tirar  la  piena  stridula  carretta, 

mettere  al  mucchio  dell'erbacce  il  fuoéo; 

a  un  primo  lampo,  a  un  primo  tuono,  in  fretta 
correre  tutti  ad  ammucchiare  il  fieno; 
condurre  a  mano  la  vacca  soletta; 

e  per  la  strada,  sotto  un  ciel  sereno 
come  ora,  con  qualcuno  che  s'arresta, 
parlar  di  forivia,  del  più,  del  meno; 

andare  ad  ogni  sagra,  ad  ogni  festa 
de'  suoi  villaggi,  semplice  e  fedele, 
con  lo  straniero  berrettino  in  testa; 

e  contemplare  il  nuovo  San  Michele, 
venuto  insin  d'America  ad  Albiano, 
tra  quel  vapor  d'incenso  e  di  candele. 


NANNETTO  69 


Oh!  ci  sarebbe,  pur  così  lontano! 
vedrebbe  qui,  sull'ali  del  suo  paio 
di  colombelle,  viti  ulivi  e  grano; 

e  le  ceragie  prime  e  il  primo  staio 
delle  castagne,  e  i  primi  fichi  d'oro 
vedrebbe,  e  il  primo  grispolletto  vaio! 

Dove  son  elle?  Il  cielo  in  vano  esploro. 
Dov'  è  il  ricordo  del  fanciullo  buono? 
Ed  ecco  il  padre  un  fischio  dà  sonoro. 

Ed  ecco  un  altro  suono  dietro  il  suono; 

un  lieve  moto,  un  fischio,  un  volo,  un  rombo. 

Ei  non  c'è  più;  ma  elle  ancor  ci  sono. 

Vien  la  colomba  accanto  al  suo  colombo, 
e  tutti  e  due  si  posano  su  'n  ramo, 
snodando  il  collo  del  color  di  piombo. 

Scattano  il  collo  a  rimirar  chi  siamo, 
a  lungo  a  lungo.  Esse  beveano  al  fiume, 
quando  le  scosse  il  solito  richiamo. 

—  Dov'è?  —  Guardano  guardano  nel  lume 
roseo  —  Non  c'è!  —  Riguardano.  E  non  vanno. 
Col  becco  intanto  lisciano  le  piume. 

No,  che  non  c'è.  Non  tornerà  quest'anno! 
E  il  babbo  solo...  e  tanto  in  cuor  gli  spiace 
d'avervi  fatto  questo  breve  inganno. 


70  NANNBTTO 


Non  c'è,  per  ora.  Ite  a  dormire  in  pace. 
Nannetto  vostro  è  sempre  via  pel  mondo, 
ed,  a  quest'ora,  anch'esso  dorme,  e  tace. 

Non  più,  colombe,  ora  a  Zurigo,  in  fondo 
di  Magnusstrasse,  ritto  dietro  il  banco, 
vede  chi  passa,  il  bel  fanciullo  biondo. 

Vede  bensì  V  eichhórnchen  suo,  che  stanco 
è  d'aspettare,  e  siede  sullo  staggio 
mostrando  tutto  il  folto  petto  bianco. 

Né  prende  i  semi  d'acero  e  di  faggio 
tra  le  zampine,  e  pensa  che  l'estate 
finisce,  ed  ei  non  torna  dal  viaggio  " 

fatto  in  cercar  le  due  compagne  alate. 


BBLLIS  PBRGNNIS 


Chi  vede  mai  le  pratelline  in  boccia? 
Ed  un  bel  dì  le  pratelline  in  fiore 
empiono  il  prato  e  stellano  la  roccia. 

Chi  ti  sapeva,  o  bianco  fior  d'amore 
chiuso  nel  cuore?  E  tutta,  all'improvviso, 
la  nera  terra  ecco  mutò  colore. 

Sono  pensieri,  ignoti  già,  che  in  viso 
rimiran  ora,  ove  si  resti  o  vada; 
nati  così,  nell'ombra,  d'un  sorriso 

di  stella  e  d'una  goccia  di  rugiada... 


O  mezzo  aperta  come  chi  non  osa, 
o  pratellina  pallida  e  confusa, 

che  sei  dovunque  l'occhio  mio  si  posa, 
e  chini  il  capo,  all'occhio  altrui  non  usa; 


73  BELLIS   PERENNIS 


bianca,  ma  i  lievi  sommoli,  di  rosa; 
tanto  più  rosa  quanto  più  sei  chiusa: 

ti  chiudi  a  sera,  chi  sa  mai  per  cosa, 
sei  chiusa  all'alba,  ed  il  perchè  sai  tu; 

o  primo  amore,  o  giovinetta  sposa, 
o  prima  e  sola  cara  gioventù! 


È  il  verno,  e  tutti  i  fiori  arse  la  briaa 
nei  prati  e  tutte  strinò  l'erbe  il  gelo: 
ma  te  vedo  fiorir,  primaverina. 

Tu  persuasa  dal  fiorir  del  cielo, 
fioristi;  ed  ora,  quasi  più  non  voglia 
perchè  sei  sola,  appena  alzi  lo  stelo. 

O  fior  d'amore  su  la  trita  soglia! 
Tu  tingi  al  sommo  i  petali  d'argento 
d'un  rosso  lieve.  Una  raminga  foglia 

ti  copre  un  poco,  e  passa  via  col  vento. 


O  fior  d'amore  sulla  soglia  tritai 
o  quando  tutto  se  ne  va,  venuta! 


BELLIS   PBRBNNIS  73 


che  vivi  quando  è  per  finir  la  vital 

e  che  non  muti  anche  se  il  ciel  si  muta! 

Hai  visto  i  fiori  nella  lor  fiorita: 
vedi  le  foglie  nella  lor  caduta. 

Ti  coglierà  passando  Margherita 
col  cuore  assorto  nell'amor  che  fu. 

Ti  lascerà  cadere  dalle  dita... 

—  Egli  non  t'ama,  egli  non  t'ama  più!  — 


LA  PECORELLA  SMARRITA 


"  Frate  „  una  voce  gli  diceva:  "  è  l'ora 
che  tu  ti  svegli.  Alzati!  La  rugiada 
è  su  le  foglie,  e  viene  già  l'aurora  „. 

Egli  si  alzava.  "  L'ombra  si  dirada 

nei  cielo.   Il  cielo  scende  a  goccia  a  goccia. 

Biancica,  in  terra,  qua  e  là,  la  strada  „. 

S'incamminava.  "  Spunta  dalla  roccia 
un  lungo  stelo.  In  cima  dello  stelo, 
grave  di  guazza  pende  il  fiore  in  boccia  „. 

S'inginocchiava.  "  Si  dirompe  il  cielo! 
Albeggia  Dio!  Plaudite  con  le  mani, 
pini  de  l'Hermon,  cedri  del  Carmelo!  „. 

Tre  volte  il  gallo  battea  l'ali.  I  cani 
squittìano  in  sogno.  Le  sei  ali  in  croce 
egli  vedea  di  seraphim  lontani. 

Sentiva  in  cuore  il  rombo  della  voce. 
Su  lui,  con  le  infinite  stelle,  lento, 
fluiva  il  cielo  verso  la  sua  foce. 


76  LA    PECORELLA    SMARRITA 

Era  il  dì  del  Signore,  era  l'avvento. 
Spariva  sotto  baratri  profondi  ' 

colmi  di  stelle  il  tacito  convento. 

Mucchi  di  stelle,  grappoli  di  mondi, 
nebbie  di  cosmi.  Il  frate  disse  :  "  O  duce 
di  nostra  casa,  vieni  1  Eccoci  mondi  „. 

In  quella  immensa  polvere  di  luce 
splendeano,  occhi  di  draghi  e  di  leoni, 
Vega,  Deneb,  Aldebaran,  Polluce... 

E  il  frate  udì,  fissando  i  milioni 
d'astri,  il  vagito  d'un  agnello  sperso 
là  tra  le  grandi  costellazioni 

nelle  profondità  dell'Universo... 


E  il  dubbio  entrò  nel  cuore  tristo  e  pio. 
"  Che  sei  tu,  Terra,  perchè  in  te  si  sveli 
tutto  il  mistero,  e  vi  s'incarni  Dio? 

O  Terra,  l'uno  tu  non  sei,  che  i  CieH 
sian  l'altro!  Non,  del  tuo  Signor,  sei  l'orto 
con  astri  a  fiori,  e  lunghi  sguardi  a  steli! 

Noi  ti  sappiamo.  Non  sei,  Terra,  il  porto 
del  mare  in  cui  gli  eterni  astri  si  cullano... 
un  astro  sei,  senza  più  luce,  morto: 


LA    PECORELLA    SMARRITA  ^^ 


foglia  secca  d'un  gruppo  cui  trastulla 
il  vento  eterno  in  mezzo  all'infinito: 
scheggia,  grano,  favilla,  atomo,  nulla  I„ 

Così  pensava:  al  sommo  del  suo  dito 
giungeva  allora  da  una  stella  il  raggio 
che  da  più  di  mille  anni  era  partito. 

E  vide  una  fiammella  in  un  villaggio 
lontano,  a  quelle  di  lassù  confusa: 
udì  lontano  un  dolce  suon  selvaggio. 

Laggiù  da  una  capanna  semichiusa 
veniva  il  suono  per  la  notte  pura, 
il  dolce  suono  d'una  cornamusa. 

E  risonava  tutta  la  pianura 
d'uno  scalpiccio  verso  la  capanna: 
forse  pastori  dalla  lor  pastura. 

E  il  frate  al  suono  dell'agreste  canna 

ripensò  quelle  tante  pecorelle 

che  il  pastor  buono  non  di  lor  s'affanna: 

tra  i  fuochi  accesi  stanno  in  pace,  quelle, 

sicure  là  su  la  montagna  bruna; 

e  il  pastor  buono  al  lume  delle  stelle 

quaggiù  ne  cerca  intanto  una,  sol  una...    *^ 


78  LA    PECORELLA    SMARRITA 


JII 


"  Sei  tu  queir  una,  tu  queir  una,  o  Terra! 
Sola,  del  santo  monte,  ove  s'uccida, 
dove  sia  l'odio,  dove  sia  la  guerra; 

dove  di  tristi  lagrime  s'intrida 

il  pan  di  vita!  Tu  non  sei  che  pianto 

versato  in  vanol  Sangue  sei,  che  grida! 

E  tu  volesti  Dio  per  te  soltanto: 
volesti  che  scendesse  sconosciuto 
nell'alta  notte  dal  suo  monte  santo. 

Tu  lo  volesti  in  forma  d'un  tuo  bruto 
dal  mal  pensiero:  e  in  una  croce  infame 
l'alzasti  in  vista  del  suo  cielo  muto  „. 

In  cielo  e  in  terra  tremulo  uno  sciame 

era  di  luci.  Andavano  al  lamento 

della  zampogna  e  fasci  avean  di  strame. 

Ma  il  frate,  andando,  con  un  pio  sgomento 
toccava  appena  la  rea  terra,  appena 
guardava  il  folgorìo  del  firmamento: 

quella  nebbia  di  mondi,  quella  rena 
di  Soli  sparsi  intorno  alla  Polare 
dentro  la  solitudine  serena. 


LA    F&CORKLLA   SMARRITA  79 

Ognun  dei  Soli  nel  tranquillo  andare 
traeva  seco  i  placidi  pianeti 
come  famiglie  intorno  al  focolare: 

ohi  tutti  savi,  tutti  buoni,  queti, 

persino  ignari,  colassù,  del  male, 

che  no,  non  s'ama,  anche  se  niun  lo  vieti. 

Sonava  la  zampogna  pastorale. 
E  Dio  scendea  la  cerula  pendice 
cercando  in  fondo  dell'abisso  astrale 

la  Terra,  sola  rea,  sola  infelice. 


LA  VERTIGINE 


Si  racconta  d' un  fanciullo  che  aveva 
perduto  il  senso  della  gravila... 


Uomini,  se  in  voi  guardo,  il  mio  spavento 
cresce  nel  cuore.  Io  senza  voce  e  moto 
voi  vedo  immersi  nell'eterno  vento; 

voi  vedo,  fermi  i  brevi  piedi  al  loto, 
ai  sassi,  all'erbe  dell'aerea  terra, 
abbandonarvi  e  pender  giù  nel  vuoto. 

Ohi  voi  non  siete  il  bosco,  che  s'afferra 
con  le  radici,  e  non  si  getta  in  aria 
se  d'altrettanto  non  va  su,  sotterrai 

Oh!  voi  non  siete  il  mare,  cui  contraria 
regge  una  forza,  un  soffio  che  s'  effonde, 
laggiù,  dal  cielo,  e  che  giammai  non  varia. 

Eternamente  il  mar  selvaggio  l'onde 
protende  al  cupo;  e  un  alito  incessante 
piano  al  suo  rauco  rantolar  risponde. 

Nuovi  Poemetti 


82  LA    VERTIGINE 


Ma  voi...  Chi  ferma  a  voi  quassù  le  piante? 
Vero  è  che  andate,  gli  occhi  e  il  cuore  stretti 
a  questa  informe  oscurità  volante; 

che  fisso  il  mento  a  gli  anelanti  petti, 
andate,  ingombri  dell'oblio  che  nega, 
penduli,  o  voi  che  vi  credete  eretti! 

Ma  quando  il  capo  e  l'occhio  vi  si  piega 

giù  per  l'abisso  in  cui  lontan  lontano 

in  fondo  in  fondo  è  il  luccichio  di  Vega...? 

Allora  io,  sempre,  io  l'una  e  l'altra  mano 
getto  a  una  rupe,  a  un  albero,  a  uno  stelo, 
a  un  filo  d'erba,  per  l'orror  del  vano! 

a  un  nulla,  qui,  per  non  cadere  in  cielo! 


Ohi  se  la  notte,  almeno  lei,  non  fosse! 
Qual  freddo  orrore  pendere  su  quelle 
lontane,  fredde,  bianche  azzurre  e  rosse, 

su  quell'immenso  baratro  di  stelle! 
sopra  quei  gruppi,  sopra  quelli  ammassi, 
quel  seminìo,  quel  polverio  di  stelle! 

Su  quel  immenso  baratro  tu  passi 
correndo,  o  Terra,  e  non  sei  mai  trascorsa, 
con  noi  pendenti,  in  grande  oblio,  dai  sassi. 


%^ 


LA   VERTIGINE  83 

Io,  veglio.  In  cuor  mi  venta  la  tua  corsa. 
Veglio.  Mi  fìssa  di  laggiù  coi  tondi 
occhi,  tutta  la  notte,  la  Grande  Orsa: 

se  mi  si  svella,  se  mi  si  sprofondi 
l'essere,  tutto  l'essere,  in  quel  mare 
d'astri,  in  quel  cupo  vortice  di  mondi! 

veder  d'attimo  in  attimo  più  chiare 
le  costellazioni,  il  firmamento 
crescere  sotto  il  mio  precipitare! 

precipitare  languido,  sgomento, 
nullo,  senza  più  peso  e  senza  senso: 
sprofondar  d'un  millennio  ogni  momento! 

di  là  da  ciò  che  vedo  e  ciò  che  penso, 
non  trovar  fondo,  non  trovar  mai  posa, 
da  spazio  immenso  ad  altro  spazio  immenso! 

forse,  giù  giù,  via  via,  sperar...  che  cosa? 
La  sostai  II  fine!  Il  termine  ultimo!  Io, 
io  te,  di  nebulosa  in  nebulosa, 

di  cielo  in  cielo,  in  vano  e  sempre,  Dio! 


IL  PRIGIONIERO 


Prendi,  infelice,  il  tuo  dolore  in  pacel 

"  Perchè? „  Tu,  perchè  gridi,  urti  la  porta? 

"  Perchè  dolore  è  più  dolor,  se  tace  „ 

Se  lo  nascondi,  frutterà.  Sopporta, 

attendi,  sgeigt...  *  O  vanità  1  Non  spero. 

Non  credoV  Eppure...  "Dio  non  è!  „  Che  importa? 

C'è  del  mistero  intorno  a  te...  "  Mistero? 
Io  non  lo  vedo„  Ciò  che  tu  non  vedi, 
o  prigioniero,  è  un  altro  prigioniero; 

e  un  altro  e  un  altro.  Hanno  nei  ceppi  i  piedi... 
"  Anch'io  „  Presto  la  morte,  ora  catene! 
"  Anch'io  „  Dunque  tu  sai,  dunque  tu  credi. 

Non  li  destare!  "Io,  dormo  forse ?„  Ebbene? 
Se. vuoi  parlare,  parla  sì,  m^^ì^Q; 
canta,  se  vuoi,  ciò  che  dal  cuor  ti  viene: 


86  IL    PRIGIONIERO 


canta,  ma  un  dolce  canto,  esile,  vano, 

che  su  la  piuma  delle  sue  parole 

li  porti  in  collo  al  loro  amor  lontano: 

cantalo  quello  che  nel ^uor^  duple! 

piangano  anch'essi,  ma  dormendo  ancora! 

Chi  piange  in  sogno,  ^  giunto  a^ciò  che  vuole, 

è  giunto  alfine  a  tutto  ciò  che  implora 
invano.  Canta;  e  T anima  jiujgnace 
tua  placherai.  Ritroverà  l'aurora 

anche  te  forse  addormentato  in  pace. 


I  FILUGELLI 


I   FILUGELLI 


CANTO  PRIMO 


Con  chi  partìsci  quell'esigua  messe? 

La  deve  qualche  luccioletta  avere, 

che  ti  fa  lume?  o  il  ragno,  che  ti  tesse? 

o  la  formica?  Le  formiche  nere 

t'han  fatto  il  mucchio,  che  somiglia  un  poggio? 

E  mezzo  devi  il  grano  del  podere, 

e  lo  misuri:  e  il  tuo  ditale  è  il  moggio. 


u 


T'han  fatto,  o  Rosa,  le  formiche  il  mucchio. 

Ora  partisci,  ben  che  sia  d'aprile; 

San  Marco,  appunto;  quando  il  gelso  è  in  succhio. 

E  il  tuo  grano  è  una  polvere  sottile 

e  sembra  nato  tutto  in  una  zolla... 

Lo  tribbiò  il  grillo  dentro  il  suo  cortile, 

e  la  vanessa  ventilò  la  lolla. 


90  I   FILUGELLI 


lU 


Te  lo  tribbiò  le  lunghe  sere  il  grillo 
trillando  acuto...  Oppur  codesto  grano 
tu  l'hai  mietuto  al  regamo  e  al  serpillo? 

O  scosso  t'hai  nel  cavo  della  mano 
l'urna  del  fiore  dell'oblio,  del  fiore 
del  dolce  sonno?  Vi  s'udiva  un  vano 

scrosciar  di  pioggia  in  un  lontano  albore. 


rv 


E  tu  vuoi  dunque  seminare  il  sogno 
del  rosso  fiore?  Non  è  tardi?  È  molto 
che  cadde  il  fiore  al  melo  ed  al  cotogno. 

Fiorisce  il  grano  già  da  te  sepolto. 
Pendono  ai  rami  i  pomi  verdi  e  lazzi. 
Fiorisce  l'uva;  e  dal  ciliegio  folto 

pendono  bianche  le  ciliegie  a  mazzi. 


Ma  tu  ti  sganci  il  candido  corsetto, 
o  bionda  Rosa.  Fuori  è  chiaro  il  sole, 
e  due  colombi  tubano  sul  tetto. 


I   FILUGELLI  •  91 


Ti  slacci  il  busto.  Odore  di  viole 

bianche  è  nell'orto.  Ohi  lascia  come  prima I 

Bello  è  come  è.  Non  altro  fior  ci  vuole. 

Ci  son  due  bocci  ch'hanno  il  rosso  in  cima... 


VI 


Non  chiudere  entro  il  bianco  petto,  o  Rosa, 
il  fior  del  sonno.  Non  la  notte  e  il  giorno 
costì  si  veglia  e  mai  non  si  riposa? 

Ma  senti  a  un  tratto  scalpicciare  intorno 

alla  tua  casa...  Ora  le  lievi  trine 

tu  lieve  agganci,  ed  il  corsetto  adorno 

richiudi,  a  un  grido  delle  tue  vicine. 


VII 


Chiamano:  Rosa!  A  doppio  le  campane 
suonano.  Andate!  Va  con  l'altre  a  schiera: 
prega  da  Dio  la  cara  pace  e  il  pane. 

Peregrinando  suoni  la  preghiera 

per  campi  e  selve,  e  per  le  vigne  e  gli  orti. 

Ristate,  o  litanie  di  primavera, 

avanti  a  croci,  qua  e  là,  di  morti  I 


93  I    FILUGELLI 


Vili 


Appiedi,  o  Rosa,  delle  vecchie  croci 
prega  anche  tu:  che  venga  alle  su'  ore 
il  grano  e  l'uva,  e  le  gioconde  noci 

e  le  castagne;  per  il  dolce  amore 

tuo,  per  quei  morti,  che  non  sai  chi  sono. 

Prega!  Pregate  che  sfiorisca  il  fiore, 

che  il  bello  passi  ma  che  lasci  il  buono. 


iz 


Ai  morti  ignoti  hanno  pensato,  ed  anche 
al  seme  chiuso  che  lor  è  sul  cuore, 
covato  già  da  due  lievi  ale  bianche... 

E  vanno  via  le  vergini  canore 
e  il  canto  lor  si  perde  nella  valle. 
Cantano  lontanando:  Non  si  muore! 

E  poi:  lo  sanno  insino  le  farfalle!... 


I    FILUGELLI  93 


CANTO  SECONDO 


Natii  Son  nati  nel  tuo  petto  i  semi! 
Ah!  che  son  bruchi,  squallidi  di  pelo, 
neri,  infiniti!  Ma  tu  già  non  temi. 

Tu  cauta  e  pia  nel  piccolo  suo  telo, 
in  un  paniere,  adagi  il  tuo  tesoro; 
e  su  vi  spargi  lievemente  un  velo 

di  foglie  trite  e  di  germogli  d'oro. 


Che  savio  il  gelso  come  se  c'intenda, 

ha  messo  a  tempo.  Ed  ora  ogni   quattro  ore 

tu  recherai  la  piccola  profenda, 

al  lor  presepe,  nell'ugual  tepore 
della  tua  stanza;  ed  essi  pasceranno. 
Ma  ecco,  un  dì,  non  toccano  più  fiore: 

noia  li  prende;  alzano  il  capo,  e  stanno. 


94  I   FILUGELLI 


III 


Dormono.  Or  tu  non  romperai  quel  sogno 
che  forse  fanno.  Non  portar  più  frasca; 
che  non  d'altro  che  d'aria  hanno  bisogno. 

Un  giorno;  e  par  che  il  gregge  tuo  rinasca. 
Par  nuovo.  E  tu  gli  porgi  qualche  cima 
fresca  a  cui  salga  il  nuovo  gregge,   e  pasca; 

e  lo  tramuti  dal  panier  di  prima. 


IV 


Cerca  tre  volte  tanta  una  canestra: 
prendi  i  germogli  con  sur  ogni  foglia 
appeso  un  branco,  e  ponili  giù  destra. 

Tre  volte  tanto  mangiano.  E  tu  spoglia 
per  loro  i  rami  e  spicca  verdi  i  germi. 
Mangino.  In  capo  de'  sei  dì  la  voglia 

del  cibo  è  queta:  alzano  il  capo,  e  fermi! 


Dormono.  11  corpo  a  qualche  cosa  attorno 

hanno  legato  con  sottili  bave 

come  di  seta;  e  dormono  un  gran  giorno. 


I   FILUGELLI  95 


Alfine  ecco  si  svolgono  dal  grave 
sonno,  rifatti.  Ed  ecco  a  cento  a  cento 
li  cogli  a  un  ramo,  e  poni  giù  soave 

in  una  stuoia  il  tuo  cresciuto  armento. 


VI 


Tre  volte  tanto  brucano  foraggio 
così  cresciuti.  Ma  tre  volte  tanto 
verdeggia  il  gelso  al  puro  sol  di  maggio. 

Due  rose  aperte  tu  porrai  da  un  canto. 

Sognino  nella  stanza  solitaria 

d'essere  in  Cina,  i  bachi,  e  per  incanto 

errar  sui  gelsi  tra  i  color  dell' aria  1 


VII 


Dormono...  Ebbene:  tristo  sogno  è  il  loro. 
Ma  no:  vegliano,  e  sembrano,  all'aspetto, 
in  doglia  grande  od  a  crudel  lavoro. 

Non  vedi  come  il  torvo  capo  eretto 
per  tutto  un  giorno  dondolano  stanchi? 
Fontano  i  pie*  di  dietro,  alzano  il  petto, 

e  di  sé  stessi  escono  puri  e  bianchi. 


96  I    FILUGELLI 


Vili 


Ora  in  tre  stuoie  li  porrai,  né  ora 
più  dalle  rame  sgrapperai  le  fronde. 
Porgi  la  rama  florida,  che  odora. 

Non  le  hai  deposte  ancora,  eccole  monde. 
Ma  tu  gli  alunni  muterai  dal  primo 
letto,  più  volte,  o  almeno  all'ultimo,  onde 

l'ultimo  sonno  non  s' invìi  sul  fimo. 


IX 


Dormono...  O  Rosa,  siediti;  che  giova. 
Dormono  alfin  la  grossa  i  filugelli 
che  tu  tenesti,  nel  tuo  seno,  in  cova. 

Ma  tu  mondi  olivagnoli,  e  fastelli 

scuoti,  di  cesti;  vieni  e  vai;  ti  spicci, 

ti  studi,   entri,  esci,  apri,  alzi,  e  sui  castelli 

tacita  e  grave  stendi  altri  cannicci... 


I    FILUGELLI  97 


CANTO  TERZO 


Or  SÌ,  conviene  ai  gelsi  bianchi,  ai  mori, 
dare  il  pennato,  e  portar  foglia  a  fasci, 
con  fruscio  grande  e  il  fresco  odor  di  fuori  1 

Ma  su  le  prime  indugi  un  po';  né  lasci 

che  il  gregge  impingui,  e  se  ne  perda  il  frutto; 

attenta,  accorta,  a  man  a  man  li  pasci 

più  largamente,  fin  che  indulgi  il  tutto. 


Ed  ecco  allora  nell'opaca  loggia 
piena  di  verde,  uno  scrosciare  uguale, 
un  grosso  allegro  strepito  di  pioggia. 

Sembra  l'oscurità  d'un  temporale 
che  fa  fuggire  con  le  falci  in  pugno 
le  villanelle...  Invece  le  cicale 

cantano  al  sole,  al  nuovo  sol  di  giugno. 

Nuovi  Poemetti 


I    FILUGELLI 


III 


Canta,  nel  sole  immersa,  la  calandra 

che  inebbria  il  cielo.   Tu  tra  i  tuoi  castelli 

nella  fresca  ombra  vegli  sulla  mandra. 

Di  quando  in  quando  vengono  i  fratelli 
portando  rami  striduli  a  bracciate: 
entra  con  loro  il  canto  degli  uccelli, 

entra  con  loro  il  soffio  dell'estate. 


rv 


Ma  sazi  alfine  i  tuoi  voraci  allievi, 
or  l'uno  or  l'altro,  lasciano  la  foglia. 
Erano  pigri,  agili  sono  e  lievi. 

Vagano  spinti  da  non  so  qual  voglia. 
Talvolta  alcuno  qua  e  là  s'arresta. 
Sembrano  ciechi  che  da  soglia  a  soglia 

vadano  tentennando  con  la  testa. 


Tu  sai,  tu  vegli:  a  tempo  tu  facesti 
nella  tua  selva,  o  Rosa,  quando  c'eri 
pei  primi  funghi,  irsute  stipe  e  cesti. 


J    FILUGELLI  99 


Rami  d'ulivi,  anche  di  meli  e  peri, 
anche  di  viti,  tu  serbasti  insieme, 
e,  quali  alberi,  piccoli  ma  veri, 


gambi  di  rape,  dopo  colto  il  seme. 


VI 


Di  questi  rami  ed  alberi  minori 
alzi  in  un  tiepido  angolo  tranquillo 
un  bosco  secco  senza  foglie  e  fiori. 

—  Che  rifiorisca?  —  par  che  rida  il  grillo. 
Non  ride  il  ragno:  egli  fa  pur  le  tele! 
Né  l'ape  ch'ama  il  regamo  e  il  serpillo: 

tutto  può  darsi;  ella  fa  pure  il  miele! 


VII 

Vanno  inquieti,  contro  lor  costume. 

Qual  monta  i  ritti,  qual  s'appende  al  muro. 

Traspare  il  corpo,  se  si  spera  al  lume. 

Più  nulla  è  in  loro,  che  non  sia  futuro. 

Par  che  la  bocca  un  fil  di  luce  aneli. 

Il  verme  è  mondo,  il  verme  è  tutto  puro... 

O  Rosa,  è  puro,  e  cerca  ove  si  celi. 


I    FILUGELLI 


vm 

Prendili,  o  Rosa,  con  le  rosee  dita: 
portali  al  bosco.  Dentro  pochi  giorni 
l'arida  selva  rivedrai  fiorita. 

Vai  dal  castello  al  bosco,  poi  ritorni 
dal  bosco  lieta  al  tuo  castello:  lieta, 
che  i'un  si  vuoti  e  l'altro  già  s'adorni 

di  biondi  grandi  bozzoli  di  seta. 


IX 


Non  più  castelli,  o  Rosa:  altro  non  resta 
che  il  bosco  brullo.  Or  tu  siedi  romita, 
pensi  all'amore,  un  po'  lieta  un  po'  mesta. 

Dal  bosco  morto  viene  un'infinita 
romba  nel  gran  silenzio  sonnolento. 
Tra  le  sue  rame  odi  un  ansar  di  vita- 
le già  sue  foglie  odi  stormire  al  vento. 


LA  MIETITURA 


TRA  LE  SPIGHE 


1  grano  biondo  sussurrava  al  vento. 
Qualche  fior  rosso,  qualche  fior  celeste, 
tra  i  gambi  secchi  sorridea  contento. 

Pendeano  li  agli  e  le  cipolle  in  reste. 
S'udian,  mutata  alfin  la  voce  in  gola, 
cantar  galletti,  altieri  delle  creste. 


Tessea  le  spighe  dello  spigo  a  spola 

la  cara  madre,  per  i  suoi  roteili 

del  banco  grande  e  per  le  sue  lenzuola. 

Fioria  la  zucca,  arsivano  i  piselli, 
nell'orto.  Le  ciliege  erano  andate: 
per  San  Giovanni  avevano  i  giannelli. 

C'erano  già  le  mele  dell'estate, 
c'erano  le  susine  di  San  Pietro. 
Fatte  via  via  più  lunghe  le  giornate. 


il  sole,  stanco,  ritornava  indietro. 


I04  LA    MIETITURA 


E  biondo  al  vento  mormorava  il  grano. 

Fiorivano  le  snelle  spadacciole 

tra  i  gambi  gialli;  e  non  sapean,  che  in  vano. 

C'era  un  bisbiglio  come  di  parole. 
E  l'intendea  la  lodola  che  in  tanto 
aveva  lì  la  giovinetta  prole. 

Tardi  avea  fatto  il  nido,  Il  da  un  canto. 
Ohi  ella  amava  il  sole  più  che  il  nido! 
Chi  sa?  voleva  far  lassù,  col  canto  1 

Or  sui  piccini  udiva  già  lo  strido 
della  falciola;  e  li  ammonìa  di  stare 
accovacciati  senza  dare  un  grido. 

Diceva:  —  Chiotte,  contro  terra,  o  care! 
che  non  si  muova  un  bruscolo,  uno  stelo  I 
"V'ho  fatte  color  terra:  altro  non  pare, 

così,  che  terra,  o  nate  per  il  cielo  1  — 


m 


E  il  grano  al  vento  strepitava;  e  disse 
il  padre  al  figlio:  "Mieteremo.  Vedi: 
verdino  è,  sì,  ma  non  vorrei  patisse. 


TRA    LE    SPIGHE  I05 


Che  il  grano  dice:  —  Io  sto  ritto,  e  tu  siedi. 
Qui  temo  l'acqua,  e  il  vento  mi  dà  briga. 
Altronde,  o  presto  o  tardi,  o  steso  o  in  piedi, 

se  il  gambo  è  secco  seccherà  la  spiga  —  „. 


TERRA  E  CIELO 


E  disse  poi,  con  tutti  i  figli  attorno, 

appiè'  d'un  melo,  carico  di  mele: 

"  Sì:  mieteremo  suU' aprir  del  giorno. 

La  terra  è  buona:  dura,  ma  fedele; 
ma  è  una  barca,  il  sole  per  timone, 
e  bianche  e  nere  nuvole  per  vele. 

Ci  vuole  il  cielo:  tutto  a  sua  stagione; 
e  freddo,  caldo,  dolce,  aspro,  ci  vuole, 
e  i  lampi. e  i  tuoni  e  il  fumido  acquazzone. 

Il  grano  in  prima,  ebbe  due  barbe  sole, 
quando  esci  fuori,  un  solo  gambo  in  tutto. 
Venne  la  neve:  —  Ah!  vuoi  goderti  il  sole? 

No!  Sofifri  un  po'!  Metti  altre  barbe!  Frutto 
non  vien  da  seme  che    non  sia  già  morto  — 
Die'  retta  il  grano.  Marzo  venne  asciutto. 

Guai  se  i  miei   campi   li   prendea  per  l'ortol 


I08  LA    MIETITURA 


Si  sa:  marzo  va  secco,  il  gran  fa  cesto. 
Il  gran,  per  uno  pallido  e  sottile, 
più  ciuffi  mise,  quanto  più  fu  pesto. 

Talliva.  Allora  sopravvenne  aprile 
con  le  dolci  acque.  I  giorni  erano  belli, 
ma  e'  passava  con  il  suo  barile. 

Passava  in  alto,  tra  un  cantar  d'uccelli, 

con  una  gonfia  nuvoletta  nera... 

E  il  gran   fece  il  cannello,  anzi  i   cannelli. 

Doglia  di  verno,  gioia  a  primavera  I 

Tanti  cannelli,  tante  spighe,  nate 

d'un  chicco  solo;  e  questo  chicco  ov'era? 

Non  c'era  più.  Restare,  a  che?  Pensate. 
Il  grano  intanto  chiuso  nello  stelo, 
dentro  le  verdi  lolle  accartocciate, 

fioriva.  Unita  era  la  Terra  al  Cielo. 


Ili 


Fioriva  il  grano.  Erano  in  casa,  i  fiori, 
con  l'uscio  chiuso,  e  nuovi  della  vita 
mescean  celati  i  loro  dolci  amori. 


TBRRA    R    CIELO  I09 


Alfin  la  spiga  aperse  con  due  dita 
l'uscio,  e  guardò  stringendo  a  sé  la  veste. 
Ma  come  vide  al  Ciel  la  Terra  unita, 

anch' ella  esci,  ma  con  un  vel  di  reste. 


E  LAVORO 


E  il  grano  è  bello.  Ma  non  fu  soltanto 
la  terra  e  il  cielo,  fu  la  nostra  mano. 
Chi  prega  è  santo,  ma  chi  fa,  più  santo. 

E  prima  scelsi  il  seme  del  mio  grano 
tra  il  grano  mio.  Grani  più  duri  e  grossi 
o  più  gentili  non  cercai  lontano. 

Altri  grani,  altre  terre,  ed  altri  fossi 
ed  altri  conci.  Il  grano  da  sementa 
non  Io  tribbiai  né  macchinai,  ma  scossi. 

Quando  fu  tempo,  presi  calce,  spenta 
da  me,  non  vecchia;  tal  che,  non  appena 
l'acqua  la  bagni,  bulica  e  fermenta. 

Ne  feci  latte,  e  in  una  cesta  piena 
v'immersi  il  grano,  che  un   po'  sempre   molle, 
quando  sentii  la  lunga  cantilena 

di  grilli  e  rane,  sparse  sulle   zolle. 


LA    MIETITURA 


Né  lavorato  avevo  a  fondo:  a  fondo 

avevo  sì,  ma  pel  granturco  d'anno. 

Il  grano  è  meglio,  e  però  vien  secondo. 

Sta  pago  il  grano  a  quello  che  gli  danno. 
Vuol  sì  la  terra  trita,  ma  non  trita 
tanto,  che,  anzi,  gli  sarebbe  a  danno. 

Non  diedi  al  grano  che  mi  dà  la  vita, 
nemmeno  il   concio.  Poco  o  nulla  e'  chiede 
per  far  la  spiga  bèlla  e  ben  granita. 

Gli  basta  un  po'  del  troppo  che  si  diede 
al  formentone,  che  scialacqua  e,  grande 
com'è,  non  pensa  al  piccoletto  erede. 

Ad  ogni  acquata  egli  s' inalza  e  spande, 

si  sogna  d'essere  albero,  fa  vanti 

e  sfoggi,  e  vuole  intorno  a  sé  ghirlande 

di  zucche  e  di  fagioli  rampicanti... 


m 

Dov'è'  lasciò,  grossi,  pel  fuoco,  i  gambi, 
io  questo  grano  seminai;  non  fitto; 
e  un  sol  governo  valse  per  entrambi. 


B    LAVORO  113 


E  visse  e  crebbe,  pesto  giallo  afflitto. 
Ma,  or  vedete:  e'  non  s'alletta  e  sta. 
È  bello.  Per  tenere  il  capo  ritto 

giova  la  cara  buona  povertà! 


Nuovi  PoemelH 


IL  PANE 


Date  la  pietra  a  falci  ed  a  frullane, 

o  cari  figli!  spruzzolate  l'aia 

con  acqua  pural  Che  ritorna  il  pane. 

Viene  dai  campi  tratto  a  noi  da  paia 
di  vaccherelle,  all'aie  bianche  ov'erra 
odor  di  fiori  e  odor  di  concimaia. 

Fategli  festa:  ei  viene  di  sotterra, 

e  sé  dà  cibo  a  quei  che  l'hanno  ucciso, 

il  figlio  pio  del  Cielo  e  della  Terra! 

Siete  suoi  figli;  e,  dopo  che  al  sorriso 
di  vostra  madre,  di  tra  le  sue  stesse 
mammelle  sante,  avete  a  lui  sorriso. 

Lo  stringevate,  che  non  vi  cadesse, 

con  le  due  mani,  ancora  gronchie,  al  core, 

dandogli  un  bacio.  Egli  le  sue  promesse 

attiene,   e  per  noi  nasce   e   per  noi  muore. 


Il6  LA    MIETITURA 


Fategli  festa.  Era  finito  il  grano... 

il  grano  vecchio.  Or  quello  eh' è  più   in  cera, 

noi  sceglieremo  e  batteremo  a  mano. 

Il  meglio,  il  fiore  dell'annata  intera, 

noi  manderemo  subito  al  molino; 

che  l'abbia  a  giorno  e  che  lo  renda  a  sera. 

L'affioreremo.  Vuo'  lo  staccio  fino. 
Prepareremo  il  lievito,  eh' è  quello 
che  il  nonno  in  casa  ritrovò  bambino. 

Sia  buono  il  pane,  ma  non  sia  men  bello: 
meglio  che  il  brutto  pan  di  fiore  approvo 
un  bel  colombo  fatto  di  cruschello. 

Sia  ben  levato  e  pieno  come  un  evo, 
e  col  suo  sale;  buono  anche  da  solo. 
Sia  questo  primo  pane  di  gran  nuovo 

per  te,  mia  figlia,  che  mi  prendi  il  volo. 


Ili 


Ma  da'  la  pietra  alla  tua  falce,  o  Rosa. 
Mieti  con  gli  altri.  Mieterai  più  lenta 
nei  dì  che  passi  tra  fanciulla  e  sposa; 


117 


nei  dì  che  il  cuore  sembra  che  si  penta 
di  far  le  spighe  che  per  ciò  son  nate... 
Mieti  anche  tu.  Nelle  tue  carni  ei  senta 

l'odor  del  grano  e  della  grande  estate  „. 


LA  MBSSE 


I  due  fratelli  con  le  due  sorelle, 
stringendo  il  grano  e  le  lunate  falci, 
mietean   le  spighe  e  ne   facean  mannelle. 

Torceano  spighe,  per  legar,  non  salci. 
E  le  stendeano.  O  vite,  così  stese 
le  carezzavi  con  l'ombrìa  dei  tralci. 

L'erbe  così,  mentre  fiorian,  sorprese,  ' 
morìano  al  sole;  onde  alle  bestie  grata 
si  fa  la  paglia  come  fien  maggese. 

Passava  il  padre  tutta  la  giornata 

pei  solchi,  e  ritte  le  mannelle  in  croce 

ponea,  se  l'erba  già  vedea  seccata. 

Seguian  nel  campo  l'opera  veloce 
lieti  i  fratelli  e  le  sorelle  accanto. 
Ma  non  si  udiva,  o  Rosa,  la  tua  voce. 

Un  canto,  sì,  di  lodoletta,  o  un  pianto. 


LA    MIETITURA 


In  ogni  campo  alzarono  due  tonde 
mete  di  spighe.  Posero  per  prime 
quattro  mannelle,  le  più  grosse  e  bionde. 

Posero  il  calcio  in  terra,  alto  le  cime; 
e  poi,  con  le  altre  sopra  quelle  e  intorno, 
fecero  una  gran  cupola  sublime. 

Mietean  tre  giorni.  Sul  finir  del  giorno, 
era  finita.  Placida  la  sera, 
erano  i  cuori  placidi  al  ritorno. 

"  Il  grano  è  bello,  e,  di  verdugio  eh'  era, 
secco  sin  troppo.  Con  quel  sole,  ha  sete. 
Oggi  la  spiga  ci  parea  leggiera  „ 

diceva  il  babbo,  e  soggiungea:  "  Vedrete! 
Il  gran  che  il  sole  ora  ha  stremato  e  franto, 
poi  si  rifa  la  notte  nelle  mete, 

e  s'enfia  e  s'empie,  e  peserà  più  tanto  „. 


Ili 


Nere  le  mete:  solo  qualche  lampo 
facean  le  paglie,  come  se  un  tesoro 
fosse  disperso  qua  e  là  nel  campo. 


LA    MESSE 


Diceano  i  grilli  grazie  mille  in  coro  • 
a  chi,  tagliato,  per  lor  agio,  il  grano, 
gittò  poi  l'arma...  La  falciola  d'oro 

brillava  in  cielo  e  ricadea  lontano. 


I   SBMI 


L'alba  sul  monte  e  l'ombra  nella  valle. 
I  vermi  chiusi  ne'  ben  fatti  avelli, 
piccole  mummie,  rinascean  farfalle. 

Le  spose  uscian  da'  bozzoli  più  belli, 
candide  e  gravi.  Col  frullar  dell'ale 
movean  ver  loro  i  brevi  maschi  snelli. 

La  savia  madre  il  letto  nuziale 

bianco  lor  tese.  Ognuno  andava  in   traccia 

d'una  compagna  all'opera  immortale. 

E  venne  Rosa  dalle  bianche  braccia 
nella  stanzetta  del  fecondo  rito. 
Recava  in  grembo  i  bei  roteili  e  l'accia. 

Rosa  ristiè  vedendo  già  fiorito 

di  semi  d'oro,  tanti  semi,  il  panno. 

Pensava:  Allora  avrò  l'anello  al  dito, 

non  ci  sarò,  quando  rinasceranno... 


134  l'A    MIETITURA 


Sentiva  tonfi  e  scrosci  come  pioggia 
che  sferzi  i  vetri.  II  primo  fior  del  grano 
scotean  laggiù  nella  sonante. loggia. 

Prendeva  il  babbo  una  mannella  in  mano 
e  la  battea,  voltandola,  più  volte, 
forte  e  con  garbo,  sur  un  banco  piano. 

Secche,  bell'aspre,  già  per  prime  colte, 
eran  le  spighe,  e  con  tre  colpi  a  sesto 
davano  fuori  il  grano  lor,  disciolte. 

Pioveano  i  chicchi.  A  Rosa  vie  più  mesto 
si  fece  il  cuore.  Ah!  che  il  desio  rimane 
addietro,  spesso,  e  il  tempo  va  più  lesto! 

Capì  la  madre  che  pensava  al  pane 
delle  sue  nozze,  pallida  e  sgomenta; 
e  disse,  volti  gli  occhi  in  là:  "  Stamane 

scuotono  il  grano,  ma  della  sementa...  „ 


III 


E  nelle  braccia  si  trovò  piangente 

l'una  dell'altra.  "Oh!  quello  che  più  costa 

figlia,  è  la  gioia:  oh!  non  si   dà  per  niente! 


125 


"  Se  ho  fatto  male,  non  l'ho  fatto  appostai 
Lascia  ch'io  resti  qui  con  te,  ch'io  stia 
in  un  cantuccio,  ma  con  te,  nascosta... 

Non  mi  mandare,  o  dolce  madre,  via!...  „ 


IL  CORREDO 


"  Non  io  ti  mando.  È  un  altro  che  ti  manda. 
Fa  quel  ch'io  feci,  che  per  te  fu  bene. 
Va  col  tuo  velo  e  con  la  tua  ghirlanda. 

Te  la  faremo  d'astri  e  di  verbene; 
di  rose,  resti,  e  per  un  po',  tu  sola. 
Va  col  corredo  quale  a  te  perviene. 

Frullare  il  fuso  e  correre  la  spola 
facesti  assai  1  La  tela,  che  tessesti  1 
Quante  coperte  e  paia  di  lenzuola! 

Tutte  son  tue;  che,  quando  là  ti  desti 
nei  primi  giorni,  prima  che  sia  giorno, 
pensi  che  i  più,  degli  anni  tuoi,  son  questi. 

Ti  sentirai  l'odor  di  casa  attorno, 
il  buon  odor  di  spigo  e  di  cotogno, 
e  di  tua  mamma;  ed  ecco,  di  ritorno 

sarai,  tra  noi,  se  dopo  dormi,  in*  sogno. 


Ia8  LA    MIETITURA 


Facesti  assai  correre  l'ago  e  il  fuso, 
la  spola  e  i  ferri.  Il  bene,  si  ritrova. 
Hai  quel  eh' è  d'uso,  ed  anche  più,  che  d'uso. 

Senza  pensarci,  ad  una  casa  nuova 

tu  provvedevi:  tu,  per  quella,  in  piazza 

la  seta  e  i  polli  tu  portasti  e  l'uova. 

Per  quella  i  teli  stavano  alla  guazza 
ed  alla  luna.  Dice  il  babbo,  o  Rosa: 
—  Ricca  da  sposa,  oprante  da  ragazza  — 

Ora,  il  primo  anno,  o  figlia  mia,  riposa! 
Godi,  che  n'hai,  le  calze  e  le  gonnelle 
e  le  tovaglie  a  spina,  a  riso,  a  rosa. 

Per  me  le  hai  fatte,  e  sono  così  belle! 
La  madre  tua  le  dona  a  te...  Ma  pensai 
Quando  i  tuoi  vecchi  un  giorno  le  ciambelle 

ti  porteranno^  ne  ornerai  la  mensa  „. 


Ili 


Cosi  diceva;  ma  di  tanto  in  tanto 
le  si  arrochiva  e  si  spengea  la  voce. 
Assieme  allora  elle  faceano  un  pianto. 


IL  CORREDO  139 


Come  è  qui  tutto,  insino  i  fiori,  a  croce! 
La  madre  altrove  la  condusse,  un  banco 
le  aperse,  nuovo,  lucido,  di  noce. 

"È  tuo,  con  tutto  il  suo  tesoro  bianco  „. 


f 


Nuovi  Poemetti 


IL  SALUTO 


E  il  giorno  avanti  le  sue  nozze  in  fiore 
ri\àde,  errando  per  il  colle  e  il  piano, 
ciò  ch'ella  amava,  e  che  non  era  amore. 

E  salutò  coi  cenni  della  mano 

la  vigna  verde  che  le  dava  il  vino, 

il  campo  grande  che  le  dava  il  grano; 

e  il  melograno  rosso  e  il  biancospino 
della  sua  siepe,  e  il  campo  così  smorto, 
in  cui  fiorì  come  un  bel  cielo  il  lino: 

ciò  ch'era  morto  e  ciò  ch'era  risorto, 
ciò  che  nasceva  e  che  moriva  al  sole, 
la  selva,  il  prato,  l'oliveta  e  l'orto. 

Di  fiori,  c'era  un  alto  girasole, 

nell'orto,  e  qualche  zinia  ed   astro  in  boccia. 

Tutto  era  colto...  A  lei  con  l'ali  sole 

corse,  tra  un  rotto  pigolìo,  la  chioccia. 


132  LA    MIETITURA 


Salutò  l'aia,  il  pozzo,  a  tutte  l'ore 
gemente  e  fresco,  e  la  sua  casa  ohi  tanto 
e  tanto  amata!  ma  non  era  amore; 

la  cameretta,  il  letto  a  due,  col  Santo 
che  v'era  in  cima.  Il  capo  sulla  sponda, 
piangeva,  ed  ecco  udiva  un  altro  pianto. 

"  Ohi  ella  aspetta  sempre  che  risponda 
il  vitellino  I  „  Era,  quel  pianto,  un  muglio. 
Un  muglio  sì,  ma  era  la  sua  Bionda! 

Scese,  e  facea  per  lei  qualche  cerfuglio 
e  qualche  frasca.  Ecco  un  ronzìo  sonoro. 
Era  uno  sciame  che  sciamava  in  luglio. 

Ronzare  udiva  quello  sciame  d'oro, 
e  la  sua  mucca  riudì  mugliare. 
Rondini  udiva  cinguettare  in  coro, 

venute  al  nido  sopra  il  vento  e  il  mare. 


Ili 


Ed  il  domani  baciò  Nando  e  Dorè 

che  scappò,  il  babbo  a  cui  ballava  il  mento; 

che  amava,  oh!  quanto!,  ma  non  era  amore. 


IL    SALUTO  133 


Ei  disse:  "  Gioia  dentro,  lume  spento  „. 
Baciò  la  madre,  che  la  benedisse  ; 
E  Violetta,  col  suo  viso  attento, 

tacita,  grave,  le  pupille  fisse. 


IL  CHIÙ 


Addio!  —  La  notte,  troppo  grande  il  letto 
era  a  Viola.  Stava  dal  suo  canto, 
con  incrociate  le  due  mani  al  petto; 

ma  non  dormiva.  Non  aveva  pianto. 
Dicea  di  quando  in  quando  una  preghiera. 
Dormir,  sognare,  non  volea;  che  tanto... 

non  c'era  più!  Perchè  sognar  che  c'era? 
non  saper  più,  ma  per  un  poco,  appena, 
ch'era  partita  al  rosseggiar  di  sera? 

La  notte  in  cielo  risplendea  serena: 

tra  cielo  e  terra  un  murmurc,  uno  spesso 

palpito,  l'onda  d'un' assidua  lena. 

E  Violetta  si  chiedea  sommesso 
dov'era  quella  che  non  c'era  più. 
Col  dolce  verso  sempre  mai  lo  stesso 

le  rispondeva  da  lontano  il  chiù. 


136  LA    MIETITURA 


II 


Splendea  lassù  la  gran  luce  di  Sirio. 
Recava  odor  di  fiori  pésti  il  vento. 

—  EU'era  andata  a  chi  sa  qiial  martirio! 

Ora,  dov'era?...  A  lume  acceso  o  spento? 
Buon  che  le  mise  al  collo,  nell'aspetto, 
quella  sua  croce  piccola  d'argento! 

Ella  doveva  ora  vegliar  nel  letto 
sola  con  lui!  senza  sperare  aiuto!  — 
Viola  i  panni  si  stringea  sul  petto. 

—  Che  cosa  avrebbe  egli  da  lei  voluto? 
Qual  piaga  dare  tenera  e  mortale 

a  quelle  carni  bianche,  di  velluto? 

Qual  pianto  fa  di  quel  eh' è  ora,  e  quale 
rimpianto  mai  di  quel  eh' un  giorno  fu!...  - 
Col  mesto  verso  eternamente  uguale 

le  rispondeva  di  lontano  il  chiù. 


Ili 


Quando  cantò  la  prima  capinera 
nel  puro  cielo  d'ambra  e  di  viola, 
dormiva,  sciolta  la  gran  chioma  nera. 


137 


Dormiva  forte,  stretta  alle  lenzuola; 
e  se  sognò,  non  ricordò,  che  cosa. 
Si  levò  tardi.  E  come  te.  Viola, 

anche  i  tuoi  vecchi.  E  tu  più  tardi,  o  Rosa. 


LE  DUE  AQUILE  -  I  DUE  ALBERI 


LE  DUE  AQUILE 


La  rupe  è  là  con  le  altre  rupi  intorno, 

alta,  nell'immobilità  del  gelo. 

Talor  vi  ruota  all'apparir  del  giorno 

una  grande  ombra  che  vien  giù  dal  cielo. 


II 


La  rupe  un  giorno  par  che  muova,  il  ghiaccio 
sembra  che  crocchi  e  crepiti,  fin  ch'esce 
tristo  un  fil  d'acqua  da  un  sottil  crepaccio. 

Al  sordo  e  cupo  fremere  si  mesce 
ora  un  bisbiglio  ed  un  gorgogUo  lene. 
Con  l'ali  aperte  scende  l'ombra,  cresce 

all'improvviso,  e  grande  sta.  —  Che  avviene?  — 


142  LE    DUB    AQUILE 


III 


E  ruccellaccio  posa  sopra  il  ciglio 
dell'alta  rupe;  e  sente  che  s'abbassa 
la  rupe  sotto  l'uno  e  l'altro  artiglio. 

Tacito  va,  tacito  viene,  passa 

con  le  grandi  ali.  Tronchi  d'agrifoglio 

e  d'oleastro  porta  getta  ammassa. 

Ora  il  bisbiglio  e  il  fievole  gorgoglio 
si  fa  rumore,  giù  di  balza  in  balza 
divien  fracasso,  giù  da  scoglio  a  scoglio. 

Tutta  s'apre  la  fulva  aquila,  s'alza... 


IV 


S'alza  a  vedere;  tra  le  nubi  e  i  venti 
s'adagia  in  cielo.  Nelle  valli  brune 
vede  gettarsi  i  botri  ed  i  torrenti. 

Vanno  con  un  feroce  urlo  comune, 

chi  qua  chi  là.  Scendono  ciechi  al  piano, 

portano  massi,  travi,  alberi,  cune. 

Hanno  la  cupa  voce  d'uragano 
e  di  valanga;  ed  il  fragor  con  loro 
rapido  va,  ma  non  è  mai  lontano. 


LE   DUE    AQUILE  I43 


Fuor  dalle  nubi,  risplendente  d'oro, 
l'aquila  ruota,  remeggiando  lenta, 
sopra  il  terrestre  vortice  sonoro. 

E  s'alza  ancora  ed  alto  un  grido  avventa, 

atroce,  per  le  vane  plaghe  sole. 

Tre  volte  grida,  e  sta  tre  volte  intenta 

all'eco  forse  che  ne  mandi  il  sole. 


Amore!  amore!  amore!  Ecco  apparita 
sopra  le  nubi,  immobile  su  l'ale, 
tremando  in  cuor  lo  squillo  della  vita, 

tremando  in  cuore  il  palpito  immortale 
della  sua  vita,  l'altra  aquila.  S'alza 
lenta,  e  ricorda  a  man  a  man  che  sale. 

Ricorda  tutto,  e  presso  lui  già  sbalza, 
e  insieme  precipitano  al  profondo, 
prèdansi  a  furia;  l'anno  e  l'ora  incalza: 

vuole  due  grandi  aquile  nuove  il  mondo! 


144  LE    DUE    AQUILE 


VI 


Amore!  amore!  Or  egli  tra  lo  scroscio 
delle  cascate  s'inabissa  a  piombo, 
artiglia  il  daino,  lacera  il  camoscio; 

e  brani  rossi  porta,  e  sul  rimbombo 
delle  valanghe  suona  aspro  il  suo  grido 
di  sangue  e  morte,  che  poi  frena:  il  rombo 

solo  dell'ale  ode  il  solingo  nido. 


VII 


Amore!  Ed  ella  cova.  Il  capo  eretto 
e  gli  occhi  fissi,  lunghi  giorni  e  notti. 
Col  rostro  adunco  ora  si  spiuma  il  petto, 

sprimaccia  il  covo.  Sente  gU  aquilotti... 


LA  PIADA 


Il  vento  come  un  mostro  ebbro  mugliare 

udii  notturno.  Errava  non  veduto 

tra  i  monti,  e  poi  s'urtava  al  casolare 

piccolo,  ed  in  un  lungo  ululo  acuto 
fuggiva  ai  boschi,  e  poi  tornava  ancora 
più  ebbro,  con  suoi  gridi  aspri  di  muto. 

L'udii  tutta  la  notte,  ed  all'aurora, 
non  più.  Dormii.  Sognai,  su  la  mattina, 
che  la  pace  scendeva  a  chi  lavora. 

Or  vedo:  scende.  Scende:  era  divina 
l'anima.  Il  cielo  tutto  a  terra  cade 
col  bianco  polverìo  d'una  rovina. 

Non  un'orma.  Vanite  anche  le  strade. 
La  terra  è  tutto  un  solo  mare  a  onde 
bianche,  di  porche  ov' erano  le  biade. 

Nuovi  Poemetti 


146  LA    PIADA 

Resta  il  mio  casolare  unico,  donde 
esploro  in  vano.  Non  c'è  più  nessuno. 
E  solo  a  me  che  chiamo,  ecco  risponde 

il  pigolìo  d'un  passero  digiuno. 


Sul  liscio  faggio  danzi  corra  voli. 
Maria,  lo  staccio!  Siamo  soli  al  mondo: 
stacciamo  il  pane  che  si  fa  da  soli! 

Voli  lo  staccio  e  treppichi  giocondo, 
vaporando  il  suo  bianco  alito  fino, 
che  si  depone  sul' tuo  capo  biondo. 

O  lieve  staccio,  io  t'amo.  Il  tuo  destino 
somiglia  al  mio:  tener  la  crusca;  il  fiore, 
spargerlo  puro  per  il  tuo  cammino. 

E  fai  codesto  con  un  tuo  rumore 
lieto,  in  cadenza:  semplice,  ma  bello 
per  l'orecchio  del  pio  lavoratore. 

Ma  triste,  sotto  mezzodì,  per  quello 
del  viandante,  che  rasenta  i  triti 
limitari  del  lungo  paesello: 

ch'ode  un  danzar  segreto,  ode  tra  i  diti 
di  donna  sola,  in  ogni  casa,  andare 
te,  casalingo  cembalo,  che  inviti 

lo  sciame  errante  al  tacito  alveare. 


LA    PIADA  147 


III 


Taci,  querulo  passero:  t'invito. 
Sempre  diventa  il  tuo  gridìo  più  fioco: 
taci:  or  ora  imbandisco  il  mio  convito. 

Il   poco   è  molto   a  chi   non   ha  che   il  poco; 
io  suU'aròla  pongo,  oltre  i  sarmenti, 
i  gambi  del  granturco,  abili  al  fuoco. 

Io  li  riposi  già  per  ciò.  Ma  lenti 

sono  alla  fiamma:  e  i  canapugli  spargo 

che  la  maciulla  gramolò  tra  i  denti. 

Nulla  gettai  di  quello  che  non  largo 
mi  rese  il  campo:  la  mia  man  raccoglie 
anche  i  fuscelli  per  il  mio  letargo. 

Serbo  per  il  mio  verno  anche  le  foglie 

aride.  Del  granturco,  ecco  via  via 

mi  scaldo  ai  gambi  e  dormo  sulle  spoglie. 

Ciò  che  secca  e  che  cade  e  che  s'oblia, 
io  lo  raccolgo:  ancora  ciò  che  al  cuore 
si  stacca  triste  e  che  poi  fa  che  sia 

morbido  il  sonno,  il  giorno  che  si  muore. 


148  LA    PIADA 


IV 


Il  mio  povero  mucchio  arde  e  già  brilla: 
pian  piano  appoggio  sopra  due  mattoni 
il  nero  testo  di  porosa  argill?i. 

Maria,  nel  fiore  infondi  l'acqua  e  poni 
il  sale;  dono  di  te,  Dio;  ma  pensa! 
l'uomo  mi  vende  ciò  che  tu  ci  doni. 

Tu  n'empi  i  mari,  e  l'uomo  lo  dispensa 

nella  bilancia  tremula:  le  lande 

tu  ne  condisci,  e  manca  sulla  mensa. 

Ma  tu,  Maria,  con  le  tue  mani  blande 
domi  la  pasta  e  poi  l'allarghi  e  spiani; 
ed  ecco  è  liscia  come  un  foglio,  e  grande 

come  la  luna;  e  sulle  aperte  mani 
tu  me  l'arrechi,  e  me  l'adagi  molle 
sul  testo  caldo,  e  quindi  t'allontani. 

Io,  la  giro,  e  le  attizzo  con  le  molle 
il  fuoco  sotto,  fin  che  stride  invasa 
dal  calor  mite,  e  si  rigonfia  in  bolle: 

e  l'odore  del  pane  empie  la  casa. 


LA    PIADA  149 


Chi  picchia  all'uscio?  Tu  forse  Aasvero, 
che  ancor  cammini  per  la  terra  vana, 
arida  foglia  per  un  cimitero? 

Chi  picchia  all'uscio?...  E  fioca  una  campana 
suona...  Chi  suona?  Forse  un  vecchio  prete, 
restato  a  guardia  della  tomba  umana? 

È  solo;  e  ancora  a  mezzodì  ripete 
l'Angelus,  ed  a  rincasare  invita, 
morti,  voi,  che  sotterra  ora  mietete. 

Socchiudo  l'uscio.  —  Antica  ombra  smarrita, 
che  in  cerca  erri  del  corpo;  ultima  foglia, 
che  stridi  ancora  dove  fu  la  vita; 

qual  vento  t'ha  portato  alla  mia  sogUa, 
vecchio  ramingo,  ultima  foglia  morta 
d'albero  immenso  che  non  più  germoglia? 

Ma  tu  sei  vivo:  hai  fame!  E  qui  ti  porta 

necessità.  Sei  vivo:  soffri!  Vivo 

sei:  piangi!  Ed  ecco,  dunque,  apro  la  porta: 

entra,  fratello;  che  ancor  io...  sì,  vivo.  — r 


150  LA    PIADA 


VI 


Entra,  vegliardo,  antico  ospite:  ed  ecco 
l'azimo  antico  degli  eroi,  che  cupi 
sedeano  all'ombra  della  nave  in  secco 

(si  levarono  grandi  sulle  rupi 
l'aquile;  e  nella  macchia  era  tra  i  rovi 
un  inquieto  guaiolar  di  lupi...): 

il  pane  della  povertà,  che  trovi 
tu,  reduce  aratore,  esca  veloce, 
che  sol  s'intrise  all'apparir  dei  bovi: 

il  pane  dell'umanità,  che  cuoce 

in  mezzo  a  tutti,  sopra  l'ara,  e  intorno 

poi  si  partisce  in  forma  della  croce: 

il  pane  della  libertà,  che  il  forno 
sdegna  venale;  cui  partisci,  o  padre, 
tu,  nelle  più  soavi  ore  del  giorno: 

ognuno  in  cerchio  mangia  le  sue  quadre; 
più,  i  più  grandi,  e  assai  forse  nessuno; 
o  forse  n'ebbe  più  che  assai  la  madre, 

cui  n'avanza  da  darne  un  po'  per  uno. 


LA    PIADA  151 


VII 


Azimo  santo  e  povero  dei  mesti 
agricoltori,  il  pane  del  passaggio 
tu  sei,  che  s'accompagna  all'erbe  agresti; 

il  pane,  che,  verrà  tempo,  e  nel  raggio 
del  cielo,  sulla  terra  alma,  gli  umani 
lavoreranno  nel  calendimaggio. 

Che  porranno  quel  dì  su  gli  altipiani 
le  tende,  e  nel  comune  attendamento 
l'arte  ognun  ciberà  delle  sue  mani. 

Ecco  il  gran   fuoco,  che  s'accende  al  vento 
di  primavera.  Ma  in  disparte,  gravi, 
sulla  palma  le  bianche  onde  del  mento, 

parlano  i  vecchi  di  non  so  che  schiavi 
d'altri  e  di  sé:  ma  sembrano  parole 
sepolte,  dei  lontanf  avi  degli  avi. 

Guardano  poi  la  prole  della  prole 
seder  concorde,  e,  con  le  donne  loro 
e  i  loro  figli,  in  terra,  sotto  il  sole, 

frangere  in  pace  il  pane  del  lavoro. 


GLI  EMIGRANTI  NELLA  LUNA 

CANTO    PRIMO 
Il  brodiag  e  lo  studente 


Mancava  ormai  la  legna  e  l'acquavite. 
Non  venne  il  sonno  e  ritornò  la  fame. 
Disse  un  brodiag  ai  contadini:  "Udite?,, 

Si  lisciava  la  gran  barba  di  rame 
senza  parlare,  e  si  togliea  tra  il  pelo 
le  foglie  secche  e  qualche  fil  di  strame. 

Quelli  aprivano  gli  occhi  color  cielo, 

zuppi   di   sogno.    "  Il  vento  !  „    disse  :    "  il  vento 

del  nordl  Quest'anno  tarderà  lo  sgelo  1  „ 

E  l'isbà  scricchiolò  con  un  lamento 

lungo  ad  un  urto.  Alzò  le  spalle  un  vecchio. 

senza  levare  dalle  palme  il  mento. 

Gli  altri  alla  romba  porsero  l'orecchio. 
"Hai  pane,  tu,,  ghignò  il  brodiag  "tu,  fieno! 
legna  nel  canto!  latte  anche  nel  secchio!  „ 


154  GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA 

"  Che  farci?,,  disse  il  vecchio.  "  Olio,  non  meno!...  „ 

II  lume  un  po'  guizzò  palpitò  sfrisse, 

si  spense.  Il  vecchio  disse:  "  Olio,  nemmeno  „. 

Che  farci!  Serrò  gli  occhi.  Altro  non  disse. 
Ecco  e  s'empiva  l'abituro  d'una 
paUida  nebbia.  Che  via  via  men  fisse 

vanian  le  stelle  all'alba  della  luna. 


E  la  luna  calante  battè  gialla 
sull'impannata.  Netta,  senza  brume, 
stava,  sul  liscio  mar  di  neve,  a  galla. 

L'immensa  taiga  biancheggiava  al  lume. 
Qualche  betulla  nuda,  qualche  cono 
d'abete,  e  solchi  d'ombra  d'un  gran  fiume. 

E  si  levò  tra  quelle  genti  un  suono 
dolce  di  voce:  "  Il  giovine  straniero 
giunto  tra  noi,  che  parla  a  noi,  eh' è  buono. 

egli  sa  tutto;  vede  anche  il  pensiero 
chiuso  nei  cuori...  egli  leggeva  un  giorno 
un  libro,  il  libro  che  ci  dice  il  vero... 


GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA  I55 

La  Luna,  dice,  è  un'altra  Terra,  attorno 

a  questa  Terra.  E  ci  si  va.  C'è  gente 

che  v'andò,  che  ne  parla,  ora,   al  ritorno...  „ 

La  giovinetta  voce  piovea  lente 
le  sue  parole.  Balenava  un  raggio 
or  qua  or  là  da  due  pupille  attente. 

E  il  contadino  e  il  boscaiol  selvaggio 
e  donne  e  bimbi,  nella  solitaria 
capanna,  udian  la  storia  del  passaggio 

a  quella  luna,  per  il  mar  dell'aria. 


Ili 


Scrollò  la  testa,  il  vecchio,  e  disse:  "Fole! 
L'uomo  non  vola,  o  garrula  ghiandaia, 
come  gli  uccelli  e  come  le  parole! 

L'acqua  ci  può.  Sul  fiume  va  l'alzaia, 
non  già  per  aria.  L'aria  è  aria;  nulla. 
Ma  l'acqua  è  cosa,  quando  pur  ti-aspaia. 

Fole  da  dire  sotto  una  betulla 

d'estate,  a  sera...  „  Ed  ella  disse:  "Allora 

le  nuvole?...  „  E  il  brodiag:  "  Ecco,  fanciulla! 


156  .    GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA 

Terra  e  lombrichi  vede  chi  lavora 

la  terra.  C'è  nel  mondo  altro,  che  il  grano! 

Il  sole  cade;  e  l'uomo  fa  l'aurora! 

Uno  bisbiglia;  e  l'ode  uno  lontano 
le  mille  migha!  I  carri  vanno  a  torma, 
da  sé,  con  un  fragore  d'uragano! 

E  c'è  chi  vola  senza  lasciar  l'orma. 
Sì!  Sì...  come  la  nuvola  che  batte 
nella  luna,  e  si  ragna  e  si  deforma...  „ 

Le  sue  parole  in  un  chiaror  di  latte 
passavano,  nel  loro  alitar  su. 
Come  nuvole  presto  fatte  e  sfatte 

le  rimirava  l'umile  tribù. 


GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA  I57 


CANTO  SECONDO 


Coni'  è  la  luna 


Scórsero  i  giorni,  anche  le  notti;  e  il  vento 

soffiò  più  forte,  e  si  levò  la  luna 

più  tardi,  e  il  fuoco  morto  e  il  lume  spento 

s'era  più  presto:  un'altra  notte,  e  una 
pallida  nebbia  errò  su  padri  e  figli 
non  sazi.  Ma  la  madre  era  digiuna. 

Destò  la  luna  i  languidi  sbadigli 
degli  altri:  a  lei  si  riflettè  su  gli  occhi 
umidi  e  lustri  sotto  i  curvi  cigli. 

Si  scaldavano  un  poco  ora  i  marmocchi 
a  lei.  L'ultimo,  in  terra,  il  capo  ciondo- 
loni via  via  le  urtava  ai  due  ginocchi. 

Ella  parlò:   "  Se  fosse  qui  quel  biondo 

grande...  Ma  egli  prese  la  bisaccia 

vuota;  e  chi  sa,  dov'ora  è  mai,  del  mondo? 


158  GLI    EMIGRANTI    NKLLA    LUNA 

• 

Io  gli  avrei  detto:  Non  è  lei  che  ghiaccia 
i  fossi  e  i  fiumi?  Non  è  lei  che  imbeve 
del  suo  biancore  i  lunghi  teli  e  l'accia? 

Non  fa  la  brina  e  il  gelo  essa?  Ci  deve 
far  così  freddo!  tra  le  stelle  sole, 
liscie,  lustranti!  Quel  biancore  è  neve...  „ 

"  No,  mamma  „  disse  la  fanciulla:  "  è  il  Sole!  „ 


E  la  tribù  guardò  nel  cielo.  Quella? 
Dunque  piena  di  sole  essa  trascorre, 
di  notte,  come  una  più  grande  stella? 

Una  piccola  Terra,  or  sulla  torre, 

or  sull'abete...  Ma  quell'ombre?  Monti, 

quelle  ombre,  rupi  valli  greppi  forre... 

rughe:  le  rughe  delle  vecchie  fronti. 
Ma  ella,  dunque,  è  vecchia  calva  ossuta, 
senza  verde  di  frondi,  acqua  di  fonti? 

E  la  fanciulla  disse:  "Io  l'ho  veduta. 
In  un  suo  libro.  EgU  sapea  contare 
i  monti  e  i  mari.  Io  l'ascoltava  muta. 


GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA  I59 

C  è  il  Mare  di  Serenità.  C  è  il  Mare 

di  Nubi.  Anche,  di  Pioggie  e  di  Tempeste. 

Un  altro  Mare  senza  l'acque  amare. 

C  è  la  Palude  delle  Nebbie  meste. 

C'è  anche  un  Seno,  a  goccia   a  goccia  pieno 

di  guazza  dalla  grande  alba  celeste. 

E  e'  è  il  Lago  dei  Sogni.  Anche  e'  è  il  Seno 
delle  Iridi:  tanti  alti  archi  di  porte 
nel  cielo:  un  infinito  arcobaleno. 

Vicino  ai  Sogni,  il  Lago  della  Morte  „. 


Ili 


Anche  la  morte  ?  e  dunque  anche  i  viventi  ? 
"  No!  no!  nessuno.  Chi  v'andò,  discese. 
In  terra  avea  del  bene  e  le  sue  genti  „. 

Dunque  nessuno...  O  tacito  paese 
sopra  le  nubi!  O  isola  del  cielo, 
che  fiorisci  é  sfiorisci  d'ogni  mese! 

Il  sole  ha  fatto  colassù  lo  sgelo! 
Gli  stagni  son  coperti  ora  dei  gigli 
d'acqua,  a  fior  d'acqua  sopra  il  lungo  stelo. 


l6o  GLI   EMIGRANTI   NELLA   LUNA 

Si  sommergono  gli  alberi  vermigli 
dentro  la  cilestrina  acqua  dei  laghi. 
L'aria  è  fiorita  dall'odor  dei  tigli. 

E  rossi  e  gialli  spuntano  tra  gli  aghi 
d'abeti  e  pini  che  nessun  calpesta, 
fiori,  bocche  di  lupi,  occhi  di  draghi... 

Al  dolce  vento  trema  la  foresta. 
Dalla  foresta  vengono  col  vento 
lontane  voci  di  campane  a  festa... 

Vi  s'ode  ancora  un  palpito  più  lento, 

un  tuffo  molle  a  quando  a  quando,  un  va 

e  vieni:  ondeggiamento  sonnolento, 

lassù,  del  Mare  di  Serenità. 


GLI   EMIGRANTI   NELLA    LUNA  l6l 


CANTO  TERZO 


In  sogno 


Scorsero  i  giorni;  ancor  le  notti,  a  una 
a  una,  sempre  più  stellate  e  scure; 
e  più  tarda  e  più  vana  era  la  luna. 

Ma  quelli  in  sogno  ecco  prendean  la  scure 
avanti  l'alba.  Erano,  chi  tra  un  denso 
nebbione,  chi  su  ventilate  alture. 

Chi  s'arrestava  avanti  un  mare  immenso, 
chi  camminava,  lungo  un  colonnato 
d'enormi  pini,  tra  l'odor  d'incenso. 

E  non  vedeva  che  a  sé  stesso  il  fiato 
cerulo,  ognuno,  e  s'ascoltava  il  gemito 
arido,  nel  silenzio  inabitato. 

A  pini  e  Cerri  i  pionieri  estremi 

davan  la  scure  per  la  lor  capanna 

e  i  nuovi  aratri,  e  per  la  nave  e  i  remi. 

Nuovi  Poemetti 


l62  GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA 

Quella,  in  un  poggio,  il  tetto  avea  di  canna 
fiorita  ancora.  Questa,  umida  ancora, 
nereggiava  sotto  alte  iridi,  in  panna. 

Ma  tristi  gli  emigranti  erano!  Allora 

uno  di  tronchi  costruì  l'altare. 

E  saliva  un  soave  inno,  all'aurora. 


/ 


dallo  scosceso  Caucaso  lunare. 


Due,  la  fanciulla  e  il  giovane  che  amava, 
ecco  non  più  si  videro.  Interrotte 
n'erano  l'orme  a  un  tondo  orlo  di  lava. 

Vicino  al  Lago,  essi,  dei  Sogni,  in  grotte 
azzurre,  orlate  d'ellera  e  vilucchio, 
vivean  felici.  V'era  anche  la  notte, 

presso  quel  Lago!  Era  lor  letto  un  mucchio 
d'alghe  e  di  felci;  e  li  addormiva  il  vago 
sogno  dell'acque  e  il  fievole  risucchio. 

Presso  il  Lago  dei  Sogni,  c'era  il  Lago 
dei  Morti;  e  niuno  ardìa  venirci.  Alfine 
erano  soli.  Il  loro  cuor  fu  pago. 


GLI   EMIGRANTI    NELLA   LUNA  163 

E  i  morti?  Ebbene,  anime  pellegrine 
anch'esse,  anch'esse  giunte  là  dal  lido 
terrestre,  buone  e  tacite  vicine... 

non  s'udiva  che  un  loro  esile  strido 
di  notte,  come  già  sotto  le  gronde 
a  notte  buia  il  pigolìo  d'un  nido: 

lo  strido,  ch'uno  chiama  uno  risponde, 
allor  che  spunta  dalle  cime,  ed  erra 
nel  cielo  azzurro,  e  tremola  sull'onde 

azzurre,  come  un  grande  astro,  la  Terra. 


Ili 


Tutti  felici!  V'era  solo  Dio 

lassù.  Poneano  nel  lor  campo  un  sasso, 

poneano  un  segno  al  lor  canotto:  E  mio! 

Ma  non  premeva  le  lor  vie,  che  il  passo 
di  miti  renne.  Il  lor  tranquillo  mare 
solo  sentiva  remigar  lo  svasso. 

Le  donne  al  Mare  senza  l'acque  amare 
soleano  andare  all'acqua;  ma  lontano 
gli  uomini  in  pace  le  sentian  cantare. 


l64  GLI   EMIGRANTI   NELLA   LUNA 

La  vecchia  fame  li  rodea...  ma  il  grano 
c'era;  ma  gialle  non  avea  le  reste;  ^ 
ma  già  prendeano  le  falciole  in  mano. 

Il  vecchio  freddo  li  pungea...  la  veste 
c'era:  in  dosso  alle  renne  era  tuttora. 
La  legna  c'era,  ma  nelle  foreste. 

E  non  c'è  dì  senz'alba,  e  l'alba  è  l'ora 

più  bella;  e  senza  fiore  non  c'è  frutto, 

e  il  fiore  è  bello,  il  fiore  è  il  più  che  odora. 

Ed  è  bello  ogni  boccio,  anche  s'è  brutto... 
Sì;  ma  il  lor  mondo,  più  vicino  al  dì, 
era  una  falce,  un'unghia,  un  filo...  e  tutto 

in  una  luminosa  alba  vanì. 


GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA  165 


CANTO  QUARTO 
Ritorno  In   sogno 


Ed  il  lor  sogno  anche  vanì  dai  cuori. 
E  si  sparsero  intorno,  come  i  cani 
dopo  una  morte:  vagolano  fuori, 

fiutano  cento  miglia  oggi,  domani 
piangono  all'uscio.  Quella  madre  a  Dio 
tendeva,  sola,  dentro  sé  le  mani. 

Ma  c'era,  ahimè!  tanto  piagnucolìo 

di  madri,  al  mondo!  che  potean  soltanto 

dire,  d'un  po'  di  carne  viva:  È  mio! 

Il  cielo  alfine  si  velò,  poi  franto 

giù  si  versò.  L'acqua  s'udia  cadere 

col  suono  ora  d'un  canto,   ora  d'un  pianto. 

Non  c'erano  nel  mondo  albe  né  sere. 
C'era  un  silenzio  fatto  di  frastuono 
nei  giorni  oscuri,  nelle  notti  nere. 


l66  GLI    EMIGRANTI   NELLA   LUNA 

Ed  ecco  che  rimbombò  lungo  un  tuono 
allegro,  apparve  in  fondo  al  cielo  un  fioco 
raggio  di  sole,  un  suo  sorriso  buono. 

E  su  la  terra  non  restò  per  poco 
che  un  luminoso  sgocciolìo  sonoro; 
e  poi,  tra  i  cirri  e  i  cumoli  di  fuoco, 

un  filo,  un'unghia,  era  una  falce  d'oro! 


Scórsero  i  giorni;  ella  cresceva:  ed  ecco 
l'un  dopo  l'altro  scesero  a  trovare 
la  lor  capanna  e  la  lor  nave  in  secco. 

L'erba  cresceva  sopra  il  hmitare. 
Lungo  il  lido  la  nave  intarmoHva. 
Là  sui  monti  funghito  era  l'altare. 

Chi  stava  in  monte,  ora  scendeva  in  riva 
del  mare.  Chi  vivea  presso  lo  stagno, 
ora  cercava  una  sorgente  viva. 

E  ciascuno  s'urtava  al  suo  compagno. 
Taciti,  prima;  e  quindi  alcuno  disse: 
Va,  mosca!  e  l'altro  ribattè:  Va,  ragno! 


GLI   EMIGRANTI   NELLA    LUNA  167 

Al  Mare  Dolce  s'accendean  le  risse 
stridule,  acute.  V'accorrean  dai  monti, 
l'ascie  nei  tronchi  abbandonando  infisse, 

gli  uomini,  calmi   e  gravi  in  viso,  e  pronti, 
nel  cuore,  a  tutto.  Uno  dicea  sereno, 
in  viso:  "  O  donna,  mancheranno  fonti! 

Prendi  l'orciuolo  e  va  per  acqua  al  Seno 
della  Rugiada!  „  Era  sparita  intanto 
la  luna;  e  folgorava  egli  un  baleno 

d'odio  a  colui  che  gli  tremava  accanto. 


Ili 


E  malcontenti  erravano  già  tutti 
lassù,  notturni,  nell'odor  del  sole 
che  apriva  i  fiori  e  maturava  i  frutti. 

E  questi  invece  si  mettea  per  gole 
nere  di  monti,  e  quegli  ambiva  rade, 
nei  grandi  mari,  inesplorate  e  sole. 

E  quegli,  andando  per  anguste  strade, 
vedeva  un  altro,  di  rincontro,  al  varco. 
Si  vedeano  con  truci  occhi  di  spade... 


l68  GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA 

E  questi  cauto  s'allestìa  lo  sbarco 

tra  giunchi  e  biodi,  quando,  ecco  un  burchiello 

venir,  picccolo  e  nero,  sotto  un  arco 

d'iride...  Ognuno  fuggì  via  dal  bello 
e  scese  tra  le  nebbie,  alla  Palude. 
Ma  vi  trovava  l'ombra  del  fratello. 

E  da  per  tutto  s'incontrava,  rude, 
in  quella  donna  con  la  sua  sommessa 
voce,  con  quelle  creature  ignude. 

In  poco  tempo  il  lor  dolore  messa 

avea  la  sua  radice  anche  su  lì; 

e  quella  terra  era  già  vecchia  anch'essa: 

soffriva  ognuno  ciò  che  già  soffrì. 


GLI   EMIGRANTI   NELLA   LUNA  169 


CANTO  QUINTO 


L'altra  faccia  lunare 


Crescea  la  luna.  Ognuno  già  per  ogni 
plaga  passava  come  a  lui  straniera. 
Ognuno  al  Lago  ora  pensò,  dei  Sogni. 

Forse  la  morte  non  temean,  tant'era 
la  lor  tristezza.  E  il  Lago  era  pur  bello 
con  le  bianche  ninfee  di  primavera! 

Ivi  abbracciato  al  dolce  oblìo  gemello 
era  il  ricordo.  Ivi  cantava  un  nido, 
da  sé,  partito  ch'era  già  l'uccello. 

Cantava  il  cuore,  ora,  da  sé,  col  grido 
d'allora,  a  notte!  E  ve  l'udian  cantare 
i  soli  morti  assisi  lungo  il  lido. 

Ed  era  il  Lago  ora  nel  lume,  e  chiare 
fiorian  le  schiume.  Ecco,  una  luce  scialba 
si  diffondea  nel  Caucaso  lunare. 


I/o  GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA 

E  dalle  grotte  orlate  di  vitalba 

videro,  i  due,  rifulgere  le  accette 

lassù,  nel  monte,  tra  il  chiaror  dell'alba. 

S'udiva  per  le  valli  e  per  le  strette 
l'arido  scroscio  delle  foglie  morte... 
I  lor  compagni  erano  sulle  vette, 

volti  ai  Laghi  dei  Sogni  e  della  Morte  1 


E  si  levò  tra  quelle  genti  un  suono 
dolce  di  voce.  Usciva  allor  da  un  velo 
rado  la  luna  pendula,  dal  cono 

d'un  abete.  Una  nebbia,  un  ragnatelo 
di  luce  scialba  tremolò  su  crani 
lustri,  su  cenci  e  bioccoli  di  pelo; 

e  rifulsero  allora  occhi  lontani, 

zuppi  di  sogno,   e  bocche  aperte  a  un  alto 

ululo.  Il  pugno  si  stringean  le  mani. 

Videro  tutti  là,  di  soprassalto, 

quella  fanciulla,  con  le  braccia  in  croce, 

bianca  sul  liscio  lago  di  cobalto. 


GIÀ   EMIGRANTI   NELLA    LUNA  171 

Ella  parlava  timida  e  veloce. 

Quello  che  ammansa,  quello  che  consola, 

pioveva  dalla  giovinetta  voce. 

"  Io  r  ho  veduta.  Corre  sempre,  vola, 
passa.  Ma  mentre  va,  che  non  mai  posa, 
a  noi  non  volge  che  una  parte  sola. 

Vediamo,  noi,  nel  cielo  azzurro  o  rosa, 
sempre  quelle  montagne,  sempre  quelle 
paludi.  Sempre.  Ma  di  là?  Che  cosa 

è  mai  di  là,  verso  le  grandi  stelle?,, 


lU 


E  la  luna  fu  mezza.  Erano  tutti 

di  là.  Ciascuno  avea  varcato  un  nero 

cerchio  di  monti,  un  bianco  orlo  di  flutti. 

Ciascuno  andava  per  un  suo  sentiero. 
Movean  lassù  per  il  paese  vuoto, 
silenzioso  come  il  lor  pensiero. 

Movean  pensosi;  e  cancellava  il  moto 
l'orme  sue  stesse;  per  l' eternamente 
non  visto,  per  l' eternamente  ignoto; 


172  GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA 

là  dove  il  tutto  rifiorìa  dal  niente, 

libero,  dove  s'adempia  perenne 

un  sogno,  sogno  del  buon  Dio  dormente. 

C'era  anche  il  pane.  E  c'erano  le  renne 
placide,  il  latte,  il  fuoco:  tutto  1  Oh!  molto 
pensava  il  vecchio;  ma  di  là  non  venne. 

Oh!  la  sua  Terra!  Egli  torceva  il  volto. 
Veder  la  Terra  gli  era  assai;  che  infine 
e'  non  doveva  ch'esservi  sepolto. 

Oh!  pur  dal  fascio,  ch'era  lì,  di  spine, 

all'appressarsi  dell'oscurità, 

veder  la  Terra  rosseggiar  sul  crine 

delle  montagne  e  dileguar  di  là! 


GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA  I73 


CANTO  SESTO 


In  cerca  della  guida 


Più  che  mezza  la  luna  era,  e  più  ore 

restava  su,  tra  l'iridato  alone, 

e  le  notti  imbevea  del  suo  pallore. 

E  sonava  il  fragor  d'un  acquazzone, 
sempre:  era  il  fiume  che  la  terra  brulla 
fendea,  cantando  la  sua  gran  canzone. 

Rimpennava  ogni  tiglio,  ogni  betulla. 

Era  la  primavera,  era  lo  sgelo. 

E,  una  sera,  uno  esclamò:  "Fanciulla! 

Dov'è  colui  che  sa  le  vie  del  cielo? 
La  luna  è  là.  Le  cose  ormai  son  fatte  „. 
Ciascuno  attese.   Anche  quel  vecchio,  anelo. 

"Ohi  no!  Restiamo!  O  madre  che  si  batte 
perchè  ci  nutra!  O  madre  che  si  lascia 
se  non  dà  pane,  dopo  dato  il  latte!  „ 


174  GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA 

"Dov'è?„  chiedeva  con  segreta  ambascia 

la  triste  madre.  Che  darebbe  or  ella 

ai  bimbi,  a  cena?  il  ferro,  ormai,  dell'asci^? 

**Dov'è?„  Splendeva  una  solinga  stella 

presso  la  luna,  per  il  gran  deserto 

del  cielo.  "Dove?„   "Sì,  dov'è,  sorella? „ 

"  Dov'è?  Cerchiamo.  In  qualche  luogo  è  certo 


II 


Si  sparsero  dall'alba  di  quel  giorno, 
come  da  quercia  morta  aride  foglie 
a  una  ventata  che  le  sparge  intorno. 

Stavano,  come  indifferenti,  a  soglie 
di  vecchie  case,  ad  ascoltar  lì,  gronchi, 
l'uomo  gridare  e  sfaccendar  la  moglie. 

Battean  le  selve:  il  frullo  dei  bofonchi 
parca  parole:  erano  péste  i  picchi 
dei  picchi  verdi  sui  marciti  tronchi. 

Sedean  sopra  le  pietre  nei  crocicchi, 
guardando  i  carri;  con  pupille  fisse 
seguendo  al  passo  i  contadini  e  i  ricchi. 


GLI    EMIGRANTI    NELLA    LUNA  175 

Non  c'era  più!  Non  c'era  più!  Ma  disse 
alcuno:  "Forse...  se  per  suo  costume 
quello  straniero  sol  a  notte  uscisse  ?„ 

E  per  le  lande  errarono  nel  lume 
di  luna,  tutti,  per  le  selve  rare, 
lunghesso  il  verde  scintillìo  del  fiume. 

Videro  alcuni  un  uomo  in  mezzo  a  un  mare 
di  luce,  nero,  e  diedero  la  voce... 
Ed  era  il  vecchio  che  volea  restare; 

sopra  un  sepolcro,  a'  piedi  d'una  croce. 


m 


E  scórse  un  giorno.  E  spuntò,  grande  grande, 
la  luna  piena,  e  per  il  ciel  si  mosse. 
Risplendean  l'acque,  risplendean  le  lande. 

Come  di  giorno.  Un  giorno  senza  rosse 
luci,  né  voci;  il  giorno  d'un  riverso 
silenzioso,  che  nessun  più  fosse. 

Per  vero,  intorno,  qualche  cane  sperso 
urlava  a  lupo.  Al  colmo  era  la  luna, 
sola  soletta  in  mezzo  all'universo. 


176  GLI   EMIGRANTI   NELLA    LUNA 

E  nella  terra  errava  quella  bruna 

compagnia  d' ombre.   Elle  tendean  le   braccia. 

Avean  lassù  tutta  la  lor  fortuna! 

E  case  e  terrei  E  persa  avean  la  traccia 
della  lor  guida!  E  videro  uno  spetro, 
lontano,  col  bastone  e  la  bisaccia. 

Corsero.  Corse,  coi  marmocchi  dietro, 
la  madre.  E  come  furono  di  paro... 
era  il  brodiag.  Egli  si  fermò,  tetro. 


La  grande  barba  risplendeva  al  chiaro 
di  luna...  "Guida,  esso  non  c'è,  sii  tu! 
La  luna  è  pronta...  „  Ohi  come  rise  amaro 


Rideva;  e  i  cani  urlavano  vie  più. 


I  DUE  ALBERI 


Vento  dei  Santi,  il  giorno  si  raccoglie 
già  per  morire;  e  tu  su'  due  gemelli 
alberi  soffi,  e  stacchi  lor  le  foglie. 

Ora  le  tocchi  appena,  ora  le  svelli: 
quali  cadono  a  una  a  una,  quali 
partono  a  branchi,  come  voi  d'uccelli. 

Tutta  una  fuga,  quando  tu  li  assali, 
si  fa  nel  cielo,  e  in  terra,  fra  le  zolle, 
un  fruscio  grande,   un  vano  tremor  d'ali: 

stridono  e  vanno,  girano  in  un  folle 
vortice,  frullano  inquiete  attorno, 
calano  con  un  abbandono  molle. 

A  volte  sembra  muovano  al  ritorno, 
a  sbalzi...  Ma,  tu  le  riprendi,  e  porti 
con  te,  via.  Tutte  son  cadute  e  il  giorno 

è  morto:  tu  lo  sai,  vento  dei  Morti  1 

Nuovi  Poemetti 


178  I    DUE    ALBERI 


Viene  col  vento  un  canto  di  preghiera 
e  di  tristezza,  e  vanno  via  le  foglie 
con  lui,  stridendo  in  mezzo  alla  bufera: 

"  Noi  di  noi  siamo  le  fugaci  spoglie: 
la  nostra  vita  è  sempre  là  dov'era. 

Il  vento  in  vano  all'albero  ci  toglie: 
là  rinverzicheremo  a  primavera  „. 

Col  vento  via  le  vane  foglie  vanno; 
gemono,  mentre  intorno  si  fa  sera. 

**  Non  torneremo  al  rifiorir  dell'  anno  : 
noi  ce  n'andiamo  avvolte  nell'oblìo. 

Non  fu  la  vita  che  un  fugace  inganno. 

L' albero  è  morto.  Addio  per  sempre  !  Addio  I  „ 

È  morto  il  giorno,  ed  anche  muor  la  sera, 
ed  anche  muore  il  canto  tristo  e  pio. 
E  il  cielo  splende  su  la  terra  nera. 


m 


11  vento  trova  la  sua  strada  ingombra 

di  foglie  e  stelle.  Gli  alberi,  sparito 

e  l'uno  e  l'altro.  Io  vedo  una  grande  ombra. 


I    DUE    ALBERI  I79 

Ne  vedo  un  solo.  All'animo  Io  addito, 
l'albero  solo.  Spunta  da  un  velame 
di  nebbia  eterna,  ed  empie  l'Infinito. 

Protende  le  invisibili  sue  rame 

cui  sono  appesi  d'ogni  parte  i  mondi. 

Si  crolla  ad  un  grande  alito  il  fogliame; 

e  d'un  perenne  tremolìo  le  frondi 
lustrano  ardenti.  Alcuna  cade  e  brilla 
giù  per  gli  abissi  ceruli,  profoiidi. 

Io,  sotto  la  corona,  che  sfavilla, 
dell'Universo,  odo,  smarrito  assòrto, 
uno  stridìo.  Forse  una  foglia  oscilla 

ancora  a  un  ramo  dell'albero  morto. 


LA  VENDEMMIA 


CANTO  PRIMO 


—  Una  vendemmia  fa,  così,  piacere! 
Nemmeno  un  chicco  marcio  nella  pigna. 

—  E  tutte  pigne,  salde  fisse  nere. 

—  Uva  d'alberi,  e  pare  uva  di  vigna. 

—  Ma  qui  ci  son  d'agosto  le  cicale 
da  levar  gli  occhi!  qui  la  vite  aUigna! 

—  Porta  il  bigoncio.  —  E  pieno. 

—  Avessi  l'ale! 
Avessi  l'ale  d'una  rondinella! 
Il  nido  lo  farei  nel  tuo  guanciale. 

—  Guarda:  la  vespa  vuole  la  più  bella. 

—  L'ape  fa  il  miele,  eppur  le  basta  un  fiore^ 
fior  di  trifoglio,  fior  di  lupinella. 

—  Ha  fatto  buono  all'uva  lo  stridore 

di  tutta  estate.  —  Ciò  che  fa  per  l'una, 
non  fa  per  l'altro.  —  Ora,  contava  l'ore. 


184  LA    VENDEMMIA 


—  Qua  le  canestre,  donne. 

—  O  beila  bruna! 
Quando  nascesti,  in  cielo  una  campana 
sonava  sola,  al  lume  della  luna. 

—  Questa  la  stenderete  sull'altana: 
è  troppo  bella  per  andar  nel  tino. 

—  Ma  anche  quello  è  come  vin  di  grana! 

—  Non  ci  fu  pioggie,  non  ci  fu  lo  strino. 

—  Portate  bere.  Molto  all'uva  aggrada 
sentirsi  in  viso  l'alito  del  vino. 

—  Pigia  il  bigoncio  un  po'. 

—  "  Sono  in  istrada. 
E  che  mi  dai,  che  mi  conviene  andare?,, 

"  Un  bacio  in  bocca,  perchè  tu  non  vada  „. 

—  La  paradisa  ha  pigne  lunghe  e  chiare, 
e  tutti  d'oro  sono  i  chicchi,  e  hanno 

il  sole  dentro,  il  sole  che  traspare. 

—  Rigo,  di  tutte  queste  qui,  si  fanno 
cipelle,  acche,  tu  con  la  moglie  accanto, 
ne  mangi  all'alba,  il  primo  dì  dell'anno. 

L'uva  vuol  dire  il  buono,  il  bello,  il  tanto. 
E  porta  bene,  o  Rigo. 

—  Ho  contro,  io  sento, 
fin  le  finestre,  e  quando  passo  e  canto, 

si  chiudono  da  loro  senza  vento. 


LA   VENDEMMIA  185 


Così  Staccavi  la  dolce  uva,  alfine, 
co'  tuoi  vicini,  che  i  vicini  sono 
mezzo  parenti,  e  con  le  tue  vicine, 

o  Rigo.  Il  tempo  era  da  un  pezzo  al  buono, 

e  la  vendemmia  si  cocea  matura 

anche  a  bacìo;  quando  sentisti  un  tuono. 

Dicesti:  Il  bello  è  bello,  ma  non  dura. 

E  vendemmiasti.  Ed  era  un  giorno  asciutto, 

si  scivolava  per  la  grande  asprura, 

cupo  di  vespe  era  un  ronzìo  per  tutto, 
calda  era  l'uva  e,  nei  bigonci  ancora, 
rendeva  già  l'odor  del  mosto  e  il  flutto. 

La  gente  era  venuta  sull'aurora 
quando  la  guazza  o  la  nebbietta  inerte 
vapora  in  cielo,  e  il  cielo  si  colora. 

AUor  le  donne  ascesero  per  l'erte, 
parlando  basso,  e  recideano  a  prova 
le  pigne  con  le  piccole  ugne  esperte. 

Le  recideano  al  nodo  che  si  trova 
a  mezzo  il  gambo.  Le  galline  intorno 
bandian  l'annunzio,  ad  or  ad  or,  dell' ova. 


l86  LA    VENDEMMIA 


Ma  crebbe  il  vario  favellìo  col  giorno. 
Montava,  per  tagliare  le  pinzane, 
un  giovinetto  sul  pioppo  e  sull'omo. 

Cantava  poi,  quand'erano  lontane 
le  donne,  quando  in  una  sua  cestella 
portava  il  vino  Violetta  e  il  pane. 

EU'era  in  casa  della  sua  sorella 

da  un  mese  e  più;  ma  stava  per  tornare 

a  casa  sua,  più  pallida  e  più  bella. 

*  C'è  tempo:  „  Rigo  alla  gentil  comare 
diceva  "  addietro  è  là  da  voi  la  vite. 
Poi  verrò  io  :  non  e'  è  di  mezzo  il  mare 

Era  un  piacere  rivederle  unite 
le  due  sorelle  al  solito  lavoro  1 
Ma  quelle  sere,  nell'ottobre  mite, 

anche  si  dava  che  piangean  tra  loro. 


ui 


Erano  quella  sera  alla  finestra. 
Salìano  gli  uni  coi  bigonci  pieni, 
l'altre  scendean  con  vuota  la  canestra. 


LA   VENDEMMIA  iSj 


Parlavano  nel  lungo  va  e  vieni, 
alto,  che  in  loro  anche  parlava  il  vino. 
"  Si  vuol  finire,  prima  che  si  ceni  „. 

"  Non  resta  che  il  filare  qui  vicino. 
Saranno  due  bigonci  o  tre;  ma  un  poco, 
perchè  li  tenga,  vuol  pigiato  il  tino  „. 

Il  cielo  già  si  colorava  in  fuoco. 
Al  colmo  tino  il  giovinetto  snello 
si  lanciò  su,  come  provar  per  gioco. 

Stette  sull'orlo  un  poco  in  piedi,  bello, 
raggiante  tutto  del  suo  bel  domani, 
a  braccia  spante,  simile  a  un  uccello. 

Poi  si  chinò,  s'apprese  con  le  mani 
all'orlo,  e  dentro,  fra  le  pigne  frante 
tuffò  le  gambe  e  sul  crosciar  dei  grani. 

Il  rosso  mosto  risalì  spumante 

sopra  i  garretti;  ed  ei  girava  a  tondo 

premendo  coi  calcagni  e  con  le  piante. 

E  il  sole  rosso  illuminava  il  biondo 
vendemmiatore;  ed  ecco,  da  un  remoto 
canto  del  cielo  un  tintinnìo  giocondo. 

Uno,  dal  cielo,  accompagnava  il  moto 
dei  piedi  suoi,  di  su  quei  rosei  fiocchi, 
picchiando  in  furia  sur  un  bronzo  vuoto. 


l88  LA    VENDEMMIA 


L'altro  moveva  rapidi  i  ginocchi 

sul  rosso  mosto,  anche  movea  la  testa 

ben  in  cadenza,  il  sole  in  mezzo  agli  occhi. 

Ma  era  un  suono  di  campane  a  festa. 
E  quei  pigiava;  quando,  all'improvviso, 
Rosa  lassù.  Rosa,  già  muta  e  mesta, 

si  levò  su,  molle  di  pianto  il  viso 
con  un  singhiozzo,  e  Violetta,  china 
a  guardar  fuori  immersa  in  un  sorriso, 

si  volse  bianca,  e  mormorò:  Rosina! 


LA    VENDEMMIA  189 


CANTO   SECONDO 


"  Rosina!  L'hai  promesso  anche  stamane... 
Non  pianger  più!  „  Ma  Rosa  pianse  ancora, 
tra  il  suono  a  festa  delle  due  campane. 

"  O  Violetta,  mi  pareva  or  ora 
fosse  la  gloria  per  un  angiolino... 
oh!  come  quando...  Fu  dopo  l'aurora. 

Sentii  parlare  ed  un  odor  vicino. 
Avean  qualche  garofano  e  viola: 
una  ghirlanda  per  il  mio  bambino. 

E  c'era  il  prete,  il  prete  con  la  stola. 

—  Ma  tutto  ha  qui!  le  robe  sue  ben  fatte, 

la  sua  cunella  con  le  sue  lenzuola, 

e  un  petto  ancora  pieno  del  suo  lattei 


190  l'A    VENbEMMIA 


II 


Non  vuol  venire.  È  tristo,  che  fa  pena. 
Ohi  come  è  tristo!  In  vero  è  così  poco 
che  ride  un  pocol  Ci  ha  imparato  appena! 

Ricordo:  un  giorno  lo  sfasciavo,  al  fuoco, 
e  lo  guardavo.  Ei  tese  il  dito  a  un  occhio. 
Lo  vide  lustro,  gli  pareva  un  gioco, 

chi  sa?  vedeva  un  altro  bel  rabocchio 
lì  dentro.  E  io  me  lo  tenea  lontano, 
lo  patullavo  in  alto  d'in  ginocchio, 

gli  prendea  la  manina  nella  mano, 

e  la  scote  va,  gli  facea  le  rise; 

ed  ecco,  anch' egli  si  provò  pian  piano, 

fece  bel  bello  le  fossette,  e  rise. 


Ili 


Rise.  M'avea  riconosciuta:  ero  io: 

la  mamma,  ahimè!...  Prima,  diceva  al  seno, 

con  gli  occhi  e  con  le  due  manine,  È  mio! 

Dopo,  ero  sua,  tutta,  né  più  né  meno. 
E  se  vagiva  e  se  piangeva,  al  suono 
della  mia  voce  si  facea  sereno. 


LA    VENDEMMIA  191 


Com'era  savio!  Come  savio  e  buono! 
A  volte,  quando  era  a  dormir  di  giorno, 
entravo,  udito  un  grido,  un  tonfo,  un  tuono. 

S'è  desto?  Nulla.  Qualche  mosca  intorno 
ai  vetri...  Alzavo  il  velo  della  culla. 
Sul  guancialino  coi  belli  orli  a  giorno, 

ridea  tra  sé,  guardando  in  alto  a  nulla. 


IV 


Oh!  non  a  nulla!  Egli  rideva,  io  penso, 

con  gli  angioletti.  Io  ci  sentii  l'odore 

di  gigli,  a  volte;  o  un  vago  odor  d'incenso. 

Nella  sua  stanza  essi  venian  nell'ore 
calde  che  i  bimbi  dormono.  Alla  gola 
uno  lo  vellicava  con  un  fiore; 

e  tutti  attorno  alla  cunella  sola 
facean  i  giochi,  ed  e'  guardava  attento, 
come  lassù  si  canta  e  suona  e  vola; 

scoteano  i  loro  cembali  d'argento, 
battean  sui  loro  tamburelli  vani... 
Entravo,  via  sparivano  col  vento  : 

•  rideva  esso,  annaspando  con  le  mani. 


192  LA    VENDEMMIA 


Ma  poi...  piangeva.  Mi  si  fece  bianco 
e  stento,  e  quando  lo  attaccava  al  petto, 
succhiava  un  poco  e  poi  pareva  stanco. 

Non  mi  voleva.  Quasi  avea  dispetto 
della  sua  mamma.  Quante  n'ho  cantate, 
di  ninnenanne,  senza  toccar  letto! 

Me  lo  ninnavo  in  collo  le  nottate 
intere  al  fresco,  uscendo  con  lui  fuori 
al  lucciolìo  dell'odorosa  estate. 

Pensavo  ai  mesi  ch'ebbi  in  me  due  cuori... 
Come  piangeva  or  l'uno  e  l'altro,  accanto! 
E  tra  quella  allegria  di  grilli  mori 

come  passava  triste  ora  quel  pianto! 


VI 


—  Ma  che  vuoi  dunque?  Andar  con  loro?  E  ch'io 
ti  lasci  andare?  A  me,  tu  lo  domandi? 

Per  me  t'ho  fatto!  —  Eppure  un  giorno,  addio! 

—  Hai  pianto  e  pianto  a  ciò  che  ti  rimandi 
donde  sei  sceso.  Ora  ti  lascio  alfine!  — 
Restò  con  gli  occhi  aperti  fissi  grandi. 


LA   VENDEMMIA  193 


Gli  misi  la  cuffietta  con  le  trine; 
la  sua  camicia,  la  sua  vesticciola, 
gli  misi  i  fiori  nelle  sue  manine. 

L'accomodavo  senza  far  parola, 
quando  d'un  tratto  udii  parlar  da  basso. 
Gli  misi  le  scarpine  con  la  suola 

nova,  pulita...  O  Dio,  nemmeno  un  passo! 


VII 


La  terra,  non  l'avean  toccata  ancorai 
oh!  i  miei  piedini!.,.  I  bimbi  della  scuola 
venner  coi  fiori  un  po'  dopo  l'aurora. 

E  c'era  il  prete,  il  prete  con  la  stola. 
Era  pronto  il  bambino,  era  vestito. 
Quando  sonò  la  gloria  alla  chiesuola... 

Che  scampanìo  festoso  ed  infinito! 
L'angiolo  andava  a  gli  angioli,  a  cui  tanto 
avea  sorriso  tacito  e  romito. 

E  va,  va  pure,  piccolo  mio  santo... 

Cos'è  la  mamma?  E  che  può  darti?  Il  petto 

e  un  po'  di  latte;  il  cuore,  un  cuore  affranto; 

e  poi,  cos'altro?  Oh!  niente,  angiolo  eletto. 
Nuovi  Poemetti  13 


194  LA   VENDEMMIA 


vm 


Va  dunque,  e  tu,  veglia  su  lei,  su  loro. 
E  cosa  ha  fatto  ella  per  te?  T'ha  fatte 
due  carnicine:  non  un  gran  lavoro! 

Lassù  quell'uomo  batte  batte  batte 

sulle  campane...  Io  guardo  il  bimbo,  muto 

con  gli  occhi  aperti,  gli  occhi  ancor  di  latte... 

Ahi  che  capii,  che  non  avea  voluto, 

che  non  voleva  1  Quel  gran  pianto,  oh!  era, 

che  non  voleva,  e  mi  chiedeva  aiuto! 

Nella  cassina  stava  lì,  di  cera, 
con  le  manine  che  facean  Gesù, 
con  gli  occhi  aperti  sino  da  ier  sera: 

guardava...  —  O  mamma,  che  non  mi  vuoi  più! 


IX 


Piangea  più  forte,  ma  s'alzò  smarrita. 
Sentiva,  dentro,  un  rodere,  un  discreto 
grattare  all'uscio,  all'uscio  della  vita; 


LA    VENDEMMIA 


»95 


ma  così  piano,  ma  così  segreto, 
così  lontano...  Avea  tre  mesi  appena. 
Era  già  buio,  e  tutto  era  già  cheto. 

L'uva  era  colta,  e  si  dovea  far  cena. 


PIETOLE 


SACRO 
ALL'ITALIA   ESULE 


PIETOLE 


Siede,  adagiato  sotto  la  corona 

d'un  ampio  faggio,  il  dorso  ad  una  siepe, 

il  contadino.  E  piena  d'api  i  fiori, 

la  siepe  manda  un  lieve  suo  sussurro. 

Splendono  intorno  e  fiumi  e  laghi  al  sole, 

al  vento  glauche  fremono  le  spighe. 

Ad  ora  ad  ora  un  muglio  di  giovenchi 

cupo,  e  un  tremulo  ringhio  di  poliedri; 

e  tubar  rauche  qua  e  là  colombe, 

e  gemebonde  tortori  sull'olmo. 

Quegli  ripete  aspre  parole  ai  pioppi, 

ai  lunghi  pioppi  dondolanti  in  fila. 

E  dice: 

—  /  am  Italian 

I  am  hungry...  — 


I  pioppi  a  lui  rispondono,  col  canto 
d'un  rusignolo  eh'  ha  sui  rami  ognuno, 
l'un  dopo  l'altro;  e  lontanando  il  canto 
va  sino  al  Mincio  ed  al  ceruleo  Po. 


Che  nell'autunno  è  per  lasciare  i  campi, 
il  campagnolo,  e  dire  addio  per  sempre 
alla  sua  verde  Pietole.  Che  fugge 
la  Patria;  dove,  e'  non  lo  sa  per  ora. 
Qual  sia  per  lui,  de'  quattro  venti,  ancora 
e'  non  lo  sa;  né  lo  sa  meglio  il  vento, 
il  lieve  vento  ch'ora  sulla  palma 
gli  sfiora  e  sfoglia  crepitando  un  libro 
da  portar  seco  nel  cammino  ignoto. 
Ora  a  quel  vento  e'  compita  cantando 
strane  parole  a  chieder  pane  e  fuoco, 
acqua  e  lavoro,  oltr'alpi  ed  oltre  mare, 
sotto  altro  sole... 

—  Ich  bin  Italiener 
Ich  bin  hungrig...  — 

A  quelle  voci  strane 
dalle  verdi  acque  echeggiano  le  rane 
con  la  querela  sempre  ugual,  ch'eterna- 
mente grmacidano  gracidano... 


Ili 


—  Soy  Italiano 

Tengo  hambre...  — 

Ed  ecco 
brilla  nei  tardi  avvolgimenti  il  Mincio, 
cinto  d'un  orlo  tenero  di  canne; 
s'irida,  come  d'un  sorriso,,  il  lago. 
Leva  tra  i  biodi  la  giovenca  il  muso 
e  fiuta  l'aria  con  le  froge  larghe; 
né  più  dismette  di  tubar  su  l'olmo 
la  tortore  e  la  querula  colomba. 
Risuona  tutta  la  campagna  intorno 
d'allegri  ringhi  e  cupi  mugli  lunghi. 
E  di  lontano  ora  vien  su  crescendo 
la  melodia  de'  rusignoli  in  coro, 
quasi  canoro  aereo  ruscello, 
nel  quale,  piane,  guazzano  le  rane. 
Bombisce  a  un  tratto  e  palpita  la  siepe, 
e  fatto  sciame,  volarlo  via  l'api 
come  un'oscura  nuvola.  Che  tu. 


IV 


tu  sopra  vieni;  e  ti  si  fanno  incontro 
tutte,  dai  florei  pascoli  e  dai  bugni, 
l'api  con  suon  d'avene  e  di  campestri 
buccine  e  franto  strepere  di  trombe; 


ecco  e  piegare  al  tuo  passaggio  i  pioppi, 
i  lunghi  pioppi,  con  l' ondulamento 
d'opre  che  a  tondo  menino  le  falci; 
ecco  e  fiottare  al  tuo  passaggio  i  campi 
d'orzo  e  di  grano,  come  ad  un  fecondo 
soffio,  in  un  lustro  tremolìo  di  reste; 
e  impazienti  a  te  muggir  le  stalle 
chiuse;  dall'aie  a  te  squittir  la  forza 
fida  dei  cani;  a  te,  dal  pingue  concio, 
rosso  plaudir,  battendo  l'ale,  il  gallo: 
perchè  tu  vieni  ai  dolci  campi,  ai  noti 
fiumi,  ritorni  al  tuo  natio  villaggio, 
alla  tua  gente  ed  alla  tua  tribù. 


Virgilio!  O  tu,  cui  partorì  la  madre 
nei  campi,  al  sole,  dentro  un  solco  aperto 
dal  curvo  aratro  per  il  pio  frumento; 
o  tu,  che  avesti  per  gemello  un  pioppo 
che  si  levò  su  tutti  gli  altri  al  cielo, 
sì  che  ai  suoi  rami  si  stessean  le  nubi: 
appiè'  del  dio,  chiuso  nell'aureo  musco, 
venìan  le  incinte,  e  i  loro  blandi  voti 
s'unìan  lassù  col  pigolìo  dei  nidi: 
o  tu  cui  l'arnie,  o  di  cucite  scorze 
o  di  tessuti  lenti  vinchi,  all'ombra 
dell' oleastro,  persuadeano  il  sonno 
col  grave  rombo,  quando  a  te  tra  i  fiori 


203 


era  la  cuna:  fiori  d'ulivella, 
timbra  e  serpillo  che  lontano  odora, 
e  di  viole  scese  a  bere  al  fonte, 
al  fonte  che  scivola  molle  e  va; 


VI 


ritorni  al  luogo,  donde  già  vedesti 
passar  cacciato  dalle  sue  maggesi 
il  contadino;  che  annestati  i  peri, 
piantato  vigna,  seminato  il  grano 
avea  per  altri,  e  che  non  più,  tornando 
al  regno  suo  cinto  di  siepe  viva, 
alla  sua  reggia  dal  colmigno  a  piote, 
vedrebbe  ormai,  che  qualche  grama  spiga: 
passava  avendo  siepe  e  campi  in  cuore, 
e  l'abituro,  e  si  parava  innanzi 
poche  sue  capre,  e  ne  traeva  a  mano 
una  che  addietro  si  volgea  belando; 
che  avea  lasciato  due  gemelli  addietro 
ahi  su  la  ghiara:  ed  il  pastore  andava; 
ed  era  l'ora  del  ritorno  a  casa 
e  della  cena;  e  dai  tuguri  il  fumo 
salìa  nella  crescente  oscurità. 


VII 


Virgilio,  e  tu,  di  tra  i  pastori  uscito, 
vedesti  intorno  lo  squallor  dei  campi 


ao4 


abbandonati,  e  non  più  messi,  e  date 
le  curve  falci  al  fonditor  di  spade, 
e  tolto  il  coltro  all'imporrito  aratro: 
l'aratro  nuovo  tu  facesti,  d'olmo 
piegato  a  forza,  e  l'erpice  e  la  treggia, 
ed  intessesti  le  crinelle  e  i  valli; 
e  nella  nuova  primavera,  al  primo 
tiepido  soffio,  gli  anelanti  bovi 
spingesti  al  solco,  e  nereggiava  il  suolo 
al  vostro  tergo,  e  si  bruniva  attrito 
lo  scabro  e  roggio  vomere.  La  strada 
così  segnavi  ai  campagnoli  ignari, 
l'opere  e  i  giorni,  ed  imparare,  in  prima, 
la  dura  terra,  ed  osservar  nel  cielo 
la  luna  e  il  sole,  e  il  volo  delle  gru. 


vili 


Ritorni  ai  campi,  o  già  dei  campì  uscito, 
uscito  in  riva  all'infecondo  mare; 
in  cui  vedesti  gli  esuli  del  fato 
venir  col  fuoco  tratto  fuor  dal  fuoco, 
venire  in  cerca  dell'antica  madre. 
Una  indugiava,  delle  stelle  in  fuga; 
una  splendea  tra  il  rosso  dell'aurora. 
Italia!  Italia!  udivi  tu  gridare 
di  su  le  prue,  tra  l'ansito  del  mare. 


205 


Sul  tremolante  rosseggiar  dell'onde, 
nere  venìan  le  navi.  E  c'era  a  poppa 
d'una  un  gran  vecchio  che  libava  il  vino, 
con  gli  occhi  al  cielo.  Ed  in  un  verde  prato 
pascean,  drizzando  ad  or  ad  or  le  orecchie, 
quattro  cavalli  d'un  candor  di  neve. 
Italia!  E  il  mare  col  sussurro  eterno 
montava  su,  ridiscendeva  giù... 


IX 


O  madre  grande  d'ogni  messe,  o  grande 
madre  d'eroil  D'oro  e  d'incenso  abbondi, 
nessuna  terra  è  più  di  lei  ferace. 
Qui  piene  spighe,  qui  rigoglio  d'uve, 
qui  pingui  ulivi,  qui  fecondi  armenti. 
Il  bel  cavallo  qui  le  zampe  al  trotto 
scambia  a  test' alta;  qui  con  lenta  possa 
muovono  i  bianchi  bovi  trionfali. 
Pascon,  la  guerra  e  la  vittoria,  insieme! 
Qui  tiepide  aure  e  il  fiore  d'ogni  mese. 
Eppur  non  tigri,  non  leoni,  o  l'erba 
che  buona  sembra  a  cogliere,  che  uccide; 
né  il  serpe  striscia  in  terra  lungo,  e  s'alza 
ravvolto  a  spire...  E  quanta  opera  d'uomo! 
Quante  massiccie  acropoli  sui  monti! 
E  quanti  fiumi  specchiano  le  grandi 
mura  di  preromulee  città! 


2o6 


I  suoi  due  mari?  dove  il  Po  travolge 

lo  stillicidio  de'  ghiacciai  su  l'Alpi, 

e  dove  il  sacro  Tevere  conduce 

l'acque  di  neri  sotterranei  laghi? 

E  i  grandi  laghi?  così  grande  alcuno, 

che  come  un  mare  si  ribella  al  vento? 

E  i  tanti  porti?  E  nelle  vene  il  rame 

ebbe  e  l'argento;  ebbe  già  l'oro:  ha  il  ferro. 

Ha  questa  terra  una  gagharda  stirpe 

d'uomini,  i  Marsi,  la  genìa  Sabella 

aspra  dal  sole,  i  Liguri  indomati 

dalla  fortuna.  Questa  terra  al  mondo 

diede  gli  eroi:  gli  uomini  pronti  al  fato, 

duri  alla  guerra,  i  Deci  ed  i  CamiUi... 

Eppur  la  terra  è  del  buon  Dio  di  pace, 

del  buon  fuggiasco  ignoto  Dio,  la  terra 

della  giustizia  e  della  libertà! 


XI 


—  Soy  Italiano 

Tengo  hambre...  — 

E  Roma 
tu  la  vedesti  quando  ancor  non  era. 
L'acque  del  sacro  Tevere  la  nave 
saliva,  all'ombra  tremula,  solcando 


207 


nel  liscio  specchio  la  boscaglia  verde. 
Sul  mezzodì  videro  un  colle  sparso 
di  pochi  tetti;  ma  quel  dì  la  gente 
cingea  col  re,  lunghesso  il  fiume,  un'ara, 
l'ara  più  grande.  Ed  in  due  cori  i  Salii, 
giovani  e  vecchi,  avendo  al  capo  rami 
di  pioppo  bianco,  dissero  un  lor  canto, . 
tripudiando,  al  domator  dei  mostri 
e  della  morte,  ad  Ercole  sereno, 
al  viandante  pacificatore, 
armato  appena  d'un  fortuito  tronco 
d'albero.  Ercole  nudo.  Ercole  solo, 
figlio  del  cielo,  ma  né  dio  né  re. 


xn 


E  il  re  pastore  e  il  povero  senato 
davano  incensi  all'ara,  un  tempo  e  sempre 
massima.  E  il  re  nel  grande  Pallantèo 
scotean  dal  sonno  i  passeri  annidati 
sotto  la  stoppia  della  sua  capanna. 
Erano  scorta,  al  re  per  via,  due  cani. 
Pascean  nel  Foro  e  nelle  vie  di  Roma 
mandre  di  bovi  ad  or  ad  or  mugghianti; 
ed  echeggiava  il  Campidoglio  ai  mugghi. 
Ed  era  tutto  una  silvestre  macchia 
il  Campidoglio,  e  ruderi,  tra  i  bronchi, 
grandi  giacean  d'una  città  distrutta. 
Roma  era  morta,  e  ancor  dovea,  l'eterna. 


208 


sorgere  al  sole;  ancor  dovea  d'un  muro 
cingere,  Roma,  i  sette  colli,  il  Lazio, 
l'Italia,  l'Alpi,  i  mari  ed  i  deserti, 
tutte  le  genti  e  l'orbe  intiero,  a  sé. 


XIII 


Ma  il  contadino  legge  sempre  al  vento 
le  rauche  carte,  e  lungo  sé  non  vede 
Virgilio,  a  cui  fremon  le  messi,  e  i  pioppi 
paion  falciare  mollemente  in  aria. 
Ed  egli  parla,  non  inteso  all'uomo 
suo  paesano;  l'odono  le  miti 
giovenche  intorno  e  i  fervidi  poliedri. 
O  forse  l'uomo  udir  non  può,  che  sopra 
ora  gU  ronza  più  che  prima,  d'api 
tornate  ai  fiori,  la  pasciuta  siepe; 
e  d'ogni  pioppo  ora  risuona  il  canto 
d'un  rusignolo;  il  dolce  e  triste  canto 
eh' e'  fa  notturno,  e  che  somiglia  al  pianto. 
E  il  migratore  compita  presago 
a  campi  e  nubi  le  sue  voci  strane; 
e  quatte  quatte  nelle  placide  acque 
strepono  or  qua,  le  vecchie  rane,  or  là. 


XIV 

Dice  Virgilio:  "  Oh!  troppo  fortunati 
agricoltori,  cui  la  madre  terra 


209 


latta  da  sé,  come  una  buona  madre  ! 
Giusta  è  la  terra  e  non  ti  nega  il  cibo, 
la  madre,  mai;  se  il  grano  è  poco,  l'uva 
è  tanta:  è  sempre  di  qualcosa,  annata. 
Poi,  e'  è  la  pace,  e  le  gioconde  feste, 
e  il  sonnellino  sotto  un  olmo,  al  canto 
delle  cicale,  al  mormorio  dell'acque. 
Tu  non  sei  ricco  ed  accallato  hai  l'uscio, 
sempre,  di  casa,  e  la  gallina  becca 
nell'atrio  tuo;  non  hai  tappeti  e  bronzi, 
e  non  odora,  l'aia  tua,  d'amomo: 
ma  il  bimbo  ricco,  in  casa  tua,  s'invoglia 
di  tutto,  e  tutto  ammira,  e  tutto  chiede, 
il  pane,  il  pomo,  il  latte,  l'uovo;  e  sente 
che  il  buono  e  il  tutto  è  quello  che  non  ha. 


XV 


Cerchino  gli  altri  il  pallido  oro  e  il  plauso 
vertiginoso,  e  lascino  la  soglia 
trita  dai  loro,  e  migrino:  tu  resta. 
Tu  con  l'aratro  i  piccoli  nepoti 
nutri,  e  la  Patria,  e  tieni  gli  occhi  in  alto, 
perchè  tu  segui  a  mano  a  mano  il  sole. 
Viene  l'inverno,  e  tu  godi  il  fruttato, 
frangi  le  ulive  e  affumi  quel  secondo 
orto  eh' è  il  porco  che  mangiò  la  ghianda. 
Nuovi  Poemetti  14 


La  notte,  vegli,  appunti  faci,  o  tessi 
valletti  e  cesti;  e  la  tua  moglie  canta, 
tra  l'alternar  dei  pettini  e  dei  licci. 
Oppure  schiuma,  più  vicina,  al  fuoco, 
con  una  foglia  l'onde  che  traboccano, 
entro  il  paiuolo  tremulo,  del  mosto. 
O  notti!  O  vita  dolce  assai,  ch'ha  sempre 
amor  la  notte,  come  sole  il  dì! 


XVI 


E  perchè  migri?  e  perchè  fuggi?  Grande 

assai  non  t'è  questo  tuo  verde  campo? 

Non  ha  la  siepe,  che  lo  fa  più  grande 

perchè  più  tuo?  Mugliano  i  bovi,  i  galli 

cantano,  l'api  ronzano.  Qui  tutto 

avrei  passato,  io,  senza  gloria,  il  tempo! 

Qui  la  giustizia,  che  tornava  al  cielo, 

sostò  lasciando  una  parola  in  terra: 

—  Non  l'uno  il  troppo  ed  abbia  l'altro  il  poco! 

Pace  abbia  il  cuor  dell'uomo,  e  non  lo  muova 

il  ricco  all'astio  ed  il  mendico  al  pianto!  — 

Va  coi  vicini,  poi  eh'  è  festa,  e  steso 

con  lor  su  l'erba,  e  col  cratere  in  mezzo, 

bevi  giocondo...  Vissero  nei  campi 

i  forti  antichi  popoli;  l'aratro 

il  solco  eterno  disegnò  di  Roma; 

rixALiA,  detta  dai  giovenchi,  è  qui  „. 


XVII 

—  /  am  Italian 

I  am  hungry...  — 

Air  ombra 
Virgilio  siede,  non  a  lui  veduto; 
ed  in  quel  core  egli  ode  la  querela 
del  fuggitivo  suo  pastore  antico. 
**  Non  anche  dunque  al  lor  levante  primo 
vennero  gli  astri  e  ricominciò  l'anno 
dell'Universo?  E  non  ne  diede  il  segno 
a  cieli  e  terre  un  fievole  vagito? 
Non  ritornò  la  Vergine?  Non  prese 
dunque  a  regnare,  luce  e  vita,  il  Sole?„ 
Virgilio  pensa  che  il  vicin  suo  gramo 
fugge  dai  campi,  oh!  non  a  lui,  no,  dolci, 
ch'egli  ha  solcato  con  servile  aratro 
e  bovi  d'altri,  per  il  pane  e  il  sale. 
"  Dunque  non  è  ricominciato  il  regno 
del  Dio  latino,  di  quel  Dio  che  giusto 
semina  e  miete?  E  Roma  non  è  più?„ 


XVIII 

Oh  buon  profeta!  o  anima  immortale 
di  nostra  gente!  La  Saturnia  terra 
torni  a  chi  l'ama,  a  chi  la  vanga  ed  arai 
Rieda  a'  suoi  posti  il  migratore,  e  parco 


alcuni  scabri  iugeri  redima, 

come  il  tuo  vecchio  Cilice,  e  vi  pianti 

la  sua  casetta,  e  viti  ed  arnie  e  fiori, 

grano  per  casa,  e  fieno  pei  giovenchi, 

e  pei  nepoti  il  molto  cauto  ulivo! 

Tu  sei  con  noi:  la  voce  tua  che  suona 

mista  di  trilli,  di  ronzìi,  di  mugli, 

dal  cielo  annunzia  il  nuovo  tempo  umano. 

Per  tutto  ondeggia,  senza  reste,  il  grano, 

il  miele  sgorga  dalle  cave  querele, 

e  pende  V  uva  dagl'  incolti  pruni. 

Italia  I  Italia  1...  Ed  altri  eroi  son  nati, 

e  sarà,  tutto,  ciò  che  ancor  non  fu.  . 


NOTE 


Pag.  47  -  La  morte  del  Papa. 

Vorrei  che  il  lettore  ricordasse  certi  particolari 
della  morte  di  Papa  Leone;  per  esempio  questo: 
"Ricordò,  tra  l'altro,  come  all'età  di  otto  anni... 
fosse  colto  da  grave  malore  per  una  scalmanata  pre- 
sasi... correndo  all'  impazzata  con  alcuni  suoi  gio- 
vani amici...  Il  Papa  è  da  stamane  in  preda  da  un 
delirio  calmo,  con  brevi  momenti  di  conoscenza  „. 
{Tribuna  del  15  luglio  1903).  Morendo  si  torna  bam- 
bini. 

Poi  bisognerà  che  io  gli  spieghi  qualche  parola 
del  linguaggio  montanino  che  usava  la  vecchiettina 
dell'Alpi. 

accecare  il  metato:  accendere  il  fuoco  nel  secca- 
toio delle  castagne. 

accòrto:  facile,  speditamente.  Le  gambe  di  Lano 
(/«/.  13,  120)  non  erano  spedite?  E  Dante  dice:  accorte. 

annata  {è):  sott.  buona,  piena. 

appietto  {fare):  far  la  còlta  definitiva. 

aspro:  irruvidito. 


2l6 


avvilito',  cascante  di  debolezza. 
'calcio:  come  a  dire,  il  piede:  contrario  di  cimo. 

banco:  armadio  per  la  biancheria,  per  le  vesti  ecc. 

bocconcin  santo:  un  buon  boccone  che  si  tiene  per 
l'ultimo. 

borracciòlo:  canovaccio. 

brancata:  una  mano. 

casalina:  casuccia. 

cimo:  così,  non  cima,  se  è  di  foglie  e  d'alberi. 

contende:  sgrida. 

Curie!  Curre!:  grido  per  chiamar  le  galline,  che 
da  ciò  si  chiamano  anche  currine. 

danno  {al):  per  es.  a  mangiar  pampane,  granturco. 

età  (esser  d'):  della  stessa  età. 

godo:  scompartimento. 

grembialino:  piccolo  grembiale  per  riporvi  le  ca- 
stagne. 

gronde:  i  luoghi  dovè  sono  a  confino  i  castagni. 
Le  castagne  sono  di  chi  possiede,  non  l'albero  donde 
cascano,  ma  il  terreno  dove  cascano. 

liso:  rotto  o  ragnato:  si  dice  dei  drappi. 

macèa:  muricciolo  a  secco,  pieno  d'erba. 

maggio  o  maggino:  ramoscello  fiorito. 

male  (stare):  star  molto  male! 

messe:  polle,  talle,  vermelle. 

omo,  mi' omo:  si  dice,  scherzosamente,  ai  bambini, 
quasi  a  dichiararli  l'aiuto  di  casa. 

pannello:  grembiule. 

pensiere:  cappiettino  per  infilarvi  la  rocca. 

pianelle:  scodelle. 

pover  (il):  il  fu. 


217 


pratina:  plur.  neutro. 

prode:  prò'. 

rapacchiotto'.  bel  figliolone. 

rappa:  spiga  o  pannocchia. 

rastellinetto:  piccolo  rastello  o  ruspa  per  trovar 
le  castagne  in  terra  tra  il  mustio  e  le  foglie. 

recchia:  (da  reicula?):  pecora  che  non  fa  ancora. 

ricotto:  non  ricotta:  latte  ricotto. 

ripire:  salire. 

roteilo:  da  noi  romagnoli,  torsello.  Rotolo  di  tela. 

rumare:  frugare. 

ruspa  {alla):  a  cercar  le  castagne  dopo  la  colta 
definitiva. 

sa  {ci):  conosce  la  strada. 

sgaruglio:  viottola  dirupata. 

smerlucciare:  guardar  qua  e  là  in  sospetto. 

soppianello:  specie  di  piccola  madia. 

sottofigli:  figli  de'  figli,  nepoti  abiatici. 

stabbiato:  il  fimo  delle  pecore. 

stradare:  continuare  la  strada. 

strino:  peronospora. 

tavta:  tuttavia. 

tiglia:  filamento  della  canapa. 

torchiettino:  da  torchio:  legame. 

tremo:  tremito,  scossone. 

troppo  {più).  Così  dicono,  non  pur  troppo. 

uguanno:  quest'anno. 

vincigli:  rami  di  castagno,  serbati  al  verno,  per 
cibo  alle  bestie. 

vuol:  con  un  participio:  sott.  essere. 


2l8 


Pag.  63  -  ZI  Meo.  Questo  caro  amico  campagnolo 
morì,  non  proprio  vecchio  per  quei  posti,  nell'ottobre 
del  1907,  a  72  anni.  Morì,  più  che  per  altro,  di  tri- 
stezza e  scoramento.  Onore  alla  sua  memoria! 

Pag.  67  -  Nannetto.  Questo  giovinetto  morì  a  Zu- 
rigo dove  suo  padre,  Giovanni  Conti,  altro  mio  caro 
amico,  teneva  bottega.  Ora  il  padre  è  tornato  alla 
nativa  campagna  di  Castelvecchio,  ma  senza  il  di- 
letto primogenito.  Era  pien  d'amore  Tonino  o  Nan- 
netto, come  lo  chiamavo  io,  per  i  suoi,  e  voleva 
anche  molto  bene  agli  animali,  colombi,  conigli,  ca- 
prine. Nella  sua  bottega  a  Zurigo  teneva  uno  sco- 
iattolo, nella  sua  casa  a  Castelvecchio  aveva  lasciate 
due  colombe  che  accorrevano  a  un  suo  fischio. 

Pag.  145  -  La  piada.  È  il  pane,  anzi  il  cibo,  direi, 
nazionale  dei  romagnoli.  Si  fa  senza  lievito  e  si  coce 
sopra  un  testo.  Rassomiglia  quindi  agli  azimi  che 
gli  Ebrei  mangiano  per  Pasqua  insieme  cum  lactucis 
agrestibus  {Num.  9,  11).  È  pane  afifrettato  e  ognuno  lo 
fa  da  sé.  È  il  pane  primitivo:  panem...  primo  cinis  cali- 
dus  et  fervens  testa  percoxit.  deinde  fumi  paulatim  re- 
perti (^^-a.  Ep.  mor.  90,24).  O  vedete,  miei  conterranei, 
che  non  c'è  bisogno  di  cercare  un  equivalente  italiano 
alla  parola  testo,  che  è  latina  latinissima  (oltre  testa^ 
c'è  anche  testu)?  E  non  è  bello  sostituire  &  piada  (da 
piata,  che  è  un  relitto  greco  nelle  nostre  spiaggie  che 
tanti  altri  ne  hanno,  come  niatra  per  madia,  calzèdar 
per  brocca  od  orcio),  quella  cara  pizza  che  i  napo- 
letani si  meraviglierebbero  molto  se  sapessero  che  i 


219 


nostri  contadini  la  mangiano  a  desinare  e  a  cena.  Piada 
dunque  cotta  sul  testo.  E  sia  il  pane  del  Calendimaggio, 
la  qual  festa  è  o  deve  essere  il  passaggio,  il  Phase, 
dalla  vecchia  Èra  alla  nuova.  E  nel  passaggio  è  con- 
venevole cibo  quello  dei  tempi  primi,  quello  degli 
Ebrei  che  scampano  alla  servitù,  quello  dei  venuti 
dall'oriente  nella  terra  Saturnia.  Ricordate?  Leggete 
Virgilio,  nell'Eneide,  libro  VII,  versi  109  e  segg. 
Dove  imparerete  che  in  latino  si  chiamavano  qua- 
drae  quelli  che  noi  eredi  e  fedeli  di  Roma  chiamia- 
mo quadretti.  E  vedete  Hor.  Ep.  l,  17,  49;  Verg. 
Moretum  47;  Sen.  Ben.  IV,  29,  2. 

Pag.  153  -  Gli  emigranti  nella  luna.  Lessi  in 
un  giornale  che  alcuni  poveri  contadini  russi  s'erano 
dati  a  credere  di  poter  salire  sulla  luna  e  lì  trovare 
terra  e  libertà.  Uno  studente  leggeva  a  loro,  mi  pare, 
un  romanzo  di  Verne.  Nel  mio  poemetto  si  tratta 
invece  d'un  libro  d'astronomia. 

Pag.  199  -  Pietole.  Bisogna  aver  presenti  di 
Virgilio,  specialmente  V  Ecloga  I,  IV,  IX,  le  Georg. 
tutte,  e  in  particolare  i  notissimi  episodi  delle  lodi 
d'Italia  e  della  vita  rustica,  V Eneide  qua  e  là,  fer- 
mandosi sui  versi  521  sgg.  del  libro  III,  sui  782  sgg., 
793  sgg-  del  libro  VI,  sui  91  sgg.  dell'  Vili.  Ma  certo 
anche  questo  mio  additamento  è  superfluo.  I  miei 
lettori,  non  molti  ma  buoni,  conoscono  colui  che  è 
veramente  il  nostro  poeta  nazionale. 

I  quali,  intorno  ai  particolari  accennati  nella  stro- 
fa V,  devono  ricordare  Donato  in  Vergilii  vita,  1-6. 


Narra  Donato  che  il  padre  di  Virgilio,  prima  fattore  poi 
anche  genero  d'un  tal  Magio,  accrebbe,  il  piccolo  bene 
del  suocero  e  con  altro  e  con  la  coltivazione  delle  api. 
Secondo  questa  Vita,  la  madre  di  Virgilio  lo  avrebbe 
partorito  in  campagna,  la  mattina  dopo  un  sogno 
augurale.  Ella,  andando  ai  campi,  sentì  le  doglie,  e 
allora  svoltò  dalla  sua  strada  e  partorì  in  subiecta 
fossa.  Che  questa  fosse  un  solco,  e  un  solco  per  il 
grano,  argomento  io  dal  fatto  che  Virgilio  nacque  il 
15  ottobre.  Secondo  l'uso  del  paese,  fu  nel  luogo 
stesso  della  nascita  piantata  una  verga  di  pioppo, 
che  divenne  un  gran  pioppo  e  si  chiamò  l'albero  di 
Virgilio  e  fu  considerato  sacro;  e  le  donne  gravide  o 
uscite  di  parto  vi  venivano  a  fare  o  sciogliere  voti. 

Le  strane  voci  del  contadino  sono  tratte  da  un 
libretto  che  Clinio  Cottafavi  scrisse  per  gli  emi- 
granti del  Mantovano.  E  intitolato  Vademecum  del- 
l' Emigrante  Mantovano,  e  contiene,  oltre  molte  no- 
tizie, le  parole  e  frasi  più,  comuni  e  necessarie  per 
un  emigrante.  È  un  libretto  santo  che  stringe  il 
cuore.  Ma  via  coraggio!  L'emigrazione,  che  pare 
una  fuga,  porta  poi  un  grande  affluire  d'insolita 
ricchezza  nelle  campagne  italiche,  e  darà,  giova  cre- 
dere, e  in  tempo  non  lontano,  tutto  l'agro  nostro 
in  mano  a  forti,  attenti,  felici,  virgiliani,  lavoratori 
sul  suo.  Il  che  si  adombra  nella  conclusione  della 
mia  ecloga. 

Questo,  s'intende,  per  una  faccia  del  problema, 
per  quelli,  cioè,  che  vanno  bensì  ma  tornano.  Quelli 
che  si  fermano  là  dove  hanno  trovato  da  far  bene... 
oh!  questi  altri,  se  non   sono   partiti  con  l'italianità 


neir  intelletto  e  nel  cuore,  se  in  patria  non  hanno 
conosciuto  la  scuola,  sarà  ben  difficile  che  cerchino 
per  i  loro  figli  nati  nella  nuova  loro  patria  l'edu- 
cazione e  l'istruzione  italiana  che  essi  nella  patria 
antica  non  ebbero  !  E  tuttavia  molto  si  può  e  si  deve 
fare....  Ma  torniamo  a  quelli  che  tornano.  I  quaU 
tornati,  trovano  quasi  sempre  questo  saluto  nella 
loro  terra. 

"  ...  egli  ha  (l'emigrato)  ancora  un  nemico  mortale, 
che  è  stato  e  sarà  la  causa  di  molti  suoi  mali  :  l' igno- 
ranza. Il  suo  desiderio  di  possedere  la  terra  è  così 
ardente,  così  febbrile;  la  fiducia  che  egli  ha  di  saperla 
fecondare  colle  sue  braccia  è  tale  e  tanta,  che  la  paga 
il  doppio,  più  spesso  il  triplo  del  suo  valore.  Il  pro- 
prietario, che  lo  aveva  oppresso  in  passato  e  che 
deve  ora  essere  espropriato,  profitta  di  questa  igno- 
ranza, e  compie  l'ultimo  sfruttamento.  Questo  è  un 
fatto  generale,  notissimo,  che  segue  su  larga  scala 
così  nel  nord  come  nel  sud.  La  conseguenza  ine- 
vitabile è  che  il  lavoratore  avrà  dal  capitale,  con 
tanto  sudore  raccolto,  il  terzo  della  rendita  che 
dovrebbe  avere  „. 

Sono  parole,  queste,  d'un  gran  vecchio...  Ecco, 
a  me  pare  che  il  gran  vecchio,  che  ha  dette  queste 
parole,  sia  colui  che  a  poppa  d'una  nave,  mentre 
s'alzava  il  grido  Italiani  Italiani,  libava  e  pregava 
e  consigliava  e  augurava.  In  verità  quanto  tempo 
è  che  egli  segna  la  via  e  indica  il  male  e  mostra 
i  rimedi!  Di  lui  si  può  ripetere  ciò  che  di  Mazzini 
disse  Garibaldi:  Quando  tutti  dormivano,  egli  solo 
vegliava.  Il  gran  vecchio  che  parla  alto  nel  silenzio 


di  tutti,  è  Pasquale  Villari  (Scritti  sulla  emigrazione, 
Bologna,  1909).  E  anche  questa  volta  propone  al 
guaio  il  rimedio: 

"  Ora  io  mi  domando:  non  potrebbe  V Umanitaria 
di  Milano  fare  essa  quel  che  fanno  queste  Società 
speculatrici,  volgendo  a  vantaggio  dei  lavoratori  ciò 
che  esse  hanno  intrapreso  a  vantaggio  dei  proprietari? 
Basterebbe  che  facesse  l'esperimento,  comprando  due 
tenute,  una  negli  Abruzzi,  l'altra  nella  provincia  di 
Belluno  o  di  Udine,  per  rivenderle  in  piccoli  lotti 
agli  emigrati,  che  tornano  dall'America,  al  prezzo 
normale  del  loro  valore  reale,  in  modo  da  riprendere 
tutto  il  suo  capitale,  con  l' interesse  del  3-  o  del  40/0» 
ripagandosi  anche  di  èutte  le  spese  fatte. 

Questa  operazione  semplicissima  eserciterebbe  la 
sua  azione  sopra  una  zona  assai  più  vasta  dei  ri- 
stretti confini  in  cui  l'Umanitaria  direttamente  agi- 
rebbe. Impedirebbe  l'azione  delle  Società  che  spe- 
culano a  danno  dei  lavoratori;  manterrebbe  il  prezzo 
delle  terre  nei  limiti  del  loro  valore  reale,  senza  artifi- 
cialmente rialzarlo.  Renderebbe  inoltre,  senza  nessun 
proprio  aggravio,  un  beneficio  enorme  alle  condizioni 
economiche  dell'emigrato,  compiendo  un'opera  vera- 
mente umanitaria. 

È  questa  la  proposta  che  io  oso  sottomettere  alla 
direzione  della  filantropica  Società  milanese...  „. 

La  società  milanese  ha  accettato  la  proposta?  Lo 
ignoro,  ma  mi  auguro  di  sì.  Intanto  giovi  aver  ter- 
minato questo  mio  libretto  col  nome  venerato  e  amato 
di  questo  difensore  d'ogni  causa  buona. 

Possa  egli  vincerle  sempre! 


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